Il pensiero unico globalista, distopico, woke, gender, lgbt, climatico contro la CO2, sarà condannato dalla storia.
Il
pensiero unico globalista, distopico, woke, gender, lgbt, climatico contro la
CO2, sarà condannato dalla storia.
“Il
sesso è dannatamente binario”.
I woke
a lezione di scienza da Richard Dawkins.
Ilfoglio.it – (18-1-2022) - GIULIO MEOTTI –
ci dice:
Il
saggio del biologo ateo più famoso al mondo cui hanno tolto un premio per le
critiche al “transgender”.
“Kathleen Stock è meravigliosamente ragionevole ed è
quotidianamente circondata da logo machisti oscurantisti.
Purtroppo,
sono pagati per arringare studenti che si sentono obbligati a prenderli sul
serio.
Cari studenti, vi prego di rinfrescarvi la
mente con la scienza”.
A
dicembre “Richard Dawkins” interveniva così sui social a difesa della collega
dell’Università del Sussex, “Kathleen Stock”, che di lì a poco si sarebbe
dimessa visto il clima in facoltà contro la sua persona e le sue idee critiche
del transgender.
Ora
Dawkins rinfresca la mente a lettori e fan con un saggio pubblicato su “Areo” e
tradotto dall’”Express” francese.
“La razza è uno spettro, il sesso è
dannatamente binario”, il titolo che scontenterà non pochi.
L’ateo più famoso al mondo, il “rottweiler di Darwin” e il paladino della scienza, torna
sulla recente polemica in cui è stato pubblicamente disconosciuto dall’”American
Humanist Association” per “transfobia” (“Steven Pinker,” famoso linguista di Harvard, li ha
accusati di essere “una nuova inquisizione”, perché “non è passato inosservato ai
commentatori che un’associazione di ‘liberi pensatori’ ha ritenuto impensabili
certi pensieri, né che stia imponendo dogmi e catechismi scomunicando un
eretico”).
“Dopo
avermi nominato Umanista dell’anno nel 1996, mi hanno retroattivamente negato
l’onore nel 2021”, scrive Dawkins.
Il
motivo?
Dawkins
ha criticato da un punto di vista scientifico il transgender.
“Una
vita a Oxford ha radicato in me l’abitudine socratica a sollevare discussioni,
argomenti dal sapore leggermente paradossale, enigmi, contraddizioni o
incongruenze che sembrano aver bisogno di un po’ di chiarimenti”.
La
razza è uno spettro, scrive Dawkins.
“Le
persone che hanno un bisnonno nativo americano possono chiamarsi nativi
americani.
Il sesso, invece, è dannatamente binario.
Se hai
un genitore nero e uno bianco, puoi pensare di poter scegliere come
identificarti.
Se
scegliessi di identificarmi come un ippopotamo, diresti giustamente che sto
diventando ridicolo.
È più ridicolo della chiesa che identifica la
‘sostanza’ del sangue con il vino e il corpo con il pane.
Anche il sociologo più benpensante potrebbe
avere difficoltà a sostenere che un pene sia un costrutto sociale.
I
teorici del genere aggirano il fastidioso problema della realtà decretando che
sei ciò che senti, indipendentemente dalla biologia.
Se ti
senti una donna, sei una donna anche se hai un pene.
Maschio
contro femmina è una delle sorprendentemente poche autentiche dicotomie che
possono giustamente sfuggire alla censura per quella che ho chiamato ‘La tirannia della mente
discontinua’”.
Giorni
fa, “Dawkins” ha anche esortato i suoi fan a firmare la dichiarazione della “Women’s
Human Rights Campaign”, un’organizzazione con sede nel Regno Unito che si batte
per la protezione dei “diritti delle donne basati sul sesso” e contro l’autodeterminazione di genere, che include un appello a opporsi a
interventi chirurgici per la riassegnazione di genere e gli ormoni bloccanti
della pubertà a bambini e adolescenti.
“Segui
la scienza”, si sente ripetere ovunque.
Dawkins
ai suoi, che sui generi flirtano con l’irrazionalismo identitario, ricorda che questo
vale anche per la differenza sessuale.
Bufale
sul “climate change”:
cosa
fa la “disinformazione climatica”.
Lab-ips.org
– (29 luglio 2023) – Alice Pistolesi – ci dice:
Gli
incendi catastrofici del Canada?
Provocati da elicotteri, droni o “armi a
energia diretta” manovrati da ambientalisti o attivisti LGBTQ collusi con
progetti di energia rinnovabile.
A
questo e a molto altro può arrivare la disinformazione (in questo caso
climatica) se va a braccetto con un uso errato dei social network (in questo
caso Tik Tok).
Più il nemico è potente più la risposta deve
essere radicata e diffusa.
E se
il nemico in questione è la disinformazione climatica, la risposta deve
arrivare da più parti e coinvolgere in primis chi scrive e chi legge.
Un
esempio di attivismo è “la Climate Action Against Disinformation” (CAAD)
un’organizzazione globale, nata nell’estate 2021 che coinvolge oltre 50
organizzazioni impegnate a contrastare i contenuti fuorvianti e falsi su
ambiente e cambiamento climatico.
Come
agisce la “disinformazione climatica”: l’esempio di Twitter dopo Musk.
Ad
inizio 2023 “Cassa” ha diffuso il rapporto che ha messo in evidenza come, dal
27 ottobre, quando Elon Musk ha assunto la guida della compagnia, su Twitter
sono apparsi sempre più post fuorvianti sui cambiamenti climatici.
Il
report dal titolo “Deny, Deceive, Delay. Exposing New Trends in Climate Mis- and
Disinformation At COP27” rileva infatti che, durante la cop27 di Sharm-El-Sheikh
in Egitto, Twitter ha diffuso il termine “climate scam” (truffa climatica)
quando gli utenti cercavano la parola “clima”.
Nonostante
siano stati altri i termini molto più utilizzati, “climate scam” è comparso come primo risultato
nelle ricerche.
Un
piccolo gruppo di “Culture Warriors”di “Caad” ha individuato i 12 profili più attivi, tra
i quali spiccano “Fossil Fuel”, “Necessity”,” Anti-Green Tech”, “Cost of Living
Crisis”, “Culture Wars”, “Loss and Damage”.
I
‘guerrieri’ hanno poi riportato che questi “influencer della disinformazione”
hanno raccolto più di 344.000 condivisioni su 388 post a tema climatico
riguardanti la COP27 dello scorso novembre.
Qualche
giorno dopo la fine del summit, inoltre, il risultato migliore su Twitter era “climate lockdown”, ovvero la teoria complottista del Great
Reset, secondo la quale alcune élite globali
starebbe pianificando di far collassare l’economia mondiale per ridurre le
emissioni di carbonio.
Ma il
problema non ha riguardato solo i giorni della Cop27.
L’analisi
dell’”University of London”, riportata da “Caad,” ha infatti rilevato che nel
dicembre 2022” i tweet dei negazionisti del clima” hanno raggiunto il massimo
storico con più di 850.000 tweet o retweet, rispetto ai 650.000 del 2021 e ai
220.000 del 2020.
E
anche “YouTube” è stato nel mirino della “Caad”.
In un rapporto pubblicato il 2 maggio 2023 il gruppo
ha identificato 100 video (con 18,8 milioni di visualizzazioni) contenenti
annunci pubblicitari che presentano false informazioni ambientali.
Questo
nonostante nell’ottobre 2021 Google avesse annunciato che avrebbe “vietato la
pubblicità e la monetizzazione di contenuti che contraddicono un consenso
scientifico consolidato sull’esistenza e le cause del cambiamento climatico”.
Disinformazione
e intelligenza artificiale.
A
questo quadro si somma l’intelligenza artificiale, che secondo molti potrebbe
contribuire a diffondere disinformazione, anche climatica.
“Nelle
mani sbagliate – sostiene “Michael Khoo”, direttore di “Friends of the Earth” e
membro di “Caad” –
l’intelligenza
artificiale potrebbe minare per sempre il discorso sul clima a causa della sua
capacità di creare storie, argomenti e persino immagini realistiche su misura”.
Secondo lui, infatti, l’intelligenza artificiale avrà
il potenziale per creare miliardi di pezzi di disinformazione, personalizzarli
e diffonderli, rendendo molto difficile distinguere i fatti dalla finzione.
“Ciò –
continua – potrebbe non solo ostacolare l’azione climatica basata sui fatti, ma
rappresenterebbe anche un serio pericolo in caso di eventi meteorologici
estremi, quando informazioni chiare e accurate sono fondamentali”.
Voci
per il clima, l’iniziativa di Greenpeace.
Per
tentare di ovviare a disinformazione e negazionismo un’iniziativa made in Italy
è “Voci per il clima”, il primo network italiano di esperti ed esperte per
contrastare il “greenwashing” e la “disinformazione sui cambiamenti climatici”.
Una
rete di più di 60 realtà (tra cui anche Unimondo.org) appartenenti al mondo
della scienza, dell’imprenditoria, della comunicazione, dell’arte e
dell’attivismo unite da un impegno comune.
La
nascita del network è stata promossa da “Greenpeace Italia”, ma i suoi membri
operano in modo del tutto indipendente.
Obiettivo
del network è contrastare il “greenwashing” e ovviare alle carenze di giornali
e tv nel raccontare la crisi climatica.
Il
tutto tramite “un’informazione libera, trasparente e veritiera”.
(infatti
alcuni scienziati ritengono impossibile per la CO2 -che pesa 4 volte di più
della nostra aria - librarsi nell’alta atmosfera per creare la” volta di
contrasto”(effetto serra) al riscaldamento solare naturale. N.d.R.)
(Alice
Pistolesi) (unimondo.org)
(Giornalista,
è laureata in Scienze politiche e Internazionali e in Studi Internazionali
all’Università di Pisa.)
Verso
l’economia di guerra.
Lab-ips.org
– (11 giugno 2023) – Alessandro Somma – ci dice:
(Fonte Sinistrainrete)
Le
conseguenze della guerra non sono solo quelle visibili a occhio nudo, quelle
denunciate dalle innumerevoli immagini che raccontano la tragica quotidianità
di chi sopravvive e muore sotto le bombe.
Non
sono da meno gli effetti su chi viene apparentemente risparmiato dal conflitto
perché vive in Paesi non direttamente coinvolti nei combattimenti.
Semplicemente
sono meno riconoscibili, sebbene coinvolgano il complessivo modo di stare
insieme come società e in ultima analisi i fondamenti di quanto siamo soliti
chiamare Occidente.
A
mutare profondamente è l’ordine politico:
la
guerra richiede decisioni rapide e unanimi, a monte processi deliberativi
opachi, e questo incide profondamente sulla qualità della democrazia, che vive
al contrario di conflitti, di tempi scanditi dai ritmi della partecipazione e
soprattutto di trasparenza.
E anche l’ordine economico viene travolto:
la
produzione di armamenti e altri beni funzionali al conflitto deve procedere con
modalità per certi aspetti incompatibili con il capitalismo, che tra i propri
fondamenti vanta l’avversione verso il dirigismo e la pianificazione, utile
invece a concentrare lo sforzo produttivo.
La
guerra introduce insomma uno stato di eccezione, a ben vedere incrementando
dinamiche che hanno preceduto il conflitto in corso.
Questo
incide invero su un ordine politico e un ordine economico già pregiudicati
dalla pandemia, e ancora prima dalle crisi economico finanziarie che hanno
scosso il pianeta a partire dal 2008.
Forse la novità dell’attuale stato di eccezione
si coglie al meglio considerando una deriva che non era finora emersa con la
stessa nettezza con cui si sta mostrando ora:
la
transizione verso l’economia di guerra, ovvero «un sistema di produzione,
mobilitazione e allocazione di risorse finalizzate al sostegno della violenza».
Accelerare
la consegna e l’acquisizione congiunta di munizioni.
Nel
marzo del 2023 il Consiglio affari esteri, ovvero il Consiglio dell’Unione
europea nella formazione comprendente i Ministri degli esteri dei Paesi membri,
ha approvato una risoluzione per «accelerare la consegna e l’acquisizione
congiunta di munizioni per l’Ucraina» sulla base di tre linee di intervento.
La
prima linea riguarda il rimborso nella misura del 50-60% delle «munizioni di
artiglieria» e dei «missili» già donati o da donare prima del 31 maggio 2023, e
la seconda l’acquisto congiunto dello stesso materiale «nel modo più rapido
possibile prima del 30 settembre 2023».
Per
realizzarlo, a margine della riunione del “Consiglio affari esteri”, si è sottoscritto
nell’ambito dell’”Agenzia europea per la difesa” un accordo di progetto che
coinvolge 25 Stati.
A ben vedere un accordo che prende spunto dal
conflitto in corso, ma che mira ad avere effetti sul lungo periodo:
sebbene
la fornitura di munizioni all’Ucraina riguardi l’immediato futuro, si estende
per un arco temporale di sette anni.
La
terza linea di intervento, per la quale si invita” la Commissione a presentare
proposte”, concerne invece «l’incremento delle capacità di produzione
dell’industria europea della difesa».
In particolare si chiede di «garantire catene
di approvvigionamento sicure, agevolare procedure di acquisizione efficienti,
colmare le carenze nelle capacità di produzione e promuovere gli investimenti».
Il
fondo con il quale finanziare la prima e la seconda linea di intervento ha un
nome decisamente fuorviante:
lo Strumento europeo per la pace (European peace facility).
Si
tratta di un fondo istituito un paio di anni or sono al fine di «preservare la
pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza internazionale», finanziato fuori bilancio da
contributi diretti degli Stati determinati sulla base di un criterio di
ripartizione fondato sul reddito nazionale lordo.
Il
tutto per una cifra che ha nel tempo raggiunto gli otto miliardi di Euro, e che
si propone ora di incrementare di ulteriori tre miliardi e mezzo per finanziare
il conflitto russo ucraino:
ipotesi a cui il “Consiglio europeo” ha
genericamente dato seguito invocando la «mobilitazione di finanziamenti adeguati».
Fornendoci
così il riscontro definitivo di come furono facili profeti le organizzazioni
non governative che criticarono aspramente l’istituzione dello “Strumento
europeo per la pace”, prevedendo che sarebbe divenuto un nemico dei diritti
umani e una fonte di «danni alle popolazioni civili».
Burro
o cannoni?
Diversi
sono i canali indicati per finanziare la terza linea di intervento, per la
quale il” Consiglio affari esteri”, diversamente da quanto immaginato per la
prima e la seconda linea, prevede la possibilità di mobilitare il bilancio
dell’Unione.
Li ha
indicati “la Commissione”, che come abbiamo detto è stata invitata a formulare
proposte circa il modo di incrementare la capacità di produzione dell’industria
bellica.
Di qui un recente progetto di regolamento che
in inglese ha un acronimo accattivante: Asap (Act in Support of Ammunition
Production),
che significa anche «il prima possibile» (as soon as possible).
Il
primo canale di finanziamento, come abbiamo detto, è il bilancio europeo, dal
quale si preleveranno 500 milioni.
Vi è
poi la possibilità di distrarre risorse da fondi già esistenti e destinati ad
altre finalità.
Gli
Stati membri possono invero impiegare le risorse dei celeberrimi “Piani
nazionali di ripresa e resilienza” (Pnrr), e soprattutto «le risorse loro assegnate in regime
di gestione concorrente»:
formula criptica che allude a un insieme di
fondi con i quali l’Europa unita realizza le politiche in senso lato sociali.
Il riferimento è infatti al “Fondo europeo di
sviluppo regionale”, al “Fondo sociale europeo Plus, al “Fondo di coesione”, al
“Fondo per una transizione giusta”, al “Fondo europeo per gli affari marittimi,
la pesca e l’acquacoltura”, al” Fondo Asilo, migrazione e integrazione”.
Quest’ultimo
è stato l’unico aspetto sul quale si è concentrato il dibattito attorno alla
proposta della Commissione, appena approvata senza modifiche dal Parlamento
europeo.
Non solo:
se si
è discusso di questo aspetto è solo per stigmatizzare la consueta ambiguità del
Partito democratico, che non poteva bocciare la proposta per non scontentare la
sua componente bellicista, ma doveva concedere qualcosa al suo elettorato non
proprio in linea con i vertici (i sondaggi documentano una contrarietà alla
guerra decisamente più diffusa e radicata di quella espressa dalla politica).
Di qui
la scelta di approvare la proposta della Commissione, avanzando però allo
stesso tempo la richiesta di escludere la possibilità di finanziare
l’incremento della capacità produttiva dell’industria delle armi “sottraendo
soldi al Pnrr e ai Fondi di coesione”:
cosa
che oltretutto neppure è stata accolta dal Parlamento europeo.
Sovvenzionare
e imporre la produzione di armi.
È
gioco facile osservare che, se anche si fosse deciso diversamente, le cose non
sarebbero mutate.
Per
finanziare l’industria delle armi da qualche parte i soldi devono venire, e non
si va molto lontano se si apre una discussione su quali siano i tagli
preferibili: l’alternativa resta in buona sostanza quella tra burro e cannoni.
Il punto però è un altro:
la proposta della Commissione approvata dal
Parlamento europeo contiene elementi ben più preoccupanti di quelli relativi ai
canali di finanziamento, che pure inquietano non poco.
Sono
tali innanzi tutto le modalità individuate per sovvenzionare e addirittura
imporre la produzione di materiale bellico.
La
Proposta della Commissione precisa che il sovvenzionamento della produzione
viene richiesto dalle «specificità dell’industria della difesa, settore in cui la
domanda proviene quasi esclusivamente dagli Stati», motivo per cui le imprese non
effettuano «investimenti
industriali autofinanziati».
Di qui
la volontà di «intervenire riducendo i rischi degli investimenti industriali
attraverso sovvenzioni e prestiti», addirittura per «coprire fino al 60% dei
costi diretti ammissibili».
Precisamente:
Alla
luce delle specificità dell’industria della difesa, settore in cui la domanda
proviene quasi esclusivamente dagli Stati membri e dai paesi associati, i quali
controllano anche ogni acquisizione di prodotti e di tecnologie per la difesa,
comprese le esportazioni, il funzionamento del settore industriale della difesa
non segue le norme convenzionali e i modelli commerciali che disciplinano i
mercati più tradizionali.
L’industria non effettua pertanto ingenti investimenti
industriali autofinanziati, ma li avvia solo in seguito a ordini vincolanti.
Sebbene
gli ordini vincolanti effettuati dagli Stati membri siano una condizione
preliminare per qualsiasi investimento, la Commissione può intervenire
riducendo i rischi degli investimenti industriali attraverso sovvenzioni e
prestiti, consentendo così all’industria un più rapido adattamento alle
trasformazioni strutturali del mercato in corso.
Nell’attuale
contesto di emergenza, il sostegno dell’Unione dovrebbe coprire fino al 60 %
dei costi diretti ammissibili al fine di consentire ai beneficiari di attuare
quanto prima le azioni, ridurre i rischi degli investimenti e quindi accelerare
la disponibilità dei prodotti per la difesa pertinenti.
Dopo
la carota, il bastone.
In
tempi di guerra l’industria bellica si trova ad affrontare «un’improvvisa
impennata della domanda e deve urgentemente adattarsi a questa nuova situazione
di mercato».
Ecco allora che la produzione di armamenti può
essere imposta, e assistita da un impianto sanzionatorio, qualora le imprese
rifiutino «di accettare e mettere al primo posto un ordine classificato come
prioritario»:
In
particolare la Commissione, d’intesa con lo Stato membro in cui è stabilita
l’impresa, dovrebbe informare le imprese interessate della sua intenzione di
chiedere loro di accettare e mettere al primo posto un ordine classificato come
prioritario e fornire a dette imprese tutti gli elementi necessari per
consentire loro di prendere una decisione informata sulla possibilità di
accettare tale richiesta.
In
caso di rifiuto dell’impresa, la Commissione, d’intesa con lo Stato membro
interessato e tenendo debitamente conto della natura delle obiezioni sollevate
dall’impresa, può ritenere che sia giustificata da motivi di sicurezza
l’imposizione, mediante una decisione di esecuzione, di un ordine classificato
come prioritario.
Una
tale decisione dovrebbe essere adottata conformemente a tutti gli obblighi
giuridici applicabili dell’Unione, tenendo conto delle circostanze del caso.
L’ordine classificato come prioritario dovrebbe essere
effettuato a un prezzo equo e ragionevole.
Tale
ordine dovrebbe prevalere su qualsiasi obbligo di esecuzione di diritto privato
o pubblico, tenendo conto delle finalità legittime delle imprese e dei costi e
degli sforzi necessari per qualsiasi modifica della sequenza di produzione.
Le
imprese possono essere soggette a sanzioni se non rispettano l’obbligo relativo
agli ordini classificati come prioritari.
Ovviamente,
l’impresa sottomessa all’economia di guerra non viene lasciata in balìa delle
responsabilità che questo può comportare:
non risponde dei «danni verso terzi per
eventuali violazioni di obblighi contrattuali» riconducibili all’adempimento
dell’obbligo imposto.
Il
bastone c’è, ma se lo si deve usare contro le imprese le precauzioni sono
massime.
I
dolori di un vecchio capitalista.
La Commissione
riconosce che l’imposizione di produrre armi integra una violazione della
libertà d’impresa e del diritto di proprietà, che la Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea considera prioritari.
In
effetti la Carta non conosce il principio di parità sostanziale, ma solo la
mera uguaglianza di fronte alla legge (art. 20):
senza
obbligo alcuno per i pubblici poteri di «rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale» (come afferma la Costituzione nella celeberrima formula contenuta
nell’art. 3).
Coerentemente,
la Carta non codifica poi diritti sociali, mentre tiene in alta considerazione
le posizioni funzionali a rendere il mercato il principale strumento di
redistribuzione delle risorse, e a ridurre così l’inclusione sociale a
inclusione nel mercato.
Di qui
la preoccupazione per la sorte della libertà d’impresa (art. 16), che la Carta
si limita a riconoscere senza precisare che essa «non può svolgersi in
contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute,
all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (come precisato
invece dall’art. 41 della Costituzione italiana).
Di qui
anche l’apprensione per la sorte del diritto di proprietà, per il quale la
Carta richiama l’interesse generale solo come limite alla compressione del
diritto (art. 17), e non anche al suo esercizio (come avviene invece con il
richiamo alla funzione sociale della proprietà contenuto nell’art. 42 della
Costituzione italiana).
