Sul loro impero globalista non tramonta mai il sole.
Sul
loro impero globalista non tramonta mai il sole.
Carlo
V e l’impero su cui
non
tramontava mai il sole.
Thewalkofame.it - Federico Rampini – (24 Febbraio 2021)
– ci dice:
Carlo
V, l’imperatore sul cui regno “non tramontava mai il sole”, nacque il 24
febbraio del 1500 a Gand, in Belgio.
Figlio
di Filippo il Bello d’Asburgo e di Giovanna di Castiglia detta la Pazza (si
incrociano quindi le dinastie spagnole e austriache) perciò nipote di
Massimiliano I d’Asburgo, il suo impero segnò l’avvento di una nuova era:
quella degli Asburgo, cristiani, che puntavano
ad assolvere il loro mandato messianico di riappacificare il mondo cristiano,
in balia della corruzione, del degrado morale ed eretico, delle eresie e degli
scismi.
Questa
missione è rintracciabile anche in un famoso quadro del Giorgione,
“La
tempesta”, nel quale secondo Erminio Morenghi, nel 2013, riprendendo un’ipotesi
di Leonardo Cozzoli identifica la figura femminile come la Sibilla Tiburtina
con in braccio il futuro imperatore Carlo V, mentre Massimiliano I d’Asburgo
osserva la scena.
Ricalcando lo schema classico della
manifestazione ad Augusto di Gesù Bambino tra le braccia di Maria, per opera
della” Sibilla Tiburtina”, la cingana (zingara) sembra proferire al giovane
soldato (Massimiliano I d’Austria), che la contempla assorto, una profezia
nuova, stavolta relativa ad un’era prossima ventura che soppianterà il periodo
precedente, quello di un cristianesimo paganeggiante e decaduto.
La
profezia sembra assegnare proprio a Carlo V il gravoso incarico di guidare, in
virtù dell’investitura imperiale da lui concepita come il massimo
riconoscimento del potere sovrano, le sorti dell’intero mondo cristiano con
l’obiettivo di assicurargli giustizia ed unità della fede già compromessa dallo
scisma luterano.
L’infanzia
già segnata verso il potere globale.
Battezzato
nella cattedrale di San Bavone, l’edificio religioso principale della città
belga di Gand, crebbe nelle terre olandesi allora in possesso degli spagnoli
con i migliori insegnanti di grammatica, di letteratura, di matematica, di
lingue antiche e fu addestrato alla vita da cavaliere.
Fu
educato nella raffinatezza per volontà della madre.
Come
un novello Alessandro Magno che per volontà della madre Olimpiade ebbe
Aristotele come mentore.
All’età
di 6 anni, in seguito alla morte del padre e all’infermità mentale della madre
divenne duca di Borgogna e principe dei Paesi Bassi (Belgio, Olanda,
Lussemburgo).
Dieci
anni dopo divenne re di Spagna, entrando in possesso anche delle Indie
occidentali castigliane, e dei regni aragonesi di Sardegna, Napoli e Sicilia.
A diciannove anni divenne arciduca d’Austria
come capo della Casa d’Asburgo e grazie all’eredità austriaca fu designato
imperatore dopo il rifiuto in suo favore di Federico il Saggio, candidato
proposto da papa Leone X.
Carica, quest’ultima, comprata insieme ai voti
dei grandi elettori tedeschi, necessari per l’elezione a Imperatore dei
tedeschi, pagandoli grazie ai soldi dei banchieri Fugger.
La
successione infatti non era ereditaria ma elettiva sin dalla Bolla d’oro di
quasi due secoli prima.
Il suo
Impero fu più grande di quello di Carlo Magno, estendendosi dall’Europa
centrale e occidentale fino alle colonie in centro e sud America.
Proprio da quelle terre riscuoteva numerose
ricchezze, dopo aver finanziato viaggiatori come Magellano, Cortes, Pizarro,
protagonisti del secolo delle grandi scoperte geografiche.
Quel
secolo in cui il concetto d’Europa, già sviluppatosi con lo stesso Carlo Magno,
Papa Pio II e poi con Machiavelli, cominciò ad entrare nel gergo comune in
concomitanza con la presa di coscienza da parte delle élite culturali di essere
europei in quanto diversi dalle popolazioni americane, dagli arabi che erano
sempre una spina nel fianco ad Est, dalla civiltà cinese con cui aumentarono
gli scambi sia commerciali sia culturali.
Nemici
su tutti i fronti.
Il
‘500 fu il secolo in cui il concetto di christianitas fu affiancato, e in
seguito sostituito, da quello di europei.
Il progetto di Carlo V si inserì proprio in
questo contesto, volendo istituire una Monarchia universale cristiana
cattolica.
Progetto che però gli creò numerosi nemici e
altrettanti conflitti che segnarono i suoi 30 anni di dominio globale.
Il re
francese cattolico Francesco I, i turchi ottomani, i luterani ed il Papa
Clemente VII furono i suoi avversari più duri a morire.
Il re
di Francia perché voleva impedirgli di portare a compimento le sue mire
espansionistiche sul Ducato di Milano in quanto importante crocevia tra Nord e
Sud Europa.
Il
primo scontro ci fu nel 1521 in cui Francesco I cadde addirittura prigioniero.
In
seguito alla pace fu liberato ma immediatamente ricostituì una alleanza contro
Carlo V insieme al Papa.
La
cosiddetta Lega di Cognac.
La
Chiesa di Roma difatti non vedeva di buon occhio l’intromissione imperiale in
Italia né tantomeno un unico sovrano più difficile da controllare rispetto a
più monarchi cattolici ma meno forti.
L’idea
di un’Europa asburgica e cattolica portò al conflitto che si protrasse fino al
1529 con Francesco I che lasciò Milano e con Carlo V, che in risposta
all’avversione della Chiesa, nel 1527 inviò i mercenari austriaci noti come
Lanzichenecchi a devastare Roma, in quello che è passato alla storia come
“Sacco di Roma”.
L’azione
contro Roma fu spinta anche dai nobili romani, che certamente non pensavano ad
una simile conseguenza, in chiave antimedicea che con il Papa Clemente VII
aveva messo piede in grande stile nella politica romana.
Nel
frattempo Francesco I, deciso a sconfiggere Carlo V, si allea con i turchi
ottomani di Solimano il Magnifico invadendo il Ducato di Savoia.
La
risposta asburgica non si fa attendere e si esplicitò nell’attacco alla
Provenza. La guerra si risolse addirittura nel 1544 con l’intervento papale che
destinò il Ducato di Savoia alla Francia e Milano all’imperatore.
L’incoronazione
ad Imperatore.
Nel
frattempo, nel 1530, a Bologna Carlo V fu prima incoronato dal papa come Re
d’Italia e il 24 febbraio, giorno del suo compleanno, fu incoronato Imperatore
del Sacro Romano Impero avendo ricevuto 10 anni prima ad Aquisgrana la corona
di Re dei Romani.
Di
questo avvenimento, fondamentale per il tentativo di raggiungere una “pace
universale” nell’occidente cristiano sempre più insidiato dai turchi che erano
giunti alle porte di Vienna, abbiamo un dipinto di Luigi Scaramucci detto “il
Perugino”, intitolato “Incoronazione di Carlo V a Imperatore del Sacro Romano
Impero”.
Nonostante
ciò fu Tiziano il suo ritrattista per eccellenza.
Come sostiene lo storico dell’arte Stefano
Zuffi, l’artista riuscì a cogliere “il riflesso delle aspirazioni, delle
tensioni, delle fatiche, del fasto, della fede, del rimpianto, della solitudine,
degli ardori”.
Il
rapporto tra i due fu speciale tanto che, leggenda vuole, l’imperatore si chinò
addirittura a raccogliere il pennello caduto al pittore.
Tra i
suoi nemici c’erano anche i protestanti, i seguaci di quel Lutero con cui cercò
anche di mediare i rapporti con la Chiesa di Roma, fornendogli anche il famoso
salvacondotto per Wittenberg prima della fine della Dieta di Worms nel 1521.
Ebbe
quindi il grande problema di un regno globale tanto esteso quanto abitato da popolazioni
diverse anche per religione.
I
luterani, tra le altre cose, riuscirono a convincere alcuni principi tedeschi
facendoli aderire alla Lega di Smalcalda sempre in chiave anti-imperatore.
La guerra si risolse nel 1555 con la pace di
Augusta, dopo che al conflitto presero parte anche turchi e francesi.
Il
trattato prevedeva la divisione religiosa della Germania secondo il principio “cuius regio, eius religio”, cioè la libertà di principi e
sovrani di poter decidere quale religione abbracciare e imporre ai propri
sudditi.
Nel
1556 Carlo V abdicò dividendo però il regno tra il figlio Filippo II,
affidatario della Spagna, dell’Italia, dei Paesi Bassi e delle colonie, e il
fratello Ferdinando I a cui andarono i possedimenti degli Asburgo e il titolo
imperiale.
Tramontava
così il sogno di un Impero Universale e Cattolico di quello che fu l’imperatore
forse più importante fino a Napoleone.
Morì
il 21 settembre 1558 a Cuacos de Yuste,
in Spagna, stringendo al petto il crocifisso ed esclamando le parole “Ya, voy,
Señor” (Sto venendo Signore).
La sua
vita è stata protagonista anche di due opere di Giuseppe Verdi, nell’Ernani e
nel Don Carlo, mentre nel 2014 l’attore Adrien Brody lo ha interpretato in
quanto protagonista del film “Emperor”, affermando di essere stato affascinato
da questo personaggio e dal periodo storico in quanto ci fu il primo “tentativo di unificare
l’Europa, si comincia a parlare di moneta unica, comincia a essere concreto il
problema delle migrazioni di massa, si diffonde la stampa.
È un
periodo in cui la Storia inizia a cambiare per sempre, si fanno grandi passi
avanti verso il globalismo”.
Sul
suo impero non tramontava mai il sole.
Sulla
sua vita, considerando il segno lasciato nella storia, neanche.
“Ci
vuole un governo sovranista
per fare una politica globalista”
sinistrainrete.info – (4 ottobre 2022) - Miguel
Martinez - ci dice:
Da
circa due settimane il quotidiano della FIAT, “Repubblica”, ha improvvisamente
smesso di dire che la signora Meloni sta per marciare su Roma e trasformare il
Gasometro in una camera a gas.
Anzi,
inizia a trattarla quasi con rispetto.
Conosciamo
tutti la frase (la sentii secoli fa in bocca proprio a Gianni Agnelli a un
telegiornale),
“per
fare una politica di Destra, ci vuole un governo di Sinistra. “
Non è
un discorso paradossale: il sistema partitico si basa infatti sull’esistenza di
due poli, che si controllano a vicenda, nell’interesse generale.
Prendiamo
un caso immaginario, un ospedale.
La
Sinistra in teoria vuole che l’ospedale sia pubblico “perché è più giusto”; la
Destra vuole che l’ospedale sia privato “perché funziona meglio”.
Appena
un governo di Destra fa la minima mossa per privatizzare l’ospedale, la
Sinistra organizza proteste; e la Destra deve stare attenta, perché rischia di
perdere voti.
Ma
anche la Sinistra, se va al governo, deve stare attenta: la Destra veglierà
affinché non diano lo stesso stipendio al custode e al chirurgo, demotivando
quest’ultimo.
Questa
è la teoria.
Ma
poniamo che un governo di Sinistra arrivi al potere, e invece privatizzi
l’ospedale.
La
Destra non protesterà per la privatizzazione, ma siccome deve comunque
attaccare la Sinistra, la accuserà di non privatizzare abbastanza.
E gli
elettori di Sinistra? Ci stanno.
Perché
la Destra è sempre nemica, come la Juve.
Perché
se dovesse vincere la Destra, privatizzerebbe ancora di più, meglio accettare
il male minore.
Perché
il fatto che la Destra accusi la Sinistra di non privatizzare abbastanza è rassicurante.
Oggi
abbiamo altre questioni.
Ci
sono mille sfumature, ma il collasso industriale dell’Europa, le misure legate
alla pandemia e poi alla guerra russo-ucraina fanno intuire a tutti due poli
ancora vaghi.
I nomi
li metto in modo molto provvisorio, suggeritene pure degli altri:
Il
globalismo dice che le decisioni devono essere prese a livello sovranazionale,
da tecnici che non sottostanno ai capricci del “popolo”;
che i
mercati funzionano bene quando sono a livello planetario;
che a
decidere di salute e malattia, guerra e pace, occupazione e commercio, devono
essere organismi come l’OMS, la NATO, la WTO, la Banca Centrale Europea.
Questo
meccanismo suscita reazioni di ogni sorta, spesso meschine – pensiamo a chi si
oppone all’accoglienza degli immigrati, ma è pronto a devastare la propria
terra per farci un aeroporto che faccia venire ancora più turisti.
Però
c’è anche molto altro, e quando abbiamo detto il peggio del peggio di chi
reagisce al globalismo, dietro e sotto c’è un nucleo sano, di rifiuto di farsi
mettere i piedi in testa da gente che pretende di avere più titoli e saperne di
più: è il
cosiddetto sovranismo.
Per
una serie di slittamenti, oggi il polo simbolico globalista, in Italia, è
rappresentato dal PD (che appoggia il globalismo Usa e Ue! N.d.R.);
quello sovranista dall’alleanza tra Salvini e Meloni.
Ora,
applichiamo il template del “per fare una politica di Destra, ci vuole un governo di Sinistra.
“
Siamo
in una situazione di crisi attuale e collasso imminente.
Se il
PD provasse a fare una politica globalista, verrebbe immediatamente spazzato
via. (Ma il fatto che il Pd appoggia e fa
proprie le teorie woke, cancel culture, Lgbt, Gay ecc. per ora non si direbbe! N.d.R.)
Ma se
a fare la politica globalista si mettesse un sovranista?
L’opposizione
starebbe lì come un falco a farne un “sorvegliato speciale “, sotto costante
tutela, per vedere che globalizzi come si deve.
E ogni
giorno il sovranista starebbe lì a cercare di superare paletti sempre più alti
per dimostrarsi un buon globalista.
E
appena qualcuno dice, “ma scusa, non dovevamo diventare più sovrani?”
verrà
azzittito, “zitto e ringrazia che ci siamo noi, pensa cosa farebbe il PD per
toglierci la sovranità!”
Ma
mentre i sovranisti implementano ogni ordine dell’OMS, della NATO o
dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, i globalisti potranno sempre
scovare un sovranista di Calascibetta che su Facebook ha detto che i matrimoni
gay offendono i valori cristiani.
E così
non solo i globalisti si sentiranno felicemente di Sinistra, ma anche i
sovranisti si sentiranno felicemente Destri e attaccati dalla Sinistra.
La
perfetta simbiosi conflittuale.
(Per
chi lo crede! N.d.R.)
La
guerra di Mr. Bannon.
Dissipatio.it
– (22 giugno 2020) – Daniele Perra – ci dice:
Dopo
un periodo di relativa quiete, la crisi pandemica ha rilanciato la figura
dell'ex capo stratega della Casa Bianca Steve Bannon che si è reso protagonista
di alcune iniziative (il lancio del “marchio” New Federal State of China su
tutte) che meritano particolare attenzione.
Nella
prima metà degli anni ’30 del secolo scorso, “Johann von Leers”, una delle
menti più brillanti della Germania nazionalsocialista, rivolse un’accorata
critica all’ultimo scritto di “Oswald Spengler” (Anni della decisione) in cui
il pensatore del “Tramonto dell’Occidente” suggeriva un’alleanza tra la
Germania e le potenze imperialistiche che l’avevano umiliata con il Trattato di
Versailles per salvare l’umanità bianca dalla “rivoluzione mondiale di colore”.
Così
“von Leers” replicò a “Spengler”:
“Ogni
rafforzamento del Giappone, della Cina, e in generale ogni formarsi di una
nuova potenza nel mondo extraeuropeo equivale all’indebolirsi delle grandi
potenze dell’Europa occidentale […]
Per il fantasma degli interessi comuni della
razza bianca dobbiamo ancora conservare e appoggiare queste potenze nella loro
egemonia mondiale?
Dobbiamo
noi, in nome della razza bianca, salvaguardare il dominio coloniale francese?
[…]
L’impero dei popoli bianchi preconizzato da
Spengler non è nient’altro che una reviviscenza del vecchio cosmopolitismo
liberale sotto le insegne della razza”.
(Johann
von Leers)
L’idea
ultima di Spengler, in tempi più recenti, venne fatta propria dal pensatore
francese (da poco scomparso)” Guillaume Faye”.
Questi
definì addirittura il XXI secolo come il “secolo spengleriano”.
Secondo il teorico del concetto di
“Eurosiberia” (assolutamente opposto all’idea di una “Eurasia”), lo scontro tra
civiltà preconizzato da” Samuel P. Huntington “rendeva necessaria una forma di
solidarietà globale tra tutte le popolazioni di origine europea (dal Nord
America all’Europa, fino all’Argentina) capace di superare le rivalità
geopolitiche nella precisa consapevolezza che l’abisso che separa l’Europa dal
mondo arabo-islamico sia enorme rispetto alle “marginali differenze” che
dividono il Vecchio Continente dall’America.
Guillaume
Faye.
“Faye”,
protagonista nei suoi ultimi anni di vita di una vera e propria deriva
fallaciana, era inoltre convinto che un conflitto geo-etnico avrebbe in qualche
modo distrutto gli Stati Uniti.
Di
conseguenza, sarebbe stato facile per l’”Eurosiberia” riconquistare il primato
sui suoi figli immigrati in America.
Nel
corso degli ultimi anni, le idee di “Faye” sono state fatte proprie dall’ex
capo stratega della Casa Bianca “Steve Bannon” che le ha “aggiornate” per costruire una sorta di asse
euro-russo-americano in cui gli Stati Uniti, naturalmente, possano continuare a
mantenere inalterato il loro primato come “faro di civiltà” contro le antiche e
combattive popolazioni dell’Eurasia.
Ora, se c’è qualcosa che” Faye” sembra non
aver mai compreso, e che “Bannon” sa perfettamente, è il fatto che un conflitto
interetnico all’interno degli Stati Uniti, comunque, non metterà mai in
discussione i “valori fondanti” della società americana.
L’idea
di “destino manifesto”, dell’eccezionalismo americano, ovvero la volontà di
plasmare il mondo a propria immagine e somiglianza, sono qualcosa di
connaturato a tale società.
Il
destino manifesto di un Obama, ad esempio, è puro suprematismo in cui la
componente razziale viene superata dall’idea dell’America come entità messianica
universale.
Le
proteste dei “Black Lives Matter “e dei gruppi “Antifa” non mettono in
discussione tale ordine di idee ma ne sono la loro massima espressione.
Non vi è niente di meno rischioso per le élite del
vandalismo a-ideologico e fine a sé stesso che si scaglia contro un monumento
del passato piuttosto che contro le distorsioni del modo di produzione
liberal-capitalistico.
Tali
“lotte”, lungi dall’essere ostili al sistema americano-centrico, ne sono
assolutamente consustanziali e vengono imitate inutilmente su tutta l’area di
influenza di Washington senza nessun esito concreto salvo dimostrare la totale
sottomissione psicologica e ideologica ad un modello insano.
La
stessa guerra civile americana non fu lo scontro tra due visioni opposte del
mondo ma semplicemente lo scontro tra una visione conservatrice ed una
progressista dei rapporti economici di produzione.
Oggi, tale scontro si sta riproponendo in una forma
quasi parodistica su quale sia il modello da seguire per mantenere inalterato
il sistema egemonico nordamericano o, quantomeno, per ritardare il più
possibile l’evoluzione dell’ordine globale verso il multipolarismo.
Da un
lato c’è un modello (quello trumpista) che sembra aver perso immediatamente il
suo slancio propulsivo iniziale.
Qualcuno
sarà sicuramente tentato dal dare la colpa ai complotti del “deep state”,
tuttavia, il trumpismo non solo non ha modificato di una virgola i rapporti di
potere interni agli Stati Uniti ma, sotto certi aspetti, ha addirittura
rafforzato lo status quo ed acuito le differenze sociali visto che i sempre più
ricchi non hanno mai pagato così poche tasse come negli anni ultimi quattro
anni.
