Il potere dell’élite globalista e la libertà dei cittadini.

 

Il potere dell’élite globalista e la libertà dei cittadini.

 

 

Un nuovo compromesso

sociale salverà la democrazia?

Open.luis.it –(20-5-2021) – Redazione – Michael Lind – ci dice:

“Soltanto un nuovo pluralismo democratico che obblighi le élite manageriali a condividere il potere con la classe dei lavoratori potrà porre fine al ciclo di oscillazioni tra tecnocrazia oppressiva e populismo distruttivo”.

Sarà davvero così? Ecco un’analisi del volume “La nuova lotta di classe” di Michael Lind.

Un essai non vuole essere uno scritto scientifico rigoroso, magari con una domanda di ricerca ben definita, uno svolgimento empiricamente preciso, anche se scritto da un accademico noto, come Michael Lind.

 Con verve polemica e uno stile accattivante e facile da leggere, deve però avere una tesi forte che punti su un tema rilevante, magari anche politicamente.

Da questo punto di vista, qual è la tesi di fondo de” La nuova lotta di classe”.

 “Elite dominanti, popolo dominato e il futuro della democrazia”, appena pubblicato dalla” Luiss University Press”?

Eccola:

“Soltanto un nuovo pluralismo democratico che obblighi le élite manageriali a condividere il potere in ambito economico, politico e culturale con la classe dei lavoratori, multirazziale e multireligiosa, potrà porre fine al ciclo di oscillazioni tra tecnocrazia oppressiva e populismo distruttivo” (p. 111).

Dunque, una tesi semplice e netta svolta nei diversi capitoli, con la descrizione del pluralismo democratico concentrata soprattutto nell’ottavo e nel nono.

 L’autore sostiene che l’evoluzione economica, politica e culturale dell’ultima parte del secolo scorso ha evidenziato l’affermazione di una rivoluzione neoliberista dall’alto con l’emergere di una classe manageriale dominante (spec. cap. 4).

A questa ha fatto seguito all’inizio di questo secolo una controrivoluzione populista dal basso, dovuta alla rabbia di un’ampia classe operaia esclusa che ha consentito il successo del populismo demagogico e che è il sintomo maggiore di un corpo politico malato (spec. cap. 5).

Come mettere fine a questa nuova lotta di classe dal momento che nel frattempo gli attori intermedi ovvero i partiti e i sindacati, che erano stati così importanti dei decenni successivi al secondo dopoguerra per l’instaurazione delle democrazie pluraliste su entrambe le sponde dell’Atlantico, sono sostanzialmente scomparsi o notevolmente indeboliti dagli sviluppi economici e sociali intervenuti?

Se si esclude l’evento catastrofico della vittoria di una classe ovvero della élite manageriale e di una tecnocrazia neoliberale, l’unica soluzione è dare vita a un pluralismo democratico, che integri “i cittadini della classe operaia …nel processo decisionale al governo, nell’economia e nella cultura” (p. 189) e sia caratterizzato da “intese per la spartizione del potere tra le classi e le sottoculture….forme di condivisione del potere, come le istituzioni trilaterali manodopera-imprese-governo che decidono i salari…(oltre a) controlli ed equilibri sociali,…controlli ed equilibri politici…… un consenso duraturo, conquistato a fatica in trattative tra i partiti, le classi e le confessioni religiose…” (p. 166).

 In breve, il pluralismo democratico configura una concezione normativa della democrazia in cui vi è un ruolo forte e attivo di associazioni che realizzano un’efficace integrazione.

La spinta a realizzare questa soluzione convincendo le élite manageriali ad accettarla verrebbe dalla paura derivante da una “rinnovata concorrenza tra le grandi potenze” (p. 186) in modo da sostituire il neoliberismo globalista con uno ‘sviluppismo nazionale’.

 

La tesi dell’autore induce a porsi diverse domande.

Senza stare a sottilizzare sulla precisa correttezza empirica della ricostruzione storica, grosso modo, dalla fine del secondo dopoguerra ad oggi e senza considerare un certo squilibrio tra l’attenzione data alla democrazia statunitense e alle democrazie europee, concentriamoci solo su tre domande, forse le più rilevanti.

La prima:

esistono effettivamente le due classi in lotta, quella dei manager e un’ampia classe di lavoratori?

Soprattutto la Grande Recessione, dal 2008 in poi, e le reazioni dei governi, anche europei, a quella crisi hanno mostrato quello che sostiene “Lind”, ovvero sia l’indebolimento dei sindacati che dei sistemi di welfare con una crescita delle disuguaglianze.

Però, la ricerca empirica da molti anni non identifica più vere proprie classi sociali ovvero gruppi in condizioni socioeconomiche simili e una propria percezione di identità di classe.

Se ipotizziamo che l’autore usi il termine in senso più lasco, e non consideri la necessità di una ‘coscienza di classe’, come una volta si diceva, rimane che i comportamenti politici e gli atteggiamenti culturali di soggetti con una simile posizione economica sia molto differenziati nelle diverse democrazie europee.

 E, ad esempio, l’età e solo in parte l’istruzione siano più rilevanti come fattori in grado di spiegare meglio la diversificazione degli atteggiamenti.

 In breve, almeno in una prospettiva empiricamente attenta, nelle attuali società post-industriali e largamente finanziarizzate – come sottolinea anche” Lind “– la frammentazione sociale, economica, culturale e politica è talmente accentuata da non consentire di identificare classi, e tanto meno due classi solamente.

 

La seconda:

si può effettivamente trasformare quel conflitto in una coesistenza pacifica e benefica attraverso il pluralismo democratico indicato da “Lind.

Potrebbe essere sicuramente auspicabile sia l’integrazione ai diversi livelli, sia la condivisione delle decisioni economiche essenziali, sia la pacificazione.

 La stessa pandemia potrebbe spingere in quella direzione contrattuale e ragionevolmente compromissoria.

Ma se avvenisse, accadrebbe sempre in modo parziale e ambiguo.

Gli attori intermedi che hanno caratterizzato le democrazie degli anni Sessanta e Settanta peraltro non esenti da critiche e problemi, non possono più risorgere. Senza dire che l’aspetto essenziale di quegli anni non riguardava partiti e sindacati, che pure ne erano i protagonisti, quanto il fatto che si trattava di anni di crescita economica continua e consistente.

La terza:

quella di Lind è, alla fine, la ricetta corretta o ve ne sono altre più realisticamente realizzabili?

 Per rispondere a questa domanda occorre considerare l’errore che Lind si porta appresso in tutta la sua analisi.

 In breve, la sua proposta è di tipo procedimentale ovvero costruiamo regole e meccanismi decisionali in cui tutti siano coinvolti e avremo le decisioni giuste per tutti.

Questo ragionamento ha un assunto implicito che è una tipica fallacia notata da diverse ricerche.

 Infatti, semplificando, se sono al governo degli operai ovvero dei capitalisti non possiamo dare per scontato che nel primo caso ci saranno politiche a favore degli operai e nel secondo dei capitalisti.

 La complessità delle attuali democrazie in cui la destra sostiene la crescita del welfare e i ceti meno abbienti e la sinistra appoggia l’impresa industriale confonde tutto il quadro effettivo.

 Nei tempi di crisi che stiamo vivendo, occorrerebbe ripartire, come sosteneva Machiavelli nei Discorsi, dai valori importanti.

Questi, secondo la maggioranza dei democratici, sono la libertà e l’uguaglianza.

Di conseguenza, innanzi tutto, occorre mettere a punto politiche che realizzino al meglio quei valori, magari anche facendo attenzione alle modalità per realizzarli meglio, in piena consapevolezza che ci vorranno compromessi e aggiustamenti, ma senza mai perdere di vista gli obiettivi effettivi e senza pensare che l’approvazione di certe regole assicurerà il risultato voluto.

Fatte queste considerazioni, si può concludere che se l’obiettivo di un essai è quello di provocare e indurre a riflettere,” Lind” con questo lavoro vi è pienamente riuscito. E va bene così.

 

 

 

Sulla risposta alla crisi globale

si gioca il futuro dell’umanità.

Editorialedomani.t - IAN BREMMER – (18 agosto 2022) – ci dice:

 

Mai prima d’ora così tanti esseri umani hanno avuto la possibilità di sopravvivere al parto, andare a scuola, sfuggire alla povertà, accedere a un’istruzione superiore, incontrare persone lontane e guadagnarsi da vivere.

Ma mai come oggi rischiamo una catastrofe che è accelerata dagli stessi strumenti che potrebbero scongiurarla.

Questo testo è un estratto dal nuovo libro di “Ian Bremmer”,” Il potere della crisi - Come tre minacce e la nostra risposta cambieranno il mondo”, pubblicato da Egea.

Il testo fa parte del numero di Scenari: “Alla corte di Xi Jinping”, in edicola e in digitale dal 12 agosto.

Viviamo in un’epoca di straordinarie opportunità.

Mai prima d’ora così tanti esseri umani hanno avuto la possibilità di sopravvivere al parto, andare a scuola, sfuggire alla povertà, accedere a un’istruzione superiore, incontrare persone di altri luoghi, trovare un lavoro, avviare un’impresa, guadagnarsi da vivere, inventare qualcosa di nuovo, votare, ricevere cure mediche di qualità, attraversare i confini e offrire ai propri figli gli stessi vantaggi.

Oggi miliardi di persone hanno agi e opportunità nettamente superiori a quelli che potevano vantare i re medievali.

 L’inventiva umana ha raggiunto picchi inimmaginabili anche solo una generazione fa.

Ma, come ho spiegato in questo libro, rischiamo anche la catastrofe.

Le conquiste storiche degli ultimi cinquant’anni – compresa la più importante, ossia la nascita del primo ceto medio mondiale – sono minacciate dall’incapacità dei nostri leader di collaborare per proteggerci dalle malattie infettive, dall’innalzamento dei mari, dal cambiamento climatico, dalle ondate di disinformazione tossica, dagli sconvolgimenti causati dalle tecnologie che sottraggono il lavoro agli esseri umani, dalla dittatura digitalmente potenziata e dalle nuove forme di guerra.

E tutto avviene alla velocità della luce.

Per miliardi di anni il nostro pianeta non ha ospitato alcuna forma di vita intelligente.

Per milioni di anni ha ospitato forme di vita intelligenti ma senza alcuna traccia di esseri umani.

Per altri due milioni di anni qualche essere umano c’è stato, ma non c’erano la cooperazione e la comunicazione necessarie a costruire società e a consentire il progresso.

 

Poi è arrivato il commercio tra le persone che per sopravvivere si dedicavano alla caccia e alla pesca.

Le ragioni di scambio sono diventate più complesse, sono state scritte delle regole e create autorità indipendenti dedite a risolvere le controversie.

Le popolazioni hanno cominciato ad aumentare, e con esse la complessità delle relazioni.

Nel I secolo d.C. c’erano 170 milioni di persone sulla Terra.

Nel corso dei mille anni successivi questo numero è salito a 254 milioni.

Grazie alla peste bubbonica nel 1400 c’erano ancora solo 343 milioni di esseri umani.

Ci sono voluti due milioni di anni per raggiungere (nel 1804) una popolazione mondiale di un miliardo di persone e solo altri duecento anni per arrivare a sette miliardi.

L’accelerazione dello sviluppo umano è ancora più evidente nelle nostre tecnologie.

Agli albori del XX secolo i soldati combattevano ancora a cavallo; nel 1945 gli Stati Uniti hanno lanciato bombe atomiche su due città giapponesi. O, ancora, pensiamo ai progressi della comunicazione.

La prima chiamata effettuata da un telefono cellulare portatile risale al 1973, e fu fatta con un dispositivo che pesava quasi un chilo.

 Nel 1989 “Tim Berners-Lee” inventò il “World Wide Web” e il primo “browser”. Oggi più di 4,4 miliardi di persone esplorano il cyberspazio.

Pensate alla velocità con cui il volo ci ha consentito di raggiungere nuove vette. Nel 1903 Orville Wright pilotò un biplano a 36 metri di altezza e rimase in volo per dodici secondi.

Appena 58 anni dopo l’Unione Sovietica lanciò Yuri Gagarin nello spazio, e otto anni dopo Neil Armstrong atterrò sulla Luna.

 Nel 2021 la NASA ha fatto volare sulla superficie di Marte un drone che trasportava un pezzo dell’aereo dei fratelli Wright grande come un francobollo.

Ora facciamo un salto di venticinque anni nel futuro.

Sono queste le prospettive che ci servono per visualizzare il punto in cui ci troviamo, dove stiamo andando e a quale velocità ci stiamo arrivando.

La nostra capacità sia di creare che di distruggere sta accelerando più velocemente di quanto riusciamo a registrare.

Abbiamo liberato forze che stanno cambiando il pianeta e sfuggendo al nostro controllo e, se non riusciremo ad accordarci su come gestirne in maniera saggia le conseguenze, potremmo distruggere tutto ciò che gli esseri umani hanno creato.

Siamo davanti a un bivio.

Come spero abbiate compreso dalla lettura di questo libro, le sfide globali senza precedenti di cui vi ho parlato non incombono in un futuro imprecisato: sono qui con noi in questo preciso momento.

Il cambiamento climatico si intensificherà, qualunque cosa facciamo, e i suoi effetti verranno avvertiti ovunque.

Gran parte del nostro pianeta sta diventando ostile alla vita.

Le nazioni e le persone più ricche spenderanno qualsiasi somma per proteggersi dagli effetti peggiori di questa calamità in atto, ma gli stravolgimenti e le sofferenze continueranno.

 Solo una risposta globale potrà contenere i danni.

 I nostri leader nel mondo della politica, degli affari e della filantropia devono trovare compromessi, cooperare e coordinarsi in nuovi modi.

Man mano che il cambiamento climatico sconvolgerà più vite e costringerà più persone a lasciare le proprie case, accentuando ulteriormente la disuguaglianza globale, milioni di queste vittime diventeranno disperate e arrabbiate.

Alcuni useranno la violenza per manifestare queste emozioni, e la storia ci insegna che la violenza può generare altra violenza.

Per i privilegiati il danno è contenuto finché gli emarginati si limitano a brandire bastoni e pietre.

O pistole. O bombe al nitrato d’ammonio.

Ma quando l’inventiva umana dà loro accesso a nuove e pericolose tecnologie – armi in grado di colpire gli spazi che tutti condividiamo nel mondo reale e virtuale – più persone verranno uccise e intere società destabilizzate.

Il ritmo del cambiamento tecnologico è il rischio più grande di tutti.

Oggi le aziende utilizzano l’intelligenza artificiale per scoprire modi più efficaci e proficui di cambiare il comportamento umano, senza chiedersi quale effetto possa avere realmente quella tecnologia sulle persone che ne diventano dipendenti.

Persino nel bel mezzo di una pandemia che mette in pericolo la vita di decine di milioni di persone non ci azzardiamo a utilizzare un nuovo vaccino senza prima averlo testato.

Vogliamo sapere come inciderà sulle persone, se le proteggerà, quanto dureranno i suoi effetti e se causerà effetti collaterali.

Regolamentiamo il tabacco e gli alcolici.

Vogliamo impedire ai più giovani di fumare sigarette o di fare uso di narcotici.

Ma quando sviluppiamo nuovi algoritmi che decidono quali idee, informazioni e immagini assumiamo, quali prodotti consumeremo, come spenderemo i nostri soldi o come interagiremo con altre persone, non facciamo alcun test.

Iniettiamo tutto nel flusso sanguigno del corpo politico senza neanche pensarci.

Le nuove tecnologie stanno già modificando la nozione stessa di essere umano, e non abbiamo idea delle possibili conseguenze di ciò.

 Questi sono problemi che nessuna nazione può risolvere da sola.

 E proprio per questo offrono agli esseri umani un’opportunità senza precedenti: quella di fondere il loro estro pratico e morale per il bene di tutti.

COOPERAZIONE PRATICA.

Tutte le persone – quelle che vivono nelle democrazie e nelle dittature, nei paesi ricchi e in quelli poveri e in tutte le terre di mezzo – sono accomunate da molte aspirazioni: in primis la sicurezza, la dignità e la prosperità.

Vogliamo un accesso sicuro al cibo e all’acqua.

Vogliamo che la legge ci protegga e che protegga i nostri beni e i nostri diritti. Vogliamo buone possibilità di guadagnarci da vivere.

Se perdiamo il lavoro, vogliamo sapere che possiamo trovarne un altro.

Tutte queste cose le vogliamo anche per i nostri figli.

Ma tutto questo dipende sempre più da ciò che accade molto lontano dai nostri confini.

 I confini cambiano, gli imperi sorgono e cadono, le alleanze si forgiano e si dissolvono e i leader politici vanno e vengono ma, oggi più che mai, i problemi degli altri stanno diventando i nostri problemi.

Il panico spaventa i mercati di tutti i continenti.

Le tempeste infuriano nonostante le barriere marittime.

 Le malattie si diffondono.

 La criminalità scatena altra criminalità. I disordini politici ridisegnano intere società.

Le guerre cambiano le vite delle persone a migliaia di chilometri di distanza dal campo di battaglia.

Fino a quando le persone più ricche del mondo non si lanceranno nello spazio per costruirsi lussuose tenute stellari, dovremo condividere tutti un unico ecosistema, in senso sia metaforico che letterale.

 Questo libro vuole ribadire l’importanza di una cooperazione pratica su alcune questioni fondamentali.

Non dobbiamo necessariamente piacerci, tantomeno accordarci su un unico insieme di valori politici ed economici.

Non c’è bisogno che tutti lavorino assieme.

Non dobbiamo risolvere ogni singolo problema.

Di certo non abbiamo bisogno di un unico governo mondiale che ci salvi dal caos.

Ma non è mai stato più chiaro di così:

i cittadini di tutti i paesi del mondo devono cooperare se vogliono raccogliere i frutti pressoché universali degli obiettivi che non si possono raggiungere da soli.

Sono un americano patriottico.

Sono veramente grato per tutto quello che il mio paese ha fatto per me e per i miei cari, e per ogni opportunità che ha creato per noi.

Ma non sono un nazionalista. Non credo che i nostri valori siano intrinsecamente superiori a quelli degli altri.

L’America è una comunità di persone con opinioni diverse e convincimenti contrastanti, un consesso di razze, persone di ogni fede e cittadini non credenti.

 Né credo che i «valori americani» offrano la soluzione migliore a ogni problema. La democrazia rappresentativa è, a mio avviso, la migliore forma di governo, ma nessuna nazione governata da un dittatore se la passerebbe meglio se tenesse libere elezioni fra tre mesi.

Per costruire la democrazia ci vuole tempo, e la democrazia non è la migliore forma di governo per ogni singola fase dello sviluppo di una nazione.

Fu la tirannia del comunismo sovietico a sottrarre la Russia al feudalesimo zarista nel 1917 e a portare Gagarin in orbita appena 44 anni dopo.

 Nessuna democrazia ha liberato centinaia di milioni di persone dalla povertà come ha fatto il Partito comunista cinese.

I comunisti sovietici e cinesi si sono macchiati di alcuni tra i peggiori crimini della storia contro persone innocenti.

Ma è vero anche che gran parte della prosperità democratica dell’odierna Europa è stata costruita su secoli di imperialismo, e che gran parte della ricchezza attuale dell’America è stata accumulata sulle schiene di persone condotte lì in catene.

Non essendo un nazionalista, non ho problemi ad ammettere che tutte queste cose sono vere.

Né credo in una marcia ineluttabile verso la pace, l’uguaglianza, la giustizia o la libertà.

 La storia ci insegna che nessuno di questi risultati è inevitabile.

Eppure, per decine di migliaia di anni abbiamo sì potenziato la nostra capacità di uccidere, ma anche la nostra capacità di cooperare.

L’archeologia ci svela la progressione dal semplice al complesso compiuta dalla storia umana.

 È stata la collaborazione tra le persone a gettare le basi di questa complessità. Dall’invenzione della ruota alla nascita del baratto, fino allo sviluppo della democrazia e alla creazione delle moderne filiere produttive e reti di ammortizzatori sociali, le nostre conquiste dipendono sempre più non solo dalle nuove tecnologie ma anche da forme complesse di impegno sociale, cooperazione e coordinamento.

La nostra disponibilità a cooperare deve progredire più velocemente delle forze distruttive che abbiamo messo in moto.

 I vari processi che oggi chiamiamo «globalizzazione» hanno lasciato troppe persone a vivere nella miseria, e a un palmo di naso dai ricchi.

Vedendo nell’efficienza e nella redditività l’unica strada verso la prosperità, abbiamo creato una forma brutale di governo che avvelena il suolo su cui crescono le società civili, generando guadagni per proprietari e azionisti e abbandonando milioni di persone.

Il contenimento di questa pericolosa disuguaglianza comincia in patria, preparando i lavoratori ad assorbire gli shock e ad affrontare le sfide che inevitabilmente accompagnano l’accelerazione del cambiamento.

Non è possibile costruire un nuovo sistema internazionale di cooperazione in una volta sola.

Bisogna cominciare dalla collaborazione tra alleati e popoli affini, tra paesi che condividono gli stessi valori politici e persone già animate da fiducia reciproca, prima che anche i governi più scettici capiscano che aderire a questi progetti conviene.

Per arrivarci, gli alleati dovranno stipulare un nuovo accordo con i loro rivali.

Suona utopistico?

Prima di arrenderci a un facile cinismo, ricordiamoci che esiste un precedente storico per una visione così grandiosa, un precedente che ha permesso a miliardi di esseri umani di sopravvivere e prosperare nel mondo moderno.

Dopo la Prima guerra mondiale il conflitto che qualcuno, peccando di ottimismo, definì «la guerra che mette fine a tutte le guerre», molti americani pensavano che i futuri presidenti avrebbero dovuto tenere le truppe americane a debita distanza dalle future guerre europee.

I tentativi di dar vita a una Società delle Nazioni naufragarono, in parte perché l’America rifiutò di aderirvi, in parte perché Germania, Italia e Giappone ne uscirono.

Negli anni Venti e Trenta era ancora possibile credere che gli oceani Atlantico e Pacifico fornissero tutta la sicurezza di cui gli americani avevano bisogno, e che gli eventi in Europa, Asia, Africa e Medio Oriente fossero irrilevanti per la vita americana.

Per le potenze vittoriose d’Europa la Germania doveva uscire in rovine e umiliata dalla Prima guerra mondiale.

Come se la vita potesse tornare alla piena normalità prebellica non appena fermate le artiglierie e rientrati i soldati dal fronte.

Come se una potente nazione messa in ginocchio non potesse più risorgere per tornare a incrinare la pace.

Una generazione dopo, la Seconda guerra mondiale ha ucciso 75 milioni di persone.

