Il pensiero unico globalista, distopico, woke, gender, lgbt, climatico contro la CO2, sarà condannato dalla storia.

 

Il pensiero unico globalista, distopico, woke, gender, lgbt, climatico contro la CO2, sarà condannato dalla storia. 

 

 

“Il sesso è dannatamente binario”.

I woke a lezione di scienza da Richard Dawkins.

 

  Ilfoglio.it – (18-1-2022) - GIULIO MEOTTI – ci dice:

    

Il saggio del biologo ateo più famoso al mondo cui hanno tolto un premio per le critiche al “transgender”.

Kathleen Stock è meravigliosamente ragionevole ed è quotidianamente circondata da logo machisti oscurantisti.

Purtroppo, sono pagati per arringare studenti che si sentono obbligati a prenderli sul serio.

 Cari studenti, vi prego di rinfrescarvi la mente con la scienza”.

A dicembre “Richard Dawkins” interveniva così sui social a difesa della collega dell’Università del Sussex, “Kathleen Stock”, che di lì a poco si sarebbe dimessa visto il clima in facoltà contro la sua persona e le sue idee critiche del transgender.

Ora Dawkins rinfresca la mente a lettori e fan con un saggio pubblicato su “Areo” e tradotto dall’”Express” francese.

La razza è uno spettro, il sesso è dannatamente binario”, il titolo che scontenterà non pochi.

 L’ateo più famoso al mondo, il “rottweiler di Darwin” e il paladino della scienza, torna sulla recente polemica in cui è stato pubblicamente disconosciuto dall’”American Humanist Association” per “transfobia” (“Steven Pinker,” famoso linguista di Harvard, li ha accusati di essere “una nuova inquisizione”, perché “non è passato inosservato ai commentatori che un’associazione di ‘liberi pensatori’ ha ritenuto impensabili certi pensieri, né che stia imponendo dogmi e catechismi scomunicando un eretico”).

 

“Dopo avermi nominato Umanista dell’anno nel 1996, mi hanno retroattivamente negato l’onore nel 2021”, scrive Dawkins.

Il motivo?

Dawkins ha criticato da un punto di vista scientifico il transgender.

“Una vita a Oxford ha radicato in me l’abitudine socratica a sollevare discussioni, argomenti dal sapore leggermente paradossale, enigmi, contraddizioni o incongruenze che sembrano aver bisogno di un po’ di chiarimenti”.

La razza è uno spettro, scrive Dawkins.

“Le persone che hanno un bisnonno nativo americano possono chiamarsi nativi americani.

 Il sesso, invece, è dannatamente binario.

Se hai un genitore nero e uno bianco, puoi pensare di poter scegliere come identificarti.

Se scegliessi di identificarmi come un ippopotamo, diresti giustamente che sto diventando ridicolo.

 È più ridicolo della chiesa che identifica la ‘sostanza’ del sangue con il vino e il corpo con il pane.

 Anche il sociologo più benpensante potrebbe avere difficoltà a sostenere che un pene sia un costrutto sociale.

I teorici del genere aggirano il fastidioso problema della realtà decretando che sei ciò che senti, indipendentemente dalla biologia.

Se ti senti una donna, sei una donna anche se hai un pene.

Maschio contro femmina è una delle sorprendentemente poche autentiche dicotomie che possono giustamente sfuggire alla censura per quella che ho chiamato ‘La tirannia della mente discontinua’”.

 

Giorni fa, “Dawkins” ha anche esortato i suoi fan a firmare la dichiarazione della “Women’s Human Rights Campaign”, un’organizzazione con sede nel Regno Unito che si batte per la protezione dei “diritti delle donne basati sul sesso” e contro l’autodeterminazione di genere, che include un appello a opporsi a interventi chirurgici per la riassegnazione di genere e gli ormoni bloccanti della pubertà a bambini e adolescenti.

   

“Segui la scienza”, si sente ripetere ovunque.

Dawkins ai suoi, che sui generi flirtano con l’irrazionalismo identitario, ricorda che questo vale anche per la differenza sessuale.

 

 

Bufale sul “climate change”:

cosa fa la “disinformazione climatica”.

Lab-ips.org – (29 luglio 2023) – Alice Pistolesi – ci dice:

 

Gli incendi catastrofici del Canada?

 Provocati da elicotteri, droni o “armi a energia diretta” manovrati da ambientalisti o attivisti LGBTQ collusi con progetti di energia rinnovabile.

A questo e a molto altro può arrivare la disinformazione (in questo caso climatica) se va a braccetto con un uso errato dei social network (in questo caso Tik Tok).

 Più il nemico è potente più la risposta deve essere radicata e diffusa.

E se il nemico in questione è la disinformazione climatica, la risposta deve arrivare da più parti e coinvolgere in primis chi scrive e chi legge.

Un esempio di attivismo è “la Climate Action Against Disinformation” (CAAD) un’organizzazione globale, nata nell’estate 2021 che coinvolge oltre 50 organizzazioni impegnate a contrastare i contenuti fuorvianti e falsi su ambiente e cambiamento climatico.

Come agisce la “disinformazione climatica”: l’esempio di Twitter dopo Musk.

Ad inizio 2023 “Cassa” ha diffuso il rapporto che ha messo in evidenza come, dal 27 ottobre, quando Elon Musk ha assunto la guida della compagnia, su Twitter sono apparsi sempre più post fuorvianti sui cambiamenti climatici.

Il report dal titolo “Deny, Deceive, Delay. Exposing New Trends in Climate Mis- and Disinformation At COP27” rileva infatti che, durante la cop27 di Sharm-El-Sheikh in Egitto, Twitter ha diffuso il termine “climate scam” (truffa climatica) quando gli utenti cercavano la parola “clima”.

Nonostante siano stati altri i termini molto più utilizzati, “climate scam” è comparso come primo risultato nelle ricerche.

Un piccolo gruppo di “Culture Warriors”di “Caad” ha individuato i 12 profili più attivi, tra i quali spiccano “Fossil Fuel”, “Necessity”,” Anti-Green Tech”, “Cost of Living Crisis”, “Culture Wars”, “Loss and Damage”.

I ‘guerrieri’ hanno poi riportato che questi “influencer della disinformazione” hanno raccolto più di 344.000 condivisioni su 388 post a tema climatico riguardanti la COP27 dello scorso novembre.

Qualche giorno dopo la fine del summit, inoltre, il risultato migliore su Twitter era “climate lockdown”, ovvero la teoria complottista del Great Reset, secondo la quale alcune élite globali starebbe pianificando di far collassare l’economia mondiale per ridurre le emissioni di carbonio.

Ma il problema non ha riguardato solo i giorni della Cop27.

L’analisi dell’”University of London”, riportata da “Caad,” ha infatti rilevato che nel dicembre 2022” i tweet dei negazionisti del clima” hanno raggiunto il massimo storico con più di 850.000 tweet o retweet, rispetto ai 650.000 del 2021 e ai 220.000 del 2020.

E anche “YouTube” è stato nel mirino della “Caad”.

 In un rapporto pubblicato il 2 maggio 2023 il gruppo ha identificato 100 video (con 18,8 milioni di visualizzazioni) contenenti annunci pubblicitari che presentano false informazioni ambientali.

Questo nonostante nell’ottobre 2021 Google avesse annunciato che avrebbe “vietato la pubblicità e la monetizzazione di contenuti che contraddicono un consenso scientifico consolidato sull’esistenza e le cause del cambiamento climatico”.

 

Disinformazione e intelligenza artificiale.

A questo quadro si somma l’intelligenza artificiale, che secondo molti potrebbe contribuire a diffondere disinformazione, anche climatica.

“Nelle mani sbagliate – sostiene “Michael Khoo”, direttore di “Friends of the Earth” e membro di “Caad” –

l’intelligenza artificiale potrebbe minare per sempre il discorso sul clima a causa della sua capacità di creare storie, argomenti e persino immagini realistiche su misura”.

 Secondo lui, infatti, l’intelligenza artificiale avrà il potenziale per creare miliardi di pezzi di disinformazione, personalizzarli e diffonderli, rendendo molto difficile distinguere i fatti dalla finzione.

“Ciò – continua – potrebbe non solo ostacolare l’azione climatica basata sui fatti, ma rappresenterebbe anche un serio pericolo in caso di eventi meteorologici estremi, quando informazioni chiare e accurate sono fondamentali”.

Voci per il clima, l’iniziativa di Greenpeace.

Per tentare di ovviare a disinformazione e negazionismo un’iniziativa made in Italy è “Voci per il clima”, il primo network italiano di esperti ed esperte per contrastare il “greenwashing” e la “disinformazione sui cambiamenti climatici”.

Una rete di più di 60 realtà (tra cui anche Unimondo.org) appartenenti al mondo della scienza, dell’imprenditoria, della comunicazione, dell’arte e dell’attivismo unite da un impegno comune.

La nascita del network è stata promossa da “Greenpeace Italia”, ma i suoi membri operano in modo del tutto indipendente.

Obiettivo del network è contrastare il “greenwashing” e ovviare alle carenze di giornali e tv nel raccontare la crisi climatica.

Il tutto tramite “un’informazione libera, trasparente e veritiera”.

(infatti alcuni scienziati ritengono impossibile per la CO2 -che pesa 4 volte di più della nostra aria - librarsi nell’alta atmosfera per creare la” volta di contrasto”(effetto serra) al riscaldamento solare naturale. N.d.R.)

(Alice Pistolesi) (unimondo.org)

(Giornalista, è laureata in Scienze politiche e Internazionali e in Studi Internazionali all’Università di Pisa.) 

 

 

 

Verso l’economia di guerra.

Lab-ips.org – (11 giugno 2023) – Alessandro Somma – ci dice:

(Fonte Sinistrainrete)

Le conseguenze della guerra non sono solo quelle visibili a occhio nudo, quelle denunciate dalle innumerevoli immagini che raccontano la tragica quotidianità di chi sopravvive e muore sotto le bombe.

Non sono da meno gli effetti su chi viene apparentemente risparmiato dal conflitto perché vive in Paesi non direttamente coinvolti nei combattimenti.

Semplicemente sono meno riconoscibili, sebbene coinvolgano il complessivo modo di stare insieme come società e in ultima analisi i fondamenti di quanto siamo soliti chiamare Occidente.

A mutare profondamente è l’ordine politico:

la guerra richiede decisioni rapide e unanimi, a monte processi deliberativi opachi, e questo incide profondamente sulla qualità della democrazia, che vive al contrario di conflitti, di tempi scanditi dai ritmi della partecipazione e soprattutto di trasparenza.

 E anche l’ordine economico viene travolto:

la produzione di armamenti e altri beni funzionali al conflitto deve procedere con modalità per certi aspetti incompatibili con il capitalismo, che tra i propri fondamenti vanta l’avversione verso il dirigismo e la pianificazione, utile invece a concentrare lo sforzo produttivo.

La guerra introduce insomma uno stato di eccezione, a ben vedere incrementando dinamiche che hanno preceduto il conflitto in corso.

Questo incide invero su un ordine politico e un ordine economico già pregiudicati dalla pandemia, e ancora prima dalle crisi economico finanziarie che hanno scosso il pianeta a partire dal 2008.

 Forse la novità dell’attuale stato di eccezione si coglie al meglio considerando una deriva che non era finora emersa con la stessa nettezza con cui si sta mostrando ora:

la transizione verso l’economia di guerra, ovvero «un sistema di produzione, mobilitazione e allocazione di risorse finalizzate al sostegno della violenza».

Accelerare la consegna e l’acquisizione congiunta di munizioni.

Nel marzo del 2023 il Consiglio affari esteri, ovvero il Consiglio dell’Unione europea nella formazione comprendente i Ministri degli esteri dei Paesi membri, ha approvato una risoluzione per «accelerare la consegna e l’acquisizione congiunta di munizioni per l’Ucraina» sulla base di tre linee di intervento.

La prima linea riguarda il rimborso nella misura del 50-60% delle «munizioni di artiglieria» e dei «missili» già donati o da donare prima del 31 maggio 2023, e la seconda l’acquisto congiunto dello stesso materiale «nel modo più rapido possibile prima del 30 settembre 2023».

Per realizzarlo, a margine della riunione del “Consiglio affari esteri”, si è sottoscritto nell’ambito dell’”Agenzia europea per la difesa” un accordo di progetto che coinvolge 25 Stati.

 A ben vedere un accordo che prende spunto dal conflitto in corso, ma che mira ad avere effetti sul lungo periodo:

sebbene la fornitura di munizioni all’Ucraina riguardi l’immediato futuro, si estende per un arco temporale di sette anni.

La terza linea di intervento, per la quale si invita” la Commissione a presentare proposte”, concerne invece «l’incremento delle capacità di produzione dell’industria europea della difesa».

 In particolare si chiede di «garantire catene di approvvigionamento sicure, agevolare procedure di acquisizione efficienti, colmare le carenze nelle capacità di produzione e promuovere gli investimenti».

Il fondo con il quale finanziare la prima e la seconda linea di intervento ha un nome decisamente fuorviante:

lo Strumento europeo per la pace (European peace facility).

Si tratta di un fondo istituito un paio di anni or sono al fine di «preservare la pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza internazionale», finanziato fuori bilancio da contributi diretti degli Stati determinati sulla base di un criterio di ripartizione fondato sul reddito nazionale lordo.

Il tutto per una cifra che ha nel tempo raggiunto gli otto miliardi di Euro, e che si propone ora di incrementare di ulteriori tre miliardi e mezzo per finanziare il conflitto russo ucraino:

 ipotesi a cui il “Consiglio europeo” ha genericamente dato seguito invocando la «mobilitazione di finanziamenti adeguati».

Fornendoci così il riscontro definitivo di come furono facili profeti le organizzazioni non governative che criticarono aspramente l’istituzione dello “Strumento europeo per la pace”, prevedendo che sarebbe divenuto un nemico dei diritti umani e una fonte di «danni alle popolazioni civili».

Burro o cannoni?

Diversi sono i canali indicati per finanziare la terza linea di intervento, per la quale il” Consiglio affari esteri”, diversamente da quanto immaginato per la prima e la seconda linea, prevede la possibilità di mobilitare il bilancio dell’Unione.

Li ha indicati “la Commissione”, che come abbiamo detto è stata invitata a formulare proposte circa il modo di incrementare la capacità di produzione dell’industria bellica.

 Di qui un recente progetto di regolamento che in inglese ha un acronimo accattivante: Asap (Act in Support of Ammunition Production), che significa anche «il prima possibile» (as soon as possible).

Il primo canale di finanziamento, come abbiamo detto, è il bilancio europeo, dal quale si preleveranno 500 milioni.

Vi è poi la possibilità di distrarre risorse da fondi già esistenti e destinati ad altre finalità.

Gli Stati membri possono invero impiegare le risorse dei celeberrimi “Piani nazionali di ripresa e resilienza” (Pnrr), e soprattutto «le risorse loro assegnate in regime di gestione concorrente»:

 formula criptica che allude a un insieme di fondi con i quali l’Europa unita realizza le politiche in senso lato sociali.

 Il riferimento è infatti al “Fondo europeo di sviluppo regionale”, al “Fondo sociale europeo Plus, al “Fondo di coesione”, al “Fondo per una transizione giusta”, al “Fondo europeo per gli affari marittimi, la pesca e l’acquacoltura”, al” Fondo Asilo, migrazione e integrazione”.

Quest’ultimo è stato l’unico aspetto sul quale si è concentrato il dibattito attorno alla proposta della Commissione, appena approvata senza modifiche dal Parlamento europeo.

 Non solo:

se si è discusso di questo aspetto è solo per stigmatizzare la consueta ambiguità del Partito democratico, che non poteva bocciare la proposta per non scontentare la sua componente bellicista, ma doveva concedere qualcosa al suo elettorato non proprio in linea con i vertici (i sondaggi documentano una contrarietà alla guerra decisamente più diffusa e radicata di quella espressa dalla politica).

Di qui la scelta di approvare la proposta della Commissione, avanzando però allo stesso tempo la richiesta di escludere la possibilità di finanziare l’incremento della capacità produttiva dell’industria delle armi “sottraendo soldi al Pnrr e ai Fondi di coesione”:

cosa che oltretutto neppure è stata accolta dal Parlamento europeo.

Sovvenzionare e imporre la produzione di armi.

È gioco facile osservare che, se anche si fosse deciso diversamente, le cose non sarebbero mutate.

Per finanziare l’industria delle armi da qualche parte i soldi devono venire, e non si va molto lontano se si apre una discussione su quali siano i tagli preferibili: l’alternativa resta in buona sostanza quella tra burro e cannoni.

 Il punto però è un altro:

 la proposta della Commissione approvata dal Parlamento europeo contiene elementi ben più preoccupanti di quelli relativi ai canali di finanziamento, che pure inquietano non poco.

Sono tali innanzi tutto le modalità individuate per sovvenzionare e addirittura imporre la produzione di materiale bellico.

La Proposta della Commissione precisa che il sovvenzionamento della produzione viene richiesto dalle «specificità dell’industria della difesa, settore in cui la domanda proviene quasi esclusivamente dagli Stati», motivo per cui le imprese non effettuano «investimenti industriali autofinanziati».

Di qui la volontà di «intervenire riducendo i rischi degli investimenti industriali attraverso sovvenzioni e prestiti», addirittura per «coprire fino al 60% dei costi diretti ammissibili».

 Precisamente:

Alla luce delle specificità dell’industria della difesa, settore in cui la domanda proviene quasi esclusivamente dagli Stati membri e dai paesi associati, i quali controllano anche ogni acquisizione di prodotti e di tecnologie per la difesa, comprese le esportazioni, il funzionamento del settore industriale della difesa non segue le norme convenzionali e i modelli commerciali che disciplinano i mercati più tradizionali.

 L’industria non effettua pertanto ingenti investimenti industriali autofinanziati, ma li avvia solo in seguito a ordini vincolanti.

Sebbene gli ordini vincolanti effettuati dagli Stati membri siano una condizione preliminare per qualsiasi investimento, la Commissione può intervenire riducendo i rischi degli investimenti industriali attraverso sovvenzioni e prestiti, consentendo così all’industria un più rapido adattamento alle trasformazioni strutturali del mercato in corso.

Nell’attuale contesto di emergenza, il sostegno dell’Unione dovrebbe coprire fino al 60 % dei costi diretti ammissibili al fine di consentire ai beneficiari di attuare quanto prima le azioni, ridurre i rischi degli investimenti e quindi accelerare la disponibilità dei prodotti per la difesa pertinenti.

Dopo la carota, il bastone.

In tempi di guerra l’industria bellica si trova ad affrontare «un’improvvisa impennata della domanda e deve urgentemente adattarsi a questa nuova situazione di mercato».

 Ecco allora che la produzione di armamenti può essere imposta, e assistita da un impianto sanzionatorio, qualora le imprese rifiutino «di accettare e mettere al primo posto un ordine classificato come prioritario»:

 

In particolare la Commissione, d’intesa con lo Stato membro in cui è stabilita l’impresa, dovrebbe informare le imprese interessate della sua intenzione di chiedere loro di accettare e mettere al primo posto un ordine classificato come prioritario e fornire a dette imprese tutti gli elementi necessari per consentire loro di prendere una decisione informata sulla possibilità di accettare tale richiesta.

In caso di rifiuto dell’impresa, la Commissione, d’intesa con lo Stato membro interessato e tenendo debitamente conto della natura delle obiezioni sollevate dall’impresa, può ritenere che sia giustificata da motivi di sicurezza l’imposizione, mediante una decisione di esecuzione, di un ordine classificato come prioritario.

Una tale decisione dovrebbe essere adottata conformemente a tutti gli obblighi giuridici applicabili dell’Unione, tenendo conto delle circostanze del caso.

 L’ordine classificato come prioritario dovrebbe essere effettuato a un prezzo equo e ragionevole.

Tale ordine dovrebbe prevalere su qualsiasi obbligo di esecuzione di diritto privato o pubblico, tenendo conto delle finalità legittime delle imprese e dei costi e degli sforzi necessari per qualsiasi modifica della sequenza di produzione.

Le imprese possono essere soggette a sanzioni se non rispettano l’obbligo relativo agli ordini classificati come prioritari.

Ovviamente, l’impresa sottomessa all’economia di guerra non viene lasciata in balìa delle responsabilità che questo può comportare:

 non risponde dei «danni verso terzi per eventuali violazioni di obblighi contrattuali» riconducibili all’adempimento dell’obbligo imposto.

Il bastone c’è, ma se lo si deve usare contro le imprese le precauzioni sono massime.

 

 

 

I dolori di un vecchio capitalista.

La Commissione riconosce che l’imposizione di produrre armi integra una violazione della libertà d’impresa e del diritto di proprietà, che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea considera prioritari.

In effetti la Carta non conosce il principio di parità sostanziale, ma solo la mera uguaglianza di fronte alla legge (art. 20):

senza obbligo alcuno per i pubblici poteri di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale» (come afferma la Costituzione nella celeberrima formula contenuta nell’art. 3).

Coerentemente, la Carta non codifica poi diritti sociali, mentre tiene in alta considerazione le posizioni funzionali a rendere il mercato il principale strumento di redistribuzione delle risorse, e a ridurre così l’inclusione sociale a inclusione nel mercato.

Di qui la preoccupazione per la sorte della libertà d’impresa (art. 16), che la Carta si limita a riconoscere senza precisare che essa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (come precisato invece dall’art. 41 della Costituzione italiana).

Di qui anche l’apprensione per la sorte del diritto di proprietà, per il quale la Carta richiama l’interesse generale solo come limite alla compressione del diritto (art. 17), e non anche al suo esercizio (come avviene invece con il richiamo alla funzione sociale della proprietà contenuto nell’art. 42 della Costituzione italiana).

