Un mondo governato dagli gnomi delle multinazionali.
Un
mondo governato dagli gnomi delle multinazionali.
“Debancarizzazione”:
l’Arma Assoluta.
Conoscenzealconfine.it
– (13 Agosto 2023) - Roberto Pecchioli –
ci dice:
Bisogna
imparare una nuova parola e identificare una nuova forma di esclusione. Il
termine è debancarizzazione, l’emarginato è colui a cui vengono chiusi i conti
bancari, impedite le transazioni economiche della vita quotidiana, bloccate le
carte di credito.
Esule
in casa propria, impedito a vivere, lavorare, perfino alimentarsi se non ha un
orticello o se non organizza una rete di baratti o un circuito economico
alternativo.
La
prova generale è stata in Canada al tempo dello sciopero dei camionisti
dissenzienti del green pass.
Il
governo del democraticissimo, molto progressista, inclusivo e multiculturale
Justin Trudeau, ordinò il blocco di duecentocinquanta conti correnti degli
autotrasportatori, fece sospendere le loro polizze assicurative, mentre la
piattaforma di raccolta fondi “GoFundMe” tratteneva milioni di dollari di
donazioni ai camionisti.
È la fiammante libertà liberale, liberista e
globalista.
Non è
troppo diverso dal metodo antico di sparare sulle folle degli scioperanti. Bava
Beccaris al tempo della tecnologia:
non ti ammazzano, però ti impediscono di
vivere e lavorare vietandoti di accedere al tuo denaro e di tenerlo in tasca.
La
polemica è scoppiata in Inghilterra allorché Nigel Farage, uomo politico protagonista
dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea si è visto chiudere senza
alcuna spiegazione i conti presso la “banca Coutts & Co”, antico istituto
di credito fondato nel secolo XVII.
Era il
tempo in cui il Mayflower portava i primi puritani inglesi sulle coste
americane, iniziava la rivoluzione scientifica, si svolgeva la “gloriosa
rivoluzione inglese” che innalzò al potere la classe mercantile.
A
Parigi il Re Sole poteva affermare orgogliosamente “lo Stato sono io”.
Uguale potere assoluto possono oggi ostentare i poteri finanziari, alleati con le
cupole tecnologiche, padroni degli ex stati sovrani, i cui dirigenti politici
sono loro camerieri, come capì Ezra Pound nella prima metà del secolo passato.
Coutts
& Co. ha tra i suoi soci la casa reale britannica:
“la
Compagnia delle Indie” ha vari eredi, ma le redini restano nelle stesse mani,
alla faccia della democrazia.
Farage è un uomo ricco e potente:
ha
chiesto spiegazioni, ha avuto accesso ai documenti della banca, dai quali ha
appreso di essere stato definito truffatore, nel mirino per la sua amicizia con
Donald Trump e Novak Djokovic, il tennista serbo accusato di essere no vax e
filorusso.
Farage è una “persona politicamente esposta”,
a cui si può negare l’accesso ai servizi finanziari.
Del
resto, diranno i libertari un tanto al chilo, le banche sono aziende private e
possono fare ciò che vogliono.
Purtroppo.
È
capitato anche a chi scrive di ricevere il fatidico quesito: sei “politicamente esposto?”.
Che
cosa vuol dire? Perché possono farlo, perché indagano sulla vita privata?
Comanda
davvero chi può imporre tasse.
Le
banche hanno questa facoltà, come sa chiunque legga gli estratti conto,
verifichi le molteplici vessazioni del mostro finanziario dinanzi al quale
siamo indifesi.
Farage ha reagito accusando il potere
britannico – una cupola finanziaria – di volerlo cacciare dal Regno per le sue
idee.
Il clamore è stato enorme e il quotidiano “Daily
Mail” ha rivelato che i conti chiusi sono aumentati di sette volte in sei anni.
Novantamila
sudditi di Sua Graziosa (e ricchissima) Maestà classificati soggetti
politicamente esposti, tra i quali spiccano personalità ostili alla narrazione
dominante su clima, immigrazione, multiculturalismo, gender.
Adesso
sappiamo che il totalitarismo in arrivo – già attivo in mezzo a noi – ha l’arma
definitiva contro ogni dissenso: ci prenderà per fame, per impossibilità di
avere una normale vita di relazione economica. È l’evoluzione di una
consolidata tradizione anglosassone: fare la guerra con le sanzioni.
Inquietante
la giustificazione di Coutts & Co:
“Farage è sceso sotto la soglia di un milione di sterline
per avere un conto con noi”.
Insomma, sarebbe troppo povero; intanto hanno
divulgato informazioni finanziarie su un cliente.
La direttrice, Alison Rose, che ha fornito la
notizia alla televisione pubblica, è la tipica liberal.
Dichiara
di essere interessata a trasformare la banca in “un’organizzazione con
l’obiettivo della diversità e dell’inclusione, avendo come pilastro aziendale
il cambiamento climatico”.
I
conti di Farage sono stati chiusi per motivi politici;
le sue
posizioni definite “incoerenti con i propositi morali della banca”.
Notizia
bomba, le banche avrebbero intenti etici!
Farage,
come i camionisti canadesi e le altre vittime del “debanking” sono stati
cancellati:
fantasmi,
morti che camminano.
Homo
sine pecunia imago mortis.
Il Daily Telegraph ha pubblicato un rapporto
riservato che afferma l’esistenza di “fattori di rischio tra cui dichiarazioni
pubbliche controverse in conflitto con lo scopo della banca”.
Il
documento annota negativamente le opinioni su vari temi, ragione per cui Farage
è diventato “incompatibile con Coutts”.
Un rapporto che il politico definisce
“sorveglianza in stile Stasi“;
avrebbe
potuto dire Cia o MI6.
L’informativa
è accurata: vi compaiono riferimenti a Farage studente “xenofobo, razzista e fascista”.
I controlli erano aggiornati mensilmente,
compreso il monitoraggio delle reti sociali.
Un
dossier nello stile dei servizi segreti, probabili estensori delle informative.
Alla
fine, si è dovuto muovere il governo e sono cadute le teste della Rose e
dell’amministratore delegato di “Coutts &Co”.
La
questione, tuttavia, è più profonda e riguarda i fondamenti del capitalismo
“woke”, il suo immenso potere, il sinistro totalitarismo di cui siamo vittime.
Il
caso Farage non è isolato:
analoga
chiusura di conti per il reverendo “Richard Fothergill”, che rispose a un
questionario interno dicendosi contrario alla promozione dell’agenda” LGBT”.
Le sue
opinioni sono state definite “non tollerabili”.
Halifax
Bank ha cacciato clienti in disaccordo con la politica dei “pronomi inclusivi”
(!), PayPal ha “debancarizzzato” il gruppo di genitori che animò una campagna
contro la chiusura delle scuole durante la pandemia.
Il
Santo Uffizio finanziario.
Stessa
sorte per il separatista scozzese “Stuart Campbell” e per il “Comitato
Nazionale per la Libertà Religiosa”.
In Francia disco rosso a Marine Le Pen,
cacciata da HSBC, e il suo partito “debancarizzato” da Société Générale.
Sportelli
chiusi anche per “Our Duty”, un’associazione critica della transizione sessuale
medicalizzata dei bambini.
In una
società in cui il contante sta scomparendo e la vita sociale è bancarizzata per
obbligo (non scritto!) il debanking rende impossibile un’esistenza normale.
La volontà punitiva attraverso l’esclusione
finanziaria è la prova della deriva totalitaria.
Il
problema è ben peggiore della semplice ipocrisia progressista:
dietro le bandierine arcobaleno e le
chiacchiere “inclusive “agisce uno spietato autoritarismo.
È un modo brutalmente efficace per cancellare
qualcuno con una diabolica evoluzione della censura: il caso Farage smaschera la svolta
antidemocratica delle élite.
Il
Fondo Monetario Internazionale da anni esercita forti pressioni per abolire i
contanti.
Banchieri,
funzionari, membri di organizzazioni internazionali, la corte politica,
mediatica e culturale di servizio non smettono di promuovere un’agenda che ci
esproprierà del nostro denaro e sarà l’arma totale, definitiva, contro la
libertà individuale, collettiva, economica.
I
governi – trasformati in sgherri dei poteri di fatto nemici dei popoli –
diffondono una propaganda insopportabilmente falsa.
Il
passaggio a una società senza contanti aiuterà a prevenire la criminalità,
renderà la vita più comoda e – tanto per alimentare l’invidia sociale – fermerà
l’evasione fiscale.
Ovviamente,
evasori sono gli idraulici, i dentisti e chi fa i lavoretti della “gig economy”,
non le società di capitali, i giganti finanziari e tecnologici
deterritorializzati.
Falsità
propagandistiche efficaci nei confronti di popolazioni cui è sottratto il
pensiero critico, che nascondono la verità:
il controllo su popoli e individui esercitato
da una cupola di padroni universali, direttamente e mediante le istituzioni
statali:
capitalismo
della sorveglianza (Shoshana Zuboff), biopotere (dominio sulla vita) che si fa
biocrazia.
I governi, in sintonia con le “autorità”
finanziarie (private, anche se si dimenticano di dircelo) ci stanno
costringendo alla valuta digitale controllata dalle banche centrali.
Tutto
il potere a una cricca privata con facoltà di conoscere tutte le nostre spese,
transazioni, preferenze – un controllo universale mai sognato da alcun
dittatore – bloccare i conti bancari, decidere se, quando e in che misura permetterci
di accedere al frutto del nostro lavoro.
Tutto
questo isola, impedisce le libertà concrete, rende dipendenti, vittime della
servitù volontaria a cui non sappiamo più ribellarci.
Le leggi confuse, la messa in ombra delle
costituzioni, i poteri speciali legati alle emergenze permettono di emarginare,
impaurire, rendere ciascuno censore di sé stesso.
Il rischio – la realtà – è non poter fare o
ricevere pagamenti, sino a non poter neppure comprare il cibo o gli abiti.
Adesso
sappiamo, ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, che nelle sedicenti
democrazie liberali persone o aziende possono essere escluse dalla vita
economica perché non conformi alle idee di chi comanda.
Il
problema è lo stesso di Cassandra:
dire la verità, non essere creduti e
perseguitati.
Serve a qualcosa rilevare che la “Commonwealth
Bank australiana” dichiara di non accettare clienti con più del 25% del reddito
proveniente da combustibili fossili?
Che la “National Australia Bank” ha annunciato un
piano per “debanchizzare” alcune categorie di clienti?
I
precetti dell’agenda oligarchica sono custoditi da un funzionario – o da un
algoritmo – con l’autorità di privare del conto in banca – cioè espropriare,
derubare, uccidere socialmente – chi non pensa come vuole il sistema dominante.
Il di
più è la tendenza a sopprimere il denaro contante.
L’insieme costruisce un potere assoluto,
soffocante, invincibile se non nella forma della resistenza civile comunitaria:
baratto, forme di scambio con unità di conto alternative, e simili.
Sostituito
il denaro fisico con la moneta digitale della banca centrale, il potere di chi
la controlla – e dello Stato poliziotto – sarà assoluto.
Chi
distribuisce energia potrà lasciarci senza elettricità o gas se siamo scettici
sul cambiamento climatico;
il
sistema sanitario avrà la facoltà di negarci le cure in base alla nostra
adesione o meno a campagne vaccinali, all’antipatia per il governo o alla
partecipazione a battaglie invise a Big Pharma.
Le possibilità sono infinite, la tecnologia è
pronta.
Il
dissenso sta diventando sempre più pericoloso, obblighi e divieti sono
biglietti di sola andata per il totalitarismo.
Totalitario
è qualsiasi regime che penetra nella vita delle persone, limita la libertà di
azione, espressione, movimento, sino a impedire di disporre di ciò che è – o
era – nostro.
L’alleanza tra capitalismo globalista,
tecnocrazia e potere statale – complice l’apparato culturale e mediatico – sta
creando il mostro perfetto, un Leviatano che Hobbes non avrebbe mai saputo
immaginare.
Sappiamo
di essere ascoltati da pochi.
Laocoonte
non riuscì a convincere i Troiani a cacciare dalla città il cavallo di Ulisse.
Finì come sappiamo.
In nome di una pretesa comodità, ipnotizzati
dall’abbaglio tecnologico, indottrinati dal mito incapacitante del progresso,
dimentichi della storia, cadiamo nella trappola tesa per renderci schiavi.
Forse
lo meritiamo…
Useremo,
per una volta, il linguaggio nemico: è in azione, in forma peggiorativa,
un nuovo nazismo.
Andrà
se non reagiamo, come qualcuno profetizzò un secolo fa:
“Prima
di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero
a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi
vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano
fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché
non ero comunista.
Un
giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”.
(da un sermone del pastore luterano e teologo
tedesco “Martin Niemöller”).
(Roberto
Pecchioli)
(ricognizioni.it)
Non
Credere, Non Obbedire, Non Combattere.
Conoscenzealconfine.it
– (14 Agosto 2023) - Alberto Conti – ci
dice:
Non è
accettandone le regole che si può vincere la partita contro il male, agendo
cioè sul suo stesso terreno.
Stiamo
parlando di come comportarsi nei confronti del protagonista di questi tempi
bui, proprio lui, “satana in persona”, che è un modo di dire per riferirsi al
male in senso mitologico, o forse anche ontologico, oltre che religioso.
Il
diavolo non è una persona, è piuttosto parte variabile, spesso nascosta, di
ogni persona, il lato oscuro dell’essere, il cui fine ultimo è il non essere.
Viviamo
in società organizzate, e dove c’è organizzazione c’è gerarchia, che si traduce
praticamente in catene di comando.
Il
male si amplifica così, sfruttando il comando, al quale non si può disobbedire,
pena l’espulsione dal sistema, cioè la morte civile.
È tale
il terrore di non essere accettati dal sistema che si arriva al massimo della
violenza su sé stessi:
credere alle menzogne evidenti, obbedire ad
ordini disumani, combattere tutti contro tutti, in continue guerre fratricide
tra poveri.
In definitiva, tradire sé stessi e gli altri.
E così
facendo rendersi volontariamente poveri di spirito, pur di non diventare poveri
di soldi, cioè di non essere privati di quell’energia virtuale che il sistema
impone a chiunque per poter vivere al proprio interno, accettandone tutto,
anche l’irricevibile, che di questa obbedienza si alimenta.
Sopravvivere
o vivere alla grande non fa differenza, la logica è sempre la stessa, senza
soldi sei “out”.
E così
il male ha “pensato bene” di monopolizzare la centrale stessa del denaro, il
banco pigliatutto, rappresentato da banche private fallimentari capeggiate
dalla banca centrale, l’unica che non può fallire mai, per definizione.
Sembra
proprio un maleficio, un incantesimo fatto di nulla, una prigione immaginaria
che diventa realtà concreta, quotidiana, dalla quale sembra impossibile
evadere, se non emarginandosi, rinunciando ai confortevoli benefici del sistema
che ci mantiene in vita, in questa vita fasulla.
Nella
catena di comando tutti obbediscono al superiore, dal livello più basso della
scala sociale fino a quello più alto, verticistico, che sfuma nella vaghezza
del nulla.
Un
vertice piramidale che sembra avere nomi e cognomi, ma in realtà essi stessi
servitori, sacerdoti alieni di un male che non ha nome, che è diffuso e si
diffonde, preferibilmente dall’alto verso il basso, amplificato da questa
logica della catena di comando.
Per
questo la “meritocrazia” domina, ma praticata al contrario, come tutto del
resto, cioè premiando i peggiori ai posti di comando.
Il merito è quello del gusto e della ferocia
nell’eseguire ordini malvagi, anche criminali se occorre, ipocritamente conditi
con stupidità in dosi variabili, comunque quanto basta caso per caso, burattino
per burattino.
In
fondo tutti lo sanno, tanto quanto fanno finta di non saperlo, per quieto
vivere nella propria nicchia confortevole se pur precaria, come si conviene ai
comuni mortali.
Certo
è che ci vuole una bella corazza per difendersi, per campare in questo inferno
in terra.
Ma la corazza rende anche insensibili al
mondo, anzi è fatta soprattutto di questo, di indifferenza al male che c’è
fuori, per ignorarlo nell’illusione di respingerlo, anche se paradossalmente
questo è il modo migliore per farsene contaminare.
I più
svegli a questo punto si chiederanno che fare, come spezzare l’incantesimo,
come disintegrare queste sbarre immateriali, eppure solidissime, della trappola
diabolica che ci imprigiona tutti.
“Mohamed
Konare” propone una soluzione semplice e incruenta:
bloccare tutto rimanendo a casa in massa per
una settimana, come fosse uno sciopero esistenziale contro la degenerazione del
sistema.
Secondo
lui sarebbe sufficiente per lanciare dall’Italia quel messaggio forte che il
nostro mondo malato si aspetta, per farsi coraggio ed avviare una reazione
efficace che vada necessariamente ben oltre i confini nazionali.
Una
reazione spirituale generalizzata ancora inespressa, ma compressa al massimo
proprio di conseguenza agli eccessi malefici che l’umanità sta subendo, in un
crescendo sempre più insopportabile e insostenibile.
Una
sorta di resistenza gandhiana attualizzata alla gravità del presente storico
globalizzato.
Ovviamente il punto debole della proposta è
sempre lo stesso:
“se
tutti facessero così”, il che è a dir poco utopico.
Eppure
anche i grandi cambiamenti apparivano utopici fino al giorno prima.
Per
contro, le alternative politiche istituzionali più che utopiche appaiono oggi
impraticabili, impossibili visto il grado di contaminazione raggiunto dal
sistema vigente, dove il male ha quasi completamente conquistato il terreno di
gioco, e sembra non fermarsi mai in questa folle corsa verso il baratro morale
e materiale ormai imminente.
Non è
accettandone le regole che si può vincere la partita contro il male, agendo sul
suo stesso terreno.
Duole
dirlo, ma per ora è così, in attesa di una forte proposta politica, nuova e
rivoluzionaria, la cui gestazione prevede tempi storici troppo lunghi per poter
evitare il peggio.
Quello
che realisticamente può fare ognuno di noi è continuare a coltivare la propria
coscienza, e praticare il bene che ne scaturisce naturalmente.
Più che i modi sono determinanti i contenuti,
anche se una qualche azione collettiva liberatoria è finalmente nell’ordine
delle cose.
A
questo sì che occorre credere, da qualunque punto di vista la si voglia vedere.
Credere
in sé stessi “liberati”, esprimere la propria volontà di bene fino a che
diventi collettiva.
È la
soluzione più semplice, più realistica e in fondo anche più logica, alla quale
affidare le nostre speranze.
Ovviamente
se ci sono idee migliori ben vengano, mai porre limiti alla provvidenza, o se
si preferisce alla biodiversità dell’anima.
(Alberto
Conti)
(comedonchisciotte.org/non-credere-non-obbedire-non-combattere)
La
fine del mondo come utopia.
Legrandcontinent.eu
– (31st Dicembre 2022) - Hans Magnus Enzensberger – ci dice:
La
fine del mondo non è più quella di una volta. Ci accompagna più che
perseguitarci. La vediamo scorrere al rallentatore. L'apocalisse non è una
fantasia - è un'utopia.
(Hans
Magnus Enzensberger.)
Due
appunti sulla fine del mondo.
L’apocalisse
fa parte del nostro bagaglio ideologico.
È un
afrodisiaco, un incubo, una merce come un’altra.
Una
metafora del crollo del capitalismo, che come tutti sappiamo è imminente da più
di un secolo.
La
incontriamo nelle forme e nei modi più disparati: come dito di avvertimento e
previsione scientifica, finzione collettiva e grido di protesta settario, come
prodotto dell’industria del tempo libero, come superstizione, come mitologia
volgare, come indovinello, scherzo, proiezione.
È sempre presente, ma mai “attuale”:
una
seconda realtà, un’immagine che costruiamo per noi stessi, una produzione
incessante della nostra fantasia, la catastrofe nella mente.
È
tutto questo e molto di più, essendo una delle idee più antiche della specie
umana.
Sulle
sue origini si sarebbero potuti scrivere volumi densi, e ovviamente tali volumi
sono stati scritti.
Sappiamo anche molte cose sulla sua storia
travagliata, sul suo periodico flusso e riflusso e sul modo in cui queste
fluttuazioni si collegano al processo materiale della storia.
L’idea
dell’apocalisse ha accompagnato il pensiero utopico fin dalle sue origini,
inseguendolo come un’ombra, come un rovescio che non può essere lasciato alle
spalle:
senza catastrofe, niente millennio, senza
apocalisse, niente paradiso.
L’idea della fine del mondo è semplicemente
un’utopia negativa.
HANS
MAGNUS ENZENSBERGER.
Ma
anche la fine del mondo non è più quella di una volta.
Il
film che si svolge nella nostra testa, e in maniera ancora più disinvolta nel
nostro inconscio, si distingue per molti aspetti dai sogni di un tempo che fu.
Nelle
sue accezioni tradizionali, l’apocalisse era un’idea venerabile, anzi sacra.
Ma la
catastrofe che ci interessa tanto (o che piuttosto ci perseguita) è un fenomeno
completamente secolarizzato.
Ne
leggiamo i segni sui muri degli edifici, dove appaiono da un giorno all’altro,
spruzzati maldestramente;
li
leggiamo sulle stampe prodotte dal computer.
Il
nostro mostro a sette teste risponde a molti nomi: stato di polizia, paranoia,
burocrazia, terrore, crisi economica, corsa agli armamenti, distruzione
dell’ambiente.
I suoi quattro cavalieri assomigliano agli
eroi dei film western e vendono sigarette, mentre le trombe che proclamano la
fine del mondo finiscono per essere il tema musicale di una pubblicità.
Un tempo si vedeva nell’apocalisse
l’inconoscibile mano vendicatrice di Dio.
Oggi appare come il prodotto metodicamente
calcolato delle nostre stesse azioni, e gli spiriti che riteniamo responsabili
del suo avvicinarsi li chiamiamo rossi, sceicchi del petrolio, terroristi,
multinazionali;
gli gnomi di Zurigo e i Frankenstein dei laboratori
di biologia;
gli ufo e le bombe al neutrone;
i demoni del Cremlino o del Pentagono: un
mondo sotterraneo di cospirazioni e macchinazioni inimmaginabili, i cui fili
sono tirati dagli onnipotenti cretini della polizia segreta.
Anche
l’apocalisse era un tempo un evento unico, da aspettare senza preavviso, come
un fulmine a ciel sereno: un momento impensabile che solo veggenti e profeti
potevano anticipare – e, naturalmente, nessuno voleva ascoltare i loro
avvertimenti e le loro previsioni.
La nostra fine del mondo, invece, è cantata
dai tetti anche dai passeri;
manca l’elemento sorpresa, sembra solo una
questione di tempo.
Il destino che ci immaginiamo è insidioso e
lento come una tortura nel suo avvicinarsi, l’apocalisse al rallentatore.
Ricorda quel classico d’avanguardia del cinema
muto, in cui vediamo una gigantesca ciminiera di una fabbrica rompersi e
crollare senza rumore sullo schermo, per ben venti minuti, mentre gli
spettatori, in una sorta di indolente comfort, si appoggiano alle loro poltrone
di velluto e sgranocchiano popcorn e noccioline.
Dopo
lo spettacolo, il futurologo sale sul palco.
Sembra
una povera imitazione del dottor Stranamore, lo scienziato pazzo, solo che è
disgustosamente grasso.
Con molta calma ci informa che la fascia di
ozono atmosferico sarà scomparsa tra vent’anni, per cui saremo sicuramente
abbrustoliti dalle radiazioni cosmiche se saremo abbastanza fortunati da
sopravvivere fino ad allora, che sostanze sconosciute nel nostro latte ci
stanno portando alla psicosi e che, con il ritmo di crescita della popolazione
mondiale, presto ci saranno solo posti in piedi sul nostro pianeta.