Quando finì, la Casa Bianca e il Pentagono capirono finalmente che bisognava investire i soldi dei contribuenti statunitensi nel futuro di quegli stessi paesi che avevano appena fatto di tutto per mettere fine allo stile di vita americano.

Quell’investimento saggio e senza precedenti ha reso il mondo un luogo più sicuro per la democrazia nelle nazioni che erano pronte a costruirla, e ha permesso il commercio nei luoghi in cui era possibile rimettere in piedi le industrie.

 Le due guerre mondiali hanno messo a nudo la capacità della nostra specie di inventare mezzi sempre più efficaci per seminare distruzione, ma hanno anche allargato la nostra capacità di cooperazione, per il bene dei singoli e per quello comune.

Il fascismo è stato sconfitto.

Sono crollati imperi e milioni di persone hanno ottenuto l’indipendenza.

 L’umanità ha dato prova di resilienza. Sotto la spinta delle nuove tecnologie il commercio e gli investimenti globali hanno compiuto grandi salti in avanti. Il numero di paesi democratici è aumentato.

In sostanza, gli Alleati usciti vittoriosi dalla Grande guerra hanno creato un nuovo sistema di governo internazionale fondato su un principio cardine:

 il conflitto non cesserà fino a che ciascuno di noi non si assumerà la responsabilità di tutti quanti gli altri.

Le Nazioni Unite sono state create per istituzionalizzare l’impegno globale alla sicurezza, alla dignità e alla prosperità.

 La Carta delle Nazioni Unite affida all’organizzazione il compito di «realizzare la cooperazione internazionale per risolvere i problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale o umanitario».

Sono state create altre istituzioni allo scopo di aiutare i paesi poveri a sviluppare i propri sistemi politici ed economici per il bene dei cittadini, per fornire aiuti finanziari a chi ne aveva bisogno e a chi era in grado di stabilire scambi commerciali liberi ed equi, per condividere le risorse necessarie a combattere le malattie e per promuovere il rispetto del diritto internazionale.

La Seconda guerra mondiale è stata la più grande catastrofe mai abbattutasi sulla razza umana.

 È stata anche la crisi di cui avevamo bisogno per compiere gli sforzi necessari a garantire la sopravvivenza e persino la prosperità della nostra specie dopo il XX secolo.

Sono stati scritti innumerevoli libri e articoli per illustrare nel dettaglio i molteplici fallimenti di queste organizzazioni.

 Oggi riflettono l’equilibrio di potere e di influenza che esisteva nel 1962, ma che nel 2022 non esiste più.

Ma se domani le eliminassimo tutte, avremmo bisogno di reinventarle il giorno dopo:

 il mondo interdipendente che queste istituzioni rispecchiano incide sulla vita di ognuno di noi in misura esponenzialmente maggiore rispetto ai tempi della loro fondazione.

Le Nazioni Unite danno voce a ogni nazione sulla scena internazionale e aiutano gli stati più potenti del mondo a ridurre il rischio di guerre reciproche e con altri paesi.

Le forze di pace dell’ONU provengono da molte nazioni, consentendo agli stati membri di condividere gli oneri, i rischi e i costi connessi al mantenimento della pace e al contenimento delle sofferenze causate dai conflitti.

 L’ONU ha salvato molte vite in molti luoghi e ha fallito in altri, ma i successi ottenuti hanno fatto del bene a moltissime persone, e merita un encomio solenne per aver scongiurato una nuova guerra mondiale.

Anche l’”Organizzazione mondiale del commercio” crea vantaggi per tutti i paesi che vi aderiscono.

Le sue regole non sono in grado di prevenire ogni singola controversia commerciale e la loro applicazione è lenta e incompleta.

 Ma, come in ogni terreno di forte competizione, è di gran lunga preferibile avere regole imperfette e un arbitro fallibile che non averne affatto.

Il “Fondo monetario internazionale” e altri” finanziatori multilaterali” offrono un’ancora di salvezza finanziaria alle nazioni che hanno bisogno di aiuto, spesso agendo come prestatori di ultima istanza.

Talvolta le condizioni a cui erogano i prestiti danno adito a polemiche, sospetti e acredini, ma hanno aiutato molte nazioni in via di sviluppo e i loro cittadini ad evitare la catastrofe.

Anche l’Unione europea, che da semplice area di libero scambio si è trasformata nella più ambiziosa organizzazione di governo multinazionale della storia, ha generato la sua buona dose di delusione, sfiducia e cinismo.

 Molti cittadini degli stati membri accusano le élite politiche europee di usare le istituzioni dell’UE per scrivere regole che fanno gli interessi dei governi più potenti a scapito degli stati più piccoli, che arricchiscono le multinazionali a scapito delle piccole imprese e che soddisfano i bisogni dei burocrati ai danni delle libertà individuali.

Ma l’UE ha contribuito a eliminare le guerre in un continente responsabile dei due conflitti più distruttivi della storia.

Ha aiutato tutti gli stati membri a fare il passo più lungo della loro «gamba economica» nelle relazioni con gli Stati Uniti, la Russia e la Cina.

Ha offerto ai cittadini la possibilità un tempo impensabile di attraversare liberamente i confini nazionali in cerca di migliori opportunità.

Ha ripulito l’aria e l’acqua nei paesi i cui governi potrebbero non voler o non poter spendere per investire in questi progetti. Ha assunto il comando sia sugli standard climatici sia su quelli relativi alla privacy.

Ha creato un sistema in cui i paesi più ricchi possono migliorare gli standard di vita degli stati membri più poveri, e a volte aiutarli a uscire da una crisi. Ha fornito un modello di cooperazione al resto del mondo.

Criticare tutte queste istituzioni è facile, specie per chi dalle critiche ci guadagna. Ma tutte aiutano a tutelare la sicurezza, la dignità e le opportunità di tutti gli abitanti del mondo. Proteggono i diritti umani. Rendono le guerre meno probabili. Soprattutto, alleggeriscono il peso sui singoli governi creando una struttura che sostiene la responsabilità collettiva.

Ogni anno che passa ci sono meno persone abbastanza vecchie da ricordare gli orrori della Seconda guerra mondiale e le sfide della decolonizzazione che hanno ispirato e reso necessarie queste organizzazioni.

Non dobbiamo dimenticare le lezioni che simili istituzioni ci hanno insegnato.

Se lo faremo, dovremo impararle di nuovo, patendo sofferenze ancora più grandi di quelle che hanno accompagnato le prime assimilazioni.

LA ROTTA DI COLLISIONE.

Precedentemente ho illustrato due rischi di collisione.

 Il primo è la lotta tra l’America rossa e quella blu, che ha gravemente danneggiato la vita politica e l’integrità democratica dell’unica superpotenza mondiale.

Il secondo è il conflitto tra la potenza egemone rappresentata dall’America e quella emergente rappresentata dalla Cina.

Il pericolo maggiore che comportano entrambi è quello di distogliere i governi e le istituzioni più potenti del mondo dall’affrontare le vere sfide che ci attendono.

 Siamo tutti in rotta di collisione con la prossima inevitabile emergenza sanitaria globale, con il cambiamento climatico e con il potere che le nuove tecnologie dirompenti hanno di destabilizzare le nostre vite e le nostre società.

Questi sono i rischi cui va incontro il nostro futuro in comune.

 Ogni attimo, ogni idea, ogni grammo di energia e ogni dollaro sprecato per combatterci, in patria o in una potenziale zona di guerra, fanno aumentare il rischio di ritrovarci uniti nella sofferenza quando queste minacce globali avranno superato la nostra capacità di contenerle.

Non credo che l’avvelenarsi della politica interna distruggerà la democrazia americana.

Le istituzioni politiche statunitensi devono affrontare minacce reali, ma hanno già assorbito shock considerevoli in passato.

Non intendo sottovalutare il danno che la partigianeria al vetriolo può infliggere alla vita americana, ma continuo a credere nella volontà degli americani di difendere la democrazia dalle minacce concrete e nella capacità delle istituzioni americane di far prevalere la legge sui pregiudizi culturali.

Non credo che gli Stati Uniti e la Cina entreranno in guerra a causa di Taiwan o di altre divergenze.

 Entrambi i paesi hanno troppo da perdere da una collisione catastrofica, e né Washington né Pechino possono aspettarsi che altri governi li seguano sulla strada del disastro.

Ma… ho scritto questo libro perché temo che gli americani rossi e blu da una parte e i leader statunitensi e cinesi dall’altra siano così presi dall’idea di un loro possibile scontro da trascurare le reali tempeste all’orizzonte.

Per prepararsi ad affrontarle dovranno cooperare, ma non potranno farlo finché saranno impegnati a scontrarsi sulle chimere dei massimi valori.

LA GIUSTA CRISI.

Gli esseri umani funzionano meglio quando arriva una crisi che reclama la loro attenzione e mette a fuoco la sfida che hanno davanti.

Ma non basta una qualsiasi emergenza.

 Abbiamo bisogno di una «crisi alla Riccioli d’Oro»: una crisi abbastanza grande da esigere il nostro impegno ma non tanto distruttiva da non ammettere una risposta efficace.

 

Abbiamo bisogno di una crisi sufficientemente spaventosa da costringerci a guardare in faccia i rischi di un collasso geopolitico, di una futura pandemia, del cambiamento climatico e degli effetti ad ampio raggio della rivoluzione tecnologica.

Una crisi che causi così tanto dolore e crei così tanti rischi per i leader al potere da indurli finalmente a riconoscere che la collaborazione e il compromesso sono l’unico scudo possibile contro la disfatta totale.

Una crisi di dimensioni sufficientemente grandi da farci stringere intorno a progetti comuni per affrontare le sfide descritte in questo libro.

Nei primissimi giorni del Covid-19 è sembrato che la pandemia potesse creare la perfetta crisi alla Riccioli d’Oro.

Di sicuro era abbastanza grande da toccare le vite di miliardi di persone.

Tutti i governi del pianeta sono stati costretti a reagire.

 I danni economici provocati sono stati ingenti, preannunciandosi duraturi.

Il virus ha messo in pericolo governi, leader politici e aziende che hanno opposto resistenza al cambiamento, mentre ha dato voce e potere agli scienziati e agli innovatori in grado di aiutarci a comprendere la minaccia e ad affrontarne le conseguenze.

Ci siamo trovati dinanzi a una minaccia comune, una minaccia per certi versi non meno avulsa e insidiosa dell’ipotetica invasione aliena di Ronald Reagan.

Eppure troppi dei nostri leader politici hanno cercato di usare questa crisi per fomentare la rabbia verso gli altri, in patria e all’estero.

Nel campo scientifico, i progressi compiuti sul fronte dei tamponi, del tracciamento dei contatti, delle terapie e dello sviluppo dei vaccini ci aiuteranno a superare la prossima tempesta virale.

 Le ripercussioni economiche globali del Covid imprimeranno slancio alla transizione dall’economia novecentesca fatta di calce e mattoni verso un futuro digitale in cui la maggior parte delle persone lavorerà, farà acquisti e studierà online.

La pandemia ha inoltre valorizzato le imprese intenzionate a stare sul mercato in maniera ecosostenibile.

 Ma il Covid non ha fatto abbastanza per convincere i governi della necessità di pensare a nuovi modi per garantire la sicurezza e consentire la prosperità.

Il Covax ha fornito un modello eccellente per la cooperazione futura in materia di salute globale, ma sono troppo pochi i governi che hanno investito in questo progetto, e l’amministrazione Trump ha negato qualsiasi sostegno nel momento più critico per consentirne il successo.

Come accaduto nelle precedenti crisi, la pandemia ha convinto le banche centrali a cominciare a stampare denaro per aiutare i paesi a reagire.

 Benché necessaria, questa misura ha fatto ben poco per risolvere le profonde disuguaglianze che ci tormentano.

Piuttosto che disegnare e investire in nuove istituzioni – come per esempio un’”Organizzazione mondiale dei dati” – i nostri leader sembrano accontentarsi di curare i sintomi, non la malattia che mette in pericolo l’intera umanità.

Il cambiamento climatico e le nuove tecnologie dirompenti sono crisi più grandi del Covid, e possono dar vita alle istituzioni nazionali e internazionali di cui abbiamo bisogno.

 Dobbiamo agire ora se vogliamo essere pronti a cogliere le opportunità che queste crisi imminenti creeranno.

UNA VISIONE POSITIVA.

Per inventare nuove forme concrete di cooperazione, tuttavia, agli esseri umani serve qualcosa di più della paura scatenata da una crisi.

 Abbiamo bisogno di una visione positiva per il futuro, di piani che possiamo mettere in atto quando e come ne abbiamo bisogno.

Sono troppi i nostri leader e troppi sono quelli tra noi che si fissano su ciò che non possiamo fare e su ciò che secondo noi gli non altri faranno.

 Chiudiamo la porta ancor prima di aver intravisto che cosa potrebbe esserci dall’altra parte.

La condiscendenza consente al cinismo e all’abitudine di prevalere.

 Inoltre ci concentriamo troppo sulla soddisfazione dei bisogni a breve termine.

 I consumatori non sono gli unici a volere una gratificazione immediata.

Anche politici, dirigenti d’azienda e azionisti vogliono la stessa cosa.

Sia loro sia noi siamo ossessionati dal mandato immediato del leader in carica, dall’anno da superare, dal raggiungimento degli obiettivi trimestrali o dal prossimo notiziario.

Ma il nostro più grande limite è probabilmente questo:

siamo in pochissimi a voler piantare semi i cui frutti verranno raccolti da altri.

Per sopravvivere alle sfide che ci attendono, i nostri leader devono ascoltarsi l’un l’altro e ascoltare tutti gli abitanti del pianeta.

Non serve che siano d’accordo sulle questioni politiche, economiche, culturali o sui valori nazionali.

Ma devono essere d’accordo sul fatto che i conflitti tra superpotenze, le future crisi sanitarie, il cambiamento climatico e le nuove tecnologie comportano minacce globali e che la sopravvivenza della nostra specie dipende dalla cooperazione.

Devono decidere insieme in che cosa investire e come condividere i costi e i rischi. Nei capitoli precedenti ho proposto delle possibili strategie in grado di gettare le basi del compromesso, della cooperazione e del coordinamento tra le nazioni.

 Le ripropongo in chiusura.

UN COVAX GLOBALE .

In risposta al Covid-19 172 paesi hanno aderito al progetto Covax per collaborare con i produttori dei vaccini e garantire uguale accesso alle dosi a tutti i paesi del mondo.

Cina, Russia e Stati Uniti sono stati molto lenti nel concedere il loro sostegno.

Se il progetto avesse ricevuto il placito e gli investimenti di tutti i maggiori governi internazionali, l’obiettivo di distribuire equamente i vaccini in tutto il mondo sarebbe stato raggiunto meglio e prima.

Il modello del Covax va potenziato e affinato per prepararsi alla prossima pandemia.

Inoltre, il Covax può ancora rappresentare quel salto di qualità della capacità di immaginazione globale indispensabile per creare progetti di partenariato simili – e più efficienti – con cui affrontare tutte le emergenze che il futuro ci riserverà.

UN ACCORDO VINCOLANTE SULLA RIDUZIONE DELLE EMISSIONI DI CARBONIO.

Il cambiamento climatico può essere limitato solo a patto di azzerare le emissioni nette di carbonio nell’atmosfera entro il 2050.

 (Il carbonio CO2 essendo 4volte più pesante dell’aria non può innalzarsi nell’ atmosfera.

Inoltre la Co2 é la fonte di vita per le piante e per noi. Azzerarlo nel 2050 è un attacco all’umanità! N.D.R.)

Nessuno vuole sacrificarsi più del dovuto e i progressi dipendono dalla fiducia nella capacità degli altri di mantenere le promesse.

Qualsiasi accordo sulle emissioni dovrà essere vincolante e verificato da osservatori internazionali indipendenti.

 Per essere credibili le soluzioni hanno bisogno della volontà politica e di scoperte scientifiche, e i governi possono condividere i costi associati allo sviluppo di tecnologie in grado di accelerare il progresso.

 

UN PIANO MARSHALL VERDE .

Un accordo vincolante sulle emissioni può rientrare in un più ampio patto internazionale che preveda l’investimento e il passaggio all’energia rinnovabile, la creazione di lavori verdi e la risistemazione degli svariati milioni di sfollati creati dai danni che il cambiamento climatico infliggerà anche nei migliori scenari.

Dovrà prevedere un accordo globale sui diritti dei rifugiati che aiuti a scongiurare i conflitti futuri e a soddisfare bisogni umanitari sempre più pressanti.

 A differenza del Piano Marshall, che contribuì alla ricostruzione dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale con i fondi dei soli Stati Uniti, il successo di un “Piano Marshall verde” dipenderà dalla condivisione globale dei costi e degli altri oneri.

PER UN’ ORGANIZZAZIONE MONDIALE DEI DATI.

Il mondo ha un disperato bisogno di gestire, attraverso una fonte indipendente, i dati che gli esseri umani producono in quantità sempre maggiori.

 Abbiamo bisogno di regole e standard che valgano per i governi e per le imprese che possiedono e utilizzano le informazioni personali che generiamo.

Proprio come l’”Intergovernmental Panel on Climate Change” dell’ONU, che elabora analisi indipendenti sul “riscaldamento globale”, e l’”Organizzazione mondiale del commercio”, che fissa regole in grado di risolvere le controversie e facilitare il commercio fra tutti i suoi membri, così un’”Organizzazione mondiale dei dati” può disciplinare l’intelligenza artificiale, la privacy, la proprietà intellettuale e i diritti dei cittadini.

La Cina e altri stati autoritari non entreranno subito a farvi parte perché non saranno d’accordo con le democrazie su come bilanciare al meglio sicurezza, privacy, protezione della proprietà e libertà personale.

Ma se le democrazie che viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda creeranno questa organizzazione, e se gli standard fissati da quest’ultima creeranno a loro volta delle opportunità, trovare un compromesso per il bene di tutti diventerà possibile.

 

CHI RACCOGLIERÀ QUESTA SFIDA.

L’America non ha intrapreso un percorso di riconciliazione tra destra e sinistra.

 Le elezioni presidenziali del 2024 saranno probabilmente le più brutte e pericolose della storia americana.

Non è un’esagerazione.

Nei prossimi anni la guerra culturale tra destra e sinistra ci regalerà nuovo rancore, soprattutto visto che Donald Trump continua ad attaccare le istituzioni su cui la democrazia americana poggia.

Fortunatamente il mondo non ha bisogno dell’unità americana per affrontare le sfide globali.

Basta che la nazione più potente del mondo dia prova ancora una volta della sua resilienza e continui a farsi carico dei numerosi costi e rischi derivanti dalla leadership su questioni complesse come il cambiamento climatico e la rivoluzione dell’intelligenza artificiale.

Il mondo non ha bisogno nemmeno che Stati Uniti e Cina ricuciano tutti i loro strappi.

Non succederà mai.

Ma se Washington e Pechino riusciranno a evitare un’escalation delle ostilità e a scongiurare una nuova Guerra fredda, allora potranno lavorare insieme sulle questioni climatiche e sulle tecnologie dirompenti che minacciano entrambi i paesi e l’umanità tutta.

Ma, soprattutto, se riusciremo a disinnescare gli scenari peggiori sia dentro i confini americani che tra Washington e Pechino avremo ancora un margine d’intervento sufficiente per consentire anche ad altri attori di giocare un ruolo chiave.

L’Unione europea dovrà svolgere un ruolo cruciale nell’affrontare le sfide climatiche e tecnologiche e, se gli Stati Uniti e la Cina riusciranno a evitare un conflitto che costringe l’Europa a schierarsi interamente con una parte a scapito dell’altra, Bruxelles potrà rilanciare la cooperazione internazionale in tutti questi ambiti.

 

Ci sono buoni motivi per essere ottimisti.

Quando il Covid ha colpito l’Europa all’inizio del 2020 facendo crollare i prezzi del petrolio, qualcuno ha temuto che persino nelle file dell’UE – all’avanguardia nelle politiche contro il cambiamento climatico – si sarebbe perso lo slancio regolatorio verso la riduzione delle emissioni di carbonio.

Le crisi passate, tra cui il crollo finanziario del 2008-2010 e la crisi migratoria del 2015-2016, hanno aperto delle fratture tra i paesi dell’UE.

Ma il Covid ha offerto all’Unione la possibilità di disegnare la propria rotta non solo sulla pandemia e sulla ricostruzione economica, ma anche sul cambiamento climatico.

Una delle questioni più controverse al suo interno è se consentire la tassazione comunitaria degli stati membri per poter finanziare obiettivi di più ampio respiro.

Molti dei paesi frugali del Nord Europa si sono opposti a una ridistribuzione su larga scala della ricchezza verso gli stati del Sud finanziariamente più deboli, tra cui Italia, Spagna e Grecia – paesi i cui governi, secondo i detrattori, spenderebbero troppo e tasserebbero troppo poco.

Ma questi stessi paesi del Nord sono anche i più favorevoli a un’audace azione di contenimento del cambiamento climatico.

Facendo della spesa per il clima uno dei cardini del suo bilancio da 1800 miliardi di euro e dei suoi piani di sostegno economico per la ripresa dalla pandemia, la “Commissione europea “ha potenziato la propria capacità di raccogliere fondi da destinare al contenimento delle ricadute della pandemia e del cambiamento climatico presso gli stati membri storicamente riluttanti.

Solo gli stati membri che rispettano le norme UE sulle emissioni e altre politiche rilevanti per il clima possono aspettarsi di ottenere aiuti generosi per la ripresa post pandemia.

Inoltre il sistema di scambio delle emissioni dell’UE sta entrando nel vivo e si appresta a diventare la carta vincente dell’Europa per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni fissati per il 2030.

 

La versione più recente del piano prevede la riduzione di anno in anno delle quote di emissione annuali complessive, la creazione di un meccanismo separato per le emissioni dei settori trasporti e costruzioni e l’eliminazione graduale delle «quote gratuite» assegnate a industrie pesanti, compagnie aeree e spedizioni marittime.

La messa a punto di questo piano genererà un fiume di polemiche e mercanteggiamenti, ma il sistema di scambio delle emissioni diventerà più rigoroso e nell’UE i prezzi del carbonio saliranno con l’obiettivo di imprimere slancio alla riduzione delle emissioni.

Alcuni leader europei hanno vincolato i salvataggi delle industrie più colpite dal rallentamento causato dal Covid al reshoring, ossia il rimpatrio della produzione nei paesi d’origine.

 È una buona notizia per l’occupazione locale ma in alcuni settori, tra cui quello automobilistico, la rilocalizzazione aiuta anche a garantire la conformità dei processi di produzione e dei prodotti finali alle norme climatiche dell’UE.

