Col terrore rendono i cittadini più manovrabili.

 

Col terrore rendono i cittadini più manovrabili.

 

 

LA “SCIENZA MARCIA” E LA

MENZOGNA GLOBALE.

Area-c54.it – Corrado Penna – (30-7-2023) – ci dice:

 

Filosofia e critica sociale della scienza, analisi sociale delle menzogne dei poteri forti.

Un libro sui limiti e le falsificazioni della scienza e della conoscenza in genere, gli errori metodologici di certi cosiddetti scienziati e l’asservimento della ricerca scientifica ai poteri forti.

Un libro sulle falsità e le violenze della medicina, della psichiatria e sulla presunzione delle cosiddette “scienze umane”.

Un libro contro alcuni dei più radicati pregiudizi del nostro tempo, uno strumento per sviluppare un pensiero critico e per smascherare gli inganni di chi vuole orientare le nostre menti per dei loschi disegni potere e di sfruttamento. Un libro che utilizza la filosofia della scienza e la sociologia della scienza per mettere in luce i limiti e le menzogne della scienza stessa.

Un libro per difendersi da falsità, menzogne e pregiudizi.

(Documenti estratti dal libro “La scienza marcia e la menzogna globale” di Corrado Penna, fisico nucleare, ricercatore, esperto di storia e filosofia della scienza).

(insieme.net/~corrado_penna/marcia.zip )

 

PREMESSA.

Un libro che svela delle menzogne e smonta dei pregiudizi radicati nella coscienza comune è un libro difficile, che trova facilmente critici arrabbiati, “scandalizzati” dai suoi contenuti “eretici”.

 I detrattori di questo mio lavoro di ricerca, lette le prime pagine “scomode”, diranno facilmente che “l’autore è un folle” e che dice cose “che non si possono credere”.

Come gli accusatori di Galileo si rifiutarono di guardare nel suo cannocchiale, così le persone che mi accuseranno non si prenderanno la briga di verificare tutte le fonti storiche e scientifiche da me riportate nelle varie sezioni del libro, e crederanno che sia un inutile sforzo leggere i numerosi articoli della stessa “scienza ufficiale” che porto a conferma delle mie tesi.

Se questo non bastasse ai loro intenti cominceranno a dire che lo “scopo del libro è politico”, facendo finta di non capire che questo libro tratta proprio dei rapporti politici fra scienza e potere.

Fra conoscenza tradizione e potere: il problema dell’utilizzo della scienza è politico per sua stessa natura, l’etica in campo scientifico non si delega agli scienziati, la lotta per i diritti umani (quando vengano calpestati da pratiche tecnologiche invasive) non la si può delegare a nessun “esperto del settore”.

La riflessione sull’uso della tecnologia e sui metodi e i fini della ricerca scientifica non è una riflessione “tecnica” su argomenti specialistici (anche se alcune conoscenze scientifiche chiare e corrette permettono di vedere il problema nella sua giusta dimensione) ma è una valutazione umana su un tema antichissimo quale il rapporto fra il bene e il male.

Eppure sono sicuro che qualcuno dirà che questo è un libro “estremista” e “folle”, che sono io un “estremista”, un “sovversivo” e una “testa calda”; è noto che quando non si hanno argomenti per controbattere un ragionamento si possono solo usare gli insulti.

Denigrare un avversario con gli insulti senza portare argomenti validi equivale ad ammettere implicitamente che l’avversario abbia ragione; affermazioni come “tutto ciò è pazzesco”, “non può essere vero”, “sono solo fandonie” non rappresentano l’indicazione di un errore o di una falsità, ma solo di uno sbigottimento;

sostituire l’incredulità al ragionamento non è certo un buon metodo per scoprire la verità, è solo un mezzo per nascondere alla propria vista delle idee che appaiono “scomode”, ma che non per questo sono errate.

Sarà difficile d’altronde mettere in discussione le numerose prove scientifiche, storiche e logiche messe insieme in questo libro, anche perché vengono proposte ben poche “verità”:

la mia intenzione, nello scrivere questa opera, è soprattutto quella di smascherare la falsità di molte costruzioni del “sapere ufficiale” ormai incancrenito dal suo essere schiavo degli interessi dei grandi potentati economici e dal suo essere succube di antichi pregiudizi.

La verità è difficilmente definibile, ma la falsità di un’affermazione si può dimostrare più facilmente quando ciò che viene predetto da tale affermazione non si verifica.

Mi sono laureato in una disciplina scientifica nella quale hanno ben poco spazio i dogmi e le memorizzazioni nozionistiche e da allora (ma anche prima) ho letto un grande numero testi di filosofia, sociologia della scienza, filosofia della scienza, di storia antica, di critica della medicina ufficiale, ma tante cose le ho toccate con mano, come la violenza della psichiatria che ho visto di persona visitando i reparti psichiatrici di varie città d’Italia, o l’inefficacia della medicina ufficiale che ho sperimentato su me stesso.

D’altronde la stessa affermazione che un libro abbia finalità politiche è essa stessa un’affermazione politica, tesa a screditare determinare idee politiche a favore di altre.

Cosa c’è poi di tanto scandaloso nella speranza del sovvertimento di un mondo fondato sulla violenza?

E se la violenza di questa società moderna è estrema, che significa bollare diestremismo chi la rifiuta?

Non è forse “estremista”, e nel senso peggiore del termine, il conservatorismo che mira, fra l’altro, a mantenere una terra inquinata al di là delle sue capacità di sopportazione, a tenere quasi un miliardo di esseri umani in una condizione di perenne povertà e sottonutrizione?

 Per quanto mi sia laureato (col massimo dei voti) con una tesi di fisica nucleare devo dire che alcuni aspetti della moderna fisica teorica sono criticabili e suscettibili di essere considerati un po’ troppo dogmatici, come mostro più avanti nel libro, ma di sicuro la fisica può essere (anche se non sempre) più obiettiva e verificabile (o come direbbe Popper falsificabile) di quanto non sia, ad esempio, la medicina.

 Alcuni libri molto interessanti di critica alla scienza medica sono stati scritti da giornalisti o da altre persone che, pur non avendo fatto specifici studi scientifici, hanno speso gran parte della loro vita a documentarsi su certi argomenti non limitandosi alle fonti ritenute “ufficiali”.

La mia preparazione scientifica mi ha anche permesso di comprendere quale sia la corretta applicazione del metodo scientifico, ma non sono per niente sicuro che un tale background sia indispensabile per affrontare certi argomenti.

 Una laurea non implica necessariamente l’acquisizione di una grande cultura, ed i titoli altisonanti non sono necessariamente indici di sapere critico, anzi sono spesso solo indice di potere.

 Una laurea in medicina, ad esempio (ma lo stesso discorso può valere per tutti gli studi universitari) non comprende di per sé uno studio critico, un confronto fra diversi modelli medici, uno studio di storia della medicina, ma solo una assimilazione passiva di quello che qualcun altro ha scritto su dei manuali universitari:

chi si preoccupa del fatto che ci possano essere degli errori di fondo in tali manuali?

Anche una laurea in fisica spesso non comprende uno studio approfondito di tali elementi critici e storici, nonostante l’evoluzione continua dei modelli interpretativi nella fisica dovrebbe portare naturalmente allo sviluppo della riflessione sulla storia e la filosofia della scienza.

Una volta pensavo di essere stato fortunato ad intraprendere degli studi che

permettono più di altri di aprire la mente, ma adesso non ne sono più tanto sicuro, penso che da vari punti di vista si può abbordare lo studio critico della realtà e scoprire le menzogne che ci circondano.

Sopra il portone di ingresso del dipartimento di fisica di una famosa università inglese sta scritto:

“attenti, la fisica può espandere la vostra mente”, e in effetti studiare fisica teorica e nucleare dovrebbe significare anche confrontarsi col metodo scientifico, riflettere criticamente sui presupposti filosofici di

un’indagine scientifica.

Questo metodo che ho imparato nei miei studi universitari ho cercato di utilizzarlo per il lungo lavoro di ricerca che mi ha portato a scrivere questo libro.

La storia della fisica, anche la più recente, è un susseguirsi di ipotesi, di confronto

fra ipotesi, di teorie che nascono e di teorie che muoiono, il dogmatismo all’interno di tale disciplina dovrebbe essere meno diffuso di quanto non succeda con qualsiasi altra;

eppure anche in fisica certe ipotesi poco “ortodosse” e “scomode” pare non vengano nemmeno investigate mentre altre sono assurte al rango di “verità” nonostante la scarsità delle prove a loro sostengo.

Alle persone che mi rinfacceranno di non essere né medico né psichiatra potrei rinfacciare che chi parla male dell’astrologia in genere non è un astrologo e non ha studiato gli oroscopi e le influenze dei pianeti sulla nostra psiche, che chi rifiuta la religione non deve prima fare degli studi di teologia in seminario per prendere una simile decisione.

Osservando i presupposti (analisi metodologica) e i risultati (analisi empirica della validità dei modelli) si può decidere della validità di un sistema di conoscenze anche se non lo si conosce in maniera completa: se le basi di acquisizione di un sapere non sono valide il sistema stesso deve essere messo in discussione, per quanto vasto, dettagliato e approfondito possa sembrare.

Se le basi di un sistema di conoscenze sono fragili, la sua vastità serve a ben poco, e non è indispensabile conoscerlo a fondo per poterne negare la validità.

D’altronde è probabile che chi si scandalizzi per le “assurdità” scritte in questo libro non possegga una conoscenza del metodo scientifico pari alla mia, che non abbia studiato e riflettuto per anni su testi di filosofia della scienza, ma soprattutto che non abbia compiuto un lungo cammino di disintossicazione dai pregiudizi dominanti, un cammino che nessuno credo (neanche io) potrà mai dire di avere percorso fino in fondo.

Non è facile rendersi conto fino a che punto sono diffuse le falsità e le menzogne che permeano la maggior parte della cultura diffusa dall’informazione dominante. Non lo è stato nemmeno per me, ho impiegato una ventina d’anni a rendermi conto piano piano di tutte le falsità propagandate come “verità” intoccabili e assolute dalla cultura nella quale sono stato allevato.

 Non posso pretendere che chi legga questo libro assimili tutte in una volta le informazioni che vi sono contenute, probabilmente avrà bisogno di qualche tempo (magari anche qualche anno) per comprenderle appieno, per farle proprie;

la comprensione intellettuale non sempre basta ad una coscienza profonda, ma spesso è solo un primo passo, e tante cose non si credono finché non le si tocca con mano.

Per questo (immodestamente forse) propongo di rileggere questo libro a distanza.

Solo per fare un esempio i buchi neri e il big bang sono entrati ormai nell’immaginario comune, anche se si è ben lontani dal provare che si tratti di entità reali;

nonostante questo enorme punto interrogativo, i fisici che non credono alla loro esistenza sono ostracizzati dalla comunità scientifica.

Con qualche mese dalla prima lettura, sono sicuro che la comprensione sarà più profonda.

Anche io ho dovuto fare altrettanto con alcuni testi, o con alcune teorie che difficilmente riuscivo a condividere al mio primo confronto con esse.

A chi mi accusa e a chi mi accuserà, ai tenaci paladini dell’“ortodossia scientifica e culturale” vorrei chiedere infine cosa dovrei guadagnarci a “inventare delle fandonie”, (come sicuramente diranno loro delle mie ricerche basate su anni di studi e approfondimenti critici) se questo libro va in stampa a mie spese, cosa potrei guadagnarci se non la speranza di un mondo migliore dove la ricerca e la conoscenza siano al servizio dell’umanità e non di una ristretta oligarchia economica?

Di certo non c’è nessun potere economico o politico che mi sostiene, al contrario ce ne sono molti che mi avversano, perché in questo mondo sono troppo scomode le voci che chiedono di sostituire la logica del denaro e del profitto con una cultura di solidarietà e di pace.

Ci sarebbe da chiedere anche perché cercano di fermarmi con ogni mezzo lecito e illecito, di farmi multe per “volantinaggio non autorizzato di pubblicità” (non può esistere in Italia nessun regolamento e nessuna legge che richiede l’autorizzazione per un volantinaggio, come dichiara esplicitamente l’articolo 21 della nostra costituzione, e i volantini che diffondono opinioni sulle pratiche mediche non sono certo considerabili “pubblicità”), perché chiamino sempre i vigili urbani o la polizia se faccio circolare le mie idee su dei fogli di carta (hanno paura di quello che scrivo? non hanno argomenti per confutarmi? hanno paura delle libertà sancita dal solito articolo 21 della costituzione?) .

Perché quando faccio le mie domande a delle conferenze di medicina i medici preferiscono trovare scuse per non rispondere (persino quando riferisco argomentazioni condivise da altri loro colleghi medici)?

Perché quando intervengo con le mie domande “inopportune” ad un convegno di psichiatria invece di rispondere mi tolgono il microfono e mi cacciano a forza dall’aula?

Di cosa hanno paura?

Con tutte le televisioni e i giornali dalla loro parte, se divulgassi notizie realmente false sarebbero già riusciti a condannarmi per quanto vado scrivendo e dicendo da anni, invece sanno solo insultare e chiamare la polizia (che puntualmente non riesce a contestarmi nessun reato) o i vigili urbani (che si inventano un inesistente “volantinaggio non autorizzato”).

Non è facile liberarsi dai pregiudizi che assorbiamo con l’educazione, e la lettura di questo libro per molte persone sarà scomodo e difficile, perché è difficile abbandonare tutte in una volta tante “certezze” (parola da tradurre sempre con la perifrasi “ciò in cui qualcun altro ci ha fatto credere”).

Ma procedendo per gradi si possono superare tutti i pregiudizi nei quali noi tutti (me compreso) siamo stati allevati.

Quando avrete capito quale grande mistificazione della scienza, quale grande violenza, quale crimine contro l’umanità sia l’istituzione psichiatrica, allora potrete pensare che quello che è successo con la “salute mentale” è successo anche con la “salute del corpo”, e che lo stesso è successo più in generale con il “sapere” e con la “conoscenza” nel suo complesso.

La logica dei soldi, che ha soppiantato nella nostra società la logica dell’amore e della solidarietà, usa e distorce ogni cosa per i suoi fini.

Di fronte ad una prospettiva di guadagno miliardario nessuna azienda si pone scrupoli ad avvelenare migliaia di persone; se poi l’azienda riesce a far passare nelle nostre coscienze l’idea che i suoi veleni non sono tossici, potrà produrre ancora di più e ancora più impunemente.

Nessun potere politico od economico si lascia sfuggire la possibilità di falsificare la realtà per i propri fini.

Manipolare la conoscenza, e quindi le coscienze delle persone, è solo una delle tante strategie messe in atto delle grandi aziende multinazionali per vendere sempre più facilmente i loro prodotti, e per nascondere allo stesso tempo tutte le nefandezze causate da un sistema economico che affama un miliardo di persone e inquina la terra, l’aria e l’acqua del nostro pianeta.

Ormai nel mondo globalizzato tutto è merce, persino la salute e l’istruzione.

Perché meravigliarsi allora del fatto che la manipolazione dell’informazione e della cultura possa generare dei terribili mostri? (…)

 

 

 

Mattarella Boccia le Commissioni d’Inchiesta:

le Camere non si Sovrappongano ai Pm!

Conoscenzealconfine.it – (29 Luglio 2023) – Redazione – ci dice:

Mattarella: “Fare la parte propria. Non pretendere di fare abusivamente la parte di altri. Ciascuno faccia il proprio mestiere”.

“La forza che tiene unite le nostre comunità nei momenti più difficili è anzitutto questa generosa e incondizionata disponibilità a esserci.

A fare la propria parte, sentendosi responsabili gli uni degli altri.

‘I care’, come diceva don Milani”.

Fare la parte propria.

Vorrei declinare questo dovere in maniera completa e conseguente; aggiungendo: non pretendere di fare abusivamente la parte di altri.

 Ciascuno faccia il proprio mestiere – come si dice in linguaggio corrente – e cerchi di farlo bene.

Auspico, come mi è avvenuto di suggerire in diverse occasioni, che questa stessa consapevolezza – cioè fare al meglio la propria parte – venga anzitutto avvertita da chi ha responsabilità istituzionali.

Più volte è stato ricordato, da molte sedi, l’esigenza ineludibile che i vari organismi rispettino i confini delle proprie competenze e che, a livello istituzionale, ciascun potere dello Stato rispetti l’ambito di attribuzioni affidate agli altri poteri.

Così quanto alla necessità che la Magistratura sia consapevole di esser chiamata – in piena autonomia e indipendenza – a operare e a giudicare secondo le norme di legge, interpretandole, anche, correttamente secondo Costituzione, e tenendo conto che le leggi le elabora e le delibera il Parlamento, perché soltanto al Parlamento – nella sua sovranità legislativa – è riservato questo compito dalla Costituzione.

Allo stesso modo, ovviamente, va garantito il rispetto del ruolo della Magistratura nel giudicare, perché soltanto alla Magistratura questo compito è riservato dalla Costituzione.

Iniziative di inchieste con cui si intende sovrapporre attività del Parlamento ai giudizi della Magistratura si collocano al di fuori del recinto della Costituzione e non possono essere praticate.

 (strano… l’articolo 82 della Costituzione sembra proprio dire altro… nota di conoscenze al confine).

Non esiste un contropotere giudiziario del Parlamento, usato parallelamente o, peggio, in conflitto con l’azione della Magistratura.

Così come non sono le Camere a poter verificare, valutare, giudicare se norme di legge – che il Parlamento stesso ha approvato – siano o meno conformi a Costituzione, perché questo compito è riservato, dall’art.134, in maniera esclusiva, alla Corte Costituzionale.

Non può esistere una giustizia costituzionale politica.

I ruoli non vanno confusi, anche a tutela dell’ambito di cui si è titolari.

È una doverosa esigenza quella della normale e virtuosa logica della collaborazione istituzionale.”

Quando serve… ecco che una manina invisibile e sinistra inserisce una monetina alla “mummia parlante” che, come d’incanto, si aziona… (nota di conoscenze al confine).

(Estratto dall’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’incontro con i componenti dell’Associazione Stampa Parlamentare, i Direttori dei quotidiani e delle agenzie giornalistiche e i giornalisti accreditati presso il Quirinale per la consegna del Ventaglio da parte dell’Associazione Stampa Parlamentare.)

(imolaoggi.it/2023/07/28/mattarella-boccia-commissioni-inchiesta/)

 

 

 

 

Climatismo Affaristico: la Nuova

Emergenza del Fanatismo Green.

Conoscenzealconfine.it – (28 Luglio 2023) - Andrea Caldart – ci dice:

Climatismo affaristico: di follia in follia stiamo superando il confine del buonsenso…

Da una parte la Casa Bianca annuncia un piano per oscurare il sole, dall’altra invece abbiamo un’Europa sempre più votata ad un religioso green fanatico e inutile.

E, come se non bastasse, ci si mette anche la politica quella della” sinistra verde europeista di Bonelli” che invoca il reato di negazionismo climatico dicendo: “l’Italia è diventata un hotspot climatico e chi mistifica, specialmente se ha ruoli istituzionali, fa danni per miliardi di euro”.

Salvo spiegare al “Sor Bonelli” che chi davvero in questo momento sta guadagnando miliardi di euro sono sempre le stesse lobby fatte da società petrolifere e finanziarie che, attraverso la bandiera della transizione green, ricercano una nuova verginità per mantenere il controllo del gioco.

Altro esempio di “pazzia termica europeista” è il “tabarro termico”, che ha mandato in tilt i conti dello Stato italiano, per continuare poi con l’auto elettrica, per la quale, per farla funzionare, serve ancora la fonte fossile, triplicando il costo energetico rispetto all’auto che usiamo comunemente, per non parlare dei posti di lavoro che andrà ad alienare.

Senza escludere il “Nature Restoration law” in forza del quale la comunità europea, con la scusa della “tirannide ecologico-climatica”, intende distruggere l’agricoltura, gli allevamenti, invocando il motto: “sintetico è sano”.

Un “climatismo psichedelico allucinato” e sostenuto da una stampa sempre prona, che non sa riconoscere gli strumenti di rilevazione della temperatura, tanto che ora li punta sull’asfalto anziché in aria.

E meno male che qualche meteorologo in cuor suo, ha sentito di informare che, temperature come queste, sono naturali in questo periodo, raccontandoci anche che sono cicliche, e fanno parte della vita della terra.

Lo stesso fisico Antonino Zichichi ha spiegato in alcune interviste che non c’è nessun allarmismo climatico perché:

“attribuire alla responsabilità umana il surriscaldamento globale è un’enormità senza alcun fondamento: puro inquinamento culturale.

 L’azione dell’uomo incide sul clima per non più del 5%”.

Siamo così entrati nell’era del “climatismo affaristico di una politica metereologica improvvisata”, fatta di ottima ricchezza di sinistra alla quale tutto è concesso dire, senza che per loro esca il bollino di fascismo climatico.

Un green costruito a tavolino sfruttando anche sacerdoti e sacerdotesse professatrici di un mondo oltranzista e ideologico.

Questi ambientalisti radical chic sembrano essere peggio della catastrofe climatica che profetizzano, e molto probabilmente sono essi stessi il vero problema.

Ancora una volta siamo davanti alla cultura del “non pensiero” per il monopolio della realtà, in un gioco di verità ambientaliste delle grandi lobbies, e quello che deve essere fermato sono le loro “buone intenzioni” di sfruttamento di tutti noi.

(Andrea Caldart)

(quotidianoweb.it/economia/climatismo-affaristico-la-nuova-emergenza-del-fanatismo-green/)

 

 

 

 

 

Dall’Elettricità Verde all’Apocalisse dei Rifiuti: le Turbine Eoliche Genereranno più Rifiuti che Energia!

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 Conoscenze al Confine 30 Luglio 2023

di Davide Donateo

 

Le turbine eoliche, un tempo propagandate dai pochi paesi ricchi e meno popolati come una soluzione pulita per l’elettricità, stanno diventando un pugno nell’occhio, un pericolo e una significativa minaccia ambientale.