Senza
considerare che il mito propagandistico (costantemente riproposto) del Trump
ostile alle guerre è rimasto tale.
Di
fatto, non solo le dichiarazioni di ritiro dai teatri di guerra sono rimaste al
livello di vaghe promesse o di accordi piuttosto ambigui (come nel caso
afgano), ma si è continuato ad accrescere le tensioni (i casi diretti dell’Iran
e del Venezuela ne sono l’esempio emblematico, ma non si può tralasciare
l’utilizzo di attori terzi come Turchia o India per infastidire gli avversari
strategici) per continuare a nutrire il gigantesco comparto bellico-industriale
che ruota attorno al Pentagono.
Dall’altro
lato c’è il tradizionale progressismo mondialista di marca sorosiana che mira
al medesimo risultato sebbene con mezzi differenti.
Entrambi, naturalmente, individuano il loro nemico
principale nella Cina.
Nonostante
qualcuno abbia recentemente blaterato di fantomatiche alleanze tra “deep state”
e Cina comunista, è ben risaputo, tra coloro che si informano attraverso i
documenti ufficiali, che i tentativi di contenimento di Pechino fossero già
iniziati nel corso della precedente amministrazione Obama.
Steve
Bannon.
Bisogna
dare a atto a Steve Bannon, la cui influenza viene spesso celata, di aver
individuato la ragione del deficit di potenza statunitense.
L’ideologo del trumpismo ha infatti compreso
che gli Stati Uniti non potevano affatto combattere contro il Paese
manifatturiero più grande al mondo nel momento in cui la loro manifattura si è
esaurita.
Infatti,
la battaglia decisiva del futuro è proprio quella della produzione.
Le capacità produttive hanno permesso agli Stati Uniti
di vincere due guerre mondiali (soprattutto la seconda), naturalmente aiutati
dal fatto che il loro tessuto industriale non potesse in alcun modo essere scalfito
da attacchi aerei nemici.
Motivo
per cui i vertici militari giapponesi erano sicuri del fatto che l’Impero del
Sole non avrebbe avuto grandi possibilità di vittoria in una guerra prolungata
con Washington.
Oggi,
gli USA continuano ad avere una tecnologia avanzata ma non hanno più i mezzi
per produrre quasi nulla di ciò che brevettano.
Se l’Occidente a guida nordamericana ha un problema,
questo è l’incapacità di poter correggere i propri errori.
Essendo
una civiltà che si fonda essenzialmente sul profitto ha delocalizzato in Asia
la maggior parte del proprio tessuto industriale.
Essendo incapaci di uscire dagli schemi
economici del capitalismo, il disimpegno nordamericano dalla Cina,
propagandisticamente paventato dal trumpismo, in termini industriali,
imporrebbe un netto abbassamento dei salari per competere col mercato cinese.
Certo si potrebbe sopperire con l’automazione, con la
tecnologia robotica, ma questo comporterebbe, a sua volta, delle crisi
occupazionali.
Dunque, in entrambi i casi si acuirebbero le
tensioni sociali.
Così, il rientro della produzione in Patria
rimane solo sul piano teorico;
mentre
nella realtà la si trasferisce in Paesi potenzialmente non ostili come India e
Indonesia, ad esempio.
O,
ancora meglio, si cerca di instaurare un governo amico a Pechino.
In
questo contesto rientra la sceneggiata messa in atto a New York, nel giorno
dell’anniversario delle proteste di Piazza Tienanmen (poco importa che queste
non fossero affatto così pacifiche come vengono descritte dalla storiografia
occidentale), da Steve Bannon e dal milionario cinese Guo Wengui:
un
ambiguo personaggio residente da qualche anno negli USA, ricercato da Pechino
per riciclaggio, rapimento e stupro, e di cui Donald J. Trump ha negato
l’estradizione nel momento in cui si è reso conto che era membro dei lussuosi
club di sua proprietà Mar-a-Lago (Florida) e Mark’s Club (Londra).
A
dimostrazione del fatto che non vi è alcuna sostanziale differenza tra i
cosiddetti “globalisti” e “sovranisti”, Bannon, in quella circostanza, ha
utilizzato il tradizionale vocabolario da “poliziotto globale” definendo il Partito Comunista Cinese
come una organizzazione criminale senza legittimità che massacra il suo stesso
popolo (stesse
accuse rivolte nel corso degli anni a Saddam Hussein, Mu’ammar Gheddafi, e
Bashar al-Asad) ed esporta corruzione su tutto il globo.
Il PCC
minaccia la sicurezza ed il primato dell’Occidente.
I due
hanno inoltre colto l’occasione per lanciare il “marchio” New Federal State of
China.
L’idea è quella di fare della Cina, una volta
liberata dal PCC, una sorta di nuova CSI:
la
Comunità di Stati Indipendenti sorta dalle ceneri dell’URSS nel momento in cui
la Russia di El cin era poco più che un gigantesco satellite occidentale.
Inutile
dire come questo, ancora una volta, sia puro unipolarismo nordamericano.
Gli USA non possono permettersi di lasciare in
pace la Cina.
Essi
devono necessariamente creare “crisi” (Hong Kong e Taiwan, ad esempio, ma anche
lo Xinjiang o i disordini di frontiera tra India e Cina) e fare in modo che i
loro avversari disperdano energie su più fronti in modo da guadagnare tempo e
salvare la loro egemonia in un momento in cui l’alleanza strategica tra Mosca e
Pechino non li rende più capaci di intervenire militarmente in modo diretto.
Alleanza
che, nonostante i tentativi nordamericani, difficilmente verrà spezzata nel
breve periodo visto che nei prossimi anni Pechino importerà quantità sempre
maggiori di idrocarburi siberiani.
Va da
sé che non vengono risparmiati neanche i tentativi di creare delle vere e
proprie quinte colonne all’interno del territorio cinese.
Oltre
ai già citati casi di Hong Kong o dello Xinjiang (senza considerare il Tibet),
a questo proposito, non è da sottovalutare la penetrazione cristiana in Cina e
la relativa pacificazione tra il Vaticano (in cui Banon continua ad esercitare
una certa influenza su certi ambienti ultra-conservatori) e Washington sancita
anche con la simbolica visita di Trump al santuario di Giovanni Paolo II: il
pontefice spesso indicato come artefice del crollo dell’URSS.
Ora,
ciò che spesso viene tralasciato da questi strateghi è la profonda disciplina
ed il legame che unisce il popolo cinese al Partito che lo guida.
Un
aspetto che in Occidente non esiste più e che in Cina si è reso evidente nel
momento in cui si è affrontata la lotta al Covid-19:
quel
“demone” occidentale (secondo le parole di Xi Jinping) che, esaurita la carica
virale, viene oggi sfruttato per costruire improbabili processi ideologici ed
altrettanto improbabili nuove Norimberga dai collaborazionisti degli occupanti
americani del suolo Europeo.
Il
paradosso "gentrificazione":
città
più ricche e poveri espulsi.
msn.com
- Gianluca Schinaia - Avvenire –
(19-8-2023) – ci dice:
Da
cosa è composta l’anima culturale di una città?
Probabilmente,
dall’alchimia nata dalle tradizioni di chi ci vive da sempre e dalla forza
rigenerativa delle iniziative create da chi ci arriva.
E cosa succede quando chi viene da fuori
finisce con l’allontanare i residenti originari?
Un fenomeno ormai noto, che si chiama “gentrification”. Termine inglese che deriva da gentry, “piccola nobiltà” e che chiarisce
subito la questione:
la
“gentrificazione” è
il processo per cui quartieri un tempo umili e popolari sono riqualificati e
diventano preda privilegiata delle élite cittadine, escludendo gli autoctoni a
colpi di rincari immobiliari.
Il
diritto ad abitare in uno spazio urbano diventa basato sul censo, non
sull’anzianità di residenza.
In Italia, se ne è parlato moltissimo
recentemente a causa della regina italiana delle città “gentrificate”: Milano,
l'agglomerato urbano più vitale e internazionale d’Italia.
Ma
allora la “gentifricazione” è una minaccia di declino o una conferma di
sviluppo?
Partiamo
dai dati specifici sul mercato immobiliare forniti ad “Avvenire” dal Centro
Studi del Gruppo Tecnocasa:
negli
ultimi cinque anni i prezzi immobiliari del capoluogo lombardo sono aumentati
del 43%, contro una media delle metropoli italiane inferiore al 10%.
Case in vendita ad oltre tremila euro a metro quadro
in zone periferiche, a cinquemila in zone semi-centrali: oltre i diecimila in
centro.
Una
produzione di ricchezza, ma non di valore, come spiega Giovanni Semi, docente
di Sociologia urbana all'Università di Torino, che in autunno pubblicherà per”
Mimesis” il libro “Breve manuale per una gentrificazione carina”.
«Una città come Milano, unico spazio urbano
internazionale a livello italiano, si paragona a Parigi, New York e con queste
metropoli condivide problematiche comuni, come la gentrificazione.
Non ha più nulla a che spartire con Torino,
Genova, vecchi epigoni del triangolo industriale italiano, ma neanche con
Roma».
Tutte
le città che crescono economicamente, quindi le metropoli più vivaci del mondo,
sono interessate da questo fenomeno.
«A
Milano si parla di gentrificazione almeno dagli anni 70: è una definizione che
ciclicamente riemerge».
In
città, secondo Tecnocasa, i prezzi elevati delle zone centrali e semicentrali
hanno comportato negli anni uno spostamento degli acquisti verso le zone
periferiche, motivo per cui queste ultime hanno sperimentato un rialzo dei
valori.
A
determinare questo trend anche la ricerca di spazi esterni e metrature più
ampie, caratteristiche più facili da trovare nelle zone periferiche e a prezzi
più accessibili.
I quartieri più rincarati sono stati San Siro
(+64,7%) e San Siro Capecelatro (76,5%), dove a fare la differenza è stato l’arrivo
della metropolitana “lilla”, anni fa.
Già lo
snodo della lilla ha determinato una maggiore domanda sia di acquisto sia di
affitto, migliorando i collegamenti con il resto della città, in particolare con i due più importanti poli
direzionali di City Life e Porta Nuova.
Spiega “Semi”:
«Porta Nuova è un caso emblematico di super-gentrificazione: la trasformazione profonda di
quest’area di Milano è stata portata avanti attraverso masterplan con
archistar, capitali internazionali, la zona ha visto un passaggio dal valore a
metro quadro quasi triplicato in certe aree.
Proprio
come è successo a “Canary Wharf”, a Londra».
Adesso
è in fase di finalizzazione la M4 a Milano, quinta linea metropolitana che
collegherà la zona orientale al resto del capoluogo:
e
infatti, già le zone interessate di Forlanini, Lambrate e Città Studi hanno
visto rincari sensibili nei costi residenziali.
Proprio
Città Studi e in particolare Piazzale Leonardo Da Vinci, sede del Politecnico
di Milano, è stata il luogo delle occupazioni di protesta durate mesi da parte
degli studenti contro il caro-affitti.
In
effetti, anche i dati testimoniano come gli incrementi delle locazioni più
costose in Italia siano stati registrati proprio a Milano:
nell’ultimo anno +6,4% per i monolocali, +6,8%
per i bilocali e +6,5% per i trilocali. Secondo Tecnocasa, la motivazione è una
domanda elevata, spinta anche da chi non riesce ad acquistare, e un’offerta in
diminuzione.
Cresce, infatti, la preferenza per gli affitti
turistici che, oltre a garantire rendimenti superiori all’affitto residenziale,
offrono una maggiore certezza di rientrare in possesso dell’immobile.
Nuove
linee metro, offerta universitaria di eccellenza, eventi come le Olimpiadi
invernali che seguono Expo: Milano è diventata più ricca e attrattiva.
Se la città migliora, non è coerente che i
prezzi dei suoi immobili crescano?
Basti
pensare che le iniziative di rigenerazione urbana di cui Milano è stata
protagonista hanno portato un incremento del valore aggiunto immobiliare di
oltre il 15%.
«Attraverso
questi processi di upgrade dei servizi - spiega Semi - espelliamo i ceti
cittadini più vulnerabili.
Milano
è tutta gentrificata: le viene iniettata continuamente troppa ricchezza.
Quindi,
da un lato, molta gente sta bene e il reddito medio milanese è il più alto
d’Italia.
Ma,
dall’altro lato, la crisi abitativa costante e l’espulsione dei cittadini
originari testimoniano che non solo a Porta Nuova ma ovunque in città si vive
un processo di gentrificazione».
Un
fenomeno che colpisce in particolare i giovani, spesso in trasferta per
studiare nelle grandi università, strozzati da affitti sempre più alti.
Nonostante
la stretta sui mutui, i prezzi delle abitazioni continuano a salire.
A
guidare la crescita è Bologna (+5,5%), seguita da Bari (+3,0%) e da Milano
(+2,5%).
La
città dell’università più antica del mondo è quella dove i rincari abitativi e
la consuetudine degli affitti brevi sono sempre più evidenti.
E in Italia il mercato della locazione
continua ad accelerare.
Le istituzioni locali e nazionali promettono
di intervenire sul fenomeno della gentrificazione, ma in realtà «nessuno vuole
frenarla: qualsiasi sindaco cerca di attrarre i capitali internazionali,
sviluppare le infrastrutture, far crescere la città. Molti addirittura pensano:
‘Cos’ha di male?’
Ecco, questa nuova ricchezza non si
redistribuisce.
Chi ha
un reddito bloccato, come i lavoratori dipendenti, ha visto l’affitto crescere
molto più del suo stipendio e quindi ha bruciato ricchezza».
In
conclusione, non esiste differenza tra la super-gentrificazione e la gentrificazione
“tradizionale”:
entrambe
sottraggono valore culturale urbano, limitando la presenza dei residenti
autoctoni, in funzione di una maggiore ricchezza economica.
Eppure
la ricchezza è uno stimolo di sviluppo necessario per le metropoli.
Come
si supera questo conflitto?
«Se pensiamo alla turistificazione come una
forma di gentrificazione, questa ormai riguarda tutte le città d’arte italiane
ragiona Semi -.
D’altro
canto, se le piattaforme digitali hanno innestato nuove forme di turismo ed
effetti immobiliari chiarissimi, bisogna disincentivare questa speculazione
privata».
«Nel
2023 in Italia è letteralmente scandaloso che l’imposta sul valore degli
affitti sia la cedolare secca, al 21%, mentre l’imposta sul lavoro si aggira
intorno al 40%. Bisognerebbe invertire i dati:
se sottrai valore con la rendita devi essere
tassato.
Quindi
prima è necessario intervenire in termini di politiche fiscali a livello
nazionale, e nel frattempo lavorare a livello locale in termini di supporto
agli affitti e alle politiche abitative.
Si
tratta di un’azione sistemica», conclude l’esperto.
Complessa,
ma necessaria:
bisogna cominciare ad affrontare il problema, prima di
trovarci davanti a conflitti sociali nel cuore delle nostre città, figli
dell’indifferenza politica verso la tutela dei diritti abitativi dei cittadini
residenti nel Belpaese.
Abbattere
e Seppellire Alberi
per
Fermare il cosiddetto “Cambiamento
Climatico”:
l’Idea di una Startup
sostenuta
da Bill Gates.
Conoscenzealconfine.it
– (18 Agosto 2023) - Christopher Helman - ci dice:
Gli
scienziati sostengono che seppellire alberi possa ridurre il riscaldamento
globale.
In
California, la startup, “Kodama Systems” di “Merritt Jenkins” sta testando e
perfezionando la sua macchina per la raccolta del legname, che pesa 17
tonnellate ed è lunga sette metri e mezzo.
I
taglialegna usano macchine del genere, chiamate “skidder”, per prendere
tonnellate di alberi tagliati e detriti, e trascinarle fuori dal bosco.
La
versione di “Kodama” è progettata per svolgere questo compito anche di notte, con
meno persone, grazie a connessioni satellitari e camere avanzate a lidar (light detection and raging, una
tecnologia di telerilevamento che determina la distanza di un oggetto tramite
un impulso laser), le stesse utilizzate sulle auto a guida autonoma, per monitorare il
lavoro da remoto.
Non è
facile.
“Gli
alberi hanno molte texture diverse”, dice Jenkins, 35 anni. “Ogni tre metri il
cammino è leggermente diverso”.
Ma
tagliare legna nell’oscurità non è la parte più “intrigante” dei programmi di
Kodama, che ha raccolto 6,6 milioni di dollari di finanziamenti dalla “Breakthrough
Energy” di “Bill Gates” e da altri.
Dopo
avere tagliato gli alberi, “Jenkins” vuole seppellirli per contribuire a
rallentare il cambiamento climatico e raccogliere compensazioni di carbonio che
potrà poi vendere (e forse, un giorno, anche crediti d’imposta).
Che
cosa fa “Kodama Systems”
Sì,
l’idea convenzionale è quella di piantare alberi per assorbire l’anidride
carbonica dall’aria e poi vendere i crediti alle aziende, ai proprietari di jet
privati o a chiunque altro abbia bisogno o voglia compensare le sue emissioni.
Gli
scienziati, però, sostengono che anche seppellirli possa ridurre il
riscaldamento globale.
Soprattutto
nel caso di alberi che finirebbero altrimenti per bruciare o decomporsi,
disperdendo nell’aria il carbonio che hanno immagazzinato.
I
giganteschi incendi divampati in California nel 2020 hanno evidenziato i rischi
per l’aria, le proprietà e la vita posti dalle foreste troppo estese.
“I cieli arancioni di San Francisco hanno
rappresentato un punto di svolta”, afferma” Jimmy Voorhis”, head of biomass
utilization and policy di Kodama”.
“Ora
queste storie hanno un’eco diversa.
L’allarme
suona ancora più forte quest’anno, dopo che gli incendi in Canada hanno messo a
rischio l’aria di New York, Washington e Chicago”.
Per
affrontare il problema, lo “Us Forest Service” intende tagliare 70 milioni di
acri delle foreste occidentali, soprattutto in California, nei prossimi dieci
anni.
In questo modo estrarrà più di un miliardo di
tonnellate di biomassa secca.
È consuetudine, dopo un disboscamento del
genere, che i tronchi di dimensioni tali da essere di interesse commerciale
finiscano alle segherie, mentre il resto viene in gran parte accatastato e
bruciato in condizioni controllate.
“
Kodama”, invece, vuole seppellire gli avanzi in vasche di terra progettate per
mantenere condizioni asciutte e anossiche (cioè senza ossigeno) e proteggere il
legno dalla putrefazione o dalla combustione.
Oltre
ai fondi raccolti da venture capital, “Kodama” ha già ricevuto sovvenzioni per
1,1 milioni di dollari dall’agenzia californiana che si occupa degli incendi
boschivi e da altre istituzioni.
Altri si sono già impegnati ad acquistare i
crediti di carbonio legati alle prime 400 tonnellate di alberi seppellite.
Sul
mercato, quei crediti dovrebbero fruttare 200 dollari a tonnellata.
Kodama
conta di arrivare ad abbattere e seppellire più di cinquemila tonnellate di
alberi all’anno.
Con
ragionamenti distorti e pretesti ridicoli questi malati di mente si apprestano
a distruggere il pianeta.
Prendere
coscienza di queste dinamiche e fermarli dovrebbe essere una priorità assoluta… e invece niente… tutti a pensare
solo a sé stessi, a riempirsi di ogni vizio e a divertirsi... ma i tempi sono
ormai maturi… e ognuno raccoglierà ciò che ha seminato! (nota di conoscenze al confine).
(Christopher
Helman)
(forbes.it/2023/08/04/kodama-systems-startup-abbatte-alberi-salvare-clima/)
La
globalizzazione non riesce
a
pacificare l'intero mondo.
Italiaogg.it - Martino Loiacono – (4 luglio
2023) – ci dice:
La
rivolta di Yevgeny Prigozhin è un'ulteriore conferma della rinnovata centralità
dello Stato e della sovranità.
Espulsi
dalla narrazione derivante dal trionfo della globalizzazione, Stato e sovranità
sono tornati al centro della scena a seguito dell'invasione russa dell'Ucraina
e delle tensioni nel Pacifico.
Sempre
più spesso si sente infatti parlare di confini, sovranità e territorio.