Insomma, lo stato di eccezione alimentato dal conflitto in corso non si limita a pregiudicare l’ordine politico e con ciò la democrazia: aspetto sul quale le sensibilità europee non sono certo spiccate.

L’economia di guerra insidia l’ordine economico in aspetti centrali per la sua difesa in quanto ordine capitalista, che invece Bruxelles tiene in alta considerazione. Questo può però giovarsi di altre espressioni dello stato di eccezione, dal momento che si è cioè dato libero sfogo alla volontà di comprimere il controllo pubblico sull’attività privata, notoriamente percepito come un intralcio alla libertà d’impresa e al diritto di proprietà.

È quanto emerge in termini espliciti dalla” Proposta di regolamento”, dove si afferma in termini perentori:

 «per perseguire l’obiettivo generale di politica pubblica della sicurezza, è necessario che gli impianti di produzione connessi alla produzione dei prodotti per la difesa pertinenti siano costituiti il più rapidamente possibile, mantenendo nel contempo al minimo gli oneri amministrativi».

E si badi che gli oneri amministrativi vanno intesi in senso decisamente ampio, dal momento che includono anche quelli posti a presidio di valori come l’ambiente e la salute:

Gli Stati membri dovrebbero prendere in considerazione la possibilità di avvalersi, caso per caso, delle esenzioni previste per il settore della difesa dal diritto nazionale e dal diritto applicabile dell’Unione, qualora ritengano che l’applicazione del pertinente diritto possa incidere negativamente sulle suddette finalità.

 Ciò può applicarsi in particolare al diritto dell’Unione in materia di ambiente, salute e sicurezza, che è indispensabile per migliorare la protezione della salute umana e dell’ambiente, nonché per conseguire uno sviluppo sostenibile e sicuro.

La sua attuazione però può anche creare ostacoli normativi che frenano il potenziale dell’industria della difesa dell’Unione di incrementare la produzione e le forniture dei prodotti per la difesa pertinenti.

Insomma, l’economia di guerra resta pur sempre un’economia che non mette in discussione i fondamenti del capitalismo, e che anzi sfrutta lo stato di eccezione per azzerare anni di conquiste in termini di equilibrio tra libertà d’impresa e diritto di proprietà da un lato, giustizia sociale e ambientale dall’altro.

Dal mercato senza Stato all’esercito senza Stato.

L’Europa unita è nata come “mercato senza Stato” e sia è poi sviluppata attorno a “una moneta senza Stato”.

Questo assetto si è retto e si regge tuttora su una retorica accattivante:

 il rifiuto della sovranità nazionale viene considerato una precondizione per promuovere la pace, sulla scia di quanto sostenevano i federalisti alla conclusione del conflitto mondiale.

 La guerra russo ucraina e le dinamiche europee che questa ha innescato ci mostrano al contrario che la pace è la prerogativa di un ordine democratico e produttivo di giustizia sociale:

 esattamente i valori che l’economia di guerra sta contribuendo in modo determinante ad affossare.

Prima che il conflitto scoppiasse, si conducevano vivaci dibattiti attorno a una ulteriore espressione dell’unità europea:

 la formazione di un esercito senza Stato.

Vivaci perché condotti sullo sfondo di due punti di vista contrastanti:

quello tedesco, per cui la difesa europea doveva restare saldamente ancorata alla Alleanza atlantica, e quella francese, per cui l’Europa doveva emanciparsi dagli Stati Uniti e affidarsi all’egemonia di Parigi.

 Il Presidente francese Emmanuel Macron parlava nel merito esplicitamente di una transizione dal «Washington consensus» al «Paris consensus», e condiva il tutto con giudizi sprezzanti sulla Nato, ritenuta una organizzazione «in stato di morte cerebrale».

 

La guerra in corso non ha messo in discussione la volontà di sviluppare l’Europa sotto forma di esercito senza Stato.

 La ha anzi alimentata, ma allo stesso tempo ha riorientato i suoi fondamenti: quell’esercito deve formarsi e strutturarsi entro la cornice atlantica, e inoltre rafforzare l’ancoraggio a questa cornice della complessiva costruzione europea.

 

Insomma, il conflitto russo ucraino ci ha ricordati da dove veniamo, ovvero che l’ora zero dell’Europa unita non è la celebre dichiarazione di Robert Schumann che ha ispirato la nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca):

 tutto ha avuto inizio con il Piano Marshall, con il quale gli Stati Uniti hanno serrato le fila dell’occidente nella confrontazione con il blocco socialista, utilizzando l’assistenza finanziaria come contropartita per l’ancoraggio al capitalismo.

Il conflitto ci ricorda poi che l’Europa unita ha accompagnato costantemente l’espansione della Nato, prima verso sud e poi verso est.

Sino alla pantomima dell’adesione dell’Ucraina all’Unione europea, utilizzata come l’adesione degli altri Paesi un tempo appartenuti al blocco sovietico per contrastare i pallidi tentativi di far emergere l’interesse europeo oltre le mire dell’alleato oltreoceano.

L’economia di guerra è l’esasperazione di questo disegno, ma anche il preludio del suo approdo:

la fine delle speranze di pace per una porzione di mondo che non ha saputo meritarla.

 

 

Per combattere il pensiero unico

Liberal (Dem Usa) nelle scuole si sta

 svegliando un mostro anti woke.

  Ilfoglio.it - DANIELE RAINERI - (05 NOV 2021) – ci dice:

    

A furia di intolleranza da sinistra, s'avanza l'intolleranza da destra che mette all'indice libri dal contenuto perfettamente normale.

Entrambe puntano a sopprimere la libertà d'espressione, scrive “David French”

Due giorni fa “David French” ha pubblicato un testo interessante per mettere in guardia dall’ascesa negli Stati Uniti di un movimento “anti woke di destra” che secondo lui finirà per essere illiberale e pericoloso.

Dice “French” in sintesi:

 guardate che a furia di eccessi woke (dove per woke s’intende la consapevolezza delle ingiustizie sociali e razziali che diventa ideologia intollerante) sta alzando la testa un “mostro anti woke” e non ci piacerà per nulla.

 Dovremo fronteggiare due movimenti intolleranti e speculari, da destra e da sinistra, che mirano entrambi a sopprimere con efficienza la libertà di espressione.

“French” è un conservatore, evangelico e abortista quindi sta dicendo una cosa che va contro la propria area d’appartenenza politica.

Inoltre il suo testo è ospitato dal sito di “Bari Weiss”, ex editorialista del New York Times che se ne andò perché dentro al “giornale liberal” la censura woke, sosteneva, era troppo forte e ormai decideva al posto del direttore che cosa poteva essere pubblicato e che cosa no.

 Per questo motivo l’avvertimento pubblicato due giorni fa è doppiamente interessante:

 arriva da due autori che sono campioni della lotta contro l’intolleranza da sinistra e che però chiedono di fare attenzione perché c’è un pericolo che viene dalla parte opposta.

Il testo di “French” è significativo anche perché parla di istruzione e di libri vietati a scuola e questo argomento – che in teoria suona meno importante di altri come le tasse, l’economia o la pandemia – è stato decisivo due giorni fa nelle elezioni per la carica di governatore della Virginia, vinte da un repubblicano.

Grazie alle polemiche sui libri vietati a scuola, il candidato conservatore ha vinto contro i democratici in uno stato dove” Joe Biden “soltanto un anno fa aveva trionfato con dieci punti di vantaggio su Donald Trump.

Più attuale di così non può essere.

Scrive “French“ che il movimento “anti woke” produce leggi contro l’insegnamento della “Critical Race Theory”.

 È la teoria che interpreta la storia degli Stati Uniti mettendo il razzismo dei bianchi contro gli afroamericani come prospettiva dominante ed è già vietata in sette stati.

“Promettono di proteggere i bambini da un’ideologia piena d’odio e divisiva, ma sono caotiche. Sono vaghe e scritte male e lasciano gli insegnanti nella confusione più profonda”.

Due settimane fa a” Southlake” in Texas è arrivato uno di questi momenti di confusione quando l’amministratrice di una scuola in una riunione con gli insegnanti li ha avvertiti che d’ora in avanti se includono un libro su un tema controverso nel loro programma allora dovranno anche includere un libro che affronta lo stesso tema da un punto di vista opposto.

Per esempio? hanno chiesto gli insegnanti.

 “Per esempio se trattate l’Olocausto dovrete inserire anche un libro con una prospettiva opposta”.

 C’è l’audio della riunione, si sentono i gasp soffocati degli insegnanti:

 che razza di libri “con una prospettiva opposta sull’Olocausto” dovremmo includere nel programma?

“French” cita anche il caso dei libri rimossi dalle scuole in Texas dopo obiezioni da parte di “studenti, genitori e contribuenti”.

È un elenco di 800 libri che in teoria potrebbero provocare (“potrebbero”) disagio negli studenti e quindi sono stati cancellati dalle librerie scolastiche.

Ma qual è il criterio per decidere quali libri possono creare disagio?

“French” scrive che in Tennessee, dove lui abita, quest’estate alcune mamme hanno chiesto formalmente la rimozione di libri come “Ruby Bridges Goes to School: My True Story” e “The Story of Ruby Bridges”, che raccontano la storia della piccola alunna afroamericana che per prima andò in una scuola di bianchi protetta dalla polizia contro i segregazionisti.

Quei libri, dicono le mamme, “faranno odiare ai bambini il loro paese, faranno odiare gli altri bambini e anche loro stessi”.

 Le mamme se la prendono anche con la celebre illustrazione di “Norman Rockwell” che illustra l’evento.

Dal punto di vista delle leggi che i repubblicani stanno introducendo, le mamme potrebbero avere la ragione formale.

 Il problema è che è una storia vera.

 

 

 

Comprendere "l'impero

del male."

  Unz.com - MACIEJ PIECZYŃSKI – (1° AGOSTO 2023) – ci dice:

 

 (Questa traduzione è stata pubblicata sul sito conservatore polacco in lingua inglese Sovereignty.pl.)

Nel 2002, a Vladimir Putin è stato chiesto in un'intervista in che modo la Russia che governa differisce dall'Unione Sovietica del tempo di Stalin.

 L'intenzione dell'interrogante era ovviamente quella di dimostrare che i tempi della sanguinosa dittatura in Russia erano passati, e che il suo presente e il suo futuro erano tempi di libertà e democrazia.

 In una conversazione con lo stesso giornalista nel 1991, Putin aveva avvertito con una faccia triste di un possibile "ritorno al totalitarismo".

11 anni dopo, quando era diventato presidente del paese, ha fatto di nuovo una faccia triste, anche se per una ragione completamente diversa.

Ha osservato che rispetto all'era di Stalin, la Russia "è diventata molto più piccola, sfortunatamente".

 L'ultimo libro del professor “Andrzej Novak” The Return of the "Evil Empire": “Ideologies of Modern Russia”, “Their Creators and Critic”s (1913-2023) ,Powrót Imperium Zła, « Ideologie współczesnej Rosji, ich twórcy i krytycy (1913-2023), inizia con una riflessione su queste due osservazioni rivelatrici.

Putin come fedele discepolo di Stalin.

Non è stata la simpatia per il sistema comunista, ma il rimpianto per i territori perduti della Russia che ha portato Putin a considerare il crollo dell'URSS come il più grande disastro geopolitico del ventesimo secolo.

 L'invasione dell'Ucraina è un tentativo di invertire parzialmente questo "disastro".

Come nota “Nowak”, sebbene la Russia sia il paese più grande del mondo, i russi (e non solo Putin stesso) vogliono ancora sempre più terra – non tanto terra da conquistare quanto, secondo la narrativa ufficiale, terra da "riconquistare" o "liberare".

 Questa è la tradizionale retorica russa.

Dopotutto, non sono solo i propagandisti del Cremlino, ma anche gli storici apparentemente seri della patria di Puskin a sostenere che la Russia non ha mai invaso nessuno.

 Si è sempre difeso solo contro le aggressioni esterne, generalmente dall'Occidente.

Dal tempo del principe medievale “Alexander Nevsky”, che combatté i cavalieri tedeschi e svedesi, attraverso la rivolta popolare contro gli "intrusi polacchi" all'inizio del XVII secolo e due guerre patriottiche (prima contro Napoleone, poi Hitler), allo scontro con "l'Occidente collettivo" (Stati Uniti, NATO, Unione Europea) e i suoi lacchè ucraini, la Russia si è sempre ripresa solo quei territori che erano "giustamente" dovuti, "liberando" la popolazione che vi abita.

Questa è ancora la posizione dopo il 24 febbraio 2022.

Andrzej Nowak ricorda il famoso articolo di Putin del luglio 2021 che delineava la giustificazione ideologica e storiografica per l'invasione che era già in preparazione all'epoca.

"Russi e ucraini sono una nazione, un unico insieme", ha sostenuto il sovrano del Cremlino.

Questo unico insieme fu santificato dal principe Vladimir di Kiev, quando fu battezzato nella fede ortodossa (in Crimea, secondo la leggenda).

"Sfortunatamente", in tempi successivi, forze ostili hanno cercato di tanto in tanto di rompere questa unità.

 L'identità nazionale separata degli ucraini è un prodotto artificiale della propaganda anti-russa diffusa da polacchi e austriaci.

Inoltre, l'Ucraina, come stato separato all'interno dei suoi confini del 1991, è nata grazie ai bolscevichi, che per primi hanno creato la Repubblica sovietica ucraina.

Sono anche i bolscevichi che, dopo il 17 settembre 1939, hanno annesso all'Ucraina terre precedentemente appartenenti alla Polonia (anche se indebitamente, perché sono, dopo tutto, antiche terre russe).

 I carri armati russi si sono quindi spostati in Ucraina per ricordare ai suoi cittadini che sono, in realtà, russi – finora, con risultati disastrosi.

“Andrzej Nowak” dice che l'imperialismo russo nella sua versione moderna è nato nel 1913, quando un certo "meraviglioso georgiano", come Lenin chiamava Stalin, sviluppò le basi della politica bolscevica sulle nazionalità.

Questa politica presupponeva la creazione di uno Stato che, pur onorando gli ideali del marxismo, sarebbe stato allo stesso tempo uno Stato russo altamente centralizzato, che offrisse al massimo autonomia ai popoli conquistati. Così, quattro anni prima di prendere il potere, era già abbastanza chiaro che i bolscevichi avrebbero continuato la missione imperiale dello zar, anche se usando slogan diversi.

Da qui la natura sincretica dell'ideologia di Putin.

 La politica storica del Cremlino oggi combina il culto degli zar e della "Terza Roma" ortodossa con il culto della vittoria sovietica sul fascismo.

 Il denominatore comune è l'amore per la potenza di una superpotenza internamente forte ed esternamente espansiva.

Putin è un fedele discepolo di Stalin in questo senso, anche se evita i peani diretti allo "zar rosso".

Nel suo libro, lo storico polacco cerca una risposta alla domanda: qual è la vera natura dell'imperialismo russo?

A suo parere, una Russia aggressiva ha più in comune (o vorrebbe avere più in comune) con un Occidente pacifico, aperto e tollerante di quanto si possa pensare, soprattutto considerando l'attuale situazione in Ucraina.

Coloro che credono che Mosca sia esclusivamente la capitale mondiale del conservatorismo, il baluardo del cristianesimo e del patriottismo, e una forza contro i globalisti si sbagliano.

 In effetti, la Russia è un nemico implacabile dell'idea stessa di stato-nazione.

Questo non è affatto il risultato di un avvelenamento ideologico da parte del virus del comunismo.

Sebbene l'ideologia imperiale russa come la conosciamo oggi sia stata in gran parte scritta da Joseph Stalin, le sue radici risalgono a molto tempo fa.

In realtà, risalgono agli inizi del Principato di Mosca, che in seguito si è evoluto in zarismo e poi in un impero, anche di nome.

Il dittatore sovietico ha semplicemente aggiornato la tradizione secolare con nuovi contenuti.

Inizialmente Mosca raccolse solo le terre della Rus', mentre costruiva la sua autorità come centro mondiale dell'Ortodossia.

Tuttavia, nel XVI secolo divenne una potenza multinazionale a seguito delle conquiste in Oriente.

Poi, nel diciassettesimo secolo, sorse un dilemma se dovesse essere aperto al mondo (cioè se dovesse conquistare il mondo, accettando pragmaticamente alcuni dei suoi elementi) o se dovesse isolarsi da questo "mondo marcio".

La prima opzione ha prevalso.

 La Russia stava diventando un impero multinazionale, ma con un forte centro russo che non poteva sopportare la concorrenza.

I popoli conquistati dovevano riconoscere la superiorità della Russia, umiliarsi davanti al suo sovrano e dimenticare le loro ambizioni di liberazione nazionale.

Al massimo, potrebbero contare sul tipo di status che la Scozia ha nel Regno Unito, cioè sulla dipendenza politica pur mantenendo una certa identità regionale.

Secondo il principale storico russo Alexei I. Miller, l'Ucraina era una tale "Scozia" nella Russia del diciannovesimo secolo.

E avrebbe potuto rimanere tale alla fine del XX secolo, sotto il concetto di una "nazione russa trina" che unisce tutte e tre le nazioni slave orientali che hanno le loro radici nell'antica Rus'.

 Questo concetto, di natura imperiale, nega l'esistenza di ucraini e bielorussi come popoli separati.

 Gli ucraini, tuttavia, non volevano intraprendere questa strada.

Ispirati dalla lotta di liberazione nazionale dei polacchi, decisero di intraprendere la lotta per la loro indipendenza.

Dopo il crollo dell'URSS, la Russia ha avuto la possibilità di abbandonare la sua identità di "prigione delle nazioni" imperiale a favore della costruzione di un proprio stato-nazione separato.

Tuttavia, non avrebbe colto questa opportunità.

 L'opzione più minimalista per ricostruire l'impero era la proposta di "riunire" le tre nazioni slave orientali.

 Un'Ucraina separata non si adattava alle menti delle più grandi autorità morali e intellettuali della Russia.

 Che il dominio di Mosca sulla "nazione russa trina" sia stato sostenuto da “Aleksandr Solzhenitsyn”, un anticomunista che idealizzava lo zarismo, è comprensibile.

Tuttavia, anche “Joseph Brodsky”, un poeta dissidente e campione della libertà individuale, scrisse agli ucraini quando ottennero l'indipendenza:

"Ora lasciate che i Kraut e i Lachs [polacchi] / vi portino in una casa di fango da dietro ..."

 

L'atteggiamento dell'intellighenzia russa nei confronti dell'impero è anche un tema importante del libro di “Andrzej Nowak”.

Non c'è bisogno di considerare se la Russia è il paese di Pushkin o di Putin, perché Pushkin ha sostenuto l'imperialismo, proprio come ha fatto una buona parte dei grandi artisti e autori russi.

Alcuni ricercatori, inoltre, sottolineano il fenomeno dell'imperialismo russo mirato contro i russi stessi.

Le élite dell'impero adottarono la cultura occidentale nel diciottesimo secolo, allargando il divario tra loro e il popolo.

 Questo dovrebbe fornire spunti di riflessione per quanto riguarda l'affinità ideologica tra le élite russe e occidentali oggi.

 

L'ultima moda.

L'imperialismo e l'odio per il concetto di nazione sono quasi nel sangue dei russi.

Sfortunatamente, sotto questo aspetto hanno molto in comune con le élite intellettuali e politiche dell'Occidente.

 E per la Polonia, questa è forse la riflessione più inquietante che si possa ricavare dall'ultimo libro di “Nowak”.

Lo storico polacco esamina ampiamente la discussione accademica sulla Russia e l'URSS che ha avuto luogo nel corso degli anni nei paesi occidentali.

 Le famose parole di Ronald Reagan sull'"impero del male" sono state per lungo tempo generalmente viste come una valutazione dolorosa e ingiusta.

 Quando eminenti storici come “Richard Pipes” scrissero sulla natura imperiale dell'Unione Sovietica, un'ondata di critiche cadde su di loro.

È stato affermato che le loro intenzioni non erano scientifiche, ma politiche, che in realtà volevano solo che l'URSS si disintegrasse lungo linee etniche (nazionali) come tutti gli altri imperi.

Fu solo alla fine degli anni 1980 e all'inizio degli anni 1990, quando in effetti la superpotenza rossa era già in bilico sulle sue fondamenta, che "l'imperiologia" divenne, come dice “Andrzej Nowak”, "l'ultima moda".

Infine, la natura imperiale e aggressiva dell'Unione Sovietica non era più un argomento tabù.

L'ideologia imperiale russa è stata anti-occidentale per secoli.

Mosca vuole essere o la "terza Roma", cioè l'unico vero centro spirituale (e politico) del mondo, o la "seconda Roma", cioè uno dei due centri esistenti.

E se nessuno dei due avrà successo, sceglierà la via del "pluralismo delle civiltà", cioè di un "mondo multipolare" in cui c'è spazio per molte potenze regionali con le loro sfere di influenza.

 Quindi c'è spazio nel pensiero del Cremlino per la coesistenza con l'Occidente.

Tuttavia, sarà sempre coesistenza a spese delle "piccole nazioni" situate tra Russia e Germania.

Come afferma la popolare storica imperialista russa” Natalia Narochnitskaya”, Berlino e Mosca sono gli unici "organizzatori dell'Europa orientale".

Solo loro, come poteri forti, hanno il diritto di decidere il destino degli "staterelli" che giacciono tra di loro.

“Andrzej Nowak” osserva che l'eredità comunista ha diversificato significativamente il repertorio della propaganda imperiale del Cremlino.

