Io non sono comunista, ebreo, non condivido la religione Woke, lgbt, Gay, cancel culture, arcobaleno, ecc… Non sono ricco, posso essere globalista?

 

Io non sono comunista, ebreo, non condivido la religione Woke, lgbt, Gay, cancel culture, arcobaleno, ecc…

Non sono ricco, posso essere globalista? 

 

 

Fenomenologia della “Cancel culture”:

tra” Woke Capitalism” e

diritti delle minoranze.

Site.unibo.it - EMANUELE MONACO - (10-5-2022) – ci dice:

“Gli eccessi della cancel culture”.

Basta cercare queste parole su qualsiasi motore di ricerca per scoprire un universo di pagine, articoli, opinioni, post, interviste, tutti con la stessa conclusione: la folla di giustizieri social è fuori controllo e a caccia di prede;

 la libertà di parola non esiste più;

bisogna cambiare le impostazioni della privacy ai vecchi post sui social;

mantenere un profilo basso e stare attentissimi alle parole usate.

Potrebbe sembrare un’esagerazione però, soprattutto in ambiente statunitense, la stragrande maggioranza delle persone ritiene che lo spazio di libertà di espressione si sia drasticamente ridotto e per molti commentatori la colpa è di una cultura della cancellazione (appunto, cancel culture) figlia di “nuovo puritanesimo progressista”.

Questi usano le parole “cancel culture” per indicare un ampio spettro di casi:

 dal licenziamento di una persona per aver espresso liberamente idee controverse, al ritiro di un libro, fino a includere petizioni per ritirare la tenure a professori o, recentemente, iniziative volte a punire culturalmente la Russia.

Che siano casi di giustizieri di Twitter o cosiddette “jetstorms”, fino a intimidazioni e minacce, il numero dei casi che la stampa e parte dell’opinione pubblica attribuiscono alla cancel culture è in continuo aumento.

1. Tra cancel culture e cultura della responsabilità.

Naturalmente c’è una diversa fazione che descrive molti di questi casi come parte di una “accountability culture”, ossia una cultura della responsabilità, che si riferisce all’idea per cui alcune parole o atti, anche se non puniti dalla legge, possano portare a conseguenze sociali e professionali se offendono o urtano la sensibilità comune.

Il termine “accountability” però è problematico se uno pensa al suo uso solito, per indicare la fedeltà di dipendenti privati o cariche pubbliche a precise gerarchie, obblighi costituzionali e impegni di produzione.

Usare il termine per giudicare i liberi comportamenti sociali delle persone porta la mente a scenari poco confortanti.

Queste due visioni non riescono a entrare in un dibattito coerente perché gli attori sono troppo impegnati a parlarsi l’uno sull’altro come in un pollaio televisivo italiano.

Il problema ulteriore è che i termini vengono usati senza permetterne il significato e qualcuno dovrebbe decidersi a dare le definizioni delle parole che usa.

 Chi si lamenta della “cancel culture” dovrebbe chiarire che cosa sta denunciando.

Davvero vuole che tutti dovrebbero poter fare o dire quello che vogliono senza poter essere criticati, denunciati, licenziati per questo?

Chi è rassicurato dalla mancanza di problema perché si tratta “solo di accountability”, potrebbe definire meglio i confini delle conseguenze “accettabili” di azioni e parole controverse e offensive?

La risposta molto probabilmente sarebbe “è più complicato di così”, il che sarebbe un ottimo inizio.

 

Nonostante” cancel culture” possa apparire un termine senza molto senso e, al contempo, interpretabile in troppi modi, c’è un problema (se proprio vogliamo chiamarlo così):

si registra una crescente tendenza alla condanna frettolosa di personaggi pubblici o meno, anche solo a causa di idee espresse male o non in linea con il sentire di una precisa comunità.

 Specialmente nel mondo anglosassone, lo spazio di libero dibattito nei campus universitari si è molto limitato.

Esattamente come ha scritto il “New York Times”, molte persone decidono di non partecipare al dibattito pubblico proprio per paura di dire la cosa sbagliata nel momento sbagliato e quindi di diventare vittime di “jetstorm”.

Allo stesso tempo questa è una tendenza che non ha colore politico, anche se la stampa decide di usare “cancel culture” solo quando viene da ambienti cosiddetti progressisti.

 

Quello del “capro espiatorio da cancellare” è un fenomeno antropologico sempre esistito.

 Oggi però è incanalato ed estremamente amplificato dai social, nelle sue manifestazioni nel mondo dell’impresa, dove serve a precise logiche capitalistiche e di marketing.

Il continuo attribuire alla “cancel culture” anche le forme più moderate di dissenso sta creando una narrazione vittimistica da parte di élite interessate a tenere a bada precise istanze sociali e civili.

Anche per questo, uscire dalla tentazione della “cancel culture” serve prima di tutto a chi fa attivismo e politica, proprio perché inutile e figlio delle stesse logiche sistemiche che si dice di volere abbattere.

 

 2. Il dibattito pubblico e le scuole.

Ormai, nel dibattito pubblico, dire “cancel culture” significa aver espresso una precisa opinione riguardo il fenomeno, anche senza esplicitarlo.

Questo concetto amorfo non indica un movimento o una cultura (di qui il poco senso dell’espressione).

 Non c’è un’ideologia dietro, non un manifesto o regole di impiego, anche se certa stampa o narrazione politica vorrebbe che lo credessimo.

Di fatto è l’evoluzione di quello che prima veniva chiamato” call-out”, cioè lo smascherare e indicare per nome la persona che ha commesso un abuso o un’offesa, usata soprattutto dai movimenti “#MeToo” e “Black Lives Matter” per denunciare pubblicamente molestatori, stupratori e poliziotti omicidi.

Essendo questi movimenti parte di quello che generalmente viene chiamato “mondo progressista”, questa tendenza al “call-out” (poi progressivamente chiamata” cancel culture”) è stata sempre più associata a presunti estremi di una politica cosiddetta” woke”.

 Quest’altra parola, proveniente dal vernacolare afro-americano, è finita con l’essere usata in modo dispregiativo proprio per indicare chi sembrerebbe avere come missione di vita quella di vigilare sulla condotta del prossimo con una lente progressista.

Questo, però, naturalmente, può benissimo descrivere casi di “call-out” avvenuti con protagonisti attivisti di destra o persino del famigerato “centro moderato”. Per non parlare dell’ondata censoria ben più allarmante e pericolosa introdotta dalle istituzioni in molti stati americani a guida repubblicana.

Anzi, ci sarebbero molte buone ragioni per dire che le cose stanno molto diversamente da come ce le descrive la stampa:

le nuove guerre culturali americane non sono fatte di aziende che cancellano e zittiscono dipendenti, o contenuti di tendenza woke.

Il campo di battaglia sono in realtà le scuole, cosa possono insegnare e proporre a chi le frequenta.

Autori di libri a tema razziale o sessuale (un esempio su tutti “Maia Kobabe” con il suo “Gender Queer a Memoir”) sono diventati le vittime sacrificali di una “call-out” culture tutta di destra e strumentale a una crociata sui diritti educativi.

Anche per questo ha sorpreso molti il modo in cui fu espresso il timore per questa presunta “atmosfera tossica” nella famosa lettera pubblicata su “Harper’s Magazine” nel 2020.

 Come si fa a focalizzarsi sul denunciare questa tendenza nelle università e nelle aziende culturali, quando ci sono istituzioni statali che, usando la legge, intervengono pesantemente sui curriculum scolastici per passare” purity tests” con una base sempre più radicalizzata?

Parte della nostra classe intellettuale sta per caso perdendo completamente la bussola?

 

Dopotutto, a prima vista, non si capisce precisamente cosa quella lettera, come altri interventi pubblici successivi, denunciasse:

 sono sempre stati posti dei confini a ciò che era accettabile dire o fare;

 le istituzioni hanno sempre tentato di punire azioni o dichiarazioni che le mettevano in cattiva luce o ne minacciavano la reputazione;

picchetti, petizioni, proteste, call-out a cui seguivano azioni censorie hanno sempre fatto parte del vivere democratico e accademico, in negativo o in positivo.

In questo senso quindi la “cancel culture” è sempre stata tra noi.

Quindi cosa è successo da far allarmare così tanto accademici, opinionisti e redazioni?

Forse sarebbe il caso di cominciare ad analizzare le cose separando la tendenza al “call-out” così come si manifesta sui social e le vere motivazioni che spingono istituzioni e aziende a rispondere “cancellando”.

 

 3. Il capro espiatorio moderno.

Se anche qualcuno potrebbe pensare che le nuove forme di “call-out” siano legittimi metodi per denunciare abusi e discriminazioni, soprattutto quando lo stato fallisce nel suo compito di proteggere i diritti e la vita dei suoi cittadini più deboli e marginalizzati, i canali social hanno facilitato e amplificato la trasformazione del “call-out” in una forma di bullismo di massa.

 Anche se è vero che questo fenomeno impallidisce di fronte al pericolo dell’azione censoria dello stato (checché ne dica chi cade nella trappola centrista di mettere le due cose sullo stesso piano), è innegabile che stia inquinando il nostro vivere democratico.

Ciò che è sempre più evidente è la manifesta necessità di molti utenti di riunisci in un rituale non più di semplice call-out ma di pubblica condanna, come se la modernità dei social network avesse contribuito a rievocare in nuova forma antichi riti di capri espiatori e sacrifici umani.

Il moderno capro espiatorio va a ricoprire varie funzioni.

Denunciarlo incrementa il proprio status sociale, indica pubblicamente il nemico di un preciso gruppo, rafforza i legami tra persone che non si conoscono ma si trovano casualmente in quel momento dalla stessa parte.

L’azione forza membri interni del gruppo a dichiararsi, rendendo manifeste istanze di dissenso interno, ma soprattutto produce soddisfazione, un senso di compiacimento e gratificazione istantanea e a poco costo.

 Si è talmente concentrati a stare dalla parte giusta della “shitstorm” che si dimentica l’antico ruolo del capro, cioè essere eletto unico responsabile di un peccato che era però collettivo e di sistema.

Ligaya Mishan” sul “New York Times” ha intelligentemente richiamato l’analisi novecentesca di “Ruth Benedict” sulle differenze culturali tra Occidente e Giappone riguardo il ruolo di colpa e vergogna per evidenziare il cambio di paradigma nei moderni rapporti sociali.

La colpa, di derivazione giudaico-cristiana è la sofferenza dovuta al non aver potuto vivere secondo degli standard morali comunemente codificati dalla religione, dall’ideologia o dalla legge, anche in assenza di sanzioni sociali:

“Ma la crescente atomizzazione della società americana nel 21esimo secolo ha portato ad una confusione del comune sentire”.

 

 Gli standard morali si sono diversificati e si sono disancorati, così come le istituzioni comunemente riconosciute che codificano il bene e il male, e come il premio e la colpa hanno perso valore e autorità.

Allora forse, a meno di una rivoluzione, non rimane altro che ricorrere alla vergogna e al pubblico ludibrio, come nelle società pre-illuministe.

Come “Benedict” ricorda, la vergogna “ha bisogno di un’audience”, della paura del ridicolo e critica dall’esterno.

 In questo aiuta comunità riunite intorno a propri codici morali a separare da sé bene e male, loro e noi.

La parola “cancellare” dopotutto è imparentata con “cancello”, nel senso di barriera, ma anche “carcere”.

 È inoltre anche una parola che in inglese deriva dal lessico del consumo.

Puoi cancellare una sottoscrizione, un assegno, una transazione, un programma, un appuntamento.

Evidentemente nella nuova era dei rapporti sociali si è cominciato a pensare di applicare il significato anche alle persone, costrette a scomparire per via del pubblico ludibrio.

Non è una sorpresa che molti critici della” cancel culture” la paragonino al puritanesimo, al giacobinismo nel XVIII secolo o alla rivoluzione culturale cinese degli anni ’60-’70, perdendo però di nuovo il focus, lasciandosi tentare da paralleli offensivi e argomenti fantoccio (i cosiddetti strawman).

La jetstorm infatti non ha alcuna delle caratteristiche di regimi dittatoriali o società teocratiche.

 Non c’è una gerarchia, logiche di apparato o un’organizzazione.

È un fenomeno spontaneo ed egualitario, con obiettivi che cambiano di giorno in giorno, dipendendo dal momento, dalla comunità di riferimento, dalla propria scala di valori, dal peccato commesso dalla persona di turno.

In questo senso il prossimo potrebbe essere chiunque e per qualunque motivo.

Ed è qui sia il suo valore sia il suo profondo limite.

La realtà è che la cancellazione offre a chi la fa un’alternativa abbozzata e confusa di un processo giudiziario, con i suoi rituali anche se piuttosto caotici.

Dà l’illusione alla gente di poter processare chiunque, persino chi occupa posizioni di potere e privilegio, giudicarli e ricoprirli di scherno, come se per un istante le strutture, le egemonie, i rapporti di forza fossero sospesi e si potesse far prevalere la propria versione di giustizia.

Così forse si spiega anche l’attrazione che questo esercita su alcuni membri di comunità discriminate come quella LGBT+.

La società naturalmente rimane la stessa, fatta di oppressione e mancanza di diritti, violenza e discriminazione, però, come succedeva durante il carnevale nel medioevo, è data una valvola di sfogo, l’illusione di poter fare call-out di mali che in realtà sono codificati strutturalmente nelle nostre società identificando ogni tal volta un capro espiatorio diverso.

4. Woke Capitalism.

È in questo contesto che navigano oggi le aziende, incluse quelle culturali come le università.

Queste istituzioni, motivate e spinte puramente dall’istinto di preservazione e dal massimizzare profitto, si trovano a dover agire in un ambiente in cui molti consumatori supportano cause politiche apertamente e vocalmente, progressiste o conservatrici a seconda del posto dove vivono, della loro formazione, network sociale e storia familiare.

I valori di questa o quell’altra comunità quindi diventano dei potenti mezzi di marketing.

La pubblicità vuole avere qualcosa di poco costoso, poco impegnativo ma di forte effetto di immagine.

Quindi l’istinto di fronte al carnevale delle jetstorm è di fare ciò che è conveniente dal punto di vista del marketing:

 liberarsi di persone e iniziative scomode, immolando il capro sperando che basti a ingraziarsi i consumatori.

I social hanno reso impossibile per le aziende ignorare i problemi di immagine.

Una volta le reazioni avvenivano in casa, per telefono, al bar.

 Oggi tutto avviene nella pubblica piazza.

Si convocano quindi riunioni di urgenza, dirigenti vengono tirati giù dal letto, dipendenti vanno sotto review, e infine qualcuno viene licenziato o un prodotto cancellato.

 Impaurite dai danni reputazionali che una singola jetstorm può causare, le aziende si stanno dimostrando ciniche, avventate e frettolose nel trattamento dei propri dipendenti, soprattutto in paesi dove le leggi sul lavoro permettono licenziamenti senza giusta causa.

Questo perché, anche se a volte le cancellazioni sono volute e richieste (e in alcuni casi meritate), in molte altre occasioni le persone che partecipano a una discussione social non vogliono cancellare nessuno:

 si sono semplicemente inserite nella discussione di tendenza del momento; criticano qualcosa che considerano offensivo o addirittura pericoloso;

prendono in giro; vanno a caccia di retweet e reazioni; condividono meme.

Magari singolarmente non stanno chiedendo un licenziamento.

Collettivamente però è quello che ottengono.

Naturalmente in questo contesto non c’è alcun incentivo a farsi portavoce o supporter di vere istanze di cambiamento, sia delle culture aziendali sia delle strutture sociali.

In questo “Woke Capitalism” importa la reputazione del momento, il poter essere dalla parte giusta della cancellazione, il poter vestire il logo dei simboli del giorno.

Quanto costa licenziare qualcuno di irrilevante da dare in pasto alla folla o fare diversity training?

Perché cambiare davvero le cose quando puoi semplicemente organizzare un seminario?

 Il problema ulteriore è che per essere efficace mediaticamente una cancellazione deve essere pubblica e non privata, come di solito avviene con un semplice licenziamento.

 In questa era però un evento del genere può andare a definire la tua futura identità online.

La persona licenziata o cancellata probabilmente non troverà più lavoro, dovrà cambiare casa, scomparire.

Quando si parla di eccessi della “cancel culture” in realtà in tanti casi si tratta semplicemente di “uffici marketing e HR” che reagiscono anche in maniera esagerata ad animate discussioni social.

Perché l’incentivo economico è di seguire l’onda di marea, di arrendersi alla pressione dell’attivista di Twitter, quel tanto che basta per toglierselo di torno, fino a che l’attenzione non si sposta altrove.

È quindi evidente il motivo per cui soprattutto i “movimenti progressisti” debbano riconoscere la “cancel culture” come esistente e come parte integrante del moderno discorso capitalista, così da poterla togliere dall’arsenale dell’attivismo per concentrarsi sul cambiamento vero di cui le comunità discriminate hanno seriamente bisogno per autodeterminarsi.

Riporre la questione della responsabilità sociale nel posto che merita, cioè nel campo delle legittime decisioni di un’istituzione di censurare comportamenti che si ritengono incompatibili con la propria mission di mercato, serve soprattutto a svincolarsi da questa surreale mistificazione, cioè che il moderno radicalismo si debba accontentare della sua variante social, con i suoi risultati cosmetici e convenienti.

 Il woke capitalism è quello che ad esempio è ben contento di finanziare “marce del Pride”, ma solo se declinate in festa sponsorizzata, mai nella rivolta che è in realtà.

Aver creato una cultura in cui anche l’omolesbobitransfobia e la violenza sulle donne sono fattori di intervento da parte delle aziende sui propri dipendenti è da una parte il simbolo di un cambiamento di sensibilità riuscito nella società moderna, ma dall’altra ne rivelano la superficialità.

Il queerbaiting delle aziende, il pinkwashing di tantissime iniziative di mercato sono una trappola da cui l’attivismo si deve ben guardare.

Boicottare e fare petizioni rimangono tra i nostri diritti democratici.

Il pubblico ludibrio ha i suoi usi nel dibattito pubblico, soprattutto quando i rapporti di forza sono completamente sbilanciati dall’altra parte, però non è tutto:

 può mettere a posto la coscienza degli alleati, ma chi fa vero attivismo sa troppo bene come le istanze di cambiamento siano ben altre.

(Cancel Culture and the problem of Woke Capitalism, TheAtlantic.com).

 

Piani Inclinati

e Punti Geometrici.

Conoscenzealconfine.it – (17 Settembre 2023) – Horus Arcadia – Redazione – ci dice:

 

In un’era di finzioni e falsificazioni come l’attuale, tutto deve essere messo in gioco per combattere battaglie di principio!

Quand’è che ci siamo accorti che l’imposizione forzosa di un farmaco stava violando tutti i principi fondamentali di civiltà democratica?

Quando era ormai troppo tardi ed eravamo già chiusi in una sacca di vincoli e circondati da volenterosi quanto insospettabili – fino a poco prima – Kapò!

