La globalizzazione comunista e quella “woke”.
La
globalizzazione comunista e quella “woke”.
L’attuale
conflitto tra “Oriente” e “Occidente”:
blocchi
geopolitici alternativi o complementari?
Aldomariavalli.it
– (24 -3-2023) - Guido Vignelli - Blog by Aldo Maria Valli – ci dicono:
Il
confuso panorama della globalizzazione nella quale stiamo vivendo sembra
dominato dal conflitto in corso tra il blocco geopolitico dei “regimi
despotici”, erroneamente qualificato come orientale, e quello dei “regimi
democratici”, erroneamente qualificato come occidentale.
Questo
conflitto sembra mettere in crisi le categorie interpretative finora usate per
analizzare la situazione globale e prevedere dove ci sta conducendo il processo
rivoluzionario.
Di
conseguenza, l’opinione pubblica benpensante, disorientata dalla capillare
propaganda mass-mediatica, erroneamente identifica l’Occidente con la civiltà
cristiana o l’Oriente col mondo comunista, per cui tende a schierarsi per l’uno
o per l’altro dei contendenti.
Eppure,
l’attuale situazione geopolitica può essere chiarita se, applicando vecchie
categorie alchemiche alla nuova “ingegneria sociale”, interpretiamo il
conflitto in corso come lo scontro tra due tipiche fazioni interne alla “Rivoluzione
universale,” quella “distruttiva” e quella “costruttiva”, siano esse
alternative o rivali o complementari tra loro.
La
prima fazione, descrivibile come la “mano sinistra” dell’agente sovversivo, s’impegna nel facile ruolo di distruggere
l’ordine tradizionale per sgombrare la strada all’avvento di quello
rivoluzionario, svolgendo il ruolo alchemico di solvere, ossia di trarre il
caos dall’ordine (“chaos ab ordo”).
La seconda fazione, descrivibile come la “mano destra” dell’agente
sovversivo, s’impegna nel difficile ruolo di costruire l’ordine rivoluzionario sulle
macerie di quello tradizionale, svolgendo il ruolo alchemico di coagulare,
ossia di trarre l’ordine dal caos (“ordo ab chaos”).
Si
badi però a non intendere le parole sinistra e destra nel loro senso politico,
perché una fazione sinistrorsa può diventare retrograda e una destrorsa può
diventare avanzata.
In
teoria, la fazione distruttiva sarebbe funzionale a quella costruttiva, perché
questa dovrebbe mantenere le strabilianti promesse, fatte dalla Rivoluzione ai
popoli sottomessi, di condurli a una sorta di nuovo Paradiso Terrestre che
risanerà tutti i mali e risolverà tutte le contraddizioni – compresa quella tra
l’uomo e Dio – che finora hanno lacerano la natura e la storia.
Si tratta del vecchio progetto di costruire una
società laicista, razionalistica e tecnocratica che mira a preparare l’avvento
del “novus ordo saeclorum”, ossia della “Repubblica Universale”.
Questo
progetto costruttivo è sembrato realizzarsi durante il periodo storico che va
dalla Rivoluzione Francese a quella sovietica.
Lo
scontro tra la liberté e l’égalité in funzione della fraternité.
Tuttavia,
gli occulti “alchimisti sociali” ormai non riescono più a far credere alla
popolazione che manterrà le grandi promesse fattele da secoli.
Negli
ultimi tempi, il loro progetto costruttivo, pur continuando a ottenere grandi
vittorie, ha anche subìto arresti, deviazioni e arretramenti che lo hanno reso
incerto, insicuro e declinante.
Lo hanno dimostrato i fallimenti prima del progetto
sovietico, poi di quello “terzomondista” e oggi di quello europeista, ma anche
quello di sottomettere la Chiesa sta dando solo tardivi e incerti risultati.
Questi
insuccessi sono dovuti al fatto che la costruzione dell’ordine rivoluzionario
viene ostacolata non solo dalle tenaci resistenze (naturali e soprannaturali)
sollevate dalle popolazioni non ancora sottomesse ai poteri sovversivi, ma
anche dal dilagare dei fattori di disordine e di dissoluzione suscitati e
manipolati da quegli stessi poteri.
Allora,
negli ultimi tempi, la fazione distruttiva della Rivoluzione sta tentando di
sostituirsi a quella costruttiva nella guida del processo sovversivo, per
fargli compiere un “salto di qualità” capace di superare la situazione di
stallo.
Infatti, la fazione distruttiva sta imponendo
un nuovo progetto – di carattere ecologista, irrazionalista e anarchico – che
tenta di alimentare i fattori dissolutivi fino al parossismo, anche se ciò
rinvia a un problematico futuro la costruzione della “nuova società”.
L’esplosione
del Sessantotto fu l’avvio di questo esperimento rivoluzionario, tutt’oggi in
corso perché riuscito solo in parte e rimasto incompiuto.
Probabilmente,
gli “alchimisti sociali” all’opera sperano che l’attuale scontro tra il fattore
distruttivo della liberté liberale e quello costruttivo della égalité
socialista non impedirà più l’avvento della fraternité globalista ma anzi lo
favorirà.
Il
risolutivo regime della “solidarietà fraterna” dovrà suscitare tutta la licenza
necessaria affinché le passioni e le forze sovversive riescano a dissolvere
ogni ordine residuo, ma dovrà anche imporre tutta la repressione necessaria
affinché le sopravvissute forze sane non approfittino della licenza per
restaurare condizioni sociali che violino l’eguaglianza faticosamente ottenuta.
Recentemente,
alcuni ideologi rivoluzionari avanzati – come l’israeliano Noah Yuval Harari –
hanno auspicato che l’avvento della fraternité sia realizzato da un regime che
imponga una “transizione ecologica” capace di realizzare una fusione tra gli
uomini e gli altri esseri viventi che faccia evolvere il cosmo dal livello
terreno a quello celeste, ossia divino.
L’aspetto
più inquietante di questa transizione consiste nel fatto che alcuni ingegneri
sociali influenti nel mondo politico – come i sociologi” Edgar Morin” e “Michel
Maffesoli” – sostengono che, per passare dal livello umano a quello sovrumano,
bisogna affidarsi alla guida di quel “puro spirito, demiurgo e re del mondo”
che gl’ideologi rivoluzionari del XIX secolo (“Hegel”, “Marx”, “Comte”) hanno identificato con “Satana”,
inteso come agente di progresso e di liberazione dell’umanità da ogni forma di
“superstizione religiosa” e di “tirannia politica”.
L’attuale
scontro tra “Oriente” e “Occidente.”
Tuttavia,
i capi rivoluzionari stanno facendo oggi molta fatica a far accettare ai loro
stessi seguaci un così netto e rapido rovesciamento di strategia che, oltre a
eludere il mantenimento delle grandi promesse sociali fatte ai popoli,
presuppone una diversa concezione del progetto rivoluzionario e un suo cambio
nella sua guida. Pertanto, l’attuale crisi geopolitica può essere spiegata come
effetto dello scontro tra i due opposti fronti rivoluzionari prima delineati.
Da una
parte, vediamo schierarsi una formazione geopolitica composta da molti Governi
“democratici”, impropriamente posizionati nel quadro geopolitico “occidentale”:
l’Unione
Europea, gli Stati Uniti d’America, l’Australia e altri.
Essi
pensano che le conquiste rivoluzionarie finora ottenute (come i cosiddetti
“diritti civili”) siano rimaste incompiute e instabili, per cui debbano essere
salvate rilanciando il processo rivoluzionario e spingendolo fino alle sue
ultime conseguenze, per quanto distruttive siano.
Secondo
loro, la “nuova società” può nascere solo dall’“uomo nuovo”, per cui le
oggettive esigenze della collettività devono sempre essere sottomesse alle
soggettive pretese individuali.
A
questo scopo, i governi “democratici” favoriscono il dilagare nel mondo dei
nuovi movimenti sovversivi “occidentali” (come quelli ecologisti,
immigrazionisti e woke), perché li valutano come una sorta di droga che permetterà
alle forze rivoluzionarie di slanciarsi verso la finale meta anarchica,
sfondando ogni resistenza fatta da “sistemi chiusi”, “regimi despotici” e
“Chiese retrograde” che – per nostalgia della passata società della certezza,
della sicurezza e del benessere – si stanno attardando a una fase superata del
processo rivoluzionario.
Pertanto,
questo fronte “occidentale” composto dai governi “democratici” può essere
definito come un fattore estremista, aggressivo e destabilizzante, corrispondente alla
“mano sinistra” della Rivoluzione globale, secondo la quale bisogna mettere in
crisi e distruggere piuttosto che difendere e costruire, perché il movimento
vale più del suo risultato.
Dalla
parte opposta, vediamo
schiararsi una formazione geopolitica composta da molti governi “despotici”,
impropriamente posizionati nel quadro geopolitico “orientale”:
ossia
la Russia, la Cina, l’India, gli Stati islamici e alcuni Stati sudamericani.
Essi
pensano che dalla nuova fase distruttiva del processo rivoluzionario non apra
la strada a nuove conquiste sociali, ma anzi rischi di mettere in pericolo
quelle ottenute in passato.
Secondo
loro, l’“uomo nuovo” può nascere solo dalla “nuova società”, per cui le
soggettive pretese dell’individuo devono sempre essere sottomesse alle
oggettive esigenze della collettività.
Di
conseguenza, questo fronte “orientale” condanna e reprime come arbitrari e
retrivi i citati movimenti fanatici e anarcoidi “occidentali”, favoriti da
irresponsabili governi “democratici”, perché sono manifestazione di quella
“malattia infantile dell’estremismo” – a suo tempo denunciata da Lenin – che
rischia di travolgere il sistema rivoluzionario in un vortice di eccessi
deliranti e dissolutori.
Pertanto,
questo fronte “orientale” composto dai governi “dispotici” può essere
considerato come un fattore di moderazione e di contenimento, corrispondente
alla “mano destra” della Rivoluzione globale, secondo la quale bisogna
costruire e difendere piuttosto che distruggere e mettere in pericolo, perché
il risultato ottenuto vale più del movimento.
Appare
ora chiaro che il conflitto in corso sta avvenendo non tra una fazione
sovversiva e una conservatrice, ma tra due fazioni rivali interne al potere
rivoluzionario globale, ciascuna delle quali si propone come fattore che deve
bilanciare l’influenza geopolitica dell’altra.
Conflitto
geopolitico, di potere o ideologico?
L’ingannevole
propaganda diffusa da entrambe le fazioni ci rende difficile capire la vera
origine e portata del loro conflitto.
Proviamo comunque a fare qualche ipotesi.
Prima
ipotesi.
Il conflitto in corso oppone due blocchi
mondiali che stanno ridisegnando le loro aree d’influenza e di azione;
il
terremoto che ci scuote è prodotto dall’attrito tra falde geopolitiche rivali
che sta accelerando il processo di globalizzazione da tempo in atto.
Se
così fosse, tutto potrebbe finire domani con una pace concordata priva di gravi
conseguenze.
Seconda
ipotesi.
Il
conflitto in corso non è solo geopolitico ma coinvolge anche due fazioni
gemelle e rivali, che stanno litigando sul ruolo da svolgere nel processo
rivoluzionario, sul potere da ottenervi e sui mezzi da usarvi.
Se
così fosse, tutto potrebbe ridursi al confronto strategico tra una tesi e
un’antitesi che verrà risolto da una sintesi riconciliatrice che ridisegnerà i
ruoli delle fazioni rivali.
Terza
ipotesi.
Il
conflitto in corso non riguarda solo ruoli e mezzi, ma anche il percorso da
fare e la meta da raggiungere.
Infatti, la fazione “occidentale” proclama il
primato della liberté sull’égalité, dei mezzi sul fine, dell’azione sul
risultato, della distruzione sulla costruzione;
al
rovescio, la fazione “orientale” proclama il primato dell’égalité sulla liberté,
del fine sui mezzi, del risultato sull’azione, della costruzione sulla
distruzione.
Di
conseguenza, questa rivalità tra liberté ed égalité impedisce ch’esse,
riconciliandosi, instaurino insieme il regime di fraternité.
Se
così fosse, il conflitto in corso avrebbe radici più profonde e causerebbe
conseguenze più vaste di quanto si crede, perché metterebbe in crisi l’intero
processo rivoluzionario e anzi la concezione stessa della Rivoluzione.
Di
conseguenza, il conflitto potrebbe diventare una “guerra civile mondiale”
capace di far “esplodere le contraddizioni” del sistema globale e di gettarci
nel caos.
Un’occasione
storica da cogliere.
Se
quest’analisi è giusta, siccome il Vangelo ammonisce che “ogni regno in sé
diviso è destinato a crollare”, possiamo ipotizzare che oggi la Rivoluzione non
sta tentando uno dei tanti voltafaccia con i quali disorientare i propri
nemici, né sta subendo una delle sue solite “crisi di crescita”;
essa
sta piuttosto subendo una crisi senile dovuta a una sorta di mutazione genetica
che può condurla alla dissoluzione e alla morte.
Lungo
l’intero XX secolo, l’intero arcobaleno ideologico – compreso il colore cristiano
progressista – diede per scontato che il sistema di potere rivoluzionario fosse
“storicamente inevitabile” e quindi “politicamente insuperabile”.
Per contro, fin dagli anni 1970, due noti protagonisti
della cultura e dell’apostolato cattolico, “Augusto Del Noce” e” Plinio Corrêa
de Oliveira”, previdero l’imminente fallimento o il suicidio della Rivoluzione,
poi avvenuti col crollo del regime comunista e con la crisi della ideologia
liberale.
Essi
previdero pure che tutto ciò avrebbe potuto aprire la strada alla rinascita
della cultura e della politica cristiane mediante la formazione di élites
tradizionali analoghe all’antica nobiltà europea.
Se ciò
non è ancora avvenuto, non è tanto a causa della residua forza rivoluzionaria,
quanto per colpa della debolezza della classe dirigente cristiana, specialmente
di quella ecclesiastica.
Dapprima,
essa ha tentato di rabberciare il traditore e fallimentare ambiente
neo-democristiano, poi ha rinunciato a ogni prospettiva di riscossa,
abbandonando i cittadini cattolici al dominio dell’unica classe politica
superstite: quella radicale e globalista catto-comunista.
Tuttavia,
questo drammatico sviluppo della situazione ci conferma che oggi la Divina
Provvidenza sta offrendo alle residue forze tradizionali un’altra storica
occasione per uscire dalla rassegnazione, superare le divisioni interne e
avviare una risolutiva riscossa cristiana cattolica che permetterà di vincere
le forze rivoluzionarie.
Se il
mondo cattolico rinuncerà a questa grande occasione nel timore di essere
perseguitati e preferirà rifugiarsi in nuove catacombe rimboccandosi lapide e
facendo finta di essere morto, commetterà una grave offesa alla Divina
Provvidenza che non ci risparmierà dalla meritata punizione e per giunta
rinvierà ulteriormente la promessa vittoria della Chiesa.
La
coincidenza degli opposti.
Ariannaeditrice.it
- Roberto Pecchioli – (05/02/2023) – ci dice:
(Fonte:
EreticaMente)
“I partiti contano sempre meno e alla gente è
stata tolta la cultura per opporsi a un potere che ci fa vivere nel controllo.”
È il
sottotitolo dell’intervista concessa a un sito di informazioni da “Carlo
Freccero”, massmediologo ed ex dirigente della Rai.
Concetti
del tutto condivisibili:
il
declino dello spazio politico (i partiti spariti, ridotti a comitati d’affari e
macchine elettorali);
il
degrado della conoscenza che produce una generazione di ignoranti, quindi
conformisti e facilmente manipolabili;
il potere che si fa biopotere, ovvero
sorveglianza, dominio sulla vita concreta.
Temi
centrali per chi vuole riflettere senza le gabbie mentali di ideologie
invecchiate.
Non
importa chi l’ha detto, importa ciò che è detto, era il motto di un giornalino
della nostra giovinezza.
La verità – e la sua ricerca – non hanno
ideologia, né si definiscono attraverso gli schieramenti.
Freccero
non rinuncia alle sue origini marxiste.
Chi
scrive, più modestamente, ha camminato per strade assai diverse: cuore a destra
(Dio, Patria, famiglia, onore, fedeltà) e portafogli a sinistra, l’acuta
sensibilità sociale di un figlio di operai che ha conosciuto la fatica di
studiare e sbarcare il lunario lavorando.
Ciononostante,
approdiamo a conclusioni simili, senza rinnegare nulla dei rispettivi percorsi.
Un
segno dei tempi, uno dei pochi positivi: chi ancora pensa diventa dissidente e
si ritrova in compagnie impensate.
Nell’era
“post” e “trans” non importa da dove veniamo; conta dove vogliamo andare.
Forse
è una benefica “coincidentia oppositorum”, l’unione degli opposti che
attraversa settori del pensiero europeo, dal greco “Eraclito” al neoplatonico “Nicola
Cusano” sino a “Carl Gustav Jung”.
Nessuna
banalizzazione sugli estremi che si toccano, piuttosto la convergenza tra
universi ideali lontani che trovano – quasi inconsapevolmente – un terreno
comune dinanzi a un nemico potentissimo, capace di attivare, rileva Freccero
“processi
culturali che hanno sostituito la nostra cultura con culture che non mettono
mai in discussione il potere.
Pensiamo
al festival di Sanremo, al mondo musicale che domina la scena: sono tutti
contestatori e trasgressivi come i “Maneskin”,” Achille Lauro”, “Fedez”, eccetera.
Ma
sono contestatori contro qualcosa.
Woke significa risveglio ed è quello che
intendiamo per politicamente corretto.
Un
costrutto culturale molle che non ha mai una visione d’insieme della realtà”.
Ecco
un punto cruciale, ed è importante che la riflessione provenga da un
intellettuale che non confonde il progressismo “liberal” con i diritti sociali.
È di capitale importanza la messa in guardia
dalle follie postmoderne di chi non è sospettabile di pulsioni conservatrici o
reazionarie.
“Siamo
nella “cultura woke” e nella “Cancel Culture”, assorbite dal Pd, la principale
forza della sinistra italiana”.
Importante
è svelare l’uso delle emergenze che attraverso il meccanismo della paura hanno
permesso decisioni contrarie alle libertà sulla base di imperativi tecno scientifici
presentati come indiscutibili.
“Oggi
la forma di governo strutturale della società è l’emergenza.
Viviamo
in un’epoca di cancellazione dei diritti e l’unico modo per ottenere questo
risultato, immediatamente, senza suscitare opposizione, è proprio l’emergenza.
I teorici delle élite guardano all’emergenza
sanitaria come a un’opportunità per resettare la società”.
Quando
lo dicevano personalità di diversa estrazione culturale, scattava il meccanismo
della ridicolizzazione, della negazione, dell’indignazione a gettone.
“Freccero” esprime convincimenti fino
a ieri ritenuti paranoie estremiste.
“La cosa curiosa è da dove è partito questo
governo dell’emergenza: è partito dal 2001 con l’attacco terroristico dell’11
settembre.
Ieri
c’era la pandemia, oggi la guerra e l’agenda verde.
Quindi
capisci che l’emergenza poi si confonde o meglio si intreccia con quello che il
filosofo “Agamben” chiama “lo stato di eccezione permanente”.
La guerra ha avuto un successo talmente
insperato che non solo non c’è alcuna opposizione ma genera una sorta di
ipnosi.”
L’acquiescenza
di massa è un fenomeno nuovo, figlio dell’americanizzazione globalista.
La colonizzazione culturale ha raggiunto il
suo scopo:
neutralizzare
il dibattito sugli assetti sociali ed economici dominanti, che nessuno mette in
discussione.
Un
sonno narcotico in cui “il controllo sociale è diventato un’ossessione del
potere.
I nostri dati registrati dai dispositivi
digitali servono ad elaborare scenari predittivi che si estenderanno alla vita
futura”.
Le
restrizioni subite, accettate senza fiatare dalla maggioranza, in cui il dissenso
si è manifestato nelle generazioni mature e non tra i giovani – un segnale
inquietante – hanno generato un soggetto gregario, obbediente, disciplinato,
fedele alla narrazione del potere.
I
ribelli hanno i capelli bianchi: un dato che sconcerta.
Le forze
politiche hanno rivelato il loro volto.
A
destra il riflesso pavloviano “legge e ordine” ha smentito ogni proclamazione
di sovranità, indipendenza, volontà di respingere i diktat dei poteri esterni.
A
sinistra è maturata una mutazione genetica da brividi.
“La
sinistra ha fatto suo il sistema americano.
Il Pd nasce come fotocopia del Partito
Democratico americano [da cui] non ha preso solo l’impostazione ma anche la
cultura.
Abbiamo sostituito il nostro sistema politico
con un sistema in cui la sponsorizzazione è legittima perché è iscritta a
bilancio.
Le
campagne elettorali sono sempre più espressione di lobby.
E la politica diventa un grande show e si fa
con il marketing.
Questo modo di fare politica all’americana
contagia tutta la società e fa sì che tutti siano schierati sulle stesse
posizioni”.
Benvenuto
tra noi, “Carlo Freccero”.
“Il problema è che noi ragioniamo ancora con
parametri novecenteschi, in termini di Stati, partiti, pensando alla guerra
parlando di patrie, mentre gli interessi economici sono sempre globali.
Oggi
le decisioni non le prendono gli Stati ma le grandi organizzazioni
internazionali come il Fondo monetario internazionale, il WTO, l’OMS, l’ONU che
porta avanti l’agenda verde.
Queste
organizzazioni non rispondono agli Stati ma ai loro finanziatori.
Vedi
l’OMS [con] Bill Gates. Gli Stati cosa fanno?
Si
limitano a sottoscrivere quelle decisioni nei trattati, come quello dell’epoca
di Renzi che ha fatto dell’Italia la punta di diamante della sperimentazione
vaccinale.
E se
gli Stati non contano più, ancor meno contano i partiti che dovrebbero guidare
gli Stati.
Tutti
i partiti non hanno alternative perché le decisioni si prendono altrove:
possono solo spartirsi i fondi di progetti come il PNRR.
“Il potere del denaro svuota la democrazia.
Noi
irregolari, eretici di tutte le bandiere c’eravamo arrivati da tempo, ma quando
la verità sgorga sulle labbra dell’ex nemico, bisogna gioire.
Sognavamo
l’Europa unita per motivi di civiltà, cultura e geopolitica quando altri si
attardavano nel terzomondismo o si facevano banditori dell’inculturazione (o
deculturazione) coloniale americana.