Parallelamente a brandire i suoi slogan sulla difesa dell'Ortodossia e dei valori tradizionali, la Russia ha assunto il mantello dell'uccisore del fascismo, del nazionalismo e dell'antisemitismo.

 Questo a sua volta rende la sua retorica suscettibile di attrarre un pubblico occidentale con opinioni liberali di sinistra.

 In un certo senso, è una continuazione delle vecchie tradizioni imperiali.

Dopo tutto, Caterina la Grande fu applaudita nei salotti dell'Europa occidentale con la sua pretesa di introdurre gli "ideali dell'Illuminismo" con baionette e sciabole in una Confederazione polacco-lituana sopraffatta da "oscurità e intolleranza".

Sfortunatamente, l'Occidente considera ancora l'imperialismo un male minore del nazionalismo.

 Così, Mosca ha nella manica l'asso della retorica progressista e antinazista, che è rafforzata dalla sua vittoria nella seconda guerra mondiale.

Quindi, può "convincere con successo milioni di spettatori al di fuori della Russia della tesi che, in effetti, ora sta eroicamente cercando di liberare l'Ucraina dalle grinfie dell'imperialismo statunitense, dove rimuoverà il cancro del neofascismo o dell'antisemitismo (presente anche in altri paesi che sono sfuggiti alla tutela sovietica, come gli Stati baltici e la Polonia)."

 Questi argomenti, come sottolinea l'autore del libro, trovano terreno fertile soprattutto nei paesi del Sud del mondo.

 E possono anche convincere i circoli "progressisti" dell'Europa occidentale, dove Washington è spesso trattata come un rivale più pericoloso di Mosca.

Guerra di civiltà.

La Russia come terza e ultima Roma del cristianesimo, e rifugio di sanità mentale di fronte alla crisi morale e intellettuale che sommerge l'Occidente.

La Russia come grande mediatore tradizionale, in armonia con le altre potenze "tradizionali", in particolare Germania e Francia, garantendo una pace giusta e un ordine globale in un momento di tempesta e disordini.

La Russia come ultima speranza per coloro che combattono in tutto il mondo contro l'egemonia americana e come ostacolo al ritorno del fascismo e del razzismo intorno ai suoi confini.

 La Russia difende il pluralismo di civiltà contro l’unilaterale dominazione degli "anglo-americani".

Così scrive l'autore, elencando la vasta gamma di narrazioni di propaganda che Putin usa nelle sue riflessioni pubbliche sulla storia.

 

Leggere il libro di “Andrzej Novak” può portare a una conclusione che sarà sorprendente per molti.

C'è una guerra di civiltà in corso in Ucraina.

 Tuttavia, contrariamente alle affermazioni spesso fatte, questo non è uno scontro tra l'Occidente liberale e l'Oriente conservatore.

La linea del fronte corre quasi al contrario.

Questa guerra è tra l'idea dello stato-nazione a cui è permesso di scegliere il proprio percorso di sviluppo, e il concetto di un impero che rivendica il diritto di imporre il suo modello di progresso agli altri, usando cinicamente slogan sulla lotta contro il "fascismo".

La Russia mira a costruire un mondo governato da imperi piuttosto che da nazioni.

 

 

Per quanto Tempo i Popoli Accetteranno

ancora di Farsi Prendere in Giro?

Conoscenzealconfine.it – (3 Agosto 2023) - Silvio Dalla Torre – ci dice:

 

Una delle cose peggiori che possano capitare, come ricordava Brecht, è quando il nemico fa proprie le tue parole d’ordine e ne stravolge il significato.

Ho sempre pensato che fosse necessario adottare stili di vita più sobri, arrestare la cementificazione selvaggia, preservare ed incrementare le aree verdi (parchi pubblici e boschi), favorire il trasporto pubblico in luogo di quello privato, la bicicletta in luogo dell’automobile.

In passato queste posizioni erano spesso ridicolizzate, presentate come una chimera passatista di persone che non vogliono accettare la modernità.

Oggi l’ecologismo è diventato l’ideologia dell’élite dirigente.

Con la scusa della “tutela dell’ambiente”, si cerca di imporre una perversa trasformazione antiumana e distopica.

L’obiettivo è chiaro.

Sul piano socio economico:

drastica riduzione della popolazione mondiale, distruzione della classe media nei paesi sviluppati, cancellazione della piccola impresa, amazonizzazione del commercio, lavoro a distanza generalizzato, digitalizzazione dell’istruzione, controllo capillare sulla popolazione, creazione di una plebe sussidiata, dipendente dal telefonino, dalla televisione e dalle droghe.

 Sul piano geopolitico:

separazione della Russia dall’Europa e riaffermazione dell’egemonia globale degli Stati Uniti usando il braccio militare della NATO.

Questo mostruoso progetto distopico contro l’uomo (e contro la natura) richiede la creazione di sempre nuove emergenze, le quali rendano accettabile ciò che in condizioni normali sarebbe inaccettabile.

Ecco quindi che prima abbiamo avuto l’emergenza pandemica, ora quella climatica.

 Il fatto che l’aumento della temperatura media dipenda dall’azione umana viene presentato come una verità inconfutabile.

A chi esprime dei dubbi viene affibbiato l’epiteto insultante di negazionista.

La cosa è andata talmente avanti che ogni pretesto è buono per scatenare la propaganda.

Due giorni di caldo in un’estate sostanzialmente fredda (almeno nella pianura padana) ed ecco che pennivendoli, influencer, nani e ballerine del mondo dello spettacolo, politicanti al servizio permanente (ben indennizzato) dell’oligarchia perdono ogni ritegno e si abbandonano a tirate apocalittiche.

Per quanto tempo i popoli accetteranno di farsi prendere in giro?

Capiranno i giovani, i primi bersagli di questo lavaggio del cervello, che questa retorica distopica non ha nulla a che vedere con la tutela dell’ambiente?

(Silvio Dalla Torre)

(t.me/solitudinemfaciuntpacemappellant)

 

 

 

 

TV, ZONA GRIGIA: VIETATO PENSARE.

VALE SOLO INTERROMPERE E ZITTIRE.

Visionetv.it – (3 Agosto 2023) – Giorgio Cattaneo – ci dice:

Per prima cosa, ti interrompono.

Lo fanno appena intuiscono che il tuo ragionamento – giusto o sbagliato – potrebbe decollare: suscitare attenzione, persino curiosità.

Tu non puoi ragionare, devi limitarti ad abbaiare.

Scandire slogan immediatamente riconoscibili. “Viva, abbasso”.

E questo, a prescindere dall’argomento.

Lo hanno sperimentato sulla loro pelle, ancora una volta, Francesca Donato e Francesco Toscano.

Ospiti di Zona Bianca, su Rete4, il 2 agosto.

Ospiti per modo di dire: messi lì a fare da bersaglio, sistematicamente sabotati. Voci e volti offerti in pasto a non si sa chi, per non si sa bene quale strano rito.

ZONA BIANCA, NOTTE FONDA.

Puro cannibalismo televisivo, lo si potrebbe chiamare: allegra, ordinaria macelleria post-giornalistica, verniciata di sensazionalismo per analfabeti funzionali e condita di luoghi comuni imbarazzanti.

E se il pubblico – persino quel pubblico, che si presume così affamato di rassicurazioni – avesse voluto sentire cos’avevano da dire, gli outsider?

Due alieni, esibiti come trofei.

 Prescelti oculatamente.

Lui, frontman di VisioneTv e del dissenso politico italiano (quello che ragiona).

 Lei, addirittura europarlamentare: critica, spigolosa, fuori dal coro.

Come dire: due livelli, tra loro complementari.

Quello che in Parlamento c’è già.

E quello che si candida ad accedervi, prima o poi, per dare voce al popolo invisibile cui viene sempre tolta la parola.

TOSCANO E LA DONATO.

A proposito: nei pochi minuti concessi (pochi secondi, quelli senza interruzioni) Toscano & Donato sono riusciti a dire due cose, una a testa.

Lui: a contestare frontalmente il metodo, addirittura.

Il mattatoio, incruento ma implacabile, dei talk televisivi mainstream.

 Lei: a dire – sul tema (il clima) – che oggi è la Commissione Ue a contestare l’uso spericolato e ormai globale della geoingegneria.

Paradossalmente, come per miracolo, sullo studio è sceso il silenzio – incredibile, ma vero – durante la visione del filmato con il quale la redazione, smaccatamente, intendeva esporre al pubblico ludibrio le voci eretiche del web.

 Sul tappeto: la denunciata manipolazione politica e mediatica della presunta emergenza climatica.

CLIMA: GRANDE LA BUFALA.

“Presunta”, com’è noto, in quanto negata – come tale – da 1.500 scienziati, tra cui Premi Nobel.

A scanso di equivoci, fiutando il pericolo, Zona Bianca ha esposto un cartello tombale:

 il 99,9% della comunità scientifica sarebbe concorde nell’attribuire all’emissione umana di CO2 l’andamento delle temperature terrestri.

Come dire: nessuno, sano di mente, oserebbe negare questa verità assoluta.

 Se 99 scienziati su 100 “sanno” che la colpa è solo nostra, inutile insistere.

Chi tenta di opporre altre cifre e altre spiegazioni è semplicemente un cialtrone o un mitomane, da rinchiudere in manicomio.

SCIENZIATI: SOLO 1 SU 3 INCOLPA LA “CO2”.

Trattasi invece di una fake news lapalissiana, come spiega il professor Franco Battaglia.

Nasce dalla lettura – volutamente erronea – di uno studio pubblicato nel 2013 da “John Cook” e altri otto autori.

Hanno analizzato 11.944 articoli scientifici sul cambiamento climatico (o riscaldamento globale) pubblicati tra il 1991 e il 2011.

In effetti – lo ammettono gli autori stessi – nel 66,4% per cento dei report non si parla nemmeno di “riscaldamento globale antropogenico”.

 Solo il 32,6% degli articoli sostiene l’origine antropica.

Ed è solo tra questi ultimi articoli – appena uno su tre, quindi – che si sposa la tesi del “riscaldamento globale antropogenico”.

Ecco dunque il numero magico: 97,1% (arrotondato da Zona Bianca con un bel 99,9%).

AL TELESPETTATORE NON FAR SAPERE.

Eppure, la notizia era circolata abbondantemente: sul quotidiano La Verità e sul blog di Nicola Porro, oltre che su VisioneTv.

 Verità numerica, quindi neutra, alla quale però il pubblico di Zona Bianca – a quanto pare – non merita di avere accesso.

Il pubblico deve continuare a credere, più che a sapere.

 A credere in che cosa?

Essenzialmente, in questo: che chi comanda ha sempre ragione.

 E chi si permette di obiettare qualcosa è come minimo un insolente, un pazzo visionario, un caso psichiatrico.

Un terrapiattista.

ITALIANI TERRAPIATTISTI.

E infatti:

a silenziare i ragionatori, interrompendoli e squalificandoli come imbecilli, hanno provveduto un paio di disturbatrici presenti nella trasmissione, in studio e in collegamento.

Due donne, tempestive nell’interdizione sistematica e teatralmente sceneggiata.

Una di loro, curiosamente qualificata come giornalista, si è subito premurata di sottolineare che i tipacci come Toscano (e forse anche come la Donato) fanno parte di quella genia di squilibrati – tantissimi, purtroppo – così scellerati da pensare davvero che la Terra sia piatta.

LA SCIENZAH DEL CLIMAH.

Attenzione:

 parliamo di oltre trenta milioni di persone, infatti.

Ben sei italiani su dieci – secondo la “giornalista” invitata da Zona Bianca – sarebbero convinti che il nostro pianeta non sia affatto sferico (sferoidale).

Poi è arriva anche la precisazione:

be’, no, in effetti si tratta di 6 italiani su 100, non su 10.

Meno male.

 E la fonte, di questo comunque inquietante 6% di super-citrulli nazionali?

Niente, anche qui: mistero della fede.

“Sondaggi”, si dice.

 Al pubblico deve bastare. Chiaro? Lo dicono i sondaggi.

Lo dice la Scienzah (quella del Climah).

 

ED ECCO A VOI I NEGAZIONISTI.

E appunto:

come non ascoltarli – in religioso silenzio, loro sì – i paranoici omni-negazionisti che, nella loro psicopatologia cronica, non resistono alla tentazione di collegare il male in un’unica trama?

 Prima la fobia pandemica, poi la russofobia a comando.

 E ora anche la fobia climatologica.

Ebbene: chi sono, davvero, questi dementi?

Ed ecco sfilare il serraglio, lo zoo dei mentecatti di cui ridere a crepapelle.

Nel servizio televisivo proposto, abilmente confezionato, coabitano personaggi come Massimo Mazzucco, Alessandro Meluzzi e persino Enrico Gianini.

Il quale afferma: credo esista una regia mondiale, per quanto riguarda la gestione planetaria delle cosiddette scie chimiche.

GIANINI: LA VERA STORIA.

Chi è Gianini?

 Inutile perdere tempo in spiegazioni: al pubblico di Zona Bianca non è il caso di fare le opportune presentazioni.

 Per inciso: Gianini era un operatore aeroportuale di Milano Malpensa.

Il primo, in Italia, a rivolgersi alla polizia, per i suoi sospetti sugli eventuali rilasci di sostanze tossiche in atmosfera.

Agli agenti, Gianini segnalò perdite di liquidi anomali, dalla coda e dalle ali dei velivoli, nonché la presenza di strani serbatoi supplementari dove prima c’era il vano bagagli.

 Poi si rivolse ai media indipendenti, al web.

E così andò incontro a un sacco di problemi, dopo aver ovviamente perso il lavoro.

NOI PSICOPATICI.

Ma tutto questo, evidentemente, all’ignaro pubblico televisivo non può interessare.

Anzi, non deve interessare: perché chi si pone domande scomode e pensa che qualcosa possa essere andato storto non è una persona mediamente intelligente. Nossignore: è un complottista.

Vale a dire: un individuo disturbato, che cerca altrove – nel posto sbagliato – uno sfogo per rimediare alla propria evidente infelicità esistenziale.

Seriamente:

è stato detto papale, papale, in trasmissione.

 Lo scettico non esiste più: ormai esiste solo lui, lo psicopatico negazionista.

Il cospirazionista patologico.

 L’idiota.

Ma allora – protesta inutilmente Toscano – il Machiavelli del Principe chi era?

Un povero deficiente, pure lui?

Il nonno di tutti i complottisti?

LA DURA LEGGE DEI TALK.

Ecco, Toscano. Lui e la Donato.

Che ci fanno, in trasmissioni come quelle?

Sono note come persone serie, stimate, indipendenti.

 Non legate a nessun carro di potere.

 Libere di dire quello che pensano, a costo di pagarne il prezzo.

In pratica due extraterrestri, nel pianeta chiamato Zona Grigia.

Che ci fanno, in non-luogo dove si sciorinano sconcertanti teologie pseudo-scientifiche, una dopo l’altra, sulla scorta di clamorose bufale e con tanto di statistiche inventate?

Soprattutto: che ci fanno, due persone per bene (educate, civili) in un urlatoio deprimente dove, appena ti viene concesso il microfono, vieni istantaneamente interrotto e quindi zittito?

CANNIBALI TELEVISIVI.

Perché li invitano?

Ovvio: per lasciar credere al pubblico che la trasmissione sia democratica, tollerante, pluralista.

Capace di dare ascolto a teorie eterodosse e persino strampalate, come quelle dei noti, ridicoli negazionisti psichiatrici.

E loro, perché accettano di partecipare alla tonnara sapendo in partenza che gli toccherà fare la parte dei tonni?

 Forse perché – invitati – non se la sentono (in quanto esponenti politici) di sottrarsi al confronto.

E forse (forse) perché sperano che, un po’ alla volta, persino qualcuno dei telespettatori – qualche essere umano, presente in quel pubblico – ottenga una specie di grazia, dal cielo:

venga cioè illuminato dal prodigioso, salutare beneficio del dubbio.

(GIORGIO CATTANEO)

 

 

 

NON CI SARÀ NESSUNA CRISI

MONDIALE DEL GRANO DOPO

LA FINE DELL’ACCORDO CON L’UCRAINA.

Comedonchisciotte.org - F. William Hengdahl - Markus – (03 Agosto 2023) – ci dice: 

(williamengdahl.com

 

Da quando, il 17 luglio, la Russia ha annunciato che non avrebbe rinnovato il “Black Sea Grain Initiative”, l’accordo per il grano, mediato da Turchia e Regno Unito, che consentiva all’Ucraina di esportare grano in una rotta protetta da Odessa e da altri due porti ucraini del Mar Nero, i media occidentali mainstream sostengono che il rifiuto creerà una carestia a livello globale e un’impennata dei prezzi dei prodotti alimentari.

Un attacco ucraino al principale ponte che collega la terraferma russa con la penisola di Crimea, programmato proprio per la fine dell’accordo sul grano, ha provocato un massiccio attacco di rappresaglia da parte delle forze russe, che ha danneggiato gravemente Odessa e i vicini porti di spedizione del grano.

Qual è la situazione delle forniture alimentari del “granaio d’Europa”, come veniva chiamata l’Ucraina?

Il 19 luglio sull’”Indian Express “campeggiava questo titolo:

“Il mondo si trova di fronte alla prospettiva degli ‘hunger games’ mentre la Cina fa incetta di cereali e la Russia si ritira dall’accordo “.

Inoltre, si leggeva:

“L’anno prossimo potrebbe prospettarsi una carestia mondiale a causa del ritiro della Russia da un importante accordo con l’Ucraina sui cereali alimentari e per le conseguenze dell’accaparramento di cereali da parte della Cina, il più grande consumatore di riso al mondo, ha messo in guardia un analista “.

 Il “Los Angeles Times” è stato altrettanto allarmista:

“La Russia interrompe l’accordo che permette all’Ucraina di esportare grano, dando un colpo alla sicurezza alimentare globale”.

 CNN, Yahoo e altri media occidentali hanno pubblicato storie allarmistiche simili. Nessuno di essi si è preoccupato di entrare nel dettaglio della situazione attuale.

 È molto meno allarmante di quanto affermano.

Il mondo potrebbe presto trovarsi di fronte ad una carenza di grano, ma non sarà a causa delle azioni della Russia in Ucraina.

Il 19 luglio, due giorni dopo il non rinnovo dell’accordo, i prezzi dei futures mondiali del grano erano aumentati di circa l’8%, sulla base della notizia che la Russia avrebbe considerato qualsiasi nave diretta a Odessa o in altri porti ucraini come sospetta di trasportare armi e quindi un legittimo bersaglio per i missili russi.

I media occidentali avevano poi affermato che la Russia stava causando una potenziale carestia mondiale ponendo fine all’accordo di esportazione del grano in Ucraina.

Quali sono i fatti reali?

 

Perché la Russia non lo ha rinnovato.

L’accordo, denominato “Black Sea Grain Initiative”, era stato concordato nel luglio 2022, in base al fatto che le azioni militari della Russia in Ucraina avrebbero creato gravi problemi alle forniture di grano ai Paesi africani e ad altri Paesi poveri.

La Russia aveva accettato, con il patrocinio delle Nazioni Unite, un accordo in base al quale dai porti cerealicoli ucraini, come Odessa, sarebbe stato garantito dalla Russia un passaggio sicuro nel Mar Nero, in cambio della revoca da parte dell’Occidente delle sanzioni sull’esportazione di grano e fertilizzanti russi, compresa la revoca dell’esclusione dallo SWIFT della principale banca statale russa che si occupa di esportazioni cerealicole.

 Il 22 luglio 2022 la Russia, l’Ucraina, la Turchia e le Nazioni Unite avevano raggiunto un accordo per fornire un corridoio marittimo umanitario alle navi che trasportavano cibo e fertilizzanti dai porti ucraini del Mar Nero.

 Il 18 maggio 2023, la Russia aveva prorogato l’accordo, denominato “Black Sea Grain Initiative”, per 60 giorni, fino al 17 luglio.

C’era un problema importante.

L’Occidente si era rifiutato di onorare la parte russa dell’accordo.

Secondo il portale statale russo Sputnik, “l’accordo è parte integrante di un pacchetto di accordi. La seconda parte – il memorandum Russia-ONU, che dovrebbe rimanere in vigore per tre anni – prevede lo sblocco delle esportazioni russe di cibo e fertilizzanti, la riconnessione della Banca Agricola Russa allo SWIFT, la ripresa delle forniture di macchinari agricoli, pezzi di ricambio e servizi, il ripristino del gasdotto per l’ammoniaca Togliatti-Odessa (che l’Ucraina ha sabotato nel giugno scorso) e una serie di altre misure.

Mosca sostiene che questa parte dell’accordo non è stata ancora attuata“.

 

Il 17 luglio, il giorno in cui la Russia aveva annunciato che non avrebbe rinnovato l’accordo, l’Ucraina, aiutata dall’intelligence di Stati Uniti e Regno Unito, aveva lanciato un attacco distruttivo all’unico ponte che collega la Crimea, dove si trova la base della flotta russa del Mar Nero, alla terraferma russa.

 Il ponte era stato gravemente danneggiato da un drone navale ucraino e due civili erano rimasti uccisi, mentre una terza persona era finita in coma.

Nelle notti successive, Mosca aveva lanciato una rappresaglia mortale, con grandi bombardamenti che avevano distrutto gran parte delle infrastrutture portuali di Odessa e di altri porti del Mar Nero nelle vicinanze.

 

I terminali per il grano e le infrastrutture portuali in Ucraina erano stati presi di mira dagli attacchi russi nella notte tra il 18 e il 19 luglio e avevano subito gravi danni, che richiederanno almeno un anno per essere completamente riparati, secondo il “Ministero della Politica Agraria e dell’Alimentazione dell’Ucraina”.

