Il potere dell’élite globalista e la libertà dei cittadini.
Il
potere dell’élite globalista e la libertà dei cittadini.
Un
nuovo compromesso
sociale
salverà la democrazia?
Open.luis.it
–(20-5-2021) – Redazione – Michael Lind – ci dice:
“Soltanto
un nuovo pluralismo democratico che obblighi le élite manageriali a condividere
il potere con la classe dei lavoratori potrà porre fine al ciclo di
oscillazioni tra tecnocrazia oppressiva e populismo distruttivo”.
Sarà
davvero così? Ecco un’analisi del volume “La nuova lotta di classe” di Michael
Lind.
Un
essai non vuole essere uno scritto scientifico rigoroso, magari con una domanda
di ricerca ben definita, uno svolgimento empiricamente preciso, anche se
scritto da un accademico noto, come Michael Lind.
Con verve polemica e uno stile accattivante e
facile da leggere, deve però avere una tesi forte che punti su un tema
rilevante, magari anche politicamente.
Da
questo punto di vista, qual è la tesi di fondo de” La nuova lotta di classe”.
“Elite dominanti, popolo dominato e il futuro
della democrazia”, appena pubblicato dalla” Luiss University Press”?
Eccola:
“Soltanto
un nuovo pluralismo democratico che obblighi le élite manageriali a condividere
il potere in ambito economico, politico e culturale con la classe dei
lavoratori, multirazziale e multireligiosa, potrà porre fine al ciclo di
oscillazioni tra tecnocrazia oppressiva e populismo distruttivo” (p. 111).
Dunque,
una tesi semplice e netta svolta nei diversi capitoli, con la descrizione del
pluralismo democratico concentrata soprattutto nell’ottavo e nel nono.
L’autore sostiene che l’evoluzione economica,
politica e culturale dell’ultima parte del secolo scorso ha evidenziato
l’affermazione di una rivoluzione neoliberista dall’alto con l’emergere di una
classe manageriale dominante (spec. cap. 4).
A
questa ha fatto seguito all’inizio di questo secolo una controrivoluzione
populista dal basso, dovuta alla rabbia di un’ampia classe operaia esclusa che
ha consentito il successo del populismo demagogico e che è il sintomo maggiore
di un corpo politico malato (spec. cap. 5).
Come
mettere fine a questa nuova lotta di classe dal momento che nel frattempo gli
attori intermedi ovvero i partiti e i sindacati, che erano stati così
importanti dei decenni successivi al secondo dopoguerra per l’instaurazione
delle democrazie pluraliste su entrambe le sponde dell’Atlantico, sono
sostanzialmente scomparsi o notevolmente indeboliti dagli sviluppi economici e
sociali intervenuti?
Se si
esclude l’evento catastrofico della vittoria di una classe ovvero della élite
manageriale e di una tecnocrazia neoliberale, l’unica soluzione è dare vita a
un pluralismo democratico, che integri “i cittadini della classe operaia …nel
processo decisionale al governo, nell’economia e nella cultura” (p. 189) e sia
caratterizzato da “intese per la spartizione del potere tra le classi e le
sottoculture….forme di condivisione del potere, come le istituzioni trilaterali
manodopera-imprese-governo che decidono i salari…(oltre a) controlli ed
equilibri sociali,…controlli ed equilibri politici…… un consenso duraturo,
conquistato a fatica in trattative tra i partiti, le classi e le confessioni
religiose…” (p. 166).
In breve, il pluralismo democratico configura una
concezione normativa della democrazia in cui vi è un ruolo forte e attivo di
associazioni che realizzano un’efficace integrazione.
La
spinta a realizzare questa soluzione convincendo le élite manageriali ad
accettarla verrebbe dalla paura derivante da una “rinnovata concorrenza tra le
grandi potenze” (p. 186) in modo da sostituire il neoliberismo globalista con uno
‘sviluppismo nazionale’.
La
tesi dell’autore induce a porsi diverse domande.
Senza
stare a sottilizzare sulla precisa correttezza empirica della ricostruzione
storica, grosso modo, dalla fine del secondo dopoguerra ad oggi e senza
considerare un certo squilibrio tra l’attenzione data alla democrazia
statunitense e alle democrazie europee, concentriamoci solo su tre domande,
forse le più rilevanti.
La
prima:
esistono
effettivamente le due classi in lotta, quella dei manager e un’ampia classe di
lavoratori?
Soprattutto
la Grande Recessione, dal 2008 in poi, e le reazioni dei governi, anche
europei, a quella crisi hanno mostrato quello che sostiene “Lind”, ovvero sia
l’indebolimento dei sindacati che dei sistemi di welfare con una crescita delle
disuguaglianze.
Però,
la ricerca empirica da molti anni non identifica più vere proprie classi
sociali ovvero gruppi in condizioni socioeconomiche simili e una propria
percezione di identità di classe.
Se
ipotizziamo che l’autore usi il termine in senso più lasco, e non consideri la
necessità di una ‘coscienza di classe’, come una volta si diceva, rimane che i
comportamenti politici e gli atteggiamenti culturali di soggetti con una simile
posizione economica sia molto differenziati nelle diverse democrazie europee.
E, ad esempio, l’età e solo in parte
l’istruzione siano più rilevanti come fattori in grado di spiegare meglio la
diversificazione degli atteggiamenti.
In breve, almeno in una prospettiva
empiricamente attenta, nelle attuali società post-industriali e largamente
finanziarizzate – come sottolinea anche” Lind “– la frammentazione sociale, economica,
culturale e politica è talmente accentuata da non consentire di identificare
classi, e tanto meno due classi solamente.
La
seconda:
si può
effettivamente trasformare quel conflitto in una coesistenza pacifica e
benefica attraverso il pluralismo democratico indicato da “Lind.
Potrebbe
essere sicuramente auspicabile sia l’integrazione ai diversi livelli, sia la
condivisione delle decisioni economiche essenziali, sia la pacificazione.
La stessa pandemia potrebbe spingere in quella
direzione contrattuale e ragionevolmente compromissoria.
Ma se
avvenisse, accadrebbe sempre in modo parziale e ambiguo.
Gli
attori intermedi che hanno caratterizzato le democrazie degli anni Sessanta e
Settanta peraltro non esenti da critiche e problemi, non possono più risorgere.
Senza dire
che l’aspetto essenziale di quegli anni non riguardava partiti e sindacati, che
pure ne erano i protagonisti, quanto il fatto che si trattava di anni di
crescita economica continua e consistente.
La
terza:
quella
di Lind è, alla fine, la ricetta corretta o ve ne sono altre più
realisticamente realizzabili?
Per rispondere a questa domanda occorre considerare
l’errore che Lind si porta appresso in tutta la sua analisi.
In breve, la sua proposta è di tipo procedimentale
ovvero costruiamo regole e meccanismi decisionali in cui tutti siano coinvolti
e avremo le decisioni giuste per tutti.
Questo
ragionamento ha un assunto implicito che è una tipica fallacia notata da
diverse ricerche.
Infatti, semplificando, se sono al governo
degli operai ovvero dei capitalisti non possiamo dare per scontato che nel
primo caso ci saranno politiche a favore degli operai e nel secondo dei
capitalisti.
La complessità delle attuali democrazie in cui
la destra sostiene la crescita del welfare e i ceti meno abbienti e la sinistra
appoggia l’impresa industriale confonde tutto il quadro effettivo.
Nei tempi di crisi che stiamo vivendo,
occorrerebbe ripartire, come sosteneva Machiavelli nei Discorsi, dai valori
importanti.
Questi,
secondo la maggioranza dei democratici, sono la libertà e l’uguaglianza.
Di
conseguenza, innanzi tutto, occorre mettere a punto politiche che realizzino al
meglio quei valori, magari anche facendo attenzione alle modalità per
realizzarli meglio, in piena consapevolezza che ci vorranno compromessi e
aggiustamenti, ma senza mai perdere di vista gli obiettivi effettivi e senza
pensare che l’approvazione di certe regole assicurerà il risultato voluto.
Fatte
queste considerazioni, si può concludere che se l’obiettivo di un essai è
quello di provocare e indurre a riflettere,” Lind” con questo lavoro vi è
pienamente riuscito. E va bene così.
Sulla
risposta alla crisi globale
si
gioca il futuro dell’umanità.
Editorialedomani.t
- IAN BREMMER – (18 agosto 2022) – ci dice:
Mai
prima d’ora così tanti esseri umani hanno avuto la possibilità di sopravvivere
al parto, andare a scuola, sfuggire alla povertà, accedere a un’istruzione
superiore, incontrare persone lontane e guadagnarsi da vivere.
Ma mai
come oggi rischiamo una catastrofe che è accelerata dagli stessi strumenti che
potrebbero scongiurarla.
Questo
testo è un estratto dal nuovo libro di “Ian Bremmer”,” Il potere della crisi -
Come tre minacce e la nostra risposta cambieranno il mondo”, pubblicato da
Egea.
Il
testo fa parte del numero di Scenari: “Alla corte di Xi Jinping”, in edicola e in digitale dal 12
agosto.
Viviamo
in un’epoca di straordinarie opportunità.
Mai
prima d’ora così tanti esseri umani hanno avuto la possibilità di sopravvivere
al parto, andare a scuola, sfuggire alla povertà, accedere a un’istruzione
superiore, incontrare persone di altri luoghi, trovare un lavoro, avviare
un’impresa, guadagnarsi da vivere, inventare qualcosa di nuovo, votare,
ricevere cure mediche di qualità, attraversare i confini e offrire ai propri
figli gli stessi vantaggi.
Oggi
miliardi di persone hanno agi e opportunità nettamente superiori a quelli che
potevano vantare i re medievali.
L’inventiva umana ha raggiunto picchi
inimmaginabili anche solo una generazione fa.
Ma,
come ho spiegato in questo libro, rischiamo anche la catastrofe.
Le
conquiste storiche degli ultimi cinquant’anni – compresa la più importante,
ossia la nascita del primo ceto medio mondiale – sono minacciate
dall’incapacità dei nostri leader di collaborare per proteggerci dalle malattie
infettive, dall’innalzamento dei mari, dal cambiamento climatico, dalle ondate
di disinformazione tossica, dagli sconvolgimenti causati dalle tecnologie che
sottraggono il lavoro agli esseri umani, dalla dittatura digitalmente
potenziata e dalle nuove forme di guerra.
E
tutto avviene alla velocità della luce.
Per
miliardi di anni il nostro pianeta non ha ospitato alcuna forma di vita
intelligente.
Per
milioni di anni ha ospitato forme di vita intelligenti ma senza alcuna traccia
di esseri umani.
Per
altri due milioni di anni qualche essere umano c’è stato, ma non c’erano la
cooperazione e la comunicazione necessarie a costruire società e a consentire
il progresso.
Poi è
arrivato il commercio tra le persone che per sopravvivere si dedicavano alla
caccia e alla pesca.
Le
ragioni di scambio sono diventate più complesse, sono state scritte delle
regole e create autorità indipendenti dedite a risolvere le controversie.
Le
popolazioni hanno cominciato ad aumentare, e con esse la complessità delle
relazioni.
Nel I
secolo d.C. c’erano 170 milioni di persone sulla Terra.
Nel
corso dei mille anni successivi questo numero è salito a 254 milioni.
Grazie
alla peste bubbonica nel 1400 c’erano ancora solo 343 milioni di esseri umani.
Ci
sono voluti due milioni di anni per raggiungere (nel 1804) una popolazione
mondiale di un miliardo di persone e solo altri duecento anni per arrivare a
sette miliardi.
L’accelerazione
dello sviluppo umano è ancora più evidente nelle nostre tecnologie.
Agli
albori del XX secolo i soldati combattevano ancora a cavallo; nel 1945 gli
Stati Uniti hanno lanciato bombe atomiche su due città giapponesi. O, ancora,
pensiamo ai progressi della comunicazione.
La
prima chiamata effettuata da un telefono cellulare portatile risale al 1973, e
fu fatta con un dispositivo che pesava quasi un chilo.
Nel 1989 “Tim Berners-Lee” inventò il “World
Wide Web” e il primo “browser”. Oggi più di 4,4 miliardi di persone esplorano il cyberspazio.
Pensate
alla velocità con cui il volo ci ha consentito di raggiungere nuove vette. Nel
1903 Orville Wright pilotò un biplano a 36 metri di altezza e rimase in volo
per dodici secondi.
Appena
58 anni dopo l’Unione Sovietica lanciò Yuri Gagarin nello spazio, e otto anni
dopo Neil Armstrong atterrò sulla Luna.
Nel 2021 la NASA ha fatto volare sulla superficie di
Marte un drone che trasportava un pezzo dell’aereo dei fratelli Wright grande
come un francobollo.
Ora
facciamo un salto di venticinque anni nel futuro.
Sono
queste le prospettive che ci servono per visualizzare il punto in cui ci
troviamo, dove stiamo andando e a quale velocità ci stiamo arrivando.
La
nostra capacità sia di creare che di distruggere sta accelerando più
velocemente di quanto riusciamo a registrare.
Abbiamo
liberato forze che stanno cambiando il pianeta e sfuggendo al nostro controllo
e, se non riusciremo ad accordarci su come gestirne in maniera saggia le
conseguenze, potremmo distruggere tutto ciò che gli esseri umani hanno creato.
Siamo
davanti a un bivio.
Come
spero abbiate compreso dalla lettura di questo libro, le sfide globali senza
precedenti di cui vi ho parlato non incombono in un futuro imprecisato: sono
qui con noi in questo preciso momento.
Il
cambiamento climatico si intensificherà, qualunque cosa facciamo, e i suoi
effetti verranno avvertiti ovunque.
Gran
parte del nostro pianeta sta diventando ostile alla vita.
Le
nazioni e le persone più ricche spenderanno qualsiasi somma per proteggersi
dagli effetti peggiori di questa calamità in atto, ma gli stravolgimenti e le
sofferenze continueranno.
Solo una risposta globale potrà contenere i
danni.
I nostri leader nel mondo della politica,
degli affari e della filantropia devono trovare compromessi, cooperare e
coordinarsi in nuovi modi.
Man
mano che il cambiamento climatico sconvolgerà più vite e costringerà più
persone a lasciare le proprie case, accentuando ulteriormente la disuguaglianza
globale, milioni di queste vittime diventeranno disperate e arrabbiate.
Alcuni
useranno la violenza per manifestare queste emozioni, e la storia ci insegna
che la violenza può generare altra violenza.
Per i
privilegiati il danno è contenuto finché gli emarginati si limitano a brandire
bastoni e pietre.
O pistole.
O bombe al nitrato d’ammonio.
Ma
quando l’inventiva umana dà loro accesso a nuove e pericolose tecnologie – armi
in grado di colpire gli spazi che tutti condividiamo nel mondo reale e virtuale
– più persone verranno uccise e intere società destabilizzate.
Il
ritmo del cambiamento tecnologico è il rischio più grande di tutti.
Oggi
le aziende utilizzano l’intelligenza artificiale per scoprire modi più efficaci
e proficui di cambiare il comportamento umano, senza chiedersi quale effetto
possa avere realmente quella tecnologia sulle persone che ne diventano
dipendenti.
Persino
nel bel mezzo di una pandemia che mette in pericolo la vita di decine di
milioni di persone non ci azzardiamo a utilizzare un nuovo vaccino senza prima
averlo testato.
Vogliamo
sapere come inciderà sulle persone, se le proteggerà, quanto dureranno i suoi
effetti e se causerà effetti collaterali.
Regolamentiamo
il tabacco e gli alcolici.
Vogliamo
impedire ai più giovani di fumare sigarette o di fare uso di narcotici.
Ma
quando sviluppiamo nuovi algoritmi che decidono quali idee, informazioni e
immagini assumiamo, quali prodotti consumeremo, come spenderemo i nostri soldi
o come interagiremo con altre persone, non facciamo alcun test.
Iniettiamo
tutto nel flusso sanguigno del corpo politico senza neanche pensarci.
Le
nuove tecnologie stanno già modificando la nozione stessa di essere umano, e
non abbiamo idea delle possibili conseguenze di ciò.
Questi sono problemi che nessuna nazione può
risolvere da sola.
E proprio per questo offrono agli esseri umani
un’opportunità senza precedenti: quella di fondere il loro estro pratico e
morale per il bene di tutti.
COOPERAZIONE
PRATICA.
Tutte
le persone – quelle che vivono nelle democrazie e nelle dittature, nei paesi
ricchi e in quelli poveri e in tutte le terre di mezzo – sono accomunate da
molte aspirazioni: in primis la sicurezza, la dignità e la prosperità.
Vogliamo
un accesso sicuro al cibo e all’acqua.
Vogliamo
che la legge ci protegga e che protegga i nostri beni e i nostri diritti.
Vogliamo buone possibilità di guadagnarci da vivere.
Se
perdiamo il lavoro, vogliamo sapere che possiamo trovarne un altro.
Tutte
queste cose le vogliamo anche per i nostri figli.
Ma
tutto questo dipende sempre più da ciò che accade molto lontano dai nostri
confini.
I confini cambiano, gli imperi sorgono e
cadono, le alleanze si forgiano e si dissolvono e i leader politici vanno e
vengono ma, oggi più che mai, i problemi degli altri stanno diventando i nostri
problemi.
Il
panico spaventa i mercati di tutti i continenti.
Le
tempeste infuriano nonostante le barriere marittime.
Le malattie si diffondono.
La criminalità scatena altra criminalità. I
disordini politici ridisegnano intere società.
Le
guerre cambiano le vite delle persone a migliaia di chilometri di distanza dal
campo di battaglia.
Fino a
quando le persone più ricche del mondo non si lanceranno nello spazio per
costruirsi lussuose tenute stellari, dovremo condividere tutti un unico
ecosistema, in senso sia metaforico che letterale.
Questo libro vuole ribadire l’importanza di
una cooperazione pratica su alcune questioni fondamentali.
Non
dobbiamo necessariamente piacerci, tantomeno accordarci su un unico insieme di
valori politici ed economici.
Non
c’è bisogno che tutti lavorino assieme.
Non
dobbiamo risolvere ogni singolo problema.
Di
certo non abbiamo bisogno di un unico governo mondiale che ci salvi dal caos.
Ma non
è mai stato più chiaro di così:
i
cittadini di tutti i paesi del mondo devono cooperare se vogliono raccogliere i
frutti pressoché universali degli obiettivi che non si possono raggiungere da
soli.
Sono
un americano patriottico.
Sono
veramente grato per tutto quello che il mio paese ha fatto per me e per i miei
cari, e per ogni opportunità che ha creato per noi.
Ma non
sono un nazionalista. Non credo che i nostri valori siano intrinsecamente
superiori a quelli degli altri.
L’America
è una comunità di persone con opinioni diverse e convincimenti contrastanti, un
consesso di razze, persone di ogni fede e cittadini non credenti.
Né credo che i «valori americani» offrano la
soluzione migliore a ogni problema. La democrazia rappresentativa è, a
mio avviso, la migliore forma di governo, ma nessuna nazione governata da un
dittatore se la passerebbe meglio se tenesse libere elezioni fra tre mesi.
Per
costruire la democrazia ci vuole tempo, e la democrazia non è la migliore forma
di governo per ogni singola fase dello sviluppo di una nazione.
Fu la
tirannia del comunismo sovietico a sottrarre la Russia al feudalesimo zarista
nel 1917 e a portare Gagarin in orbita appena 44 anni dopo.
Nessuna democrazia ha liberato centinaia di
milioni di persone dalla povertà come ha fatto il Partito comunista cinese.
I
comunisti sovietici e cinesi si sono macchiati di alcuni tra i peggiori crimini
della storia contro persone innocenti.
Ma è
vero anche che gran parte della prosperità democratica dell’odierna Europa è
stata costruita su secoli di imperialismo, e che gran parte della ricchezza
attuale dell’America è stata accumulata sulle schiene di persone condotte lì in
catene.
Non
essendo un nazionalista, non ho problemi ad ammettere che tutte queste cose
sono vere.
Né
credo in una marcia ineluttabile verso la pace, l’uguaglianza, la giustizia o
la libertà.
La storia ci insegna che nessuno di questi
risultati è inevitabile.
Eppure,
per decine di migliaia di anni abbiamo sì potenziato la nostra capacità di
uccidere, ma anche la nostra capacità di cooperare.
L’archeologia
ci svela la progressione dal semplice al complesso compiuta dalla storia umana.
È stata la collaborazione tra le persone a
gettare le basi di questa complessità. Dall’invenzione della ruota alla nascita
del baratto, fino allo sviluppo della democrazia e alla creazione delle moderne
filiere produttive e reti di ammortizzatori sociali, le nostre conquiste
dipendono sempre più non solo dalle nuove tecnologie ma anche da forme
complesse di impegno sociale, cooperazione e coordinamento.
La
nostra disponibilità a cooperare deve progredire più velocemente delle forze
distruttive che abbiamo messo in moto.
I vari processi che oggi chiamiamo
«globalizzazione» hanno lasciato troppe persone a vivere nella miseria, e a un
palmo di naso dai ricchi.
Vedendo
nell’efficienza e nella redditività l’unica strada verso la prosperità, abbiamo
creato una forma brutale di governo che avvelena il suolo su cui crescono le
società civili, generando guadagni per proprietari e azionisti e abbandonando
milioni di persone.
Il
contenimento di questa pericolosa disuguaglianza comincia in patria, preparando
i lavoratori ad assorbire gli shock e ad affrontare le sfide che
inevitabilmente accompagnano l’accelerazione del cambiamento.
Non è
possibile costruire un nuovo sistema internazionale di cooperazione in una
volta sola.
Bisogna
cominciare dalla collaborazione tra alleati e popoli affini, tra paesi che
condividono gli stessi valori politici e persone già animate da fiducia
reciproca, prima che anche i governi più scettici capiscano che aderire a
questi progetti conviene.
Per
arrivarci, gli alleati dovranno stipulare un nuovo accordo con i loro rivali.
Suona
utopistico?
Prima
di arrenderci a un facile cinismo, ricordiamoci che esiste un precedente
storico per una visione così grandiosa, un precedente che ha permesso a
miliardi di esseri umani di sopravvivere e prosperare nel mondo moderno.
Dopo
la Prima guerra mondiale il conflitto che qualcuno, peccando di ottimismo,
definì «la guerra che mette fine a tutte le guerre», molti americani pensavano
che i futuri presidenti avrebbero dovuto tenere le truppe americane a debita
distanza dalle future guerre europee.
I tentativi
di dar vita a una Società delle Nazioni naufragarono, in parte perché l’America
rifiutò di aderirvi, in parte perché Germania, Italia e Giappone ne uscirono.
Negli
anni Venti e Trenta era ancora possibile credere che gli oceani Atlantico e
Pacifico fornissero tutta la sicurezza di cui gli americani avevano bisogno, e
che gli eventi in Europa, Asia, Africa e Medio Oriente fossero irrilevanti per
la vita americana.
Per le
potenze vittoriose d’Europa la Germania doveva uscire in rovine e umiliata
dalla Prima guerra mondiale.
Come
se la vita potesse tornare alla piena normalità prebellica non appena fermate
le artiglierie e rientrati i soldati dal fronte.
Come
se una potente nazione messa in ginocchio non potesse più risorgere per tornare
a incrinare la pace.
Una
generazione dopo, la Seconda guerra mondiale ha ucciso 75 milioni di persone.