 Ma era tardi, troppo tardi.

Lo stesso dicasi per la imminente chiusura in ghetti (la famigerata città da 15 minuti!) con la scusa del cambiamento climatico addebitabile solo alla gente ordinaria!

Lo stesso per la totalizzante mentalità “gender fluid”:

oggi che vediamo sanzionare e mettere all’indice opinioni e testi che osano pronunciare innocenti ovvietà semplicemente perché osano avanzare dei distinguo, delle cautele, delle identità.

Così – ma forse con una violenza repressiva inaudita – quando ci siamo ritrovati circondati – talvolta aggressivamente – da immigrati distanti per lingua, cultura, politica, visione del mondo e ci siamo sentiti schiacciati da questa parola d’ordine che imponeva “accoglienza” fusione e meticciato pena la scomunica a disumani “fascisti”!

Ma tutto questo, tutta questa distopia, era partita da lontano, aveva cominciato in punta di piedi, si era confusa in minimali accenni prima di deflagrare e dilagare. Vedremo che sintomi di questa distruzione della nostra realtà c’erano stati – evidenti o dissimulati – già molto tempo prima e TUTTI potevano essere letti e interpretati per quello che comportavano.

Purché… sì, purché si fosse adottata la visione geometrica del piano inclinato: bisogna coglierne l’inizio, quando parte, perché alla fine, al punto di caduta è troppo tardi.

Il green pass aveva avuto dei precedenti chiari nei vaccini per i bambini vincolanti per l’ingresso a scuola (da decenni), ma addirittura altri precedenti solo germinali in dettagli a volte insignificanti come la stampigliatura del pericolo di morte sui pacchetti di sigarette (ma lasciati in commercio!), sulla obbligatorietà delle cinture di sicurezza in virtù di uno stato etico-genitoriale che sa quel che è bene per te.

La ghettizzazione – ormai inevitabile – si doveva riconoscere al primo autovelox, alla prima ZTL, alle prime installazioni di telecamere di sorveglianza (hanno avuto buon gioco a venderle come sussidi per la sicurezza… che sfrontatezza! quando tutti ti possono accoltellare in pieno giorno senza che nulla lo impedisca)

e soprattutto alla geolocalizzazione fornita dai telefoni digitali e che tanto successo ha avuto come giocattolino irresistibile per adulti!

Ci siamo cascati tutti imperdonabilmente!

Il piano inclinato iniziava là ma portava al “campo di concentramento” dell’immediato futuro.

 

La dilagante iper sessualizzazione che iniziava coi cine-porno, e via via cresceva col porno on line e dava continue piccole spallate con la sessualizzazione precoce dei bambini con abiti, mode, accessori assolutamente inadatti.

Sì, con il superamento del grembiule a scuola perché no!

Con la “pecora dolly” che batteva in breccia ogni remora di tipo naturale per millantare nuovi paradigmi creazionisti: tutto è realizzabile e quindi reale.

 

Siamo stati ciechi (e muti!).

Ai primi sbarchi (vi ricordate? All’epoca si chiamavano i “vu cumprà”) di “extra-comunitari” – altro termine coniato dai media – abbiamo tutti sentito palpiti di commozione e carità di fronte a persone sfortunate che il destino (ma era il destino?) ci metteva di fronte: ma nessuno chiedeva espressamente “quanto deve essere il numero – un numero ci dovrà pur essere – realisticamente compatibile per offrire integrazione sociale, lavorativa, sanitaria a questi nuovi arrivati?”

Possibile che il bisogno – assai peloso – di sentirci buoni metteva a tacere ogni ragionevole richiesta di concreta fattibilità?

Dove portava quel PIANO INCLINATO se protratto all’infinito?

Era chiaro che ci sarebbe apparso l’oggi, un oggi invivibile per tutti…

E quando qualche indegno personaggio proponeva (impunemente!) di far pagare la sanità ai cosiddetti “no-vax” da dove partiva quello specifico piano inclinato e dove avrebbe irrimediabilmente portato?

Ma è evidente!

Dai primissimi ticket sui farmaci, che ognuno – proprio tutti all’inizio – poteva permettersi di pagare (solo pochi spiccioli)!

Eppure era così facile vedere che avrebbe portato alla sanità a pagamento (o peggio per merito!) INTERAMENTE!

 Quello era solo il primo spuntare del piano inclinato; e noi l’abbiamo tollerato, colpevolmente.

Cosa insegna (non a noi ormai irrimediabilmente sconfitti) questa figura geometrica?

 Che per cogliere l’inizio di piani inclinati micidiali dobbiamo sempre combattere le battaglie di principio!

 Sì, quando non è in gioco un piccolo pegno ma è il principio di valore per il quale tutto deve essere messo in gioco.

Le battaglie di principio (per i valori che non muoiono) vanno combattute sempre, subito!

Il Punto Centrale.

Altro termine derivato dalla geometria e che può esserci assai utile nell’impostare correttamente ogni ragionamento – specie di ordine politico – è quello di Punto Centrale.

 Esso è il focus che inquadra nitidamente la visione d’insieme, il centro attorno a cui si disegna una (o infinite) circonferenza: è lui e non un altro.

Vediamo nello specifico.

 Il “punto centrale” non è se i vaccini possano far male o se contengano l’elisir di lunga vita, il punto è la loro obbligatorietà, il ricatto che ha portato alla sottrazione della dignità del “disobbediente” passando per la privazione dello stipendio e delle mansioni.

Il punto è l’odiosa forzatura totalizzante.

Il punto centrale della guerra ideologica sulla “crisi climatica” non è se fa più caldo o più freddo veramente rispetto al passato, e non è neppure se i comportamenti umani possano sia pure minimamente influire sul cambiamento di tendenza:

 il Punto è: chi paga questa inversione?

Chi farà i sacrifici?

Di che entità?

Si modificheranno scelte politiche globaliste come lo spostamento di merci per tutto il globo terracqueo tramite navi cargo mostruose che consumano come città? O – come si intuisce – si tende solo a penalizzare ulteriormente la vita della gente comune?

Così come l’arrivo indiscriminato di masse di migranti improvvisamente calati sulle nostre strade non pone come punto centrale:

 delinquono e violentano oppure no?

Sarebbe fuorviante: ma perché se si comportassero tutti come scolaretti modello il problema sparirebbe?

Infastidiscono coloro che si limitano a controbattere “eh, ma non ci sentiamo più al sicuro!”, infastidiscono perché sbagliano clamorosamente bersaglio.

Il Punto è:

è vero che si va incontro ad una vera e propria cancellazione culturale?

 è in atto sì o no una sostituzione con un frullato di usanze e costumi estranei nei confronti di una tradizione millenaria che è stata l’anima della civiltà di ogni emisfero?

Sarebbe lo stesso se – continuando a dismisura gli arrivi – tutti i migranti agissero in modo mansueto ed innocuo;

esattamente lo stesso: il punto non è quello, il punto è il genocidio culturale, non altro.

E ancora, relativamente alle dilaganti (ed eterodirette) mode “gender-fluid” il punto centrale è: qual è la natura?

 Qual è cioè la condizione che spontaneamente e senza interventi artificiali la natura ha offerto da sempre alla vita nel mondo?

 Come si fa ad affermare che non esistono uomini e donne?

 Riusciamo a cogliere che il punto centrale è la lotta alla natura e alla realtà?

Questo e non altro di questo: NEGARE CHE ESISTA LA REALTÀ.

Sbagliare il punto centrale è come sbagliare bersaglio, confondere obiettivi veri con obiettivi falsi, combattere battaglie inutili.

Anche nel caso di qualche – illusorio! – successo.

In conclusione ribadiamo con fermezza che in un’era di finzioni e falsificazioni come l’attuale, il padroneggiare l’uso di strumenti concettuali come il “piano inclinato” e il “punto centrale” è questione assolutamente vitale.

(horusarcadia)

(frontiere.me/piani-inclinati-e-punti-geometrici/)

 

«Il nostro dibattito sulla cancel

 culture? È troppo semplicistico

 e manicheo».

Lespresso.it – (23 settembre 2021) – Samuele Damilano – ci dice:

 

In Europa affrontiamo l’argomento in termini binari, decontestualizzati dalla traiettoria statunitense.

Ma ci sono precise ragioni storiche che spesso sottovalutiamo e da cui nascono poi gli eccessi.

Parla “Mario Del Pero”, professore di “Science Po”, che fa il punto sulla polemica sulla “sinistra illiberale” aperta dall’”Economist”.

«Il dibattito in Europa e in Italia è troppo semplicistico, funzionale agli interessi di singoli.

 Non riesce a tenere conto delle tante variabili necessarie ad avere una lucida analisi».

“Mario Del Pero”, professore di storia internazionale e statunitense a “Science Po”, prova a fare chiarezza sulla confusione che regna attorno ai temi della “sinistra illiberale” e della cancel culture.

«Sono tre i capisaldi da tenere a mente:

il riconoscimento degli eccessi da parte della “cultura woke” (ovvero l’allerta alle ingiustizie e discriminazioni razziali e sociali, ndr), “le motivazioni storiche” che ne sono alla base, e la” contro-reazione” che ne scaturisce».

Da qualche giorno si è aperto un dibattito sulla “sinistra illiberale”, dopo la copertina dedicatagli dall’Economist.

Da professore di storia statunitense a Parigi, come si pone sull’argomento?

Innanzitutto, la discussione, in Italia come in Francia, viene portata avanti in maniera molto schematizzata, in termini binari e decontestualizzati dalla traiettoria storica statunitense.

Ci sono evidenti eccessi” woke”, ne abbiamo molteplici esempi, anche caricaturali.

Che ripercussioni hanno questi eccessi sull’insegnamento?

Io insegno in un’università internazionale, che in alcuni campus ha più della metà degli studenti nordamericani, dunque vedo molto bene come tutto ciò incide sulla maniera di porci in aula.

 Mi è capitato per esempio di accostare l’aggettivo “sexy” alla tesi di dottorato di Condoleeza Rice, in quanto l’argomento della sua tesi di dottorato, scienza politica militare in senso stretto del termine, non era accattivante.

Un gruppo di tre studentesse mandò allora una mail di protesta in cui sostenevano non fosse giusto accostare questo aggettivo alla prima donna afroamericana Segretaria di stato.

Trovai l’episodio bizzarro perché gli statunitensi sanno perfettamente quali accezioni può avere il termine.

Come trovare dunque il compromesso?

Essere sensibilizzati e fare i conti con un linguaggio che noi diamo per scontato, e che invece porta con sé un carico di implicazioni, va bene.

Il problema è che molto spesso si va oltre.

Io insegno in piccoli seminari o lezioni con 400 studenti.

Dopo due ore la battuta serve a far risposare tutti.

Ma la battuta è per forza caricatura, e nel clima di oggi sembra che tutte siano scorrette.

Il risultato è che non si scherza più in aula.

Dall’altro lato, però, bisogna sempre considerare che l’azione estrema che spesso sfocia in radicalismo per i temi legati alla razza e al genere non è nata nel vuoto perché un po’ di studenti sono andati fuori di testa.

 Ma perché nella storia europea e, in particolare, statunitense, tali discriminazioni di razza e di genere hanno segnato e marchiato ab origine quella stessa storia.

Con il rischio di ignorare o sorvolare su tali discriminazioni.

Esatto.

Noi tutti ricordiamo Disney che censura i film, ma non prestiamo alcuna attenzione a quello che fanno tanti Stati nel controllare i libri di testo nelle scuole superiori.

Basta vedere le risoluzioni del governo del Texas:

 si insegna nel 2021 come se fosse il 1920.

Quando Disney mette mano a “Dumbo” e in Italia si levano voci sdegnate, non si nota che la scena in questione rappresenta quattro corvacci con l’accento afroamericano sovraccaricato che prendono il giro l’elefante.

 Uno di questi si chiama “Jim Crow”, che dà nome al sistema segregazionista tra fine ‘800 e ‘900.

 È come se ci fosse un cartone ‘40 che mostra stereotipi antisemiti, come un ebreo col naso adunco, speculatore.

Tutto ciò con un’informazione non sempre abile, e volenterosa, di cogliere queste sfumature.

Mi è capitato tempo fa di vedere sul Tg2 un servizio sulla” Howard University”, in cui una giornalista diceva una marea di sciocchezze:

 il messaggio era che “l’Università dei neri ha bandito gli studi classici perché considerano “Socrate” e “Cicerone” dei suprematisti bianchi. La dimostrazione è che il dipartimento di studi classici stava chiudendo”.

La verità è che “La Howard University “propone oggi degli studi, come gli “african american studies”, che attirano di più gli studenti rispetto alle materie classiche. Nel contesto di una crisi generale delle discipline umanistiche, il dipartimento è stato chiuso e i corsi sono stati spalmati, non c’entra niente il “suprematismo bianco”.

In Francia poi si discute molto dell’ingresso di queste idee:

 porre l’accento sulla discriminazione razziale e, ancor più, religiosa, aprirebbe un vaso ricolmo di critiche, presa di coscienza e protesta contro la disuguaglianza.

Con un secondo rischio: che queste esagerazioni vengano cavalcate dall’estremo opposto.

Éric Seymour, che paventa “la grande sostituzione della razza bianca”, ne è l’esempio più eclatante.

 

Parigi è una città segregata, che ha provato negli ultimi 20/30 anni a superare un sistema molto marcato, derivato dalle ondate migratorie nel dopoguerra.

Anche la mia università ha attivato da vent’anni a questa parte una procedura di ammissione privilegiata per persone che provengono da zone svantaggiate, una sorta di discriminazione positiva.

Ma anche questo ovviamente ha generato tensioni, perché va contro l’idea di meritocrazia come unico criterio, tipica della Repubblica francese.

 La Francia in ogni caso deve fare i conti con il passato, perché ancora oggi la discriminazione razziale è un tabu.

 Anche per evitare che le conseguenze negative di queste discriminazioni, dal terrorismo alla mancanza di sicurezza, vengano sfruttate dai Seymour di turno.

 Il primo risvolto positivo per questi personaggi è la possibilità di non fare i conti con elementi reali e problemi che poi generano queste reazioni, sfruttate tendenziosamente per poter affermare di “dar voce a chi è oppresso”.

 

 

 

Wokismo e cancel culture:

dove ci portano?

 Corrispondenzaromana.it – (26 Luglio 2023) - Roberto de Mattei – ci dice:

 

Fin dai tempi della Rivoluzione francese, la distruzione della memoria storica fa parte della guerra scatenata contro la civiltà cristiana.

Basti pensare non solo alla devastazione di chiese e di monumenti avvenuta tra il 1789 e il 1795, ma alla profanazione della basilica di Saint-Denis quando le tombe dei sovrani francesi vennero aperte e i loro resti mortali riesumati e dispersi, con un evidente significato simbolico:

ogni traccia del passato doveva essere fisicamente cancellata, in ottemperanza al decreto della Convenzione del 1° agosto 1793.

La “damnatio memoriae” ha caratterizzato da allora la storia della sinistra europea, fino alla “cancel culture” e alla ideologia “woke” dei nostri giorni.

La “cancel culture” è la cultura della cancellazione della memoria:

una visione ideologica, secondo cui l’Occidente non ha valori universali da proporre al mondo ma solo crimini da espiare per il suo passato.

Il termine woke, è un aggettivo della lingua inglese, che significa “stare svegli”, per epurare la società di ogni ingiustizia razziale o sociale ereditata dal passato.

L’utopia dell’“uomo nuovo” presuppone infatti di fare tabula rasa del passato:

la specie umana deve diventare “materia prima” informe per poter essere rimodellata, rifusa come cera molle.

 Il passaggio successivo è quello al “transumanesimo”, la rigenerazione dell’umanità attraverso gli strumenti della scienza e della tecnologia. 

Questo processo distruttivo, nel suo incontrollabile dinamismo, rischia però di travolgere la stessa sinistra politica.

“Conchita De Gregorio”, una giornalista italiana che a quel mondo appartiene, in un articolo pubblicato su “La Stampa” del 7 luglio, racconta tre episodi significativi, avvenuti in Francia che hanno suscitato il suo allarme.

Il primo episodio è questo:

«In una celebre e dalle famiglie ambitissima scuola di danza del Marais, quartiere roccaforte delle élite progressiste parigine, i genitori dei piccoli danzatori hanno fatto richiesta al dirigente scolastico che gli insegnanti non istruiscano bambini e adolescenti ai giusti movimenti toccandoli con le mani, ma con un bastone».

 La ragione, è che qualunque contatto tra corpi, compreso la mano che indirizza il busto o accompagna in un passo provato per la prima volta, è potenzialmente una molestia sessuale.

Il secondo episodio riguarda alcune lezioni di teatro in un Istituto superiore di Belle Arti di Parigi.

  Al momento della foto di gruppo, l’insegnante chiede a una ragazza di legarsi i capelli in una coda «dal momento che la sua magnifica sontuosa chioma afro espandendosi in orizzontale copriva completamente i volti dei compagni alla sua destra e sinistra». 

L’intera classe si rivolta, denunciando la manifestazione di razzismo.

 La preside obbliga l’insegnante a scrivere una lettera di dimissioni o a licenziarsi.

Il terzo episodio riguarda una famosa femminista che «sostiene la libertà delle donne islamiche di non portare il velo”.

Attenzione: “non”.

Di portarlo, liberissime, e di non portarlo, altrettanto libere».

La sinistra la accusa di islamofobia, di essere di destra, di essersi venduta. e la polemica che ne scaturisce provoca l’assegnazione di una scorta alla femminista.

 Tra il femminismo e l’islamofilia la sinistra sceglie l’islamismo, perché caratterizzato da un maggiore odio verso l’Occidente.

Un quadro più ampio e approfondito di quanto sta accadendo in Francia, ce lo offre un libro appena pubblicato da “Avenir de la Culture”, sotto la direzione di “Attilio Faoro” (La Révolution Woke débarque en France, Paris 2023, pp. 86).

 Gli autori spiegano che il wokismo,” erede del Terrore e delle Grandi Purghe sovietiche”, è un’ideologia globale che “vuole trasformare la società in un vasto campo di rieducazione”.

 Per i fanatici di quest’ideologia, «la gastronomia francese è razzista», «la letteratura classica è sessista», «un uomo può essere incinto», i 4.600 comuni che portano il nome di un santo devono essere «sbattezzati», la basilica di Notre Dame è un simbolo di oppressione e dovrebbe essere ridefinita «Notre Dame dei sopravvissuti alla pedo criminalità».

La stessa lingua francese dovrebbe essere decostruita, sostituendo per esempio il termine “hommage”, che rimanda a un linguaggio feudale, con quello di “femmage”, così come al posto di “patrimonio” bisognerebbe usare il termine “matrimonio”, per non concedere al maschilismo neppure un pur minimo vantaggio semantico.

Non si tratta di follie ma di conseguenze coerenti con una visione del mondo che rifiuta la memoria storica dell’Occidente, e in particolare le sue radici cristiane.

