La ricca élite globalista ha iniziato l’operazione demolizione dell’uomo qualunque.

 

La ricca élite globalista ha iniziato l’operazione demolizione dell’uomo qualunque.

 

 

La costruzione dello Stato di

biosicurezza in Italia (e altrove).

Lo svisceramento della democrazia:

un progetto a lungo termine.

 trasform-italia.it – (06/07/2022) - Peter Cooke – ci dice:

 

Ospitiamo questo articolo che non rappresenta il nostro punto di vista ma che ci sembra utile per aprire un dibattito a sinistra sul pericolo di un controllo sociale sempre più stringente.

La nostra civiltà capitalista neo liberalizzata è entrata ormai in una fase di profondissima crisi.

Gli avvenimenti drammatici della pandemia da Covid-19 possono essere interpretati come sintomi di questa crisi.

Vanno esaminati infatti in un contesto non solo sanitario, ma anche politico.

Lo scopo della serie di altri articoli che si propone qui è quello di offrire una spiegazione coerente di un’emergenza politico-sanitaria che ha aperto, o svelato, divisioni profonde nella società occidentale, nel contesto di un sistema “democratico” che, in realtà, maschera – in modo sempre meno convincente – il potere praticamente incontestato di un’oligarchia globalizzata.

La tesi centrale proposta qui è che la pandemia ha offerto al sistema capitalista in crisi l’occasione per la rapida costruzione di un nuovo paradigma di governo in grado di controllare una popolazione globale – e soprattutto occidentale – sempre più turbolenta.

È quest’ultimo un sistema tecnocratico e autoritario che, appoggiandosi sulle riflessioni di Giorgio Agamben, alcuni commentatori denominano ormai “lo Stato di biosicurezza”.

 

Il primo articolo della serie esamina la questione della “democrazia” occidentale come contesto politico della crisi sanitaria.

 Dopo aver spiegato la realtà profondamente oligarchica del sistema attuale creato sistematicamente durante quattro decenni di controrivoluzione neoliberista, esamina l’ideologia della tecnocrazia, cara all’élite globale, come forma di potere.

 Finalmente, offre una prima analisi della gestione tecnocratica dell’emergenza pandemica, focalizzandosi sul contesto italiano.

Gli avvenimenti degli ultimi due anni e mezzo sono stati profondamente traumatici.

Dubito perciò che, nelle condizioni attuali, sia ancora umanamente possibile discutere il tema della pandemia Covid-19 con una vera e propria oggettività. Inoltre, ogni aspetto del fenomeno pandemico è stato politicizzato.

In quasi tutti i paesi del mondo occidentale, sulla questione così importante della maniera in cui l’epidemia è stata gestita e rappresentata, la società si è spaccata. Non mi sembra possibile prendere una posizione neutrale a riguardo, tanto meno dopo aver cercato di approfondire il tema.

 

Ciò che segue, benché sia il frutto di molte letture e di lunghe riflessioni, è dunque necessariamente una interpretazione che rimane, almeno in parte, soggettiva. Inevitabilmente, è anche una interpretazione politica.

Infatti, ciò che m’interessa capire soprattutto in questo sconcertante fenomeno politico-sanitario è come mai sia stato possibile, in un paese “democratico” come l’Italia, gestire un’epidemia in un modo così straordinariamente repressivo.

Si può dire, in verità, che viviamo ormai in una democrazia liberale?

 

È fondamentale capire che, in realtà, la progressiva demolizione del sistema democratico occidentale del dopoguerra è un progetto a lungo termine che risale almeno agli anni 1970.

Questo processo graduale di smantellamento e di svisceramento si è accelerato drammaticamente durante la pandemia, che ha fatto nascere ciò che molti non esitano a denominare “dittatura sanitaria”, benché molti altri respingono il termine con sdegno.

In effetti, la gestione di questo avvenimento sanitario disastroso, in Italia e altrove, si è caratterizzata da una deriva liberticida che non solo ha sgomentato molti cittadini, infliggendo peraltro sofferenze notevoli a tantissime persone, ma ha anche aperto faglie profonde e dolorose nel tessuto sociale.

Troppa democrazia.

Già dal 1975, gli autori del libro influente The Crisis of Democracy” sostenevano che c’era “troppa democrazia”.

Il sottotitolo di questo studio, commissionato a tre politologhi di destra, Michel Crozier, Samuel P. Huntingdon e Joji Watanuki, è assai esplicito:

Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilaterale.

Quest’ultima, importantissimo pensatoio oligarchico lanciato a Washington nel 1973, ha svolto, si sa, un ruolo di spicco nel vasto progetto capitalista della globalizzazione neoliberista.

 Gli autori della “Crisi della Democrazia” non si sono limitati a analizzare il problema che rappresentava per i capitalisti nei paesi occidentali questo “eccesso di democrazia”, ma hanno anche proposto delle soluzioni che si sono dimostrate assai efficaci.

 I progetti di attacco alle democrazie ideati nel libro sono stati tradotti in tecnica ed applicati sistematicamente.

 I punti centrali della strategia anti-democratica attivata dagli anni settanta in poi si possono riassumere come segue:

de-ideologizzazione della sfera politica;

riduzione dell’interesse dei cittadini alla partecipazione democratica;

trasformazione dell’individuo da cittadino in consumatore;

dirottamento del dibattito politico su binari consentiti predeterminati;

cooptazione dei sindacati;

abbassamento del livello di educazione delle masse;

controllo dei media.

Il risultato dell’attualizzazione di questo piano è stato lo svuotamento progressivo delle strutture democratiche al punto che quello che ne è rimasto oggi si è ridotto, praticamente, a una mera facciata, un guscio vuoto.

Gli inediti e traumatici eventi politici e sociali degli ultimi due anni e mezzo sembrano indicare che l’oligarchia occidentale abbia deciso che il momento sia venuto di demolire – in modo controllato, beninteso – anche questa facciata.

La nuova oligarchia.

Il fatto che la democrazia occidentale si sia trasformata, de facto, in oligarchia è riconosciuto ormai da non pochi commentatori politici.

Descrivendo le tendenze oligarchiche odierne nel suo libro bestseller “Capitalism in the Twenty-First Century”, Thomas Piketty parla addirittura di “un processo in cui i paesi ricchi diventano la proprietà dei loro propri miliardari”.

 Il ‘Capitalismo di oggi è in realtà un’oligarchia di plurimiliardari che detengono il potere, assistiti da un organico di specialisti relativamente ben formati e pagati” spiega “Kees Van der Pijl”.

Nel suo libro del 2020, “The System”.” Who Rigged It, How We Fix It” (tradotto e pubblicato l’anno seguente in italiano), “Robert Reich” scrive:

Persino un sistema che si definisce una democrazia può diventare un’oligarchia se il potere finisce per concentrarsi nelle mani di un’élite imprenditoriale e finanziaria.”

Reich” riconosce che “L’America ha conosciuto l’oligarchia due volte prima d’ora.”

 La prima volta fu l’epoca della fondazione degli Stati Uniti (“Molti degli uomini che fondarono gli Stati Uniti erano oligarchi bianchi proprietari di schiavi.”);

la seconda fu l’era di uomini spietati come J. Pierpoint Morgan, John D. Rockefeller, Andrew Carnegie, Cornelius Vanderbilt e Andre Mellon, i famigerati “robber barons” (“baroni della rapina”) dell’industrializzazione sfrenata della fine dell’ottocento e dei primi decenni del novecento.

Fu il “New Deal” di Roosevelt, compiuto durante la “Grande Depressione” con l’obiettivo di scongiurare la minaccia di una rivoluzione, a porre fine all’oligarchia dei “robber barons”, instaurando un equilibrio (tutto relativo) tra il potere del capitale e le esigenze economiche e sociali dei lavoratori.

“A partire dal 1980 circa”, continua Reich, “è emersa una terza oligarchia americana”.

“Reich” si riferisce qui alla “controrivoluzione neoliberista”, lanciata infatti intorno all’anno 1980 con l’intento (più o meno mascherato) di disfare completamente il sistema del New Deal.

Questo processo è risultato inevitabilmente in una disuguaglianza del reddito e della ricchezza sempre più grande.

“Reich” descrive la situazione economica negli Stati Uniti come segue:

Tra il 1980 e il 2019 la quota del reddito familiare totale del paese appannaggio dell’1% più ricco della popolazione è più che raddoppiata, mentre il reddito del 90% più povero è cresciuto pochissimo (tenendo conto dell’inflazione).

La retribuzione media di un CEO è cresciuta del 940%, quella del lavoratore tipo del 12%.

Negli anni Sessanta il tipico CEO di una grande azienda americana guadagnava circa venti volte più del lavoratore tipo;

nel 2019 guadagnava trecento volte tanto.

La disuguaglianza della ricchezza è esplosa ancora più rapidamente.

Secondo una ricerca degli economisti” Emmanuel Saez” e “Gabriel Zucman”, negli ultimi quarant’anni la quota della ricchezza totale detenuta dallo 0,1% più ricco – circa 160,000 famiglie americane – è passata da meno del 10% al 20%.

Oggi queste famiglie posseggono una ricchezza pari quasi a quella del 90% delle famiglie più povere messe assieme.

L’intera metà inferiore della popolazione americana oggi possiede appena l’1,3% della ricchezza totale.

 

La conseguenza necessaria di questa crescente disuguaglianza economica è stata una crescente disuguaglianza di potere politico.

 “Le grandi imprese, i CEO e un manipolo di persone estremamente ricche”, osserva “Reich”, “hanno più influenza di ogni altro gruppo paragonabile dai tempi dei baroni della rapina.

A differenza del reddito o della ricchezza, il potere è un gioco a somma zero:

 più ce n’è a la vertice, meno ce n’è altrove”.

Per varie ragioni storiche, le condizioni economiche e politiche degli Stati Uniti rappresentano un caso estremo nel mondo occidentale, ma la tendenza verso una concentrazione sempre maggiore di ricchezza economica e di potere politico al vertice della società caratterizza tutte le “democrazie” occidentali.

Essendo il neoliberismo un progetto essenzialmente oligarchico, una delle conseguenze inevitabili del suo sviluppo incontrastato nel corso degli ultimi quattro decenni è stata la distruzione quasi totale della democrazia rappresentativa e l’instaurazione di una potente oligarchia globalista.

La barbarie del neoliberismo.

È importante capire a che punto questa ideologia neoliberista, che ha smantellato progressivamente il sistema molto più equilibrato del New Deal, rappresenti una forma di violenza.

Il termine “neoliberismo” si riferisce a politiche economiche che promuovono la subordinazione integrante della società al capitale (“il mercato”).

 Sotto la sua maschera teorica, è una forma di “raw capitalism” (“capitalismo crudo”), un fenomeno fondamentalmente predatorio che cerca sempre di imporre la legge del più forte, noncurante degli effetti distruttivi delle sue azioni sul piano umano, sociale, ecologico, ecc.

Fa parte, in realtà, di quella barbarie del ventesimo e del ventunesimo secolo denunciata da “Giuliano Pontara” nel primo capitolo di “L’Antibarbarie”.

“Naomi Klein” descrive nel suo libro seminale “The Shock Doctrine” come le teorie estremiste del teorico americano del neoliberismo “Milton Friedman” furono applicate per la prima volta nel Cile, sulla scia del colpo di stato (fomentato dalla CIA) di Augusto Pinochet che nel 1973 rovesciò il governo socialista, democraticamente eletto, di Salvador Allende.

Le misure drastiche di privatizzazione, liberalizzazione del mercato e riduzione massiccia delle spese pubbliche proposte da Friedman (la classica ricetta neoliberista), che secondo lui sarebbero risultato, dopo lo “shock” iniziale, in “un miracolo economico”, risultarono invece in una catastrofe economica – “una orgia di auto-mutilazione” per dirla con le parole del “Economist” – che devastò il paese e instaurò nella società cilena disuguaglianze enormi.

Nel 1988, quando l’economia cilena si era finalmente stabilizzata, il 45% della popolazione era caduta nella povertà e il ceto medio era stato decimato.

Nello stesso tempo, il decimo più ricco aveva visto crescere il suo reddito dell’83%. Ancora oggi, il Cile rimane uno dei paesi più disuguali del mondo.

La controrivoluzione neoliberista in Cile fu dunque un’operazione assolutamente spietata che risultò in un incremento di ricchezza massiccio per il segmento più ricco della società al costo dell’impoverimento delle masse.

L’esperimento cileno si replicò in numerosi paesi.

Tristemente notorie rimangono le violenze fisiche orripilanti, commesse a vasta scala, che accompagnarono la controrivoluzione neoliberista sotto le dittature militari instaurate con il sostegno della CIA negli anni 1970 nell’America Latina e altrove.

 Lo stesso tipo di crimine di stato commesso sistematicamente nel Cile di Pinochet caratterizzò anche i regimi dittatoriali del Brasile e dell’Argentina, per esempio.

Come osserva” Klein”, il sadismo, anche se ha avuto certamente la sua parte in questo disgustoso fenomeno, non basta a spiegare tutto un sistema di incarcerazione, tortura, assassinio e sparizioni.

 Poco prima di essere abbattuto dai militari, l’attivista argentino “Rodolfo Walsh” scrisse:

“È nella politica economica di questo governo che scopriamo non solo la spiegazione dei crimini, ma anche un’atrocità più grande che punisce milioni di esseri umani con la miseria pianificata”.

Le riforme neoliberiste imposte a partire degli anni ottanta nei paesi occidentali – negli Stati Uniti e nel Regno Unito in primis – rappresentano anche lì un processo fondamentalmente violento.

 Anche se non accompagnata dal sistema di violenza fisica spietata vigente nei regimi dittatoriali, nei paesi occidentali “democratici” abbiamo vissuto da quarant’anni una controrivoluzione brutale che ha avuto come conseguenza diretta l’instaurazione progressiva di una sempre più grande violenza economica strutturale.

 Perché il neoliberismo impone la povertà, e la povertà, come diceva Gandhi, è una delle forme peggiori di violenza.

Un potere sovranazionale anti-democratico.

Nell’era della globalizzazione finanziaria e economica guidata dall’anglosfera, gli Stati individuali stanno perdendo sempre più la loro sovranità effettiva;

 ormai tutte le decisioni politiche ed economiche più importanti sono prese a livello sovranazionale in un contesto tutt’altro che trasparente.

Si parla in questo senso dell’“internazionalizzazione dello Stato”.

In questo “Stato internazionalizzato”, i gestori del sistema monetario e finanziario (le banche centrali sovranazionali), le grandi corporations multinazionali e una rete di istituzioni private (fondazioni, pensatoi oligarchici, NGO, ecc.) esercitano un’influenza preponderante sui governi che nessun movimento politico è in grado di contrastare.

Nel contesto europeo, il ruolo essenziale svolto dall’Unione Europea – che in realtà è una istituzione profondamente anti-democratica – è quello di imporre la volontà del cartello capitalista oligarchico.

Ormai, gli stati europei hanno devoluto gran parte della propria sovranità a poteri tecnocratici non elettivi.

 Il risultato sconcertante dell’ascendenza incontestata dei poteri finanziari e commerciali apolidi – “la caste des banquiers commerçants” – è che, per citare la ricercatrice francese” Valérie Bugault,” “ormai gli Stati non sono più che gusci vuoti”

Mantenere la facciata democratica, l’illusione della democrazia, è da molto tempo una delle funzioni principali sia dei media mainstream sia dei politici.

 Già dal 1995, nel suo saggio “The Unconscious Civilisation”, “John Ralston Saul” metteva in luce la tendenza socioculturale a mascherare, nel linguaggio come nell’informazione, il vero sistema di potere che ha poco a che vedere con gli assunti legittimanti dei moderni ordinamenti occidentali:

democrazia, trasparenza, rule of law.

Il sistema di potere odierno è organizzato, invece, secondo principi di monopolio/cartello privato delle risorse primarie, di stretto controllo dell’informazione pubblica e di governo distante – sempre più distante – dalle popolazioni.

Si può “aggiustare” la democrazia?

“Robert Reich” crede che, malgrado l’instaurazione de facto negli Stati Uniti di una oligarchia sempre più ricca e sempre più influente, è ancora possibile ripristinare la democrazia.

Secondo lui, è un sistema che si può “aggiustare”.

È questo un ottimismo che, nelle circostanze attuali, può sembrare alquanto ingenuo.

Su questo punto, “Rana Dasgupta”, nella sua analisi accurata “The Silenced Majority: Can America Still Afford Democracy?”, è molto più pessimista di Reich.

“ Dasgupta” esamina la crisi politica prolungata degli Stati Uniti nel contesto di tendenze storiche e economiche più vaste.

La sua tesi centrale è che le condizioni economiche contemporanee non favoriscono più la permanenza del sistema democratico occidentale e che stiamo tornando alla situazione di potere capitalista oligarchico che caratterizzava l’epoca che precedeva la Rivoluzione Industriale.

