I popoli ancora liberi della terra, possono ribellarsi alle misure dittatoriali e dispotiche prese contro di loro dall’élite straricca globalista.

I popoli ancora liberi della terra, possono ribellarsi alle misure dittatoriali e dispotiche prese contro di loro dall’élite straricca globalista.

 

 

Una rivoluzione antiliberale.

di Roberto Pecchioli.

Ereticamente.net – Roberto Pecchioli – (15 dicembre 2017) - ci dice:

(…)

Di rivoluzioni liberali ne abbiamo viste anche troppe.

Dagli anni 80 e poi dopo la fine del comunismo l’orizzonte liberale non è soltanto trionfante, ma soprattutto ha la pretesa di essere l’unico sistema politico, economico, esistenziale ammesso.

La vittoria del 1989, infatti, anticipata dal decennio di Reagan e della signora Thatcher, si è rivelato il trionfo non della libertà, ma dell’Impero del denaro. Liberale, liberista, libertario, e, dall’ultimo decennio, libertino.

Oggi liberale ha perso il suo significato originario – è una parola omnibus, a taglia unica e multiuso, come democrazia, destituita del vero significato, una coperta arcobaleno che nasconde molte vergogne.

La confusione è grande, libertà e liberalismo sembrano sinonimi mentre sono concetti molto diversi, non di rado confliggenti.

Siamo sottomessi ad un asfissiante liberismo economico unito ad un libertarismo civile ed etico che dissolve la comunità e intossica la beatificata “società civile”.

La privatizzazione di tutto è avanzata a passi giganteschi, polverizzando le strutture degli Stati, le difese sociali, i contrappesi istituzionali, i corpi intermedi, le strutture spirituali, esattamente come il soggettivismo morale promosso dal pensiero liberale ha prodotto l’impressionante secolarizzazione della società.

 Ciò che non riuscì alle maniere forti ed alla violenza dell’ateismo comunista è stato facilmente conseguito dal suadente modello del liberalismo di consumo.

La concentrazione di potere, proprietà, denaro, influenza in poche mani non è mai stata così drammatica.

 La conclamata libertà di pensiero, fiore all’occhiello della vulgata liberale, è sottomessa alla potenza pervasiva di strumenti di comunicazione di massa concentrati in pochissime mani, sempre le stesse, come l’economia, la finanza, l’intrattenimento.

 Abbiamo la massima libertà di pensare con mille sfumature diverse le stesse cose. È come una banda musicale in cui ogni strumento è gradito, anche i toni possono essere distinti, ma ciò che conta è che uguale sia lo spartito e unico il direttore d’orchestra.

Siamo al punto che non esistono più convinzioni, ma solo opinioni.

Le prime richiamano un orientamento saldo, coerente, dotato di un centro, le seconde sono solo pensieri transitori, volatili.

Universo liquido, o meglio miliardi di cervelli di plastilina malleabili, plasmati à la carte dal grande circo della persuasione, della pubblicità, del consumo, del condizionamento.

La politica non è che marketing, prodotto da vendere, tanto che la democrazia liberale può essere agevolmente definita come “pluralismo competitivo della libertà di opinione”.

Non di tutte le opinioni, però.

Già Karl Popper, il teorico della società aperta, teorizzava che agli avversari del sistema dovesse essere impedito l’accesso, la partecipazione al mercato delle idee.

Sono lontani i tempi in cui Ortega y Gasset poteva affermare che il merito del liberalismo era difendere le minoranze, specialmente quelle più deboli.

 Oggi lo spartiacque è ben diverso: tracciato un cerchio, il discrimine (drammatico) è tra chi sta dentro e tutti gli altri.

Sono tutti benvenuti, purché condividano il senso liberale della vita, che è poi il mercato misura di tutto, la privatizzazione del mondo, il relativismo etico, il consumo.

 In cambio dei suoi favori, il liberalismo offre una gamma infinita di colori in un’unica tavolozza.

Si può essere di destra, di centro, di sinistra o di nulla, religiosi, atei o agnostici, avere orientamenti sessuali di ogni tipo, essenziale che tutto sia riconducibile al mercato, alla compravendita, alla dimensione privata, allo scambio misurabile in denaro.

 

Il liberalismo ci ha ridotti, anzi riconvertiti a plebi desideranti mai soddisfatte, e sta rapidamente dividendo la società in un pugno di straricchi e potentissimi, coadiuvati da minoranze di privilegiati a supporto (il clero regolare e secolare del potere di cui parlava Costanzo Preve), assisi su una enorme platea di nuovi e vecchi poveri, oltre ad un esercito di riserva di miseri da sfruttare ed utilizzare alla bisogna come calmiere, minaccia, spauracchio, esempio da non imitare.

Le quattro libertà liberali si sono rivelate altrettanti imbrogli:

libera circolazione delle merci, dei capitali, dei servizi, delle persone.

Risultato pratico, globalizzazione mondialista come esito economico del liberoscambismo, immigrazione incontrollata di masse transumanti, impoverite, ridotte in schiavitù, utilizzate come ariete per scardinare i popoli;

poi finanza sovrana, dittatura del denaro e dei suoi proprietari perché i capitali non tollerano limiti e confini.

Quanto i servizi, settore centrale dell’economia contemporanea, basta l’esempio della “direttiva Bolkenstein in Europa” e l’immenso potere acquisito dalle piattaforme informatiche come “Airbnb”, “Uber” e simili che stanno espellendo dal mercato milioni di operatori, sino ai concessionari delle spiagge.

Dicono che è per il bene del consumatore, nuova figura mitologica che ha sostituito la persona e lo stesso cittadino, ma la realtà è la solita:

 restringere il mercato nelle manone sporche ed enormi dei soliti noti.

 

 

Sì, perché il racconto liberale del mercato libero è radicalmente falso.

 Il mercato è libero solo per i più grandi, che fagocitano, strozzano, distruggono tutti gli altri.

Paradossalmente, il mercato è libero, ma solo in uscita.

Poche migliaia di colossi possiedono tutto;

ogni altro soggetto è ridotto a servo, dipendente privo di diritti, precario.

 In ossequio alle idee di David Ricardo, si produce solo ciò il cui costo è inferiore a quello altrui, distruggendo l’agricoltura tradizionale, ma anche l’industria, il commercio, competenze secolari, saperi e modi di vivere, il tessuto civico e comunitario faticosamente costruito nel tempo.

 Marx ha perduto, meno male, ma la lotta di classe l’hanno vinta i super ricchi, la plutocrazia avrebbero detto i loschi figuri dei totalitarismi sconfitti.

 Ha perduto financo “Von Hajek”, l’arci liberale che però credeva nel mercato aperto, convinto che chi possiede tutti i mezzi determina tutti i fini.

 Ci siamo arrivati, e comprendiamo la soddisfazione del miliardario Berlusconi (ora defunto, N.D.R), ma non certo il consenso drogato di massa, purtroppo reale, alla falsa narrazione liberale.

Scendiamo nel concreto, e domandiamoci se vivevamo meglio o peggio, prima della tempesta neo liberale che si è abbattuta sul mondo dopo l’evento chiave, la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo reale novecentesco.

 Dal punto di vista dei diritti sociali, è stato un massacro.

Milioni di precari, un esercito di sottoccupati, i giovani come vittime privilegiate, statistiche drogate (anche la matematica è liberale…), per cui chi lavora anche una-due ore settimanali è considerato attivo.

La pensione è sempre più un miraggio da spostare nella terza età, mentre l’individualismo vincente – condiviso da tutti i grandi schieramenti politici – proibisce politiche a favore della famiglia e della natalità, le uniche in grado di garantire la riproduzione sociale.

 La sanità, sempre più privatizzata, giacché anche quella pubblica ha statuto di azienda, costa più di prima;

del livello della scuola il tacere è bello, ad esclusione degli istituti di vertice, carissimi, privatissimi, esclusivi.

 Addio all’ascensore sociale, come si diceva una volta, dal momento che la buona istruzione è a base censitaria più che nel buio passato illiberale.

Il sistema bancario, oggetto della prima grande ondata di liberalizzazioni, leggasi svendita ai grandi gruppi privati, è nelle condizioni che sappiamo.

Il conto, però, è a carico di tutti;

il sistema di controllo è in mano ad organismi privati – Banca d’Italia, BCE – come dire che arbitro e squadra di casa hanno lo stesso padrone.

Gli Stati hanno rinunciato a battere moneta, ovvero si sono spogliati della più importante delle sovranità, e non decidono più nemmeno il tasso di sconto.

Niccolò Machiavelli si rivolterà nella tomba in Santa Croce.

Le aziende private stanno peggio di prima.

 La retorica dell’impresa è una presa in giro, o più precisamente un esempio di neolingua orwelliana:

 libertà è schiavitù, solo i più grandi sopravvivono, la piccola e media impresa, ormai anche artigiani e professionisti sono soffocati dalle grandi piattaforme tecnologiche.

 In un solo giorno, quello del “Black Friday”, un’altra moda americana, il venerdì degli sconti, “Jeff Bezos”, maggiore azionista di Amazon, si è arricchito di alcuni miliardi di dollari, ed ora il suo patrimonio supera i cento miliardi.

 Intanto, privatizzano anche l’acqua.

 Le cosiddette liberalizzazioni non hanno portato benefici per gli utenti, come sbandierato dall’intero sistema politico e mediatico.

Il sistema produttivo è più fragile, tra delocalizzazioni, concentrazioni azionarie, e, da noi, anche per la moneta euro, che ci ha portati a perdere un quarto della nostra capacità industriale.

 In compenso, dicono che siamo travolti dal debito –la più gigantesca truffa a cui ci hanno sottomesso- e non possiamo destinare il denaro degli italiani alla protezione del sistema produttivo in quanto si configurerebbe – bestemmia antiliberale- il reato di aiuti di Stato.

 Nelle costituzioni ci hanno imposto di inserire il pareggio di bilancio, ovvero il divieto di svolgere politiche diverse da quelle monetariste legate al dogma falso della scarsità.

Il fisco è più pesante di prima, tra imposte sul reddito, imposte indirette aumentate (IVA), accise, tasse sulle attività economiche che colpiscono financo redditi non ancora generati.

In compenso, il sistema bancario paga percentualmente meno dei propri dipendenti e gli Stati non riescono a far pagare i grandissimi:

Facebook, Apple, Amazon, Airbnb, Uber, Google sono i più straordinari elusori fiscali del pianeta.

Ovvio: possiedono gli apparati tecnologici ed informatici che permettono di schermare, deterritorializzare in un vorticoso girotondo tutte le loro attività. Ai sistemi tributari non resta che spremere piccoli e medi contribuenti. Per loro lo Stato può esistere, per lorsignori no.

Gli Stati, per il modo di pensare ed agire liberale sono anacronismi, fastidi, seccature.

Uniche funzioni ammesse, proteggere la grande proprietà privata e garantire un minimo di ordine pubblico, purché, beninteso, costi meno che assumere i nuovi mercenari e capitani di ventura, pudicamente chiamati “contractors!” legati a multinazionali i cui incroci azionari portano agli stessi giganti.

Il banco vince sempre, adesso anche gli Stati possono fallire, in mano ai fondi avvoltoio e dipendenti dal giudizio inappellabile di aziende private, le agenzie di rating, che, guarda caso, sono possedute dai soliti noti.

 Agli Stati è proibito svolgere politiche industriali, economiche, fiscali, previdenziali autonome e comunque non in linea con il dettato della vulgata liberal liberista, divenuta l’unico criterio ammesso, al di fuori del quale nel migliore dei casi si diventa populisti, Stati canaglia quando l’Impero si sente minacciato.

Diceva Ezra Pound che non tutti i liberali sono usurai, ma tutti gli usurai sono liberali.

Lo sanno bene milioni di persone emarginate dalla società in quanto “cattivi pagatori”, secondo insindacabile giudizio del sistema bancario, che agisce in regime di monopolio di fatto, lasciati in balia della povertà, degli usurai illegali, della criminalità, espulsi di fatto dal consorzio civile.

Ma almeno, diranno i sostenitori ad oltranza del liberalismo, tutti hanno diritto di parola, libertà di associazione e di iniziativa politica.

Falso: leggi sempre nuove rendono proibite, illegali, proscritte le idee che divergono dal Verbo neo liberale globalista.

La politica, poi, e la rappresentanza nelle istituzioni sono sostanzialmente riservate alle diverse correnti del liberalismo trionfante.

Per gli altri, tagliole, trappole procedurali, ostacoli di ogni genere per raggiungere lo spazio pubblico, a partire dalla più ovvia delle difficoltà, quella economica.

Possiamo votare, ogni cinque anni e con liste più o meno contrapposte.

 La forma è salva, ma i governi contano pochissimo, camerieri dei banchieri e di poteri privati estranei ai popoli.

 Hanno pochissimo potere e scarsi margini di iniziativa.

I popoli lo stanno comprendendo, per questo disertano in massa le urne, e risultano ridicole le pensose giustificazioni addotte dai pifferai di regime, come il giurista Zagrebelski, fautore di un non meglio identificato “diritto mite”.

Il liberalismo, nella sua forma attuale globalista, snodo finale di un percorso che attraversa ormai tre secoli, ha poi sostanzialmente abolito la giustizia, lo ius.

Disinteressato ai valori morali, incline a giustificare quasi tutto ed a riconoscere come valore universale il solo denaro, sono ben pochi i delitti che combatte.

 È naturalmente inflessibile con chi non paga i conti al sistema e non rispetta la sua proprietà, ma assai blando con ladri, rapinatori, mestatori, persino assassini.

 La sua ala sinistra, infatti, li protegge in quanto vittime della società.

 Simmetricamente, la destra del denaro è molto garantista con chi truffa, falsifica bilanci, imbroglia i risparmiatori, evade i tributi per grandi somme.

Il risultato è una società con la febbre alta, malata, in cui milioni di persone oneste e normali restano prive di tutela, alla mercé di delinquenti armati e di farabutti in giacca e cravatta, nonché di ceti politici, burocratici e direttivi corrotti e complici.

Il sistema mediatico e dell’intrattenimento, intanto, continua il suo lavoro di condizionamento e di ingegneria a-sociale.

 Da qualche tempo, hanno individuato un nuovo presunto nemico, la post verità, anzi, nell’inglese obbligatorio, le “fake news”, false notizie.

 Il bello, o il brutto, è che la falsificazione è quella che quotidianamente ci impongono attraverso le reti televisive, i giornali di proprietà dei giganti economici e finanziari.

 È talmente enorme la manipolazione che milioni di persone non solo non la riconoscono più, ma si ribellano a coloro che li mettono in guardia dal sistema!

Il linguaggio è stato ridefinito sottraendolo alla verità fattuale per mezzo del “politicamente corretto”, in nome del quale non possiamo descrivere la realtà com’è e come la vediamo, ma come il potere vuole che la percepiamo.

 

La stessa destra liberale del passato è travolta: essa prescriveva comunque un certo rispetto delle forme, delle regole civili e morali, soprattutto chiedeva che la proprietà privata fosse il più possibile diffusa.

Lo slogan era tutti proprietari, non tutti proletari come voleva il comunismo.

Quel mondo, quei principi sono finiti, travolti dal gigantismo che lascia in campo solo poche centinaia di attori globali, tutti gli altri servi o schiavi.

Siamo al punto che tocca difendere il diritto di proprietà dai liberali anziché dai suoi storici nemici con falce e martello.

Attraverso il possesso di tecnologie sempre più potenti, sono diventati proprietari anche delle nostre coscienze.

Il destino che pretendono per noi è quello di plebi desideranti, cani di Pavlov che emettono saliva all’idea dell’acquisto, del centro commerciale, della forma-merce. 

Se non abbiamo i soldi, ecco il credito al consumo, le “comode” rate, i rid bancari, la cessione del quinto dello stipendio e tanto altro.

Chi è indebitato fa gioire gli usurai di ogni tipo, e, incalzato dalle scadenze, non potrà ribellarsi per paura, come un insetto imprigionato nella tela del ragno.

Liberalizzazioni, liberalismo, libertarismo e consumo illimitato sono fratelli di sangue che, in varie maniere, il secolo trascorso ha tentato di sconfiggere.

Qualcuno ha definito il Novecento come l’epoca che ha tentato, fallendo, di ristabilire il primato della politica, ossia delle idee e dello spazio pubblico, sull’economia.

La tragica vittoria liberale fa sì che, nell’opinione corrente, ciò che non è liberale (brr, l’illiberale!) sia considerato malvagità, patologia, da estirpare anche con la forza, come dimostrano le guerre camuffate da polizia internazionale o ristabilimento della pace.

 L’Italia ha svolto disciplinatamente il suo compitino di servizio: pagare, partecipare in seconda fila, spargere il sangue dei propri figli.

Il mercatismo vigente, il liberalismo globalista sono presentati come la fine della storia ed il migliore dei mondi possibili, anzi il compimento necessario della “storia in progress”.

Cooptate le destre e le sinistre nel calderone unito dal mercato, hanno diffuso un grottesco antiautoritarismo strumentale, frutto della lezione distruttiva di Deleuze, Guattari, Foucault, Marcuse, venerati maestri del nulla, sino a Negri ed Hardt, finti comunisti teorizzatori di una moltitudine subumana indistinta, spinta dal desiderio, affascinata da un cosmopolitismo astratto e adepta del nomadismo fisico e subculturale.

 Hanno costruito anche una opposizione ad essi funzionale, i “no global” che in realtà sono “new global”, o “altermondialisti”, la cui unica obiezione all’universo liberale riguarda la richiesta di minore ingiustizia sociale:

più consumo per tutti, un enorme outlet a buon mercato in cui il rito pagano degli sconti sia celebrato almeno una volta al mese.

Il liberalismo è riuscito financo a decostruire le vecchie classi sociali, sostituite con il nuovo viandante globale nel pianeta consumo.

Finita anche la borghesia, le nuove classi alte, dirigenti d’impresa, azionisti delle società quotate in borsa, accademici, sono pervasi da quella distruttiva “furia del dileguare” che Hegel criticava nel sistema di Rousseau, ovvero l’abolizione di ogni intermediazione sociale o morale, che sfocia nel vuoto esistenziale. 

Nuove classi opportunamente formate a vivere senza “coscienza infelice”, lontani dai rimorsi, estranei alla dimensione etica, indifferenti all’Altro.

Ha fatto abbastanza danni, ha disseminato abbastanza macerie la rivoluzione liberale compiuta da almeno trent’anni a questa parte.

 Piaceva a Berlusconi quanto a Renzi, Macron, Draghi e all’intera élite occidentale, è la religione secolare dell’oligarchia, “destra del denaro”, “sinistra dei costumi”, “centro degli affari”.

Pessimi testimonial davvero, per usare il loro lessico pubblicitario, se l’albero si giudica dai frutti.

Alla larga, dunque.

E poiché enorme è stata la vittoria, più rovinosa sarà la caduta, quando avverrà.

 Speriamo di assistere almeno ai preliminari di una rivoluzione antiliberale, o almeno di una rivolta morale e civile che spazzi via l’interminabile menzogna degli arroganti di oggi.

(ROBERTO PECCHIOLI)

 

 

 

Prof. Sinagra: “Chi Pecora

si Fa il Lupo se la Mangia.”

Conoscenzealconfine.it – (1° Settembre 2023) - Augusto Sinagra – ci dice:

 

Parlare di “Nostra Signora della Garbatella” non è certamente un esercizio culturale e nemmeno politico.

 Ha però un rilievo antropologico che evidenzia, tra le tante altre cose, in capo al soggetto una totale sconoscenza della saggezza popolare (che è anche un fatto di cultura).

È sotto gli occhi di tutti il deplorevole asservimento della Signora in questione agli interessi USA e alle logiche bellicistiche della NATO, senza dimenticare l’asservimento alle politiche iugulatorie dell’Unione europea.

Nonostante tutto ciò, o forse proprio per questo, e nonostante i miliardi di euro buttati nel conflitto USA c. Russia in Ucraina, per sostenere le paranoie e le malefatte di un mal riuscito comico cocainomane, la “Signora della Garbatella” non solo ha trascurato le larghe fasce di povertà in Italia, ma ha sbagliato completamente i suoi calcoli (se mai la sua testa fosse stata capace di elaborarne uno).

A fronte delle sue assicurazioni (“l’Ucraina vincerà sicuramente”) la situazione è che i circoli bellicistici atlantici, resisi conto della loro grandissima minchiata nello sfidare la Russia, ricercano una soluzione di pace prevedendo che l’Ucraina dovrà cedere alla Russia vasti territori a cominciare dalla Crimea.

Da questi colloqui anche con Francia, Inghilterra e Germania, la Signora Meloni è stata radicalmente esclusa.

Cioè, è considerata come il due di coppe a briscola se la briscola esce a spade.

 

Dell’Italia non si parla minimamente del post-guerra in Ucraina (tanto meno per eventuali ricostruzioni) e non le si riconosce alcun peso politico né in Europa e né in Africa, specialmente per quel che riguarda il Niger e la fascia del Sahel.

Dopo il suo totale asservimento e la compromissione delle nostre relazioni con la Federazione Russa, Giorgia Meloni da “Garbatella City”, cosa ha “portato a casa”? Qui la citazione di “Cetto La qualunque” è d’obbligo: “Una beata minchia”.

Questo succede a chi si fa pecora: il lupo se la mangia.

 Salvo che l’essere pecora non sia una scelta ma una condizione oggettiva.

(Augusto Sinagra – Professore ordinario di diritto delle Comunità europee presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Avvocato patrocinante davanti alle Magistrature Superiori, in ITALIA ed alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a STRASBURGO.)

(imolaoggi.it/2023/08/28/chi-pecora-si-fa-il-lupo-se-la-mangia/)

 

 

 

 

1989: Nascono le Politiche

Europee della Scuola.