Eppure la cultura, che è l’esercizio delle facoltà spirituali e intellettuali dell’uomo, ha bisogno, per svilupparsi, di una memoria che conservi e tramandi quanto l’uomo ha già prodotto nella storia.

La memoria è la coscienza delle proprie radici e dei frutti che queste radici hanno prodotto.

«La fedeltà della memoria – ha osservato il filosofo tedesco “Josef Pieper” – significa invero che essa “serba” in sé le cose reali e gli avvenimenti come realmente sono e sono stati.

La falsificazione del ricordo, contraria alla realtà, attuata dal “si” o dal “no” del volere, è la rovina vera e propria della memoria;

giacché contraddice alla sua natura intima che è quella di “contenere” la verità delle cose reali».

La prudenza, Morcelliana, Brescia 1999, p. 38).

La menzogna per imporsi ha bisogno di distruggere la verità, che è contenuta dalla memoria.

 Per questo la cancellazione della memoria, che contiene la verità della storia, è un crimine contro l’umanità e la rivoluzione woke ne è espressione.

  Il wokismo si sviluppa in Occidente per distruggere l’Occidente, ma non ha nulla a che fare con la storia e con l’identità della nostra civiltà, di cui costituisce un’antitesi radicale.

 I detrattori dell’Occidente che si lasciano sedurre da ricette come l’Eurabia islamica, la Terza Roma moscovita o il neo-comunismo cinese abbracciano un itinerario suicida.

 L’ideologia woke è l’ultimo stadio di una malattia che viene da lontano e che non può essere curata sopprimendo il malato.

Wokismo e cancel culture non sono l’atto di morte dell’Occidente, ma le cellule tumorali di un organismo che fu sano e che può ancora guarire, se ci sarà, come speriamo, l’intervento radicale del Divino Chirurgo.

 

 

 

Amministrazione Biden sempre

più scatenata su Lgbt e aborto.

Corrispondenzaromana.it – (13 Settembre 2023) - Mauro Faverzani – ci dice:

 

Sempre più evidente la frattura tra la Chiesa e Joe Biden, che pure a parole continua a proclamarsi “cattolico”.

La sua amministrazione, infatti, ha proposto nuove norme federali, ufficialmente per «affermare i diritti civili e le pari opportunità» ovvero per affrontare la presunta discriminazione dei soggetti Lgbtqi+ nei programmi, che ricevono sovvenzioni dal Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani americano.

Ma, di fatto, non è questo l’obiettivo, come precisa una lettera diffusa lo scorso 5 settembre dall’”Ufficio di Consulenza Generale della Conferenza episcopale statunitense”, che ha preso pubblicamente le distanze da questa iniziativa, pensata in modo tale – si afferma – da «creare conflitti tra i requisiti della norma e la dottrina cattolica», compromettendo l’attività di molte, troppe organizzazioni caritative, in primis quelle che forniscono «rifugi di emergenza alle vittime di violenza domestica».

Perché?

Alcuni di questi alloggi sono riservati a persone dello stesso sesso.

Ma le nuove regole proposte dall’amministrazione Biden qui «imporrebbero di ospitare anche uomini biologici, che si identifichino come donne».

 Si legge nella lettera dei vescovi statunitensi:

«Qualsiasi ente di beneficenza, che abbia bagni o spogliatoi separati per uomini e donne, potrebbe essere obbligato a permettere agli uomini di utilizzare le strutture per le donne e viceversa» ed a rivolgersi ai propri dipendenti o utenti con «pronomi, che non corrispondono al loro sesso biologico».

Secondo i legali della “Conferenza episcopale americana”, insomma, le norme proposte imporrebbero «condizioni incostituzionali circa la partecipazione ai programmi governativi», tali da minacciare «la nostra capacità di svolgere» le opere previste e da riflettere «premesse antropologiche, che semplicemente non sono vere», contrastando quell’«ordine nel mondo naturale, che è stato progettato dal suo Creatore», ordine che include «corpi umani sessualmente differenziati come maschi o femmine».

Da qui il pollice verso rivolto dai vescovi contro tali norme, chiedendo espressamente ch’esse rispettino i diritti statutari e costituzionali delle organizzazioni religiose.

Tutto qui?

Nient’affatto.

Che Biden voglia imperniare anche la sua prossima campagna elettorale sulla promozione dell’aborto, come già da noi denunciato la scorsa settimana, lo conferma anche la strategia, che sta seguendo:

 il mese scorso, ad esempio, la sua amministrazione ha emesso un mandato, che, storpiando vergognosamente a proprio uso e consumo una legge che di per sé tutela le donne gravide, cerca di costringere tutti i datori di lavoro americani a finanziare le pratiche abortive, anche qualora ciò contrastasse con le loro convinzioni etiche o religiose.

 Immediata la reazione delle associazioni pro-life, che hanno subito annunciato battaglia.

La proposta normativa, elaborata dalla “Commissione statunitense per le Pari Opportunità sul Lavoro”, tradisce lo spirito della legge cui fa riferimento ovvero il “Pregnant Workers Fairness Act”, votata a suo tempo in modo bipartisan proprio perché impone alle imprese con più di 15 dipendenti di «accogliere ragionevolmente» la «gravidanza, il parto o le condizioni mediche correlate» di una propria lavoratrice.

Ebbene, proprio in queste «condizioni mediche correlate» oggi l’amministrazione Biden vorrebbe trovare il vulnus, il cavallo di Troia per includere pretestuosamente in esse anche l’aborto, snaturando completamente e deliberatamente lo spirito originario della norma, trasformata così nel proprio opposto.

Secondo quanto dichiarato alla stampa da “Julie Marie Blake”, direttore generale di “Alliance Defending Freedom”, «la proposta illegale dell’amministrazione Biden viola le leggi statali, che proteggono i non-nati e le convinzioni religiose e pro-life dei datori di lavoro.

L’amministrazione Biden non ha alcuna autorità legale, per inserire un mandato abortivo in una legge a favore della vita e delle donne».

Già, non ha né autorità, né potere per farlo.

 Ma se li arroga.

Chissà che gli americani non se ne ricordino, al momento dell’imminente voto.

RESTIAMO UNITI NELLA DEMOCRAZIA

CONTRO LE OLIGARCHIE.

Informatica-libera.net – Blog di Francesco Galgani – Giulio Ripa- (30-8-2023) – ci dice:

 

L'oligarchia (dal greco oligoi=pochi e archè=potere, comando; cioè "potere di pochi") è un sistema di governo in cui il potere è detenuto da un gruppo ristretto di persone tendenzialmente chiuso, organizzato, omogeneo, coeso, che lo esercita nel proprio interesse particolare.

Si può parlare ad esempio di oligarchie economiche, finanziarie, burocratiche, militari, ecc.

Nel sistema economico capitalistico si accumulano risorse economiche presso centri di potere oligarchici, che esercitano un ruolo assai importante nell'influenzare la gestione della cosa pubblica.

Spesso queste oligarchie esplicano un effetto asfittico nei confronti del potenziale imprenditoriale degli artigiani e della piccola e media impresa.

I membri della classe politica nascondono il fatto che vi sia una oligarchia al potere, una minoranza organizzata che inevitabilmente si concentra nelle mani di un gruppo ristretto di persone, fondato sempre sulla dicotomia pochi-molti: pochi esercitano il potere, molti lo subiscono.

Il punto di forza delle oligarchie è nell'atomizzazione della massa, confusa, dispersa e incapacità di organizzarsi.

 

"Dīvĭdĕ et ĭmpĕrā (letteralmente «dividi e comanda») è una locuzione latina secondo cui il migliore espediente di una tirannide o di un'autorità qualsiasi per controllare e governare un popolo è dividerlo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Questa tecnica permette quindi ad un potere centrale composto da pochi uomini di governare e dominare sulla maggioranza della popolazione.

Una strategia finalizzata al mantenimento di un territorio e/o di una popolazione, dividendo e frammentando il potere dell'opposizione in modo che non possa riunirsi contro un obiettivo comune.

 In realtà, questa strategia contribuisce ad evitare che una serie di piccole entità, ciascun titolare di una quantità di potere, possa unirsi.

Per evitare ciò, il potere centrale tende a dividere ea creare dissapori tra le fazioni, in modo che queste ultime non trovano mai la possibilità di unirsi contro di esso.

Sempre di più si governa controllando lo stato d'animo della popolazione più che agire in uno stato di diritto attraverso il confronto democratico.

Le oligarchie condizionano lo stato d'animo della popolazione, modificando il contesto per cambiare il nostro comportamento, senza farcelo sapere, per cui la maggioranza della popolazione crede ed accetta lo scenario generale in cui si narrano le cose che accadono.

Secondo Macchiavelli "Governare è far credere." perché "Sono tanto semplici gli uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare."

Il più o meno 1% della popolazione più ricca prevale sempre sul restante 99% più povero.

 

Il risultato finale è una disuguaglianza in continuo incremento. I ricchi diventano sempre più ricchi ed i poveri in aumento sono sempre più poveri.

L'1% della popolazione mondiale più ricca, ha una ricchezza pari al 50% della popolazione mondiale più povera.

Nel nostro sistema capitalista, le oligarchie, una minoranza organizzata unita nella gestione del potere che genera ricchezza per pochi, prevale sulla maggioranza disorganizzata e divisa, incapace di costruire una visione condivisa della società ed alternativa a quella impostazione dal sistema di potere attuale.

Grazie alla loro ricchezza le oligarchie finanziano i gruppi editoriali dei mezzi di comunicazione di massa (televisioni e giornali), finanziano partiti e movimenti, finanziano la pubblicità, comprano la fiducia delle classi dirigenti, in modo da avere a loro favore l'informazione dominante per condizionare il comportamento della maggioranza della popolazione, dirottando con facilità il conflitto e la rabbia degli sfruttati contro altri sfruttati.

Le oligarchie utilizzano l'innovazione tecnologica per sedurre la popolazione, distorcendo l'attenzione dei cittadini alla vita politica.

Le tecnologie persuasive e pervasive favoriscono tale distorsione, scegliendo cosa mostrare e cosa no a ciascun individuo, in base ad algoritmi di personalizzazione su misura:

in questo modo, tendono a rinchiudere le informazioni e le relazioni interpersonali all'interno di una bolla virtuale che somiglia molto alla rappresentazione o visione del mondo che l'individuo può avere.

All'interno della rete individuale aumenta così l'isolamento dell'uomo rispetto alla vita reale, dove ci sono contraddittori, conflitti e diverse visioni del mondo che contrastano con la propria.

I grandi player internazionali (multinazionali) conoscono queste umane debolezze e su di esse fondano i loro affari (milioni di utenti con i loro comportamenti interattivi alimentano a titolo gratuito estese raccolta dati (Big data) per iTunes, Google, Facebook, Twitter, Amazon etc ., che poi le vendono a chi serve ottenere valore per analisi di mercato).

Le oligarchie riescono ad avere consenso dalla maggioranza della popolazione, semplicemente perché si rendono invisibili nel governo del paese.

Nella vita reale poche popolazioni mettono in discussione il potere delle oligarchie, perché la loro ideologia è vissuta come l'unico modo di vivere la vita, senza più alternative.

Il pensiero unico resta indiscusso:

crescere economicamente nella quantità delle cose da consumo e non nella qualità delle relazioni umane per emanciparsi, per cui i problemi si possono risolvere solo individualmente, mai socialmente.

Una propaganda capillare, diffusa, che utilizza due leve emotive viscerali di estrema efficacia:

da una parte la seduzione, la crescente ricchezza di beni materiali, la promessa edonistica di una vita facile e comoda, il “diritto” al lusso, al benessere personale individuale, che fa leva sul narcisismo;

dall'altra la paura, il terrore di ricadere nella miseria e nella disperazione senza uscita.

Il neoliberismo, favorendo attitudini relazionali patologiche, basato sulla competizione per emergere sugli altri, ha distrutto ogni forma di comunità, e insieme alle comunità ha distrutto ogni forma di etica.

L'autoaffermazione narcisistica oggi viene prima della ricerca del bene comune. Così vuole il credo neoliberista, nel nostro modo di pensare più profondo e inconscio, tutti siamo diventati neoliberisti, succubi di un pensiero patologico.

È un fatto noto che l'assoluta maggioranza delle persone non è in grado di generare gli stati e le emozioni che desidera. Quindi vive prigioniera di emozioni decise da altri per garantirsi il dominio.

Solo le oligarchie fanno società nel senso che si organizzano associandosi per mantenere il loro potere a dispetto del resto della popolazione, una massa mantenuta in una condizione caotica e frammentata, incapace di opporsi al potere che governa, anzi si accontenta dello sgocciolamento della ricchezza degli oligarchi, aspirando e sognando di entrare nel loro mondo.

Un esempio attuale di oligarchia è quella finanziaria, quella che con la finanziarizzazione dell’economia riesce a governare il mondo attraverso la globalizzazione dei capitali.

La sovranità non appartiene più al popolo, cioè alla comunità dei cittadini tutti, ma ai poteri finanziari privati ​​transnazionali, che decidono le norme a loro più favorevoli.

La finanza è indipendente dalla politica, ma la politica dipende dalla finanza.

Tra i parametri valutati dal mondo finanziario nel giudicare l'economia di un paese, c'è anche la stabilità politica del paese.

Questa valutazione condiziona direttamente la volontà di cambiamento di una nazione anche quando è il risultato di un processo democratico.

In base a criteri non democratici, cioè interventi e strumenti considerati erroneamente neutrali perché tecnici come le agenzie di rating, aumento degli interessi sul debito, pareggio di bilancio, disposto della liquidità della moneta, spread, caduta delle azioni in borsa, rapporto di cambio tra le monete, ecc., la finanza prevale sulla politica democratica.

 Le banche ed i loro soci (in genere multinazionali che spesso diventano monopoli privati) non sono neutrali sul campo ma, condizionano il corso degli eventi che accadono nel mondo.

Inoltre con i paradisi fiscali le oligarchie finanziarie riescono a sottrarsi da qualsiasi regola o limite sulle transazioni finanziarie senza pagare nulla ai corrispettivi paesi.

La maggioranza della popolazione non vede questo potere forte oppure non lo associa al governo della società.

I motivi sono vari. Ma quello principale è che questo potere forte ha la capacità di dividere la popolazione su altre problematiche più "urgenti".

Un esempio è quello della migrazione dei popoli.

La lotta tra pro immigrati e anti immigrati riempie l'agenda dell'agire politico.

Gli esponenti a livello europeo che si contrappongono su questo problema, sono il presidente francese Macron e il ministro italiano Salvini.

Macron si dichiara europeista e globalista invece Salvini antieuropeista e nazionalista.

Ma entrambi sono per un sistema neoliberista con a capo la finanza.

 

 

Tutte e due i contendenti Macron e Salvini non mettono in discussione, nei fatti, la finanza speculativa, il capitalismo finanziario, i privilegi di questa casta che decide la vita e la morte delle nazioni, mentre la popolazione è costretta a dividersi schierandosi con l'uno o con l'altro, sul tema dell'immigrazione.

È importante invece non dividersi.

 Se la maggioranza della popolazione resta unita, è compito primario di ogni democrazia, "il governo di molti", isolare e sconfiggere le oligarchie, in modo da curare gli interessi delle comunità, dei molti, compresi gli immigrati, rispetto all'interesse di pochi privilegiati.

Restare uniti per lottare contro il pensiero unico neoliberista delle oligarchie, significa favorire il passaggio da una cultura patologica del tutti contro tutti, radicata nella patologia degli affetti, delle emozioni e delle relazioni, ad una nuova cultura fisiologica, ad una nuova umanità del bene comune, radicata nella fisiologia degli affetti, emozioni, relazioni.

Fisiologia anzichè patologia del pensiero.

"La psiche è una, noi siamo uno, il mondo interno corrisponde al mondo esterno".

La dicotomia io/altri va superata.

Cambiare l'individuo (l'io) per cambiare la società (gli altri), è equivalente nel dire cambiare la società per cambiare l'individuo, e viceversa.

Non esiste questo o quello, ma esistono entrambi.

 Non esiste un prima e un dopo.

Tutto accade insieme nello stesso tempo.

 Oltre ogni scelta manichea, superare il dualismo io/altri significa "io sono gli altri" e "gli altri sono me".

Praticare questa filosofia, che sostituisce l'individualismo edonistico ed altre ideologie di un pensiero patologico tipico del nostro tempo, spinge nella direzione del pensiero fisiologico dove è possibile "farsi individui nel farsi comunità".

 

 

 

 

Economia e Pandemia, ora

arriva il «Grande Reset» di Davos.

Mittcolcino.com - Franco Leaf – (5 Agosto 2021) – William F. England – ci dice:

 

Per coloro che si chiedono cosa accadrà dopo che la pandemia di Covid-19 ha portato al blocco quasi completo dell’economia mondiale, causando la peggiore depressione dagli anni ’30, i Leader della principale ONG della globalizzazione, il “World Economic Forum” di Davos, hanno appena svelato i contorni di ciò che dobbiamo aspettarci nei mesi a venire.

 

Queste persone hanno deciso di usare la crisi come un’opportunità.

 

Il 3 giugno, tramite il loro sito Web, il “World Economic Forum” di Davos (WEF), hanno svelato i contenuti del prossimo forum di gennaio 2021.

 

Lo chiameranno il «Grande Reset». Utilizzeranno l’impatto sbalorditivo del Coronavirus per far avanzare un piano molto specifico.

 

In particolare, tale Agenda si integra perfettamente con un’altra, l’”Agenda 2030″ varata dall’ONU nel 2015.

 

L’ironia del principale forum mondiale sull’economia — quello che ha avanzato l’”Agenda della Globalizzazione” a partire dagli anni ’90, abbracciando quello che chiamano “sviluppo sostenibile” — è davvero enorme.

 

Lascerebbe pensare che questo programma non riguardi esattamente ciò di cui il WEF e i partner stiano realmente parlando.

 

Il Grande Reset

 

Il 3 giugno il Presidente del WEF Klaus Schwab ha pubblicato un video che annuncia il tema annuale per il 2021, il “Grande Reset”.

 

Sembra essere nientemeno che la promozione di un’Agenda Globale volta a ristrutturare l’economia mondiale secondo linee molto specifiche, molto simili a quelle sostenute dall’IPCC, da Greta dalla Svezia e dai suoi amici aziendalisti come Al Gore o Larry Fink della Blackwater.

 

È interessante notare che i portavoce del WEF inseriscano il “reset dell’economia mondiale” nel contesto del Coronavirus e del conseguente crollo dell’economia industriale mondiale.

 

Il sito web del WEF afferma che: «Ci sono molte ragioni per perseguire un Grande Reset, ma la più urgente è l’epidemia di Covid-19».

 

Quindi, il Grande Reset dell’economia globale deriva dal Covid-19 e dalle «occasioni» che presenta.