Insomma,
lo stato di eccezione alimentato dal conflitto in corso non si limita a
pregiudicare l’ordine politico e con ciò la democrazia: aspetto sul quale le
sensibilità europee non sono certo spiccate.
L’economia
di guerra insidia l’ordine economico in aspetti centrali per la sua difesa in
quanto ordine capitalista, che invece Bruxelles tiene in alta considerazione. Questo può però giovarsi di altre
espressioni dello stato di eccezione, dal momento che si è cioè dato libero
sfogo alla volontà di comprimere il controllo pubblico sull’attività privata,
notoriamente percepito come un intralcio alla libertà d’impresa e al diritto di
proprietà.
È
quanto emerge in termini espliciti dalla” Proposta di regolamento”, dove si
afferma in termini perentori:
«per perseguire l’obiettivo generale di
politica pubblica della sicurezza, è necessario che gli impianti di produzione
connessi alla produzione dei prodotti per la difesa pertinenti siano costituiti
il più rapidamente possibile, mantenendo nel contempo al minimo gli oneri
amministrativi».
E si
badi che gli oneri amministrativi vanno intesi in senso decisamente ampio, dal
momento che includono anche quelli posti a presidio di valori come l’ambiente e
la salute:
Gli
Stati membri dovrebbero prendere in considerazione la possibilità di avvalersi,
caso per caso, delle esenzioni previste per il settore della difesa dal diritto
nazionale e dal diritto applicabile dell’Unione, qualora ritengano che
l’applicazione del pertinente diritto possa incidere negativamente sulle
suddette finalità.
Ciò può applicarsi in particolare al diritto
dell’Unione in materia di ambiente, salute e sicurezza, che è indispensabile
per migliorare la protezione della salute umana e dell’ambiente, nonché per
conseguire uno sviluppo sostenibile e sicuro.
La sua
attuazione però può anche creare ostacoli normativi che frenano il potenziale
dell’industria della difesa dell’Unione di incrementare la produzione e le
forniture dei prodotti per la difesa pertinenti.
Insomma,
l’economia di guerra resta pur sempre un’economia che non mette in discussione
i fondamenti del capitalismo, e che anzi sfrutta lo stato di eccezione per
azzerare anni di conquiste in termini di equilibrio tra libertà d’impresa e
diritto di proprietà da un lato, giustizia sociale e ambientale dall’altro.
Dal
mercato senza Stato all’esercito senza Stato.
L’Europa
unita è nata come “mercato senza Stato” e sia è poi sviluppata attorno a “una
moneta senza Stato”.
Questo
assetto si è retto e si regge tuttora su una retorica accattivante:
il rifiuto della sovranità nazionale viene
considerato una precondizione per promuovere la pace, sulla scia di quanto
sostenevano i federalisti alla conclusione del conflitto mondiale.
La guerra russo ucraina e le dinamiche europee
che questa ha innescato ci mostrano al contrario che la pace è la prerogativa
di un ordine democratico e produttivo di giustizia sociale:
esattamente i valori che l’economia di guerra
sta contribuendo in modo determinante ad affossare.
Prima
che il conflitto scoppiasse, si conducevano vivaci dibattiti attorno a una
ulteriore espressione dell’unità europea:
la formazione di un esercito senza Stato.
Vivaci
perché condotti sullo sfondo di due punti di vista contrastanti:
quello
tedesco, per cui la difesa europea doveva restare saldamente ancorata alla
Alleanza atlantica, e quella francese, per cui l’Europa doveva emanciparsi
dagli Stati Uniti e affidarsi all’egemonia di Parigi.
Il Presidente francese Emmanuel Macron parlava nel
merito esplicitamente di una transizione dal «Washington consensus» al «Paris
consensus», e condiva il tutto con giudizi sprezzanti sulla Nato, ritenuta una
organizzazione «in stato di morte cerebrale».
La
guerra in corso non ha messo in discussione la volontà di sviluppare l’Europa
sotto forma di esercito senza Stato.
La ha anzi alimentata, ma allo stesso tempo ha
riorientato i suoi fondamenti: quell’esercito deve formarsi e strutturarsi
entro la cornice atlantica, e inoltre rafforzare l’ancoraggio a questa cornice
della complessiva costruzione europea.
Insomma,
il conflitto russo ucraino ci ha ricordati da dove veniamo, ovvero che l’ora
zero dell’Europa unita non è la celebre dichiarazione di Robert Schumann che ha
ispirato la nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca):
tutto ha avuto inizio con il Piano Marshall,
con il quale gli Stati Uniti hanno serrato le fila dell’occidente nella
confrontazione con il blocco socialista, utilizzando l’assistenza finanziaria
come contropartita per l’ancoraggio al capitalismo.
Il
conflitto ci ricorda poi che l’Europa unita ha accompagnato costantemente
l’espansione della Nato, prima verso sud e poi verso est.
Sino
alla pantomima dell’adesione dell’Ucraina all’Unione europea, utilizzata come
l’adesione degli altri Paesi un tempo appartenuti al blocco sovietico per
contrastare i pallidi tentativi di far emergere l’interesse europeo oltre le
mire dell’alleato oltreoceano.
L’economia
di guerra è l’esasperazione di questo disegno, ma anche il preludio del suo
approdo:
la
fine delle speranze di pace per una porzione di mondo che non ha saputo
meritarla.
Per
combattere il pensiero unico
Liberal
(Dem Usa) nelle scuole si sta
svegliando un mostro anti woke.
Ilfoglio.it - DANIELE RAINERI - (05 NOV 2021)
– ci dice:
A
furia di intolleranza da sinistra, s'avanza l'intolleranza da destra che mette
all'indice libri dal contenuto perfettamente normale.
Entrambe
puntano a sopprimere la libertà d'espressione, scrive “David French”
Due
giorni fa “David French” ha pubblicato un testo interessante per mettere in
guardia dall’ascesa negli Stati Uniti di un movimento “anti woke di destra” che
secondo lui finirà per essere illiberale e pericoloso.
Dice “French”
in sintesi:
guardate che a furia di eccessi woke (dove per
woke s’intende la consapevolezza delle ingiustizie sociali e razziali che
diventa ideologia intollerante) sta alzando la testa un “mostro anti woke” e
non ci piacerà per nulla.
Dovremo fronteggiare due movimenti
intolleranti e speculari, da destra e da sinistra, che mirano entrambi a
sopprimere con efficienza la libertà di espressione.
“French”
è un conservatore, evangelico e abortista quindi sta dicendo una cosa che va
contro la propria area d’appartenenza politica.
Inoltre
il suo testo è ospitato dal sito di “Bari Weiss”, ex editorialista del New York
Times che se ne andò perché dentro al “giornale liberal” la censura woke,
sosteneva, era troppo forte e ormai decideva al posto del direttore che cosa
poteva essere pubblicato e che cosa no.
Per questo motivo l’avvertimento pubblicato
due giorni fa è doppiamente interessante:
arriva da due autori che sono campioni della
lotta contro l’intolleranza da sinistra e che però chiedono di fare attenzione
perché c’è un pericolo che viene dalla parte opposta.
Il
testo di “French” è significativo anche perché parla di istruzione e di libri
vietati a scuola e questo argomento – che in teoria suona meno importante di
altri come le tasse, l’economia o la pandemia – è stato decisivo due giorni fa
nelle elezioni per la carica di governatore della Virginia, vinte da un
repubblicano.
Grazie
alle polemiche sui libri vietati a scuola, il candidato conservatore ha vinto
contro i democratici in uno stato dove” Joe Biden “soltanto un anno fa aveva
trionfato con dieci punti di vantaggio su Donald Trump.
Più
attuale di così non può essere.
Scrive
“French“ che il movimento “anti woke” produce leggi contro l’insegnamento della
“Critical Race Theory”.
È la teoria che interpreta la storia degli
Stati Uniti mettendo il razzismo dei bianchi contro gli afroamericani come
prospettiva dominante ed è già vietata in sette stati.
“Promettono
di proteggere i bambini da un’ideologia piena d’odio e divisiva, ma sono
caotiche. Sono vaghe e scritte male e lasciano gli insegnanti nella confusione
più profonda”.
Due
settimane fa a” Southlake” in Texas è arrivato uno di questi momenti di confusione
quando l’amministratrice di una scuola in una riunione con gli insegnanti li ha
avvertiti che d’ora in avanti se includono un libro su un tema controverso nel
loro programma allora dovranno anche includere un libro che affronta lo stesso
tema da un punto di vista opposto.
Per
esempio? hanno chiesto gli insegnanti.
“Per esempio se trattate l’Olocausto dovrete
inserire anche un libro con una prospettiva opposta”.
C’è l’audio della riunione, si sentono i gasp
soffocati degli insegnanti:
che razza di libri “con una prospettiva
opposta sull’Olocausto” dovremmo includere nel programma?
“French”
cita anche il caso dei libri rimossi dalle scuole in Texas dopo obiezioni da
parte di “studenti, genitori e contribuenti”.
È un
elenco di 800 libri che in teoria potrebbero provocare (“potrebbero”) disagio
negli studenti e quindi sono stati cancellati dalle librerie scolastiche.
Ma
qual è il criterio per decidere quali libri possono creare disagio?
“French”
scrive che in Tennessee, dove lui abita, quest’estate alcune mamme hanno
chiesto formalmente la rimozione di libri come “Ruby Bridges Goes to School: My
True Story” e “The Story of Ruby Bridges”, che raccontano la storia della
piccola alunna afroamericana che per prima andò in una scuola di bianchi protetta
dalla polizia contro i segregazionisti.
Quei
libri, dicono le mamme, “faranno odiare ai bambini il loro paese, faranno
odiare gli altri bambini e anche loro stessi”.
Le mamme se la prendono anche con la celebre
illustrazione di “Norman Rockwell” che illustra l’evento.
Dal
punto di vista delle leggi che i repubblicani stanno introducendo, le mamme
potrebbero avere la ragione formale.
Il problema è che è una storia vera.
Comprendere
"l'impero
del
male."
Unz.com - MACIEJ PIECZYŃSKI – (1° AGOSTO 2023)
– ci dice:
(Questa traduzione è stata pubblicata sul sito
conservatore polacco in lingua inglese Sovereignty.pl.)
Nel
2002, a Vladimir Putin è stato chiesto in un'intervista in che modo la Russia
che governa differisce dall'Unione Sovietica del tempo di Stalin.
L'intenzione dell'interrogante era ovviamente
quella di dimostrare che i tempi della sanguinosa dittatura in Russia erano
passati, e che il suo presente e il suo futuro erano tempi di libertà e
democrazia.
In una conversazione con lo stesso giornalista
nel 1991, Putin aveva avvertito con una faccia triste di un possibile
"ritorno al totalitarismo".
11
anni dopo, quando era diventato presidente del paese, ha fatto di nuovo una
faccia triste, anche se per una ragione completamente diversa.
Ha
osservato che rispetto all'era di Stalin, la Russia "è diventata molto più
piccola, sfortunatamente".
L'ultimo libro del professor “Andrzej Novak” The Return of the "Evil
Empire": “Ideologies of Modern Russia”, “Their Creators and Critic”s
(1913-2023) ,Powrót Imperium Zła, « Ideologie współczesnej Rosji, ich twórcy i
krytycy (1913-2023), inizia con una riflessione su queste due osservazioni
rivelatrici.
Putin
come fedele discepolo di Stalin.
Non è
stata la simpatia per il sistema comunista, ma il rimpianto per i territori
perduti della Russia che ha portato Putin a considerare il crollo dell'URSS
come il più grande disastro geopolitico del ventesimo secolo.
L'invasione dell'Ucraina è un tentativo di
invertire parzialmente questo "disastro".
Come
nota “Nowak”, sebbene la Russia sia il paese più grande del mondo, i russi (e
non solo Putin stesso) vogliono ancora sempre più terra – non tanto terra da
conquistare quanto, secondo la narrativa ufficiale, terra da
"riconquistare" o "liberare".
Questa è la tradizionale retorica russa.
Dopotutto,
non sono solo i propagandisti del Cremlino, ma anche gli storici apparentemente
seri della patria di Puskin a sostenere che la Russia non ha mai invaso
nessuno.
Si è sempre difeso solo contro le aggressioni
esterne, generalmente dall'Occidente.
Dal
tempo del principe medievale “Alexander Nevsky”, che combatté i cavalieri
tedeschi e svedesi, attraverso la rivolta popolare contro gli "intrusi
polacchi" all'inizio del XVII secolo e due guerre patriottiche (prima
contro Napoleone, poi Hitler), allo scontro con "l'Occidente
collettivo" (Stati Uniti, NATO, Unione Europea) e i suoi lacchè ucraini,
la Russia si è sempre ripresa solo quei territori che erano
"giustamente" dovuti, "liberando" la popolazione che vi
abita.
Questa
è ancora la posizione dopo il 24 febbraio 2022.
Andrzej
Nowak ricorda il famoso articolo di Putin del luglio 2021 che delineava la
giustificazione ideologica e storiografica per l'invasione che era già in
preparazione all'epoca.
"Russi
e ucraini sono una nazione, un unico insieme", ha sostenuto il sovrano del
Cremlino.
Questo
unico insieme fu santificato dal principe Vladimir di Kiev, quando fu
battezzato nella fede ortodossa (in Crimea, secondo la leggenda).
"Sfortunatamente",
in tempi successivi, forze ostili hanno cercato di tanto in tanto di rompere
questa unità.
L'identità nazionale separata degli ucraini è
un prodotto artificiale della propaganda anti-russa diffusa da polacchi e
austriaci.
Inoltre,
l'Ucraina, come stato separato all'interno dei suoi confini del 1991, è nata
grazie ai bolscevichi, che per primi hanno creato la Repubblica sovietica
ucraina.
Sono
anche i bolscevichi che, dopo il 17 settembre 1939, hanno annesso all'Ucraina
terre precedentemente appartenenti alla Polonia (anche se indebitamente, perché
sono, dopo tutto, antiche terre russe).
I carri armati russi si sono quindi spostati
in Ucraina per ricordare ai suoi cittadini che sono, in realtà, russi – finora,
con risultati disastrosi.
“Andrzej
Nowak” dice che l'imperialismo russo nella sua versione moderna è nato nel
1913, quando un certo "meraviglioso georgiano", come Lenin chiamava
Stalin, sviluppò le basi della politica bolscevica sulle nazionalità.
Questa
politica presupponeva la creazione di uno Stato che, pur onorando gli ideali
del marxismo, sarebbe stato allo stesso tempo uno Stato russo altamente
centralizzato, che offrisse al massimo autonomia ai popoli conquistati. Così,
quattro anni prima di prendere il potere, era già abbastanza chiaro che i
bolscevichi avrebbero continuato la missione imperiale dello zar, anche se
usando slogan diversi.
Da qui
la natura sincretica dell'ideologia di Putin.
La politica storica del Cremlino oggi combina
il culto degli zar e della "Terza Roma" ortodossa con il culto della
vittoria sovietica sul fascismo.
Il denominatore comune è l'amore per la
potenza di una superpotenza internamente forte ed esternamente espansiva.
Putin
è un fedele discepolo di Stalin in questo senso, anche se evita i peani diretti
allo "zar rosso".
Nel
suo libro, lo storico polacco cerca una risposta alla domanda: qual è la vera natura
dell'imperialismo russo?
A suo
parere, una Russia aggressiva ha più in comune (o vorrebbe avere più in comune)
con un Occidente pacifico, aperto e tollerante di quanto si possa pensare,
soprattutto considerando l'attuale situazione in Ucraina.
Coloro
che credono che Mosca sia esclusivamente la capitale mondiale del
conservatorismo, il baluardo del cristianesimo e del patriottismo, e una forza
contro i globalisti si sbagliano.
In effetti, la Russia è un nemico implacabile
dell'idea stessa di stato-nazione.
Questo
non è affatto il risultato di un avvelenamento ideologico da parte del virus
del comunismo.
Sebbene
l'ideologia imperiale russa come la conosciamo oggi sia stata in gran parte
scritta da Joseph Stalin, le sue radici risalgono a molto tempo fa.
In
realtà, risalgono agli inizi del Principato di Mosca, che in seguito si è
evoluto in zarismo e poi in un impero, anche di nome.
Il
dittatore sovietico ha semplicemente aggiornato la tradizione secolare con
nuovi contenuti.
Inizialmente
Mosca raccolse solo le terre della Rus', mentre costruiva la sua autorità come
centro mondiale dell'Ortodossia.
Tuttavia,
nel XVI secolo divenne una potenza multinazionale a seguito delle conquiste in
Oriente.
Poi,
nel diciassettesimo secolo, sorse un dilemma se dovesse essere aperto al mondo
(cioè se dovesse conquistare il mondo, accettando pragmaticamente alcuni dei
suoi elementi) o se dovesse isolarsi da questo "mondo marcio".
La
prima opzione ha prevalso.
La Russia stava diventando un impero
multinazionale, ma con un forte centro russo che non poteva sopportare la
concorrenza.
I
popoli conquistati dovevano riconoscere la superiorità della Russia, umiliarsi
davanti al suo sovrano e dimenticare le loro ambizioni di liberazione
nazionale.
Al
massimo, potrebbero contare sul tipo di status che la Scozia ha nel Regno
Unito, cioè sulla dipendenza politica pur mantenendo una certa identità
regionale.
Secondo
il principale storico russo Alexei I. Miller, l'Ucraina era una tale
"Scozia" nella Russia del diciannovesimo secolo.
E
avrebbe potuto rimanere tale alla fine del XX secolo, sotto il concetto di una
"nazione russa trina" che unisce tutte e tre le nazioni slave
orientali che hanno le loro radici nell'antica Rus'.
Questo concetto, di natura imperiale, nega
l'esistenza di ucraini e bielorussi come popoli separati.
Gli ucraini, tuttavia, non volevano
intraprendere questa strada.
Ispirati
dalla lotta di liberazione nazionale dei polacchi, decisero di intraprendere la
lotta per la loro indipendenza.
Dopo
il crollo dell'URSS, la Russia ha avuto la possibilità di abbandonare la sua
identità di "prigione delle nazioni" imperiale a favore della
costruzione di un proprio stato-nazione separato.
Tuttavia,
non avrebbe colto questa opportunità.
L'opzione più minimalista per ricostruire
l'impero era la proposta di "riunire" le tre nazioni slave orientali.
Un'Ucraina separata non si adattava alle menti
delle più grandi autorità morali e intellettuali della Russia.
Che il dominio di Mosca sulla "nazione
russa trina" sia stato sostenuto da “Aleksandr Solzhenitsyn”, un
anticomunista che idealizzava lo zarismo, è comprensibile.
Tuttavia,
anche “Joseph Brodsky”, un poeta dissidente e campione della libertà
individuale, scrisse agli ucraini quando ottennero l'indipendenza:
"Ora lasciate che i Kraut e i Lachs
[polacchi] / vi portino in una casa di fango da dietro ..."
L'atteggiamento
dell'intellighenzia russa nei confronti dell'impero è anche un tema importante
del libro di “Andrzej Nowak”.
Non
c'è bisogno di considerare se la Russia è il paese di Pushkin o di Putin,
perché Pushkin ha sostenuto l'imperialismo, proprio come ha fatto una buona
parte dei grandi artisti e autori russi.
Alcuni
ricercatori, inoltre, sottolineano il fenomeno dell'imperialismo russo mirato
contro i russi stessi.
Le
élite dell'impero adottarono la cultura occidentale nel diciottesimo secolo,
allargando il divario tra loro e il popolo.
Questo dovrebbe fornire spunti di riflessione
per quanto riguarda l'affinità ideologica tra le élite russe e occidentali
oggi.
L'ultima
moda.
L'imperialismo
e l'odio per il concetto di nazione sono quasi nel sangue dei russi.
Sfortunatamente,
sotto questo aspetto hanno molto in comune con le élite intellettuali e
politiche dell'Occidente.
E per la Polonia, questa è forse la
riflessione più inquietante che si possa ricavare dall'ultimo libro di “Nowak”.
Lo
storico polacco esamina ampiamente la discussione accademica sulla Russia e
l'URSS che ha avuto luogo nel corso degli anni nei paesi occidentali.
Le famose parole di Ronald Reagan
sull'"impero del male" sono state per lungo tempo generalmente viste
come una valutazione dolorosa e ingiusta.
Quando eminenti storici come “Richard Pipes”
scrissero sulla natura imperiale dell'Unione Sovietica, un'ondata di critiche
cadde su di loro.
È
stato affermato che le loro intenzioni non erano scientifiche, ma politiche,
che in realtà volevano solo che l'URSS si disintegrasse lungo linee etniche (nazionali)
come tutti gli altri imperi.
Fu
solo alla fine degli anni 1980 e all'inizio degli anni 1990, quando in effetti
la superpotenza rossa era già in bilico sulle sue fondamenta, che
"l'imperiologia" divenne, come dice “Andrzej Nowak”, "l'ultima
moda".
Infine,
la natura imperiale e aggressiva dell'Unione Sovietica non era più un argomento
tabù.
L'ideologia
imperiale russa è stata anti-occidentale per secoli.
Mosca
vuole essere o la "terza Roma", cioè l'unico vero centro spirituale
(e politico) del mondo, o la "seconda Roma", cioè uno dei due centri
esistenti.
E se
nessuno dei due avrà successo, sceglierà la via del "pluralismo delle
civiltà", cioè di un "mondo multipolare" in cui c'è spazio per
molte potenze regionali con le loro sfere di influenza.
Quindi c'è spazio nel pensiero del Cremlino
per la coesistenza con l'Occidente.
Tuttavia,
sarà sempre coesistenza a spese delle "piccole nazioni" situate tra
Russia e Germania.
Come
afferma la popolare storica imperialista russa” Natalia Narochnitskaya”,
Berlino e Mosca sono gli unici "organizzatori dell'Europa orientale".
Solo
loro, come poteri forti, hanno il diritto di decidere il destino degli
"staterelli" che giacciono tra di loro.
“Andrzej
Nowak” osserva che l'eredità comunista ha diversificato significativamente il
repertorio della propaganda imperiale del Cremlino.
Parallelamente
a brandire i suoi slogan sulla difesa dell'Ortodossia e dei valori
tradizionali, la Russia ha assunto il mantello dell'uccisore del fascismo, del
nazionalismo e dell'antisemitismo.
Questo a sua volta rende la sua retorica
suscettibile di attrarre un pubblico occidentale con opinioni liberali di
sinistra.