Tutto
questo con un sigaro Havana in mano, in un discorso ben composto e dalla logica
impeccabile.
Il pubblico reprime uno sbadiglio, anche se,
secondo il professore, la catastrofe è imminente.
Ma non arriverà questo pomeriggio.
Oggi
pomeriggio tutto andrà avanti come prima, forse un po’ peggio della settimana
scorsa, ma non in modo che qualcuno se ne accorga.
Se
oggi pomeriggio qualcuno di noi dovesse essere un po’ depresso, cosa che
ovviamente non si può escludere, allora potrebbe pensare, indipendentemente dal
fatto che lavori al Pentagono o in metropolitana, che stiri camicie o saldi
lamiere, che sarebbe davvero più semplice se ci liberassimo del problema una
volta per tutte;
se la
catastrofe arrivasse per davvero.
Tuttavia, questo è fuori discussione.
La
finalità, che in passato era uno dei principali attributi dell’apocalisse e una
delle ragioni del suo potere di attrazione, non ci è più concessa.
Il
destino che ci immaginiamo è insidioso e lento con una tortura nel suo
avvicinarsi, l’apocalisse al rallentatore.
Anche
un altro aspetto tradizionale della fine del mondo è andato perduto: prima, era
generalmente accettato che l’evento avrebbe colpito tutti contemporaneamente e
senza eccezioni.
Così la domanda insoddisfatta di uguaglianza e
giustizia ha trovato il suo ultimo rifugio in questa concezione.
Ma
come vediamo oggi, il disastro non è più un fattore di livellamento.
Al
contrario.
Varia da Paese a Paese, da classe a classe, da
luogo a luogo. Mentre alcuni ne sono già stati travolti, altri lo stanno
guardando in televisione.
Si costruiscono bunker, si murano ghetti, si
erigono fortezze, si assumono guardie del corpo, su larga e piccola scala.
Come la casa di campagna con gli allarmi e le
recinzioni elettriche, interi Paesi del mondo vengono rinchiusi mentre altri
cadono a pezzi.
L’incubo
della fine del mondo non pone fine a questa disparità temporale, ma semplicemente
la radicalizza.
Le sue versioni africane e indiane sono
ignorate con un’alzata di spalle da chi non è direttamente interessato,
compresi i governi africani e indiani.
È a
questo punto, finalmente, che lo scherzo finisce.
Berlino,
primavera 1978.
Caro
Balthasar,
quando
ho scritto il mio commento sull’apocalisse – un lavoro che, confesso, non era
particolarmente approfondito o serio – non sapevo ancora che anche lei si
occupasse del futuro.
Al
telefono mi ha detto che “non riusciva ad arrivare da nessuna parte”.
Sembrava
quasi un appello di aiuto.
La conosco abbastanza bene da capire il suo
dilemma.
Oggi
sono solo i tecnocrati ad avanzare verso il 2000 con ottimismo, con l’istinto
infallibile dei lemming, e lei non è uno di loro.
Al contrario, lei è un’anima fedele, sempre
pronta a riunirsi sotto la bandiera dell’utopia.
Vuole
più che mai aggrapparsi al principio della speranza.
Ci
augura il meglio: non solo a lei e a me, ma a tutta l’umanità.
HANS
MAGNUS ENZENSBERGER.
Non si
arrabbi, per favore se questo le suona ironico. Non è colpa mia.
Voleva
vedere se fossi venuto in suo aiuto.
La mia
lettera sarà una delusione per lei e forse avrà l’impressione che la stia
attaccando alle spalle.
Non è questa la mia intenzione. Vorrei solo
suggerire di considerare le cose a mani libere.
La
forza della teoria di sinistra, di qualsiasi tipo, da Babeuf a Bloch, cioè per
più di un secolo e mezzo, risiedeva nel fatto che si basava su un’utopia
positiva che non aveva eguali nel mondo esistente.
Socialisti,
comunisti e anarchici condividevano la convinzione che la loro lotta avrebbe
introdotto il regno della libertà in un periodo di tempo prevedibile. Sapevano “dove volevano andare e
cosa, con l’aiuto della storia, della strategia e dello sforzo, avrebbero
dovuto o dovuto fare per arrivarci. Ora non lo sanno più”.
Ho letto di recente queste parole lapidarie in un
articolo dello storico inglese” Eric Hobsbawm”.
Ma
questo vecchio comunista non dimentica di aggiungere che “In questo senso, non sono soli. I
capitalisti non sono in grado di capire il loro futuro quanto i socialisti, e
sono altrettanto perplessi per il fallimento dei loro teorici e profeti”.
“Hobsbawm”
ha ragione.
Il deficit ideologico esiste da entrambe le
parti. Tuttavia, la perdita di certezza sul futuro non si bilancia.
È più
difficile da sopportare per la sinistra che per coloro che non hanno mai avuto
altra intenzione se non quella di aggrapparsi ad ogni costo a qualche frammento
del proprio potere e dei propri privilegi.
È per
questo che la sinistra, compreso lei, caro Balthasar, mugugna e si lamenta.
Lei
dice che nessuno è più pronto, né è in grado di proporre un’idea positiva che
vada oltre l’orizzonte dello stato di cose esistente.
Al contrario, dilagano le false coscienze;
dominano l’apostasia e la confusione.
Ricordo
la nostra ultima conversazione sul “nuovo irrazionalismo”, il suo lamento per
la rassegnazione che avverte da tutte le parti, e le sue filippiche contro i
catastrofisti disinvolti, i pessimisti spudorati e gli apostoli del disfattismo.
Mi
guarderò bene dal contraddirla in questa sede.
Ma mi
chiedo se in tutto questo non le sia sfuggita una cosa:
il
fatto che in queste espressioni e in questi stati d’animo c’è proprio quello
che lei cercava, un’idea che va oltre i limiti della nostra esistenza attuale.
Perché,
in ultima analisi, il mondo non è certo finito (altrimenti non potremmo
parlarne);
e
finora non mi è giunta alcuna prova conclusiva che un evento del genere si
verificherà in un momento chiaramente accertabile.
La
conclusione che ne traggo è che siamo di fronte a un’utopia, anche se negativa;
e sostengo inoltre che, per le ragioni storiche che ho menzionato, la teoria
della sinistra non è particolarmente adatta a trattare questo tipo di utopia.
La sua
reazione è solo un’ulteriore prova a favore di questa mia ipotesi.
La
prima strofa della sua canzone, in cui lamenta la condizione intellettuale
prevalente, è prontamente seguita dalla seconda, in cui enumera capri
espiatori.
Per un
teorico esperto come lei, non è difficile individuare i colpevoli: l’avversario
ideologico, gli agenti dell’anticomunismo, la manipolazione dei mass media.
Le sue argomentazioni non mi sono affatto
nuove.
Mi
ricordano un saggio che mi è stato segnalato qualche anno fa.
L’autore,
un marxista americano di nome “H. C. Greisman”, giungeva alla conclusione che “le immagini di declino di cui i
media sono così ghiotti sono concepite per ipnotizzare e istupidire le masse in
modo tale che esse arrivino a vedere ogni speranza di rivoluzione come priva di
significato”.
Ciò
che colpisce in questa tesi è soprattutto la sua essenziale difensività.
Per un centinaio d’anni circa, finché è stata
sicura del suo fondamento, la teoria marxista classica ha sostenuto l’esatto
contrario.
Non vedeva le immagini di catastrofe e le
visioni di sventura dell’epoca semplicemente come menzogne architettate da
alcuni seduttori segreti e diffuse tra il popolo, ma cercava piuttosto di
spiegarle in termini sociali, come rappresentazioni simboliche di un processo
assolutamente reale.
Negli
anni Venti, per fare un esempio, la sinistra vedeva l’attrazione che la
metafisica storica di “Spengler” esercitava sull’intellighenzia borghese
proprio in questo modo:
Il
declino dell’Occidente non era in realtà altro che l’imminente crollo del
capitalismo.
Oggi,
invece, chi come lei non sente più le sue opinioni confermate dalla fantasia
apocalittica, ma invece se ne sente minacciato, reagendo con slogan ed estremi
gesti difensivi.
In tutta franchezza, caro “Balthasar,” mi
sembra che il risultato di queste obbedienze sia piuttosto misero.
Non
intendo dire che sia semplicemente falso.
Lei, naturalmente, non manca di ricorrere alla
strada ben collaudata della critica ideologica.
È un gioco da ragazzi dimostrare che l’ascesa
e il declino degli stati d’animo utopici e apocalittici nella storia
corrispondono alle condizioni politiche, sociali ed economiche dell’epoca.
È
anche incontestabile che siano sfruttati politicamente, proprio come qualsiasi
altra fantasia che esiste su scala di massa.
Non pensi di dovermi insegnare l’abc.
So bene quanto lei che la fantasia di sventura
suggerisce sempre il desiderio di una salvezza miracolosa;
ed è
chiaro anche a me che il salvatore bonapartista è sempre in agguato, sotto
forma di dittatura militare e di putsch di destra.
Quando
si tratta di sopravvivere, ci sono sempre state persone fin troppo pronte a
riporre la loro fiducia in un uomo forte.
Non mi
sorprende nemmeno che tra coloro che ne hanno invocato uno più o meno
espressamente, negli ultimi anni, ci siano sia un liberale che uno stalinista:
il
sociologo americano “Hellbroner” e il filosofo tedesco “Harich.”
È inoltre indubbio che la metafora
apocalittica promette un sollievo dal pensiero analitico, poiché tende a
mettere tutto insieme nello stesso piatto.
Dal conflitto in Medio Oriente a uno sciopero
delle poste, dal punk al disastro di un reattore nucleare, ogni cosa è
concepita come un segno nascosto di una totalità immaginaria: la catastrofe “in
generale”.
La tendenza alla generalizzazione affrettata
danneggia quel residuo di potere di pensiero chiaro che ancora ci rimane.
In
questo senso, il sentimento di sventura non porta solo alla mistificazione.
Va da
sé che il nuovo irrazionalismo che tanto vi preoccupa non può in alcun modo
risolvere i problemi reali. Al contrario, li fa apparire insolubili.
Dal
conflitto in Medio Oriente a uno sciopero delle poste, dal punk al disastro di
un reattore nucleare, ogni cosa è concepita come un segno nascosto di una
totalità immaginaria: la catastrofe “in generale”.
Tutto
questo è molto facile da dire, ma non aiuta più di tanto.
Lei
cerca di combattere le fantasie di distruzione con citazioni dai classici.
Ma
queste vittorie retoriche, caro Balthasar, mi ricordano le imprese eroiche del
barone di Münchhausen.
Come
lui, anche lei vuole raggiungere la meta da solo e senza paura; e per non
allontanarsi dalla retta via, anche lei è pronto, in caso di necessità, a
saltare su una palla di cannone.
Ma il
futuro non è un campo sportivo per ussari, né la critica ideologica è una palla
di cannone.
Dovreste
lasciare ai futurologi il compito di imitare le vanterie di un vecchio soldato
di stagno.
Il
futuro che avete in mente non è affatto un oggetto della scienza.
È qualcosa che esiste solo nel mezzo della
fantasia sociale, e l’organo con cui viene principalmente sperimentato è
l’inconscio.
Da qui
il potere di queste immagini che tutti noi produciamo, giorno e notte: non solo
con la testa, ma con tutto il corpo.
I nostri sogni collettivi di paura e desiderio
pesano quanto, se non probabilmente più, delle nostre teorie e analisi.
Il
carattere veramente lacunoso della critica ideologica abituale è che ignora
tutto questo e non vuole saperne nulla.
Non è stata colpita dal fatto che da tempo ha
smesso di spiegare le cose che non rientrano nei suoi schemi e le ha invece
rese tabu?
Senza
che ce ne siamo accorti, ha assunto il ruolo di agenzia di adattamento. Accanto
alla censura di Stato dei tutori della legge e dell’ordine, si sono aggiunti
gli inservienti dell’ospedale psichiatrico della sinistra delle scienze sociali
e umane, che vorrebbero tranquillizzarci con i loro tranquillanti.
Le loro massime sono: 1. Non concedere mai nulla. 2.
Ridurre il non familiare al familiare. 3. Pensare sempre e solo con la testa.
4. L’inconscio deve fare ciò che gli viene detto.
L’arroganza
di questi esorcisti accademici è superata solo dalla loro impotenza.
I
nostri sogni collettivi di paura e desiderio pesano quanto, se non
probabilmente più, delle nostre teorie e analisi.
Non
capiscono che i miti non possono essere confutati dai seminari e che i loro
divieti alle idee hanno una portata molto breve.
A cosa
serve loro, per esempio, e a noi, se per la centesima volta dichiarano
inammissibile e reazionario qualsiasi confronto tra processi naturali e
sociali?
Il
potere elementare della fantasia insegna a milioni di persone a infrangere
costantemente questo divieto.
I nostri ideologi sorridono solo quando
tentano di cancellare immagini ineffabili come l’alluvione e il fuoco, il
terremoto e l’uragano.
Inoltre, tra le fila degli scienziati naturali
ci sono persone che sono in grado di elaborare fantasie di questo tipo a modo
loro, e di renderle produttive invece di vietarle:
matematici che elaborano una teoria
topografica della catastrofe, o biochimici che hanno idee su certe analogie tra
evoluzione biologica e sociale.
Stiamo
ancora aspettando invano il sociologo che capirà che, in un senso ancora da
decodificare, non esiste più una catastrofe puramente naturale.
Invece
i nostri teorici, incatenati alle tradizioni filosofiche dell’idealismo
tedesco, si rifiutano di ammettere ancora oggi ciò che ogni spettatore ha
capito da tempo: che non esiste uno spirito del mondo; che non conosciamo le
leggi della storia; che anche la lotta di classe è un processo “indigeno”, che
nessuna avanguardia può pianificare e guidare consapevolmente; che l’evoluzione
sociale, come quella naturale, non ha un soggetto ed è quindi imprevedibile;
che di conseguenza, quando agiamo politicamente, non riusciamo mai a ottenere
ciò che avevamo in mente, ma piuttosto qualcosa di completamente diverso, che
un tempo non potevamo nemmeno immaginare; e che la crisi di tutte le utopie
positive ha la sua base proprio in questo fatto.
I progetti del XIX secolo sono stati
completamente e senza eccezioni falsificati dalla storia del XX secolo.
Nel saggio che ho già citato, “Eric Hobsbawm”
ricorda un congresso tenuto dagli anarchici spagnoli nel 1898.
Essi delinearono un quadro glorioso della vita
dopo la vittoria della rivoluzione:
un mondo di alti edifici splendenti con
ascensori che avrebbero evitato di salire le scale, luce elettrica per tutti,
tritarifiuti e meravigliosi aggeggi domestici…
Questa
visione dell’umanità, presentata con pathos messianico, appare oggi
sorprendentemente familiare: in molte parti delle nostre città è già diventata
realtà.
Ci
sono vittorie difficili da distinguere dalle sconfitte.
Nessuno
si sente a proprio agio nel ricordare la promessa della rivoluzione d’ottobre
di sessant’anni fa: una volta cacciati i capitalisti dalla Russia, per gli
operai e i contadini sarebbe sorto un futuro luminoso senza sfruttamento e
oppressione. . .
Ci
sono vittorie difficili da distinguere dalle sconfitte.
Nessuno si sente a proprio agio nel ricordare
la promessa della rivoluzione d’ottobre.
È
ancora con me, Balthasar?
Mi sta
ancora ascoltando? Sono arrivato alla fine della mia lettera.
Mi
perdoni se è diventata un po’ lunga e se le mie frasi hanno assunto un tono
beffardo.
Non ho
voluto insolentirlo io, è una sorta di scherno oggettivo, storico, e la risata,
nel bene e nel male, è sempre dalla parte di chi perde. Dobbiamo sopportarlo
tutti insieme.
L’ottimismo
e il pessimismo, caro amico, sono una coppia solo per chi legge i tarocchi e
per gli editorialisti di moda.
Le immagini del futuro che l’umanità disegna
per sé, sia le utopie positive che quelle negative, non vanno mai a senso
unico.
L’idea
del millennio, lo stato del sole, non era il sogno pallido di una terra di
latte e miele; aveva sempre i suoi elementi di paura, panico, terrore e
distruzione.
E la
fantasia apocalittica, al contrario, non produce solo immagini di decadenza e
disperazione; contiene anche, ineluttabilmente legate al terrore, alla
richiesta di vendetta, di giustizia, impulsi di sollievo e di speranza.
I
farisei, quelli che ne sanno sempre di più, vogliono convincerci che il mondo
tornerebbe a posto se le “forze progressiste” si schierassero con forza contro
le fantasie della gente;
se
loro stessi si sedessero nel Comitato Centrale e le immagini di sventura
potessero essere vietate per decreto dal Partito.
Si
rifiutano di capire che siamo noi stessi a produrre queste immagini, e che le
teniamo strette perché corrispondono alle nostre esperienze, ai nostri desideri
e alle nostre paure:
sull’autostrada
tra Francoforte e Bonn, davanti allo schermo televisivo che mostra che siamo in
guerra, sotto gli elicotteri, nei corridoi delle cliniche, degli uffici di
collocamento e delle prigioni – perché, in una sola parola, sono in questo
senso realistiche.
La
fantasia apocalittica, al contrario, non produce solo immagini di decadenza e
disperazione; contiene anche, ineluttabilmente legate al terrore, alla
richiesta di vendetta, di giustizia, impulsi di sollievo e di speranza.
Non
c’è bisogno che io la rassicuri, caro Balthasar, sul fatto che del futuro io ne
sappia poco quanto lei stesso.
Le
scrivo perché non la considero tra i piccioncini e i bigliettai dello spirito
del mondo.
Quello
che le auguro, come auguro a me stesso e a tutti noi, è un po’ più di chiarezza
sulla nostra confusione, un po’ meno paura della nostra paura e un po’ più di
attenzione, rispetto e modestia di fronte all’ignoto.
Allora
saremo in grado di vedere un po’ più lontano.
Suo,
h. m. e.
L’UNIONE
SOVIETICA EUROPEA TRA
NAZISMO,
STALINISMO E NICHILISMO.
Nuovogiornalenazionale.com
- Silvano Danesi – (11 Giugno 2022) - ci dice:
L’Unione
Europea, meglio l’Unione Sovietica Europea, è ormai un misto di nazismo, di
stalinismo e di masochismo nichilista.
“A
metà del Seicento – scrive” James Hillman “-, i pii protestanti di “Cromwell”
strapparono via dalle cattedrali inglesi e fecero a pezzi le statue e i dipinti
di Cristo, di Maria e dei Santi perché, per la loro mente puritana, le immagini
non erano cristiane.
Esse erano particolarmente esecrabili perché nelle immagini si
può dare un aspetto visibile alla soggettività;
farle
a pezzi incoraggiava la distruzione dei portatori visibili dell’attività
personificatrice.
Questa
venne espulsa dalle chiese e rinchiusa nei manicomi”.
L’aspetto
centrale di questa affermazione di “Hillman” sta nel fatto che “nelle immagini si può dare un aspetto
visibile alla soggettività”.
Ecco
il punto: eliminare la soggettività.
È
questo l’obiettivo principale di ogni” dittatura “e la” cancel culture”, che
non a caso nasce negli States, dove la cultura puritana ha messo abbondanti
radici, si muove nel solco di tutte le dittature che hanno segnato la storia,
da quella di “Cromwel”, a quella di” Hitler” o di “Stalin” o di “Pol Pot” o di “Mao”.
Oggi
di “Xi Jinping”.
Cominciamo
da qui per capire quale sia l’obiettivo di una deriva dittatoriale sempre più
evidente.
“Matteo
Giusti”, nel suo “La loro Africa” , cita la professoressa” Irina Filatova”,
docente all’”Università di Stato di Mosca”, la quale scrive:
“Il
regime di “Mengistu” è stato uno di quelli che più si è avvicinato all’idea di
socialismo che l’Unione Sovietica voleva esportare.
La violenza, le epurazioni, le carcerazioni e
le esecuzioni fanno parte di un processo rivoluzionario;
c’era
un’idea radicale che voleva estirpare tutto quello che faceva parte del
passato.
Non
poteva esserci una vera condanna perché una rivoluzione non poteva essere
rispettosa e democratica nei confronti di quelle persone che il regime non
riteneva allineate alla linea di pensiero”.
È
possibile vedere nell’accostamento tra i vari “Cromwell” e i vari “Mengistu”
quell’impasto di intolleranza che caratterizza la” sinistra del Partito
Democratico -comunista, Usa” e che ne ha indirizzato la politica.
Impasto ideologico ampiamente utilizzato dalle
cosiddette sinistre europee che, ormai totalmente slegate dalla realtà
sociologica alla quale faceva riferimento la sinistra (quella vera), sono
diventate le casse di risonanza della finanza e delle multinazionali.
La “cancel
culture” è l’aspetto più evidente di una strategia di eliminazione progressiva
della soggettività, alla quale si accompagna quella della proprietà privata e
dei diritti civili e democratici.
La
vicenda Covid ha visto prove generali di privazione dei diritti più elementari
dei cittadini, con vulnus mai visti alle costituzioni democratiche.
La
vicenda delle auto, con l’imposizione della auto elettriche dal 2035, creerà le
condizioni di una eliminazione progressiva, per la stragrande maggioranza dei
cittadini, della proprietà privata dell’automobile, consegnandoli all’affitto
del parco macchine delle multinazionali.
La
casa sta andando verso lo stesso destino.
L’unione
Sovietica Europea -in quanto globalista - è, quindi, ormai, un misto di
nazismo, di stalinismo e di masochismo nichilista.
Un
nichilismo attivo che promuove e accelera il processo di distruzione degli
ideali tradizionali, per rendere possibile l'affermazione di nuovi “valori”,
che eliminino la soggettività a tutto vantaggio di un appiattimento delle
masse.
Un
nazismo che si coglie nella indifferenza alla schiavitù di interi popoli, in
Cina, come in Africa e comunque ovunque nel mondo, purché siano soddisfatti gli
interessi delle multinazionali o delle grandi aziende.
Uno
stalinismo che si vede nei piani poliennali, come quello della “green economy”,
che deve soddisfare le migliaia di miliardi investiti dai grandi gruppi, i
quali presentano il conto in termini di obbedienza al pensiero unico
politicamente corretto, che ricorda la “Stasi”.
Per
dare solo una parziale idea, gli investimenti globali nella “transizione
energetica a basse emissioni di carbonio” hanno raggiunto i 755 miliardi di
dollari nel 2021, con un aumento del 27% sul 2020, "un nuovo record sulla
scia delle crescenti ambizioni climatiche e dell'azione politica dei paesi di
tutto il mondo".
È
quanto emerge da un nuovo rapporto, "Energy Transition Investment Trends
2022" di “Bloomberg New Energy Finance” (Bnef) secondo cui quasi la metà
di tutti gli investimenti sono stati in Asia.
L'energia
rinnovabile è stato il settore con i maggiori investimenti, con un nuovo record di
366 miliardi di dollari impegnati nel 2021 (+6,5%) ma il trasporto
elettrificato, che include veicoli e infrastrutture associate, è in seconda
posizione con 273 miliardi di dollari investiti ma con +77% delle vendite di
vetture elettriche il settore nel 2022 potrebbe superare le energie rinnovabili
in termini di dollari.
Ovviamente
chi tenta di ragionare è investito dalla censura o dall’ostracismo.
I
giornali di regime, come recentemente il Corriere della Sera, compilano
ignobili liste di proscrizione, basate sul fatto che c’è chi non condivide le
veline dei servizi esteri a cui si deve dare retta.
