Dobbiamo rinunciare a combattere contro i nostri assassini.
Dobbiamo
rinunciare a combattere contro i nostri assassini.
L’onnipotenza
delle Big Tech:
come e
perché gli imperi digitali
regneranno
anche nel 2022.
Agendadigitale.eu
– Redazione – (12-1-2022) - Lelio Demichelis-
ci dice:
Cultura
E Società Digitali.
DIGITALE
E DEMOCRAZIA.
Il
potere delle Big Tech è sempre più forte e sempre più grande.
Lo è
stato nel 2021 e lo sarà ancora di più nel 2022, per la reiterata assenza (per
collusione, correità, complicità?) della politica a governare tale processo.
Le contromisure e le leggi che servono.
Big
tech.
Iniziamo
prendendo spunto da un articolo dalla newsletter di “Shira Ovide”, uscito
recentemente sul NYT e che ci induce a porci e a porre nuovamente una serie di
questioni sempre più importanti e decisive per quanto riguarda libertà e
democrazia, potere e governo/governance, demos e livelli di governo nella
globalizzazione tecno-capitalista.
Big
Tech invincibile?
Too
big to fail?
E la
democrazia?
Il
golpe epistemico di Big Tech.
Prima
nostra critica:
Big
Tech invincibile?
“Shira
Ovid”e pone poi la domanda:
“Are American technology superpowers including
Google, Amazon, Apple, Microsoft and Facebook invincible in a way that prior
generations of corporate titans were not?”
La
nostra risposta è sì, sono invincibili (e non solo quello americano è un super power
tecnologico).
E lo
sono perché ogni giorno il mondo va in pellegrinaggio fisico o virtuale, ma
soprattutto mentale/devozionale alla Silicon Valley, considerando il Big Tech
(che non è appunto e ovviamente solo nella Silicon Valley), come il nuovo che
avanza e che non si deve fermare, a prescindere dai suoi effetti sociali e
ambientali – e basta vedere come ogni giorno i mass/social media siano
propagandisti compulsivi del digitale e della digitalizzazione, nel senso
proprio della propaganda:
non più quella funzionale alle ideologie
politiche del Novecento, ma all’ideologia del tecno-capitalismo nella sua
versione digitale e che, come tutte le forme di propaganda del passato si basa
sullo stimolo basato su parole-chiave, su immagini chiave e sulla ripetizione
delle stesse fino a plasmare e a stabilizzare emotivamente la risposta del
pubblico;
ovviamente
escludendo a priori dalle loro pagine (quasi) ogni spirito critico e ogni
pensiero pensante e riflessivo (e quindi – ad esempio – favoleggiano di una
rivoluzionaria Fabbrica 4.0 che in realtà, lo dimostrano le ricerche sul campo,
è solo il vecchio taylorismo, anche se digitalizzato, ma che deve essere
presentato/propagandato alla credulità del pubblico come
nuovo/innovativo/cambio di paradigma, anche se non lo è).
Lo è
(invincibile) il Big Tech perché è stato offerto alla nostra credulità come
qualcosa di libero e di democratico (ancora la propaganda, o lo storytelling
del tecno-capitalismo), quando in realtà non lo era e soprattutto non lo può
essere, se non distruggendo sé stesso;
se non
riducendo i suoi margini di profitto;
se non
precludendosi la capacità/possibilità di estrarre profitto crescente dalla
profilazione/spionaggio/plus lavoro di massa, cioè dalla sua
capacità/possibilità, grazie alle nuove tecnologie (e mai il capitale era arrivato
a tanto, mai era stato così sfruttatore dell’uomo) di mettere a profitto per sé
non solo il lavoro (come nella fabbrica fordista-taylorista novecentesca), ma
appunto la vita intera dell’uomo, quindi emozioni, relazioni, socialità,
conoscenza, passioni…tutto venendo industrializzato e mercificato, tutto
divenendo capitalismo e tecnica, tutto traducendosi in profitto privato.
Lo
sono (invincibili) le imprese del Big Tech perché ormai sono esse stesse il
nuovo potere (il Potere, richiamando Pasolini) che governa il mondo, senza più
necessità di avere lo stato come sua sovrastruttura di legittimazione.
Oggi, appunto lo stato diventa non solo piccolo,
piccolo davanti al grande Potere del Big Tech – e comunque davanti al Potere
dell’impresa multinazionale (lo hanno dimostrato i cosiddetti Grandi della
terra che alla recente “Cop 26” si sono fatti appunto piccoli, piccoli davanti
al Potere dei Big delle energie fossili) – ma è incapace non solo di smontare
quell’oligopolio che hanno lasciato crescere (ancora: correità, collusione,
complicità?), ma neppure di immaginare possibile questo smontaggio, limitandosi
a interventi spot.
Lo
sono (invincibili) perché noi tutti crediamo (siamo indotti/ingegnerizzati a
credere) che la tecnologia sia un bellissimo giocattolo, dimenticando che un
social e un videogioco non sono come il vecchio meccano o come il vecchio
piccolo chimico, ma sono fabbriche dove ciascuno di noi è messo al lavoro per
profitto privato del capitale che ci fa giocare con social e videogiochi e
intelligenza artificiale – e oggi con “Metaverso”.
Too
big to fail?
Lo
sono (invincibili) perché il Big Tech è
così grande come mai nessun altro “corporate titan” della storia.
Troppo grande per poter essere regolamentato
dalla politica, soprattutto da una politica che sia democratica.
Too big to fail, di nuovo, e questa volta parlando
non di finanza e banche, ma di imprese tecnologiche.
Il
risultato è il medesimo: l’impotenza della democrazia e del cittadino.
Lo
sono (invincibili) perché abbiamo
totalmente introiettato l’ideologia del tecno-capitalismo (tecnologia di rete e
neoliberalismo – in realtà è positivismo), per cui non dobbiamo essere soggetti
consapevoli e capaci di immaginare e poi costruire la nostra società, ma
dobbiamo solo adattarci (e farlo sempre più velocemente secondo i tempi-ciclo
di adattamento imposti, altrimenti detti flessibilità) al mercato e alle
esigenze della rivoluzione industriale.
E il libero arbitrio, la responsabilità, la
riflessione, l’etica?
Tutti intralci al funzionamento della macchina
tecno-capitalista, che ci inonda di stimoli per avere da noi le risposte
richieste in termini di efficienza e di nostri automatismi comportamentali e
funzionali.
Da due
secoli siamo sempre dentro al positivismo nelle sue diverse declinazioni
filosofiche (empirismo, pragmatismo, neopositivismo, soluzionismo,
neoliberalismo, Silicon Valley);
e se
Comte e Saint-Simon dicevano nell’Ottocento che società e industria sono
(devono essere) la stessa cosa, ebbene oggi il loro delirio sembra essersi
compiutamente realizzato.
E la
democrazia?
E
tutto questo ci riporta dunque ancora una volta al tema – oggetto di questa e
di molte
nostre precedenti riflessioni, anche su queste pagine – al tema della
democratizzazione dei processi di innovazione tecnologica.
E lo facciano richiamando “Luciano Gallino “–
che al tema del rapporto (conflitto?) tra impresa/tecnologia e democrazia aveva
dedicato anche un libro importante – e poi “Shoshana Zuboff”, famosa per il suo
saggio sul “Capitalismo della sorveglianza.
Scriveva
Gallino, nel 2011, sulle pagine di MicroMega:
“La democrazia, si legge nei manuali, è una
forma di governo in cui tutti i membri di una collettività hanno sia il
diritto, sia la possibilità materiale di partecipare alla formulazione delle
decisioni di maggior rilievo che toccano la loro esistenza. […] e viene
naturale includere diversi aspetti attinenti all’economia o ad essi
strettamente correlati”.
E
invece, oggi
“la grandissima maggioranza della popolazione
è totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si
prendono” nei settori dell’economia, di fatto espropriati e alienati dalla
democrazia, per l’azione di quel soggetto che si chiama grande impresa,
industriale o finanziaria, italiana o straniera che sia.
“Il
fatto nuovo del nostro tempo è che il potere della grande impresa di decidere a
propria totale discrezione che cosa produrre, dove produrlo, a quali costi per
sé e per gli altri [pensiamo al caso della Gkn di Campi Bisenzio], non soltanto
non è mai stato così grande, ma non ha mai avuto effetti altrettanto negativi
sulla società e sulla stessa economia”.
Richiamando
F. D. Roosevelt – che nel 1938 si dichiarava preoccupato non solo perché
l’impresa privata creava sempre meno occupazione e accentuava le disuguaglianze
sociali, ma perché era una minaccia per la stessa democrazia esercitando un
potere più forte e condizionante dello stesso stato –
Gallino
aggiungeva: ormai
“la
preoccupante visione di Roosevelt si è pienamente avverata” –
e oggi
molto di più.
E chi
ha avuto la peggio, continuava, “sono stati i lavoratori americani. […] Ma non
risulta che quei lavoratori abbiano avuto la minima possibilità di far sentire
la loro voce e meno che mai di intervenire con qualche efficacia in decisioni
che sconvolgevano la loro esistenza, le loro famiglie, la loro comunità.
Pertanto,
è davvero arduo capire come il caso americano ci possa venire solennemente
presentato, da manager e politici italiani come una forma di modernizzazione
delle relazioni industriali [e dei processi di innovazione]. E ancora più arduo
è capire […] come, in Italia, tra le file dell’opposizione non si sia levata
una sola voce per rilevare che il potere esercitato dalle corporation sulle
nostre vite configura un deficit di democrazia da costituire ormai il maggior
problema politico della nostra epoca”.
Il
golpe epistemico di Big Tech.
Tralasciamo
di citarci (del tema abbiamo scritto libri nel 2015, 2018, 2020, 2021) e
veniamo a “Shoshana Zuboff”.
Che in
un recente articolo uscito sul NYT e ripreso in Italia da “Linkiesta.it”
scrive:
“Il
potere delle aziende private non è più solo economico, ma anche sociale. Io ho
definito le forme economiche che stanno alla base di questo potere capitalismo
della sorveglianza perché mantengono elementi centrali del capitalismo
tradizionale – la proprietà privata, la quotazione in Borsa, la crescita e il
profitto – ma non potrebbero esistere senza le tecnologie proprie del XXI
secolo e delle relazioni sociali improntate alla sorveglianza.
Metodi
occulti di osservazione divorano le esperienze private e le trasformano in dati
sui comportamenti.
Con un passaggio rapidissimo questi dati, che
sono generati dalle persone e che sono stati acquisiti in modo discutibile,
sono immediatamente reclamati come proprietà dell’azienda e possono quindi
essere utilizzati per aiutare la produzione e la vendita.
Questi
dati possono essere elaborati per fare previsioni sui comportamenti umani e
sono venduti a clienti che operano in un nuovo tipo di mercato in cui si
commercia in informazioni che aiutino a individuare in anticipo quali possano
essere i comportamenti delle persone.
È un mercato delle materie prime con futures
umani”.
E
aggiunge:
“In una civiltà dell’informazione come la
nostra c’è anche un ordine sociale derivato dalle questioni essenziali della
conoscenza, dell’autorità e del potere che si basano sul possesso di dati.
E se non ricordate questo, tenete allora a
mente tre domande determinanti:
Chi
sa? Chi decide chi sa? Chi decide chi decide chi sa?
Oggi le aziende del capitalismo della
sorveglianza, e in primo luogo i giganti tech, detengono le risposte a ciascuna
di queste domande.
Non
abbiamo votato queste aziende perché governassero.
Ma,
grazie alla forza derivante dalla loro rivendicazione dei diritti di proprietà,
gli imperi privati della sorveglianza hanno di fatto compiuto un golpe
epistemico e antidemocratico.
Con
questo intendo una rivoluzionaria presa del potere, con cui si sono appropriati
del sapere e degli strumenti per l’acquisizione del sapere.
I giganti tech decidono che cosa si sa, chi
può saperlo e con quale obiettivo”.
E
ancora:
“Il capitalismo della sorveglianza è la gabbia
di ferro dell’era digitale.
E, mentre la democrazia dormiva, gli è stato
consentito di possedere, manovrare e mediare l’ambiente digitale.
[…]
L’istituzione economica del capitalismo della sorveglianza è lo scenario
unificato davanti al quale i danni antidemocratici che fronteggiamo si
stagliano non come tanti fenomeni isolati ma come effetti, relazionati fra
loro, di una sola causa. […]
Il suo
scopo è allontanare le persone dai governi, sostituire la società con sistemi
computazionali e installare un governo computazionale al posto della democrazia”.
“Zuboff
“è comunque moderatamente ottimista:
“Dobbiamo
approvare delle leggi che proteggano e promuovano i diritti dei molti contro
gli interessi economici dei pochi.
Noi
affermiamo che il nostro destino non è diventare una distopia basata su
sorveglianza, controllo e certezze ingegnerizzate a vantaggio dell’altrui
ricchezza e potere.
Noi
affermiamo che non abbiamo dimenticato e non dimenticheremo che ogni
generazione è chiamata a lottare per prolungare la durata della migliore idea
che l’umanità abbia mai avuto [la democrazia e quindi la libertà] e per darle
nuova vitalità”.
Non
facile, per le cose dette più sopra.
Ma doveroso è provarci – prima di dover
entrare anche nel “Metaverso” a prescindere da una nostra decisione, da una
nostra volontà consapevole, al solo scopo di accrescere ancora di più i
profitti di “Mark Zuckerberg”.
(nytimes.com/2021/12/22/technology/big-tech.html)
Il
governo populista pensa a
un bel
decreto sicurezza: la
retorica
tutta spot nel Paese
record
di sbarchi.
ilriformista.it - Claudia Fusani — (10 Agosto
2023) – ci dice:
Il
governo è in cerca di risposte urgenti, possibilmente reali, a svariati
problemi. Per ora, però, hanno tutte il sapore vago del populismo.
Al
caro-vita si risponde con il patto anti-inflazione per calmierare i prezzi:
forse
in ottobre e se parteciperanno i produttori, vedremo.
Al caro-mutui si pensa di rispondere con una
norma pasticciata, non condivisa e che ha giù mangiato 9 miliardi in borsa che
andrà a tassare gli extraprofitti delle banche.
Al
disservizio costante e perenne dei taxi si risponde con una norma che cambia
poco o nulla ed è frutto dei diktat della lobby dei tassisti.
All’immigrazione fuori controllo – 94 mila
sbarchi dal primo gennaio, mai così tanti negli ultimi sette anni – e che sta
generando molta tensione nei territori e tra i sindaci soprattutto di destra,
si risponde con l’ennesimo pacchetto sicurezza che avrà al centro “una stretta
definitiva sui rimpatri di chi non ha diritto a restare in Italia”.
Come?
Per fortuna a nessuno a palazzo Chigi è ancora venuto in mente l’opzione navi-galleggianti
o isole in mezzo all’oceano pensata dall’amico premier inglese Richi Sunak.
La Meloni’s way – abbandonato il muro navale –
è aprire Centri per il rimpatrio in ogni regione, anche più d’uno per regione.
Una
soluzione copiata pari, pari da Marco Minniti, ex ministro dell’Interno del
governo Gentiloni.
Correva
l’anno 2017.
Da allora l’opzione Cpr è rimasta lettera
morta.
Per un
motivo soprattutto: i presidenti di regione e i sindaci, di destra e di
sinistra, non vogliono avere i Centri nei propri territori perché sono calamite
di guai, tensioni e malumori.
Perché
mai, quindi, dovrebbe cambiare qualcosa adesso?
Eppure
di questo hanno parlato lunedì sera, dopo il Cdm, la premier Meloni e il
ministro Piantedosi.
“Dobbiamo
risolvere questo problema, gli sbarchi aumentano e i territori, anche quelli
governati dai nostri, non reggono più.
Serve un segnale forte, Matteo (Piantedosi,
ndr) trovalo”.
I Cpr
sono luoghi dove trattenere, contro la loro volontà e in base ad una norma
amministrativa, gli stranieri irregolari, recidivi – specie su reati di
violenza – che non possono stare in carcere ma neppure in Italia.
Il caso
del nigeriano – con precedenti per danneggiamento, espulso più volte ma ancora
in Italia – che ha aggredito e poi ucciso la sessantenne Iris Setti a Rovereto,
è solo l’ultimo di una serie sempre più lunga.
Il
nuovo pacchetto sicurezza – il primo atto del governo Meloni un anno fa fu il decreto rave (di cui non sono note stime circa la
sua applicazione) – prevede il rafforzamento di uomini e mezzi per le forze
dell’ordine e anche della polizia locale.
Fin qui tutto facile se ci fossero i soldi che
al momento non ci sono.
Poi pene più dure per chi compie aggressioni,
per combattere la piaga delle baby gang e della violenza minorile.
Infine qualcosa per rendere effettive le
espulsioni. O meglio: i rimpatri.
Quanto meno per impedire ai più pericolosi di
stare fuori, liberi di circolare, in attesa di giudizio o di una espulsione che
non arriverà mai.
Nwekw Chukwuka, il nigeriano di 37 anni che
aggredito e ucciso la sessantenne Iris a Rovereto, non tornerà mai in Nigeria.
A meno
che non cambi la natura della reciprocità degli accordi legali con il governo
locale.
E con
tutti gli altri paesi africani da cui originano maggiormente i flussi in arrivo
in Italia e poi in Europa.
Questo
è il punto.
Ed
ecco quale sarebbe il vero piano Mattei.
I Cpr
non possono essere per loro natura una soluzione.
Sono
un pezzo della soluzione che comprende molto di più
. Ma
per restare alle formule populistiche (“l’ordine – si spiega al Viminale – è
rafforzare i Cpr”) bisogna sapere che oggi in Italia i Centri per il rimpatrio
attivi sono solo dieci in otto regioni e garantiscono un totale di 1100 posti.
Sono
ospitati in otto regioni su venti, Calabria e Sicilia ne hanno già due.
Il
Centro più grosso è quello di Roma (200 posti).
La
previsione di farne tanti, anche due o tre in ogni regione per evitare grossi
assembramenti più difficili da gestire, è rimasta lettera morta dal 2017.
Lo
stesso Salvini preferì concentrarsi sui porti chiusi perché sapeva che chiedere
ad un sindaco o un governatore di aprire un centro nel proprio territorio
significava, allora come oggi, incassare No secchi e proteste.
Il
problema è che non si capisce come oggi il ministro Piantedosi possa riuscire a
convincere sindaci e governatori ad ospitare i Centri.
Già
adesso, lontano dalle pagine dei giornali, dai notiziari di siti e dai talk
show che non se ne occupano più, i sindaci protestano e mandano indietro (nel
senso che li riportano in prefettura) i migranti sbarcati in Italia, entrati
nel sistema di accoglienza e distribuiti in giro per l’Italia dal Commissario
per l’emergenza migranti Valerio Valenti.
Va anche detto che il sistema di accoglienza è
ridotto al lumicino, smantellato dai decreti Salvini.
Così i
migranti vagolano per le città, le campagne, si arrangiano come possono e
sempre più spesso finiscono per delinquere.
Per necessità e disperazione.
Si
attendono risposte concrete ed efficaci.
Nel frattempo in mare si è consumata
l’ennesima tragedia: un barchino si è ribaltato ed è affondato mentre stava
navigando nel Canale di Sicilia.
Il bilancio è drammatico: 41 morti, tra cui
tre bambini.
Il
nuovo pacchetto sicurezza sarà quindi solo la solita propaganda.
Merce
buona per la campagna elettorale per le europee.
E per
tenere buono il proprio elettorato e il socio Salvini.
(Claudia
Fusani)
Mercati
e Big Tech sono i nuovi poteri
assoluti
del mondo: ecco i rischi.
Agendadigitale.eu
– Lelio Demichelis – (25-1-2022) – ci dice:
DOV'È
IL POTERE.
Cultura
e Società Digitali.
A
differenza del passato, oggi la politica è subordinata, come mezzo,
all’economia e alla tecnologia, diventate il fine di sé stesse.
Abbiamo
un enorme problema di democrazia.
Ma non
lo vediamo.
Serve
lo Stato contro un capitalismo che mai è stato bello, e oggi lo è ancor meno.
Cos’è
il potere?
Dov’è
il potere – anzi, il Potere, usando Pier Paolo Pasolini?
Non
tanto il potere politico – quello sembra facile da identificare, ha dei nomi di
persona (Biden, Draghi, Lagarde, Putin) oppure rimanda a Istituzioni specifiche
(la Ue, il Parlamento, il Governo, il Fondo monetario internazionale,
l’Organizzazione mondiale della sanità – Oms) – quanto ciò che, a monte,
determina le reali forme del Potere e i modi con cui si esprime e si esercita
su di noi: cioè, qual è il Potere che governa la vita delle persone, ovvero,
usando Michel Foucault, “conduce le condotte umane” in una direzione piuttosto
che in un’altra.
La
questione è antica, volendo potremmo risalire a Platone e ad Aristotele e alle
loro distinzioni tra democrazia, oligarchia, governo degli uomini o governo
delle leggi, democrazia formale e sostanziale, eccetera, eccetera.
Ma
rapportando la questione all’oggi, non possiamo non riconoscere che il potere
dell’economia e della tecnologia (antidemocratici per essenza propria) è più
forte del potere politico e della democrazia, è potere assoluto in quanto non
bilanciato da altri poteri equi-valenti ed equi-potenti.
Qui
vogliamo quindi ricordare alcuni elementi che ci permettono di definire i
diversi livelli di governo (di Potere) oggi esistenti, la loro struttura
gerarchica e il loro rapporto con la democrazia, la sovranità, la libertà e
l’autonomia delle persone – e il demos (i cittadini) titolare del potere in
demo-crazia.
Non
senza aggiungere che da sempre il potere corrompe chi lo pratica, che viene
usato per corrompere (qualcun ricorda Mani pulite?), che spesso il popolo ama
chi corrompe ed ama essere ingannato (cioè corrotto mentalmente e
politicamente) dal potere (pensiamo a Trump e a quel 50% di americani che lo
hanno votato e lo rivoterebbero).
Sul
tema della corruzione è recentemente uscito un nuovo libro dal titolo
inequivocabile, “Corruptible:
Who Gets Power and How It Changes Us” (Scribner Book Company), di Brian Klass,
columnist del Washington Post e basato su 500 interviste a uomini di potere.
Qui
però useremo il concetto di corruzione e il processo del corrompere nel senso
di “disfacimento, deterioramento materiale ma soprattutto morale” (Dizionario
etimologico della lingua italiana – Zanichelli) e faremo una
rilettura/interpretazione del potere concentrandoci sul macro-contesto entro il
quale, oggi, si muovono o possono muoversi i diversi livelli di governo a scala
nazionale, sovra-nazionale e locale, pre-determinandone (corrompendone)
l’azione e gli effetti.