In un certo senso, è una continuazione delle
vecchie tradizioni imperiali.
Dopo
tutto, Caterina la Grande fu applaudita nei salotti dell'Europa occidentale con
la sua pretesa di introdurre gli "ideali dell'Illuminismo" con
baionette e sciabole in una Confederazione polacco-lituana sopraffatta da
"oscurità e intolleranza".
Sfortunatamente,
l'Occidente considera ancora l'imperialismo un male minore del nazionalismo.
Così, Mosca ha nella manica l'asso della
retorica progressista e antinazista, che è rafforzata dalla sua vittoria nella
seconda guerra mondiale.
Quindi,
può "convincere con successo milioni di spettatori al di fuori della
Russia della tesi che, in effetti, ora sta eroicamente cercando di liberare
l'Ucraina dalle grinfie dell'imperialismo statunitense, dove rimuoverà il
cancro del neofascismo o dell'antisemitismo (presente anche in altri paesi che
sono sfuggiti alla tutela sovietica, come gli Stati baltici e la
Polonia)."
Questi argomenti, come sottolinea l'autore del
libro, trovano terreno fertile soprattutto nei paesi del Sud del mondo.
E possono anche convincere i circoli
"progressisti" dell'Europa occidentale, dove Washington è spesso
trattata come un rivale più pericoloso di Mosca.
Guerra
di civiltà.
La
Russia come terza e ultima Roma del cristianesimo, e rifugio di sanità mentale
di fronte alla crisi morale e intellettuale che sommerge l'Occidente.
La
Russia come grande mediatore tradizionale, in armonia con le altre potenze
"tradizionali", in particolare Germania e Francia, garantendo una
pace giusta e un ordine globale in un momento di tempesta e disordini.
La
Russia come ultima speranza per coloro che combattono in tutto il mondo contro
l'egemonia americana e come ostacolo al ritorno del fascismo e del razzismo
intorno ai suoi confini.
La Russia difende il pluralismo di civiltà
contro l’unilaterale dominazione degli "anglo-americani".
Così
scrive l'autore, elencando la vasta gamma di narrazioni di propaganda che Putin
usa nelle sue riflessioni pubbliche sulla storia.
Leggere
il libro di “Andrzej Novak” può portare a una conclusione che sarà sorprendente
per molti.
C'è
una guerra di civiltà in corso in Ucraina.
Tuttavia, contrariamente alle affermazioni
spesso fatte, questo non è uno scontro tra l'Occidente liberale e l'Oriente
conservatore.
La
linea del fronte corre quasi al contrario.
Questa
guerra è tra l'idea dello stato-nazione a cui è permesso di scegliere il
proprio percorso di sviluppo, e il concetto di un impero che rivendica il
diritto di imporre il suo modello di progresso agli altri, usando cinicamente
slogan sulla lotta contro il "fascismo".
La
Russia mira a costruire un mondo governato da imperi piuttosto che da nazioni.
Per
quanto Tempo i Popoli Accetteranno
ancora
di Farsi Prendere in Giro?
Conoscenzealconfine.it
– (3 Agosto 2023) - Silvio Dalla Torre – ci dice:
Una
delle cose peggiori che possano capitare, come ricordava Brecht, è quando il
nemico fa proprie le tue parole d’ordine e ne stravolge il significato.
Ho
sempre pensato che fosse necessario adottare stili di vita più sobri, arrestare
la cementificazione selvaggia, preservare ed incrementare le aree verdi (parchi
pubblici e boschi), favorire il trasporto pubblico in luogo di quello privato,
la bicicletta in luogo dell’automobile.
In
passato queste posizioni erano spesso ridicolizzate, presentate come una
chimera passatista di persone che non vogliono accettare la modernità.
Oggi
l’ecologismo è diventato l’ideologia dell’élite dirigente.
Con la
scusa della “tutela dell’ambiente”, si cerca di imporre una perversa
trasformazione antiumana e distopica.
L’obiettivo
è chiaro.
Sul
piano socio economico:
drastica
riduzione della popolazione mondiale, distruzione della classe media nei paesi
sviluppati, cancellazione della piccola impresa, amazonizzazione del commercio,
lavoro a distanza generalizzato, digitalizzazione dell’istruzione, controllo
capillare sulla popolazione, creazione di una plebe sussidiata, dipendente dal
telefonino, dalla televisione e dalle droghe.
Sul piano geopolitico:
separazione
della Russia dall’Europa e riaffermazione dell’egemonia globale degli Stati
Uniti usando il braccio militare della NATO.
Questo
mostruoso progetto distopico contro l’uomo (e contro la natura) richiede la
creazione di sempre nuove emergenze, le quali rendano accettabile ciò che in
condizioni normali sarebbe inaccettabile.
Ecco
quindi che prima abbiamo avuto l’emergenza pandemica, ora quella climatica.
Il fatto che l’aumento della temperatura media dipenda
dall’azione umana viene presentato come una verità inconfutabile.
A chi
esprime dei dubbi viene affibbiato l’epiteto insultante di negazionista.
La
cosa è andata talmente avanti che ogni pretesto è buono per scatenare la
propaganda.
Due
giorni di caldo in un’estate sostanzialmente fredda (almeno nella pianura
padana) ed ecco che pennivendoli, influencer, nani e ballerine del mondo dello
spettacolo, politicanti al servizio permanente (ben indennizzato) dell’oligarchia
perdono ogni ritegno e si abbandonano a tirate apocalittiche.
Per
quanto tempo i popoli accetteranno di farsi prendere in giro?
Capiranno
i giovani, i primi bersagli di questo lavaggio del cervello, che questa
retorica distopica non ha nulla a che vedere con la tutela dell’ambiente?
(Silvio
Dalla Torre)
(t.me/solitudinemfaciuntpacemappellant)
TV,
ZONA GRIGIA: VIETATO PENSARE.
VALE
SOLO INTERROMPERE E ZITTIRE.
Visionetv.it
– (3 Agosto 2023) – Giorgio Cattaneo – ci dice:
Per
prima cosa, ti interrompono.
Lo
fanno appena intuiscono che il tuo ragionamento – giusto o sbagliato – potrebbe
decollare: suscitare attenzione, persino curiosità.
Tu non
puoi ragionare, devi limitarti ad abbaiare.
Scandire
slogan immediatamente riconoscibili. “Viva, abbasso”.
E questo,
a prescindere dall’argomento.
Lo
hanno sperimentato sulla loro pelle, ancora una volta, Francesca Donato e Francesco Toscano.
Ospiti
di Zona Bianca, su Rete4, il 2 agosto.
Ospiti
per modo di dire: messi lì a fare da bersaglio, sistematicamente sabotati. Voci
e volti offerti in pasto a non si sa chi, per non si sa bene quale strano rito.
ZONA
BIANCA, NOTTE FONDA.
Puro
cannibalismo televisivo, lo si potrebbe chiamare: allegra, ordinaria macelleria
post-giornalistica, verniciata di sensazionalismo per analfabeti funzionali e
condita di luoghi comuni imbarazzanti.
E se
il pubblico – persino quel pubblico, che si presume così affamato di
rassicurazioni – avesse voluto sentire cos’avevano da dire, gli outsider?
Due
alieni, esibiti come trofei.
Prescelti oculatamente.
Lui,
frontman di VisioneTv e del dissenso politico italiano (quello che ragiona).
Lei, addirittura europarlamentare: critica,
spigolosa, fuori dal coro.
Come
dire: due livelli, tra loro complementari.
Quello
che in Parlamento c’è già.
E
quello che si candida ad accedervi, prima o poi, per dare voce al popolo
invisibile cui viene sempre tolta la parola.
TOSCANO
E LA DONATO.
A
proposito: nei pochi minuti concessi (pochi secondi, quelli senza interruzioni)
Toscano & Donato sono riusciti a dire due cose, una a testa.
Lui: a contestare frontalmente il
metodo, addirittura.
Il
mattatoio, incruento ma implacabile, dei talk televisivi mainstream.
Lei: a dire – sul tema (il clima) – che oggi è la Commissione Ue a
contestare l’uso spericolato e ormai globale della geoingegneria.
Paradossalmente,
come per miracolo, sullo studio è sceso il silenzio – incredibile, ma vero –
durante la visione del filmato con il quale la redazione, smaccatamente,
intendeva esporre al pubblico ludibrio le voci eretiche del web.
Sul tappeto: la denunciata manipolazione politica
e mediatica della presunta emergenza climatica.
CLIMA:
GRANDE LA BUFALA.
“Presunta”,
com’è noto, in quanto negata – come tale – da 1.500 scienziati, tra cui Premi
Nobel.
A
scanso di equivoci, fiutando il pericolo, Zona Bianca ha esposto un cartello
tombale:
il 99,9% della comunità scientifica sarebbe concorde nell’attribuire
all’emissione umana di CO2 l’andamento delle temperature terrestri.
Come
dire: nessuno, sano di mente, oserebbe negare questa verità assoluta.
Se 99 scienziati su 100 “sanno” che la colpa è
solo nostra, inutile insistere.
Chi
tenta di opporre altre cifre e altre spiegazioni è semplicemente un cialtrone o
un mitomane, da rinchiudere in manicomio.
SCIENZIATI:
SOLO 1 SU 3 INCOLPA LA “CO2”.
Trattasi
invece di una fake news lapalissiana, come spiega il professor Franco
Battaglia.
Nasce
dalla lettura – volutamente erronea – di uno studio pubblicato nel 2013 da “John
Cook” e altri otto autori.
Hanno
analizzato 11.944 articoli scientifici sul cambiamento climatico (o
riscaldamento globale) pubblicati tra il 1991 e il 2011.
In
effetti – lo ammettono gli autori stessi – nel 66,4% per cento dei report non
si parla nemmeno di “riscaldamento globale antropogenico”.
Solo il 32,6% degli articoli sostiene
l’origine antropica.
Ed è
solo tra questi ultimi articoli – appena uno su tre, quindi – che si sposa la
tesi del “riscaldamento globale antropogenico”.
Ecco
dunque il numero magico: 97,1% (arrotondato da Zona Bianca con un bel 99,9%).
AL
TELESPETTATORE NON FAR SAPERE.
Eppure,
la notizia era circolata abbondantemente: sul quotidiano La Verità e sul blog
di Nicola Porro, oltre che su VisioneTv.
Verità numerica, quindi neutra, alla quale
però il pubblico di Zona Bianca – a quanto pare – non merita di avere accesso.
Il
pubblico deve continuare a credere, più che a sapere.
A credere in che cosa?
Essenzialmente,
in questo: che chi comanda ha sempre ragione.
E chi si permette di obiettare qualcosa è come
minimo un insolente, un pazzo visionario, un caso psichiatrico.
Un
terrapiattista.
ITALIANI
TERRAPIATTISTI.
E
infatti:
a
silenziare i ragionatori, interrompendoli e squalificandoli come imbecilli,
hanno provveduto un paio di disturbatrici presenti nella trasmissione, in
studio e in collegamento.
Due
donne, tempestive nell’interdizione sistematica e teatralmente sceneggiata.
Una di
loro, curiosamente qualificata come giornalista, si è subito premurata di
sottolineare che i tipacci come Toscano (e forse anche come la Donato) fanno
parte di quella genia di squilibrati – tantissimi, purtroppo – così scellerati
da pensare davvero che la Terra sia piatta.
LA
SCIENZAH DEL CLIMAH.
Attenzione:
parliamo di oltre trenta milioni di persone,
infatti.
Ben
sei italiani su dieci – secondo la “giornalista” invitata da Zona Bianca –
sarebbero convinti che il nostro pianeta non sia affatto sferico (sferoidale).
Poi è
arriva anche la precisazione:
be’,
no, in effetti si tratta di 6 italiani su 100, non su 10.
Meno
male.
E la fonte, di questo comunque inquietante 6%
di super-citrulli nazionali?
Niente,
anche qui: mistero della fede.
“Sondaggi”,
si dice.
Al pubblico deve bastare. Chiaro? Lo dicono i
sondaggi.
Lo
dice la Scienzah (quella del Climah).
ED ECCO
A VOI I NEGAZIONISTI.
E
appunto:
come
non ascoltarli – in religioso silenzio, loro sì – i paranoici omni-negazionisti
che, nella loro psicopatologia cronica, non resistono alla tentazione di
collegare il male in un’unica trama?
Prima la fobia pandemica, poi la russofobia a
comando.
E ora anche la fobia climatologica.
Ebbene:
chi sono, davvero, questi dementi?
Ed
ecco sfilare il serraglio, lo zoo dei mentecatti di cui ridere a crepapelle.
Nel
servizio televisivo proposto, abilmente confezionato, coabitano personaggi come
Massimo Mazzucco, Alessandro Meluzzi e persino Enrico Gianini.
Il
quale afferma: credo esista una regia mondiale, per quanto riguarda la gestione
planetaria delle cosiddette scie chimiche.
GIANINI:
LA VERA STORIA.
Chi è
Gianini?
Inutile perdere tempo in spiegazioni: al
pubblico di Zona Bianca non è il caso di fare le opportune presentazioni.
Per inciso: Gianini era un operatore aeroportuale di
Milano Malpensa.
Il
primo, in Italia, a rivolgersi alla polizia, per i suoi sospetti sugli
eventuali rilasci di sostanze tossiche in atmosfera.
Agli
agenti, Gianini segnalò perdite di liquidi anomali, dalla coda e dalle ali dei
velivoli, nonché la presenza di strani serbatoi supplementari dove prima c’era
il vano bagagli.
Poi si rivolse ai media indipendenti, al web.
E così
andò incontro a un sacco di problemi, dopo aver ovviamente perso il lavoro.
NOI
PSICOPATICI.
Ma
tutto questo, evidentemente, all’ignaro pubblico televisivo non può interessare.
Anzi,
non deve interessare: perché chi si pone domande scomode e pensa che qualcosa
possa essere andato storto non è una persona mediamente intelligente.
Nossignore: è un complottista.
Vale a
dire: un individuo disturbato, che cerca altrove – nel posto sbagliato – uno
sfogo per rimediare alla propria evidente infelicità esistenziale.
Seriamente:
è
stato detto papale, papale, in trasmissione.
Lo scettico non esiste più: ormai esiste solo
lui, lo psicopatico negazionista.
Il
cospirazionista patologico.
L’idiota.
Ma
allora – protesta inutilmente Toscano – il Machiavelli del Principe chi era?
Un
povero deficiente, pure lui?
Il
nonno di tutti i complottisti?
LA
DURA LEGGE DEI TALK.
Ecco,
Toscano. Lui e la Donato.
Che ci
fanno, in trasmissioni come quelle?
Sono
note come persone serie, stimate, indipendenti.
Non legate a nessun carro di potere.
Libere di dire quello che pensano, a costo di
pagarne il prezzo.
In
pratica due extraterrestri, nel pianeta chiamato Zona Grigia.
Che ci
fanno, in non-luogo dove si sciorinano sconcertanti teologie
pseudo-scientifiche, una dopo l’altra, sulla scorta di clamorose bufale e con
tanto di statistiche inventate?
Soprattutto:
che ci fanno, due persone per bene (educate, civili) in un urlatoio deprimente
dove, appena ti viene concesso il microfono, vieni istantaneamente interrotto e
quindi zittito?
CANNIBALI
TELEVISIVI.
Perché
li invitano?
Ovvio:
per lasciar credere al pubblico che la trasmissione sia democratica,
tollerante, pluralista.
Capace
di dare ascolto a teorie eterodosse e persino strampalate, come quelle dei
noti, ridicoli negazionisti psichiatrici.
E
loro, perché accettano di partecipare alla tonnara sapendo in partenza che gli
toccherà fare la parte dei tonni?
Forse perché – invitati – non se la sentono
(in quanto esponenti politici) di sottrarsi al confronto.
E
forse (forse) perché sperano che, un po’ alla volta, persino qualcuno dei
telespettatori – qualche essere umano, presente in quel pubblico – ottenga una
specie di grazia, dal cielo:
venga
cioè illuminato dal prodigioso, salutare beneficio del dubbio.
(GIORGIO
CATTANEO)
NON CI
SARÀ NESSUNA CRISI
MONDIALE
DEL GRANO DOPO
LA
FINE DELL’ACCORDO CON L’UCRAINA.
Comedonchisciotte.org
- F. William Hengdahl - Markus – (03 Agosto 2023) – ci dice:
(williamengdahl.com
Da
quando, il 17 luglio, la Russia ha annunciato che non avrebbe rinnovato il “Black
Sea Grain Initiative”, l’accordo per il grano, mediato da Turchia e Regno
Unito, che consentiva all’Ucraina di esportare grano in una rotta protetta da
Odessa e da altri due porti ucraini del Mar Nero, i media occidentali
mainstream sostengono che il rifiuto creerà una carestia a livello globale e
un’impennata dei prezzi dei prodotti alimentari.
Un
attacco ucraino al principale ponte che collega la terraferma russa con la
penisola di Crimea, programmato proprio per la fine dell’accordo sul grano, ha
provocato un massiccio attacco di rappresaglia da parte delle forze russe, che
ha danneggiato gravemente Odessa e i vicini porti di spedizione del grano.
Qual è
la situazione delle forniture alimentari del “granaio d’Europa”, come veniva
chiamata l’Ucraina?
Il 19
luglio sull’”Indian Express “campeggiava questo titolo:
“Il
mondo si trova di fronte alla prospettiva degli ‘hunger games’ mentre la Cina
fa incetta di cereali e la Russia si ritira dall’accordo “.
Inoltre,
si leggeva:
“L’anno
prossimo potrebbe prospettarsi una carestia mondiale a causa del ritiro della
Russia da un importante accordo con l’Ucraina sui cereali alimentari e per le
conseguenze dell’accaparramento di cereali da parte della Cina, il più grande
consumatore di riso al mondo, ha messo in guardia un analista “.
Il “Los Angeles Times” è stato altrettanto
allarmista:
“La
Russia interrompe l’accordo che permette all’Ucraina di esportare grano, dando
un colpo alla sicurezza alimentare globale”.
CNN, Yahoo e altri media occidentali hanno
pubblicato storie allarmistiche simili. Nessuno di essi si è preoccupato di
entrare nel dettaglio della situazione attuale.
È molto meno allarmante di quanto affermano.
Il
mondo potrebbe presto trovarsi di fronte ad una carenza di grano, ma non sarà a
causa delle azioni della Russia in Ucraina.
Il 19
luglio, due giorni dopo il non rinnovo dell’accordo, i prezzi dei futures
mondiali del grano erano aumentati di circa l’8%, sulla base della notizia che
la Russia avrebbe considerato qualsiasi nave diretta a Odessa o in altri porti
ucraini come sospetta di trasportare armi e quindi un legittimo bersaglio per i
missili russi.
I
media occidentali avevano poi affermato che la Russia stava causando una
potenziale carestia mondiale ponendo fine all’accordo di esportazione del grano
in Ucraina.
Quali
sono i fatti reali?
Perché
la Russia non lo ha rinnovato.
L’accordo,
denominato “Black Sea Grain Initiative”, era stato concordato nel luglio 2022, in base al
fatto che le azioni militari della Russia in Ucraina avrebbero creato gravi
problemi alle forniture di grano ai Paesi africani e ad altri Paesi poveri.
La
Russia aveva accettato, con il patrocinio delle Nazioni Unite, un accordo in
base al quale dai porti cerealicoli ucraini, come Odessa, sarebbe stato
garantito dalla Russia un passaggio sicuro nel Mar Nero, in cambio della revoca
da parte dell’Occidente delle sanzioni sull’esportazione di grano e
fertilizzanti russi, compresa la revoca dell’esclusione dallo SWIFT della
principale banca statale russa che si occupa di esportazioni cerealicole.
Il 22 luglio 2022 la Russia, l’Ucraina, la
Turchia e le Nazioni Unite avevano raggiunto un accordo per fornire un
corridoio marittimo umanitario alle navi che trasportavano cibo e fertilizzanti
dai porti ucraini del Mar Nero.
Il 18 maggio 2023, la Russia aveva prorogato
l’accordo, denominato “Black Sea Grain Initiative”, per 60 giorni, fino al 17
luglio.
C’era
un problema importante.
L’Occidente
si era rifiutato di onorare la parte russa dell’accordo.
Secondo
il portale statale russo Sputnik, “l’accordo è parte integrante di un pacchetto
di accordi. La seconda parte – il memorandum Russia-ONU, che dovrebbe rimanere
in vigore per tre anni – prevede lo sblocco delle esportazioni russe di cibo e
fertilizzanti, la riconnessione della Banca Agricola Russa allo SWIFT, la
ripresa delle forniture di macchinari agricoli, pezzi di ricambio e servizi, il
ripristino del gasdotto per l’ammoniaca Togliatti-Odessa (che l’Ucraina ha
sabotato nel giugno scorso) e una serie di altre misure.
Mosca
sostiene che questa parte dell’accordo non è stata ancora attuata“.
Il 17
luglio, il giorno in cui la Russia aveva annunciato che non avrebbe rinnovato
l’accordo, l’Ucraina, aiutata dall’intelligence di Stati Uniti e Regno Unito,
aveva lanciato un attacco distruttivo all’unico ponte che collega la Crimea,
dove si trova la base della flotta russa del Mar Nero, alla terraferma russa.
Il ponte era stato gravemente danneggiato da
un drone navale ucraino e due civili erano rimasti uccisi, mentre una terza persona
era finita in coma.
Nelle
notti successive, Mosca aveva lanciato una rappresaglia mortale, con grandi
bombardamenti che avevano distrutto gran parte delle infrastrutture portuali di
Odessa e di altri porti del Mar Nero nelle vicinanze.
I
terminali per il grano e le infrastrutture portuali in Ucraina erano stati
presi di mira dagli attacchi russi nella notte tra il 18 e il 19 luglio e
avevano subito gravi danni, che richiederanno almeno un anno per essere
completamente riparati, secondo il “Ministero della Politica Agraria e
dell’Alimentazione dell’Ucraina”.
Una
parte significativa delle infrastrutture del porto di Chornomorsk era stata messa fuori uso e 60.000
tonnellate di grano distrutte.
Erano
stati danneggiati i silos di stoccaggio di commercianti e trasportatori
internazionali e ucraini, come la lussemburghese-ucraina Kernel, “Viterra”, che
fa parte dell’enorme gruppo svizzero “Glencore”, il più grande commerciante di
materie prime del mondo, e il gruppo francese “CMA CGM”.