 

Annunciando il tema del 2021, il fondatore del WEF, Schwab, ha quindi affermato, spostando abilmente l’attenzione:

 

«Abbiamo un solo pianeta e sappiamo che il cambiamento climatico potrebbe essere il prossimo disastro globale con conseguenze ancor più drammatiche per l’umanità».

 

Sottintende che il cambiamento climatico è il motivo alla base della catastrofe della pandemia di Coronavirus.

 

Per evidenziare l’”Agenda verde sostenibile”, il WEF si è avvalso della partecipazione dell’aspirante Re d’Inghilterra, il Principe Carlo.

 

Riferendosi alla catastrofe globale di Covid-19, il Principe di Galles ha detto:

 

«Se c’è una lezione cruciale che possiamo imparare da questa crisi, è che dobbiamo mettere la natura al centro di quello che facciamo. Semplicemente, non possiamo più perdere tempo».

 

Insieme a Schwab e al Principe Carlo c’è anche il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres:

 

«Dobbiamo costruire economie e società più uguali, inclusive e sostenibili che siano più resistenti di fronte alle pandemie, ai cambiamenti climatici e ai molti altri cambiamenti globali che affrontiamo».

 

Tenete bene a mente il suo discorso su «economie e società sostenibili». Lo riprenderemo in seguito.

 

Anche la nuova responsabile del FMI, Kristalina Georgieva, ha appoggiato il Grande Reset.

 

Fra gli altri resettatori del WEF ci sono: Ma Jun (Presidente del “Green Finance Committee” della “China Society for Finance and Banking” e membro del “Monetary Policy Committee” della “People’s Bank of China”), Bernard Looney (CEO di BP), Ajay Banga (CEO di Mastercard) e Bradford Smith (Presidente di Microsoft).

 

Non fraintendete, il Great Reset non è il momento migliore per Schwab e i suoi amici. Il sito web del WEF afferma che:

 

«I blocchi causati dal COVID-19 potrebbero gradualmente allentarsi, ma l’ansia per le prospettive sociali ed economiche del mondo si sta intensificando. Ci sono buone ragioni per preoccuparsi: una forte recessione economica è già iniziata e potremmo affrontare la peggiore depressione dagli anni ’30. Ma, anche se probabile, questo risultato non è inevitabile».

 

Gli sponsor del WEF hanno grandi progetti:

 

«Il mondo deve agire congiuntamente e rapidamente per rinnovare tutti gli aspetti della nostra società e della nostra economia. Dall’istruzione ai contratti sociali e fino alle condizioni di lavoro. Ogni paese, dagli Stati Uniti alla Cina, deve partecipare e ogni settore, dal petrolio al gas e fino alla tecnologia, dev’essere trasformato. In breve, abbiamo bisogno di un «grande ripristino” del capitalismo». 

 

Questa è davvero tanta roba.

 

Cambiamenti radicali

 

Schwab rivela ancora di più sulla prossima agenda:

 

«… un lato positivo della pandemia è che ha dimostrato quanto velocemente possiamo apportare cambiamenti radicali al nostro stile di vita. Quasi istantaneamente, la crisi ha costretto aziende e privati ad abbandonare pratiche per molto tempo ritenute essenziali: dai frequenti viaggi aerei al lavoro in ufficio».

 

Sarebbero questi i lati positivi? Schwab suggerisce comunque di estendere quei radicali cambiamenti:

 

«L’agenda del Grande Reset dovrebbe avere tre componenti principali. Il primo per indirizzare il mercato verso risultati più equi. A tal fine, i Governi dovrebbero migliorare il coordinamento … e creare le condizioni per una economia più coinvolgente …».

 

Tale Agenda includerebbe: «modifiche alle tasse patrimoniali, ritiro dei sussidi per i combustibili fossili e nuove Leggi che regolino la proprietà intellettuale, il commercio e la concorrenza».

 

La seconda componente dell’Agenda del Grande Reset per assicurare che: «gli investimenti promuovano obiettivi condivisi, come l’uguaglianza e la sostenibilità».

 

A questo punto, il Capo del WEF afferma che i recenti copiosi contributi per stimolare l’economia dell’UE, degli USA, della Cina e di altri paesi devono essere utilizzati per creare una nuova economia che sia:

 

«Più resiliente, equa e sostenibile nel lungo periodo. Ciò significa, ad esempio, la costruzione di infrastrutture urbane “verdi” e la creazione di incentivi per le industrie volti a migliorare la loro esperienza in termini di metriche ambientali, sociali e di governance (ESG)».

 

Infine, la terza componente di questo Great Reset è per implementare uno dei progetti personali di Schwab, la “Quarta Rivoluzione Industriale”:

 

«La terza e ultima priorità dell’Agenda del Grande Reset è quella di sfruttare le innovazioni della Quarta Rivoluzione Industriale per sostenere il bene pubblico, in particolare affrontando le sfide sanitarie e sociali. Durante la crisi del Covid-19 aziende, università e altri hanno unito le forze per sviluppare diagnosi, terapie e possibili vaccini; per istituire centri di controllo e creare meccanismi per tracciare le infezioni; per fornire la telemedicina. Immaginate cosa sarebbe possibile fare se simili sforzi, concertati, venissero fatti in ogni settore.»

 

La “Quarta Rivoluzione Industriale” comprende la biotecnologia per l’editing genetico, le telecomunicazioni 5G, l’intelligenza artificiale e simili.

 

Agenda 2030 ONU e il Grande Reset

 

Se confrontiamo i dettagli dell’”Agenda ONU 2030” del 2015 con il “Grande Reset” del WEF, troviamo che coincidono perfettamente.

 

Il tema di “Agenda 2030” è un “mondo sostenibile” definito dall’uguaglianza di reddito e di genere, dai vaccini per tutti sotto l’egida dell’OMS e della “Coalition for Epidemic Preparedness Innovations” (CEPI), lanciata nel 2017 dal WEF insieme alla “Bill & Melinda Gates Foundation”.

 

Nel 2015 le Nazioni Unite hanno pubblicato un documento intitolato «Trasformare il nostro mondo: l’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile».

 

L’Amministrazione Obama non l’ha mai sottoposta al Senato, consapevole che non sarebbe stata approvata. Eppure, sta avanzando in tutto il mondo.

 

Comprende 17 obiettivi di “sviluppo sostenibile”, come estensione alla precedente Agenda 21:

 

«Porre fine alla povertà e alla fame in tutte le loro forme e dimensioni … proteggere il pianeta dal degrado, anche attraverso il consumo e la produzione sostenibili, gestendo in modo responsabile le risorse naturali e adottando provvedimenti urgenti sui cambiamenti climatici …».

 

Chiede crescita economica e agricoltura sostenibili (OGM), energia (eolico, solare), città e industrializzazione anch’esse sostenibili …

 

“Sostenibilità” è la parola chiave. Se scaviamo in profondità, è chiaro che è una “parola in codice” volta a definire la riorganizzazione della ricchezza mondiale attraverso ad esempio tasse punitive sul carbonio, che ridurrebbero drasticamente i viaggi, aerei e veicolari.

 

Il “mondo meno sviluppato” non arriverà ad essere sviluppato. Anzi, sono le civiltà avanzate che devono abbassare i loro standard di vita per diventare “sostenibili”.

 

Maurice Strong

 

Per comprendere il doppio uso del termine “sostenibile”, dobbiamo tornare a Maurice Strong, un miliardario canadese, petroliere  e amico intimo di David Rockefeller — il personaggio centrale degli anni ’70 per la promozione dell’idea che le emissioni di CO2 causate dall’uomo stavano rendendo il mondo invivibile.

 

Strong ha creato il “Programma Ambientale” delle Nazioni Unite e, nel 1988, il “Gruppo Intergovernativo delle Nazioni Unite per i Cambiamenti Climatici” (IPCC) per studiare esclusivamente la CO2 prodotta dall’uomo.

 

Nel 1992 Strong dichiarò che: «L’unica speranza per il pianeta non è forse fare in modo che le civiltà industrializzate collassino? Non è nostra responsabilità realizzarla?».

 

Al “Summit della Terra” di Rio, nello stesso anno, Strong aggiunse:

 

«Gli stili di vita attuali e i modelli di consumo della ricca classe media — che comportano un’elevata assunzione di carne, l’uso di combustibili fossili, elettrodomestici, aria condizionata e abitazioni suburbane — non sono sostenibili».

 

La decisione di demonizzare la CO2, uno dei composti più essenziali per sostenere la vita, sia umana che vegetale, non è casuale.

 

Come ha affermato il prof. Richard Lindzen, fisico atmosferico del MIT:

 

«Dopo tutto la CO2 cos’è? — non è un inquinante, è un prodotto della respirazione di ogni creatura vivente, è il prodotto di tutta la respirazione delle piante, è essenziale per la vita delle piante e la fotosintesi, è un prodotto di tutta la combustione industriale.

 

Voglio dire, se avete mai desiderato un fulcro per “controllare il tutto”, la CO2 sarebbe l’ideale. Ha quindi una sorta di attrattiva fondamentale per la mentalità burocratica».

 

Per non dimenticare l’esercitazione curiosamente tempestiva riguardo una possibile pandemia a New York, l’”Evento 201″ del 18 ottobre 2019, che è stata co-sponsorizzata dal “World Economic Forum” e dalla “Gates Foundation”.

 

Si basava sull’idea che:

 

«E’ solo questione di tempo prima che una di queste epidemie diventi globale, con conseguenze potenzialmente catastrofiche. Una grave pandemia, diventata Event 201, richiederebbe la cooperazione fra diversi settori-chiave, governi nazionali e istituzioni internazionali».

 

Lo scenario “Event 201” ipotizzava che:

 

«Lo scoppio di un nuovo Coronavirus zoonotico trasmesso dai pipistrelli ai maiali e quindi alle persone, e poi da persona a persona, causerebbe una grave pandemia. L’agente patogeno è in gran parte modellato sulla SARS, ma è maggiormente trasmissibile in ambito comunitario da persone con sintomi lievi».

 

La decisione del “World Economic Forum” di effettuare il Grande Reset è a tutti gli effetti un tentativo sottilmente velato di far avanzare il modello distopico, ma «sostenibile», dell’Agenda 2030: un «Green New Deal» globale sulla scia delle misure di contenimento della pandemia di Covid-19.

Gli stretti legami con i progetti della Gates Foundation, con l’OMS e con le Nazioni Unite suggeriscono che dopo la scomparsa della pandemia di Covid-19 potremmo trovarci ad affrontare un mondo molto più sinistro.

(William F. Engdahl)

(renovatio21.com/economia-e-pandemia-ora-arriva-il-grande-reset-di-davos/)

(williamengdahl.com/englishNEO9Jun2020.php)

 

 

 

Migranti Lampedusa, Elon Musk

attacca George Soros:

"Vuole distruggere l'Occidente"

msn.com – Adnkronos – (19-9-2023) – Redazione – ci dice:

(Adnkronos). 

Elon Musk attacca George Soros, accusando la fondazione del filantropo americano di "volere niente di meno della distruzione della civiltà occidentale".

Il commento del magnate, numero 1 di “X”, appare in un post del suo social in risposta al post di un utente sui massicci arrivi di migranti a Lampedusa, in cui si parla di "invasione guidata da George Soros".

Soros viene spesso preso di mira nell'ambito di teorie complottiste antisemite per il suo sostegno ad organizzazioni della società civile di vari paesi.

 Musk è stato accusato da più parti di permettere la diffusione dell'antisemitismo su “X”, accuse che il miliardario ha sempre respinto, arrivando a minacciare di querela l'”Antidemation League”, storica associazione ebraica contro le discriminazioni.

L'attacco di Musk a Soros, fa notare il Guardian, è partito alla vigilia dell'incontro che il patron della Tesla avrà oggi con il premier israeliano “Benyamin Netanyahu”.

Secondo quanto scriveva nei giorni scorsi il Washington Post, l'incontro è stato organizzato anche per smentire le accuse di antisemitismo.

 

 

 

 

Perché difendo l'oligarchia.

Eugenio Scalfari

Il dibattito sulle forme della democrazia.

Repubblica.it – Eugenio Scalfari – (13 ottobre 2016) – ci dice:

SONO alquanto deluso dalle risposte che Gustavo Zagrebelsky ha dato ai miei duplici interventi sul rapporto tra oligarchia, democrazia e dittatura o tirannide che dir si voglia.

Si tratta al tempo stesso di sostanza e di parole che la esprimono.

 Nel dibattito che c'è tra noi le parole talvolta coincidono, la sostanza no.

Che l'oligarchia sia il governo dei pochi lo diciamo tutti e due.

Che faccia un governo per i ricchi lo dice solo Gustavo e che i ricchi facciano i loro propri interessi a danno dei molti, anche questo lo dice soltanto lui, non io.

Che l'oligarchia abbia in mente una sua visione del bene comune è inevitabile.

 Lo diceva persino Giuseppe Mazzini che infatti quando fondò la Giovane Italia aveva in mente l'educazione dei giovani e li preparava ad essere gruppi d'assalto per sollevare le plebi contadine.

In quegli assalti morivano quasi tutti;

quello che si immolò con altri trecento fu Pisacane:

"Eran trecento, eran giovani e forti e sono morti".

Quella era l'oligarchia mazziniana: aveva in mente la nazione italiana e la Repubblica invece della monarchia.

Del resto tre secoli prima lo stesso Machiavelli dedicò “il Principe” a Lorenzo de' Medici affinché prendesse la guida per risollevare le plebi e farne un popolo.

Un altro esempio porta il nome di “Mirabeau” che agli “Stati generali di Francia” riuscì a trasformare il “Terzo Stato” in un'assemblea costituente che rendesse” il potere assoluto del re” soggetto alla Costituzione.

Zagrebelsky è più giovane di me e forse non sa che l'oligarchia del partito comunista abitava in case molto povere;

 addirittura le lampadine appese al soffitto non avevano neppure una traccia di paralume, erano appese ad un filo e pendevano in quel modo.

Io entrai in molte di quelle case e le ricordo bene:

quella di Pajetta, quella di Longo, ed anche quella di Pietro Nenni che era il segretario del partito socialista, ed anche quella di Sandro Pertini.

Potere ma con una visione del bene comune molto precisa, in parte ideologica ma soprattutto politica.

Identificare i pochi con i ricchi che ottengono il comando per favorire i propri interessi è un evidente errore.

Talvolta può accadere, ai tempi d'oggi sono molti i potenti ricchi arruolati dai partiti e spesso anche membri del Parlamento e del governo.

È il cosiddetto malaffare.

La loro presenza in Parlamento - che Gustavo vede come il vero organo di rappresentanza della democrazia e il suo pilastro - è una prova che è un pilastro assai traballante, tanto più quando qualcuno di questi potenti e ricchi che fa la politica nel proprio interesse viene indagato dalla magistratura.

La commissione delle immunità in questi casi concede l'immunità a tutti ed in più votando all'unanimità.

Naturalmente negli ultimi anni il livello del malaffare è aumentato dovunque:

è aumentato il livello del benessere ma con esso purtroppo anche quello del malaffare ma il fatto che il Parlamento sia secondo Gustavo il luogo principale dove deve risiedere la democrazia dimostra semmai che sono aumentati insieme al livello delle comodità della vita anche i ricchi e il declino etico.

Io infatti non sostengo che l'oligarchia è per definizione il governo dei migliori; sostengo che è il governo dei pochi ma è la sola forma d'un governo democratico.

Zagrebelsky pensa che i pochi sono i ricchi e i potenti.

Ricchi non necessariamente, potenti certamente e su questo è tutto.

 Le alternative sono la democrazia referendaria della quale ho già scritto l'impossibilità di governare; oppure la dittatura.

Gustavo è d'accordo sul primo tema ma non sul secondo:

la dittatura secondo lui è la forma estrema dell'oligarchia, con il passare degli eventi sia del passato remoto sia di quello prossimo.

 Ma questa asserzione sulla base della storia non è affatto vera.

L'Impero romano cominciò con Cesare Ottaviano, poi seguito dal termine Augusto, ma era ancora una struttura, quella da lui costruita, che lasciava un certo spazio al Senato.

 Il vero imperatore fu Tiberio.

Lui comandava e il suo comando veniva eseguito.

I tribuni diventarono cariche militari, i prefetti governavano le regioni che componevano l'Impero ma non erano altro che amministratori e Pilato ne è un esempio.

Adriano, della famiglia Antoniniana, fu un altro imperatore che comandava da solo e senza alcun consigliere.

Traiano è ancora di più un capo assoluto.

 L'Impero durò quasi cinquecento anni e consiglieri non ne ebbe mai.

Si potrebbe dire che il giovane Nerone ebbe Seneca (solo Seneca) come educatore e la madre, assai autoritaria anche lei;

talmente autoritaria che alla fine Nerone se ne stancò e la fece uccidere.

Per cinquecento anni la struttura imperiale non fece nessun cambiamento salvo uno:

la divisione tra Oriente e Occidente.

In tempi più ravvicinati le monarchie erano chiamate assolute.

Il cosiddetto Re Sole, non a caso, sosteneva che lo Stato era lui.

Al massimo fu in qualche modo orientato dalle sue amanti.

E poi gli Asburgo d'Austria e di Spagna, i duchi di Borgogna, i Re di Spagna, di Francia, di Inghilterra, di Scozia, di Svezia.

Gli zar di Russia. Napoleone.

 Dove sta in questi esempi l'oligarchia?

 Quelle dittature erano oligarchiche?

Assolutamente no.

Napoleone ascoltava solo Talleyrand in politica estera e basta.

Ma voglio aggiungere un caso che può sembrare particolare e infatti lo è ma è estremamente significativo: quello del Papa cattolico e dei vescovi.

Non so quale sia il numero dei vescovi, certamente molte migliaia, compreso il Papa che è vescovo di Roma.

Ma se paragoniamo le migliaia di vescovi alle centinaia di milioni di fedeli siamo di fronte in questo caso ad una oligarchia religiosa.

 Tanto più se aggiungiamo ai vescovi i cardinali che ammontano a un centinaio o poco più.

 Il Papa con cardinali e vescovi, nunzi apostolici e sacerdoti addetti a specifici compiti e dicasteri rappresentano un caso tipico di oligarchia.

Un'oligarchia che si riunisce molto spesso nei Sinodi dove i pareri, sia pure nel quadro d'una religione che crede nel Dio assoluto trascendente, sono molto diversi e suscitano spesso controversie molto aspre.

 Il compito del Papa è proprio quello di cercare e trovare una mediazione che almeno per un periodo sia condivisa da tutti.

 In sostanza la Chiesa cattolica è sinodale.

Potremmo anche chiamare i comitati centrali dei partiti con la parola Sinodo: significano in due diversi casi lo stesso fenomeno oligarchico.

Ora mi fermo e non parlerò più di questo tema.

 Viviamo tempi dove la politica è molto agitata e merita molta più attenzione che definire con le parole e con il pensiero se si chiami “oligarchia la sola forma di democrazia che conosciamo”. 

 

 

Crisi, catastrofe, rivoluzione.