Questo
macro-contesto è dato dal neoliberalismo, egemone nel mondo da quarant’anni a
questa parte (è l’ideologia trionfante dopo la morte delle ideologie
novecentesche) a dispetto di tutti i suoi fallimenti e del suo intrinseco
nichilismo (possiede una potentissima e patologica coazione a ripetersi),
sommato con le tecnologie di rete e con chi le possiede (e con la religione
tecno-capitalista che esprimono, con il feticismo e il catechismo tecnofilo che
producono).
Macro-contesto ideologico e tecnologico che ha
profondamente modificato i livelli di governo esistenti prima degli anni ‘80.
Corrompendo
in altro modo la società e la polis, corrompendo la democrazia, il concetto di
libertà e imponendosi come modo di vivere/way of life tecno-capitalista sul
mondo intero – la globalizzazione e la rete come espressione di questo
meta-contesto a-democratico e impostosi come un dato di fatto.
Prima
però, una distinzione: il governo è la struttura istituzionale/politica –
articolata su diversi livelli – “che ha ottenuto il potere di scegliere,
decidere e attuare politiche pubbliche.
Nei
sistemi democratici questo è ottenuto attraverso elezioni libere e la
presentazione di programmi politici” (Bobbio-Matteucci-Pasquino, Il Dizionario
di politica – Utet).
All’opposto
accade nei sistemi autoritari o tecnocratici.
Diverso
è invece il concetto di governo inteso come governare – ossia come attuare un
determinato programma politico, scelto dal demos oppure imposto al demos.
E ancora diverso è capire dov’è oggi il potere
capace di governare, posto che non è più nel governo-istituzione democratica,
ma non si sa bene dove sia.
Ci aveva provato, con ottimi risultati di
analisi, il francese Michel Foucault (1926-1984) che definiva con
governamentalità/biopolitica il modo con cui il potere (non necessariamente lo
stato) guida e dirige appunto le condotte umane in un senso voluto dal potere,
rendendo ciascuno utile e docile verso il potere – e il neoliberalismo era per
Foucault una di queste forme di governamentalità/biopolitica (infra, Lippmann),
che qui definiamo come macro-contesto e che altrove abbiamo definito come una
delle forme di human engineering succedutesi nel corso della storia e
soprattutto nel Novecento.
Cosa
si intende per democrazia?
“Nella
democrazia, l’agire politico non solo è pubblico, ma deve essere reso pubblico,
messo sotto gli occhi del pubblico; e lo è in due sensi: perché volto ad
occuparsi di problemi che direttamente o indirettamente riguardano e
condizionano tutti; e perché deve essere reso chiaro, giustificato e aperto al
pubblico, esposto sempre al giudizio dei cittadini, i quali, in quanto corpo
sovrano, hanno due poteri: quello di autorizzare con il voto e quello di
giudicare e controllare perpetuamente, prima o dopo aver votato, coloro che
hanno autorizzato” a governarli (Urbinati, Liberi e uguali, Laterza).
Ovvero,
nella democrazia, aggiungeva il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, ci si
deve poter attivare, mentre nelle altre forme politiche si è invece attivati da
qualcuno/qualcosa di esterno.
L’essenza della democrazia è infatti in questa
possibilità e capacità di ciascuno di attivarsi, cioè di pensare, fare,
partecipare, decidere liberamente: senza questa possibilità e capacità, non c’è
democrazia. Perché, ancora Zagrebelsky, la democrazia moderna è in primo luogo
la scelta dei fini e poi la predisposizione dei mezzi per raggiungere tali fini,
ovvero il governo della polis è conseguenza della volontà dai cittadini
espressa in un pensiero pro-gettante.
E
allora, la domanda: i diversi livelli di governo esistenti oggi rispondono
tutti a queste esigenze di democrazia, di partecipazione e di controllo da
parte del demos?
Certamente
no il potere della finanza e del denaro/mercati;
certamente no il potere della tecnica e
dell’innovazione tecnologica;
certamente
no il potere delle multinazionali;
certamente no il potere dei social.
E il deficit di democrazia non solo va
crescendo (populismi, autoritarismi, tecnocrazie, algoritmi), ma viene sempre
più accettato come nuova e necessaria normalità del Potere.
E ad
essere corrotto oggi da questi poteri non democratici – è quindi anche il
principio della separazione dei poteri, essenziale in una democrazia perché sia
possibile attivarsi e perché il potere sia trasparente, pubblico e
controllabile dal demos.
Già
Montesquieu (1689-1755) aveva tracciato la teoria della separazione dei poteri.
Partendo
dalla considerazione che il “potere assoluto corrompe assolutamente”, aveva
analizzato i tre poteri che vi sono in ogni stato:
il
potere legislativo, il potere esecutivo e il potere giudiziario.
Condizione
oggettiva e necessaria per l’esercizio della libertà del cittadino che esercita
il suo potere sovrano (supra Urbinati e Zagrebelsky), è che questi tre poteri
restino nettamente separati e bilanciati e controllati, per evitare che
diventino appunto poteri assoluti.
Oggi,
i mercati e il Big Tech sono i nuovi poteri assoluti del mondo (e non basta
certo la decisione dell’Antitrust di multare Amazon per poter dire che esiste
un controllo, perché questo controllo si esercita solo ex-post, mentre dovrebbe
essere esercitabile anche ex-ante, la politica tornando a governare anche il
mercato e i processi di innovazione tecnologica (o di regressione tecnologica,
posto che Amazon è le vecchie vendite per corrispondenza, oggi algoritmiche; e
che la Fabbrica 4.0 è solo il vecchio taylorismo, ma digitalizzato).
Oggi,
quindi, il potere dell’economia e della tecnologia è potere assoluto.
Ieri
il sistema economico e industriale veniva subordinato, come mezzo, alla
politica, per realizzare dei fini sociali, decisi dal demos;
oggi è
la politica che è subordinata, come mezzo, all’economia e alla tecnologia,
diventate il fine di sé stesse.
Quindi
abbiamo – di nuovo – un enorme problema di democrazia.
Ma non lo vediamo.
Il
Potere sa nascondersi.
Chi
governa il mondo?
Lo
Stato, sempre meno.
Il
demos, sempre meno (le scelte economiche e di politica economica vengono
imposte dai mercati, vedi il caso Europa/mercati/banche contro la Grecia nel
2015, con l’Europa democratica (sic!) che rifiuta di accettare l’esito di un
voto popolare in un democratico referendum). I mercati, sempre di più.
Il
Gafam (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft – cioè un oligopolio di
monopoli), sempre di più (si pensi a come una singola impresa come Amazon ha
stravolto in pochi anni, a sua totale discrezione e decisione, il sistema della
piccola, ma anche della grande distribuzione e a come i social/imprese private
finalizzate al profitto privato governano la vita di miliardi di persone).
La tecnica, sempre di più – si pensi alla
delega di valutazione e di decisione che sempre più diamo ad algoritmi e
digitale, a prescindere da ogni controllo e da ogni consapevolezza umana.
Le lobby: sempre di più – si pensi a come per
decenni è stato negato il riscaldamento climatico e a quanto hanno pesato sul
fallimento della recente Cop26.
I
sistemi di regolazione extra-statali, sempre di più.
Su
questi ultimi sistemi di regolazione, tanto invisibili da essere sconosciuti ai
più ma dal potere enorme sul governo della vita di ciascuno e dell’intero
sistema globale, il giurista Sabino Cassese aveva scritto anni fa:
“Chi
governa il mondo? La risposta più comune è che il mondo è governato dagli stati
che, tramite i propri organi esecutivi, stipulano accordi nelle diverse parti
del globo.
Gli
stati non hanno tutti lo stesso peso e la stessa influenza e di conseguenza il
potere non è ripartito equamente.
Essi
infine stipulano convenzioni e trattati […].
Questa
risposta tralascia però due fatti importanti.
La prima è che gli stati hanno vissuto nel
tempo processi di aggregazione e di disaggregazione.
La
seconda è che sono stati affiancati da un numero sempre crescente di organismi
non statali” (che non sono le Ong), ma con il potere di imporre norme
estremamente vincolanti, al di fuori di qualunque sovranità e controllo da
parte del demos (S. Cassese, Chi governa il mondo? – il Mulino).
Cassese definiva questo regime di regolazione
come global polity.
Chi
governa il mondo?
Ma a
governare il mondo è oggi soprattutto – come anticipato – il pensiero/ideologia
neoliberale e tecnico (il meta-contesto, ciò che predetermina i modi del potere
economico, tecnologico e politico;
che
ingegnerizza la vita sociale e individuale).
Che si basa su una serie di principi:
trasformazione pianificata della società in mercato e in rete;
stato
da governare come un’impresa ma soprattutto stato come promotore del mercato;
interconnessione/digitalizzazione/connessione/integrazione
di tutti nel sistema tecnico e di mercato (che è la nuova forma
dell’organizzazione, del comando e del controllo da parte del capitale, come
direbbe Marx);
l’uomo non più come persona ma come capitale
umano;
l’impresa solo nella sua forma autocratica.
Scriveva
il neoliberale “Walter Lippmann “già negli anni ‘30 del ‘900, definendo
chiaramente quella che sarebbe stata poi l’azione di pianificazione neoliberale
della società a partire dagli anni ‘80:
“il
liberalismo è la filosofia della rivoluzione industriale” e suo compito è
modificare l’uomo, adattandolo alle esigenze della produzione e del
capitalismo, divenendo “un nuovo sistema di vita per l’intera umanità”,
accompagnando “la rivoluzione industriale in tutte le fasi del suo sviluppo;
e
poiché questo sviluppo è infinito, il nuovo ordine non sarà mai in nessun modo
perfettamente realizzato e concluso” (Dardot e Laval, “La nuova ragione del
mondo” – DeriveApprodi).
Ovvero, per i neoliberali – in questo
profondamente anti-democratici, illiberali e in contraddizione con sé stessi,
negando di fatto la libertà dell’individuo e imponendo all’individuo di
adattarsi a qualcosa che non deve governare e controllare – l’ambiente sociale
e il sistema capitalistico devono tendere a formare un tutto armonico, in
realtà integrato e soprattutto e peggio, integralistico.
Esiste
poi il potere delle imprese. Scriveva – lo abbiamo fatto in altre occasioni ma lo
richiamiamo di nuovo – Luciano Gallino (1927-2015), nel 2011:
“La democrazia, si legge nei manuali, è una
forma di governo in cui tutti i membri di una collettività hanno sia il
diritto, sia la possibilità materiale di partecipare alla formulazione delle
decisioni di maggior rilievo che toccano la loro esistenza. […]”.
E
invece, oggi “la grandissima maggioranza della popolazione è totalmente esclusa
dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si prendono” nei settori
dell’economia, di fatto espropriati e alienati dalla democrazia, per l’azione
di quel soggetto che si chiama grande impresa, industriale o finanziaria,
italiana o straniera che sia.
“Il fatto nuovo del nostro tempo è che il
potere della grande impresa di decidere a propria totale discrezione che cosa
produrre, dove produrlo, a quali costi per sé e per gli altri, non soltanto non
è mai stato così grande, ma non ha mai avuto effetti altrettanto negativi sulla
società e sulla stessa economia.
[…] il potere esercitato dalle corporation
sulle nostre vite configura un deficit di democrazia da costituire ormai il
maggior problema politico della nostra epoca”. Si pensi ancora ad Amazon, a
Google, ai social.
Si pensi alla Gkn o alla Whirlpool e alla loro
libertà di delocalizzare (e al governo tecnocratico di Draghi che ovviamente
non glielo impedisce).
La
corruzione neoliberale e tecnica della demo-crazia.
Dunque,
abbiamo un sistema complesso di livelli di governo, alcuni espliciti, altri
nascosti, apparentemente disordinati, ma tutti in realtà organizzati,
finalizzati, governati secondo il macro-contesto (il meta-livello di governo)
del neoliberalismo e della tecnica (e della tecnocrazia).
Un
macro-contesto che appunto pre-determina ogni scelta politica, corrompendo
ex-ante la demo-crazia, corrompendo ex-ante la sovranità del demos, questo
macro-contesto imponendosi come dato di fatto immodificabile, che non si deve e
non si può governare democraticamente (anche perché confonde dolosamente rete e
mercato con democrazia, facendoci credere che siano la stessa cosa – e ideologia
significa anche, come scriveva Norberto Bobbio, “far credere”), senza
permettere la ricerca di alternative.
È il
macro-potere di sé stesso.
È il
meta-livello di governo che subordina a sé e che sussume in sé tutti gli altri
livelli di governo.
Che ha
corrotto le radici della democrazia, illudendo di una libertà solo apparente.
Ha
scritto “Joseph Stiglitz”, premio Nobel per l’economia nel 2001, valutando gli
effetti delle politiche neoliberali (noi però aggiungendo la tecnica):
“1) le
regole economiche neoliberiste hanno creato maggiori disuguaglianze, con un
calo dei soggetti che condividono i benefici dell’attività economica e una
crescita più lenta dell’economia in generale e persino degli investimenti”;
2) “la finanza non è più al servizio
dell’intera economia ma solo di se stessa”;
3) “i
sistemi fiscali incoraggiano la speculazione e l’elusione fiscale da parte
delle multinazionali”;
4) “le
politiche monetarie e fiscali, troppo incentrate sulla difesa da certi rischi
(deficit di bilancio e inflazione) ignorano le vere minacce alla prosperità
economica, ovvero la crescente disuguaglianza e il sotto-investimento e hanno
prodotto più disoccupazione, più instabilità e meno crescita”;
5)
“nel mercato del lavoro, i cambiamenti delle istituzioni, delle leggi, delle
norme e dei regolamenti hanno indebolito il potere dei lavoratori, che ora
hanno più difficoltà a contrapporsi agli eccessi di potere di mercato delle
imprese”;
6) “la
disuguaglianza è stata una scelta politica” (Le nuove regole dell’economia, il
Saggiatore).
Il
ruolo dello stato.
Scriveva
“J. M. Keynes”, negli anni ‘30 del ‘900, un autore che dovremmo rileggere
urgentemente per ripensare al ruolo da tornare ad affidare allo stato e alla
necessità di governare democraticamente sia il mercato e sia il Big Tech):
“La
cosa importante per il governo, non è fare ciò che gli individui fanno già, e
farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa
del tutto”.
E
aggiungeva:
“I
difetti lampanti dell’economia odierna sono:
la sua
incapacità di provvedere alla piena occupazione;
e la sua
distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e dei redditi” [esattamente
oggi come allora].
E
ancora: “Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è
virtuoso e non produce i beni necessari” [allora, come oggi].
Inoltre,
spreca deliberatamente una quantità enorme di risorse nella lotta per la
concorrenza [allora come oggi].
Keynes
sosteneva quindi che fosse necessario guidare l’economia (e non lasciarsi
guidare dall’economia) attraverso precise politiche monetarie, industriali,
sociali e fiscali poiché i mercati quasi mai sono in grado di raggiungere un
equilibrio efficiente.
Salute e ambiente, ad esempio, sono beni
pubblici che acquisiranno un valore crescente e questo giustificherà, scriveva,
l’intervento dello stato.
Il capitalismo inoltre – e questo diventa
ancora più importante nel momento in cui, per la crisi climatica, dobbiamo
pensare alle future generazioni – è incapace “di garantire l’allocazione
inter-temporale delle risorse, dunque solo lo stato potrà occuparsi del nostro
futuro a lungo termine”
(La
fine del laissez-faire e altri scritti – Bollati Boringhieri).
Contro
i tiranni digitali.
Lavoce.info
– (29-11-2022) - EMILIANO MANDRONE – ci dice:
Prima
che sia troppo tardi, è arrivato il momento di arginare l’eccessivo potere
delle big tech e dei loro proprietari.
Istituzioni
e cittadini devono impegnarsi per riportare le opportunità offerte dalla
tecnologia all’interno del contratto sociale.
Erano
questi i giganti cui si riferiva Newton?
Fanno
ciò che vogliono, non hanno bisogno di consenso, fagocitano gli avversari e
incutono timore, soprattutto a chi gli sta vicino. Non contemplano la
discussione e si sentono infallibili.
Non
sono i presidenti di finte democrazie, dittatori di varia caratura, sparute
monarchie assolute e nemmeno bellicosi autocrati, ma i padroni di società dalle
dimensioni così grandi che con la loro condotta spregiudicata non condizionano
solo il mercato, ma possono determinare vere e proprie crisi sociali –
delocalizzando o scalando la loro manodopera o cambiando assetto organizzativo
o agendo il loro immenso potere finanziario.
È di
questi giorni la notizia di vari proprietari di big tech (da Elon Musk a Mark
Zuckerberg) che hanno cacciato migliaia di loro collaboratori senza neanche
saper bene chi stessero licenziando.
La legge, spesso, non è un argine alla loro
azione.
La loro ricchezza è tale da consentirgli di
rispettare formalmente le penalità previste dalle norme, un po’ come le multe
che non hanno la stessa forza deterrente per chi guida una utilitaria o una
fuoriserie.
È l’economia delle superstar: iperbolica,
immateriale, imprevedibile.
Stride
il comportamento bizzoso di questi semidei digitali con certe narrazioni che li
vede geni visionari, innovatori e, pure, filantropi (ma in articulo mortis).
Come
sono diversi da Adriano Olivetti, un innovatore etico, che coniugava ricerca
tecnologica avanzatissima con sistemi di conciliazione vita-lavoro
pionieristici, alla ricerca dell’equilibrio del lavoratore all’interno di una
comunità.
Redistribuendo i guadagni attraverso una
politica delle retribuzioni che, pur garantendo una premialità (di più a chi ha
impegni o capacità superiori), non umiliava le persone con differenze salariali
esagerate, fedele alla regola che nessuno deve guadagnare più di 10 volte
quanto il salario minimo pagato.
Nel
mondo della tecnologia – fortunatamente – ci sono lavoratori che hanno una
grande facilità di collocazione in virtù di professionalità molto rare e
complesse.
Questi
radical chip scelgono dove lavorare in base a retribuzione, condizioni di
lavoro, carriera, intensità dell’impegno, tempo libero.
Ma
sono l’eccezione che conferma la regola:
le
persone e i lavoratori per proteggersi dovrebbero stare unite e invece,
paradossalmente, l’astensionismo al voto e la disaffezione verso il sindacato
crescono.
Si è
consolidata una visione del mondo individualista, un “american dream” digitale
che ci fa regredire al far west o, peggio, all’”homo homini lupus “– ambienti
che possono attrarre solo persone e comunità senza cultura.
E
senza memoria.
Infatti,
era solo il 2000 quando la bolla delle imprese web (dot-com bubble) sembrava
destinata a una crescita senza fine e un attimo dopo è esplosa.
Eppure
oggi, dopo la sbornia della pandemia con la digitalizzazione di massa, tornano
a crearsi aspettative eccessive su imprese apparentemente destinate a una
crescita senza soluzione di continuità.
Il regolatore
si è distratto?
Abbiamo
smarrito le ragioni dell’intervento pubblico che limita i fenomeni estremi del
mercato.
Non è una cosa nuova.
La
natura apparentemente eterea dell’impresa digitale ha sorpreso istituzioni
novecentesche pensate per la grande industria e ha aggirato anche i più
tradizionali capisaldi capitalistici:
per esempio, l’antitrust pensato per garantire
la concorrenza, vecchio di 110 anni, che smembrò la flotta di petroliere di
Rockefeller, un monopolio non dissimile da quello delle big tech.
È
forse più facile vedere le petroliere che i server, gli operai che i rider?
È più facile da regolamentare un singolo paese
piuttosto che il web, sospeso com’è sopra gli ordinamenti nazionali?
È anche un problema di percezione:
la
privacy, ad esempio, è diventata un problema rilevante da 10-15 anni con i
social, con le transazioni digitali, con le app.
Prima
non ce ne si curava.
Ecco,
non ci siamo accorti di nulla o, peggio, abbiamo fatto finta di niente.
A mano
a mano che aumentava la loro egemonia abbiamo perso il governo del sistema:
si pensi alla difficoltà di fronteggiare gli
oligopoli tecnologici o disciplinare le criptovalute (che non si è mai capito
se sono davvero legali), di contrastare lo sfruttamento lavorativo delle
persone ovunque vivano o gli attacchi ai diritti civili, all’ambiente e alla
possibilità delle future generazioni.
Quando
finiscono le guerre (politiche o commerciali o tecnologiche) si dice sempre che
sono cominciate perché è mancata la società civile.
Era
distratta o pensava di trarre vantaggio da certe situazioni, ma poi le cose le
sono sfuggite di mano.
È sempre la stessa storia: “prima vennero a
prendere gli zingari (…) e non me ne curai, poi gli ebrei (…)” e a un certo punto il tiranno era al potere.
Agire
le istituzioni democratiche.
C’è un
ripiegamento della comunità su molti piani e molte conquiste sociali si stanno
perdendo.
Non è
solo un modo di dire:
meno
di una persona su due vive in una democrazia compiuta, solo il 5,7 per cento in
una democrazia perfetta (Democracy Index) e l’indicatore dell’Economist è in
calo ovunque, così come il livello di sindacalizzazione, di protezione sociale,
dell’istruzione, della sanità.
Per
proteggerci servono adeguate istituzioni pubbliche per garantire interventi idonei
e tempestivi.
È
necessaria una ampia elaborazione culturale per affrontare le implicazioni che
le possibilità tecnologiche producono sulla nostra comunità, per ricondurre le
opportunità all’interno del contratto sociale, per adattare i codici analogici
alla dimensione digitale, per decidere quali principi non sono negoziabili, per
autoregolamentarci definendo un perimetro di salvaguardia oltre il quale non si
può andare, come si è fatto per le questioni etiche relative alla frontiera
della medicina, della biologia o della fisica.
Lo
spazio e il tempo sono collassati, la prestazione del lavoro o la fruizione dei
servizi è cambiata radicalmente, l’energia e la mobilità in forte evoluzione,
forse è il momento di aggiornare il sistema.
Serve
la politica (economica).
Le
bigtech sono nemiche delle
democrazie
o caschi blu digitali?
Intervento di Guido Scorza – Milano Finanza.
Garanteprivacy.it
– Redazione - Guido Scorza – (8-3-2022) – ci dice:
Quando,
qualche giorno fa, la Russia ha invaso l'Ucraina dando il via alla più vicina e
drammatiche delle guerre per chi è nato dopo il secondo conflitto mondiale, le
Big Tech stavano vivendo, probabilmente, uno dei momenti più difficili della
loro storia.
