Io non sono comunista, ebreo, non condivido la religione Woke, lgbt, Gay, cancel culture, arcobaleno, ecc… Non sono ricco, posso essere globalista?
Io non
sono comunista, ebreo, non condivido la religione Woke, lgbt, Gay, cancel
culture, arcobaleno, ecc…
Non
sono ricco, posso essere globalista?
Fenomenologia
della “Cancel culture”:
tra”
Woke Capitalism” e
diritti
delle minoranze.
Site.unibo.it
- EMANUELE MONACO - (10-5-2022) – ci dice:
“Gli
eccessi della cancel culture”.
Basta
cercare queste parole su qualsiasi motore di ricerca per scoprire un universo
di pagine, articoli, opinioni, post, interviste, tutti con la stessa
conclusione: la folla di giustizieri social è fuori controllo e a caccia di
prede;
la libertà di parola non esiste più;
bisogna
cambiare le impostazioni della privacy ai vecchi post sui social;
mantenere
un profilo basso e stare attentissimi alle parole usate.
Potrebbe
sembrare un’esagerazione però, soprattutto in ambiente statunitense, la
stragrande maggioranza delle persone ritiene che lo spazio di libertà di
espressione si sia drasticamente ridotto e per molti commentatori la colpa è di
una cultura della cancellazione (appunto, cancel culture) figlia di “nuovo
puritanesimo progressista”.
Questi
usano le parole “cancel culture” per indicare un ampio spettro di casi:
dal licenziamento di una persona per aver
espresso liberamente idee controverse, al ritiro di un libro, fino a includere
petizioni per ritirare la tenure a professori o, recentemente, iniziative volte
a punire culturalmente la Russia.
Che
siano casi di giustizieri di Twitter o cosiddette “jetstorms”, fino a
intimidazioni e minacce, il numero dei casi che la stampa e parte dell’opinione
pubblica attribuiscono alla cancel culture è in continuo aumento.
1. Tra
cancel culture e cultura della responsabilità.
Naturalmente
c’è una diversa fazione che descrive molti di questi casi come parte di una “accountability
culture”, ossia una cultura della responsabilità, che si riferisce all’idea per
cui alcune parole o atti, anche se non puniti dalla legge, possano portare a
conseguenze sociali e professionali se offendono o urtano la sensibilità comune.
Il
termine “accountability” però è problematico se uno pensa al suo uso solito,
per indicare la fedeltà di dipendenti privati o cariche pubbliche a precise
gerarchie, obblighi costituzionali e impegni di produzione.
Usare
il termine per giudicare i liberi comportamenti sociali delle persone porta la
mente a scenari poco confortanti.
Queste
due visioni non riescono a entrare in un dibattito coerente perché gli attori
sono troppo impegnati a parlarsi l’uno sull’altro come in un pollaio televisivo
italiano.
Il
problema ulteriore è che i termini vengono usati senza permetterne il
significato e qualcuno dovrebbe decidersi a dare le definizioni delle parole
che usa.
Chi si lamenta della “cancel culture” dovrebbe
chiarire che cosa sta denunciando.
Davvero
vuole che tutti dovrebbero poter fare o dire quello che vogliono senza poter
essere criticati, denunciati, licenziati per questo?
Chi è
rassicurato dalla mancanza di problema perché si tratta “solo di accountability”,
potrebbe definire meglio i confini delle conseguenze “accettabili” di azioni e
parole controverse e offensive?
La
risposta molto probabilmente sarebbe “è più complicato di così”, il che sarebbe
un ottimo inizio.
Nonostante”
cancel culture” possa apparire un termine senza molto senso e, al contempo,
interpretabile in troppi modi, c’è un problema (se proprio vogliamo chiamarlo
così):
si
registra una crescente tendenza alla condanna frettolosa di personaggi pubblici
o meno, anche solo a causa di idee espresse male o non in linea con il sentire
di una precisa comunità.
Specialmente nel mondo anglosassone, lo spazio
di libero dibattito nei campus universitari si è molto limitato.
Esattamente
come ha scritto il “New York Times”, molte persone decidono di non partecipare
al dibattito pubblico proprio per paura di dire la cosa sbagliata nel momento
sbagliato e quindi di diventare vittime di “jetstorm”.
Allo
stesso tempo questa è una tendenza che non ha colore politico, anche se la stampa decide di usare “cancel
culture” solo quando viene da ambienti cosiddetti progressisti.
Quello
del “capro espiatorio da cancellare” è un fenomeno antropologico sempre
esistito.
Oggi però è incanalato ed estremamente
amplificato dai social, nelle sue manifestazioni nel mondo dell’impresa, dove
serve a precise logiche capitalistiche e di marketing.
Il
continuo attribuire alla “cancel culture” anche le forme più moderate di
dissenso sta creando una narrazione vittimistica da parte di élite interessate
a tenere a bada precise istanze sociali e civili.
Anche
per questo, uscire dalla tentazione della “cancel culture” serve prima di tutto
a chi fa attivismo e politica, proprio perché inutile e figlio delle stesse
logiche sistemiche che si dice di volere abbattere.
2. Il dibattito pubblico e le scuole.
Ormai,
nel dibattito pubblico, dire “cancel culture” significa aver espresso una
precisa opinione riguardo il fenomeno, anche senza esplicitarlo.
Questo
concetto amorfo non indica un movimento o una cultura (di qui il poco senso
dell’espressione).
Non c’è un’ideologia dietro, non un manifesto
o regole di impiego, anche se certa stampa o narrazione politica vorrebbe che
lo credessimo.
Di
fatto è l’evoluzione di quello che prima veniva chiamato” call-out”, cioè lo
smascherare e indicare per nome la persona che ha commesso un abuso o
un’offesa, usata soprattutto dai movimenti “#MeToo” e “Black Lives Matter” per
denunciare pubblicamente molestatori, stupratori e poliziotti omicidi.
Essendo
questi movimenti parte di quello che generalmente viene chiamato “mondo
progressista”, questa tendenza al “call-out” (poi progressivamente chiamata”
cancel culture”) è stata sempre più associata a presunti estremi di una
politica cosiddetta” woke”.
Quest’altra parola, proveniente dal
vernacolare afro-americano, è finita con l’essere usata in modo dispregiativo
proprio per indicare chi sembrerebbe avere come missione di vita quella di
vigilare sulla condotta del prossimo con una lente progressista.
Questo,
però, naturalmente, può benissimo descrivere casi di “call-out” avvenuti con
protagonisti attivisti di destra o persino del famigerato “centro moderato”.
Per non parlare dell’ondata censoria ben più allarmante e pericolosa introdotta
dalle istituzioni in molti stati americani a guida repubblicana.
Anzi,
ci sarebbero molte buone ragioni per dire che le cose stanno molto diversamente
da come ce le descrive la stampa:
le
nuove guerre culturali americane non sono fatte di aziende che cancellano e
zittiscono dipendenti, o contenuti di tendenza woke.
Il
campo di battaglia sono in realtà le scuole, cosa possono insegnare e proporre
a chi le frequenta.
Autori
di libri a tema razziale o sessuale (un esempio su tutti “Maia Kobabe” con il
suo “Gender Queer a Memoir”) sono diventati le vittime sacrificali di una “call-out”
culture tutta di destra e strumentale a una crociata sui diritti educativi.
Anche
per questo ha sorpreso molti il modo in cui fu espresso il timore per questa
presunta “atmosfera tossica” nella famosa lettera pubblicata su “Harper’s
Magazine” nel 2020.
Come si fa a focalizzarsi sul denunciare
questa tendenza nelle università e nelle aziende culturali, quando ci sono
istituzioni statali che, usando la legge, intervengono pesantemente sui
curriculum scolastici per passare” purity tests” con una base sempre più
radicalizzata?
Parte
della nostra classe intellettuale sta per caso perdendo completamente la
bussola?
Dopotutto,
a prima vista, non si capisce precisamente cosa quella lettera, come altri
interventi pubblici successivi, denunciasse:
sono sempre stati posti dei confini a ciò che
era accettabile dire o fare;
le istituzioni hanno sempre tentato di punire
azioni o dichiarazioni che le mettevano in cattiva luce o ne minacciavano la
reputazione;
picchetti,
petizioni, proteste, call-out a cui seguivano azioni censorie hanno sempre
fatto parte del vivere democratico e accademico, in negativo o in positivo.
In
questo senso quindi la “cancel culture” è sempre stata tra noi.
Quindi
cosa è successo da far allarmare così tanto accademici, opinionisti e
redazioni?
Forse
sarebbe il caso di cominciare ad analizzare le cose separando la tendenza al “call-out”
così come si manifesta sui social e le vere motivazioni che spingono
istituzioni e aziende a rispondere “cancellando”.
3. Il capro espiatorio moderno.
Se
anche qualcuno potrebbe pensare che le nuove forme di “call-out” siano
legittimi metodi per denunciare abusi e discriminazioni, soprattutto quando lo
stato fallisce nel suo compito di proteggere i diritti e la vita dei suoi
cittadini più deboli e marginalizzati, i canali social hanno facilitato e
amplificato la trasformazione del “call-out” in una forma di bullismo di massa.
Anche se è vero che questo fenomeno
impallidisce di fronte al pericolo dell’azione censoria dello stato (checché ne dica chi cade nella
trappola centrista di mettere le due cose sullo stesso piano), è innegabile che stia inquinando il
nostro vivere democratico.
Ciò
che è sempre più evidente è la manifesta necessità di molti utenti di riunisci
in un rituale non più di semplice call-out ma di pubblica condanna, come se la
modernità dei social network avesse contribuito a rievocare in nuova forma
antichi riti di capri espiatori e sacrifici umani.
Il
moderno capro espiatorio va a ricoprire varie funzioni.
Denunciarlo
incrementa il proprio status sociale, indica pubblicamente il nemico di un
preciso gruppo, rafforza i legami tra persone che non si conoscono ma si
trovano casualmente in quel momento dalla stessa parte.
L’azione
forza membri interni del gruppo a dichiararsi, rendendo manifeste istanze di
dissenso interno, ma soprattutto produce soddisfazione, un senso di
compiacimento e gratificazione istantanea e a poco costo.
Si è talmente concentrati a stare dalla parte
giusta della “shitstorm” che si dimentica l’antico ruolo del capro, cioè essere
eletto unico responsabile di un peccato che era però collettivo e di sistema.
“Ligaya Mishan” sul “New York Times”
ha intelligentemente richiamato l’analisi novecentesca di “Ruth Benedict” sulle
differenze culturali tra Occidente e Giappone riguardo il ruolo di colpa e
vergogna per evidenziare il cambio di paradigma nei moderni rapporti sociali.
La
colpa, di derivazione giudaico-cristiana è la sofferenza dovuta al non aver
potuto vivere secondo degli standard morali comunemente codificati dalla
religione, dall’ideologia o dalla legge, anche in assenza di sanzioni sociali:
“Ma la
crescente atomizzazione della società americana nel 21esimo secolo ha portato
ad una confusione del comune sentire”.
Gli standard morali si sono diversificati e si
sono disancorati, così come le istituzioni comunemente riconosciute che
codificano il bene e il male, e come il premio e la colpa hanno perso valore e
autorità.
Allora
forse, a meno di una rivoluzione, non rimane altro che ricorrere alla vergogna
e al pubblico ludibrio, come nelle società pre-illuministe.
Come “Benedict”
ricorda, la vergogna “ha bisogno di un’audience”, della paura del ridicolo e
critica dall’esterno.
In questo aiuta comunità riunite intorno a
propri codici morali a separare da sé bene e male, loro e noi.
La
parola “cancellare” dopotutto è imparentata con “cancello”, nel senso di
barriera, ma anche “carcere”.
È inoltre anche una parola che in inglese
deriva dal lessico del consumo.
Puoi
cancellare una sottoscrizione, un assegno, una transazione, un programma, un
appuntamento.
Evidentemente
nella nuova era dei rapporti sociali si è cominciato a pensare di applicare il
significato anche alle persone, costrette a scomparire per via del pubblico
ludibrio.
Non è
una sorpresa che molti critici della” cancel culture” la paragonino al
puritanesimo, al giacobinismo nel XVIII secolo o alla rivoluzione culturale
cinese degli anni ’60-’70, perdendo però di nuovo il focus, lasciandosi tentare
da paralleli offensivi e argomenti fantoccio (i cosiddetti strawman).
La jetstorm
infatti non ha alcuna delle caratteristiche di regimi dittatoriali o società
teocratiche.
Non c’è una gerarchia, logiche di apparato o
un’organizzazione.
È un
fenomeno spontaneo ed egualitario, con obiettivi che cambiano di giorno in
giorno, dipendendo dal momento, dalla comunità di riferimento, dalla propria
scala di valori, dal peccato commesso dalla persona di turno.
In
questo senso il prossimo potrebbe essere chiunque e per qualunque motivo.
Ed è
qui sia il suo valore sia il suo profondo limite.
La
realtà è che la cancellazione offre a chi la fa un’alternativa abbozzata e
confusa di un processo giudiziario, con i suoi rituali anche se piuttosto
caotici.
Dà
l’illusione alla gente di poter processare chiunque, persino chi occupa
posizioni di potere e privilegio, giudicarli e ricoprirli di scherno, come se
per un istante le strutture, le egemonie, i rapporti di forza fossero sospesi e
si potesse far prevalere la propria versione di giustizia.
Così
forse si spiega anche l’attrazione che questo esercita su alcuni membri di
comunità discriminate come quella LGBT+.
La
società naturalmente rimane la stessa, fatta di oppressione e mancanza di
diritti, violenza e discriminazione, però, come succedeva durante il carnevale
nel medioevo, è data una valvola di sfogo, l’illusione di poter fare call-out
di mali che in realtà sono codificati strutturalmente nelle nostre società
identificando ogni tal volta un capro espiatorio diverso.
4.
Woke Capitalism.
È in
questo contesto che navigano oggi le aziende, incluse quelle culturali come le
università.
Queste
istituzioni, motivate e spinte puramente dall’istinto di preservazione e dal
massimizzare profitto, si trovano a dover agire in un ambiente in cui molti
consumatori supportano cause politiche apertamente e vocalmente, progressiste o
conservatrici a seconda del posto dove vivono, della loro formazione, network
sociale e storia familiare.
I
valori di questa o quell’altra comunità quindi diventano dei potenti mezzi di
marketing.
La
pubblicità vuole avere qualcosa di poco costoso, poco impegnativo ma di forte
effetto di immagine.
Quindi
l’istinto di fronte al carnevale delle jetstorm è di fare ciò che è conveniente
dal punto di vista del marketing:
liberarsi di persone e iniziative scomode,
immolando il capro sperando che basti a ingraziarsi i consumatori.
I
social hanno reso impossibile per le aziende ignorare i problemi di immagine.
Una
volta le reazioni avvenivano in casa, per telefono, al bar.
Oggi tutto avviene nella pubblica piazza.
Si
convocano quindi riunioni di urgenza, dirigenti vengono tirati giù dal letto,
dipendenti vanno sotto review, e infine qualcuno viene licenziato o un prodotto
cancellato.
Impaurite dai danni reputazionali che una
singola jetstorm può causare, le aziende si stanno dimostrando ciniche,
avventate e frettolose nel trattamento dei propri dipendenti, soprattutto in
paesi dove le leggi sul lavoro permettono licenziamenti senza giusta causa.
Questo
perché, anche se a volte le cancellazioni sono volute e richieste (e in alcuni
casi meritate), in molte altre occasioni le persone che partecipano a una
discussione social non vogliono cancellare nessuno:
si sono semplicemente inserite nella
discussione di tendenza del momento; criticano qualcosa che considerano
offensivo o addirittura pericoloso;
prendono
in giro; vanno a caccia di retweet e reazioni; condividono meme.
Magari
singolarmente non stanno chiedendo un licenziamento.
Collettivamente
però è quello che ottengono.
Naturalmente
in questo contesto non c’è alcun incentivo a farsi portavoce o supporter di
vere istanze di cambiamento, sia delle culture aziendali sia delle strutture
sociali.
In
questo “Woke Capitalism” importa la reputazione del momento, il poter essere
dalla parte giusta della cancellazione, il poter vestire il logo dei simboli
del giorno.
Quanto
costa licenziare qualcuno di irrilevante da dare in pasto alla folla o fare
diversity training?
Perché
cambiare davvero le cose quando puoi semplicemente organizzare un seminario?
Il problema ulteriore è che per essere
efficace mediaticamente una cancellazione deve essere pubblica e non privata,
come di solito avviene con un semplice licenziamento.
In questa era però un evento del genere può
andare a definire la tua futura identità online.
La
persona licenziata o cancellata probabilmente non troverà più lavoro, dovrà
cambiare casa, scomparire.
Quando
si parla di eccessi della “cancel culture” in realtà in tanti casi si tratta
semplicemente di “uffici marketing e HR” che reagiscono anche in maniera
esagerata ad animate discussioni social.
Perché
l’incentivo economico è di seguire l’onda di marea, di arrendersi alla
pressione dell’attivista di Twitter, quel tanto che basta per toglierselo di
torno, fino a che l’attenzione non si sposta altrove.
È
quindi evidente il motivo per cui soprattutto i “movimenti progressisti”
debbano riconoscere la “cancel culture” come esistente e come parte integrante
del moderno discorso capitalista, così da poterla togliere dall’arsenale
dell’attivismo per concentrarsi sul cambiamento vero di cui le comunità
discriminate hanno seriamente bisogno per autodeterminarsi.
Riporre
la questione della responsabilità sociale nel posto che merita, cioè nel campo
delle legittime decisioni di un’istituzione di censurare comportamenti che si
ritengono incompatibili con la propria mission di mercato, serve soprattutto a
svincolarsi da questa surreale mistificazione, cioè che il moderno radicalismo
si debba accontentare della sua variante social, con i suoi risultati cosmetici
e convenienti.
Il woke capitalism è quello che ad esempio è ben
contento di finanziare “marce del Pride”, ma solo se declinate in festa
sponsorizzata, mai nella rivolta che è in realtà.
Aver
creato una cultura in cui anche l’omolesbobitransfobia e la violenza sulle
donne sono fattori di intervento da parte delle aziende sui propri dipendenti è
da una parte il simbolo di un cambiamento di sensibilità riuscito nella società
moderna, ma dall’altra ne rivelano la superficialità.
Il
queerbaiting delle aziende, il pinkwashing di tantissime iniziative di mercato
sono una trappola da cui l’attivismo si deve ben guardare.
Boicottare
e fare petizioni rimangono tra i nostri diritti democratici.
Il
pubblico ludibrio ha i suoi usi nel dibattito pubblico, soprattutto quando i
rapporti di forza sono completamente sbilanciati dall’altra parte, però non è
tutto:
può mettere a posto la coscienza degli
alleati, ma chi fa vero attivismo sa troppo bene come le istanze di cambiamento
siano ben altre.
(Cancel
Culture and the problem of Woke Capitalism, TheAtlantic.com).
Piani
Inclinati
e
Punti Geometrici.
Conoscenzealconfine.it
– (17 Settembre 2023) – Horus Arcadia – Redazione – ci dice:
In
un’era di finzioni e falsificazioni come l’attuale, tutto deve essere messo in
gioco per combattere battaglie di principio!
Quand’è
che ci siamo accorti che l’imposizione forzosa di un farmaco stava violando
tutti i principi fondamentali di civiltà democratica?
Quando
era ormai troppo tardi ed eravamo già chiusi in una sacca di vincoli e
circondati da volenterosi quanto insospettabili – fino a poco prima – Kapò!
