Sul loro impero globalista non tramonta mai il sole.

 

Sul loro impero globalista non tramonta mai il sole.

 

 

Carlo V e l’impero su cui

non tramontava mai il sole.

 Thewalkofame.it - Federico Rampini – (24 Febbraio 2021) – ci dice:

 

Carlo V, l’imperatore sul cui regno “non tramontava mai il sole”, nacque il 24 febbraio del 1500 a Gand, in Belgio.

Figlio di Filippo il Bello d’Asburgo e di Giovanna di Castiglia detta la Pazza (si incrociano quindi le dinastie spagnole e austriache) perciò nipote di Massimiliano I d’Asburgo, il suo impero segnò l’avvento di una nuova era:

 quella degli Asburgo, cristiani, che puntavano ad assolvere il loro mandato messianico di riappacificare il mondo cristiano, in balia della corruzione, del degrado morale ed eretico, delle eresie e degli scismi.

Questa missione è rintracciabile anche in un famoso quadro del Giorgione,

“La tempesta”, nel quale secondo Erminio Morenghi, nel 2013, riprendendo un’ipotesi di Leonardo Cozzoli identifica la figura femminile come la Sibilla Tiburtina con in braccio il futuro imperatore Carlo V, mentre Massimiliano I d’Asburgo osserva la scena.

 Ricalcando lo schema classico della manifestazione ad Augusto di Gesù Bambino tra le braccia di Maria, per opera della” Sibilla Tiburtina”, la cingana (zingara) sembra proferire al giovane soldato (Massimiliano I d’Austria), che la contempla assorto, una profezia nuova, stavolta relativa ad un’era prossima ventura che soppianterà il periodo precedente, quello di un cristianesimo paganeggiante e decaduto.

La profezia sembra assegnare proprio a Carlo V il gravoso incarico di guidare, in virtù dell’investitura imperiale da lui concepita come il massimo riconoscimento del potere sovrano, le sorti dell’intero mondo cristiano con l’obiettivo di assicurargli giustizia ed unità della fede già compromessa dallo scisma luterano.

L’infanzia già segnata verso il potere globale.

Battezzato nella cattedrale di San Bavone, l’edificio religioso principale della città belga di Gand, crebbe nelle terre olandesi allora in possesso degli spagnoli con i migliori insegnanti di grammatica, di letteratura, di matematica, di lingue antiche e fu addestrato alla vita da cavaliere.

Fu educato nella raffinatezza per volontà della madre.

Come un novello Alessandro Magno che per volontà della madre Olimpiade ebbe Aristotele come mentore.

All’età di 6 anni, in seguito alla morte del padre e all’infermità mentale della madre divenne duca di Borgogna e principe dei Paesi Bassi (Belgio, Olanda, Lussemburgo).

Dieci anni dopo divenne re di Spagna, entrando in possesso anche delle Indie occidentali castigliane, e dei regni aragonesi di Sardegna, Napoli e Sicilia.

 A diciannove anni divenne arciduca d’Austria come capo della Casa d’Asburgo e grazie all’eredità austriaca fu designato imperatore dopo il rifiuto in suo favore di Federico il Saggio, candidato proposto da papa Leone X.

 Carica, quest’ultima, comprata insieme ai voti dei grandi elettori tedeschi, necessari per l’elezione a Imperatore dei tedeschi, pagandoli grazie ai soldi dei banchieri Fugger.

La successione infatti non era ereditaria ma elettiva sin dalla Bolla d’oro di quasi due secoli prima.

Il suo Impero fu più grande di quello di Carlo Magno, estendendosi dall’Europa centrale e occidentale fino alle colonie in centro e sud America.

 Proprio da quelle terre riscuoteva numerose ricchezze, dopo aver finanziato viaggiatori come Magellano, Cortes, Pizarro, protagonisti del secolo delle grandi scoperte geografiche.

Quel secolo in cui il concetto d’Europa, già sviluppatosi con lo stesso Carlo Magno, Papa Pio II e poi con Machiavelli, cominciò ad entrare nel gergo comune in concomitanza con la presa di coscienza da parte delle élite culturali di essere europei in quanto diversi dalle popolazioni americane, dagli arabi che erano sempre una spina nel fianco ad Est, dalla civiltà cinese con cui aumentarono gli scambi sia commerciali sia culturali.

Nemici su tutti i fronti.

Il ‘500 fu il secolo in cui il concetto di christianitas fu affiancato, e in seguito sostituito, da quello di europei.

 Il progetto di Carlo V si inserì proprio in questo contesto, volendo istituire una Monarchia universale cristiana cattolica.

 Progetto che però gli creò numerosi nemici e altrettanti conflitti che segnarono i suoi 30 anni di dominio globale.

Il re francese cattolico Francesco I, i turchi ottomani, i luterani ed il Papa Clemente VII furono i suoi avversari più duri a morire.

Il re di Francia perché voleva impedirgli di portare a compimento le sue mire espansionistiche sul Ducato di Milano in quanto importante crocevia tra Nord e Sud Europa.

Il primo scontro ci fu nel 1521 in cui Francesco I cadde addirittura prigioniero.

In seguito alla pace fu liberato ma immediatamente ricostituì una alleanza contro Carlo V insieme al Papa.

La cosiddetta Lega di Cognac.

La Chiesa di Roma difatti non vedeva di buon occhio l’intromissione imperiale in Italia né tantomeno un unico sovrano più difficile da controllare rispetto a più monarchi cattolici ma meno forti.

L’idea di un’Europa asburgica e cattolica portò al conflitto che si protrasse fino al 1529 con Francesco I che lasciò Milano e con Carlo V, che in risposta all’avversione della Chiesa, nel 1527 inviò i mercenari austriaci noti come Lanzichenecchi a devastare Roma, in quello che è passato alla storia come “Sacco di Roma”.

L’azione contro Roma fu spinta anche dai nobili romani, che certamente non pensavano ad una simile conseguenza, in chiave antimedicea che con il Papa Clemente VII aveva messo piede in grande stile nella politica romana.

Nel frattempo Francesco I, deciso a sconfiggere Carlo V, si allea con i turchi ottomani di Solimano il Magnifico invadendo il Ducato di Savoia.

La risposta asburgica non si fa attendere e si esplicitò nell’attacco alla Provenza. La guerra si risolse addirittura nel 1544 con l’intervento papale che destinò il Ducato di Savoia alla Francia e Milano all’imperatore.

L’incoronazione ad Imperatore.

Nel frattempo, nel 1530, a Bologna Carlo V fu prima incoronato dal papa come Re d’Italia e il 24 febbraio, giorno del suo compleanno, fu incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero avendo ricevuto 10 anni prima ad Aquisgrana la corona di Re dei Romani.

Di questo avvenimento, fondamentale per il tentativo di raggiungere una “pace universale” nell’occidente cristiano sempre più insidiato dai turchi che erano giunti alle porte di Vienna, abbiamo un dipinto di Luigi Scaramucci detto “il Perugino”, intitolato “Incoronazione di Carlo V a Imperatore del Sacro Romano Impero”.

Nonostante ciò fu Tiziano il suo ritrattista per eccellenza.

 Come sostiene lo storico dell’arte Stefano Zuffi, l’artista riuscì a cogliere “il riflesso delle aspirazioni, delle tensioni, delle fatiche, del fasto, della fede, del rimpianto, della solitudine, degli ardori”.

Il rapporto tra i due fu speciale tanto che, leggenda vuole, l’imperatore si chinò addirittura a raccogliere il pennello caduto al pittore.

 

Tra i suoi nemici c’erano anche i protestanti, i seguaci di quel Lutero con cui cercò anche di mediare i rapporti con la Chiesa di Roma, fornendogli anche il famoso salvacondotto per Wittenberg prima della fine della Dieta di Worms nel 1521.

Ebbe quindi il grande problema di un regno globale  tanto esteso quanto abitato da popolazioni diverse anche per religione.

I luterani, tra le altre cose, riuscirono a convincere alcuni principi tedeschi facendoli aderire alla Lega di Smalcalda sempre in chiave anti-imperatore.

 La guerra si risolse nel 1555 con la pace di Augusta, dopo che al conflitto presero parte anche turchi e francesi.

Il trattato prevedeva la divisione religiosa della Germania secondo il principio “cuius regio, eius religio”, cioè la libertà di principi e sovrani di poter decidere quale religione abbracciare e imporre ai propri sudditi.

 

Nel 1556 Carlo V abdicò dividendo però il regno tra il figlio Filippo II, affidatario della Spagna, dell’Italia, dei Paesi Bassi e delle colonie, e il fratello Ferdinando I a cui andarono i possedimenti degli Asburgo e il titolo imperiale.

Tramontava così il sogno di un Impero Universale e Cattolico di quello che fu l’imperatore forse più importante fino a Napoleone.

Morì il 21 settembre 1558 a  Cuacos de Yuste, in Spagna, stringendo al petto il crocifisso ed esclamando le parole “Ya, voy, Señor” (Sto venendo Signore).

La sua vita è stata protagonista anche di due opere di Giuseppe Verdi, nell’Ernani e nel Don Carlo, mentre nel 2014 l’attore Adrien Brody lo ha interpretato in quanto protagonista del film “Emperor”, affermando di essere stato affascinato da questo personaggio e dal periodo storico in quanto ci fu il primo “tentativo di unificare l’Europa, si comincia a parlare di moneta unica, comincia a essere concreto il problema delle migrazioni di massa, si diffonde la stampa.

È un periodo in cui la Storia inizia a cambiare per sempre, si fanno grandi passi avanti verso il globalismo”.

Sul suo impero non tramontava mai il sole.

Sulla sua vita, considerando il segno lasciato nella storia, neanche.

 

 

 

“Ci vuole un governo sovranista

 per fare una politica globalista”

 sinistrainrete.info – (4 ottobre 2022) - Miguel Martinez - ci dice:

Da circa due settimane il quotidiano della FIAT, “Repubblica”, ha improvvisamente smesso di dire che la signora Meloni sta per marciare su Roma e trasformare il Gasometro in una camera a gas.

Anzi, inizia a trattarla quasi con rispetto.

Conosciamo tutti la frase (la sentii secoli fa in bocca proprio a Gianni Agnelli a un telegiornale),

“per fare una politica di Destra, ci vuole un governo di Sinistra. “

Non è un discorso paradossale: il sistema partitico si basa infatti sull’esistenza di due poli, che si controllano a vicenda, nell’interesse generale.

Prendiamo un caso immaginario, un ospedale.

La Sinistra in teoria vuole che l’ospedale sia pubblico “perché è più giusto”; la Destra vuole che l’ospedale sia privato “perché funziona meglio”.

Appena un governo di Destra fa la minima mossa per privatizzare l’ospedale, la Sinistra organizza proteste; e la Destra deve stare attenta, perché rischia di perdere voti.

Ma anche la Sinistra, se va al governo, deve stare attenta: la Destra veglierà affinché non diano lo stesso stipendio al custode e al chirurgo, demotivando quest’ultimo.

Questa è la teoria.

Ma poniamo che un governo di Sinistra arrivi al potere, e invece privatizzi l’ospedale.

La Destra non protesterà per la privatizzazione, ma siccome deve comunque attaccare la Sinistra, la accuserà di non privatizzare abbastanza.

E gli elettori di Sinistra? Ci stanno.

Perché la Destra è sempre nemica, come la Juve.

Perché se dovesse vincere la Destra, privatizzerebbe ancora di più, meglio accettare il male minore.

Perché il fatto che la Destra accusi la Sinistra di non privatizzare abbastanza è rassicurante.

Oggi abbiamo altre questioni.

Ci sono mille sfumature, ma il collasso industriale dell’Europa, le misure legate alla pandemia e poi alla guerra russo-ucraina fanno intuire a tutti due poli ancora vaghi.

I nomi li metto in modo molto provvisorio, suggeritene pure degli altri:

Il globalismo dice che le decisioni devono essere prese a livello sovranazionale, da tecnici che non sottostanno ai capricci del “popolo”;

che i mercati funzionano bene quando sono a livello planetario;

che a decidere di salute e malattia, guerra e pace, occupazione e commercio, devono essere organismi come l’OMS, la NATO, la WTO, la Banca Centrale Europea.

Questo meccanismo suscita reazioni di ogni sorta, spesso meschine – pensiamo a chi si oppone all’accoglienza degli immigrati, ma è pronto a devastare la propria terra per farci un aeroporto che faccia venire ancora più turisti.

Però c’è anche molto altro, e quando abbiamo detto il peggio del peggio di chi reagisce al globalismo, dietro e sotto c’è un nucleo sano, di rifiuto di farsi mettere i piedi in testa da gente che pretende di avere più titoli e saperne di più: è il cosiddetto sovranismo.

Per una serie di slittamenti, oggi il polo simbolico globalista, in Italia, è rappresentato dal PD (che appoggia il globalismo Usa e Ue! N.d.R.);

 quello sovranista dall’alleanza tra Salvini e Meloni.

Ora, applichiamo il template del “per fare una politica di Destra, ci vuole un governo di Sinistra. “

Siamo in una situazione di crisi attuale e collasso imminente.

Se il PD provasse a fare una politica globalista, verrebbe immediatamente spazzato via. (Ma il fatto che il Pd appoggia e fa proprie le teorie woke, cancel culture, Lgbt, Gay ecc. per ora non si direbbe! N.d.R.)

Ma se a fare la politica globalista si mettesse un sovranista?

L’opposizione starebbe lì come un falco a farne un “sorvegliato speciale “, sotto costante tutela, per vedere che globalizzi come si deve.

E ogni giorno il sovranista starebbe lì a cercare di superare paletti sempre più alti per dimostrarsi un buon globalista.

E appena qualcuno dice, “ma scusa, non dovevamo diventare più sovrani?”

verrà azzittito, “zitto e ringrazia che ci siamo noi, pensa cosa farebbe il PD per toglierci la sovranità!”

Ma mentre i sovranisti implementano ogni ordine dell’OMS, della NATO o dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, i globalisti potranno sempre scovare un sovranista di Calascibetta che su Facebook ha detto che i matrimoni gay offendono i valori cristiani.

E così non solo i globalisti si sentiranno felicemente di Sinistra, ma anche i sovranisti si sentiranno felicemente Destri e attaccati dalla Sinistra.

La perfetta simbiosi conflittuale.

(Per chi lo crede! N.d.R.)

 

 

 

 

La guerra di Mr. Bannon.

Dissipatio.it – (22 giugno 2020) – Daniele Perra – ci dice:

 

Dopo un periodo di relativa quiete, la crisi pandemica ha rilanciato la figura dell'ex capo stratega della Casa Bianca Steve Bannon che si è reso protagonista di alcune iniziative (il lancio del “marchio” New Federal State of China su tutte) che meritano particolare attenzione.

Nella prima metà degli anni ’30 del secolo scorso, “Johann von Leers”, una delle menti più brillanti della Germania nazionalsocialista, rivolse un’accorata critica all’ultimo scritto di “Oswald Spengler” (Anni della decisione) in cui il pensatore del “Tramonto dell’Occidente” suggeriva un’alleanza tra la Germania e le potenze imperialistiche che l’avevano umiliata con il Trattato di Versailles per salvare l’umanità bianca dalla “rivoluzione mondiale di colore”.

Così “von Leers” replicò a “Spengler”:

 

“Ogni rafforzamento del Giappone, della Cina, e in generale ogni formarsi di una nuova potenza nel mondo extraeuropeo equivale all’indebolirsi delle grandi potenze dell’Europa occidentale […]

 Per il fantasma degli interessi comuni della razza bianca dobbiamo ancora conservare e appoggiare queste potenze nella loro egemonia mondiale?

Dobbiamo noi, in nome della razza bianca, salvaguardare il dominio coloniale francese? […]

 L’impero dei popoli bianchi preconizzato da Spengler non è nient’altro che una reviviscenza del vecchio cosmopolitismo liberale sotto le insegne della razza”.

(Johann von Leers)

L’idea ultima di Spengler, in tempi più recenti, venne fatta propria dal pensatore francese (da poco scomparso)” Guillaume Faye”.

Questi definì addirittura il XXI secolo come il “secolo spengleriano”.

 Secondo il teorico del concetto di “Eurosiberia” (assolutamente opposto all’idea di una “Eurasia”), lo scontro tra civiltà preconizzato da” Samuel P. Huntington “rendeva necessaria una forma di solidarietà globale tra tutte le popolazioni di origine europea (dal Nord America all’Europa, fino all’Argentina) capace di superare le rivalità geopolitiche nella precisa consapevolezza che l’abisso che separa l’Europa dal mondo arabo-islamico sia enorme rispetto alle “marginali differenze” che dividono il Vecchio Continente dall’America.

Guillaume Faye.

“Faye”, protagonista nei suoi ultimi anni di vita di una vera e propria deriva fallaciana, era inoltre convinto che un conflitto geo-etnico avrebbe in qualche modo distrutto gli Stati Uniti.

Di conseguenza, sarebbe stato facile per l’”Eurosiberia” riconquistare il primato sui suoi figli immigrati in America.

Nel corso degli ultimi anni, le idee di “Faye” sono state fatte proprie dall’ex capo stratega della Casa Bianca “Steve Bannon” che le ha “aggiornate” per costruire una sorta di asse euro-russo-americano in cui gli Stati Uniti, naturalmente, possano continuare a mantenere inalterato il loro primato come “faro di civiltà” contro le antiche e combattive popolazioni dell’Eurasia.

 Ora, se c’è qualcosa che” Faye” sembra non aver mai compreso, e che “Bannon” sa perfettamente, è il fatto che un conflitto interetnico all’interno degli Stati Uniti, comunque, non metterà mai in discussione i “valori fondanti” della società americana.

L’idea di “destino manifesto”, dell’eccezionalismo americano, ovvero la volontà di plasmare il mondo a propria immagine e somiglianza, sono qualcosa di connaturato a tale società.

Il destino manifesto di un Obama, ad esempio, è puro suprematismo in cui la componente razziale viene superata dall’idea dell’America come entità messianica universale.

Le proteste dei “Black Lives Matter “e dei gruppi “Antifa” non mettono in discussione tale ordine di idee ma ne sono la loro massima espressione.

 Non vi è niente di meno rischioso per le élite del vandalismo a-ideologico e fine a sé stesso che si scaglia contro un monumento del passato piuttosto che contro le distorsioni del modo di produzione liberal-capitalistico.

Tali “lotte”, lungi dall’essere ostili al sistema americano-centrico, ne sono assolutamente consustanziali e vengono imitate inutilmente su tutta l’area di influenza di Washington senza nessun esito concreto salvo dimostrare la totale sottomissione psicologica e ideologica ad un modello insano.

La stessa guerra civile americana non fu lo scontro tra due visioni opposte del mondo ma semplicemente lo scontro tra una visione conservatrice ed una progressista dei rapporti economici di produzione.

 Oggi, tale scontro si sta riproponendo in una forma quasi parodistica su quale sia il modello da seguire per mantenere inalterato il sistema egemonico nordamericano o, quantomeno, per ritardare il più possibile l’evoluzione dell’ordine globale verso il multipolarismo.

Da un lato c’è un modello (quello trumpista) che sembra aver perso immediatamente il suo slancio propulsivo iniziale.

Qualcuno sarà sicuramente tentato dal dare la colpa ai complotti del “deep state”, tuttavia, il trumpismo non solo non ha modificato di una virgola i rapporti di potere interni agli Stati Uniti ma, sotto certi aspetti, ha addirittura rafforzato lo status quo ed acuito le differenze sociali visto che i sempre più ricchi non hanno mai pagato così poche tasse come negli anni ultimi quattro anni.