American
way of life, il nome di liberatore, protettore, alleato attribuito a un
occupante.
L’intellettuale
savonese mette il dito nella piaga:
“la
sinistra è così esageratamente atlantista perché ha assorbito in modo
spasmodico la cultura americana.
Come
mai siamo tutti filo americani?”
Perché così ci hanno voluto sino a farci
dimenticare la dignità nazionale, la nostra lingua, violentata da lockdown,
green pass, week end e mille altre parole che ci fanno pensare con la mente altrui.
Si
rivoltano nella tomba il comunista Gramsci e i maestri della cultura non
conformista, spazzata via da un tradimento vissuto come liberazione, tributo
alla modernizzazione.
“Siamo
stati colonizzati con la globalizzazione.
I partiti contano sempre meno perché le
decisioni vengono prese da organizzazioni internazionali che passano sulla
nostra testa.
Così sono tutti per la guerra come erano tutti
per il vaccino come unica risposta alla pandemia.”
Ovvero, siamo diventati non pensanti.
È la
grande vittoria del nemico globalista.
Prenderne
atto significa abbandonare tutte le categorie con le quali abbiamo analizzato,
giudicato, spiegato il mondo di ieri, divenute inservibili.
Su
questo siamo molto vicini: “oggi la lotta non è più tra destra e sinistra ma tra chi sta
alla base contro chi è al vertice della piramide. “
Alla
buon’ora, ma le voci che ritengono obsolete le categorie di destra e sinistra
sono ancora isolate.
Il
lockdown, gli obblighi di iniezione, l’esclusione sociale dei renitenti, il
passaporto vaccinale, sono di destra o di sinistra?
E l’adesione acritica alle sanzioni, la
russofobia, l’invio di armi, l’allineamento alla Nato, il silenzio sul
Meccanismo di Stabilità o sul potere delle cosiddette “autorità monetarie”?
Il
potere è ormai totalitario, gli spazi di discussione e di opposizione si
chiudono in ogni ambito.
Il Dominio è così forte che controlla molte
voci dissidenti.
Lo abbiamo compreso nelle lotte degli ultimi
anni.
Al
momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico.
La voce che li comanda è la voce del loro
nemico.
E chi
parla del nemico è lui stesso il nemico.
(B.
Brecht) Lo
conferma Freccero:
“il
potere comincia a personificare anche l’opposizione, come scriveva “Guy Debord”:
oggi i
movimenti di protesta spontanei contro il potere sono spariti perché il potere
li ha sostituiti con movimenti che non centrano il tema, cioè la lotta tra il
popolo e le élite.
Il potere globalizzante per omologarci ha
imposto la “cultura woke” e la “cancel culture’”.
Neo
reazionario “Freccero”, o semplicemente uno sguardo senza paraocchi?
Peraltro,
cultura della cancellazione è un curioso ossimoro: o c’è cultura o c’è
cancellazione.
Ma
vuolsi così dove si puote ciò che si vuole.
E le centrali che diramano ordini e dettano le
parole stanno nella casa madre del liberal capitalismo, gli Usa.
Prenderne
atto risulta impossibile per la legione dei conversi.
Per loro, il giudizio è lapidario.
“Il Pd
ha sostituito la cultura con la visione americana delle minoranze.
Pensiamo al femminismo di oggi: sono le donne
contro le discriminazioni, le donne contro gli uomini.
Poi
abbiamo i neri contro i bianchi, i gay contro gli etero.
Ma
nessuno ha gli argomenti per una visione d’insieme.
Esercitano
cioè rivendicazioni di minoranze che in qualche modo vogliono tutelare i più
deboli ma in realtà non vanno al nucleo del problema:
come
si genera la realtà in cui soffrono?”
Ovvero,
nessuno, sul versante progressista (quello conservatore si limita a non disturbare i
manovratori) contesta il modello sociale della privatizzazione oligarchica, il
capitalismo dei giganti che distrugge il mercato, trasformato in oligopolio
indifferente ai popoli, alle nazioni, ai diritti naturali e a quelli sociali.
Finti
oppositori dividono la società ostentando antagonismo funzionale al sistema.
“Le
loro rivendicazioni sono digerite dal potere.
Oltretutto
sono tutte rivendicazioni contro il razzismo, la differenza di genere, il
colonialismo, il femminismo, lo specismo, gli animali, che la cultura europea
ha già ampiamente digerito.
Ma servono al potere perché convogliano le
frustrazioni in qualcosa di impotente. Vanno a spostare quello che è il tema
centrale:
chi è che ci comanda? Come lo fa?
Con
quali conseguenze sulla nostra vita reale?
Il Woke è una cultura che innesca un conflitto
permanente in seno alle masse per impedire loro di indirizzare il conflitto
contro i poteri al vertice; non dà fastidio a chi comanda davvero”.
Viviamo cioè in un mondo di rivendicazioni che
non mettono in discussione il potere: conflitti innocui, ottimi affari per il
mercato onnipotente.
Infine,
“Freccero” getta lo sguardo sul campo che meglio conosce, la cultura,
“talmente
scadente da non generare novità.
È appunto il tema della Cancel Culture.
Tutto
il passato viene cancellato.
Questa
omologazione alla cultura americana è passata come un rullo compressore sulle
differenze culturali che rappresentavano la ricchezza dell’Europa e dell’Italia
e quindi che cosa è successo?
Che è
rimasto un unico valore: il profitto.
Un
valore totalizzante che in questa forma non è un valore prettamente europeo ma
è il valore.”
Non
tutto è perduto: la consapevolezza si diffonde. La minoranza dispersa
lentamente si riconosce.
Molti
passi devono essere compiuti per l’accettazione reciproca tra soggetti ancora
occupati a enfatizzare le proprie differenze.
Ci azzuffiamo come i capponi di Renzo, che
finirono tutti nella pentola dell’avvocato Azzeccagarbugli.
Il
tema della guerra, la sua nauseante spettacolarizzazione, tuttavia, aiuta a
orientare la tensione nella giusta direzione.
La guerra è morte, distruzione, povertà e la
gente lo sa.
Un
nostro maestro – cattolico tradizionale – usava ricordare che i popoli hanno
riflessi di vita.
Con parole diverse, “Carlo Freccero” approda
alla stessa conclusione:
“C’è questo istinto di sopravvivenza che ci salva ancora
e poi si vive male, con tutta una serie di problemi economici e sociali gravi,
l’energia alle stelle, il controllo.
Ma è
facile capire come il cerchio si chiuda e Zelensky a Sanremo sia un fenomeno
comprensibile nel mondo culturalmente devastato in cui viviamo, dove la
sinistra italiana ha cancellato la nostra cultura per sostituirla con quella
americana che nega il conflitto come motore della società”.
Ancora Eraclito: pòlemos padre di tutte le cose.
Accettiamo
come un soffio di aria fresca il coraggio di chi supera i dogmi in cui è
cresciuto.
Sappiamo
per esperienza quanto sia duro liberarsene, restando coerenti sull’essenziale.
Coincidenza degli opposti: lo sguardo della
verità.
Tramonto
della globalizzazione
e
nuovo mondo multipolare.
Ariannaeditrice.it - Luigi Tedeschi – (08/07/2023)
– ci dice:
(Fonte:
Italicum)
La
globalizzazione è una concezione ideologica liberale atta a legittimare il
primato economico e politico dell’Occidente americano nel mondo.
Al dominio globale eurocentrico, è subentrato
il dominio universale americano che implica l’imposizione a livello mondiale di
un unico modello economico, politico e culturale.
Il mondo multipolare potrà rappresentare una
sfida che generi la fuoriuscita dell’Europa dalla post – storia e dal
nichilistico vuoto di senso che affligge oggi la società occidentale?
Globalizzazione
e occidentalizzazione del mondo.
La
globalizzazione ha la sua origine storica nell’avvento dell’era moderna in
Europa, con le grandi scoperte geografiche tra il XVI e il XVII secolo.
Le
dimensioni del pianeta divennero definite e limitate, il “globus” si sostituì
al “mundus”, quale entità concepita su base teologico – metafisica.
Le terre ignote divennero dunque spazio
globale da conquistare e governare da parte delle potenze imperiali europee,
mediante la supremazia degli armamenti e lo sviluppo tecnologico.
La
modernità europea si estese a livello mondiale.
Esiste
dunque un nesso di continuità storica, considerato dalla ideologia liberal –
progressista come irreversibile, tra colonialismo, post – colonialismo e
globalizzazione, il cui esito finale sarebbe costituito dall’avvento della post
– modernità con il Grande Reset.
Con la
fine del mondo bipolare della Guerra fredda, si impose un sistema economico
neoliberista, quale estensione su scala globale del dominio unilaterale
dell’unica potenza mondiale superstite, gli USA.
Potremmo
definire la globalizzazione “universalismo del mercato”, data la interdipendenza istauratasi
tra le economie mondiali, la dimensione globale assunta dai mercati,
l’espandersi della libera circolazione delle merci, dei capitali e della forza
lavoro, favorite dall’avanzata del progresso tecnologico e quindi, dalla
compressione degli spazi e dei tempi delle comunicazioni e delle transazioni
economiche.
L’economia
globalizzata, al di là della retorica ideologica liberista, non è un fenomeno originale del XXI°
secolo, ma ha rappresentato la riproposizione in versione moderna della teoria
settecentesca di “David Ricardo” dei “vantaggi comparati” e del “liberismo
individualista di Adam Smith”, di dottrine economiche cioè già consegnate alla
storia.
Sono
tornati inoltre di attualità i miti della “pace perpetua” kantiana e del “dolce
commercio”, teorie tragicamente smentite da un trentennio di guerre senza fine.
Questa
occidentalizzazione del mondo avrebbe dovuto produrre la diffusione del
benessere e dello sviluppo del mondo intero, ma la delocalizzazione
industriale, la deregolamentazione dei mercati finanziari, l’indebitamento
insanabile del Terzo Mondo, l’aumento esponenziale delle diseguaglianze, della
povertà e dei fenomeni migratori, non hanno fatto che accrescere il divario tra
l’Occidente e i paesi sottosviluppati.
La globalizzazione è stata quindi un’era di progresso
per l’umanità?
Il
bilancio storico è fallimentare.
In
realtà la globalizzazione si è rivelata una “concezione ideologica liberale”
atta a legittimare il primato economico e politico dell’Occidente americano nel
mondo.
Così
si espresse al riguardo “Costanzo Preve”:
“La
cosiddetta “globalizzazione” non esiste.
Affermazione provocatoria ed apparentemente
demenziale, ma mi spiegherò subito.
La globalizzazione è un concetto, ed i
concetti sono reti per “pescare” la realtà.
In quanto concetto non filosofico, ma
scientifico (cioè delle scienze sociali), la globalizzazione si candida a
capire, raffigurare, rispecchiare il mondo reale, che è in questo caso una
sorta di “totalità” di rapporti economici, politici e culturali che si dichiara
appunto siano ormai “globalizzati”.
Ma è
veramente così?
Non lo
credo.
La
“globalizzazione” è in realtà un’autorappresentazione, ad un tempo apologetica
e prescrittiva, delle oligarchie dominanti (non solo economiche)
dell’imperialismo USA e dei suoi principali alleati (in primo luogo il sionismo
assassino del popolo palestinese).
Questa autorappresentazione apologetica e prescrittiva
ricopre un ruolo analogo a quello ricoperto un secolo e mezzo fa dal cosiddetto
“libero scambio” dell’imperialismo inglese dalla fine del Settecento all’inizio
del Novecento.
Nei
due casi una vera e propria prescrizione imperialistica viene fatta passare per
una descrizione neutrale ed accurata della realtà”.
Il
tramonto degli stati.
L’istaurarsi
del sistema economico globale avrebbe dovuto condurre alla scomparsa
progressiva della sovranità degli stati e alla sua devoluzione ad organismi
sovranazionali dotati di poteri prevalenti nei confronti delle legislazioni
statuali.
Lo sviluppo del libero mercato globale
infatti, è subordinato alla rimozione di tutti gli ostacoli di carattere
politico e giuridico che si interpongono alla libera circolazione delle merci e
dei capitali.
Secondo
l’analisi di “Danilo Zolo”, con tale svolta epocale, è venuto meno l’ordine
internazionale creato con la pace di Vesfalia del 1648, che pose fine alla
guerra dei Trent’anni.
I membri riconosciuti dell’ordinamento
internazionale erano esclusivamente gli stati, dotati di sovranità interna sui
propri territori e di soggettività esterna nell’ambito internazionale.
La sovranità degli stati era inoltre garantita
dal principio della non ingerenza da parte di organismi esterni nelle strutture
politiche interne degli stati stessi.
L’avvento
del nuovo ordine globale invece, ha comportato la progressiva destabilizzazione
interna degli stati, attraverso interventi militari aggressivi, quali le
operazioni di “peace keeping” nei confronti degli “stati canaglia” (il giudizio sulla legittimità degli
stati è divenuta una prerogativa esclusiva degli USA), rivoluzioni colorate, primavere
arabe e/o attraverso
una legislazione internazionale che ha destrutturato le istituzioni
democratiche degli stati.
Oggi
si antepongono agli stati organismi sovranazionali, quali la UE, l’ONU, il FMI,
la Banca Mondiale, la Nato, il G7, l’OCSE, dotati di poteri politici ed
economici che prevalgono sulla legislazione statuale.
Si
sono affermate autorità transnazionali quali primarie fonti normative ispirate
alla privatizzazione e alla economicizzazione dei rapporti giuridici e politici
tra i singoli cittadini e tra gli stati, la cui finalità è quella di imporre
una lex mercatoria internazionale atta a favorire il predominio di lobby
finanziarie e grandi corporation multinazionali.
Anche
la guerra è stata privatizzata. È questo un fenomeno esplicativo della
dimensione post – storica assunta dalla civiltà occidentale.
Scomparsi i valori e le virtù civili del
patriottismo e dell’indipendenza nazionale, l’Occidente intende preservare il
suo limbo di benessere post – storico delegando la sua sicurezza ad agenzie di
truppe mercenarie (contractor).
La globalizzazione ha condotto alla
riviviscenza dell’Europa dei secoli bui, quella degli antipapi e delle
compagnie di ventura.
La
civiltà giuridica europea fondata sullo stato di diritto è stata ormai
soppiantata da una giurisprudenza informale di natura contrattualistica che vanifica
le garanzie giuridiche e le tutele sociali del cittadino dinanzi alla legge.
L’affermarsi
di tale legislazione transnazionale è propedeutico all’avvento di una
governance globale (quale quella delineata dal “Grande Reset”), che comporterebbe il definitivo
tramonto degli stati nazionali.
Tuttavia
occorre osservare che la decomposizione degli stati è un processo che ha
generato la destrutturazione etica, politica ed istituzionale in primis
dell’Occidente, la cui governance è oggi prerogativa dei gruppi economico –
finanziari transnazionali.
Pertanto,
le cause fondamentali della attuale decadenza dell’Occidente, risiedono nella
subalternità delle istituzioni politiche alle oligarchie economiche.
L’Occidente
è infatti incapace di confrontarsi con le potenze emergenti del BRICS, che
hanno invece preservato, con la sovranità dei loro stati, i loro valori etici e
culturali identitari.
Dinanzi
alle nuove sfide del mondo multipolare l’Occidente si presenta disarmato.
Dallo
stato sociale allo stato penale.
Il
nuovo ordine globale ha comportato l’istituzione di molteplici corti penali
internazionali e quindi di una giurisdizione penale transnazionale che
progressivamente sta delegittimando il potere legislativo degli stati.
In nome di uno stato di emergenza ormai divenuto quotidianità e della
sicurezza internazionale, si attuano misure repressive nei confronti dei
cittadini lesive delle fondamentali libertà democratiche sancite dalle
costituzioni degli stati.
Con l’avanzata della cultura woke, dell’ideologia
gender, del transumanesimo e in nome della tutela dell’LGBTQ, la giurisprudenza
penale internazionale crea sempre nuove fattispecie di reato che si rivelano
nei fatti misure repressive della libertà di opinione e associazione.
Anche
la vita personale e il nucleo familiare sono sempre più soggette a direttive di
autorità esterne.
L’individualismo
esasperato ha accentuato la conflittualità legale nell’ambito sociale.
Nella
fase pandemica tali tendenze si sono rese evidenti.
Trattasi
di fenomeni strettamente connessi all’affermarsi del capitalismo della sorveglianza, la cui natura repressiva è destinata
ad accentuarsi con la rivoluzione digitale del Grande Reset.
Si
prefigura infatti una società totalitaria, con una governance basata
sull’espandersi del controllo sociale di massa mediante l’implementazione
dell’identità digitale in varie forme e lo sviluppo dell’intelligenza
artificiale.
Tale
involuzione totalitaria del capitalismo era già stata diagnosticata da “Danilo
Zolo” che nel suo libro “Globalizzazione”, Edizioni Laterza 2004, ha definito
questa trasformazione come il passaggio dallo “stato sociale allo stato
penale”:
“Mentre neppure gli Stati occidentali riescono
ad attenuare le svantaggiose conseguenze sociali dei processi di
globalizzazione a carico di una parte dei propri cittadini, essi si mostrano
forti nell’esercizio della sovranità interna per imporre ai cittadini un ordine
sempre più rigido all’insegna dello slogan della ‘tolleranza zero’.
Ciò
che non viene più assolutamente tollerato non è, in generale, la devianza:
lo sono i comportamenti specifici, anche di
lieve entità, dei soggetti marginali – degli “stranieri” – che non accettano di
adeguarsi ai modelli dominanti del “conformismo sociale”.
Con la
globalizzazione è emersa la riviviscenza di un universalismo giusnaturalista,
che, se nei secoli passati aveva fondamento teologico, è invece oggi
strutturato sulla base ideologica oligarchico – liberista delineata dal “progetto
di pianificazione globalista – tecnocratico del Grande Reset”.
Dominio
globale e dominio universale.
La
globalizzazione ha rappresentato l’inclusione nell’Occidente del resto del
mondo.
L’imperialismo coloniale britannico, che si
fondava sul dominio dei mari, ha avuto come erede legittimo la potenza
talassocratica americana.
L’integrazione dei mercati e la divisione
internazionale del lavoro sono gli elementi strutturali di un sistema capitalista
con cui si è affermato il primato americano nel mondo.
Esistono
tuttavia rilevanti differenze tra il dominio capitalista degli imperi dei
secoli scorsi e quello americano.
Infatti, se l’imperialismo eurocentrico era globale,
quello americano ha una natura universalista.
Il dominio globale europeo era estrattivo, sfruttava
cioè le risorse umane e materiali dei paesi colonizzati, ma non prevedeva
l’integrazione politica e culturale delle colonie nella civiltà occidentale.
L’egemonia
non escludeva dunque la sussistenza di un pluralismo culturale.
Il
dominio universale americano invece implica l’imposizione a livello mondiale di
un unico modello economico, politico e culturale.
Quello
americano è un imperialismo culturale che presuppone un primato degli USA di
carattere morale, prima che economico, tecnologico e politico.
L’americanismo
è un modello culturale diffuso nel mondo mediate il “soft power statunitense”,
con la finalità di unificare i popoli della terra entro una società globale
intesa come un unico spazio americano.
Gli
stessi paesi del BRICS, pur contrapponendosi nella geopolitica mondiale
all’unilateralismo americano, sono essi stessi soggetti al colonialismo culturale
americano.
L’americanismo
attualmente governa le menti, lo spirito, i gusti, le mode, i costumi, la
cultura e la mentalità consumista dei popoli del mondo.
Gli
USA non si definiscono un impero, dato che la loro fondazione avvenne con una
guerra di indipendenza anticoloniale.
L’espansionismo americano fu concepito come
una missione che comportasse l’assimilazione del mondo ad un modello politico,
economico e culturale americano concepito come universale.
In questa ottica deve essere interpretata la
storia degli USA, come un progressivo e illimitato espansionismo che ebbe
inizio con la conquista dei territori del West, per poi identificarsi con nuova
frontiera kennediana e infine realizzarsi compiutamente con il dominio globale
dopo la fine dell’URSS.
Il
globalismo giuridico.
Il
dominio universale implica necessariamente l’imposizione a livello mondiale di
un “globalismo giuridico”.
L’idea di una comunità mondiale unificata da
un unico ordinamento giuridico si basa sul riconoscimento di principi etici
universali quali i diritti dell’uomo, ereditati dalla cultura giusnaturalistico
– liberale europea.
Appare
quindi evidente come la globalizzazione si configuri come una forma di
colonialismo politico – culturale e come una ideologia che ha legittimato
l’esportazione armata della democrazia nel mondo.
L’Occidente con la globalizzazione ha inteso
imporre al mondo la propria cultura della modernità fondata
sull’individualismo, sul razionalismo filosofico, sulla ideologia progressista
liberale.
Il
fallimento della globalizzazione consiste proprio nell’impossibilità di imporre ai
popoli del mondo una cultura universalista e cosmopolita basata su concezioni
filosofico – giuridiche astratte, non assimilabili dal resto del mondo, perché
estranee alle altre culture e rivelatesi incompatibili con esse.
Con il
globalismo si è riproposto in versione post – moderna il primato del vecchio
eurocentrismo ormai rivelatosi antistorico.
L’universalismo
astratto liberale, che
concepisce il globalismo giuridico come un valore unificante dell’intera
umanità è destinato alla sconfitta, dinanzi all’irriducibile pluriverso
politico e culturale del mondo.
Tale prospettiva è ben delineata da “Alain de Benoist”
nel libro “Critica del liberalismo”, Arianna Editrice 2019:
“L’ideologia dei diritti dell’uomo vuole
conoscere solo l’umanità e l’individuo.
Ora,
il politico si articola su ciò che si situa tra queste due nozioni:
i popoli, le culture, gli Stati, i territori;
perciò
implica l’esistenza di frontiere, senza le quali la distinzione tra cittadino e
non cittadino (o straniero) è priva di significato.
L’umanità non è un concetto politico: non si
può essere “cittadini del mondo”, perché il mondo politico non è un universo,
ma un pluriverso:
il politico implica una pluralità di forze in
campo.
L’umanità
non può essere un’unità politica, perché non può avere un nemico su questo
pianeta, se non in senso metaforico.
Il liberalismo, perciò, può dichiarare guerra
solo a coloro che rappresenta come “nemici dell’umanità”, rendendo nello stesso
tempo la guerra più spaventosa che mai.
“Schmitt”
cita, a questo riguardo, la frase attribuita a “Proudhon”:
«Chi
dice umanità, vuole ingannare».