 

 

Dopo decenni di funzionamento in tutto il mondo per i pochi paesi ricchi e meno popolati, le turbine eoliche continuano ad avere un’aspettativa di vita di circa 20 anni. Ad oggi non è ancora stato scoperto un mezzo economicamente valido per riciclarle. Di conseguenza, le vecchie turbine eoliche di oggi vengono scaricate in discariche di rifiuti tossici.

 

Le pale delle turbine eoliche sono molto difficili da riciclare, il flusso di rifiuti creato dalle pale ritirate è un problema. A livello globale, entro il 2050 le proiezioni indicano che OGNI ANNO verranno prodotti 43 milioni di tonnellate di rifiuti dalle lame, l’equivalente di 215.000 locomotive.

 

Man mano che i parchi eolici invecchiano, le turbine iniziano a rompersi e richiedono manutenzione. Tuttavia, a causa degli elevati costi associati alla loro rimozione, molte aziende scelgono di lasciarle in essere. Ciò pone diversi problemi, tra cui la possibilità di perdite di olio dalle turbine e l’impatto negativo complessivo sul paesaggio.

 

La prima generazione di turbine eoliche sta iniziando a raggiungere la fine della propria vita utile, mentre altre vengono sostituite in anticipo per far posto a tecnologie più recenti, comprese pale delle turbine più lunghe che possono intercettare più vento e generare più elettricità: la questione di cosa fare con le loro enormi pale diventa più pressante.

 

Queste turbine eoliche abbandonate comportano rischi ambientali e di sicurezza significativi, poiché possono rilasciare sostanze chimiche tossiche e altri materiali pericolosi nell’ambiente circostante e possono persino collassare o prendere fuoco.

 

Il ciclo di vita delle energie rinnovabili inizia con la pianificazione, seguita dalla ricerca e dalla costruzione, che comprende attività come manutenzione e riparazione. Comprende anche la fine della loro vita, che comporta smantellamento e smaltimento o riciclaggio e ripristino del paesaggio alla sua condizione originaria.

 

È arrivato il momento che quei pochi governi ricchi “mettano a posto” i loro programmi sovvenzionati precedenti per l’energia elettrica intermittente e agiscano per finanziare lo sviluppo di metodi per smantellare correttamente le pale eoliche prima che diventino una crisi ambientale più grave.

 

I governi che hanno sovvenzionato la progettazione e la costruzione hanno la responsabilità di cercare standard di smantellamento, restauro e riciclaggio fino all’ultimo dente degli ingranaggi, proprio come abbiamo fatto per le miniere dismesse, i siti petroliferi e nucleari.

 

I parchi eolici sono in genere situati in aree con andamenti del vento costanti. Per la vasta superficie richiesta per l’energia eolica e solare, è una patetica distruzione di paesaggi incontaminati!

 

La Svezia ha scioccato l’Europa abbandonando l’agenda “instabile” per l’elettricità verde e tornando all’energia nucleare. Il ministro delle finanze Elisabeth Svantesson ha citato la necessità di un “sistema di alimentazione elettrica più stabile”, sottolineando l’instabilità intrinseca delle fonti di generazione di elettricità eolica e solare.

 

La crisi energetica in Europa sta decollando e paesi come Paesi Bassi, Repubblica Ceca e Grecia stanno iniziando a capire che tutto ciò che richiede elettricità viene prodotto con combustibili fossili e stanno tornando indietro. Stanno anche riconoscendo che tutti i componenti delle turbine eoliche e dei pannelli solari sono realizzati con derivati del petrolio prodotti dal petrolio greggio.

 

 

 

Inoltre, il nuovo governo svedese ha abolito i sussidi statali per le auto elettriche e le ibride plug-in. Un’altra realtà è che tutti i prodotti minerali e i metalli necessari per realizzare turbine eoliche, pannelli solari e batterie per veicoli elettrici vengono estratti e lavorati in luoghi come Baotou, Mongolia Interna, Bolivia e Repubblica Democratica del Congo, per lo più sotto il controllo cinese. Lo smantellamento e il ripristino di quei paesaggi minerari riportandoli alla loro originaria condizione incontaminata non è nelle carte nei paesi in via di sviluppo.

Da quando la Germania ha chiuso le ultime tre centrali nucleari rimanenti, il paese ha dovuto rivolgersi ai suoi vicini per mantenere le luci accese. La Germania è passata dall’essere un esportatore di elettricità a un importatore.

Per la redditività e la sostenibilità, le decisioni aziendali del settore privato si basano sul ritorno sugli investimenti (ROI) che si riferisce direttamente all’elettricità economica, affidabile, continua e ininterrotta per sostenere i loro investimenti. Pertanto, la Germania dovrebbe guardare alla Svezia, che ha appena abbandonato l’obiettivo idealistico dell’elettricità occasionale da eolico e solare e si è impegnata nel nucleare per un’elettricità che non sia solo continua e ininterrotta, ma priva di emissioni.

È fondamentale affrontare questo problema e trovare soluzioni sostenibili per lo smantellamento e il riciclaggio di queste turbine eoliche. Come società, dobbiamo dare la priorità allo smaltimento responsabile e sicuro delle infrastrutture elettriche rinnovabili per raggiungere veramente un futuro sostenibile.

Incredibilmente, il riciclaggio delle pale delle turbine, dei pannelli solari e delle batterie dei veicoli elettrici usurati, nei pochi paesi ricchi e meno popolati che sovvenzionano l’elettricità intermittente non è ancora nelle carte.

(Davide Donateo)  (newsacademy.it/scienze-e-salute/2023/07/25/dallelettricita-verde-allapocalisse-dei-rifiuti-le-turbine-eoliche-genereranno-piu-rifiuti-che-energia/)

 

Dall’Elettricità Verde all’Apocalisse

dei Rifiuti: le Turbine Eoliche

Genereranno più Rifiuti che Energia!

Conoscenzealconfine.it – (30 Luglio 2023) - Davide Donateo – ci dice:

 

Le turbine eoliche, un tempo propagandate dai pochi paesi ricchi e meno popolati come una soluzione pulita per l’elettricità, stanno diventando un pugno nell’occhio, un pericolo e una significativa minaccia ambientale.

Dopo decenni di funzionamento in tutto il mondo per i pochi paesi ricchi e meno popolati, le turbine eoliche continuano ad avere un’aspettativa di vita di circa 20 anni.

 Ad oggi non è ancora stato scoperto un mezzo economicamente valido per riciclarle.

 Di conseguenza, le vecchie turbine eoliche di oggi vengono scaricate in discariche di rifiuti tossici.

Le pale delle turbine eoliche sono molto difficili da riciclare, il flusso di rifiuti creato dalle pale ritirate è un problema.

A livello globale, entro il 2050 le proiezioni indicano che OGNI ANNO verranno prodotti 43 milioni di tonnellate di rifiuti dalle lame, l’equivalente di 215.000 locomotive.

Man mano che i parchi eolici invecchiano, le turbine iniziano a rompersi e richiedono manutenzione.

Tuttavia, a causa degli elevati costi associati alla loro rimozione, molte aziende scelgono di lasciarle in essere.

Ciò pone diversi problemi, tra cui la possibilità di perdite di olio dalle turbine e l’impatto negativo complessivo sul paesaggio.

La prima generazione di turbine eoliche sta iniziando a raggiungere la fine della propria vita utile, mentre altre vengono sostituite in anticipo per far posto a tecnologie più recenti, comprese pale delle turbine più lunghe che possono intercettare più vento e generare più elettricità:

 la questione di cosa fare con le loro enormi pale diventa più pressante.

Queste turbine eoliche abbandonate comportano rischi ambientali e di sicurezza significativi, poiché possono rilasciare sostanze chimiche tossiche e altri materiali pericolosi nell’ambiente circostante e possono persino collassare o prendere fuoco.

Il ciclo di vita delle energie rinnovabili inizia con la pianificazione, seguita dalla ricerca e dalla costruzione, che comprende attività come manutenzione e riparazione.

 Comprende anche la fine della loro vita, che comporta smantellamento e smaltimento o riciclaggio e ripristino del paesaggio alla sua condizione originaria.

È arrivato il momento che quei pochi governi ricchi “mettano a posto” i loro programmi sovvenzionati precedenti per l’energia elettrica intermittente e agiscano per finanziare lo sviluppo di metodi per smantellare correttamente le pale eoliche prima che diventino una crisi ambientale più grave.

I governi che hanno sovvenzionato la progettazione e la costruzione hanno la responsabilità di cercare standard di smantellamento, restauro e riciclaggio fino all’ultimo dente degli ingranaggi, proprio come abbiamo fatto per le miniere dismesse, i siti petroliferi e nucleari.

I parchi eolici sono in genere situati in aree con andamenti del vento costanti.

Per la vasta superficie richiesta per l’energia eolica e solare, è una patetica distruzione di paesaggi incontaminati!

La Svezia ha scioccato l’Europa abbandonando l’agenda “instabile” per l’elettricità verde e tornando all’energia nucleare.

 Il ministro delle finanze Elisabeth Svantesson ha citato la necessità di un “sistema di alimentazione elettrica più stabile”, sottolineando l’instabilità intrinseca delle fonti di generazione di elettricità eolica e solare.

La crisi energetica in Europa sta decollando e paesi come Paesi Bassi, Repubblica Ceca e Grecia stanno iniziando a capire che tutto ciò che richiede elettricità viene prodotto con combustibili fossili e stanno tornando indietro.

Stanno anche riconoscendo che tutti i componenti delle turbine eoliche e dei pannelli solari sono realizzati con derivati del petrolio prodotti dal petrolio greggio.

Inoltre, il nuovo governo svedese ha abolito i sussidi statali per le auto elettriche e le ibride plug-in.

Un’altra realtà è che tutti i prodotti minerali e i metalli necessari per realizzare turbine eoliche, pannelli solari e batterie per veicoli elettrici vengono estratti e lavorati in luoghi come Baotou, Mongolia Interna, Bolivia e Repubblica Democratica del Congo, per lo più sotto il controllo cinese.

 Lo smantellamento e il ripristino di quei paesaggi minerari riportandoli alla loro originaria condizione incontaminata non è nelle carte nei paesi in via di sviluppo.

Da quando la Germania ha chiuso le ultime tre centrali nucleari rimanenti, il paese ha dovuto rivolgersi ai suoi vicini per mantenere le luci accese.

La Germania è passata dall’essere un esportatore di elettricità a un importatore.

Per la redditività e la sostenibilità, le decisioni aziendali del settore privato si basano sul ritorno sugli investimenti (ROI) che si riferisce direttamente all’elettricità economica, affidabile, continua e ininterrotta per sostenere i loro investimenti.

Pertanto, la Germania dovrebbe guardare alla Svezia, che ha appena abbandonato l’obiettivo idealistico dell’elettricità occasionale da eolico e solare e si è impegnata nel nucleare per un’elettricità che non sia solo continua e ininterrotta, ma priva di emissioni.

È fondamentale affrontare questo problema e trovare soluzioni sostenibili per lo smantellamento e il riciclaggio di queste turbine eoliche.

Come società, dobbiamo dare la priorità allo smaltimento responsabile e sicuro delle infrastrutture elettriche rinnovabili per raggiungere veramente un futuro sostenibile.

Incredibilmente, il riciclaggio delle pale delle turbine, dei pannelli solari e delle batterie dei veicoli elettrici usurati, nei pochi paesi ricchi e meno popolati che sovvenzionano l’elettricità intermittente non è ancora nelle carte.

(Davide Donateo)

(newsacademy.it/scienze-e-salute/2023/07/25/dallelettricita-verde-allapocalisse-dei-rifiuti-le-turbine-eoliche-genereranno-piu-rifiuti-che-energia/)

 

 

 

 

“Covid e crisi climatica?

Tirannia dell’emergenza”. Venanzoni:

“Terrore usato per manovrare cittadini

 Ilsussidiario.net – (29.07.2023) - Silvana Palazzo - Andrea Venanzoni – ci dicono:

Dal Covid alla crisi climatica, per il costituzionalista Andrea Venanzoni siamo nella “tirannia dell’emergenza”, con il “terrore usato per rendere i cittadini più manovrabili”.

Il terrore è lo strumento per rendere più manovrabili i cittadini.

A lanciare l’avvertimento è Andrea Venanzoni, costituzionalista e consulente giuridico di importanti istituzioni pubbliche, oltre che ricercatore presso l’università Roma Tre, saggista e collaboratore di testate giornalistiche come Il Foglio e Il Riformista.

Nel suo ultimo libro, “La tirannia dell’emergenza”, spiega come il burocrate sia il trionfatore.

 «Già qualche anno fa volevo occuparmi dei prefetti e dei sindaci che ricorrono spesso a ordinanze e atti speciali.

Ma l’avvento della pandemia e dell’emergenza climatica sono diventati un movente ancora maggiore e ora la vera promozione di questo libro», spiega Venanzoni a La Verità.

Nell’intervista spiega che con la pandemia Covid e «l’isteria diffusa» per il cambiamento climatico, ci ritroviamo «davanti a una pornografia della catastrofe».

Oltre ad allontanare il dibattito pubblico, e quindi una soluzione, «finisce per terrorizzare la popolazione rendendola manovrabile».

In una situazione in cui servono risposte rapide, si accettano imposizioni di regole e limitazioni di libertà individuali, come accaduto in occasione della pandemia.

Invece, «nel diritto ambientale si afferma per la prima volta il principio di precauzione, limitando azioni senza avere la certezza scientifica che provochino danni».

Ma questa politica, che Venanzoni definisce di limitazione ex ante, in realtà «è un grande freno all’innovazione».

 

 Separazione delle carriere, duello finale inevitabile.

“EMERGENZA ALIBI PER ELIMINARE DISSENSO”.

Se la dittatura è legata ad una persona, nella tirannia dell’emergenza di cui parla Andrea Venanzoni è il burocrate il vero trionfatore, perché «prevale il sistema».

Dunque, un’emergenza «può diventare laboratorio di ingegneria sociale», afferma il costituzionalista a La Verità.

 Come durante la pandemia, anche ora per la crisi climatica si parla di cambiare la visione del mondo, ma Venanzoni preferisce non citare il Grande reset, onde evitare l’accusa di complottismo.

 «L’emergenza è il paradiso del burocrate che finalmente può operare senza quelli che vede come intralci e che, in realtà, sono garanzie per il cittadino».

Nel caso della pandemia Covid, «l’istituzionalizzazione della morte è diventata parte del dispositivo burocratico» e il lutto è stato burocratizzato, infatti «si è reso impossibile porgere l’ultimo saluto al morto per Covid, con conseguenze psicologiche serie in chi è ancora vivo».

 Invece, lo Stato, e quindi il burocrate, si pongono come la cura.

"Dov'è finito il coraggio di andare controcorrente?"

Per Venanzoni, comunque, questa tirannia non è improvvisa, ma frutto di un processo che fa risalire nel tempo.

Il costituzionalista colloca l’inizio al terrorismo politico degli anni ’70, poi cita quello di matrice religiosa e jihadista, quindi le prime emergenze sanitarie e la crisi climatica.

Il ruolo dell’uomo non è cambiato:

nel caso della pandemia è lui il virus, nel caso della crisi climatica è colui che danneggia l’ambiente.

 «L’emergenza è l’alibi per eliminare ogni possibilità critica: dissenso equivale a tradimento.

Da qui il ricorso a un linguaggio quasi bellico perché l’emergenza è come una guerra», e quindi si prende posizione.

D’altra parte, senza un’autorità superiore, a vincere sarebbero il virus, l’inquinamento e i terroristi.

«Il vero problema è l’assuefazione a vivere in perenne emergenza», osserva Venanzoni.

IL RUOLO DEI MEDIA E LE ACCUSE DI NEGAZIONISMO.

Il costituzionalista tira in ballo anche i media, che «in alcuni casi hanno un interesse diretto».

Il riferimento è a quegli editori e grandi marchi digitali che operano nei settori delle energie rinnovabili o delle auto elettriche.

 «Tendo a non ritenere casuale che certe testate utilizzino tutti i giorni termini come inferno e apocalisse».

Inoltre, così si fa pure da sponda al potere istituzionale.

Andrea Venanzoni nell’intervista a La Verità contesta anche l’uso del termine negazionismo per equiparare il dissenso sul clima e il Covid alla negazione dell’Olocausto o per gettare ombre su chi dissente:

«È un’operazione oscena perché banalizza la tragedia dell’Olocausto.

Accusando qualcuno di negazionismo, lo uccido socialmente, rendendolo impresentabile, degradandolo alla stregua di nemico che non merita di essere riconosciuto come controparte».

 A tal proposito, conclude con un commento sull’intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che da un lato ritiene «comprensibile in un’ottica di richiamo generale alla responsabilità», ma d’altro canto ha «prestato il fianco al consolidamento di una narrazione a senso decisamente unico.

Non a caso, le sue parole sono state subito rilanciate da una precisa parte politica in ottica antigovernativa».

 

 

 

 

“La tirannia dell’emergenza”: ecco

 come stiamo perdendo la libertà.

Nicolaporro.it – (15 Giugno 2023) - Tommaso Alessandro De Filippo – ci dice:

 

Andrea Venanzoni: un copione standard per la permanenza dell’emergenza e dei suoi strumenti di governo.

Quanto di più prossimo alla tirannia l’Occidente abbia sperimentato.

Dei rischi che corre la nostra libertà individuale da uno stato d’eccezione permanente si occupa un libro uscito di recente, “La tirannia dell’emergenza” (Liberi libri).

Ne abbiamo parlato con l’autore, Andrea Venanzoni, giurista e saggista.

Il libro di Andrea Venanzoni "La tirannia dell'emergenza".

Emergenza strutturale.

TOMMASO ALESSANDRO DE FILIPPO: Perché questo libro, “La tirannia dell’emergenza”?

ANDREA VENANZONI: Il libro origina da una constatazione in apparenza banale ma su cui mi sembra si sia sedimentato un eccessivo pudore da parte di scienziati sociali, politici, opinionisti:

 ovvero che l’emergenza, nel suo senso più generale, sia divenuta una caratterizzazione strutturale delle società occidentali, un dato irrinunciabile che da un lato, stabilizzandosi, ha modificato radicalmente la stessa forma di governo e dall’altro lato ha imposto una sorta di incantesimo, una psicosi collettiva connessa alla paura generalizzata.

L’emergenza si rende tiranna ogni volta che polarizza e mobilita l’opinione pubblica, radicalizzando la propria funzione di vettore della paura stessa, utilizzata per azzerare le opinioni dissonanti e per irreggimentare il senso comune e la cittadinanza.

È tiranna quando non accetta di essere discussa, analizzata, posta sotto la luce critica dei riflettori.

È tiranna come ogni dogma che non può tollerare spunti alternativi.

Nel volume ripercorro il processo di stratificazione quasi geologica delle varie emergenze che non solo si sono susseguite nel corso degli anni ma che hanno lasciato le proprie metastasi a mettere radici nei dispositivi di produzione della cultura e nel ventre dell’ordinamento giuridico:

 il terrorismo politico degli anni settanta e ottanta, quello di matrice jihadista degli anni novanta e duemila, i vari panici sanitari (l’Aids, l’aviaria, da ultimo la pandemia da coronavirus), e il catastrofismo climatico.

Forma di governo.

La tassonomia dell’emergenza ci consente di rilevare da un lato come al netto di alcune differenze e di alcune specificità, ogni emergenza imponga la sua agenda, i suoi strumenti di contrasto, di collettivizzazione, di privazione e limitazione della libertà, di mobilitazione totale, e dall’altro lato di poter asserire che l’emergenza stessa, nel suo tratto comune e caratterizzante, si è fatta forma di governo.

Mi piace sempre ricordare che nel corso degli anni, se rimaniamo nell’alveo dell’analisi giuridica, quello strano strumento che è il decreto-legge, legittimato a Costituzione vigente solo da “casi straordinari di necessità e di urgenza”, è divenuto nei fatti uno strumento ordinario di produzione legislativa:

questo ha importato non solo una stabilizzazione di uno strumento limite ed emergenziale ma anche, in maniera più preoccupante, lo slittamento del processo legislativo dal Parlamento al governo.

L’abuso del decreto-legge, stigmatizzato da dottrina giuridica e giurisprudenza della Corte costituzionale, è un indicatore privilegiato di come stabilizzare gli strumenti dell’emergenza incida radicalmente e drasticamente sugli assetti istituzionali;

d’altronde, il decreto-legge, in regime di Statuto albertino, si prestò alla torsione autoritaria del regime fascista, ragion per cui i Costituenti furono molto indecisi se inserirlo nella nuova Carta costituzionale ed è anche uno dei motivi per cui non venne mai costituzionalizzato un diritto di governo dell’emergenza.

Pandemia e agenda green.

Durante la pandemia abbiamo assistito a un processo ancora più drastico e preoccupante:

la iper-verticalizzazione del processo di produzione normativa in capo alla sola figura del presidente del Consiglio, in combinato con il ministro della salute, mediante lo strumento amministrativo del Dpcm (il cui cappello di legittimazione dovevano essere i decreti-legge, molto spesso materia inerte e muta nei presupposti fondanti, demandando quasi come una cambiale in bianco tutto ai vari Dpcm).

E abbiamo assistito alla proliferazione di corpi tecnici, del tutto scissi dal circuito di legittimazione sovrana, e che però lungi dal rappresentare solo dei meri strumenti consulenziali nei fatti dettavano l’agenda politica e legislativa e amministrativa, limitando così sempre di più la libertà e le garanzie dei cittadini.

Lo stesso avviene nella irreggimentazione del costume, delle scelte, dell’esistenza imposta dalla agenda green e dalla psicosi climatica, per cui veniamo sottoposti a uno stillicidio di terrore la cui funzione è quella di farci ingoiare il boccone amaro della privazione della autodeterminazione individuale.

In città con servizi di trasporto pubblico allo sbando, vengono imposte barriere e limitazioni come le “Ztl” che costringono nei fatti ad acquistare costosissime autovetture ecologiche, del tutto fuori dalla portata economica del pendolare medio.

 Non è difficile immaginare poi come questi strumenti porteranno ad una desertificazione del tessuto economico, commerciale e produttivo, con attività commerciali spazzate via.

Il paradosso dell’emergenza, di ogni emergenza, ed è questo un altro tema portante del volume, è che essa, in apparenza, cerca di salvare l’essere umano ma in maniera talmente tirannica e brutale da asfissiarlo.