Senza considerare che il mito propagandistico (costantemente riproposto) del Trump ostile alle guerre è rimasto tale.

Di fatto, non solo le dichiarazioni di ritiro dai teatri di guerra sono rimaste al livello di vaghe promesse o di accordi piuttosto ambigui (come nel caso afgano), ma si è continuato ad accrescere le tensioni (i casi diretti dell’Iran e del Venezuela ne sono l’esempio emblematico, ma non si può tralasciare l’utilizzo di attori terzi come Turchia o India per infastidire gli avversari strategici) per continuare a nutrire il gigantesco comparto bellico-industriale che ruota attorno al Pentagono.

Dall’altro lato c’è il tradizionale progressismo mondialista di marca sorosiana che mira al medesimo risultato sebbene con mezzi differenti.

 Entrambi, naturalmente, individuano il loro nemico principale nella Cina.

Nonostante qualcuno abbia recentemente blaterato di fantomatiche alleanze tra “deep state” e Cina comunista, è ben risaputo, tra coloro che si informano attraverso i documenti ufficiali, che i tentativi di contenimento di Pechino fossero già iniziati nel corso della precedente amministrazione Obama.

 

Steve Bannon.

Bisogna dare a atto a Steve Bannon, la cui influenza viene spesso celata, di aver individuato la ragione del deficit di potenza statunitense.

 L’ideologo del trumpismo ha infatti compreso che gli Stati Uniti non potevano affatto combattere contro il Paese manifatturiero più grande al mondo nel momento in cui la loro manifattura si è esaurita.

Infatti, la battaglia decisiva del futuro è proprio quella della produzione.

 Le capacità produttive hanno permesso agli Stati Uniti di vincere due guerre mondiali (soprattutto la seconda), naturalmente aiutati dal fatto che il loro tessuto industriale non potesse in alcun modo essere scalfito da attacchi aerei nemici.

Motivo per cui i vertici militari giapponesi erano sicuri del fatto che l’Impero del Sole non avrebbe avuto grandi possibilità di vittoria in una guerra prolungata con Washington.

Oggi, gli USA continuano ad avere una tecnologia avanzata ma non hanno più i mezzi per produrre quasi nulla di ciò che brevettano.

 Se l’Occidente a guida nordamericana ha un problema, questo è l’incapacità di poter correggere i propri errori.

Essendo una civiltà che si fonda essenzialmente sul profitto ha delocalizzato in Asia la maggior parte del proprio tessuto industriale.

 Essendo incapaci di uscire dagli schemi economici del capitalismo, il disimpegno nordamericano dalla Cina, propagandisticamente paventato dal trumpismo, in termini industriali, imporrebbe un netto abbassamento dei salari per competere col mercato cinese.

 Certo si potrebbe sopperire con l’automazione, con la tecnologia robotica, ma questo comporterebbe, a sua volta, delle crisi occupazionali.

 Dunque, in entrambi i casi si acuirebbero le tensioni sociali.

 Così, il rientro della produzione in Patria rimane solo sul piano teorico;

mentre nella realtà la si trasferisce in Paesi potenzialmente non ostili come India e Indonesia, ad esempio.

O, ancora meglio, si cerca di instaurare un governo amico a Pechino.

In questo contesto rientra la sceneggiata messa in atto a New York, nel giorno dell’anniversario delle proteste di Piazza Tienanmen (poco importa che queste non fossero affatto così pacifiche come vengono descritte dalla storiografia occidentale), da Steve Bannon e dal milionario cinese Guo Wengui:

un ambiguo personaggio residente da qualche anno negli USA, ricercato da Pechino per riciclaggio, rapimento e stupro, e di cui Donald J. Trump ha negato l’estradizione nel momento in cui si è reso conto che era membro dei lussuosi club di sua proprietà Mar-a-Lago (Florida) e Mark’s Club (Londra).

A dimostrazione del fatto che non vi è alcuna sostanziale differenza tra i cosiddetti “globalisti” e “sovranisti”, Bannon, in quella circostanza, ha utilizzato il tradizionale vocabolario da “poliziotto globale” definendo il Partito Comunista Cinese come una organizzazione criminale senza legittimità che massacra il suo stesso popolo (stesse accuse rivolte nel corso degli anni a Saddam Hussein, Mu’ammar Gheddafi, e Bashar al-Asad) ed esporta corruzione su tutto il globo.

Il PCC minaccia la sicurezza ed il primato dell’Occidente.

I due hanno inoltre colto l’occasione per lanciare il “marchio” New Federal State of China.

 L’idea è quella di fare della Cina, una volta liberata dal PCC, una sorta di nuova CSI:

la Comunità di Stati Indipendenti sorta dalle ceneri dell’URSS nel momento in cui la Russia di El cin era poco più che un gigantesco satellite occidentale.

Inutile dire come questo, ancora una volta, sia puro unipolarismo nordamericano.

 Gli USA non possono permettersi di lasciare in pace la Cina.

Essi devono necessariamente creare “crisi” (Hong Kong e Taiwan, ad esempio, ma anche lo Xinjiang o i disordini di frontiera tra India e Cina) e fare in modo che i loro avversari disperdano energie su più fronti in modo da guadagnare tempo e salvare la loro egemonia in un momento in cui l’alleanza strategica tra Mosca e Pechino non li rende più capaci di intervenire militarmente in modo diretto.

Alleanza che, nonostante i tentativi nordamericani, difficilmente verrà spezzata nel breve periodo visto che nei prossimi anni Pechino importerà quantità sempre maggiori di idrocarburi siberiani.

Va da sé che non vengono risparmiati neanche i tentativi di creare delle vere e proprie quinte colonne all’interno del territorio cinese.

Oltre ai già citati casi di Hong Kong o dello Xinjiang (senza considerare il Tibet), a questo proposito, non è da sottovalutare la penetrazione cristiana in Cina e la relativa pacificazione tra il Vaticano (in cui Banon continua ad esercitare una certa influenza su certi ambienti ultra-conservatori) e Washington sancita anche con la simbolica visita di Trump al santuario di Giovanni Paolo II: il pontefice spesso indicato come artefice del crollo dell’URSS.

Ora, ciò che spesso viene tralasciato da questi strateghi è la profonda disciplina ed il legame che unisce il popolo cinese al Partito che lo guida.

Un aspetto che in Occidente non esiste più e che in Cina si è reso evidente nel momento in cui si è affrontata la lotta al Covid-19:

quel “demone” occidentale (secondo le parole di Xi Jinping) che, esaurita la carica virale, viene oggi sfruttato per costruire improbabili processi ideologici ed altrettanto improbabili nuove Norimberga dai collaborazionisti degli occupanti americani del suolo Europeo.

 

 

 

 

Il paradosso "gentrificazione":

città più ricche e poveri espulsi.

msn.com - Gianluca Schinaia  - Avvenire – (19-8-2023) – ci dice:

 

Da cosa è composta l’anima culturale di una città?

Probabilmente, dall’alchimia nata dalle tradizioni di chi ci vive da sempre e dalla forza rigenerativa delle iniziative create da chi ci arriva.

 E cosa succede quando chi viene da fuori finisce con l’allontanare i residenti originari?

 Un fenomeno ormai noto, che si chiama “gentrification”. Termine inglese che deriva da gentry, “piccola nobiltà” e che chiarisce subito la questione:

la “gentrificazioneè il processo per cui quartieri un tempo umili e popolari sono riqualificati e diventano preda privilegiata delle élite cittadine, escludendo gli autoctoni a colpi di rincari immobiliari.

Il diritto ad abitare in uno spazio urbano diventa basato sul censo, non sull’anzianità di residenza.

 In Italia, se ne è parlato moltissimo recentemente a causa della regina italiana delle città “gentrificate”: Milano, l'agglomerato urbano più vitale e internazionale d’Italia.

Ma allora la “gentifricazione” è una minaccia di declino o una conferma di sviluppo?

Partiamo dai dati specifici sul mercato immobiliare forniti ad “Avvenire” dal Centro Studi del Gruppo Tecnocasa:

negli ultimi cinque anni i prezzi immobiliari del capoluogo lombardo sono aumentati del 43%, contro una media delle metropoli italiane inferiore al 10%.

 Case in vendita ad oltre tremila euro a metro quadro in zone periferiche, a cinquemila in zone semi-centrali: oltre i diecimila in centro.

Una produzione di ricchezza, ma non di valore, come spiega Giovanni Semi, docente di Sociologia urbana all'Università di Torino, che in autunno pubblicherà per” Mimesis” il libro “Breve manuale per una gentrificazione carina”.

 «Una città come Milano, unico spazio urbano internazionale a livello italiano, si paragona a Parigi, New York e con queste metropoli condivide problematiche comuni, come la gentrificazione.

 Non ha più nulla a che spartire con Torino, Genova, vecchi epigoni del triangolo industriale italiano, ma neanche con Roma».

Tutte le città che crescono economicamente, quindi le metropoli più vivaci del mondo, sono interessate da questo fenomeno.

«A Milano si parla di gentrificazione almeno dagli anni 70: è una definizione che ciclicamente riemerge».

 

In città, secondo Tecnocasa, i prezzi elevati delle zone centrali e semicentrali hanno comportato negli anni uno spostamento degli acquisti verso le zone periferiche, motivo per cui queste ultime hanno sperimentato un rialzo dei valori.

A determinare questo trend anche la ricerca di spazi esterni e metrature più ampie, caratteristiche più facili da trovare nelle zone periferiche e a prezzi più accessibili.

 I quartieri più rincarati sono stati San Siro (+64,7%) e San Siro Capecelatro (76,5%), dove a fare la differenza è stato l’arrivo della metropolitana “lilla”, anni fa.

Già lo snodo della lilla ha determinato una maggiore domanda sia di acquisto sia di affitto, migliorando i collegamenti con il resto della città, in particolare con i due più importanti poli direzionali di City Life e Porta Nuova.

 Spiega “Semi”:

 «Porta Nuova è un caso emblematico di super-gentrificazione: la trasformazione profonda di quest’area di Milano è stata portata avanti attraverso masterplan con archistar, capitali internazionali, la zona ha visto un passaggio dal valore a metro quadro quasi triplicato in certe aree.

Proprio come è successo a “Canary Wharf”, a Londra».

 

Adesso è in fase di finalizzazione la M4 a Milano, quinta linea metropolitana che collegherà la zona orientale al resto del capoluogo:

e infatti, già le zone interessate di Forlanini, Lambrate e Città Studi hanno visto rincari sensibili nei costi residenziali.

Proprio Città Studi e in particolare Piazzale Leonardo Da Vinci, sede del Politecnico di Milano, è stata il luogo delle occupazioni di protesta durate mesi da parte degli studenti contro il caro-affitti.

In effetti, anche i dati testimoniano come gli incrementi delle locazioni più costose in Italia siano stati registrati proprio a Milano:

 nell’ultimo anno +6,4% per i monolocali, +6,8% per i bilocali e +6,5% per i trilocali. Secondo Tecnocasa, la motivazione è una domanda elevata, spinta anche da chi non riesce ad acquistare, e un’offerta in diminuzione.

 Cresce, infatti, la preferenza per gli affitti turistici che, oltre a garantire rendimenti superiori all’affitto residenziale, offrono una maggiore certezza di rientrare in possesso dell’immobile.

Nuove linee metro, offerta universitaria di eccellenza, eventi come le Olimpiadi invernali che seguono Expo: Milano è diventata più ricca e attrattiva.

 Se la città migliora, non è coerente che i prezzi dei suoi immobili crescano?

Basti pensare che le iniziative di rigenerazione urbana di cui Milano è stata protagonista hanno portato un incremento del valore aggiunto immobiliare di oltre il 15%.

«Attraverso questi processi di upgrade dei servizi - spiega Semi - espelliamo i ceti cittadini più vulnerabili.

Milano è tutta gentrificata: le viene iniettata continuamente troppa ricchezza.

Quindi, da un lato, molta gente sta bene e il reddito medio milanese è il più alto d’Italia.

Ma, dall’altro lato, la crisi abitativa costante e l’espulsione dei cittadini originari testimoniano che non solo a Porta Nuova ma ovunque in città si vive un processo di gentrificazione».

Un fenomeno che colpisce in particolare i giovani, spesso in trasferta per studiare nelle grandi università, strozzati da affitti sempre più alti.

Nonostante la stretta sui mutui, i prezzi delle abitazioni continuano a salire.

A guidare la crescita è Bologna (+5,5%), seguita da Bari (+3,0%) e da Milano (+2,5%).

La città dell’università più antica del mondo è quella dove i rincari abitativi e la consuetudine degli affitti brevi sono sempre più evidenti.

 E in Italia il mercato della locazione continua ad accelerare.

 Le istituzioni locali e nazionali promettono di intervenire sul fenomeno della gentrificazione, ma in realtà «nessuno vuole frenarla: qualsiasi sindaco cerca di attrarre i capitali internazionali, sviluppare le infrastrutture, far crescere la città. Molti addirittura pensano: ‘Cos’ha di male?’

 Ecco, questa nuova ricchezza non si redistribuisce.

Chi ha un reddito bloccato, come i lavoratori dipendenti, ha visto l’affitto crescere molto più del suo stipendio e quindi ha bruciato ricchezza».

In conclusione, non esiste differenza tra la super-gentrificazione e la gentrificazione “tradizionale”:

entrambe sottraggono valore culturale urbano, limitando la presenza dei residenti autoctoni, in funzione di una maggiore ricchezza economica.

Eppure la ricchezza è uno stimolo di sviluppo necessario per le metropoli.

Come si supera questo conflitto?

 «Se pensiamo alla turistificazione come una forma di gentrificazione, questa ormai riguarda tutte le città d’arte italiane ragiona Semi -.

D’altro canto, se le piattaforme digitali hanno innestato nuove forme di turismo ed effetti immobiliari chiarissimi, bisogna disincentivare questa speculazione privata».

«Nel 2023 in Italia è letteralmente scandaloso che l’imposta sul valore degli affitti sia la cedolare secca, al 21%, mentre l’imposta sul lavoro si aggira intorno al 40%. Bisognerebbe invertire i dati:

 se sottrai valore con la rendita devi essere tassato.

Quindi prima è necessario intervenire in termini di politiche fiscali a livello nazionale, e nel frattempo lavorare a livello locale in termini di supporto agli affitti e alle politiche abitative.

Si tratta di un’azione sistemica», conclude l’esperto.

Complessa, ma necessaria:

 bisogna cominciare ad affrontare il problema, prima di trovarci davanti a conflitti sociali nel cuore delle nostre città, figli dell’indifferenza politica verso la tutela dei diritti abitativi dei cittadini residenti nel Belpaese.

 

 

 

 

 

Abbattere e Seppellire Alberi

per Fermare il cosiddetto “Cambiamento

Climatico”: l’Idea di una Startup

sostenuta da Bill Gates.

Conoscenzealconfine.it – (18 Agosto 2023) - Christopher Helman - ci dice:

 

Gli scienziati sostengono che seppellire alberi possa ridurre il riscaldamento globale.

In California, la startup, “Kodama Systems” di “Merritt Jenkins” sta testando e perfezionando la sua macchina per la raccolta del legname, che pesa 17 tonnellate ed è lunga sette metri e mezzo.

I taglialegna usano macchine del genere, chiamate “skidder”, per prendere tonnellate di alberi tagliati e detriti, e trascinarle fuori dal bosco.

La versione di “Kodama” è progettata per svolgere questo compito anche di notte, con meno persone, grazie a connessioni satellitari e camere avanzate a lidar (light detection and raging, una tecnologia di telerilevamento che determina la distanza di un oggetto tramite un impulso laser), le stesse utilizzate sulle auto a guida autonoma, per monitorare il lavoro da remoto.

Non è facile.

“Gli alberi hanno molte texture diverse”, dice Jenkins, 35 anni. “Ogni tre metri il cammino è leggermente diverso”.

Ma tagliare legna nell’oscurità non è la parte più “intrigante” dei programmi di Kodama, che ha raccolto 6,6 milioni di dollari di finanziamenti dalla “Breakthrough Energy” di “Bill Gates” e da altri.

Dopo avere tagliato gli alberi, “Jenkins” vuole seppellirli per contribuire a rallentare il cambiamento climatico e raccogliere compensazioni di carbonio che potrà poi vendere (e forse, un giorno, anche crediti d’imposta).

Che cosa fa “Kodama Systems

Sì, l’idea convenzionale è quella di piantare alberi per assorbire l’anidride carbonica dall’aria e poi vendere i crediti alle aziende, ai proprietari di jet privati o a chiunque altro abbia bisogno o voglia compensare le sue emissioni.

Gli scienziati, però, sostengono che anche seppellirli possa ridurre il riscaldamento globale.

Soprattutto nel caso di alberi che finirebbero altrimenti per bruciare o decomporsi, disperdendo nell’aria il carbonio che hanno immagazzinato.

I giganteschi incendi divampati in California nel 2020 hanno evidenziato i rischi per l’aria, le proprietà e la vita posti dalle foreste troppo estese.

 “I cieli arancioni di San Francisco hanno rappresentato un punto di svolta”, afferma” Jimmy Voorhis”, head of biomass utilization and policy di Kodama”.

“Ora queste storie hanno un’eco diversa.

L’allarme suona ancora più forte quest’anno, dopo che gli incendi in Canada hanno messo a rischio l’aria di New York, Washington e Chicago”.

Per affrontare il problema, lo “Us Forest Service” intende tagliare 70 milioni di acri delle foreste occidentali, soprattutto in California, nei prossimi dieci anni.

 In questo modo estrarrà più di un miliardo di tonnellate di biomassa secca.

 È consuetudine, dopo un disboscamento del genere, che i tronchi di dimensioni tali da essere di interesse commerciale finiscano alle segherie, mentre il resto viene in gran parte accatastato e bruciato in condizioni controllate.

“ Kodama”, invece, vuole seppellire gli avanzi in vasche di terra progettate per mantenere condizioni asciutte e anossiche (cioè senza ossigeno) e proteggere il legno dalla putrefazione o dalla combustione.

 

 

Oltre ai fondi raccolti da venture capital, “Kodama” ha già ricevuto sovvenzioni per 1,1 milioni di dollari dall’agenzia californiana che si occupa degli incendi boschivi e da altre istituzioni.

 Altri si sono già impegnati ad acquistare i crediti di carbonio legati alle prime 400 tonnellate di alberi seppellite.

Sul mercato, quei crediti dovrebbero fruttare 200 dollari a tonnellata.

Kodama conta di arrivare ad abbattere e seppellire più di cinquemila tonnellate di alberi all’anno.

Con ragionamenti distorti e pretesti ridicoli questi malati di mente si apprestano a distruggere il pianeta.

Prendere coscienza di queste dinamiche e fermarli dovrebbe essere una priorità assoluta… e invece niente… tutti a pensare solo a sé stessi, a riempirsi di ogni vizio e a divertirsi... ma i tempi sono ormai maturi… e ognuno raccoglierà ciò che ha seminato! (nota di conoscenze al confine).

(Christopher Helman)

(forbes.it/2023/08/04/kodama-systems-startup-abbatte-alberi-salvare-clima/)

 

 

 

 

La globalizzazione non riesce

a pacificare l'intero mondo.

 Italiaogg.it - Martino Loiacono – (4 luglio 2023) – ci dice:

La rivolta di Yevgeny Prigozhin è un'ulteriore conferma della rinnovata centralità dello Stato e della sovranità.

Espulsi dalla narrazione derivante dal trionfo della globalizzazione, Stato e sovranità sono tornati al centro della scena a seguito dell'invasione russa dell'Ucraina e delle tensioni nel Pacifico.