Secondo
Mosca, non solo l’ONU e l’Occidente si sono rifiutati di onorare la parte russa
dell’accordo, ma l’Occidente stava anche usando le navi protette per consegnare
all’Ucraina armi NATO e di altro tipo per alimentare la guerra, un atto che difficilmente si potrebbe
definire umanitario.
Grano
per l’UE?
Mentre
l’Occidente sosteneva che il blocco russo del traffico navale da Odessa e da
altri porti ucraini stava creando un disastro umanitario in Africa e in altri
Paesi poveri, il grano, insieme al mais e all’olio di girasole ucraino, non
finiva nei Paesi del Sud più povero ma nell’UE, almeno, fino a quando alcune
grandi rivolte di agricoltori in Polonia, Bulgaria, Romania e in altri Paesi
dell’UE non avevano costretto Bruxelles a vietare temporaneamente l’importazione
del grano ucraino a basso costo.
Secondo
le Nazioni Unite, l’UE è stata la principale beneficiaria dell’accordo sul
grano del Mar Nero:
il 38% di tutto il grano ucraino è stato
inviato in Europa, nonostante l’UE sia un esportatore netto di grano.
Un
altro 30% è andato in Turchia e il 24% in Cina.
Un
misero 2% è andato alle nazioni del Sud globale.
Ad
aprile, di fronte alla grande rivolta degli agricoltori contro l’ondata di
importazioni di grano ucraino a basso costo, Polonia, Slovacchia, Ungheria e
Bulgaria avevano introdotto un divieto temporaneo sui prodotti agricoli
ucraini, dopo aver visto fallire le loro ripetute richieste all’UE di Bruxelles
di imporre un divieto generale e di permettere al grano di essere trasportato
in Africa e in altri Stati del Sud globale, secondo l’accordo originale.
Alcuni
fatti concreti dall’”USDA”.
Mentre
la maggior parte delle statistiche del governo statunitense non ha molto
valore, a causa di decenni di manipolazioni politiche, quelle del “Dipartimento
dell’Agricoltura degli Stati Uniti” sulla produzione mondiale di grano sono
generalmente considerate abbastanza accurate, poiché i cartelli mondiali dell’agroalimentare
dipendono da questi dati per stabilire il prezzo del grano.
Nel
rapporto del 12 luglio, appena prima della fine del rinnovo dell’accordo sul
grano con la Russia, il rapporto dell’”USDA”, intitolato “Grain”: World Markets and Trade, faceva osservare quanto segue:
“Mentre
l’anno commerciale 2022/23 volge al termine, la Russia ha consolidato la sua
posizione di primo esportatore di grano al mondo”.
Si
stima che nel 2022/23 la Russia esporterà 45,5 milioni di tonnellate.
Le
destinazioni principali sono il Medio Oriente, il Nord Africa e l’Asia
centrale…
Si
prevede che le esportazioni di grano della Russia raggiungeranno un altro
record di 47,5 milioni di tonnellate nel 2023/24″.
Il “rapporto
dell’USDA” prosegue parlando dell’Ucraina, dove i combattimenti hanno
interessato le regioni con la miglior produzione cerealicola:
“La superficie coltivata in Ucraina è
diminuita in modo significativo a causa della guerra con la Russia.
La
produzione prevista per il 2023/24 è di 17,5 milioni di tonnellate, il raccolto
più scarso da oltre un decennio.
Con
una forte riduzione delle forniture e l’incertezza sul futuro della “Black Sea
Grain Initiative”, le esportazioni di grano dell’Ucraina per il 2023/24 sono
previste in 10,5 milioni di tonnellate, con un calo di oltre il 40% rispetto
alla media prebellica.
Sebbene
nel 2022/23 la “Black Sea Grain Initiative” abbia aiutato l’Ucraina ad
esportare 16,8 milioni di tonnellate di grano, il 39% del grano si è mosso al
di fuori del corridoio cerealicolo (principalmente attraverso spedizioni via
terra verso l’Europa orientale)”.
Se si
sottraggono i 6,6 milioni di tonnellate di grano che sono andati nell’UE
attraverso le rotte terrestri, circa 10,2 milioni di tonnellate di grano
ucraino non sono attualmente trasferibili sui mercati mondiali attraverso il
Mar Nero.
Tuttavia,
ciò equivale quasi esattamente al volume di grano ucraino che aveva invaso i
mercati locali dell’UE lo scorso anno.
La
Russia promette grano all’Africa.
Il 27
luglio, in occasione del secondo “vertice annuale Russia-Africa tenutosi a San
Pietroburgo”, il Presidente russo Putin ha promesso che la Russia fornirà
gratuitamente grano ad alcuni Paesi africani che [in precedenza] avevano
ricevuto grano dall’Ucraina:
“Saremo pronti a fornire al Burkina Faso, allo
Zimbabwe, al Mali, alla Somalia, alla Repubblica Centrafricana e all’Eritrea
25-50.000 tonnellate di grano gratis per ciascun Paese nei prossimi 3-4 mesi “.
La
NATO e i principali media occidentali stanno manipolando una narrazione
unilaterale per incolpare la Russia di qualcosa che le loro stesse azioni
corrotte hanno causato.
La
sospensione russa dell’accordo sul grano, che [i russi] dichiarano di essere
pronti a riaprire, a patto che ci siano garanzie sul rispetto delle clausole a
loro favore, non sta creando una catastrofe globale.
Ciò che è molto più pericoloso per il mondo
sono le azioni deliberate dell’UE e dell’amministrazione Biden per imporre
tagli severi alla produzione mondiale di fertilizzanti nell’ambito della loro
cosiddetta “Agenda verde a zero emissioni di carbonio”.
(F.
William Hengdahl)
(williamengdahl.com)
(williamengdahl.com/gr31July2023.php)
Negazionismo
climatico: cos’è
e perché potrebbe essere la nostra fine.
Amset.ro.it
– (9/apr./2022) – Redazione – ci dice:
La
questione del riscaldamento globale è apparsa e appare (troppo) spesso come una
disputa.
Più
che come una sfida da affrontare.
Così,
siamo qui a chiederci: perché è nato il “negazionismo climatico”?
Quali
sono le tesi dei negazionisti?
Pensandoci
bene, una discussione potenzialmente costruttiva riguarderebbe innanzitutto gli
addetti ai lavori.
Che si
occupano: delle cause, delle conseguenze e delle azioni da compiere.
Poi,
ovviamente: amministrazioni, governi, associazioni di cittadini…e ad ognuno di
noi la scelta di agire secondo determinati parametri.
C’è da
dire che, questa disputa, si rivela imponente per lo più a livello mediatico!
Ma non all’interno della “comunità scientifica”.
Gli
accademici, infatti, concordano sul fatto che il riscaldamento globale sia
causato da una (esagerata) attività antropica…alquanto irresponsabile.
(Qualcuno
ricorderà quanto raccontato sulla differenza tra effetto serra naturale e
antropico…per esempio.)
Insomma,
gli studi condotti dall’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento
climatico) parlano chiaro. E la comunità scientifica ribadisce da tempo gli stessi
concetti.
Basterebbe
davvero poco…per ottenere importanti risultati!
Ma
allora, cos’è il negazionismo climatico?
Un
fenomeno, che vuole offrire una narrativa diversa. Opposta a quella presentata dal 99%
degli scienziati del mondo.
Fin
dalla metà del 900 abbiamo cominciato ad avere un sentore. Il cambiamento
climatico causato dall’attività umana era alle porte.
Ma,
alle prove scientifiche si è accompagnato un movimento negazionista.
A
quanto pare, profumatamente finanziato dall’industria dell’energia non
rinnovabile.
(Purtroppo, proprio da chi si occupa di
combustibili fossili e gruppi d’interesse conservatori.)
Per
tantissimo tempo si è nascosto e negato molto di ciò che si sapeva.
Il
ricercatore “John Cook” (Climate Change Communication Research Hub della Monash
University):
“Quello
che stanno facendo è cercare di minare la fiducia nella scienza del clima e
attaccare l’attuale movimento per il clima.”
Dove
ci porterà tutto questo?
E cosa
vorremmo, noi, invece?
Negazionismo
climatico: tra opinionisti e studi scientifici.
Che il
negazionismo climatico (o meglio, scientifico) sia stato spesso foraggiato da
particolari gruppi di interesse, è un fatto accertato.
Vi
racconteremo come.
Ma,
attenzione, qui non stiamo parlando delle opinioni degli scettici.
C’è da
fare una distinzione.
Portereste
a fare la revisione della vostra auto da un musicista?
O, vi
fareste operare da un ingegnere?
Ovviamente no!
Eppure,
quando si parla di clima (e di molto altro…) sembra che per essere esperti
basti avere una qualche opinione.
O una laurea da sfoggiare.
Oggi
il termine negazionismo è confuso con scetticismo.
Lo
spiega “Stella Levantesi” nel libro “I bugiardi del clima”.
“In
ambito scientifico, lo scetticismo è una cosa positiva (…) significa evitare di
giungere ad una conclusione prima di averne le prove.”
Al
contrario, chi nega la scienza del clima non segue questo processo. Anzi, tende
a scartare qualsiasi prova in conflitto con le proprie convinzioni.
Il
problema di questi personaggi è che, continuano a rifiutare il consenso
scientifico.
Che
inevitabilmente emerge quando una certa teoria continua a dimostrare di
funzionare.
Spesso,
poi, la presenza di falsi esperti sui media riesce a dare l’illusione di un
dibattito ancora aperto.
Anche se le pubblicazioni dicono il contrario.
Per
gli scienziati l’incertezza è il pane quotidiano. Quindi, raramente si
esprimono in termini assoluti. Tanto nei loro lavori, sia quando comunicano con
il pubblico.
Niente
è mai assolutamente certo o funziona al 100%.
Ma se,
come nel caso del riscaldamento globale antropogenico, le prove continuano ad
accumularsi, l’incertezza statistica non può diventare un alibi.
(Per rifiutare il consenso e non agire di
conseguenza!)
Sostenibilità
ambientale: che cos’è per noi.
Breve
storia di chi ha imparato a negare.
Perché
“si dice” che il negazionismo climatico è stato supportato da diversi
finanziatori?
In
molti conoscono la vicenda di Exxon. (Una tra le maggiori compagnie
petrolifere.)
Avvisata
già nel 1978 che esisteva:
“una
finestra di cinque o dieci anni prima che si presentasse la necessità di
prendere decisioni difficili riguardanti l’attuale strategia energetica.”
…per
-evitare- il cambiamento climatico.
Nel
1982, una superpetroliera fu inviata in spedizione per monitorare l’anidride
carbonica nell’aria e nell’acqua marina.
Questa
comunicò ai vertici che il riscaldamento atmosferico avrebbe portato
“cambiamenti significativi” nel clima terrestre.
La
spedizione venne interrotta all’improvviso!
Risalgono
a quel periodo massicce campagne mediatiche (sistemiche e organizzate).
Per
convincere il pubblico che gli scienziati fossero divisi sul tema.
Milioni
di dollari furono riversati in think tank conservatori e lobby. Mettendo in
piedi una robusta macchina negazionista.
Secondo
un rapporto del 2019:
le cinque maggiori compagnie di petrolio e gas
quotate in borsa hanno investito oltre un miliardo di dollari nei tre anni
successivi all’Accordo di Parigi.
(ExxonMobil,
Royal Dutch Shell, Chevron, BP e Total.)
Per
diffondere messaggi fuorvianti legati al clima.
La
Repubblica, tra gli altri, afferma che questo tipo di disinformazione ha avuto
diversi effetti negativi.
Polarizza
il pubblico;
Inquina
la discussione contraddicendo le informazioni accurate;
Influenza
il modo in cui gli scienziati interagiscono con il pubblico.
Soprattutto:
rallenta la risposta politica alla crisi climatica!
I
messaggi su cui il negazionismo fa leva, inoltre, si sono evoluti nel tempo.
Adattandosi al fatto che il 99,9% degli scienziati concorda sui fatti.
E che
sempre più persone percepiscono l’urgenza della crisi.
Ce ne
aveva parlato anche “Leonardo Di Caprio” in” Before the Flood”. (Documentario
del 2016).
Oggi,
lo dimostra una tra le più comprensive analisi, condotta sui contenuti
pubblicati da blog e think tank conservatori.
(Ingranaggi
possenti della macchina del negazionismo climatico.)
Studi
sul fenomeno del negazionismo climatico?
Vediamo
cosa afferma questa analisi sul negazionismo climatico, pubblicata su “Nature
Scientific Reports.”
Esaminando
i contenuti che fanno riferimento al cambiamento climatico di: 33 importanti
blog e 20 think tank conservatori. (1998 – 2020).
Gli
studiosi hanno cercato di capire come le tecniche di propaganda
anti-ambientalista siano cambiate nel tempo.
Gli
autori affermano, che i principali donatori dietro alle pubblicazioni sono:
famiglie, aziende e società di investimento con enormi interessi nel settore
dell’energia fossile.
I
contenuti presi in analisi sono stati divisi in cinque categorie:
il
riscaldamento globale non sta succedendo;
le
emissioni di gas serra da parte degli esseri umani non stanno causando il
riscaldamento globale;
l’impatto
del cambiamento climatico non è nocivo;
le
soluzioni al cambiamento climatico non funzioneranno;
la
scienza e i movimenti ambientalisti non sono affidabili.
Infine,
secondo l’analisi:
oggi,
solo circa il 10% delle argomentazioni spinte dai think tank conservatori, va
apertamente contro il consenso scientifico sul riscaldamento globale.
(Mettendo
in dubbio modelli o dati.)
Sempre
più comuni sono gli attacchi all’integrità della scienza stessa e alle
soluzioni proposte.
Così:
gli
scienziati sono “allarmisti”;
i
politici e i media sono “di parte”;
gli
ambientalisti degli isterici seguaci del “culto climatico”.
Secondo
i negazionisti: le soluzioni proposte rovineranno l’economia e metteranno in
difficoltà le persone.
Ma, in
realtà, è stata fatta una stima accurata dei costi!
Dal
gruppo di lavoro della “Banca Centrale Europea” (BCE) guidato da” Laura Parisi”.
(Esperta
in stabilità finanziaria. Ha una laurea in fisica, un dottorato di ricerca in
economia, studia come i cambiamenti climatici potrebbero influire sulla
stabilità del sistema finanziario.)
Se i
governi attuassero, ora, una transizione ecologica ordinata e graduale,
bisognerebbe investire tra l’1 e il 2% del Pil.
Per un
periodo di 5 anni al massimo.
Dopodiché,
sul lungo periodo, andremmo incontro a benefici (economici) da non
sottovalutare.
Negazionismo
climatico: significato e trasformazione.
Insomma,
forse non si tratta semplicemente di negazionismo climatico.
Di
scettici, di dibattiti tra opinionisti, né di “pessimismo”!
Forse,
la parola chiave è: disinformazione!
“La
disinformazione attorno alle soluzioni è davvero il futuro della disinformazione
sul clima.”
Afferma
il ricercatore “John Cook”.
Andiamo
oltre il negazionismo climatico. Prendiamoci cura dell’ambiente.
L’analisi
dei dati mostra che “un certo genere di propaganda” tende a moltiplicarsi nei
periodi immediatamente precedenti alle conferenze internazionali sul clima e
ogni volta che i governi affrontano il tema con una nuova legge.
Così,
in una lettera aperta, 11mila ricercatori hanno spiegato al mondo (nel 2019)
che la comunità scientifica è unanime: “i cambiamenti climatici esistono e
dobbiamo agire!”
Scienziati,
provenienti da 153 paesi, hanno firmato la lettera aperta, pubblicata sulla
rivista “BioScience”.
I
cambiamenti climatici sono una realtà e sono provocati in gran parte dall’uomo.
Impongono
una transizione immediata in senso ecologico: nelle nostre economie, nelle
nostre società e anche nei nostri stili di vita!
E
quando si parla di stili di vita, non si tratta di rinunce ma di investimenti.
Nessuno
soffrirà così tanto: mangiando meno carne, limitando l’uso della plastica,
scegliendo sistemi di mobilità sostenibili…
Certo,
alle nostre azioni occorre affiancare quelle dipendenti dai decisori politici.
Prosegue
la lettera:
“Dobbiamo
mobilitarci per proteggere e restaurare gli ecosistemi della Terra”.
Puntando
sulle rinnovabili e riducendo gli agenti inquinanti. Salvaguardando le
popolazioni con maggiore giustizia sociale ed economica, ottimizzando le risorse alimentari e
raggiungendo un’economia a zero emissioni di CO2.
Per
scongiurare la catastrofe climatica? C’è bisogno di una trasformazione, che
possiamo attuare!
Ma,
che in questo momento, non ci avviciniamo nemmeno all’ambizione necessaria.
A
dirlo è il report” State of climate action 2021”.
Pubblicato
da una coalizione di organizzazioni di cui fanno parte, tra gli altri, il “World
resources institute e Climate action tracker”.
Facciamo
attenzione all’Infodemia: il Virus siamo noi.
Nel
documentario “Infodemic”, i divulgatori scientifici “Luca Perri” e “Barbascura
X” approfondiscono il tema del negazionismo climatico.
(E il
motivo per cui potrebbe essere la nostra fine…)
Non
solo! Ci raccontano grazie ad illustri collaboratori “cos’è l’infodemia e quale
influenza ha su ognuno di noi”.
Infodemia
s. f.:
“Circolazione
di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con
accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per
la difficoltà di individuare fonti affidabili.”
Chi
nega l’evidenza, forse non riesce a orientarsi.
Forse,
non può accettare la realtà che ci circonda.
Ma, la
verità, è che oltre a quanto di positivo sta accadendo, grazie a singoli
individui e associazioni di cittadini (del mondo), veniamo spesso in contatto
con la devastazione degli ecosistemi e il sovrasfruttamento delle risorse.
Se non
vogliamo credere al fatto che il “riscaldamento globale antropogenico” sia la causa di tanti, troppi
effetti negativi…possiamo osservare quello che accade Tutto Intorno A Noi.
Da una
parte:
Deforestazione.
Inquinamento.
Cementificazione
selvaggia.
…
Dall’altra, si tenta di (re)agire grazie
all’economia circolare, all’energia sostenibile, misurando la propria impronta
ecologica…
Purtroppo,
ha ragione il nostro caro matematico “Piergiorgio Odifreddi”, quando,
nell’introduzione al suo libro “La democrazia non esiste”, cita il Marchese di
Condorcet (1793):
“La
società che non viene illuminata dai pensatori, finisce ingannata dai
ciarlatani.”
Forse,
per oltrepassare qualsiasi schieramento e negazionismo (climatico e non solo)
…la strada da percorrere è quella di un sincero, amorevole, ben Essere.
Che
non può esistere completamente sul livello personale, se non si riflette
positivamente nel sociale.
(È
incredibile che tanti scienziati del clima non sappiano che la CO2 sia più
pesante 4 volte della nostra atmosfera.
Quindi
come possa essere la causa dell’effetto serra la CO2, se non potrà mai giungere - in modo naturale -
sulla volta superiore dell’atmosfera:
infatti questo è un mistero insoluto
essendo la CO2 più pesante 4 volte dell’aria che respiriamo! N.D.R.)
Il
negazionismo climatico:
cos’è
e com’è oggi.
Duegradi.eu
- Sara Chinaglia – (4 dicembre 2022) – ci dice:
Esiste
ancora chi nega che il clima stia cambiando?
Grazie
all’affinamento delle tecniche di comunicazione, possiamo dire che oggi siamo
al cospetto di una nuova era del negazionismo climatico.
Quando
è nato il negazionismo climatico?
Per
capire quando è nato il negazionismo climatico dobbiamo fare un tuffo nel passato e oltreoceano, negli Stati
Uniti degli anni ’60, quando i primi studi fecero emergere preoccupazioni su
quello che veniva chiamato “effetto serra” e sulle conseguenze catastrofiche che avrebbe avuto
sulle calotte polari qualora non fosse stato fermato in tempo.
Successivamente,
molte compagnie petrolifere cominciarono a condurre ricerche interne a tal
proposito, senza mai pubblicarle o renderle accessibili al pubblico.
Recenti
studi hanno infatti fatto emergere che gli scienziati impiegati alla Exxon
dimostrarono, già nel 1977, che effettivamente esisteva un legame tra i
combustibili fossili e l’aumento di Co2 in atmosfera.
Siccome
i risultati delle ricerche non sono mai stati pubblicati e, anzi, sono sempre
stati tenuti nascosti, si può dire che questa sia stata la scintilla che fece
nascere il negazionismo climatico.
L’esistenza
di un “effetto serra di origine antropica” venne poi confermata da sempre più
studiosi, arrivando anche alle orecchie della popolazione che cominciò,
giustamente, a preoccuparsi e a chiedere a gran voce una soluzione.
Le aziende inquinanti, responsabili dell’aumento dei gas
serra in atmosfera, iniziarono dunque a chiedersi come fare a continuare a
macinare profitti indisturbate.
Fu
così che crearono la “Global Climate Coalition”, un gruppo di lobby attivo
formalmente dal 1989 al 2001, che cercò di assumere figure competenti in grado di trovare
una soluzione per poter continuare ad emettere indisturbate.
Questa
arrivò da E. Bruce Harrison, esperto in public relations, che si può dire
essere il padre del negazionismo climatico.
La sua
strategia consisteva nel “reframing the issue”, ossia “riformulare la questione”.
Egli
trasformò l’effetto serra non più un fatto grave e reale, ma in un’eventualità
incerta tanto quanto le sue conseguenze.
Ciò bastò per mandare letteralmente in tilt l’opinione
pubblica, che in un battito di ciglia si riempì di teorie complottiste, di studiosi che rifiutavano
l’esistenza dell’effetto serra e di scienziati corrotti che partecipavano a
programmi televisivi per fare “propaganda negazionista”.
Che
fine ha fatto il negazionismo climatico?
Fortunatamente,
l’avanzamento della conoscenza scientifica ha fatto sì che oggi l’esistenza del
cambiamento climatico di origine antropica sia accolta pressoché all’unanimità
dalla “comunità scientifica”.
Uno
studio pubblicato nel 2021, infatti, ha analizzato più di 88 mila articoli
scientifici dimostrando che il 99% degli scienziati e delle scienziate concorda
che il cambiamento climatico esiste e sia stato causato dalle attività umane (e in particolare, ad esempio, dalla
combustione delle fonti fossili, promossa e portata avanti da aziende altamente
inquinanti come Exxon).