Ma era tardi, troppo tardi.
Lo
stesso dicasi per la imminente chiusura in ghetti (la famigerata città da 15
minuti!) con la scusa del cambiamento climatico addebitabile solo alla gente
ordinaria!
Lo
stesso per la totalizzante mentalità “gender fluid”:
oggi
che vediamo sanzionare e mettere all’indice opinioni e testi che osano
pronunciare innocenti ovvietà semplicemente perché osano avanzare dei
distinguo, delle cautele, delle identità.
Così –
ma forse con una violenza repressiva inaudita – quando ci siamo ritrovati
circondati – talvolta aggressivamente – da immigrati distanti per lingua,
cultura, politica, visione del mondo e ci siamo sentiti schiacciati da questa
parola d’ordine che imponeva “accoglienza” fusione e meticciato pena la
scomunica a disumani “fascisti”!
Ma
tutto questo, tutta questa distopia, era partita da lontano, aveva cominciato
in punta di piedi, si era confusa in minimali accenni prima di deflagrare e
dilagare. Vedremo che sintomi di questa distruzione della nostra realtà c’erano
stati – evidenti o dissimulati – già molto tempo prima e TUTTI potevano essere
letti e interpretati per quello che comportavano.
Purché…
sì, purché si fosse adottata la visione geometrica del piano inclinato: bisogna
coglierne l’inizio, quando parte, perché alla fine, al punto di caduta è troppo
tardi.
Il
green pass aveva avuto dei precedenti chiari nei vaccini per i bambini
vincolanti per l’ingresso a scuola (da decenni), ma addirittura altri
precedenti solo germinali in dettagli a volte insignificanti come la
stampigliatura del pericolo di morte sui pacchetti di sigarette (ma lasciati in
commercio!), sulla obbligatorietà delle cinture di sicurezza in virtù di uno
stato etico-genitoriale che sa quel che è bene per te.
La
ghettizzazione – ormai inevitabile – si doveva riconoscere al primo autovelox,
alla prima ZTL, alle prime installazioni di telecamere di sorveglianza (hanno avuto buon gioco a venderle
come sussidi per la sicurezza… che sfrontatezza! quando tutti ti possono
accoltellare in pieno giorno senza che nulla lo impedisca)
e
soprattutto alla geolocalizzazione fornita dai telefoni digitali e che tanto
successo ha avuto come giocattolino irresistibile per adulti!
Ci
siamo cascati tutti imperdonabilmente!
Il
piano inclinato iniziava là ma portava al “campo di concentramento”
dell’immediato futuro.
La
dilagante iper sessualizzazione che iniziava coi cine-porno, e via via cresceva
col porno on line e dava continue piccole spallate con la sessualizzazione
precoce dei bambini con abiti, mode, accessori assolutamente inadatti.
Sì,
con il superamento del grembiule a scuola perché no!
Con la
“pecora dolly” che batteva in breccia ogni remora di tipo naturale per
millantare nuovi paradigmi creazionisti: tutto è realizzabile e quindi reale.
Siamo
stati ciechi (e muti!).
Ai
primi sbarchi (vi ricordate? All’epoca si chiamavano i “vu cumprà”) di
“extra-comunitari” – altro termine coniato dai media – abbiamo tutti sentito
palpiti di commozione e carità di fronte a persone sfortunate che il destino
(ma era il destino?) ci metteva di fronte: ma nessuno chiedeva espressamente
“quanto deve essere il numero – un numero ci dovrà pur essere – realisticamente
compatibile per offrire integrazione sociale, lavorativa, sanitaria a questi
nuovi arrivati?”
Possibile
che il bisogno – assai peloso – di sentirci buoni metteva a tacere ogni
ragionevole richiesta di concreta fattibilità?
Dove
portava quel PIANO INCLINATO se protratto all’infinito?
Era
chiaro che ci sarebbe apparso l’oggi, un oggi invivibile per tutti…
E
quando qualche indegno personaggio proponeva (impunemente!) di far pagare la
sanità ai cosiddetti “no-vax” da dove partiva quello specifico piano inclinato
e dove avrebbe irrimediabilmente portato?
Ma è
evidente!
Dai
primissimi ticket sui farmaci, che ognuno – proprio tutti all’inizio – poteva
permettersi di pagare (solo pochi spiccioli)!
Eppure
era così facile vedere che avrebbe portato alla sanità a pagamento (o peggio
per merito!) INTERAMENTE!
Quello era solo il primo spuntare del piano
inclinato; e noi l’abbiamo tollerato, colpevolmente.
Cosa
insegna (non a noi ormai irrimediabilmente sconfitti) questa figura geometrica?
Che per cogliere l’inizio di piani inclinati
micidiali dobbiamo sempre combattere le battaglie di principio!
Sì, quando non è in gioco un piccolo pegno ma
è il principio di valore per il quale tutto deve essere messo in gioco.
Le
battaglie di principio (per i valori che non muoiono) vanno combattute sempre,
subito!
Il
Punto Centrale.
Altro
termine derivato dalla geometria e che può esserci assai utile nell’impostare
correttamente ogni ragionamento – specie di ordine politico – è quello di Punto
Centrale.
Esso è il focus che inquadra nitidamente la
visione d’insieme, il centro attorno a cui si disegna una (o infinite)
circonferenza: è lui e non un altro.
Vediamo
nello specifico.
Il “punto centrale” non è se i vaccini possano
far male o se contengano l’elisir di lunga vita, il punto è la loro
obbligatorietà, il ricatto che ha portato alla sottrazione della dignità del
“disobbediente” passando per la privazione dello stipendio e delle mansioni.
Il
punto è l’odiosa forzatura totalizzante.
Il
punto centrale della guerra ideologica sulla “crisi climatica” non è se fa più
caldo o più freddo veramente rispetto al passato, e non è neppure se i
comportamenti umani possano sia pure minimamente influire sul cambiamento di
tendenza:
il Punto è: chi paga questa inversione?
Chi
farà i sacrifici?
Di che
entità?
Si
modificheranno scelte politiche globaliste come lo spostamento di merci per
tutto il globo terracqueo tramite navi cargo mostruose che consumano come
città? O – come si intuisce – si tende solo a penalizzare ulteriormente la vita
della gente comune?
Così
come l’arrivo indiscriminato di masse di migranti improvvisamente calati sulle
nostre strade non pone come punto centrale:
delinquono e violentano oppure no?
Sarebbe
fuorviante: ma perché se si comportassero tutti come scolaretti modello il
problema sparirebbe?
Infastidiscono
coloro che si limitano a controbattere “eh, ma non ci sentiamo più al sicuro!”,
infastidiscono perché sbagliano clamorosamente bersaglio.
Il
Punto è:
è vero
che si va incontro ad una vera e propria cancellazione culturale?
è in atto sì o no una sostituzione con un
frullato di usanze e costumi estranei nei confronti di una tradizione
millenaria che è stata l’anima della civiltà di ogni emisfero?
Sarebbe
lo stesso se – continuando a dismisura gli arrivi – tutti i migranti agissero
in modo mansueto ed innocuo;
esattamente
lo stesso: il punto non è quello, il punto è il genocidio culturale, non altro.
E
ancora, relativamente alle dilaganti (ed eterodirette) mode “gender-fluid” il
punto centrale è: qual è la natura?
Qual è cioè la condizione che spontaneamente e
senza interventi artificiali la natura ha offerto da sempre alla vita nel
mondo?
Come si fa ad affermare che non esistono uomini e
donne?
Riusciamo a cogliere che il punto centrale è
la lotta alla natura e alla realtà?
Questo
e non altro di questo: NEGARE CHE ESISTA LA REALTÀ.
Sbagliare
il punto centrale è come sbagliare bersaglio, confondere obiettivi veri con
obiettivi falsi, combattere battaglie inutili.
Anche
nel caso di qualche – illusorio! – successo.
In
conclusione ribadiamo con fermezza che in un’era di finzioni e falsificazioni
come l’attuale, il padroneggiare l’uso di strumenti concettuali come il “piano
inclinato” e il “punto centrale” è questione assolutamente vitale.
(horusarcadia)
(frontiere.me/piani-inclinati-e-punti-geometrici/)
«Il
nostro dibattito sulla cancel
culture? È troppo semplicistico
e manicheo».
Lespresso.it
– (23 settembre 2021) – Samuele Damilano – ci dice:
In
Europa affrontiamo l’argomento in termini binari, decontestualizzati dalla
traiettoria statunitense.
Ma ci
sono precise ragioni storiche che spesso sottovalutiamo e da cui nascono poi
gli eccessi.
Parla “Mario
Del Pero”, professore di “Science Po”, che fa il punto sulla polemica sulla “sinistra
illiberale” aperta dall’”Economist”.
«Il
dibattito in Europa e in Italia è troppo semplicistico, funzionale agli
interessi di singoli.
Non riesce a tenere conto delle tante
variabili necessarie ad avere una lucida analisi».
“Mario
Del Pero”, professore di storia internazionale e statunitense a “Science Po”,
prova a fare chiarezza sulla confusione che regna attorno ai temi della
“sinistra illiberale” e della cancel culture.
«Sono
tre i capisaldi da tenere a mente:
il
riconoscimento degli eccessi da parte della “cultura woke” (ovvero l’allerta alle ingiustizie e
discriminazioni razziali e sociali, ndr), “le motivazioni storiche” che ne sono
alla base, e la” contro-reazione” che ne scaturisce».
Da
qualche giorno si è aperto un dibattito sulla “sinistra illiberale”, dopo la
copertina dedicatagli dall’Economist.
Da
professore di storia statunitense a Parigi, come si pone sull’argomento?
Innanzitutto,
la discussione, in Italia come in Francia, viene portata avanti in maniera
molto schematizzata, in termini binari e decontestualizzati dalla traiettoria
storica statunitense.
Ci
sono evidenti eccessi” woke”, ne abbiamo molteplici esempi, anche caricaturali.
Che
ripercussioni hanno questi eccessi sull’insegnamento?
Io
insegno in un’università internazionale, che in alcuni campus ha più della metà
degli studenti nordamericani, dunque vedo molto bene come tutto ciò incide
sulla maniera di porci in aula.
Mi è capitato per esempio di accostare
l’aggettivo “sexy” alla tesi di dottorato di Condoleeza Rice, in quanto
l’argomento della sua tesi di dottorato, scienza politica militare in senso
stretto del termine, non era accattivante.
Un
gruppo di tre studentesse mandò allora una mail di protesta in cui sostenevano
non fosse giusto accostare questo aggettivo alla prima donna afroamericana
Segretaria di stato.
Trovai
l’episodio bizzarro perché gli statunitensi sanno perfettamente quali accezioni
può avere il termine.
Come
trovare dunque il compromesso?
Essere
sensibilizzati e fare i conti con un linguaggio che noi diamo per scontato, e
che invece porta con sé un carico di implicazioni, va bene.
Il
problema è che molto spesso si va oltre.
Io
insegno in piccoli seminari o lezioni con 400 studenti.
Dopo
due ore la battuta serve a far risposare tutti.
Ma la
battuta è per forza caricatura, e nel clima di oggi sembra che tutte siano
scorrette.
Il
risultato è che non si scherza più in aula.
Dall’altro
lato, però, bisogna sempre considerare che l’azione estrema che spesso sfocia
in radicalismo per i temi legati alla razza e al genere non è nata nel vuoto
perché un po’ di studenti sono andati fuori di testa.
Ma perché nella storia europea e, in
particolare, statunitense, tali discriminazioni di razza e di genere hanno
segnato e marchiato ab origine quella stessa storia.
Con il
rischio di ignorare o sorvolare su tali discriminazioni.
Esatto.
Noi
tutti ricordiamo Disney che censura i film, ma non prestiamo alcuna attenzione
a quello che fanno tanti Stati nel controllare i libri di testo nelle scuole
superiori.
Basta
vedere le risoluzioni del governo del Texas:
si insegna nel 2021 come se fosse il 1920.
Quando
Disney mette mano a “Dumbo” e in Italia si levano voci sdegnate, non si nota
che la scena in questione rappresenta quattro corvacci con l’accento
afroamericano sovraccaricato che prendono il giro l’elefante.
Uno di questi si chiama “Jim Crow”, che dà
nome al sistema segregazionista tra fine ‘800 e ‘900.
È come se ci fosse un cartone ‘40 che mostra
stereotipi antisemiti, come un ebreo col naso adunco, speculatore.
Tutto
ciò con un’informazione non sempre abile, e volenterosa, di cogliere queste
sfumature.
Mi è
capitato tempo fa di vedere sul Tg2 un servizio sulla” Howard University”, in
cui una giornalista diceva una marea di sciocchezze:
il messaggio era che “l’Università dei neri ha bandito gli
studi classici perché considerano “Socrate” e “Cicerone” dei suprematisti
bianchi. La dimostrazione è che il dipartimento di studi classici stava
chiudendo”.
La
verità è che “La Howard University “propone oggi degli studi, come gli “african
american studies”, che attirano di più gli studenti rispetto alle materie
classiche. Nel
contesto di una crisi generale delle discipline umanistiche, il dipartimento è
stato chiuso e i corsi sono stati spalmati, non c’entra niente il “suprematismo
bianco”.
In
Francia poi si discute molto dell’ingresso di queste idee:
porre l’accento sulla discriminazione razziale e,
ancor più, religiosa, aprirebbe un vaso ricolmo di critiche, presa di coscienza
e protesta contro la disuguaglianza.
Con un
secondo rischio: che queste esagerazioni vengano cavalcate dall’estremo
opposto.
Éric Seymour,
che paventa “la grande sostituzione della razza bianca”, ne è l’esempio più
eclatante.
Parigi
è una città segregata, che ha provato negli ultimi 20/30 anni a superare un
sistema molto marcato, derivato dalle ondate migratorie nel dopoguerra.
Anche
la mia università ha attivato da vent’anni a questa parte una procedura di
ammissione privilegiata per persone che provengono da zone svantaggiate, una
sorta di discriminazione positiva.
Ma
anche questo ovviamente ha generato tensioni, perché va contro l’idea di
meritocrazia come unico criterio, tipica della Repubblica francese.
La Francia in ogni caso deve fare i conti con
il passato, perché ancora oggi la discriminazione razziale è un tabu.
Anche per evitare che le conseguenze negative
di queste discriminazioni, dal terrorismo alla mancanza di sicurezza, vengano
sfruttate dai Seymour di turno.
Il primo risvolto positivo per questi
personaggi è la possibilità di non fare i conti con elementi reali e problemi
che poi generano queste reazioni, sfruttate tendenziosamente per poter
affermare di “dar voce a chi è oppresso”.
Wokismo
e cancel culture:
dove
ci portano?
Corrispondenzaromana.it – (26 Luglio 2023) -
Roberto de Mattei – ci dice:
Fin
dai tempi della Rivoluzione francese, la distruzione della memoria storica fa
parte della guerra scatenata contro la civiltà cristiana.
Basti
pensare non solo alla devastazione di chiese e di monumenti avvenuta tra il
1789 e il 1795, ma alla profanazione della basilica di Saint-Denis quando le
tombe dei sovrani francesi vennero aperte e i loro resti mortali riesumati e
dispersi, con un evidente significato simbolico:
ogni
traccia del passato doveva essere fisicamente cancellata, in ottemperanza al
decreto della Convenzione del 1° agosto 1793.
La
“damnatio memoriae” ha caratterizzato da allora la storia della sinistra
europea, fino alla “cancel culture” e alla ideologia “woke” dei nostri giorni.
La
“cancel culture” è la cultura della cancellazione della memoria:
una
visione ideologica, secondo cui l’Occidente non ha valori universali da
proporre al mondo ma solo crimini da espiare per il suo passato.
Il
termine woke, è un aggettivo della lingua inglese, che significa “stare
svegli”, per epurare la società di ogni ingiustizia razziale o sociale
ereditata dal passato.
L’utopia
dell’“uomo nuovo” presuppone infatti di fare tabula rasa del passato:
la
specie umana deve diventare “materia prima” informe per poter essere
rimodellata, rifusa come cera molle.
Il passaggio successivo è quello al
“transumanesimo”, la rigenerazione dell’umanità attraverso gli strumenti della
scienza e della tecnologia.
Questo
processo distruttivo, nel suo incontrollabile dinamismo, rischia però di
travolgere la stessa sinistra politica.
“Conchita
De Gregorio”, una giornalista italiana che a quel mondo appartiene, in un
articolo pubblicato su “La Stampa” del 7 luglio, racconta tre episodi
significativi, avvenuti in Francia che hanno suscitato il suo allarme.
Il
primo episodio è questo:
«In
una celebre e dalle famiglie ambitissima scuola di danza del Marais, quartiere
roccaforte delle élite progressiste parigine, i genitori dei piccoli danzatori
hanno fatto richiesta al dirigente scolastico che gli insegnanti non
istruiscano bambini e adolescenti ai giusti movimenti toccandoli con le mani,
ma con un bastone».
La ragione, è che qualunque contatto tra
corpi, compreso la mano che indirizza il busto o accompagna in un passo provato
per la prima volta, è potenzialmente una molestia sessuale.
Il
secondo episodio riguarda alcune lezioni di teatro in un Istituto superiore di Belle Arti
di Parigi.
Al momento della foto di gruppo, l’insegnante chiede a
una ragazza di legarsi i capelli in una coda «dal momento che la sua magnifica
sontuosa chioma afro espandendosi in orizzontale copriva completamente i volti
dei compagni alla sua destra e sinistra».
L’intera
classe si rivolta, denunciando la manifestazione di razzismo.
La preside obbliga l’insegnante a scrivere una
lettera di dimissioni o a licenziarsi.
Il
terzo episodio riguarda una famosa femminista che «sostiene la libertà delle donne
islamiche di non portare il velo”.
Attenzione:
“non”.
Di
portarlo, liberissime, e di non portarlo, altrettanto libere».
La
sinistra la accusa di islamofobia, di essere di destra, di essersi venduta. e
la polemica che ne scaturisce provoca l’assegnazione di una scorta alla
femminista.
Tra il femminismo e l’islamofilia la sinistra sceglie
l’islamismo, perché caratterizzato da un maggiore odio verso l’Occidente.
Un
quadro più ampio e approfondito di quanto sta accadendo in Francia, ce lo offre
un libro appena pubblicato da “Avenir de la Culture”, sotto la direzione di “Attilio
Faoro” (La
Révolution Woke débarque en France, Paris 2023, pp. 86).
Gli autori spiegano che il wokismo,” erede del
Terrore e delle Grandi Purghe sovietiche”, è un’ideologia globale che “vuole
trasformare la società in un vasto campo di rieducazione”.
Per i fanatici di quest’ideologia, «la
gastronomia francese è razzista», «la letteratura classica è sessista», «un
uomo può essere incinto», i 4.600 comuni che portano il nome di un santo devono
essere «sbattezzati», la basilica di Notre Dame è un simbolo di oppressione e
dovrebbe essere ridefinita «Notre Dame dei sopravvissuti alla pedo criminalità».
La
stessa lingua francese dovrebbe essere decostruita, sostituendo per esempio il
termine “hommage”, che rimanda a un linguaggio feudale, con quello di
“femmage”, così come al posto di “patrimonio” bisognerebbe usare il termine
“matrimonio”, per non concedere al maschilismo neppure un pur minimo vantaggio
semantico.
Non si
tratta di follie ma di conseguenze coerenti con una visione del mondo che
rifiuta la memoria storica dell’Occidente, e in particolare le sue radici
cristiane.