Elementi concreti che sembravano essere
tramontati grazie al trionfo della globalizzazione e della sua immaterialità,
garantita da interconnessioni economico-finanziarie e comunicative in grado di
superare qualsiasi barriera fisica.
Al
contrario, il ritorno della Storia e dei suoi tragici conflitti ha smentito
tutto ciò. La
marcia del capo della Wagner rivela nuovamente che il controllo del territorio,
o meglio la sovranità su di esso, e il monopolio della forza su un determinato
spazio fisico sono fondamentali e imprescindibili anche in un mondo
interconnesso.
Non
essere in pieno controllo delle forze militari e non esercitare il monopolio
della violenza significa essere fragili.
Significa
essere in balìa di forze che da un momento all'altro possono sovvertire
l'ordine costituito e imporre un cambio di regime.
Quanto
accaduto pochi giorni fa conferma che la fase storica inaugurata con
l'invasione russa dell'Ucraina necessita di un approccio analitico più
realistico e meno ideologico.
In altre parole, la realtà di questa fase,
fatta di armamenti e politiche di potenza, non può essere letta attraverso le
lenti deformanti dell'ottimismo globalista, che svaluta i concetti legati allo
Stato moderno e alla sua lunga storia.
Del resto, la formazione della statualità e
del concetto di sovranità affonda le sue radici nel sedicesimo secolo, molto
prima dell'affermazione della globalizzazione contemporanea.
Fenomeno
che ha stravolto il mondo ma senza riuscire a modificare in profondità una
costruzione di lunghissima durata come lo Stato moderno.
Organizzazione sulla quale si fonda ancora l'ordine
mondiale.
Basta
osservare quanto accade in Ucraina dove il controllo e la sovranità sui
territori continuano a essere il nodo del contendere.
Senza
dimenticare quanto sta succedendo a Taiwan.
Dove si stanno sfidando le due superpotenze
globali del secolo: Cina e Stati Uniti. Un confronto che si gioca su chip,
tecnologie e armamenti.
Ma
anche su misure protezionistiche per evitare che l'avversario acquisti
componentistica cruciale per sviluppare armi.
Un'ulteriore
conferma che la globalizzazione non è riuscita a pacificare il mondo.
E che
gli Stati nazionali continuano a confrontarsi e scontrarsi, anche sul piano
militare e tecnologico.
Il
mondo va nella direzione esattamente
opposta
rispetto all’utopia globalista.
Secoloditalia.it
– (28 Dic. 2022) - Mario Bozzi Sentieri – ci dice:
Dopo
avere immaginato, a ridosso delle elezioni del settembre 2022 e della vittoria
del centrodestra, sfracelli e cataclismi, certa “buona informazione”, visti i
risultati, sembra ora votarsi ad una sorta di minimalismo cultural-politico
ugualmente fuori dalla realtà.
Il
sovranismo e l’utopia globalista.
Prendiamo
il “sovranismo”.
Considerato una sorta di dannazione nazionale,
di fronte ad un mondo avviato lungo i “felici” percorsi della globalizzazione e
dell’integrazione delle economie e delle culture, il “sovranismo” viene oggi
letto come una risposta “periferica” dai bassi orizzonti strategici e
geopolitici.
“Vedremo presto – scrive “Mario Lavia” (su “Linkiesta
Magazine + New York Times World Review” 2022) – se il nazionalismo di Meloni e dei
suoi consiglieri, che spuntano come funghi nei giornali e nei salotti, entrerà
in contraddizione con la globalizzazione della politica e finanche delle
coscienze, se la Roma meloniana si accontenterà di uno strapuntino della Storia
e non di un palcoscenico aulico che il suo retroterra ideologico dovrebbe
ispirare”.
Il
nostro destino secondo Lavia?
Quello di tornare al ruolo di periferica “nazioncina”
che si illude di poter vivacchiare lontano dagli stress globali.
Il globalismo
nell’anno del tramonto.
In
realtà il mondo sembra andare nella direzione esattamente contraria rispetto
all’utopia globalista.
E
proprio sulla base di una realtà fattuale di cui certi osservatori benpensanti
non sembrano volere conto.
Che il
“globalismo”, nell’anno al tramonto, non abbia goduto di particolari fortune lo
dicono una serie di ragioni che proprio nel 2022 hanno trovato concreta
visibilità:
le
nuove limitazioni allo spostamento di merci e persone;
il tramonto del mondo interconnesso dell’informazione
senza confini, a fronte di una guerra parallela, quella delle new e di una
nuova Rete che invece di globalizzarsi crea nuove cortine di ferro digitali;
l’impatto
demografico;
il riorientamento geopolitico dell’Europa
destinato a spostare sempre di più il suo asse strategico verso il
Mediterraneo;
le
diversificazioni in campo energetico;
la
sfida dell’autonomia strategica nel campo della sicurezza energetica, della
sicurezza cibernetica e dell’economia digitale.
Che
cosa pensa la gente.
All’ordine
del giorno degli Stati è il venire meno della speranza che il mercato globale
avrebbe reso universale un’unica visione del mondo.
A dirlo – si badi bene – non è qualche intellettuale
“sovranista”, ma le opinioni pubbliche internazionali, analizzate da Ipsos, il
cui sondaggio, svolto in 33 nazioni, è stato pubblicato da “Domani” (Enzo, “Il pericoloso spettro
dell’iper egoismo nazionale aleggia sul mondo”, “Domani”, 27 dicembre 2022).
Secondo
questa inchiesta il 79 per cento dei cittadini delle realtà monitorate ritiene,
oggi, che sia giusto concentrarsi prioritariamente sul proprio Paese e
occuparsi meno di quello che accade nel mondo.
Le
tendenze sono ben chiare.
La
classifica è lunga, ma le tendenze sono ben chiare.
Ai
vertici l’Indonesia, con il 90 per cento, seguita dal Sud Africa e dalla Corea
del sud (89), dalla Malesia e il Perù (87), dalla Romania e dalla Turchia (86).
In fondo alla classifica, con numeri comunque
molto significativi l’Italia e la Germania (70) per i cui cittadini è
necessario pensare meno al mondo, concentrandosi sui problemi nazionali.
Scendendo
nel dettaglio:
il 70
per cento degli italiani ritiene che la mondializzazione abbia generato
svantaggi per i popoli e vantaggi solo per i ricchi;
il 64 per cento ritiene che le dinamiche dei mercati
globali stiano uccidendo la nostra economia e il 68 per cento avverte la
globalizzazione come una minaccia distruttiva della nostra cultura.
A
questi tratti si associa una perdita di fiducia verso l’Unione Europea (scesa
dal 59 per cento di fine 2020 al 53 per cento di dicembre 2022).
L’utopia
globalista e la realtà.
Sono
numeri che debbono fare pensare, in particolare quanti, negli ultimi decenni,
hanno fondato sulla globalizzazione le nuove sorti e progressive dell’umanità.
Non tutto – al contrario – pare definito su
questi crinali.
A
sfarinarsi è la cultura dell’astratto, a fronte di una nuova domanda di
concretezza e di identità, maggioritaria a livello delle singole nazioni.
Un
vecchio mondo è al tramonto, con le sue facili illusioni globaliste, egualitarie,
taumaturgiche.
Politica,
economia, tenuta sociale, cultura dell’appartenenza sono in discussione.
Con forti domande identitarie, nuove suggestioni
tecnologiche, orizzonti post industriali, aspettative di sintesi, segno di un
tempo in cui tutto va ricomposto. Certamente su nuove basi.
Proprietà
privata e libertà:
contro
lo “Sharing” globalista.
vanthuanobservatory.com
- La Redazione – (NOV. 4, 2022) – ci dice:
Quattordicesimo
Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel Mondo.
A cura
di Riccardo Cascioli, Giampaolo Crepaldi, Stefano Fontana.
(Cantagalli,
Siena 2022)
Breve
presentazione del libro.
Il
diritto alla proprietà privata è sempre stato considerato di ordine naturale
dalla Dottrina sociale della Chiesa, quindi originario, vero, stabile,
immodificabile.
Oggi, però, esso viene messo in discussione
dal nuovo globalismo del Grande Reset.
Il World Economic Forum di Davos sogna una
società globale priva di possessori di beni e fondata su uno sharing
universalizzato:
nessuno
possiede nulla e tutti affittano servizi.
Il ritorno del comunismo, soprattutto in
America Latina, rimette in discussione la proprietà privata con nuove forme di
statalismo e di socializzazione forzata.
I
centri di potere che spingono per la transizione ecologica a livello planetario
pretendono che i beni in proprietà vengano usati secondo certi standard
ambientali da loro stabiliti, pena il venir meno di quello stesso diritto.
Il
ritorno (voluto) dell’inflazione, la tassazione esorbitante, le ricorrenti
proposte di una imposta “patrimoniale”, la dipendenza dall’assistenzialismo
statale tramite il “reddito di cittadinanza” minano la proprietà privata e con
essa la libertà.
Il
principale elemento che caratterizza questo inedito attacco alla proprietà
privata è la convergenza mostruosa tra pensiero liberale e comunismo.
Nelle
società occidentali sono ormai in atto forme di controllo e di dipendenza del
cittadino dal potere molto simili, se non uguali, al Modello cinese.
In
questo social-capitalismo del controllo sociale la prima vittima da colpire è
il diritto naturale alla proprietà privata.
Questo
Rapporto descrive e approfondisce questo processo che va denunciato e fermato.
In
difesa della proprietà privata.
(Il “14mo
Rapporto Van Thuân”. Anche il Card. Müller tra gli autori.
“Ci
vogliono poveri e controllati”.)
In
difesa della proprietà privata:
il
14mo Rapporto Van Thuân.
Anche
il card. Müller tra gli autori
Stefano
Fontana - NOV 15, 2022.
Esce
il Rapporto dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della
Chiesa nel mondo:
puntuale,
come ogni novembre, ormai da 14 anni.
Quest’anno
il Rapporto è dedicato a “Proprietà e libertà. Contro lo sharing globalista”
(Cantagalli 2022, pp. 252) e fa emergere tutti i pericoli della sostituzione
della proprietà con l’accesso, del possesso con la condivisione e il leasing.
Nessuno sarà più proprietario di nulla?
Tutti affitteremo e condivideremo i beni?
Saremo
più liberi e felici? …
Il
14mo Rapporto del Van Thuân non la pensa così e per questo ha convocato 17
studiosi ad affrontare a viso aperto la sfida per la difesa della proprietà
privata come diritto naturale.
Il
volume è curato da Riccardo Cascioli, Giampaolo Crepaldi e Stefano Fontana ed è
diviso in due parti:
una
serie di studi per approfondire il tema e poi delle cronache dai cinque
continenti, perché c’è bisogno anche di uno sguardo ad ampio raggio.
L’attentato alla proprietà privata e quindi
alla vera libertà avviene in Italia ma anche in Sud Africa, negli Stati Uniti,
in Cile o in Perù, e non ne è esente l’Unione europea.
Tra
gli autori dei saggi di approfondimento spicca il magistrale intervento del
cardinale Gerhard Müller, che apre da par suo le danze degli altri autori che
esaminano le logiche economiche che stanno alla base del Grande Reset
(Battisti), spiegano le nuove caratteristiche postmoderne delle minacce alla
proprietà (Horvat), espongono i principi della proprietà e del lavoro nella
Dottrina sociale della Chiesa (Ferraresi), si chiedono se la Chiesa possa
barattare i propri insegnamenti sulla proprietà con i benefici pastorali dei
regimi comunisti, un tema di grande attualità negli attuali rapporti con la Cina
(Ureta), illustrano
il pericolo che si prenda a prestito artificiali crisi ambientali per
condizionare, limitare e perfino annullare la proprietà delle cose e la
responsabilità personale sul loro uso (Cascioli), analizzano a fondo il significato
indisponibile del diritto di proprietà (Cristin), espongono la sua
articolazione giuridica corretta (Onori, Salvi e Veneruso) e infine svolgono
una critica teologica al “pauperismo” cristiano che sostiene l’appoggio di ampie
fette della Chiesa alle proposte di “decrescita felice”, di “ritorno alla
natura” e di condivisione dei beni controllata però da un centro
onnipotente.
Le
cronache dai cinque continenti spiegano in quali termini il World Economic Forum di Davos ha
proposto nei suoi Obiettivi per il 2030 la costituzione di una società non più
di possidenti ma di noleggiatori e perché economisti e intellettuali dicano che
in quella situazione saremo più felici (Magni), illustrano come un rilevante
attacco alla proprietà derivi oggi dalla finanza (Milano), secondo quali
criteri la Commissione europea sta implementando principi decisamente comunisti
con interventi clamorosi di limitazione dell’uso dei beni da parte dei
cittadini dell’Unione (Volonté), descrivono l’evoluzione negli Stati Uniti
della Sharing Economy nel progetto del Great Reset (Trevisan), fanno il ritratto della penosa situazione
dell’Argentina (Passaniti), del Perù (Loredo), del Cile (Montes Varas), nazioni
nelle quali si è consolidato un nuovo comunismo, ed infine si mostra
l’evoluzione di un singolare progetto politico in Sudafrica: confiscare le
terre senza indennizzo (Tuffin).
Il
lettore di questo 14mo Rapporto avrà la possibilità di accedere ad un quadro internazionale
completo, di avere notizie di prima mano dato che gli Autori conoscono
direttamente le problematiche degli Stati di cui riferiscono perché ci vivono e
operano, di conoscere il livello di implementazione di un grande progetto teso
a sradicare la persona dalle proprie radici e farne un anonimo soggetto
completamente globalizzato.
La
proprietà, infatti, lega la persona alla famiglia, al lavoro, ad un contesto
territoriale e sociale, ad una storia e a una tradizione di senso, e quindi si
oppone alla artificializzazione della vita da parte di attori globali con
l’intento di controllare un mondo appiattito.
Il Rapporto mette bene in luce lo stretto
rapporto che esiste tra l’obiettivo della sostituzione della proprietà con la
condivisione da una parte e il controllo politico ed economico sui cittadini.
Eliminata la libertà privata, costoro saranno
costretti ad attenersi nei loro comportamenti alle volontà del Leviatano, il
quale saprà tutto di loro e controllerà tutti i loro movimenti.
Non potremo possedere una abitazione o un’auto
se non sarà secondo le norme volute dal potere, non potremo adoperare il contante
e dovremo stare dentro una sempre più pervasiva tracciabilità, la tassazione
già ora preleva oltre il 60 per cento dei frutti del nostro lavoro e
l’assistenzialismo sociale sul tipo del reddito universale o di cittadinanza
corrode e inibisce la proprietà privata, la concentrazione produttiva riduce lo
spazio dell’impresa familiare, eventuali emergenze sanitarie o ambientali,
anche e soprattutto se artificiali, potranno essere usate per interventi
diretti del potere nel nostro spazio di proprietà, ove coltiviamo non solo il
rapporto con i beni ma anche quello delle relazioni umane.
(Stefano
Fontana)
Ci
vogliono poveri e controllati.
Stefano
Fontana – (novembre 2021).
Invito
all’acquisto e alla lettura del 14mo Rapporto dell’Osservatorio Van Thuân sulla
Dottrina sociale della Chiesa nel mondo.
L’argomento
che in esso viene trattato è il grande tentativo in atto di privare il
cittadino della possibilità di avere qualcosa in proprietà, per poterlo così
controllare e dominare.
Il titolo del Rapporto è eloquente: “Proprietà e libertà: contro lo
sharing globalista”.
Prenderemo
a nolo e poi restituiremo perché altri possano a loro volta prendere e nolo –
come nei Falansteri di Fourier – l’abitazione, l’automobile, gli
elettrodomestici, i vestiti?
Il possesso verrà soppiantato
dall’accesso, come preannunciava “Jeremy Rifkin?”
(Colui che qualche decennio fa aveva predetto che lo
Stato e il lavoro sarebbero finiti, cosa poi per nulla verificatasi) ossia
dalla condivisione su una piattaforma on line di beni e servizi?
(e di chi sarà questa piattaforma?
Sarà anch’essa condivisa o sarà di proprietà
di qualcuno? E i beni condivisi di chi saranno? E chi fisserà le regole della condivisione?).
Ci procureremo le cose di cui abbiamo bisogno
premendo un tasto?
Non
lavoreremo più e non ci approprieremo del frutto del nostro lavoro in termini
di proprietà, da destinare alla famiglia e da lasciare in eredità ai figli?
Ai
nostri figli penserà lo Sharing globale?
Il
rapporto tra la negazione della proprietà come diritto naturale e il controllo
economico, sociale e politico è di grande evidenza, e spiega la convergenza
verso questi obiettivi sia del neo-comunismo sia del neo-capitalismo:
“Capitalismo e comunismo non sono la via per
un buon futuro, ma due fratelli omicidi e ostili che sono strisciati fuori dal
grembo della stessa visione del mondo atea e materialista” scrive il cardinale
Müller nel Rapporto.
Come spiegano gli Autori del Rapporto
dell’Osservatorio, il rapporto con la proprietà delle cose mette in atto la
volontà e l’azione della persona, tempra il suo senso di responsabilità, abitua
a misurarsi con i propri limiti perché non arriviamo a possedere tutto.
Inoltre,
le cose di proprietà ci legano ad una storia, gli oggetti che possediamo
contengono molti ricordi personali, la terra e la casa ci radicano in un
territorio e nella sua cultura.
La
sostituzione della proprietà con un leasing universale priva la persona di
tutti questi legami e la riduce ad un numero, ad una entità anonima la cui
essenza coincide con il suo profilo digitale, quello che gli permette l’accesso
e lo induce a fare a meno della proprietà.
Il
Rapporto spiega che i regimi totalitari hanno bisogno di individui così fatti:
sradicati, dipendenti e controllati in una massa virtuale.
La
proprietà permette spazi di libertà, l’accesso, invece, è costantemente
monitorato.
Quando
avremo la nostra Identità Digitale, non potremo più usare il contante né fare
alcun tipo di transazione fuori del sistema di controllo del potere, quando la casa dove viviamo non
sarà più nostra ma concessa temporaneamente in uso, quando la bicicletta di
nostro figlio sarà condivisibile con altri dentro il sistema di sharing deciso
dall’alto, allora saremo a disposizione di un potere incontrollato e
incontrollabile.
Il
Rapporto spiega poi un altro aspetto di grande interesse.
Il
totalitarismo di oggi è postmoderno, ossia non più impositivo e violento, ma
dolce e soft.
Vuole quindi che a rinunciare al nostro diritto
naturale alla proprietà privata siamo noi cittadini, senza la necessità di una
imposizione dall’alto.
Certo,
le confische senza indennizzo proliferano ancora – e il Rapporto le documenta,
anche l’altissima tassazione nel nostro Paese è come una confisca senza
indennizzo – ma la tendenza è a fare in modo che sia il cittadino stesso ad
essere privato della proprietà perché indotto indirettamente e dolcemente a
farlo: lo sharing è bello”, l’accesso è smart!
Lo
sharing è solidale”! Lo sharing è inclusivo!
La
proprietà è brutta!
La
proprietà è discriminatoria! E così via.
Torno
quindi ad invitare all’acquisto e alla lettura del 14mo Rapporto dell’Osservatorio Van
Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo, appena uscito.
(Stefano
Fontana)
Papa
globalista e governo sovranista
divisi
nella strategia sui migranti,
uniti
nel pressing sull'Ue.
Uffingtonpost.it
- Piero Schiavazzi – (20 novembre 2022) – ci dice:
Un
collateralismo inedito.
ll ruolo del Vaticano per evitare l’isolamento
morale e politico dell’Italia, cambiare le procedure in Europa e promuovere un
piano per l’Africa.
La
spinta di Francesco anche per le riforme istituzionali, tema su cui nessun Papa
era intervenuto prima di lui.
Un
collateralismo inedito. Variante vaticana che aggiorna la geometria e
fenomenologia, tutta italiana, delle “convergenze parallele”.
Non (o
non ancora) un’attrazione, ma un’attenzione mirata e un’assoluzione previa,
privilegiata, nel frangente in cui dalle altre capitali montavano e
s’inasprivano le accuse verso Roma.
Un
intervento che ha scongiurato sul nascere due settimane fa l’isolamento morale
dell’Italia e innescato l’inizio di un ripensamento collettivo, aprendo al
summit dei ministri dell’Interno in agenda venerdì prossimo.