Conoscenzealconfine.it – (31 Agosto 2023) - Patrizia Scanu – ci dice:

 

L’idea di una politica comune europea della scuola e dell’istruzione si fa strada a partire dalla fine degli anni ’80 e coincide con la privatizzazione degli spazi pubblici che è il contrassegno stesso della globalizzazione economica.

Si tratta di un vero e proprio colpo di mano elitario, che mette di fatto l’educazione delle nuove generazioni nelle mani della “Commissione europea” e dei gruppi di pressione che (con lauto pagamento delle multinazionali. N.D.R.) ne dirigono l’azione e ne orientano l’ideologia.

Fino al Trattato di Maastricht non era prevista una politica europea comune della scuola.

A ogni nazione veniva lasciata piena autonomia decisionale nell’ambito dell’istruzione.

Ma nel 1989 la Tavola Rotonda Europea degli Industriali (in inglese la sigla è E.R.T.I.), riunitasi per la prima volta a Parigi nel 1983 per iniziativa di “Pehr G. Gyllenhammar”, l’amministratore delegato di Volvo, pubblica un documento intitolato “Educazione e competenze in Europa”, nel quale comincia a farsi strada l’idea che l’industria europea debba dare indicazioni ai governi sulle esigenze formative dell’impresa, in nome del mercato.

Nico Hirtt” , esperto lussemburghese dell’argomento, cita i passaggi più significativi del volume, che verranno riecheggiati in tutti i documenti europei successivi, fino ad oggi:

“Lo sviluppo tecnico e industriale delle imprese, vi si legge, esige chiaramente un rinnovamento accelerato dei sistemi di insegnamento e dei loro programmi “.

L’ERTI lamenta che “l’industria non abbia che un’influenza molto debole sui programmi insegnati”, che gli insegnanti abbiano “una comprensione insufficiente dell’ambiente economico, degli affari, della nozione di profitto” e che essi “non capiscano i bisogni dell’industria”.

Quindi, insiste la Tavola Rotonda, “competenza e educazione sono fattori di successo vitali”.

In conclusione, il potente gruppo di pressione padronale suggerisce di “moltiplicare i partenariati tra le scuole (e) le imprese”.

Esso invita gli industriali a “prendere parte attiva allo sforzo per l’educazione” e chiede ai responsabili politici “di coinvolgere gli industriali nelle discussioni che riguardano l’educazione”.

È così che nel 1992 il trattato di Maastricht affida, con l’articolo 126, la competenza in materia d’istruzione alla Commissione europea, organo non elettivo.

A tal fine viene creata la DGXXII, la Direzione generale dell’”Educazione, della Formazione e della Gioventù”, diretta dalla socialista francese “Edith Cresson”.

Si tratta di una sorta di “ministero” europeo dell’Educazione.

E poiché l’obiettivo polemico dell’”ERTI” era la “centralizzazione burocratica” dei sistemi scolastici nazionali, viene indicata la decentralizzazione come uno degli obiettivi principali da perseguire.

Seguono gli investimenti privati nell’istruzione, l‘introduzione delle nuove tecnologie informatiche, l’insistenza sulla flessibilità in uscita, la subordinazione della scuola al mondo del lavoro, l’insistenza sulle competenze, anziché sulle conoscenze, l’educazione permanente.

In una società in tumultuoso cambiamento, la scuola deve cessare di essere il luogo della cultura, della tradizione, della formazione di teste pensanti e di cittadini responsabili e diventare il luogo liquido del continuo adattamento alle richieste dell’ambiente economico e della produzione di massa di manodopera a basso costo, docile rispetto alle richieste dell’impresa, oppure formata ad alto livello tecnico, ma poco consapevole dal punto di vista culturale.

Una scuola duale, insomma, creata su misura per la competizione economica e per il risparmio delle imprese.

Nell’universo darwiniano dell’ideologia capitalista la parola d’ordine è deregolamentare, ovvero sottrarre al controllo dello Stato e mettere in concorrenza fra loro reti di realtà locali autonome.

 Nasce da qui l’autonomia scolastica, primo passo concreto verso la lenta, ma inesorabile distruzione della scuola pubblica, completata ora dal sinistro quanto sgangherato piano della Scuola 4.0.

Da quel documento del 1989 il lessico dell’istruzione si riempie di parole-chiave del linguaggio neoliberista, abilmente mascherate da innovazione e progresso:

si parla di debiti e crediti, di standardizzazione, di successo formativo, di offerta formativa, di portfolio delle competenze, di dirigenti scolastici, di e-learning, di partenariato pubblico-privato, di spirito imprenditoriale ecc.

 

Leggendo i documenti e constatandone l’esito effettivo, le parole d’ordine vanno per lo più intese al contrario:

 la lotta alla dispersione scolastica diventa il pretesto per politiche ancora più orientate alla gerarchizzazione della formazione;

con la scusa dell’educazione permanente e della flessibilità si promuove la nascente industria europea del digitale e della formazione a distanza;

con l’esaltazione delle competenze – più nel senso del verbo inglese to compete che di quello latino cum-petere – si svuota di contenuti l’insegnamento tradizionale.

Il nuovo lavoratore dell’industria nel mondo globale deve essere flessibile in tutti i sensi:

 accettare qualunque lavoro e qualunque stipendio, adattarsi a orari e richieste di qualunque tipo, essere costantemente disponibile a formarsi, soprattutto a distanza, e a cambiare spesso lavoro.

Le risorse economiche per l’istruzione, che vanno opportunamente ridimensionate, devono essere indirizzate soprattutto alla digitalizzazione dell’insegnamento.

Perciò, nel 1996 “Jean-Louis Reiffers”, che aveva collaborato l’anno prima con “Edith Cresson” alla stesura del famoso Libro Bianco Insegnare e imparare: verso la società conoscitiva”, scrive:

“È adattandosi alle caratteristiche dell’impresa dell’anno 2000 che i sistemi d’educazione e di formazione potrebbero contribuire alla competitività europea e al mantenimento dell’occupazione”.

Nel 2000, a Lisbona, si esalta l’e-learning come nuova frontiera dell’insegnamento e si tracciano gli obiettivi economici della futura “società della conoscenza”, nella quale la conoscenza è funzionale all’economia e alla competizione globale:

 l’“obiettivo strategico fondamentale” dell’UE è “divenire l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita economica durevole, accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da una maggiore coesione sociale”.

Alla scuola tradizionale, fondata sulla trasmissione intergenerazionale della cultura e sulla formazione della persona, si sostituisce progressivamente la scuola per l’impresa, fatta essa stessa impresa, nella quale si parla di competenze professionali (nelle nuove tecnologie informatiche, nelle lingue, nello spirito d’impresa, nella pluridisciplinarità) e sociali (“fiducia in se stessi, indipendenza, attitudine ad assumersi rischi” ), di formazione permanente (sviluppando le competenze di base e la capacità di imparare e facendo così risparmiare le imprese sulla formazione), di alfabetizzazione informatica e, come si è detto, di e-learning, di deregolamentazione e decentramento dei sistemi di istruzione nazionali, per renderli ” flessibili” e metterli in concorrenza fra loro, di partenariato con le imprese (“Gli istituti scolastici, i centri di formazione e le università dovrebbero essere aperti sul mondo: è opportuno assicurare i loro legami con l’ambiente locale, con le imprese e con i datori di lavoro in particolare, per migliorare la comprensione dei bisogni di questi ultimi e accrescere in questo modo l’occupabilità dei discenti” ), di diversificazione dell’offerta, per venire incontro a bisogni diversi e “creare sistemi elastici di validità dei titoli”  (ovvero, indebolire il valore legale del titolo di studio, per aumentare la flessibilità e ridurre le tutele), di mobilità degli studenti (ottimo alibi per l’armonizzazione dei percorsi di studi e per un controllo europeo dell’insegnamento), di cittadinanza e impegno sociale (obiettivo che però poi tende ad indebolirsi nei documenti successivi) e di lotta all’esclusione, da attuare in tre modi:

la sponsorizzazione delle scuole da parte di imprese, le convenzioni d’inserimento scuola-impresa (ecco lì l’alternanza scuola-lavoro), l’attuazione di tecnologie educative di punta.

Entra così nella mentalità comune l’idea strumentale e distorta che il fine dell’istruzione sia l’occupazione, che le competenze informatiche siano indispensabili per la scuola, addirittura fine e non semplicemente mezzo della didattica, che la precarietà (chiamata pudicamente “flessibilità”) sia una condizione “naturale” nel mondo del lavoro, che sia normale il condizionamento privato dell’istruzione pubblica e accettabile che siano gruppi di pressione privati e fondazioni aziendali o bancarie a suggerire le linee-guida dell’istruzione ad una classe politica sostanzialmente asservita al potere economico (chi non ricorda le patetiche “tre i” della berlusconiana ministra Letizia Moratti: Inglese, Informatica e Impresa?) e indifferente al destino della cultura e dell’educazione.

Dagli anni ’90 ad oggi il declino culturale della scuola si è accelerato fino al precipizio con la sequenza delle “riforme”:

la riforma Moratti (2001), la riforma Gelmini (2008), la Buona scuola renziana (2015), le sciagurate e inutili misure pandemiche nella scuola, che hanno però permesso di condannare milioni di ragazzi alla DAD, fino all’epilogo tragico del PNRR, trionfo del nulla tecnologico e pietra tombale definitiva sulla scuola della Costituzione, della libertà di pensiero, del senso critico, della cultura umanistica e scientifica disinteressata, dell’arte e della bellezza.

 Soprattutto, cancellazione definitiva dello studente e della sua crescita umana e intellettuale come fine supremo dell’educazione.

(Patrizia Scanu)

(European Round Table of Industrialists (1989), Education and European Competence: ERT study on education and training in Europe.)

(Scanu, La perversione neoliberista e la legge della “Buona Scuola.”

Scanu, Ce lo chiede l’Europa? Le politiche scolastiche e la Costituzione neoliberista.

Scanu, Senza storia non c’è memoria. Salviamo l’insegnamento della storia.

Scanu, La scuola spolpata: il bilancio di vent’anni di riforme neoliberiste.

Scanu, Quale scuola per l’Europa che verrà?

Scanu, Scuola, ultimo atto: quando la competenza scaccia la conoscenza.)

 

 

 

George Orwell: la letteratura

è una palestra di libertà.

Oscarmondadori.it - Redazione Oscar – (30 settembre 2019) – ci dice:

 

Ciò che soprattutto ho cercato di fare negli ultimi dieci anni è stato trasformare la scrittura politica in arte.

Il mio punto di partenza è sempre un senso di partigianeria, un senso d'ingiustizia. Quando mi accingo a scrivere un libro io non mi dico «Voglio produrre un'opera d'arte».

 Lo scrivo perché c'è qualche bugia che voglio smascherare, qualche fatto su cui voglio attirare l'attenzione, e il mio primo pensiero è quello di farmi ascoltare.

Ci sono scrittori che hanno intrecciato a tal punto letteratura e vita, da rendere quasi impossibile distinguere oggi l'uomo dal romanziere.

George Orwell è uno di loro.

Questa connessione inestricabile tra vita vissuta e vita scritta si respira nei suoi romanzi, nelle raccolte di saggi, nelle scelte personali e in quelle di impegno sociale e civile.

Basti pensare a “Giorni in Birmania”, nato dal suo lavoro di membro nella polizia coloniale;

a “Omaggio alla Catalogna” che ha origine dalla militanza come urgenza in un momento cruciale della sua storia;

a “Senza un soldo a Parigi e Londra”, ispirato al periodo in cui l'autore fece realmente esperienza della miseria e degli incontri a essa legati.

In questo filone di libri fortemente "personali" si inscrive anche Letteratura palestra di libertà, una raccolta di saggi degli anni ’30 e ’40 che offre un'interessante campionatura dei suoi gusti letterari e che delinea al tempo stesso un ritratto unico dell'autore.

Non solo:

il libro è una riflessione a tutto tondo sul romanzo contemporaneo, sul ruolo della letteratura nella società e sul modo con cui questa dialoga con la politica, le istituzioni, il popolo.

Problematicamente Orwell contrappone la propria condizione a quella di Dickens dicendo:

"era un romanziere popolare e capace di scrivere della gente comune. Lo furono anche tutti i tipici romanzieri inglesi dell'Ottocento.

Si trovavano a proprio agio nel mondo in cui vivevano, mentre oggi uno scrittore è tanto disperatamente isolato che il tipico romanzo moderno è un romanzo che parla di un romanziere".

Un libro per seguire l'evoluzione del pensiero critico di Orwell.

“Letteratura palestra di libertà” è una raccolta che fa emergere la grandezza del pensiero di Orwell nella sua ricchezza di sfumature e anche di contraddizioni:

gli anni '30 e '40 non furono solo decisivi nella parabola esistenziale dell'autore, allora poco che più che trentenne, ma soprattutto per gli sviluppi storici dell'Europa, in fiamme tra l'emergere dei totalitarismi e le guerre.

Se nel 1946, infatti, lo scrittore dichiarò "ogni riga di lavoro serio che ho prodotto a partire dal 1936 l'ho scritta, direttamente e indirettamente, contro il totalitarismo", alcuni saggi contenuti nella raccolta ci mostrano un Orwell non sempre engagé, come scrive Guido Bulla nella sua introduzione al volume.

Per Orwell l'impegno era fondamentale, ma temeva che lo scrittore diventasse alla lunga un propagandista, anche perché la scrittura stessa ha una doppia valenza all'interno della società:

 a volte positiva e liberatrice, altre oscura e oppressiva (il personaggio di O'Brien insegna...).

Per questo Orwell non ha mai smesso di rivendicare la sostanziale libertà dello scrittore come "battitore libero".

I buoni romanzi non li scrivono i cani da fiuto dell'ortodossia né la gente contrita per la propria eterodossia.

 I buoni romanzi li scrive la gente che non ha paura.

I mestieri del libro vissuti da George Orwell.

I testi raccolti in “Letteratura palestra di libertà” raccontano il rapporto che Orwell aveva con la letteratura.

Agli interventi critici e alle riflessioni di ampio respiro l'autore alterna la rievocazione di episodi di vita.

In questo senso si può leggere il libro anche come un catalogo personale delle tante occasioni in cui lui ha lavorato con i libri e li ha vissuti.

ORWELL LIBRAIO

Sì, per chi non lo sapesse:

Orwell per un periodo ha lavorato in un negozio di libri usati tra Hampstead e Camden Town, un luogo che i più immagineranno come un paradiso di bibliofili, ma del quale lui racconta i risvolti più inediti con ironia e lucidità.

"La nostra libreria offriva anche volumi eccezionalmente interessanti, ma dubito che uno su dieci dei nostri clienti fosse in grado di distinguere un buon libro da uno brutto", esordisce.

Poi, come in un inventario bibliografico, ci offre il catalogo dei tipi umani frequentatori della libreria:

l'adorabile vecchietta che nel 1897 ha letto un libro di cui, ovviamente, non ricorda il titolo né l'autore;

 il signore decaduto che puzza di croste di pane raffermo;

il cliente sempre in ritardo con i pagamenti.

Nel raffigurare tutti loro, ecco che ci offre un ritratto anche di sé, confessando che, dopotutto, il libraio non era proprio il ruolo perfetto per lui che i libri amava più viverli senza l'obbligo di spolverarli e riordinarli, senza l'ansia del credito ai clienti o i tentativi di convincimento dei clienti.

 Sono pagine che aprono uno spaccato sulla Londra di inizio Novecento e contemporaneamente sull'intima quotidianità del giovane Orwell, che immaginiamo imbronciato tra gli scaffali, intenso a riflettere su vittoriani "più alti doveri".

ORWELL CRITICO.

“Letteratura palestra di libertà” dà testimonianza anche dell'Orwell recensore, con i numerosi interventi critici che lo pongono a diretto dialogo con altri maestri della letteratura come Dickens, Eliot, Miller, Kipling...

Come critico Orwell ha un piglio fine, lucido, preciso, tagliente. Non cede mai a classificazioni semplicistiche: coglie i limiti dell'ispirazione di Dickens, cresciuto nella piccola borghesia urbana, ma esalta il lato sovversivo del suo senso morale; racconta la visione di Kipling, profeta dell'imperialismo britannico poi deluso dal decadente sogno dell'Impero; boccia Il nocciolo della questione di Graham Greene definendone del tutto "ridicola" la trama; si entusiasma per la prima produzione di Eliot. Lo ritroviamo sotto infinite pile di volumi, intento a chiedersi se riuscirà mai a scrivere di tutti e soprattutto se ne valga davvero la pena.

Nel saggio Gli scrittori e il Leviatano si ritrova, invece, un Orwell intento a discutere il complesso rapporto tra arte e propaganda, temi presenti anche nella raccolta Verità/Menzogna.

ORWELL SCRITTORE.

In filigrana, dietro il suo discorso sul mondo esterno e sui libri degli altri, emerge il suo ritratto di uomo scrittore.

Perché scrivo è un saggio illuminante in cui Orwell racconta quelle che secondo lui sono le principali ragioni dello scrivere per gli autori:

- il puro e semplice egoismo;

- l'entusiasmo estetico;

- l'impulso storico;

- l'intento politico.

E poi riporta la lente d'ingrandimento su di sé, sul proprio senso dell'ingiustizia, sui tentativi di interpretazione del mondo. Ecco che si sentono in sottofondo le parole di 1984 e de La fattoria degli animali.

E POI... UNA CURIOSITÀ: LIBRI CONTRO SIGARETTE.

Voi cosa rispondereste a chi vi dice che la lettura è un hobby troppo costoso?

 Orwell non si è limitato a una generica presa di posizione, ma ha cominciato a inventariare i propri libri e a calcolarne il prezzo complessivo.

Le stime sono confluite in un fine contributo critico che si intitola Libri contro sigarette, in cui cataloga tutti i volumi in suo possesso (circa 900) e il loro costo totale (165 sterline e 15 scellini).

Il costo speso per i libri, unito a quello di altre spese di lettura come periodici e biblioteche, porta a un totale annuale di 25 sterline che sembrano parecchie finché non paragonate a spese di altra natura, come il tabacco.

Qui parte il confronto serrato tra libri e sigarette e sì, senza tanti misteri, alla fine hanno vinto i libri.

 

 

 

Un mondo senza sogni e

speranza: 1984 di George Orwell.

  Einsteinvimercate.edu.it – (29 MAGGIO 2019) – Giulia Cipolli – ci dice:

 

“La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza” 1984.

Il libro di George Orwell è ambientato nel “1984” dopo la terza guerra Mondiale.

Il mondo è suddiviso in “Eurasia”,” Oceania ed “Estasia” in continua lotta tra loro.

La capitale dell’Oceania è Londra e la società è amministrata secondo i principi del Socing

A capo del governo è il Grande Fratello che spia i singoli cittadini attraverso teleschermi presenti nei luoghi di lavoro, di comunità e nelle case.

A mantenere la sicurezza è la psico polizia, che agisce quando si hanno casi sospetti di tradimento.

Con il Grande Fratello l’amore è vietato perché i sentimenti non potrebbero essere controllati.

 Le persone si sposano solo per far nascere dei figli.

Nel mondo del partito si è soli, non ci si può fidare di nessuno, neanche della famiglia.

 Infatti, molte volte, sono proprio i figli a denunciare i genitori, come nel caso di Parsons.

Per opprimere maggiormente le idee dei cittadini viene ideata una nuova lingua epurata dai termini ambigui.

 I libri vengono riscritti utilizzando la Neolingua e in questi vengono rimossi i concetti che potrebbero portare a pensieri critici individuali.

La falsità del Grande Fratello si può osservare nei quattro Ministeri:

 nel Ministero della Pace si mira alla guerra, in quello dell’Abbondanza si vuole mantenere in povertà i cittadini, in quello della Verità si falsificano e riscrivono i documenti per mantenere l’integrità del Partito, infine, nel Ministero dell’Amore vengono torturati i cittadini che non sono d’accordo con il Partito.

 Le persone in questo caso vengono violate fisicamente e mentalmente, secondo la logica del bipensiero.

Con il bipensiero si deve credere a idee opposte tra di loro accettandole entrambe.

Tutte le persone che tentano di ribellarsi contro il Partito non vengono semplicemente uccise, ma fatte scomparire e rieducate.

Il Grande Fratello vuole non solamente che i componenti del Partito mostrino obbedienza, ma desidera che i singoli cittadini credano in lui come se sia un Dio.

Il protagonista della storia narrata è “Winston Smith”, un signore di 39 anni che lavora nel “Ministero della Verità”.

Entrato in crisi, inizia a non credere nelle idee del partito e per sfogarsi decide di scrivere un diario in un angolo remoto della sua stanza.

 In una manifestazione chiamata “i 2 minuti d’odio” contro Goldstein, nemico giurato del partito, incontra Julia.

 Da questo incontro, nasceranno conseguenze che sconvolgeranno la sua vita e la sua visione del Grande Fratello.

 

Il libro di George Orwell è stato scritto nel 1948 ed è poi stato proiettato in un ipotetico futuro invertendo le ultime due cifre.

1984 è definito un romanzo distopico, in quanto nel testo viene descritto un futuro molto pessimistico.

 Il romanzo, infatti, ci proietta in un universo plumbeo e negativo, senza sogni e senza speranza.

Nel libro si hanno numerosi riferimenti politici ai sistemi totalitari, in particolare a quello di Stalin.

Infatti, proprio come succede nel libro, “Stalin” aveva fatto falsificare dei documenti e cancellato la storia, in modo che l’unica fonte veritiera potesse essere lui.

Inoltre 1984 vuole far capire che non bisogna utilizzare in modo smisurato i mezzi di comunicazione e i sistemi di controllo e che la libertà di pensiero e di giudizio è fondamentale per la vita.