Una conversazione con Emiliano Brancaccio.

Iltascabile.com -Redazione – (8-7-2022) – Emiliano Brancaccio – Nicolò Porcelluzzi -Stella Succi –

Elisa Custer - ci dicono:

 

Continuano le conversazioni della redazione con intellettuali capaci di aiutarci a leggere la guerra in corso, alla ricerca di uno scambio con punti di vista che possano restituire la complessità e la portata di quanto sta accadendo.

L’intervista di oggi è con l’economista “Emiliano Brancaccio”, Professore di politica economica presso l’”Università degli Studi del Sannio”, a Benevento, tra i principali esponenti delle scuole di pensiero economico critico.

Seguiamo Brancaccio da quando siamo venuti a conoscenza dei suoi lavori più recenti:

“Democrazia sotto assedio. La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico” (Piemme, 2022) e

“Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione” (Meltemi, 2020),

due saggi capaci di individuare le tendenze generali della fase storica che stiamo attraversando:

su scala globale, una centralizzazione del potere in sempre meno mani che conduce inevitabilmente a una contrazione dello spazio democratico.

 

Ci interessava in particolare la sua capacità di portare un punto di vista radicale in sedi istituzionali che, da profani, immaginiamo restie alla critica che invece Brancaccio sa esercitare.

Siamo partiti allora dalla guerra in Ucraina, come abbiamo già fatto con Marco D’Eramo, Alfonso Desiderio e Maria Chiara Franceschelli, ma siamo arrivati a toccare un’ampia rete di aspetti macroeconomici e politici della contemporaneità, e ne abbiamo approfittato per farci chiarire alcuni punti delle sue analisi.

 Il risultato è una conversazione ambiziosa, dallo sguardo ampio, ma che speriamo possa servire a orientarci, in modo molto pragmatico, a capire se e come possiamo sperare di avere voce in capitolo sul nostro futuro.

Emiliano Brancaccio:

 Volete davvero parlare delle cause e delle conseguenze economiche della guerra?

Allora sospetto che questa intervista non la leggerà nessuno:

l’economia e la sua critica sono essenziali per capire come stanno davvero le cose, ma agiscono sui lettori come un horror: li terrorizzano e li fanno scappare.

Nicolò Porcelluzzi:

A meno che non mettiamo nel titolo: “perché i tuoi risparmi sono in pericolo?”.

Il terrore finanziario attira sempre e mi sembra un periodo azzeccato…

EB: Vero, ma solo per quelli che riescono ancora ad accumulare qualche soldo. A proposito di horror, viviamo in un’epoca in cui gran parte della classe lavoratrice vive ormai a “risparmio zero”.

Stella Succi:

Partiamo allora dalla domanda più urgente, e forse più inquietante. Quali sono le tendenze economiche che alimentano il conflitto e cosa ci dicono del futuro di questa guerra?

 Insomma, il capitale cosa auspica?

 

EB: I singoli capitalisti ovviamente “auspicano”: di sopravvivere, di avere successo, di espandersi, di esercitare una volontà di potenza nel senso di Deleuze.

Però, se parliamo di “capitale” in generale, cioè della sintesi complessiva delle azioni scoordinate e conflittuali dei singoli capitalisti, allora associarvi il concetto di auspicio genera un controsenso.

Perché il capitale in generale è una forza impersonale, diciamo che è come una marea, come un vento di tempesta.

 In quanto vento, non ha desideri né auspici.

Al contrario, spesso il capitale segue una tendenza che devia, si smarca dalle speranze soggettive dei singoli capitalisti.

È quella che si definisce eterogenesi dei fini.

 

SS: E un esempio di eterogenesi dei fini è la tendenza verso la guerra?

 

EB: Sì. Noi siamo abituati a considerare la guerra come se fosse il banale esito delle intemperanze di qualche pazzo al potere.

Ma questa lettura, individualista e soggettivista, è molto superficiale.

In realtà, esiste una tendenza oggettiva verso la “guerra capitalista”, non più semplicemente economica ma anche militare, di cui il conflitto in Ucraina è solo una delle nuove forme fenomeniche.

 

NP: Quali sono le cause di questa tendenza?

 

EB: Per comprenderle bisogna partire da un fatto inatteso: gli Stati Uniti e buona parte dell’occidente capitalistico sono usciti sorprendentemente sconfitti dalla grande stagione della globalizzazione dei mercati.

L’avevano propugnata, eppure sono stati sconfitti.

 

NP: Perché sconfitti?

 

EB: In estrema sintesi, possiamo dire che il capitalismo americano, e gran parte del capitalismo occidentale, si sono ritrovati negli anni con un crescente problema di competitività internazionale, con costi di produzione relativamente alti rispetto alla concorrenza estera.

Questo ha portato gli Stati Uniti e altri paesi occidentali a comprare molto dall’estero e a vendere poco all’estero.

Ma questo significa accumulare debiti verso l’estero.

Debiti pesanti: per esempio, gli Stati Uniti hanno ormai una posizione passiva verso l’estero di oltre il 60% del PIL.

I creditori mondiali, di contro, sono i vincitori della stagione della globalizzazione, sono quelli che hanno conquistato più mercati, hanno venduto più merci e hanno quindi accumulato più moneta di tutti.

Sono i capitalisti cinesi, in primo luogo, ma anche del sud est, del medio oriente, e guarda caso in misura minore pure russi.

Elisa Custer: Uno squilibrio tra vincitori e vinti della globalizzazione, quindi.

Con quali conseguenze?

 

EB: Il problema dei debitori è che presto o tardi i creditori cercano di comprarli.

Negli anni, i grandi creditori hanno venduto un’immane quantità di merci e hanno quindi accumulato denaro, e adesso hanno sempre più voglia di usarlo:

 non solo per erogare prestiti all’occidente indebitato, ma anche e soprattutto per acquisire capitale occidentale.

 I capitalisti cinesi, asiatici, arabi e anche russi, coltivano cioè da tempo il desiderio di usare la moneta accumulata per comprare azioni di aziende americane, britanniche, francesi, e così via.

Magari persino i pacchetti di controllo di quelle aziende, per assorbirle e dominarle.

 

SS: Parli della tendenza del capitale a centralizzarsi in sempre meno mani…

 

EB: Esatto. Come accade nel mito di “mangiare Dio”, direbbe “Jan Kott”, i capitalisti vincitori della guerra sui mercati uccidono e mangiano i capitalisti sconfitti.

EC: Come hanno reagito gli occidentali di fronte a questa minaccia di esser mangiati?

EB: In una prima fase, i capitalisti americani e occidentali hanno reagito in modo piuttosto scontato e brutale, attraverso l’imperialismo militare.

 Ossia, hanno attuato quello che io chiamo “l’imperialismo dei debitori”.

 Questo consiste in una doppia espansione:

tanto cresceva il loro debito verso l’estero, tanto cresceva la loro presenza militare all’estero, proprio al fine di gestire quel debito e auspicabilmente di contenerlo.

 Un esempio tra i più lampanti è stata l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, che doveva servire anche a mitigare il debito energetico americano e occidentale.

 Il guaio, però, è che questo doppio espansionismo, delle milizie e del debito verso l’estero, a un certo punto raggiunge un suo limite di spesa e di efficienza, oltre il quale non può andare.

 È un fenomeno che in modi non troppo dissimili si era già verificato ai tempi della crisi dell’impero britannico, ben descritta in un celebre saggio dell’economista “Marcello De Cecco”.

Oggi il problema si ripete con l’emergere dei limiti all’espansione imperialista del grande debitore americano e dei suoi alleati, comprovate anche dal ridimensionamento delle campagne militari occidentali nei vari territori occupati.

Di queste difficoltà, ormai, in tanti hanno preso atto.

Ecco perché, da qualche tempo, i debitori occidentali hanno iniziato ad accettare i limiti del circuito militar-monetario che avevano creato, hanno quindi dovuto contenere le mire imperialiste, e dunque sono stati costretti a escogitare qualche altro meccanismo di difesa.

SS: Che tipo di meccanismo?

EB: I debitori occidentali hanno iniziato ad accettare il fatto che la globalizzazione costituiva un problema, e che dal suo protrarsi indefinito sarebbero potuti uscire con le ossa rotte.

Ecco allora che negli Stati Uniti e un po’ in tutto l’occidente abbiamo assistito a una riabilitazione del vecchio, vituperato protezionismo.

Non solo commerciale ma anche finanziario, vale a dire una serie di barriere legali che servono a bloccare l’esportazione di capitale da parte dei grandi creditori.

 In sostanza, ai capitalisti cinesi, russi, e così via, viene oggi imposto il divieto di “mangiare” le aziende occidentali.

Questo nuovo protezionismo, badate bene, è iniziato diversi anni fa, da ben prima della guerra, addirittura da prima di Trump!

 Nelle alte sfere è stato ridenominato “friend shoring”, un termine gentile ideato da Janet Yellen per avvisare che da ora in poi noi occidentali faremo affari solo con i nostri “amici”.

Perché degli altri abbiamo ormai paura e vogliamo tenerli fuori dai nostri recinti.

SS: E qual è stata la risposta orientale?

 

EB: Io sostengo che proprio il “friend shoring”, cioè proprio le barriere protezionistiche edificate dai debitori occidentali per evitare di esser “mangiati” dai creditori d’oriente, hanno spinto questi ultimi ad attivare una reazione imperialista.

I grandi creditori orientali hanno iniziato a capire che la fase è cambiata.

Essi hanno una enorme quantità di capitali da esportare, potrebbero acquisire moltissime aziende occidentali, ma sono ormai ostacolati dalle barriere protezionistiche imposte dal “friend shoring”.

Di conseguenza, per esportare i loro capitali all’estero, per fare affari nel mondo, e soprattutto per “mangiare” gli avversari, i creditori prendono coscienza che da ora in poi bisognerà aprirsi dei varchi anche con la forza, cioè creando sbocchi per le esportazioni dei loro capitali anche tramite movimenti di truppe e di cannoni.

Mentre in passato la guerra imperialista serviva agli Stati Uniti e ai loro sodali occidentali a gestire il loro debito, adesso una guerra imperialista uguale e contraria diventa il mezzo con cui i creditori orientali cercano di creare sbocchi per i loro capitali.

È esattamente così che nasce quello che io chiamo il nuovo “imperialismo dei creditori”.

L’imperialismo dei creditori come reazione all’imperialismo dei debitori e alla sua crisi.

In un certo senso, la mia tesi rielabora in chiave aggiornata il vecchio nesso individuato da Lenin, tra esportazione dei capitali e imperialismo.

 

SS: Come possiamo interpretare, in quest’ottica, la guerra in Ucraina?

 

EB: È una guerra che vede la Russia nel ruolo di grande aggressore imperialista, ma a guardar bene stabilisce una linea di demarcazione molto più generale, tra debitori d’occidente e creditori d’oriente.

Basti guardare la Cina, che pur con la proverbiale prudenza e con vari distinguo, dal punto di vista delle relazioni internazionali si è chiaramente posizionata dal lato della Russia.

l motivo è che i cinesi interpretano questa guerra come uno dei tanti segni di crisi del grande debitore americano.

Ai loro occhi, il capitalismo americano ha esaurito la strategia del doppio espansionismo, del debito e delle milizie all’estero, come dimostra il fatto che in molte circostanze è stato costretto a ritirare le sue truppe.

In sostanza, per la Cina, avallare silenziosamente l’attacco russo all’Ucraina significa verificare empiricamente se e in che misura gli americani e i loro alleati reagiranno.

Se la reazione militare sarà limitata, vorrà dire che il doppio espansionismo USA ha davvero raggiunto il suo limite.

Per i cinesi, se siamo davvero giunti a questo punto di svolta, gli americani non potranno più permettersi di dettare le regole del commercio mondiale, e quindi, tra l’altro, non potranno pretendere di passare dal globalismo al “friend shoring” solo perché adesso a loro conviene cambiare strategia.

EC: La guerra in Ucraina, insomma, sarebbe l’inizio di una grande sfida orientale agli Stati Uniti e ai loro alleati, per decidere chi dovrà dettare le regole future della finanza e del commercio mondiale?

EB: Esatto. I creditori russi e cinesi, e con loro molti altri, ritengono che quelle regole non possano esser più dettate dal vecchio imperialismo dei debitori occidentali, che reputano ormai in declino.

 È una scommessa epocale, che va ben oltre il conflitto in Ucraina.

 L’esito non è affatto scontato, beninteso.

Il rischio di una escalation su larga scala è altissimo e non possiamo sapere chi alla fine la spunterà.

Quel che è certo, è che il grande squilibrio capitalistico tra creditori e debitori è ormai sfociato in un equilibrio di guerra, non più solo economica ma anche militare.

 Questo equilibrio è destinato a segnare la nuova fase storica, che io chiamo di “centralizzazione imperialista” del capitale.

 

SS: Nel tuo ultimo libro, colleghi la tendenza alla centralizzazione del capitale in poche mani a un processo di “oligarchizzazione” del capitalismo, che a tuo avviso è generale, minaccia le stesse democrazie occidentali e quindi va ben oltre il caso degli “oligarchi russi”, di cui tanto si parla.

Possiamo fare un confronto tra “oligarchia” capitalista russa e occidentale?

 È una distinzione che ha senso fare?

 

EB: Una distinzione è necessaria, dal momento che, come abbiamo detto, gli uni e gli altri “oligarchi” esprimono due lati del capitalismo mondiale, quello dei creditori e quello dei debitori.

Per questo agiscono in modi diversi, talvolta opposti.

Al tempo stesso, però, possiamo chiamarle entrambe “oligarchie” capitaliste, per un motivo ormai documentato.

Non solo in Russia, ma ancor più negli Stati Uniti, il controllo del capitale è spaventosamente concentrato in poche mani:

oltre l’80% del capitale è controllato da meno dell’1% degli azionisti in Russia e da meno dello 0,3% negli USA.

Parliamo tanto di oligarchi vicini al Cremlino ma, tecnicamente parlando, il capitalismo americano è il più oligarchico di tutti.

 

SS: Che ne sarà della sovranità europea a tuo avviso?

 Sembra che a “tirare la fune” dell’autonomia sia rimasta solo la Germania.

EB: Per quanto siano storicamente legati a filo doppio, il capitalismo americano e i capitalismi europei sono per molti versi in disaccordo su come gestire la nuova fase post-globalista.

 Basti notare un fatto.

 La spinta verso il protezionismo del “friend shoring” metterà più in difficoltà i paesi che io definisco “crocevia” del commercio e della finanza mondiale, cioè quelli che hanno sempre fatto affari un po’ con tutti e non solo con gli “amici”.

Molti di questi paesi crocevia sono europei: Germania e Italia, su tutti.

Questo spiega la riluttanza tedesca rispetto alle posizioni americane più favorevoli a una escalation militare.

E al tempo stesso rivela i caratteri contraddittori della strategia del governo Draghi, che ci vede aderire più convintamente di altri alla linea guerrafondaia americana benché il sistema produttivo nazionale ne pagherà le conseguenze più di altri.

 

SS: Avere espulso la Russia dallo SWIFT è stata definita l’arma nucleare finanziaria decisiva.

Ma è stato davvero così?

 

EB: No. È solo una delle forme che sta assumendo il protezionismo finanziario occidentale.

Molti credono che l’esclusione della Russia dallo swift e le altre famigerate “sanzioni” siano state una conseguenza della guerra.

Non è esattamente così.

In realtà, se ci pensiamo bene, queste sanzioni sono soltanto una prosecuzione del “friend shoring”, una politica che ha ampiamente preceduto la guerra e che, per le ragioni che indicavo prima, ha contribuito ad alimentarla.

Talvolta, le relazioni di causa ed effetto della storia sono l’esatto opposto di come vorrebbero presentarcele.

 

SS: Già con l’emergere della pandemia i singoli stati hanno cominciato una rincorsa a una maggiore indipendenza strategica dall’estero, in primis sulle materie prime e sulla tecnologia.

 La Cina ha lanciato l’e-Yuan e la stessa Europa sta lavorando a un’infrastruttura di pagamento indipendente.

E tu ora parli del “friend shoring”, che segna un’altra grande divisione tra le economie del mondo.

Che fine farà, secondo te, l’economia globalizzata per come l’abbiamo conosciuta?

 

EB: Come dicevo, il tempo della globalizzazione è finito da un pezzo, da prima della pandemia, addirittura da prima di Trump.

 Il WTO avvertì i primi segni di una svolta protezionista da parte degli Stati Uniti già dopo la crisi del 2008, sotto la presidenza Obama.

La guerra in Ucraina non fa altro che accelerare una tendenza già in atto da diversi anni.

Ci vorrà molto tempo prima di vedere un nuovo boom globalista.

 

SS: Non c’è il rischio di dare gli Stati Uniti per finiti prima del tempo?

Tra soft power, influenza e ricatto sull’Europa, controllo degli strumenti sanzionatori e questa guerra che costringe a riconfigurare rotte commerciali e iniziative strategiche asiatiche, non è possibile che il malato statunitense si rianimi?

EB: La domanda che poni è utile per evitare di cadere in un grossolano fraintendimento.

 È un fatto innegabile che gli Stati Uniti siano usciti sconfitti e indebitati dalla globalizzazione e che siano anche stati superati dalla Cina in termini di PIL calcolato a parità di poteri d’acquisto.

 Ma è sempre bene aggiungere che il primato generale americano sussiste tuttora, e che la partita dell’egemonia futura resta aperta.

 Uno dei motivi è che l’occidente capitalistico in generale, e gli Stati Uniti in particolare, godono ancora dei livelli più alti di produttività per singola ora lavorata.

Questo significa che, con una forza-lavoro molto più piccola, l’economia americana riesce a produrre quasi quanto produce l’economia cinese, che dispone di una popolazione enormemente maggiore.

 È un chiaro indice di superiorità tecnologica e di “rete”, che i cinesi ancora faticano a sfidare.

C’è poi un’altra ragione per cui l’egemonia USA potrebbe resistere, nonostante i debiti e le attuali difficoltà dell’imperialismo americano.

 È proprio il “friend shoring”.

Se questo diventerà il nuovo status internazionale, gli Stati Uniti potranno riguadagnare terreno mantenendo il controllo economico-politico all’interno del recinto occidentale che avranno creato.

Ossia, sorgerà un nuovo assetto delle catene della produzione, del commercio e della finanza internazionale, caratterizzato da confini geopolitici difficili da valicare.

Gli americani manterranno così la loro egemonia, ovviamente solo sull’occidente, un’area più circoscritta rispetto al passato ma che resta molto grande e rilevante.

 

EC: Vorrei chiederti di parlare un po’ di più della questione del debito, anche al di là della guerra.

Perché quella del debito è in fin dei conti la logica che sottende tanto agli scenari geopolitici quanto sempre di più alle politiche interne ai singoli stati, tramite l’austerity, che ha degli effetti enormi anche sull’autopercezione del singolo cittadino.