“Goldman
Sachs” ci avverte che è inutile andare a votare, perché se vincesse il centro
destra saremmo fuori linea e quindi da punire.
Del
resto è da tempo che siamo commissariati da chi entra ed esce dalle
multinazionali e dai governi.
“Francesco
Mercadante”, il 21 Febbraio 2021 su “Il Sole 24 Ore”, ci rende edotti delle “revolving
doors”, ossia delle porte girevoli che consistono “nello scambio, intenso e
continuo, di risorse umane tra il settore pubblico e quello privato. […].
Le
revolving doors rappresentano, dunque, una tecnica, una pratica, una strategia
e chissà cos’altro:
alcuni uomini illustri e potenti – quasi
inutile sottolinearlo – passano, per esempio, da una banca a un governo e
viceversa”.
“Goldman
Sachs – continua il giornalista del Sole 24 Ore - , una delle più grandi banche
d’affari del mondo, con più di 35 miliardi di dollari di fatturato e circa
2.000 miliardi di patrimonio gestito, rappresenta verosimilmente il modello per
eccellenza delle “revolving doors”, non altrimenti che se questo fosse un vero
e proprio “know how”.
Il
primo personaggio della ‘lista Goldman Sachs’ è il nostro attuale Presidente
del Consiglio, al mondo noto per essere stato il presidente della BCE.
Prima
di diventare presidente della BCE, nel 2011, Mario Draghi era presidente del “Financial
Stability Board” (2006-2009) e, ancor prima, presidente del “Financial
Stability Forum” (sostituito dal FSB), due organismi col compito di monitorare
l’andamento dei mercati finanziati e valutare il rischio sistemico.
Dal
2006 al 2011, è stato anche Governatore della Banca d’Italia.
Prima
di ricevere questi incarichi ‘pubblici’, tuttavia, Draghi è stato advisor,
managing director e vicepresidente di Goldman Sachs (2002-2005)”.
Niente
da dire, ovviamente, per le carriere personali di Mario Draghi e di qualsiasi
altro che sia passato per le porte girevoli. Non è un delitto, non è un
peccato, ma ci fa capire come, è il caso di dirlo, gira il mondo.
“Romano
Prodi – continua il giornalista de Il Sole 24 Ore -, Presidente del Consiglio
per due brevi mandati (1996-1998 e 2006-2008), nonché Presidente della
Commissione Europea dal 1999 al 2004, è stato – anche lui – nei ranghi della
plurinominata banca d’affari in qualità di consulente:
tra le altre cose, proprio nel periodo in cui
era Presidente dell’IRI.
Facciamo
solo un’altra parentesi estera per ricordare che il successore di Prodi alla
Presidenza della Commissione Europea, “José Manuel Durão Barroso”, dopo aver
lasciato Bruxelles, è stato ingaggiato – ancora una volta – proprio da Goldman
Sachs.
Mario Monti, contestatissimo Presidente del
Consiglio dal 2011 al 2013, costretto a fronteggiare una delle tante crisi
economiche cui il nostro paese sembra andare ciclicamente incontro e, per ciò
stesso, giudicato con troppa fretta e faciloneria, poco prima di varcare la soglia
di Palazzo Chigi, era l’international advisor di Goldman Sachs (2005-2011).
In
precedenza, dal 1999 al 2004, era stato “Commissario Europeo per la Concorrenza”,
regnante Prodi – ci sia concesso il costrutto latino! –, cioè mentre Prodi era
il Presidente della Commissione Europea.
Gianni
Letta, tre volte sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (1994-1995,
2001-2006 e 2008-2011) sotto la Presidenza Berlusconi, nel 2007 è diventato
membro dell’advisory board della banca d’affari newyorkese”.
La
lista potrebbe continuare per molti altri Stati, a cominciare dagli Usa.
Ben
oltre le questioni personali che riguardano le singole legittime carriere di
ognuno, il
fenomeno da rilevare è che a governare sono uomini che hanno avuto rapporti con
i colossi bancari e finanziari, i quali ci spiegano che possiamo votare quel
che vogliamo, ma che se votiamo male saremo puniti. In ogni caso a comandare saranno
sempre gli stessi.
In
buona sostanza, la politica è stata messa alla porta e a governare sono stati
messi i cooptati che hanno passato le porte girevoli.
È del
tutto evidente, per tornare all’Unione Sovietica Europea, che a Bruxelles si
debbano prendere decisioni che soddisfino lor signori, come quella sulle auto a
combustione da bandire dal 2035, infischiandosi di tutto ciò che può accadere
all’economia reale.
È del
tutto evidente che saranno penalizzati i lavoratori e sarà bastonata la classe
media.
Non
solo.
La
decisione ci rende dipendenti dalla Cina che usa la manodopera degli schiavi
dei laogai.
Ecco
il nazismo di certe decisioni.
La
pianificazione voluta da chi deve salvaguardare le migliaia di miliardi di
investimenti, ossia gli gnomi della finanza, trasformano l’UE nella Unione
Sovietica dei piani quinquennali.
Infine,
il masochismo è talmente elevato da parte di una leadership burocratica prona
agli interessi dei grandi finanzieri e delle multinazionali, che mentre si
alzano alti lamenti contro la ferocia di Putin e la dittatura zarista vigente
in Russia, ci si consegna alla dittatura cinese, alla quale la finanza e le
multinazionali guardano come esempio di società di massa da imitare.
In
buona sostanza ha ragione “Hillman”.
Dietro
a tutta la politica dell’Unione Sovietica Europea c’è la negazione
dell’individuo.
“
Cromwel” avanza in Europa.
La rivoluzione puritana si accoppia con il
cosmismo, il “transumanesimo e le logiche totalitarie comuniste” che vogliono eliminare la storia e
costruire l’uomo nuovo.
Ci
sono fantasmi che si aggirano per l’Europa.
Sono i fantasmi del secolo scorso che “un
gruppo di satrapi” nazi-comunisti globalisti fa rivivere con “l’energia dell’inganno e della
protervia”.
Chi ha
paura di Giorgia Meloni?
Un
girotondo.
Ilfoglio.it
– (03 OTT. 2022) – Redazione – ci dicono:
Preoccupati
o no del prossimo governo a guida Fratelli d’Italia? C’è chi teme l’imperizia e
un isolamento dall’Europa e chi paventa una politica economica neocorporativa e
statalista. E c’è invece chi è ottimista: svolta salutare, non c’è alcuna
emergenza democratica
Preoccupati
di un governo Meloni? Sì, no, forse? E per quali motivi?
Nei giorni in cui si parla tanto, anche
all’estero (forse soprattutto all’estero), di quello che la “Cnn” ha
prospettato come il governo più orientato verso l’estrema destra dai tempi del
fascismo a oggi, abbiamo chiesto a un buon numero di foglianti e amici del “Foglio”
le loro impressioni, le loro attese e i loro timori.
Oggi
il primo giro di idee e commenti.
Con i
conservatori al governo arriva la demolizione del “politicamente corretto”.
Tutto
il Foglio minuto per minuto nel governo Meloni, questo è il fatto.
Arriva
il “prego” alla lista “Aborto? No, grazie”, ovvero l’eroica campagna per la
vita del 2008 di Giuliano Ferrara e senza l’onta del tradimento di Cl.
Lì
dove non ha potuto completare Silvio Berlusconi, là dove non è riuscito Matteo
Renzi, arriva dunque Giorgia Meloni.
Il
dimostratore per “tabulas” del fatto dei fatti, e cioè che Silvio Berlusconi
aveva comunque realizzato gran parte del celeberrimo “Contratto con gli
italiani”, ovvero Luca Ricolfi – un beniamino di noi foglianti – è chiamato a
inverare, in virtù della sua competenza, la stagione Meloni.
Con
Marcello Pera, con Eugenia Roccella e col cardinal Ruini c’è anche il ritorno
del Papa Re ma è la battaglia storica del nostro giornale a favore degli
italiani alle vongole e contro gli ottimati dell’azionismo storico a trionfare
nel governo che verrà.
C’è,
infatti, la liberazione dal “fabiofazismo” – per non dire dal “Johnny&Riottismo”
– e finalmente la comunità del “cattiverio fogliante” può segnare una gioiosa
tacca.
La
demolizione del “politicamente corretto” – dai pomodori a Benigni alle libere
mutande – arriva con i conservatori oggi al governo non a caso insolentiti
dagli” influencer della Ztl” e dai moralisti della Repubblica che non hanno un
pelo della veneranza barba di Eugenio, il Fondatore, idolo di tutti noi
libertini (ma è un altro discorso).
Perfino
il garantismo c’è perché forcaioli lo sono i Fratelli d’Italia ma mitigati da
Carlo Nordio, un altro beniamino di noi foglianti.
Tutta
l’”America del Foglio”, dalla bandiera di “Jasper Johns” all’esportazione della
democrazia, è riversata nell’”Agenda Meloni “ma con “Giuseppe Prezzolini” ben
più che il “polemismo” di una Oriana Fallaci e con concrete prove sul polonio –
ben più che la polverina falsa di “Colin Powell” per stanare “Saddam Hussei”n –
puntando direttamente Mosca e Vladimir Putin per un “nuovo regime change”. Senza dire, infine, che nel “tienimi
da conto” Panetta di Giorgia Meloni c’è tutto il nostro “tienimi da conto
Monti”.
(Pietrangelo
Buttafuoco)
Ambizione e risultati: lei ha fracassato il soffitto di
vetro.
Piena
confessione. Sono svizzera.
Per fortuna c’è stato “Roger Federer,” così ho
smesso di collezionare battutacce sulla confederazione.
Da pendolare, ho aggiunto qualche curiosa
esperienza: per esempio, le gare della Coppa America vinte da Alinghi
raccontate dal cronista svizzero esultante e poi dal mesto collega italiano.
Quando
Berlusconi diventò la prima volta capo del governo, gli amici svizzeri
chiedevano “ma adesso torni, vero?”.
Intendevano: torni tra noi, al sicuro dentro i
confini della madrepatria. La domanda: “al sicuro da cosa?” non ebbe mai
risposta.
Era evidente ai loro occhi, a furia di
leggerlo su Repubblica, che l’Italia era un posto pericoloso per i sinceri
democratici e per una ragazza che trafficava con libri e cinema. Insomma, sono
vaccinata.
Contro il virus, certo.
E
contro l’allarme democratico che deve essere guasto, quindi scatta ogni
momento.
Potrei
andarci io al confine, a salutare chi vuole emigrare in un paese che consente
alle donne di votare solo dagli anni 70 (del Novecento) e ha assemblee
cittadine dove le decisioni si prendono per alzata di mano.
Piccolo
momento “Tom Wolfe”, che voleva far ciao ciao a chi scappava da New York dopo
la vittoria di Bush e poi di Trump.
L’accento di Giorgia Meloni mi urta
l’orecchio.
Molto
meno di quanto i discorsi di Giuseppe Conte fanno strazio della lingua italiana
(e del principio di non-contraddizione).
Bisogna
riconoscere che non ha fatto carriera in quanto “moglie o figlia di”.
L’insistenza sulla famiglia tradizionale – le due mamme sono vietate anche nei
cartoni di Peppa Pig – è compensata da una figlia nata da una convivenza.
L’ascensore
sociale ha funzionato, con qualche tocco pop: la madre scriveva romanzi rosa sotto
pseudonimo per mantenere le figlie.
Se il femminismo vuol dire “ambizione e
risultati” – e che altro potrebbe voler dire? lagne? – ha fracassato il
soffitto di vetro.
La soddisfazione grande sarebbe vederla
mettere in riga i cialtroni che le stanno facendo gli sgambetti.
C’erano i sondaggi, sottovalutati: non è da
maschi aver paura di una donna.
(Mariarosa Mancuso)
Preoccupato
per il fascio-pride che si vede in giro. Vabbè, poi si placheranno.
Una
parte di me è molto preoccupata (i diritti, non tanto perché non si faranno
balzi in avanti, tanto non si facevano manco prima). Ma più che altro il fascio-pride
che si vede in giro, che si sente.
L’altra
parte di me è meno preoccupata e antropologicamente curiosa, in fondo il
fascio-pride sarà catartico, faranno i carri, con le loro musiche e il fantasy,
si sfogheranno, faranno figuracce, poi si placheranno e non potranno più dire
d’essere stati tenuti ai margini della storia per anni.
Ma non
era già successo con Fini?
E
infatti alla preoccupazione e alla fascinazione si affianca la sensazione da
giorno della marmotta, sembra di essere in un perenne 1994: ù
La
Russa ministro, Sgarbi che vuol essere ministro, Schifani presidente di
regione, Prodi che dà consigli, il Pd che fa autocritica, Berlusconi usa sempre
la stessa scrivania:
cambia
il medium ma il messaggio è sempre quello, adesso c’è TikTok.
Per il
resto, comici e attori pronti alla resistenza, piazze pronte a manifestazioni,
“con questi leader non vinceremo mai”.
Ecco, questa direi è la cosa più sconfortante,
capire che non sono serviti a niente questi 30 anni (disoccupazione e stipendi
sono rimasti a quel livello, del resto).
Però
trent’anni fa non c’era Internet, c’erano i cellulari giganti, e oggi mentre
tutto si smaterializza, mentre abbiamo lo” Spid”, il Pd rimane pesante e
farraginoso, assolve la sua funzione che rimane quella, di governare
polverosamente, poi viene bullizzato alle urne.
Avanzo
allora sommessamente, dome dice Giorgia, una proposta:
invece di andare a congresso, continuare con
l’autocritica, e poi con la faticosa opposizione, cambiamolo questo Pd.
Basta
campagne elettorali: è il momento in cui perde più punti e in cui diventa, come
dicono i giovani, più cringe.
Lì deve far finta di avere delle idee, deve
far sognare, tutte cose che non sono nel suo Dna.
Il Pd diventi un partito on demand, di pronto
intervento, leggero.
I
fasci (o la Lega, o i Cinque stelle) vincono le elezioni, governano un sei mesi
e poi con gli spread in rialzo e la *preoccupazione delle cancellerie*, solo
allora, lo facciamo entrare in gioco.
Però
snello, veloce (si eviterebbero anche un sacco di spese e forse di CO2. Il Pd
on demand, disdici quando vuoi. Pensiamoci).
(Michele
Masneri)
Non
diventeremo l’Ungheria e i treni non arriveranno in orario.
Non
sono indignato.
Non
sono in ansia per la Costituzione più bella del mondo.
Non penso che verranno calpestati i diritti,
che diventeremo l’Ungheria, che stiamo sprofondando in un’emergenza
democratica, che faremo ginnastica al mattino, che i treni arriveranno in
orario (semmai triplicheranno gli scioperi, col venerdì antifascista
dell’Atac), insomma, non sono preoccupato.
Lo ero
invece un po’ nel 2018, davanti all’arrembaggio della banda anti casta.
Con quei festeggiamenti sguaiati, giacobini, i
forbicioni che immortalavano il taglio dei parlamentari, l’abolizione della
povertà con lo spumante in balcone.
Sembrava
il Venezuela governato da “Striscia la notizia”.
L’antipolitica mi farà sempre più paura della
politica, che produce i suoi anticorpi, i pesi e contrappesi dentro la
dialettica parlamentare e non su mandato della piazza (non a caso, Giorgia ha
raccomandato ai suoi il massimo della sobrietà, niente clacson, caroselli,
ammucchiate in piazza del popolo).
Perché
gli elettori l’hanno premiata?
Perché
è stata bravissima a farsi percepire come “outsider”, l’unica logica che pare
scaldare i cuori di quei pochi che ancora vanno a votare.
Si è venduta come l’unica rimasta da provare
dopo averli provati tutti, Pd, Renzi, Lega, Cinque stelle (il fatto che Giorgia
sia tutto tranne che outsider conferma, appunto, la sua bravura).
Se poi, grazie alla prima
donna-premier-non-femminista e non antifascista dell’Anpi cadranno maschere,
impalcature teoriche, ipocrisie, se si sgretola un po’ di quel fascismo
immaginario, eterno, immutabile, da cui non riusciamo a separarci come i
bambini che non vogliono crescere, non si può che gioire (ma è meglio non farsi
illusioni:
solo i
nostri pronipoti avranno un giorno un partito conservatore e un partito
progressista non intrappolati nel passato, che si fronteggiano su programmi e
ricette di governo, anziché sulle categorie morali, il bene, il male, il saluto
romano, la falce e il martello).
È noto
che di fronte ai suoi ministri che stavano litigando, Margaret Thatcher prese
una copia di “The Constitution of Liberty”, di Friedrich Hayek, e la sbatté sul tavolo: “Basta!
È
questo quello che dobbiamo fare, è tutto scritto qui!”.
Noi
possiamo stare tranquilli.
Al
primo Consiglio dei ministri, Giorgia tirerà fuori Tolkien e “Il gabbiano
Jonathan Livingstone” e dirà: “Signori, non si può fare niente, proviamo almeno a fare
così”.
(Andrea
Minuz)
Un
impegno, uno spirito di appartenenza che non cancella le distanze ma le
accorcia.
Racconto un’esperienza personale. Alcuni anni
fa due fondazioni di grande peso politico,” Italianieuropei” presieduta da
Massimo D’Alema (dove stavo) e “Fare Futuro” presieduta da Gianfranco Fini, decisero di organizzare insieme un
ciclo di incontri ad Asolo, rivolti soprattutto ai giovani delle rispettive
scuderie.
Furono
giorni sorprendenti. Discussioni serie, ragazzi preparati, un buon
affiatamento. Ci interrogammo su quelle sensazioni, inedite.
Ci
accorgemmo che quei ragazzi avevano percorsi comuni, e metodi di lavoro simili.
Ma
emergeva soprattutto un’idea del ruolo della politica, fatto di conoscenza,
impegno e senso di appartenenza collettivo, di orgoglio e di attitudine al
rispetto delle opinioni, che resero quelle discussioni, vivaci e dialettiche,
molto belle.
Nello
sbandamento, lo spaesamento, provocato dalla crisi attuale dei modelli
partitici, all’epoca ancora piuttosto solidi, per chi ha vissuto quei giorni,
condiviso quello spirito, prevale oggi un sentimento di rispetto.
Come a
dire: prima delle diverse opinioni, viene la concezione della politica.
E lì ci si può ritrovare.
In
questa infinita ricerca di volti nuovi, che caratterizza la politica italiana
(salvo poi riscontrare che a dirigere il traffico sono spesso le stesse persone
di più o meno abile mestiere), non posso non apprezzare che almeno le scuole
politiche, forgiate nel duro scontro delle ideologie del Novecento e costrette
a reinventarsi nel flusso della storia recente, tengano il punto e riescano a
produrre classe dirigente.
Anziché
la subalterna rincorsa della sciagurata società civile, che oggi si esprime
attraverso influencer e bolle incandescenti piene d’aria supponente e settaria,
la politica, la sezione, il consenso, la leadership.
E se
poi le scuole sfornano dirigenti capaci di unire la solida formazione e l’aura
di novità che tanto piace agli elettori, ben vengano.
Non
avranno sconti, ma non soffriranno pregiudizi.
Ho
scavato nel mio cuore per capire cosa mi impedisce di scandalizzarmi, vista la
mia provenienza e la mia militanza, per la vittoria di Giorgia Meloni.
E ho
trovato qualcosa che ha a che vedere con una concezione dell’impegno, uno
spirito di appartenenza, un linguaggio, che non cancella le distanze, ma le
accorcia, fino a rendere meno sterile e più appassionante la lotta politica.
(Carlo
Cerami)
Il
primo partito italiano è meno illiberale del secondo e del terzo.
Nessun
timore ulteriore. Ho tutte le fobie possibili, inutile elencarle, mi manca
soltanto la Melonifobia.
Non ce
l’avevo prima e non ce l’ho ora.
Non ho
partecipato ai ludi cartacei, inutile spiegarlo, e il risultato non mi sembra
così decisivo, così epocale: c’è o non c’è il famigerato pilota automatico?
Io, come Mario Draghi, credo che esista,
questo sistema tutor che impone velocità e direzione agli staterelli quali il
nostro, e che continuerà a esserci.
Se
Giorgia Meloni vorrà fare qualcosa di personale, qualcosa di nazionale, potrà
consentirsi solo movimenti ridotti: al massimo un cambio di corsia, non certo
di autostrada.
Essendo un estremista del realismo non riesco
proprio a immaginarmi grandi cose. Mi permetto soltanto di auspicare l’innalzamento del
tetto del contante, come da programma di coalizione:
spero si possa fare, spero che i nemici della
libertà ossia della vita (homo sine pecunia imago mortis, dicevano gli antichi)
non riescano a impedirlo.
Ah,
no, un’altra cosa: mi auguro la liberalizzazione della caccia al cinghiale, la
fiera che sempre più indisturbata distrugge sempre più raccolti e vite umane,
visto che Fratelli d’Italia è il partito più vicino ai cacciatori.
Purtroppo
non sono certo che questo sia sufficiente: la decadenza dell’antropocentrismo
riguarda il popolo sovrano tutto, la destra come spesso accade è solo un po’ in
ritardo.
Parlo di libertà (di contante, di caccia...) e
non è un caso:
credo
che oggi il primo partito italiano sia meno illiberale del secondo e del terzo
partito e questo non per merito proprio ma per demerito altrui.
Da
antifascista (la gestione statale della pandemia mi ha trasformato da afascista
in antifascista) non temo il fascismo dei saluti romani ai funerali, innocuo
come ogni folclore, temo il fascismo reale.
Temo
il coprifuoco, temo il confinamento, temo la tessera per lavorare:
misure
che di fascismo puzzano e che per non essere accusata di fascismo una ex
missina sarebbe più restia di altri a intraprendere.
(Camillo
Langone)
Potrei
dissentire ma riservo la mazza per occasioni più acconce.
Sono
più preoccupata per le reazioni selvagge e impotenti contro un eventuale
governo Meloni che non per quel governo stesso.
Ho
delle inquietudini ma non da pezze fredde come quelle che si sono viste alla
vittoria della d-d-d-destra.
Non
vorrei che questo penoso piagnisteo finisca per spingere Meloni ad avvinghiarsi
a Orbán, AfD, Marine le Pen e Vox.
Le donne iraniane hanno stimolato da eroine
compiute una rivolta generale di tanti cittadini iraniani, da quarant’anni
schiacciati da una repressiva dittatura religiosa, nel silenzio del femminismo
italiano.
Ma
artiste furiose per i diritti, le poltrone, il potere negati alle donne, del
corpo femminile violato da maschi stupratori, zitte sono sulla mattanza delle
donne in cerca di libertà, che siano la pachistana Saman, macellata da zio e
cugini, Mahsa Amini, ragazza curda picchiata a morte per un velo disinvolto, o
Hadis Najafi, iraniana, colpita da sei pallottole in faccia mentre cantava la
sua resistenza alla polizia immorale.
Non è
da oggi che tacciono le femministe sulle vessazioni delle donne mediorientali.
Anzi,
da decenni predicano il “rispetto” per le culture altre, hijab e taglio della
clitoride compreso.
Non c’è stato un attimo di gioia per il
probabile primo premier femmina.
Zero.
Zitte tutte.
Eppure
il femminismo o è trasversale o è solo un randello di parte.
E squittiscono le ayatollah della “vera
femminilità”, una polizia morale interna.
Su
Twitter si storcono perché Giorgia sarebbe quella che le femministe radicali
yankee chiamavano “male identifier”.
Una
che prende i maschi a modello comportamentale anziché sventolarsi con
fazzoletti di pizzo.
C’è chi ipotizza che ci siano solo tre tipi di
femmine: odalische, gatte morte o camioniste.