(Giulia Cipolli)

 

 

 

PICCOLE FRAGILITÀ QUOTIDIANE

LA TEMPERATURA DELL'ESTATE.

Theitalianreview.com – (10 -3-2023) – Giorgio Falco – ci dice:

 

L’uomo aveva passato l’estate nella casa al mare.

Quando l’aveva comprata, tre anni prima, non avrebbe mai immaginato di godersi così tanto il suo nuovo bene immobile, settanta metri quadrati disposti al piano terra, oltre al giardinetto.

Dall’inizio dell’estate era rimasto quasi sempre steso su un lettino che pareva prelevato da uno stabilimento balneare frequentato da vip.

 Il lettino era in un angolo del giardinetto, accanto alla rete di recinzione che divideva la proprietà dell’uomo da una delle proprietà confinanti.

L’immobile era all’interno di un residence edificato nella seconda metà degli anni Settanta, dieci anni prima che l’uomo nascesse.

Il residence era costituito da una serie di villette bifamiliari, che contenevano appartamenti al piano terra e al primo piano, cosicché poteva capitare – e nel caso dell’uomo era accaduto – che un giardinetto fosse al centro degli sguardi di altre quattro proprietà confinanti.

 Il giardinetto dell’uomo era il cuore di questa porzione di residence.

L’uomo aveva acquistato un ombrellone a palo decentrato, il palo in alluminio grigio sormontato dal telo in poliestere bianco, che durante i pomeriggi assolati irradiava una luce abbagliante verso l’aria ferma attraversata soltanto da moschini e zanzare;

 ecco la prova che le indicazioni del libretto di istruzioni – trattamento di protezione anti UV – erano vere, il telo attirava tutta la luce disponibile che rimbalzava via, il telo proteggeva l’uomo, scacciava altrove calura e raggi ultravioletti, mitigando la temperatura percepita.

Il braccio laterale permetteva di inclinare l’ombrellone in rapporto alla posizione del sole, assicurando l’ombra e un po’ di frescura anche nelle giornate più torride.

Bastava che l’uomo si alzasse dal lettino per girare la manovella, e quei giri di manovella, giorno dopo giorno, avevano segnato l’estate come il sottofondo di un motivetto orecchiabile, e la luce era mutata con il passare delle settimane e in particolare all’inizio di settembre, quando il buio aveva conquistato tre o quattro minuti di ogni giornata, occupazione sottolineata dal cigolio della manovella, segnale della fine di stagione.

E tuttavia la temperatura, anche a settembre, rimaneva al di sopra della media; il prato artificiale del giardinetto – in polietilene e polipropilene – scottava le piante dei piedi, l’uomo passava il tempo sdraiato sul lettino o seduto all’ombra, su una delle due sedie in teak, i piedi appoggiati al tavolino abbinato, lo smartphone tra le mani, la testa china verso il piccolo schermo.

Forse l’uomo sentiva la mancanza della moglie, una coetanea con la quale si era sposato una decina di anni prima; dal loro matrimonio erano nate due bambine, una di dieci anni e l’altra di dieci mesi.

A settembre, la moglie e le figlie erano ritornate in città, ma durante i tre mesi precedenti la donna era andata in spiaggia assieme alle bambine.

L’uomo invece non era mai andato in spiaggia, era rimasto nel suo solito spazio ricavato in un angolo del giardinetto, e nessuna delle figlie si era chiesta come mai il padre non andasse in spiaggia, nemmeno la più piccola aveva ripetuto, pa-pa, allungando le braccia verso l’oggetto del suo amore.

I giorni settembrini erano passati senza le discussioni dei mesi precedenti, discussioni che l’uomo aveva sostenuto con la moglie stremata dalla sua presenza continua nel giardinetto.

I litigi avvenivano sulla soglia tra il giardinetto e i settanta metri quadrati, in corrispondenza dello stipite della portafinestra che metteva in comunicazione il soggiorno con il giardinetto;

quel punto della casa, osservato dalla finestra di uno dei vicini, era coperto dalla presenza di due albicocchi, che con le loro foglie occultavano l’origine delle discussioni coniugali, come se il tono sempre più alto delle voci, le accuse reciproche, gli insulti, le bestemmie – ripetute per lo più dalla donna, e non dall’uomo – fossero un elemento naturale, il frutto generato da quello stesso venticello che smuoveva le foglie verdi in accordo alle parole, prima della caduta autunnale.

 

Ma nonostante fosse settembre, l’autunno pareva ancora lontanissimo, l’uomo si distendeva sul lettino, alternando la visione dello smartphone a una consultazione molto accurata, un’ispezione, del proprio corpo, quasi che il corpo osservato non fosse del tutto suo:

 il corpo tatuato sulle braccia, sulle gambe, e forse anche in corrispondenza delle caviglie;

si scrive forse poiché, osservato dalla finestra di uno dei vicini, erano visibili soltanto il volto, il busto, le gambe fino alle tibie; i malleoli e i piedi erano preclusi allo sguardo.

L’uomo si difendeva dalla luce con i Rayban da aviatore, la montatura dorata, le lenti blu, che a seconda della torsione della testa ricordavano il mare calmo e cristallino di un dépliant pubblicitario, o l’imbrunimento pomeridiano reale, tipico dell’alto Adriatico.

 

Il taglio di capelli era simile a quello di molti calciatori: corti, ma non troppo, sulla parte superiore della testa; sfumati sulle tempie e sulla nuca.

Un taglio banale ma molto curato, incongruo per un uomo che, all’apparenza, era rimasto chiuso in casa almeno tre mesi.

Forse l’uomo aveva ricevuto a domicilio un parrucchiere, che gli aveva sistemato i capelli in soggiorno.

A settembre, rimasto solo nel vuoto ancora assolato, forse l’uomo sentiva la mancanza della famiglia:

dal lettino non vedeva più la figlia maggiore, non vedeva la moglie girare attorno al perimetro del giardinetto spruzzando, con la piccola in braccio, insetticida contro le reti e le siepi divisorie, mentre la bambina indirizzava la mano verso il getto di veleno, credendo fosse un gioco.

Forse l’uomo sentiva la mancanza delle bestemmie coniugali, la pienezza delle urla domestiche.

 Quando litigavano, l’accento di entrambi era un miscuglio di Nord e Sud, ma, a seconda dei picchi di intensità, una delle due zone geografiche prendeva il sopravvento;

 lei, in particolare, aveva un accento bolognese, eppure nell’incrinatura della voce, durante i litigi, rivelava un’inflessione segreta, custodita dentro di sé:

 un Sud generico, televisivo, blasfemo, le due inflessioni trovavano l’equilibrio perfetto soltanto quando la donna bestemmiava;

ecco che allora, il suo banale e personalissimo dio porco, il suo banale e personalissimo dio cane, il suo ancor più banale e personalissimo e sostitutivo dio canta, non erano più davvero soltanto suoi:

erano l’Italia, la nazione.

In una calda serata di metà settembre, l’uomo era rimasto da solo al buio, nel giardinetto a stento illuminato dalla luce gialla di una lampada.

 Oltre alla moglie e ai figli, tutti gli altri villeggianti avevano lasciato il residence.

O almeno, così credeva l’uomo, sprofondato nella sedia in teak.

Aveva scritto una serie di messaggi, poi era andato in bagno, aveva aperto il rubinetto dell’acqua e composto un numero di telefono azionando il vivavoce, tanto che il pigiare sui numeri si era avvertito in tutta la porzione del residence, così come la voce della moglie.

All’inizio la voce non era sembrata proprio quella della moglie, e non soltanto a causa della differente percezione tra una voce ascoltata dal vivo e una voce ascoltata tramite un apparecchio che, grazie alle finestre spalancate a causa del caldo anomalo, rimbombava ogni sillaba, provocando la leggera distorsione rispetto all’originale;

 la voce della moglie era sembrata diversa anche a causa del tono;

la conversazione, infatti, era molto affettuosa, intervallata da continui amò, ripetuti sia da lei sia da lui;

quelle loro schermaglie amorevoli erano destabilizzanti, sembravano senza lingua, senza città, senza origine, senza destinazione: parole incuneatesi dentro gli apparecchi, al momento della fabbricazione.

 

L’affetto telefonico si era alternato a consigli pratici e i consigli pratici avevano riportato la coppia nel mondo.

L’uomo aveva chiesto alla moglie delucidazioni a proposito della procedura relativa al suo rientro a casa, in città.

 Aveva ricevuto una lettera grazie alla quale era autorizzato a uscire dalla casa al mare.

 Era agli arresti domiciliari, portava il braccialetto elettronico alla caviglia.

La conversazione tra i due coniugi era durata ventisette minuti passati dall’uomo sotto la doccia, un getto di cui si era percepito lo scroscio molto forte, che dalla schiena dell’uomo scendeva verso lo scarico, e forse la donna aveva ripetuto più volte le stesse raccomandazioni poiché la conversazione era stata disturbata dall’acqua entrata nelle orecchie dell’uomo, il quale, non è da escluderlo, teneva gli occhi socchiusi o chiusi, quasi per difendersi dalle parole della donna, e dall’acqua.

 

Il 10 aprile 2023, Lunedì dell’Angelo, mi è tornata in mente la storia che ho scritto qua sopra.

Avevo un dolore molto forte alla caviglia sinistra.

 Non riuscivo a camminare o ad appoggiare il piede a terra, e anche restando immobile e sdraiato la caviglia era attraversata da una serie di fitte dolorose, sia al malleolo laterale, sia al mediale.

 Sono rimasto a letto, non riuscivo a leggere, a scrivere, non riuscivo a guardare un film o un po’ di sport.

Guardavo il piede adagiato su due cuscini, il gonfiore doloroso, espanso al di là del mio stesso corpo, e allora ho ripensato al braccialetto elettronico dell’uomo.

Se l’uomo avesse avuto il mio stesso problema fisico, non avrebbe potuto indossare il braccialetto elettronico.

 La caviglia era così gonfia che il braccialetto elettronico si sarebbe trasformato in una tortura.

 Forse la pressione tra il gonfiore e la stretta del dispositivo avrebbe spaccato il braccialetto elettronico, trasformando l’uomo in un evaso.

Dovevo avere qualche linea di febbre mentre pensavo alla storia dell’uomo, e mi rimbombavano in testa, a distanza di una decina di mesi, le bestemmie della donna, e, soprattutto, il suono dell’acqua, ventisette minuti di doccia durante una calda serata di settembre.

Quanti litri d’acqua servono per una doccia di ventisette minuti?

Quanti minuti dura la doccia in un carcere?

Quale tipo di reato aveva commesso l’uomo?

Furto? Truffa? Ricettazione?

Spaccio di droga?

Sette giorni dopo il Lunedì dell’Angelo, ho acceso riluttante l’auto per andare al supermercato e ho guidato con più prudenza del solito, rimpiangendo di non avere il cambio automatico.

Ogni volta che premevo la frizione, sentivo una fitta al malleolo, come se avessi qualcosa attorno alla caviglia, qualcosa che appesantiva, indolenzendo non solo il malleolo, ma anche tibia e perone;

cambiavo marcia e mi ritornava in mente l’uomo agli arresti domiciliari e quello che ripetevo a proposito dello sguardo nella scrittura:

ovvero quello che mi capitava da ragazzo, allorquando, dopo una partita amatoriale di basket, sentivo un dolorino al polso, e ogni volta che cambiavo marcia, quel dolorino si trasferiva dal polso allo sguardo, e influenzava il modo in cui fissavo ciò che accadeva al di là del parabrezza, la mia percezione.

Stavolta l’epicentro del dolorino era in basso, vicino alla frizione, ma non era un dolorino, era un dolore in potenza lancinante, appena sotterraneo, pronto a manifestarsi.

Ho fatto la spesa e all’uscita, mentre spingevo il carrello nel parcheggio, ho sentito una fitta, che mi ha costretto a una smorfia e ad appoggiarmi al carrello.

Ho iniziato a zoppicare trascinando il carrello dalle rotelle cigolanti verso l’auto parcheggiata.

Ho sollevato lo sguardo e notato che, accanto a un’auto a pochi metri dalla mia, era fermo un cinquantenne, mi fissava molto interessato alla zoppia e alla mia smorfia sofferente.

Ho ricambiato lo sguardo, sapendo che nel suo interesse non c’era nulla di caritatevole.

Mentre caricavo la spesa nel bagagliaio, è arrivato un vigilante del supermercato e l’uomo interessato alla mia zoppia è andato via.

Sono uscito dal parcheggio e, sul bordo della strada, c’era l’auto dell’uomo, ferma, i finestrini abbassati.

Anch’io ho abbassato i due finestrini, avevo caldo.

Al mio passaggio ho sentito un forte botto, tipico dei ladri-truffatori che da anni usano questo metodo in tutta Italia.

Di solito lo usano con anziani e anziane, o con persone fragili.

A volte funziona.

 

Secondo il truffatore, ero una persona fragile.

Dopo il botto si è accodato a pochi centimetri, poi si è accostato mentre procedevamo a trenta all’ora, ha urlato insultandomi, accusandomi di essere la causa del botto.

Gli ho detto, senza urlare e accelerare, senza chiudere il finestrino: non rompere il cazzo.

E gli ho mostrato il telefono.

È schizzato via, veloce, e nella svolta seguente ha messo la freccia per girare a sinistra, e ho resistito alla tentazione di fotografare la sua auto da dietro, la sua freccia ineccepibile e lampeggiante, non volevo distrarmi alla guida utilizzando il telefono.

 Bene, ho pensato al semaforo successivo, ecco due cittadini modello, questa è educazione stradale.

Quando sono ripartito, ho premuto il pedale della frizione e sentito riacutizzarsi la fitta alla quale non avevo mai pensato durante quei pochi secondi precedenti.

Quest’anno, l’uomo al mare non è più agli arresti domiciliari.

Dal lunedì al venerdì è fuori casa.

La prima figlia ha undici anni, la madre la accusa di non prendersi cura della sorellina, le ripete, ha due anni.

A volte, ripete, ha due anni, dio cane.

Un giorno, rivolgendosi alla bambina più piccola, ha detto, hai due anni di merda.

La madre sembra identica a ciò che era l’anno scorso: magra, tatuata, abbronzata, proprio come il padre.

Non ha perso l’abitudine di urlare e bestemmiare circondata da oggetti costosi, ma a differenza dell’anno scorso urla e bestemmia soprattutto dal lunedì al venerdì, quando il marito è assente.

Non ha perso nemmeno l’abitudine di spruzzare l’insetticida contro le reti e le siepi divisorie;

 prende la figlia in braccio, agita prima dell’uso la bomboletta multinsetto, la bomboletta color fucsia adatta a ogni tipo di insetto, volante e strisciante: spruzza, spruzza, spruzza, spruzza, gira lungo il perimetro come le lancette, il meccanismo di un orologio che si prende tutto il tempo per agire meglio, per uccidere meglio.

La figlia minore forse ha capito il senso dei gesti materni ma vuole partecipare fingendo che sia un gioco, e in quell’oscillare tra verità e menzogna sta la perdita di innocenza.

 La madre inclina la bomboletta spray verso il male invisibile.

Quando spruzza nell’aria diffonde una piacevole fragranza fresca, tace e ha il volto rasserenato.

Elimina anche gli insetti che non vedi.

Dal giorno del Lunedì dell’Angelo ho smesso di correre, ignoro quale sia la causa del problema e non voglio saperla:

posso solo camminare, conscio che il dolore stia sottotraccia, pronto a manifestarsi anche quando non corro.

Eppure quanta soddisfazione dopo il tentativo di truffa subito fuori dal supermercato:

in quei pochi metri alla guida non ho sentito alcun dolore, non ho sentito più niente, non sapevo nemmeno chi fossi e dove mi trovassi.

Talvolta, a piccole dosi, un po’ di odio fa bene.

(Giorgio Falco).

 

 

 

 

Non è il progresso ma la povertà

che nuoce all’uomo e alla natura.

 Ottimistierazionali.it - Redazione FOR – (18/04/2018) – ci dice:

Quando si discute di protezione ambientale si parla di sviluppo sostenibile.

Molto meno di povertà insostenibile con la conservazione della natura.

È quanto ritengono una ventina di personalità statunitensi, tra scienziati, accademici, giornalisti, scrittori e attivisti, che si definiscono “Eco modernisti” e hanno sottoscritto un manifesto comune.

Ne pubblichiamo alcuni stralci.

Affermare che la terra è il pianeta degli esseri umani diventa ogni giorno più veritiero.

Gli uomini sono fatti a partire dalla terra, e la terra è rimodellata dalle mani degli uomini.

Molti geologi esprimono questo concetto affermando che siamo entrati in una nuova era geologica: l’Antropocene, l’Età degli esseri umani.

 In qualità di accademici, scienziati, attivisti e cittadini, scriviamo con la convinzione che la conoscenza e la tecnologia, applicate con giudizio, possano conseguire l’avvento di un positivo, persino superlativo, Antropocene.

Un Antropocene generoso con la specie umana implica che gli uomini applichino con padronanza i loro crescenti poteri sociali, economici e tecnologici per migliorare il benessere dei loro simili, stabilizzare il clima e proteggere il mondo naturale.

 E per fare ciò, riaffermiamo pertanto un principio cardine degli ideali ambientali, ossia che l’umanità deve allentare il suo impatto sull’ambiente per lasciare più respiro alla natura;

 e al contempo ne rinneghiamo un altro, ossia che le civiltà debbano entrare in armonia con le leggi naturali per scongiurare il collasso economico ed ecologico.

Questi due ideali non sono ulteriormente conciliabili.

 In regola generale, fintanto che sostentamento e benessere della specie umana rimangono intimamente dipendenti dall’ecosistema, esso non potrà essere tutelato e valorizzato.

Per realizzare il disaccoppiamento tra sviluppo sociale e impatto ambientale la chiave di volta è costituita nell’intensificazione di molte attività umane – in particolare nell’agricoltura, nelle attività estrattive, nello sfruttamento forestale e negli alloggi – al fine di impiegare meno suolo e contenerne l’impronta ecologica.

Questi processi socioeconomici e tecnologici costituiscono il fulcro della modernizzazione economica e della protezione ambientale.

 Combinati assieme permettono all’umanità di intervenire per “mitigare i cambiamenti climatici”, salvaguardare la natura e alleviare la povertà globale.

 

Gli ultimi 2 secoli hanno guidato l’umanità fino a un’epoca di prosperità.

L’allungamento della vita media da 30 a 70 anni ha permesso l’aumento della popolazione oggi capace di sopravvivere in ambienti diversi.

Sono stati compiuti notevoli progressi nel controllo delle malattie infettive, l’umanità ha altresì perfezionato una maggiore resilienza alle condizioni meteo estreme e ad altri disastri naturali.

 

L’abbondanza conseguita da una parte dell’umanità è avvenuta però a scapito della sopravvivenza di diversi ambienti naturali e della flora e della fauna selvatica.

 Partendo dall’assunto che gli individui sono totalmente dipendenti dalla biosfera, c’è da chiedersi come sia possibile che l’umanità distrugga la biosfera senza provocare ancora più danno a sé stessa.

Questo paradosso si spiega con il ruolo svolto dalla tecnologia per allentare il vincolo tra umanità e natura.

Le tecnologie, a partire dalle pratiche agricole che hanno sostituito le attività di caccia e raccolta, a quelle che oggi guidano la globalizzazione dell’economia, hanno affrancato gli uomini dai differenti ecosistemi, un tempo unica fonte di sostentamento, tanto più fondamentale che gli stessi risultano spesso devastati dal loro sfruttamento estremo.

Nonostante le ripetute asserzioni sulla necessità di limitare la crescita, sono poche le evidenze che provano che, in un predicibile futuro, la popolazione e lo sviluppo economico possano esaurire le potenzialità di procurarsi cibo e risorse indispensabili.

 Sono costrutti talmente teoretici da risultare irrilevanti dal punto di vista funzionale.

Seguendo un’avveduta gestione, gli umani non rischiano di mancare di superficie agricola in grado di sfamare tutti.

 Con sufficienti terre e soprattutto energia illimitata, è agevole individuare delle alternative alle risorse indispensabili per la prosperità dell’umanità quando diventano scarse o troppo onerose.

Eppure sul lungo termine gravi minacce ambientali insidiano il benessere dell’umanità, come il cambiamento climatico di origine antropogenica, l’assottigliamento della fascia dell’ozono, l’acidificazione degli oceani.

 Sebbene i rischi siano difficili da quantificare, ci sono oggigiorno sufficienti prove per capire l’impatto devastante di questi fenomeni su società ed ecosistemi.

Anche l’accadimento solo parziale e non catastrofico di una di queste minacce, comporterebbe dei costi umani ed economici notevoli, oltre alla proliferazione delle perdite ecologiche.

La maggior parte della popolazione mondiale è esposta a rischi ambientali di portata locale soffrendone poi conseguenze a livello di salute.

L’inquinamento indoor e outdoor è il responsabile di milioni di morti premature e di malattie croniche.

Ugualmente questo accade con la contaminazione di falde acquifere dovuta all’inquinamento e al degrado.

Il benessere può essere conquistato pagando costi ambientali ridotti.

Sebbene, in valori complessivi, l’impronta ecologica continui a dilatarsi, a lungo termine si evidenziano delle tendenze che indicano che il benessere e la salute dell’umanità possano essere conquistati pagando uno scotto ambientale meno pesante di quello storicamente sostenuto.

Questo disaccoppiamento si realizza sia in termini assoluti che relativi. In valori relativi significa che l’impatto ambientale aumenta in misura meno che proporzionale del tasso di accrescimento del benessere degli individui.

Quindi ogni unità aggiuntiva di bene consumato richiede un’unità proporzionalmente inferiore di mare e di terra necessaria a rigenerare le risorse consumate.