Eppure
la cultura, che è l’esercizio delle facoltà spirituali e intellettuali
dell’uomo, ha bisogno, per svilupparsi, di una memoria che conservi e tramandi
quanto l’uomo ha già prodotto nella storia.
La
memoria è la coscienza delle proprie radici e dei frutti che queste radici
hanno prodotto.
«La
fedeltà della memoria – ha osservato il filosofo tedesco “Josef Pieper” –
significa invero che essa “serba” in sé le cose reali e gli avvenimenti come
realmente sono e sono stati.
La
falsificazione del ricordo, contraria alla realtà, attuata dal “si” o dal “no”
del volere, è la rovina vera e propria della memoria;
giacché
contraddice alla sua natura intima che è quella di “contenere” la verità delle
cose reali».
La
prudenza, Morcelliana, Brescia 1999, p. 38).
La
menzogna per imporsi ha bisogno di distruggere la verità, che è contenuta dalla
memoria.
Per questo la cancellazione della memoria, che
contiene la verità della storia, è un crimine contro l’umanità e la rivoluzione
woke ne è espressione.
Il wokismo si sviluppa in Occidente per
distruggere l’Occidente, ma non ha nulla a che fare con la storia e con
l’identità della nostra civiltà, di cui costituisce un’antitesi radicale.
I detrattori dell’Occidente che si lasciano
sedurre da ricette come l’Eurabia islamica, la Terza Roma moscovita o il
neo-comunismo cinese abbracciano un itinerario suicida.
L’ideologia woke è l’ultimo stadio di una
malattia che viene da lontano e che non può essere curata sopprimendo il
malato.
Wokismo
e cancel culture non sono l’atto di morte dell’Occidente, ma le cellule
tumorali di un organismo che fu sano e che può ancora guarire, se ci sarà, come
speriamo, l’intervento radicale del Divino Chirurgo.
Amministrazione
Biden sempre
più
scatenata su Lgbt e aborto.
Corrispondenzaromana.it
– (13 Settembre 2023) - Mauro Faverzani – ci dice:
Sempre
più evidente la frattura tra la Chiesa e Joe Biden, che pure a parole continua
a proclamarsi “cattolico”.
La sua
amministrazione, infatti, ha proposto nuove norme federali, ufficialmente per
«affermare i diritti civili e le pari opportunità» ovvero per affrontare la
presunta discriminazione dei soggetti Lgbtqi+ nei programmi, che ricevono
sovvenzioni dal Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani americano.
Ma, di
fatto, non è questo l’obiettivo, come precisa una lettera diffusa lo scorso 5
settembre dall’”Ufficio di Consulenza Generale della Conferenza episcopale
statunitense”, che ha preso pubblicamente le distanze da questa iniziativa,
pensata in modo tale – si afferma – da «creare conflitti tra i requisiti
della norma e la dottrina cattolica», compromettendo l’attività di molte,
troppe organizzazioni caritative, in primis quelle che forniscono «rifugi di emergenza alle vittime di
violenza domestica».
Perché?
Alcuni
di questi alloggi sono riservati a persone dello stesso sesso.
Ma le
nuove regole proposte dall’amministrazione Biden qui «imporrebbero di ospitare
anche uomini biologici, che si identifichino come donne».
Si legge nella lettera dei vescovi
statunitensi:
«Qualsiasi
ente di beneficenza, che abbia bagni o spogliatoi separati per uomini e donne,
potrebbe essere obbligato a permettere agli uomini di utilizzare le strutture
per le donne e viceversa» ed a rivolgersi ai propri dipendenti o utenti con
«pronomi, che non corrispondono al loro sesso biologico».
Secondo
i legali della “Conferenza episcopale americana”, insomma, le norme proposte
imporrebbero «condizioni incostituzionali circa la partecipazione ai programmi
governativi», tali da minacciare «la nostra capacità di svolgere» le opere
previste e da riflettere «premesse antropologiche, che semplicemente non sono
vere», contrastando
quell’«ordine nel mondo naturale, che è stato progettato dal suo Creatore», ordine che include «corpi umani sessualmente
differenziati come maschi o femmine».
Da qui
il pollice verso rivolto dai vescovi contro tali norme, chiedendo espressamente
ch’esse rispettino i diritti statutari e costituzionali delle organizzazioni
religiose.
Tutto
qui?
Nient’affatto.
Che
Biden voglia imperniare anche la sua prossima campagna elettorale sulla
promozione dell’aborto, come già da noi denunciato la scorsa settimana, lo
conferma anche la strategia, che sta seguendo:
il mese scorso, ad esempio, la sua
amministrazione ha emesso un mandato, che, storpiando vergognosamente a proprio
uso e consumo una legge che di per sé tutela le donne gravide, cerca di
costringere tutti i datori di lavoro americani a finanziare le pratiche
abortive, anche qualora ciò contrastasse con le loro convinzioni etiche o
religiose.
Immediata la reazione delle associazioni
pro-life, che hanno subito annunciato battaglia.
La
proposta normativa, elaborata dalla “Commissione statunitense per le Pari
Opportunità sul Lavoro”, tradisce lo spirito della legge cui fa riferimento
ovvero il “Pregnant Workers Fairness Act”, votata a suo tempo in modo
bipartisan proprio perché impone alle imprese con più di 15 dipendenti di
«accogliere ragionevolmente» la «gravidanza, il parto o le condizioni mediche
correlate» di una propria lavoratrice.
Ebbene,
proprio in queste «condizioni mediche correlate» oggi l’amministrazione Biden
vorrebbe trovare il vulnus, il cavallo di Troia per includere pretestuosamente
in esse anche l’aborto, snaturando completamente e deliberatamente lo spirito
originario della norma, trasformata così nel proprio opposto.
Secondo
quanto dichiarato alla stampa da “Julie Marie Blake”, direttore generale di “Alliance Defending Freedom”, «la proposta illegale
dell’amministrazione Biden viola le leggi statali, che proteggono i non-nati e
le convinzioni religiose e pro-life dei datori di lavoro.
L’amministrazione
Biden non ha alcuna autorità legale, per inserire un mandato abortivo in una
legge a favore della vita e delle donne».
Già,
non ha né autorità, né potere per farlo.
Ma se li arroga.
Chissà
che gli americani non se ne ricordino, al momento dell’imminente voto.
RESTIAMO
UNITI NELLA DEMOCRAZIA
CONTRO
LE OLIGARCHIE.
Informatica-libera.net
– Blog di Francesco Galgani – Giulio Ripa- (30-8-2023) – ci dice:
L'oligarchia
(dal greco oligoi=pochi e archè=potere, comando; cioè "potere di
pochi") è un sistema di governo in cui il potere è detenuto da un gruppo
ristretto di persone tendenzialmente chiuso, organizzato, omogeneo, coeso, che
lo esercita nel proprio interesse particolare.
Si può
parlare ad esempio di oligarchie economiche, finanziarie, burocratiche,
militari, ecc.
Nel
sistema economico capitalistico si accumulano risorse economiche presso centri
di potere oligarchici, che esercitano un ruolo assai importante
nell'influenzare la gestione della cosa pubblica.
Spesso
queste oligarchie esplicano un effetto asfittico nei confronti del potenziale
imprenditoriale degli artigiani e della piccola e media impresa.
I
membri della classe politica nascondono il fatto che vi sia una oligarchia al
potere, una minoranza organizzata che inevitabilmente si concentra nelle mani
di un gruppo ristretto di persone, fondato sempre sulla dicotomia pochi-molti: pochi esercitano il potere, molti lo
subiscono.
Il
punto di forza delle oligarchie è nell'atomizzazione della massa, confusa,
dispersa e incapacità di organizzarsi.
"Dīvĭdĕ
et ĭmpĕrā (letteralmente «dividi e comanda») è una locuzione latina secondo cui
il migliore espediente di una tirannide o di un'autorità qualsiasi per
controllare e governare un popolo è dividerlo, provocando rivalità e fomentando
discordie.
Questa
tecnica permette quindi ad un potere centrale composto da pochi uomini di
governare e dominare sulla maggioranza della popolazione.
Una
strategia finalizzata al mantenimento di un territorio e/o di una popolazione,
dividendo e frammentando il potere dell'opposizione in modo che non possa
riunirsi contro un obiettivo comune.
In realtà, questa strategia contribuisce ad
evitare che una serie di piccole entità, ciascun titolare di una quantità di
potere, possa unirsi.
Per
evitare ciò, il potere centrale tende a dividere ea creare dissapori tra le
fazioni, in modo che queste ultime non trovano mai la possibilità di unirsi
contro di esso.
Sempre
di più si governa controllando lo stato d'animo della popolazione più che agire
in uno stato di diritto attraverso il confronto democratico.
Le
oligarchie condizionano lo stato d'animo della popolazione, modificando il
contesto per cambiare il nostro comportamento, senza farcelo sapere, per cui la
maggioranza della popolazione crede ed accetta lo scenario generale in cui si
narrano le cose che accadono.
Secondo
Macchiavelli "Governare è far credere." perché "Sono tanto
semplici gli uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che
inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare."
Il più
o meno 1% della popolazione più ricca prevale sempre sul restante 99% più
povero.
Il
risultato finale è una disuguaglianza in continuo incremento. I ricchi
diventano sempre più ricchi ed i poveri in aumento sono sempre più poveri.
L'1%
della popolazione mondiale più ricca, ha una ricchezza pari al 50% della
popolazione mondiale più povera.
Nel
nostro sistema capitalista, le oligarchie, una minoranza organizzata unita
nella gestione del potere che genera ricchezza per pochi, prevale sulla
maggioranza disorganizzata e divisa, incapace di costruire una visione
condivisa della società ed alternativa a quella impostazione dal sistema di
potere attuale.
Grazie
alla loro ricchezza le oligarchie finanziano i gruppi editoriali dei mezzi di
comunicazione di massa (televisioni e giornali), finanziano partiti e
movimenti, finanziano la pubblicità, comprano la fiducia delle classi
dirigenti, in modo da avere a loro favore l'informazione dominante per
condizionare il comportamento della maggioranza della popolazione, dirottando
con facilità il conflitto e la rabbia degli sfruttati contro altri sfruttati.
Le
oligarchie utilizzano l'innovazione tecnologica per sedurre la popolazione,
distorcendo l'attenzione dei cittadini alla vita politica.
Le
tecnologie persuasive e pervasive favoriscono tale distorsione, scegliendo cosa
mostrare e cosa no a ciascun individuo, in base ad algoritmi di
personalizzazione su misura:
in
questo modo, tendono a rinchiudere le informazioni e le relazioni
interpersonali all'interno di una bolla virtuale che somiglia molto alla
rappresentazione o visione del mondo che l'individuo può avere.
All'interno
della rete individuale aumenta così l'isolamento dell'uomo rispetto alla vita
reale, dove ci sono contraddittori, conflitti e diverse visioni del mondo che
contrastano con la propria.
I
grandi player internazionali (multinazionali) conoscono queste umane debolezze
e su di esse fondano i loro affari (milioni di utenti con i loro comportamenti
interattivi alimentano a titolo gratuito estese raccolta dati (Big data) per
iTunes, Google, Facebook, Twitter, Amazon etc ., che poi le vendono a chi serve
ottenere valore per analisi di mercato).
Le
oligarchie riescono ad avere consenso dalla maggioranza della popolazione,
semplicemente perché si rendono invisibili nel governo del paese.
Nella vita
reale poche popolazioni mettono in discussione il potere delle oligarchie,
perché la loro ideologia è vissuta come l'unico modo di vivere la vita, senza
più alternative.
Il
pensiero unico resta indiscusso:
crescere
economicamente nella quantità delle cose da consumo e non nella qualità delle
relazioni umane per emanciparsi, per cui i problemi si possono risolvere solo
individualmente, mai socialmente.
Una
propaganda capillare, diffusa, che utilizza due leve emotive viscerali di
estrema efficacia:
da una
parte la seduzione, la crescente ricchezza di beni materiali, la promessa
edonistica di una vita facile e comoda, il “diritto” al lusso, al benessere
personale individuale, che fa leva sul narcisismo;
dall'altra
la paura, il terrore di ricadere nella miseria e nella disperazione senza
uscita.
Il
neoliberismo, favorendo attitudini relazionali patologiche, basato sulla competizione
per emergere sugli altri, ha distrutto ogni forma di comunità, e insieme alle
comunità ha distrutto ogni forma di etica.
L'autoaffermazione
narcisistica oggi viene prima della ricerca del bene comune. Così vuole il
credo neoliberista, nel nostro modo di pensare più profondo e inconscio, tutti
siamo diventati neoliberisti, succubi di un pensiero patologico.
È un
fatto noto che l'assoluta maggioranza delle persone non è in grado di generare
gli stati e le emozioni che desidera. Quindi vive prigioniera di emozioni
decise da altri per garantirsi il dominio.
Solo
le oligarchie fanno società nel senso che si organizzano associandosi per
mantenere il loro potere a dispetto del resto della popolazione, una massa
mantenuta in una condizione caotica e frammentata, incapace di opporsi al
potere che governa, anzi si accontenta dello sgocciolamento della ricchezza
degli oligarchi, aspirando e sognando di entrare nel loro mondo.
Un
esempio attuale di oligarchia è quella finanziaria, quella che con la
finanziarizzazione dell’economia riesce a governare il mondo attraverso la
globalizzazione dei capitali.
La
sovranità non appartiene più al popolo, cioè alla comunità dei cittadini tutti,
ma ai poteri finanziari privati transnazionali, che decidono le norme a loro
più favorevoli.
La
finanza è indipendente dalla politica, ma la politica dipende dalla finanza.
Tra i
parametri valutati dal mondo finanziario nel giudicare l'economia di un paese,
c'è anche la stabilità politica del paese.
Questa
valutazione condiziona direttamente la volontà di cambiamento di una nazione
anche quando è il risultato di un processo democratico.
In
base a criteri non democratici, cioè interventi e strumenti considerati
erroneamente neutrali perché tecnici come le agenzie di rating, aumento degli
interessi sul debito, pareggio di bilancio, disposto della liquidità della
moneta, spread, caduta delle azioni in borsa, rapporto di cambio tra le monete,
ecc., la finanza prevale sulla politica democratica.
Le banche ed i loro soci (in genere
multinazionali che spesso diventano monopoli privati) non sono neutrali sul
campo ma, condizionano il corso degli eventi che accadono nel mondo.
Inoltre
con i paradisi fiscali le oligarchie finanziarie riescono a sottrarsi da
qualsiasi regola o limite sulle transazioni finanziarie senza pagare nulla ai
corrispettivi paesi.
La
maggioranza della popolazione non vede questo potere forte oppure non lo
associa al governo della società.
I
motivi sono vari. Ma quello principale è che questo potere forte ha la capacità
di dividere la popolazione su altre problematiche più "urgenti".
Un
esempio è quello della migrazione dei popoli.
La
lotta tra pro immigrati e anti immigrati riempie l'agenda dell'agire politico.
Gli
esponenti a livello europeo che si contrappongono su questo problema, sono il
presidente francese Macron e il ministro italiano Salvini.
Macron
si dichiara europeista e globalista invece Salvini antieuropeista e
nazionalista.
Ma
entrambi sono per un sistema neoliberista con a capo la finanza.
Tutte
e due i contendenti Macron e Salvini non mettono in discussione, nei fatti, la
finanza speculativa, il capitalismo finanziario, i privilegi di questa casta
che decide la vita e la morte delle nazioni, mentre la popolazione è costretta
a dividersi schierandosi con l'uno o con l'altro, sul tema dell'immigrazione.
È
importante invece non dividersi.
Se la maggioranza della popolazione resta
unita, è compito primario di ogni democrazia, "il governo di molti",
isolare e sconfiggere le oligarchie, in modo da curare gli interessi delle
comunità, dei molti, compresi gli immigrati, rispetto all'interesse di pochi
privilegiati.
Restare
uniti per lottare contro il pensiero unico neoliberista delle oligarchie, significa favorire il passaggio da
una cultura patologica del tutti contro tutti, radicata nella patologia degli
affetti, delle emozioni e delle relazioni, ad una nuova cultura fisiologica, ad
una nuova umanità del bene comune, radicata nella fisiologia degli affetti,
emozioni, relazioni.
Fisiologia
anzichè patologia del pensiero.
"La
psiche è una, noi siamo uno, il mondo interno corrisponde al mondo
esterno".
La
dicotomia io/altri va superata.
Cambiare
l'individuo (l'io) per cambiare la società (gli altri), è equivalente nel dire
cambiare la società per cambiare l'individuo, e viceversa.
Non
esiste questo o quello, ma esistono entrambi.
Non esiste un prima e un dopo.
Tutto
accade insieme nello stesso tempo.
Oltre ogni scelta manichea, superare il
dualismo io/altri significa "io sono gli altri" e "gli altri
sono me".
Praticare
questa filosofia, che sostituisce l'individualismo edonistico ed altre
ideologie di un pensiero patologico tipico del nostro tempo, spinge nella
direzione del pensiero fisiologico dove è possibile "farsi individui nel farsi
comunità".
Economia
e Pandemia, ora
arriva
il «Grande Reset» di Davos.
Mittcolcino.com
- Franco Leaf – (5 Agosto 2021) – William F. England – ci dice:
Per
coloro che si chiedono cosa accadrà dopo che la pandemia di Covid-19 ha portato
al blocco quasi completo dell’economia mondiale, causando la peggiore
depressione dagli anni ’30, i Leader della principale ONG della
globalizzazione, il “World Economic Forum” di Davos, hanno appena svelato i
contorni di ciò che dobbiamo aspettarci nei mesi a venire.
Queste
persone hanno deciso di usare la crisi come un’opportunità.
Il 3
giugno, tramite il loro sito Web, il “World Economic Forum” di Davos (WEF),
hanno svelato i contenuti del prossimo forum di gennaio 2021.
Lo
chiameranno il «Grande Reset». Utilizzeranno l’impatto sbalorditivo del
Coronavirus per far avanzare un piano molto specifico.
In
particolare, tale Agenda si integra perfettamente con un’altra, l’”Agenda 2030″
varata dall’ONU nel 2015.
L’ironia
del principale forum mondiale sull’economia — quello che ha avanzato l’”Agenda
della Globalizzazione” a partire dagli anni ’90, abbracciando quello che
chiamano “sviluppo sostenibile” — è davvero enorme.
Lascerebbe
pensare che questo programma non riguardi esattamente ciò di cui il WEF e i
partner stiano realmente parlando.
Il
Grande Reset
Il 3
giugno il Presidente del WEF Klaus Schwab ha pubblicato un video che annuncia
il tema annuale per il 2021, il “Grande Reset”.
Sembra
essere nientemeno che la promozione di un’Agenda Globale volta a ristrutturare
l’economia mondiale secondo linee molto specifiche, molto simili a quelle
sostenute dall’IPCC, da Greta dalla Svezia e dai suoi amici aziendalisti come
Al Gore o Larry Fink della Blackwater.
È
interessante notare che i portavoce del WEF inseriscano il “reset dell’economia
mondiale” nel contesto del Coronavirus e del conseguente crollo dell’economia
industriale mondiale.
Il
sito web del WEF afferma che: «Ci sono molte ragioni per perseguire un Grande
Reset, ma la più urgente è l’epidemia di Covid-19».
Quindi,
il Grande Reset dell’economia globale deriva dal Covid-19 e dalle «occasioni»
che presenta.