 E ciò volendo ammettere la buonafede del potere.

 Perché in altri casi invece le emergenze, come insegnava Hayek, sono soltanto dei pretesti per erodere la libertà.

 

La “Danza Macabra.”

TADF: Nel suo testo analizza la funzione della “Danza Macabra”.

A cosa si riferisce?

AV: La Danza Macabra medievale è stato tema iconografico che, fatta salva una breve parentesi storica, ha rappresentato uno strumento di moralizzazione dei costumi, una moralizzazione prettamente di matrice religiosa.

Nel libro mi soffermo sulla rappresentazione della morte e del suo dilagare nel cuore dell’opinione pubblica in tempi emergenziali, utilizzata spesso proprio per mobilitare le coscienze e orientarle ad un certo elevato grado di sottomissione e di pronta obbedienza.

Dal “diritto della paura” di cui parla “Sunstein “alle magistrali riflessioni sulla malattia come metafora sociale di “Susan Sontag”, la danza macabra emergenziale assurge al ruolo di instrumentum regni.

Ad un livello decisamente più basso di questi autori citati, ma non meno incisivo e cristallino nelle sue intenzioni, l’ex ministro” Roberto Speranza” nel suo volume, come noto poi ritirato dal commercio, ha dedicato alcune illuminanti pagine al fenomeno della necessitata “cattura” della opinione pubblica al fine di generare un autentico mantra della nazione intera, chiamata a mobilitarsi contro il virus.

Il punto è che quando tu monopolizzi la produzione della cultura e delle opinioni, il dibattito stesso, facendo rifluire al silenzio tutte le opinioni e le opzioni dissonanti (ciò che “Elisabeth Neulle-Neuman”n definiva “la spirale del silenzio”), proprio nel nome della paura (nel caso di specie, la paura della morte, risultante del dilagare della pandemia), puoi sperimentare la tentazione di usare questo immane potere per imporre una qualche egemonia politica, una qualche agenda istituzionale.

D’altronde, quando si è a rischio di morte, non si discute, non si dibatte, ci si rassegna ad obbedire.

Nell’ordinamento romano, il “dictator” era un magistrato eletto proprio in situazioni emergenziali, e munito di poteri esorbitanti, per fronteggiare il rischio atroce della dissoluzione dell’ordinamento e la minaccia di distruzione e di morte.

Lo spettro della morte, questo incubo, per come viene presentato e “venduto”, è il miglior alleato della strutturazione di una società sempre meno libera.

Prima ho parlato di psicosi climatica; già sentiamo parlare di eco-ansia, e le parole d’ordine utilizzate per imporre una certa agenda sono sempre tremende, orrorifiche, dalla casa in fiamme a un generalizzato “moriremo tutti”, che già aveva caratterizzato i due anni abbondanti di pandemia.

E chi può dimenticare la conta mortuaria serale, con gli alti burocrati sanitari che snocciolavano il rosario dei morti e dei contagiati, ogni singolo giorno?

Propensione a sottomettersi.

TADF: Cosa ha spinto i cittadini ad accettare dure limitazioni della libertà nell’illusione di poter ottenere l’assoluta sicurezza? Forse perché ritengono che essa dipenda esclusivamente dallo Stato?

AV: Il cittadino, per il fatto stesso di essere cittadino, è già di suo propenso a limitare la propria libertà e a sottomettersi.

E nel corso degli anni abbiamo assistito a un oggettivo scadimento del senso critico, del presidio della libertà, in realtà del riconoscere valore stesso alla libertà. Vivere necesse est, insegnano i giuristi. Tutto è sacrificabile se in gioco c’è la sopravvivenza.

Sulla base di questo assunto, lo Stato ha iniziato, già prima e fuori dal perimetro della emergenza, a sussidiare i cittadini, a renderli dipendenti dalla sua mano, a far loro credere che la sicurezza dipende soltanto dalla presenza dello Stato medesimo.

Ne consegue che in stato emergenziale, di una vera emergenza o di una emergenza esagerata nei suoi lineamenti, gonfiata enfaticamente per divenire pretesto per un complessivo giro di vite contro la libertà, il cittadino si sottometterà del tutto, cessando qualunque forma di “resistenza” critica contro ciò che subisce.

 

Anzi, in alcuni casi si renderà volenteroso carnefice, mediante delazioni e segnalazioni varie, come quanto avvenuto in tempo di pandemia ci ha insegnato.

Nel libro riprendo la grande lezione di “de La Boètie”, autore che soprattutto in tempi di emergenza dovrebbe essere tenuto a portata di mano e debitamente letto.

Il “bandito stanziale.”

In quanto allo Stato, è davvero quel “bandito stanziale” di cui, pur nel generale quadro di polemica contro il pensiero anarco-libertario, parlava “Mancur Olson”:

 l’istituzione statale nasce in primo luogo nel ventre pulsante della ricerca di sicurezza, e da questo punto di vista basterebbe ripercorrere le illuminanti pagine sulla genesi del concetto di sovranità, da “Jean Bodin” a “Thomas Hobbes”.

I cittadini, mediante la finzione del patto sociale, si spogliano della loro libertà e stanno in società organizzata, sotto il maglio dello Stato.

In questa misura l’accettazione del potere salvifico dello Stato è già professione di sottomissione.

E la situazione in emergenza peggiora, perché lo Stato finirà con l’esigere un grado ben maggiore di sottomissione.

Nei fatti, la protezione promessa dalla sfera pubblica sembra somigliare a un racket, e in questo senso trovano conferma le analisi radicalmente critiche di “Rothbard” e “Hoppe”.

“Olson” polemizzava con gli anarco-capitalisti, sostenendo che lo Stato bandito-stanziale avrebbe comunque prodotto qualcosa, oltre a depredare, mentre i banditi erranti avrebbero solo distrutto e saccheggiato.

La funzione di protezione statale, in termini di sicurezza, avrebbe dovuto tenere lontani tutti gli altri banditi, lasciando il monopolio della forza in capo a un solo bandito, lo Stato.

Ma in questo caso, il bandito-stanziale, che opera in regime di monopolio, avrà gioco facile a vessare sempre di più i suoi sottoposti, e per paradosso un bandito errante potrebbe garantire condizioni di “sfruttamento” meno inumane.

Proprio per evitare che qualche cittadino possa iniziare a coltivare l’idea di riprendersi la libertà e sottoporre a critica radicale il dogma chiamato Stato, ogni tanto giunge una emergenza funzionale ad azzerare le critiche e le strade organizzative alternative.

Per questo, il cittadino spesso non riesce nemmeno a immaginare che lo Stato possa danneggiarlo.

 E invece dovremmo sempre ragionare con spirito altamente, lucidamente critico. Non credo di esagerare nel ricordare e asserire che il governo della pandemia, a livello globale, è quanto di più prossimo alla tirannia l’Occidente abbia sperimentato dalla fine del secondo conflitto mondiale.

Siamo stati reclusi in casa, sorvegliati, controllati, si facevano le file davanti i supermercati, come in una replica strutturale della DDR, le forze di polizia sono state lanciate dietro runner e passeggiatori su spiagge solitarie, sono stati eretti meccanismi, come il Green Pass, incidenti su libertà costituzionalmente tutelate, siamo stati inondati da obblighi, alcuni dei quali implicavano addirittura se non ossequiati la perdita del posto di lavoro, divieti, limiti, barriere, graziose concessioni sovrane.

Un copione standard.

TADF: Ritiene che le restrizioni imposte negli anni di pandemia possano tornare in vigore in caso di nuove emergenze?

AV: Per ironico paradosso, la Commissione europea e l’Oms hanno annunciato, con enfasi davvero degna di miglior causa, proprio nei giorni in cui il mio libro è uscito, che si sta lavorando a stabilizzare il Green Pass come strumento globale, per contrastare ipotetiche pandemie future.

Il copione è standard.

Si immette nel circuito del dibattito e nell’ordinamento uno strumento gravemente limitativo della libertà, si dice che lo si sta facendo per il bene dei consociati e che comunque sarà uno strumento rigorosamente temporaneo, poi poco tempo dopo si finisce con lo stabilizzarlo.

La permanenza dell’emergenza e dei suoi strumenti di governo rappresenta la sostanza più pura, e preoccupante, dello stato presente.

Del mondo in cui viviamo.

Non dobbiamo mai dimenticare come, dagli anni settanta in poi, gran parte dei meccanismi, degli strumenti, degli istituti giuridici limitativi della libertà originati dal contrasto a una qualche emergenza siano rimasti, spesso inerti ma pronti ad essere adeguatamente ricontestualizzati e utilizzati di nuovo.

Non sono mai stati cancellati del tutto, espunti e buttati a mare.

Ma anzi, spesso si ibridano tra di loro, finendo con il generare dispositivi mostruosi di annichilimento della libertà.

 Fino a qualche anno fa non avremmo mai potuto immaginare, nemmeno nei nostri peggiori incubi, che esseri umani, nel cuore dell’Occidente e di quelle che si rappresentavano come mature democrazie, avrebbero perso il posto di lavoro, e la fonte del loro sostentamento, perché si sono rifiutati, per motivazioni che non dovrebbero nemmeno interessarci visto che attengono alla sfera individuale, di vaccinarsi.

Alla luce di tutto questo, qualcuno potrebbe davvero escludere, escludere del tutto intendo, la nascita che so di un Green Pass climatico?

Salute e sicurezza.

TADF: In che modo promuovere sicurezza e salute senza trascinare la società in un perenne stato d’eccezione?

 

AV: Viviamo in un Paese che ha criminalizzato e vilipeso in ogni modo possibile l’iniziativa privata.

Ancora oggi sentiamo dire che il tracollo del nostro sistema è stato dettato dal neoliberismo, dalle privatizzazioni, una vulgata surreale considerando che viviamo in una roccaforte statalista e collettivista che non fa altro che redistribuire risorse, spesso per motivazioni neo tribali di consolidamento del ceto politico.

Durante la pandemia, abbiamo sentito dire che il nostro sistema sanitario è collassato a causa della ingordigia dei privati e dei fenomeni di privatizzazione.

Qualche politico lo ha pure scritto.

Mi sembra notevole, perché ci dice chiaramente che nulla di buono può provenire dalla politica, se essa è arrivata a questo livello di inganno e di dissimulazione e di infingimento.

Bisognerebbe ricordare ad esempio che nei fatti la politica locale molto spesso ha ingenerato fenomeni di autentico corporativismo e clientelismo;

basta scorrere le cronache giudiziarie per verificare come spesso questo fenomeno distorto arrivi fin nelle aule di giustizia, è in fondo un metodo di consolidamento elettorale e di potere del ceto politico.

Non si tratta di “privati” che gestiscono con logica concorrenziale e di mercato un dato sistema, sia esso quello della salute/sanità o altro, ma di società spesso legate a doppio filo alla politica, fino a determinare un processo osmotico da “capitalismo corporativo”, che si alimenta pure di quell’autentico socialismo municipale che passa attraverso le società (pubbliche) di gestione dei servizi.

Sulla sicurezza, funzione sovrana per eccellenza, il discorso è ancora più radicale.

Lo Stato pretende il monopolio assoluto, qui non c’è nemmeno la giustificazione degli errori o della ingordigia dei privati.

Se la sicurezza non funziona, lo Stato non può che prendersela con se stesso.

Per questo in genere si è costruita la bizzarra categoria della “percezione della sicurezza”:

vivi in una città che è un inferno, ma io elaboro delle statistiche che comunicano sicurezza, le faccio passare per giornali e tg, ti convinco di essere protetto e sicuro, anche se non lo sei per niente.

La soluzione non è “più Stato”.

La soluzione non è, come invocano i politici, “più Stato”, e in genere sono quei politici per cui i servizi pubblici sarebbero “gratis”.

La soluzione è “più individuo”.

Voglio ricordare che noi già oggi, con la sanità pubblica al collasso, ricorriamo ad assicurazioni sanitarie private, ci rivolgiamo a studi medici specialistici privati.

 Nei fatti ci privatizziamo da soli la gestione della salute, con l’aggravante però di dover sussidiare un sistema, quello statale, mediante le tasse, sapendo che non lo utilizzeremo (quasi) mai.

E questo vale anche per la sicurezza.

 Funzione sovrana o meno, sempre più cittadini fanno ricorso a vigilanza privata, a case trasformate in bunker, o si armano, spendendo i loro soldi, ma continuando a pagare le tasse per finanziare servizi di pubblica sicurezza che ormai, specie nelle grandi città, garantiscono un livello di intervento sub-ottimale.

Oppure peggio ancora, paghiamo le tasse per finanziare il servizio di chi è costretto a inseguire i runner…

 

 

 

Ripenseremo ancora.

Non come prima.

Confilosofare.com – iniziativa filosofica- Redazione – (20-2-2022) – ci dicono:

 

I nostri pensieri, come la nostra vita cambieranno.

(Valeria Graffi)

Codogno le nuvole dagli alberi che già oggi è primavera. Piemonte esaurito, non il mio. Coppa l’Italia in mezzo e dai le carte in senso orario. Cori ad angoli pitturati di strada, carri, maschere sul viso in versione Man Ray. Automatismi psichiatrici privi di pensiero.

Prima di uscire ricorda di lavarti le chiavi e attento alla schiena: domenica riapre la caccia alle streghe.

L’ABITUDINE.

(Davide Orlandi)

Più d’ogni altra cosa, temo l’abitudine.

Si insinua nella nostra vita regalandoci sicurezza, ma al tempo stesso offusca la bellezza e spegne ogni velleità del nuovo, ci rende vecchi anzitempo.

L’essere umano, pur di sopravvivere, si è sempre adattato – e assuefatto – alle situazioni più varie, anche spiacevoli, ha accettato la mediocrità, la meschinità, l’ingiustizia , persino la schiavitù (nella Bibbia, il Libro dell’Esodo testimonia come gli Israeliti, liberati dalla schiavitù, alle prime difficoltà giungano a rimpiangere la loro condizione di schiavi in Egitto, gravosa e avvilente, ma che in qualche modo dava loro la certezza di conservare la vita).

Il nostro tempo quotidiano è scandito dalle abitudini, e quanto sia difficile mutarle lo stiamo sperimentando in questo momento nel quale abbiamo dovuto ripensare la nostra vita a causa di un virus che ci è ancora per molti versi sconosciuto.

Oggi ci siamo abituati a vivere prevalentemente entro le mura delle nostre case e quando ne usciamo (il meno possibile) ci muoviamo frettolosi, incontriamo gli altri senza guardarli realmente, ben attenti a evitarli o quanto meno a mantenere la “distanza sociale” quantificata in almeno un metro (ma c’è chi afferma non sia sufficiente).

La distanza viene percepita come mezzo di protezione e non di separazione, non come una ferita, e così talvolta anche la mancanza degli abbracci, delle carezze e delle strette di mano.

È questo che ci aspetta, d’ora in poi?

 In altre parole, mi chiedo:

quando torneremo a una vita “normale”, sentiremo ancora il bisogno profondo di contatti sociali più stretti, ravvicinati e “caldi”, saremo ancora capaci di chinarci (anche nel senso fisico del termine) su chi è debole per aiutarlo, per sollevarlo oppure, abituati alla distanza, lo scanseremo e lo lasceremo, solo, al suo destino?

(Stefania Raschillà)

 

Coronavirus tra paura e contagio: un aiuto dalla filosofia.

La filosofia può accorrere in aiuto in questo momento di terrore, in cui si ha a che fare con i problemi che non hanno una conclusione nell’immediato, poiché offre soluzioni che sono a portata di mano, come la possibilità di convogliare le risorse umane in tolleranza, pazienza e capacità di sostenere l’attesa.

La filosofia può farlo proprio perché si occupa del senso e del significato dell’esistere da una specie di eternità, senza porre vincoli alla riflessione e all’umano desiderio di resistere nonostante tutto.

Pericolo Coronavirus.

Come evitare di essere contagiati emotivamente dalla paura.

 

In questo momento critico, a causa della pandemia da COVID-19, per ogni persona diviene essenziale seguire gli aggiornamenti sul numero dei guariti, sia per tenere sotto controllo la situazione, sia per allontanare la paura e l’angoscia per il futuro.

In verità ogni giorno i dati tradiscono la fiducia personale mostrando un andamento del contagio che non ci si aspetta, attraverso numeri che mettono a dura prova la credenza nel miglioramento.

 Ed è così che lo spavento travolge negativamente le persone, incupendo le giornate, già avviate con difficoltà in un quotidiano che si dispiega al chiuso.

Tuttavia, è possibile fermare il malessere ed evitare che la paura dilaghi, sostenendo il morale e l’attesa di chi vive insieme a noi, fino ad arrivare alle persone con cui non condividiamo il quotidiano ma che in qualche modo sono a noi in questa terribile vicenda.

 Restituire al quotidiano di ognuno nuova linfa attraverso l’immaginazione e la creatività può contribuire a sopportare il disagio e a contenere i pensieri negativi che hanno come effetto l’ansia e l’angoscia.

Lo possiamo fare attraverso la coltivazione della capacità catartica delle arti, della cultura e dell’inventiva che ancora una volta e sempre, ci rendono più resilienti e più capaci di temperanza.

Protrarre più a lungo possibile questa opportunità di tener lontana la paura diviene ogni giorno un’emergenza nell’emergenza.

L’importanza di continuare ad alimentare la speranza facendo rete.

Molte persone ogni giorno mettono al servizio degli altri la loro competenza e il loro lavoro, prima di tutto il personale sanitario e parasanitario, ma anche tutte quelle persone che, al di fuori dagli enti preposti alla tutela della salute, contribuiscono all’efficienza del nostro paese.

Altri sorreggono la comune speranza donando, intrattenendo e condividendo quello che possono e che reputano possa esser d’aiuto a qualcun altro che attende.

C’è chi si offre attraverso un’immagine sui social, un articolo, un video, una canzone o qualcosa di personale, insomma portando al servizio degli altri ciò che possiede, anche solo un messaggio di vicinanza e di presenza ad un numero inaspettato di persone.

La speranza si alimenta a partire dai luoghi, ovvero dalle abitazioni illuminate di pazienza, dove le abitudini personali sono messe in un angolo per far posto ad un tempo sospeso che chiede sacrificio ed attesa. Oggi attraverso la rete stiamo riuscendo a farlo, sfruttando la capacità di creare nuove opportunità grazie al potere dell’immaginazione e della virtuale vicinanza.

La speranza si alimenta attraverso il ripensamento degli spazi, non solo di lavoro ma anche interiori, dove si tiene ferma la volontà di resistere a dispetto di tutto.

La speranza si alimenta portando all’esterno l’energia positiva per sostenere chi soffre, ma anche per ampliare l’orizzonte di pensiero di ognuno, affinché non diventi anch’esso un luogo poco sicuro, come ormai lo sono la vicinanza e le nostre strade.

La sensazione che è possibile venire fuori dalla pandemia serpeggia nell’etere attraverso una comunità che si fa rete per non soccombere sconfitta. L’augurio è che continuino ad embricarsi, mai indomite, la vitalità e l’iniziativa personale, in una disposizione d’animo che non lasci il posto alla rassegnazione, cosicché si possa continuare a navigare a vista nonostante la tempesta.

La filosofia dell’attesa, un aiuto per allontanare la paura.

Quando le scienze dure non possono darci una risposta nell’immediato, l’angoscia prende il sopravvento per l’incertezza che domina gli eventi.

Ecco che allora un aiuto può arrivare dalla filosofia, un ormeggio sicuro, ben poco considerato negli ambienti di lavoro, ma che per fortuna, e a dispetto di tutto, permea le nostre vite in maniera imprescindibile.

La filosofia si occupa delle domande, si prende cura del senso delle questioni ultime, in sostanza si impiega in tutto ciò che si offre alla meraviglia del nostro intendimento, soprattutto, e in particolar modo, quando si ha a che fare con problemi che non hanno una soluzione nell’immediato.

In questo momento di pandemia da coronavirus ogni persona è costretta a fermarsi, è obbligata a perdere tempo, e a stare a casa.

Ma forse è possibile cogliere tutto questo come un’opportunità reale per creare una cultura dell’attesa in maniera congiunta.

Il tempo che rallenta offre infatti ad ognuno una nuova occasione, e cioè quella di poter realizzare qualcosa di utile per sé stessi, per la propria famiglia e per la comunità.

 Nei momenti di crisi, è facile che venga meno la speranza nella salvezza e nella rinascita, ma la filosofia mostra come l’uomo abbia saputo ripensare in ogni epoca il concetto di umanità, restituendole un significato possibile nonostante la brutalità degli eventi e l’inefficienza della scienza e della tecnica.

Pensare al momento presente come ad un destino è ciò a cui siamo chiamati in questo periodo, infatti ognuno nel suo ambito e nelle sue possibilità può contribuire a restituire ogni giorno nuova linfa all’esistenza, attraverso quella libertà che rimane nonostante i divieti: la libertà di reggere nonostante tutto.

Oggi più che mai c’è bisogno di sostegno, di buoni propositi e di pensieri innovativi che alimentino l’umano desiderio ad esistere benché sospesi nelle nostre incertezze

. Oggi più che mai ognuno può contribuire affinché tutto questo succeda.

In questo momento di bisogno possiamo attingere alle scienze sociali, alla medicina narrativa, all’arte e alla musica, forme di vita quest’ultime che hanno il potere di andare oltre l’ineluttabilità degli eventi, scavalcando il dolore e sospendendo per un attimo la disperazione.

Continuare a nutrire gli animi delle persone che vivono con noi, ma anche quelli di chi non conosciamo, sostenendo l’iniziativa positiva, supportando la motivazione e coinvolgendo gli altri in una danza sociale, anche se da lontano, è un potente mezzo che può tenere al sicuro la speranza nel futuro e la buona voglia di crederci ancora.

Facciamolo per noi e per chi sta facendo in modo che si possa ancora pronunciare la parola domani.

(Loredana Di Adamo)

 

La paura, il tempo e la speranza.

La paura, come condizione esistenziale di fragilità dell'essere umano, è preziosa nel mettere in atto meccanismi di difesa, in caso di pericolo, ma è pericolosa quando diventa una minaccia, che non si riesce a dominare.