Non solo: è allo studio un sistema di agevolazioni e sanzioni fiscali in grado di indurre le aziende domiciliate al di fuori dell’UE che vogliono fare affari in Europa a rispettare gli standard europei.

 I fondi raccolti con l’aumento dell’imposizione sui prodotti esteri più inquinanti potranno poi essere indirizzati verso le tecnologie verdi approvate dall’UE.

Si tratta di conquiste storiche, nonché di un esempio del tipo di cooperazione che ci serve per affrontare tutte le sfide discusse in questo libro.

 L’Unione europea ha usato il Covid-19 per combattere il cambiamento climatico incanalando i fondi per la ripresa all’interno di progetti verdi, chiarendo quali progetti possono qualificarsi come ecologici, vietando a tutti i fondi non destinati a progetti verdi di finanziare qualunque cosa sia passibile di aggravare il problema del riscaldamento globale e adottando obiettivi di riduzione delle emissioni più ambiziosi.

L’Europa sta svolgendo un ruolo cruciale sul piano normativo anche rispetto ad altre questioni urgenti.

Sui temi dell’utilizzo dei dati e della privacy i leader dell’UE fanno leva sulle dimensioni del mercato al consumo europeo per fissare regole che le aziende tecnologiche statunitensi e cinesi non potranno permettersi di ignorare.

Se Stati Uniti e Cina possono evitare una nuova Guerra fredda, l’Unione europea può scrivere regole e fissare standard che aumenteranno il coordinamento internazionale sulle sfide illustrate in questo libro, al tempo stesso tutelando i diritti e le libertà delle persone.

Ma il pensiero deve spingersi oltre i governi, perché i politici non possono creare da soli un nuovo globalismo.

Alcune aziende hanno sfere d’influenza e interessi che valicano i confini in modi preclusi ai governi. La loro rilevanza non potrà che aumentare.

È una buona notizia, perché la capacità di queste entità globali di realizzare il cambiamento è molto meno imbrigliata dai confini artificiali e sono realtà in grado di adattarsi al cambiamento molto più velocemente.

Tra esse, le più importanti sono di gran lunga i colossi tecnologici più grandi del mondo.

Se aleggiavano ancora dei dubbi sull’enorme potere geopolitico accumulato dalle Big Tech, le conseguenze della rivolta del 6 gennaio al Campidoglio dovrebbero averli fugati una volta per tutte.

Sebbene il Congresso non potesse ritenere Donald Trump responsabile di aver fomentato il più grave assalto alla democrazia americana a memoria d’uomo, Big Tech ha intrapreso un’azione decisiva.

A poche ore dall’assalto al Congresso, Facebook, Twitter, Apple, Google e Amazon hanno sospeso i profili di Trump e di altri politici che avevano diffuso la bugia dei brogli elettorali e incoraggiato l’insurrezione.

Hanno temporaneamente bandito “Parler”, un servizio che molti sostenitori di Trump usavano per fomentare o coordinare la presa del Campidoglio, tagliandolo fuori dai servizi di “web hosting” e dai principali “app store”. Il governo e le forze dell’ordine non hanno avuto alcun ruolo in questa vicenda.

La cancellazione dalle piattaforme di Trump e dei suoi sostenitori è stata una decisione presa esclusivamente dalle aziende che avevano il potere di intervenire su codici, server e politiche sotto il loro esclusivo controllo.

A maggio il “Consiglio di sorveglianza di Facebook” – istituito nel 2020 – aveva deliberato la decisione dell’azienda di sospendere il profilo di Trump.

Le aziende tecnologiche, inoltre, hanno fatto molto di più di quanto abbiano fatto o possano fare i governi per scovare ed escludere altri malfattori dal cyberspazio. Facebook, Google, Amazon, Microsoft ed Apple hanno accumulato un potere tale da diventare gli arbitri degli affari globali, non dei semplici spettatori.

Oggi non c’è nessun altro attore non statale, e forse non c’è mai stato, che si sia avvicinato a una simile influenza geopolitica, e ciò crea sia pericoli sia motivi di ottimismo.

Le principali aziende tecnologiche statunitensi e cinesi sono attori protagonisti nel dramma che deciderà se il mondo piomberà in una nuova Guerra fredda o si dirigerà verso un futuro molto più roseo.

Google, Facebook, Microsoft, Amazon, Alibaba, Tencent e ByteDance non stanno semplicemente rispondendo a trend geopolitici: li stanno creando.

Già in passato il potere privato ha giocato un ruolo significativo nella geopolitica. La Compagnia delle Indie Orientali e il suo esercito privato hanno governato il subcontinente asiatico per conto della Corona nel Settecento e nell’Ottocento.

«Big Oil» esercitava un’enorme influenza politica durante i suoi anni d’oro.

Ma gli odierni colossi tecnologici differiscono da questi precursori sotto due aspetti fondamentali.

Innanzitutto, i colossi tecnologici non esercitano il potere esclusivamente nello spazio fisico.

Mantengono ed esercitano una profonda influenza in una sfera del tutto nuova della geo politica: lo spazio digitale, che essi stessi hanno creato.

 

Le persone si rivolgono a queste aziende per apprendere, trovare l’amore, fare acquisti e accumulare ricchezza – nonché, talvolta, per ordire la destituzione di governi.

Neanche il Partito comunista cinese è in grado di controllare fino in fondo questo territorio.

Lo spazio fisico è finito. Quello digitale cresce in maniera esponenziale.

Considerando i dati grezzi sulla popolazione, i quasi tre miliardi di utenti attivi mensili di Facebook lo rendono due volte più grande dei più grandi paesi della Terra.

Gli oltre due miliardi di utenti di YouTube abbracciano più di cento paesi. Google sostiene che sulla sua piattaforma viene fruito ogni giorno più di un miliardo di ore di video.

Gli analisti del settore stimano che le dimensioni complessive della «data sfera» – la quantità di informazioni digitali create e memorizzate in tutto il mondo ogni anno – raggiungerà quasi 60 zeta byte nel 2020.

La data sfera subirà una gigantesca espansione perché nella prossima fase della rivoluzione digitale auto, fabbriche e intere città verranno cablate con dispositivi connessi a internet, e ciò non farà che complicare ulteriormente le cose per i politici.

I politici stessi sono sempre più asserviti al regno digitale.

 La capacità di un candidato di attrarre follower su Facebook e Twitter – più che i suoi contatti con i professionisti della politica – è ciò che fa arrivare il denaro e i voti che servono a vincere le elezioni in molte democrazie.

Per una nuova generazione di imprenditori il motore di ricerca di Google, gli strumenti di «targetizzazione» delle inserzioni di Facebook, il marketplace e i servizi di web hosting di Amazon e l’app store di Apple sono diventati indispensabili per avviare un business di successo.

 

Più le persone ricorrono allo spazio digitale per soddisfare le proprie esigenze basilari, maggiore è il compito che sono chiamati a svolgere i governi, molti dei quali già faticano a fornire risposte soddisfacenti ai propri cittadini dinanzi alle sfide del XXI secolo, come la pandemia, l’aumento della disparità di reddito, l’epidemia di oppioidi, il cambiamento climatico e lo sconvolgimento sociale ed economico innescato dal ritmo serrato dell’innovazione.

I governi stanno opponendo resistenza a questa usurpazione del loro potere.

La Cina ha preso di mira aziende tecnologiche nazionali come Alibaba, Ant Group e altre società online.

 L’Unione europea ha cercato di regolamentare i dati personali, i contenuti online e i gate keeper (i «controllori dell’accesso») di internet per tutelare la privacy dei suoi cittadini.

La sequela di disegni di legge antitrust presentati al Congresso nel corso del 2021 e le pressioni dell’India sulle imprese straniere di social media come Twitter mostrano come i governi di tutto il mondo stiano cercando di imporre la propria volontà sulla sregolata sfera digitale.

Ma i governi sono tendenzialmente lenti a regolamentare un’arena che pochi legislatori comprendono, e le aziende tecnologiche si sono dimostrate abili nel resistere ai tentativi dei governi di rovesciarne l’accentramento di potere.

Le aziende tecnologiche differiscono dai vecchi mediatori di potere del settore privato anche per la profondità e l’ampiezza della loro portata.

In passato molte aziende private fornivano acqua, elettricità, trasporti e altri servizi essenziali.

Oggi una manciata di giganti della tecnologia svolge ruoli cruciali in questi e in moltissimi altri campi.

Cominciamo proprio dal settore informatico.

Appena quattro aziende – Microsoft, Amazon, Google e Alibaba – soddisfano il grosso della domanda mondiale di “servizi cloud”.

Durante il primo anno della pandemia di Covid-19 è stata questa infrastruttura informatica essenziale a far funzionare l’economia globale, a permettere alle persone di lavorare e a consentire di creare aule virtuali in cui i ragazzi potevano continuare a imparare.

Molto presto il successo di tutti i settori e di tutti i governi dipenderà quasi interamente dalla bravura con cui coglieranno le nuove opportunità create dalle reti 5G, dall’intelligenza artificiale e dall’internet delle cose.

Tutti dipendono dalle infrastrutture costruite e gestite da questi leader del cloud. La capacità delle aziende tecnologiche di lavorare con i governi e tra di loro per rispondere alle future pandemie, limitare i danni del cambiamento climatico e costruire un approccio più razionale all’ingresso delle nuove tecnologie nelle nostre vite e società dipenderà dalla natura degli obiettivi perseguiti.

Segnatamente, questi obiettivi potranno essere globalisti, tecno utopici o nazionalisti.

Tutte le aziende esistono per fare soldi. Per le imprese che forniscono servizi digitali è più facile raggiungere quest’obiettivo operando su scala globale.

Per decenni le aziende tecnologiche di maggior successo hanno seguito una formula molto semplice: creare una app da urlo e venderla sul mercato più grande possibile.

 Microsoft, Amazon, Google, Facebook e Apple hanno tutte costruito i loro imperi adottando mentalità globaliste.

 Inizialmente hanno puntato a dominare una nicchia economicamente proficua, per poi cominciare a vendere i loro servizi in tutto il mondo.

 

Aziende cinesi come Alibaba, Tencent e ByteDance hanno scalato il gigantesco e spietato mercato interno cinese prima di diventare globali, ma il principio che sta dietro la loro crescita è lo stesso:

aprire negozi in quanti più paesi possibile, localizzare i contenuti a seconda delle necessità e competere senza sosta.

I dipartimenti addetti alle relazioni istituzionali delle principali aziende tecnologiche del mondo – alcuni dei quali impiegano centinaia di ex diplomatici, lobbisti e avvocati con una lunga esperienza di governo – denotano la priorità da sempre assegnata all’approccio globalista.

È possibile che il globalismo sia la modalità predefinita del settore tecnologico, ma si trova a competere, e talvolta a scontrarsi, con un impulso tecno utopista non meno influente nella Silicon Valley, a Seattle, Hangzhou e Shenzhen.

Alcune delle aziende tecnologiche più potenti del pianeta sono guidate da fondatori con visioni straordinarie del ruolo mondiale che le loro imprese sono chiamate a ricoprire.

 In Occidente alcuni di loro, come “Mark Zuckerberg” o “Larry Page” e “Sergey Brin” di Google, mantengono il controllo delle rispettive aziende attraverso le azioni dei fondatori o altre strutture finanziarie.

In questo modo sono meno esposti alle forme tradizionali di pressione esercitate dagli azionisti rispetto ad altri fondatori o CEO.

Sono tutti accomunati da una visione in cui la tecnologia non è solo un’opportunità commerciale globale ma una forza potenzialmente rivoluzionaria che può salvare l’umanità da sé stessa.

Elon Musk, CEO di Tesla e SpaceX, è probabilmente l’esempio più riconoscibile della tendenza tecno utopista, con la sua dichiarata ambizione di ripensare i mercati dell’energia per scongiurare il riscaldamento globale, progettare un’interfaccia cervello-computer a elevata larghezza di banda e rendere l’umanità una «specie multi planetaria» colonizzando Marte.

Anche il nazionalismo esercita un’attrattiva sui modelli di business delle aziende tecnologiche.

A partire dall’inasprimento dello scontro tecnologico USA-Cina nel 2016 e dalla decisione dell’Europa di far passare in secondo piano il peso politico e legislativo rispetto al mantra della «sovranità digitale», sempre più Big Tech hanno pensato bene di posizionarsi come «campioni nazionali», ossia partner del governo in importanti domini tecnologici, tra cui il cloud, l’intelligenza artificiale e la sicurezza cibernetica.

Visto il ruolo sempre più cruciale svolto da Microsoft nel combattere gli attacchi informatici perpetrati da malfattori e bande criminali foraggiati dai loro governi, sia Microsoft sia Amazon competono per fornire infrastrutture di cloud computing al governo americano.

Queste tre categorie non colgono appieno la complessità delle aziende tecnologiche e delle intenzioni dei loro leader.

 Le aziende tecnologiche sono organizzazioni grandi e complesse, e all’interno di ognuna si combinano motivazioni globaliste, tecno utopiste e nazionaliste.

Ma le categorie possono comunque aiutarci a capire le scelte che le aziende tecnologiche dovranno operare mentre attraverseranno la mutevole geopolitica dello spazio fisico e digitale nel corso del prossimo decennio.

Si allineeranno con i governi che chiederanno loro di «scegliere da che parte stare» nella lotta sempre più ideologica tra Stati Uniti e Cina?

Resisteranno alla tentazione di diventare campioni nazionali, di opporsi alla regolamentazione che minaccia i loro modelli di business, per preservare un approccio più globalista?

O scommetteranno su un futuro in cui gli stati svaniranno e le aziende tecnologiche contribuiranno a introdurre un nuovo contratto sociale o addirittura nuove forme di governo umano?

 

Mentre la competizione tra Washington e Pechino si intensifica e aziende e governi negoziano il controllo dello spazio digitale, i colossi tecnologici americani opereranno in uno di questi tre scenari:

 lo stato regna sovrano e i campioni nazionali vengono premiati;

le aziende soggiogano lo stato, consegnando ai globalisti una vittoria storica;

 lo stato svanisce per dare potere ai tecno utopisti.

Vediamo che forma potrebbe prendere ciascuno di questi scenari.

 

LO STATO REGNA SOVRANO/VINCONO I CAMPIONI NAZIONALI.

In questo scenario gli Stati Uniti e i loro alleati si organizzano per offrire denaro ai governi e creare leggi che premiano le aziende «patriottiche», quelle con modelli di business e risorse allineate agli obiettivi nazionali, e puniscono le imprese che non si adeguano.

Le aziende, confidando nella presenza di un solido capitale politico e finanziario a supporto di questo sforzo, alla fine rinunciano a lottare per guadagnarsi quote di mercato in Cina e abbracciano la via degli Stati Uniti e di altri governi occidentali nella speranza di poter beneficiare del boom della spesa pubblica in nuove infrastrutture digitalmente connesse e dei vari servizi sociali abilitati dalla tecnologia, sponsorizzati da quei governi.

Nella vita dei cittadini americani lo stato rimane il principale dispensatore di sicurezza, diritto e beni pubblici, e shock sistemici come la crisi finanziaria globale e la pandemia cementano ulteriormente il ruolo chiave del governo come soccorritore di ultima istanza.

In questo scenario lo slancio bipartisan a favore di una maggiore regolamentazione limita i poteri delle aziende tecnologiche i cui piani di sviluppo non sono allineati con quelli del governo.

 

La chiave di volta di questo scenario è la presenza di una spinta coordinata degli Stati Uniti con i governi di altre democrazie industriali avanzate, tesa a formare alleanze che contengano l’espansione del potere e dell’influenza della Cina, al tempo stesso investendo in maniera imponente nella ripresa post pandemia e nella transizione verde.

LE AZIENDE SOGGIOGANO LO STATO/VINCONO I GLOBALISTI.

In questo scenario il governo continua a indebolirsi perché la polarizzazione si intensifica e la disparità di reddito e di ricchezza aumenta di pari passo con l’automazione e la digitalizzazione.

Il sentimento di rivalsa contro le maggiori aziende tecnologiche non riesce a tradursi in riforme incisive sulla privacy o sulla tutela della concorrenza in grado di stravolgere i modelli di business, lasciando sostanzialmente intatta la sovranità di Big Tech nella sfera digitale.

Le autorità regolatorie non riescono a tenere il passo con l’innovazione.

Le imprese profondono ancora più energie per fare lobbying sui politici e impedire l’introduzione di leggi in grado di limitare le loro attività estere, anche in paesi autoritari come la Cina e la Russia.

 A differenza dei campioni nazionali, ai globalisti interesserà meno supportare i governi:

la loro priorità sarà quella di assicurarsi che non siano d’intralcio.

I globalisti hanno bisogno di stabilità per avere successo nel prossimo decennio. Possono sopravvivere alla continua erosione delle istituzioni democratiche statunitensi, ma non allo strapotere dell’apparato statale dell’America.

 Possono gestire periodiche tensioni nelle relazioni USA-Cina e persino il sentimento di sfiducia perenne tra le due nazioni, ma non una nuova Guerra fredda che li costringa a scegliere tra Washington e Pechino.

 

LO STATO SVANISCE/VINCONO I TECNOUTOPISTI.

In questo scenario la crescente sfiducia dei cittadini nei confronti dei politici dissolve il contratto sociale.

Gli americani e alcuni paesi in via di sviluppo adottano modelli basati su un’economia digitale che tiene a debita distanza i governi, e la fiducia nel dollaro in quanto valuta di riserva globale viene meno.

La disintegrazione del potere centralizzato nell’unica superpotenza del pianeta indebolisce la capacità del mondo intero di affrontare il cambiamento climatico, le pandemie, la proliferazione nucleare e altre sfide internazionali.

Per i tecno visionari con ambizioni alate e ricchezze inesauribili, il patriottismo diventa discutibile.

 Elon Musk gioca un ruolo più importante nella trasformazione delle infrastrutture di trasporto, energetiche e di comunicazione, per non parlare delle modalità con cui esploriamo lo spazio.

 Mark Zuckerberg ha molta più voce in capitolo quando si tratta di decidere come ci connettiamo con gli altri in privato, sul lavoro e in politica.

Ma l’erosione dello stato americano non darebbe carta bianca ai tecno utopisti di tutto il mondo.

 Anche la credibilità interna dello stato cinese dovrebbe subire un tracollo.

LA SFIDA CINESE.

Questo modello globalista-nazionalista-tecno utopista non si applica altrettanto bene alla Cina, dove il potere centralizzato dello stato è infinitamente superiore.

 I tecno utopisti come Jack Ma stanno imparando a non sfidare apertamente lo stato cinese, e anche gli aspiranti globalisti sono costretti a comportarsi come se fossero prima di tutto nazionalisti.

Alibaba, che ospita i più grandi siti web consumer-to-consumer, consumer-to-business e business-to-consumer del mondo, deve stare attenta;

lo stesso dicasi per ByteDance, la cui app di condivisione video TikTok l’ha aiutata a diventare l’unicorno di maggior valore a livello mondiale.

Stessa sorte tocca a Tencent, che coopera di più con la burocrazia della sicurezza statale cinese di quanto non faccia Alibaba.

Se l’economia cinese cominciasse a stagnare e i campioni nazionali si rivelassero meno redditizi o meno capaci di stimolare la produttività delle aziende globaliste, lo stato potrebbe concedere ai globalisti una maggiore libertà d’azione all’interno dei confini nazionali.

Per il momento, tuttavia, la Cina continua a premere tenacemente sulle sue aziende tecnologiche affinché si allineino ai piani e alle strategie statali.

Un mondo in cui lo stato diventasse più forte sarebbe quello più a rischio di sprofondare in una nuova Guerra fredda e di soffocare la cooperazione globale.

Se Washington e Pechino continueranno a prediligere la competizione strategica sulla cooperazione tecnologica, non ci saranno grandi speranze di poter utilizzare le soluzioni proposte in questo libro per rafforzare il sistema internazionale per il bene degli Stati Uniti, della Cina e del mondo intero.

Uno scenario in cui le aziende tecnologiche diventano più indipendenti dal governo (ed entrano più in competizione con esso) in entrambi i paesi ha maggiori probabilità di promuovere la cooperazione per far fronte alle grandi emergenze e di incoraggiare l’innovazione per raccogliere nuove sfide.

 

Un mondo in cui i tecno utopisti hanno l’ultima parola su più fronti è più difficile da prevedere, perché è un mondo in cui il potere è concentrato in poche mani, spesso le più eccentriche.

LA GENERAZIONE Z.

I governi devono condividere i costi e le responsabilità derivanti da queste sfide con tutti i soggetti in grado di dare una mano, perché si tratta di ambiti che i rappresentanti politici e i legislatori non comprendono e non controllano.

Le organizzazioni che investono in progetti che impiegheranno degli anni per generare profitti – come le banche e le imprese del comparto energia – devono adottare una visione di più lungo termine rispetto a gran parte dei governi, e questo rende le loro prospettive particolarmente preziose.

Le aziende energetiche, in particolare, sanno che i loro profitti futuri dipendono dalle fonti rinnovabili di carburanti ed elettricità.

Molte delle ONG più lungimiranti del mondo operano su orizzonti temporali altrettanto estesi. Persino in seno ai governi non contano unicamente i leader e i legislatori nazionali.

Quando Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero abbandonato l’”Accordo di Parigi sul clima”, governatori e sindaci di tutto il paese hanno dichiarato che avrebbero tenuto fede agli obiettivi climatici adottati.

Non è un dettaglio, se pensiamo che l’economia della California è più grande di quella dell’India, della Gran Bretagna e della Francia.

 L’area metropolitana di New York ha un’economia più grande di quella del Canada o della Russia.

Nel mondo dei social media anche i singoli – non solo gli attivisti di fama mondiale – hanno la capacità di lanciare campagne che i politici e il settore privato non possono ignorare in eterno.

 Abbiamo inoltre la fortuna che la prossima ondata di persone chiamata a risolvere questi problemi è diventata adulta in un mondo globalizzato.

La Generazione Z – quei 2,5 miliardi di persone nate tra il 1996 e il 2016 – vedrà il proprio impatto sulla politica, sulla cultura e sull’economia globale aumentare enormemente nel prossimo decennio.

 Sarà segnata dalla pandemia e dai suoi effetti duraturi sull’istruzione e sull’occupazione ma, anche in un mondo dominato dalla frammentazione del potere e delle comunicazioni, la «Gen Z» è la generazione più interconnessa a livello globale della storia.

La stragrande maggioranza di queste persone diventerà maggiorenne nei paesi in via di sviluppo e, fortunatamente per noi, avrà le proprie idee su che cosa aspettarsi dai governi, sull’impegno culturale transfrontaliero e su ciò che si può e non si può fare.