Si parla infatti, in questo contesto, di un fenomeno assai inquietante: il neo-feudalesimo.

È comunque essenziale capire che la democrazia è semplicemente il risultato di concessioni politiche e sociali che il lavoro a potuto strappare dal capitale in certe circostanze storiche.

Oggigiorno, la classe operaia, e più generalmente il principio del lavoro, ha perso gran parte del suo potere contrattuale di fronte al capitale, grazie soprattutto allo smantellamento della produzione industriale – in gran parte trasferita in Cina e in altri paesi asiatici poco democratici – e alle nuove tecnologie digitali che stanno rendendo sempre più inutili gli operai, ma anche i professionisti.

Allo stesso tempo sta emergendo una fusione di tecnologie capaci di distruggere le frontiere tra i mondi fisici, digitali e biologici.

Si tratta della Quarta Rivoluzione Industriale cara a Klaus Schwab, il fondatore e direttore del World Economic Forum (WEF)19.

 Secondo un “White Paper” del WEF, nell’anno 2030, fra il 13 e il 23% della popolazione mondiale diventerà temporaneamente o permanentemente disoccupato.

 Infatti, una parte sempre più grande della popolazione sta diventando economicamente e socialmente inutile per il sistema capitalista.

Se i popoli stanno diventando economicamente superflui per un’oligarchia capitalista internazionale che, in un modo sempre più evidente, controlla praticamente tutto, i popoli si trovano in una situazione pericolosa.

Nello stesso tempo, la gestione di questi miliardi di persone “inutili” rappresenta per l’oligarchia un problema assai grande. Infatti, gli effetti cumulativi del processo di globalizzazione neoliberista, che ha prodotto non solo grandi incrementi di ricchezza, ma anche disuguaglianze economiche enormi, precarizzazione del lavoro a vasta scala e grandissima distruzione sociale, morale ed ecologica, si manifestano in un fermento sociale a livello globale senza precedenti.

Controllare il popolo con la paura e la sorveglianza.

Questo problema è diventato sempre più urgente dopo il crollo economico del 2008 che non ha fatto altro che accelerare una lotta sociale a scala globale.

Non solo questa catastrofe finanziaria ha fatto capire quanto fragile – per non dire insostenibile – fosse diventata l’economia occidentale finanziarizzata, questo “late-stage financialised capitalism” così squilibrato e instabile, in preda a una speculazione sfrenata e avventata a scala gigantesca ed una corruzione sempre più dilagante –, ma il salvataggio massiccio delle banche, i “famigerati bailouts”, nello stesso momento in cui milioni di disoccupati perdevano tutto, ha fatto capire al popolo che gli interessi del 99% dei cittadini contavano ben poco in confronto a quelli del 1% più ricco – l’oligarchia, precisamente.

Dopo 2008, osserva Van der Pijls, “ogni record di fermento sociale è stato infranto”.

 Contenere, impedire, reprimere, manipolare e sciogliere in tutti i modi i grandi movimenti di protesta – potenzialmente rivoluzionari – nati sulla scia del disastro del 2008 è diventato una delle priorità più importanti del sistema capitalista in crisi.

Un passo importante verso la costruzione di un nuovo sistema di governo in grado di controllare i popoli occidentali sempre più impoveriti, sempre più precarizzati e sempre più arrabbiati è stato già rappresentato dal “War on Terror” di George W. Bush, una “guerra” lanciata a seguito degli attentati terroristici del “9/11” nel 2001.

Le stragi spettacolari compiute dall’Al Qaeda hanno offerto al regime di Bush l’occasione per giustificare l’invasione del Afganistan e dell’Iraq, rilanciando in questo modo l’industria militare prima di saccheggiare le risorse naturali di questi due sfortunati paesi.

 Non solo, ma 45 giorni dopo gli attentati dell’11 settembre, il governo americano passò il famigerato “Patriot Act”, una legge importante che ha limitato i diritti e le libertà dei cittadini americani con il preteso della necessità di difendere il Paese contro il terrorismo.

In questo modo, ogni cittadino americano è divenuto, in realtà, sospettato. Allo stesso tempo, il governo americano ha instaurato quel sistema illegale di sorveglianza di massa – il programma di “Total Information Awareness” – svelato più tardi da Edward Snowden.

 

Paradossalmente, si può interpretare la “Guerra contro il terrore” come una forma di terrorismo di Stato.

Come osservò” Al Gore” nel 2004, il terrorismo, che rappresenta la strumentalizzazione della paura per uno scopo politico, intende “travisare la realtà politica di una nazione suscitando nel popolo una paura massicciamente sproporzionata rispetto al vero pericolo che i terroristi sono in grado di rappresentare”.

Secondo “Gore”, il corso precipitoso di Bush verso la guerra contro l’Iraq costituiva una forma di terrorismo.

Bush aveva terrorizzato la sua propria nazione con l’avvertimento completamente ingannevole secondo cui “impiegando armi chimiche, biologiche, o, in futuro, anche nucleari, ottenute con l’aiuto dell’Iraq, i terroristi erano in grado […] di uccidere migliaia o centinaia di migliaia di persone in questo paese”.

“Il presidente Bush e la sua amministrazione”, fece notare “Gore”, “ha fatto ingurgitare al popolo americano una paura dell’Iraq grandemente esagerata, una paura completamente sproporzionata in confronto al pericolo che quel paese rappresenta in realtà”.

 Lo Stato americano aveva adottato una strategia terroristica nei confronti del popolo americano.

Siccome, dopo decenni di politiche economiche e sociali neoliberiste, il capitalismo non è più in grado di offrire alla popolazione un contratto sociale accettabile – anzi, il neoliberismo rappresenta la negazione del contratto sociale – governare con la paura è diventata una strategia centrale del mondo occidentale.

 Siamo entrati ormai nell’epoca dello stato di emergenza permanente, della guerra permanente:

 “La guerra è resa endemica”, spiega “Jeff Halper”, “poiché non è né possibile né desiderabile porre termine allo ‘stato di emergenza permanente’ […]. Pacificare l’umanità diventa l’unico modo di scongiurare la guerra, ma quell’impresa è diventata un progetto totalitario violento, senza fine”.

Torneremo alla questione del nuovo totalitarismo nel terzo articolo.

“Oltre la libertà e la dignità”

L’instaurazione di un sistema di sorveglianza statale dei cittadini è stata accompagnata – e facilitata – dall’emergere di un nuovo sistema economico che, in uno studio fondamentale,” Shoshana Zuboff” denomina “surveillance capitalism” – “il capitalismo della sorveglianza”.

Conviene però notare che sin dall’inizio la” rivoluzione IT” è stata formata dal paradigma del” Total Information Awareness” nel contesto di una guerra della classe dominante contro il popolo e che tutte le grandi ditte della Big Tech mantengono relazioni strette con il Pentagono.

Il sistema del “capitalismo della sorveglianza”, sviluppato dai “tech giants” della Silicon Valley, con Google e Facebook in testa, si basa sempre di più non solo sullo sfruttamento economico (e politico) dei dati – di ogni genere – raccolti furtivamente dagli utenti, ma anche sulla manipolazione dei comportamenti del consumatore (e anche degli elettori).

 È questo un tipo di potere subdolo che” Zuboff” chiama “instrumentarian”.

In questo ambito, le imprese tech approfittano, con una precisione sempre maggiore, degli strumenti creati dagli psicologi comportamentali, come il famoso o notorio “”B. F. Skinner, che s’interessano soprattutto del comportamento di gruppo, di gregge.

Questi scienziati, infatti, svilupparono inizialmente le loro tecniche di manipolazione psicologica studiando gli animali.

Non c’è, da questo punto di vista, alcuna differenza fondamentale tra il gregge animale e il gruppo umano;

tutt’e due si possono dirigere dall’alto utilizzando metodi psicologici appropriati.

Secondo “Skinner”, nel suo famigerato libro” Beyond Freedom & Dignity” (Oltre la libertà e la dignità), il libero arbitrio e la libertà di scelta dell’individuo cari al liberalismo occidentale sono in realtà una semplice illusione e, per il bene comune, la società va gestita continuamente dagli scienziati utilizzando strumenti psicologici.

 È la sua una visione del mondo essenzialmente tecnocratica; a “Skinner” non piaceva per niente la democrazia.

 

“Zuboff “osserva con rammarico che quando il libro di Skinner uscì nel 1971 suscitò grande scalpore, mentre che cinquant’anni dopo, “La credenza che possiamo noi stessi scegliere il nostro destino viene assediato, e, in una inversione drammatica della situazione, il sogno di una tecnologia in grado di predire e dirigere il comportamento – per il quale Skinner subì tanto disprezzo pubblico – è diventato ormai un fatto fiorente. Adesso, questo obiettivo attrae un capitale immenso, il genio umano, l’elaborazione scientifica, interi ecosistemi di istituzionalizzazione, e il fascino che accompagnerà sempre il potere”.

 

Dalla sorveglianza statale di massa e dal capitalismo della sorveglianza, con la sua crescente enfasi sulla modificazione del comportamento, non è molto grande il passo che conduce al sistema di Credito Sociale che si sta sviluppando attualmente in Cina.

Lo scopo di questo nuovo sistema, spiega il sinologo” Rogier Creemers”, è quello di “utilizzare l’esplosione dei dati personali […] per migliorare il comportamento dei cittadini […]. Agli individui e alle imprese saranno assegnati punti in relazione a vari aspetti del loro comportamento – dove vai, che cosa compri e chi conosci – e questi punti saranno integrati in una base di dati comprensiva connessa non solo all’informazione governativa, ma anche ai dati raccolti da imprese private”.

Il nuovo sistema cinese sorveglia il comportamento “buono” e “cattivo” in varie attività finanziarie e sociali.

 Le ricompense e le punizioni sono assegnate automaticamente, allo scopo di plasmare il comportamento individuale e collettivo in modo di “costruire sincerità” nella vita economica, sociale e politica.

 “L’intenzione”, spiega “Mara Hvistendhal”, “è che ogni cittadino cinese sia seguito tramite una scheda compilata da dati provenienti da fonti pubbliche e privati”.

A molti potrebbe forse sembrare inverosimile l’idea di instaurare un sistema simile nei paesi “democratici” del occidente, ma quello che vediamo svolgersi nella Cina governata dal repressivo Partito Comunista è la costruzione di una realtà inquietante che, secondo Zuboff, “ci permette di contemplare una versione di un nostro futuro definito dalla fusione comprensiva del potere instrumentarian con il potere statale”.

Il sistema di Credito Sociale non è altro, in realtà, che la realizzazione, tramite gli strumenti invasivi offerti dalla rivoluzione digitale, della visione tecnocratica di “B. F. Skinner “e dei suoi seguaci:

 una vita umana “oltre la libertà e la dignità”.

La tecnocrazia.

A questo punto sarà opportuno aprire una parentesi sulla tecnocrazia.

Dopo tutto, la gestione della pandemia da Covid-19 è stato un esercizio strettamente tecnocratico.

 Denunciata già dal 1933 in modo indimenticabile da Aldous Huxley nel suo romanzo distopico “Brave New World”, la tecnocrazia rimane un’ideologia importantissima.

 Anzi, il suo potere va sempre crescendo.

 La breve discussione che segue si basa in gran parte sugli studi fondamentali di “Patrick Wood”, soprattutto il suo libro più recente,” Technocracy: The Hard Road to World Order”.

La tecnocrazia, intesa come ideologia, ha le sue radici storiche nello scientismo utopista del pensatore francese Henri de Saint-Simon (1760-1825).

Saint-Simon afferma la superiorità dello scienziato, definito come “l’uomo che prevede”, su tutti gli altri uomini.

Lo scientismo, insieme alla sua progenie la tecnocrazia, funziona da surrogato della religione, sostituendo la fede in Dio con la fede nella Scienza e nella Tecnologia.

 La scienza, secondo questa visione del mondo, salverà l’umanità instaurando la nuova Utopia tecnocratica.

Gli scienziati e i tecnocrati sono dunque i preti di questa pseudo-religione.

 Secondo loro, soltanto la scienza ha la capacità di risolvere tutti i problemi della società, e la scienza dev’essere applicata alla vita senza sentimentalismo – anzi, senza sentimenti.

In questa visione essenzialmente materialista, la natura – e anche l’essere umano – non è altro che un complesso meccanismo; chi capisce il funzionamento del meccanismo ha il dovere di controllarlo.

 Il potere dev’essere messo nelle mani di un’élite tecnocratica – per il bene comune, s’intende – e qualsiasi opposizione a questa concentrazione di potere anti-democratica è considerata profondamente sbagliata e va combattuta in tutti i modi.

 Niente deve ostacolare la realizzazione dell’Utopia.

L’ideologia tecnocratica predomina nell’ambito dell’élite globale – Bill Gates offre un esempio perfetto di questa tendenza – e la sua visione profondamente anti-democratica è alla base di tutti i grandi progetti globali, come lo Sviluppo sostenibile, l’Agenda 21 e l’Agenda 2030.

Ormai una tecnocrazia globalista domina le Nazioni Unite e l’Unione Europea e si dedica assiduamente a soppiantare la sovranità nazionale con il preteso di risolvere i problemi globali tramite l’imposizione di metodi tecnocratici centralizzati.

 Uno di questi problemi è quello delle pandemie.

Conviene osservare a questo punto che la tecnocrazia è essenzialmente una forma di potere e che s’intreccia ormai strettamente con gli interessi dell’oligarchia globalista. Anzi, si palesa sempre di più che la tecnocrazia sia diventata lo strumento essenziale che questa oligarchia sta utilizzando per esercitare il suo potere sul mondo.

Non dovrebbe dunque sorprendere che la pandemia sia stata gestita in modo tecnocratico.

Nel suo saggio “Sulle ‘ragioni’ dell’emergenza”, pubblicato alla fine del libro recente di “Mariano Bizzarri, Covid-19”:

 Un’epidemia da decodificare, il filosofo Massimo Cacciari spiega che “l’ideologia della Scienza, fino a tonalità religiose, che Bizzarri denuncia, è parte integrante del sistema tecnico-economico-politico che sta dominando le nostre vite (e dunque nient’affatto qualcosa di meramente ‘sovrastrutturale’)”.

Questo sistema sta dominando infatti le nostre vite sempre di più e sta creando una realtà sempre più distopica.

Perché, come avvertiva Huxley in “Brave New World”, i tentativi umani per creare l’Utopia – in questo caso l’Utopia tecnocratica – finiscono sempre per creare invece la Distopia.

 

La religione della scienza nella gestione della pandemia.

Bizzarri denuncia un fenomeno inquietante che ha caratterizzato l’atteggiamento di molte persone durante l’epidemia da Covid-19:

È di moda che le persone di cultura medio-alta dichiarino di non essere “religiose” (se non apertamente atee), dicendo invece che ripongono la loro “credenza” nella scienza, parlando di questa come se sostituisse la religione.

È curioso come sotto stress, soprattutto ora che il Covid ci ricorda che la morte esiste – nonostante ci si affanni a rimuoverne la presenza nelle nostre società epicuree ed edonistiche – riemerga il sentimento religioso in forme aberranti e deviate.

 La fede viene oggi risposta nella “scienza”, credendo che questa sia fonte di verità assoluta e univoca.

In questo, la maggior parte delle persone non fanno che trasferire la ricerca della certezza dalla religione alla scienza.

Anche “Giorgio Agamben” si preoccupa di questa aberrazione.

 In un libro importante,” A che punto siamo”?

 L’epidemia come politica, pubblicato nel 2020, il filosofo si domanda “Com’è potuto avvenire che un intero Paese sia, senza accorgersene, eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia?” L’Italia, infatti, ha abdicato “ai propri principi etici e politici”.

“Come abbiamo potuto accettare”, scrive ancora Agamben, “soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare che le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli ma che, cosa mai avvenuta prima nella storia da Antigone a oggi, che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale?”

Il filosofo denuncia anche “la Chiesa, che, facendosi ancella della scienza ormai diventata la vera religione del nostro tempo, ha radicalmente rinnegato i suoi principi essenziali. La Chiesa sotto un papa che si chiama Francesco ha dimenticato che Francesco abbracciava i lebbrosi.

Ha dimenticato che una delle opere della misericordia è quella di visitare gli ammalati.

 Ha dimenticato che i martiri insegnano che si deve essere disposti a sacrificare la vita piuttosto che la fede e che rinunciare al proprio prossimo significa rinunciare alla fede”.

Infatti, la scienza, o piuttosto lo scientismo, è diventata “la vera religione del nostro tempo” perché l’intera storia dell’umanità ci insegna che gli esseri umani non possono vivere senza religione, senza fede, così che quando perdono la fede in una vera religione – o in una religione diventata falsa, corrotta e malvagia – si affrettano di creare una pseudo-religione, una nuova ideologia in grado di soddisfare il bisogno profondissimo di credere.