La paura ci rende vulnerabili e indifesi, genera il senso di inadeguatezza e impotenza, che priva l'uomo della propria libertà.

 I media infondono paura e preoccupazioni, enormemente amplificate, rispetto ai pericoli reali;

sono lo strumento attraverso il quale ci costruiamo un’ immagine del mondo, definiscono la nostra percezione del pericolo, volutamente alterata.

Una pseudo-politica che alimenta la paura, deformando la realtà, annientando il senso critico e compromettendo la capacità di giudizio.

Tutto questo è funzionale a renderci manovrabili.

Orientare la psicologia collettiva nella direzione della paura e dell'ansia consente di controllare l'esistenza delle persone e di isolarle, dove c'è paura non c'è relazione, e dove non c'è relazione è facile dominare.

Una società che ha paura è influenzabile, da qui l'interesse di amplificare ogni percezione di pericolo e di rischio.

 La mancanza di coraggio e di fiducia, ci spinge a rinunciare di assumere ogni responsabilità, preferendo essere allineati a un'idea dominante, rifiutando di prendere una propria posizione, contraria al pensiero comune e diffuso, senza difenderci da chi ci vorrebbe sottomessi e obbedienti, incapaci di seguire il nostro pensiero. 

La cultura della paura indebolisce la libertà, frantuma i legami umani, lo spirito di solidarietà e di cooperazione.

In un contesto caratterizzato dalla contingenza e dall' impossibilità di controllare gli eventi, il tentativo paradossale di eliminare qualsiasi rischio dalla nostra esistenza, produce diffidenza e infine sfocia nell'intolleranza.

Il peso della paura dipende dal ruolo che l'essere umano le permette di avere, solo recuperando la speranza e la fiducia nelle capacità dell'uomo di risolvere i problemi e migliorare la società in cui si vive, si interrompe il circolo vizioso, ripristinando la naturale solidarietà umana.

Il rischio maggiore è il contagio della paura.

Il tempo è la dimensione nella quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi.

Attraverso il tempo si struttura la nostra esistenza, non è solo oggettivamente misurato, ma soggettivo;

è una nostra percezione, che riguarda la nostra esperienza, è la nostra mente che attribuisce un senso al tempo, lo riempie di significato e di valore.

Obbligati a subire il peso degli improvvisi cambiamenti del mondo che ci circonda, carichiamo il futuro di illusioni e aspettative, programmiamo e pianifichiamo per allontanare la finitudine del ciclo vitale, per esorcizzare la paura della fine, per neutralizzare la nostra vulnerabilità, in una faticosa rincorsa della felicità, dove essa non è, nella dimensione futura.

La quotidianità, con i suoi rituali diventa un tempo perso, che ci sottrae all'etica del progettare.

Tralasciando il presente, perdiamo di vista l'effettiva priorità delle cose, sospesi tra la malinconia del passato, nostalgia di un tempo che non ritorna, dove il tempo viene subìto e non vissuto ;

e la speranza, avvolta dall'angoscia per l'imprevedibilita`del domani, dominati dall'impazienza e dall'intolleranza dell'attesa.

 E`questa frenesia che svalorizza ogni attimo di pausa e di silenzio, avvertito come tempo inutile, mentre saturare il tempo permette di non avvertire le emozioni ed evitare il contatto con sé stessi, il più problematico, poiché non c'è possibilità di sottrarsi all'analisi impietosa ed autentica, che emerge dall'incontro con sé stessi.

Il tempo è il valore più prezioso, la felicità è nelle emozioni, e le emozioni esistono nel presente, nell'attimo in cui abbiamo coscienza di percepirle. Il tempo dovrebbe essere impiegato a rideterminare l'effettivo valore delle cose e ristabilire le priorità.

La consapevolezza dell'inesorabile scorrere del tempo e della precarietà della vita, dovrebbero essere monito costante di non sprecare il tempo, di utilizzare al meglio questa risorsa che non è illimitata e che non è recuperabile.

La speranza è tensione esistenziale verso un modo migliore di esistere, è la fiduciosa attesa in qualcosa che non dipende da noi.

Se il futuro è positivo, se in esso è la salvezza, è sufficiente aspettare, attendere, come se non avessimo alcun potere di modificare la realtà. La speranza cristiana che dà la forza di attendere un miglioramento della sorte e la fiducia che il male passerà, genera passività, falsando in merito la rassegnazione vile, distoglie dalla concentrazione sull'immediato

. Il termine assume un'accezione negativa, diventa fonte di debolezza, una trappola a cui aggrapparsi per andare avanti, una lente che distorce le immagini, causando un'interpretazione erronea della realtà.

Se la speranza passiva è quella che mi rende attendista, che produce impotenza, delegando a qualcun'altro la responsabilità della realizzazione di ciò che spero; la speranza attiva mi rende fiducioso nel raggiungimento di un obbiettivo, è la consapevolezza della capacità di fare, è quella che mi spinge all'azione.

La speranza crea la possibilità di vivere il tempo in maniera autentica.

Nel presente l'uomo percepisce e comprende il mondo, intraprende le decisioni, concretizza le scelte.

 L'adempimento della speranza è nel futuro.

. Senza di essa l'uomo è prigioniero delle situazioni, del tempo e del luogo. L' uomo supera le difficoltà, vince la paura e il dolore, grazie a lei.

La speranza come aspettativa di una condizione migliore, connessa al tempo ed al desiderio, condivide con l'attesa la proiezione verso il futuro, cui si rivolge, non è certezza, è un tendere, non è la consolazione dei poveri e dei deboli che restano inerti ad aspettare che le cose cambino, ma è concreta forza di voler costruire la realtà, senza tracce dell'ansia, dell'inquietudine e delle insicurezze che caratterizzano l'attesa.

Siamo noi che andiamo incontro al tempo e poniamo le basi per il nostro futuro, concretamente e con responsabilità, intesa come capacità di rispondere delle proprie scelte, cogliendo le occasioni che si presentano con impegno e motivazione.

La speranza, così, non è illusione, ma apertura alla consapevolezza di resistenza, è apertura alla vita.

 

(Emanuela Trotta)

Come cambieranno i nostri rapporti interpersonali?

Un tempo fare la spesa era uno dei miei passatempi preferiti, da fare con calma, ammirando i colori sui banconi della frutta, assaporando con il naso, libero da costrizioni, i profumi di pane e focacce, scegliendo i prodotti in base al prezzo per risparmiare, leggendo attentamente le etichette con il fine di boicottare le aziende eticamente non irreprensibili, guardando nel carrello degli altri per capire le loro abitudini alimentari, gli stili di vita delle persone che ci circondano, ma oggi è cambiato tutto. Ieri sono uscito a fare la spesa, l’unico lusso che possiamo permetterci di questi tempi per provare a pensare di tornare quanto prima alla normalità, e sarà perché la mascherina mi appanna gli occhiali, sarà perché il fatto di mantenere un metro di distanza dagli altri mi manda in confusione, ma devo dire che questa operazione non mi piace più, è diventata un’esperienza ansiogena, mi sono accorto di avere paura delle persone.

È duro pensarlo, ma è così, io ho paura delle persone.

Non riesco ad immaginare come sia stato difficile per chi si trovava a lavorare ancora gomito a gomito con gli altri quando la pandemia era stata già annunciata, costretto da un sistema economico che bada più al profitto dell’azienda che alla salute dei cittadini.

 Tuttavia, nell’unica occasione più o meno libera che ci è rimasta di incrociare gli altri, cioè nei supermercati, la paura dell’altro diventa palpabile.

Appena l’ingestibile carrello stracolmo di viveri e derrate di qualcun altro si avvicina troppo a te, sei costretto a virare bruscamente, a girarti dall’altra parte, a dargli le spalle per cercare di non respirare la sua aria, che magari è contagiata e nemmeno lui o lei ne è consapevole.

Solo da lontano gli sguardi si possono incrociare, perché solo gli occhi restano liberi dalla deturpazione del nostro volto operata dalla varietà di mascherine disponibili: sono sguardi attoniti, increduli, smarriti, intenti in un’operazione da concludere velocemente, perché è diventata veicolo di contagio e quindi altamente rischiosa.

Ci sono delle interessanti ricerche sulla distanza interpersonale che vanno sotto in nome di prossemica, le quali analizzano i gesti, i comportamenti, gli spazi e le distanze all’interno della comunicazione umana.

Esse distinguono una distanza intima di 45 centimetri da una distanza personale, fino ai 120 centimetri, e poi una distanza sociale e una distanza pubblica;

si tratta di spazi che variano anche a livello culturale, nel senso che esistono delle culture che accorciano di molto quella intima, come quella araba, e altre che la dilatano notevolmente, come quella giapponese, almeno così riferiscono gli studi interculturali.

Ebbene, una delle conseguenze della diffusione globale del virus, che è giunto ormai perfino in ogni singola isola sperduta degli oceani Pacifico, Indiano e Atlantico, sta nel fatto che per legge si è stati costretti, in nome di un coatto distanziamento sociale, ad annullare sia le differenze culturali sia le differenze tra le varie tipologie di relazioni, imponendo, ormai noi saremo costretti a dire d’ora in poi per DPCM, una distanza interpersonale di 1 metro, circostanza che, alla lunga, potrebbe condurre anche a ridisegnare e livellare i comportamenti umani e sociali su tutta la superficie del pianeta Terra.

E, allora, per ovviare alla paura degli altri, si ripiega nella situazione più congeniale, si torna a casa e si tira un sospiro di sollievo, qui si è al sicuro.

Le mura di casa sono diventate il modo per sconfiggere l’angoscia di un pericolo diffuso, di un pericolo che è veicolato dall’altro, che è dappertutto perché cammina con le gambe di coloro che sono all’esterno, di cui non conosci le frequentazioni, gli spostamenti, fossero anche fratelli, sorelle, genitori, cugini, che vivono in altre abitazioni e sui cui è legittimo dubitare.

 La casa, invece, ci dicono tramite i DPCM, è sicura, almeno dal contagio del virus, ed è bello riscoprire quella dimensione casalinga, vivere finalmente l’affettività in maniera piena, prolungata, impegnandosi, come si vede ormai dappertutto nei social, a preparare pietanze insieme ai bambini, a giocare, a parlare, accedendo finalmente alla distanza intima.

Eppure, non riesco a non pensare in questi giorni, per una personale predisposizione alla tragedia, lo ammetto, a tutti quei difficili rapporti familiari che si reggevano su una condivisa separazione, pur vivendo sotto lo stesso tetto, delle esistenze.

Penso a chi tra lavoro, corsetta, calcetto e cena con colleghi conduceva una vita tutto sommato serena, in equilibrio, limitando al minimo le frequentazioni familiari al fine di far funzionare tutto, e oggi si ritrova in una clausura forzata che rasenta la prigionia esistenziale di esseri umani costretti, fino a nuove disposizioni del DPCM, all’infelicità.

È chiaro che si tratta di una situazione temporanea, un mesetto, si diceva, e poi torneremo alla normalità, ma se non dovesse trattarsi proprio di un mesetto?

È chiaro che l’unico modo per neutralizzare definitivamente il virus è iniettarci un siero, un vaccino e tornare alla normalità, ma se non riuscissimo a trovare il vaccino?

 E se tutto ciò dovesse protrarsi a lungo, diciamo anche per diversi mesi, anni, con ritorni di fiamma, recidive e recrudescenze provenienti da altre zone del mondo?

Chissà se sarà l’economia a scoppiare per prima o le relazioni familiari, io penso le seconde e adesso capisco perché gli americani, che sicuramente mi battono in quanto a tragicità nella visione del mondo, si siano precipitati a comprare armi.

 

(Michele Lucivero)

IL PENSIERO NELLA PERIFERIA DEL MONDO.

La casa il simbolo umano della sicurezza e dell'appartenenza al mondo è diventata in questi giorni il luogo di protezione dei nostri corpi.

C'è qualcosa al di fuori del bordo della nostra porta, in un angolo nascosto potrebbe improvvisamente colpire, e non è un virus, è la paura.

Dinanzi ad una primavera che con tutta la sua indifferenza continua a manifestare il risveglio della vita, la specie umana subisce una battuta d'arresto, il suo adattamento biotico si blocca.

Ma il nostro pensiero viaggia fino a perdersi nei meandri di sé stesso. Così cerchiamo di proiettare una paura invisibile su elementi visibili.

Perché il pensiero arriva a tal punto?

Il nostro adattamento biotico implica la possibilità di poter agire sul mondo, il nostro pensiero, ben lungi dall'essere astratto è l'energia che muove l'azione, ma tale energia sembra sconvolta dagli eventi che stiamo vivendo.

Tuttavia, essendo lontano dai ritmi incessanti delle dinamiche sociali, l'essere umano è costretto a ripensare la sua vulnerabilità, e soprattutto a riconcettualizzare il suo posto nel mondo.

 L'irruzione di un virus rompe definitivamente nella storia occidentale il modello simbolico espresso dall'Uomo vitruviano: l'uomo al centro del cosmo, sembra adesso costretto a rimanere nella sua periferia.

La nostra attenzione è tutta spostata su un virus, ma a farci paura è la vulnerabilità umana.

In un periodo storico in cui tutto viene letto attraverso i canoni del modello taylorista, insidiatosi nella parte occidentale del globo, l'uomo ritorna a se stesso. L'essenza umana si scopre, e nella sua nudità ripensa all'ancestrale collegamento con la morte.

Siamo talmente incapaci di accettare la nostra impotenza, che tentiamo di evadere piuttosto che arrenderci al necessario cambio di prospettiva, a cui questo virus ci conduce.

Occorre dunque pensare all'uomo non più come elemento superiore nella scena del mondo, ma come colui che deve riprendere coscienza della filosofia stoica, la quale mirava ad una armonia profonda tra uomo e natura.

 Proprio per questo la prima riflessione necessaria è di natura ecologica. Il rispetto per i ritmi delicati del ciclo naturale dovrà innervare tutta la filosofia successiva. La seconda riflessione deve risvegliare la politica, abbiamo bisogno di un ancoraggio alla filosofia di “E. Lévinas”, cioè di una politica fondata sempre più sull'etica, e non sulla speculazione economica.

Tutto ciò che ci spaventa non è più il virus, ma la nostra incapacità di fronteggiare il lento trascorrere del tempo e il contatto con le nostre cicatrici emotive.

La nostra razionalità collide sempre più sulla parte emotiva dell'humanitas. Non c'è alcun motivo di perdere la speranza. Il tempo trascorso in casa deve condurci ad assaporare il qui e ora, la consapevolezza della gratuità dell'essere e della comunione con il risveglio della natura, a cui assistiamo quando scorgiamo lo sguardo alla finestra.

La fiducia nella vita, nella sua forza silenziosamente dirompente, ci sprona ad abbracciare la speranza nel futuro.

Sempre più consapevoli che dobbiamo avere paura del virus, ma non del virus della paura. Nello scorcio di un incalcolabile e imprevedibile futuro si avverte l'esigenza di ripensare il ruolo della Filosofia nelle scelte etiche e politiche future, e come guida indispensabile delle generazioni che verranno.

 

(Corleto Rocco Michele)

Esorcizzare la paura.

 

 

È inutile nasconderselo. Non c’è nulla di cui vergognarsi. In questi giorni di isolamento forzato, ancor più che il coronavirus (ché se si sta chiusi in casa è praticamente impossibile contrarlo), il nemico da battere è la paura.

E non si tratta di essere o apparire più o meno forti: la paura assale tutti, chiunque e comunque; per quanto si possa negare anche a sé stessi, al di là di ogni possibile dissimulazione, è un sentimento con il quale fare i conti, che non si può evitare di pensare.

Abbiamo paura per noi, per le nostre vite, per i nostri figli, i nostri parenti, gli amici ed i semplici conoscenti. Abbiamo paura per il nostro futuro.

È una paura forte e legittima che deriva non solo dal mistero legato alla presenza di questo nemico invisibile e subdolo, che quando si manifesta è ormai troppo tardi, ma che è alimentato dal fatto che nessuno di noi (nemmeno medici e scienziati) sa quando tutto questo finirà, non sa quando queste nostre quarantene produrranno il loro effetto, non sa quando questa clausura non sarà più necessaria.

Angosciosi interrogativi assalgono le nostre menti. Quanti saranno i portatori inconsapevoli di questo virus?

Arriverà alle nostre porte? Davvero lo si può fermare chiudendo città, aeroporti, stazioni, vie e piazze, mettendo in quarantena milioni di persone?

È il ritorno tragico ed il compiersi di una maledizione antica.

 Ritornano alla memoria le pagine manzoniane studiate svogliatamente a scuola. Ci si ricorda di quelle di “García Márquez”. E poi” Kafka”.

Si rivedono come spettri i monumenti che in mezza Europa richiamano epidemie lontane ed oggi invece tanto vicine: la peste ed il colera che hanno distrutto popoli e nazioni con ineffabile violenta rapidità.

 Qualcuno ricorda la “spagnola”, altri l’ebola.

Ci si scopre impreparati, psicologicamente e culturalmente. Perfino le fedi vacillano. Intanto, l’epidemia si tramuta in pandemia e veicola il terrore, alimenta incubi.

Pandemia. Pan e demos. Tutto e popolo. Pandemia.

Che appartiene a tutto il popolo. Una malattia, un cataclisma, una catastrofe. Si ammalano i corpi. L’ora della disperazione è la più nera. E si ritorna a guardare in faccia il dolore.

Ed allora, tra un passato a cui non si può più tornare, un presente che al momento appare terribile ed un futuro che non sappiamo immaginare (peggiore o migliore?), come reagire? Cosa fare? Come comportarsi?

Per fermare l’epidemia abbiamo bisogno di cambiare praticamente tutto quello che finora eravamo abituati a fare ogni giorno:

il nostro modo di lavorare, socializzare, fare shopping, pensare alla nostra salute, educare i nostri figli e prenderci cura delle nostre famiglie.

Gli storici ricordano che le grandi epidemie, così come le guerre e le carestie, hanno sempre avuto la forza di scuotere intere civiltà provocandone una rigenerazione morale e spirituale dovuta ad una vera e propria reazione alla rottura della quotidianità, alla sospensione delle regole, all’esposizione ad una morte incombente.

D’altronde, ci hanno sempre ricordato che la parola “crisi” (di origine medica) nasce per indicare quel momento in cui un certo modo di vivere viene sostituito con un altro perché divenuto nel frattempo insostenibile.

E la parola “crisi” significa anche “separare, decidere”: sinonimi in chiave medica che servono per spiegare il “momento critico”, quello in cui si deve scegliere tra la vita e la morte, ovvero tra una riapertura verso il futuro ed una distruzione del presente, che è poi all’origine della crisi.

Siamo in grado di scegliere?

Abbiamo il coraggio e la forza di fare questa scelta?

 

(Maurizio Bonanno)

Vite sospese, vite che ritrovano la dimensione di riscoprire se stessi, in famiglia/famiglie a distanza, separate o unite, che si ritrovano, altre che si finiscono di perdere, altre che continuano migliorandosi ,padri o madri che assaporano il vivere pienamente con i figli, altre che i figli li subiscono.

Alzarsi, senza darsi scadenze, senza l'osservare l'ora, nella preghiera personale.

Essere consapevoli che ciò che davamo per scontato tale non è, consapevoli che il tempo è definito dall'incertezza. Per chi si ammala la cosa più brutta non è l'incertezza del vivi o muori, ma come muori ,solo con te stesso ,privo di conforto ,privo della tua stessa dignità.

Per chi rimane il vuoto ,il freddo e la tristezza nel cuore, una guerra con un nemico invisibile, un nemico tremendo ,che non fa differenze, né di bandiere, ne di colore, duro da battere ,millesimale di grandezza ma potente come un grande esercito, non lo vedi, non sai se lo eviti .

Medici in prima linea soli, angeli e agnelli da sacrificare, si battono fino allo stremo, concreti, concreto è l'amore di chi si dona altruisticamente.

Governi messi a servire popoli, che non servono, incapaci di ascolto.

Una tenebra, avvolge il cammino, sospesi, progetti rimandati, rimandato il lavoro insicuri per il domani.

Denaro, petrolio, progresso, crescita, tutto risulta inutile, tutto rimane in secondo piano, scuola, socialità affidata a un video, o a un telefono, amori vissuti a distanza, fidanzati divisi da luoghi diversi, uniti da un messaggio, questo è reale, ma tutto appare surreale.

 Questo ci farà gustare più saggiamente il ritorno alla libertà, ci farà affrontare i problemi seri, e scartare i problemi inventati, ci darà il senso di una realtà perduta, ci insegnerà a vivere in virtù, ci insegnerà a eliminare il superfluo, guariremo dal virus certamente, ma guariremo da noi stessi e da una società deteriorata? 

 

(Stefano Giannoni)

La condizione di emergenza che l'Italia e il mondo vivono induce ad una molteplicità di riflessioni.

 Ne vorrei sviluppare due.

La prima, che si potrebbe definire di carattere “ontologico”, è che abitare la realtà senza prestare ascolto alla sensibilità della Natura significa offenderla.

Il mondo vuole e deve essere compreso nel suo senso; siamo abituati solitamente a ritenere che siamo noi singoli individui a dover essere capiti e non ci preoccupiamo di comprendere cosa la realtà esterna cerca di comunicarci.

Non è semplicemente questione di rispetto per l'ambiente, è capacità di empatizzare con il Tutto che il mondo rappresenta.

La seconda è che la vicinanza della morte nei propri confronti cambia il modo di vedere le cose.

 La morte a me prima sembrava sempre lontana, forse troppo.

Ora il fatto che in teoria chiunque si possa ammalare e morire me l'ha resa più vicina e quindi maggiormente accettabile.

“Heidegger” parlava di essere-per-la-morte intendendo che la vita degli individui è progettata nei confronti della morte e trova senso rispetto ad essa.

 Il filosofo tedesco non intendeva riferirsi al decesso fisico, ma all'evento della morte inteso in chiave metafisico-ontologica, come destino proprio del singolo individuo e dell'umanità in generale rispetto al suo fondamento trascendente.

