Dobbiamo rinunciare a combattere contro i nostri assassini.

 

Dobbiamo rinunciare a combattere contro i nostri assassini.

 

 

L’onnipotenza delle Big Tech:

come e perché gli imperi digitali

regneranno anche nel 2022.

Agendadigitale.eu – Redazione – (12-1-2022) - Lelio Demichelis-  ci dice:

 

Cultura E Società Digitali.

DIGITALE E DEMOCRAZIA.

Il potere delle Big Tech è sempre più forte e sempre più grande.

Lo è stato nel 2021 e lo sarà ancora di più nel 2022, per la reiterata assenza (per collusione, correità, complicità?) della politica a governare tale processo.

 Le contromisure e le leggi che servono.

Big tech.

Iniziamo prendendo spunto da un articolo dalla newsletter di “Shira Ovide”, uscito recentemente sul NYT e che ci induce a porci e a porre nuovamente una serie di questioni sempre più importanti e decisive per quanto riguarda libertà e democrazia, potere e governo/governance, demos e livelli di governo nella globalizzazione tecno-capitalista.

Big Tech invincibile?

Too big to fail?

E la democrazia?

Il golpe epistemico di Big Tech.

Prima nostra critica:

Big Tech invincibile?

“Shira Ovid”e pone poi la domanda:

 “Are American technology superpowers including Google, Amazon, Apple, Microsoft and Facebook invincible in a way that prior generations of corporate titans were not?”

La nostra risposta è sì, sono invincibili (e non solo quello americano è un super power tecnologico).

E lo sono perché ogni giorno il mondo va in pellegrinaggio fisico o virtuale, ma soprattutto mentale/devozionale alla Silicon Valley, considerando il Big Tech (che non è appunto e ovviamente solo nella Silicon Valley), come il nuovo che avanza e che non si deve fermare, a prescindere dai suoi effetti sociali e ambientali – e basta vedere come ogni giorno i mass/social media siano propagandisti compulsivi del digitale e della digitalizzazione, nel senso proprio della propaganda:

 non più quella funzionale alle ideologie politiche del Novecento, ma all’ideologia del tecno-capitalismo nella sua versione digitale e che, come tutte le forme di propaganda del passato si basa sullo stimolo basato su parole-chiave, su immagini chiave e sulla ripetizione delle stesse fino a plasmare e a stabilizzare emotivamente la risposta del pubblico;

ovviamente escludendo a priori dalle loro pagine (quasi) ogni spirito critico e ogni pensiero pensante e riflessivo (e quindi – ad esempio – favoleggiano di una rivoluzionaria Fabbrica 4.0 che in realtà, lo dimostrano le ricerche sul campo, è solo il vecchio taylorismo, anche se digitalizzato, ma che deve essere presentato/propagandato alla credulità del pubblico come nuovo/innovativo/cambio di paradigma, anche se non lo è).

Lo è (invincibile) il Big Tech perché è stato offerto alla nostra credulità come qualcosa di libero e di democratico (ancora la propaganda, o lo storytelling del tecno-capitalismo), quando in realtà non lo era e soprattutto non lo può essere, se non distruggendo sé stesso;

se non riducendo i suoi margini di profitto;

se non precludendosi la capacità/possibilità di estrarre profitto crescente dalla profilazione/spionaggio/plus lavoro di massa, cioè dalla sua capacità/possibilità, grazie alle nuove tecnologie (e mai il capitale era arrivato a tanto, mai era stato così sfruttatore dell’uomo) di mettere a profitto per sé non solo il lavoro (come nella fabbrica fordista-taylorista novecentesca), ma appunto la vita intera dell’uomo, quindi emozioni, relazioni, socialità, conoscenza, passioni…tutto venendo industrializzato e mercificato, tutto divenendo capitalismo e tecnica, tutto traducendosi in profitto privato.

Lo sono (invincibili) le imprese del Big Tech perché ormai sono esse stesse il nuovo potere (il Potere, richiamando Pasolini) che governa il mondo, senza più necessità di avere lo stato come sua sovrastruttura di legittimazione.

 Oggi, appunto lo stato diventa non solo piccolo, piccolo davanti al grande Potere del Big Tech – e comunque davanti al Potere dell’impresa multinazionale (lo hanno dimostrato i cosiddetti Grandi della terra che alla recente “Cop 26” si sono fatti appunto piccoli, piccoli davanti al Potere dei Big delle energie fossili) – ma è incapace non solo di smontare quell’oligopolio che hanno lasciato crescere (ancora: correità, collusione, complicità?), ma neppure di immaginare possibile questo smontaggio, limitandosi a interventi spot.

Lo sono (invincibili) perché noi tutti crediamo (siamo indotti/ingegnerizzati a credere) che la tecnologia sia un bellissimo giocattolo, dimenticando che un social e un videogioco non sono come il vecchio meccano o come il vecchio piccolo chimico, ma sono fabbriche dove ciascuno di noi è messo al lavoro per profitto privato del capitale che ci fa giocare con social e videogiochi e intelligenza artificiale – e oggi con “Metaverso”.

 

Too big to fail?

Lo sono (invincibili) perché  il Big Tech è così grande come mai nessun altro “corporate titan” della storia.

 Troppo grande per poter essere regolamentato dalla politica, soprattutto da una politica che sia democratica.

 Too big to fail, di nuovo, e questa volta parlando non di finanza e banche, ma di imprese tecnologiche.

Il risultato è il medesimo: l’impotenza della democrazia e del cittadino.

Lo sono (invincibili) perché  abbiamo totalmente introiettato l’ideologia del tecno-capitalismo (tecnologia di rete e neoliberalismo – in realtà è positivismo), per cui non dobbiamo essere soggetti consapevoli e capaci di immaginare e poi costruire la nostra società, ma dobbiamo solo adattarci (e farlo sempre più velocemente secondo i tempi-ciclo di adattamento imposti, altrimenti detti flessibilità) al mercato e alle esigenze della rivoluzione industriale.

 E il libero arbitrio, la responsabilità, la riflessione, l’etica?

 Tutti intralci al funzionamento della macchina tecno-capitalista, che ci inonda di stimoli per avere da noi le risposte richieste in termini di efficienza e di nostri automatismi comportamentali e funzionali.

Da due secoli siamo sempre dentro al positivismo nelle sue diverse declinazioni filosofiche (empirismo, pragmatismo, neopositivismo, soluzionismo, neoliberalismo, Silicon Valley);

e se Comte e Saint-Simon dicevano nell’Ottocento che società e industria sono (devono essere) la stessa cosa, ebbene oggi il loro delirio sembra essersi compiutamente realizzato.

E la democrazia?

E tutto questo ci riporta dunque ancora una volta al tema – oggetto di questa e di molte nostre precedenti riflessioni, anche su queste pagine – al tema della democratizzazione dei processi di innovazione tecnologica.

 E lo facciano richiamando “Luciano Gallino “– che al tema del rapporto (conflitto?) tra impresa/tecnologia e democrazia aveva dedicato anche un libro importante – e poi “Shoshana Zuboff”, famosa per il suo saggio sul “Capitalismo della sorveglianza.

Scriveva Gallino, nel 2011, sulle pagine di MicroMega:

 “La democrazia, si legge nei manuali, è una forma di governo in cui tutti i membri di una collettività hanno sia il diritto, sia la possibilità materiale di partecipare alla formulazione delle decisioni di maggior rilievo che toccano la loro esistenza. […] e viene naturale includere diversi aspetti attinenti all’economia o ad essi strettamente correlati”.

E invece, oggi

 “la grandissima maggioranza della popolazione è totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si prendono” nei settori dell’economia, di fatto espropriati e alienati dalla democrazia, per l’azione di quel soggetto che si chiama grande impresa, industriale o finanziaria, italiana o straniera che sia.

“Il fatto nuovo del nostro tempo è che il potere della grande impresa di decidere a propria totale discrezione che cosa produrre, dove produrlo, a quali costi per sé e per gli altri [pensiamo al caso della Gkn di Campi Bisenzio], non soltanto non è mai stato così grande, ma non ha mai avuto effetti altrettanto negativi sulla società e sulla stessa economia”.

Richiamando F. D. Roosevelt – che nel 1938 si dichiarava preoccupato non solo perché l’impresa privata creava sempre meno occupazione e accentuava le disuguaglianze sociali, ma perché era una minaccia per la stessa democrazia esercitando un potere più forte e condizionante dello stesso stato –

Gallino aggiungeva: ormai

“la preoccupante visione di Roosevelt si è pienamente avverata” –

e oggi molto di più.

E chi ha avuto la peggio, continuava, “sono stati i lavoratori americani. […] Ma non risulta che quei lavoratori abbiano avuto la minima possibilità di far sentire la loro voce e meno che mai di intervenire con qualche efficacia in decisioni che sconvolgevano la loro esistenza, le loro famiglie, la loro comunità.

Pertanto, è davvero arduo capire come il caso americano ci possa venire solennemente presentato, da manager e politici italiani come una forma di modernizzazione delle relazioni industriali [e dei processi di innovazione]. E ancora più arduo è capire […] come, in Italia, tra le file dell’opposizione non si sia levata una sola voce per rilevare che il potere esercitato dalle corporation sulle nostre vite configura un deficit di democrazia da costituire ormai il maggior problema politico della nostra epoca”.

 

Il golpe epistemico di Big Tech.

Tralasciamo di citarci (del tema abbiamo scritto libri nel 2015, 2018, 2020, 2021) e veniamo a “Shoshana Zuboff”.

Che in un recente articolo uscito sul NYT e ripreso in Italia da “Linkiesta.it” scrive:

“Il potere delle aziende private non è più solo economico, ma anche sociale. Io ho definito le forme economiche che stanno alla base di questo potere capitalismo della sorveglianza perché mantengono elementi centrali del capitalismo tradizionale – la proprietà privata, la quotazione in Borsa, la crescita e il profitto – ma non potrebbero esistere senza le tecnologie proprie del XXI secolo e delle relazioni sociali improntate alla sorveglianza.

Metodi occulti di osservazione divorano le esperienze private e le trasformano in dati sui comportamenti.

 Con un passaggio rapidissimo questi dati, che sono generati dalle persone e che sono stati acquisiti in modo discutibile, sono immediatamente reclamati come proprietà dell’azienda e possono quindi essere utilizzati per aiutare la produzione e la vendita.

Questi dati possono essere elaborati per fare previsioni sui comportamenti umani e sono venduti a clienti che operano in un nuovo tipo di mercato in cui si commercia in informazioni che aiutino a individuare in anticipo quali possano essere i comportamenti delle persone.

 È un mercato delle materie prime con futures umani”.

E aggiunge:

 “In una civiltà dell’informazione come la nostra c’è anche un ordine sociale derivato dalle questioni essenziali della conoscenza, dell’autorità e del potere che si basano sul possesso di dati.

 E se non ricordate questo, tenete allora a mente tre domande determinanti:

Chi sa? Chi decide chi sa? Chi decide chi decide chi sa?

 Oggi le aziende del capitalismo della sorveglianza, e in primo luogo i giganti tech, detengono le risposte a ciascuna di queste domande.

Non abbiamo votato queste aziende perché governassero.

Ma, grazie alla forza derivante dalla loro rivendicazione dei diritti di proprietà, gli imperi privati della sorveglianza hanno di fatto compiuto un golpe epistemico e antidemocratico.

Con questo intendo una rivoluzionaria presa del potere, con cui si sono appropriati del sapere e degli strumenti per l’acquisizione del sapere.

 I giganti tech decidono che cosa si sa, chi può saperlo e con quale obiettivo”.

E ancora:

 “Il capitalismo della sorveglianza è la gabbia di ferro dell’era digitale.

 E, mentre la democrazia dormiva, gli è stato consentito di possedere, manovrare e mediare l’ambiente digitale.

[…] L’istituzione economica del capitalismo della sorveglianza è lo scenario unificato davanti al quale i danni antidemocratici che fronteggiamo si stagliano non come tanti fenomeni isolati ma come effetti, relazionati fra loro, di una sola causa. […]

Il suo scopo è allontanare le persone dai governi, sostituire la società con sistemi computazionali e installare un governo computazionale al posto della democrazia”.

“Zuboff “è comunque moderatamente ottimista:

“Dobbiamo approvare delle leggi che proteggano e promuovano i diritti dei molti contro gli interessi economici dei pochi.

Noi affermiamo che il nostro destino non è diventare una distopia basata su sorveglianza, controllo e certezze ingegnerizzate a vantaggio dell’altrui ricchezza e potere.

Noi affermiamo che non abbiamo dimenticato e non dimenticheremo che ogni generazione è chiamata a lottare per prolungare la durata della migliore idea che l’umanità abbia mai avuto [la democrazia e quindi la libertà] e per darle nuova vitalità”.

Non facile, per le cose dette più sopra.

 Ma doveroso è provarci – prima di dover entrare anche nel “Metaverso” a prescindere da una nostra decisione, da una nostra volontà consapevole, al solo scopo di accrescere ancora di più i profitti di “Mark Zuckerberg”.

(nytimes.com/2021/12/22/technology/big-tech.html)

 

 

 

Il governo populista pensa a

un bel decreto sicurezza: la

retorica tutta spot nel Paese

record di sbarchi.

  ilriformista.it - Claudia Fusani — (10 Agosto 2023) – ci dice:

Il governo è in cerca di risposte urgenti, possibilmente reali, a svariati problemi. Per ora, però, hanno tutte il sapore vago del populismo.

Al caro-vita si risponde con il patto anti-inflazione per calmierare i prezzi:

forse in ottobre e se parteciperanno i produttori, vedremo.

 Al caro-mutui si pensa di rispondere con una norma pasticciata, non condivisa e che ha giù mangiato 9 miliardi in borsa che andrà a tassare gli extraprofitti delle banche.

Al disservizio costante e perenne dei taxi si risponde con una norma che cambia poco o nulla ed è frutto dei diktat della lobby dei tassisti.

 All’immigrazione fuori controllo – 94 mila sbarchi dal primo gennaio, mai così tanti negli ultimi sette anni – e che sta generando molta tensione nei territori e tra i sindaci soprattutto di destra, si risponde con l’ennesimo pacchetto sicurezza che avrà al centro “una stretta definitiva sui rimpatri di chi non ha diritto a restare in Italia”.

Come? Per fortuna a nessuno a palazzo Chigi è ancora venuto in mente l’opzione navi-galleggianti o isole in mezzo all’oceano pensata dall’amico premier inglese Richi Sunak.

 La Meloni’s way – abbandonato il muro navale – è aprire Centri per il rimpatrio in ogni regione, anche più d’uno per regione.

Una soluzione copiata pari, pari da Marco Minniti, ex ministro dell’Interno del governo Gentiloni.

Correva l’anno 2017.

 Da allora l’opzione Cpr è rimasta lettera morta.

Per un motivo soprattutto: i presidenti di regione e i sindaci, di destra e di sinistra, non vogliono avere i Centri nei propri territori perché sono calamite di guai, tensioni e malumori.

Perché mai, quindi, dovrebbe cambiare qualcosa adesso?

Eppure di questo hanno parlato lunedì sera, dopo il Cdm, la premier Meloni e il ministro Piantedosi.

“Dobbiamo risolvere questo problema, gli sbarchi aumentano e i territori, anche quelli governati dai nostri, non reggono più.

 Serve un segnale forte, Matteo (Piantedosi, ndr) trovalo”.

I Cpr sono luoghi dove trattenere, contro la loro volontà e in base ad una norma amministrativa, gli stranieri irregolari, recidivi – specie su reati di violenza – che non possono stare in carcere ma neppure in Italia.

Il caso del nigeriano – con precedenti per danneggiamento, espulso più volte ma ancora in Italia – che ha aggredito e poi ucciso la sessantenne Iris Setti a Rovereto, è solo l’ultimo di una serie sempre più lunga.

Il nuovo pacchetto sicurezza – il primo atto del governo Meloni un anno fa fu il decreto rave (di cui non sono note stime circa la sua applicazione) – prevede il rafforzamento di uomini e mezzi per le forze dell’ordine e anche della polizia locale.

 Fin qui tutto facile se ci fossero i soldi che al momento non ci sono.

 Poi pene più dure per chi compie aggressioni, per combattere la piaga delle baby gang e della violenza minorile.

 Infine qualcosa per rendere effettive le espulsioni. O meglio: i rimpatri.

 Quanto meno per impedire ai più pericolosi di stare fuori, liberi di circolare, in attesa di giudizio o di una espulsione che non arriverà mai.

 Nwekw Chukwuka, il nigeriano di 37 anni che aggredito e ucciso la sessantenne Iris a Rovereto, non tornerà mai in Nigeria.

A meno che non cambi la natura della reciprocità degli accordi legali con il governo locale.

E con tutti gli altri paesi africani da cui originano maggiormente i flussi in arrivo in Italia e poi in Europa.

Questo è il punto.

Ed ecco quale sarebbe il vero piano Mattei.

I Cpr non possono essere per loro natura una soluzione.

Sono un pezzo della soluzione che comprende molto di più

. Ma per restare alle formule populistiche (“l’ordine – si spiega al Viminale – è rafforzare i Cpr”) bisogna sapere che oggi in Italia i Centri per il rimpatrio attivi sono solo dieci in otto regioni e garantiscono un totale di 1100 posti.

Sono ospitati in otto regioni su venti, Calabria e Sicilia ne hanno già due.

Il Centro più grosso è quello di Roma (200 posti).

La previsione di farne tanti, anche due o tre in ogni regione per evitare grossi assembramenti più difficili da gestire, è rimasta lettera morta dal 2017.

Lo stesso Salvini preferì concentrarsi sui porti chiusi perché sapeva che chiedere ad un sindaco o un governatore di aprire un centro nel proprio territorio significava, allora come oggi, incassare No secchi e proteste.

Il problema è che non si capisce come oggi il ministro Piantedosi possa riuscire a convincere sindaci e governatori ad ospitare i Centri.

Già adesso, lontano dalle pagine dei giornali, dai notiziari di siti e dai talk show che non se ne occupano più, i sindaci protestano e mandano indietro (nel senso che li riportano in prefettura) i migranti sbarcati in Italia, entrati nel sistema di accoglienza e distribuiti in giro per l’Italia dal Commissario per l’emergenza migranti Valerio Valenti.

 Va anche detto che il sistema di accoglienza è ridotto al lumicino, smantellato dai decreti Salvini.

Così i migranti vagolano per le città, le campagne, si arrangiano come possono e sempre più spesso finiscono per delinquere.

 Per necessità e disperazione.

Si attendono risposte concrete ed efficaci.

 Nel frattempo in mare si è consumata l’ennesima tragedia: un barchino si è ribaltato ed è affondato mentre stava navigando nel Canale di Sicilia.

 Il bilancio è drammatico: 41 morti, tra cui tre bambini.

Il nuovo pacchetto sicurezza sarà quindi solo la solita propaganda.

Merce buona per la campagna elettorale per le europee.

E per tenere buono il proprio elettorato e il socio Salvini.

(Claudia Fusani)

 

 

 

 

 

Mercati e Big Tech sono i nuovi poteri

assoluti del mondo: ecco i rischi.

Agendadigitale.eu – Lelio Demichelis – (25-1-2022) – ci dice:

 

DOV'È IL POTERE.

Cultura e Società Digitali.

A differenza del passato, oggi la politica è subordinata, come mezzo, all’economia e alla tecnologia, diventate il fine di sé stesse.

Abbiamo un enorme problema di democrazia.

Ma non lo vediamo.

Serve lo Stato contro un capitalismo che mai è stato bello, e oggi lo è ancor meno.

Cos’è il potere?

Dov’è il potere – anzi, il Potere, usando Pier Paolo Pasolini?

Non tanto il potere politico – quello sembra facile da identificare, ha dei nomi di persona (Biden, Draghi, Lagarde, Putin) oppure rimanda a Istituzioni specifiche (la Ue, il Parlamento, il Governo, il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale della sanità – Oms) – quanto ciò che, a monte, determina le reali forme del Potere e i modi con cui si esprime e si esercita su di noi: cioè, qual è il Potere che governa la vita delle persone, ovvero, usando Michel Foucault, “conduce le condotte umane” in una direzione piuttosto che in un’altra.

La questione è antica, volendo potremmo risalire a Platone e ad Aristotele e alle loro distinzioni tra democrazia, oligarchia, governo degli uomini o governo delle leggi, democrazia formale e sostanziale, eccetera, eccetera.

Ma rapportando la questione all’oggi, non possiamo non riconoscere che il potere dell’economia e della tecnologia (antidemocratici per essenza propria) è più forte del potere politico e della democrazia, è potere assoluto in quanto non bilanciato da altri poteri equi-valenti ed equi-potenti.

Qui vogliamo quindi ricordare alcuni elementi che ci permettono di definire i diversi livelli di governo (di Potere) oggi esistenti, la loro struttura gerarchica e il loro rapporto con la democrazia, la sovranità, la libertà e l’autonomia delle persone – e il demos (i cittadini) titolare del potere in demo-crazia.

Non senza aggiungere che da sempre il potere corrompe chi lo pratica, che viene usato per corrompere (qualcun ricorda Mani pulite?), che spesso il popolo ama chi corrompe ed ama essere ingannato (cioè corrotto mentalmente e politicamente) dal potere (pensiamo a Trump e a quel 50% di americani che lo hanno votato e lo rivoterebbero).

Sul tema della corruzione è recentemente uscito un nuovo libro dal titolo inequivocabile, “Corruptible: Who Gets Power and How It Changes Us” (Scribner Book Company), di Brian Klass, columnist del Washington Post e basato su 500 interviste a uomini di potere.

Qui però useremo il concetto di corruzione e il processo del corrompere nel senso di “disfacimento, deterioramento materiale ma soprattutto morale” (Dizionario etimologico della lingua italiana – Zanichelli) e faremo una rilettura/interpretazione del potere concentrandoci sul macro-contesto entro il quale, oggi, si muovono o possono muoversi i diversi livelli di governo a scala nazionale, sovra-nazionale e locale, pre-determinandone (corrompendone) l’azione e gli effetti.