Ho personalmente sentito dire da un italiano, cattolico praticante d’altronde, che si vanta di rispettare moltissimo le “verità della scienza”, che il vaccino era “un dogma della fede”.

Ma la scienza – quella vera – non ha dogmi, li ha solo la religione.

Citiamo qui ancora le parole accorate di “Mariano Bizzarri”:

La ricerca scientifica è stata l’amore della mia vita. Ma ora, dopo più di quarant’anni vissuti in laboratorio e nelle corsie ospedaliere, mi sento tradito, sgomento come chi possa scoprire – solo a tarda età – di aver mal riposto il proprio affetto in colei, che come diceva De André “non lo amava niente”.

 Le decisioni pronunciate in nome della scienza sono diventate arbitri di vita, di morte, condizioni imprescindibili per consentire l’accesso a libertà che pure dovrebbero essere fondamentali.

Tutto ciò che conta è stato influenzato dalla scienza, dagli esperti che la interpretano e da coloro che impongono misure basate sulle interpretazioni mediatiche, ritorte e stravolte nel contesto della guerra politica.

 Ovviamente, questa “scienza” nulla ha a che vedere con la Scienza, quella vera, che per sua natura rifugge dalle affermazioni assolute, dal trionfalismo, e avversa il sensazionalismo preferendo il più tormentato – ma assolutamente più onesto – rifugio del dubbio.

 Non che la situazione fosse idilliaca prima del Covid;

ma oggi, le norme basilari che impongono alla ricerca scientifica onestà intellettuale, disinteresse, cauto scetticismo e disponibilità al confronto e alla condivisione dei dati sono apertamente e sistematicamente violate.

Ciò che descrive qui Bizzarri, con tanta amarezza, è la strumentalizzazione politica della scienza.

 È la scienza messa al servizio della tecnocrazia.

 La scienza ufficiale, “la vera religione del nostro tempo”, è diventata uno strumento di oppressione, come lo era diventata per tanti secoli anche la religione ufficiale.

Le statistiche e la gestione tecnocratica dell’emergenza sanitaria.

Offrirò nel secondo articolo un’analisi critica della gestione sanitaria della pandemia da Covid-19.

Qui, invece, voglio sottolineare il modo strettamente tecnocratico in cui è stata gestita l’emergenza.

 In questa gestione le statistiche, i dati, hanno svolto un ruolo centrale.

 Si potrebbe dire infatti, senza esagerazione, che i dati costituiscono il sangue di quell’essere gigantesco è disumano che si chiama Tecnocrazia.

Senza i dati, le cifre, le statistiche, non può vivere.

 I dati sulla pandemia – numeri di “casi”, “decessi”, “ricoverati”, ecc. – emessi costantemente dai governi e accettati, diffusi e commentati in modo totalmente acritico dai media, servivano a costruire nella mente della popolazione una situazione drammatica che potesse giustificare ingerenze senza precedenti nella vita dei cittadini, ingerenze che, de facto, li spogliavano dai loro diritti costituzionali.

Ciò che conta, osservava già dal 1995 uno studioso della contabilità, non è che i dati siano affidabili, ma che vengano presentati in un modo che sembra neutrale e factual (basata sui fatti) in modo di non poter essere messi in discussione;

 i dati devono sembrare intrinsecamente veri.

Per la tecnocrazia, i dati sono fonte di potere.

In Italia, durante la prima fase della pandemia, la campagna ufficiale d’informazione aveva il compito d’influenzare nella popolazione la percezione della realtà, infondendo paura tramite la diffusione di dati mettendo in evidenza la gravità della crisi.

Lo strumento principale di questa campagna è stato la conferenza stampa tenuta dal commercialista e revisore dei conti “Angelo Borreli”, capo dell’Unità di Protezione Civile, trasmessa ogni giorno alle ore 18 da tutti i canali di notizie televisivi.

 L’impatto di questi “bollettini di guerra” è stato grandissimo: secondo Auditel, nel mese di marzo 2020, quando il virus si stava diffondendo attraverso l’Italia, ben cinque milioni di persone guardavano la conferenza stampa ogni giorno.

 Inoltre, i media italiani facevano costantemente riferimento ai bollettini, in programmi televisivi come “I Numeri della Pandemia” e anche nella stampa cartacea.

Durante la seconda fase della strategia pandemica ufficiale, le conferenze stampa erano tenute da “Domenico Arcuri”, il “Commissario straordinario per l’emergenza epidemiologica” (anche lui commercialista e revisore dei conti di primo livello), nominato dal governo il 18 marzo 2020.

Arcuri si focalizzava soprattutto sui numeri dei decessi e dei ricoveri in terapia intensiva.

 Paragonava frequentemente la situazione ad una guerra.

 Il 18 aprile, per esempio, il Commissario spiegò che nella città di Milano durante la Seconda Guerra Mondiale, 2.000 civili furono uccisi dai bombardamenti, mentre il virus aveva preso la vita di 11.815 italiani in soli due mesi.

 Grazie allo stato di paura e d’incertezza fomentato dalla diffusione costante di statistiche allarmanti, gli italiani si sono adattati rapidamente alle nuove misure invasive ed a un tenore di vita molto diminuito.

L’utilizzazione delle informazioni numeriche è una strategia di legittimazione governativa di lunga data e si è dimostrata, anche in passato, molto efficace nel far accettare in modo acritico dalle popolazioni i dati forniti dai media.

A che punto però tutti questi dati così impressionanti, diffusi in modo martellante dai media italiani, erano affidabili e significativi?

 Già dal 2 giugno 2020, Luca Ricolfi, Presidente e Responsabile scientifico della Fondazione Hume, esperto di analisi dati, affermava che “dei dati è stato fatto un uso folle” e che “la qualità dei dati della Protezione Civile è pessima.

 È importante osservare che questi dati erano sempre presentati senza alcuna contestualizzazione:

per esempio, le cifre di decessi da coronavirus erano pubblicate senza alcun riferimento ai numeri di decessi normali nello stesso periodo dell’anno, e non venivano mai paragonate ai decessi provocati abitualmente dall’influenza stagionale.

Più grave ancora è il fatto – analizzato nel secondo articolo – che i risultati dei tamponi erano completamente inaffidabili, perché i test producevano automaticamente una certa percentuale di falsi negativi, ma soprattutto un’altissima percentuale di falsi positivi, cioè molte persone risultavano positive, ma non erano in realtà né infette né infettanti.

Ma, nei dati ufficiali i “positivi” venivano sempre presentati come “casi”.

Nello stesso tempo, i dati sui morti da coronavirus erano anch’essi inaffidabili, le cifre essendo sicuramente molto gonfiate dallo strano e innovativo sistema di conteggio che confondeva chi moriva di Covid con chi moriva con il Covid (cioè che testava positivo al tampone molecolare), un sistema che violava tutte le linee guida internazionali.

 La correlazione non è causazione. Inoltre, i tassi di mortalità erano basati su una frazione cui elementi non erano conosciuti con precisione.

La cifra più importante da capire in qualsiasi epidemia è quella del tasso di mortalità mediano.

Nel luglio di 2020, dopo l’analisi di vari studi scientifici, l’epidemiologo eminente di Stanford,” John Ioannidis”, dimostrò che il tasso di mortalità mediano per Covid-19 era solo 0.27%, l’equivalente di una brutta influenza stagionale.

Il governo italiano non ha mai diffuso questa informazione essenziale.

 “Puoi fare molto coi numeri”, osservano gli scienziati tedeschi “Sucharit Bhakdi” e “Karina Reiss”, “Soprattutto, puoi spaventare la gente”.

Stiamo parlando dunque della creazione di ciò che costituisce, in verità, un intero sistema di falsa contabilità.

Quella che stiamo vivendo”, scriveva Agamben ad aprile 2020, “prima di essere una inaudita manipolazione delle libertà di ciascuno, è, infatti, una gigantesca operazione di falsificazione della verità”.

Infatti, la manipolazione dei dati in Italia (e in altri paesi) durante la pandemia – denunciata ormai da molti scienziati – fa inevitabilmente pensare al detto inglese “Lies, damned lies and statistics”.

Le statistiche, infatti, possono essere le peggiori delle menzogne.

Nella tecnocrazia, le statistiche – vere o false che siano – svolgono soprattutto la funzione di influenzare la mente dei cittadini e di giustificare le misure, spesso oppressive, imposte dal governo.

Non esito ad affermare che la campagna d’informazione ufficiale condotta in Italia durante la pandemia non sia stata altro che una campagna di pura propaganda degna di un regime totalitario, degna infatti dell’orwelliano Ministero della Verità.

Una tecnocrazia sanitaria mondiale corrotta.

Il tecnocrate si rappresenta sempre come “l’uomo della scienza”, un essere fatto di oggettività, disinteresse e neutralità politica.

La realtà è diversa.

E questa realtà è diventata estremamente importante dal momento che una tecnocrazia sanitaria ha assunto il potere sulla vita delle popolazioni.

 Marco Pizzuti non esagera quando scrive che “Nel corso della storia non era mai accaduto prima che i vertici della sanità mondiale potessero assumere il controllo delle nazioni fino al punto di poter sospendere i diritti fondamentali dei loro cittadini, impedire i funerali e separare le famiglie in base alle decisioni di comitati tecno-scientifici che sono la diretta emanazione degli interessi particolari dell’industria farmaceutica”.

La corruzione dilagante, sistemica, che imperversa ormai da tanti anni nel mondo farmaceutico-sanitario è un tema che sarà trattato più a lungo nel terzo articolo.

Ci limiteremo qui ad osservare che l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ovvero il massimo organo della sanità pubblica a livello globale, non è forse in realtà l’autorità scientifica imparziale descritta dai canali d’informazione ufficiali.

Infatti, nel contesto dello svisceramento della democrazia esaminato qui, è essenziale capire che, al termine di un lungo processo di neo liberalizzazione delle istituzioni, ormai l’OMS rappresenta solo gli interessi di una oligarchia capitalista globalizzata.

La sovranità dell’OMS è una sovranità derivata.

“A causa della sua nuova dipendenza finanziaria [sorta negli anni 1990]”, osserva Van der Pijl, “cadde, come il nuovo ordine neoliberale nell’insieme, sotto il dominio del capitale, implementato dallo Stato internazionalizzato”.

Pizzuti spiega come l’ente riceve la maggior parte del suo budget – ben 4,6 miliardi di dollari su 5,6 – dalle donazioni volontarie provenienti da aziende e fondazioni private.

L’autore aggiunge che “ben i tre quarti delle sue risorse finanziare provengono direttamente dall’industria farmaceutica e in particolare dai produttori dei vaccini”.

Nel biennio 2016-2017, per esempio, le donazioni volontarie hanno rappresentato quasi l’87% del budget totale dell’OMS e il British Medical Journal ha documentato che solo nel 2017 l’80% di questi fondi era condizionato a una precisa agenda decisa dai donatori privati.

 Già dal 2011 Il Sole 24 Ore denunciava la totale perdita di credibilità dell’OMS come ente pubblico:

da almeno trent’anni, “l’OMS ha perso il controllo, prima delle proprie politiche e poi delle proprie finanze”, un cambiamento che “ha avuto inizio negli anni in cui le sorti del mondo venivano ridisegnate secondo il modello neo-liberista”.

 L’articolo illustra la perdita di controllo delle politiche sanitarie dell’OMS con l’esempio del “decennio dei vaccini annunciato da Bill Gates all’assemblea mondiale a maggio”.

Tenendo conto del ruolo di primo piano svolto da Bill Gates durante la pandemia da Covid-19, non è indifferente sapere che sin dai primi 2000 il plurimiliardario ha iniziato a trasferire i suoi affari dal mondo del software al settore farmaceutico, comprando pacchetti di azioni delle più grandi case farmaceutiche;

che, dopo gli Stati Uniti, la Bill & Melinda Gates Foundation è attualmente il secondo finanziatore in assoluto dell’OMS (con la GAVI Alliance, anch’essa fondata da Gates, che occupa il terzo posto);

 e che lo stesso Gates viene considerato dai dipendenti dell’OMS come il suo “amministratore delegato”.

Gli interessi di Gates si focalizzano in particolar modo sui vaccini – che il miliardario ha riconosciuto come estremamente lucrosi – e sulle campagne di prevenzione sanitaria dell’OMS.

 Le donazioni importantissime di Gates consentono all’autoproclamato “filantrocapitalista” di decidere le priorità dell’OMS insieme a quelle dei governi colpiti dalle emergenze sanitarie.

 Sono i desideri di Gates e delle case farmaceutiche che hanno realizzato “il decennio dei vaccini”.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità è ormai parte integrante di una tecnocrazia globalizzata gestita da un’oligarchia capitalista internazionale dedicata unicamente all’incremento costante dei suoi profitti e del suo potere.

 È questa una realtà assai inquietante per chiunque tenga ai valori liberali di democrazia e libertà o alla priorità della salute e del benessere dell’umanità intera sui profitti economici e sugli interessi politici dei pochi.

Stando le cose così, forse non è tanto saggio fidarsi troppo delle direttive provenienti dall’OMS.

Il neoliberismo trionfante ha provocato non solo una profondissima crisi economica, sociale e politica che sta travolgendo il mondo, ma una grandissima perdita di credibilità delle istituzioni pubbliche, che sono diventate in realtà delle “Public-Private Parternships” in cui il potere decisionale è ritenuto non dal pubblico, ma dal privato.

Per dirla con altre parole, la sfera pubblica è stata divorata dalla sfera privata.

Un singolo episodio importantissimo servirà a far capire il modus operandi dell’OMS contemporaneo guidato dagli interessi del capitalismo oligarchico.

 Si tratta dello scandalo clamoroso – subito insabbiato – che La Stampa del 7 giugno 2010 chiamava “La grande truffa della ‘suina’”.

La “truffa” è stata scoperta e denunciata dal medico tedesco “Wolfgang Wodarg”, presidente dell’”Assemblea parlamentare del Comitato sanitario del Consiglio d’Europa”.

 Il 26 gennaio del 2010, l’OMS è stata invitata al Consiglio d’Europa di Strasburgo per rispondere alla mozione “Le false pandemie, una minaccia per la salute”.

Wodarg accusò l’OMS di aver terrorizzato il mondo con epidemie ingiustificate, l’ultima nella serie essendo quella suina del 2009:

“Milioni di persone sono state vaccinate inutilmente, com’è possibile che l’OMS sia arrivata a promuovere una iniziativa così sciocca e costosa?

Prima l’aviaria, ora la suina.

Per l’OMS è una tragica perdita di credibilità”.

La Commissione Sanità accusò l’OMS di avere creato una “falsa pandemia”:

 “Il Consiglio d’Europa vuole sapere se l’OMS si è fatta condizionare dall’industria farmaceutica, che grazie alla pandemia ha registrato incassi record.

Ma gli scenari pandemici annunciati non si sono avverati.

Una bufala gigantesca o un errore di valutazione?”

 

È interessante notare che il 4 maggio 2009, solo qualche settimana prima di dichiarare la pandemia dall’influenza suina A/H1N1, l’OMS aveva cambiato la sua definizione di pandemia, abbassando notevolmente le condizioni requisite:

non era più necessario che un’epidemia si diffondesse rapidamente in molti paesi, che ci fosse un’assenza d’immunità o un’immunità inadeguata, o che ci fosse una quantità estrema di decessi o di malattie gravi;

 ormai bastava la diffusione di un nuovo virus, una quantità di malati superiore al normale – e la decisione di dichiarare una pandemia.

Secondo “Van der Pijl”, il piano sul quale fu basato il cambiamento di definizione era stato scritto dall’IFPMA, un gruppo che promuove gli interessi dell’industria farmaceutica, insieme alla DCVMN, un’organizzazione dei produttori di vaccini per il mondo in sviluppo.

L’OMS respinse le accuse di corruzione, che tacciò da “complottismo”, ma in seguito fu stabilito da un’indagine condotta dal Consiglio d’Europa che gli esperti dell’ente sanitario che avevano fatto alzare l’allarme al livello 6 (il massimo) avevano tutti gravi conflitti d’interessi dovuti ai loro legami con i produttori dei vaccini.

Non solo, ma il 19 maggio, tre settimane prima della dichiarazione della pandemia, una delegazione di trenta case farmaceutiche aveva visitato il quartiere generale dell’OMS a Geneva per consultare il Direttore Generale Margaret Chan.

Analisti finanziari hanno calcolato che le case farmaceutiche guadagnarono più di sette miliardi di dollari quando i governi, allarmati inutilmente dall’OMS, comprarono vaccini dalle case farmaceutiche in grande quantità.

La maggior parte di questi stock fu buttata via.