L'adesione dell'individuo all'”amor fati” come lo intende “Nietzsche” impone di comprendere e di accettare quello che sta accadendo, ponendosi il più possibile nella condizione di “ascolto” della trascendenza.

 

(Edoardo De Santis)                                                                       

 

La rivoluzione del lavoro durante e dopo il Coronavirus.

Il perdurare già da un paio di mesi, o poco più per le regioni del nord Italia, di una situazione inedita e inimmaginabile di sospensione delle routines della vita quotidiana, dopo un primo momento di smarrimento per la pesante limitazione della libertà, compensata da qualche giorno dagli effetti positivi di un trend che                                                                                           

comincia ad essere incoraggiante, impone oggi, anche come buon auspicio, di pensare al dopo-Coronavirus, a riflettere, cioè, come se ci fossimo già lasciati tutto alle spalle, su cosa potrebbe restare domani di questa brutta esperienza, quando torneremo tutti a lavorare, a salutare i nostri cari, a prendere aperitivi ai bar e a mangiare ai nostri soliti ristoranti.

Forse è ciò che il nostro profondo inconscio vorrebbe davvero e noi non possiamo negare, in queste circostanze, al nostro pensiero di elaborare riflessioni positive, ma poi ci tocca fare i conti con la realtà, guardare i dati e attrezzarci per rimettere insieme i pezzi del nostro paese a partire da azioni politiche concrete e iniziative economiche di ampio respiro.

In questi giorni abbiamo assistito inermi, senza poter interagire e manifestare adeguatamente e politicamente le nostre opinioni, a causa della limitazione anche del diritto di protestare pubblicamente, ad una serie di criticità in diversi settori nel sistema Italia e non solo.

È chiaro per tutti, ormai, che in assenza di un vaccino che giunga a debellare completamente la malattia, non ci resterà che ripartire gradualmente, perché prima o poi bisogna ripartire, con numerose precauzioni per la nostra incolumità ed è altrettanto chiaro a tutti che alcune attività non possono, per la loro natura eminentemente sociale e a stretto contatto fisico, più riprendere, giacché sarebbero davvero in pochi a voler rischiare la propria salute e, in ogni caso, non dimentichiamoci che questo stato di emergenza legislativa, in cui il regime liberale e deliberativo individuale è sospeso a fronte di decreti che ci dicono cosa possiamo e cosa non possiamo fare, durerà molto a lungo.

Ad ogni modo, c’è un aspetto che risulta interessante in questi giorni e che merita di essere analizzato attentamente sin d’ora, prima che sia troppo tardi, ed è legato al lavoro da casa, ribattezzato sintomaticamente smart-working, che tecnicamente dovrebbe significare “lavoro agile” e anche “lavoro intelligente”, anche se poi pare che nella lingua inglese nemmeno esista tale espressione, e che fu già regolato dalla Legge n. 81 del 22 maggio 2017 “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato” senza grandi conseguenze.

E già perché la svolta radicale ed epocale che il Covid19 ci lascerà in eredità a livello mondiale ha a che fare, nell’ambito delle trasformazioni economiche dei modi di produzione, con una incredibile accelerazione mondiale sulla flessibilità e sulla volatilizzazione fisica di tutti i lavori che finora erano svolti in presenza e ora, a causa della decretazione d’emergenza, giacché anche quella d’urgenza è cosa superata, sarà svolta tranquillamente da casa.

Questa rivoluzione economica che intacca i modi di produzione, soprattutto nell’ambito dei servizi, diventa oggi possibile grazie ad una informatizzazione a tappeto dei nostri paesi:

il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha affermato chiaramente che la procedura di informatizzazione del paese doveva essere un’opera già conclusa (era uno degli obiettivi principali, non senza conflitti d’interesse, dei Casaleggio), ma adesso diventerà un imperativo per la gestione della pandemia, per la tracciabilità dei movimenti di ciascun soggetto, anche per quei pochi anziani rimasti nel piccolo paesino di montagna che non ha all’attivo nessun caso di positività al virus, possedere smartphone, connessione e applicazione in grado di monitorare costantemente i movimenti di ogni singola persona.

Ecco, questa informatizzazione forzata globale, e necessaria per certi versi, del nostro come di ogni singolo paese di ogni singolo Stato, che, tra le altre cose, imporrà l’implementazione della rete mediante 5G senza adire ad ulteriori discussioni e polemiche, perché anche quelle sono sospese fino a data da destinarsi, non tarderà ad essere sfruttata dal capitalismo, che ha l’incredibile forza di trasformarsi costantemente e di insinuarsi senza difficoltà in tutte le situazioni in cui, nonostante l’emergenza, si possa massimizzare il profitto. Insomma, l’immagine di questo capitalismo che non tarda ad approfittare della situazione undici anni fa a L’Aquila era rappresentata da chi, davanti all’ecatombe per un disastro naturale, vedeva, sghignazzando, nella ricostruzione una possibilità di estremo guadagno e oggi da chi, nell’ambito dell’editoria, si fa ritrarre in video e fregandosi le mani rassicura i suoi collaboratoti, dicendo che andrà tutto bene perché con qualche chiamata ha sistemato tutto e ha implementato i guadagni delle sue aziende: voilà, è il capitalismo che si aggiorna, signore e signori!

E allora la vera rivoluzione che nell’ambito dell’economia e nei modi di produzione ci lascerà in eredità questa pandemia avrà a che fare con la presa d’atto, perché di fatto lo si sta facendo, che metà del lavoro che prima si svolgeva in presenza all’interno di dispendiosi uffici localizzati, con l’informatizzazione forzata di tutto il paese, che ha costretto tutto il personale dipendente, giocoforza, ad adattarsi alle mutate condizioni lavorative e ad aggiornarsi, obtorto collo, sulle piattaforme disponibili online, si potrà svolgere anche tranquillamente da casa e non c’è dubbio che il capitalismo ci possa mostrare gli aspetti positivi di una siffatta svolta che pone l’enfasi sul fatto che si possa tranquillamente lavorare da casa.

Ecco, forse, però, un po’ di prudenza sarebbe necessaria.

 Aspettate a cantare vittoria, perché ogni volta che il capitalismo si reinventa, esso pensa soprattutto a sé stesso, alla massimizzazione del proprio profitto, non ai diritti e alle condizioni dei lavoratori, cui poi dovranno pensarci altri soggetti istituzionali in tempi in cui, chissà quando accadrà, la normale dialettica politica sarà ripristinata, nel frattempo il capitalismo continua ad agire indisturbato anche in condizioni d’emergenza, perché questa è la sua natura!

(Michele Lucivero).

 

 

 

 

Taiwan non è l’Ucraina: cosa Taipei

deve imparare e cosa deve temere.

Aliseoeditoriale.it – Francesco Dalmazio Casini - (31 Maggio 2022) – ci dice:

 

Agli USA serve l'isola, meno l'Ucraina: differenze e analogie di due conflitti che si parlano.

(Ripubblichiamo in occasione delle tensioni tra Cina e Stati Uniti in merito alla visita della speaker del congresso Nancy Pelosi sull’isola di Taiwan.)

La geopolitica non è una scienza esatta.

Non perché priva di leggi fondamentali, ma in quanto valida in maniera ondulatoria.

Ciò che accade in un dato punto si riverbera e viene recepito alla luce di lenti antropologiche, che danno vita a percezioni e calcoli differenti in base alla collettività osservante.

 L’invasione russa dell’Ucraina è per noi europei la (ennesima) notifica che il mondo che abbiamo sognato e della cui esistenza ci siamo convinti in un trentennio è in via di liquidazione.

Per gli Stati Uniti è bega che lambisce a stento in confini dello spazio decisivo. Vista dal Cremlino è disperata ricerca di quel minimo di profondità strategica necessaria a non scomparire e dalle trincee di Kiev è affannosa lotta per la sopravvivenza.

 Per i terroristi kashmiri una notizia che lascia indifferenti e per l’Australia un’occasione per esprimere la propria solidarietà al fronte occidentale.

E così via.

Gli esempi sono uno per ogni gruppo umano del pianeta.

Ma cosa è questa guerra per Taiwan?

Provincia ribelle del Dragone, esistente nel terrore che Pechino prima o poi venga a regolare i conti come ormai promette esplicitamente.

Qui vedere l’orso russo che ghermisce la piccola Ucraina – una manciata di mesi dopo la rocambolesca fuga occidentale da Kabul – deve avere un effetto psicologico profondo.

Di quelli inconcepibili per chi non è nato e cresciuto all’ombra di un vicino ostile, ingombrante ed estremamente più capace militarmente.

Taipei però non è Kiev.

La maschera indossata è la stessa, quella di presidio del mondo libero nelle fauci del nemico autoritario.

La centralità strategica nei disegni degli alleati diametralmente opposta: la prima è fondamentale, la seconda sacrificabile.

Né la geografia né la storia, come il tessuto industriale e le capacità belliche, segnano punti di collegamento tra l’Ucraina e Taiwan.

Eppure, esiste la possibilità che l’invasione russa possa impercettibilmente alterare le equazioni anche dall’altra parte del mondo, in quello stretto dove si gioca la partita del secolo tra Washington e Pechino.

Al contempo, la guerra di Putin offre molto materiale su cui gli strateghi taiwanesi devono riflettere e studiare.

Taipei non è Kiev

Prima differenza fondamentale.

Per gli Stati Uniti Taiwan è perno insostituibile nella strategia di contenimento della Repubblica popolare cinese.

 L’Ucraina è un asset “offensivo”, una bomba inesplosa alle porte di Mosca con cui, a piacimento, poter destabilizzare la Federazione russa.

Si trova al di là della linea rossa della nuova cortina di ferro, costruita su quella trincea di paesi NATO che dalle repubbliche baltiche arriva fino al Mar Nero con la Romania.

Quella linea di contenimento che è la frontiera del cruciale spazio europeo e mai l’America permetterebbe che i russi la insidiassero.

Tra Taiwan e la Cina, al contrario, c’è solo il mare.

 L’isola è uno dei punti cardinali di quella collana di isole e penisole che recinge nei propri mari domestici la Cina.

Una serratura che le impedisce il libero accesso al Pacifico e dunque lo status di potenza marittima, requisito insostituibile per sfidare l’egemonia americana.

Si tratta di un nemico ben più pericoloso della Russia, che qualora prendesse il mare avrebbe le carte in regola, a partire dal potenziale economico, per competere realmente nella partita globale.

In caso di un assalto cinese sarebbe poi più facile, oltre che più conveniente, intervenire per una potenza come gli Stati Uniti.

In primis Washington gode di una cornice normativa più strutturata per quel che riguarda le forniture militari all’esercito di Taipei.

 Una porta lasciata aperta con l’accordo del 1979, con cui gli USA, pur riconoscendo la sola Cina continentale, si riservavano di “fornire a Taiwan sistemi d’arma difensivi” e “mantenere la capacità degli Stati Uniti di opporsi all’uso della forza o altre forme di coercizione che mettano a rischio la sicurezza del popolo taiwanese”.

“Ambiguità strategica” tradotta nei fatti, dato che Washington non ha mai smesso di armare Formosa – che tutt’oggi si affida per la maggior parte a sistemi americani, come l’ombrello antimissile Patriot per la cui manutenzione il Congresso americano ha da poco approvato una vendita da 100 milioni di dollari.

Sostegno che è andato come prevedibile ad aumentare insieme alle tensioni con la Cina e che ormai include senza imbarazzi anche sistemi offensivi, a partire dalle corpose partite di caccia F-16, acquisite per circa 9mld di dollari dall’aviazione taiwanese.

Non c’è paragone tra gli aiuti letali che sono stati forniti in fretta e furia alle forze armate ucraine nel corso degli ultimi mesi di tensione.

Lontano dai riflettori, l’Occidente arma Taiwan dal 1946.

Geografia del soccorso.

Le stesse capacità militari dell’isola sono di scala diversa.

Nonostante una popolazione di appena 23 milioni di abitanti, Taipei può permettersi di spendere 11,5 miliardi di dollari per la propria Difesa, con l’intenzione (già tradotta in legge dal parlamento) di toccare i 17 miliardi per l’anno corrente.

Il governo di Kiev è riuscito ad arrivare a quota 6 miliardi solo nel 2020, nonostante l’incremento continuo a partire dalla crisi di Maidan.

L’isola conta inoltre su un complesso industriale sviluppato, capace addirittura di dare vita a una classe indigena di sottomarini.

La geografia segnerebbe infine considerazioni diverse da parte degli alleati che stessero valutando di intervenire in caso di conflitto aperto.

Come ai tempi della guerra fredda, se NATO e Federazione russa incrociassero le spade (oggi in Ucraina, all’epoca lungo il passo di Fulda), non ci sarebbe nessuna barriera geografica in grado di impedire l’escalation.

La guerra si tramuterebbe in uno scontro di larghissima portata, segnato dall’utilizzo di divisioni corazzate e bombardamenti indiscriminati – che interesserebbero anche le città, luoghi cruciali nelle strategie di difesa e attacco delle forze in campo.

 Escalation praticamente scontata e quasi sicuramente nucleare, come già previsto nei piani di entrambe le potenze ai tempi della guerra fredda e come ha confermato nuovamente Vladimir Putin, con le sue “conseguenze mai viste prima”.

Un’ipotetica difesa di Taiwan sposterebbe il campo di battaglia tra le onde. Sarebbero missili, bombe e razzi a farla da padrone, con maggiori possibilità che il conflitto resti circoscritto.

Gli Stati Uniti, qualora decidessero di intervenire, lo farebbero per tramite dell’aviazione e della marina – tenuta il più possibile a distanza di sicurezza.

 Il Dragone reagirebbe bombardando navi e installazioni americane nel Pacifico.

 I costi sarebbero enormi, ma nessuna delle parti in causa vedrebbe la propria sopravvivenza messa a rischio.

Questione di armi.

Tra le cose che a Taiwan stanno guardando con maggiore interesse c’è sicuramente la lezione militare che stiamo vedendo sul campo.

Le forze ucraine stanno imponendo all’orso russo costi esorbitanti in termini di vite e materiale.

Lo stanno facendo anche grazie agli aculei affilati che le potenze occidentali hanno fatto pervenire in fretta e furia nelle mani dei difensori di Kiev.

In particolare sono gli economici sistemi d’arma spalleggiabili, antiaerei e anticarro, che oggi reclamano un tributo sanguinoso alle forze della Federazione.

Aculei di cui dispone anche Taipei, inseriti in quella che gli analisti militari chiamano “strategia del porcospino”.

Incapaci di combattere con Pechino ad armi pari, le forze taiwanesi intendono costruire un sistema di difesa a strati, imperniato su asset leggeri, manovrabili e poco costosi, che imponga al Dragone un costo più alto di quello che possa permettersi.

Le fortificazioni marittime sarebbero assicurate da centinaia di mine sommerse e, secondo alcuni analisti, dalla possibilità di incendiare tratti degli oleodotti sommersi per creare delle barriere fiammeggianti in corrispondenza dei punti di sbarco.

 In un’analisi apparsa su “The Diplomat” viene stimato che la Repubblica Popolare avrebbe bisogno di mobilitare tra 1,4 e 2,2 milioni di uomini per avere margine di successo accettabile nell’invasione, schierando al contempo “migliaia o addirittura decine di migliaia” di vascelli civili e militari per assicurare lo sbarco.

Un simile numero di navi, da guerra ma anche petroliere, portacontainer, pescherecci, ecc. servirebbe sia a trasportare la massa di invasione che a fornire bersagli “falsi” alle difese costiere.

La condizione imprescindibile perché Taiwan possa sperare di resistere ad un simile dispiegamento di forze è che la sua capacità missilistica e antimissilistica non venga compromessa.

 Per farlo la strategia – ancora una volta rimarcata pubblicamente dalla leader “Tsai” – è quella di moltiplicare i punti di fuoco, renderli mobili e occultabili e facilmente riparabili, in modo da non dover mai interrompere il tiro contro le forze della RPC.

Difficile ma non impossibile se si considera che nel ’91 in Iraq la coalizione occidentale non riuscì a distruggere nessuna delle batterie antiaeree di Saddam nonostante 90.000 tonnellate di bombe e che all’aviazione Nato servirono due mesi per mettere a tacere 3 delle 22 batterie antiaeree della Serbia – a dimostrazione dell’efficacia di falsi bersagli e nascondigli anche nell’era delle bombe guidate.

Per fare questo Taiwan si è dotata di un impianto missilistico multistrato.

Si passa dai sistemi di produzione americana, Patriot, Patrior MSE e Harpoon – i primi intercettori, i secondi offensivi antinave – ai sistemi di razzi ad alta mobilità M142, la cui gittata di 300km permette di estendere la copertura a quasi tutte le isole taiwanesi – anche quelle antistanti alle coste cinesi.

Rimarranno in servizio anche le batterie Thunderbolt-2000 MRLS, con gittata di 45km e pensate esclusivamente per la difesa anfibia.

A completare il quadro della difesa i lanciarazzi a spalla in dotazione alle truppe, recentemente dispiegati anche sulle isole a sud di Taiwan.

Gli stessi javelin e stinger che i soldati russi stanno sperimentando sulla propria pelle.

C’è poi un fattore orografico determinante.

In totale sono 14 le spiagge su cui la Marina cinese può tentare lo sbarco.

 Sulla maggior parte di queste torreggiano le catene montuose dell’isola.

Più di 250 punti di Taiwan si elevano oltre i 3000 metri di altezza.

 Le alture rappresentano una difesa naturale dagli attacchi aerei e brulicano di punti di fuoco e fortificazioni in cemento armato, oltre ad accogliere hangar nascosti per l’aviazione.

Gli invasori sarebbero costretti ad effettuare lo sbarco – in qualsiasi punto decidessero di toccare terra – sotto il tiro dei difensori asserragliati tra le montagne.

Se la Cina decidesse ad esempio di sbarcare nella spiaggia di Linkou, vicino Taipei, i difensori avrebbero buon gioco a sparare dal pianoro di Linou (sulla destra, 250m), dal picco Guanyin (sopra la spiaggia, 650m) e del picco Yangming (sulla sinistra, 1000m).

Sia le spiagge che i percorsi che da queste conducono agli obiettivi da occupare sono state studiate con cura dagli strateghi taiwanesi.

Tunnel sotterranei conducono in prossimità delle coste, che in caso di scontro sarebbero disseminate di trappole, filo spinato e ostacoli di vario genere.

 

Cruciale sarà anche il fattore sorpresa.

 Le isole taiwanesi antistanti al Fujian sarebbero spazzate via rapidamente, ma la loro posizione rende quasi impossibile alla Cina comunista organizzare l’invasione, preparare lo sbarramento missilistico e approntare una flotta gigantesca senza che le forze taiwanesi entrino in allerta.

Inoltre, l’assalto anfibio è strettamente legato alle condizioni meteorologiche del canale, favorevoli allo sbarco nei soli mesi di ottobre e aprile.

Fattori che rendono il nostro scenario ipotetico estremamente differente da quello ucraino e che da soli basterebbero ad allontanare il parallelismo che tanto spesso vediamo rimbalzare sui giornali in questi giorni.

 Per essere schietti, appena un centinaio di chilometri di pianura separano Kiev dal confine col nemico.

Nessun “potere frenante dell’acqua” (Mearsheimer), nessuna barriera geografica, solo le “mura di uomini” a tenere il nemico fuori dalla porta di casa.

Mai fidarsi delle sanzioni?

Anche le sanzioni meritano qualche considerazione.

 Gli elementi principali che emergono dalla pioggia di sanzioni occidentali sono essenzialmente due.

Primo: nessuna azione cinetica sarà mai arrestata da una misura economica. A maggior ragione se consideriamo che l’aggressore avrà avuto modo di valutare l’impatto delle rappresaglie finanziarie in anticipo.

 Secondo: il costo economico che ricade inevitabilmente anche sui sanzionatori.

Veniamo al primo aspetto.

Se una potenza decide di aggredire militarmente un Paese limitrofo, nello spazio di pochi giorni si troverà a combattere una guerra convenzionale sul suolo nemico.

A questo punto, come nel caso odierno, altri attori vicini all’aggredito impongono sanzioni economiche.

 Queste non si configurano come un argine al dilagare delle truppe nemiche ma come una rappresaglia ai danni dell’apparato industriale e del tenore di vita della popolazione.

In nessun modo possono colpire le forze dispiegate sul territorio, a meno che gli attaccanti non abbiano messo in contro un’operazione di lunghissimo periodo – caso che non riguarda né l’Ucraina né un ipotetico coup de man a Taiwan.

 Per chi deve difendere le proprie case sotto una pioggia di proiettili, il fatto che l’economia dell’attaccante sarà duramente colpita nel medio periodo è una consolazione magra, una variabile tutto sommato trascurabile nell’equazione del conflitto.

Nel brevissimo termine, vale a dire la finestra in cui si svolgerà l’operazione militare molto probabilmente, l’attaccante sarà preparato a gestire la guerra finanziaria.

 Mosca potrebbe ad esempio aver stimato a ribasso la reazione economica dell’Occidente, ma sarebbe stata folle a non metterla in conto.

 Le riserve in oro e argento, i fondi sovrani e l’implementazione di una rete internet nazionale sono lì a dimostrarlo.

Il secondo aspetto riguarda i costi delle sanzioni per l’economia globale.

Oggi siamo in una fase in cui le misure economiche non hanno ancora esplicitato il loro potenziale distruttivo.

Nonostante questo, i rincari energetici e l’impennata di alcune materie prime – nichel e grano – e prodotti – fertilizzanti, olio di semi – sono già reali.

E stanno colpendo tanto i sanzionatori quanto i sanzionati.

L’Europa (in maniera minore gli Stati Uniti) soffrirà in maniera dolorosa il” decoupling” con la Federazione russa, anche qualora gli idrocarburi restassero fuori dal paniere sanzionato.

 

Ora riportiamo una situazione come quella di oggi sul nostro ipotetico conflitto per Taiwan.

La Cina potrebbe soffrire maggiormente le sanzioni occidentali di quanto non stia facendo la Federazione russa.

 Faglie strutturali, disponibilità della popolazione a soffrire per l’avventurismo geopolitico e la dipendenza dal mare sono fattori di estrema differenziazione.