Questo macro-contesto è dato dal neoliberalismo, egemone nel mondo da quarant’anni a questa parte (è l’ideologia trionfante dopo la morte delle ideologie novecentesche) a dispetto di tutti i suoi fallimenti e del suo intrinseco nichilismo (possiede una potentissima e patologica coazione a ripetersi), sommato con le tecnologie di rete e con chi le possiede (e con la religione tecno-capitalista che esprimono, con il feticismo e il catechismo tecnofilo che producono).

 Macro-contesto ideologico e tecnologico che ha profondamente modificato i livelli di governo esistenti prima degli anni ‘80.

Corrompendo in altro modo la società e la polis, corrompendo la democrazia, il concetto di libertà e imponendosi come modo di vivere/way of life tecno-capitalista sul mondo intero – la globalizzazione e la rete come espressione di questo meta-contesto a-democratico e impostosi come un dato di fatto.

Prima però, una distinzione: il governo è la struttura istituzionale/politica – articolata su diversi livelli – “che ha ottenuto il potere di scegliere, decidere e attuare politiche pubbliche.

Nei sistemi democratici questo è ottenuto attraverso elezioni libere e la presentazione di programmi politici” (Bobbio-Matteucci-Pasquino, Il Dizionario di politica – Utet).

All’opposto accade nei sistemi autoritari o tecnocratici.

Diverso è invece il concetto di governo inteso come governare – ossia come attuare un determinato programma politico, scelto dal demos oppure imposto al demos.

 E ancora diverso è capire dov’è oggi il potere capace di governare, posto che non è più nel governo-istituzione democratica, ma non si sa bene dove sia.

 Ci aveva provato, con ottimi risultati di analisi, il francese Michel Foucault (1926-1984) che definiva con governamentalità/biopolitica il modo con cui il potere (non necessariamente lo stato) guida e dirige appunto le condotte umane in un senso voluto dal potere, rendendo ciascuno utile e docile verso il potere – e il neoliberalismo era per Foucault una di queste forme di governamentalità/biopolitica (infra, Lippmann), che qui definiamo come macro-contesto e che altrove abbiamo definito come una delle forme di human engineering succedutesi nel corso della storia e soprattutto nel Novecento.

Cosa si intende per democrazia?

“Nella democrazia, l’agire politico non solo è pubblico, ma deve essere reso pubblico, messo sotto gli occhi del pubblico; e lo è in due sensi: perché volto ad occuparsi di problemi che direttamente o indirettamente riguardano e condizionano tutti; e perché deve essere reso chiaro, giustificato e aperto al pubblico, esposto sempre al giudizio dei cittadini, i quali, in quanto corpo sovrano, hanno due poteri: quello di autorizzare con il voto e quello di giudicare e controllare perpetuamente, prima o dopo aver votato, coloro che hanno autorizzato” a governarli (Urbinati, Liberi e uguali, Laterza).

Ovvero, nella democrazia, aggiungeva il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, ci si deve poter attivare, mentre nelle altre forme politiche si è invece attivati da qualcuno/qualcosa di esterno.

 L’essenza della democrazia è infatti in questa possibilità e capacità di ciascuno di attivarsi, cioè di pensare, fare, partecipare, decidere liberamente: senza questa possibilità e capacità, non c’è democrazia. Perché, ancora Zagrebelsky, la democrazia moderna è in primo luogo la scelta dei fini e poi la predisposizione dei mezzi per raggiungere tali fini, ovvero il governo della polis è conseguenza della volontà dai cittadini espressa in un pensiero pro-gettante.

E allora, la domanda: i diversi livelli di governo esistenti oggi rispondono tutti a queste esigenze di democrazia, di partecipazione e di controllo da parte del demos?

Certamente no il potere della finanza e del denaro/mercati;

 certamente no il potere della tecnica e dell’innovazione tecnologica;

certamente no il potere delle multinazionali;

 certamente no il potere dei social.

 E il deficit di democrazia non solo va crescendo (populismi, autoritarismi, tecnocrazie, algoritmi), ma viene sempre più accettato come nuova e necessaria normalità del Potere.

E ad essere corrotto oggi da questi poteri non democratici – è quindi anche il principio della separazione dei poteri, essenziale in una democrazia perché sia possibile attivarsi e perché il potere sia trasparente, pubblico e controllabile dal demos.

Già Montesquieu (1689-1755) aveva tracciato la teoria della separazione dei poteri.

Partendo dalla considerazione che il “potere assoluto corrompe assolutamente”, aveva analizzato i tre poteri che vi sono in ogni stato:

il potere legislativo, il potere esecutivo e il potere giudiziario.

Condizione oggettiva e necessaria per l’esercizio della libertà del cittadino che esercita il suo potere sovrano (supra Urbinati e Zagrebelsky), è che questi tre poteri restino nettamente separati e bilanciati e controllati, per evitare che diventino appunto poteri assoluti.

Oggi, i mercati e il Big Tech sono i nuovi poteri assoluti del mondo (e non basta certo la decisione dell’Antitrust di multare Amazon per poter dire che esiste un controllo, perché questo controllo si esercita solo ex-post, mentre dovrebbe essere esercitabile anche ex-ante, la politica tornando a governare anche il mercato e i processi di innovazione tecnologica (o di regressione tecnologica, posto che Amazon è le vecchie vendite per corrispondenza, oggi algoritmiche; e che la Fabbrica 4.0 è solo il vecchio taylorismo, ma digitalizzato).

Oggi, quindi, il potere dell’economia e della tecnologia è potere assoluto.

Ieri il sistema economico e industriale veniva subordinato, come mezzo, alla politica, per realizzare dei fini sociali, decisi dal demos;

oggi è la politica che è subordinata, come mezzo, all’economia e alla tecnologia, diventate il fine di sé stesse.

Quindi abbiamo – di nuovo – un enorme problema di democrazia.

 Ma non lo vediamo.

Il Potere sa nascondersi.

Chi governa il mondo?

Lo Stato, sempre meno.

Il demos, sempre meno (le scelte economiche e di politica economica vengono imposte dai mercati, vedi il caso Europa/mercati/banche contro la Grecia nel 2015, con l’Europa democratica (sic!) che rifiuta di accettare l’esito di un voto popolare in un democratico referendum). I mercati, sempre di più.

Il Gafam (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft – cioè un oligopolio di monopoli), sempre di più (si pensi a come una singola impresa come Amazon ha stravolto in pochi anni, a sua totale discrezione e decisione, il sistema della piccola, ma anche della grande distribuzione e a come i social/imprese private finalizzate al profitto privato governano la vita di miliardi di persone).

 La tecnica, sempre di più – si pensi alla delega di valutazione e di decisione che sempre più diamo ad algoritmi e digitale, a prescindere da ogni controllo e da ogni consapevolezza umana.

 Le lobby: sempre di più – si pensi a come per decenni è stato negato il riscaldamento climatico e a quanto hanno pesato sul fallimento della recente Cop26.

I sistemi di regolazione extra-statali, sempre di più.

Su questi ultimi sistemi di regolazione, tanto invisibili da essere sconosciuti ai più ma dal potere enorme sul governo della vita di ciascuno e dell’intero sistema globale, il giurista Sabino Cassese aveva scritto anni fa:

“Chi governa il mondo? La risposta più comune è che il mondo è governato dagli stati che, tramite i propri organi esecutivi, stipulano accordi nelle diverse parti del globo.

Gli stati non hanno tutti lo stesso peso e la stessa influenza e di conseguenza il potere non è ripartito equamente.

Essi infine stipulano convenzioni e trattati […].

Questa risposta tralascia però due fatti importanti.

 La prima è che gli stati hanno vissuto nel tempo processi di aggregazione e di disaggregazione.

La seconda è che sono stati affiancati da un numero sempre crescente di organismi non statali” (che non sono le Ong), ma con il potere di imporre norme estremamente vincolanti, al di fuori di qualunque sovranità e controllo da parte del demos (S. Cassese, Chi governa il mondo? – il Mulino).

 Cassese definiva questo regime di regolazione come global polity.

Chi governa il mondo?

Ma a governare il mondo è oggi soprattutto – come anticipato – il pensiero/ideologia neoliberale e tecnico (il meta-contesto, ciò che predetermina i modi del potere economico, tecnologico e politico;

che ingegnerizza la vita sociale e individuale).

 Che si basa su una serie di principi: trasformazione pianificata della società in mercato e in rete;

stato da governare come un’impresa ma soprattutto stato come promotore del mercato;

 interconnessione/digitalizzazione/connessione/integrazione di tutti nel sistema tecnico e di mercato (che è la nuova forma dell’organizzazione, del comando e del controllo da parte del capitale, come direbbe Marx);

 l’uomo non più come persona ma come capitale umano;

 l’impresa solo nella sua forma autocratica.

Scriveva il neoliberale “Walter Lippmann “già negli anni ‘30 del ‘900, definendo chiaramente quella che sarebbe stata poi l’azione di pianificazione neoliberale della società a partire dagli anni ‘80:

“il liberalismo è la filosofia della rivoluzione industriale” e suo compito è modificare l’uomo, adattandolo alle esigenze della produzione e del capitalismo, divenendo “un nuovo sistema di vita per l’intera umanità”, accompagnando “la rivoluzione industriale in tutte le fasi del suo sviluppo;

e poiché questo sviluppo è infinito, il nuovo ordine non sarà mai in nessun modo perfettamente realizzato e concluso” (Dardot e Laval, “La nuova ragione del mondo” – DeriveApprodi).

 Ovvero, per i neoliberali – in questo profondamente anti-democratici, illiberali e in contraddizione con sé stessi, negando di fatto la libertà dell’individuo e imponendo all’individuo di adattarsi a qualcosa che non deve governare e controllare – l’ambiente sociale e il sistema capitalistico devono tendere a formare un tutto armonico, in realtà integrato e soprattutto e peggio, integralistico.

 

Esiste poi il potere delle imprese. Scriveva – lo abbiamo fatto in altre occasioni ma lo richiamiamo di nuovo – Luciano Gallino (1927-2015), nel 2011:

 “La democrazia, si legge nei manuali, è una forma di governo in cui tutti i membri di una collettività hanno sia il diritto, sia la possibilità materiale di partecipare alla formulazione delle decisioni di maggior rilievo che toccano la loro esistenza. […]”.

E invece, oggi “la grandissima maggioranza della popolazione è totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si prendono” nei settori dell’economia, di fatto espropriati e alienati dalla democrazia, per l’azione di quel soggetto che si chiama grande impresa, industriale o finanziaria, italiana o straniera che sia.

 “Il fatto nuovo del nostro tempo è che il potere della grande impresa di decidere a propria totale discrezione che cosa produrre, dove produrlo, a quali costi per sé e per gli altri, non soltanto non è mai stato così grande, ma non ha mai avuto effetti altrettanto negativi sulla società e sulla stessa economia.

 […] il potere esercitato dalle corporation sulle nostre vite configura un deficit di democrazia da costituire ormai il maggior problema politico della nostra epoca”. Si pensi ancora ad Amazon, a Google, ai social.

 Si pensi alla Gkn o alla Whirlpool e alla loro libertà di delocalizzare (e al governo tecnocratico di Draghi che ovviamente non glielo impedisce).

La corruzione neoliberale e tecnica della demo-crazia.

Dunque, abbiamo un sistema complesso di livelli di governo, alcuni espliciti, altri nascosti, apparentemente disordinati, ma tutti in realtà organizzati, finalizzati, governati secondo il macro-contesto (il meta-livello di governo) del neoliberalismo e della tecnica (e della tecnocrazia).

Un macro-contesto che appunto pre-determina ogni scelta politica, corrompendo ex-ante la demo-crazia, corrompendo ex-ante la sovranità del demos, questo macro-contesto imponendosi come dato di fatto immodificabile, che non si deve e non si può governare democraticamente (anche perché confonde dolosamente rete e mercato con democrazia, facendoci credere che siano la stessa cosa – e ideologia significa anche, come scriveva Norberto Bobbio, “far credere”), senza permettere la ricerca di alternative.

È il macro-potere di sé stesso.

È il meta-livello di governo che subordina a sé e che sussume in sé tutti gli altri livelli di governo.

Che ha corrotto le radici della democrazia, illudendo di una libertà solo apparente.

Ha scritto “Joseph Stiglitz”, premio Nobel per l’economia nel 2001, valutando gli effetti delle politiche neoliberali (noi però aggiungendo la tecnica):

“1) le regole economiche neoliberiste hanno creato maggiori disuguaglianze, con un calo dei soggetti che condividono i benefici dell’attività economica e una crescita più lenta dell’economia in generale e persino degli investimenti”;

 2) “la finanza non è più al servizio dell’intera economia ma solo di se stessa”;

3) “i sistemi fiscali incoraggiano la speculazione e l’elusione fiscale da parte delle multinazionali”;

4) “le politiche monetarie e fiscali, troppo incentrate sulla difesa da certi rischi (deficit di bilancio e inflazione) ignorano le vere minacce alla prosperità economica, ovvero la crescente disuguaglianza e il sotto-investimento e hanno prodotto più disoccupazione, più instabilità e meno crescita”;

5) “nel mercato del lavoro, i cambiamenti delle istituzioni, delle leggi, delle norme e dei regolamenti hanno indebolito il potere dei lavoratori, che ora hanno più difficoltà a contrapporsi agli eccessi di potere di mercato delle imprese”;

6) “la disuguaglianza è stata una scelta politica” (Le nuove regole dell’economia, il Saggiatore).

Il ruolo dello stato.

Scriveva “J. M. Keynes”, negli anni ‘30 del ‘900, un autore che dovremmo rileggere urgentemente per ripensare al ruolo da tornare ad affidare allo stato e alla necessità di governare democraticamente sia il mercato e sia il Big Tech):

“La cosa importante per il governo, non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto”.

E aggiungeva:

“I difetti lampanti dell’economia odierna sono:

la sua incapacità di provvedere alla piena occupazione;

e la sua distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e dei redditi” [esattamente oggi come allora].

E ancora: “Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari” [allora, come oggi].

Inoltre, spreca deliberatamente una quantità enorme di risorse nella lotta per la concorrenza [allora come oggi].

Keynes sosteneva quindi che fosse necessario guidare l’economia (e non lasciarsi guidare dall’economia) attraverso precise politiche monetarie, industriali, sociali e fiscali poiché i mercati quasi mai sono in grado di raggiungere un equilibrio efficiente.

 Salute e ambiente, ad esempio, sono beni pubblici che acquisiranno un valore crescente e questo giustificherà, scriveva, l’intervento dello stato.

 Il capitalismo inoltre – e questo diventa ancora più importante nel momento in cui, per la crisi climatica, dobbiamo pensare alle future generazioni – è incapace “di garantire l’allocazione inter-temporale delle risorse, dunque solo lo stato potrà occuparsi del nostro futuro a lungo termine”

(La fine del laissez-faire e altri scritti – Bollati Boringhieri).

Contro i tiranni digitali.

Lavoce.info – (29-11-2022) - EMILIANO MANDRONE – ci dice:

 

Prima che sia troppo tardi, è arrivato il momento di arginare l’eccessivo potere delle big tech e dei loro proprietari.

Istituzioni e cittadini devono impegnarsi per riportare le opportunità offerte dalla tecnologia all’interno del contratto sociale.

Erano questi i giganti cui si riferiva Newton?

Fanno ciò che vogliono, non hanno bisogno di consenso, fagocitano gli avversari e incutono timore, soprattutto a chi gli sta vicino. Non contemplano la discussione e si sentono infallibili.

Non sono i presidenti di finte democrazie, dittatori di varia caratura, sparute monarchie assolute e nemmeno bellicosi autocrati, ma i padroni di società dalle dimensioni così grandi che con la loro condotta spregiudicata non condizionano solo il mercato, ma possono determinare vere e proprie crisi sociali – delocalizzando o scalando la loro manodopera o cambiando assetto organizzativo o agendo il loro immenso potere finanziario.

È di questi giorni la notizia di vari proprietari di big tech (da Elon Musk a Mark Zuckerberg) che hanno cacciato migliaia di loro collaboratori senza neanche saper bene chi stessero licenziando.

 La legge, spesso, non è un argine alla loro azione.

 La loro ricchezza è tale da consentirgli di rispettare formalmente le penalità previste dalle norme, un po’ come le multe che non hanno la stessa forza deterrente per chi guida una utilitaria o una fuoriserie.

 È l’economia delle superstar: iperbolica, immateriale, imprevedibile.

Stride il comportamento bizzoso di questi semidei digitali con certe narrazioni che li vede geni visionari, innovatori e, pure, filantropi (ma in articulo mortis).

Come sono diversi da Adriano Olivetti, un innovatore etico, che coniugava ricerca tecnologica avanzatissima con sistemi di conciliazione vita-lavoro pionieristici, alla ricerca dell’equilibrio del lavoratore all’interno di una comunità.

 Redistribuendo i guadagni attraverso una politica delle retribuzioni che, pur garantendo una premialità (di più a chi ha impegni o capacità superiori), non umiliava le persone con differenze salariali esagerate, fedele alla regola che nessuno deve guadagnare più di 10 volte quanto il salario minimo pagato.

Nel mondo della tecnologia – fortunatamente – ci sono lavoratori che hanno una grande facilità di collocazione in virtù di professionalità molto rare e complesse.

Questi radical chip scelgono dove lavorare in base a retribuzione, condizioni di lavoro, carriera, intensità dell’impegno, tempo libero.

Ma sono l’eccezione che conferma la regola:

le persone e i lavoratori per proteggersi dovrebbero stare unite e invece, paradossalmente, l’astensionismo al voto e la disaffezione verso il sindacato crescono.

Si è consolidata una visione del mondo individualista, un “american dream” digitale che ci fa regredire al far west o, peggio, all’”homo homini lupus “– ambienti che possono attrarre solo persone e comunità senza cultura.

 

E senza memoria.

Infatti, era solo il 2000 quando la bolla delle imprese web (dot-com bubble) sembrava destinata a una crescita senza fine e un attimo dopo è esplosa.

Eppure oggi, dopo la sbornia della pandemia con la digitalizzazione di massa, tornano a crearsi aspettative eccessive su imprese apparentemente destinate a una crescita senza soluzione di continuità.

Il regolatore si è distratto?

Abbiamo smarrito le ragioni dell’intervento pubblico che limita i fenomeni estremi del mercato.

 Non è una cosa nuova.

La natura apparentemente eterea dell’impresa digitale ha sorpreso istituzioni novecentesche pensate per la grande industria e ha aggirato anche i più tradizionali capisaldi capitalistici:

 per esempio, l’antitrust pensato per garantire la concorrenza, vecchio di 110 anni, che smembrò la flotta di petroliere di Rockefeller, un monopolio non dissimile da quello delle big tech.

È forse più facile vedere le petroliere che i server, gli operai che i rider?

 È più facile da regolamentare un singolo paese piuttosto che il web, sospeso com’è sopra gli ordinamenti nazionali?

 È anche un problema di percezione:

la privacy, ad esempio, è diventata un problema rilevante da 10-15 anni con i social, con le transazioni digitali, con le app.

Prima non ce ne si curava.

Ecco, non ci siamo accorti di nulla o, peggio, abbiamo fatto finta di niente.

A mano a mano che aumentava la loro egemonia abbiamo perso il governo del sistema:

 si pensi alla difficoltà di fronteggiare gli oligopoli tecnologici o disciplinare le criptovalute (che non si è mai capito se sono davvero legali), di contrastare lo sfruttamento lavorativo delle persone ovunque vivano o gli attacchi ai diritti civili, all’ambiente e alla possibilità delle future generazioni.

Quando finiscono le guerre (politiche o commerciali o tecnologiche) si dice sempre che sono cominciate perché è mancata la società civile.

Era distratta o pensava di trarre vantaggio da certe situazioni, ma poi le cose le sono sfuggite di mano.

 È sempre la stessa storia: “prima vennero a prendere gli zingari (…) e non me ne curai, poi gli ebrei (…)”  e a un certo punto il tiranno era al potere.

Agire le istituzioni democratiche.

C’è un ripiegamento della comunità su molti piani e molte conquiste sociali si stanno perdendo.

Non è solo un modo di dire:

meno di una persona su due vive in una democrazia compiuta, solo il 5,7 per cento in una democrazia perfetta (Democracy Index) e l’indicatore dell’Economist è in calo ovunque, così come il livello di sindacalizzazione, di protezione sociale, dell’istruzione, della sanità.

Per proteggerci servono adeguate istituzioni pubbliche per garantire interventi idonei e tempestivi.

È necessaria una ampia elaborazione culturale per affrontare le implicazioni che le possibilità tecnologiche producono sulla nostra comunità, per ricondurre le opportunità all’interno del contratto sociale, per adattare i codici analogici alla dimensione digitale, per decidere quali principi non sono negoziabili, per autoregolamentarci definendo un perimetro di salvaguardia oltre il quale non si può andare, come si è fatto per le questioni etiche relative alla frontiera della medicina, della biologia o della fisica.

Lo spazio e il tempo sono collassati, la prestazione del lavoro o la fruizione dei servizi è cambiata radicalmente, l’energia e la mobilità in forte evoluzione, forse è il momento di aggiornare il sistema.

Serve la politica (economica).

 

 

 

Le bigtech sono nemiche delle

democrazie o caschi blu digitali?

 Intervento di Guido Scorza – Milano Finanza.

Garanteprivacy.it – Redazione - Guido Scorza – (8-3-2022) – ci dice:

 

Quando, qualche giorno fa, la Russia ha invaso l'Ucraina dando il via alla più vicina e drammatiche delle guerre per chi è nato dopo il secondo conflitto mondiale, le Big Tech stavano vivendo, probabilmente, uno dei momenti più difficili della loro storia.