 

EB: Sull’austerity, esiste certamente un problema di autopercezione, direi anche di memoria storica.

Le autorità di politica economica, sorrette dalla grande stampa, iniziano nuovamente a sostenere che il debito è troppo alto, talvolta aggiungono che l’attuale inflazione dipende anche da un eccesso di spesa, e dunque concludono che bisognerà tornare alle politiche di austerity.

Queste tesi sono sbagliate e il fatto che tornino alla ribalta mi sembra un chiaro sintomo di perdita della memoria storica.

Dovremmo infatti ricordare che tra il 2008 e il 2013 abbiamo avuto l’opportunità di mettere la politica di austerity sul banco di prova dei dati.

 Abbiamo potuto accumulare una grande quantità di evidenze empiriche per appurare se e in che misura l’austerity potesse realmente dare i benefici annunciati oppure no.

Ebbene, le prove empiriche vanno tutte inesorabilmente in una direzione:

le strette monetarie, gli incrementi delle imposte e i tagli alla spesa pubblica causati dall’austerity non sono riusciti a raggiungere nessuno degli obiettivi che erano stati annunciati.

 I cardinali dell’ortodossia avevano detto che l’occupazione e il reddito non sarebbero diminuiti, e invece sono crollati.

 Avevano assicurato che la disuguaglianza non sarebbe aumentata, e invece la forbice sociale si è accentuata.

Addirittura, l’austerity non è riuscita nemmeno a raggiungere l’obiettivo di ridurre il debito.

Anzi, spesso questa politica ha prodotto l’effetto opposto, perché ha depresso a tal punto l’occupazione e il reddito da far esplodere il rapporto tra debito e reddito.

Questo fallimento generale della politica di austerity è talmente conclamato nella letteratura scientifica da esser stato riconosciuto persino dal Fondo Monetario internazionale e dal suo ex-capo economista Olivier Blanchard, che pure l’avevano originariamente supportata.

 È un “mea culpa” sintomatico, direi, che ha ispirato anche un mio dibattito proprio con Blanchard e alcune ricerche che ho realizzato insieme ai miei coautori.

La cosa inquietante è che oggi, a distanza di un decennio, è come se avessimo perduto la memoria di quei fatti documentati.

 Come in un eterno, grottesco ritorno, sta riaffiorando il mantra dell’austerity come panacea di tutti i mali.

È come essere di nuovo all’anno zero, come se non ricordassimo più il fallimento di quella politica.

Questa perdita di memoria collettiva mi sembra l’ennesimo indizio di un nuovo oscurantismo alle porte.

 

EC: Ma a chi giova recuperare una politica che si è già dimostrata fallimentare?

 

EB: L’austerity danneggia la collettività nel suo complesso ma giova alle fazioni della classe capitalista che si trovano in una posizione di forza, di credito, di attivo capitalistico, con tassi di profitto superiori alla media.

Questi capitalisti creditori possono tranquillamente sopportare le crisi scatenate dall’austerity.

E possono quindi trarre da esse l’occasione di vedere definitivamente sconfitti i loro concorrenti più deboli e indebitati, in modo da “mangiarli”, come dicevamo prima.

Insomma, non dimentichiamo che le politiche di austerity rendono insolventi i capitalisti più piccoli e più fragili, e li espongono alle acquisizioni da parte dei capitalisti più grandi e più forti.

L’austerity è un grande acceleratore dei processi di centralizzazione dei capitali in sempre meno mani.

Per questo trova sostenitori, soprattutto nelle alte sfere.

 

EC: Parli spesso infatti di una lotta politica che in questa fase storica rimane confinata alla classe dominante.

Grandi capitali contro piccoli capitali, creditori contro debitori, capitalisti orientali contro capitalisti occidentali, eccetera.

 La politica odierna esprime solo queste lotte interne alla classe capitalista, mentre le classi subalterne restano sempre silenti, fuori dai giochi.

Sarei curiosa di capire che rapporto c’è tra questo stato di cose e l’informazione che riceviamo, che è piena di portati idealistici e giustificazioni ideologiche da qualsiasi parte provenga.

Per esempio, sulle propagande occidentali e russe intorno alla guerra, tu scrivi: “Queste due propagande, pur contrapposte, risultano dunque uguali nel richiamarsi continuamente ai diritti, alla lealtà, all’ideologia, all’integrità delle nazioni, alla protezione dei popoli. Come se nelle stanze del potere si discutesse solo di tali nobili argomenti. Mai d’affari”.

È una questione un po’ speculativa, ma vorrei sapere secondo te se le fazioni del capitale e i loro rappresentanti credono alla loro stessa propaganda.

Che dose di cinismo e cattiva coscienza c’è?

E quanta di idealismo in perfetta buona fede?

E c’è un’opzione preferibile tra queste due possibilità?

 

EB: È una domanda interessante, alla quale posso provare a rispondere in base a una personale esperienza.

In questi anni ho avuto un privilegio che nella storia è stato concesso pochissime volte ai critici del pensiero dominante:

 sono stato invitato a misurarmi in dibattiti a due con alcuni tra i principali esponenti della teoria e della politica economica, italiana e internazionale, da Mario Monti a Olivier Blanchard, da Lorenzo Bini Smaghi a Romano Prodi, da Elsa Fornero a Giovanni Tria, e così via, fino a D’Aron Acemoglu.

Ebbene, nei dibattimenti con questi grandi cardinali dell’ortodossia ho sempre trovato sintomatico il fatto che il ruolo del cinico spettasse soprattutto a me.

“Cinico”, ovviamente, nel senso non dei filosofi socratici ma di “Wilde”:

ossia, io guardavo le cose per come materialmente sono, mentre i miei avversari dialettici le guardavano per come avrebbero idealmente voluto che fossero.

 Il che, in effetti, mi ha sempre assicurato un discreto vantaggio durante quei dibattiti:

quello di poter contrapporre un discorso scientifico alle retoriche, pur raffinate, dei miei interlocutori.

 Ebbene, questo strano gioco di ruolo si riproduce sempre, che si discuta di politica economica o di guerra militare.

 Direi allora che questi grandi esponenti della politica dominante, con cui mi capita di confrontarmi, sono affetti non tanto da “cattiva coscienza” ma da “falsa coscienza”, nel senso di Marx ed Engels.

Ossia, i grandi ideologi del capitale, magari per placare le loro nevrosi, possono aver bisogno di convincersi così tanto delle loro narrazioni da risultare le prime cavie dell’ideologia che propugnano.

Al punto tale, per esempio, che alcuni di essi sembrano davvero credere alla favola secondo cui la moderna guerra capitalista esploderebbe per cause etiche anziché economiche, come fosse motivata da sacri diritti negati piuttosto che da profani contratti mancati.

Una mistificazione totale!

Ovviamente, non tutti sono così confusi.

Tra i cantori della visione prevalente c’è pure qualcuno disposto ad ammettere, in “camera caritatis”, che non crede a un bel niente di quel che racconta in giro sulle magnifiche sorti progressive del capitalismo.

Ma questo tipo di agenti della propaganda, disincantati e feroci, rappresentano una rara eccezione.

 

EC: Questa tendenza a mistificare la realtà scientifica sembra l’ennesima prova che capitalismo e democrazia sono incompatibili, no?

 Si parla tanto del fatto che in Cina o in Russia non c’è democrazia, che lì è tutto mistificato dal potere politico.

Ma le cosiddette democrazie liberali occidentali non sembrano passarsela molto meglio, anche semplicemente riguardo al rapporto con fatti comprovati, dati scientifici.

Eppure, nonostante questi problemi, molti continuano a credere alla teoria del ferro di cavallo, opponendo alla democrazia occidentale l’autoritarismo orientale e usando questo spauracchio paradossalmente per spostare l’elettorato sempre più su posizioni di destra, principalmente sul piano economico, ma non solo.

 

EB: Sul grado di tutela della democrazia e la libertà, e direi anche sulla qualità della stampa e della comunicazione, tra i regimi liberali occidentali da un lato e i cosiddetti regimi autoritari orientali dall’altro, sussistono tuttora differenze oggettive innegabili, in termini di funzionamento delle istituzioni e di tutela dei diritti basilari.

Il vero problema è che queste differenze si stanno riducendo, nel senso che dalle nostre parti la democrazia e la libertà arretrano vistosamente.

Prendiamo i dati elaborati da “Freedom House”, un’istituzione che parteggia per l’occidente e che proprio per questo offre indicazioni interessanti.

 Questo istituto misura per ciascun paese del mondo i livelli di tutela della democrazia e della libertà, ovviamente intese in senso tipicamente liberale. Ebbene, i dati indicano che le democrazie liberali d’Occidente partono da livelli di tutela più alti, il che è piuttosto scontato dal momento che l’approccio analitico adottato è di stampo liberale.

Nonostante questo, però, i dati indicano che negli ultimi anni, dalle nostre parti, questi livelli di tutela democratica si stanno riducendo in modo significativo.

Ossia, iniziamo a convergere al ribasso, verso i cosiddetti regimi autoritari.

 In un certo senso, sembra confermata la predizione di Vladimir Putin, in una celebre intervista rilasciata al “Financial Times” qualche anno fa:

il nostro sistema democratico-liberale sta entrando in crisi, noi stiamo somigliando sempre di più a loro, con un sistema decisionale sempre più accentrato e ostile ai diritti.

 

EC: Perché succede questo? Perché la democrazia arretra?

EB: La mia tesi è che anche in questo caso dobbiamo parlare di una tendenza oggettiva, profonda, di tipo sistemico.

Mi riferisco, ancora una volta, alla tendenza chiave dell’analisi marxiana: la centralizzazione del capitale in sempre meno mani.

 Ne parlavamo prima, anche riguardo alla Russia e agli Stati Uniti.

Ma il fenomeno è mondiale:

a livello globale, ormai oltre l’80% del capitale azionario è controllato da meno del 2% degli azionisti.

 In pratica, questo significa che in tutti i paesi del mondo il potere economico è ormai concentrato nelle mani di un piccolo manipolo di grandi oligarchi, un club che oltretutto si restringe ancor di più ad ogni nuova crisi economica.

Questa tendenza trova conferma nelle analisi empiriche più avanzate, ed è ormai riconosciuta anche dai grandi cardinali del mainstream, per esempio D’Aron Acemoglu.

Ebbene, io sostengo che questa tendenza alla centralizzazione dei capitali non crea solo concentrazione del potere economico ma è anche alla base della concentrazione del potere politico che pure abbiamo registrato in questi anni, in termini di esautoramento delle rappresentanze popolari, di “esecutivizzazione” delle decisioni politiche, di ricerca spasmodica di grandi risolutori, di uomini forti a cui affidare i destini collettivi.

È un movimento che ha totalmente distrutto le istituzioni novecentesche della socialdemocrazia, e col passare del tempo aggredisce persino le istituzioni liberaldemocratiche e i più elementari diritti politici e civili su cui si basano.

Questa tendenza, secondo me, è la ragione principale della crisi democratica dell’occidente capitalistico, e ci aiuta a capire perché ci stiamo progressivamente avvicinando al livello di accentramento dei poteri che è tipico dei sistemi politici orientali.

Gli somigliamo più di quanto vorremmo ammettere.

Basti notare un esempio su tutti:

 anche le democrazie occidentali possono oggi svoltare verso una politica di guerra senza avvertire il bisogno di aprire un dibattito nelle assemblee parlamentari, senza preoccuparsi troppo del vaglio democratico.

 

EC: Allora proviamo a parlare dell’opposizione politica a queste tendenze che tu delinei.

Prevedi che concentrandosi il capitale in poche mani e allargandosi la forbice della disuguaglianza, si vada anche verso un’uniformizzazione verso il basso delle condizioni della classe subalterna.

Questo mi ha ricordato l’argomento “we are the 99%” di Occupy. Cosa non ha funzionato secondo te in quella fase dei movimenti?

È stata una questione di repressione o ci sono stati degli errori nelle loro strategie organizzative e/o comunicative?

E vedi degli eredi possibili di quella stagione nel panorama attuale?

 

EB: Da Porto Alegre, alle grandi manifestazioni contro la guerra, a Occupy Wall Street, a Black Lives Matter, ai Pride sempre più politicamente caratterizzati, i vari movimenti di emancipazione sociale e civile dell’ultimo quarto di secolo sono stati fiori nell’immenso deserto del dominio capitalista mondiale.

 Ogni volta che li abbiamo incrociati abbiamo respirato un po’, e anche solo per questo meriterebbero gratitudine.

 C’è tuttavia un grave limite, che mi sembra di ravvisare in tutte le esperienze di movimento di questi anni.

Nella sostanza, penso di poter dire che si è trattato di movimenti “riformisti”.

Vale a dire, in ultima istanza fiduciosi sulla possibilità di avanzare a piccoli passi per correggere le storture del capitalismo, per depurarlo dai suoi rigurgiti reazionari, per riformarlo pian piano in senso progressista, nell’interesse collettivo delle classi subalterne, come in parte è accaduto nella breve stagione virtuosa della seconda metà del Novecento.

Oggi, però, questo orientamento “riformista”, dei piccoli passi, solleva un problema enorme.

EC: Quale?

 

EB: È il problema posto dalle tendenze in atto, verso la centralizzazione dei capitali e verso la corrispondente concentrazione del potere economico e politico, così intensa da mettere in crisi il vecchio ordine del capitalismo democratico.

 In uno scenario del genere, così cupo e violento, si pone un interrogativo:

siamo proprio sicuri che una politica “riformista”, dei piccoli passi per correggere pian piano le storture del sistema, sia anche solo minimamente praticabile?

 Siamo certi che non si tratti ormai di una chimera?

A mio avviso, se vogliamo essere onesti, nel senso anche solo puramente intellettuale del termine, allora dovremmo iniziare a interrogarci sull’eventualità che dinanzi a tendenze oggettive così soverchianti possa risultare molto difficile far progredire il capitalismo con quelle azioni cumulative, passo dopo passo, che sono state tipiche della logica del riformismo politico novecentesco.

Insomma, c’è una domanda urgente che bisogna porre, se non in senso politico almeno in senso scientifico, fattuale:

viviamo un’epoca in cui oggettivamente sussiste l’impossibilità del riformismo?

Ecco, l’impossibile riformismo, inteso come politica di piccoli passi verso il progresso e l’emancipazione, è una questione che meriterebbe un dibattito aperto, franco, scientifico, tra tutti noi.

Ma al momento vedo troppa paura in giro, nessuno osa affrontare l’argomento.

 

NP: Domanda enorme, che inevitabilmente ci costringe a evocare l’alternativa:

 se non può essere riforma, deve essere rivoluzione? È questo che intendi?

 

EB: Io mi limito a osservare che la parola “rivoluzione” è già entrata nel lessico del potere, e dei grandi cardinali dell’ortodossia capitalistica.

Penso ancora una volta a “Olivier Blanchard”, ex capo economista del FMI, che in un paper scritto assieme a un altro grande insider del sistema,” Larry Summers”, ex segretario al tesoro USA, e poi anche in un dibattito con me, ha evocato una biforcazione inquietante:

per evitare una “catastrofe” sociale ci vorrebbe una “rivoluzione” della politica economica.

Parole forti, decisamente inusuali per quegli uomini di establishment.

Ecco, io temo che questo bivio spaventoso non sia affatto campato in aria, non sia una mera voce dal sen fuggita.

Al contrario, penso che quella biforcazione si intraveda all’orizzonte, e che l’attuale dinamica di guerra ci avvicini ancor più verso di essa.

In questo senso, mi preoccupa molto il fatto che tra i primi a riabilitare la parola “rivoluzione” siano stati proprio degli uomini di potere, esponenti di vertice delle massime istituzioni economiche internazionali.

 È un fatto da non trascurare, questo, perché una volta usurpata dal potere costituito, come è noto, la “rivoluzione” rischia di diventare “passiva” nel senso gramsciano “negativo” del termine, e finisce così per assecondare le tendenze dominanti anziché pretendere di rovesciarle.

Al contrario, i movimenti di emancipazione sociale sembrano in netto ritardo sulla ripresa di un discorso sulla “rivoluzione”, appaiono ancora insicuri, timorati dinanzi alla possibilità di rilanciare la parola scabrosissima, anche solo come mera ipotesi politica.

Così, dal lato delle classi subalterne, la parola “rivoluzione” resta indicibile, inammissibile, un tabù assoluto.

Questo impedisce anche di dare a questa parola un nuovo contenuto di classe, che sia moderno, adatto ai tempi.

Una tale differenza di approccio, uno scarto così accentuato nella spregiudicatezza, anche linguistica, tra rappresentanti del potere costituito e movimenti di rivendicazione sociale, secondo me segna un ritardo grave di questi ultimi rispetto all’avanzare del processo storico, un ritardo che in qualche modo andrebbe colmato.

 

EC: Come si può dare nuovo contenuto alla parola “rivoluzione”?

EB: Personalmente ho cercato di proporre una sorta di update del concetto di “rivoluzione” sgombrando il campo da certi luoghi comuni del nostro tempo, che abbiamo accettato in modo del tutto acritico, senza mai metterli in discussione.

Penso ad esempio alla pedestre ideologia che vorrebbe ridurre la storia complessa della pianificazione alla sola esperienza dello stalinismo.

 E penso alla famigerata equazione di “Milton Friedman”, secondo cui solo il capitalismo garantirebbe la libertà.

Sono narrazioni che vanno per la maggiore, ma ci vuol poco a capire che sono false, contraddette dalla storia passata.

 Lo dimostrano i cenni di piano sperimentati in alcune democrazie occidentali da un lato, e l’esistenza conclamata di regimi capitalisti di stampo autoritario dall’altro.

Ma soprattutto, io credo, queste idee false potrebbero esser contraddette dalle possibilità del divenire.

In questo senso, ho avanzato una tesi precisa:

a date condizioni, una nuova logica di pianificazione collettiva potrebbe rivelarsi uno straordinario propulsore della libera individualità sociale.

In altre parole, è possibile sostenere che, in una sua forma specifica e innovativa, piano è libertà.

Ho persino osato parlare di “libero comunismo”, in senso non liberale ma addirittura libertino.

Una provocazione per “épater le bourgeois et le prolétaire”, certo.

Ma al di là dei nomi delle cose, che possono essere più o meno irriverenti a seconda delle circostanze, è su questa cosa essenziale del rapporto potenzialmente nuovo tra piano e libertà che a mio avviso sarebbe necessario lavorare oggi.

 I contributi personali, tuttavia, non sono minimamente sufficienti per un tale scopo.

L’impresa di risignificare la parola “rivoluzione” richiederebbe la messa in opera di colossali intelligenze collettive.

 Costruire un’intelligenza collettiva all’altezza di una nuova sfida rivoluzionaria è un compito immane, di una difficoltà estrema.

 Ma potrebbe rivelarsi urgente, viste le tendenze in atto e le tremende biforcazioni che annunciano.

 

EC: Chi potrebbe farsi carico di un così immane compito politico?