Una parte significativa delle infrastrutture del porto di Chornomorsk era stata messa fuori uso e 60.000 tonnellate di grano distrutte.

Erano stati danneggiati i silos di stoccaggio di commercianti e trasportatori internazionali e ucraini, come la lussemburghese-ucraina Kernel, “Viterra”, che fa parte dell’enorme gruppo svizzero “Glencore”, il più grande commerciante di materie prime del mondo, e il gruppo francese “CMA CGM”.

Secondo Mosca, non solo l’ONU e l’Occidente si sono rifiutati di onorare la parte russa dell’accordo, ma l’Occidente stava anche usando le navi protette per consegnare all’Ucraina armi NATO e di altro tipo per alimentare la guerra, un atto che difficilmente si potrebbe definire umanitario.

Grano per l’UE?

Mentre l’Occidente sosteneva che il blocco russo del traffico navale da Odessa e da altri porti ucraini stava creando un disastro umanitario in Africa e in altri Paesi poveri, il grano, insieme al mais e all’olio di girasole ucraino, non finiva nei Paesi del Sud più povero ma nell’UE, almeno, fino a quando alcune grandi rivolte di agricoltori in Polonia, Bulgaria, Romania e in altri Paesi dell’UE non avevano costretto Bruxelles a vietare temporaneamente l’importazione del grano ucraino a basso costo.

Secondo le Nazioni Unite, l’UE è stata la principale beneficiaria dell’accordo sul grano del Mar Nero:

 il 38% di tutto il grano ucraino è stato inviato in Europa, nonostante l’UE sia un esportatore netto di grano.

Un altro 30% è andato in Turchia e il 24% in Cina.

Un misero 2% è andato alle nazioni del Sud globale.

Ad aprile, di fronte alla grande rivolta degli agricoltori contro l’ondata di importazioni di grano ucraino a basso costo, Polonia, Slovacchia, Ungheria e Bulgaria avevano introdotto un divieto temporaneo sui prodotti agricoli ucraini, dopo aver visto fallire le loro ripetute richieste all’UE di Bruxelles di imporre un divieto generale e di permettere al grano di essere trasportato in Africa e in altri Stati del Sud globale, secondo l’accordo originale.

Alcuni fatti concreti dall’”USDA”.

Mentre la maggior parte delle statistiche del governo statunitense non ha molto valore, a causa di decenni di manipolazioni politiche, quelle del “Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti” sulla produzione mondiale di grano sono generalmente considerate abbastanza accurate, poiché i cartelli mondiali dell’agroalimentare dipendono da questi dati per stabilire il prezzo del grano.

Nel rapporto del 12 luglio, appena prima della fine del rinnovo dell’accordo sul grano con la Russia, il rapporto dell’”USDA”, intitolato “Grain”: World Markets and Trade, faceva osservare quanto segue:

“Mentre l’anno commerciale 2022/23 volge al termine, la Russia ha consolidato la sua posizione di primo esportatore di grano al mondo”.

Si stima che nel 2022/23 la Russia esporterà 45,5 milioni di tonnellate.

Le destinazioni principali sono il Medio Oriente, il Nord Africa e l’Asia centrale…

Si prevede che le esportazioni di grano della Russia raggiungeranno un altro record di 47,5 milioni di tonnellate nel 2023/24″.

Il “rapporto dell’USDA” prosegue parlando dell’Ucraina, dove i combattimenti hanno interessato le regioni con la miglior produzione cerealicola:

 “La superficie coltivata in Ucraina è diminuita in modo significativo a causa della guerra con la Russia.

La produzione prevista per il 2023/24 è di 17,5 milioni di tonnellate, il raccolto più scarso da oltre un decennio.

Con una forte riduzione delle forniture e l’incertezza sul futuro della “Black Sea Grain Initiative”, le esportazioni di grano dell’Ucraina per il 2023/24 sono previste in 10,5 milioni di tonnellate, con un calo di oltre il 40% rispetto alla media prebellica.

Sebbene nel 2022/23 la “Black Sea Grain Initiative” abbia aiutato l’Ucraina ad esportare 16,8 milioni di tonnellate di grano, il 39% del grano si è mosso al di fuori del corridoio cerealicolo (principalmente attraverso spedizioni via terra verso l’Europa orientale)”.

Se si sottraggono i 6,6 milioni di tonnellate di grano che sono andati nell’UE attraverso le rotte terrestri, circa 10,2 milioni di tonnellate di grano ucraino non sono attualmente trasferibili sui mercati mondiali attraverso il Mar Nero.

Tuttavia, ciò equivale quasi esattamente al volume di grano ucraino che aveva invaso i mercati locali dell’UE lo scorso anno.

La Russia promette grano all’Africa.

Il 27 luglio, in occasione del secondo “vertice annuale Russia-Africa tenutosi a San Pietroburgo”, il Presidente russo Putin ha promesso che la Russia fornirà gratuitamente grano ad alcuni Paesi africani che [in precedenza] avevano ricevuto grano dall’Ucraina:

 “Saremo pronti a fornire al Burkina Faso, allo Zimbabwe, al Mali, alla Somalia, alla Repubblica Centrafricana e all’Eritrea 25-50.000 tonnellate di grano gratis per ciascun Paese nei prossimi 3-4 mesi “.

La NATO e i principali media occidentali stanno manipolando una narrazione unilaterale per incolpare la Russia di qualcosa che le loro stesse azioni corrotte hanno causato.

La sospensione russa dell’accordo sul grano, che [i russi] dichiarano di essere pronti a riaprire, a patto che ci siano garanzie sul rispetto delle clausole a loro favore, non sta creando una catastrofe globale.

 Ciò che è molto più pericoloso per il mondo sono le azioni deliberate dell’UE e dell’amministrazione Biden per imporre tagli severi alla produzione mondiale di fertilizzanti nell’ambito della loro cosiddetta “Agenda verde a zero emissioni di carbonio”.

(F. William Hengdahl)

(williamengdahl.com)

(williamengdahl.com/gr31July2023.php)

 

 

 

 

Negazionismo climatico: cos’è

 e perché potrebbe essere la nostra fine.

Amset.ro.it – (9/apr./2022) – Redazione – ci dice:

La questione del riscaldamento globale è apparsa e appare (troppo) spesso come una disputa.

Più che come una sfida da affrontare.

Così, siamo qui a chiederci: perché è nato il “negazionismo climatico”?

Quali sono le tesi dei negazionisti?

Pensandoci bene, una discussione potenzialmente costruttiva riguarderebbe innanzitutto gli addetti ai lavori.

Che si occupano: delle cause, delle conseguenze e delle azioni da compiere.

Poi, ovviamente: amministrazioni, governi, associazioni di cittadini…e ad ognuno di noi la scelta di agire secondo determinati parametri.

C’è da dire che, questa disputa, si rivela imponente per lo più a livello mediatico! Ma non all’interno della “comunità scientifica”.

Gli accademici, infatti, concordano sul fatto che il riscaldamento globale sia causato da una (esagerata) attività antropica…alquanto irresponsabile.

(Qualcuno ricorderà quanto raccontato sulla differenza tra effetto serra naturale e antropico…per esempio.)

Insomma, gli studi condotti dall’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) parlano chiaro. E la comunità scientifica ribadisce da tempo gli stessi concetti.

Basterebbe davvero poco…per ottenere importanti risultati!

Ma allora, cos’è il negazionismo climatico?

Un fenomeno, che vuole offrire una narrativa diversa. Opposta a quella presentata dal 99% degli scienziati del mondo.

Fin dalla metà del 900 abbiamo cominciato ad avere un sentore. Il cambiamento climatico causato dall’attività umana era alle porte.

Ma, alle prove scientifiche si è accompagnato un movimento negazionista.

A quanto pare, profumatamente finanziato dall’industria dell’energia non rinnovabile.

 (Purtroppo, proprio da chi si occupa di combustibili fossili e gruppi d’interesse conservatori.)

 

Per tantissimo tempo si è nascosto e negato molto di ciò che si sapeva.

Il ricercatore “John Cook” (Climate Change Communication Research Hub della Monash University):

“Quello che stanno facendo è cercare di minare la fiducia nella scienza del clima e attaccare l’attuale movimento per il clima.”

Dove ci porterà tutto questo?

E cosa vorremmo, noi, invece?

Negazionismo climatico: tra opinionisti e studi scientifici.

Che il negazionismo climatico (o meglio, scientifico) sia stato spesso foraggiato da particolari gruppi di interesse, è un fatto accertato.

Vi racconteremo come.

Ma, attenzione, qui non stiamo parlando delle opinioni degli scettici.

C’è da fare una distinzione.

Portereste a fare la revisione della vostra auto da un musicista?

O, vi fareste operare da un ingegnere?

 Ovviamente no! 

Eppure, quando si parla di clima (e di molto altro…) sembra che per essere esperti basti avere una qualche opinione.

 O una laurea da sfoggiare.

Oggi il termine negazionismo è confuso con scetticismo.

Lo spiega “Stella Levantesi” nel libro “I bugiardi del clima”.

“In ambito scientifico, lo scetticismo è una cosa positiva (…) significa evitare di giungere ad una conclusione prima di averne le prove.”

Al contrario, chi nega la scienza del clima non segue questo processo. Anzi, tende a scartare qualsiasi prova in conflitto con le proprie convinzioni.

Il problema di questi personaggi è che, continuano a rifiutare il consenso scientifico.

Che inevitabilmente emerge quando una certa teoria continua a dimostrare di funzionare.

Spesso, poi, la presenza di falsi esperti sui media riesce a dare l’illusione di un dibattito ancora aperto.

 Anche se le pubblicazioni dicono il contrario.

Per gli scienziati l’incertezza è il pane quotidiano. Quindi, raramente si esprimono in termini assoluti. Tanto nei loro lavori, sia quando comunicano con il pubblico.

Niente è mai assolutamente certo o funziona al 100%.

Ma se, come nel caso del riscaldamento globale antropogenico, le prove continuano ad accumularsi, l’incertezza statistica non può diventare un alibi.

 (Per rifiutare il consenso e non agire di conseguenza!)

Sostenibilità ambientale: che cos’è per noi.

Breve storia di chi ha imparato a negare.

Perché “si dice” che il negazionismo climatico è stato supportato da diversi finanziatori?

In molti conoscono la vicenda di Exxon. (Una tra le maggiori compagnie petrolifere.)

Avvisata già nel 1978 che esisteva:

“una finestra di cinque o dieci anni prima che si presentasse la necessità di prendere decisioni difficili riguardanti l’attuale strategia energetica.”

 

…per -evitare- il cambiamento climatico.

Nel 1982, una superpetroliera fu inviata in spedizione per monitorare l’anidride carbonica nell’aria e nell’acqua marina.

Questa comunicò ai vertici che il riscaldamento atmosferico avrebbe portato “cambiamenti significativi” nel clima terrestre.

La spedizione venne interrotta all’improvviso!

Risalgono a quel periodo massicce campagne mediatiche (sistemiche e organizzate).

Per convincere il pubblico che gli scienziati fossero divisi sul tema.

Milioni di dollari furono riversati in think tank conservatori e lobby. Mettendo in piedi una robusta macchina negazionista.

Secondo un rapporto del 2019:

 le cinque maggiori compagnie di petrolio e gas quotate in borsa hanno investito oltre un miliardo di dollari nei tre anni successivi all’Accordo di Parigi.

(ExxonMobil, Royal Dutch Shell, Chevron, BP e Total.)

Per diffondere messaggi fuorvianti legati al clima.

La Repubblica, tra gli altri, afferma che questo tipo di disinformazione ha avuto diversi effetti negativi.

Polarizza il pubblico;

Inquina la discussione contraddicendo le informazioni accurate;

Influenza il modo in cui gli scienziati interagiscono con il pubblico.

Soprattutto: rallenta la risposta politica alla crisi climatica!

 

I messaggi su cui il negazionismo fa leva, inoltre, si sono evoluti nel tempo. Adattandosi al fatto che il 99,9% degli scienziati concorda sui fatti.

E che sempre più persone percepiscono l’urgenza della crisi.

Ce ne aveva parlato anche “Leonardo Di Caprio” in” Before the Flood”. (Documentario del 2016).

Oggi, lo dimostra una tra le più comprensive analisi, condotta sui contenuti pubblicati da blog e think tank conservatori.

(Ingranaggi possenti della macchina del negazionismo climatico.)

Studi sul fenomeno del negazionismo climatico?

Vediamo cosa afferma questa analisi sul negazionismo climatico, pubblicata su “Nature Scientific Reports.”

Esaminando i contenuti che fanno riferimento al cambiamento climatico di: 33 importanti blog e 20 think tank conservatori. (1998 – 2020).

Gli studiosi hanno cercato di capire come le tecniche di propaganda anti-ambientalista siano cambiate nel tempo.

Gli autori affermano, che i principali donatori dietro alle pubblicazioni sono: famiglie, aziende e società di investimento con enormi interessi nel settore dell’energia fossile.

I contenuti presi in analisi sono stati divisi in cinque categorie:

il riscaldamento globale non sta succedendo;

le emissioni di gas serra da parte degli esseri umani non stanno causando il riscaldamento globale;

l’impatto del cambiamento climatico non è nocivo;

le soluzioni al cambiamento climatico non funzioneranno;

la scienza e i movimenti ambientalisti non sono affidabili.

Infine, secondo l’analisi:

oggi, solo circa il 10% delle argomentazioni spinte dai think tank conservatori, va apertamente contro il consenso scientifico sul riscaldamento globale.

(Mettendo in dubbio modelli o dati.)

Sempre più comuni sono gli attacchi all’integrità della scienza stessa e alle soluzioni proposte.

Così:

gli scienziati sono “allarmisti”;

i politici e i media sono “di parte”;

gli ambientalisti degli isterici seguaci del “culto climatico”.

Secondo i negazionisti: le soluzioni proposte rovineranno l’economia e metteranno in difficoltà le persone.

Ma, in realtà, è stata fatta una stima accurata dei costi!

Dal gruppo di lavoro della “Banca Centrale Europea” (BCE) guidato da” Laura Parisi”.

(Esperta in stabilità finanziaria. Ha una laurea in fisica, un dottorato di ricerca in economia, studia come i cambiamenti climatici potrebbero influire sulla stabilità del sistema finanziario.)

Se i governi attuassero, ora, una transizione ecologica ordinata e graduale, bisognerebbe investire tra l’1 e il 2% del Pil.

Per un periodo di 5 anni al massimo.

Dopodiché, sul lungo periodo, andremmo incontro a benefici (economici) da non sottovalutare.

 

Negazionismo climatico: significato e trasformazione.

Insomma, forse non si tratta semplicemente di negazionismo climatico.

Di scettici, di dibattiti tra opinionisti, né di “pessimismo”!

Forse, la parola chiave è: disinformazione!

“La disinformazione attorno alle soluzioni è davvero il futuro della disinformazione sul clima.”

Afferma il ricercatore “John Cook”.

Andiamo oltre il negazionismo climatico. Prendiamoci cura dell’ambiente.

L’analisi dei dati mostra che “un certo genere di propaganda” tende a moltiplicarsi nei periodi immediatamente precedenti alle conferenze internazionali sul clima e ogni volta che i governi affrontano il tema con una nuova legge.

Così, in una lettera aperta, 11mila ricercatori hanno spiegato al mondo (nel 2019) che la comunità scientifica è unanime: “i cambiamenti climatici esistono e dobbiamo agire!”

Scienziati, provenienti da 153 paesi, hanno firmato la lettera aperta, pubblicata sulla rivista “BioScience”.

I cambiamenti climatici sono una realtà e sono provocati in gran parte dall’uomo.

Impongono una transizione immediata in senso ecologico: nelle nostre economie, nelle nostre società e anche nei nostri stili di vita!

E quando si parla di stili di vita, non si tratta di rinunce ma di investimenti.

 

Nessuno soffrirà così tanto: mangiando meno carne, limitando l’uso della plastica, scegliendo sistemi di mobilità sostenibili…

Certo, alle nostre azioni occorre affiancare quelle dipendenti dai decisori politici.

Prosegue la lettera:

“Dobbiamo mobilitarci per proteggere e restaurare gli ecosistemi della Terra”.

Puntando sulle rinnovabili e riducendo gli agenti inquinanti. Salvaguardando le popolazioni con maggiore giustizia sociale ed economica, ottimizzando le risorse alimentari e raggiungendo un’economia a zero emissioni di CO2.

Per scongiurare la catastrofe climatica? C’è bisogno di una trasformazione, che possiamo attuare!

Ma, che in questo momento, non ci avviciniamo nemmeno all’ambizione necessaria.

A dirlo è il report” State of climate action 2021”.

Pubblicato da una coalizione di organizzazioni di cui fanno parte, tra gli altri, il “World resources institute e Climate action tracker”.

Facciamo attenzione all’Infodemia: il Virus siamo noi.

Nel documentario “Infodemic”, i divulgatori scientifici “Luca Perri” e “Barbascura X” approfondiscono il tema del negazionismo climatico.

(E il motivo per cui potrebbe essere la nostra fine…)

Non solo! Ci raccontano grazie ad illustri collaboratori “cos’è l’infodemia e quale influenza ha su ognuno di noi”.

 

Infodemia s. f.:

“Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili.”

Chi nega l’evidenza, forse non riesce a orientarsi.

Forse, non può accettare la realtà che ci circonda.

Ma, la verità, è che oltre a quanto di positivo sta accadendo, grazie a singoli individui e associazioni di cittadini (del mondo), veniamo spesso in contatto con la devastazione degli ecosistemi e il sovrasfruttamento delle risorse.

Se non vogliamo credere al fatto che il “riscaldamento globale antropogenico” sia la causa di tanti, troppi effetti negativi…possiamo osservare quello che accade Tutto Intorno A Noi.

Da una parte:

Deforestazione.

Inquinamento.

Cementificazione selvaggia.

Dall’altra, si tenta di (re)agire grazie all’economia circolare, all’energia sostenibile, misurando la propria impronta ecologica…

Purtroppo, ha ragione il nostro caro matematico “Piergiorgio Odifreddi”, quando, nell’introduzione al suo libro “La democrazia non esiste”, cita il Marchese di Condorcet (1793):

“La società che non viene illuminata dai pensatori, finisce ingannata dai ciarlatani.”

 

Forse, per oltrepassare qualsiasi schieramento e negazionismo (climatico e non solo) …la strada da percorrere è quella di un sincero, amorevole, ben Essere.

Che non può esistere completamente sul livello personale, se non si riflette positivamente nel sociale.

(È incredibile che tanti scienziati del clima non sappiano che la CO2 sia più pesante 4 volte della nostra atmosfera.

Quindi come possa essere la causa dell’effetto serra la CO2,  se non potrà mai giungere - in modo naturale - sulla volta superiore dell’atmosfera:  infatti questo  è un mistero insoluto essendo la CO2 più pesante 4 volte dell’aria che respiriamo! N.D.R.)

 

 

 

 

 

Il negazionismo climatico:

cos’è e com’è oggi.

Duegradi.eu - Sara Chinaglia – (4 dicembre 2022) – ci dice:

Esiste ancora chi nega che il clima stia cambiando?

Grazie all’affinamento delle tecniche di comunicazione, possiamo dire che oggi siamo al cospetto di una nuova era del negazionismo climatico.

Quando è nato il negazionismo climatico?

Per capire quando è nato il negazionismo climatico dobbiamo fare un tuffo nel passato e oltreoceano, negli Stati Uniti degli anni ’60, quando i primi studi fecero emergere preoccupazioni su quello che veniva chiamato “effetto serra” e sulle conseguenze catastrofiche che avrebbe avuto sulle calotte polari qualora non fosse stato fermato in tempo.

Successivamente, molte compagnie petrolifere cominciarono a condurre ricerche interne a tal proposito, senza mai pubblicarle o renderle accessibili al pubblico.

Recenti studi hanno infatti fatto emergere che gli scienziati impiegati alla Exxon dimostrarono, già nel 1977, che effettivamente esisteva un legame tra i combustibili fossili e l’aumento di Co2 in atmosfera.

Siccome i risultati delle ricerche non sono mai stati pubblicati e, anzi, sono sempre stati tenuti nascosti, si può dire che questa sia stata la scintilla che fece nascere il negazionismo climatico.

L’esistenza di un “effetto serra di origine antropica” venne poi confermata da sempre più studiosi, arrivando anche alle orecchie della popolazione che cominciò, giustamente, a preoccuparsi e a chiedere a gran voce una soluzione.

 Le aziende inquinanti, responsabili dell’aumento dei gas serra in atmosfera, iniziarono dunque a chiedersi come fare a continuare a macinare profitti indisturbate.

Fu così che crearono la “Global Climate Coalition”, un gruppo di lobby attivo formalmente dal 1989 al 2001, che cercò di assumere figure competenti in grado di trovare una soluzione per poter continuare ad emettere indisturbate.

Questa arrivò da E. Bruce Harrison, esperto in public relations, che si può dire essere il padre del negazionismo climatico.

La sua strategia consisteva nel “reframing the issue”, ossia “riformulare la questione”.

Egli trasformò l’effetto serra non più un fatto grave e reale, ma in un’eventualità incerta tanto quanto le sue conseguenze.

 Ciò bastò per mandare letteralmente in tilt l’opinione pubblica, che in un battito di ciglia si riempì di teorie complottiste, di studiosi che rifiutavano l’esistenza dell’effetto serra e di scienziati corrotti che partecipavano a programmi televisivi per fare “propaganda negazionista”.

Che fine ha fatto il negazionismo climatico?

Fortunatamente, l’avanzamento della conoscenza scientifica ha fatto sì che oggi l’esistenza del cambiamento climatico di origine antropica sia accolta pressoché all’unanimità dalla “comunità scientifica”.