Se ne
deduce, come scrive “Michael J. Sandel”, che «dei principi universali sono inadatti
a fissare un’identità politica comune».
«Un
pianeta definitivamente pacificato», scrive ancora “Carl Schmit”t, «sarebbe un
mondo senza discriminazione tra amico e nemico, e di conseguenza un mondo senza
politica»!”.
Luci
ed ombre del nuovo ordine mondiale multipolare.
La
fine dell’era globalista si identifica con il declino dell’eccezionalismo
americano.
La potenza americana, a causa delle ripetute sconfitte
militari e della temibile minaccia economica e tecnologica cinese al suo
primato, appare afflitta da una crisi identitaria interna, che coinvolge i
propri valori fondativi, la sua vocazione missionaria universalista, la
credibilità delle sue istituzioni, la legittimazione politica di un sistema
democratico divenuto sempre più elitario.
In
realtà, negli USA e nella UE, l’economia globalizzata, con le delocalizzazioni
industriali, i tagli al welfare, la fine dei ceti medi e la precarizzazione del
lavoro, ha generato diseguaglianze sociali sempre più marcate e malcontento
popolare generalizzato.
Gli USA, da primo paese produttore mondiale,
si sono trasformati in una società di consumatori e sono divenuti meta di
investimenti esteri, allo scopo di generare i flussi finanziari necessari a
sostenere il loro mega debito pubblico e una bilancia commerciale perennemente
deficitaria.
Il declino americano è accentuato inoltre dal
processo di de dollarizzazione dell’economia mondiale messo in atto dalle
potenze emergenti del BRICS.
Nel
mondo multipolare l’Occidente sembra destinato all’emarginazione.
Pertanto
negli USA è in corso un processo di rilocalizzazione industriale che prevede
politiche di incentivi al rimpatrio della produzione e misure protezionistiche
intese salvaguardare il primato tecnologico americano, specie nell’innovazione
green.
Al
declino progressivo dell’Occidente farà seguito l’emergere di un nuovo mondo
multipolare suddiviso in aree di influenza continentali.
Con il
nuovo ordine multipolare, la diplomazia degli stati tornerà ad essere
protagonista nella geopolitica mondiale.
La
globalizzazione, intesa come interdipendenza economica tra gli stati continuerà
a sussistere, ma sarà circoscritta alle rispettive aree continentali.
Il
tramonto della globalizzazione si identifica con la fine del primato
universalistico occidentale.
Un
nuovo ordine mondiale potrà sussistere nella misura in cui potrà essere garante
dell’indipendenza dei popoli e della sicurezza mondiale.
Il
declino dell’Occidente è dovuto al suo irriducibile unilateralismo, alla sua
congenita incapacità di comprendere e legittimare come propri interlocutori
paritari altri soggetti della geopolitica mondiale.
L’Europa
con la sua servile ignavia e gli USA con il loro preteso primato politico e
morale nel mondo hanno reso l’Occidente responsabile della guerra ucraina.
Le basi di una nuova geopolitica mondiale
dovranno essere del tutto diverse. Come afferma “John Florio” nell’articolo
“Geopolitica come relazione (apologia di Diodoto)” apparso sul numero 05/2023
di “Limes”:
“Considerando
gli effetti delle incomprensioni tra Stati (le guerre), c’è una ragione per cui
in politica estera le percezioni contano spesso più della realtà.
Continuare a ignorarle non aiuterà a risolvere
la crisi, ma al contrario ad approfondirla.
Se è
così, l’inutile strage ai confini d’Europa potrà essere fermata solo tornando a
pensare la politica estera come un’arte che si declina al plurale.
Ovvero
tenendo debitamente in conto le prospettive e le percezioni altrui: soprattutto
quando non le si condividono.
La
diplomazia implica per antonomasia la capacità di comprendere gli interessi e
le ragioni dell’avversario.
E
quindi di fare compromessi.
Nella consapevolezza che «conflitti tra le
società e internamente ad esse si sono verificati fin dagli albori della
civiltà, (…) e non solo tra le società che non si comprendono, ma anche tra
quelle che si comprendono fin troppo bene» [H. Kissinger, Ordine mondiale,
Mondadori 2015, N.d.R.]”.
Il
futuro mondo multipolare è tuttavia denso di incognite e di aspetti ancora
oscuri.
Infatti, sembra attualmente assai improbabile
che con il nuovo ordine multipolare venga meno il sistema capitalista e
soprattutto la sua evoluzione oligarchica e pianificatrice, oltre all’ideologia
green e l’avvento della post – modernità con il transumanesimo e lo sviluppo
dell’intelligenza artificiale.
Processi di trasformazione in cui la Cina ha
assunto un ruolo di primo piano.
La post – modernità costituisce l’eredità
storica della globalizzazione.
Il
mondo multipolare potrà rappresentare una sfida che generi la fuoriuscita
dell’Europa dalla post – storia e dal nichilistico vuoto di senso che affligge
oggi la società occidentale?
Il mondo multipolare saprà riaffermare i
valori identitari dei popoli e porre fine alle trasformazioni antropologiche
della post – modernità incombenti?
Un
multipolarismo che consista nella “riproduzione su scala continentale” del
decadente globalismo occidentale non è davvero auspicabile.
Globo
globale.
Ariannaeditrice.it - Pepe Escobar – (08/07/2023) – ci dice:
(Fonte:
idee azione)
Il 23°
vertice dei capi di Stato dell’”Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai”
(SCO), tenutosi virtualmente a Nuova Delhi, ha rappresentato la Storia in
divenire:
tre
BRICS (Russia, India, Cina), più il Pakistan e quattro “stan” dell’Asia
centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan), hanno finalmente
e formalmente accolto la Repubblica Islamica dell’Iran come membro permanente.
L’anno
prossimo sarà la volta della “Bielorussia”, come ha confermato il primo vice
ministro degli Esteri indiano “Vinay Kvatra”.
La” Bielorussia e la “Mongolia” hanno
partecipato al Vertice del 2023 in qualità di osservatori e il “Turkmenistan”,
ferocemente indipendente, come ospite.
Dopo
anni di “massima pressione” da parte degli Stati Uniti, Teheran potrebbe
finalmente liberarsi dalla demenza delle sanzioni e consolidare il suo ruolo di
leader nel processo di integrazione dell’Eurasia in corso.
Probabilmente,
la star dello spettacolo a Nuova Delhi è stato il presidente bielorusso”
Alexander Lukashenko”, che guida il suo Paese dal 1994.
Il
vecchio “Luka”, imbattibile nel settore dei titoli di giornale, soprattutto
dopo il suo ruolo di mediatore nella “saga di Prighozin”, potrebbe aver coniato
lo slogan definitivo del multipolarismo.
Dimenticate il “miliardo d’oro”, definito
dall’Occidente, che in realtà raggiunge a malapena i “100 milioni”;
abbracciate ora il “globo globale”, con
un’attenzione particolare al Sud del mondo.
Per
concludere, Lukashenko ha proposto una totale integrazione della “SCO” e dei “BRICS”,
che nel loro prossimo vertice in Sudafrica prenderanno la strada del “BRICS+”.
E va da sé che questa integrazione si applica
anche all’”Unione Economica Eurasiatica” (EAEU).
Il
prossimo passo per il “Globo Globale” – quello che l’Occidente collettivo
qualifica con disprezzo come “il resto” – è quello di lavorare sul complesso
coordinamento di diverse banche di sviluppo e poi sul processo di emissione di
obbligazioni legate a una nuova moneta commerciale.
Le
idee principali e il modello di base esistono già.
Le
nuove obbligazioni saranno un vero e proprio paradiso sicuro rispetto al
dollaro e ai Treasury statunitensi e comporteranno un’accelerazione della
de-dollarizzazione.
Il
capitale utilizzato per l’acquisto di queste obbligazioni dovrebbe essere
utilizzato per finanziare il commercio e lo sviluppo sostenibile, in quello che
sarà un “win-win” certificato e in stile cinese.
Un
focus geoeconomico convergente.
La
dichiarazione della “SCO” ha chiarito che l’organismo multilaterale in espansione
“non è diretto contro altri Stati e organizzazioni internazionali”.
Al
contrario, è “aperto a un’ampia cooperazione con loro in conformità con gli scopi e i
principi della “Carta delle Nazioni Unite”, della “Carta della SCO” e del “diritto
internazionale”, sulla base della considerazione degli interessi reciproci”.
Il
cuore della questione è naturalmente la spinta verso un ordine mondiale
multipolare equo – l’opposto polare dell’”ordine internazionale basato sulle
regole” imposto dagli “egemoni”.
I tre nodi chiave sono la sicurezza reciproca,
il commercio in valute locali e, infine, la de-dollarizzazione.
È
piuttosto illuminante delineare l’attenzione convergente, espressa dalla
maggior parte dei leader, durante il vertice di Nuova Delhi.
Il
Primo Ministro indiano” Modi” ha dichiarato nel suo discorso programmatico che
la “SCO” sarà importante quanto l’ONU.
Tradotto:
un’ONU
senza denti, controllata dall’egemone, potrebbe finire per essere messa in
disparte da una vera e propria organizzazione del “globo globale”.
Parallelamente
a “Modi” che ha elogiato il “ruolo chiave dell’Iran” nello sviluppo del
corridoio internazionale di trasporto Nord-Sud (INSTC), il presidente iraniano “Ebrahim
Raisi” ha
sostenuto fermamente il commercio della SCO nelle valute nazionali per rompere
decisamente l’egemonia del dollaro USA.
Il
Presidente cinese Xi Jinping, da parte sua, è stato irremovibile:
La
Cina è favorevole a mettere da parte il dollaro USA, a opporsi a tutte le forme
di rivoluzioni colorate e a combattere le sanzioni economiche unilaterali.
Il
Presidente russo Vladimir Putin ha sottolineato ancora una volta come “forze esterne hanno messo in
pericolo la sicurezza della Russia scatenando una guerra ibrida contro la
Russia e i russi in Ucraina”.
Pragmaticamente,
Putin si aspetta che il commercio all’interno della “SCO”, utilizzando le
valute nazionali, cresca – l’80% del commercio russo è ora in rubli e yuan –
oltre a un rinnovato impulso alla cooperazione nel settore bancario, nella digitalizzazione,
nell’alta tecnologia e nell’agricoltura.
Anche
il Presidente kirghiso “Sadyr Japarov” ha sottolineato i regolamenti reciproci
nelle valute nazionali, oltre a una mossa cruciale:
la creazione di una banca e di un fondo di
sviluppo della “SCO”, del tutto simile alla Nuova Banca di Sviluppo (NDB) dei “BRICS”.
Anche
il presidente kazako “Kassym-Jomart Tokayev”, che eserciterà la presidenza
della “SCO” nel 2024, si è espresso a favore di un fondo comune per gli
investimenti, oltre che della configurazione di una rete di partner dei principali porti
strategici collegati alla” BRI cinese” e alla via di trasporto internazionale
transcaspica, con sede ad “Astana”, che collega il sud-est asiatico, la Cina,
il Kazakistan, il Mar Caspio, l’Azerbaigian, la Georgia e l’Europa.
Naturalmente
tutti i membri della “SCO” concordano sul fatto che nessuna integrazione
dell’Eurasia è possibile senza stabilizzare l’”Afghanistan”, collegando di
fatto “Kabul” dal punto di vista geoeconomico sia con la “BRI” che con l’”INSTC”.
Ma questa è un’altra storia lunga e tortuosa.
Le
regole della connettività strategica.
Confrontate
ora tutta questa azione a Nuova Delhi con quanto accaduto a “Tianjin” pochi
giorni prima, alla fine di giugno:
l’evento
del “World Economic Forum” (WEF) noto come la “Davos estiva”, tenutosi per la
prima volta dopo la pandemia di Covid-19.
La
critica del premier cinese Li Qiang al nuovo slogan “de-risking” di Stati Uniti
e Unione Europea è stata prevedibilmente pungente.
Molto più interessante è stata la tavola
rotonda sulla “BRI” intitolata “Il futuro dell’iniziativa Belt and Road”.
In
poche parole, si trattava di una sorta di apoteosi “verde”.
“Liang
Linchong”, del “Dipartimento per l’apertura regionale della Commissione
nazionale per lo sviluppo e le riforme” (NDRC), essenziale per promuovere la “BRI”,
ha illustrato diversi progetti di energia pulita, ad esempio, nei nodi chiave
della “BRI”, Kazakistan e Pakistan.
Anche
l’Africa ha avuto un ruolo di primo piano.
“Sekai Nzenza”, ministro dell’Industria e del
Commercio dello “Zimbabwe”, è molto favorevole ai progetti “BRI” che aumentano
gli scambi commerciali “e portano la tecnologia più avanzata” in Africa e nel
mondo.
Pechino
rilancerà il “Belt and Road Forum” nel corso dell’anno. Ci sono grandi
aspettative in tutto il “globo globale”.
“Liang
Linchong” ha fatto una sintesi di ciò che ci aspetta:
“connettività dura” (che significa costruzione di
infrastrutture), “connettività morbida” (enfasi su competenze, tecnologie e standard) e “connessione dei cuori”, che si traduce nel noto concetto cinese di “scambi
tra persone”.
Secondo
“Liang”, quindi, il “Globo globale” dovrebbe aspettarsi un’ondata di progetti
“piccoli è belli”, molto pragmatici.
Ciò si
ricollega alla nuova attenzione delle banche e delle imprese cinesi:
I progetti infrastrutturali di grandi
dimensioni in tutto il mondo potrebbero essere problematici per il momento,
dato che la Cina si concentra sul mercato interno e sull’organizzazione di ogni fronte
per combattere le molteplici guerre ibride dell’egemone.
La
connettività strategica, tuttavia, non ne risentirà.
Ecco
un esempio lampante.
Due nodi industriali cruciali della Cina – la Greater
Bay Area di Guangdong-Hong Kong-Macau e il cluster di Pechino-Tianjin-Hebei –
hanno lanciato i “primi treni merci multimodali internazionali”
Cina-Kirghizistan-Uzbekistan (CKU) lo stesso giorno del vertice “SCO” a Nuova
Delhi.
Si
tratta di un classico “BRI”:
connettività
al top, utilizzando il sistema multimodale “ferrovia-strada” containerizzato.
L’INSTC
utilizzerà lo stesso sistema per il commercio tra Russia, Caspio, Iran e poi
via mare verso l’India.
Con la
“CKU”, le merci raggiungono lo “Xinjiang” per ferrovia, poi proseguono su
strada attraverso il confine di “Irkeshtam”, attraversano il “Kirghizistan” e
arrivano in “Uzbekistan”.
L’intero
viaggio consente di risparmiare quasi cinque giorni di tempo di transito.
Il prossimo passo è la costruzione della
ferrovia Cina-Kirghizistan-Uzbekistan:
la
costruzione inizierà alla fine del 2023.
Il “BRI”
si sta facendo strada in Africa.
Ad
esempio, il mese scorso la “China Aerospace Science and Technology Corporation”
(CASC) ha consegnato alla “Space City del Cairo” un prototipo di satellite
co-sviluppato con l’Egitto.
L’Egitto
è ora la prima nazione africana in grado di assemblare, integrare e testare un
satellite.
Il Cairo lo considera un ottimo esempio di
sviluppo sostenibile.
È
anche la prima volta che Pechino assembla e testa un satellite all’estero.
Ancora
una volta, un classico del “BRI”:
“Consultazione, cooperazione e benefici condivisi”, come definito dal “CASC”.
E non
dimentichiamo la nuova capitale egiziana:
Un
satellite ultramoderno del Cairo costruito letteralmente da zero nel deserto
per 50 miliardi di dollari, finanziato da obbligazioni e – che altro – da
capitali cinesi.
La
lunga e tortuosa strada della de-dollarizzazione.
Tutta
questa frenetica attività è correlata al dossier chiave che i “BRICS+ “devono
trattare: La
de-dollarizzazione.
Il
Ministro degli Affari Esteri indiano “Jaishanka”r ha confermato che non ci sarà
una nuova valuta “BRICS” – per ora.
L’accento è posto sull’aumento degli scambi
nelle valute nazionali.
Per
quanto riguarda il peso massimo dei “BRICS”, la Russia, per ora, punta a far
salire i prezzi delle materie prime a vantaggio del rublo russo.
Fonti
diplomatiche confermano che l’accordo tacito tra gli “sherpa dei BRICS” – che
questa settimana stanno preparando le linee guida del “BRICS+” da discutere al
vertice del Sudafrica il mese prossimo – è quello di accelerare il crollo del
dollaro fiat:
Il finanziamento dei deficit commerciali e di
bilancio degli Stati Uniti diventerebbe impossibile agli attuali tassi di
interesse.
Il
problema è come accelerarlo in modo impercettibile.
La
strategia tipica di Putin è quella di lasciare che l’Occidente collettivo si
imbarchi in ogni sorta di errore strategico senza un intervento diretto della
Russia.
Pertanto,
ciò che accadrà sul campo di battaglia del Donbass – l’umiliazione più grande
della NATO – sarà un fattore cruciale sul fronte della de-dollarizzazione.
I cinesi, da parte loro, temono che il crollo
del dollaro si ripercuota sulla base produttiva cinese.
La
tabella di marcia suggerisce una nuova valuta di regolamento degli scambi
commerciali, progettata per la prima volta nell’ambito dell’”UEEA”, sotto la
supervisione del responsabile della macroeconomia della Commissione economica
per l’Eurasia “Sergey Glazyev”.
Ciò
porterebbe a un più ampio dispiegamento dei “BRICS” e della “SCO”.
Ma
prima la “UEEA “deve convincere la Cina a salire a bordo.
Questo è stato uno dei punti chiave discussi
di recente da “Glazyev”, di persona, a Pechino.
Il “Santo
Graal” è quindi una nuova moneta commerciale sovranazionale per BRICS, SCO e
UEEA.
Ed è
essenziale che il suo status di riserva non permetta a una sola nazione di
esercitare un potere eccessivo, come accade con il dollaro USA.
L’unico
mezzo pratico per legare la nuova valuta commerciale a un paniere di più
materie prime – per non parlare di un paniere di interessi nazionali – sarebbe
l’oro.
Immaginiamo
che tutto questo venga discusso in modo approfondito dall’interminabile coda
per l’adesione ai BRICS.
Allo stato attuale, almeno 31 nazioni hanno
presentato domanda formale o hanno espresso interesse ad aderire a un “BRICS+”
potenziato.
Le
interconnessioni sono affascinanti.
A
parte l’Iran e il Pakistan, gli unici membri a pieno titolo della “SCO” che non
sono membri dei” BRICS “sono quattro “stan” dell’Asia centrale, che sono già
membri dell’”EAEU”.
L’Iran è destinato a diventare membro dei “BRICS+”.
Non
meno di nove nazioni tra gli osservatori o i partner di dialogo della “SCO”
fanno parte dei candidati BRICS.
Lukashenko
l’ha definito: La fusione tra “BRICS” e “SCO” sembra praticamente inevitabile.
Per i
due principali motori di entrambe le organizzazioni – il partenariato
strategico Russia-Cina – questa fusione rappresenterà l’istituzione multilaterale
definitiva, basata su un vero commercio libero ed equo, in grado di superare
gli Stati Uniti e l’Unione Europea e di estendersi ben oltre l’Eurasia fino al
“globo globale”.
I
circoli industriali e commerciali tedeschi sembrano già aver visto la scritta
sul muro, così come alcune delle loro controparti francesi, tra cui il
presidente francese Emmanuel Macron.
La
tendenza è quella di una scissione dell’UE e di una maggiore potenza
eurasiatica.
Un
blocco commerciale “BRICS-SCO” renderà le sanzioni occidentali assolutamente
prive di significato.
Affermerà
la totale indipendenza dal dollaro USA, offrirà una serie di alternative
finanziarie allo “SWIFT” e incoraggerà una stretta cooperazione militare e di
intelligence contro le operazioni segrete seriali dei” Five Eyes”, parte delle
guerre ibride in corso.
In
termini di sviluppo pacifico, l’Asia occidentale ha mostrato la strada.
Nel
momento in cui l’Arabia Saudita si è schierata con la Cina e la Russia – e ora
è candidata a far parte sia dei BRICS che della SCO – si è aperto un nuovo
gioco in città.
Rublo
d’oro 3.0?
Allo
stato attuale, c’è un enorme potenziale per un rublo sostenuto dall’oro.
Se e
quando si realizzerà, si tratterà di un revival del gold-backing dell’URSS tra
il 1944 e il 1961.
“Glazyev”
ha osservato che il surplus commerciale della Russia con i membri della “SCO”
ha permesso alle aziende russe di pagare i debiti esterni e sostituirli con
prestiti in rubli.
Parallelamente,
la Russia sta utilizzando sempre più lo yuan per i pagamenti internazionali.
Più avanti, i principali attori del “Globo
globale” – Cina, Iran, Turchia, Emirati Arabi Uniti – saranno interessati a
pagamenti in oro non sanzionato anziché in valute locali.
Questo
aprirà la strada a una valuta di regolamento commerciale BRICS-SCO legata
all’oro.
Dopo
tutto, non c’è niente di meglio dell’oro quando si tratta di combattere le
sanzioni collettive occidentali, di fissare i prezzi di petrolio, gas, cibo,
fertilizzanti, metalli e minerali.
“Glazyev”
ha già dettato la legge:
La
Russia deve puntare sul Rublo d’Oro 3.0.
Si sta
avvicinando il momento in cui la Russia creerà la tempesta perfetta per
sferrare un duro colpo al dollaro USA.
Questo
è ciò che si discute dietro le quinte della” SCO”, dell’”EAEU” e di alcune
sessioni dei “BRICS”, e questo è ciò che manda in bestia le élite atlantiste.
Il
modo “impercettibile” in cui la Russia può realizzarlo è lasciare che i mercati
facciano salire i prezzi di quasi tutte le esportazioni di materie prime russe.
I neutrali di tutto il “globo globale” lo
interpreteranno come una naturale “risposta del mercato” agli imperativi
geopolitici dissonanti dell’Occidente collettivo.
L’impennata dei prezzi dell’energia e delle
materie prime finirà per provocare un forte calo del potere d’acquisto del
dollaro statunitense.
Non
c’è quindi da stupirsi che diversi leader al vertice della “SCO” si siano detti
favorevoli a ciò che equivale, in pratica, a una Banca Centrale allargata
BRICS-SCO.