L'incantesimo
dell'Internet per tutti, aperta, partecipata, nuova agorà globale era, ormai,
finito da tempo e i regolatori di mezzo mondo, inclusi quelli degli Usa, che
pure ha dato i natali a tutte le cosiddette Gagam (Google, Amazon, Facebook,
Apple e Microsoft) erano impegnati a richiamarle all'ordine, a cercare, in modi
diversi, di ridimensionarle o, almeno, ridimensionarne gli effetti, non solo,
non tutti, non sempre positivi prodotti sulla società, sui mercati e sulle
democrazie nell'ultimo ventennio o poco più.
In
Europa sono in discussione il Digital Service Act e il Digital Market Act che
hanno per scopo quello di ridurre il loro strapotere.
Lo
stesso Joe Biden, il 1 "marzo, nel suo primo discorso alla nazione, ha
usato parole durissime, forse le più dure mai usate da un presidente Usa in
carica, proprio all'indirizzo delle Big Tech:
«E' il
momento di rafforzare le tutele alla privacy, vietare la pubblicità mirata ai
bambini e chiedere alle società tecnologiche di smetterla di raccogliere i dati
personali dei nostri figli».
Poi è
scoppiata la guerra o, almeno, la guerra è entrata nella sua fase più calda,
cruda, cruenta e drammatica.
E, a
quel punto, è cambiato tutto o, forse, meglio, tutto ci è apparso sotto una
luce diversa.
Elon Musk, signore delle tecnologie presenti e
future e, tra l'altro, patron di “Tesla”, “Neuralink” e “SpaceX”, ha risposto a
un appello lanciato dal governo ucraino via social e ha letteralmente
riportato, accendendo i satelliti della sua “StarLink”, in Ucraina quell'Internet
che i russi avevano sostanzialmente spento.
Facebook
e Google hanno dichiarato la più massiccia, determinata e, almeno sin qui,
efficace campagna contro la disinformazione riuscendo se non a bloccare, almeno
ad arginare e ridimensionare significativamente la propaganda digitale
filorussa che correva sui social.
I social tutti, con poche distinzioni, sono
tornati, nell'immaginario collettivo, attraverso la narrativa mediatica
globale, a rappresentare quella sconfinata piazza pubblica globale nella quale
gli ucraini hanno potuto raccontare al mondo il loro dramma, lanciare le loro
urla di dolore, manifestare il loro orgoglio e chiedere aiuto al la comunità
internazionale e i russi, o, almeno, quella parte pure consistente, contraria
all'iniziativa bellica di Putin.
I
socialnetwork, in questo contesto, sembrano tornati a essere gli eroi della
libertà idolatrati dal la comunità internazionale come ai tempi della primavera
araba.
E, senza tanti giri di parole ne false
ipocrisie istituzionali bisogna dire chiaro e forte che quegli stessi governi
che sino a qualche giorno prima li additavano come un problema da risolvere in
fretta, hanno visto in loro un'opportunità per contribuire a fermare la
tragedia della guerra e hanno, a più riprese e sotto profili diversi, chiesto
il loro aiuto, quando in pubblico e quando in privato, nella più parte dei casi
e, anzi, forse sempre, ottenendolo.
Nello
spazio di qualche giorno la narrativa è cambiata sensibilmente e, a tratti, è
parsa far passare le Big Tech da nemiche delle democrazie e del libero mercato
a forze di pace, caschi blu digitali delle nazioni unite.
Ma chi
sono davvero?
Ne
nemici, ne forze di pace, in effetti.
E,
anzi, forse, sotto taluni profili, la circostanza che non si possa far a meno
di chiedere toro aiuto in tempo di guerra - così come, per la verità, in
occasione di ogni genere di dramma umanitario dalla pandemia alle calamità
naturali-e che il loro aiuto risulti spesso determinante, efficace, talvolta
risolutivo è la miglior conferma delle ragioni che devono indurci non a temerle
ma regolarle, governarle, vigilarle, talvolta, anche spuntar loro le ali perché
si tratta di straordinarie concentrazioni di poteri privati superiori, ormai,
per forza e dimensione, alla più parte dei poteri pubblici, che possono essere
indistintamente utilizzate per i più nobili e per i meno nobili degli scopi.
Anche
se e proprio della natura umana avere l'esigenza di dividere il mondo in buoni
e cattivi, dovremmo approfittare di questa drammatica guerra - che, peraltro,
segue a ruota la non meno drammatica pandemia nella quale egualmente le Big
Tech hanno giocato un ruolo determinante nel rendere sostenibile il nostro
quotidiano - per convincerci, una volta per tutte, che le Gafam e i foro concorrenti
- non sono né angeli, ne demoni, sono solo alcuni tra i più mirabili risultati del
progresso tecnologico che le regole dei mercati e quelle dei governi possono
rendere i migliori alleati del genere umano o i loro peggiori nemici.
Per
Barack Obama i social network
possono
distruggere la democrazia.
Repubblica.it
- Carlo Lavalle – (26 APRILE 2022) – ci dice:
L'ex
presidente Usa scende in campo a favore della regolamentazione statale del
sistema mediatico digitale, in mano ai big tech, che produce un disallineamento
con l'ordine democratico ed è preda di manovre di paesi e forze autoritarie.
Il
sistema informativo basato sui social network rappresenta un pericolo per le
democrazie ed è progettato in modo da favorire disinformazione, estremismi e
divisioni.
Sono
parole sferzanti quelle pronunciate da Barack Obama in occasione di un incontro
organizzato il 21 aprile dal Cyber Policy Center della Stanford University.
Il
discorso dell'ex presidente democratico degli Stati Uniti arriva nel momento in
cui il Congresso Usa è sul punto di approvare una serie di riforme che mirano a
limitare lo strapotere di big tech, come Facebook, Google e Twitter,
introducendo regole più severe ed efficaci in materia di concorrenza e difesa
della privacy.
Anche
per le tutele incluse nella sezione 230 del “Communications Decency Act” - che
stabilisce dal 1996 un'ampia libertà per le piattaforme Internet, sollevandole
dalla responsabilità per i contenuti postati dagli utenti - si prevedono
importanti e decisive modifiche.
Riforma
e responsabilità dei big tech.
Barack
Obama condivide l'esigenza di un aggiornamento della normativa in questo
ambito, sollecitando le grandi aziende tecnologiche a riflettere sull'impatto
che la loro attività e i loro modelli di business hanno sulla società e sulla
tenuta dell'ordine democratico.
Gli
Stati Uniti sono segnati da processi di polarizzazione più che negli anni '50 e
'60 – sostiene l'ex presidente Usa, come del resto già segnalava il giurista “Ronald
Dworkin” nel suo libro "La democrazia possibile. Principi per un nuovo
dibattito politico".
E se
le aziende e le piattaforme tech non hanno creato le divisioni interne alla
società americana, non hanno causato il sorgere di razzismo, sessismo,
conflitti di classe e religiosi, preesistenti alla nascita di Internet e dei
social media, sono però responsabili della circolazione di idee e contenuti che
le fomentano e ne amplificano la portata e gli effetti.
Nel
mondo moderno, i nuovi media hanno assunto una centralità che significa essere
la principale fonte di informazione per moltissime persone, da cui poi si
formano convinzioni e giudizi sulla realtà. Facebook, Twitter e Youtube non
possono sottrarsi alle loro responsabilità quando il loro modello di business e
di guadagni tende a far prevalere o a privilegiare, complici gli algoritmi, la
diffusione di contenuti e notizie, anche fake news, che attraggono e
coinvolgono gli utenti perché polarizzano opinioni e discussioni.
Minaccia
alla democrazia.
Internet
e le nuove tecnologie della comunicazione hanno un ruolo importante di
progresso sociale ed economico. Connettono le persone e offrono opportunità di
crescita culturale e di sviluppo.
La
stessa elezione di Barack Obama alla presidenza Usa è la prova del potenziale
di piattaforme digitali come MySpace, Facebook e Meetup, che hanno consentito a
giovani e volontari di raccogliere fondi e organizzare positivamente la loro
attività.
Ma
l'ecosistema online è sovraccarico dei peggiori impulsi umani, che sembrano
avere la strada spianata da una informazione sempre più tossica.
La finestra sfocata delle piattaforme Internet
– spiega Obama – ci restituisce il panorama di una realtà distorta e
manipolata.
Gli
utenti, in un flusso informativo indistinto e aumentato a volumi massimi, non
riescono più bene a distinguere dove sia la verità e dove la falsità.
E, secondo Obama, il falso della
disinformazione uccide, come nel caso della vicenda dei vaccini anti-covid19,
che, nonostante siano sicuri ed efficaci, vengono ancora respinti da 1
americano su 5.
Che
l'informazione via social media possa essere manipolata e distorta ad arte lo
hanno ben compreso regimi dittatoriali e forze autoritarie.
Cina e
Russia, ad esempio, utilizzano le piattaforme digitali per colpire oppositori
politici, attaccare minoranze e portare avanti i loro piani per screditare le
democrazie.
Mentre
associazioni e gruppi, presenti all'interno dei paesi, organizzano campagne per
diffondere teorie complottiste e fake news allo scopo di destabilizzare e
confondere l'opinione pubblica.
“Putin
e Bannon – sottolinea Obama – hanno capito che per indebolire le istituzioni
democratiche non è necessario che le persone credano veramente a queste
informazioni fasulle.
Il
loro obiettivo è inondare un paese con la disinformazione e raggiungere milioni
di persone, insinuando dubbi e fornendo spiegazioni false e alternative.
In
modo che alla fine i cittadini non sappiano più in cosa credere.”
Disorientamento
e deformazione della realtà servono dunque a minare la fiducia nei governanti,
nella verità e nel valore della democrazia.
Un progetto che sfrutta i bug del sistema
mediatico digitale moderno, in mano ai big tech, per propagare il virus
dell'autoritarismo e di concezioni autocratiche.
“Yes
we can” contro le falle delle piattaforme Internet.
È
ancora possibile, tuttavia, fermare lo sbandamento e il disallineamento
anti-democratico prodotto dal meccanismo dei media digitali.
A
giudizio di Obama, in passato accusato di essere troppo benevolo e
condiscendente verso i giganti della tecnologia, in particolare nei riguardi di
Google, s'impone la necessità di una regolamentazione statale per correggere il
deragliamento ma con il concorso delle società stesse.
Alle
quali si rivolge direttamente per chiedere di rendere la democrazia più forte e
una maggiore trasparenza nel far conoscere le modalità di funzionamento dei
software che gestiscono la promozione dei contenuti nelle piattaforme.
L'ex
presidente Usa indica come riferimento iniziative quali il “Digital Services
Act” dell'Unione europea che stabilisce regole più ferree per i big tech, e la “Platform
Accountability and Transparency Act” nella quale, con un approccio bipartisan,
parlamentari democratici e repubblicani domandano alle piattaforme digitali un
accesso aperto ai dati a vantaggio di ricercatori indipendenti ed esterni.
Anche
agli utenti e ai cittadini, comunque, è richiesto di fare un passo in avanti.
Di
uscire dalle bolle informative in cui si chiudono nei social network e di
assumere atteggiamenti più critici per evitare di cadere vittima della
propaganda e della cattiva informazione.
Alla
fine, i social sono semplici strumenti dai quali non dobbiamo essere
controllati, ma possiamo rimodellare e ricostruire in armonia con idee e valori
democratici.
"La
sfida per “un nuovo ordine
Mondiale”
passa per il
primato
tecnologico".
Civiltadellemacchine.it
- Francesco Subiaco - Intervista a Paolo Savona - 04 maggio 2023 – ci dicono:
"Adattamento
e razionalità".
Sono
questi secondo Paolo Savona, presidente CONSOB, economista, gli strumenti
necessari per comprendere e orientare sia le sfide della "geo-informatizzazione",
(dai cambiamenti dirompenti delle catene del valore alla nascita di un
"Nuovo Stato Digitale") sia le nuove trasformazioni istituzionali,
economiche e politiche prodotte dalla “Quarta Rivoluzione industriale” e che se
seguiti adeguatamente permetteranno all'uomo di governare e non subire i
cambiamenti dell'infosfera.
Cambiamenti
che, come ha spiegato nel suo ultimo testo, "Geopolitica dell’Infosfera.
L'eterna
disputa tra Stato e mercato/individuo nel “Nuovo Ordine Mondiale Digitale"
(Rubbettino, 2023) scritto con “Fabio Vanorio”, se affrontati al meglio
definiranno non solo un” nuovo ordine internazionale”, ma soprattutto la
nascita di un nuovo "illuminismo digitale" capace di accompagnare
l'evoluzione tecnologica con quella "del pensiero".
Presidente
Savona, come l'affermazione dell'infosfera sta plasmando e ridefinendo l'ordine
geopolitico dalla struttura delle “supply chain” al ruolo degli Stati?
"La
tesi del libro curato con Fabio Vanorio (Geopolitica dell’Infosfera. L’eterna
disputa tra Stato e mercato/individuo nel Nuovo Ordine Mondiale Digitale,
Rubbettino 2023) è che gli Stati sono entrati in una competizione geopolitica
per affermare la supremazia tecnologica, convinti che questa consentirà di
raggiungere una loro leadership mondiale, come accaduto per gli Stati Uniti nel
dopoguerra.
Gli
Stati sono capaci di produrre innovazioni, ma sanno che i privati sono più
dinamici, perciò si alleano con essi per affermare la supremazia cercata,
emarginando il peso degli individui nelle scelte interne e geopolitiche.
La tendenza è oggi verso più Stato e meno mercato, più
autocrazia e meno democrazia."
Nel
suo testo afferma:
"i
big data sono la chiave per un secondo illuminismo capace di liberare la
conoscenza umana da l'arbitrarietà soggettiva".
"Mi
spiego con un esempio.
Se le
scelte di investimento finanziario avvengono su basi personali, sia pure
guardando i dati statistici, esse hanno una forte componente soggettiva (si usa
il termine fiuto o intuito).
Se si
vuole ridurre il peso di questo fattore, si deve ricorrere a tecniche di
Intelligenza “rafforzata” (considero un errore l’uso della qualificazione
“artificiale”, perché è sempre il metodo del ragionamento umano che sta alla
base della tecnica) per avere una base oggettiva che riduca il peso della
soggettività, che resta pur sempre utile.
Per
tale motivazione le innovazioni tecniche complementari alle capacità umane
possono avviare un secondo illuminismo capace di liberare la conoscenza dalle
componenti soggettive ed arbitrarie."
L'elevata
sofisticazione tecnica delle big tech e la loro capacità di imporsi non solo
come strumento, ma anche come ambiente, non rischia di creare un sistema
oligopolistico con tendenze accentratrici?
"È
esattamente ciò che temiamo, soprattutto perché oligopolio sta per autarchia,
perché i produttori di innovazioni tecnologiche si alleano con gli Stati, che
cercano ogni modo per raggiungere la supremazia geopolitica."
In
riferimento a questa tendenza oligopolistica prodotta dalla compenetrazione tra
pubblico e privato, tra Stato (o Stati) e grandi corporate non pensa si possa
parlare, parafrasando l'omonimo testo di “John Kenneth Galbraith”, di un
"Nuovo Stato Digitale"?
“Resta
valido lo schema interpretativo di Galbraith, che non aveva però avuto
occasione di osservare ciò che sta accadendo a livello interno e internazionale
a seguito del passaggio da forme oligopoliste tradizionali e forme indotte
dagli sviluppi informatici.
A mio
avviso il peso dei fattori di competizione geopolitica tra Stati rafforza la
tendenza delle forze economiche interne ad associarsi con il potere statale,
moltiplicandone gli effetti, come ho brevemente descritto fin dalla prima
risposta.”
Secondo
lei la tendenza alla sorveglianza non rischia di favorire una metamorfosi nel
sistema capitalistico, ma anche non capitalistico, con spinte autoritarie o
totalitarie?
"Non
rischia di accadere, il fenomeno è già in atto.
Personalmente
ritengo che sia al punto di non ritorno.
Tant’è
che ho segnalato la necessità di una ridefinizione delle nostre conoscenze di
economia, includendo l’operatività delle “cryptocurrency” e del machine
learning.
Che
conseguenze ha portato il passaggio alla economia della conoscenza (Eco-C) e
poi all'economia dei dati (Eco-D) nella finanza e nella struttura dei mercati?
"La
principale conseguenza è che ha reso obsoleta la normativa esistente sui
mercati.
Siamo
chiamati a un impegno di ridefinizione delle regole di comportamento
economico-finanziario e sociale, da cui deriva una riconsiderazione della
funzione di comportamento e della funzione strumentale delle politiche, come
accadde nel periodo delle conquiste popolari del XIX secolo, quando si passò
dal governo degli uomini al governo delle leggi;
peraltro questo processo non si è mai concluso
e sta andando in direzione opposta.
Il quesito ora è se esistono ancora pensatori
e riformatori al livello di quelli che hanno plasmato il liberalismo e il
socialismo, solo per indicare le due grandi componenti della società civile in
Occidente."
Come
si può porre rimedio a queste metamorfosi sociali allora?
"Attraverso
l'individuazione di Maestri di pensiero che si prefiggano di insegnare e di
allievi che vogliano apprendere.
La
soluzione è questa: istruzione, istruzione e istruzione."
Quali
sono le caratteristiche che consentono il cambiamento del potere nel mondo
della noopolitik?
"È
il principale tema di cui discutiamo: la competizione geopolitica per la
supremazia tecnologica digitale.
Essa porta alla deglobalizzazione, che inizia
con una chiusura dei mercati nazionali di dimensione modesta, che rafforza i
gruppi dominanti e porta a tendenze autocratiche o, nei peggiori dei casi, a
una vera e propria dittatura.
Si
crea il clima per intraprendere guerre di vecchio tipo, anche … stellari."
Di
fronte alle sfide etiche portate dal cripto concorrenza e dalla esondazione
della finanza quanto può essere utile una ispirazione alla Legge islamica della
Sharia per ritrovare una prospettiva etica?
"È
un aspetto del più vasto problema i cui contenuti sono poco conosciuti e, di
conseguenza, gli sbocchi sono imprevedibili.
C’è chi afferma che non sia in atto un
trasferimento dell’attività economica e finanziaria nell’alveo della Sharia,
altri invece che sia questa a “occidentalizzarsi”.
Non
potendo dare una risposta fondata su dati concreti, la risposta è una sola: seguire
gli sviluppi e conoscere il perché le idee della Sharia possono avere presa sul
mercato ed eventualmente come scambiare i possibili vantaggi dei diversi
approcci."
E come
tali necessità etiche possono adeguarsi in uno scenario laico?
"La
risposta razionale è che gli esseri umani devono essere educati a capire dove
va il mondo e a valutare quanto sono disposti a combattere per correggere le
storture, ma resta il fatto che è l’uomo, non la macchina, il legno storto
dell’umanità, come disse, forse per primo, Kant."
Di
fronte al fenomeno della digitalizzazione, del cripto concorrenza e della
frantumazione del vecchio ordine globalizzato quale potrà essere il ruolo dello
Stato o degli Stati nella definizione di un nuovo ordine mondiale?
"Sarebbe
più corretto dire che tra gli Stati forti, uno o più prevarranno, gli altri
arrancheranno dietro essi.
Il percorso che non è ancora stato individuato
è verso
l’accettazione del multilateralismo tra più Stati leader, il quale si muova in direzione
pacifica fissando congiuntamente, non attraverso politiche di potenza, le
regole per un “Nuovo Modello Geopolitico Digitalizzato."
"L'uomo
e non la macchina è il legno storto dell'umanità".
Come
si può uscire dall’impasse del legno storto?
"Educando
gli esseri umani a interagire con le macchine, ad accettarle e a usarle bene.
È un
problema che ci trasciniamo dal luddismo della prima rivoluzione industriale,
una reazione non ancora risolta.
Comunque abbiamo fatto molti passi avanti, se
pensiamo come tutti noi già usiamo le macchine tecnologiche, dal telefonino ai
computer.
Dobbiamo
imparare a usarle bene, per “rafforzare” la nostra intelligenza.
Forse
è un’illusione, ma nella mia stanza ho un cartello simile a quello che si trova
nei prati: 'Vietato calpestare i sogni".
10
paesi che tornano
a
investire nel nucleare.
Wired.it
– Francesco Del Vecchio – (15-7-2023) – ci dice:
Dagli
Emirati arabi all'Egitto, dal Bangladesh alla Polonia, l'energia atomica
ritorna nei programmi di molti governi del mondo.
L'energia
nucleare sta guadagnando terreno:
mentre
si intensifica la spinta verso un mondo più green, sempre più paesi ritengono
che il percorso verso le emissioni zero sarà più veloce e più facile con
l'ausilio del nucleare.
Numerosi
governi in tutto il mondo stanno adottando politiche a sostegno del nucleare e
i piani per la costruzione di grandi centrali stanno prendendo piede in
moltissime regioni.
Decine
di progetti sono in fase di sviluppo, sostenuti da finanziamenti pubblici e privati.
Il
centro di gravità dell’energia nucleare si sta però spostando dal Nord America
e dall'Europa alla Cina e ad altre zone del mondo.
Svariati
sono i paesi che stanno costruendo per la prima volta centrali nucleari, tra
cui Emirati arabi uniti, Turchia, Bangladesh ed Egitto, e che contribuiranno
alla nuova tendenza.
E anche altri governi stanno lavorando per
entrare a far parte del club.
I
progetti:
Emirati
arabi uniti, Arabia saudita, Cina, Bangladesh, Turchia, Egitto, India, Spagna, Stati
Uniti, Polonia.
Nasce
una nuova startup per la fusione nucleare.
È
Proxima Fusion, spin out del Max Planck tedesco:
con due italiani tra i cofondatori e un altro
nel team di startup punta a realizzare una centrale a fusione prima nel suo
genere entro il 2030.
Emirati
arabi uniti.
Gli
Emirati arabi uniti hanno avviato un programma di energia nucleare in stretta
consultazione con l'Agenzia internazionale per l'energia atomica e con un
enorme sostegno pubblico.
Hanno accettato un'offerta di 20 miliardi di
dollari da parte di un consorzio sudcoreano per costruire quattro reattori
nucleari commerciali.
L'unità 1 della prima centrale nucleare del
Paese è stata collegata alla rete nell'agosto 2020, seguita dall'unità 2 nel
settembre 2021 e dall'unità 3 nell'ottobre 2022.
Arabia
saudita.