Quantitativamente esso può essere espresso in termini di km2 di foreste abbattute, di tonnellate di emissioni di gas inquinanti, di numero di specie scomparse, ecc. Complessivamente questi valori possono comunque aumentare ma con una dinamica di crescita inferiore a quella attesa.

Il disaccoppiamento assoluto tra crescita economica e impatto ambientale si realizza invece quando i valori aggregati della variabile ecologica dopo un’impennata tendono a declinare anche quando l’economia prosegue la sua ascesa.

L’andamento della popolazione mondiale è strettamente correlato ad altre dinamiche demografiche ed economiche.

 Per la prima volta nella storia, oltre metà della popolazione mondiale vive in una città.

 Entro il 2050, si prevede che il 70% degli abitanti della terra vivrà in città, valore che potrebbe salire all’80% e oltre entro la fine del secolo.

 Le città sono caratterizzate da un’alta densità abitativa e un basso tasso di fecondità.

Le città occupano appena il 3% della superficie terrestre e accolgono quasi 4 miliardi di abitanti.

 Le città sono al tempo stesso traino ed emblema dell’affrancamento dell’umanità dalla natura.

 Rispetto al contesto rurale sono più efficienti perché rispondono ai bisogni collettivi contenendo l’impatto ambientale.

La crescita delle metropoli assieme ai benefici economici e ambientali conseguenti è in diretta correlazione con lo sviluppo della produttività agricola.

Quando l’agricoltura consuma suolo e lavoro in modo più produttivo parte della popolazione rurale defluisce verso le città.

Negli USA metà della popolazione era impiegata nei campi nel 1880.

Oggi, rappresenta meno del 2%.

Quando molteplici esistenze si sono emancipate dalle fatiche dell’agricoltura premoderna, si sono liberate molte risorse umane che è stato possibile destinarsi ad altre attività.

Le metropoli, come le conosciamo noi oggi, non potrebbero esistere senza i cambiamenti radicali avvenuti in agricoltura.

Viceversa, la modernizzazione è irrealizzabile mantenendo un’agricoltura di sussistenza.

Questi avanzamenti benefici comportano non solamente un minor impiego di forza lavoro per unità di produzione agricola, ma anche un più contenuto consumo di suolo.

Non si tratta di un fenomeno completamente nuovo:

il progressivo incremento del raccolto ha, nel corso dei millenni, ridotto la superficie di terreno coltivato necessario per sfamare un individuo.

L’ammontare di suolo pro capite utilizzato oggi è immensamente inferiore a quello di 5 mila anni fa, nonostante l’uomo moderno goda di una dieta molto più ricca di quella dei suoi antenati.

 Grazie ai progressi nelle tecniche di coltivazioni a partire della metà degli anni ’60 per circa metà secolo, si è letteralmente dimezzata l’occupazione del suolo per le piantagioni e la quantità di mangimi necessari per produrre il nutrimento di un individuo.

L’intensificazione dell’attività agraria combinata con l’abbandono della legna come combustibile, ha consentito a diverse aree del mondo di registrare un saldo netto positivo della riforestazione.

Circa 80% del New England è coperto da boschi, rispetto al 50% alla fine del 19°secolo.

Negli ultimi 20 anni, a livello mondiale, l’estensione di terre destinate allo sfruttamento delle foreste si è ridotta di 50 milioni di ettari, una superficie pari a quella della Francia.

 

La transizione da una condizione di deforestazione netta a quella di riforestazione netta è da considerarsi il connotato distintivo dello sviluppo resiliente. […]

Una volta soddisfatta la domanda di beni materiali, nelle economie sviluppate si osserva un aumento di spesa per i servizi e per lo sviluppo delle conoscenze che assume uno peso crescente nell’insieme delle attività economiche.

Nel complesso questi andamenti stanno ad indicare che l’impatto umano globale sull’ambiente, inteso sotto la forma di cambiamento di destinazione del suolo, sfruttamento estensivo e inquinamento, toccherà il suo picco per poi declinare entro questo secolo.

L’uomo primitivo produceva più danni dell’uomo moderno.

Il processo di disaccoppiamento sopra descritto scardina l’idea comune che la permanenza dell’uomo primitivo sul pianeta sia più innocua di quella del suo omologo moderno.

L’impronta ambientale delle società antiche risultava meno evidente solo perché numericamente molto contenute rispetto alla popolazione attuale.

Per soddisfare i bisogni essenziali di sopravvivenza i nostri antenati sfruttavano tecnologie le quali a parità di standard di vita determinano un impatto ambientale ben superiore. […]

 Le tecnologie a disposizione dei nostri antenati si distinguevano per un livello di soddisfazione qualitativamente molto inferiore e comportavano un impatto ambientale pro capita molto maggiore.

Qualsiasi tentativo su vasta scala di simbiosi tra attività umane e ambiente naturale con il solo ausilio di quelle primordiali tecnologie, avrebbe comportato, senza estinzioni di massa della popolazione, un vero e proprio disastro ecologico e umano.

 

Gli ecosistemi nel mondo sono minacciati perché gli individui si affidano in modo eccessivo alle loro risorse:

coloro che si approvvigionano esclusivamente di legna per scaldarsi e cucinare abbattono e distruggono foreste;

 coloro che si cibano unicamente di carne selvatica cacciano fino alla scomparsa delle specie animali sul territorio.

Che sia per il beneficio della comunità indigena locale o per i profitti di una multinazionale straniera, la protratta strenua dipendenza di individui ad un ambiente naturale costituisce il nocciolo del problema della conservazione della natura.

All’opposto, le tecnologie moderne assecondando l’inclinazione naturale degli ecosistemi e operando in maniera più efficiente, forniscono all’umanità una reale opportunità di contenere complessivamente il suo impatto sulla biosfera.

 Adottare queste tecnologie è la via per realizzare un Antropocene generoso con la specie umana.

È vero che per soddisfare i bisogni della numerosa popolazione metropolitana benestante è cresciuta la pressione su degli ecosistemi distanti; per esempio, l’estrazione mineraria è stata la prima attività a globalizzarsi.

Ma queste stesse tecnologie hanno consentito di provvedere alla richiesta di cibo, protezione, calore e illuminazione, con dei mezzi che consumano suolo e risorse in modo molto più efficiente rispetto a quelli usati dall’umanità nelle epoche precedenti della sua storia.

Per riuscire a disgiungere i due fenomeni: la prosperità dell’umanità e la distruzione dell’ambiente, è necessario cogliere consapevolmente gli emergenti processi di disaccoppiamento.

In alcuni casi, l’obiettivo consiste nello sviluppo di sostituiti.

Per contenere la deforestazione e l’inquinamento indoor si tratta di sostituire i combustibili legna e carbone, con forme di energia moderna.

L’accesso all’energia è essenziale per lo sviluppo umano.

La disponibilità di fonti energetiche abbondanti e poco costose consente ai poveri del mondo di smettere di utilizzare legna come combustibile.

E grazie all’uso estensivo di fattori produttivi a forte intensità energetica come i fertilizzanti e le macchie agricole, diventa possibile produrre più cibo con meno terra.

L’energia permette di riciclare le acque reflue e desalinizzare l’acqua del mare di modo da preservare i corsi d’acqua e le falde acquifere.

Consente di riciclare in modo conveniente metalli e plastica per rallentare l’estrazione intensiva e la lavorazione di minerali.

Guardando in prospettiva l’energia moderna ci permetterà un giorno di catturare il carbonio (Co2 ?) dall’atmosfera di modo da calmierarne l’accumulo, causa del cambiamento climatico.

 Negli ultimi tre secoli, l’aumento complessivo della produzione di energia è stato accompagnato dall’incremento della concentrazione atmosferica di “biossido di carbonio”(Co2).

Progressivamente i paesi hanno intrapreso la via della decarbonizzazione, ovvero hanno ridotto l’intensità carbonica dell’economia, ma non a un ritmo sufficientemente in linea con le attese fissate dall’obiettivo internazionale di contenere l’innalzamento di temperatura globale sotto i 2 gradi centigradi.

 Al fine di realizzare l’auspicata mitigazione climatica è necessario che l’umanità acceleri il processo di transizione verso la decarbonizzazione dell’economia.

Permane tuttavia una grande confusione sulle modalità per conseguirla.

Nei paesi in via di sviluppo l’incremento di domanda di energia è strettamente correlato all’aumento dei redditi e al miglioramento della qualità di vita.

Sebbene il consumo di azoto, di legname e del suolo si stia avvicinando al culmine, l’energia rimane il cuore del motore dello sviluppo umano ed è centrale per le sue molteplici applicazioni come sostituto di materiali e forza lavoro; ciò lascia pensare che la domanda di energia continuerà ad essere in aumento per molto tempo ancora, se non per tutto il XXI° secolo.

Per questa ragione, qualsiasi contrasto tra gli obiettivi di mitigazione del clima e il processo di evoluzione di sviluppo inteso come l’innalzamento degli standard di benessere di miliardi di persone, si risolverà decisamente a favore di quest’ultimo.

La transizione verso una generazione con fonti a zero emissioni richiederà tecnologie ad elevata intensità energetica e in grado di essere facilmente scalabili per produrre le svariate decine di TWh indispensabili per trainare l’espansione dell’economia mondiale.

Sfortunatamente la maggior parte delle energie rinnovabili non possono garantirlo.

Sia per l’estensione di suolo consumato che per altri impatti ambientali, tanto i biocombustibili quanto diverse altre fonti rinnovabili non ci appaiono affidabili per traghettare il pianeta verso un’impronta zero carbonio.

(“impronta zero carbonio” significa eliminare la CO2 dal mondo attuale. Ma questo è impossibile perché la CO2 è il gas che permette la vita sulla terra, umana, vegetale e animale. N.D.R.)

Fanno eccezione le celle solari ad alta efficienza fabbricate con materie prime esistenti in abbondanza sul pianeta, che hanno un potenziale di generazione di svariate decine di terawattora a fronte di un consumo di appena qualche percento della superficie terrestre.

La convenienza delle attuali tecnologie solari richiede un salto tecnologico nei sistemi di accumulo e conservazione dell’energia, che è cruciale per rispondere all’elevata variabilità di generazione della fonte solare nel suo sfruttamento su larga scala.

Ad oggi la fissione nucleare si è dimostrata l’unica tecnologia energetica a zero emissioni con la capacità di soddisfare la maggior parte, se non tutti, i requisiti di fabbisogno energetico moderno.

Tuttavia una serie di sfide sociali, economiche e istituzionali ne impediscono un più ampio dispiego e rendono assai improbabile il ricorso al nucleare come l’elettro tecnologia su vasta scala per la mitigazione climatica.

Bisogna aspettare una nuova generazione, più sicura e a costi più bassi, affinché l’energia da atomo esprima completamente il suo potenziale come tecnologia strategica nella sfida climatica.

Siamo mossi da un profondo legame con il mondo naturale.

Apprezzare, scoprire, sforzarsi di comprendere e avvicinarsi alla natura ha rappresentato per molti l’opportunità di uscire da sé stessi.

 Anche coloro che non hanno mai avuto occasione di confrontarsi direttamente con il mondo selvatico, ammette che la conoscenza dell’esistenza di questi luoghi procura loro un senso di benessere psicologico e spirituale.

Gli uomini devono comunque rassegnarsi a dipendere sempre in una certa misura dalla natura.

Quand’anche fosse possibile vivere in un mondo completamente artificiale, molti di noi preferirebbero ancora vivere in stretta connessione con la natura;

un legame ben più intenso di quanto non lo richiederebbero il sostentamento e la tecnologia a disposizione.

È proprio il disaccoppiamento a consentire di rendere meno devastanti gli effetti della dipendenza materiale dell’umanità dall’ambiente naturale.

 Sono gli argomenti spirituali ed estetici più di quelli materiali o utilitaristici a permeare maggiormente il movimento di pensiero che sostiene la leva di un disaccoppiamento attivo, consapevole e rapido per salvaguardare la natura.

Le generazioni contemporanee e quelle future potrebbero comunque sopravvivere e prosperare su un pianeta privo di biodiversità e zone selvagge.

 Ma questo non è il genere di mondo che vogliamo, così come non è necessariamente quello che ci toccherebbe, se venisse perseguito il processo di disaccoppiamento.

Quello che noi intendiamo per natura o persino natura selvaggia, comprende paesaggi terrestri, ambienti marini, biomi ed ecosistemi i quali, nella maggioranza dei casi, sono stati per secoli se non millenni, alterati dall’influsso umano.

Le scienze della conservazione della natura e i concetti di biodiversità, complessità e indigenità, sono utili ma non sufficienti a determinare quale spicchio di territorio tutelare o come.

L’impegno a preservare dei paesaggi incontaminati non finalizzati al loro valore funzionale sono le conseguenza di scelte di natura antropica.

Si tratta della scelta arbitraria che riflette le preferenze nella scala valoriale dell’umanità specificatamente a quel momento e a quella latitudine: adoperarsi per la difesa di luoghi selvaggi equivale alla decisione di spianarli con le ruspe.

Solo attraverso un intenso attaccamento emozionale con la natura, la sua biodiversità e la struggente bellezza dei panorami incontaminati, si può sperare di realizzare il disaccoppiamento tra il soddisfacimento dei bisogni dell’uomo e la loro conseguente pressione sulla natura.

Il progresso tecnologico non è imprescindibile.

Affermiamo il bisogno e la capacità umana di attivare un processo di disaccoppiamento celere, vigoroso e consapevole.

Disaccoppiare l’impatto ambientale dalla produzione di reddito non è unicamente funzione dell’innovazione indotta dal mercato e dell’efficiente risposta alla scarsità.

La lunga parabola delle trasformazioni di ambienti naturali mediante tecnologie è decollata ben prima che esistesse una qualsiasi cosa somigliante a un segnale di mercato o a un indicatore di prezzo.

 Sono millenni che gli uomini rimodellano il pianeta sotto la spinta della domanda crescente e della scarsità.

Le soluzioni tecnologiche finalizzate a problemi ambientali devono essere valutate in una prospettiva più ampia in funzione anche del contesto sociale, economico e politico.

Riteniamo che sia controproducente per nazioni come la Germania e il Giappone e stati come la California, chiudere gli impianti nucleari, tornare indietro aumentando i tassi di carbonio del settore energetico, e far dipendere le loro economie da combustibili fossili e biomasse.

Tuttavia, questi casi dimostrano come le scelte tecnologiche non siano il risultato delle raccomandazioni di organismi internazionali bensì l’espressione delle pressioni politico-culturali nazionali e locali.

Troppo spesso il processo di modernizzazione è confuso, sia dai suoi sostenitori che dai suoi oppositori, con il capitalismo, il potere delle multinazionali, le politiche economiche di laissez-faire.

Noi rifiutiamo queste logiche riduttive. Quando parliamo di modernizzazione facciamo riferimento allo sviluppo sociale, politico, economico e tecnologico su un lungo arco temporale che si accompagna al miglioramento del benessere materiale e della salute pubblica, all’aumento della produttività, all’inclusione economica e alla condivisione delle infrastrutture e all’avanzamento delle libertà personali.

La modernizzazione, più di ogni altro elemento, ha affrancato persone dalla povertà e dall’agricoltura di sussistenza, emancipato le donne, liberato i minori e le minoranze etniche dall’oppressione e consentito alle società di sottrarsi a governi arbitrari e capricciosi.

La crescente produttività unita al un tessuto sociale più tecnologico consente di soddisfare i fabbisogni umani con un minore consumo di risorse alleggerendo così l’impatto sull’ambiente.

Maggiore è la produttività delle economie, più consistente sarà la loro risposta alle esigenze della società, perché in grado di destinare più mezzi derivanti dal surplus economico a bisogni di natura non economica, quali la salute, la tutela delle libertà individuali, lo sviluppo delle arti, la cultura e la conservazione ambientale.

Il processo di modernizzazione è ben lontano dall’essere completato, anche nelle economie avanzate.

Solamente ora nei paesi più sviluppati ci si avvicina all’apice della curva della domanda di consumo di beni materiali.

Il disaccoppiamento del benessere dell’umanità dalla dipendenza verso la natura richiede un sostenuto impegno nel progresso tecnologico e, parallelamente, un’evoluzione continua delle istituzioni sociali, economiche e politiche per recepire queste trasformazioni.

 

 

 

Quali sono le leggi dell’ecologia per

la sopravvivenza della specie umana.

Lifegate.it – (6 settembre 2017) - Paul Watson – ci dice:

Abbandonare la visione antropocentrica e rispettare le leggi dell’ecologia è l’unico modo per salvaguardare il futuro della nostra specie, e di tutte le altre.

 L’editoriale del presidente di “Sea Shepherd” Paul Watson.

 

Sono cresciuto in un piccolo villaggio di pescatori nella baia di Passamaquoddy, nella provincia canadese del “Nuovo Brunswick” e ricordo ancora chiaramente come andavano le cose negli anni Cinquanta.

Oggi le cose non sono com’erano allora.

Non parlo del progresso tecnologico, industriale o scientifico.

 Mi riferisco allo stato di salute e alla stabilità degli ecosistemi.

Quello che una volta era forte, ora è fragile.

Ciò che una volta era ricco di diversità, oggi è molto più povero.

Sono stato fortunato, o forse condannato, a ricordare quasi tutto.

Vedo le immagini del passato ancora nitide.

 Infatti per me è stato difficile adattarmi a questo declino.

Vedo le conchiglie sulle spiagge che ora non ci sono più, i granchietti sotto gli scogli che ora sono scomparsi, i banchi di pesci, i branchi di delfini e le spiagge senza plastica.

 

Lo stato di salute e la stabilità degli ecosistemi sono molto cambiati nel corso degli ultimi decenni.

Ho iniziato a viaggiare per il mondo nel 1967.

Ho fatto l’autostop e viaggiato in treno attraversando il Canada, sono entrato nella marina mercantile norvegese, ho attraversato l’oceano Pacifico e l’oceano Indiano, ho viaggiato per il Giappone, l’Iran, il Mozambico e il Sudafrica, ho lavorato come guida turistica in Turchia e in Siria, ho co-fondato “Greenpeace”nel 1972 e nel 1977 ho fondato “Sea Shepherd Conservation Society”.

Molte delle cose che ho visto allora non esistono più o sono state gravemente danneggiate, cambiate e ridotte.

Negli anni Sessanta non compravamo l’acqua in bottiglie di plastica. Negli anni Sessanta la parola “sostenibile” non veniva mai usata in un contesto ambientale e, a parte “Rachel Carson”, pochissimi avevano la visione del futuro, di dove stavamo andando e di cosa stavamo facendo.

Ma lentamente, la consapevolezza si è fatta strada tra le menti di sempre più persone.

 La gente ha iniziato a capire cosa volesse dire la parola “ecologia”.

Abbiamo assistito alla nascita della “Giornata della Terra” e alla prima “Conferenza sull’ambiente umano” nel 1972 a Stoccolma, in Svezia, che ho seguito come giornalista.

Tutte le specie sono interdipendenti tra loro.

La visione di cosa stiamo facendo divenne gradualmente sempre più diffusa e chi la capiva doveva pagare il prezzo di essere etichettato come radicale, militante e con un nuovo termine: ecoterrorista.

Il vero “crimine” dell’ecoterrorismo non era appiccare incendi per provocare danni agli impianti sciistici, abbattere una linea elettrica o praticare il tree spiking (conficcare lunghi chiodi negli alberi per difenderli dalle motoseghe, ndt).

Queste cose sono solo scatti dettati dalla disperazione e dalla frustrazione.

 Il vero crimine è il pensiero, la comprensione e l’immaginazione. In altre parole, il mettere in discussione il paradigma economico, societario e politico moderno.

La parola ecoterrorismo dovrebbe essere usata più correttamente per la distruzione causata dal progresso, come il disastro di “Bhopal”, in India, nello stabilimento della “Union Carbide”, o il disastro della” Deepwater Horizon” nel golfo del Messico.

Le tre leggi dell’ecologia.

Negli anni Settanta, insieme al defunto “Robert Hunter” e con “Roberta Hunter”, “Patrick Moore”, “David Garrick” e “Rod Marining”, abbiamo studiato e scritto le tre leggi dell’ecologia.

Quello di cui ci siamo resi conto è che queste leggi sono essenziali per la sopravvivenza della biodiversità del Pianeta e dell’umanità.

Abbiamo capito che nessuna specie potrebbe sopravvivere al di fuori di queste tre basilari e fondamentali leggi ecologiche.

La legge della diversità: la forza di un ecosistema dipende dalla diversità delle specie al suo interno.

La legge dell’interdipendenza: tutte le specie sono interdipendenti tra loro.

La legge delle risorse limitate: vi sono limiti alla crescita e alla capacità portante dell’ambiente.

L’aumento della popolazione di una specie porta a un maggiore uso delle risorse da parte della specie stessa.

Questo porta alla riduzione della diversità di altre specie che, a sua volta, porta a una minore interdipendenza tra le specie.

Ad esempio, una continua riduzione delle popolazioni di fitoplancton nei mari sta portando al declino di altre specie e ha causato un calo del 40 per cento della produzione di ossigeno dal 1950.

La diminuzione delle popolazioni di balena ha contribuito a questo calo dal momento che gli escrementi delle balene sono una grande fonte di sostanze nutritive (in particolare ferro e azoto) per il fitoplancton.

Balene e fitoplancton sono un esempio di interdipendenza tra le specie.

Il Pianeta semplicemente non può sopportare 7,5 miliardi di persone (numero in crescita) che divorano principalmente la carne di animali morti.

Ogni anno la macellazione di 65 miliardi di animali genera più gas a effetto serra della totalità del settore dei trasporti.

 E la pesca industriale sta svuotando gli oceani e causando un declino inedito della biodiversità negli ecosistemi marini.

Il collasso degli ecosistemi.