Annunciando
il tema del 2021, il fondatore del WEF, Schwab, ha quindi affermato, spostando
abilmente l’attenzione:
«Abbiamo
un solo pianeta e sappiamo che il cambiamento climatico potrebbe essere il
prossimo disastro globale con conseguenze ancor più drammatiche per l’umanità».
Sottintende
che il cambiamento climatico è il motivo alla base della catastrofe della
pandemia di Coronavirus.
Per
evidenziare l’”Agenda verde sostenibile”, il WEF si è avvalso della
partecipazione dell’aspirante Re d’Inghilterra, il Principe Carlo.
Riferendosi
alla catastrofe globale di Covid-19, il Principe di Galles ha detto:
«Se
c’è una lezione cruciale che possiamo imparare da questa crisi, è che dobbiamo
mettere la natura al centro di quello che facciamo. Semplicemente, non possiamo
più perdere tempo».
Insieme
a Schwab e al Principe Carlo c’è anche il Segretario Generale delle Nazioni
Unite, Antonio Guterres:
«Dobbiamo
costruire economie e società più uguali, inclusive e sostenibili che siano più
resistenti di fronte alle pandemie, ai cambiamenti climatici e ai molti altri
cambiamenti globali che affrontiamo».
Tenete
bene a mente il suo discorso su «economie e società sostenibili». Lo
riprenderemo in seguito.
Anche
la nuova responsabile del FMI, Kristalina Georgieva, ha appoggiato il Grande
Reset.
Fra
gli altri resettatori del WEF ci sono: Ma Jun (Presidente del “Green Finance
Committee” della “China Society for Finance and Banking” e membro del “Monetary
Policy Committee” della “People’s Bank of China”), Bernard Looney (CEO di BP),
Ajay Banga (CEO di Mastercard) e Bradford Smith (Presidente di Microsoft).
Non
fraintendete, il Great Reset non è il momento migliore per Schwab e i suoi
amici. Il sito web del WEF afferma che:
«I
blocchi causati dal COVID-19 potrebbero gradualmente allentarsi, ma l’ansia per
le prospettive sociali ed economiche del mondo si sta intensificando. Ci sono
buone ragioni per preoccuparsi: una forte recessione economica è già iniziata e
potremmo affrontare la peggiore depressione dagli anni ’30. Ma, anche se
probabile, questo risultato non è inevitabile».
Gli
sponsor del WEF hanno grandi progetti:
«Il
mondo deve agire congiuntamente e rapidamente per rinnovare tutti gli aspetti
della nostra società e della nostra economia. Dall’istruzione ai contratti
sociali e fino alle condizioni di lavoro. Ogni paese, dagli Stati Uniti alla
Cina, deve partecipare e ogni settore, dal petrolio al gas e fino alla
tecnologia, dev’essere trasformato. In breve, abbiamo bisogno di un «grande
ripristino” del capitalismo».
Questa
è davvero tanta roba.
Cambiamenti
radicali
Schwab
rivela ancora di più sulla prossima agenda:
«… un
lato positivo della pandemia è che ha dimostrato quanto velocemente possiamo
apportare cambiamenti radicali al nostro stile di vita. Quasi istantaneamente,
la crisi ha costretto aziende e privati ad abbandonare pratiche per molto tempo
ritenute essenziali: dai frequenti viaggi aerei al lavoro in ufficio».
Sarebbero
questi i lati positivi? Schwab suggerisce comunque di estendere quei radicali
cambiamenti:
«L’agenda
del Grande Reset dovrebbe avere tre componenti principali. Il primo per
indirizzare il mercato verso risultati più equi. A tal fine, i Governi
dovrebbero migliorare il coordinamento … e creare le condizioni per una
economia più coinvolgente …».
Tale
Agenda includerebbe: «modifiche alle tasse patrimoniali, ritiro dei sussidi per
i combustibili fossili e nuove Leggi che regolino la proprietà intellettuale,
il commercio e la concorrenza».
La
seconda componente dell’Agenda del Grande Reset per assicurare che: «gli
investimenti promuovano obiettivi condivisi, come l’uguaglianza e la
sostenibilità».
A
questo punto, il Capo del WEF afferma che i recenti copiosi contributi per
stimolare l’economia dell’UE, degli USA, della Cina e di altri paesi devono
essere utilizzati per creare una nuova economia che sia:
«Più
resiliente, equa e sostenibile nel lungo periodo. Ciò significa, ad esempio, la
costruzione di infrastrutture urbane “verdi” e la creazione di incentivi per le
industrie volti a migliorare la loro esperienza in termini di metriche
ambientali, sociali e di governance (ESG)».
Infine,
la terza componente di questo Great Reset è per implementare uno dei progetti
personali di Schwab, la “Quarta Rivoluzione Industriale”:
«La
terza e ultima priorità dell’Agenda del Grande Reset è quella di sfruttare le
innovazioni della Quarta Rivoluzione Industriale per sostenere il bene
pubblico, in particolare affrontando le sfide sanitarie e sociali. Durante la
crisi del Covid-19 aziende, università e altri hanno unito le forze per
sviluppare diagnosi, terapie e possibili vaccini; per istituire centri di
controllo e creare meccanismi per tracciare le infezioni; per fornire la
telemedicina. Immaginate cosa sarebbe possibile fare se simili sforzi,
concertati, venissero fatti in ogni settore.»
La
“Quarta Rivoluzione Industriale” comprende la biotecnologia per l’editing
genetico, le telecomunicazioni 5G, l’intelligenza artificiale e simili.
Agenda
2030 ONU e il Grande Reset
Se
confrontiamo i dettagli dell’”Agenda ONU 2030” del 2015 con il “Grande Reset”
del WEF, troviamo che coincidono perfettamente.
Il
tema di “Agenda 2030” è un “mondo sostenibile” definito dall’uguaglianza di
reddito e di genere, dai vaccini per tutti sotto l’egida dell’OMS e della
“Coalition for Epidemic Preparedness Innovations” (CEPI), lanciata nel 2017 dal
WEF insieme alla “Bill & Melinda Gates Foundation”.
Nel
2015 le Nazioni Unite hanno pubblicato un documento intitolato «Trasformare il
nostro mondo: l’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile».
L’Amministrazione
Obama non l’ha mai sottoposta al Senato, consapevole che non sarebbe stata
approvata. Eppure, sta avanzando in tutto il mondo.
Comprende
17 obiettivi di “sviluppo sostenibile”, come estensione alla precedente Agenda
21:
«Porre
fine alla povertà e alla fame in tutte le loro forme e dimensioni … proteggere
il pianeta dal degrado, anche attraverso il consumo e la produzione
sostenibili, gestendo in modo responsabile le risorse naturali e adottando
provvedimenti urgenti sui cambiamenti climatici …».
Chiede
crescita economica e agricoltura sostenibili (OGM), energia (eolico, solare),
città e industrializzazione anch’esse sostenibili …
“Sostenibilità”
è la parola chiave. Se scaviamo in profondità, è chiaro che è una “parola in
codice” volta a definire la riorganizzazione della ricchezza mondiale
attraverso ad esempio tasse punitive sul carbonio, che ridurrebbero
drasticamente i viaggi, aerei e veicolari.
Il
“mondo meno sviluppato” non arriverà ad essere sviluppato. Anzi, sono le
civiltà avanzate che devono abbassare i loro standard di vita per diventare
“sostenibili”.
Maurice
Strong
Per
comprendere il doppio uso del termine “sostenibile”, dobbiamo tornare a Maurice
Strong, un miliardario canadese, petroliere
e amico intimo di David Rockefeller — il personaggio centrale degli anni
’70 per la promozione dell’idea che le emissioni di CO2 causate dall’uomo
stavano rendendo il mondo invivibile.
Strong
ha creato il “Programma Ambientale” delle Nazioni Unite e, nel 1988, il “Gruppo
Intergovernativo delle Nazioni Unite per i Cambiamenti Climatici” (IPCC) per
studiare esclusivamente la CO2 prodotta dall’uomo.
Nel
1992 Strong dichiarò che: «L’unica speranza per il pianeta non è forse fare in
modo che le civiltà industrializzate collassino? Non è nostra responsabilità
realizzarla?».
Al
“Summit della Terra” di Rio, nello stesso anno, Strong aggiunse:
«Gli
stili di vita attuali e i modelli di consumo della ricca classe media — che
comportano un’elevata assunzione di carne, l’uso di combustibili fossili,
elettrodomestici, aria condizionata e abitazioni suburbane — non sono
sostenibili».
La
decisione di demonizzare la CO2, uno dei composti più essenziali per sostenere
la vita, sia umana che vegetale, non è casuale.
Come
ha affermato il prof. Richard Lindzen, fisico atmosferico del MIT:
«Dopo
tutto la CO2 cos’è? — non è un inquinante, è un prodotto della respirazione di
ogni creatura vivente, è il prodotto di tutta la respirazione delle piante, è
essenziale per la vita delle piante e la fotosintesi, è un prodotto di tutta la
combustione industriale.
Voglio
dire, se avete mai desiderato un fulcro per “controllare il tutto”, la CO2
sarebbe l’ideale. Ha quindi una sorta di attrattiva fondamentale per la
mentalità burocratica».
Per
non dimenticare l’esercitazione curiosamente tempestiva riguardo una possibile
pandemia a New York, l’”Evento 201″ del 18 ottobre 2019, che è stata
co-sponsorizzata dal “World Economic Forum” e dalla “Gates Foundation”.
Si
basava sull’idea che:
«E’
solo questione di tempo prima che una di queste epidemie diventi globale, con
conseguenze potenzialmente catastrofiche. Una grave pandemia, diventata Event
201, richiederebbe la cooperazione fra diversi settori-chiave, governi
nazionali e istituzioni internazionali».
Lo
scenario “Event 201” ipotizzava che:
«Lo
scoppio di un nuovo Coronavirus zoonotico trasmesso dai pipistrelli ai maiali e
quindi alle persone, e poi da persona a persona, causerebbe una grave pandemia.
L’agente patogeno è in gran parte modellato sulla SARS, ma è maggiormente
trasmissibile in ambito comunitario da persone con sintomi lievi».
La
decisione del “World Economic Forum” di effettuare il Grande Reset è a tutti
gli effetti un tentativo sottilmente velato di far avanzare il modello
distopico, ma «sostenibile», dell’Agenda 2030: un «Green New Deal» globale
sulla scia delle misure di contenimento della pandemia di Covid-19.
Gli
stretti legami con i progetti della Gates Foundation, con l’OMS e con le
Nazioni Unite suggeriscono che dopo la scomparsa della pandemia di Covid-19
potremmo trovarci ad affrontare un mondo molto più sinistro.
(William
F. Engdahl)
(renovatio21.com/economia-e-pandemia-ora-arriva-il-grande-reset-di-davos/)
(williamengdahl.com/englishNEO9Jun2020.php)
Migranti
Lampedusa, Elon Musk
attacca
George Soros:
"Vuole
distruggere l'Occidente"
msn.com
– Adnkronos – (19-9-2023) – Redazione – ci dice:
(Adnkronos).
Elon
Musk attacca George Soros, accusando la fondazione del filantropo americano di
"volere niente di meno della distruzione della civiltà occidentale".
Il
commento del magnate, numero 1 di “X”, appare in un post del suo social in
risposta al post di un utente sui massicci arrivi di migranti a Lampedusa, in
cui si parla di "invasione guidata da George Soros".
Soros
viene spesso preso di mira nell'ambito di teorie complottiste antisemite per il
suo sostegno ad organizzazioni della società civile di vari paesi.
Musk è stato accusato da più parti di
permettere la diffusione dell'antisemitismo su “X”, accuse che il miliardario
ha sempre respinto, arrivando a minacciare di querela l'”Antidemation League”,
storica associazione ebraica contro le discriminazioni.
L'attacco
di Musk a Soros, fa notare il Guardian, è partito alla vigilia dell'incontro
che il patron della Tesla avrà oggi con il premier israeliano “Benyamin
Netanyahu”.
Secondo
quanto scriveva nei giorni scorsi il Washington Post, l'incontro è stato
organizzato anche per smentire le accuse di antisemitismo.
Perché
difendo l'oligarchia.
Eugenio
Scalfari
Il
dibattito sulle forme della democrazia.
Repubblica.it
– Eugenio Scalfari – (13 ottobre 2016) – ci dice:
SONO
alquanto deluso dalle risposte che Gustavo Zagrebelsky ha dato ai miei duplici
interventi sul rapporto tra oligarchia, democrazia e dittatura o tirannide che
dir si voglia.
Si
tratta al tempo stesso di sostanza e di parole che la esprimono.
Nel dibattito che c'è tra noi le parole
talvolta coincidono, la sostanza no.
Che
l'oligarchia sia il governo dei pochi lo diciamo tutti e due.
Che
faccia un governo per i ricchi lo dice solo Gustavo e che i ricchi facciano i
loro propri interessi a danno dei molti, anche questo lo dice soltanto lui, non
io.
Che
l'oligarchia abbia in mente una sua visione del bene comune è inevitabile.
Lo diceva persino Giuseppe Mazzini che infatti
quando fondò la Giovane Italia aveva in mente l'educazione dei giovani e li
preparava ad essere gruppi d'assalto per sollevare le plebi contadine.
In
quegli assalti morivano quasi tutti;
quello
che si immolò con altri trecento fu Pisacane:
"Eran
trecento, eran giovani e forti e sono morti".
Quella
era l'oligarchia mazziniana: aveva in mente la nazione italiana e la Repubblica
invece della monarchia.
Del
resto tre secoli prima lo stesso Machiavelli dedicò “il Principe” a Lorenzo de'
Medici affinché prendesse la guida per risollevare le plebi e farne un popolo.
Un
altro esempio porta il nome di “Mirabeau” che agli “Stati generali di Francia”
riuscì a trasformare il “Terzo Stato” in un'assemblea costituente che rendesse”
il potere assoluto del re” soggetto alla Costituzione.
Zagrebelsky
è più giovane di me e forse non sa che l'oligarchia del partito comunista abitava in case molto povere;
addirittura le lampadine appese al soffitto
non avevano neppure una traccia di paralume, erano appese ad un filo e
pendevano in quel modo.
Io
entrai in molte di quelle case e le ricordo bene:
quella
di Pajetta, quella di Longo, ed anche quella di Pietro Nenni che era il
segretario del partito socialista, ed anche quella di Sandro Pertini.
Potere
ma con una visione del bene comune molto precisa, in parte ideologica ma
soprattutto politica.
Identificare
i pochi con i ricchi che ottengono il comando per favorire i propri interessi è
un evidente errore.
Talvolta
può accadere, ai tempi d'oggi sono molti i potenti ricchi arruolati dai partiti
e spesso anche membri del Parlamento e del governo.
È il
cosiddetto malaffare.
La
loro presenza in Parlamento - che Gustavo vede come il vero organo di
rappresentanza della democrazia e il suo pilastro - è una prova che è un
pilastro assai traballante, tanto più quando qualcuno di questi potenti e
ricchi che fa la politica nel proprio interesse viene indagato dalla
magistratura.
La
commissione delle immunità in questi casi concede l'immunità a tutti ed in più
votando all'unanimità.
Naturalmente
negli ultimi anni il livello del malaffare è aumentato dovunque:
è
aumentato il livello del benessere ma con esso purtroppo anche quello del
malaffare ma il fatto che il Parlamento sia secondo Gustavo il luogo principale
dove deve risiedere la democrazia dimostra semmai che sono aumentati insieme al
livello delle comodità della vita anche i ricchi e il declino etico.
Io
infatti non sostengo che l'oligarchia è per definizione il governo dei
migliori; sostengo che è il governo dei pochi ma è la sola forma d'un governo
democratico.
Zagrebelsky
pensa che i pochi sono i ricchi e i potenti.
Ricchi
non necessariamente, potenti certamente e su questo è tutto.
Le alternative sono la democrazia referendaria
della quale ho già scritto l'impossibilità di governare; oppure la dittatura.
Gustavo
è d'accordo sul primo tema ma non sul secondo:
la
dittatura secondo lui è la forma estrema dell'oligarchia, con il passare degli
eventi sia del passato remoto sia di quello prossimo.
Ma questa asserzione sulla base della storia
non è affatto vera.
L'Impero
romano cominciò con Cesare Ottaviano, poi seguito dal termine Augusto, ma era
ancora una struttura, quella da lui costruita, che lasciava un certo spazio al
Senato.
Il vero imperatore fu Tiberio.
Lui
comandava e il suo comando veniva eseguito.
I
tribuni diventarono cariche militari, i prefetti governavano le regioni che
componevano l'Impero ma non erano altro che amministratori e Pilato ne è un
esempio.
Adriano,
della famiglia Antoniniana, fu un altro imperatore che comandava da solo e
senza alcun consigliere.
Traiano
è ancora di più un capo assoluto.
L'Impero durò quasi cinquecento anni e
consiglieri non ne ebbe mai.
Si
potrebbe dire che il giovane Nerone ebbe Seneca (solo Seneca) come educatore e
la madre, assai autoritaria anche lei;
talmente
autoritaria che alla fine Nerone se ne stancò e la fece uccidere.
Per
cinquecento anni la struttura imperiale non fece nessun cambiamento salvo uno:
la
divisione tra Oriente e Occidente.
In
tempi più ravvicinati le monarchie erano chiamate assolute.
Il
cosiddetto Re Sole, non a caso, sosteneva che lo Stato era lui.
Al
massimo fu in qualche modo orientato dalle sue amanti.
E poi
gli Asburgo d'Austria e di Spagna, i duchi di Borgogna, i Re di Spagna, di
Francia, di Inghilterra, di Scozia, di Svezia.
Gli
zar di Russia. Napoleone.
Dove sta in questi esempi l'oligarchia?
Quelle dittature erano oligarchiche?
Assolutamente
no.
Napoleone
ascoltava solo Talleyrand in politica estera e basta.
Ma
voglio aggiungere un caso che può sembrare particolare e infatti lo è ma è
estremamente significativo: quello del Papa cattolico e dei vescovi.
Non so
quale sia il numero dei vescovi, certamente molte migliaia, compreso il Papa
che è vescovo di Roma.
Ma se
paragoniamo le migliaia di vescovi alle centinaia di milioni di fedeli siamo di
fronte in questo caso ad una oligarchia religiosa.
Tanto più se aggiungiamo ai vescovi i cardinali che
ammontano a un centinaio o poco più.
Il Papa con cardinali e vescovi, nunzi
apostolici e sacerdoti addetti a specifici compiti e dicasteri rappresentano un
caso tipico di oligarchia.
Un'oligarchia
che si riunisce molto spesso nei Sinodi dove i pareri, sia pure nel quadro
d'una religione che crede nel Dio assoluto trascendente, sono molto diversi e
suscitano spesso controversie molto aspre.
Il compito del Papa è proprio quello di
cercare e trovare una mediazione che almeno per un periodo sia condivisa da
tutti.
In sostanza la Chiesa cattolica è sinodale.
Potremmo
anche chiamare i comitati centrali dei partiti con la parola Sinodo: significano
in due diversi casi lo stesso fenomeno oligarchico.
Ora mi
fermo e non parlerò più di questo tema.
Viviamo tempi dove la politica è molto agitata e
merita molta più attenzione che definire con le parole e con il pensiero se si
chiami “oligarchia la sola forma di democrazia che conosciamo”.
Crisi,
catastrofe, rivoluzione.
Una
conversazione con Emiliano Brancaccio.