Appellarsi alla retorica de «i bambini sono il nostro futuro» è fin troppo facile quando si invoca un cambiamento radicale, ma in questo caso l’esperienza del mondo vissuta dalla “Gen Z” è molto diversa da quella della mia generazione.

Sono cresciuto nella Boston degli anni Settanta e per me i ragazzi che vivevano in altre parti del mondo erano quelli ritratti nelle foto del National Geographic.

Sapevo, come penso sapesse la maggior parte dei miei amici, che la nostra visione del mondo era fortemente filtrata dagli adulti, ma non avevamo grandi possibilità di rimuovere il filtro e interagire direttamente con i bambini di altri luoghi.

Oggi i giovani americani ed europei ascoltano e guardano musica e immagini create in tutto il mondo.

Giocano in tempo reale con i ragazzi asiatici e africani.

Questa non è la globalizzazione di 25 anni fa.

I ragazzi di questa generazione hanno ciò che nessun altro ragazzo ha mai avuto: una visione a 360° del mondo.

Sono consapevoli, e lo sono in maniera molto più immediata, di ciò che hanno in comune con gli altri.

 In particolare, sanno meglio di qualsiasi generazione che li ha preceduti che spesso gli adulti hanno vedute ristrette e una scarsa immaginazione sui problemi che stanno lasciando alle generazioni future.

È facile essere scettici sull’impatto immediato di attivisti giovani e celebri come “Greta Thunberg” ma fortunatamente i giovani di tutto il mondo hanno su questi problemi una prospettiva che pochi adulti possono vantare.

La loro abilità nel trovare nuovi fini per i mezzi che gli adulti di oggi creano e di inventare cose che gli adulti di oggi non riescono neanche a immaginare dovrebbe rinvigorire la nostra fiducia nel futuro.

La paura di un nemico alieno ha spesso ispirato popoli, tribù e nazioni a lavorare insieme per sconfiggere o quantomeno sopravvivere a una determinata minaccia. Reagan e Gorbaciov lo sapevano.

Oggi le nazioni e i popoli del mondo non si trovano dinanzi a una minaccia aliena.

Siamo chiamati ad affrontare sfide esistenziali comuni che siamo stati noi stessi a creare.

In questo senso siamo interdipendenti, ed è questo il fondamento della più grande opportunità della storia umana.

 La necessità deve ora diventare la madre della cooperazione.

Dobbiamo costruire un nuovo sistema internazionale che ci permetta di competere dove si può e cooperare dove si deve.

Siamo i primi esseri umani a mettere a fuoco queste minacce globali e gli ultimi in grado di sconfiggerle. Vista la posta in gioco, se falliremo non avremo un’altra possibilità.

Questo è un estratto dal nuovo libro di Ian Bremmer, "Il potere della crisi - Come tre minacce e la nostra risposta cambieranno il mondo" edito dalla casa editrice “Egea”.

(IAN BREMMER)

 

 

 

John Dewey e il ripensamento

progressista del liberalismo americano.

 Ilpensierostorico.com - Alessandro Della Casa - (5 agosto 2023) – ci dice:

 

Come mai negli Stati Uniti il liberalismo, a lungo considerato sinonimo di progressismo e osteggiato solo dai difensori dello status quo, aveva finito per essere screditato perché giudicato pavido nei riguardi del cambiamento sociale?

E quale liberalismo potuto riconquistare buona fama tra i progressisti?

Questi erano i principali quesiti ai quali si proponeva di rispondere il filosofo John Dewey – «onestamente, intelligentemente un liberale» – nella sua opera politica più nota, “Liberalism and Social Action”.

Questa, tornata oggi disponibile in italiano, era apparsa originariamente nel 1935, anno in cui il democratico Franklin Delano Roosevelt attuava la seconda e ancor più massiccia fase di riforme e interventi del New Deal.

Per rispondere ai quesiti che si era posto, il pensatore di Burlington ripercorreva l’origine e lo sviluppo storico del liberalismo anglosassone, a partire dalla «rigida dottrina di diritti naturali individuali indipendenti dall’organizzazione sociale» postulata da “John Locke”, il quale, comprensibilmente nel frangente in cui l’aveva formulato, aveva inteso fornire un fondamento intangibile alla limitazione del potere del monarca sull’individuo e sulle sue proprietà.

L’eredità dell’impostazione lockeana, però, era stata tanto la cristallizzazione dell’«antagonismo fra governante e governato», tradotta in opposizione tra la società organizzata e l’individuo, quanto la tutela della proprietà privata che, interpretata in termini prettamente economici, da statico possedimento legittimamente acquisito tramite il lavoro in un contesto di economia agricola, si era mutato, nell’ambito dello sviluppo commerciale e industriale, in diritto alla libera e dinamica «produzione della ricchezza».

La subordinazione dell’attività politica a quella economica, implicata dall’identificazione sostanziale tra «leggi naturali» e «leggi della produzione e dello scambio», era stata rinvigorita dalle teorie fisiocratiche e smithiane, che avevano indicato nell’inintenzionale convergenza degli sforzi compiuti dai singoli per il proprio «guadagno personale» la fonte del «progresso» e del «benessere sociale», inficiata dall’intromissione statale che oltrepassasse la protezione della libera attività individuale.

All’identificazione della libertà nell’assenza d’interferenze aveva poi contribuito il radicalismo utilitarista di “Jeremy Bentham”.

Eppure, questi con lo studio degli specifici problemi ispirato al «metodo sperimentale» per l’elaborazione di riforme che massimizzassero la felicità per il maggior numero, aveva avuto, agli occhi di Dewey, il merito di dimostrare la capacità del liberalismo, svincolato dal retaggio giusnaturalistico, di «apportare radicali mutamenti sociali».

Non a caso, superando anche l’atomismo psicologico benthamiano, era stato sulla scorta del diffondersi dello storicismo romantico che la legislazione (dei Tories, rimarcava il filosofo) aveva regolamentato il lavoro nelle fabbriche.

La nuova attenzione liberale verso la dimensione collettiva, già presagita da John Stuart Mill, aveva trovato nutrimento nell’«idealismo organico» di matrice tedesca, di cui si era fatto testimone in Gran Bretagna “Thomas Hill Green”.

 «La filosofia dell’idealismo», spiegava Dewey, che dall’idealismo aveva mosso i primi passi verso l’affermazione dello strumentalismo pragmatista, «insegnò che gli uomini sono tenuti insieme dalle relazioni che derivano e si manifestano in una mente cosmica finale.

Da ciò seguiva che la base della società e dello Stato è una collaborazione intelligente e lungimirante e non la forza e nemmeno l’interesse».

Lo Stato, dunque, diventava un «organismo morale», frutto dello Spirito e della Volontà comune degli individui che lo compongono, grazie al quale ed entro il quale essi incessantemente realizzano sé stessi e la propria libertà, non più «immutabile» possesso.

I liberali, soprattutto negli Stati Uniti, dove più duratura si era rivelata l’impronta lockeana fissata nella “Dichiarazione d’Indipendenza”, si erano mostrati però incapaci di «affrontare i problemi organizzazione ed integrazione sociale» posti dai mutamenti sempre più accelerati dai progressi tecnico-scientifici, che esigevano di declinare con «senso della relatività storica» i suoi «valori durevoli» e interconnessi: la libertà, l’individualità e l’intelligenza.

 Pertanto il liberalismo avrebbe dovuto continuamente fungere da «mediatore dei trapassi sociali», affinché «i valori della esperienza d’ieri» divenissero «docili strumenti dei desideri e dei fini di oggi».

La libertà, allora, non aveva più ragione di essere intesa quale mera «libertà economica», laissez-faire, che non aveva prodotto il benessere generale ascritto alla concorrenza, bensì l’accentramento delle forze di produzione nelle mani di una rapace aristocrazia industriale, moderna incarnazione di quelle «particolari forze oppressive» (schiavitù, dispotismo, «gabelle legali»), inizialmente ritenute inalterabili ma poi superate poiché riconosciute di ostacolo allo sviluppo umano.

L’inveramento della libertà, quale liberazione individuale e stimolo reale allo sviluppo di «rudi individui» (il riferimento polemico era ovviamente il “rugged individualism” liberista difeso dal repubblicano “Herbert Hoover”) indipendenti avrebbe invece richiesto «il controllo sociale delle forze economiche» e l’«emancipazione da insicurezza materiale», preludio alla “libertà dal bisogno” proclamata qualche anno dopo da “F.D. Roosevelt”.

In ultimo, gli stessi individui, più che atomi isolati e in sé compiuti, erano finalmente da concepire come esseri relazionali: immersi fin dall’inizio in un ambiente costituito dal reticolo di associazioni e appartenenze, che influiva sul continuo mutamento di ciascuna intelligenza integrata con l’altra.

Dewey individuava il fine del «liberalismo rinascente», ineludibilmente radicale, nell’applicazione dell’«intelligenza affrancata», socializzata e «cooperativa», della sperimentazione e revisione collettiva di ogni ipotesi e di ogni intervento – ossia del «procedimento scientifico», che tanti risultati aveva apportato nell’ambito della fisica, della tecnica e dei processi produttivi – alla direzione e alla pianificazione della società. 

La riarticolazione graduale della democrazia, attraverso l’introduzione del metodo della scienza, avrebbe permesso di regolare le «richieste in conflitto» nell’«interesse di tutti – o almeno della grande maggioranza».

 Questo risultato, che presupponeva l’ampia disponibilità o l’induzione alla cooperazione e l’effettiva possibilità di un’efficace comunicazione reciproca trascurando effettivamente la complessa eterogeneità del tessuto sociale statunitense, non si sarebbe invece avuto, secondo Dewey, fermandosi al confronto dialettico, alla persuasione e alla competizione tra partiti, incapace di pervenire a una sintesi.

 Non più improntata al soddisfacimento della «classe economica dominante», la democrazia, così concepita, avrebbe avallato il «libero sviluppo individuale», senza ricorrere ai mezzi violenti o dittatoriali giudicati inevitabili dai marxisti, sul cui fine di una società senza distinzione di classe “Dewey” sostanzialmente convergeva; benché guardasse con maggiore interesse agli esperimenti di “Robert Owen”, ispiratori della pratica dell’autogoverno nella comunità di “Hull House” fondata da “Jane Addams”,  scomparsa nello stesso anno in cui usciva “Liberalism and Social Action”, a lei dedicato.

 

La proposta deweyana risentiva certamente del confronto in atto sul significato e sugli scopi del liberalismo statunitense (al 1935 risaliva anche “Our Enemy, the State” di “Alfred Jay Nock,” che argomentava in favore di quello che si sarebbe poi chiamato “liberalismo classico””, libertarianism” o “Old Right”), scioltasi infine con la risemantizzazione dell’aggettivo” liberal”, senza altre specificazioni, proprio sulla scorta dell’interventismo economico rooseveltiano, da “Dewey “sostenuto, negli anni della Depressione.

Ma tale rilettura, coerente con l’impianto pragmatista peraltro contestato dal lato conservatore per l’abbandono di ogni valore assoluto all’incessante mutamento, affondava le sue radici anche nell’idea di progresso che, incentrata sull’avanzamento delle conoscenze tecniche, sociologiche e psicologiche, largo seguito aveva avuto sul piano teorico e pratico sin dalla fine della Guerra civile.

E quel “progressisvism”, che prefigurava più spesso (dai fratelli” Henry” e “Brooks Adams” a “Rexford Tugwell”) la compressione degli spazi della politica e della deliberazione a vantaggio dell’amministrazione e dell’organizzazione “scientifica” della società a opera o su consiglio degli esperti – da” Dewey “reputata incapace di interpretare la pluralità delle posizioni diffondere senso di responsabilità ed ethos democratico –, avrebbe percorso, come è evidente, un più lungo cammino rispetto all’«uso sociale dell’intelligenza» di Liberalismo e azione sociale e alla «comunità cooperante a tentar nuove vie» evocata in Individualismo vecchio e nuovo.

 

 

 

IL GOVERNO DEGLI EQUIVOCI,

LA GIUSTIZIA PROPRIETARIA

E IL POPOLO SOVRANO.

 Euronomade.info - Redazione – (Giu. 3, 2019) - Omnia Sunt Communia – ci dice:    

 

La situazione è disordinata, ma non è affatto eccellente.

Diverse pretese di governo si rincorrono, si confrontano e si scontrano e nessuna è particolarmente allettante.

La governance europea ha trovato occasionalmente il suo rappresentante nel Presidente della repubblica.

Questi ne ha affermato la legittimità utilizzando una costituzione che, sebbene con l’introduzione del pareggio di bilancio sia stata modificata proprio per adeguarla a quella governance, mostra di essere uno strumento insufficiente e datato.

Dall’altra parte, contro questo blocco di potere viene scagliata la sovranità del popolo, cercando di convincere grandi e piccini che è la soluzione di tutti i mali.

 Se avessimo una minima capacità di fare politica dovremmo sfuggire all’alternativa tra il governo del Presidente e quello impedito e furioso del popolo sovrano di matrice grillo-leghista.

Evidentemente questa capacità però non c’è.

Gli stessi che ieri dichiaravano la crisi della rappresentanza oggi rivendicano la democrazia e le sue forme costituzionali, parlano di maggioranza tradita e di colpo di Stato, vogliono l’indipendenza dalla Germania, pretendono un’italica moneta sovrana per resistere al capitalismo globale.

Mentre evocano la guerra finanziaria guidata dallo Stato, finiscono per eleggere a eroe della classe operaia un anziano signore, cresciuto dentro la Banca d’Italia e poi approdato all’ufficio studi di Confindustria.

Per farla finita con queste fiabe vale la pena collocare gli eventi recenti nel loro contesto reale, riconoscendo che siamo di fronte a una nuova eruzione della grande crisi europea che si è aperta in Grecia nel 2015 prima con il referendum e poi con la grande tempesta dei migranti.

Non a caso Angela Merkel ha evocato la Grecia di Tsipras per mostrare come si risolvono i problemi nell’Eurozona e come si risolveranno anche questa volta se l’Italia non si adeguerà ai suoi principi.

 E di crisi europea si tratta, non di un complotto internazionale dell’alta finanza ma di uno scontro sociale e politico, e quindi di classe, su scala transnazionale.

 In Grecia nel 2015 le difficoltà della governance finanziaria europea di gestire le sue contraddizioni hanno assunto una forma nuova.

 Allo stesso tempo si è mostrata l’impossibilità di sottrarsi a quelle stesse contraddizioni facendo leva su un governo nazionale.

 Mentre i mercati dovrebbero insegnare agli italiani come si vota, la stessa Germania ha conosciuto e conosce questa tensione, avendo avuto bisogno di molte settimane per approdare a un governo che appare come una sorta di ultima diga di fronte all’ignoto.

 In Francia l’iperattivo Macron, il salvatore della Repubblica, deve confrontarsi costantemente con piazze attraversate da una moltitudine di figure sociali che cercano di imporre una convergenza di lotte che ancora non si vede.

La Spagna è da mesi sull’orlo di una crisi di sistema.

Leggere quello che succede in Italia guardando solo l’Italia è dunque ridicolo.

 La lotta di classe in Europa assume oggi la forma di uno scontro quotidiano contro le imposizioni del capitale finanziario, ma anche contro le sue articolazioni dentro ai singoli Stati, per quanto questi possano pretendersi indipendenti e sovrani.

 In Italia, ma non solo qui, davanti a questo scontro epocale il passato viene rivolto contro il presente, il fascismo viene riabilitato, il vortice dei movimenti porta alla ribalta figure da operetta che occupano la scena in maniera maldestra.

E soprattutto viene affermata la sovranità del popolo e della nazione, in un arco di posizioni che va dall’ineffabile “Stephen K. Bannon” a gruppetti più o meno di sinistra con i loro intellettuali di complemento.

All’interno di quell’arco ognuno immagina il suo popolo e pensa di essere la sua migliore rappresentanza.

Chi si è comprensibilmente stufato di ascoltare “Varoufakis” e non prende ancora per buono il mantra della democrazia sa però che il popolo sovrano non è un’entità mistica, ma un insieme di rapporti di forza e di potere, che per esistere devono essere appunto rappresentati.

Chi è dunque il popolo sovrano?

Qual è il governo del popolo?

In Italia, ma non solo qui, a stabilire che cosa sia il popolo sono oggi i partiti che hanno vinto le ultime elezioni, che potrebbero governare, che potrebbero anche vincere le prossime o che alla fine, per manifesta incapacità e pur di governare, potrebbero accettare ciò che finora hanno rifiutato come un affronto, cioè il controllo sulla formazione del loro governo.

 È il governo degli equivoci o, se si vuole, un governo comunque equivoco;

tuttavia, come dicevamo, la situazione è confusa e presenta elementi di tragica comicità.

Eppure, se si guarda al «contratto di governo» grillo-leghista un elemento di chiarezza emerge indiscutibilmente e si capisce quale dovrebbe essere la costituzione materiale del popolo sovrano e quale sarà la sua rappresentazione.

 È un popolo senza qualità che deve essere costantemente risarcito per questa sua condizione.

A ogni vittima dell’élite globalista viene promesso un risarcimento:

ai piccoli e medi imprenditori «tartassati» dal fisco si promettono flat tax e «riscossione amica»;

 a chi si trova sull’orlo della povertà un reddito di misera cittadinanza;

 ai risparmiatori traditi dalle banche democratiche non meglio precisati indennizzi; agli “startuppers” finanziamenti in green economy e nuove tecnologie.

L’elenco prosegue in un crescendo di mariti che non dovranno più versare assegni di mantenimento ai figli e donne finalmente al sicuro dalla violenza (ovviamente praticata da uomini neri) grazie ai corsi di formazione rivolti alle forze dell’ordine, finché sui titoli di coda non appare il popolo sovrano dei cittadini ora legittimamente in armi.

 Questo è il popolo reale che si vuole rendere sovrano, cioè un blocco sociale ampio e trasversale tenuto insieme dalla convinzione di aver subito dei torti dai governi precedenti e dalla promessa di essere governati ora da uomini che finalmente stanno dalla sua parte.

La costituzione materiale che si annuncia è una sorta di trattato di pace – non solo fiscale – che prevede più o meno laute concessioni a quegli italiani che nella crisi hanno visto assottigliarsi livelli di reddito, rendita o profitto.

Che quella rabbia abbia radici, motivazioni e legittimità diverse, o che quelle concessioni saranno opportunamente modulate sui criteri regressivi della” flat tax” e dei tagli agli «sprechi» – leggi welfare – è il fatto oscuro di questa tregua sociale.

All’interno del popolo tutti gli uomini sono uguali e quindi ci saranno solo vincitori.

Il governo, già venduto come «legale» rappresentante del popolo, dovrà eseguire la giustizia in suo nome.

 La crisi della rappresentanza viene così «risolta» dispiegando tutti i capricci metafisici che il popolo e la giustizia possono mettere in campo.

Un popolo che non c’è affida all’esecutivo il compito di costituirlo.

È un popolo evanescente, la cui voce doveva essere non a caso requisita da un avvocato e da un direttorio incaricati di gestirne l’unità ideale per non rivelarne la reale natura posticcia.

Non una mediazione che presuppone un conflitto tra piccoli imprenditori gelosi del profitto e poveri perseguitati dalla miseria imposta dai primi, tra padri di cui si vuole restaurare l’autorità minacciata dal divorzio e madri da mettere al lavoro dopo aver rassettato casa, ma un meccanismo di conciliazione obbligatoria che ribadisce la centralità dell’esecutivo quale detentore del monopolio del disbrigo degli affari.

La nuova sovranità del popolo preferisce il diritto privato a quello pubblico, anche se la distinzione diventa sempre meno chiara.

Questo governo del popolo rivendicato dai sovranisti non ha niente di diverso dalla sempre maggiore centralità dell’esecutivo che si sta affermando da decenni negli Stati del capitalismo globale.

 La proposta di introdurre il vincolo di mandato punta a impedire che la trama scomposta degli interessi societari si mostri nella sua permanente conflittualità.

 La gestione degli affari della nazione pretende l’obbedienza al governo della maggioranza: il parlamentare che si sottrae a questo diktat agisce infatti per conto di interessi opachi e non della giustizia.

Nel contatto diretto tra il governo e il suo popolo si afferma così una giustizia proprietaria non diversa da quella che Macron sta cercando di imporre in Francia.

È una giustizia che disprezza le rivendicazioni collettive, più che mai se collegate alla propria condizione lavorativa.

 È una giustizia fiscale, che esibisce il suo profilo classista non solo attraverso la “flat tax”, ma anche riducendo drasticamente la possibilità di indagare sui redditi reali dei cittadini, ovvero di alcuni di essi.

L’evasione è legittimata come parte del profitto, che deve essere difeso dalle grinfie pubbliche con buona pace della sovranità fiscale dello Stato.

 I paradossi del sovranismo ne svelano così l’intima verità:

non la riabilitazione fuori tempo massimo dello Stato nazione, ma l’affermazione della centralità dell’esecutivo che dovrebbe proteggere un ormai inconsistente capitale nazionale dalle minacce non solo del mercato globale, ma anche e soprattutto da quelle di tutti coloro che pretendono un salario ingiusto e un reddito iniquo.

Questo Stato fiscale è lo Stato sociale del piccolo capitale nazionale (autentica frontiera del sovranismo reale), pronto a soccorrerlo quando rimane indietro.

 Lo dimostra in fondo anche quel reddito di cittadinanza che riassume in sé l’ansia di messa al lavoro che lo pervade.

 I 780 euro promessi ai cittadini italiani che versano in condizione di bisogno sono una risposta alla macelleria sociale del neoliberalismo, facendo però attenzione a non tradirne lo spirito.

 Esso è un reddito della povertà per produrre forza-lavoro isolata e immiserita e, perciò, sempre disponibile allo sfruttamento del piccolo e medio capitale, più propenso a investire nei bassi salari che nell’innovazione.

 Il reddito non è qui fattore di emancipazione, ma è coerente con la logica della giustizia proprietaria:

 è una misura «giusta» perché riafferma la coazione assoluta e non sindacabile a un lavoro la cui precarietà e frammentazione non possono essere messe in discussione.

Ecco allora la reintroduzione dei voucher, il chiassoso silenzio sul Jobs Act, le politiche di ricollocamento, il mantra della formazione continua e l’enfasi sulle scuole professionali.

 Nella sua essenza, questa dottrina del popolo e della giustizia esprime la paura che un precario da qualche parte possa vivere senza essere sfruttato.

Così, mentre offre una tregua al popolo dei giusti, il popolo sovrano indica nei migranti il nemico contro cui dichiarare guerra aperta.

Noi affermiamo risolutamente che il razzismo è un parametro fondamentale per giudicare la costituzione materiale della società-mondo.

Esso non riguarda la tolleranza del diverso, il rispetto dei diritti fondamentali di alcuni e nemmeno le categorie della morale, non è cioè una questione che investe la singola persona.