L'incantesimo dell'Internet per tutti, aperta, partecipata, nuova agorà globale era, ormai, finito da tempo e i regolatori di mezzo mondo, inclusi quelli degli Usa, che pure ha dato i natali a tutte le cosiddette Gagam (Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft) erano impegnati a richiamarle all'ordine, a cercare, in modi diversi, di ridimensionarle o, almeno, ridimensionarne gli effetti, non solo, non tutti, non sempre positivi prodotti sulla società, sui mercati e sulle democrazie nell'ultimo ventennio o poco più.

In Europa sono in discussione il Digital Service Act e il Digital Market Act che hanno per scopo quello di ridurre il loro strapotere.

Lo stesso Joe Biden, il 1 "marzo, nel suo primo discorso alla nazione, ha usato parole durissime, forse le più dure mai usate da un presidente Usa in carica, proprio all'indirizzo delle Big Tech:

«E' il momento di rafforzare le tutele alla privacy, vietare la pubblicità mirata ai bambini e chiedere alle società tecnologiche di smetterla di raccogliere i dati personali dei nostri figli».

Poi è scoppiata la guerra o, almeno, la guerra è entrata nella sua fase più calda, cruda, cruenta e drammatica.

E, a quel punto, è cambiato tutto o, forse, meglio, tutto ci è apparso sotto una luce diversa.

 Elon Musk, signore delle tecnologie presenti e future e, tra l'altro, patron di “Tesla”, “Neuralink” e “SpaceX”, ha risposto a un appello lanciato dal governo ucraino via social e ha letteralmente riportato, accendendo i satelliti della sua “StarLink”, in Ucraina quell'Internet che i russi avevano sostanzialmente spento.

Facebook e Google hanno dichiarato la più massiccia, determinata e, almeno sin qui, efficace campagna contro la disinformazione riuscendo se non a bloccare, almeno ad arginare e ridimensionare significativamente la propaganda digitale filorussa che correva sui social.

 I social tutti, con poche distinzioni, sono tornati, nell'immaginario collettivo, attraverso la narrativa mediatica globale, a rappresentare quella sconfinata piazza pubblica globale nella quale gli ucraini hanno potuto raccontare al mondo il loro dramma, lanciare le loro urla di dolore, manifestare il loro orgoglio e chiedere aiuto al la comunità internazionale e i russi, o, almeno, quella parte pure consistente, contraria all'iniziativa bellica di Putin.

 

I socialnetwork, in questo contesto, sembrano tornati a essere gli eroi della libertà idolatrati dal la comunità internazionale come ai tempi della primavera araba.

 E, senza tanti giri di parole ne false ipocrisie istituzionali bisogna dire chiaro e forte che quegli stessi governi che sino a qualche giorno prima li additavano come un problema da risolvere in fretta, hanno visto in loro un'opportunità per contribuire a fermare la tragedia della guerra e hanno, a più riprese e sotto profili diversi, chiesto il loro aiuto, quando in pubblico e quando in privato, nella più parte dei casi e, anzi, forse sempre, ottenendolo.

Nello spazio di qualche giorno la narrativa è cambiata sensibilmente e, a tratti, è parsa far passare le Big Tech da nemiche delle democrazie e del libero mercato a forze di pace, caschi blu digitali delle nazioni unite.

Ma chi sono davvero?

Ne nemici, ne forze di pace, in effetti.

E, anzi, forse, sotto taluni profili, la circostanza che non si possa far a meno di chiedere toro aiuto in tempo di guerra - così come, per la verità, in occasione di ogni genere di dramma umanitario dalla pandemia alle calamità naturali-e che il loro aiuto risulti spesso determinante, efficace, talvolta risolutivo è la miglior conferma delle ragioni che devono indurci non a temerle ma regolarle, governarle, vigilarle, talvolta, anche spuntar loro le ali perché si tratta di straordinarie concentrazioni di poteri privati superiori, ormai, per forza e dimensione, alla più parte dei poteri pubblici, che possono essere indistintamente utilizzate per i più nobili e per i meno nobili degli scopi.

Anche se e proprio della natura umana avere l'esigenza di dividere il mondo in buoni e cattivi, dovremmo approfittare di questa drammatica guerra - che, peraltro, segue a ruota la non meno drammatica pandemia nella quale egualmente le Big Tech hanno giocato un ruolo determinante nel rendere sostenibile il nostro quotidiano - per convincerci, una volta per tutte, che le Gafam e i foro concorrenti - non sono né angeli, ne demoni, sono solo alcuni tra i più mirabili risultati del progresso tecnologico che le regole dei mercati e quelle dei governi possono rendere i migliori alleati del genere umano o i loro peggiori nemici.

 

 

 

Per Barack Obama i social network

possono distruggere la democrazia.

Repubblica.it - Carlo Lavalle – (26 APRILE 2022) – ci dice:

 

L'ex presidente Usa scende in campo a favore della regolamentazione statale del sistema mediatico digitale, in mano ai big tech, che produce un disallineamento con l'ordine democratico ed è preda di manovre di paesi e forze autoritarie.

Il sistema informativo basato sui social network rappresenta un pericolo per le democrazie ed è progettato in modo da favorire disinformazione, estremismi e divisioni.

Sono parole sferzanti quelle pronunciate da Barack Obama in occasione di un incontro organizzato il 21 aprile dal Cyber Policy Center della Stanford University.

Il discorso dell'ex presidente democratico degli Stati Uniti arriva nel momento in cui il Congresso Usa è sul punto di approvare una serie di riforme che mirano a limitare lo strapotere di big tech, come Facebook, Google e Twitter, introducendo regole più severe ed efficaci in materia di concorrenza e difesa della privacy.

Anche per le tutele incluse nella sezione 230 del “Communications Decency Act” - che stabilisce dal 1996 un'ampia libertà per le piattaforme Internet, sollevandole dalla responsabilità per i contenuti postati dagli utenti - si prevedono importanti e decisive modifiche.

Riforma e responsabilità dei big tech.

Barack Obama condivide l'esigenza di un aggiornamento della normativa in questo ambito, sollecitando le grandi aziende tecnologiche a riflettere sull'impatto che la loro attività e i loro modelli di business hanno sulla società e sulla tenuta dell'ordine democratico.

Gli Stati Uniti sono segnati da processi di polarizzazione più che negli anni '50 e '60 – sostiene l'ex presidente Usa, come del resto già segnalava il giurista “Ronald Dworkin” nel suo libro "La democrazia possibile. Principi per un nuovo dibattito politico".

E se le aziende e le piattaforme tech non hanno creato le divisioni interne alla società americana, non hanno causato il sorgere di razzismo, sessismo, conflitti di classe e religiosi, preesistenti alla nascita di Internet e dei social media, sono però responsabili della circolazione di idee e contenuti che le fomentano e ne amplificano la portata e gli effetti.

Nel mondo moderno, i nuovi media hanno assunto una centralità che significa essere la principale fonte di informazione per moltissime persone, da cui poi si formano convinzioni e giudizi sulla realtà. Facebook, Twitter e Youtube non possono sottrarsi alle loro responsabilità quando il loro modello di business e di guadagni tende a far prevalere o a privilegiare, complici gli algoritmi, la diffusione di contenuti e notizie, anche fake news, che attraggono e coinvolgono gli utenti perché polarizzano opinioni e discussioni.

Minaccia alla democrazia.

Internet e le nuove tecnologie della comunicazione hanno un ruolo importante di progresso sociale ed economico. Connettono le persone e offrono opportunità di crescita culturale e di sviluppo.

La stessa elezione di Barack Obama alla presidenza Usa è la prova del potenziale di piattaforme digitali come MySpace, Facebook e Meetup, che hanno consentito a giovani e volontari di raccogliere fondi e organizzare positivamente la loro attività.

Ma l'ecosistema online è sovraccarico dei peggiori impulsi umani, che sembrano avere la strada spianata da una informazione sempre più tossica.

 La finestra sfocata delle piattaforme Internet – spiega Obama – ci restituisce il panorama di una realtà distorta e manipolata.

Gli utenti, in un flusso informativo indistinto e aumentato a volumi massimi, non riescono più bene a distinguere dove sia la verità e dove la falsità.

 E, secondo Obama, il falso della disinformazione uccide, come nel caso della vicenda dei vaccini anti-covid19, che, nonostante siano sicuri ed efficaci, vengono ancora respinti da 1 americano su 5.

Che l'informazione via social media possa essere manipolata e distorta ad arte lo hanno ben compreso regimi dittatoriali e forze autoritarie.

Cina e Russia, ad esempio, utilizzano le piattaforme digitali per colpire oppositori politici, attaccare minoranze e portare avanti i loro piani per screditare le democrazie.

Mentre associazioni e gruppi, presenti all'interno dei paesi, organizzano campagne per diffondere teorie complottiste e fake news allo scopo di destabilizzare e confondere l'opinione pubblica.

“Putin e Bannon – sottolinea Obama – hanno capito che per indebolire le istituzioni democratiche non è necessario che le persone credano veramente a queste informazioni fasulle.

Il loro obiettivo è inondare un paese con la disinformazione e raggiungere milioni di persone, insinuando dubbi e fornendo spiegazioni false e alternative.

In modo che alla fine i cittadini non sappiano più in cosa credere.”

Disorientamento e deformazione della realtà servono dunque a minare la fiducia nei governanti, nella verità e nel valore della democrazia.

 Un progetto che sfrutta i bug del sistema mediatico digitale moderno, in mano ai big tech, per propagare il virus dell'autoritarismo e di concezioni autocratiche.

“Yes we can” contro le falle delle piattaforme Internet.

È ancora possibile, tuttavia, fermare lo sbandamento e il disallineamento anti-democratico prodotto dal meccanismo dei media digitali.

A giudizio di Obama, in passato accusato di essere troppo benevolo e condiscendente verso i giganti della tecnologia, in particolare nei riguardi di Google, s'impone la necessità di una regolamentazione statale per correggere il deragliamento ma con il concorso delle società stesse.

Alle quali si rivolge direttamente per chiedere di rendere la democrazia più forte e una maggiore trasparenza nel far conoscere le modalità di funzionamento dei software che gestiscono la promozione dei contenuti nelle piattaforme.

L'ex presidente Usa indica come riferimento iniziative quali il “Digital Services Act” dell'Unione europea che stabilisce regole più ferree per i big tech, e la “Platform Accountability and Transparency Act” nella quale, con un approccio bipartisan, parlamentari democratici e repubblicani domandano alle piattaforme digitali un accesso aperto ai dati a vantaggio di ricercatori indipendenti ed esterni.

Anche agli utenti e ai cittadini, comunque, è richiesto di fare un passo in avanti.

Di uscire dalle bolle informative in cui si chiudono nei social network e di assumere atteggiamenti più critici per evitare di cadere vittima della propaganda e della cattiva informazione.

Alla fine, i social sono semplici strumenti dai quali non dobbiamo essere controllati, ma possiamo rimodellare e ricostruire in armonia con idee e valori democratici.

 

 

 

"La sfida per “un nuovo ordine

Mondiale” passa per il

primato tecnologico".

Civiltadellemacchine.it - Francesco Subiaco - Intervista a Paolo Savona - 04 maggio 2023 – ci dicono:

 

"Adattamento e razionalità".

Sono questi secondo Paolo Savona, presidente CONSOB, economista, gli strumenti necessari per comprendere e orientare sia le sfide della "geo-informatizzazione", (dai cambiamenti dirompenti delle catene del valore alla nascita di un "Nuovo Stato Digitale") sia le nuove trasformazioni istituzionali, economiche e politiche prodotte dalla “Quarta Rivoluzione industriale” e che se seguiti adeguatamente permetteranno all'uomo di governare e non subire i cambiamenti dell'infosfera.

Cambiamenti che, come ha spiegato nel suo ultimo testo, "Geopolitica dell’Infosfera.

L'eterna disputa tra Stato e mercato/individuo nel “Nuovo Ordine Mondiale Digitale" (Rubbettino, 2023) scritto con “Fabio Vanorio”, se affrontati al meglio definiranno non solo un” nuovo ordine internazionale”, ma soprattutto la nascita di un nuovo "illuminismo digitale" capace di accompagnare l'evoluzione tecnologica con quella "del pensiero".

Presidente Savona, come l'affermazione dell'infosfera sta plasmando e ridefinendo l'ordine geopolitico dalla struttura delle “supply chain” al ruolo degli Stati?

"La tesi del libro curato con Fabio Vanorio (Geopolitica dell’Infosfera. L’eterna disputa tra Stato e mercato/individuo nel Nuovo Ordine Mondiale Digitale, Rubbettino 2023) è che gli Stati sono entrati in una competizione geopolitica per affermare la supremazia tecnologica, convinti che questa consentirà di raggiungere una loro leadership mondiale, come accaduto per gli Stati Uniti nel dopoguerra.

Gli Stati sono capaci di produrre innovazioni, ma sanno che i privati sono più dinamici, perciò si alleano con essi per affermare la supremazia cercata, emarginando il peso degli individui nelle scelte interne e geopolitiche.

 La tendenza è oggi verso più Stato e meno mercato, più autocrazia e meno democrazia." 

 

Nel suo testo afferma:

"i big data sono la chiave per un secondo illuminismo capace di liberare la conoscenza umana da l'arbitrarietà soggettiva".

"Mi spiego con un esempio.

Se le scelte di investimento finanziario avvengono su basi personali, sia pure guardando i dati statistici, esse hanno una forte componente soggettiva (si usa il termine fiuto o intuito).

Se si vuole ridurre il peso di questo fattore, si deve ricorrere a tecniche di Intelligenza “rafforzata” (considero un errore l’uso della qualificazione “artificiale”, perché è sempre il metodo del ragionamento umano che sta alla base della tecnica) per avere una base oggettiva che riduca il peso della soggettività, che resta pur sempre utile.

Per tale motivazione le innovazioni tecniche complementari alle capacità umane possono avviare un secondo illuminismo capace di liberare la conoscenza dalle componenti soggettive ed arbitrarie."

L'elevata sofisticazione tecnica delle big tech e la loro capacità di imporsi non solo come strumento, ma anche come ambiente, non rischia di creare un sistema oligopolistico con tendenze accentratrici?

"È esattamente ciò che temiamo, soprattutto perché oligopolio sta per autarchia, perché i produttori di innovazioni tecnologiche si alleano con gli Stati, che cercano ogni modo per raggiungere la supremazia geopolitica."

In riferimento a questa tendenza oligopolistica prodotta dalla compenetrazione tra pubblico e privato, tra Stato (o Stati) e grandi corporate non pensa si possa parlare, parafrasando l'omonimo testo di “John Kenneth Galbraith”, di un "Nuovo Stato Digitale"?

“Resta valido lo schema interpretativo di Galbraith, che non aveva però avuto occasione di osservare ciò che sta accadendo a livello interno e internazionale a seguito del passaggio da forme oligopoliste tradizionali e forme indotte dagli sviluppi informatici.

A mio avviso il peso dei fattori di competizione geopolitica tra Stati rafforza la tendenza delle forze economiche interne ad associarsi con il potere statale, moltiplicandone gli effetti, come ho brevemente descritto fin dalla prima risposta.”   

Secondo lei la tendenza alla sorveglianza non rischia di favorire una metamorfosi nel sistema capitalistico, ma anche non capitalistico, con spinte autoritarie o totalitarie?

"Non rischia di accadere, il fenomeno è già in atto.

Personalmente ritengo che sia al punto di non ritorno.

Tant’è che ho segnalato la necessità di una ridefinizione delle nostre conoscenze di economia, includendo l’operatività delle “cryptocurrency” e del machine learning.

Che conseguenze ha portato il passaggio alla economia della conoscenza (Eco-C) e poi all'economia dei dati (Eco-D) nella finanza e nella struttura dei mercati?

"La principale conseguenza è che ha reso obsoleta la normativa esistente sui mercati.

Siamo chiamati a un impegno di ridefinizione delle regole di comportamento economico-finanziario e sociale, da cui deriva una riconsiderazione della funzione di comportamento e della funzione strumentale delle politiche, come accadde nel periodo delle conquiste popolari del XIX secolo, quando si passò dal governo degli uomini al governo delle leggi;

 peraltro questo processo non si è mai concluso e sta andando in direzione opposta.

 Il quesito ora è se esistono ancora pensatori e riformatori al livello di quelli che hanno plasmato il liberalismo e il socialismo, solo per indicare le due grandi componenti della società civile in Occidente." 

 

Come si può porre rimedio a queste metamorfosi sociali allora?

"Attraverso l'individuazione di Maestri di pensiero che si prefiggano di insegnare e di allievi che vogliano apprendere.

La soluzione è questa: istruzione, istruzione e istruzione." 

Quali sono le caratteristiche che consentono il cambiamento del potere nel mondo della noopolitik?

"È il principale tema di cui discutiamo: la competizione geopolitica per la supremazia tecnologica digitale.

 Essa porta alla deglobalizzazione, che inizia con una chiusura dei mercati nazionali di dimensione modesta, che rafforza i gruppi dominanti e porta a tendenze autocratiche o, nei peggiori dei casi, a una vera e propria dittatura.

Si crea il clima per intraprendere guerre di vecchio tipo, anche … stellari."

Di fronte alle sfide etiche portate dal cripto concorrenza e dalla esondazione della finanza quanto può essere utile una ispirazione alla Legge islamica della Sharia per ritrovare una prospettiva etica?

"È un aspetto del più vasto problema i cui contenuti sono poco conosciuti e, di conseguenza, gli sbocchi sono imprevedibili.

 C’è chi afferma che non sia in atto un trasferimento dell’attività economica e finanziaria nell’alveo della Sharia, altri invece che sia questa a “occidentalizzarsi”.

Non potendo dare una risposta fondata su dati concreti, la risposta è una sola: seguire gli sviluppi e conoscere il perché le idee della Sharia possono avere presa sul mercato ed eventualmente come scambiare i possibili vantaggi dei diversi approcci."

E come tali necessità etiche possono adeguarsi in uno scenario laico?

"La risposta razionale è che gli esseri umani devono essere educati a capire dove va il mondo e a valutare quanto sono disposti a combattere per correggere le storture, ma resta il fatto che è l’uomo, non la macchina, il legno storto dell’umanità, come disse, forse per primo, Kant."

Di fronte al fenomeno della digitalizzazione, del cripto concorrenza e della frantumazione del vecchio ordine globalizzato quale potrà essere il ruolo dello Stato o degli Stati nella definizione di un nuovo ordine mondiale?

"Sarebbe più corretto dire che tra gli Stati forti, uno o più prevarranno, gli altri arrancheranno dietro essi.

 Il percorso che non è ancora stato individuato è verso l’accettazione del multilateralismo tra più Stati leader, il quale si muova in direzione pacifica fissando congiuntamente, non attraverso politiche di potenza, le regole per un “Nuovo Modello Geopolitico Digitalizzato."

"L'uomo e non la macchina è il legno storto dell'umanità".

Come si può uscire dall’impasse del legno storto?

"Educando gli esseri umani a interagire con le macchine, ad accettarle e a usarle bene.

È un problema che ci trasciniamo dal luddismo della prima rivoluzione industriale, una reazione non ancora risolta.

 Comunque abbiamo fatto molti passi avanti, se pensiamo come tutti noi già usiamo le macchine tecnologiche, dal telefonino ai computer.

Dobbiamo imparare a usarle bene, per “rafforzare” la nostra intelligenza.

Forse è un’illusione, ma nella mia stanza ho un cartello simile a quello che si trova nei prati: 'Vietato calpestare i sogni".

 

 

 

 

10 paesi che tornano

a investire nel nucleare.

Wired.it – Francesco Del Vecchio – (15-7-2023) – ci dice:

 

Dagli Emirati arabi all'Egitto, dal Bangladesh alla Polonia, l'energia atomica ritorna nei programmi di molti governi del mondo.

L'energia nucleare sta guadagnando terreno:

mentre si intensifica la spinta verso un mondo più green, sempre più paesi ritengono che il percorso verso le emissioni zero sarà più veloce e più facile con l'ausilio del nucleare.

Numerosi governi in tutto il mondo stanno adottando politiche a sostegno del nucleare e i piani per la costruzione di grandi centrali stanno prendendo piede in moltissime regioni.

Decine di progetti sono in fase di sviluppo, sostenuti da finanziamenti pubblici e privati.

Il centro di gravità dell’energia nucleare si sta però spostando dal Nord America e dall'Europa alla Cina e ad altre zone del mondo.

Svariati sono i paesi che stanno costruendo per la prima volta centrali nucleari, tra cui Emirati arabi uniti, Turchia, Bangladesh ed Egitto, e che contribuiranno alla nuova tendenza.

 E anche altri governi stanno lavorando per entrare a far parte del club.

I progetti:

Emirati arabi uniti, Arabia saudita, Cina, Bangladesh, Turchia, Egitto, India, Spagna, Stati Uniti, Polonia.

Nasce una nuova startup per la fusione nucleare.

È Proxima Fusion, spin out del Max Planck tedesco:

 con due italiani tra i cofondatori e un altro nel team di startup punta a realizzare una centrale a fusione prima nel suo genere entro il 2030.

Emirati arabi uniti.

Gli Emirati arabi uniti hanno avviato un programma di energia nucleare in stretta consultazione con l'Agenzia internazionale per l'energia atomica e con un enorme sostegno pubblico.

 Hanno accettato un'offerta di 20 miliardi di dollari da parte di un consorzio sudcoreano per costruire quattro reattori nucleari commerciali.

 L'unità 1 della prima centrale nucleare del Paese è stata collegata alla rete nell'agosto 2020, seguita dall'unità 2 nel settembre 2021 e dall'unità 3 nell'ottobre 2022.

Arabia saudita.

Nel gennaio 2023 il ministro dell'Energia saudita, il principe Abdulaziz bin Salman, ha annunciato che, data la recente scoperta di riserve di uranio, il regno intende portare avanti i suoi piani di sviluppo di un'infrastruttura nucleare, con una dimensione sia nazionale che internazionale.