Uno studio pubblicato nel 2021, infatti, ha analizzato più di 88 mila articoli scientifici dimostrando che il 99% degli scienziati e delle scienziate concorda che il cambiamento climatico esiste e sia stato causato dalle attività umane (e in particolare, ad esempio, dalla combustione delle fonti fossili, promossa e portata avanti da aziende altamente inquinanti come Exxon).

Ciò nonostante, un “report della Yale University “mostra che esiste ancora una consistente parte di popolazione mondiale che ritiene che il cambiamento climatico non stia accadendo, non sia causato dall’uomo e che, più in generale, non sia una priorità.

La maggior parte di queste persone provengono da Paesi altamente vulnerabili alle conseguenze del cambiamento climatico, come Yemen, Bangladesh, Cambogia, Laos e Haiti.

 In Indonesia, ad esempio, solo il 18% della popolazione intervistata ritiene che il cambiamento climatico sia causato dall’uomo.

Questo risultato non ci dovrebbe cogliere di sorpresa, poiché non è altro che il risultato di anni e anni in cui sono stati dati spazio e voce al negazionismo climatico.

Alla luce dell’attuale (quasi) unanimità della comunità scientifica nel considerare il cambiamento climatico di origine antropica, il negazionismo climatico ha, quindi, dovuto cambiare veste e passare dall’essere sfacciato e palese, a essere ormai sostituito da una più sofisticata versione composta da strategie comunicative.

Quali sono?

Deviare il discorso.

Gli studiosi del cambiamento climatico hanno già dimostrato che le strategie per combatterlo, riassunte nei termini “mitigazione” e “adattamento”, dipendono da concrete riforme politiche.

Deviare il discorso verso ciò che dovrebbero fare gli individui deresponsabilizzando, invece, il ruolo della politica è una delle strategie per portare avanti il negazionismo climatico.

Ne abbiamo visto un chiaro esempio nelle notizie circolate durante l’estrema siccità che ha colpito l’Italia nell’estate 2022, costellata di spaventose immagini di un fiume Po quasi completamente secco.

Il dibattito che ne è emerso ha visto spostare la responsabilità in capo agli individui, con veri e propri manuali di consigli ai singoli cittadini invitandoli a docce meno lunghe, a prediligere una dieta a base vegetale, a non lavare le proprie vetture, etc.

Divisone.

Un’altra strategia consiste nel creare attrito tra attivisti e popolazione.

 Un esempio molto recente riguarda il dibattito sorto a seguito delle manifestazioni degli attivisti ambientali che hanno “imbrattato” importanti opere d’arte.

 Il dibattito che ne è emerso, molto polarizzato, ha infuocato l’opinione pubblica, che ha cominciato a discutere e prendere le parti, dividendosi tra chi riteneva giuste queste proteste e chi invece le riteneva eccessive.

Tutto questo non ha fatto che distrarre, ancora una volta, la popolazione dal capire chi sono i veri responsabili del cambiamento climatico e chi dovrebbe costruire delle concrete politiche ambientali.

Doomismo climatico.

In questa strategia fa capolino la parola inglese “doom” (condanna) e raccoglie tutte quelle azioni e modalità comunicative volte a far credere che ormai sia troppo tardi per agire.

Questa strategia non fa che diffondere un senso di impotenza e di “ansia climatica”, portando molti a rinunciare a lottare e a chiedere politiche più concrete.

Ritardare.

Completamente opposta alla strategia precedente, questa consiste nel rassicurare i più preoccupati, sostenendo che il cambiamento climatico è sempre accaduto, che è tutto sotto controllo, che le conseguenze non sono poi così gravi e che, soprattutto, c’è tempo per agire.

 Questa strategia ha consentito di accettare e considerare rassicuranti e sufficienti i piani a lungo termine di riduzione delle emissioni di gas climalteranti promossi da numerose aziende (soprattutto petrolifere) e stati (quando in realtà sono giudicati lontanissimi dalla risoluzione della crisi climatica).

Con quali modalità si portano avanti queste strategie comunicative?

Per portare avanti queste strategie sono necessarie delle tattiche che servono a screditare la ricerca scientifica.

 Queste possono essere riassunte nell’acronimo “FLICC,” coniato da “John Cook”, dottore in computer science e creatore del videogioco “Cranky Uncle” pensato per insegnare le tattiche di negazionismo climatico.

 

Fake experts (falsi esperti):

consiste nell’utilizzare una persona o un’istituzione non qualificata come fonte attendibile.

Un esempio è quello della lettera di 1200 scienziati e scienziate che negano l’esistenza del cambiamento climatico.

 Nessuno (o quasi) tra loro, però, è competente in climatologia.

(Non occorre essere molto scienziati pe capire che la CO2 - essendo 4 volte più pesante dell’aria- non può “volare” liberamente nella stratosfera! N.D.R.)

Logical fallacies (errori logici):

si basa sul portare avanti argomentazioni che non seguono il filo logico del discorso, come uno dei manifesti più noti del negazionismo climatico: “il clima sta cambiando perché è sempre cambiato”.

Impossible expectations (aspettative irrealizzabili):

consiste nel richiedere alla scienza delle prove inverosimili al fine di screditarla.

 Un esempio è un’altra affermazione tipica dei negazionisti climatici:

“com’è possibile prevedere gli effetti del riscaldamento globale se non si può prevedere con certezza nemmeno il meteo della prossima settimana?”.

Questo fa anche leva sulla scarsa conoscenza della popolazione sulle differenze tra meteo e clima.

Cherry picking:

 con questo termine, letteralmente “selezionare le ciliegie” si allude all’attività con cui si raccolgono attentamente le notizie necessarie a supportare una certa teoria (come se fossero le “ciliegie migliori”) ignorando tutte le altre.

Possiamo considerare “cherry picking” sostenere che il riscaldamento globale non esiste perché un dato periodo è particolarmente freddo.

Conspiracy theories (teorie del complotto):

con questa strategia vengono create teorie “assurde” che vedono il cambiamento climatico come frutto di un piano malvagio.

Un ottimo esempio di personaggio pubblico che ha utilizzato questa tecnica per portare avanti teorie negazioniste è l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

Conclusioni.

Il negazionismo climatico porta con sé molte conseguenze più complesse della semplice inazione climatica.

 Tra queste c’è la diffusione della consapevolezza che la scienza non è un’entità incorruttibile (lo fosse mai stata) ed estranea a giochi di potere, ma di fatto si dimostra, a volte, incline alle corruzioni e manomissioni da parte di forze economiche più grandi (spesso coincidenti con specifiche lobby).

(La “Black Rock” finanziaria? N.D.R.)

In un momento storico come quello attuale, in cui mai come ora la scienza è fondamentale e la “scienza spazzatura” circola pericolosamente con sempre maggiore facilità, l’incrinarsi della fiducia nei confronti della comunità scientifica da parte della popolazione non può che portare a risultati catastrofici.

 L’unica, grande responsabilità dell’individuo, oggi, deve consistere nel cercare di essere sempre vigile e non lasciare che tali manipolazioni costituiscano una distrazione o un rallentamento nel chiedere una vera lotta all’emergenza climatica.

 

 

 

Chi sono “i bugiardi del clima.”

Rollingstone.it - GIUSEPPE LUCA SCAFFIDI – Stella Levantesi – (7 GIUGNO 2021) – ci dicono:

 

Nel suo libro omonimo, la giornalista Stella Levantesi racconta "potere, politica e psicologia" di chi cerca di convincerci che la crisi climatica non esiste.

L'abbiamo intervistata.

 

La consapevolezza della crisi climatica non è mai stata tanto diffusa come oggi:

la “comunità scientifica” è ormai unanime sull’origine antropica del riscaldamento globale, e la maggioranza dell’opinione pubblica chiede di intervenire tempestivamente per contrastarne gli effetti.

L’attivismo di Greta Thunberg (scienziata del clima? N.D.R) la crescita del movimento “Extinction Rebellion” e gli scioperi per il clima in tutto il mondo hanno contribuito alla diffusione di una rinnovata sensibilità, sottolineando come il riscaldamento globale rappresenti la sfida più urgente del nostro tempo.

Questa presa di coscienza è coincisa con il raggiungimento di alcuni obiettivi cruciali per il futuro del Pianeta.

 Basti pensare alla Cop21 di Parigi e alla conseguente adozione del primo accordo giuridicamente vincolante sul clima, con cui è stato riconosciuto esplicitamente l’impegno delle parti a mantenere l’aumento della temperatura mondiale al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali;

 o, per restare sull’attualità, alla storica sentenza di fine maggio con cui un tribunale dell’Aja ha imposto alla compagnia petrolifera Shell di ridurre le sue emissioni di CO2 del 45% entro la fine del 2030.

Eppure, per anni, diversi attori hanno agito nell’ombra allo scopo di ritardare e ostacolare qualsiasi tipo di regolamentazione al settore fossile e seminare dubbi sulla scienza del clima per confondere l’opinione pubblica.

Già a partire dagli anni ’70 e ’80, gli scienziati interni all’azienda Exxon avevano scoperto il legame tra l’attività di bruciare combustibili fossili e l’aumento delle emissioni.

Secondo i documenti e i promemoria interni alla compagnia, la Exxon sapeva tutto quello che c’era da sapere per affermare l’esistenza del cambiamento climatico e ammettere la propria responsabilità.

Eppure, invece di cambiare rotta, ha fatto di tutto per nasconderlo, costruendo una campagna di disinformazione sul clima durata decenni.

Nel suo libro” I bugiardi del clima”  

potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo, uscito recentemente per Laterza, la giornalista “Stella Levantesi “definisce questa macchinazione come “la più grande opera di insabbiamento della storia recente”.

Le abbiamo fatto qualche domanda per comprendere quale sia, oggi, lo stato dell’arte del negazionismo climatico.

Anche perché, parafrasando l’autrice, “I negazionisti non sono spariti. Semplicemente hanno adottato un nuovo linguaggio e nuove tattiche”.

(Loro sanno che la CO2 è 4 Volte più pesante dell’aria e quindi non può volare nell’alta atmosfera! N.D.R.)

Chi sono, oggi, i negazionisti del riscaldamento globale?

I negazionisti di oggi sono i negazionisti di ieri.

 In senso stretto, i negazionisti climatici sono coloro che negano l’esistenza del cambiamento climatico e la responsabilità antropica della crisi climatica.

 Ma non è solo questo che si intende per negazionismo.

 Non è necessario negare l’esistenza del cambiamento climatico tout court per essere negazionista.

 Fare di tutto per ritardare le politiche climatiche, seminare il dubbio sulla scienza del clima, confondere il pubblico, il greenwashing, questi sono tutti diversi aspetti della narrazione negazionista.

 Il negazionismo, poi, è diverso dal semplice atto di negazione perché non si limita a rimuovere la realtà, ma ne crea una alternativa.

Il negazionismo è strategico e intenzionale perché fa leva su motivazioni politiche ed economiche ed è un fenomeno strutturato e organizzato.

 Per questo si parla di macchina del negazionismo climatico, che è composta da aziende di combustibili fossili, lobby e gruppi di pressione, associazioni industriali, think tank di stampo conservatore e la cosiddetta “camera dell’eco”.

Quali sono le principali strategie retoriche adottate da chi nega l’emergenza climatica?

La macchina negazionista fa ricorso a diversi strumenti per mettere in atto la campagna di disinformazione climatica:

i finanziamenti, la propaganda politica e le strategie di comunicazione come la manipolazione mediatica, la manipolazione dei dati e le argomentazioni retoriche.

Tra quelle più utilizzate oggi c’è quella di etichettare come “allarmisti” e “catastrofisti” gli ambientalisti, i climatologi e chi lotta per il clima.

(Non si può distruggere il mondo quando tutto dipende dal fatto reale che la CO2 è 4 volte più pesante dell’aria! N.D.R.)

Tra quelle più ridicole, ma anche più efficaci, poi, c’è l’argomentazione retorica per cui la presenza di freddo equivale all’assenza del riscaldamento globale.

Attraverso questa argomentazione i negazionisti sfruttano a proprio vantaggio alcune lacune di conoscenza sul tema, spesso anche basilari, come la distinzione tra meteo e clima.

 

Un’altra ancora è l’uso strumentale degli impatti socio-economici delle politiche climatiche, per cui i negazionisti spesso sottolineano il rischio di perdere posti di lavoro a causa delle misure climatiche.

 Legata a questo c’è anche quella che, in gergo, viene chiamata “falsa scelta” che inquadra – falsamente – le soluzioni della crisi climatica come una scelta obbligata tra clima ed economia, per cui se si salva uno si sacrifica l’altra.

 Questa è una cosiddetta fallacia logica, un errore di ragionamento, anche questo sfruttato a vantaggio dei negazionisti.

Tra le altre tattiche più comuni ci sono anche il cherry-picking, che letteralmente significa cogliere le ciliegie, per cui si isolano dei dati e si sopprimono le prove che potrebbero portare alla conoscenza del quadro completo di informazione, e l’argumentum ad hominem”, strategia per cui invece di criticare i contenuti dell’argomentazione, si attaccano il carattere, le motivazioni o altre caratteristiche della persona che mette in campo l’argomentazione.

Nel capitolo 7 de” I bugiardi del clima” approfondisco molte di queste argomentazioni retoriche e tattiche negazioniste.

In generale, qualsiasi strategia che possa promuovere una confusione intenzionale sul tema per ritardare l’azione sul clima, è per i negazionisti un’azione vincente.

Quali interessi si celano dietro il negazionismo climatico?

Ci sono molteplici motivazioni dietro gli obiettivi dei negazionisti.

La prima ha a che fare con il potere e il denaro.

Le aziende di combustibili fossili non potevano permettere che la propria attività fosse compromessa, e agire per ostacolare le politiche climatiche era fondamentale per mantenere quello che viene chiamato il” business as usual” e, di conseguenza, per continuare a guadagnare.

Tuttavia, dire che gli interessi dei negazionisti sono solo di tipo economico sarebbe riduttivo.

In realtà hanno molto a che fare con la politica e la psicologia, per questo il sottotitolo de” I bugiardi del clima” è “Potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo”.

Gli interessi dei negazionisti, infatti, riflettono un sistema di valori che spesso si sovrappone con l’identità politica conservatrice negli Stati Uniti, e populista di destra o sovranista in Europa e in Italia.

Nei casi estremi, dove l’identità negazionista coincide con quella ultraconservatrice ci sono anche altri elementi che interagiscono e si rafforzano tra loro come la xenofobia e la misoginia.

Come per tutte le tendenze cospirative, poi, alla base c’è un sentimento in particolare: la paura.

I negazionisti sono terrorizzati dal perdere il proprio status quo e i propri benefici sociali.

 In questo contesto, i principali obiettivi della macchina negazionista sono ritardare e ostacolare qualsiasi tipo di regolamentazione al settore fossile, di politica climatica o ambientale;

 seminare dubbi sulla scienza del clima e confondere l’opinione pubblica dando l’impressione che il dibattito sul cambiamento climatico sia ancora in corso – i negazionisti per primi sanno che un dibattitto non è mai nemmeno esistito visto che, come ha documentato un’indagine che ha vinto il premio Pulitzer, già dagli anni ’70 e ’80 alcune aziende fossili già erano a conoscenza del collegamento tra la propria attività e l’aumento delle emissioni e di temperatura.

Ancora oggi, questi tre elementi, soprattutto il primo e il terzo, sono tra i maggiori ostacoli all’azione climatica globale.

Che ruolo hanno giocato i media nel veicolare il messaggio negazionista?

Alcune piattaforme mediatiche hanno fatto (e tuttora fanno) da eco alle strategie negazioniste, per questo si parla di “camera dell’eco”.

 Molte testate giornalistiche, televisioni e altri media fungono da “bacino” metaforico nel quale la disinformazione viene amplificata e la narrazione negazionista alimentata.

Questo avviene in particolare con testate conservatrici o di destra per i motivi di cui sopra.

 Tuttavia, accade anche che testate considerate “progressiste” o “liberali” promuovono il messaggio negazionista quando cadono nella trappola del cosiddetto “resoconto equilibrato”, per cui il giornalismo deve tenere conto “di entrambi i lati della storia”, riportando affermazioni o messaggi della lobby negazionista come se fossero espressioni da un punto di vista diverso sul tema, che sarebbe un po’ come se tutte le volte che si parlasse della Terra, si dovesse includere anche la prospettiva terrapiattista.

Il cambiamento climatico non è un’opinione, è un fenomeno scientifico.

 E come tale va trattato.

Offrire prospettive “alternative” non è libertà di stampa, ma giornalismo irresponsabile e disinformato.

Tra l’altro questo crea anche problematiche legate all’accuratezza, la trasparenza e al rapporto di fiducia con il pubblico che dovrebbero essere priorità del metodo giornalistico.

Nel tuo libro parli di come la narrazione del negazionismo climatico sia sempre più incentrata sul dualismo tra “realisti” e “allarmisti”.

Ti andrebbe di parlarcene meglio?

Oggi negare l’esistenza del cambiamento climatico e la responsabilità antropica nella crisi climatica sta diventando sempre più difficile anche per i negazionisti che, quindi, si ritrovano a dare priorità a nuove strategie per poter ritardare il più possibile l’azione climatica.

Come menzionato in precedenza, “allarmista” è il termine che i negazionisti usano per screditare chi si batte per il clima e la scienza del clima.

Sfruttando la connotazione negativa del termine “allarmista”, i negazionisti del cambiamento climatico screditano un legittimo avvertimento scientifico, e associandosi, invece, al termine “realista”, ribadiscono un elemento fondante del negazionismo climatico, quello di sembrare razionali e veritieri.

Questa strategia è stata promossa molto dall’”Heartland Institute”, uno tra i più agguerriti gruppi del negazionismo climatico che negli anni ha ricevuto finanziamenti dalle aziende fossili e di tabacco per promuovere la narrazione negazionista sia negli Stati Uniti che in Europa.

Nel 2019, Giulio Corsi, dottorando all’università di Cambridge, ed io abbiamo riscontrato una tendenza in crescita dell’utilizzo dei termini “realista” e “allarmista” da parte dei negazionisti sui social media.

Questo, ovviamente, non è un caso.

Il 2019 ha rappresentato un anno di svolta per l’azione e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulla crisi climatica ed è un fatto che la macchina del negazionismo climatico entra sempre a pieno regime quando l’azione globale sul clima diventa una priorità più alta per le politiche governative.

Anche in Italia non siamo completamente al riparo dai tentativi di mistificazione dei negazionisti climatici.

 Mi viene in mente l’esempio del professor Franco Battaglia, autore di saggi apertamente negazionisti e, in passato, invitato a più riprese nei vari talk show in veste di opinionista.

Ci sono altri negazionisti “nostrani”?

In Italia, uno dei più problemi più grandi è proprio questo legato alla comunicazione sulla crisi climatica di cui ho appena parlato.

 Ma è chiaro che ci sono, anche qui, come negli Stati Uniti, scienziati negazionisti e “falsi esperti” che spesso sono anche consulenti per il settore fossile.

 Non sorprende quindi che alcuni di questi individui promuovono la narrazione e il messaggio negazionista come, per esempio, è accaduto a settembre del 2019, alla vigilia del “Summit sul Clima” di New York, con una lettera del gruppo “Clintel” diretta all’ONU e all’Unione Europea che sosteneva che “non c’è nessuna emergenza climatica” e che la CO2 è “cibo per piante”.

Tra le 500 firme della lettera, più di 100 sono italiane.

I contenuti della lettera sono stati giudicati non corretti a livello scientifico e i miti negazionisti sono stati più volte sfatati dagli scienziati del clima.

Molti dei firmatari, tra l’altro, non erano nemmeno scienziati del clima ma ingegneri, geologi, dirigenti di azienda o lobbisti.

Questo, comunque, non ha impedito alla lettera di avere una relativa visibilità sia in ambito politico che sulla stampa, soprattutto di destra.

 Spesso, poi, alcuni politici ancora puntellano i discorsi pubblici con le tipiche affermazioni retoriche negazioniste.

Forse il rischio più alto adesso è quello legato al “greenwashing”, per le aziende ma anche per la dimensione politica. 

Il punto, comunque, è che i negazionisti, anche in Italia, hanno voluto rendere la scienza più politica, perché solo così un fenomeno scientifico può diventare dubitabile e quindi si possono mettere in discussione più facilmente la sua esistenza così come la sua urgenza.

 

 

 

La Casa Bianca pensa di oscurare il sole:

ecco il piano per bloccare (in parte) le radiazioni solari.

 

msn.com – (3-8-2023) - Elisa Cardelli – Casa e Giardino – ci dice:

Un report della Casa Bianca rivela che i ricercatori americani si stanno impegnando allo scopo di oscurare parzialmente il sole.

Questa necessità nasce dalla volontà di cercare di bloccare le radiazioni solari.

L’amministrazione Biden sembra essere interessata ad esplorare la possibilità di affrontare il cambiamento climatico attraverso l’impiego della geoingegneria, che consiste nel modificare parzialmente l’impatto della luce solare sul nostro pianeta.

Questa iniziativa, che potrebbe sembrare tratta da un racconto di fantascienza, è supportata da un report molto dettagliato redatto dal Congresso della Casa Bianca.

Tuttavia, è importante affrontare questa prospettiva con cautela e scetticismo, poiché non si conoscono ancora gli effetti reali che potrebbe avere sulla Terra.

L’amministrazione Biden sembra essere consapevole di questa incertezza, ma è disposta ad intraprendere un percorso verso l’”ignoto” nel tentativo di combattere il riscaldamento globale.

Il progetto della Casa Bianca.

