La globalizzazione comunista e quella “woke”.

 

La globalizzazione comunista e quella “woke”.

  

L’attuale conflitto tra “Oriente” e “Occidente”:

blocchi geopolitici alternativi o complementari?

Aldomariavalli.it – (24 -3-2023) - Guido Vignelli - Blog by Aldo Maria Valli – ci dicono:

 

Il confuso panorama della globalizzazione nella quale stiamo vivendo sembra dominato dal conflitto in corso tra il blocco geopolitico dei “regimi despotici”, erroneamente qualificato come orientale, e quello dei “regimi democratici”, erroneamente qualificato come occidentale.

Questo conflitto sembra mettere in crisi le categorie interpretative finora usate per analizzare la situazione globale e prevedere dove ci sta conducendo il processo rivoluzionario.

Di conseguenza, l’opinione pubblica benpensante, disorientata dalla capillare propaganda mass-mediatica, erroneamente identifica l’Occidente con la civiltà cristiana o l’Oriente col mondo comunista, per cui tende a schierarsi per l’uno o per l’altro dei contendenti.

Eppure, l’attuale situazione geopolitica può essere chiarita se, applicando vecchie categorie alchemiche alla nuova “ingegneria sociale”, interpretiamo il conflitto in corso come lo scontro tra due tipiche fazioni interne alla “Rivoluzione universale,” quella “distruttiva” e quella “costruttiva”, siano esse alternative o rivali o complementari tra loro.

La prima fazione, descrivibile come la “mano sinistra” dell’agente sovversivo, s’impegna nel facile ruolo di distruggere l’ordine tradizionale per sgombrare la strada all’avvento di quello rivoluzionario, svolgendo il ruolo alchemico di solvere, ossia di trarre il caos dall’ordine (“chaos ab ordo”).

 La seconda fazione, descrivibile come la “mano destra” dell’agente sovversivo, s’impegna nel difficile ruolo di costruire l’ordine rivoluzionario sulle macerie di quello tradizionale, svolgendo il ruolo alchemico di coagulare, ossia di trarre l’ordine dal caos (“ordo ab chaos”).

Si badi però a non intendere le parole sinistra e destra nel loro senso politico, perché una fazione sinistrorsa può diventare retrograda e una destrorsa può diventare avanzata.

In teoria, la fazione distruttiva sarebbe funzionale a quella costruttiva, perché questa dovrebbe mantenere le strabilianti promesse, fatte dalla Rivoluzione ai popoli sottomessi, di condurli a una sorta di nuovo Paradiso Terrestre che risanerà tutti i mali e risolverà tutte le contraddizioni – compresa quella tra l’uomo e Dio – che finora hanno lacerano la natura e la storia.

 Si tratta del vecchio progetto di costruire una società laicista, razionalistica e tecnocratica che mira a preparare l’avvento del “novus ordo saeclorum”, ossia della “Repubblica Universale”.

Questo progetto costruttivo è sembrato realizzarsi durante il periodo storico che va dalla Rivoluzione Francese a quella sovietica.

Lo scontro tra la liberté e l’égalité in funzione della fraternité.

Tuttavia, gli occulti “alchimisti sociali” ormai non riescono più a far credere alla popolazione che manterrà le grandi promesse fattele da secoli.

Negli ultimi tempi, il loro progetto costruttivo, pur continuando a ottenere grandi vittorie, ha anche subìto arresti, deviazioni e arretramenti che lo hanno reso incerto, insicuro e declinante.

 Lo hanno dimostrato i fallimenti prima del progetto sovietico, poi di quello “terzomondista” e oggi di quello europeista, ma anche quello di sottomettere la Chiesa sta dando solo tardivi e incerti risultati.

Questi insuccessi sono dovuti al fatto che la costruzione dell’ordine rivoluzionario viene ostacolata non solo dalle tenaci resistenze (naturali e soprannaturali) sollevate dalle popolazioni non ancora sottomesse ai poteri sovversivi, ma anche dal dilagare dei fattori di disordine e di dissoluzione suscitati e manipolati da quegli stessi poteri.

Allora, negli ultimi tempi, la fazione distruttiva della Rivoluzione sta tentando di sostituirsi a quella costruttiva nella guida del processo sovversivo, per fargli compiere un “salto di qualità” capace di superare la situazione di stallo.

 Infatti, la fazione distruttiva sta imponendo un nuovo progetto – di carattere ecologista, irrazionalista e anarchico – che tenta di alimentare i fattori dissolutivi fino al parossismo, anche se ciò rinvia a un problematico futuro la costruzione della “nuova società”.

L’esplosione del Sessantotto fu l’avvio di questo esperimento rivoluzionario, tutt’oggi in corso perché riuscito solo in parte e rimasto incompiuto.

 

Probabilmente, gli “alchimisti sociali” all’opera sperano che l’attuale scontro tra il fattore distruttivo della liberté liberale e quello costruttivo della égalité socialista non impedirà più l’avvento della fraternité globalista ma anzi lo favorirà.

Il risolutivo regime della “solidarietà fraterna” dovrà suscitare tutta la licenza necessaria affinché le passioni e le forze sovversive riescano a dissolvere ogni ordine residuo, ma dovrà anche imporre tutta la repressione necessaria affinché le sopravvissute forze sane non approfittino della licenza per restaurare condizioni sociali che violino l’eguaglianza faticosamente ottenuta.

Recentemente, alcuni ideologi rivoluzionari avanzati – come l’israeliano Noah Yuval Harari – hanno auspicato che l’avvento della fraternité sia realizzato da un regime che imponga una “transizione ecologica” capace di realizzare una fusione tra gli uomini e gli altri esseri viventi che faccia evolvere il cosmo dal livello terreno a quello celeste, ossia divino.

L’aspetto più inquietante di questa transizione consiste nel fatto che alcuni ingegneri sociali influenti nel mondo politico – come i sociologi” Edgar Morin” e “Michel Maffesoli” – sostengono che, per passare dal livello umano a quello sovrumano, bisogna affidarsi alla guida di quel “puro spirito, demiurgo e re del mondo” che gl’ideologi rivoluzionari del XIX secolo (“Hegel”, “Marx”, “Comte”) hanno identificato con “Satana”, inteso come agente di progresso e di liberazione dell’umanità da ogni forma di “superstizione religiosa” e di “tirannia politica”.

L’attuale scontro tra “Oriente” e “Occidente.”

Tuttavia, i capi rivoluzionari stanno facendo oggi molta fatica a far accettare ai loro stessi seguaci un così netto e rapido rovesciamento di strategia che, oltre a eludere il mantenimento delle grandi promesse sociali fatte ai popoli, presuppone una diversa concezione del progetto rivoluzionario e un suo cambio nella sua guida. Pertanto, l’attuale crisi geopolitica può essere spiegata come effetto dello scontro tra i due opposti fronti rivoluzionari prima delineati.

Da una parte, vediamo schierarsi una formazione geopolitica composta da molti Governi “democratici”, impropriamente posizionati nel quadro geopolitico “occidentale”:

l’Unione Europea, gli Stati Uniti d’America, l’Australia e altri.

Essi pensano che le conquiste rivoluzionarie finora ottenute (come i cosiddetti “diritti civili”) siano rimaste incompiute e instabili, per cui debbano essere salvate rilanciando il processo rivoluzionario e spingendolo fino alle sue ultime conseguenze, per quanto distruttive siano.

Secondo loro, la “nuova società” può nascere solo dall’“uomo nuovo”, per cui le oggettive esigenze della collettività devono sempre essere sottomesse alle soggettive pretese individuali.

A questo scopo, i governi “democratici” favoriscono il dilagare nel mondo dei nuovi movimenti sovversivi “occidentali” (come quelli ecologisti, immigrazionisti e woke), perché li valutano come una sorta di droga che permetterà alle forze rivoluzionarie di slanciarsi verso la finale meta anarchica, sfondando ogni resistenza fatta da “sistemi chiusi”, “regimi despotici” e “Chiese retrograde” che – per nostalgia della passata società della certezza, della sicurezza e del benessere – si stanno attardando a una fase superata del processo rivoluzionario.

Pertanto, questo fronte “occidentale” composto dai governi “democratici” può essere definito come un fattore estremista, aggressivo e destabilizzante, corrispondente alla “mano sinistra” della Rivoluzione globale, secondo la quale bisogna mettere in crisi e distruggere piuttosto che difendere e costruire, perché il movimento vale più del suo risultato.

Dalla parte opposta, vediamo schiararsi una formazione geopolitica composta da molti governi “despotici”, impropriamente posizionati nel quadro geopolitico “orientale”:

ossia la Russia, la Cina, l’India, gli Stati islamici e alcuni Stati sudamericani.

Essi pensano che dalla nuova fase distruttiva del processo rivoluzionario non apra la strada a nuove conquiste sociali, ma anzi rischi di mettere in pericolo quelle ottenute in passato.

Secondo loro, l’“uomo nuovo” può nascere solo dalla “nuova società”, per cui le soggettive pretese dell’individuo devono sempre essere sottomesse alle oggettive esigenze della collettività.

Di conseguenza, questo fronte “orientale” condanna e reprime come arbitrari e retrivi i citati movimenti fanatici e anarcoidi “occidentali”, favoriti da irresponsabili governi “democratici”, perché sono manifestazione di quella “malattia infantile dell’estremismo” – a suo tempo denunciata da Lenin – che rischia di travolgere il sistema rivoluzionario in un vortice di eccessi deliranti e dissolutori.

Pertanto, questo fronte “orientale” composto dai governi “dispotici” può essere considerato come un fattore di moderazione e di contenimento, corrispondente alla “mano destra” della Rivoluzione globale, secondo la quale bisogna costruire e difendere piuttosto che distruggere e mettere in pericolo, perché il risultato ottenuto vale più del movimento.

Appare ora chiaro che il conflitto in corso sta avvenendo non tra una fazione sovversiva e una conservatrice, ma tra due fazioni rivali interne al potere rivoluzionario globale, ciascuna delle quali si propone come fattore che deve bilanciare l’influenza geopolitica dell’altra.

Conflitto geopolitico, di potere o ideologico?

L’ingannevole propaganda diffusa da entrambe le fazioni ci rende difficile capire la vera origine e portata del loro conflitto.

 Proviamo comunque a fare qualche ipotesi.

Prima ipotesi.

 Il conflitto in corso oppone due blocchi mondiali che stanno ridisegnando le loro aree d’influenza e di azione;

il terremoto che ci scuote è prodotto dall’attrito tra falde geopolitiche rivali che sta accelerando il processo di globalizzazione da tempo in atto.

Se così fosse, tutto potrebbe finire domani con una pace concordata priva di gravi conseguenze.

 

Seconda ipotesi.

Il conflitto in corso non è solo geopolitico ma coinvolge anche due fazioni gemelle e rivali, che stanno litigando sul ruolo da svolgere nel processo rivoluzionario, sul potere da ottenervi e sui mezzi da usarvi.

Se così fosse, tutto potrebbe ridursi al confronto strategico tra una tesi e un’antitesi che verrà risolto da una sintesi riconciliatrice che ridisegnerà i ruoli delle fazioni rivali.

 

Terza ipotesi.

Il conflitto in corso non riguarda solo ruoli e mezzi, ma anche il percorso da fare e la meta da raggiungere.

 Infatti, la fazione “occidentale” proclama il primato della liberté sull’égalité, dei mezzi sul fine, dell’azione sul risultato, della distruzione sulla costruzione;

al rovescio, la fazione “orientale” proclama il primato dell’égalité sulla liberté, del fine sui mezzi, del risultato sull’azione, della costruzione sulla distruzione.

Di conseguenza, questa rivalità tra liberté ed égalité impedisce ch’esse, riconciliandosi, instaurino insieme il regime di fraternité.

Se così fosse, il conflitto in corso avrebbe radici più profonde e causerebbe conseguenze più vaste di quanto si crede, perché metterebbe in crisi l’intero processo rivoluzionario e anzi la concezione stessa della Rivoluzione.

Di conseguenza, il conflitto potrebbe diventare una “guerra civile mondiale” capace di far “esplodere le contraddizioni” del sistema globale e di gettarci nel caos.

Un’occasione storica da cogliere.

Se quest’analisi è giusta, siccome il Vangelo ammonisce che “ogni regno in sé diviso è destinato a crollare”, possiamo ipotizzare che oggi la Rivoluzione non sta tentando uno dei tanti voltafaccia con i quali disorientare i propri nemici, né sta subendo una delle sue solite “crisi di crescita”;

essa sta piuttosto subendo una crisi senile dovuta a una sorta di mutazione genetica che può condurla alla dissoluzione e alla morte.

Lungo l’intero XX secolo, l’intero arcobaleno ideologico – compreso il colore cristiano progressista – diede per scontato che il sistema di potere rivoluzionario fosse “storicamente inevitabile” e quindi “politicamente insuperabile”.

 Per contro, fin dagli anni 1970, due noti protagonisti della cultura e dell’apostolato cattolico, “Augusto Del Noce” e” Plinio Corrêa de Oliveira”, previdero l’imminente fallimento o il suicidio della Rivoluzione, poi avvenuti col crollo del regime comunista e con la crisi della ideologia liberale.

Essi previdero pure che tutto ciò avrebbe potuto aprire la strada alla rinascita della cultura e della politica cristiane mediante la formazione di élites tradizionali analoghe all’antica nobiltà europea.

Se ciò non è ancora avvenuto, non è tanto a causa della residua forza rivoluzionaria, quanto per colpa della debolezza della classe dirigente cristiana, specialmente di quella ecclesiastica.

Dapprima, essa ha tentato di rabberciare il traditore e fallimentare ambiente neo-democristiano, poi ha rinunciato a ogni prospettiva di riscossa, abbandonando i cittadini cattolici al dominio dell’unica classe politica superstite: quella radicale e globalista catto-comunista.

Tuttavia, questo drammatico sviluppo della situazione ci conferma che oggi la Divina Provvidenza sta offrendo alle residue forze tradizionali un’altra storica occasione per uscire dalla rassegnazione, superare le divisioni interne e avviare una risolutiva riscossa cristiana cattolica che permetterà di vincere le forze rivoluzionarie.

Se il mondo cattolico rinuncerà a questa grande occasione nel timore di essere perseguitati e preferirà rifugiarsi in nuove catacombe rimboccandosi lapide e facendo finta di essere morto, commetterà una grave offesa alla Divina Provvidenza che non ci risparmierà dalla meritata punizione e per giunta rinvierà ulteriormente la promessa vittoria della Chiesa.

 

 

 

La coincidenza degli opposti.

Ariannaeditrice.it - Roberto Pecchioli – (05/02/2023) – ci dice:

(Fonte: EreticaMente)

 “I partiti contano sempre meno e alla gente è stata tolta la cultura per opporsi a un potere che ci fa vivere nel controllo.”

È il sottotitolo dell’intervista concessa a un sito di informazioni da “Carlo Freccero”, massmediologo ed ex dirigente della Rai.

Concetti del tutto condivisibili:

il declino dello spazio politico (i partiti spariti, ridotti a comitati d’affari e macchine elettorali);

il degrado della conoscenza che produce una generazione di ignoranti, quindi conformisti e facilmente manipolabili;

 il potere che si fa biopotere, ovvero sorveglianza, dominio sulla vita concreta.

Temi centrali per chi vuole riflettere senza le gabbie mentali di ideologie invecchiate.

Non importa chi l’ha detto, importa ciò che è detto, era il motto di un giornalino della nostra giovinezza.

 La verità – e la sua ricerca – non hanno ideologia, né si definiscono attraverso gli schieramenti.

Freccero non rinuncia alle sue origini marxiste.

Chi scrive, più modestamente, ha camminato per strade assai diverse: cuore a destra (Dio, Patria, famiglia, onore, fedeltà) e portafogli a sinistra, l’acuta sensibilità sociale di un figlio di operai che ha conosciuto la fatica di studiare e sbarcare il lunario lavorando.

Ciononostante, approdiamo a conclusioni simili, senza rinnegare nulla dei rispettivi percorsi.

Un segno dei tempi, uno dei pochi positivi: chi ancora pensa diventa dissidente e si ritrova in compagnie impensate.

Nell’era “post” e “trans” non importa da dove veniamo; conta dove vogliamo andare.

Forse è una benefica “coincidentia oppositorum”, l’unione degli opposti che attraversa settori del pensiero europeo, dal greco “Eraclito” al neoplatonico “Nicola Cusano” sino a “Carl Gustav Jung”.

Nessuna banalizzazione sugli estremi che si toccano, piuttosto la convergenza tra universi ideali lontani che trovano – quasi inconsapevolmente – un terreno comune dinanzi a un nemico potentissimo, capace di attivare, rileva Freccero

“processi culturali che hanno sostituito la nostra cultura con culture che non mettono mai in discussione il potere.

Pensiamo al festival di Sanremo, al mondo musicale che domina la scena: sono tutti contestatori e trasgressivi come i “Maneskin”,” Achille Lauro”, “Fedez”, eccetera.

Ma sono contestatori contro qualcosa.

 Woke significa risveglio ed è quello che intendiamo per politicamente corretto.

Un costrutto culturale molle che non ha mai una visione d’insieme della realtà”.

Ecco un punto cruciale, ed è importante che la riflessione provenga da un intellettuale che non confonde il progressismo “liberal” con i diritti sociali.

 È di capitale importanza la messa in guardia dalle follie postmoderne di chi non è sospettabile di pulsioni conservatrici o reazionarie.

“Siamo nella “cultura woke” e nella “Cancel Culture”, assorbite dal Pd, la principale forza della sinistra italiana”.

Importante è svelare l’uso delle emergenze che attraverso il meccanismo della paura hanno permesso decisioni contrarie alle libertà sulla base di imperativi tecno scientifici presentati come indiscutibili.

“Oggi la forma di governo strutturale della società è l’emergenza.

Viviamo in un’epoca di cancellazione dei diritti e l’unico modo per ottenere questo risultato, immediatamente, senza suscitare opposizione, è proprio l’emergenza.

 I teorici delle élite guardano all’emergenza sanitaria come a un’opportunità per resettare la società”.

Quando lo dicevano personalità di diversa estrazione culturale, scattava il meccanismo della ridicolizzazione, della negazione, dell’indignazione a gettone.

Freccero” esprime convincimenti fino a ieri ritenuti paranoie estremiste.

 “La cosa curiosa è da dove è partito questo governo dell’emergenza: è partito dal 2001 con l’attacco terroristico dell’11 settembre.

Ieri c’era la pandemia, oggi la guerra e l’agenda verde.

Quindi capisci che l’emergenza poi si confonde o meglio si intreccia con quello che il filosofo “Agamben” chiama “lo stato di eccezione permanente”.

 La guerra ha avuto un successo talmente insperato che non solo non c’è alcuna opposizione ma genera una sorta di ipnosi.”

L’acquiescenza di massa è un fenomeno nuovo, figlio dell’americanizzazione globalista.

 La colonizzazione culturale ha raggiunto il suo scopo:

neutralizzare il dibattito sugli assetti sociali ed economici dominanti, che nessuno mette in discussione.

Un sonno narcotico in cui “il controllo sociale è diventato un’ossessione del potere.

 I nostri dati registrati dai dispositivi digitali servono ad elaborare scenari predittivi che si estenderanno alla vita futura”.

Le restrizioni subite, accettate senza fiatare dalla maggioranza, in cui il dissenso si è manifestato nelle generazioni mature e non tra i giovani – un segnale inquietante – hanno generato un soggetto gregario, obbediente, disciplinato, fedele alla narrazione del potere.

I ribelli hanno i capelli bianchi: un dato che sconcerta.

Le forze politiche hanno rivelato il loro volto.

A destra il riflesso pavloviano “legge e ordine” ha smentito ogni proclamazione di sovranità, indipendenza, volontà di respingere i diktat dei poteri esterni.

A sinistra è maturata una mutazione genetica da brividi.

“La sinistra ha fatto suo il sistema americano.

 Il Pd nasce come fotocopia del Partito Democratico americano [da cui] non ha preso solo l’impostazione ma anche la cultura.

 Abbiamo sostituito il nostro sistema politico con un sistema in cui la sponsorizzazione è legittima perché è iscritta a bilancio.

Le campagne elettorali sono sempre più espressione di lobby.

 E la politica diventa un grande show e si fa con il marketing.

 Questo modo di fare politica all’americana contagia tutta la società e fa sì che tutti siano schierati sulle stesse posizioni”.

Benvenuto tra noi, “Carlo Freccero”.

 “Il problema è che noi ragioniamo ancora con parametri novecenteschi, in termini di Stati, partiti, pensando alla guerra parlando di patrie, mentre gli interessi economici sono sempre globali.

Oggi le decisioni non le prendono gli Stati ma le grandi organizzazioni internazionali come il Fondo monetario internazionale, il WTO, l’OMS, l’ONU che porta avanti l’agenda verde.

Queste organizzazioni non rispondono agli Stati ma ai loro finanziatori.

Vedi l’OMS [con] Bill Gates. Gli Stati cosa fanno?

Si limitano a sottoscrivere quelle decisioni nei trattati, come quello dell’epoca di Renzi che ha fatto dell’Italia la punta di diamante della sperimentazione vaccinale.

E se gli Stati non contano più, ancor meno contano i partiti che dovrebbero guidare gli Stati.

Tutti i partiti non hanno alternative perché le decisioni si prendono altrove: possono solo spartirsi i fondi di progetti come il PNRR.

 “Il potere del denaro svuota la democrazia.

Noi irregolari, eretici di tutte le bandiere c’eravamo arrivati da tempo, ma quando la verità sgorga sulle labbra dell’ex nemico, bisogna gioire.

Sognavamo l’Europa unita per motivi di civiltà, cultura e geopolitica quando altri si attardavano nel terzomondismo o si facevano banditori dell’inculturazione (o deculturazione) coloniale americana.