Sempre più spesso si sente infatti parlare di confini, sovranità e territorio.

 Elementi concreti che sembravano essere tramontati grazie al trionfo della globalizzazione e della sua immaterialità, garantita da interconnessioni economico-finanziarie e comunicative in grado di superare qualsiasi barriera fisica.

Al contrario, il ritorno della Storia e dei suoi tragici conflitti ha smentito tutto ciò. La marcia del capo della Wagner rivela nuovamente che il controllo del territorio, o meglio la sovranità su di esso, e il monopolio della forza su un determinato spazio fisico sono fondamentali e imprescindibili anche in un mondo interconnesso.

Non essere in pieno controllo delle forze militari e non esercitare il monopolio della violenza significa essere fragili.

Significa essere in balìa di forze che da un momento all'altro possono sovvertire l'ordine costituito e imporre un cambio di regime.

Quanto accaduto pochi giorni fa conferma che la fase storica inaugurata con l'invasione russa dell'Ucraina necessita di un approccio analitico più realistico e meno ideologico.

 In altre parole, la realtà di questa fase, fatta di armamenti e politiche di potenza, non può essere letta attraverso le lenti deformanti dell'ottimismo globalista, che svaluta i concetti legati allo Stato moderno e alla sua lunga storia.

 Del resto, la formazione della statualità e del concetto di sovranità affonda le sue radici nel sedicesimo secolo, molto prima dell'affermazione della globalizzazione contemporanea.

Fenomeno che ha stravolto il mondo ma senza riuscire a modificare in profondità una costruzione di lunghissima durata come lo Stato moderno.

 Organizzazione sulla quale si fonda ancora l'ordine mondiale.

Basta osservare quanto accade in Ucraina dove il controllo e la sovranità sui territori continuano a essere il nodo del contendere.

Senza dimenticare quanto sta succedendo a Taiwan.

 Dove si stanno sfidando le due superpotenze globali del secolo: Cina e Stati Uniti. Un confronto che si gioca su chip, tecnologie e armamenti.

Ma anche su misure protezionistiche per evitare che l'avversario acquisti componentistica cruciale per sviluppare armi.

Un'ulteriore conferma che la globalizzazione non è riuscita a pacificare il mondo.

E che gli Stati nazionali continuano a confrontarsi e scontrarsi, anche sul piano militare e tecnologico.

 

 

Il mondo va nella direzione esattamente

opposta rispetto all’utopia globalista.

Secoloditalia.it – (28 Dic. 2022) - Mario Bozzi Sentieri – ci dice:

 

Dopo avere immaginato, a ridosso delle elezioni del settembre 2022 e della vittoria del centrodestra, sfracelli e cataclismi, certa “buona informazione”, visti i risultati, sembra ora votarsi ad una sorta di minimalismo cultural-politico ugualmente fuori dalla realtà.

Il sovranismo e l’utopia globalista.

Prendiamo il “sovranismo”.

 Considerato una sorta di dannazione nazionale, di fronte ad un mondo avviato lungo i “felici” percorsi della globalizzazione e dell’integrazione delle economie e delle culture, il “sovranismo” viene oggi letto come una risposta “periferica” dai bassi orizzonti strategici e geopolitici.

Vedremo presto – scrive “Mario Lavia” (su “Linkiesta Magazine + New York Times World Review” 2022) – se il nazionalismo di Meloni e dei suoi consiglieri, che spuntano come funghi nei giornali e nei salotti, entrerà in contraddizione con la globalizzazione della politica e finanche delle coscienze, se la Roma meloniana si accontenterà di uno strapuntino della Storia e non di un palcoscenico aulico che il suo retroterra ideologico dovrebbe ispirare”.

Il nostro destino secondo Lavia?

 Quello di tornare al ruolo di periferica “nazioncina” che si illude di poter vivacchiare lontano dagli stress globali.

Il globalismo nell’anno del tramonto.

In realtà il mondo sembra andare nella direzione esattamente contraria rispetto all’utopia globalista.

E proprio sulla base di una realtà fattuale di cui certi osservatori benpensanti non sembrano volere conto.

Che il “globalismo”, nell’anno al tramonto, non abbia goduto di particolari fortune lo dicono una serie di ragioni che proprio nel 2022 hanno trovato concreta visibilità:

le nuove limitazioni allo spostamento di merci e persone;

 il tramonto del mondo interconnesso dell’informazione senza confini, a fronte di una guerra parallela, quella delle new e di una nuova Rete che invece di globalizzarsi crea nuove cortine di ferro digitali;

l’impatto demografico;

 il riorientamento geopolitico dell’Europa destinato a spostare sempre di più il suo asse strategico verso il Mediterraneo;

le diversificazioni in campo energetico;

la sfida dell’autonomia strategica nel campo della sicurezza energetica, della sicurezza cibernetica e dell’economia digitale.

Che cosa pensa la gente.

All’ordine del giorno degli Stati è il venire meno della speranza che il mercato globale avrebbe reso universale un’unica visione del mondo.

 A dirlo – si badi bene – non è qualche intellettuale “sovranista”, ma le opinioni pubbliche internazionali, analizzate da Ipsos, il cui sondaggio, svolto in 33 nazioni, è stato pubblicato da “Domani” (Enzo, “Il pericoloso spettro dell’iper egoismo nazionale aleggia sul mondo”, “Domani”, 27 dicembre 2022).

Secondo questa inchiesta il 79 per cento dei cittadini delle realtà monitorate ritiene, oggi, che sia giusto concentrarsi prioritariamente sul proprio Paese e occuparsi meno di quello che accade nel mondo.

Le tendenze sono ben chiare.

La classifica è lunga, ma le tendenze sono ben chiare.

Ai vertici l’Indonesia, con il 90 per cento, seguita dal Sud Africa e dalla Corea del sud (89), dalla Malesia e il Perù (87), dalla Romania e dalla Turchia (86).

 In fondo alla classifica, con numeri comunque molto significativi l’Italia e la Germania (70) per i cui cittadini è necessario pensare meno al mondo, concentrandosi sui problemi nazionali.

Scendendo nel dettaglio:

il 70 per cento degli italiani ritiene che la mondializzazione abbia generato svantaggi per i popoli e vantaggi solo per i ricchi;

 il 64 per cento ritiene che le dinamiche dei mercati globali stiano uccidendo la nostra economia e il 68 per cento avverte la globalizzazione come una minaccia distruttiva della nostra cultura.

A questi tratti si associa una perdita di fiducia verso l’Unione Europea (scesa dal 59 per cento di fine 2020 al 53 per cento di dicembre 2022).

L’utopia globalista e la realtà.

Sono numeri che debbono fare pensare, in particolare quanti, negli ultimi decenni, hanno fondato sulla globalizzazione le nuove sorti e progressive dell’umanità.

 Non tutto – al contrario – pare definito su questi crinali.

A sfarinarsi è la cultura dell’astratto, a fronte di una nuova domanda di concretezza e di identità, maggioritaria a livello delle singole nazioni.

Un vecchio mondo è al tramonto, con le sue facili illusioni globaliste, egualitarie, taumaturgiche.

Politica, economia, tenuta sociale, cultura dell’appartenenza sono in discussione.

 Con forti domande identitarie, nuove suggestioni tecnologiche, orizzonti post industriali, aspettative di sintesi, segno di un tempo in cui tutto va ricomposto. Certamente su nuove basi.

 

 

 

Proprietà privata e libertà:

contro lo “Sharing” globalista.

 

vanthuanobservatory.com - La Redazione – (NOV. 4, 2022) – ci dice:       

Quattordicesimo Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel Mondo.

A cura di Riccardo Cascioli, Giampaolo Crepaldi, Stefano Fontana.

(Cantagalli, Siena 2022)

Breve presentazione del libro.

Il diritto alla proprietà privata è sempre stato considerato di ordine naturale dalla Dottrina sociale della Chiesa, quindi originario, vero, stabile, immodificabile.

 Oggi, però, esso viene messo in discussione dal nuovo globalismo del Grande Reset.

 Il World Economic Forum di Davos sogna una società globale priva di possessori di beni e fondata su uno sharing universalizzato:

nessuno possiede nulla e tutti affittano servizi.

 Il ritorno del comunismo, soprattutto in America Latina, rimette in discussione la proprietà privata con nuove forme di statalismo e di socializzazione forzata.

I centri di potere che spingono per la transizione ecologica a livello planetario pretendono che i beni in proprietà vengano usati secondo certi standard ambientali da loro stabiliti, pena il venir meno di quello stesso diritto.

Il ritorno (voluto) dell’inflazione, la tassazione esorbitante, le ricorrenti proposte di una imposta “patrimoniale”, la dipendenza dall’assistenzialismo statale tramite il “reddito di cittadinanza” minano la proprietà privata e con essa la libertà.

Il principale elemento che caratterizza questo inedito attacco alla proprietà privata è la convergenza mostruosa tra pensiero liberale e comunismo.

Nelle società occidentali sono ormai in atto forme di controllo e di dipendenza del cittadino dal potere molto simili, se non uguali, al Modello cinese.

In questo social-capitalismo del controllo sociale la prima vittima da colpire è il diritto naturale alla proprietà privata.

Questo Rapporto descrive e approfondisce questo processo che va denunciato e fermato.

In difesa della proprietà privata.

(Il “14mo Rapporto Van Thuân”. Anche il Card. Müller tra gli autori.

“Ci vogliono poveri e controllati”.)

 

 

In difesa della proprietà privata:

il 14mo Rapporto Van Thuân.

Anche il card. Müller tra gli autori

Stefano Fontana - NOV 15, 2022.

 

Esce il Rapporto dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo:

puntuale, come ogni novembre, ormai da 14 anni.

Quest’anno il Rapporto è dedicato a “Proprietà e libertà. Contro lo sharing globalista” (Cantagalli 2022, pp. 252) e fa emergere tutti i pericoli della sostituzione della proprietà con l’accesso, del possesso con la condivisione e il leasing.

 Nessuno sarà più proprietario di nulla?

 Tutti affitteremo e condivideremo i beni?

Saremo più liberi e felici? …

Il 14mo Rapporto del Van Thuân non la pensa così e per questo ha convocato 17 studiosi ad affrontare a viso aperto la sfida per la difesa della proprietà privata come diritto naturale.

Il volume è curato da Riccardo Cascioli, Giampaolo Crepaldi e Stefano Fontana ed è diviso in due parti:

una serie di studi per approfondire il tema e poi delle cronache dai cinque continenti, perché c’è bisogno anche di uno sguardo ad ampio raggio.

 L’attentato alla proprietà privata e quindi alla vera libertà avviene in Italia ma anche in Sud Africa, negli Stati Uniti, in Cile o in Perù, e non ne è esente l’Unione europea.

Tra gli autori dei saggi di approfondimento spicca il magistrale intervento del cardinale Gerhard Müller, che apre da par suo le danze degli altri autori che esaminano le logiche economiche che stanno alla base del Grande Reset (Battisti), spiegano le nuove caratteristiche postmoderne delle minacce alla proprietà (Horvat), espongono i principi della proprietà e del lavoro nella Dottrina sociale della Chiesa (Ferraresi), si chiedono se la Chiesa possa barattare i propri insegnamenti sulla proprietà con i benefici pastorali dei regimi comunisti, un tema di grande attualità negli attuali rapporti con la Cina (Ureta), illustrano il pericolo che si prenda a prestito artificiali crisi ambientali per condizionare, limitare e perfino annullare la proprietà delle cose e la responsabilità personale sul loro uso (Cascioli), analizzano a fondo il significato indisponibile del diritto di proprietà (Cristin), espongono la sua articolazione giuridica corretta (Onori, Salvi e Veneruso) e infine svolgono una critica teologica al “pauperismo” cristiano che sostiene l’appoggio di ampie fette della Chiesa alle proposte di “decrescita felice”, di “ritorno alla natura” e di condivisione dei beni controllata però da un centro onnipotente. 

Le cronache dai cinque continenti spiegano in quali termini il World Economic Forum di Davos ha proposto nei suoi Obiettivi per il 2030 la costituzione di una società non più di possidenti ma di noleggiatori e perché economisti e intellettuali dicano che in quella situazione saremo più felici (Magni), illustrano come un rilevante attacco alla proprietà derivi oggi dalla finanza (Milano), secondo quali criteri la Commissione europea sta implementando principi decisamente comunisti con interventi clamorosi di limitazione dell’uso dei beni da parte dei cittadini dell’Unione (Volonté), descrivono l’evoluzione negli Stati Uniti della Sharing Economy nel progetto del Great Reset (Trevisan),  fanno il ritratto della penosa situazione dell’Argentina (Passaniti), del Perù (Loredo), del Cile (Montes Varas), nazioni nelle quali si è consolidato un nuovo comunismo, ed infine si mostra l’evoluzione di un singolare progetto politico in Sudafrica: confiscare le terre senza indennizzo (Tuffin).

Il lettore di questo 14mo Rapporto avrà la possibilità di accedere ad un quadro internazionale completo, di avere notizie di prima mano dato che gli Autori conoscono direttamente le problematiche degli Stati di cui riferiscono perché ci vivono e operano, di conoscere il livello di implementazione di un grande progetto teso a sradicare la persona dalle proprie radici e farne un anonimo soggetto completamente globalizzato.

La proprietà, infatti, lega la persona alla famiglia, al lavoro, ad un contesto territoriale e sociale, ad una storia e a una tradizione di senso, e quindi si oppone alla artificializzazione della vita da parte di attori globali con l’intento di controllare un mondo appiattito.

 Il Rapporto mette bene in luce lo stretto rapporto che esiste tra l’obiettivo della sostituzione della proprietà con la condivisione da una parte e il controllo politico ed economico sui cittadini.

 Eliminata la libertà privata, costoro saranno costretti ad attenersi nei loro comportamenti alle volontà del Leviatano, il quale saprà tutto di loro e controllerà tutti i loro movimenti.

 Non potremo possedere una abitazione o un’auto se non sarà secondo le norme volute dal potere, non potremo adoperare il contante e dovremo stare dentro una sempre più pervasiva tracciabilità, la tassazione già ora preleva oltre il 60 per cento dei frutti del nostro lavoro e l’assistenzialismo sociale sul tipo del reddito universale o di cittadinanza corrode e inibisce la proprietà privata, la concentrazione produttiva riduce lo spazio dell’impresa familiare, eventuali emergenze sanitarie o ambientali, anche e soprattutto se artificiali, potranno essere usate per interventi diretti del potere nel nostro spazio di proprietà, ove coltiviamo non solo il rapporto con i beni ma anche quello delle relazioni umane.

(Stefano Fontana)

 

 

Ci vogliono poveri e controllati.

Stefano Fontana – (novembre 2021).

Invito all’acquisto e alla lettura del 14mo Rapporto dell’Osservatorio Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo.

L’argomento che in esso viene trattato è il grande tentativo in atto di privare il cittadino della possibilità di avere qualcosa in proprietà, per poterlo così controllare e dominare.

 Il titolo del Rapporto è eloquente: “Proprietà e libertà: contro lo sharing globalista”. 

Prenderemo a nolo e poi restituiremo perché altri possano a loro volta prendere e nolo – come nei Falansteri di Fourier – l’abitazione, l’automobile, gli elettrodomestici, i vestiti?

Il possesso verrà soppiantato dall’accesso, come preannunciava “Jeremy Rifkin?”

 (Colui che qualche decennio fa aveva predetto che lo Stato e il lavoro sarebbero finiti, cosa poi per nulla verificatasi) ossia dalla condivisione su una piattaforma on line di beni e servizi?

 (e di chi sarà questa piattaforma?

 Sarà anch’essa condivisa o sarà di proprietà di qualcuno? E i beni condivisi di chi saranno? E chi fisserà le regole della condivisione?).

 Ci procureremo le cose di cui abbiamo bisogno premendo un tasto?

Non lavoreremo più e non ci approprieremo del frutto del nostro lavoro in termini di proprietà, da destinare alla famiglia e da lasciare in eredità ai figli?

Ai nostri figli penserà lo Sharing globale?

Il rapporto tra la negazione della proprietà come diritto naturale e il controllo economico, sociale e politico è di grande evidenza, e spiega la convergenza verso questi obiettivi sia del neo-comunismo sia del neo-capitalismo:

 “Capitalismo e comunismo non sono la via per un buon futuro, ma due fratelli omicidi e ostili che sono strisciati fuori dal grembo della stessa visione del mondo atea e materialista” scrive il cardinale Müller nel Rapporto.

 Come spiegano gli Autori del Rapporto dell’Osservatorio, il rapporto con la proprietà delle cose mette in atto la volontà e l’azione della persona, tempra il suo senso di responsabilità, abitua a misurarsi con i propri limiti perché non arriviamo a possedere tutto.

Inoltre, le cose di proprietà ci legano ad una storia, gli oggetti che possediamo contengono molti ricordi personali, la terra e la casa ci radicano in un territorio e nella sua cultura.

La sostituzione della proprietà con un leasing universale priva la persona di tutti questi legami e la riduce ad un numero, ad una entità anonima la cui essenza coincide con il suo profilo digitale, quello che gli permette l’accesso e lo induce a fare a meno della proprietà.

Il Rapporto spiega che i regimi totalitari hanno bisogno di individui così fatti: sradicati, dipendenti e controllati in una massa virtuale.

La proprietà permette spazi di libertà, l’accesso, invece, è costantemente monitorato.

Quando avremo la nostra Identità Digitale, non potremo più usare il contante né fare alcun tipo di transazione fuori del sistema di controllo del potere, quando la casa dove viviamo non sarà più nostra ma concessa temporaneamente in uso, quando la bicicletta di nostro figlio sarà condivisibile con altri dentro il sistema di sharing deciso dall’alto, allora saremo a disposizione di un potere incontrollato e incontrollabile.

Il Rapporto spiega poi un altro aspetto di grande interesse.

Il totalitarismo di oggi è postmoderno, ossia non più impositivo e violento, ma dolce e soft.

 Vuole quindi che a rinunciare al nostro diritto naturale alla proprietà privata siamo noi cittadini, senza la necessità di una imposizione dall’alto.

Certo, le confische senza indennizzo proliferano ancora – e il Rapporto le documenta, anche l’altissima tassazione nel nostro Paese è come una confisca senza indennizzo – ma la tendenza è a fare in modo che sia il cittadino stesso ad essere privato della proprietà perché indotto indirettamente e dolcemente a farlo: lo sharing è bello”, l’accesso è smart!

Lo sharing è solidale”! Lo sharing è inclusivo!

La proprietà è brutta!

La proprietà è discriminatoria! E così via.

Torno quindi ad invitare all’acquisto e alla lettura del 14mo Rapporto dell’Osservatorio Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo, appena uscito.

(Stefano Fontana)

 

 

 

 

Papa globalista e governo sovranista

divisi nella strategia sui migranti,

uniti nel pressing sull'Ue.

 

Uffingtonpost.it - Piero Schiavazzi – (20 novembre 2022) – ci dice:

 

Un collateralismo inedito.

 ll ruolo del Vaticano per evitare l’isolamento morale e politico dell’Italia, cambiare le procedure in Europa e promuovere un piano per l’Africa.

La spinta di Francesco anche per le riforme istituzionali, tema su cui nessun Papa era intervenuto prima di lui.

Un collateralismo inedito. Variante vaticana che aggiorna la geometria e fenomenologia, tutta italiana, delle “convergenze parallele”.

Non (o non ancora) un’attrazione, ma un’attenzione mirata e un’assoluzione previa, privilegiata, nel frangente in cui dalle altre capitali montavano e s’inasprivano le accuse verso Roma.