Di quest’ultimo mi onoro di far parte:
discutiamo e ridiamo forte, ci ribelliamo ai diktat del perbenismo e mandiamo a
fanculo gli scocciatori.
E
allora?
Vedremo,
invece, se Meloni la smetta di denunciare “l’egemonia della Finanza
Internazionale”, che ridurrebbe i cittadini in consumatori coatti, o ad accusare George Soros di
inondare l’Europa di migranti per sostituire la cultura nativa infeconda.
Queste
frasi sono dog-whistle per “lobby ebraica”, punto.
Devono
sparire.
Se
tiene la barra dritta su atlantismo, europeismo e armi agli ucraini, e fa un vero
partito conservatore, potrei forse dissentire ma riservo la mazza per occasioni
più acconce.
(Anselma
Dell’Olio).
Mi
preoccupa il modo in cui declinerà l’identità forte di cui è portatrice.
Sì.
Sono preoccupato ma non spaventato.
Mi
preoccupa, nel suo primo misurato e saggio discorso dopo la vittoria, la
volontà espressa di “governare la Nazione”, piuttosto che il Paese.
Fuor
di metafora, mi preoccupa il modo in cui declinerà l’identità forte di cui è
portatrice.
Non tanto e non solo sul terreno dei diritti
civili.
Dove,
se agirà con prudenza, una certa sfida valoriale potrebbe servire a mettere in
discussione alcune derive tecnocratiche del progressismo ideologico.
Per intenderci: non posso aspettarmi che Giorgia
Meloni legittimi il matrimonio tra omosessuali, come io auspico, ma mi
accontenterei che stoppasse l’idiozia della legge Zan e le tentazioni della
cancellazione culturale ad essa sottese.
Ma la
preoccupazione maggiore riguarda l’economia, dove temo che l’identità della
destra vincente possa declinarsi nelle forme neocorporative di uno statalismo
asfissiante o di un egualitarismo irresponsabile, che oggi fanno coincidere,
guarda caso, le posizioni di Fratelli d’Italia con quelle della Cgil su
questioni come la privatizzazione della compagnia di bandiera, o piuttosto la
riforma della scuola e l’introduzione del docente esperto.
Sostituire
i percettori del reddito di cittadinanza con i precari, con i tassisti o
piuttosto con i balneari non cambia la sostanza della relazione tra stato e
cittadino:
la democrazia appaltata a diversi portatori di
interesse, categorie di riferimento della nuova egemonia politica, non sarebbe
diversa dalla democrazia ingessata e ostaggio dei gruppi organizzati a cui la
sinistra, quando ha governato, ha concesso più di ciò che ha ottenuto.
E non farebbe che eternare il declino
trentennale della società.
Dubito
che la Meloni riesca a disancorare le politiche del welfare dalla ricerca del
consenso.
Il nazionalismo economico non avrebbe per
l’economia effetti diversi dallo statalismo consociativo che la leadership di
Giorgia Meloni è chiamata a surrogare.
Entrambi
rinunciano a riconoscere, valorizzare e correggere gli effetti della
globalizzazione senza demonizzarla.
(Alessandro
Barbano)
Temo
la nascita di un governo à la carte, disposto a comprare calzini più che a
rivoltarli.
Sì,
sono preoccupato.
Alcuni
motivi sono stati illustrati già a sufficienza nei giorni scorsi dal Foglio (il
deficit di competenze e il rischio di allineare l’Italia al blocco di Visegrad)
ma vorrei sottolineare un altro aspetto, per ora rimasto in ombra.
C’è
una contraddizione tra la straordinaria centralità di FdI ampiamente favorita
dal “Rosatellum” e la sua rappresentatività reale del paese.
Mi
spiego.
Il partito di Meloni è in testa ai sondaggi da
solo un anno e ha scalato la politica italiana grazie al fatto che il suo primato
è coinciso con la fine della legislatura.
Un timing perfetto.
Ma
dietro a questo successo e alla centralità nel sistema politico che ne è
derivata non c’è una solida relazione con il paese, con i territori e la
società di mezzo.
Per
dirla con una battuta, Meloni ha vinto al buio, non ha costruito negli anni una
reale e strutturata piattaforma di consenso.
C’è stato uno switch di gradimento dalla Lega a FdI e
la leader romana ha saputo prendere la palla al balzo.
Ma
siccome l’attività di governo è spesso condizionata non dai programmi esposti
in Parlamento ma dal crudele “day by day”, ne deriva che Meloni dovrà cercare
di acquistare un consenso strutturato volta per volta.
Oggi lo sta già facendo con Mario Draghi e ciò
che rappresenta come capitale reputazionale, oggi sta comprando “know how”.
Domani
sarà costretta ad aprire il portafoglio (politico) con i soggetti che di volta
in volta saranno capaci di occupare la scena, di poterle “vendere” qualcosa.
Magari
i No vax (la
frecciata dei giorni scorsi al ministro Speranza lo lascia intuire), i pro Life o i panificatori di Napoli
che hanno
portato i loro furgoncini in piazza, insomma le tante piccole e grandi
constituency che hanno guadagnato campo nella crisi dei grandi soggetti di
mediazione.
La conseguenza che vedo è la nascita di un governo à
la carte, disposto a tutto pur di difendere la centralità ottenuta in una
fortunata domenica di fine settembre.
Un governo disposto a comprare calzini più che
a rivoltarli.
(Dario
Di Vico).
Non
parlo male di Meloni, ma di Giorgia su TikTok.
Non
sono qui a parlar male di Meloni. Del resto che cosa ha fatto Giorgia?
Certo la figlia di Pino Rauti che sconfigge il
figlio del deportato scampato ad Auschwitz può fare impressione, ma semmai
registra il mood del paese e Meloni l’ha colto prima degli altri.
Si può
darne colpa a una leader politica?
L’altra
sera passeggiando con un’amica nel centro di Roma vicino a Campo de’ Fiori
abbiamo sentito degli scoppi.
Oddio, ci siamo, son tornate le squadracce!
No, sono gli scostumati turisti. Le camicie
brune non sono arrivate, non ancora.
La nostra è la solita isteria da Ztl.
Non sono qui a parlar male di Meloni.
Del resto cosa ha fatto? Ha vinto le elezioni
o meglio le hanno perse gli altri: M5s, Lega, Berlusconi, Pd in ordine di
emorragia di consensi.
Ma non ha sottoscritto debito buono né debito
cattivo.
Mica è
Matteo Salvini.
Niente debito, per ora.
Litigherà
con Ursula von der Leyen? Certo non si prendono, non possono, basta guardare il
loro guardaroba.
Meloni
manderà le navi militari a pattugliare le coste? Per quante migliaia di
chilometri e quante natanti non sappiamo. Non vaccina sua figlia?
Ma
farà inoculare i suoi elettori se non li vuole tutti in ospedale.
Prima
la famiglia tradizionale?
Vuoi
vedere che si sposa, forse è la volta buona e porterà al G7 il first husband.
Non
sono qui a parlar male di Meloni.
Non ha fatto nulla, non ancora. Viktor Orbán
l’abbraccia con affetto?
Intanto il nuovo Attila rosica, era allo
stadio di Budapest con tanto di sciarpone e s’è preso due pappine da un
bolognese e un milanese.
Prima
gli italiani o meglio gli italiani primi.
Non
posso parlar male di Meloni dopo il caloroso scambio con Volodymyr Zelensky e
l’impegno solenne a sostenere l’Ucraina.
Ma dei meloni voglio parlar male, questo sì.
Intendo
proprio quelli spuntati domenica 25 a urne aperte in un video e piazzati lì,
avete capito dove, da lei che un po’ ammicca un po’ minaccia:
du’
meloni per le donne du’ palle per gli uomini, gli uni e le altre per Lgbtq+.
Io non
amo le maggiorate né quelle vere né quelle gonfiate, nemmeno Lollobrigida
(intendo Gina la Bersagliera e sembra che sia colpa di mia mamma), figuriamoci
Giorgia su TikTok.
(
Stefano Cingolani)
Penso alla Roma di Alemanno e temo
soprattutto l’incompetenza.
Gran parte della campagna elettorale della sinistra si
è fondata sull’associazione tra la Meloni e il Fascismo:
in
qualche modo lei sarebbe l’ultima incarnazione dell’ideologia del Ventennio, la
resurrezione in un corpo femminile del Duce Capoccione, e la sua vittoria
aprirebbe le porte a un governo autoritario e liberticida.
Sarà
davvero così?
Rischiamo davvero di ritrovarci tra Balilla e
manganellatori, con gli intellettuali confinati a Eboli e gli omosessuali
deportati in qualche paesino della Sardegna?
Ovviamente
no, siamo nel 2022 e la Storia non si ripete mai nelle stesse forme.
La
stessa Meloni è molto più figlia del nostro tempo che di un’epoca così lontana.
Certo, è possibile che nel suo entourage, tra gli amici cari della giovinezza,
ci siano teste calde, nostalgici invasati, cultori della forza bruta e
dell’intolleranza attiva, eja eja alalà…
E’ anche possibile che dietro l’esaltazione dei
patrioti possano affacciarsi tendenze xenofobe e razziste, che per gli
immigrati possa tirare una brutta aria.
Però io credo che il pericolo più grande sia
un’incompetenza assoluta, dilettanti allo sbaraglio incapaci di governare la
complessità del presente.
Non lo
dico basandomi su chissà quali pregiudizi, bensì perché qui a Roma abbiamo già
avuto l’esperienza del sindaco Alemanno e della sua giunta.
Era una generazione precedente alla Meloni,
probabilmente molto più legata nella sua formazione politica a convinzioni
fasciste, eppure non ricordo atti ignobili, discriminazioni brutali, tentazioni
autoritarie.
Ricordo
invece una spaventosa inettitudine, l’incapacità totale nell’affrontare e
risolvere le mille rogne cittadine.
Sono
stati i cinque anni peggiori per Roma, non un’idea, non un progetto, nulla.
Ricordo
che scrissi un articolo invitando la giunta Alemanno a realizzare almeno un po’
di campi sportivi, in fondo l’attività fisica è uno dei fulcri del pensiero
fascista.
Niente,
neppure un campetto da bocce per gli anziani di qualche periferia, neppure tre
tavoli da ping pong in qualche parco, zero assoluto.
In
compenso molti amici-camerati piazzati qua e là, molto spirito di gruppo, il
loro gruppo.
Dunque
ciò che dobbiamo temere, più che l’olio di ricino e i salti mortali nei cerchi
infuocati, è una imperizia assoluta.
Essere
contro in fondo è facile ed è la storia della destra italiana dal dopoguerra a
oggi, ma poi governare e saper fare le cose è un altro paio di maniche.
Roma rimase immobile per cinque anni, un’immobilità
che è la strada verso il degrado generale.
Sarà
lo stesso anche per l’Italia intera?
Forse
gente come Draghi era un po’ più preparata, aveva studiato di più, sapeva più o
meno da che parte cominciare?
Vedremo, siamo qui e aspettiamo.
Non
basterà chiudere due campi nomadi e sventolare a oltranza il tricolore, il
paese ha bisogno di molto di più.
(Marco
Lodoli)
E come
affronterà la pandemia? Due anni di rapporto irrisolto con la scienza.
Se le
voci dal silenzio operoso di Giorgia Meloni – quelle che rafforzano la tesi di
una tenuta atlantista, della prudenza sui conti pubblici, della valutazione del
curriculum non solo della tessera nella scelta dei ministri – compongono
l’immagine rassicurante della leader pragmatica, bastano poche righe di
intervista di un fedelissimo a creare timore ideologico.
Non si tratta dei propositi di modifica della
Costituzione sventolati dal capogruppo uscente Francesco Lollobrigida – chissà
se le riforme saranno poi davvero fra le priorità: non hanno portato fortuna ai
predecessori e la scaramanzia ha il suo peso a destra e a sinistra.
Il punto è la pandemia, la salute che viene o non
viene prima di tutto?
Vaccini,
mascherine e dintorni, su questa materia pesa il pregresso, due anni di
rapporto irrisolto con la scienza.
Su
questa materia sono apparse poco incoraggianti le parole del responsabile
sanità di Fratelli d’Italia “Marcello Gemmato” in un’intervista a
Repubblica. Naturalmente la bocciatura
dei governi precedenti ci può stare, retaggio della campagna elettorale,
discontinuità dettata dalle esigenze della comunicazione. Passi anche il “mai più green pass”.
Ma
quando si arriva alla sostanza, al “come governerete la pandemia”, la preoccupazione monta:
“I
dati dicono che la mortalità per il Covid riguarda persone dai 65 anni in su.
La
strategia vaccinale dovrebbe mettere in sicurezza gli anziani e chi ha problemi
di salute.
Vaccinare
i bambini di 6 anni non ha senso”, dice Gemmato.
Posizione
dalla quale deduce che “va bene raccomandare, non mettere più obblighi” e
infatti promette che sarà tolto l’obbligo anche per i sanitari.
Troppi
obblighi, sostiene, possono far pensare “che dietro i vaccini ci sia un
interesse delle multinazionali”.
Ai più
“stolti”, precisa con una logica argomentativa questa sì allarmante e non
temperata dall’impegno finale:
se
arriva una nuova ondata “saremo pronti, ma a partire dai dati scientifici.
Non
seguiremo le virostar, ma scienziati con “impact factor alto” e linee di
indirizzo già prese in altri paesi”, aggiunge senza fare nomi né degli
scienziati, né degli altri paesi, a parte “l’Inghilterra che è partita prima”.
L’accusa
ai predecessori è di aver avuto una posizione ideologica e infatti, scolpisce,
“siamo tra
i primi al mondo per mortalità e letalità”.
Sarebbe
utile che Meloni, prima della campagna vaccinale, facesse capire se la linea
tenuta fin qui dalla destra italiana, le strizzate d’occhio ai No vax, la tesi
delle libertà eccessivamente compresse nella campagna vaccinale ecc., hanno
ancora bisogno di tempo per essere corrette e adeguate al profilo di governo o
se Gemmato anticipa invece le scelte future.
Fra
tante collocazioni da scegliere e chiarire, se Meloni si sente più vicina a
Puzzer che al generale Figliolo, per dire, meglio saperlo.
(Alessandra
Sardoni)
Il
pericolo che in Europa si schieri con Orbán. Ne va della tenuta dell’Unione.
Un primo passo assai rilevante verso il
disfacimento o quanto meno la paralisi dell’Unione europea, ultima speranza di
Vladimir Putin, potrebbe essere il diniego da parte del nuovo governo italiano del consenso
necessario in seno al Consiglio Ue per l’applicazione della sanzione contro
l’Ungheria di Orbán.
Se il Consiglio Ue, che si riunirà tra poche
settimane, non riuscisse ad adottare questa sanzione per il voto contrario
dell’Italia, l’autorevolezza della Ue ne uscirebbe pesantemente ridimensionata:
d’ora
in poi qualsiasi stato-membro potrebbe sentirsi legittimato a disattenderne le
regole e persino i principi costituzionali.
Se su
questo punto Roma sceglierà il voto negativo, questo significherà che Giorgia
Meloni ha deciso di esplicitare subito l’abbandono dell’asse con Parigi e
Berlino e inaugurare l’asse Roma-Budapest-Varsavia.
Non si vede, però, come una scelta simile
possa essere fatta propria da Forza Italia, che rischierebbe di porsi in questo
modo fuori dal Partito popolare europeo ed esordirebbe nel nuovo esecutivo con
una plateale rinuncia al ruolo che si era assegnata di “garante
dell’europeismo” del nuovo governo.
D’altra
parte la nuova coalizione non può fare a meno di Forza Italia.
È ben
possibile, dunque, che Giorgia Meloni decida saggiamente di far buon viso a
cattivo gioco, anche per non rendere difficilissimi tutti i delicati passi
immediatamente successivi del suo governo a Bruxelles e a Francoforte, quando
emergerà con evidenza l’indispensabilità dell’ombrello europeo per la gestione
del nostro debito pubblico.
Questo
passaggio molto delicato, atteso tra breve, dirà dunque subito moltissimo sulla
prospettiva di tenuta, o no, della Ue nonostante la drastica svolta della
politica italiana.
Se l’Italia approverà la proposta della
Commissione, sarà il segno che il tessuto connettivo tra i paesi maggiori
dell’Unione è in grado di reggere ai piccoli e grandi terremoti politici sempre
possibili in seno a ciascuno dei paesi membri; ed è più forte delle spinte
centrifughe.
Se
invece l’Italia si schiererà con l’Ungheria, questo aprirà in seno alla Ue una
crisi politica molto pericolosa, potenzialmente destrutturante, e Vladimir
brinderà a Giorgia.
(Pietro
Ichino)
Temo
il misto di paranoia e vittimismo dei governi populisti
Molte preoccupazioni allignano sopra l’arrivo
di Giorgia Meloni alla guida del paese.
Non
foss’altro perché si tratta di una novità sia per l’Italia che per l’Europa: la
prima volta di un primo ministro di “far-right” (uso la versione corrente della
stampa anglosassone per evitare noiose polemiche lessicali) nell’Europa
occidentale e in un paese fondatore.
C’è
anche la novità di genere, la prima donna a Palazzo Chigi (se così sarà), ma in
questo mi adagio sulla linea tracciata da “Natalia Aspesi”, che ricorda che il
potere è neutro, quando lo conquisti ne sei in realtà conquistato (Meloni, che conosce a memoria “Il
Signore degli Anelli”, lo sa bene).
C’è il
fascismo che ristagna, c’è l’Europa matrigna, c’è la classe dirigente che non
c’è, c’è Orbán, Trump e tutto il cucuzzaro dei bad guys (tranne Putin per
fortuna):
i
giornali italiani e stranieri di preoccupazioni ne hanno affastellate con
dovizia. Ma
fra tutte, quella che più mi inquieta è una preoccupazione di stile, di tono,
che già vedo baluginare sulle testate di area.
Quel
misto di paranoia e vittimismo così tipico dei governi populisti in tutto in
mondo, e che la destra italiana ha utilizzato a man bassa nella sua scalata al
potere.
Una
postura che si tollera a fatica quando ti barcameni all’opposizione o ai
margini di qualche governo di larga intesa, ma che dovrebbe essere vietato dalla
legge quando si prendono in mano le leve del comando.
Governare
sarà compito difficile, mantenere tutte le promesse della coalizione
vincitrice, impossibile, restare in sella sarà lotta quotidiana, ma tutto
questo non può essere condito da recriminazioni e complottismi.
Se non
passa una legge non sarà colpa dei “poteri forti” perché ormai i poteri forti
sono al potere e sono Meloni & co.
Se il governo sbanda, se non trova le “quadre”, se va
avanti “salvo intese”, non sarà colpa del “mainstream” perché la trasformazione
degli underdog in vincitori si è già compiuta e il mainstream passa da quelle
parti.
Temo
la retorica dei “giornaloni”: saranno disfattisti quelli che criticano il
governo (ma poi ce ne saranno?), saranno traditori della patria quelli che ne
svelano le difficoltà e gli errori?
Vedremo
ogni giorno, sui giornali amici, titoli della serie “I comunisti non ci fanno
governare”?
E lo
spread, i titoli di stato che non si piazzano se non a interessi da paura,
l’inflazione che non si ferma, non facciamo che sia subito tutta colpa di Soros, degli gnomi di Zurigo o di Bilderberg.
Spero
insomma che si scampi dalla sindrome del “siamo piccoli e neri”, perché neri
forse sì, ma piccoli certo che no.
(Giancarlo
Loquenzi)
Finalmente
dalle urne è uscita una maggioranza chiara.
A differenza del 2013 e del 2018, dalla
consultazione elettorale è uscita una maggioranza chiara che dovrebbe
consentire di formare rapidamente un governo in condizione di affrontare le
sfide e le emergenze che attendono l’Italia sul versante economico e sullo
scacchiere internazionale.
La” Cna” ha posto con forza all’attenzione
della politica (incontrando i leader nazionali e confrontandosi sui territori)
le priorità dell’artigianato e delle piccole imprese indicando proposte per
modernizzare il paese, renderlo più competitivo e inclusivo.
L’artigianato
e la piccola impresa sono una virtù dell’Italia, un patrimonio economico e
culturale da valorizzare.
Rimettere
al centro la piccola impresa sarà il riferimento con il quale giudicheremo le
politiche del nuovo esecutivo, senza fare sconti e senza pregiudizi, con un
approccio laico.
Le
priorità sono chiare a partire dai costi energetici.
L’attuazione del Pnrr, il sostegno
all’economia, il programma di riforme rappresentano il percorso obbligato che
attende il nuovo governo.
Certamente
non sono in discussione la collocazione internazionale dell’Italia, la piena
adesione all’Ue e la tenuta del sistema democratico.
La pandemia e poi la guerra hanno reso ancor
più evidente quanto sia preziosa la dimensione europea e confidiamo in un
rinnovato protagonismo del nostro paese, fondatore dell’Unione, per rafforzare
l’architettura istituzionale comunitaria.
Ma
anche l’Europa deve dimostrare di essere all’altezza delle sfide uscendo dalla
logica dei decimali e abbandonando la rigidità fine a sé stessa.
Il tessuto
produttivo ha dimostrato insospettate capacità di resistenza come evidenziano
tutti i principali indicatori economici ma lo scenario presenta alcuni elementi
di forte preoccupazione, in particolare l’ipotesi di non disporre di
sufficienti forniture energetiche e la risalita dei tassi di interesse.
Le
imprese, anche stavolta, chiedono risposte per avere una prospettiva a
prescindere dal colore delle maggioranze.
Auspichiamo
che il nuovo governo apra una stagione di dialogo costante con le forze sociali
più rappresentative perché occorre il contributo di tutti.
(Dario
Costantini
presidente
nazionale Cna)
Quello che mi spaventa di più del governo
Meloni è il suo successore.
La
cosa che più temo del governo Meloni è il conseguente riposizionamento a destra
di tutti quanti in tutti i settori.
Dal punto di vista del collocamento,
l’antifascismo ha sempre funzionato bene in questo paese perché, dati alla
mano, i partigiani non erano poi così tanti, o comunque meno della gente che
riempiva le piazze di braccia tese;
di conseguenza, i figli e nipoti raccomandati
da piazzare erano un numero sostenibile dal sistema, in linea con i posti a
disposizione.
Il
nonno fascista invece – se non entrambi – ce l’abbiamo tutti, ma proprio tutti;
persino molti nonni partigiani erano fascisti prima di diventare partigiani,
pochissime le eccezioni.
Risultato:
in questi giorni post elezioni la fila fuori
dalla Rai di viale Mazzini fa il giro dell’isolato, si dirama per tutto il
quartiere Prati di Roma e arriva fino allo stadio Olimpico.
L’Italia
è piena di gente di estrema destra: riuscirà il governo Meloni ad ascoltare
tutti, accontentare tutti, dare un posto a tutti quelli che in Italia hanno un
legame col fascismo?
L’impresa è numericamente impossibile.
Questo
ci porta alla mia più grande paura di questo governo: il suo successore.
Di
elezione in elezione, sono decenni che l’elettorato italiano si è distinto per
aver votato sempre peggio dell’elezione precedente, deluso ogni volta da chi aveva
votato la volta prima.
Il
cattivo gusto dell’elettorato italiano è sempre in grado di superarsi, e sono
certo che sarà in grado di stupirci anche la prossima volta.
E dopo
il Movimento 5 stelle, la Lega di Salvini, Giorgia Meloni e i suoi Fratelli, credo
che alle prossime elezioni gli italiani saranno in grado di votare un pitbull.
Uno di quelli che sbranano donne, bambini o altri cani nei parchi.
Magari
un pitbull, femmina, per sparigliare un po’; ma sempre pitbull.