American way of life, il nome di liberatore, protettore, alleato attribuito a un occupante.

L’intellettuale savonese mette il dito nella piaga:

“la sinistra è così esageratamente atlantista perché ha assorbito in modo spasmodico la cultura americana.

Come mai siamo tutti filo americani?”

 Perché così ci hanno voluto sino a farci dimenticare la dignità nazionale, la nostra lingua, violentata da lockdown, green pass, week end e mille altre parole che ci fanno pensare con la mente altrui.

Si rivoltano nella tomba il comunista Gramsci e i maestri della cultura non conformista, spazzata via da un tradimento vissuto come liberazione, tributo alla modernizzazione.

“Siamo stati colonizzati con la globalizzazione.

 I partiti contano sempre meno perché le decisioni vengono prese da organizzazioni internazionali che passano sulla nostra testa.

 Così sono tutti per la guerra come erano tutti per il vaccino come unica risposta alla pandemia.”

 Ovvero, siamo diventati non pensanti.

È la grande vittoria del nemico globalista.

Prenderne atto significa abbandonare tutte le categorie con le quali abbiamo analizzato, giudicato, spiegato il mondo di ieri, divenute inservibili.

Su questo siamo molto vicini: “oggi la lotta non è più tra destra e sinistra ma tra chi sta alla base contro chi è al vertice della piramide. “

Alla buon’ora, ma le voci che ritengono obsolete le categorie di destra e sinistra sono ancora isolate.

Il lockdown, gli obblighi di iniezione, l’esclusione sociale dei renitenti, il passaporto vaccinale, sono di destra o di sinistra?

 E l’adesione acritica alle sanzioni, la russofobia, l’invio di armi, l’allineamento alla Nato, il silenzio sul Meccanismo di Stabilità o sul potere delle cosiddette “autorità monetarie”?

Il potere è ormai totalitario, gli spazi di discussione e di opposizione si chiudono in ogni ambito.

 Il Dominio è così forte che controlla molte voci dissidenti.

 Lo abbiamo compreso nelle lotte degli ultimi anni.

Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico.

 La voce che li comanda è la voce del loro nemico.

E chi parla del nemico è lui stesso il nemico.

(B. Brecht) Lo conferma Freccero:

“il potere comincia a personificare anche l’opposizione, come scriveva “Guy Debord”:

oggi i movimenti di protesta spontanei contro il potere sono spariti perché il potere li ha sostituiti con movimenti che non centrano il tema, cioè la lotta tra il popolo e le élite.

 Il potere globalizzante per omologarci ha imposto la “cultura woke” e la “cancel culture’”.

Neo reazionario “Freccero”, o semplicemente uno sguardo senza paraocchi?

Peraltro, cultura della cancellazione è un curioso ossimoro: o c’è cultura o c’è cancellazione.

Ma vuolsi così dove si puote ciò che si vuole.

 E le centrali che diramano ordini e dettano le parole stanno nella casa madre del liberal capitalismo, gli Usa.

Prenderne atto risulta impossibile per la legione dei conversi.

 Per loro, il giudizio è lapidario.

“Il Pd ha sostituito la cultura con la visione americana delle minoranze.

 Pensiamo al femminismo di oggi: sono le donne contro le discriminazioni, le donne contro gli uomini.

Poi abbiamo i neri contro i bianchi, i gay contro gli etero.

Ma nessuno ha gli argomenti per una visione d’insieme.

Esercitano cioè rivendicazioni di minoranze che in qualche modo vogliono tutelare i più deboli ma in realtà non vanno al nucleo del problema:

come si genera la realtà in cui soffrono?”

Ovvero, nessuno, sul versante progressista (quello conservatore si limita a non disturbare i manovratori) contesta il modello sociale della privatizzazione oligarchica, il capitalismo dei giganti che distrugge il mercato, trasformato in oligopolio indifferente ai popoli, alle nazioni, ai diritti naturali e a quelli sociali.  

Finti oppositori dividono la società ostentando antagonismo funzionale al sistema.

“Le loro rivendicazioni sono digerite dal potere.

Oltretutto sono tutte rivendicazioni contro il razzismo, la differenza di genere, il colonialismo, il femminismo, lo specismo, gli animali, che la cultura europea ha già ampiamente digerito.

 Ma servono al potere perché convogliano le frustrazioni in qualcosa di impotente. Vanno a spostare quello che è il tema centrale:

 chi è che ci comanda? Come lo fa?

Con quali conseguenze sulla nostra vita reale?

 Il Woke è una cultura che innesca un conflitto permanente in seno alle masse per impedire loro di indirizzare il conflitto contro i poteri al vertice; non dà fastidio a chi comanda davvero”.

 Viviamo cioè in un mondo di rivendicazioni che non mettono in discussione il potere: conflitti innocui, ottimi affari per il mercato onnipotente.

Infine, “Freccero” getta lo sguardo sul campo che meglio conosce, la cultura,

“talmente scadente da non generare novità.

 È appunto il tema della Cancel Culture.

Tutto il passato viene cancellato.

Questa omologazione alla cultura americana è passata come un rullo compressore sulle differenze culturali che rappresentavano la ricchezza dell’Europa e dell’Italia e quindi che cosa è successo?

Che è rimasto un unico valore: il profitto.

Un valore totalizzante che in questa forma non è un valore prettamente europeo ma è il valore.”

Non tutto è perduto: la consapevolezza si diffonde. La minoranza dispersa lentamente si riconosce.

Molti passi devono essere compiuti per l’accettazione reciproca tra soggetti ancora occupati a enfatizzare le proprie differenze.

 Ci azzuffiamo come i capponi di Renzo, che finirono tutti nella pentola dell’avvocato Azzeccagarbugli.

Il tema della guerra, la sua nauseante spettacolarizzazione, tuttavia, aiuta a orientare la tensione nella giusta direzione.

 La guerra è morte, distruzione, povertà e la gente lo sa.

Un nostro maestro – cattolico tradizionale – usava ricordare che i popoli hanno riflessi di vita.

 Con parole diverse, “Carlo Freccero” approda alla stessa conclusione:

 C’è questo istinto di sopravvivenza che ci salva ancora e poi si vive male, con tutta una serie di problemi economici e sociali gravi, l’energia alle stelle, il controllo.

Ma è facile capire come il cerchio si chiuda e Zelensky a Sanremo sia un fenomeno comprensibile nel mondo culturalmente devastato in cui viviamo, dove la sinistra italiana ha cancellato la nostra cultura per sostituirla con quella americana che nega il conflitto come motore della società”.

 Ancora Eraclito: pòlemos padre di tutte le cose.

Accettiamo come un soffio di aria fresca il coraggio di chi supera i dogmi in cui è cresciuto.

Sappiamo per esperienza quanto sia duro liberarsene, restando coerenti sull’essenziale.

 Coincidenza degli opposti: lo sguardo della verità.

 

    

 

 

Tramonto della globalizzazione

e nuovo mondo multipolare.

 Ariannaeditrice.it - Luigi Tedeschi – (08/07/2023) – ci dice:

(Fonte: Italicum)

 

La globalizzazione è una concezione ideologica liberale atta a legittimare il primato economico e politico dell’Occidente americano nel mondo.

 Al dominio globale eurocentrico, è subentrato il dominio universale americano che implica l’imposizione a livello mondiale di un unico modello economico, politico e culturale.

 Il mondo multipolare potrà rappresentare una sfida che generi la fuoriuscita dell’Europa dalla post – storia e dal nichilistico vuoto di senso che affligge oggi la società occidentale?

 

Globalizzazione e occidentalizzazione del mondo.

La globalizzazione ha la sua origine storica nell’avvento dell’era moderna in Europa, con le grandi scoperte geografiche tra il XVI e il XVII secolo.

Le dimensioni del pianeta divennero definite e limitate, il “globus” si sostituì al “mundus”, quale entità concepita su base teologico – metafisica.

 Le terre ignote divennero dunque spazio globale da conquistare e governare da parte delle potenze imperiali europee, mediante la supremazia degli armamenti e lo sviluppo tecnologico.

La modernità europea si estese a livello mondiale.

Esiste dunque un nesso di continuità storica, considerato dalla ideologia liberal – progressista come irreversibile, tra colonialismo, post – colonialismo e globalizzazione, il cui esito finale sarebbe costituito dall’avvento della post – modernità con il Grande Reset.

 

Con la fine del mondo bipolare della Guerra fredda, si impose un sistema economico neoliberista, quale estensione su scala globale del dominio unilaterale dell’unica potenza mondiale superstite, gli USA.

Potremmo definire la globalizzazione “universalismo del mercato”, data la interdipendenza istauratasi tra le economie mondiali, la dimensione globale assunta dai mercati, l’espandersi della libera circolazione delle merci, dei capitali e della forza lavoro, favorite dall’avanzata del progresso tecnologico e quindi, dalla compressione degli spazi e dei tempi delle comunicazioni e delle transazioni economiche.

L’economia globalizzata, al di là della retorica ideologica liberista, non è un fenomeno originale del XXI° secolo, ma ha rappresentato la riproposizione in versione moderna della teoria settecentesca di “David Ricardo” dei “vantaggi comparati” e del “liberismo individualista di Adam Smith”, di dottrine economiche cioè già consegnate alla storia.

Sono tornati inoltre di attualità i miti della “pace perpetua” kantiana e del “dolce commercio”, teorie tragicamente smentite da un trentennio di guerre senza fine.

Questa occidentalizzazione del mondo avrebbe dovuto produrre la diffusione del benessere e dello sviluppo del mondo intero, ma la delocalizzazione industriale, la deregolamentazione dei mercati finanziari, l’indebitamento insanabile del Terzo Mondo, l’aumento esponenziale delle diseguaglianze, della povertà e dei fenomeni migratori, non hanno fatto che accrescere il divario tra l’Occidente e i paesi sottosviluppati.

 La globalizzazione è stata quindi un’era di progresso per l’umanità?

Il bilancio storico è fallimentare.

In realtà la globalizzazione si è rivelata una “concezione ideologica liberale” atta a legittimare il primato economico e politico dell’Occidente americano nel mondo.

Così si espresse al riguardo “Costanzo Preve”:

“La cosiddetta “globalizzazione” non esiste.

 Affermazione provocatoria ed apparentemente demenziale, ma mi spiegherò subito.

 La globalizzazione è un concetto, ed i concetti sono reti per “pescare” la realtà.

 In quanto concetto non filosofico, ma scientifico (cioè delle scienze sociali), la globalizzazione si candida a capire, raffigurare, rispecchiare il mondo reale, che è in questo caso una sorta di “totalità” di rapporti economici, politici e culturali che si dichiara appunto siano ormai “globalizzati”.

Ma è veramente così?

Non lo credo.

La “globalizzazione” è in realtà un’autorappresentazione, ad un tempo apologetica e prescrittiva, delle oligarchie dominanti (non solo economiche) dell’imperialismo USA e dei suoi principali alleati (in primo luogo il sionismo assassino del popolo palestinese).

 Questa autorappresentazione apologetica e prescrittiva ricopre un ruolo analogo a quello ricoperto un secolo e mezzo fa dal cosiddetto “libero scambio” dell’imperialismo inglese dalla fine del Settecento all’inizio del Novecento.

Nei due casi una vera e propria prescrizione imperialistica viene fatta passare per una descrizione neutrale ed accurata della realtà”.

 

Il tramonto degli stati.

L’istaurarsi del sistema economico globale avrebbe dovuto condurre alla scomparsa progressiva della sovranità degli stati e alla sua devoluzione ad organismi sovranazionali dotati di poteri prevalenti nei confronti delle legislazioni statuali.

 Lo sviluppo del libero mercato globale infatti, è subordinato alla rimozione di tutti gli ostacoli di carattere politico e giuridico che si interpongono alla libera circolazione delle merci e dei capitali.

Secondo l’analisi di “Danilo Zolo”, con tale svolta epocale, è venuto meno l’ordine internazionale creato con la pace di Vesfalia del 1648, che pose fine alla guerra dei Trent’anni.

 I membri riconosciuti dell’ordinamento internazionale erano esclusivamente gli stati, dotati di sovranità interna sui propri territori e di soggettività esterna nell’ambito internazionale.

 La sovranità degli stati era inoltre garantita dal principio della non ingerenza da parte di organismi esterni nelle strutture politiche interne degli stati stessi.

L’avvento del nuovo ordine globale invece, ha comportato la progressiva destabilizzazione interna degli stati, attraverso interventi militari aggressivi, quali le operazioni di “peace keeping” nei confronti degli “stati canaglia” (il giudizio sulla legittimità degli stati è divenuta una prerogativa esclusiva degli USA), rivoluzioni colorate, primavere arabe e/o attraverso una legislazione internazionale che ha destrutturato le istituzioni democratiche degli stati.

Oggi si antepongono agli stati organismi sovranazionali, quali la UE, l’ONU, il FMI, la Banca Mondiale, la Nato, il G7, l’OCSE, dotati di poteri politici ed economici che prevalgono sulla legislazione statuale.

Si sono affermate autorità transnazionali quali primarie fonti normative ispirate alla privatizzazione e alla economicizzazione dei rapporti giuridici e politici tra i singoli cittadini e tra gli stati, la cui finalità è quella di imporre una lex mercatoria internazionale atta a favorire il predominio di lobby finanziarie e grandi corporation multinazionali.

 

Anche la guerra è stata privatizzata. È questo un fenomeno esplicativo della dimensione post – storica assunta dalla civiltà occidentale.

 Scomparsi i valori e le virtù civili del patriottismo e dell’indipendenza nazionale, l’Occidente intende preservare il suo limbo di benessere post – storico delegando la sua sicurezza ad agenzie di truppe mercenarie (contractor).

 La globalizzazione ha condotto alla riviviscenza dell’Europa dei secoli bui, quella degli antipapi e delle compagnie di ventura.

La civiltà giuridica europea fondata sullo stato di diritto è stata ormai soppiantata da una giurisprudenza informale di natura contrattualistica che vanifica le garanzie giuridiche e le tutele sociali del cittadino dinanzi alla legge.

 

L’affermarsi di tale legislazione transnazionale è propedeutico all’avvento di una governance globale (quale quella delineata dal “Grande Reset”), che comporterebbe il definitivo tramonto degli stati nazionali.

Tuttavia occorre osservare che la decomposizione degli stati è un processo che ha generato la destrutturazione etica, politica ed istituzionale in primis dell’Occidente, la cui governance è oggi prerogativa dei gruppi economico – finanziari transnazionali.

Pertanto, le cause fondamentali della attuale decadenza dell’Occidente, risiedono nella subalternità delle istituzioni politiche alle oligarchie economiche.

L’Occidente è infatti incapace di confrontarsi con le potenze emergenti del BRICS, che hanno invece preservato, con la sovranità dei loro stati, i loro valori etici e culturali identitari.

Dinanzi alle nuove sfide del mondo multipolare l’Occidente si presenta disarmato.

 

Dallo stato sociale allo stato penale.

Il nuovo ordine globale ha comportato l’istituzione di molteplici corti penali internazionali e quindi di una giurisdizione penale transnazionale che progressivamente sta delegittimando il potere legislativo degli stati.

 In nome di uno stato di emergenza ormai divenuto quotidianità e della sicurezza internazionale, si attuano misure repressive nei confronti dei cittadini lesive delle fondamentali libertà democratiche sancite dalle costituzioni degli stati.

 Con l’avanzata della cultura woke, dell’ideologia gender, del transumanesimo e in nome della tutela dell’LGBTQ, la giurisprudenza penale internazionale crea sempre nuove fattispecie di reato che si rivelano nei fatti misure repressive della libertà di opinione e associazione.

Anche la vita personale e il nucleo familiare sono sempre più soggette a direttive di autorità esterne.

L’individualismo esasperato ha accentuato la conflittualità legale nell’ambito sociale.

Nella fase pandemica tali tendenze si sono rese evidenti.

Trattasi di fenomeni strettamente connessi all’affermarsi del capitalismo della sorveglianza, la cui natura repressiva è destinata ad accentuarsi con la rivoluzione digitale del Grande Reset.

Si prefigura infatti una società totalitaria, con una governance basata sull’espandersi del controllo sociale di massa mediante l’implementazione dell’identità digitale in varie forme e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale.

Tale involuzione totalitaria del capitalismo era già stata diagnosticata da “Danilo Zolo” che nel suo libro “Globalizzazione”, Edizioni Laterza 2004, ha definito questa trasformazione come il passaggio dallo “stato sociale allo stato penale”:

 “Mentre neppure gli Stati occidentali riescono ad attenuare le svantaggiose conseguenze sociali dei processi di globalizzazione a carico di una parte dei propri cittadini, essi si mostrano forti nell’esercizio della sovranità interna per imporre ai cittadini un ordine sempre più rigido all’insegna dello slogan della ‘tolleranza zero’.

Ciò che non viene più assolutamente tollerato non è, in generale, la devianza:

 lo sono i comportamenti specifici, anche di lieve entità, dei soggetti marginali – degli “stranieri” – che non accettano di adeguarsi ai modelli dominanti del “conformismo sociale”. 

Con la globalizzazione è emersa la riviviscenza di un universalismo giusnaturalista, che, se nei secoli passati aveva fondamento teologico, è invece oggi strutturato sulla base ideologica oligarchico – liberista delineata dal “progetto di pianificazione globalista – tecnocratico del Grande Reset”.

 

Dominio globale e dominio universale.

La globalizzazione ha rappresentato l’inclusione nell’Occidente del resto del mondo.

 L’imperialismo coloniale britannico, che si fondava sul dominio dei mari, ha avuto come erede legittimo la potenza talassocratica americana.

 L’integrazione dei mercati e la divisione internazionale del lavoro sono gli elementi strutturali di un sistema capitalista con cui si è affermato il primato americano nel mondo.

Esistono tuttavia rilevanti differenze tra il dominio capitalista degli imperi dei secoli scorsi e quello americano.

 Infatti, se l’imperialismo eurocentrico era globale, quello americano ha una natura universalista.

 Il dominio globale europeo era estrattivo, sfruttava cioè le risorse umane e materiali dei paesi colonizzati, ma non prevedeva l’integrazione politica e culturale delle colonie nella civiltà occidentale.

L’egemonia non escludeva dunque la sussistenza di un pluralismo culturale.

Il dominio universale americano invece implica l’imposizione a livello mondiale di un unico modello economico, politico e culturale.

Quello americano è un imperialismo culturale che presuppone un primato degli USA di carattere morale, prima che economico, tecnologico e politico.

L’americanismo è un modello culturale diffuso nel mondo mediate il “soft power statunitense”, con la finalità di unificare i popoli della terra entro una società globale intesa come un unico spazio americano.

Gli stessi paesi del BRICS, pur contrapponendosi nella geopolitica mondiale all’unilateralismo americano, sono essi stessi soggetti al colonialismo culturale americano.

L’americanismo attualmente governa le menti, lo spirito, i gusti, le mode, i costumi, la cultura e la mentalità consumista dei popoli del mondo.

Gli USA non si definiscono un impero, dato che la loro fondazione avvenne con una guerra di indipendenza anticoloniale.

 L’espansionismo americano fu concepito come una missione che comportasse l’assimilazione del mondo ad un modello politico, economico e culturale americano concepito come universale.

 In questa ottica deve essere interpretata la storia degli USA, come un progressivo e illimitato espansionismo che ebbe inizio con la conquista dei territori del West, per poi identificarsi con nuova frontiera kennediana e infine realizzarsi compiutamente con il dominio globale dopo la fine dell’URSS.

 

Il globalismo giuridico.

Il dominio universale implica necessariamente l’imposizione a livello mondiale di un “globalismo giuridico”.

 L’idea di una comunità mondiale unificata da un unico ordinamento giuridico si basa sul riconoscimento di principi etici universali quali i diritti dell’uomo, ereditati dalla cultura giusnaturalistico – liberale europea.

Appare quindi evidente come la globalizzazione si configuri come una forma di colonialismo politico – culturale e come una ideologia che ha legittimato l’esportazione armata della democrazia nel mondo.

 L’Occidente con la globalizzazione ha inteso imporre al mondo la propria cultura della modernità fondata sull’individualismo, sul razionalismo filosofico, sulla ideologia progressista liberale.

Il fallimento della globalizzazione consiste proprio nell’impossibilità di imporre ai popoli del mondo una cultura universalista e cosmopolita basata su concezioni filosofico – giuridiche astratte, non assimilabili dal resto del mondo, perché estranee alle altre culture e rivelatesi incompatibili con esse.

Con il globalismo si è riproposto in versione post – moderna il primato del vecchio eurocentrismo ormai rivelatosi antistorico.

L’universalismo astratto liberale, che concepisce il globalismo giuridico come un valore unificante dell’intera umanità è destinato alla sconfitta, dinanzi all’irriducibile pluriverso politico e culturale del mondo.

 Tale prospettiva è ben delineata da “Alain de Benoist” nel libro “Critica del liberalismo”, Arianna Editrice 2019:

 “L’ideologia dei diritti dell’uomo vuole conoscere solo l’umanità e l’individuo.

Ora, il politico si articola su ciò che si situa tra queste due nozioni:

 i popoli, le culture, gli Stati, i territori;

perciò implica l’esistenza di frontiere, senza le quali la distinzione tra cittadino e non cittadino (o straniero) è priva di significato.

 L’umanità non è un concetto politico: non si può essere “cittadini del mondo”, perché il mondo politico non è un universo, ma un pluriverso:

 il politico implica una pluralità di forze in campo.

L’umanità non può essere un’unità politica, perché non può avere un nemico su questo pianeta, se non in senso metaforico.

 Il liberalismo, perciò, può dichiarare guerra solo a coloro che rappresenta come “nemici dell’umanità”, rendendo nello stesso tempo la guerra più spaventosa che mai.