Ciò
nonostante, un “report della Yale University “mostra che esiste ancora una
consistente parte di popolazione mondiale che ritiene che il cambiamento
climatico non stia accadendo, non sia causato dall’uomo e che, più in generale,
non sia una priorità.
La
maggior parte di queste persone provengono da Paesi altamente vulnerabili alle
conseguenze del cambiamento climatico, come Yemen, Bangladesh, Cambogia, Laos e
Haiti.
In Indonesia, ad esempio, solo il 18% della
popolazione intervistata ritiene che il cambiamento climatico sia causato
dall’uomo.
Questo
risultato non ci dovrebbe cogliere di sorpresa, poiché non è altro che il
risultato di anni e anni in cui sono stati dati spazio e voce al negazionismo
climatico.
Alla
luce dell’attuale (quasi) unanimità della comunità scientifica nel considerare
il cambiamento climatico di origine antropica, il negazionismo climatico ha,
quindi, dovuto cambiare veste e passare dall’essere sfacciato e palese, a
essere ormai sostituito da una più sofisticata versione composta da strategie
comunicative.
Quali
sono?
Deviare
il discorso.
Gli
studiosi del cambiamento climatico hanno già dimostrato che le strategie per
combatterlo, riassunte nei termini “mitigazione” e “adattamento”, dipendono da
concrete riforme politiche.
Deviare
il discorso verso ciò che dovrebbero fare gli individui deresponsabilizzando,
invece, il ruolo della politica è una delle strategie per portare avanti il
negazionismo climatico.
Ne
abbiamo visto un chiaro esempio nelle notizie circolate durante l’estrema
siccità che ha colpito l’Italia nell’estate 2022, costellata di spaventose
immagini di un fiume Po quasi completamente secco.
Il
dibattito che ne è emerso ha visto spostare la responsabilità in capo agli
individui, con veri e propri manuali di consigli ai singoli cittadini
invitandoli a docce meno lunghe, a prediligere una dieta a base vegetale, a non
lavare le proprie vetture, etc.
Divisone.
Un’altra
strategia consiste nel creare attrito tra attivisti e popolazione.
Un esempio molto recente riguarda il dibattito
sorto a seguito delle manifestazioni degli attivisti ambientali che hanno
“imbrattato” importanti opere d’arte.
Il dibattito che ne è emerso, molto
polarizzato, ha infuocato l’opinione pubblica, che ha cominciato a discutere e
prendere le parti, dividendosi tra chi riteneva giuste queste proteste e chi
invece le riteneva eccessive.
Tutto
questo non ha fatto che distrarre, ancora una volta, la popolazione dal capire
chi sono i veri responsabili del cambiamento climatico e chi dovrebbe costruire
delle concrete politiche ambientali.
Doomismo
climatico.
In
questa strategia fa capolino la parola inglese “doom” (condanna) e raccoglie
tutte quelle azioni e modalità comunicative volte a far credere che ormai sia
troppo tardi per agire.
Questa
strategia non fa che diffondere un senso di impotenza e di “ansia climatica”,
portando molti a rinunciare a lottare e a chiedere politiche più concrete.
Ritardare.
Completamente
opposta alla strategia precedente, questa consiste nel rassicurare i più
preoccupati, sostenendo che il cambiamento climatico è sempre accaduto, che è
tutto sotto controllo, che le conseguenze non sono poi così gravi e che,
soprattutto, c’è tempo per agire.
Questa strategia ha consentito di accettare e
considerare rassicuranti e sufficienti i piani a lungo termine di riduzione
delle emissioni di gas climalteranti promossi da numerose aziende (soprattutto
petrolifere) e stati (quando in realtà sono giudicati lontanissimi dalla
risoluzione della crisi climatica).
Con
quali modalità si portano avanti queste strategie comunicative?
Per
portare avanti queste strategie sono necessarie delle tattiche che servono a
screditare la ricerca scientifica.
Queste possono essere riassunte nell’acronimo “FLICC,”
coniato da “John Cook”, dottore in computer science e creatore del videogioco
“Cranky Uncle” pensato per insegnare le tattiche di negazionismo climatico.
Fake
experts (falsi
esperti):
consiste
nell’utilizzare una persona o un’istituzione non qualificata come fonte
attendibile.
Un
esempio è quello della lettera di 1200 scienziati e scienziate che negano
l’esistenza del cambiamento climatico.
Nessuno (o quasi) tra loro, però, è competente
in climatologia.
(Non occorre essere molto scienziati pe
capire che la CO2 - essendo 4 volte più pesante dell’aria- non può “volare”
liberamente nella stratosfera! N.D.R.)
Logical
fallacies (errori
logici):
si
basa sul portare avanti argomentazioni che non seguono il filo logico del
discorso, come uno dei manifesti più noti del negazionismo climatico: “il clima sta cambiando perché è
sempre cambiato”.
Impossible
expectations (aspettative irrealizzabili):
consiste
nel richiedere alla scienza delle prove inverosimili al fine di screditarla.
Un esempio è un’altra affermazione tipica dei
negazionisti climatici:
“com’è
possibile prevedere gli effetti del riscaldamento globale se non si può
prevedere con certezza nemmeno il meteo della prossima settimana?”.
Questo
fa anche leva sulla scarsa conoscenza della popolazione sulle differenze tra
meteo e clima.
Cherry
picking:
con questo termine, letteralmente “selezionare
le ciliegie” si allude all’attività con cui si raccolgono attentamente le
notizie necessarie a supportare una certa teoria (come se fossero le “ciliegie
migliori”) ignorando tutte le altre.
Possiamo
considerare “cherry picking” sostenere che il riscaldamento globale non esiste
perché un dato periodo è particolarmente freddo.
Conspiracy
theories (teorie
del complotto):
con
questa strategia vengono create teorie “assurde” che vedono il cambiamento
climatico come frutto di un piano malvagio.
Un
ottimo esempio di personaggio pubblico che ha utilizzato questa tecnica per
portare avanti teorie negazioniste è l’ex presidente degli Stati Uniti Donald
Trump.
Conclusioni.
Il
negazionismo climatico porta con sé molte conseguenze più complesse della
semplice inazione climatica.
Tra queste c’è la diffusione della
consapevolezza che la scienza non è un’entità incorruttibile (lo fosse mai
stata) ed estranea a giochi di potere, ma di fatto si dimostra, a volte,
incline alle corruzioni e manomissioni da parte di forze economiche più grandi
(spesso coincidenti con specifiche lobby).
(La “Black
Rock” finanziaria? N.D.R.)
In un
momento storico come quello attuale, in cui mai come ora la scienza è
fondamentale e la “scienza spazzatura” circola pericolosamente con sempre
maggiore facilità, l’incrinarsi della fiducia nei confronti della comunità
scientifica da parte della popolazione non può che portare a risultati
catastrofici.
L’unica, grande responsabilità dell’individuo,
oggi, deve consistere nel cercare di essere sempre vigile e non lasciare che
tali manipolazioni costituiscano una distrazione o un rallentamento nel
chiedere una vera lotta all’emergenza climatica.
Chi
sono “i bugiardi del clima.”
Rollingstone.it
- GIUSEPPE LUCA SCAFFIDI – Stella Levantesi – (7 GIUGNO 2021) – ci dicono:
Nel
suo libro omonimo, la giornalista Stella Levantesi racconta "potere,
politica e psicologia" di chi cerca di convincerci che la crisi climatica
non esiste.
L'abbiamo
intervistata.
La
consapevolezza della crisi climatica non è mai stata tanto diffusa come oggi:
la
“comunità scientifica” è ormai unanime sull’origine antropica del riscaldamento
globale, e la maggioranza dell’opinione pubblica chiede di intervenire
tempestivamente per contrastarne gli effetti.
L’attivismo
di Greta Thunberg (scienziata del clima? N.D.R) la crescita del movimento “Extinction
Rebellion” e gli scioperi per il clima in tutto il mondo hanno contribuito alla
diffusione di una rinnovata sensibilità, sottolineando come il riscaldamento
globale rappresenti la sfida più urgente del nostro tempo.
Questa
presa di coscienza è coincisa con il raggiungimento di alcuni obiettivi
cruciali per il futuro del Pianeta.
Basti pensare alla Cop21 di Parigi e alla
conseguente adozione del primo accordo giuridicamente vincolante sul clima, con
cui è stato riconosciuto esplicitamente l’impegno delle parti a mantenere
l’aumento della temperatura mondiale al di sotto di 2°C rispetto ai livelli
preindustriali;
o, per restare sull’attualità, alla storica
sentenza di fine maggio con cui un tribunale dell’Aja ha imposto alla compagnia
petrolifera Shell di ridurre le sue emissioni di CO2 del 45% entro la fine del
2030.
Eppure,
per anni, diversi attori hanno agito nell’ombra allo scopo di ritardare e
ostacolare qualsiasi tipo di regolamentazione al settore fossile e seminare
dubbi sulla scienza del clima per confondere l’opinione pubblica.
Già a
partire dagli anni ’70 e ’80, gli scienziati interni all’azienda Exxon avevano
scoperto il legame tra l’attività di bruciare combustibili fossili e l’aumento
delle emissioni.
Secondo
i documenti e i promemoria interni alla compagnia, la Exxon sapeva tutto quello
che c’era da sapere per affermare l’esistenza del cambiamento climatico e
ammettere la propria responsabilità.
Eppure,
invece di cambiare rotta, ha fatto di tutto per nasconderlo, costruendo una
campagna di disinformazione sul clima durata decenni.
Nel
suo libro” I bugiardi del clima”
potere,
politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo, uscito recentemente per
Laterza, la
giornalista “Stella Levantesi “definisce questa macchinazione come “la più
grande opera di insabbiamento della storia recente”.
Le
abbiamo fatto qualche domanda per comprendere quale sia, oggi, lo stato
dell’arte del negazionismo climatico.
Anche
perché, parafrasando l’autrice, “I negazionisti non sono spariti. Semplicemente hanno
adottato un nuovo linguaggio e nuove tattiche”.
(Loro
sanno che la CO2 è 4 Volte più pesante dell’aria e quindi non può volare
nell’alta atmosfera! N.D.R.)
Chi
sono, oggi, i negazionisti del riscaldamento globale?
I
negazionisti di oggi sono i negazionisti di ieri.
In senso stretto, i negazionisti climatici
sono coloro che negano l’esistenza del cambiamento climatico e la
responsabilità antropica della crisi climatica.
Ma non è solo questo che si intende per
negazionismo.
Non è necessario negare l’esistenza del
cambiamento climatico tout court per essere negazionista.
Fare di tutto per ritardare le politiche
climatiche, seminare il dubbio sulla scienza del clima, confondere il pubblico,
il greenwashing, questi sono tutti diversi aspetti della narrazione
negazionista.
Il negazionismo, poi, è diverso dal semplice
atto di negazione perché non si limita a rimuovere la realtà, ma ne crea una
alternativa.
Il
negazionismo è strategico e intenzionale perché fa leva su motivazioni
politiche ed economiche ed è un fenomeno strutturato e organizzato.
Per questo si parla di macchina del
negazionismo climatico, che è composta da aziende di combustibili fossili,
lobby e gruppi di pressione, associazioni industriali, think tank di stampo
conservatore e la cosiddetta “camera dell’eco”.
Quali
sono le principali strategie retoriche adottate da chi nega l’emergenza
climatica?
La
macchina negazionista fa ricorso a diversi strumenti per mettere in atto la
campagna di disinformazione climatica:
i
finanziamenti, la propaganda politica e le strategie di comunicazione come la
manipolazione mediatica, la manipolazione dei dati e le argomentazioni
retoriche.
Tra
quelle più utilizzate oggi c’è quella di etichettare come “allarmisti” e
“catastrofisti” gli ambientalisti, i climatologi e chi lotta per il clima.
(Non si può distruggere il mondo
quando tutto dipende dal fatto reale che la CO2 è 4 volte più pesante
dell’aria! N.D.R.)
Tra
quelle più ridicole, ma anche più efficaci, poi, c’è l’argomentazione retorica
per cui la presenza di freddo equivale all’assenza del riscaldamento globale.
Attraverso
questa argomentazione i negazionisti sfruttano a proprio vantaggio alcune
lacune di conoscenza sul tema, spesso anche basilari, come la distinzione tra meteo e
clima.
Un’altra
ancora è l’uso strumentale degli impatti socio-economici delle politiche
climatiche, per cui i negazionisti spesso sottolineano il rischio di perdere
posti di lavoro a causa delle misure climatiche.
Legata a questo c’è anche quella che, in
gergo, viene chiamata “falsa scelta” che inquadra – falsamente – le soluzioni
della crisi climatica come una scelta obbligata tra clima ed economia, per cui
se si salva uno si sacrifica l’altra.
Questa è una cosiddetta fallacia logica, un
errore di ragionamento, anche questo sfruttato a vantaggio dei negazionisti.
Tra le
altre tattiche più comuni ci sono anche il cherry-picking, che letteralmente
significa cogliere le ciliegie, per cui si isolano dei dati e si sopprimono le
prove che potrebbero portare alla conoscenza del quadro completo di
informazione, e l’argumentum ad hominem”, strategia per cui invece di criticare
i contenuti dell’argomentazione, si attaccano il carattere, le motivazioni o
altre caratteristiche della persona che mette in campo l’argomentazione.
Nel
capitolo 7 de” I bugiardi del clima” approfondisco molte di queste
argomentazioni retoriche e tattiche negazioniste.
In
generale, qualsiasi strategia che possa promuovere una confusione intenzionale
sul tema per ritardare l’azione sul clima, è per i negazionisti un’azione
vincente.
Quali
interessi si celano dietro il negazionismo climatico?
Ci
sono molteplici motivazioni dietro gli obiettivi dei negazionisti.
La
prima ha a che fare con il potere e il denaro.
Le
aziende di combustibili fossili non potevano permettere che la propria attività
fosse compromessa, e agire per ostacolare le politiche climatiche era
fondamentale per mantenere quello che viene chiamato il” business as usual” e,
di conseguenza, per continuare a guadagnare.
Tuttavia,
dire che gli interessi dei negazionisti sono solo di tipo economico sarebbe
riduttivo.
In
realtà hanno molto a che fare con la politica e la psicologia, per questo il
sottotitolo de” I bugiardi del clima” è “Potere, politica, psicologia di chi
nega la crisi del secolo”.
Gli
interessi dei negazionisti, infatti, riflettono un sistema di valori che spesso
si sovrappone con l’identità politica conservatrice negli Stati Uniti, e
populista di destra o sovranista in Europa e in Italia.
Nei
casi estremi, dove l’identità negazionista coincide con quella
ultraconservatrice ci sono anche altri elementi che interagiscono e si
rafforzano tra loro come la xenofobia e la misoginia.
Come per
tutte le tendenze cospirative, poi, alla base c’è un sentimento in particolare:
la paura.
I
negazionisti sono terrorizzati dal perdere il proprio status quo e i propri
benefici sociali.
In questo contesto, i principali obiettivi
della macchina negazionista sono ritardare e ostacolare qualsiasi tipo di
regolamentazione al settore fossile, di politica climatica o ambientale;
seminare dubbi sulla scienza del clima e
confondere l’opinione pubblica dando l’impressione che il dibattito sul
cambiamento climatico sia ancora in corso – i negazionisti per primi sanno che
un dibattitto non è mai nemmeno esistito visto che, come ha documentato
un’indagine che ha vinto il premio Pulitzer, già dagli anni ’70 e ’80 alcune
aziende fossili già erano a conoscenza del collegamento tra la propria attività
e l’aumento delle emissioni e di temperatura.
Ancora
oggi, questi tre elementi, soprattutto il primo e il terzo, sono tra i maggiori
ostacoli all’azione climatica globale.
Che
ruolo hanno giocato i media nel veicolare il messaggio negazionista?
Alcune
piattaforme mediatiche hanno fatto (e tuttora fanno) da eco alle strategie
negazioniste, per questo si parla di “camera dell’eco”.
Molte testate giornalistiche, televisioni e
altri media fungono da “bacino” metaforico nel quale la disinformazione viene
amplificata e la narrazione negazionista alimentata.
Questo
avviene in particolare con testate conservatrici o di destra per i motivi di
cui sopra.
Tuttavia, accade anche che testate considerate
“progressiste” o “liberali” promuovono il messaggio negazionista quando cadono
nella trappola del cosiddetto “resoconto equilibrato”, per cui il giornalismo
deve tenere conto “di entrambi i lati della storia”, riportando affermazioni o
messaggi della lobby negazionista come se fossero espressioni da un punto di
vista diverso sul tema, che sarebbe un po’ come se tutte le volte che si
parlasse della Terra, si dovesse includere anche la prospettiva terrapiattista.
Il
cambiamento climatico non è un’opinione, è un fenomeno scientifico.
E come tale va trattato.
Offrire
prospettive “alternative” non è libertà di stampa, ma giornalismo
irresponsabile e disinformato.
Tra
l’altro questo crea anche problematiche legate all’accuratezza, la trasparenza
e al rapporto di fiducia con il pubblico che dovrebbero essere priorità del
metodo giornalistico.
Nel
tuo libro parli di come la narrazione del negazionismo climatico sia sempre più
incentrata sul dualismo tra “realisti” e “allarmisti”.
Ti
andrebbe di parlarcene meglio?
Oggi
negare l’esistenza del cambiamento climatico e la responsabilità antropica nella
crisi climatica sta diventando sempre più difficile anche per i negazionisti
che, quindi, si ritrovano a dare priorità a nuove strategie per poter ritardare
il più possibile l’azione climatica.
Come
menzionato in precedenza, “allarmista” è il termine che i negazionisti usano
per screditare chi si batte per il clima e la scienza del clima.
Sfruttando
la connotazione negativa del termine “allarmista”, i negazionisti del
cambiamento climatico screditano un legittimo avvertimento scientifico, e
associandosi, invece, al termine “realista”, ribadiscono un elemento fondante
del negazionismo climatico, quello di sembrare razionali e veritieri.
Questa
strategia è stata promossa molto dall’”Heartland Institute”, uno tra i più
agguerriti gruppi del negazionismo climatico che negli anni ha ricevuto
finanziamenti dalle aziende fossili e di tabacco per promuovere la narrazione
negazionista sia negli Stati Uniti che in Europa.
Nel
2019, Giulio Corsi, dottorando all’università di Cambridge, ed io abbiamo
riscontrato una tendenza in crescita dell’utilizzo dei termini “realista” e
“allarmista” da parte dei negazionisti sui social media.
Questo,
ovviamente, non è un caso.
Il
2019 ha rappresentato un anno di svolta per l’azione e la sensibilizzazione
dell’opinione pubblica sulla crisi climatica ed è un fatto che la macchina del
negazionismo climatico entra sempre a pieno regime quando l’azione globale sul
clima diventa una priorità più alta per le politiche governative.
Anche
in Italia non siamo completamente al riparo dai tentativi di mistificazione dei
negazionisti climatici.
Mi viene in mente l’esempio del professor
Franco Battaglia, autore di saggi apertamente negazionisti e, in passato,
invitato a più riprese nei vari talk show in veste di opinionista.
Ci
sono altri negazionisti “nostrani”?
In
Italia, uno dei più problemi più grandi è proprio questo legato alla
comunicazione sulla crisi climatica di cui ho appena parlato.
Ma è chiaro che ci sono, anche qui, come negli
Stati Uniti, scienziati negazionisti e “falsi esperti” che spesso sono anche
consulenti per il settore fossile.
Non sorprende quindi che alcuni di questi individui
promuovono la narrazione e il messaggio negazionista come, per esempio, è
accaduto a settembre del 2019, alla vigilia del “Summit sul Clima” di New York,
con una lettera del gruppo “Clintel” diretta all’ONU e all’Unione Europea che
sosteneva che “non c’è nessuna emergenza climatica” e che la CO2 è “cibo per
piante”.
Tra le
500 firme della lettera, più di 100 sono italiane.
I
contenuti della lettera sono stati giudicati non corretti a livello scientifico
e i miti negazionisti sono stati più volte sfatati dagli scienziati del clima.
Molti
dei firmatari, tra l’altro, non erano nemmeno scienziati del clima ma
ingegneri, geologi, dirigenti di azienda o lobbisti.
Questo,
comunque, non ha impedito alla lettera di avere una relativa visibilità sia in
ambito politico che sulla stampa, soprattutto di destra.
Spesso, poi, alcuni politici ancora puntellano
i discorsi pubblici con le tipiche affermazioni retoriche negazioniste.
Forse
il rischio più alto adesso è quello legato al “greenwashing”, per le aziende ma
anche per la dimensione politica.
Il
punto, comunque, è che i negazionisti, anche in Italia, hanno voluto rendere la
scienza più politica, perché solo così un fenomeno scientifico può diventare
dubitabile e quindi si possono mettere in discussione più facilmente la sua
esistenza così come la sua urgenza.
La
Casa Bianca pensa di oscurare il sole:
ecco
il piano per bloccare (in parte) le radiazioni solari.
msn.com
– (3-8-2023) - Elisa Cardelli – Casa e Giardino – ci dice:
Un
report della Casa Bianca rivela che i ricercatori americani si stanno
impegnando allo scopo di oscurare parzialmente il sole.
Questa
necessità nasce dalla volontà di cercare di bloccare le radiazioni solari.
L’amministrazione
Biden sembra essere interessata ad esplorare la possibilità di affrontare il
cambiamento climatico attraverso l’impiego della geoingegneria, che consiste
nel modificare parzialmente l’impatto della luce solare sul nostro pianeta.
Questa
iniziativa, che potrebbe sembrare tratta da un racconto di fantascienza, è
supportata da un report molto dettagliato redatto dal Congresso della Casa
Bianca.
Tuttavia,
è importante affrontare questa prospettiva con cautela e scetticismo, poiché
non si conoscono ancora gli effetti reali che potrebbe avere sulla Terra.
L’amministrazione
Biden sembra essere consapevole di questa incertezza, ma è disposta ad intraprendere
un percorso verso l’”ignoto” nel tentativo di combattere il riscaldamento
globale.
Il
progetto della Casa Bianca.
In un
report di 44 pagine, la Casa Bianca spiega la volontà della ricerca americana
di impegnarsi allo scopo di oscurare (parzialmente) il sole.