Mentre i bilaterali d’oltreoceano, con
l’imperatore d’Occidente Joe Biden e quello d’Oriente Xi Jin-Ping rendono oggi
maturo e più vicino il meeting d’Oltretevere tra Giorgia e Jorge.
Si
deve muovere da questa cornice, per inquadrare il ruolo del Vaticano e il
“terzo” voto di fiducia, dopo quello delle Camere, disceso inatteso dal cielo
del volo papale, la prima domenica di novembre, in luogo della “scomunica” e
scontro in mare aperto che molti plausibilmente in Europa si aspettavano (e non
pochi presumibilmente auspicavano), tra il nuovo governo italiano e il vascello
petrino.
Una
strana, sorprendente alleanza sostanziata nel pronunciamento della più
autorevole cattedra etica del pianeta e “amplificata”, per di più, da un
silenzio altrettanto eloquente sulle ong.
Un
vaccino diplomatico-mediatico che ha immunizzato Palazzo Chigi dalle accuse
piovute da Oltralpe di tenere un comportamento “disumano”.
“La politica
dei Governi fino a questo momento è stata di salvare le vite … credo che questo
Governo abbia la stessa politica, non è inumano…”
Parole
che inducono a chiedersi se il “Boat Pope”, il quale ha notoriamente fatto
della questione migratoria il tratto caratterizzante nonché nervo scoperto e
ipersensibile del proprio pontificato, abbia sorprendentemente cambiato rotta
oppure semplicemente, pragmaticamente aggirato lo scoglio:
senza
rinunciare alla visione profetica ed evitando però d’inciampare negli ostacoli,
e oracoli, della strumentalizzazione partitica, interna e internazionale.
Riservandosi e rinviando la verifica, semmai, al confronto diretto, personale.
“Ammetto
che non sempre ho compreso Papa Francesco…e spero un giorno di avere il
privilegio di parlare con lui, perché sono certa che i suoi occhi grandi e le
sue parole dirette riusciranno a dare un senso a quello che non comprendo”.
Più
che una udienza una “consultazione”, a metà tra il privato e l’istituzione.
Linguaggio ecclesialese, rassicurante.
Messaggio
politichese, conciliante.
Mittente
Giorgia Meloni nel quinto capitolo, “Io sono cristiana”, del libro
autobiografico pubblicato a primavera 2021, in piena fioritura e trend
ascendente di consensi.
Non era successo mai che un premier chiedesse
appuntamento (riservato da protocollo ai soli capi di stato e di governo) con
un anno e mezzo d’anticipo sul mandato degli elettori e l’investitura delle
Camere.
Come se fosse già consapevole che l’Italia,
dalla fine ormai trentennale dell’egemonia democristiana, si potrà pure
conquistare senza i voti della Chiesa ma non si governa in modo stabile,
duraturo senza di essa:
regola
iscritta nella costituzione materiale della Seconda Repubblica e priva sin qui
di eccezioni, da Berlusconi e Prodi, da Zuppi a Ruini.
Se
internamente il Vaticano rappresenta in effetti un “vincolo” tanto a destra,
sui migranti, che a sinistra, sui temi etici “non negoziabili”, esternamente
costituisce al contrario, per tutti, uno “svincolo”.
Un
accesso preferenziale all’autostrada della mondialità, vieppiù necessario in
tempo di guerra, “sos” energetico e globalizzazione tout azimut.
Così
come, in ottica di reciprocità e complementarietà, l’Italia configura per la
Chiesa il retroterra strategico e la zona franca, sicura, che garantisce
agibilità geopolitica, fuori da condizionamenti o interferenze, alla proiezione
diplomatica dei Successori di Pietro.
Un’Italia
nei cui confronti Francesco, papa dei paradossi e degli ossimori, mostra
pertanto in simultanea, nel medesimo giro di parole, il massimo del distacco
dialettico e coinvolgimento prospettico:
“Prima
di tutto io non voglio immischiarmi nella politica interna italiana … ho fatto
una domanda soltanto a uno dei miei collaboratori: Dimmi, quanti governi ha
avuto l’Italia in questo secolo? E mi ha detto: 20. Questa è la mia risposta”.
Giudizio
meditato, non improvvisato.
Che
abbraccia un arco di due decadi e orizzonti.
Pronunciato
da Ovest a Est, a fine luglio, sull’aereo che dal Canada riportava Bergoglio a
Roma e, dopo un mese e mezzo, reiterato da Est a Ovest nel volo di ritorno dal
Kazakistan.
Per essere riproposto, tranciante, a mo’ di “leit
motiv” al rientro dal viaggio in Bahrein:
“Dimmi:
è giusto che dall’inizio del secolo fino ad ora l’Italia abbia avuto venti
governi? Finiamola con questi scherzi!”
È la
prima volta che un Papa si esprime in maniera inequivocabile a sostegno delle
riforme istituzionali, segnalando l’esigenza-urgenza di un rafforzamento
dell’esecutivo, ma omettendo di manifestare predilezione per un modello
piuttosto che un altro:
fra presidenzialismo, che nel proprio emisfero
di provenienza definisce dal “Mercosur” agli” States” la cornice ordinaria di
riferimento, e il premierato, che invece ambisce attraverso il cambiamento
della legge elettorale a una semplificazione del quadro e all’introduzione del
bipartitismo di matrice anglosassone.
Scenario
in movimento Urbi et Orbi, tra due interlocutori che scoprono di non conoscersi
abbastanza, registrando la divergenza delle rispettive Weltanschauung nel
Mediterraneo, ma rivelando in Europa una insospettata eppure oggettiva
convergenza di Realpolitik.
Se infatti per i Papi mitteleuropei, Wojtyla e
Ratzinger, l’integrazione federalista del continente costituiva un’addizionale,
quasi un comandamento in più della Dottrina Sociale, Bergoglio attinge a un
linguaggio e dipinge un paesaggio che in parte riecheggia e tratteggia, per
contro, accenti e i lineamenti cari ai sovranisti.
Occorre
salire ancora aereo sull’aereo papale, all’indomani della Brexit, a giugno
2016, quando slacciando le cinture rispose così alle domande sul referendum di
tre giorni prima nel Regno Unito:
“C’è
qualcosa che non va in quell’Unione massiccia…il passo che deve fare l’Europa è
un passo di sana disunione”.
Sana
disunione:
binomio
che scendendo sul terreno del diritto pubblico e del dibattito scientifico
puntualmente si traduce, e conduce, dalla pista federale a quella
confederativa, rovesciando la prospettiva non solo dei padri fondatori, bensì
dei papi protettori, tedesco e polacco.
E
mirando al modello bolivariano, transandino più che transalpino, di un’Europa
delle Patrie.
Mentre
in continente le posizioni convergono e si avvicinano, l’interesse nazionale
dell’Italia e quello universale della Chiesa divergono e si divaricano
viceversa nel Mediterraneo:
frontiera
identitaria per il governo sovranista, cerniera egalitaria per il Pontefice
globalista.
“Mare
del meticciato” e ombelico hegeliano del mondo, secondo Francesco, in cui la
mano invisibile ancorché tangibile della Provvidenza realizza per mezzo delle
migrazioni una integrazione progressiva non solo semantica ed economica, bensì
somatica e cromosomica della “famiglia umana”.
In
definitiva una rievangelizzazione per via demografica dell’Europa denatalizzata
e secolarizzata (mediante innesti massivi dall’area subsahariana, dove la
Chiesa cresce come in nessun altro luogo), all’insegna dello slogan “le razze
non hanno futuro”, enunciato dal Pontefice in modalità che più esplicita non si
può sui viali murattiani di Bari, durante il summit dei vescovi delle terre
rivierasche, promosso a febbraio 2020 dalla Conferenza Episcopale Italiana.
Riusciranno
“gli occhi grandi di Papa Francesco e le sue parole dirette”, per riprendere
l’espressione di Giorgia Meloni, a sciogliere il nodo e trasformare in sogno
quello che per la premier e dintorni ha i contorni dell’incubo?
Sicuramente, categoricamente no sul piano
strategico, della visione-destinazione finale di lungo periodo (che scorge in
Africa il nuovo Heartland della Chiesa). Probabilmente, pragmaticamente sì su
quello tattico, dell’azione a breve, da attuare nell’immediato.
Nel contenzioso tra Roma e i partner europei per
un’assunzione collegiale di responsabilità (“L’Italia non può fare nulla senza
l’Europa, la responsabilità è europea”) in ordine agli sbarchi ed effettiva,
tempestiva ripartizione dei carichi, con incisiva revisione delle procedure
attuali, Bergoglio è apparso subito l’alleato più credibile, oltre che
impensato e insperato:
l’unico in grado di sparigliare, conferendo
l’imprimatur e convertendo in battaglia di principio quella che le cancellerie
avevano bollato tout court quale violazione degli obblighi comunitari, sanciti
dall’accordo di Dublino, e del diritto internazionale, fissato nella
Convenzione Onu di quarant’anni orsono.
Allo
stesso modo in cui, per paradossale che possa sembrare, il braccio di ferro
ingaggiato dall’Italia funge da “braccio secolare”, risultando sinergico al
richiamo del Papa per riorientare la politica migratoria dell’Unione dalla direttrice
orientale, dove gli arrivi registrano un impatto ingente ma contingente (legato
al conflitto siriano ieri e oggi russo-ucraino), all’asse meridionale, dove
presentano invece cause permanenti connesse al clima e alla demografia:
“Il problema
dei migranti va risolto in Africa, la maggior parte viene dal mare”.
Contesto
che all’istante relativizza e miniaturizza i tre milioni di profughi siriani
ospitati dalla Turchia in conto Ue, a fronte dei trenta o trecento che
premeranno dal fronte africano nei prossimi trent’anni, sulla scia di una
crescita inarrestabile verso il traguardo dei tre miliardi di abitanti.
Rendendo inderogabile l’aut-aut tra una
perentoria redistribuzione del PIL, per riequilibrare il gap con i paesi
poveri, e l’opzione rivoluzionaria dell’ultima enciclica, nella quale si
teorizza che “ogni Paese è anche dello straniero, in quanto i beni di un territorio non
devono essere negati a una persona bisognosa che proviene da un altro luogo. I
confini e le frontiere degli Stati non possono impedire che questo si realizzi”.
Se
dunque la prognosi e il decorso rimangono riservati e divaricati (la destra resta destra e il Papa
globalista non è diventato sovranista d’emblée), la diagnosi e il discorso
manifestano l’intento e la mutua convenienza di procedere allineati, de facto alleati nella richiesta di
un “Piano Marshall”, o “Mattei” che dir si voglia, per l’Africa e superamento
dell’impianto, vetusto, di Dublino.
Navigazione
contro corrente, ergo, che si svolge al di fuori delle coordinate vigenti e in
cui a conferire legittimità e agire da bussola è di volta in volta il principio
di umanità, limitando il margine di manovra e costringendo il nocchiero a insinuarsi
nei passaggi stretti, giuridici e geopolitici.
Umanità.
Principio
che è valso al governo l’apertura di credito del Vaticano e attende come
scrivevamo l’imprimatur del confronto a quattr’occhi, non meno importante per
un premier italiano del” tête-à-tête” con “Joe Biden” e “Xi Jinping”:
quando
Giorgia, “vis-à-vis” con “Jorge” nei sacri palazzi, avvertirà il fascino
indagatore di uno sguardo antico, avvezzo da venti secoli a scrutare i pensieri
e svelare le intenzioni dei poteri terreni.
Sovranismo
o fine della storia:
e se
dietro ci fosse la “rivoluzione dei funzionari”?
giornalismoestoria.it
– (10-9-2022) – Teo Dalavecuras – ci dice:
Le
grandi strategie di politica internazionale sono morte? O nel dibattito tra chi
difende i “professionisti” della politica estera e chi considera il loro
compito finito si cela la lotta tra i burocrati e i nuovi decisori globali?
Parlare
in termini di “popolarità” di una rivista per studiosi, cultori o attori della
politica internazionale come “Foreign Affairs” suona – ed è – incongruo.
Tuttavia,
quando si dice che “Foreign Affairs” non è particolarmente popolare in Europa
si vuol dire, in forma abbreviata, che non riflette necessariamente quella
parte, non da oggi predominante, dell’opinione pubblica soprattutto europea,
che distingue un’America “buona”, quella multilaterale, ispirata ai diritti
umani e al politicamente corretto, tendenzialmente “esportatrice di
democrazia”, in una parola l’America che secondo la vulgata condivisa 75 anni
fa ha salvato l’Europa da se stessa, da quella isolazionista, conservatrice,
“repubblicana”.
Oggi
“trumpiana”.
Quell’opinione
pubblica, insomma, che si riconosce piuttosto in organi di stampa come il “New
York Times “o in media non cartacei come “Project Syndicate”, per fare solo due
esempi.
“Foreign
Affairs” – il sito.
Da
anni gli studiosi di geopolitica e di relazioni internazionali, perfino nei
talk show, si sforzano di spiegare che negli Stati Uniti la politica estera è
sostanzialmente “bipartisan”, nel senso che non è né democratica né repubblicana, ma può contare su una maggioranza
trasversale tendenzialmente stabile e cospicua.
Ma inutilmente.
Nei
media italiani, quanto meno, il messaggio non passa, la forza dell’abitudine
prevale.
Nella
guerra ormai senza quartiere tra i sostenitori di Trump e i suoi avversari,
l’opinione pubblica europea si schiera con la stessa passione di quella degli
States che – almeno in teoria – dovrebbe sentirsi più coinvolta.
Perfino Angela Merkel, leader pragmatica se ce
n’è una, partendo proprio dai temi di politica internazionale aveva scelto anni
fa di polemizzare con Donald Trump;
ironia
della storia, proprio la Germania ha subito le conseguenze della politica
estera dell’America quando nel dicembre dell’anno scorso, con voto bipartisan
appunto, il
Congresso ha disposto sanzioni contro le aziende costruttrici del “Nord
Stream-2”, il raddoppio del gasdotto che trasporta in Germania il gas
siberiano.
È
facile prevedere che, qualche anno dopo aver proclamato l’esigenza per l’Europa
di organizzare autonomamente la difesa dei propri interessi strategici la signora
Merkel finirà, in questa fase di acuta disarticolazione del “progetto europeo”,
per allineare ancora più di prima la Germania alle posizioni del Paese-guida.
Un
indizio in questo senso può sembrare l’avvio, nello scorso aprile e in pieno
lock-down da coronavirus, del processo per crimini di guerra nei confronti di
Anwar Raslan, responsabile secondo le accuse di avere svolto un ruolo di rilievo negli
apparati di sicurezza del regime di Bashir Assad, dove si praticava sistematicamente
la tortura, ma dimorante dal 2014 in un campo profughi in Germania.
Anwar
Raslan in un articolo di FT.
Di
questo nucleo bipartisan della politica estera americana “Foreign Affairs” è la
voce forse più autorevole, così come il “Council on Foreign Relations”,
l’organizzazione della “società civile” (diremmo noi) che la pubblica, fondata
all’indomani della Grande Guerra e sede di ricerca, e di confronto interrotto
tra esponenti del mondo delle imprese, delle professioni, dell’università e
delle istituzioni, insomma dell’establishment, secondo una modalità consueta
nel mondo anglosassone, ne è una delle fucine più importanti.
Si
parla di “Foreign Affairs” perché, in una delle ultime edizioni online
settimanali, ha pubblicato un saggio firmato da tre studiosi di politica internazionale,
tutti noti docenti universitari, “Daniel W. Drezner”, “Ronald R. Kreb”s e “Randall
Schweller”, che si intitola, tanto per non lasciare nel dubbio i lettori, The End of Grand Strategy (La fine
della grande strategia).
La
composizione del terzetto è interessante, perché mentre “Drezner” è
dichiaratamente anti-trumpiano, “Schweller” è altrettanto dichiaratamente
filo-trumpiano e “Krebs” non è schierato.
Infatti,
i tre mettono subito in chiaro che “sono poche le cose su cui ci troviamo
d’accordo quando si tratta di politica, di politiche o di ideologia”.
Su che
cosa sono d’accordo, dunque, i tre studiosi, visto che hanno deciso di firmare
lo stesso articolo?
Foreign
Affairs – The End of Grand Strategy.
Su una
cosa concettualmente semplice che si riassume in una frase: “è finito il tempo delle grandi
strategie”.
Per
arrivare a questa conclusione, i tre partono dalla “disruption trumpiana” di
quelli che per decenni sono stati i riferimenti di fondo della (bipartisan)
politica estera di Washington:
internazionalismo liberale, l’idea che l’America debba
sostenere e espandere un ordine globale che promuova mercati aperti, sistemi
politici aperti e istituzioni multilaterali.
L’attacco
frontale di Trump a questi “pilastri” ha se non altro alimentato – notano
gli autori – un animato dibattito sulle grandi strategie internazionali degli
Stati Uniti.
Mentre fiorivano questi dibattiti, tuttavia,
il concetto stesso della grande strategia sarebbe diventato una “chimera”.
Una
grande strategia – si fa notare nell’articolo – è una “road map” che serve a
assicurare la coerenza dei mezzi con gli scopi.
Funziona
al meglio su un terreno noto, in un mondo dove i dirigenti politici possiedono una chiara
comprensione della natura e della distribuzione del potere, un robusto consenso
all’interno del proprio paese sugli obiettivi e sull’identità comune, stabili
istituzioni politiche e altrettanto stabili istituzioni della sicurezza
nazionale.
Nel
2020 nulla di tutto ciò esisterebbe più.
Oggi il
terreno è ovunque accidentato, gli Stati Uniti sono spaccati e nel mondo il
potere è diffuso, frammentato ed è piuttosto potere di interdizione che non
potere di realizzare grandi disegni come – si lascia intendere – è stato nei
primi decenni del secondo dopoguerra:
“quando il potere tradizionale non riesce più
a tradursi in influenza, di ordine globale e di cooperazione ce n’è poco”.
In
conclusione:
“La
grande strategia è morta. La radicale incertezza di una politica globale priva
di poli la rende meno utile, perfino pericolosa”.
“Procedere
senza grande strategia vuol dire adottare due principi:
decentramento
e incrementalismo”, neologismo, quest’ultimo, che sembra significare perseguimento di vantaggi
incrementali ovvero del decremento degli svantaggi, in ogni situazione data,
rinunciando all’ambizione di capovolgere la situazione stessa.
In
parole povere pragmatismo, capacità di adeguarsi a circostanze mutevoli.
Perché
decentramento?
Per
l’ovvio motivo che in un mondo imprevedibile e instabile dove le decisioni
vanno prese rapidamente, è preferibile che queste siano affidate a chi si trova
là dove si manifesta l’esigenza di intervenire.
Nelle
parole degli autori, “gli aspiranti consiglieri per la sicurezza nazionale
dovrebbero rinunciare a competere per il titolo di prossimo George Kennan.
Inventarsi qualcosa che possa prendere il posto della
politica del containment (formulata da Kennan nel 1947, ndr) non è né importante né possibile nel
prossimo futuro. Far fare passi avanti alla politica estera degli Stati Uniti
lo è”.
Il
saggio che si è qui ridotto all’essenziale, è naturalmente più ricco e
articolato, e contiene valutazioni argomentate in modo persuasivo – questa è
almeno l’opinione di chi scrive – ma sempre di valutazioni si tratta.
Sono,
peraltro, valutazioni che sfociano in esplicite raccomandazioni dirette a
quella che in America si chiama la comunità della politica estera e di
sicurezza;
in buona sostanza, un perentorio invito a prendere atto
che il mondo della globalizzazione ispirata ai principi dell’internazionalismo
liberale e del multilateralismo non c’è più e si deve, quindi, lavorare concretamente
ai miglioramenti possibili di una politica estera considerata insoddisfacente.
Soprattutto,
si deve aggiungere, si tratta di raccomandazioni divisive.
Anche
se con apparente paradosso, visto che i tre autori dell’articolo solo su queste
valutazioni/raccomandazioni si trovano interamente d’accordo, queste sono
oggettivamente divisive, come cercherò di argomentare nel prosieguo.