Nel
gennaio 2023 il ministro dell'Energia saudita, il principe Abdulaziz bin
Salman, ha annunciato che, data la recente scoperta di riserve di uranio, il
regno intende portare avanti i suoi piani di sviluppo di un'infrastruttura
nucleare, con una dimensione sia nazionale che internazionale.
Un passo storico, per un paese storicamente
legato al petrolio:
Riyadh
ora starebbe lavorando a una possibile alleanza con gli Stati Uniti per lo
sviluppo dell’industria nucleare, un po’ come fatto nel secolo scorso con Saudi
Aramco, la compagnia petrolifera saudita.
Cina.
L'impulso
all'energia nucleare in Cina è sempre più dovuto all'inquinamento atmosferico
prodotto dalle centrali a carbone.
Pechino
è diventata ampiamente autosufficiente nella progettazione e nella costruzione
dei reattori, ma sta sfruttando anche la tecnologia occidentale, adattandola e
migliorandola.
Rispetto
al resto del mondo, un punto di forza è la catena di approvvigionamento
nucleare.
Gli
investimenti sono consistenti e la politica cinese è quella di
"globalizzare" l'esportazione della tecnologia nucleare, compresi i
componenti pesanti della catena di approvvigionamento.
Bangladesh.
Il
Bangladesh ha avviato la costruzione del suo primo reattore nucleare, Rooppur
1, nel novembre 2017.
La messa in funzione dell'unità è prevista per
il 2024.
La
costruzione della seconda unità di Rooppur è iniziata nel luglio 2018.
Il
Paese ha una domanda di energia elettrica in rapida crescita e punta a ridurre
la sua dipendenza dal gas naturale.
Alcune
delle cisterne di stoccaggio delle acque contaminate all'interno del perimetro
della ex centrale nucleare di Fukushima.
Per
l'Onu il Giappone può versare nel Pacifico le acque di Fukushima.
Si
tratta di circa 1,3 milioni di tonnellate di acqua usate per raffreddare il
nocciolo della centrale nucleare di Fukushima a seguito del disastro del 2011.
Turchia.
La
Turchia ha pianificato la produzione di energia nucleare fin dal 1970.
Oggi i piani per il nucleare sono un aspetto
fondamentale per la crescita economica del paese.
I recenti sviluppi hanno visto la Russia
assumere un ruolo di primo piano nell'offrire il finanziamento e la costruzione
di strutture.
La realizzazione del primo reattore nucleare
del Paese, il primo di quattro ad Akkuyu, è iniziata nell'aprile 2018.
Un consorzio franco-giapponese avrebbe dovuto
costruire il secondo impianto nucleare a Sinop, ma ora Ankara tratta con la
russa Rosatom.
La Cina è in lizza per costruire il terzo
impianto, con tecnologia di derivazione statunitense.
È
previsto un piccolo progetto di estrazione dell'uranio.
Egitto.
L'Egitto
ha preso in considerazione l'idea di dotarsi di energia nucleare fin dagli anni
Sessanta.
Adesso
sta lavorando alla costruzione di una centrale nucleare composta da quattro
grandi reattori russi con una notevole capacità di desalinizzazione.
India.
L'India
ha un programma di energia nucleare in gran parte interno.
Il
governo indiano è impegnato a far crescere la propria capacità nucleare come
parte del suo massiccio programma di sviluppo delle infrastrutture.
L'esecutivo ha fissato obiettivi ambiziosi per
il futuro.
Poiché
l'India non rientra nel Trattato di non proliferazione nucleare a causa del suo
programma di armamento, per trentaquattro anni è stata ampiamente esclusa dal
commercio di impianti e materiali, il che ha ostacolato lo sviluppo
dell'energia nucleare civile fino al 2009.
Spagna.
L’energia
nucleare rappresenta attualmente un asset considerevole per la Spagna. Il Paese
ha una capacità installata superiore ai 7 GW, generata da sette reattori. Le
centrali nucleari sono attualmente essenziali per il fabbisogno energetico del
Paese e i ministri hanno quindi eliminato i limiti alla loro durata di vita
operativa. Nel 2020 e 2021, sei dei sette reattori del Paese hanno rinnovato le
loro licenze.
Stati
Uniti.
Gli
Stati Uniti sono il maggiore produttore mondiale di energia nucleare,
rappresentando oltre il 30% della produzione mondiale.
Dopo
un periodo di trent'anni in cui l'industria sembrava in calo, si prevede che
presto entreranno in funzione nuove unità.
Polonia.
La
Polonia prevede di usare l'energia nucleare a partire dal 2033, come parte di
un portafoglio energetico diversificato, allontanandosi dalla forte dipendenza
dal carbone.
Varsavia
in precedenza aveva preso in considerazione una partecipazione nella centrale
nucleare di “Visaginas” in Lituania, ma ora ha altri progetti.
Il piano energetico del paese prevede che la
costruzione dell'impianto inizi nei prossimi anni, con la messa in funzione
della prima unità nel 2032 o 2033.
Le unità successive entreranno in funzione
dopo tale data, per arrivare a tutte e sei le unità entro il 2040.
(Come
al solito l’Italia … dorme! N.D.R.)
Zuckerberg ‘taglia ‘altri 10mila
dipendenti
di Meta, continua
l’ondata
di licenziamenti nelle Big Tech.
Ilriformista.it
-Carmine Di Niro — (14 Marzo 2023) ci dice:
Il
settore vive il periodo più complicato.
Ci
risiamo.
Dopo
il taglio di 11mila dipendenti già effettuato lo scorso novembre 2022 Meta
continua il suo ridimensionamento nei numeri.
La società a cui fanno capo i social network
“Facebook” e “Instagram”, guidata da Mark Zuckerberg, ha annunciato ulteriori
10mila licenziamenti e la necessità di “chiudere circa 5.000 posizioni aperte
per le quali non sono state ancora effettuate assunzioni”.
Continua
dunque così il periodo nero delle big tech statunitense, da Amazon a Twitter,
passando per Alphabet (la società a cui fa capo Google) e Microsoft:
tutte hanno tagliato almeno 10mila dipendenti
nell’ultimo anno, con casi estremi come “Twitter”, rilevata lo scorso anno dal
miliardario “Elon Musk”, che ha licenziato la metà della sua forza lavoro dopo
l’acquisizione del social per 44 miliardi di dollari.
Ma,
come detto, è tutto il comparto tech a soffrire: l’industria tecnologica ha
licenziato oltre 280.000 lavoratori dall’inizio del 2022, di cui circa il 40%
quest’anno.
“Nei
prossimi mesi” i leader di Meta “annunceranno piano di ristrutturazione,
cancellando i progetti a bassa priorità e riducendo il tasso delle assunzioni.
Con
meso assunzioni ho preso la difficile decisione di ridurre ulteriormente la
dimensione del nostro team che si occupa della selezione e del reclutamento del
personale “, ha spiegato in una nota dichiarazione Zuckerberg.
“Sarà difficile.
Significherà salutare colleghi di talento che
sono stati parte del nostro successo “, ha quindi aggiunto “l’inventore” di “Facebook”.
L’obiettivo
dei due imponenti tagli alla forza lavoro, con l’allontanamento tra novembre
scorso e oggi di circa un quarto dei dipendenti della società di Menlo Park, è
quello di ridurre per circa cinque miliardi di dollari i costi di “Meta” e
trasformare il 2023 “nell’anno dell’efficienza”, come sottolineato dallo stesso
Zuckerberg.
Sono
dunque i dipendenti a pagare le mosse sbagliate da parte dei manager del
colosso dei social network, una serie di errori a catena che hanno portato
“Meta” a perdere vagonate di dollari. Se la pandemia aveva dato uno “sprint” a
tutte le società tech a causa dei lockdown imposti globalmente dai vari
governi, la gestione del post-Covid è stata invece traumatica.
Tanti
i problemi riscontrati dalla società di Zuckerberg:
il primo, quello più difficile da risolvere, è
la concorrenza sempre più spietata di “TikTok”, il social network cinese che ha
sottratto l’utenza più giovane a” Instagram” e “Facebook”;
quindi
la grana delle nuove policy della privacy di Apple, che limitano la raccolta
dati di “Meta” su cui si basa di fatto l’intero sistema economico di
Facebook-Instagram.
Infine la questione del “metaverso”, un
progetto-feticcio di Zuckerberg che per ora non ha portato alcun risultato,
anzi, ha generato perdite per quasi 25 miliardi di dollari.
(Carmine
Di Niro)
SICUREZZA
ECONOMICA E
INTERESSE
NAZIONALE (IN).
Notiziegeopolitiche.net
– (28 Luglio 2023) - Massimo Ortolani – ci dice:
È noto
che in assenza di una precondizione operativa, quale il raggiungimento di un
adeguato livello di stabilità economica, si creano significativi ostacoli al
perseguimento dell’interesse nazionale (IN) di un paese.
E per il policy maker il percorso analitico di
identificazione degli elementi costitutivi dello IN non può che discendere in
primo luogo dal considerare la categoria degli interessi vitali, ricercandone
l’ottimizzazione subordinatamente ai vincoli di natura esogena, oggi costituiti
dalla forte competizione geoeconomica e geopolitica. Interessi vitali che, sul
piano del diritto, appaiono inestricabilmente radicati nel rispetto dignità
della persona umana, ovvero come costituenti la precondizione per l’esercizio
di altri diritti umani.
Volendo
riferirsi alla definizione di IN contenuta ad esempio nel manuale di strategia
dei Marines USA, è già stato osservato come “gli Interessi Nazionali
coinvolgono normalmente quattro aree principali:
sopravvivenza
e sicurezza, integrità politica e territoriale, stabilità economica (nonché il)
benessere e (la sua) stabilità”.
Una tale definizione consente già di attenuare
la separatezza, per il policy maker, intercorrente tra difesa della generalità
dei valori sottesi agli obiettivi suindicati e la concretezza delle azioni di
governo.
Notoriamente,
ai fini dell’Interesse Nazionale, rileva in primo luogo l’esigenza
dell’intangibilità delle componenti costitutive dello Stato, così come di
fattori valoriali rappresentati dal principio di autodeterminazione dei popoli,
di matrice kantiana.
Ma la difesa dell’IN attraverso il
rafforzamento della sicurezza nazionale deve comportare inevitabilmente anche
la tutela di altre componenti, quali benessere, e stabilità economica come
detto, ispirate all’ottenimento del massimo piacere per il massimo numero di
persone e in tal senso riconducibili all’utilitarismo del filosofo Bentham;
e, però, con il vincolo di carattere
distributivo di dovere comunque garantire i bisogni essenziali minimi a
chiunque.
Sulla
base di questa definizione, semplificante ma utile, si deve convenire che
l’alveo definitorio dell’Interesse nazionale può essere solo in parte
ricompreso in un programma di governo, essendo per la parte di natura
assiologica (ovvero di espressione di fattori valoriali) già riflessa nelle
norme costituzionali ed ordinamentali di un paese.
Quanto
premesso serve solo a delineare molto succintamente la cornice del quadro
evolutivo di quella che potremmo definire una cultura dell’Interesse Nazionale
in Italia, da declinarsi in relazione alla sicurezza economica.
Concentrando
il “focus analitico” su quelle componenti dell’IN che costituiscono fattori del
benessere nazionale, è bene sottolinearne l’inevitabile, relativa mutevolezza
nel corso del tempo, per ragioni storiche.
Dato
che mutamenti nelle relazioni economiche e politiche internazionali, sviluppo
economico e tecnologico, dinamiche climatiche, ecc., generando mutamenti negli
strati sociali, si riflettono in modifiche nelle aggregazioni politiche, e
quindi anche nei modelli ideologici in cui si rispecchiano le politiche per il
perseguimento dell’IN.
Consideriamo,
ad esempio, il generale modello ideologico di riferimento ormai storico per il
nostro paese, quello dell’intervento statale in regime di liberaldemocrazia,
oggi soggetto a spinte discorsive e pressioni demolitorie esercitate da
movimenti di matrice sovranista/populista, talora generate anche da
etno-nazionalismo, quando non da pulsioni sociali verso forme di autocrazia.
E
spesso opportunisticamente alimentate dal risentimento dei disillusi della
deindustrializzazione, da loro considerata vittima della globalizzazione.
Tenendo
comunque presente che le componenti valoriali ed intangibili dell’IE non
possono considerarsi separate dal quelle tangibili di benessere economico-sociale
sul piano identitario, è bene sottolineare che indispensabili indicatori di
benessere idonei a rendere assertive politiche di IN possono individuarsi in
Italia in quelli che emergono dall’importante contributo dell’ISTAT in tema di
statistiche economico-sociali. Ed in primo luogo il macro-indicatore “BES”, del
benessere equo e sostenibile, che confluisce per legge nell’allegato al
documento di economia e finanza:” DEF”.
La
relazione con la sicurezza economica implicita nel “BES” emerge concretamente
dal grado di soddisfacimento di 12 importanti indicatori, tra i quali:
reddito
disponibile e ricchezza, spesa per le condizioni materiali di vita, speranza di
vita in buona salute, disuguaglianza della distribuzione del reddito
disponibile, indice di criminalità predatoria, ovvero l’indice di rischio di
povertà, l’indice di vulnerabilità finanziaria, l’indice di bassa intensità
lavorativa, ecc, ecc.
E, però, dato che nessuna coalizione di
governo in Italia potrebbe esimersi dal considerare oggetto di IN il
miglioramento della mobilità sociale e, soprattutto, il potere assicurare ai
giovani di oggi un tenore di vita almeno pari a quello raggiunto dai genitori,
sarebbe opportuno affinare ed ampliare la numerosità degli indicatori BES allo
scopo di acquisire stime prospettiche sulle tendenze alla diminuzione della
natalità, il continuo invecchiamento della popolazione, il tasso di morbosità,
l’andamento della ricchezza personale o familiare, anche in una ottica di
comparazione con i paesi partner nell’Ue.
Ne
consegue, pertanto, che la struttura di indicatori BES identifica gran parte di
contenuti guidelines per una sicurezza economica a tutela dell’Interesse
Nazionale.
Per il
policy maker, infatti, perseguire concretamente una politica assertiva dell’IN
significa attivare “on going”, nella prassi politica quotidiana, apposite e
strategiche azioni dedicate.
Dato
che affidarsi ad una struttura di dati che registrano con accuratezza il
passato, non garantisce che la loro proiezione futura risulti sempre
necessariamente affidabile.
E ciò non per ragioni di natura
tecnico-estrapolativa, bensì per la complessa concomitanza ed interdipendenza
di impatti/minacce di natura mista:
geopolitica, militare, climatica,
terroristica, alimentare, ecc., che andranno a comporre lo scenario finale da
prevedere.
In tal
senso appare molto lodevole che il governo tedesco, come già quelli di altre
importanti nazioni tra le quali gli USA, abbia per la prima volta emanato un
piano denominato:
“Strategia
integrata per la sicurezza nazionale”, che contempla una serie di minacce ben
più ampia di quelle sopra indicate.
E
sarebbe auspicabile che anche il nostro paese emanasse un documento sulla sua
strategia per la sicurezza nazionale, poiché in Italia il rapporto tra
sicurezza economica ed IN risulta più fortemente condizionato che in altri
dalla combinazione di:
a)
priorità delle misure di politica interna ed estera e
b)
gestione del vincolo esogeno connesso alla cessione di sovranità connessa in
primis all’operato della UE, così come anche a quello di organismi europei
indipendenti, quali la banca centrale BCE ed autorità come ESMA, EBA ed EIOPA.
Sarebbe
infatti illusorio pensare che interesse nazionale e interesse europeo
coincidano, stanti ad esempio le ben note difficoltà e limitazioni operative
all’implementazione, da parte di Bruxelles, della politica estera, che svolge
invece un ruolo pivotale nelle scelte di geoeconomia di ogni stato membro.
Ne
discende pertanto il compito, per il governo di ciascuno stato membro, di
migliorare la propria sicurezza economica difendendo l’interesse nazionale
dalle conseguenze non benefiche, o deleterie, ascrivibili alle proposte di
altri stati membri, se dotati di maggiore potere persuasivo sul piano delle
scelte strategiche di politica economica dell’unione.
Cercando
di sostenere, con l’affinamento di alleanze diplomatiche tattiche e di politiche
comunicative assertive, le esigenze connesse alle peculiarità idiosincratiche
del proprio paese (le vicende dell’immigrazione sono un esempio calzante al
riguardo).
Ma
potere operare significativamente a tale scopo postulerebbe innanzitutto la necessità
di inserire le politiche per la sicurezza economica nazionale in uno spazio
operativo più ampio di quello ora consentito sul piano istituzionale dal voto
all’unanimità su temi di vitale interesse per gli stati membri della UE, come
quelli della politica estera e della sicurezza UE.
E,
però, la delicatezza delle modifiche istituzionali richieste al riguardo
comporterebbe inevitabilmente complesse azioni di tatticismo diplomatico, più
facili da gestire quando realizzabili nell’ambito della “Cooperazione
rafforzata”.
Rimangono
comunque di indiscutibile rilevanza strategica, all’indiretto perseguimento
dell’interesse nazionale, i contributi della UE in materia di sostegno
finanziario (si pensi al PNRR) a riforme ed investimenti, ovvero alle
preziosissime opportunità di economie di scala ottenibili con progetti di spesa
comune connessi all’implementazione dell’autonomia strategica ed al “near-shoring”
europeo di delocalizzazioni industriali.
Sarebbe
lungo elencare le aree di intervento per tali azioni di assertività, peraltro
già notorie:
dalla
realizzazione di un pieno mercato UE dell’energia,
alla
prevenzione degli effetti distorsivi connessi agli Aiuti di Stato,
ad un
più sinergico utilizzo degli strumenti di difesa commerciale,
alla calibrazione temporale dell’impatto
economico degli aiuti europei sul Green Deal, ecc.
Un
insieme di fattori, però, accomunati da un unico denominatore, vale a dire il
fatto che è in primo luogo la crescita a garantire a tutti la stabilità.
Da qui l’interesse europeo, e ad un tempo
nazionale, ad evitare fughe in avanti, come potrebbero essere ad esempio quelle
di volersi a tutti i costi rendere indipendenti dalla Cina sulla produzione di
semiconduttori o di pannelli solari.
Mentre
è riconosciuto che, per rendersi indipendenti sui semiconduttori, sarebbero
necessari decenni, e che invece per ridurre la dipendenza dalle batterie entro
il 2030 sarebbe necessario investire oltre 160 miliardi di USD.
Poiché
tutti ricordiamo che la Cina ha però nel tempo abusato dell’architettura
regolatoria, economica e finanziaria globale, sfruttandone i benefici ma troppo
spesso rifiutandosi di adeguarsi alle regole, è necessario definire un
approccio geoeconomico verso Pechino, che riesca a rendere compatibili
collaborazione industriale e dialogo politico.
Un
primo indirizzo operativo è a tale proposito contenuto nella recente
comunicazione presentata dalla Commissione in relazione alla sicurezza
economica dei paesi UE, e che individua quattro tipi di rischi relativi:
alle
catene del valore, alle infrastrutture critiche, alla sicurezza delle
tecnologie e alla coercizione economica.
Trattasi
di una tematica molto spinosa in quanto vi si prospetta l’ipotesi di esaminare
ex ante gli investimenti europei diretti verso paesi terzi.
Ai
fini della valutazione dell’impatto complessivo di siffatte proposte sulla
sicurezza economica andrà, però, tenuto conto delle diversità di
riposizionamento geoeconomico dei paesi membri UE verso la Cina, così come
delle probabili ritorsioni che potrebbero essere attivate da paesi terzi,
colpiti da tali eventuali limitazioni al flusso degli IDE, anche in termini di
parallele restrizioni dei loro potenziali investimenti nella UE.
Ad
oggi rimane quindi da stabilire, sul piano della condivisione politica degli stati
membri, un accettabile punto fermo nella definizione di siffatte misure di
tutela della sicurezza economica, tra il favorire/sfavorire, con giustificato
equilibrio, autarchia e protezionismo, rispetto al paradigma storico della
libertà di movimento dei capitali.
Dovendosi pertanto valutare, in particolare
con applicazioni di intelligence economica, le modalità di distribuzione
prospettica degli impatti geoeconomici di siffatte proposte tra i paesi membri.
Ma
tale scopo potrebbe essere utile riflettere anche su un diverso modo di
interpretare la politica industriale, come quello recentemente proposto negli
USA da” J.Yellen” e “J. Sallivan” in
chiave presuntamente non protezionistica, ed anche in risposta alle obiezioni
sull’IRA.
Preconizza l’esigenza di adottare due tipi di
politica industriale globale:
la
politica industriale estera e la politica industriale congiunta.
La
politica industriale estera si riferisce ai paesi che utilizzano gli strumenti
della politica estera per far avanzare le loro politiche industriali nazionali
all’estero.
La
politica industriale congiunta è quando i paesi allineano le loro strategie
interne attraverso il coordinamento internazionale.
Arrivando
alla conclusione, opinabile, del sostegno a catene di approvvigionamento
collaborative, in cui i diversi Paesi trovano nicchie nelle complesse reti di
produzione globali.
Così che queste catene, distribuendo il valore
aggiunto economico in tutto il mondo, e dando a più Paesi l’opportunità di
beneficiarne, rendono compatibile la politica industriale interna con
l’internazionalismo all’estero.
Trattasi
di un approccio opinabile nella misura in cui non si specifica, ad esempio,
come per la UE e l’Italia il rischio di delocalizzazioni industriali oltre
atlantico, attratte dalle maxi incentivazioni USA dell’IRA, possa risultare
benefico.
In
realtà quello che emerge, quindi, in relazione a siffatte tematiche
geoeconomiche connesse con l’IN, è che le politiche nazionali di de-risking
appaiono ancora una sfida molto difficile da praticare, in assenza di una
valutazione basata su dati, e di una valida metodologia di stima dei rischi che
esistono nei confronti di stati amici od alleati, idonea a rendere
complementari e non avversarie le rispettive transizioni di tecnologie verdi.
Molto
diverso da tale approccio, e più trasparente, appare invece quello UE ad
investimenti da realizzare nell’ambito “IPCEI”, per beni pubblici europei, per
rafforzare il fattore di condivisione di valori economici oltre i confini
nazionali con apposite partnership industriali, e per raggiungere obiettivi di
innovazione radicale e di grande rilevanza tecnologica e produttiva.
Uno
programma politico di condivisione multi-obiettivo progettato in una ottica
geoeconomica oltrepassante i confini territoriali della UE, e che potrebbe
risultare molto vantaggioso per l’IN, appare ora quello connesso alla
importante iniziativa di diplomazia economica di trasformazione del progetto Mattei nel piano
Africa.