Il razzismo, come per altri versi la limitazione della libertà sessuale, rivela quanto le relazioni sociali siano collettivamente disponibili per gli individui di quella società:

 quanto essi siano liberi non solo di muoversi al loro interno, ma anche di modificarle.

Il razzismo e la limitazione della libertà sessuale sono criteri per rendere evidente una gerarchia sociale che non deve essere messa in discussione.

Proprio per questo il popolo sovrano punta a definire un insieme di relazioni obbligatorie, in modo da tracciare un perimetro che racchiude il suo composito blocco sociale, al quale si offrono garanzie più o meno vaghe, la più solida delle quali è di non offrirne alcuna a chi da quel perimetro viene dichiaratamente escluso.

 I migranti sono letteralmente soggetti extracontrattuali.

Il razzismo diventa cioè un elemento costitutivo del governo stesso.

 Senza di esso il governo non potrebbe neanche nascere.

Si tratta di una radicalizzazione nel solco di quanto abbiamo visto all’opera dopo l’altro grande spartiacque del 2015, la tempesta dei migranti, come insegnano il fu ministro Minniti, i mini jobs alla tedesca, i democratici respingimenti dalla civile Francia o gli accordi con cui l’UE spende parte del suo bilancio per appaltare la gestione dei suoi confini.

Si supera la prospettiva di integrazione nello sfruttamento e nell’accoglienza coatta che ha animato l’ingloriosa stagione del razzismo democratico.

Restano però lo sfruttamento, la coazione e la violenza:

i migranti diventano così una «questione», un «flusso» o tutt’al più una «pressione», ma cessano di essere persone giuridicamente riconosciute, sia pure al prezzo di perdere la libertà nei canali angusti della richiesta di asilo.

 Il razzismo di governo è la faccia speculare e specificamente rivolta ai migranti della giustizia proprietaria di cui l’esecutivo deve farsi interprete.

 

Il razzismo di governo agisce però anche al di là del suo terreno di competenza.

Mentre i migranti vengono indicati come l’unico nemico individuabile oltre alle fumose élite, la condizione di precarietà estrema riservata loro è il monito che incombe su tutti coloro che accarezzano l’ipotesi di rifiutare la coazione al lavoro.

Effetti disciplinari che non agiscono solo sul piano meramente discorsivo, perché il razzismo di governo indica nella svalorizzazione dei migranti la leva per innescare una spirale di impoverimento complessivo del lavoro.

 La pur vaga promessa di un salario minimo orario funziona per neutralizzare la funzione concertativa del sindacato, avocata integralmente dal governo, e imporre di conseguenza un’individualizzazione radicale del rapporto di lavoro, più che per difendere il salario medesimo, minacciato proprio dalla presenza di una forza lavoro assolutamente provvisoria e letteralmente de contrattualizzata.

 Estranei al popolo, i migranti ne insidiano l’ordine artificiale:

 essi sono visti come l’unico soggetto capace di mobilità autonoma e pertanto devono essere sottoposti a una disciplina speciale di governo.

Solo arginando la «pressione» migrante sullo Stato sociale del capitale nazionale il popolo dei cittadini-vittima potrà sentirsi risarcito dalle briciole lasciate dalle piccole e medie imprese.

Siccome le briciole però non ci interessano, non è un’opposizione di minoranza o localizzata quella che dobbiamo praticare.

 Possiamo solo cercare ostinatamente di costruire punti di giuntura tra i movimenti che attraversano lo spazio europeo, obbligandolo a modificare in continuazione i confini e i criteri della sua produzione e della sua riproduzione.

Per scardinare l’oggettiva alleanza tra la governance europea e la sua articolazione sovrana possiamo solo andare oltre lo scontro formale che sembra opporle.

Nonostante le illusioni che qualcuno continua a nutrire, le cosiddette forze antisistema servono solo a ridefinire i limiti e i confini del sistema stesso, e quindi ad assicurarne la durata.

Questo scontro può certamente avere momenti ed esiti drammatici, che non possono però essere evitati e men che meno superati rinchiudendosi nello spazio angusto del popolo sovrano, con la pretesa di detenerne la versione buona. Muoversi su scala transnazionale significa non cedere all’ansia della ricomposizione che promette la riconciliazione universale e di massa, proprio mentre l’integrazione logistica europea procede come se niente fosse.

Basta poco per scoprire che tanto il popolo sovrano immaginato dalle destre europee, quanto il popolo «degli esclusi» di alcune sinistre, altro non è che una variabile di minoranza in quell’organizzazione transnazionale del capitale che non sappiamo ancora aggredire.

L’Europa è l’orizzonte politico tanto del sovranismo, quanto della governance finanziaria.

Combatterli fino in fondo non è lottare per un’altra Europa, un mito senza soggetti in carne e ossa, ma certamente è combattere per modificarla dalle fondamenta:

è urgente e inevitabile riprendersi dallo shock del 2015 e fare finalmente dell’Europa un campo di battaglia di parte, senza illudersi che esistano scorciatoie e senza lasciarsi abbagliare dai lampi di sovranità dello Stato nel nome di un popolo più o meno grande.

Si tratta invece di accettare la scommessa e il rischio di chi viola materialmente la sovranità europea e ogni giorno lotta contro la violenza dei confini, del salario, del welfare, dei documenti e della divisione sessuale del lavoro.

 

 

 

VIOLENZA POLIZIESCA,

TRA NEOLIBERISMO E

AUTORITARISMO.

  Euronomade.info - Redazione – (Giu. 30, 2023) - Europa - GISO AMENDOLA - ci dice:    

 

Dopo l’uccisione di “Nahel” a Nanterre, ammazzato a freddo con un colpo di pistola da un poliziotto dopo che si era fermato a un posto di blocco, il tentativo di difendere l’indifendibile è durato poco.

 Le immagini video hanno fatto piazza pulita della narrazione dell’estrema destra, e di gran parte dei sindacati di polizia, che avevano cercato di tirare in ballo la consueta legittima difesa.

Il tentativo menzognero di incolpare la vittima, abituale purtroppo come abituale è il tipo di evento, c’è comunque stato, prima che qualcuno cominciasse a pensare che non fosse ancora il caso di soffiare sul fuoco.

 E, insieme all’arsenale retorico sulla legittima difesa, si è immediatamente mobilitato anche il consueto apparato repressivo:

 schieramento dei reparti antisommossa e” quartiere Picasso” in stadio d’assedio «preventivo».

Davanti a un copione ormai diventato ordinario, la sorpresa inscenata dal governo e da Macron nei confronti dell’espandersi rapido della rivolta suona davvero fuori luogo.

 È chiaro, infatti, che i tentativi di ridurre l’episodio tutt’al più a una follia individuale della proverbiale «mela marcia», non hanno più capacità di reggere di fronte a un’evidenza inaggirabile:

le violenze poliziesche sono ormai avvertite dalle persone, e in primo luogo dalle persone razzializzate, come un dato che appartiene al loro quotidiano.

Non è un caso che l’estrema destra trasformi la sua difesa «d’ufficio» tradizionale delle forze di polizia direttamente in un episodio della razzializzazione dello scontro interno, sfoderando immediatamente tutto l’ordine discorsivo sull’assedio e sulla paura dei «bianchi», proclamando esplicitamente una legittima difesa di razza e di classe.

C’è però un elemento importante di maturazione che emerge, analizzando rivolte e resistenze alla violenza di polizia:

 la trasformazione della resistenza delle persone razzializzate in un nodo di una rete sempre più fitta e diversificata di campagne e di lotte.

In altre parole, la questione della violenza delle forze dell’ordine, senza perdere la sua dimensione specifica postcoloniale e di razza, sta sempre più allargandosi a questione democratica generale.

Così la lotta alla violenza poliziesca è entrata, come elemento centrale e qualificante, nei cicli di movimento francese più recenti:

dai “Gilets Jaunes “al “movimento contro la riforma pensionistica”.

 E non si è trattato solo della consueta campagna anti repressiva che ogni movimento sociale si trova prima o poi ad affrontare, quanto dell’assunzione del problema della violenza della polizia come sintomo della compenetrazione completa tra neoliberalismo e autoritarismo, e della conseguente definitiva scissione tra democrazia e liberalismo che questo comporta.

Lotte sociali e lotte «anti repressive», antiautoritarie e contro la violenza strutturale delle forze dell’ordine, tendono a non separarsi più, come voleva una tradizione di difficile convivenza tra lotte «economico-sindacali» e lotte contro gli apparati di Stato.

Oggi i due aspetti, e in qualche misura anche i due diversi stili di lotta, cominciano a trovare una congiunzione molto più forte che in passato, seguendo del resto la scia dei movimenti americani, dove le campagne per sottrarre fondi alla polizia (Defund the police!) hanno alimentato sperimentazioni importanti su nuovi modelli di controllo sociale dal basso, sulla giustizia trasformativa oltre la sanzione penale, e più in generale su una nuova, intensa rivendicazione di democrazia «abolizionista», che chiede il superamento radicale delle attuali forme della polizia e del carcere.

È presto evidentemente per capire se le rivolte contro la violenza poliziesca annuncino la ripresa immediata di un movimento forte e generalizzato in Francia: ma certo una dinamica nuova, almeno potenziale, le collega alle lotte sociali.

Mentre la violenza sistemica delle forze dell’ordine rivela la crisi strutturale della «democrazia neoliberale» e la sua intrinseca contraddittorietà, la riappropriazione della democrazia, in tutta la sua portata e generalità, assume sempre più l’immagine dell’«intersezionalità delle lotte» lungo le linee di razza, classe e genere.

 

 

 

TAMÁS FRICZ: NON POTERE

SULLO SFONDO, MA

POTERE IN PRIMO PIANO.

Civilek.info - Tamás Fricz – (13 giugno 2023) – OPINIONE – ci dice:

 

Ancora oggi, ci sono molte persone dalla parte nazionale e conservatrice che pensano che il termine "potere dietro" dovrebbe essere evitato perché è solo una teoria del complotto, nient'altro - come dice ogni giorno il campo mondiale mainstream liberale.

 Esitano nonostante il fatto che l'esistenza e il funzionamento intensivo di diverse organizzazioni globaliste parlino da sole, e anche di recente si è tenuto in Medio Oriente un cosiddetto incontro del governo mondiale, a cui hanno partecipato molti importanti rappresentanti dell'élite globale.

L'altro problema è che nessun media nazionale ha riferito di questo.

A causa dei dubbi che ancora esistono, in questo articolo vorrei presentare una rete veramente tipica organizzata dall'élite globalista, che è solo parzialmente sullo sfondo, ma l'influenza dei suoi membri sul corso del mondo è palpabile - solo in base ai nomi.

È un corso chiamato” Young Global Leaders” organizzato dal “World Economic Forum”, WEF, che è stato avviato da “Klaus Schwab”, il presidente del WEF, nel 2004-2005.

Il corso invita i giovani di tutto il mondo, considerati dallo “staff del WEF” di talento e ovviamente impegnati nelle “opinioni del Grande Reset”, a cui viene insegnato per un anno in vari incontri, istruiti su un bellissimo nuovo mondo che serve gli interessi dell'élite globale, persegue i suoi obiettivi e le sue intenzioni.

Le parole chiave sono le seguenti:

 governance mondiale, penetrazione delle sfere corporative e finanziarie nello stato, presa del controllo da parte della tecnocrazia, ponendo così fine alla sovranità dello stato-nazione, creazione di una società mondiale con popolazioni miste, la quarta rivoluzione industriale, i cui elementi più importanti sono la robotizzazione e il transumanesimo, cioè una sorta di connessione tra uomo e macchina, il "perfezionamento" dell'uomo e la sua degradazione a strumento esecutivo incapace di resistere.

 La linea può essere portata avanti.

In una conversazione aperta qualche anno fa, “Klaus Schwab” ha affermato che l'élite politica della nuova era sta già uscendo dai suoi corsi, e ha citato come esempio eccellente il primo ministro canadese “Justin Trudeau”, che ritiene sia uno dei migliori rappresentanti della futura generazione di politici, e conosce anche i membri del suo governo, l'hai scelto, lo scegli secondo i principi che hai imparato al WEF.

 E il presidente non ha torto su questo.

Il corso continua ancora oggi, quindi sono passati quasi vent'anni da allora (!).

Mi chiedo quanti di noi, c'erano, che sapevano qualcosa di questo?

Questo è avvenuto davvero in background, con il pubblico e l'opinione pubblica completamente esclusi - proprio come gli incontri del Bilderberg - ma nel frattempo 1.200-1.300 persone hanno completato la formazione del WEF che espande la mente e cambia l'ordine mondiale.

Fino ad ora, perché la formazione continua.

Dopodiché, diamo un'occhiata ad alcuni nomi che possono essere trovati dopo una lunga ricerca con l'aiuto di varie fonti alternative.

 Procediamo in ordine cronologico.

Nel 2005, tra gli altri, hanno completato il corso:

il già citato Justin Trudeau, dal 2015 Primo Ministro del Canada.

Si ricorda che introdusse le più rigide restrizioni e regole Covid, ma possiamo ricordare il suo ultimo atto, quando si limitò a congelare le donazioni volontarie dei privati ​​a sostegno dello sciopero dei camionisti.

Al corso frequentava in quel periodo anche “Larry Page”, il fondatore di Google, che fa ben poco per opporsi alla libertà di espressione su Internet.

“Samantha Power “è il nome successivo, che è stata ambasciatrice delle Nazioni Unite nel 2013-2017, poi dal 2021 è diventata membro dell'organizzazione americana liberale e vicina al governo chiamata “USAID”, in questa veste ha recentemente visitato l'Ungheria con un certo lato minaccioso.

 A proposito, ha annunciato il programma finalizzato alla vaccinazione globale.

Non definirei “Nathaniel Rothschild”, l'unico figlio ed erede di Jacob Rothschild, un nome sorprendente.

 Anche “Jonathan Oppenheimer” era un membro, rampollo della famosa famiglia.

“Ivan Krasztev”, un rinomato politologo bulgaro laureatosi nel 2006, ha una vasta carriera internazionale in scienze politiche, viene costantemente citato, è membro di numerosi istituti di ricerca ed è un vero politologo di punta.

Tutto questo è interessante perché, come i miei colleghi sanno esattamente, è quasi impossibile per un politologo dell'Europa centrale, ma soprattutto orientale, entrare nell'avanguardia internazionale dominata dalla scienza anglosassone, anche se ha molto talento, dove barriere sono alte per gli orientali.

Ma se si segue un buon corso, il miracolo può accadere.

(Inutile dire che “Krasztev” diffonde visioni liberali e globaliste.)

Dal 2007, segnalo “Peter Thie”l, uno dei leader del “Comitato Bilderberg”,” Rajiv Shah” della “Bill & Melinda Gates Foundation,” “A. Ross Sorkin”, l'editorialista del New York Times, “Sherlyl Sandberg”, chief operating officer di Facebook, e “David de Rothschild”, che, secondo i calcoli, ha dieci miliardi una fortuna di USD - a proposito, il suo campo preferito è la protezione dell'ambiente, non gli piace davvero l'anidride carbonica.

Nel 2008 ha studiato qui “Mark Leonard”, che per conto di “György Soros” ha fondato nel 2007 l'”ECFR”, ovvero l'”European Council on Foreign Relations” (di cui fanno parte “Gordon Bajnai”,” Klára Dobrev”, “Dávid Korányi”), lo "stato profondo" dell'unione.

Cito anche “Ellane Lee”, vicepresidente della CNN (che è anche membro del CFR, cioè del “Council on Foreign Relations”).

 E quest'anno, “Elon Musk” si è laureato al corso, e penso che sia un ragazzo sovrano, ha fatto delle buone mosse ultimamente, ma vedremo quanto durerà per lui.

 Per interesse, cito anche la star del cinema “Leonardo DiCaprio” ed “Elizabeth Murdoch”, figlia del magnate dei media Rupert Murdoch.

Nomi importanti del 2009:

“Mark Zuckerberg”, che non ha bisogno di presentazioni, e “Stéphane Bancel”, l'amministratore delegato della “Big Pharma” chiamata “Moderna”, che produce anche vaccini a mRNA.

E “Alexander Stubb”, che è diventato primo ministro della Finlandia nel 2014.

Nel 2010,” Ben Goldsmith”, rampollo di una nota famiglia di banchieri, “Richeu Patel”, CEO di Avaaz, e “Philipp Rösler”, che dal 2009 è diventato “Ministro della Salute tedesco”, si sono diplomati a “Young Global Leaders”.

Klaus Schwab una volta ha detto di lui: "L'abbiamo visto, sarà molto bello".

Si è rivelato avere ragione. E sorprendentemente, qui troviamo anche il nome del tennista di fama mondiale “Roger Federer”.

Due nomi del 2011: “David Azami “(giornalista ed editore della BBC) e “Nikki Haley”, ex ambasciatore degli Stati Uniti all'ONU, che ora si candida come candidato presidenziale repubblicano contro Trump.

Due nomi del 2012: “Mary Donaldson”, principessa reale di Danimarca, e “Matteo Renzi”, poi presidente del Consiglio italiano.

Un nome del 2014 è molto importante: “Jacinda Ardern,” che è stata Primo Ministro della Nuova Zelanda dal 2017 all'inizio di quest'anno, ma recentemente si è dimessa inaspettatamente adducendo stanchezza (vorrei sapere cosa c'è dietro).

C'è anche un nome del 2015: “Tulsi Gabbard,” candidata presidenziale democratica nel 2020, ma che alla fine ha sospeso la sua campagna a favore di “Joe Biden”.

Il 2016 è un anno particolarmente importante!

A quel tempo Emmanuel Macron, che nel 2017 è già l'ottavo presidente della Quinta Repubblica francese, completa il percorso.

Per interesse, menzionerò anche il nome dell'attore “Ashton Kutcher” e “Amal Clooney”, moglie dell'attore “George Clooney”.

Per capire le connessioni: George Clooney è un membro della potente organizzazione globale, il “Council on Foreign Relations”, dove, ovviamente, è presente anche Klaus Schwab.

Nel 2018, non a caso, anche Alexander Soros ha completato il corso. Con lui si laureò “Leo Varadkar”, che in seguito divenne primo ministro irlandese.

Nel 2019, “Peter Buttigieg,” candidato alla presidenza democratica nel 2020, è un nome significativo.

2020: questo è l'anno in cui l'infinitamente talentuosa “Annalena Baerbock” ha completato il corso.

Sappiamo benissimo che un anno dopo divenne ministro degli Esteri in un governo tedesco particolarmente debole.

 Ma è molto importante anche il nome di “Sanna Marin”, diventata primo ministro della Finlandia, ma recentemente persa alle elezioni.

Infine, dal 2021 menzionerò “Vasudha Vats”, che ora è “vicepresidente di Pfizer”.

Questo elenco mostra anche che “Klaus Schwab e i suoi colleghi” non si concentrano solo sulla vita politica, ma raccolgono anche candidati idonei da quasi tutte le sfere della vita sociale e li impastano secondo le proprie prospettive e visioni del mondo.

Quindi c'è qualche potere di fondo?

Non è più un precursore?

(Nazione ungherese)

(I criminali assassini vogliono conquistare il mondo intero per poi renderci tutti schiavi di “Klaus Schwab e soci”. N.D.R.)

 

 

 

 

 

Limitiamo il potere delle élite

tecnologiche per salvare

libertà e democrazia.

Agendadigitale.eu – Lelio Demichelis – (4 novembre 2021) – ci dice:

Lelio Demichelis-Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria).

 

Dall’accordo sindacale in Amazon Italia, passando per il progetto Metaverso di Facebook, per arrivare al reddito minimo universale e alle parole di Papa Francesco:

sono molti gli spunti su cui riflettere fin da ora e con lungimiranza per garantire un futuro libero e democratico alle prossime generazioni.

Interessanti davvero, queste ultime settimane.

Ricche di spunti per fare qualche ulteriore riflessione a freddo.

Cioè fermando o almeno rallentando la macchina del tempo:

non quella fantascientifica di “H. G. Well”s, nel suo romanzo del “1895”, o la “DeLorean” di “Ritorno al futuro” e molte altre ancora – macchine per andare avanti e indietro appunto nel tempo;

ma quella macchina invasiva e alienante che ci porta incessantemente ad accelerare i nostri tempi ciclo di lavoro e soprattutto di vita, facendoci perdere il passato (travolto da un presente incalzante e a mobilitazione crescente) e impedendoci di guardare avanti esercitando quella buona pratica che abbiamo totalmente dimenticato e che aveva nome di lungimiranza – e che in sé contiene pensiero riflessivo, capacità di immaginare, responsabilità verso le future generazioni.

 

Partiremo allora – scegliendo alcuni di questi spunti – dall’accordo sindacale in Amazon Italia, apriremo una parentesi su “Metaverso”, per arrivare al “reddito minimo universale” e a “Papa Francesco” che non smette di stupirci – e se i media lo mettessero in prima pagina (detto da un non-credente o da un diversamente-credente come chi scrive) invece di nasconderlo tra le ultime notizie, forse capiremmo di più del mondo e perché funziona così male.

(Indice degli argomenti:

Amazon e il sindacato.

Pandora papers e global tax.

Il Metaverso di Mark Zuckerberg.

Salario minimo e riduzione dell’orario di lavoro.

In nome della Ragione.)

Amazon e il sindacato.

Ciò che ad Amazon era riuscito facilmente in America nell’aprile scorso – far fallire un referendum indetto tra i lavoratori per provare a costituire un sindacato aziendale nel magazzino di Bessemer” in Alabama – non è riuscito in Italia e Amazon ha dovuto accettare che la democrazia entrasse nei suoi luoghi di lavoro.

A “Bessemer” per la “Retail”, “Wholesale and Department Store Union (RWDSU) – il sindacato che i lavoratori avevano appunto contattato per provare ad aprire una sezione sindacale nei capannoni di Amazon – su 3.215 voti, quelli contro la sindacalizzazione sono stati 1.798, mentre quelli a favore sono stati solo 738.

Il potere di ricatto e la (im)moral suasion di Amazon hanno portato i lavoratori a negarsi un diritto che dovrebbe essere normale in ogni democrazia (ma sappiamo che gli Usa sono una democrazia molto sui generis…).

 Ed è altresì vero – ce lo ricorda la storia, cioè il passato che tendiamo invece a dimenticare credendo che tutto sia un eterno presente – che da Ford a Taylor passando per Marchionne e Jobs e arrivando oggi a Bezos l’imprenditore non ha mai amato e non ama il sindacato, lo considera un intralcio alla libertà d’impresa, un rallentamento dell’efficienza dell’organizzazione (e del suo comando e del suo controllo sui lavoratori) e un ostacolo alla massimizzazione della produttività e quindi dei profitti.