 Un passo storico, per un paese storicamente legato al petrolio:

Riyadh ora starebbe lavorando a una possibile alleanza con gli Stati Uniti per lo sviluppo dell’industria nucleare, un po’ come fatto nel secolo scorso con Saudi Aramco, la compagnia petrolifera saudita.

Cina.

L'impulso all'energia nucleare in Cina è sempre più dovuto all'inquinamento atmosferico prodotto dalle centrali a carbone.

Pechino è diventata ampiamente autosufficiente nella progettazione e nella costruzione dei reattori, ma sta sfruttando anche la tecnologia occidentale, adattandola e migliorandola.

Rispetto al resto del mondo, un punto di forza è la catena di approvvigionamento nucleare.

Gli investimenti sono consistenti e la politica cinese è quella di "globalizzare" l'esportazione della tecnologia nucleare, compresi i componenti pesanti della catena di approvvigionamento.

Bangladesh.

Il Bangladesh ha avviato la costruzione del suo primo reattore nucleare, Rooppur 1, nel novembre 2017.

 La messa in funzione dell'unità è prevista per il 2024.

La costruzione della seconda unità di Rooppur è iniziata nel luglio 2018.

Il Paese ha una domanda di energia elettrica in rapida crescita e punta a ridurre la sua dipendenza dal gas naturale.

 

Alcune delle cisterne di stoccaggio delle acque contaminate all'interno del perimetro della ex centrale nucleare di Fukushima.

Per l'Onu il Giappone può versare nel Pacifico le acque di Fukushima.

Si tratta di circa 1,3 milioni di tonnellate di acqua usate per raffreddare il nocciolo della centrale nucleare di Fukushima a seguito del disastro del 2011.

Turchia.

La Turchia ha pianificato la produzione di energia nucleare fin dal 1970.

 Oggi i piani per il nucleare sono un aspetto fondamentale per la crescita economica del paese.

 I recenti sviluppi hanno visto la Russia assumere un ruolo di primo piano nell'offrire il finanziamento e la costruzione di strutture.

 La realizzazione del primo reattore nucleare del Paese, il primo di quattro ad Akkuyu, è iniziata nell'aprile 2018.

 Un consorzio franco-giapponese avrebbe dovuto costruire il secondo impianto nucleare a Sinop, ma ora Ankara tratta con la russa Rosatom.

 La Cina è in lizza per costruire il terzo impianto, con tecnologia di derivazione statunitense.

È previsto un piccolo progetto di estrazione dell'uranio.

Egitto.

L'Egitto ha preso in considerazione l'idea di dotarsi di energia nucleare fin dagli anni Sessanta.

Adesso sta lavorando alla costruzione di una centrale nucleare composta da quattro grandi reattori russi con una notevole capacità di desalinizzazione.

India.

L'India ha un programma di energia nucleare in gran parte interno.

Il governo indiano è impegnato a far crescere la propria capacità nucleare come parte del suo massiccio programma di sviluppo delle infrastrutture.

 L'esecutivo ha fissato obiettivi ambiziosi per il futuro.

Poiché l'India non rientra nel Trattato di non proliferazione nucleare a causa del suo programma di armamento, per trentaquattro anni è stata ampiamente esclusa dal commercio di impianti e materiali, il che ha ostacolato lo sviluppo dell'energia nucleare civile fino al 2009.

Spagna.

L’energia nucleare rappresenta attualmente un asset considerevole per la Spagna. Il Paese ha una capacità installata superiore ai 7 GW, generata da sette reattori. Le centrali nucleari sono attualmente essenziali per il fabbisogno energetico del Paese e i ministri hanno quindi eliminato i limiti alla loro durata di vita operativa. Nel 2020 e 2021, sei dei sette reattori del Paese hanno rinnovato le loro licenze.

Stati Uniti.

Gli Stati Uniti sono il maggiore produttore mondiale di energia nucleare, rappresentando oltre il 30% della produzione mondiale.

Dopo un periodo di trent'anni in cui l'industria sembrava in calo, si prevede che presto entreranno in funzione nuove unità.

Polonia.

La Polonia prevede di usare l'energia nucleare a partire dal 2033, come parte di un portafoglio energetico diversificato, allontanandosi dalla forte dipendenza dal carbone.

Varsavia in precedenza aveva preso in considerazione una partecipazione nella centrale nucleare di “Visaginas” in Lituania, ma ora ha altri progetti.

 Il piano energetico del paese prevede che la costruzione dell'impianto inizi nei prossimi anni, con la messa in funzione della prima unità nel 2032 o 2033.

 Le unità successive entreranno in funzione dopo tale data, per arrivare a tutte e sei le unità entro il 2040.

(Come al solito l’Italia … dorme! N.D.R.)

 

 

 

 

 

Zuckerberg ‘taglia ‘altri 10mila

dipendenti di Meta, continua

l’ondata di licenziamenti nelle Big Tech.

Ilriformista.it -Carmine Di Niro — (14 Marzo 2023) ci dice:

 

Il settore vive il periodo più complicato.

Ci risiamo.

Dopo il taglio di 11mila dipendenti già effettuato lo scorso novembre 2022 Meta continua il suo ridimensionamento nei numeri.

 La società a cui fanno capo i social network “Facebook” e “Instagram”, guidata da Mark Zuckerberg, ha annunciato ulteriori 10mila licenziamenti e la necessità di “chiudere circa 5.000 posizioni aperte per le quali non sono state ancora effettuate assunzioni”.

 

Continua dunque così il periodo nero delle big tech statunitense, da Amazon a Twitter, passando per Alphabet (la società a cui fa capo Google) e Microsoft:

 tutte hanno tagliato almeno 10mila dipendenti nell’ultimo anno, con casi estremi come “Twitter”, rilevata lo scorso anno dal miliardario “Elon Musk”, che ha licenziato la metà della sua forza lavoro dopo l’acquisizione del social per 44 miliardi di dollari.

Ma, come detto, è tutto il comparto tech a soffrire: l’industria tecnologica ha licenziato oltre 280.000 lavoratori dall’inizio del 2022, di cui circa il 40% quest’anno.

“Nei prossimi mesi” i leader di Meta “annunceranno piano di ristrutturazione, cancellando i progetti a bassa priorità e riducendo il tasso delle assunzioni.

Con meso assunzioni ho preso la difficile decisione di ridurre ulteriormente la dimensione del nostro team che si occupa della selezione e del reclutamento del personale “, ha spiegato in una nota dichiarazione Zuckerberg.

 “Sarà difficile.

 Significherà salutare colleghi di talento che sono stati parte del nostro successo “, ha quindi aggiunto “l’inventore” di “Facebook”.

L’obiettivo dei due imponenti tagli alla forza lavoro, con l’allontanamento tra novembre scorso e oggi di circa un quarto dei dipendenti della società di Menlo Park, è quello di ridurre per circa cinque miliardi di dollari i costi di “Meta” e trasformare il 2023 “nell’anno dell’efficienza”, come sottolineato dallo stesso Zuckerberg.

Sono dunque i dipendenti a pagare le mosse sbagliate da parte dei manager del colosso dei social network, una serie di errori a catena che hanno portato “Meta” a perdere vagonate di dollari. Se la pandemia aveva dato uno “sprint” a tutte le società tech a causa dei lockdown imposti globalmente dai vari governi, la gestione del post-Covid è stata invece traumatica.

Tanti i problemi riscontrati dalla società di Zuckerberg:

 il primo, quello più difficile da risolvere, è la concorrenza sempre più spietata di “TikTok”, il social network cinese che ha sottratto l’utenza più giovane a” Instagram” e “Facebook”;

quindi la grana delle nuove policy della privacy di Apple, che limitano la raccolta dati di “Meta” su cui si basa di fatto l’intero sistema economico di Facebook-Instagram.

 Infine la questione del “metaverso”, un progetto-feticcio di Zuckerberg che per ora non ha portato alcun risultato, anzi, ha generato perdite per quasi 25 miliardi di dollari.

(Carmine Di Niro)

 

 

 

 

SICUREZZA ECONOMICA E

INTERESSE NAZIONALE (IN).

Notiziegeopolitiche.net – (28 Luglio 2023) - Massimo Ortolani – ci dice:

 

È noto che in assenza di una precondizione operativa, quale il raggiungimento di un adeguato livello di stabilità economica, si creano significativi ostacoli al perseguimento dell’interesse nazionale (IN) di un paese.

 E per il policy maker il percorso analitico di identificazione degli elementi costitutivi dello IN non può che discendere in primo luogo dal considerare la categoria degli interessi vitali, ricercandone l’ottimizzazione subordinatamente ai vincoli di natura esogena, oggi costituiti dalla forte competizione geoeconomica e geopolitica. Interessi vitali che, sul piano del diritto, appaiono inestricabilmente radicati nel rispetto dignità della persona umana, ovvero come costituenti la precondizione per l’esercizio di altri diritti umani.

Volendo riferirsi alla definizione di IN contenuta ad esempio nel manuale di strategia dei Marines USA, è già stato osservato come “gli Interessi Nazionali coinvolgono normalmente quattro aree principali:

sopravvivenza e sicurezza, integrità politica e territoriale, stabilità economica (nonché il) benessere e (la sua) stabilità”.

 Una tale definizione consente già di attenuare la separatezza, per il policy maker, intercorrente tra difesa della generalità dei valori sottesi agli obiettivi suindicati e la concretezza delle azioni di governo.

Notoriamente, ai fini dell’Interesse Nazionale, rileva in primo luogo l’esigenza dell’intangibilità delle componenti costitutive dello Stato, così come di fattori valoriali rappresentati dal principio di autodeterminazione dei popoli, di matrice kantiana.

 Ma la difesa dell’IN attraverso il rafforzamento della sicurezza nazionale deve comportare inevitabilmente anche la tutela di altre componenti, quali benessere, e stabilità economica come detto, ispirate all’ottenimento del massimo piacere per il massimo numero di persone e in tal senso riconducibili all’utilitarismo del filosofo Bentham;

 e, però, con il vincolo di carattere distributivo di dovere comunque garantire i bisogni essenziali minimi a chiunque.

Sulla base di questa definizione, semplificante ma utile, si deve convenire che l’alveo definitorio dell’Interesse nazionale può essere solo in parte ricompreso in un programma di governo, essendo per la parte di natura assiologica (ovvero di espressione di fattori valoriali) già riflessa nelle norme costituzionali ed ordinamentali di un paese.

Quanto premesso serve solo a delineare molto succintamente la cornice del quadro evolutivo di quella che potremmo definire una cultura dell’Interesse Nazionale in Italia, da declinarsi in relazione alla sicurezza economica.

Concentrando il “focus analitico” su quelle componenti dell’IN che costituiscono fattori del benessere nazionale, è bene sottolinearne l’inevitabile, relativa mutevolezza nel corso del tempo, per ragioni storiche.

Dato che mutamenti nelle relazioni economiche e politiche internazionali, sviluppo economico e tecnologico, dinamiche climatiche, ecc., generando mutamenti negli strati sociali, si riflettono in modifiche nelle aggregazioni politiche, e quindi anche nei modelli ideologici in cui si rispecchiano le politiche per il perseguimento dell’IN.

Consideriamo, ad esempio, il generale modello ideologico di riferimento ormai storico per il nostro paese, quello dell’intervento statale in regime di liberaldemocrazia, oggi soggetto a spinte discorsive e pressioni demolitorie esercitate da movimenti di matrice sovranista/populista, talora generate anche da etno-nazionalismo, quando non da pulsioni sociali verso forme di autocrazia.

E spesso opportunisticamente alimentate dal risentimento dei disillusi della deindustrializzazione, da loro considerata vittima della globalizzazione.

 

Tenendo comunque presente che le componenti valoriali ed intangibili dell’IE non possono considerarsi separate dal quelle tangibili di benessere economico-sociale sul piano identitario, è bene sottolineare che indispensabili indicatori di benessere idonei a rendere assertive politiche di IN possono individuarsi in Italia in quelli che emergono dall’importante contributo dell’ISTAT in tema di statistiche economico-sociali. Ed in primo luogo il macro-indicatore “BES”, del benessere equo e sostenibile, che confluisce per legge nell’allegato al documento di economia e finanza:” DEF”.

 

La relazione con la sicurezza economica implicita nel “BES” emerge concretamente dal grado di soddisfacimento di 12 importanti indicatori, tra i quali:

reddito disponibile e ricchezza, spesa per le condizioni materiali di vita, speranza di vita in buona salute, disuguaglianza della distribuzione del reddito disponibile, indice di criminalità predatoria, ovvero l’indice di rischio di povertà, l’indice di vulnerabilità finanziaria, l’indice di bassa intensità lavorativa, ecc, ecc.

 E, però, dato che nessuna coalizione di governo in Italia potrebbe esimersi dal considerare oggetto di IN il miglioramento della mobilità sociale e, soprattutto, il potere assicurare ai giovani di oggi un tenore di vita almeno pari a quello raggiunto dai genitori, sarebbe opportuno affinare ed ampliare la numerosità degli indicatori BES allo scopo di acquisire stime prospettiche sulle tendenze alla diminuzione della natalità, il continuo invecchiamento della popolazione, il tasso di morbosità, l’andamento della ricchezza personale o familiare, anche in una ottica di comparazione con i paesi partner nell’Ue.

 

Ne consegue, pertanto, che la struttura di indicatori BES identifica gran parte di contenuti guidelines per una sicurezza economica a tutela dell’Interesse Nazionale.

Per il policy maker, infatti, perseguire concretamente una politica assertiva dell’IN significa attivare “on going”, nella prassi politica quotidiana, apposite e strategiche azioni dedicate.

Dato che affidarsi ad una struttura di dati che registrano con accuratezza il passato, non garantisce che la loro proiezione futura risulti sempre necessariamente affidabile.

 E ciò non per ragioni di natura tecnico-estrapolativa, bensì per la complessa concomitanza ed interdipendenza di impatti/minacce di natura mista:

 geopolitica, militare, climatica, terroristica, alimentare, ecc., che andranno a comporre lo scenario finale da prevedere.

In tal senso appare molto lodevole che il governo tedesco, come già quelli di altre importanti nazioni tra le quali gli USA, abbia per la prima volta emanato un piano denominato:

“Strategia integrata per la sicurezza nazionale”, che contempla una serie di minacce ben più ampia di quelle sopra indicate.

E sarebbe auspicabile che anche il nostro paese emanasse un documento sulla sua strategia per la sicurezza nazionale, poiché in Italia il rapporto tra sicurezza economica ed IN risulta più fortemente condizionato che in altri dalla combinazione di:

a) priorità delle misure di politica interna ed estera e

b) gestione del vincolo esogeno connesso alla cessione di sovranità connessa in primis all’operato della UE, così come anche a quello di organismi europei indipendenti, quali la banca centrale BCE ed autorità come ESMA, EBA ed EIOPA.

Sarebbe infatti illusorio pensare che interesse nazionale e interesse europeo coincidano, stanti ad esempio le ben note difficoltà e limitazioni operative all’implementazione, da parte di Bruxelles, della politica estera, che svolge invece un ruolo pivotale nelle scelte di geoeconomia di ogni stato membro.

Ne discende pertanto il compito, per il governo di ciascuno stato membro, di migliorare la propria sicurezza economica difendendo l’interesse nazionale dalle conseguenze non benefiche, o deleterie, ascrivibili alle proposte di altri stati membri, se dotati di maggiore potere persuasivo sul piano delle scelte strategiche di politica economica dell’unione.

Cercando di sostenere, con l’affinamento di alleanze diplomatiche tattiche e di politiche comunicative assertive, le esigenze connesse alle peculiarità idiosincratiche del proprio paese (le vicende dell’immigrazione sono un esempio calzante al riguardo).

Ma potere operare significativamente a tale scopo postulerebbe innanzitutto la necessità di inserire le politiche per la sicurezza economica nazionale in uno spazio operativo più ampio di quello ora consentito sul piano istituzionale dal voto all’unanimità su temi di vitale interesse per gli stati membri della UE, come quelli della politica estera e della sicurezza UE.

E, però, la delicatezza delle modifiche istituzionali richieste al riguardo comporterebbe inevitabilmente complesse azioni di tatticismo diplomatico, più facili da gestire quando realizzabili nell’ambito della “Cooperazione rafforzata”.

 

Rimangono comunque di indiscutibile rilevanza strategica, all’indiretto perseguimento dell’interesse nazionale, i contributi della UE in materia di sostegno finanziario (si pensi al PNRR) a riforme ed investimenti, ovvero alle preziosissime opportunità di economie di scala ottenibili con progetti di spesa comune connessi all’implementazione dell’autonomia strategica ed al “near-shoring” europeo di delocalizzazioni industriali.

Sarebbe lungo elencare le aree di intervento per tali azioni di assertività, peraltro già notorie:

dalla realizzazione di un pieno mercato UE dell’energia,

alla prevenzione degli effetti distorsivi connessi agli Aiuti di Stato,

ad un più sinergico utilizzo degli strumenti di difesa commerciale,

 alla calibrazione temporale dell’impatto economico degli aiuti europei sul Green Deal, ecc.

Un insieme di fattori, però, accomunati da un unico denominatore, vale a dire il fatto che è in primo luogo la crescita a garantire a tutti la stabilità.

 Da qui l’interesse europeo, e ad un tempo nazionale, ad evitare fughe in avanti, come potrebbero essere ad esempio quelle di volersi a tutti i costi rendere indipendenti dalla Cina sulla produzione di semiconduttori o di pannelli solari.

Mentre è riconosciuto che, per rendersi indipendenti sui semiconduttori, sarebbero necessari decenni, e che invece per ridurre la dipendenza dalle batterie entro il 2030 sarebbe necessario investire oltre 160 miliardi di USD. 

Poiché tutti ricordiamo che la Cina ha però nel tempo abusato dell’architettura regolatoria, economica e finanziaria globale, sfruttandone i benefici ma troppo spesso rifiutandosi di adeguarsi alle regole, è necessario definire un approccio geoeconomico verso Pechino, che riesca a rendere compatibili collaborazione industriale e dialogo politico.

Un primo indirizzo operativo è a tale proposito contenuto nella recente comunicazione presentata dalla Commissione in relazione alla sicurezza economica dei paesi UE, e che individua quattro tipi di rischi relativi:

alle catene del valore, alle infrastrutture critiche, alla sicurezza delle tecnologie e alla coercizione economica.

Trattasi di una tematica molto spinosa in quanto vi si prospetta l’ipotesi di esaminare ex ante gli investimenti europei diretti verso paesi terzi.

Ai fini della valutazione dell’impatto complessivo di siffatte proposte sulla sicurezza economica andrà, però, tenuto conto delle diversità di riposizionamento geoeconomico dei paesi membri UE verso la Cina, così come delle probabili ritorsioni che potrebbero essere attivate da paesi terzi, colpiti da tali eventuali limitazioni al flusso degli IDE, anche in termini di parallele restrizioni dei loro potenziali investimenti nella UE.

Ad oggi rimane quindi da stabilire, sul piano della condivisione politica degli stati membri, un accettabile punto fermo nella definizione di siffatte misure di tutela della sicurezza economica, tra il favorire/sfavorire, con giustificato equilibrio, autarchia e protezionismo, rispetto al paradigma storico della libertà di movimento dei capitali.

 Dovendosi pertanto valutare, in particolare con applicazioni di intelligence economica, le modalità di distribuzione prospettica degli impatti geoeconomici di siffatte proposte tra i paesi membri.

Ma tale scopo potrebbe essere utile riflettere anche su un diverso modo di interpretare la politica industriale, come quello recentemente proposto negli USA da” J.Yellen” e “J. Sallivan”  in chiave presuntamente non protezionistica, ed anche in risposta alle obiezioni sull’IRA.

 Preconizza l’esigenza di adottare due tipi di politica industriale globale:

la politica industriale estera e la politica industriale congiunta.

La politica industriale estera si riferisce ai paesi che utilizzano gli strumenti della politica estera per far avanzare le loro politiche industriali nazionali all’estero.

La politica industriale congiunta è quando i paesi allineano le loro strategie interne attraverso il coordinamento internazionale.

Arrivando alla conclusione, opinabile, del sostegno a catene di approvvigionamento collaborative, in cui i diversi Paesi trovano nicchie nelle complesse reti di produzione globali.

 Così che queste catene, distribuendo il valore aggiunto economico in tutto il mondo, e dando a più Paesi l’opportunità di beneficiarne, rendono compatibile la politica industriale interna con l’internazionalismo all’estero.

Trattasi di un approccio opinabile nella misura in cui non si specifica, ad esempio, come per la UE e l’Italia il rischio di delocalizzazioni industriali oltre atlantico, attratte dalle maxi incentivazioni USA dell’IRA, possa risultare benefico.

In realtà quello che emerge, quindi, in relazione a siffatte tematiche geoeconomiche connesse con l’IN, è che le politiche nazionali di de-risking appaiono ancora una sfida molto difficile da praticare, in assenza di una valutazione basata su dati, e di una valida metodologia di stima dei rischi che esistono nei confronti di stati amici od alleati, idonea a rendere complementari e non avversarie le rispettive transizioni di tecnologie verdi.

Molto diverso da tale approccio, e più trasparente, appare invece quello UE ad investimenti da realizzare nell’ambito “IPCEI”, per beni pubblici europei, per rafforzare il fattore di condivisione di valori economici oltre i confini nazionali con apposite partnership industriali, e per raggiungere obiettivi di innovazione radicale e di grande rilevanza tecnologica e produttiva.

Uno programma politico di condivisione multi-obiettivo progettato in una ottica geoeconomica oltrepassante i confini territoriali della UE, e che potrebbe risultare molto vantaggioso per l’IN, appare ora quello connesso alla importante iniziativa di diplomazia economica di  trasformazione del progetto Mattei nel piano Africa.