La posizione
degli autori e, in particolare, lo scenario del mondo di oggi su cui questa si
fonda, comporta un problema non da poco, che prescinde dalla condivisibilità o
meno della loro analisi.
Anche
se è vero infatti che la visione del mondo globalizzato liberal-democratico e
multilaterale ha caratterizzato nella fase “post Guerra Fredda” (e qui di virgolette ce ne
vorrebbero tante…) il “comune sentire” degli addetti ai lavori della politica
estera e di sicurezza americana, quindi di un ceto professionale almeno
teoricamente a-politico e a-ideologico, questa stessa visione è anche
qualcos’altro, di fatto ha avuto e ha una precisa funzione:
è
l’ideologia dell’establishment liberal che non è né non partisan né bipartisan,
ma dichiaratamente partisan, e attorno a questa ideologia ha costruito un forte
consenso transnazionale.
Con
questa considerazione si torna all’inizio di questo scritto, ma la
considerazione deve essere sviluppata con una non breve digressione di cui mi
scuso ma che considero necessaria.
Nessuna
ideologia prende la realtà per quello che è, tutte la ricostruiscono in
coerenza con gli interessi che la esprimono e gli obiettivi che questi stessi
interessi perseguono.
Non da
oggi si usa parlare di “narrazioni”, perché si dà evidentemente per scontato
che l’elettore dei nostri tempi sia regredito a uno stadio infantile e vada
quindi alimentato con racconti, ma il concetto non cambia poi molto.
Nelle
fiabe, e nelle ideologie, la rivendicazione della coerenza è cruciale.
La
narrazione liberal-democratica e globalista è passata dall’annuncio della “fine
della storia” (e quindi, in buona sostanza, della politica) proclamata un po’
frettolosamente dopo la caduta del Muro di Berlino, alla denuncia del
“sovranismo” quale minaccia incombente sul processo di espansione della
democrazia e sulla salvaguardia del processo di globalizzazione.
Il
punto debole di questa narrazione non è il significato, pur assai fluttuante,
del termine “sovranismo”, che può significare tanto il valore attribuito alla sovranità
degli stati, quanto il connotato quasi fatalmente autoritario del culto della
sovranità.
Spesso
le “narrazioni” contengono elementi ambigui.
Il
vero punto debole è che in questa visione si dà per scontato e si accetta che
alcuni stati, in primo luogo gli Stati Uniti d’America, ma anche la Russia almeno dopo
l’avvento di Putin, per non parlare della Cina, dell’India, del Brasile, della
Turchia, dell’Arabia Saudita e così via, siano sovrani nel più puro significato
westfaliano, e intendano rimanerlo.
Il che
fa sorgere inevitabilmente una domanda:
quali
sono i Paesi rispetto ai quali la rivendicazione di sovranità giustifica
l’accusa di “sovranismo”, e perché?
Domanda rimasta sinora, e destinata a restare,
senza risposta. Almeno in prima battuta.
Nel
caso dell’America, l’attributo della sovranità è fuori discussione e si
giustifica con la circostanza che gli USA sono il centro da cui il disegno di
affermazione della democrazia liberale e di parallela globalizzazione si
irradia e questa
è anche l’immagine che molti dem americani hanno di sé stessi e dell’America,
il culto dell’eccezionalismo americano.
Quanto
poi alle derive autoritarie che autorizzano a condannare il sovranismo, l’intensità della critica è
proporzionale alla distanza del singolo paese dall’ortodossia “occidentale”,
sicché le tendenze autocratiche di un Putin sono, di fatto, molto più
biasimevoli della propensione di un Erdogan a rinchiudere in gattabuia (nei
casi più favorevoli) i giornalisti disallineati, per non parlare di Al Sisi,
della famiglia dei Saud e chi più ne ha più ne metta.
Comunque
sia la risposta è nei fatti: a dispetto della genericità del termine, il peccato di
sovranismo è specificamente quello delle forze politiche dei paesi europei che rivendicano un’antistorica e
antieuropea sovranità nazionale.
A
prima vista quella ora formulata è una posizione che potrebbe trovare d’accordo
quasi tutti, salvo frange estreme di nostalgici o disadattati che debbono
dirigere contro qualche obiettivo le loro pulsioni antisistema.
Il
fatto è, però, che alla parziale perdita di sovranità degli stati membri non è
seguito, né seguirà, verosimilmente, un corrispondente acquisto di sovranità
dell’Unione Europea, e a questo riguardo è probante un episodio recente e molto
significativo subito rimosso dalla narrazione di ciò che l’Europa è e deve essere.
Ben
prima delle elezioni del Parlamento europeo del maggio 2019, il presidente
francese Emmanuel Macron (col sostegno anche del governo italiano) aveva
proposto che almeno i seggi lasciati liberi dal Brexit, circa un decimo del
totale, venissero riservati a una costituenda circoscrizione elettorale
europea, così da rappresentare un primo, minuscolo, nucleo di istituzione
elettiva legittimata direttamente dai cittadini europei, anziché dalla somma
degli elettorati nazionali.
Nel
febbraio del 2018 la proposta venne bocciata nell’indifferenza dell’opinione
pubblica dallo stesso Europarlamento, che così dimostrò di essere poco
interessato alla propria credibilità democratica.
Per
concludere, il peccato dei sovranisti europei non è di perseguire una superata e
oggettivamente velleitaria rivendicazione di sovranità nazionale ma, tout-court, la pretesa di voler vivere in una
comunità politica dotata dell’attributo della sovranità.
Ne è
comprova che l’incredibile decisione di qualche mese fa del parlamento
ungherese di “auto sciogliersi” a tempo indeterminato, dopo qualche polemica
sui media è stata “digerita” senza conseguenze.
In
buona sostanza, in attesa che l’Europa diventi nel 2050 “carbon-free”, si vuole
che resti uno spazio “sovereignty-free”, sicché sulle credenziali democratiche
degli stati membri bisogna sì essere vigili, ma senza tirare troppo la corda.
Viceversa,
il veto francese all’allargamento dell’Ue a Macedonia del Nord e Albania non è
stato digerito in alcun modo, anzi ne è stata imposta la implicita revoca, perché in questo caso si tratta di
prevenire l’ampliamento della sfera d’influenza russa ai danni di quella dello
stato-guida dell’Occidente.
Ancora
una volta si tocca con mano come la condanna del sovranismo non sia un “leit
motiv”, ma
solo un motivo d’occasione per dare, quando serve, un tocco di
internazionalismo liberale al discorso pubblico;
un
motivo che non pone in discussione la sovranità dei paesi protagonisti del
grande gioco della Realpolitik.
Semmai,
lo slogan
della “democrazia illiberale” lanciato da Victor Orbàn e ripreso da suo mentore
Putin conferisce
alla retorica che si sviluppa attorno al dilemma sovranismo/antisovranismo un’ulteriore sfumatura di grottesco.
Se la
situazione è quella che si è ora cercato di richiamare per sommi capi, è
inevitabile che nella narrazione di cui ci si sta occupando il vuoto di
sovranità che si è creato in Europa non sia visto negativamente ma al contrario
lo si additi come il modello virtuoso di un’area che è definita solo da un
sistema di regole e di valori condivisi (Unione europea), che quindi non ha
bisogno né di veri confini, né di un vero esercito, né di istituzioni comuni
genuinamente politiche.
È, a
suo modo, cioè di ripetizione della tragedia in forma di farsa, l’antico sogno
marxiano del dissolvimento della politica in amministrazione, che dà a ognuno secondo il bisogno e chiede a ciascuno secondo
le possibilità materializzatosi nel tragico ma grandioso esperimento
bolscevico.
Perché
si parla di modello anche se, a prima vista, questo assetto non è destinato a
essere imitato?
Forse
l’idea sottotraccia, in una dimensione ideologica ma anche programmatica, è che
attraverso la pressione del sistema internazionale dei media nel quale questa
narrazione è solidamente insediata, e che a propria volta la alimenta, si possa
affermare quella sorta di sistema normativo transnazionale che va sotto il nome
di “politicamente corretto” e che riesce a imporre regole di condotta
legittimate dal loro stigma “progressista”, senza i tempi lenti e macchinosi
dell’evoluzione del costume e della giurisprudenza, come richiederebbero i
canoni dello stato di diritto, troppo legato peraltro alla storia dello stato
sovrano per non essere vittima del medesimo processo di obsolescenza (si noterà che termini come
“democrazia parlamentare” sono passati di moda, si preferisce parlare di “modello”
liberal-democratico che ha dalla sua una confortevole vaghezza).
In
questa prospettiva si può anche capire che l’atroce eliminazione fisica di
Jamal Khassoghi nel consolato saudita di Istanbul, così come il sequestro del
premier libanese Saad Al Hariri a Riad finiscano sostanzialmente nel
dimenticatoio, perché in una prospettiva storica è decisamente più importante
che nel regno saudita sia consentita la guida dell’automobile anche alle donne:
una
posizione non priva di una sua logica, che però postula la sostanziale
continuità degli assetti di potere che hanno condotto trentun anni fa alla
caduta del Muro di Berlino e quindi al trionfo della globalizzazione a guida
americana attraverso strumenti almeno in parte multilaterali.
Se
diventasse di pubblica ragione il fatto che questo mondo, come sostengono “Drezner”,
“Krebs” e “Schweller”, è tramontato, le crepe nell’impalcatura ideologica di
quella che potremmo chiamare la faccia “buona” del globalismo diventerebbero
vistose.
Anche
perché questa lettura della evoluzione in corso nell’assetto del potere
mondiale è condivisa.
Per
esempio, la condivide una personalità di indiscussa fede liberal-democratica e
progressista, come “Romano Prodi”, che in termini non diversi – nella sostanza
– da quelli dei tre studiosi americani, si era espresso pochi mesi fa in una
conferenza nella sede milanese dell’Istituto per gli “Studi di Politica
Internazionale” (ISPI); anche se lo stesso professor Prodi, nel colloquio con media
più convenzionali come “il Foglio” e
altri, preferisce parlare della liberal-democrazia come del “vaccino” che salverà il mondo dalla minaccia del
sovranismo e dell’autoritarismo.
Pur se
l’analisi di “The End of Grand Strategy” fosse condivisibile, se resistesse
all’esame di realtà, resterebbe insomma incompatibile con la retorica
largamente dominante, quanto meno nel mondo occidentale e certamente in tutti
gli apparati in senso lato burocratici (dalle pubbliche amministrazioni alle università
agli eserciti ai grandi media alle banche centrali alle grandi multinazionali e
in genere le grandi imprese) di questo stesso mondo occidentale.
Detto
in forma di slogan:
anche se non si può più dire che “la storia è
finita”, bisogna seguitare a credere che ci si sta lavorando e ci si arriverà.
E
nasce il sospetto che sia questa la posta in gioco nello scontro in atto.
Foreign
Affairs – In defense of the Blob.
Non
stupisce quindi che, passata una settimana dalla pubblicazione di “The End of
Grand Strategy”, sempre sul sito di “Foreign Affairs “(che il suo status non partisan
lo prende sul serio) altri tre autorevoli professori,” Hal Brands”, “Peter
Feaver” e “William Inboden”, abbiano firmato un articolo dal titolo non meno
lapidario di quello che si è illustrato più sopra: In Defense of the Blob (In difesa del
Blob).
Può
essere utile preliminarmente una breve spiegazione del significato di Blob, un
termine americano non facilmente traducibile, ma che in questo caso si può
rendere con “persone inutili/incapaci”.
L’incipit
dell’articolo di Brands, Feaver e Inboden, infatti, si riferisce, apertis verbis, al termine
(“Blob”) con il quale l’establishment della politica estera americana era stato
ridicolizzato, anni fa, da “Ben Rhodes”, vice consigliere per la sicurezza
nazionale durane la presidenza di Barack Obama.
Dopo Rhodes, osservano gli autori, “al coro si sono uniti i repubblicani”
finché il presidente Trump ha liquidato chi criticava la sua politica estera
parlando della “élite fallita di Washington che si preoccupa soltanto di
conservare il proprio potere”.
Ma
questa è solo la premessa per arrivare a ciò che visibilmente sta a cuore ai
tre studiosi:
“Su
questo punto perfino alcuni dei più aspri critici di Trump nel mondo accademico
condividono il suo giudizio”.
L’allusione
a “Drezner” è palese, ma nell’articolo “in difesa del Blob” non c’è ovviamente
nessun riferimento al saggio che lo ha preceduto e che intona il De profundis
per le grandi strategie, né agli studiosi che lo hanno firmato:
non solo nella Vecchia Europa l’accademia ha i
suoi riti e i suoi metodi.
Al
netto di questi aspetti cerimoniali, tuttavia, la contrapposizione è
irriducibile, e il titolo è da prendere alla lettera.
The
End of Grand Strategy si concentra sul fatto che sia per motivi interni agli States
(la spaccatura del paese) sia per motivi esterni (trasformazioni nella natura e
nelle dinamiche del potere nel mondo) l’elaborazione di grandi disegni
strategici è nel migliore dei casi pura perdita di tempo ma rimane tuttavia la
principale occupazione della comunità di esperti cui è affidata la politica
estera e di sicurezza, e questo spiega i risultati insoddisfacenti di questa
politica negli ultimi anni.
In
Defense of the Blob, peraltro, salta a piè pari l’analisi che fa da premessa e
si rivolge con grande vis polemica e perfino con sincero pathos alle
conclusioni, innanzitutto alla prima di queste, che si compendia nel termine “Blob”:
la comunità degli addetti alla politica estera e alla
sicurezza nazionale non è affatto una élite autoreferenziale (ma nel testo si parla addirittura di
“cabal”, di conventicola di complottisti, attribuendo ovviamente il termine ai critici
dell’establishment).
“L’establishment
della politica estera è una risorsa dell’America, non una debolezza”.
Più
avanti, per chiarire ancora meglio il concetto:
“Sia
in termini assoluti che in termini relativi, la comunità di esperti che
trattano le questioni di politica estera e di sicurezza nazionale negli Stati
Uniti è notevolmente ampia e eterogenea…
Inoltre,
diversamente dalle comunità corrispondenti di altre grandi potenze, l’establishment americano di politica
estera non è separato dalla società ma connesso a questa, in quanto gli strati superiori
delle burocrazie della sicurezza nazionale Usa sono staffate con personale di
nomina politica piuttosto che con funzionari.
Il
Blob comprende funzionari del governo, esperti esterni, e molte persone che
vanno e vengono tra le due sponde”.
Dopo
aver difeso con grande convinzione la qualità, l’apertura alla società e la
ricchezza del dibattito interno che contraddistingue la comunità degli esperti
di politica estera e di sicurezza nazionale, l’articolo si dedica, nella
seconda parte, con altrettanta decisione a sviluppare un quadro positivo dei
risultati della politica estera americana dei decenni “post-Guerra Fredda”,
senza nascondere alcune “delusioni”.
Si
legge, per esempio, che “Globalizzazione e democratizzazione dovevano far maturare
Cina e Russia e aiutarle a inserirsi facilmente nell’ordine (mondiale, ndr) a guida
americana.
Non ha
funzionato così bene come si era sperato”,
e più
avanti, tentando di redigere un bilancio del post-Guerra Fredda:
“da una parte alcuni fallimenti,
dall’altra un successo gigantesco, l’emergere di un sistema internazionale
molto più pacifico, prospero e liberale al centro del quale si collocano gli
Stati Uniti, sicuri e prosperi”.
Avviandosi
alla conclusione, Brands, Feaver e Inboden affrontano di petto quello che sembra
essere, ancora
più della “difesa del Blob”, il cuore del loro argomento: Trump.
“L’amministrazione
Trump ha emarginato i professionisti della sicurezza nazionale, e la
professionalità, in una misura senza precedenti nell’era moderna.
Il presidente ha regolarmente disatteso il
parere dei funzionari di carriera apolitici, li ha accusati di slealtà e
perfino di tradimento, e ha epurato dai vertici dell’amministrazione chiunque
non fosse disposto a adeguarsi alla linea ufficiale del giorno (quale che
fosse).
I
risultati di questo esperimento non sono incoraggianti.
Sinora
ha prodotto politiche scadenti, attuate in maniera scadente e con risultati
scadenti”.
È
interessante che l’articolo, partito dalla rievocazione dell’attacco di un
esponente dell’amministrazione Obama, “Ben Rhodes”, alla burocrazia, o
tecnocrazia, delle relazioni internazionali e della sicurezza, si concluda con
una requisitoria nei confronti dell’amministrazione Trump che avrebbe
introdotto una gestione capricciosa e non professionale di queste stesse
relazioni.
Ci si potrebbe
chiedere se la vera ragione del contendere sia il contenuto della politica
estera o di sicurezza Usa o non sia piuttosto l’identità del soggetto che la
determina:
al netto delle accuse di stile despotico, che
non è questa la sede di valutare, l’alternativa è tra un decisore politico,
oppure un apparato tecnico-burocratico che elabora scenari, sulla base degli
scenari elabora strategie e procedure per attuarle.
La
prima alternativa sembrerebbe più compatibile con la posizione di The End of Grand Strategy, la seconda è quella esplicitamente
raccomandata dagli autori di In defense of the Blob.
E la
seconda è incompatibile col riconoscimento del ritorno della Realpolitik nelle relazioni
internazionali, una conseguenza del fallimento del tentativo di “assimilare” in modo non
conflittuale i sistemi non ancora omogenei alla comunità occidentale (dove
“occidentale” si riferisce non alla geografia, naturalmente, ma alle sfere
d’influenza politica) come la Russia post-Eltsin e la Cina.
Il
caparbio rifiuto di dare ingresso, nel discorso pubblico del mondo occidentale,
all’ovvia verità che gli attori del gioco politico internazionale sono soggetti
sovrani e non incorporee istituzioni multilaterali, ricorda però – e questo è
inquietante – le “pie banalità” in materia di liberalismo e umanesimo di cui
parla “Hannah Arendt” in “Le origini del totalitarism”o (citato da “Tim Schenk “su
Tablet Magazine del 6 dicembre 2018), a proposito dell’attrazione dei
giovani intellettuali tedeschi per Hitler al momento dell’ascesa al potere, e
questo sento il dovere di dirlo senza nascondermi dietro un’imparzialità di
facciata.
Comunque
sia, tre cose sembrano chiare.
La
prima, che
tra le due opzioni rappresentate dai due saggi commentati in questo articolo, è
in corso uno scontro senza quartiere che, benché focalizzato principalmente
sulla politica estera e di sicurezza investe, in realtà, i fondamenti del governo,
l’alternativa tra il governo legittimato dal consenso e il governo legittimato
dalla competenza:
una contrapposizione
di cui non sfuggirà la connotazione “sovrastrutturale” e di cui sarebbe
interessante esplorare i fondamenti “strutturali”, considerato da un lato che le burocrazie che si
confrontano con la leadership politica sono a pieno titolo una classe sociale, anzi la classe sociale che sinora,
nella storia, non ha mai perso nessuna battaglia;
dall’altro
lato che l’alternativa tra la decisione (inevitabilmente “responsabile” in
quanto riconducibile a un autore) e l’esecuzione di una procedura (per propria natura irresponsabile
perché riconducibile a una regola), una volta posta diventa irriducibile,
e sembra che ormai questa sia l’alternativa sul tappeto.
E mi
chiedo se dopo la rivoluzione del proletariato (1917), dopo la rivoluzione dei
manager (1941) non si avvicini il momento della rivoluzione dei funzionari.
Che
altro è la polemica contro il sovranismo, in ultima analisi e a prescindere dal
suo uso strumentale, se non la contestazione della ineludibile presenza, in uno
stato sovrano e proprio perché sovrano, di un potere di ultima istanza
sovraordinato a tutte le posizioni gerarchiche in cui si materializza la
struttura dello stato?
La
seconda,
che questo scontro, che conserva il suo epicentro nella potenza-guida, gli Usa,
si ripercuote inevitabilmente sugli equilibri dei paesi del resto del mondo,
che non possono non schierarsi:
e se
lo fanno in una logica di alleanze (e di potenza relativa) gli attori sovrani della scena internazionale, sono costretti
a farlo a rimorchio di logiche lobbistiche le aree contraddistinte da un vuoto
di sovranità, e si sta pensando – è ovvio – all’Europa.