In un report di 44 pagine, la Casa Bianca spiega la volontà della ricerca americana di impegnarsi allo scopo di oscurare (parzialmente) il sole.

A svelare la notizia è stato il quotidiano “Politico” che ha spiegato nel dettaglio la situazione.

Secondo la ricerca, potrebbe essere possibile modificare la luminosità solare al fine di abbassare la temperatura del pianeta a un livello sufficiente per riportarlo alle condizioni precedenti all’effetto serra globale.

(Infatti l’effetto serra globale non può essere opera dell’uomo, in quanto è stato dimostrato che la Co2 pesa 4 volte più dell’atmosfera. Ossia la Co2 non può volare in alto, ma solo raso terra o sulla superfice del mare. N.D.R)

Sul report della Casa Bianca si legge:

Un programma di ricerca sulle implicazioni scientifiche e sociali della modifica della radiazione solare (Srm) consentirebbe decisioni più informate sui potenziali rischi e benefici dell’”Srm” come componente della politica climatica, insieme agli elementi fondamentali della mitigazione e dell’adattamento delle emissioni di gas serra senza la Co2.

“Srm” offre la possibilità di raffreddare il pianeta in modo significativo su una scala temporale di pochi anni.

L’Unione Europea è contraria.

(L’unione europea dovrebbe essere contraria a divulgare notizie false che riguardano la CO2. Questa pur essendo più pesante 4 volte dell’aria dovrebbe essere capace di volare nella stratosfera per creare l’effetto serra! N.D.R.)

Nonostante la Casa Bianca abbia tranquillizzato sul fatto che per il momento non ci sono ancora dei piani concreti in corso, il resto del mondo si preoccupa per queste ricerche.

Nei giorni scorsi, la “Commissione dell’Unione Europea” si è espressa in maniera molto ferma sulla questione e ha messo in guardia su quelle che potrebbero essere le “conseguenze accidentali della manipolazione del sistema planetario”.

Secondo l’UE, dunque,

i rischi, le ricadute e le conseguenze impreviste poste da queste tecnologie sono scarsamente comprese, e le regole, le procedure e le istituzioni necessarie non sono state sviluppate.

Portare avanti delle pratiche sconosciute di geoingegneria come appunto la modifica delle radiazioni solari potrebbero causare dei rischi nuovi per le persone e anche per gli ecosistemi.

L’aumento degli squilibri energetici tra le varie nazioni potrebbe essere notevole così anche come la nascita di conflitti e questioni etiche, legali e politiche.

Ma la Casa Bianca pensa di oscurare il sole.

La notizia che svela come la Casa Bianca stia pensando di oscurare parzialmente il sole per bloccarne i raggi è di grande rilevanza.

 

Chi fa da megafono ai negazionisti climatici.

 Internazionale.it - Stella Levantesi – (6 luglio 2022) – ci dice:

 

Il Po è ai livelli più bassi degli ultimi settant’anni e la siccità, già preannunciata lo scorso inverno dall’assenza di piogge per quasi cento giorni, sta mettendo a rischio la risorsa più preziosa che abbiamo: l’acqua.

 La scienza del clima afferma che il cambiamento climatico può aumentare le probabilità e l’intensità dei fenomeni siccitosi.

D’altronde non bisogna essere scienziati per unire i puntini: un mondo più caldo aumenterà la probabilità di siccità in alcune aree.

E non solo di siccità.

Le morti sulla Marmolada, il 3 luglio, sono conseguenza anche delle elevate temperature, ha affermato il climatologo Luca Mercalli:

 lo zero termico sopra i quattromila metri e la fusione accelerata del ghiacciaio hanno causato l’accumulo di acqua dentro un crepaccio favorendo il distacco.

Eppure, c’è chi ancora fa “negazionismo climatico”.

Nel panorama anglosassone a fare da cassa di risonanza a queste teorie ormai sono rimasti in pochi.

 Si tratta soprattutto di piattaforme conservatrici o ultraconservatrici come” Fox News”, il che non è una novità.

Quando sono altre piattaforme, meno schierate politicamente rispetto a Fox News, a fare disinformazione sulla crisi climatica, questo avviene attraverso le prospettive di compagnie o lobby fossili con interessi economici e politici, più che un negazionismo assoluto sul clima.

(Per “negazionismo climatico” si intende forse che la CO2, essendo più pesante 4 volte dell’aria, non può volare nella stratosfera per creare l’effetto serra antropico? N.D.R.)

Questo tipo di contenuti suscita reazioni molto diffuse, soprattutto tra coloro che sono a conoscenza della scienza del clima e della necessità urgente di agire per ridurre le emissioni.

Poche settimane fa, per esempio, sul canale Cnbc è andato in onda un contenuto su “Exxon Mobil” che ha promosso il business della compagnia attraverso un’azione combinata di “greenwashing” (cioè la strategia di comunicazione di alcune aziende che presentano come ecosostenibili le loro attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo) e “fake news”, ha denunciato l’autrice ed esperta di comunicazione sul clima “Genevieve Guenther”.

“Quanto vi ha pagato la Exxon?”, ha twittato Guenther.

Molti esperti, tra cui “Robert Brulle”, un noto sociologo che studia il negazionismo climatico da decenni, hanno reagito in modo simile.

 “Questo è un classico esempio di propaganda dei combustibili fossili.

Ha tutte le caratteristiche della propaganda fuorviante:

 presentazione selettiva dei fatti, mancanza di prospettive critiche e presentazione unilaterale della prospettiva della “Exxon Mobil”, ha affermato “Brulle”.

In Italia il pubblico riceve messaggi contraddittori che alimentano la prospettiva negazionista.

In Italia invece il negazionismo climatico è diffuso anche su piattaforme, canali e trasmissioni che vengono considerati in qualche modo autorevoli, e non solo da testate politicamente schierate a destra come succede nello scenario mediatico anglosassone.

Il risultato è che il pubblico riceve messaggi contraddittori che alimentano la prospettiva negazionista che, a sua volta, fa leva sugli stessi elementi ormai da decenni:

 instillare il dubbio sulla scienza del clima, creare confusione il più possibile e fare propaganda politica.

Solo poche settimane fa, in prima serata, durante il programma televisivo Carta bianca, è stato dato spazio e voce a posizioni negazioniste.

Nell’ultima settimana di giugno sul Mattino sono stati pubblicati due interventi.

 In uno l’intervistato ha potuto affermare, tra le altre cose, che i dati dell’Onu sono “sbagliati ed esageratamente caldi in partenza”, che le informazioni scientifiche sono “diffuse in maniera propagandistica” e che la Terra è calda per via di “cicli millenari e molte speculazioni”.

 Nell’altra intervista si affermava che “il caldo record non è una novità” ed è condizionato dall‘“influenza dei cicli solari”.

 Che il “cambiamento climatico sia colpa del Sole” è una teoria che risale agli anni ottanta e novanta, ed è già stata dimostrata come falsa e rifiutata dall’”Intergovernmental panel on climate change” dell’Onu.

(Infatti il Sole la Casa Bianca lo vuole offuscare. Infatti la Co2 non può essere la sola causa del riscaldamento globale. La Co2 rimane a contato della terra e del mare in quanto é 4 volte più pesante dell’aria! N.D.R.)

In un altro articolo pubblicato su Il Foglio, il 24 giugno, si è affermato “altro che siccità, la vera crisi dell’acqua in Italia è ideologica”.

Il 5 luglio, sulla prima pagina del Giornale ancora si legge il titolo, a proposito delle morti sulla Marmolada, “Gli sciacalli dei ghiacci” e la frase “i gretini strumentalizzano la strage”.

 Il capovolgimento è una tecnica usata spesso dai negazionisti: accusano “l’altra parte” di un atteggiamento che loro per primi mettono in campo – in questo caso, la strumentalizzazione.

Anche l’anno scorso, quando il ciclone detto medicane (dalla fusione dei termini inglesi “mediterranea hurricane”, “uragano mediterraneo”) ha colpito la Sicilia, un negazionista climatico italiano aveva potuto affermare in tv che l’attività umana “non ha nulla a che fare” con il cambiamento climatico.

 Il negazionismo puntella ancora i contenuti di molte piattaforme mediatiche in Italia, in varie forme.

 E, se non è aperto negazionismo, è minimizzazione: “la situazione non è poi così grave”, “fate allarmismo”, “ci adatteremo”.

Quest’ultima argomentazione sta diventando il mantra di chi, avendo capito che sostenere che “il cambiamento climatico non esiste” o che “la crisi climatica non è responsabilità antropica” è sempre più indifendibile, utilizza la capacità di adattamento per sminuire gli impatti della crisi climatica.

Inoltre questa argomentazione implica che l’impegno per attenuare gli effetti del cambiamento climatico è inutile e inquadra l’adattamento come “l’unica risposta possibile”, sostengono i ricercatori di “Discourses of climate delay”, un’analisi che prende in esame i ragionamenti utilizzati da chi ha interesse a procrastinare e rallentare l’azione sul clima.

Queste argomentazioni, promosse da alcune testate e trasmissioni, danno al pubblico la falsa percezione che ci sia incertezza sull’esistenza e sulla gravità della crisi climatica, e che il dibattito scientifico sul cambiamento climatico sia ancora in corso.

 Il “falso equilibrio” dell’informazione non fa altro che reiterare e alimentare l’idea fuorviante che il cambiamento climatico, anche se esiste, non è poi così grave, che non riguarda l’Italia, che gli eventi meteorologici estremi e i fenomeno causati dall’aumento della temperatura come quelli che si stanno verificando in tutta la penisola e in molte altre aree del mondo non vi hanno nulla a che fare.

Ma come scrive l’ex presidente di Legambiente” Roberto Della Seta” su Twitter, il problema è alimentato anche dai “grandi media” che “commentano allarmati” gli effetti dei cambiamenti climatici e poi “ricominciano a dare voce” a chi vuole procrastinare sulla decarbonizzazione.

(Ma “decarbonizzazione” vuol dire dare la colpa del cambiamento del clima alla Co2. E questo si che è una bugia. Come può la Co2 più pesante 4 volte dell’aria creare l’effetto serra? N.D.R.)

Il meccanismo è simile a quello di una cassa di risonanza:

alcuni mezzi di comunicazione, promuovendo argomentazioni e prospettive negazioniste che non potrebbero essere più lontane dalla scienza e dai fatti, dando voce a chi offre argomentazioni per rallentare l’azione sul clima fungono da camera dell’eco e, nei casi più estremi, offrono una rappresentazione errata e fuorviante della realtà.

La differenza tra l’aperto negazionismo di alcuni individui e la propaganda e il greenwashing dei combustibili fossili è che la seconda è più insidiosa e più difficile da riconoscere ma, in mancanza di dati sul cambiamento climatico, la prima può essere altrettanto dannosa.

È sempre più evidente che, in molti casi, anche quando si parla della crisi climatica come fattore che contribuisce a un fenomeno come la siccità, manca l’anello di collegamento fondamentale:

 il legame tra il cambiamento climatico e la sua causa principale, le emissioni prodotte dai combustibili fossili, dall’industria agroalimentare e da altri settori inquinanti.

 Il tema energetico, in molti casi, appare irrilevante se si parla di siccità o di razionamento dell’acqua.

Ma come si può costruire un dibattito costruttivo sulla crisi climatica e, di conseguenza, delle azioni concrete se le cause del problema vengono costantemente sminuite o ignorate?

Il cambiamento climatico è un moltiplicatore di minacce, quindi va a stratificarsi su vulnerabilità preesistenti e discriminazione strutturali.

Se la crisi climatica viene comunicata a compartimenti stagni, come può il pubblico comprenderne le implicazioni reali?

 Se non si rendono chiari i collegamenti di causa-effetto come possono una cittadina o un cittadino comprendere che l’aumento dei prezzi del gas o dell’elettricità, per esempio, sono strettamente legati a come si comportano le aziende energetiche e di combustibili fossili che, a loro volta, sono strettamente legate alle emissioni e, quindi, al riscaldamento globale?

 Se si continua a promuovere il negazionismo e l’ostruzione all’azione per il clima come può un elettorato comprendere quanto è cruciale scegliere una candidata o un candidato politico che agisca concretamente e urgentemente per il clima?

Ecco il nocciolo della questione.

 Confondere le persone e distrarle dalla realtà delle cose le rende molto più vulnerabili alla disinformazione e al greenwashing.

 E questo fa gioco alle aziende di combustibili fossili e a chi ha interesse a rallentare la transizione energetica ed ecologica.

Se parte della disinformazione è conseguenza di superficialità e negligenza, un’altra parte è intenzionale e strategica, per ragioni ideologiche, economiche e politiche.

 Queste fanno leva anche su un’altra questione fondamentale che ha a che fare con dinamiche cognitive, più che comunicative o politiche:

 c’è un meccanismo di rimozione del la minaccia del cambiamento climatico, la quale non viene percepita come qualcosa di imminente e che avrà un effetto diffuso (anzi, che ha già un effetto diffuso), ma come un problema quasi astratto, lontano nel tempo e nello spazio, e che non ci toccherà mai da vicino.

Il tema viene quindi spesso trattato e percepito come un problema non problema, un fenomeno che esiste, ma viene dopo altri più importanti.

 Il risultato di questa dinamica è che ignora un fatto fondamentale:

il cambiamento climatico è un moltiplicatore di minacce, quindi va a stratificarsi su vulnerabilità preesistenti e discriminazione strutturali che possono avere a che fare con la salute, la condizione socioeconomica o le disuguaglianze di genere, per esempio.

 Lo spiegano bene “Abbie Veitch” e “Khalil Shahyd “nei loro articoli pubblicati più di due mesi fa, prima della decisione della corte suprema americana di abolire il diritto all’aborto: la crisi climatica è anche un problema di giustizia riproduttiva, la giustizia riproduttiva è giustizia climatica.

Sottolineare tutti questi nessi significa, innanzitutto, fare luce su più di cinquant’anni di scienza del clima che, volendo semplificare al massimo, si potrebbero riassumere così:

più emissioni = aumento della temperatura globale = aumento di frequenza e intensità di eventi meteorologici estremi.

 Il continuo procrastinare della politica e delle aziende ci ha già catapultati nel mezzo della crisi climatica e ci sta portando verso scenari di aumento della temperatura con conseguenze estremamente serie per gli ecosistemi, la vita e la salute degli esseri umani

. Ci sono continui dati a supporto di questo.

Tra i più recenti, un nuovo rapporto di oltre quaranta gruppi, pubblicato da “Oil change international”, ha rilevato che le principali compagnie petrolifere e del gas statunitensi ed europee, inclusa l’italiana” Eni”, “non riescono ancora a soddisfare il minimo indispensabile per allinearsi all’Accordo di Parigi”.

Le promesse e gli impegni di queste aziende sono tutt’altro che credibili, conclude il rapporto, visto che stanno pianificando più di duecento progetti di espansione dei combustibili fossili da qui al 2025.

Ma finché l’informazione sulla crisi climatica non viene fatta in maniera accurata e costruttiva, le piattaforme mediatiche condivideranno parte del peso di questa responsabilità.

E con questa, deve esserci anche la scelta di distanziarsi il più possibile da chi ha inquinato, continua a inquinare e fa di tutto per nasconderlo.

Questo deve significare anche agire in maniera “scomoda”, come rifiutare finanziamenti o sponsorizzazioni.

 

All’opinione pubblica bisognerebbe fornire innanzitutto le basi della crisi climatica: cos’è, da cosa è causata e perché è un problema.

(La Co2 non è un problema perché rappresenta la vita stessa sulla terra. Essendo 4 volte più pesante dell’aria Dio l’ha creata per difendere l’umanità. Se la Co2 fosse stata più leggera dell’aria sarebbe fuggita dall’atmosfera terrestre, lasciano morire l’umanità e la vita vegetale! N.D.R.)

Una volta chiarite le basi, che possono sembrare banali ma in moltissimi casi ancora mancano, sarebbe utile fornire gli strumenti per riconoscere la disinformazione e le strategie negazioniste o di ostruzione all’azione per il clima, in modo tale da poter distinguere un’informazione fattuale da una fabbricata e fuorviante.

 Infine, è necessario approfondire gli effetti della crisi climatica, non solo in termini fisici ma anche nelle interconnessioni con l’aspetto sociale, la politica, l’economia e così via.

Tutto questo va fatto tenendo a mente soprattutto un elemento: si deve fare affidamento su fonti autorevoli, su scienziati del clima, su esperti di comunicazione, su scienziati sociali con esperienza sul tema e su cittadini, lavoratori, attivisti che per primi stanno subendo gli effetti della crisi climatica, non su negazionisti che nel 2022 ancora promuovono idee come “è colpa del Sole” o su rappresentanti delle compagnie fossili che inquinano e nascondono la propria responsabilità nella crisi climatica da decenni.

La domanda non può più essere se e quando arriverà il cambiamento climatico.

 È già qui ed è già grave. Quanto ancora andranno avanti alcune piattaforme mediatiche a ospitare negazionisti climatici?

 Quanto ancora si continuerà a ignorare la responsabilità e l’azione di chi ha contribuito a causare la crisi climatica?

Quanto tempo ancora verrà perso?

 

 

 

 

“Non c’è nessuna emergenza climatica”,

 500 scienziati scrivono alle Nazioni Unite.

Europa.today.it – Tommaso Lecca – (30 settembre 2020) – ci dice:

 

La petizione pone l’accento sulla variabilità naturale delle temperature e sostiene che “la CO2 fa bene alla natura”.

Firmano oltre cento italiani tra cui Prestininzi, Prodi, Zichichi e Battaglia

“La CO2 è il cibo delle piante, la base di tutta la vita sulla Terra e non è un inquinante”.

 È quanto sostengono 500 accademici e ricercatori di tutto il mondo che, in dissenso con la maggioranza della comunità scientifica, ritengono “esagerate” le previsioni sul riscaldamento globale e mettono in dubbio le responsabilità umane sull’aumento delle temperature.

“Non c'è nessuna emergenza climatica”, si legge nella petizione che chiede uno stop al “dannoso e irrealistico piano di azzeramento della CO2 entro il 2050”, adottato dalle istituzioni europee e dal Governo italiano.

Con 113 firme, gli accademici italiani sono i più numerosi nel “network globale di 500 scienziati e professionisti”.

L'archivio geologico e i modelli climatici.

La lettera indirizzata al segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, denuncia che “i modelli climatici su cui si basa attualmente la politica internazionale non sono adeguati al loro scopo”.

 “L'archivio geologico - prosegue il documento - rivela che il clima della Terra è variato finché il Pianeta è esistito, con fasi naturali fredde e calde”.

 I firmatari prendono quindi di mira le previsioni attuali che “molto probabilmente esagerano l'effetto dei gas serra come la CO2”.

"La CO2 fa bene".

Gli studi più citati dal movimento ambientalista, secondo gli scienziati negazionisti dell’emergenza climatica, “ignorano il fatto che arricchire l'atmosfera con CO2 è benefico”.

“Non ci sono prove statistiche che il riscaldamento globale stia intensificando uragani, alluvioni, siccità e simili calamità naturali, o rendendoli più frequenti”, si legge nel documento che si oppone a quanto invece sostenuto dalla gran parte degli studiosi.

La petizione italiana.

Seppure diverso nei toni e nei contenuti, il documento negazionista dell’emergenza climatica riprende gli argomenti della “Petizione sul riscaldamento globale antropico” indirizzata ai presidenti della Repubblica e del Consiglio da 90 scienziati italiani, in gran parte geologi e geofisici.

Nella petizione si definisce “scientificamente non realistico” dare “all’uomo la responsabilità del riscaldamento osservato dal secolo passato ad oggi”.

 “I modelli di simulazione climatica non riproducono la variabilità naturale osservata del clima e, in modo particolare, non ricostruiscono i periodi caldi degli ultimi 10.000 anni”, si legge nella petizione italiana.

Il comitato promotore riunisce, tra gli altri, gli accademici Uberto Crescenti, già presidente della Società Geologica Italiana, Alberto Prestininzi, Franco Prodi e Franco Battaglia.

Il fisico Antonino Zichichi è invece il primo firmatario.

 Gli stessi nomi si trovano tra le liste dei firmatari della lettera in inglese inviata alle Nazioni Unite, che verrà presentata a Oslo il 18 ottobre e, in contemporanea, in Italia nelle aule del Senato.

 

 

 

Il “debunking” dei 1.107 “scienziati”

che negano l’emergenza climatica.

Facta.news.it – (Ago. 25, 2022) - Camilla Vagnozzi – ci dice:

 

Il clima è uno degli argomenti di cui più spesso si è parlato durante quest’estate, sia online che offline.

 Negli ultimi mesi abbiamo rilevato diversi filoni narrativi appartenenti alla disinformazione in tema cambiamento climatico, sia in Italia che all’estero.

Le diverse narrative, veicolate tramite notizie false, vogliono convincere che il cambiamento climatico non esiste o che non dipende dalle attività umane o, ancora, che le energie rinnovabili, l’elettrico o la raccolta differenziata siano in realtà processi inutili o dannosi.

Il primo filone, quello più apertamente negazionista, è oggi tra i più corposi ed è degli ultimi giorni la notizia di un documento, diventato virale soprattutto sui social network, che dimostrerebbe l’inesistenza dell’emergenza climatica.

Stando a chi l’ha condiviso, sarebbe stato redatto da «1.100 scienziati».

Nel documento, intitolato “There is no emergency”, si legge che l’aumento delle temperature registrato negli ultimi anni sulla Terra sarebbe del tutto normale, che gli studi sul riscaldamento globale sarebbero inaffidabili, che la CO2 non avrebbe alcun ruolo inquinante e che i disastri naturali non sarebbero collegabili ai cambiamenti climatici.