Nel tuo libro sembri puntare sulle generazioni più giovani.

Sono davvero pronte a rilanciare un’ipotesi “rivoluzionaria”?

EB: Una cosa certa è che i giovani, in larghissima parte, vivono una immane contraddizione:

sono totalmente immersi in una cultura dominante individualista e consumista ma le loro effettive possibilità di affermazione sociale e di consumo sono sempre più frustrate.

Questo corto circuito tra ideologia e fatti è destinato a generare una radicalizzazione delle posizioni politiche dei più giovani.

 Molti di essi andranno a rifugiarsi nelle vecchie strutture del familismo, quindi riprodurranno la cultura retrograda che lo caratterizza, e per questo verranno sedotti da forme di propaganda sempre più reazionarie che li renderanno potenziali soldati per nuove guerre di Vandea.

Ma un’altra parte si radicalizzerà in direzione opposta.

Qualche indizio, in questo senso, ce l’abbiamo sotto gli occhi.

 I rapporti dell’Eurobarometro, di “Pew Global Research” e di altri centri di ricerca sparsi nel mondo, evidenziano una fortissima sensibilità delle generazioni più giovani verso i rischi di una catastrofe climatica e una connessa volontà di cambiamento del sistema produttivo in senso radicalmente ecologista.

Gli stessi sondaggi mostrano anche un grande sostegno di molti giovani verso la lotta alle discriminazioni razziali e sessuali, in concomitanza con una serie di cambiamenti rilevanti nei costumi, una notevole fluidità nella visione delle identità e degli orientamenti sessuali, e una concezione delle relazioni affettive sempre più difficile da inquadrare nei canoni della famiglia nucleare tradizionale.

Ma non è finita qui.

A questi interessanti segni di sovversivismo ecologista e libertario si aggiunge una novità ancor più sorprendente.

 A quanto pare, le generazioni più giovani risultano sempre più critiche verso l’odierno capitalismo e sembrano sempre più attratte da ipotesi alternative di organizzazione della società.

Da un sondaggio dell’”Institute of Economic Affairs”, si scopre che per il 75 per cento dei giovani intervistati il comunismo “ha fallito solo perché attuato nel modo sbagliato” e che resta “una buona idea”. 

Un analogo sondaggio effettuato da Gallup mostra che il 50 per cento dei giovani attribuisce un valore positivo alla parola “socialismo”. 

Una tendenza analoga sembra scaturire da un sondaggio della “Victims of communism memorial foundation”, un’associazione di stampo conservatore che si impegna per contrastare la diffusione di sentimenti rivoluzionari nel mondo: stando all’indagine, il 70 per cento dei cosiddetti “millenials” propende nettamente per il socialismo e circa il 20 per cento ritiene addirittura che il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels garantisca libertà e uguaglianza più della Dichiarazione di indipendenza americana.

 E ancora, un sondaggio dell’”IPSOS Social Research Institute” mostra che il 50 per cento della popolazione mondiale intervistata considera tuttora gli ideali del socialismo fondamentali per il progresso umano, con percentuali particolarmente alte tra i più giovani.

Certo, sono soltanto sondaggi, che descrivono i nuovi sentimenti di una miriade di giovani dispersi e isolati, ben lontani dal tradursi in concrete ipotesi politiche. Eppure, ai vertici del potere nessuno commette l’errore di sottovalutarli.

Il motivo è che questo cambiamento nei sentimenti politici è la conseguenza di un problema oggettivo irrisolto:

il contrasto sempre più accentuato tra l’ideologia individualista e consumista prevalente e la depressa realtà materiale in cui la gran parte dei giovani si trova oggi a vivere.

 Del resto, lo abbiamo detto e documentato, le tendenze oggettive del capitalismo stanno spingendo verso la centralizzazione del potere economico e politico in sempre meno mani, e quindi anche verso una nuova marginalizzazione sociale di fasce sempre più ampie di popolazione, specie più giovani.

Ecco, in questo tempo shakespeariano che ci tocca di vivere, di farsa che rischia continuamente di trasformarsi in tragedia, vale la pena di sollevare una domanda prospettica:

è possibile che proprio le tendenze oggettive del sistema a un certo punto favoriscano l’emergere di una nuova intelligenza collettiva, che si riveli capace di tramutare le delusioni del “riformismo” in una feconda disperazione, e che riesca proprio per questo a raccogliere le istanze sovversive di singole monadi isolate per tramutarle in una inedita pratica politica “rivoluzionaria”?

Da lungo tempo siamo educati a rispondere risolutamente di “no”, in modo puramente istintivo, direi pavloviano.

Eppure, coloro che governano il funzionamento del sistema non escludono affatto una simile svolta.

Anzi, lavorano coscienziosamente ogni giorno per scongiurarla.

 Penso sia giunto il tempo di riflettere su diverso tipo di reazione, tra noi e loro.

 

 

 

“GENERAZIONI FUTURE”, “FUTURA”

e “CLN”: alcuni chiarimenti.

Generazionifuture.org – (28-3-2023) – Ugo Mattei – ci dice:

 

Vorrei chiarire il rapporto fra tre organizzazioni cui sto dedicando il mio tempo, il mio pensiero e la mia passione durante questa pausa di riflessione americana che mi sono dovuto prendere e che finirà con la fine di aprile quando rientrerò ricaricato e pieno di energia!

Le tre organizzazioni cui mi dedico con uguale passione sono “Generazioni Future“, erede del Comitato Rodotà, che ha forma di spa cooperativa.

 “Futura per i beni comuni“, nome della lista con cui mi sono candidato alle scorse elezioni torinesi (2.36% e 5 eletti in circoscrizione), che non ha forma giuridica autonoma ma solo l’ impegno scritto degli eletti e dei candidati a battersi per i beni comuni e contri ogni politica neoliberale.

Il “Comitato di liberazione Nazionale, CLN“, che ha la forma giuridica di un comitato civilistico.

Serve chiarire qualche possibile confusione.

Considero i tre soggetti parte di uno stesso progetto Politico, quello di ricreare le condizioni per cui si manifesti una maggioranza di popolo sufficientemente forte da costituire un’opposizione sociale genuina.

 Bisogna opporsi al “potere neoliberale” che da oltre trent’anni saccheggia il nostro paese nell’ interesse di “una ridotta oligarchia globalista che ha nel Partito Democratico americano (DEM Usa) e nell’ “europeismo draghista nostrano) la sua arma politica capace di egemonia sulla borghesia benpensante”.

 La contrapposizione fra centro destra e centro sinistra è pura falsa coscienza ideologica, e i burattinai dem statunitensi trovano in Italia terreno fertile per la costruzione del loro partito unico atlantista, asservito all’ asse finanziario Wall Street/City di Londra.

 Non è un caso che da noi “green pass”, “estremismo vaccinista” e ora “bellico” siano sostenuti più di tutti dal PD che, insieme ai media di regime, è oggi il vero perno del draghismo.

“Generazioni Future” serve proprio per smascherare le false contrapposizioni elettoralistiche che convincono le persone a “prendere partito” votando a destra o a sinistra ma che in realtà offrono alternative false.

 La strategia è sempre la stessa:

usare lo spauracchio del fascismo per strutturare la più bieca e opportunista conservazione.

Da sempre le politiche di Prodi, Berlusconi, 5S, Salvini e financo Meloni sono sostanzialmente identiche e chiunque di questi venga votato farà il gioco del padrone americano.

Sono le non-politiche eterodirette e atlantiste del PD e dei suoi finti oppositori che svendono il paese ai gruppi multinazionali privati che corrompono ogni ganglio della nostra politica.

 Del resto la continuità fra Scalfaro, Napolitano e Mattarella è assoluta.

Garanti del nostro servilismo atlantista.

Preoccupati di tenere in ordine il deposito europeo degli armamenti micidiali statunitensi.

 Generazioni Future è una organizzazione Politica in senso alto, ma non di partito, perché cerca di sviluppare un metodo politico nuovo, cooperativo e non competitivo.

Le elezioni sono invece competizione elettorale!

Per questo abbiamo messo in campo l’esperimento di “Futura per i beni comuni”.

Per vedere se fosse possibile, pur in una competizione elettorale, creare partecipazione civica e collaborazione sociale fra i candidati e i militanti, producendo solidarietà ma anche critica spietata e intransigente nei confronti dell’oligarchia che governa (o meglio depreda) la città.

Abbiamo così sperimentato i “caucus” e cercato di formare politicamente i nostri candidati in modo che, eletti o meno che fossero, diventassero interpreti genuini di questo nostro progetto di cittadinanza nuova.

 In parte ci siamo riusciti, in parte no, ma complessivamente il lavoro di solidarietà e eco alfabetizzazione che Futura sta facendo a Torino è significativo.

Abbiamo anche creato importanti travasi di nuove energie politiche su Generazioni Future, e diverse persone stanno formandosi politicamente in modo critico e capace di emanciparsi dal coro delle menzogne di sistema che, sul green pass/vaccino prima e ora sulla guerra vengono inculcate nelle menti acritiche e atrofizzate della borghesia benpensante.

Come replicare a livello nazionale quanto di buono siamo riusciti a fare con Futura a Torino?

Certo non si poteva essere credibili costruendo l’ennesimo partitino basato solo sull’ ego o sul carisma del suo leader.

Sarebbe stato insensato e profondamente contrario allo spirito dei beni comuni che ha ispirato Futura come esperimento di creazione di un collettivo.

 Anche perché non è che siamo stati maggioritari!

Molto lavoro politico va fatto per diventarlo.

 Tuttavia il bisogno di una politica nazionale e popolare fondata sulla partecipazione e sul superamento di vecchie contrapposizioni ideologiche volte a nascondere il saccheggio esiste eccome!

Di qui l’idea di farci promotori di un CLN, che io stesso invocai la prima volta nel 2012, volto a alzare il tono del confronto con il draghismo (che giudichiamo regime autoritario, incompetente ed eterodiretto al servizio delle oligarchie globaliste). Poiché il draghismo e la partitocrazia atlantista che lo sorregge controlla la comunicazione mediatica, ci sono molte persone che in buona fede credono che esso sia un bene per l’ Italia.

Queste persone vanno ri alfabetizzate, così come altre, che oggi non votano, vanno riportate all’onore della cittadinanza attiva mostrando loro, con la forza della ragione, che l’attuale dittatura draghista è l’esito del loro irresponsabile sonno, del loro astensionismo e dunque della loro complicità.

Il CLN non solo offre uno spazio di militanza concreta anche per tutti quanti già sono in altre organizzazioni.

Bisogna organizzare al più presto le piazze caucus e noi di Futura, che siamo gli unici ad averle già sperimentate, abbiamo il dovere di metterci a disposizione per organizzare quelle del CLN!

 Insomma, chi era in GF era portatore di un dovere di sostenere Futura a Torino, in quanto, esperimento in continuità con la nostra coop.

 Similmente oggi chi vuole stare con Futura, eletto o meno, ha un dovere di sostenere il CLN, perché è questa la sola possibilità di portare in modo credibile le nostre idee a livello nazionale, senza fare un nuovo inutile partitino, ma interpretando quanto abbiamo promesso per iscritto candidandoci ai caucus torinesi.

Abbiamo promesso di essere altro rispetto ai fascismi e ai neoliberismi.

 Ci siamo impegnati, contro il saccheggio dei beni comuni ed il “greenwashing”, per una politica nuova, popolare e di partecipazione che ciascuno di noi deve interpretare in autonomia e assoluta buona fede.

Per questo io oggi sono pienamente interprete di tre organizzazioni politiche che mai potranno essere in competizione fra loro, nemmeno per il mio tempo.

Considero GF, Futura e il CLN semplicemente modalità diverse di portare avanti la stessa lotta per l’agibilità democratica e i beni comuni cui da anni dedico la mia vita.

La diversità organizzativa è una ricchezza.

Serve a costruire identità politiche di sostanza e non di forma.

Serve ad adattarsi alle circostanze.

Serve ad evitare identitario e verticismo, trovando ciascuno la propria collocazione.

Davos e la Grande Narrazione.

Ariannaeditrice.it - Roberto Pecchioli – (21/01/2023) – ci dice:

(EreticaMente)

 

Tutto si può dire delle oligarchie globaliste, fuorché manchino di chiarezza.

Nessun complotto: è tutto alla luce del sole.

Spiegano da anni a chi vuol ascoltare qual è il progetto che perseguono e lo mettono per iscritto in libri a disposizione di tutti.

 In particolare, spicca l’attivismo editoriale del “Forum Economico Mondiale di Davos” e del suo gran ciambellano, “Klaus Schwab”.

Nel 2016 pubblicò “La quarta rivoluzione industriale”, seguita tre anni dopo da “Governare la Quarta Rivoluzione Industriale”.

 In quel lasso di tempo si è rafforzato il cosiddetto “partito di Davos”, dalla località alpina in cui si tengono gli incontri delle élite economiche, finanziare, tecnologiche e politiche del pianeta.

Nel 2020 la svolta, in concomitanza con l’inizio dell’operazione pandemia.

Il lancio in grande stile del Grande Reset, la grande cancellazione e il re inizio di tutto, sotto la direzione degli Illuminati di Davos, la montagna incantata del globalismo.

Ecco dunque in libreria il terzo capitolo della saga mondialista, Il Grande Reset, l’annuncio e l’esposizione del gigantesco programma di ristrutturazione dell’ordine economico, finanziario e antropologico a favore dei super ricchi, diventati padroni universali, sintetizzato nello slogan “non avrai nulla e sarai felice” indirizzato ai sudditi del feudalesimo del Terzo Millennio.

Dalla dittatura comunista del proletariato alla dittatura liberale del padronato.

Quanto al dopo epidemia, il vegliardo di Davos – una sorta di Grande Inquisitore post moderno – è stato formale:

non ci sarà alcun ritorno alla condizione pre Covid.

 È solo colpa nostra se non prestiamo ascolto a ciò che ci viene spiegato senza misteri.

Restiamo indifferenti, uno sbadiglio e via, come se quanto accade sotto i nostri occhi fosse un gioco di vecchi signori con troppo tempo libero a disposizione.

La quarta tappa del cammino dell’omino di burro del Nuovo Ordine Mondiale è la “grande narrativa”. 

È apparsa a fine 2021 in lingua inglese – e presto sarà certamente a disposizione in italiano – un’altra fatica letteraria di Klaus Schwab:

 The great narrative, la grande narrativa, o narrazione.

Il Forum Economico Mondiale, spuria “organizzazione internazionale per la cooperazione pubblico – privato” ha lanciato la prossima fase dell’agenda del Grande Reset, detta appunto Grande Narrativa.

Il piano alto del potere – quello di chi parla a tu per tu con gli iper ricchi padroni di tutto – avverte un limite, una falla nella propria azione.

Capisce che, dopo avere lavorato ai fianchi e preparato il terreno, ora deve tirare definitivamente le reti.

 I pesci impigliati siamo tutti noi.

Il globalismo, nella forma del Grande Reset, deve ammantarsi di un sistema di idee, una rappresentazione formale a uso dell’umanità da sottomettere, ma anche da convincere.

Serve una “narrazione”, il nome postmoderno dell’ideologia.

Ci pensa Klaus Schwab. 

Negli ultimi anni, alcuni concetti hanno plasmato l’ideologia dominante. Parole come inclusione, resilienza, sostenibilità, delle quali è stato riformulato il significato, sono entrate a far parte del glossario progressista benpensante, ripetuto come un mantra nei media, nelle università e nei dibattiti.

Come predicatori di una religione New Age, attivisti, politici e uomini d’affari portano la parola non di Dio ma del Denaro.

Il vocabolario uscito dalle multinazionali, promosso da miliardari falsi filantropi e veri sociopatici, è diventato il discorso dominante, la retorica obbligata, la Grande Narrazione.

 The great narrative è un compendio delle conversazioni tenute dal WEF a Dubai nel novembre 2021.

Balza agli occhi l’assoluta mancanza, nella narrativa globalista, di qualsiasi afflato spirituale o soprassalto morale: tutto è declinato in termini di potenza.

L’impegno è stabilire un discorso che convinca la popolazione non della giustezza, ma dell’inevitabilità della tabula rasa e del successivo re inizio sulle basi poste dall’oligarchia.

 Per Schwab, “un potente catalizzatore per modellare i contorni di un futuro più prospero e inclusivo per l’umanità e più rispettoso della natura.”

 Il globalismo è bravissimo a non sprecare le opportunità delle crisi che esso stesso dissemina; nella fattispecie intende imporre (pudicamente dicono guidare) una visione del futuro.

 “La Great Narrative Initiative [è] uno sforzo collaborativo dei principali pensatori del mondo per modellare prospettive a lungo termine e co-creare una narrativa che può aiutare a guidare la creazione di una visione più resiliente, inclusiva e sostenibile per il nostro futuro collettivo”.

Iniziano dalle parole: inclusività, sostenibilità, resilienza.

Sono tutti termini che il Forum ha introdotto allorché prese il via l’operazione “Grande Reset”.

Modificati, stravolti i significati originari, le parole assumono il significato voluto dal potere.

 È questo l’obiettivo finale del politicamente corretto, “la forma più sofisticata di lavaggio del cervello che i governanti abbiano mai imposto a i propri sudditi, nella consapevolezza della corrispondenza pressoché automatica tra pensiero e linguaggio.”

 (Ida Magli).

L’idea stessa di narrazione è alle origini del concetto di postmodernità formulato da “Jean François Lyotard”.

Con il lessico del pensatore francese, essa altro non è se non una delle “funzioni per legittimare potere, autorità e costumi sociali”, ovvero tutto ciò che il grande reset sta cercando di ottenere.

Siamo quindi di fronte a un autoritarismo impegnato a legittimare il proprio potere, spacciandolo per verità universale scaturita da una superiore conoscenza e comprensione della realtà.

 Il potere usa le narrazioni – pompose menzogne rivestite da un’aura di insindacabilità quasi magica – nel “tentativo di tradurre resoconti alternativi nella propria lingua e per sopprimere tutte le obiezioni a ciò che essi stessi stanno dicendo.

“Nient’altro che una sfacciata operazione di consenso attorno a pratiche e decisioni che non abbiamo il diritto di discutere, giacché “vuolsi così dove si puote ciò che si vuole”.

Per Lyotard la vera conoscenza è sempre stata in conflitto con le narrazioni, che si rivelano, a retto giudizio, favole.

Ma la scienza, o meglio la tecnologia e la tecnica, sue ancelle, è stata elevata a dea e i suoi criteri – plastilina in mano a chi possiede ogni mezzo e determina ogni fine – sono l’unica logica possibile a cui deve affidarsi l’uomo postmoderno a cui sono cancellate cultura e natura.

Per Il poeta indiano “Tagore”, “una mente tutta logica è come un coltello tutta lama. Fa sanguinare la mano che lo usa”.