Quando
finì, la Casa Bianca e il Pentagono capirono finalmente che bisognava investire
i soldi dei contribuenti statunitensi nel futuro di quegli stessi paesi che avevano
appena fatto di tutto per mettere fine allo stile di vita americano.
Quell’investimento
saggio e senza precedenti ha reso il mondo un luogo più sicuro per la
democrazia nelle nazioni che erano pronte a costruirla, e ha permesso il
commercio nei luoghi in cui era possibile rimettere in piedi le industrie.
Le due guerre mondiali hanno messo a nudo la
capacità della nostra specie di inventare mezzi sempre più efficaci per
seminare distruzione, ma hanno anche allargato la nostra capacità di
cooperazione, per il bene dei singoli e per quello comune.
Il
fascismo è stato sconfitto.
Sono
crollati imperi e milioni di persone hanno ottenuto l’indipendenza.
L’umanità ha dato prova di resilienza. Sotto
la spinta delle nuove tecnologie il commercio e gli investimenti globali hanno
compiuto grandi salti in avanti. Il numero di paesi democratici è aumentato.
In
sostanza, gli Alleati usciti vittoriosi dalla Grande guerra hanno creato un
nuovo sistema di governo internazionale fondato su un principio cardine:
il conflitto non cesserà fino a che ciascuno
di noi non si assumerà la responsabilità di tutti quanti gli altri.
Le
Nazioni Unite sono state create per istituzionalizzare l’impegno globale alla
sicurezza, alla dignità e alla prosperità.
La Carta delle Nazioni Unite affida
all’organizzazione il compito di «realizzare la cooperazione internazionale per
risolvere i problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale
o umanitario».
Sono
state create altre istituzioni allo scopo di aiutare i paesi poveri a
sviluppare i propri sistemi politici ed economici per il bene dei cittadini,
per fornire aiuti finanziari a chi ne aveva bisogno e a chi era in grado di
stabilire scambi commerciali liberi ed equi, per condividere le risorse
necessarie a combattere le malattie e per promuovere il rispetto del diritto
internazionale.
La
Seconda guerra mondiale è stata la più grande catastrofe mai abbattutasi sulla
razza umana.
È stata anche la crisi di cui avevamo bisogno per
compiere gli sforzi necessari a garantire la sopravvivenza e persino la
prosperità della nostra specie dopo il XX secolo.
Sono
stati scritti innumerevoli libri e articoli per illustrare nel dettaglio i
molteplici fallimenti di queste organizzazioni.
Oggi riflettono l’equilibrio di potere e di
influenza che esisteva nel 1962, ma che nel 2022 non esiste più.
Ma se
domani le eliminassimo tutte, avremmo bisogno di reinventarle il giorno dopo:
il mondo interdipendente che queste
istituzioni rispecchiano incide sulla vita di ognuno di noi in misura
esponenzialmente maggiore rispetto ai tempi della loro fondazione.
Le
Nazioni Unite danno voce a ogni nazione sulla scena internazionale e aiutano
gli stati più potenti del mondo a ridurre il rischio di guerre reciproche e con
altri paesi.
Le
forze di pace dell’ONU provengono da molte nazioni, consentendo agli stati
membri di condividere gli oneri, i rischi e i costi connessi al mantenimento
della pace e al contenimento delle sofferenze causate dai conflitti.
L’ONU ha salvato molte vite in molti luoghi e
ha fallito in altri, ma i successi ottenuti hanno fatto del bene a moltissime
persone, e merita un encomio solenne per aver scongiurato una nuova guerra mondiale.
Anche
l’”Organizzazione mondiale del commercio” crea vantaggi per tutti i paesi che
vi aderiscono.
Le sue
regole non sono in grado di prevenire ogni singola controversia commerciale e
la loro applicazione è lenta e incompleta.
Ma, come in ogni terreno di forte competizione, è di
gran lunga preferibile avere regole imperfette e un arbitro fallibile che non
averne affatto.
Il “Fondo
monetario internazionale” e altri” finanziatori multilaterali” offrono
un’ancora di salvezza finanziaria alle nazioni che hanno bisogno di aiuto,
spesso agendo come prestatori di ultima istanza.
Talvolta
le condizioni a cui erogano i prestiti danno adito a polemiche, sospetti e
acredini, ma hanno aiutato molte nazioni in via di sviluppo e i loro cittadini
ad evitare la catastrofe.
Anche
l’Unione europea, che da semplice area di libero scambio si è trasformata nella
più ambiziosa organizzazione di governo multinazionale della storia, ha
generato la sua buona dose di delusione, sfiducia e cinismo.
Molti cittadini degli stati membri accusano le
élite politiche europee di usare le istituzioni dell’UE per scrivere regole che
fanno gli interessi dei governi più potenti a scapito degli stati più piccoli,
che arricchiscono le multinazionali a scapito delle piccole imprese e che
soddisfano i bisogni dei burocrati ai danni delle libertà individuali.
Ma
l’UE ha contribuito a eliminare le guerre in un continente responsabile dei due
conflitti più distruttivi della storia.
Ha
aiutato tutti gli stati membri a fare il passo più lungo della loro «gamba
economica» nelle relazioni con gli Stati Uniti, la Russia e la Cina.
Ha
offerto ai cittadini la possibilità un tempo impensabile di attraversare
liberamente i confini nazionali in cerca di migliori opportunità.
Ha
ripulito l’aria e l’acqua nei paesi i cui governi potrebbero non voler o non
poter spendere per investire in questi progetti. Ha assunto il comando sia
sugli standard climatici sia su quelli relativi alla privacy.
Ha
creato un sistema in cui i paesi più ricchi possono migliorare gli standard di
vita degli stati membri più poveri, e a volte aiutarli a uscire da una crisi.
Ha fornito un modello di cooperazione al resto del mondo.
Criticare
tutte queste istituzioni è facile, specie per chi dalle critiche ci guadagna.
Ma tutte aiutano a tutelare la sicurezza, la dignità e le opportunità di tutti
gli abitanti del mondo. Proteggono i diritti umani. Rendono le guerre meno
probabili. Soprattutto, alleggeriscono il peso sui singoli governi creando una
struttura che sostiene la responsabilità collettiva.
Ogni
anno che passa ci sono meno persone abbastanza vecchie da ricordare gli orrori
della Seconda guerra mondiale e le sfide della decolonizzazione che hanno
ispirato e reso necessarie queste organizzazioni.
Non
dobbiamo dimenticare le lezioni che simili istituzioni ci hanno insegnato.
Se lo
faremo, dovremo impararle di nuovo, patendo sofferenze ancora più grandi di
quelle che hanno accompagnato le prime assimilazioni.
LA
ROTTA DI COLLISIONE.
Precedentemente
ho illustrato due rischi di collisione.
Il primo è la lotta tra l’America rossa e quella blu, che ha
gravemente danneggiato la vita politica e l’integrità democratica dell’unica
superpotenza mondiale.
Il
secondo è
il conflitto tra la potenza egemone rappresentata dall’America e quella
emergente rappresentata dalla Cina.
Il
pericolo maggiore che comportano entrambi è quello di distogliere i governi e
le istituzioni più potenti del mondo dall’affrontare le vere sfide che ci
attendono.
Siamo tutti in rotta di collisione con la prossima
inevitabile emergenza sanitaria globale, con il cambiamento climatico e con il
potere che le nuove tecnologie dirompenti hanno di destabilizzare le nostre
vite e le nostre società.
Questi
sono i rischi cui va incontro il nostro futuro in comune.
Ogni attimo, ogni idea, ogni grammo di energia e ogni
dollaro sprecato per combatterci, in patria o in una potenziale zona di guerra,
fanno aumentare il rischio di ritrovarci uniti nella sofferenza quando queste
minacce globali avranno superato la nostra capacità di contenerle.
Non
credo che l’avvelenarsi della politica interna distruggerà la democrazia
americana.
Le
istituzioni politiche statunitensi devono affrontare minacce reali, ma hanno
già assorbito shock considerevoli in passato.
Non
intendo sottovalutare il danno che la partigianeria al vetriolo può infliggere
alla vita americana, ma continuo a credere nella volontà degli americani di
difendere la democrazia dalle minacce concrete e nella capacità delle istituzioni
americane di far prevalere la legge sui pregiudizi culturali.
Non
credo che gli Stati Uniti e la Cina entreranno in guerra a causa di Taiwan o di
altre divergenze.
Entrambi i paesi hanno troppo da perdere da
una collisione catastrofica, e né Washington né Pechino possono aspettarsi che
altri governi li seguano sulla strada del disastro.
Ma… ho
scritto questo libro perché temo che gli americani rossi e blu da una parte e i
leader statunitensi e cinesi dall’altra siano così presi dall’idea di un loro
possibile scontro da trascurare le reali tempeste all’orizzonte.
Per
prepararsi ad affrontarle dovranno cooperare, ma non potranno farlo finché
saranno impegnati a scontrarsi sulle chimere dei massimi valori.
LA
GIUSTA CRISI.
Gli
esseri umani funzionano meglio quando arriva una crisi che reclama la loro
attenzione e mette a fuoco la sfida che hanno davanti.
Ma non
basta una qualsiasi emergenza.
Abbiamo bisogno di una «crisi alla Riccioli
d’Oro»: una crisi abbastanza grande da esigere il nostro impegno ma non tanto
distruttiva da non ammettere una risposta efficace.
Abbiamo
bisogno di una crisi sufficientemente spaventosa da costringerci a guardare in
faccia i rischi di un collasso geopolitico, di una futura pandemia, del
cambiamento climatico e degli effetti ad ampio raggio della rivoluzione
tecnologica.
Una
crisi che causi così tanto dolore e crei così tanti rischi per i leader al
potere da indurli finalmente a riconoscere che la collaborazione e il
compromesso sono l’unico scudo possibile contro la disfatta totale.
Una
crisi di dimensioni sufficientemente grandi da farci stringere intorno a
progetti comuni per affrontare le sfide descritte in questo libro.
Nei
primissimi giorni del Covid-19 è sembrato che la pandemia potesse creare la
perfetta crisi alla Riccioli d’Oro.
Di
sicuro era abbastanza grande da toccare le vite di miliardi di persone.
Tutti
i governi del pianeta sono stati costretti a reagire.
I danni economici provocati sono stati
ingenti, preannunciandosi duraturi.
Il
virus ha messo in pericolo governi, leader politici e aziende che hanno opposto
resistenza al cambiamento, mentre ha dato voce e potere agli scienziati e agli
innovatori in grado di aiutarci a comprendere la minaccia e ad affrontarne le
conseguenze.
Ci
siamo trovati dinanzi a una minaccia comune, una minaccia per certi versi non
meno avulsa e insidiosa dell’ipotetica invasione aliena di Ronald Reagan.
Eppure
troppi dei nostri leader politici hanno cercato di usare questa crisi per
fomentare la rabbia verso gli altri, in patria e all’estero.
Nel
campo scientifico, i progressi compiuti sul fronte dei tamponi, del
tracciamento dei contatti, delle terapie e dello sviluppo dei vaccini ci
aiuteranno a superare la prossima tempesta virale.
Le ripercussioni economiche globali del Covid
imprimeranno slancio alla transizione dall’economia novecentesca fatta di calce
e mattoni verso un futuro digitale in cui la maggior parte delle persone lavorerà,
farà acquisti e studierà online.
La
pandemia ha inoltre valorizzato le imprese intenzionate a stare sul mercato in
maniera ecosostenibile.
Ma il Covid non ha fatto abbastanza per
convincere i governi della necessità di pensare a nuovi modi per garantire la
sicurezza e consentire la prosperità.
Il
Covax ha fornito un modello eccellente per la cooperazione futura in materia di
salute globale, ma sono troppo pochi i governi che hanno investito in questo
progetto, e l’amministrazione Trump ha negato qualsiasi sostegno nel momento
più critico per consentirne il successo.
Come
accaduto nelle precedenti crisi, la pandemia ha convinto le banche centrali a
cominciare a stampare denaro per aiutare i paesi a reagire.
Benché necessaria, questa misura ha fatto ben
poco per risolvere le profonde disuguaglianze che ci tormentano.
Piuttosto
che disegnare e investire in nuove istituzioni – come per esempio un’”Organizzazione
mondiale dei dati” – i nostri leader sembrano accontentarsi di curare i
sintomi, non la malattia che mette in pericolo l’intera umanità.
Il
cambiamento climatico e le nuove tecnologie dirompenti sono crisi più grandi
del Covid, e possono dar vita alle istituzioni nazionali e internazionali di
cui abbiamo bisogno.
Dobbiamo agire ora se vogliamo essere pronti a
cogliere le opportunità che queste crisi imminenti creeranno.
UNA
VISIONE POSITIVA.
Per
inventare nuove forme concrete di cooperazione, tuttavia, agli esseri umani
serve qualcosa di più della paura scatenata da una crisi.
Abbiamo bisogno di una visione positiva per il
futuro, di piani che possiamo mettere in atto quando e come ne abbiamo bisogno.
Sono
troppi i nostri leader e troppi sono quelli tra noi che si fissano su ciò che
non possiamo fare e su ciò che secondo noi gli non altri faranno.
Chiudiamo la porta ancor prima di aver
intravisto che cosa potrebbe esserci dall’altra parte.
La
condiscendenza consente al cinismo e all’abitudine di prevalere.
Inoltre ci concentriamo troppo sulla
soddisfazione dei bisogni a breve termine.
I consumatori non sono gli unici a volere una
gratificazione immediata.
Anche
politici, dirigenti d’azienda e azionisti vogliono la stessa cosa.
Sia
loro sia noi siamo ossessionati dal mandato immediato del leader in carica,
dall’anno da superare, dal raggiungimento degli obiettivi trimestrali o dal
prossimo notiziario.
Ma il
nostro più grande limite è probabilmente questo:
siamo
in pochissimi a voler piantare semi i cui frutti verranno raccolti da altri.
Per
sopravvivere alle sfide che ci attendono, i nostri leader devono ascoltarsi
l’un l’altro e ascoltare tutti gli abitanti del pianeta.
Non
serve che siano d’accordo sulle questioni politiche, economiche, culturali o
sui valori nazionali.
Ma
devono essere d’accordo sul fatto che i conflitti tra superpotenze, le future
crisi sanitarie, il cambiamento climatico e le nuove tecnologie comportano
minacce globali e che la sopravvivenza della nostra specie dipende dalla cooperazione.
Devono
decidere insieme in che cosa investire e come condividere i costi e i rischi.
Nei capitoli precedenti ho proposto delle possibili strategie in grado di
gettare le basi del compromesso, della cooperazione e del coordinamento tra le
nazioni.
Le ripropongo in chiusura.
UN
COVAX GLOBALE .
In
risposta al Covid-19 172 paesi hanno aderito al progetto Covax per collaborare
con i produttori dei vaccini e garantire uguale accesso alle dosi a tutti i
paesi del mondo.
Cina,
Russia e Stati Uniti sono stati molto lenti nel concedere il loro sostegno.
Se il
progetto avesse ricevuto il placito e gli investimenti di tutti i maggiori
governi internazionali, l’obiettivo di distribuire equamente i vaccini in tutto
il mondo sarebbe stato raggiunto meglio e prima.
Il
modello del Covax va potenziato e affinato per prepararsi alla prossima
pandemia.
Inoltre,
il Covax può ancora rappresentare quel salto di qualità della capacità di
immaginazione globale indispensabile per creare progetti di partenariato simili
– e più efficienti – con cui affrontare tutte le emergenze che il futuro ci
riserverà.
UN
ACCORDO VINCOLANTE SULLA RIDUZIONE DELLE EMISSIONI DI CARBONIO.
Il
cambiamento climatico può essere limitato solo a patto di azzerare le emissioni
nette di carbonio nell’atmosfera entro il 2050.
(Il carbonio CO2 essendo 4volte più pesante dell’aria
non può innalzarsi nell’ atmosfera.
Inoltre
la Co2 é la fonte di vita per le piante e per noi. Azzerarlo nel 2050 è un
attacco all’umanità! N.D.R.)
Nessuno
vuole sacrificarsi più del dovuto e i progressi dipendono dalla fiducia nella
capacità degli altri di mantenere le promesse.
Qualsiasi
accordo sulle emissioni dovrà essere vincolante e verificato da osservatori
internazionali indipendenti.
Per essere credibili le soluzioni hanno
bisogno della volontà politica e di scoperte scientifiche, e i governi possono
condividere i costi associati allo sviluppo di tecnologie in grado di
accelerare il progresso.
UN
PIANO MARSHALL VERDE .
Un
accordo vincolante sulle emissioni può rientrare in un più ampio patto
internazionale che preveda l’investimento e il passaggio all’energia
rinnovabile, la creazione di lavori verdi e la risistemazione degli svariati
milioni di sfollati creati dai danni che il cambiamento climatico infliggerà
anche nei migliori scenari.
Dovrà
prevedere un accordo globale sui diritti dei rifugiati che aiuti a scongiurare
i conflitti futuri e a soddisfare bisogni umanitari sempre più pressanti.
A differenza del Piano Marshall, che contribuì
alla ricostruzione dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale con i fondi dei
soli Stati Uniti, il successo di un “Piano Marshall verde” dipenderà dalla
condivisione globale dei costi e degli altri oneri.
PER
UN’ ORGANIZZAZIONE MONDIALE DEI DATI.
Il
mondo ha un disperato bisogno di gestire, attraverso una fonte indipendente, i
dati che gli esseri umani producono in quantità sempre maggiori.
Abbiamo bisogno di regole e standard che
valgano per i governi e per le imprese che possiedono e utilizzano le
informazioni personali che generiamo.
Proprio
come l’”Intergovernmental Panel on Climate Change” dell’ONU, che elabora
analisi indipendenti sul “riscaldamento globale”, e l’”Organizzazione mondiale
del commercio”, che fissa regole in grado di risolvere le controversie e
facilitare il commercio fra tutti i suoi membri, così un’”Organizzazione mondiale dei
dati” può disciplinare l’intelligenza artificiale, la privacy, la proprietà
intellettuale e i diritti dei cittadini.
La
Cina e altri stati autoritari non entreranno subito a farvi parte perché non
saranno d’accordo con le democrazie su come bilanciare al meglio sicurezza,
privacy, protezione della proprietà e libertà personale.
Ma se
le democrazie che viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda creeranno questa
organizzazione, e se gli standard fissati da quest’ultima creeranno a loro
volta delle opportunità, trovare un compromesso per il bene di tutti diventerà
possibile.
CHI
RACCOGLIERÀ QUESTA SFIDA.
L’America
non ha intrapreso un percorso di riconciliazione tra destra e sinistra.
Le elezioni presidenziali del 2024 saranno
probabilmente le più brutte e pericolose della storia americana.
Non è
un’esagerazione.
Nei
prossimi anni la guerra culturale tra destra e sinistra ci regalerà nuovo
rancore, soprattutto visto che Donald Trump continua ad attaccare le
istituzioni su cui la democrazia americana poggia.
Fortunatamente
il mondo non ha bisogno dell’unità americana per affrontare le sfide globali.
Basta
che la nazione più potente del mondo dia prova ancora una volta della sua
resilienza e continui a farsi carico dei numerosi costi e rischi derivanti
dalla leadership su questioni complesse come il cambiamento climatico e la
rivoluzione dell’intelligenza artificiale.
Il
mondo non ha bisogno nemmeno che Stati Uniti e Cina ricuciano tutti i loro
strappi.
Non
succederà mai.
Ma se
Washington e Pechino riusciranno a evitare un’escalation delle ostilità e a
scongiurare una nuova Guerra fredda, allora potranno lavorare insieme sulle
questioni climatiche e sulle tecnologie dirompenti che minacciano entrambi i
paesi e l’umanità tutta.
Ma,
soprattutto, se riusciremo a disinnescare gli scenari peggiori sia dentro i
confini americani che tra Washington e Pechino avremo ancora un margine
d’intervento sufficiente per consentire anche ad altri attori di giocare un
ruolo chiave.
L’Unione
europea dovrà svolgere un ruolo cruciale nell’affrontare le sfide climatiche e
tecnologiche e, se gli Stati Uniti e la Cina riusciranno a evitare un conflitto
che costringe l’Europa a schierarsi interamente con una parte a scapito
dell’altra, Bruxelles potrà rilanciare la cooperazione internazionale in tutti
questi ambiti.
Ci
sono buoni motivi per essere ottimisti.
Quando
il Covid ha colpito l’Europa all’inizio del 2020 facendo crollare i prezzi del
petrolio, qualcuno ha temuto che persino nelle file dell’UE – all’avanguardia
nelle politiche contro il cambiamento climatico – si sarebbe perso lo slancio
regolatorio verso la riduzione delle emissioni di carbonio.
Le
crisi passate, tra cui il crollo finanziario del 2008-2010 e la crisi
migratoria del 2015-2016, hanno aperto delle fratture tra i paesi dell’UE.
Ma il
Covid ha offerto all’Unione la possibilità di disegnare la propria rotta non
solo sulla pandemia e sulla ricostruzione economica, ma anche sul cambiamento
climatico.
Una
delle questioni più controverse al suo interno è se consentire la tassazione
comunitaria degli stati membri per poter finanziare obiettivi di più ampio
respiro.
Molti
dei paesi frugali del Nord Europa si sono opposti a una ridistribuzione su
larga scala della ricchezza verso gli stati del Sud finanziariamente più
deboli, tra cui Italia, Spagna e Grecia – paesi i cui governi, secondo i
detrattori, spenderebbero troppo e tasserebbero troppo poco.
Ma
questi stessi paesi del Nord sono anche i più favorevoli a un’audace azione di
contenimento del cambiamento climatico.
Facendo
della spesa per il clima uno dei cardini del suo bilancio da 1800 miliardi di
euro e dei suoi piani di sostegno economico per la ripresa dalla pandemia, la “Commissione
europea “ha potenziato la propria capacità di raccogliere fondi da destinare al
contenimento delle ricadute della pandemia e del cambiamento climatico presso gli
stati membri storicamente riluttanti.
Solo
gli stati membri che rispettano le norme UE sulle emissioni e altre politiche
rilevanti per il clima possono aspettarsi di ottenere aiuti generosi per la
ripresa post pandemia.
Inoltre
il sistema di scambio delle emissioni dell’UE sta entrando nel vivo e si
appresta a diventare la carta vincente dell’Europa per raggiungere gli
obiettivi di riduzione delle emissioni fissati per il 2030.
La
versione più recente del piano prevede la riduzione di anno in anno delle quote
di emissione annuali complessive, la creazione di un meccanismo separato per le
emissioni dei settori trasporti e costruzioni e l’eliminazione graduale delle
«quote gratuite» assegnate a industrie pesanti, compagnie aeree e spedizioni
marittime.
La
messa a punto di questo piano genererà un fiume di polemiche e
mercanteggiamenti, ma il sistema di scambio delle emissioni diventerà più
rigoroso e nell’UE i prezzi del carbonio saliranno con l’obiettivo di imprimere
slancio alla riduzione delle emissioni.
Alcuni
leader europei hanno vincolato i salvataggi delle industrie più colpite dal
rallentamento causato dal Covid al reshoring, ossia il rimpatrio della
produzione nei paesi d’origine.
È una buona notizia per l’occupazione locale
ma in alcuni settori, tra cui quello automobilistico, la rilocalizzazione aiuta
anche a garantire la conformità dei processi di produzione e dei prodotti
finali alle norme climatiche dell’UE.