Si tratta, in tutti i casi, di tesi tipiche dei negazionisti del clima e di informazioni false e fuorvianti, pericolose per la salute del nostro Pianeta.

 Facciamo poi sin da subito un’importante precisazione:

i firmatari del documento non sono tutti scienziati e nemmeno tutti climatologi. Rientrano nell’elenco, infatti, figure professionali di vario titolo e non per forza collegate né al mondo della scienza, né a quello della ricerca sul cambiamento climatico.

Capiamo meglio di che cosa stiamo parlando e perché le informazioni riportate sono errate.

“There is no climate emergency”

Il documento diventato virale negli ultimi giorni, e oggetto della nostra analisi, è scritto in lingua inglese e intitolato “There is no emergency” (in italiano, “Non c’è alcuna emergenza”).

È stato redatto dal “Climate Intelligence Group” (Clintel), una fondazione indipendente che, stando a quanto riportato sul proprio sito, «opera nei settori del cambiamento climatico e della politica climatica». “Clintel” è nata nel 2019, fondata dal professore di geofisica” Guus Berkhout” e dal giornalista “Marcel Crok”.

 Secondo quanto scoperto da “Brendan De Melle” di “Desmog”,

 (Bblog che approfondisce diverse tematiche collegate al clima e riscaldamento globale) “Clintel” avrebbe dei legami con l’industria dei combustibili fossili e con think thank di destra, molti già noti per aver portato avanti diverse campagne di disinformazione sul clima.

“There is no emergency” è un documento lungo complessivamente 38 pagine ma, dal punto di vista contenutistico, è per lo più occupato dall’elenco dei firmatari, suddivisi per Paese.

Solamente due pagine sono, invece, dedicate al clima.

In una vengono riassunti i sei principali punti che “Clintel” intende sottolineare per denunciare l’assenza di un’emergenza climatica (li esamineremo tra poco).

Nella seconda pagina dedicata al clima, è invece presente un’immagine artificiale che mostra un paesaggio (visibilmente modificata per rendere più luminose alcune parti), accompagnata da un breve paragrafo di testo che critica i modelli climatici e la loro affidabilità.

Chi sono i firmatari.

“There is no emergency” è stato sottoscritto da 1.107 persone, provenienti da diversi Stati;

168 firmatari sono italiani.

Sui social network, dove il testo è diventato particolarmente virale e ha ricevuto un discreto successo, si parla di «scienziati».

In realtà, le cose sono ben diverse:

oltre a esserci diversi firmatari che non appartengono in alcun modo al mondo della scienza, anche quelli che vi appartengono non è detto siano climatologi e che, quindi, si occupino di clima o abbiano redatto degli studi affidabili in materia. Per intenderci: così come non tutti i medici sono anche ortopedici, non tutti gli scienziati sono anche climatologi.

Guardando al nostro Paese, ad esempio, i firmatari sono per lo più professori, docenti, fisici, astrofisici, ingegneri e qualche geologo.

 Non manca però chi si è identificato come il «fondatore di gruppi Facebook» dedicati all’ambiente, i liberi professionisti del settore idraulico, i geometri e anche dei comuni lettori o pensionati.

Complessivamente sono 41 i Paesi coinvolti, dall’Australia agli Stati Uniti.

Dando un’occhiata ai firmatari degli altri Paesi, emerge come la varietà dei settori professionali coinvolti non sia una prerogativa solo italiana, ma comune anche agli altri Stati.

In diversi casi ci sono professioni che hanno poco o nulla a che fare con la scienza dei cambiamenti climatici.

Infine, è importante precisare che parte dei firmatari sono in qualche modo legati a multinazionali operanti nel settore dell’estrazione di idrocarburi (e, quindi, non imparziali negli interessi).

Fatta chiarezza sul documento, passiamo alla sua analisi.

Natura, uomo e riscaldamento globale.

Secondo “Clintel” il clima della Terra è sempre stato variabile, «con fasi naturali fredde e calde» e «non sorprende che ora stiamo vivendo un periodo di riscaldamento».

 In realtà, le cose sono più complesse di così.

Se è vero, come abbiamo già raccontato, che delle variazioni della temperatura terrestre sono state registrate anche in passato, bisogna però tenere conto che l’aumento delle temperature degli ultimi anni è eccezionale.

Come ricostruito dalla Nasa, l’attuale riscaldamento sta avvenendo ad un ritmo mai visto negli ultimi 10mila anni.

Stando all’ultimo rapporto dell’agenzia federale americana che si occupa di oceanografia, meteorologia e climatologia (Noaa), dal 1880 la temperatura terrestre è cresciuta di 0,08°C per decennio, ma dal 1981 la crescita è passata a 0,18°C.

Inoltre, secondo i dati forniti, ancora una volta, dalla Nasa, tra il 2000 e il 2014 la temperatura della Terra è aumentata ogni anno rispetto alle temperature medie registrate tra il 1951 e il 1980.

Diciotto dei diciannove anni più caldi della storia del Pianeta sono avvenuti dopo il 2000.

La crescita della CO2 nell’atmosfera dopo la rivoluzione industriale. (Fonte: Nasa)

Ribadiamo, infine, che la responsabilità dei cambiamenti climatici è, stando alle Nazioni Unite, soprattutto delle attività umane che, con le proprie attività quotidiane, causa «pericolosi e diffusi sconvolgimenti nella natura» che «colpiscono la vita di miliardi di persone in tutto il mondo».

Della stessa opinione è anche la comunità scientifica, ma ci arriveremo tra poco.

Quanto ne sappiamo sul riscaldamento globale.

Secondo” Clintel” «il mondo si è riscaldato significativamente meno di quanto previsto dall’IPCC»,

il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite.

 «Il divario tra il mondo reale e il mondo modellato ci dice che siamo lontani dalla comprensione del cambiamento climatico».

Inoltre, le politiche climatiche si baserebbero su «modelli inadeguati» con «molte carenze» che «esagerano l’effetto dei gas serra» e ignorano i benefici della CO2.

In realtà, gli studi sul cambiamento climatico sono affidabili e la loro veridicità è sempre più confermata.

I modelli climatici a cui “Clintel” fa riferimento sono indispensabili per elaborare gli scenari climatici, ipotizzando così l’evoluzione del clima sia a livello regionale che mondiale.

 Oggi questi sistemi sono molto affidabili e lo dimostra il confronto tra i dati climatici reali (e, dunque, quelli effettivamente registrati “dal vivo” in un dato periodo) con i dati precedentemente elaborati dai modelli.

Facciamo un esempio:

 uno studio realizzato nel 2019 da ricercatori della “University of California, del Massachusetts Institute of Technology” e della “Nasa” ha mostrato che, in generale, i modelli sull’evoluzione del clima hanno previsto con precisione il riscaldamento globale degli ultimi 50 anni.

 Per farlo, sono stati elaborati i dati estrapolati da 17 modelli utilizzati tra il 1970 e il 2007 ed è emerso che il clima è effettivamente cambiato in quella direzione. Guardando al futuro, i modelli sono sempre più affidabili, anche perché sviluppati con tecnologie di ultima generazione.

Per quanto riguarda, in particolare, la presunta inaffidabilità delle previsioni dell’Ipcc, si tratta di critiche spesso mosse all’organizzazione e finalizzate a screditarne l’operato.

Nel 2010 il The Guardian aveva indagato il fenomeno, trovando un (forse due, ma non vi era certezza per il secondo) possibile errore all’interno di un report.

Si trattava di una proiezione errata sull’erosione dei ghiacciai, ma era un errore di fonte: chi aveva redatto il report non aveva utilizzato i dati corretti pubblicati precedentemente dall’Ipcc, ma un’altra fonte che non si era dimostrata inaffidabile.

D’altra parte, come raccontato sempre dal “The Guardian”, i modelli climatici sono molti (oltre a quelli dell’Ipcc, ci sono, ad esempio, quelli del “National Center for Atmospheric Research” degli Stati Uniti, quelli del “Geophysical Fluid Dynamics Laboratory” o del “Met Office” del Regno Unito), spesso diversi gli uni dagli altri e interessati a studiare fenomeni differenti, il che può causare confusione o poca fiducia agli occhi del pubblico.

Molto dipende dall’argomento della ricerca, ma sull’esistenza dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale i modelli climatici sono affidabili.

Come hanno raccontato studiosi e ricercatori al “The Guardian”, la solidità di questi modelli è data dal fatto che sono basati su regole e calcoli matematici, delle vere e proprie equazioni in grado di descrivere i flussi d’aria e i rapporti tra il riscaldamento del Sole e la capacità della Terra di inviare parte di quel calore nello Spazio.

Non mancano poi i casi in cui la complessità dei modelli climatici (come, ad esempio, il dover tenere conto di numerosi aspetti legati a diversi settori della natura – ghiacci, temperature, permafrost, nuvole) li rende meno precisi.

 Un esempio sono i modelli climatici sui cambiamenti nelle nuvole, ancora troppo complessi per essere modellati accuratamente a causa delle piccole dimensioni delle particelle o dell’enorme distanza.

Il ruolo della CO2.

Se è vero, come sostenuto da “Clintel”, che l’anidride carbonica è «essenziale» per la vita sulla Terra, bisogna però chiarire che cosa si intende con sostanza «inquinante».

Per Clintel la CO2 non lo è.

Di per sé, nessuna sostanza è inquinante fino a quando non nuoce alla vita o altera in maniera significativa le caratteristiche fisico-chimiche dell’ambiente.

Sulla Terra la” CO2 contribuisce al riscaldamento globale”, non fa solo del bene alle piante e all’agricoltura, come erroneamente sostenuto dai firmatari del documento che stiamo analizzando.

 

Ricordiamo infatti che le emissioni di CO2 sono tra le principali cause della crisi climatica in corso, tanto che recentemente si è tornati a parlare della possibilità di catturare e stoccare la CO2 emessa per rimuoverla dall’atmosfera.

(È incredibile che si possa credere che la Co2, pesante 4 volte più dell’aria, posa esser “rimossa” dall’atmosfera: infatti la Co2 non si trova  affatto nell’alta atmosfera ma molto, molto vicino alla terra e al mare! N.D.R.)

Il ruolo della CO2 è infatti particolarmente significativo perché fa parte dei cosiddetti gas serra, che occupano la parte medio-bassa dell’atmosfera.

(La co2 essendo 4 volte più pesante dell’aria si trova sempre a contatto della terra e del mare! N.D.R.)

Qui l’anidride carbonica, insieme al metano, agli ossidi di azoto e ai gas fluorurati, lascia passare i raggi solari, ma assorbe le radiazioni emesse dalla Terra, trattenendole.

(I raggi solari raggiungono la terra ed il mare. La Co2 trattiene le radiazioni emesse dalla terra o dal mare, ma non crea mai una cupola di gas serra! N.D.R.)

In questo modo incide sull’aumento della temperatura della superficie del nostro Pianeta.

In condizioni normali l’attività della CO2 è fondamentale perché contribuisce alla creazione di una temperatura terrestre che permette la vita.

In sua assenza, il nostro clima sarebbe molto più freddo.

Oggi, però, l’accumulo di CO2 è tale da imprigionare quantità di calore troppo alte, rendendo il nostro Pianeta simile ad una serra.

(La co2 riscalda l’aria, ma questa essendo più leggera della Co2 vola verso l’alto dell’atmosfera. N.D.R.)

Come riportato dalla Commissione europea, «nel 2020 la concentrazione di CO2 nell’atmosfera superava del 48 per cento il livello preindustriale (prima del 1750)».

Sono le attività umane le principali responsabili di questa situazione:

gli alti tassi di crescita dell’anidride carbonica sono in gran parte legati ai fenomeni di combustione utilizzati per le attività umane, principalmente per gli autoveicoli e la produzione di energia elettrica.

L’attività di deforestazione, l’allevamento di bestiame, i fertilizzanti azotati e i gas fluorurati sono, insieme all’attività umana, gli altri principali responsabili dell’aumento delle emissioni.

Riscaldamento globale e disastri naturali.

Secondo “Clintel”, «non ci sono prove statistiche che il riscaldamento globale dovuto all’aria  stia intensificando gli uragani, inondazioni, siccità e simili calamità naturali, o rendendole più frequenti».

 Al contrario, vi sarebbero «ampie prove del fatto che le misure di mitigazione della CO2 siano tanto dannose quanto costose».

Anche qui, qualcosa non torna.

 

Ad ottobre 2020 l’”Un Office on disaster risk reduction “(Undrr), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa del contrasto alle catastrofi naturali, ha pubblicato un report di denuncia in cui veniva riportato un decisivo aumento dei disastri naturali che negli ultimi venti anni si sono verificati sulla Terra.

Dalle 4.212 calamità naturali registrate tra il 1980 e il 1999, alle 7.348 tra il 2000 e il 2019.

 I dati mostrano, stando all’Undrr, come gli «eventi meteorologici estremi siano arrivati a dominare il panorama delle catastrofi nel 21° secolo».

Il rapporto individuava nel cambiamento climatico il maggiore responsabile dell’incremento dei disastri naturali, con una crescita che  negli ultimi venti anni ha riguardato soprattutto le grandi inondazioni (pari al 40 per cento del totale degli eventi), i temporali (28 per cento), gli incendi e la siccità.

(Ma il riscaldamento climatico dell’aria dovuta al sole non ha alcun rapporto con la Co2 presente sulla terra o sul mare! N.D.R.)

Ma non solo:

secondo il “Global Assessment Report 2022” stilato dall’Onu, il mondo dovrà affrontare in media nel 2030 ogni anno circa 560 disastri naturali, contro i circa 400 del 2015.

Stando a quanto riportato, «le azioni umane continuano a spingere il pianeta verso i suoi limiti esistenziali ed ecosistemici» e «l’intensificarsi degli impatti dei cambiamenti climatici» contribuisce a rendere meno sicura la vita sul nostro Pianeta.

Numero di eventi catastrofici 1970–2020 e aumento previsto 2021–2030.

Per quanto riguarda, invece, le «dannose» e «costose» misure di mitigazione della CO2 denunciate da “Clintel”, si tratta di un discorso ampio e complesso.

Prendendo, ad esempio, il caso dello stoccaggio della CO2, è vero che si tratta di una tecnologia controversa con vantaggi e svantaggi.

Se, da un lato, sembra una buona soluzione per ridurre l’emergenza climatica, dall’altra incontra diversi limiti (i costi, i processi e l’efficienza) e, dal punto di vista della produzione di energia, è incapace di reggere il confronto con le energie rinnovabili.

L’emergenza climatica esiste, (ma non è colpa della CO2! N.D.R.)

Infine, i firmatari del documento che stiamo analizzando concludono sostenendo che «non c’è emergenza climatica. Pertanto, non c’è motivo di panico e allarme» ed esprimono la propria contrarietà per una politica zero-CO2 entro il 2050.

Al contrario, il cambiamento climatico esiste.

I dati scientifici che provengono sia da fonti naturali (come i ghiacci, le rocce e gli alberi) che da apparecchi moderni (come i satelliti) mostrano i segnali del cambiamento climatico in corso.

 D’altra parte, l’aumento delle temperature che abbiamo vissuto negli ultimi anni insieme alle sempre più frequenti notizie relative allo scioglimento delle calotte glaciali provano che il nostro Pianeta si sta riscaldando per colpa del sole.

Stando alla scienza, è ormai innegabile che le attività umane hanno prodotto i gas atmosferici responsabili di intrappolare una quantità eccessiva di energia solare all’interno del  sistema terrestre, il che ha riscaldato l’atmosfera, l’oceano e la Terra stessa, portando a rapidi e diffusi cambiamenti sul nostro Pianeta.

(Se sono gas atmosferici non possono comprendere la  Co2, in quanto questo gas 4 volte più pesante dell’aria non può salire nell’atmosfera. N.D.R.)

Come ricostruito da “Inside climate news”, uno studio del 2013 ha mostrato che circa il 97 per cento delle pubblicazioni scientifiche sui cambiamenti climatici era d’accordo su un punto:

il cambiamento climatico sta avvenendo e ciò accade con una velocità maggiore rispetto a quanto dettato dalla natura.

Il motivo di questa rapidità è l’attiva degli esseri umani.

Nel 2021 uno studio pubblicato sulla rivista “Environmental Research Letters” ha analizzato oltre 88 mila studi e dimostrato che il 99,9 per cento di essi giungeva alla stessa conclusione:

 il cambiamento climatico c’è e l’uomo è il principale responsabile.

(Ma la Co2 è indispensabile per la vita dell’uomo. E dire che dopo il 2050 vi sarà “zero Co2” vuol dire che l’uomo è destinato alla estinzione sulla terra! N.D.R.)

In conclusione.

Ad agosto 2022 è diventato virale sui social network un documento stilato dalla fondazione “Clintel” che, con un riassunto in sei punti, vuole negare l’esistenza di un’emergenza climatica.

In realtà, i diversi argomenti a supporto di questa tesi sono fuorvianti o errati.

Il cambiamento climatico esiste e la scienza concorda su questo punto.

(Ma non è opera dell’uomo, ma bensì del Sole! N.D.R.)

La crescita delle temperature registrate sul nostro Pianeta non può considerarsi un fenomeno naturale, ma è direttamente influenzato dall’attività umana e ha raggiunto cifre mai toccate prima.

I modelli climatici sono affidabili e si stanno dimostrando, negli anni, veritieri.

È errato sostenere che la CO2 non svolga un ruolo inquinante, essendo tra le responsabili dell’effetto serra e dell’innalzamento delle temperature del Pianeta.

(La Co2 alimenta la vita sul pianeta e quindi non può essere inquinante! N.d.R.)

Tra le conseguenze dell’emergenza climatica ci sono anche i disastri ambientali che colpiscono, sempre più spesso, la Terra e la sua popolazione.

 

Il documento, dunque, riporta una serie di informazioni errate o fuorvianti, nonché pericolose per la salute del nostro Pianeta.

Precisiamo, infine, che i firmatari non sono tutti climatologi, né tutti scienziati.

 Ci sono figure professionali molto lontane dalla scienza ed esponenti di multinazionali operanti nel settore degli idrocarburi.

 

 

 

 

13 Nazioni Accettano di Distruggere

 l’Agricoltura per “Salvare il Pianeta”

Conoscenzealconfine.it – (4 Agosto 2023) - Leo Hohmann – ci dice:

 

Globalisti al lavoro per pianificare carestie globali…

Il culto globale del clima si sta preparando a scatenare la sua guerra contro il cibo con 13 nazioni – molte delle quali grandi produttori di bovini e cibo come Stati Uniti, Argentina, Brasile, Cile e Spagna – che stanno firmando un impegno a porre gli agricoltori sotto nuove restrizioni per ridurre le emissioni di gas metano.

ll “Global Methane Hub” ha annunciato in un comunicato stampa del 17 maggio che i ministri dell’agricoltura e dell’ambiente e gli ambasciatori di 13 paesi, inclusi gli Stati Uniti, hanno firmato un accordo con cui ci si impegna a ridurre le emissioni di metano in agricoltura.

Gli Stati Uniti erano rappresentati dallo zar del clima di Biden, John Kerry.

 

Cosa Significa Questo e Perché Dovrebbe Interessare Tutti?

Nell’aprile 2023, il “Global Methane Hub” ha collaborato con “i Ministeri dell’Agricoltura” del Cile e della Spagna per convocare il primo “ministero globale sulle pratiche agricole per ridurre le emissioni di metano”.

 Il ministero ha riunito membri del governo di alto rango per condividere le prospettive globali sulla riduzione del metano e sui sistemi alimentari a basse emissioni.

I partecipanti alla conferenza includevano l’”Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite”, “Climate & Clean Air Coalition”, “Inter-American Institute for Cooperation on Agriculture”, la “Banca Mondiale”, l’”Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico” e la “Banca interamericana di sviluppo”.

La “Banca Mondiale”, un’altra creazione del secondo dopoguerra, ha parlato molto ultimamente, insieme alle “Nazioni Unite”, di una carestia in arrivo ed ha pubblicato un libro bianco il 22 maggio, intitolato “Food Security Update: World Bank Response to Rising Food Insecurity”.

Il direttore del “Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite” ha anche lanciato, a partire da settembre dello scorso anno, terribili avvertimenti su una prossima carestia globale.

Quindi è strano che, proprio nel momento in cui i globalisti stanno mettendo in guardia sulla carenza di cibo e sulla carestia, i loro portavoce alla Banca mondiale, alle Nazioni Unite e all’interno delle amministrazioni degli Stati Uniti e dei loro alleati (si noti che Cina e Russia non si trovano da nessuna parte in queste assurde politiche anti-alimentari), stiano parlando di convertirsi a una nuova e non provata forma di agricoltura “sostenibile” che si concentra più sulla riduzione del metano che sulla produzione dei più alti rendimenti di cibo.

La moderna produzione alimentare è cattiva, ci dicono, perché produce metano che presumibilmente danneggia l’ambiente.

 “I sistemi alimentari sono responsabili del 60% delle emissioni di metano”, ha dichiarato” Marcelo Mena”, CEO di “Global Methane Hub.”

Ci congratuliamo con i paesi disposti a prendere l’iniziativa nella mitigazione del metano dei sistemi alimentari e confermiamo il nostro impegno a sostenere questo tipo di iniziativa con programmi che esplorano promettenti tecnologie di mitigazione del metano e la ricerca alla base dei meccanismi di mitigazione del metano per creare nuove tecnologie.”

“John Kerry” è anche molto entusiasta di mettere fuori uso terreni agricoli preziosi e produttivi, ridurre le dimensioni delle mandrie di bestiame e consegnare i nostri sistemi di produzione alimentare a tecnocrati e globalisti che offrono vaghe promesse di “nuove tecnologie”.