Gli esperti avevano gonfiato enormemente il rischio rappresentato dall’influenza suina A/H1N1, che in realtà era più debole dell’influenza stagionale.

Sulla scia della dichiarazione ufficiale di pandemia, i media, i virologi e i governi del mondo occidentale avevano terrorizzato la popolazione con dichiarazioni allarmistiche sull’imminente morte di decine di milioni di persone, convincendo milioni a farsi vaccinare inutilmente.

Quando la falsa pandemia fu sventata, i media lasciarono cadere nel vuoto questo gravissimo episodio di corruzione.

“Il giorno dopo”, scrive Pizzuti, “come se niente fosse, i virologi scomparvero dai salotti televisivi e i grandi canali d’informazione iniziarono a parlare d’altro mentre le istituzioni governative di tutto i mondo si eclissarono senza prendere alcun provvedimento che potesse evitare il ripetersi di quanto accaduto”.

Tutto quell’intreccio di conflitti di interessi, istituzioni sanitarie “catturati” dall’industria, esperti venduti e mass media che lavorano, non per informare le popolazioni, ma per servire gli interessi dell’oligarchia capitalista, è rimasto completamente intatto.

Covid 19 e la “Grande Trasformazione.”

Siccome la “truffa” gigantesca della pandemia da influenza A/H1N1 è stata realizzata senza che nessuno fra gli implicati abbia mai dovuto pagare le conseguenze, è legittimo domandarsi perché questa operazione enormemente lucrosa non potesse ripetersi.

È anche legittimo chiedersi se la pandemia da Covid-19 non sia stata, in realtà, la ripetizione, ad una scala molto più vasta, della stessa truffa, attuata questa volta con scopi non solo economici, ma anche politici.

È questa una domanda che non pochi commentatori si sono fatti.

Non voglio esaminare a questo punto le teorie del complotto che sono state sviluppate a riguardo non solo nel mondo dei “complottisti” della Rete ma nelle pagine di libri seri e ben documentati.

 Ciò che voglio sottolineare qui invece è che le politiche messe in essere durante l’emergenza sanitaria hanno comunque servito ad accelerare enormemente varie agende convergenti care all’oligarchia globalista.

Nell’estate di 2020 Klaus Schwab, il presidente del World Economic Forum, ha dato un nuovo nome a l’insieme di queste agende: il “Great Reset”.

 

“Now is the time for a ‘Great Reset’” – “È ora il momento per un ‘Grande Reset’” – annunciò Schwab alla riunione annuale del World Economic Forum, a Davos (Svizzera), il 3 giugno 2020:

 “I governi dovrebbero attuare riforme attese da tempo che promuovono risultati più equi. […]

Noi dobbiamo costruire basi completamente nuove per i nostri sistemi economici e sociali”.

 Qualche giorno dopo, “Kristalina Georgieva”, il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, pubblicò un discorso intitolato “Dal Grande Lockdown alla Grande Trasformazione”.

Secondo lei, la serrata delle economie e le misure di repressione che avevano sospeso la libertà di movimento di milioni di persone, distruggendo allo stesso tempo centinaia di migliaia di piccole imprese e provocando fame e miseria nei paesi poveri e danni psicologici nei paesi ricchi, offrivano grandi “opportunità”, come la “trasformazione digitale” e la possibilità di muoversi verso una società eco-sostenibile.

Le implicazioni poco rassicuranti di questa “Grande Trasformazione”, di questo “Grande Reset”, presentato al mondo come una nuova visione economico-sociale altruista, equa, e ecologica, benché promossa dagli stessi poteri capitalisti che hanno devastato e schiavizzato il mondo, sarà esaminata nel quarto articolo.

Sottolineiamo qui invece che al cuore di questa trasformazione epocale è la Quarta Rivoluzione Industriale, strettamente legata ad un nuovo sistema di controllo sociale alla cinese.

Grandi passi verso la realizzazione di questi due fenomeni interconnessi sono stati compiuti nel corso della pandemia, con l’instaurazione su scala massiccia del lavoro a distanza, cioè il lavoro da casa tramite il computer durante i lockdown;

l’instaurazione della didattica a distanza (DAD), e l’imposizione in alcuni paesi, come l’Italia, del “passaporto vaccinale” o “Green Pass” che, come vedremo nell’ultimo articolo, più che un sistema di controllo epidemiologico rappresenta un sistema digitale di controllo sociale.

Dagli sconvolgimenti epocali provocati dalla pandemia da Covid-19 sta emergendo un nuovo mondo.

 La realtà assai inquietante di questo mondo, di questo nuovo normale, sarà esaminata nel terzo e nel quarto articolo.

Il secondo articolo sarà invece dedicato ad un’analisi critica della gestione sanitaria dell’epidemia.

 Perché la gestione è stata non solo sanitaria, ma anche, e allo stesso tempo, politica:

nel nuovo paradigma che i governi occidentali stanno costruendo in fretta, il sanitario e il politico sono strettamente legati.

 La salute umana si sta trasformando in biosicurezza.

 

 

 

Il Mondo è Multipolare!

Conoscenzealconfine.it – (27 Agosto 2023) - Margherita Furlan – ci dice:

 

La notizia è di quelle epocali. Yalta non esiste più!

Il mondo ora è multipolare.

A riconoscerlo è persino Matteo Renzi, di colpo divenuto esperto di politica estera nel salotto televisivo, se così si può definire, di Giuseppe Brindisi.

La notizia è di quelle epocali. Yalta non esiste più.

Questa volta è ufficiale e alla luce del Sole. Argentina, Egitto, Iran, Etiopia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti entreranno a far parte dei BRICS dal 1° gennaio 2024, durante la presidenza russa dell’organizzazione oramai più importante al mondo, contro cui l’ex potente Impero cerca invano, attraverso la NATO e i servizi d’intelligence, di esalare gli ultimi respiri, portando con sé, tra i rantoli, tutti i Paesi che hanno a Washington ceduto sovranità e dignità, in cambio dello snaturamento dell’essere umano.

Ad annunciarlo nei giorni scorsi al 15° summit dell’organizzazione, il presidente sudafricano “Cyril Ramaphosa”, che ha aggiunto:

Apprezziamo l’interesse di altri Paesi nella costruzione di una partnership con i BRICS. Abbiamo quindi incaricato i nostri ministri degli Esteri per sviluppare ulteriormente il modello dei Paesi partners”.

Nella dichiarazione finale congiunta, i cinque Paesi fondatori dei BRICS hanno inoltre ammesso Egitto, Emirati Arabi e Bangladesh nella “New Development Bank”.

Il nuovo blocco è dunque ora realtà.

 Undici Paesi, tra cui i tre principali produttori di petrolio al mondo, il 37% del PIL mondiale, l’Iran e l’Arabia Saudita, audacemente insieme per un nuovo corso della storia, il Sud globale, ricco di minerali e materie prime ancora intatte, con le sue aree strategiche, compreso il Corno d’Africa, rappresentato per la prima volta nei consessi internazionali.

 

Per Putin, intervenuto in videoconferenza e che quindi non è stato possibile fermare da una sentenza della Corte Penale Internazionale, oramai obsoleta e rappresentata anche da un giudice italiano,

 “la maggioranza mondiale, alla quale appartengono i paesi qui presenti, è sempre più stanca di ogni tipo di pressione, di ogni tipo di manipolazione, ma è pronta a una cooperazione onesta, paritaria e reciprocamente rispettosa.

 È da questa posizione che i BRICS affrontano lo sviluppo di relazioni multiformi con tutti gli Stati qui rappresentati e con gli altri Stati interessati, nonché con le strutture d’integrazione regionale, tra cui la CSI (Comunità degli Stati Indipendenti), l’EurAsEC (Comunità Economica Eurasiatica), la SCO (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai), l’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico), la Comunità dei Caraibi, il Consiglio di Cooperazione degli Stati Arabi del Golfo.”

Secondo Putin, la prossima priorità riguarda la questione della moneta unica dei BRICS, materia complessa, “ma sui cui è necessario muoversi con rapidità e con determinata precisione”.

Per il presidente cinese, Xi Jinping, oggi si è fatta la storia con un nuovo punto di partenza per la cooperazione globale.

Il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, al Meeting di Rimini ha tentato invece di spiegare quello che ha definito “l’impegno del governo italiano verso il continente africano” con queste parole:

“Rimuovere l’approccio coloniale, che per molto tempo ha condizionato la storia dei rapporti dell’Italia con i Paesi africani, presentare il ‘Piano Mattei per l’Africa’ come sezione italiana del piano Marshall europeo, per vincere la sfida delle migrazione e dell’instabilità in quel continente, sul cui fuoco soffia la Russia con le sue milizie Wagner“.

Un’Italia, questa, a Rimini rappresentata dall’attuale capo della Farnesina, già colonia statunitense nel cuore del Mediterraneo, oramai ridicola, polverizzata, in un nuovo corso storico, dalla sua stessa ignavia e slealtà verso i martiri che hanno dato la vita per il fu Belpaese.

(Margherita Furlan)

(t.me/CASADELSOLETV)

 

 

 

 

 

La politica polarizzata.

Naufraghi.ch – (8 maggio 2023) – Redazione - Piero Ignazi, Il Mulino.it – ci dice:

 

Quanto sono di destra i partiti di destra e quanto stanno a sinistra quelli di sinistra?

La forbice politica è ormai larga in tutta Europa, riportata tale da partiti e movimenti di destra a cui la sinistra non sa cosa contrapporre.

Da molti anni in America si discute della crescente polarizzazione della politica.

Un fenomeno che coinvolge in maniera più o meno accentuata molti Paesi.

Ma anche in Italia assistiamo a una polarizzazione del conflitto?

 Per orientarsi su questo aspetto è opportuno rivolgersi, ancora una volta, a Giovanni Sartori, uno dei massimi politologi del Novecento.

Sartori introdusse negli anni Sessanta una classificazione dei sistemi di partito destinata a diventare il riferimento per tutta la letteratura mondiale sul tema;

 e, per quanto il suo schema abbia valore generale, in alcune sue parti è ispirato dal caso italiano.

In quegli anni il nostro sistema partitico era caratterizzato dalla presenza di molti partiti, con un grande partito collocato al centro – la Democrazia cristiana – che rimaneva sempre al governo grazie al sostengo di un numero variabile ma ben definito di quattro piccoli alleati.

 La stabilità dipendeva dal fatto che, alla destra e alla sinistra delle coalizioni di governo, vi erano delle opposizioni “irresponsabili”, vale a dire, nella terminologia sartoriana, portatrici di valori e ideologie incompatibili con i fondamenti del sistema costituzionale.

Il Partito comunista e i neofascisti del Movimento sociale, collocati ai poli estremi di sinistra e di destra, costituivano opposizioni ideologicamente inconciliabili con il sistema politico;

inoltre la loro politica, sia a livello visibile sia invisibile (cioè attraverso messaggi subliminali o coperti all’interno delle rispettive organizzazioni), puntava a delegittimare il sistema.

In estrema sintesi, queste caratteristiche configurano il celebre pluralismo polarizzato.

Ma in che cosa consisteva esattamente la polarizzazione?

 Sartori utilizza due indicatori per individuarla: la temperatura e la distanza ideologica.

 Il primo indicatore rimanda a quanto sia aspro e ultimativo il conflitto tra i partiti, a quanto alta sia la febbre ideologica.

Il secondo segnala la distanza empiricamente misurabile tra i partiti: più precisamente, quanto siano distanti i partiti estremi su una scala destra-sinistra dove 10 è il valore massimo di destra e 0 quello massimo di sinistra (o viceversa).

La posizione di un partito su questa scala destra-sinistra è desunta dalle risposte che forniscono i cittadini che si identificano con quel partito, i quali gli attribuiscono un determinato valore.

In tal modo ogni partito ha un suo punteggio.

 I sistemi scarsamente polarizzati hanno una distanza ridotta tra quello più a destra e quello più a sinistra.

 Quelli polarizzati mostrano invece un grande divario.

In Italia, da quando si operano queste indagini, il gap tra l’estrema destra e l’estrema sinistra è sempre stato altissimo.

E questo non solo nel corso della cosiddetta Prima Repubblica, quando si votava con il proporzionale:

anche dopo il 1994, quando si è votato con sistemi più o meno maggioritari.

In alcuni anni la distanza si è poi un po’ accorciata, salvo impennarsi di nuovo soprattutto nelle ultime elezioni, dove i tre partiti di destra sono concentrati, con poca differenza tra l’uno e l’altro, intorno al valore 9 su 10 della scala destra-sinistra.

Il conflitto destra-sinistra sembra quindi tornato in tutta la sua forza, imponendo una ulteriore fiammata polarizzante.

Ovviamente in un Paese profondamente diviso e di scarsa cultura democratica e di quasi inesistente cultura liberale (il termine liberal-democratico pone una serie di problemi, come sottolinea Nadia Urbinati in The Ambiguities of “Liberal-Democracy”, “Polis: The Journal for Ancient Greek and Roman Political Thought”, vol. 36, n. 3/2019), la polarizzazione tiene sempre in tensione il sistema.

 Ridurla è quindi cosa buona. Ma non al costo devastante di annebbiare le posizioni tra i partiti e gli schieramenti.

La visione di un grande centro dove si rifugia la gran parte degli elettori, punto focale del celeberrimo lavoro di” Antony Downs” La teoria economica della democrazia (trad. it. Il Mulino, 1988), è da tempo depassé.

Essa rifletteva un particolare contesto storico e geografico, le democrazie anglosassoni degli anni Cinquanta, dove i maggiori partiti convergevano verso il centro perché condividevano buona parte delle rispettive politiche.

 In Gran Bretagna, quando i conservatori tornano al potere nel 1951, non smantellarono il Welfare system del governo laburista di Clement Attlee e non toccarono nemmeno le nazionalizzazioni.

 Lo stesso negli Stati Uniti: l’eredità rooseveltiana del New Deal fu in parte accettata dai Repubblicani.

Anche perché gli “indipendenti” che non si riconoscevano né nell’uno né nell’altro partito erano molti e dovevano essere conquistati.

È sorprendente come venga ignorato che la rottura dell’”age of consensus “nelle democrazie anglosassoni sia venuta dalla destra, dal neo-conservatorismo.

I neo-con americani, con un gruppo di ideologi anche di provenienza trotzkista (Irving Kristol su tutti), hanno lanciato l’attacco alle fondamenta del New Deal identificando nello Stato e nelle sue funzioni sociali il nemico da abbattere:

 The government is the problem”, sentenziò Ronald Reagan.

Lo stesso accadde in Gran Bretagna con la conquista della leadership del partito e poi del governo da parte di Margaret Thatcher, che emarginò rapidamente i wet della corrente sociale di “One Nation”.

Ma quello non è stato che l’inizio.

Progressivamente la polarizzazione negli Stati Uniti, in particolare, si è impennata a valori mai visti prima.

Donald Trump non ha fatto altro che dare voce a quello che ormai circolava in tanta parte dell’elettorato di destra.

 Gli esempi riportati da “Ezra Klein” (Why we’re Polarized, Profile Books, 2020) sono tanto illuminanti quanto sorprendenti.

Questa tendenza a spostare sempre più a destra il baricentro politico ha avuto due effetti principali.

 Da un lato, ha trovato la sinistra incapace di reagire: una volta che le veniva sfilato il mito dello Stato-provvidenza e il mercato diventa il nuovo totem intangibile, non sapeva più cosa proporre sul terreno socio-economico.

 Per sua fortuna la sinistra ha trovato un altro terreno di competizione in cui ha ripreso in mano il gioco: l’agenda libertaria dei diritti civili.

 Lanciata inizialmente dai Verdi, in primis dai Grünen tedeschi, negli anni Ottanta, è stata poi adottata dai partiti socialisti.

Proprio su molti aspetti libertari e sul terreno dei diritti sul piano etico-morale i partiti di sinistra hanno conquistato nuovi ceti sociali metropolitani, acculturati, di classe media e medio-alta.

Questo spostamento dall’asse economico a quello valoriale ha tenuto a galla i partiti socialisti, ma a un costo:

 la perdita di parte dell’elettorato popolare, variamente disperso, in parte verso l’estrema destra, in gran parte verso l’astensione (cfr. D. Tuorto, Underprivileged Voters and Electoral Exclusion in Contemporary Europe, Palgrave, 2022).

Dall’altro lato, invece, i neoconservatori, radicalizzando le loro posizioni, hanno spianato la strada all’irruzione di formazioni ancora più estreme, di cui il “Front national” francese (ora Rassemblement national) della famiglia Le Pen rappresenta l’archetipo.

La forbice politica si è quindi allargata in tutta Europa, rincorrendo paradossalmente le caratteristiche del sistema partitico italiano d’antan.

E non c’è possibilità, ad avviso di chi scrive, di un rewind.