Trattasi di una iniziativa tanto sfidante quanto rischiosa, sia per il nostro paese che per la UE – che ha riservato all’Africa 150 dei sui fondi Global Gateway – ma che sarà certo meglio definita solo in occasione della Conferenza Italia-Africa del Novembre prossimo.

 Dovendosi nel frattempo implementare su grande scala un approccio multistakeholders, fondamentalmente ma non esclusivamente ancorato a energia, migranti e finanziamenti, oltre ad identificare i singoli paesi beneficiari.

Approcci geoeconomici in parte similari e potenzialmente valutabili al riguardo, potrebbero essere quelli in atto da parte del dipartimento del commercio statunitense con una nutrita serie di paesi indo-pacifici nell’ambito della iniziativa IPEF:

Indo-Pacific Economic Framework.

Così da potere tra l’altro creare, ai sensi di quanto previsto nello “European Critical Raw Material Act UE”, una sorta di “African Economic Framework” che possa preludere alla definizione di vantaggiosi accordi con tali paesi per la fornitura di materie prime “critiche”, e relativa industrializzazione, idonea a marcare le differenze con il trattamento loro riservabile dalla Cina.

Stante, comunque, l’esigenza di attivare una maggiore mole di investimenti nel nostro paese, un aspetto di grande rilevanza sistemica per l’Italia in tema di sicurezza economica dovrebbe eminentemente focalizzarsi sulla attrazione, attivazione e monitoraggio degli investimenti esteri, nella forma sia green field che di M&A.

 Con l’emergere inevitabile dell’importanza per antonomasia delle funzioni regolatorie del Golden Power.

 Qualora la UE riuscisse, inoltre, a mettere d’accordo i paesi membri nel monitorare uniformemente anche gli investimenti europei in uscita, ne potrebbe conseguire di dover eventualmente ricalibrare anche le agevolazioni finanziarie che ciascuno stato membro eroga ad investimenti esteri in entrata da paesi che non rispettano ad es. le regole antidumping, ovvero diritti umani o civili. Dato che gli investimenti, a differenza del commercio, sono prerogativa delle politiche nazionali.

Poiché minacce di spionaggio economico-finanziario e di dipendenza economica, anche da paesi membri UE e non solo da potenze autocratiche, possono essere certamente lesive di interessi vitali del nostro paese, gli ambiti operativi del “Golden Power”, di maggiore impatto sulla sicurezza economica, attengono ora alle mascherate e strumentali vesti istituzionali con le quali stati esteri, nascosti da paraventi societari, o veri e propri hacker al loro servizio, potrebbero impadronirsi delle più avanzate innovazioni nei campi dell’AI o delle tecnologie emergenti, quando non pilotare in Italia l’attività di importanti organismi di informazione e telecomunicazione.

Il perseguimento dell’IN attraverso azioni di sicurezza economica attiva richiede di essere esteso ben oltre l’ambito specifico del “Golden Power”, data la rilevanza strategica oggi ascrivibile alla tutela dell’utilizzo delle infrastrutture dorsali di connettività digitale, anche subacquee come i gasdotti, così come dell’uso sicuro dello spazio per utilizzi civili, oltreche militari.

Non si condivide quindi l’opinione di che tende ancora a considerare ambiti separati il “Golden Power” e la” politica industriale”, nella misura in cui compito prioritario di questa ultima per l’interesse nazionale comporta sia di selezionare trend produttivi strategici, che di colmare gap accumulati nel campo di quelli che si annunciano come i nuovi trend emergenti nei prossimi anni:

nell’elettronica – mirando in specifico all’AI – nel recupero dei materiali, nella diffusione dell’innovazione in generale.

E cercando di realizzare, con oculate forme di incentivazione, una politica industriale in una ottica di convivenza di più stato con più mercato, facilitata in tal senso dall’operato di eventuali fondi sovrani dedicati.

Soprattutto allo scopo di colmare il grave gap relativo di produttività, che l’Italia si porta addosso da troppi anni, e difficile da sradicarsi in vista dei probabili aumenti retributivi in prospettiva connessi al recupero del potere d’acquisto andato perduto con l’inflazione.

Gap da colmare anche con misure per l’efficientamento del capitale intangibile delle aziende, sia tecnico che umano, connesso alla gestione della formazione al lavoro.

Per soddisfare esigenze di sicurezza economica che promanano da una mancata, e tuttora carente, programmazione previsiva da parte dei policy maker del grado di discordanza tra esigenze del mercato del lavoro e formazione scolastica.

Una politica industriale per la sicurezza economica che non potrà inoltre prescindere anche dalla tutela da minacce di natura sempre di più digitali, riconducibili all’emergere  di notorie coercizioni e costrizioni economiche da parte delle oligarchie tecnologiche di concentrazione, per l’appunto digitale.

 Il riferimento è in primis all’operato dei big tech, sia per il loro strapotere di mercato (posizione dominante) nel fagocitare potenziali piccoli concorrenti, ma soprattutto per la loro capacità di selezionare/incanalare i flussi di informazione sulla rete e sui social, ed in modo sufficiente ad  influenzare opinioni pubbliche e giudizi politici, a detrimento dell’IN.

E con la necessità, quindi, di implementare azioni di carattere normativo-certificativo sia sul loro operato, sia su quello di piattaforme web estero-guidate, capaci di operare sottilmente sul versante informativo dei social, con celati e malevoli intenti di guerra cognitiva.

In tema di vincolo esogeno di origine dell’unione, sono infine da considerare anche le declinazioni delle politiche UE di adattamento agli impatti climatici.

Dato che, in particolare per le proposte in tema di “edifici green”, sembrerebbe palesarsi una potenziale distonia tra il nostro paese e Bruxelles, fondamentalmente incentrata sull’esigenza di una maggiore gradualità di applicazione temporale delle stesse.

Nella misura in cui l’onere statale per efficientamento energetico abitativo, stante la numerosità dei proprietari di immobili potenzialmente candidabili ai bonus edilizi nel ristretto lasso di tempo ancora residuo, risultasse conflittuale con i criteri di costo opportunità nell’allocazione ottimale della spesa pubblica.

Da ultimo, in considerazione dell’elevatezza relativa del debito pubblico italiano, non possono ignorarsi gli impatti della politica monetaria ai fini della sicurezza economica e dell’IN.

In merito sono notori i punti di criticità relativi ai ritardi nell’attuazione del mercato unico dei capitali e alla mancanza di un sistema europeo di assicurazione dei depositi.

E l’imputato non può che essere nuovamente la UE, quando si tratti della non ancora efficiente gestione delle crisi bancarie, se comparata alla elasticità del quadro giuridico di vigilanza operante negli USA.

Inoltre, negli attuali frangenti temporali fortemente segnati dal riemergere dell’ inflazione, al fine di considerarne gli impatti occulti sulla stabilità e la sicurezza economica, i policy makers  dovrebbero monitorare ed essere sensibili anche gli esiti della cessione di sovranità nazionale ad una entità terza ed  indipendente dalle politiche nazionali, come la BCE, seguendo in particolare l’andamento intertemporale dell’indicatore cosiddetto quoziente di equità, che indica le variazioni relative tra crescita economica e inflazione.

Un indicatore, quindi, che segnala indirettamente se la tutela della stabilità monetaria comporti dei costi reali netti in termini di crescita.

 E’ già stato autorevolmente osservato che, più il quoziente è alto, più si riduce il rischio di costi da stabilità monetaria;

quindi con impliciti minori oneri per le politiche di bilancio nazionali di ridistribuzione dei redditi.

Mentre l’errore della BCE, di avere fatto trascorrere un periodo inerziale troppo lungo prima di alzare i tassi, in presenza di una inflazione che si faticava ad intravedere così elevata e persistente come quella attuale,   è invece un tipico esempio della perdita di tempestività e di autonomia operativa di una banca centrale sovranazionale rispetto ad una nazionale, che sono state sacrificate in nome della mitigazione delle differenze strutturali di produttività presenti nelle economie dell’area euro.

Con impatti indiretti sul nostro paese nella misura in cui durata ed elevatezza dei tassi possono contribuire a controbilanciare negativamente gli effetti del PNRR, ovvero ad attenuare il ritmo della ripresa economica.

Peraltro, in tema di lotta all’inflazione e di tassi elevati gestiti dalla BCE, è stato anche già suggerito che, per paesi ad elevata volatilità dei prezzi, come l’Italia, la strada maestra è quella di affidarsi a più penetranti interventi dell’Antitrust a tutela della concorrenza.

Ai fini delle politiche per l’IN emerge quindi la significativa importanza da riservare oggi al monitoraggio comparativo della disarmonia delle regole in ambito bancario-finanziario.

  Ovvero: degli svantaggi/vantaggi relativi, connessi ad es. all’impatto sulla operatività bancaria delle norme emanate in tema dell’ammontare del capitale di vigilanza, della contabilizzazione dei crediti non in bonis;

e ciò anche in relazione alle diverse incidenze del ricorso al finanziamento bancario ed alle differenti caratterizzazioni dimensionali delle imprese tra diversi stati e diverse giurisdizioni.

Tenendo comunque presente il monito segnalato da Mario Draghi in tema di crisi bancarie, nel suo discorso al M.I.T.:

 “Data la dimensione limitata di queste crisi, i governi dovrebbero finanziare, se necessario, qualsiasi intervento necessario e evitare di creare un conflitto per le banche centrali tra perseguire gli obiettivi della politica monetaria e quelli della stabilità finanziaria”.

 

 

CINA. TONFO DELL’EXPORT,

LA CRISI È CONCLAMATA.

Notiziegeopolitiche.net - Francesco Giappichini – (9 Agosto 2023) – ci dice:

 

La notizia è di poche ore fa:

in luglio le esportazioni dalla Cina verso il resto del mondo sono crollate del 14,5% su base annua.

Un pessimo dato, che non solo segue il -12,4% registrato in giugno, ma si accompagna a un deprimente calo delle importazioni, pari anch’esso al -12,4 per cento.

L’import del gigante asiatico è del resto in declino per il nono mese consecutivo, e in giugno il calo è stato del 6,8 per cento.

Tornando all’export, siamo innanzi al maggior calo dal febbraio ’20 (-17,2%), quando l’economia di Pechino era bloccata dalla pandemia.

E anche in questo caso si tratta di un declino:

a parte un piccolo rimbalzo in aprile, le vendite all’estero stanno diminuendo costantemente da ottobre ’22.

E se è vero che i mercati prevedevano una flessione del commercio estero cinese, nessun “think tank” al mondo aveva prefigurato un tonfo di tali proporzioni.

 Quasi come riflesso pavloviano, gli analisti hanno puntato il dito contro il calo della domanda:

sia le ricorrenti minacce di recessione nell’occidente, sia un’inflazione che galoppa su scala globale, indebolirebbero la richiesta internazionale di beni cinesi.

Tuttavia rileverebbero anche altre ragioni, legate al ruolo geostrategico della Cina: dalle tensioni geopolitiche con gli Stati Uniti, al desiderio di alcuni Paesi occidentali (Germania in primis, ma anche l’Italia) di ridurre la dipendenza da Pechino, o comunque di diversificare le catene di approvvigionamento.

Com’è noto, le esportazioni rappresentano storicamente un fattore chiave per la crescita cinese, di conseguenza il loro calo ha un impatto diretto sui consumi interni, e quindi sull’occupazione, specie giovanile.

 Questi dati, secondo gli osservatori, finiscono dunque per indebolire in modo decisivo la seconda economia mondiale:

 c’è chi parla di un futuro di stagnazione, e alcuni segnali di deflazione sembrerebbero già anticipare questa fase.

Insomma il tanto atteso rimbalzo, quello successivo alla revoca delle draconiane misure legate alla pandemia, non c’è stato.

 E il prodotto interno lordo (PIL), complici il calo dei salari reali e la crisi del mercato immobiliare, è cresciuto solo dello 0,8%, tra il primo e il secondo trimestre ’23.

Così gli economisti più pessimisti prefigurano addirittura “a liquidity trap”, ovvero il fenomeno della «trappola della liquidità», peraltro già vissuto dai vicini giapponesi negli Anni novanta.

 In questo scenario, in cui ogni politica monetaria diviene inefficace, i consumatori riducono drasticamente i consumi:

«In altre parole, c’è il rischio che le imprese e le famiglie cinesi, spinte dal loro sentimento molto negativo sulle prospettive economiche, preferiscano disinvestire e ridurre l’indebitamento, alla luce del calo della generazione di entrate», spiega Alicia Garcia-Herrero, economista della banca d’affari Natixis.

Questa situazione, che mette a rischio la tenuta sociale del Dragone, potrebbe ostacolare in modo decisivo l’auspicata fase di espansione globale.

 Ciò che però soprattutto sgomenta gli osservatori, è la mancanza di misure idonee a invertire il ciclo.

Da un lato la leadership che ruota attorno al presidente Xi Jinping non rinnega la propria strategia dirigista, basata sul controllo dell’economia, da parte del Partito comunista cinese.

 Dall’altro lato, le casse statali sono pressoché vuote, e il governo è costretto ad astenersi da un efficace intervento di sostegno all’economia, che farebbe schizzare il debito pubblico a cifre monstre (ben oltre il 100% del PIL).

 

Sulle macerie della Cristianità

in Occidente è sorta una

nuova religione woke.

Ilfoglio.it – (22 MAG 2023) – Redazione – Foglio Internazionale – ci dice:

    

Post-cristiano’ è diventata una formula familiare negli anni '60, per definire la cultura occidentale contemporanea.

La setta del “risveglio” è n culto che non prevede redenzione, ma solo rovine

"Sulla scia della crisi della fede dei vittoriani e della loro invenzione dell'agnosticismo (il termine fu coniato da Thomas Huxley nel 1869), nel XX secolo, dopo due millenni di religione cristiana, un'era post-cristiana è stata identificata da molti pensatori significativi, compresi gli stessi cristiani” scrive l’editor letterario di “Quadrant Barry Spurr”.

 “‘Post-cristiano’ è diventata una formula familiare negli anni '60, per definire la cultura occidentale contemporanea, e la morte di Dio veniva riportata con sicurezza.

 In ciò che resta di una civiltà occidentale il cristianesimo è stato quasi totalmente evacuato dalla cultura dominante.

 Nelle società occidentali, le chiese che non sono state chiuse si stanno svuotando. Come ha osservato nel 2020 il saggista britannico “Jan Morris”, ‘gran parte dell'Europa occidentale … è ora quasi impenetrabilmente laica.

Pochi di noi vanno in chiesa o in cappella, la maggior parte di noi è probabilmente agnostica se non decisamente atea, e il resto è diviso in infinite divisioni settarie della fede’.

È stato riferito, l'anno scorso, che ogni settimana negli Stati Uniti chiudevano una decina di chiese.

Ma come “G.K. Chesterton” ha avvertito:
‘Quando gli uomini scelgono di non credere in Dio, da allora in poi non credono in nulla, diventano capaci di credere in qualsiasi cosa’
.

Lo abbiamo visto chiaramente, nella storia recente, nell'empio comunismo sovietico, nel nazifascismo e nella rivoluzione culturale maoista, che promettevano tutti un paradiso in terra per i veri credenti e, in ogni caso, offrivano un inferno in terra a decine di milioni di esseri umani che, non rispettando la propaganda di questi sostituti della religione, furono vittime della loro inumana ferocia.

 Il doppio agente britannico “George Blake”, di educazione calvinista olandese prima di iniziare a spiare per il KGB, ha riconosciuto la somiglianza tra la religione e tali regimi:

 ‘La religione promette alle persone, diciamo, il comunismo dopo la loro morte. Perché in paradiso siamo tutti uguali e viviamo in circostanze meravigliose.

E il comunismo promette alle persone una vita meravigliosa qui sulla terra, e neanche da questo è venuto fuori nulla’.

Ora, ai nostri giorni stiamo assistendo a una nuova forma di tirannia totalitaria, che promette un mondo utopico di ha perfezionato la giustizia sociale per i suoi aderenti e getta nell'oscurità esterna (in quella che è diventata nota come” cancel culture”) coloro che non si adegueranno.

È la nuova religione woke.

Si crogiola in tutti i peggiori elementi della mentalità religiosa, nella sua forma più feroce e fanatica, ma senza nessuna delle caratteristiche redentrici della sensibilità religiosa, o delle sue virtù.

 Il senso dell'umiltà e dell'indegnità, ad esempio, componente essenziale della vocazione del cristiano, è al di là della comprensione woke, che fa sfoggio della propria dignità (e, al contrario, dei deplorevoli difetti di tutti gli altri) in ogni occasione.

Il perdono, il più attraente e umano degli insegnamenti del cristianesimo, è del tutto sconosciuto alla Chiesa Woke.

Nell'azione redentrice del perdono, il peccatore viene guarito e il peso della colpa viene sollevato;

chi ha agito male viene risanato.

Le implicazioni compassionevoli della parabola del figliol prodigo, ad esempio, con il suo indimenticabile momento di ricompensa e gioia, profusa non su un individuo che segnala virtù, ma su un trasgressore, celebrano il trionfo del perdonato.

Per l'odierna comunità woke, il perpetuo lancio di pietre contro i meno virtuosi fra loro stessi è la loro apprezzata ragion d'essere.

 La persecuzione di “George Pell” ha rivelato il peggior woke.

“Il cardinale Pell” era un obiettivo primario, in quanto bianco, maschio, conservatore e cristiano in uno dei più scandalosi processi mediatici e linciaggi di massa in Australia.

Come ha osservato il defunto “Papa Benedetto”:

nel corso di questa nuova crociata, si è generato un ‘particolare odio di sé occidentale che è a dir poco patologico’.

 Gli eletti woke si stabiliscono (come l'ex arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, ha affermato in un discorso della Settimana Santa nel 2022) ‘in uno stato di giustizia eterna a spese di tutti gli altri’.

Il pensiero di gruppo del vangelo woke obbligatorio è ora pervasivo negli istituti scolastici, dall'asilo fino alle università.

 Orgogliosa certezza dell'elezione.

Questo è un fenomeno familiare dalle manifestazioni meno attraenti della storia cristiana, come nelle credenze e nelle pratiche dei calvinisti puritani del Sedicesimo e Diciassettesimo secolo, e nei culti fondamentalisti, fino ad oggi, in tutto il mondo.

 Una convinzione di rettitudine superiore è fondata sulla benedetta certezza degli Eletti di essere separati dai ben più numerosi e ripugnanti peccatori del resto dell'umanità che sono predestinati alla punizione eterna all'inferno.

La mentalità della Chiesa Woke del nostro tempo ricorda questo assolutismo in bianco e nero.

 Dannazione dei non credenti.

Chiunque non sia disposto ad aderire agli articoli di fede woke deve essere gettato nell'oscurità esterna della Siberia della “cancel culture”, l'odierna regione infernale.

Proselitismo pubblico.

I lettori più anziani ricorderanno la popolarità dei ‘pulpiti lungo la strada’ al di fuori delle chiese di tendenza evangelica.

 Ora tali sono stati sostituiti da cartelli come ‘il razzismo NON è il benvenuto’ che proliferano nelle nostre città.

“George Orwell” ha avvertito che una volta che il linguaggio è degradato a senza senso, allora il pensiero è pervertito e le persone sono pronte per la tirannia.

Mantra quasi liturgici.

 Molti altri aspetti della storia del credo e della pratica religiosa potrebbero essere addotti.

Solo un altro è l'uso di mantra quasi liturgici, ripetuti all'infinito e senza pensare, come il giro di una ruota di preghiera (‘Dì qualsiasi cosa mille volte’, sosteneva quel maestro della propaganda di Goebbels, ‘e la gente ci crederà’).

In genere, queste parole ripetute a pappagallo sono vere e proprie bugie.

 Ad esempio, i termini spesso ripetuti e autocelebrativi per descrivere un evento, una società o un'istituzione come ‘inclusivi’, ‘diversità’ o ‘empatia’ (una delle principali parole d'ordine woke).

Ma c'è qualcosa di meno inclusivo o empatico per lo studente cristiano che si oppone all'aborto e al matrimonio tra persone dello stesso sesso e rifiuta di usare pronomi non binari;

o per una professoressa femminista di filosofia, come “Kathleen Stock”, cacciata dall'inclusiva e diversificata “Università del Sussex”, solo per aver espresso la propria opinione che i transessuali da uomo a donna non erano vere donne.

Il mondo, in generale, sta impiegando molto tempo per svegliarsi - e parlare contro - la tirannia sconvolgente della nuova religione del risveglio, e più tempo ci vuole perché ciò accada, più le morse che negano la vita sarà posto sulle nostre libertà di pensiero e di parola un tempo amate.

Perché il male prosperi, tutto ciò che è necessario è che le persone buone rimangano in silenzio”.

 

 

 

 

 

Verso la dittatura del linguaggio

inclusivo? Difendiamoci

intanto con l’ironia.

Beemagazine.it -Enrico Nistri – (23-3-2023) – ci dice:

 

“Negli ultimi trent’anni la tendenza a utilizzare il lessico come strumento di pedagogia sociale ha conosciuto uno sviluppo più ampio e più subdolo, perché non si manifesta come un’imposizione dall’alto, ma è il prodotto di una pressione che, almeno all’apparenza, proviene dal basso”.

“Nell’ultimo decennio si è passati dalla guerra delle parole alla guerra degli articoli e delle desinenze.

Il revisionismo ortografico e il revisionismo del linguaggio di genere”. L’asterisco ugualitario.

S’impone “la ricerca di un Caffè Aragno dello spirito”.

È sempre stata aspirazione dei regimi e dei movimenti totalitari, o che ambiscono a esserlo, la tendenza ad alterare le norme grammaticali e lo stesso lessico per esercitare un’influenza globale non solo sui comportamenti, ma sullo stesso modo di parlare, e, nelle intenzioni, di pensare del popolo.

Cominciò la Rivoluzione francese, nella sua fase culminante, ribattezzando i mesi dell’anno, nell’ambito di un più vasto disegno di scristianizzazione manifestatosi nel culto della Dea Ragione (a suo modo, la Chiesa cattolica era stata assai più cauta, sovrapponendo le nuove festività religiose a precedenti festività pagane, come le “Feriae Augusti o il “sostizio d’Inverno”).