“Schmitt” cita, a questo riguardo, la frase attribuita a “Proudhon”:

«Chi dice umanità, vuole ingannare».

Se ne deduce, come scrive “Michael J. Sandel”, che «dei principi universali sono inadatti a fissare un’identità politica comune».

«Un pianeta definitivamente pacificato», scrive ancora “Carl Schmit”t, «sarebbe un mondo senza discriminazione tra amico e nemico, e di conseguenza un mondo senza politica»!”.

 

Luci ed ombre del nuovo ordine mondiale multipolare.

La fine dell’era globalista si identifica con il declino dell’eccezionalismo americano.

 La potenza americana, a causa delle ripetute sconfitte militari e della temibile minaccia economica e tecnologica cinese al suo primato, appare afflitta da una crisi identitaria interna, che coinvolge i propri valori fondativi, la sua vocazione missionaria universalista, la credibilità delle sue istituzioni, la legittimazione politica di un sistema democratico divenuto sempre più elitario.

In realtà, negli USA e nella UE, l’economia globalizzata, con le delocalizzazioni industriali, i tagli al welfare, la fine dei ceti medi e la precarizzazione del lavoro, ha generato diseguaglianze sociali sempre più marcate e malcontento popolare generalizzato.

 Gli USA, da primo paese produttore mondiale, si sono trasformati in una società di consumatori e sono divenuti meta di investimenti esteri, allo scopo di generare i flussi finanziari necessari a sostenere il loro mega debito pubblico e una bilancia commerciale perennemente deficitaria.

 Il declino americano è accentuato inoltre dal processo di de dollarizzazione dell’economia mondiale messo in atto dalle potenze emergenti del BRICS.

Nel mondo multipolare l’Occidente sembra destinato all’emarginazione.

Pertanto negli USA è in corso un processo di rilocalizzazione industriale che prevede politiche di incentivi al rimpatrio della produzione e misure protezionistiche intese salvaguardare il primato tecnologico americano, specie nell’innovazione green.

Al declino progressivo dell’Occidente farà seguito l’emergere di un nuovo mondo multipolare suddiviso in aree di influenza continentali.

Con il nuovo ordine multipolare, la diplomazia degli stati tornerà ad essere protagonista nella geopolitica mondiale.

La globalizzazione, intesa come interdipendenza economica tra gli stati continuerà a sussistere, ma sarà circoscritta alle rispettive aree continentali.

Il tramonto della globalizzazione si identifica con la fine del primato universalistico occidentale.

Un nuovo ordine mondiale potrà sussistere nella misura in cui potrà essere garante dell’indipendenza dei popoli e della sicurezza mondiale.

Il declino dell’Occidente è dovuto al suo irriducibile unilateralismo, alla sua congenita incapacità di comprendere e legittimare come propri interlocutori paritari altri soggetti della geopolitica mondiale.

L’Europa con la sua servile ignavia e gli USA con il loro preteso primato politico e morale nel mondo hanno reso l’Occidente responsabile della guerra ucraina.

 Le basi di una nuova geopolitica mondiale dovranno essere del tutto diverse. Come afferma “John Florio” nell’articolo “Geopolitica come relazione (apologia di Diodoto)” apparso sul numero 05/2023 di “Limes”:

“Considerando gli effetti delle incomprensioni tra Stati (le guerre), c’è una ragione per cui in politica estera le percezioni contano spesso più della realtà.

 Continuare a ignorarle non aiuterà a risolvere la crisi, ma al contrario ad approfondirla.

Se è così, l’inutile strage ai confini d’Europa potrà essere fermata solo tornando a pensare la politica estera come un’arte che si declina al plurale.

Ovvero tenendo debitamente in conto le prospettive e le percezioni altrui: soprattutto quando non le si condividono.

La diplomazia implica per antonomasia la capacità di comprendere gli interessi e le ragioni dell’avversario.

E quindi di fare compromessi.

 Nella consapevolezza che «conflitti tra le società e internamente ad esse si sono verificati fin dagli albori della civiltà, (…) e non solo tra le società che non si comprendono, ma anche tra quelle che si comprendono fin troppo bene» [H. Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori 2015, N.d.R.]”.

Il futuro mondo multipolare è tuttavia denso di incognite e di aspetti ancora oscuri.

 Infatti, sembra attualmente assai improbabile che con il nuovo ordine multipolare venga meno il sistema capitalista e soprattutto la sua evoluzione oligarchica e pianificatrice, oltre all’ideologia green e l’avvento della post – modernità con il transumanesimo e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale.

 Processi di trasformazione in cui la Cina ha assunto un ruolo di primo piano.

 La post – modernità costituisce l’eredità storica della globalizzazione.

Il mondo multipolare potrà rappresentare una sfida che generi la fuoriuscita dell’Europa dalla post – storia e dal nichilistico vuoto di senso che affligge oggi la società occidentale?

 Il mondo multipolare saprà riaffermare i valori identitari dei popoli e porre fine alle trasformazioni antropologiche della post – modernità incombenti?

Un multipolarismo che consista nella “riproduzione su scala continentale” del decadente globalismo occidentale non è davvero auspicabile.

 

 

 

 

Globo globale.

   Ariannaeditrice.it - Pepe Escobar – (08/07/2023) – ci dice:

(Fonte: idee azione)

 

Il 23° vertice dei capi di Stato dell’”Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai” (SCO), tenutosi virtualmente a Nuova Delhi, ha rappresentato la Storia in divenire:

tre BRICS (Russia, India, Cina), più il Pakistan e quattro “stan” dell’Asia centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan), hanno finalmente e formalmente accolto la Repubblica Islamica dell’Iran come membro permanente.

L’anno prossimo sarà la volta della “Bielorussia”, come ha confermato il primo vice ministro degli Esteri indiano “Vinay Kvatra”.

 La” Bielorussia e la “Mongolia” hanno partecipato al Vertice del 2023 in qualità di osservatori e il “Turkmenistan”, ferocemente indipendente, come ospite.

Dopo anni di “massima pressione” da parte degli Stati Uniti, Teheran potrebbe finalmente liberarsi dalla demenza delle sanzioni e consolidare il suo ruolo di leader nel processo di integrazione dell’Eurasia in corso.

Probabilmente, la star dello spettacolo a Nuova Delhi è stato il presidente bielorusso” Alexander Lukashenko”, che guida il suo Paese dal 1994.

Il vecchio “Luka”, imbattibile nel settore dei titoli di giornale, soprattutto dopo il suo ruolo di mediatore nella “saga di Prighozin”, potrebbe aver coniato lo slogan definitivo del multipolarismo.

 Dimenticate il “miliardo d’oro”, definito dall’Occidente, che in realtà raggiunge a malapena i “100 milioni”;

 abbracciate ora il “globo globale”, con un’attenzione particolare al Sud del mondo.

Per concludere, Lukashenko ha proposto una totale integrazione della “SCO” e dei “BRICS”, che nel loro prossimo vertice in Sudafrica prenderanno la strada del “BRICS+”.

 E va da sé che questa integrazione si applica anche all’”Unione Economica Eurasiatica” (EAEU).

Il prossimo passo per il “Globo Globale” – quello che l’Occidente collettivo qualifica con disprezzo come “il resto” – è quello di lavorare sul complesso coordinamento di diverse banche di sviluppo e poi sul processo di emissione di obbligazioni legate a una nuova moneta commerciale.

Le idee principali e il modello di base esistono già.

Le nuove obbligazioni saranno un vero e proprio paradiso sicuro rispetto al dollaro e ai Treasury statunitensi e comporteranno un’accelerazione della de-dollarizzazione.

Il capitale utilizzato per l’acquisto di queste obbligazioni dovrebbe essere utilizzato per finanziare il commercio e lo sviluppo sostenibile, in quello che sarà un “win-win” certificato e in stile cinese.

Un focus geoeconomico convergente.

La dichiarazione della “SCO” ha chiarito che l’organismo multilaterale in espansione “non è diretto contro altri Stati e organizzazioni internazionali”.

Al contrario, è “aperto a un’ampia cooperazione con loro in conformità con gli scopi e i principi della “Carta delle Nazioni Unite”, della “Carta della SCO” e del “diritto internazionale”, sulla base della considerazione degli interessi reciproci”.

Il cuore della questione è naturalmente la spinta verso un ordine mondiale multipolare equo – l’opposto polare dell’”ordine internazionale basato sulle regole” imposto dagli “egemoni”.

 I tre nodi chiave sono la sicurezza reciproca, il commercio in valute locali e, infine, la de-dollarizzazione.

È piuttosto illuminante delineare l’attenzione convergente, espressa dalla maggior parte dei leader, durante il vertice di Nuova Delhi.

 

Il Primo Ministro indiano” Modi” ha dichiarato nel suo discorso programmatico che la “SCO” sarà importante quanto l’ONU.

Tradotto: un’ONU senza denti, controllata dall’egemone, potrebbe finire per essere messa in disparte da una vera e propria organizzazione del “globo globale”.

Parallelamente a “Modi” che ha elogiato il “ruolo chiave dell’Iran” nello sviluppo del corridoio internazionale di trasporto Nord-Sud (INSTC), il presidente iraniano “Ebrahim Raisi” ha sostenuto fermamente il commercio della SCO nelle valute nazionali per rompere decisamente l’egemonia del dollaro USA.

Il Presidente cinese Xi Jinping, da parte sua, è stato irremovibile:

La Cina è favorevole a mettere da parte il dollaro USA, a opporsi a tutte le forme di rivoluzioni colorate e a combattere le sanzioni economiche unilaterali.

Il Presidente russo Vladimir Putin ha sottolineato ancora una volta come “forze esterne hanno messo in pericolo la sicurezza della Russia scatenando una guerra ibrida contro la Russia e i russi in Ucraina”.

Pragmaticamente, Putin si aspetta che il commercio all’interno della “SCO”, utilizzando le valute nazionali, cresca – l’80% del commercio russo è ora in rubli e yuan – oltre a un rinnovato impulso alla cooperazione nel settore bancario, nella digitalizzazione, nell’alta tecnologia e nell’agricoltura.

Anche il Presidente kirghiso “Sadyr Japarov” ha sottolineato i regolamenti reciproci nelle valute nazionali, oltre a una mossa cruciale:

 la creazione di una banca e di un fondo di sviluppo della “SCO”, del tutto simile alla Nuova Banca di Sviluppo (NDB) dei “BRICS”.

 

Anche il presidente kazako “Kassym-Jomart Tokayev”, che eserciterà la presidenza della “SCO” nel 2024, si è espresso a favore di un fondo comune per gli investimenti, oltre che della configurazione di una rete di partner dei principali porti strategici collegati alla” BRI cinese” e alla via di trasporto internazionale transcaspica, con sede ad “Astana”, che collega il sud-est asiatico, la Cina, il Kazakistan, il Mar Caspio, l’Azerbaigian, la Georgia e l’Europa.

Naturalmente tutti i membri della “SCO” concordano sul fatto che nessuna integrazione dell’Eurasia è possibile senza stabilizzare l’”Afghanistan”, collegando di fatto “Kabul” dal punto di vista geoeconomico sia con la “BRI” che con l’”INSTC”. Ma questa è un’altra storia lunga e tortuosa.

 

Le regole della connettività strategica.

Confrontate ora tutta questa azione a Nuova Delhi con quanto accaduto a “Tianjin” pochi giorni prima, alla fine di giugno:

l’evento del “World Economic Forum” (WEF) noto come la “Davos estiva”, tenutosi per la prima volta dopo la pandemia di Covid-19.

La critica del premier cinese Li Qiang al nuovo slogan “de-risking” di Stati Uniti e Unione Europea è stata prevedibilmente pungente.

 Molto più interessante è stata la tavola rotonda sulla “BRI” intitolata “Il futuro dell’iniziativa Belt and Road”.

In poche parole, si trattava di una sorta di apoteosi “verde”.

“Liang Linchong”, del “Dipartimento per l’apertura regionale della Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme” (NDRC), essenziale per promuovere la “BRI”, ha illustrato diversi progetti di energia pulita, ad esempio, nei nodi chiave della “BRI”, Kazakistan e Pakistan.

Anche l’Africa ha avuto un ruolo di primo piano.

 “Sekai Nzenza”, ministro dell’Industria e del Commercio dello “Zimbabwe”, è molto favorevole ai progetti “BRI” che aumentano gli scambi commerciali “e portano la tecnologia più avanzata” in Africa e nel mondo.

 

Pechino rilancerà il “Belt and Road Forum” nel corso dell’anno. Ci sono grandi aspettative in tutto il “globo globale”.

“Liang Linchong” ha fatto una sintesi di ciò che ci aspetta:

connettività dura” (che significa costruzione di infrastrutture), “connettività morbida” (enfasi su competenze, tecnologie e standard) e “connessione dei cuori”, che si traduce nel noto concetto cinese di “scambi tra persone”.

Secondo “Liang”, quindi, il “Globo globale” dovrebbe aspettarsi un’ondata di progetti “piccoli è belli”, molto pragmatici.

Ciò si ricollega alla nuova attenzione delle banche e delle imprese cinesi:

 I progetti infrastrutturali di grandi dimensioni in tutto il mondo potrebbero essere problematici per il momento, dato che la Cina si concentra sul mercato interno e sull’organizzazione di ogni fronte per combattere le molteplici guerre ibride dell’egemone.

La connettività strategica, tuttavia, non ne risentirà.

Ecco un esempio lampante.

 Due nodi industriali cruciali della Cina – la Greater Bay Area di Guangdong-Hong Kong-Macau e il cluster di Pechino-Tianjin-Hebei – hanno lanciato i “primi treni merci multimodali internazionali” Cina-Kirghizistan-Uzbekistan (CKU) lo stesso giorno del vertice “SCO” a Nuova Delhi.

Si tratta di un classico “BRI”:

connettività al top, utilizzando il sistema multimodale “ferrovia-strada” containerizzato.

L’INSTC utilizzerà lo stesso sistema per il commercio tra Russia, Caspio, Iran e poi via mare verso l’India.

 

Con la “CKU”, le merci raggiungono lo “Xinjiang” per ferrovia, poi proseguono su strada attraverso il confine di “Irkeshtam”, attraversano il “Kirghizistan” e arrivano in “Uzbekistan”.

L’intero viaggio consente di risparmiare quasi cinque giorni di tempo di transito.

 Il prossimo passo è la costruzione della ferrovia Cina-Kirghizistan-Uzbekistan:

la costruzione inizierà alla fine del 2023.

Il “BRI” si sta facendo strada in Africa.

Ad esempio, il mese scorso la “China Aerospace Science and Technology Corporation” (CASC) ha consegnato alla “Space City del Cairo” un prototipo di satellite co-sviluppato con l’Egitto.

L’Egitto è ora la prima nazione africana in grado di assemblare, integrare e testare un satellite.

 Il Cairo lo considera un ottimo esempio di sviluppo sostenibile.

È anche la prima volta che Pechino assembla e testa un satellite all’estero.

Ancora una volta, un classico del “BRI”:

 Consultazione, cooperazione e benefici condivisi”, come definito dal “CASC”.

E non dimentichiamo la nuova capitale egiziana:

Un satellite ultramoderno del Cairo costruito letteralmente da zero nel deserto per 50 miliardi di dollari, finanziato da obbligazioni e – che altro – da capitali cinesi.

La lunga e tortuosa strada della de-dollarizzazione.

Tutta questa frenetica attività è correlata al dossier chiave che i “BRICS+ “devono trattare: La de-dollarizzazione.

 

Il Ministro degli Affari Esteri indiano “Jaishanka”r ha confermato che non ci sarà una nuova valuta “BRICS” – per ora.

 L’accento è posto sull’aumento degli scambi nelle valute nazionali.

Per quanto riguarda il peso massimo dei “BRICS”, la Russia, per ora, punta a far salire i prezzi delle materie prime a vantaggio del rublo russo.

Fonti diplomatiche confermano che l’accordo tacito tra gli “sherpa dei BRICS” – che questa settimana stanno preparando le linee guida del “BRICS+” da discutere al vertice del Sudafrica il mese prossimo – è quello di accelerare il crollo del dollaro fiat:

 Il finanziamento dei deficit commerciali e di bilancio degli Stati Uniti diventerebbe impossibile agli attuali tassi di interesse.

Il problema è come accelerarlo in modo impercettibile.

La strategia tipica di Putin è quella di lasciare che l’Occidente collettivo si imbarchi in ogni sorta di errore strategico senza un intervento diretto della Russia.

Pertanto, ciò che accadrà sul campo di battaglia del Donbass – l’umiliazione più grande della NATO – sarà un fattore cruciale sul fronte della de-dollarizzazione.

 I cinesi, da parte loro, temono che il crollo del dollaro si ripercuota sulla base produttiva cinese.

La tabella di marcia suggerisce una nuova valuta di regolamento degli scambi commerciali, progettata per la prima volta nell’ambito dell’”UEEA”, sotto la supervisione del responsabile della macroeconomia della Commissione economica per l’Eurasia “Sergey Glazyev”.

Ciò porterebbe a un più ampio dispiegamento dei “BRICS” e della “SCO”.

Ma prima la “UEEA “deve convincere la Cina a salire a bordo.

 Questo è stato uno dei punti chiave discussi di recente da “Glazyev”, di persona, a Pechino.

Il “Santo Graal” è quindi una nuova moneta commerciale sovranazionale per BRICS, SCO e UEEA.

Ed è essenziale che il suo status di riserva non permetta a una sola nazione di esercitare un potere eccessivo, come accade con il dollaro USA.

L’unico mezzo pratico per legare la nuova valuta commerciale a un paniere di più materie prime – per non parlare di un paniere di interessi nazionali – sarebbe l’oro.

Immaginiamo che tutto questo venga discusso in modo approfondito dall’interminabile coda per l’adesione ai BRICS.

 Allo stato attuale, almeno 31 nazioni hanno presentato domanda formale o hanno espresso interesse ad aderire a un “BRICS+” potenziato.

Le interconnessioni sono affascinanti.

A parte l’Iran e il Pakistan, gli unici membri a pieno titolo della “SCO” che non sono membri dei” BRICS “sono quattro “stan” dell’Asia centrale, che sono già membri dell’”EAEU”.

 L’Iran è destinato a diventare membro dei “BRICS+”.

Non meno di nove nazioni tra gli osservatori o i partner di dialogo della “SCO” fanno parte dei candidati BRICS.

Lukashenko l’ha definito: La fusione tra “BRICS” e “SCO” sembra praticamente inevitabile.

Per i due principali motori di entrambe le organizzazioni – il partenariato strategico Russia-Cina – questa fusione rappresenterà l’istituzione multilaterale definitiva, basata su un vero commercio libero ed equo, in grado di superare gli Stati Uniti e l’Unione Europea e di estendersi ben oltre l’Eurasia fino al “globo globale”.

I circoli industriali e commerciali tedeschi sembrano già aver visto la scritta sul muro, così come alcune delle loro controparti francesi, tra cui il presidente francese Emmanuel Macron.

La tendenza è quella di una scissione dell’UE e di una maggiore potenza eurasiatica.

 

Un blocco commerciale “BRICS-SCO” renderà le sanzioni occidentali assolutamente prive di significato.

Affermerà la totale indipendenza dal dollaro USA, offrirà una serie di alternative finanziarie allo “SWIFT” e incoraggerà una stretta cooperazione militare e di intelligence contro le operazioni segrete seriali dei” Five Eyes”, parte delle guerre ibride in corso.

In termini di sviluppo pacifico, l’Asia occidentale ha mostrato la strada.

Nel momento in cui l’Arabia Saudita si è schierata con la Cina e la Russia – e ora è candidata a far parte sia dei BRICS che della SCO – si è aperto un nuovo gioco in città.

Rublo d’oro 3.0?

Allo stato attuale, c’è un enorme potenziale per un rublo sostenuto dall’oro.

Se e quando si realizzerà, si tratterà di un revival del gold-backing dell’URSS tra il 1944 e il 1961.

“Glazyev” ha osservato che il surplus commerciale della Russia con i membri della “SCO” ha permesso alle aziende russe di pagare i debiti esterni e sostituirli con prestiti in rubli.

Parallelamente, la Russia sta utilizzando sempre più lo yuan per i pagamenti internazionali.

 Più avanti, i principali attori del “Globo globale” – Cina, Iran, Turchia, Emirati Arabi Uniti – saranno interessati a pagamenti in oro non sanzionato anziché in valute locali.

Questo aprirà la strada a una valuta di regolamento commerciale BRICS-SCO legata all’oro.

Dopo tutto, non c’è niente di meglio dell’oro quando si tratta di combattere le sanzioni collettive occidentali, di fissare i prezzi di petrolio, gas, cibo, fertilizzanti, metalli e minerali.

“Glazyev” ha già dettato la legge:

La Russia deve puntare sul Rublo d’Oro 3.0.

Si sta avvicinando il momento in cui la Russia creerà la tempesta perfetta per sferrare un duro colpo al dollaro USA.

Questo è ciò che si discute dietro le quinte della” SCO”, dell’”EAEU” e di alcune sessioni dei “BRICS”, e questo è ciò che manda in bestia le élite atlantiste.

Il modo “impercettibile” in cui la Russia può realizzarlo è lasciare che i mercati facciano salire i prezzi di quasi tutte le esportazioni di materie prime russe.

 I neutrali di tutto il “globo globale” lo interpreteranno come una naturale “risposta del mercato” agli imperativi geopolitici dissonanti dell’Occidente collettivo.

 L’impennata dei prezzi dell’energia e delle materie prime finirà per provocare un forte calo del potere d’acquisto del dollaro statunitense.

Non c’è quindi da stupirsi che diversi leader al vertice della “SCO” si siano detti favorevoli a ciò che equivale, in pratica, a una Banca Centrale allargata BRICS-SCO.