Seguendo gli avvertimenti di “Lyotard”, la cosiddetta grande iniziativa narrativa perde credibilità nel momento in cui è concepita, in quanto è una costruzione arbitraria, alla quale lavorano genetisti, scienziati, futurologi e perfino filosofi, tutti nel solco e nell’interesse di chi guida il gioco, l’oligarchia tecno finanziaria di cui il WEF è il privilegiato luogo d’incontro.

Il lancio del libro The Great Narrative ha coinciso con l’incontro annuale del Forum del gennaio 2022 sul tema “Lavorare insieme, ripristinare la fiducia, accelerare il capitalismo degli azionisti, sfruttare le tecnologie della Quarta Rivoluzione Industriale e garantire un futuro più inclusivo”.

Minaccioso, sincero.

L’agenda del Reset era stata annunciata nel 2020 come apparente risposta al Covid.

Il WEF ha trascorso l’ultimo anno a fare propaganda e collaborare con governi e potentati privati all’ obiettivo di un mondo gestito da tecnocrati che prendono decisioni per le masse, ma per il loro bene, per la diversità (di che cosa?) l’inclusività, la sostenibilità e l’immancabile resilienza, così amata dal loro agente a Roma, Mario Draghi, patrono del PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza).

Nel 2019 il WEF prese parte, con la Fondazione di Bill Gates e altri, a un’esercitazione pandemica chiamata Evento 201, che immaginava un’epidemia diffusa in tutto il pianeta.

 La simulazione ha previsto la morte di milioni di persone, blocchi, quarantene, censura di punti di vista alternativi con il pretesto di combattere la “disinformazione”, e ha lanciato l’idea di arrestare chi mette in discussione la narrativa ufficiale.

Indovini o criminali?

 Conseguiti i loro obiettivi, gli uomini del Dominio si concentrano sulla “narrazione”, ossia su come ingannare l’opinione pubblica.

Nel caso in specie, raccontare le delizie della quarta rivoluzione industriale, ovvero sostituire tutte le altre visioni del futuro dell’umanità ponendo l’oligarchia al centro di una narrazione che li dipinge come eroi del nostro tempo.

Prevede un futuro in cui le grandi corporazioni private e i sedicenti filantropi usano la loro ricchezza, influenza e potere per progettare il futuro.

La loro filosofia sfocia nell’ ideologia transumanista che considera l’uomo limitato, imperfetto e bisognoso di potenziamento attraverso la tecnologia, al fine di accelerare la Quarta Rivoluzione Industriale.

L’obiettivo è gigantesco:

a Dubai hanno affermato apertamente che “per la prima volta con la tecnologia stiamo unendo la nostra società, la nostra economia, il nostro governo, la nostra vita ed esiste un’unica piattaforma.

Ciò che accadrà in futuro si baserà su ciò che progettiamo ora”.

Vietato eccepire, solo applausi e gratitudine: è tutto deciso.

 Da loro e a favore loro.

La missione del WEF è cambiare il ruolo dei governi e dei giganti privati sino a renderli indistinguibili:

una fusione fredda sulle spalle dei popoli.

L’idea di Quarta Rivoluzione Industriale di Schwab (4IR) è in sostanza il Panopticon del futuro, dove la sorveglianza è onnipresente e la tecnologia digitale cambia le nostre vite, associata a concetti come Internet delle Cose, Internet dei Corpi, Internet degli umani e Internet dei sensi, alimentato dalla tecnologia 5G e 6G.

La 4IR si presta a una pianificazione centrale e al controllo dall’alto verso il basso.

L’obiettivo è una società track-and-trace (tracciare e rintracciare) in cui tutte le transazioni sono registrate, ogni persona ha un’identità digitale (ID) e il malcontento è colpito attraverso punteggi di credito sociale alla cinese.

A Dubai hanno parlato chiaro:

 l’economia “tradizionale” è finita.

Quando la 4IR sarà generalizzata, ci sarà solo un’economia digitale.

Comprendere l’Intelligenza Artificiale, la 4IR, la digitalizzazione della vita a partire dell’abolizione del denaro contante è decisivo per l’uomo della strada.

I tecnocrati al servizio del Dominio, dietro la maschera di benevolenza, stanno rivelando la vera natura del futuro a cui stanno lavorando per i loro padroni:

un autoritarismo tecnocratico nascosto da un linguaggio fiorito e fuorviante.

Nella loro visione, non possiederai nulla e vivrai felice, però diventeranno privilegi avere un lavoro, accedere alla possibilità di viaggiare e finanche avere un conto dal quale prelevare denaro, a insindacabile giudizio del Dominio.

 Le prove generali sono state fatte in Canada, dove a duecento partecipanti al “convoglio della libertà” sono stati bloccati i conti bancari.

 In Italia a una cliente di origine russa è stato chiuso il conto corrente. Alle rimostranze, il funzionario incaricato ha opposto imprecisate ragioni politiche.

Da un lato la realtà, dall’altro la Grande Narrazione, variante postmoderna della bugia programmatica.

Abbiamo un decennio per adeguarci.

O per aprire gli occhi e opporci.

 Schwab non è troppo ottimista: “le persone sono diventate molto più egocentriche e, in una certa misura, egoiste”.

Chissà da chi avranno imparato.

 Il lato positivo è l’ammissione che la gente non crede ancora del tutto alla distopia tecnocratica.

 Lorsignori sono consapevoli che non sarà agevole costringere volontariamente le popolazioni ad adottare la visione del Grande Reset e la Grande Narrativa.

Ci saranno roccaforti dissidenti.

La classe predatoria ha trascorso decenni a pianificare e investire denaro e intelligenza nel progetto di trasformazione planetaria.

Sono attivi e consapevoli, noi no.

Le minoranze che hanno capito la portata della sfida non riescono a concretizzare azioni di resistenza e contrattacco al piano tecnocratico-transumanista.

La Grande Narrazione assomiglia sinistramente al mito della “nobile menzogna “espresso da Platone nel libro III della Repubblica.

 Secondo questa interpretazione, fatta propria da personalità come “Leo Strauss”, sarebbe lecito mentire “per il bene della polis”, noto solo a pochi illuminati.

 Il potere diventa franca subordinazione del debole al forte, i cui “guardiani” controllano le ombre proiettate sulla caverna che incatena la plebe, convinta che sia l’unica realtà.

La Grande Narrazione è l’alfabeto Braille dell’umanità accecata.

 

 

 

Ci vogliono poveri, ci vogliono

morti: l’esproprio proprietario.

Ariannaeditrice.it - Roberto Pecchioli – (16/09/2023) – ci dice:

(EreticaMente)

 

Ci vogliono poveri, ci vogliono morti.

Non cambierà mai nulla sinché la popolazione non si renderà conto che il potere è suo nemico.

Libertà, democrazia, partecipazione, inclusione, eccetera.

Parole, solo parole per nascondere verità terribili:

 lorsignori ci vogliono poveri e ci vogliono morti.

Al Dominio non servono più ingenti masse umane:

 difficili da governare, inutili in un tempo in cui la tecnologia è in grado di rimpiazzare centinaia di milioni di lavoratori.

La tramontata società industriale aveva dovuto concedere qualcosa ai popoli.

Quando servivamo per la grande industria, per le guerre di cui costituivamo la carne da cannone, per un’agricoltura estensiva fatta di fatica e sudore, dovevano pur mostrare, insieme con il bastone, la carota.

Diritto di voto, l’orgogliosa qualifica di cittadini, un sistema educativo che ci mettesse in condizione di svolgere i compiti assegnati, un po’ di tempo libero e qualche divertimento.

Lo sapevano già i romani: panem et circenses.

 I Borbone di Napoli parlavano delle tre “effe”: feste, farina e, per i ribelli, forca.

Ora che c’è la democrazia e cianciano di uguaglianza, devono persuadere, sedurre, verniciare di buone intenzioni le scelte peggiori, persuadere che il male che ci frana addosso è nel nostro interesse.

“Loro” conoscono il nostro bene meglio di noi.

 Infatti in Europa e in Occidente, ci stanno convincendo a estinguerci e, con il ricatto del debito, a vivere al di sotto delle nostre possibilità. Complottismo, paranoia?

Al contrario, è un programma preciso diffuso a reti unificate dal dispositivo della comunicazione/ propaganda e dall’apparato culturale ed educativo.

Non avrete nulla e sarete felici, dicono sorridenti al Forum di Davos gli iper padroni, per voce di maggiordomi come Klaus Schwab.

È tutto scritto nelle agende ufficiali:

dobbiamo diventare poveri, indifesi.

 Precarietà lavorativa, perdita dei diritti sociali conquistati a caro prezzo, migranti nel territorio e nella vita, distruzione di ogni punto di riferimento familiare e comunitario, perfino l’espulsione, attraverso la neo dittatura green, dalle città e dalle nostre case, da riconfigurare secondo standard folli e carissimi, funzionali agli interessi dei soliti.

Noi, monadi solitarie, viandanti con trolley, oggetto di un gigantesco esproprio – proprietario anziché proletario – una lotta di classe che un pugno di straricchi sta vincendo a mani basse.

 Impoverirci, cacciarci da casa, tuttavia non basta:

 devono toglierci di mezzo.

Allo scopo hanno organizzato tutto a puntino.

Attraverso l’aborto diventato diritto universale (la chiamano “salute riproduttiva”) viene negato il diritto di nascere a un numero enorme di nuovi membri dell’umanità.

Diritto alla non-vita.

Poi, giacché come per il maiale non si butta via niente, i feti vengono utilizzati nell’industria cosmetica e farmaceutica.

Diventati grandicelli, gli umani vengono convinti che la sessualità migliore è quella sterile, invitati a diventare transessuali o omosessuali.

Un gran sollievo per l’oligarchia che può sfoltire i ranghi senza troppo rumore.

Adulti, veniamo convinti a emigrare per “cercare opportunità”, in realtà per sbarcare il lunario.

Ciò rende difficile acquistare una casa (chi ci concederà il mutuo?) organizzare la vita attorno a punti stabili, la famiglia, i figli, i luoghi e la civiltà che ci hanno visto nascere.

 Impossibile animare una resistenza: manca il tempo, crollano le forze, fisiche e spirituali. Spirituali?

 Lo spirito non esiste, dov’è, chi lo può misurare, chi lo può scambiare in denaro?

Diventiamo profughi della vita, apolidi senza saperlo;

eppure, diceva “Cesare Pavese” per bocca del trovatello “Anguilla”, emigrante di ritorno,

“un paese ci vuole, un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

Niente e nessuno, né luoghi, né persone, né modi di vivere ci devono aspettare.

Il transito è perenne: richiede flessibilità (cioè accettazione silenziosa) e resilienza (sopportazione rassegnata).

Nel viaggio senza bagaglio tutto è provvisorio, lavoro, relazioni, luoghi, idee, anche noi stessi, cui è offerta la suprema libertà:

possiamo cambiare sesso – anzi genere – anche una volta l’anno, come in Germania.

Il viaggio è tendenzialmente breve, ma assai faticoso.

 Diceva “Anna Proclemer”, la grande attrice, che per fare teatro occorre soprattutto la salute.

Nel teatro globale postmoderno, la salute è nelle mani dell’Organizzazione Mondiale della Sanità privatizzata e di Big Pharma.

Siamo sani immaginari a tempo determinato imbottiti di farmaci e psicofarmaci.

Possono inocularci strani sieri una volta diffusa la paura, la più grande, quella della morte.

Fine di tutto, perché ogni trascendenza è esclusa, ridicolizzata, un’anticaglia residuale.

Neppure questo basta.

Devono impadronirsi di tutto ciò che è abbiamo, espropriarci del nostro essere e poi ridurre drasticamente il nostro numero.

Siamo troppi, facciamo male all’ultima divinità ammessa, Gaia, il pianeta che muore per colpa di un ospite ingombrante, l’uomo.

 Oppressi da sensi di colpa, impauriti, sottratti alla dimensione naturale, privati della salute, poveri perché tutto – acqua, terra, mezzi di produzione, case – deve appartenere a lorsignori, che cosa ci resta?

L’attimo, la corsa al piacere immediato, e, su tutto, l’orrore per la malattia, la vecchiaia, la paura di non essere efficienti, performanti, il terrore di diventare poveri.

La soluzione per l’atomo umano solitario è predisposta: sparire, chiedere di essere eliminato.

Eutanasia, la “buona morte”, propagandata da necrofori della coscienza utilizzando casi limite.

All’avanguardia del regresso Canada, Belgio e Olanda, dove si può essere soppressi – igienicamente, con tutti i crismi di legge – da benevoli boia di Stato, i Mastro Titta in camice del Terzo Millennio.

 In quei paesi – che la narrativa coloniale definisce sempre “civilissimi” (il superlativo assoluto disarma i diffidenti) le morti procurate sono ormai il dieci per cento del totale. Democrazie stragiste.

Chissà che non abbiano pensato alla “soluzione finale” suicidaria (il nazismo è lì?) i camionisti canadesi in sciopero a cui sono stati bloccati dal governo “democratico” conti e carte di credito.

Trasformati in reietti, mentecatti sociali con un semplice clic.

È facile per i padroni di tutto.

Le prove generali del controllo sono state superate con successo dal green pass con nome orwelliano, il pass che concede i diritti che avevamo già, di cui ci hanno espropriato.

In Argentina, tra inflazione galoppante, corruzione e miseria in settori sempre più ampi della popolazione, il parlamento approva due leggi apparentemente slegate che rappresentano la sintesi del potere oligarchico che lavora all’impoverimento e insieme alla decrescita della popolazione.

Il progetto di legge sulla “morte volontaria medicalmente assistita” (non mancano eleganti perifrasi per edulcorare le tragedie) è stato promosso dal partito peronista (ancora)al potere.

 Se approvato, consentirà ai richiedenti di ottenere la collaborazione di un medico per il suicidio assistito.

Contemporaneamente, l’opposizione liberale ha presentato un progetto di ipoteca inversa rivolto agli anziani.

Consiste in un mutuo assistito dall’ipoteca sulla casa di proprietà che permetterà a persone di almeno sessantacinque anni di ricevere una somma mensile a integrazione della pensione, magra e falcidiata da un’inflazione del cento per cento annuo.

 Alla morte del mutuatario, gli eredi possono restituire l’intero importo prestato dalla banca – gravato da interessi e rivalutazione monetaria – o consegnare l’abitazione per cancellare l’ipoteca.

Tenuto conto della crisi drammatica della nazione sudamericana, non è difficile prevedere che il patrimonio immobiliare argentino passerà rapidamente alle banche.

Anche in questo caso la narrativa è ingannevole:

una proposta innovativa affinché i pensionati che sono riusciti a possedere una casa possano avere un reddito aggiuntivo che integri la pensione e li aiuti a vivere meglio, dicono i proponenti.

Sono gli stessi che hanno ridotto in miseria l’Argentina; la proposta non è innovativa, è già applicata in Spagna e fa parte dell’offerta creditizia.

Nei fatti, si tratta di mettere in palio la casa per ricevere una somma mensile che consenta di vivere dignitosamente dopo che il reddito è stato falcidiato da inflazione e strette previdenziali.

Tra i sostenitori della misura spicca” Ana Botìn”, maggiore azionista del Banco di Santander, membro influente del Gruppo Bilderberg.

 Il sistema finanziario con una mano ci strozza, con l’altra si prende quel che abbiamo conquistato con sacrificio.

Non sarà che la privatizzazione dei sistemi previdenziali ha tra i suoi scopi proprio la loro insostenibilità, risolta con l’esproprio di fatto – per intervenuta povertà – delle nostre case?

 Ricordiamo che la crisi finanziaria del 2007-2008 fu innescata dall’insolvenza immobiliare, che ha permesso a qualcuno di impadronirsi a basso prezzo di buona parte delle abitazioni.

Negli Usa e in Spagna tre quarti di esse sono ipotecate.

 Tenuto conto dell’aumento dei tassi d’interesse – su cui gli Stati nazionali non hanno controllo – che cosa accadrà alle famiglie non più in grado di pagare le rate?

La risposta è ovvia, e getta un’ombra sinistra sull’Agenda 2030 nella parte – pericolosissima – che riguarda l’adeguamento “ecologico” dell’intero patrimonio immobiliare.

 In Italia, dove tre quarti delle case sono proprietà di chi le abita, il conto, salatissimo, potrebbe costringere molti alla svendita o a ricorrere alla falsa mano tesa degli istituti di credito, con gli esiti che possiamo immaginare specie tra le famiglie anziane e quelle a reddito medio e basso.

 Molti cadranno nelle mani dell’usura – legale o illegale – e la disperazione di perdere la sicurezza dell’abitazione produrrà disagio psicologico, probabilmente più suicidi.

 Intanto le nostre case passeranno di mano, come sta accadendo negli Stati Uniti.

Il candidato presidenziale democratico Robert F. Kennedy Jr., nipote di John assassinato a Dallas, ha recentemente espresso seria preoccupazione per l’influenza dei fondi di investimento sul mercato immobiliare.

Questi giganti stanno rilevando porzioni sempre maggiori di case originariamente destinate alle famiglie. 

Kennedy ha denunciato le pratiche di colossi come BlackRock, Vanguard e State Street, che controllano una parte significativa del mercato.

Aumentano i casi di famiglie, potenziali acquirenti di abitazioni, che non sono state in grado di acquistare immobili, superate all’ultimo istante da offerte in contanti dei fondi d’investimento, impossibilitate a ottenere la casa che stavano per comperare.

I tre fondi citati – i maggiori del mondo – controllano un patrimonio di oltre ventimila miliardi di dollari, dieci volte il PIL dell’Italia, superiore al PIL dell’Unione Europea.

 Chi è più forte tra i semplici cittadini, gli stessi Stati nazionali e questi colossi?

Chi vincerà la partita?

Una decina di fondi di investimento possiedono partecipazioni incrociate in quasi tutte le multinazionali, le entità finanziarie e industriali del pianeta.

Sono i padroni del mondo: la loro influenza si estende all’ ottantotto per cento dell’indice S&P 500, che comprende le cinquecento corporations a più elevata capitalizzazione.

Controllano le nostre vite e hanno l’obiettivo – apertamente dichiarato – di impadronirsi di tutto.

A noi restano briciole o miseri avanzi, come nei banchetti signorili del passato.

Crediamo ancora nelle virtù del “libero” mercato?

Eppure crediamo ancora che affermazioni come “non avrai nulla e sarai felice” siano boutades che riguardano un mondo lontano.

 No, l’obiettivo sono proprio io, tu, tutti noi.

Esproprio proprietario in attesa di toglierci definitivamente dai piedi con piani e ideologie anti umane, eutanasia, ecologismo radicale, sesso sterile, individualismo edonista, elevati costi della sanità, in aggiunta a vecchi sistemi come guerre e epidemie.

Non avremmo mai creduto di dover concludere, in piena coscienza: ci vogliono poveri, ci vogliono morti.

(Chissà per quale motivo il “servo ricco della élite padrona del mondo” ha pensato di costruire in Sud Africa una fabbrica con 20 mila dipendenti per la costruzione di bombe atomiche tattiche! N.D.R)

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