Questo non toglie che il solo export del Dragone (2600 miliardi di dollari) è superiore all’intero prodotto interno lordo della Russia.

 Il contraccolpo rischierebbe seriamente di mandare all’aria la globalizzazione, costringendo i Paesi europei (che con Pechino fanno affari d’oro) a misure estreme come la soppressione del sistema di welfare o il razionamento dei beni di prima necessità.

Contemporaneamente, il prezzo dei beni voluttuari schizzerebbe alle stelle.

A Taiwan, intanto, si continuerebbe a sparare.

Il Dragone sarebbe colpito al cuore dalle sanzioni, specie qualora incorresse la chiusura degli stretti da cui transita il petrolio che alimenta la fabbrica cinese.

Le riserve di materie prime e valuta estera che la Cina sta accumulando servirebbero a tenere in piedi l’apparato produttivo il tempo di concludere le operazioni militari.

Il fato della globalizzazione sarebbe deciso dalla guerra economica.

Quello dell’isola dalla guerra degli uomini.

E questo assunto deve essere ben chiaro ai difensori di Taipei.

Taiwan non deve “ammalarsi” di Afghanistan.

Veniamo alla domanda fondamentale:

in che modo l’invasione russa può colpire un’isola a decine di migliaia di chilometri di distanza?

Il tutto ha a che fare con la percezione della propria sicurezza.

 Sentire profondo del Paese, incline ad essere alterato più dalle narrative che dai mutamenti strategici. Sarà qui che il Dragone tenterà di incassare i dividendi del conflitto ucraino.

Il rischio è che presso i satelliti degli Stati Uniti, gradualmente e a partire dai più piccoli, si diffonda quella che potremmo definire “sindrome afghana”.

 I soci di minoranza dell’impero americano potrebbero ammalarsi di sfiducia, convincendosi, sulla scia delle figuracce internazionali di cui l’Afghanistan è massima espressione, non solo del prossimo declino dell’egemone ma anche della sua propensione a servirsi degli alleati quando necessario e abbandonarli al momento opportuno.

Le parole durissime di Zelensky contro la NATO suonano da monito.

Con la sua retorica infuocata il presidente ucraino vuole colpire gli Stati Uniti nell’orgoglio.

 Insiste sul fatto che l’Occidente sia troppo debole per imporre la chiusura dei cieli dell’Ucraina, sperando che questo, in un moto di alterigia, risponda in maniera istintiva.

Una NATO che per Zelensky non solo è debole ma disonesta. All’ennesima conferma che nessuno avrebbe appoggiato l’implementazione di una no-fly zone, il presidente ha reagito sbottando:

“Tutto quello che l’alleanza è stata in grado di fare oggi è stato procurare 50 tonnellate di diesel per l’Ucraina.

 Forse sono quelle con cui bruciare il Memorandum di Budapest” – riferimento all’accordo del 1994 in cui le principali potenze dell’epoca (tra cui USA e Russia) si fecero garanti dell’integrità territoriale della neonata Ucraina.

La dottrina delle “tre guerre” elaborata nel 2003 dalla Repubblica popolare cinese insiste proprio all’interno di questa cornice.

Evoluzione in salsa mandarina dei concetti di guerra asimmetrica, la dottrina punta a stabilire la superiorità del Dragone modellando l’opinione e la psicologia pubblica, il contesto politico e il frame normativo.

Riprendendo il pensiero di “Sun Tzu”, la Cina intende prima di tutto minare la volontà del nemico a combattere, convincendolo che un confronto lo vedrebbe inequivocabilmente sconfitto.

 In questa definizione allargata di conflitto tutto può essere sfruttato per gli interessi della RPC.

 Dai media che leggono nella crisi ucraina – perché imbeccati da Pechino o perché vittime anch’essi della manipolazione – il disfacimento dell’egemonia americana, alle prove di forza della marina sinica nelle acque del Pacifico.

Non è un caso che nei momenti concitati dei primi giorni dell’operazione russa navi cinesi siano tornate a farsi vedere nelle acque contese dello stretto e i jet abbiano ripreso a violare la zona di identificazione dell’isola.

Lo scopo è convincere Taipei che Zelensky stia dicendo il vero e che nessuno correrà a salvarli nel momento del bisogno.

Approccio rischioso, che potrebbe rivelarsi un boomerang per Pechino.

Se la manipolazione riesce, l’isola e i suoi difensori ne usciranno fiaccati nel morale – e la resistenza ucraina sta ricordando al mondo quanto possa fare da sola la volontà a non cedere.

 Ma qualora la guerra di propaganda risulti in fallimento, l’opinione pubblica taiwanese ne uscirebbe più radicalmente convinta delle proprie possibilità e del posizionamento anticinese. (Francesco Dalmazio Casini).

Il virus del Tgr Leonardo del 2015

e il Covid-19 non sono parenti,

ecco perché.

Ilriformista.it - Valerio Rossi Albertini – (27 Marzo 2021) – ci dice:

 

La tesi scientifica.

Le fake news le conosciamo.

Notizie create appositamente per ingannarci, o notizie vere, ma distorte e manipolate ad arte.

Le fake news spesso si diffondono in un modo che definivamo “virale”, senza forse renderci conto del suo significato proprio.

Ora, nostro malgrado, lo abbiamo capito fin troppo bene.

Le fake news sono difficili da combattere, perché c’è sempre qualche ingenuo e qualche sprovveduto disposti a prestare fede, o qualche malintenzionato risoluto a sostenerle e propagarle.

Tuttavia, non siamo del tutto disarmati.

Ci sono criteri precisi per filtrarle ed identificarle, ricorrendo a fonti autorevoli e accreditate o, quando possibile, risalendo all’autore o al falsificatore.

La notizia circolata nei giorni scorsi, di un servizio del tg Leonardo, di Rai3, non appartiene a nessuna di queste categorie, il servizio non era né falso, né alterato.

 È del 2015 e parla di ingegneria genetica.

La copertina si presenta così.

Mentre scorrono immagini di laboratori di biologia, una voce fuori campo esordisce annunciando:

«Scienziati cinesi creano un super virus polmonare da pipistrelli e topi».

Quindi precisa, con tono rassicurante: «Serve solo per motivi di studio», però poi incalza «ma sono tante le proteste» e assesta la stoccata finale: «Vale la pena rischiare?».

Riporto anche il passaggio seguente che, in tempo di distanziamento sociale forzoso, suona come una profezia di Nostradamus:

 «È un esperimento, certo, ma preoccupa tanti scienziati.

 Un gruppo di ricercatori cinesi innesta una proteina presa dai pipistrelli sul virus della Sars, la polmonite acuta, ricavato da topi.

 E ne esce un super virus che potrebbe colpire l’uomo».

Tgr Leonardo del 2015 annunciava Coronavirus: “Creato in un laboratorio cinese, dal pipistrello all’uomo.”

Come il Coronavirus inganna le nostre cellule, un cavallo di Troia che infetta.

“Che altro serve? È lui.

 È tutto chiaro. Ve l’avevo detto io che c’era sotto la guerra biologica!

Altro che zuppa di ali di pipistrello.

 Ci volevano far credere che il virus fosse uscito dal calderone della strega di Biancaneve…”

Hanno gridato ad una voce i complottisti.

 In effetti, anche chi non sia molto incline ad accreditare tesi di cospirazioni planetarie o di regie di Grandi Vecchi, è rimasto comprensibilmente scosso.

 I riferimenti erano così precisi e le osservazioni così calzanti, che qualche domanda ce la siamo fatta tutti.

Questa non era una fake news, era un servizio autentico, genuino, di una rispettabile testata giornalistica, riportato così come era stato trasmesso, senza tagli e senza doppiaggi posticci.

E spiegava: «un organismo modificato innestando la proteina superficiale di un Coronavirus trovato nei pipistrelli… su un virus che provoca la Sars, la polmonite acuta…

Si sospettava che la proteina potesse rendere l’ibrido adatto a colpire l’uomo e l’esperimento lo ha confermato».

 Organismo modificato, Coronavirus, pipistrelli, polmonite acuta, colpire l’uomo.

 Le parole chiave di questa epidemia ci sono tutte, non ne manca nessuna.

 La tentazione di arrendersi all’evidenza e rivalutare le voci dissonanti dall’informazione ufficiale era forte.

Ma è proprio in questo momento di confusione, di stordimento, di angoscia che dobbiamo ricordarci quello che predichiamo sempre a chi inizia a dubitare dei medici e rischia di finire alla corte di veggenti e guaritori.

La guida deve essere la scienza.

La scienza è la sola titolata ad esprimere un giudizio equanime e imparziale, è il solo strumento idoneo a contrastare le pulsioni irrazionali.

E i biologi molecolari non hanno tardato a fare chiarezza, nel modo più autorevole e convincente, con uno studio rigoroso pubblicato da una delle massime riviste di scienza al mondo, Nature (Medicine).

Questa è la virtù della scienza, come ci insegna Bruno Mars: don’t believe me, just watch!

 Chi avesse dubbi sulla correttezza delle loro conclusioni, può commissionare la replica dell’esperimento a un altro laboratorio qualificato del mondo ed otterrebbe la stessa diagnosi.

 In questo modo, ogni residua ipotesi di complotto si dissolve.

Ma come fa questo studio a dimostrare che il virus artificiale, la “chimera”, prodotto dai biologi cinesi, è imparentato con il Covid-19, ma non è lui?

 Fanno come Lorenzo Valla, il grande umanista.

Fino al ‘400, il potere temporale dei Papi era stato legittimato da un presunto editto dell’Imperatore Costantino a favore di Papa Silvestro, contenente donazioni e privilegi.

Valla dimostrò che quel documento non poteva essere stato redatto nel quarto secolo perché conteneva una serie di incongruenze ed anacronismi, alcuni termini appartenevano al latino medievale ed erano sconosciuti a quello classico.

Ecco cosa doveva cercare il gruppo che ha pubblicato l’articolo su Nature per dimostrare che il virus cinese sintetico del 2015, la chimera, non può essere il Covid-19:

alcuni tratti distintivi del Covid-19 incompatibili con le modalità di creazione della chimera…

E dove potevano cercare queste caratteristiche?

Nel posto più naturale, il materiale genetico dei virus.

 Per produrre la chimera, i biologi cinesi hanno inserito un tratto del genoma di un altro virus all’interno di quello del coronavirus del 2015.

Un tratto intero!

 Invece il Covid-19 non differisce dal coronavirus del 2015 per un tratto del suo genoma, ma per numerose variazioni distribuite lungo tutto il genoma.

E queste variazioni sparse non possono essere il frutto di un’operazione di ingegneria genetica.

Al contrario, sono il segno distintivo dell’evoluzione naturale, quella descritta da Darwin, cioè errori commessi durante la replicazione che si spargono casualmente, un po’ e un po’ là.

Immaginiamo il genoma del coronavirus del 2015 come una catena di un certo colore, bianca ad esempio.

I biologi cinesi hanno preso un pezzo di genoma di un altro virus, una catena rossa, ne hanno tagliato un pezzo e l’hanno inserito nella catena bianca.

Quindi la chimera ha un genoma rappresentato dalla catena bianca del coronavirus 2015, tranne per il tratto rosso introdotto.

Al contrario, il Covid-19 ha un genoma che è simile alla catena bianca del coronavirus 2015, ma con anelli di colore diverso distribuiti casualmente.

 La chimera e il Covid19 hanno molto in comune, perché entrambi discendono dal coronavirus del 2015, ma non sono parenti stretti e, tanto meno, gemelli. Quindi no, non è Francesca…

(Valerio Rossi Albertini)

 

 

 

 

Lo “Spillover” alla sorgente dei

nuovi virus che infettano l’uomo.

 Ilpapaverorossoweb.it – Redazione – (23/03/2021) – ci dice:

 

Il virus responsabile della pandemia che ha già colpito 152 paesi nel mondo è un nuovo ceppo di coronavirus, famiglia di virus diffusi in molte specie animali, inclusi uccelli e mammiferi tra cui l’uomo, ma diverso da tutti quelli che in precedenza avevano colpito gli esseri umani.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha identificato il nome della malattia in COVID-19 (abbreviazione per COronaVIrus Disease-2019) mentre la Commissione Internazionale per la Tassonomia dei Virus ha assegnato al virus che causa questa malattia il nome definitivo SARS-CoV-2 (Sindrome Respiratoria Acuta Grave - Coronavirus 2).

Si tratta, infatti, di un virus simile a quello della SARS, ma più contagioso e meno letale.

La comparsa di nuovi virus patogeni per l’uomo, prima circolanti solo in altre specie animali, è un fenomeno conosciuto come “Spillover”, titolo di un libro di successo del giornalista scientifico americano “David Quammen” (il volume risale al 2012, in Italia è stato pubblicato da Adelphi) che racconta come alla base di epidemie come l'Ebola ci sia la distruzione degli ecosistemi, in particolare quelli forestali, i più complessi e ricchi di biodiversità.

Spillover significa “salto interspecifico”, il momento in cui un patogeno passa da una specie ospite a un’altra, in questo caso da animale a uomo, e si pensa che proprio questo fenomeno sia alla base anche dell’origine del nuovo coronavirus.

Per capire l’evoluzione del virus e il suo passaggio attraverso diversi ospiti, bisogna sapere infatti che ogni volta che il virus infetta un ospite, lì mescola il proprio patrimonio genetico con quello di altri virus presenti (come i virus influenzali), oppure mutando rapidamente singole lettere del proprio RNA (come i coronavirus).

Quindi si riproduce a spese della cellula che infetta e poi abbandona l’ospite, ma con un corredo genetico diverso, che lo rende in grado di infettare nuove specie.

 La prossimità di molteplici individui di specie diverse, come quella che si riscontra in grandi mercati di animali come quello di Wuhan, dove sembra avere avuto inizio l’epidemia da SARS-CoV-2, può quindi creare i presupposti favorevoli a questo processo.

Recenti studi dimostrano, infatti, la somiglianza tra il SARS-CoV-2 e altri coronavirus simili presenti in alcune specie di chirotteri (pipistrelli), appartenenti al genere Rhinolophus, che potrebbero aver costituito il serbatoio naturale del virus.

Questi pipistrelli sono ampiamente presenti nella Cina meridionale e in tutta l’Asia, il Medio Oriente, l’Africa fino all’Europa.

 I chirotteri sono l’ordine di mammiferi con più “familiarità” con i virus, probabilmente a causa di alcuni fattori biologici, come la spiccata socialità che li porta, per il riposo o il letargo, a concentrazioni elevatissime (fino ad un milione di individui in un sito), la loro lunga storia evolutiva, che li ha portati a maturare con molti virus un legame di coabitazione, e la capacità di volare che li porta a diffondere e contrarre virus su aree molto estese.

Altre recenti ricerche scientifiche hanno rilevato un’elevata corrispondenza tra il genoma del SARS-CoV-2 umano ed il genoma di un coronavirus trovato in un pipistrello nella provincia cinese di Yunnan, sebbene si sia subito registrata una differenza tra le rispettive sequenze RBD (Receptor Binding Domain), cioè la sequenza genetica che codifica i recettori che servono ai virus per legarsi alle cellule e penetrarvi.

Questo ha portato a pensare che il virus del pipistrello, prima di arrivare all’essere umano, sia passato attraverso un ospite intermedio.

Secondo i ricercatori cinesi della” South China Agricultural University”, a facilitare la diffusione del nuovo coronavirus potrebbero essere stati i pangolini, piccoli mammiferi insettivori, le cui otto specie esistenti sono tutte a rischio estinzione secondo la IUCN,” l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura”.

 I pangolini sono gli animali più contrabbandati al mondo per via delle infondate credenze sui poteri curativi delle loro scaglie, ma anche per la loro carne.

 Nel frattempo, altre ricerche condotte da un team dell’”Università Campus Bio-Medico di Roma”, suggeriscono invece che l’origine della pandemia si possa rintracciare proprio nei pipistrelli venduti vivi e macellati nei mercati cinesi, da cui si sarebbe trasmessa da animale a uomo e successivamente per via respiratoria tra gli umani, tramite fluidi, colpi di tosse, starnuti.

In sostanza, ad oggi non sappiamo ancora quale sia stata la genesi del SARS-CoV-2.

 L’unica certezza, però, è che all’origine di questa nuova patologia si nasconde il commercio, spesso illegale, di animali selvatici vivi e di loro parti.

Questa pratica è veicolo per vecchie e nuove zoonosi, e aumenta il rischio di pandemie che possono avere grandissimi impatti sanitari, sociali ed economici su tutte le comunità coinvolte.

Tale meccanismo è già stato osservato in passato, quando un virus, forse originatosi nei pipistrelli, si adattò ai dromedari e successivamente alle persone, causando nella penisola arabica l’epidemia di MERS nel 2012.

Nel 2002, invece, la sindrome respiratoria acuta grave (SARS) comparve in un mercato cinese che vendeva “civette delle palme” (Paradoxurus hermaphroditus), che a discapito del nome sono mammiferi viverridi noti anche come “musang”.

 

Fra gli studiosi anche la virologa di Wuhan, “Shi Zhengli”, ha identificato decine di virus simili alla SARS, grazie alle sue numerose ricerche nelle caverne dei pipistrelli.

Nel corso delle diverse stagioni, per ben cinque anni consecutivi, “Shi Zhengli” ha condotto intensi campionamenti nella grotta di “Shitou”, nella periferia di “Kunming”, la capitale dello “Yunnan”.

Questi sforzi hanno dato i loro frutti e i ricercatori di agenti patogeni hanno scoperto centinaia di coronavirus trasportati dai pipistrelli con un'incredibile diversità genetica.

 «La maggior parte di loro sono innocui, ma decine appartengono allo stesso gruppo della SARS e potrebbero infettare le cellule polmonari umane», ha affermato “Shi Zhengli”. E avverte che ce ne sono altri.

 

Per molti, i fiorenti mercati della fauna selvatica della regione, che vendono una vasta gamma di animali come pipistrelli, zibetti, pangolini, tassi e coccodrilli, sono perfetti focolai virali.

Il commercio di animali selvatici è infatti un comprovato veicolo di vecchie e nuove zoonosi, che ogni anno causano circa un miliardo di casi di malattia e milioni di morti.

Il 75% delle malattie umane fino ad oggi conosciute, infatti, deriva da animali, così come il 60% delle malattie emergenti viene trasmesso da animali selvatici.

La recente decisione della Cina di vietare sul proprio territorio nazionale il commercio di animali vivi a scopo alimentare rappresenta una scelta di fondamentale importanza, ma ancora non sufficiente.

Ancora una volta, l’uomo si trova a dover fronteggiare con colpevole ritardo una pandemia favorita dalle sue stesse azioni che avrà costi enormi sia in termini di vite umane che a livello sociale ed economico, ma imparare dal passato per evitare in futuro gli stessi errori è sempre possibile.

(WWF).

 

 

 

Covid: la situazione in Italia oggi.

Clementi: "Si va verso la fine della pandemia".

Gazzetta.it – Maria Elena Perrero – (26 settembre 2022) – ci dice:

Tra chi dice che "la pandemia è finita" e un bollettino che incute ancora qualche timore, facciamo il punto della situazione con il professor Massimo Clementi, virologo del San Raffaele di Milano.

(Maria Elena Perrero)

Il bollettino con i contagi e i morti che ci accompagna dall’inizio dell'epidemia di Covid-19 non ha ancora abbandonato la nostra quotidianità, e mentre qualcuno dice che siamo ormai fuori dalla pandemia c’è chi teme che l’autunno possa portare ad una nuova ripresa delle infezioni da coronavirus Sars-CoV-2.

Ma come stanno davvero le cose?

“Sicuramente il Covid c’è ancora, il coronavirus Sars-CoV-2 circola e infetta tutt’ora.

 Ma è un’infezione stile Omicron, dunque con una sintomatologia più legata alle vie respiratorie superiori che a quelle inferiori, fatta eccezione per una minoranza di casi che riguardano persone con comorbidità e difese immunitarie basse”, chiarisce a Gazzetta Active il professor Massimo Clementi, docente di Microbiologia e Virologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele, direttore del Laboratorio di Microbiologia e Virologia dell’Ospedale San Raffaele di Milano e autore, insieme al microbiologo Giorgio Palù, del saggio Virosfera.

Situazione Covid Italia a settembre 2022.

COVID, LA SITUAZIONE IN ITALIA OGGI: PANDEMIA O ENDEMIA? 

La domanda che molti si pongono è se la situazione attuale del Covid sia ancora quella di una pandemia o se si stia ormai andando verso un’endemia, con l’evoluzione dell’infezione verso una forma stagionale.

“La mia idea, che è poi l’idea prevalente, è che la fase pandemica non sia ancora terminata, ma che sia in una fase di notevole regressione, e che le ondate che potrebbero presentarsi quest’autunno potrebbero essere di entità minore rispetto al passato sia dal punto di vista del numero dei contagi sia da quello della gravità dei contagi.

Questo a meno che non si sviluppino nuove varianti letali, ma tenderei ad escluderlo - sottolinea il professor Clementi -.

Dunque l’attesa è di un graduale spegnimento della pandemia con ondate sempre minori, fatta eccezione per una possibile ricomparsa stagionale.

È ancora presto per dire che siamo fuori dalla pandemia, ma non manca molto.

L’infezione da coronavirus Sars-CoV-2 sta diventando un’infezione umana con un numero di casi ancora elevato ma che non determina più particolari problemi dal punto di vista sanitario ed ospedaliero, men che meno nei reparti di rianimazione”.

Riguardo al numero dei morti tutt’oggi diffuso nei bollettini sulla situazione Covid, il professore ricorda che “tra i morti con Covid vengono conteggiati anche coloro che sono entrati in ospedale per altre patologie o disturbi ma che sono risultati positivi al Sars-CoV-2.

 Che poi ci  sia una quota di persone con patologie diverse, cardiovascolari o polmonari ad esempio, che vedono la loro patologia aggravata dall’infezione da Sars-CoV-2 è possibile, ma questo accade anche con altre infezioni epidemiche”.

COVID E FUTURE EPIDEMIE.

 Come sottolineato anche nel suo libro” Virosfera”,

il professor Clementi ricorda come l’esperienza del Covid debba mettere in allerta su possibili nuove epidemie analoghe in futuro.