 

In Italia sono ben noti i tentativi in questo senso del regime mussoliniano, prima con l’affiancamento (e negli ultimi anni persino con la sostituzione) nella datazione dell’Era Fascista all’Era Cristiana, poi con l’imposizione dell’uso del “voi” al posto del “lei” come formula di cortesia.

Per tacere della lotta a oltranza ai barbarismi, con risultati ora durevoli (autista al posto di chauffeur, espressione ormai cara solo agli snob, tramezzino per sandwich) ora fortunatamente effimeri, come “arzente” per cognac.

Se l’imposizione dell’“erina” – come i cattolici intransigenti avevano ribattezzato l’Era Fascista – trasudava un blasfemo velleitarismo, alcune proposte del regime non mancavano di una certa razionalità;

peccato che fossero imposte a forza di “fogli d’ordine” e di “veline” per la stampa. Il “voi” è senz’altro una forma più diretta e meno ambigua del “lei” e a farne l’elogio fu un fine letterato come Bruno Cicognani, con un elzeviro sul “Corriere della Sera” che fu preso, ahimè, troppo sul serio da Starace, tanto che la Rizzoli si sentì in dovere di ribattezzare “Annabella” la sua rivista femminile, che originariamente si chiamava “Lei”.

Soprattutto nel Mezzogiorno il “Voi” era (e in parte resta) la forma più diffusa e anche dopo la guerra sopravvisse nell’ambito cinematografico (il “voi dei doppiatori”) e non solo.

Nella prima serie dell’indimenticabile Maigret con Gino Cervi, i personaggi utilizzavano ancora la seconda persona plurale come forma di cortesia, forse ricalcando l’uso francese di “voussoyer”.

Nel corso degli ultimi trent’anni la tendenza a utilizzare il lessico come strumento di pedagogia sociale ha conosciuto uno sviluppo più ampio e più subdolo, perché non si manifesta come un’imposizione dall’alto, ma è il prodotto di una pressione che, almeno all’apparenza, proviene dal basso.

Sotto questo profilo, il mezzo secolo compreso fra il 1945, in cui non era più obbligatorio dare il Voi, e il 1995, quando vocaboli con una loro dignità letteraria e persino canzonettistica, come negro o zingaro, vennero posti al bando in nome del politicamente corretto, può essere considerato l’ultimo periodo di autentica libertà lessicale, e non solo, forse.

Si può avere un bell’argomentare che negro è forma nobile, perché derivata direttamente dal latino, come biliardo rispetto a bigliardo, o familiare per famigliare, e che nulla ha a che vedere con il dispregiativo nigger inglese.

Si ha un bel citare la “terra negra” del carducciano Pianto antico: la “erre” rapita dai correttori di bozze è ormai un dato di fatto inoppugnabile (e del resto nelle scuole si leggono sempre meno le poesie del cantore dell’“eterno femminino regale”).

Dalla sfera dei riferimenti etnici, il revisionismo ortografico si è spostato a quella del sesso, o meglio del genere, termine slittato dall’ambito ortografico a quello bioetico ed esistenziale sul modello dell’inglese gender.

 Cominciò il ministro della Pubblica Istruzione Berlinguer varando uno “Statuto degli studenti e delle studentesse”, precisazione superflua perché “studente” è un participio presente indeclinabile (diverso sarebbe stato il caso di uno “Statuto degli scolari e delle scolare”).

Per lo stesso motivo sarebbe di cattivo gusto utilizzare come femminile di presidente “presidentessa”, vocabolo che ricorda una gustosa pochade francese della Belle époque.

Si è proseguito con l’imposizione dell’”anglismo gay” per designare un omosessuale, scelta per altro in parte giustificata dal fatto che nel lessico familiare (o famigliare) per indicare un “diverso” si utilizzavano termini ben più crudi.

Si è continuato con lo sdoganamento degli acronimi da settimana enigmistica – da Lgtb a Lgbtquia – cui le varie minoranze sessuali ricorrono per definire se stesse, dimostrando una propensione per le sigle pari soltanto a quella dei militari (qualcuno ricorda il Pao Pao di Vittorio Tondelli?).

 

Nell’ultimo decennio si è passati dalla guerra delle parole alla guerra degli articoli e delle desinenze, guerra ancora più insidiosa perché attenta non solo al vocabolario ma alla stessa grammatica.

Prima vittima è stata la consuetudine, dettata da esigenze di chiarezza, di far precedere il cognome femminile dall’articolo determinativo.

Sarebbe interessante capire come e perché tale uso, tutt’altro che dispregiativo, sia scomparso già nel corso del Novecento per i maschi, tanto che nei libri di storia si parla del Cavour e del Crispi, ma non più del Giolitti, del Mussolini, né tanto meno del Togliatti o del Craxi (l’uso è rimasto invece nel linguaggio giuridico, nelle sentenze di molti magistrati, e nel lessico familiare, almeno in Toscana).

Ma assai più imbarazzanti sono i dubbi su come declinare gli appellativi con cui rivolgersi a donne arrivate a posizioni di potere, anche perché fra le esponenti del gentil sesso (si può ancora impunemente dire così?) le preferenze non sempre coincidono e si rischia comunque di urtare delle suscettibilità.

 Il direttore o la direttrice, termine quest’ultimo che può apparire riduttivo, perché un tempo era pertinenza delle vecchie direttrici didattiche delle elementari, non ancora divenute dirigenti scolastiche?

Il ministro o la ministra, espressione che rischia di incoraggiare irriverenti giochi di parole evocativi del tempo in cui compito precipuo della donna era considerato scodellare la minestra nel focolare domestico?

L’avvocato o l’avvocata, termine quest’ultimo che sembrava confinato al Salve Regina, e che oggi – complice forse la secolarizzazione della società – sta prendendo piede?

 Donna medico o medica (in quest’ultimo caso il pensiero rischia di cadere sull’erba?).

Il rischio gaffe è sempre in agguato, anche perché il senso dell’humour non è particolarmente diffuso fra le femministe, come constatava Indro Montanelli, che per un certo periodo fece seguire i suoi caustici “Controcorrente” con una spiegazione a uso delle suddette, a suo dire povere di comprendonio.

La questione delle desinenze è tuttavia più complessa.

Com’è noto, a differenza del latino, ma anche del tedesco, l’italiano non ha il genere neutro;

in più è una lingua flessiva, a differenza dell’inglese, nel senso che ogni articolo, pronome (con qualche eccezione, come il gli che ormai nell’uso corrente sta anche per le o a loro), sostantivo e aggettivo sono declinati a seconda del genere.

Di conseguenza quando in una frase sono presenti vocaboli maschili e femminili, l’aggettivo è concordato a un maschile che di fatto fa le veci del neutro.

 È una vecchia regola, insegnata da generazioni di maestrine, che è senz’altro sbilanciata a favore del maschile ma non manca di una sua praticità.

 Per eliminare tale obiettiva disparità di trattamento si è affacciato l’uso di quello che è stato chiamato “l’asterisco egualitario” o addirittura lo schwa, strano simbolo ortografico a forma di e rovesciata, diffuso soprattutto presso le amministrazioni progressiste.

Per evitare l’uso di quello che viene definito il “maschile generalizzato”, o per evitare formule come “signore e signori”, ma anche per rivolgersi senza imbarazzo a qualcuno la cui identità sessuale è incerta, si fa terminare la frase con un segno asessuato, una sorta di artificiale desinenza neutra.

Una violenza alla tradizione, che per altro risolve il problema solo nel linguaggio scritto, perché per chi legge al segno non corrisponde un suono specifico, e che oltre tutto mina uno dei pregi dell’italiano.

La nostra infatti ha il vantaggio di essere una lingua che si legge come si scrive, un po’ perché la sua codificazione ortografica è stata tardiva, un po’ perché, rispetto a una lingua romanza “usurata”, come il francese, ha mantenuto quasi inalterate dal tempo di Dante la sua pronuncia e la sua ortografia.

Si potrebbe essere tentati di liquidare l’“asterisco egualitario” come una moda effimera quanto innocua, destinata come tutte le mode a passare di moda.

L’esperienza insegna purtroppo che non è così, e la tesi di Michel Foucault, citata spesso dai teorici di una nuova ortografia, secondo cui il linguaggio sarebbe un “meccanismo di controllo”, si presta anche a una lettura rovesciata.

Coniare nuove parole, alterare la grammatica, rivoluzionare le desinenze e persino la pronunzia influenza il modo di parlare e di scrivere, ma anche di pensare.

 E il “linguaggio inclusivo” rischia di essere esclusivo per chi non vi si attiene, a rischio di essere tenuto fuori dai salotti buoni del giornalismo, dell’università e dell’editoria.

Certo, per ora almeno – nonostante alcune iniziative di enti pubblici e ambienti universitari, e i tentativi della Commissione Europea – non esiste nessuno “Starace vestito d’orbace” che c’imponga di stravolgere le nostre consuetudini, imponendoci come parlare, come salutare, come scrivere.

 È questa la grande differenza fra le dittature del passato e la realtà odierna.

Ma è difficile non scorgere negli sforzi di modificare, sia pure dal basso, il linguaggio, il tentativo di creare un uomo o una donna nuovi, pardon nuov*: apolidi, o magari con tre cittadinanze, “fluid*”: priv* di una precisa identità etnica, culturale, sessuale, persino alimentare, vista la pretesa di farci nutrire d’insetti per il presunto bene del pianeta.

 Qualcosa, a pensarci bene, di molto simile all’“ultimo uomo” di nietzschiana memoria.

Dinanzi a questa deriva, l’unica alternativa sembra per il momento l’ironia.

 Quella che al tempo della non occulta dittatura fascista faceva raccontare ai vari Longanesi, Pannunzio, Missiroli, Flaiano barzellette sul regime nei caffè della capitale e Totò sul palcoscenico dell’avanspettacolo faceva battute su “Galileo Galivoi” per ironizzare sulla soppressione del Lei.

Per chi ambisce a opporsi alla dittatura del linguaggio inclusivo, forse s’impone la ricerca di un Caffè Aragno dello spirito:

 quello vero, in via del Corso, ormai è ormai divenuto un “Apple Store”.

(Enrico Nistri)

 

 

 

“Tropic Thunder” ci ricorda quando

al cinema si poteva ancora ridere.

Wired.it - GIULIO ZOPPELLO – (13.08.2023) – ci dice:

 

La commedia action di “Ben Stiller” rimane uno dei migliori esempi di una demenzialità che oggi è stata bandita dai nostri cinema.

“Tropic Thunder”.

Jay Baruchel, Brandon T. Jackson, Ben Stiller, Robert Downey Jr e Jack Black sono i 5 protagonisti di “Tropic Thunder”

“Tropic Thunder” compie 15 anni, e lo fa forte di un'eredità tanto più centrale quanto rilevante a mano a mano che il tempo passa e ci accorgiamo che ridere è diventato sempre più difficile.

 Di base in quel 2013, “Ben Stiller” creò una summa cinematografica della demenzialità, di ciò che la parodia poteva donarci.

Ripensare a questa “commedia action”, al suo cast incredibile, alle gag e battute, significa fare un viaggio nel tempo, quando ancora il cinema era capace di farci ridere di sé stesso e di noi stessi.

Ridere facendo a pezzi il mito hollywoodiano.

“Tropic Thunder” possiamo definirla una delle ultime vere commedie americane, anche se la realtà è che parlare del film di “Ben Stiller”, una parodia dominata da una demenzialità pungente e dissacrante, richiede una capacità di analisi non da nulla.

Oggi sono passati esattamente 10 anni da quando sghignazzavamo grazie a questo grottesco e sovente sboccato film, che decostruiva la lunga tradizione dei “war movie hollywoodiani”, prendeva a sprangate lo “star system”,” l’industria dell’intrattenimento” (non solo cinematografica), con una libertà e un’anarchia incredibili.

La realtà è che oggi un film come Trophic Thunder sarebbe impossibile da realizzare, questo nonostante sia stato capace di mettere sul banco degli imputati ipocrisia, sessismo, razzismo, la violenza e tutto il peggio del peggio di quel mondo dorato che chiamiamo cinema.

 Film corale nel senso più universale, sceneggiato in modo perfetto da “Ben Stiller”, “Etan Cohen” e “Justin Theroux”, Tropic Thunder è stato però soprattutto uno degli ultimi colpi di coda, ultimi assalti della comicità irriverente e demenziale cara alla tradizione anglosassone, prima dell’oscurantismo moderno, in cui ridere è peccato imperdonabile, atto impossibile.

“Ben Stiller”, deus ex machina di “Tropic Thunder”, aveva concepito l’idea iniziale sul set di un altro grande film americano sulla guerra:

L’Impero del Sole di “Steven Spielberg”.

Il regista era stato uno dei primi a concepire training specifici per gli attori, come visto per esempio in “Salvate il Soldato Ryan”, con ottimi risultati.

 Stiller all’epoca pensò che sarebbe stato fantastico parodiare tale elemento, così come il famoso “Method Acting”, quello utilizzato fino all’estremo da tanti attori di prima grandezza.

Quale ambientazione migliore quindi di un set cinematografico?

 Giungla con tutte le sue pazzie, i suoi estremismi, personalità insopportabili e narcisiste costrette a stare fianco a fianco?

Il Vietnam movie risplendeva nella sua essenza mitologica, ancora inquietante e terribile, ripetuta per decenni da una cinematografia impegnata, che Stiller omaggiò e assieme sottopose ad un bombardamento continuo.

Platoon, Hamburger Hill, Apocalpyse Now, naturalmente poi anche Full Metal Jacket, Vittime di Guerra, la saga di Rambo nella sua interezza, il Cacciatore di Cimino, insomma tutto un insieme di film che il pubblico conosceva benissimo e poté identificare nelle mille citazioni, parodie, di un film semplicemente privo di ogni possibile freno inibitorio.

 Nulla e nessuno era al sicuro in Tropic Thunder, che viaggiava su due binari paralleli ma diretti verso la stessa meta:

 desacralizzare il cinema dentro e dietro la camera da presa.

Tropic Thunder come semantica si rifaceva ad un mondo comandato da un narcisismo patologico, da bugie, ipocrisia ed egoismo:

quello delle produzioni cinematografiche.

Tugg Speedman (Ben Stiller), Kirk Lazarus (Robert Downey Jr.), Jeff Portnoy (Jack Black), Alpa Chino (Brandon T. Jackson) e Kevin Sandusky (Jay Baruchel), sono 4 esemplari di fauna attoriale detestabile, egoriferita, piena di nevrosi e vanità.

 Il biopic basato sulle memorie di John "Quadrifoglio" Tayback (Nick Nolte) che stanno girando sta fallendo, la produzione nelle mani del dispotico e Les Grossman (Tom Cruise), forza il debole regista Damian Cockburn (Steve Coogan) a portarli nella giungla per creare una sorta di “operazione verità” che salvi la baracca.

Invece finiscono tra guerriglieri e narcotrafficanti, costretti a lottare per le loro stesse vite, mentre tutto ciò in cui credono, compresa la "verità" di Tayback è una menzogna.

 Ma la realtà è che andando avanti capiamo che loro stessi sono una menzogna, il loro supposto talento, le loro carriere, personalità, l'immagine pubblica di sé, solo un cumulo di bugie.

 Oppure no?

Perché Tropic Thunder, dietro la maschera di clown pecoreccio e folle, nasconde in realtà un ragionamento tutt'altro che banale sul rapporto tra immagine e verità, arte e moralità.

Un film capace di spaziare su più temi e criticità.

Tropic Thunder in ognuno dei personaggi (anche i secondari) ci offre un brandello di verità sulla “fabbrica dei sogni”.

Speedman è una parodia di divi come Chuck Norris, Sylvster Stallone, Steven Seagal o Jean Claude Van Damme, costretti bene o male per tutta la carriera o quasi ad interpretare lo stesso ruolo, con sempre minor successo.

Portnoy è un comico vittima di eccessi come lo fu John Belushi, di cui Black crea un omaggio affettuoso.

Con il rapper Alpa Chino, Jackson plasma una deformazione della macho culture della black community, mentre Sandusky appare forse il più debole dei quattro, la fama ancora non ce l'ha, la agogna e basta con gli occhi di Baruchel.

 Su ognuno di loro Tropic Thunder crea quindi una parodia nella parodia, che dal Vietnam abbraccia gli attori feticcio, l'alto e il basso, il popolare e l'autoriale di un mondo fatto di apparenza, di falsità.

 Questo riguarda soprattutto Kirk Lazarus e Les Grossman.

Con Kirk Lazarus, Stiller e Downey Jr. si presero un rischio non da nulla.

 In quel 2013 mettere in scena una black face, ricordando una pratica così vergognosa, già non era roba da poco.

Eppure il risultato è geniale, esilarante, rappresenta l'estremizzazione di un artista incapace di comprendere il limite tra legittimo e ridicolo.

Da De Niro a Daniel Day Lewis, da Tom Hardy fino a Joaquin Phoenix, il method actor è diventato un mito, qui messo alla berlina, distrutto.

 

Il Les Grossman di un Tom Cruise scatenato, volgare, dispotico e senza alcun freno, è l'altro jolly assoluto di questo film.

In lui il divo di Top Gun creò un ritratto non così irreale di tutta una serie di potenti uomini del cinema, tra il famigerato e il leggendario, veri e propri Signori della Guerra capaci di ogni nefandezza.

Tropic Thunder ne esalta carisma, parlantina spinosa e movenze da macho grossolano, mentre intanto distrugge la sacralità dell'orrore della guerra rievocata dietro la macchina da presa, in realtà pornografia sanguinolenta per un pubblico che non è migliore di quel cast.

Il cinema verità è una bugia, come lo sono le imprese di Tay back, l'eterosessualità di Chino e via via ad includere tutti gli altri.

“La menzogna è un lubrificante della vita” aveva detto diversi anni prima Marlon Brando, attore feroce con la sua categoria e il suo mondo.

Tropic Thunder si aggancia a tutto questo con violenza quasi, mentre vediamo gli attori mentire gli uni agli altri, poi a sé stessi, poi ai guerriglieri prima di dover ammettere la verità:

sono patetici come ogni altro essere umano, si sopravvalutano, si nascondono dalla loro mediocrità senza successo, ma non sono senza speranza.

 Questo lo capiscono nel momento in cui mettono da parte la recitazione inutilmente complessa e fanno ciò che fa veramente un vero attore:

usare la realtà per creare finzione.

Tutto questo però non lo capimmo subito, cercavamo di sopravvivere alle risate. Alcune gag e dialoghi sono qualcosa di semplicemente geniale, così come i trailer sui falsi film dei protagonisti.

Non mancarono polemiche per il modo di dipingere i portatori di handicap, l'assenza di personaggi femminili, la blac kface già citata del futuro Iron Man.

Oggi non potremmo avere un film come Tropic Thunder, ultimo erede della demenzialità degli anni ‘90 che ci aveva dato Tutti Pazzi per Mary, American Pie, Scemo & Più Scemo, Ace Ventura, Scary Movie e poi arrivata fino a quel 2013 grazie a 40 Anni Vergine, La Cosa più Dolce.

Una Notte da Leoni è stato l’ultimo acuto di questo tipo di cinematografia, prima che si passasse all'iper sensibilità ipocrita, moralista, bigotta, quella per cui la comicità non deve fare male a nessuno.

 Obiettivo assolutamente folle e irrealizzabile, punto di vista miope su come in realtà la risata sia utilissima per esorcizzare il male, per ridere di noi stessi e dei nostri difetti. Conclusione?

Il cinema dieci anni fa era migliore, lo era anche l'Academy che candidò “Robert Downey Jr.”, l'intelligenza dietro la sua performance, che oggi lo farebbe finire all'indice.

 Non un caso che il sequel non ci sia ancora stato, come si potrebbe avere un” Kirk Lazarus” oggi come oggi?

 

 

 

 Sconfiggere l’uomo forte

è il primo obiettivo.

  Lavoce.info - RONY HAMAUI – (24/05/2022) - in “INTERNAZIONALE” – ci dice:

L’ascesa al potere di uomini forti in molti paesi sembra un fenomeno quasi inarrestabile.

 Rappresentano una minaccia per la democrazia, a cominciare da Putin.

Si spiega così, forse, la determinazione di Biden nel sostenere la resistenza ucraina.

 

Uomini forti in tutto il mondo.

Che cosa hanno in comune paesi come l’Arabia Saudita, il Brasile, la Cina, l’Etiopia, le Filippine, l’India, il Messico, la Polonia, la Russia, gli Stati Uniti, la Turchia e l’Ungheria?

Sono tutti stati governati da uomini forti, quali Mohammad bin Salman (MBS), Jair Bolsonaro, Xi Jinping, Narendra Modi, Jaroslaw Kaczyński, Vladimir Putin, Donald Trump, Recep Erdogan e Viktor Orban.

 Una sequenza che raramente si è osservata nella storia e che minaccia la democrazia del mondo.

Le loro storie sono raccontate nell’ultimo libro di “Gideon Rachman”, capo commentatore degli affari esteri del “Financial Times”.

La retorica sfrenata, l’insofferenza per le regole, l’indifferenza per i conflitti d’interesse, l’intolleranza per i giornalisti e giudici sono tutte caratteristiche tipiche dei così detti “uomini forti” (e finora sono stati tutti uomini), un tempo ritenuti incompatibili con democrazie mature.

 Tipicamente questi leader sono nazionalisti e conservatori, poco interessati alle minoranze, intolleranti verso il dissenso e gli stranieri.

 Pretendono di incarnare i valori della nazione, sono nostalgici di un passato ritenuto glorioso e incoraggiano il culto della personalità.

Ovviamente, operano in regimi molto diversi.