Trattasi
di una iniziativa tanto sfidante quanto rischiosa, sia per il nostro paese che
per la UE – che ha riservato all’Africa 150 dei sui fondi Global Gateway – ma
che sarà certo meglio definita solo in occasione della Conferenza Italia-Africa
del Novembre prossimo.
Dovendosi nel frattempo implementare su grande
scala un approccio multistakeholders, fondamentalmente ma non esclusivamente
ancorato a energia, migranti e finanziamenti, oltre ad identificare i singoli
paesi beneficiari.
Approcci
geoeconomici in parte similari e potenzialmente valutabili al riguardo,
potrebbero essere quelli in atto da parte del dipartimento del commercio
statunitense con una nutrita serie di paesi indo-pacifici nell’ambito della
iniziativa IPEF:
Indo-Pacific
Economic Framework.
Così
da potere tra l’altro creare, ai sensi di quanto previsto nello “European
Critical Raw Material Act UE”, una sorta di “African Economic Framework” che
possa preludere alla definizione di vantaggiosi accordi con tali paesi per la
fornitura di materie prime “critiche”, e relativa industrializzazione, idonea a
marcare le differenze con il trattamento loro riservabile dalla Cina.
Stante,
comunque, l’esigenza di attivare una maggiore mole di investimenti nel nostro
paese, un aspetto di grande rilevanza sistemica per l’Italia in tema di
sicurezza economica dovrebbe eminentemente focalizzarsi sulla attrazione,
attivazione e monitoraggio degli investimenti esteri, nella forma sia green field
che di M&A.
Con l’emergere inevitabile dell’importanza per
antonomasia delle funzioni regolatorie del Golden Power.
Qualora la UE riuscisse, inoltre, a mettere
d’accordo i paesi membri nel monitorare uniformemente anche gli investimenti
europei in uscita, ne potrebbe conseguire di dover eventualmente ricalibrare
anche le agevolazioni finanziarie che ciascuno stato membro eroga ad
investimenti esteri in entrata da paesi che non rispettano ad es. le regole
antidumping, ovvero diritti umani o civili. Dato che gli investimenti, a
differenza del commercio, sono prerogativa delle politiche nazionali.
Poiché
minacce di spionaggio economico-finanziario e di dipendenza economica, anche da
paesi membri UE e non solo da potenze autocratiche, possono essere certamente
lesive di interessi vitali del nostro paese, gli ambiti operativi del “Golden
Power”, di maggiore impatto sulla sicurezza economica, attengono ora alle
mascherate e strumentali vesti istituzionali con le quali stati esteri,
nascosti da paraventi societari, o veri e propri hacker al loro servizio,
potrebbero impadronirsi delle più avanzate innovazioni nei campi dell’AI o
delle tecnologie emergenti, quando non pilotare in Italia l’attività di
importanti organismi di informazione e telecomunicazione.
Il
perseguimento dell’IN attraverso azioni di sicurezza economica attiva richiede
di essere esteso ben oltre l’ambito specifico del “Golden Power”, data la
rilevanza strategica oggi ascrivibile alla tutela dell’utilizzo delle
infrastrutture dorsali di connettività digitale, anche subacquee come i
gasdotti, così come dell’uso sicuro dello spazio per utilizzi civili, oltreche
militari.
Non si
condivide quindi l’opinione di che tende ancora a considerare ambiti separati
il “Golden Power” e la” politica industriale”, nella misura in cui compito
prioritario di questa ultima per l’interesse nazionale comporta sia di
selezionare trend produttivi strategici, che di colmare gap accumulati nel
campo di quelli che si annunciano come i nuovi trend emergenti nei prossimi
anni:
nell’elettronica
– mirando in specifico all’AI – nel recupero dei materiali, nella diffusione
dell’innovazione in generale.
E
cercando di realizzare, con oculate forme di incentivazione, una politica
industriale in una ottica di convivenza di più stato con più mercato,
facilitata in tal senso dall’operato di eventuali fondi sovrani dedicati.
Soprattutto
allo scopo di colmare il grave gap relativo di produttività, che l’Italia si
porta addosso da troppi anni, e difficile da sradicarsi in vista dei probabili
aumenti retributivi in prospettiva connessi al recupero del potere d’acquisto
andato perduto con l’inflazione.
Gap da
colmare anche con misure per l’efficientamento del capitale intangibile delle
aziende, sia tecnico che umano, connesso alla gestione della formazione al
lavoro.
Per
soddisfare esigenze di sicurezza economica che promanano da una mancata, e
tuttora carente, programmazione previsiva da parte dei policy maker del grado
di discordanza tra esigenze del mercato del lavoro e formazione scolastica.
Una
politica industriale per la sicurezza economica che non potrà inoltre
prescindere anche dalla tutela da minacce di natura sempre di più digitali,
riconducibili all’emergere di notorie
coercizioni e costrizioni economiche da parte delle oligarchie tecnologiche di
concentrazione, per l’appunto digitale.
Il riferimento è in primis all’operato dei big
tech, sia per il loro strapotere di mercato (posizione dominante) nel
fagocitare potenziali piccoli concorrenti, ma soprattutto per la loro capacità
di selezionare/incanalare i flussi di informazione sulla rete e sui social, ed
in modo sufficiente ad influenzare
opinioni pubbliche e giudizi politici, a detrimento dell’IN.
E con
la necessità, quindi, di implementare azioni di carattere
normativo-certificativo sia sul loro operato, sia su quello di piattaforme web
estero-guidate, capaci di operare sottilmente sul versante informativo dei
social, con celati e malevoli intenti di guerra cognitiva.
In
tema di vincolo esogeno di origine dell’unione, sono infine da considerare
anche le declinazioni delle politiche UE di adattamento agli impatti climatici.
Dato
che, in particolare per le proposte in tema di “edifici green”, sembrerebbe
palesarsi una potenziale distonia tra il nostro paese e Bruxelles,
fondamentalmente incentrata sull’esigenza di una maggiore gradualità di
applicazione temporale delle stesse.
Nella
misura in cui l’onere statale per efficientamento energetico abitativo, stante
la numerosità dei proprietari di immobili potenzialmente candidabili ai bonus
edilizi nel ristretto lasso di tempo ancora residuo, risultasse conflittuale
con i criteri di costo opportunità nell’allocazione ottimale della spesa
pubblica.
Da
ultimo, in considerazione dell’elevatezza relativa del debito pubblico italiano,
non possono ignorarsi gli impatti della politica monetaria ai fini della
sicurezza economica e dell’IN.
In
merito sono notori i punti di criticità relativi ai ritardi nell’attuazione del
mercato unico dei capitali e alla mancanza di un sistema europeo di
assicurazione dei depositi.
E
l’imputato non può che essere nuovamente la UE, quando si tratti della non
ancora efficiente gestione delle crisi bancarie, se comparata alla elasticità
del quadro giuridico di vigilanza operante negli USA.
Inoltre,
negli attuali frangenti temporali fortemente segnati dal riemergere dell’
inflazione, al fine di considerarne gli impatti occulti sulla stabilità e la
sicurezza economica, i policy makers
dovrebbero monitorare ed essere sensibili anche gli esiti della cessione
di sovranità nazionale ad una entità terza ed
indipendente dalle politiche nazionali, come la BCE, seguendo in
particolare l’andamento intertemporale dell’indicatore cosiddetto quoziente di
equità, che indica le variazioni relative tra crescita economica e inflazione.
Un
indicatore, quindi, che segnala indirettamente se la tutela della stabilità
monetaria comporti dei costi reali netti in termini di crescita.
E’ già stato autorevolmente osservato che, più
il quoziente è alto, più si riduce il rischio di costi da stabilità monetaria;
quindi
con impliciti minori oneri per le politiche di bilancio nazionali di
ridistribuzione dei redditi.
Mentre
l’errore della BCE, di avere fatto trascorrere un periodo inerziale troppo
lungo prima di alzare i tassi, in presenza di una inflazione che si faticava ad
intravedere così elevata e persistente come quella attuale, è invece un tipico esempio della perdita di
tempestività e di autonomia operativa di una banca centrale sovranazionale
rispetto ad una nazionale, che sono state sacrificate in nome della mitigazione
delle differenze strutturali di produttività presenti nelle economie dell’area
euro.
Con
impatti indiretti sul nostro paese nella misura in cui durata ed elevatezza dei
tassi possono contribuire a controbilanciare negativamente gli effetti del
PNRR, ovvero ad attenuare il ritmo della ripresa economica.
Peraltro,
in tema di lotta all’inflazione e di tassi elevati gestiti dalla BCE, è stato
anche già suggerito che, per paesi ad elevata volatilità dei prezzi, come
l’Italia, la strada maestra è quella di affidarsi a più penetranti interventi
dell’Antitrust a tutela della concorrenza.
Ai
fini delle politiche per l’IN emerge quindi la significativa importanza da
riservare oggi al monitoraggio comparativo della disarmonia delle regole in
ambito bancario-finanziario.
Ovvero: degli svantaggi/vantaggi relativi,
connessi ad es. all’impatto sulla operatività bancaria delle norme emanate in
tema dell’ammontare del capitale di vigilanza, della contabilizzazione dei
crediti non in bonis;
e ciò
anche in relazione alle diverse incidenze del ricorso al finanziamento bancario
ed alle differenti caratterizzazioni dimensionali delle imprese tra diversi
stati e diverse giurisdizioni.
Tenendo
comunque presente il monito segnalato da Mario Draghi in tema di crisi
bancarie, nel suo discorso al M.I.T.:
“Data la dimensione limitata di queste crisi,
i governi dovrebbero finanziare, se necessario, qualsiasi intervento necessario
e evitare di creare un conflitto per le banche centrali tra perseguire gli
obiettivi della politica monetaria e quelli della stabilità finanziaria”.
CINA.
TONFO DELL’EXPORT,
LA
CRISI È CONCLAMATA.
Notiziegeopolitiche.net
- Francesco Giappichini – (9 Agosto 2023) – ci dice:
La
notizia è di poche ore fa:
in
luglio le esportazioni dalla Cina verso il resto del mondo sono crollate del
14,5% su base annua.
Un
pessimo dato, che non solo segue il -12,4% registrato in giugno, ma si
accompagna a un deprimente calo delle importazioni, pari anch’esso al -12,4 per
cento.
L’import
del gigante asiatico è del resto in declino per il nono mese consecutivo, e in
giugno il calo è stato del 6,8 per cento.
Tornando
all’export, siamo innanzi al maggior calo dal febbraio ’20 (-17,2%), quando
l’economia di Pechino era bloccata dalla pandemia.
E
anche in questo caso si tratta di un declino:
a
parte un piccolo rimbalzo in aprile, le vendite all’estero stanno diminuendo
costantemente da ottobre ’22.
E se è
vero che i mercati prevedevano una flessione del commercio estero cinese,
nessun “think tank” al mondo aveva prefigurato un tonfo di tali proporzioni.
Quasi come riflesso pavloviano, gli analisti
hanno puntato il dito contro il calo della domanda:
sia le
ricorrenti minacce di recessione nell’occidente, sia un’inflazione che galoppa
su scala globale, indebolirebbero la richiesta internazionale di beni cinesi.
Tuttavia
rileverebbero anche altre ragioni, legate al ruolo geostrategico della Cina:
dalle tensioni geopolitiche con gli Stati Uniti, al desiderio di alcuni Paesi
occidentali (Germania in primis, ma anche l’Italia) di ridurre la dipendenza da
Pechino, o comunque di diversificare le catene di approvvigionamento.
Com’è
noto, le esportazioni rappresentano storicamente un fattore chiave per la
crescita cinese, di conseguenza il loro calo ha un impatto diretto sui consumi
interni, e quindi sull’occupazione, specie giovanile.
Questi dati, secondo gli osservatori,
finiscono dunque per indebolire in modo decisivo la seconda economia mondiale:
c’è chi parla di un futuro di stagnazione, e
alcuni segnali di deflazione sembrerebbero già anticipare questa fase.
Insomma
il tanto atteso rimbalzo, quello successivo alla revoca delle draconiane misure
legate alla pandemia, non c’è stato.
E il prodotto interno lordo (PIL), complici il
calo dei salari reali e la crisi del mercato immobiliare, è cresciuto solo
dello 0,8%, tra il primo e il secondo trimestre ’23.
Così
gli economisti più pessimisti prefigurano addirittura “a liquidity trap”,
ovvero il fenomeno della «trappola della liquidità», peraltro già vissuto dai
vicini giapponesi negli Anni novanta.
In questo scenario, in cui ogni politica
monetaria diviene inefficace, i consumatori riducono drasticamente i consumi:
«In
altre parole, c’è il rischio che le imprese e le famiglie cinesi, spinte dal
loro sentimento molto negativo sulle prospettive economiche, preferiscano
disinvestire e ridurre l’indebitamento, alla luce del calo della generazione di
entrate», spiega Alicia Garcia-Herrero, economista della banca d’affari
Natixis.
Questa
situazione, che mette a rischio la tenuta sociale del Dragone, potrebbe
ostacolare in modo decisivo l’auspicata fase di espansione globale.
Ciò che però soprattutto sgomenta gli
osservatori, è la mancanza di misure idonee a invertire il ciclo.
Da un
lato la leadership che ruota attorno al presidente Xi Jinping non rinnega la
propria strategia dirigista, basata sul controllo dell’economia, da parte del
Partito comunista cinese.
Dall’altro lato, le casse statali sono
pressoché vuote, e il governo è costretto ad astenersi da un efficace
intervento di sostegno all’economia, che farebbe schizzare il debito pubblico a
cifre monstre (ben oltre il 100% del PIL).
Sulle
macerie della Cristianità
in
Occidente è sorta una
nuova
religione woke.
Ilfoglio.it
– (22 MAG 2023) – Redazione – Foglio Internazionale – ci dice:
Post-cristiano’
è diventata una formula familiare negli anni '60, per definire la cultura
occidentale contemporanea.
La
setta del “risveglio” è n culto che non prevede redenzione, ma solo rovine
"Sulla
scia della crisi della fede dei vittoriani e della loro invenzione
dell'agnosticismo (il termine fu coniato da Thomas Huxley nel 1869), nel XX
secolo, dopo due millenni di religione cristiana, un'era post-cristiana è stata
identificata da molti pensatori significativi, compresi gli stessi cristiani”
scrive l’editor letterario di “Quadrant Barry Spurr”.
“‘Post-cristiano’ è diventata una formula
familiare negli anni '60, per definire la cultura occidentale contemporanea, e
la morte di Dio veniva riportata con sicurezza.
In ciò che resta di una civiltà occidentale il
cristianesimo è stato quasi totalmente evacuato dalla cultura dominante.
Nelle società occidentali, le chiese che non
sono state chiuse si stanno svuotando. Come ha osservato nel 2020 il saggista
britannico “Jan Morris”, ‘gran parte dell'Europa occidentale … è ora quasi
impenetrabilmente laica.
Pochi
di noi vanno in chiesa o in cappella, la maggior parte di noi è probabilmente
agnostica se non decisamente atea, e il resto è diviso in infinite divisioni
settarie della fede’.
È
stato riferito, l'anno scorso, che ogni settimana negli Stati Uniti chiudevano
una decina di chiese.
Ma
come “G.K. Chesterton” ha avvertito:
‘Quando gli uomini scelgono di non credere in Dio, da allora in poi non credono
in nulla, diventano capaci di credere in qualsiasi cosa’.
Lo
abbiamo visto chiaramente, nella storia recente, nell'empio comunismo
sovietico, nel nazifascismo e nella rivoluzione culturale maoista, che
promettevano tutti un paradiso in terra per i veri credenti e, in ogni caso,
offrivano un inferno in terra a decine di milioni di esseri umani che, non rispettando
la propaganda di questi sostituti della religione, furono vittime della loro
inumana ferocia.
Il doppio agente britannico “George Blake”, di
educazione calvinista olandese prima di iniziare a spiare per il KGB, ha
riconosciuto la somiglianza tra la religione e tali regimi:
‘La religione promette alle persone, diciamo,
il comunismo dopo la loro morte. Perché in paradiso siamo tutti uguali e
viviamo in circostanze meravigliose.
E il
comunismo promette alle persone una vita meravigliosa qui sulla terra, e
neanche da questo è venuto fuori nulla’.
Ora,
ai nostri giorni stiamo assistendo a una nuova forma di tirannia totalitaria,
che promette un mondo utopico di ha perfezionato la giustizia sociale per i
suoi aderenti e getta nell'oscurità esterna (in quella che è diventata nota
come” cancel culture”) coloro che non si adegueranno.
È la
nuova religione woke.
Si
crogiola in tutti i peggiori elementi della mentalità religiosa, nella sua
forma più feroce e fanatica, ma senza nessuna delle caratteristiche redentrici
della sensibilità religiosa, o delle sue virtù.
Il senso dell'umiltà e dell'indegnità, ad
esempio, componente essenziale della vocazione del cristiano, è al di là della
comprensione woke, che fa sfoggio della propria dignità (e, al contrario, dei
deplorevoli difetti di tutti gli altri) in ogni occasione.
Il
perdono, il più attraente e umano degli insegnamenti del cristianesimo, è del
tutto sconosciuto alla Chiesa Woke.
Nell'azione
redentrice del perdono, il peccatore viene guarito e il peso della colpa viene
sollevato;
chi ha
agito male viene risanato.
Le
implicazioni compassionevoli della parabola del figliol prodigo, ad esempio,
con il suo indimenticabile momento di ricompensa e gioia, profusa non su un
individuo che segnala virtù, ma su un trasgressore, celebrano il trionfo del
perdonato.
Per
l'odierna comunità woke, il perpetuo lancio di pietre contro i meno virtuosi
fra loro stessi è la loro apprezzata ragion d'essere.
La persecuzione di “George Pell” ha rivelato
il peggior woke.
“Il
cardinale Pell” era un obiettivo primario, in quanto bianco, maschio,
conservatore e cristiano in uno dei più scandalosi processi mediatici e
linciaggi di massa in Australia.
Come
ha osservato il defunto “Papa Benedetto”:
nel
corso di questa nuova crociata, si è generato un ‘particolare odio di sé
occidentale che è a dir poco patologico’.
Gli eletti woke si stabiliscono (come l'ex
arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, ha affermato in un discorso della
Settimana Santa nel 2022) ‘in uno stato di giustizia eterna a spese di tutti
gli altri’.
Il
pensiero di gruppo del vangelo woke obbligatorio è ora pervasivo negli istituti
scolastici, dall'asilo fino alle università.
Orgogliosa certezza dell'elezione.
Questo
è un fenomeno familiare dalle manifestazioni meno attraenti della storia
cristiana, come nelle credenze e nelle pratiche dei calvinisti puritani del
Sedicesimo e Diciassettesimo secolo, e nei culti fondamentalisti, fino ad oggi,
in tutto il mondo.
Una convinzione di rettitudine superiore è
fondata sulla benedetta certezza degli Eletti di essere separati dai ben più
numerosi e ripugnanti peccatori del resto dell'umanità che sono predestinati
alla punizione eterna all'inferno.
La
mentalità della Chiesa Woke del nostro tempo ricorda questo assolutismo in
bianco e nero.
Dannazione dei non credenti.
Chiunque
non sia disposto ad aderire agli articoli di fede woke deve essere gettato
nell'oscurità esterna della Siberia della “cancel culture”, l'odierna regione
infernale.
Proselitismo
pubblico.
I
lettori più anziani ricorderanno la popolarità dei ‘pulpiti lungo la strada’ al
di fuori delle chiese di tendenza evangelica.
Ora tali sono stati sostituiti da cartelli
come ‘il razzismo NON è il benvenuto’ che proliferano nelle nostre città.
“George
Orwell” ha avvertito che una volta che il linguaggio è degradato a senza senso,
allora il pensiero è pervertito e le persone sono pronte per la tirannia.
Mantra
quasi liturgici.
Molti altri aspetti della storia del credo e
della pratica religiosa potrebbero essere addotti.
Solo
un altro è l'uso di mantra quasi liturgici, ripetuti all'infinito e senza
pensare, come il giro di una ruota di preghiera (‘Dì qualsiasi cosa mille
volte’, sosteneva quel maestro della propaganda di Goebbels, ‘e la gente ci
crederà’).
In
genere, queste parole ripetute a pappagallo sono vere e proprie bugie.
Ad esempio, i termini spesso ripetuti e
autocelebrativi per descrivere un evento, una società o un'istituzione come
‘inclusivi’, ‘diversità’ o ‘empatia’ (una delle principali parole d'ordine woke).
Ma c'è
qualcosa di meno inclusivo o empatico per lo studente cristiano che si oppone
all'aborto e al matrimonio tra persone dello stesso sesso e rifiuta di usare
pronomi non binari;
o per
una professoressa femminista di filosofia, come “Kathleen Stock”, cacciata
dall'inclusiva e diversificata “Università del Sussex”, solo per aver espresso
la propria opinione che i transessuali da uomo a donna non erano vere donne.
Il
mondo, in generale, sta impiegando molto tempo per svegliarsi - e parlare
contro - la tirannia sconvolgente della nuova religione del risveglio, e più
tempo ci vuole perché ciò accada, più le morse che negano la vita sarà posto
sulle nostre libertà di pensiero e di parola un tempo amate.
Perché
il male prosperi, tutto ciò che è necessario è che le persone buone rimangano
in silenzio”.
Verso
la dittatura del linguaggio
inclusivo?
Difendiamoci
intanto
con l’ironia.
Beemagazine.it
-Enrico Nistri – (23-3-2023) – ci dice:
“Negli
ultimi trent’anni la tendenza a utilizzare il lessico come strumento di
pedagogia sociale ha conosciuto uno sviluppo più ampio e più subdolo, perché
non si manifesta come un’imposizione dall’alto, ma è il prodotto di una
pressione che, almeno all’apparenza, proviene dal basso”.
“Nell’ultimo
decennio si è passati dalla guerra delle parole alla guerra degli articoli e
delle desinenze.
Il
revisionismo ortografico e il revisionismo del linguaggio di genere”.
L’asterisco ugualitario.
S’impone
“la ricerca di un Caffè Aragno dello spirito”.
È
sempre stata aspirazione dei regimi e dei movimenti totalitari, o che ambiscono
a esserlo, la tendenza ad alterare le norme grammaticali e lo stesso lessico
per esercitare un’influenza globale non solo sui comportamenti, ma sullo stesso
modo di parlare, e, nelle intenzioni, di pensare del popolo.