 “Dovrebbe essere la nostra preoccupazione principale.

Lo si è visto anche con il “West Nile virus”, un virus che ha come serbatoio i volatili selvatici ma che viene trasmesso all’uomo attraverso la zanzara culex.

Questo virus e questa zanzara sono arrivati da lontano, così come la zanzara aedes albopictus, nota come zanzara tigre, che fino a poco più di 20 anni fa in Italia non esisteva.

 Noi virologi dovremo monitorare in continuazione quello che accade nell’interfaccia tra uomo, ambiente e animale e studiarne le minime variazioni.

E gli esperti dovranno essere ascoltati.

 

Quando non lo si fa accade come nelle Marche:

i geologi avevano lanciato l’allarme sui possibili rischi di inondazioni e non sono stati ascoltati.

Il risultato è tragica cronaca”.

 

 

 

Non si mette in dubbio la scienza

senza validi dati e teorie scientifiche.

Ilfoglio.it - ENRICO BUCCI – (14 GIU 2023) – ci dice:

    

Il dubbio è l'unico modo per garantire il progresso della conoscenza.

Non è un caso che il sogno di ogni scienziato sia quello di trovare un fatto che sfidi i limiti consolidati della conoscenza scientifica.

Ma il dubbio deve tradursi in un progetto di verifica per essere produttivo.

Vorrei qui riprendere, ad uso dei lettori di questa pagina, un mio recente, brevissimo argomento, in risposta a certi dubitatori seriali che ritengono di poter criticare le tesi della comunità scientifica, semplicemente asserendo che di esse si deve dubitare, ed equiparando il dubbio che una teoria sia falsa, al dubbio generico circa il fatto che una posizione scientifica, quando è veramente tale, è sempre migliore di una che manca delle caratteristiche di metodo, riscontro fattuale e coerenza interna tipiche delle affermazioni dei ricercatori.

Questo tipo di confusione occorre perché molte persone, quando non riescono a trovare argomenti a sostegno delle loro idee preferite sulla validità di alcune affermazioni scientifiche, ricorrono a un argomento che ritorna spesso:

 quello del dovere del dubbio da parte degli scienziati, che viene invocato per dire che chi difende il darwinismo o il cambiamento climatico antropogenico non avrebbe una posizione scientifica perché non metterebbe in dubbio le proprie affermazioni.

Fin dai tempi di Socrate, il dubbio è stato riconosciuto come una posizione epistemica privilegiata;

è l'unico modo per garantire il progresso della conoscenza.

Qualsiasi scienziato che possa definirsi tale sa bene che un singolo fatto contrario ben documentato può uccidere la migliore teoria.

In realtà, il sogno di ogni scienziato è proprio quello di trovare un fatto che sfidi i limiti consolidati della conoscenza scientifica e di mettere gli occhi su qualcosa di nuovo e sconosciuto.

Quanto più grande è la parte dell'edificio scientifico interessata da quel fatto nuovo, unico e ben documentato, tanto più è importante scoprirlo e tanto più è probabile trovare qualcosa di veramente rivoluzionario.

Tuttavia, il dubbio generico che alcune delle nostre conoscenze debbano essere reinterpretate, falsificate o integrate non è sufficiente:

è davvero necessario trovare qualcosa di sbagliato - un buco nella nostra comprensione - per arrivare a un dubbio interessante invece di una banale e generica affermazione sull'impermanenza di ciò che conosciamo.

CATTIVI SCIENZIATI.

È invece un patetico stratagemma di chi nega la scienza sostenere che le attuali conoscenze scientifiche sono provvisorie, senza proporre nulla di meglio, per negare sia il valore epistemico della scienza sia le prescrizioni che derivano dalla conoscenza.

La conoscenza prodotta dalla scienza moderna è sicura non per le informazioni che fornisce, ma per il metodo utilizzato per produrla.

Pertanto, chiunque voglia attaccare tale conoscenza deve utilizzare lo stesso metodo, o la sua argomentazione sarà irrilevante.

Se non siete convinti dell'abiogenesi, proponete un'ipotesi alternativa che sia testabile.

Se ritenete che il darwinismo non sia sufficientemente provato, allora presentate prove che contraddicano le montagne di dati pubblicati e che possano essere organizzate in un nuovo modello di scienza che spieghi anche tutto ciò che il darwinismo spiega.

Se non accettate l'idea che l'estrema complessità degli esseri viventi derivi da processi elementari e molto ben descritti, che sebbene non possano essere ricostruiti per il caso particolare di un qualsiasi organismo vivente oggi, sono necessari e sufficienti per spiegare l'esistenza di qualsiasi organismo;

allora dovete formulare una teoria migliore o portare una descrizione di test per metterla alla prova.

Il dubbio, in quanto stato generale volto a verificare ciò che crediamo sia vero, è la forza motrice della scienza, ma il dubbio deve tradursi in un progetto di verifica per essere produttivo.

Non solo, ma quello che spesso si dimentica è che il dubbio dovrebbe essere usato per verificare la propria sfiducia nelle affermazioni scientifiche prima di dubitare delle affermazioni stesse.

Questa è un'umiltà che manca a molti, che invece pretendono l'umiltà dai loro avversari.

 

Dubitare di tutto, certo.

Ma dubitare innanzitutto dei propri dubbi e della propria competenza nell’affrontare una data questione, e poi esaminare i propri dubbi per individuare il metodo che serve per portarli a soluzione, di modo che si dimostrino fondati oppure che, di converso, si dissolvano rispetto alla tesi scientifica attaccata.

Post Scriptum.

Il dubbio irragionevole cui qui ci siamo riferiti, usato per combattere la scienza, è una versione alternativa, ma equivalente, dell'argomento dell'incompletezza.

Questo suona più o meno così:

poiché ogni parte della nostra conoscenza scientifica è incompleta, ne consegue che dovremmo aspettare prima di accettare la conoscenza scientifica.

 La risposta ad una tale posizione è la stessa che abbiamo già discusso:

chi ritiene che una teoria sia così completa da essere inutile o troppo fragile, porti dati e teorie, per costruire modelli del mondo di pari valore esplicativo a ciò che si critica, o almeno suggerisca un modo per testare l’idea che l’incompletezza di una particolare area di conoscenza ne precluda l’utilità.

 

 

 

L’apertura del sapere scientifico

alla filosofia e al problema della verità.

Disf.org - Karl Jaspers – (10-5-2020) – Danile Colonna – ci dice:

 

Interdisciplinarità e Unità del sapere.

L’idea di Università.

La scienza non può essere definita soltanto in termini di utilità pratica, né come qualcosa di “fine a sé stesso”. La scienza nasce dal desiderio incontenibile dell'uomo di conoscere.

Per essere tale, la scienza fa assunzioni generali, ma necessita di ricevere una direzione, altrimenti rischia di perdere il suo significato.

 È la fede nell'unicità della realtà che anima la volontà di conoscere e fa emergere la trascendenza sovrastante la ricerca;

conseguentemente, l'atteggiamento scientifico presuppone la veridicità e richiede l'accettazione della critica.

 Così, la scienza rispetta il campo di ricerca della filosofia e n'è pervasa nella sua attività;

la filosofia, a sua volta, riconosce la scienza indispensabile e garante anch’essa di veridicità.

La scienza utilitaristica versus la scienza concepita come un fine già in sé stessa.

Fin dai tempi di Bacone e Cartesio si è cercato si giustificare la scienza provando la sua utilità.

Cartesio considerò ciò che segue come ragioni decisive a favore della scienza:

 la sua utilizzazione per congegni che fanno risparmiare lavoro e fatica, per un migliore soddisfacimento dei bisogni umani, per il miglioramento della salute, per un miglioramento dell'efficienza a livello politico e comune, infine persino per l'"invenzione" di una "moralità scientifica".

 Uno sguardo più approfondito ci mostrerebbe anzitutto che tutte le applicazioni tecniche hanno i propri limiti;

la tecnologia è solo un campo nel vasto regno della possibilità umana.

 In secondo luogo, le grandi scoperte fondamentali non sono manifestamente state dovute partendo da considerazioni di utilità pratica.

Tali scoperte furono fatte senza alcun pensiero circa la loro applicabilità.

 Sono scaturite da strati della mente avida di sapere che noi non possiamo controllare o predire.

Un'applicazione fruttuosa in una schiera di invenzioni particolari è possibile solo una volta che il piano di lavoro teoretico sia stato posto.

Lo spirito della ricerca e lo spirito pragmatico dell'invenzione differiscono in modo essenziale.

Sarebbe assurdo, senza dubbio, contestare o l'utilità della scienza o il suo diritto di essere a servizio dei fini pratici della vita.

Questi danno significato ad alcune branche della scienza.

 Ma l'utilità pratica non può essere l'intero o il solo significato della scienza. Questo è perché il bisogno di alcune invenzioni non diede vita alla scienza (i grandi scopritori nel complesso non erano inventori).

 L'invenzione da sola non potrebbe mantenere in vita la ricerca scientifica in modo stabile.

Alcuni si sono opposti alla subordinazione della scienza alla tecnologia e al miglioramento delle condizioni di vita dichiarando solennemente che la scienza è già un fine in sé stessa.

Invero, la scienza è un fine al punto tale che essa esprime la sete fondamentale e primaria dell'uomo per il sapere.

Questa sete per la conoscenza essenzialmente precede tutte le considerazioni di utilità.

 In effetti, la conoscenza ridotta a fattori pragmatici non è tutta la conoscenza.

 La ricerca fondamentale dell'uomo non si regge o non crolla in dipendenza di un certo ideale educativo che possiamo avere della storia.

 Qui la conoscenza è valutata esclusivamente dal punto di vista di principi e modelli comuni e per la sua capacità di formare l'intera persona secondo l'ideale accettato.

 La mera curiosità, il desiderio ingenuo di vedere l'insolito e lo sconosciuto e di apprenderli di seconda mano sotto forma di esperienza e di risultati, riescono quasi a preservare la primaria freschezza della ricerca di conoscenza da parte dell'uomo

. Ma la curiosità tocca le cose soltanto, non le afferra. L'interesse rapidamente sorto rapidamente è perduto. Prima che essa possa diventare un elemento di conoscenza, la curiosità deve innanzi tutto essere trasformata.

Così trasformata non richiede più giustificazioni di qualsiasi tipo ed è allo stesso tempo meno capace di contare su sé stessa.

L'uomo soltanto, tra tutti gli esseri, considera sé stesso umano finché è coinvolto nel processo della conoscenza.

Lui soltanto vuole affrontare le conseguenze di questa conoscenza.

Egli ne corre il rischio perché, senza considerare le conseguenze sulla sua personale esistenza, la verità è la sua ricompensa.

Davvero, noi veniamo a conoscere noi stessi solo nel momento in cui afferriamo il mondo attorno a noi, con i vari livelli e tipi di conoscenza e con la formulazione intellettuale delle possibili linee di pensiero e di azione.

Il desiderio primario dell'uomo di conoscere si scontra con il formalismo autocompiaciuto di un apprendere vuoto che spinge l'uomo nell'illusoria calma della soddisfazione.

 Esso combatte contro l'intellettualismo vuoto, contro il nichilismo che ha cessato di volere qualsiasi cosa e pertanto ha cessato di volere sapere.

 Esso combatte contro la mediocrità che non valuta mai se stessa e che confonde la conoscenza con il mero apprendere fatti e "risultati".

L'unica soddisfazione che l'uomo trae da un radicale dedizione alla conoscenza è la speranza di portare avanti la frontiera fino ad un punto oltre al quale egli non può avanzare se non trascendendo la conoscenza stessa.

Lo slogan "la scienza è fine in sé stessa" fu coniato per esprimere la sete primaria e incondizionata per la conoscenza.

Ciò è stato erroneamente inteso come certificazione e giustificazione dell'intrinseco valore di qualsiasi scoperta fattuale, di ogni sua possibile applicazione metodologicamente corretta, dell'estensione della conoscenza e dell'occupazione scientifica.

Ne seguì il caos.

Ci fu una massa infinita di scoperte fattuali arbitrarie, la diffusione delle scienze in un vasto aggregato non correlato;

 la compiacenza di specialisti ignoranti delle più grandi implicazioni e ciechi nei confronti delle stesse;

il trionfo dell'approccio di apprendimento "linea di produzione", che si perdeva per sempre nello spreco senza fine della mera correttezza fattuale.

La scienza, meccanizzata e prosciugata da ogni significato, intrinseco o umano, diventa sospetta per quanto riguarda le sue pretese di avere valore intrinseco.

Il motto "scienza è un fine in sé stessa" ha una cattiva reputazione.

 La tanto invocata crisi della scienza sfociò nel rifiuto di tutto il suo significato.

Si dichiarò che la scienza serve prontamente qualsiasi padrone, che è una prostituta;

che lascia l'anima vuota, che è una linea di produzione indifferente al cuore umano;

 che, essenzialmente, trascorre il tempo trasportando detriti avanti e indietro.

Queste accuse si applicano a una pseudo scienza degenerata, ma non alla ricerca primaria della conoscenza da parte dell'uomo.

 Se per l'uomo medievale la conoscenza culminò nella visione di Dio;

se Hegel, in tutta serietà, parlò del pensiero logico come un atto di culto religioso; se persino il positivista logico riconosce l'esistenza di un inconoscibile, allora anche noi possiamo sperimentare la realizzazione umana nella verità.

 Più radicalmente che mai prima, gli uomini stanno riflettendo su cosa sia la verità. L'uomo moderno rimane fortemente legato all'antica saggezza che nulla eccetto la scoperta di verità dà significato alla nostra vita (sebbene noi manchiamo di una certezza finale riguardo quale ne sia il significato e che cosa implichi);

che nulla sia al di fuori dal nostro desiderio di conoscenza;

e che, soprattutto, la vita cerchi di basarsi sul pensiero.

Questi intuiti antichi, irriducibili alla psicologia e alla sociologia, hanno attestato la più alta origine dell'uomo.

L'unico accesso alle conclusioni è tramite la scienza. Rimane da chiarire la natura della vera scienza concepita in questo modo.

Le assunzioni generali della scienza.

Lo slogan "la scienza non presuppone nulla" era intesa come un grido di battaglia contro le restrizioni che sarebbero state imposte all'apprendimento sotto forma di specifici dogmi non discutibili.

Questo "grido di battaglia" era sostenuto fino al punto che esso significò il rifiuto della scienza a impegnarsi in conclusioni pre-concepite, a limitare lo scopo della sua ricerca, a considerare qualsiasi cosa come un “taboo” o a lasciare da parte certe conclusioni inevitabili.

Infatti, ad ogni modo, non esiste una cosa quale la scienza senza assunzioni.

Quello che è caratteristico della scienza è che essa riconosce e chiarisce queste assunzioni in uno spirito di autocritica.

A rigor di termini, la scienza rappresenta un insieme sperimentale di pensiero consapevole di sé stesso e consapevole che qualsiasi validità e consistenza che essa ha deriva da certe specifiche assunzioni.

Così, la scienza presuppone la validità delle regole della logica. Laddove il principio di contraddizione è negato pensare e conoscere sono impossibili.

Il pensiero riconosce intrinsecamente questo principio.

Laddove si permette ai concetti di diventare vaghi ed equivoci, laddove l'autocontraddizione non accetta un'obiezione, il discorso stesso ha cessato di essere comunicazione significativa.

Qualsiasi affermazione che nega certe assunzioni logiche deve rispettarle almeno per la durata di questo stesso diniego.

Chiunque non voglia riconoscere queste assunzioni non può discutere e può soltanto essere lasciato solo come la "pianta irrazionale" alla quale, secondo la definizione di Aristotele, egli si è degradato.

Noi sbagliamo, perciò, quando cerchiamo di considerare la conoscenza come assoluta.

La conoscenza è possibile solo laddove le leggi della logica sono rispettate. Conseguentemente, ciò che è conosciuto non è l'Essere per sé ma quegli aspetti della realtà che si presentano nei termini delle condizioni imposte dal nostro stesso processo di pensiero.

Inoltre la scienza presuppone la sua stessa desiderabilità.

È impossibile difendere la scienza su basi esse stesse scientifiche. Nessuna scienza può provare il suo valore a qualcuno che lo neghi.

 Il desiderio primario dell''uomo per la conoscenza è autonomo. Noi desideriamo fortemente la conoscenza per amore della conoscenza stessa, una passione la cui autoaffermazione rimane la base permanente di ogni scienza.

Un'ulteriore importante assunzione della scienza riguarda la scelta dell'argomento che deve essere investigato.

Lo scienziato seleziona il suo problema da un infinito numero di possibilità.

Istinti oscuri, amore e odio possono motivare la sua scelta.

In ogni caso è la volontà, non il sapere scientifico, che gli fa decidere di affrontare un determinato argomento.

In ultimo, la scienza presuppone che noi ci lasciamo guidare dalle idee.

 È soltanto attraverso tali "schemi di idee", come “Kant” le chiamava, che le nostre menti sono guidate dal tutto che ci avvolge, anche se questo tutto che ci avvolge non può diventare esso stesso un oggetto di cognizione e tutti i nostri schemi concettuali hanno soltanto un'importanza ausiliaria e provvisoria.

 Le idee e le ipotesi sono dunque costrutti ausiliari che devono sparire di nuovo perché sono inevitabilmente finiti e così inevitabilmente falsi.

Tuttavia senza tali idee a guidarci non c'è unità di messa a fuoco, non c'è direzione, non c'è distinzione tra l'irrilevante e l'importante, il fondamentale e il superfluo, il significativo e l'insignificante, la completezza e la dispersione.

 Essi formano il contesto che motiva i nostri interessi speciali, permette lampi di penetrazione e di scoperta e fornisce significato alla pura possibilità.

Il numero infinito di linee concettuali che ci guidano, per quanto futili quanto esse siano ciascuna separatamente, sono la nostra unica maniera di correlarci all'infinito, eppure queste idee guida devono prendere vita nello studioso stesso prima che l'apprendimento possa avere un qualsiasi significato.

Tutte le scienze fanno tali assunzioni.

A queste possono essere aggiunte le assunzioni specifiche di particolari discipline. Il teologo, per esempio, crede nei miracoli e nella rivelazione.

Questi argomenti sono inaccessibili e pertanto non esistenti per la scienza empirica – così come le spiegazioni scientifiche sono concepite.

 «Siccome la scienza non accetta assunzioni di tipo teologico essa richiede al credente di ammettere non meno ma anche non più di ciò:

ammesso per concesso che una certa sequenza di eventi debba essere spiegata senza riferimento ad un intervento soprannaturale, essendo questo inammissibile come causa empirica, allora questa sequenza deve essere spiegata nella maniera tentata dalla scienza» (Max Weber).

Qualsiasi credente può ammettere ciò senza tradire la sua fede.

La scienza teologica procede in modo diverso.

 Assumendo l'esistenza della rivelazione, la teologia chiarisce le implicazioni e le conseguenze di questa fede.

Essa sviluppa speciali categorie per esprimere l'inesprimibile.

Ambedue le spiegazioni, la secolare e la teologica, operano con assunzioni. Esse a rigor di termini non si escludono l'un l'altra. Ambedue sono forme di pensiero che lavorano con assunzioni e vedono dove e quanto lontano esse giungeranno impiegandole. Entrambe rimangono scientifiche fino al momento in cui esse si danno riconoscimento reciproco l'una con l'altra e ricordano con spirito autocritico che la possibilità di conoscere altro non è che un modo di Essere dentro l'Essere, mai l'Essere per sé.

Quando noi sottolineiamo che tutta la scienza procede da assunzioni necessarie è ugualmente importante chiarire ciò che, contrariamente ad un credo diffuso, noi non abbiamo bisogno di assumere:

che il mondo è interamente conoscibile o che la conoscenza tratta dell'Essere stesso; o che la conoscenza è in qualche modo assoluta nel senso di contenere o fornire conoscenza non ipotetica.

L'opposto è evidente nel momento in cui riflettiamo sui limiti del sapere.

La scienza non presuppone una dogmatica Weltanschauung, anzi il contrario.

 La scienza esiste soltanto fino al momento in cui una tale Weltanschauung non fruisce di assoluta validità o lo fa solo se i suoi risultati possono sopravvivere alla prova di un esame assolutamente obiettivo fino al punto in cui la Weltanschauung rimane una vera ipotesi.

Per decadi si è fortemente negato (nessun studente critico lo ha mai asserito) che la scienza possa fare a meno delle assunzioni.

È utile segnalare i pericoli legati a questa enfasi parziale.

Troppo facilmente ogni significato è tratto dalle scienze e concentrato sulle sole premesse, rendendo in tal modo le scienze dogmatiche.

Persone ben intenzionate, ma semplici "artigiani", non produttivi nelle scienze e non interessati in studi metodici rigettano ciò che non conoscono nemmeno.

 Al posto delle scienze vogliono qualcosa di totalmente diverso: politica, chiesa, propaganda che si infiltra lungo vari rivoli irrazionali.

 Invece di lavorare sodo e pienamente dedicati ai loro argomenti, e guardare le cose concretamente, essi si permettono di scivolare nella chiacchiera pseudo-filosofica generalmente a proposito del "tutto" e della "visione totale".

La più necessaria di tutte le presupposizioni per la scienza è un senso della direzione. È stato sovente dimenticato che la scienza ha bisogno soprattutto di direzione.

La scienza ha bisogno di direzione.

La scienza lasciata a sé stessa perde questo senso di direzione. Per un po' può sembrare che avanzi spontaneamente, ma questa è l'inerzia residua di un impulso dovuto a una causa più profonda.

 Ben presto, ad ogni modo, le contraddizioni diventano apparenti con il rischio di portare al collasso dell'intera struttura. La scienza nell'insieme non è né vera né viva senza la fede sulla quale si basa.

Questo può essere espresso in altro modo.

 Incapace di provvedere a sé stessa la scienza ha bisogno di direzione.

Da dove viene questa direzione e quale significato essa impartisca alla scienza è decisivo per l'autorealizzazione della scienza.

Né la visione utilitarista, né il vederla “come un fine in sé stessa” possono, come abbiamo visto, costituire il vero impulso per l'attività scientifica.