Secondo l’”Agenzia per la protezione ambientale USA”, gli Stati Uniti sono impegnati a cercare di mitigare le emissioni di metano non solo in America ma in tutto il mondo.

Sul suo sito web si legge:

 “Gli Stati Uniti forniscono leadership chiave, finanziamenti e competenze tecniche per gli sforzi internazionali di riduzione delle emissioni di metano, con il risultato di oltre 1.140 progetti di mitigazione del metano attraverso GMI a partire dal 2021.”

L’amministrazione Biden prevede di spendere 1,5 milioni di dollari in fondi dei contribuenti per un programma volto a “responsabilizzare” le attiviste del cambiamento climatico nella società “patriarcale” del Kenya settentrionale, documenti esaminati dal Washington Free Beacon.

“John Kerry” ha dichiarato:

“Mitigare il metano è il modo più veloce per ridurre il riscaldamento a breve termine.

 L’alimentazione e l’agricoltura possono contribuire a un futuro a basso contenuto di metano migliorando la produttività e la resilienza degli agricoltori.

Accogliamo con favore i ministri dell’agricoltura che partecipano all’attuazione del Global Methane Pledge.”

Le nazioni che firmano questo impegno a ‘trasformare’ (eliminare, ndr) le loro politiche agricole sono Stati Uniti, Argentina, Australia, Brasile, Burkina Faso, Cile, Repubblica Ceca, Ecuador, Germania, Panama, Perù e Spagna.

Il governo spagnolo organizzerà una seconda conferenza nel 2024 per monitorare e far progredire gli sforzi di attuazione relativi alla dichiarazione e incoraggiare altri paesi ad aderire.

Per “salvare il pianeta” dalle emissioni che provengono dalle scoregge delle mucche, affermano che è necessario costringere gli agricoltori a cambiare il modo in cui coltivano, convertendo la loro terra e il loro bestiame a metodi più “innovativi” e “pratiche basate sulla scienza(h)”.

Questi metodi dovranno essere implementati non solo nelle aziende agricole, ma in tutti i “sistemi alimentari.”

Non dicono mai quali sarebbero questi cambiamenti “innovativi”, ma solo che saranno basati su “nuove tecnologie” e “basati sulla scienza(h)”.

 

Possiamo presumere da questo linguaggio che le pratiche prese in considerazione mirano a sostituire una parte importante delle scorte di bovini da carne e da latte, maiale e pollo con l’alimentazione a base di larve, insetti, vermi da pasto, grilli, ecc.

Le “Nazioni Unite”, il “World Economic Forum” e altre” ONG” hanno promosso per anni diete senza carne e il consumo di proteine di insetti, ed i miliardari hanno investito in enormi fabbriche di insetti che ora sono in costruzione nello stato dell’Illinois, in Canada e nei Paesi Bassi, dove vermi da pasto, grilli e altri insetti saranno trattati come additivi da inserire nella fornitura di cibo, spesso senza etichette chiare che informino le persone esattamente su ciò che stanno mangiando.

Bill Gates sta anche collaborando con altri miliardari per investire nella produzione di carne coltivata in laboratorio, un processo che prevede l’utilizzo di cellule prelevate da mucche, polli e maiali per coltivare rapidamente carne artificiale in ambito industriale.

Gli agricoltori saranno sempre più costretti a lasciare la loro terra, come sta già accadendo nei Paesi Bassi, che è il secondo esportatore netto di cibo al mondo dopo gli Stati Uniti.

Tutto ciò si aggiungerà ad una carestia imminente, a cui l’attuale generazione di persone sulla terra non ha mai assistito.

 Questo è il progetto.

 Globalisti come “Dennis Meadows”, autore del libro “The Limits to Growth” del Club di Roma del 1972, ci informò dei piani dei globalisti di spopolare drasticamente la terra.

Ho anche riportato ampiamente le previsioni di “Deagel”, che prevedevano una riduzione di quasi il 70% della popolazione americana entro il 2025, con un calo demografico altrettanto drastico per il Regno Unito, la Germania, il Canada, l’Australia e altri paesi allineati alla NATO.

Non c’è modo più efficace per spopolare che attraverso guerre, carestie e pestilenze (il covid è stata più che altro una montatura mediatica, ma non si sa mai che siano in grado di usare armi batteriologiche, queste sì pericolose – nota di conoscenzealconfine). Non è interessante che tutti e tre questi metodi di omicidio testati nel tempo siano in gioco in questo momento?

 

La guerra al cibo è molto simile a quello che sta succedendo nel settore energetico, dove i governi stanno colludendo con le grandi imprese per trasformare tutti i trasporti alimentati a gas e petrolio a elettrici, il che significa che molte meno persone saranno in grado di permettersi le auto elettriche, e anche se potranno permettersele, l’uso di quelle auto sarà molto più strettamente monitorato e controllato, a causa della necessità di continue ricariche presso le apposite stazioni e con una rete elettrica già sovraccaricata.

Se non puoi ricaricare la tua auto quando vuoi, ma solo quando ti è permesso, hai già consegnato la tua libertà di movimento ai regolatori di quelle stazioni di ricarica.

Nell’industria alimentare, la grande agricoltura colluderà anche con i governi del mondo per produrre molta meno carne di manzo, pollo e maiale, sostituendo quelle proteine con quelle di insetti e carne sintetica coltivata in laboratorio, i cui effetti sulla salute sono in gran parte sconosciuti.

Questi cambiamenti sono già stati in piena evidenza nei Paesi Bassi, dove il governo ha generato intense polemiche lanciando un piano per ridurre le mandrie di bestiame fino al 50% e ridurre l’uso di fertilizzanti azotati del 30%.

Non importa quanto parlano di “innovazione” e “nuove tecnologie”, non puoi ridurre le tue mandrie e ridurre l’uso di fertilizzanti e poi affermare che le tue fattorie saranno “più produttive”.”

Questa è una bugia.

Tutte le loro “innovazioni” si tradurranno direttamente in meno cibo sulle tavole di tutto il mondo.

Preparatevi ora alla carestia.

Fare scorte è una soluzione facile a breve termine.

Però dobbiamo anche pensare a lungo termine.

Se non hai mai coltivato un giardino o allevato polli, è qualcosa a cui potresti voler pensare in termini di aumento delle tue abilità.

Forse hai coltivato un giardino per diversi anni e hai una certa esperienza, e puoi condividerlo con un vicino che ha allevato polli ma ha poca o nessuna esperienza di giardinaggio.

Fare rete e cooperare con le persone intorno a noi sarà la chiave per la sopravvivenza una volta che questa carestia globale si intensificherà.

Può darsi che la vera carestia non arrivi mai nei paesi più ricchi come l’America.

 Il cibo può continuare ad essere sugli scaffali, ma posso garantire che i prezzi continueranno a salire, sostanzialmente, su articoli di base come farina, pane, uova, carne e latticini.

Pregate per il meglio mentre vi preparate al peggio.

Perché sappiamo che il piano dei globalisti è quello di ridurre la popolazione mondiale da 7,5 miliardi a 1 o 2 miliardi.

Dennis Meadows è un insider globalista del Club di Roma il cui impegno su questo argomento risale ai primi anni ’70.

Rimani forte.

Stai tranquillo, ma non sottostare mai ad alcuna legge incostituzionale o non etica. I tiranni hanno potere solo su coloro che accettano di essere governati da loro.

(Leo Hohmann)

(libertysentinel.org/globalists-revving-up-plans-to-engineer-global-famine-and-starvation-13-nations-agree-to-convert-over-to-less-productive-green-farming-methods)

 

 

 

 

Cosa (non) rispondere a un

negazionista climatico.

Fanpage.it - Fabio Deotto – (4-2-2023) – ci dice:

Chi nega i cambiamenti climatici non per interesse politico o economico ma per difendersi da un’evidenza che cambia la nostra idea del mondo e del futuro, non è un nemico ma una vittima degli interessi dell’industria fossile e dei suoi alleati politici.

Persone, cittadini, con cui dobbiamo parlare senza pregiudizi e con empatia per fargli cambiare idea.

Esistono sostanzialmente due tipi di negazionisti climatici:

quelli che sono al corrente del problema, conoscono i rischi, e per interesse personale o per conto altrui lo negano;

e quelli che davvero non ci credono, o sono scettici, o preferiscono non pensarci.

Parlare coi primi è inutile, a volte pure controproducente:

sono coscientemente in malafede, sanno che affrontare la crisi climatica ridurrà̀ le loro occasioni di arricchimento, o la loro leva politica, o quelle di chi li stipendia, e disperdono i semi dello scetticismo in modo studiato e senza alcuna remora.

Con i secondi invece si può̀ parlare.

Anzi, bisogna parlarci, e la cosa peggiore che possiamo fare è liquidarli come ignoranti.

Perché́ spesso, in realtà̀, la loro non è tanto ignoranza quanto speranza del tipo peggiore, quella a cui ci si aggrappa quando si decide di non accettare un'evidenza scomoda, quando ci si sente disarmati e impotenti.

Ma occorre farlo con raziocinio, altrimenti c’è il serio rischio di ottenere l’effetto opposto a quello desiderato.

 Vale per tutti i negazionisti, ma in particolare modo per quelli climatici.

Non mettersi in cattedra.

Per prima cosa è fondamentale rinunciare fin da subito ai toni pedanti:

fare sentire una persona con le ginocchia sotto il banco non può̀ che rafforzare le barriere che sono già state erette.

Una volta preso atto che il negazionismo è spesso un meccanismo difensivo diventa più facile evitare di rimarcare un ipotetico dislivello con l’interlocutore.

 Il punto è che conoscere dati ed evidenze sulla crisi climatica non ci rende persone migliori, solo più consapevoli, e nemmeno così tanto, considerando che comunque tutti viviamo (e alimentiamo, in parte) il sistema fossile che ne è responsabile.

Un buon modo per disinnescare in partenza queste reazioni difensive è mostrarsi umili, presentare la nostra posizione come frutto di una ricerca ancora in corso piuttosto che come una verità̀ da acquisire acriticamente.

 Perché se è vero che sull’origine antropica del riscaldamento globale non ci sono dubbi, è anche vero che ci sono ancora aspetti della questione climatica che non conosciamo, ricadute che non possiamo prevedere con esattezza, implicazioni che ancora ci sfuggono.

Piuttosto che mostrarci tetragoni nella nostra posizione, è più utile rivelarsi curiosi, e magari sminare il terreno di discussione chiedendo all’interlocutore di esporci la propria visione delle cose.

È anche fondamentale non porsi come paladini della giustizia climatica, sfoggiando come una medaglia al valore le proprie scelte di vita e di consumo sostenibile;

al contrario, è fondamentale ricordare come il problema climatico non sia risolvibile unicamente attraverso le azioni individuali, e come qualunque forma di azione climatica (sia essa economica, politica, comunicativa o finanziaria) che il nostro interlocutore possa decidere autonomamente di adottare sia valida e preziosa per la causa.

Mostrarsi comprensivi.

Una volta stabilito che non è nostro compito evangelizzare nessuno, il secondo accorgimento da adottare è prendersi un momento per capire con chi stiamo parlando.

 Proprio perché́ la crisi climatica non può̀ essere inculcata come una dottrina, è utile domandarsi chi sia la persona che ci sta opponendo un’argomentazione negazionista o scettica, che spiegazioni abbia da darci in proposito, quale sia il suo background e – se questa persona la conosciamo – cosa possa indurla a sollevare una simile difesa.

Convincersi che chiunque non creda alla crisi climatica, o chiunque dubiti della sua urgenza sia necessariamente ignorante o stupido è del tutto controproducente; anche perché molte volte è falso.

Esistono tantissime ragioni che possono spingere una persona ad assumere una posizione negazionista:

 può avere a che fare con un’indole scettica, o con un’educazione religiosa, o anche solo con la propensione del tutto umana a credere che il mondo in cui viviamo non possa cambiare più di tanto, e che nel dubbio sia meglio che non cambi.

 Non dimentichiamo che quando parliamo di emergenza climatica non stiamo parlando di una delle tante questioni oggetto di negazionismo (la curvatura della terra, l’allunaggio, il Covid), stiamo parlando di una minaccia esistenziale in piena regola, qualcosa che, una volta compresa, richiede un ripensamento totale del modo in cui occupiamo questo pianeta, un cambio di paradigma che non è per nulla facile accettare.

Evitare proiezioni allarmistiche.

È anche per questo motivo che i toni allarmistici non funzionano:

ribadire come il mondo stia diventando sempre meno vivibile e sempre più iniquo tracciando orizzonti futuri di devastazione rischia di irrigidire ulteriormente le posizioni di chi spesso vuole proprio evitare di pensare a eventualità̀ catastrofiche che non lo toccano nel presente.

È il caso di ricordare che è almeno dagli anni ’80 che parte della comunicazione ambientale utilizza lo spauracchio di un pianeta ridotto a una landa desolata, uno scenario post-apocalittico da cui è stata eliminata ogni traccia di bellezza:

è una proiezione pericolosa, oltre che falsa, perché stabilisce una cesura netta con il mondo in cui viviamo che, ancorché́ flagellato dalla crisi climatica, è tuttora in grado di offrire conforto e bellezza.

Spesso i più scettici nei confronti dell’emergenza climatica sono più vittime di una cecità selettiva che di un paraocchi autoimposto, il più delle volte vivono in una condizione di privilegio, non tanto di tipo economico quanto climatico:

il posto in cui vivono non è cambiato così tanto rispetto a quello in cui sono cresciuti;

o comunque il cambiamento non ha ancora trasformato in modo visibile le loro vite.

 Per questo è molto più efficace concentrare il discorso su quanto sia difficile inquadrare nel presente un problema così distribuito e sfaccettato, piuttosto che tratteggiare orizzonti (pur realistici) di catastrofe e desolazione.

Spostare il baricentro dai dati alle storie.

Eppure ragioni per allarmarci ne abbiamo già oggi, e non è certo ignorandole che si può sensibilizzare qualcuno alla questione climatica.

È però fondamentale evitare di subissare l’interlocutore con dati, grafici e previsioni, per evitare di metterci in cattedra, certo, ma soprattutto perché, per quanto possa sembrare paradossale, il cervello umano crede più alle storie che ai dati.

Questo accade perché le storie sono parte strutturale del modo in cui interpretiamo e comprendiamo il mondo, sono un sistema di comunicazione che l’evoluzione ha premiato perché consente di trasmettere l'esperienza in modo immersivo ed emotivamente rilevante.

Per questo, raccontare una storia di sopravvivenza a un evento estremo, o di adattamento a ricadute attuali della crisi climatica, farà sicuramente breccia più di qualunque grafico a bastone da hockey o di qualunque dato sui danni e le morti che la crisi climatica sta già oggi causando.

 Concentrarsi sulle storie di persone che stanno affrontando le ricadute climatiche significa fornire all’interlocutore una piattaforma per intuire come la questione vada a incidere sul suo mondo e sulla sua possibilità̀ di viverci in maniera sostenibile, va a fare leva più sulla nostra dimensione empatica che su quella morale.

 Per molto tempo la questione ambientale ci è stata presentata come una questione etica:

bisognava tutelare gli ecosistemi perché era giusto farlo.

Ma la realtà è che la questione è molto più pratica di così:

dobbiamo tutelare gli ecosistemi per assicurarci che questo pianeta rimanga vivibile.

La decarbonizzazione del nostro sistema economico e produttivo non è solo la scelta giusta da fare, è anche quella più conveniente, sotto ogni punto di vista. Trasmettere questa verità è spesso molto più efficace di qualsiasi predica.

Spiegare la complessità della questione.

Attenzione, però:

 il fatto che non si debba mitragliare dati e previsioni a bruciapelo non significa che non si debba parlare della sostanza del problema.

 Ma anche in questo caso, è utile scegliere l’approccio giusto, e ce ne possono essere diversi, a seconda della situazione.

A chi vi facesse notare che in pieno riscaldamento globale in alcuni punti del mondo si sta vivendo l’inverno più freddo di sempre, ad esempio, è il caso di ricordare che clima e meteo sono due cose diverse, che alluvioni e siccità epocali sono parte dello stesso quadro climatico, che la crisi climatica non crea nuovi problema ma esacerba quelli esistenti.

Tutto vero, ma affrontare la questione rovesciando questa carriolata di informazioni può risultare disorientante.

Più utile è invece partire dalla difficoltà che tutti hanno a inquadrare un problema che è troppo stratificato, interconnesso e distribuito nello spazio e nel tempo per essere inquadrato con un solo sguardo.

Spostare l’attenzione sul perché tutti facciamo fatica a “vedere” la crisi climatica, piuttosto che rimarcare il fatto che noi siamo al corrente del problema mentre loro lo negano:

è un passo importante per evitare che si creino ulteriori barriere di separazione tra noi e il nostro interlocutore.

Un approccio molto efficace l’ha adottato “David Attenborough”, che nel suo intervento alla “COP26 “di Glasgow ha scelto di partire da un cambio di prospettiva su ciò che consideriamo normale:

 “Per gran parte della storia antica dell'umanità, la concentrazione di CO2 è oscillata pesantemente tra 180 e 300, e così anche le temperature globali.” ha detto Attenborough “Era un mondo brutale e imprevedibile.

A volte i nostri antenati esistevano solo in numero ridotto, ma poco più di 10.000 anni fa quel numero si è improvvisamente stabilizzato e con esso il clima della Terra.

Ci siamo trovati in un periodo insolitamente benigno, con stagioni prevedibili e tempo affidabile.

Per la prima volta c’erano le condizioni per cui emergesse una civiltà e non abbiamo perso tempo ad approfittarne.

Tutto ciò che abbiamo raggiunto negli ultimi 10.000 anni è stato possibile grazie alla stabilità di questo periodo".

Lasciare tempo e spazio per arrivare a una conclusione propria.

Contrariamente a quanto alcuni potrebbero pensare, il negazionismo non è una malattia che si può curare con una pillola, perciò è fondamentale mettersi nell’ordine di idee che, se vogliamo provare a scardinare questo tipo di false credenze, bisogna armarsi di pazienza.

E ancora una volta: di umiltà.

Se l’approccio di “Attenborough” funziona è perché fornisce strumenti di comprensione piuttosto che inculcare dati e informazioni.

 Qualunque processo di apprendimento ha bisogno di un tempo di rielaborazione personale delle nozioni acquisite, questo è particolarmente vero quando si parla di crisi climatica:

proprio perché l’argomento è complesso e sfaccettato, per essere metabolizzato richiede un cambio di sguardo sulla realtà che può essere lungo, in alcuni casi faticoso.

 È noto che la stessa Greta Thunberg abbia dichiarato di essere stata a sua volta scettica:

“La prima volta che ho sentito parlare di cambiamento climatico ero negazionista: non volevo crederci, non potevo pensare che stesse accadendo davvero.

Se davvero era in corso una simile crisi, capace di minacciare la nostra civiltà, pensavo, non ci saremmo dovuti occupare d’altro.”

Occorre ricordare che non è nostro compito evangelizzare nessuno;

semmai, quello che possiamo fare è condividere il nostro sguardo e le nostre conoscenze, ma sempre premurandoci di non squalificare preventivamente quelli altrui.

Se una persona non si sente spinta in una certa direzione, è più probabile che decida di dirigercisi da sola, soprattutto se avrà trovato autonomamente ragioni per farlo.

 È anche per questo che fare della crisi climatica una questione etica rischia di essere controproducente:

 le implicazioni morali del problema ambientale emergeranno inevitabilmente una volta che ci si comincia a informare, a seconda della sua sensibilità di ognuno.

Ricordare che i negazionisti sono vittime, non colpevoli.

A inizio pezzo ho individuato due categorie di negazionisti, e a conti fatti solo i membri della prima possono essere trattati come colpevoli:

si tratta di persone che conoscono molto bene il tipo di situazione in cui ci troviamo, sanno che tipo di ricadute sta avendo e avrà, ma sanno anche che potranno utilizzare a proprio vantaggio il sistema fossile, quindi spingono per ritardare il più possibile l’azione climatica.

 Questo tipo di negazionisti, non a caso, utilizzano argomentazioni molto più sfumate e subdole di un autentico scettico:

 vi diranno che la crisi climatica esiste ma che non è così urgente risolverla, che non è così colpa delle attività umane e che i modelli dei climatologi sono oggetto di dibattito.

Il punto è che la crisi climatica è già un’emergenza, sta già causando decine di migliaia di morti e miliardi di danni ogni anno, inoltre sta pesantemente minacciando ogni aspetto della nostra realtà (economico e geopolitico compresi).

L’industria fossile alimenta da decenni il negazionismo climatico, investendo fiori di milioni per diffondere dubbi e falsità riguardo la questione climatica, (per saperne di più consiglio Mercanti di dubbi di Naomi Oreskes e Erik Conway per i tipi di Edizioni Ambiente, e I bugiardi del clima di Stella Levantesi per Laterza), e se il negazionismo e lo scetticismo climatico continuano a resistere nel discorso pubblico è in gran parte colpa loro.

La crisi climatica ha ricadute di tipo economico, sociale, sanitario e psicologico trasversali, ma a subirne le peggiori conseguenze saranno le persone più socialmente ed economicamente vulnerabili, persone che spesso sono costrette a dedicare la maggior parte del loro tempo a capire come pagare l’affitto o le bollette.

Trattare queste persone come colpevoli di inazioni climatiche sarebbe scellerato. La realtà è che un negazionista climatico non legato all’industria fossile è vittima di questo sistema tanto quanto chiunque altro.

 È il caso di ricordarselo quando ci troviamo a decidere contro chi dobbiamo combattere.

(fanpage.it/attualita/cosa-non-rispondere-a-un-negazionista-climatico/)

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