Quando la nuova moneta “BRICS-SCO-EAEU” sarà finalmente adottata – naturalmente è molto lontana, forse all’inizio del 2030 – sarà scambiata con oro fisico dalle banche partecipanti dei Paesi membri della SCO, dei BRICS e dell’EAU.

Tutto ciò va interpretato come l’abbozzo di un percorso possibile e realistico verso un vero multipolarismo.

Non ha nulla a che vedere con lo yuan come valuta di riserva, che riproduce l’attuale racket dell’estrazione di rendite a vantaggio di una minuscola plutocrazia – completa di un massiccio apparato militare specializzato nella prepotenza del “globo globale”.

Un’unione “BRICS-SCO-EAEU” si concentrerà sulla costruzione – e sull’espansione – di un’economia fisica, non speculativa, basata sullo sviluppo delle infrastrutture, sulla capacità industriale e sulla condivisione delle tecnologie.

Un altro sistema-mondo, ora più che mai, è possibile.

(Pepe Escobar è un analista geopolitico e autore indipendente. Il suo ultimo libro è” Raging Twenties”)

(new.thecradle.co/articles/finance-power-integration-the-sco-welcomes-a-new-global-globe)

 

 

 

 

Virus.

   Ariannaeditrice.it - Lorenzo Merlo – (08/07/2023) – ci dice:

 

La dipendenza – di qualunque genere – è sempre una dichiarazione di debolezza. Ogni debolezza è una mortificazione della capacità creatrice.

 Non vederlo costringe ad accettare come giusto il mondo che c’è.

 Serve un dio.

La tecnologia è ontologicamente un dio, al cui potere vogliamo genufletterci; la cui gloria vogliamo celebrare; alle cui soluzioni aspiriamo; la cui verità superiore non discutiamo; la cui mortificazione umanistica non sospettiamo; la cui tossicità non immaginiamo.

Spesso, quando non sempre, è disposizione comune far corrispondere e vivere la tecnologia come progresso.

 Sarebbe anche vero, se non fosse considerato l’unico, l’autentico e soprattutto il solo.

Nella concezione della tecnologia sono insiti, impliciti, costituenti la quadratura, il giusto e il perfetto, ovvero ciò che manca.

Abbracciandola, crediamo di poter indagare il mistero e, un giorno, darne risposta.

Il pensiero e il sentimento che avvengono in noi a causa del fideismo scientista di cui siamo protagonisti ne risulta infettato.

Una asintomatica ossessione per il modello tecnologico cui dobbiamo tendere ci gonfia l’ego individuale, sociale, politico.

 In nome del credito nei suoi confronti, non abbiamo incertezze se accodarci esultanti al bene degli algoritmi, dei vaccini, della digitalizzazione:

più ce n’è, più tutto sarà facile, comodo ed economico.

In sella all’emozione digitale, l’arroganza umana decuplica le atrocità che già in territorio analogico aveva dimostrato di saper commettere.

Il liberismo, l’individualismo, l’edonismo hanno liquefatto i valori comunitari.

Il legame con le origini della vita, di cui siamo espressione, non è più affare che conti.

Ciò che interessa corrisponde all’egoismo.

Abbiamo abiurato a qualcosa di superiore e misterioso a favore di un Io steroidizzato fino alla misura divina.

Inconsapevoli di correre al massimo su un binario morto, diamo tutto.

Una corsa che ci offre la possibilità di stimare la perdizione in cui viviamo, l’abrogazione di noi stessi e tutto quanto crediamo superfluo al progresso materiale.

 “A Oxford, tra gli anni cinquanta e sessanta dell’Ottocento, “Ruskin” mise in pratica il precetto di entrare in contatto con il corpo, guidando squadre di esponenti della gioventù dorata a costruire una strada di campagna:

le mani dolenti e callose il segno virtuoso dell’essere in contatto con la Vita Vera”.

 

 Strategica mimesi.

Il potere tecnologico è il più occulto. Ma non è segretato.

È diffuso sotto il sole, è distribuito, accolto come manna dal cielo a tutti noi.

È in tutte le vetrine, è accessibile a chiunque.

Chi vorrebbe oggi rinunciare ai servizi tuttofare della tecnologia?

Chi non vedrebbe in quella rinuncia nient’altro che uno stupido arretramento della qualità della vita?

Come ciliegie a maggio, ci sembra un diritto averla e un dovere venderla.

 Ma quale progresso può esserci in una dipendenza?

 In ogni tipo di dipendenza vive l’assoluta mortificazione della libertà, della creatività, dell’autonomia, della forza, dell’invulnerabilità degli uomini.

Ogni dipendenza vive nutrendosi dell’energia che le diamo e che ci succhia, sottraendola a quella forza e a quella creatività che ci permetterebbero il senso di una vita piena, la consapevolezza di realizzare la nostra natura.

Ogni dipendenza azzera la profondità spirituale.

Questa viene prima denigrata, quindi dimenticata, considerata superflua, svuotata di significato.

 La ragnatela dell’universo dell’uomo, composta originariamente da infiniti filamenti, una volta dimenticata la consapevolezza del legame con l’origine, ha perduto la sua elasticità e potenzialità di farci percorrere l’infinito.

Si è ridotta a pochi aridi cavi economici e scientisti, che guidati dalla visione di aver sbaragliato ogni nemico, stanno andando lentamente a chiudersi su sé stessi, senza neppure il sospetto che soffocheranno il ragno.

 “Tecnici e utenti si preoccupano, giustamente, dei virus che possono intrufolarsi nei computer; mentre vi è una ben limitata coscienza di come lo stesso computer possa comportarsi da virus e intrufolarsi nella società degli umani.”

 Che c’entro io con Mr. Burbank Truman?

Ad ognuno il proprio ragionamento su come sottrarsi a un destino nel quale essere fuggevole e controllata comparsa della propria vita, ma solido protagonista al momento degli acquisti.

L’assuefazione è tale che non ricordiamo più di fare riferimento a noi, al nostro gusto e alle nostre esigenze.

Li abbiamo sostituiti con quelli offerti dai banchi dei commercianti, dalle sirene della pubblicità, dal vero giornalismo – quello disposto a farsi pagare per scrivere menzogne, a seguitare a dormire sereno, anche davanti a scenari “Assange”.

Ora crediamo di poter raggiungere i sogni acquistando merci, loro indegne, destabilizzanti succedanee.

Ora possono far tramontare il sole e mandarci a nanna.

 Dire che la guerra è pace e sentirselo replicare in coro dalla moltitudine che crede che questa vita sia effettivamente la vita.

 Di come stiamo allo show non interessa, se non in funzione di quanto possiamo consumare, votare, costare.

Siamo tutti uguali e, nonostante le nostre apparenti libere stravaganze, tutti buoni e protagonisti del nostro personalizzato “Truman Show”.

Pilota automatico.

A chi preferisce – leggi sceglie – adeguarsi, adagiarsi protetto dall’effimero scudo dal solito ritornello che è difficile cambiare rotta, che non possiamo farci niente, va fatto presente che non è quello il punto.

 Che portare l’attenzione sulla difficoltà è la modalità sconveniente per il cambiamento, personale o sociale che sia.

Il punto è che la rotta è sempre il risultato di una scelta.

E che una scelta è sempre il risultato di una fede.

Tuttavia, c’è anche chi si avvede della trappola e pensa che, più che adeguarti, che vuoi fare?

Smantellare il sistema è difficile, impossibile.

 

Legami, credenze e dipendenze sono le esche del Grande Pescatore.

 La logica di una misura di noi stessi limitata al modesto raggio d’azione dei nostri più immediati ed egoistici interessi rende possibile e vera quell’impossibilità, quel che vuoi fare?

 Pilota manuale.

Cambiare diviene invece assolutamente accessibile e vicino – indipendentemente dalla durata indicata dai calendari amministrativi del mondo – semplicemente mettendosi in cammino, dando l’esempio, lentamente auto-educandosi nel rispetto delle consapevolezze nuove, avendo fede ed esprimendo la propria concezione senza proselitismo positivistico.

 Quando si osserva che la meta è il percorso stesso, si vede cosa comporta il cambiare e che, condividendo questa formula, si può realizzare il cambiamento.

 E non servono consigli ed esempi.

 L’esperienza non è trasmissibile. Coloro a cui dovessero servire non replicherebbero che un modello.

Serve invece ricreare, secondo il proprio talento e propria misura.

Se stiamo andando dove non ci piace, è nostra responsabilità cambiare, come lo è se manteniamo lo status quo.

Così infatti sarà, quando dirigeremo verso mari non più di plastica, di falso progresso, di opulenza, di miseria spirituale.

Mari in cui le reti del Grande Pescatore avranno maglie inadeguate.

Una grande opera comune, una piramide, per la quale forse, nella nostra vita, non potremo che spingere per qualche metro uno solo dei macigni che serviranno per erigerla.

 Dov’è il problema?

Non sappiamo più cucinare il cibo, né coltivarlo o procurarlo; non rispettiamo più il ritmo delle stagioni, con tutto il loro significato per la vita terrena, e crediamo davvero se ne possa fare a meno; ci ammaliamo e diamo la colpa all’età, al virus, all’altro.

Il nostro impegno è avere, imitare e invidiare chi ha di più, sentire un fiotto di autostima davanti a chi ha di meno.

 Il nostro impegno è donare uno spicciolo al semaforo e proseguire verso i fatti nostri, lasciando che l’empatia con chi sta peggio vada a farsi benedire.

Del luogo dove origina l’ingiustizia si occuperà semmai qualcun altro.

Sulla crescente distanza dall’indipendenza non ci affrettiamo a ragionare, a capire, a sentire, per permettere ai nostri figli di avere le doti per vederla ridursi e, alfine, emanciparsene.

 A noi basta il bonus, la furbata, lo sconto, la quieta infelicità.

A tanto siamo arrivati.

“ChatGpt”, intelligenza artificiale, radio che si accende in automatico all’avvio del motore, guida assistita, uteri affittabili, sesso a gusto non sono che alcuni culmini della” tecnologia mon amour”, alcuni altari senza peccato, alcune discese verso l’auspicata comodità.

Tentacoli dai quali difficilmente ci si potrà liberare.

 “Per un numero sempre maggiore di persone l’illuminazione non fornita da reti ad alto voltaggio e l’igiene senza carta velina significano povertà.

 Aumentano le aspettative, mentre declinano rapidamente la fiducia speranzosa nelle proprie capacità e l’interesse per gli altri”.

 Ma è solo un assaggio.

 Insufficiente per cogliere e stimare quale esiziale distanza dalla terra e da noi stessi abbiamo raggiunto;

a quale bordo dell’abisso siamo affacciati; quanto, ancora ridenti, i nostri occhi non lo trovino orrifico, le nostre anime non chiedano perdono e non si avviino a provvedere per riparare al danno compiuto.

Siamo sensori e abbiamo disimparato a raccogliere i segnali del corpo e del mondo.

 Imbrattati di falsi valori, non siamo più in grado di sfruttare noi stessi, come se la conoscenza fosse fuori, nei libri e in chi li ha scritti.

Vibrasse incrostate di saperi, capaci ormai di vibrare solo al comando di idee infiltrate, ci rendono disponibili a crasse risate al cospetto di un rabdomante.

Dovremmo invece evitare d’intossicarle, per tornare a captare la conoscenza presente in noi, nel mondo, per divenirla ed esprimerla.

Questo è il problema.

 “Dovendo conviverci, l’uomo ha contratto l’abitudine alla tecnica, arrivando a identificarsi con essa e a vederla come l’espressione più significativa del proprio essere nel mondo.

Ma ritenere la tecnica la forma più alta dell’espressività umana è una svista imperdonabile, che alla lunga l’uomo verrà chiamato a pagare.

Educato secondo una mentalità subalterna alla tecnica, l’uomo ha imparato ad agire più che a essere, a cogliere le esteriorità più che l’interiorità delle cose, a esternare più che a riflettere.

 Il progressivo prevalere di una mentalità tecnica lo ha portato a considerare tutte le cose, compreso se stesso, come frutto della tecnica, vale a dire di una mente ingegneristica”.

 

 Il dono.

È che siamo polli da allevamento, spiriti obnubilati, merce.

 I giovani, e non solo, sono soddisfatti di fare la pubblicità per una multinazionale. Per pochi denari precari, svendono i loro migliori sorrisi.

I figli sono deboli. I padri anche.

Le prospettive politiche, basate sul diritto e non sulla natura, pessime.

Cosa significa essere forti?

Non riguarda saper scaricare una motonave a spalle, riguarda avere la capacità di riconoscere se stessi, le proprie doti e le proprie debolezze, significa saper coltivare le une e affrontare le altre, significa valorizzare quanto sentiamo e ridurre il monopolio della razionalità e della sapienza di ciò che abbiamo anonimamente, replicatamente appreso; significa libertà dalle ideologie e dagli interessi personali; significa poter distinguere ciò che fa per noi da ciò che è opportuno scartare; saper rinunciare, senza senso di frustrazione e debolezza.

Non invidiare, ma amare chi è meglio di noi per coltivare quanto ci manca.

Compiremo le scelte per donare un esempio di forza a chi verrà o daremo la colpa a qualcosa per non esserci riusciti?

 

 

 

Politica fluida e conservatori bolsi:

così l’”ideologia woke” travolge l’Europa.

Agerecontra.it – (11 GIUGNO 2023) - STAFF "CHRISTUS REX" - Matteo Castagna – ci dice:

(L’EDITORIALE – Affaritaliani.it).

 

A fronte di una galassia conservatrice sempre più fiacca divampa l’”ideologia woke”:

 il totalitarismo culturale che banna tutto ciò che non è “politically correct”.

Politica e ideologia woke,

“se i conservatori non si svegliano dal torpore dovremo soccombere al delirio transumano progressista”.

Nell’agone politico, destra e sinistra nascono con la Rivoluzione Francese nel 1789.

 Il filosofo francese “Marchel Gauchet” scrive che:

coloro i quali tenevano al re e alla religione si erano messi alla destra del presidente per sfuggire ai discorsi, alle indecenze e alle urla che avevano luogo nella parte opposta, dove stava la componente rivoluzionaria”.

Nel periodo della Restaurazione, in Francia e poi in Europa, la destra era occupata dai monarchici cattolici contro-rivoluzionari, mentre dalla parte opposta vi erano coloro che intendevano sovvertire l’ordine morale, sociale e politico, ovvero i giacobini anticattolici e anticlericali.

Nel XX secolo, la sinistra era rappresentata dai social-comunisti, mentre la destra dai monarchici e dai fascisti.

 Ci furono ulteriori sfumature, che inglobavano i liberali e i cattolici, a seconda delle circostanze storiche.

 Nel XXI secolo non ha più senso parlare di “destra e sinistra” perché le ideologie che le reggevano sono sostanzialmente morte.

Nel XXI secolo si parla di posizioni conservatrici e patriottiche per quella che fu, storicamente, la destra, e di progressiste e globaliste per “quella che fu la sinistra”.

Ad eccezione delle posizioni radicali, che non sono rappresentate in Parlamento, almeno in Italia, la globalizzazione viene accettata da tutto l’arco costituzionale e tutti si dichiarano liberali, liberisti e libertari.

Per cui sfumano le differenze tra le due parti, soprattutto sul piano economico (tutti liberisti) e morale (tutti libertari).

Questa situazione si è creata perché il modello imposto dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale, è stato quello anglo-americano, con una decisiva accelerata dopo il crollo del muro di Berlino, nel 1989.

Possiamo, dunque, parlare di evoluzioni e involuzioni nel tempo, del pensiero e dell’azione di entrambe le parti.

Le crisi, generalmente, sono le cause dei cambiamenti.

Le guerre sono i mezzi con cui si impongono i nuovi ordini/disordini.

Il maggior potere possibile sul mondo è il grande Vitello d’Oro, il fine degli avidi e dei corrotti.

Oggi, osserviamo una politica fluida come la società, ove tra i conservatori prendono posizione tre corpi estranei, che ne riducono l’efficacia subordinando lo schieramento ai paradigmi dei progressisti, ridimensionando l’orizzonte valoriale:

 i liberali, gli anticattolici, gli opportunisti globalisti, che potrebbero tranquillamente cambiare casacca, senza colpo ferire.

Anche tra i globalisti, buona parte della componente liberale e ex democristiana, figlia del modernismo, è trasformista per stipendi e privilegi, ma a livello culturale e sociale si sta imponendo una nuova ideologia che, progressivamente costituirà il bagaglio elettorale dei globalisti, ovvero del “partito Radicale comunista di massa”.

Al momento, dalla parte opposta, si notano le pesanti infiltrazioni di questa “wéltanschauung” che oscura il sovranismo e l’identità e affievolisce la Tradizione, che dovrebbe costituire la solida roccia sulla quale basare la filosofia, l’economia e l’azione politiche.

La destra è sempre tradizione – ha scritto recentemente Marcello Veneziani – ho un’idea diversa da quella irregimentata nell’establishment italo-euro-atlantico, che include anche la destra di governo”. ( Barbadillo, 7/4/2023)

Dunque, a fronte di una galassia conservatrice fiacca un po’ confusa, ha gioco più facile la nuova ideologia, costola del globalismo, che, come per il movimento sovversivo del 1968 muove i primi passi nelle Università francesi ma giunge dagli Stati Uniti.

Si definisce “cultura woke“.

“La woke culture è inoltre il substrato della “call-out culture” (molto vicina alla più nota” cancel culture”) – scrive il giornalista ed esperto di comunicazione “Andrea Zanini” su Formiche del 06/12/2021 –

 ossia la minacciosa e spesso violenta censura nei confronti di soggetti ritenuti colpevoli di idee e comportamenti disallineati da valori considerati progressisti e, più in generale, politicamente corretti;

sono infatti molteplici i casi in cui “attivisti woke” hanno ostracizzato professori e accademici impedendogli di parlare ad eventi pubblici, manipolandone le dichiarazioni e proscrivendoli sui social e sui media tradizionali, fino ad arrivare, in alcuni casi, a provocarne le dimissioni”.

La nuova “ghigliottina woke” è l’isolamento assoluto dell’uomo della tradizione, che non avrà mai alcuna difesa da parte di quei Conservatori bolsi, che pensano solo agli affari e si vendono al miglior acquirente.

Questo fenomeno sta pericolosamente dilagando nelle università americane, laddove “woke” è sinonimo di vigile allerta nella lotta contro le “ingiustizie della maggioritaria e prepotente cultura dei maschi bianchi”, che penalizzerebbero gli afroamericani, le donne, le identità sessuali diverse da quelle categorizzate biologicamente e via dicendo.

Nelle teorizzazioni più estreme gli ideologi della “woke culture” affermano addirittura l’inutilità della lettura di testi o della fruizione di opere di autori non conformi ai “canoni woke”.

“Zanini” prosegue nello spiegare questo “inquietante scenario”:

“Un altro requisito di questo totalitarismo culturale è la pretesa che siano gli studenti a decidere che cosa studiare.

 È la negazione della fondamentale figura del maestro, colui che per studi ed esperienza ha titolo ad insegnare…”.

È evidente a tutti che, nel mondo dominato dai social media, qualsiasi mitomane possa, grottescamente, laurearsi su Facebook.

 Al voto si sostituirebbe il numero di like…

 

C’è infine un elemento che rappresenta il vero il cavallo di Troia della “woke culture”, ossia la pretesa di voler difendere dalla cultura dominante dei maschi bianchi le culture oppresse, ghettizzate e negate, un obiettivo sul quale liberali progressisti non possono che concordare.

 Peccato che gli assunti e i metodi della “woke culture” portino alla società dell’assurdo, del caos e della follia.

 Il problema è che di fronte a questa minaccia, una società dalla pancia piena, quasi totalmente apatica e paurosa come quella occidentale, non riesca a reagire.

I conservatori, troppo spesso appiattiti su questa decadenza o in altre faccende affaccendati, dovrebbero riflettere sulle loro responsabilità verso i figli d’Europa, che non possono avere come modello i “Ferragnez”, “Bello Figo” o i “Maneskin”, senza cadere nella peggiore decadenza, mai vista nella storica culla della Civitas Christiana.

 

 

 

Cosa si intende per “woke.”

Ilpost.it – Redazione – (12 novembre 2021) – ci dice:

La parola finita in prima pagina su Repubblica indicava un atteggiamento consapevole delle ingiustizie sociali, ma oggi ha una connotazione spesso dispregiativa e sarcastica.

(Una protesta di “Black Lives Matter” fu effettuata a Londra già nel 2020).

Nell’ampio dibattito che ha interessato i paesi anglosassoni negli ultimi anni sulle rivendicazioni delle cosiddette minoranze, che si parli di orientamento sessuale o identità di genere, di origini etniche o di disabilità, sono emerse diverse nuove parole che hanno poi cominciato ad affiorare nelle discussioni anche in Italia, prima nelle nicchie e poi in modo sempre più trasversale.

Giovedì per esempio Repubblica ha pubblicato in prima pagina un editoriale del giornalista statunitense “Bret Stephens”, che era uscito pochi giorni prima sul New York Times, dal titolo “Perché l’ideologia woke fallirà”.

L’articolo dà per inteso il “significato di woke”, una parola che in realtà non si è mai davvero affermata nel dibattito italiano, nel quale solitamente si fa ricorso ad altre espressioni che rientrano più meno nello stesso campo semantico, come “politicamente corretto” oppure “cancel culture”.

 Peraltro, negli stessi Stati Uniti l”’aggettivo woke” e il “sostantivo wokeness” sono parole sempre meno usate, se non con una chiara connotazione dispregiativa:

 a complicare ulteriormente la spiegazione non solo del suo significato, ma anche degli sviluppi nelle sue accezioni e usi.