In Italia, invece, dopo una lunga lotta, si è arrivati – lo scorso 15 settembre, al Ministero del lavoro – a siglare un contratto collettivo di lavoro e ad ottenere un po’ di democrazia anche nella antidemocratica e antisindacale Amazon – in questo ben allineata con tutto il capitalismo delle piattaforme e della sorveglianza, ma anche con l’industria classica e finanziarizzata, come nel caso della “Gkn” di Campi Bisenzio in Toscana o della “Whirlpool” di Napoli.

Modello italiano virtuoso e partecipativo contro modello americano neoliberista, per Amazon.

Democrazia economica e sindacato contro autocrazia d’impresa, per Gkn e Whirlpool.

 

Dunque, Amazon – dopo cinque anni di resistenza autocratica e antidemocratica alla sindacalizzazione e alla contrattazione – ha infine accettato il confronto sindacale ed ha sottoscritto un accordo nel quale riconosce la rappresentanza collettiva, il ruolo del sindacato e il Contratto collettivo nazionale della Logistica e Trasporto Merci, nonché il confronto con il sindacato nei vari livelli di contrattazione nazionale e territoriale;

 impegnandosi inoltre concretamente per il miglioramento generale delle condizioni dei lavoratori.

Un risultato non da poco anche se dimostra che le nuove tecnologie non sono il nuovo che avanza e che non si deve fermare, ma ci fanno tornare indietro di decenni quanto a democrazia dell’impresa e nell’impresa, e dunque vanno fermate e riportate a normalità democratica.

 

Pandora papers e global tax.

Secondo spunto, i “Pandora Papers”.

L’indagine è stata realizzata dall’”ICIJ”, il Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi che ha mobilitato 600 di loro – in rappresentanza di 151 media di 117 paesi diversi – per indagare sull’evasione/elusione fiscale nel mondo.

Dall’analisi di ben 12 milioni di documenti fiscali è così emerso un autentico e ben strutturato sistema di evasione fiscale e riciclaggio a livello mondiale.

Se i precedenti “Panama Papers” del 2015 provenivano dai files di un singolo fornitore di consulenza per servizi legali-finanziari come appunto lo studio legale panamense “Mossack-Fonseca” – con più di 500 impiegati ed oltre 40 uffici in tutto il mondo – oggi i “Pandora Papers” hanno rivelato (lo si sapeva, mancavano le prove provate – e fortunatamente esiste ancora un giornalismo investigativo) che il sistema è ancora più ampio e dove avvocati e intermediari finanziari e false imprese come meri recapiti legali sono la struttura di una globale industria del riciclaggio e dell’evasione/elusione fiscale creata al servizio di politici, miliardari, imprese hi-tech, attori e allenatori di calcio e molto altro ancora.

D’altra parte, è stata l’”Ocse”, in uno studio pubblicato nel 2020, ad avere quantificato – ma molto per difetto, per ammissione della stessa Organizzazione – in almeno 11,3 trilioni di dollari la ricchezza scomparsa dai sistemi fiscali statali;

non solo illegalmente ma spesso e volentieri, aggiungiamo, con la complicità degli stessi stati, che chiamano però questa forma particolare di evasione/elusione fiscale legalizzata e concessa dallo stato, attrattività per le imprese e i loro investimenti.

È davvero quindi poca cosa – risibile – la global minimum tax del 15% decisa nelle scorse settimane dal G20:

uno specchietto per le allodole, pur esaltato come assolutamente nuovo e buono e giusto dalla gran parte dei media e dai politici mainstream, ma che ha fatto dire a Oxfam che quello che avrebbe potuto essere un accordo storico per mettere fine ai paradisi fiscali è in realtà un rabberciamento tra i paesi ricchi, che andrà a svantaggio dei più poveri e aumenterà le diseguaglianze.

Eppure, i recenti premi Nobel per l’economia – in realtà premi in scienze economiche della Banca di Svezia, “in memory of Alfred Nobel” – David Card, Joshua D. Angrist e Guido W. Imbens hanno dimostrato, come scrive l’economista svizzero Silvano Toppi, che

 “non è vero né dimostrato, come invece sostiene il neoliberismo (ad esempio la votazione in Svizzera del 2014 sull’introduzione del salario minimo, rifiutata dal 76 per cento dei votanti, sotto minaccia padronale di un crollo generale dell’economia) che l’introduzione di un salario minimo ha un effetto negativo sul lavoro, sull’occupazione, sull’attribuzione del reddito (il salario minimo aumenta i redditi dei lavoratori a basso salario), sulla crescita.

Risulta anzi vero il contrario”.

Eppure, il neoliberismo “ha sempre preteso che ciò che è favorevole al lavoratore è negativo per l’economia e, in generale, per il benessere” di un paese;

 e in questo dogma ancora viviamo, nonostante il suo più che evidente fallimento.

Colpa della egemonia della filosofia (sic!) neoliberale, per cui, dagli anni Ottanta in poi, il mantra condiviso da tutti, anche a sinistra, continua Toppi, “è stato quello di attribuire ogni colpa di uno squilibrio economico ai salari o al lavoro (ridotto solo a un costo che gonfia i prezzi).

 Ed è da lì che la cosiddetta moderazione salariale è diventata dogma e costante ricatto dottrinale e politico.

E cioè: moderazione (!) come unica condizione per lavorare, essere competitivi, crescere”.

In Svizzera, come in tutta Europa. E non solo.

Quello stesso neoliberalismo per cui occorreva anche e allo stesso tempo (è il secondo mantra della filosofia neoliberale da recitare ogni giorno) detassare i ricchi in modo che la loro ricchezza potesse naturalmente gocciolare verso il basso della società, facendo salire la marea del benessere di tutti – “una autentica fake news”.

 Si è prodotto infatti esattamente il contrario, questo processo affiancandosi alla parallela eterogenesi dei fini legata alle nuove tecnologie, che appunto negli anni ’90 promettevano di farci lavorare meno, fare meno fatica, poter avere più tempo libero e garantivano una nuova era di crescita infinita/illimitata.

 Praticamente il Paradiso in terra. E ci abbiamo creduto.

Ma è appunto accaduto il contrario.

 

Il Metaverso di Mark Zuckerberg.

Parentesi su “Metaverso”, la novità di Facebook arrivata (con classica tecnica – usata con tempismo perfetto – di distrazione di massa) giusto pochi giorni dopo le accuse al social di massimizzare i profitti attivando deliberatamente odio, antagonismo e fake news.

Qualcosa di ancora sconosciuto nei suoi dettagli, però “Metaverso” è già un nome fascinoso, evoca qualcosa di insieme metafisico e di universale, di reale e di utopistico, di qui e oltre e attira il feticismo mediatico – che diventa propaganda subliminale – per l’innovazione tecnologica.

Ha commentato “Christian Rocca”: Metaverso “è soltanto cosmesi per nascondere il fatto che Zuckerberg non ha alcuna intenzione di cambiare rotta, anzi pensa di modellare la società del futuro sui principi del gaming e di passare al nuovo livello di controllore unico dell’ambiente virtuale e fisico collegato a Internet.

Questo è il metaverso di cui parla Zuckerberg.

Una prospettiva spaventosa, visti i precedenti.

Sui giornali americani il dibattito è partito con grande intensità.

L’editoriale di apertura dell’ultimo numero dell’”Atlantic” lo scrive senza giri di parole:

Facebook [è molte cose insieme], ma in realtà è anche una potenza straniera ostile.

 E come una potenza ostile andrebbe affrontato, perché a una potenza straniera ostile non si può consentire che si costruisca un suo ecosistema virtuale e alternativo a quello reale, dentro il quale intrappolare e manipolare miliardi di utenti. […]

 Il problema è che le piattaforme digitali non esercitano solo una forma di sovranità sugli utenti e sui cittadini, ma ne determinano anche i comportamenti.

Le ricerche, riportate da Bloomberg, dimostrano per esempio che l’algoritmo di Facebook tende a indirizzare gli utenti più anziani verso contenuti cospirazionisti e i teenager sui temi legati al proprio corpo”.

 

Salario minimo e riduzione dell’orario di lavoro.

Chiusa la parentesi, arriviamo al tema del salario minimo – per legge o per accordo sindacale.

Ne scriviamo richiamando le riflessioni di “Papa Francesco”, espresse a metà ottobre, ragionando sul post-pandemia.

Che è una sfida tra tornare come prima o costruire un percorso politico, economico, sociale e ambientale veramente nuovo.

Perché è evidente che non si può “ritornare agli schemi precedenti”;

perché farlo, scrive Francesco “sarebbe davvero suicida e, se mi consentite di forzare un po’ le parole, ecocida e genocida”.

 Ma cosa fare in pratica?

“Io non ho la risposta, perciò dobbiamo sognare insieme e trovarla insieme”. Tuttavia, ha insistito, “ci sono misure concrete che forse possono permettere qualche cambiamento significativo”.

Come il salario universale e la riduzione della giornata lavorativa”.

Un reddito minimo e universale affinché “ogni persona in questo mondo possa accedere ai beni più elementari della vita”.

Ed è quindi “compito dei Governi stabilire schemi fiscali e redistributivi affinché la ricchezza di una parte sia condivisa con equità […]“.

E insieme al reddito minimo “la riduzione della giornata lavorativa è un’altra possibilità” che “occorre analizzare seriamente”.

 Nel XIX secolo “gli operai lavoravano dodici, quattordici, sedici ore al giorno”. Quando riuscirono a ottenere la giornata di otto ore “non collassò nulla, come invece alcuni settori avevano previsto”.

“Allora” – prosegue Francesco – “lavorare meno affinché più gente abbia accesso al mercato del lavoro è un aspetto che dobbiamo esplorare con una certa urgenza”.

Pur sapendo che proprio le nuove tecnologie e il digitale spingono invece in direzione contraria, quasi volendo dare ragione a Marx per il quale è tendenza del capitalismo l’estensione della giornata lavorativa alle 24 ore e dello sfruttamento del plus lavoro, arrivando oggi al lavoro gratuito. (Molto simile alla schiavitù perpetua. N.D.R)

 

Di fatto, per Francesco l’urgenza è quella di “mettere l’economia al servizio dei popoli”.

E non viceversa, come sta accadendo invece da quarant’anni a questa parte, da quando abbiamo cioè abbandonato le politiche keynesiane di redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso per l’azione diretta dei governi e quindi in nome di quel concetto-base di ogni società – senza il quale una società non esiste e non può esistere – quello cioè della giustizia sociale.

In nome della Ragione.

Francesco ha rivolto poi un appello forte al cambiamento, ovviamente “in nome di Dio”, rivolgendosi a chi ha il potere di decidere.

Noi riprendiamo parti del suo appello, ma lo facciamo in nome della Ragione o in nome (ma è la stessa cosa) della responsabilità nostra, oggi, verso le future generazioni.

“A tutti voglio chiedere, in nome di Dio” dice Francesco – in nome della Ragione, dell’umanità, della giustizia sociale e oggi anche o soprattutto ambientale, noi chiediamo:

ai grandi laboratori e alle imprese farmaceutiche, che liberalizzino i brevetti sui vaccini anti-Covid;

ai gruppi finanziari e agli organismi internazionali di credito di permettere ai Paesi poveri di garantire i bisogni primari della gente e di condonare quei debiti tante volte contratti contro gli interessi di quegli stessi popoli;

alle grandi compagnie estrattive, forestali, agroalimentari, di smettere di distruggere i boschi, le aree umide e le montagne, di smettere d’inquinare i fiumi e i mari, di smettere d’intossicare i popoli e gli alimenti;

ai fabbricanti e ai trafficanti di armi di cessare totalmente la loro attività;

 ai giganti della tecnologia di smettere di sfruttare la fragilità umana, le vulnerabilità delle persone fomentando per proprio profitto i discorsi di odio, le fake-news, le teorie cospirative, la manipolazione politica; ai mezzi di comunicazione di porre fine alla logica della post-verità, alla disinformazione, alla diffamazione, alla calunnia e a quell’attrazione malata per lo scandalo e il torbido. E altro ancora.

Un programma utopistico? Troppo ambizioso? A noi sembra il minimo necessario, doveroso e dovuto. Per restare umani.

Ai governi e ai politici di tutti i partiti, Francesco ha chiesto soprattutto di “evitare di ascoltare soltanto le élite economiche”.

E noi aggiungiamo: di evitare di ascoltare soltanto le élite tecnologiche.

Perché la nostra capacità di regolamentare questo potere e di democratizzarlo salvando la democrazia e la libertà – è la tesi anche di “Kate Crawford” – dipende dai limiti che sapremo porre e imporre al loro potere.

(Ma invece- in particolare - è sempre stato accettato che nei Bilanci finali dei libri contabili delle Banche centrali e Banche commerciali si indicasse come “passivo” l’insieme dei presti annuali effettuati alla Clientela;

 e quindi accade che il totale del “passivo” dei prestiti concessi alla clientela dopo i dovuti controlli Swift o di altre istituzioni private di controllo, fosse trasformato “giustamente” in” attivo” e quindi che questo “nuovo attivo” venisse convogliato -in gran segreto- nei conti cifrati dei padroni di tutte le banche occidentali! N.D.R.)

 

 

 

La costruzione dello Stato

di biosicurezza in Italia (e altrove).

Lo svisceramento della democrazia:

un progetto a lungo termine.

 Trasform-italia.it – (06/07/2022) - Peter Cooke – ci dice:

(Peter Cooke è professore in pensione dell’Università di Manchester)

Ospitiamo questo articolo che non rappresenta il nostro punto di vista ma che ci sembra utile per aprire un dibattito a sinistra sul pericolo di un controllo sociale sempre più stringente.

La nostra civiltà capitalista neo-liberalizzata è entrata ormai in una fase di profondissima crisi.

Gli avvenimenti drammatici della pandemia da Covid-19 possono essere interpretati come sintomi di questa crisi.

Vanno esaminati infatti in un contesto non solo sanitario, ma anche politico.

Lo scopo della serie di articoli che si propone qui è quello di offrire una spiegazione coerente di un’emergenza politico-sanitaria che ha aperto, o svelato, divisioni profonde nella società occidentale, nel contesto di un sistema “democratico” che, in realtà, maschera – in modo sempre meno convincente – il potere praticamente incontestato di un’oligarchia globalizzata.

La tesi centrale proposta qui è che la pandemia ha offerto al sistema capitalista in crisi l’occasione per la rapida costruzione di un nuovo paradigma di governo in grado di controllare una popolazione globale – e soprattutto occidentale – sempre più turbolenta.

È quest’ultimo un sistema tecnocratico e autoritario che, appoggiandosi sulle riflessioni di “Giorgio Agamben”, alcuni commentatori denominano ormai “lo Stato di biosicurezza”.

Il primo articolo della serie esamina la questione della “democrazia” occidentale come contesto politico della crisi sanitaria.

 Dopo aver spiegato la realtà profondamente oligarchica del sistema attuale creato sistematicamente durante quattro decenni di controrivoluzione neoliberista, esamina l’ideologia della tecnocrazia, cara all’élite globale, come forma di potere.

Finalmente, offre una prima analisi della gestione tecnocratica dell’emergenza pandemica, focalizzandosi sul contesto italiano.

Gli avvenimenti degli ultimi due anni e mezzo sono stati profondamente traumatici.

 Dubito perciò che, nelle condizioni attuali, sia ancora umanamente possibile discutere il tema della pandemia Covid-19 con una vera e propria oggettività.

Inoltre, ogni aspetto del fenomeno pandemico è stato politicizzato.

In quasi tutti i paesi del mondo occidentale, sulla questione così importante della maniera in cui l’epidemia è stata gestita e rappresentata, la società si è spaccata.

Non mi sembra possibile prendere una posizione neutrale a riguardo, tanto meno dopo aver cercato di approfondire il tema.

Ciò che segue, benché sia il frutto di molte letture e di lunghe riflessioni, è dunque necessariamente una interpretazione che rimane, almeno in parte, soggettiva. Inevitabilmente, è anche una interpretazione politica.

 Infatti, ciò che m’interessa capire soprattutto in questo sconcertante fenomeno politico-sanitario è come mai sia stato possibile, in un paese “democratico” come l’Italia, gestire un’epidemia in un modo così straordinariamente repressivo

 Si può dire, in verità, che viviamo ormai in una democrazia liberale?

È fondamentale capire che, in realtà, la progressiva demolizione del sistema democratico occidentale del dopoguerra è un progetto a lungo termine che risale almeno agli anni 1970.

Questo processo graduale di smantellamento e di svisceramento si è accelerato drammaticamente durante la pandemia, che ha fatto nascere ciò che molti non esitano a denominare “dittatura sanitaria”, benché molti altri respingono il termine con sdegno.

In effetti, la gestione di questo avvenimento sanitario disastroso, in Italia e altrove, si è caratterizzata da una deriva liberticida che non solo ha sgomentato molti cittadini, infliggendo peraltro sofferenze notevoli a tantissime persone, ma ha anche aperto faglie profonde e dolorose nel tessuto sociale.

Troppa democrazia.

Già dal 1975, gli autori del libro influente “The Crisis of Democracy” sostenevano che c’era “troppa democrazia”.

Il sottotitolo di questo studio, commissionato a tre politologhi di destra, “Michel Crozier”, “Samuel P. Huntingdon” e “Joji Watanuki”, è assai esplicito:

Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla “Commissione Trilaterale”.

Quest’ultima, importantissimo pensatoio oligarchico lanciato a Washington nel 1973, ha svolto, si sa, un ruolo di spicco nel vasto progetto capitalista della globalizzazione neo liberista.

 Gli autori della “Crisi della Democrazia” non si sono limitati a analizzare il problema che rappresentava per i capitalisti nei paesi occidentali questo “eccesso di democrazia”, ma hanno anche proposto delle soluzioni che si sono dimostrate assai efficaci.

 I progetti di attacco alle democrazie ideati nel libro sono stati tradotti in tecnica ed applicati sistematicamente.

 I punti centrali della strategia anti-democratica attivata dagli anni settanta in poi si possono riassumere come segue:

de-ideologizzazione della sfera politica;

riduzione dell’interesse dei cittadini alla partecipazione democratica;

trasformazione dell’individuo da cittadino in consumatore;

dirottamento del dibattito politico su binari consentiti predeterminati;

cooptazione dei sindacati; abbassamento del livello di educazione delle masse;

controllo dei media.

Il risultato dell’attualizzazione di questo piano è stato lo svuotamento progressivo delle strutture democratiche al punto che quello che ne è rimasto oggi si è ridotto, praticamente, a una mera facciata, un guscio vuoto.

 Gli inediti e traumatici eventi politici e sociali degli ultimi due anni e mezzo sembrano indicare che l’oligarchia occidentale abbia deciso che il momento sia venuto di demolire – in modo controllato, beninteso – anche questa facciata.

La nuova oligarchia.

Il fatto che la democrazia occidentale si sia trasformata, de facto, in oligarchia è riconosciuto ormai da non pochi commentatori politici.

 Descrivendo le tendenze oligarchiche odierne nel suo libro bestseller “Capitalism in the Twenty-First Century”, “Thomas Piketty” parla addirittura di “un processo in cui i paesi ricchi diventano la proprietà dei loro propri miliardari”.

“Il ‘Capitalismo di oggi è in realtà un’oligarchia di plurimiliardari che detengono il potere, assistiti da un organico di specialisti relativamente ben formati e pagati” spiega “Kees Van der Pijl”.

 Nel suo libro del 2020, “The System”,” Who Rigged It”, “How We Fix It” (tradotto e pubblicato l’anno seguente in italiano), “Robert Reich” scrive:

 “Persino un sistema che si definisce una democrazia può diventare un’oligarchia se il potere finisce per concentrarsi nelle mani di un’élite imprenditoriale e finanziaria.”

“Reich” riconosce che “L’America ha conosciuto l’oligarchia due volte prima d’ora.” La prima volta fu l’epoca della fondazione degli Stati Uniti (“Molti degli uomini che fondarono gli Stati Uniti erano oligarchi bianchi proprietari di schiavi.”);

la seconda fu l’era di uomini spietati come “J. Pierpoint Morgan”, John D. Rockefeller”, “Andrew Carnegie”,” Cornelius Vanderbilt” e “Andre Mellon”, i famigerati “robber barons” (“baroni della rapina”) dell’industrializzazione sfrenata della fine dell’ottocento e dei primi decenni del novecento.

 Fu il “New Deal di Roosevelt”, compiuto durante la “Grande Depressione” con l’obiettivo di scongiurare la minaccia di una rivoluzione, a porre fine all’oligarchia dei “robber barons”, instaurando un equilibrio (tutto relativo) tra il potere del capitale e le esigenze economiche e sociali dei lavoratori.

“A partire dal 1980 circa”, continua Reich, “è emersa una terza oligarchia americana”.

“Reich” si riferisce qui alla controrivoluzione neoliberista, lanciata infatti intorno all’anno 1980 con l’intento (più o meno mascherato) di disfare completamente il sistema del New Deal.

Questo processo è risultato inevitabilmente in una disuguaglianza del reddito e della ricchezza sempre più grande.

“Reich” descrive la situazione economica negli Stati Uniti come segue:

Tra il 1980 e il 2019 la quota del reddito familiare totale del paese appannaggio dell’1% più ricco della popolazione è più che raddoppiata, mentre il reddito del 90% più povero è cresciuto pochissimo (tenendo conto dell’inflazione).

La retribuzione media di un CEO è cresciuta del 940%, quella del lavoratore tipo del 12%.

 Negli anni Sessanta il tipico CEO di una grande azienda americana guadagnava circa venti volte più del lavoratore tipo; nel 2019 guadagnava trecento volte tanto.

La disuguaglianza della ricchezza è esplosa ancora più rapidamente.

 Secondo una ricerca degli economisti “Emmanuel Saez” e “Gabriel Zucman”, negli ultimi quarant’anni la quota della ricchezza totale detenuta dallo 0,1% più ricco – circa 160,000 famiglie americane – è passata da meno del 10% al 20%.

 Oggi queste famiglie posseggono una ricchezza pari quasi a quella del 90% delle famiglie più povere messe assieme.

L’intera metà inferiore della popolazione americana oggi possiede appena l’1,3% della ricchezza totale.

La conseguenza necessaria di questa crescente disuguaglianza economica è stata una crescente disuguaglianza di potere politico.

 “Le grandi imprese, i CEO e un manipolo di persone estremamente ricche”, osserva Reich, “hanno più influenza di ogni altro gruppo paragonabile dai tempi dei baroni della rapina.

 A differenza del reddito o della ricchezza, il potere è un gioco a somma zero: più ce n’è a la vertice, meno ce n’è altrove”.