 I poteri esterni alla scienza possono sicuramente utilizzarla come un mezzo per fini non scientifici.

 Ma poi l'intero significato della scienza rimane velato.

 Se, d'altra parte, la conoscenza scientifica diventa il suo stesso scopo ultimo, allora la scienza è senza significato.

La direzione deve venire dall’interno, dalle vere e proprie radici di ogni scienza – dalla volontà incondizionata di conoscere.

Nel sottometterci alla linea guida di questa sete primaria per la conoscenza noi in definitiva non siamo guidati da qualche scopo che siamo in grado di conoscere o di definire in anticipo.

 Siamo guidati da qualcosa che sentiamo crescere sempre più acutamente via via che dominiamo il sapere – cioè attraverso una ragione in empatia.

 Com'è possibile ciò?

La nostra sete primaria per il sapere non è soltanto un interesse casuale.

 È una necessità compulsiva che ci spinge in avanti come se la conoscenza tenesse la vera chiave della nostra auto-realizzazione umana.

Nessuna conoscenza parziale ci può soddisfare; noi continuiamo a procedere senza stancarci sperando di abbracciare l'intero universo attraverso la conoscenza.

Sospinta com'è dalla nostra sete primaria di conoscenza questa ricerca è guidata dalla nostra visione dell'unicità della realtà.

Noi ci sforziamo di conoscere dati particolari non in sé e non per loro stessi. ma come unica strada per raggiungere quell'unicità.

 Senza riferimento all'insieme dell'essere la scienza perde il suo significato.

 Con esso, d'altra parte, anche le branche più specialistiche della scienza hanno significato e sono vive.

Quest'unicità o totalità della realtà non la si può trovare in un solo luogo.

Tutto quello che io posso conoscere è un esempio particolare tra una varietà infinita di cose.

Perciò, quello che determina l'attuale direzione di qualsiasi ricerca è la nostra abilità di continuare costantemente a correlare due elementi del pensiero.

 Uno è il nostro desiderio di conoscere l'infinita varietà e molteplicità della realtà che sempre ci sfugge.

 L'altra è la nostra effettiva esperienza dell'unità sottostante questa pluralità. Ancora, quell'esperienza dell'unità che non può essere ottenuta eccetto che nel caso in cui noi affrontiamo il carattere frammentario di tutta la conoscenza umana.

In un senso allora la scienza ci costringe ad affrontare i fatti puri e semplici.

Ancora più acutamente noi rendiamo conto che "questo è il modo in cui sono le cose".

Noi cominciamo a capire ciò che le apparenze delle cose sembrano dirci.

La scienza ci costringe ad affrontare l'apparenza fattuale delle cose e ad andare oltre una semplificazione prematura e un modo di pensare velleitario. La scienza disincanta, distrugge il mio rapimento di fronte alla bellezza e all'armonia del mondo. Al contrario essa mi riempie di orrore di fronte alla distruzione cacofonica, senza senso e non numerabile delle cose.

In un secondo senso, sperimentando la mia sincera ignoranza io divento consapevole, anche se indirettamente, dell'unità che trascende e che motiva segretamente la mia intera ricerca per il sapere.

 Solo quest'unità dà vita e significato alla mia ricerca.

Questo significato non può più essere definito razionalmente perché è al di là della conoscenza.

Siccome è inconoscibile non può servire come presupposto per la nostra scelta di obiettivi scientifici e di metodi.

Solo dopo esserci impegnati nella ricerca della conoscenza, noi possiamo imparare la fonte e il significato della conoscenza.

Se io chiedo a me stesso che meta ha questo sapere, posso rispondere soltanto in termini metaforici.

È come se il mondo stesso volesse essere conosciuto; come se fosse parte della nostra glorificazione di Dio in questo mondo, arrivare a conoscere il mondo con tutte le facoltà che Dio ci ha dato, per ripensare come se fossero i pensieri di Dio, anche se noi stessi non possiamo mai afferrarli eccetto che nel modo in cui essi sono riflessi nell'universo che conosciamo.

Fino al punto cui l'apprendimento è guidato dall'impulso originale alla ricerca razionale, un impulso ad un tempo comprensivo ma che tuttavia trascende il mondo intorno a noi, a tal punto soltanto esso ha significato e valore.

 Sebbene sia la filosofia che ci fornisce questa linea guida non ci si può aspettare di produrre a volontà ciò che deve essere lasciato maturare spontaneamente dentro ogni pensatore per conto suo, da tutto ciò posso concludere che la scienza non è il terreno solido sui cui posso poggiare.

 Essa è la strada lungo la quale io viaggio cosicché io possa rendermi consapevole della trascendenza che fa linea guida alla mia volontà di conoscere, sete mai paga per la conoscenza che caratterizza la nostra vita nel regno del tempo.

Accettando questa visione della scienza come un modo – e non un fine – noi possiamo capire che molte delle nostre frustrazioni nei confronti della conoscenza sono dovute alla perdita di una guida interiore.

Noi riconosciamo quella perdita ogni qual volta che ci permettiamo di andare alla deriva, per vana curiosità o perché la scienza è diventata semplicemente qualcosa per tenerci impegnati.

Queste sono strade senza sbocco da cui torniamo indietro per dare retta ad un senso più profondo di direzione che determina il nostro corso di studio e ricerca.

Noi abbiamo una cattiva coscienza quando ci rivolgiamo alla mera "attività" per annegare il nostro senso di disperazione.

Una tale "attività" non può nascondere la totale inerzia di un lavoro senza senso. Invece noi dovremmo renderci recettivi alle idee che guidano il nostro lavoro. Queste idee nascono dall'interezza trascendente che motiva la nostra ricerca.

Questo concetto di unità che guida la nostra ricerca, tuttavia, non è senza equivoci.

Nessuno è in grado di afferrarlo nella sua completezza o di asserire che quello che egli afferra è universalmente vero.

Nessuno può dire che ne è il solo possessore.

 Questa linea guida diventa effettiva solo nel dialogo tra il pensatore e i multiformi aspetti della conoscenza.

Essa è realizzata attraverso l'onda continua del sapere che avanza e s'innalza in ogni punto della storia.

Ciò comporta dure prove e rischio.

Ecco perché la scienza può fornire la forza trainante verso la verità e la veridicità nelle nostre vite quotidiane.

La scienza come presupposizione di veridicità.

La scienza smaschera delle illusioni che mi piacerebbe rendessero la vita più sopportabile e attraverso le quali io spero di rimpiazzare la fede o almeno trasformare la fede in conoscenza certa.

La scienza sparge delle mezze verità che servono a nascondere delle realtà che sono incapace di fronteggiare.

Essa rompe così quelle premature costruzioni che il pensiero acritico sostituisce ai frutti di una ricerca infaticabile.

Esso ci impedisce di sprofondare in un compiacimento ingannevole.

La scienza ci fornisce una grande chiarezza riguardo alla condizione dell'uomo in generale e circa la mia stessa persona.

 La scienza fornisce le condizioni senza le quali io non posso reggere la sfida implicita nella mia capacità congenita alla conoscenza.

 Avere successo in quest'impresa è il grande destino dell'uomo. Esso lo sfida a mostrare quello che egli può fare di sé stesso attraverso la conoscenza.

La scienza sgorga dall'onestà e la produce.

Noi non possiamo essere veritieri se non abbiamo assimilato un atteggiamento scientifico e un modello di pensiero scientifico.

È caratteristico di un atteggiamento scientifico il fare sempre differenza tra ciò che è conosciuto in modo cogente e quello che non lo è (io voglio conoscere ciò che so e ciò che non so).

Questo conoscere include la via che porta alla conoscenza e ai confini entro cui questo modo di conoscere sia valido.

 L'atteggiamento scientifico è ulteriormente caratterizzato dalla prontezza ad accettare qualsiasi critica delle proprie asserzioni.

Per l'uomo che pensa, per lo scienziato e il filosofo, in particolare, la critica è una necessaria condizione di vita.

Non ci può mai essere abbastanza del genere di quesiti che lo spinge ad esaminare il suo discernimento.

Uno scienziato genuino può trarre profitto persino da una critica ingiustificata.

Chi evita di essere criticato essenzialmente non vuole conoscere.

Una volta che la radicale volontà di conoscere, che costituisce la base della ricerca scientifica del sapere, è diventata realtà esistenziale nella vita di un essere umano, nessuna condizione di tempo e spazio può disfare questo fatto.

 Per chi la scienza è sorta? 

Non per coloro che si perdono nella infinita diversità dei fatti puri e semplici (che essi accettano senza neppure interrogarsi sul loro significato possibile);

né per coloro che faticosamente si sforzano di apprendere una materia per superare esami o per prepararsi a praticare una certa attività di lavoro.

 La conoscenza diventa viva grazie al vero scienziato.

Le sue straordinarie pazienza e fatica s'infiammano d'entusiasmo.

 La scienza diviene il principio che anima la sua intera vita.

 Oggi, così come in ogni tempo, la magia della scienza può essere sperimentata dai giovani per cui il mondo è una sfida.

 E anche oggi (forse persino di più che mai prima d'ora) noi sperimentiamo il peso della scienza;

 la scienza genera sia la forza naïve in coloro che non ne sono consapevoli, sia le illusioni indispensabili per vivere;

ciò che” Ibsen” chiamava le "illusioni vitali".

Ci vuole coraggio per pensare attraverso il domandarsi piuttosto che attraverso il mero apprendimento.

È ancora la vecchia massima: sapere aude! (osa conoscere!).

Scienza e Filosofia.

Noi siamo ora al punto in cui possiamo fare delle affermazioni coerenti circa la relazione tra scienza e filosofia.

Queste due non coincidono.

Né la filosofia è semplicemente una sola scienza in mezzo alle altre.

 Essa è, infatti, essenzialmente diversa nella sua origine, nel suo metodo e significato. Nonostante ciò la scienza e la filosofia sono strettamente connesse.

La scienza si difende contro le confusioni correlate al fatto che essa è collegata alla filosofia.

 Essa combatte quello che ritiene essere l'inferenza sterile dello sforzo speculativo. In breve, la scienza sviluppa un'ostilità caratteristica nei confronti della filosofia.

Tuttavia la scienza è in grado di riconoscere i suoi propri limiti. Siccome essa non afferra l'interezza della verità, lascia la filosofia libera di coltivare la sua area di ricerca.

 Essa non sottoscrive né nega il valore delle scoperte filosofiche.

Non interferisce finché la filosofia stessa non formula giudizi su argomenti accessibili alla ricerca scientifica.

La scienza tiene sotto stretta sorveglianza la filosofia allo scopo di bloccarla dal proporre affermazioni infondate e prove immaginarie.

 La scienza fa questo per vantaggio di entrambe, suo e della filosofia.

La scienza ha bisogno di una direzione filosofica, ma non nel senso che la filosofia sia usata dalla scienza o fornisca alla scienza gli obiettivi che sono propri della filosofia stessa.

Questi sono esattamente le modalità secondo cui scienza e filosofia non devono essere poste in relazione.

Piuttosto, la filosofia è efficace nel motivare una sincera volontà di conoscere.

 La filosofia fornisce altresì quelle idee dalle quali lo scienziato trae la sua visione e che determinano le sue scelte, pervadendo tutta la sua persona dell'importanza essenziale del conoscere.

La filosofia pervade la scienza.

 Essa la guida senza essere accessibile ai metodi scientifici.

Così la scienza pervasa dalla filosofia è filosofia che diventa concreta.

Al momento in cui le scienze diventano consapevoli delle implicazioni della loro stessa attività, esse, infatti, fanno consapevolmente filosofia.

 Il tipo di beneficio che lo studioso e lo scienziato traggono dalla filosofia non è di natura pratica.

Nello studiare la filosofia, tuttavia, essi diventano ad ogni modo consapevoli del contesto totale del loro lavoro.

 Inoltre, essi acquisiscono nuove e più profonde motivazioni per la ricerca e una più elevata consapevolezza di quello che l'attività scientifica significa.

La filosofia riconosce che la scienza le è indispensabile.

Sebbene consapevole della sua differenza rispetto alla scienza, l’autentica filosofia riconosce il suo legame con le scienze.

La filosofia non si permette mai d'ignorare le realtà accessibili alla conoscenza.

 La filosofia vuole conoscere qualsiasi cosa sia reale e cogente.

Essa vuole che ciò che è reale e cogente diventi fruttuoso per la sua crescente auto-consapevolezza.

Chiunque fa filosofia è spinto verso la scienza e cerca esperienza nel metodo scientifico.

Poiché l'approccio scientifico garantisce veridicità, la filosofia diventa campione della scienza contro l'anti-scienza.

 La filosofia considera la preservazione di un modello scientifico di pensiero come indispensabile alla preservazione della dignità umana.

 La filosofia riconosce la verità della minaccia di Mefistotele:

«Disdegna ragione e scienza, il più grande di tutti i poteri umani, e io ti avrò in pugno».

 

LA SCIENZA TRADITA O

IL TRADIMENTO DELLA SCIENZA?

 Assis.it - Redazione Assis – (Apr. 1, 2022 ) – ci dice:

Condividiamo la lettera che il gruppo Ethos – Professionisti per Etica e Scienze libere – ha inviato alla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri e alla Federazione Nazionale Ordini Veterinari Italiani oltre che alla Procura della Repubblica.

Noi sanitari abbiamo appreso con sgomento che il governo Draghi vorrebbe continuare ad imporre l’obbligo dei vaccini anti-Covid a tutte le professioni sanitarie, pena l’impossibilità di lavorare e quindi di mantenere sé stessi e la propria famiglia a chi si è rifiutato o non vuole continuare a farsi inoculare il “vaccino” anti-Covid 19.

A parte l’aspetto giuridico, essendo lo stato di emergenza e i conseguenti provvedimenti normativi già stati dichiarati anticostituzionali e quindi illegittimi (vedere sentenza 1842/2021 Tribunale di Pisa e successive), sono necessarie altre considerazioni.

Un professionista della sanità ha affrontato un percorso di studi lungo e faticoso, una laurea, un’abilitazione, specializzazioni, master, dottorati.

Ha spesso alle spalle anni di esperienza e, improvvisamente, tutto questo non ha più alcun valore, venendo subordinato all’inoculazione di un farmaco sperimentale (i cosiddetti vaccini anti Covid) alla quale deve sottoporsi “volontariamente”, perché la responsabilità dei vari ed eventuali effetti avversi, in alcuni casi anche mortali, non deve ricadere su nessun altro tranne il soggetto vaccinando.

“Vaccino” che oltretutto dà una protezione scarsa o nulla contro il Coronavirus, per sua natura mutante.

La scienza medica è una scienza empirica, non è esatta come la matematica.

La matematica deve essere al servizio della medicina, il contrario non funziona.Così come la finanza deve essere al servizio della medicina, se la medicina è al servizio del profitto di qualcuno, danneggiando la salute di altri, non è più medicina, ma crimine.

I farmaci devono servire a curare le malattie non ad arricchire le case farmaceutiche che devono avere il giusto guadagno, ma non certo rischiando di causare danni non prevedibili, non sopportabili e spesso irreversibili (fino alla morte) alle persone.

La classe medica attuale ha dimostrato di non essere adeguatamente formata per gestire un’emergenza pandemica o epidemica che dir si voglia.

Nel piano di studi di medicina non sono inseriti i corsi di malattie infettive, tutt’al più c’è un esame complementare.

 Quindi un medico in Italia, può laurearsi con 110 e lode, ma non aver mai studiato in modo approfondito le malattie infettive.

Chiedendo a qualche medico il motivo, la risposta è stata: tanto ormai le malattie infettive non ci sono più.

In medicina veterinaria i corsi di malattie infettive sono almeno tre, con particolare riferimento alle zoonosi (malattie che dagli animali si trasmettono all’uomo e viceversa) e abbracciando anche un ampio spettro di specie diverse.

Il “Sistema Sanitario Nazionale” è organizzato con medici di famiglia e pediatri di libera scelta che hanno un contratto a partita IVA e medici ospedalieri che sono dipendenti statali a tutti gli effetti.

 Quindi disparità di trattamento e di tutele.

Il rapporto di fiducia medico paziente è stato distrutto, considerando che gli ammalati di Covid sono stati curati con “tachipirina e vigile attesa”, praticamente abbandonati fino al ricovero in extremis in terapia intensiva.

Ma forse è più conveniente sostituire i medici con un algoritmo?

Certo sarebbe un bel risparmio.

La responsabilità di questo disastro sanitario ed economico è in gran parte anche vostra, presidente e consiglieri della FNOMCEO; l’imperizia si poteva perdonare all’inizio della pandemia, oggi no.

Il problema dell’obbligo vaccinale Covid 19 per i sanitari sarebbe presto risolto, se vi opponeste.

Ma per opporsi bisogna lavorare in scienza e coscienza.

Se non lo fate ci avrete dato la prova schiacciante che la coscienza ormai è morta e la scienza irrimediabilmente tradita.

Con tutte le conseguenze del caso.

(Pisa, 30 marzo 2022- Ethos)

 

 

La legge dell’attrazione è una cavolata…

Ma funziona: scopri perché.

Efficacemente.com - Andrea Giuliodori – (12/07/2023) – ci dice:

 

Un punto di vista alternativo su” The Secret” – il Segreto, i suoi aspetti fiabeschi e… i suoi risvolti pratici, utili per raggiungere i tuoi obiettivi.

“The Secret” – Il Segreto è stato un indiscutibile successo letterario.

 Dopo aver venduto milioni di copie negli Stati Uniti, è arrivato in Italia alla fine del 2007 e anche qui ha spopolato in diverse librerie.

Il segreto di cui si parla nel libro è” la Legge di Attrazione “(per gli anglofili Law of Attraction – LoA).

Questo principio afferma che i tuoi pensieri diventano realtà, ovvero che tu sei in grado di attrarre ciò a cui pensi.

Se ti concentri abbastanza sul desiderio di diventare ricco, attrarrai ricchezza.

Non male vero?

Eppure, ho il “leggero” sospetto che questa legge cosmica, come viene descritta nel libro, abbia funzionato alla grande solo per una persona: Rhonda Byrne, l’autrice.

Esistono persone molto più esperte di me sull’argomento, quindi non è mia intenzione discutere nei dettagli “la Legge di Attrazion”e: non ne sarei in grado.

In questo articolo voglio semplicemente spiegarti perché ritengo che “The Secret – Il Segreto” sia una cavolata, eppure…

letto nella giusta ottica, potrebbe rivelarsi estremamente utile per raggiungere i tuoi obiettivi.

Perché la “Legge di Attrazione” è una cavolata.

La prima impressione che ho avuto leggendo “The Secret – Il Segreto” è stata: “questi sono dei fottuti geni del marketing!”.

La promessa di realizzare tutti i tuoi sogni con il solo pensiero, un alone di mistero e segreto, il tutto condito da spiegazioni pseudo-scientifiche: 30 minuti in forno a 200° e il best-seller è pronto!

Cercando di razionalizzare ciò che non mi ha convinto della “Legge di Attrazione”, ho trovato questi tre punti:

Non è una legge. Secondo il filosofo della scienza Karl Popper:

“Una proposizione, per avere valore scientifico, deve essere falsificabile, cioè di essa deve essere concepibile almeno un esperimento in grado di dimostrare (se non dà il risultato previsto) che è falsa.”

E già qui cadono tutte le aspirazioni di universalità e scientificità della Legge di Attrazione, visto che non si può dimostrare ne che sia vera, né che sia falsa.

Non ci sono esempi convincenti.

 I casi di successo riportati nel libro sono praticamente identici agli “Infomercial di Mediashopping” della domenica mattina.

Manca un elemento.

Nei tre step della Legge di Attrazione (1. Chiedi, 2. Credi, 3. Ricevi), non c’è l’ombra del passaggio fondamentale per realizzare i propri sogni: Fai.

Perché The Secret – Il Segreto può funzionare

Eppure la lettura del best-seller di “Rhonda Byrne” è stata stimolante ed alcuni concetti meritano di essere approfonditi.

In particolare, per quanto riguarda i tre step chiave della Legge di Attrazione (1. Chiedi, 2. Credi, 3. Ricevi), sono stato colpito dai primi due:

 Chiedi e Credi.

Chi applica la Legge di Attrazione fa infatti 2 cose molto interessanti:

Chiede, ovvero definisce un obiettivo in modo chiaro.

Crede, ovvero mantiene un focus elevato su questo obiettivo, e sai già quanto ritengo importante avere focus.

Nella mia esperienza queste due azioni non sono state sufficienti a trasformare un desiderio / obiettivo in realtà, ma hanno rappresentato le due condizioni necessarie per rendere più efficace ciò che realmente fa concretizzare i tuoi sogni: agire in modo costante e consistente.

La Legge di Attrazione Pratica.

Visto che la “Legge di Attrazione”, così come enunciata, non mi convince molto, ho pensato ad una formulazione della “Law of Attraction” coerente con lo stile pratico di “EfficaceMente”, senza fronzoli pseudo-scientifici ed arricchita con un pizzico di autoironia.

Eccoti la” Legge di Attrazione Pratica” nei suoi 5 passaggi applicativi:

Definisci in modo chiaro il tuo obiettivo. Se sai cosa vuoi, quando lo vuoi e come intendi ottenerlo, hai appena compiuto il primo passo concreto per rendere il tuo sogno realtà.

Ascolta il mondo che ti circonda. Fissato un obiettivo, devi affinare le tue capacità di cogliere i messaggi e le occasioni che ti vengono offerte dall’ambiente che ti circonda.

Non aspettare strane vibrazioni cosmiche per realizzare i tuoi sogni. Smettila di aspettare che tutte le condizioni siano perfette: puoi decidere di agire per realizzare i tuoi sogni, adesso.

Concentrati sul tuo obiettivo. Il cervello umano ha capacità multi-tasking limitate: sta a te scegliere se utilizzare il tuo focus per delle cavolate o per le cose che contano veramente nella tua vita.

E soprattutto non dimenticare di agire costantemente.

Puoi scrivere obiettivi fantastici, visualizzarli costantemente, continuare a leggere libri di crescita personale, ma se non agisci costantemente ed in modo consistente, i tuoi sogni rimarranno tali.

 

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