Cominciò
la Rivoluzione francese, nella sua fase culminante, ribattezzando i mesi
dell’anno, nell’ambito di un più vasto disegno di scristianizzazione
manifestatosi nel culto della Dea Ragione (a suo modo, la Chiesa cattolica era
stata assai più cauta, sovrapponendo le nuove festività religiose a precedenti
festività pagane, come le “Feriae Augusti o il “sostizio d’Inverno”).
In
Italia sono ben noti i tentativi in questo senso del regime mussoliniano, prima
con l’affiancamento (e negli ultimi anni persino con la sostituzione) nella
datazione dell’Era Fascista all’Era Cristiana, poi con l’imposizione dell’uso
del “voi” al posto del “lei” come formula di cortesia.
Per
tacere della lotta a oltranza ai barbarismi, con risultati ora durevoli
(autista al posto di chauffeur, espressione ormai cara solo agli snob,
tramezzino per sandwich) ora fortunatamente effimeri, come “arzente” per
cognac.
Se
l’imposizione dell’“erina” – come i cattolici intransigenti avevano
ribattezzato l’Era Fascista – trasudava un blasfemo velleitarismo, alcune
proposte del regime non mancavano di una certa razionalità;
peccato
che fossero imposte a forza di “fogli d’ordine” e di “veline” per la stampa. Il
“voi” è senz’altro una forma più diretta e meno ambigua del “lei” e a farne
l’elogio fu un fine letterato come Bruno Cicognani, con un elzeviro sul
“Corriere della Sera” che fu preso, ahimè, troppo sul serio da Starace, tanto
che la Rizzoli si sentì in dovere di ribattezzare “Annabella” la sua rivista
femminile, che originariamente si chiamava “Lei”.
Soprattutto
nel Mezzogiorno il “Voi” era (e in parte resta) la forma più diffusa e anche
dopo la guerra sopravvisse nell’ambito cinematografico (il “voi dei
doppiatori”) e non solo.
Nella
prima serie dell’indimenticabile Maigret con Gino Cervi, i personaggi
utilizzavano ancora la seconda persona plurale come forma di cortesia, forse
ricalcando l’uso francese di “voussoyer”.
Nel
corso degli ultimi trent’anni la tendenza a utilizzare il lessico come
strumento di pedagogia sociale ha conosciuto uno sviluppo più ampio e più
subdolo, perché non si manifesta come un’imposizione dall’alto, ma è il
prodotto di una pressione che, almeno all’apparenza, proviene dal basso.
Sotto
questo profilo, il mezzo secolo compreso fra il 1945, in cui non era più obbligatorio
dare il Voi, e il 1995, quando vocaboli con una loro dignità letteraria e persino
canzonettistica, come negro o zingaro, vennero posti al bando in nome del
politicamente corretto, può essere considerato l’ultimo periodo di autentica
libertà lessicale, e non solo, forse.
Si può
avere un bell’argomentare che negro è forma nobile, perché derivata
direttamente dal latino, come biliardo rispetto a bigliardo, o familiare per
famigliare, e che nulla ha a che vedere con il dispregiativo nigger inglese.
Si ha
un bel citare la “terra negra” del carducciano Pianto antico: la “erre” rapita
dai correttori di bozze è ormai un dato di fatto inoppugnabile (e del resto
nelle scuole si leggono sempre meno le poesie del cantore dell’“eterno
femminino regale”).
Dalla
sfera dei riferimenti etnici, il revisionismo ortografico si è spostato a
quella del sesso, o meglio del genere, termine slittato dall’ambito ortografico
a quello bioetico ed esistenziale sul modello dell’inglese gender.
Cominciò il ministro della Pubblica Istruzione
Berlinguer varando uno “Statuto degli studenti e delle studentesse”,
precisazione superflua perché “studente” è un participio presente indeclinabile
(diverso
sarebbe stato il caso di uno “Statuto degli scolari e delle scolare”).
Per lo
stesso motivo sarebbe di cattivo gusto utilizzare come femminile di presidente
“presidentessa”, vocabolo che ricorda una gustosa pochade francese della Belle
époque.
Si è
proseguito con l’imposizione dell’”anglismo gay” per designare un omosessuale,
scelta per altro in parte giustificata dal fatto che nel lessico familiare (o
famigliare) per indicare un “diverso” si utilizzavano termini ben più crudi.
Si è
continuato con lo sdoganamento degli acronimi da settimana enigmistica – da Lgtb a Lgbtquia – cui le varie minoranze sessuali
ricorrono per definire se stesse, dimostrando una propensione per le sigle pari
soltanto a quella dei militari (qualcuno ricorda il Pao Pao di Vittorio
Tondelli?).
Nell’ultimo
decennio si è passati dalla guerra delle parole alla guerra degli articoli e
delle desinenze, guerra ancora più insidiosa perché attenta non solo al
vocabolario ma alla stessa grammatica.
Prima
vittima è stata la consuetudine, dettata da esigenze di chiarezza, di far
precedere il cognome femminile dall’articolo determinativo.
Sarebbe
interessante capire come e perché tale uso, tutt’altro che dispregiativo, sia
scomparso già nel corso del Novecento per i maschi, tanto che nei libri di
storia si parla del Cavour e del Crispi, ma non più del Giolitti, del Mussolini,
né tanto meno del Togliatti o del Craxi (l’uso è rimasto invece nel
linguaggio giuridico, nelle sentenze di molti magistrati, e nel lessico
familiare, almeno in Toscana).
Ma
assai più imbarazzanti sono i dubbi su come declinare gli appellativi con cui
rivolgersi a donne arrivate a posizioni di potere, anche perché fra le
esponenti del gentil sesso (si può ancora impunemente dire così?) le preferenze
non sempre coincidono e si rischia comunque di urtare delle suscettibilità.
Il direttore o la direttrice, termine
quest’ultimo che può apparire riduttivo, perché un tempo era pertinenza delle
vecchie direttrici didattiche delle elementari, non ancora divenute dirigenti
scolastiche?
Il
ministro o la ministra, espressione che rischia di incoraggiare irriverenti
giochi di parole evocativi del tempo in cui compito precipuo della donna era
considerato scodellare la minestra nel focolare domestico?
L’avvocato
o l’avvocata, termine quest’ultimo che sembrava confinato al Salve Regina, e
che oggi – complice forse la secolarizzazione della società – sta prendendo
piede?
Donna medico o medica (in quest’ultimo caso il
pensiero rischia di cadere sull’erba?).
Il
rischio gaffe è sempre in agguato, anche perché il senso dell’humour non è
particolarmente diffuso fra le femministe, come constatava Indro Montanelli,
che per un certo periodo fece seguire i suoi caustici “Controcorrente” con una
spiegazione a uso delle suddette, a suo dire povere di comprendonio.
La
questione delle desinenze è tuttavia più complessa.
Com’è
noto, a differenza del latino, ma anche del tedesco, l’italiano non ha il
genere neutro;
in più
è una lingua flessiva, a differenza dell’inglese, nel senso che ogni articolo,
pronome (con qualche eccezione, come il gli che ormai nell’uso corrente sta
anche per le o a loro), sostantivo e aggettivo sono declinati a seconda del
genere.
Di
conseguenza quando in una frase sono presenti vocaboli maschili e femminili,
l’aggettivo è concordato a un maschile che di fatto fa le veci del neutro.
È una vecchia regola, insegnata da generazioni
di maestrine, che è senz’altro sbilanciata a favore del maschile ma non manca
di una sua praticità.
Per eliminare tale obiettiva disparità di
trattamento si è affacciato l’uso di quello che è stato chiamato “l’asterisco egualitario” o
addirittura lo schwa, strano simbolo ortografico a forma di e rovesciata, diffuso
soprattutto presso le amministrazioni progressiste.
Per
evitare l’uso di quello che viene definito il “maschile generalizzato”, o per
evitare formule come “signore e signori”, ma anche per rivolgersi senza
imbarazzo a qualcuno la cui identità sessuale è incerta, si fa terminare la
frase con un segno asessuato, una sorta di artificiale desinenza neutra.
Una violenza
alla tradizione, che per altro risolve il problema solo nel linguaggio scritto,
perché per chi legge al segno non corrisponde un suono specifico, e che oltre
tutto mina uno dei pregi dell’italiano.
La
nostra infatti ha il vantaggio di essere una lingua che si legge come si
scrive, un po’ perché la sua codificazione ortografica è stata tardiva, un po’
perché, rispetto a una lingua romanza “usurata”, come il francese, ha mantenuto
quasi inalterate dal tempo di Dante la sua pronuncia e la sua ortografia.
Si
potrebbe essere tentati di liquidare l’“asterisco egualitario” come una moda
effimera quanto innocua, destinata come tutte le mode a passare di moda.
L’esperienza
insegna purtroppo che non è così, e la tesi di Michel Foucault, citata spesso
dai teorici di una nuova ortografia, secondo cui il linguaggio sarebbe un
“meccanismo di controllo”, si presta anche a una lettura rovesciata.
Coniare
nuove parole, alterare la grammatica, rivoluzionare le desinenze e persino la
pronunzia influenza il modo di parlare e di scrivere, ma anche di pensare.
E il “linguaggio inclusivo” rischia di essere
esclusivo per chi non vi si attiene, a rischio di essere tenuto fuori dai
salotti buoni del giornalismo, dell’università e dell’editoria.
Certo,
per ora almeno – nonostante alcune iniziative di enti pubblici e ambienti
universitari, e i tentativi della Commissione Europea – non esiste nessuno
“Starace vestito d’orbace” che c’imponga di stravolgere le nostre consuetudini,
imponendoci come parlare, come salutare, come scrivere.
È questa la grande differenza fra le dittature
del passato e la realtà odierna.
Ma è
difficile non scorgere negli sforzi di modificare, sia pure dal basso, il
linguaggio, il tentativo di creare un uomo o una donna nuovi, pardon nuov*:
apolidi, o magari con tre cittadinanze, “fluid*”: priv* di una precisa identità
etnica, culturale, sessuale, persino alimentare, vista la pretesa di farci
nutrire d’insetti per il presunto bene del pianeta.
Qualcosa, a pensarci bene, di molto simile
all’“ultimo uomo” di nietzschiana memoria.
Dinanzi
a questa deriva, l’unica alternativa sembra per il momento l’ironia.
Quella che al tempo della non occulta
dittatura fascista faceva raccontare ai vari Longanesi, Pannunzio, Missiroli,
Flaiano barzellette sul regime nei caffè della capitale e Totò sul palcoscenico
dell’avanspettacolo faceva battute su “Galileo Galivoi” per ironizzare sulla
soppressione del Lei.
Per
chi ambisce a opporsi alla dittatura del linguaggio inclusivo, forse s’impone
la ricerca di un Caffè Aragno dello spirito:
quello vero, in via del Corso, ormai è ormai divenuto
un “Apple Store”.
(Enrico
Nistri)
“Tropic
Thunder” ci ricorda quando
al
cinema si poteva ancora ridere.
Wired.it
- GIULIO ZOPPELLO – (13.08.2023) – ci dice:
La
commedia action di “Ben Stiller” rimane uno dei migliori esempi di una
demenzialità che oggi è stata bandita dai nostri cinema.
“Tropic
Thunder”.
Jay
Baruchel, Brandon T. Jackson, Ben Stiller, Robert Downey Jr e Jack Black sono i
5 protagonisti di “Tropic Thunder”
“Tropic
Thunder” compie 15 anni, e lo fa forte di un'eredità tanto più centrale quanto
rilevante a mano a mano che il tempo passa e ci accorgiamo che ridere è
diventato sempre più difficile.
Di base in quel 2013, “Ben Stiller” creò una
summa cinematografica della demenzialità, di ciò che la parodia poteva donarci.
Ripensare
a questa “commedia action”, al suo cast incredibile, alle gag e battute,
significa fare un viaggio nel tempo, quando ancora il cinema era capace di
farci ridere di sé stesso e di noi stessi.
Ridere
facendo a pezzi il mito hollywoodiano.
“Tropic
Thunder” possiamo definirla una delle ultime vere commedie americane, anche se
la realtà è che parlare del film di “Ben Stiller”, una parodia dominata da una
demenzialità pungente e dissacrante, richiede una capacità di analisi non da
nulla.
Oggi
sono passati esattamente 10 anni da quando sghignazzavamo grazie a questo
grottesco e sovente sboccato film, che decostruiva la lunga tradizione dei “war
movie hollywoodiani”, prendeva a sprangate lo “star system”,” l’industria
dell’intrattenimento” (non solo cinematografica), con una libertà e un’anarchia
incredibili.
La
realtà è che oggi un film come Trophic Thunder sarebbe impossibile da
realizzare, questo nonostante sia stato capace di mettere sul banco degli
imputati ipocrisia, sessismo, razzismo, la violenza e tutto il peggio del
peggio di quel mondo dorato che chiamiamo cinema.
Film corale nel senso più universale,
sceneggiato in modo perfetto da “Ben Stiller”, “Etan Cohen” e “Justin Theroux”,
Tropic Thunder è stato però soprattutto uno degli ultimi colpi di coda, ultimi
assalti della comicità irriverente e demenziale cara alla tradizione
anglosassone, prima dell’oscurantismo moderno, in cui ridere è peccato
imperdonabile, atto impossibile.
“Ben
Stiller”, deus ex machina di “Tropic Thunder”, aveva concepito l’idea iniziale
sul set di un altro grande film americano sulla guerra:
L’Impero
del Sole di “Steven Spielberg”.
Il regista
era stato uno dei primi a concepire training specifici per gli attori, come
visto per esempio in “Salvate il Soldato Ryan”, con ottimi risultati.
Stiller all’epoca pensò che sarebbe stato
fantastico parodiare tale elemento, così come il famoso “Method Acting”, quello
utilizzato fino all’estremo da tanti attori di prima grandezza.
Quale
ambientazione migliore quindi di un set cinematografico?
Giungla con tutte le sue pazzie, i suoi
estremismi, personalità insopportabili e narcisiste costrette a stare fianco a
fianco?
Il
Vietnam movie risplendeva nella sua essenza mitologica, ancora inquietante e
terribile, ripetuta per decenni da una cinematografia impegnata, che Stiller
omaggiò e assieme sottopose ad un bombardamento continuo.
Platoon,
Hamburger Hill, Apocalpyse Now, naturalmente poi anche Full Metal Jacket,
Vittime di Guerra, la saga di Rambo nella sua interezza, il Cacciatore di
Cimino, insomma tutto un insieme di film che il pubblico conosceva benissimo e
poté identificare nelle mille citazioni, parodie, di un film semplicemente
privo di ogni possibile freno inibitorio.
Nulla e nessuno era al sicuro in Tropic
Thunder, che viaggiava su due binari paralleli ma diretti verso la stessa meta:
desacralizzare il cinema dentro e dietro la
camera da presa.
Tropic
Thunder come semantica si rifaceva ad un mondo comandato da un narcisismo
patologico, da bugie, ipocrisia ed egoismo:
quello
delle produzioni cinematografiche.
Tugg
Speedman (Ben Stiller), Kirk Lazarus (Robert Downey Jr.), Jeff Portnoy (Jack
Black), Alpa Chino (Brandon T. Jackson) e Kevin Sandusky (Jay Baruchel), sono 4
esemplari di fauna attoriale detestabile, egoriferita, piena di nevrosi e
vanità.
Il biopic basato sulle memorie di John
"Quadrifoglio" Tayback (Nick Nolte) che stanno girando sta fallendo,
la produzione nelle mani del dispotico e Les Grossman (Tom Cruise), forza il
debole regista Damian Cockburn (Steve Coogan) a portarli nella giungla per
creare una sorta di “operazione verità” che salvi la baracca.
Invece
finiscono tra guerriglieri e narcotrafficanti, costretti a lottare per le loro
stesse vite, mentre tutto ciò in cui credono, compresa la "verità" di
Tayback è una menzogna.
Ma la realtà è che andando avanti capiamo che
loro stessi sono una menzogna, il loro supposto talento, le loro carriere,
personalità, l'immagine pubblica di sé, solo un cumulo di bugie.
Oppure no?
Perché
Tropic Thunder, dietro la maschera di clown pecoreccio e folle, nasconde in
realtà un ragionamento tutt'altro che banale sul rapporto tra immagine e
verità, arte e moralità.
Un
film capace di spaziare su più temi e criticità.
Tropic
Thunder in ognuno dei personaggi (anche i secondari) ci offre un brandello di
verità sulla “fabbrica dei sogni”.
Speedman
è una parodia di divi come Chuck Norris, Sylvster Stallone, Steven Seagal o
Jean Claude Van Damme, costretti bene o male per tutta la carriera o quasi ad
interpretare lo stesso ruolo, con sempre minor successo.
Portnoy
è un comico vittima di eccessi come lo fu John Belushi, di cui Black crea un
omaggio affettuoso.
Con il
rapper Alpa Chino, Jackson plasma una deformazione della macho culture della
black community, mentre Sandusky appare forse il più debole dei quattro, la
fama ancora non ce l'ha, la agogna e basta con gli occhi di Baruchel.
Su ognuno di loro Tropic Thunder crea quindi
una parodia nella parodia, che dal Vietnam abbraccia gli attori feticcio,
l'alto e il basso, il popolare e l'autoriale di un mondo fatto di apparenza, di
falsità.
Questo riguarda soprattutto Kirk Lazarus e Les
Grossman.
Con
Kirk Lazarus, Stiller e Downey Jr. si presero un rischio non da nulla.
In quel 2013 mettere in scena una black face,
ricordando una pratica così vergognosa, già non era roba da poco.
Eppure
il risultato è geniale, esilarante, rappresenta l'estremizzazione di un artista
incapace di comprendere il limite tra legittimo e ridicolo.
Da De
Niro a Daniel Day Lewis, da Tom Hardy fino a Joaquin Phoenix, il method actor è
diventato un mito, qui messo alla berlina, distrutto.
Il Les
Grossman di un Tom Cruise scatenato, volgare, dispotico e senza alcun freno, è
l'altro jolly assoluto di questo film.
In lui
il divo di Top Gun creò un ritratto non così irreale di tutta una serie di
potenti uomini del cinema, tra il famigerato e il leggendario, veri e propri
Signori della Guerra capaci di ogni nefandezza.
Tropic
Thunder ne esalta carisma, parlantina spinosa e movenze da macho grossolano,
mentre intanto distrugge la sacralità dell'orrore della guerra rievocata dietro
la macchina da presa, in realtà pornografia sanguinolenta per un pubblico che
non è migliore di quel cast.
Il
cinema verità è una bugia, come lo sono le imprese di Tay back,
l'eterosessualità di Chino e via via ad includere tutti gli altri.
“La
menzogna è un lubrificante della vita” aveva detto diversi anni prima Marlon
Brando, attore feroce con la sua categoria e il suo mondo.
Tropic
Thunder si aggancia a tutto questo con violenza quasi, mentre vediamo gli
attori mentire gli uni agli altri, poi a sé stessi, poi ai guerriglieri prima
di dover ammettere la verità:
sono
patetici come ogni altro essere umano, si sopravvalutano, si nascondono dalla
loro mediocrità senza successo, ma non sono senza speranza.
Questo lo capiscono nel momento in cui mettono
da parte la recitazione inutilmente complessa e fanno ciò che fa veramente un
vero attore:
usare
la realtà per creare finzione.
Tutto
questo però non lo capimmo subito, cercavamo di sopravvivere alle risate.
Alcune gag e dialoghi sono qualcosa di semplicemente geniale, così come i
trailer sui falsi film dei protagonisti.
Non
mancarono polemiche per il modo di dipingere i portatori di handicap, l'assenza
di personaggi femminili, la blac kface già citata del futuro Iron Man.
Oggi
non potremmo avere un film come Tropic Thunder, ultimo erede della demenzialità
degli anni ‘90 che ci aveva dato Tutti Pazzi per Mary, American Pie, Scemo
& Più Scemo, Ace Ventura, Scary Movie e poi arrivata fino a quel 2013
grazie a 40 Anni Vergine, La Cosa più Dolce.
Una
Notte da Leoni è stato l’ultimo acuto di questo tipo di cinematografia, prima
che si passasse all'iper sensibilità ipocrita, moralista, bigotta, quella per
cui la comicità non deve fare male a nessuno.
Obiettivo assolutamente folle e
irrealizzabile, punto di vista miope su come in realtà la risata sia utilissima
per esorcizzare il male, per ridere di noi stessi e dei nostri difetti.
Conclusione?
Il
cinema dieci anni fa era migliore, lo era anche l'Academy che candidò “Robert
Downey Jr.”, l'intelligenza dietro la sua performance, che oggi lo farebbe
finire all'indice.
Non un caso che il sequel non ci sia ancora
stato, come si potrebbe avere un” Kirk Lazarus” oggi come oggi?
Sconfiggere l’uomo forte
è il
primo obiettivo.
Lavoce.info - RONY HAMAUI – (24/05/2022) - in
“INTERNAZIONALE” – ci dice:
L’ascesa
al potere di uomini forti in molti paesi sembra un fenomeno quasi
inarrestabile.
Rappresentano una minaccia per la democrazia,
a cominciare da Putin.
Si
spiega così, forse, la determinazione di Biden nel sostenere la resistenza
ucraina.
Uomini
forti in tutto il mondo.
Che
cosa hanno in comune paesi come l’Arabia Saudita, il Brasile, la Cina,
l’Etiopia, le Filippine, l’India, il Messico, la Polonia, la Russia, gli Stati
Uniti, la Turchia e l’Ungheria?
Sono
tutti stati governati da uomini forti, quali Mohammad bin Salman (MBS), Jair
Bolsonaro, Xi Jinping, Narendra Modi, Jaroslaw Kaczyński, Vladimir Putin,
Donald Trump, Recep Erdogan e Viktor Orban.
Una sequenza che raramente si è osservata
nella storia e che minaccia la democrazia del mondo.
Le
loro storie sono raccontate nell’ultimo libro di “Gideon Rachman”, capo
commentatore degli affari esteri del “Financial Times”.
La
retorica sfrenata, l’insofferenza per le regole, l’indifferenza per i conflitti
d’interesse, l’intolleranza per i giornalisti e giudici sono tutte
caratteristiche tipiche dei così detti “uomini forti” (e finora sono stati
tutti uomini), un tempo ritenuti incompatibili con democrazie mature.
Tipicamente questi leader sono nazionalisti e
conservatori, poco interessati alle minoranze, intolleranti verso il dissenso e
gli stranieri.
Pretendono di incarnare i valori della
nazione, sono nostalgici di un passato ritenuto glorioso e incoraggiano il
culto della personalità.
Ovviamente,
operano in regimi molto diversi.