Siamo
già in pessime mani; ma peggio delle mani ci sono le zampe.
(Saverio
Raimondo)
Dai risparmiatori italiani arriva una vigile
apertura di credito.
Dall’osservatorio di professionista
specializzato nei c.d. private clients le osservazioni che si possono fare sono
che nella clientela privata – sempre spaventata dai cambi di governo – non
sembrano esserci state particolari preoccupazioni.
In
questo momento i risparmiatori italiani sembrano non credere che Meloni introdurrà
politiche in grado di cambiare l’opinione degli investitori internazionali,
come invece sembra sia avvenuto nel Regno Unito dopo l’annuncio di un taglio
delle imposte (specie per i redditi alti) da finanziare in deficit.
Negli italiani che hanno un portafoglio da
proteggere c’è probabilmente anche la convinzione che il contesto delle regole
europee unito alla necessità per l’Italia di avere accesso ai fondi “Pnrr”
siano un forte disincentivo a politiche populiste e anti europee.
Questa
apertura di credito è però vigile; il sentimento prevalente sembra essere
“vediamo quello che succederà in concreto e la qualità di chi andrà al
governo”.
A chi
scrive ha colpito, invece, aver ricevuto qualche telefonata di colleghi
stranieri, spesso (ma non solo) di famiglie che hanno subito le infami leggi
razziali, che chiedevano di capire meglio cosa stesse succedendo in Italia.
Senza
allarmismo, ma con una sottile inquietudine. Ogni leggerezza nel condannare il
fascismo sarebbe vissuto in questi contesti come un campanello da allarme rosso
sull’Italia.
(Andrea
Tavecchio)
Aspetto
i fatti. E ricordo una Meloni sedicenne molto battagliera.
Magari è l’età, ho pensato: ormai ne ho viste
abbastanza per essere sufficientemente disincantata.
Oppure mi sono abituata all’idea, un po’ come
la rana messa nell’acqua inizialmente tiepida e poi via via sempre più calda ma
a quel punto ormai è bollita e ciao.
Del resto, ho pensato: se sono (siamo)
sopravvissuti al governo gialloverde cos’altro può turbarci?
Sì, di
danni ne ha fatti, e tanti, ma eccoci ancora qui, ammaccati eppure vivi. Dunque
no, non mi spaventa un governo Meloni, non ancora almeno.
Anche
perché sono abituata a giudicare i fatti più che gli annunci e ho l’impressione
che la situazione sia tale da non lasciare molto spazio a particolari
stravolgimenti.
Dice,
ma ora verranno sdoganate la violenza verbale e forse non solo quella nei confronti
degli stranieri, dei deviati (cit.), di chi non si allinea.
Sì,
possibile, tuttavia non posso rilevare che non stiamo vivendo in un’arcadia di
concordia e fair play e che per quanto riguarda i diritti, a parte la breve
parentesi del governo Renzi (unioni civili), per il resto ogni tentativo di
avanzare è stato stoppato.
Eh ma tu sei una privilegiata, non ci pensi a
chi sta peggio, a chi vive nelle periferie?
Sì, ci penso ma mi chiedo:
se chi
vive in periferia non si è sentito tutelato dalla così detta sinistra che
dovrebbe avercela nello statuto l’attenzione agli ultimi, beh qualche cosa
vorrà dire.
Io
conosco Giorgia Meloni da quando aveva sedici anni.
All’epoca
lavoravo per il neonato telegiornale di “Videomusic”, il nostro “core business”
erano con tutta evidenza i giovani.
Daniela
Brancati che quel telegiornale lo dirigeva mi chiese (parliamo della fine del
‘93/94) di ideare e condurre una trasmissione sulla scuola.
Erano
anni di forti contestazioni, ministro della Pubblica istruzione del primo
governo Berlusconi Francesco D’Onofrio.
Il
ministro prese l’impegno di venire in trasmissione ogni settimana per
confrontarsi con gli studenti.
Fu generoso e coraggioso (dopo di lui anche
Giancarlo Lombardi, governo Dini, accettò, mentre si sottrasse Luigi Berlinguer
per dire).
Ebbene,
Giorgia Meloni era una delle più attive, già battagliera, sempre preparata sui
temi.
La
invitavo spesso in trasmissione insieme a un gruppetto selezionato di ragazzi
(fra loro c’era anche Pierfrancesco Majorino ora eurodeputato Pd) perché
dessero man forte agli studenti che di volta in volta venivano a raccontare
come si studiava nella loro scuola, quali erano le loro difficoltà, cosa si
aspettavano dal governo.
E di
lei ricordo in particolare la battaglia sulla gratuità dei testi scolastici.
Non
che gli altri non parlassero di diritto allo studio, di accesso al sapere.
Lo facevano, ma il linguaggio di Giorgia era
immediato, comprensibile forse non molto elaborato ma diretto.
E attento per l’appunto a chi aveva meno
possibilità. “Destra sociale” la chiamavamo allora, lei spesso polemizzava con
i giovani di Forza Italia.
È
rimasta la stessa persona? Spero per lei di no ma credo che alcuni tratti si
conservino.
Poi
certo, bisogna vedere chi sono i tuoi compagni, quali sono i compromessi che
hai deciso di accettare, quali patti hai fatto e con chi, qual è il tuo reale
potere, fin dove arriva la tua ambizione.
E poi magari ha ragione Calenda:
tempo sei mesi e si rimette tutto in
discussione. Sta arrivando il governo di destra, non ho niente da mettermi, devo
ancora fare il cambio di stagione.
(Flavia
Fratello)
Chi
finanzia il movimento LGBTQ.
Sinistrainrete.info – Silvia Guerini – (27 giugno 2023) –
ci dice:
LGBTQ
leader.
A
livello internazionale stiamo assistendo a una saturazione mediatica delle
rivendicazioni trans ed LGBTQ+, ma è davvero una questione di diritti per una
molto piccola anzi piccolissima parte della popolazione globale o c’è un’agenda
più ampia e più profonda?
La causa LGBTQ+ si trova oggi tra i primi
posti nell’agenda dei potenti e i suoi sostenitori sono ai vertici dei media,
del mondo accademico e soprattutto del Big Business, della Big Philanthropy e
del Big Tech.
I
finanziamenti del movimento trans femminista LGBTQ provengono da determinate
fondazioni e organizzazioni, come la “Open Society Foundations” (OSF) di
“George Soros”, per citare la più conosciuta.
Meno
conosciuta, ma particolarmente significativa è la “Terasem Movement Foundation”
del transumanista “Martine Rothblatt”, “transessuale MtF”, ceo di “United
Therapeutics”, multinazionale farmaceutica e biotecnologica, impegnata in nuove
tecnologie biomediche e xenotrapianti, nel cui consiglio di amministrazione
siede il noto transumanista “Ray Kurzweill”.
“Rothblatt”
possiede la più grande azienda per la clonazione di maiali per xenotrapianti in
un progetto di ricerca in partnership con la “Synthetic Genomics”,
multinazionale che opera nel campo della biologia sintetica del noto “Craig
Venter”.
“Rothblatt”
è anche membro della “National Academies of Science, Engineering and Medicine”,
finanziato dal “DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency).
“Rothblatt”, come altri transumanisti
impegnati anche in opere divulgative, ha scritto svariati libri per il largo
pubblico in merito alla mappatura del DNA, screening genetici, riproduzione
artificiale dell’umano.
La
“Fondazione Tarasem” investe in progetti di ricerca sulle nane e biotecnologie,
cyborg-coscienza, criogenica e Intelligenza Artificiale promuovendo l’ideologia
transumanista nel largo pubblico.
Questa una delle sue accattivanti offerte:
Programma
BioFile:
Conserva
le tue cellule vive, con i loro orologi biologici fermati per un periodo di
tempo indefinito:
«Raccogliamo
le cellule vive dal tuo campione e le conserviamo alla temperatura dell’azoto
liquido (-190° C) per un periodo di tempo indefinito.
Dopo che sei stato dichiarato legalmente
superato biologicamente, la tecnologia futura potrebbe essere in grado di farti
crescere un nuovo corpo attraverso l’ortogenesi e il tuo file mentale potrebbe
essere in grado di essere scaricato in esso, consentendoti di vivere
indefinitamente».
Seguendo
il progetto di caricamento della coscienza in un computer “Rothblatt” ha anche
sviluppato un robot con il volto della moglie, “Bina48”, per raggiungere la
trascendenza tanto agognata dai transumanisti.
Questi
e altri soggetti non sono semplicemente tra gli uomini più ricchi del pianeta,
imprenditori, dirigenti di multinazionali biomediche e biotecnologiche e con
gli investimenti delle loro società, le loro opere filantropiche e i loro
progetti di ricerca sono in grado di dirigere l’agenda delle politiche mondiali.
Ci
sarebbe da chiedersi da cosa derivi questo interesse dei padroni universali a
tutelare i diritti di una minoranza della popolazione.
Una
dichiarazione di un membro del Congresso americano mette bene in luce gli
interessi in gioco:
«il complesso medico-industriale in questo
paese, è più grande del complesso militare-industriale in questo paese.
E le persone non lo riconoscono, ma è
un’industria enorme che resiste al cambiamento».
Ma la
complessità di questi processi non si possono ridurre a nuovi mercati e a nuovi
profitti, soprattutto se consideriamo che a finanziarli sono coloro che
detengono capitali che superano il PIL di interi paesi:
il loro scopo quindi non può essere meramente
il profitto.
Una
breve panoramica su questi principali finanziatori è utile per capire il mondo
da cui provengono e gli stretti legami con gli ambiti di ricerca e di sviluppo
tecno-scientifico e transumanista.
Questi
finanziatori spesso passano attraverso organizzazioni di finanziamento anonime
come ad esempio la “Tides Foundation”, fondata e gestita da “Drummond Pike”.
Grandi
aziende, filantropi e organizzazioni possono inviare enormi somme di denaro
alla “Tides Foundation”, che a sua volta fa in modo che giungano a destinazione
in modo anonimo.
La “Tides
Foundation” crea un rifugio fiscale per le fondazioni e finanzia anche campagne
politiche.
Questi
finanziatori, insieme alle aziende farmaceutiche e al governo degli Stati
Uniti, stanno inviando milioni di dollari a cause LGBTQ+.
La
spesa globale complessiva per LGBTQ+ è stimata in 424 milioni di dollari.
Dal
2003 al 2013, i finanziamenti sono aumentati di oltre otto volte.
Negli
ultimi dieci anni, solo negli Stati Uniti sono sorte più di 30 cliniche per
bambine e bambini con presunta disforia di genere.
Il “Center
for Transyouth Health and Development” al Children’s Hospital di Los Angeles è
la clinica più grande del paese con oltre 700 giovani in trattamento.
Il più giovane ha 3 anni.
Negli ultimi dieci anni c’è stata anche
un’esplosione delle infrastrutture mediche transgender negli Stati Uniti e nel
mondo.
Dalla
chirurgia plastica si arriva al trapianto di utero per uomini che si
identificano come donne che potrebbero desiderare gravidanze future.
Questi
interventi chirurgici sono purtroppo già stati sperimentati sugli altri
animali.
La biogenetica è pronta per essere
l’investimento del futuro, afferma “Rothblatt”, che punta sulla biogenetica e
sui trapianti.
La
spesa globale complessiva per LGBTQ+ è stimata a 424 milioni di dollari.
Dal 2003 al 2013, i finanziamenti segnalati
per le questioni transgender sono aumentati di oltre otto volte, triplicando
l’aumento complessivo dei finanziamenti LGBTQ, che è quadruplicato dal 2003 al
2012.
L’OSF
nel 2011-13 è stato il principale finanziatore della causa transgender seguito
dalla “Fondazione Arcus di Stryker” e dalla “Fondazione Tawani di Pritzker”.
L’”OSF”
promuove pienamente gli obiettivi degli attivisti transgender, sostiene che il
sesso biologico deve essere sostituito dall'”identità di genere” soggettiva per
includere opzioni «al di fuori delle categorie binarie di maschio e femmina»,
che l’identità non dovrebbe essere «governata da limiti di età» e sostiene
l’accesso a «terapia ormonale, consulenza e interventi chirurgici per
l’affermazione del genere» su richiesta includendo i bloccanti della pubertà
per i giovani.
L’operato
di OSF non è una semplice influenza, bensì una precisa direzione verso
l’affermazione dell'”identità di genere”, significato il suo rapporto
pubblicato nel 2015 dal titolo:
Licenza di essere te stesso: bambini e giovani
trans all’interno del suo Programma di sanità pubblica.
I “Pritzker”s
sono una famiglia americana di miliardari filantropi e i loro principali
settori di investimento si dirigono verso la “causa transgender”, per
introdurre questa ideologia nelle istituzioni mediche ed educative con un filo
che lega questi investimenti alla biomedicina e alla riproduzione artificiale.
Per citare i loro più significativi
investimenti:
il “Lurie
Children’s Hospital”, un centro medico per bambini con presunta disforia di
genere;
una
cattedra di studi transgender;
la
Pritzker School of Medicine presso l’ Università di Chicago;
la
Cleveland Clinic che ha condotto il primo trapianto di utero negli Stati Uniti;
il Baylor College of Medicine in cui nel 2017
è nato il primo bambino da un trapianto di utero e fecondazione in vitro,
all’interno di un programma di ricerca per sviluppare trapianti di utero,
sperimentati su dieci donne a cui è stato trapiantato l’utero, a sua volta predato
da altre donne;
il
Palm Center, un think tank LGBTQ+ dell’Università della California, impegnato
in una ricerca che ha lo scopo di convalidare il transgenderismo nell’esercito;
la “Clinical Innovations” che è una delle più
grandi aziende di dispositivi medici e che nel 2017 ha acquisito “Brenner
Medical” per prodotti innovativi nei settori dell’ostetricia e della
ginecologia;
la “Duke University” impegnata in progetti di
ricerca per la crioconservazione delle ovaie delle donne;
la”
Planned Parenthood”, le cui cliniche ora forniscono anche percorsi di terapia
ormonale e che è costituito da varie organizzazioni nazionali che sono membri
della “International Planned Parenthood Federation” (IPPF) (Federazione
Internazionale genitorialità pianificata), a cui fanno capo cliniche in cui
vengono praticati aborti che sono state al centro di scandali legati al
prelievo, all’utilizzo e al commercio di tessuti e organi utilizzati per
ricerche mediche e provenienti da feti abortiti e da aborti a nascita parziale
a 20 settimane di gravidanza..
La “Planned
Parenthood Federation of America” insieme alla “Fondazione Human Rights
Campaign” (HRC) ha avviato una campagna per rimodellare le narrazioni culturali
della sessualità e della salute riproduttiva sulla base della riproduzione
artificiale dell’umano.
Un
membro della famiglia “Pritzkers” è stato segretario al Commercio durante la
presidenza di Obama, contribuendo a creare il “National Institute for
Innovation in Manufacturing Biopharmaceuticals” impegnato in vaccini, terapie
geniche, microchip e attualmente in progetti di ricerca per gestire la nuova
società tecno medicale a misura di pandemia.
«La “Fondazione
Arcus” spinge i confini», questo è lo slogan di presentazione di Arcus
Foundation (AF), un ente di beneficenza e la più grande organizzazione non
governativa LGBTQ+ del mondo, fondato da “Jon Stryker,” erede di una società di
tecnologia medica.
“Stryker”
ha costruito un’infrastruttura politica per guidare l’ideologia dell'”identità
di genere” in tutto il mondo, donando milioni a entità piccole e grandi.
A”
ILGA”, un’organizzazione LGBT per l’uguaglianza in Europa e Asia centrale con
54 paesi partecipanti e “Transgender Europe “questa Fondazione aveva donato
centinaia di migliaia di dollari.
A “Stonewall”,
la più grande associazione LGBTQ in Europa, questa Fondazione aveva donato
142.000 di dollari appena prima che aggiungesse la T a LGB e ampliasse il suo
mandato per coprire le questioni transgender.
Il
filo che lega la “Fondazione Arcus a Stonewall” è un filo tessuto di
finanziamenti tra cui quello di 75.000 di dollari per far sì che Stonewall
partecipasse a delle tavole rotonde per convincere il business a sostenere la
causa LGBTQ dipingendola come «una buona strategia commerciale».
Tra i
numerosi progetti finanziati da” Arcus” troviamo” Rainbow Laces”, progetto
finalizzato a portare le persone LGBTQ+ nello sport, aprendo così gli sport femminili
alle persone “trans MtF”.
Il
presidente Biden, già vicepresidente di Obama, segue il sentiero che era già
stato ben tracciato.
Nel 2021 approva un disegno di legge in cui
“l’identità di genere” prevale sui diritti delle donne basati sul sesso.
Nel
2022 fa avanzare l’agenda transumanista firmando un “Ordine esecutivo
sull’avanzamento dell’innovazione nelle biotecnologie” che prevede lo sviluppo
di tecniche di ingegneria genetica «per essere in grado di scrivere circuiti
per cellule e programmare in modo prevedibile la biologia nello stesso modo in
cui scriviamo software e programmiamo computer», così come le tecnologie
genetiche per «sbloccare il potere di dati biologici» utilizzando «strumenti informatici e
intelligenza artificiale».
Biden,
nel 2023, con la modifica di una norma sulla discriminazione in base al sesso,
impone l’accesso degli uomini che si identificano come donne negli sport
femminili.
Si
accende lo scontro.
Forti
le proteste delle sportive che si vedono schiacciate dalle differenze fisiche
nelle prestazioni sportive.
Nel
Marzo del 2023, la Federazione mondiale di atletica leggera (World Athletics)
stabilisce che le persone “trans” biologicamente uomini non potranno gareggiare
nelle competizioni femminili internazionali.
Divieti
analoghi sono stati introdotti anche dalla “International Rugby League” e dalla
“Federazione internazionale di nuoto”.
Ma
questo è un capitolo ancora aperto.
Da
notare che per “FtM” non ci sono progetti specifici, le persone “trans FtM”
sono strumentalmente usate solo quando rimangono incinte dopo l’interruzione
degli ormoni, ma in realtà questo mette solo in evidenza che si nasce da donna, una
realtà che non si può negare.
“Arcus”
ha inoltre finanziato con 650.000 dollari la principale organizzazione di
psicologia negli Stati Uniti, l’”American Psychological Association” (APA) che sviluppa le linee guida per
stabilire pratiche psicologiche trans-affermative.
Nel
2001, con l’aiuto dei finanziamenti di “Arcus”, l’APA ha istituito INET
(International Psychology Network for LGBTIQ, poi chiamato” IpsyNet”) e, nel
2005, ha creato la” Task Force “sull’identità di genere e la varianza di
genere.
Con la
nascita di “IPsyNet”, gli psicologi sono stati incoraggiati a «modificare la
loro comprensione del ‘genere’, ampliando la gamma di variazioni viste come
sane e normative».
Il
rapporto della Task Force sull'”identità di genere”«afferma che il sesso “si
riferisce agli attributi che caratterizzano la mascolinità e la femminilità
biologica” (p. 28).
Il
rapporto disaccoppia il “genere” dal sesso, affermando che il “genere” “si
riferisce alle caratteristiche psicologiche, comportamentali o culturali
associate alla mascolinità e femminilità” (p. 28).
Il
rapporto continua: La cosiddetta “identità di genere” si riferisce al “senso di
base di una persona di essere maschio, femmina o di sesso indeterminato” (p.
28).
Questo
confonde il sesso con il “genere”.
Come
si fa a sentirsi di sesso femminile o maschile o nessuno dei due? Semplicemente
o si è maschi o si è femmine.
Non si può sapere cosa si prova in un corpo di
sesso opposto più di quanto si possa sapere cosa si prova ad essere un delfino».
In “Child
Trends,” una delle principali organizzazioni di ricerca attorno alla vita dei
bambini e dei giovani, troviamo un significativo finanziamento di “Arcus” per
realizzare, nel 2017, questo studio:
Migliorare
la misurazione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere tra gli
studenti delle scuole medie e superiori.
Dalle
pagine di questo studio emerge l’idea che i bambini possano nascere nel corpo
del sesso sbagliato.
Anche
la narrazione dei media è oggetto di un’abile manipolazione.
Organizzazioni
coinvolte nel giornalismo o nella produzione di film-documentari ricevono
finanziamenti da “Arcus”.
Lo
scopo è quello di assicurarsi che la copertura mediatica sia modellata dalla “Lobby
Trans”.
In un
incontro del 2008 a Bellagio, in Italia, presso la sede della” Fondazione
Rockfeller,” 29 leader internazionali si sono impegnati a espandere la
filantropia globale per sostenere i diritti LGBTQ+.
Al di
fuori dell’incontro di Bellagio, la “Fondazione Arcus” ha creato “MAP”, un
progetto di avanzamento del movimento LGBTQ+, per tracciare il complesso
sistema di advocacy e finanziamento che promuoverebbe l'”identità di
genere/transgenderismo” nella cultura.
Nel
2013 “Adrian Coman” — un veterano della “Open Society Foundations” di George
Soros — è stato nominato direttore del programma internazionale sui diritti
umani presso la “Fondazione Arcus”, per guidare l’ideologia dell'”identità di
genere” a livello globale.
Non
mancano neanche fondi di investimento speculativi, come gli “Edge Funds”, che
investono nel “London Trans+ Pride”.
La Fondazione Rockefeller ha co-presieduto il
comitato di programma di “Edge” e nella presenza nel consiglio di
amministrazione di “Edge Funders” troviamo un rappresentante dell’”Open Society
Initiative for Europe”.
Non
può mancare nemmeno “BlackRock”, il cui CEO “Larry Fink” è co-presidente dei
fiduciari della “NYU Langone Health”, che gestisce il “Transgender Youth Health
Program” che offre supporto per «interventi medici per l’affermazione del
genere, compresa la soppressione della pubertà, trattamenti ormonali per
l’affermazione del genere e chirurgia per l’affermazione del genere».
BlackRock
inoltre possiede il 4,7% delle azioni di “AbbVie”, il produttore del farmaco
bloccante della pubertà” Lupron”.
“Vanguard”
è il maggiore azionista di “Marjeta Inc”., una piattaforma globale di emissione
di carte di credito. Visa, con Marjeta Inc., supporta” Daylight”, la nuova
“carta di credito queer” e piattaforma di “digital banking”.
“Daylight” commercializza la sua carta per
vendere procedure di fecondazione assistita e maternità surrogata alla comunità
lesbica e gay e a quegli adolescenti che verranno spinti verso il percorso di
transizione, considerando che, resi sterili da bloccanti e ormoni, se vorranno
mettere al mondo dei figli potranno farlo solo attraverso le cliniche di
riproduzione artificiale.
I
finanziamenti arrivano anche da multinazionali farmaceutiche e da loro
fondazioni, come ad esempio la “Pfizer” e la “Fondazione Janssen Therapeutics”
di “Johnson and Johnson” e da multinazionali dei “Big data”, quali Google,
Microsoft, Amazon, Intel e IBM.
Nel
mondo politico portiamo l’attenzione verso “Petra de Sutter”, transessuale MtF,
politico
belga del partito dei Verdi, dall’ottobre 2020 vice primo ministro e primo ministro
transgender in Europa, in prima linea nel guidare la colonizzazione tecnologica
delle capacità riproduttive femminili, l’industria dell'”identità di genere”, e
la tecnologia “CRISPR”.
Oltre
al suo ruolo al Senato, nel 2016 è stato relatore dell’Assemblea sui diritti
dei bambini in relazione agli accordi di maternità surrogata e, nel 2017,
sull’uso delle nuove tecnologie genetiche applicate agli esseri umani.
Divulgatore delle potenzialità dell’editing
genetico verso una riproduzione artificiale – senza donne – e dell’ideologia
transumanista.