Iltascabile.com
-Redazione – (8-7-2022) – Emiliano Brancaccio – Nicolò Porcelluzzi -Stella
Succi –
Elisa
Custer - ci dicono:
Continuano
le conversazioni della redazione con intellettuali capaci di aiutarci a leggere
la guerra in corso, alla ricerca di uno scambio con punti di vista che possano
restituire la complessità e la portata di quanto sta accadendo.
L’intervista
di oggi è con l’economista “Emiliano Brancaccio”, Professore di politica
economica presso l’”Università degli Studi del Sannio”, a Benevento, tra i
principali esponenti delle scuole di pensiero economico critico.
Seguiamo
Brancaccio da quando siamo venuti a conoscenza dei suoi lavori più recenti:
“Democrazia
sotto assedio. La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico”
(Piemme, 2022) e
“Non
sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione” (Meltemi, 2020),
due
saggi capaci di individuare le tendenze generali della fase storica che stiamo
attraversando:
su
scala globale, una centralizzazione del potere in sempre meno mani che conduce
inevitabilmente a una contrazione dello spazio democratico.
Ci
interessava in particolare la sua capacità di portare un punto di vista
radicale in sedi istituzionali che, da profani, immaginiamo restie alla critica
che invece Brancaccio sa esercitare.
Siamo
partiti allora dalla guerra in Ucraina, come abbiamo già fatto con Marco
D’Eramo, Alfonso Desiderio e Maria Chiara Franceschelli, ma siamo arrivati a
toccare un’ampia rete di aspetti macroeconomici e politici della
contemporaneità, e ne abbiamo approfittato per farci chiarire alcuni punti
delle sue analisi.
Il risultato è una conversazione ambiziosa,
dallo sguardo ampio, ma che speriamo possa servire a orientarci, in modo molto
pragmatico, a capire se e come possiamo sperare di avere voce in capitolo sul
nostro futuro.
Emiliano
Brancaccio:
Volete davvero parlare delle cause e delle
conseguenze economiche della guerra?
Allora
sospetto che questa intervista non la leggerà nessuno:
l’economia
e la sua critica sono essenziali per capire come stanno davvero le cose, ma
agiscono sui lettori come un horror: li terrorizzano e li fanno scappare.
Nicolò
Porcelluzzi:
A meno
che non mettiamo nel titolo: “perché i tuoi risparmi sono in pericolo?”.
Il
terrore finanziario attira sempre e mi sembra un periodo azzeccato…
EB: Vero, ma solo per quelli che
riescono ancora ad accumulare qualche soldo. A proposito di horror, viviamo in
un’epoca in cui gran parte della classe lavoratrice vive ormai a “risparmio zero”.
Stella
Succi:
Partiamo
allora dalla domanda più urgente, e forse più inquietante. Quali sono le
tendenze economiche che alimentano il conflitto e cosa ci dicono del futuro di
questa guerra?
Insomma, il capitale cosa auspica?
EB: I singoli capitalisti ovviamente
“auspicano”: di sopravvivere, di avere successo, di espandersi, di esercitare
una volontà di potenza nel senso di Deleuze.
Però,
se parliamo di “capitale” in generale, cioè della sintesi complessiva delle
azioni scoordinate e conflittuali dei singoli capitalisti, allora associarvi il
concetto di auspicio genera un controsenso.
Perché
il capitale in generale è una forza impersonale, diciamo che è come una marea,
come un vento di tempesta.
In quanto vento, non ha desideri né auspici.
Al
contrario, spesso il capitale segue una tendenza che devia, si smarca dalle
speranze soggettive dei singoli capitalisti.
È
quella che si definisce eterogenesi dei fini.
SS: E un esempio di eterogenesi dei fini
è la tendenza verso la guerra?
EB: Sì. Noi siamo abituati a considerare
la guerra come se fosse il banale esito delle intemperanze di qualche pazzo al
potere.
Ma
questa lettura, individualista e soggettivista, è molto superficiale.
In
realtà, esiste una tendenza oggettiva verso la “guerra capitalista”, non più
semplicemente economica ma anche militare, di cui il conflitto in Ucraina è
solo una delle nuove forme fenomeniche.
NP: Quali sono le cause di questa
tendenza?
EB: Per comprenderle bisogna partire da
un fatto inatteso: gli Stati Uniti e buona parte dell’occidente capitalistico
sono usciti sorprendentemente sconfitti dalla grande stagione della
globalizzazione dei mercati.
L’avevano
propugnata, eppure sono stati sconfitti.
NP: Perché sconfitti?
EB: In estrema sintesi, possiamo dire che
il capitalismo americano, e gran parte del capitalismo occidentale, si sono
ritrovati negli anni con un crescente problema di competitività internazionale,
con costi di produzione relativamente alti rispetto alla concorrenza estera.
Questo
ha portato gli Stati Uniti e altri paesi occidentali a comprare molto
dall’estero e a vendere poco all’estero.
Ma
questo significa accumulare debiti verso l’estero.
Debiti
pesanti: per esempio, gli Stati Uniti hanno ormai una posizione passiva verso
l’estero di oltre il 60% del PIL.
I
creditori mondiali, di contro, sono i vincitori della stagione della
globalizzazione, sono quelli che hanno conquistato più mercati, hanno venduto
più merci e hanno quindi accumulato più moneta di tutti.
Sono i
capitalisti cinesi, in primo luogo, ma anche del sud est, del medio oriente, e
guarda caso in misura minore pure russi.
Elisa Custer: Uno squilibrio tra vincitori e vinti
della globalizzazione, quindi.
Con
quali conseguenze?
EB: Il problema dei debitori è che presto
o tardi i creditori cercano di comprarli.
Negli
anni, i grandi creditori hanno venduto un’immane quantità di merci e hanno
quindi accumulato denaro, e adesso hanno sempre più voglia di usarlo:
non solo per erogare prestiti all’occidente
indebitato, ma anche e soprattutto per acquisire capitale occidentale.
I capitalisti cinesi, asiatici, arabi e anche
russi, coltivano cioè da tempo il desiderio di usare la moneta accumulata per
comprare azioni di aziende americane, britanniche, francesi, e così via.
Magari
persino i pacchetti di controllo di quelle aziende, per assorbirle e dominarle.
SS: Parli della tendenza del capitale a
centralizzarsi in sempre meno mani…
EB: Esatto. Come accade nel mito di
“mangiare Dio”, direbbe “Jan Kott”, i capitalisti vincitori della guerra sui
mercati uccidono e mangiano i capitalisti sconfitti.
EC: Come hanno reagito gli occidentali di
fronte a questa minaccia di esser mangiati?
EB: In una prima fase, i capitalisti
americani e occidentali hanno reagito in modo piuttosto scontato e brutale,
attraverso l’imperialismo militare.
Ossia, hanno attuato quello che io chiamo
“l’imperialismo dei debitori”.
Questo consiste in una doppia espansione:
tanto
cresceva il loro debito verso l’estero, tanto cresceva la loro presenza
militare all’estero, proprio al fine di gestire quel debito e auspicabilmente
di contenerlo.
Un esempio tra i più lampanti è stata
l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, che doveva servire anche a mitigare
il debito energetico americano e occidentale.
Il guaio, però, è che questo doppio
espansionismo, delle milizie e del debito verso l’estero, a un certo punto
raggiunge un suo limite di spesa e di efficienza, oltre il quale non può
andare.
È un fenomeno che in modi non troppo dissimili
si era già verificato ai tempi della crisi dell’impero britannico, ben
descritta in un celebre saggio dell’economista “Marcello De Cecco”.
Oggi
il problema si ripete con l’emergere dei limiti all’espansione imperialista del
grande debitore americano e dei suoi alleati, comprovate anche dal ridimensionamento
delle campagne militari occidentali nei vari territori occupati.
Di
queste difficoltà, ormai, in tanti hanno preso atto.
Ecco
perché, da qualche tempo, i debitori occidentali hanno iniziato ad accettare i
limiti del circuito militar-monetario che avevano creato, hanno quindi dovuto
contenere le mire imperialiste, e dunque sono stati costretti a escogitare
qualche altro meccanismo di difesa.
SS: Che tipo di meccanismo?
EB: I debitori occidentali hanno iniziato
ad accettare il fatto che la globalizzazione costituiva un problema, e che dal
suo protrarsi indefinito sarebbero potuti uscire con le ossa rotte.
Ecco
allora che negli Stati Uniti e un po’ in tutto l’occidente abbiamo assistito a
una riabilitazione del vecchio, vituperato protezionismo.
Non
solo commerciale ma anche finanziario, vale a dire una serie di barriere legali
che servono a bloccare l’esportazione di capitale da parte dei grandi
creditori.
In sostanza, ai capitalisti cinesi, russi, e
così via, viene oggi imposto il divieto di “mangiare” le aziende occidentali.
Questo
nuovo protezionismo, badate bene, è iniziato diversi anni fa, da ben prima
della guerra, addirittura da prima di Trump!
Nelle alte sfere è stato ridenominato “friend shoring”, un termine gentile ideato da Janet Yellen per avvisare che da ora in poi noi
occidentali faremo affari solo con i nostri “amici”.
Perché
degli altri abbiamo ormai paura e vogliamo tenerli fuori dai nostri recinti.
SS: E qual è stata la risposta orientale?
EB: Io sostengo che proprio il “friend
shoring”, cioè proprio le barriere protezionistiche edificate dai debitori
occidentali per evitare di esser “mangiati” dai creditori d’oriente, hanno
spinto questi ultimi ad attivare una reazione imperialista.
I
grandi creditori orientali hanno iniziato a capire che la fase è cambiata.
Essi
hanno una enorme quantità di capitali da esportare, potrebbero acquisire
moltissime aziende occidentali, ma sono ormai ostacolati dalle barriere
protezionistiche imposte dal “friend shoring”.
Di
conseguenza, per esportare i loro capitali all’estero, per fare affari nel
mondo, e soprattutto per “mangiare” gli avversari, i creditori prendono
coscienza che da ora in poi bisognerà aprirsi dei varchi anche con la forza,
cioè creando sbocchi per le esportazioni dei loro capitali anche tramite
movimenti di truppe e di cannoni.
Mentre
in passato la guerra imperialista serviva agli Stati Uniti e ai loro sodali
occidentali a gestire il loro debito, adesso una guerra imperialista uguale e
contraria diventa il mezzo con cui i creditori orientali cercano di creare
sbocchi per i loro capitali.
È
esattamente così che nasce quello che io chiamo il nuovo “imperialismo dei
creditori”.
L’imperialismo
dei creditori come reazione all’imperialismo dei debitori e alla sua crisi.
In un
certo senso, la mia tesi rielabora in chiave aggiornata il vecchio nesso
individuato da Lenin, tra esportazione dei capitali e imperialismo.
SS: Come possiamo interpretare, in
quest’ottica, la guerra in Ucraina?
EB: È una guerra che vede la Russia nel
ruolo di grande aggressore imperialista, ma a guardar bene stabilisce una linea
di demarcazione molto più generale, tra debitori d’occidente e creditori
d’oriente.
Basti
guardare la Cina, che pur con la proverbiale prudenza e con vari distinguo, dal
punto di vista delle relazioni internazionali si è chiaramente posizionata dal
lato della Russia.
l
motivo è che i cinesi interpretano questa guerra come uno dei tanti segni di
crisi del grande debitore americano.
Ai
loro occhi, il capitalismo americano ha esaurito la strategia del doppio
espansionismo, del debito e delle milizie all’estero, come dimostra il fatto
che in molte circostanze è stato costretto a ritirare le sue truppe.
In
sostanza, per la Cina, avallare silenziosamente l’attacco russo all’Ucraina
significa verificare empiricamente se e in che misura gli americani e i loro
alleati reagiranno.
Se la
reazione militare sarà limitata, vorrà dire che il doppio espansionismo USA ha
davvero raggiunto il suo limite.
Per i
cinesi, se siamo davvero giunti a questo punto di svolta, gli americani non
potranno più permettersi di dettare le regole del commercio mondiale, e quindi,
tra l’altro, non potranno pretendere di passare dal globalismo al “friend
shoring” solo perché adesso a loro conviene cambiare strategia.
EC: La guerra in Ucraina, insomma,
sarebbe l’inizio di una grande sfida orientale agli Stati Uniti e ai loro
alleati, per decidere chi dovrà dettare le regole future della finanza e del
commercio mondiale?
EB: Esatto. I creditori russi e cinesi, e
con loro molti altri, ritengono che quelle regole non possano esser più dettate
dal vecchio imperialismo dei debitori occidentali, che reputano ormai in
declino.
È una scommessa epocale, che va ben oltre il
conflitto in Ucraina.
L’esito non è affatto scontato, beninteso.
Il
rischio di una escalation su larga scala è altissimo e non possiamo sapere chi
alla fine la spunterà.
Quel
che è certo, è che il grande squilibrio capitalistico tra creditori e debitori
è ormai sfociato in un equilibrio di guerra, non più solo economica ma anche
militare.
Questo equilibrio è destinato a segnare la
nuova fase storica, che io chiamo di “centralizzazione imperialista” del
capitale.
SS: Nel tuo ultimo libro, colleghi la
tendenza alla centralizzazione del capitale in poche mani a un processo di
“oligarchizzazione” del capitalismo, che a tuo avviso è generale, minaccia le
stesse democrazie occidentali e quindi va ben oltre il caso degli “oligarchi
russi”, di cui tanto si parla.
Possiamo
fare un confronto tra “oligarchia” capitalista russa e occidentale?
È una distinzione che ha senso fare?
EB: Una distinzione è necessaria, dal
momento che, come abbiamo detto, gli uni e gli altri “oligarchi” esprimono due
lati del capitalismo mondiale, quello dei creditori e quello dei debitori.
Per
questo agiscono in modi diversi, talvolta opposti.
Al
tempo stesso, però, possiamo chiamarle entrambe “oligarchie” capitaliste, per
un motivo ormai documentato.
Non
solo in Russia, ma ancor più negli Stati Uniti, il controllo del capitale è
spaventosamente concentrato in poche mani:
oltre
l’80% del capitale è controllato da meno dell’1% degli azionisti in Russia e da
meno dello 0,3% negli USA.
Parliamo
tanto di oligarchi vicini al Cremlino ma, tecnicamente parlando, il capitalismo
americano è il più oligarchico di tutti.
SS: Che ne sarà della sovranità europea a
tuo avviso?
Sembra che a “tirare la fune” dell’autonomia
sia rimasta solo la Germania.
EB: Per quanto siano storicamente legati
a filo doppio, il capitalismo americano e i capitalismi europei sono per molti
versi in disaccordo su come gestire la nuova fase post-globalista.
Basti notare un fatto.
La spinta verso il protezionismo del “friend
shoring” metterà più in difficoltà i paesi che io definisco “crocevia” del
commercio e della finanza mondiale, cioè quelli che hanno sempre fatto affari
un po’ con tutti e non solo con gli “amici”.
Molti
di questi paesi crocevia sono europei: Germania e Italia, su tutti.
Questo
spiega la riluttanza tedesca rispetto alle posizioni americane più favorevoli a
una escalation militare.
E al
tempo stesso rivela i caratteri contraddittori della strategia del governo
Draghi, che ci vede aderire più convintamente di altri alla linea guerrafondaia
americana benché il sistema produttivo nazionale ne pagherà le conseguenze più
di altri.
SS:
Avere espulso la Russia dallo SWIFT è stata definita l’arma nucleare
finanziaria decisiva.
Ma è
stato davvero così?
EB: No. È solo una delle forme che sta
assumendo il protezionismo finanziario occidentale.
Molti
credono che l’esclusione della Russia dallo swift e le altre famigerate
“sanzioni” siano state una conseguenza della guerra.
Non è
esattamente così.
In
realtà, se ci pensiamo bene, queste sanzioni sono soltanto una prosecuzione del
“friend shoring”, una politica che ha ampiamente preceduto la guerra e che, per
le ragioni che indicavo prima, ha contribuito ad alimentarla.
Talvolta,
le relazioni di causa ed effetto della storia sono l’esatto opposto di come
vorrebbero presentarcele.
SS: Già con l’emergere della pandemia i
singoli stati hanno cominciato una rincorsa a una maggiore indipendenza
strategica dall’estero, in primis sulle materie prime e sulla tecnologia.
La Cina ha lanciato l’e-Yuan e la stessa
Europa sta lavorando a un’infrastruttura di pagamento indipendente.
E tu
ora parli del “friend shoring”, che segna un’altra grande divisione tra le
economie del mondo.
Che
fine farà, secondo te, l’economia globalizzata per come l’abbiamo conosciuta?
EB: Come dicevo, il tempo della
globalizzazione è finito da un pezzo, da prima della pandemia, addirittura da
prima di Trump.
Il WTO avvertì i primi segni di una svolta
protezionista da parte degli Stati Uniti già dopo la crisi del 2008, sotto la
presidenza Obama.
La
guerra in Ucraina non fa altro che accelerare una tendenza già in atto da
diversi anni.
Ci
vorrà molto tempo prima di vedere un nuovo boom globalista.
SS: Non c’è il rischio di dare gli Stati
Uniti per finiti prima del tempo?
Tra
soft power, influenza e ricatto sull’Europa, controllo degli strumenti
sanzionatori e questa guerra che costringe a riconfigurare rotte commerciali e
iniziative strategiche asiatiche, non è possibile che il malato statunitense si
rianimi?
EB: La domanda che poni è utile per
evitare di cadere in un grossolano fraintendimento.
È un fatto innegabile che gli Stati Uniti
siano usciti sconfitti e indebitati dalla globalizzazione e che siano anche
stati superati dalla Cina in termini di PIL calcolato a parità di poteri
d’acquisto.
Ma è sempre bene aggiungere che il primato
generale americano sussiste tuttora, e che la partita dell’egemonia futura
resta aperta.
Uno dei motivi è che l’occidente capitalistico
in generale, e gli Stati Uniti in particolare, godono ancora dei livelli più
alti di produttività per singola ora lavorata.
Questo
significa che, con una forza-lavoro molto più piccola, l’economia americana
riesce a produrre quasi quanto produce l’economia cinese, che dispone di una
popolazione enormemente maggiore.
È un chiaro indice di superiorità tecnologica
e di “rete”, che i cinesi ancora faticano a sfidare.
C’è
poi un’altra ragione per cui l’egemonia USA potrebbe resistere, nonostante i
debiti e le attuali difficoltà dell’imperialismo americano.
È proprio il “friend shoring”.
Se
questo diventerà il nuovo status internazionale, gli Stati Uniti potranno
riguadagnare terreno mantenendo il controllo economico-politico all’interno del
recinto occidentale che avranno creato.
Ossia,
sorgerà un nuovo assetto delle catene della produzione, del commercio e della
finanza internazionale, caratterizzato da confini geopolitici difficili da
valicare.
Gli
americani manterranno così la loro egemonia, ovviamente solo sull’occidente,
un’area più circoscritta rispetto al passato ma che resta molto grande e
rilevante.
EC: Vorrei chiederti di parlare un po’ di
più della questione del debito, anche al di là della guerra.
Perché
quella del debito è in fin dei conti la logica che sottende tanto agli scenari
geopolitici quanto sempre di più alle politiche interne ai singoli stati,
tramite l’austerity, che ha degli effetti enormi anche sull’autopercezione del
singolo cittadino.
EB: Sull’austerity, esiste certamente un
problema di autopercezione, direi anche di memoria storica.