Quando
la nuova moneta “BRICS-SCO-EAEU” sarà finalmente adottata – naturalmente è
molto lontana, forse all’inizio del 2030 – sarà scambiata con oro fisico dalle
banche partecipanti dei Paesi membri della SCO, dei BRICS e dell’EAU.
Tutto
ciò va interpretato come l’abbozzo di un percorso possibile e realistico verso
un vero multipolarismo.
Non ha
nulla a che vedere con lo yuan come valuta di riserva, che riproduce l’attuale
racket dell’estrazione di rendite a vantaggio di una minuscola plutocrazia –
completa di un massiccio apparato militare specializzato nella prepotenza del
“globo globale”.
Un’unione
“BRICS-SCO-EAEU” si concentrerà sulla costruzione – e sull’espansione – di
un’economia fisica, non speculativa, basata sullo sviluppo delle
infrastrutture, sulla capacità industriale e sulla condivisione delle
tecnologie.
Un
altro sistema-mondo, ora più che mai, è possibile.
(Pepe
Escobar è un analista geopolitico e autore indipendente. Il suo ultimo libro è”
Raging Twenties”)
(new.thecradle.co/articles/finance-power-integration-the-sco-welcomes-a-new-global-globe)
Virus.
Ariannaeditrice.it - Lorenzo Merlo – (08/07/2023) – ci
dice:
La
dipendenza – di qualunque genere – è sempre una dichiarazione di debolezza.
Ogni debolezza è una mortificazione della capacità creatrice.
Non vederlo costringe ad accettare come giusto
il mondo che c’è.
Serve un dio.
La
tecnologia è ontologicamente un dio, al cui potere vogliamo genufletterci; la
cui gloria vogliamo celebrare; alle cui soluzioni aspiriamo; la cui verità
superiore non discutiamo; la cui mortificazione umanistica non sospettiamo; la
cui tossicità non immaginiamo.
Spesso,
quando non sempre, è disposizione comune far corrispondere e vivere la
tecnologia come progresso.
Sarebbe anche vero, se non fosse considerato
l’unico, l’autentico e soprattutto il solo.
Nella
concezione della tecnologia sono insiti, impliciti, costituenti la quadratura,
il giusto e il perfetto, ovvero ciò che manca.
Abbracciandola,
crediamo di poter indagare il mistero e, un giorno, darne risposta.
Il
pensiero e il sentimento che avvengono in noi a causa del fideismo scientista
di cui siamo protagonisti ne risulta infettato.
Una
asintomatica ossessione per il modello tecnologico cui dobbiamo tendere ci
gonfia l’ego individuale, sociale, politico.
In nome del credito nei suoi confronti, non
abbiamo incertezze se accodarci esultanti al bene degli algoritmi, dei vaccini,
della digitalizzazione:
più ce
n’è, più tutto sarà facile, comodo ed economico.
In
sella all’emozione digitale, l’arroganza umana decuplica le atrocità che già in
territorio analogico aveva dimostrato di saper commettere.
Il
liberismo, l’individualismo, l’edonismo hanno liquefatto i valori comunitari.
Il
legame con le origini della vita, di cui siamo espressione, non è più affare
che conti.
Ciò
che interessa corrisponde all’egoismo.
Abbiamo
abiurato a qualcosa di superiore e misterioso a favore di un Io steroidizzato
fino alla misura divina.
Inconsapevoli
di correre al massimo su un binario morto, diamo tutto.
Una
corsa che ci offre la possibilità di stimare la perdizione in cui viviamo,
l’abrogazione di noi stessi e tutto quanto crediamo superfluo al progresso
materiale.
“A Oxford, tra gli anni cinquanta e sessanta
dell’Ottocento, “Ruskin” mise in pratica il precetto di entrare in contatto con
il corpo, guidando squadre di esponenti della gioventù dorata a costruire una
strada di campagna:
le
mani dolenti e callose il segno virtuoso dell’essere in contatto con la Vita
Vera”.
Strategica mimesi.
Il
potere tecnologico è il più occulto. Ma non è segretato.
È
diffuso sotto il sole, è distribuito, accolto come manna dal cielo a tutti noi.
È in
tutte le vetrine, è accessibile a chiunque.
Chi
vorrebbe oggi rinunciare ai servizi tuttofare della tecnologia?
Chi
non vedrebbe in quella rinuncia nient’altro che uno stupido arretramento della
qualità della vita?
Come
ciliegie a maggio, ci sembra un diritto averla e un dovere venderla.
Ma quale progresso può esserci in una
dipendenza?
In ogni tipo di dipendenza vive l’assoluta
mortificazione della libertà, della creatività, dell’autonomia, della forza,
dell’invulnerabilità degli uomini.
Ogni
dipendenza vive nutrendosi dell’energia che le diamo e che ci succhia,
sottraendola a quella forza e a quella creatività che ci permetterebbero il
senso di una vita piena, la consapevolezza di realizzare la nostra natura.
Ogni
dipendenza azzera la profondità spirituale.
Questa
viene prima denigrata, quindi dimenticata, considerata superflua, svuotata di
significato.
La ragnatela dell’universo dell’uomo, composta
originariamente da infiniti filamenti, una volta dimenticata la consapevolezza
del legame con l’origine, ha perduto la sua elasticità e potenzialità di farci
percorrere l’infinito.
Si è
ridotta a pochi aridi cavi economici e scientisti, che guidati dalla visione di
aver sbaragliato ogni nemico, stanno andando lentamente a chiudersi su sé
stessi, senza neppure il sospetto che soffocheranno il ragno.
“Tecnici e utenti si preoccupano, giustamente,
dei virus che possono intrufolarsi nei computer; mentre vi è una ben limitata
coscienza di come lo stesso computer possa comportarsi da virus e intrufolarsi
nella società degli umani.”
Che c’entro io con Mr. Burbank Truman?
Ad
ognuno il proprio ragionamento su come sottrarsi a un destino nel quale essere
fuggevole e controllata comparsa della propria vita, ma solido protagonista al
momento degli acquisti.
L’assuefazione
è tale che non ricordiamo più di fare riferimento a noi, al nostro gusto e alle
nostre esigenze.
Li
abbiamo sostituiti con quelli offerti dai banchi dei commercianti, dalle sirene
della pubblicità, dal vero giornalismo – quello disposto a farsi pagare per
scrivere menzogne, a seguitare a dormire sereno, anche davanti a scenari “Assange”.
Ora
crediamo di poter raggiungere i sogni acquistando merci, loro indegne,
destabilizzanti succedanee.
Ora
possono far tramontare il sole e mandarci a nanna.
Dire che la guerra è pace e sentirselo
replicare in coro dalla moltitudine che crede che questa vita sia
effettivamente la vita.
Di come stiamo allo show non interessa, se non
in funzione di quanto possiamo consumare, votare, costare.
Siamo
tutti uguali e, nonostante le nostre apparenti libere stravaganze, tutti buoni e
protagonisti del nostro personalizzato “Truman Show”.
Pilota
automatico.
A chi
preferisce – leggi sceglie – adeguarsi, adagiarsi protetto dall’effimero scudo
dal solito ritornello che è difficile cambiare rotta, che non possiamo farci
niente, va fatto presente che non è quello il punto.
Che portare l’attenzione sulla difficoltà è la
modalità sconveniente per il cambiamento, personale o sociale che sia.
Il
punto è che la rotta è sempre il risultato di una scelta.
E che
una scelta è sempre il risultato di una fede.
Tuttavia,
c’è anche chi si avvede della trappola e pensa che, più che adeguarti, che vuoi
fare?
Smantellare
il sistema è difficile, impossibile.
Legami,
credenze e dipendenze sono le esche del Grande Pescatore.
La logica di una misura di noi stessi limitata
al modesto raggio d’azione dei nostri più immediati ed egoistici interessi
rende possibile e vera quell’impossibilità, quel che vuoi fare?
Pilota manuale.
Cambiare
diviene invece assolutamente accessibile e vicino – indipendentemente dalla
durata indicata dai calendari amministrativi del mondo – semplicemente
mettendosi in cammino, dando l’esempio, lentamente auto-educandosi nel rispetto
delle consapevolezze nuove, avendo fede ed esprimendo la propria concezione
senza proselitismo positivistico.
Quando si osserva che la meta è il percorso
stesso, si vede cosa comporta il cambiare e che, condividendo questa formula,
si può realizzare il cambiamento.
E non servono consigli ed esempi.
L’esperienza non è trasmissibile. Coloro a cui
dovessero servire non replicherebbero che un modello.
Serve
invece ricreare, secondo il proprio talento e propria misura.
Se
stiamo andando dove non ci piace, è nostra responsabilità cambiare, come lo è
se manteniamo lo status quo.
Così
infatti sarà, quando dirigeremo verso mari non più di plastica, di falso
progresso, di opulenza, di miseria spirituale.
Mari
in cui le reti del Grande Pescatore avranno maglie inadeguate.
Una
grande opera comune, una piramide, per la quale forse, nella nostra vita, non
potremo che spingere per qualche metro uno solo dei macigni che serviranno per
erigerla.
Dov’è il problema?
Non
sappiamo più cucinare il cibo, né coltivarlo o procurarlo; non rispettiamo più
il ritmo delle stagioni, con tutto il loro significato per la vita terrena, e
crediamo davvero se ne possa fare a meno; ci ammaliamo e diamo la colpa
all’età, al virus, all’altro.
Il
nostro impegno è avere, imitare e invidiare chi ha di più, sentire un fiotto di
autostima davanti a chi ha di meno.
Il nostro impegno è donare uno spicciolo al
semaforo e proseguire verso i fatti nostri, lasciando che l’empatia con chi sta
peggio vada a farsi benedire.
Del
luogo dove origina l’ingiustizia si occuperà semmai qualcun altro.
Sulla
crescente distanza dall’indipendenza non ci affrettiamo a ragionare, a capire,
a sentire, per permettere ai nostri figli di avere le doti per vederla ridursi
e, alfine, emanciparsene.
A noi basta il bonus, la furbata, lo sconto,
la quieta infelicità.
A
tanto siamo arrivati.
“ChatGpt”,
intelligenza artificiale, radio che si accende in automatico all’avvio del motore,
guida assistita, uteri affittabili, sesso a gusto non sono che alcuni culmini
della” tecnologia
mon amour”,
alcuni altari senza peccato, alcune discese verso l’auspicata comodità.
Tentacoli
dai quali difficilmente ci si potrà liberare.
“Per un numero sempre maggiore di persone
l’illuminazione non fornita da reti ad alto voltaggio e l’igiene senza carta
velina significano povertà.
Aumentano le aspettative, mentre declinano
rapidamente la fiducia speranzosa nelle proprie capacità e l’interesse per gli
altri”.
Ma è solo un assaggio.
Insufficiente per cogliere e stimare quale
esiziale distanza dalla terra e da noi stessi abbiamo raggiunto;
a
quale bordo dell’abisso siamo affacciati; quanto, ancora ridenti, i nostri
occhi non lo trovino orrifico, le nostre anime non chiedano perdono e non si
avviino a provvedere per riparare al danno compiuto.
Siamo
sensori e abbiamo disimparato a raccogliere i segnali del corpo e del mondo.
Imbrattati di falsi valori, non siamo più in
grado di sfruttare noi stessi, come se la conoscenza fosse fuori, nei libri e
in chi li ha scritti.
Vibrasse
incrostate di saperi, capaci ormai di vibrare solo al comando di idee
infiltrate, ci rendono disponibili a crasse risate al cospetto di un
rabdomante.
Dovremmo
invece evitare d’intossicarle, per tornare a captare la conoscenza presente in
noi, nel mondo, per divenirla ed esprimerla.
Questo
è il problema.
“Dovendo conviverci, l’uomo ha contratto
l’abitudine alla tecnica, arrivando a identificarsi con essa e a vederla come
l’espressione più significativa del proprio essere nel mondo.
Ma
ritenere la tecnica la forma più alta dell’espressività umana è una svista
imperdonabile, che alla lunga l’uomo verrà chiamato a pagare.
Educato
secondo una mentalità subalterna alla tecnica, l’uomo ha imparato ad agire più
che a essere, a cogliere le esteriorità più che l’interiorità delle cose, a
esternare più che a riflettere.
Il progressivo prevalere di una mentalità
tecnica lo ha portato a considerare tutte le cose, compreso se stesso, come
frutto della tecnica, vale a dire di una mente ingegneristica”.
Il dono.
È che
siamo polli da allevamento, spiriti obnubilati, merce.
I giovani, e non solo, sono soddisfatti di
fare la pubblicità per una multinazionale. Per pochi denari precari, svendono i
loro migliori sorrisi.
I
figli sono deboli. I padri anche.
Le
prospettive politiche, basate sul diritto e non sulla natura, pessime.
Cosa
significa essere forti?
Non
riguarda saper scaricare una motonave a spalle, riguarda avere la capacità di
riconoscere se stessi, le proprie doti e le proprie debolezze, significa saper
coltivare le une e affrontare le altre, significa valorizzare quanto sentiamo e
ridurre il monopolio della razionalità e della sapienza di ciò che abbiamo
anonimamente, replicatamente appreso; significa libertà dalle ideologie e dagli
interessi personali; significa poter distinguere ciò che fa per noi da ciò che
è opportuno scartare; saper rinunciare, senza senso di frustrazione e
debolezza.
Non
invidiare, ma amare chi è meglio di noi per coltivare quanto ci manca.
Compiremo
le scelte per donare un esempio di forza a chi verrà o daremo la colpa a
qualcosa per non esserci riusciti?
Politica
fluida e conservatori bolsi:
così
l’”ideologia woke” travolge l’Europa.
Agerecontra.it
– (11 GIUGNO 2023) - STAFF "CHRISTUS REX" - Matteo Castagna – ci dice:
(L’EDITORIALE
– Affaritaliani.it).
A
fronte di una galassia conservatrice sempre più fiacca divampa l’”ideologia
woke”:
il totalitarismo culturale che banna tutto ciò
che non è “politically correct”.
Politica
e ideologia woke,
“se i
conservatori non si svegliano dal torpore dovremo soccombere al delirio
transumano progressista”.
Nell’agone
politico, destra e sinistra nascono con la Rivoluzione Francese nel 1789.
Il filosofo francese “Marchel Gauchet” scrive
che:
“coloro i quali tenevano al re e alla
religione si erano messi alla destra del presidente per sfuggire ai discorsi,
alle indecenze e alle urla che avevano luogo nella parte opposta, dove stava la
componente rivoluzionaria”.
Nel
periodo della Restaurazione, in Francia e poi in Europa, la destra era occupata
dai monarchici cattolici contro-rivoluzionari, mentre dalla parte opposta vi
erano coloro che intendevano sovvertire l’ordine morale, sociale e politico,
ovvero i giacobini anticattolici e anticlericali.
Nel XX
secolo, la sinistra era rappresentata dai social-comunisti, mentre la destra
dai monarchici e dai fascisti.
Ci furono ulteriori sfumature, che inglobavano
i liberali e i cattolici, a seconda delle circostanze storiche.
Nel XXI secolo non ha più senso parlare di
“destra e sinistra” perché le ideologie che le reggevano sono sostanzialmente
morte.
Nel
XXI secolo si parla di posizioni conservatrici e patriottiche per quella che
fu, storicamente, la destra, e di progressiste e globaliste per “quella che fu
la sinistra”.
Ad
eccezione delle posizioni radicali, che non sono rappresentate in Parlamento,
almeno in Italia, la globalizzazione viene accettata da tutto l’arco
costituzionale e tutti si dichiarano liberali, liberisti e libertari.
Per
cui sfumano le differenze tra le due parti, soprattutto sul piano economico
(tutti liberisti) e morale (tutti libertari).
Questa
situazione si è creata perché il modello imposto dai vincitori della Seconda
Guerra Mondiale, è stato quello anglo-americano, con una decisiva accelerata
dopo il crollo del muro di Berlino, nel 1989.
Possiamo,
dunque, parlare di evoluzioni e involuzioni nel tempo, del pensiero e
dell’azione di entrambe le parti.
Le
crisi, generalmente, sono le cause dei cambiamenti.
Le
guerre sono i mezzi con cui si impongono i nuovi ordini/disordini.
Il
maggior potere possibile sul mondo è il grande Vitello d’Oro, il fine degli
avidi e dei corrotti.
Oggi,
osserviamo una politica fluida come la società, ove tra i conservatori prendono
posizione tre corpi estranei, che ne riducono l’efficacia subordinando lo
schieramento ai paradigmi dei progressisti, ridimensionando l’orizzonte
valoriale:
i liberali, gli anticattolici, gli
opportunisti globalisti, che potrebbero tranquillamente cambiare casacca, senza
colpo ferire.
Anche
tra i globalisti, buona parte della componente liberale e ex democristiana,
figlia del modernismo, è trasformista per stipendi e privilegi, ma a livello
culturale e sociale si sta imponendo una nuova ideologia che, progressivamente
costituirà il bagaglio elettorale dei globalisti, ovvero del “partito Radicale
comunista di massa”.
Al
momento, dalla parte opposta, si notano le pesanti infiltrazioni di questa “wéltanschauung”
che oscura il sovranismo e l’identità e affievolisce la Tradizione, che
dovrebbe costituire la solida roccia sulla quale basare la filosofia,
l’economia e l’azione politiche.
“La destra è sempre tradizione – ha
scritto recentemente Marcello Veneziani – ho un’idea diversa da quella
irregimentata nell’establishment italo-euro-atlantico, che include anche la
destra di governo”. ( Barbadillo, 7/4/2023)
Dunque,
a fronte di una galassia conservatrice fiacca un po’ confusa, ha gioco più
facile la nuova ideologia, costola del globalismo, che, come per il movimento
sovversivo del 1968 muove i primi passi nelle Università francesi ma giunge
dagli Stati Uniti.
Si
definisce “cultura woke“.
“La
woke culture è inoltre il substrato della “call-out culture” (molto vicina alla
più nota” cancel culture”) – scrive il giornalista ed esperto di comunicazione “Andrea
Zanini” su Formiche del 06/12/2021 –
ossia la minacciosa e spesso violenta censura
nei confronti di soggetti ritenuti colpevoli di idee e comportamenti
disallineati da valori considerati progressisti e, più in generale,
politicamente corretti;
sono
infatti molteplici i casi in cui “attivisti woke” hanno ostracizzato professori
e accademici impedendogli di parlare ad eventi pubblici, manipolandone le
dichiarazioni e proscrivendoli sui social e sui media tradizionali, fino ad
arrivare, in alcuni casi, a provocarne le dimissioni”.
La
nuova “ghigliottina woke” è l’isolamento assoluto dell’uomo della tradizione,
che non avrà mai alcuna difesa da parte di quei Conservatori bolsi, che pensano
solo agli affari e si vendono al miglior acquirente.
Questo
fenomeno sta pericolosamente dilagando nelle università americane, laddove “woke”
è sinonimo di vigile allerta nella lotta contro le “ingiustizie della
maggioritaria e prepotente cultura dei maschi bianchi”, che penalizzerebbero
gli afroamericani, le donne, le identità sessuali diverse da quelle
categorizzate biologicamente e via dicendo.
Nelle
teorizzazioni più estreme gli ideologi della “woke culture” affermano
addirittura l’inutilità della lettura di testi o della fruizione di opere di
autori non conformi ai “canoni woke”.
“Zanini”
prosegue nello spiegare questo “inquietante scenario”:
“Un
altro requisito di questo totalitarismo culturale è la pretesa che siano gli
studenti a decidere che cosa studiare.
È la negazione della fondamentale figura del
maestro, colui che per studi ed esperienza ha titolo ad insegnare…”.
È
evidente a tutti che, nel mondo dominato dai social media, qualsiasi mitomane
possa, grottescamente, laurearsi su Facebook.
Al voto si sostituirebbe il numero di like…
C’è
infine un elemento che rappresenta il vero il cavallo di Troia della “woke
culture”, ossia la pretesa di voler difendere dalla cultura dominante dei
maschi bianchi le culture oppresse, ghettizzate e negate, un obiettivo sul
quale liberali progressisti non possono che concordare.
Peccato che gli assunti e i metodi della “woke
culture” portino alla società dell’assurdo, del caos e della follia.
Il problema è che di fronte a questa minaccia,
una società dalla pancia piena, quasi totalmente apatica e paurosa come quella
occidentale, non riesca a reagire.
I
conservatori, troppo spesso appiattiti su questa decadenza o in altre faccende
affaccendati, dovrebbero riflettere sulle loro responsabilità verso i figli
d’Europa, che non possono avere come modello i “Ferragnez”, “Bello Figo” o i “Maneskin”,
senza cadere nella peggiore decadenza, mai vista nella storica culla della
Civitas Christiana.
Cosa
si intende per “woke.”
Ilpost.it
– Redazione – (12 novembre 2021) – ci dice:
La
parola finita in prima pagina su Repubblica indicava un atteggiamento
consapevole delle ingiustizie sociali, ma oggi ha una connotazione spesso
dispregiativa e sarcastica.
(Una
protesta di “Black Lives Matter” fu effettuata a Londra già nel 2020).
Nell’ampio
dibattito che ha interessato i paesi anglosassoni negli ultimi anni sulle
rivendicazioni delle cosiddette minoranze, che si parli di orientamento
sessuale o identità di genere, di origini etniche o di disabilità, sono emerse
diverse nuove parole che hanno poi cominciato ad affiorare nelle discussioni
anche in Italia, prima nelle nicchie e poi in modo sempre più trasversale.
Giovedì
per esempio Repubblica ha pubblicato in prima pagina un editoriale del
giornalista statunitense “Bret Stephens”, che era uscito pochi giorni prima sul
New York Times, dal titolo “Perché l’ideologia woke fallirà”.
L’articolo
dà per inteso il “significato di woke”, una parola che in realtà non si è mai
davvero affermata nel dibattito italiano, nel quale solitamente si fa ricorso
ad altre espressioni che rientrano più meno nello stesso campo semantico, come
“politicamente
corretto”
oppure “cancel
culture”.
Peraltro, negli stessi Stati Uniti l”’aggettivo woke” e il “sostantivo wokeness” sono parole sempre meno usate, se
non con una chiara connotazione dispregiativa:
a complicare ulteriormente la spiegazione non
solo del suo significato, ma anche degli sviluppi nelle sue accezioni e usi.
“Woke” non è davvero traducibile in
italiano – vuol dire qualcosa come “consapevole” – ma indica, o almeno indicava
originariamente, l’atteggiamento di chi presta attenzione alle ingiustizie
sociali,collegate principalmente a questioni di genere e di etnia, e non ne
rimane indifferente, solidarizzando ed eventualmente impegnandosi per aiutare
chi le subisce.