Non
solo: è allo studio un sistema di agevolazioni e sanzioni fiscali in grado di
indurre le aziende domiciliate al di fuori dell’UE che vogliono fare affari in
Europa a rispettare gli standard europei.
I fondi raccolti con l’aumento
dell’imposizione sui prodotti esteri più inquinanti potranno poi essere
indirizzati verso le tecnologie verdi approvate dall’UE.
Si
tratta di conquiste storiche, nonché di un esempio del tipo di cooperazione che
ci serve per affrontare tutte le sfide discusse in questo libro.
L’Unione europea ha usato il Covid-19 per combattere
il cambiamento climatico incanalando i fondi per la ripresa all’interno di
progetti verdi, chiarendo quali progetti possono qualificarsi come ecologici,
vietando a tutti i fondi non destinati a progetti verdi di finanziare qualunque
cosa sia passibile di aggravare il problema del riscaldamento globale e
adottando obiettivi di riduzione delle emissioni più ambiziosi.
L’Europa
sta svolgendo un ruolo cruciale sul piano normativo anche rispetto ad altre
questioni urgenti.
Sui
temi dell’utilizzo dei dati e della privacy i leader dell’UE fanno leva sulle
dimensioni del mercato al consumo europeo per fissare regole che le aziende
tecnologiche statunitensi e cinesi non potranno permettersi di ignorare.
Se
Stati Uniti e Cina possono evitare una nuova Guerra fredda, l’Unione europea
può scrivere regole e fissare standard che aumenteranno il coordinamento
internazionale sulle sfide illustrate in questo libro, al tempo stesso tutelando
i diritti e le libertà delle persone.
Ma il
pensiero deve spingersi oltre i governi, perché i politici non possono creare
da soli un nuovo globalismo.
Alcune
aziende hanno sfere d’influenza e interessi che valicano i confini in modi
preclusi ai governi. La loro rilevanza non potrà che aumentare.
È una
buona notizia, perché la capacità di queste entità globali di realizzare il
cambiamento è molto meno imbrigliata dai confini artificiali e sono realtà in
grado di adattarsi al cambiamento molto più velocemente.
Tra
esse, le più importanti sono di gran lunga i colossi tecnologici più grandi del
mondo.
Se
aleggiavano ancora dei dubbi sull’enorme potere geopolitico accumulato dalle
Big Tech, le conseguenze della rivolta del 6 gennaio al Campidoglio dovrebbero
averli fugati una volta per tutte.
Sebbene
il Congresso non potesse ritenere Donald Trump responsabile di aver fomentato
il più grave assalto alla democrazia americana a memoria d’uomo, Big Tech ha
intrapreso un’azione decisiva.
A
poche ore dall’assalto al Congresso, Facebook, Twitter, Apple, Google e Amazon
hanno sospeso i profili di Trump e di altri politici che avevano diffuso la
bugia dei brogli elettorali e incoraggiato l’insurrezione.
Hanno
temporaneamente bandito “Parler”, un servizio che molti sostenitori di Trump
usavano per fomentare o coordinare la presa del Campidoglio, tagliandolo fuori
dai servizi di “web hosting” e dai principali “app store”. Il governo e le forze dell’ordine non
hanno avuto alcun ruolo in questa vicenda.
La
cancellazione dalle piattaforme di Trump e dei suoi sostenitori è stata una
decisione presa esclusivamente dalle aziende che avevano il potere di
intervenire su codici, server e politiche sotto il loro esclusivo controllo.
A
maggio il “Consiglio di sorveglianza di Facebook” – istituito nel 2020 – aveva deliberato la decisione
dell’azienda di sospendere il profilo di Trump.
Le
aziende tecnologiche, inoltre, hanno fatto molto di più di quanto abbiano fatto
o possano fare i governi per scovare ed escludere altri malfattori dal
cyberspazio. Facebook, Google, Amazon, Microsoft ed Apple hanno accumulato un
potere tale da diventare gli arbitri degli affari globali, non dei semplici
spettatori.
Oggi
non c’è nessun altro attore non statale, e forse non c’è mai stato, che si sia
avvicinato a una simile influenza geopolitica, e ciò crea sia pericoli sia
motivi di ottimismo.
Le
principali aziende tecnologiche statunitensi e cinesi sono attori protagonisti
nel dramma che deciderà se il mondo piomberà in una nuova Guerra fredda o si
dirigerà verso un futuro molto più roseo.
Google,
Facebook, Microsoft, Amazon, Alibaba, Tencent e ByteDance non stanno
semplicemente rispondendo a trend geopolitici: li stanno creando.
Già in
passato il potere privato ha giocato un ruolo significativo nella geopolitica. La Compagnia delle Indie Orientali e
il suo esercito privato hanno governato il subcontinente asiatico per conto
della Corona nel Settecento e nell’Ottocento.
«Big
Oil» esercitava un’enorme influenza politica durante i suoi anni d’oro.
Ma gli
odierni colossi tecnologici differiscono da questi precursori sotto due aspetti
fondamentali.
Innanzitutto,
i colossi tecnologici non esercitano il potere esclusivamente nello spazio
fisico.
Mantengono
ed esercitano una profonda influenza in una sfera del tutto nuova della geo
politica: lo
spazio digitale, che essi stessi hanno creato.
Le
persone si rivolgono a queste aziende per apprendere, trovare l’amore, fare
acquisti e accumulare ricchezza – nonché, talvolta, per ordire la destituzione di
governi.
Neanche
il Partito comunista cinese è in grado di controllare fino in fondo questo
territorio.
Lo
spazio fisico è finito. Quello digitale cresce in maniera esponenziale.
Considerando
i dati grezzi sulla popolazione, i quasi tre miliardi di utenti attivi mensili
di Facebook lo rendono due volte più grande dei più grandi paesi della Terra.
Gli
oltre due miliardi di utenti di YouTube abbracciano più di cento paesi. Google
sostiene che sulla sua piattaforma viene fruito ogni giorno più di un miliardo
di ore di video.
Gli
analisti del settore stimano che le dimensioni complessive della «data sfera» –
la quantità di informazioni digitali create e memorizzate in tutto il mondo
ogni anno – raggiungerà quasi 60 zeta byte nel 2020.
La
data sfera subirà una gigantesca espansione perché nella prossima fase della
rivoluzione digitale auto, fabbriche e intere città verranno cablate con
dispositivi connessi a internet, e ciò non farà che complicare ulteriormente le
cose per i politici.
I
politici stessi sono sempre più asserviti al regno digitale.
La capacità di un candidato di attrarre
follower su Facebook e Twitter – più che i suoi contatti con i professionisti
della politica – è ciò che fa arrivare il denaro e i voti che servono a vincere
le elezioni in molte democrazie.
Per
una nuova generazione di imprenditori il motore di ricerca di Google, gli
strumenti di «targetizzazione» delle inserzioni di Facebook, il marketplace e i
servizi di web hosting di Amazon e l’app store di Apple sono diventati
indispensabili per avviare un business di successo.
Più le
persone ricorrono allo spazio digitale per soddisfare le proprie esigenze
basilari, maggiore è il compito che sono chiamati a svolgere i governi, molti
dei quali già faticano a fornire risposte soddisfacenti ai propri cittadini
dinanzi alle sfide del XXI secolo, come la pandemia, l’aumento della disparità
di reddito, l’epidemia di oppioidi, il cambiamento climatico e lo
sconvolgimento sociale ed economico innescato dal ritmo serrato dell’innovazione.
I
governi stanno opponendo resistenza a questa usurpazione del loro potere.
La
Cina ha preso di mira aziende tecnologiche nazionali come Alibaba, Ant Group e
altre società online.
L’Unione europea ha cercato di regolamentare i
dati personali, i contenuti online e i gate keeper (i «controllori
dell’accesso») di internet per tutelare la privacy dei suoi cittadini.
La
sequela di disegni di legge antitrust presentati al Congresso nel corso del
2021 e le pressioni dell’India sulle imprese straniere di social media come
Twitter mostrano come i governi di tutto il mondo stiano cercando di imporre la
propria volontà sulla sregolata sfera digitale.
Ma i
governi sono tendenzialmente lenti a regolamentare un’arena che pochi
legislatori comprendono, e le aziende tecnologiche si sono dimostrate abili nel
resistere ai tentativi dei governi di rovesciarne l’accentramento di potere.
Le
aziende tecnologiche differiscono dai vecchi mediatori di potere del settore
privato anche per la profondità e l’ampiezza della loro portata.
In
passato molte aziende private fornivano acqua, elettricità, trasporti e altri
servizi essenziali.
Oggi
una manciata di giganti della tecnologia svolge ruoli cruciali in questi e in
moltissimi altri campi.
Cominciamo
proprio dal settore informatico.
Appena
quattro aziende – Microsoft, Amazon, Google e Alibaba – soddisfano il grosso della domanda
mondiale di “servizi cloud”.
Durante
il primo anno della pandemia di Covid-19 è stata questa infrastruttura
informatica essenziale a far funzionare l’economia globale, a permettere alle
persone di lavorare e a consentire di creare aule virtuali in cui i ragazzi
potevano continuare a imparare.
Molto
presto il successo di tutti i settori e di tutti i governi dipenderà quasi
interamente dalla bravura con cui coglieranno le nuove opportunità create dalle
reti 5G, dall’intelligenza artificiale e dall’internet delle cose.
Tutti
dipendono dalle infrastrutture costruite e gestite da questi leader del cloud.
La capacità delle aziende tecnologiche di lavorare con i governi e tra di loro
per rispondere alle future pandemie, limitare i danni del cambiamento climatico
e costruire un approccio più razionale all’ingresso delle nuove tecnologie
nelle nostre vite e società dipenderà dalla natura degli obiettivi perseguiti.
Segnatamente,
questi obiettivi potranno essere globalisti, tecno utopici o nazionalisti.
Tutte
le aziende esistono per fare soldi. Per le imprese che forniscono servizi
digitali è più facile raggiungere quest’obiettivo operando su scala globale.
Per
decenni le aziende tecnologiche di maggior successo hanno seguito una formula
molto semplice: creare una app da urlo e venderla sul mercato più grande possibile.
Microsoft, Amazon, Google, Facebook e Apple
hanno tutte costruito i loro imperi adottando mentalità globaliste.
Inizialmente hanno puntato a dominare una
nicchia economicamente proficua, per poi cominciare a vendere i loro servizi in
tutto il mondo.
Aziende
cinesi come Alibaba, Tencent e ByteDance hanno scalato il gigantesco e spietato mercato interno
cinese prima di diventare globali, ma il principio che sta dietro la loro
crescita è lo stesso:
aprire
negozi in quanti più paesi possibile, localizzare i contenuti a seconda delle
necessità e competere senza sosta.
I dipartimenti
addetti alle relazioni istituzionali delle principali aziende tecnologiche del
mondo – alcuni dei quali impiegano centinaia di ex diplomatici, lobbisti e
avvocati con una lunga esperienza di governo – denotano la priorità da sempre
assegnata all’approccio globalista.
È
possibile che il globalismo sia la modalità predefinita del settore
tecnologico, ma si trova a competere, e talvolta a scontrarsi, con un impulso
tecno utopista non meno influente nella Silicon Valley, a Seattle, Hangzhou e
Shenzhen.
Alcune
delle aziende tecnologiche più potenti del pianeta sono guidate da fondatori
con visioni straordinarie del ruolo mondiale che le loro imprese sono chiamate
a ricoprire.
In Occidente alcuni di loro, come “Mark
Zuckerberg” o “Larry Page” e “Sergey Brin” di Google, mantengono il controllo delle
rispettive aziende attraverso le azioni dei fondatori o altre strutture
finanziarie.
In
questo modo sono meno esposti alle forme tradizionali di pressione esercitate
dagli azionisti rispetto ad altri fondatori o CEO.
Sono
tutti accomunati da una visione in cui la tecnologia non è solo un’opportunità
commerciale globale ma una forza potenzialmente rivoluzionaria che può salvare
l’umanità da sé stessa.
Elon
Musk, CEO di Tesla e SpaceX, è probabilmente l’esempio più riconoscibile della tendenza
tecno utopista, con la sua dichiarata ambizione di ripensare i mercati
dell’energia per scongiurare il riscaldamento globale, progettare
un’interfaccia cervello-computer a elevata larghezza di banda e rendere l’umanità
una «specie multi planetaria» colonizzando Marte.
Anche
il nazionalismo esercita un’attrattiva sui modelli di business delle aziende
tecnologiche.
A
partire dall’inasprimento dello scontro tecnologico USA-Cina nel 2016 e dalla
decisione dell’Europa di far passare in secondo piano il peso politico e
legislativo rispetto al mantra della «sovranità digitale», sempre più Big Tech
hanno pensato bene di posizionarsi come «campioni nazionali», ossia partner del
governo in importanti domini tecnologici, tra cui il cloud, l’intelligenza
artificiale e la sicurezza cibernetica.
Visto
il ruolo sempre più cruciale svolto da Microsoft nel combattere gli attacchi
informatici perpetrati da malfattori e bande criminali foraggiati dai loro
governi, sia Microsoft sia Amazon competono per fornire infrastrutture di cloud
computing al governo americano.
Queste
tre categorie non colgono appieno la complessità delle aziende tecnologiche e
delle intenzioni dei loro leader.
Le aziende tecnologiche sono organizzazioni
grandi e complesse, e all’interno di ognuna si combinano motivazioni
globaliste, tecno utopiste e nazionaliste.
Ma le
categorie possono comunque aiutarci a capire le scelte che le aziende
tecnologiche dovranno operare mentre attraverseranno la mutevole geopolitica
dello spazio fisico e digitale nel corso del prossimo decennio.
Si
allineeranno con i governi che chiederanno loro di «scegliere da che parte
stare» nella lotta sempre più ideologica tra Stati Uniti e Cina?
Resisteranno
alla tentazione di diventare campioni nazionali, di opporsi alla
regolamentazione che minaccia i loro modelli di business, per preservare un
approccio più globalista?
O
scommetteranno su un futuro in cui gli stati svaniranno e le aziende
tecnologiche contribuiranno a introdurre un nuovo contratto sociale o
addirittura nuove forme di governo umano?
Mentre
la competizione tra Washington e Pechino si intensifica e aziende e governi
negoziano il controllo dello spazio digitale, i colossi tecnologici americani
opereranno in uno di questi tre scenari:
lo stato regna sovrano e i campioni nazionali
vengono premiati;
le
aziende soggiogano lo stato, consegnando ai globalisti una vittoria storica;
lo stato svanisce per dare potere ai tecno utopisti.
Vediamo
che forma potrebbe prendere ciascuno di questi scenari.
LO
STATO REGNA SOVRANO/VINCONO I CAMPIONI NAZIONALI.
In
questo scenario gli Stati Uniti e i loro alleati si organizzano per offrire
denaro ai governi e creare leggi che premiano le aziende «patriottiche», quelle
con modelli di business e risorse allineate agli obiettivi nazionali, e
puniscono le imprese che non si adeguano.
Le
aziende, confidando nella presenza di un solido capitale politico e finanziario
a supporto di questo sforzo, alla fine rinunciano a lottare per guadagnarsi
quote di mercato in Cina e abbracciano la via degli Stati Uniti e di altri
governi occidentali nella speranza di poter beneficiare del boom della spesa
pubblica in nuove infrastrutture digitalmente connesse e dei vari servizi
sociali abilitati dalla tecnologia, sponsorizzati da quei governi.
Nella
vita dei cittadini americani lo stato rimane il principale dispensatore di
sicurezza, diritto e beni pubblici, e shock sistemici come la crisi finanziaria
globale e la pandemia cementano ulteriormente il ruolo chiave del governo come
soccorritore di ultima istanza.
In
questo scenario lo slancio bipartisan a favore di una maggiore regolamentazione
limita i poteri delle aziende tecnologiche i cui piani di sviluppo non sono
allineati con quelli del governo.
La chiave
di volta di questo scenario è la presenza di una spinta coordinata degli Stati
Uniti con i governi di altre democrazie industriali avanzate, tesa a formare
alleanze che contengano l’espansione del potere e dell’influenza della Cina, al
tempo stesso investendo in maniera imponente nella ripresa post pandemia e
nella transizione verde.
LE
AZIENDE SOGGIOGANO LO STATO/VINCONO I GLOBALISTI.
In
questo scenario il governo continua a indebolirsi perché la polarizzazione si
intensifica e la disparità di reddito e di ricchezza aumenta di pari passo con
l’automazione e la digitalizzazione.
Il
sentimento di rivalsa contro le maggiori aziende tecnologiche non riesce a
tradursi in riforme incisive sulla privacy o sulla tutela della concorrenza in
grado di stravolgere i modelli di business, lasciando sostanzialmente intatta
la sovranità di Big Tech nella sfera digitale.
Le
autorità regolatorie non riescono a tenere il passo con l’innovazione.
Le
imprese profondono ancora più energie per fare lobbying sui politici e impedire
l’introduzione di leggi in grado di limitare le loro attività estere, anche in
paesi autoritari come la Cina e la Russia.
A differenza dei campioni nazionali, ai
globalisti interesserà meno supportare i governi:
la
loro priorità sarà quella di assicurarsi che non siano d’intralcio.
I
globalisti hanno bisogno di stabilità per avere successo nel prossimo decennio.
Possono
sopravvivere alla continua erosione delle istituzioni democratiche
statunitensi, ma non allo strapotere dell’apparato statale dell’America.
Possono gestire periodiche tensioni nelle relazioni
USA-Cina e persino il sentimento di sfiducia perenne tra le due nazioni, ma non
una nuova Guerra fredda che li costringa a scegliere tra Washington e Pechino.
LO
STATO SVANISCE/VINCONO I TECNOUTOPISTI.
In
questo scenario la crescente sfiducia dei cittadini nei confronti dei politici
dissolve il contratto sociale.
Gli
americani e alcuni paesi in via di sviluppo adottano modelli basati su
un’economia digitale che tiene a debita distanza i governi, e la fiducia nel
dollaro in quanto valuta di riserva globale viene meno.
La
disintegrazione del potere centralizzato nell’unica superpotenza del pianeta
indebolisce la capacità del mondo intero di affrontare il cambiamento climatico,
le pandemie, la proliferazione nucleare e altre sfide internazionali.
Per i
tecno visionari con ambizioni alate e ricchezze inesauribili, il patriottismo
diventa discutibile.
Elon Musk gioca un ruolo più importante nella
trasformazione delle infrastrutture di trasporto, energetiche e di
comunicazione, per non parlare delle modalità con cui esploriamo lo spazio.
Mark Zuckerberg ha molta più voce in capitolo quando
si tratta di decidere come ci connettiamo con gli altri in privato, sul lavoro
e in politica.
Ma
l’erosione dello stato americano non darebbe carta bianca ai tecno utopisti di
tutto il mondo.
Anche la credibilità interna dello stato
cinese dovrebbe subire un tracollo.
LA
SFIDA CINESE.
Questo
modello globalista-nazionalista-tecno utopista non si applica altrettanto bene
alla Cina, dove il potere centralizzato dello stato è infinitamente superiore.
I tecno utopisti come Jack Ma stanno imparando
a non sfidare apertamente lo stato cinese, e anche gli aspiranti globalisti
sono costretti a comportarsi come se fossero prima di tutto nazionalisti.
Alibaba, che ospita i più grandi siti web
consumer-to-consumer, consumer-to-business e business-to-consumer del mondo,
deve stare attenta;
lo
stesso dicasi per ByteDance, la cui app di condivisione video TikTok l’ha aiutata a diventare l’unicorno
di maggior valore a livello mondiale.
Stessa
sorte tocca a Tencent, che coopera di più con la burocrazia della sicurezza statale cinese di
quanto non faccia Alibaba.
Se l’economia
cinese cominciasse a stagnare e i campioni nazionali si rivelassero meno
redditizi o meno capaci di stimolare la produttività delle aziende globaliste, lo stato potrebbe concedere ai
globalisti una maggiore libertà d’azione all’interno dei confini nazionali.
Per il
momento, tuttavia, la Cina continua a premere tenacemente sulle sue aziende
tecnologiche affinché si allineino ai piani e alle strategie statali.
Un
mondo in cui lo stato diventasse più forte sarebbe quello più a rischio di
sprofondare in una nuova Guerra fredda e di soffocare la cooperazione globale.
Se
Washington e Pechino continueranno a prediligere la competizione strategica
sulla cooperazione tecnologica, non ci saranno grandi speranze di poter
utilizzare le soluzioni proposte in questo libro per rafforzare il sistema
internazionale per il bene degli Stati Uniti, della Cina e del mondo intero.
Uno
scenario in cui le aziende tecnologiche diventano più indipendenti dal governo
(ed entrano più in competizione con esso) in entrambi i paesi ha maggiori
probabilità di promuovere la cooperazione per far fronte alle grandi emergenze
e di incoraggiare l’innovazione per raccogliere nuove sfide.
Un
mondo in cui i tecno utopisti hanno l’ultima parola su più fronti è più difficile
da prevedere, perché è un mondo in cui il potere è concentrato in poche mani,
spesso le più eccentriche.
LA
GENERAZIONE Z.
I
governi devono condividere i costi e le responsabilità derivanti da queste
sfide con tutti i soggetti in grado di dare una mano, perché si tratta di
ambiti che i rappresentanti politici e i legislatori non comprendono e non
controllano.
Le
organizzazioni che investono in progetti che impiegheranno degli anni per
generare profitti – come le banche e le imprese del comparto energia – devono
adottare una visione di più lungo termine rispetto a gran parte dei governi, e
questo rende le loro prospettive particolarmente preziose.
Le
aziende energetiche, in particolare, sanno che i loro profitti futuri dipendono
dalle fonti rinnovabili di carburanti ed elettricità.
Molte
delle ONG più lungimiranti del mondo operano su orizzonti temporali altrettanto
estesi. Persino in seno ai governi non contano unicamente i leader e i
legislatori nazionali.
Quando
Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero abbandonato l’”Accordo
di Parigi sul clima”, governatori e sindaci di tutto il paese hanno dichiarato
che avrebbero tenuto fede agli obiettivi climatici adottati.
Non è
un dettaglio, se pensiamo che l’economia della California è più grande di
quella dell’India, della Gran Bretagna e della Francia.
L’area metropolitana di New York ha
un’economia più grande di quella del Canada o della Russia.
Nel
mondo dei social media anche i singoli – non solo gli attivisti di fama
mondiale – hanno la capacità di lanciare campagne che i politici e il settore
privato non possono ignorare in eterno.
Abbiamo inoltre la fortuna che la prossima
ondata di persone chiamata a risolvere questi problemi è diventata adulta in un
mondo globalizzato.
La
Generazione Z – quei 2,5 miliardi di persone nate tra il 1996 e il 2016 – vedrà il
proprio impatto sulla politica, sulla cultura e sull’economia globale aumentare
enormemente nel prossimo decennio.
Sarà segnata dalla pandemia e dai suoi effetti
duraturi sull’istruzione e sull’occupazione ma, anche in un mondo dominato
dalla frammentazione del potere e delle comunicazioni, la «Gen Z» è la
generazione più interconnessa a livello globale della storia.
La
stragrande maggioranza di queste persone diventerà maggiorenne nei paesi in via
di sviluppo e, fortunatamente per noi, avrà le proprie idee su che cosa
aspettarsi dai governi, sull’impegno culturale transfrontaliero e su ciò che si
può e non si può fare.