Una
parte dei finanziamenti alla causa LGBTQ+ è finalizzata per creare movimenti
dal basso e «Quando si investono milioni di dollari per fare crescere un
movimento si tratta di un’erba artificiale, non in un movimento di base».
«Come
molte di noi stanno cercando di far notare ai gruppi della sinistra radicale
che urlano ‘le trans sono donne’ e soprattutto alle femministe di sinistra:
siete
oggetto di una manipolazione da parte di miliardari.
Questo
non è un movimento di base, è un progetto di élite, vengono investiti
moltissimi soldi per promuovere una condizione corporea dissociativa che ci
slega dai nostri corpi sessuati».
La
causa LGBTQ+ si trova oggi tra i primi posti nell’agenda dei potenti e i suoi
sostenitori sono ai vertici dei media, del mondo accademico e soprattutto del
Big Business, della Big Philanthropy e del Big Tech.
Armageddon
nucleare? Non lo vogliamo.
Sinistrainrete.info
– (15 agosto 2023) - Laura Tussi – ci dice:
Dal
nucleare civile al nucleare militare: il ‘gioco’ è fatto.
È un
momento grave per la storia dell’umanità: viviamo all’ombra di circa 25.000
ordigni di distruzione di massa nucleari che possono annientare il pianeta per
molte volte.
Questa
situazione è resa oggi ancora più delicata dalla corsa verso il nucleare
civile, che è ritenuto da molti una buona alternativa all’uso del carbone e dei
fossili, principali responsabili dell’effetto serra e dei cambiamenti
climatici.
Ma
siamo sicuri che il nucleare civile sia un’alternativa valida per i costi e per
la sicurezza?
I
costi sono altissimi e si calcola che negli Stati Uniti il nucleare civile in
questi quattro decenni sia costato parecchi miliardi di dollari.
E la
possibilità degli incidenti è alta.
Ad
esempio l’incidente in Giappone a Fukushima. Ma pensiamo anche al disastro di
Chernobyl.
Attualmente
sappiamo che il 90 per cento delle 800mila persone addette al risanamento di
Chernobyl hanno contratto tumori.
Ma il
problema più rilevante è che l’industria nucleare non sa cosa fare dei rifiuti
nucleari e che possono durare fino a 20.000 anni.
Il
nucleare civile non è una soluzione per i cambiamenti climatici, ma una cinica
scommessa dell’industria nucleare di salvare se stessa.
Il
nostro deve essere un NO chiaro anche al nucleare civile.
Vari
conflitti imposti dai poteri forti a rischio di guerra nucleare.
Dopo
la fine del secondo conflitto mondiale, con la paura universale di violenza da
parte di tutta l’umanità, con il suo spaventoso carico di morte e distruzioni,
al contrario la politica rassicurante attualmente sostiene che non ci possiamo
lamentare in quanto il mondo ha vissuto oltre settant’anni di pace, proprio
grazie al cosiddetto ‘equilibrio nucleare’.
Nulla
di più falso!
La
deterrenza nucleare, che è una gara di potere, è sempre usata dalle
superpotenze in termini ricattatori e assurdi e crudeli per tutta l’umanità
soprattutto nell’attuale guerra in Ucraina.
Ma si
dimentica di dire che dal 1945 ai giorni attuali, i conflitti armati veri e
propri sono stati più di un migliaio e che nel mondo permangono numerosi,
endemici focolai di conflitto violento e armato che hanno fatto decine di
milioni di morti e fanno tuttora la fortuna dei produttori di armi e del
complesso militare e industriale e fossile e energetico.
Con in
testa la Nato e gli Stati Uniti l’industria delle armi si alimenta a dismisura
innescata come una miccia dal sistema, apparato, complesso militare e
industriale e fossile.
L’irrisolta
conflittualità armata Mediorientale, che può sfociare nell’irreversibile
epilogo nucleare.
Uno
dei punti nevralgici, che può innescare un conflitto nucleare esplosivo come
una miccia all’ennesima e infinitesimale potenza, è rappresentato dal Medio
Oriente, una regione per molti aspetti strategica, in primis per il fattore
energetico, nella quale negli ultimi decenni la crisi si è ancora più aggravata
con le due guerre contro l’Iraq e quella in Afghanistan, il focolaio nevralgico
dell’Iran e l’irrisolto problema israelo-palestinese e analizzando il quadro
bellico da varianti logistiche e valutando la situazione in un quadro
differente, geopoliticamente parlando, possiamo includere anche la attuale e
gravissima guerra in Ucraina.
L’irrisolto
problema tra Israele e Palestina rappresenta senza dubbio l’elemento più
emblematico e drammatico di questa situazione geopolitica dai connotati tragici,
che sembrano praticamente irrisolvibili e indistricabili strategicamente.
Lo
stesso dramma della Siria va inserito in questo contesto con il rischio già
attuale di un’estensione della guerra civile nell’intera regione.
Pare che il nodo vero, il terreno sul quale
misurare la possibilità reale di una prospettiva di pace, convivenza e
cooperazione in quella terra di conflitto, resta senza dubbio alcuno quello dei
rapporti tra Israele e Palestina e non è certo a caso che sin dall’ultimo
decennio del secolo scorso e anche nei primi anni del nuovo millennio, proprio
in quell’area mediorientale, si è manifestato un forte e prioritario impegno
umanitario e attivismo del mondo pacifista.
La
società civile per “ricomporre l’infranto.”
Ecco
la ragione per la quale sembra opportuno, e forse necessario, ricostruire, sia
pure sommariamente, il senso e la portata di un impegno umanitario e
nonviolento e un attivismo di pace molto vivi e sentiti, che hanno visto
esprimersi la generosità e la disponibilità di centinaia di donne e di uomini,
di decine di istituzioni locali, di numerose associazioni che, generazione dopo
generazione, hanno seminato nella terra, culla delle religioni monoteiste la
cultura della pace e della convivenza, dove la società civile e le opere di
volontariato laico si spendono per “ricomporre l’infranto”.
Sarebbe
troppo lungo ricordare le innumerevoli iniziative lungo le quali si è
dispiegato questo fondamentale impegno umanistico ancor prima che umanitario,
dal “Times for Peace” che ha circondato con una catena umana di italiani,
europei, israeliani e palestinesi le mura di Gerusalemme, fino ai progetti di
concreta solidarietà con la comunità della cittadina di “Rafha” nel sud della
striscia di Gaza e con la cittadina di “Beit Yala” alle porte di Betlemme, solo
per ricordare i più significativi, oltre all’impegno di più di cinquanta comuni
italiani sul terreno della cooperazione, nel tentativo di mettere assieme, far
parlare, far interagire, far cooperare i rappresentanti di questi due popoli: Israele
e Palestina.
Kaganismo:
il popolo che ci guida
in
un'altra guerra mondiale.
Unz.com - ERIC STRIKER – (10 AGOSTO 2023) – ci
dice:
La
debacle della guerra in Iraq, la moderazione relativa (a Bush)
dell'amministrazione Obama e la campagna anti-interventista del 2016 di Donald
Trump possono aver apparentemente screditato” il movimento neo-conservatore” e
le sue personalità, ma sono tornati a ruggire.
Questa
nuova fase della politica estera americana potrebbe essere caratterizzata come
kaganismo:
né
democratico né repubblicano, ma piuttosto una crociata apartitica del 21 °
secolo per il "liberalismo".
Donald
Kagan, il patriarca del Kaganismo, ha seguito una traiettoria intellettuale
simile ai suoi colleghi “Irving Kristol” e “Norman Podhoretz”:
accademici
marxisti che si sono trasformati in rabbiosi guerrieri freddi reaganoidi in
risposta al sostegno dell'Unione Sovietica al nazionalismo arabo e
all'antisionismo nel 1960.
Donald
era chiaramente nel campo repubblicano, anche se i suoi figli hanno abbandonato
alcuni degli elementi "di destra" della dottrina neo-conservatrice
(precedentemente utilizzata per mobilitare i blocchi elettorali cristiani
evangelici) e l'hanno sostituita con un'ideologia di stato americana unificata
che è di casa nel Partito Democratico come lo è nel GOP.
I
figli di Donald, “Frederick Kagan “dell'”American Enterprise Institute “e
“Robert Kagan del “Brookings Institute”, sono stati molto influenti nell'amministrazione
di George W. Bush attraverso “think-tank “come il “Project For A New American
Century” e la “Foreign Policy Initiative”, anche se oggi hanno ampiamente preso
le distanze dal “GOP” in seguito all'alienazione delle élite ebraiche da parte del
partito attraverso la trumpificazione.
Al
“PNAC”, i Kagan erano principalmente preoccupati di espandere il potere
israeliano usando gli Stati Uniti per rovesciare Saddam Hussein, Bashar
Al-Assad e strangolare l'Iran, ma nel 2006 sono diventati sempre più sospettosi
e ostili nei confronti della Russia e della Cina per aver cercato un maggiore
controllo nel modo in cui si interfacciano con le istituzioni finanziarie e i
valori culturali occidentali (leggi: ebrei), scegliendo contemporaneamente di
perseguire i propri percorsi di politica estera indipendenti dalla Pax
Americana..
Nel
corso del tempo, i timori del kaganismo sono stati confermati, poiché la Russia
e la Cina si sono evolute da voti jolly delle Nazioni Unite a potenze
revisioniste dichiarate pronte a confrontarsi direttamente con gli intrusi di
Washington nei loro cortili.
I
kaganisti danno la colpa dell'ascesa di Cina, Russia e Iran alla guerra e al
popolo americano stanco del libero scambio, che nel 2016 è persino riuscito a
fare pressione su Hillary Clinton affinché ritirasse tatticamente il suo
sostegno al Trans-Pacific Partnership (una mossa che ha fatto infuriare Kagan).
Per la maggior parte degli americani, i
deficit commerciali che distruggono la nazione (che sono in realtà sussidi per
comprare sottomissione), le guerre da trilioni di dollari e le montagne di
sacchi di cadaveri necessarie per supervisionare un impero mondiale non sono né
necessari né utili per il benessere degli Stati Uniti geograficamente dotati e
ricchi di risorse.
Nel
2019, l'attuale Segretario di Stato “Antony Blinken” e “Robert Kagan”, il
marito Sottosegretario di Stato “Victoria Nuland”, hanno pubblicato un
editoriale che criticava il messaggio "America First" abbracciato da
segmenti di entrambi i partiti e ribadivano la minoranza ebraica che i
think-tank di consenso internazionalista hanno sfornato per decenni.
Secondo
“Blinken” e “Kagan”, un mondo di realismo, in cui i paesi sono liberi da
badanti ebrei e il sangue e il tesoro americani sono riservati esclusivamente a
beneficio del popolo americano, è una "giungla" che consente agli
Hitler in erba (Putin), ai Mussolini (Iran) e agli Hirohitos (Cina) di
diffondere la rivoluzione "antidemocratica" contro gli
"anglo-americani" (un termine che i kaganisti usano per identificare
il loro progetto di civiltà anche se sostengono la sostituzione demografica del
ceppo europeo in Paese anglofono) egemonia liberal-globalista.
Secondo
la dottrina del Kaganismo, l'unica soluzione ai conflitti globali è rifiutare
la diplomazia con stati sovrani che hanno culture o tradizioni politiche
diverse, e invece ucciderli e sostituirli attraverso l'esportazione bolscevica
di valori "americani" in tutto il mondo, che descrivono come il
primato della finanza di New York e del libero scambio, guerre arbitrarie e
illegali per il cambio di regime, frontiere aperte e la libera circolazione delle persone,
demoralizzando attivamente e depotenziando le maggioranze razziali, e altri
assi della Jewish Open Society “che intende salare tutti i potenziali vivai per
il "fascismo" o l'"antisemitismo", anche se gran parte del
mondo, incluso il popolo americano, non lo vuole.
La
teoria politica interna centrale del Kaganismo sostiene che il liberalismo è in
perpetuo antagonismo con il "populismo" (che i Kagan vedono come un
ceppo del fascismo), in altre parole, la volontà del popolo.
I
Kaganisti vedono la responsabilità democratica dei leader politici, i
compromessi egoistici (almeno nel caso dei gentili) e la libera discussione
delle idee come una distrazione o un piccolo inconveniente da sopprimere e far
passare, come mostrato nel loro ultimo libro che celebra” Franklin Delano
Roosevelt “per aver ingannato il popolo americano nel combattere una guerra
mondiale contro la Germania e il Giappone.
I due paesi che Kagan ammette non hanno mai
rappresentato una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti, ma hanno dovuto
comunque essere attirati in uno scontro.
All'”Institute
for the Study of War “(ISW), “Frederick Kagan” e la fondatrice dell'ISW “Kimberly
Kagan” (moglie di Frederick) hanno scritto ampiamente sullo spazio informativo
come un regno di battaglia non diverso dalla terra, dal mare e dall'aria.
Sotto
il kaganismo, le menti dei cittadini sono argilla da plasmare, e il ruolo del
governo americano e delle élite imprenditoriali è quello di fabbricare consenso
per le decisioni prese dai responsabili politici ebrei attraverso il controllo
e la manipolazione del cyber spazio e dei mass media in nome della
"disinformazione" della polizia.
Il
Dipartimento della Sicurezza Interna”, un'ala ebraica altamente insulare del
governo degli Stati Uniti dedicata allo spionaggio interno, ha cercato di
attuare formalmente questa direttiva, ma poi ha sospeso la sua istituzione
ufficiale dopo le proteste popolari.
La
chiusura di questo consiglio di "disinformazione" non ha avuto senso.
Recenti
articoli giornalistici hanno riferito che gran parte dei contenuti politici che
gli utenti consumano su Facebook, Google e Twitter sono soggetti alla
supervisione editoriale diretta da parte di frotte di agenti dell'FBI e della
CIA impiegati a tempo pieno dalle società di social media.
Negli ultimi anni, le agenzie di intelligence
occidentali e sioniste sono state molto attive nel cercare di fabbricare il
sostegno popolare per gli interventi stranieri, che in pratica vanno dalla
guerra dell'informazione dilettantistica e analogica in Siria di dieci anni fa
alla spinta pro-Ucraina molto più sofisticata, molto online e dall'aspetto più
organico.
La
maggior parte del clan Kagan è dedicato a fornire il quadro ideologico di
Washington, ma il suo membro più importante, la moglie di Robert Kagan, “Victoria
Nuland”, è stato determinante nell'implementarlo in tutto il mondo.
Anche
se in precedenza non era così noto,” Nuland” non è estraneo a decisioni
disastrose di politica estera.
Prima
di servire sotto Obama, è stata un'importante consigliera per la sicurezza
nazionale che ha fatto chiamate sull'Iraq per Dick Cheney durante il primo
governo Bush.
Mentre
suo marito era impegnato a chiamare gli europei fighe per aver rifiutato di unirsi
alla "coalizione dei volenterosi" contro Saddam Hussein, la “Nuland”
era impegnata a trascinare l'Europa nel pantano dell'Afghanistan per mantenere
l'occupazione mentre alleviava le sfide logistiche americane in Iraq.
Il
momento più famoso della Nuland è arrivato nel 2014, dopo che una telefonata
dall'ambasciata degli Stati Uniti è stata pubblicizzata esponendola come una
delle figure oscure dietro il colpo di stato che ha rovesciato il governo
ucraino democraticamente eletto e ha messo il paese sulla buona strada per la
sanguinosa guerra in cui è attualmente inghiottito.
La “Nuland”
ha ammesso che questo colpo di stato è costato ai contribuenti americani 5
miliardi di dollari.
Per
Nuland, le vite degli "alleati" e delle persone innocenti sono pedine
usa e getta su una scacchiera.
Proprio
come la famosa valutazione macabra dell'interventista liberale ebrea “Madeline
Albright” di barattare la vita di mezzo milione di bambini iracheni solo per
indebolire l'economia irachena, i Kagan credono che le centinaia di migliaia di
vittime ucraine e il danno irreparabile fatto alla nazione ucraina siano uno
scambio degno se significa potenzialmente macchiare il prestigio della Russia e
della Cina sulla scena mondiale o estendere l'egemonia universale di Washington
di pochi anni.
Mentre
la guerra si trascina, i sondaggi ora mostrano che la maggioranza degli
americani si oppone a dare all'Ucraina ulteriori aiuti.
Le
notizie incoraggianti per la parte ucraina sono diventate sempre più scarse e
la famosa "controffensiva" sembra non aver portato a nulla, eppure “Frederick
Kagan “– la mente distorta dietro il disastroso aumento delle truppe irachene
del 2007 e sostenitore di una seconda ondata – continua a pubblicare articoli
con titoli come "Come la controffensiva ucraina può ancora avere successo".
L'Ucraina
non è affatto l'ultima che abbiamo visto del kaganismo.
Mentre
il mondo ha reagito in modo molto più sfumato del previsto al conflitto e gli
Stati Uniti hanno lottato per conquistare la maggior parte del mondo alla
campagna anti-russa, la dottrina neoconservatrice è ancora una volta in ascesa.
Lo
scorso luglio, “Nuland” ha assunto un nuovo e più potente ruolo di
sottosegretario al Dipartimento di Stato.
Nel suo precedente ruolo di “Sottosegretario
di Stato per gli Affari Politici”, “Nuland” è stata pubblicamente identificata
dal leader pakistano” Imran Khan”, ora imprigionato, come il principale
artefice del colpo di stato orchestrato dagli Stati Uniti contro di lui, che è
stato eseguito come rappresaglia per la politica di neutralità di Khan riguardo
alla guerra in Ucraina.
In Niger, dove 1.000 soldati statunitensi sono di
stanza e si rifiutano di andarsene, “Nuland” ha incontrato il nuovo governo del
paese per minacciarli di violenza se non ripristinano il governo fantoccio
deposto –
una minaccia che anche l'alleanza africana per procura di Washington-Parigi
dell'ECOWAS ha apertamente telegrafato.
Sebbene
la” Nuland” abbia acceso fuochi in tutti i continenti del pianeta, l'”escalation
kaganista” più tipica è stata il dispiegamento di migliaia di marines
statunitensi nel Golfo Persico al fine di promuovere gli interessi strategici
israeliani.
Poco
dopo che “Nuland” ha assunto il suo nuovo incarico, il “Dipartimento di Stato
degli Stati Uniti “ha annunciato che continuare il progetto dell'era Trump di
forgiare un'alleanza anti-Iran e anti-palestinese tra Arabia Saudita e Israele
è ora la sua massima priorità in Medio Oriente.
Da
quando Washington ha lasciato arbitrariamente l'accordo nucleare iraniano nel
2018, gli Stati Uniti hanno pagato zampe di gatto come l'Arabia Saudita per sequestrare navi petrolifere
iraniane nella regione al fine di danneggiare l'economia iraniana.
Secondo
il diritto internazionale, questo è un atto di pirateria e l'Iran è legalmente
autorizzato a difendere le sue navi attraverso misure militari.
Dall'inizio
dei sequestri, l'Iran ha risposto alle nazioni ostili dirottando le loro navi e
lanciando attacchi di droni alle infrastrutture petrolifere saudite.
I
sauditi sembrano aver ridotto le loro perdite e firmato un accordo di pace
mediato dalla Cina con Teheran la scorsa primavera.
Le richieste di Riyadh di rompere questa nuova
intesa con l'Iran, capire quanto Washington sia disperata nel promuovere gli
interessi israeliani, diventano più audaci di minuto in minuto.
In
cambio della normalizzazione dei legami con Israele, i sauditi vogliono il
diritto di impegnarsi nella proliferazione nucleare, miliardi di armi offensive
ad alta tecnologia e una garanzia di sicurezza che anche l'amministrazione
Biden sa che sarà pesantemente abusata.
Finora,
Washington è stata riluttante a soddisfare tutti i desideri di Riyadh, ma il
Dipartimento di Stato è ancora desideroso di dimostrare che rimane molto
investito in Medio Oriente.
Si potrebbe anche sostenere che sta cercando
di trovare un terreno per la guerra.
Questa
settimana, il Dipartimento della Difesa ha annunciato che migliaia di soldati
statunitensi e le navi da guerra navali saranno schierati nello Stretto di
Hormuz con l'istruzione di sparare alle forze iraniane che tentano di
sequestrare qualsiasi nave.
Questo
dispiegamento è un'aperta provocazione a cui gli iraniani hanno promesso di
rispondere in natura, anche utilizzando missili ipersonici, se necessario.
C'è un
precedente storico per questo.
Le
precedenti amministrazioni statunitensi hanno utilizzato la belligeranza in
mare con l'obiettivo di generare “casus belli” per ottenere il sostegno
popolare per una guerra che le élite hanno già pianificato.
Se Washington volesse davvero un commercio
sicuro in mare, smetterebbe di ordinare ai vicini regionali di dirottare le
navi iraniane.
Questo
comportamento oltraggioso ricorda quello che accadde nel 1940 e nel 1941.
Pur rimanendo ufficialmente neutrale, Franklin
Delano Roosevelt decise che gli Stati Uniti avevano una sfera di sicurezza più
ampia nel Nord Atlantico e schierò la Marina per scortare le navi britanniche
che stavano perdendo la guerra navale in Germania.
Proteggendo
le navi britanniche sull'Atlantico e contemporaneamente permettendo alle forze
alleate di attaccare le navi tedesche, gli Stati Uniti speravano di costringere
l'Asse in un conflitto aperto, un punto concesso con entusiasmo da “Robert
Kagan” nel suo libro più recente sulla politica estera americana nella prima
metà del 20 ° secolo.
FDR
finalmente realizzò il suo desiderio nel settembre 1941, quando un sottomarino
tedesco sparò per errore sulla “USS Greer” tre mesi prima di Pearl Harbor.
Gli
storici, incluso Kagan, concordano sul fatto che l'incidente della USS Greer
sia stato un incidente onesto causato dal comportamento bellicoso dell'America
in mare, ma FDR ha palesemente mentito su di esso e ha usato l'incidente per
incitare lo sciovinismo anti-tedesco e anti-italiano per cercare di rompere la
ferma opposizione del popolo americano a un'altra guerra europea.
Dopo
ulteriori escalation esagerate da parte dell'amministrazione FDR, Germania,
Italia e Giappone decisero che dovevano scommettere e cercare di combattere il
colosso transatlantico in una guerra su due fronti che alla fine persero di
fronte al vantaggio industriale, finanziario e numerico americano che, anche
prima di Pearl Harbor, stava già alimentando i sovietici.
Gli
sforzi bellici francesi e britannici.
Nel
suo libro del 2023, Kagan non vede la terza guerra mondiale come un conflitto
che l'umanità farebbe meglio ad evitare, ma piuttosto una testimonianza
dell'invincibilità dell'impero americano e della necessità della guerra per
diffondere le ideologie del liberalismo, del capitalismo e del globalismo.
I
kaganisti credono che una guerra su più fronti contro la Cina, la Russia e
(presto) l'Iran dotati di armi nucleari sia meglio che condividere il mondo con
chiunque sia categorico e indicato come "antidemocratico" o
"fascista".
Quanti
americani sono d'accordo con questa folle prospettiva?
Ai
kaganisti non importa.
A meno
che non ci organizziamo politicamente per fermarli, ci stanno portando con noi
per il viaggio, che ci piaccia o no.
Violenza
politica del
dopoguerra
in Giappone
Un
presagio di cose a venire?
Unz.com - SPENCER J. QUINN – (15 AGOSTO 2023)
– ci dice:
La
creazione delle Forze di Autodifesa Giapponesi nel 1954 fu un'indicazione del
brusco allontanamento del paese dalla smilitarizzazione mentre gli Stati Uniti
cercavano di trasformare il Giappone in un alleato della Guerra Fredda.