Un intervento che ha scongiurato sul nascere due settimane fa l’isolamento morale dell’Italia e innescato l’inizio di un ripensamento collettivo, aprendo al summit dei ministri dell’Interno in agenda venerdì prossimo.

 Mentre i bilaterali d’oltreoceano, con l’imperatore d’Occidente Joe Biden e quello d’Oriente Xi Jin-Ping rendono oggi maturo e più vicino il meeting d’Oltretevere tra Giorgia e Jorge.

Si deve muovere da questa cornice, per inquadrare il ruolo del Vaticano e il “terzo” voto di fiducia, dopo quello delle Camere, disceso inatteso dal cielo del volo papale, la prima domenica di novembre, in luogo della “scomunica” e scontro in mare aperto che molti plausibilmente in Europa si aspettavano (e non pochi presumibilmente auspicavano), tra il nuovo governo italiano e il vascello petrino.

Una strana, sorprendente alleanza sostanziata nel pronunciamento della più autorevole cattedra etica del pianeta e “amplificata”, per di più, da un silenzio altrettanto eloquente sulle ong.

Un vaccino diplomatico-mediatico che ha immunizzato Palazzo Chigi dalle accuse piovute da Oltralpe di tenere un comportamento “disumano”.

“La politica dei Governi fino a questo momento è stata di salvare le vite … credo che questo Governo abbia la stessa politica, non è inumano…”

Parole che inducono a chiedersi se il “Boat Pope”, il quale ha notoriamente fatto della questione migratoria il tratto caratterizzante nonché nervo scoperto e ipersensibile del proprio pontificato, abbia sorprendentemente cambiato rotta oppure semplicemente, pragmaticamente aggirato lo scoglio:

senza rinunciare alla visione profetica ed evitando però d’inciampare negli ostacoli, e oracoli, della strumentalizzazione partitica, interna e internazionale. Riservandosi e rinviando la verifica, semmai, al confronto diretto, personale.

“Ammetto che non sempre ho compreso Papa Francesco…e spero un giorno di avere il privilegio di parlare con lui, perché sono certa che i suoi occhi grandi e le sue parole dirette riusciranno a dare un senso a quello che non comprendo”.

 

Più che una udienza una “consultazione”, a metà tra il privato e l’istituzione. Linguaggio ecclesialese, rassicurante.

Messaggio politichese, conciliante.

Mittente Giorgia Meloni nel quinto capitolo, “Io sono cristiana”, del libro autobiografico pubblicato a primavera 2021, in piena fioritura e trend ascendente di consensi.

 Non era successo mai che un premier chiedesse appuntamento (riservato da protocollo ai soli capi di stato e di governo) con un anno e mezzo d’anticipo sul mandato degli elettori e l’investitura delle Camere.

 Come se fosse già consapevole che l’Italia, dalla fine ormai trentennale dell’egemonia democristiana, si potrà pure conquistare senza i voti della Chiesa ma non si governa in modo stabile, duraturo senza di essa:

regola iscritta nella costituzione materiale della Seconda Repubblica e priva sin qui di eccezioni, da Berlusconi e Prodi, da Zuppi a Ruini.

Se internamente il Vaticano rappresenta in effetti un “vincolo” tanto a destra, sui migranti, che a sinistra, sui temi etici “non negoziabili”, esternamente costituisce al contrario, per tutti, uno “svincolo”.

Un accesso preferenziale all’autostrada della mondialità, vieppiù necessario in tempo di guerra, “sos” energetico e globalizzazione tout azimut.

 

Così come, in ottica di reciprocità e complementarietà, l’Italia configura per la Chiesa il retroterra strategico e la zona franca, sicura, che garantisce agibilità geopolitica, fuori da condizionamenti o interferenze, alla proiezione diplomatica dei Successori di Pietro.

Un’Italia nei cui confronti Francesco, papa dei paradossi e degli ossimori, mostra pertanto in simultanea, nel medesimo giro di parole, il massimo del distacco dialettico e coinvolgimento prospettico:

“Prima di tutto io non voglio immischiarmi nella politica interna italiana … ho fatto una domanda soltanto a uno dei miei collaboratori: Dimmi, quanti governi ha avuto l’Italia in questo secolo? E mi ha detto: 20. Questa è la mia risposta”.

Giudizio meditato, non improvvisato.

Che abbraccia un arco di due decadi e orizzonti.

Pronunciato da Ovest a Est, a fine luglio, sull’aereo che dal Canada riportava Bergoglio a Roma e, dopo un mese e mezzo, reiterato da Est a Ovest nel volo di ritorno dal Kazakistan.

 Per essere riproposto, tranciante, a mo’ di “leit motiv” al rientro dal viaggio in Bahrein:

“Dimmi: è giusto che dall’inizio del secolo fino ad ora l’Italia abbia avuto venti governi? Finiamola con questi scherzi!”

È la prima volta che un Papa si esprime in maniera inequivocabile a sostegno delle riforme istituzionali, segnalando l’esigenza-urgenza di un rafforzamento dell’esecutivo, ma omettendo di manifestare predilezione per un modello piuttosto che un altro:

 fra presidenzialismo, che nel proprio emisfero di provenienza definisce dal “Mercosur” agli” States” la cornice ordinaria di riferimento, e il premierato, che invece ambisce attraverso il cambiamento della legge elettorale a una semplificazione del quadro e all’introduzione del bipartitismo di matrice anglosassone.

Scenario in movimento Urbi et Orbi, tra due interlocutori che scoprono di non conoscersi abbastanza, registrando la divergenza delle rispettive Weltanschauung nel Mediterraneo, ma rivelando in Europa una insospettata eppure oggettiva convergenza di Realpolitik.

 Se infatti per i Papi mitteleuropei, Wojtyla e Ratzinger, l’integrazione federalista del continente costituiva un’addizionale, quasi un comandamento in più della Dottrina Sociale, Bergoglio attinge a un linguaggio e dipinge un paesaggio che in parte riecheggia e tratteggia, per contro, accenti e i lineamenti cari ai sovranisti.

Occorre salire ancora aereo sull’aereo papale, all’indomani della Brexit, a giugno 2016, quando slacciando le cinture rispose così alle domande sul referendum di tre giorni prima nel Regno Unito:

“C’è qualcosa che non va in quell’Unione massiccia…il passo che deve fare l’Europa è un passo di sana disunione”.

 

Sana disunione:

binomio che scendendo sul terreno del diritto pubblico e del dibattito scientifico puntualmente si traduce, e conduce, dalla pista federale a quella confederativa, rovesciando la prospettiva non solo dei padri fondatori, bensì dei papi protettori, tedesco e polacco.

E mirando al modello bolivariano, transandino più che transalpino, di un’Europa delle Patrie.

Mentre in continente le posizioni convergono e si avvicinano, l’interesse nazionale dell’Italia e quello universale della Chiesa divergono e si divaricano viceversa nel Mediterraneo:

frontiera identitaria per il governo sovranista, cerniera egalitaria per il Pontefice globalista.

“Mare del meticciato” e ombelico hegeliano del mondo, secondo Francesco, in cui la mano invisibile ancorché tangibile della Provvidenza realizza per mezzo delle migrazioni una integrazione progressiva non solo semantica ed economica, bensì somatica e cromosomica della “famiglia umana”.

In definitiva una rievangelizzazione per via demografica dell’Europa denatalizzata e secolarizzata (mediante innesti massivi dall’area subsahariana, dove la Chiesa cresce come in nessun altro luogo), all’insegna dello slogan “le razze non hanno futuro”, enunciato dal Pontefice in modalità che più esplicita non si può sui viali murattiani di Bari, durante il summit dei vescovi delle terre rivierasche, promosso a febbraio 2020 dalla Conferenza Episcopale Italiana.

Riusciranno “gli occhi grandi di Papa Francesco e le sue parole dirette”, per riprendere l’espressione di Giorgia Meloni, a sciogliere il nodo e trasformare in sogno quello che per la premier e dintorni ha i contorni dell’incubo?

 Sicuramente, categoricamente no sul piano strategico, della visione-destinazione finale di lungo periodo (che scorge in Africa il nuovo Heartland della Chiesa). Probabilmente, pragmaticamente sì su quello tattico, dell’azione a breve, da attuare nell’immediato.

 Nel contenzioso tra Roma e i partner europei per un’assunzione collegiale di responsabilità (“L’Italia non può fare nulla senza l’Europa, la responsabilità è europea”) in ordine agli sbarchi ed effettiva, tempestiva ripartizione dei carichi, con incisiva revisione delle procedure attuali, Bergoglio è apparso subito l’alleato più credibile, oltre che impensato e insperato:

 l’unico in grado di sparigliare, conferendo l’imprimatur e convertendo in battaglia di principio quella che le cancellerie avevano bollato tout court quale violazione degli obblighi comunitari, sanciti dall’accordo di Dublino, e del diritto internazionale, fissato nella Convenzione Onu di quarant’anni orsono.

Allo stesso modo in cui, per paradossale che possa sembrare, il braccio di ferro ingaggiato dall’Italia funge da “braccio secolare”, risultando sinergico al richiamo del Papa per riorientare la politica migratoria dell’Unione dalla direttrice orientale, dove gli arrivi registrano un impatto ingente ma contingente (legato al conflitto siriano ieri e oggi russo-ucraino), all’asse meridionale, dove presentano invece cause permanenti connesse al clima e alla demografia:

 

“Il problema dei migranti va risolto in Africa, la maggior parte viene dal mare”.

Contesto che all’istante relativizza e miniaturizza i tre milioni di profughi siriani ospitati dalla Turchia in conto Ue, a fronte dei trenta o trecento che premeranno dal fronte africano nei prossimi trent’anni, sulla scia di una crescita inarrestabile verso il traguardo dei tre miliardi di abitanti.

 Rendendo inderogabile l’aut-aut tra una perentoria redistribuzione del PIL, per riequilibrare il gap con i paesi poveri, e l’opzione rivoluzionaria dell’ultima enciclica, nella quale si teorizza che “ogni Paese è anche dello straniero, in quanto i beni di un territorio non devono essere negati a una persona bisognosa che proviene da un altro luogo. I confini e le frontiere degli Stati non possono impedire che questo si realizzi”.

Se dunque la prognosi e il decorso rimangono riservati e divaricati (la destra resta destra e il Papa globalista non è diventato sovranista d’emblée), la diagnosi e il discorso manifestano l’intento e la mutua convenienza di procedere allineati, de facto alleati nella richiesta di un “Piano Marshall”, o “Mattei” che dir si voglia, per l’Africa e superamento dell’impianto, vetusto, di Dublino.

Navigazione contro corrente, ergo, che si svolge al di fuori delle coordinate vigenti e in cui a conferire legittimità e agire da bussola è di volta in volta il principio di umanità, limitando il margine di manovra e costringendo il nocchiero a insinuarsi nei passaggi stretti, giuridici e geopolitici.

Umanità.

Principio che è valso al governo l’apertura di credito del Vaticano e attende come scrivevamo l’imprimatur del confronto a quattr’occhi, non meno importante per un premier italiano del” tête-à-tête” con “Joe Biden” e “Xi Jinping”:

quando Giorgia, “vis-à-vis” con “Jorge” nei sacri palazzi, avvertirà il fascino indagatore di uno sguardo antico, avvezzo da venti secoli a scrutare i pensieri e svelare le intenzioni dei poteri terreni.

 

 

Sovranismo o fine della storia:

e se dietro ci fosse la “rivoluzione dei funzionari”?

giornalismoestoria.it – (10-9-2022) – Teo Dalavecuras – ci dice:

Le grandi strategie di politica internazionale sono morte? O nel dibattito tra chi difende i “professionisti” della politica estera e chi considera il loro compito finito si cela la lotta tra i burocrati e i nuovi decisori globali?

Parlare in termini di “popolarità” di una rivista per studiosi, cultori o attori della politica internazionale come “Foreign Affairs” suona – ed è – incongruo.

Tuttavia, quando si dice che “Foreign Affairs” non è particolarmente popolare in Europa si vuol dire, in forma abbreviata, che non riflette necessariamente quella parte, non da oggi predominante, dell’opinione pubblica soprattutto europea, che distingue un’America “buona”, quella multilaterale, ispirata ai diritti umani e al politicamente corretto, tendenzialmente “esportatrice di democrazia”, in una parola l’America che secondo la vulgata condivisa 75 anni fa ha salvato l’Europa da se stessa, da quella isolazionista, conservatrice, “repubblicana”.

Oggi “trumpiana”.

Quell’opinione pubblica, insomma, che si riconosce piuttosto in organi di stampa come il “New York Times “o in media non cartacei come “Project Syndicate”, per fare solo due esempi.

“Foreign Affairs” – il sito.

Da anni gli studiosi di geopolitica e di relazioni internazionali, perfino nei talk show, si sforzano di spiegare che negli Stati Uniti la politica estera è sostanzialmente “bipartisan”, nel senso che non è né democratica né repubblicana, ma può contare su una maggioranza trasversale tendenzialmente stabile e cospicua.

 Ma inutilmente.

Nei media italiani, quanto meno, il messaggio non passa, la forza dell’abitudine prevale.

Nella guerra ormai senza quartiere tra i sostenitori di Trump e i suoi avversari, l’opinione pubblica europea si schiera con la stessa passione di quella degli States che – almeno in teoria – dovrebbe sentirsi più coinvolta.

 Perfino Angela Merkel, leader pragmatica se ce n’è una, partendo proprio dai temi di politica internazionale aveva scelto anni fa di polemizzare con Donald Trump;

ironia della storia, proprio la Germania ha subito le conseguenze della politica estera dell’America quando nel dicembre dell’anno scorso, con voto bipartisan appunto, il Congresso ha disposto sanzioni contro le aziende costruttrici del “Nord Stream-2”, il raddoppio del gasdotto che trasporta in Germania il gas siberiano.

È facile prevedere che, qualche anno dopo aver proclamato l’esigenza per l’Europa di organizzare autonomamente la difesa dei propri interessi strategici la signora Merkel finirà, in questa fase di acuta disarticolazione del “progetto europeo”, per allineare ancora più di prima la Germania alle posizioni del Paese-guida.

Un indizio in questo senso può sembrare l’avvio, nello scorso aprile e in pieno lock-down da coronavirus, del processo per crimini di guerra nei confronti di Anwar Raslan, responsabile secondo le accuse di avere svolto un ruolo di rilievo negli apparati di sicurezza del regime di Bashir Assad, dove si praticava sistematicamente la tortura, ma dimorante dal 2014 in un campo profughi in Germania.

 

Anwar Raslan in un articolo di FT.

Di questo nucleo bipartisan della politica estera americana “Foreign Affairs” è la voce forse più autorevole, così come il “Council on Foreign Relations”, l’organizzazione della “società civile” (diremmo noi) che la pubblica, fondata all’indomani della Grande Guerra e sede di ricerca, e di confronto interrotto tra esponenti del mondo delle imprese, delle professioni, dell’università e delle istituzioni, insomma dell’establishment, secondo una modalità consueta nel mondo anglosassone, ne è una delle fucine più importanti.

Si parla di “Foreign Affairs” perché, in una delle ultime edizioni online settimanali, ha pubblicato un saggio firmato da tre studiosi di politica internazionale, tutti noti docenti universitari, “Daniel W. Drezner”, “Ronald R. Kreb”s e “Randall Schweller”, che si intitola, tanto per non lasciare nel  dubbio i lettori, The End of Grand Strategy (La fine della grande strategia).

La composizione del terzetto è interessante, perché mentre “Drezner” è dichiaratamente anti-trumpiano, “Schweller” è altrettanto dichiaratamente filo-trumpiano e “Krebs” non è schierato.

Infatti, i tre mettono subito in chiaro che “sono poche le cose su cui ci troviamo d’accordo quando si tratta di politica, di politiche o di ideologia”.

Su che cosa sono d’accordo, dunque, i tre studiosi, visto che hanno deciso di firmare lo stesso articolo?

Foreign Affairs – The End of Grand Strategy.

Su una cosa concettualmente semplice che si riassume in una frase: “è finito il tempo delle grandi strategie”.

Per arrivare a questa conclusione, i tre partono dalla “disruption trumpiana” di quelli che per decenni sono stati i riferimenti di fondo della (bipartisan) politica estera di Washington:

 internazionalismo liberale, l’idea che l’America debba sostenere e espandere un ordine globale che promuova mercati aperti, sistemi politici aperti e istituzioni multilaterali.

L’attacco frontale di Trump a questi “pilastri” ha se non altro alimentato – notano gli autori – un animato dibattito sulle grandi strategie internazionali degli Stati Uniti.

 Mentre fiorivano questi dibattiti, tuttavia, il concetto stesso della grande strategia sarebbe diventato una “chimera”. 

Una grande strategia – si fa notare nell’articolo – è una “road map” che serve a assicurare la coerenza dei mezzi con gli scopi.

Funziona al meglio su un terreno noto, in un mondo dove i dirigenti politici possiedono una chiara comprensione della natura e della distribuzione del potere, un robusto consenso all’interno del proprio paese sugli obiettivi e sull’identità comune, stabili istituzioni politiche e altrettanto stabili istituzioni della sicurezza nazionale.

Nel 2020 nulla di tutto ciò esisterebbe più.

Oggi il terreno è ovunque accidentato, gli Stati Uniti sono spaccati e nel mondo il potere è diffuso, frammentato ed è piuttosto potere di interdizione che non potere di realizzare grandi disegni come – si lascia intendere – è stato nei primi decenni del secondo dopoguerra:

 “quando il potere tradizionale non riesce più a tradursi in influenza, di ordine globale e di cooperazione ce n’è poco”.

In conclusione:

“La grande strategia è morta. La radicale incertezza di una politica globale priva di poli la rende meno utile, perfino pericolosa”.

“Procedere senza grande strategia vuol dire adottare due principi:

decentramento e incrementalismo”, neologismo, quest’ultimo, che sembra significare perseguimento di vantaggi incrementali ovvero del decremento degli svantaggi, in ogni situazione data, rinunciando all’ambizione di capovolgere la situazione stessa.

In parole povere pragmatismo, capacità di adeguarsi a circostanze mutevoli.

Perché decentramento?

Per l’ovvio motivo che in un mondo imprevedibile e instabile dove le decisioni vanno prese rapidamente, è preferibile che queste siano affidate a chi si trova là dove si manifesta l’esigenza di intervenire.

Nelle parole degli autori, “gli aspiranti consiglieri per la sicurezza nazionale dovrebbero rinunciare a competere per il titolo di prossimo George Kennan.

 Inventarsi qualcosa che possa prendere il posto della politica del containment (formulata da Kennan nel 1947, ndr) non è né importante né possibile nel prossimo futuro. Far fare passi avanti alla politica estera degli Stati Uniti lo è”.

Il saggio che si è qui ridotto all’essenziale, è naturalmente più ricco e articolato, e contiene valutazioni argomentate in modo persuasivo – questa è almeno l’opinione di chi scrive – ma sempre di valutazioni si tratta.

Sono, peraltro, valutazioni che sfociano in esplicite raccomandazioni dirette a quella che in America si chiama la comunità della politica estera e di sicurezza;

 in buona sostanza, un perentorio invito a prendere atto che il mondo della globalizzazione ispirata ai principi dell’internazionalismo liberale e del multilateralismo non c’è più e si deve, quindi, lavorare concretamente ai miglioramenti possibili di una politica estera considerata insoddisfacente.

Soprattutto, si deve aggiungere, si tratta di raccomandazioni divisive.

Anche se con apparente paradosso, visto che i tre autori dell’articolo solo su queste valutazioni/raccomandazioni si trovano interamente d’accordo, queste sono oggettivamente divisive, come cercherò di argomentare nel prosieguo.