Perché l’efficienza elettorale dei partiti non dipende più dalla rincorsa di un mitico elettore mediano, vestigia di una politica che fu, bensì dall’enfatizzare le proprie posizioni distinguendole nettamente da quelle degli altri attori politici. […]

L’elettore viene catturato da un partito quando questo offre posizioni chiare, nette, precise, distinte;

non quando le diluisce cercando di aggregare un numero maggiore di votanti, che invece si disperdono perché non trovano ragione di identificarsi.

Per cui, gli inviti alla depolarizzazione e addirittura a superare la divisone destra-sinistra riproponendo ancora una volta un governo dei sapienti, sono destinati a scontrarsi con l’insofferenza e il fastidio degli elettori che non vogliono essere guidati come scolaretti da supposti esperti.

 Il fallimento in Italia di “Scelta civica”, scioltasi come neve al sole dopo il mancato successo del 2013, la recente rottura dei due iper-narcisi del Terzo Polo, l’illusione che l’agenda Draghi avesse un qualche appeal al di là degli ovattati salotti della classe dirigente, dovrebbero ormai rendere chiaro che l’elettorato vuole esprimere le proprie preferenze in termini univoci.

 Il successo di “FdI”, unico partito all’opposizione del governo Draghi, dovrebbe avere insegnato qualcosa:

solo chi “takes stand” chiaramente, vince.

Infine, l’annebbiamento delle differenze tra i partiti a favore di un indistinto embrassons-nous contribuisce a fomentare atteggiamenti di rifiuto della politica – “sono tutti uguali” – che alimentano partiti estremi e populisti oppure apatia e astensionismo.

 

 

 

La democrazia funziona come

un sistema naturale: se la polarizzazione

riduce la diversità rischia il collasso.

Greenreport.it – (7 dicembre 2021) – Redazione – ci dice:

 

«La tassazione progressiva potrebbe ridurre le difficoltà economiche, le tensioni sociali che alimentano la polarizzazione».

Secondo la nuova edizione speciale “The Dynamics of Political Polarization” di Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), nato da una collaborazione tra la Princeton University e l’Arizona State University (ASU e che presenta una serie di nuovi studi che esaminano la polarizzazione politica come un insieme di sistemi complessi in continua evoluzione,

 «Proprio come un ecosistema sovrasfruttato, il panorama politico sempre più polarizzato negli Stati Uniti – e in gran parte del mondo – sta vivendo una catastrofica perdita di diversità che minaccia la resilienza non solo della democrazia, ma anche della società».

 Si tratta di un lavoro che ha impegnato 15 gruppi interdisciplinari di scienziati politici e teorici dei sistemi complessi nelle scienze naturali e nell’ ingegneria che hanno cercato di capire come si produce la polarizzazione politica e come viene influenzata nel tempo dalle azioni e dalle interazioni dei singoli elettori, di chi è al potere e dei vari social network.

All’High Meadows Environmental Institute (HMEI) della “Princeton University”  dicono che:

«In definitiva, poiché le interazioni sociali e le decisioni individuali isolano le persone in pochi campi intrattabili, il sistema politico diventa incapace di affrontare la gamma dei problemi – o formulare la varietà di soluzioni – necessarie affinché il governo funzioni e fornisca i servizi critici per la società».

Nell’introduzione agli studi, gli editor Simon Levin, professore di ecologia e biologia evoluzionistica  alla Princeton, Helen Milner, professoressa di affari pubblici alla BC Forbes e p di politica e affari internazionali alla Princeton, e Charles Perrings, professore di economia ambientale all’ASU, scrivono che

 «La prospettiva dei sistemi complessi dimostra che la perdita di diversità associata alla polarizzazione mina la cooperazione e la capacità delle società di fornire i beni pubblici che rendono la società sana.

 La polarizzazione è un processo dinamico ed è ciò che la teoria della complessità può aiutarci a capire meglio.

 Come hanno dimostrato in altri contesti gli scienziati ambientali e della complessità, il mantenimento della diversità è fondamentale per far prosperare e spesso a sopravvivere molti sistemi».

Levin sottolinea che

«I sistemi adattativi complessi sono diffusi in campi che vanno dalla fisica e ai sistemi finanziari, ai sistemi naturali guidati dall’evoluzione ed ai sistemi socioeconomici-politici.

Questi sistemi sono composti da agenti individuali, nei quali esiste un’interazione, e forse una coevoluzione, tra gli atteggiamenti e le azioni dei singoli agenti e le proprietà emergenti dei sistemi a cui appartengono.

 In queste applicazioni, ci sono sfide simili che comportano la necessità di una meccanica statistica per passare dagli individui ai collettivi, all’emergere di modelli e processi come le norme sociali».

Oer Milner, che è docente associato all’MEI,

«Nonostante l’aumento della faziosità, del populismo e della polarizzazione, questi fenomeni non sono stati studiati a fondo come sistemi dinamici costituiti da più componenti interagenti e caratteristiche su larga scala.

James Madison aveva sperato che il sistema ideato nella Costituzione avrebbe evitato il tipo di polarizzazione che i Partiti politici possono produrre e che possono minare il funzionamento del governo.

 Purtroppo, oggi stiamo assistendo alla polarizzazione e a una conseguente perdita di diversità nella gamma di posizioni nella società negli Stati Uniti e nel mondo.

I paper in questo numero [di PNAS] dimostrano da una prospettiva sistemica le forze che portano alla polarizzazione – e alcune delle sue conseguenze – con la speranza che la loro comprensione porterà a una migliore governance».

Gli studi hanno esplorato questioni da come le persone si isolano inconsapevolmente in reti faziose attraverso i social media e come garantire riforme elettorali di successo utilizzando modelli, a come l’opinione pubblica alimenta l’estremismo tra le élite politiche, nonché i potenziali benefici della polarizzazione nelle giuste circostanze.

Dagli studi emerge che, nella politica dei social network,

 «Le persone si polarizzano inconsapevolmente abbandonando i follower considerati inaffidabili».

Un modello computazionale testato con i dati di Twitter ha dimostrato che

«Gli utenti dei social media possono inavvertitamente classificarsi in reti polarizzate da utenti “non seguiti” che prendono in considerazione fonti di notizie non affidabili».

I ricercatori della Princeton University Andy Guess , assistente professore di politica e affari pubblici, Corina Tarnita, professoressa di ecologia e biologia evolutiva, e il pricipale autore, Christopher Tokita, che ha conseguityo il dottorato di ricerca.ai Princeton nel 2021, hanno scoperto che

«Quando le persone sono meno reattive alle notizie, il loro ambiente online resta politicamente misto.

Tuttavia, quando gli utenti reagiscono costantemente e condividono articoli dalle loro fonti di notizie preferite, è più probabile che sviluppino reti politicamente isolate, o quelle che i ricercatori chiamano “bolle epistemiche”.

Una volta che gli utenti sono in queste bolle, in realtà perdono più articoli di notizie, inclusi quelli dei loro media preferiti».

 

Guess evidenzia che

«Non è difficile trovare prove di discorsi polarizzati sui social media, ma sappiamo meno sui meccanismi di come i social media possono allontanare le persone.

 Il nostro contributo è mostrare che la polarizzazione dei social network online emerge naturalmente quando le persone curano i loro feed.

Contro intuitivamente, questo può accadere anche senza conoscere le identità di parte degli altri utenti».

Mentre prima era la politica ad orientare l’opinione pubblica ora sono le oscillazioni dell’elettorato conservatore ad aumentare l’estremismo dei parlamentari di centro-destra.

 I ricercatori hanno collegato l’attuale estremismo dei membri repubblicani del Congresso Usa all’opinione pubblica.

 Mentre è ben documentato che gli americani non sono così polarizzati come le persone che eleggono, lo studio condotto da  Naomi Ehrich Leonard, Edwin S. Wilsey, professore di  Mechanical and Aerospace Engineering a Princeton, Keena Lipsitz , che insegna scienze politiche al Queens College- CUNY, e alla dottoranda di Princeton Anastasia Bizyaeva dimostra che

 «Gli americani sono ancora in parte responsabili dell’estremismo dei loro rappresentanti eletti».

I ricercatori hanno scoperto che:

«Nel tempo, le oscillazioni conservatrici nell’opinione pubblica – che sono in genere leggermente più ampie e più prolungate delle oscillazioni della sinistra liberal – esacerbano i processi di auto-rafforzamento per i legislatori repubblicani, con cui i legislatori rispondono all’opinione pubblica favorevole rafforzando ulteriormente le proprie posizioni».

 Il team di ricercatori ha identificato un punto di svolta oltre il quale il processo di polarizzazione accelera man mano che le forze che lo guidano si estremizzano e le forze che mitigano la polarizzazione vengono sopraffatte e dicono che

«I repubblicani potrebbero aver superato questa soglia critica mentre i democratici si stanno avvicinando rapidamente».

 

Leonard spiega che

«Combinando la nostra esperienza sui processi politici con la nostra esperienza sui  feedback e sulla non linearità in processi complessi che variano nel tempo, siamo stati in grado di fare nuove scoperte sui meccanismi che possono spiegare e potenzialmente mitigare la polarizzazione politica.

Finora, i modi in cui l’opinione pubblica cambia nel tempo non erano stati implicati nella polarizzazione politica dei legislatori.

Tuttavia, tenendo conto della non linearità nel modo in cui i legislatori rispondono all’opinione pubblica, dimostriamo che queste differenze contano in modo significativo e che piccole differenze nelle oscillazioni dell’opinione pubblica possono infatti portare a grandi cambiamenti nella polarizzazione.

Sono fiducioso che gli strumenti analitici che abbiamo sviluppato per questo studio si dimostreranno utili per trovare modi per rallentare il trend».

E non è un caso che, proprio mentre la destra-centro italiana va in tutt’altra direzione, dagli studi pubblicati su PNAS emerge che

 «La tassazione progressiva potrebbe ridurre le difficoltà economiche, le tensioni sociali che alimentano la polarizzazione».

Secondo lo studio realizzato da Nolan McCarty, Susan Dod Brown, professoressa di  Politics and Public Affairs alla Princeton, e Joshua Plotkin, che insegna scienze naturali all’uiversità della Pennsylvania ,

 «Il conflitto tra gruppi innescato da difficoltà economiche può ridurre le interazioni sociali ed economiche, che a loro volta esacerbano ulteriormente il declino economico e la polarizzazione politica, I risultati suggeriscono che una tassazione progressiva progettata per garantire un’adeguata rete di sicurezza sociale potrebbe aiutare a prevenire le ansie economiche che alimentano i conflitti etnici e razziali».

McCarty ricorda che

 «Negli ultimi 20 anni, gli Stati Uniti e molti altri Paesi hanno vissuto profondi sconvolgimenti economici, sociali e politici, tra cui crisi economiche, crescenti disuguaglianze, esacerbazione dei conflitti razziali ed etnici e approfondimento della polarizzazione politica.

Il nostro documento è un tentativo di comprendere le complesse dinamiche che collegano questi sviluppi ed esplorare modi per interrompere il ciclo negativo».

 

Lo studio condotto da Fernando Santos, professore all’università di Amsterdam, con Simon Levin, e Yphtach Lelkes, che insegna  comunicazione all’Università della Pennsylvania sottolinea che:

Il problema è che, al centro di una politica sempre più debole, meno diversificata (in particolare con la scomparsa della sinistra politica) ma più polarizzata (evidentemente il maggioritario non porta la governabilità promessa)  è la diversità dei social network che può intensificare o moderare gli atteggiamenti personali:

 «I social network a cui le persone appartengono possono “ricablare” i loro atteggiamenti personali nel tempo per riflettere le opinioni delle persone a cui sono legati, I ricercatori hanno scoperto che quando le persone si connettono preferenzialmente a persone con opinioni simili, creano una camera di eco che polarizza sempre più le opinioni di tutti nella rete.

D’altra parte, le persone che fanno parte di una rete composta da una varietà di punti di vista tendono a moderarsi a vicenda.

Capire che i social network influenzano la polarizzazione, piuttosto che semplicemente rifletterla, potrebbe essere cruciale nello sviluppo di interventi per frenare la polarizzazione online e la diffusione dell’estremismo politico, riferiscono i ricercatori».

Levin fa notare che

«Questo è un fenomeno relativamente nuovo e, come altri meccanismi di Internet e dei media, ha probabilmente accelerato e rafforzato la segmentazione delle nostre società».

Ma la polarizzazione non è sempre un danno:

 «Può giovare alla società quando le parti opposte sono costituite da popolazioni diverse».

A dirlo la ricerca guidata da Vitor Vasconcelos , dell’Università di Amsterdam e del suo team composto da Elke Weber, Sara Constantino, Levin  e McDonnell della Princeton University, secondo i quali

 «La polarizzazione può effettivamente avvantaggiare la società quando i punti di vista opposti rappresentano ciascuno una varietà di persone e comunità con valori condivisi.

La polarizzazione diventa dannosa quando segrega i social network ed esclude le informazioni sulle preferenze delle persone diverse dai vicini.

La cooperazione diventa meno probabile quando queste reti locali distorcono o minano il valore della collaborazione con gli oppositori, il che può comportare una serie di effetti tra cui l’indebolimento dei processi democratici».

 

Sembra la descrizione dell’asfittica politica italiana che nella sua corsa al centro è esplosa a destra, polverizzandosi in molti egoismi che non vogliono il cambiamento ma contendersi l’esistente, magari sbranandosi su Facebook.

Weber riassume:

«Le società pluralistiche prosperano quando i membri con valori e convinzioni diversi riescono a discutere queste differenze e sfruttarle per generare soluzioni vantaggiose per tutti.

Il nostro documento mostra che i benefici collettivi sono ridotti dalla polarizzazione dei social network che limitano la comunicazione e la negoziazione attraverso linee di parte, non dal fatto che non siamo d’accordo sui valori».

Poi ci sono le variazioni locali negli atteggiamenti politici che possono portare alla polarizzazione, in particolare dopo disordini politici.

 E il tema della la ricerca guidata da Olivia Chu, una biologia quantitativa e computazionale della Princeton, e dei suoi coautori Grigore Pop-Eleches , professore di politica e affari internazionali, e Jonathan Donges , dell’HMEI e del Potsdam-Instituts für Klimafolgenforschung (PIK)  che hanno implementato “un adaptive voter model” – che viene utilizzato per studiare le dinamiche di opinione – in tutta l’Ucraina per determinare in che modo le percezioni delle persone sull’Unione europea differivano in base a come le persone nelle loro comunità e circoli sociali discutevano di rivoluzioni, proteste di massa e altri shock politici.

 

Pop-Eleches ci dice che:

 «La nostra ricerca dimostra che, piuttosto che trascinare tutti, l’effetto delle rivoluzioni su come le persone pensano alla politica dipende in parte dagli atteggiamenti delle persone con cui parlano di politica.

“Coloro che parlano principalmente con i sostenitori della rivoluzione rischiano di cambiare le loro opinioni nella direzione opposta rispetto a coloro che parlano con gli oppositori.

 Ciò può portare a sacche di maggiore polarizzazione anche nei Paesi in cui la maggior parte delle persone sostiene gli obiettivi della rivoluzione».

 

Uno studio condotto da Corina Tarnita e Mari Kawakatsu del Princeton’s Program in Applied and Computational Mathematics, insieme a Levin e Lelkes,  ha esaminato come le interazioni interpersonali di partito possono indebolire i processi che gli estensori della Costituzione degli Stati Uniti consideravano salvaguardie contro le fazioni e la polarizzazione.

I ricercatori si sono ispirati al saggio di “James Madison”, “Federalist No. 10” nel quale i sosteneva che una repubblica mitiga i pericoli delle fazioni favorendo una diversità di interessi politici.

Ma gli americani oggi si preoccupano di molte più questioni politiche rispetto a 75 anni fa, eppure la polarizzazione è peggiore.

 Per indagare il possibile ruolo che le interazioni tra cittadini appartenenti a una parte politica svolgono in questo puzzle, gli autori hanno sviluppato un modello teorico di evoluzione culturale e la loro analisi ha confermato l’intuizione di Madison:

 «La coesione sociale aumenta quando gli individui si preoccupano di una maggiore diversità di questioni.

Ma c’è una svolta:

in condizioni di estrema faziosità, l’apertura degli individui all’apprendimento da parte di coetanei con un’ideologia politica diversa è diminuita.

Questo porta a un maggiore tribalismo politico che riduce drasticamente la diversità degli interessi, il che porta a un alto cameratismo all’interno dell’ideologia e a una maggiore polarizzazione».

Ma i ricercatori hanno anche trovato un lato positivo:

«Gli effetti dannosi dell’estrema faziosità sono sostanziali solo quando gli individui si affidano principalmente ai coetanei sociali per plasmare le proprie opinioni e strategie e sono limitati nella loro esplorazione indipendente».