Nel
Novecento l’espressione “woke” esisteva già ed era usata soprattutto tra gli
afroamericani, sia con l’accezione di “stare all’erta” rispetto a un pericolo,
sia con quella più generica di essere a conoscenza di qualcosa.
La sua
diffusione col significato attuale però risale allo scorso decennio, quando fu
usata nell’ambito delle proteste di “Black Lives Matter” per esprimere il
concetto a cui è stata poi associata negli ultimi anni:
cioè
la consapevolezza su una serie di questioni e problemi legati al razzismo e al
sessismo sistemico – nel senso di radicati nelle istituzioni e nelle dinamiche
sociali – della società americana (e per estensione di quelle occidentali).
Un
termine quindi con un’accezione positiva, per chi lo usava riferendosi a un
obiettivo e un’ambizione:
si
definivano “woke” per esempio le persone – perlopiù della cosiddetta
generazione dei “millennial”, cioè i nati tra gli anni Ottanta e l’inizio dei
Novanta – che facevano attivismo in piazza e sui social network, che
partecipavano alle proteste antirazziste o alle marce per i diritti delle
donne, che sensibilizzavano sull’importanza di utilizzare un linguaggio
rispettoso e inclusivo per riferirsi alle minoranze.
Man
mano che la diffusione della parola è uscita dalle proteste di Black Lives
Matter, ha iniziato a essere usata in altri modi.
Con
l’aumentare del coinvolgimento dei giovani americani nelle battaglie per i
diritti,” woke” è diventata un’espressione riferita spesso a persone che sono
considerate “alleate” delle minoranze ma che appartengono a categorie identitarie
ritenute in una posizione di maggiore potere.
Per esempio perché bianche, di sesso maschile,
eterosessuali, cisgender (cioè che si riconoscono nel genere associato al sesso
di nascita) o ricche, tutte caratteristiche che nell’ambito dei discorsi su
questi temi vengono associate spesso al concetto di “privilegio”, inteso come
vantaggio nella società contemporanea occidentale.
Più
recentemente, però, “woke” è diventata sempre meno una parola rivendicata dalle
persone che teoricamente dovrebbe descrivere, e sempre più usata invece dai
loro critici e dai conservatori americani per indicare quella che considerano
una pericolosa tendenza della sinistra, dei progressisti e più in generale dei
Democratici.
Con “woke”,
cioè, la destra americana intende solitamente quello che identifica come “un atteggiamento di dogmatismo
intollerante e censorio”, applicato nei confronti delle parole e delle idee che
vanno contro le più moderne sensibilità sulle questioni delle minoranze e dei
diritti civili.
“Woke”
quindi è diventato un termine perlopiù negativo, usato con l’intento di
ridicolizzare e attaccare i movimenti giovanili progressisti, associandoli alle
loro espressioni più intransigenti e aggressive, presenti principalmente sui
social network.
Per
esempio le campagne portate avanti in diversi campus universitari americani per
allontanare professori accusati – spesso pretestuosamente o ingiustamente – di
aver usato parole offensive, oppure quelle che chiedono il licenziamento di
personaggi pubblici di vario tipo per via di dichiarazioni considerate
controverse, o che mobilitano grandi e bellicose masse di account contro
qualcuno che abbia detto una cosa considerata disdicevole rispetto alle
suddette sensibilità.
Queste
dinamiche, che sono oggetto di riflessioni e studi anche preoccupati,
soprattutto in ambito accademico, fanno più precisamente riferimento al
fenomeno della “cancel culture”, e sono legate secondo molti non tanto all’impostazione “ideologica woke” quanto alle modalità con cui le
piattaforme dei social network hanno reso il confronto tra idee diverse spesso
violento, intollerante e polarizzato.
Questi
aspetti non sono soltanto discussi e criticati dai conservatori, tutt’altro:
è in corso un vivace dibattito anche tra
progressisti e persone di sinistra sui problemi che derivano da questo tipo di
approccio al confronto politico e alla ricerca accademica.
Anche
tra “opinionisti liberal”, la parola “woke” viene talvolta usata per riferirsi
genericamente a questo atteggiamento ritenuto in contrasto con i valori di
tolleranza e dialogo a cui si ispira storicamente la sinistra.
Ma
insieme all’intenzione offensiva, negli Stati Uniti i principali utilizzatori del
termine” woke” oggi se ne servono anche spesso come strumento di propaganda e
polemica, evocando con un termine efficace un pericolo disegnato come
universale e prevalente, “un’ideologia” estremista che governerebbe il pensiero
progressista.
È una minaccia che sfrutta la particolare e
minacciosa visibilità degli atteggiamenti e dei toni aggressivi e perentori
usati nelle polemiche virali sui social network, e ha permesso in più occasioni
di mobilitare il complesso di persecuzione e la reazione di parte dell’elettorato
conservatore (una pratica di comunicazione simile è quella, familiare anche in Italia,
attivata
dai predicatori contro “la teoria gender”).
Nel
suo editoriale tradotto da Repubblica,” Stephens” usa la parola “woke” in senso
evidentemente dispregiativo.
È un
autore conservatore, i cui interventi sul “New York Times” sono stati spesso
contestati, e tra le altre cose è noto per le sue posizioni scettiche riguardo alle
responsabilità dell’uomo nella crisi climatica.
Nel suo editoriale, dice in sostanza che quella che
chiama “ideologia woke” non avrà successo in quanto movimento che «distrugge,
divide gli americani, rifiuta e sostituisce i valori fondanti della nostra
nazione», e che agisce «in modo prescrittivo, non per un vero dibattito o una vera
riforma ma per indottrinamento e sradicamento».
“Stephens”
se la prende in particolare con la “critical race theory”, una teoria accademica che
interpreta la storia, la cultura e le strutture politiche statunitense
indagandone il ruolo nel razzismo sistemico della società.
Da
tema di nicchia, recentemente la “critical race theory” è diventata effettivamente un punto
importante della campagna elettorale per il governatore dello stato della
Virginia.
I
Repubblicani l’hanno usata come spauracchio, distorcendola e ingigantendola e
insistendo sulle intenzioni dei Democratici di introdurla nelle scuole.
Secondo alcuni analisti, questo aspetto della
campagna elettorale ha effettivamente avuto un ruolo nell’esito delle elezioni,
vinte dai Repubblicani, per quanto ci siano opinioni discordanti su quanto sia
stato effettivamente determinante.
All’editoriale
di “Stephens” ha risposto il giorno dopo “Charles Blow”, editorialista del “New
York Times” di orientamento liberal (sinistra radicale), che ha scritto che «la wokeness è
stata descritta nei modi più iperbolici immaginabili, da ideologia a religione
a culto» e
per questo è stata abbandonata dai giovani che la usavano, ed è oggi
prerogativa principalmente di chi vuole ridicolizzarla sottolineandone certi
aspetti contraddittori, difficilmente comprensibili, elitari.
In
ogni caso, perlomeno quando non aveva ancora una connotazione così
politicizzata, anche l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama aveva
criticato alcuni aspetti dell’atteggiamento di chi «si sente sempre politicamente woke», e ha «quest’idea di purezza, che non
si debba mai scendere a compromessi».
Aveva invitato i giovani a superare questo approccio:
«Il
mondo è incasinato, ci sono ambiguità, le persone che fanno cose molto buone
hanno dei difetti, le persone contro cui combattete possono amare i loro figli
e avere cose in comune con voi.
Penso che un pericolo che vedo nei giovani e
in particolare nei campus, accelerato dai social media, è l’idea che il
cambiamento passi attraverso l’essere il più giudicante possibile verso le
altre persone, e che questo basti.
Se
twitto o uso un hashtag su come hai fatto qualcosa di sbagliato, o hai usato la
parola sbagliata, allora posso sedermi e sentirmi molto bene con me stesso
perché avete visto quanto sono” woke”?
Ti ho
sgridato. Non è attivismo. (…) Se tutto quello che fai è lanciare pietre,
probabilmente non vai molto lontano.
È facile fare così.
Un
saggio sulla “Fabian Society”,
ovvero
un circolo di “alfieri del globalismo”.
Ilprimatonazionale.it - Tommaso Alessandro De
Filippo – (26 Febbraio 2022)
È di recente pubblicazione il “saggio Fabian Society
“a cura del giovane “Francesco Mastrobattista”, edito dalla casa editrice”
Millimetrozero”, che affronta con nettezza e chiara lucidità quello che a tutti
gli effetti si è oggi trasformato in un fenomeno elitario e ristretto, con fini
chiaramente manipolatori.
Cos’è
la Fabian Society.
In
primis, con Fabian Society ci riferiamo ad un contesto con alle spalle circa
130 anni di storia, nato nel mondo anglosassone.
La sua
spinta ideologica basata su dei principi di uguaglianza e socialismo ha con i
decenni assunto dei connotati sempre più distanti dalle prospettive di base.
Infatti, i suoi esponenti sono riusciti ad
insediarsi negli ambiti istituzionali e, soprattutto, finanziari del Regno
Unito e non solo, riuscendo ad indurre politici ed élites ad assumere
comportamenti ideologizzati, che si richiamassero comunicativamente a dei
principi di egualitarismo sociale per poi condurre delle politiche dannose per il
popolo.
La
propaganda “liberal” (sinistra radicale Usa).
Ambientalismo
e tematiche liberal sono oggi un punto cardine sfruttato dalla propaganda della
“Fabian Society”:
rappresentano i principali temi d’agenda
politica che si riflettono maggiormente sugli interessi di ristretti circoli
finanziari ed hanno l’opportunità di influenzare notevolmente i cittadini, in
particolar modo quelli d’età giovanile.
“
Mastrobattista” descrive dettagliatamente le intenzioni e le mire di questo
contesto, offrendo ai lettori una chiave di lettura utile per prospettare il futuro di una
società che può subire questa manipolazione:
in un momento storico fortemente globalizzato ed”
incentrato sul pensiero unico” dettato dal mainstream la forza di determinate lobby può
assumere dei tratti importanti nella gestione della volontà popolare.
Eventualità
pericolosa che ci spinge a comprendere l’importanza dell’osservazione critica e
del ragionamento che superi le motivazioni ufficiali attribuite a determinate
scelte, siano esse mediatiche, politiche o finanziarie.
In
tutta evidenza qualcosa che non sta spesso avvenendo nell’attualità odierna,
composta per la maggiore da leggerezza e sufficienza di valutazione. (Il nostro ex ministro della salute
“Speranza” ha frequentato con successo accademico la “Fabian Society” inglese.
N.D.R.).
(Tommaso
Alessandro De Filippo)
“Wokismo"
come rifugio
per i “senza scrupoli”.
Extramurosrevista.com – (08/01/2022) - Diego
Andrés Diaz – ci dice:
Qualche
giorno fa, in una trasmissione del canale ideologico municipale "Teve
Ciudad" - una sorta di misto di "TV RDA" e "TV Woke" -
sono state rilanciate su Twitter le dichiarazioni di un giovane attivista
locale di un'organizzazione globale chiamata “Fridays for future”, fondato 3
anni fa dall'attivista “Greta Thunberg”.
L'organizzazione
si dedica all'attivismo di "protezione ambientale" e
"mitigazione del cambiamento climatico", con l'obiettivo in
particolare di incanalare l'esperienza dei giovani nel suo lavoro.
Nella
sequenza, la militante locale ha sostenuto rispetto al suo rifiuto
dell'esplorazione petrolifera che
"...
è del tutto inaccettabile che molti uomini bianchi sopra i 50 anni, in giacca e
cravatta, stiano prendendo decisioni e politiche, che non solo non li
riguarderanno a causa della loro situazione privilegiata, ma non possono
nemmeno vivere per sopportare quelle conseguenze. ...".
La
cosa interessante della dichiarazione è che contiene buona parte delle
caratteristiche più evidenti della manifestazione pratica delle “idee del
pietismo” e del " wokismo" globalista:
in
esse, una "storia" approda -senza alcun adattamento- senza
contestualizzarsi con realtà locale, o il suo processo storico, quasi sempre
per mano di alcuni media progressisti o di una delle agenzie di propaganda
globale, come il “NYT”, l'”AFP” o una qualsiasi delle lobby imparentato.
La retorica ispirata alla cosiddetta "Critical Race Theory", dove si riferisce ai malvagi
"uomini bianchi" (immagino che arrivare a chiamarli
"anglosassoni" e "protestanti" nel contesto nazionale
rasentasse il buffone) , spiega in ultima analisi l'assoluta mancanza di un
minimo di cura nel realizzare un certo adattamento e contestualizzazione delle
ossessioni razziste del progressismo pietista nordamericano, a contesti
diversi, in questo caso uruguaiani.
A corollario di tale distorsione comunicativa,
la retorica utilizzata palesemente dimentica una “estetica” nazionale rispetto
alla “militanza sociale”, che approfondisce la scarsa popolarità che queste
iniziative militanti riescono a mietere nonostante il bombardamento mediatico e
i succulenti finanziamenti per profilare i destinatari dell’ urbanita
"Cordón Sur".
Quest'ultimo
elemento non è un fattore secondario:
c'è
una lunga tradizione nella sinistra nazionale come movimento rivendicativo di
diverse "Ingiustizie", in genere di tradizione piuttosto europea e di
ispirazione sindacalista e anche marxista o socialdemocratica, che, se si é
d'accordo o meno con i suoi postulati, ha cercato di rappresentare gli
interessi e le preoccupazioni dei "settori popolari" nel contesto di
un paese occidentale con una cultura europeista e un'economia sottosviluppata.
Questa
tradizione più ortodossa, più strettamente legata alle esperienze e alle idee
socialiste del XX secolo, ha significato anche il consolidamento di un'agenda
anch'essa presumibilmente urbana, ma necessariamente più classista, operaia o
"popolare".
Le
preoccupazioni "postmaterialiste" di queste nuove agende, retorica,
stile e persino rilevanza, proprio con la tradizione e, se si vuole, con
qualcosa di epico classista soreliano, del militantismo urbano della sinistra
nazional-ortodossa.
In un
precedente articolo avevamo già fatto riferimento alla distorsione comunicativa
che circonda buona parte del progressismo occidentale rispetto alle vecchie
tradizioni, con nuovi formati discorsivi;
distorsioni
basate principalmente su tre elementi storici:
il fallimento dei modelli socialisti alla fine
del XX secolo, la crescente influenza sulla sinistra occidentale del
progressismo pietista anglosassone a scapito delle diverse forme di pensiero
socialista o socialdemocratico, e l'avvento del post-materialista e il suo
impatto sulle nuove generazioni e sui loro interessi.
Il
crescente predominio del "progressismo risvegliato" (Woke) è forse
uno dei cambiamenti ideologici più significativi della sinistra occidentale
negli ultimi decenni.
Il "pietismo" progressista di
origine americana ebbe sempre influenze importanti in tutto l'Occidente e in
Uruguay, ma in generale non riuscì a permeare in modo così evidente nella
prassi, nell'agenda e nei discorsi della sinistra "europea",
arrivando tutt'al più a impregnare il settori piuttosto riformisti del centro
politico con alcune delle loro rivendicazioni e piattaforme, che hanno trovato
ispirazione nella pratica politica del Partito Democratico degli Stati Uniti.
È
ancora l'ideologia del Centralismo politico radicale, e non del cambiamento
sociale e sistemico -qualcosa rivendicato come spirito dalla sinistra ortodossa
storica- che si manifesta nel” Wokismo” solo come un "reset", per
delegare le decisioni a una sorta di " Global Stato".
Non ci sono grandi cambiamenti lì -come
promesso dal socialismo- ma grandi controlli e buona coscienza.
Il
rapporto tra il "woke" e la tradizione del progressismo pietista - a
cui abbiamo già fatto riferimento - permette di cogliere molti spigoli del
fenomeno: esso si manifesta come un vero e proprio credo della cosiddetta
"giustizia sociale".
In questo senso, la tradizione protestante
puritana, presbiteriana e pietista del mondo anglosassone del XVIII secolo
relativa al " grande risveglio " - si noti la somiglianza semantica -
contribuisce all'importanza della coscienza per ottenere la grazia -
nell'attuale Wokismo, già assolutamente secolarizzato, e la tradizione
neo-calvinista la quota di determinismo che impregna idee e politiche
identitarie della nuova sinistra.
In questo senso, l'ossessione di proporre
cause deterministiche, ineludibili, al di fuori della nostra volontà
individuale, all'origine delle "ingiustizie sociali" - legate alla
razza, al genere, ad esempio - viene spesso confusa da settori di destra con
una sorta di neo -Marxismo, quando è del tutto relativo, poiché la componente
di classe è minore o quasi inesistente nelle consuete logiche deterministiche
del “wokismo”.
In
definitiva, entrambe le tradizioni - quella pietista e quella marxista -
attingono parte del fiume calvinista.
Il
legame tra l'”interpretazione pietistica della grazia” che caratterizzerà il
"Grande Risveglio" religioso del Settecento e la politica
secolarizzata del progressismo americano del secolo scorso, sta nell'assegnare
al "grande governo" la missione di costruire il paradiso terrestre
delle coscienze riformato.
La
preminenza della "coscienza" come fattore centrale per il
raggiungimento della grazia -il solo Deo luterano- va interpretata nel lungo
processo di secolarizzazione che l'Occidente ha vissuto, soprattutto nel campo delle
idee.
Il "puntura di coscienza" costringe
i "risvegliati" a cambiare le loro convinzioni e comportamenti, in
questo ordine:
il
cambiamento fondamentale è nella coscienza dei depositari del messaggio, prima
e fondamentale destinazione del processo, più che nei loro atti e azioni
“materiali”.
Come
sottolinea “Michael Rectenwald”,
“... il risveglio è analogo all'incontro di
salvezza cristiano.
Come
essere salvati, essere risvegliati implica fare ammenda per le trasgressioni
attraverso il pentimento e la riforma.
E come (a differenza della concezione
cattolica) non si salva per le opere ma nelle opere, così i neoconvertiti della
giustizia sociale sono risvegliati non per le opere ma nelle opere
"risvegliate" (...)
sotto
la giustizia sociale, il peccato consiste nell'aver agito per negligenza da una
posizione di privilegio, senza sufficiente riconoscimento o preoccupazione per
coloro la cui mancanza di privilegio rende possibile il privilegio…”.
Il
racconto descrittivo del “portatore di privilegi” fatto dal militante nel
video-in cui si mescolano condizioni deterministiche al di fuori della volontà
del singolo, come l'essere un “uomo bianco”, con altre legate a privilegi “di
classe”, come il fattore simbolico del "vestito" - ha anche un altro
elemento tipico del "wokismo":
esso è
svolto da un individuo che incarna sicuramente buona parte dei
"privilegi" denunciati.
Ma
questo elemento è assolutamente irrilevante per il processo di
"risveglio", poiché, sebbene inizialmente implichi un percorso
individuale, non è rilevante per il "credo della giustizia sociale"
il riscatto della persona, ma piuttosto il "risveglio" è un gruppo fenomeno
collettivo, identitario, dove ci si sveglia “per il mondo”.
Trascurare
la centralità dell'individuo -non importa quali azioni compie, ma chi le compie
e quale gruppo "rappresenta" per ragioni deterministiche o
predestinate, come il sesso o la razza- è fondamentale, e apre la strada alle
manifestazioni evidenti pulsioni autoritarie all'interno del movimento, poiché
stabilisce l'importanza dell'identità -sociale che diventa politica- nei
confronti dell'individuo e dei suoi atti.
Ricordiamo
che per uno dei promotori delle teorie del "wokismo" -soprattutto
della parte "razziale", la "teoria critica della razza"- in
generale la condizione deterministica dell'origine del problema lo rende
"insanabile ".
“
Robin Di Angelo”, nella sua opera “White Fragility”,sostiene che non esiste
persona bianca che non sia razzista, e che il razzismo è intrinseco all'essere
bianchi, non ha una vera soluzione, può essere "placato" solo
attraverso un esauriente allenamento mentale della propria coscienza, e un
eterno esercizio di sottomissione prima i collettivi delle “vittime”, che vanno
dall'inginocchiarsi -svegli di moda nello sport nei paesi occidentali-
all'annullamento della lettura della “letteratura degli uomini bianchi”, in
rigorosa similitudine con le parole del suddetto attivista locale.
Questa condizione di movimento collettivo
rappresenta un perfetto alibi per assolvere gli individui dalla responsabilità
delle proprie azioni ed è un rifugio sicuro per coloro che temono di
approfittare della libertà individuale.
A questa condizione si aggiunge la protezione
della "nobiltà" della causa superiore, che tutto giustifica, scusa,
scusa.
Questo
crocevia tra una tradizione militante nazionale e l'arrivo di nuove forme di
militanza manifesta solitamente la piega generazionale che emerge da questo
processo.
Non è un caso che l'ambito culturale -dai
media e la militanza nei social network al mondo accademico- sia quello dove il
"wokismo" è approdato con maggior successo, manifestandosi a volte in
una forma pura senza adattamenti spaziali e temporali - come noi visto nelle
dichiarazioni dei militanti-, in altri adattando i profili locali della
tradizione militante della sinistra urbana nazionale.
Allo stesso modo, l'accademia locale sta
portando avanti un processo più complesso e doloroso, poiché i premi che offre
- reddito, potere, casta - sono troppo
importanti per la vecchia accademia cede semplicemente il passo alle nuove
forme di "controllo e sorveglianza" che il “wokismo universitario”
propone per affermarsi come ideologia dominante.
Questo
dramma tra il progressismo ortodosso dominante nell'accademia locale e le nuove
forme di azione ha avuto numerosi e pubblicizzati casi di conflitto, dove si
sono manifestate allo stato grezzo alcune delle caratteristiche descritte in
questo articolo circa la natura della militanza “svegliata”.
Impatto
nelle aree di dibattito nelle università, persecuzione degli insegnanti.
Il
problema si approfondisce quando uno dei feriti dai "proiettili
svegliati" è un "compagno di viaggio".
Allo
stesso modo, buona parte del "pacchetto sveglia"(Woke) sembra
permeare l'accademia nazionale, sebbene la sua manifestazione pubblica più
evidente sia come lettera politica, come "elemento identitario".
Questo
elemento funge da discorso di pressione davanti all'opinione pubblica basato
sulla leva rappresentata dalla "superiorità morale" - cioè il
carattere missionario e buono - della causa.