A
svelare la notizia è stato il quotidiano “Politico” che ha spiegato nel
dettaglio la situazione.
Secondo
la ricerca, potrebbe essere possibile modificare la luminosità solare al fine
di abbassare la temperatura del pianeta a un livello sufficiente per riportarlo
alle condizioni precedenti all’effetto serra globale.
(Infatti
l’effetto serra globale non può essere opera dell’uomo, in quanto è stato
dimostrato che la Co2 pesa 4 volte più dell’atmosfera. Ossia la Co2 non può
volare in alto, ma solo raso terra o sulla superfice del mare. N.D.R)
Sul
report della Casa Bianca si legge:
Un
programma di ricerca sulle implicazioni scientifiche e sociali della modifica
della radiazione solare (Srm) consentirebbe decisioni più informate sui potenziali
rischi e benefici dell’”Srm” come componente della politica climatica, insieme
agli elementi fondamentali della mitigazione e dell’adattamento delle emissioni
di gas serra senza la Co2.
“Srm”
offre la possibilità di raffreddare il pianeta in modo significativo su una
scala temporale di pochi anni.
L’Unione
Europea è contraria.
(L’unione
europea dovrebbe essere contraria a divulgare notizie false che riguardano la
CO2. Questa pur essendo più pesante 4 volte dell’aria dovrebbe essere capace di
volare nella stratosfera per creare l’effetto serra! N.D.R.)
Nonostante
la Casa Bianca abbia tranquillizzato sul fatto che per il momento non ci sono
ancora dei piani concreti in corso, il resto del mondo si preoccupa per queste
ricerche.
Nei
giorni scorsi, la “Commissione dell’Unione Europea” si è espressa in maniera
molto ferma sulla questione e ha messo in guardia su quelle che potrebbero
essere le “conseguenze
accidentali della manipolazione del sistema planetario”.
Secondo
l’UE, dunque,
i
rischi, le ricadute e le conseguenze impreviste poste da queste tecnologie sono
scarsamente comprese, e le regole, le procedure e le istituzioni necessarie non
sono state sviluppate.
Portare
avanti delle pratiche sconosciute di geoingegneria come appunto la modifica
delle radiazioni solari potrebbero causare dei rischi nuovi per le persone e
anche per gli ecosistemi.
L’aumento
degli squilibri energetici tra le varie nazioni potrebbe essere notevole così
anche come la nascita di conflitti e questioni etiche, legali e politiche.
Ma la
Casa Bianca pensa di oscurare il sole.
La
notizia che svela come la Casa Bianca stia pensando di oscurare parzialmente il
sole per bloccarne i raggi è di grande rilevanza.
Chi fa
da megafono ai negazionisti climatici.
Internazionale.it - Stella Levantesi – (6
luglio 2022) – ci dice:
Il Po
è ai livelli più bassi degli ultimi settant’anni e la siccità, già
preannunciata lo scorso inverno dall’assenza di piogge per quasi cento giorni,
sta mettendo a rischio la risorsa più preziosa che abbiamo: l’acqua.
La scienza del clima afferma che il
cambiamento climatico può aumentare le probabilità e l’intensità dei fenomeni
siccitosi.
D’altronde
non bisogna essere scienziati per unire i puntini: un mondo più caldo aumenterà
la probabilità di siccità in alcune aree.
E non
solo di siccità.
Le
morti sulla Marmolada, il 3 luglio, sono conseguenza anche delle elevate
temperature, ha affermato il climatologo Luca Mercalli:
lo zero termico sopra i quattromila metri e la
fusione accelerata del ghiacciaio hanno causato l’accumulo di acqua dentro un
crepaccio favorendo il distacco.
Eppure,
c’è chi ancora fa “negazionismo climatico”.
Nel
panorama anglosassone a fare da cassa di risonanza a queste teorie ormai sono rimasti
in pochi.
Si tratta soprattutto di piattaforme
conservatrici o ultraconservatrici come” Fox News”, il che non è una novità.
Quando
sono altre piattaforme, meno schierate politicamente rispetto a Fox News, a
fare disinformazione sulla crisi climatica, questo avviene attraverso le
prospettive di compagnie o lobby fossili con interessi economici e politici,
più che un negazionismo assoluto sul clima.
(Per
“negazionismo climatico” si intende forse che la CO2, essendo più pesante 4
volte dell’aria, non può volare nella stratosfera per creare l’effetto serra
antropico? N.D.R.)
Questo
tipo di contenuti suscita reazioni molto diffuse, soprattutto tra coloro che
sono a conoscenza della scienza del clima e della necessità urgente di agire
per ridurre le emissioni.
Poche
settimane fa, per esempio, sul canale Cnbc è andato in onda un contenuto su “Exxon
Mobil” che ha promosso il business della compagnia attraverso un’azione
combinata di “greenwashing” (cioè la strategia di comunicazione di alcune
aziende che presentano come ecosostenibili le loro attività, cercando di
occultarne l’impatto ambientale negativo) e “fake news”, ha denunciato
l’autrice ed esperta di comunicazione sul clima “Genevieve Guenther”.
“Quanto
vi ha pagato la Exxon?”, ha twittato Guenther.
Molti
esperti, tra cui “Robert Brulle”, un noto sociologo che studia il negazionismo
climatico da decenni, hanno reagito in modo simile.
“Questo è un classico esempio di propaganda
dei combustibili fossili.
Ha
tutte le caratteristiche della propaganda fuorviante:
presentazione selettiva dei fatti, mancanza di
prospettive critiche e presentazione unilaterale della prospettiva della “Exxon
Mobil”, ha affermato “Brulle”.
In
Italia il pubblico riceve messaggi contraddittori che alimentano la prospettiva
negazionista.
In
Italia invece il negazionismo climatico è diffuso anche su piattaforme, canali
e trasmissioni che vengono considerati in qualche modo autorevoli, e non solo
da testate politicamente schierate a destra come succede nello scenario mediatico
anglosassone.
Il
risultato è che il pubblico riceve messaggi contraddittori che alimentano la
prospettiva negazionista che, a sua volta, fa leva sugli stessi elementi ormai
da decenni:
instillare il dubbio sulla scienza del clima,
creare confusione il più possibile e fare propaganda politica.
Solo
poche settimane fa, in prima serata, durante il programma televisivo Carta
bianca, è stato dato spazio e voce a posizioni negazioniste.
Nell’ultima
settimana di giugno sul Mattino sono stati pubblicati due interventi.
In uno l’intervistato ha potuto affermare, tra
le altre cose, che i dati dell’Onu sono “sbagliati ed esageratamente caldi in
partenza”, che le informazioni scientifiche sono “diffuse in maniera
propagandistica” e che la Terra è calda per via di “cicli millenari e molte
speculazioni”.
Nell’altra intervista si affermava che “il
caldo record non è una novità” ed è condizionato dall‘“influenza dei cicli
solari”.
Che il “cambiamento climatico sia colpa del
Sole” è una teoria che risale agli anni ottanta e novanta, ed è già stata
dimostrata come falsa e rifiutata dall’”Intergovernmental panel on climate
change” dell’Onu.
(Infatti
il Sole la Casa Bianca lo vuole offuscare. Infatti la Co2 non può essere la
sola causa del riscaldamento globale. La Co2 rimane a contato della terra e del
mare in quanto é 4 volte più pesante dell’aria! N.D.R.)
In un
altro articolo pubblicato su Il Foglio, il 24 giugno, si è affermato “altro che siccità, la
vera crisi dell’acqua in Italia è ideologica”.
Il 5
luglio, sulla prima pagina del Giornale ancora si legge il titolo, a proposito
delle morti sulla Marmolada, “Gli sciacalli dei ghiacci” e la frase “i gretini
strumentalizzano la strage”.
Il capovolgimento è una tecnica usata spesso
dai negazionisti: accusano “l’altra parte” di un atteggiamento che loro per
primi mettono in campo – in questo caso, la strumentalizzazione.
Anche
l’anno scorso, quando il ciclone detto medicane (dalla fusione dei termini
inglesi “mediterranea hurricane”, “uragano mediterraneo”) ha colpito la
Sicilia, un negazionista climatico italiano aveva potuto affermare in tv che
l’attività umana “non ha nulla a che fare” con il cambiamento climatico.
Il negazionismo puntella ancora i contenuti di
molte piattaforme mediatiche in Italia, in varie forme.
E, se non è aperto negazionismo, è
minimizzazione: “la situazione non è poi così grave”, “fate allarmismo”, “ci
adatteremo”.
Quest’ultima
argomentazione sta diventando il mantra di chi, avendo capito che sostenere che
“il cambiamento climatico non esiste” o che “la crisi climatica non è
responsabilità antropica” è sempre più indifendibile, utilizza la capacità di
adattamento per sminuire gli impatti della crisi climatica.
Inoltre
questa argomentazione implica che l’impegno per attenuare gli effetti del cambiamento
climatico è inutile e inquadra l’adattamento come “l’unica risposta possibile”,
sostengono i ricercatori di “Discourses of climate delay”, un’analisi che
prende in esame i ragionamenti utilizzati da chi ha interesse a procrastinare e
rallentare l’azione sul clima.
Queste
argomentazioni, promosse da alcune testate e trasmissioni, danno al pubblico la
falsa percezione che ci sia incertezza sull’esistenza e sulla gravità della
crisi climatica, e che il dibattito scientifico sul cambiamento climatico sia
ancora in corso.
Il “falso equilibrio” dell’informazione non fa
altro che reiterare e alimentare l’idea fuorviante che il cambiamento
climatico, anche se esiste, non è poi così grave, che non riguarda l’Italia,
che gli eventi meteorologici estremi e i fenomeno causati dall’aumento della
temperatura come quelli che si stanno verificando in tutta la penisola e in
molte altre aree del mondo non vi hanno nulla a che fare.
Ma
come scrive l’ex presidente di Legambiente” Roberto Della Seta” su Twitter, il
problema è alimentato anche dai “grandi media” che “commentano allarmati” gli
effetti dei cambiamenti climatici e poi “ricominciano a dare voce” a chi vuole
procrastinare sulla decarbonizzazione.
(Ma
“decarbonizzazione” vuol dire dare la colpa del cambiamento del clima alla Co2.
E questo si che è una bugia. Come può la Co2 più pesante 4 volte dell’aria
creare l’effetto serra? N.D.R.)
Il
meccanismo è simile a quello di una cassa di risonanza:
alcuni
mezzi di comunicazione, promuovendo argomentazioni e prospettive negazioniste
che non potrebbero essere più lontane dalla scienza e dai fatti, dando voce a
chi offre argomentazioni per rallentare l’azione sul clima fungono da camera
dell’eco e, nei casi più estremi, offrono una rappresentazione errata e
fuorviante della realtà.
La
differenza tra l’aperto negazionismo di alcuni individui e la propaganda e il
greenwashing dei combustibili fossili è che la seconda è più insidiosa e più
difficile da riconoscere ma, in mancanza di dati sul cambiamento climatico, la
prima può essere altrettanto dannosa.
È
sempre più evidente che, in molti casi, anche quando si parla della crisi
climatica come fattore che contribuisce a un fenomeno come la siccità, manca
l’anello di collegamento fondamentale:
il legame tra il cambiamento climatico e la
sua causa principale, le emissioni prodotte dai combustibili fossili,
dall’industria agroalimentare e da altri settori inquinanti.
Il tema energetico, in molti casi, appare
irrilevante se si parla di siccità o di razionamento dell’acqua.
Ma
come si può costruire un dibattito costruttivo sulla crisi climatica e, di
conseguenza, delle azioni concrete se le cause del problema vengono
costantemente sminuite o ignorate?
Il
cambiamento climatico è un moltiplicatore di minacce, quindi va a stratificarsi
su vulnerabilità preesistenti e discriminazione strutturali.
Se la
crisi climatica viene comunicata a compartimenti stagni, come può il pubblico
comprenderne le implicazioni reali?
Se non si rendono chiari i collegamenti di
causa-effetto come possono una cittadina o un cittadino comprendere che
l’aumento dei prezzi del gas o dell’elettricità, per esempio, sono strettamente
legati a come si comportano le aziende energetiche e di combustibili fossili
che, a loro volta, sono strettamente legate alle emissioni e, quindi, al
riscaldamento globale?
Se si continua a promuovere il negazionismo e
l’ostruzione all’azione per il clima come può un elettorato comprendere quanto
è cruciale scegliere una candidata o un candidato politico che agisca
concretamente e urgentemente per il clima?
Ecco
il nocciolo della questione.
Confondere le persone e distrarle dalla realtà
delle cose le rende molto più vulnerabili alla disinformazione e al
greenwashing.
E questo fa gioco alle aziende di combustibili
fossili e a chi ha interesse a rallentare la transizione energetica ed
ecologica.
Se
parte della disinformazione è conseguenza di superficialità e negligenza,
un’altra parte è intenzionale e strategica, per ragioni ideologiche, economiche
e politiche.
Queste fanno leva anche su un’altra questione
fondamentale che ha a che fare con dinamiche cognitive, più che comunicative o
politiche:
c’è un meccanismo di rimozione del la minaccia
del cambiamento climatico, la quale non viene percepita come qualcosa di
imminente e che avrà un effetto diffuso (anzi, che ha già un effetto diffuso),
ma come un problema quasi astratto, lontano nel tempo e nello spazio, e che non
ci toccherà mai da vicino.
Il
tema viene quindi spesso trattato e percepito come un problema non problema, un
fenomeno che esiste, ma viene dopo altri più importanti.
Il risultato di questa dinamica è che ignora
un fatto fondamentale:
il
cambiamento climatico è un moltiplicatore di minacce, quindi va a stratificarsi
su vulnerabilità preesistenti e discriminazione strutturali che possono avere a
che fare con la salute, la condizione socioeconomica o le disuguaglianze di
genere, per esempio.
Lo spiegano bene “Abbie Veitch” e “Khalil
Shahyd “nei loro articoli pubblicati più di due mesi fa, prima della decisione
della corte suprema americana di abolire il diritto all’aborto: la crisi climatica è anche un
problema di giustizia riproduttiva, la giustizia riproduttiva è giustizia
climatica.
Sottolineare
tutti questi nessi significa, innanzitutto, fare luce su più di cinquant’anni
di scienza del clima che, volendo semplificare al massimo, si potrebbero
riassumere così:
più
emissioni = aumento della temperatura globale = aumento di frequenza e intensità
di eventi meteorologici estremi.
Il continuo procrastinare della politica e
delle aziende ci ha già catapultati nel mezzo della crisi climatica e ci sta
portando verso scenari di aumento della temperatura con conseguenze
estremamente serie per gli ecosistemi, la vita e la salute degli esseri umani
. Ci
sono continui dati a supporto di questo.
Tra i
più recenti, un nuovo rapporto di oltre quaranta gruppi, pubblicato da “Oil
change international”, ha rilevato che le principali compagnie petrolifere e del
gas statunitensi ed europee, inclusa l’italiana” Eni”, “non riescono ancora a
soddisfare il minimo indispensabile per allinearsi all’Accordo di Parigi”.
Le
promesse e gli impegni di queste aziende sono tutt’altro che credibili,
conclude il rapporto, visto che stanno pianificando più di duecento progetti di
espansione dei combustibili fossili da qui al 2025.
Ma
finché l’informazione sulla crisi climatica non viene fatta in maniera accurata
e costruttiva, le piattaforme mediatiche condivideranno parte del peso di
questa responsabilità.
E con
questa, deve esserci anche la scelta di distanziarsi il più possibile da chi ha
inquinato, continua a inquinare e fa di tutto per nasconderlo.
Questo
deve significare anche agire in maniera “scomoda”, come rifiutare finanziamenti
o sponsorizzazioni.
All’opinione
pubblica bisognerebbe fornire innanzitutto le basi della crisi climatica:
cos’è, da cosa è causata e perché è un problema.
(La Co2 non è un problema perché
rappresenta la vita stessa sulla terra. Essendo 4 volte più pesante dell’aria
Dio l’ha creata per difendere l’umanità. Se la Co2 fosse stata più leggera
dell’aria sarebbe fuggita dall’atmosfera terrestre, lasciano morire l’umanità e
la vita vegetale! N.D.R.)
Una
volta chiarite le basi, che possono sembrare banali ma in moltissimi casi
ancora mancano, sarebbe utile fornire gli strumenti per riconoscere la
disinformazione e le strategie negazioniste o di ostruzione all’azione per il
clima, in modo tale da poter distinguere un’informazione fattuale da una
fabbricata e fuorviante.
Infine, è necessario approfondire gli effetti
della crisi climatica, non solo in termini fisici ma anche nelle
interconnessioni con l’aspetto sociale, la politica, l’economia e così via.
Tutto
questo va fatto tenendo a mente soprattutto un elemento: si deve fare
affidamento su fonti autorevoli, su scienziati del clima, su esperti di
comunicazione, su scienziati sociali con esperienza sul tema e su cittadini,
lavoratori, attivisti che per primi stanno subendo gli effetti della crisi
climatica, non
su negazionisti che nel 2022 ancora promuovono idee come “è colpa del Sole” o su rappresentanti delle compagnie
fossili che inquinano e nascondono la propria responsabilità nella crisi
climatica da decenni.
La
domanda non può più essere se e quando arriverà il cambiamento climatico.
È già qui ed è già grave. Quanto ancora
andranno avanti alcune piattaforme mediatiche a ospitare negazionisti
climatici?
Quanto ancora si continuerà a ignorare la
responsabilità e l’azione di chi ha contribuito a causare la crisi climatica?
Quanto
tempo ancora verrà perso?
“Non
c’è nessuna emergenza climatica”,
500 scienziati scrivono alle Nazioni Unite.
Europa.today.it
– Tommaso Lecca – (30 settembre 2020) – ci dice:
La
petizione pone l’accento sulla variabilità naturale delle temperature e
sostiene che “la CO2 fa bene alla natura”.
Firmano
oltre cento italiani tra cui Prestininzi, Prodi, Zichichi e Battaglia
“La
CO2 è il cibo delle piante, la base di tutta la vita sulla Terra e non è un
inquinante”.
È quanto sostengono 500 accademici e ricercatori di
tutto il mondo che, in dissenso con la maggioranza della comunità scientifica,
ritengono “esagerate” le previsioni sul riscaldamento globale e mettono in
dubbio le responsabilità umane sull’aumento delle temperature.
“Non
c'è nessuna emergenza climatica”, si legge nella petizione che chiede uno stop
al “dannoso e irrealistico piano di azzeramento della CO2 entro il 2050”,
adottato dalle istituzioni europee e dal Governo italiano.
Con
113 firme, gli accademici italiani sono i più numerosi nel “network globale di
500 scienziati e professionisti”.
L'archivio
geologico e i modelli climatici.
La
lettera indirizzata al segretario generale delle Nazioni Unite, António
Guterres, denuncia che “i modelli climatici su cui si basa attualmente la
politica internazionale non sono adeguati al loro scopo”.
“L'archivio geologico - prosegue il documento
- rivela che il clima della Terra è variato finché il Pianeta è esistito, con
fasi naturali fredde e calde”.
I firmatari prendono quindi di mira le
previsioni attuali che “molto probabilmente esagerano l'effetto dei gas serra
come la CO2”.
"La
CO2 fa bene".
Gli
studi più citati dal movimento ambientalista, secondo gli scienziati
negazionisti dell’emergenza climatica, “ignorano il fatto che arricchire
l'atmosfera con CO2 è benefico”.
“Non
ci sono prove statistiche che il riscaldamento globale stia intensificando
uragani, alluvioni, siccità e simili calamità naturali, o rendendoli più
frequenti”, si legge nel documento che si oppone a quanto invece sostenuto
dalla gran parte degli studiosi.
La
petizione italiana.
Seppure
diverso nei toni e nei contenuti, il documento negazionista dell’emergenza
climatica riprende gli argomenti della “Petizione sul riscaldamento globale
antropico” indirizzata ai presidenti della Repubblica e del Consiglio da 90
scienziati italiani, in gran parte geologi e geofisici.
Nella
petizione si definisce “scientificamente non realistico” dare “all’uomo la
responsabilità del riscaldamento osservato dal secolo passato ad oggi”.
“I modelli di simulazione climatica non
riproducono la variabilità naturale osservata del clima e, in modo particolare,
non ricostruiscono i periodi caldi degli ultimi 10.000 anni”, si legge nella
petizione italiana.
Il
comitato promotore riunisce, tra gli altri, gli accademici Uberto Crescenti,
già presidente della Società Geologica Italiana, Alberto Prestininzi, Franco
Prodi e Franco Battaglia.
Il
fisico Antonino Zichichi è invece il primo firmatario.
Gli stessi nomi si trovano tra le liste dei
firmatari della lettera in inglese inviata alle Nazioni Unite, che verrà
presentata a Oslo il 18 ottobre e, in contemporanea, in Italia nelle aule del
Senato.
Il “debunking”
dei 1.107 “scienziati”
che
negano l’emergenza climatica.
Facta.news.it
– (Ago. 25, 2022) - Camilla Vagnozzi – ci dice:
Il
clima è uno degli argomenti di cui più spesso si è parlato durante quest’estate,
sia online che offline.
Negli ultimi mesi abbiamo rilevato diversi
filoni narrativi appartenenti alla disinformazione in tema cambiamento
climatico, sia in Italia che all’estero.
Le
diverse narrative, veicolate tramite notizie false, vogliono convincere che il
cambiamento climatico non esiste o che non dipende dalle attività umane o,
ancora, che le energie rinnovabili, l’elettrico o la raccolta differenziata
siano in realtà processi inutili o dannosi.
Il
primo filone, quello più apertamente negazionista, è oggi tra i più corposi ed
è degli ultimi giorni la notizia di un documento, diventato virale soprattutto
sui social network, che dimostrerebbe l’inesistenza dell’emergenza climatica.
Stando
a chi l’ha condiviso, sarebbe stato redatto da «1.100 scienziati».
Nel
documento, intitolato “There is no emergency”, si legge che l’aumento delle
temperature registrato negli ultimi anni sulla Terra sarebbe del tutto normale,
che gli studi sul riscaldamento globale sarebbero inaffidabili, che la CO2 non avrebbe alcun ruolo
inquinante e che i disastri naturali non sarebbero collegabili ai cambiamenti
climatici.
Si
tratta, in tutti i casi, di tesi tipiche dei negazionisti del clima e di
informazioni false e fuorvianti, pericolose per la salute del nostro Pianeta.