Appellarsi
alla retorica de «i bambini sono il nostro futuro» è fin troppo facile quando
si invoca un cambiamento radicale, ma in questo caso l’esperienza del mondo vissuta
dalla “Gen Z” è molto diversa da quella della mia generazione.
Sono
cresciuto nella Boston degli anni Settanta e per me i ragazzi che vivevano in
altre parti del mondo erano quelli ritratti nelle foto del National Geographic.
Sapevo,
come penso sapesse la maggior parte dei miei amici, che la nostra visione del
mondo era fortemente filtrata dagli adulti, ma non avevamo grandi possibilità
di rimuovere il filtro e interagire direttamente con i bambini di altri luoghi.
Oggi i
giovani americani ed europei ascoltano e guardano musica e immagini create in
tutto il mondo.
Giocano
in tempo reale con i ragazzi asiatici e africani.
Questa
non è la globalizzazione di 25 anni fa.
I
ragazzi di questa generazione hanno ciò che nessun altro ragazzo ha mai avuto:
una visione a 360° del mondo.
Sono
consapevoli, e lo sono in maniera molto più immediata, di ciò che hanno in
comune con gli altri.
In particolare, sanno meglio di qualsiasi
generazione che li ha preceduti che spesso gli adulti hanno vedute ristrette e
una scarsa immaginazione sui problemi che stanno lasciando alle generazioni
future.
È
facile essere scettici sull’impatto immediato di attivisti giovani e celebri
come “Greta Thunberg” ma fortunatamente i giovani di tutto il mondo hanno su
questi problemi una prospettiva che pochi adulti possono vantare.
La
loro abilità nel trovare nuovi fini per i mezzi che gli adulti di oggi creano e
di inventare cose che gli adulti di oggi non riescono neanche a immaginare
dovrebbe rinvigorire la nostra fiducia nel futuro.
La
paura di un nemico alieno ha spesso ispirato popoli, tribù e nazioni a lavorare
insieme per sconfiggere o quantomeno sopravvivere a una determinata minaccia.
Reagan e Gorbaciov lo sapevano.
Oggi
le nazioni e i popoli del mondo non si trovano dinanzi a una minaccia aliena.
Siamo
chiamati ad affrontare sfide esistenziali comuni che siamo stati noi stessi a
creare.
In
questo senso siamo interdipendenti, ed è questo il fondamento della più grande
opportunità della storia umana.
La necessità deve ora diventare la madre della
cooperazione.
Dobbiamo
costruire un nuovo sistema internazionale che ci permetta di competere dove si
può e cooperare dove si deve.
Siamo
i primi esseri umani a mettere a fuoco queste minacce globali e gli ultimi in
grado di sconfiggerle. Vista la posta in gioco, se falliremo non avremo
un’altra possibilità.
Questo
è un estratto dal nuovo libro di Ian Bremmer, "Il potere della crisi -
Come tre minacce e la nostra risposta cambieranno il mondo" edito dalla
casa editrice “Egea”.
(IAN
BREMMER)
John Dewey
e il ripensamento
progressista
del liberalismo americano.
Ilpensierostorico.com - Alessandro Della Casa
- (5 agosto 2023) – ci dice:
Come
mai negli Stati Uniti il liberalismo, a lungo considerato sinonimo di
progressismo e osteggiato solo dai difensori dello status quo, aveva finito per
essere screditato perché giudicato pavido nei riguardi del cambiamento sociale?
E
quale liberalismo potuto riconquistare buona fama tra i progressisti?
Questi
erano i principali quesiti ai quali si proponeva di rispondere il filosofo John Dewey –
«onestamente, intelligentemente un liberale» – nella sua opera politica più
nota, “Liberalism and Social Action”.
Questa,
tornata oggi disponibile in italiano, era apparsa originariamente nel 1935,
anno in cui il democratico Franklin Delano Roosevelt attuava la seconda e ancor
più massiccia fase di riforme e interventi del New Deal.
Per
rispondere ai quesiti che si era posto, il pensatore di Burlington ripercorreva
l’origine e lo sviluppo storico del liberalismo anglosassone, a partire dalla
«rigida dottrina di diritti naturali individuali indipendenti
dall’organizzazione sociale» postulata da “John Locke”, il quale,
comprensibilmente nel frangente in cui l’aveva formulato, aveva inteso fornire
un fondamento intangibile alla limitazione del potere del monarca
sull’individuo e sulle sue proprietà.
L’eredità
dell’impostazione lockeana, però, era stata tanto la cristallizzazione
dell’«antagonismo fra governante e governato», tradotta in opposizione tra la
società organizzata e l’individuo, quanto la tutela della proprietà privata
che, interpretata in termini prettamente economici, da statico possedimento legittimamente
acquisito tramite il lavoro in un contesto di economia agricola, si era mutato,
nell’ambito dello sviluppo commerciale e industriale, in diritto alla libera e
dinamica «produzione della ricchezza».
La
subordinazione dell’attività politica a quella economica, implicata
dall’identificazione sostanziale tra «leggi naturali» e «leggi della produzione
e dello scambio», era stata rinvigorita dalle teorie fisiocratiche e smithiane,
che avevano indicato nell’inintenzionale convergenza degli sforzi compiuti dai
singoli per il proprio «guadagno personale» la fonte del «progresso» e del
«benessere sociale», inficiata dall’intromissione statale che oltrepassasse la
protezione della libera attività individuale.
All’identificazione
della libertà nell’assenza d’interferenze aveva poi contribuito il radicalismo
utilitarista di “Jeremy Bentham”.
Eppure,
questi con lo studio degli specifici problemi ispirato al «metodo sperimentale»
per l’elaborazione di riforme che massimizzassero la felicità per il maggior
numero, aveva avuto, agli occhi di Dewey, il merito di dimostrare la capacità
del liberalismo, svincolato dal retaggio giusnaturalistico, di «apportare
radicali mutamenti sociali».
Non a
caso, superando anche l’atomismo psicologico benthamiano, era stato sulla scorta
del diffondersi dello storicismo romantico che la legislazione (dei Tories,
rimarcava il filosofo) aveva regolamentato il lavoro nelle fabbriche.
La
nuova attenzione liberale verso la dimensione collettiva, già presagita da John
Stuart Mill, aveva trovato nutrimento nell’«idealismo organico» di matrice
tedesca, di cui si era fatto testimone in Gran Bretagna “Thomas Hill Green”.
«La filosofia dell’idealismo», spiegava Dewey, che
dall’idealismo aveva mosso i primi passi verso l’affermazione dello strumentalismo
pragmatista, «insegnò che gli uomini sono tenuti insieme dalle relazioni che
derivano e si manifestano in una mente cosmica finale.
Da ciò
seguiva che la base della società e dello Stato è una collaborazione
intelligente e lungimirante e non la forza e nemmeno l’interesse».
Lo
Stato, dunque, diventava un «organismo morale», frutto dello Spirito e della
Volontà comune degli individui che lo compongono, grazie al quale ed entro il
quale essi incessantemente realizzano sé stessi e la propria libertà, non più
«immutabile» possesso.
I
liberali, soprattutto negli Stati Uniti, dove più duratura si era rivelata
l’impronta lockeana fissata nella “Dichiarazione d’Indipendenza”, si erano
mostrati però incapaci di «affrontare i problemi organizzazione ed integrazione
sociale» posti dai mutamenti sempre più accelerati dai progressi
tecnico-scientifici, che esigevano di declinare con «senso della relatività
storica» i suoi «valori durevoli» e interconnessi: la libertà, l’individualità
e l’intelligenza.
Pertanto il liberalismo avrebbe dovuto
continuamente fungere da «mediatore dei trapassi sociali», affinché «i valori
della esperienza d’ieri» divenissero «docili strumenti dei desideri e dei fini
di oggi».
La
libertà, allora, non aveva più ragione di essere intesa quale mera «libertà
economica», laissez-faire, che non aveva prodotto il benessere generale
ascritto alla concorrenza, bensì l’accentramento delle forze di produzione
nelle mani di una rapace aristocrazia industriale, moderna incarnazione di
quelle «particolari forze oppressive» (schiavitù, dispotismo, «gabelle
legali»), inizialmente ritenute inalterabili ma poi superate poiché
riconosciute di ostacolo allo sviluppo umano.
L’inveramento
della libertà, quale liberazione individuale e stimolo reale allo sviluppo di
«rudi individui» (il riferimento polemico era ovviamente il “rugged
individualism” liberista difeso dal repubblicano “Herbert Hoover”) indipendenti
avrebbe invece richiesto «il controllo sociale delle forze economiche» e l’«emancipazione
da insicurezza materiale», preludio alla “libertà dal bisogno” proclamata
qualche anno dopo da “F.D. Roosevelt”.
In
ultimo, gli stessi individui, più che atomi isolati e in sé compiuti, erano
finalmente da concepire come esseri relazionali: immersi fin dall’inizio in un
ambiente costituito dal reticolo di associazioni e appartenenze, che influiva
sul continuo mutamento di ciascuna intelligenza integrata con l’altra.
Dewey
individuava il fine del «liberalismo rinascente», ineludibilmente radicale,
nell’applicazione dell’«intelligenza affrancata», socializzata e «cooperativa»,
della sperimentazione e revisione collettiva di ogni ipotesi e di ogni
intervento – ossia del «procedimento scientifico», che tanti risultati aveva
apportato nell’ambito della fisica, della tecnica e dei processi produttivi –
alla direzione e alla pianificazione della società.
La
riarticolazione graduale della democrazia, attraverso l’introduzione del metodo
della scienza, avrebbe permesso di regolare le «richieste in conflitto»
nell’«interesse di tutti – o almeno della grande maggioranza».
Questo risultato, che presupponeva l’ampia
disponibilità o l’induzione alla cooperazione e l’effettiva possibilità di
un’efficace comunicazione reciproca trascurando effettivamente la complessa
eterogeneità del tessuto sociale statunitense, non si sarebbe invece avuto,
secondo Dewey, fermandosi al confronto dialettico, alla persuasione e alla
competizione tra partiti, incapace di pervenire a una sintesi.
Non più improntata al soddisfacimento della «classe
economica dominante», la democrazia, così concepita, avrebbe avallato il
«libero sviluppo individuale», senza ricorrere ai mezzi violenti o dittatoriali
giudicati inevitabili dai marxisti, sul cui fine di una società senza
distinzione di classe “Dewey” sostanzialmente convergeva; benché guardasse con
maggiore interesse agli esperimenti di “Robert Owen”, ispiratori della pratica
dell’autogoverno nella comunità di “Hull House” fondata da “Jane Addams”, scomparsa nello stesso anno in cui usciva “Liberalism
and Social Action”, a lei dedicato.
La
proposta deweyana risentiva certamente del confronto in atto sul significato e
sugli scopi del liberalismo statunitense (al 1935 risaliva anche “Our Enemy,
the State” di “Alfred Jay Nock,” che argomentava in favore di quello che si
sarebbe poi chiamato “liberalismo classico””, libertarianism” o “Old Right”),
scioltasi infine con la risemantizzazione dell’aggettivo” liberal”, senza altre
specificazioni, proprio sulla scorta dell’interventismo economico
rooseveltiano, da “Dewey “sostenuto, negli anni della Depressione.
Ma
tale rilettura, coerente con l’impianto pragmatista peraltro contestato dal
lato conservatore per l’abbandono di ogni valore assoluto all’incessante
mutamento, affondava le sue radici anche nell’idea di progresso che, incentrata
sull’avanzamento delle conoscenze tecniche, sociologiche e psicologiche, largo
seguito aveva avuto sul piano teorico e pratico sin dalla fine della Guerra
civile.
E quel
“progressisvism”, che prefigurava più spesso (dai fratelli” Henry” e “Brooks
Adams” a “Rexford Tugwell”) la compressione degli spazi della politica e della
deliberazione a vantaggio dell’amministrazione e dell’organizzazione
“scientifica” della società a opera o su consiglio degli esperti – da” Dewey “reputata
incapace di interpretare la pluralità delle posizioni diffondere senso di
responsabilità ed ethos democratico –, avrebbe percorso, come è evidente, un
più lungo cammino rispetto all’«uso sociale dell’intelligenza» di Liberalismo e
azione sociale e alla «comunità cooperante a tentar nuove vie» evocata in
Individualismo vecchio e nuovo.
IL
GOVERNO DEGLI EQUIVOCI,
LA
GIUSTIZIA PROPRIETARIA
E IL
POPOLO SOVRANO.
Euronomade.info - Redazione – (Giu. 3, 2019) -
Omnia Sunt Communia – ci dice:
La
situazione è disordinata, ma non è affatto eccellente.
Diverse
pretese di governo si rincorrono, si confrontano e si scontrano e nessuna è
particolarmente allettante.
La
governance europea ha trovato occasionalmente il suo rappresentante nel
Presidente della repubblica.
Questi
ne ha affermato la legittimità utilizzando una costituzione che, sebbene con
l’introduzione del pareggio di bilancio sia stata modificata proprio per
adeguarla a quella governance, mostra di essere uno strumento insufficiente e
datato.
Dall’altra
parte, contro questo blocco di potere viene scagliata la sovranità del popolo,
cercando di convincere grandi e piccini che è la soluzione di tutti i mali.
Se avessimo una minima capacità di fare
politica dovremmo sfuggire all’alternativa tra il governo del Presidente e
quello impedito e furioso del popolo sovrano di matrice grillo-leghista.
Evidentemente
questa capacità però non c’è.
Gli
stessi che ieri dichiaravano la crisi della rappresentanza oggi rivendicano la
democrazia e le sue forme costituzionali, parlano di maggioranza tradita e di
colpo di Stato, vogliono l’indipendenza dalla Germania, pretendono un’italica
moneta sovrana per resistere al capitalismo globale.
Mentre
evocano la guerra finanziaria guidata dallo Stato, finiscono per eleggere a
eroe della classe operaia un anziano signore, cresciuto dentro la Banca
d’Italia e poi approdato all’ufficio studi di Confindustria.
Per
farla finita con queste fiabe vale la pena collocare gli eventi recenti nel
loro contesto reale, riconoscendo che siamo di fronte a una nuova eruzione
della grande crisi europea che si è aperta in Grecia nel 2015 prima con il
referendum e poi con la grande tempesta dei migranti.
Non a
caso Angela Merkel ha evocato la Grecia di Tsipras per mostrare come si
risolvono i problemi nell’Eurozona e come si risolveranno anche questa volta se
l’Italia non si adeguerà ai suoi principi.
E di crisi europea si tratta, non di un
complotto internazionale dell’alta finanza ma di uno scontro sociale e
politico, e quindi di classe, su scala transnazionale.
In Grecia nel 2015 le difficoltà della
governance finanziaria europea di gestire le sue contraddizioni hanno assunto una
forma nuova.
Allo stesso tempo si è mostrata
l’impossibilità di sottrarsi a quelle stesse contraddizioni facendo leva su un
governo nazionale.
Mentre i mercati dovrebbero insegnare agli
italiani come si vota, la stessa Germania ha conosciuto e conosce questa
tensione, avendo avuto bisogno di molte settimane per approdare a un governo
che appare come una sorta di ultima diga di fronte all’ignoto.
In Francia l’iperattivo Macron, il salvatore
della Repubblica, deve confrontarsi costantemente con piazze attraversate da
una moltitudine di figure sociali che cercano di imporre una convergenza di
lotte che ancora non si vede.
La
Spagna è da mesi sull’orlo di una crisi di sistema.
Leggere
quello che succede in Italia guardando solo l’Italia è dunque ridicolo.
La lotta di classe in Europa assume oggi la
forma di uno scontro quotidiano contro le imposizioni del capitale finanziario,
ma anche contro le sue articolazioni dentro ai singoli Stati, per quanto questi
possano pretendersi indipendenti e sovrani.
In Italia, ma non solo qui, davanti a questo
scontro epocale il passato viene rivolto contro il presente, il fascismo viene
riabilitato, il vortice dei movimenti porta alla ribalta figure da operetta che
occupano la scena in maniera maldestra.
E soprattutto
viene affermata la sovranità del popolo e della nazione, in un arco di
posizioni che va dall’ineffabile “Stephen K. Bannon” a gruppetti più o meno di
sinistra con i loro intellettuali di complemento.
All’interno
di quell’arco ognuno immagina il suo popolo e pensa di essere la sua migliore
rappresentanza.
Chi si
è comprensibilmente stufato di ascoltare “Varoufakis” e non prende ancora per
buono il mantra della democrazia sa però che il popolo sovrano non è un’entità
mistica, ma un insieme di rapporti di forza e di potere, che per esistere
devono essere appunto rappresentati.
Chi è
dunque il popolo sovrano?
Qual è
il governo del popolo?
In
Italia, ma non solo qui, a stabilire che cosa sia il popolo sono oggi i partiti
che hanno vinto le ultime elezioni, che potrebbero governare, che potrebbero
anche vincere le prossime o che alla fine, per manifesta incapacità e pur di
governare, potrebbero accettare ciò che finora hanno rifiutato come un
affronto, cioè il controllo sulla formazione del loro governo.
È il governo degli equivoci o, se si vuole, un
governo comunque equivoco;
tuttavia,
come dicevamo, la situazione è confusa e presenta elementi di tragica comicità.
Eppure,
se si guarda al «contratto di governo» grillo-leghista un elemento di chiarezza
emerge indiscutibilmente e si capisce quale dovrebbe essere la costituzione
materiale del popolo sovrano e quale sarà la sua rappresentazione.
È un popolo senza qualità che deve essere
costantemente risarcito per questa sua condizione.
A ogni
vittima dell’élite globalista viene promesso un risarcimento:
ai
piccoli e medi imprenditori «tartassati» dal fisco si promettono flat tax e
«riscossione amica»;
a chi si trova sull’orlo della povertà un
reddito di misera cittadinanza;
ai risparmiatori traditi dalle banche
democratiche non meglio precisati indennizzi; agli “startuppers” finanziamenti
in green economy e nuove tecnologie.
L’elenco
prosegue in un crescendo di mariti che non dovranno più versare assegni di
mantenimento ai figli e donne finalmente al sicuro dalla violenza (ovviamente
praticata da uomini neri) grazie ai corsi di formazione rivolti alle forze
dell’ordine, finché sui titoli di coda non appare il popolo sovrano dei
cittadini ora legittimamente in armi.
Questo è il popolo reale che si vuole rendere
sovrano, cioè un blocco sociale ampio e trasversale tenuto insieme dalla
convinzione di aver subito dei torti dai governi precedenti e dalla promessa di
essere governati ora da uomini che finalmente stanno dalla sua parte.
La
costituzione materiale che si annuncia è una sorta di trattato di pace – non
solo fiscale – che prevede più o meno laute concessioni a quegli italiani che
nella crisi hanno visto assottigliarsi livelli di reddito, rendita o profitto.
Che
quella rabbia abbia radici, motivazioni e legittimità diverse, o che quelle
concessioni saranno opportunamente modulate sui criteri regressivi della” flat
tax” e dei tagli agli «sprechi» – leggi welfare – è il fatto oscuro di questa
tregua sociale.
All’interno
del popolo tutti gli uomini sono uguali e quindi ci saranno solo vincitori.
Il
governo, già venduto come «legale» rappresentante del popolo, dovrà eseguire la
giustizia in suo nome.
La crisi della rappresentanza viene così
«risolta» dispiegando tutti i capricci metafisici che il popolo e la giustizia
possono mettere in campo.
Un
popolo che non c’è affida all’esecutivo il compito di costituirlo.
È un
popolo evanescente, la cui voce doveva essere non a caso requisita da un
avvocato e da un direttorio incaricati di gestirne l’unità ideale per non
rivelarne la reale natura posticcia.
Non
una mediazione che presuppone un conflitto tra piccoli imprenditori gelosi del
profitto e poveri perseguitati dalla miseria imposta dai primi, tra padri di
cui si vuole restaurare l’autorità minacciata dal divorzio e madri da mettere
al lavoro dopo aver rassettato casa, ma un meccanismo di conciliazione
obbligatoria che ribadisce la centralità dell’esecutivo quale detentore del
monopolio del disbrigo degli affari.
La nuova
sovranità del popolo preferisce il diritto privato a quello pubblico, anche se
la distinzione diventa sempre meno chiara.
Questo
governo del popolo rivendicato dai sovranisti non ha niente di diverso dalla
sempre maggiore centralità dell’esecutivo che si sta affermando da decenni
negli Stati del capitalismo globale.
La proposta di introdurre il vincolo di
mandato punta a impedire che la trama scomposta degli interessi societari si
mostri nella sua permanente conflittualità.
La gestione degli affari della nazione
pretende l’obbedienza al governo della maggioranza: il parlamentare che si
sottrae a questo diktat agisce infatti per conto di interessi opachi e non
della giustizia.
Nel
contatto diretto tra il governo e il suo popolo si afferma così una giustizia
proprietaria non diversa da quella che Macron sta cercando di imporre in
Francia.
È una
giustizia che disprezza le rivendicazioni collettive, più che mai se collegate
alla propria condizione lavorativa.
È una giustizia fiscale, che esibisce il suo
profilo classista non solo attraverso la “flat tax”, ma anche riducendo
drasticamente la possibilità di indagare sui redditi reali dei cittadini,
ovvero di alcuni di essi.
L’evasione
è legittimata come parte del profitto, che deve essere difeso dalle grinfie
pubbliche con buona pace della sovranità fiscale dello Stato.
I paradossi del sovranismo ne svelano così
l’intima verità:
non la
riabilitazione fuori tempo massimo dello Stato nazione, ma l’affermazione della
centralità dell’esecutivo che dovrebbe proteggere un ormai inconsistente
capitale nazionale dalle minacce non solo del mercato globale, ma anche e
soprattutto da quelle di tutti coloro che pretendono un salario ingiusto e un
reddito iniquo.
Questo
Stato fiscale è lo Stato sociale del piccolo capitale nazionale (autentica
frontiera del sovranismo reale), pronto a soccorrerlo quando rimane indietro.
Lo dimostra in fondo anche quel reddito di
cittadinanza che riassume in sé l’ansia di messa al lavoro che lo pervade.
I 780 euro promessi ai cittadini italiani che
versano in condizione di bisogno sono una risposta alla macelleria sociale del
neoliberalismo, facendo però attenzione a non tradirne lo spirito.
Esso è un reddito della povertà per produrre
forza-lavoro isolata e immiserita e, perciò, sempre disponibile allo
sfruttamento del piccolo e medio capitale, più propenso a investire nei bassi
salari che nell’innovazione.
Il reddito non è qui fattore di emancipazione,
ma è coerente con la logica della giustizia proprietaria:
è una misura «giusta» perché riafferma la
coazione assoluta e non sindacabile a un lavoro la cui precarietà e
frammentazione non possono essere messe in discussione.
Ecco
allora la reintroduzione dei voucher, il chiassoso silenzio sul Jobs Act, le
politiche di ricollocamento, il mantra della formazione continua e l’enfasi
sulle scuole professionali.
Nella sua essenza, questa dottrina del popolo
e della giustizia esprime la paura che un precario da qualche parte possa
vivere senza essere sfruttato.
Così,
mentre offre una tregua al popolo dei giusti, il popolo sovrano indica nei
migranti il nemico contro cui dichiarare guerra aperta.
Noi
affermiamo risolutamente che il razzismo è un parametro fondamentale per
giudicare la costituzione materiale della società-mondo.
Esso
non riguarda la tolleranza del diverso, il rispetto dei diritti fondamentali di
alcuni e nemmeno le categorie della morale, non è cioè una questione che
investe la singola persona.