In questi giorni, lo scienziato promosso “Gonzalo
Moratorio” ha espresso sui social la sua rabbia per l'attenzione globale su
virus e malattie solo quando colpisce i “bianchi” ad “alto reddito”.
La rivendicazione avviene anche nel bel mezzo
delle gare per la ripartizione del bilancio nazionale.
La
distribuzione dei bilanci statali permette di vedere chiaramente quali sono i
settori più potenti, e le "idee di prestigio" in una società servono
da piattaforma per ottenere una fetta più succulenta.
Come direbbe il mio caro “Álvaro Diez de
Medina”, “tutto questo è per soldi”.
Un
elemento che va insistentemente rilevato è che, al di là di ogni valutazione,
la vecchia accademia, pur sostenendo un insieme di idee egemoniche, consentiva
importanti spazi di confronto, pluralità di idee e sfumature, nel senso esatto
del più significativo di una accademia:
dentro
le mura, tutte le domande possono essere poste, tutti i dibattiti consentiti,
tutte le realtà messe in discussione.
Questa
“condizione a priori” che descrivo potrebbe essere alquanto idealistica, grigia
o irrealistica, ma era una condizione teorica ampiamente condivisa, almeno
radicata nella tradizione illuminista.
La cosa nuova e impressionante del
"wokismo" è che tutto il suo identitarismo é legato alla "coscienza", motivo per
cui di fatto disattiva un'enorme quantità di idee e dibattiti, poiché la sua
mera invocazione rappresenta la prova di privilegi che devono essere
esorcizzati dalla Cattedrale .
Tutto il nuovo tessuto piagnucoloso delle
"zone sicure", le loro "quote", la loro "censura delle
idee controverse", la loro promozione di "gruppi di risposta"
che promettono "spazi sicuri di fronte alla violenza simbolica", il
consolidamento dei pregiudizi identitari in I programmi di ricerca,
finanziamento e promozione in ambito disciplinare stanno creando una sorta di
barriera insormontabile che ha costruito un meccanismo strutturale di controllo
e censura.
L'ironia
è che questa neo-sinistra non riuscirebbero a superare un'autoanalisi
foucaultiana delle caratteristiche della struttura di potere e controllo che
essi stessi hanno creato, dove tutti sono osservati e interrogati in un insieme
di "microtecniche di potere" e "panopticon" ideologici.
IL
PIETISMO NELLA POLITICA DEI PARTITI LOCALI.
È la
sinistra politica occidentale che capitalizza di più sull ' "onda del
risveglio" , così come quelle che vivono alcuni dei drammi interni che
emergono dalle contraddizioni e dai conflitti che derivano da questa
combinazione.
Nel
caso della sinistra politica nazionale, buona parte delle rivendicazioni
"grezze" del “wokismo” sono generalmente condivise, anche se, come
abbiamo visto, i conflitti sorgono facilmente quando le divergenze di focus,
tradizione, prassi e cause "sullo sfondo" sono manifestati.
Nei
settori del centro, invece, la tensione sembra essere meno intensa, poiché i
vantaggi tendono ad essere più potenti delle difficoltà che l'adozione di
queste idee comporta:
i finanziamenti, i contatti e le posizioni
burocratiche che il Wokismo promette - perché è la religione del centralismo
politico dominante -,
il prestigio politico che può essere
rappresentato abbracciando idee "svegliate" in chiave decaffeinata,
discorsiva e non massimalista, la seduzione rappresentata dal fatto che queste
idee sono l'ariete del globalismo occidentale delle élite, tra gli altri
vantaggi, supera di gran lunga i grattacapi politici che può portare.
In
Uruguay, i settori più progressisti del governo della "Coalizione
Repubblicana" tendono a flirtare con parte delle idee del Wokismo,
diventando talvolta i loro migliori portavoce.
Sarebbe ingiusto accusare questa circostanza di
"utilitarismo", perché c'è una lunga relazione di alcuni settori
politici locali con il pietismo -questo è evidente nel coloradismo talvista, e
in una certa misura, nel Batilismo e nel suo rapporto con il Partito
Democratico- , ma , ammettendo che ci sia una condizione di allineamento
"di principio", hanno anche le sue conseguenze problematiche:
in
generale sono il settore politico locale che replica più fedelmente le idee
pietiste in voga, al punto che molte delle loro proposte rappresentano e
proposte programmatiche, avulse dalla realtà nazionale o dall'interesse
pubblico.
La
melodia "straniera" si manifesta in vari modi:
l'ossessione
per il profilo dato a certi problemi razziali -che non manifestano
preoccupazioni locali, ma piuttosto replicano problemi tipici dell'unicità del
caso statunitense e del rilievo della questione lì-, le sue proposte ambientali
a basso impatto e ad alta propaganda -come i divieti di alcuni prodotti, o
replicando senza sfumature il discorso anti-bestiame dell'ambientalismo
risvegliato in un paese che è puramente bestiame-, la promozione della censura
della libertà di espressione o sui social network attraverso leggi giustificate
nella lotta al “discorsi anti-odio”,la rivendicazione degli elementi meno radicali
e superficiali dell'agenda femminista attraverso la promozione di "cestini
mestruali" in cui il dibattito si concentra su come riferirsi ai
destinatari delle politiche proposte, tra gli altri, sono alcuni esempi di
questo divario tra le proposte importate senza contestualizzarli con la realtà
locale e le preoccupazioni dei loro elettori.
A
questo punto, la sinistra tradizionale sembra sentirsi più a suo agio nel
riformulare queste idee e allinearle ai propri interessi politici.
Forse è perché dentro di sé ha gli strumenti
ideologici per elaborare le proposte e incanalarle nella sua tradizione,
prendendo ciò che considera attinente alle sue basi ideologiche e scartando ciò
che presenta contraddizioni o conflitti, o irrealtà tipiche dei settori urbani
alto-borghesi di il primo mondo.
Si può
ritenere che questo credo risvegliato - una sorta di "religione woke
fantastica", del tipo che ha animato la storia dell'umanità in varie
circostanze - rappresenti qualcosa di circostanziale nel cammino occidentale,
ma il programma totalitario e fondamentalista che incarna, spogliato
dell'Indumento della sua origine, trasformato in programma politico ed
espandendosi attraverso il suo globalismo e il suo statalismo strumentale, si
sta consolidando in Occidente.
Ecco
perché non è importante se "non ti interessa" quello che fanno gli
altri, ma hai un'opinione critica o "irriverente" su una delle
"vacche sacre del momento". Non importa che tu sia libero -e pensi
liberamente- finché lasci che gli altri siano liberi.
Lavoro,e
la sua ossessione per la trasformazione delle coscienze attraverso strumenti
politici, è convinto di avere un'ispirazione messianica per inseguirti. Nella
sua effettiva applicazione, il “wokismo” si comporta come qualsiasi altro
futurismo messianico che sia esistito, e spera di plasmare le coscienze e di
trasmettervi esattamente come dovrebbe essere pensato, e qualsiasi
contraddizione al suo credo sarà "fobia" o "patologia" che
deve essere riparato -o essere eliminato-, al di là delle tue azioni.
Questa
logica di origine “pietista millenaria” è alla base della nuova correttezza
politica che annega il mondo, dove la domanda non è necessariamente sugli atti,
ma sulle coscienze, e per decantazione, sulla tecnologia del pensiero -cosa si
dice, cosa si scrive- e questa richiesta è moralistica e obbligatoria.
E
quando un futurismo ha progetti meravigliosi per tutti, che non si realizzano,
sempre, sempre, finisce nell'autoritarismo e nella violenza perché non facciamo
quello che avevano preparato per noi come destino.
C'è in
tutta questa equazione di “wokismo” , di militanza nella divisione sociale e
“allarmismo”, un sostrato profondamente misantropico.
Non è
un caso che i discorsi "svegliati" aprano la strada alla promozione
di misure messianiche di salvezza universale basate sul “controllo
centralizzato”.
Quando
il presidente Usa Joe Biden sostiene che “il cambiamento climatico” è la grande
sfida del futuro e propone, tra l'altro, misure di “quarantena” globale
simili a quelle installate nella pandemia, ora giustificate dalla “emergenza climatica””, rivela l’impronta neomalthusiana
e pietista che alimenta il suo discorso.
La
libertà conservatrice.
Panoramarivista.it
- Lorenzo Castellani – (13 aprile 2023) – ci dice:
«Quando
uscivi dalla porta sul retro di quella casa, da un lato trovavi un abbeveratoio
di pietra in mezzo alle erbacce.
C’era un tubo zincato che scendeva dal tetto e
l’abbeveratoio era quasi sempre pieno, e mi ricordo che una volta mi fermai lì,
mi accovacciai, lo guardai e mi misi a pensare.
Non so
da quanto tempo stava lì.
Cento
anni. Duecento.
Sulla
pietra si vedevano le tracce dello scalpello. […] E mi misi a pensare all’uomo
che l’aveva fabbricato. […] In cosa credeva quel tizio?
Di
certo non credeva che non sarebbe mai cambiato nulla.
Uno
potrebbe anche pensare questo.
Ma
secondo me non poteva essere così ingenuo. Ci ho riflettuto tanto.
Ci
riflettei anche dopo essermene andato da lì quando la casa era ridotta a un
mucchio di macerie.
E ve
lo dico, secondo me quell’abbeveratoio è ancora lì.
Ci voleva ben altro per spostarlo, ve lo
assicuro.
E
allora penso a quel tizio seduto lì con la mazza e lo scalpello, magari un paio
d’ore dopo cena, non lo so.
E devo
dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una sorta di
promessa dentro al cuore.
E io non ho certo intenzione di mettermi a
scavare un abbeveratoio di pietra.
Ma mi
piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa.
È la
cosa che mi piacerebbe più di tutte».
Con
queste poche righe “Cormac McCarthy”, forse il più grande romanziere americano
vivente, dipinge con efficacia e potenza scenica la tensione che squarcia il
conservatorismo nel suo rapporto con la tarda modernità.
Epoca
in cui termini come “conservare”, “durare”, “tramandare”, risultano concetti al
limite dell’utopia proprio perché la struttura del progresso, cioè la perenne
distruzione creatrice del capitalismo, la crescita della potenza tecnologica e
il processo di infinita liberazione dell’individuo dai legami tradizionali,
mette il conservatorismo culturale e politico su una soglia che rischia sempre
di chiudersi.
Ad un
passo dall’impraticabilità, insomma.
Al
tempo stesso però, come emerge dalla prosa potente di McCarthy, pur se
impossibile questa spinta a conservare è una pulsione necessaria per ogni
essere umano.
Il
rapporto con il passato e la tradizione rappresentano una corda che non può
essere mai completamente recisa perché dal buon rapporto con ciò che si eredita
dipende la disposizione verso il futuro.
Quando
ciò che è (o è stato) appare minacciato, il futuro si mostra oscuro e
pericoloso.
E ciò forse spiega perché la società più
ricca, benestante, innovativa e tecnologicamente avanzata della storia possa
aver paradossalmente bisogno di un certo livello di conservatorismo politico e
culturale.
Chi
vuole conservare sa di non poter fermare l’avanzare delle trasformazioni
tecnologiche, economiche e sociali – altrimenti sarebbe soltanto un reazionario
– ma in questo processo vuole preservare alcuni punti cardinali sui quali si
pensa e si muove l’umano.
Questo conservatorismo quasi impossibile, e al
tempo stesso radicatissimo al fondo delle cose, non sembra poter esser
cancellato nemmeno nell’epoca delle massime accelerazioni trasformative e delle
libertà individuali assolute o quasi.
Nell’ultimo
decennio il concetto di conservatorismo è tornato alla ribalta nella
discussione politica, ma l’impressione è che spesso, tanto da parte dei
progressisti e dei liberali quanto da parte di coloro che si definiscono
conservatori, ci sia una certa superficialità intrisa di determinismo, che
relega il conservatorismo alla pura prassi politica, nell’analizzare le ragioni
del ritorno conservatore.
Si è
infatti soliti attribuire la crescita di una destra più conservatrice alla
crisi finanziaria del 2008, alle crescenti disuguaglianze e distanze tra
borghesia urbanizzata e istruita e le province, alle politiche della
globalizzazione e dell’immigrazione troppo lassiste e disinvolte, al progresso
tecnologico impetuoso, alla deindustrializzazione e alle asimmetrie del
welfare, alle dinamiche della politica internazionale, ai progetti e agli
atteggiamenti di una élite eccessivamente cosmopolita, tecnocratica e
autoreferenziale.
Tutte
queste cause hanno un impatto sulle trasformazioni politiche, ma per
comprendere fino in fondo questo ritorno del conservatorismo, in forme per
altro diverse da quelle degli anni Ottanta, è necessario scendere più in
profondità per coglierne la forza, le aporie e le contraddizioni in particolare
nel rapporto tra questo e la libertà.
Nel
compimento di quell’entusiasmante processo di liberazione da vincoli, dogmi,
tradizioni, autorità e strutture che definisce la tarda modernità, l’individuo
si è infine scoperto solo.
E con
una certa sorpresa ha trovato questa condizione di libertà, conquistata con un
faticoso processo di emancipazione individuale e collettiva, spesso
insoddisfacente.
La demolizione dei vincoli tradizionali,
accelerata dopo la Seconda guerra mondiale e in particolare dopo il 1968, ha
creato spazio per maggiori libertà individuali, ma anche determinato occasioni
in cui la solitudine, l’alienazione, lo spaesamento del soggetto si
amplificavano per la perdita della protezione che le istituzioni tradizionali
erano in qualche modo in grado di fornire.
Che cosa si intendeva demolire con il
paradigma progressista e liberale della tarda modernità?
In termini semplici, ci si voleva liberare di
tutto ciò che ostacolava la rincorsa dei desideri dell’io verso la loro
immediata soddisfazione.
Ordinamenti, strutture, sistemi, partiti,
chiese, leggi, abitudini, tradizioni, dogmi, codici, regimi, opinioni, usanze,
costumi e perfino assetti biologici che limitavano le aspirazioni personali.
Ogni cosa è stata messa in discussione,
decostruita o radicalmente riformata per fare spazio a un individuo sempre più
bisognoso di affermazione.
In
questa continua liberazione, però, l’individuo perdeva il proprio “posto nel
mondo” dettato dalla nascita, dalle usanze, dal territorio, dalla famiglia,
dalle tradizioni.
L’essenza della tarda modernità si realizzava in un
“disancoraggio” della persona, con la sua costellazione di certezze e vincoli,
a favore di un individuo libero sì, ma anche privo di riferimenti e quindi più
instabile e precario.
In termini molto stilizzati, questa è la
condizione dell’individuo moderno in rapporto alla libertà vista con gli occhi
di un conservatore.
L’uomo
non ha più vincoli e obblighi, ma questo stato non gli dice nulla circa la
strada da imboccare per raggiungere la propria realizzazione.
Può
andare ovunque, ma non sa bene dove andare e dunque si rifugia in quelle poche
certezze che ha.
Senza
aver presente questa prospettiva interpretativa della tarda modernità diventa
difficile comprendere sia il conservatorismo del terzo millennio sia il suo
prepotente ritorno sulla scena politica.
Per il
conservatore è come se l’individuo contemporaneo fosse sempre davanti a un
bivio:
da un
lato la
sottomissione a un potere oppressivo che viola le libertà e nega i diritti ma
offre in cambio protezione e un certo grado di sicurezza economica; dall’altro, il “conformismo compulsivo” di
soggetti che si somigliano fra loro non per decreto o per coercizione, ma per
scelta e per effetto del processo di emancipazione.
Nella
seconda ipotesi, per dirla con “Erich Fromm”,
«l’individuo isolato diventa un automa, perde
il suo io, eppure allo stesso tempo concepisce sé stesso come libero e soggetto
soltanto a sé stesso».
Questo
è quello che “Fromm “chiama «l’illusione dell’individualità»:
l’individuo
moderno, dotato dell’arma debolissima della libertà negativa, non solo non è
autenticamente libero, ma è fermamente convinto di esserlo.
Crede di esprimere l’unicità del proprio
essere e la fermezza della propria volontà, ma invece è tirato da ogni parte da
mode, istinti mimetici, dinamiche di gruppo, pressioni sociali.
È
confortato dalla sua bolla mediatica che amplifica ciò che sa già, è
bersagliato da algoritmi che gli suggeriscono cosa desiderare, ignora
beatamente l’esistenza di eserciti di studiosi del comportamento, esperti di
marketing e sofisticati algoritmi che gli dànno spinte più o meno gentili verso
scelte nel proprio interesse.
Dal
momento che l’uomo si è liberato dalle vecchie forme esplicite di autorità e
protezione, non si accorge di essere preda di un nuovo tipo di autorità.
L’individuo tardo-moderno è diventato un automa che
vive nell’illusione di essere dotato di una volontà propria.
Questa
illusione aiuta l’individuo a rimanere ignaro della sua fragilità, ma è tutto
ciò che un’illusione può dare mentre in realtà, nella foga del progresso,
diviene sempre più eguale e conformista. Un abbaglio prometeico che spinge
l’umano sempre di più verso forme egoistiche e narcisistiche.
Un
conservatore liberale come “Alexis de Tocqueville “aveva già denunciato questo
pericolo nel diciannovesimo secolo.
Egli
sosteneva che l’origine dell’egoismo è un «istinto cieco», mentre
l’individualismo discende da un «giudizio erroneo», questione più profonda e
radicale di una semplice perversione dei sentimenti.
L’egoismo,
scrive “Tocqueville”, «dissecca in germe tutte le virtù», mentre
l’individualismo opera in modo più sottile e insidioso:
«inaridisce
inizialmente solo la fonte delle pubbliche virtù;
alla lunga, però, intacca e distrugge tutte le
altre e finisce con l’essere assorbito dall’egoismo».
Una posizione che affonda le sue radici nella
concezione dell’individuo come entità autosufficiente, dove l’individuo tende a
cercare le ragioni di ogni cosa «soltanto in sé stesso».
“Tocqueville”
intuisce che, allentando i legami sociali, si opera anche una separazione fra
le generazioni, promuovendo una concezione che verrà ereditata dai giovani e
poi trasmessa a quelli che verranno dopo, in un ciclo perpetuo, per cui
«la
democrazia non solo fa dimenticare a ogni uomo i propri avi, ma gli nasconde i
suoi discendenti e lo separa dai suoi contemporanei;
lo
riconduce continuamente verso sé stesso e minaccia di chiuderlo interamente
nella solitudine del suo cuore».
In
altre parole, e qui giungiamo ad altri due concetti fondamentali del
conservatorismo, il progresso fondato sull’individualismo attacca ed erode sia
la comunità che l’autorità.
Nel rapporto tra singolo e comunità si incrociano gli
ostacoli posti dallo Stato e dal capitalismo globale a questa relazione.
Lo
Stato moderno, infatti, è un distruttore di comunità locali, ordini,
associazioni, chiese, consuetudini, usi e costumi al fine rafforzare il proprio
processo di legittimazione attraverso la centralizzazione delle decisioni e la
razionalizzazione dei mezzi.
Per il
conservatore, lo Stato fiorisce a discapito di comunità che vengono depredate del
proprio valore umano, spirituale, politico ed economico al fine di ottenere una
standardizzazione.
Il “Leviatano”
fa tabula rasa di ogni corpo intermedio tra sé stesso e l’individuo, il quale,
pur nell’eguaglianza con gli altri, resta solo e nudo di fronte al potere di
questo gelido mostro.
Di
conseguenza, lo Stato produce una élite centralista e centralizzata, una
burocrazia professionale e omogenea, che ha la pretesa di disegnare nuove
istituzioni, di dirigere la società dal centro, di imporre regole giuridiche ed
etiche piegando le istituzioni storiche e spontanee della comunità.
Se ciò
vale per lo Stato nazionale nei confronti del governo locale, ancora di più è vero per le
istituzioni sovranazionali rispetto alla comunità nazionale, le quali vengono percepite come
lontane, artificiali, burocratiche, tecniche, espressione di grandi interessi e
potenti reti distaccate dalla vita quotidiana dell’uomo comune.
Queste,
per il conservatore, sono il terreno ideale delle élite in fuga, dello
sradicamento, del dirigismo dall’alto, di una emancipazione a tappe forzate,
che nessuno ha richiesto, imposta per decreto per volontà di una minoranza le
cui radici non affondano da nessuna parte.
In
questo contesto, il capitalismo globale – alimentando forme di consumismo senza limiti, di
deterritorializzazione della produzione, di conformismo dei gusti e creando istituzioni sovranazionali – al pari dello Stato distrugge le
autorità tradizionali, depaupera il piccolo produttore, inaridisce il tessuto
economico locale, delocalizza l’impresa e soprattutto burocratizza e
managerializza il mercato.
Il conservatore non è mai un anticapitalista tout
court, ma è favorevole a forme di capitalismo territoriale e produttivo, locale
e famigliare, corporativo e padronale.
Al
tempo stesso, però, il conservatorismo si oppone al grande capitalismo, al
dominio del management concentrato nelle aree metropolitane e affratellato con
banche e politica;
alle
corporation globali politicizzate che oramai si sono date una missione anche di
progresso e supposta civilizzazione;
al
sacrificio della manifattura industriale a favore di un’economia dei servizi e
della conoscenza.
Il
conservatore difende la proprietà privata concreta, immobiliare e mobiliare,
che è fondamento di libertà mentre diffida dell’intermediazione virtuale e
dell’idea di una “società in affitto perenne”.
Nel
conservatorismo di oggi c’è, dunque, una doppia polemica, verso lo Stato
accentratore, e le sue proiezioni sovranazionali in particolare, e verso il
capitalismo globale, a tutela della comunità e della tradizione.
Se il
primo genera burocratizzazione, centralizzazione, esasperata omogeneità e forme
di disciplinamento dei comportamenti e dei linguaggi in un mondo che era stato
promesso come totalmente libero, il secondo oramai degrada la comunità in mera
connessione logistica e virtuale.
Ma per
il conservatore la comunità è qualcosa di diverso e superiore rispetto a tutto
questo.
È in comunità chi ha “qualcosa in comune”.
La
comunità non è soltanto un sentimento, un’intenzione, un’affinità, un
desiderio, ma è un elemento oggettivo.
Un
territorio concreto, una vita quotidiana reale, legami che possono essere
toccati con mano.
Ma forse è ancora qualcosa di più: un elemento
esterno rispetto agli individui in questione, un vincolo indipendente dai
singoli che promana dalla storia e dalla tradizione.