I sistemi ecologici stanno collassando in tutto il mondo, dalle barriere coralline alle foreste pluviali, perché l’uomo sta sfruttando le risorse ben oltre la capacità degli ecosistemi di creare e rinnovare le risorse naturali.

 Il declino degli ecosistemi sta portando anche al collasso delle strutture sociali dell’uomo, sfociando in conflitti globali sotto forma di guerre e violenze domestiche.

 Il terrorismo non è la causa dei problemi della società, è semplicemente un sintomo.

 Gli esseri umani sono compromessi da paradigmi medievali come il predominio territoriale, i desideri gerarchici e le credenze superstiziose unite a comportamenti primitivi come l’avidità e la paura.

Nel 1970 in Africa vivevano oltre 70mila rinoceronti, oggi, secondo le stime dell’associazione” Save The Rhino”, sopravvivono circa 20.500 esemplari di rinoceronte bianco e poco meno di 5.000 rinoceronti neri.

Il villaggio di pescatori in cui ho vissuto da bambino non è più un villaggio di pescatori.

La relativa innocenza delle nostre vite da bambini degli anni Cinquanta e Sessanta non esiste più.

La selva africana, la tundra artica, la riserva marina delle isole Galapagos, la Grande barriera corallina, le foreste pluviali amazzoniche in cui ho viaggiato, non sono più com’erano in passato.

Il declino dell’empatia umana.

Gli esseri umani hanno quest’abilità incredibile di adattarsi al declino.

È una caratteristica che si è dimostrata estremamente utile quando vivevamo come cacciatori-raccoglitori.

Ci siamo adattati alla mancanza di cibo, ai cambiamenti climatici e al mondo che si evolveva intorno a noi.

Oggi stiamo cercando di adattarci alla distruzione provocata da noi stessi e questo adattamento si sta traducendo in un maggiore controllo da parte dei governi e delle multinazionali e in una dipendenza dalle tecnologie industriali.

Non abbiamo più l’empatia di una volta.

Mi ricordo chiaramente i fatti del 23 ottobre 1958.

Avevo sette anni nel giorno del disastro della miniera Springhill, in Nuova Scozia.

75 persone morirono e 99 vennero salvate.

Ricordo di aver pianto per il destino di persone che non conoscevo e ricordo il mio entusiasmo ogni volta che un minatore veniva riportato in superficie vivo.

Ora non ho più quella capacità.

Forse l’ho persa diventando adulto, o forse è perché la società non ha più spazio per questo tipo di emozioni.

Si era verificato un disastro e piangevamo per persone che non conoscevamo. L’anno scorso quasi cento persone sono state uccise brutalmente a pochi chilometri da dove vivevo a Nizza, in Francia, per mano di un folle che le ha investite con un camion.

 Pochi giorni dopo un prete è stato decapitato in Francia.

Ogni settimana che passa porta con sé storie di uccisioni di massa in Medio Oriente, in Africa, in America e non solo.

È un festival del dolore mondiale fatto di caos e violenza, che però è accolto per lo più con compiacenza e con un seguito di post di Facebook che dicono “preghiamo per Parigi, Orlando, Nizza, Beirut o Istanbul”, in una litania di adattamento alla tragedia autoindulgente, per poi dimenticare il tutto velocemente.

Questo non è il mondo della mia infanzia.

Noi ricordavamo gli orrori della Seconda guerra mondiale con vera emozione.

Mi ricordo di quando parlavo con i veterani delle due guerre mondiali e sentivo il loro dolore.

 Oggi è solo un fatto a breve termine che fa notizia, in un mondo che cerca di fuggire attraverso i film, i personaggi famosi, i videogiochi e un fervore religioso sempre più fanatico.

Deforestazione nell'Amazzonia peruviana.

Con l’aumento della popolazione mondiale aumenta anche la domanda e il consumo delle risorse.

Stiamo divorando le risorse.

La realtà è questa.

La popolazione umana aumenta e con sé anche il consumo delle risorse.

 Ma dato che le risorse sono limitate e il tasso di energie rinnovabili è minore della domanda, questo porta a un solo risultato: il collasso della disponibilità delle risorse.

E visto che stiamo letteralmente rubando le risorse ad altre specie, questo porterà al declino delle specie e degli habitat, che a sua volta porterà a una ulteriore diminuzione delle risorse.

 

Alla conferenza sul clima di Parigi (Cop 21), ho chiesto di porre fine ai sussidi statali per la pesca industriale in tutto il mondo e una moratoria di almeno 50 anni sulla pesca commerciale.

Questa proposta non è stata ascoltata durante una conferenza che non ha neanche preso in considerazione il ruolo fondamentale degli oceani nell’affrontare i cambiamenti climatici.

La mia opinione sulla Cop 21 è che i governi non stavano cercando soluzioni. Stavano cercando soluzioni apparenti.

E di sicuro non volevano ascoltarle da persone come me.

Loro vogliono soluzioni che portano con sé lavoro e profitto.

Non vogliono nessun tipo di sacrificio economico.

La desertificazione è uno degli effetti dei cambiamenti climatici.

Inoltre, credo che la maggior parte dell’umanità – e di sicuro chi ne è alla guida – non capisca la vera gravità della situazione.

Esistono sei punti di vista sui cambiamenti climatici:

1. Negazione.

2. Accettazione, con l’idea che siano uno sviluppo positivo.

3. Accettazione, con l’idea che la scienza e la tecnologia ci salveranno.

4. Accettazione, ma con il rifiuto di riconoscere tutte le conseguenze.

5. Apatia.

6. Accettazione, con la determinazione di trovare soluzioni vere.

Chi nega i cambiamenti climatici ha interessi personali per farlo ed è mosso principalmente dall’avidità o dall’ignoranza.

“Patrick Moore”, un mio ex collega di Greenpeace, vede i cambiamenti climatici come un’opportunità per avere stagioni di crescita più lunghe e tempo più bello (vive in Canada e non credo ci abbia pensato a fondo).

 Altri, come “Elon Musk”, vedono la nostra salvezza nella scienza, abbandonando il nostro Pianeta o sviluppando ecosistemi artificiali sulla Terra.

Molti leader del mondo responsabili riconoscono il problema ma sono politicamente troppo impotenti per affrontarlo con soluzioni realistiche, perché quelle soluzioni non sarebbero politicamente popolari.

 E, come per ogni cosa, la maggior parte del mondo è indifferente e troppo concentrata a divertirsi (il mondo industrializzato) o sopravvivere (il mondo sottosviluppato).

Sulla strada che stiamo percorrendo ora, il futuro è piuttosto prevedibile.

Più guerre per le risorse, più povertà, più concentrazione della ricchezza in mano a pochi privilegiati, più malattie, più conflitti civili e, con il declino di biodiversità, più fame a livello globale e pestilenze.

Il nostro futuro è intrecciato con la biodiversità.

Noi esistiamo grazie alla biodiversità.

Il ricco tessuto di tutte le nostre culture e dei nostri traguardi nella scienza e nell’arte è intrecciato con la biodiversità.

Se le api scompaiono, scompaiono anche le nostre colture.

 Se le foreste diminuiscono, noi diminuiamo.

 Se il fitoplancton muore, noi moriamo! Se le piante erbacee muoiono, anche noi moriamo!

Noi esistiamo grazie al contributo geo ingegneristico di milioni di specie diverse che fanno funzionare il sistema ecologico necessario per la nostra sopravvivenza. Dai batteri alle balene, dalle alghe alle sequoie.

Se danneggiamo le fondamenta di questo sistema di sopravvivenza, tutto ciò che abbiamo creato scomparirà.

 E noi scompariremo.

La guerra che abbiamo dichiarato alla natura è una guerra contro noi stessi.

Abbiamo commesso l’errore di aver dichiarato guerra alla natura e, grazie alle nostre tecnologie, sembra che vinceremo questa guerra.

Ma, siccome siamo parte della natura, in questo processo finiremo per autodistruggerci.

Il nostro nemico siamo noi stessi e stiamo lentamente diventando coscienti di questo fatto indiscutibile.

 Ci stiamo distruggendo nell’inutile sforzo di salvare l’immagine di quello che crediamo di essere.

In questa guerra stiamo massacrando milioni di specie (attraverso lo sfruttamento diretto o indiretto) e riducendo i loro numeri a livelli pericolosamente bassi, mentre i numeri dell’umanità raggiungono livelli pericolosamente alti.

 Stiamo combattendo questa guerra contro la natura con prodotti chimici, con strumenti industriali, aumentando sempre di più le tecnologie di estrazione (come il fracking) e la repressione di chiunque vi si opponga.

Negli ultimi due secoli abbiamo lasciato sulla nostra scia centinaia di miliardi di corpi.

Abbiamo torturato, assassinato, abusato e sprecato troppe vite e annientato specie intere.

Abbiamo trasformato ecosistemi ricchi di diversità in terre desolate e senza vita, inquinando i mari, l’aria e il suolo con prodotti chimici, metalli pesanti, plastica, radiazioni e scarichi industriali.

Una volta eravamo terrorizzati dalla possibilità di disastri come Chernobyl o Fukushima. Ma questi incidenti sono accaduti e noi ci siamo adattati e li abbiamo accettati. Ora siamo tranquilli.

In questo momento, i mezzi di comunicazione ignorano, i politici negano e il pubblico sembra non interessarsi alle conseguenze spaventose di Fukushima che si stanno verificando davanti ai nostri occhi, che teniamo saldamente chiusi. Fukushima è l’orrore ambientale più grande che abbiamo mai scatenato nella storia dei reati ecologici.

Eppure è come se non fosse mai accaduto.

Nel frattempo, stiamo diventando una specie sociopatica.

Stiamo perdendo la capacità di esprimere empatia e compassione.

Idolatriamo soldati, cacciatori e sviluppatori di risorse senza pensare alle vittime che causano.

 Ci deliziamo con fantasie violente, salutando come eroi gli assassini fantasiosi bidimensionali.

 Il nostro atteggiamento è diventato così darwiniano che i deboli (le altre specie) devono soccombere affinché i forti (noi) sopravvivano.

Ma dimentichiamo che il darwinismo riconosce le leggi dell’ecologia e, quando si tratta della legge della natura, non possiamo scegliere, perché alla fine è la natura che controlla noi, non il contrario.

Ogni anno vengono pescate dal mare 91 milioni di tonnellate di fauna selvatica.

Le conseguenze delle nostre azioni non si verificheranno tra molti secoli, ma entro questo secolo.

Gli ecosistemi marini stanno collassando, adesso!

Il Pianeta si sta scaldando, adesso! Il fitoplancton è in declino, adesso!

Per non usare mezzi termini: il Pianeta sta morendo adesso e lo stiamo uccidendo noi!

Se ignoriamo le leggi dell’ecologia non ci sarà sopravvivenza.

Secondo la mia esperienza e da ciò che vedo, c’è solo un modo per evitare di finire vittima delle conseguenze dell’aver ignorato le leggi dell’ecologia: dobbiamo liberarci della mentalità antropocentrica e adottare un’idea biocentrica del mondo naturale.

Possiamo farlo perché abbiamo insegnanti magnifici nelle comunità indigene di tutto il mondo, che hanno stili di vita biocentrici da migliaia di anni, esattamente come tutta la nostra specie faceva in passato.

 Dobbiamo imparare a vivere in armonia con le altre specie.

Dobbiamo introdurre una moratoria sulla pesca, sul disboscamento e l’agricoltura su scala industriale.

Abbiamo bisogno di smettere di produrre beni che non hanno un valore reale, come tutti gli oggetti in plastica usati per lo svago e l’eccesso.

 Dobbiamo porre fine alla produzione di massa della plastica che sta soffocando tutti i nostri mari.

 Dobbiamo smettere di avvelenare il suolo e gettare tossine in mare.

 Dobbiamo abolire le pratiche culturali che distruggono la vita per il solo scopo di farci divertire.

Di certo non sarà facile, ma vogliamo davvero che l’epitaffio della nostra specie sia “Beh, avevamo bisogno dei posti di lavoro”?

Soluzioni impossibili per problemi impossibili.

Senza ecologia non c’è economia.

Non sono pessimista e non sono mai stato incline a pensieri pessimistici.

 Le soluzioni esistono e vediamo intorno a noi persone coraggiose, compassionevoli e con immaginazione, che lavorano per un mondo migliore, dedicandosi alla protezione delle specie e degli habitat, trovando alternative agricole biologiche e sviluppando forme di produzione di energia più sostenibili. Innovatori, pensatori, attivisti, artisti, leader ed educatori.

Queste persone sono in mezzo a noi e sono sempre di più.

Si dice spesso che i problemi sono troppo grandi e le soluzioni impossibili.

Io non ci credo.

La soluzione a un problema impossibile è trovare una soluzione impossibile.

 Si può fare.

Nel 1972, l’idea che Nelson Mandela potesse un giorno diventare il presidente del Sudafrica era impensabile e impossibile.

 Eppure l’impossibile è diventato possibile.

Non è mai facile ma è possibile e le possibilità si raggiungono attraverso il coraggio, l’immaginazione, la passione e l’amore.

Un proverbio indigeno dice che noi non ereditiamo il mondo dai nostri padri, ma lo prendiamo in prestito dai nostri figli.

Anni fa ho imparato dal popolo dei Mohawk che dobbiamo vivere le nostre vite tenendo conto delle conseguenze che ogni azione ha sulle generazioni future di ogni specie.

Se amiamo i nostri figli e i nostri nipoti dobbiamo riconoscere che il loro mondo non sarà il nostro mondo.

Il loro mondo sarà irriconoscibile rispetto a quello della nostra infanzia.

Ogni bambino nato nel Ventunesimo secolo sta affrontando delle sfide che nessun’altra persona ha mai affrontato in tutta la storia della nostra specie:

da nuovi patogeni che fuoriescono dal permafrost (l’anno scorso un virus dell’antrace presente nella carcassa di una renna riemersa dai ghiacci in scioglimento ha ucciso 1.500 renne e fatto ricoverare 13 persone in Russia), a eruzioni di metano che aprono giganteschi crateri nella terra in Siberia, l’estinzione di massa di piante e animali, l’inquinamento, sempre più guerre, la violenza irrazionale sotto forma di terrorismo individuale, religioso e statale, fino al collasso di interi ecosistemi.

Il principio di Cassandra.

Questo non è allarmismo dettato dalla paura e dal pessimismo.

 È semplicemente un’osservazione realistica delle conseguenze del nostro ignorare deliberatamente le leggi dell’ecologia.

Io lo chiamo il principio di Cassandra.

Cassandra era la profetessa dell’antica città di Troia e la sua maledizione era la capacità di vedere il futuro senza che nessuno credesse alle sue profezie.

 Nessuno la ascoltava e veniva ridicolizzata. Ma aveva ragione.

Tutto quello che aveva previsto è poi accaduto e Troia finì distrutta.

Anni fa un critico mediatico mi etichettò come una Cassandra pessimista.

Gli risposi: “Forse sì, ma non dimenticate la cosa più importante: Cassandra aveva ragione”.

Nel corso degli anni ho fatto delle previsioni (che furono ridicolizzate e rifiutate) che si sono avverate.

Nel 1982 ho predetto pubblicamente il collasso dell’industria ittica del merluzzo nell’area nordatlantica.

 Ed è accaduto dieci anni dopo.

 Nel 1978, nella rivista “Defenders”, ho predetto che le popolazioni di elefante africano si sarebbero dimezzate. Mi sbagliavo.

Le popolazioni si sono ridotte di due terzi.

Nel 1984, ho predetto danni ecologici prodotti dall’industria del salmone, come la diffusione di virus alle popolazioni di salmone selvaggio.

Ogni previsione si basava sull’osservazione con riferimento alle leggi dell’ecologia e ogni previsione venne scartata.

Ogni previsione si è avverata.

 

Le barriere coralline potrebbero sparire entro il 2025.

Non è cambiato nulla.

 Oggi prevedo la morte degli ecosistemi delle barriere coralline in tutto il mondo entro il 2025, il totale collasso delle operazioni di pesca commerciale mondiali entro il 2030 e l’emergenza di malattie virali più aggressive nei prossimi decenni. Non ci vuole una lungimiranza straordinaria per prevedere che la guerra sarà l’affare principale nei prossimi cinquant’anni, così come l’ascesa di governi sempre più autoritari.

Di recente, “Rod Marining”, un vecchio amico con cui ho fondato Greenpeace, mi ha detto:

“La trasformazione della coscienza umana su vasta scala non può avvenire se non con la presenza di due fattori.

Il primo è una minaccia chiara di morte e quindi un pericolo per la sopravvivenza della nostra specie.

 Il secondo è la minaccia della perdita del lavoro o dei beni delle persone.

Quando ci sono questi due fattori l’umanità inizia a cambiare il proprio pensiero dalla sera alla mattina”.

Abbandonare la visione antropocentrica e rispettare le leggi dell'ecologia è l'unico modo per salvaguardare il futuro della nostra specie, e di tutte le altre.

Ho visto il nostro futuro scritto nei nostri comportamenti.

E non è un futuro piacevole. Anzi, non è proprio un futuro.

 I quattro cavalieri dell’apocalisse sono arrivati.

Mentre la morte cavalca il cavallo diafano, i quattro cavalli, della pestilenza, della carestia, della guerra e del terrorismo, corrono a gran velocità verso di noi, mentre noi gli voltiamo le spalle.

 E quando ci travolgeranno, forse distoglieremo lo sguardo dalla nostra ultima futile distrazione per ritrovarci nella polvere dell’apocalisse ecologica.

Ma vedo anche una possibilità di salvezza.

 E questo può avvenire ascoltando le parole e osservando le azioni delle popolazioni indigene, guardando i nostri figli negli occhi, uscendo dal cerchio dell’antropocentrismo, capendo che facciamo parte di un continuum, rifiutandoci di prendere parte all’illusione antropocentrica, accogliendo il biocentrismo e cercando di capire appieno le leggi dell’ecologia e il fatto che queste leggi non possono e non devono essere ignorate se vogliamo sopravvivere.

 

 

 

Limiti planetari da

non superare.

Ibseedintorni.com – (18-3-2022) - Redazione – ci dice

 

Conoscete “Johan Rockström”?

È uno scienziato svedese riconosciuto a livello internazionale per il suo lavoro sulle questioni della “sostenibilità globale”.

“Rockström”, professore di scienze ambientali del “Resilience Centre di Stoccolma”, ha guidato un team di scienziati di fama internazionale che ha studiato ciò che mantiene stabile il nostro pianeta per capire quali sono le condizioni planetarie che l’umanità non deve violare per evitare il rischio di cambiamenti ambientali globali catastrofici.

Questo framework dei confini planetari è stato pubblicato per la prima volta nel 2009 e aggiornato nel 2015.

(ted.com/talks/johan_rockstrom_10_years_to_transform_the_future_of_humanity_or_destabilize_the_planet?language=it)

 

Nel 2021 su Netflix è uscito un documentario narrato da Sir “David Attenborough” che ha visto Il co-fondatore dello Stockholm Resilience Center, “Johan Rockström,” tra i produttori associati del film.

Quando ho visto questo documentario, ho capito che questi 9 limiti planetari da non superare sarebbero stati il filo conduttore del mio percorso per l’intero anno scolastico.

 Ecco una sintesi di questo incredibile lavoro.

 

Limiti planetari da non superare.

A partire dalla Rivoluzione Industriale l’uomo è diventato per la prima volta il principale agente di cambiamento del sistema Terra, e questo starebbe producendo una transizione tra due ere geologiche: l’Olocene, cominciata circa 10.000 anni fa, e l’Antropocene.

L’Olocene è l’epoca geologica più recente e rappresenta gli ultimi 11700 anni della storia del nostro pianeta.

 Si tratta di un periodo caratterizzato da condizioni ambientali stabili:

un periodo caldo durante il quale la temperatura media del pianeta Terra varia di appena 1 °C nel corso della sua intera durata.

 Questo ambiente ha consentito la nascita dell’agricoltura e lo sviluppo della civiltà moderna che conosciamo oggi.

Durante tutto l’Olocene la stabilità del pianeta ha fornito cibo, acqua da bere e aria pulita da respirare ma l’influenza dell’uomo sul pianeta Terra ha raggiunto un livello tale che abbiamo creato una nostra era geologica.

Di recente alcuni scienziati sostengono che l’Olocene è terminato e che ora ci troviamo nell’Antropocene:

 l’era degli esseri umani perché in questo momento siamo i principali fattori di cambiamento del pianeta Terra.

Abbiamo convertito metà delle terre abitabili in campi coltivati o allevamenti di bestiame, spostiamo più rocce e sedimenti di quanto facciano i processi naturali della Terra, la pesca viene praticata in più di metà degli oceani, 9 persone su 10 respirano aria malsana e nell’arco di una sola vita abbiamo riscaldato la Terra di oltre 1 °C.

In un lasso di tempo di appena 50 anni siamo riusciti a spingerci fuori dallo stato di stabilità in cui il mondo si trovava da circa 2000 anni e stiamo correndo il rischio di destabilizzare l’intero pianeta.

Secondo i ricercatori, questo è lo scenario che si presenterà se verranno oltrepassati certi limiti, definiti confini planetari (Nature, 2009) caratteristici di nove processi ambientali-chiave legati alla capacità del sistema Terra di autoregolarsi, su cui l’umanità ha potere di intervenire:

cambiamenti climatici;

destinazione dell’uso dei suoli (configurazione del territorio);

perdita di biodiversità;

consumo di risorse idriche;

alterazioni dei cicli dell’azoto e del fosforo (apporto dei nutrienti);

acidificazione degli oceani;

nuove entità;

inquinamento dell’aria;

riduzione della fascia di ozono stratosferico.

(stockholmresilience.org/research/planetary-boundaries.html)

1. I CAMBIAMENTI CLIMATICI.

Il primo limite è il più ovvio e il più noto a tutti: il clima della Terra.