Per Tarnita,

«Il nostro modello suggerisce che perseguire attivamente l’apprendimento al di là della propria rete sociale è fondamentale per mantenere una società coesa»

 e Kawakatsu aggiunge:

«Sebbene sia la formazione dell’opinione che la cooperazione siano argomenti ben esplorati, capiamo relativamente poco delle dinamiche accoppiate di cooperazione e polarizzazione.

Le interazioni inaspettate che abbiamo trovato tra faziosità, cooperazione ed esplorazione indipendente evidenziano la necessità di studiare la polarizzazione in un contesto accoppiato e multilivello».

Secondo un’analisi condotta da Sam Wang , professore di  neuroscienze  e direttore dell’Electoral Innovation Lab a Princeton,

 «La teoria dei sistemi complessi può portare a una comprensione più profonda, a una migliore progettazione di riforme durature per la democrazia americana.

Le implicazioni delle riforme democratiche come il voto a scelta classificata e la riorganizzazione dei distretti dei cittadini possono essere comprese meglio utilizzando la teoria dei sistemi dinamici basata su ingegneria e biologia».

Wang e un team multi-istituzionale di scienziati politici dicono che:

 «La teoria basata sui sistemi tipicamente utilizzata nelle scienze può aiutare a comprendere la miriade di interazioni che portano alle attuali debolezze della democrazia americana:

istituzioni particolarmente polarizzate, rappresentanti insensibili e l’abilità di una fazione degli elettori di ottenere il potere a spese della maggioranza.

Concetti come non linearità e amplificazione, feedback positivo e negativo e integrazione nel tempo possono aiutare a identificare i problemi nella rappresentanza e nel potere istituzionale.

Allo stesso modo, in un contesto di complesse interazioni di rete, l’efficacia di qualsiasi proposta di riforma è difficile da prevedere.

Una descrizione matematicamente ricca di come interagiscono i meccanismi elettorali può massimizzare gli impatti delle riforme nel contesto delle politiche e delle procedure dei singoli Stati».

 

Wang, Conclude:

 «Il nostro obiettivo principale era tradurre il sistema politico americano in una struttura di sistemi matematici complessi che promuovesse la partecipazione degli studiosi delle scienze naturali.

Vogliamo incoraggiare gli scienziati naturali a costruire modelli che riproducono fenomeni politici, creare simulazioni per esplorare scenari alternativi e progettare interventi che possano migliorare la funzione della democrazia.

 Questi obiettivi sono analoghi a quelli degli ingegneri:

comprendere un sistema fatto di molte parti abbastanza bene da apportare riparazioni o miglioramenti».

 

 

 

La tendenza alla guerra contro la Cina,

con il pretesto di Taiwan.

 Sinistrainrete.info – (22-5-2023) - Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli – ci dicono:

(l’Antidiplomatico: liberi di svelarvi il mondo)

 

I fatti si rivelano molteplici e indiscutibili, anche prendendo in esame solo i primi mesi del 2023.

“Duecento militari statunitensi risultano ormai presenti ufficialmente a Taiwan dall'inizio dell'anno.

Gli Stati Uniti aumenteranno le loro truppe a Taiwan Saliranno dal 30 di un anno fa a 100-200, con l'obiettivo di addestrare le forze armate dell'isola a resistere alla minaccia cinese.

Gli Stati Uniti stanno considerevolmente aumentando il numero di truppe dispiegate a Taiwan.

 Nello specifico, stanno quadruplicando il numero attuale per rafforzare un programma di addestramento per le forze armate dell'isola in risposta a una crescente minaccia da parte della Cina.

Secondo i funzionari americani, nei prossimi mesi gli Stati Uniti dispiegheranno sull'isola tra le 100 e le 200 truppe, rispetto alle 30 circa presenti un anno fa.

L'alto rappresentante dell'Unione Europea, J. Borrell, ha proposto a sua volta nell'aprile di quest'anno che tutte le marine militari della UE pattuglino proprio lo stretto di Taiwan.

LONDRA – “Le navi militari dell’Unione Europea dovrebbero pattugliare lo stretto di Taiwan, per proteggere l’isola dalla Cina nella disputa tra i governi di Pechino e di Taipei.

Lo afferma Josep Borrell, l'Alto rappresentante della Ue per gli affari esteri e la sicurezza, in un articolo pubblicato stamane dal “Journal Du Dimanche”. Un intervento a favore di un maggiore ruolo per l'Europa unita, a fianco dell'America, in difesa di Taiwan.”

Rispondendo come al solito positivamente alle richieste dell'imperialismo USA, a fine aprile il disastroso governo Meloni ha già inviato una nave militare italiana verso il Mar Cinese Meridionale, mentre contemporaneamente è stato annunciato che la marina italiana invierà vicino a Taiwan una squadra navale, inclusa la portaerei Cavour, verso la fine del 2023.

“Aiuto agli Usa per Taiwan: navi da guerra italiane verso la Cina.

Anche l'Italia in campo in una delle partite più delicate dello scenario geopolitico, quella che vede la Cina determinata a riconquistare l'isola di Taiwan con la forza.

Su richiesta degli Stati Uniti avvieremo nuovi pattugliamenti navali e missioni militari nel Pacifico.

 Washington chiama, Roma risponde.

"Quando nei giorni scorsi il capo di Stato Maggiore della Difesa Giuseppe Cavo Dragone è andato a Washington per incontrare l'omologo Mark Milley, ovviamente si è parlato della riunione di Ramstein del gruppo di contatto per aiutare Kiev, dove l'Italia dà un supporto significativo alle difese aeree", ricostruisce Repubblica.

Ma sul tavolo c'era anche la preoccupazione degli Usa per le manovre cinesi a Taiwan "anche perché Xi ha ordinato ai suoi militari di essere pronti a invadere l'isola entro il 2027".

Così gli americani hanno chiesto agli alleati di mandare un segnale a Pechino "sul piano politico e militare", si legge nell'articolo. In cosa consiste?

La Morosini, nave della classe Pattugliatori Polivalenti d'Altura, è già partita ai primi di aprile per una campagna di cinque mesi in Estremo oriente che la porterà in Giappone, Corea del Sud, Vietnam, India e nel Mar Cinese Meridionale, dove Pechino sta costruendo da tempo basi.

 Il sottocapo di Stato Maggiore della Marina italiana, Giuseppe Berutti Bergotto, inoltre, ha annunciato recentemente che tra la fine del 2023 e l'inizio del 2024 la Marina invierà una squadra portaerei che comprende la Cavour e il suo cacciatorpediniere di scorta, una fregata e un rifornitore di squadra, nella regione dell'Indo-Pacifico, fino al Giappone.

 

In aggiunta il “Comando Operativo di Vertice Interforze” ha già inviato una missione esplorativa a Seul e Tokyo, per definire la possibile partecipazione ad esercitazioni terrestri con nuclei delle forze speciali, e un tour degli F35 italiani entro la fine dell'anno in Giappone, Corea e Singapore.

Insomma, la guerra in Ucraina compatta la Nato, e l'Italia è chiamata a fornire il suo contributo ben oltre l'area del Mediterraneo.”

 

Come è purtroppo già avvenuto molte altre volte in passato, inoltre, il 28 aprile un aereo militare statunitense da pattugliamento del tipo Poseidon è passato in modo provocatorio sopra lo stretto di Taiwan.

“Tensione Usa-Cina, aereo militare Poseidon degli Usa sorvola lo stretto di Taiwan”.

Il teatro orientale dell'”Esercito Popolare di Liberazione cinese” ha dichiarato di avere monitorato il passaggio di un aereo da pattugliamento marittimo statunitense e denuncia frequenti "azioni provocatorie" da parte degli Stati Uniti.

Gli Usa: "Passaggio in conformità col diritto internazionale".

Nuove tensioni tra Cina e Stati Uniti nei cieli dopo che un aereo statunitense è passato sopra lo Stretto di Taiwan.

Il teatro orientale dell'Esercito Popolare di Liberazione cinese ha dichiarato di avere monitorato il passaggio di un aereo da pattugliamento marittimo statunitense P-8A Poseidon e di aver "organizzato aerei da combattimento per seguire e monitorare l'aereo statunitense durante tutto il processo".

La Cina: "Da Usa azioni provocatorie."

 

"Negli ultimi tempi navi e aerei da guerra statunitensi hanno spesso effettuato azioni provocatorie, dimostrando pienamente che gli Stati Uniti sono un perturbatore della pace e della stabilità nello Stretto di Taiwan e creano rischi per la sicurezza nello Stretto di Taiwan", si legge in una nota del teatro orientale dell'”Epl” a firma del portavoce “Shi Yi”, sottolineando che "le truppe del teatro mantengono sempre un alto livello di allerta e difendono risolutamente la sovranità e la sicurezza nazionale, nonché la pace e la stabilità regionale".

Sul piano diplomatico, il presidente separatista “Tsai Ing-Wen” nell'aprile di quest'anno ha incontrato lo speaker della Camera degli Stati Uniti, venendo accolta con tutti gli onori in terra americana.

 

“Taiwan, al via il viaggio del presidente Tsai. La risposta della Cina: "Se avremo contatti con McCarthy reagiremo con determinazione"

(Tsai Ing-wen in partenza dal Taoyuan International Airport Tsai Ing-wen in partenza dal Taoyuan International Airport).

La tappa che irrita maggiormente Pechino è quella del ritorno, a Los Angeles il 5 aprile.

 In California Tsai dovrebbe - anche se non c'è ancora una conferma ufficiale - incontrare lo speaker della Camera Usa.”

Che fare contro la spinta alla guerra di una frazione importante dell'imperialismo occidentale?

Innanzitutto chiarire a livello di massa, come ha già fatto anche il genio dei Pink Floyd Roger Waters”, Taiwan, è parte della Cina.

 

“Roger Waters sta con la Cina: "Taiwan ne fa parte, andate a studiare se non lo sapete".

La leggenda del rock in un'intervista alla” Cnn” commenta la domanda Taiwan spiegando che la comunità accetta le ragioni cinesi dal 1948.

 E non risparmia la guerra in Ucraina.

Roger Waters sta con la Cina: "Taiwan ne fa parte, andate a studiare se non lo sapete"-CNN.

 

"Taiwan non è circondata dalla Cina, Taiwan è parte della Cina: è scritto in un trattato riconosciuto a livello internazionale sin dal 1948, prendilo e leggilo!",

risponde piccato Roger Waters durante un'intervista esclusiva alla “Cnn”. Il breve video che riprende la leggenda del rock sottolinea le ragioni cinesi sulla questione Taiwan, viene molto commentato sui social.”

Infatti l'isola venne abitata dai cinesi fin dal 1200, mentre già nel 1335 la dinastia Yuan istituì alcuni organismi per Taiwan.

Nel 1662 la popolazione locale insorse contro i colonialisti olandesi, che da alcuni decenni occupavano l'isola, cacciandoli e riunendosi alla madrepatria; la lingua usata a Taiwan è il mandarino e tutta la sua cultura risulta di matrice cinese.

Non solo: anche la fortissima forza politica di opposizione di Taiwan, il Kuomintang, riconosce l'appartenenza alla Cina di Taiwan.

Non solo: con la risoluzione 2758 del 1971, l'ONU ha dichiarato chiaramente che nel mondo sussiste una sola Cina, e che Taiwan risultava parte integrante della Cina.

Non solo: almeno sul piano formale, persino il presidente americano Biden ha riconosciuto più volte, durante gli ultimi due anni, il principio dell'esistenza "di una sola Cina", mentre sempre a livello ufficiale gli USA hanno interrotto i loro rapporti diplomatici con Taiwan nel 1972, aprendo invece una propria ambasciata a Pechino.

Escono dall'ambiguità strategica stabilita nel 1972 da Nixon e Kissinger con Mao Zedong.

Gli Usa si schierano con Taiwan.

Il viaggio della Pelosi non è un caso ma è stato voluto.

Parecchi segnali indicano che gli Stati Uniti intendono porre fine alla loro politica di «ambiguità strategica» nei confronti di Taiwan.

Com'è noto, con tale politica Washington s'impegna a riconoscere l'esistenza di «una sola Cina», aderendo quindi ai desiderata di Pechino.

 Al contempo, però, intende mantenere lo status quo, chiedendo alla Repubblica Popolare di non compiere atti di forza contro l'isola.

 L'ambiguità strategica pone agli americani problemi di grande portata.

 Dopo aver spostato la loro ambasciata a Pechino in seguito della visita di Nixon e Kissinger a Mao Zedong nel 1972, i rapporti diplomatici ufficiali con Taiwan furono interrotti, lasciando a Taipei un semplice ufficio di rappresentanza.

La mossa si rivelò molto utile per staccare la Cina comunista dall'Unione Sovietica, che, a quel tempo, come notò giustamente Roger Waters, conoscere la storia diventa uno strumento indispensabile per smascherare i fautori occidentali della guerra contro la Cina, prendendo a pretesto Taiwan.

 

 

 

La fine del ceto medio.

Jacobitalia.it - Göran Therborn – (8 Aprile 2021) – ci dice:

 

Come la classe operaia tradizionale, anche i membri della classe media stanno perdendo il loro ruolo in seguito ad automazione, precarietà e mobilità al ribasso. Bisogna convincere anche loro della necessità dell'uguaglianza.

La crescita della disuguaglianza dal 1980 è stata spinta dall’alto, dal 10% più ricco, e dall’1% ancora più ricco e dalle frazioni ancora più piccole dalla ricchezza faraonica.

 L’altro 90% non è stato impoverito, è stato abbandonato.

Ciò ha dato origine a un’amara letteratura giornalistica e accademica nel Nord globale, un’interessante contrapposizione tra le banche di consulenza e sviluppo e i sogni della «classe media nascente» del Sud globale.

Per rafforzare la volontà borghese in questo momento di crisi e insicurezza liberale, “Democracy and Prosperity” (2019) di “Torben Iversen” e” David Soskice” contiene un omaggio alle «democrazie capitaliste avanzate» (che rivelano più deferenza al capitalismo che alla democrazia, che viene ritenuta responsabile della disuguaglianza).

 «L’essenza della democrazia – affermano – è il progresso degli interessi della classe media».

 Iversen e Soskice, entrambi eminenti economisti istituzionali, sostengono che la classe media è allineata al capitale attraverso due meccanismi chiave.

Uno è «l’inclusione nel flusso di ricchezza» creato dall’accumulazione di capitale.

L’altro è lo stato sociale:

 il sistema di tassazione e trasferimento garantisce che i guadagni dell’economia della conoscenza «vengano condivisi con le classi medie».

 È proprio questa «inclusione» e «condivisione» tra capitalisti e classe media che, secondo recenti ricerche sulla disuguaglianza, volge al termine.

All’inizio, la distribuzione neoliberista favoriva gli interessi della classe media.

L’apertura dei servizi pubblici alle imprese private riconosceva alcuni vantaggi a segmenti fortunati della classe media.

Il finanziamento pubblico a singole posizioni di istruzione privata gratuiti, attraverso un sistema di voucher come in Svezia oggi, ha dato ai genitori della classe media la gradita opportunità di mandare i propri figli in scuole ben messe con pochi bambini immigrati o provenienti dalla classe operaia.

L’assistenza aziendale è stata meno popolare e soggetta a scandali pubblici, ma è ancora accettata da molti come un familiare accompagnamento all’austerità e alla scarsità di servizi pubblici.

D’altra parte, l’esclusione della classe media dagli alloggi urbani di prima qualità continua a ritmo sostenuto e le differenziazioni di reddito e ricchezza si intensificano.

Nel frattempo, l’ambientalismo sta facendo sempre più incursioni nella classe media istruita, ponendo esplicitamente la sopravvivenza planetaria e la sostenibilità ecologica al di sopra degli interessi del capitale.

Rotolando all’indietro.

Poiché la mediana è il centro esatto di una distribuzione, il rapporto tra i redditi dell’1% più ricco e la mediana è una buona misura della distanza che separa la “upper class” dalla “middle class”.

Negli Stati uniti, questo rapporto è passato da 11 a 1 a 26 a 1 negli anni 1980-2016.

Nel Regno Unito e in Svezia, è passato da un 3 a 1 relativamente basso a circa 10 a 1.

Anche in Germania il rapporto è salito, mentre in Francia è sceso leggermente da un già alto 11 a 1.

Nell’area “Ocse”, i salari della classe media – quella con redditi tra il 75 e il 200 per cento della mediana – si sono ridotti e le opportunità di entrarvi sono diminuite a causa della polarizzazione del reddito.

La mobilità ascendente verso l’istruzione superiore è in fase di stallo dal 1975, mentre il rischio di mobilità verso il basso è aumentato negli anni 2010, soprattutto nel Regno Unito.

Con il Covid-19 è proseguita, e in diversi paesi si è ulteriormente intensificata, la rottura tra middle e upper class.