 Per varie ragioni storiche, le condizioni economiche e politiche degli Stati Uniti rappresentano un caso estremo nel mondo occidentale, ma la tendenza verso una concentrazione sempre maggiore di ricchezza economica e di potere politico al vertice della società caratterizza tutte le “democrazie” occidentali.

 Essendo il “neoliberismo” un progetto essenzialmente “oligarchico”, una delle conseguenze inevitabili del suo sviluppo incontrastato nel corso degli ultimi quattro decenni è stata la distruzione quasi totale della democrazia rappresentativa e l’instaurazione di una potente oligarchia globalista.

La barbarie del neoliberismo.

È importante capire a che punto questa ideologia neoliberista, che ha smantellato progressivamente il sistema molto più equilibrato del New Deal, rappresenti una forma di violenza.

Il termine “neoliberismo” si riferisce a politiche economiche che promuovono la subordinazione integrante della società al capitale (“il mercato”).

Sotto la sua maschera teorica, è una forma di “raw capitalism” (“capitalismo crudo”), un fenomeno fondamentalmente predatorio che cerca sempre di imporre la legge del più forte, noncurante degli effetti distruttivi delle sue azioni sul piano umano, sociale, ecologico, ecc.

Fa parte, in realtà, di quella barbarie del ventesimo e del ventunesimo secolo denunciata da “Giuliano Pontara” nel primo capitolo di” L’Anti barbarie”.

“Naomi Klein” descrive nel suo libro seminale “The Shock Doctrine” come le teorie estremiste del teorico americano del neoliberismo Milton Friedman furono applicate per la prima volta nel Cile, sulla scia del colpo di stato (fomentato dalla CIA) di Augusto Pinochet che nel 1973 rovesciò il governo socialista, democraticamente eletto, di Salvador Allende.

 Le misure drastiche di privatizzazione, liberalizzazione del mercato e riduzione massiccia delle spese pubbliche proposte da Friedman (la classica ricetta neoliberista), che secondo lui sarebbero risultato, dopo lo “shock” iniziale, in “un miracolo economico”, risultarono invece in una catastrofe economica – “una orgia di auto-mutilazione” per dirla con le parole del Economist – che devastò il paese e instaurò nella società cilena disuguaglianze enormi.

Nel 1988, quando l’economia cilena si era finalmente stabilizzata, il 45% della popolazione era caduta nella povertà e il ceto medio era stato decimato.

Nello stesso tempo, il decimo più ricco aveva visto crescere il suo reddito dell’83%. Ancora oggi, il Cile rimane uno dei paesi più disuguali del mondo.

La controrivoluzione neoliberista in Cile fu dunque un’operazione assolutamente spietata che risultò in un incremento di ricchezza massiccio per il segmento più ricco della società al costo dell’impoverimento delle masse.

L’esperimento cileno si replicò in numerosi paesi.

 

Tristemente notorie rimangono le violenze fisiche orripilanti, commesse a vasta scala, che accompagnarono la controrivoluzione neoliberista sotto le dittature militari instaurate con il sostegno della CIA negli anni 1970 nell’America Latina e altrove.

Lo stesso tipo di crimine di stato commesso sistematicamente nel Cile di Pinochet caratterizzò anche i regimi dittatoriali del Brasile e dell’Argentina, per esempio.

Come osserva Klein, il sadismo, anche se ha avuto certamente la sua parte in questo disgustoso fenomeno, non basta a spiegare tutto un sistema di incarcerazione, tortura, assassinio e sparizioni.

 Poco prima di essere abbattuto dai militari, l’attivista argentino “Rodolfo Walsh “scrisse:

“È nella politica economica di questo governo che scopriamo non solo la spiegazione dei crimini, ma anche un’atrocità più grande che punisce milioni di esseri umani con la miseria pianificata”.

Le riforme neoliberiste imposte a partire degli anni ottanta nei paesi occidentali – negli Stati Uniti e nel Regno Unito in primis – rappresentano anche lì un processo fondamentalmente violento.

 Anche se non accompagnata dal sistema di violenza fisica spietata vigente nei regimi dittatoriali, nei paesi occidentali “democratici” abbiamo vissuto da quarant’anni una controrivoluzione brutale che ha avuto come conseguenza diretta l’instaurazione progressiva di una sempre più grande violenza economica strutturale.

 Perché il neoliberismo impone la povertà, e la povertà, come diceva Gandhi, è una delle forme peggiori di violenza.

Un potere sovranazionale anti-democratico.

Nell’era della globalizzazione finanziaria e economica guidata dall’anglosfera, gli Stati individuali stanno perdendo sempre più la loro sovranità effettiva;

 ormai tutte le decisioni politiche ed economiche più importanti sono prese a livello sovranazionale in un contesto tutt’altro che trasparente.

Si parla in questo senso dell’“internazionalizzazione dello Stato”.

In questo Stato internazionalizzato, i gestori del sistema monetario e finanziario (le banche centrali sovranazionali), le grandi corporations multinazionali e una rete di istituzioni private (fondazioni, pensatoi oligarchici, NGO, ecc.) esercitano un’influenza preponderante sui governi che nessun movimento politico è in grado di contrastare.

Nel contesto europeo, il ruolo essenziale svolto dall’Unione Europea – che in realtà è una istituzione profondamente anti-democratica – è quello di imporre la volontà del cartello capitalista oligarchico.

Ormai, gli stati europei hanno devoluto gran parte della propria sovranità a poteri tecnocratici non elettivi.

 Il risultato sconcertante dell’ascendenza incontestata dei poteri finanziari e commerciali apolidi – “la caste des banquiers commerçants” – è che, per citare la ricercatrice francese” Valérie Bugault”, “ormai gli Stati non sono più che gusci vuoti”.

 

Mantenere la facciata democratica, l’illusione della democrazia, è da molto tempo una delle funzioni principali sia dei media mainstream sia dei politici.

 Già dal 1995, nel suo saggio” The Unconscious Civilisation”, “John Ralston Saul” metteva in luce la tendenza socioculturale a mascherare, nel linguaggio come nell’informazione, il vero sistema di potere che ha poco a che vedere con gli assunti legittimanti dei moderni ordinamenti occidentali:

democrazia, trasparenza, rule of law.

Il sistema di potere odierno è organizzato, invece, secondo principi di monopolio/cartello privato delle risorse primarie, di stretto controllo dell’informazione pubblica e di governo distante – sempre più distante – dalle popolazioni.

Si può “aggiustare” la democrazia?

“Robert Reich” crede che, malgrado l’instaurazione de facto negli Stati Uniti di una oligarchia sempre più ricca e sempre più influente, è ancora possibile ripristinare la democrazia.

Secondo lui, è un sistema che si può “aggiustare”.

È questo un ottimismo che, nelle circostanze attuali, può sembrare alquanto ingenuo.

Su questo punto, “Rana Dasgupta”, nella sua analisi accurata “The Silenced Majority: Can America Still Afford Democracy?”, è molto più pessimista di Reich.

Dasgupta esamina la crisi politica prolungata degli Stati Uniti nel contesto di tendenze storiche e economiche più vaste.

La sua tesi centrale è che le condizioni economiche contemporanee non favoriscono più la permanenza del sistema democratico occidentale e che stiamo tornando alla situazione di potere capitalista oligarchico che caratterizzava l’epoca che precedeva la Rivoluzione Industriale.

 Si parla infatti, in questo contesto, di un fenomeno assai inquietante: il neo-feudalesimo.

 È comunque essenziale capire che la democrazia è semplicemente il risultato di concessioni politiche e sociali che il lavoro a potuto strappare dal capitale in certe circostanze storiche.

Oggigiorno, la classe operaia, e più generalmente il principio del lavoro, ha perso gran parte del suo potere contrattuale di fronte al capitale, grazie soprattutto allo smantellamento della produzione industriale – in gran parte trasferita in Cina e in altri paesi asiatici poco democratici – e alle nuove tecnologie digitali che stanno rendendo sempre più inutili gli operai, ma anche i professionisti.

 Allo stesso tempo sta emergendo una fusione di tecnologie capaci di distruggere le frontiere tra i mondi fisici, digitali e biologici.

Si tratta della “Quarta Rivoluzione Industriale” cara a Klaus Schwab, il fondatore e direttore del “World Economic Forum “(WEF).

Secondo un “White Paper” del WEF, nell’anno 2030, fra il 13 e il 23% della popolazione mondiale diventerà temporaneamente o permanentemente disoccupato.

Infatti, una parte sempre più grande della popolazione sta diventando economicamente e socialmente inutile per il sistema capitalista globalista.

Se i popoli stanno diventando economicamente superflui per un’oligarchia capitalista internazionale che, in un modo sempre più evidente, controlla praticamente tutto, i popoli si trovano in una situazione pericolosa.

 Nello stesso tempo, la gestione di questi miliardi di persone “inutili” rappresenta per l’oligarchia un problema assai grande.

Infatti, gli effetti cumulativi del processo di globalizzazione neoliberista, che ha prodotto non solo grandi incrementi di ricchezza, ma anche disuguaglianze economiche enormi, precarizzazione del lavoro a vasta scala e grandissima distruzione sociale, morale ed ecologica, si manifestano in un fermento sociale a livello globale senza precedenti.

Controllare il popolo con la paura e la sorveglianza.

Questo problema è diventato sempre più urgente dopo il crollo economico del 2008 che non ha fatto altro che accelerare una lotta sociale a scala globale.

Non solo questa catastrofe finanziaria ha fatto capire quanto fragile – per non dire insostenibile – fosse diventata l’economia occidentale finanziarizzata, questo “late-stage financialised capitalism” così squilibrato e instabile, in preda a una speculazione sfrenata e avventata a scala gigantesca ed una corruzione sempre più dilagante – ma il salvataggio massiccio delle banche, i famigerati “bailouts”, nello stesso momento in cui milioni di disoccupati perdevano tutto, ha fatto capire al popolo che gli interessi del 99% dei cittadini contavano ben poco in confronto a quelli del 1% più ricco – l’oligarchia, precisamente.

Dopo 2008, osserva “Van der Pijls”, “ogni record di fermento sociale è stato infranto”.

 Contenere, impedire, reprimere, manipolare e sciogliere in tutti i modi i grandi movimenti di protesta – potenzialmente rivoluzionari – nati sulla scia del disastro del 2008 è diventato una delle priorità più importanti del sistema capitalista in crisi.

Un passo importante verso la costruzione di un nuovo sistema di governo in grado di controllare i popoli occidentali sempre più impoveriti, sempre più precarizzati e sempre più arrabbiati è stato già rappresentato dal “War on Terror “di George W. Bush, una “guerra” lanciata a seguito degli attentati terroristici del “9/11” nel 2001.

 Le stragi spettacolari compiute dall’Al Qaeda hanno offerto al regime di Bush l’occasione per giustificare l’invasione del Afganistan e dell’Iraq, rilanciando in questo modo l’industria militare prima di saccheggiare le risorse naturali di questi due sfortunati paesi.

Non solo, ma 45 giorni dopo gli attentati dell’11 settembre, il governo americano passò il famigerato “Patriot Act”, una legge importante che ha limitato i diritti e le libertà dei cittadini americani con il preteso della necessità di difendere il Paese contro il terrorismo.

In questo modo, ogni cittadino americano è divenuto, in realtà, sospettato.

Allo stesso tempo, il governo americano ha instaurato quel sistema illegale di sorveglianza di massa – il programma di “Total Information Awareness” – svelato più tardi da “Edward Snowden”.

Paradossalmente, si può interpretare la “Guerra contro il terrore” come una forma di terrorismo di Stato.

Come osservò “Al Gore” nel 2004, il terrorismo, che rappresenta la strumentalizzazione della paura per uno scopo politico, intende “travisare la realtà politica di una nazione suscitando nel popolo una paura massicciamente sproporzionata rispetto al vero pericolo che i terroristi sono in grado di rappresentare”.

 Secondo Gore, il corso precipitoso di Bush verso la guerra contro l’Iraq costituiva una forma di terrorismo.

Bush aveva terrorizzato la sua propria nazione con l’avvertimento completamente ingannevole secondo cui “impiegando armi chimiche, biologiche, o, in futuro, anche nucleari, ottenute con l’aiuto dell’Iraq, i terroristi erano in grado […] di uccidere migliaia o centinaia di migliaia di persone in questo paese”.

 “Il presidente Bush e la sua amministrazione”, fece notare Gore, “ha fatto ingurgitare al popolo americano una paura dell’Iraq grandemente esagerata, una paura completamente sproporzionata in confronto al pericolo che quel paese rappresenta in realtà”.

Lo Stato americano aveva adottato una strategia terroristica nei confronti del popolo americano.

Siccome, dopo decenni di politiche economiche e sociali neoliberiste, il capitalismo non è più in grado di offrire alla popolazione un contratto sociale accettabile – anzi, il neoliberismo rappresenta la negazione del contratto sociale – governare con la paura è diventata una strategia centrale del mondo occidentale.

 Siamo entrati ormai nell’epoca dello stato di emergenza permanente, della guerra permanente:

“La guerra è resa endemica”, spiega “Jeff Halpe”r, “poiché non è né possibile né desiderabile porre termine allo ‘stato di emergenza permanente’ […].

Pacificare l’umanità diventa l’unico modo di scongiurare la guerra, ma quell’impresa è diventata un progetto totalitario violento, senza fine”.

“Oltre la libertà e la dignità”

L’instaurazione di un sistema di sorveglianza statale dei cittadini è stata accompagnata – e facilitata – dall’emergere di un nuovo sistema economico che, in uno studio fondamentale,” Shoshana Zuboff “denomina “surveillance capitalism” – “il capitalismo della sorveglianza”.

Conviene però notare che sin dall’inizio la rivoluzione IT è stata formata dal paradigma del “Total Information Awareness” nel contesto di una guerra della classe dominante contro il popolo e che tutte le grandi ditte della Big Tech mantengono relazioni strette con il Pentagono.

Il sistema del “capitalismo della sorveglianza”, sviluppato dai “tech giants” della Silicon Valley, con Google e Facebook in testa, si basa sempre di più non solo sullo sfruttamento economico (e politico) dei dati – di ogni genere – raccolti “furtivamente” dagli utenti, ma anche sulla manipolazione dei comportamenti del consumatore (e anche degli elettori).

È questo un tipo di potere subdolo che “Zuboff “chiama “instrumentarian”.

In questo ambito, le imprese tech approfittano, con una precisione sempre maggiore, degli strumenti creati dagli psicologi comportamentali, come il famoso o notorio “B. F. Skinner”, che s’interessano soprattutto del comportamento di gruppo, di gregge.

Questi scienziati, infatti, svilupparono inizialmente le loro tecniche di manipolazione psicologica studiando gli animali.

Non c’è, da questo punto di vista, alcuna differenza fondamentale tra il gregge animale e il gruppo umano; tutt’e due si possono dirigere dall’alto utilizzando metodi psicologici appropriati.

Secondo” Skinner”, nel suo famigerato libro “Beyond Freedom & Dignity” (Oltre la libertà e la dignità), il libro arbitrio e la libertà di scelta dell’individuo cari al liberalismo occidentale sono in realtà una semplice illusione e, per il bene comune, la società va gestita continuamente dagli scienziati utilizzando strumenti psicologici.

È la sua una visione del mondo essenzialmente tecnocratica; a “Skinner” non piaceva per niente la democrazia.

Zuboff osserva con rammarico che quando il libro di Skinner uscì nel 1971 suscitò grande scalpore, mentre che cinquant’anni dopo, “La credenza che possiamo noi stessi scegliere il nostro destino viene assediato, e, in una inversione drammatica della situazione, il sogno di una tecnologia in grado di predire e dirigere il comportamento – per il quale” Skinner” subì tanto disprezzo pubblico – è diventato ormai un fatto fiorente.

Adesso, questo obiettivo attrae un capitale immenso, il genio umano, l’elaborazione scientifica, interi ecosistemi di istituzionalizzazione, e il fascino che accompagnerà sempre il potere”.

Dalla sorveglianza statale di massa e dal capitalismo della sorveglianza, con la sua crescente enfasi sulla modificazione del comportamento, non è molto grande il passo che conduce al sistema di Credito Sociale che si sta sviluppando attualmente in Cina.

 Lo scopo di questo nuovo sistema, spiega il sinologo “Rogier Creemers”, è quello di “utilizzare l’esplosione dei dati personali […] per migliorare il comportamento dei cittadini […].

Agli individui e alle imprese saranno assegnati punti in relazione a vari aspetti del loro comportamento – dove vai, che cosa compri e chi conosci – e questi punti saranno integrati in una base di dati comprensiva connessa non solo all’informazione governativa, ma anche ai dati raccolti da imprese private”.

Il nuovo sistema cinese sorveglia il comportamento “buono” e “cattivo” in varie attività finanziarie e sociali.

Le ricompense e le punizioni sono assegnate automaticamente, allo scopo di plasmare il comportamento individuale e collettivo in modo di “costruire sincerità” nella vita economica, sociale e politica.

“L’intenzione”, spiega “Mara Hvistendhal”, “è che ogni cittadino cinese sia seguito tramite una scheda compilata da dati provenienti da fonti pubbliche e privati”.

A molti potrebbe forse sembrare inverosimile l’idea di instaurare un sistema simile nei paesi “democratici” dell’ occidente, ma quello che vediamo svolgersi nella Cina governata dal repressivo Partito Comunista è la costruzione di una realtà inquietante che, secondo” Zuboff”, “ci permette di contemplare una versione di un nostro futuro definito dalla fusione comprensiva del potere instrumentarian con il potere statale”.

 Il sistema di Credito Sociale non è altro, in realtà, che la realizzazione, tramite gli strumenti invasivi offerti dalla rivoluzione digitale, della visione tecnocratica di “B. F. Skinner” e dei suoi seguaci: una vita umana “oltre la libertà e la dignità”.

La tecnocrazia.

A questo punto sarà opportuno aprire una parentesi sulla tecnocrazia.

Dopo tutto, la gestione della pandemia da Covid-19 è stato un esercizio strettamente tecnocratico.

Denunciata già dal 1933 in modo indimenticabile da” Aldous Huxley “nel suo romanzo distopico “Brave New World”, la tecnocrazia rimane un’ideologia importantissima.

 Anzi, il suo potere va sempre crescendo.

La breve discussione che segue si basa in gran parte sugli studi fondamentali di “Patrick Wood”, soprattutto il suo libro più recente, “Technocracy: The Hard Road to World Order”.

La tecnocrazia, intesa come ideologia, ha le sue radici storiche nello scientismo utopista del pensatore francese “Henri de Saint-Simon” (1760-1825). Saint-Simon afferma la superiorità dello scienziato, definito come “l’uomo che prevede”, su tutti gli altri uomini.

Lo scientismo, insieme alla sua progenie la tecnocrazia, funziona da surrogato della religione, sostituendo la fede in Dio con la fede nella Scienza e nella Tecnologia.

La scienza, secondo questa visione del mondo, salverà l’umanità instaurando la “nuova Utopia tecnocratica”.

Gli scienziati e i tecnocrati sono dunque i preti di questa pseudo-religione.

Secondo loro, soltanto la scienza ha la capacità di risolvere tutti i problemi della società, e la scienza dev’essere applicata alla vita senza sentimentalismo – anzi, senza sentimenti.

In questa visione essenzialmente materialista, la natura – e anche l’essere umano – non è altro che un complesso meccanismo;

 chi capisce il funzionamento del meccanismo ha il dovere di controllarlo.

Il potere dev’essere messo nelle mani di un’élite tecnocratica – per il bene comune, s’intende – e qualsiasi opposizione a questa concentrazione di potere anti-democratica è considerata profondamente sbagliata e va combattuta in tutti i modi.

 Niente deve ostacolare la realizzazione dell’Utopia.

L’ideologia tecnocratica predomina nell’ambito dell’élite globale – Bill Gates offre un esempio perfetto di questa tendenza – e la sua visione profondamente anti-democratica è alla base di tutti i grandi progetti globali, come lo Sviluppo sostenibile, l’Agenda 21 e l’Agenda 2030.

Ormai una tecnocrazia globalista domina le Nazioni Unite e l’Unione Europea e si dedica assiduamente a soppiantare la sovranità nazionale con il preteso di risolvere i problemi globali tramite l’imposizione di metodi tecnocratici centralizzati.

Uno di questi problemi è quello delle pandemie.

Conviene osservare a questo punto che la tecnocrazia è essenzialmente una forma di potere e che s’intreccia ormai strettamente con gli interessi dell’oligarchia globalista.

 Anzi, si palesa sempre di più che la tecnocrazia sia diventata lo strumento essenziale che questa oligarchia sta utilizzando per esercitare il suo potere sul mondo.

Non dovrebbe dunque sorprendere che la pandemia sia stata gestita in modo tecnocratico.

Nel suo saggio “Sulle ‘ragioni’ dell’emergenza”, pubblicato alla fine del libro recente di “Mariano Bizzarri”, Covid-19:

Un’epidemia da decodificare, il filosofo “Massimo Cacciari” spiega che “l’ideologia della Scienza, fino a tonalità religiose, che Bizzarri denuncia, è parte integrante del sistema tecnico-economico-politico che sta dominando le nostre vite (e dunque nient’affatto qualcosa di meramente ‘sovrastrutturale’)”.

Questo sistema sta dominando infatti le nostre vite sempre di più e sta creando una realtà sempre più distopica.

Perché, come avvertiva “Huxley” in “Brave New World”, i tentativi umani per creare l’Utopia – in questo caso l’Utopia tecnocratica – finiscono sempre per creare invece la Distopia.

La religione della scienza nella gestione della pandemia.

“Bizzarri” denuncia un fenomeno inquietante che ha caratterizzato l’atteggiamento di molte persone durante l’epidemia da Covid-19:

 

È di moda che le persone di cultura medio-alta dichiarino di non essere “religiose” (se non apertamente atee), dicendo invece che ripongono la loro “credenza” nella scienza, parlando di questa come se sostituisse la religione. È curioso come sotto stress, soprattutto ora che il Covid ci ricorda che la morte esiste – nonostante ci si affanni a rimuoverne la presenza nelle nostre società epicuree ed edonistiche – riemerga il sentimento religioso in forme aberranti e deviate. La fede viene oggi risposta nella “scienza”, credendo che questa sia fonte di verità assoluta e univoca. In questo, la maggior parte delle persone non fanno che trasferire la ricerca della certezza dalla religione alla scienza.

 

Anche “Giorgio Agamben” si preoccupa di questa aberrazione. In un libro importante, A che punto siamo?

 L’epidemia come politica, pubblicato nel 2020, il filosofo si domanda “Com’è potuto avvenire che un intero Paese sia, senza accorgersene, eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia?”