Woke” non è davvero traducibile in italiano – vuol dire qualcosa come “consapevole” – ma indica, o almeno indicava originariamente, l’atteggiamento di chi presta attenzione alle ingiustizie sociali,collegate principalmente a questioni di genere e di etnia, e non ne rimane indifferente, solidarizzando ed eventualmente impegnandosi per aiutare chi le subisce.

Nel Novecento l’espressione “woke” esisteva già ed era usata soprattutto tra gli afroamericani, sia con l’accezione di “stare all’erta” rispetto a un pericolo, sia con quella più generica di essere a conoscenza di qualcosa.

La sua diffusione col significato attuale però risale allo scorso decennio, quando fu usata nell’ambito delle proteste di “Black Lives Matter” per esprimere il concetto a cui è stata poi associata negli ultimi anni:

cioè la consapevolezza su una serie di questioni e problemi legati al razzismo e al sessismo sistemico – nel senso di radicati nelle istituzioni e nelle dinamiche sociali – della società americana (e per estensione di quelle occidentali).

Un termine quindi con un’accezione positiva, per chi lo usava riferendosi a un obiettivo e un’ambizione:

si definivano “woke” per esempio le persone – perlopiù della cosiddetta generazione dei “millennial”, cioè i nati tra gli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta – che facevano attivismo in piazza e sui social network, che partecipavano alle proteste antirazziste o alle marce per i diritti delle donne, che sensibilizzavano sull’importanza di utilizzare un linguaggio rispettoso e inclusivo per riferirsi alle minoranze.

 

Man mano che la diffusione della parola è uscita dalle proteste di Black Lives Matter, ha iniziato a essere usata in altri modi.

Con l’aumentare del coinvolgimento dei giovani americani nelle battaglie per i diritti,” woke” è diventata un’espressione riferita spesso a persone che sono considerate “alleate” delle minoranze ma che appartengono a categorie identitarie ritenute in una posizione di maggiore potere.

 Per esempio perché bianche, di sesso maschile, eterosessuali, cisgender (cioè che si riconoscono nel genere associato al sesso di nascita) o ricche, tutte caratteristiche che nell’ambito dei discorsi su questi temi vengono associate spesso al concetto di “privilegio”, inteso come vantaggio nella società contemporanea occidentale.

Più recentemente, però, “woke” è diventata sempre meno una parola rivendicata dalle persone che teoricamente dovrebbe descrivere, e sempre più usata invece dai loro critici e dai conservatori americani per indicare quella che considerano una pericolosa tendenza della sinistra, dei progressisti e più in generale dei Democratici.

Con “woke”, cioè, la destra americana intende solitamente quello che identifica come “un atteggiamento di dogmatismo intollerante e censorio”, applicato nei confronti delle parole e delle idee che vanno contro le più moderne sensibilità sulle questioni delle minoranze e dei diritti civili.

“Woke” quindi è diventato un termine perlopiù negativo, usato con l’intento di ridicolizzare e attaccare i movimenti giovanili progressisti, associandoli alle loro espressioni più intransigenti e aggressive, presenti principalmente sui social network.

Per esempio le campagne portate avanti in diversi campus universitari americani per allontanare professori accusati – spesso pretestuosamente o ingiustamente – di aver usato parole offensive, oppure quelle che chiedono il licenziamento di personaggi pubblici di vario tipo per via di dichiarazioni considerate controverse, o che mobilitano grandi e bellicose masse di account contro qualcuno che abbia detto una cosa considerata disdicevole rispetto alle suddette sensibilità.

Queste dinamiche, che sono oggetto di riflessioni e studi anche preoccupati, soprattutto in ambito accademico, fanno più precisamente riferimento al fenomeno della “cancel culture”, e sono legate secondo molti non tanto all’impostazione “ideologica woke” quanto alle modalità con cui le piattaforme dei social network hanno reso il confronto tra idee diverse spesso violento, intollerante e polarizzato.

Questi aspetti non sono soltanto discussi e criticati dai conservatori, tutt’altro:

 è in corso un vivace dibattito anche tra progressisti e persone di sinistra sui problemi che derivano da questo tipo di approccio al confronto politico e alla ricerca accademica.

Anche tra “opinionisti liberal”, la parola “woke” viene talvolta usata per riferirsi genericamente a questo atteggiamento ritenuto in contrasto con i valori di tolleranza e dialogo a cui si ispira storicamente la sinistra.

Ma insieme all’intenzione offensiva, negli Stati Uniti i principali utilizzatori del termine” woke” oggi se ne servono anche spesso come strumento di propaganda e polemica, evocando con un termine efficace un pericolo disegnato come universale e prevalente, “un’ideologia” estremista che governerebbe il pensiero progressista.

 È una minaccia che sfrutta la particolare e minacciosa visibilità degli atteggiamenti e dei toni aggressivi e perentori usati nelle polemiche virali sui social network, e ha permesso in più occasioni di mobilitare il complesso di persecuzione e la reazione di parte dell’elettorato conservatore (una pratica di comunicazione simile è quella, familiare anche in Italia, attivata dai predicatori contro “la teoria gender”).

Nel suo editoriale tradotto da Repubblica,” Stephens” usa la parola “woke” in senso evidentemente dispregiativo.

È un autore conservatore, i cui interventi sul “New York Times” sono stati spesso contestati, e tra le altre cose è noto per le sue posizioni scettiche riguardo alle responsabilità dell’uomo nella crisi climatica.

 Nel suo editoriale, dice in sostanza che quella che chiama “ideologia woke” non avrà successo in quanto movimento che «distrugge, divide gli americani, rifiuta e sostituisce i valori fondanti della nostra nazione», e che agisce «in modo prescrittivo, non per un vero dibattito o una vera riforma ma per indottrinamento e sradicamento».

“Stephens” se la prende in particolare con la “critical race theory”, una teoria accademica che interpreta la storia, la cultura e le strutture politiche statunitense indagandone il ruolo nel razzismo sistemico della società.

Da tema di nicchia, recentemente la “critical race theory” è diventata effettivamente un punto importante della campagna elettorale per il governatore dello stato della Virginia.

I Repubblicani l’hanno usata come spauracchio, distorcendola e ingigantendola e insistendo sulle intenzioni dei Democratici di introdurla nelle scuole.

 Secondo alcuni analisti, questo aspetto della campagna elettorale ha effettivamente avuto un ruolo nell’esito delle elezioni, vinte dai Repubblicani, per quanto ci siano opinioni discordanti su quanto sia stato effettivamente determinante.

All’editoriale di “Stephens” ha risposto il giorno dopo “Charles Blow”, editorialista del “New York Times” di orientamento liberal (sinistra radicale), che ha scritto che «la wokeness è stata descritta nei modi più iperbolici immaginabili, da ideologia a religione a culto» e per questo è stata abbandonata dai giovani che la usavano, ed è oggi prerogativa principalmente di chi vuole ridicolizzarla sottolineandone certi aspetti contraddittori, difficilmente comprensibili, elitari.

In ogni caso, perlomeno quando non aveva ancora una connotazione così politicizzata, anche l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama aveva criticato alcuni aspetti dell’atteggiamento di chi «si sente sempre politicamente woke», e ha «quest’idea di purezza, che non si debba mai scendere a compromessi».

 Aveva invitato i giovani a superare questo approccio:

«Il mondo è incasinato, ci sono ambiguità, le persone che fanno cose molto buone hanno dei difetti, le persone contro cui combattete possono amare i loro figli e avere cose in comune con voi.

 Penso che un pericolo che vedo nei giovani e in particolare nei campus, accelerato dai social media, è l’idea che il cambiamento passi attraverso l’essere il più giudicante possibile verso le altre persone, e che questo basti.

Se twitto o uso un hashtag su come hai fatto qualcosa di sbagliato, o hai usato la parola sbagliata, allora posso sedermi e sentirmi molto bene con me stesso perché avete visto quanto sono” woke”?

Ti ho sgridato. Non è attivismo. (…) Se tutto quello che fai è lanciare pietre, probabilmente non vai molto lontano.

 È facile fare così.

 

 

 

 

Un saggio sulla “Fabian Society”,

ovvero un circolo di “alfieri del globalismo”.

 Ilprimatonazionale.it - Tommaso Alessandro De Filippo – (26 Febbraio 2022)

 È di recente pubblicazione il “saggio Fabian Society “a cura del giovane “Francesco Mastrobattista”, edito dalla casa editrice” Millimetrozero”, che affronta con nettezza e chiara lucidità quello che a tutti gli effetti si è oggi trasformato in un fenomeno elitario e ristretto, con fini chiaramente manipolatori.

Cos’è la Fabian Society.

In primis, con Fabian Society ci riferiamo ad un contesto con alle spalle circa 130 anni di storia, nato nel mondo anglosassone.

La sua spinta ideologica basata su dei principi di uguaglianza e socialismo ha con i decenni assunto dei connotati sempre più distanti dalle prospettive di base.

 Infatti, i suoi esponenti sono riusciti ad insediarsi negli ambiti istituzionali e, soprattutto, finanziari del Regno Unito e non solo, riuscendo ad indurre politici ed élites ad assumere comportamenti ideologizzati, che si richiamassero comunicativamente a dei principi di egualitarismo sociale per poi condurre delle politiche dannose per il popolo.

 

La propaganda “liberal” (sinistra radicale Usa).

Ambientalismo e tematiche liberal sono oggi un punto cardine sfruttato dalla propaganda della “Fabian Society”:

 rappresentano i principali temi d’agenda politica che si riflettono maggiormente sugli interessi di ristretti circoli finanziari ed hanno l’opportunità di influenzare notevolmente i cittadini, in particolar modo quelli d’età giovanile.

“ Mastrobattista” descrive dettagliatamente le intenzioni e le mire di questo contesto, offrendo ai lettori una chiave di lettura utile per prospettare il futuro di una società che può subire questa manipolazione:

 in un momento storico fortemente globalizzato ed” incentrato sul pensiero unico” dettato dal mainstream la forza di determinate lobby può assumere dei tratti importanti nella gestione della volontà popolare.

Eventualità pericolosa che ci spinge a comprendere l’importanza dell’osservazione critica e del ragionamento che superi le motivazioni ufficiali attribuite a determinate scelte, siano esse mediatiche, politiche o finanziarie.

In tutta evidenza qualcosa che non sta spesso avvenendo nell’attualità odierna, composta per la maggiore da leggerezza e sufficienza di valutazione. (Il nostro ex ministro della salute “Speranza” ha frequentato con successo accademico la “Fabian Society” inglese. N.D.R.).

(Tommaso Alessandro De Filippo)

 

“Wokismo" come rifugio

 per i “senza scrupoli”.

 Extramurosrevista.com – (08/01/2022) - Diego Andrés Diaz – ci dice:

 

Qualche giorno fa, in una trasmissione del canale ideologico municipale "Teve Ciudad" - una sorta di misto di "TV RDA" e "TV Woke" - sono state rilanciate su Twitter le dichiarazioni di un giovane attivista locale di un'organizzazione globale chiamata “Fridays for future”, fondato 3 anni fa dall'attivista “Greta Thunberg”.

L'organizzazione si dedica all'attivismo di "protezione ambientale" e "mitigazione del cambiamento climatico", con l'obiettivo in particolare di incanalare l'esperienza dei giovani nel suo lavoro.

Nella sequenza, la militante locale ha sostenuto rispetto al suo rifiuto dell'esplorazione petrolifera che

"... è del tutto inaccettabile che molti uomini bianchi sopra i 50 anni, in giacca e cravatta, stiano prendendo decisioni e politiche, che non solo non li riguarderanno a causa della loro situazione privilegiata, ma non possono nemmeno vivere per sopportare quelle conseguenze. ...".

La cosa interessante della dichiarazione è che contiene buona parte delle caratteristiche più evidenti della manifestazione pratica delle “idee del pietismo” e del " wokismo" globalista:

in esse, una "storia" approda -senza alcun adattamento- senza contestualizzarsi con realtà locale, o il suo processo storico, quasi sempre per mano di alcuni media progressisti o di una delle agenzie di propaganda globale, come il “NYT”, l'”AFP” o una qualsiasi delle lobby imparentato.

 La retorica ispirata alla cosiddetta "Critical Race Theory", dove si riferisce ai malvagi "uomini bianchi" (immagino che arrivare a chiamarli "anglosassoni" e "protestanti" nel contesto nazionale rasentasse il buffone) , spiega in ultima analisi l'assoluta mancanza di un minimo di cura nel realizzare un certo adattamento e contestualizzazione delle ossessioni razziste del progressismo pietista nordamericano, a contesti diversi, in questo caso uruguaiani.

 A corollario di tale distorsione comunicativa, la retorica utilizzata palesemente dimentica una “estetica” nazionale rispetto alla “militanza sociale”, che approfondisce la scarsa popolarità che queste iniziative militanti riescono a mietere nonostante il bombardamento mediatico e i succulenti finanziamenti per profilare i destinatari dell’ urbanita "Cordón Sur".

Quest'ultimo elemento non è un fattore secondario:

c'è una lunga tradizione nella sinistra nazionale come movimento rivendicativo di diverse "Ingiustizie", in genere di tradizione piuttosto europea e di ispirazione sindacalista e anche marxista o socialdemocratica, che, se si é d'accordo o meno con i suoi postulati, ha cercato di rappresentare gli interessi e le preoccupazioni dei "settori popolari" nel contesto di un paese occidentale con una cultura europeista e un'economia sottosviluppata.

Questa tradizione più ortodossa, più strettamente legata alle esperienze e alle idee socialiste del XX secolo, ha significato anche il consolidamento di un'agenda anch'essa presumibilmente urbana, ma necessariamente più classista, operaia o "popolare".

Le preoccupazioni "postmaterialiste" di queste nuove agende, retorica, stile e persino rilevanza, proprio con la tradizione e, se si vuole, con qualcosa di epico classista soreliano, del militantismo urbano della sinistra nazional-ortodossa.

In un precedente articolo avevamo già fatto riferimento alla distorsione comunicativa che circonda buona parte del progressismo occidentale rispetto alle vecchie tradizioni, con nuovi formati discorsivi;

distorsioni basate principalmente su tre elementi storici:

 il fallimento dei modelli socialisti alla fine del XX secolo, la crescente influenza sulla sinistra occidentale del progressismo pietista anglosassone a scapito delle diverse forme di pensiero socialista o socialdemocratico, e l'avvento del post-materialista e il suo impatto sulle nuove generazioni e sui loro interessi.

Il crescente predominio del "progressismo risvegliato" (Woke) è forse uno dei cambiamenti ideologici più significativi della sinistra occidentale negli ultimi decenni.

 Il "pietismo" progressista di origine americana ebbe sempre influenze importanti in tutto l'Occidente e in Uruguay, ma in generale non riuscì a permeare in modo così evidente nella prassi, nell'agenda e nei discorsi della sinistra "europea", arrivando tutt'al più a impregnare il settori piuttosto riformisti del centro politico con alcune delle loro rivendicazioni e piattaforme, che hanno trovato ispirazione nella pratica politica del Partito Democratico degli Stati Uniti.

È ancora l'ideologia del Centralismo politico radicale, e non del cambiamento sociale e sistemico -qualcosa rivendicato come spirito dalla sinistra ortodossa storica- che si manifesta nel” Wokismo” solo come un "reset", per delegare le decisioni a una sorta di " Global Stato".

 Non ci sono grandi cambiamenti lì -come promesso dal socialismo- ma grandi controlli e buona coscienza.

Il rapporto tra il "woke" e la tradizione del progressismo pietista - a cui abbiamo già fatto riferimento - permette di cogliere molti spigoli del fenomeno: esso si manifesta come un vero e proprio credo della cosiddetta "giustizia sociale".

 In questo senso, la tradizione protestante puritana, presbiteriana e pietista del mondo anglosassone del XVIII secolo relativa al " grande risveglio " - si noti la somiglianza semantica - contribuisce all'importanza della coscienza per ottenere la grazia - nell'attuale Wokismo, già assolutamente secolarizzato, e la tradizione neo-calvinista la quota di determinismo che impregna idee e politiche identitarie della nuova sinistra.

 In questo senso, l'ossessione di proporre cause deterministiche, ineludibili, al di fuori della nostra volontà individuale, all'origine delle "ingiustizie sociali" - legate alla razza, al genere, ad esempio - viene spesso confusa da settori di destra con una sorta di neo -Marxismo, quando è del tutto relativo, poiché la componente di classe è minore o quasi inesistente nelle consuete logiche deterministiche del “wokismo”.

In definitiva, entrambe le tradizioni - quella pietista e quella marxista - attingono parte del fiume calvinista.

Il legame tra l'”interpretazione pietistica della grazia” che caratterizzerà il "Grande Risveglio" religioso del Settecento e la politica secolarizzata del progressismo americano del secolo scorso, sta nell'assegnare al "grande governo" la missione di costruire il paradiso terrestre delle coscienze riformato.

La preminenza della "coscienza" come fattore centrale per il raggiungimento della grazia -il solo Deo luterano- va interpretata nel lungo processo di secolarizzazione che l'Occidente ha vissuto, soprattutto nel campo delle idee.

 Il "puntura di coscienza" costringe i "risvegliati" a cambiare le loro convinzioni e comportamenti, in questo ordine:

il cambiamento fondamentale è nella coscienza dei depositari del messaggio, prima e fondamentale destinazione del processo, più che nei loro atti e azioni “materiali”.

Come sottolinea “Michael Rectenwald”,

“...  il risveglio è analogo all'incontro di salvezza cristiano.

Come essere salvati, essere risvegliati implica fare ammenda per le trasgressioni attraverso il pentimento e la riforma.

 E come (a differenza della concezione cattolica) non si salva per le opere ma nelle opere, così i neoconvertiti della giustizia sociale sono risvegliati non per le opere ma nelle opere "risvegliate" (...)

sotto la giustizia sociale, il peccato consiste nell'aver agito per negligenza da una posizione di privilegio, senza sufficiente riconoscimento o preoccupazione per coloro la cui mancanza di privilegio rende possibile il privilegio…”.

Il racconto descrittivo del “portatore di privilegi” fatto dal militante nel video-in cui si mescolano condizioni deterministiche al di fuori della volontà del singolo, come l'essere un “uomo bianco”, con altre legate a privilegi “di classe”, come il fattore simbolico del "vestito" - ha anche un altro elemento tipico del "wokismo":

esso è svolto da un individuo che incarna sicuramente buona parte dei "privilegi" denunciati.

Ma questo elemento è assolutamente irrilevante per il processo di "risveglio", poiché, sebbene inizialmente implichi un percorso individuale, non è rilevante per il "credo della giustizia sociale" il riscatto della persona, ma piuttosto il "risveglio" è un gruppo fenomeno collettivo, identitario, dove ci si sveglia “per il mondo”.

Trascurare la centralità dell'individuo -non importa quali azioni compie, ma chi le compie e quale gruppo "rappresenta" per ragioni deterministiche o predestinate, come il sesso o la razza- è fondamentale, e apre la strada alle manifestazioni evidenti pulsioni autoritarie all'interno del movimento, poiché stabilisce l'importanza dell'identità -sociale che diventa politica- nei confronti dell'individuo e dei suoi atti.

Ricordiamo che per uno dei promotori delle teorie del "wokismo" -soprattutto della parte "razziale", la "teoria critica della razza"- in generale la condizione deterministica dell'origine del problema lo rende "insanabile ".

“ Robin Di Angelo”, nella sua opera “White Fragility”,sostiene che non esiste persona bianca che non sia razzista, e che il razzismo è intrinseco all'essere bianchi, non ha una vera soluzione, può essere "placato" solo attraverso un esauriente allenamento mentale della propria coscienza, e un eterno esercizio di sottomissione prima i collettivi delle “vittime”, che vanno dall'inginocchiarsi -svegli di moda nello sport nei paesi occidentali- all'annullamento della lettura della “letteratura degli uomini bianchi”, in rigorosa similitudine con le parole del suddetto attivista locale.

 Questa condizione di movimento collettivo rappresenta un perfetto alibi per assolvere gli individui dalla responsabilità delle proprie azioni ed è un rifugio sicuro per coloro che temono di approfittare della libertà individuale.

 A questa condizione si aggiunge la protezione della "nobiltà" della causa superiore, che tutto giustifica, scusa, scusa.

Questo crocevia tra una tradizione militante nazionale e l'arrivo di nuove forme di militanza manifesta solitamente la piega generazionale che emerge da questo processo.

 Non è un caso che l'ambito culturale -dai media e la militanza nei social network al mondo accademico- sia quello dove il "wokismo" è approdato con maggior successo, manifestandosi a volte in una forma pura senza adattamenti spaziali e temporali - come noi visto nelle dichiarazioni dei militanti-, in altri adattando i profili locali della tradizione militante della sinistra urbana nazionale.

 Allo stesso modo, l'accademia locale sta portando avanti un processo più complesso e doloroso, poiché i premi che offre - reddito, potere, casta  - sono troppo importanti per la vecchia accademia cede semplicemente il passo alle nuove forme di "controllo e sorveglianza" che il “wokismo universitario” propone per affermarsi come ideologia dominante.

Questo dramma tra il progressismo ortodosso dominante nell'accademia locale e le nuove forme di azione ha avuto numerosi e pubblicizzati casi di conflitto, dove si sono manifestate allo stato grezzo alcune delle caratteristiche descritte in questo articolo circa la natura della militanza “svegliata”.

Impatto nelle aree di dibattito nelle università, persecuzione degli insegnanti.

Il problema si approfondisce quando uno dei feriti dai "proiettili svegliati" è un "compagno di viaggio".

Allo stesso modo, buona parte del "pacchetto sveglia"(Woke) sembra permeare l'accademia nazionale, sebbene la sua manifestazione pubblica più evidente sia come lettera politica, come "elemento identitario".

Questo elemento funge da discorso di pressione davanti all'opinione pubblica basato sulla leva rappresentata dalla "superiorità morale" - cioè il carattere missionario e buono - della causa.