 Alcuni governano paesi autocratici, quali la Cina o l’Arabia Saudita, altri come Putin ed Erdogan, devono soggiacere a qualche vincolo democratico, come le elezioni e qualche forma di libertà di stampa, anche se sono stati in grado di imprigionare gli oppositori e tenere il potere molto a lungo cambiando la costituzione.

 Altri ancora come Donald Trump, Boris Johnson e Viktor Orban operano in regimi democratici, che pure criticano aspramente, e ne erodono la legittimità.

 Eppure, nonostante le diversità, hanno caratteristiche comuni.

Sono tutti assurti al potere nel XXI secolo e si differenziano da leader autoritari che governano dittature consolidate, come la Nord Corea di Kim Jong-un, la Bielorussa di Lukashenko o la Cambogiana di Hun Sen.

L’ascesa degli “uomini forti” rappresenta la maggiore minaccia alla democrazia dagli anni Trenta.

Ci mostra come i regimi democratici siano fragili e reversibili.

 Se nel 1945 solo dodici paesi potevano definirsi compiutamente democratici, nel 2002 la cifra era salita a novantadue, superando per la prima volta quella dei paesi autoritari.

 La crescita, seppure non lineare, appariva inarrestabile, soprattutto dopo la caduta dell’impero sovietico.

 Invece, come mostrano le analisi di “Freedom House”, dal 2005 la tendenza si è invertita e tutti gli anni il numero di paesi che diveniva autoritario è stato superiore a quello dei paesi che entravano nel novero dei democratici.

In questo nuovo scenario l’ascesa degli uomini forti ha giocato un ruolo importante poiché il loro stile di governo li pone sopra la legge e le istituzioni.

 

Molte sono le ragioni che spiegano l’ascesa al potere degli uomini forti:

 il desiderio di stabilità e certezza, la ricerca di garanzie e protezione, le frustrazioni di una situazione di crisi, la sfiducia nella politica e il desiderio di messaggi semplici e comprensibili, per citarne alcune.

Il successo di uno finisce, poi, per influenzare il successo degli altri.

Non solo per un fattore imitativo ma anche perché, in molti casi, gli uomini forti tendono a sostenersi gli uni con gli altri.

 

È in questo scenario che va inquadrata l’invasione russa dell’Ucraina e la determinazione con la quale il presidente Joe Biden sostiene la resistenza ucraina.

Non a caso molti dei così detti uomini forti al potere hanno mostrato una benevola comprensione, se non un aperto sostegno, per la causa russa.

In fondo Putin è stato l’antesignano del modello, un esempio a cui ispirarsi. Fermare la Russia, allora, non vuol solo dire difendere una giovane democrazia nel cuore dell’Europa o mandare il messaggio alla Cina di non tentare un colpo di mano a Taiwan, ma significa sconfiggere l’idea che gli uomini forti possano risolvere i problemi.

Anche negli stessi Stati Uniti, dove Trump sta scaldando i muscoli in vista delle elezioni del 2024:

 Biden vuole sconfiggerlo ricreando un’alleanza degli uomini ragionevoli e democratici.  

 

 

 

 

Per una nuova generazione

di «liberi e forti».

Aggiornamentisociali.it - Giacomo COSTA – (20 gennaio 2019) – ci dice:

La rilettura dell’Appello ai «liberi e forti» a cento anni dalla sua stesura offre numerosi stimoli per il nostro tempo non tanto a livello di soluzioni, ma di indicazioni sul modo di essere presenti e partecipare al dibattito politico.

 

Compie cent’anni il testo noto come “Appello ai liberi e forti”.

Tradizionalmente associato al nome di don Luigi Sturzo, fu redatto il 18 gennaio 1919 da una Commissione provvisoria, di cui il sacerdote siciliano era segretario politico, nel percorso che condusse alla fondazione del “Partito popolare italiano”.

Sebbene sia conosciuto spesso solo per brani, grazie a citazioni e richiami successivi che ne ricollocano le espressioni in un contesto parzialmente diverso da quello originario, questo testo ha segnato profondamente la storia politica italiana del Novecento e per questo abbiamo deciso di riprodurlo per intero insieme a questo Editoriale.

Compiere cent’anni significa inevitabilmente appartenere al “secolo scorso”, a un’epoca ormai sempre meno familiare.

 Non a caso al Novecento, a cui l’Appello appartiene, ormai si dedicano musei.

 Ma trasformare in reperto il passato comporta il rischio di sopprimerne la generatività e la capacità di interpellare ancora il presente.

 Lo ricordava lo scorso 22 maggio il card. Bassetti, presidente della CEI, nell’Introduzione alla 71ª Assemblea generale.

Proprio dopo aver citato l’Appello, affermava infatti:

«La storia della Chiesa italiana è stata una storia importante anche per la particolare sensibilità per l’aspetto politico dell’evangelizzazione […]. Dobbiamo esserne fieri, ma soprattutto è venuto il momento di interrogarci se siamo davvero eredi di quella nobile tradizione o se ci limitiamo soltanto a custodirla, come talvolta si rischia che avvenga perfino per il Vangelo».

Per sfuggire a questo rischio, occorre ripartire proprio dalla consapevolezza della distanza temporale che ci separa dal passato.

Nel caso dell’Appello, questo significa prendere atto che non dà indicazioni da seguire alla lettera nel nostro presente:

troppe situazioni sono cambiate (basti pensare che il suffragio universale è realtà ormai da tempo);

troppe parole hanno mutato di significato o sono cambiate le risonanze che suscitano:

 alcune, ad esempio, sono state arricchite da cent’anni di ricerca e dibattito (è il caso dello statalismo, a cui era dedicato l’Editoriale dello scorso novembre);

troppi sono i problemi che nemmeno esistevano o erano ignorati, come il degrado ambientale o i mutamenti climatici, o che hanno cambiato radicalmente di segno: l’Italia, oggi meta di flussi migratori, era un secolo fa terra di emigrazione di massa.

Cercare nelle parole del passato istruzioni per i problemi del presente espone a rischiosi cortocircuiti.

 

Prenderne consapevolezza consente di mettere a fuoco che la potenza di un testo come l’Appello ai liberi e forti non risiede nelle soluzioni, ma nel continuare a rappresentare una fonte di ispirazione per le modalità con cui si approcciano i problemi nuovi e quelli che nel tempo si sono modificati ma non sono stati risolti, come la questione meridionale o la parità di genere, che, pur in forme diverse da quelle del 1919, continuiamo a trovare sulla nostra agenda politica.

 In questa linea, nelle pagine che seguono proporremo alcuni spunti che possano illuminare la perdurante fecondità di quel testo, cioè la ragione per cui, a cent’anni di distanza, vale la pena tornare a leggerlo.

Una carica dinamizzante.

Dell’Appello colpisce innanzi tutto la brevità:

in due sole pagine riesce ad articolare in modo coerente uno sfondo valoriale preciso, una visione antropologica e politica di riferimento, una lettura della società e dei suoi problemi che conduce a identificare misure pratiche da inserire in un programma politico.

Colpisce ancora di più se lo si colloca nel suo contesto storico, ben precedente alle riflessioni del Concilio sulla coscienza, sulla libertà religiosa o sulla legittima autonomia delle realtà temporali e quindi sulla laicità; e in una fase in cui il magistero sociale della Chiesa consisteva di un’unica enciclica, la “Rerum novarum”.

Partendo da una serie di intuizioni che la riflessione impiegherà decenni a elaborare, quali i principi della dottrina sociale (dignità della persona, bene comune, sussidiarietà, solidarietà), l’Appello connette piani diversi:

 è questa capacità che oggi deve risultare di stimolo, ben più degli specifici contenuti.

Si nota poi la sua potenza espressiva:

il testo interpella i lettori, parla insieme alla testa e al cuore, così da mobilitare le energie della persona e di tutte le persone.

Non è una operazione di élite, in quanto sa cogliere in modo autentico l’anima popolare:

non trascura chi è ai margini e soprattutto non esacerba le tensioni, ma si pone nella logica di una mediazione capace di risolvere i conflitti sociali di cui ha piena consapevolezza.

 È proprio questa attenzione a costruire ponti e tessere relazioni che gli conferisce autorevolezza.

Convince perché sa entrare in contatto, non si impone come fa invece la propaganda.

 Da questo punto di vista si differenzia radicalmente da molte altre proposte, anche dei giorni nostri, che in modi diversi si richiamano a una ispirazione popolare, ma per marcare differenze identitarie, frammentando la società anziché unirla in un soggetto collettivo.

Infine, l’Appello ai liberi e forti ci permette di cogliere il contributo che la fede cristiana può dare alla politica e alla società.

Si vede all’opera la creatività che la caratterizza quando non viene ridotta a ripetizione di formule e dottrine, o utilizzata come base di privilegi o di una pretesa di potere.

Così il testo interpella tutti, aldilà di confini e appartenenze; sarebbe un tradimento utilizzarlo come bandiera della presenza organizzata di gruppi di cattolici in politica.

Rileggere l’Appello può così rivelarsi particolarmente fecondo oggi, in un tempo in cui – lo possiamo testimoniare da quell’osservatorio particolare che Aggiornamenti Sociali da 70 anni rappresenta – sono molti i tentativi di riarticolare una proposta politica convincente e capace di suscitare un diffuso impegno politico democratico, sostenibile, partecipato.

Anche il nostro è un tempo di chiamate, di convocazioni e di appelli, che si devono misurare con un contesto di ripiegamento identitario a livelli diversi:

nei confronti dell’altro e del diverso (i migranti sono l’esempio più evidente), del futuro (la scarsa attenzione per la sostenibilità), così come dell’Europa e del resto del mondo (il tema dei sovranismi).

 Ne scaturisce una politica che anziché cercare mediazioni e progetti condivisi, esaspera le contrapposizioni, alimentando la lotta dei penultimi contro gli ultimi.

Non basta essere contro tutto questo, occorrono soggetti politici “liberi e forti” che elaborino proposte per qualcosa che risulti chiaramente alternativo e capace di coagulare il consenso dei molti che non si riconoscono nella retorica politica oggi dominante.

Del resto anche l’Appello si presentava come alternativo alle proposte muscolari (di destra e di sinistra) in circolazione ai suoi tempi.

 

Le ali della libertà.

Oggi come nel 1919 libertà è un termine magnetico, capace di toccare le corde più profonde dell’essere umano e risvegliarne le aspirazioni e i desideri più intensi.

Oggi come allora circolano però accezioni molto diverse di libertà, e la storia ci ha mostrato come queste differenze abbiano precise conseguenze quando si prova a tradurre l’aspirazione alla libertà in istituzioni e strutture sociali.

La libertà dell’individualismo liberale non è quella del personalismo solidale, e così via.

 L’autodeterminazione è certamente un elemento fondamentale di ogni concezione di libertà, ma oggi si tende spesso ad assolutizzarlo.

 “Padroni a casa propria” è lo slogan che sembra condensare la concezione prevalente di libertà, a tutti i livelli, distogliendo l’attenzione alla sua altrettanto costitutiva dimensione relazionale.

L’Appello è sensibile all’importanza dell’autodeterminazione, dei singoli così come dei gruppi sociali e dei popoli – era un cardine del programma wilsoniano espressamente richiamato –, ma ciò che innanzi tutto qualifica i “liberi” a cui si rivolge è il senso del «dovere di cooperare» e la capacità di agire «senza pregiudizi né preconcetti».

Quest’ultima espressione è spesso stata intesa con riferimento alla disponibilità, a prescindere dall’appartenenza confessionale:

è del tutto chiaro, infatti, che l’Appello non si rivolge ai soli cattolici.

Rileggendole oggi, ci rendiamo conto che quelle parole hanno un significato più ampio:

fanno appello alla capacità di collaborare per il bene comune superando tutte le appartenenze, non solo quelle confessionali, ma anche quelle ideologiche, culturali, sociali, economiche, compresi quindi gli interessi di parte e il tornaconto individuale o di gruppo.

Tutte le appartenenze portano con sé il pericolo dell’autoreferenzialità, della trasformazione in casta, rischiano di smarrire la propria parzialità pretendendo di diventare il tutto.

 In questo senso, libertà è anche un limite verso sé stessi, un argine alla pretesa di assolutizzare la propria posizione e quella della propria parte.

Il primo frutto di questa libertà è la promozione dell’uguaglianza in maniera concreta, o almeno dell’equità in termini di opportunità (cfr artt. 2-3 Cost.).

Ne è prova tangibile l’insistenza con cui l’Appello ribadisce la necessità di «congiungere il giusto senso dei diritti e degl’interessi nazionali con un sano internazionalismo», facendone anzi un indicatore di libertà morale.

Questo non vale ovviamente solo sul piano dei rapporti internazionali, su cui torneremo:

la tutela delle legittime aspirazioni alla libertà di ciascuno non può legittimare nessuna pretesa di “passare per primo” o di avere più diritti degli altri.

 La libertà, se non è disponibile a tutti, è oppressione degli uni sugli altri e odioso privilegio.

Di questo, e non di autentica libertà, godevano gli aristocratici libertini dell’Ancien Régime, a scapito di una moltitudine di oppressi.

È questo «il vero senso di libertà», che richiede di aprire spazi di autonomia per tutti, a prescindere da ogni identità e appartenenza, in quegli ambiti che l’Appello stesso elenca con grande chiarezza: libertà religiosa, libertà d’insegnamento, libertà sindacale e associativa (le «organizzazioni di classe»), libertà di partecipazione politica ai diversi livelli (la «libertà comunale e locale»).

Rileggendo l’Appello, tocchiamo con mano che ancora oggi la libertà non è un’etichetta vuota e che un buon criterio per discriminare le tante proposte politiche in circolazione può essere proprio la nozione di libertà su cui si fondano, e la disponibilità a concedere opportunità a tutti, e non solo a reclamare i diritti della propria parte.

Forza e potere.

Il vero senso di libertà diventa anche un criterio per l’esercizio dell’autorità e del potere, a cui legittimamente ogni partito (anche il Partito popolare italiano che nasce con l’Appello) aspira.

I “liberi e forti” sanno riconoscere i propri limiti e aprire spazi perché i singoli e i gruppi – tutti, nessuno escluso – possano crescere grazie a una progressiva assunzione di responsabilità nella costruzione del bene comune.

L’autorità così concepita non coincide col potere.

Il potere può prescindere dal consenso o cercare di carpirlo;

 il potere si presta a essere abusato, seduce ed è sedotto.

L’autorità è relazionale: non può agire se non è riconosciuta.

Per questo i “liberi” hanno bisogno di essere “forti”, per usare il potere come forma per esercitare l’autorità.

 

L’aggettivo “forti” merita una riflessione specifica, in quanto rimanda sia alla forza e al suo uso, sia alla fortezza, intesa come la virtù che assicura fermezza e costanza nella ricerca del bene.

Senza fortezza, l’uso della forza perde ogni riferimento etico e si trasforma in arbitrio e prepotenza.

Proprio come la libertà, anche la forza ha bisogno innanzi tutto di un’istanza di autolimitazione.

 L’Appello ne è ben consapevole, tanto che invoca istituzioni internazionali “forti”, cioè capaci di resistere alle «tendenze sopraffattrici dei [popoli] forti» nei confronti dei «popoli deboli».

Questa dinamica non interessa solo i rapporti tra i popoli, ma anche quelle tra i gruppi sociali e persino tra gli individui.

Dalla nozione di forza dipendono le modalità dell’agire politico.

È una concezione mutilata della politica quella che si basa sulla rivendicazione dei diritti e sulla conquista del potere, ma dimentica l’esercizio di un’autentica mediazione sociale, scivolando su un piano inclinato in fondo al quale non può trovarsi altro che la violenza distruttiva di chi non ha altri modi per farsi ascoltare.

Ce lo mostrano in modo eclatante le proteste dei “gilets jaunes” che stanno incendiando la Francia, e tante altre situazioni analoghe.

Solo la libertà nel modo di esercitare il potere consente di aprire spazi di partecipazione democratica e di mediazione tra i diversi attori sociali.

Altrimenti, come abbiamo imparato, le forme della democrazia si svuotano e si trasformano in un ginepraio di procedure, dentro cui crescono i privilegi di una minoranza, l’irresponsabilità della classe dirigente, il senso d’impotenza dei più e l’oblio dei deboli.

E, inevitabilmente, il fascino per le “soluzioni di forza”.

Un appello per l’Europa.

Rileggere l’Appello ai liberi e forti ci ha ricondotti ad alcune categorie portanti della politica, che quel testo continua a illuminare in modo stimolante.

Oggi come allora le considerazioni di fondo premono per tradursi in atto: non a caso all’Appello seguiva un programma politico.

Nessuna attuazione potrà esaurire la ricchezza e la profondità dei principi, ma senza di essa questi ultimi resteranno nel regno dell’astrazione, privi di efficacia.

Che cosa significa provare oggi a esercitare libertà e forza?

 Ad articolare autorità e potere? In che direzione siamo chiamati a muoverci?

In un momento in cui l’Italia usciva da una guerra rovinosa, anche se vinta, e doveva impegnarsi per trasformarsi da Paese agricolo a nazione in via di industrializzazione e da democrazia “oligarchica” con suffragio censitario a democrazia di massa con suffragio universale (almeno maschile), colpisce come lo sguardo dei redattori dell’Appello non sia rivolto verso l’interno, ma collochi con decisione il futuro dell’Italia all’interno di un ordine internazionale imperniato sulla Società delle nazioni.

Un secolo dopo, il quadro di attori internazionali si è certamente arricchito – il livello delle istituzioni europee era probabilmente impensabile nel 1919 –, ma il nocciolo della questione non si è molto modificato:

 immaginare il futuro italiano richiede di definirne le modalità di relazione con il contesto internazionale.

Oggi, ben più che l’orizzonte globale, i nodi riguardano il livello europeo e in particolare l’Unione Europea.

Le difficoltà britanniche a gestire la Brexit dimostrano che alla fine risulta quasi impossibile fare a meno dell’Unione, non perché questa sia una gabbia o una condanna, ma perché l’esigenza di aggregazione di un’area continentale come la nostra è un dato di fatto in un mondo dominato da giganti geopolitici, cosa che nessun Paese europeo è.

 Non a caso, proprio la posizione nei confronti dell’Europa è diventata, quasi ovunque, una delle discriminanti principali tra gli schieramenti politici e uno dei temi più caldi delle campagne elettorali.

 

Proprio come la Società delle nazioni nel 1919, anche per noi italiani oggi l’Europa resta una scelta e volere l’Europa non può significare arrendersi a un’Europa qualunque e neanche accontentarsi di quella esistente, che in alcuni suoi aspetti è indifendibile (cfr Riggio G. [ed.], «Dietro le quinte dell’Unione Europea. Un dialogo a tre voci da Bruxelles» alle pp. 36-43 di questo fascicolo).

Quali riforme sono possibili e necessarie per spingerla nella direzione desiderata?

Sulla scorta dell’Appello, siamo interessati a provare a costruire un’Italia che sia parte e promotrice di un’Europa “libera e forte” nel senso che abbiamo delineato sopra?

È chiaro che si tratta di un progetto di riforma profondo e radicale, come lo era nel 1919 la richiesta di estendere il voto alle donne, di riformare la burocrazia, di rendere elettivo anche il Senato, di riconoscere le autonomie locali sulla base di una sussidiarietà che oggi anche la UE ha inserito tra i propri principi, ma che non è sempre facile percepire.

Un’Europa “libera e forte” sarà capace di articolare autorevolmente unità e rispetto delle differenze, senza obbligare tutti a marciare con lo stesso passo, ma senza nemmeno concedere a nessuno diritti di veto più o meno mascherati

. Questa Europa potrà allora chiedere ai singoli Paesi che la compongono di essere a loro volta “liberi e forti”, cioè di rinunciare a interpretare la sovranità di cui dispongono in modo autoreferenziale e facendo del proprio interesse l’unica bussola dell’azione politica.

Come abbiamo visto, liberi e forti sono coloro che sanno riconoscere un limite alle proprie pretese, e questo vale anche per gli Stati, nelle relazioni che li uniscono e ancora di più in quelle che istituiscono con i loro cittadini e le forme della loro vita associata.

Apparati pubblici “liberi e forti”, a livello nazionale e sovranazionale, sapranno promuovere concretamente la partecipazione dei cittadini, incoraggiando la loro capacità di iniziativa e le forme strutturate a cui questa dà vita.

Questo riconoscimento permetterà a quelli che tradizionalmente sono chiamati corpi intermedi di esplicare la loro fondamentale funzione di mediazione.

 Solo così è possibile promuovere la coesione sociale e la formazione di capitale sociale, restituendo al popolo la sua soggettività e sovranità, non attraverso slogan o retoriche riaffermazioni di identità presunte.

 È probabilmente questa la differenza fondamentale tra una politica popolare, che rispetta il popolo e la sua autonomia originaria, e una politica populista, che rende il popolo un ostaggio di chi è al potere.

Con un’attenzione particolare – anche su questo l’Appello è molto chiaro – a chi è ai margini e ai più deboli.

È proprio la capacità di proteggere i più deboli e di promuovere la loro partecipazione che legittima l’uso della forza e lo differenzia dalla brutalità.

 Per questo è fondamentale che un’Europa che si pone alla ricerca di una identità popolare che rischia di smarrire non sacrifichi il “pilastro sociale”, ma lo metta al centro delle sue politiche.

Istituzioni europee e nazionali che funzionano con questo spirito consentiranno l’esistenza di popoli e gruppi sociali liberi e forti, capaci di resistere alle tentazioni solipsistiche, nazionali o nazionalistiche che siano.

Questo è il vero DNA dell’UE: da norme, leggi, accordi e procedure non possiamo prescindere, ma restano il mezzo per dare attuazione a un ideale e a un sogno più alto.

 L’idea che possano esistere solo relazioni dirette, che prescindano da ogni mediazione istituzionale, non è invece altro che un’illusione esposta al rischio della manipolazione, per quanto sia molto di moda nei nostri giorni.