La posizione degli autori e, in particolare, lo scenario del mondo di oggi su cui questa si fonda, comporta un problema non da poco, che prescinde dalla condivisibilità o meno della loro analisi.

Anche se è vero infatti che la visione del mondo globalizzato liberal-democratico e multilaterale ha caratterizzato nella fase “post Guerra Fredda” (e qui di virgolette ce ne vorrebbero tante…) il “comune sentire” degli addetti ai lavori della politica estera e di sicurezza americana, quindi di un ceto professionale almeno teoricamente a-politico e a-ideologico, questa stessa visione è anche qualcos’altro, di fatto ha avuto e ha una precisa funzione:

è l’ideologia dell’establishment liberal che non è né non partisan né bipartisan, ma dichiaratamente partisan, e attorno a questa ideologia ha costruito un forte consenso transnazionale.

Con questa considerazione si torna all’inizio di questo scritto, ma la considerazione deve essere sviluppata con una non breve digressione di cui mi scuso ma che considero necessaria.

Nessuna ideologia prende la realtà per quello che è, tutte la ricostruiscono in coerenza con gli interessi che la esprimono e gli obiettivi che questi stessi interessi perseguono.

Non da oggi si usa parlare di “narrazioni”, perché si dà evidentemente per scontato che l’elettore dei nostri tempi sia regredito a uno stadio infantile e vada quindi alimentato con racconti, ma il concetto non cambia poi molto.

Nelle fiabe, e nelle ideologie, la rivendicazione della coerenza è cruciale.

La narrazione liberal-democratica e globalista è passata dall’annuncio della “fine della storia” (e quindi, in buona sostanza, della politica) proclamata un po’ frettolosamente dopo la caduta del Muro di Berlino, alla denuncia del “sovranismo” quale minaccia incombente sul processo di espansione della democrazia e sulla salvaguardia del processo di globalizzazione.

Il punto debole di questa narrazione non è il significato, pur assai fluttuante, del termine “sovranismo”, che può significare tanto il valore attribuito alla sovranità degli stati, quanto il connotato quasi fatalmente autoritario del culto della sovranità.

Spesso le “narrazioni” contengono elementi ambigui.

 

Il vero punto debole è che in questa visione si dà per scontato e si accetta che alcuni stati, in primo luogo gli Stati Uniti d’America, ma anche la Russia almeno dopo l’avvento di Putin, per non parlare della Cina, dell’India, del Brasile, della Turchia, dell’Arabia Saudita e così via, siano sovrani nel più puro significato westfaliano, e intendano rimanerlo.

Il che fa sorgere inevitabilmente una domanda:

quali sono i Paesi rispetto ai quali la rivendicazione di sovranità giustifica l’accusa di “sovranismo”, e perché?

 Domanda rimasta sinora, e destinata a restare, senza risposta. Almeno in prima battuta.

Nel caso dell’America, l’attributo della sovranità è fuori discussione e si giustifica con la circostanza che gli USA sono il centro da cui il disegno di affermazione della democrazia liberale e di parallela globalizzazione si irradia e questa è anche l’immagine che molti dem americani hanno di sé stessi e dell’America, il culto dell’eccezionalismo americano.

Quanto poi alle derive autoritarie che autorizzano a condannare il sovranismo, l’intensità della critica è proporzionale alla distanza del singolo paese dall’ortodossia “occidentale”, sicché le tendenze autocratiche di un Putin sono, di fatto, molto più biasimevoli della propensione di un Erdogan a rinchiudere in gattabuia (nei casi più favorevoli) i giornalisti disallineati, per non parlare di Al Sisi, della famiglia dei Saud e chi più ne ha più ne metta.

Comunque sia la risposta è nei fatti: a dispetto della genericità del termine, il peccato di sovranismo è specificamente quello delle forze politiche dei paesi europei che rivendicano un’antistorica e antieuropea sovranità nazionale.

A prima vista quella ora formulata è una posizione che potrebbe trovare d’accordo quasi tutti, salvo frange estreme di nostalgici o disadattati che debbono dirigere contro qualche obiettivo le loro pulsioni antisistema.

Il fatto è, però, che alla parziale perdita di sovranità degli stati membri non è seguito, né seguirà, verosimilmente, un corrispondente acquisto di sovranità dell’Unione Europea, e a questo riguardo è probante un episodio recente e molto significativo subito rimosso dalla narrazione di ciò che l’Europa è e deve essere. 

Ben prima delle elezioni del Parlamento europeo del maggio 2019, il presidente francese Emmanuel Macron (col sostegno anche del governo italiano) aveva proposto che almeno i seggi lasciati liberi dal Brexit, circa un decimo del totale, venissero riservati a una costituenda circoscrizione elettorale europea, così da rappresentare un primo, minuscolo, nucleo di istituzione elettiva legittimata direttamente dai cittadini europei, anziché dalla somma degli elettorati nazionali.

Nel febbraio del 2018 la proposta venne bocciata nell’indifferenza dell’opinione pubblica dallo stesso Europarlamento, che così dimostrò di essere poco interessato alla propria credibilità democratica.

Per concludere, il peccato dei sovranisti europei non è di perseguire una superata e oggettivamente velleitaria rivendicazione di sovranità nazionale ma, tout-court, la pretesa di voler vivere in una comunità politica dotata dell’attributo della sovranità.

Ne è comprova che l’incredibile decisione di qualche mese fa del parlamento ungherese di “auto sciogliersi” a tempo indeterminato, dopo qualche polemica sui media è stata “digerita” senza conseguenze.

In buona sostanza, in attesa che l’Europa diventi nel 2050 “carbon-free”, si vuole che resti uno spazio “sovereignty-free”, sicché sulle credenziali democratiche degli stati membri bisogna sì essere vigili, ma senza tirare troppo la corda.

Viceversa, il veto francese all’allargamento dell’Ue a Macedonia del Nord e Albania non è stato digerito in alcun modo, anzi ne è stata imposta la implicita revoca, perché in questo caso si tratta di prevenire l’ampliamento della sfera d’influenza russa ai danni di quella dello stato-guida dell’Occidente.

Ancora una volta si tocca con mano come la condanna del sovranismo non sia un “leit motiv”, ma solo un motivo d’occasione per dare, quando serve, un tocco di internazionalismo liberale al discorso pubblico;

un motivo che non pone in discussione la sovranità dei paesi protagonisti del grande gioco della Realpolitik.

Semmai, lo slogan della “democrazia illiberale” lanciato da Victor Orbàn e ripreso da suo mentore Putin conferisce alla retorica che si sviluppa attorno al dilemma sovranismo/antisovranismo un’ulteriore sfumatura di grottesco.

Se la situazione è quella che si è ora cercato di richiamare per sommi capi, è inevitabile che nella narrazione di cui ci si sta occupando il vuoto di sovranità che si è creato in Europa non sia visto negativamente ma al contrario lo si additi come il modello virtuoso di un’area che è definita solo da un sistema di regole e di valori condivisi (Unione europea), che quindi non ha bisogno né di veri confini, né di un vero esercito, né di istituzioni comuni genuinamente politiche.

È, a suo modo, cioè di ripetizione della tragedia in forma di farsa, l’antico sogno marxiano del dissolvimento della politica in amministrazione, che dà a ognuno secondo il bisogno e chiede a ciascuno secondo le possibilità materializzatosi nel tragico ma grandioso esperimento bolscevico.

Perché si parla di modello anche se, a prima vista, questo assetto non è destinato a essere imitato?

Forse l’idea sottotraccia, in una dimensione ideologica ma anche programmatica, è che attraverso la pressione del sistema internazionale dei media nel quale questa narrazione è solidamente insediata, e che a propria volta la alimenta, si possa affermare quella sorta di sistema normativo transnazionale che va sotto il nome di “politicamente corretto” e che riesce a imporre regole di condotta legittimate dal loro stigma “progressista”, senza i tempi lenti e macchinosi dell’evoluzione del costume e della giurisprudenza, come richiederebbero i canoni dello stato di diritto, troppo legato peraltro alla storia dello stato sovrano per non essere vittima del medesimo processo di obsolescenza (si noterà che termini come “democrazia parlamentare” sono passati di moda, si preferisce parlare di “modello” liberal-democratico che ha dalla sua una confortevole vaghezza).

In questa prospettiva si può anche capire che l’atroce eliminazione fisica di Jamal Khassoghi nel consolato saudita di Istanbul, così come il sequestro del premier libanese Saad Al Hariri a Riad finiscano sostanzialmente nel dimenticatoio, perché in una prospettiva storica è decisamente più importante che nel regno saudita sia consentita la guida dell’automobile anche alle donne:

una posizione non priva di una sua logica, che però postula la sostanziale continuità degli assetti di potere che hanno condotto trentun anni fa alla caduta del Muro di Berlino e quindi al trionfo della globalizzazione a guida americana attraverso strumenti almeno in parte multilaterali.

 

Se diventasse di pubblica ragione il fatto che questo mondo, come sostengono “Drezner”, “Krebs” e “Schweller”, è tramontato, le crepe nell’impalcatura ideologica di quella che potremmo chiamare la faccia “buona” del globalismo diventerebbero vistose.

Anche perché questa lettura della evoluzione in corso nell’assetto del potere mondiale è condivisa.

Per esempio, la condivide una personalità di indiscussa fede liberal-democratica e progressista, come “Romano Prodi”, che in termini non diversi – nella sostanza – da quelli dei tre studiosi americani, si era espresso pochi mesi fa in una conferenza nella sede milanese dell’Istituto per gli “Studi di Politica Internazionale” (ISPI); anche se lo stesso professor Prodi, nel colloquio con media più convenzionali come “il  Foglio” e altri, preferisce parlare della liberal-democrazia come del “vaccino” che salverà il mondo dalla minaccia del sovranismo e dell’autoritarismo.

Pur se l’analisi di “The End of Grand Strategy” fosse condivisibile, se resistesse all’esame di realtà, resterebbe insomma incompatibile con la retorica largamente dominante, quanto meno nel mondo occidentale e certamente in tutti gli apparati in senso lato burocratici (dalle pubbliche amministrazioni alle università agli eserciti ai grandi media alle banche centrali alle grandi multinazionali e in genere le grandi imprese) di questo stesso mondo occidentale.

Detto in forma di slogan:

 anche se non si può più dire che “la storia è finita”, bisogna seguitare a credere che ci si sta lavorando e ci si arriverà.

E nasce il sospetto che sia questa la posta in gioco nello scontro in atto.

 

Foreign Affairs – In defense of the Blob.

Non stupisce quindi che, passata una settimana dalla pubblicazione di “The End of Grand Strategy”, sempre sul sito di “Foreign Affairs “(che il suo status non partisan lo prende sul serio) altri tre autorevoli professori,” Hal Brands”, “Peter Feaver” e “William Inboden”, abbiano firmato un articolo dal titolo non meno lapidario di quello che si è illustrato più sopra: In Defense of the Blob (In difesa del Blob).

Può essere utile preliminarmente una breve spiegazione del significato di Blob, un termine americano non facilmente traducibile, ma che in questo caso si può rendere con “persone inutili/incapaci”.

L’incipit dell’articolo di Brands, Feaver e Inboden, infatti,  si riferisce, apertis verbis, al termine (“Blob”) con il quale l’establishment della politica estera americana era stato ridicolizzato, anni fa, da “Ben Rhodes”, vice consigliere per la sicurezza nazionale durane la presidenza di Barack Obama.

 Dopo Rhodes, osservano gli autori, “al coro si sono uniti i repubblicani” finché il presidente Trump ha liquidato chi criticava la sua politica estera parlando della “élite fallita di Washington che si preoccupa soltanto di conservare il proprio potere”.

Ma questa è solo la premessa per arrivare a ciò che visibilmente sta a cuore ai tre studiosi:

“Su questo punto perfino alcuni dei più aspri critici di Trump nel mondo accademico condividono il suo giudizio”.

L’allusione a “Drezner” è palese, ma nell’articolo “in difesa del Blob” non c’è ovviamente nessun riferimento al saggio che lo ha preceduto e che intona il De profundis per le grandi strategie, né agli studiosi che lo hanno firmato:

 non solo nella Vecchia Europa l’accademia ha i suoi riti e i suoi metodi.

Al netto di questi aspetti cerimoniali, tuttavia, la contrapposizione è irriducibile, e il titolo è da prendere alla lettera.

The End of Grand Strategy si concentra sul fatto che sia per motivi interni agli States (la spaccatura del paese) sia per motivi esterni (trasformazioni nella natura e nelle dinamiche del potere nel mondo) l’elaborazione di grandi disegni strategici è nel migliore dei casi pura perdita di tempo ma rimane tuttavia la principale occupazione della comunità di esperti cui è affidata la politica estera e di sicurezza, e questo spiega i risultati insoddisfacenti di questa politica negli ultimi anni.

In Defense of the Blob, peraltro, salta a piè pari l’analisi che fa da premessa e si rivolge con grande vis polemica e perfino con sincero pathos alle conclusioni, innanzitutto alla prima di queste, che si compendia nel termine “Blob”:

 la comunità degli addetti alla politica estera e alla sicurezza nazionale non è affatto una élite autoreferenziale (ma nel testo si parla addirittura di “cabal”, di conventicola di complottisti, attribuendo ovviamente il termine ai critici dell’establishment).

“L’establishment della politica estera è una risorsa dell’America, non una debolezza”. 

Più avanti, per chiarire ancora meglio il concetto:

“Sia in termini assoluti che in termini relativi, la comunità di esperti che trattano le questioni di politica estera e di sicurezza nazionale negli Stati Uniti è notevolmente ampia e eterogenea…

Inoltre, diversamente dalle comunità corrispondenti di altre grandi potenze, l’establishment americano di politica estera non è separato dalla società ma connesso a questa, in quanto gli strati superiori delle burocrazie della sicurezza nazionale Usa sono staffate con personale di nomina politica piuttosto che con funzionari.

Il Blob comprende funzionari del governo, esperti esterni, e molte persone che vanno e vengono tra le due sponde”.

Dopo aver difeso con grande convinzione la qualità, l’apertura alla società e la ricchezza del dibattito interno che contraddistingue la comunità degli esperti di politica estera e di sicurezza nazionale, l’articolo si dedica, nella seconda parte, con altrettanta decisione a sviluppare un quadro positivo dei risultati della politica estera americana dei decenni “post-Guerra Fredda”, senza nascondere alcune “delusioni”.

Si legge, per esempio, che “Globalizzazione e democratizzazione dovevano far maturare Cina e Russia e aiutarle a inserirsi facilmente nell’ordine (mondiale, ndr) a guida americana. Non ha funzionato così bene come si era sperato”,

e più avanti, tentando di redigere un bilancio del post-Guerra Fredda:

da una parte alcuni fallimenti, dall’altra un successo gigantesco, l’emergere di un sistema internazionale molto più pacifico, prospero e liberale al centro del quale si collocano gli Stati Uniti, sicuri e prosperi”.

Avviandosi alla conclusione, Brands, Feaver e Inboden affrontano di petto quello che sembra essere, ancora più della “difesa del Blob”, il cuore del loro argomento: Trump.

“L’amministrazione Trump ha emarginato i professionisti della sicurezza nazionale, e la professionalità, in una misura senza precedenti nell’era moderna.

 Il presidente ha regolarmente disatteso il parere dei funzionari di carriera apolitici, li ha accusati di slealtà e perfino di tradimento, e ha epurato dai vertici dell’amministrazione chiunque non fosse disposto a adeguarsi alla linea ufficiale del giorno (quale che fosse).

I risultati di questo esperimento non sono incoraggianti.

Sinora ha prodotto politiche scadenti, attuate in maniera scadente e con risultati scadenti”.

È interessante che l’articolo, partito dalla rievocazione dell’attacco di un esponente dell’amministrazione Obama, “Ben Rhodes”, alla burocrazia, o tecnocrazia, delle relazioni internazionali e della sicurezza, si concluda con una requisitoria nei confronti dell’amministrazione Trump che avrebbe introdotto una gestione capricciosa e non professionale di queste stesse relazioni.

Ci si potrebbe chiedere se la vera ragione del contendere sia il contenuto della politica estera o di sicurezza Usa o non sia piuttosto l’identità del soggetto che la determina:

 al netto delle accuse di stile despotico, che non è questa la sede di valutare, l’alternativa è tra un decisore politico, oppure un apparato tecnico-burocratico che elabora scenari, sulla base degli scenari elabora strategie e procedure per attuarle.

La prima alternativa sembrerebbe più compatibile con la posizione di The End of Grand Strategy, la seconda è quella esplicitamente raccomandata dagli autori di In defense of the Blob.

E la seconda è incompatibile col riconoscimento del ritorno della Realpolitik nelle relazioni internazionali, una conseguenza del fallimento del tentativo di “assimilare” in modo non conflittuale i sistemi non ancora omogenei alla comunità occidentale (dove “occidentale” si riferisce non alla geografia, naturalmente, ma alle sfere d’influenza politica) come la Russia post-Eltsin e la Cina.

Il caparbio rifiuto di dare ingresso, nel discorso pubblico del mondo occidentale, all’ovvia verità che gli attori del gioco politico internazionale sono soggetti sovrani e non incorporee istituzioni multilaterali, ricorda però – e questo è inquietante – le “pie banalità” in materia di liberalismo e umanesimo di cui parla “Hannah Arendt” in “Le origini del totalitarism”o (citato da “Tim Schenk “su Tablet Magazine del 6 dicembre 2018), a proposito dell’attrazione dei giovani intellettuali tedeschi per Hitler al momento dell’ascesa al potere, e questo sento il dovere di dirlo senza nascondermi dietro un’imparzialità di facciata.

Comunque sia, tre cose sembrano chiare.

La prima, che tra le due opzioni rappresentate dai due saggi commentati in questo articolo, è in corso uno scontro senza quartiere che, benché focalizzato principalmente sulla politica estera e di sicurezza investe, in realtà, i fondamenti del governo, l’alternativa tra il governo legittimato dal consenso e il governo legittimato dalla competenza:

una contrapposizione di cui non sfuggirà la connotazione “sovrastrutturale” e di cui sarebbe interessante esplorare i fondamenti “strutturali”, considerato da un lato che le burocrazie che si confrontano con la leadership politica sono a pieno titolo una classe sociale, anzi la classe sociale che sinora, nella storia, non ha mai perso nessuna battaglia;

dall’altro lato che l’alternativa tra la decisione (inevitabilmente “responsabile” in quanto riconducibile a un autore) e l’esecuzione di una procedura (per propria natura irresponsabile perché riconducibile a una regola), una volta posta diventa irriducibile, e sembra che ormai questa sia l’alternativa sul tappeto.

 

E mi chiedo se dopo la rivoluzione del proletariato (1917), dopo la rivoluzione dei manager (1941) non si avvicini il momento della rivoluzione dei funzionari.

Che altro è la polemica contro il sovranismo, in ultima analisi e a prescindere dal suo uso strumentale, se non la contestazione della ineludibile presenza, in uno stato sovrano e proprio perché sovrano, di un potere di ultima istanza sovraordinato a tutte le posizioni gerarchiche in cui si materializza la struttura dello stato?

La seconda, che questo scontro, che conserva il suo epicentro nella potenza-guida, gli Usa, si ripercuote inevitabilmente sugli equilibri dei paesi del resto del mondo, che non possono non schierarsi:

e se lo fanno in una logica di alleanze (e di potenza relativa) gli attori sovrani della scena internazionale, sono costretti a farlo a rimorchio di logiche lobbistiche le aree contraddistinte da un vuoto di sovranità, e si sta pensando – è ovvio – all’Europa.