Alcuni governano paesi autocratici, quali la
Cina o l’Arabia Saudita, altri come Putin ed Erdogan, devono soggiacere a
qualche vincolo democratico, come le elezioni e qualche forma di libertà di stampa,
anche se sono stati in grado di imprigionare gli oppositori e tenere il potere
molto a lungo cambiando la costituzione.
Altri ancora come Donald Trump, Boris Johnson
e Viktor Orban operano in regimi democratici, che pure criticano aspramente, e
ne erodono la legittimità.
Eppure, nonostante le diversità, hanno
caratteristiche comuni.
Sono
tutti assurti al potere nel XXI secolo e si differenziano da leader autoritari
che governano dittature consolidate, come la Nord Corea di Kim Jong-un, la
Bielorussa di Lukashenko o la Cambogiana di Hun Sen.
L’ascesa
degli “uomini forti” rappresenta la maggiore minaccia alla democrazia dagli
anni Trenta.
Ci
mostra come i regimi democratici siano fragili e reversibili.
Se nel 1945 solo dodici paesi potevano definirsi
compiutamente democratici, nel 2002 la cifra era salita a novantadue, superando
per la prima volta quella dei paesi autoritari.
La crescita, seppure non lineare, appariva
inarrestabile, soprattutto dopo la caduta dell’impero sovietico.
Invece, come mostrano le analisi di “Freedom
House”, dal 2005 la tendenza si è invertita e tutti gli anni il numero di paesi
che diveniva autoritario è stato superiore a quello dei paesi che entravano nel
novero dei democratici.
In
questo nuovo scenario l’ascesa degli uomini forti ha giocato un ruolo
importante poiché il loro stile di governo li pone sopra la legge e le
istituzioni.
Molte
sono le ragioni che spiegano l’ascesa al potere degli uomini forti:
il desiderio di stabilità e certezza, la
ricerca di garanzie e protezione, le frustrazioni di una situazione di crisi,
la sfiducia nella politica e il desiderio di messaggi semplici e comprensibili,
per citarne alcune.
Il
successo di uno finisce, poi, per influenzare il successo degli altri.
Non
solo per un fattore imitativo ma anche perché, in molti casi, gli uomini forti
tendono a sostenersi gli uni con gli altri.
È in
questo scenario che va inquadrata l’invasione russa dell’Ucraina e la
determinazione con la quale il presidente Joe Biden sostiene la resistenza
ucraina.
Non a
caso molti dei così detti uomini forti al potere hanno mostrato una benevola
comprensione, se non un aperto sostegno, per la causa russa.
In
fondo Putin è stato l’antesignano del modello, un esempio a cui ispirarsi.
Fermare la Russia, allora, non vuol solo dire difendere una giovane democrazia
nel cuore dell’Europa o mandare il messaggio alla Cina di non tentare un colpo
di mano a Taiwan, ma significa sconfiggere l’idea che gli uomini forti possano
risolvere i problemi.
Anche
negli stessi Stati Uniti, dove Trump sta scaldando i muscoli in vista delle
elezioni del 2024:
Biden vuole sconfiggerlo ricreando un’alleanza
degli uomini ragionevoli e democratici.
Per
una nuova generazione
di
«liberi e forti».
Aggiornamentisociali.it
- Giacomo COSTA – (20 gennaio 2019) – ci dice:
La
rilettura dell’Appello ai «liberi e forti» a cento anni dalla sua stesura offre
numerosi stimoli per il nostro tempo non tanto a livello di soluzioni, ma di
indicazioni sul modo di essere presenti e partecipare al dibattito politico.
Compie
cent’anni il testo noto come “Appello ai liberi e forti”.
Tradizionalmente
associato al nome di don Luigi Sturzo, fu redatto il 18 gennaio 1919 da una Commissione
provvisoria, di cui il sacerdote siciliano era segretario politico, nel
percorso che condusse alla fondazione del “Partito popolare italiano”.
Sebbene
sia conosciuto spesso solo per brani, grazie a citazioni e richiami successivi
che ne ricollocano le espressioni in un contesto parzialmente diverso da quello
originario, questo testo ha segnato profondamente la storia politica italiana
del Novecento e per questo abbiamo deciso di riprodurlo per intero insieme a
questo Editoriale.
Compiere
cent’anni significa inevitabilmente appartenere al “secolo scorso”, a un’epoca
ormai sempre meno familiare.
Non a caso al Novecento, a cui l’Appello
appartiene, ormai si dedicano musei.
Ma trasformare in reperto il passato comporta
il rischio di sopprimerne la generatività e la capacità di interpellare ancora
il presente.
Lo ricordava lo scorso 22 maggio il card.
Bassetti, presidente della CEI, nell’Introduzione alla 71ª Assemblea generale.
Proprio
dopo aver citato l’Appello, affermava infatti:
«La
storia della Chiesa italiana è stata una storia importante anche per la particolare
sensibilità per l’aspetto politico dell’evangelizzazione […]. Dobbiamo esserne
fieri, ma soprattutto è venuto il momento di interrogarci se siamo davvero
eredi di quella nobile tradizione o se ci limitiamo soltanto a custodirla, come
talvolta si rischia che avvenga perfino per il Vangelo».
Per
sfuggire a questo rischio, occorre ripartire proprio dalla consapevolezza della
distanza temporale che ci separa dal passato.
Nel
caso dell’Appello, questo significa prendere atto che non dà indicazioni da
seguire alla lettera nel nostro presente:
troppe
situazioni sono cambiate (basti pensare che il suffragio universale è realtà
ormai da tempo);
troppe
parole hanno mutato di significato o sono cambiate le risonanze che suscitano:
alcune, ad esempio, sono state arricchite da
cent’anni di ricerca e dibattito (è il caso dello statalismo, a cui era
dedicato l’Editoriale dello scorso novembre);
troppi
sono i problemi che nemmeno esistevano o erano ignorati, come il degrado
ambientale o i mutamenti climatici, o che hanno cambiato radicalmente di segno:
l’Italia, oggi meta di flussi migratori, era un secolo fa terra di emigrazione
di massa.
Cercare
nelle parole del passato istruzioni per i problemi del presente espone a
rischiosi cortocircuiti.
Prenderne
consapevolezza consente di mettere a fuoco che la potenza di un testo come
l’Appello ai liberi e forti non risiede nelle soluzioni, ma nel continuare a
rappresentare una fonte di ispirazione per le modalità con cui si approcciano i
problemi nuovi e quelli che nel tempo si sono modificati ma non sono stati
risolti, come la questione meridionale o la parità di genere, che, pur in forme
diverse da quelle del 1919, continuiamo a trovare sulla nostra agenda politica.
In questa linea, nelle pagine che seguono
proporremo alcuni spunti che possano illuminare la perdurante fecondità di quel
testo, cioè la ragione per cui, a cent’anni di distanza, vale la pena tornare a
leggerlo.
Una
carica dinamizzante.
Dell’Appello
colpisce innanzi tutto la brevità:
in due
sole pagine riesce ad articolare in modo coerente uno sfondo valoriale preciso,
una visione antropologica e politica di riferimento, una lettura della società
e dei suoi problemi che conduce a identificare misure pratiche da inserire in
un programma politico.
Colpisce
ancora di più se lo si colloca nel suo contesto storico, ben precedente alle
riflessioni del Concilio sulla coscienza, sulla libertà religiosa o sulla
legittima autonomia delle realtà temporali e quindi sulla laicità; e in una
fase in cui il magistero sociale della Chiesa consisteva di un’unica enciclica,
la “Rerum novarum”.
Partendo
da una serie di intuizioni che la riflessione impiegherà decenni a elaborare,
quali i principi della dottrina sociale (dignità della persona, bene comune,
sussidiarietà, solidarietà), l’Appello connette piani diversi:
è questa capacità che oggi deve risultare di
stimolo, ben più degli specifici contenuti.
Si
nota poi la sua potenza espressiva:
il
testo interpella i lettori, parla insieme alla testa e al cuore, così da mobilitare
le energie della persona e di tutte le persone.
Non è
una operazione di élite, in quanto sa cogliere in modo autentico l’anima
popolare:
non
trascura chi è ai margini e soprattutto non esacerba le tensioni, ma si pone
nella logica di una mediazione capace di risolvere i conflitti sociali di cui
ha piena consapevolezza.
È proprio questa attenzione a costruire ponti
e tessere relazioni che gli conferisce autorevolezza.
Convince
perché sa entrare in contatto, non si impone come fa invece la propaganda.
Da questo punto di vista si differenzia
radicalmente da molte altre proposte, anche dei giorni nostri, che in modi
diversi si richiamano a una ispirazione popolare, ma per marcare differenze
identitarie, frammentando la società anziché unirla in un soggetto collettivo.
Infine,
l’Appello ai liberi e forti ci permette di cogliere il contributo che la fede
cristiana può dare alla politica e alla società.
Si
vede all’opera la creatività che la caratterizza quando non viene ridotta a
ripetizione di formule e dottrine, o utilizzata come base di privilegi o di una
pretesa di potere.
Così
il testo interpella tutti, aldilà di confini e appartenenze; sarebbe un
tradimento utilizzarlo come bandiera della presenza organizzata di gruppi di
cattolici in politica.
Rileggere
l’Appello può così rivelarsi particolarmente fecondo oggi, in un tempo in cui –
lo possiamo testimoniare da quell’osservatorio particolare che Aggiornamenti
Sociali da 70 anni rappresenta – sono molti i tentativi di riarticolare una
proposta politica convincente e capace di suscitare un diffuso impegno politico
democratico, sostenibile, partecipato.
Anche
il nostro è un tempo di chiamate, di convocazioni e di appelli, che si devono
misurare con un contesto di ripiegamento identitario a livelli diversi:
nei
confronti dell’altro e del diverso (i migranti sono l’esempio più evidente),
del futuro (la scarsa attenzione per la sostenibilità), così come dell’Europa e
del resto del mondo (il tema dei sovranismi).
Ne scaturisce una politica che anziché cercare
mediazioni e progetti condivisi, esaspera le contrapposizioni, alimentando la
lotta dei penultimi contro gli ultimi.
Non
basta essere contro tutto questo, occorrono soggetti politici “liberi e forti”
che elaborino proposte per qualcosa che risulti chiaramente alternativo e
capace di coagulare il consenso dei molti che non si riconoscono nella retorica
politica oggi dominante.
Del
resto anche l’Appello si presentava come alternativo alle proposte muscolari
(di destra e di sinistra) in circolazione ai suoi tempi.
Le ali
della libertà.
Oggi
come nel 1919 libertà è un termine magnetico, capace di toccare le corde più
profonde dell’essere umano e risvegliarne le aspirazioni e i desideri più
intensi.
Oggi
come allora circolano però accezioni molto diverse di libertà, e la storia ci
ha mostrato come queste differenze abbiano precise conseguenze quando si prova
a tradurre l’aspirazione alla libertà in istituzioni e strutture sociali.
La
libertà dell’individualismo liberale non è quella del personalismo solidale, e
così via.
L’autodeterminazione è certamente un elemento
fondamentale di ogni concezione di libertà, ma oggi si tende spesso ad
assolutizzarlo.
“Padroni a casa propria” è lo slogan che
sembra condensare la concezione prevalente di libertà, a tutti i livelli,
distogliendo l’attenzione alla sua altrettanto costitutiva dimensione
relazionale.
L’Appello
è sensibile all’importanza dell’autodeterminazione, dei singoli così come dei
gruppi sociali e dei popoli – era un cardine del programma wilsoniano
espressamente richiamato –, ma ciò che innanzi tutto qualifica i “liberi” a cui
si rivolge è il senso del «dovere di cooperare» e la capacità di agire «senza
pregiudizi né preconcetti».
Quest’ultima
espressione è spesso stata intesa con riferimento alla disponibilità, a
prescindere dall’appartenenza confessionale:
è del
tutto chiaro, infatti, che l’Appello non si rivolge ai soli cattolici.
Rileggendole
oggi, ci rendiamo conto che quelle parole hanno un significato più ampio:
fanno
appello alla capacità di collaborare per il bene comune superando tutte le
appartenenze, non solo quelle confessionali, ma anche quelle ideologiche,
culturali, sociali, economiche, compresi quindi gli interessi di parte e il
tornaconto individuale o di gruppo.
Tutte
le appartenenze portano con sé il pericolo dell’autoreferenzialità, della
trasformazione in casta, rischiano di smarrire la propria parzialità
pretendendo di diventare il tutto.
In questo senso, libertà è anche un limite
verso sé stessi, un argine alla pretesa di assolutizzare la propria posizione e
quella della propria parte.
Il
primo frutto di questa libertà è la promozione dell’uguaglianza in maniera
concreta, o almeno dell’equità in termini di opportunità (cfr artt. 2-3 Cost.).
Ne è
prova tangibile l’insistenza con cui l’Appello ribadisce la necessità di
«congiungere il giusto senso dei diritti e degl’interessi nazionali con un sano
internazionalismo», facendone anzi un indicatore di libertà morale.
Questo
non vale ovviamente solo sul piano dei rapporti internazionali, su cui
torneremo:
la
tutela delle legittime aspirazioni alla libertà di ciascuno non può legittimare
nessuna pretesa di “passare per primo” o di avere più diritti degli altri.
La libertà, se non è disponibile a tutti, è
oppressione degli uni sugli altri e odioso privilegio.
Di
questo, e non di autentica libertà, godevano gli aristocratici libertini
dell’Ancien Régime, a scapito di una moltitudine di oppressi.
È
questo «il vero senso di libertà», che richiede di aprire spazi di autonomia
per tutti, a prescindere da ogni identità e appartenenza, in quegli ambiti che
l’Appello stesso elenca con grande chiarezza: libertà religiosa, libertà
d’insegnamento, libertà sindacale e associativa (le «organizzazioni di
classe»), libertà di partecipazione politica ai diversi livelli (la «libertà comunale
e locale»).
Rileggendo
l’Appello, tocchiamo con mano che ancora oggi la libertà non è un’etichetta
vuota e che un buon criterio per discriminare le tante proposte politiche in
circolazione può essere proprio la nozione di libertà su cui si fondano, e la
disponibilità a concedere opportunità a tutti, e non solo a reclamare i diritti
della propria parte.
Forza
e potere.
Il
vero senso di libertà diventa anche un criterio per l’esercizio dell’autorità e
del potere, a cui legittimamente ogni partito (anche il Partito popolare
italiano che nasce con l’Appello) aspira.
I
“liberi e forti” sanno riconoscere i propri limiti e aprire spazi perché i
singoli e i gruppi – tutti, nessuno escluso – possano crescere grazie a una
progressiva assunzione di responsabilità nella costruzione del bene comune.
L’autorità
così concepita non coincide col potere.
Il
potere può prescindere dal consenso o cercare di carpirlo;
il potere si presta a essere abusato, seduce
ed è sedotto.
L’autorità
è relazionale: non può agire se non è riconosciuta.
Per
questo i “liberi” hanno bisogno di essere “forti”, per usare il potere come
forma per esercitare l’autorità.
L’aggettivo
“forti” merita una riflessione specifica, in quanto rimanda sia alla forza e al
suo uso, sia alla fortezza, intesa come la virtù che assicura fermezza e
costanza nella ricerca del bene.
Senza
fortezza, l’uso della forza perde ogni riferimento etico e si trasforma in
arbitrio e prepotenza.
Proprio
come la libertà, anche la forza ha bisogno innanzi tutto di un’istanza di
autolimitazione.
L’Appello ne è ben consapevole, tanto che
invoca istituzioni internazionali “forti”, cioè capaci di resistere alle
«tendenze sopraffattrici dei [popoli] forti» nei confronti dei «popoli deboli».
Questa
dinamica non interessa solo i rapporti tra i popoli, ma anche quelle tra i
gruppi sociali e persino tra gli individui.
Dalla
nozione di forza dipendono le modalità dell’agire politico.
È una
concezione mutilata della politica quella che si basa sulla rivendicazione dei
diritti e sulla conquista del potere, ma dimentica l’esercizio di un’autentica
mediazione sociale, scivolando su un piano inclinato in fondo al quale non può
trovarsi altro che la violenza distruttiva di chi non ha altri modi per farsi
ascoltare.
Ce lo
mostrano in modo eclatante le proteste dei “gilets jaunes” che stanno incendiando
la Francia, e tante altre situazioni analoghe.
Solo
la libertà nel modo di esercitare il potere consente di aprire spazi di
partecipazione democratica e di mediazione tra i diversi attori sociali.
Altrimenti,
come abbiamo imparato, le forme della democrazia si svuotano e si trasformano
in un ginepraio di procedure, dentro cui crescono i privilegi di una minoranza,
l’irresponsabilità della classe dirigente, il senso d’impotenza dei più e
l’oblio dei deboli.
E,
inevitabilmente, il fascino per le “soluzioni di forza”.
Un
appello per l’Europa.
Rileggere
l’Appello ai liberi e forti ci ha ricondotti ad alcune categorie portanti della
politica, che quel testo continua a illuminare in modo stimolante.
Oggi
come allora le considerazioni di fondo premono per tradursi in atto: non a caso
all’Appello seguiva un programma politico.
Nessuna
attuazione potrà esaurire la ricchezza e la profondità dei principi, ma senza
di essa questi ultimi resteranno nel regno dell’astrazione, privi di efficacia.
Che
cosa significa provare oggi a esercitare libertà e forza?
Ad articolare autorità e potere? In che
direzione siamo chiamati a muoverci?
In un
momento in cui l’Italia usciva da una guerra rovinosa, anche se vinta, e doveva
impegnarsi per trasformarsi da Paese agricolo a nazione in via di
industrializzazione e da democrazia “oligarchica” con suffragio censitario a
democrazia di massa con suffragio universale (almeno maschile), colpisce come
lo sguardo dei redattori dell’Appello non sia rivolto verso l’interno, ma
collochi con decisione il futuro dell’Italia all’interno di un ordine
internazionale imperniato sulla Società delle nazioni.
Un
secolo dopo, il quadro di attori internazionali si è certamente arricchito – il
livello delle istituzioni europee era probabilmente impensabile nel 1919 –, ma
il nocciolo della questione non si è molto modificato:
immaginare il futuro italiano richiede di
definirne le modalità di relazione con il contesto internazionale.
Oggi,
ben più che l’orizzonte globale, i nodi riguardano il livello europeo e in
particolare l’Unione Europea.
Le
difficoltà britanniche a gestire la Brexit dimostrano che alla fine risulta
quasi impossibile fare a meno dell’Unione, non perché questa sia una gabbia o
una condanna, ma perché l’esigenza di aggregazione di un’area continentale come
la nostra è un dato di fatto in un mondo dominato da giganti geopolitici, cosa
che nessun Paese europeo è.
Non a caso, proprio la posizione nei confronti
dell’Europa è diventata, quasi ovunque, una delle discriminanti principali tra
gli schieramenti politici e uno dei temi più caldi delle campagne elettorali.
Proprio
come la Società delle nazioni nel 1919, anche per noi italiani oggi l’Europa
resta una scelta e volere l’Europa non può significare arrendersi a un’Europa
qualunque e neanche accontentarsi di quella esistente, che in alcuni suoi
aspetti è indifendibile (cfr Riggio G. [ed.], «Dietro le quinte dell’Unione
Europea. Un dialogo a tre voci da Bruxelles» alle pp. 36-43 di questo
fascicolo).
Quali
riforme sono possibili e necessarie per spingerla nella direzione desiderata?
Sulla
scorta dell’Appello, siamo interessati a provare a costruire un’Italia che sia
parte e promotrice di un’Europa “libera e forte” nel senso che abbiamo
delineato sopra?
È
chiaro che si tratta di un progetto di riforma profondo e radicale, come lo era
nel 1919 la richiesta di estendere il voto alle donne, di riformare la
burocrazia, di rendere elettivo anche il Senato, di riconoscere le autonomie
locali sulla base di una sussidiarietà che oggi anche la UE ha inserito tra i
propri principi, ma che non è sempre facile percepire.
Un’Europa
“libera e forte” sarà capace di articolare autorevolmente unità e rispetto
delle differenze, senza obbligare tutti a marciare con lo stesso passo, ma
senza nemmeno concedere a nessuno diritti di veto più o meno mascherati
.
Questa Europa potrà allora chiedere ai singoli Paesi che la compongono di essere
a loro volta “liberi e forti”, cioè di rinunciare a interpretare la sovranità
di cui dispongono in modo autoreferenziale e facendo del proprio interesse
l’unica bussola dell’azione politica.
Come
abbiamo visto, liberi e forti sono coloro che sanno riconoscere un limite alle
proprie pretese, e questo vale anche per gli Stati, nelle relazioni che li
uniscono e ancora di più in quelle che istituiscono con i loro cittadini e le
forme della loro vita associata.
Apparati
pubblici “liberi e forti”, a livello nazionale e sovranazionale, sapranno
promuovere concretamente la partecipazione dei cittadini, incoraggiando la loro
capacità di iniziativa e le forme strutturate a cui questa dà vita.
Questo
riconoscimento permetterà a quelli che tradizionalmente sono chiamati corpi
intermedi di esplicare la loro fondamentale funzione di mediazione.
Solo così è possibile promuovere la coesione
sociale e la formazione di capitale sociale, restituendo al popolo la sua
soggettività e sovranità, non attraverso slogan o retoriche riaffermazioni di
identità presunte.
È probabilmente questa la differenza fondamentale
tra una politica popolare, che rispetta il popolo e la sua autonomia
originaria, e una politica populista, che rende il popolo un ostaggio di chi è
al potere.
Con
un’attenzione particolare – anche su questo l’Appello è molto chiaro – a chi è
ai margini e ai più deboli.
È
proprio la capacità di proteggere i più deboli e di promuovere la loro
partecipazione che legittima l’uso della forza e lo differenzia dalla
brutalità.
Per questo è fondamentale che un’Europa che si
pone alla ricerca di una identità popolare che rischia di smarrire non
sacrifichi il “pilastro sociale”, ma lo metta al centro delle sue politiche.
Istituzioni
europee e nazionali che funzionano con questo spirito consentiranno l’esistenza
di popoli e gruppi sociali liberi e forti, capaci di resistere alle tentazioni
solipsistiche, nazionali o nazionalistiche che siano.
Questo
è il vero DNA dell’UE: da norme, leggi, accordi e procedure non possiamo
prescindere, ma restano il mezzo per dare attuazione a un ideale e a un sogno
più alto.
L’idea che possano esistere solo relazioni
dirette, che prescindano da ogni mediazione istituzionale, non è invece altro
che un’illusione esposta al rischio della manipolazione, per quanto sia molto
di moda nei nostri giorni.