La
terza, che
“leggere”
lo scontro nei termini attualmente in voga di “progressismo” (o modello
liberal-democratico) versus “conservatorismo” (modello sovranista) non pare
promettente se l’obiettivo è quello di esplorare le ragioni profonde, di lungo
termine, dello scontro stesso, e le coalizioni di potere che lo determinano, ma si
giustifica solo in una logica “militante”.
(Teo
Dalavecuras)
L’era
dello sviluppo:
un
necrologio
gliasinirivista.org
– (23 Settembre 2020) - Wolfgang Sachs – ci dice:
Quella
che pubblichiamo è una versione estesa della nuova prefazione scritta da
Wolfgang Sachs in occasione della terza riedizione dello storico volume
collettaneo The Development Dictionary, uscita l’anno scorso per i tipi
dell’inglese Zed Books. Il libro, originariamente pubblicato nel 1992 (la
traduzione italiana – Dizionario dello sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino,
1998 – è da molto tempo fuori catalogo), era curato dallo stesso Sachs e
scaturiva dal lavoro di messa in discussione di alcuni decisivi assiomi
dell’età moderna svolto in quegli anni nella cerchia di Ivan Illich, che si
ritrovava periodicamente presso la Pennsylvania State University, dove diversi
suoi membri insegnavano.
Sachs
aveva raccolto i contributi di coloro che avevano partecipato a quelle
discussioni, ognuno incentrato su una parola chiave (bisogni, povertà, risorse,
tecnologia, ecc.), a comporre un lessico dello sviluppo e dei suoi effetti
sull’ambiente, sulle culture locali, sugli stili di vita. Oltre a quelli degli
stessi Sachs e Illich, comprendeva saggi di diversi interlocutori abituali di
quest’ultimo, tra cui Barbara Duden, Jean Robert, Gustavo Esteva, Majid
Rahnema, e altri firmati da figure a lui meno vicine, come Vandana Shiva e
Serge Latouche, divenute in seguito molto note.
Il
testo che segue è una versione rielaborata e arricchita della nuova prefazione
al Dizionario, pubblicata sul numero 523 nel gennaio di quest’anno della
rivista inglese “New Internationalist”. Il rigore e l’intelligenza con cui
Sachs ha riflettuto sugli intrecci tra ecologia, consumi, giustizia globale,
geopolitica e modi di vivere ne hanno fatto da molto tempo un punto di
riferimento fondamentale per chi si interroga sul presente e sul futuro del
mondo. Per tutto ciò, e per averci voluto concedere di pubblicare questo testo,
lo ringraziamo con grande affetto e riconoscenza. (Gli asini)
Sviluppo
è una di quelle categorie-zombie che, anche se da molto tempo in
decomposizione, continuano a circolare, come una consunta utopia.
Seppellito
apparentemente molto tempo fa, il fantasma di questo concetto si aggira ancora
per la politica mondiale.
Malgrado i grandi sconvolgimenti avvenuti di
recente nella situazione globale, tutto a un tratto lo sviluppo sembra essere
tornato sulla scena.
Per
esempio, oggi la nuova leva di leader autoritari è entusiasta dello sviluppo.
Eppure, con l’ascesa dei populismi nazionali,
l’idea di sviluppo non gioca più un ruolo di ispirazione e di apertura al
futuro, come durante il periodo della decolonizzazione degli stati nazione o al
tempo della deregulation dei mercati globali.
I Trump e i Bolsonaro, gli Erdogan e i Modi di questo
mondo credono ancora nello sviluppo solo nella misura in cui ciò significa
grandi progetti, potere d’acquisto per le masse e assoluta libertà di movimento
per le corporation.
Ma,
oltre a essere autoritari e xenofobi, sono nemici dichiarati dell’ambiente.
Promettono ai loro seguaci una marcia indietro nelle politiche ambientali;
sono
infatti grandi sostenitori della” brown economy”, e si oppongono a una
alternativa verde.
La
loro immagine dello sviluppo è modellata sull’energia fossile e, più in
generale, sull’estrazione delle risorse naturali.
I
populisti nazionali sono nostalgici dell’era industriale: non sono orientati
verso il futuro ma, piuttosto, verso il passato.
C’è
tuttavia una discontinuità cruciale nei programmi di sviluppo dei populisti
nazionali:
essi
sono etnocentrici ed egoisti.
Dalla
seconda guerra mondiale fino a tempi molto recenti, lo sviluppo era bene o male
sempre concepito all’interno di una cornice multilaterale.
Ma, con l’inaugurazione della presidenza Trump
negli Stati Uniti, il vento è cambiato:
“America First” è il grido di
battaglia dell’unilateralismo. Gli interessi di una nazione sono di primaria importanza,
mentre quelli delle altre sono trascurabili.
L’eco
di Trump risuona, per esempio, in Matteo Salvini, l’uomo forte dell’Italia
degli ultimi anni:
“Prima
gli italiani” era la giustificazione del suo rifiuto a lasciar attraccare i
rifugiati che soffrivano in mare.
In
altre parole, siccome l’era dello sviluppo non è affatto giunta da tempo a una fine
ingloriosa, come una volta pronostica il nostro gruppo, la parola-zombie
sviluppo continua a produrre ogni tipo di danni.
Allo
stesso tempo, però, è vero che in tutto il mondo sono stati fatti molti sforzi
nella direzione di una tecnologia maggiormente basata sulla natura, di
un’economia più fondata sul bene comune e di una cultura incentrata sulla
varietà delle civiltà: tutti obiettivi che possono essere intesi in termini di
post-sviluppo.
Un’affermazione
eccessiva.
Eravamo
ingenui e un po’ pomposi quando abbiamo proclamato la “fine dell’era dello
sviluppo”.
Durante
l’autunno del 1988, alla Pennsylvania State University, nella casa di “Barbara
Duden”, il nostro gruppo di amici aveva iniziato a delineare i contorni di
quello che sarebbe diventato il Dizionario dello sviluppo.
Sulle
orme di Ivan Illich, che un tempo intendeva scrivere un’“archeologia delle
certezze moderne”, volevamo esplorare i concetti chiave dello sviluppo, che noi
vedevamo come le rovine di un paesaggio intellettuale.
Dobbiamo
ricordare che nella seconda metà del ventesimo secolo la nozione di sviluppo
incombeva come un potente monarca sulle nazioni dell’emisfero meridionale:
era il grido di battaglia dell’era
post-coloniale.
Il concetto sembrava essere innocente, ma a
lungo termine si rivelò dannoso. Come una sorta di infrastruttura mentale, preparava la
strada al potere imperiale dell’Occidente sul mondo intero.
Come erano le cose in Occidente, così dovevano essere
anche sulla Terra: questo era, in sostanza, il messaggio dello sviluppo.
Quando
era iniziata l’era dello sviluppo?
Nel
nostro Dizionario, ci concentravamo sul discorso inaugurale del presidente
Harry S. Truman al congresso degli Stati Uniti, il 20 gennaio 1949, nel quale
definiva i paesi dove viveva più di metà della popolazione mondiale come “aree
sottosviluppate”.
L’era
dello sviluppo si aprì con questo discorso, e fu il periodo della storia
mondiale che seguì la fase coloniale delle potenze europee.
Essa è
durata circa quaranta anni, ed è stata rimpiazzata dall’era della
globalizzazione.
Ora
assistiamo a un’altra svolta: l’ascesa dei populismi nazionali.
Cosa
costituisce l’idea di sviluppo?
Dobbiamo
considerare quattro aspetti.
Sul piano crono-politico, tutte le nazioni
sembrano avanzare nella stessa direzione.
Immaginate
che il tempo sia lineare, che si muova solo in avanti o indietro, ma lo scopo
del progresso tecnico ed economico sia costantemente sfuggente.
Sul
versante geo-politico, coloro che fungono da guide su questo cammino, le
nazioni sviluppate, mostrano ai paesi ritardatari la strada da intraprendere.
La sbalorditiva varietà dei popoli del mondo è
ora classificata semplicisticamente in nazioni ricche e nazioni povere.
Sul
piano socio-politico, lo sviluppo di una nazione è misurato attraverso la sua
prestazione economica, in termini di Prodotto Interno Lordo (Pil).
Alle società che sono appena emerse dal
dominio coloniale è richiesto di farsi prendere in custodia dall’“economia”.
E
infine, gli attori che spingono per lo sviluppo sono soprattutto esperti dei
governi, delle banche transnazionali, delle corporation.
In precedenza, ai tempi di Marx o di
Schumpeter, sviluppare era usato come verbo intransitivo, come il fiore che
cerca la maturazione.
Ora il termine viene usato in modo transitivo,
come il riordino attivo di una società che deve essere completato entro pochi
decenni, se non entro pochi anni.
Cosa
ne è stato di questa idea?
Per
farla breve, la nozione ha preso una direzione non insolita nella storia delle
idee:
ciò
che un tempo era un’innovazione storica è divenuta gradualmente una
convenzione, di quelle che finiscono nella frustrazione generale.
Ciò
nonostante, trent’anni fa era prematuro proclamare la fine dell’era
sviluppista, perché il disincanto verso l’idea di sviluppo è avvenuto nel giro
di alcuni decenni, e ancor oggi non si è completato.
Le
idee che nella storia diventano forti non scompaiono in un istante, ma
piuttosto svaniscono gradualmente mentre diventano sempre più irrilevanti per
la nostra comprensione dei tempi.
Eppure,
la marea è cambiata:
perfino gli esperti dello sviluppo, per quanto
concerne il futuro sono immersi nella nebbia, preoccupati principalmente di
limitare le catastrofi sociali ed ecologiche causate dal modello di sviluppo
dominante.
Mettere
in dubbio l’idea di sviluppo è diventato accettabile.
Ma
cerchiamo di non correre troppo.
A
partire dalla fine della seconda guerra mondiale, il discorso sullo sviluppo
era formulato nella cornice degli stati-nazione.
Praticamente
ogni giovane nazione vedeva come sua ragion d’essere quella di svilupparsi.
Ma nel
novembre 1989 cadde il muro di Berlino, la guerra fredda giunse al termine e
iniziò l’era della globalizzazione.
Negli
anni successivi l’idea di sviluppo ricevette un’ulteriore spinta:
la mentalità dello sviluppo si diffuse in ogni
angolo del mondo, coinvolgendo attori completamente nuovi.
Gli stati-nazione erano tuttavia divenuti
porosi, come container crivellati di fori di proiettili esplosi da forze
esterne, e dovevano sottoporsi ai poteri globali, sia economici che culturali.
Merci,
denaro, informazioni, immagini e persone si riversarono attraverso i confini,
creando uno spazio sociale transnazionale nel quale avevano luogo interazioni a
grande distanza, a volte addirittura in tempo reale.
In
questo processo, altri attori, come le corporation e i media transnazionali,
giocavano un ruolo sempre più importante nello sviluppo, mentre gli
stati-nazione rimanevano in posizione sempre più arretrata.
Per
esempio, gli investimenti privati stranieri superarono l’assistenza allo
sviluppo ufficiale, i programmi televisivi resero in tutto il mondo marginali
le narrative autoctone, e il consumo globale soppiantò l’artigianato locale.
Lo sviluppo, fino ad allora compito dello
stato, era ora deterritorializzato.
Oltretutto,
apparvero sulla scena le filiere transnazionali.
Con la
fine della guerra fredda e il processo di deregulation in pieno svolgimento, la
strada era spianata per lo spiegamento di reti di produzione capaci di
attraversare il mondo intero.
In generale, anche nei più remoti angoli del
mondo l’economia capitalista delle merci e dei servizi aveva rimpiazzato
un’infinità di economie di sussistenza e i loro mercati tradizionali.
E il
capitalismo era cambiato, come già John Kenneth Galbraith aveva osservato negli
anni Cinquanta:
si era passati da un’economia dedicata a
soddisfare bisogni a una impegnata a inculcare esigenze.
In
un’economia siffatta, ciò che conta è sempre di più il potere simbolico delle
merci e dei servizi.
Ciò
che importa è quello che le merci dicono, piuttosto che quello che fanno: sono
mezzi di comunicazione.
Le merci sono simultaneamente rituali e
religione.
Le corporation proliferano, e in ogni
continente gli stili di vita si allineano:
i Suv hanno sostituito i risciò, i telefoni
cellulari hanno preso il posto delle riunioni di comunità, l’aria condizionata
ha soppiantato la siesta.
La globalizzazione dei mercati può essere
intesa come uno sviluppo senza stati-nazione.
Chi ha
beneficiato di più di questo processo è la classe media globale, in Europa,
Nord America e Asia, come in Sud America e Africa, sebbene in queste ultime
meno numerosa.
Coloro
che vi appartengono fanno la spesa in centri commerciali simili, acquistano
un’identica elettronica high-tech, guardano gli stessi film e le stesse serie
tv.
Come turisti, dispongono del decisivo medium
di allineamento: il denaro.
La classe media – ora circa tre miliardi di
persone con un reddito superiore ai 10 dollari al giorno – si espande più
rapidamente in Cina, India e altri paesi asiatici, grazie alla rapida crescita
economica.
Questa
è in sé un’impresa storica: ci sono voluti probabilmente centocinquanta anni,
dall’inizio della rivoluzione industriale a circa il 1985, per creare il primo
miliardo di consumatori della classe media;
per
superare la soglia del secondo miliardo ci sono voluti ventun anni;
e solo
nove anni per il terzo miliardo.
Se le proiezioni sono corrette, altri due
miliardi di individui andranno ad aggiungersi alla classe media entro il 2028,
raggiungendo un totale di cinque miliardi di persone.
Chi
sta sui gradini più bassi della scala può permettersi un motorino o una
lavatrice, mentre chi sta sui gradini più alti può investire in viaggi a lunga
distanza o in proprietà immobiliari.
Già
nel 2010 all’incirca la metà della classe media globale viveva nel Nord
Globale, e l’altra metà viveva nel Sud Globale.
Lo
stile di vita occidentale si è realmente diffuso negli altri continenti,
abbracciando l’intero globo.
Ma
quello che senza dubbio è stato il formidabile successo dello sviluppo, non è
che un fallimento che sta per avvenire.
Sopravvivenza,
non progresso.
Sviluppo
è una parola plastica, un termine vuoto privo di significati positivi.
Ciò
nonostante ha mantenuto il suo status di prospettiva globale, perché è stato
inscritto in un network internazionale di istituzioni che va dall’Onu alle ong.
Dopotutto, miliardi di persone hanno fatto uso del “diritto allo sviluppo”,
così come è stato affermato in una risoluzione dell’assemblea generale Onu nel
1986.
Possiamo
tuttavia notare le notevoli trasformazioni che questa idea ha subito di
recente.
Nel
2015, per esempio, si è potuto osservare un intensificarsi del discorso sullo
sviluppo:
l’enciclica
papale Laudato si’ in giugno, “i Sustainable Development Goals” (Obiettivi di
sviluppo sostenibile) dell’Onu in settembre, e gli accordi di Parigi sul cambiamento
climatico in dicembre.
Ma
queste dichiarazioni internazionali sono ancora improntate allo sviluppo? Oppure si potrebbe, al contrario,
considerarle prove di un pensiero del post-sviluppo?
L’erosione
dell’idea di sviluppo è ora evidente nei “Sustainable Development Goals” (Sdg)
dell’Onu.
I tempi in cui lo sviluppo rappresentava una
“promessa” sono ampiamente finiti:
a quell’epoca, era un discorso che riguardava
nazioni giovani e ambiziose che procedevano su un cammino di progresso.
La
parola d’ordine dello sviluppo conteneva davvero una monumentale promessa
storica:
che
infine tutte le società avrebbero colmato il divario con quelle più ricche,
arrivando a condividere i frutti della civiltà industriale.
Quell’era
è finita:
più frequentemente, lo sviluppo oggi riguarda
la sopravvivenza, non il progresso.
Gli “Sdg”
sono progettati per garantire il livello minimo dei diritti umani e delle
condizioni ambientali.
Niente
di più e niente di meno, ma l’eroica fede nel progresso ha ceduto il passo al
bisogno di sopravvivenza.
La lettera papale Laudato sì trascura le parole chiave
di “sviluppo” e “progresso”, mentre l’accordo di Parigi sul clima è teso a
evitare catastrofi e guerre.
La
politica della lotta alla povertà ha inoltre ottenuto successi in alcuni casi,
ma al costo di produrre diseguaglianze ancora maggiori altrove e al prezzo di
danni ambientali irreparabili.
Il “World Inequality Report del 2018 “ha
confermato che, a partire dal 1980, la quota di reddito nazionale che è andata
all’uno per cento dei più ricchi è aumentata rapidamente in Nord America, Cina,
India e Russia, e più moderatamente in Europa: quarant’anni di corsa all’oro!
Per di
più, lo sfruttamento della Terra è drasticamente aumentato: secondo i calcoli
del “Global Footprint Network”, l’umanità consuma la biosfera 1,7 volte ogni
anno.
L’inquinamento da materiali plastici degli
oceani, l’estinzione di massa degli insetti e lo scioglimento dello scudo di
ghiaccio dell’Artico ne sono esempi emblematici.
Il
caos climatico e il lento declino della vita vegetale e animale hanno messo in
dubbio la fede nel fatto che le nazioni sviluppate rappresentino il culmine
dell’evoluzione sociale.
Al
contrario, il progresso si è rivelato essere un regresso, così come la logica
capitalista del Nord Globale ha dimostrato di non poter far altro che sfruttare
la natura.
Da
Limits to the Growth del 1972, fino a Planetary Boundaries del 2009, l’analisi
è chiara:
lo
sviluppo-come-crescita rende il Pianeta Terra inospitale per gli umani.
Gli “Sdg” – che recano il termine sviluppo nel
loro stesso titolo – sono un inganno semantico.
I “Sustainable Development” Goals dovrebbero
in realtà chiamarsi “Ssg”: “Sustainable Survival Goals” (Obiettivi di
sopravvivenza sostenibile).
Seppellire
il mito della rimonta.
Anche
la geopolitica dello sviluppo è implosa.
Al
Millennium Summit di New York, nel 2000, erano stati riprodotti gli schemi dei
cinquant’anni precedenti:
il mondo nettamente diviso tra Nord e Sud, in
cui i benefattori elargiscono capitali, crescita e politiche sociali ai paesi
beneficiari per ricondizionarli, in funzione della corsa globale.
Questo schema è un familiare sedimento della
storia coloniale, ed era – proprio come l’imperativo della rimonta –
onnipresente negli anni del dopoguerra.
Ma ora
che siamo arrivati agli “Sdg”, che fine ha fatto l’idea delle nazioni in via di
sviluppo che rimontano sulle nazioni ricche, questa nozione che un tempo era così
fondamentale per l’idea di sviluppo?
Vale
la pena di citare un passaggio del documento che ha proclamato gli “Sdg”: “La portata e il significato di
questo programma sono senza precedenti. Questi sono obiettivi universali,
obiettivi che coinvolgono il mondo intero, le nazioni sviluppate e quelle in
via di sviluppo, allo stesso modo”.
Gli “Sdg”
affermano di essere globali e universali, e gli accordi di Parigi fanno lo
stesso.
Il
cambio di mentalità non potrebbe essere espresso più chiaramente: la geopolitica
dello sviluppo, secondo la quale le nazioni industrializzate erano lo
scintillante esempio per i paesi più poveri, è stata archiviata.
Quante
strategie, passioni e risorse, consumate per realizzare il sogno della rimonta!
Ora è tutto finito.
Così come
l’era della guerra fredda è finita nel 1989, il mito della rimonta è evaporato
nel 2015.
Molto
raramente un mito è stato seppellito così tranquillamente.
Che
cosa significa sviluppo, se non esiste nessun paese che possa definirsi
“sviluppato in modo sostenibile”?
Dobbiamo
anche aggiungere che la geografia economica del mondo è cambiata.
In
termini geopolitici, la rapida ascesa della Cina alla posizione di maggiore
potenza economica della terra è stata spettacolare.
I sette più importanti paesi di recente
industrializzazione sono ora economicamente più forti degli stati industriali
tradizionali, sebbene i G7 pretendano di essere ancora egemoni.
La globalizzazione ha quasi dissolto il
consolidato schema Nord-Sud.
Internet
ci fornisce un esempio.