 In questi giorni, lo scienziato promosso “Gonzalo Moratorio” ha espresso sui social la sua rabbia per l'attenzione globale su virus e malattie solo quando colpisce i “bianchi” ad “alto reddito”.

 La rivendicazione avviene anche nel bel mezzo delle gare per la ripartizione del bilancio nazionale.

La distribuzione dei bilanci statali permette di vedere chiaramente quali sono i settori più potenti, e le "idee di prestigio" in una società servono da piattaforma per ottenere una fetta più succulenta.

 Come direbbe il mio caro “Álvaro Diez de Medina”, “tutto questo è per soldi”.

Un elemento che va insistentemente rilevato è che, al di là di ogni valutazione, la vecchia accademia, pur sostenendo un insieme di idee egemoniche, consentiva importanti spazi di confronto, pluralità di idee e sfumature, nel senso esatto del più significativo di una accademia:

dentro le mura, tutte le domande possono essere poste, tutti i dibattiti consentiti, tutte le realtà messe in discussione.

Questa “condizione a priori” che descrivo potrebbe essere alquanto idealistica, grigia o irrealistica, ma era una condizione teorica ampiamente condivisa, almeno radicata nella tradizione illuminista.

 La cosa nuova e impressionante del "wokismo" è che tutto il suo identitarismo é                legato alla "coscienza", motivo per cui di fatto disattiva un'enorme quantità di idee e dibattiti, poiché la sua mera invocazione rappresenta la prova di privilegi che devono essere esorcizzati dalla Cattedrale .

 Tutto il nuovo tessuto piagnucoloso delle "zone sicure", le loro "quote", la loro "censura delle idee controverse", la loro promozione di "gruppi di risposta" che promettono "spazi sicuri di fronte alla violenza simbolica", il consolidamento dei pregiudizi identitari in I programmi di ricerca, finanziamento e promozione in ambito disciplinare stanno creando una sorta di barriera insormontabile che ha costruito un meccanismo strutturale di controllo e censura.

L'ironia è che questa neo-sinistra non riuscirebbero a superare un'autoanalisi foucaultiana delle caratteristiche della struttura di potere e controllo che essi stessi hanno creato, dove tutti sono osservati e interrogati in un insieme di "microtecniche di potere" e "panopticon" ideologici.

IL PIETISMO NELLA POLITICA DEI PARTITI LOCALI.

È la sinistra politica occidentale che capitalizza di più sull ' "onda del risveglio" , così come quelle che vivono alcuni dei drammi interni che emergono dalle contraddizioni e dai conflitti che derivano da questa combinazione.

Nel caso della sinistra politica nazionale, buona parte delle rivendicazioni "grezze" del “wokismo” sono generalmente condivise, anche se, come abbiamo visto, i conflitti sorgono facilmente quando le divergenze di focus, tradizione, prassi e cause "sullo sfondo" sono manifestati.

Nei settori del centro, invece, la tensione sembra essere meno intensa, poiché i vantaggi tendono ad essere più potenti delle difficoltà che l'adozione di queste idee comporta:

 i finanziamenti, i contatti e le posizioni burocratiche che il Wokismo promette - perché è la religione del centralismo politico dominante -,

 il prestigio politico che può essere rappresentato abbracciando idee "svegliate" in chiave decaffeinata, discorsiva e non massimalista, la seduzione rappresentata dal fatto che queste idee sono l'ariete del globalismo occidentale delle élite, tra gli altri vantaggi, supera di gran lunga i grattacapi politici che può portare.

In Uruguay, i settori più progressisti del governo della "Coalizione Repubblicana" tendono a flirtare con parte delle idee del Wokismo, diventando talvolta i loro migliori portavoce.

 Sarebbe ingiusto accusare questa circostanza di "utilitarismo", perché c'è una lunga relazione di alcuni settori politici locali con il pietismo -questo è evidente nel coloradismo talvista, e in una certa misura, nel Batilismo e nel suo rapporto con il Partito Democratico- , ma , ammettendo che ci sia una condizione di allineamento "di principio", hanno anche le sue conseguenze problematiche:

in generale sono il settore politico locale che replica più fedelmente le idee pietiste in voga, al punto che molte delle loro proposte rappresentano e proposte programmatiche, avulse dalla realtà nazionale o dall'interesse pubblico.

 

La melodia "straniera" si manifesta in vari modi:

l'ossessione per il profilo dato a certi problemi razziali -che non manifestano preoccupazioni locali, ma piuttosto replicano problemi tipici dell'unicità del caso statunitense e del rilievo della questione lì-, le sue proposte ambientali a basso impatto e ad alta propaganda -come i divieti di alcuni prodotti, o replicando senza sfumature il discorso anti-bestiame dell'ambientalismo risvegliato in un paese che è puramente bestiame-, la promozione della censura della libertà di espressione o sui social network attraverso leggi giustificate nella lotta al “discorsi anti-odio”,la rivendicazione degli elementi meno radicali e superficiali dell'agenda femminista attraverso la promozione di "cestini mestruali" in cui il dibattito si concentra su come riferirsi ai destinatari delle politiche proposte, tra gli altri, sono alcuni esempi di questo divario tra le proposte importate senza contestualizzarli con la realtà locale e le preoccupazioni dei loro elettori.

A questo punto, la sinistra tradizionale sembra sentirsi più a suo agio nel riformulare queste idee e allinearle ai propri interessi politici.

 Forse è perché dentro di sé ha gli strumenti ideologici per elaborare le proposte e incanalarle nella sua tradizione, prendendo ciò che considera attinente alle sue basi ideologiche e scartando ciò che presenta contraddizioni o conflitti, o irrealtà tipiche dei settori urbani alto-borghesi di il primo mondo.

Si può ritenere che questo credo risvegliato - una sorta di "religione woke fantastica", del tipo che ha animato la storia dell'umanità in varie circostanze - rappresenti qualcosa di circostanziale nel cammino occidentale, ma il programma totalitario e fondamentalista che incarna, spogliato dell'Indumento della sua origine, trasformato in programma politico ed espandendosi attraverso il suo globalismo e il suo statalismo strumentale, si sta consolidando in Occidente.

Ecco perché non è importante se "non ti interessa" quello che fanno gli altri, ma hai un'opinione critica o "irriverente" su una delle "vacche sacre del momento". Non importa che tu sia libero -e pensi liberamente- finché lasci che gli altri siano liberi.

Lavoro,e la sua ossessione per la trasformazione delle coscienze attraverso strumenti politici, è convinto di avere un'ispirazione messianica per inseguirti. Nella sua effettiva applicazione, il “wokismo” si comporta come qualsiasi altro futurismo messianico che sia esistito, e spera di plasmare le coscienze e di trasmettervi esattamente come dovrebbe essere pensato, e qualsiasi contraddizione al suo credo sarà "fobia" o "patologia" che deve essere riparato -o essere eliminato-, al di là delle tue azioni.

 

Questa logica di origine “pietista millenaria” è alla base della nuova correttezza politica che annega il mondo, dove la domanda non è necessariamente sugli atti, ma sulle coscienze, e per decantazione, sulla tecnologia del pensiero -cosa si dice, cosa si scrive- e questa richiesta è moralistica e obbligatoria.

E quando un futurismo ha progetti meravigliosi per tutti, che non si realizzano, sempre, sempre, finisce nell'autoritarismo e nella violenza perché non facciamo quello che avevano preparato per noi come destino.

C'è in tutta questa equazione di “wokismo” , di militanza nella divisione sociale e “allarmismo”, un sostrato profondamente misantropico.

Non è un caso che i discorsi "svegliati" aprano la strada alla promozione di misure messianiche di salvezza universale basate sul “controllo centralizzato”.

Quando il presidente Usa Joe Biden sostiene che “il cambiamento climatico” è la grande sfida del futuro e propone, tra l'altro, misure di “quarantena” globale simili a quelle installate nella pandemia, ora giustificate dalla “emergenza climatica””, rivela l’impronta neomalthusiana e pietista che alimenta il suo discorso.

 

La libertà conservatrice.

Panoramarivista.it - Lorenzo Castellani – (13 aprile 2023) – ci dice:

 

«Quando uscivi dalla porta sul retro di quella casa, da un lato trovavi un abbeveratoio di pietra in mezzo alle erbacce.

 C’era un tubo zincato che scendeva dal tetto e l’abbeveratoio era quasi sempre pieno, e mi ricordo che una volta mi fermai lì, mi accovacciai, lo guardai e mi misi a pensare.

Non so da quanto tempo stava lì.

Cento anni. Duecento.

Sulla pietra si vedevano le tracce dello scalpello. […] E mi misi a pensare all’uomo che l’aveva fabbricato. […] In cosa credeva quel tizio?

Di certo non credeva che non sarebbe mai cambiato nulla.

Uno potrebbe anche pensare questo.

Ma secondo me non poteva essere così ingenuo. Ci ho riflettuto tanto.

Ci riflettei anche dopo essermene andato da lì quando la casa era ridotta a un mucchio di macerie.

E ve lo dico, secondo me quell’abbeveratoio è ancora lì.

 Ci voleva ben altro per spostarlo, ve lo assicuro.

E allora penso a quel tizio seduto lì con la mazza e lo scalpello, magari un paio d’ore dopo cena, non lo so.

E devo dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una sorta di promessa dentro al cuore.

 E io non ho certo intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra.

Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa.

È la cosa che mi piacerebbe più di tutte».

 

Con queste poche righe “Cormac McCarthy”, forse il più grande romanziere americano vivente, dipinge con efficacia e potenza scenica la tensione che squarcia il conservatorismo nel suo rapporto con la tarda modernità.

Epoca in cui termini come “conservare”, “durare”, “tramandare”, risultano concetti al limite dell’utopia proprio perché la struttura del progresso, cioè la perenne distruzione creatrice del capitalismo, la crescita della potenza tecnologica e il processo di infinita liberazione dell’individuo dai legami tradizionali, mette il conservatorismo culturale e politico su una soglia che rischia sempre di chiudersi.

Ad un passo dall’impraticabilità, insomma.

Al tempo stesso però, come emerge dalla prosa potente di McCarthy, pur se impossibile questa spinta a conservare è una pulsione necessaria per ogni essere umano.

Il rapporto con il passato e la tradizione rappresentano una corda che non può essere mai completamente recisa perché dal buon rapporto con ciò che si eredita dipende la disposizione verso il futuro.

Quando ciò che è (o è stato) appare minacciato, il futuro si mostra oscuro e pericoloso.

 E ciò forse spiega perché la società più ricca, benestante, innovativa e tecnologicamente avanzata della storia possa aver paradossalmente bisogno di un certo livello di conservatorismo politico e culturale.

Chi vuole conservare sa di non poter fermare l’avanzare delle trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali – altrimenti sarebbe soltanto un reazionario – ma in questo processo vuole preservare alcuni punti cardinali sui quali si pensa e si muove l’umano.

 Questo conservatorismo quasi impossibile, e al tempo stesso radicatissimo al fondo delle cose, non sembra poter esser cancellato nemmeno nell’epoca delle massime accelerazioni trasformative e delle libertà individuali assolute o quasi.

Nell’ultimo decennio il concetto di conservatorismo è tornato alla ribalta nella discussione politica, ma l’impressione è che spesso, tanto da parte dei progressisti e dei liberali quanto da parte di coloro che si definiscono conservatori, ci sia una certa superficialità intrisa di determinismo, che relega il conservatorismo alla pura prassi politica, nell’analizzare le ragioni del ritorno conservatore.

Si è infatti soliti attribuire la crescita di una destra più conservatrice alla crisi finanziaria del 2008, alle crescenti disuguaglianze e distanze tra borghesia urbanizzata e istruita e le province, alle politiche della globalizzazione e dell’immigrazione troppo lassiste e disinvolte, al progresso tecnologico impetuoso, alla deindustrializzazione e alle asimmetrie del welfare, alle dinamiche della politica internazionale, ai progetti e agli atteggiamenti di una élite eccessivamente cosmopolita, tecnocratica e autoreferenziale.

Tutte queste cause hanno un impatto sulle trasformazioni politiche, ma per comprendere fino in fondo questo ritorno del conservatorismo, in forme per altro diverse da quelle degli anni Ottanta, è necessario scendere più in profondità per coglierne la forza, le aporie e le contraddizioni in particolare nel rapporto tra questo e la libertà.

Nel compimento di quell’entusiasmante processo di liberazione da vincoli, dogmi, tradizioni, autorità e strutture che definisce la tarda modernità, l’individuo si è infine scoperto solo.

E con una certa sorpresa ha trovato questa condizione di libertà, conquistata con un faticoso processo di emancipazione individuale e collettiva, spesso insoddisfacente.

 La demolizione dei vincoli tradizionali, accelerata dopo la Seconda guerra mondiale e in particolare dopo il 1968, ha creato spazio per maggiori libertà individuali, ma anche determinato occasioni in cui la solitudine, l’alienazione, lo spaesamento del soggetto si amplificavano per la perdita della protezione che le istituzioni tradizionali erano in qualche modo in grado di fornire.

 Che cosa si intendeva demolire con il paradigma progressista e liberale della tarda modernità?

 In termini semplici, ci si voleva liberare di tutto ciò che ostacolava la rincorsa dei desideri dell’io verso la loro immediata soddisfazione.

 Ordinamenti, strutture, sistemi, partiti, chiese, leggi, abitudini, tradizioni, dogmi, codici, regimi, opinioni, usanze, costumi e perfino assetti biologici che limitavano le aspirazioni personali.

 Ogni cosa è stata messa in discussione, decostruita o radicalmente riformata per fare spazio a un individuo sempre più bisognoso di affermazione.

In questa continua liberazione, però, l’individuo perdeva il proprio “posto nel mondo” dettato dalla nascita, dalle usanze, dal territorio, dalla famiglia, dalle tradizioni.

 L’essenza della tarda modernità si realizzava in un “disancoraggio” della persona, con la sua costellazione di certezze e vincoli, a favore di un individuo libero sì, ma anche privo di riferimenti e quindi più instabile e precario.

 In termini molto stilizzati, questa è la condizione dell’individuo moderno in rapporto alla libertà vista con gli occhi di un conservatore.

L’uomo non ha più vincoli e obblighi, ma questo stato non gli dice nulla circa la strada da imboccare per raggiungere la propria realizzazione.

Può andare ovunque, ma non sa bene dove andare e dunque si rifugia in quelle poche certezze che ha.

 

Senza aver presente questa prospettiva interpretativa della tarda modernità diventa difficile comprendere sia il conservatorismo del terzo millennio sia il suo prepotente ritorno sulla scena politica.

Per il conservatore è come se l’individuo contemporaneo fosse sempre davanti a un bivio:

da un lato la sottomissione a un potere oppressivo che viola le libertà e nega i diritti ma offre in cambio protezione e un certo grado di sicurezza economica; dall’altro, il “conformismo compulsivo” di soggetti che si somigliano fra loro non per decreto o per coercizione, ma per scelta e per effetto del processo di emancipazione.

Nella seconda ipotesi, per dirla con “Erich Fromm”,

 «l’individuo isolato diventa un automa, perde il suo io, eppure allo stesso tempo concepisce sé stesso come libero e soggetto soltanto a sé stesso».

Questo è quello che “Fromm “chiama «l’illusione dell’individualità»:

l’individuo moderno, dotato dell’arma debolissima della libertà negativa, non solo non è autenticamente libero, ma è fermamente convinto di esserlo.

 Crede di esprimere l’unicità del proprio essere e la fermezza della propria volontà, ma invece è tirato da ogni parte da mode, istinti mimetici, dinamiche di gruppo, pressioni sociali.

È confortato dalla sua bolla mediatica che amplifica ciò che sa già, è bersagliato da algoritmi che gli suggeriscono cosa desiderare, ignora beatamente l’esistenza di eserciti di studiosi del comportamento, esperti di marketing e sofisticati algoritmi che gli dànno spinte più o meno gentili verso scelte nel proprio interesse.

Dal momento che l’uomo si è liberato dalle vecchie forme esplicite di autorità e protezione, non si accorge di essere preda di un nuovo tipo di autorità.

 L’individuo tardo-moderno è diventato un automa che vive nell’illusione di essere dotato di una volontà propria.

Questa illusione aiuta l’individuo a rimanere ignaro della sua fragilità, ma è tutto ciò che un’illusione può dare mentre in realtà, nella foga del progresso, diviene sempre più eguale e conformista. Un abbaglio prometeico che spinge l’umano sempre di più verso forme egoistiche e narcisistiche.

 

Un conservatore liberale come “Alexis de Tocqueville “aveva già denunciato questo pericolo nel diciannovesimo secolo.

Egli sosteneva che l’origine dell’egoismo è un «istinto cieco», mentre l’individualismo discende da un «giudizio erroneo», questione più profonda e radicale di una semplice perversione dei sentimenti.

L’egoismo, scrive “Tocqueville”, «dissecca in germe tutte le virtù», mentre l’individualismo opera in modo più sottile e insidioso:

«inaridisce inizialmente solo la fonte delle pubbliche virtù;

 alla lunga, però, intacca e distrugge tutte le altre e finisce con l’essere assorbito dall’egoismo».

 Una posizione che affonda le sue radici nella concezione dell’individuo come entità autosufficiente, dove l’individuo tende a cercare le ragioni di ogni cosa «soltanto in sé stesso».

“Tocqueville” intuisce che, allentando i legami sociali, si opera anche una separazione fra le generazioni, promuovendo una concezione che verrà ereditata dai giovani e poi trasmessa a quelli che verranno dopo, in un ciclo perpetuo, per cui

«la democrazia non solo fa dimenticare a ogni uomo i propri avi, ma gli nasconde i suoi discendenti e lo separa dai suoi contemporanei;

lo riconduce continuamente verso sé stesso e minaccia di chiuderlo interamente nella solitudine del suo cuore».

In altre parole, e qui giungiamo ad altri due concetti fondamentali del conservatorismo, il progresso fondato sull’individualismo attacca ed erode sia la comunità che l’autorità.

 Nel rapporto tra singolo e comunità si incrociano gli ostacoli posti dallo Stato e dal capitalismo globale a questa relazione.

Lo Stato moderno, infatti, è un distruttore di comunità locali, ordini, associazioni, chiese, consuetudini, usi e costumi al fine rafforzare il proprio processo di legittimazione attraverso la centralizzazione delle decisioni e la razionalizzazione dei mezzi.

Per il conservatore, lo Stato fiorisce a discapito di comunità che vengono depredate del proprio valore umano, spirituale, politico ed economico al fine di ottenere una standardizzazione.

Il “Leviatano” fa tabula rasa di ogni corpo intermedio tra sé stesso e l’individuo, il quale, pur nell’eguaglianza con gli altri, resta solo e nudo di fronte al potere di questo gelido mostro.

Di conseguenza, lo Stato produce una élite centralista e centralizzata, una burocrazia professionale e omogenea, che ha la pretesa di disegnare nuove istituzioni, di dirigere la società dal centro, di imporre regole giuridiche ed etiche piegando le istituzioni storiche e spontanee della comunità.

Se ciò vale per lo Stato nazionale nei confronti del governo locale, ancora di più è vero per le istituzioni sovranazionali rispetto alla comunità nazionale, le quali vengono percepite come lontane, artificiali, burocratiche, tecniche, espressione di grandi interessi e potenti reti distaccate dalla vita quotidiana dell’uomo comune.

Queste, per il conservatore, sono il terreno ideale delle élite in fuga, dello sradicamento, del dirigismo dall’alto, di una emancipazione a tappe forzate, che nessuno ha richiesto, imposta per decreto per volontà di una minoranza le cui radici non affondano da nessuna parte.

In questo contesto, il capitalismo globale – alimentando forme di consumismo senza limiti, di deterritorializzazione della produzione, di conformismo dei gusti e creando istituzioni sovranazionali al pari dello Stato distrugge le autorità tradizionali, depaupera il piccolo produttore, inaridisce il tessuto economico locale, delocalizza l’impresa e soprattutto burocratizza e managerializza il mercato.

 Il conservatore non è mai un anticapitalista tout court, ma è favorevole a forme di capitalismo territoriale e produttivo, locale e famigliare, corporativo e padronale.

Al tempo stesso, però, il conservatorismo si oppone al grande capitalismo, al dominio del management concentrato nelle aree metropolitane e affratellato con banche e politica;

alle corporation globali politicizzate che oramai si sono date una missione anche di progresso e supposta civilizzazione;

al sacrificio della manifattura industriale a favore di un’economia dei servizi e della conoscenza.

Il conservatore difende la proprietà privata concreta, immobiliare e mobiliare, che è fondamento di libertà mentre diffida dell’intermediazione virtuale e dell’idea di una “società in affitto perenne”.

Nel conservatorismo di oggi c’è, dunque, una doppia polemica, verso lo Stato accentratore, e le sue proiezioni sovranazionali in particolare, e verso il capitalismo globale, a tutela della comunità e della tradizione.

Se il primo genera burocratizzazione, centralizzazione, esasperata omogeneità e forme di disciplinamento dei comportamenti e dei linguaggi in un mondo che era stato promesso come totalmente libero, il secondo oramai degrada la comunità in mera connessione logistica e virtuale.

Ma per il conservatore la comunità è qualcosa di diverso e superiore rispetto a tutto questo.

 È in comunità chi ha “qualcosa in comune”.

La comunità non è soltanto un sentimento, un’intenzione, un’affinità, un desiderio, ma è un elemento oggettivo.

Un territorio concreto, una vita quotidiana reale, legami che possono essere toccati con mano.

 Ma forse è ancora qualcosa di più: un elemento esterno rispetto agli individui in questione, un vincolo indipendente dai singoli che promana dalla storia e dalla tradizione.