La terza, che “leggere” lo scontro nei termini attualmente in voga di “progressismo” (o modello liberal-democratico) versus “conservatorismo” (modello sovranista) non pare promettente se l’obiettivo è quello di esplorare le ragioni profonde, di lungo termine, dello scontro stesso, e le coalizioni di potere che lo determinano, ma si giustifica solo in una logica “militante”.

(Teo Dalavecuras)

 

 

 

 

L’era dello sviluppo:

un necrologio

 

gliasinirivista.org – (23 Settembre 2020) - Wolfgang Sachs – ci dice:

 

Quella che pubblichiamo è una versione estesa della nuova prefazione scritta da Wolfgang Sachs in occasione della terza riedizione dello storico volume collettaneo The Development Dictionary, uscita l’anno scorso per i tipi dell’inglese Zed Books. Il libro, originariamente pubblicato nel 1992 (la traduzione italiana – Dizionario dello sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1998 – è da molto tempo fuori catalogo), era curato dallo stesso Sachs e scaturiva dal lavoro di messa in discussione di alcuni decisivi assiomi dell’età moderna svolto in quegli anni nella cerchia di Ivan Illich, che si ritrovava periodicamente presso la Pennsylvania State University, dove diversi suoi membri insegnavano.

Sachs aveva raccolto i contributi di coloro che avevano partecipato a quelle discussioni, ognuno incentrato su una parola chiave (bisogni, povertà, risorse, tecnologia, ecc.), a comporre un lessico dello sviluppo e dei suoi effetti sull’ambiente, sulle culture locali, sugli stili di vita. Oltre a quelli degli stessi Sachs e Illich, comprendeva saggi di diversi interlocutori abituali di quest’ultimo, tra cui Barbara Duden, Jean Robert, Gustavo Esteva, Majid Rahnema, e altri firmati da figure a lui meno vicine, come Vandana Shiva e Serge Latouche, divenute in seguito molto note.

Il testo che segue è una versione rielaborata e arricchita della nuova prefazione al Dizionario, pubblicata sul numero 523 nel gennaio di quest’anno della rivista inglese “New Internationalist”. Il rigore e l’intelligenza con cui Sachs ha riflettuto sugli intrecci tra ecologia, consumi, giustizia globale, geopolitica e modi di vivere ne hanno fatto da molto tempo un punto di riferimento fondamentale per chi si interroga sul presente e sul futuro del mondo. Per tutto ciò, e per averci voluto concedere di pubblicare questo testo, lo ringraziamo con grande affetto e riconoscenza. (Gli asini)

 

Sviluppo è una di quelle categorie-zombie che, anche se da molto tempo in decomposizione, continuano a circolare, come una consunta utopia.

Seppellito apparentemente molto tempo fa, il fantasma di questo concetto si aggira ancora per la politica mondiale.

 Malgrado i grandi sconvolgimenti avvenuti di recente nella situazione globale, tutto a un tratto lo sviluppo sembra essere tornato sulla scena.

Per esempio, oggi la nuova leva di leader autoritari è entusiasta dello sviluppo.

 Eppure, con l’ascesa dei populismi nazionali, l’idea di sviluppo non gioca più un ruolo di ispirazione e di apertura al futuro, come durante il periodo della decolonizzazione degli stati nazione o al tempo della deregulation dei mercati globali.

 I Trump e i Bolsonaro, gli Erdogan e i Modi di questo mondo credono ancora nello sviluppo solo nella misura in cui ciò significa grandi progetti, potere d’acquisto per le masse e assoluta libertà di movimento per le corporation.

Ma, oltre a essere autoritari e xenofobi, sono nemici dichiarati dell’ambiente. Promettono ai loro seguaci una marcia indietro nelle politiche ambientali;

sono infatti grandi sostenitori della” brown economy”, e si oppongono a una alternativa verde.

La loro immagine dello sviluppo è modellata sull’energia fossile e, più in generale, sull’estrazione delle risorse naturali.

I populisti nazionali sono nostalgici dell’era industriale: non sono orientati verso il futuro ma, piuttosto, verso il passato.

C’è tuttavia una discontinuità cruciale nei programmi di sviluppo dei populisti nazionali:

essi sono etnocentrici ed egoisti.

Dalla seconda guerra mondiale fino a tempi molto recenti, lo sviluppo era bene o male sempre concepito all’interno di una cornice multilaterale.

 Ma, con l’inaugurazione della presidenza Trump negli Stati Uniti, il vento è cambiato:

America First” è il grido di battaglia dell’unilateralismo. Gli interessi di una nazione sono di primaria importanza, mentre quelli delle altre sono trascurabili.

L’eco di Trump risuona, per esempio, in Matteo Salvini, l’uomo forte dell’Italia degli ultimi anni:

“Prima gli italiani” era la giustificazione del suo rifiuto a lasciar attraccare i rifugiati che soffrivano in mare.

In altre parole, siccome l’era dello sviluppo non è affatto giunta da tempo a una fine ingloriosa, come una volta pronostica il nostro gruppo, la parola-zombie sviluppo continua a produrre ogni tipo di danni.

Allo stesso tempo, però, è vero che in tutto il mondo sono stati fatti molti sforzi nella direzione di una tecnologia maggiormente basata sulla natura, di un’economia più fondata sul bene comune e di una cultura incentrata sulla varietà delle civiltà: tutti obiettivi che possono essere intesi in termini di post-sviluppo.

Un’affermazione eccessiva.

Eravamo ingenui e un po’ pomposi quando abbiamo proclamato la “fine dell’era dello sviluppo”.

Durante l’autunno del 1988, alla Pennsylvania State University, nella casa di “Barbara Duden”, il nostro gruppo di amici aveva iniziato a delineare i contorni di quello che sarebbe diventato il Dizionario dello sviluppo.

Sulle orme di Ivan Illich, che un tempo intendeva scrivere un’“archeologia delle certezze moderne”, volevamo esplorare i concetti chiave dello sviluppo, che noi vedevamo come le rovine di un paesaggio intellettuale.

Dobbiamo ricordare che nella seconda metà del ventesimo secolo la nozione di sviluppo incombeva come un potente monarca sulle nazioni dell’emisfero meridionale:

 era il grido di battaglia dell’era post-coloniale.

 Il concetto sembrava essere innocente, ma a lungo termine si rivelò dannoso. Come una sorta di infrastruttura mentale, preparava la strada al potere imperiale dell’Occidente sul mondo intero.

 Come erano le cose in Occidente, così dovevano essere anche sulla Terra: questo era, in sostanza, il messaggio dello sviluppo.

Quando era iniziata l’era dello sviluppo?

Nel nostro Dizionario, ci concentravamo sul discorso inaugurale del presidente Harry S. Truman al congresso degli Stati Uniti, il 20 gennaio 1949, nel quale definiva i paesi dove viveva più di metà della popolazione mondiale come “aree sottosviluppate”.

L’era dello sviluppo si aprì con questo discorso, e fu il periodo della storia mondiale che seguì la fase coloniale delle potenze europee.

Essa è durata circa quaranta anni, ed è stata rimpiazzata dall’era della globalizzazione.

Ora assistiamo a un’altra svolta: l’ascesa dei populismi nazionali.

Cosa costituisce l’idea di sviluppo?

Dobbiamo considerare quattro aspetti.

 Sul piano crono-politico, tutte le nazioni sembrano avanzare nella stessa direzione.

Immaginate che il tempo sia lineare, che si muova solo in avanti o indietro, ma lo scopo del progresso tecnico ed economico sia costantemente sfuggente.

Sul versante geo-politico, coloro che fungono da guide su questo cammino, le nazioni sviluppate, mostrano ai paesi ritardatari la strada da intraprendere.

 La sbalorditiva varietà dei popoli del mondo è ora classificata semplicisticamente in nazioni ricche e nazioni povere.

Sul piano socio-politico, lo sviluppo di una nazione è misurato attraverso la sua prestazione economica, in termini di Prodotto Interno Lordo (Pil).

 Alle società che sono appena emerse dal dominio coloniale è richiesto di farsi prendere in custodia dall’“economia”.

E infine, gli attori che spingono per lo sviluppo sono soprattutto esperti dei governi, delle banche transnazionali, delle corporation.

 In precedenza, ai tempi di Marx o di Schumpeter, sviluppare era usato come verbo intransitivo, come il fiore che cerca la maturazione.

 Ora il termine viene usato in modo transitivo, come il riordino attivo di una società che deve essere completato entro pochi decenni, se non entro pochi anni.

Cosa ne è stato di questa idea?

Per farla breve, la nozione ha preso una direzione non insolita nella storia delle idee:

ciò che un tempo era un’innovazione storica è divenuta gradualmente una convenzione, di quelle che finiscono nella frustrazione generale.

Ciò nonostante, trent’anni fa era prematuro proclamare la fine dell’era sviluppista, perché il disincanto verso l’idea di sviluppo è avvenuto nel giro di alcuni decenni, e ancor oggi non si è completato.

Le idee che nella storia diventano forti non scompaiono in un istante, ma piuttosto svaniscono gradualmente mentre diventano sempre più irrilevanti per la nostra comprensione dei tempi.

Eppure, la marea è cambiata:

 perfino gli esperti dello sviluppo, per quanto concerne il futuro sono immersi nella nebbia, preoccupati principalmente di limitare le catastrofi sociali ed ecologiche causate dal modello di sviluppo dominante.

Mettere in dubbio l’idea di sviluppo è diventato accettabile.

Ma cerchiamo di non correre troppo.

A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, il discorso sullo sviluppo era formulato nella cornice degli stati-nazione.

Praticamente ogni giovane nazione vedeva come sua ragion d’essere quella di svilupparsi.

Ma nel novembre 1989 cadde il muro di Berlino, la guerra fredda giunse al termine e iniziò l’era della globalizzazione.

Negli anni successivi l’idea di sviluppo ricevette un’ulteriore spinta:

 la mentalità dello sviluppo si diffuse in ogni angolo del mondo, coinvolgendo attori completamente nuovi.

 Gli stati-nazione erano tuttavia divenuti porosi, come container crivellati di fori di proiettili esplosi da forze esterne, e dovevano sottoporsi ai poteri globali, sia economici che culturali.

Merci, denaro, informazioni, immagini e persone si riversarono attraverso i confini, creando uno spazio sociale transnazionale nel quale avevano luogo interazioni a grande distanza, a volte addirittura in tempo reale.

In questo processo, altri attori, come le corporation e i media transnazionali, giocavano un ruolo sempre più importante nello sviluppo, mentre gli stati-nazione rimanevano in posizione sempre più arretrata.

Per esempio, gli investimenti privati stranieri superarono l’assistenza allo sviluppo ufficiale, i programmi televisivi resero in tutto il mondo marginali le narrative autoctone, e il consumo globale soppiantò l’artigianato locale.

 Lo sviluppo, fino ad allora compito dello stato, era ora deterritorializzato.

Oltretutto, apparvero sulla scena le filiere transnazionali.

Con la fine della guerra fredda e il processo di deregulation in pieno svolgimento, la strada era spianata per lo spiegamento di reti di produzione capaci di attraversare il mondo intero.

 In generale, anche nei più remoti angoli del mondo l’economia capitalista delle merci e dei servizi aveva rimpiazzato un’infinità di economie di sussistenza e i loro mercati tradizionali.

E il capitalismo era cambiato, come già John Kenneth Galbraith aveva osservato negli anni Cinquanta:

 si era passati da un’economia dedicata a soddisfare bisogni a una impegnata a inculcare esigenze.

In un’economia siffatta, ciò che conta è sempre di più il potere simbolico delle merci e dei servizi.

Ciò che importa è quello che le merci dicono, piuttosto che quello che fanno: sono mezzi di comunicazione.

 Le merci sono simultaneamente rituali e religione.

 Le corporation proliferano, e in ogni continente gli stili di vita si allineano:

 i Suv hanno sostituito i risciò, i telefoni cellulari hanno preso il posto delle riunioni di comunità, l’aria condizionata ha soppiantato la siesta.

 La globalizzazione dei mercati può essere intesa come uno sviluppo senza stati-nazione.

Chi ha beneficiato di più di questo processo è la classe media globale, in Europa, Nord America e Asia, come in Sud America e Africa, sebbene in queste ultime meno numerosa.

Coloro che vi appartengono fanno la spesa in centri commerciali simili, acquistano un’identica elettronica high-tech, guardano gli stessi film e le stesse serie tv.

 Come turisti, dispongono del decisivo medium di allineamento: il denaro.

 La classe media – ora circa tre miliardi di persone con un reddito superiore ai 10 dollari al giorno – si espande più rapidamente in Cina, India e altri paesi asiatici, grazie alla rapida crescita economica.

Questa è in sé un’impresa storica: ci sono voluti probabilmente centocinquanta anni, dall’inizio della rivoluzione industriale a circa il 1985, per creare il primo miliardo di consumatori della classe media;

per superare la soglia del secondo miliardo ci sono voluti ventun anni;

e solo nove anni per il terzo miliardo.

 Se le proiezioni sono corrette, altri due miliardi di individui andranno ad aggiungersi alla classe media entro il 2028, raggiungendo un totale di cinque miliardi di persone.

Chi sta sui gradini più bassi della scala può permettersi un motorino o una lavatrice, mentre chi sta sui gradini più alti può investire in viaggi a lunga distanza o in proprietà immobiliari.

Già nel 2010 all’incirca la metà della classe media globale viveva nel Nord Globale, e l’altra metà viveva nel Sud Globale.

Lo stile di vita occidentale si è realmente diffuso negli altri continenti, abbracciando l’intero globo.

Ma quello che senza dubbio è stato il formidabile successo dello sviluppo, non è che un fallimento che sta per avvenire.

Sopravvivenza, non progresso.

Sviluppo è una parola plastica, un termine vuoto privo di significati positivi.

Ciò nonostante ha mantenuto il suo status di prospettiva globale, perché è stato inscritto in un network internazionale di istituzioni che va dall’Onu alle ong. Dopotutto, miliardi di persone hanno fatto uso del “diritto allo sviluppo”, così come è stato affermato in una risoluzione dell’assemblea generale Onu nel 1986.

Possiamo tuttavia notare le notevoli trasformazioni che questa idea ha subito di recente.

Nel 2015, per esempio, si è potuto osservare un intensificarsi del discorso sullo sviluppo:

l’enciclica papale Laudato si’ in giugno, “i Sustainable Development Goals” (Obiettivi di sviluppo sostenibile) dell’Onu in settembre, e gli accordi di Parigi sul cambiamento climatico in dicembre.

Ma queste dichiarazioni internazionali sono ancora improntate allo sviluppo? Oppure si potrebbe, al contrario, considerarle prove di un pensiero del post-sviluppo?

L’erosione dell’idea di sviluppo è ora evidente nei “Sustainable Development Goals” (Sdg) dell’Onu.

 I tempi in cui lo sviluppo rappresentava una “promessa” sono ampiamente finiti:

 a quell’epoca, era un discorso che riguardava nazioni giovani e ambiziose che procedevano su un cammino di progresso.

La parola d’ordine dello sviluppo conteneva davvero una monumentale promessa storica:

che infine tutte le società avrebbero colmato il divario con quelle più ricche, arrivando a condividere i frutti della civiltà industriale.

Quell’era è finita:

 più frequentemente, lo sviluppo oggi riguarda la sopravvivenza, non il progresso.

Gli “Sdg” sono progettati per garantire il livello minimo dei diritti umani e delle condizioni ambientali.

Niente di più e niente di meno, ma l’eroica fede nel progresso ha ceduto il passo al bisogno di sopravvivenza.

 La lettera papale Laudato sì trascura le parole chiave di “sviluppo” e “progresso”, mentre l’accordo di Parigi sul clima è teso a evitare catastrofi e guerre.

La politica della lotta alla povertà ha inoltre ottenuto successi in alcuni casi, ma al costo di produrre diseguaglianze ancora maggiori altrove e al prezzo di danni ambientali irreparabili.

 Il “World Inequality Report del 2018 “ha confermato che, a partire dal 1980, la quota di reddito nazionale che è andata all’uno per cento dei più ricchi è aumentata rapidamente in Nord America, Cina, India e Russia, e più moderatamente in Europa: quarant’anni di corsa all’oro!

Per di più, lo sfruttamento della Terra è drasticamente aumentato: secondo i calcoli del “Global Footprint Network”, l’umanità consuma la biosfera 1,7 volte ogni anno.

 L’inquinamento da materiali plastici degli oceani, l’estinzione di massa degli insetti e lo scioglimento dello scudo di ghiaccio dell’Artico ne sono esempi emblematici.

Il caos climatico e il lento declino della vita vegetale e animale hanno messo in dubbio la fede nel fatto che le nazioni sviluppate rappresentino il culmine dell’evoluzione sociale.

Al contrario, il progresso si è rivelato essere un regresso, così come la logica capitalista del Nord Globale ha dimostrato di non poter far altro che sfruttare la natura.

Da Limits to the Growth del 1972, fino a Planetary Boundaries del 2009, l’analisi è chiara:

lo sviluppo-come-crescita rende il Pianeta Terra inospitale per gli umani.

 Gli “Sdg” – che recano il termine sviluppo nel loro stesso titolo – sono un inganno semantico.

 I “Sustainable Development” Goals dovrebbero in realtà chiamarsi “Ssg”: “Sustainable Survival Goals” (Obiettivi di sopravvivenza sostenibile).

Seppellire il mito della rimonta.

Anche la geopolitica dello sviluppo è implosa.

Al Millennium Summit di New York, nel 2000, erano stati riprodotti gli schemi dei cinquant’anni precedenti:

 il mondo nettamente diviso tra Nord e Sud, in cui i benefattori elargiscono capitali, crescita e politiche sociali ai paesi beneficiari per ricondizionarli, in funzione della corsa globale.

 Questo schema è un familiare sedimento della storia coloniale, ed era – proprio come l’imperativo della rimonta – onnipresente negli anni del dopoguerra.

Ma ora che siamo arrivati agli “Sdg”, che fine ha fatto l’idea delle nazioni in via di sviluppo che rimontano sulle nazioni ricche, questa nozione che un tempo era così fondamentale per l’idea di sviluppo?

Vale la pena di citare un passaggio del documento che ha proclamato gli “Sdg”: “La portata e il significato di questo programma sono senza precedenti. Questi sono obiettivi universali, obiettivi che coinvolgono il mondo intero, le nazioni sviluppate e quelle in via di sviluppo, allo stesso modo”.

Gli “Sdg” affermano di essere globali e universali, e gli accordi di Parigi fanno lo stesso.

Il cambio di mentalità non potrebbe essere espresso più chiaramente: la geopolitica dello sviluppo, secondo la quale le nazioni industrializzate erano lo scintillante esempio per i paesi più poveri, è stata archiviata.

Quante strategie, passioni e risorse, consumate per realizzare il sogno della rimonta!

 Ora è tutto finito.

Così come l’era della guerra fredda è finita nel 1989, il mito della rimonta è evaporato nel 2015.

Molto raramente un mito è stato seppellito così tranquillamente.

Che cosa significa sviluppo, se non esiste nessun paese che possa definirsi “sviluppato in modo sostenibile”?

Dobbiamo anche aggiungere che la geografia economica del mondo è cambiata.

In termini geopolitici, la rapida ascesa della Cina alla posizione di maggiore potenza economica della terra è stata spettacolare.

 I sette più importanti paesi di recente industrializzazione sono ora economicamente più forti degli stati industriali tradizionali, sebbene i G7 pretendano di essere ancora egemoni.