Anche sul piano etimologico, nella koinonia
denotazione e connotazione convergono nel significare una unione (koinè), ove
il singolo non ha un’esistenza indipendente dal tutto che la comunità
rappresenta, il suo destino è definito all’interno dello spazio di possibilità
perimetrato dalla comunità di appartenenza.
In
latino, la “cum munus” delinea la reciprocità dell’obbligo donativo;
la
relazione comunitaria, dunque, è un “dare-darsi”, come potevano essere dei soci
d’affari o dei membri di una cooperativa.
La
comunità è, dunque, più vincolante di un contratto che si può rescindere con il
semplice consenso delle parti:
la concezione comunitaria è in perenne
tensione con quella contrattualistica, propria del liberalismo classico.
La comunione mette al centro, cioè in comune, un
termine oggettivo e non manipolabile come fondamento dell’unità fra le persone.
La
libertà può trovarsi soltanto all’interno di questa unità profonda, essenziale,
fondata su un legame inscindibile e, come nella descrizione iniziale di “McCarthy”,
resistente al tempo, ai cambi di umore, ai desideri, ai peccati e anche alle
virtù di chi è coinvolto nella sua realizzazione.
Il
secondo elemento cruciale sul piano concettuale per il conservatore è quello di
autorità, termine inviso ai progressisti poiché
considerato all’estremo opposto di progresso, imparentato con disciplina e
dispotismo, e sostanzialmente impronunciabile nell’era della tarda modernità
poiché, nella vulgata dominante, avverso alla libertà.
Per i
conservatori invece l’autorità è il terzo lemma, insieme a libertà e comunità,
a risultare imprescindibile per una buona vita individuale e sociale.
Guardato dal resto dello spettro delle
dottrine con sospetto, il concetto di autorità è oramai sovrapposto a quello di
potere.
Per il
conservatore, invece, questa coincidenza non esiste.
Nei
primi anni Settanta fu il sociologo americano “Robert Nisbet”, un intellettuale
conservatore, a tentar di rompere questo schema in un libro sul «crepuscolo
dell’autorità».
“Nisbet” prendeva atto dell’evidente
declino delle istituzioni che gli uomini occidentali avevano adottato per
secoli come fonti dell’ordine e della libertà: famiglia, comunità locali,
corporazioni professionali, chiese, scuole e università.
Il sociologo notava che, di fronte questa
erosione dello spirito delle istituzioni, le persone tendevano a dividersi in
due schieramenti:
da una parte, chi accoglieva il declino delle
autorità come il trionfo della libertà e la possibilità di rifondare infine una
società davvero legittima;
dall’altra,
quelli che vedevano in questo indebolimento delle strutture tradizionalmente
accettate «lo spettro dell’anarchia sociale e del caos morale».
Con una certa amarezza “Nisbet” sottolineava
«ciò che è inevitabile in circostanze come queste è la crescita del potere:
potere che invade i vuoti lasciati dalle autorità sociali in ritirata».
In altre parole, la ritirata delle autorità
che regolano la società apre la strada a forme di potere, di stampo dispotico e
omologante, per conquistare gli spazi lasciati sguarniti dalle vecchie forme di
coesione sociale ormai vuote.
Il punto dirimente del ragionamento è che autorità e
potere sono due concetti ben distinti.
Per “Nisbet”
quando le autorità tradizionali si dissolvono è il potere – nel senso della
nuda coercizione – ad avanzare.
Scrive
ancora il sociologo conservatore «l’autorità, contrariamente al potere, non è
fondata soltanto sulla forza, che sia potenziale o in atto.
È impressa nella stoffa stessa
dell’associazione umana.
La società civile è un tessuto dell’autorità».
L’autorità
«non ha realtà se non nella partecipazione e nella lealtà dei membri
all’organizzazione, sia questa la famiglia, un’associazione politica, una
chiesa o un’università».
Ogni
autorità specifica assolve una sua funzione, regolata da un patto con i suoi
membri, ma se questo si logora la funzione viene trasferita ad altre entità
oppure si disperde:
l’autorità
recede, il potere avanza.
La
conseguenza è conflitto e smarrimento, non sicurezza e liberazione.
Egli
conclude, polemizzando con i progressisti, che «in questo momento abbiamo
bisogno soprattutto di un liberalismo che sia in grado di distinguere fra la
legittima autorità – l’autorità che siede nell’università, nelle chiese, nelle
comunità locali, nella famiglia, nel linguaggio e nella cultura – e il mero
potere».
Insomma,
la vera libertà si realizza nel rapporto con l’autorità.
Smontato
quello, rimane soltanto il potere.
Un
potere coercitivo vasto, manovrato da piccoli gruppi politici organizzati,
burocrazia, tecnocrazia, polizia.
La
libertà, per il conservatorismo, è dunque possibile soltanto all’interno della
comunità e in presenza dell’autorità.
Senza
quest’ultime la libertà si trasforma in nichilismo e in puro potere che tende
al dispotismo.
Per questi motivi il pensiero conservatore si lega al realismo e
all’elitismo:
da un lato rifiuta che l’uomo, con le sue
contraddizioni, la sua incompletezza gnoseologica e la sua irrazionalità, possa
essere migliorato o perfezionato dalla politica;
e al
tempo stesso ritiene che non possa esistere una società democratica senza che alla
sua guida vi siano delle élite, delle minoranze governanti, cioè che vi sia una
innata gerarchia in qualunque associazione umana.
Sul
piano puramente politico, il conservatorismo è un mosaico, le cui sfumature
variano da Paese a Paese, pur avendo alla base delle fondamenta comuni.
D’altronde,
il conservatorismo è soprattutto “una costellazione di idee”, in cui non è né
facile né produttivo ampliare le cesure tra conservatori reazionari, radicali,
romantici, liberali.
È uno stile di pensiero, non abbastanza
organico per essere considerato una dottrina o una ideologia.
Liberali,
democratici, progressisti e socialisti sono tutti razionalisti, individualisti,
universalisti e astrattisti, mentre lo stile di pensiero conservatore stempera
la ragione nella storia e nella vita, non è individualista ma “organicista” e
comunitarista, è un “pensiero radicato comunitariamente” e alla ragione statica dell’Illuminismo
giusnaturalista contrappone un’idea dinamica di ragione, capace di controllare
il mutamento.
Proprio
per questo suo ancoraggio al “particolare”, in contrapposizione all’universale
delle altre teorie politiche, il conservatorismo è difficile da assolutizzare
come ideologia, da astrarre dalla dimensione concreta.
Esso è
semmai un “pensiero di confine”, il cui debole portato epistemologico rende le
sue frontiere piuttosto porose rispetto al liberalismo e al nazionalismo.
In
conclusione, il conservatorismo appare come una “dottrina impolitica”, nel
senso di “Simone Weil”:
impolitico
non è colui che rifiuta o si contrappone al politico, ma quello che colloca il
politico in un orizzonte di trascendenza, in cui la sfera politica e la libertà
sono ricondotti a una dimensione interna alla comunità, in cui l’autorità viene
coltivata e preservata e in cui il mutamento politico e sociale è temperato da
una condotta etica.
La
sfida che oggi il conservatorismo tende al mondo occidentale appare molto
rilevante tanto a livello culturale quanto politico.
Nella
società del progresso strutturale, seppur ai limiti dell’utopia, il
conservatorismo può essere un fattore di crisi della tarda modernità, ma anche
una delle possibili soluzioni della stessa.
Pensiero
che costringe a frenare prima dello schianto, che conduce al radicamento nella
realtà, che tutela i legami fondamentali per l’uomo e i fattori di stabilità
per la società, che stempera le illusioni delle magnifiche e progressive sorti.
In ogni caso, è una forma mentis con cui oggi
è inevitabile il confronto e da cui anche i progressisti potranno, se lo
vorranno, imparare qualcosa.
(Lorenzo
Castellani)
(“Lecturer
presso la “Luiss School of Government” e docente in “Storia delle istituzioni
politiche” all’Università Luiss “Guido Carli” di Roma)
Governance.
Il
management totalitario.
Neripozza.it
- ALAIN DENEAULT – Redazione E.Book – (22-3-2023) - ci dice:
Nell’ultimo
quarto del XX secolo per descrivere e regolamentare il funzionamento delle
organizzazioni e delle strutture aziendali i teorici delle imprese ricorrono a
un termine che, sin dal lontano XVI secolo, era un semplice sinonimo di
governo: «governance».
SINOSSI.
Nell’ultimo
quarto del XX secolo per descrivere e regolamentare il funzionamento delle
organizzazioni e delle strutture aziendali i teorici delle imprese ricorrono a
un termine che, sin dal lontano XVI secolo, era un semplice sinonimo di
governo: «governance».
All’inizio
degli anni Ottanta il termine viene introdotto nella vita pubblica col pretesto
di affermare la necessità di una sana gestione delle istituzioni dello Stato e
diventa il «grazioso nome» di una “gestione neoliberale dello Stato”,
caratterizzata da deregulation e privatizzazione dei servizi pubblici.
Negli
anni successivi attraverso questo sintagma si fa strada quello che qualcuno ha
definito un vero e proprio «colpo di stato concettuale».
La
governance infatti non è soltanto un termine che indica la necessità di
adattare le istituzioni alle necessità e ai desiderata dell’impresa, ma
qualcosa di molto più rilevante.
È
un’espressione volutamente indeterminata che esprime la nuova arte della
politica «senza governo», senza quella pratica, cioè, che presuppone una
politica dibattuta pubblicamente.
Strappato il vecchio contratto sociale alla base di
ogni «governo», la governance inaugura «l’età felice» – per tecnocrati,
finanzieri e imprese – della contrattazione plurale, una mutazione che promuove
«il management d’impresa e la teoria della tecnica aziendale al rango di “pensiero
politico”.
Nelle
pagine di questo libro “Alain Deneault” mostra le conseguenze di questa
radicale trasformazione della gestione governativa:
la politica muore e si muta in «un’arte della
gestione» in quanto tale, priva di ogni registro discorsivo
«Nessuna agorà è richiesta per discutere del
bene comune».
E
questo fenomeno è «tristemente corroborato dalla monotonia del discorso politico
e dalla mediocrità dei partiti politici di governo».
La «mediocrazia» diventa l’orizzonte stesso del ceto
politico.
(Alain Deneault, filosofo canadese, è
autore di saggi sulle politiche governative, sui paradisi fiscali e sulla crisi
del pensiero critico. Insegna Scienze politiche all’Università di Montreal.
Presso Neri Pozza sono apparsi i suoi La mediocrazia (2017), Governance. Il
management totalitario (2018) ed Economia dell’odio (2019).
Grigory
Yudin: “La guerra contro l’Ucraina
è catastrofica anche per la società russa”
Affariinternazionali.it
- Nona Mikhelidze – (27 Giugno 2022) – ci dice<.
Grigory
Yudin è uno scienziato politico e sociologo russo, un esperto di opinione
pubblica e sondaggi in Russia.
Il
podcast dell’intervista realizzata da Nona Mikhelidze, ricercatrice senior
dell’Istituto Affari Internazionali, esiste ed è disponibile.
Vorrei
iniziare con una domanda sul 24 febbraio.
Si
aspettava lo scoppio della guerra su larga scala? E cosa significa questa
guerra per la Russia e per il suo futuro?
Sì,
purtroppo me l’aspettavo!
Avevo capito già nel 2020 che ci sarebbe stata
una grande guerra contro l’Ucraina.
E
credo che dalla metà del 2021 tutto sia diventato ancora più chiaro.
Voglio dire, era chiaro che ci sarebbe stato
un grande scontro tra la Russia e la Nato.
E dal
2021 era ovvio che la prima fase di questa guerra sarebbe avvenuta in Ucraina.
Penso
che fosse abbastanza ovvio soprattutto dopo la comparsa del famoso articolo del
presidente Putin sull’Ucraina, al quale hanno fatto seguito molte analisi
militari.
Parlavano
dell’imminente invasione, quindi aspettavo ogni giorno che la guerra
scoppiasse.
Questo, ovviamente, non ha reso la vicenda
meno dolorosa!
Ho
cominciato ad avvertire la gente di questa guerra imminente, sia in Europa,
parlando con i politici europei, sia in Russia.
Cercavo
di far capire loro l’inevitabilità della guerra.
Praticamente
senza successo però, tutti erano scettici al riguardo.
Così
siamo arrivati al 24 febbraio.
Ora, parlando di cosa significa questa guerra
per il futuro del Paese, la diagnosi generale è che a lungo termine tutto
questo sarà devastante per la Russia.
È una guerra suicida.
La
Russia ha avuto guerre ingloriose nel suo passato, ma questa è la guerra più
stupida, la più catastrofica per il Paese stesso, perché fondamentalmente
distrugge i legami che la Russia ha con quasi tutti i Paesi.
La
Russia è davvero legata e culturalmente vicina agli ucraini, ovviamente, ma
anche ai bielorussi che sono molto, molto coinvolti in questa guerra.
Questo
è il primo aspetto.
Il secondo aspetto è la cosiddetta fratellanza
slava, che ora si sta distruggendo.
E poi
l’appartenenza più ampia all’Europa, che è anche, ovviamente, assolutamente
cruciale per la Russia.
La Russia è un Paese molto speciale.
Ha un posto speciale nella storia europea e
non può essere separata dall’Europa.
È assurdo che le persone ora parlino
dell’avvicinamento alla Cina.
Voglio
dire, non capiscono nemmeno di cosa stiano parlando.
La Russia è sempre stata un Paese europeo, da
Kaliningrad a Vladivostok.
E questo è estremamente evidente quando si
esce per strada.
Si
tratta quindi di un suicidio, di un colpo di testa!
E poi
come se non bastasse, è una guerra che non si può vincere.
Non può essere vinta, non c’è nessuno scenario
in cui la Russia possa avere successo a lungo termine.
Quindi
le conseguenze per la Russia saranno totalmente devastanti.
Onestamente penso che questa sia una delle
decisioni peggiori di tutta la storia russa… e la storia russa è ricca di
decisioni non ponderate.
Questa
probabilmente è la peggiore.
E
allora perché è stata presa questa decisione?
Beh,
la decisione è stata presa da Putin e probabilmente anche da alcune persone a
lui molto vicine.
Ma ora
dobbiamo rivalutare anche questo aspetto, perché prima pensavamo almeno che ci
fosse un’élite di potere dietro di lui, ma dopo questa famosa riunione del
Consiglio di sicurezza abbiamo dovuto riconsiderare questa assunzione perché
molte delle persone che si pensavano molto, molto vicine al processo
decisionale, si sono rivelate dei burattini, come tutti hanno avuto modo di
vedere.
Quindi
la decisione è stata presa dal Presidente stesso e per lui si tratta di una
guerra difensiva.
Si sta
difendendo, si sente minacciato esistenzialmente.
Pensa
di essere molto vicino a essere ucciso e vuole proteggere la sua vita.
E
l’unico modo per proteggere la sua vita è rimanere al potere.
Stiamo
parlando di due cose inseparabili: deve rimanere al potere per proteggere la
sua vita e la sua posizione.
La situazione negli ultimi anni si è
lentamente deteriorata, sia internamente che esternamente.
C’era un crescente senso di stanchezza per il
governo di Putin, anche tra le persone che generalmente gli sono grate, era
abbastanza evidente che c’era un significativo distacco dei giovani dal regime.
Soprattutto
negli ultimi quattro o cinque anni abbiamo assistito a una netta spaccatura
negli atteggiamenti della popolazione tra gli anziani e i giovani. Questa era
una parte del problema.
L’altra
parte del problema era rappresentata dal fatto che l’Ucraina, in quanto Paese
culturalmente molto vicino alla Russia, per lui era sul punto di ottenere
un’alleanza militare con gli Stati Uniti.
E
questo avrebbe trasformato l’Ucraina in una roccaforte per le forze di
opposizione contro Putin.
Credo
che il modo migliore per capire questo sia il paragone con il colonnello
Gheddafi che ha affrontato il movimento di resistenza in Libia.
Era
pronto a schiacciarlo, a uccidere le persone, probabilmente centinaia di
migliaia.
Gli è
stato impedito dalla Nato e alla fine è stato rovesciato e ucciso.
E sappiamo che impressione ha avuto la morte
di Gheddafi su Vladimir Putin.
Ne è
rimasto assolutamente scioccato, terribilmente scioccato.
Queste
due cose di cui parlavo, le cause interne e le cause esterne, non vanno
distinte perché qualsiasi tipo di opposizione o malcontento in Russia, Putin lo
percepisce immediatamente come un complotto contro di lui orchestrato
dall’Occidente.
E
anche questi atteggiamenti critici dei giovani sono intesi come il risultato
della propaganda occidentale.
Quindi
per lui l’unico motivo per cui la gente potrebbe essere scontenta del regime è
perché c’è una propaganda occidentale che opera per distorcere i valori russi
che per lui sono importanti.
È così
che si è arrivati all’idea di condurre una guerra inevitabile contro
l’Occidente, contro la Nato e contro gli americani.
Questi
termini sono usati in modo intercambiabile e l’Ucraina è diventata solo il
primo campo di battaglia, come dice lui, che la vede come anti-Russia.
L’ha
ripetuto molte volte, e questo è il significato:
in
sostanza da qui si può vedere che l’esistenza stessa dell’Ucraina è sentita
come una minaccia per la Russia.
E per Russia, ovviamente, intende sé stesso.
Quindi
l’esistenza stessa dell’Ucraina è già una minaccia mortale per la sua vita.
Ecco come siamo arrivati all’inevitabilità di questa guerra.
Prima
ha detto che per lei era chiaro che doveva esserci uno scontro con la Nato, e
poi ha parlato delle cause interne ed esterne, delle ragioni che hanno portato
Putin a invadere Ucraina.
In tanti pensano che una delle cause per
scatenare questa guerra fosse anche o soprattutto l’allargamento della Nato.
Sono
d’accordo, ma solo con riserva. La stessa esistenza della Nato sarà sempre un
fattore provocatorio per Putin per iniziare una guerra, a meno che non venga
sciolta.
Negli
anni Novanta si era creata una chiara prospettiva di scioglimento della Nato
dopo la fine della guerra e del Patto di Varsavia.
Se il
Patto di Varsavia non esisteva più, perché la Nato non avrebbe dovuto
sciogliersi?
O
almeno rimodellare o riformulare in modo significativo i suoi obiettivi?
Oppure
si poteva parlare di inclusione della Russia in un sistema di sicurezza più
ampio in Europa.
Beh,
questo è stato fatto, in una certa misura, con il consiglio Russia-Nato, ma
dopotutto, forse ci si aspettava proprio il suo scioglimento.
Non si
è sciolta anche per ragioni comprensibili, perché c’erano i paesi dell’Europa
orientale che giustamente si sentivano minacciati dalla Russia e facevano
pressione per unirvisi.
È così
che la Nato, forse anche non intenzionalmente, si è estesa a est, nonostante le
promesse di non farlo.
Promesse
che non sono mai state formalizzate: non c’è mai stato un obbligo formale da
parte della Nato di non espandersi, ma per la Russia si è trattato di un abuso
della sua fiducia.
Ma in
realtà, basta parlare della Nato… il vero problema è che la Russia, e in
particolare Putin, non hanno mai considerato i vicini come paesi sovrani con i
quali cercare un linguaggio comune dopo la dolorosa esperienza sovietica di
coesistenza.
La Russia non si è mai preoccupata di fornire
le garanzie di sicurezza a quei Paesi, le garanzie che li avrebbero dissuasi
dall’entrare nella Nato.
Anzi,
la Russia ha fatto di tutto per incoraggiarli a entrarci e sotto il governo di
Putin la Nato si è espansa in modo significativo verso est.
Quindi,
in pratica, ora Putin con questa guerra sta cercando di coprire il completo
fallimento della sua politica estera.
Lui
non è stato in grado di impedire ai paesi vicini di entrare in questo blocco
militare.
Perché
non li ha mai trattati come partner, li ha sempre considerati come nazione
inesistenti, paesi inesistenti.
E
questa è la vera radice del problema.
Si può
quindi parlare dello scioglimento o non scioglimento della Nato, ma poi la
colpa è solo della folle politica estera di Putin.
Ripeto,
non è stata la Nato ad espandersi.
Sono stati i Paesi realmente, genuinamente
volenterosi ad entrare in questo blocco.
E
questo è un problema enorme per la Russia, perché significa che quei Paesi
hanno paura della Russia.
Una
politica ragionevole, ovviamente, sarebbe stata quella di renderli meno
timorosi, di offrire loro qualcosa, di includerli in un sistema di sicurezza
diverso, invece di ricattarli con il gas o con le armi, come ha sempre fatto
Putin.
Questo,
secondo me, è vero fallimento per Putin.
Passando
alla parte ideologica di questa guerra e all’idea di Putin di creare “Ruskyi
Mir”, il mondo russo:
il concetto, da come è stato disegnato, ha
sempre riguardato un mondo fatto da popoli ma non da cittadini con senso
civico, non dalla società civile.
Insomma, un concetto che rispecchiava la
Russia dove i russi sono sottomessi al sistema autoritario.
Quindi stiamo parlando di un modello
completamente opposto a quello Ucraino dove, soprattutto dal 2014, dopo la rivoluzione di Euromaidan,
stiamo assistendo alla creazione di una società civile vibrante e di una
governance liberale.
Due
cose che il Cremlino ha sempre impedito che accadessero in Russia.
Non
pensa che questa guerra sia anche lo scontro fra questi due mondi diversi?
Credo
sia giusto descrivere questa guerra come una lotta tra due sistemi politici
molto diversi, visioni politiche molto diverse di ciò che costituisce lo spazio
post-sovietico.
Una può essere sommariamente descritta come “il
sistema imperiale”, non necessariamente nel senso espansionistico, nonostante
abbia anche questa caratteristica, ma piuttosto il modo di strutturare il
sistema politico, che è monarchico in Russia.
Non so
se la gente ne sia consapevole, ma in realtà la concentrazione di potere in
Russia è quasi senza precedenti per il nostro Paese.
Non è vero che la Russia è sempre stata così.
Ci
sono probabilmente episodi nella storia russa in cui abbiamo avuto questa
concentrazione di potere politico, ma non spesso.
Probabilmente
è successo con Stalin ad un certo punto.
Probabilmente,
anche se il paragone non è esatto, con “Ivan il Terribile” e, in una certa
misura, con “Pietro il grande”.
Altri,
come “Nicola I”, hanno cercato di farlo, ma in realtà non ci sono mai riusciti.