Il
razzismo, come per altri versi la limitazione della libertà sessuale, rivela
quanto le relazioni sociali siano collettivamente disponibili per gli individui
di quella società:
quanto essi siano liberi non solo di muoversi
al loro interno, ma anche di modificarle.
Il
razzismo e la limitazione della libertà sessuale sono criteri per rendere
evidente una gerarchia sociale che non deve essere messa in discussione.
Proprio
per questo il popolo sovrano punta a definire un insieme di relazioni
obbligatorie, in modo da tracciare un perimetro che racchiude il suo composito
blocco sociale, al quale si offrono garanzie più o meno vaghe, la più solida
delle quali è di non offrirne alcuna a chi da quel perimetro viene
dichiaratamente escluso.
I migranti sono letteralmente soggetti
extracontrattuali.
Il
razzismo diventa cioè un elemento costitutivo del governo stesso.
Senza di esso il governo non potrebbe neanche
nascere.
Si
tratta di una radicalizzazione nel solco di quanto abbiamo visto all’opera dopo
l’altro grande spartiacque del 2015, la tempesta dei migranti, come insegnano
il fu ministro Minniti, i mini jobs alla tedesca, i democratici respingimenti
dalla civile Francia o gli accordi con cui l’UE spende parte del suo bilancio
per appaltare la gestione dei suoi confini.
Si
supera la prospettiva di integrazione nello sfruttamento e nell’accoglienza
coatta che ha animato l’ingloriosa stagione del razzismo democratico.
Restano
però lo sfruttamento, la coazione e la violenza:
i
migranti diventano così una «questione», un «flusso» o tutt’al più una
«pressione», ma cessano di essere persone giuridicamente riconosciute, sia pure
al prezzo di perdere la libertà nei canali angusti della richiesta di asilo.
Il razzismo di governo è la faccia speculare e
specificamente rivolta ai migranti della giustizia proprietaria di cui
l’esecutivo deve farsi interprete.
Il
razzismo di governo agisce però anche al di là del suo terreno di competenza.
Mentre
i migranti vengono indicati come l’unico nemico individuabile oltre alle fumose
élite, la condizione di precarietà estrema riservata loro è il monito che
incombe su tutti coloro che accarezzano l’ipotesi di rifiutare la coazione al
lavoro.
Effetti
disciplinari che non agiscono solo sul piano meramente discorsivo, perché il
razzismo di governo indica nella svalorizzazione dei migranti la leva per
innescare una spirale di impoverimento complessivo del lavoro.
La pur vaga promessa di un salario minimo
orario funziona per neutralizzare la funzione concertativa del sindacato,
avocata integralmente dal governo, e imporre di conseguenza
un’individualizzazione radicale del rapporto di lavoro, più che per difendere
il salario medesimo, minacciato proprio dalla presenza di una forza lavoro
assolutamente provvisoria e letteralmente de contrattualizzata.
Estranei al popolo, i migranti ne insidiano
l’ordine artificiale:
essi sono visti come l’unico soggetto capace
di mobilità autonoma e pertanto devono essere sottoposti a una disciplina
speciale di governo.
Solo
arginando la «pressione» migrante sullo Stato sociale del capitale nazionale il
popolo dei cittadini-vittima potrà sentirsi risarcito dalle briciole lasciate
dalle piccole e medie imprese.
Siccome
le briciole però non ci interessano, non è un’opposizione di minoranza o
localizzata quella che dobbiamo praticare.
Possiamo solo cercare ostinatamente di
costruire punti di giuntura tra i movimenti che attraversano lo spazio europeo,
obbligandolo a modificare in continuazione i confini e i criteri della sua
produzione e della sua riproduzione.
Per scardinare
l’oggettiva alleanza tra la governance europea e la sua articolazione sovrana
possiamo solo andare oltre lo scontro formale che sembra opporle.
Nonostante
le illusioni che qualcuno continua a nutrire, le cosiddette forze antisistema
servono solo a ridefinire i limiti e i confini del sistema stesso, e quindi ad
assicurarne la durata.
Questo
scontro può certamente avere momenti ed esiti drammatici, che non possono però
essere evitati e men che meno superati rinchiudendosi nello spazio angusto del
popolo sovrano, con la pretesa di detenerne la versione buona. Muoversi su
scala transnazionale significa non cedere all’ansia della ricomposizione che
promette la riconciliazione universale e di massa, proprio mentre
l’integrazione logistica europea procede come se niente fosse.
Basta
poco per scoprire che tanto il popolo sovrano immaginato dalle destre europee,
quanto il popolo «degli esclusi» di alcune sinistre, altro non è che una
variabile di minoranza in quell’organizzazione transnazionale del capitale che
non sappiamo ancora aggredire.
L’Europa
è l’orizzonte politico tanto del sovranismo, quanto della governance
finanziaria.
Combatterli
fino in fondo non è lottare per un’altra Europa, un mito senza soggetti in
carne e ossa, ma certamente è combattere per modificarla dalle fondamenta:
è
urgente e inevitabile riprendersi dallo shock del 2015 e fare finalmente
dell’Europa un campo di battaglia di parte, senza illudersi che esistano
scorciatoie e senza lasciarsi abbagliare dai lampi di sovranità dello Stato nel
nome di un popolo più o meno grande.
Si
tratta invece di accettare la scommessa e il rischio di chi viola materialmente
la sovranità europea e ogni giorno lotta contro la violenza dei confini, del
salario, del welfare, dei documenti e della divisione sessuale del lavoro.
VIOLENZA
POLIZIESCA,
TRA
NEOLIBERISMO E
AUTORITARISMO.
Euronomade.info - Redazione – (Giu. 30, 2023)
- Europa - GISO AMENDOLA - ci dice:
Dopo
l’uccisione di “Nahel” a Nanterre, ammazzato a freddo con un colpo di pistola
da un poliziotto dopo che si era fermato a un posto di blocco, il tentativo di
difendere l’indifendibile è durato poco.
Le immagini video hanno fatto piazza pulita
della narrazione dell’estrema destra, e di gran parte dei sindacati di polizia,
che avevano cercato di tirare in ballo la consueta legittima difesa.
Il
tentativo menzognero di incolpare la vittima, abituale purtroppo come abituale
è il tipo di evento, c’è comunque stato, prima che qualcuno cominciasse a
pensare che non fosse ancora il caso di soffiare sul fuoco.
E, insieme all’arsenale retorico sulla
legittima difesa, si è immediatamente mobilitato anche il consueto apparato
repressivo:
schieramento dei reparti antisommossa e”
quartiere Picasso” in stadio d’assedio «preventivo».
Davanti
a un copione ormai diventato ordinario, la sorpresa inscenata dal governo e da
Macron nei confronti dell’espandersi rapido della rivolta suona davvero fuori
luogo.
È chiaro, infatti, che i tentativi di ridurre
l’episodio tutt’al più a una follia individuale della proverbiale «mela
marcia», non hanno più capacità di reggere di fronte a un’evidenza
inaggirabile:
le
violenze poliziesche sono ormai avvertite dalle persone, e in primo luogo dalle
persone razzializzate, come un dato che appartiene al loro quotidiano.
Non è
un caso che l’estrema destra trasformi la sua difesa «d’ufficio» tradizionale
delle forze di polizia direttamente in un episodio della razzializzazione dello
scontro interno, sfoderando immediatamente tutto l’ordine discorsivo
sull’assedio e sulla paura dei «bianchi», proclamando esplicitamente una
legittima difesa di razza e di classe.
C’è
però un elemento importante di maturazione che emerge, analizzando rivolte e
resistenze alla violenza di polizia:
la trasformazione della resistenza delle
persone razzializzate in un nodo di una rete sempre più fitta e diversificata
di campagne e di lotte.
In
altre parole, la questione della violenza delle forze dell’ordine, senza
perdere la sua dimensione specifica postcoloniale e di razza, sta sempre più
allargandosi a questione democratica generale.
Così
la lotta alla violenza poliziesca è entrata, come elemento centrale e
qualificante, nei cicli di movimento francese più recenti:
dai “Gilets
Jaunes “al “movimento contro la riforma pensionistica”.
E non si è trattato solo della consueta
campagna anti repressiva che ogni movimento sociale si trova prima o poi ad
affrontare, quanto dell’assunzione del problema della violenza della polizia
come sintomo della compenetrazione completa tra neoliberalismo e autoritarismo,
e della conseguente definitiva scissione tra democrazia e liberalismo che
questo comporta.
Lotte
sociali e lotte «anti repressive», antiautoritarie e contro la violenza
strutturale delle forze dell’ordine, tendono a non separarsi più, come voleva
una tradizione di difficile convivenza tra lotte «economico-sindacali» e lotte
contro gli apparati di Stato.
Oggi i
due aspetti, e in qualche misura anche i due diversi stili di lotta, cominciano
a trovare una congiunzione molto più forte che in passato, seguendo del resto
la scia dei movimenti americani, dove le campagne per sottrarre fondi alla
polizia (Defund
the police!) hanno alimentato sperimentazioni importanti su nuovi modelli di controllo
sociale dal basso, sulla giustizia trasformativa oltre la sanzione penale, e
più in generale su una nuova, intensa rivendicazione di democrazia
«abolizionista», che chiede il superamento radicale delle attuali forme della
polizia e del carcere.
È
presto evidentemente per capire se le rivolte contro la violenza poliziesca
annuncino la ripresa immediata di un movimento forte e generalizzato in
Francia: ma certo una dinamica nuova, almeno potenziale, le collega alle lotte
sociali.
Mentre
la violenza sistemica delle forze dell’ordine rivela la crisi strutturale della
«democrazia neoliberale» e la sua intrinseca contraddittorietà, la
riappropriazione della democrazia, in tutta la sua portata e generalità, assume
sempre più l’immagine dell’«intersezionalità delle lotte» lungo le linee di
razza, classe e genere.
TAMÁS
FRICZ: NON POTERE
SULLO
SFONDO, MA
POTERE
IN PRIMO PIANO.
Civilek.info
- Tamás Fricz – (13 giugno 2023) – OPINIONE – ci dice:
Ancora
oggi, ci sono molte persone dalla parte nazionale e conservatrice che pensano
che il termine "potere dietro" dovrebbe essere evitato perché è solo
una teoria del complotto, nient'altro - come dice ogni giorno il campo mondiale
mainstream liberale.
Esitano nonostante il fatto che l'esistenza e il
funzionamento intensivo di diverse organizzazioni globaliste parlino da sole, e
anche di recente si è tenuto in Medio Oriente un cosiddetto incontro del
governo mondiale, a cui hanno partecipato molti importanti rappresentanti
dell'élite globale.
L'altro
problema è che nessun media nazionale ha riferito di questo.
A
causa dei dubbi che ancora esistono, in questo articolo vorrei presentare una
rete veramente tipica organizzata dall'élite globalista, che è solo
parzialmente sullo sfondo, ma l'influenza dei suoi membri sul corso del mondo è
palpabile - solo in base ai nomi.
È un
corso chiamato” Young Global Leaders” organizzato dal “World Economic Forum”,
WEF, che è stato avviato da “Klaus Schwab”, il presidente del WEF, nel
2004-2005.
Il
corso invita i giovani di tutto il mondo, considerati dallo “staff del WEF” di
talento e ovviamente impegnati nelle “opinioni del Grande Reset”, a cui viene
insegnato per un anno in vari incontri, istruiti su un bellissimo nuovo mondo
che serve gli interessi dell'élite globale, persegue i suoi obiettivi e le sue
intenzioni.
Le
parole chiave sono le seguenti:
governance mondiale, penetrazione delle sfere
corporative e finanziarie nello stato, presa del controllo da parte della
tecnocrazia, ponendo così fine alla sovranità dello stato-nazione, creazione di
una società mondiale con popolazioni miste, la quarta rivoluzione industriale,
i cui elementi più importanti sono la robotizzazione e il transumanesimo, cioè
una sorta di connessione tra uomo e macchina, il "perfezionamento"
dell'uomo e la sua degradazione a strumento esecutivo incapace di resistere.
La linea può essere portata avanti.
In una
conversazione aperta qualche anno fa, “Klaus Schwab” ha affermato che l'élite
politica della nuova era sta già uscendo dai suoi corsi, e ha citato come
esempio eccellente il primo ministro canadese “Justin Trudeau”, che ritiene sia
uno dei migliori rappresentanti della futura generazione di politici, e conosce
anche i membri del suo governo, l'hai scelto, lo scegli secondo i principi che
hai imparato al WEF.
E il presidente non ha torto su questo.
Il
corso continua ancora oggi, quindi sono passati quasi vent'anni da allora (!).
Mi
chiedo quanti di noi, c'erano, che sapevano qualcosa di questo?
Questo
è avvenuto davvero in background, con il pubblico e l'opinione pubblica
completamente esclusi - proprio come gli incontri del Bilderberg - ma nel
frattempo 1.200-1.300 persone hanno completato la formazione del WEF che
espande la mente e cambia l'ordine mondiale.
Fino
ad ora, perché la formazione continua.
Dopodiché,
diamo un'occhiata ad alcuni nomi che possono essere trovati dopo una lunga
ricerca con l'aiuto di varie fonti alternative.
Procediamo in ordine cronologico.
Nel
2005, tra gli altri, hanno completato il corso:
il già
citato Justin Trudeau, dal 2015 Primo Ministro del Canada.
Si
ricorda che introdusse le più rigide restrizioni e regole Covid, ma possiamo
ricordare il suo ultimo atto, quando si limitò a congelare le donazioni
volontarie dei privati a sostegno dello sciopero dei camionisti.
Al
corso frequentava in quel periodo anche “Larry Page”, il fondatore di Google,
che fa ben poco per opporsi alla libertà di espressione su Internet.
“Samantha
Power “è il nome successivo, che è stata ambasciatrice delle Nazioni Unite nel
2013-2017, poi dal 2021 è diventata membro dell'organizzazione americana
liberale e vicina al governo chiamata “USAID”, in questa veste ha recentemente
visitato l'Ungheria con un certo lato minaccioso.
A proposito, ha annunciato il programma
finalizzato alla vaccinazione globale.
Non
definirei “Nathaniel Rothschild”, l'unico figlio ed erede di Jacob Rothschild,
un nome sorprendente.
Anche “Jonathan Oppenheimer” era un membro,
rampollo della famosa famiglia.
“Ivan
Krasztev”, un rinomato politologo bulgaro laureatosi nel 2006, ha una vasta
carriera internazionale in scienze politiche, viene costantemente citato, è
membro di numerosi istituti di ricerca ed è un vero politologo di punta.
Tutto
questo è interessante perché, come i miei colleghi sanno esattamente, è quasi
impossibile per un politologo dell'Europa centrale, ma soprattutto orientale,
entrare nell'avanguardia internazionale dominata dalla scienza anglosassone, anche
se ha molto talento, dove barriere sono alte per gli orientali.
Ma se
si segue un buon corso, il miracolo può accadere.
(Inutile
dire che “Krasztev” diffonde visioni liberali e globaliste.)
Dal
2007, segnalo “Peter Thie”l, uno dei leader del “Comitato Bilderberg”,” Rajiv
Shah” della “Bill & Melinda Gates Foundation,” “A. Ross Sorkin”,
l'editorialista del New York Times, “Sherlyl Sandberg”, chief operating officer
di Facebook,
e “David
de Rothschild”, che, secondo i calcoli, ha dieci miliardi una fortuna di USD -
a proposito, il suo campo preferito è la protezione dell'ambiente, non gli piace
davvero l'anidride carbonica.
Nel
2008 ha studiato qui “Mark Leonard”, che per conto di “György Soros” ha fondato
nel 2007 l'”ECFR”, ovvero l'”European Council on Foreign Relations” (di cui
fanno parte “Gordon Bajnai”,” Klára Dobrev”, “Dávid Korányi”), lo "stato
profondo" dell'unione.
Cito
anche “Ellane Lee”, vicepresidente della CNN (che è anche membro del CFR, cioè
del “Council on Foreign Relations”).
E quest'anno, “Elon Musk” si è laureato al
corso, e penso che sia un ragazzo sovrano, ha fatto delle buone mosse
ultimamente, ma vedremo quanto durerà per lui.
Per interesse, cito anche la star del cinema “Leonardo
DiCaprio” ed “Elizabeth Murdoch”, figlia del magnate dei media Rupert Murdoch.
Nomi
importanti del 2009:
“Mark
Zuckerberg”, che non ha bisogno di presentazioni, e “Stéphane Bancel”,
l'amministratore delegato della “Big Pharma” chiamata “Moderna”, che produce
anche vaccini a mRNA.
E “Alexander
Stubb”, che è diventato primo ministro della Finlandia nel 2014.
Nel
2010,” Ben Goldsmith”, rampollo di una nota famiglia di banchieri, “Richeu
Patel”, CEO di Avaaz, e “Philipp Rösler”, che dal 2009 è diventato “Ministro
della Salute tedesco”, si sono diplomati a “Young Global Leaders”.
Klaus
Schwab una volta ha detto di lui: "L'abbiamo visto, sarà molto
bello".
Si è
rivelato avere ragione. E sorprendentemente, qui troviamo anche il nome del tennista
di fama mondiale “Roger Federer”.
Due
nomi del 2011: “David Azami “(giornalista ed editore della BBC) e “Nikki Haley”,
ex ambasciatore degli Stati Uniti all'ONU, che ora si candida come candidato
presidenziale repubblicano contro Trump.
Due
nomi del 2012: “Mary Donaldson”, principessa reale di Danimarca, e “Matteo
Renzi”, poi presidente del Consiglio italiano.
Un
nome del 2014 è molto importante: “Jacinda Ardern,” che è stata Primo Ministro
della Nuova Zelanda dal 2017 all'inizio di quest'anno, ma recentemente si è
dimessa inaspettatamente adducendo stanchezza (vorrei sapere cosa c'è dietro).
C'è
anche un nome del 2015: “Tulsi Gabbard,” candidata presidenziale democratica
nel 2020, ma che alla fine ha sospeso la sua campagna a favore di “Joe Biden”.
Il
2016 è un anno particolarmente importante!
A quel
tempo Emmanuel Macron, che nel 2017 è già l'ottavo presidente della Quinta
Repubblica francese, completa il percorso.
Per
interesse, menzionerò anche il nome dell'attore “Ashton Kutcher” e “Amal
Clooney”, moglie dell'attore “George Clooney”.
Per
capire le connessioni: George Clooney è un membro della potente organizzazione
globale, il “Council on Foreign Relations”, dove, ovviamente, è presente anche
Klaus Schwab.
Nel
2018, non a caso, anche Alexander Soros ha completato il corso. Con lui si
laureò “Leo Varadkar”, che in seguito divenne primo ministro irlandese.
Nel
2019, “Peter Buttigieg,” candidato alla presidenza democratica nel 2020, è un
nome significativo.
2020:
questo è l'anno in cui l'infinitamente talentuosa “Annalena Baerbock” ha
completato il corso.
Sappiamo
benissimo che un anno dopo divenne ministro degli Esteri in un governo tedesco
particolarmente debole.
Ma è molto importante anche il nome di “Sanna
Marin”, diventata primo ministro della Finlandia, ma recentemente persa alle
elezioni.
Infine,
dal 2021 menzionerò “Vasudha Vats”, che ora è “vicepresidente di Pfizer”.
Questo
elenco mostra anche che “Klaus Schwab e i suoi colleghi” non si concentrano
solo sulla vita politica, ma raccolgono anche candidati idonei da quasi tutte
le sfere della vita sociale e li impastano secondo le proprie prospettive e
visioni del mondo.
Quindi
c'è qualche potere di fondo?
Non è
più un precursore?
(Nazione
ungherese)
(I
criminali assassini vogliono conquistare il mondo intero per poi renderci tutti
schiavi di “Klaus Schwab e soci”. N.D.R.)
Limitiamo
il potere delle élite
tecnologiche
per salvare
libertà
e democrazia.
Agendadigitale.eu
– Lelio Demichelis – (4 novembre 2021) – ci dice:
Lelio
Demichelis-Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università
degli Studi dell’Insubria).
Dall’accordo
sindacale in Amazon Italia, passando per il progetto Metaverso di Facebook, per
arrivare al reddito minimo universale e alle parole di Papa Francesco:
sono
molti gli spunti su cui riflettere fin da ora e con lungimiranza per garantire
un futuro libero e democratico alle prossime generazioni.
Interessanti
davvero, queste ultime settimane.
Ricche
di spunti per fare qualche ulteriore riflessione a freddo.
Cioè
fermando o almeno rallentando la macchina del tempo:
non
quella fantascientifica di “H. G. Well”s, nel suo romanzo del “1895”, o la
“DeLorean” di “Ritorno al futuro” e molte altre ancora – macchine per andare
avanti e indietro appunto nel tempo;
ma
quella macchina invasiva e alienante che ci porta incessantemente ad accelerare
i nostri tempi ciclo di lavoro e soprattutto di vita, facendoci perdere il
passato (travolto da un presente incalzante e a mobilitazione crescente) e
impedendoci di guardare avanti esercitando quella buona pratica che abbiamo
totalmente dimenticato e che aveva nome di lungimiranza – e che in sé contiene
pensiero riflessivo, capacità di immaginare, responsabilità verso le future
generazioni.
Partiremo
allora – scegliendo alcuni di questi spunti – dall’accordo sindacale in Amazon
Italia, apriremo una parentesi su “Metaverso”, per arrivare al “reddito minimo
universale” e a “Papa Francesco” che non smette di stupirci – e se i media lo mettessero in prima
pagina
(detto da un non-credente o da un diversamente-credente come chi scrive) invece di nasconderlo tra le ultime
notizie, forse capiremmo di più del mondo e perché funziona così male.
(Indice
degli argomenti:
Amazon
e il sindacato.
Pandora
papers e global tax.
Il
Metaverso di Mark Zuckerberg.
Salario
minimo e riduzione dell’orario di lavoro.
In
nome della Ragione.)
Amazon
e il sindacato.
Ciò
che ad Amazon era riuscito facilmente in America nell’aprile scorso – far
fallire un referendum indetto tra i lavoratori per provare a costituire un
sindacato aziendale nel magazzino di Bessemer” in Alabama – non è riuscito in
Italia e Amazon ha dovuto accettare che la democrazia entrasse nei suoi luoghi
di lavoro.
A “Bessemer”
per la “Retail”, “Wholesale and Department Store Union (RWDSU) – il sindacato
che i lavoratori avevano appunto contattato per provare ad aprire una sezione
sindacale nei capannoni di Amazon – su 3.215 voti, quelli contro la
sindacalizzazione sono stati 1.798, mentre quelli a favore sono stati solo 738.
Il
potere di ricatto e la (im)moral suasion di Amazon hanno portato i lavoratori a
negarsi un diritto che dovrebbe essere normale in ogni democrazia (ma sappiamo che gli Usa sono una
democrazia molto sui generis…).
Ed è altresì vero – ce lo ricorda la storia, cioè il
passato che tendiamo invece a dimenticare credendo che tutto sia un eterno
presente –
che da Ford a Taylor passando per Marchionne e Jobs e arrivando oggi a Bezos
l’imprenditore non ha mai amato e non ama il sindacato, lo considera un
intralcio alla libertà d’impresa, un rallentamento dell’efficienza
dell’organizzazione (e del suo comando e del suo controllo sui lavoratori) e un
ostacolo alla massimizzazione della produttività e quindi dei profitti.