Nel 2016 3,4 miliardi di persone, la metà
della popolazione mondiale, ha utilizzato internet.
Singoli
individui navigano sul web con computer, tablet o smartphone, le grandi imprese
sono dotate di enormi dipartimenti di tecnologie informatiche, e miliardi di
persone sono ogni giorno online sui social network.
Internet
è divenuto il “sistema nervoso centrale” della società mondiale.
Per
inciso, l’infrastruttura digitale, con i suoi centri di elaborazione dati,
necessita di un’enorme quantità di energia, impiegando circa il 7 per cento di
quella consumata globalmente:
quanto
corrisponde al consumo annuo di elettricità della Gran Bretagna.
Qual è
la distribuzione geografica degli utenti di internet?
La maggior parte vive in Asia orientale (867
milioni) e in Asia meridionale (480 milioni); Europa occidentale (345 milioni)
e America del nord (341 milioni) sono a metà classifica.
Dal
momento che l’elettricità proviene soprattutto da centrali a carbone, a gas e a
petrolio, l’impronta ecologica di tutte queste attività su internet è immensa.
In
sostanza, in termini di consumo di risorse le classi alte di Cina, India,
Malesia e Arabia Saudita hanno già rimontato le classi medie statunitensi ed
europee.
Tra
l’altro, dai negoziati internazionali sul clima le classi alte dei paesi di
recente industrializzazione escono relativamente indenni, perché possono
nascondersi dietro ai poveri delle loro nazioni.
Lo
sviluppo come operazione statistica.
Inoltre,
lo sviluppo è sempre stato un costrutto statistico: senza il numero magico,
ovvero il Pil, sarebbe stato impossibile proporre una classifica delle nazioni
mondiali.
La comparazione dei redditi era il fulcro del pensiero
dello sviluppo: solo in questo modo si poteva determinare la relativa povertà o
ricchezza di un paese.
Tuttavia,
a partire degli anni Settanta, nel discorso sullo sviluppo è emersa una
dicotomia:
la giustapposizione dell’idea di
sviluppo-come-crescita con quella di sviluppo-come-politica-sociale.
Istituzioni
come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e il Wto sono rimaste
fedeli alla prima, mentre il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo
(Undp), quello per l’Ambiente (Unep) e la maggior parte delle ong sono passati
a enfatizzare la seconda.
Così il termine “sviluppo” è divenuto una sorta di
collante multiuso, che può riferirsi alla costruzione di aeroporti tanto quanto
all’escavazione di pozzi.
“I
Millennium Development Goals” (Obiettivi di sviluppo del Millennio), così come
gli “Sdg” che li hanno seguiti, erano radicati in questa eredità.
Le
relazioni tra indicatori sociali e crescita economica si sono ripetutamente
rivelate una questione spinosa.
Da un
lato, l’Agenda 2030 (la dichiarazione di governo degli “Sdg”) riconosce il
declino degli ecosistemi marino e terrestre e l’aumento delle diseguaglianze
sociali, ma dall’altro lato richiede ai paesi più poveri una crescita economica
di almeno il 7 per cento all’anno.
Si
sostiene che la contraddizione tra crescita e sostenibilità sia sorpassata dai nuovi concetti di “crescita
inclusiva” e “crescita verde”.
Ma è
ormai risaputo che la crescita inclusiva, guidata dai mercati finanziari, è
impossibile, in quanto riproduce costantemente meccanismi di disuguaglianza.
Il declino
della povertà va tipicamente a braccetto con l’aumento delle disuguaglianze.
A
partire dal 1990, le economie emergenti di Russia, Cina, India e Sudafrica
hanno sperimentato un brusco aumento delle disuguaglianze, mentre in Brasile
sono leggermente diminuite, sebbene a partire da un livello molto alto.
Lo
stesso vale per lo slogan della crescita verde.
Il fatto che la crescita economica fondata
sulle risorse fossili non sia praticabile neppure nel medio periodo, è arrivato
perfino agli alti ranghi dei summit del G7.
Nel
2015, i paesi industrializzati prevedevano la decarbonizzazione dell’economia
globale entro la fine del secolo.
In
ogni caso, tutte le ricette della crescita verde sono fondate sulla
disgiunzione tra degrado ambientale e crescita, anche se la disgiunzione
assoluta (aumento della crescita con diminuzione del degrado ambientale) non è
mai stata raggiunta nella storia.
In
sostanza, lo sviluppo-come-crescita è divenuto storicamente obsoleto,
rivelandosi persino pericoloso per la vita stessa. Malgrado ciò l’Agenda 2030 evita di
parlare di prosperità senza crescita, neppure per quanto riguarda i vecchi
paesi industrializzati.
Ridurre la compulsione alla crescita sembra
essere un tabù:
in
campo economico, ciò significherebbe dare priorità alla sufficienza anziché
all’efficienza.
In un’economia in cui domina il principio di
efficienza, sempre più cose vengono prodotte con sempre meno risorse.
Ma in
una economia della sufficienza, le cose necessarie sono prodotte con un uso
intelligente delle risorse.
Alcuni
settori dell’economia si ridurrebbero, mentre altri crescerebbero.
Questo
assetto dell’economia implicherebbe una disponibilità a ridimensionare
l’attuale sistema industriale.
Al
confronto con l’Agenda 2030, Papa Francesco, nella sua enciclica Laudato sì,
sembra più capace di aprirsi al futuro, dato che propugna la decrescita per le
zone ricche della Terra.
Una
contraddizione insanabile.
“Mohandas
Gandhi”, che portò l’India all’indipendenza, era un post-sviluppista molto
prima che il termine venisse inventato.
Lasciò ai posteri una ben nota citazione, che
riassume sinteticamente il suo pensiero sullo sviluppo:
“La
Terra offre abbastanza per i bisogni di ognuno [everyone’s need], ma non per
l’avidità di ognuno [everyone’s greed]”.
Se si
osserva meglio la frase, il suo carattere sovversivo diviene chiaro.
Nessuna
meraviglia che nell’India di oggi Gandhi sia visto come un santo patrono in
disuso, che viene tirato fuori solo per cerimonie particolari.
Al
contrario dell’ortodossia economica, Gandhi crede che le risorse della Terra
non siano scarse, ma invece abbondanti, di certo sufficienti per soddisfare i
bisogni della società umana.
Egli
presuppone che i bisogni sono modellati culturalmente, e più o meno
circoscritti, altra cosa in contrasto con il buonsenso economico generalmente
accettato.
Ciò lo
porta a mettere sotto accusa l’avarizia, perché l’avidità sistemica pregiudica
i bisogni della maggioranza delle persone.
L’avidità
è la variabile che decide se le persone hanno abbastanza per vivere oppure no.
Se gli
autori del rapporto della “Commissione Brundtland”, nel 1987, avessero letto
attentamente Gandhi, non sarebbero venuti fuori con quella classica definizione
dello sviluppo sostenibile:
“Lo
sviluppo soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità
delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni”.
Gandhi avrebbe insistito sul fatto che non
tutti i bisogni sono ugualmente validi, che i bisogni dei benestanti sono
diversi da quelli dei diseredati.
Così,
in seguito, la mancanza di distinzione tra bisogni di sopravvivenza e bisogni
di lusso è divenuta una trappola nel dibattito sulla sostenibilità.
In
effetti, mettere insieme i diritti umani e i diritti del consumatore fa parte
dell’eredità del concetto di sviluppo, che è cieco ai rapporti di classe.
Com’è possibile trattare i diritti sociali
fondamentali al cibo, alla casa e alla salute come se fossero sullo stesso
piano della domanda, espressa dai consumatori, di suv, proprietà immobiliari e
azioni?
Che cosa hanno in comune i “Mapuche” del sud
del Cile con i banchieri di Wall Street, o i lavoratori del cotone del Mali con
le start-up di Shanghai?
Non molto, tranne il fatto che sono uniti dal
miraggio comune dello sviluppo.
Ma ciò
apre un dilemma che è sempre rimasto nascosto nell’illusione dello sviluppo.
Uno
studio recente conferma che, all’interno del modello di sviluppo corrente, c’è
una contraddizione insanabile tra gli obiettivi sociali e ambientali degli “Sdg”.
Nei paesi relativamente ricchi, dove gli
obiettivi “Sdg” riguardanti la dimensione fisica (povertà, nutrizione, salute,
energia) sono ragionevolmente soddisfatti – come in Europa, Nord America,
Giappone, Argentina, Cile, Tailandia, e così via – c’è un problema ecologico di
enormi dimensioni.
Essi sorpassano i limiti planetari,
nell’emissione di Co2 e di azoto, nel consumo di fosforo e di acqua dolce.
Al
contrario, dove i paesi rimangono all’interno del quadro ambientale, gli
obiettivi “Sdg” di tipo fisico sono largamente insoddisfatti.
Il doppio vincolo è pressappoco questo:
più
sale lo standard di vita di un paese, più la biosfera tende a degradarsi.
E, al contrario, meno sono garantiti i diritti
umani e sociali, più tende a essere piccola l’impronta ecologica, almeno in
termini di carbonio e di materiali.
Che
risultato tragico per lo sviluppo!
Ciò
che è più rilevante, inoltre, è il fatto che a volte il benessere della classe
media globale dipende dalla povertà degli altri.
Ne abbiamo un’infinità di esempi:
quando
le grandi navi che praticano la pesca industrializzata svuotano gli oceani,
danneggiano i pescatori locali;
i
piccoli proprietari vengono soppiantati quando le corporation agricole si
accaparrano grandi estensioni di terra;
gli
abitanti degli slum devono lasciare il campo quando vengono costruite le strade
urbane a scorrimento veloce;
i
vecchi abitanti devono andarsene quando la gentrificazione raggiunge i loro
quartieri;
i lavoratori vengono repressi quando
rivendicano i loro diritti sindacali nelle fabbriche della filiera globale.
In
breve, il modo di vivere “imperiale” penetra profondamente negli stili di vita,
nelle istituzioni e nelle infrastrutture della classe media globale.
Non riconosciuto, eppure assolutamente
presente attraverso una varietà di complesse strutture economiche e di
meccanismi di sfruttamento, il risultato complessivo è drammatico:
i
benestanti vivono a spese dei poveri.
Paura
del futuro.
Un
aspetto essenziale emerge dall’Agenda 2030, dall’enciclica Laudato sì e dagli
accordi di Parigi:
l’entusiasmo
del ventesimo secolo per lo sviluppo se n’è andato. Al suo posto, la fine della
modernità espansiva ha conquistato la scena.
Il motto del secolo scorso (parafrasando le parole del
Padre Nostro), “come in Occidente, così in Terra”, ora suona come una minaccia.
Il
mondo ci appare in subbuglio:
caos,
paura e rabbia si estendono ovunque, contrastando aspramente con il
trionfalismo degli anni Novanta.
L’ascesa
della Cina, il declino dell’Occidente, l’egemonia dei mercati finanziari, il
ritorno degli stati autoritari: sono solo alcuni esempi dei capricci della
storia contemporanea.
Se
dovessimo trovare una frase che riassuma l’atmosfera attuale nel Nord Globale,
e in parte del Sud Globale, potrebbe essere “paura del futuro”.
È la paura che le prospettive di vita si
stanno riducendo, e che i figli e i nipoti saranno meno benestanti dei loro
genitori e nonni.
Nella
classe media globale si diffonde il sospetto che le aspettative suscitate dallo
sviluppo non saranno soddisfatte.
Le
classi medie dei paesi che erano ricchi, sfoltite dalla globalizzazione, ora
chiedono protezione e sicurezza.
Allo
stesso tempo, vaste porzioni delle popolazioni dei paesi emergenti, alienate
dalle proprie tradizioni, al corrente degli stili di vita occidentali attraverso i loro
smartphone, ma escluse dal mondo moderno, fanno ricorso all’orgoglio
nazionalista.
Ovunque
si assiste a un’enorme polarizzazione tra ricchi e poveri.
Ma
mentre negli stati-nazione dei tempi andati i perdenti erano ancora capaci di
pretendere correzioni dai vincitori, al tempo della globalizzazione non sono
più in grado di farlo.
L’economia
transnazionale, specie il settore finanziario, trionfa sulle condizioni di vita
di ogni paese. Come risposta, sono emersi i populismi nazionali, con le loro
diverse sfaccettature.
Di
fronte alle turbolenze del mondo contemporaneo, inquadrare i problemi sociali
come “problemi di sviluppo” appare stranamente antiquato.
Se
tutto ciò non è ingannevole, nelle trasformazioni sociali si possono riconoscere
tre diverse narrative:
la
narrativa della fortezza, quella del globalismo e quella della solidarietà.
Il
pensiero della fortezza, espresso attraverso il populismo nazionale, ravviva il
passato glorioso di un popolo immaginario.
I
leader autoritari riportano in auge l’orgoglio, mentre gli “altri” diventano
capri espiatori (dai musulmani alle Nazioni Unite).
Ciò conduce all’odio per gli stranieri, a
volte combinato con il fondamentalismo religioso.
Si
diffonde ovunque una sorta di “sciovinismo opulento”, in particolare tra le
classi medie, i cui beni materiali devono essere difesi contro i poveri.
Nei
confronti dell’ecologia, inoltre, i populisti nazionali non mostrano altro che
disprezzo.
Gradiscono
la trivellazione dei mari, il fracking, l’estrazione del carbone e la
deforestazione.
Per
loro il cambiamento climatico è lo scrupoloso elenco dei nemici dell’economia
nazionale.
Sono
così retrogradi da glorificare il saccheggio della natura.
Tranne
che per la loro xenofobia, potrebbero essere considerati i fantasmi
dell’ideologia sviluppista degli anni Cinquanta.
Ciò
aumenta l’anacronismo dei populismi nazionali.
Al
contrario, la narrativa del globalismo ruota attorno all’immagine del pianeta
come simbolo archetipico.
Al
posto del mercantilismo da fortezza dell’“America First”, i globalisti
promuovono un mondo ideale di deregulation e libero commercio, che dovrebbe
portare ricchezza e benessere alle corporation e ai consumatori.
I globalisti considerano però l’attuale
sistema economico insostenibile.
Rispetto alle strategie politiche del
neoliberismo, essi danno più spazio agli investimenti pubblici, chiedono più
riforme nel settore sociale e in generale più leadership nelle politiche
pubbliche.
Soprattutto,
si battono per la crescita economica in un quadro di “green economy”.
Le élite
globalizzate possono anche essere preoccupate per il futuro, ma pensano che queste difficoltà
possano essere superate attraverso la crescita inclusiva, le tecnologie smart e
direttive in materia ambientale in grado di indirizzare le forze di mercato.
L’Agenda
2030 delle Nazioni Unite, con i suoi “Sdg”, si colloca in larga misura
all’interno di questo quadro di pensiero.
La
narrativa della solidarietà è diversa.
L’etica
eco-sociale si pone in opposizione sia alla narrativa della fortezza quanto a
quella del globalismo.
Essa
immagina un’era post-capitalista, fondata su uno spostamento culturale verso
l’eco-solidarietà.
La monocultura economica, che regna in larga
parte del mondo, dovrebbe lasciare spazio ad alternative di civiltà, siano esse
le visioni del mondo dell’”Ubuntu” o del “Buen vivir”, o quelle dell’umanesimo
o spirito di comunità europei.
Nella
mentalità della solidarietà, i diritti umani – collettivi e individuali – e i
principi ecologici sono altamente considerati;
le
forze di mercato non sono viste come un fine in sé, ma come mezzi per un fine.
La politica
della solidarietà promuove un cambiamento culturale piuttosto che tecnologico,
sostenuto da forme di economia cooperativa e da misure di welfare pubblico.
Diversamente dal globalismo, la narrativa
della solidarietà non invoca confini aperti, ma permeabili, imponendo
determinate condizioni ai migranti, alle merci e ai capitali, come la membrana
di una cellula vivente.
Così
come espresso dallo slogan “pensare globalmente, agire localmente”, viene
inoltre coltivato un localismo cosmopolita in cui le politiche locali devono
tenere in considerazione anche i bisogni della comunità transnazionale.
Ciò significa abbandonare il modo di vivere
“imperiale” che la civiltà industriale esige, lasciando la terra, il cibo e i
capitali del Sud Globale nelle proprie mani.
Soprattutto
di fronte al collasso ecologico, nel Nord come nel Sud del mondo è
indispensabile eliminare gradualmente il sistema economico basato sulle risorse
fossili, sostituendolo con un sistema fondato sulla biodiversità.
Questa
transizione implica sistemi eolici e solari per fornire energia, e agricoltura
rigenerativa per fornire cibo e fibre.
Al
posto di una modernità espansiva, è ora il tempo di una modernità riduttiva:
imprese
verdi, case a emissioni zero, una quantità di traffico motorizzato molto
inferiore (rispetto agli standard europei), un consumo di carne molto più basso
e, in generale, meno proprietà e più condivisione.
Infine,
sono necessarie nuove forme di prosperità frugale:
abbondanza
di tempo anziché abbondanza di merci, lavoro di cura anziché lavoro retribuito,
condivisione [partaking] della natura anziché partecipazione [taking part] alla
corsa dei topi.
Dal
momento che ci confrontiamo con la paura del futuro, sono in gioco gli
orientamenti politici fondamentali.
Questa
disputa paradigmatica sarà all’ordine del giorno nei decenni a venire.
Così
lo sviluppo, come le monarchie e il feudalesimo, è in procinto di allontanarsi
sempre più lontano nelle foschie della storia, e a quel punto interesserà
solamente gli studenti e gli studiosi.
Dare forma al nostro destino, oltre lo
sviluppo, è il compito che ci sta di fronte.
(“New
Internationalist”, n. 523, gennaio-febbraio 2020)
“Non
avrai nulla e sarai felice”:
gli
slogan ingannevoli di Davos.
Decrescitafelice.it
Bernardo Severgnini – (26 Febbraio 2023) - Team Redazionale Mdf – ci dice:
“Non
avrai nulla e sarai felice” è uno dei più celebri slogan prodotti dal “World
Economic Forum” (WEF), organizzazione finanziata dalle più grandi
multinazionali del pianeta, che ogni anno raduna a Davos, in Svizzera,
esponenti di primo piano della politica e dell’economia internazionale con
intellettuali e giornalisti accuratamente selezionati, per discutere delle
questioni più importanti che il mondo si trova ad affrontare, anche in materia
di salute e di ambiente.
Lo
slogan, in originale ”You’ll own nothing. And you’ll be happy” che potete vedere qui, se recepito
con superficialità, può richiamare aspetti della decrescita felice, ma che in
realtà, se analizzato a fondo, rappresenta un concetto ben diverso.
Da
sempre, e ancor più oggi, nel mondo dell’immagine, dei twit e della propaganda
fatta a slogan, il lessico è un’arma che il potere utilizza con disinvoltura e
con malizia per affermare e conservare sé stesso, per neutralizzare il dissenso
e per contrastare le pulsioni verso un reale cambiamento del sistema.
La
storia è piena di esempi in questo senso:
il
termine anarchia, che di per sé indica una forma di
organizzazione che supera le forme di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, è stato
nel tempo caricato di accezioni violente, è stato fatto diventare sinonimo di
disordine, è stato snaturato del suo significato autentico.
Oppure in tempi più recenti sovranismo, che di per sé indica il diritto dei
popoli a non essere etero-diretti, principio scomodo per i progetti globalisti,
è stato fatto diventare sinonimo di razzismo e xenofobia.
Quando
la propaganda di regime non riesce nell’intento di distruggere un termine a lei
scomodo, tende a farlo proprio, snaturandone il significato a proprio
vantaggio.
È il
caso ad esempio del termine “democrazia”, troppo positivo per poterlo rendere
sgradevole agli occhi dell’opinione pubblica, che viene oggi usato per definire istituzioni altamente oligarchiche
come l’Unione Europea.
Oppure
il termine ecologia, usato per promuovere operazioni commerciali di “greenwashing”
che ben poco hanno contribuito e contribuiranno al miglioramento delle
condizioni ambientali.
Anche
il termine decrescita ha ricevuto un trattamento particolare, lo si è caricato di
significati che non gli appartengono, come se volesse perseguire la povertà o
il rifiuto della modernità.