Negli Stati uniti, la ricchezza dei miliardari è aumentata del 44% da metà marzo 2020 a fine febbraio 2021, in un momento in cui il 50% delle persone laureate o con istruzione superiore aveva difficoltà a pagare le normali spese domestiche.

Alla fine di luglio 2020, la ricchezza dei miliardari britannici era cresciuta del 35% rispetto all’anno precedente, mentre quasi un lavoratore con reddito medio occupato su cinque ha registrato una diminuzione dei risparmi e la metà non ha subito variazioni.

Il fallimento di Biden.

I bambini della classe media sono tenuti fuori da un sistema educativo d’élite sempre più esclusivo, che va dagli asili alle migliori università selettive, a causa dei costi irraggiungibili che i genitori della “upper class” stanno facendo per posizionare i loro figli in posizioni redditizie nel mercato del lavoro.

David Markovits, professore di diritto a Yale, ha stimato che questi investimenti nella formazione d’élite al di sopra della spesa media per l’istruzione hanno un valore equivalente a un’eredità di 16,8 milioni di dollari.

Il risultato è che «i bambini ricchi ora superano i bambini della classe media al Sat [il test standard per l’ammissione al college] del doppio rispetto a quanto i bambini della classe media superano i bambini cresciuti in povertà».

La Task Force per la classe media di Biden sotto l’amministrazione Obama ha fallito rispetto all’infanzia e all’accessibilità all’università, nonché all’assicurazione sanitaria.

Lavoro in eccedenza.

 

In tutta l’area “Ocse”, i ragazzini si trovano di fronte a minori opportunità di mobilità.

E non è tutto.

A essere sotto attacco è il nucleo stesso del lavoro della classe media.

Questo ha avuto tre forme principali: il lavoro autonomo, il lavoro d’ufficio con qualche autorità delegata e le professioni.

 Nel lungo periodo la piccola borghesia autonoma, composta solitamente da commercianti e il ramo rurale degli agricoltori, è diminuita in numero e importanza.

Nel Regno Unito, tuttavia, in questo secolo si è registrato un aumento degli imprenditori autonomi urbani.

 Tuttavia, questa crescita è guidata interamente dai commercianti individuali, la maggior parte dei quali sono più vicini al precariato che alla piccola borghesia storica, i cui negozi si stanno drasticamente riducendo di numero.

Il loro reddito medio annuo nel 2015-16 è stato di 21 mila sterline, un terzo del reddito medio dei lavoratori dipendenti.

Impiegati e dirigenti di livello inferiore vengono sottoposti a quello che “David Boyle” ha giustamente chiamato «taylorismo digitale», prima di essere del tutto messi da parte, come è già accaduto a un gran numero di impiegati postali e di banca ad esempio.

 Un lavoro d’ufficio da colletto bianco non è più un rifugio sicuro e relativamente comodo dalla classe operaia, ma piuttosto l’obiettivo principale dell’automazione.

Il terzo settore classico del lavoro della classe media era nel ramo delle professioni, occupazioni basate sull’istruzione alta e di lungo corso, che aveva a che fare con particolari tipi di conoscenza, inaccessibili al pubblico.

Includeva professioni antiche come l’insegnamento, la medicina, la legge, in molti paesi anche l’amministrazione pubblica e le «semi professioni» infermieristiche e sociali del ventesimo secolo, per citarne solo due.

Per molto tempo, le professioni erano rispettate e considerate poco interessanti per gli affari e il capitale.

Nella tradizione tedesca dell’Ottocento e del primo Novecento, erano spesso riassunti come Bildungsbürgertum (la borghesia colta), che era più o meno alla pari con il Wirtschaftsbürgertum (la borghesia economica).

La sociologia ha distinto le professioni dal mondo imprenditoriale, in quanto orientate alla coltivazione della conoscenza e al servizio pubblico, più che al profitto.

Le professioni minate.

Questa professionalità della classe media è ora sotto attacco – avvocati in gran parte esclusi – e in procinto di essere distrutta.

 L’attacco proviene da più parti, che possono essere riassunte nel concetto di invasione del managerialismo.

Ciò comporta una relativa svalutazione della conoscenza specialistica, e una perdita di rispetto per essa.

In pratica, ciò implica prima di tutto la subordinazione di professionisti, insegnanti, ricercatori, medici, infermieri, ingegneri e altri ancora, ai dirigenti amministrativi, nelle scuole e nelle università, negli ospedali e nelle imprese.

La pratica della conoscenza professionale è sottoposta a verifiche, valutazioni e sanzioni da parte dei dirigenti, derivanti da una diffidenza istituzionalizzata nei confronti dell’autonomia e dell’etica professionale.

 La pratica cognitiva professionale e l’etica sono soggette a calcoli costi-benefici pervasivi, spesso nell’ambito di quasi-mercati interni escogitati ad arte, come le amministrazioni universitarie che addebitano ai dipartimenti l’uso dei locali universitari.

Questi costi-benefici inventati fanno parte anche di un attacco antiprofessionale particolarmente pesante condotto in nome del vessillo del mercato.

L’imposizione di una norma ideale del mercato – l’opposto strumentale della mentalità professionale dei valori intrinseci, della conoscenza, del servizio ai bisogni, dell’imparzialità della legge e della regolamentazione – è operata sia dalla gestione privata (di scuole, ospedali, carceri e così via) che dalla cosiddetta «Nuova Gestione Pubblica» delle istituzioni finanziate dalle tasse.

Internamente si suppone che queste ultime lavorino come imprese su una base quasi di mercato, comprandosi e vendendosi servizi a vicenda, ed esternamente devono appaltare aziende private per fornire servizi pubblici.

In questo modo, l’istruzione, la sanità e l’assistenza sociale sono diventate aree redditizie per l’accumulazione di capitale, suscitando grande interesse da parte della «borghesia economica», abbattendo la «borghesia culturale» sul suo vecchio terreno.

Le professioni della classe media non dovrebbero essere idealizzate, poiché potrebbero benissimo diventare chiuse, conservatrici, compiacenti e inefficienti, con routine ripetitive.

 Ma questo non è inerente alla professionalità, e essere un insegnante, un medico o un impiegato statale era una volta grande fonte di orgoglio e di fiducia in sé stessi per la classe media.

Quell’orgoglio e autostima adesso vengono calpestati e la frusta manageriale sta prevalendo sulla collegialità.

 Alcuni riescono a trovare riparo nella classe medio-alta di manager e star delle professioni, ma per il resto il presente – e probabilmente anche il futuro – è costituito da instabilità e da una traiettoria discendente.

Una nuova politica.

La dialettica del capitalismo industriale, che Marx ha analizzato e predetto con impressionante accuratezza, non opera più nel nord del mondo ed è stata ostacolata al sud.

Il capitalismo postindustriale non produce più una classe operaia in crescita e sempre più concentrata.

 Quel processo è finito a nord nel periodo 1965-1980, quando il peso sociale della classe operaia ha raggiunto il picco.

Nel sud del mondo, l’occupazione manifatturiera si è arrestata negli anni Novanta e l’occupazione industriale, comprese le costruzioni e l’estrazione mineraria, intorno al 2010.

Anche se si potessero riconquistare i settori della classe operaia finiti a destra, il movimento operaio è solo una componente necessaria della politica egualitaria, non più sufficiente come suo centro naturale.

Decisiva per qualsiasi politica egualitaria di successo nell’era postindustriale è una politica rivolta alla classe media da parte della sinistra.

Si tratta di una questione molto delicata e difficile, perché una politica egualitaria della classe media non può abbandonare i più vulnerabili, né la metà più povera della popolazione, alle privatizzazioni e alla stagnazione dei redditi, né i diritti dei lavoratori contro i datori di lavoro.

 È l’opposto del blairismo e dell’orientamento borghese di destra, che ha distrutto il Partito socialista francese e l’Spd tedesca, l’opposto di voltare le spalle al popolo, del fare bisboccia con il capitale rappresentando la visione del mondo della classe medio-alta.

 

Il compito è convincere la classe media – o parti sostanziali di essa – dei vantaggi dell’uguaglianza e della solidarietà rispetto ai privilegi neo-faraonici e alle ricompense per il capitale e i suoi figli.

Il punto di partenza è che il capitalismo finanziario postindustriale sta abbandonando ed escludendo la classe media, creando una società dell’1% contro il 99%.

Chi governa queste lugubri democrazie, non è certamente l’elettore medio delle teorie economiche della democrazia.

 «Non c’è nulla di medio», potrebbe essere la frase che rappresenta l’epitaffio neoliberista per la classe media.

(Göran Therborn è professore emerito di sociologia alla University of Cambridge.)

 

 

 

 

Le nuove parole della politica.

Il “Pnrr” da mettere a terra, ma attenti alla postura.

 

Quotidianodipuglia.it – (12-3-2023) - Francesco G. Gioffredi – ci dice:

Governanti, parlamentari, sindaci, assessori: si oscilla da un estremo all’altro.

 O il linguaggio “basso”, sguaiato e da social, oppure quello troppo alto, tecnico a tratti incomprensibile e colmo di espedienti retorici d’improvviso alla moda.

Non c’è via di mezzo e a questo punto forse nemmeno d’uscita.

Da un estremo all’altro, come un pendolo impazzito: il linguaggio della politica è così, non conosce soluzioni intermedie.

Oscilla ormai tra il bassissimo e l’apparentemente altissimo.

 Quindi: o il lessico sbracato, sguaiato, semplificato, da osteria social e da sfottò delle scuole medie, oppure quello oscuro, altisonante, imbevuto di tecnicismi e nuovi tic retorici, di parole tanto grandi, misteriose, affascinanti, manageriali e soprattutto troppo ricorrenti da essere alla fine solo attesa, pausa, rinvio, pretesto, “faremo” e “vedremo”.

 Le parole, in un caso e nell’altro e quando usate fino alla nausea (il segreto è sempre la giusta misura), alla fine degradano fino a diventare gusci vuoti ed evanescenti, le ascolti e sono solo fruscio di fondo.

 Se c’è una «cabina di regia» qualcosa vorrà pur dire e starà succedendo, o forse no ed è solo una supercazzola attendista, e allora pazienza, andiamo avanti.

 La politica, quando vuol dire tutto e sempre, alla fine non dice nulla.

 

Tra abitudine e moda

Fatta la premessa, veniamo al punto: non se ne può più. Di acronimi incomprensibili, di «Por» e «Lep», di anglicismi benintenzionati, di «due diligence» e di «deadline», dei dico-e-non-dico, di concetti usati come diversivo, dell’ampollosa e un po’ buffa retorica di parole che riempiranno pure il cuore e le insicurezze di chi le pronuncia, ma svuotano l’anima di chi ascolta o legge smarrito. Cosa diavolo sarà questa «Flat tax»? E perché mai, da destra a sinistra, hanno preso tutti una cocente sbandata per la «postura», dalla «postura internazionale», alla «postura ideologica»? Vai a capire. Ma del resto basta un «Pnrr da mettere a terra» (mai «realizzare»: ormai solo «mettere a terra»), una «piattaforma programmatica da rilanciare», una «mission da traguardare» e il gioco è fatto: anche il più naif dei deputati o il più sprovveduto degli assessori si sentirà lì, nell’olimpo degli statisti da Prima e Seconda Repubblica e dei grandi mandarini di Stato, o al limite nell’anticamera, perché così parlano “quelli importanti”, cosi decretano le “carte” dei ministeri e i tecnici degli assessorati, e così suggeriscono pure i ghostwriter, che ormai sono le tute blu della grande e rutilante fabbrica della comunicazione istituzionale e di partito.

 

Il difficile gioco della politica

La politica, nelle democrazie contemporanee, prova a esercitare la propria egemonia innanzitutto con le parole e col corpo del leader. E il potere, in un tempo così provvisorio e fugace, è prima di ogni cosa intrattenere e ammaliare l’elettore, raccontare una bella storia, fare la faccia giusta al momento giusto, sfoggiare la parola che arriva dritta al cuore o che confonde e stordisce con una ventata di burocratica complessità. C’è un lessico per tutto, in politica. Ce n’è uno per la campagna elettorale e per l’opposizione, quando si può esagerare, sbraitare, indignare e sognare. È lo «storytelling», ma anche questa è locuzione ormai usata e consunta, o la «narrazione», come evocava il poeta-presidente Nichi Vendola, o è soltanto il «populismo», cioè l’accusa che tutti fanno a tutti. E poi c’è un lessico per governare, quando i conti pubblici, l’Europa, i ministeri, le Agenzie, le Borse e il senso di realtà impongono paletti e limiti e obbligano al grigiore, all’attenzione, agli equilibri, ai toni curiali e in definitiva alla responsabilità. A proposito: «i responsabili» - segnatevi anche questo espediente retorico – a un certo punto di ogni Legislatura diventano in Parlamento la bombola d’ossigeno delle maggioranze in debito di numeri, ma banalmente i responsabili sono soltanto i deputati e senatori senza dio che corrono in soccorso del Potere di turno in difficoltà. D’altro canto – come disse con fulminante sarcasmo Francesco Cossiga riferendosi ai suoi “straccioni di Valmy”, portati a sostegno del governo D’Alema – «c’è sempre un’ala concretista»: altre parole, altro livello, altri tempi.

Ma tant’è. Persino i più incendiari e incazzati di tutti, cioè i cinque stelle, si sono subito abbandonati al sottile fascino della responsabilità: una volta al governo, hanno cambiato registro lessicale, dal “vaffanculo” elettorale in un batter d’ali si sono arresi a tutta la batteria di arzigogoli tecnici e in bello stile, per dichiarare senza dire, annunciare senza spiegare, come un qualsiasi deputato diccì di terza schiera degli anni ‘80. Solito trappolone, dalla Camera all’ultimo Consiglio comunale, da Nord a Sud, e ovunque stessa teatralizzazione vacua e ripetitiva.

 

L'ossessione per gli acronimi

La coperta più rassicurante alla quale aggrapparsi, di recente, sono gli acronimi: fanno chic e impegnano il giusto. Sarà che a far crollare la diga è stato l’onnipresente Pnrr (test: senza il supporto di Google ricordate tutti per cosa sta?), ma fioriscono ovunque: i Lep nell’autonomia differenziata, il Pug nelle città che è anticipato dal Dpp, senza dimenticare – sempre a livello comunale – il Pums, il Peba e il Prt. C’è ovviamente il Rdc per i più poveri, ora il Mia, ma in Puglia era stato già varato il Red. Giù al porto invece a governare tutto ci pensa l’Adsp. E se c’è da spiegare al cittadino-elettore che qui nessuno sta a guardare e che perciò sarà catapultata una pioggia di risorse dall’Europa e dintorni, via con la mitragliata di sigle: Por, Fsc, Fse, Fesr, Pac, Psr, Cis, React Eu, Next Generation Eu. Non è uno scherzo: a ciascuna corrisponde una direttrice di finanziamento, di spesa e di governance. Ahi, sì, vero, ci siamo cascati: «governance», la parola-scudo per addolcire la pillola e nobilitare. Se tutto va a rotoli ed è fuori controllo, allora ricordate che bisogna «ridisegnare la governance» e sarà la svolta. Magari «spacchettando» le competenze. Il Pnrr, con tutte le sue ramificazioni e derivazioni, ha inaugurato una sorta di neo-lingua, ispirata dalla tecnocrazia di Bruxelles e che risulta sufficientemente grave e impegnata da conferire un tono solenne a tutti: un progetto, ormai, si può solo «mettere a terra», rispettando i «target», i «milestone», il «cronoprogramma» e il «documento programmatico». Male che vada, si può sempre acconciare un «masterplan»: il buon, vecchio piano è inflazionato, abusato, stropicciato e a furia di rimanere nei cassetti ha perso credibilità.

 

 

Ben gli sta.

C'è un tavolo per tutto e tutti

Di tutto e di più si può sempre discutere nell’immaginifica cabina di regia o al più tradizionale «tavolo»: nel dubbio, è sempre il caso di convocarne uno per «l’interlocuzione», altra parola ormai mitologica. Il «dialogo» è troppo plateale, meglio una eufemistica e tattica «interlocuzione» per arrivare a «un cambio di passo» e a un «punto di caduta». La politica è da decenni alta falegnameria: c’è un tavolo per tutto. Per fare un tavolo ci vuole l’utensileria, ma attenti a cosa scegliete: «apriscatole, trapano, ruspa, lanciafiamme» appartengono all’altra metà del cielo linguistico-politico, a quello aggressivo e scomposto, non a questa lingua di parole responsabili, tecniche e fatue. E non ne parliamo se invadiamo il campo dell’economia, spazio di un gergo ultra-specialistico e mediato: detto di Flat tax e due diligence, l’ex Ilva è un «asset strategico», lo Stato deve esercitare la «golden share» individuando i giusti «driver» e il «board», e poi ci sono l’ambiziosa «pace fiscale» e i rassicuranti «ristori», ma attenti al giudizio dei «Paesi frugali» e alla Legge di bilancio corretta da qualche «manina».