Le
autorità di politica economica, sorrette dalla grande stampa, iniziano
nuovamente a sostenere che il debito è troppo alto, talvolta aggiungono che
l’attuale inflazione dipende anche da un eccesso di spesa, e dunque concludono
che bisognerà tornare alle politiche di austerity.
Queste
tesi sono sbagliate e il fatto che tornino alla ribalta mi sembra un chiaro
sintomo di perdita della memoria storica.
Dovremmo
infatti ricordare che tra il 2008 e il 2013 abbiamo avuto l’opportunità di
mettere la politica di austerity sul banco di prova dei dati.
Abbiamo potuto accumulare una grande quantità
di evidenze empiriche per appurare se e in che misura l’austerity potesse
realmente dare i benefici annunciati oppure no.
Ebbene,
le prove empiriche vanno tutte inesorabilmente in una direzione:
le
strette monetarie, gli incrementi delle imposte e i tagli alla spesa pubblica
causati dall’austerity non sono riusciti a raggiungere nessuno degli obiettivi
che erano stati annunciati.
I cardinali dell’ortodossia avevano detto che
l’occupazione e il reddito non sarebbero diminuiti, e invece sono crollati.
Avevano assicurato che la disuguaglianza non
sarebbe aumentata, e invece la forbice sociale si è accentuata.
Addirittura,
l’austerity non è riuscita nemmeno a raggiungere l’obiettivo di ridurre il
debito.
Anzi,
spesso questa politica ha prodotto l’effetto opposto, perché ha depresso a tal
punto l’occupazione e il reddito da far esplodere il rapporto tra debito e
reddito.
Questo
fallimento generale della politica di austerity è talmente conclamato nella
letteratura scientifica da esser stato riconosciuto persino dal Fondo Monetario
internazionale e dal suo ex-capo economista Olivier Blanchard, che pure
l’avevano originariamente supportata.
È un “mea culpa” sintomatico, direi, che ha
ispirato anche un mio dibattito proprio con Blanchard e alcune ricerche che ho
realizzato insieme ai miei coautori.
La
cosa inquietante è che oggi, a distanza di un decennio, è come se avessimo
perduto la memoria di quei fatti documentati.
Come in un eterno, grottesco ritorno, sta
riaffiorando il mantra dell’austerity come panacea di tutti i mali.
È come
essere di nuovo all’anno zero, come se non ricordassimo più il fallimento di
quella politica.
Questa
perdita di memoria collettiva mi sembra l’ennesimo indizio di un nuovo
oscurantismo alle porte.
EC: Ma a chi giova recuperare una
politica che si è già dimostrata fallimentare?
EB: L’austerity danneggia la collettività
nel suo complesso ma giova alle fazioni della classe capitalista che si trovano
in una posizione di forza, di credito, di attivo capitalistico, con tassi di
profitto superiori alla media.
Questi
capitalisti creditori possono tranquillamente sopportare le crisi scatenate
dall’austerity.
E
possono quindi trarre da esse l’occasione di vedere definitivamente sconfitti i
loro concorrenti più deboli e indebitati, in modo da “mangiarli”, come dicevamo
prima.
Insomma,
non dimentichiamo che le politiche di austerity rendono insolventi i
capitalisti più piccoli e più fragili, e li espongono alle acquisizioni da
parte dei capitalisti più grandi e più forti.
L’austerity
è un grande acceleratore dei processi di centralizzazione dei capitali in
sempre meno mani.
Per
questo trova sostenitori, soprattutto nelle alte sfere.
EC: Parli spesso infatti di una lotta
politica che in questa fase storica rimane confinata alla classe dominante.
Grandi
capitali contro piccoli capitali, creditori contro debitori, capitalisti
orientali contro capitalisti occidentali, eccetera.
La politica odierna esprime solo queste lotte
interne alla classe capitalista, mentre le classi subalterne restano sempre
silenti, fuori dai giochi.
Sarei
curiosa di capire che rapporto c’è tra questo stato di cose e l’informazione
che riceviamo, che è piena di portati idealistici e giustificazioni ideologiche
da qualsiasi parte provenga.
Per
esempio, sulle propagande occidentali e russe intorno alla guerra, tu scrivi:
“Queste due propagande, pur contrapposte, risultano dunque uguali nel
richiamarsi continuamente ai diritti, alla lealtà, all’ideologia, all’integrità
delle nazioni, alla protezione dei popoli. Come se nelle stanze del potere si
discutesse solo di tali nobili argomenti. Mai d’affari”.
È una
questione un po’ speculativa, ma vorrei sapere secondo te se le fazioni del
capitale e i loro rappresentanti credono alla loro stessa propaganda.
Che
dose di cinismo e cattiva coscienza c’è?
E
quanta di idealismo in perfetta buona fede?
E c’è
un’opzione preferibile tra queste due possibilità?
EB: È una domanda interessante, alla
quale posso provare a rispondere in base a una personale esperienza.
In
questi anni ho avuto un privilegio che nella storia è stato concesso pochissime
volte ai critici del pensiero dominante:
sono stato invitato a misurarmi in dibattiti a
due con alcuni tra i principali esponenti della teoria e della politica
economica, italiana e internazionale, da Mario Monti a Olivier Blanchard, da
Lorenzo Bini Smaghi a Romano Prodi, da Elsa Fornero a Giovanni Tria, e così
via, fino a D’Aron Acemoglu.
Ebbene,
nei dibattimenti con questi grandi cardinali dell’ortodossia ho sempre trovato
sintomatico il fatto che il ruolo del cinico spettasse soprattutto a me.
“Cinico”,
ovviamente, nel senso non dei filosofi socratici ma di “Wilde”:
ossia,
io guardavo le cose per come materialmente sono, mentre i miei avversari
dialettici le guardavano per come avrebbero idealmente voluto che fossero.
Il che, in effetti, mi ha sempre assicurato un
discreto vantaggio durante quei dibattiti:
quello
di poter contrapporre un discorso scientifico alle retoriche, pur raffinate,
dei miei interlocutori.
Ebbene, questo strano gioco di ruolo si
riproduce sempre, che si discuta di politica economica o di guerra militare.
Direi allora che questi grandi esponenti della
politica dominante, con cui mi capita di confrontarmi, sono affetti non tanto
da “cattiva coscienza” ma da “falsa coscienza”, nel senso di Marx ed Engels.
Ossia,
i grandi ideologi del capitale, magari per placare le loro nevrosi, possono
aver bisogno di convincersi così tanto delle loro narrazioni da risultare le
prime cavie dell’ideologia che propugnano.
Al
punto tale, per esempio, che alcuni di essi sembrano davvero credere alla
favola secondo cui la moderna guerra capitalista esploderebbe per cause etiche
anziché economiche, come fosse motivata da sacri diritti negati piuttosto che
da profani contratti mancati.
Una
mistificazione totale!
Ovviamente,
non tutti sono così confusi.
Tra i
cantori della visione prevalente c’è pure qualcuno disposto ad ammettere, in “camera
caritatis”, che non crede a un bel niente di quel che racconta in giro sulle
magnifiche sorti progressive del capitalismo.
Ma
questo tipo di agenti della propaganda, disincantati e feroci, rappresentano
una rara eccezione.
EC: Questa tendenza a mistificare la
realtà scientifica sembra l’ennesima prova che capitalismo e democrazia sono
incompatibili, no?
Si parla tanto del fatto che in Cina o in Russia non
c’è democrazia, che lì è tutto mistificato dal potere politico.
Ma le
cosiddette democrazie liberali occidentali non sembrano passarsela molto
meglio, anche semplicemente riguardo al rapporto con fatti comprovati, dati
scientifici.
Eppure,
nonostante questi problemi, molti continuano a credere alla teoria del ferro di
cavallo, opponendo alla democrazia occidentale l’autoritarismo orientale e
usando questo spauracchio paradossalmente per spostare l’elettorato sempre più
su posizioni di destra, principalmente sul piano economico, ma non solo.
EB: Sul grado di tutela della democrazia
e la libertà, e direi anche sulla qualità della stampa e della comunicazione,
tra i regimi liberali occidentali da un lato e i cosiddetti regimi autoritari
orientali dall’altro, sussistono tuttora differenze oggettive innegabili, in
termini di funzionamento delle istituzioni e di tutela dei diritti basilari.
Il
vero problema è che queste differenze si stanno riducendo, nel senso che dalle
nostre parti la democrazia e la libertà arretrano vistosamente.
Prendiamo
i dati elaborati da “Freedom House”, un’istituzione che parteggia per
l’occidente e che proprio per questo offre indicazioni interessanti.
Questo istituto misura per ciascun paese del
mondo i livelli di tutela della democrazia e della libertà, ovviamente intese
in senso tipicamente liberale. Ebbene, i dati indicano che le democrazie
liberali d’Occidente partono da livelli di tutela più alti, il che è piuttosto
scontato dal momento che l’approccio analitico adottato è di stampo liberale.
Nonostante
questo, però, i dati indicano che negli ultimi anni, dalle nostre parti, questi
livelli di tutela democratica si stanno riducendo in modo significativo.
Ossia,
iniziamo a convergere al ribasso, verso i cosiddetti regimi autoritari.
In un certo senso, sembra confermata la
predizione di Vladimir Putin, in una celebre intervista rilasciata al “Financial
Times” qualche anno fa:
il
nostro sistema democratico-liberale sta entrando in crisi, noi stiamo
somigliando sempre di più a loro, con un sistema decisionale sempre più
accentrato e ostile ai diritti.
EC: Perché succede questo? Perché la
democrazia arretra?
EB: La mia tesi è che anche in questo
caso dobbiamo parlare di una tendenza oggettiva, profonda, di tipo sistemico.
Mi
riferisco, ancora una volta, alla tendenza chiave dell’analisi marxiana: la centralizzazione del capitale in
sempre meno mani.
Ne parlavamo prima, anche riguardo alla Russia e agli
Stati Uniti.
Ma il
fenomeno è mondiale:
a
livello globale, ormai oltre l’80% del capitale azionario è controllato da meno
del 2% degli azionisti.
In pratica, questo significa che in tutti i
paesi del mondo il potere economico è ormai concentrato nelle mani di un
piccolo manipolo di grandi oligarchi, un club che oltretutto si restringe ancor
di più ad ogni nuova crisi economica.
Questa
tendenza trova conferma nelle analisi empiriche più avanzate, ed è ormai
riconosciuta anche dai grandi cardinali del mainstream, per esempio D’Aron
Acemoglu.
Ebbene,
io sostengo che questa tendenza alla centralizzazione dei capitali non crea
solo concentrazione del potere economico ma è anche alla base della
concentrazione del potere politico che pure abbiamo registrato in questi anni,
in termini di esautoramento delle rappresentanze popolari, di
“esecutivizzazione” delle decisioni politiche, di ricerca spasmodica di grandi
risolutori, di uomini forti a cui affidare i destini collettivi.
È un
movimento che ha totalmente distrutto le istituzioni novecentesche della
socialdemocrazia, e col passare del tempo aggredisce persino le istituzioni
liberaldemocratiche e i più elementari diritti politici e civili su cui si
basano.
Questa
tendenza, secondo me, è la ragione principale della crisi democratica
dell’occidente capitalistico, e ci aiuta a capire perché ci stiamo
progressivamente avvicinando al livello di accentramento dei poteri che è
tipico dei sistemi politici orientali.
Gli
somigliamo più di quanto vorremmo ammettere.
Basti
notare un esempio su tutti:
anche le democrazie occidentali possono oggi
svoltare verso una politica di guerra senza avvertire il bisogno di aprire un
dibattito nelle assemblee parlamentari, senza preoccuparsi troppo del vaglio
democratico.
EC: Allora proviamo a parlare
dell’opposizione politica a queste tendenze che tu delinei.
Prevedi
che concentrandosi il capitale in poche mani e allargandosi la forbice della
disuguaglianza, si vada anche verso un’uniformizzazione verso il basso delle
condizioni della classe subalterna.
Questo
mi ha ricordato l’argomento “we are the 99%” di Occupy. Cosa non ha funzionato secondo te in
quella fase dei movimenti?
È
stata una questione di repressione o ci sono stati degli errori nelle loro
strategie organizzative e/o comunicative?
E vedi
degli eredi possibili di quella stagione nel panorama attuale?
EB: Da Porto Alegre, alle grandi
manifestazioni contro la guerra, a Occupy Wall Street, a Black Lives Matter, ai
Pride sempre più politicamente caratterizzati, i vari movimenti di
emancipazione sociale e civile dell’ultimo quarto di secolo sono stati fiori nell’immenso
deserto del dominio capitalista mondiale.
Ogni volta che li abbiamo incrociati abbiamo respirato
un po’, e anche solo per questo meriterebbero gratitudine.
C’è tuttavia un grave limite, che mi sembra di
ravvisare in tutte le esperienze di movimento di questi anni.
Nella
sostanza, penso di poter dire che si è trattato di movimenti “riformisti”.
Vale a
dire, in ultima istanza fiduciosi sulla possibilità di avanzare a piccoli passi
per correggere le storture del capitalismo, per depurarlo dai suoi rigurgiti
reazionari, per riformarlo pian piano in senso progressista, nell’interesse
collettivo delle classi subalterne, come in parte è accaduto nella breve
stagione virtuosa della seconda metà del Novecento.
Oggi,
però, questo orientamento “riformista”, dei piccoli passi, solleva un problema
enorme.
EC: Quale?
EB: È il problema posto dalle tendenze in
atto, verso la centralizzazione dei capitali e verso la corrispondente
concentrazione del potere economico e politico, così intensa da mettere in
crisi il vecchio ordine del capitalismo democratico.
In uno scenario del genere, così cupo e
violento, si pone un interrogativo:
siamo
proprio sicuri che una politica “riformista”, dei piccoli passi per correggere
pian piano le storture del sistema, sia anche solo minimamente praticabile?
Siamo certi che non si tratti ormai di una chimera?
A mio
avviso, se vogliamo essere onesti, nel senso anche solo puramente intellettuale
del termine, allora dovremmo iniziare a interrogarci sull’eventualità che
dinanzi a tendenze oggettive così soverchianti possa risultare molto difficile
far progredire il capitalismo con quelle azioni cumulative, passo dopo passo,
che sono state tipiche della logica del riformismo politico novecentesco.
Insomma,
c’è una domanda urgente che bisogna porre, se non in senso politico almeno in
senso scientifico, fattuale:
viviamo
un’epoca in cui oggettivamente sussiste l’impossibilità del riformismo?
Ecco,
l’impossibile riformismo, inteso come politica di piccoli passi verso il
progresso e l’emancipazione, è una questione che meriterebbe un dibattito
aperto, franco, scientifico, tra tutti noi.
Ma al
momento vedo troppa paura in giro, nessuno osa affrontare l’argomento.
NP: Domanda enorme, che inevitabilmente
ci costringe a evocare l’alternativa:
se non può essere riforma, deve essere
rivoluzione? È questo che intendi?
EB: Io mi limito a osservare che la
parola “rivoluzione” è già entrata nel lessico del potere, e dei grandi
cardinali dell’ortodossia capitalistica.
Penso
ancora una volta a “Olivier Blanchard”, ex capo economista del FMI, che in un
paper scritto assieme a un altro grande insider del sistema,” Larry Summers”,
ex segretario al tesoro USA, e poi anche in un dibattito con me, ha evocato una
biforcazione inquietante:
per
evitare una “catastrofe” sociale ci vorrebbe una “rivoluzione” della politica
economica.
Parole
forti, decisamente inusuali per quegli uomini di establishment.
Ecco,
io temo che questo bivio spaventoso non sia affatto campato in aria, non sia
una mera voce dal sen fuggita.
Al
contrario, penso che quella biforcazione si intraveda all’orizzonte, e che
l’attuale dinamica di guerra ci avvicini ancor più verso di essa.
In
questo senso, mi preoccupa molto il fatto che tra i primi a riabilitare la
parola “rivoluzione” siano stati proprio degli uomini di potere, esponenti di
vertice delle massime istituzioni economiche internazionali.
È un fatto da non trascurare, questo, perché
una volta usurpata dal potere costituito, come è noto, la “rivoluzione” rischia
di diventare “passiva” nel senso gramsciano “negativo” del termine, e finisce
così per assecondare le tendenze dominanti anziché pretendere di rovesciarle.
Al
contrario, i movimenti di emancipazione sociale sembrano in netto ritardo sulla
ripresa di un discorso sulla “rivoluzione”, appaiono ancora insicuri, timorati
dinanzi alla possibilità di rilanciare la parola scabrosissima, anche solo come
mera ipotesi politica.
Così,
dal lato delle classi subalterne, la parola “rivoluzione” resta indicibile,
inammissibile, un tabù assoluto.
Questo
impedisce anche di dare a questa parola un nuovo contenuto di classe, che sia
moderno, adatto ai tempi.
Una
tale differenza di approccio, uno scarto così accentuato nella
spregiudicatezza, anche linguistica, tra rappresentanti del potere costituito e
movimenti di rivendicazione sociale, secondo me segna un ritardo grave di
questi ultimi rispetto all’avanzare del processo storico, un ritardo che in
qualche modo andrebbe colmato.
EC: Come si può dare nuovo contenuto alla
parola “rivoluzione”?
EB: Personalmente ho cercato di proporre
una sorta di update del concetto di “rivoluzione” sgombrando il campo da certi
luoghi comuni del nostro tempo, che abbiamo accettato in modo del tutto
acritico, senza mai metterli in discussione.
Penso
ad esempio alla pedestre ideologia che vorrebbe ridurre la storia complessa
della pianificazione alla sola esperienza dello stalinismo.
E penso alla famigerata equazione di “Milton
Friedman”, secondo cui solo il capitalismo garantirebbe la libertà.
Sono
narrazioni che vanno per la maggiore, ma ci vuol poco a capire che sono false,
contraddette dalla storia passata.
Lo dimostrano i cenni di piano sperimentati in
alcune democrazie occidentali da un lato, e l’esistenza conclamata di regimi
capitalisti di stampo autoritario dall’altro.
Ma
soprattutto, io credo, queste idee false potrebbero esser contraddette dalle
possibilità del divenire.
In
questo senso, ho avanzato una tesi precisa:
a date
condizioni, una nuova logica di pianificazione collettiva potrebbe rivelarsi
uno straordinario propulsore della libera individualità sociale.
In
altre parole, è possibile sostenere che, in una sua forma specifica e
innovativa, piano è libertà.
Ho
persino osato parlare di “libero comunismo”, in senso non liberale ma
addirittura libertino.
Una
provocazione per “épater le bourgeois et le prolétaire”, certo.
Ma al
di là dei nomi delle cose, che possono essere più o meno irriverenti a seconda
delle circostanze, è su questa cosa essenziale del rapporto potenzialmente
nuovo tra piano e libertà che a mio avviso sarebbe necessario lavorare oggi.
I contributi personali, tuttavia, non sono
minimamente sufficienti per un tale scopo.
L’impresa
di risignificare la parola “rivoluzione” richiederebbe la messa in opera di
colossali intelligenze collettive.
Costruire un’intelligenza collettiva
all’altezza di una nuova sfida rivoluzionaria è un compito immane, di una
difficoltà estrema.
Ma potrebbe rivelarsi urgente, viste le
tendenze in atto e le tremende biforcazioni che annunciano.
EC: Chi potrebbe farsi carico di un così
immane compito politico?
Nel
tuo libro sembri puntare sulle generazioni più giovani.
Sono
davvero pronte a rilanciare un’ipotesi “rivoluzionaria”?