Con le temperature globali più alte di sempre, sin dall’alba della civilizzazione, c’è il pericolo concreto di aver già oltrepassato il limite del clima della Terra.

Forse la prova più preoccupante di ciò e lo scioglimento dei ghiacciai (anche se il termine scientifico corretto è fusione) del pianeta.

Da uno studio pubblicato su Nature nel 2020 da “Ricarda Winkelmann” e i suoi colleghi del “Potsdam Institute for Climate Impact Research” (Germania), emerge che siamo già arrivati al punto di non ritorno:

negli ultimi 20 anni lo scioglimento dei ghiacciai è accelerato su scala globale: abbiamo perso 267 miliardi di tonnellate di ghiaccio all’anno, con un’impennata del 130% tra il 2000 e il 2019.

 Si tratta di nuove misurazioni ad altissima precisione di oltre 217.000 ghiacciai del mondo, praticamente tutti quelli esistenti escluse le calotte di Groenlandia e Antartide, grazie alle quali è stato possibile misurare le variazioni di spessore di quasi tutti i ghiacciai mondiali e non solo di quelle poche centinaia che vengono solitamente monitorate perché più facilmente accessibili.

 Secondo i ricercatori, anche si riuscisse a limitare l’aumento delle temperature ai valori attuali, potrebbe non essere sufficiente per ripristinare le condizioni dei ghiacciai a prima dello scioglimento.

Lo scioglimento dei ghiacciai comporta una serie di conseguenze tra cui:

 

aumento del livello degli oceani, con conseguente possibilità che alcune aree continentali vengano sommerse;

stravolgimento del clima e delle condizioni meteo: l’aumento dei livelli del mare e degli oceani può comportare;

cambiamenti repentini delle temperature e l’avvento di fenomeni atmosferici estremi come alluvioni e tornado;

riduzione della biodiversità dovuta al cambiamento dell’habitat di molte specie marine e terrestri: se cambiano le caratteristiche del luogo che ospita alcune specie animali, quest’ultime non potendo adattarsi rischiano di scomparire.

Perdere i ghiacciai significa, quindi, perdere l’effetto raffreddante in grado di mantenere stabile la temperatura della Terra.

 

Durante l’Olocene i ghiacciai perenni riflettevano la giusta quantità di energia solare verso lo spazio.

Quando l’energia solare colpisce una superficie chiara, come quella della neve o del ghiaccio, il 90-95% di questa energia viene riflessa nell’atmosfera.

Al contrario, le superfici terrestri più scure assorbono una percentuale molto maggiore di energia solare e si riscaldano.

 Quindi, quando la copertura di ghiaccio e neve è maggiore, la maggior parte dell’energia solare viene riflessa per effetto dell’albedo, la superficie terrestre trattiene meno calore e il clima si raffredda.

Quando, invece, le distese di ghiaccio iniziano a sciogliersi, non solo le loro dimensioni diminuiscono, le zone periferiche diventano più scure e assorbono il calore, ma il fatto di avere una superficie liquida sul ghiaccio ne cambia il colore e così facendo si può arrivare a un punto in cui lo strato di ghiaccio passa dall’essere auto-raffreddante all’essere auto-riscaldante e questo è il punto di non ritorno più allarmante dell’intero sistema Terra.

(focus.it/ambiente/ecologia/riscaldamento-globale-di-quanto-salira-il-livello-dei-mari)

 

L’effetto albedo che determina il cambiamento climatico a livello globale è prodotto principalmente dalle calotte glaciali della Groenlandia e delle regioni antartiche, oltre che dai ghiacci marini.

L’albedo dei ghiacciai più piccoli influisce soltanto sulle condizioni locali.

L’ultimo picco glaciale si è verificato circa 18 000 anni fa.

La crescita della calotta glaciale e dei ghiacciai in Nord Europa e Nord America ha causato un abbassamento del livello del mare di circa 120 metri.

Attualmente, nella maggior parte delle regioni del mondo, la massa perduta dai ghiacciai supera la massa accumulata.

Ciò è dovuto principalmente all’aumento delle temperature atmosferiche.

Gli aumenti di temperatura dipendono in gran parte dal crescente effetto serra dovuto alle emissioni di gas di scarico nei paesi industrializzati.

 Di conseguenza, la maggior parte dei ghiacciai della Terra si sta ritirando.

Un punto di non ritorno è la soglia oltre la quale un cambiamento è irreversibile.

È come un treno parcheggiato in discesa che lentamente comincia a muoversi.

Se lasciamo andare i freni il treno inizia ad accelerare a causa della gravità e diventa sempre più veloce fino a che non ne perdiamo il controllo.

In questo momento abbiamo già perso i freni che potrebbero impedire lo scioglimento dei ghiacciai della Groenlandia.

Nel corso dei millenni in Groenlandia si è accumulata molta neve creando una cupola di ghiaccio spessa 3 km e a quell’altezza la temperatura è estremamente bassa.

Man mano che si scioglie, la superficie della calotta glaciale scende verso l’aria più calda, velocizzando il processo.

Più si scioglie, più la temperatura deve essere bassa per invertire il processo ma il clima attuale è già troppo caldo per la Groenlandia.

Il clima contemporaneo ha già superato il limite della Groenlandia al punto che attualmente è arrivata a perdere 10.000 m3 di ghiaccio al secondo.

Questo è il ritmo di perdita medio e il processo non potrà fare altro che andare avanti man mano che aumenta la temperatura.

A meno che non riusciamo a raffreddare notevolmente il clima, lo scioglimento della calotta polare in Groenlandia sarà inevitabile.

Lo scioglimento della calotta glaciale in Groenlandia innalzerebbe il livello del mare di 7 m in tutto il mondo.

 Centinaia di città sparse sulla costa adesso, sono già minacciate dall’innalzamento del mare. La stabilità del livello del mare è stata la chiave per lo sviluppo delle civiltà moderne.

La Groenlandia è solo una delle calotte polari della Terra ed è minuscola in confronto a quella antartica.

Fino a pochi anni fa c’era la convinzione che l’Antartide fosse un sistema resiliente. Si pensava che la sua calotta glaciale non venisse influenzata dai vari cambiamenti climatici ma ormai questa convinzione è stata smentita.

Oggi si possono osservare fenomeni di scioglimento accelerati e perdita di massa e ghiaccio anche nell’oceano antartico.

Se si sciogliesse completamente, l’Antartide occidentale farebbe innalzare il livello del mare di più di 5 m, mentre la parte orientale produrrebbe un effetto 10 volte superiore con un innalzamento potenziale di 50 m.

È importante capire che tutti gli elementi del sistema terra sono connessi fra loro. Se una parte del sistema climatico dovesse oltrepassare il suo punto di non ritorno questo potrebbe aumentare le possibilità che altre parti del sistema superino il loro limite critico.

Possiamo provare a immaginarlo come una sorta di effetto domino se facciamo cadere una tessera si può innescare un effetto a cascata.

 Risulta abbastanza chiaro che con il riscaldamento globale stiamo correndo seriamente il rischio di superare dei punti di non ritorno nel sistema Terra.

 

Quando oltrepassiamo i punti critici scateniamo dei cambiamenti irreversibili. Ovviamente la temperatura globale aumenta soprattutto a causa dei gas serra, quindi, nel caso dei cambiamenti climatici il parametro di controllo è la concentrazione dell’anidride carbonica, che non dovrebbe superare le 350 ppm (parti per milione).

(Ma sfugge un piccolo particolare: il gas C02 è più pesante dell’aria e non potrà mai volare verso la stratosfera dove si trova la calotta formata dai “veri” gas serra! N.D.R)

La temperatura media del pianeta dipende, quindi, dalla concentrazione di anidride carbonica presente nell’atmosfera.

 Nel corso dell’Olocene questa concentrazione è rimasta relativamente costante, ma tutto è cambiato con l’avvento della rivoluzione industriale.

 Nel 1988 sono state emesse 350 parti per milione di anidride carbonica nell’atmosfera terrestre.

(Il gas Co2 vola solo raso terra o sulla superfice del mare, non può salire oltre le cime degli alberi terrestri! N.D.R)

Quello è l’anno in cui è stato superato il limite, da quel momento rischiamo di causare cambiamenti che porteranno il riscaldamento sempre più fuori controllo.

Superare le 350 PPM di concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera significa entrare in una zona di pericolo.

350 parti per milione è il primo dei limiti (o confini) planetari da non superare, ma questo limite è stato già oltrepassato da molto tempo.

 In questo momento abbiamo raggiunto un punto in cui la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è di circa 415 parti per milione.

Stiamo già iniziando ad assistere agli effetti del trovarci nella zona a rischio dei limiti climatici in termini di aumento di frequenza:

dei periodi di siccità,

delle ondate di calore,

delle inondazioni,

dello scioglimento accelerato dei ghiacciai,

del disgelo accelerato del permafrost e

degli incendi delle foreste.

A breve distanza c’è una seconda soglia: ci stiamo avvicinando rapidamente alle 450 parti per milione di anidride carbonica.

La zona di pericolo dei limiti planetari è definita dal margine di incertezza della scienza.

Oggi la nostra stima è che il margine di incertezza scientifico si trovi fra le 350 PPM, che è il confine tra la zona sicura e l’inizio di quella di pericolo, e le 450 PPM, che è il valore in cui si abbandona la zona di pericolo per entrare in quella ad altissimo rischio.

Se entriamo nella zona ad alto rischio il superamento dei punti di non ritorno diventa probabile se non inevitabile e questa è una stima conservativa dato che i segnali di questo pericolo sono già intorno a noi.

Per dirlo in modo semplice: il limite dell’aumento climatico è di 1,5 °C. Siamo già arrivati a 1,1 e ci avviciniamo a 1,5 e la nostra unica occasione di restare entro i limiti climatici del pianeta è che si riesca a raggiungere un’economia mondiale libera dai combustibili fossili entro trent’anni.

Questo obiettivo per la temperatura globale è, però, solo una piccola parte di un quadro più grande perché la stabilità del nostro pianeta dipende anche da altri fattori oltre al clima.

Limiti per la biosfera.

Le ricerche hanno stabilito che esistono anche quattro limiti per la biosfera ossia la parte del pianeta che riguarda gli esseri viventi:

il primo è la composizione dei biomi sulla Terra e la destinazione d’uso dei suoli.

il secondo è la biodiversità, ossia tutte le specie che popolano l’acqua e la terra.

il terzo è il consumo di risorse idriche legate al ciclo idrologico.

il quarto è l’apporto dei nutrienti fondamentali per il funzionamento della vita all’interno della biosfera (alterazione dei cicli dell’azoto e del

fosforo).

 

2. DESTINAZIONE D’USO DEI SUOLI.

Il primo dei limiti della biosfera, la composizione dei biomi sulla Terra, è turbato da quando stiamo trasformando gli habitat naturali, ossia dalla destinazione d’uso dei suoli.

Ad esempio, ci stiamo avvicinando rapidamente a un punto di non ritorno per una delle foreste più grandi rimaste al mondo: l’Amazzonia.

Esperimenti eseguiti nella foresta amazzonica hanno mostrato che il disboscamento dell’Amazzonia per fare spazio a pascoli, ai campi di soia sta facendo seccare la foresta.

In Amazzonia la stagione secca dura un massimo di tre mesi ma con il riscaldamento globale il decadimento della foresta dovuto alle attività umane, in particolare l’allevamento e la coltivazione della soia, la stagione secca è diventata di circa sei giorni più lunga ogni 10 anni.

Sin dagli ormai lontani anni ‘80 man mano che la foresta è disboscata e frammentata perde la capacità di riciclare l’acqua e di generale la pioggia durante la stagione secca.

Se la stagione secca superasse i quattro mesi, gli alberi della giungla morirebbero e sarebbero sostituiti dalla savana un processo chiamato savanizzazione.

 Ci sono già i segnali che alcune parti dell’Amazzonia stanno cambiando.

Con la deforestazione del 20-25% in aggiunta all’aumento del riscaldamento globale è altamente probabile che si verifichi un processo irreversibile di savanizzazione che potrebbe intaccare il 50-60% dell’intera foresta amazzonica.

(ft.com/content/be933d15-8f28-4ef6-8e0c-4e7fedc37e7b)

In Amazzonia è già andato perso quasi il 20% della foresta pluviale e potremmo essere vicini a trasformare l’amazzonia da alleato della Terra a nemico del pianeta.

Se la giungla diventa savana, gli alberi muoiono e viene liberata anidride carbonica nell’atmosfera.

La perdita di foresta amazzonica potrebbe rilasciarne 200 miliardi di tonnellate nel corso dei prossimi 30 anni.

 Sarebbe una quantità equivalente al carbonio (Co2) emesso in tutto il mondo negli ultimi 5 anni.

Il problema, però, non riguarda solo le foreste pluviali.

Tutti i tipi di alberi sono preziosi per mantenere la stabilità del nostro pianeta tanto che basta una perdita del 25% delle foreste a innescare le conseguenze catastrofiche del superamento del punto critico e ne sono già state disboscate quasi il 40%:

siamo già da tempo nella zona di pericolo di questo limite.

3. PERDITA DI BIODIVERSITÀ.

Un’altra conseguenza della deforestazione è la perdita della biodiversità della natura.

 La biodiversità è il secondo dei limiti della biosfera perché è alla base della nostra abilità di prosperare sulla Terra.

La natura sta subendo un degrado a un ritmo e su una scala che non ha precedenti nella storia dell’essere umano.

In questo momento, un milione di specie di piante di animali sparse per il mondo, su un totale stimato di 8 milioni, sono minacciate dal rischio di estinzione.

Se dovessimo continuare con questa tendenza negativa potremmo dirigerci verso la sesta estinzione di massa.

In appena 50 anni, l’umanità ha spazzato via il 68% delle specie selvatiche che popolano il pianeta.

È chiaro che siamo al centro di una crisi della biodiversità.

Perdendo la base dell’esistenza, ossia tutta la biodiversità, stiamo mettendo in pericolo la nostra stessa vita sulla Terra.

Con le tendenze negative attuali in termini di biodiversità non saremo in grado di nutrire il pianeta, per questo motivo abbiamo bisogno di una natura perfettamente funzionante.

 

Ad esempio, in tutta Europa il “bombo” è uno dei principali impollinatori delle colture alimentari ma negli anni ‘90 nel Regno Unito è stato dichiarato estinto.

Scienziati inglesi sono andati in Svezia per prelevare delle “regine di bombo” a pelo corto e portarle nel Regno Unito per cercare di salvare l’ecosistema che stava andando distrutto.

Circa il 70% delle colture alimentari dipende in qualche misura dall’impollinazione degli insetti ma l’espansione della monocoltura intensiva sta portando a una loro drastica diminuzione.

 L’ironia della sorte sta nel fatto che la produzione globale di cibo sta spazzando via proprio la risorsa da cui essa dipende. Questa è una delle prove che la biodiversità non è qualcosa che dobbiamo proteggere per la sua bellezza o per qualche tipo di responsabilità morale da parte di una specie, l’uomo, verso un’altra specie di flora e fauna, ma, al contrario, è il requisito per il funzionamento della nostra intera società.

Si tratta di un tassello fondamentale del puzzle per far sì che la produzione del cibo, la pulizia dell’aria e dell’acqua, l’assorbimento del carbonio (Co2), il riciclo di nutrienti funzionino.

Gli scienziati hanno cercato di calcolare i benefici forniti da grandi quantità d’insetti semplicemente con le loro normali attività giornaliere.

Ogni specie opera in modo leggermente diverso dalle altre ma il valore di quello che fanno è incommensurabile.

Un pianeta senza insetti è un sistema che non può funzionare e ovviamente il declino non si limita soltanto agli insetti, ma anche flora e fauna vengono spazzate via man mano che l’agricoltura si espande e occupa le terre abitabili del globo.

Oggi di tutte le specie di uccelli della terra solo il 30% sono selvatiche e di tutti i mammiferi del pianeta le specie selvatiche costituiscono in base al peso solo il 4%. Dove risiede il limite per la biodiversità? Quanto possiamo ancora perdere del mondo naturale prima che si arrivi al collasso della nostra società?

 

Nel mondo naturale sono presenti una moltitudine di punti di non ritorno ed è difficile tradurli concretamente in termini di limiti planetari quando si parla di biodiversità perché la vita è una questione complicata.

A causa della sua complessità è difficile individuare un limite univoco per la perdita della natura, tuttavia una cosa è certa: l’abbiamo già superato abbondantemente.

Ci troviamo in piena zona rossa, siamo in un punto estremamente pericoloso per quanto riguarda la perdita delle specie sulla Terra e la distruzione degli ecosistemi. La perdita della biodiversità va fermata il più in fretta possibile.

Questo è il momento di stabilire un termine limite per fermare tutto.

Dobbiamo smettere di perdere specie selvatiche. L’equivalente del limite di 1 grado e mezzo per il riscaldamento globale sarebbe la perdita di zero specie da qui in poi.

 

4. CONSUMO DI ACQUA DOLCE E CICLO IDROLOGICO.

Il terzo limite per la biosfera riguarda il sistema idrico del pianeta dal momento che l’acqua dolce è un’altra delle basi su cui si fonda tutta la nostra società.

Tutti noi abbiamo bisogno della bellezza di 3000 litri (3 tonnellate) d’acqua dolce a persona ogni giorno soltanto per restare in vita.

 Ci servono solo 50 litri per l’igiene e per bere, nei paesi ricchi vengono usati altri 100 litri al giorno per lavare e per le esigenze casalinghe, le industrie ne usano altri 150 per un totale di 300 litri circa, tutto il resto, gli altri 2500 litri, sono per la produzione di cibo, si tratta dell’acqua dolce di cui abbiamo bisogno per produrre tutto quello che portiamo in tavola quando dobbiamo mangiare.

Quanta acqua ci serve per alimentare tutto il mondo? Esiste una soglia globale per l’uso di acqua dolce oltre la quale il sistema inizia a collassare?

I ricercatori hanno eseguito una scansione di tutti i bacini idrografici presenti nel mondo e hanno cercato di definire quale fosse la quantità minima di deflusso delle acque che ogni bacino deve avere per mantenere l’umidità necessaria al sistema per avere un ecosistema rigoglioso, buone riserve d’acqua e bacini idrici funzionanti.

Il volume d’acqua che attualmente viene estratto da ogni fiume ci fa capire perché molti di essi corrono il rischio di finire prosciugato.

A livello globale oggi ci troviamo ancora nella zona sicura per quanto riguarda l’acqua dolce ma secondo le analisi ci stiamo spostando in fretta verso la zona di pericolo.

 

5. CIRCOLAZIONE DELLE SOSTANZE NUTRITIVE.

 

Il quarto e ultimo limite della biosfera riguarda la circolazione delle sostanze nutritive come azoto e fosforo. Sono i componenti essenziali di tutti gli esseri viventi nonché ingredienti chiave dei fertilizzanti.

Per produrli, prendiamo l’azoto dall’aria e lo convertiamo chimicamente in una forma che le piante sono in grado di utilizzare o nel caso del fosforo lo tiriamo fuori dalla terra e lo estraiamo.

Abbiamo sviluppato dei processi chimici e delle tecniche di estrazione del fosforo molto più efficienti delle precedenti.

Questo essenzialmente ha raddoppiato, triplicato o addirittura quadruplicato la produzione di sostanze alimentari in tutto il mondo.

È un progresso importante per sfamare la popolazione crescente ma dà origine all’abitudine di usare molto più fertilizzante di quello che effettivamente serve.

Queste sostanze si riversano nei corsi d’acqua e questo eccesso porta a un processo chiamato eutrofizzazione.

Si tratta di una fioritura di alghe. Nell’acqua sembra uno strato di sporcizia di colore blu-verde che copre la superficie dei laghi. Spesso hanno anche un cattivo odore perché le alghe stesse marciscono. Il processo di decomposizione delle alghe consuma ossigeno e la riduzione dell’ossigeno nell’acqua fa sì che cambi la composizione chimica dei sedimenti sul fondo del lago, provocando il rilascio di altro fosforo.

Quando si verifica l’eutrofizzazione si crea un ciclo a feedback positivo che fa rilasciare sempre più fosforo all’interno del lago e in pratica lo mantiene in quello stato.

(joomlafap2.altervista.org/joomla/menu1/idrosfera/l-inquinamento/eutrofizzazione.html=)

Abbiamo lo stesso problema di eutrofizzazione anche negli oceani, dove quegli stessi nutrienti sono la causa delle cosiddette zone morte e al giorno d’oggi queste zone morte si trovano in qualche centinaio di luoghi in tutto il mondo. L’eutrofizzazione degli oceani potrebbe essere stato uno dei fattori determinanti di una delle 5 estinzioni di massa che si sono verificate in passato.

Oggi alcune zone morte si sono già espanse fino a coprire superfici di migliaia di chilometri quadrati.

L’uso eccessivo del fosforo e dell’azoto è una delle influenze meno conosciute ma di maggiore impatto che stiamo esercitando sulla biosfera.

 Ci troviamo già all’interno della zona di pericolo, siamo ben oltre limite delle sostanze nutritive.

I nutrienti, l’acqua, le nostre foreste, la biodiversità e il clima sono le 5 componenti principali del nostro pianeta che regolano la stabilità e sono alla base della nostra sopravvivenza, tuttavia, il quadro non è ancora completo.

Un altro dramma poco conosciuto si sta verificando negli oceani.

 Il suo impatto sulla stabilità del pianeta potrebbe soverchiare tutti gli altri e quando” immettiamo anidride carbonica all’interno dell’atmosfera” circa 1/3 di quelle emissioni vanno a finire nelle acque degli oceani.