Se qualcosa ci insegna la lettura dell’Appello è che il cambiamento di cui abbiamo bisogno sarà possibile solo se i “liberi e forti” che anche oggi popolano la società italiana ed europea sentiranno ancora «il dovere di cooperare», senza chiudersi dietro barriere di interessi e appartenenze.

Tra pochi mesi le elezioni europee ci riproporranno una domanda sempre più cruciale: quale Europa vogliamo? E quale Italia al suo interno? Ma di fronte a parole sempre più inflazionate, a proclami sempre più erosi dal cinismo della post-verità, i “liberi e forti” nell’Europa del 2019 decideranno ancora di unirsi?

(Appello ai «liberi e forti»)

 

 

 

 

La situazione nel Sahel.

Golpe in Niger, Ecowas oltre ultimatum:

la via diplomatica per evitare

una guerra che vuole solo la Francia.

Ilriformista.it - Matteo Giusti — (12 Agosto 2023) – ci dice:

 

Golpe in Niger, Ecowas oltre ultimatum: la via diplomatica per evitare una guerra che vuole solo la Francia.

Nonostante la delusione per il mancato rispetto dell’ultimatum da parte della giunta militare che ha preso il potere in Niger, l’Ecowas sta continuando a lavorare per convincere il Consiglio Nazionale di Salvaguardia della Patria ad accettare la trattativa, ma la loro forza persuasiva si affievolisce sempre di più.

L’annullamento del vertice dei capi di stato maggiore che si sarebbe dovuto tenere oggi  ad Accra in Ghana per mettere per iscritto un piano d’azione che possa coordinare le forze armate dei 4 stati che hanno deciso di partecipare a questa operazione militare rafforza la posizione dei golpisti.

Il vertice rinviato sine die avrebbe dovuto stabilire una piattaforma da utilizzare nel caso  si decidesse  l’uso della forza.

“ La Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale” avrebbe a disposizione una forza di polizia di intervento rapido composto da circa 2500 uomini provenienti da tutti ì paesi, ma pare difficile che questo contingente, che vede anche soldati di stati sospesi, possa essere la soluzione per convincere i riottosi generali che hanno preso il potere a Niamey.

La Fac, questo l’acronimo di questo corpo d’intervento, sotto il nome di Ecomog in passato è intervenuta in Sierra Leone, Liberia, Guinea Bissau e Costa d’Avorio, ma sempre in operazioni di polizia.

Non pare quindi adatta a concretizzare le minacce dell’Ecowas, che stanno comunque facendo effetto sul generale golpista “Tchiani”.

A Niamey è infatti nato un nuovo governo a guida civile, ma con due generali nei dicasteri chiave della Difesa e degli Interni.

La Francia è sempre più sola a spingere per l’intervento militare e adesso lo fa per bocca del presidente ivoriano “Alassane Ouattara”, un vero fedelissimo di Parigi.

La Costa d’Avorio si è detta pronta a mettere a disposizione 1000 soldati, ora sono i nigeriani a frenare.

Gli Stati Uniti stanno cercando una via della trattativa e hanno già mandato il vice-segretario di Stato per cercare un contatto, mentre i vertici dell’Ecowas stanno cercando un concreto appoggio da parte dell’Unione Africana e anche delle Nazioni Unite, sintomo di un’azione sempre più difficile è che viaggia verso una vera e propria burocratizzazione.

 

Tutto mente si sta spaccando anche il fronte dell’Unione Europea con Italia e Germania che, dopo aver chiesto più volte di estendere l’ultimatum, ora vogliono seguire la via diplomatica.

 Intanto la giunta nigerina inasprisce la presa sul paese con nuove manifestazioni di sostegno e la creazione di brigate per soffocare ogni dissenso.

Mentre la Wagner continua ad osservare con malcelato interesse.

(Matteo Giusti)

 

 

 

 

Com’è cambiato il sistema di

potere in Ucraina dopo l’invasione russa.

Valigiablu.it – (30 Dicembre 2022) - Oleksiy Bondarenko – ci dice:

 

L’invasione russa non ha solo trasformato il panorama politico internazionale, ma anche radicalmente alterato l’equilibrio di potere all’interno dell’Ucraina stessa.

Molti degli osservatori, infatti, sono rimasti stupiti dalla sorprendente unità che l’élite politica ed economica del paese ha mostrato sin dai primi giorni di guerra.

Con la concreta minaccia dell’esistenza stessa del paese, molte delle intestine lotte di potere che da sempre caratterizzano la politica ucraina sembrano passate in secondo piano.

 I carri armati russi non hanno portato a defezioni di massa da parte degli uomini di potere locali, nonostante alcune eccezioni soprattutto a sud (nella Kherson liberata in questi giorni, ad esempio).

Anche i governatori e i potenti sindaci di città come Kharkiv, Odesa e Dnipro, che non erano in buoni rapporti con il potere centrale e spesso considerati come filo-russi, hanno opposto resistenza all’invasione, aiutando di fatto Kyiv a mantenere il controllo su queste regioni.

Sin dalle prime settimane di guerra, infatti, l’amministrazione presidenziale di Zelensky e il ristretto gruppo di uomini intorno al presidente è diventato l’unico centro di potere nel paese.

Quest’unità ha di fatto permesso a Zelensky di risolvere molti dei personali problemi politici che hanno caratterizzato la sua presidenza fino all’inizio dell’invasione.

A nove mesi da quella mattina del 24 febbraio, infatti, in pochi ricordano come prima della guerra la posizione del presidente fosse piuttosto precaria.

Un consenso personale in costante calo, che si attestava intorno al 20%, numerose defezioni, lotte di potere all’interno della sua squadra di governo e un travagliato processo di “de-oligarchizzazione”.

 Proprio lo scontro con alcuni degli uomini più potenti del paese era diventato il principale grattacapo per il presidente che nel novembre 2021 aveva firmato la legge N. 1780-IX, volta a limitare l’eccessiva influenza degli oligarchi.

All’epoca della sua approvazione la legge fu criticata per la sua vaga definizione di “oligarca” e per il fatto che tramite il controllo sull’organo preposto a stilare la lista di oligarchi (il Consiglio per la Sicurezza e la Difesa Nazionale) il presidente avrebbe esercitato un’eccessiva influenza sul processo portando anche ad accuse di autoritarismo.

 

Dall’inizio dell’invasione russa tutti questi problemi sembrano scomparsi.

Il consenso verso Zelensky è schizzato alle stelle, attestandosi intorno al 90%.

 I suoi rivali, come l’ex presidente Poroshenko, e i vari oligarchi che da sempre hanno un’influenza sostanziale sulla vita politica del paese si sono ritrovati indeboliti economicamente e politicamente, mentre le forze di opposizione e influenti personalità che avevano una posizione piuttosto morbida nei confronti della Russia sono state definitivamente screditate.

Tutto questo, però, non è avvenuto per caso.

 Oltre all’impatto politico e sociale dell’invasione russa, infatti, la politica ucraina negli ultimi nove mesi è stata caratterizzata da un accentramento di potere da parte dell’amministrazione presidenziale.

Una politica che per molti è naturale e giustificata dallo stato di guerra, ma che alcuni, tra cui il partito dell’ex presidente Poroshenko e alcune testate giornalistiche come Ukrainska Pravda, hanno iniziato a guardare con sospetto temendo le conseguenze che il consolidamento di una rigida gerarchia di potere potrebbe avere a lungo termine.

Narrazione di guerra a reti unificate.

In campo mediatico, la figura di Zelensky e dei suoi più vicini collaboratori ha da subito suscitato l’interesse del pubblico internazionale.

 Già lo scorso maggio la rivista britannica “Time” designava il presidente ucraino come uno degli uomini più influenti del pianeta.

 

Sul piano interno il consolidamento della sua figura in tempo di guerra è stato reso possibile anche grazie al monopolio mediatico.

Già qualche giorno dopo l’inizio dell’invasione, infatti, le principali emittenti nazionali hanno iniziato a trasmettere notizie a reti unificate.

Sono così scomparsi programmi politici e di dibattito (come i famosi talk-show), mentre il contenuto delle trasmissioni che vanno in onda sarebbe, per ora solo informalmente, monitorato dal ministero della Cultura e dell’Informazione e direttamente dall’amministrazione presidenziale.

Sullo sfondo delle drammatiche notizie dal fronte è passato quasi inosservato il fatto che i tre canali legati all’ex presidente e principale rivale politico di Zelensky, Petro Poroshenko, siano stati privati della licenza e dalla scorsa estate non possano più andare in onda (rimangono visibili solo online).

 Le motivazioni per questa decisione sono rimaste piuttosto vaghe e il Comitato per il Broadcasting, Radiocomunicazioni e Televisione (l’organo competente) non ha fornito motivazioni ufficiali, scaricando la responsabilità sul Consiglio per la Sicurezza e la Difesa Nazionale.

Lo stesso portavoce del presidente, Mikhail Podolyak ha affermato che la causa sarebbe il “narcisismo” di Poroshenko che avrebbe usato i canali televisivi per promuovere la sua figura durante la guerra.

Fatto che ha suscitato critiche da parte dell’opposizione, tanto che l’ex ambasciatore negli Stati Uniti (2015-2019) ha parlato direttamente di “censura politica”.

 

Non sorprende quindi che anche quello che è considerato l’uomo più ricco del paese, il famoso oligarca Rinat Akhmetov, abbia deciso di disfarsi dei suoi ingenti asset mediatici.

 “Akhmetov” è stato uno dei cardini nel sostegno iniziale ai movimenti separatisti a Donetsk e Lugansk (mentre in altre regioni come Kharkiv e Dnipropetrovsk l’élite locale si era opposta a tali scenari) per poi tornare sui suoi passi.

 Incapace di vendere il suo “Media Group Ukraine” (che include alcuni dei canali televisivi più seguiti del paese come Ucraina 24) a causa della guerra, perdendo il controllo sui contenuti trasmessi e messo alle strette dalla “legge contro gli oligarchi” del 2021, “Akhmetov” ha di fatto ceduto allo Stato il suo impero mediatico.

Addio decentralizzazione?

Nei primi mesi di guerra la centralizzazione del potere nelle mani del presidente non ha provocato reazioni contrariate da parte dell’opinione pubblica e delle élite.

Secondo alcuni sondaggi dello scorso agosto, ad esempio, circa il 62% degli ucraini considerava inammissibile anche una “critica costruttiva” delle azioni delle massime autorità dello Stato.

 Il 79% inoltre riteneva che durante la guerra il presidente dovesse avere il potere d’ingerenza sull’attività del parlamento e del governo per rafforzare la difesa del paese.

Nelle prime settimane di guerra l’abolizione da parte del “Consiglio per la Sicurezza e la Difesa Nazionale” di tre partiti politici considerati dalle autorità e parte della società come filo-russi, il più grande dei quali, “Piattaforma di Opposizione - Per la Vita”, non aveva suscitato grande opposizione e risonanza mediatica.

Secondo i sondaggi precedenti all’inizio dell’invasione queste forze politiche rappresentavano circa il 20% dell’elettorato del paese.

Con il protrarsi della guerra, però, piccole crepe all’interno dell’unità tra l’élite del paese sono lentamente iniziate a riemergere.

 Con ingenti risorse e aiuti internazionali che continuano a fluire verso l’Ucraina, ad esempio, la tensione tra l’amministrazione presidenziale e le autorità locali è tornata a crescere.

 Secondo numerose fonti, tra cui il “Washington Post”, la centralizzazione del potere e delle risorse economiche durante la guerra sta ora provocando un crescente risentimento da parte delle autorità locali che si sono trovate in prima linea nell’organizzare la difesa e la ricostruzione delle proprie città.

Allo scoppio della guerra, infatti, “Kyiv” aveva creato una serie di amministrazioni militari regionali subordinando di fatto i governi locali al presidente.

Tra le personalità più critiche nei confronti di Zelensky, ci sono non a caso le autorità locali che prima del conflitto godevano di un certo livello di autonomia informale nella gestione delle politiche e delle risorse, come il sindaco di Dnipro, Boris Filatov.

Proprio Filatov nella sua intervista al quotidiano americano aveva parlato delle “tendenze autoritarie” che si starebbero sviluppando durante il conflitto, lamentando notevoli passi indietro nel processo di decentralizzazione e distribuzione delle risorse economiche.

Le speculazioni secondo le quali la scorsa estate uomini vicini a” Filatov”, come l’”oligarca Kolomoisky” e il suo vecchio alleato “Korban”, fossero stati privati del loro passaporto ucraino rientrano nel quadro della crescente tensione tra il presidente e le autorità locali.

Infatti, pur controllando tramite il proprio partito (Servo del Popolo) il parlamento, il potere del presidente sulle autorità locali era rimasto limitato.

Le elezioni locali del 2020 avevano restituito un quadro molto più disomogeneo a livello regionale, dove peculiarità locali e il vecchio sistema clientelare avevano continuato a giocare il proprio ruolo.

 Le maggiori città, soprattutto a sud e est del paese, erano rimaste nelle mani dei potenti attori locali che, ora che lo shock iniziale dell’invasione russa sta scemando, sembrano essere disposti ad opporre una maggiore resistenza al popolare leader pur di mettere le mani sui flussi economici che portano con sé i vari progetti di ricostruzione pianificati dal governo e finanziati dai partner internazionali.

 

Una ‘de-oligarchizzazione’ definitiva?

La guerra ha indubbiamente accelerato anche il processo di “de-oligarchizzazione”, anche se rimane piuttosto difficile capire fino a che punto esso possa consolidarsi nel lungo periodo.

Oltre alla perdita dell’influenza politica, dovuta alla centralizzazione dell’apparato mediatico, l’invasione russa, infatti, ha direttamente colpito le fondamenta del potere economico degli oligarchi.

“ Rinat Akhmetov” ha perso il controllo su parte del suo patrimonio in Donbas, come l’impianto metallurgico “Azovstal'” (il più grande produttore di acciaio del paese) e lo stabilimento intitolato a ‘Illič’, entrambi a Mariupol ed entrambi finiti sotto controllo russo.

 Altri influenti oligarchi, come “Dmytro Firtash” e” Ihor Kolomoisky”, hanno visto molte delle loro attività danneggiate, come la raffineria di “Kolomoisky” a “Kremenchuk” e lo stabilimento chimico “Azot “di “Firtash” a “Sievierodonetsk”.

Un caso a parte è rappresentato da “Viktor Medvedchuk”, da molti considerato come ‘portavoce’ di Putin in Ucraina.

Arrestato all’inizio della guerra, a settembre “Medvedchuk” è stato spedito a Mosca in cambio di numerosi prigionieri di guerra ucraini che erano finiti nelle mani delle forze russe.

Il processo di “de-oligarchizzazione”, infine, va inserito nello specifico contesto del travagliato processo di sviluppo del pluralismo politico in Ucraina.

Per quanto possa sembrare paradossale, se da una parte l’influenza degli oligarchi ha per decenni minato il processo di riforma del sistema economico e politico del paese, dall’altra è stata anche una garanzia informale contro il concentramento del potere nelle mani di un singolo gruppo o personalità.

Il consolidamento di vari gruppi (spesso chiamati anche “clan”) – e i loro spesso contrastanti interessi economici e politici – è stato uno dei meccanismi (di certo non l’unico) che ha permesso all’Ucraina di evitare il destino che ha colpito la Russia e la Bielorussia, dove la lotta per il potere dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica aveva portato al consolidamento di un unico gruppo dominante (incentrato sulla figura del presidente).

Anche così si possono spiegare le due rivoluzioni di piazza nel giro di 10 anni (rivoluzione arancione del 2004 e quella di Maidan del 2014) durante le quali, oltre alla società civile, a giocare un ruolo importante è stato il supporto mediatico e finanziario dato all’opposizione da parte dei cosiddetti “oligarchi”.

 

Lotta alla corte del presidente.

A fare scalpore sul piano interno qualche mese fa è stato infine il licenziamento del capo dei Servizi di Sicurezza (SBU),” Ivan Bakanov”, e del Procuratore generale, “Iryna Venediktova”.

Lo scandalo non ha solo aperto una finestra sulla dubbia fedeltà di alcuni membri delle forze di sicurezza, ma anche su alcune delle dinamiche interne all’amministrazione presidenziale.

 

Bakanov, infatti, era da sempre considerato come una delle personalità più vicine a Zelensky.

Suo amico d’infanzia e successivamente partner economico, agli albori della carriera politica di Zelensky, Bakanov era considerato il suo braccio destro, tanto che il partito creato in prossimità delle vittoriose elezioni presidenziali era stato legalmente registrato proprio a suo nome.

Secondo quanto riportato nei “Pandora Papers”, Bakanov era anche l’intestatario di numerose società offshore legate al presidente.

Pur senza aver alcun background in materia militare, proprio “Bakanov” fu nominato “capo dei Servizi di Sicurezza” subito dopo l’inaugurazione della presidenza Zelensky.

I tre anni del suo operato a capo dei Servizi di Sicurezza, però, più che da una radicale riforma delle corrotte e compromesse strutture del SBU sono stati caratterizzati da scandali ed intrighi.

Secondo alcune fonti, ad esempio, proprio” Bakanov” e “Venediktova” avrebbero contribuito ad affossare alcuni dei casi investigati dell’Ufficio nazionale anticorruzione (NABU) che coinvolgevano membri dell’amministrazione presidenziali.

 Non a caso i rapporti tra Zelensky e NABU, creato dopo la rivoluzione di Maidan del 2014, sono rimasti piuttosto tesi fino all’invasione russa e caratterizzati da svariati tentativi dell’amministrazione presidenziale di estendere il proprio controllo sugli organi anti-corruzione.

Con lo scoppio della guerra la posizione di “Bakanov” è diventata lentamente insostenibile.

Il caos dei primi giorni di guerra, infatti, aveva messo a nudo tutti i problemi causati dal rallentamento del processo di riforma del “SBU” sotto la sua gestione.

Una serie di defezioni e le falle nell’organizzazione della difesa del fronte meridionale avevano portato alla facile occupazione da parte delle forze russe della regione di” Kherson” già nelle prime ore della guerra.

 Nei mesi successivi, altri casi di defezione avevano colpito direttamente Bakanov, tra i quali l’arresto, in Serbia, di” Andriy Naumov” (che aveva con sé un milione di dollari in contanti) capo del dipartimento degli affari interni del SBU la cui rapida ascesa all’interno delle strutture di sicurezza corrispose proprio con la nomina di Bakanov.

L’arresto con l’accusa di aver passato informazioni segrete ai russi dell’ex capo del SBU in Crimea, nonché consulente personale di Bakanov,” Oleh Kulinich”, è stata infine la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Il rimpasto all’interno dei Servizi di Sicurezza e della Procura è anche un segnale, seppur indiretto, del definitivo consolidamento di una delle diverse fazioni all’interno dell’amministrazione presidenziale.

Ad emergere come figura cardine alla corte di Zelensky è stato “Andriy Yermak”, personalità in lenta ascesa sin dall’inizio della carriera politica di Zelensky, divenuto capo dell’apparato presidenziale nel febbraio 2020.

Secondo quanto riportato da “Ukrainska Pravda”, dopo che “Yermak” si era sbarazzato del suo predecessore (Andriy Bohdan) e dell’influente Ministro degli Interni, “Arsen Avako”v, Bakanov era rimasto l’ultimo baluardo al consolidamento della sua fazione.

I due infatti erano da tempo in competizione per diventare la figura più influente all’interno dell’ufficio presidenziale.

La guerra ha di fatto fornito un’opportunità.

Il nuovo capo del SBU e il nuovo Procuratore, infatti, sarebbero personalità legate proprio a “Yermak” che può ora contare sul controllo degli organi giudiziari e dell’apparato di sicurezza.

 Una figura che per Zelensky è diventata insostituibile o quasi.

 

Il futuro e la ‘militarizzazione’ della politica.

Con l’indebolimento degli oligarchi e dell’opposizione politica, il consolidamento del potere di Zelensky e l’accentramento del controllo sul sistema giudiziario e sull’apparato di sicurezza, l’unica figura che può competere con il presidente è oggi “Valerij Zalužnyj”, comandante in capo delle Forze armate.

Divenuto estremamente popolare in patria e all’estero, negli ultimi mesi “Zalužnyj” è entrato in contrasto con l’amministrazione presidenziale sulla gestione di alcuni aspetti pratici della guerra.

Sebbene il conflitto sia stato presto risolto, speculazioni inerenti a una crescente rivalità tra il presidente e il comandante in capo hanno iniziato a trovare crescente spazio nel dibattito pubblico.

Pur negando ogni ambizione politica, la creazione da parte di Zalužnyj di una sua fondazione di beneficenza sarebbe stata osservata con cautela dalla presidenza, in quanto potrebbe rappresentare la base per un futuro progetto politico.

Anche se le voci di una crescente rivalità appaiono oggi esagerate, l’apparato militare e la figura di Zalužnyj rappresenta l’unica sfera sulla quale l’amministrazione presidenziale non ha pieno controllo.

L’apparato militare guidato da Zalužnyj, inoltre, appare oggi come l’unica istituzione in grado di competere con il presidente in popolarità.

Secondo alcuni sondaggi proprio le forze armate e la presidenza sono oggi le istituzioni dello Stato che suscitano maggiore fiducia, rispettivamente il 96% e il 82%.

Un fattore che potrebbe pesare se il presidente venisse chiamato a fare difficili scelte politiche.

La capacità dell’Ucraina di sopravvivere alle bombe russe è certamente dipesa dall’iniziale unità d’intenti dimostrata dalle massime istituzioni dello Stato.

Ed è proprio la costante minaccia russa a rappresentare oggi il collante che, nonostante le numerose divergenze, rende la progressiva centralizzazione del potere accettabile per la popolazione, l’opposizione e i vari gruppi di potere.

Questi elementi però convivono in un equilibrio precario e quello che sembra oggi un inevitabile prolungamento della guerra potrebbe riportare alla superficie le numerose contraddizioni e problemi politici interni che l’invasione ha contribuito a modellare.

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