Scriverò
questa storia per lo più come un occidentale ignorante.
Ammetto liberamente che ci sono importanti
sfumature dei seguenti eventi e personaggi che rimangono al di là della mia
portata.
Dopo
tutto, la maggior parte del materiale di partenza è in giapponese.
Indipendentemente da ciò, ho trovato questa storia così avvincente, e la pausa
che mi ha dato così contemplativa, che sento il bisogno di condividerla.
Dopo
la resa del Giappone nella seconda guerra mondiale e la successiva rinuncia dell'imperatore
Hirohito al suo status divino, i giapponesi erano un popolo senza una chiara identità
nazionale.
Questo
potrebbe essere ciò che ci si aspetterebbe da qualsiasi nazione sconfitta, ma
la svolta culturale a 180 gradi che il generale Douglas MacArthur ha richiesto
ai giapponesi durante i sette anni di occupazione americana del Giappone è
stata piuttosto scoraggiante.
Dopo
decenni di rapida modernizzazione e iper-nazionalismo militarista, i giapponesi
nei primi anni 1950 si trovarono senza un vero esercito, senza leader
dell'industria, senza polizia centralizzata e con i valori liberali
dell'Illuminismo imposti su di loro.
In
particolare, le donne hanno avuto diritto di voto, il Partito Comunista
Giapponese (JCP) e altre entità politiche di sinistra sono state sanzionate e
ai lavoratori è stato dato il diritto di organizzarsi e scioperare.
Dopo
l'ascesa di Mao Zedong in Cina nel 1949 e il crescente gelo dell'incipiente
Guerra Fredda che si faceva sentire a Washington, gli americani iniziarono a
vedere il Giappone più come un partner minore nelle loro maggiori lotte
geopolitiche che come un pericoloso ex nemico che doveva rimanere disarmato.
Di
conseguenza, MacArthur represse quei sindacati che si opponevano al primo
ministro filo-americano del Giappone e rimilitarizzò il Giappone in modo che
potesse sostenere gli interessi americani nel teatro asiatico della Guerra
Fredda.
Migliaia
di leader e ufficiali giapponesi epurati in tempo di guerra furono autorizzati
a tornare nella vita pubblica, e il Giappone ancora una volta aveva una forza
di polizia nazionale centralizzata e potenti conglomerati industriali.
Mentre
i nazionalisti e altre figure di destra erano stati epurati immediatamente dopo
la guerra, nel 1950 migliaia di comunisti venivano rimossi sia dal governo che
dal settore privato.
Questo
"corso inverso" aprì la strada a una lotta colossale in Giappone tra
destra e sinistra che avrebbe consumato gran parte degli anni 1950 e culminata
nel giugno 1960 durante lo storico conflitto sulla revisione del Trattato di
sicurezza unilaterale e umiliante USA-Giappone del 1952.
Questa revisione divenne nota con la sua
abbreviazione "Anpo" in giapponese. In sostanza, entrambe le bestie politiche erano state
liberate dalle rispettive gabbie, e per la prima volta nella storia giapponese
si affrontarono l'un l'altro nel governo e, infine, nelle strade.
Invece di piegarsi alle pressioni americane, i
sindacati giapponesi e altre organizzazioni di sinistra si sono ripresi con
maggiore forza ed energia.
Nel 1954, la “National Police Reserve “divenne
“le Forze di Autodifesa del Giappone”, e poco dopo i due maggiori partiti di
destra si fusero nel “Partito Liberal Democratico” (LDP) – un soprannome
inglese inappropriato se mai ce ne fu uno – in cui il futuro primo ministro
Kishi Nobusuke giocò un ruolo importante.
Una
convergenza simile si verificò a sinistra con la formazione del “Partito
Socialista Giapponese” (JSP), guidato nel 1960 da Asanuma Inejirō.
La CIA aiutò l'LDP, mentre le organizzazioni di
sinistra guardavano alla Cina comunista per il sostegno.
Tutto
questo giunse al culmine nel 1960 quando il primo ministro Kishi, attraverso alcuni trucchi politici,
ratificò
il trattato di Anpo.
Nonostante
il fatto che questa revisione abbia notevolmente migliorato la statura del
Giappone nei confronti degli Stati Uniti, è arrivata sulla scia dei tentativi
sconsiderati di Kishi di aumentare drasticamente il potere della polizia
nazionale.
Così, agli occhi della sinistra che si
opponeva alla revisione del trattato, si trattava più di opporsi a Kishi che al
trattato stesso.
Dopo la ratifica – e quattro giorni prima che il
presidente Eisenhower arrivasse in Giappone – la reazione della sinistra fu
rapida e furiosa.
Ecco
come Nick Kapur descrive il tumulto nel suo libro del 2018,” Japan at the
Crossroads”:
Una
scena sbalorditiva accolse i giapponesi che accendevano le loro radio e i
televisori appena acquistati la sera del 15 giugno 1960.
Mentre guardavano o ascoltavano dal vivo nei
loro salotti, migliaia di manifestanti, molti dei quali studenti delle
università più elitarie del Giappone, hanno abbattuto le porte del simbolo
della democrazia giapponese stessa:
il Palazzo della Dieta Nazionale nel centro di
Tokyo.
Tra la
dura e inquietante illuminazione dei veicoli della polizia in fiamme e delle
luci klieg portate dalle troupe televisive, ondate dopo ondate di manifestanti
disarmati si sono schiantati contro schiere di agenti di polizia armati di
manganelli, tentando di farsi strada con la forza nell'edificio che ospita la
legislatura nazionale giapponese attraverso la pura forza dei loro corpi
ammassati.
La battaglia disperata infuriò fino a notte fonda e
alla fine lasciò centinaia di persone insanguinate e malconce, e una giovane
studentessa universitaria morta. Ha anche gettato l'accordo politico del Giappone
dopo la seconda guerra mondiale, così come il posto del Giappone nel sistema
internazionale della Guerra Fredda, in uno stato di profonda incertezza.
Rivoltosi
di sinistra si scontrano con la polizia fuori dall'edificio della Dieta
(Parlamento) a Tokyo il 15 giugno 1960.
Immagina
di essere un nazionalista – specialmente un etno nazionalista giapponese – e di
guardare questo caos svolgersi.
Con i
ricordi pre-resa ancora vividi nella mente di molti, avrebbe potuto sembrare
che il futuro del Giappone stesso fosse in gioco nel giugno 1960, quasi quanto
lo era stato nell'agosto del 1945. Sì, i contro-manifestanti di destra stavano facendo
sentire la loro presenza.
Ma il Giappone diventerebbe uno stato comunista a
prescindere?
Le
atrocità che si erano verificate in Unione Sovietica e in Cina sarebbero
accadute anche in Giappone?
E
pensando al di là del Giappone, la sua capitolazione a sinistra alla fine
sposterebbe l'equilibrio della Guerra Fredda in Asia a favore dei comunisti
assassini ed espansivi?
Alcuni
di questi nazionalisti potrebbero aver sostenuto una stretta alleanza
reciprocamente vantaggiosa con gli Stati Uniti.
Alcuni
potrebbero aver sostenuto un corso neutrale che avrebbe tenuto il Giappone
fuori dalla politica della Guerra Fredda il più possibile.
E
altri ancora potrebbero essersi semplicemente opposti alla presenza degli Stati
Uniti in Giappone e ai suoi test nucleari in corso nel Pacifico (che, per
inciso, hanno fornito l'ispirazione per il primo film di Godzilla nel 1954).
In ogni caso, bisognava fare qualcosa per
sedare l'improvvisa e spietata ascesa della sinistra giapponese. In risposta
arrivò la rinascita di una destra giapponese seria e militante.
Secondo”
Kapur”:
Il
lato più oscuro della rinnovata fiducia della destra nel 1960, tuttavia, fu
un'ondata di omicidi spettacolari e tentativi di assassinio che evocarono
ricordi di un'ondata simile di omicidi che aveva devastato il Giappone nel
1930.
Il
leader del “Partito Socialista” Kawakami Jōtarō “fu pugnalato da un giovane di
destra il 17 giugno 1960, così come lo stesso “Kishi” il 15 luglio (anche se
entrambi alla fine si ripresero).
Il più spettacolare di tutti è stato
l'accoltellamento fatale del presidente del “Partito Socialista Asanuma Inejirō”
durante un dibattito elettorale il 12 ottobre, assistito in diretta dalla
televisione nazionale da un pubblico sbalordito di milioni di persone.
L'assassino
era il 17enne “Yamaguchi Otoya”. Essendo cresciuto abbastanza benestante come
figlio di un ufficiale delle Forze di Autodifesa, l'instabile Yamaguchi era
stato radicalizzato da suo fratello maggiore e si unì al Partito Patriottico del
Grande Giappone nazionalista a 16 anni.
Il
leader del partito,” Akao Bin,” si era proclamato "l'Hitler del
Giappone" e predicava costantemente che il Giappone era sull'orlo di una
rivoluzione comunista.
Sfortunatamente
per Yamaguchi, “Akao” non era abbastanza radicale per lui. Yamaguchi sentì che “Akao”
era tutto parole e non abbastanza azione, e così si dimise dal partito nel
maggio 1960.
Akao
Bin, "Hitler del Giappone".
Cinque
mesi dopo, Yamaguchi assassinò” Asanuma Inejirō” nel bel mezzo di un dibattito
televisivo trafiggendolo con una spada da samurai.
Yamaguchi
fu arrestato prima che potesse suicidarsi.
È
stato tutto catturato vivo e ha inorridito milioni di persone.
La
fotografia straordinariamente chiara dell'assassinio scattata da “Yasushi Nagao”
ha vinto il “World Press Photo of the Year” nel 1960 e un Pulitzer nel 1961.
Dopo
il suo arresto, Yamaguchi ha rispettato perfettamente le autorità, offrendo
liberamente la sua testimonianza e le sue motivazioni.
Il 2
novembre, mentre era in prigione, mischiò il dentifricio con l'acqua e scrisse
sul suo muro: "Vorrei che avessi sette vite da dare per il mio paese. Viva
l'Imperatore!"
La
frase "sette vite per il mio paese" si riferisce alle ultime parole
di un famoso samurai del XIV secolo.
Dopo aver scritto questa nota, Yamaguchi si
impiccò con lenzuola annodate.
Per
quanto riguarda” Asanuma Inejirō”, aveva iniziato in politica nel 1930 come
nazionalista e falco che sosteneva il regime militare di Hideki Tojo.
Dopo
la guerra, rientrò in politica come socialista e sostenne il Partito Comunista
Cinese.
Dal
1955 al 1960 fu segretario capo e successivamente presidente del JSP.
L'anno prima della sua morte aveva visitato la
Repubblica Popolare Cinese, durante la quale si era avvicinato a Mao a Pechino
e aveva dichiarato che gli Stati Uniti erano il nemico comune sia della Cina
che del Giappone.
Ciò accadde quando il Giappone, gli Stati
Uniti e molti altri paesi avevano riconosciuto la Repubblica di Cina – e non la
Cina di Mao – come l'unico governo legittimo del popolo cinese.
Notoriamente,
Asanuma tornò in Giappone indossando un abito simile a quello tipicamente
indossato da Mao, che suscitò indignazione tra i giapponesi.
Va
ricordato che in questo periodo, il Grande Balzo in Avanti di Mao stava provocando la
fame di decine di milioni di persone.
Asanuma
era diventato ancora più famoso nel 1960 considerando che il suo” JSP” aveva
svolto un ruolo di primo piano nella rivolta alla Dieta all'inizio di
quell'anno.
Quindi
cosa fare di tutto questo?
Oltre
ad apprezzarlo come un'affascinante fetta di storia, una combinazione di umiltà
e ignoranza mi impedisce di giungere a conclusioni solide.
Da una
prospettiva occidentale, tuttavia, trovo interessante che anche in una nazione
etnicamente omogenea come il Giappone, conflitti politici violenti e letali
siano ancora possibili.
Molti nella destra dissidente in America
guarderanno all'estate dei Floyd e daranno la colpa – almeno in parte – alla
diversità razziale.
Diversità
+ Prossimità = Guerra, come dice il mantra.
Allora
come spiegare la violenza politica che ha avuto luogo in Giappone nel 1960?
Credo
che i giapponesi oggi debbano riflettere, dato che ultimamente c'è stata una
maggiore pressione internazionale affinché consentissero una maggiore
immigrazione nel loro paese.
Noi occidentali sappiamo molto bene quanto
male possa andare a finire, e si può solo sperare che anche i leader giapponesi
lo sappiano.
Se il Giappone deve sopravvivere, e non degenerare in
un bastardo giocattolo della sinistra, la sua cittadinanza deve continuare ad
essere legata al sangue.
Forse
per quanto terribili fossero, gli eventi del 1960 si sarebbero verificati più
spesso e sarebbero stati di maggiore portata se ci fossero state minoranze
etniche o razziali considerevoli che vivevano nelle città giapponesi –
minoranze che la sinistra avrebbe potuto irritare e usare come armi, come fa in
Occidente.
Forse
con solo i giapponesi che vivevano in Giappone, c'era un equilibrio generale
tra sinistra e destra – nonostante occasionali fiammate come nel 1960.
E
forse con una considerevole emigrazione straniera, questo equilibrio potrebbe
un giorno essere in pericolo.
Queste
presunzioni si accordano con il modo in cui l'Occidente multirazziale è stato
molto più volatile del Giappone dalla seconda guerra mondiale.
Le diffuse rivolte di “Nahel Merzouk “in
Francia ne sono un eccellente esempio recente.
I giapponesi vogliono sopportare questo tipo
di trauma?
Se continuano a consentire l'immigrazione non
giapponese, temo che lo faranno. E poi i brutti vecchi tempi del 1960
potrebbero sembrare buoni in confronto.
Cosa
sta succedendo in Siria?
Unz.com - PHILIP GIRALDI – (15 AGOSTO 2023) –
ci dice:
L'interventismo
di Washington e il suo disprezzo per il proprio "ordine internazionale
basato sulle regole" altamente promosso è oltraggioso.
Quali
sono i governi generalmente considerati "canaglia" dalla stragrande
maggioranza delle nazioni del mondo?
Se rispondessi alla Russia o alla Cina ti
sbaglieresti, anche se molti paesi hanno condannato l'attacco della Russia
all'Ucraina sulla base del fatto che nessun governo ha il diritto intrinseco di
invadere un altro a meno che non ci sia una seria minaccia imminente che
giustificherebbe un tale intervento.
Mi
aspetterei tuttavia che la maggior parte dei lettori di questa recensione
avrebbe fatto la scelta giusta, ovvero che gli Stati Uniti sono probabilmente
il numero uno in base alla loro capacità di destabilizzare intere regioni con
una portata militare che si estende in tutto il mondo.
E in
effetti, è importante notare che l'"operazione militare speciale" russa diretta contro l'Ucraina non sarebbe
avvenuta affatto se l'amministrazione di Joe Biden avesse semplicemente
indicato chiaramente e in modo non ambiguo al governo russo che non vi era
alcuna intenzione di consentire all'Ucraina di aderire all'alleanza
dell'”Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico” (NATO).
Ironia
della sorte, la Casa Bianca sapeva molto bene che invitare Kiev a entrare
nell'alleanza era una legittima questione esistenziale per il Cremlino, ma ha
optato per spingere forte sulla questione.
Invece
di optare per un accordo pacifico negoziato, Biden e il suo clown mostrano che
il team di politica estera e di sicurezza nazionale ha optato per uccidere
forse centinaia di migliaia di ucraini e russi per "indebolire" in
qualche modo la Russia, un'intenzione che non ha portato frutti nemmeno dopo
più di un anno e mezzo di combattimenti.
Quindi
sì, secondo i calcoli del mondo, gli Stati Uniti d'America sono sia
"eccezionali" che "numero uno", a cui una serie di abitanti
della Casa Bianca hanno aspirato, anche se forse non nello stesso modo in cui
buffoni come i senatori “Tom Cotton” e “Ted Cruz” si riferiscono ad esso.
La maggior parte dei non americani vede gli Stati
Uniti come la più grande minaccia alla pace mondiale.
E poi
c'è il "più stretto alleato e migliore amico dell'America in tutto il
mondo" Israele al secondo posto, un governo che commette crimini contro
l'umanità e persino crimini di guerra su base quasi quotidiana con assoluta
impunità poiché è protetto e difeso dagli stessi Stati Uniti, dove lo stato
ebraico gestisce la più importante e potente lobby di politica estera.
È una
lobby che si è inserita a tutti i livelli di governo e che ha corrotto enormi
maggioranze di politici e di entrambi i principali partiti politici,
controllando anche il "messaggio" sul Medio Oriente promosso dai
media.
Anche
mentre scrivo questo, 41 politici del Partito Democratico stanno trascorrendo
la loro pausa in un viaggio sponsorizzato dalla lobby in Israele.
I loro leader includono l'inimitabile
traditore 80enne membro del Congresso “Steny Hoyer” del Maryland, che è al suo
ventitreesimo viaggio nel paese che ama e ammira più di tutti gli altri, e il
leader democratico della Camera “Hakeem Jeffries”.
Jeffries
è al suo secondo viaggio in Israele quest'anno.
Dovrebbe
vergognarsi ma, ovviamente, non lo è.
È la
più grande delegazione di legislatori democratici in un tour di Israele,
sponsorizzata in questo caso dall'”American Israel Education Foundation”,
affiliata all'”American Israel Public Affairs Committee” (AIPAC).
Per non essere da meno, il presidente della
Camera “Kevin McCarthy” sta guidando 31 membri del Congresso repubblicani nella
stessa missione, anche se i gruppi non si mescoleranno e lo speaker sarà
attento a rendere il proprio ossequio separatamente alla leadership israeliana.
I
democratici e i repubblicani non saranno sempre in grado di enunciare alcuna
buona ragione per la schiavitù americana a Israele al di là di bromuri come
"Israele ha il diritto di difendersi", che saranno ripetuti più e più
volte prima che i Soloni tornino a Washington per inviare miliardi di dollari
dei contribuenti statunitensi allo stato ebraico.
Mentre
in Israele saranno nutriti con una dieta speciale di "tutti gli arabi sono
terroristi" e il buon vecchio “Steny” annuirà con la testa a tempo con la
canzone. Questo
prima che lui e i suoi colleghi si impegnino a strisciare sulle loro pance
davanti al primo ministro israeliano “Benjamin Netanyahu” come segno della loro
totale sottomissione alla sua volontà.
Se si
cerca un singolo esempio del fallimento degli Stati Uniti e del suo alleato
Israele nel rispettare il chiaramente mitico "ordine internazionale basato
sulle regole", si potrebbe ben esaminare cosa sta succedendo in Siria, dove sia gli
Stati Uniti che lo stato ebraico hanno punito il paese attraverso sanzioni
letali e interventi militari diretti per molti anni senza alcun segno che
l'interazione finirà presto.
L'attività
è raramente riportata dai media statunitensi ed europei, che in qualche modo
hanno deciso che il presidente siriano “Bashar al-Assad” è una sorta di tiranno
che merita tutto ciò che ottiene, anche se è servito da Israele
"apartheid" e dagli incapaci Stati Uniti, che hanno occupato
militarmente illegalmente circa un terzo della Siria dal 2015.
Comprese
le aree che hanno impianti petroliferi e buoni terreni agricoli, entrambi
sfruttati o rubati.
Israele
nel frattempo ha annesso le alture del Golan siriano, che ha occupato nel 1967.
Donald Trump ha dato la sua benedizione all'annessione
illegale e ha anche dato il suo consenso a qualsiasi cosa lo stato ebraico
decida di fare sia con i siriani che con i palestinesi, mentre è anche
connivente con gli attacchi aerei quasi quotidiani effettuati da Israele contro
obiettivi sia in Palestina-Gaza che in Siria, uccidendo decine di soldati e
civili locali.
L'occupazione
militare statunitense è stata integrata da una serie sempre più dura di
sanzioni che hanno effettivamente tagliato cibo, medicine e altri beni di prima
necessità al popolo siriano, negando anche l'accesso ai servizi bancari
internazionali.
La Russia, che sta assistendo la Siria su
invito del governo del paese, ha compensato alcune delle carenze, ma c'è una
notevole sofferenza tra la gente comune, non tra i leader del paese.
L'affermazione
di Washington è che la Siria deve essere protetta dal proprio governo
"totalitario" e gli Stati Uniti sono lì per combattere i terroristi,
in particolare l'ISIS.
Ironia
della sorte forse, ma Tel Aviv e Washington in realtà sostengono alcuni dei
gruppi che molti considererebbero essi stessi terroristi, tra cui fornire aiuti
diretti degli Stati Uniti al clone di al-Qaeda “Hayat Tahrir al Sham” e il
sostegno israeliano all'”ISIS” per includere il trattamento dei terroristi
feriti negli ospedali israeliani.
La
base aerea statunitense di “Al-Tanf”, vicino al confine con Iraq e Giordania, è
infatti diventata un hub di supporto per i gruppi terroristici che si oppongono
al governo di “al-Assad”.
Le
sanzioni sulle importazioni di energia sono state temporaneamente revocate
dagli Stati Uniti e dall'UE dopo i disastrosi terremoti che hanno scosso la
regione a febbraio, ma a giugno i legislatori statunitensi hanno introdotto l'”Assad
Regime Anti-Normalization Act” del 2023 che utilizzerebbe sanzioni secondarie
per penalizzare quei paesi che potrebbero essere tentati di aiutare a
ripristinare i servizi nelle aree della Siria colpite sia dalla guerra che
dall'impatto dei terremoti.
Secondo quanto riferito, Israele ha sfruttato
l'opportunità fornita dal disastro naturale per aumentare i suoi attacchi aerei
contro le infrastrutture siriane.
In
effetti, la storia recente ci dice che sia Israele che gli Stati Uniti amano
particolarmente occupare la terra di qualcun altro e sono in grado di trovare
scuse per farlo in un batter d'occhio.
Le ragioni generalmente suonano come dire
"Ehi!
Noi siamo i bravi ragazzi che sostengono la democrazia!"
Ripeti
se necessario fino a quando il pubblico non va a dormire o si allontana. I media occidentali che riferiscono
di ciò che sta accadendo in Siria possono essere considerati come appartenenti
alla categoria "vagabondi".
Certamente
non sono l'unico ad aver notato che gli Stati Uniti tendono a fare tutto il
culo all'indietro nella loro condotta di politica estera fin dai tempi dei Clinton.
Questo
è stato certamente il caso nel trattare con nazioni come la Siria e la Russia,
dove gli ambasciatori “Robert Ford” e “Michael McFaul” erano apertamente ostili
ai rispettivi governi locali e cercavano apertamente di rafforzare gli
oppositori dichiarati dei leader dei paesi.
La
Siria presumibilmente è stata demonizzata per compiacere Israele, a cominciare
dal tentativo di destabilizzare la Siria attraverso l'approvazione del “Syria
Accountability Act” nel 2003, anche se Damasco non rappresentava alcuna
minaccia per gli interessi americani.
Le attuali sanzioni arrivano in un momento in cui la
Siria sta continuando a lottare per ricostruire dopo una guerra civile ancora
attiva di dodici anni che ha distrutto gran parte delle infrastrutture del paese.
Le sanzioni statunitensi stanno rendendo più difficili
gli sforzi di ricostruzione in corso e di fatto stanno punendo in gran parte il
popolo siriano, con solo un impatto minore sul suo governo.
E
sanzionare per punire la Siria è bipartisan, forse riflettendo il desiderio di
soddisfare le richieste israeliane.
Donald
Trump, che si è candidato alla presidenza impegnandosi a porre fine alle
inutili guerre americane all'estero, il 17 giugnoesimo Il 2020 ha tuttavia
avviato nuove sanzioni contro la Siria e il suo governo.