Se
qualcosa ci insegna la lettura dell’Appello è che il cambiamento di cui abbiamo
bisogno sarà possibile solo se i “liberi e forti” che anche oggi popolano la
società italiana ed europea sentiranno ancora «il dovere di cooperare», senza
chiudersi dietro barriere di interessi e appartenenze.
Tra
pochi mesi le elezioni europee ci riproporranno una domanda sempre più
cruciale: quale Europa vogliamo? E quale Italia al suo interno? Ma di fronte a
parole sempre più inflazionate, a proclami sempre più erosi dal cinismo della
post-verità, i “liberi e forti” nell’Europa del 2019 decideranno ancora di
unirsi?
(Appello
ai «liberi e forti»)
La
situazione nel Sahel.
Golpe
in Niger, Ecowas oltre ultimatum:
la via
diplomatica per evitare
una
guerra che vuole solo la Francia.
Ilriformista.it
- Matteo Giusti — (12 Agosto 2023) – ci dice:
Golpe
in Niger, Ecowas oltre ultimatum: la via diplomatica per evitare una guerra che
vuole solo la Francia.
Nonostante
la delusione per il mancato rispetto dell’ultimatum da parte della giunta
militare che ha preso il potere in Niger, l’Ecowas sta continuando a lavorare
per convincere il Consiglio Nazionale di Salvaguardia della Patria ad accettare
la trattativa, ma la loro forza persuasiva si affievolisce sempre di più.
L’annullamento
del vertice dei capi di stato maggiore che si sarebbe dovuto tenere oggi ad Accra in Ghana per mettere per iscritto un
piano d’azione che possa coordinare le forze armate dei 4 stati che hanno
deciso di partecipare a questa operazione militare rafforza la posizione dei
golpisti.
Il
vertice rinviato sine die avrebbe dovuto stabilire una piattaforma da
utilizzare nel caso si decidesse l’uso della forza.
“ La
Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale” avrebbe a disposizione
una forza di polizia di intervento rapido composto da circa 2500 uomini
provenienti da tutti ì paesi, ma pare difficile che questo contingente, che
vede anche soldati di stati sospesi, possa essere la soluzione per convincere i
riottosi generali che hanno preso il potere a Niamey.
La
Fac, questo l’acronimo di questo corpo d’intervento, sotto il nome di Ecomog in
passato è intervenuta in Sierra Leone, Liberia, Guinea Bissau e Costa d’Avorio,
ma sempre in operazioni di polizia.
Non
pare quindi adatta a concretizzare le minacce dell’Ecowas, che stanno comunque
facendo effetto sul generale golpista “Tchiani”.
A
Niamey è infatti nato un nuovo governo a guida civile, ma con due generali nei
dicasteri chiave della Difesa e degli Interni.
La
Francia è sempre più sola a spingere per l’intervento militare e adesso lo fa
per bocca del presidente ivoriano “Alassane Ouattara”, un vero fedelissimo di
Parigi.
La
Costa d’Avorio si è detta pronta a mettere a disposizione 1000 soldati, ora
sono i nigeriani a frenare.
Gli
Stati Uniti stanno cercando una via della trattativa e hanno già mandato il
vice-segretario di Stato per cercare un contatto, mentre i vertici dell’Ecowas
stanno cercando un concreto appoggio da parte dell’Unione Africana e anche
delle Nazioni Unite, sintomo di un’azione sempre più difficile è che viaggia
verso una vera e propria burocratizzazione.
Tutto
mente si sta spaccando anche il fronte dell’Unione Europea con Italia e
Germania che, dopo aver chiesto più volte di estendere l’ultimatum, ora
vogliono seguire la via diplomatica.
Intanto la giunta nigerina inasprisce la presa
sul paese con nuove manifestazioni di sostegno e la creazione di brigate per
soffocare ogni dissenso.
Mentre
la Wagner continua ad osservare con malcelato interesse.
(Matteo
Giusti)
Com’è
cambiato il sistema di
potere
in Ucraina dopo l’invasione russa.
Valigiablu.it
– (30 Dicembre 2022) - Oleksiy Bondarenko – ci dice:
L’invasione
russa non ha solo trasformato il panorama politico internazionale, ma anche
radicalmente alterato l’equilibrio di potere all’interno dell’Ucraina stessa.
Molti
degli osservatori, infatti, sono rimasti stupiti dalla sorprendente unità che
l’élite politica ed economica del paese ha mostrato sin dai primi giorni di
guerra.
Con la
concreta minaccia dell’esistenza stessa del paese, molte delle intestine lotte
di potere che da sempre caratterizzano la politica ucraina sembrano passate in
secondo piano.
I carri armati russi non hanno portato a
defezioni di massa da parte degli uomini di potere locali, nonostante alcune
eccezioni soprattutto a sud (nella Kherson liberata in questi giorni, ad
esempio).
Anche
i governatori e i potenti sindaci di città come Kharkiv, Odesa e Dnipro, che
non erano in buoni rapporti con il potere centrale e spesso considerati come
filo-russi, hanno opposto resistenza all’invasione, aiutando di fatto Kyiv a
mantenere il controllo su queste regioni.
Sin
dalle prime settimane di guerra, infatti, l’amministrazione presidenziale di
Zelensky e il ristretto gruppo di uomini intorno al presidente è diventato
l’unico centro di potere nel paese.
Quest’unità
ha di fatto permesso a Zelensky di risolvere molti dei personali problemi
politici che hanno caratterizzato la sua presidenza fino all’inizio
dell’invasione.
A nove
mesi da quella mattina del 24 febbraio, infatti, in pochi ricordano come prima
della guerra la posizione del presidente fosse piuttosto precaria.
Un
consenso personale in costante calo, che si attestava intorno al 20%, numerose
defezioni, lotte di potere all’interno della sua squadra di governo e un
travagliato processo di “de-oligarchizzazione”.
Proprio lo scontro con alcuni degli uomini più
potenti del paese era diventato il principale grattacapo per il presidente che
nel novembre 2021 aveva firmato la legge N. 1780-IX, volta a limitare
l’eccessiva influenza degli oligarchi.
All’epoca
della sua approvazione la legge fu criticata per la sua vaga definizione di
“oligarca” e per il fatto che tramite il controllo sull’organo preposto a
stilare la lista di oligarchi (il Consiglio per la Sicurezza e la Difesa
Nazionale) il presidente avrebbe esercitato un’eccessiva influenza sul processo
portando anche ad accuse di autoritarismo.
Dall’inizio
dell’invasione russa tutti questi problemi sembrano scomparsi.
Il
consenso verso Zelensky è schizzato alle stelle, attestandosi intorno al 90%.
I suoi rivali, come l’ex presidente
Poroshenko, e i vari oligarchi che da sempre hanno un’influenza sostanziale
sulla vita politica del paese si sono ritrovati indeboliti economicamente e
politicamente, mentre le forze di opposizione e influenti personalità che
avevano una posizione piuttosto morbida nei confronti della Russia sono state
definitivamente screditate.
Tutto
questo, però, non è avvenuto per caso.
Oltre all’impatto politico e sociale
dell’invasione russa, infatti, la politica ucraina negli ultimi nove mesi è
stata caratterizzata da un accentramento di potere da parte
dell’amministrazione presidenziale.
Una
politica che per molti è naturale e giustificata dallo stato di guerra, ma che
alcuni, tra cui il partito dell’ex presidente Poroshenko e alcune testate
giornalistiche come Ukrainska Pravda, hanno iniziato a guardare con sospetto
temendo le conseguenze che il consolidamento di una rigida gerarchia di potere
potrebbe avere a lungo termine.
Narrazione
di guerra a reti unificate.
In
campo mediatico, la figura di Zelensky e dei suoi più vicini collaboratori ha
da subito suscitato l’interesse del pubblico internazionale.
Già lo scorso maggio la rivista britannica “Time”
designava il presidente ucraino come uno degli uomini più influenti del pianeta.
Sul
piano interno il consolidamento della sua figura in tempo di guerra è stato
reso possibile anche grazie al monopolio mediatico.
Già
qualche giorno dopo l’inizio dell’invasione, infatti, le principali emittenti
nazionali hanno iniziato a trasmettere notizie a reti unificate.
Sono
così scomparsi programmi politici e di dibattito (come i famosi talk-show),
mentre il contenuto delle trasmissioni che vanno in onda sarebbe, per ora solo
informalmente, monitorato dal ministero della Cultura e dell’Informazione e
direttamente dall’amministrazione presidenziale.
Sullo
sfondo delle drammatiche notizie dal fronte è passato quasi inosservato il
fatto che i tre canali legati all’ex presidente e principale rivale politico di
Zelensky, Petro Poroshenko, siano stati privati della licenza e dalla scorsa
estate non possano più andare in onda (rimangono visibili solo online).
Le motivazioni per questa decisione sono
rimaste piuttosto vaghe e il Comitato per il Broadcasting, Radiocomunicazioni e
Televisione (l’organo competente) non ha fornito motivazioni ufficiali,
scaricando la responsabilità sul Consiglio per la Sicurezza e la Difesa
Nazionale.
Lo
stesso portavoce del presidente, Mikhail Podolyak ha affermato che la causa
sarebbe il “narcisismo” di Poroshenko che avrebbe usato i canali televisivi per
promuovere la sua figura durante la guerra.
Fatto
che ha suscitato critiche da parte dell’opposizione, tanto che l’ex
ambasciatore negli Stati Uniti (2015-2019) ha parlato direttamente di “censura
politica”.
Non
sorprende quindi che anche quello che è considerato l’uomo più ricco del paese,
il famoso
oligarca Rinat Akhmetov, abbia deciso di disfarsi dei suoi ingenti asset mediatici.
“Akhmetov” è stato uno dei cardini nel
sostegno iniziale ai movimenti separatisti a Donetsk e Lugansk (mentre in altre
regioni come Kharkiv e Dnipropetrovsk l’élite locale si era opposta a tali
scenari) per poi tornare sui suoi passi.
Incapace di vendere il suo “Media Group
Ukraine” (che include alcuni dei canali televisivi più seguiti del paese come
Ucraina 24) a causa della guerra, perdendo il controllo sui contenuti trasmessi
e messo alle strette dalla “legge contro gli oligarchi” del 2021, “Akhmetov” ha
di fatto ceduto allo Stato il suo impero mediatico.
Addio
decentralizzazione?
Nei
primi mesi di guerra la centralizzazione del potere nelle mani del presidente
non ha provocato reazioni contrariate da parte dell’opinione pubblica e delle
élite.
Secondo
alcuni sondaggi dello scorso agosto, ad esempio, circa il 62% degli ucraini considerava
inammissibile anche una “critica costruttiva” delle azioni delle massime
autorità dello Stato.
Il 79% inoltre riteneva che durante la guerra
il presidente dovesse avere il potere d’ingerenza sull’attività del parlamento
e del governo per rafforzare la difesa del paese.
Nelle
prime settimane di guerra l’abolizione da parte del “Consiglio per la Sicurezza
e la Difesa Nazionale” di tre partiti politici considerati dalle autorità e
parte della società come filo-russi, il più grande dei quali, “Piattaforma di
Opposizione - Per la Vita”, non aveva suscitato grande opposizione e risonanza
mediatica.
Secondo
i sondaggi precedenti all’inizio dell’invasione queste forze politiche
rappresentavano circa il 20% dell’elettorato del paese.
Con il
protrarsi della guerra, però, piccole crepe all’interno dell’unità tra l’élite
del paese sono lentamente iniziate a riemergere.
Con ingenti risorse e aiuti internazionali che
continuano a fluire verso l’Ucraina, ad esempio, la tensione tra
l’amministrazione presidenziale e le autorità locali è tornata a crescere.
Secondo numerose fonti, tra cui il “Washington
Post”, la centralizzazione del potere e delle risorse economiche durante la
guerra sta ora provocando un crescente risentimento da parte delle autorità
locali che si sono trovate in prima linea nell’organizzare la difesa e la
ricostruzione delle proprie città.
Allo scoppio
della guerra, infatti, “Kyiv” aveva creato una serie di amministrazioni
militari regionali subordinando di fatto i governi locali al presidente.
Tra le
personalità più critiche nei confronti di Zelensky, ci sono non a caso le
autorità locali che prima del conflitto godevano di un certo livello di
autonomia informale nella gestione delle politiche e delle risorse, come il
sindaco di Dnipro, Boris Filatov.
Proprio
Filatov nella sua intervista al quotidiano americano aveva parlato delle
“tendenze autoritarie” che si starebbero sviluppando durante il conflitto,
lamentando notevoli passi indietro nel processo di decentralizzazione e
distribuzione delle risorse economiche.
Le
speculazioni secondo le quali la scorsa estate uomini vicini a” Filatov”, come l’”oligarca
Kolomoisky” e il suo vecchio alleato “Korban”, fossero stati privati del loro
passaporto ucraino rientrano nel quadro della crescente tensione tra il
presidente e le autorità locali.
Infatti,
pur controllando tramite il proprio partito (Servo del Popolo) il parlamento, il potere del
presidente sulle autorità locali era rimasto limitato.
Le
elezioni locali del 2020 avevano restituito un quadro molto più disomogeneo a
livello regionale, dove peculiarità locali e il vecchio sistema clientelare
avevano continuato a giocare il proprio ruolo.
Le maggiori città, soprattutto a sud e est del paese,
erano rimaste nelle mani dei potenti attori locali che, ora che lo shock
iniziale dell’invasione russa sta scemando, sembrano essere disposti ad opporre
una maggiore resistenza al popolare leader pur di mettere le mani sui flussi
economici che portano con sé i vari progetti di ricostruzione pianificati dal
governo e finanziati dai partner internazionali.
Una
‘de-oligarchizzazione’ definitiva?
La
guerra ha indubbiamente accelerato anche il processo di “de-oligarchizzazione”,
anche se rimane piuttosto difficile capire fino a che punto esso possa
consolidarsi nel lungo periodo.
Oltre
alla perdita dell’influenza politica, dovuta alla centralizzazione dell’apparato
mediatico, l’invasione russa, infatti, ha direttamente colpito le fondamenta
del potere economico degli oligarchi.
“
Rinat Akhmetov” ha perso il controllo su parte del suo patrimonio in Donbas,
come l’impianto metallurgico “Azovstal'” (il più grande produttore di acciaio
del paese) e lo stabilimento intitolato a ‘Illič’, entrambi a Mariupol ed
entrambi finiti sotto controllo russo.
Altri influenti oligarchi, come “Dmytro
Firtash” e” Ihor Kolomoisky”, hanno visto molte delle loro attività danneggiate,
come la raffineria di “Kolomoisky” a “Kremenchuk” e lo stabilimento chimico “Azot
“di “Firtash” a “Sievierodonetsk”.
Un
caso a parte è rappresentato da “Viktor Medvedchuk”, da molti considerato come
‘portavoce’ di Putin in Ucraina.
Arrestato
all’inizio della guerra, a settembre “Medvedchuk” è stato spedito a Mosca in
cambio di numerosi prigionieri di guerra ucraini che erano finiti nelle mani
delle forze russe.
Il
processo di “de-oligarchizzazione”, infine, va inserito nello specifico contesto del
travagliato processo di sviluppo del pluralismo politico in Ucraina.
Per
quanto possa sembrare paradossale, se da una parte l’influenza degli oligarchi
ha per decenni minato il processo di riforma del sistema economico e politico
del paese, dall’altra è stata anche una garanzia informale contro il
concentramento del potere nelle mani di un singolo gruppo o personalità.
Il
consolidamento di vari gruppi (spesso chiamati anche “clan”) – e i loro spesso
contrastanti interessi economici e politici – è stato uno dei meccanismi (di
certo non l’unico) che ha permesso all’Ucraina di evitare il destino che ha
colpito la Russia e la Bielorussia, dove la lotta per il potere dopo la
disgregazione dell’Unione Sovietica aveva portato al consolidamento di un unico
gruppo dominante (incentrato sulla figura del presidente).
Anche
così si possono spiegare le due rivoluzioni di piazza nel giro di 10 anni
(rivoluzione arancione del 2004 e quella di Maidan del 2014) durante le quali,
oltre alla società civile, a giocare un ruolo importante è stato il supporto
mediatico e finanziario dato all’opposizione da parte dei cosiddetti “oligarchi”.
Lotta
alla corte del presidente.
A fare
scalpore sul piano interno qualche mese fa è stato infine il licenziamento del
capo dei Servizi di Sicurezza (SBU),” Ivan Bakanov”, e del Procuratore
generale, “Iryna Venediktova”.
Lo
scandalo non ha solo aperto una finestra sulla dubbia fedeltà di alcuni membri
delle forze di sicurezza, ma anche su alcune delle dinamiche interne
all’amministrazione presidenziale.
Bakanov, infatti, era da sempre considerato
come una delle personalità più vicine a Zelensky.
Suo
amico d’infanzia e successivamente partner economico, agli albori della
carriera politica di Zelensky, Bakanov era considerato il suo braccio destro,
tanto che il partito creato in prossimità delle vittoriose elezioni
presidenziali era stato legalmente registrato proprio a suo nome.
Secondo
quanto riportato nei “Pandora Papers”, Bakanov era anche l’intestatario di
numerose società offshore legate al presidente.
Pur
senza aver alcun background in materia militare, proprio “Bakanov” fu nominato “capo
dei Servizi di Sicurezza” subito dopo l’inaugurazione della presidenza
Zelensky.
I tre
anni del suo operato a capo dei Servizi di Sicurezza, però, più che da una
radicale riforma delle corrotte e compromesse strutture del SBU sono stati
caratterizzati da scandali ed intrighi.
Secondo
alcune fonti, ad esempio, proprio” Bakanov” e “Venediktova” avrebbero
contribuito ad affossare alcuni dei casi investigati dell’Ufficio nazionale
anticorruzione (NABU) che coinvolgevano membri dell’amministrazione
presidenziali.
Non a caso i rapporti tra Zelensky e NABU,
creato dopo la rivoluzione di Maidan del 2014, sono rimasti piuttosto tesi fino
all’invasione russa e caratterizzati da svariati tentativi dell’amministrazione
presidenziale di estendere il proprio controllo sugli organi anti-corruzione.
Con lo
scoppio della guerra la posizione di “Bakanov” è diventata lentamente
insostenibile.
Il
caos dei primi giorni di guerra, infatti, aveva messo a nudo tutti i problemi
causati dal rallentamento del processo di riforma del “SBU” sotto la sua
gestione.
Una
serie di defezioni e le falle nell’organizzazione della difesa del fronte
meridionale avevano portato alla facile occupazione da parte delle forze russe
della regione di” Kherson” già nelle prime ore della guerra.
Nei mesi successivi, altri casi di defezione
avevano colpito direttamente Bakanov, tra i quali l’arresto, in Serbia, di”
Andriy Naumov” (che aveva con sé un milione di dollari in contanti) capo del
dipartimento degli affari interni del SBU la cui rapida ascesa all’interno
delle strutture di sicurezza corrispose proprio con la nomina di Bakanov.
L’arresto
con l’accusa di aver passato informazioni segrete ai russi dell’ex capo del SBU
in Crimea, nonché consulente personale di Bakanov,” Oleh Kulinich”, è stata
infine la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Il
rimpasto all’interno dei Servizi di Sicurezza e della Procura è anche un
segnale, seppur indiretto, del definitivo consolidamento di una delle diverse
fazioni all’interno dell’amministrazione presidenziale.
Ad
emergere come figura cardine alla corte di Zelensky è stato “Andriy Yermak”,
personalità in lenta ascesa sin dall’inizio della carriera politica di
Zelensky, divenuto capo dell’apparato presidenziale nel febbraio 2020.
Secondo
quanto riportato da “Ukrainska Pravda”, dopo che “Yermak” si era sbarazzato del
suo predecessore (Andriy Bohdan) e dell’influente Ministro degli Interni, “Arsen
Avako”v, Bakanov era rimasto l’ultimo baluardo al consolidamento della sua
fazione.
I due
infatti erano da tempo in competizione per diventare la figura più influente
all’interno dell’ufficio presidenziale.
La
guerra ha di fatto fornito un’opportunità.
Il
nuovo capo del SBU e il nuovo Procuratore, infatti, sarebbero personalità
legate proprio a “Yermak” che può ora contare sul controllo degli organi
giudiziari e dell’apparato di sicurezza.
Una figura che per Zelensky è diventata
insostituibile o quasi.
Il
futuro e la ‘militarizzazione’ della politica.
Con
l’indebolimento degli oligarchi e dell’opposizione politica, il consolidamento
del potere di Zelensky e l’accentramento del controllo sul sistema giudiziario
e sull’apparato di sicurezza, l’unica figura che può competere con il
presidente è oggi “Valerij Zalužnyj”, comandante in capo delle Forze armate.
Divenuto
estremamente popolare in patria e all’estero, negli ultimi mesi “Zalužnyj” è
entrato in contrasto con l’amministrazione presidenziale sulla gestione di
alcuni aspetti pratici della guerra.
Sebbene
il conflitto sia stato presto risolto, speculazioni inerenti a una crescente
rivalità tra il presidente e il comandante in capo hanno iniziato a trovare
crescente spazio nel dibattito pubblico.
Pur
negando ogni ambizione politica, la creazione da parte di Zalužnyj di una sua
fondazione di beneficenza sarebbe stata osservata con cautela dalla presidenza,
in quanto potrebbe rappresentare la base per un futuro progetto politico.
Anche
se le voci di una crescente rivalità appaiono oggi esagerate, l’apparato
militare e la figura di Zalužnyj rappresenta l’unica sfera sulla quale
l’amministrazione presidenziale non ha pieno controllo.
L’apparato
militare guidato da Zalužnyj, inoltre, appare oggi come l’unica istituzione in
grado di competere con il presidente in popolarità.
Secondo
alcuni sondaggi proprio le forze armate e la presidenza sono oggi le
istituzioni dello Stato che suscitano maggiore fiducia, rispettivamente il 96%
e il 82%.
Un
fattore che potrebbe pesare se il presidente venisse chiamato a fare difficili
scelte politiche.
La
capacità dell’Ucraina di sopravvivere alle bombe russe è certamente dipesa
dall’iniziale unità d’intenti dimostrata dalle massime istituzioni dello Stato.
Ed è
proprio la costante minaccia russa a rappresentare oggi il collante che,
nonostante le numerose divergenze, rende la progressiva centralizzazione del
potere accettabile per la popolazione, l’opposizione e i vari gruppi di potere.
Questi
elementi però convivono in un equilibrio precario e quello che sembra oggi un
inevitabile prolungamento della guerra potrebbe riportare alla superficie le
numerose contraddizioni e problemi politici interni che l’invasione ha
contribuito a modellare.
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