EB: Una cosa certa è che i giovani, in
larghissima parte, vivono una immane contraddizione:
sono
totalmente immersi in una cultura dominante individualista e consumista ma le
loro effettive possibilità di affermazione sociale e di consumo sono sempre più
frustrate.
Questo
corto circuito tra ideologia e fatti è destinato a generare una
radicalizzazione delle posizioni politiche dei più giovani.
Molti di essi andranno a rifugiarsi nelle
vecchie strutture del familismo, quindi riprodurranno la cultura retrograda che
lo caratterizza, e per questo verranno sedotti da forme di propaganda sempre
più reazionarie che li renderanno potenziali soldati per nuove guerre di
Vandea.
Ma
un’altra parte si radicalizzerà in direzione opposta.
Qualche
indizio, in questo senso, ce l’abbiamo sotto gli occhi.
I rapporti dell’Eurobarometro, di “Pew Global
Research” e di altri centri di ricerca sparsi nel mondo, evidenziano una fortissima
sensibilità delle generazioni più giovani verso i rischi di una catastrofe
climatica e una connessa volontà di cambiamento del sistema produttivo in senso
radicalmente ecologista.
Gli
stessi sondaggi mostrano anche un grande sostegno di molti giovani verso la
lotta alle discriminazioni razziali e sessuali, in concomitanza con una serie
di cambiamenti rilevanti nei costumi, una notevole fluidità nella visione delle
identità e degli orientamenti sessuali, e una concezione delle relazioni
affettive sempre più difficile da inquadrare nei canoni della famiglia nucleare
tradizionale.
Ma non
è finita qui.
A
questi interessanti segni di sovversivismo ecologista e libertario si aggiunge
una novità ancor più sorprendente.
A quanto pare, le generazioni più giovani
risultano sempre più critiche verso l’odierno capitalismo e sembrano sempre più
attratte da ipotesi alternative di organizzazione della società.
Da un
sondaggio dell’”Institute of Economic Affairs”, si scopre che per il 75 per
cento dei giovani intervistati il comunismo “ha fallito solo perché attuato nel
modo sbagliato” e che resta “una buona idea”.
Un
analogo sondaggio effettuato da Gallup mostra che il 50 per cento dei giovani
attribuisce un valore positivo alla parola “socialismo”.
Una
tendenza analoga sembra scaturire da un sondaggio della “Victims of communism memorial
foundation”, un’associazione di stampo conservatore che si impegna per contrastare la
diffusione di sentimenti rivoluzionari nel mondo: stando all’indagine, il 70
per cento dei cosiddetti “millenials” propende nettamente per il socialismo e
circa il 20 per cento ritiene addirittura che il Manifesto del partito
comunista di Marx ed Engels garantisca libertà e uguaglianza più della
Dichiarazione di indipendenza americana.
E ancora, un sondaggio dell’”IPSOS Social
Research Institute” mostra che il 50 per cento della popolazione mondiale
intervistata considera tuttora gli ideali del socialismo fondamentali per il
progresso umano, con percentuali particolarmente alte tra i più giovani.
Certo,
sono soltanto sondaggi, che descrivono i nuovi sentimenti di una miriade di
giovani dispersi e isolati, ben lontani dal tradursi in concrete ipotesi
politiche. Eppure, ai vertici del potere nessuno commette l’errore di
sottovalutarli.
Il
motivo è che questo cambiamento nei sentimenti politici è la conseguenza di un
problema oggettivo irrisolto:
il
contrasto sempre più accentuato tra l’ideologia individualista e consumista
prevalente e la depressa realtà materiale in cui la gran parte dei giovani si
trova oggi a vivere.
Del resto, lo abbiamo detto e documentato, le
tendenze oggettive del capitalismo stanno spingendo verso la centralizzazione
del potere economico e politico in sempre meno mani, e quindi anche verso una
nuova marginalizzazione sociale di fasce sempre più ampie di popolazione,
specie più giovani.
Ecco,
in questo tempo shakespeariano che ci tocca di vivere, di farsa che rischia
continuamente di trasformarsi in tragedia, vale la pena di sollevare una
domanda prospettica:
è
possibile che proprio le tendenze oggettive del sistema a un certo punto
favoriscano l’emergere di una nuova intelligenza collettiva, che si riveli
capace di tramutare le delusioni del “riformismo” in una feconda disperazione,
e che riesca proprio per questo a raccogliere le istanze sovversive di singole
monadi isolate per tramutarle in una inedita pratica politica “rivoluzionaria”?
Da
lungo tempo siamo educati a rispondere risolutamente di “no”, in modo puramente
istintivo, direi pavloviano.
Eppure,
coloro che governano il funzionamento del sistema non escludono affatto una
simile svolta.
Anzi,
lavorano coscienziosamente ogni giorno per scongiurarla.
Penso sia giunto il tempo di riflettere su
diverso tipo di reazione, tra noi e loro.
“GENERAZIONI
FUTURE”, “FUTURA”
e “CLN”:
alcuni chiarimenti.
Generazionifuture.org
– (28-3-2023) – Ugo Mattei – ci dice:
Vorrei
chiarire il rapporto fra tre organizzazioni cui sto dedicando il mio tempo, il
mio pensiero e la mia passione durante questa pausa di riflessione americana
che mi sono dovuto prendere e che finirà con la fine di aprile quando rientrerò
ricaricato e pieno di energia!
Le tre
organizzazioni cui mi dedico con uguale passione sono “Generazioni Future“, erede del Comitato Rodotà, che ha
forma di spa cooperativa.
“Futura per i beni comuni“, nome della lista con cui mi sono
candidato alle scorse elezioni torinesi (2.36% e 5 eletti in circoscrizione),
che non ha forma giuridica autonoma ma solo l’ impegno scritto degli eletti e
dei candidati a battersi per i beni comuni e contri ogni politica neoliberale.
Il
“Comitato di liberazione Nazionale, CLN“, che ha la forma giuridica di un
comitato civilistico.
Serve
chiarire qualche possibile confusione.
Considero
i tre soggetti parte di uno stesso progetto Politico, quello di ricreare le
condizioni per cui si manifesti una maggioranza di popolo sufficientemente
forte da costituire un’opposizione sociale genuina.
Bisogna opporsi al “potere neoliberale” che da
oltre trent’anni saccheggia il nostro paese nell’ interesse di “una ridotta
oligarchia globalista che ha nel Partito Democratico americano (DEM Usa) e
nell’ “europeismo draghista nostrano) la sua arma politica capace di egemonia
sulla borghesia benpensante”.
La contrapposizione fra centro destra e centro
sinistra è pura falsa coscienza ideologica, e i burattinai dem statunitensi
trovano in Italia terreno fertile per la costruzione del loro partito unico
atlantista, asservito all’ asse finanziario Wall Street/City di Londra.
Non è un caso che da noi “green pass”,
“estremismo vaccinista” e ora “bellico” siano sostenuti più di tutti dal PD
che, insieme ai media di regime, è oggi il vero perno del draghismo.
“Generazioni
Future” serve proprio per smascherare le false contrapposizioni
elettoralistiche che convincono le persone a “prendere partito” votando a
destra o a sinistra ma che in realtà offrono alternative false.
La strategia è sempre la stessa:
usare
lo spauracchio del fascismo per strutturare la più bieca e opportunista
conservazione.
Da
sempre le politiche di Prodi, Berlusconi, 5S, Salvini e financo Meloni sono
sostanzialmente identiche e chiunque di questi venga votato farà il gioco del
padrone americano.
Sono
le non-politiche eterodirette e atlantiste del PD e dei suoi finti oppositori
che svendono il paese ai gruppi multinazionali privati che corrompono ogni
ganglio della nostra politica.
Del resto la continuità fra Scalfaro, Napolitano e
Mattarella è assoluta.
Garanti
del nostro servilismo atlantista.
Preoccupati
di tenere in ordine il deposito europeo degli armamenti micidiali statunitensi.
Generazioni Future è una organizzazione
Politica in senso alto, ma non di partito, perché cerca di sviluppare un metodo
politico nuovo, cooperativo e non competitivo.
Le
elezioni sono invece competizione elettorale!
Per
questo abbiamo messo in campo l’esperimento di “Futura per i beni comuni”.
Per
vedere se fosse possibile, pur in una competizione elettorale, creare
partecipazione civica e collaborazione sociale fra i candidati e i militanti,
producendo solidarietà ma anche critica spietata e intransigente nei confronti
dell’oligarchia che governa (o meglio depreda) la città.
Abbiamo
così sperimentato i “caucus” e cercato di formare politicamente i nostri
candidati in modo che, eletti o meno che fossero, diventassero interpreti
genuini di questo nostro progetto di cittadinanza nuova.
In parte ci siamo riusciti, in parte no, ma
complessivamente il lavoro di solidarietà e eco alfabetizzazione che Futura sta
facendo a Torino è significativo.
Abbiamo
anche creato importanti travasi di nuove energie politiche su Generazioni
Future, e diverse persone stanno formandosi politicamente in modo critico e
capace di emanciparsi dal coro delle menzogne di sistema che, sul green
pass/vaccino prima e ora sulla guerra vengono inculcate nelle menti acritiche e
atrofizzate della borghesia benpensante.
Come
replicare a livello nazionale quanto di buono siamo riusciti a fare con Futura
a Torino?
Certo
non si poteva essere credibili costruendo l’ennesimo partitino basato solo
sull’ ego o sul carisma del suo leader.
Sarebbe
stato insensato e profondamente contrario allo spirito dei beni comuni che ha
ispirato Futura come esperimento di creazione di un collettivo.
Anche perché non è che siamo stati
maggioritari!
Molto
lavoro politico va fatto per diventarlo.
Tuttavia il bisogno di una politica nazionale
e popolare fondata sulla partecipazione e sul superamento di vecchie contrapposizioni
ideologiche volte a nascondere il saccheggio esiste eccome!
Di qui
l’idea di farci promotori di un CLN, che io stesso invocai la prima volta nel
2012, volto a alzare il tono del confronto con il draghismo (che giudichiamo
regime autoritario, incompetente ed eterodiretto al servizio delle oligarchie
globaliste). Poiché il draghismo e la partitocrazia atlantista che lo sorregge
controlla la comunicazione mediatica, ci sono molte persone che in buona fede
credono che esso sia un bene per l’ Italia.
Queste
persone vanno ri alfabetizzate, così come altre, che oggi non votano, vanno
riportate all’onore della cittadinanza attiva mostrando loro, con la forza
della ragione, che l’attuale dittatura draghista è l’esito del loro
irresponsabile sonno, del loro astensionismo e dunque della loro complicità.
Il CLN
non solo offre uno spazio di militanza concreta anche per tutti quanti già sono
in altre organizzazioni.
Bisogna
organizzare al più presto le piazze caucus e noi di Futura, che siamo gli unici
ad averle già sperimentate, abbiamo il dovere di metterci a disposizione per
organizzare quelle del CLN!
Insomma, chi era in GF era portatore di un
dovere di sostenere Futura a Torino, in quanto, esperimento in continuità con
la nostra coop.
Similmente oggi chi vuole stare con Futura,
eletto o meno, ha un dovere di sostenere il CLN, perché è questa la sola
possibilità di portare in modo credibile le nostre idee a livello nazionale,
senza fare un nuovo inutile partitino, ma interpretando quanto abbiamo promesso
per iscritto candidandoci ai caucus torinesi.
Abbiamo
promesso di essere altro rispetto ai fascismi e ai neoliberismi.
Ci siamo impegnati, contro il saccheggio dei
beni comuni ed il “greenwashing”, per una politica nuova, popolare e di
partecipazione che ciascuno di noi deve interpretare in autonomia e assoluta
buona fede.
Per
questo io oggi sono pienamente interprete di tre organizzazioni politiche che
mai potranno essere in competizione fra loro, nemmeno per il mio tempo.
Considero
GF, Futura e il CLN semplicemente modalità diverse di portare avanti la stessa
lotta per l’agibilità democratica e i beni comuni cui da anni dedico la mia
vita.
La
diversità organizzativa è una ricchezza.
Serve
a costruire identità politiche di sostanza e non di forma.
Serve
ad adattarsi alle circostanze.
Serve
ad evitare identitario e verticismo, trovando ciascuno la propria collocazione.
Davos
e la Grande Narrazione.
Ariannaeditrice.it
- Roberto Pecchioli – (21/01/2023) – ci dice:
(EreticaMente)
Tutto
si può dire delle oligarchie globaliste, fuorché manchino di chiarezza.
Nessun
complotto: è tutto alla luce del sole.
Spiegano
da anni a chi vuol ascoltare qual è il progetto che perseguono e lo mettono per
iscritto in libri a disposizione di tutti.
In particolare, spicca l’attivismo editoriale
del “Forum Economico Mondiale di Davos” e del suo gran ciambellano, “Klaus
Schwab”.
Nel
2016 pubblicò “La quarta rivoluzione industriale”, seguita tre anni dopo da “Governare
la Quarta Rivoluzione Industriale”.
In quel lasso di tempo si è rafforzato il
cosiddetto “partito di Davos”, dalla località alpina in cui si tengono gli
incontri delle élite economiche, finanziare, tecnologiche e politiche del
pianeta.
Nel
2020 la svolta, in concomitanza con l’inizio dell’operazione pandemia.
Il
lancio in grande stile del Grande Reset, la grande cancellazione e il re inizio
di tutto, sotto la direzione degli Illuminati di Davos, la montagna incantata
del globalismo.
Ecco
dunque in libreria il terzo capitolo della saga mondialista, Il Grande Reset,
l’annuncio e l’esposizione del gigantesco programma di ristrutturazione
dell’ordine economico, finanziario e antropologico a favore dei super ricchi,
diventati padroni universali, sintetizzato nello slogan “non avrai nulla e
sarai felice” indirizzato ai sudditi del feudalesimo del Terzo Millennio.
Dalla
dittatura comunista del proletariato alla dittatura liberale del padronato.
Quanto
al dopo epidemia, il vegliardo di Davos – una sorta di Grande Inquisitore post
moderno – è stato formale:
non ci
sarà alcun ritorno alla condizione pre Covid.
È solo colpa nostra se non prestiamo ascolto a ciò che
ci viene spiegato senza misteri.
Restiamo
indifferenti, uno sbadiglio e via, come se quanto accade sotto i nostri occhi
fosse un gioco di vecchi signori con troppo tempo libero a disposizione.
La
quarta tappa del cammino dell’omino di burro del Nuovo Ordine Mondiale è la
“grande narrativa”.
È
apparsa a fine 2021 in lingua inglese – e presto sarà certamente a disposizione
in italiano – un’altra fatica letteraria di Klaus Schwab:
The great narrative, la grande narrativa, o narrazione.
Il
Forum Economico Mondiale, spuria “organizzazione internazionale per la cooperazione pubblico
– privato”
ha lanciato la prossima fase dell’agenda del Grande Reset, detta appunto Grande Narrativa.
Il
piano alto del potere – quello di chi parla a tu per tu con gli iper ricchi
padroni di tutto – avverte un limite, una falla nella propria azione.
Capisce
che, dopo avere lavorato ai fianchi e preparato il terreno, ora deve tirare
definitivamente le reti.
I pesci impigliati siamo tutti noi.
Il
globalismo, nella forma del Grande Reset, deve ammantarsi di un sistema di
idee, una rappresentazione formale a uso dell’umanità da sottomettere, ma anche
da convincere.
Serve
una “narrazione”, il nome postmoderno dell’ideologia.
Ci
pensa Klaus Schwab.
Negli
ultimi anni, alcuni concetti hanno plasmato l’ideologia dominante. Parole come inclusione, resilienza, sostenibilità, delle quali è stato riformulato il
significato, sono entrate a far parte del glossario progressista benpensante,
ripetuto come un mantra nei media, nelle università e nei dibattiti.
Come
predicatori di una religione New Age, attivisti, politici e uomini d’affari portano la parola non di Dio ma del
Denaro.
Il
vocabolario uscito dalle multinazionali, promosso da miliardari falsi
filantropi e veri sociopatici, è diventato il discorso dominante, la retorica
obbligata, la Grande Narrazione.
The great narrative è un compendio delle
conversazioni tenute dal WEF a Dubai nel novembre 2021.
Balza
agli occhi l’assoluta mancanza, nella narrativa globalista, di qualsiasi
afflato spirituale o soprassalto morale: tutto è declinato in termini di
potenza.
L’impegno
è stabilire un discorso che convinca la popolazione non della giustezza, ma
dell’inevitabilità della tabula rasa e del successivo re inizio sulle basi
poste dall’oligarchia.
Per Schwab, “un potente catalizzatore per
modellare i contorni di un futuro più prospero e inclusivo per l’umanità e più
rispettoso della natura.”
Il globalismo è bravissimo a non sprecare le
opportunità delle crisi che esso stesso dissemina; nella fattispecie intende
imporre (pudicamente dicono guidare) una visione del futuro.
“La Great Narrative Initiative [è] uno sforzo
collaborativo dei principali pensatori del mondo per modellare prospettive a
lungo termine e co-creare una narrativa che può aiutare a guidare la creazione
di una visione più resiliente, inclusiva e sostenibile per il nostro futuro
collettivo”.
Iniziano
dalle parole: inclusività, sostenibilità, resilienza.
Sono
tutti termini che il Forum ha introdotto allorché prese il via l’operazione
“Grande Reset”.
Modificati,
stravolti i significati originari, le parole assumono il significato voluto dal
potere.
È questo l’obiettivo finale del politicamente corretto, “la forma più sofisticata di
lavaggio del cervello che i governanti abbiano mai imposto a i propri sudditi,
nella consapevolezza della corrispondenza pressoché automatica tra pensiero e
linguaggio.”
(Ida Magli).
L’idea
stessa di narrazione è alle origini del concetto di postmodernità formulato da “Jean
François Lyotard”.
Con il
lessico del pensatore francese, essa altro non è se non una delle “funzioni per
legittimare potere, autorità e costumi sociali”, ovvero tutto ciò che il grande
reset sta cercando di ottenere.
Siamo
quindi di fronte a un autoritarismo impegnato a legittimare il proprio potere,
spacciandolo per verità universale scaturita da una superiore conoscenza e
comprensione della realtà.
Il potere usa le narrazioni – pompose menzogne
rivestite da un’aura di insindacabilità quasi magica – nel “tentativo di
tradurre resoconti alternativi nella propria lingua e per sopprimere tutte le
obiezioni a ciò che essi stessi stanno dicendo.
“Nient’altro
che una sfacciata operazione di consenso attorno a pratiche e decisioni che non
abbiamo il diritto di discutere, giacché “vuolsi così dove si puote ciò che si
vuole”.
Per
Lyotard la vera conoscenza è sempre stata in conflitto con le narrazioni, che
si rivelano, a retto giudizio, favole.
Ma la
scienza, o meglio la tecnologia e la tecnica, sue ancelle, è stata elevata a
dea e i suoi criteri – plastilina in mano a chi possiede ogni mezzo e determina
ogni fine – sono l’unica logica possibile a cui deve affidarsi l’uomo
postmoderno a cui sono cancellate cultura e natura.
Per Il
poeta indiano “Tagore”, “una mente tutta logica è come un coltello tutta lama.
Fa sanguinare la mano che lo usa”.
Seguendo
gli avvertimenti di “Lyotard”, la cosiddetta grande iniziativa narrativa perde
credibilità nel momento in cui è concepita, in quanto è una costruzione
arbitraria, alla quale lavorano genetisti, scienziati, futurologi e perfino
filosofi, tutti nel solco e nell’interesse di chi guida il gioco, l’oligarchia
tecno finanziaria di cui il WEF è il privilegiato luogo d’incontro.