L'ambasciatrice
statunitense alle Nazioni Unite “Kelly Craft” ha informato il “Consiglio di
sicurezza “che l'amministrazione Trump avrebbe attuato le misure per
"impedire al regime di Assad di assicurarsi una vittoria militare.
Il
nostro obiettivo è privare il regime di Assad delle entrate e del sostegno che
ha usato per commettere atrocità su larga scala e violazioni dei diritti umani
che impediscono una risoluzione politica e riducono gravemente le prospettive
di pace".
Successivamente,
il blocco più recente di sanzioni è stato imposto attraverso il “Caesar Syria
Civilian Protection Act”, firmato dal presidente Trump nel dicembre 2020 dopo
che avrebbe dovuto lasciare l'incarico, con l'obiettivo di fermare "i
cattivi attori che continuano ad aiutare e finanziare le atrocità del regime di
Assad contro il popolo siriano mentre semplicemente si arricchiscono".
A quel
tempo, le sanzioni statunitensi esistenti sulla Siria avevano già congelato
tutti i beni governativi e avevano anche preso di mira aziende e persino
individui.
Le
nuove sanzioni hanno dato alla Casa Bianca e al Tesoro il potere di applicare
le cosiddette "sanzioni secondarie" per congelare i beni di qualsiasi
entità o anche individuo, indipendentemente dalla nazionalità, per fare affari
in Siria.
La minaccia di sanzioni secondarie ha infatti
avuto un forte impatto negativo sui restanti partner commerciali di Damasco,
tra cui Libano e Iran.
Anche la Russia potrebbe essere colpita in
quanto è coinvolta nella ricostruzione siriana.
Gli
Stati Uniti e Israele sperano chiaramente che le sanzioni punitive alla fine
costringeranno il popolo siriano affamato a sollevarsi contro il governo, come
alcuni hanno cercato di fare durante la cosiddetta primavera araba nel 2011.
Ciò
significa che una routine di sanzioni, molto favorita sia dall'amministrazione
Trump che da quella Biden, non riesce mai a costringere i governi canaglia a
comportarsi meglio perché il modo in cui funziona riguarda sempre un cambio di
regime, indipendentemente da come è confezionato.
Nel
caso della Siria, e contrariamente alle affermazioni fatte dall'ambasciatore
Craft alle Nazioni Unite, il governo di “Bashar al-Assad” ha già vinto la
guerra nonostante l'intervento degli Stati Uniti e della Turchia a favore del
gruppo in gran parte terroristico sostenuto dall'insurrezione.
E le
prove che la Siria abbia compiuto "atrocità su larga scala e violazioni
dei diritti umani" sono state per lo più fabbricate da nemici del governo,
tra cui il “think tank” preferito di Hollywood e Washington, i “Caschi Bianchi”,
un gruppo terroristico di facciata finanziato almeno in parte dalle agenzie di
intelligence occidentali, che è stato presentato in un documentario
auto-generato che ha vinto un “Hollywood Motion Pictures Academy Award” nel
2017.
Il film è stato elogiato dalle solite
celebrità cerebralmente morte tra cui “Hillary Clinton” e” George Clooney”.
Si
tratta infatti di un pezzo di propaganda molto impressionante.
Il
Museo Nazionale dell'Olocausto ha persino assegnato l'ambito Premio Elie Wiesel
2019 al gruppo.
I Caschi Bianchi sono ancora attivi in Siria
in aree che sono ancora detenute dai cosiddetti ribelli e sono apparsi in un
filmato proprio la scorsa settimana.
Sono
ancora finanziati dai governi occidentali e da Israele per destabilizzare il
governo di “Bashar al-Assad”.
Ci si
potrebbe chiedere quale sia l'obiettivo degli Stati Uniti nel continuare a
promuovere la carneficina e la sofferenza in una Siria che non rappresenta una
minaccia per gli americani o per gli interessi vitali della sicurezza.
È simile a una domanda che potrebbe essere
sollevata riguardo all'Ucraina, che sta affrontando un'escalation non necessaria
di 3.000 riservisti militari statunitensi per rinforzare i 20.000 soldati
americani che sono arrivati in teatro dal febbraio 2022.
E poi
c'è l'Iran, che ha risposto al dirottamento delle sue petroliere in acque
internazionali sotto l'autorità imposta unilateralmente dalle sanzioni
statunitensi.
L'Iran
ha cercato di rispondere in natura e ora gli Stati Uniti invieranno marines nel
Golfo Persico per cavalcare fucili su petroliere straniere e altre navi
commerciali che attraversano lo Stretto di Hormuz.
Se le
navi iraniane si avvicinano troppo, spareranno per uccidere.
È
un'altra escalation che sta causando problemi.
Perché
gli Stati Uniti non possono lasciare in pace il resto del mondo?
Questa
è forse la domanda fondamentale per i nostri tempi.
(Philip M. Giraldi, Ph.D., è direttore
esecutivo del “Council for the National Interest”)
STIAMO
VIVENDO UN PERIODO
STORICO
FANTASTICO.
Ora si
sta decidendo il destino della civiltà terrestre.
Comedonchisciotte.org - Redazione CDC – (15 Agosto 2023) - Andrei Fursov, dzen.ru – ci dice:
Il
famoso manager giapponese “Kenichi Ohmae”, che si chiamava “Mister Strategy”,
ha scritto due famosi libri: “A World Without Borders” e “The Decline of the
Nation-State”.
L’economia-regione
è l’antitesi dell’”economia-mondo” di Braudel e Wallerstein.
Stiamo
parlando di un fenomeno quando, diciamo, tre città in paesi diversi – Penang
(Malesia), Medan (Indonesia) e Phuket (Thailandia) – sono interconnesse:
i flussi commerciali fluiscono tra di loro, e
questa è una specie di isola di prosperità.
La regione-economia deve avere almeno cinque
milioni di persone, altrimenti la sua efficienza non può essere assicurata.
Ma non
più di trenta milioni, perché ci saranno tanti poveri.
La globalizzazione è costituita da due o
trecento nodi molto avanzati in cui si concentrano le moderne tecnologie
dell’informazione e il capitale.
Questi
nodi sono collegati tra loro materialmente e virtualmente.
Tutto
il resto è escluso.
La
globalizzazione è un processo di produzione e scambio in cui, a causa del
predominio di fattori informativi (cioè “non materiali”) su materiali
(“materiali”), il capitale, trasformandosi in un segnale elettronico, è libero
da quasi tutte le restrizioni del livello locale e statale – spaziale, materiale,
sociale.
Questa
è la vittoria del tempo sullo spazio.
E, naturalmente, quelli che controllano il tempo e il
capitale, rispetto a quelli che controllano lo spazio e il potere statale.
La globalizzazione è anche il processo di esclusione
dai processi economici dell’ottanta per cento della popolazione mondiale.
Il mondo globale (detto anche “puntinista”,
punteggiato) è un sistema di comunicazione per il venti per cento della
popolazione del pianeta.
Per
spiegare questo fenomeno, il sociologo polacco “Sigmund Bauman” ha coniato due
termini: globals
e locals.
I
globali vivono in un mondo globale sovranazionale, muovendosi, ad esempio,
attraverso la catena alberghiera Hilton come uomini d’affari, politici,
intellettuali dei media, nel peggiore dei casi, turisti.
I
locali lasciano il loro luogo di residenza o come rifugiati o come migranti,
legali (circa un centinaio di milioni) o illegali, ma in ogni caso si spostano
da un locus all’altro.
La
localizzazione sta diventando il rovescio, il lato oscuro della
globalizzazione.
L’uomo locale rimarrà locale per sempre.
Un’altra
conseguenza della nuova era sono le “zone grigie”.
Questo
termine deriva dall’elettronica radio, indica una parte dello spazio che non è
“vista” dai radar.
Nelle
“zone grigie” lo Stato ha perso quasi completamente il controllo, il potere è
stato privatizzato o da tribù e clan (enormi spazi in Africa), o da comunità
criminali – il più delle volte cartelli della droga (“triangolo d’oro”
all’incrocio della Birmania, Thailandia, Laos; Afghanistan, Colombia),
movimenti separatisti e partigiani, “unità di autodifesa” di destra.
Le
“aree grigie” possono essere singole aree di città (la Baixada Fluminense a Rio
de Janeiro, il South Bronx a New York) – tutto ciò rende il mondo in via di
globalizzazione ancora meno omogeneo.
Non è
questo il mondo omogeneo e razionale-liberale che Jacques Attali dipinge in He
Will Come e Francis Fukuyama in The End of History.
La
globalizzazione della forza lavoro procede a un ritmo molto diverso.
Il capitalismo un tempo risolveva il problema
della sua sovrabbondanza al suo interno, spostando il superfluo nella
semiperiferia.
Si
noti che le ondate di espansione coloniale nello sviluppo del capitalismo non
sono apparse costantemente, ma dopo gravi crisi al suo interno.
Il capitalismo ha aperto nuovi mercati in cui
le merci potevano essere vendute. Cosa hanno di speciale la prima e la seconda guerra
mondiale?
Queste
sono guerre in cui l’infrastruttura è stata completamente deliberatamente
distrutta per la prima volta, al fine di ripristinarla in seguito e trarne
profitto.
Se l’industrializzazione richiedeva una grande
classe operaia e media, allora la produzione postindustriale ad alta intensità
scientifica non lo richiede.
All’inizio degli anni Novanta, Microsoft aveva
quarantanove filiali e tutte impiegavano sedicimilaquattrocento persone.
Non
hanno bisogno di altro.
Il
capitalismo oggi è diventato planetario e semplicemente non c’è nessun posto
dove rimuovere la crisi.
Quindi
i problemi dovranno essere risolti dall’interno.
È abbastanza chiaro chi saranno le prime
vittime:
si tratta della classe media e della parte
alta della classe operaia, cioè quei gruppi sociali che furono i principali
vincitori dal 1945 al 1975.
La situazione è ulteriormente complicata, secondo
“Patrick Buchanan”, dalla lotta all’interno della stessa civiltà occidentale
tra Occidente e Post-Occidente.
Stiamo parlando del fatto che si stanno
formando enclave nello stesso mondo occidentale (negli Stati Uniti è un’enclave
“messicana”, nell’Europa centrale – turca, in Francia – araba e africana che
vive lì da diverse generazioni).
Anche “Toynbee”
ne scrisse:
liberali
e marxisti lo deridevano negli anni Sessanta e Settanta. Ha parlato del cosiddetto
proletariato interno, che sta minando il sistema.
Questo proletariato interno è ora al centro
dell’intero mondo occidentale. Provengono dall’Asia, dall’Africa e dall’America
Latina.
Questo
proletariato non ha gli stessi diritti della popolazione bianca, ma ha una sua
forma di organizzazione sotto forma di religione, come l’Islam.
Tra vent’anni la questione si farà molto
acuta:
ci
sarà una massa di vecchia popolazione bianca, e dall’altra una massa di
popolazione giovane, ex messicana, ex africana, ex araba, che resterà povera e
sottopagata.
Come
possono i leader anglosassoni, francesi, tedeschi mantenere le loro posizioni
in una situazione del genere?
E dopotutto, non si può fare nulla per la
migrazione:
se
viene fermata ora, anche le conseguenze economiche saranno catastrofiche.
Qui si
presenta la peggiore delle situazioni:
alla
polarizzazione socio-economica si sovrappongono contraddizioni non solo
etniche, ma razziali-etniche.
Questa
è dinamite.
In
questo senso, l’Europa ha già superato il punto di non ritorno, non si può fare
nulla.
L’élite
bianca ha governato il mondo per due secoli e il suo tempo sta per scadere.
C’è
stato un periodo assolutamente straordinario nel ventesimo secolo, che ha
portato tutti fuori strada.
Questo
è il periodo dal 1945 al 1975, quando la situazione economica era favorevole,
quando l’Occidente doveva pacificare la sua classe operaia e media in modo che,
Dio non voglia, non votasse per socialisti e comunisti.
Era necessario ripagarli.
C’era
l’URSS, che incombeva nelle vicinanze.
Il
risultato delle concessioni sociali fu il cosiddetto stato sociale, che può
essere tradotto come “lo stato del benessere universale”.
Fino al trenta-cinquanta per cento del reddito
è stato prelevato sotto forma di tasse e ridistribuito.
Il risultato fu uno strato che io chiamo la
“borghesia socialista” e il nucleo della classe media si espanse per includere
persone che non erano borghesi in termini di reddito ma che potevano
permettersi consumi borghesi.
Ma
all’inizio degli anni settanta tutto si è rotto.
Scoppia la crisi petrolifera, gli Stati Uniti
abbandonano il “gold standard “(svalutazione), inizia la rivoluzione
scientifica e tecnologica.
Nel 1975, l’URSS ottenne una schiacciante
vittoria sugli Stati Uniti, in quella fase della Guerra Fredda.
L’America ha perso la guerra in Vietnam, ha avuto
luogo l’incontro di Helsinki, in cui l’Occidente ha riconosciuto legalmente
quanto accaduto in Europa nel 1945.
Allo
stesso tempo, il tradizionale strato dirigente degli Stati Uniti è crollato, il
quale si era formato sulla loro costa orientale e ha governato per
centosettanta anni.
Dal
1975, e fino a poco tempo fa, tutti i presidenti degli Stati Uniti provenivano
dall’ovest o dal sud.
Cosa significa?
Quei
gruppi che sono strettamente connessi con il sistema globale sono saliti al
potere.
La
costa orientale è tradizionalmente la classe dirigente dell’America come
nazione.
L’America dopo il 1975 divenne “l’America
globale”.
Utilizzando
i risultati della rivoluzione scientifica e tecnologica, l’Occidente ha
scatenato i processi di globalizzazione, una delle cui vittime è stata l’Unione
Sovietica.
Siamo abituati a dire che l’URSS è stata
sconfitta nella Guerra Fredda e l’America ha vinto.
Ma dal
fatto che l’Unione Sovietica ha perso, in senso stretto, non sono stati gli
Stati Uniti a vincere, ma principalmente Giappone e Germania.
Anche
l’America ha vinto, ma sorge spontanea la domanda: quale America?
Era già un paese diverso:
la rivoluzione culturale ha cambiato volto
oltre il riconoscimento.
Un
pensatore marxista del ventesimo secolo come “Antonio Gramsci” capì negli anni
Trenta che l’Occidente non poteva essere schiacciato con mezzi politici e
avanzò il concetto di “egemonia culturale”.
Ha
dimostrato che la borghesia prende posizione non solo perché si impone di
fronte allo Stato, ma anche con l’aiuto di una cultura che è in grado di
imporre stereotipi culturali agli altri.
Gramsci
ha quindi parlato della necessità di conquistare la borghesia nel campo della
cultura.
Le sue idee furono successivamente sviluppate
dalla Scuola di Francoforte nella persona di Marcuse, Horkheimer, Adorno e
altri.
Dopo
che Hitler salì al potere, molti di loro si trasferirono in America.
Durante
gli anni Cinquanta, hanno martellato nelle menti dei giovani americani che la
cultura occidentale è cattiva, lo Stato è cattivo.
L’individualismo
è buono. Abbiamo bisogno di una controcultura.
Nel
1968 tutto è esploso.
Emerse
una controcultura che criticava il vecchio movimento di sinistra, il ruolo
dello Stato e sosteneva che la classe operaia era sopravvissuta alla sua
utilità.
In quegli eventi, il motivo del profitto
individuale era molto importante:
si realizzava nel mondo dello spettacolo,
nella vendita di erba, sostanze più pesanti.
Questo
profitto era necessario per consumare di più.
È
stato un percorso radicale rivoluzionario per i giovani verso una società dei
consumi.
Le
relazioni industriali sono cambiate tra il XIX e il XX secolo.
Gli
atteggiamenti sono cambiati e, oltre a ciò, l’uomo è diventato non solo un
produttore, ma anche un consumatore.
E nel
gioco delle relazioni industriali, questo spazio liberato all’interno del quale
alcune pratiche sono diventate possibili.
La
stessa psicologia delle capacità, se vogliamo, la psicologia dei bisogni, si
inserisce perfettamente nelle nuove pratiche economiche.
E
credo che qualsiasi psicologia, a partire dal momento in cui cessa di essere la
psicologia dell’inconscio, si trasformi esclusivamente in una psicologia di
tipo economico. — (Michel Foucault).
Dieci
anni dopo, Reagan è arrivato con le idee del neoliberismo, e tutti hanno votato
per lui in massa.
Questa
generazione più giovane, nutrita dalla cultura di sinistra, è salita a vertici
politici e successivamente ha sconfitto l’Unione Sovietica, ma non nella
classica Guerra Fredda.
L’America ha vinto, ma non come Stato, ma come mostro
globale.
È come
quel bravo ragazzo che si è tuffato in un calderone di acqua bollente e
all’improvviso ne è uscito ancora meglio.
L’Unione
Sovietica, nella persona di Mikhail Gorbaciov, ha deciso di tuffarsi nello
stesso calderone – e lì ha bollito.
Quando
“Buchanan”, nel suo libro “Death of the West”, dice che è questa generazione
che sta distruggendo l’America moderna, distruggendo i suoi valori cristiani,
coglie ciò che io chiamo “Globamerica”.
Stiamo
parlando di una generazione che tratta l’America non come uno Stato, ma come
un’entità post-occidentale post-cristiana.
Abbiamo
a che fare con l’America come la parte più sviluppata del mondo globale, dove i
valori cristiani non dominano affatto, dove regna il multiculturalismo, dove i
valori liberali sono portati al limite – all’abnegazione.
Che
tipo di libertà è questa se non puoi esprimere la tua opinione sulle minoranze,
il movimento delle donne, le questioni razziali?
Con
l’aiuto di tutti i tipi di attivisti, la moralità tradizionale è stata
infranta.
La stessa cosa accade con il “fondamentalismo
di mercato”.
Porta
il mercato in una situazione in cui si trasforma in un monopolio, cioè nel suo
contrario.
Che ne
è di un gigantesco agglomerato di persone intellettualmente potenti che
immaginano di avere il controllo di tutto, di avere il controllo completo sui
poteri della mente, di usare questi poteri nel miglior modo possibile?
La
colossale crescita del potere intellettuale dell’umanità ha avuto l’inevitabile
conseguenza di un annebbiamento delle menti ancora più grandioso, una
diminuzione del livello intellettuale generale dell’umanità, una totale
stupidità, presentata come un colossale progresso nella conoscenza. — (Aleksandr Zinoviev)
Nel secolo
scorso, in Occidente è apparsa la teoria 20:80, cioè il venti per cento dei
ricchi, l’ottanta per cento dei poveri.
Nessuna classe media.
Ma per
l’India sarebbe, diciamo, da cinque a novantacinque, per il Brasile da tre a
novantasette.
Per la
Russia, sarà un massimo da dieci a novanta.
Stiamo
parlando della tendenza a spazzare via la classe media. Ma anche “Toynbee” scrisse nel
1947: “
Il
futuro dell’Occidente è in gran parte determinato dal destino della sua classe
media”.
Il suo collasso porterà al collasso delle società
occidentali.
Dopotutto,
la globalizzazione non separa solo un paese dall’altro.
Attraversa interi paesi, perché puoi far parte
di una comunità globale che vive a Mosca, San Pietroburgo o Nizhny Novgorod.
E puoi
vivere nella stessa città, ma non far mai parte di una comunità globale e non
potervi accedere – non sotto forma di informazioni, non sotto forma di droghe,
non sotto forma di benefici.
I confini tra globali e locali possono passare
lungo la stessa scala.
Ma
prima o poi questi mondi si scontreranno.
Inoltre,
poiché i fattori di informazione diventano i principali, la lotta è per i
fattori di produzione intellettuali, il che significa che alcuni intellettuali
andranno dagli “sfruttatori”, e altri non andranno da nessuna parte, perché
così tante persone non sono necessarie per sfruttamento.
Una
delle principali contraddizioni del nuovo secolo non starà apparentemente nel
rapporto tra sfruttatori e sfruttati, ma nel rapporto tra sfruttatori e sfruttati
da un lato, e tutti gli altri dall’altro.
Quest’ultimo
chiederà: portaci al lavoro! E combatteranno per essere sfruttati.
Il
Novecento si chiude a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta.
Il
significato della rivoluzione iraniana del 1979 non è stato ancora pienamente
compreso.
È stata la prima rivoluzione che ha avuto
luogo non solo non sotto la sinistra e non sotto gli slogan marxisti, ma per niente sotto quelli laici.
Sono le idi di marzo della modernità, le idi della
modernità nella periferia musulmana.
Nel 1979 vinse un altro fondamentalista, ora
di mercato, Margaret Thatcher nel Regno Unito.
Alla
fine della tarda modernità, è iniziata una svolta verso la postmodernità con
una diversa struttura sociale e tipo di consumatore umano attraverso la
convergenza del capitale.
E sistemi sociali con il trasferimento del potere
globale alle multinazionali, incl. attraverso strutture ideologiche
politico-rivoluzionarie globali che hanno avuto radici in tutti i paesi
sviluppati dalla fine del XIX secolo, sulla base delle quali è sorto negli anni
’70 del XX secolo il “fenomeno dei neocon neo-trotskisti americani”, il cui obiettivo era trasformare
il Stati Uniti al centro delle multinazionali, il secondo centro di questo tipo
è sorto negli anni ’90 in Europa – l’UE, con il trasferimento del centro di gravità
nell’economia dall’industria, dove il progresso scientifico e tecnologico sta
costantemente spiazzando il campo da masse di lavoratori, alla sfera dei
servizi virtuali, che consente di simulare l’occupazione, consumarli attraverso
una pubblicità aggressiva e quindi pagare la più grande massa possibile di
consumatori, per la quale è necessaria la libera circolazione di capitali,
lavoro, beni e servizi, portando alla distruzione delle sovranità degli stati e delle
tradizioni con la mescolanza di persone nella Babilonia globale e il degrado
della popolazione, comprese le élite politiche. — (az118.livejournal.com).
Esiste
un termine del genere:
“evento
a cascata”, ovvero una serie di eventi che in realtà sono un tutt’uno.
Ci sono stati due di questi periodi nella
storia.
Li chiamo i “lunghi anni venti”: sono gli anni
1914-1934, quando fu deciso il destino del ventesimo secolo.
Poi,
dirà “Fernand Braudel”, avvenne “la ridistribuzione delle carte della storia”, cioè
vinse chi afferrò le carte vincenti. Un periodo meno fatidico, ma molto
movimentato sono i “lunghi anni Cinquanta” nel XIX secolo: 1848-1868.
Durante
la formazione del marxismo – tra il “Manifesto del Partito Comunista” (1848) e
il primo volume del “Capitale” (1867) – ci fu un’intera epoca che iniziò con la
Rivoluzione Europea del 1848 nel Far West dell’Eurasia e si concluse con la
Restaurazione Meiji in Estremo Oriente.
In
questi vent’anni il mondo è cambiato in modo irriconoscibile.
Stiamo
vivendo un periodo storico fantastico.
Un
periodo così pericoloso, così teso, così interessante come adesso – intendo il
periodo 1975-2025 – non è mai accaduto.
Se il
ventesimo secolo è iniziato sotto lo slogan di “The Rise of the Masses “(1929)
di “Ortega y Gasset”, è finito sotto lo slogan del libro di “Christopher Lash” “The
Rise of the Elites” (1996).
Ora si
sta decidendo il destino della classe media occidentale, del sistema del
capitale e, forse, della civiltà terrestre.
(Andrei
Fursov, storico, sociologo, pubblicista russo).
(dzen.ru/a/ZNC9mkrff08hdOjE?utm_referer=katehon.com)
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