 L’Italia, infatti, ha abdicato “ai propri principi etici e politici”. “

Come abbiamo potuto accettare”, scrive ancora Agamben, “soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare che le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli ma che, cosa mai avvenuta prima nella storia da Antigone a oggi, che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale?”

Il filosofo denuncia anche “la Chiesa, che, facendosi ancella della scienza ormai diventata la vera religione del nostro tempo, ha radicalmente rinnegato i suoi principi essenziali.

 La Chiesa sotto un papa che si chiama Francesco ha dimenticato che Francesco abbracciava i lebbrosi.

 Ha dimenticato che una delle opere della misericordia è quella di visitare gli ammalati.

Ha dimenticato che i martiri insegnano che si deve essere disposti a sacrificare la vita piuttosto che la fede e che rinunciare al proprio prossimo significa rinunciare alla fede”.

 

Infatti, la scienza, o piuttosto lo scientismo, è diventata “la vera religione del nostro tempo” perché l’intera storia dell’umanità ci insegna che gli esseri umani non possono vivere senza religione, senza fede, così che quando perdono la fede in una vera religione – o in una religione diventata falsa, corrotta e malvagia – si affrettano di creare una pseudo-religione, una nuova ideologia in grado di soddisfare il bisogno profondissimo di credere. Ho personalmente sentito dire da un italiano, cattolico praticante d’altronde, che si vanta di rispettare moltissimo le “verità della scienza”, che il vaccino era “un dogma della fede”. Ma la scienza – quella vera – non ha dogmi, li ha solo la religione.

 

Citiamo qui ancora le parole accorate di “Mariano Bizzarri”:

La ricerca scientifica è stata l’amore della mia vita. Ma ora, dopo più di quarant’anni vissuti in laboratorio e nelle corsie ospedaliere, mi sento tradito, sgomento come chi possa scoprire – solo a tarda età – di aver mal riposto il proprio affetto in colei, che come diceva De André “non lo amava niente”.

Le decisioni pronunciate in nome della scienza sono diventate arbitri di vita, di morte, condizioni imprescindibili per consentire l’accesso a libertà che pure dovrebbero essere fondamentali.

Tutto ciò che conta è stato influenzato dalla scienza, dagli esperti che la interpretano e da coloro che impongono misure basate sulle interpretazioni mediatiche, ritorte e stravolte nel contesto della guerra politica.

Ovviamente, questa “scienza” nulla ha a che vedere con la Scienza, quella vera, che per sua natura rifugge dalle affermazioni assolute, dal trionfalismo, e avversa il sensazionalismo preferendo il più tormentato – ma assolutamente più onesto – rifugio del dubbio. Non che la situazione fosse idilliaca prima del Covid; ma oggi, le norme basilari che impongono alla ricerca scientifica onestà intellettuale, disinteresse, cauto scetticismo e disponibilità al confronto e alla condivisione dei dati sono apertamente e sistematicamente violate38.

Ciò che descrive qui “Bizzarri”, con tanta amarezza, è la strumentalizzazione politica della scienza. È la scienza messa al servizio della tecnocrazia. La scienza ufficiale, “la vera religione del nostro tempo”, è diventata uno strumento di oppressione, come lo era diventata per tanti secoli anche la religione ufficiale.

 

Le statistiche e la gestione tecnocratica dell’emergenza sanitaria.

Offrirò nel secondo articolo un’analisi critica della gestione sanitaria della pandemia da Covid-19.

 Qui, invece, voglio sottolineare il modo strettamente tecnocratico in cui è stata gestita l’emergenza.

In questa gestione le statistiche, i dati, hanno svolto un ruolo centrale.

Si potrebbe dire infatti, senza esagerazione, che i dati costituiscono il sangue di quell’essere gigantesco è disumano che si chiama Tecnocrazia.

Senza i dati, le cifre, le statistiche, non può vivere. I dati sulla pandemia – numeri di “casi”, “decessi”, “ricoverati”, ecc. – emessi costantemente dai governi e accettati, diffusi e commentati in modo totalmente acritico dai media, servivano a costruire nella mente della popolazione una situazione drammatica che potesse giustificare ingerenze senza precedenti nella vita dei cittadini, ingerenze che, de facto, li spogliavano dai loro diritti costituzionali.

Ciò che conta, osservava già dal 1995 uno studioso della contabilità, non è che i dati siano affidabili, ma che vengano presentati in un modo che sembra neutrale e factual (basata sui fatti) in modo di non poter essere messi in discussione; i dati devono sembrare intrinsecamente veri. Per la tecnocrazia, i dati sono fonte di potere.

 

In Italia, durante la prima fase della pandemia, la campagna ufficiale d’informazione aveva il compito d’influenzare nella popolazione la percezione della realtà, infondendo paura tramite la diffusione di dati mettendo in evidenza la gravità della crisi.

Lo strumento principale di questa campagna è stato la conferenza stampa tenuta dal commercialista e revisore dei conti “Angelo Borreli”, capo dell’Unità di Protezione Civile, trasmessa ogni giorno alle ore 18 da tutti i canali di notizie televisivi.

L’impatto di questi “bollettini di guerra” è stato grandissimo:

secondo Auditel, nel mese di marzo 2020, quando il virus si stava diffondendo attraverso l’Italia, ben cinque milioni di persone guardavano la conferenza stampa ogni giorno. Inoltre, i media italiani facevano costantemente riferimento ai bollettini, in programmi televisivi come “I Numeri della Pandemia” e anche nella stampa cartacea.

 

Durante la seconda fase della strategia pandemica ufficiale, le conferenze stampa erano tenute da “Domenico Arcuri”, il Commissario straordinario per l’emergenza epidemiologica (anche lui commercialista e revisore dei conti di primo livello), nominato dal governo il 18 marzo 2020.

 Arcuri si focalizzava soprattutto sui numeri dei decessi e dei ricoveri in terapia intensiva.

Paragonava frequentemente la situazione ad una guerra.

 Il 18 aprile, per esempio, il Commissario spiegò che nella città di Milano durante la Seconda Guerra Mondiale, 2.000 civili furono uccisi dai bombardamenti, mentre il virus aveva preso la vita di 11.815 italiani in soli due mesi.

Grazie allo stato di paura e d’incertezza fomentato dalla diffusione costante di statistiche allarmanti, gli italiani si sono adattati rapidamente alle nuove misure invasive ed a un tenore di vita molto diminuito.

 L’utilizzazione delle informazioni numeriche è una strategia di legittimazione governativa di lunga data e si è dimostrata, anche in passato, molto efficace nel far accettare in modo acritico dalle popolazioni i dati forniti dai media.

 

A che punto però tutti questi dati così impressionanti, diffusi in modo martellante dai media italiani, erano affidabili e significativi? Già dal 2 giugno 2020, “Luca Ricolfi”, Presidente e Responsabile scientifico della Fondazione Hume, esperto di analisi dati, affermava che “dei dati è stato fatto un uso folle” e che “la qualità dei dati della Protezione Civile è pessima”.

È importante osservare che questi dati erano sempre presentati senza alcuna contestualizzazione: per esempio, le cifre di decessi da coronavirus erano pubblicate senza alcun riferimento ai numeri di decessi normali nello stesso periodo dell’anno, e non venivano mai paragonate ai decessi provocati abitualmente dall’influenza stagionale.

 

Più grave ancora è il fatto – analizzato nel secondo articolo – che i risultati dei tamponi erano completamente inaffidabili, perché i test producevano automaticamente una certa percentuale di falsi negativi, ma soprattutto un’altissima percentuale di falsi positivi, cioè molte persone risultavano positive, ma non erano in realtà né infette né infettanti.

Ma, nei dati ufficiali i “positivi” venivano sempre presentati come “casi”. Nello stesso tempo, i dati sui morti da coronavirus erano anch’essi inaffidabili, le cifre essendo sicuramente molto gonfiate dallo strano e innovativo sistema di conteggio che confondeva chi moriva di Covid con chi moriva con il Covid (cioè che testava positivo al tampone molecolare), un sistema che violava tutte le linee guida internazionali. La correlazione non è causazione. Inoltre, i tassi di mortalità erano basati su una frazione cui elementi non erano conosciuti con precisione.

La cifra più importante da capire in qualsiasi epidemia è quella del tasso di mortalità mediano.

 Nel luglio di 2020, dopo l’analisi di vari studi scientifici, l’epidemiologo eminente di Stanford, “John Ioannidis”, dimostrò che il tasso di mortalità mediano per Covid-19 era solo 0.27%, l’equivalente di una brutta influenza stagionale.

Il governo italiano non ha mai diffuso questa informazione essenziale. “Puoi fare molto coi numeri”, osservano gli scienziati tedeschi “Sucharit Bhakdi “e” Karina Reiss”, “Soprattutto, puoi spaventare la gente”47.

 

Stiamo parlando dunque della creazione di ciò che costituisce, in verità, un intero sistema di falsa contabilità.

“Quella che stiamo vivendo”, scriveva “Agamben” ad aprile 2020, “prima di essere una inaudita manipolazione delle libertà di ciascuno, è, infatti, una gigantesca operazione di falsificazione della verità”.

Infatti, la manipolazione dei dati in Italia (e in altri paesi) durante la pandemia – denunciata ormai da molti scienziati – fa inevitabilmente pensare al detto inglese “Lies, damned lies and statistics”.

Le statistiche, infatti, possono essere le peggiori delle menzogne.

 Nella tecnocrazia, le statistiche – vere o false che siano – svolgono soprattutto la funzione di influenzare la mente dei cittadini e di giustificare le misure, spesso oppressive, imposte dal governo.

 Non esito ad affermare che la campagna d’informazione ufficiale condotta in Italia durante la pandemia non sia stata altro che una campagna di pura propaganda degna di un regime totalitario, degna infatti dell’orwelliano “Ministero della Verità”.

 

Una tecnocrazia sanitaria mondiale corrotta.

Il tecnocrate si rappresenta sempre come “l’uomo della scienza”, un essere fatto di oggettività, disinteresse e neutralità politica.

 La realtà è diversa.

E questa realtà è diventata estremamente importante dal momento che una tecnocrazia sanitaria ha assunto il potere sulla vita delle popolazioni.

“Marco Pizzuti” non esagera quando scrive che “Nel corso della storia non era mai accaduto prima che i vertici della sanità mondiale potessero assumere il controllo delle nazioni fino al punto di poter sospendere i diritti fondamentali dei loro cittadini, impedire i funerali e separare le famiglie in base alle decisioni di comitati tecno-scientifici che sono la diretta emanazione degli interessi particolari dell’industria farmaceutica”.

La corruzione dilagante, sistemica, che imperversa ormai da tanti anni nel mondo farmaceutico-sanitario è un tema che sarà trattato più a lungo nel terzo articolo.

 Ci limiteremo qui ad osservare che l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ovvero il massimo organo della sanità pubblica a livello globale, non è forse in realtà l’autorità scientifica imparziale descritta dai canali d’informazione ufficiali.

Infatti, nel contesto dello svisceramento della democrazia esaminato qui, è essenziale capire che, al termine di un lungo processo di neo liberalizzazione delle istituzioni, ormai l’OMS rappresenta gli interessi di una oligarchia capitalista globalizzata.

La sovranità dell’OMS è una sovranità derivata.

 “A causa della sua nuova dipendenza finanziaria [sorta negli anni 1990]”, osserva “Van der Pijl”, “cadde, come il nuovo ordine neoliberale nell’insieme, sotto il dominio del capitale, implementato dallo Stato internazionalizzato”.

“Pizzuti” spiega come l’ente riceve la maggior parte del suo budget – ben 4,6 miliardi di dollari su 5,6 – dalle donazioni volontarie provenienti da aziende e fondazioni private.

 L’autore aggiunge che “ben i tre quarti delle sue risorse finanziare provengono direttamente dall’industria farmaceutica e in particolare dai produttori dei vaccini”.

 

Nel biennio 2016-2017, per esempio, le donazioni volontarie hanno rappresentato quasi l’87% del budget totale dell’OMS e il British Medical Journal ha documentato che solo nel 2017 l’80% di questi fondi era condizionato a una precisa agenda decisa dai donatori privati.

 Già dal 2011 Il Sole 24 Ore denunciava la totale perdita di credibilità dell’OMS come ente pubblico: da almeno trent’anni, “l’OMS ha perso il controllo, prima delle proprie politiche e poi delle proprie finanze”, un cambiamento che “ha avuto inizio negli anni in cui le sorti del mondo venivano ridisegnate secondo il modello neo-liberista”.

L’articolo illustra la perdita di controllo delle politiche sanitarie dell’OMS con l’esempio del “decennio dei vaccini annunciato da Bill Gates all’assemblea mondiale a maggio”.

 

Tenendo conto del ruolo di primo piano svolto da Bill Gates durante la pandemia da Covid-19, non è indifferente sapere che sin dai primi 2000 il plurimiliardario ha iniziato a trasferire i suoi affari dal mondo del software al settore farmaceutico, comprando pacchetti di azioni delle più grandi case farmaceutiche;

che, dopo gli Stati Uniti, la Bill & Melinda Gates Foundation è attualmente il secondo finanziatore in assoluto dell’OMS (con la GAVI Alliance, anch’essa fondata da Gates, che occupa il terzo posto);

 e che lo stesso Gates viene considerato dai dipendenti dell’OMS come il suo “amministratore delegato”.

Gli interessi di Gates si focalizzano in particolar modo sui vaccini – che il miliardario ha riconosciuto come estremamente lucrosi – e sulle campagne di prevenzione sanitaria dell’OMS.

 Le donazioni importantissime di Gates consentono all’autoproclamato “filantrocapitalista” di decidere le priorità dell’OMS insieme a quelle dei governi colpiti dalle emergenze sanitarie. Sono i desideri di Gates e delle case farmaceutiche che hanno realizzato “il decennio dei vaccini”.

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità è ormai parte integrante di una tecnocrazia globalizzata gestita da un’oligarchia capitalista internazionale dedicata unicamente all’incremento costante dei suoi profitti e del suo potere.

È questa una realtà assai inquietante per chiunque tenga ai valori liberali di democrazia e libertà o alla priorità della salute e del benessere dell’umanità intera sui profitti economici e sugli interessi politici dei pochi.

 Stando le cose così, forse non è tanto saggio fidarsi troppo delle direttive provenienti dall’OMS.

 Il neoliberismo trionfante ha provocato non solo una profondissima crisi economica, sociale e politica che sta travolgendo il mondo, ma una grandissima perdita di credibilità delle istituzioni pubbliche, che sono diventate in realtà delle” Public-Private Parternships” in cui il potere decisionale è ritenuto non dal pubblico, ma dal privato.

Per dirla con altre parole, la sfera pubblica è stata divorata dalla sfera privata.

 

Un singolo episodio importantissimo servirà a far capire il modus operandi dell’OMS contemporaneo guidato dagli interessi del capitalismo oligarchico.

 Si tratta dello scandalo clamoroso – subito insabbiato – che “La Stampa” del 7 giugno 2010 chiamava “La grande truffa della ‘suina’”.

 La “truffa” è stata scoperta e denunciata dal medico tedesco “Wolfgang Wodarg”, presidente dell’Assemblea parlamentare del Comitato sanitario del Consiglio d’Europa.

Il 26 gennaio del 2010, l’OMS è stata invitata al Consiglio d’Europa di Strasburgo per rispondere alla mozione “Le false pandemie, una minaccia per la salute”.

“Wodarg” accusò l’OMS di aver terrorizzato il mondo con epidemie ingiustificate, l’ultima nella serie essendo quella suina del 2009:

“Milioni di persone sono state vaccinate inutilmente, com’è possibile che l’OMS sia arrivata a promuovere una iniziativa così sciocca e costosa?

Prima l’aviaria, ora la suina. Per l’OMS è una tragica perdita di credibilità”.

La Commissione Sanità accusò l’OMS di avere creato una “falsa pandemia”:

“Il Consiglio d’Europa vuole sapere se l’OMS si è fatta condizionare dall’industria farmaceutica, che grazie alla pandemia ha registrato incassi record.

Ma gli scenari pandemici annunciati non si sono avverati. Una bufala gigantesca o un errore di valutazione?”

 

È interessante notare che il 4 maggio 2009, solo qualche settimana prima di dichiarare la pandemia dall’influenza suina A/H1N1, l’OMS aveva cambiato la sua definizione di pandemia, abbassando notevolmente le condizioni requisite:

non era più necessario che un’epidemia si diffondesse rapidamente in molti paesi, che ci fosse un’assenza d’immunità o un’immunità inadeguata, o che ci fosse una quantità estrema di decessi o di malattie gravi; ormai bastava la diffusione di un nuovo virus, una quantità di malati superiore al normale – e la decisione di dichiarare una pandemia.

Secondo “Van der Pijl”, il piano sul quale fu basato il cambiamento di definizione era stato scritto dall’IFPMA, un gruppo che promuove gli interessi dell’industria farmaceutica, insieme alla DCVMN, un’organizzazione dei produttori di vaccini per il mondo in sviluppo.

 

L’OMS respinse le accuse di corruzione, che tacciò da “complottismo”, ma in seguito fu stabilito da un’indagine condotta dal Consiglio d’Europa che gli esperti dell’ente sanitario che avevano fatto alzare l’allarme al livello 6 (il massimo) avevano tutti gravi conflitti d’interessi dovuti ai loro legami con i produttori dei vaccini.

Non solo, ma il 19 maggio, tre settimane prima della dichiarazione della pandemia, una delegazione di trenta case farmaceutiche aveva visitato il quartiere generale dell’OMS a Geneva per consultare il Direttore Generale “Margaret Chan”.

 

Analisti finanziari hanno calcolato che le case farmaceutiche guadagnarono più di sette miliardi di dollari quando i governi, allarmati inutilmente dall’OMS, comprarono vaccini dalle case farmaceutiche in grande quantità.

 La maggior parte di questi stock fu buttata via. Gli esperti avevano gonfiato enormemente il rischio rappresentato dall’influenza suina A/H1N1, che in realtà era più debole dell’influenza stagionale. Sulla scia della dichiarazione ufficiale di pandemia, i media, i virologi e i governi del mondo occidentale avevano terrorizzato la popolazione con dichiarazioni allarmistiche sull’imminente morte di decine di milioni di persone, convincendo milioni a farsi vaccinare inutilmente.

Quando la falsa pandemia fu sventata, i media lasciarono cadere nel vuoto questo gravissimo episodio di corruzione.

 “Il giorno dopo”, scrive” Pizzuti”, “come se niente fosse, i virologi scomparvero dai salotti televisivi e i grandi canali d’informazione iniziarono a parlare d’altro mentre le istituzioni governative di tutto i mondo si eclissarono senza prendere alcun provvedimento che potesse evitare il ripetersi di quanto accaduto”.

Tutto quell’intreccio di conflitti di interessi, istituzioni sanitarie “catturati” dall’industria, esperti venduti e mass media che lavorano, non per informare le popolazioni, ma per servire gli interessi dell’oligarchia capitalista, è rimasto completamente intatto.

 

Covid 19 e la “Grande Trasformazione.”

Siccome la “truffa” gigantesca della pandemia da influenza A/H1N1 è stata realizzata senza che nessuno fra gli implicati abbia mai dovuto pagare le conseguenze, è legittimo domandarsi perché questa operazione enormemente lucrosa non potesse ripetersi.

 È anche legittimo chiedersi se la pandemia da Covid-19 non sia stata, in realtà, la ripetizione, ad una scala molto più vasta, della stessa truffa, attuata questa volta con scopi non solo economici, ma anche politici.

È questa una domanda che non pochi commentatori si sono fatti.

 

Non voglio esaminare a questo punto le teorie del complotto che sono state sviluppate a riguardo non solo nel mondo dei “complottisti” della Rete ma nelle pagine di libri seri e ben documentati.

Ciò che voglio sottolineare qui invece è che le politiche messe in essere durante l’emergenza sanitaria hanno comunque servito ad accelerare enormemente varie agende convergenti care all’oligarchia globalista. Nell’estate di 2020 Klaus Schwab, il presidente del World Economic Forum, ha dato un nuovo nome a l’insieme di queste agende: il “Great Reset”.

 

Now is the time for a ‘Great Reset’” – “È ora il momento per un ‘Grande Reset’” – annunciò Schwab alla riunione annuale del World Economic Forum, a Davos (Svizzera), il 3 giugno 2020:

“I governi dovrebbero attuare riforme attese da tempo che promuovono risultati più equi. […] Noi dobbiamo costruire basi completamente nuove per i nostri sistemi economici e sociali”.

Qualche giorno dopo, Kristalina Georgieva, il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, pubblicò un discorso intitolato “Dal Grande Lockdown alla Grande Trasformazione”.

Secondo lei, la serrata delle economie e le misure di repressione che avevano sospeso la libertà di movimento di milioni di persone, distruggendo allo stesso tempo centinaia di migliaia di piccole imprese e provocando fame e miseria nei paesi poveri e danni psicologici nei paesi ricchi, offrivano grandi “opportunità”, come la “trasformazione digitale” e la possibilità di muoversi verso una società eco-sostenibile.

 

Le implicazioni poco rassicuranti di questa “Grande Trasformazione”, di questo “Grande Reset”, presentato al mondo come una nuova visione economico-sociale altruista, equa, e ecologica, benché promossa dagli stessi poteri capitalisti che hanno devastato e schiavizzato il mondo, sarà esaminata in un altro articolo. Sottolineiamo qui invece che al cuore di questa trasformazione epocale è la Quarta Rivoluzione Industriale, strettamente legata ad un nuovo sistema di controllo sociale. Grandi passi verso la realizzazione di questi due fenomeni interconnessi sono stati compiuti nel corso della pandemia, con l’instaurazione su scala massiccia del lavoro a distanza, cioè il lavoro da casa tramite il computer durante i lockdown; l’instaurazione della didattica a distanza (DAD), e l’imposizione in alcuni paesi, come l’Italia, del “passaporto vaccinale” o “Green Pass” che, come vedremo nell’ultimo articolo, più che un sistema di controllo epidemiologico rappresenta un sistema digitale di controllo sociale.

 

Dagli sconvolgimenti epocali provocati dalla pandemia da Covid-19 sta emergendo un nuovo mondo.

La realtà assai inquietante di questo mondo, di questo nuovo normale, sarà esaminata oltre.

 Un articolo sarà invece dedicato ad un’analisi critica della gestione sanitaria dell’epidemia.

Perché la gestione è stata non solo sanitaria, ma anche, e allo stesso tempo, politica: nel nuovo paradigma che i governi occidentali stanno costruendo in fretta, il sanitario e il politico sono strettamente legati. La salute umana si sta trasformando in biosicurezza.

(Peter Cooke è professore in pensione dell’Università di Manchester)

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