In
Italia, invece, dopo una lunga lotta, si è arrivati – lo scorso 15 settembre,
al Ministero del lavoro – a siglare un contratto collettivo di lavoro e ad
ottenere un po’ di democrazia anche nella antidemocratica e antisindacale
Amazon – in questo ben allineata con tutto il capitalismo delle piattaforme e
della sorveglianza, ma anche con l’industria classica e finanziarizzata, come
nel caso della “Gkn” di Campi Bisenzio in Toscana o della “Whirlpool” di
Napoli.
Modello
italiano virtuoso e partecipativo contro modello americano neoliberista, per
Amazon.
Democrazia
economica e sindacato contro autocrazia d’impresa, per Gkn e Whirlpool.
Dunque,
Amazon – dopo cinque anni di resistenza autocratica e antidemocratica alla
sindacalizzazione e alla contrattazione – ha infine accettato il confronto
sindacale ed ha sottoscritto un accordo nel quale riconosce la rappresentanza
collettiva, il ruolo del sindacato e il Contratto collettivo nazionale della
Logistica e Trasporto Merci, nonché il confronto con il sindacato nei vari
livelli di contrattazione nazionale e territoriale;
impegnandosi inoltre concretamente per il
miglioramento generale delle condizioni dei lavoratori.
Un
risultato non da poco anche se dimostra che le nuove tecnologie non sono il
nuovo che avanza e che non si deve fermare, ma ci fanno tornare indietro di
decenni quanto a democrazia dell’impresa e nell’impresa, e dunque vanno fermate
e riportate a normalità democratica.
Pandora
papers e global tax.
Secondo
spunto, i
“Pandora Papers”.
L’indagine
è stata realizzata dall’”ICIJ”, il Consorzio internazionale dei giornalisti
investigativi che ha mobilitato 600 di loro – in rappresentanza di 151 media di
117 paesi diversi – per indagare sull’evasione/elusione fiscale nel mondo.
Dall’analisi
di ben 12 milioni di documenti fiscali è così emerso un autentico e ben
strutturato sistema di evasione fiscale e riciclaggio a livello mondiale.
Se i
precedenti “Panama Papers” del 2015 provenivano dai files di un singolo fornitore di
consulenza per servizi legali-finanziari come appunto lo studio legale
panamense “Mossack-Fonseca” – con più di 500 impiegati ed oltre 40 uffici in
tutto il mondo – oggi i “Pandora Papers” hanno rivelato (lo si sapeva, mancavano le prove
provate – e fortunatamente esiste ancora un giornalismo investigativo) che il sistema è ancora più ampio e
dove avvocati e intermediari finanziari e false imprese come meri recapiti
legali sono la struttura di una globale industria del riciclaggio e
dell’evasione/elusione fiscale creata al servizio di politici, miliardari,
imprese hi-tech, attori e allenatori di calcio e molto altro ancora.
D’altra
parte, è stata l’”Ocse”, in uno studio pubblicato nel 2020, ad avere
quantificato – ma molto per difetto, per ammissione della stessa Organizzazione
– in almeno 11,3 trilioni di dollari la ricchezza scomparsa dai sistemi fiscali
statali;
non
solo illegalmente ma spesso e volentieri, aggiungiamo, con la complicità degli
stessi stati, che chiamano però questa forma particolare di evasione/elusione
fiscale legalizzata e concessa dallo stato, attrattività per le imprese e i
loro investimenti.
È
davvero quindi poca cosa – risibile – la global minimum tax del 15% decisa
nelle scorse settimane dal G20:
uno
specchietto per le allodole, pur esaltato come assolutamente nuovo e buono e
giusto dalla gran parte dei media e dai politici mainstream, ma che ha fatto
dire a Oxfam che quello che avrebbe potuto essere un accordo storico per
mettere fine ai paradisi fiscali è in realtà un rabberciamento tra i paesi
ricchi, che andrà a svantaggio dei più poveri e aumenterà le diseguaglianze.
Eppure,
i recenti premi Nobel per l’economia – in realtà premi in scienze economiche
della Banca di Svezia, “in memory of Alfred Nobel” – David Card, Joshua D.
Angrist e Guido W. Imbens hanno dimostrato, come scrive l’economista svizzero
Silvano Toppi, che
“non è vero né dimostrato, come invece
sostiene il neoliberismo (ad esempio la votazione in Svizzera del 2014
sull’introduzione del salario minimo, rifiutata dal 76 per cento dei votanti,
sotto minaccia padronale di un crollo generale dell’economia) che
l’introduzione di un salario minimo ha un effetto negativo sul lavoro,
sull’occupazione, sull’attribuzione del reddito (il salario minimo aumenta i
redditi dei lavoratori a basso salario), sulla crescita.
Risulta
anzi vero il contrario”.
Eppure,
il neoliberismo “ha sempre preteso che ciò che è favorevole al lavoratore è
negativo per l’economia e, in generale, per il benessere” di un paese;
e in questo dogma ancora viviamo, nonostante
il suo più che evidente fallimento.
Colpa
della egemonia della filosofia (sic!) neoliberale, per cui, dagli anni Ottanta
in poi, il mantra condiviso da tutti, anche a sinistra, continua Toppi, “è
stato quello di attribuire ogni colpa di uno squilibrio economico ai salari o
al lavoro (ridotto solo a un costo che gonfia i prezzi).
Ed è da lì che la cosiddetta moderazione
salariale è diventata dogma e costante ricatto dottrinale e politico.
E
cioè: moderazione (!) come unica condizione per lavorare, essere competitivi,
crescere”.
In
Svizzera, come in tutta Europa. E non solo.
Quello
stesso neoliberalismo per cui occorreva anche e allo stesso tempo (è il secondo
mantra della filosofia neoliberale da recitare ogni giorno) detassare i ricchi
in modo che la loro ricchezza potesse naturalmente gocciolare verso il basso
della società, facendo salire la marea del benessere di tutti – “una autentica
fake news”.
Si è prodotto infatti esattamente il
contrario, questo processo affiancandosi alla parallela eterogenesi dei fini
legata alle nuove tecnologie, che appunto negli anni ’90 promettevano di farci
lavorare meno, fare meno fatica, poter avere più tempo libero e garantivano una
nuova era di crescita infinita/illimitata.
Praticamente il Paradiso in terra. E ci
abbiamo creduto.
Ma è
appunto accaduto il contrario.
Il
Metaverso di Mark Zuckerberg.
Parentesi
su “Metaverso”, la novità di Facebook arrivata (con classica tecnica – usata
con tempismo perfetto – di distrazione di massa) giusto pochi giorni dopo le
accuse al social di massimizzare i profitti attivando deliberatamente odio,
antagonismo e fake news.
Qualcosa
di ancora sconosciuto nei suoi dettagli, però “Metaverso” è già un nome
fascinoso, evoca qualcosa di insieme metafisico e di universale, di reale e di
utopistico, di qui e oltre e attira il feticismo mediatico – che diventa
propaganda subliminale – per l’innovazione tecnologica.
Ha
commentato “Christian Rocca”: Metaverso “è soltanto cosmesi per nascondere il
fatto che Zuckerberg non ha alcuna intenzione di cambiare rotta, anzi pensa di
modellare la società del futuro sui principi del gaming e di passare al nuovo
livello di controllore unico dell’ambiente virtuale e fisico collegato a
Internet.
Questo
è il metaverso di cui parla Zuckerberg.
Una
prospettiva spaventosa, visti i precedenti.
Sui
giornali americani il dibattito è partito con grande intensità.
L’editoriale
di apertura dell’ultimo numero dell’”Atlantic” lo scrive senza giri di parole:
Facebook
[è molte cose insieme], ma in realtà è anche una potenza straniera ostile.
E come una potenza ostile andrebbe affrontato,
perché a una potenza straniera ostile non si può consentire che si costruisca
un suo ecosistema virtuale e alternativo a quello reale, dentro il quale
intrappolare e manipolare miliardi di utenti. […]
Il problema è che le piattaforme digitali non
esercitano solo una forma di sovranità sugli utenti e sui cittadini, ma ne
determinano anche i comportamenti.
Le
ricerche, riportate da Bloomberg, dimostrano per esempio che l’algoritmo di
Facebook tende a indirizzare gli utenti più anziani verso contenuti
cospirazionisti e i teenager sui temi legati al proprio corpo”.
Salario
minimo e riduzione dell’orario di lavoro.
Chiusa
la parentesi, arriviamo al tema del salario minimo – per legge o per accordo
sindacale.
Ne
scriviamo richiamando le riflessioni di “Papa Francesco”, espresse a metà
ottobre, ragionando sul post-pandemia.
Che è
una sfida tra tornare come prima o costruire un percorso politico, economico,
sociale e ambientale veramente nuovo.
Perché
è evidente che non si può “ritornare agli schemi precedenti”;
perché
farlo, scrive Francesco “sarebbe davvero suicida e, se mi consentite di forzare
un po’ le parole, ecocida e genocida”.
Ma cosa fare in pratica?
“Io
non ho la risposta, perciò dobbiamo sognare insieme e trovarla insieme”.
Tuttavia, ha insistito, “ci sono misure concrete che forse possono permettere
qualche cambiamento significativo”.
Come
il salario universale e la riduzione della giornata lavorativa”.
Un
reddito minimo e universale affinché “ogni persona in questo mondo possa
accedere ai beni più elementari della vita”.
Ed è
quindi “compito dei Governi stabilire schemi fiscali e redistributivi affinché
la ricchezza di una parte sia condivisa con equità […]“.
E
insieme al reddito minimo “la riduzione della giornata lavorativa è un’altra
possibilità” che “occorre analizzare seriamente”.
Nel XIX secolo “gli operai lavoravano dodici,
quattordici, sedici ore al giorno”. Quando riuscirono a ottenere la giornata di
otto ore “non collassò nulla, come invece alcuni settori avevano previsto”.
“Allora”
– prosegue Francesco – “lavorare meno affinché più gente abbia accesso al
mercato del lavoro è un aspetto che dobbiamo esplorare con una certa urgenza”.
Pur
sapendo che proprio le nuove tecnologie e il digitale spingono invece in
direzione contraria, quasi volendo dare ragione a Marx per il quale è tendenza
del capitalismo l’estensione della giornata lavorativa alle 24 ore e dello
sfruttamento del plus lavoro, arrivando oggi al lavoro gratuito. (Molto simile alla schiavitù
perpetua. N.D.R)
Di
fatto, per Francesco l’urgenza è quella di “mettere l’economia al servizio dei
popoli”.
E non
viceversa, come sta accadendo invece da quarant’anni a questa parte, da quando
abbiamo cioè abbandonato le politiche keynesiane di redistribuzione della ricchezza
dall’alto verso il basso per l’azione diretta dei governi e quindi in nome di
quel concetto-base di ogni società – senza il quale una società non esiste e
non può esistere – quello cioè della giustizia sociale.
In
nome della Ragione.
Francesco
ha rivolto poi un appello forte al cambiamento, ovviamente “in nome di Dio”,
rivolgendosi a chi ha il potere di decidere.
Noi
riprendiamo parti del suo appello, ma lo facciamo in nome della Ragione o in
nome (ma è la stessa cosa) della responsabilità nostra, oggi, verso le future
generazioni.
“A
tutti voglio chiedere, in nome di Dio” dice Francesco – in nome della Ragione,
dell’umanità, della giustizia sociale e oggi anche o soprattutto ambientale,
noi chiediamo:
ai
grandi laboratori e alle imprese farmaceutiche, che liberalizzino i brevetti
sui vaccini anti-Covid;
ai
gruppi finanziari e agli organismi internazionali di credito di permettere ai
Paesi poveri di garantire i bisogni primari della gente e di condonare quei
debiti tante volte contratti contro gli interessi di quegli stessi popoli;
alle
grandi compagnie estrattive, forestali, agroalimentari, di smettere di
distruggere i boschi, le aree umide e le montagne, di smettere d’inquinare i
fiumi e i mari, di smettere d’intossicare i popoli e gli alimenti;
ai
fabbricanti e ai trafficanti di armi di cessare totalmente la loro attività;
ai giganti della tecnologia di smettere di
sfruttare la fragilità umana, le vulnerabilità delle persone fomentando per
proprio profitto i discorsi di odio, le fake-news, le teorie cospirative, la
manipolazione politica; ai mezzi di comunicazione di porre fine alla logica
della post-verità, alla disinformazione, alla diffamazione, alla calunnia e a
quell’attrazione malata per lo scandalo e il torbido. E altro ancora.
Un
programma utopistico? Troppo ambizioso? A noi sembra il minimo necessario,
doveroso e dovuto. Per restare umani.
Ai
governi e ai politici di tutti i partiti, Francesco ha chiesto soprattutto di
“evitare di ascoltare soltanto le élite economiche”.
E noi
aggiungiamo: di evitare di ascoltare soltanto le élite tecnologiche.
Perché
la nostra capacità di regolamentare questo potere e di democratizzarlo salvando
la democrazia e la libertà – è la tesi anche di “Kate Crawford” – dipende dai
limiti che sapremo porre e imporre al loro potere.
(Ma
invece- in particolare - è sempre stato accettato che nei Bilanci finali dei
libri contabili delle Banche centrali e Banche commerciali si indicasse come
“passivo” l’insieme dei presti annuali effettuati alla Clientela;
e quindi accade che il totale del “passivo” dei
prestiti concessi alla clientela dopo i dovuti controlli Swift o di altre istituzioni
private di controllo, fosse trasformato “giustamente” in” attivo” e quindi che
questo “nuovo attivo” venisse convogliato -in gran segreto- nei conti cifrati
dei padroni di tutte le banche occidentali! N.D.R.)
La
costruzione dello Stato
di
biosicurezza in Italia (e altrove).
Lo
svisceramento della democrazia:
un
progetto a lungo termine.
Trasform-italia.it – (06/07/2022) - Peter
Cooke – ci dice:
(Peter
Cooke è professore in pensione dell’Università di Manchester)
Ospitiamo
questo articolo che non rappresenta il nostro punto di vista ma che ci sembra
utile per aprire un dibattito a sinistra sul pericolo di un controllo sociale
sempre più stringente.
La
nostra civiltà capitalista neo-liberalizzata è entrata ormai in una fase di
profondissima crisi.
Gli
avvenimenti drammatici della pandemia da Covid-19 possono essere interpretati
come sintomi di questa crisi.
Vanno
esaminati infatti in un contesto non solo sanitario, ma anche politico.
Lo
scopo della serie di articoli che si propone qui è quello di offrire una
spiegazione coerente di un’emergenza politico-sanitaria che ha aperto, o
svelato, divisioni profonde nella società occidentale, nel contesto di un
sistema “democratico” che, in realtà, maschera – in modo sempre meno
convincente – il potere praticamente incontestato di un’oligarchia
globalizzata.
La
tesi centrale proposta qui è che la pandemia ha offerto al sistema capitalista
in crisi l’occasione per la rapida costruzione di un nuovo paradigma di governo
in grado di controllare una popolazione globale – e soprattutto occidentale –
sempre più turbolenta.
È
quest’ultimo un sistema tecnocratico e autoritario che, appoggiandosi sulle
riflessioni di “Giorgio Agamben”, alcuni commentatori denominano ormai “lo
Stato di biosicurezza”.
Il
primo articolo della serie esamina la questione della “democrazia” occidentale
come contesto politico della crisi sanitaria.
Dopo aver spiegato la realtà profondamente
oligarchica del sistema attuale creato sistematicamente durante quattro decenni
di controrivoluzione neoliberista, esamina l’ideologia della tecnocrazia, cara
all’élite globale, come forma di potere.
Finalmente,
offre una prima analisi della gestione tecnocratica dell’emergenza pandemica,
focalizzandosi sul contesto italiano.
Gli
avvenimenti degli ultimi due anni e mezzo sono stati profondamente traumatici.
Dubito perciò che, nelle condizioni attuali, sia
ancora umanamente possibile discutere il tema della pandemia Covid-19 con una
vera e propria oggettività.
Inoltre,
ogni aspetto del fenomeno pandemico è stato politicizzato.
In
quasi tutti i paesi del mondo occidentale, sulla questione così importante
della maniera in cui l’epidemia è stata gestita e rappresentata, la società si
è spaccata.
Non mi
sembra possibile prendere una posizione neutrale a riguardo, tanto meno dopo
aver cercato di approfondire il tema.
Ciò
che segue, benché sia il frutto di molte letture e di lunghe riflessioni, è
dunque necessariamente una interpretazione che rimane, almeno in parte,
soggettiva. Inevitabilmente, è anche una interpretazione politica.
Infatti, ciò che m’interessa capire
soprattutto in questo sconcertante fenomeno politico-sanitario è come mai sia
stato possibile, in un paese “democratico” come l’Italia, gestire un’epidemia
in un modo così straordinariamente repressivo
Si può dire, in verità, che viviamo ormai in
una democrazia liberale?
È
fondamentale capire che, in realtà, la progressiva demolizione del sistema
democratico occidentale del dopoguerra è un progetto a lungo termine che risale
almeno agli anni 1970.
Questo
processo graduale di smantellamento e di svisceramento si è accelerato
drammaticamente durante la pandemia, che ha fatto nascere ciò che molti non
esitano a denominare “dittatura sanitaria”, benché molti altri respingono il
termine con sdegno.
In
effetti, la gestione di questo avvenimento sanitario disastroso, in Italia e
altrove, si è caratterizzata da una deriva liberticida che non solo ha
sgomentato molti cittadini, infliggendo peraltro sofferenze notevoli a
tantissime persone, ma ha anche aperto faglie profonde e dolorose nel tessuto
sociale.
Troppa
democrazia.
Già
dal 1975, gli autori del libro influente “The Crisis of Democracy” sostenevano
che c’era “troppa democrazia”.
Il
sottotitolo di questo studio, commissionato a tre politologhi di destra, “Michel
Crozier”, “Samuel P. Huntingdon” e “Joji Watanuki”, è assai esplicito:
Rapporto
sulla governabilità delle democrazie alla “Commissione Trilaterale”.
Quest’ultima,
importantissimo pensatoio oligarchico lanciato a Washington nel 1973, ha
svolto, si sa, un ruolo di spicco nel vasto progetto capitalista della
globalizzazione neo liberista.
Gli autori della “Crisi della Democrazia” non
si sono limitati a analizzare il problema che rappresentava per i capitalisti
nei paesi occidentali questo “eccesso di democrazia”, ma hanno anche proposto
delle soluzioni che si sono dimostrate assai efficaci.
I progetti di attacco alle democrazie ideati
nel libro sono stati tradotti in tecnica ed applicati sistematicamente.
I punti centrali della strategia anti-democratica
attivata dagli anni settanta in poi si possono riassumere come segue:
de-ideologizzazione
della sfera politica;
riduzione
dell’interesse dei cittadini alla partecipazione democratica;
trasformazione
dell’individuo da cittadino in consumatore;
dirottamento
del dibattito politico su binari consentiti predeterminati;
cooptazione
dei sindacati; abbassamento del livello di educazione delle masse;
controllo
dei media.
Il risultato
dell’attualizzazione di questo piano è stato lo svuotamento progressivo delle
strutture democratiche al punto che quello che ne è rimasto oggi si è ridotto,
praticamente, a una mera facciata, un guscio vuoto.
Gli inediti e traumatici eventi politici e
sociali degli ultimi due anni e mezzo sembrano indicare che l’oligarchia
occidentale abbia deciso che il momento sia venuto di demolire – in modo
controllato, beninteso – anche questa facciata.
La
nuova oligarchia.
Il
fatto che la democrazia occidentale si sia trasformata, de facto, in oligarchia
è riconosciuto ormai da non pochi commentatori politici.
Descrivendo le tendenze oligarchiche odierne
nel suo libro bestseller “Capitalism in the Twenty-First Century”, “Thomas
Piketty” parla addirittura di “un processo in cui i paesi ricchi diventano la
proprietà dei loro propri miliardari”.
“Il
‘Capitalismo di oggi è in realtà un’oligarchia di plurimiliardari che detengono
il potere, assistiti da un organico di specialisti relativamente ben formati e
pagati” spiega “Kees Van der Pijl”.
Nel suo libro del 2020, “The System”,” Who
Rigged It”, “How We Fix It” (tradotto e pubblicato l’anno seguente in
italiano), “Robert Reich” scrive:
“Persino un sistema che si definisce una
democrazia può diventare un’oligarchia se il potere finisce per concentrarsi
nelle mani di un’élite imprenditoriale e finanziaria.”
“Reich”
riconosce che “L’America ha conosciuto l’oligarchia due volte prima d’ora.” La
prima volta fu l’epoca della fondazione degli Stati Uniti (“Molti degli uomini
che fondarono gli Stati Uniti erano oligarchi bianchi proprietari di
schiavi.”);
la
seconda fu l’era di uomini spietati come “J. Pierpoint Morgan”, John D.
Rockefeller”, “Andrew Carnegie”,” Cornelius Vanderbilt” e “Andre Mellon”, i
famigerati “robber barons” (“baroni della rapina”) dell’industrializzazione
sfrenata della fine dell’ottocento e dei primi decenni del novecento.
Fu il “New Deal di Roosevelt”, compiuto
durante la “Grande Depressione” con l’obiettivo di scongiurare la minaccia di
una rivoluzione, a porre fine all’oligarchia dei “robber barons”, instaurando
un equilibrio (tutto relativo) tra il potere del capitale e le esigenze
economiche e sociali dei lavoratori.
“A
partire dal 1980 circa”, continua Reich, “è emersa una terza oligarchia
americana”.
“Reich”
si riferisce qui alla controrivoluzione neoliberista, lanciata infatti intorno
all’anno 1980 con l’intento (più o meno mascherato) di disfare completamente il
sistema del New Deal.
Questo
processo è risultato inevitabilmente in una disuguaglianza del reddito e della
ricchezza sempre più grande.
“Reich”
descrive la situazione economica negli Stati Uniti come segue:
Tra il
1980 e il 2019 la quota del reddito familiare totale del paese appannaggio
dell’1% più ricco della popolazione è più che raddoppiata, mentre il reddito
del 90% più povero è cresciuto pochissimo (tenendo conto dell’inflazione).
La
retribuzione media di un CEO è cresciuta del 940%, quella del lavoratore tipo
del 12%.
Negli anni Sessanta il tipico CEO di una
grande azienda americana guadagnava circa venti volte più del lavoratore tipo;
nel 2019 guadagnava trecento volte tanto.
La
disuguaglianza della ricchezza è esplosa ancora più rapidamente.
Secondo una ricerca degli economisti “Emmanuel
Saez” e “Gabriel Zucman”, negli ultimi quarant’anni la quota della ricchezza
totale detenuta dallo 0,1% più ricco – circa 160,000 famiglie americane – è
passata da meno del 10% al 20%.
Oggi queste famiglie posseggono una ricchezza
pari quasi a quella del 90% delle famiglie più povere messe assieme.
L’intera
metà inferiore della popolazione americana oggi possiede appena l’1,3% della
ricchezza totale.
La
conseguenza necessaria di questa crescente disuguaglianza economica è stata una
crescente disuguaglianza di potere politico.
“Le grandi imprese, i CEO e un manipolo di
persone estremamente ricche”, osserva Reich, “hanno più influenza di ogni altro
gruppo paragonabile dai tempi dei baroni della rapina.
A differenza del reddito o della ricchezza, il
potere è un gioco a somma zero: più ce n’è a la vertice, meno ce n’è altrove”.