Facciamo poi sin da subito un’importante
precisazione:
i firmatari
del documento non sono tutti scienziati e nemmeno tutti climatologi. Rientrano nell’elenco, infatti,
figure professionali di vario titolo e non per forza collegate né al mondo
della scienza, né a quello della ricerca sul cambiamento climatico.
Capiamo
meglio di che cosa stiamo parlando e perché le informazioni riportate sono
errate.
“There
is no climate emergency”
Il
documento diventato virale negli ultimi giorni, e oggetto della nostra analisi,
è scritto in lingua inglese e intitolato “There is no emergency” (in italiano, “Non c’è alcuna
emergenza”).
È
stato redatto dal “Climate Intelligence Group” (Clintel), una fondazione
indipendente che, stando a quanto riportato sul proprio sito, «opera nei settori del cambiamento
climatico e della politica climatica». “Clintel” è nata nel 2019, fondata
dal professore di geofisica” Guus Berkhout” e dal giornalista “Marcel Crok”.
Secondo quanto scoperto da “Brendan De Melle”
di “Desmog”,
(Bblog che approfondisce diverse tematiche
collegate al clima e riscaldamento globale) “Clintel” avrebbe dei legami con
l’industria dei combustibili fossili e con think thank di destra, molti già noti per aver portato
avanti diverse campagne di disinformazione sul clima.
“There
is no emergency” è un documento lungo complessivamente 38 pagine ma, dal punto di vista
contenutistico, è per lo più occupato dall’elenco dei firmatari, suddivisi per
Paese.
Solamente
due pagine sono, invece, dedicate al clima.
In una
vengono riassunti i sei principali punti che “Clintel” intende sottolineare per
denunciare l’assenza di un’emergenza climatica (li esamineremo tra poco).
Nella
seconda pagina dedicata al clima, è invece presente un’immagine artificiale che
mostra un paesaggio (visibilmente modificata per rendere più luminose alcune
parti), accompagnata da un breve paragrafo di testo che critica i modelli
climatici e la loro affidabilità.
Chi
sono i firmatari.
“There
is no emergency” è stato sottoscritto da 1.107 persone, provenienti da diversi
Stati;
168
firmatari sono italiani.
Sui
social network, dove il testo è diventato particolarmente virale e ha ricevuto un
discreto successo, si parla di «scienziati».
In
realtà, le cose sono ben diverse:
oltre
a esserci diversi firmatari che non appartengono in alcun modo al mondo della
scienza, anche quelli che vi appartengono non è detto siano climatologi e che,
quindi, si occupino di clima o abbiano redatto degli studi affidabili in
materia. Per
intenderci: così come non tutti i medici sono anche ortopedici, non tutti gli
scienziati sono anche climatologi.
Guardando
al nostro Paese, ad esempio, i firmatari sono per lo più professori, docenti,
fisici, astrofisici, ingegneri e qualche geologo.
Non manca però chi si è identificato come il
«fondatore di gruppi Facebook» dedicati all’ambiente, i liberi professionisti
del settore idraulico, i geometri e anche dei comuni lettori o pensionati.
Complessivamente
sono 41 i Paesi coinvolti, dall’Australia agli Stati Uniti.
Dando
un’occhiata ai firmatari degli altri Paesi, emerge come la varietà dei settori
professionali coinvolti non sia una prerogativa solo italiana, ma comune anche
agli altri Stati.
In
diversi casi ci sono professioni che hanno poco o nulla a che fare con la
scienza dei cambiamenti climatici.
Infine,
è importante precisare che parte dei firmatari sono in qualche modo legati a
multinazionali operanti nel settore dell’estrazione di idrocarburi (e, quindi,
non imparziali negli interessi).
Fatta
chiarezza sul documento, passiamo alla sua analisi.
Natura,
uomo e riscaldamento globale.
Secondo
“Clintel” il clima della Terra è sempre stato variabile, «con fasi naturali
fredde e calde» e «non sorprende che ora stiamo vivendo un periodo di riscaldamento».
In realtà, le cose sono più complesse di così.
Se è
vero, come abbiamo già raccontato, che delle variazioni della temperatura
terrestre sono state registrate anche in passato, bisogna però tenere conto che
l’aumento delle temperature degli ultimi anni è eccezionale.
Come
ricostruito dalla Nasa, l’attuale riscaldamento sta avvenendo ad un ritmo mai
visto negli ultimi 10mila anni.
Stando
all’ultimo rapporto dell’agenzia federale americana che si occupa di
oceanografia, meteorologia e climatologia (Noaa), dal 1880 la temperatura
terrestre è cresciuta di 0,08°C per decennio, ma dal 1981 la crescita è passata
a 0,18°C.
Inoltre,
secondo i dati forniti, ancora una volta, dalla Nasa, tra il 2000 e il 2014 la
temperatura della Terra è aumentata ogni anno rispetto alle temperature medie
registrate tra il 1951 e il 1980.
Diciotto
dei diciannove anni più caldi della storia del Pianeta sono avvenuti dopo il
2000.
La
crescita della CO2 nell’atmosfera dopo la rivoluzione industriale. (Fonte: Nasa)
Ribadiamo,
infine, che la responsabilità dei cambiamenti climatici è, stando alle Nazioni
Unite, soprattutto delle attività umane che, con le proprie attività
quotidiane, causa «pericolosi e diffusi sconvolgimenti nella natura» che
«colpiscono la vita di miliardi di persone in tutto il mondo».
Della
stessa opinione è anche la comunità scientifica, ma ci arriveremo tra poco.
Quanto
ne sappiamo sul riscaldamento globale.
Secondo”
Clintel” «il mondo si è riscaldato significativamente meno di quanto previsto
dall’IPCC»,
il
gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite.
«Il divario tra il mondo reale e il mondo
modellato ci dice che siamo lontani dalla comprensione del cambiamento
climatico».
Inoltre,
le politiche climatiche si baserebbero su «modelli inadeguati» con «molte
carenze» che «esagerano l’effetto dei gas serra» e ignorano i benefici della
CO2.
In
realtà, gli studi sul cambiamento climatico sono affidabili e la loro
veridicità è sempre più confermata.
I
modelli climatici a cui “Clintel” fa riferimento sono indispensabili per
elaborare gli scenari climatici, ipotizzando così l’evoluzione del clima sia a
livello regionale che mondiale.
Oggi questi sistemi sono molto affidabili e lo
dimostra il confronto tra i dati climatici reali (e, dunque, quelli
effettivamente registrati “dal vivo” in un dato periodo) con i dati
precedentemente elaborati dai modelli.
Facciamo
un esempio:
uno studio realizzato nel 2019 da ricercatori
della “University of California, del Massachusetts Institute of Technology” e
della “Nasa” ha mostrato che, in generale, i modelli sull’evoluzione del clima
hanno previsto con precisione il riscaldamento globale degli ultimi 50 anni.
Per farlo, sono stati elaborati i dati
estrapolati da 17 modelli utilizzati tra il 1970 e il 2007 ed è emerso che il
clima è effettivamente cambiato in quella direzione. Guardando al futuro, i modelli sono
sempre più affidabili, anche perché sviluppati con tecnologie di ultima
generazione.
Per
quanto riguarda, in particolare, la presunta inaffidabilità delle previsioni
dell’Ipcc, si tratta di critiche spesso mosse all’organizzazione e finalizzate
a screditarne l’operato.
Nel
2010 il The Guardian aveva indagato il fenomeno, trovando un (forse due, ma non
vi era certezza per il secondo) possibile errore all’interno di un report.
Si
trattava di una proiezione errata sull’erosione dei ghiacciai, ma era un errore
di fonte: chi aveva redatto il report non aveva utilizzato i dati corretti
pubblicati precedentemente dall’Ipcc, ma un’altra fonte che non si era
dimostrata inaffidabile.
D’altra
parte, come raccontato sempre dal “The Guardian”, i modelli climatici sono
molti (oltre a quelli dell’Ipcc, ci sono, ad esempio, quelli del “National
Center for Atmospheric Research” degli Stati Uniti, quelli del “Geophysical
Fluid Dynamics Laboratory” o del “Met Office” del Regno Unito), spesso diversi
gli uni dagli altri e interessati a studiare fenomeni differenti, il che può
causare confusione o poca fiducia agli occhi del pubblico.
Molto
dipende dall’argomento della ricerca, ma sull’esistenza dei cambiamenti
climatici e del riscaldamento globale i modelli climatici sono affidabili.
Come
hanno raccontato studiosi e ricercatori al “The Guardian”, la solidità di
questi modelli è data dal fatto che sono basati su regole e calcoli matematici,
delle vere e proprie equazioni in grado di descrivere i flussi d’aria e i rapporti tra il riscaldamento del
Sole e la capacità della Terra di inviare parte di quel calore nello Spazio.
Non
mancano poi i casi in cui la complessità dei modelli climatici (come, ad
esempio, il dover tenere conto di numerosi aspetti legati a diversi settori
della natura – ghiacci, temperature, permafrost, nuvole) li rende meno precisi.
Un esempio sono i modelli climatici sui
cambiamenti nelle nuvole, ancora troppo complessi per essere modellati
accuratamente a causa delle piccole dimensioni delle particelle o dell’enorme
distanza.
Il
ruolo della CO2.
Se è
vero, come sostenuto da “Clintel”, che l’anidride carbonica è «essenziale» per
la vita sulla Terra, bisogna però chiarire che cosa si intende con sostanza
«inquinante».
Per
Clintel la CO2 non lo è.
Di per
sé, nessuna sostanza è inquinante fino a quando non nuoce alla vita o altera in
maniera significativa le caratteristiche fisico-chimiche dell’ambiente.
Sulla
Terra la” CO2 contribuisce al riscaldamento globale”, non fa solo del bene alle
piante e all’agricoltura, come erroneamente sostenuto dai firmatari del
documento che stiamo analizzando.
Ricordiamo
infatti che le emissioni di CO2 sono tra le principali cause della crisi
climatica in corso, tanto che recentemente si è tornati a parlare della
possibilità di catturare e stoccare la CO2 emessa per rimuoverla dall’atmosfera.
(È
incredibile che si possa credere che la Co2, pesante 4 volte più dell’aria,
posa esser “rimossa” dall’atmosfera: infatti la Co2 non si trova affatto nell’alta atmosfera ma molto, molto
vicino alla terra e al mare! N.D.R.)
Il
ruolo della CO2 è infatti particolarmente significativo perché fa parte dei
cosiddetti gas serra, che occupano la parte medio-bassa dell’atmosfera.
(La
co2 essendo 4 volte più pesante dell’aria si trova sempre a contatto della
terra e del mare! N.D.R.)
Qui
l’anidride carbonica, insieme al metano, agli ossidi di azoto e ai gas
fluorurati, lascia passare i raggi solari, ma assorbe le radiazioni emesse
dalla Terra, trattenendole.
(I
raggi solari raggiungono la terra ed il mare. La Co2 trattiene le radiazioni
emesse dalla terra o dal mare, ma non crea mai una cupola di gas serra! N.D.R.)
In
questo modo incide sull’aumento della temperatura della superficie del nostro
Pianeta.
In
condizioni normali l’attività della CO2 è fondamentale perché contribuisce alla
creazione di una temperatura terrestre che permette la vita.
In sua
assenza, il nostro clima sarebbe molto più freddo.
Oggi,
però, l’accumulo di CO2 è tale da imprigionare quantità di calore troppo alte,
rendendo il nostro Pianeta simile ad una serra.
(La
co2 riscalda l’aria, ma questa essendo più leggera della Co2 vola verso l’alto
dell’atmosfera. N.D.R.)
Come
riportato dalla Commissione europea, «nel 2020 la concentrazione di CO2
nell’atmosfera superava del 48 per cento il livello preindustriale (prima del
1750)».
Sono
le attività umane le principali responsabili di questa situazione:
gli
alti tassi di crescita dell’anidride carbonica sono in gran parte legati ai
fenomeni di combustione utilizzati per le attività umane, principalmente per
gli autoveicoli e la produzione di energia elettrica.
L’attività
di deforestazione, l’allevamento di bestiame, i fertilizzanti azotati e i gas
fluorurati sono, insieme all’attività umana, gli altri principali responsabili
dell’aumento delle emissioni.
Riscaldamento
globale e disastri naturali.
Secondo
“Clintel”, «non ci sono prove statistiche che il riscaldamento globale dovuto
all’aria stia intensificando gli
uragani, inondazioni, siccità e simili calamità naturali, o rendendole più
frequenti».
Al contrario, vi sarebbero «ampie prove del fatto che le misure
di mitigazione della CO2 siano tanto dannose quanto costose».
Anche
qui, qualcosa non torna.
Ad
ottobre 2020 l’”Un Office on disaster risk reduction “(Undrr), l’agenzia delle
Nazioni Unite che si occupa del contrasto alle catastrofi naturali, ha
pubblicato un report di denuncia in cui veniva riportato un decisivo aumento
dei disastri naturali che negli ultimi venti anni si sono verificati sulla
Terra.
Dalle
4.212 calamità naturali registrate tra il 1980 e il 1999, alle 7.348 tra il
2000 e il 2019.
I dati mostrano, stando all’Undrr, come gli
«eventi meteorologici estremi siano arrivati a dominare il panorama delle
catastrofi nel 21° secolo».
Il
rapporto individuava nel cambiamento climatico il maggiore responsabile
dell’incremento dei disastri naturali, con una crescita che negli ultimi venti anni ha riguardato
soprattutto le grandi inondazioni (pari al 40 per cento del totale degli
eventi), i temporali (28 per cento), gli incendi e la siccità.
(Ma il
riscaldamento climatico dell’aria dovuta al sole non ha alcun rapporto con la
Co2 presente sulla terra o sul mare! N.D.R.)
Ma non
solo:
secondo
il “Global Assessment Report 2022” stilato dall’Onu, il mondo dovrà affrontare
in media nel 2030 ogni anno circa 560 disastri naturali, contro i circa 400 del
2015.
Stando
a quanto riportato, «le azioni umane continuano a spingere il pianeta verso i
suoi limiti esistenziali ed ecosistemici» e «l’intensificarsi degli impatti dei
cambiamenti climatici» contribuisce a rendere meno sicura la vita sul nostro
Pianeta.
Numero
di eventi catastrofici 1970–2020 e aumento previsto 2021–2030.
Per
quanto riguarda, invece, le «dannose» e «costose» misure di mitigazione della
CO2 denunciate da “Clintel”, si tratta di un discorso ampio e complesso.
Prendendo,
ad esempio, il caso dello stoccaggio della CO2, è vero che si tratta di una
tecnologia controversa con vantaggi e svantaggi.
Se, da
un lato, sembra una buona soluzione per ridurre l’emergenza climatica,
dall’altra incontra diversi limiti (i costi, i processi e l’efficienza) e, dal
punto di vista della produzione di energia, è incapace di reggere il confronto
con le energie rinnovabili.
L’emergenza
climatica esiste, (ma non è colpa della CO2! N.D.R.)
Infine,
i firmatari del documento che stiamo analizzando concludono sostenendo che «non
c’è emergenza climatica. Pertanto, non c’è motivo di panico e allarme» ed
esprimono la propria contrarietà per una politica zero-CO2 entro il 2050.
Al
contrario, il cambiamento climatico esiste.
I dati
scientifici che provengono sia da fonti naturali (come i ghiacci, le rocce e
gli alberi) che da apparecchi moderni (come i satelliti) mostrano i segnali del
cambiamento climatico in corso.
D’altra parte, l’aumento delle temperature che
abbiamo vissuto negli ultimi anni insieme alle sempre più frequenti notizie
relative allo scioglimento delle calotte glaciali provano che il nostro Pianeta
si sta riscaldando per colpa del sole.
Stando
alla scienza, è ormai innegabile che le attività umane hanno prodotto i gas
atmosferici responsabili di intrappolare una quantità eccessiva di energia
solare all’interno del sistema
terrestre, il che ha riscaldato l’atmosfera, l’oceano e la Terra stessa,
portando a rapidi e diffusi cambiamenti sul nostro Pianeta.
(Se
sono gas atmosferici non possono comprendere la Co2, in quanto questo gas 4 volte più pesante
dell’aria non può salire nell’atmosfera. N.D.R.)
Come
ricostruito da “Inside climate news”, uno studio del 2013 ha mostrato che circa
il 97 per cento delle pubblicazioni scientifiche sui cambiamenti climatici era
d’accordo su un punto:
il
cambiamento climatico sta avvenendo e ciò accade con una velocità maggiore
rispetto a quanto dettato dalla natura.
Il
motivo di questa rapidità è l’attiva degli esseri umani.
Nel
2021 uno studio pubblicato sulla rivista “Environmental Research Letters” ha
analizzato oltre 88 mila studi e dimostrato che il 99,9 per cento di essi
giungeva alla stessa conclusione:
il cambiamento climatico c’è e l’uomo è il
principale responsabile.
(Ma la
Co2 è indispensabile per la vita dell’uomo. E dire che dopo il 2050 vi sarà “zero
Co2” vuol dire che l’uomo è destinato alla estinzione sulla terra! N.D.R.)
In
conclusione.
Ad
agosto 2022 è diventato virale sui social network un documento stilato dalla
fondazione “Clintel” che, con un riassunto in sei punti, vuole negare
l’esistenza di un’emergenza climatica.
In
realtà, i diversi argomenti a supporto di questa tesi sono fuorvianti o errati.
Il
cambiamento climatico esiste e la scienza concorda su questo punto.
(Ma
non è opera dell’uomo, ma bensì del Sole! N.D.R.)
La
crescita delle temperature registrate sul nostro Pianeta non può considerarsi
un fenomeno naturale, ma è direttamente influenzato dall’attività umana e ha
raggiunto cifre mai toccate prima.
I
modelli climatici sono affidabili e si stanno dimostrando, negli anni,
veritieri.
È
errato sostenere che la CO2 non svolga un ruolo inquinante, essendo tra le
responsabili dell’effetto serra e dell’innalzamento delle temperature del
Pianeta.
(La Co2 alimenta la vita sul pianeta e
quindi non può essere inquinante! N.d.R.)
Tra le
conseguenze dell’emergenza climatica ci sono anche i disastri ambientali che
colpiscono, sempre più spesso, la Terra e la sua popolazione.
Il
documento, dunque, riporta una serie di informazioni errate o fuorvianti,
nonché pericolose per la salute del nostro Pianeta.
Precisiamo,
infine, che i firmatari non sono tutti climatologi, né tutti scienziati.
Ci sono figure professionali molto lontane
dalla scienza ed esponenti di multinazionali operanti nel settore degli
idrocarburi.
13
Nazioni Accettano di Distruggere
l’Agricoltura per “Salvare il Pianeta”
Conoscenzealconfine.it
– (4 Agosto 2023) - Leo Hohmann – ci dice:
Globalisti
al lavoro per pianificare carestie globali…
Il
culto globale del clima si sta preparando a scatenare la sua guerra contro il
cibo con 13 nazioni – molte delle quali grandi produttori di bovini e cibo come
Stati Uniti, Argentina, Brasile, Cile e Spagna – che stanno firmando un impegno
a porre gli agricoltori sotto nuove restrizioni per ridurre le emissioni di gas
metano.
ll
“Global Methane Hub” ha annunciato in un comunicato stampa del 17 maggio che i
ministri dell’agricoltura e dell’ambiente e gli ambasciatori di 13 paesi,
inclusi gli Stati Uniti, hanno firmato un accordo con cui ci si impegna a
ridurre le emissioni di metano in agricoltura.
Gli
Stati Uniti erano rappresentati dallo zar del clima di Biden, John Kerry.
Cosa
Significa Questo e Perché Dovrebbe Interessare Tutti?
Nell’aprile
2023, il “Global Methane Hub” ha collaborato con “i Ministeri dell’Agricoltura”
del Cile e della Spagna per convocare il primo “ministero globale sulle
pratiche agricole per ridurre le emissioni di metano”.
Il ministero ha riunito membri del governo di alto
rango per condividere le prospettive globali sulla riduzione del metano e sui
sistemi alimentari a basse emissioni.
I
partecipanti alla conferenza includevano l’”Organizzazione per l’alimentazione
e l’agricoltura delle Nazioni Unite”, “Climate & Clean Air Coalition”,
“Inter-American Institute for Cooperation on Agriculture”, la “Banca Mondiale”,
l’”Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico” e la “Banca
interamericana di sviluppo”.
La
“Banca Mondiale”, un’altra creazione del secondo dopoguerra, ha parlato molto
ultimamente, insieme alle “Nazioni Unite”, di una carestia in arrivo ed ha
pubblicato un libro bianco il 22 maggio, intitolato “Food Security Update:
World Bank Response to Rising Food Insecurity”.
Il
direttore del “Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite” ha anche
lanciato, a partire da settembre dello scorso anno, terribili avvertimenti su una
prossima carestia globale.
Quindi
è strano che, proprio nel momento in cui i globalisti stanno mettendo in
guardia sulla carenza di cibo e sulla carestia, i loro portavoce alla Banca
mondiale, alle Nazioni Unite e all’interno delle amministrazioni degli Stati
Uniti e dei loro alleati (si noti che Cina e Russia non si trovano da nessuna parte in
queste assurde politiche anti-alimentari), stiano parlando di convertirsi a una
nuova e non provata forma di agricoltura “sostenibile” che si concentra più
sulla riduzione del metano che sulla produzione dei più alti rendimenti di
cibo.
La
moderna produzione alimentare è cattiva, ci dicono, perché produce metano che
presumibilmente danneggia l’ambiente.
“I sistemi alimentari sono responsabili del
60% delle emissioni di metano”, ha dichiarato” Marcelo Mena”, CEO di “Global
Methane Hub.”
“Ci congratuliamo con i paesi disposti
a prendere l’iniziativa nella mitigazione del metano dei sistemi alimentari e
confermiamo il nostro impegno a sostenere questo tipo di iniziativa con
programmi che esplorano promettenti tecnologie di mitigazione del metano e la
ricerca alla base dei meccanismi di mitigazione del metano per creare nuove
tecnologie.”
“John
Kerry” è anche molto entusiasta di mettere fuori uso terreni agricoli preziosi
e produttivi, ridurre le dimensioni delle mandrie di bestiame e consegnare i
nostri sistemi di produzione alimentare a tecnocrati e globalisti che offrono
vaghe promesse di “nuove tecnologie”.