 Anche sul piano etimologico, nella koinonia denotazione e connotazione convergono nel significare una unione (koinè), ove il singolo non ha un’esistenza indipendente dal tutto che la comunità rappresenta, il suo destino è definito all’interno dello spazio di possibilità perimetrato dalla comunità di appartenenza.

In latino, la “cum munus” delinea la reciprocità dell’obbligo donativo;

la relazione comunitaria, dunque, è un “dare-darsi”, come potevano essere dei soci d’affari o dei membri di una cooperativa.

La comunità è, dunque, più vincolante di un contratto che si può rescindere con il semplice consenso delle parti:

 la concezione comunitaria è in perenne tensione con quella contrattualistica, propria del liberalismo classico.

 La comunione mette al centro, cioè in comune, un termine oggettivo e non manipolabile come fondamento dell’unità fra le persone.

La libertà può trovarsi soltanto all’interno di questa unità profonda, essenziale, fondata su un legame inscindibile e, come nella descrizione iniziale di “McCarthy”, resistente al tempo, ai cambi di umore, ai desideri, ai peccati e anche alle virtù di chi è coinvolto nella sua realizzazione.

Il secondo elemento cruciale sul piano concettuale per il conservatore è quello di autorità, termine inviso ai progressisti poiché considerato all’estremo opposto di progresso, imparentato con disciplina e dispotismo, e sostanzialmente impronunciabile nell’era della tarda modernità poiché, nella vulgata dominante, avverso alla libertà.

Per i conservatori invece l’autorità è il terzo lemma, insieme a libertà e comunità, a risultare imprescindibile per una buona vita individuale e sociale.

 Guardato dal resto dello spettro delle dottrine con sospetto, il concetto di autorità è oramai sovrapposto a quello di potere.

Per il conservatore, invece, questa coincidenza non esiste.

Nei primi anni Settanta fu il sociologo americano “Robert Nisbet”, un intellettuale conservatore, a tentar di rompere questo schema in un libro sul «crepuscolo dell’autorità».

Nisbet” prendeva atto dell’evidente declino delle istituzioni che gli uomini occidentali avevano adottato per secoli come fonti dell’ordine e della libertà: famiglia, comunità locali, corporazioni professionali, chiese, scuole e università.

 Il sociologo notava che, di fronte questa erosione dello spirito delle istituzioni, le persone tendevano a dividersi in due schieramenti:

 da una parte, chi accoglieva il declino delle autorità come il trionfo della libertà e la possibilità di rifondare infine una società davvero legittima;

dall’altra, quelli che vedevano in questo indebolimento delle strutture tradizionalmente accettate «lo spettro dell’anarchia sociale e del caos morale».

 Con una certa amarezza “Nisbet” sottolineava «ciò che è inevitabile in circostanze come queste è la crescita del potere: potere che invade i vuoti lasciati dalle autorità sociali in ritirata».

 In altre parole, la ritirata delle autorità che regolano la società apre la strada a forme di potere, di stampo dispotico e omologante, per conquistare gli spazi lasciati sguarniti dalle vecchie forme di coesione sociale ormai vuote.

 Il punto dirimente del ragionamento è che autorità e potere sono due concetti ben distinti.

Per “Nisbet” quando le autorità tradizionali si dissolvono è il potere – nel senso della nuda coercizione – ad avanzare.

Scrive ancora il sociologo conservatore «l’autorità, contrariamente al potere, non è fondata soltanto sulla forza, che sia potenziale o in atto.

 È impressa nella stoffa stessa dell’associazione umana.

 La società civile è un tessuto dell’autorità».

L’autorità «non ha realtà se non nella partecipazione e nella lealtà dei membri all’organizzazione, sia questa la famiglia, un’associazione politica, una chiesa o un’università».

Ogni autorità specifica assolve una sua funzione, regolata da un patto con i suoi membri, ma se questo si logora la funzione viene trasferita ad altre entità oppure si disperde:

l’autorità recede, il potere avanza.

La conseguenza è conflitto e smarrimento, non sicurezza e liberazione.

Egli conclude, polemizzando con i progressisti, che «in questo momento abbiamo bisogno soprattutto di un liberalismo che sia in grado di distinguere fra la legittima autorità – l’autorità che siede nell’università, nelle chiese, nelle comunità locali, nella famiglia, nel linguaggio e nella cultura – e il mero potere».

Insomma, la vera libertà si realizza nel rapporto con l’autorità.

Smontato quello, rimane soltanto il potere.

Un potere coercitivo vasto, manovrato da piccoli gruppi politici organizzati, burocrazia, tecnocrazia, polizia.

La libertà, per il conservatorismo, è dunque possibile soltanto all’interno della comunità e in presenza dell’autorità.

Senza quest’ultime la libertà si trasforma in nichilismo e in puro potere che tende al dispotismo.

 Per questi motivi il pensiero conservatore si lega al realismo e all’elitismo:

 da un lato rifiuta che l’uomo, con le sue contraddizioni, la sua incompletezza gnoseologica e la sua irrazionalità, possa essere migliorato o perfezionato dalla politica;

e al tempo stesso ritiene che non possa esistere una società democratica senza che alla sua guida vi siano delle élite, delle minoranze governanti, cioè che vi sia una innata gerarchia in qualunque associazione umana.

Sul piano puramente politico, il conservatorismo è un mosaico, le cui sfumature variano da Paese a Paese, pur avendo alla base delle fondamenta comuni.

D’altronde, il conservatorismo è soprattutto “una costellazione di idee”, in cui non è né facile né produttivo ampliare le cesure tra conservatori reazionari, radicali, romantici, liberali.

 È uno stile di pensiero, non abbastanza organico per essere considerato una dottrina o una ideologia.

Liberali, democratici, progressisti e socialisti sono tutti razionalisti, individualisti, universalisti e astrattisti, mentre lo stile di pensiero conservatore stempera la ragione nella storia e nella vita, non è individualista ma “organicista” e comunitarista, è un “pensiero radicato comunitariamente” e alla ragione statica dell’Illuminismo giusnaturalista contrappone un’idea dinamica di ragione, capace di controllare il mutamento.

Proprio per questo suo ancoraggio al “particolare”, in contrapposizione all’universale delle altre teorie politiche, il conservatorismo è difficile da assolutizzare come ideologia, da astrarre dalla dimensione concreta.

Esso è semmai un “pensiero di confine”, il cui debole portato epistemologico rende le sue frontiere piuttosto porose rispetto al liberalismo e al nazionalismo.

In conclusione, il conservatorismo appare come una “dottrina impolitica”, nel senso di “Simone Weil”:

impolitico non è colui che rifiuta o si contrappone al politico, ma quello che colloca il politico in un orizzonte di trascendenza, in cui la sfera politica e la libertà sono ricondotti a una dimensione interna alla comunità, in cui l’autorità viene coltivata e preservata e in cui il mutamento politico e sociale è temperato da una condotta etica.

La sfida che oggi il conservatorismo tende al mondo occidentale appare molto rilevante tanto a livello culturale quanto politico.

Nella società del progresso strutturale, seppur ai limiti dell’utopia, il conservatorismo può essere un fattore di crisi della tarda modernità, ma anche una delle possibili soluzioni della stessa.

Pensiero che costringe a frenare prima dello schianto, che conduce al radicamento nella realtà, che tutela i legami fondamentali per l’uomo e i fattori di stabilità per la società, che stempera le illusioni delle magnifiche e progressive sorti.

 In ogni caso, è una forma mentis con cui oggi è inevitabile il confronto e da cui anche i progressisti potranno, se lo vorranno, imparare qualcosa.

(Lorenzo Castellani)

(“Lecturer presso la “Luiss School of Government” e docente in “Storia delle istituzioni politiche” all’Università Luiss “Guido Carli” di Roma)

 

 

 

 

Governance.

Il management totalitario.

Neripozza.it - ALAIN DENEAULT – Redazione E.Book – (22-3-2023)  - ci dice:

Nell’ultimo quarto del XX secolo per descrivere e regolamentare il funzionamento delle organizzazioni e delle strutture aziendali i teorici delle imprese ricorrono a un termine che, sin dal lontano XVI secolo, era un semplice sinonimo di governo: «governance».

SINOSSI.

Nell’ultimo quarto del XX secolo per descrivere e regolamentare il funzionamento delle organizzazioni e delle strutture aziendali i teorici delle imprese ricorrono a un termine che, sin dal lontano XVI secolo, era un semplice sinonimo di governo: «governance».

All’inizio degli anni Ottanta il termine viene introdotto nella vita pubblica col pretesto di affermare la necessità di una sana gestione delle istituzioni dello Stato e diventa il «grazioso nome» di una “gestione neoliberale dello Stato”, caratterizzata da deregulation e privatizzazione dei servizi pubblici.

Negli anni successivi attraverso questo sintagma si fa strada quello che qualcuno ha definito un vero e proprio «colpo di stato concettuale».

La governance infatti non è soltanto un termine che indica la necessità di adattare le istituzioni alle necessità e ai desiderata dell’impresa, ma qualcosa di molto più rilevante.

È un’espressione volutamente indeterminata che esprime la nuova arte della politica «senza governo», senza quella pratica, cioè, che presuppone una politica dibattuta pubblicamente.

 Strappato il vecchio contratto sociale alla base di ogni «governo», la governance inaugura «l’età felice» – per tecnocrati, finanzieri e imprese – della contrattazione plurale, una mutazione che promuove «il management d’impresa e la teoria della tecnica aziendale al rango di “pensiero politico”.

Nelle pagine di questo libro “Alain Deneault” mostra le conseguenze di questa radicale trasformazione della gestione governativa:

 la politica muore e si muta in «un’arte della gestione» in quanto tale, priva di ogni registro discorsivo

 «Nessuna agorà è richiesta per discutere del bene comune».

E questo fenomeno è «tristemente corroborato dalla monotonia del discorso politico e dalla mediocrità dei partiti politici di governo».

 La «mediocrazia» diventa l’orizzonte stesso del ceto politico.

(Alain Deneault, filosofo canadese, è autore di saggi sulle politiche governative, sui paradisi fiscali e sulla crisi del pensiero critico. Insegna Scienze politiche all’Università di Montreal. Presso Neri Pozza sono apparsi i suoi La mediocrazia (2017), Governance. Il management totalitario (2018) ed Economia dell’odio (2019).

 

 

Grigory Yudin: “La guerra contro l’Ucraina

 è catastrofica anche per la società russa”

Affariinternazionali.it - Nona Mikhelidze – (27 Giugno 2022) – ci dice<.

 

Grigory Yudin è uno scienziato politico e sociologo russo, un esperto di opinione pubblica e sondaggi in Russia.

Il podcast dell’intervista realizzata da Nona Mikhelidze, ricercatrice senior dell’Istituto Affari Internazionali, esiste ed è disponibile.

Vorrei iniziare con una domanda sul 24 febbraio.

Si aspettava lo scoppio della guerra su larga scala? E cosa significa questa guerra per la Russia e per il suo futuro?

Sì, purtroppo me l’aspettavo!

 Avevo capito già nel 2020 che ci sarebbe stata una grande guerra contro l’Ucraina.

E credo che dalla metà del 2021 tutto sia diventato ancora più chiaro.

 Voglio dire, era chiaro che ci sarebbe stato un grande scontro tra la Russia e la Nato.

E dal 2021 era ovvio che la prima fase di questa guerra sarebbe avvenuta in Ucraina.

Penso che fosse abbastanza ovvio soprattutto dopo la comparsa del famoso articolo del presidente Putin sull’Ucraina, al quale hanno fatto seguito molte analisi militari.

Parlavano dell’imminente invasione, quindi aspettavo ogni giorno che la guerra scoppiasse.

 Questo, ovviamente, non ha reso la vicenda meno dolorosa!

Ho cominciato ad avvertire la gente di questa guerra imminente, sia in Europa, parlando con i politici europei, sia in Russia.

Cercavo di far capire loro l’inevitabilità della guerra.

Praticamente senza successo però, tutti erano scettici al riguardo.

Così siamo arrivati al 24 febbraio.

 Ora, parlando di cosa significa questa guerra per il futuro del Paese, la diagnosi generale è che a lungo termine tutto questo sarà devastante per la Russia.

 È una guerra suicida.

La Russia ha avuto guerre ingloriose nel suo passato, ma questa è la guerra più stupida, la più catastrofica per il Paese stesso, perché fondamentalmente distrugge i legami che la Russia ha con quasi tutti i Paesi.

La Russia è davvero legata e culturalmente vicina agli ucraini, ovviamente, ma anche ai bielorussi che sono molto, molto coinvolti in questa guerra.

Questo è il primo aspetto.

 Il secondo aspetto è la cosiddetta fratellanza slava, che ora si sta distruggendo.

E poi l’appartenenza più ampia all’Europa, che è anche, ovviamente, assolutamente cruciale per la Russia.

 La Russia è un Paese molto speciale.

 Ha un posto speciale nella storia europea e non può essere separata dall’Europa.

 È assurdo che le persone ora parlino dell’avvicinamento alla Cina.

Voglio dire, non capiscono nemmeno di cosa stiano parlando.

 La Russia è sempre stata un Paese europeo, da Kaliningrad a Vladivostok.

 E questo è estremamente evidente quando si esce per strada.

Si tratta quindi di un suicidio, di un colpo di testa!

E poi come se non bastasse, è una guerra che non si può vincere.

 Non può essere vinta, non c’è nessuno scenario in cui la Russia possa avere successo a lungo termine.

Quindi le conseguenze per la Russia saranno totalmente devastanti.

 Onestamente penso che questa sia una delle decisioni peggiori di tutta la storia russa… e la storia russa è ricca di decisioni non ponderate.

Questa probabilmente è la peggiore.

 

E allora perché è stata presa questa decisione?

Beh, la decisione è stata presa da Putin e probabilmente anche da alcune persone a lui molto vicine.

Ma ora dobbiamo rivalutare anche questo aspetto, perché prima pensavamo almeno che ci fosse un’élite di potere dietro di lui, ma dopo questa famosa riunione del Consiglio di sicurezza abbiamo dovuto riconsiderare questa assunzione perché molte delle persone che si pensavano molto, molto vicine al processo decisionale, si sono rivelate dei burattini, come tutti hanno avuto modo di vedere.

Quindi la decisione è stata presa dal Presidente stesso e per lui si tratta di una guerra difensiva.

Si sta difendendo, si sente minacciato esistenzialmente.

Pensa di essere molto vicino a essere ucciso e vuole proteggere la sua vita.

E l’unico modo per proteggere la sua vita è rimanere al potere.

Stiamo parlando di due cose inseparabili: deve rimanere al potere per proteggere la sua vita e la sua posizione.

 La situazione negli ultimi anni si è lentamente deteriorata, sia internamente che esternamente.

 C’era un crescente senso di stanchezza per il governo di Putin, anche tra le persone che generalmente gli sono grate, era abbastanza evidente che c’era un significativo distacco dei giovani dal regime.

Soprattutto negli ultimi quattro o cinque anni abbiamo assistito a una netta spaccatura negli atteggiamenti della popolazione tra gli anziani e i giovani. Questa era una parte del problema.

L’altra parte del problema era rappresentata dal fatto che l’Ucraina, in quanto Paese culturalmente molto vicino alla Russia, per lui era sul punto di ottenere un’alleanza militare con gli Stati Uniti.

E questo avrebbe trasformato l’Ucraina in una roccaforte per le forze di opposizione contro Putin.

Credo che il modo migliore per capire questo sia il paragone con il colonnello Gheddafi che ha affrontato il movimento di resistenza in Libia.

Era pronto a schiacciarlo, a uccidere le persone, probabilmente centinaia di migliaia.

Gli è stato impedito dalla Nato e alla fine è stato rovesciato e ucciso.

 E sappiamo che impressione ha avuto la morte di Gheddafi su Vladimir Putin.

Ne è rimasto assolutamente scioccato, terribilmente scioccato.

Queste due cose di cui parlavo, le cause interne e le cause esterne, non vanno distinte perché qualsiasi tipo di opposizione o malcontento in Russia, Putin lo percepisce immediatamente come un complotto contro di lui orchestrato dall’Occidente.

E anche questi atteggiamenti critici dei giovani sono intesi come il risultato della propaganda occidentale.

Quindi per lui l’unico motivo per cui la gente potrebbe essere scontenta del regime è perché c’è una propaganda occidentale che opera per distorcere i valori russi che per lui sono importanti.

È così che si è arrivati all’idea di condurre una guerra inevitabile contro l’Occidente, contro la Nato e contro gli americani.

Questi termini sono usati in modo intercambiabile e l’Ucraina è diventata solo il primo campo di battaglia, come dice lui, che la vede come anti-Russia.

L’ha ripetuto molte volte, e questo è il significato:

in sostanza da qui si può vedere che l’esistenza stessa dell’Ucraina è sentita come una minaccia per la Russia.

 E per Russia, ovviamente, intende sé stesso.

Quindi l’esistenza stessa dell’Ucraina è già una minaccia mortale per la sua vita. Ecco come siamo arrivati all’inevitabilità di questa guerra.

Prima ha detto che per lei era chiaro che doveva esserci uno scontro con la Nato, e poi ha parlato delle cause interne ed esterne, delle ragioni che hanno portato Putin a invadere Ucraina.

 In tanti pensano che una delle cause per scatenare questa guerra fosse anche o soprattutto l’allargamento della Nato.

Sono d’accordo, ma solo con riserva. La stessa esistenza della Nato sarà sempre un fattore provocatorio per Putin per iniziare una guerra, a meno che non venga sciolta.

Negli anni Novanta si era creata una chiara prospettiva di scioglimento della Nato dopo la fine della guerra e del Patto di Varsavia.

Se il Patto di Varsavia non esisteva più, perché la Nato non avrebbe dovuto sciogliersi?

O almeno rimodellare o riformulare in modo significativo i suoi obiettivi?

Oppure si poteva parlare di inclusione della Russia in un sistema di sicurezza più ampio in Europa.

Beh, questo è stato fatto, in una certa misura, con il consiglio Russia-Nato, ma dopotutto, forse ci si aspettava proprio il suo scioglimento.

Non si è sciolta anche per ragioni comprensibili, perché c’erano i paesi dell’Europa orientale che giustamente si sentivano minacciati dalla Russia e facevano pressione per unirvisi.

È così che la Nato, forse anche non intenzionalmente, si è estesa a est, nonostante le promesse di non farlo.

Promesse che non sono mai state formalizzate: non c’è mai stato un obbligo formale da parte della Nato di non espandersi, ma per la Russia si è trattato di un abuso della sua fiducia.

Ma in realtà, basta parlare della Nato… il vero problema è che la Russia, e in particolare Putin, non hanno mai considerato i vicini come paesi sovrani con i quali cercare un linguaggio comune dopo la dolorosa esperienza sovietica di coesistenza.

 La Russia non si è mai preoccupata di fornire le garanzie di sicurezza a quei Paesi, le garanzie che li avrebbero dissuasi dall’entrare nella Nato.

Anzi, la Russia ha fatto di tutto per incoraggiarli a entrarci e sotto il governo di Putin la Nato si è espansa in modo significativo verso est.

Quindi, in pratica, ora Putin con questa guerra sta cercando di coprire il completo fallimento della sua politica estera.

Lui non è stato in grado di impedire ai paesi vicini di entrare in questo blocco militare.

Perché non li ha mai trattati come partner, li ha sempre considerati come nazione inesistenti, paesi inesistenti.

E questa è la vera radice del problema.

Si può quindi parlare dello scioglimento o non scioglimento della Nato, ma poi la colpa è solo della folle politica estera di Putin.

Ripeto, non è stata la Nato ad espandersi.

 Sono stati i Paesi realmente, genuinamente volenterosi ad entrare in questo blocco.

E questo è un problema enorme per la Russia, perché significa che quei Paesi hanno paura della Russia.

Una politica ragionevole, ovviamente, sarebbe stata quella di renderli meno timorosi, di offrire loro qualcosa, di includerli in un sistema di sicurezza diverso, invece di ricattarli con il gas o con le armi, come ha sempre fatto Putin.

Questo, secondo me, è vero fallimento per Putin.

Passando alla parte ideologica di questa guerra e all’idea di Putin di creare “Ruskyi Mir”, il mondo russo:

 il concetto, da come è stato disegnato, ha sempre riguardato un mondo fatto da popoli ma non da cittadini con senso civico, non dalla società civile.

 Insomma, un concetto che rispecchiava la Russia dove i russi sono sottomessi al sistema autoritario.

 Quindi stiamo parlando di un modello completamente opposto a quello Ucraino dove, soprattutto dal 2014, dopo la rivoluzione di Euromaidan, stiamo assistendo alla creazione di una società civile vibrante e di una governance liberale.

Due cose che il Cremlino ha sempre impedito che accadessero in Russia.

Non pensa che questa guerra sia anche lo scontro fra questi due mondi diversi?

Credo sia giusto descrivere questa guerra come una lotta tra due sistemi politici molto diversi, visioni politiche molto diverse di ciò che costituisce lo spazio post-sovietico.

 Una può essere sommariamente descritta come “il sistema imperiale”, non necessariamente nel senso espansionistico, nonostante abbia anche questa caratteristica, ma piuttosto il modo di strutturare il sistema politico, che è monarchico in Russia.

 

Non so se la gente ne sia consapevole, ma in realtà la concentrazione di potere in Russia è quasi senza precedenti per il nostro Paese.

 Non è vero che la Russia è sempre stata così.

Ci sono probabilmente episodi nella storia russa in cui abbiamo avuto questa concentrazione di potere politico, ma non spesso.

Probabilmente è successo con Stalin ad un certo punto.

Probabilmente, anche se il paragone non è esatto, con “Ivan il Terribile” e, in una certa misura, con “Pietro il grande”.

Altri, come “Nicola I”, hanno cercato di farlo, ma in realtà non ci sono mai riusciti. Quindi ora stiamo assistendo a qualcosa di quasi senza precedenti nella storia.                    Si tratta di uno Stato ultra-monarchico.