Per varie ragioni storiche, le condizioni
economiche e politiche degli Stati Uniti rappresentano un caso estremo nel
mondo occidentale, ma la tendenza verso una concentrazione sempre maggiore di
ricchezza economica e di potere politico al vertice della società caratterizza
tutte le “democrazie” occidentali.
Essendo il “neoliberismo” un progetto
essenzialmente “oligarchico”, una delle conseguenze inevitabili del suo sviluppo
incontrastato nel corso degli ultimi quattro decenni è stata la distruzione
quasi totale della democrazia rappresentativa e l’instaurazione di una potente
oligarchia globalista.
La
barbarie del neoliberismo.
È
importante capire a che punto questa ideologia neoliberista, che ha smantellato
progressivamente il sistema molto più equilibrato del New Deal, rappresenti una
forma di violenza.
Il
termine “neoliberismo” si riferisce a politiche economiche che promuovono la
subordinazione integrante della società al capitale (“il mercato”).
Sotto
la sua maschera teorica, è una forma di “raw capitalism” (“capitalismo crudo”),
un fenomeno fondamentalmente predatorio che cerca sempre di imporre la legge
del più forte, noncurante degli effetti distruttivi delle sue azioni sul piano
umano, sociale, ecologico, ecc.
Fa
parte, in realtà, di quella barbarie del ventesimo e del ventunesimo secolo
denunciata da “Giuliano Pontara” nel primo capitolo di” L’Anti barbarie”.
“Naomi
Klein” descrive nel suo libro seminale “The Shock Doctrine” come le teorie
estremiste del teorico americano del neoliberismo Milton Friedman furono
applicate per la prima volta nel Cile, sulla scia del colpo di stato (fomentato
dalla CIA) di Augusto Pinochet che nel 1973 rovesciò il governo socialista,
democraticamente eletto, di Salvador Allende.
Le misure drastiche di privatizzazione,
liberalizzazione del mercato e riduzione massiccia delle spese pubbliche
proposte da Friedman (la classica ricetta neoliberista), che secondo lui
sarebbero risultato, dopo lo “shock” iniziale, in “un miracolo economico”,
risultarono invece in una catastrofe economica – “una orgia di
auto-mutilazione” per dirla con le parole del Economist – che devastò il paese
e instaurò nella società cilena disuguaglianze enormi.
Nel
1988, quando l’economia cilena si era finalmente stabilizzata, il 45% della
popolazione era caduta nella povertà e il ceto medio era stato decimato.
Nello
stesso tempo, il decimo più ricco aveva visto crescere il suo reddito dell’83%.
Ancora oggi, il Cile rimane uno dei paesi più disuguali del mondo.
La
controrivoluzione neoliberista in Cile fu dunque un’operazione assolutamente
spietata che risultò in un incremento di ricchezza massiccio per il segmento
più ricco della società al costo dell’impoverimento delle masse.
L’esperimento
cileno si replicò in numerosi paesi.
Tristemente
notorie rimangono le violenze fisiche orripilanti, commesse a vasta scala, che
accompagnarono la controrivoluzione neoliberista sotto le dittature militari
instaurate con il sostegno della CIA negli anni 1970 nell’America Latina e
altrove.
Lo stesso
tipo di crimine di stato commesso sistematicamente nel Cile di Pinochet
caratterizzò anche i regimi dittatoriali del Brasile e dell’Argentina, per
esempio.
Come
osserva Klein, il sadismo, anche se ha avuto certamente la sua parte in questo
disgustoso fenomeno, non basta a spiegare tutto un sistema di incarcerazione,
tortura, assassinio e sparizioni.
Poco prima di essere abbattuto dai militari,
l’attivista argentino “Rodolfo Walsh “scrisse:
“È
nella politica economica di questo governo che scopriamo non solo la
spiegazione dei crimini, ma anche un’atrocità più grande che punisce milioni di
esseri umani con la miseria pianificata”.
Le
riforme neoliberiste imposte a partire degli anni ottanta nei paesi occidentali
– negli Stati Uniti e nel Regno Unito in primis – rappresentano anche lì un
processo fondamentalmente violento.
Anche se non accompagnata dal sistema di
violenza fisica spietata vigente nei regimi dittatoriali, nei paesi occidentali
“democratici” abbiamo vissuto da quarant’anni una controrivoluzione brutale che
ha avuto come conseguenza diretta l’instaurazione progressiva di una sempre più
grande violenza economica strutturale.
Perché il neoliberismo impone la povertà, e la
povertà, come diceva Gandhi, è una delle forme peggiori di violenza.
Un
potere sovranazionale anti-democratico.
Nell’era
della globalizzazione finanziaria e economica guidata dall’anglosfera, gli
Stati individuali stanno perdendo sempre più la loro sovranità effettiva;
ormai tutte le decisioni politiche ed
economiche più importanti sono prese a livello sovranazionale in un contesto
tutt’altro che trasparente.
Si
parla in questo senso dell’“internazionalizzazione dello Stato”.
In
questo Stato internazionalizzato, i gestori del sistema monetario e finanziario
(le banche centrali sovranazionali), le grandi corporations multinazionali e
una rete di istituzioni private (fondazioni, pensatoi oligarchici, NGO, ecc.)
esercitano un’influenza preponderante sui governi che nessun movimento politico
è in grado di contrastare.
Nel
contesto europeo, il ruolo essenziale svolto dall’Unione Europea – che in
realtà è una istituzione profondamente anti-democratica – è quello di imporre
la volontà del cartello capitalista oligarchico.
Ormai,
gli stati europei hanno devoluto gran parte della propria sovranità a poteri
tecnocratici non elettivi.
Il risultato sconcertante dell’ascendenza
incontestata dei poteri finanziari e commerciali apolidi – “la caste des banquiers commerçants” – è che, per citare la ricercatrice
francese” Valérie Bugault”, “ormai gli Stati non sono più che gusci vuoti”.
Mantenere
la facciata democratica, l’illusione della democrazia, è da molto tempo una
delle funzioni principali sia dei media mainstream sia dei politici.
Già dal 1995, nel suo saggio” The Unconscious
Civilisation”, “John Ralston Saul” metteva in luce la tendenza socioculturale a
mascherare, nel linguaggio come nell’informazione, il vero sistema di potere
che ha poco a che vedere con gli assunti legittimanti dei moderni ordinamenti
occidentali:
democrazia,
trasparenza, rule of law.
Il
sistema di potere odierno è organizzato, invece, secondo principi di
monopolio/cartello privato delle risorse primarie, di stretto controllo
dell’informazione pubblica e di governo distante – sempre più distante – dalle
popolazioni.
Si può
“aggiustare” la democrazia?
“Robert
Reich” crede che, malgrado l’instaurazione de facto negli Stati Uniti di una
oligarchia sempre più ricca e sempre più influente, è ancora possibile
ripristinare la democrazia.
Secondo
lui, è un sistema che si può “aggiustare”.
È
questo un ottimismo che, nelle circostanze attuali, può sembrare alquanto
ingenuo.
Su
questo punto, “Rana Dasgupta”, nella sua analisi accurata “The Silenced
Majority: Can America Still Afford Democracy?”, è molto più pessimista di
Reich.
Dasgupta
esamina la crisi politica prolungata degli Stati Uniti nel contesto di tendenze
storiche e economiche più vaste.
La sua
tesi centrale è che le condizioni economiche contemporanee non favoriscono più
la permanenza del sistema democratico occidentale e che stiamo tornando alla
situazione di potere capitalista oligarchico che caratterizzava l’epoca che
precedeva la Rivoluzione Industriale.
Si parla infatti, in questo contesto, di un
fenomeno assai inquietante: il neo-feudalesimo.
È comunque essenziale capire che la democrazia
è semplicemente il risultato di concessioni politiche e sociali che il lavoro a
potuto strappare dal capitale in certe circostanze storiche.
Oggigiorno,
la classe operaia, e più generalmente il principio del lavoro, ha perso gran
parte del suo potere contrattuale di fronte al capitale, grazie soprattutto
allo smantellamento della produzione industriale – in gran parte trasferita in
Cina e in altri paesi asiatici poco democratici – e alle nuove tecnologie
digitali che stanno rendendo sempre più inutili gli operai, ma anche i
professionisti.
Allo stesso tempo sta emergendo una fusione di
tecnologie capaci di distruggere le frontiere tra i mondi fisici, digitali e
biologici.
Si
tratta della “Quarta Rivoluzione Industriale” cara a Klaus Schwab, il fondatore
e direttore del “World Economic Forum “(WEF).
Secondo
un “White Paper” del WEF, nell’anno 2030, fra il 13 e il 23% della popolazione
mondiale diventerà temporaneamente o permanentemente disoccupato.
Infatti,
una parte sempre più grande della popolazione sta diventando economicamente e
socialmente inutile per il sistema capitalista globalista.
Se i
popoli stanno diventando economicamente superflui per un’oligarchia capitalista
internazionale che, in un modo sempre più evidente, controlla praticamente
tutto, i popoli si trovano in una situazione pericolosa.
Nello stesso tempo, la gestione di questi
miliardi di persone “inutili” rappresenta per l’oligarchia un problema assai
grande.
Infatti,
gli effetti cumulativi del processo di globalizzazione neoliberista, che ha
prodotto non solo grandi incrementi di ricchezza, ma anche disuguaglianze
economiche enormi, precarizzazione del lavoro a vasta scala e grandissima
distruzione sociale, morale ed ecologica, si manifestano in un fermento sociale
a livello globale senza precedenti.
Controllare
il popolo con la paura e la sorveglianza.
Questo
problema è diventato sempre più urgente dopo il crollo economico del 2008 che
non ha fatto altro che accelerare una lotta sociale a scala globale.
Non
solo questa catastrofe finanziaria ha fatto capire quanto fragile – per non dire
insostenibile – fosse diventata l’economia occidentale finanziarizzata, questo “late-stage
financialised capitalism” così squilibrato e instabile, in preda a una
speculazione sfrenata e avventata a scala gigantesca ed una corruzione sempre
più dilagante – ma il salvataggio massiccio delle banche, i famigerati “bailouts”,
nello stesso momento in cui milioni di disoccupati perdevano tutto, ha fatto
capire al popolo che gli interessi del 99% dei cittadini contavano ben poco in
confronto a quelli del 1% più ricco – l’oligarchia, precisamente.
Dopo
2008, osserva “Van der Pijls”, “ogni record di fermento sociale è stato
infranto”.
Contenere, impedire, reprimere, manipolare e
sciogliere in tutti i modi i grandi movimenti di protesta – potenzialmente
rivoluzionari – nati sulla scia del disastro del 2008 è diventato una delle
priorità più importanti del sistema capitalista in crisi.
Un
passo importante verso la costruzione di un nuovo sistema di governo in grado
di controllare i popoli occidentali sempre più impoveriti, sempre più
precarizzati e sempre più arrabbiati è stato già rappresentato dal “War on
Terror “di George W. Bush, una “guerra” lanciata a seguito degli attentati
terroristici del “9/11” nel 2001.
Le stragi spettacolari compiute dall’Al Qaeda
hanno offerto al regime di Bush l’occasione per giustificare l’invasione del
Afganistan e dell’Iraq, rilanciando in questo modo l’industria militare prima
di saccheggiare le risorse naturali di questi due sfortunati paesi.
Non
solo, ma 45 giorni dopo gli attentati dell’11 settembre, il governo americano
passò il famigerato “Patriot Act”, una legge importante che ha limitato i
diritti e le libertà dei cittadini americani con il preteso della necessità di
difendere il Paese contro il terrorismo.
In
questo modo, ogni cittadino americano è divenuto, in realtà, sospettato.
Allo
stesso tempo, il governo americano ha instaurato quel sistema illegale di
sorveglianza di massa – il programma di “Total Information Awareness” – svelato
più tardi da “Edward Snowden”.
Paradossalmente,
si può interpretare la “Guerra contro il terrore” come una forma di terrorismo
di Stato.
Come
osservò “Al Gore” nel 2004, il terrorismo, che rappresenta la
strumentalizzazione della paura per uno scopo politico, intende “travisare la
realtà politica di una nazione suscitando nel popolo una paura massicciamente
sproporzionata rispetto al vero pericolo che i terroristi sono in grado di
rappresentare”.
Secondo Gore, il corso precipitoso di Bush
verso la guerra contro l’Iraq costituiva una forma di terrorismo.
Bush
aveva terrorizzato la sua propria nazione con l’avvertimento completamente
ingannevole secondo cui “impiegando armi chimiche, biologiche, o, in futuro,
anche nucleari, ottenute con l’aiuto dell’Iraq, i terroristi erano in grado […]
di uccidere migliaia o centinaia di migliaia di persone in questo paese”.
“Il presidente Bush e la sua amministrazione”,
fece notare Gore, “ha fatto ingurgitare al popolo americano una paura dell’Iraq
grandemente esagerata, una paura completamente sproporzionata in confronto al
pericolo che quel paese rappresenta in realtà”.
Lo
Stato americano aveva adottato una strategia terroristica nei confronti del
popolo americano.
Siccome,
dopo decenni di politiche economiche e sociali neoliberiste, il capitalismo non
è più in grado di offrire alla popolazione un contratto sociale accettabile –
anzi, il neoliberismo rappresenta la negazione del contratto sociale –
governare con la paura è diventata una strategia centrale del mondo
occidentale.
Siamo entrati ormai nell’epoca dello stato di
emergenza permanente, della guerra permanente:
“La
guerra è resa endemica”, spiega “Jeff Halpe”r, “poiché non è né possibile né
desiderabile porre termine allo ‘stato di emergenza permanente’ […].
Pacificare
l’umanità diventa l’unico modo di scongiurare la guerra, ma quell’impresa è
diventata un progetto totalitario violento, senza fine”.
“Oltre
la libertà e la dignità”
L’instaurazione
di un sistema di sorveglianza statale dei cittadini è stata accompagnata – e
facilitata – dall’emergere di un nuovo sistema economico che, in uno studio
fondamentale,” Shoshana Zuboff “denomina “surveillance capitalism” – “il
capitalismo della sorveglianza”.
Conviene
però notare che sin dall’inizio la rivoluzione IT è stata formata dal paradigma
del “Total Information Awareness” nel contesto di una guerra della classe
dominante contro il popolo e che tutte le grandi ditte della Big Tech
mantengono relazioni strette con il Pentagono.
Il
sistema del “capitalismo della sorveglianza”, sviluppato dai “tech giants”
della Silicon Valley, con Google e Facebook in testa, si basa sempre di più non solo
sullo sfruttamento economico (e politico) dei dati – di ogni genere – raccolti “furtivamente”
dagli utenti, ma anche sulla manipolazione dei comportamenti del consumatore (e
anche degli elettori).
È
questo un tipo di potere subdolo che “Zuboff “chiama “instrumentarian”.
In
questo ambito, le imprese tech approfittano, con una precisione sempre
maggiore, degli strumenti creati dagli psicologi comportamentali, come il
famoso o notorio “B. F. Skinner”, che s’interessano soprattutto del
comportamento di gruppo, di gregge.
Questi
scienziati, infatti, svilupparono inizialmente le loro tecniche di
manipolazione psicologica studiando gli animali.
Non
c’è, da questo punto di vista, alcuna differenza fondamentale tra il gregge
animale e il gruppo umano; tutt’e due si possono dirigere dall’alto utilizzando
metodi psicologici appropriati.
Secondo”
Skinner”, nel suo famigerato libro “Beyond Freedom & Dignity” (Oltre la
libertà e la dignità), il libro arbitrio e la libertà di scelta dell’individuo
cari al liberalismo occidentale sono in realtà una semplice illusione e, per il
bene comune, la società va gestita continuamente dagli scienziati utilizzando
strumenti psicologici.
È la
sua una visione del mondo essenzialmente tecnocratica; a “Skinner” non piaceva
per niente la democrazia.
Zuboff
osserva
con rammarico che quando il libro di Skinner uscì nel 1971 suscitò grande
scalpore, mentre che cinquant’anni dopo, “La credenza che possiamo noi stessi
scegliere il nostro destino viene assediato, e, in una inversione drammatica
della situazione, il sogno di una tecnologia in grado di predire e dirigere il
comportamento – per il quale” Skinner” subì tanto disprezzo pubblico – è
diventato ormai un fatto fiorente.
Adesso,
questo obiettivo attrae un capitale immenso, il genio umano, l’elaborazione
scientifica, interi ecosistemi di istituzionalizzazione, e il fascino che accompagnerà sempre
il potere”.
Dalla
sorveglianza statale di massa e dal capitalismo della sorveglianza, con la sua
crescente enfasi sulla modificazione del comportamento, non è molto grande il
passo che conduce al sistema di Credito Sociale che si sta sviluppando
attualmente in Cina.
Lo scopo di questo nuovo sistema, spiega il
sinologo “Rogier Creemers”, è quello di “utilizzare l’esplosione dei dati
personali […] per migliorare il comportamento dei cittadini […].
Agli
individui e alle imprese saranno assegnati punti in relazione a vari aspetti
del loro comportamento – dove vai, che cosa compri e chi conosci – e questi
punti saranno integrati in una base di dati comprensiva connessa non solo
all’informazione governativa, ma anche ai dati raccolti da imprese private”.
Il
nuovo sistema cinese sorveglia il comportamento “buono” e “cattivo” in varie
attività finanziarie e sociali.
Le
ricompense e le punizioni sono assegnate automaticamente, allo scopo di
plasmare il comportamento individuale e collettivo in modo di “costruire
sincerità” nella vita economica, sociale e politica.
“L’intenzione”,
spiega “Mara Hvistendhal”, “è che ogni cittadino cinese sia seguito tramite una
scheda compilata da dati provenienti da fonti pubbliche e privati”.
A
molti potrebbe forse sembrare inverosimile l’idea di instaurare un sistema
simile nei paesi “democratici” dell’ occidente, ma quello che vediamo svolgersi
nella Cina governata dal repressivo Partito Comunista è la costruzione di una
realtà inquietante che, secondo” Zuboff”, “ci permette di contemplare una
versione di un nostro futuro definito dalla fusione comprensiva del potere
instrumentarian con il potere statale”.
Il sistema di Credito Sociale non è altro, in
realtà, che la realizzazione, tramite gli strumenti invasivi offerti dalla
rivoluzione digitale, della visione tecnocratica di “B. F. Skinner” e dei suoi
seguaci: una vita umana “oltre la libertà e la dignità”.
La
tecnocrazia.
A
questo punto sarà opportuno aprire una parentesi sulla tecnocrazia.
Dopo
tutto, la gestione della pandemia da Covid-19 è stato un esercizio strettamente
tecnocratico.
Denunciata
già dal 1933 in modo indimenticabile da” Aldous Huxley “nel suo romanzo
distopico “Brave New World”, la tecnocrazia rimane un’ideologia importantissima.
Anzi, il suo potere va sempre crescendo.
La
breve discussione che segue si basa in gran parte sugli studi fondamentali di “Patrick
Wood”, soprattutto il suo libro più recente, “Technocracy: The Hard Road to
World Order”.
La tecnocrazia,
intesa come ideologia, ha le sue radici storiche nello scientismo utopista del
pensatore francese “Henri de Saint-Simon” (1760-1825). Saint-Simon afferma la
superiorità dello scienziato, definito come “l’uomo che prevede”, su tutti gli
altri uomini.
Lo
scientismo, insieme alla sua progenie la tecnocrazia, funziona da surrogato
della religione, sostituendo la fede in Dio con la fede nella Scienza e nella
Tecnologia.
La
scienza, secondo questa visione del mondo, salverà l’umanità instaurando la “nuova
Utopia tecnocratica”.
Gli
scienziati e i tecnocrati sono dunque i preti di questa pseudo-religione.
Secondo
loro, soltanto la scienza ha la capacità di risolvere tutti i problemi della
società, e la scienza dev’essere applicata alla vita senza sentimentalismo –
anzi, senza sentimenti.
In
questa visione essenzialmente materialista, la natura – e anche l’essere umano
– non è altro che un complesso meccanismo;
chi capisce il funzionamento del meccanismo ha
il dovere di controllarlo.
Il
potere dev’essere messo nelle mani di un’élite tecnocratica – per il bene
comune, s’intende – e qualsiasi opposizione a questa concentrazione di potere
anti-democratica è considerata profondamente sbagliata e va combattuta in tutti
i modi.
Niente deve ostacolare la realizzazione dell’Utopia.
L’ideologia
tecnocratica predomina nell’ambito dell’élite globale – Bill Gates offre un
esempio perfetto di questa tendenza – e la sua visione profondamente
anti-democratica è alla base di tutti i grandi progetti globali, come lo
Sviluppo sostenibile, l’Agenda 21 e l’Agenda 2030.
Ormai
una tecnocrazia globalista domina le Nazioni Unite e l’Unione Europea e si
dedica assiduamente a soppiantare la sovranità nazionale con il preteso di
risolvere i problemi globali tramite l’imposizione di metodi tecnocratici
centralizzati.
Uno di
questi problemi è quello delle pandemie.
Conviene
osservare a questo punto che la tecnocrazia è essenzialmente una forma di
potere e che s’intreccia ormai strettamente con gli interessi dell’oligarchia
globalista.
Anzi, si palesa sempre di più che la
tecnocrazia sia diventata lo strumento essenziale che questa oligarchia sta
utilizzando per esercitare il suo potere sul mondo.
Non
dovrebbe dunque sorprendere che la pandemia sia stata gestita in modo
tecnocratico.
Nel
suo saggio “Sulle ‘ragioni’ dell’emergenza”, pubblicato alla fine del libro
recente di “Mariano Bizzarri”, Covid-19:
Un’epidemia
da decodificare, il filosofo “Massimo Cacciari” spiega che “l’ideologia della Scienza, fino a
tonalità religiose, che Bizzarri denuncia, è parte integrante del sistema
tecnico-economico-politico che sta dominando le nostre vite (e dunque nient’affatto qualcosa di
meramente ‘sovrastrutturale’)”.
Questo
sistema sta dominando infatti le nostre vite sempre di più e sta creando una
realtà sempre più distopica.
Perché,
come avvertiva “Huxley” in “Brave New World”, i tentativi umani per creare
l’Utopia – in questo caso l’Utopia tecnocratica – finiscono sempre per creare
invece la Distopia.
La
religione della scienza nella gestione della pandemia.
“Bizzarri”
denuncia un fenomeno inquietante che ha caratterizzato l’atteggiamento di molte
persone durante l’epidemia da Covid-19:
È di
moda che le persone di cultura medio-alta dichiarino di non essere “religiose”
(se non apertamente atee), dicendo invece che ripongono la loro “credenza”
nella scienza, parlando di questa come se sostituisse la religione. È curioso
come sotto stress, soprattutto ora che il Covid ci ricorda che la morte esiste
– nonostante ci si affanni a rimuoverne la presenza nelle nostre società epicuree
ed edonistiche – riemerga il sentimento religioso in forme aberranti e deviate.
La fede viene oggi risposta nella “scienza”, credendo che questa sia fonte di
verità assoluta e univoca. In questo, la maggior parte delle persone non fanno
che trasferire la ricerca della certezza dalla religione alla scienza.
Anche “Giorgio
Agamben” si preoccupa di questa aberrazione. In un libro importante, A che
punto siamo?
L’epidemia come politica, pubblicato nel 2020,
il filosofo si domanda “Com’è potuto avvenire che un intero Paese sia, senza
accorgersene, eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia?”