Il
lancio del libro The Great Narrative ha coinciso con l’incontro annuale del
Forum del gennaio 2022 sul tema “Lavorare insieme, ripristinare la fiducia, accelerare
il capitalismo degli azionisti, sfruttare le tecnologie della Quarta
Rivoluzione Industriale e garantire un futuro più inclusivo”.
Minaccioso,
sincero.
L’agenda
del Reset era stata annunciata nel 2020 come apparente risposta al Covid.
Il WEF
ha trascorso l’ultimo anno a fare propaganda e collaborare con governi e
potentati privati all’ obiettivo di un mondo gestito da tecnocrati che prendono
decisioni per le masse, ma per il loro bene, per la diversità (di che cosa?)
l’inclusività, la sostenibilità e l’immancabile resilienza, così amata dal loro
agente a Roma, Mario Draghi, patrono del PNRR (Piano nazionale di ripresa e
resilienza).
Nel
2019 il WEF prese parte, con la Fondazione di Bill Gates e altri, a
un’esercitazione pandemica chiamata Evento 201, che immaginava un’epidemia
diffusa in tutto il pianeta.
La simulazione ha previsto la morte di milioni di
persone, blocchi, quarantene, censura di punti di vista alternativi con il
pretesto di combattere la “disinformazione”, e ha lanciato l’idea di arrestare
chi mette in discussione la narrativa ufficiale.
Indovini
o criminali?
Conseguiti i loro obiettivi, gli uomini del
Dominio si concentrano sulla “narrazione”, ossia su come ingannare l’opinione
pubblica.
Nel
caso in specie, raccontare le delizie della quarta rivoluzione industriale,
ovvero sostituire tutte le altre visioni del futuro dell’umanità ponendo
l’oligarchia al centro di una narrazione che li dipinge come eroi del nostro
tempo.
Prevede
un futuro in cui le grandi corporazioni private e i sedicenti filantropi usano
la loro ricchezza, influenza e potere per progettare il futuro.
La
loro filosofia sfocia nell’ ideologia transumanista che considera l’uomo
limitato, imperfetto e bisognoso di potenziamento attraverso la tecnologia, al
fine di accelerare la Quarta Rivoluzione Industriale.
L’obiettivo
è gigantesco:
a
Dubai hanno affermato apertamente che “per la prima volta con la tecnologia
stiamo unendo la nostra società, la nostra economia, il nostro governo, la
nostra vita ed esiste un’unica piattaforma.
Ciò
che accadrà in futuro si baserà su ciò che progettiamo ora”.
Vietato
eccepire, solo applausi e gratitudine: è tutto deciso.
Da loro e a favore loro.
La
missione del WEF è cambiare il ruolo dei governi e dei giganti privati sino a
renderli indistinguibili:
una
fusione fredda sulle spalle dei popoli.
L’idea
di Quarta Rivoluzione Industriale di Schwab (4IR) è in sostanza il Panopticon
del futuro, dove la sorveglianza è onnipresente e la tecnologia digitale cambia
le nostre vite, associata a concetti come Internet delle Cose, Internet dei
Corpi, Internet degli umani e Internet dei sensi, alimentato dalla tecnologia
5G e 6G.
La 4IR
si presta a una pianificazione centrale e al controllo dall’alto verso il
basso.
L’obiettivo
è una società track-and-trace (tracciare e rintracciare) in cui tutte le
transazioni sono registrate, ogni persona ha un’identità digitale (ID) e il
malcontento è colpito attraverso punteggi di credito sociale alla cinese.
A
Dubai hanno parlato chiaro:
l’economia “tradizionale” è finita.
Quando
la 4IR sarà generalizzata, ci sarà solo un’economia digitale.
Comprendere
l’Intelligenza Artificiale, la 4IR, la digitalizzazione della vita a partire
dell’abolizione del denaro contante è decisivo per l’uomo della strada.
I
tecnocrati al servizio del Dominio, dietro la maschera di benevolenza, stanno
rivelando la vera natura del futuro a cui stanno lavorando per i loro padroni:
un
autoritarismo tecnocratico nascosto da un linguaggio fiorito e fuorviante.
Nella
loro visione, non possiederai nulla e vivrai felice, però diventeranno
privilegi avere un lavoro, accedere alla possibilità di viaggiare e finanche
avere un conto dal quale prelevare denaro, a insindacabile giudizio del
Dominio.
Le prove generali sono state fatte in Canada,
dove a duecento partecipanti al “convoglio della libertà” sono stati bloccati i
conti bancari.
In Italia a una cliente di origine russa è
stato chiuso il conto corrente. Alle rimostranze, il funzionario incaricato ha
opposto imprecisate ragioni politiche.
Da un lato
la realtà, dall’altro la Grande Narrazione, variante postmoderna della bugia
programmatica.
Abbiamo
un decennio per adeguarci.
O per
aprire gli occhi e opporci.
Schwab non è troppo ottimista: “le persone sono diventate molto più
egocentriche e, in una certa misura, egoiste”.
Chissà
da chi avranno imparato.
Il lato positivo è l’ammissione che la gente
non crede ancora del tutto alla distopia tecnocratica.
Lorsignori sono consapevoli che non sarà
agevole costringere volontariamente le popolazioni ad adottare la visione del
Grande Reset e la Grande Narrativa.
Ci
saranno roccaforti dissidenti.
La
classe predatoria ha trascorso decenni a pianificare e investire denaro e
intelligenza nel progetto di trasformazione planetaria.
Sono
attivi e consapevoli, noi no.
Le
minoranze che hanno capito la portata della sfida non riescono a concretizzare
azioni di resistenza e contrattacco al piano tecnocratico-transumanista.
La
Grande Narrazione assomiglia sinistramente al mito della “nobile menzogna
“espresso da Platone nel libro III della Repubblica.
Secondo questa interpretazione, fatta propria
da personalità come “Leo Strauss”, sarebbe lecito mentire “per il bene della
polis”, noto solo a pochi illuminati.
Il potere diventa franca subordinazione del
debole al forte, i cui “guardiani” controllano le ombre proiettate sulla
caverna che incatena la plebe, convinta che sia l’unica realtà.
La
Grande Narrazione è l’alfabeto Braille dell’umanità accecata.
Ci
vogliono poveri, ci vogliono
morti:
l’esproprio proprietario.
Ariannaeditrice.it
- Roberto Pecchioli – (16/09/2023) – ci dice:
(EreticaMente)
Ci
vogliono poveri, ci vogliono morti.
Non
cambierà mai nulla sinché la popolazione non si renderà conto che il potere è
suo nemico.
Libertà,
democrazia, partecipazione, inclusione, eccetera.
Parole,
solo parole per nascondere verità terribili:
lorsignori ci vogliono poveri e ci vogliono morti.
Al
Dominio non servono più ingenti masse umane:
difficili da governare, inutili in un tempo in
cui la tecnologia è in grado di rimpiazzare centinaia di milioni di lavoratori.
La
tramontata società industriale aveva dovuto concedere qualcosa ai popoli.
Quando
servivamo per la grande industria, per le guerre di cui costituivamo la carne
da cannone, per un’agricoltura estensiva fatta di fatica e sudore, dovevano pur
mostrare, insieme con il bastone, la carota.
Diritto
di voto, l’orgogliosa qualifica di cittadini, un sistema educativo che ci
mettesse in condizione di svolgere i compiti assegnati, un po’ di tempo libero
e qualche divertimento.
Lo
sapevano già i romani: panem et circenses.
I Borbone di Napoli parlavano delle tre
“effe”: feste, farina e, per i ribelli, forca.
Ora
che c’è la democrazia e cianciano di uguaglianza, devono persuadere, sedurre,
verniciare di buone intenzioni le scelte peggiori, persuadere che il male che
ci frana addosso è nel nostro interesse.
“Loro”
conoscono il nostro bene meglio di noi.
Infatti in Europa e in Occidente, ci stanno
convincendo a estinguerci e, con il ricatto del debito, a vivere al di sotto
delle nostre possibilità. Complottismo, paranoia?
Al
contrario, è un programma preciso diffuso a reti unificate dal dispositivo
della comunicazione/ propaganda e dall’apparato culturale ed educativo.
Non
avrete nulla e sarete felici, dicono sorridenti al Forum di Davos gli iper padroni,
per voce di maggiordomi come Klaus Schwab.
È
tutto scritto nelle agende ufficiali:
dobbiamo
diventare poveri, indifesi.
Precarietà lavorativa, perdita dei diritti sociali
conquistati a caro prezzo, migranti nel territorio e nella vita, distruzione di
ogni punto di riferimento familiare e comunitario, perfino l’espulsione,
attraverso la neo dittatura green, dalle città e dalle nostre case, da
riconfigurare secondo standard folli e carissimi, funzionali agli interessi dei
soliti.
Noi,
monadi solitarie, viandanti con trolley, oggetto di un gigantesco esproprio –
proprietario anziché proletario – una lotta di classe che un pugno di
straricchi sta vincendo a mani basse.
Impoverirci, cacciarci da casa, tuttavia non
basta:
devono toglierci di mezzo.
Allo
scopo hanno organizzato tutto a puntino.
Attraverso
l’aborto diventato diritto universale (la chiamano “salute riproduttiva”) viene
negato il diritto di nascere a un numero enorme di nuovi membri dell’umanità.
Diritto
alla non-vita.
Poi,
giacché come per il maiale non si butta via niente, i feti vengono utilizzati
nell’industria cosmetica e farmaceutica.
Diventati
grandicelli, gli umani vengono convinti che la sessualità migliore è quella
sterile, invitati a diventare transessuali o omosessuali.
Un
gran sollievo per l’oligarchia che può sfoltire i ranghi senza troppo rumore.
Adulti,
veniamo convinti a emigrare per “cercare opportunità”, in realtà per sbarcare
il lunario.
Ciò
rende difficile acquistare una casa (chi ci concederà il mutuo?) organizzare la
vita attorno a punti stabili, la famiglia, i figli, i luoghi e la civiltà che
ci hanno visto nascere.
Impossibile animare una resistenza: manca il
tempo, crollano le forze, fisiche e spirituali. Spirituali?
Lo spirito non esiste, dov’è, chi lo può
misurare, chi lo può scambiare in denaro?
Diventiamo
profughi della vita, apolidi senza saperlo;
eppure,
diceva “Cesare Pavese” per bocca del trovatello “Anguilla”, emigrante di
ritorno,
“un
paese ci vuole, un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente,
nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei
resta ad aspettarti”.
Niente
e nessuno, né luoghi, né persone, né modi di vivere ci devono aspettare.
Il
transito è perenne: richiede flessibilità (cioè accettazione silenziosa) e
resilienza (sopportazione rassegnata).
Nel
viaggio senza bagaglio tutto è provvisorio, lavoro, relazioni, luoghi, idee,
anche noi stessi, cui è offerta la suprema libertà:
possiamo
cambiare sesso – anzi genere – anche una volta l’anno, come in Germania.
Il
viaggio è tendenzialmente breve, ma assai faticoso.
Diceva “Anna Proclemer”, la grande attrice,
che per fare teatro occorre soprattutto la salute.
Nel
teatro globale postmoderno, la salute è nelle mani dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità privatizzata e di Big Pharma.
Siamo
sani immaginari a tempo determinato imbottiti di farmaci e psicofarmaci.
Possono
inocularci strani sieri una volta diffusa la paura, la più grande, quella della
morte.
Fine
di tutto, perché ogni trascendenza è esclusa, ridicolizzata, un’anticaglia
residuale.
Neppure
questo basta.
Devono
impadronirsi di tutto ciò che è abbiamo, espropriarci del nostro essere e poi
ridurre drasticamente il nostro numero.
Siamo
troppi, facciamo male all’ultima divinità ammessa, Gaia, il pianeta che muore
per colpa di un ospite ingombrante, l’uomo.
Oppressi da sensi di colpa, impauriti,
sottratti alla dimensione naturale, privati della salute, poveri perché tutto –
acqua, terra, mezzi di produzione, case – deve appartenere a lorsignori, che
cosa ci resta?
L’attimo,
la corsa al piacere immediato, e, su tutto, l’orrore per la malattia, la
vecchiaia, la paura di non essere efficienti, performanti, il terrore di
diventare poveri.
La
soluzione per l’atomo umano solitario è predisposta: sparire, chiedere di
essere eliminato.
Eutanasia,
la “buona morte”, propagandata da necrofori della coscienza utilizzando casi
limite.
All’avanguardia
del regresso Canada, Belgio e Olanda, dove si può essere soppressi –
igienicamente, con tutti i crismi di legge – da benevoli boia di Stato, i
Mastro Titta in camice del Terzo Millennio.
In quei paesi – che la narrativa coloniale definisce
sempre “civilissimi” (il superlativo assoluto disarma i diffidenti) le morti
procurate sono ormai il dieci per cento del totale. Democrazie stragiste.
Chissà
che non abbiano pensato alla “soluzione finale” suicidaria (il nazismo è lì?) i
camionisti canadesi in sciopero a cui sono stati bloccati dal governo
“democratico” conti e carte di credito.
Trasformati
in reietti, mentecatti sociali con un semplice clic.
È
facile per i padroni di tutto.
Le
prove generali del controllo sono state superate con successo dal green pass
con nome orwelliano, il pass che concede i diritti che avevamo già, di cui ci
hanno espropriato.
In
Argentina, tra inflazione galoppante, corruzione e miseria in settori sempre
più ampi della popolazione, il parlamento approva due leggi apparentemente
slegate che rappresentano la sintesi del potere oligarchico che lavora
all’impoverimento e insieme alla decrescita della popolazione.
Il
progetto di legge sulla “morte volontaria medicalmente assistita” (non mancano
eleganti perifrasi per edulcorare le tragedie) è stato promosso dal partito
peronista (ancora)al potere.
Se approvato, consentirà ai richiedenti di
ottenere la collaborazione di un medico per il suicidio assistito.
Contemporaneamente,
l’opposizione liberale ha presentato un progetto di ipoteca inversa rivolto
agli anziani.
Consiste
in un mutuo assistito dall’ipoteca sulla casa di proprietà che permetterà a
persone di almeno sessantacinque anni di ricevere una somma mensile a
integrazione della pensione, magra e falcidiata da un’inflazione del cento per
cento annuo.
Alla morte del mutuatario, gli eredi possono
restituire l’intero importo prestato dalla banca – gravato da interessi e
rivalutazione monetaria – o consegnare l’abitazione per cancellare l’ipoteca.
Tenuto
conto della crisi drammatica della nazione sudamericana, non è difficile
prevedere che il patrimonio immobiliare argentino passerà rapidamente alle
banche.
Anche
in questo caso la narrativa è ingannevole:
una
proposta innovativa affinché i pensionati che sono riusciti a possedere una
casa possano avere un reddito aggiuntivo che integri la pensione e li aiuti a
vivere meglio, dicono i proponenti.
Sono
gli stessi che hanno ridotto in miseria l’Argentina; la proposta non è
innovativa, è già applicata in Spagna e fa parte dell’offerta creditizia.
Nei
fatti, si tratta di mettere in palio la casa per ricevere una somma mensile che
consenta di vivere dignitosamente dopo che il reddito è stato falcidiato da
inflazione e strette previdenziali.
Tra i
sostenitori della misura spicca” Ana Botìn”, maggiore azionista del Banco di
Santander, membro influente del Gruppo Bilderberg.
Il sistema finanziario con una mano ci strozza, con
l’altra si prende quel che abbiamo conquistato con sacrificio.
Non
sarà che la privatizzazione dei sistemi previdenziali ha tra i suoi scopi
proprio la loro insostenibilità, risolta con l’esproprio di fatto – per
intervenuta povertà – delle nostre case?
Ricordiamo che la crisi finanziaria del
2007-2008 fu innescata dall’insolvenza immobiliare, che ha permesso a qualcuno
di impadronirsi a basso prezzo di buona parte delle abitazioni.
Negli
Usa e in Spagna tre quarti di esse sono ipotecate.
Tenuto conto dell’aumento dei tassi
d’interesse – su cui gli Stati nazionali non hanno controllo – che cosa accadrà
alle famiglie non più in grado di pagare le rate?
La
risposta è ovvia, e getta un’ombra sinistra sull’Agenda 2030 nella parte –
pericolosissima – che riguarda l’adeguamento “ecologico” dell’intero patrimonio
immobiliare.
In Italia, dove tre quarti delle case sono
proprietà di chi le abita, il conto, salatissimo, potrebbe costringere molti
alla svendita o a ricorrere alla falsa mano tesa degli istituti di credito, con
gli esiti che possiamo immaginare specie tra le famiglie anziane e quelle a
reddito medio e basso.
Molti cadranno nelle mani dell’usura – legale
o illegale – e la disperazione di perdere la sicurezza dell’abitazione produrrà
disagio psicologico, probabilmente più suicidi.
Intanto le nostre case passeranno di mano,
come sta accadendo negli Stati Uniti.
Il
candidato presidenziale democratico Robert F. Kennedy Jr., nipote di John
assassinato a Dallas, ha recentemente espresso seria preoccupazione per
l’influenza dei fondi di investimento sul mercato immobiliare.
Questi
giganti stanno rilevando porzioni sempre maggiori di case originariamente
destinate alle famiglie.
Kennedy
ha denunciato le pratiche di colossi come BlackRock, Vanguard e State Street,
che controllano una parte significativa del mercato.
Aumentano
i casi di famiglie, potenziali acquirenti di abitazioni, che non sono state in
grado di acquistare immobili, superate all’ultimo istante da offerte in
contanti dei fondi d’investimento, impossibilitate a ottenere la casa che
stavano per comperare.
I tre
fondi citati – i maggiori del mondo – controllano un patrimonio di oltre
ventimila miliardi di dollari, dieci volte il PIL dell’Italia, superiore al PIL
dell’Unione Europea.
Chi è più forte tra i semplici cittadini, gli
stessi Stati nazionali e questi colossi?
Chi
vincerà la partita?
Una
decina di fondi di investimento possiedono partecipazioni incrociate in quasi
tutte le multinazionali, le entità finanziarie e industriali del pianeta.
Sono i
padroni del mondo: la loro influenza si estende all’ ottantotto per cento
dell’indice S&P 500, che comprende le cinquecento corporations a più
elevata capitalizzazione.
Controllano
le nostre vite e hanno l’obiettivo – apertamente dichiarato – di impadronirsi
di tutto.
A noi
restano briciole o miseri avanzi, come nei banchetti signorili del passato.
Crediamo
ancora nelle virtù del “libero” mercato?
Eppure
crediamo ancora che affermazioni come “non avrai nulla e sarai felice” siano
boutades che riguardano un mondo lontano.
No, l’obiettivo sono proprio io, tu, tutti
noi.
Esproprio
proprietario in attesa di toglierci definitivamente dai piedi con piani e
ideologie anti umane, eutanasia, ecologismo radicale, sesso sterile,
individualismo edonista, elevati costi della sanità, in aggiunta a vecchi
sistemi come guerre e epidemie.
Non
avremmo mai creduto di dover concludere, in piena coscienza: ci vogliono
poveri, ci vogliono morti.
(Chissà per quale motivo il “servo ricco della élite padrona del mondo”
ha pensato di costruire in Sud Africa una fabbrica con 20 mila dipendenti per
la costruzione di bombe atomiche tattiche! N.D.R)
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