 La globalizzazione ha quasi dissolto il consolidato schema Nord-Sud.

Internet ci fornisce un esempio.

 Nel 2016 3,4 miliardi di persone, la metà della popolazione mondiale, ha utilizzato internet.

Singoli individui navigano sul web con computer, tablet o smartphone, le grandi imprese sono dotate di enormi dipartimenti di tecnologie informatiche, e miliardi di persone sono ogni giorno online sui social network.

Internet è divenuto il “sistema nervoso centrale” della società mondiale.

Per inciso, l’infrastruttura digitale, con i suoi centri di elaborazione dati, necessita di un’enorme quantità di energia, impiegando circa il 7 per cento di quella consumata globalmente:

quanto corrisponde al consumo annuo di elettricità della Gran Bretagna.

Qual è la distribuzione geografica degli utenti di internet?

 La maggior parte vive in Asia orientale (867 milioni) e in Asia meridionale (480 milioni); Europa occidentale (345 milioni) e America del nord (341 milioni) sono a metà classifica.

Dal momento che l’elettricità proviene soprattutto da centrali a carbone, a gas e a petrolio, l’impronta ecologica di tutte queste attività su internet è immensa.

In sostanza, in termini di consumo di risorse le classi alte di Cina, India, Malesia e Arabia Saudita hanno già rimontato le classi medie statunitensi ed europee.

Tra l’altro, dai negoziati internazionali sul clima le classi alte dei paesi di recente industrializzazione escono relativamente indenni, perché possono nascondersi dietro ai poveri delle loro nazioni.

Lo sviluppo come operazione statistica.

Inoltre, lo sviluppo è sempre stato un costrutto statistico: senza il numero magico, ovvero il Pil, sarebbe stato impossibile proporre una classifica delle nazioni mondiali.

 La comparazione dei redditi era il fulcro del pensiero dello sviluppo: solo in questo modo si poteva determinare la relativa povertà o ricchezza di un paese.

Tuttavia, a partire degli anni Settanta, nel discorso sullo sviluppo è emersa una dicotomia:

 la giustapposizione dell’idea di sviluppo-come-crescita con quella di sviluppo-come-politica-sociale.

Istituzioni come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e il Wto sono rimaste fedeli alla prima, mentre il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp), quello per l’Ambiente (Unep) e la maggior parte delle ong sono passati a enfatizzare la seconda.

 Così il termine “sviluppo” è divenuto una sorta di collante multiuso, che può riferirsi alla costruzione di aeroporti tanto quanto all’escavazione di pozzi.

“I Millennium Development Goals” (Obiettivi di sviluppo del Millennio), così come gli “Sdg” che li hanno seguiti, erano radicati in questa eredità.

Le relazioni tra indicatori sociali e crescita economica si sono ripetutamente rivelate una questione spinosa.

Da un lato, l’Agenda 2030 (la dichiarazione di governo degli “Sdg”) riconosce il declino degli ecosistemi marino e terrestre e l’aumento delle diseguaglianze sociali, ma dall’altro lato richiede ai paesi più poveri una crescita economica di almeno il 7 per cento all’anno.

Si sostiene che la contraddizione tra crescita e sostenibilità sia sorpassata dai nuovi concetti di “crescita inclusiva” e “crescita verde”.

Ma è ormai risaputo che la crescita inclusiva, guidata dai mercati finanziari, è impossibile, in quanto riproduce costantemente meccanismi di disuguaglianza.

Il declino della povertà va tipicamente a braccetto con l’aumento delle disuguaglianze.

A partire dal 1990, le economie emergenti di Russia, Cina, India e Sudafrica hanno sperimentato un brusco aumento delle disuguaglianze, mentre in Brasile sono leggermente diminuite, sebbene a partire da un livello molto alto.

 

Lo stesso vale per lo slogan della crescita verde.

 Il fatto che la crescita economica fondata sulle risorse fossili non sia praticabile neppure nel medio periodo, è arrivato perfino agli alti ranghi dei summit del G7.

Nel 2015, i paesi industrializzati prevedevano la decarbonizzazione dell’economia globale entro la fine del secolo.

In ogni caso, tutte le ricette della crescita verde sono fondate sulla disgiunzione tra degrado ambientale e crescita, anche se la disgiunzione assoluta (aumento della crescita con diminuzione del degrado ambientale) non è mai stata raggiunta nella storia.

In sostanza, lo sviluppo-come-crescita è divenuto storicamente obsoleto, rivelandosi persino pericoloso per la vita stessa. Malgrado ciò l’Agenda 2030 evita di parlare di prosperità senza crescita, neppure per quanto riguarda i vecchi paesi industrializzati.

 Ridurre la compulsione alla crescita sembra essere un tabù:

in campo economico, ciò significherebbe dare priorità alla sufficienza anziché all’efficienza.

 In un’economia in cui domina il principio di efficienza, sempre più cose vengono prodotte con sempre meno risorse.

Ma in una economia della sufficienza, le cose necessarie sono prodotte con un uso intelligente delle risorse.

Alcuni settori dell’economia si ridurrebbero, mentre altri crescerebbero.

Questo assetto dell’economia implicherebbe una disponibilità a ridimensionare l’attuale sistema industriale.

Al confronto con l’Agenda 2030, Papa Francesco, nella sua enciclica Laudato sì, sembra più capace di aprirsi al futuro, dato che propugna la decrescita per le zone ricche della Terra.

Una contraddizione insanabile.

“Mohandas Gandhi”, che portò l’India all’indipendenza, era un post-sviluppista molto prima che il termine venisse inventato.

 Lasciò ai posteri una ben nota citazione, che riassume sinteticamente il suo pensiero sullo sviluppo:

“La Terra offre abbastanza per i bisogni di ognuno [everyone’s need], ma non per l’avidità di ognuno [everyone’s greed]”.

Se si osserva meglio la frase, il suo carattere sovversivo diviene chiaro.

Nessuna meraviglia che nell’India di oggi Gandhi sia visto come un santo patrono in disuso, che viene tirato fuori solo per cerimonie particolari.

Al contrario dell’ortodossia economica, Gandhi crede che le risorse della Terra non siano scarse, ma invece abbondanti, di certo sufficienti per soddisfare i bisogni della società umana.

Egli presuppone che i bisogni sono modellati culturalmente, e più o meno circoscritti, altra cosa in contrasto con il buonsenso economico generalmente accettato.

Ciò lo porta a mettere sotto accusa l’avarizia, perché l’avidità sistemica pregiudica i bisogni della maggioranza delle persone.

L’avidità è la variabile che decide se le persone hanno abbastanza per vivere oppure no.

Se gli autori del rapporto della “Commissione Brundtland”, nel 1987, avessero letto attentamente Gandhi, non sarebbero venuti fuori con quella classica definizione dello sviluppo sostenibile:

“Lo sviluppo soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni”.

 Gandhi avrebbe insistito sul fatto che non tutti i bisogni sono ugualmente validi, che i bisogni dei benestanti sono diversi da quelli dei diseredati.

Così, in seguito, la mancanza di distinzione tra bisogni di sopravvivenza e bisogni di lusso è divenuta una trappola nel dibattito sulla sostenibilità.

In effetti, mettere insieme i diritti umani e i diritti del consumatore fa parte dell’eredità del concetto di sviluppo, che è cieco ai rapporti di classe.

 Com’è possibile trattare i diritti sociali fondamentali al cibo, alla casa e alla salute come se fossero sullo stesso piano della domanda, espressa dai consumatori, di suv, proprietà immobiliari e azioni?

 Che cosa hanno in comune i “Mapuche” del sud del Cile con i banchieri di Wall Street, o i lavoratori del cotone del Mali con le start-up di Shanghai?

 Non molto, tranne il fatto che sono uniti dal miraggio comune dello sviluppo.

Ma ciò apre un dilemma che è sempre rimasto nascosto nell’illusione dello sviluppo.

Uno studio recente conferma che, all’interno del modello di sviluppo corrente, c’è una contraddizione insanabile tra gli obiettivi sociali e ambientali degli “Sdg”.

 Nei paesi relativamente ricchi, dove gli obiettivi “Sdg” riguardanti la dimensione fisica (povertà, nutrizione, salute, energia) sono ragionevolmente soddisfatti – come in Europa, Nord America, Giappone, Argentina, Cile, Tailandia, e così via – c’è un problema ecologico di enormi dimensioni.

 Essi sorpassano i limiti planetari, nell’emissione di Co2 e di azoto, nel consumo di fosforo e di acqua dolce.

Al contrario, dove i paesi rimangono all’interno del quadro ambientale, gli obiettivi “Sdg” di tipo fisico sono largamente insoddisfatti.

 Il doppio vincolo è pressappoco questo:

più sale lo standard di vita di un paese, più la biosfera tende a degradarsi.

 E, al contrario, meno sono garantiti i diritti umani e sociali, più tende a essere piccola l’impronta ecologica, almeno in termini di carbonio e di materiali.

Che risultato tragico per lo sviluppo!

Ciò che è più rilevante, inoltre, è il fatto che a volte il benessere della classe media globale dipende dalla povertà degli altri.

 Ne abbiamo un’infinità di esempi:

quando le grandi navi che praticano la pesca industrializzata svuotano gli oceani, danneggiano i pescatori locali;

i piccoli proprietari vengono soppiantati quando le corporation agricole si accaparrano grandi estensioni di terra;

gli abitanti degli slum devono lasciare il campo quando vengono costruite le strade urbane a scorrimento veloce;

i vecchi abitanti devono andarsene quando la gentrificazione raggiunge i loro quartieri;

 i lavoratori vengono repressi quando rivendicano i loro diritti sindacali nelle fabbriche della filiera globale.

In breve, il modo di vivere “imperiale” penetra profondamente negli stili di vita, nelle istituzioni e nelle infrastrutture della classe media globale.

 Non riconosciuto, eppure assolutamente presente attraverso una varietà di complesse strutture economiche e di meccanismi di sfruttamento, il risultato complessivo è drammatico:

i benestanti vivono a spese dei poveri.

Paura del futuro.

Un aspetto essenziale emerge dall’Agenda 2030, dall’enciclica Laudato sì e dagli accordi di Parigi:

l’entusiasmo del ventesimo secolo per lo sviluppo se n’è andato. Al suo posto, la fine della modernità espansiva ha conquistato la scena.

 Il motto del secolo scorso (parafrasando le parole del Padre Nostro), “come in Occidente, così in Terra”, ora suona come una minaccia.

Il mondo ci appare in subbuglio:

caos, paura e rabbia si estendono ovunque, contrastando aspramente con il trionfalismo degli anni Novanta.

L’ascesa della Cina, il declino dell’Occidente, l’egemonia dei mercati finanziari, il ritorno degli stati autoritari: sono solo alcuni esempi dei capricci della storia contemporanea.

Se dovessimo trovare una frase che riassuma l’atmosfera attuale nel Nord Globale, e in parte del Sud Globale, potrebbe essere “paura del futuro”.

 È la paura che le prospettive di vita si stanno riducendo, e che i figli e i nipoti saranno meno benestanti dei loro genitori e nonni.

Nella classe media globale si diffonde il sospetto che le aspettative suscitate dallo sviluppo non saranno soddisfatte.

Le classi medie dei paesi che erano ricchi, sfoltite dalla globalizzazione, ora chiedono protezione e sicurezza.

Allo stesso tempo, vaste porzioni delle popolazioni dei paesi emergenti, alienate dalle proprie tradizioni, al corrente degli stili di vita occidentali attraverso i loro smartphone, ma escluse dal mondo moderno, fanno ricorso all’orgoglio nazionalista.

Ovunque si assiste a un’enorme polarizzazione tra ricchi e poveri.

Ma mentre negli stati-nazione dei tempi andati i perdenti erano ancora capaci di pretendere correzioni dai vincitori, al tempo della globalizzazione non sono più in grado di farlo.

L’economia transnazionale, specie il settore finanziario, trionfa sulle condizioni di vita di ogni paese. Come risposta, sono emersi i populismi nazionali, con le loro diverse sfaccettature.

Di fronte alle turbolenze del mondo contemporaneo, inquadrare i problemi sociali come “problemi di sviluppo” appare stranamente antiquato.

Se tutto ciò non è ingannevole, nelle trasformazioni sociali si possono riconoscere tre diverse narrative:

la narrativa della fortezza, quella del globalismo e quella della solidarietà.

Il pensiero della fortezza, espresso attraverso il populismo nazionale, ravviva il passato glorioso di un popolo immaginario.

I leader autoritari riportano in auge l’orgoglio, mentre gli “altri” diventano capri espiatori (dai musulmani alle Nazioni Unite).

 Ciò conduce all’odio per gli stranieri, a volte combinato con il fondamentalismo religioso.

Si diffonde ovunque una sorta di “sciovinismo opulento”, in particolare tra le classi medie, i cui beni materiali devono essere difesi contro i poveri.

Nei confronti dell’ecologia, inoltre, i populisti nazionali non mostrano altro che disprezzo.

Gradiscono la trivellazione dei mari, il fracking, l’estrazione del carbone e la deforestazione.

Per loro il cambiamento climatico è lo scrupoloso elenco dei nemici dell’economia nazionale.

Sono così retrogradi da glorificare il saccheggio della natura.

Tranne che per la loro xenofobia, potrebbero essere considerati i fantasmi dell’ideologia sviluppista degli anni Cinquanta.

Ciò aumenta l’anacronismo dei populismi nazionali.

Al contrario, la narrativa del globalismo ruota attorno all’immagine del pianeta come simbolo archetipico.

Al posto del mercantilismo da fortezza dell’“America First”, i globalisti promuovono un mondo ideale di deregulation e libero commercio, che dovrebbe portare ricchezza e benessere alle corporation e ai consumatori.

 I globalisti considerano però l’attuale sistema economico insostenibile.

 Rispetto alle strategie politiche del neoliberismo, essi danno più spazio agli investimenti pubblici, chiedono più riforme nel settore sociale e in generale più leadership nelle politiche pubbliche.

Soprattutto, si battono per la crescita economica in un quadro di “green economy”.

Le élite globalizzate possono anche essere preoccupate per il futuro, ma pensano che queste difficoltà possano essere superate attraverso la crescita inclusiva, le tecnologie smart e direttive in materia ambientale in grado di indirizzare le forze di mercato.

L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, con i suoi “Sdg”, si colloca in larga misura all’interno di questo quadro di pensiero.

 

La narrativa della solidarietà è diversa.

L’etica eco-sociale si pone in opposizione sia alla narrativa della fortezza quanto a quella del globalismo.

Essa immagina un’era post-capitalista, fondata su uno spostamento culturale verso l’eco-solidarietà.

 La monocultura economica, che regna in larga parte del mondo, dovrebbe lasciare spazio ad alternative di civiltà, siano esse le visioni del mondo dell’”Ubuntu” o del “Buen vivir”, o quelle dell’umanesimo o spirito di comunità europei.

Nella mentalità della solidarietà, i diritti umani – collettivi e individuali – e i principi ecologici sono altamente considerati;

le forze di mercato non sono viste come un fine in sé, ma come mezzi per un fine.

La politica della solidarietà promuove un cambiamento culturale piuttosto che tecnologico, sostenuto da forme di economia cooperativa e da misure di welfare pubblico.

 Diversamente dal globalismo, la narrativa della solidarietà non invoca confini aperti, ma permeabili, imponendo determinate condizioni ai migranti, alle merci e ai capitali, come la membrana di una cellula vivente.

Così come espresso dallo slogan “pensare globalmente, agire localmente”, viene inoltre coltivato un localismo cosmopolita in cui le politiche locali devono tenere in considerazione anche i bisogni della comunità transnazionale.

 Ciò significa abbandonare il modo di vivere “imperiale” che la civiltà industriale esige, lasciando la terra, il cibo e i capitali del Sud Globale nelle proprie mani.

Soprattutto di fronte al collasso ecologico, nel Nord come nel Sud del mondo è indispensabile eliminare gradualmente il sistema economico basato sulle risorse fossili, sostituendolo con un sistema fondato sulla biodiversità.

Questa transizione implica sistemi eolici e solari per fornire energia, e agricoltura rigenerativa per fornire cibo e fibre.

Al posto di una modernità espansiva, è ora il tempo di una modernità riduttiva:

imprese verdi, case a emissioni zero, una quantità di traffico motorizzato molto inferiore (rispetto agli standard europei), un consumo di carne molto più basso e, in generale, meno proprietà e più condivisione.

Infine, sono necessarie nuove forme di prosperità frugale:

abbondanza di tempo anziché abbondanza di merci, lavoro di cura anziché lavoro retribuito, condivisione [partaking] della natura anziché partecipazione [taking part] alla corsa dei topi.

Dal momento che ci confrontiamo con la paura del futuro, sono in gioco gli orientamenti politici fondamentali.

Questa disputa paradigmatica sarà all’ordine del giorno nei decenni a venire.

Così lo sviluppo, come le monarchie e il feudalesimo, è in procinto di allontanarsi sempre più lontano nelle foschie della storia, e a quel punto interesserà solamente gli studenti e gli studiosi.

 Dare forma al nostro destino, oltre lo sviluppo, è il compito che ci sta di fronte.

(“New Internationalist”, n. 523, gennaio-febbraio 2020)

 

 

 

“Non avrai nulla e sarai felice”:

gli slogan ingannevoli di Davos.

Decrescitafelice.it Bernardo Severgnini – (26 Febbraio 2023) - Team Redazionale Mdf – ci dice:

 

“Non avrai nulla e sarai felice” è uno dei più celebri slogan prodotti dal “World Economic Forum” (WEF), organizzazione finanziata dalle più grandi multinazionali del pianeta, che ogni anno raduna a Davos, in Svizzera, esponenti di primo piano della politica e dell’economia internazionale con intellettuali e giornalisti accuratamente selezionati, per discutere delle questioni più importanti che il mondo si trova ad affrontare, anche in materia di salute e di ambiente.

Lo slogan, in originale ”You’ll own nothing. And you’ll be happy” che potete vedere qui, se recepito con superficialità, può richiamare aspetti della decrescita felice, ma che in realtà, se analizzato a fondo, rappresenta un concetto ben diverso.

Da sempre, e ancor più oggi, nel mondo dell’immagine, dei twit e della propaganda fatta a slogan, il lessico è un’arma che il potere utilizza con disinvoltura e con malizia per affermare e conservare sé stesso, per neutralizzare il dissenso e per contrastare le pulsioni verso un reale cambiamento del sistema.

La storia è piena di esempi in questo senso:

il termine anarchia, che di per sé indica una forma di organizzazione che supera le forme di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, è stato nel tempo caricato di accezioni violente, è stato fatto diventare sinonimo di disordine, è stato snaturato del suo significato autentico.

 Oppure in tempi più recenti sovranismo, che di per sé indica il diritto dei popoli a non essere etero-diretti, principio scomodo per i progetti globalisti, è stato fatto diventare sinonimo di razzismo e xenofobia.

Quando la propaganda di regime non riesce nell’intento di distruggere un termine a lei scomodo, tende a farlo proprio, snaturandone il significato a proprio vantaggio.

È il caso ad esempio del termine “democrazia”, troppo positivo per poterlo rendere sgradevole agli occhi dell’opinione pubblica, che viene oggi usato per definire istituzioni altamente oligarchiche come l’Unione Europea.

Oppure il termine ecologia, usato per promuovere operazioni commerciali di “greenwashing” che ben poco hanno contribuito e contribuiranno al miglioramento delle condizioni ambientali.

Anche il termine decrescita ha ricevuto un trattamento particolare, lo si è caricato di significati che non gli appartengono, come se volesse perseguire la povertà o il rifiuto della modernità.