L’Italia, infatti, ha abdicato “ai propri principi
etici e politici”. “
Come
abbiamo potuto accettare”, scrive ancora Agamben, “soltanto in nome di un
rischio che non era possibile precisare che le persone che ci sono care e degli
esseri umani in generale non soltanto morissero da soli ma che, cosa mai
avvenuta prima nella storia da Antigone a oggi, che i loro cadaveri fossero
bruciati senza un funerale?”
Il
filosofo denuncia anche “la Chiesa, che, facendosi ancella della scienza ormai
diventata la vera religione del nostro tempo, ha radicalmente rinnegato i suoi
principi essenziali.
La Chiesa sotto un papa che si chiama
Francesco ha dimenticato che Francesco abbracciava i lebbrosi.
Ha dimenticato che una delle opere della
misericordia è quella di visitare gli ammalati.
Ha
dimenticato che i martiri insegnano che si deve essere disposti a sacrificare
la vita piuttosto che la fede e che rinunciare al proprio prossimo significa
rinunciare alla fede”.
Infatti,
la scienza, o piuttosto lo scientismo, è diventata “la vera religione del
nostro tempo” perché l’intera storia dell’umanità ci insegna che gli esseri
umani non possono vivere senza religione, senza fede, così che quando perdono
la fede in una vera religione – o in una religione diventata falsa, corrotta e
malvagia – si affrettano di creare una pseudo-religione, una nuova ideologia in
grado di soddisfare il bisogno profondissimo di credere. Ho personalmente
sentito dire da un italiano, cattolico praticante d’altronde, che si vanta di
rispettare moltissimo le “verità della scienza”, che il vaccino era “un dogma
della fede”. Ma la scienza – quella vera – non ha dogmi, li ha solo la religione.
Citiamo
qui ancora le parole accorate di “Mariano Bizzarri”:
La
ricerca scientifica è stata l’amore della mia vita. Ma ora, dopo più di quarant’anni
vissuti in laboratorio e nelle corsie ospedaliere, mi sento tradito, sgomento
come chi possa scoprire – solo a tarda età – di aver mal riposto il proprio
affetto in colei, che come diceva De André “non lo amava niente”.
Le
decisioni pronunciate in nome della scienza sono diventate arbitri di vita, di
morte, condizioni imprescindibili per consentire l’accesso a libertà che pure
dovrebbero essere fondamentali.
Tutto
ciò che conta è stato influenzato dalla scienza, dagli esperti che la
interpretano e da coloro che impongono misure basate sulle interpretazioni
mediatiche, ritorte e stravolte nel contesto della guerra politica.
Ovviamente,
questa “scienza” nulla ha a che vedere con la Scienza, quella vera, che per sua
natura rifugge dalle affermazioni assolute, dal trionfalismo, e avversa il
sensazionalismo preferendo il più tormentato – ma assolutamente più onesto –
rifugio del dubbio. Non che la situazione fosse idilliaca prima del Covid; ma
oggi, le norme basilari che impongono alla ricerca scientifica onestà
intellettuale, disinteresse, cauto scetticismo e disponibilità al confronto e
alla condivisione dei dati sono apertamente e sistematicamente violate38.
Ciò
che descrive qui “Bizzarri”, con tanta amarezza, è la strumentalizzazione
politica della scienza. È la scienza messa al servizio della tecnocrazia. La
scienza ufficiale, “la vera religione del nostro tempo”, è diventata uno
strumento di oppressione, come lo era diventata per tanti secoli anche la
religione ufficiale.
Le
statistiche e la gestione tecnocratica dell’emergenza sanitaria.
Offrirò
nel secondo articolo un’analisi critica della gestione sanitaria della pandemia
da Covid-19.
Qui, invece, voglio sottolineare il modo
strettamente tecnocratico in cui è stata gestita l’emergenza.
In
questa gestione le statistiche, i dati, hanno svolto un ruolo centrale.
Si
potrebbe dire infatti, senza esagerazione, che i dati costituiscono il sangue
di quell’essere gigantesco è disumano che si chiama Tecnocrazia.
Senza
i dati, le cifre, le statistiche, non può vivere. I dati sulla pandemia –
numeri di “casi”, “decessi”, “ricoverati”, ecc. – emessi costantemente dai
governi e accettati, diffusi e commentati in modo totalmente acritico dai
media, servivano a costruire nella mente della popolazione una situazione
drammatica che potesse giustificare ingerenze senza precedenti nella vita dei
cittadini, ingerenze che, de facto, li spogliavano dai loro diritti
costituzionali.
Ciò
che conta, osservava già dal 1995 uno studioso della contabilità, non è che i
dati siano affidabili, ma che vengano presentati in un modo che sembra neutrale
e factual (basata sui fatti) in modo di non poter essere messi in discussione;
i dati devono sembrare intrinsecamente veri. Per la tecnocrazia, i dati sono fonte
di potere.
In
Italia, durante la prima fase della pandemia, la campagna ufficiale
d’informazione aveva il compito d’influenzare nella popolazione la percezione
della realtà, infondendo paura tramite la diffusione di dati mettendo in
evidenza la gravità della crisi.
Lo
strumento principale di questa campagna è stato la conferenza stampa tenuta dal
commercialista e revisore dei conti “Angelo Borreli”, capo dell’Unità di
Protezione Civile, trasmessa ogni giorno alle ore 18 da tutti i canali di
notizie televisivi.
L’impatto
di questi “bollettini di guerra” è stato grandissimo:
secondo
Auditel, nel mese di marzo 2020, quando il virus si stava diffondendo
attraverso l’Italia, ben cinque milioni di persone guardavano la conferenza
stampa ogni giorno. Inoltre, i media italiani facevano costantemente
riferimento ai bollettini, in programmi televisivi come “I Numeri della
Pandemia” e anche nella stampa cartacea.
Durante
la seconda fase della strategia pandemica ufficiale, le conferenze stampa erano
tenute da “Domenico Arcuri”, il Commissario straordinario per l’emergenza
epidemiologica (anche lui commercialista e revisore dei conti di primo
livello), nominato dal governo il 18 marzo 2020.
Arcuri si focalizzava soprattutto sui numeri
dei decessi e dei ricoveri in terapia intensiva.
Paragonava
frequentemente la situazione ad una guerra.
Il 18 aprile, per esempio, il Commissario
spiegò che nella città di Milano durante la Seconda Guerra Mondiale, 2.000
civili furono uccisi dai bombardamenti, mentre il virus aveva preso la vita di
11.815 italiani in soli due mesi.
Grazie
allo stato di paura e d’incertezza fomentato dalla diffusione costante di
statistiche allarmanti, gli italiani si sono adattati rapidamente alle nuove
misure invasive ed a un tenore di vita molto diminuito.
L’utilizzazione delle informazioni numeriche è
una strategia di legittimazione governativa di lunga data e si è dimostrata,
anche in passato, molto efficace nel far accettare in modo acritico dalle
popolazioni i dati forniti dai media.
A che
punto però tutti questi dati così impressionanti, diffusi in modo martellante
dai media italiani, erano affidabili e significativi? Già dal 2 giugno 2020, “Luca
Ricolfi”, Presidente e Responsabile scientifico della Fondazione Hume, esperto
di analisi dati, affermava che “dei dati è stato fatto un uso folle” e che “la
qualità dei dati della Protezione Civile è pessima”.
È
importante osservare che questi dati erano sempre presentati senza alcuna
contestualizzazione: per esempio, le cifre di decessi da coronavirus erano pubblicate
senza alcun riferimento ai numeri di decessi normali nello stesso periodo
dell’anno, e non venivano mai paragonate ai decessi provocati abitualmente
dall’influenza stagionale.
Più
grave ancora è il fatto – analizzato nel secondo articolo – che i risultati dei
tamponi erano completamente inaffidabili, perché i test producevano
automaticamente una certa percentuale di falsi negativi, ma soprattutto
un’altissima percentuale di falsi positivi, cioè molte persone risultavano
positive, ma non erano in realtà né infette né infettanti.
Ma,
nei dati ufficiali i “positivi” venivano sempre presentati come “casi”. Nello
stesso tempo, i dati sui morti da coronavirus erano anch’essi inaffidabili, le
cifre essendo sicuramente molto gonfiate dallo strano e innovativo sistema di
conteggio che confondeva chi moriva di Covid con chi moriva con il Covid (cioè
che testava positivo al tampone molecolare), un sistema che violava tutte le
linee guida internazionali. La correlazione non è causazione. Inoltre, i tassi
di mortalità erano basati su una frazione cui elementi non erano conosciuti con
precisione.
La
cifra più importante da capire in qualsiasi epidemia è quella del tasso di
mortalità mediano.
Nel luglio di 2020, dopo l’analisi di vari
studi scientifici, l’epidemiologo eminente di Stanford, “John Ioannidis”,
dimostrò che il tasso di mortalità mediano per Covid-19 era solo 0.27%,
l’equivalente di una brutta influenza stagionale.
Il
governo italiano non ha mai diffuso questa informazione essenziale. “Puoi fare
molto coi numeri”, osservano gli scienziati tedeschi “Sucharit Bhakdi “e”
Karina Reiss”, “Soprattutto, puoi spaventare la gente”47.
Stiamo
parlando dunque della creazione di ciò che costituisce, in verità, un intero
sistema di falsa contabilità.
“Quella
che stiamo vivendo”, scriveva “Agamben” ad aprile 2020, “prima di essere una
inaudita manipolazione delle libertà di ciascuno, è, infatti, una gigantesca
operazione di falsificazione della verità”.
Infatti,
la manipolazione dei dati in Italia (e in altri paesi) durante la pandemia –
denunciata ormai da molti scienziati – fa inevitabilmente pensare al detto
inglese “Lies,
damned lies and statistics”.
Le
statistiche, infatti, possono essere le peggiori delle menzogne.
Nella tecnocrazia, le statistiche – vere o false che
siano – svolgono soprattutto la funzione di influenzare la mente dei cittadini
e di giustificare le misure, spesso oppressive, imposte dal governo.
Non esito ad affermare che la campagna d’informazione
ufficiale condotta in Italia durante la pandemia non sia stata altro che una
campagna di pura propaganda degna di un regime totalitario, degna infatti
dell’orwelliano “Ministero della Verità”.
Una
tecnocrazia sanitaria mondiale corrotta.
Il
tecnocrate si rappresenta sempre come “l’uomo della scienza”, un essere fatto
di oggettività, disinteresse e neutralità politica.
La realtà è diversa.
E
questa realtà è diventata estremamente importante dal momento che una
tecnocrazia sanitaria ha assunto il potere sulla vita delle popolazioni.
“Marco
Pizzuti” non esagera quando scrive che “Nel corso della storia non era mai
accaduto prima che i vertici della sanità mondiale potessero assumere il
controllo delle nazioni fino al punto di poter sospendere i diritti
fondamentali dei loro cittadini, impedire i funerali e separare le famiglie in
base alle decisioni di comitati tecno-scientifici che sono la diretta
emanazione degli interessi particolari dell’industria farmaceutica”.
La
corruzione dilagante, sistemica, che imperversa ormai da tanti anni nel mondo
farmaceutico-sanitario è un tema che sarà trattato più a lungo nel terzo
articolo.
Ci limiteremo qui ad osservare che
l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ovvero il massimo organo della sanità
pubblica a livello globale, non è forse in realtà l’autorità scientifica
imparziale descritta dai canali d’informazione ufficiali.
Infatti,
nel contesto dello svisceramento della democrazia esaminato qui, è essenziale
capire che, al termine di un lungo processo di neo liberalizzazione delle
istituzioni, ormai l’OMS rappresenta gli interessi di una oligarchia capitalista
globalizzata.
La
sovranità dell’OMS è una sovranità derivata.
“A causa della sua nuova dipendenza
finanziaria [sorta negli anni 1990]”, osserva “Van der Pijl”, “cadde, come il
nuovo ordine neoliberale nell’insieme, sotto il dominio del capitale,
implementato dallo Stato internazionalizzato”.
“Pizzuti”
spiega come l’ente riceve la maggior parte del suo budget – ben 4,6 miliardi di
dollari su 5,6 – dalle donazioni volontarie provenienti da aziende e fondazioni
private.
L’autore aggiunge che “ben i tre quarti delle
sue risorse finanziare provengono direttamente dall’industria farmaceutica e in
particolare dai produttori dei vaccini”.
Nel
biennio 2016-2017, per esempio, le donazioni volontarie hanno rappresentato
quasi l’87% del budget totale dell’OMS e il British Medical Journal ha
documentato che solo nel 2017 l’80% di questi fondi era condizionato a una
precisa agenda decisa dai donatori privati.
Già dal 2011 Il Sole 24 Ore denunciava la
totale perdita di credibilità dell’OMS come ente pubblico: da almeno
trent’anni, “l’OMS ha perso il controllo, prima delle proprie politiche e poi
delle proprie finanze”, un cambiamento che “ha avuto inizio negli anni in cui
le sorti del mondo venivano ridisegnate secondo il modello neo-liberista”.
L’articolo
illustra la perdita di controllo delle politiche sanitarie dell’OMS con
l’esempio del “decennio dei vaccini annunciato da Bill Gates all’assemblea
mondiale a maggio”.
Tenendo
conto del ruolo di primo piano svolto da Bill Gates durante la pandemia da
Covid-19, non è indifferente sapere che sin dai primi 2000 il plurimiliardario
ha iniziato a trasferire i suoi affari dal mondo del software al settore
farmaceutico, comprando pacchetti di azioni delle più grandi case farmaceutiche;
che,
dopo gli Stati Uniti, la Bill & Melinda Gates Foundation è attualmente il
secondo finanziatore in assoluto dell’OMS (con la GAVI Alliance, anch’essa
fondata da Gates, che occupa il terzo posto);
e che lo stesso Gates viene considerato dai
dipendenti dell’OMS come il suo “amministratore delegato”.
Gli
interessi di Gates si focalizzano in particolar modo sui vaccini – che il
miliardario ha riconosciuto come estremamente lucrosi – e sulle campagne di
prevenzione sanitaria dell’OMS.
Le donazioni importantissime di Gates
consentono all’autoproclamato “filantrocapitalista” di decidere le priorità
dell’OMS insieme a quelle dei governi colpiti dalle emergenze sanitarie. Sono i
desideri di Gates e delle case farmaceutiche che hanno realizzato “il decennio
dei vaccini”.
L’Organizzazione
Mondiale della Sanità è ormai parte integrante di una tecnocrazia globalizzata
gestita da un’oligarchia capitalista internazionale dedicata unicamente all’incremento
costante dei suoi profitti e del suo potere.
È
questa una realtà assai inquietante per chiunque tenga ai valori liberali di
democrazia e libertà o alla priorità della salute e del benessere dell’umanità
intera sui profitti economici e sugli interessi politici dei pochi.
Stando le cose così, forse non è tanto saggio
fidarsi troppo delle direttive provenienti dall’OMS.
Il neoliberismo trionfante ha provocato non
solo una profondissima crisi economica, sociale e politica che sta travolgendo
il mondo, ma una grandissima perdita di credibilità delle istituzioni
pubbliche, che sono diventate in realtà delle” Public-Private Parternships” in
cui il potere decisionale è ritenuto non dal pubblico, ma dal privato.
Per
dirla con altre parole, la sfera pubblica è stata divorata dalla sfera privata.
Un
singolo episodio importantissimo servirà a far capire il modus operandi
dell’OMS contemporaneo guidato dagli interessi del capitalismo oligarchico.
Si tratta dello scandalo clamoroso – subito
insabbiato – che “La Stampa” del 7 giugno 2010 chiamava “La grande truffa della
‘suina’”.
La “truffa” è stata scoperta e denunciata dal
medico tedesco “Wolfgang Wodarg”, presidente dell’Assemblea parlamentare del
Comitato sanitario del Consiglio d’Europa.
Il 26
gennaio del 2010, l’OMS è stata invitata al Consiglio d’Europa di Strasburgo
per rispondere alla mozione “Le false pandemie, una minaccia per la salute”.
“Wodarg”
accusò l’OMS di aver terrorizzato il mondo con epidemie ingiustificate,
l’ultima nella serie essendo quella suina del 2009:
“Milioni
di persone sono state vaccinate inutilmente, com’è possibile che l’OMS sia
arrivata a promuovere una iniziativa così sciocca e costosa?
Prima
l’aviaria, ora la suina. Per l’OMS è una tragica perdita di credibilità”.
La
Commissione Sanità accusò l’OMS di avere creato una “falsa pandemia”:
“Il
Consiglio d’Europa vuole sapere se l’OMS si è fatta condizionare dall’industria
farmaceutica, che grazie alla pandemia ha registrato incassi record.
Ma gli
scenari pandemici annunciati non si sono avverati. Una bufala gigantesca o un
errore di valutazione?”
È
interessante notare che il 4 maggio 2009, solo qualche settimana prima di
dichiarare la pandemia dall’influenza suina A/H1N1, l’OMS aveva cambiato la sua
definizione di pandemia, abbassando notevolmente le condizioni requisite:
non
era più necessario che un’epidemia si diffondesse rapidamente in molti paesi,
che ci fosse un’assenza d’immunità o un’immunità inadeguata, o che ci fosse una
quantità estrema di decessi o di malattie gravi; ormai bastava la diffusione di
un nuovo virus, una quantità di malati superiore al normale – e la decisione di
dichiarare una pandemia.
Secondo
“Van der Pijl”, il piano sul quale fu basato il cambiamento di definizione era
stato scritto dall’IFPMA, un gruppo che promuove gli interessi dell’industria
farmaceutica, insieme alla DCVMN, un’organizzazione dei produttori di vaccini
per il mondo in sviluppo.
L’OMS
respinse le accuse di corruzione, che tacciò da “complottismo”, ma in seguito
fu stabilito da un’indagine condotta dal Consiglio d’Europa che gli esperti
dell’ente sanitario che avevano fatto alzare l’allarme al livello 6 (il
massimo) avevano tutti gravi conflitti d’interessi dovuti ai loro legami con i
produttori dei vaccini.
Non
solo, ma il 19 maggio, tre settimane prima della dichiarazione della pandemia, una delegazione di trenta case
farmaceutiche aveva visitato il quartiere generale dell’OMS a Geneva per
consultare il Direttore Generale “Margaret Chan”.
Analisti
finanziari hanno calcolato che le case farmaceutiche guadagnarono più di sette
miliardi di dollari quando i governi, allarmati inutilmente dall’OMS,
comprarono vaccini dalle case farmaceutiche in grande quantità.
La maggior parte di questi stock fu buttata via. Gli
esperti avevano gonfiato enormemente il rischio rappresentato dall’influenza
suina A/H1N1, che in realtà era più debole dell’influenza stagionale. Sulla
scia della dichiarazione ufficiale di pandemia, i media, i virologi e i governi
del mondo occidentale avevano terrorizzato la popolazione con dichiarazioni
allarmistiche sull’imminente morte di decine di milioni di persone, convincendo
milioni a farsi vaccinare inutilmente.
Quando
la falsa pandemia fu sventata, i media lasciarono cadere nel vuoto questo
gravissimo episodio di corruzione.
“Il giorno dopo”, scrive” Pizzuti”, “come se
niente fosse, i virologi scomparvero dai salotti televisivi e i grandi canali
d’informazione iniziarono a parlare d’altro mentre le istituzioni governative
di tutto i mondo si eclissarono senza prendere alcun provvedimento che potesse
evitare il ripetersi di quanto accaduto”.
Tutto
quell’intreccio di conflitti di interessi, istituzioni sanitarie “catturati”
dall’industria, esperti venduti e mass media che lavorano, non per informare le
popolazioni, ma per servire gli interessi dell’oligarchia capitalista, è
rimasto completamente intatto.
Covid
19 e la “Grande Trasformazione.”
Siccome
la “truffa” gigantesca della pandemia da influenza A/H1N1 è stata realizzata
senza che nessuno fra gli implicati abbia mai dovuto pagare le conseguenze, è
legittimo domandarsi perché questa operazione enormemente lucrosa non potesse
ripetersi.
È anche legittimo chiedersi se la pandemia da
Covid-19 non sia stata, in realtà, la ripetizione, ad una scala molto più
vasta, della stessa truffa, attuata questa volta con scopi non solo economici,
ma anche politici.
È
questa una domanda che non pochi commentatori si sono fatti.
Non
voglio esaminare a questo punto le teorie del complotto che sono state
sviluppate a riguardo non solo nel mondo dei “complottisti” della Rete ma nelle
pagine di libri seri e ben documentati.
Ciò
che voglio sottolineare qui invece è che le politiche messe in essere durante
l’emergenza sanitaria hanno comunque servito ad accelerare enormemente varie
agende convergenti care all’oligarchia globalista. Nell’estate di 2020 Klaus Schwab, il
presidente del World Economic Forum, ha dato un nuovo nome a l’insieme di
queste agende: il “Great Reset”.
“Now is the time for a ‘Great Reset’”
– “È ora il momento per un ‘Grande Reset’” – annunciò Schwab alla riunione annuale del
World Economic Forum, a Davos (Svizzera), il 3 giugno 2020:
“I
governi dovrebbero attuare riforme attese da tempo che promuovono risultati più
equi. […] Noi dobbiamo costruire basi completamente nuove per i nostri sistemi
economici e sociali”.
Qualche
giorno dopo, Kristalina Georgieva, il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale,
pubblicò un discorso intitolato “Dal Grande Lockdown alla Grande Trasformazione”.
Secondo
lei, la serrata delle economie e le misure di repressione che avevano sospeso
la libertà di movimento di milioni di persone, distruggendo allo stesso tempo
centinaia di migliaia di piccole imprese e provocando fame e miseria nei paesi
poveri e danni psicologici nei paesi ricchi, offrivano grandi “opportunità”,
come la “trasformazione digitale” e la possibilità di muoversi verso una società
eco-sostenibile.
Le
implicazioni poco rassicuranti di questa “Grande Trasformazione”, di questo
“Grande Reset”, presentato al mondo come una nuova visione economico-sociale
altruista, equa, e ecologica, benché promossa dagli stessi poteri capitalisti che hanno
devastato e schiavizzato il mondo, sarà esaminata in un altro articolo. Sottolineiamo qui invece che al cuore
di questa trasformazione epocale è la Quarta Rivoluzione Industriale, strettamente legata ad un nuovo
sistema di controllo sociale. Grandi passi verso la realizzazione di questi due
fenomeni interconnessi sono stati compiuti nel corso della pandemia, con
l’instaurazione su scala massiccia del lavoro a distanza, cioè il lavoro da
casa tramite il computer durante i lockdown; l’instaurazione della didattica a
distanza (DAD), e l’imposizione in alcuni paesi, come l’Italia, del “passaporto
vaccinale” o “Green Pass” che, come vedremo nell’ultimo articolo, più che un
sistema di controllo epidemiologico rappresenta un sistema digitale di
controllo sociale.
Dagli
sconvolgimenti epocali provocati dalla pandemia da Covid-19 sta emergendo un
nuovo mondo.
La
realtà assai inquietante di questo mondo, di questo nuovo normale, sarà
esaminata oltre.
Un articolo sarà invece dedicato ad un’analisi
critica della gestione sanitaria dell’epidemia.
Perché
la gestione è stata non solo sanitaria, ma anche, e allo stesso tempo,
politica: nel nuovo paradigma che i governi occidentali stanno costruendo in
fretta, il sanitario e il politico sono strettamente legati. La salute umana si
sta trasformando in biosicurezza.
(Peter
Cooke è professore in pensione dell’Università di Manchester)
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