Questa è l’immagine della struttura dello spazio politico.

E questo vale per tutta la Russia, perché ovunque, a ogni livello, ci sono quei piccoli Putin che pensano fondamentalmente che usare la violenza e la forza sia l’unico modo per governare nel servizio pubblico e nelle imprese.

Questa è l’intera filosofia.

 

E poi c’è la filosofia repubblicana, che è il caso dell’Ucraina, che si contrappone ad essa con una posizione molto più pluralistica e con una maggiore fiducia in alcune fazioni indipendenti del potere.

 Perciò nel sistema politico ucraino l’élite è molto meno consolidata attorno ad un unico leader.

Il sistema è oligarchico, ma ha anche un significativo elemento democratico, perché sappiamo che gli ucraini hanno sviluppato una cultura politica che ha sempre il potenziale per una rivolta, per una rivoluzione.

Si tratta quindi di due visioni molto, molto diverse ed è importante vedere come queste visioni si riflettono in ciascuno di questi Paesi.

Guardate cosa sta succedendo in Ucraina.

C’è la prevalenza di questo punto di vista repubblicano, ma ci sono anche persone che sono felici di essere, diciamo così, liberate da Putin, perché hanno questo atteggiamento imperiale, si sentono più naturali nel ripristinare l’impero.

Si pensi alla Bielorussia:

 lì c’è una situazione molto interessante.

Abbiamo il presidente che appoggia questa visione imperiale e più o meno tutta la popolazione è contraria e viene terrorizzata per questo.

 I bielorussi sono ovviamente per la maggior parte dei repubblicani.

E poi ci sono i russi, ma c’è lo stesso problema: la stessa lotta tra coloro che sostengono Putin e quelli che cercano un’impostazione repubblicana nel Paese.

Quindi, in sostanza, in questi Paesi c’è la stessa, identica lotta.

E questo spiega, ovviamente, perché alcune persone in Russia provano maggiore simpatia per gli ucraini, non perché siano grandi fan dell’Ucraina o della cultura ucraina o di qualsiasi altra cosa, o del nazionalismo ucraino, ma solo perché vedono la situazione come uno scontro tra la visione repubblicana e imperialista.

 Lo stesso vale per la Bielorussia e il Kazakistan in una certa misura.

Questo è ciò che stiamo vedendo.

Ed è per questo che penso che etichettare questa guerra come guerra russo-ucraina sia in realtà fuorviante.

 Non si tratta di russi contro ucraini.

Si tratta di una guerra fra due modelli politici molto diversi.

Come viene percepita oggi la guerra dalla società russa?

 E che dire dell’indice di gradimento del presidente Putin?

 Se non sbaglio, il “centro di Levada” lo dava intorno all’82% ad aprile… Ora, capisco che non possiamo prendere sul serio i sondaggi condotti in sistemi autoritari, specialmente in tempo di guerra, ma forse possiamo comunque spiegare qualcosa sui sentimenti dei russi e della società nei confronti della guerra.

Permettetemi di introdurre il concetto.

 La Russia è un sistema plebiscitario, il che significa che il potere dell’imperatore si basa sul ricevere il sostegno popolare attraverso i plebisciti.

 Quindi l’imperatore sovrasta l’intero sistema politico, sostenendo di avere una legittimità popolare e per lui anche democratica!

 E questo è fondamentalmente il bastone con cui minaccia la sua élite, la sua burocrazia, ma anche il popolo stesso, perché la Russia è un Paese molto depoliticizzato.

L’unico modo per i russi di sapere cosa pensano i russi è guardare la televisione e osservare i numeri dei sondaggi, perché normalmente i russi non comunicano tra di loro.

 Quindi il modo più semplice per sapere cosa pensa il tuo vicino è accendere la TV e guardare gli ultimi numeri dei sondaggi.

Dialogare, comunicare con il prossimo non è usuale per molte persone in Russia.

Si tratta quindi di un sistema plebiscitario in cui il leader riceve la cosiddetta “acclamazione” da parte del popolo.

Ora abbiamo diverse istituzioni per l’“acclamazione”.

Abbiamo, naturalmente, le elezioni, che sono di carattere plebiscitario e “acclamazione” significa che coloro che partecipano alle elezioni o a qualsiasi tipo di votazione non le vedono come un meccanismo per fare una scelta tra vari candidati, ma piuttosto come una convalida di una decisione già presa.

Quindi c’è il leader che prende la decisione e il popolo che acclama questa decisione.

Questa è l’idea delle elezioni in Russia sia durante il voto nazionale o presidenziale che alle amministrative.

Questo è anche il caso dei veri e propri plebisciti.

Nel 2020 abbiamo avuto una sorta di gioco costituzionale, quando a Putin si è data la possibilità di rimanere al potere fino al 2036.

 Dico gioco costituzionale perché ha costituito una convalida di una decisione già presa ed era anche inquadrata in questo modo, perché tecnicamente il plebiscito non era necessario dal punto di vista costituzionale, era superfluo, ma doveva essere convalidato dalla popolazione.

La stessa cosa accade con i sondaggi d’opinione che funzionano anch’essi in questo modo, in modo che la gente capisca che le si chiede di acclamare il leader.

 E questo è ancora più vero durante i periodi di emergenza come questo, perché fondamentalmente tutti coloro che vengono contattati con il sondaggio capiscono che gli viene chiesto di acclamare il leader.

Probabilmente le persone reagirebbero in modo diverso.

Alcuni direbbero: “no, non acclamerei, odio Putin”, ma questo non cambia il quadro generale.

Il quadro di base è che viene chiesto di acclamare.

 Ovviamente è possibile sfidarlo, ma è comunque inteso come una richiesta di acclamazione.

Non tutti i russi sono disposti a giocare a questo gioco.

 E quindi il segreto che viene nascosto è che i tassi di risposta sulle domande poste dai sondaggi sono molto, molto bassi.

Questi dati di solito non vengono riportati ma, dall’esperienza che abbiamo avuto sappiamo che sono, in qualche modo, a seconda della metodologia, tra il 7 e il 15% del campione iniziale.

Cosa pensa il resto della gente non lo sappiamo, perché le persone tendono a non rispondere.

Piuttosto che sfidarlo o acclamarlo, tendono fondamentalmente a non rispondere.

 

Questo ci dice molto sui russi, perché i russi non vogliono avere a che fare con la politica.

Vivono la loro vita privata.

 Ed è così che è stato costruito questo regime.

Gli è stato chiesto di non occuparsi della politica, quindi alla gente non interessa la politica e non importa dell’Ucraina.

 L’unica cosa di cui si preoccupano è la loro vita privata orientata al consumismo. Ai russi interessa pagare i mutui e forse fare carriera.

Quindi questo è ciò di cui si preoccupano.

Il resto può essere delegato al Putin di turno.

Putin è lì, pensa lui a tutto.

Se lui pensa che gli ucraini siano nazisti, beh, saprà lui come affrontarli.

Quindi la popolazione è molto depoliticizzata.

E credo che il modo migliore per spiegare questo, per spiegare questi indici di gradimento, sia di immaginare il 24 febbraio in un modo diverso.

Immaginiamo che Putin avesse detto che per motivi di sicurezza la Russia dovesse restituire Donetsk e Lugansk all’Ucraina.

Il tasso di approvazione sarebbe stato esattamente lo stesso di oggi. Assolutamente lo stesso, perché l’approccio è questo:

Putin sa meglio di noi.

Allora questo vuol dire che in realtà c’è una via d’uscita da questa guerra per Putin, perché qualsiasi tipo di risultato può essere descritto come una vittoria e verrà accettato dalla società.

Credo che questo sia vero solo fino ad un certo punto.

Voglio dire, se si sottolinea la sua capacità di imporre ogni tipo di decisione alla popolazione e di ottenere l’acclamazione, penso che allora lei abbia ragione.

 Ma dal momento che la posta in gioco è alta e ovviamente richiede alcuni sacrifici da parte della popolazione russa – ed è molto, molto chiaro che ci saranno sacrifici – allora penso che ci sia un’aspettativa generale di una vittoria significativa.

Ormai questa guerra è stata inquadrata come la lotta esistenziale per la Russia.

Questa non è una lotta per il Donbass.

Non so perché le persone in Europa abbiano questa idea folle che si tratti di una lotta per il Donbass.

No, questa è una lotta esistenziale per la Russia, con la quale la Russia deve sconfiggere l’Occidente.

 Questa è la missione e non quella di prendere Kramatorsk.

Questo aspetto è così secondario rispetto a ciò che sta accadendo.

Il 99% dei russi non sa neanche dove si trovi Kramatorsk. Quindi questa è una lotta esistenziale e conquistare Kramatorsk è solo il primo passo.

Ma se l’esercito russo dovesse davvero fallire in Ucraina, cedendo, ad esempio, i territori controllati prima del 24 febbraio, sarebbe davvero difficile per Putin venderla come una vittoria.

Il problema non sono tanto i numeri dei sondaggi, ma alcuni strati della società russa, che si renderebbero improvvisamente conto che Putin può anche fallire, perché l’intero potere politico si regge sulla forte convinzione che Putin vince sempre.

Se lui non vince, se qualcuno comincia a dubitare della sua vittoria, la situazione cambierebbe.

Il cambiamento, però, non si rifletterebbe subito nei sondaggi d’opinione, perché lì funziona al contrario:

ci sarà per primo un vero e proprio cambio di potere, e poi si vedrà come questo si rifletterà nei sondaggi d’opinione, e non il contrario.

 Non vincere questa guerra, credo, potrebbe significare la fine di questo regime.

Ma nella realtà russa che sta descrivendo, cosa potrebbe essere percepito come un fallimento dell’operazione militare e cosa come una vittoria?

Cioè, qual è il minimo che dovrebbe essere raggiunto per dichiarare la vittoria?

È difficile a dirsi. Beh, per quanto riguarda il fallimento, è abbastanza facile: in realtà dovrebbe essere una sconfitta militare, una vera e propria sconfitta, che non lascia spazio per le interpretazioni. Quindi…

… quindi lo status quo prima del 24 febbraio?

Si, ma ormai il 24 febbraio è militarmente impossibile perché se l’Ucraina riuscisse a respingere le forze armate russe fino alle posizioni pre-24 febbraio, perché dovrebbe fermarsi lì?

 Voglio dire, in Donbass non ci sono confini naturali.

 La Crimea è una questione diversa, forse lì ci sono confini naturali, ma, per quanto riguarda il Donbass, il pre-24 febbraio è andato per sempre.

Non sarà mai ripristinata quella linea di separazione delle forze.

Quindi questa sarebbe una vera e propria sconfitta.

Per quanto riguarda la vittoria, come ho detto, la conquista e l’annessione delle quattro regioni – Zaporizhia, Kherson e dell’intero Lugansk e Donetsk – sarebbe la prima tappa.

Questa sarebbe una sorta di vittoria, visto che Putin non controllava tutte le quattro regioni prima.

 Si tratterebbe quindi di un’acquisizione e credo che sarebbe un passo preliminare per un’ulteriore espansione, che includerebbe sicuramente Transnistria e presumo anche l’intera Moldavia.

 Ora abbiamo questo limbo con il sud Ossezia.

 L’Abkhazia è forse più difficile, ma il sud Ossezia sicuramente verrebbe incluso in Russia.

 Quindi questo sarebbe un passo preliminare verso ulteriori annessioni.

E poi si andrà sempre più avanti perché, ancora una volta, qua non si tratta di ripristinare l’appartenenza imperiale all’Unione Sovietica, no, si tratta di spezzare la schiena all’Occidente.

Per questo motivo mi aspetto che il prossimo passo avvenga molto presto dopo questa sorta di vittoria.

Quindi non ci sarà nessun negoziato fra Russia e Ucraina in un futuro vicino?

Assolutamente no!

La maggior parte delle sanzioni occidentali prende di mira l’economia e l’establishment politico della Russia, mentre altre mirano specificamente all’arte e alla cultura russa.

Questo sta causando molte discussioni e speculazioni qui in Occidente sulla “cancel culture”.

Qual è la sua opinione in merito?

A dire il vero, credo che sia un fenomeno enormemente esagerato.

Voglio dire, a parte alcuni casi spiegabili di reazione eccessiva, personalmente non ne sono stato colpito.

Nessuna persona che conosco è stata colpita da una sorta di boicottaggio immeritato o qualcosa del genere.

 

Ammetto che ci siano stati casi di reazione eccessiva, ma sono abbastanza comprensibili.

E dietro c’è una lobby ucraina.

Posso capirli. Ad essere onesti, penso che stiano facendo qualcosa di controproducente per loro stessi, perché fondamentalmente dicendo: “beh, guardate che tutti i russi sono come Putin”, stanno rendendo il miglior servizio a Putin stesso, perché in questo modo trasmettono questo tipo di messaggio agli italiani, per esempio, o ai tedeschi…

 E come vuoi che reagiscano gli Europei?

 Diranno che se tutta la Russia è così, allora è meglio negoziare con Putin, tanto non si può fare la guerra e sconfiggere l’intera Russia.

Quindi forse gli ucraini sbagliano quando promuovono la narrazione che tutti i russi sono uguali, anche se capisco perfettamente la loro rabbia.

E penso che questa reazione sia in misura significativa giustificata.

In generale penso che, anziché lamentarsi di un trattamento immeritato, si dovrebbe far sentire la propria voce e esprimersi contro la guerra.

Altrimenti è un’ipocrisia.

Se si sostiene questa enorme guerra fondamentalmente contro l’intera Europa, cosa ci si può aspettare?

Un’accoglienza di benvenuto da parte degli europei?

Questa è ipocrisia.

Perché qua non si chiede di sostenere gli ucraini.

La questione è diversa, perché ovviamente i soldati russi stanno morendo e questo crea naturalmente un problema morale per i russi.

Bisogna semplicemente dire “non in mio nome! questa guerra non in mio nome!”. Penso che questo sarebbe sufficiente per far capire che si è contrari alla guerra.

Non credo che si tratti veramente di “cancel culture” o come la chiamate ora. Ovviamente ci sono misure che colpiscono tutti e, ad essere onesti, personalmente subisco un danno collaterale.

Viaggiare in Europa è diventato complicato.

 Proprio ieri sera stavo pensando a come viaggiare in Germania.

 È logisticamente molto difficile.

E poi non posso pagare il biglietto per il viaggio perché le mie carte sono bloccate.

Quindi è davvero difficile, ma c’è poco da lamentarsi.  È la guerra.

 Voglio dire, gli ucraini sono stati e continuano ad essere bombardati quindi perché dobbiamo sorprenderci che le sanzioni ci portino dei danni collaterali?

Ci sono alcune misure o azioni alle quali non dobbiamo opporci e lamentarci.

Non penso che siano moralmente sbagliate, penso solo che sanzioni contro le strutture di istruzione e cultura siano controproducenti.

Non me ne lamento: gli europei sono liberi di imporle.

Penso solo che siano controproducenti.

Voglio dire, guardate per esempio, all’università di Tartu in Estonia: ora non sono più disposti ad accettare gli studenti russi…

Ripeto, non mi lamento, ma credo solo che azioni simili siano controproducenti perché in pratica fanno il gioco di Putin consolidando la sua immagine come rappresentante di tutti i russi, il che non è assolutamente vero.

Lei ha detto che alcune persone appoggiano questa guerra mentre altri forse dicono “non in mio nome”.

Fino a che punto è responsabile la società russa di questa guerra?

E, in termini generali, cosa pensa della colpa collettiva e della responsabilità collettiva?

Perché la società russa sia responsabile della guerra, dovremmo avere chiaro cosa sia la società russa.

 Ma non esiste nulla che possa esser definito come “la società russa”.

Si pensa che sia la collettività a prendere questa decisione, ma non è vero.

Ancora una volta, l’intero regime politico è stato costruito sulla distruzione di qualsiasi tipo di soggettività politica.

È difficile, credo, per molte persone in Europa capire fino a che punto sia stata distrutta la concezione di essere soggetti, attori in politica.

Qualsiasi discorso su qualsiasi tipo di azione politica, qualsiasi tipo di pensiero normativo, tutto è diventato illegittimo in Russia.

 Tanto per fare un esempio:

anche solo pensare di discutere di migliorare qualcosa nelle nostre vite è già percepito come un’assurdità perché, per come è strutturato il mondo, le cose non possono essere migliorate.

Questo è come i russi si approcciano alla vita e al loro posto nella vita politica.

I russi pensano che il mondo sia fondamentalmente un brutto posto.

Lo ha detto anche Putin:

durante la conferenza stampa dopo l’incontro con Biden, è stato abbastanza chiaro nel dichiarare che “nel mondo non esiste la felicità”. Perché mi chiedete di migliorare il mondo?

 Il mondo non può essere migliore di quello che è.

È solo un luogo in cui gli esseri umani si uccidono a vicenda. Questo è normale. Questo è ciò che gli esseri umani fanno normalmente”.

E questo è un pensiero abbastanza diffuso in Russia.

Un pensiero notevolmente sottovalutato ma che preclude qualsiasi possibilità di azione politica collettiva.

Se non ti fidi di nessuno, perché dovresti impegnarti in qualcosa con il prossimo?

Così uno finisce a preoccuparsi solo di sé stesso, dei suoi soldi, dei suoi affari personali.

Quindi, credo, che l’intera questione della responsabilità della società russa sia del tutto irrilevante.

Naturalmente questo non esime i russi dalla responsabilità individuale, ma credo che la responsabilità stia nell’altro…

 Dobbiamo distinguere due cose: non si tratta dei russi che sostengono davvero questa guerra, non è questo il caso finora, ma si tratta della loro indifferenza.

Vedo una sorta di fascistizzazione della società e questo è molto pericoloso.

Questa completa indifferenza alla sofferenza umana è un problema importante. Ma questo è sempre stato un problema in Russia:

i russi sono indifferenti non solo nei confronti degli ucraini ma anche verso i propri compaesani.

Per esempio, lei pensa che la gente si preoccupi davvero delle sofferenze della gente di, non so, Krasnodar?

No, per niente!

 Finché non è un mio problema non mi interessa!

Quindi questo è il vero problema:

 la totale mancanza di idea di responsabilità per i problemi politici e sociali, e questo è ciò che rende le cose terribilmente pericolose.

 Implica, infatti, che qualsiasi azione da parte del governo venga percepita come qualcosa al di fuori del controllo del singolo, che quindi non ha alcuna responsabilità su qualsiasi cosa stia accadendo in Russia.

Questo credo sia terribile e qui sta il problema, perché la gente dice:

 “Non mi piace questa guerra, ma cosa ha a che fare con me? Non è affar mio, non potrei cambiare nulla, come potete chiedermi di oppormi a questa guerra?

 Potrei oppormi, ma in quel caso probabilmente perderei il lavoro”.

Questo senso di impotenza diffusa nella società è stato alimentato e poi strategicamente usato da Putin.

E in questo e, voglio sottolineare questo punto, Putin è stato aiutato in modo significativo dagli europei, dalle élite globali in generale, ma soprattutto dagli europei.

Perché ogni volta che i russi cercavano di trovare una soggettività politica, di condurre qualche azione politica, di resistere, di impedire che accadessero le cose peggiori, ogni volta Putin riceveva un enorme sostegno dall’Europa, enormi contratti finanziari, enormi investimenti… Insomma, si è creata inevitabilmente una situazione strana.

 Beh, voglio dire, non stiamo chiedendo aiuto per risolvere i nostri problemi, ma potreste per favore non aiutare Putin almeno in modo massiccio?

Ogni volta che c’è un movimento di resistenza, lui ottiene immediatamente un grande accordo che porta milioni in Russia e che viene poi investito nell’esercito per sopprimere la protesta…

 Beh, questo ovviamente fa sentire la gente disperata.

Questo sentimento di disperazione può essere spiegato, ma non esime la Russia dalla responsabilità politica della propria posizione.

Questo è, a mio avviso, un grosso, grosso problema, un pericolo terribile per l’Europa e ovviamente un problema con terribili conseguenze per la Russia nei prossimi decenni.

Quindi lei pensa che l’Occidente abbia tradito la società russa aiutando Putin?

Beh, pensando all’Occidente… chi è l’Occidente?

Chi è responsabile di questo, non saprei fino in fondo.

Ma, sapete, una cosa che vorrei davvero respingere è l’idea di Putin come un orso russo che esce dalla Taiga e all’improvviso, di punto in bianco, scatena questa guerra contro l’Ucraina.

 Ecco, questo non è vero. Putin sa come funzionano le cose nel capitalismo contemporaneo.

Non è un caso che sia riuscito a corrompere le élite finanziarie e politiche in tutta Europa e anche in Italia.

Ha semplicemente capito come funzionano le cose, in una certa misura è un maestro di questo sistema capitalistico.

Non parlo quindi di una responsabilità dell’Occidente, ma di élite politiche ed economiche molto specifiche.

 E questa élite occidentale corrotta, proprio ora che stiamo parlando, sta ancora facendo pressioni sui propri governi, stanno facendo lobbying per promuovere fondamentalmente l’idea del “bene, lasciamogli un pezzo di Ucraina e così otteniamo la pace perché vogliamo tornare a fare affari come prima”.

E gli uomini d’affari italiani sono ancora qua in Russia a fare business anche se ci sono delle sanzioni perché a loro non interessa nulla dell’Ucraina, vogliono fare soldi e basta.

 E per loro Putin va bene finché possono fare soldi in Russia.

Qui ci sono ottime condizioni per fare affari. Perché dovrebbero occuparsi dell’Ucraina?

 Questo è il problema.

Non darei la colpa all’Occidente, ma se siamo arrivati fino a questo punto è colpa anche dell’élite politica ed economica corrotta di alcuni Paesi occidentali, e l’Italia è certamente tra questi.

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.