(E gli altri 2/3 rimangono sulla superficie della terra. Non possono salire nell’alta atmosfera in quanto la Co2 è un gas più pesante dell’aria! N.D. R)

 

6. ACIDIFICAZIONE DEGLI OCEANI.

La dissoluzione di anidride carbonica nell’oceano ne modifica il pH e lo rende meno alcalino, o più acido, da qui il nome acidificazione degli oceani.

Quando l’anidride carbonica si dissolve nell’acqua crea acido carbonico (H2CO3). La vulnerabilità maggiore riguarda le acque più fredde.

In questi ultimi decenni gli oceani del mondo sono diventati più acidi del 26% e finché la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera resterà così alta, continueranno ad acidificarsi.

L’acido reagisce con gli ioni carbonato presenti nell’acqua e ne riduce la concentrazione.

 L’acidificazione colpisce un grande numero di organismi, soprattutto quelli che hanno bisogno di carbonio per formare il proprio scheletro come ad esempio molluschi, ostriche e mitili.

Il cambiamento globale dell’acidità del pH degli oceani può causare estinzioni di massa.

 Lo abbiamo già visto ripetutamente nel corso delle ere geologiche.

Siamo ancora entro i limiti di sicurezza per quanto riguarda l’acidificazione degli oceani ma ci stiamo spingendo verso la zona di pericolo e potenzialmente verso una catastrofica estinzione di massa.

Nonostante la complessità della Terra i ricercatori hanno compreso che i sistemi che mantengono il pianeta stabile sono solo 9 ma non è ancora possibile determinare trovano i limiti di due di essi.

 

7. LE NUOVE ENTITÀ.

Il primo è un insieme di sostanze inquinanti prodotte dall’uomo. Vengono chiamate nuove entità e tra queste ci sono le scorie nucleari, gli inquinanti organici persistenti, i metalli pesanti e le microplastiche.

Esistono 100.000 nuovi materiali creati dall’uomo, e una qualunque combinazione di questi potrebbe interagire con l’ambiente in modi catastrofici.

Per il momento questo limite non è quantificato semplicemente non conosciamo gli effetti a lungo termine o cumulativi di queste sostanze inquinanti ma la maggior parte di queste ha il potenziale di causare uno sconvolgimento planetario se non le si controlla in qualche modo.

In particolare, c’è un tipo di sostanza inquinante che sta già avendo un impatto globale al punto di avere già un suo limite.

8. INQUINAMENTO ATMOSFERICO.

Gli aerosol sono essenzialmente particelle presenti nell’atmosfera, sono quelle che vengono chiamate polveri sottili dell’inquinamento atmosferico.

Il 75% è prodotto dai combustibili fossili.

Le vediamo nel cielo sotto forma di nebbia perché intercettano la luce del sole, la disperdono come fossero specchi e causano il cosiddetto oscuramento globale (global dimming).

Questi aerosol influenzano il clima.

 Dato che riducono la luce solare, ovvero la principale fonte di energia che regola la temperatura del pianeta, questi aerosol causano un raffreddamento coprendo gli effetti del riscaldamento globale.

Si potrebbe pensare che sia una cosa buona ma sfortunatamente non lo è: dal momento che lo nasconde non vediamo ancora pienamente il mostro dell’effetto serra.

Questo raffreddamento provocato dagli aerosol nasconde il 40% del riscaldamento globale ma ad un prezzo molto alto.

 L’inquinamento atmosferico uccide più di 7 milioni di persone all’anno e mediamente abbrevia di circa tre anni l’aspettativa di vita di ciascuno di noi.

Il limite per l’inquinamento atmosferico non è ancora stato determinato scientificamente ma considerati i 7 milioni e mezzo di morti a causa di queste particelle si può dire che abbiamo già superato da tempo il limite per quanto riguarda gli aerosol.

9. LO STRATO DI OZONO

Per concludere il nono limite è lo strato di ozono.

Ha la particolarità unica di essere il solo limite in cui ci stiamo muovendo nella direzione giusta.

L’ozono intercetta le radiazioni ultraviolette nocive che incidono direttamente sul nostro DNA e causano malattie mortali come il tumore della pelle.

 Per questo motivo, la scoperta negli anni ‘80 del buco nell’ozono antartico ha scatenato il panico globale.

 La scoperta del buco nell’ozono causato dal rilascio in atmosfera di sostanze chimiche inquinanti, ha convinto le nazioni a eliminarle gradualmente.

È stato davvero eccezionale vedere come gli avvertimenti scientifici si sono tradotti in azione politica.

 Questo è stato il primo e unico esempio della nostra effettiva capacità di gestire l’intero pianeta.

Siamo in grado di tornare a uno spazio operativo sicuro dopo esserci pericolosamente avvicinati alle zone ad alto rischio del pianeta ed è quello che abbiamo fatto in questa occasione.

Gli scienziati hanno lanciato l’allarme e il mondo si è messo in azione.

Oltre allo strato dell’ozono, almeno per il momento siamo all’interno dell’area sicura per quanto riguarda l’acidificazione degli oceani e l’acqua dolce ma non sappiamo ancora quanto siamo vicini alla zona di pericolo per l’inquinamento atmosferico, gli altri agenti inquinanti e le nuove entità.

La cosa più preoccupante è che abbiamo già superato almeno quattro dei 9 limiti: il clima, la perdita delle foreste, le sostanze nutritive e la biodiversità.

Stiamo attraversando una linea da cui non c’è ritorno e ormai siamo pericolosamente vicini a portare la Terra nelle condizioni in cui non potrà più sostenere la nostra civiltà.

 Quello che vediamo nel mondo oggi conferma il modello dei limiti planetari, ci fornisce delle prove concrete dato che siamo nella zona di pericolo nell’ambito del clima e in quella ad altissimo rischio nell’ambito della perdita di biodiversità. Assistiamo a un aumento della siccità, alle conseguenze sulla foresta pluviale, agli incendi in Australia, in Amazzonia, allo scioglimento precoce dei ghiacciai, al collasso del sistema corallino.

I coralli che sbiancano sono molto malati.

 I coralli diventano bianchi quando le acque sono eccessivamente calde, cosa che succede con sempre maggiore frequenza e intensità come conseguenza del riscaldamento globale.

In condizioni termiche estreme come quelle che abbiamo visto negli ultimi decenni con il fenomeno dello sbiancamento di massa possono morire molto velocemente, praticamente si “cuociono”.

 L’impatto di un evento di questo tipo è 10 volte più devastante del peggior uragano tropicale di categoria 5.

Questo fenomeno è fuori da ogni misura sia in termini di entità degli effetti che della frequenza con cui si sta verificando.

Prima lo sbiancamento era un evento raro e localizzato ma negli ultimi due decenni le ondate di calore marino lo hanno reso un fenomeno molto diffuso.

 Tre dei 5 eventi di sbiancamento più importanti sono avvenuti negli ultimi 5 anni. L’intervallo tra un evento e l’altro si riduce sempre più.

Per la prima volta abbiamo visto verificarsi uno sbiancamento della grande barriera corallina in due estati consecutive nel 2016 e nel 2017.

Questi intervalli sono essenziali perché consentono ai coralli di riprendersi. Metà dei coralli della barriera sono già morti.

I modellisti climatici e i biologi ci dicono che le emissioni di carbonio (Co2) di ordinaria amministrazione finiranno per provocare episodi di sbiancamento consecutivi un’estate dopo l’altra entro la fine del secolo.

Abbiamo superato il punto di non ritorno anche per i coralli.

(dolcevitaonline.it/sbiancamento-del-corallo-lecosistema-piu-complesso-del-mondo-e-destinato-a-scomparire/)

 

Gli incendi boschivi del 2020 sono i più devastanti della storia australiana. Secondo le stime degli scienziati l’incendio ha ucciso o costretto alla fuga tre miliardi di animali: 1.430.000 mammiferi, due miliardi e 460 milioni di rettili, 180 milioni di uccelli e 51 milioni di rane.

Queste cifre sono veramente enormi.

Gli incendi, lo sbiancamento dei coralli sono conseguenze del fatto che abbiamo superato il limite climatico.

 È la distruzione della natura la causa scatenante di quello che finora è senza alcun dubbio l’impatto più esteso e destabilizzante sul pianeta.

La pandemia da COVID-19 sta avendo effetto globale che ci ha colto impreparati. Ha sovraccaricato il servizio sanitario e messo in ginocchio l’economia mondiale.

Sebbene abbia sorpreso molti, l’organizzazione mondiale della sanità aveva avvisato che sarebbe successo.

Le malattie zoonotiche emergono e si diffondono nella popolazione umana quando la resilienza della natura si indebolisce.

Non è una natura sana quella che genera una pandemia.

In termini di trasmissibilità della malattia possono contagiarci solo alcune specie in determinate circostanze e quando invadiamo il loro habitat naturale in modo aggressivo.

Per questo salute umana, salute animale e salute ambientale sono tre elementi strettamente legati.

Per la prima volta nella storia, il COVID-19 ci ha fatto capire che quando qualcosa va per il verso sbagliato dall’altra parte del mondo all’improvviso può colpire l’intera economia mondiale e cambiare la nostra vita in un batter d’occhio.

L’apparizione del COVID-19 è stato un chiaro avvertimento che non va tutto bene sul nostro pianeta ma ci ha anche offerto un’opportunità per ricostruire in una nuova direzione.

Grazie agli studi di “Johan Rockström” e dei suoi colleghi che hanno fatto luce sulla questione vediamo chiaramente i limiti e vediamo il percorso per tornare a uno spazio sicuro, a un futuro più resiliente.

Siamo arrivati ad un punto in cui c’è bisogno di strutturare l’intero modello di crescita intorno alla sostenibilità e lasciare che sia il pianeta a guidare le nostre azioni.

Una priorità immediata è quella di ridurre le emissioni di carbonio (Co2) a zero e stabilizzare la temperatura globale più in basso possibile.

C’è ancora uno spiraglio per evitare di far aumentare la temperatura di 2°, possiamo anche evitare di arrivare a 1 grado e mezzo, però questa possibilità è ormai soltanto uno spiraglio sottile.

Dall’inizio della rivoluzione industriale a oggi abbiamo emesso ben 2400 miliardi di tonnellate di anidride carbonica.

Per mantenerci sotto il grado e mezzo possiamo emetterne al massimo altri 300 miliardi in totale.

Se, invece, continuiamo a mantenere il ritmo di 40 miliardi di tonnellate ogni anno finiremo per esaurirle tutte nell’arco di 7 anni.

Ovviamente non possiamo chiudere tutte le centrali elettriche del mondo da un giorno all’altro quindi l’unico modo ordinato per riuscirci è invertire la curva di emissioni globali perché tutte le ricerche dimostrano che questa è l’ultima occasione che abbiamo per invertire il corso degli eventi.

Qual è il ritmo più veloce per ridurre le emissioni che possiamo permetterci? Nessuno studio suggerisce di andare più veloce del 6-7% l’anno, perché una riduzione del 6-7% vuol dire dimezzarle entro 10 anni.

Diminuire le emissioni della metà ogni 10 anni è un cambio di ritmo esponenziale. Chiunque può adottare questo ritmo, possiamo farlo anche individualmente cercando di diminuire le emissioni della metà ogni 10 anni, il che vorrebbe dire liberarci dai combustibili fossili in una generazione cioè entro 30 anni.

Anche le aziende, le nazioni e il mondo intero possono, anzi devono farlo.

Eliminare gradualmente i combustibili fossili ovviamente sarà il primo passo del nostro viaggio verso la zona sicura dei limiti climatici.

Ridurrà notevolmente l’inquinamento dell’aria, rallenterà l’acidificazione degli oceani e farà calare lo stress sulla biodiversità, ma non basta azzerare le emissioni dobbiamo anche far diminuire il livello di anidride carboniche (Co2) che sta surriscaldando il pianeta e c’è un modo molto efficace per riuscirci:

piantare nuovi alberi.

Un impegno globale di piantare miliardi di alberi potrebbe essere la soluzione alla crisi climatica più efficiente a livello di costo e più facile da realizzare.

Far crescere nuovi alberi è vitale per contrastare l’anidride carbonica che continuiamo ad emettere mentre cerchiamo di raggiungere l’annullamento delle emissioni il più presto possibile.

 Naturalmente assorbire anidride carbonica (Co2) è solo uno dei benefici forniti dagli alberi.

La presenza degli alberi contribuisce anche a prevenire l’erosione del terreno nelle immediate vicinanze.

Se un’area è totalmente sprovvista di alberi la conseguenza è che si verificano meno precipitazioni.

Se piantassimo nuovi alberi, nei campi aumenterebbe la fertilità del terreno e quindi la loro produttività.

Si deve portare l’albero al centro di una politica basata sullo sviluppo sostenibile.

Si dovrebbe piantare un albero ovunque possa crescerne uno.

Piantare alberi e risanare il mondo naturale avrà chiaramente degli enormi benefici per la biodiversità del nostro pianeta ma sarà d’aiuto anche nello stabilizzare il clima e l’acqua dolce e avrà effetti benefici sulla nostra produzione di cibo e su tutti gli altri servizi che la natura ci fornisce gratuitamente.

Esiste un altro cambiamento altrettanto semplice che può essere la chiave per rimanere all’interno dei limiti del pianeta, può essere messo in pratica da chiunque o meglio da qualunque persona che abbia la libertà di decidere che cosa mangiare.

Un’ottima dieta è quella chiamata flexitariana:

meno carne rossa, più proteine di origine vegetale, più frutta e frutta secca, meno cibi amidacei.

Se si adotta questa particolare dieta, assumendo che tutti mangino cibo sano, potremmo riuscire a tornare all’interno della zona sicura non solo per il clima ma anche per quanto riguarda la biodiversità, la terra, l’acqua, l’azoto, il fosforo.

Il fatto che mangiare sano possa essere davvero il modo migliore per contribuire a salvare il pianeta è esaltante.

Esiste un altro cambiamento di vitale importanza che ci riporterebbe all’interno della zona sicura per tutti i limiti del nostro pianeta: immaginate un mondo senza rifiuti, senza niente di cui disfarsi. I nostri rifiuti vengono creati da progetti.

Quando creiamo un prodotto difficilmente operiamo in modo da recuperare le materie prime.

Se trasformassimo questo processo lineare in circolare, progettando un sistema con cui si possano recuperare le materie prime usate, lo sfruttamento delle risorse potrebbe diventare infinito.

Sempre più studi continuano a dimostrare che le economie circolari sono fondamentali se vogliamo aumentare le nostre possibilità di garantire una vita soddisfacente a tutti i cittadini del mondo.

Eliminare i rifiuti ci riporterebbe all’interno della zona sicura di clima, biodiversità e soprattutto nutrienti, nuove entità e inquinamento dell’aria.

 I limiti del pianeta ci hanno dato una via da seguire, semplici azioni come scegliere l’energia rinnovabile, mangiare, piantare alberi, dire di no ai rifiuti.

Tutte queste cose insieme potrebbero cambiare il nostro futuro sulla Terra e la cosa più magica è che tutti questi cambiamenti potrebbero migliorare anche la nostra vita attuale.

 Anche se non ci stesse a cuore il pianeta e non ci importasse nulla dell’equità nel mondo e fossimo degli egoisti concentrati solo su noi stessi, le nostre famiglie, le nostre vite, ed è una posizione del tutto legittima dal momento che siamo esseri umani alle prese con la vita di tutti i giorni, tutti dovremmo impegnarci per tornare in una zona sicura, tutti trarrebbero subito beneficio dalla possibilità di respirare aria pulita, avremmo una vita più sana e un’aspettativa di vita più alta e anche i nostri figli sarebbero più sani.

Riuscire a tornare entro i limiti del pianeta vuol dire anche aumentare le possibilità di vivere all’interno di una società con un’economia e delle occupazioni più stabili, cosa che ridurrebbe il rischio di conflitto e instabilità nei luoghi in cui viviamo.

Tutto sommato chiunque preferirebbe stare in una zona sicura piuttosto che in una zona di rischio dove tutto muta di continuo.

Quello che faremo tra il 2020 e il 2030 stando a quello che sappiamo oggi, sarà decisivo per il futuro dell’umanità sulla Terra.

 Il domani non è ancora scritto, il futuro è nelle nostre mani, quello che accadrà nei prossimi secoli sarà determinato da come giochiamo le nostre carte in questo decennio.

È un periodo meraviglioso quello in cui viviamo ma questo comporta anche la grande responsabilità di agire in modo deciso. Non abbiamo tempo da perdere.

 

 

 

I PROFESSIONISTI DEL “CONTROLLO SOCIALE

NON SONO MAI SAZI, E HANNO ANCHE TANTI SOLDI.

 

 Rs.linkedin.com - Post di Cristiano Donelli – (3- 4- 2023) -Redazione – ci dice:

 

Ormai non si contano le volte in cui Bill Gates sfrutta il suo potere mediatico per presentare prima la sua profezia di sventura e poi, guarda caso, la soluzione ideata e finanziata dalla fondazione "benefica" che gestisce con la moglie, la famigerata Bill e Melinda Fondazione Gates.

Povero Gates, da rampante imprenditore, da genio dell'informatica uscito dai più importanti garage della Silicon Valley, è finito a rappresentare il tipico caso di quello che per colpo di fortuna, chiamiamolo così, azzecca una previsione di tragedia e poi ci campa tutta la vita vaticinando continuamente un simile disastro.

Il problema nello specifico caso è che non si tratta del solito profeta di sventure che si prende per quello che è con contorno scaramantico necessario di corna e pernacchie, ma qui stiamo parlando di una persona dal portafoglio smisurato, enorme forse come il suo orgoglio che lo porta a lavorare perché i suoi scenari siano verificati e continuare a brillare della sua aurea.

 Ora per lui il periodo non è dei più facili perché le persone hanno quasi rimosso quanto successo, non potendone più di conteggi dei contagi, di chiusure alla vita, di obblighi vaccinali con contorno di cattiverie sociali, di paure di averci rimesso la salute nella foga medicale che ha travolto i più condizionabili, ma lui non molla e con costanza e faccia tosta si presenta più agguerrito che mai con le sue teorie transumane.

 Anzi ora va all'attacco di chi si oppone alla sua visione, avendo capito che molti per fortuna non accettano che si presenti l'interessato uccello del malaugurio a rovinare i piani di un'esistenza il più possibile tranquilla dice che quelli che chiama "complottisti" " si stanno muovendo contro di lui e lo vogliono maschio, poverino.

Se c'è un insegnamento che ci dovrebbe aver lasciato il periodo oscuro della pandemia è che la propaganda e gli interessi, di potere ed economici, non si fermano di fronte a nulla, nemmeno alla salute psico-fisica di moltitudini di persone, anche a fronte dei risultati che tutti stanno notando con sociopatie prima e nel medio-lungo termine disturba cronici e morti improvvise difficilmente spiegabili.

 Se avremo veramente imparato la lezione questi fenomeni torneranno da dove sono emersi, ma non sarà così facile scacciarli perché chi ha così tanti soldi ha a propria disposizione molti strumenti per lavorare su tutti i punti nevralgici che spostano le cose nella società, anche arrivando ad incidere sulle menti delle persone.

Ci risentiamo sul tema non tanto alla prossima presunta pandemia della proclamata "era delle pandemie", piuttosto al prossimo vaticinio rilanciato dai media accondiscendenti di Bill Gates che non tarderà ad arrivare perché i suoi interessi non possono rimanere stabili per troppo tempo come avviene ora.

 

 

 

Politicamente corretto

Un'ideologia autoritaria

e violenta.

Sinistrainrete.info - Carlo Formenti – (9-5-2021) – Redazione – ci dice:

Nel momento in cui la pandemia sta provocando centinaia di migliaia di morti e milioni di disoccupati e nuovi poveri, per tacere della sospensione della democrazia decretata dalla nomina di Mario Draghi a proconsole della provincia italiana da parte delle oligarchie occidentali che preparano una nuova guerra mondiale per uscire dalla crisi, la sinistra non trova niente di meglio che eleggere a proprio eroe un giullare di regime come il rapper e influencer Fedez, o spendersi per l’approvazione di una legge (presentata dal Pd Alessandro Zan) che andrebbe a rafforzare la rete di lacci e laccioli con cui l’ideologia del politicamente corretto imbriglia la libertà di espressione.

Opporsi volta per volta alle mosse di questa politica che conduce a piccoli passi verso l’instaurazione di un regime al cospetto del quale i cosiddetti “totalitarismi”, contro i quali veniamo quotidianamente sollecitati a protestare, ci sembreranno modelli di libertà, non basta più:

è il momento di lanciare una controffensiva sistematica e, visto che le forze politiche che dovrebbero condurla sul terreno politico e istituzionale sono al momento deboli, soverchiate dal rumore mediatico, il fronte principale su cui combattere è quello della lotta ideale, a partire dalla decodificazione dei legami che unificano le varie manifestazioni di questa offensiva “libertaria”, dietro alla quale si celano in realtà precisi interessi di classe ed esplicite mire autoritarie.

 

Occorre aiutare chi tende a formarsi un’opinione su questa o quella singola questione a cogliere il quadro d’assieme, a capire le dimensioni e la pericolosità di un’operazione di indottrinamento di massa in corso a livello mondiale (sia chiaro che non alludo a un oscuro “complotto”:

 a creare le condizioni che consentono a interessi, aspirazioni, ideologie e progetti politici di convergere, fino a generare uno “spirito del tempo”, sono precisi processi di trasformazione materiale).

 

Da questo punito di vista, i contributi critici di autori privi di etichette antisistema, portatori di un punto di vista in qualche misura “interno” ai valori e ai principi del liberalismo classico, sono particolarmente preziosi per inculcare qualche sano dubbio anche nella testa di chi non appartiene alla minoranza di coloro che si pongono esplicitamente al di fuori e contro tali valori e principi.