Questo è servito per allontanare l’opinione pubblica dai reali concetti e dai reali principi che la decrescita felice propone, e che se messi in pratica, rappresenterebbero un duro colpo al business di quei gruppi di potere di cui la propaganda si fa portavoce.

Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato nell’approccio del sistema mediatico mainstream nei confronti della decrescita.

 Se è vero che il vocabolo in sé continua ad essere disprezzato e deriso, è anche vero che la prospettiva di una inevitabile necessità di ridurre i consumi globali nel prossimo futuro è sotto gli occhi di tutti, WEF compreso.

Da qui l’urgenza di governare il periodo di sobrietà forzata che i signori di Davos hanno predisposto per le masse per i prossimi anni.

Fare in modo che le masse lo accettino senza remore, e possibilmente con entusiasmo.

Ecco il senso dello slogan non avrai nulla e sarai felice, uno slogan che strizza l’occhio alla decrescita felice, pur senza nominarla.

Uno slogan che richiama troppo da vicino la decrescita felice per non rischiare di essere frainteso.

 È importante dunque che si mettano in chiaro in modo netto le differenze tra ciò che si intende con decrescita felice e ciò che invece intendono a Davos.

Innanzitutto, questo slogan non dice “non avremo niente”, ma dice “non avrai niente”.

Non si usa il verbo alla prima persona plurale, ma alla seconda singolare.

 Scelta di parole curiosa promossa da chi partecipa al Forum di Davos volando su jet privati e consumando migliaia di volte più dei normali cittadini, personaggi che difficilmente rinunceranno ai loro privilegi.

Ecco, la decrescita felice non è nulla di tutto questo.

Non ci può essere decrescita felice senza uguaglianza sociale.

 In una società della decrescita non è prevista una classe sociale di super ricchi che sta al di fuori e al di sopra.

Inoltre, l’uso dei modi e tempi verbali sembrano indicare un futuro certo e inevitabile, come se fosse già tutto scritto.

Hanno deciso così e ci vogliono informare della loro decisione, non è previsto un confronto costruttivo.

 I dibattiti, questi metodi novecenteschi che fanno solo perdere tempo!

Anche qui, non c’è nulla di più distante dalla decrescita felice, che promuove un modello di società dove le decisioni partono dai confronti con le comunità, non certo dai CEO di qualche multinazionale.

Infine, la decrescita felice significa scegliere di rinunciare a quel superfluo che diventa dannoso.

Non significa dover rinunciare a ciò che serve, ma semmai ottimizzare, attraverso la condivisione, la fruizione di beni e servizi che saranno comunque sempre nella disponibilità di tutti.

È qualcosa di molto diverso da “non avrai nulla”.

Ricordiamoci sempre che la “decrescita felice è una società di abbondanza condivisa”, una società non realizzabile singolarmente, ma solo attraverso la condivisione e la collaborazione.

Una società che non ci potrà venire imposta, ma potrà solo essere scelta attraverso processi democratici.

 Per questo motivo, non si potrà realizzare senza che i suoi concetti rivoluzionari siano diffusi nella cultura popolare.

 La comunicazione è dunque la nostra sfida più grande.

“Una comunicazione che sappia resistere alle trappole semantiche del potere”, e che al contrario sappia rappresentare la scintilla in grado di aprire “una grande stagione di lotta collettiva per la giustizia sociale e ambientale”.

 

Caso Vannacci, una folata di fumo

 che ci dice una cosa:

i globalisti odiano il dissenso,

” cdx” complementare al “csx”.

Ilgiornaleditalia.it – Matteo Brandi – (21 agosto 2023) - ci dice:

 

Cosa ne pensiamo dunque della faccenda.

Vannacci? La consideriamo una “cagnara” estiva buona solo a rimarcare cose che già sappiamo:

i globalisti odiano qualsiasi forma di dissenso, il centrodestra è complementare al centrosinistra e una nuova costruzione ideologica non passerà da un libro su Amazon.

Vannacci sì o Vannacci no?

Nell'agosto più caldo dai tempi dei dinosauri (ma forse anche del Big Bang), ecco pronta per gli italiani l'ennesima folata di fumo negli occhi.

No, non è la fuliggine degli incendi in Sardegna, bensì una nuova polemicuccia estiva con cui spaccare in due l'opinione pubblica.

Parliamo, ovviamente, della bagarre scoppiata attorno al libro "Il mondo al contrario" del generale Roberto Vannacci.

Da una parte abbiamo gli immancabili Torquemada della sinistra globalista, che sognano per l'Italia scenari da Fahrenheit 451.

 A costoro il concetto di "libertà di espressione" risulta sempre più indigesto, a tal punto da invocare epurazioni, censure, radiazioni e silenziamenti ogni volta che una voce osa uscire fuori dal coro del “politicamente corretto”.

Gente che parla di "onorabilità della divisa" dopo aver sempre dileggiato la divisa stessa.

Gente che invoca la Costituzione a intermittenza, solo quando fa comodo.

Gente che tollera qualsiasi pensiero, certo, purché sia il proprio.

Dall'altra abbiamo i folgorati dal generale ribelle, innamorati persi del condottiero martire, tanto da innalzare il libro a "manifesto" politico.

Poco importa che si tratti di un libello colmo di considerazioni banali, talvolta claudicanti, accostabili a un'innocua chiacchiera da bar.

L'isteria inquisitoria “woke” di questi giorni ha generato una forza uguale e contraria.

E tanti saluti alla lucidità.

Se emerge qualcosa di davvero rilevante, seppur non straordinariamente nuovo, dalla fatica editoriale del generale, è che l'insofferenza al “totalitarismo comunista liberal progressista woke del Pensiero unico” ormai attanaglia anche porzioni della nostra società tutt'altro che "estremiste" o "dissidenti".

A dare un tocco di comicità, infine, ci ha pensato il governo Meloni nelle vesti del ministro Crosetto, il quale ha scaricato il generale Vannacci in un lampo.

Il nostro pensiero va a tutti gli elettori meloniani che si trovano ad avere a che fare, giorno dopo giorno, con le trovate di un PD 2.0.

Cosa ne pensiamo dunque della faccenda Vannacci?

 La consideriamo una “cagnara” estiva buona solo a rimarcare cose che già sappiamo:

 i globalisti (in Italia, Ue, Usa, Gb, Canada, Australia, Nuova Zelanda, etc.) odiano qualsiasi forma di dissenso, il centrodestra è complementare al centrosinistra e una nuova costruzione ideologica non passerà da un libro su Amazon.

Essersi accorti di questo solo ora equivale davvero a vivere in un "mondo al contrario".

(Matteo Brandi - Segreteria nazionale Pro Italia)

 

 

 

Chi comanda nel mondo?

   Gognablog.sherpa-gate.com – (6 Aprile 2023) - Roberto Pecchioli – ci dice:

 

Nelle precedenti parti di questo elaborato abbiamo cercato di delineare una mappa dei detentori del potere nel mondo, o meglio in Occidente e nella parte del pianeta ad esso legato.

Detto dell’alleanza strategica tra i signori del denaro (finanza) e i padroni delle tecnologie relative alle nuove scienze, abbiamo affrontato il tema degli strumenti di cui si servono per affermare e perpetuare il loro potere.

L’orizzonte è quello della privatizzazione di tutto, l’estromissione della dimensione pubblica e comunitaria e i governi ridotti a gendarmi di servizio.

 Il finanzcapitalismo (Luciano Gallino) è diventato biocrazia senza alternativa (l’acronimo TINA, there is no alternative) in sinergia con la tecnocrazia informatica ed elettronica.

Lo strumento più antico di perpetuazione del potere – attraverso la cooptazione degli elementi ritenuti più affidabili – è la massoneria.

Fondata nel 1717, circondata da un alone di segretezza, ha avuto nel tempo tra i suoi membri e dirigenti larga parte delle élite europee e occidentali.

Al di là del giudizio sulle idee che propugna e della banalizzazione complottista che ritiene il Grande Oriente la sentina di ogni male, le logge massoniche – con la loro struttura sovranazionale il cui centro è l’anglosfera – esercitano un forte potere di influenza, ma innanzitutto sono un luogo privilegiato di incontro e decisione.

Restano una delle sedi privilegiate per dibattere, disegnare scenari, assumere decisioni, il bacino in cui selezionare personalità destinate a ricoprire ruoli dirigenti in campo politico, culturale, economico, finanziario, istituzionale, militare.

Tuttavia, anche la massoneria è un potere derivato, che non potrebbe esercitare il ruolo che ha se non entro la cornice del sistema che abbiamo descritto.

 In termini marxisti, essa è un elemento della “sovrastruttura” (Ueberbau), l’insieme dei fenomeni ideologici, culturali e spirituali che corrispondono alla base materiale ed economica della vita sociale.

 Di questa base o struttura, la sovrastruttura è un riflesso, ma non semplicemente un prodotto.

La struttura (struktur) è l’economia, cioè le forze produttive (uomini, mezzi, modi) e, insieme, i rapporti giuridici di proprietà.

Marx non seppe però analizzare compiutamente il ruolo sovraordinato della finanza, che rivestì poi un ruolo centrale nella rivoluzione bolscevica e controllò a lungo la banca centrale sovietica.

Abbiamo rammentato che i signori del mondo poco potrebbero se non avessero al loro servizio l’apparato militare, di sorveglianza e di informazioni degli Stati in cui esercitano il dominio.

 Ciò è ancora più vero da quando la privatizzazione generale ha investito le grandi organizzazioni internazionali.

 La piovra finanziaria, infatti, non è solo dominus e dante causa di soggetti come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale (prodotti del sistema di potere uscito dalla seconda guerra mondiale) ma si è impadronita, di fatto, delle organizzazioni transnazionali.

Tocca ribadirlo:

 la mano che dà è superiore a quella che riceve.

Perfino l’ONU – ossia il luogo di incontro degli Stati teoricamente sovrani – è infiltrata, attraverso i finanziamenti e la burocrazia dirigente, da potentati privati.

Un soggetto come l’Unesco, il ramo delle Nazioni Unite che si occupa di educazione, scienza e cultura, è controllato da uomini dell’oligarchia.

 Primo presidente e ideologo dell’Unesco fu Julian Huxley, eugenista, nipote di Thomas, detto il mastino di Darwin, e fratello di Aldous, autore di romanzi distopici come Il Mondo Nuovo, tutti membri di un’influentissima famiglia aristocratica britannica.

 

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) conta su cospicui finanziamenti privati, tra i quali spiccano la Fondazione di Bill Gates e GAVI.

 Quest’ultima è un’organizzazione di cui “fanno parte paesi e settore privato, come la Fondazione Bill & Melinda Gates, produttori di vaccini sia dei paesi sviluppati che in via di sviluppo, istituti specializzati di ricerca, società civile e organizzazioni internazionali come OMS, UNICEF e Banca Mondiale (fonte: Rappresentanza permanente d’Italia all’ONU)”.

 Un circolo vizioso:

le filiali del Dominio si appartengono e si incrociano, come i loro dirigenti.

 Il triennio che si sta (forse) chiudendo, quello della pandemia, ha dimostrato l’immenso potere dell’OMS e degli “istituti specializzati di ricerca”, definizione pudibonda di Big Pharma, le multinazionali che hanno in mano, attraverso i farmaci e i vaccini, salute e vita di miliardi di persone.

 La gestione pandemica ha rivelato altresì l’esistenza di laboratori scientifici riservati in cui si trattano virus e batteri, rafforzandoli (“guadagno di funzione”) allo scopo – dicono – di combatterli.

Il potere dispone di un fiorente settore chimico che ha trasformato l’intera filiera agricola in un protettorato dipendente da prodotti industriali:

pesticidi, diserbanti e sementi geneticamente modificati (OGM) senza i quali crollerebbe la produzione.

È il regno di Bayer-Monsanto, Dreyfus, Basf, Corteva, Syngenta, protetto da ferrei brevetti. La proprietà di questi colossi è in capo al solito grumo di giganti multinazionali.

 

Un altro tassello del potere è le grandi ONG (organizzazioni non governative, cioè private), una sorta di pronto intervento con maschera filantropica al servizio del Dominio.

Tra esse, Médecin Sans Frontières, Oxfam, Amnesty International e varie altre, un vero e proprio parterre des rois del Nuovo Ordine Mondiale.

La caratteristica comune di queste associazioni – di cui vanno riconosciuti comunque i meriti umanitari – è di condividere l’ideologia liberal progressista delle élite occidentali e di essere finanziate da un altro architrave del sistema transnazionale, le Fondazioni private.

Favorite da un regime fiscale che le rende quasi immuni da imposte, sono il salvadanaio di grandi famiglie e di miliardari, specie americani.

 Le più note sono l’OSF (Open Society Foundation) di George Soros, il finanziere ungaro americano di origine ebraica (che nella prima giovinezza lavorò per chi confiscava beni ai suoi correligionari!) e la Fondazione Bill e Melinda Gates.

 Non meno ricche sono le fondazioni legate alle famiglie Ford, Rockefeller, Carnegie e altre più appartate.

Movimentano miliardi di dollari ogni anno a favore di varie cause, e vengono considerate dalla narrativa ufficiale bastioni della filantropia.

La sola” OSF” – a cui Soros ha conferito nel tempo almeno trenta miliardi di dollari – distribuisce ogni anno più di un miliardo a ONG, associazioni, partiti, gruppi, individui, università che condividono l’ideologia oligarchica dominante, il coacervo di liberismo economico, libertarismo sociale, materialismo e consumismo. In Italia spiccano tra i beneficiari il vecchio partito radicale, Più Europa e le associazioni collegate, con al centro Emma Bonino, dirigente dell’”OSF”.

Il Dominio, per riprodurre il consenso, ha bisogno di controllare – cioè possedere e finanziare – un immenso apparato di informazione, propaganda, comunicazione, intrattenimento, spettacolo e cultura.

 Guy Debord spiegò che la nostra è una “società dello spettacolo”, inteso come “rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini, una visione del mondo che si è oggettivata.

Lo spettacolo è sia il mezzo, sia il fine del modo di produzione vigente”.

La stragrande maggioranza di noi non è che un soggetto passivo davanti allo schermo della TV, del cinema, degli smartphone e dei computer, diventati parte integrante della nostra personalità e persino fisicità.

Le grandi agenzie di stampa che diffondono – o celano – le notizie che ci raggiungono in tempo reale sono quattro o cinque in tutto, possedute dai padroni universali.

 L’oligopolio degli onnipotenti.

Crediamo ancora al mito del libero cittadino che si forma delle opinioni?

 Il sistema dello spettacolo e dell’intrattenimento è nella disponibilità di pochi soggetti – anch’essi in gran parte con sede in America o nell’anglosfera – che fabbricano e impongono la visione del mondo, i valori di riferimento, i miti, le opinioni.

Proponiamo un gioco: osserviamo per qualche minuto un film di trenta-quarant’anni fa e uno di produzione recente.

 La differenza di contenuti, principi, linguaggi, iconografia, idee e condotte mostrate in negativo o positivo, è abissale.

 Uguale è l’esito di una ricognizione diacronica della pubblicità.

Eppure i padroni sono gli stessi:

tutti conosciamo Walt Disney, Warner, le “majors” dell’industria musicale.

Vinta la guerra con le altre ideologie della modernità, adesso possono dispiegare a beneficio del neocapitalismo globalista tutto il potenziale di costruzione del cittadino unisex a taglia unica, nomade, schiavo del consumo e dei desideri, l’individuo vuoto cui sono sottratte tutte le radici morali, spirituali, comunitarie, familiari.

Da un secolo le scienze cognitive – psicologia, neurologia, psicanalisi – sono utilizzate per orientare gusti, determinare scelte, veicolare idee, ossia per “persuadere”.

Uno dei precursori fu Edward Bernays, nipote di Freud, teorico della propaganda, inventore delle tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica.

Dobbiamo a Bernays l’affermazione secondo cui “la consapevole e intelligente manipolazione dei costumi e delle opinioni delle masse è un aspetto importante della società democratica.

Tale manipolazione rappresenta un efficace strumento attraverso il quale uomini intelligenti possono combattere per finalità produttive e contribuire a metter ordine in mezzo al caos”.

Ossia controllare le coscienze sotto la copertura della finzione democratica.

Vance Packard parlò di “persuasori occulti”: altri tempi. Oggi il potere non ha più bisogno di nascondersi e mostra, ostenta sé stesso, come nelle riunioni del Forum Economico Mondiale.

Naturalmente, la vetrina non è il negozio:

 l’officina delle decisioni resta nel retroscena, la regia in cima alla piramide – l’apparato finanziario-tecnologico – e, un piano più sotto, gli organismi riservati, i “pensatoi” delle élite (think tank), sodalizi come il Bilderberg, la Round Table, i vertici della massoneria e di associazioni elitiste il cui modello sono le britanniche Royal Society, Chatham House, Fabian Society.

L’importanza assunta dalle reti sociali con miliardi di utenti è il perfetto successo di un sistema che ha convinto i più di essere libero e aperto, ma che al contrario – oltre a compravendere i dati di tutti e di ciascuno – ha organizzato un’inedita censura privatizzata.

Nel passato, la censura era prerogativa dei sovrani e degli Stati, oggi è appaltata ai social media.

E diventa autocensura, per paura e conformismo.

Il successo di tale azione di riconfigurazione cognitiva, linguistica e comportamentale è essenziale.

A tale scopo, è stata organizzata una delle più gigantesche operazioni di lavaggio del cervello della storia, un’autentica guerra il cui obiettivo è la nostra mente.

 Si sta modificando la mappa cognitiva di centinaia di milioni di persone, attraverso la creazione, diffusione e imposizione di una neolingua “politicamente corretta”, che obbedisce cioè a canoni indotti dall’alto, “corretti” in quanto modificati per corrispondere al criterio di bene e di male, di giusto o sbagliato, voluto dal potere.

Chi determina non solo che cosa è giusto pensare, ma perfino con quali parole esprimerlo, proibendo termini e concetti e imponendone altri, è padrone del nostro foro interiore.

 Bertrand Russell, intellettuale e aristocratico britannico, pronosticò che l’uso appropriato (dal punto di vista dell’élite) delle discipline psicologiche avrebbe convinto la gente che “la neve è nera”.

 L’università americana di Stanford ha elaborato un glossario del linguaggio “dannoso” e dei corretti termini da usare, contravvenire i quali diventa “discorso di odio”, lo sconcertante psico reato postmoderno.

La guerra delle parole, cioè dei significati, è stata vinta anche con l’ausilio di sistemi giuridici che rendono legali o illegali parole, concetti e pensieri e negano l’esistenza di una legge naturale.

 Noi stessi, mentre scriviamo, ci stiamo sottomettendo alla neolingua.

 Le tappe successive del progetto sono il rovesciamento delle abitudini alimentari umane (un capovolgimento antropologico e biologico) e l’abolizione della proprietà privata diffusa.

L’attacco neofeudale alla casa e all’automobile rappresenta l’insidioso annullamento di oltre due millenni di civiltà giuridica romanistica.

Tutto deve essere di loro proprietà, compresi gli esseri umani.

Cancellazione: della civiltà, dei diritti, delle parole, della libertà, dell’umanità.

 L’esito è un neo schiavismo in cui i diritti della persona – vanto della nostra civiltà – vengono obliterati a vantaggio di un’oligarchia che atterrisce per metodi, scopi, malvagità, odio per la creatura umana.

Di loro non si può dire male:

“Madamina”, il catalogo è questo, disse il servo Leporello alla povera Donna Elvira, elencando le “conquiste” di Don Giovanni.

 

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.