Quindi ora stiamo assistendo a qualcosa di quasi senza precedenti nella storia.
Si tratta di uno Stato
ultra-monarchico.
Questa
è l’immagine della struttura dello spazio politico.
E
questo vale per tutta la Russia, perché ovunque, a ogni livello, ci sono quei
piccoli Putin che pensano fondamentalmente che usare la violenza e la forza sia
l’unico modo per governare nel servizio pubblico e nelle imprese.
Questa
è l’intera filosofia.
E poi
c’è la filosofia repubblicana, che è il caso dell’Ucraina, che si contrappone
ad essa con una posizione molto più pluralistica e con una maggiore fiducia in alcune
fazioni indipendenti del potere.
Perciò nel sistema politico ucraino l’élite è molto
meno consolidata attorno ad un unico leader.
Il
sistema è oligarchico, ma ha anche un significativo elemento democratico,
perché sappiamo che gli ucraini hanno sviluppato una cultura politica che ha
sempre il potenziale per una rivolta, per una rivoluzione.
Si
tratta quindi di due visioni molto, molto diverse ed è importante vedere come
queste visioni si riflettono in ciascuno di questi Paesi.
Guardate
cosa sta succedendo in Ucraina.
C’è la
prevalenza di questo punto di vista repubblicano, ma ci sono anche persone che
sono felici di essere, diciamo così, liberate da Putin, perché hanno questo
atteggiamento imperiale, si sentono più naturali nel ripristinare l’impero.
Si
pensi alla Bielorussia:
lì c’è una situazione molto interessante.
Abbiamo
il presidente che appoggia questa visione imperiale e più o meno tutta la
popolazione è contraria e viene terrorizzata per questo.
I bielorussi sono ovviamente per la maggior
parte dei repubblicani.
E poi
ci sono i russi, ma c’è lo stesso problema: la stessa lotta tra coloro che
sostengono Putin e quelli che cercano un’impostazione repubblicana nel Paese.
Quindi,
in sostanza, in questi Paesi c’è la stessa, identica lotta.
E
questo spiega, ovviamente, perché alcune persone in Russia provano maggiore
simpatia per gli ucraini, non perché siano grandi fan dell’Ucraina o della
cultura ucraina o di qualsiasi altra cosa, o del nazionalismo ucraino, ma solo
perché vedono la situazione come uno scontro tra la visione repubblicana e
imperialista.
Lo stesso vale per la Bielorussia e il
Kazakistan in una certa misura.
Questo
è ciò che stiamo vedendo.
Ed è
per questo che penso che etichettare questa guerra come guerra russo-ucraina
sia in realtà fuorviante.
Non si tratta di russi contro ucraini.
Si
tratta di una guerra fra due modelli politici molto diversi.
Come
viene percepita oggi la guerra dalla società russa?
E che dire dell’indice di gradimento del
presidente Putin?
Se non sbaglio, il “centro di Levada” lo dava
intorno all’82% ad aprile… Ora, capisco che non possiamo prendere sul serio i
sondaggi condotti in sistemi autoritari, specialmente in tempo di guerra, ma
forse possiamo comunque spiegare qualcosa sui sentimenti dei russi e della
società nei confronti della guerra.
Permettetemi
di introdurre il concetto.
La Russia è un sistema plebiscitario, il che
significa che il potere dell’imperatore si basa sul ricevere il sostegno
popolare attraverso i plebisciti.
Quindi l’imperatore sovrasta l’intero sistema
politico, sostenendo di avere una legittimità popolare e per lui anche
democratica!
E questo è fondamentalmente il bastone con cui
minaccia la sua élite, la sua burocrazia, ma anche il popolo stesso, perché la
Russia è un Paese molto depoliticizzato.
L’unico
modo per i russi di sapere cosa pensano i russi è guardare la televisione e
osservare i numeri dei sondaggi, perché normalmente i russi non comunicano tra
di loro.
Quindi il modo più semplice per sapere cosa
pensa il tuo vicino è accendere la TV e guardare gli ultimi numeri dei
sondaggi.
Dialogare,
comunicare con il prossimo non è usuale per molte persone in Russia.
Si
tratta quindi di un sistema plebiscitario in cui il leader riceve la cosiddetta
“acclamazione” da parte del popolo.
Ora
abbiamo diverse istituzioni per l’“acclamazione”.
Abbiamo,
naturalmente, le elezioni, che sono di carattere plebiscitario e “acclamazione”
significa che coloro che partecipano alle elezioni o a qualsiasi tipo di
votazione non le vedono come un meccanismo per fare una scelta tra vari
candidati, ma piuttosto come una convalida di una decisione già presa.
Quindi
c’è il leader che prende la decisione e il popolo che acclama questa decisione.
Questa
è l’idea delle elezioni in Russia sia durante il voto nazionale o presidenziale
che alle amministrative.
Questo
è anche il caso dei veri e propri plebisciti.
Nel
2020 abbiamo avuto una sorta di gioco costituzionale, quando a Putin si è data
la possibilità di rimanere al potere fino al 2036.
Dico gioco costituzionale perché ha costituito
una convalida di una decisione già presa ed era anche inquadrata in questo
modo, perché tecnicamente il plebiscito non era necessario dal punto di vista
costituzionale, era superfluo, ma doveva essere convalidato dalla popolazione.
La
stessa cosa accade con i sondaggi d’opinione che funzionano anch’essi in questo
modo, in modo che la gente capisca che le si chiede di acclamare il leader.
E questo è ancora più vero durante i periodi
di emergenza come questo, perché fondamentalmente tutti coloro che vengono
contattati con il sondaggio capiscono che gli viene chiesto di acclamare il
leader.
Probabilmente
le persone reagirebbero in modo diverso.
Alcuni
direbbero: “no, non acclamerei, odio Putin”, ma questo non cambia il quadro
generale.
Il
quadro di base è che viene chiesto di acclamare.
Ovviamente è possibile sfidarlo, ma è comunque
inteso come una richiesta di acclamazione.
Non
tutti i russi sono disposti a giocare a questo gioco.
E quindi il segreto che viene nascosto è che i
tassi di risposta sulle domande poste dai sondaggi sono molto, molto bassi.
Questi
dati di solito non vengono riportati ma, dall’esperienza che abbiamo avuto
sappiamo che sono, in qualche modo, a seconda della metodologia, tra il 7 e il
15% del campione iniziale.
Cosa
pensa il resto della gente non lo sappiamo, perché le persone tendono a non
rispondere.
Piuttosto
che sfidarlo o acclamarlo, tendono fondamentalmente a non rispondere.
Questo
ci dice molto sui russi, perché i russi non vogliono avere a che fare con la
politica.
Vivono
la loro vita privata.
Ed è così che è stato costruito questo regime.
Gli è
stato chiesto di non occuparsi della politica, quindi alla gente non interessa
la politica e non importa dell’Ucraina.
L’unica cosa di cui si preoccupano è la loro
vita privata orientata al consumismo. Ai russi interessa pagare i mutui e forse
fare carriera.
Quindi
questo è ciò di cui si preoccupano.
Il
resto può essere delegato al Putin di turno.
Putin
è lì, pensa lui a tutto.
Se lui
pensa che gli ucraini siano nazisti, beh, saprà lui come affrontarli.
Quindi
la popolazione è molto depoliticizzata.
E
credo che il modo migliore per spiegare questo, per spiegare questi indici di
gradimento, sia di immaginare il 24 febbraio in un modo diverso.
Immaginiamo
che Putin avesse detto che per motivi di sicurezza la Russia dovesse restituire
Donetsk e Lugansk all’Ucraina.
Il
tasso di approvazione sarebbe stato esattamente lo stesso di oggi.
Assolutamente lo stesso, perché l’approccio è questo:
Putin
sa meglio di noi.
Allora
questo vuol dire che in realtà c’è una via d’uscita da questa guerra per Putin,
perché qualsiasi tipo di risultato può essere descritto come una vittoria e
verrà accettato dalla società.
Credo
che questo sia vero solo fino ad un certo punto.
Voglio
dire, se si sottolinea la sua capacità di imporre ogni tipo di decisione alla
popolazione e di ottenere l’acclamazione, penso che allora lei abbia ragione.
Ma dal momento che la posta in gioco è alta e
ovviamente richiede alcuni sacrifici da parte della popolazione russa – ed è
molto, molto chiaro che ci saranno sacrifici – allora penso che ci sia
un’aspettativa generale di una vittoria significativa.
Ormai
questa guerra è stata inquadrata come la lotta esistenziale per la Russia.
Questa
non è una lotta per il Donbass.
Non so
perché le persone in Europa abbiano questa idea folle che si tratti di una
lotta per il Donbass.
No,
questa è una lotta esistenziale per la Russia, con la quale la Russia deve
sconfiggere l’Occidente.
Questa è la missione e non quella di prendere Kramatorsk.
Questo
aspetto è così secondario rispetto a ciò che sta accadendo.
Il 99%
dei russi non sa neanche dove si trovi Kramatorsk. Quindi questa è una lotta
esistenziale e conquistare Kramatorsk è solo il primo passo.
Ma se
l’esercito russo dovesse davvero fallire in Ucraina, cedendo, ad esempio, i
territori controllati prima del 24 febbraio, sarebbe davvero difficile per
Putin venderla come una vittoria.
Il
problema non sono tanto i numeri dei sondaggi, ma alcuni strati della società
russa, che si renderebbero improvvisamente conto che Putin può anche fallire,
perché l’intero potere politico si regge sulla forte convinzione che Putin
vince sempre.
Se lui
non vince, se qualcuno comincia a dubitare della sua vittoria, la situazione
cambierebbe.
Il
cambiamento, però, non si rifletterebbe subito nei sondaggi d’opinione, perché
lì funziona al contrario:
ci
sarà per primo un vero e proprio cambio di potere, e poi si vedrà come questo
si rifletterà nei sondaggi d’opinione, e non il contrario.
Non vincere questa guerra, credo, potrebbe
significare la fine di questo regime.
Ma
nella realtà russa che sta descrivendo, cosa potrebbe essere percepito come un
fallimento dell’operazione militare e cosa come una vittoria?
Cioè,
qual è il minimo che dovrebbe essere raggiunto per dichiarare la vittoria?
È
difficile a dirsi. Beh, per quanto riguarda il fallimento, è abbastanza facile: in realtà dovrebbe essere una
sconfitta militare, una vera e propria sconfitta, che non lascia spazio per le
interpretazioni. Quindi…
…
quindi lo status quo prima del 24 febbraio?
Si, ma
ormai il 24 febbraio è militarmente impossibile perché se l’Ucraina riuscisse a
respingere le forze armate russe fino alle posizioni pre-24 febbraio, perché
dovrebbe fermarsi lì?
Voglio dire, in Donbass non ci sono confini
naturali.
La Crimea è una questione diversa, forse lì ci
sono confini naturali, ma, per quanto riguarda il Donbass, il pre-24 febbraio è
andato per sempre.
Non
sarà mai ripristinata quella linea di separazione delle forze.
Quindi
questa sarebbe una vera e propria sconfitta.
Per
quanto riguarda la vittoria, come ho detto, la conquista e l’annessione delle
quattro regioni – Zaporizhia, Kherson e dell’intero Lugansk e Donetsk – sarebbe la prima tappa.
Questa
sarebbe una sorta di vittoria, visto che Putin non controllava tutte le quattro
regioni prima.
Si tratterebbe quindi di un’acquisizione e
credo che sarebbe un passo preliminare per un’ulteriore espansione, che
includerebbe sicuramente Transnistria e presumo anche l’intera Moldavia.
Ora abbiamo questo limbo con il sud Ossezia.
L’Abkhazia è forse più difficile, ma il sud
Ossezia sicuramente verrebbe incluso in Russia.
Quindi questo sarebbe un passo preliminare
verso ulteriori annessioni.
E poi
si andrà sempre più avanti perché, ancora una volta, qua non si tratta di
ripristinare l’appartenenza imperiale all’Unione Sovietica, no, si tratta di
spezzare la schiena all’Occidente.
Per
questo motivo mi aspetto che il prossimo passo avvenga molto presto dopo questa
sorta di vittoria.
Quindi
non ci sarà nessun negoziato fra Russia e Ucraina in un futuro vicino?
Assolutamente
no!
La
maggior parte delle sanzioni occidentali prende di mira l’economia e
l’establishment politico della Russia, mentre altre mirano specificamente
all’arte e alla cultura russa.
Questo
sta causando molte discussioni e speculazioni qui in Occidente sulla “cancel
culture”.
Qual è
la sua opinione in merito?
A dire
il vero, credo che sia un fenomeno enormemente esagerato.
Voglio
dire, a parte alcuni casi spiegabili di reazione eccessiva, personalmente non
ne sono stato colpito.
Nessuna
persona che conosco è stata colpita da una sorta di boicottaggio immeritato o
qualcosa del genere.
Ammetto
che ci siano stati casi di reazione eccessiva, ma sono abbastanza
comprensibili.
E
dietro c’è una lobby ucraina.
Posso
capirli. Ad essere onesti, penso che stiano facendo qualcosa di
controproducente per loro stessi, perché fondamentalmente dicendo: “beh,
guardate che tutti i russi sono come Putin”, stanno rendendo il miglior
servizio a Putin stesso, perché in questo modo trasmettono questo tipo di
messaggio agli italiani, per esempio, o ai tedeschi…
E come vuoi che reagiscano gli Europei?
Diranno che se tutta la Russia è così, allora
è meglio negoziare con Putin, tanto non si può fare la guerra e sconfiggere
l’intera Russia.
Quindi
forse gli ucraini sbagliano quando promuovono la narrazione che tutti i russi
sono uguali, anche se capisco perfettamente la loro rabbia.
E
penso che questa reazione sia in misura significativa giustificata.
In
generale penso che, anziché lamentarsi di un trattamento immeritato, si
dovrebbe far sentire la propria voce e esprimersi contro la guerra.
Altrimenti
è un’ipocrisia.
Se si
sostiene questa enorme guerra fondamentalmente contro l’intera Europa, cosa ci
si può aspettare?
Un’accoglienza
di benvenuto da parte degli europei?
Questa
è ipocrisia.
Perché
qua non si chiede di sostenere gli ucraini.
La
questione è diversa, perché ovviamente i soldati russi stanno morendo e questo
crea naturalmente un problema morale per i russi.
Bisogna
semplicemente dire “non in mio nome! questa guerra non in mio nome!”. Penso che questo sarebbe sufficiente
per far capire che si è contrari alla guerra.
Non
credo che si tratti veramente di “cancel culture” o come la chiamate ora.
Ovviamente ci sono misure che colpiscono tutti e, ad essere onesti,
personalmente subisco un danno collaterale.
Viaggiare
in Europa è diventato complicato.
Proprio ieri sera stavo pensando a come
viaggiare in Germania.
È logisticamente molto difficile.
E poi
non posso pagare il biglietto per il viaggio perché le mie carte sono bloccate.
Quindi
è davvero difficile, ma c’è poco da lamentarsi.
È la guerra.
Voglio dire, gli ucraini sono stati e
continuano ad essere bombardati quindi perché dobbiamo sorprenderci che le
sanzioni ci portino dei danni collaterali?
Ci
sono alcune misure o azioni alle quali non dobbiamo opporci e lamentarci.
Non
penso che siano moralmente sbagliate, penso solo che sanzioni contro le
strutture di istruzione e cultura siano controproducenti.
Non me
ne lamento: gli europei sono liberi di imporle.
Penso
solo che siano controproducenti.
Voglio
dire, guardate per esempio, all’università di Tartu in Estonia: ora non sono
più disposti ad accettare gli studenti russi…
Ripeto,
non mi lamento, ma credo solo che azioni simili siano controproducenti perché
in pratica fanno il gioco di Putin consolidando la sua immagine come
rappresentante di tutti i russi, il che non è assolutamente vero.
Lei ha
detto che alcune persone appoggiano questa guerra mentre altri forse dicono
“non in mio nome”.
Fino a
che punto è responsabile la società russa di questa guerra?
E, in
termini generali, cosa pensa della colpa collettiva e della responsabilità
collettiva?
Perché
la società russa sia responsabile della guerra, dovremmo avere chiaro cosa sia
la società russa.
Ma non esiste nulla che possa esser definito
come “la società russa”.
Si
pensa che sia la collettività a prendere questa decisione, ma non è vero.
Ancora
una volta, l’intero regime politico è stato costruito sulla distruzione di
qualsiasi tipo di soggettività politica.
È
difficile, credo, per molte persone in Europa capire fino a che punto sia stata
distrutta la concezione di essere soggetti, attori in politica.
Qualsiasi
discorso su qualsiasi tipo di azione politica, qualsiasi tipo di pensiero
normativo, tutto è diventato illegittimo in Russia.
Tanto per fare un esempio:
anche
solo pensare di discutere di migliorare qualcosa nelle nostre vite è già
percepito come un’assurdità perché, per come è strutturato il mondo, le cose
non possono essere migliorate.
Questo
è come i russi si approcciano alla vita e al loro posto nella vita politica.
I
russi pensano che il mondo sia fondamentalmente un brutto posto.
Lo ha
detto anche Putin:
durante
la conferenza stampa dopo l’incontro con Biden, è stato abbastanza chiaro nel
dichiarare che “nel mondo non esiste la felicità”. Perché mi chiedete di
migliorare il mondo?
Il mondo non può essere migliore di quello che
è.
È solo
un luogo in cui gli esseri umani si uccidono a vicenda. Questo è normale.
Questo è ciò che gli esseri umani fanno normalmente”.
E questo
è un pensiero abbastanza diffuso in Russia.
Un
pensiero notevolmente sottovalutato ma che preclude qualsiasi possibilità di
azione politica collettiva.
Se non
ti fidi di nessuno, perché dovresti impegnarti in qualcosa con il prossimo?
Così
uno finisce a preoccuparsi solo di sé stesso, dei suoi soldi, dei suoi affari
personali.
Quindi,
credo, che l’intera questione della responsabilità della società russa sia del
tutto irrilevante.
Naturalmente
questo non esime i russi dalla responsabilità individuale, ma credo che la
responsabilità stia nell’altro…
Dobbiamo distinguere due cose: non si tratta
dei russi che sostengono davvero questa guerra, non è questo il caso finora, ma
si tratta della loro indifferenza.
Vedo
una sorta di fascistizzazione della società e questo è molto pericoloso.
Questa
completa indifferenza alla sofferenza umana è un problema importante. Ma questo
è sempre stato un problema in Russia:
i
russi sono indifferenti non solo nei confronti degli ucraini ma anche verso i
propri compaesani.
Per
esempio, lei pensa che la gente si preoccupi davvero delle sofferenze della
gente di, non so, Krasnodar?
No,
per niente!
Finché non è un mio problema non mi interessa!
Quindi
questo è il vero problema:
la totale mancanza di idea di responsabilità
per i problemi politici e sociali, e questo è ciò che rende le cose
terribilmente pericolose.
Implica, infatti, che qualsiasi azione da
parte del governo venga percepita come qualcosa al di fuori del controllo del
singolo, che quindi non ha alcuna responsabilità su qualsiasi cosa stia
accadendo in Russia.
Questo
credo sia terribile e qui sta il problema, perché la gente dice:
“Non mi piace questa guerra, ma cosa ha a che
fare con me? Non è affar mio, non potrei cambiare nulla, come potete chiedermi
di oppormi a questa guerra?
Potrei oppormi, ma in quel caso probabilmente
perderei il lavoro”.
Questo
senso di impotenza diffusa nella società è stato alimentato e poi
strategicamente usato da Putin.
E in
questo e, voglio sottolineare questo punto, Putin è stato aiutato in modo
significativo dagli europei, dalle élite globali in generale, ma soprattutto
dagli europei.
Perché
ogni volta che i russi cercavano di trovare una soggettività politica, di
condurre qualche azione politica, di resistere, di impedire che accadessero le
cose peggiori, ogni volta Putin riceveva un enorme sostegno dall’Europa, enormi
contratti finanziari, enormi investimenti… Insomma, si è creata inevitabilmente
una situazione strana.
Beh, voglio dire, non stiamo chiedendo aiuto per
risolvere i nostri problemi, ma potreste per favore non aiutare Putin almeno in
modo massiccio?
Ogni
volta che c’è un movimento di resistenza, lui ottiene immediatamente un grande
accordo che porta milioni in Russia e che viene poi investito nell’esercito per
sopprimere la protesta…
Beh, questo ovviamente fa sentire la gente
disperata.
Questo
sentimento di disperazione può essere spiegato, ma non esime la Russia dalla
responsabilità politica della propria posizione.
Questo
è, a mio avviso, un grosso, grosso problema, un pericolo terribile per l’Europa
e ovviamente un problema con terribili conseguenze per la Russia nei prossimi
decenni.
Quindi
lei pensa che l’Occidente abbia tradito la società russa aiutando Putin?
Beh,
pensando all’Occidente… chi è l’Occidente?
Chi è
responsabile di questo, non saprei fino in fondo.
Ma,
sapete, una cosa che vorrei davvero respingere è l’idea di Putin come un orso
russo che esce dalla Taiga e all’improvviso, di punto in bianco, scatena questa
guerra contro l’Ucraina.
Ecco, questo non è vero. Putin sa come
funzionano le cose nel capitalismo contemporaneo.
Non è
un caso che sia riuscito a corrompere le élite finanziarie e politiche in tutta
Europa e anche in Italia.
Ha
semplicemente capito come funzionano le cose, in una certa misura è un maestro
di questo sistema capitalistico.
Non
parlo quindi di una responsabilità dell’Occidente, ma di élite politiche ed
economiche molto specifiche.
E questa élite occidentale corrotta, proprio ora che
stiamo parlando, sta ancora facendo pressioni sui propri governi, stanno
facendo lobbying per promuovere fondamentalmente l’idea del “bene, lasciamogli
un pezzo di Ucraina e così otteniamo la pace perché vogliamo tornare a fare
affari come prima”.
E gli
uomini d’affari italiani sono ancora qua in Russia a fare business anche se ci
sono delle sanzioni perché a loro non interessa nulla dell’Ucraina, vogliono
fare soldi e basta.
E per loro Putin va bene finché possono fare
soldi in Russia.
Qui ci
sono ottime condizioni per fare affari. Perché dovrebbero occuparsi
dell’Ucraina?
Questo è il problema.
Non darei la colpa all’Occidente, ma se siamo arrivati
fino a questo punto è colpa anche dell’élite politica ed economica corrotta di
alcuni Paesi occidentali, e l’Italia è certamente tra questi.
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