 È per questo che nei miei libri cito spesso due autori come Boltanski e Chiapello , i quali hanno descritto, con acribia scientifica e senza esprimere condanne etiche, la mutazione antropologica che ha permesso alle élite neoliberali di appropriarsi di parole d’ordine sessantottine, trasformandole in strumenti di controllo e di dominio sulla forza lavoro.

 Ed è per lo stesso motivo che in questo scritto, in cui cercherò di mettere in luce ciò che accomuna una costellazione di armi ideologiche di distrazione di massa di cui fanno parte il cosmopolitismo, l’ideologia no border, il linguaggio politicamente corretto, le filosofie post moderniste, il relativismo conoscitivo ed etico, il rivendicazionismo femminista e Lgbt, mi avvarrò del contributo di due autori, Jonathan Friedman  e Frank Furedi , non imputabili di nutrire velleità ”sovversive”, ma neanche di appartenere al campo delle ideologie conservatrici e reazionarie dei padroni del mondo.

Sul cosmopolitismo,

 

Furedi ricorda giustamente che uno dei numi tutelari dell’ideologia cosmopolita è il sociologo tedesco Ulrich Beck  (co- ispiratore, con il collega inglese Anthony Giddens, della famigerata “terza via” di Tony Blair e dei suoi emuli continentali, fra cui il PD).

Beck è autore di saggi in cui evoca la categoria di “cosmopolitismo metodologico”, con la quale allude al fatto che, secondo lui, nessuna delle tradizionali sfide politiche del sistema democratico può essere affrontata e risolta a livello dello stato-nazione.

 Il protagonista della “rivoluzione cosmopolita” auspicata da Beck è un “cittadino globale” la cui identità appare affrancata sia dal luogo di nascita che da legami comunitari.

Nella sua visione contano solo quegli individui che non appartengono ad alcuna comunità “prepolitica” (una figura puramente immaginaria, astratta, che Marx avrebbe liquidato come una “robinsonata”, visto che l’individuo non cade dal cielo, né può essere una monade, ma è il prodotto di molteplici determinazioni concrete, cioè sociali).

I diritti di questo individuo cosmopolita - che sotto certi aspetti richiama il concetto di “persona” negli scritti dell’ultimo “Rodotà”  – sarebbero inscritti in un’etica umanitaria transnazionale che, secondo Beck, dovrebbe subentrare allo status di cittadino di una nazione.

A queste tesi hanno attinto, fra gli altri, i militanti del “movimento no border”, riconoscendovi argomenti utili per sostenere i diritti di immigrati e rifugiati, ignorando il fatto che tali diritti potrebbero essere meglio difesi assumendo il punto di vista del “vecchio” internazionalismo proletario, il quale, al contrario del cosmopolitismo, non ha il difetto di prestarsi agli obiettivi strategici delle élite politico-culturali europee (e più in generale occidentali) ostili nei confronti dei popoli e delle democrazie nazionali, e desiderose di accentrare il potere nelle mani delle oligarchie transnazionali.

Furedi dice poco sulle radici di classe di questa ideologia, limitandosi ad alludere all’esistenza di una “classe globalista” di professionisti e manager che si percepisce come de-territorializzata, in contrapposizione ai miliardi di persone che organizzano la propria vita in base all’appartenenza territoriale (le quali rappresentano tuttora la stragrande maggioranza dell’umanità).

Del resto, nel suo lavoro, ripete in diverse occasioni di non credere alla possibilità di risalire alla cause “oggettive” che alimenterebbero determinate ideologie, alle quali attribuisce una autonoma dinamica evolutiva.

Posto che non si tratta di “smascherare” cosa e chi “si nasconde” dietro certe idee, applicando quella categoria di “falsa coscienza” che lascio volentieri ai cultori del marxismo volgare, resta la necessità di capire come e perché una mutazione culturale abbia potuto imporsi, quali strutture socioeconomiche (quali interessi di classe) ne abbiano accompagnato e favorito la diffusione.

In questo senso Friedman ha il merito dire qualcosa di più. Da un lato, punta il dito contro l’esigenza delle élite globalizzate di costruire un mondo multiculturale e transnazionale; esigenza che non nasce da un mero “gusto culturale”, bensì da obiettivi assai concreti, come promuovere la mobilità internazionale della forza lavoro, importando forza lavoro a buon mercato o andandola a cercarla altrove - pratica che ha consentito di distruggere i rapporti di forza delle classi lavoratrici occidentali, livellandone verso il basso redditi e condizioni e di vita e alimentando il conflitto fra autoctoni e immigrati.

Dall’altro lato, rivolge la propria attenzione sulla cosiddetta classe creativa, sul mondo degli analisti simbolici, della nuova classe manageriale che si muove e pensa velocemente, sulle élite mediatiche e accademiche che svolgono un ruolo essenziale nella fondazione di un nuovo regime di legittimità.

 

Aggiungerei, sulla scia di quanto ho scritto in varie occasioni), che mentre i “nonni” di questi strati socioprofessionali erano stati, negli anni Sessanta e Settanta, terreno di coltura degli intellettuali di opposizione, i loro “nipoti” sfornano oggi un “intellettuale organico” di tutt’altro tipo, i cui interessi coincidono di fatto con quelli delle élite dominanti.

 La Silicon Valley e gli altri distretti dove si concentrano i settori più innovativi dell’economia e della finanza mondiali, sono i luoghi in cui questa sinergia di interessi fra neocapitalismo e classi medie colte emerge con chiarezza.

Basti pensare alla solerzia con cui imprese come Google, Apple e Facebook si fanno promotrici dei principi del politicamente corretto, esaltando le pari opportunità di carriera che vengono offerte ai propri dipendenti e collaboratori, a prescindere dalle appartenenze etniche, di genere, preferenza sessuale, ecc. e sanzionando l’uso di linguaggi inappropriati al proprio interno.

A proposito della “società aperta.”

Se Beck è il nume tutelare del cosmopolitismo, argomenta Furedi, a Karl Popper  spetta il ruolo di araldo della “società aperta”.

Popper descrive le “società chiuse” (alludendo soprattutto, ça va sans dire, alle società socialiste) come alveari collettivisti ai cui membri è vietato assumere decisioni personali, ma non si limita a contrapporvi i Paesi a regime liberal democratico:

esalta gli imperi in quanto modello di un sistema sovranazionale dotato di una mentalità e di istituzioni più aperte e illuminate.

Né sembra lasciarsi scoraggiare dalla scia di crimini che ne hanno costellato la formazione, al contrario:

si spinge al punto di esaltarne la missione storica di intervenire negli affari interni delle comunità chiuse per costringerle ad aprirsi.

 In poche parole: legittima l’imperialismo quale inevitabile portato del “fardello dell’uomo bianco” (infatti le società chiuse non sono solo quelle socialiste, ma anche le comunità “arretrate” che non conoscono il mercato capitalistico e la democrazia formale, incapaci di entrare nella modernità se non grazie all’aiuto di qualche “generosa” potenza colonizzatrice).

 

Friedman associa a sua volta questa visione agli interessi di quelle élite “globaliste” che considerano le nazioni come meri contenitori di risorse (materie prime, capitali, forza lavoro, terreni, ecc.) e non come unità politiche, per cui condannano il punto di vista “ristretto” delle culture localiste.

 Rispetto a Furedi, introduce tuttavia un importante elemento aggiuntivo:

imperialismo e colonialismo sono ideologie che possono sussistere e operare anche all’interno dello stesso contesto nazionale e, a tale proposito, cita un progetto di legge svedese che, alla fine dei Novanta, preso atto che la Svezia, a causa dell’immigrazione di massa, non dispone più di una storia comune condivisa, dichiara che i cittadini svedesi vanno considerati come un gruppo etnico al pari di altri.

Il multiculturalismo così inteso, commenta, significa che “il ceto politico viene a trovarsi al di sopra della nazione, cessando di esserne un’estensione”.

Quindi aggiunge che questa forma di “pluralismo”, apparentemente ultra progressista, ha precursori di tutt’altro tipo:

i primi a teorizzarla sono stati appunto gli imperi coloniali, istituendo un ordine basato sulla segmentazione e sul conflitto fra sudditi appartenenti a gruppi in competizione reciproca;

l’eliminazione dei concetti di popolo, nazione e popolazione discende in linea diretta dalla pratica politica di imperi e regimi coloniali.

È per questo, conclude, che il rapporto fra governanti e governati tende a somigliare sempre più a quello fra colonizzatori e colonizzati;

è per questo che il conflitto fra destra e sinistra viene soppiantato da quello fra centri e periferie (non solo a livello globale ma anche all’interno di ogni singola nazione);

ed è per questo, infine, che i sistemi politici occidentali assumono sempre più l’aspetto di regimi dispotici retti da un autoritarismo liberale o un liberalismo autoritario.

L’elevazione dell’apertura a valore in sé e per sé, nota ancora Furedi, non si esaurisce nell’ideologia che contesta i confini fisici.

In nome dell’apertura si esalta l’esibizione dei pensieri intimi (chi apprezza la riservatezza ha qualcosa da nascondere);

le solidarietà prepolitiche associate a legami famigliari, comunitari, di fede religiosa, ecc. sono bollate come vincoli arcaici da sciogliere in quanto nemiche dell’emancipazione individuale e del progresso;

il personale viene politicizzato (“il personale è politico!”), nel senso che i politici vengono valutati per le qualità personali più che per le idee, mentre si diffonde la convinzione (particolarmente diffusa in ambito ambientalista, femminista e più in generale nelle culture alternative che predicano di cambiare il mondo “partendo dal basso”) in base alla quale i problemi sociali si risolverebbero cambiando i comportamenti personali.

“Last but not least” l’esaltazione della “trasparenza” fine a sé stessa fa sì che i media sfornino a getto continui programmi basati sull’esibizione pornografica di sofferenze, sentimenti, performance erotiche, ecc.

Il rifiuto del pensiero binario e dei confini simbolici.

 

Gli esseri umani non hanno mai potuto fare a meno di pensare in termini binari, di escogitare complessi sistemi fondati su costellazioni di contrapposizioni polari.

L’apeiron, l’indifferenziato, per gli antichi era sinonimo di caos primordiale, una dimensione inabitabile per uomini e dei governati da entità maligne.

 Ciò non vale solo per la religione e il mito – si pensi all’analisi strutturale di Levi Strauss – ma anche per il moderno pensiero scientifico e filosofico:

solo un pensiero dialettico è in grado di descrivere e comprendere un mondo in cui agiscono forze contrastanti. Ma le casematte accademiche delle ideologie postmoderniste, accusa Furedi, hanno scatenato una vera e propria crociata contro il pensiero binario.

 L’elogio dell’ambiguità, l’appello a rimpiazzare la logica dell’aut aut con quella dell’et et è uscito dalle università per investire il resto del mondo: opposizioni quali maschile/femminile, normale/anormale, ecc. vengono liquidate come strumenti di discriminazione, le idee binarie in campo sessuale accusate di “transfobia”;

la trasgressione dei confini simbolici tracciati dal pensiero binario esaltata come un bene in sé (e il bello è che la trasgressione appare svuotata di senso a mano a mano che viene percepita come la nuova normalità, per cui diviene una trasgressione priva di oggetto).

Per connotare questo divieto di tracciare confini simbolici, Furedi ricorre al neologismo “non giudicazionismo”, che sta a indicare il punto vista secondo il quale esprimere giudizi morali è un atteggiamento negativo perché discriminatorio.

La critica viene condannata come un atto violento, come una “micro aggressione”:

 visto che io affermo questo in quanto donna, in quanto gay, ecc. tu non puoi criticarlo, altrimenti vuol dire che attacchi le donne, i gay, ecc.

Ma rinunciare a giudicare, scrive Furedi, significa rinunciare alla ricerca della verità:

tutto diventa relativo, ogni cosa dipende dal punto di vista del singolo individuo che parla, asserisce, guarda, ecc.

La trasgressione dei confini simbolici eletta a principio fa sì che tutte le barriere tradizionali si liquefino, divengano fluide:

 gli adulti si infantilizzano (abdicando alle proprie responsabilità) mentre i piccoli si adultificano;

 infanzia e adolescenza si prolungano a dismisura, mentre i politici e i media predicano in continuazione la necessità di “ascoltare i giovani”, così una adolescente svedese viene fatta assurgere a icona dell’ambientalismo globale e chiamata ad arringare l’assemblea delle Nazioni Unite, e la proposta di estendere il voto ai sedicenni guadagna proseliti.

 L’ambivalenza, l’ibridismo, la fluidità e la trasgressione vengo visti con favore e promossi in ogni contesto, dalla scuola, alla politica, ai media. Ai bimbi si danno nomi neutri e li si veste in modo indefinito perché dovranno essere loro, una volta cresciuti, a “decidere” la propria appartenenza di genere.

Friedman sottolinea come questa ideologia attinga esiti estremi nella “gender theory” e nel pensiero di autrici come “Judith Butler”, che esaltano il nomadismo, l’ibridismo e il meticciato fra generi e culture, sostenendo la tesi che le identità dovrebbero divenire oggetto di libere scelte individuali, sempre reversibili.

 I nuovi eroi di questa cultura sono i trans (termine da intendere in senso lato, non solo sessuale) e i migranti (avendo ovviamente presenti quelli che operano scelte volontarie, piuttosto che quelli spinti dalla fame, dalle guerre e dalla disperazione).

Friedman ha però il merito, di andare più a fondo di Furedi nel rintracciare le radici filosofiche di un fenomeno che associa giustamente alla svolta linguistica delle scienze sociali, trainata da teorie post colonial, gender e cultural studies e da altre discipline accademiche “cool”.

Una svolta cui si è sommato l’enorme prestigio acquisito – a partire dagli anni Settanta - da autori come “Michel Foucault” e “Gilles Deleuze”, che hanno ipertrofizzato il ruolo del discorso, delle narrazioni, indicati come i fattori determinanti della dinamica del potere e della sua distribuzione sociale.

 È grazie a questa svolta maturata in ambito accademico se la grande maggioranza di coloro che escono oggi dalle università, e si professano progressisti, sono convinti che non esistano fenomeni sociali oggettivi, dotati di realtà autonoma, ma solo regimi di verità generati dal linguaggio.

La teoria degli atti linguistici - vedi l’uso che ne fa “Jean-François Lyotard” nella ” La condizione postmoderna” - diventa la bibbia delle scienze sociali, al punto che l’atto del denotare viene concepito come qualcosa che crea la realtà piuttosto che rappresentarla.

Questa convinzione spiega l’orrore che intere generazioni di giovani intellettuali e militanti provano nei confronti del sostanzialismo del pensiero novecentesco, della sua fede nell’esistenza di categorie e identità reali e oggettive, un pensiero cui addebita la responsabilità di inchiodare gli individui a identità predefinite.

 

 Il politicamente corretto: un’ideologia violenta e autoritaria.

Furedi sottolinea un paradosso: i crociati della guerra contro i confini simbolici cadono vittime del fatto che gli esseri umani non possono letteralmente vivere – vedi sopra – senza tracciare confini, perciò, mentre invitano alla trasgressione dei vecchi confini, si erigono a inflessibili sentinelle dei nuovi confini che loro stessi erigono a getto continuo, cioè di quei confini identitari che spesso appaiono più divisivi (e non di rado più violenti) di quelli tradizionali.

 È in ragione di tale paradosso che il linguaggio viene costretto a forza (anche a costo di cadere nel ridicolo) nella “gabbia del politicamente corretto”, per impedire che circolino parole che possano minacciare la “sicurezza emotiva” delle persone;

così, dopo avere lottato contro la censura imposta dai vecchi pregiudizi, si invocano leggi e codici comportamentali di una nuova censura che dovrebbe proteggere i soggetti “fragili” dall’esposizione a idee che li possano mettere a disagio;

così si afferma il principio in base al quale solo le donne (i neri, i trans ecc.) dovrebbero/potrebbero parlare/scrivere su argomenti che li riguardano, o interpretare personaggi femminili (di colore, queer, ecc.).

Per parte sua Friedman evidenza come queste tendenze culturali abbiano precise implicazioni morali.

 Tale conseguenza nasce dalla convinzione secondo cui l’atto di definire/denotare persone, culture, fenomeni, comunità, popolazioni, ecc. comporta “costruirne” l’identità e definire a priori ciò che questi soggetti – individuali e collettivi - possono/devono fare.

Si presume cioè che sia il linguaggio a monopolizzare il potere di istituire le gerarchie sociali, per cui chi vuole ribellarsi a tali gerarchie dovrà a sua volta utilizzare il linguaggio come strumento “contro egemonico”.

È qui che il politicamente corretto rivela la sua essenza di arma di una guerra morale:

il catalogo delle parole “proibite” in quanto “pericolose” si arricchisce a ritmo esponenziale, esponendo chiunque che ne faccia uso ad accuse infamanti (razzista, fascista, sessuofobo, omofobo, ecc.).

A mano a mano che l’etica del politicamente corretto si diffonde e viene adottata da intellettuali, media, élite politiche ed economiche, uomini e donne di spettacolo, ecc. queste accuse non hanno nemmeno più bisogno di essere provate, pretendono di asserire verità evidenti e assolute (e a chi viene giudicato colpevole non viene neanche concesso di difendersi).

 Paradossalmente, nota Friedman, questi giudizi morali cadono a loro volta nel peccato di essenzialismo che i nuovi giudici rimproverano alle categorizzazioni novecentesche:

se ieri i militanti di sinistra bollavano come piccolo borghesi gli appartenenti alla classe media, oggi se sei maschio, bianco, di mezza età ed eterosessuale viene dato per scontato che tu sia razzista, sessista, omofobo, in base a una logica associazionista che si fonda su un repertorio predefinito di falsi sillogismi.

Nel mettere in luce la logica oggettivamente violenta, autoritaria di questa cultura, i cui esponenti si considerano legittimati dalla propria presunta superiorità morale, Friedman chiama in causa Orwell; a me vengono in mente altri due autori:

Isabelle Noelle Neumann , la sociologa tedesca che ha coniato il concetto di “spirale del silenzio”, con il quale allude al fatto che generalmente le persone tendono a esprimersi in modo conforme alle opinioni della maggioranza per paura di subire sanzioni morali, e Max Weber, la cui definizione del concetto di potere  è simile a quella che Friedman usa per descrivere il modo in cui ci si adatta alle opinioni “corrette”, che consiste nell’introiettare i giudizi morali altrui come se fossero propri.

I nuovi confini simbolici, nella misura in cui svolgono la funzione di discriminanti morali e politiche, non si sottraggono al paradigma schmittiano:

 servono, cioè, a tracciare il confine amico/nemico. Friedman descrive così il modo in cui le sinistre “progressiste” stanno riconfigurando l’immagine del nemico:

1) bollano qualsiasi espressione di amor patrio come fascismo, al punto che perfino gli atteggiamenti positivi nei confronti della propria identità culturale vengono percepiti come negazione della ineluttabilità di un futuro cosmopolita, quindi sostanzialmente reazionari (in base a tale criterio, commenta Friedman, anche Levi Strauss, il quale scriveva che le culture, ognuna delle quali collegata a un proprio stile di vita e sistema di valori, enfatizzano le proprie peculiarità, e questa è una tendenza sana, non patologica, come vorrebbero farci credere, rischierebbe oggi di essere accusato di fascismo).

 2) Irritate dal risentimento dei proletari nei confronti delle élite liberal-progressiste li insultano come retrivi, conservatori, reazionari, un atteggiamento carico di odio e disprezzo che ha toccato vertici imbarazzanti dopo la vittoria elettorale di Trump negli Stati Uniti e l’esito del referendum inglese sulla Brexit.

 Per concludere.

Mi sono fatto prestare da due autori che comunisti non sono alcuni (non tutti) degli argomenti di fondo per cui – come ho scritto nell’ultimo articolo che ho pubblicato su questa pagina –, mentre mi professo orgogliosamente comunista, rifiuto la definizione di uomo di sinistra.

 E visto che i comunisti non hanno bisogno, al contrario dei “liberal progressisti”, di esibire certificati di presunta superiorità morale, per tracciare un confine che li distingua dai propri avversai politici, non ho difficoltà a dichiarare che nel campo degli avversari non colloco solo i nemici assoluti come fascisti, conservatori e liberali ma anche questa sinistra che inalbera la bandiera del politicamente corretto.

Sulla fatuità degli argomenti che il pensiero “fluidificante” mobilita contro i confini simbolici di ogni tipo (meno quelli che lui stesso si inventa) si è detto abbastanza.

Per concludere ricorrerò invece di nuovo a Furedi e Friedman per contestare l’ideologia no border che rifiuta di riconoscere i confini fra nazioni.

Scrive Furedi:

 i confini contano perché l’esercizio della democrazia è impossibile senza di essi, perché solo lo stato nazione garantisce solidarietà e fiducia, mentre deterritorializzare significa ridurre le persone a individui astratti incapaci, di dare senso a diritti e doveri.

I confini sono un’invenzione?

Certamente, ma non un’invenzione casuale e arbitraria, bensì il prodotto della storia di una determinata comunità, e se è vero che nascere in un certo luogo piuttosto che in un altro non è una scelta ma frutto del caso, è altrettanto vero che quel caso conta eccome per definire chi sei o non sei.

 E aggiunge Friedman:

 lo stato nazione che ha senso difendere non è il vecchio stato nato dalle rivoluzioni borghesi, ma il progetto politico di un popolo che vuole conquistare il controllo sulle proprie condizioni di esistenza, un progetto storicamente più recente, nato dai rapporti di forza che le classi lavoratrici hanno saputo conquistare nella seconda parte del Novecento.

Il cittadino del mondo di cui parla l’utopia cosmopolita è un’astrazione priva di ogni consistenza reale.

Cittadini si diviene nella misura in cui si condivide un progetto comune in un determinato territorio, se si appartiene a una comunità solidale che stabilisce come distribuire la ricchezza prodotta in quel territorio.

  

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