Questo
è servito per allontanare l’opinione pubblica dai reali concetti e dai reali
principi che la decrescita felice propone, e che se messi in pratica,
rappresenterebbero un duro colpo al business di quei gruppi di potere di cui la
propaganda si fa portavoce.
Ma
negli ultimi anni qualcosa è cambiato nell’approccio del sistema mediatico
mainstream nei
confronti della decrescita.
Se è vero che il vocabolo in sé continua ad
essere disprezzato e deriso, è anche vero che la prospettiva di una inevitabile
necessità di ridurre i consumi globali nel prossimo futuro è sotto gli occhi di
tutti, WEF compreso.
Da qui
l’urgenza di governare il periodo di sobrietà forzata che i signori di Davos
hanno predisposto per le masse per i prossimi anni.
Fare
in modo che le masse lo accettino senza remore, e possibilmente con entusiasmo.
Ecco
il senso dello slogan non avrai nulla e sarai felice, uno slogan che strizza l’occhio
alla decrescita felice, pur senza nominarla.
Uno slogan
che richiama troppo da vicino la decrescita felice per non rischiare di essere
frainteso.
È importante dunque che si mettano in chiaro
in modo netto le differenze tra ciò che si intende con decrescita felice e ciò
che invece intendono a Davos.
Innanzitutto,
questo slogan non dice “non avremo niente”, ma dice “non avrai niente”.
Non si
usa il verbo alla prima persona plurale, ma alla seconda singolare.
Scelta di parole curiosa promossa da chi
partecipa al Forum di Davos volando su jet privati e consumando migliaia di
volte più dei normali cittadini, personaggi che difficilmente rinunceranno ai
loro privilegi.
Ecco,
la decrescita felice non è nulla di tutto questo.
Non ci
può essere decrescita felice senza uguaglianza sociale.
In una società della decrescita non è prevista
una classe sociale di super ricchi che sta al di fuori e al di sopra.
Inoltre,
l’uso dei modi e tempi verbali sembrano indicare un futuro certo e inevitabile,
come se fosse già tutto scritto.
Hanno
deciso così e ci vogliono informare della loro decisione, non è previsto un
confronto costruttivo.
I dibattiti, questi metodi novecenteschi che
fanno solo perdere tempo!
Anche
qui, non c’è nulla di più distante dalla decrescita felice, che promuove un
modello di società dove le decisioni partono dai confronti con le comunità, non
certo dai CEO di qualche multinazionale.
Infine,
la decrescita felice significa scegliere di rinunciare a quel superfluo che
diventa dannoso.
Non
significa dover rinunciare a ciò che serve, ma semmai ottimizzare, attraverso
la condivisione, la fruizione di beni e servizi che saranno comunque sempre
nella disponibilità di tutti.
È
qualcosa di molto diverso da “non avrai nulla”.
Ricordiamoci
sempre che la “decrescita felice è una società di abbondanza condivisa”, una
società non realizzabile singolarmente, ma solo attraverso la condivisione e
la collaborazione.
Una
società che non ci potrà venire imposta, ma potrà solo essere scelta attraverso
processi democratici.
Per questo motivo, non si potrà realizzare
senza che i suoi concetti rivoluzionari siano diffusi nella cultura popolare.
La comunicazione è dunque la nostra sfida più
grande.
“Una
comunicazione che sappia resistere alle trappole semantiche del potere”, e che al contrario sappia
rappresentare la scintilla in grado di aprire “una grande stagione di lotta
collettiva per la giustizia sociale e ambientale”.
Caso
Vannacci, una folata di fumo
che ci dice una cosa:
i
globalisti odiano il dissenso,
” cdx”
complementare al “csx”.
Ilgiornaleditalia.it
– Matteo Brandi – (21 agosto 2023) - ci dice:
Cosa
ne pensiamo dunque della faccenda.
Vannacci?
La consideriamo una “cagnara” estiva buona solo a rimarcare cose che già
sappiamo:
i
globalisti odiano qualsiasi forma di dissenso, il centrodestra è complementare
al centrosinistra e una nuova costruzione ideologica non passerà da un libro su
Amazon.
Vannacci
sì o Vannacci no?
Nell'agosto
più caldo dai tempi dei dinosauri (ma forse anche del Big Bang), ecco pronta
per gli italiani l'ennesima folata di fumo negli occhi.
No,
non è la fuliggine degli incendi in Sardegna, bensì una nuova polemicuccia
estiva con cui spaccare in due l'opinione pubblica.
Parliamo,
ovviamente, della bagarre scoppiata attorno al libro "Il mondo al
contrario" del generale Roberto Vannacci.
Da una
parte abbiamo gli immancabili Torquemada della sinistra globalista, che sognano
per l'Italia scenari da Fahrenheit 451.
A costoro il concetto di "libertà di
espressione" risulta sempre più indigesto, a tal punto da invocare
epurazioni, censure, radiazioni e silenziamenti ogni volta che una voce osa
uscire fuori dal coro del “politicamente corretto”.
Gente
che parla di "onorabilità della divisa" dopo aver sempre dileggiato
la divisa stessa.
Gente
che invoca la Costituzione a intermittenza, solo quando fa comodo.
Gente
che tollera qualsiasi pensiero, certo, purché sia il proprio.
Dall'altra
abbiamo i folgorati dal generale ribelle, innamorati persi del condottiero
martire, tanto da innalzare il libro a "manifesto" politico.
Poco
importa che si tratti di un libello colmo di considerazioni banali, talvolta
claudicanti, accostabili a un'innocua chiacchiera da bar.
L'isteria
inquisitoria “woke” di questi giorni ha generato una forza uguale e contraria.
E
tanti saluti alla lucidità.
Se
emerge qualcosa di davvero rilevante, seppur non straordinariamente nuovo,
dalla fatica editoriale del generale, è che l'insofferenza al “totalitarismo comunista liberal progressista
woke del Pensiero unico” ormai attanaglia anche porzioni della nostra società
tutt'altro che "estremiste" o "dissidenti".
A dare
un tocco di comicità, infine, ci ha pensato il governo Meloni nelle vesti del
ministro Crosetto, il quale ha scaricato il generale Vannacci in un lampo.
Il
nostro pensiero va a tutti gli elettori meloniani che si trovano ad avere a che
fare, giorno dopo giorno, con le trovate di un PD 2.0.
Cosa
ne pensiamo dunque della faccenda Vannacci?
La consideriamo una “cagnara” estiva buona
solo a rimarcare cose che già sappiamo:
i globalisti (in Italia, Ue, Usa, Gb, Canada,
Australia, Nuova Zelanda, etc.) odiano qualsiasi forma di dissenso, il centrodestra è complementare al
centrosinistra e una nuova costruzione ideologica non passerà da un libro su Amazon.
Essersi
accorti di questo solo ora equivale davvero a vivere in un "mondo al
contrario".
(Matteo
Brandi - Segreteria nazionale Pro Italia)
Chi
comanda nel mondo?
Gognablog.sherpa-gate.com – (6 Aprile 2023)
- Roberto Pecchioli – ci dice:
Nelle
precedenti parti di questo elaborato abbiamo cercato di delineare una mappa dei
detentori del potere nel mondo, o meglio in Occidente e nella parte del pianeta
ad esso legato.
Detto
dell’alleanza strategica tra i signori del denaro (finanza) e i padroni delle
tecnologie relative alle nuove scienze, abbiamo affrontato il tema degli
strumenti di cui si servono per affermare e perpetuare il loro potere.
L’orizzonte
è quello della privatizzazione di tutto, l’estromissione della dimensione
pubblica e comunitaria e i governi ridotti a gendarmi di servizio.
Il finanzcapitalismo (Luciano Gallino) è
diventato biocrazia senza alternativa (l’acronimo TINA, there is no
alternative) in sinergia con la tecnocrazia informatica ed elettronica.
Lo
strumento più antico di perpetuazione del potere – attraverso la cooptazione
degli elementi ritenuti più affidabili – è la massoneria.
Fondata
nel 1717, circondata da un alone di segretezza, ha avuto nel tempo tra i suoi
membri e dirigenti larga parte delle élite europee e occidentali.
Al di
là del giudizio sulle idee che propugna e della banalizzazione complottista che
ritiene il Grande Oriente la sentina di ogni male, le logge massoniche – con la
loro struttura sovranazionale il cui centro è l’anglosfera – esercitano un
forte potere di influenza, ma innanzitutto sono un luogo privilegiato di
incontro e decisione.
Restano
una delle sedi privilegiate per dibattere, disegnare scenari, assumere
decisioni, il bacino in cui selezionare personalità destinate a ricoprire ruoli
dirigenti in campo politico, culturale, economico, finanziario, istituzionale,
militare.
Tuttavia,
anche la massoneria è un potere derivato, che non potrebbe esercitare il ruolo
che ha se non entro la cornice del sistema che abbiamo descritto.
In termini marxisti, essa è un elemento della
“sovrastruttura” (Ueberbau), l’insieme dei fenomeni ideologici, culturali e
spirituali che corrispondono alla base materiale ed economica della vita
sociale.
Di questa base o struttura, la sovrastruttura
è un riflesso, ma non semplicemente un prodotto.
La
struttura (struktur) è l’economia, cioè le forze produttive (uomini, mezzi,
modi) e, insieme, i rapporti giuridici di proprietà.
Marx
non seppe però analizzare compiutamente il ruolo sovraordinato della finanza,
che rivestì poi un ruolo centrale nella rivoluzione bolscevica e controllò a
lungo la banca centrale sovietica.
Abbiamo
rammentato che i signori del mondo poco potrebbero se non avessero al loro
servizio l’apparato militare, di sorveglianza e di informazioni degli Stati in
cui esercitano il dominio.
Ciò è ancora più vero da quando la
privatizzazione generale ha investito le grandi organizzazioni internazionali.
La piovra finanziaria, infatti, non è solo
dominus e dante causa di soggetti come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario
Internazionale (prodotti del sistema di potere uscito dalla seconda guerra
mondiale) ma si è impadronita, di fatto, delle organizzazioni transnazionali.
Tocca
ribadirlo:
la mano che dà è superiore a quella che
riceve.
Perfino
l’ONU – ossia il luogo di incontro degli Stati teoricamente sovrani – è
infiltrata, attraverso i finanziamenti e la burocrazia dirigente, da potentati
privati.
Un soggetto
come l’Unesco, il ramo delle Nazioni Unite che si occupa di educazione, scienza
e cultura, è controllato da uomini dell’oligarchia.
Primo presidente e ideologo dell’Unesco fu
Julian Huxley, eugenista, nipote di Thomas, detto il mastino di Darwin, e
fratello di Aldous, autore di romanzi distopici come Il Mondo Nuovo, tutti
membri di un’influentissima famiglia aristocratica britannica.
L’OMS
(Organizzazione Mondiale della Sanità) conta su cospicui finanziamenti privati,
tra i quali spiccano la Fondazione di Bill Gates e GAVI.
Quest’ultima è un’organizzazione di cui “fanno parte
paesi e settore privato, come la Fondazione Bill & Melinda Gates,
produttori di vaccini sia dei paesi sviluppati che in via di sviluppo, istituti
specializzati di ricerca, società civile e organizzazioni internazionali come
OMS, UNICEF e Banca Mondiale (fonte: Rappresentanza permanente d’Italia
all’ONU)”.
Un circolo vizioso:
le
filiali del Dominio si appartengono e si incrociano, come i loro dirigenti.
Il triennio che si sta (forse) chiudendo,
quello della pandemia, ha dimostrato l’immenso potere dell’OMS e degli
“istituti specializzati di ricerca”, definizione pudibonda di Big Pharma, le
multinazionali che hanno in mano, attraverso i farmaci e i vaccini, salute e
vita di miliardi di persone.
La gestione pandemica ha rivelato altresì
l’esistenza di laboratori scientifici riservati in cui si trattano virus e
batteri, rafforzandoli (“guadagno di funzione”) allo scopo – dicono – di
combatterli.
Il
potere dispone di un fiorente settore chimico che ha trasformato l’intera
filiera agricola in un protettorato dipendente da prodotti industriali:
pesticidi,
diserbanti e sementi geneticamente modificati (OGM) senza i quali crollerebbe
la produzione.
È il
regno di Bayer-Monsanto, Dreyfus, Basf, Corteva, Syngenta, protetto da ferrei
brevetti. La proprietà di questi colossi è in capo al solito grumo di giganti
multinazionali.
Un
altro tassello del potere è le grandi ONG (organizzazioni non governative, cioè
private), una sorta di pronto intervento con maschera filantropica al servizio
del Dominio.
Tra
esse, Médecin Sans Frontières, Oxfam, Amnesty International e varie altre, un
vero e proprio parterre des rois del Nuovo Ordine Mondiale.
La
caratteristica comune di queste associazioni – di cui vanno riconosciuti
comunque i meriti umanitari – è di condividere l’ideologia liberal progressista
delle élite occidentali e di essere finanziate da un altro architrave del
sistema transnazionale, le Fondazioni private.
Favorite
da un regime fiscale che le rende quasi immuni da imposte, sono il salvadanaio
di grandi famiglie e di miliardari, specie americani.
Le più note sono l’OSF (Open Society
Foundation) di George Soros, il finanziere ungaro americano di origine ebraica
(che nella prima giovinezza lavorò per chi confiscava beni ai suoi
correligionari!) e la Fondazione Bill e Melinda Gates.
Non meno ricche sono le fondazioni legate alle
famiglie Ford, Rockefeller, Carnegie e altre più appartate.
Movimentano
miliardi di dollari ogni anno a favore di varie cause, e vengono considerate
dalla narrativa ufficiale bastioni della filantropia.
La
sola” OSF” – a cui Soros ha conferito nel tempo almeno trenta miliardi di
dollari – distribuisce ogni anno più di un miliardo a ONG, associazioni,
partiti, gruppi, individui, università che condividono l’ideologia oligarchica
dominante, il coacervo di liberismo economico, libertarismo sociale,
materialismo e consumismo. In Italia spiccano tra i beneficiari il vecchio
partito radicale, Più Europa e le associazioni collegate, con al centro Emma
Bonino, dirigente dell’”OSF”.
Il
Dominio, per riprodurre il consenso, ha bisogno di controllare – cioè possedere
e finanziare – un immenso apparato di informazione, propaganda, comunicazione,
intrattenimento, spettacolo e cultura.
Guy Debord spiegò che la nostra è una “società
dello spettacolo”, inteso come “rapporto sociale fra individui mediato dalle
immagini, una visione del mondo che si è oggettivata.
Lo
spettacolo è sia il mezzo, sia il fine del modo di produzione vigente”.
La
stragrande maggioranza di noi non è che un soggetto passivo davanti allo
schermo della TV, del cinema, degli smartphone e dei computer, diventati parte
integrante della nostra personalità e persino fisicità.
Le
grandi agenzie di stampa che diffondono – o celano – le notizie che ci
raggiungono in tempo reale sono quattro o cinque in tutto, possedute dai padroni
universali.
L’oligopolio degli onnipotenti.
Crediamo
ancora al mito del libero cittadino che si forma delle opinioni?
Il sistema dello spettacolo e
dell’intrattenimento è nella disponibilità di pochi soggetti – anch’essi in
gran parte con sede in America o nell’anglosfera – che fabbricano e impongono
la visione del mondo, i valori di riferimento, i miti, le opinioni.
Proponiamo
un gioco: osserviamo per qualche minuto un film di trenta-quarant’anni fa e uno
di produzione recente.
La differenza di contenuti, principi,
linguaggi, iconografia, idee e condotte mostrate in negativo o positivo, è
abissale.
Uguale è l’esito di una ricognizione
diacronica della pubblicità.
Eppure
i padroni sono gli stessi:
tutti
conosciamo Walt Disney, Warner, le “majors” dell’industria musicale.
Vinta
la guerra con le altre ideologie della modernità, adesso possono dispiegare a
beneficio del neocapitalismo globalista tutto il potenziale di costruzione del
cittadino unisex a taglia unica, nomade, schiavo del consumo e dei desideri,
l’individuo vuoto cui sono sottratte tutte le radici morali, spirituali,
comunitarie, familiari.
Da un
secolo le scienze cognitive – psicologia, neurologia, psicanalisi – sono
utilizzate per orientare gusti, determinare scelte, veicolare idee, ossia per
“persuadere”.
Uno
dei precursori fu Edward Bernays, nipote di Freud, teorico della propaganda,
inventore delle tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica.
Dobbiamo
a Bernays l’affermazione secondo cui “la consapevole e intelligente
manipolazione dei costumi e delle opinioni delle masse è un aspetto importante
della società democratica.
Tale
manipolazione rappresenta un efficace strumento attraverso il quale uomini
intelligenti possono combattere per finalità produttive e contribuire a metter
ordine in mezzo al caos”.
Ossia
controllare le coscienze sotto la copertura della finzione democratica.
Vance
Packard parlò di “persuasori occulti”: altri tempi. Oggi il potere non ha più
bisogno di nascondersi e mostra, ostenta sé stesso, come nelle riunioni del
Forum Economico Mondiale.
Naturalmente,
la vetrina non è il negozio:
l’officina delle decisioni resta nel
retroscena, la regia in cima alla piramide – l’apparato finanziario-tecnologico
– e, un piano più sotto, gli organismi riservati, i “pensatoi” delle élite
(think tank), sodalizi come il Bilderberg, la Round Table, i vertici della
massoneria e di associazioni elitiste il cui modello sono le britanniche Royal
Society, Chatham House, Fabian Society.
L’importanza
assunta dalle reti sociali con miliardi di utenti è il perfetto successo di un
sistema che ha convinto i più di essere libero e aperto, ma che al contrario –
oltre a compravendere i dati di tutti e di ciascuno – ha organizzato un’inedita
censura privatizzata.
Nel
passato, la censura era prerogativa dei sovrani e degli Stati, oggi è appaltata
ai social media.
E diventa
autocensura, per paura e conformismo.
Il
successo di tale azione di riconfigurazione cognitiva, linguistica e
comportamentale è essenziale.
A tale
scopo, è stata organizzata una delle più gigantesche operazioni di lavaggio del
cervello della storia, un’autentica guerra il cui obiettivo è la nostra mente.
Si sta modificando la mappa cognitiva di centinaia di
milioni di persone, attraverso la creazione, diffusione e imposizione di una
neolingua “politicamente corretta”, che obbedisce cioè a canoni indotti
dall’alto, “corretti” in quanto modificati per corrispondere al criterio di
bene e di male, di giusto o sbagliato, voluto dal potere.
Chi
determina non solo che cosa è giusto pensare, ma perfino con quali parole
esprimerlo, proibendo termini e concetti e imponendone altri, è padrone del
nostro foro interiore.
Bertrand Russell, intellettuale e
aristocratico britannico, pronosticò che l’uso appropriato (dal punto di vista
dell’élite) delle discipline psicologiche avrebbe convinto la gente che “la
neve è nera”.
L’università americana di Stanford ha
elaborato un glossario del linguaggio “dannoso” e dei corretti termini da
usare, contravvenire i quali diventa “discorso di odio”, lo sconcertante psico reato
postmoderno.
La
guerra delle parole, cioè dei significati, è stata vinta anche con l’ausilio di
sistemi giuridici che rendono legali o illegali parole, concetti e pensieri e
negano l’esistenza di una legge naturale.
Noi stessi, mentre scriviamo, ci stiamo
sottomettendo alla neolingua.
Le tappe successive del progetto sono il
rovesciamento delle abitudini alimentari umane (un capovolgimento antropologico
e biologico) e l’abolizione della proprietà privata diffusa.
L’attacco
neofeudale alla casa e all’automobile rappresenta l’insidioso annullamento di
oltre due millenni di civiltà giuridica romanistica.
Tutto
deve essere di loro proprietà, compresi gli esseri umani.
Cancellazione:
della civiltà, dei diritti, delle parole, della libertà, dell’umanità.
L’esito è un neo schiavismo in cui i diritti
della persona – vanto della nostra civiltà – vengono obliterati a vantaggio di
un’oligarchia che atterrisce per metodi, scopi, malvagità, odio per la creatura
umana.
Di
loro non si può dire male:
“Madamina”,
il catalogo è questo, disse il servo Leporello alla povera Donna Elvira,
elencando le “conquiste” di Don Giovanni.
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