Secondo
l’”Agenzia per la protezione ambientale USA”, gli Stati Uniti sono impegnati a
cercare di mitigare le emissioni di metano non solo in America ma in tutto il
mondo.
Sul
suo sito web si legge:
“Gli Stati Uniti forniscono leadership chiave,
finanziamenti e competenze tecniche per gli sforzi internazionali di riduzione
delle emissioni di metano, con il risultato di oltre 1.140 progetti di
mitigazione del metano attraverso GMI a partire dal 2021.”
L’amministrazione
Biden prevede di spendere 1,5 milioni di dollari in fondi dei contribuenti per
un programma volto a “responsabilizzare” le attiviste del cambiamento climatico
nella società “patriarcale” del Kenya settentrionale, documenti esaminati dal Washington
Free Beacon.
“John
Kerry” ha dichiarato:
“Mitigare
il metano è il modo più veloce per ridurre il riscaldamento a breve termine.
L’alimentazione e l’agricoltura possono
contribuire a un futuro a basso contenuto di metano migliorando la produttività
e la resilienza degli agricoltori.
Accogliamo
con favore i ministri dell’agricoltura che partecipano all’attuazione del
Global Methane Pledge.”
Le
nazioni che firmano questo impegno a ‘trasformare’ (eliminare, ndr) le loro politiche agricole sono Stati
Uniti, Argentina, Australia, Brasile, Burkina Faso, Cile, Repubblica Ceca,
Ecuador, Germania, Panama, Perù e Spagna.
Il
governo spagnolo organizzerà una seconda conferenza nel 2024 per monitorare e
far progredire gli sforzi di attuazione relativi alla dichiarazione e
incoraggiare altri paesi ad aderire.
Per
“salvare il pianeta” dalle emissioni che provengono dalle scoregge delle
mucche, affermano che è necessario costringere gli agricoltori a cambiare il
modo in cui coltivano, convertendo la loro terra e il loro bestiame a metodi
più “innovativi” e “pratiche basate sulla scienza(h)”.
Questi
metodi dovranno essere implementati non solo nelle aziende agricole, ma in
tutti i “sistemi alimentari.”
Non
dicono mai quali sarebbero questi cambiamenti “innovativi”, ma solo che saranno
basati su “nuove tecnologie” e “basati sulla scienza(h)”.
Possiamo
presumere da questo linguaggio che le pratiche prese in considerazione mirano a
sostituire una parte importante delle scorte di bovini da carne e da latte, maiale
e pollo con l’alimentazione a base di larve, insetti, vermi da pasto, grilli,
ecc.
Le “Nazioni
Unite”, il “World Economic Forum” e altre” ONG” hanno promosso per anni diete
senza carne e il consumo di proteine di insetti, ed i miliardari hanno investito
in enormi fabbriche di insetti che ora sono in costruzione nello stato
dell’Illinois, in Canada e nei Paesi Bassi, dove vermi da pasto, grilli e altri
insetti saranno trattati come additivi da inserire nella fornitura di cibo,
spesso senza etichette chiare che informino le persone esattamente su ciò che
stanno mangiando.
Bill
Gates sta
anche collaborando con altri miliardari per investire nella produzione di carne
coltivata in laboratorio, un processo che prevede l’utilizzo di cellule
prelevate da mucche, polli e maiali per coltivare rapidamente carne artificiale
in ambito industriale.
Gli
agricoltori saranno sempre più costretti a lasciare la loro terra, come sta già
accadendo nei Paesi Bassi, che è il secondo esportatore netto di cibo al mondo
dopo gli Stati Uniti.
Tutto
ciò si aggiungerà ad una carestia imminente, a cui l’attuale generazione di
persone sulla terra non ha mai assistito.
Questo è il progetto.
Globalisti come “Dennis Meadows”, autore del libro “The
Limits to Growth” del Club di Roma del 1972, ci informò dei piani dei
globalisti di spopolare drasticamente la terra.
Ho
anche riportato ampiamente le previsioni di “Deagel”, che prevedevano una
riduzione di quasi il 70% della popolazione americana entro il 2025, con un calo
demografico altrettanto drastico per il Regno Unito, la Germania, il Canada,
l’Australia e altri paesi allineati alla NATO.
Non
c’è modo più efficace per spopolare che attraverso guerre, carestie e
pestilenze (il covid è stata più che altro una
montatura mediatica, ma non si sa mai che siano in grado di usare armi
batteriologiche, queste sì pericolose – nota di conoscenzealconfine). Non è interessante che tutti e tre
questi metodi di omicidio testati nel tempo siano in gioco in questo momento?
La
guerra al cibo è molto simile a quello che sta succedendo nel settore
energetico, dove i governi stanno colludendo con le grandi imprese per
trasformare tutti i trasporti alimentati a gas e petrolio a elettrici, il che
significa che molte meno persone saranno in grado di permettersi le auto
elettriche, e anche se potranno permettersele, l’uso di quelle auto sarà molto
più strettamente monitorato e controllato, a causa della necessità di continue
ricariche presso le apposite stazioni e con una rete elettrica già sovraccaricata.
Se non
puoi ricaricare la tua auto quando vuoi, ma solo quando ti è permesso, hai già
consegnato la tua libertà di movimento ai regolatori di quelle stazioni di
ricarica.
Nell’industria
alimentare, la grande agricoltura colluderà anche con i governi del mondo per
produrre molta meno carne di manzo, pollo e maiale, sostituendo quelle proteine
con quelle di insetti e carne sintetica coltivata in laboratorio, i cui effetti
sulla salute sono in gran parte sconosciuti.
Questi
cambiamenti sono già stati in piena evidenza nei Paesi Bassi, dove il governo
ha generato intense polemiche lanciando un piano per ridurre le mandrie di
bestiame fino al 50% e ridurre l’uso di fertilizzanti azotati del 30%.
Non
importa quanto parlano di “innovazione” e “nuove tecnologie”, non puoi ridurre
le tue mandrie e ridurre l’uso di fertilizzanti e poi affermare che le tue
fattorie saranno “più produttive”.”
Questa
è una bugia.
Tutte
le loro “innovazioni” si tradurranno direttamente in meno cibo sulle tavole di
tutto il mondo.
Preparatevi
ora alla carestia.
Fare
scorte è una soluzione facile a breve termine.
Però
dobbiamo anche pensare a lungo termine.
Se non
hai mai coltivato un giardino o allevato polli, è qualcosa a cui potresti voler
pensare in termini di aumento delle tue abilità.
Forse
hai coltivato un giardino per diversi anni e hai una certa esperienza, e puoi
condividerlo con un vicino che ha allevato polli ma ha poca o nessuna
esperienza di giardinaggio.
Fare
rete e cooperare con le persone intorno a noi sarà la chiave per la
sopravvivenza una volta che questa carestia globale si intensificherà.
Può
darsi che la vera carestia non arrivi mai nei paesi più ricchi come l’America.
Il cibo può continuare ad essere sugli
scaffali, ma posso garantire che i prezzi continueranno a salire,
sostanzialmente, su articoli di base come farina, pane, uova, carne e
latticini.
Pregate
per il meglio mentre vi preparate al peggio.
Perché
sappiamo che il piano dei globalisti è quello di ridurre la popolazione
mondiale da 7,5 miliardi a 1 o 2 miliardi.
Dennis
Meadows è un insider globalista del Club di Roma il cui impegno su questo
argomento risale ai primi anni ’70.
Rimani
forte.
Stai
tranquillo, ma non sottostare mai ad alcuna legge incostituzionale o non etica.
I tiranni hanno potere solo su coloro che accettano di essere governati da
loro.
(Leo
Hohmann)
(libertysentinel.org/globalists-revving-up-plans-to-engineer-global-famine-and-starvation-13-nations-agree-to-convert-over-to-less-productive-green-farming-methods)
Cosa
(non) rispondere a un
negazionista
climatico.
Fanpage.it
- Fabio Deotto – (4-2-2023) – ci dice:
Chi
nega i cambiamenti climatici non per interesse politico o economico ma per
difendersi da un’evidenza che cambia la nostra idea del mondo e del futuro, non
è un nemico ma una vittima degli interessi dell’industria fossile e dei suoi
alleati politici.
Persone,
cittadini, con cui dobbiamo parlare senza pregiudizi e con empatia per fargli
cambiare idea.
Esistono
sostanzialmente due tipi di negazionisti climatici:
quelli
che sono al corrente del problema, conoscono i rischi, e per interesse
personale o per conto altrui lo negano;
e
quelli che davvero non ci credono, o sono scettici, o preferiscono non
pensarci.
Parlare
coi primi è inutile, a volte pure controproducente:
sono
coscientemente in malafede, sanno che affrontare la crisi climatica ridurrà̀ le
loro occasioni di arricchimento, o la loro leva politica, o quelle di chi li
stipendia, e disperdono i semi dello scetticismo in modo studiato e senza
alcuna remora.
Con i
secondi invece si può̀ parlare.
Anzi,
bisogna parlarci, e la cosa peggiore che possiamo fare è liquidarli come
ignoranti.
Perché́
spesso, in realtà̀, la loro non è tanto ignoranza quanto speranza del tipo
peggiore, quella a cui ci si aggrappa quando si decide di non accettare
un'evidenza scomoda, quando ci si sente disarmati e impotenti.
Ma
occorre farlo con raziocinio, altrimenti c’è il serio rischio di ottenere
l’effetto opposto a quello desiderato.
Vale per tutti i negazionisti, ma in
particolare modo per quelli climatici.
Non
mettersi in cattedra.
Per
prima cosa è fondamentale rinunciare fin da subito ai toni pedanti:
fare
sentire una persona con le ginocchia sotto il banco non può̀ che rafforzare le
barriere che sono già state erette.
Una
volta preso atto che il negazionismo è spesso un meccanismo difensivo diventa
più facile evitare di rimarcare un ipotetico dislivello con l’interlocutore.
Il punto è che conoscere dati ed evidenze
sulla crisi climatica non ci rende persone migliori, solo più consapevoli, e
nemmeno così tanto, considerando che comunque tutti viviamo (e alimentiamo, in
parte) il sistema fossile che ne è responsabile.
Un
buon modo per disinnescare in partenza queste reazioni difensive è mostrarsi
umili, presentare la nostra posizione come frutto di una ricerca ancora in
corso piuttosto che come una verità̀ da acquisire acriticamente.
Perché se è vero che sull’origine antropica
del riscaldamento globale non ci sono dubbi, è anche vero che ci sono ancora
aspetti della questione climatica che non conosciamo, ricadute che non possiamo
prevedere con esattezza, implicazioni che ancora ci sfuggono.
Piuttosto
che mostrarci tetragoni nella nostra posizione, è più utile rivelarsi
curiosi, e magari sminare il terreno di discussione chiedendo all’interlocutore
di esporci la propria visione delle cose.
È anche
fondamentale non porsi come paladini della giustizia climatica, sfoggiando come
una medaglia al valore le proprie scelte di vita e di consumo sostenibile;
al
contrario, è fondamentale ricordare come il problema climatico non sia
risolvibile unicamente attraverso le azioni individuali, e come qualunque forma
di azione climatica (sia essa economica, politica, comunicativa o finanziaria)
che il nostro interlocutore possa decidere autonomamente di adottare sia valida
e preziosa per la causa.
Mostrarsi
comprensivi.
Una
volta stabilito che non è nostro compito evangelizzare nessuno, il secondo
accorgimento da adottare è prendersi un momento per capire con chi stiamo
parlando.
Proprio perché́ la crisi climatica non può̀
essere inculcata come una dottrina, è utile domandarsi chi sia la persona che
ci sta opponendo un’argomentazione negazionista o scettica, che spiegazioni
abbia da darci in proposito, quale sia il suo background e – se questa persona
la conosciamo – cosa possa indurla a sollevare una simile difesa.
Convincersi
che chiunque non creda alla crisi climatica, o chiunque dubiti della sua
urgenza sia necessariamente ignorante o stupido è del tutto controproducente;
anche perché molte volte è falso.
Esistono
tantissime ragioni che possono spingere una persona ad assumere una posizione
negazionista:
può avere a che fare con un’indole scettica,
o con un’educazione religiosa, o anche solo con la propensione del tutto umana
a credere che il mondo in cui viviamo non possa cambiare più di tanto, e che
nel dubbio sia meglio che non cambi.
Non dimentichiamo che quando parliamo di emergenza
climatica non stiamo parlando di una delle tante questioni oggetto di
negazionismo (la curvatura della terra, l’allunaggio, il Covid), stiamo
parlando di una minaccia esistenziale in piena regola, qualcosa che, una volta
compresa, richiede un ripensamento totale del modo in cui occupiamo questo
pianeta, un cambio di paradigma che non è per nulla facile accettare.
Evitare
proiezioni allarmistiche.
È
anche per questo motivo che i toni allarmistici non funzionano:
ribadire
come il mondo stia diventando sempre meno vivibile e sempre più iniquo
tracciando orizzonti futuri di devastazione rischia di irrigidire ulteriormente
le posizioni di chi spesso vuole proprio evitare di pensare a eventualità̀
catastrofiche che non lo toccano nel presente.
È il
caso di ricordare che è almeno dagli anni ’80 che parte della comunicazione
ambientale utilizza lo spauracchio di un pianeta ridotto a una landa desolata,
uno scenario post-apocalittico da cui è stata eliminata ogni traccia di
bellezza:
è una
proiezione pericolosa, oltre che falsa, perché stabilisce una cesura netta con
il mondo in cui viviamo che, ancorché́ flagellato dalla crisi climatica, è
tuttora in grado di offrire conforto e bellezza.
Spesso
i più scettici nei confronti dell’emergenza climatica sono più vittime di una
cecità selettiva che di un paraocchi autoimposto, il più delle volte vivono
in una condizione di privilegio, non tanto di tipo economico quanto climatico:
il
posto in cui vivono non è cambiato così tanto rispetto a quello in cui sono
cresciuti;
o
comunque il cambiamento non ha ancora trasformato in modo visibile le loro
vite.
Per questo è molto più efficace concentrare
il discorso su quanto sia difficile inquadrare nel presente un problema così
distribuito e sfaccettato, piuttosto che tratteggiare orizzonti (pur
realistici) di catastrofe e desolazione.
Spostare
il baricentro dai dati alle storie.
Eppure
ragioni per allarmarci ne abbiamo già oggi, e non è certo ignorandole che si
può sensibilizzare qualcuno alla questione climatica.
È
però fondamentale evitare di subissare l’interlocutore con dati, grafici e
previsioni, per evitare di metterci in cattedra, certo, ma soprattutto perché,
per quanto possa sembrare paradossale, il cervello umano crede più alle storie
che ai dati.
Questo
accade perché le storie sono parte strutturale del modo in cui interpretiamo e
comprendiamo il mondo, sono un sistema di comunicazione che l’evoluzione ha
premiato perché consente di trasmettere l'esperienza in modo immersivo ed
emotivamente rilevante.
Per
questo, raccontare una storia di sopravvivenza a un evento estremo, o di
adattamento a ricadute attuali della crisi climatica, farà sicuramente breccia
più di qualunque grafico a bastone da hockey o di qualunque dato sui danni e
le morti che la crisi climatica sta già oggi causando.
Concentrarsi sulle storie di persone che
stanno affrontando le ricadute climatiche significa fornire all’interlocutore
una piattaforma per intuire come la questione vada a incidere sul suo mondo e
sulla sua possibilità̀ di viverci in maniera sostenibile, va a fare leva più
sulla nostra dimensione empatica che su quella morale.
Per molto tempo la questione ambientale ci è
stata presentata come una questione etica:
bisognava
tutelare gli ecosistemi perché era giusto farlo.
Ma la
realtà è che la questione è molto più pratica di così:
dobbiamo
tutelare gli ecosistemi per assicurarci che questo pianeta rimanga vivibile.
La
decarbonizzazione del nostro sistema economico e produttivo non è solo la
scelta giusta da fare, è anche quella più conveniente, sotto ogni punto di
vista. Trasmettere questa verità è spesso molto più efficace di qualsiasi
predica.
Spiegare
la complessità della questione.
Attenzione,
però:
il fatto che non si debba mitragliare dati e
previsioni a bruciapelo non significa che non si debba parlare della sostanza
del problema.
Ma anche in questo caso, è utile scegliere
l’approccio giusto, e ce ne possono essere diversi, a seconda della situazione.
A chi
vi facesse notare che in pieno riscaldamento globale in alcuni punti del mondo
si sta vivendo l’inverno più freddo di sempre, ad esempio, è il caso di
ricordare che clima e meteo sono due cose diverse, che alluvioni e siccità
epocali sono parte dello stesso quadro climatico, che la crisi climatica non
crea nuovi problema ma esacerba quelli esistenti.
Tutto
vero, ma affrontare la questione rovesciando questa carriolata di informazioni
può risultare disorientante.
Più
utile è invece partire dalla difficoltà che tutti hanno a inquadrare un
problema che è troppo stratificato, interconnesso e distribuito nello spazio e
nel tempo per essere inquadrato con un solo sguardo.
Spostare
l’attenzione sul perché tutti facciamo fatica a “vedere” la crisi climatica,
piuttosto che rimarcare il fatto che noi siamo al corrente del problema mentre
loro lo negano:
è un
passo importante per evitare che si creino ulteriori barriere di separazione
tra noi e il nostro interlocutore.
Un
approccio molto efficace l’ha adottato “David Attenborough”, che nel suo
intervento alla “COP26 “di Glasgow ha scelto di partire da un cambio di
prospettiva su ciò che consideriamo normale:
“Per gran parte della storia antica
dell'umanità, la concentrazione di CO2 è oscillata pesantemente tra 180 e
300, e così anche le temperature globali.” ha detto Attenborough “Era un mondo
brutale e imprevedibile.
A
volte i nostri antenati esistevano solo in numero ridotto, ma poco più di
10.000 anni fa quel numero si è improvvisamente stabilizzato e con esso il
clima della Terra.
Ci
siamo trovati in un periodo insolitamente benigno, con stagioni prevedibili e
tempo affidabile.
Per la
prima volta c’erano le condizioni per cui emergesse una civiltà e non abbiamo
perso tempo ad approfittarne.
Tutto
ciò che abbiamo raggiunto negli ultimi 10.000 anni è stato possibile grazie
alla stabilità di questo periodo".
Lasciare
tempo e spazio per arrivare a una conclusione propria.
Contrariamente
a quanto alcuni potrebbero pensare, il negazionismo non è una malattia che si
può curare con una pillola, perciò è fondamentale mettersi nell’ordine di
idee che, se vogliamo provare a scardinare questo tipo di false credenze,
bisogna armarsi di pazienza.
E
ancora una volta: di umiltà.
Se
l’approccio di “Attenborough” funziona è perché fornisce strumenti di
comprensione piuttosto che inculcare dati e informazioni.
Qualunque processo di apprendimento ha bisogno
di un tempo di rielaborazione personale delle nozioni acquisite, questo è
particolarmente vero quando si parla di crisi climatica:
proprio
perché l’argomento è complesso e sfaccettato, per essere metabolizzato
richiede un cambio di sguardo sulla realtà che può essere lungo, in alcuni
casi faticoso.
È noto che la stessa Greta Thunberg abbia dichiarato
di essere stata a sua volta scettica:
“La
prima volta che ho sentito parlare di cambiamento climatico ero negazionista:
non volevo crederci, non potevo pensare che stesse accadendo davvero.
Se
davvero era in corso una simile crisi, capace di minacciare la nostra civiltà,
pensavo, non ci saremmo dovuti occupare d’altro.”
Occorre
ricordare che non è nostro compito evangelizzare nessuno;
semmai,
quello che possiamo fare è condividere il nostro sguardo e le nostre
conoscenze, ma sempre premurandoci di non squalificare preventivamente quelli
altrui.
Se una
persona non si sente spinta in una certa direzione, è più probabile che
decida di dirigercisi da sola, soprattutto se avrà trovato autonomamente
ragioni per farlo.
È anche per questo che fare della crisi
climatica una questione etica rischia di essere controproducente:
le implicazioni morali del problema ambientale
emergeranno inevitabilmente una volta che ci si comincia a informare, a seconda
della sua sensibilità di ognuno.
Ricordare
che i negazionisti sono vittime, non colpevoli.
A
inizio pezzo ho individuato due categorie di negazionisti, e a conti fatti solo
i membri della prima possono essere trattati come colpevoli:
si
tratta di persone che conoscono molto bene il tipo di situazione in cui ci
troviamo, sanno che tipo di ricadute sta avendo e avrà, ma sanno anche che
potranno utilizzare a proprio vantaggio il sistema fossile, quindi spingono per
ritardare il più possibile l’azione climatica.
Questo tipo di negazionisti, non a caso,
utilizzano argomentazioni molto più sfumate e subdole di un autentico
scettico:
vi diranno che la crisi climatica esiste ma
che non è così urgente risolverla, che non è così colpa delle attività
umane e che i modelli dei climatologi sono oggetto di dibattito.
Il
punto è che la crisi climatica è già un’emergenza, sta già causando decine
di migliaia di morti e miliardi di danni ogni anno, inoltre sta pesantemente
minacciando ogni aspetto della nostra realtà (economico e geopolitico
compresi).
L’industria
fossile alimenta da decenni il negazionismo climatico, investendo fiori di
milioni per diffondere dubbi e falsità riguardo la questione climatica, (per saperne di più consiglio
Mercanti di dubbi di Naomi Oreskes e Erik Conway per i tipi di Edizioni
Ambiente, e I bugiardi del clima di Stella Levantesi per Laterza), e se il negazionismo e lo scetticismo
climatico continuano a resistere nel discorso pubblico è in gran parte colpa
loro.
La
crisi climatica ha ricadute di tipo economico, sociale, sanitario e psicologico
trasversali, ma a subirne le peggiori conseguenze saranno le persone più
socialmente ed economicamente vulnerabili, persone che spesso sono costrette a
dedicare la maggior parte del loro tempo a capire come pagare l’affitto o le bollette.
Trattare
queste persone come colpevoli di inazioni climatiche sarebbe scellerato. La
realtà è che un negazionista climatico non legato all’industria fossile è
vittima di questo sistema tanto quanto chiunque altro.
È il caso di ricordarselo quando ci troviamo
a decidere contro chi dobbiamo combattere.
(fanpage.it/attualita/cosa-non-rispondere-a-un-negazionista-climatico/)
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