 

Il politichese, la delizia di tutti

Ecco, a proposito di manina: qui sconfiniamo nel politichese in senso puro, quello da manovrieri d’aula. Basta una crisi di governo o al Comune e vabbè, quella è l’apoteosi: tutti sopraffini strateghi e raffinati analisti d’altri tempi. Ci sono perciò le «fibrillazioni», «l’inciampo», la «spallata», la «verifica», gli «ultimatum», le «larghe intese», il «campo largo», «l’anatra zoppa», lo «strappo», il «misunderstanding», i «due forni», gli infaticabili «pontieri», il «rimpasto» e la tanto anelata «discontinuità». Distinguendo «falchi e colombe», e sulla zoologia ci sarebbe tanto da elencare, dalla «bestia» in poi.

Sulla lingua della politica al tempo del Covid servirebbe una pagina a sé, ma comunque tutti sono stati virologi e statistici: il «lockdown», i «cluster», il «droplet», il «contact tracing», il «plateau», il «distanziamento sociale», i Dpcm e i mitici «congiunti».

 

Specchio, farsa e melodramma

In generale: se la politica è specchio del Paese, e lo è, la lingua della politica allora interpreta la nostra attitudine naturale alla farsa e al melodramma, che sono lo strumento col quale addomestichiamo la realtà. E se tutto degenera, tranquilli: c’è sempre l’altra faccia della medaglia, le parole triviali e folcloristiche, la scena politica che diventa oscena, i «rosiconi» e i «gufi», la «mangiatoia» e «la pacchia è finita». Ed è finito anche questo pezzo che, bisogna ammetterlo, per chi ormai da un bel po’ scrive di politica è stato anche una forma di espiazione e di autodenuncia.

 

“Smart Cities”, Nuove

Frontiere del Degrado.

Conoscenzealconfine.it – (28 Agosto 2023) - Uriel Crua – ci dice:

 

Ci si avvicina a passi da gigante verso l’accettazione, l’introiezione, l’assimilazione collettiva di paesaggi urbani del tipo distopico: le “smart cities”.

Il Pass corporeo, già largamente introdotto e accettato durante la messinscena pandemica, apre a nuovi meccanismi di premialità con le “scatole nere” da installare sui propri veicoli “inquinanti” per poter circolare nelle città.

A giudicare dai chilometri annui “concessi” installando questi dispositivi di controllo, non cambia affatto il presunto livello di inquinamento delle città, anzi.

Ma cambia – come al solito – il livello di controllo che il cittadino è disposto a subire da parte delle autorità.

Esattamente come il Pass corporeo non andava a cambiare nulla dal punto di vista sanitario:

 anche lì, si trattava di un orpello da sorveglianza.

L’immagine dorata, metallica e funzionale delle nuove venture “città intelligenti” si traduce così in nient’altro che massificazione del controllo e aggregazione di dati a disposizione dei sorveglianti per poter gestire al meglio le greggi, con fortissime probabilità di esclusioni, discriminazioni, ghettizzazioni.

Le città intelligenti (alla cinese) non saranno nicchie hi-tech funzionali alla popolazione, alla gestione del quotidiano e al miglioramento della qualità della vita, ma enormi bunker-prigione, a loro volta suddivisi in zone più o meno accessibili sulla base delle premialità, ovvero della disposizione del singolo cittadino di accettare gradi di controllo sempre maggiori, pena l’esclusione.

Con una sapiente grammatura di propaganda e creazione del bisogno, i sorveglianti stanno indirizzando le mandrie dentro nuovi recinti.

L’unico modo per arrestare il processo è quello di rifiutarsi di eseguire, anche e soprattutto al costo di vedere sacrificata adesso la qualità della propria vita, senza rimandare a domani.

Perché domani sarà già tardi…

Sembra che anche a Maui avessero intenzione di costruire una smart city… guarda caso proprio nelle zone “bombardate” e adesso, forse, riusciranno a realizzarla. (nota di conoscenze al confine)

(Uriel Crua)

(neoprometheus.org/smart-cities-nuove-frontiere-del-degrado)

 

 

I borghi devono

tornare a essere paesi.

 Internazionale.it - Luca Martinelli – (7 ottobre 2022) – ci dice:

(Ro​ccafiorita, provincia di Messina, novembre 2020.)

 

Nell’ultimo anno sono stati pubblicati diversi libri che ragionano sul valore delle aree interne e sul futuro dei borghi, ormai visti come mete turistiche più che luoghi da abitare.

“Restare non significa soltanto contare le macerie, accompagnare i defunti, custodire e consegnare ricordi e memorie”, ma anche “mantenere il sentimento dei luoghi e camminare per costruire qui e ora un mondo nuovo, anche a partire dalla rovine del vecchio”.

Savino Monterisi è un giornalista abruzzese che ha scelto di tornare a vivere e lavorare sull’Appennino.

Abita a Bagnaturo, una frazione del comune di Pratola Peligna, in provincia dell’Aquila, ai piedi del monte Morrone.

Il suo ultimo libro, “Infinito restare”, è stato pubblicato quest’anno da un piccolo editore indipendente, Radici Edizioni, fondato a Capistrello (Aq) da un giovane abruzzese, Gianluca Salustri.

È allo stesso tempo un diario di viaggio (perché chi resta è in movimento, sottolinea Monterisi), un saggio e una raccolta di reportage giornalistici, di storie dall’Abruzzo interno.

 È uno strumento utilissimo: aiuta a ribaltare narrazioni, decostruire immaginari e cambiare punto di vista.

Un paragrafo, per esempio, è intitolato “Il borgo è un paese che non ce l’ha fatta”, ed è una risposta ironica alla borgomania esplosa durante il primo lockdown, nel marzo 2020, l’idea che la pandemia sarebbe stata l’occasione di abbandonare le città ormai invivibili per ricostruire in luoghi più isolati un futuro apparentemente idilliaco, fatto di orti e aria buona.

“Un borgo è un paese che ha fatto ricorso alla chirurgia estetica solo per essere più attraente”, scrive Monterisi.

Senza la comunità dei suoi abitanti, senza “stratificate convenzioni sociali, riti, tradizioni, legami familiari, storie dei luoghi” il borgo semplicemente non esiste, è un guscio vuoto che finirà abbandonato.

 Anche dai turisti che il marketing territoriale vuole attirare:

perché se mancano gli abitanti, la comunità, non può esserci alcun turismo legato all’opportunità di condividere esperienze reali, come un corso per preparare la pasta fatta in casa o una vendemmia, ma se in un paese non ci sono servizi essenziali non possono esserci abitanti.

 

Spazio per turisti.

Il concetto di abitabilità è al centro del pamphlet Contro i borghi.

“Il Belpaese” che dimentica i paesi, curato da Filippo Barbera, Domenico Cersosimo e Antonio De Rossi per Donzelli Editore (2022).

Raccoglie una ventina di saggi e nasce per rispondere all’idea, abbracciata dalle istituzioni, che un paese isolato è degno di esistere e di ricevere finanziamenti pubblici solo se e in quanto borgo, ovvero come spazio per turisti.

È l’idea alla base del “bando borghi” del ministero della cultura, che nell’ambito del Piano nazionale ripresa e resilienza (Pnrr) ha destinato un miliardo di euro a progetti di rigenerazione urbana, dedicando quasi la metà del budget alla creazione in ogni singola regione italiana di un “borgo dei borghi”, una vetrina senza abitanti ma instagrammabile e a misura di turista, costruita con un finanziamento di 20 milioni di euro.

 

“Ventuno borghi straordinari torneranno a vivere.

Un meccanismo virtuoso voluto dal ministero della cultura ha portato le regioni a individuare progetti ambiziosi che daranno nuove vocazioni a luoghi meravigliosi”, ha detto il ministro della cultura Franceschini.

Peccato che gli interventi finanziati riguardino in alcuni casi aree disabitate, come il castello di Andora, in Liguria, o prettamente urbane, come il borgo castello di Gorizia, che fa parte del centro storico della città.

 L’equazione semplicistica del ministero è “turismo uguale sviluppo”.

Il saggio “Contro i borghi” firmato da Barbera con Joselle Dagnes è un invito a ribaltare la prospettiva, che arriva a coniare il neologismo” Bruttitalia”, per indicare una verità che secondo gli autori è sotto gli occhi di tutti:

“L’Italia è un paese bellissimo fatto, per la maggior parte, di posti brutti”.

 Posti dove i turisti non hanno nessun motivo di andare, ma che continuano a inseguire la chimera della turistizzazione.

Non sono borghi, sono paesi, dove “esiste, quindi, una rilevante domanda di vita quotidiana […] che chiede politiche pubbliche attente alle specificità dei luoghi”, che abbiano come obiettivo la qualità della vita degli abitanti dei territori, anche “di quelli dove nessun turista vorrebbe mai trascorrere più di qualche ora”.

In effetti una politica per le aree interne in Italia c’è.

Si chiama “Strategia nazionale aree interne” (Snai) e l’ha immaginata nel 2012 Fabrizio Barca.

 La Snai ha coinvolto finora un migliaio di comuni.

 La racconta un libro uscito sempre per Donzelli, nella collana curata dall’associazione Riabitare l’Italia: L’Italia lontana.

Sabrina Lucatelli, Daniela Luisi e Filippo Tantillo, tre protagonisti dell’implementazione della Snai, analizzano successi e limiti della prima politica pubblica place-based, in cui le scelte strategiche non sono prese al livello centrale ma coinvolgono gli attori pubblici e privati del territorio coinvolto.

La Snai per la prima volta ha visto il governo e le amministrazioni centrali costruire dal basso gli interventi, coinvolgendo in processi partecipativi cittadini, amministratori e gruppi d’interesse locali.

Antiche storie.

“Le aree interne hanno tutte storie straordinarie, ma la storia straordinaria del loro possibile futuro è ciò che deve stare al centro, usando e rigenerando (non sedendosi su) quelle antiche storie”, scrive “Barca” nel testo che introduce il saggio.

La “Snai” è al centro anche della raccolta di saggi” L’altra faccia della luna”, curato da Francesco Monaco e Walter Tortorella per Rubbettino (2022).

Giovanni Teneggi introduce al concetto di servizi di cittadinanza come questione di giustizia sociale.

 Eppure, sempre più comuni in base agli indicatori Istat sono classificati come “periferici” e “ultra-periferici”, cioè distanti rispettivamente 41 o 67 minuti da una stazione ferroviaria servita, da un ospedale con pronto soccorso, da un’offerta adeguata di scuole superiori.

In comuni di questo tipo vivono 5,37 milioni di italiani.

Nel 2014 erano 4,22 milioni.

Questo non significa che sia aumentato il numero di residenti nelle aree interne, ma semplicemente che sempre più comuni (1.906 contro 1.767) si trovano distanti dai servizi essenziali.

Diventa così interessante il racconto delle sperimentazioni in atto, per esempio per valorizzare le piccole scuole come strumento d’innovazione per un’educazione di comunità:

 montagna non significa isolamento, e quindi i bambini delle scuole elementari di Sassello, nell’Appennino savonese, fanno lezione online dialogando con i loro coetanei di Favignana, una delle isole dell’arcipelago delle Eolie.

La medicina di prossimità, di cui tanto si parla, è realtà se si racconta la storia degli infermieri di comunità dell’Appennino reggiano, che si prendono cura di tutti quelli con più di 65 anni, li vanno a trovare a casa e lavorano sulla prevenzione, promuovendo attività come passeggiate di gruppo per combattere la sedentarietà.

O quella delle ostetriche di comunità, che nell’Appennino abruzzese seguono le donne fin dall’inizio della gravidanza (le giovani delle aree interne fanno meno figli, in molti casi perché sanno che non avrebbero alcuna assistenza, se non percorrendo decine di chilometri).

Dopo la pandemia, senza investimenti sui servizi essenziali, le persone andate a lavorare in smart working nel loro paese torneranno in città.

Tra i servizi essenziali ci sono poi quelli legati alla mobilità e all’accesso alla rete.

 Il tema della connettività è emerso con forza a partire dalla primavera del 2020, quando almeno centomila lavoratori emigrati dal sud al nord dell’Italia sono tornati a casa, sfruttando l’opportunità dello smart working.

Perché questo fenomeno possa tradursi in un reale ripopolamento, con l’afflusso di nuovi abitanti che lavorano a distanza, la qualità della vita dovrà essere soddisfacente, e comunque più alta rispetto a quella delle città.

E per questo servono servizi, a cominciare da una connessione veloce a internet. Un antidoto efficace al racconto lezioso di questo fenomeno è il saggio “South Working”.

 Per un futuro sostenibile del lavoro agile in Italia (Donzelli 2022).

 I curatori, Mario Mirabile ed Elena Militello, sono tra i fondatori dell’associazione “South Working” e coordinano un racconto a più voci che evidenzia il rischio di una possibile inversione a U:

dopo la pandemia, in assenza di investimenti sui servizi essenziali, le persone torneranno al nord o comunque in città.

Due esempi: a Tursi, in provincia di Matera, è nato un “coworking “all’interno della vecchia sede del comune, in un ex convento del seicento;

 nell’estate del 2022 a Fontanigorda, in alta val Trebbia, in Liguria, con 240 abitanti, la vecchia scuola chiusa negli anni novanta è stata trasformata in uno spazio di “coworking”.

“I luoghi con maggiori speranze sono quelli in cui cittadine e cittadini intravedono un futuro, costruito con l’orgoglio di una rigenerazione dell’identità precedente.

Prefigurando una comunità di destino, non una comunità schiacciata sulla storia passata”, scrive Fabrizio Barca.

Sottolinea l’importanza di un sogno concreto che animi le persone che scelgono di restare o di tornare a vivere nelle aree interne.

E della consapevolezza che di fronte alla crisi climatica i modelli economici e sociali prevalenti nelle aree interne – “assolutamente originali e alternativi agli schemi predominanti” come scrive Augusto Ciuffetti nel suo “Appennino”.

 Economie, culture e spazi sociali dal medioevo all’età contemporanea (Carocci 2019) – potrebbe aiutare a trovare risposte e nuovi sentieri di sviluppo.

Ciuffetti cita come esempio la “centralità delle comunità di villaggio e [la] gestione collettiva delle risorse, come pascoli e boschi, attraverso la pratica degli usi civici e dei beni comuni”.

 Sono i connotati di quella società tradizionale che aveva permesso all’Appennino di resistere al declino economico e al ripiegamento demografico almeno fino agli anni cinquanta del novecento, quando l’Italia attraversò la fase di sviluppo conosciuta come “miracolo economico”, che schiantò la civiltà contadina e produsse un’emigrazione di massa nelle città.

È tempo, probabilmente, di andare a cercare un nuovo equilibrio, che permetta di vivere in modo dignitoso in ambito urbano e nelle aree interne del paese.

 

 

 

Astensionismo

e ipocrisie.

 Lacostituzione.info – (18 Ottobre 2022) - Giuliano Vosa – ci dice:

 

In un Topolino di qualche decennio fa, di fronte ai suoi campi allagati da un’improvvisa alluvione, Zio Paperone piangeva con un occhio solo:

finché non si sarebbe celebrato il raccolto, i mezzadri non sarebbero stati pagati e le sue monete d’oro non avrebbero lasciato il Deposito.

Quella vignetta, oltre ad arricchire il novero di riferimenti culturali del dibattito più recente, calza a pennello alle dichiarazioni di vari esponenti politici all’indomani delle elezioni del 25 settembre 2022.

 Per due motivi.

 

Uno:

perché il pianto del coccodrillo a babbo morto, dopo aver stracciato il record negativo della storia repubblicana già fissato nel 2018, suona tremendamente ipocrita – poco si è fatto per stimolare la partecipazione in un frangente storico tanto delicato, sia nei cinque anni precedenti, sia alle soglie del voto – e alimenta il sospetto per cui un ceto politico chiamato a scelte impopolari reputi vantaggiosa la graduale riduzione dei cittadini politicamente attivi, poiché allenta il controllo che gli elettori esercitano sugli eletti.

Secondo:

se il regolarizzarsi di tale diminuzione assicura ai dirigenti mani più libere nel breve periodo, non può dubitarsi che, nel lungo termine, pretendere di governare all’insaputa dei governati equivalga a segare il ramo su cui siedono gli uni e gli altri, trasformando in gusci vuoti le istituzioni del pluralismo.

“Ezio Mauro”, dalle colonne di una Repubblica listata a lutto – epperò sempre speranzosa nel vincolo esterno – suona a raccolta le campane contro la nuova stagione populista:

tuttavia, si direbbe, questa stagione è solo una nuova tappa di un “technopopulism” in atto da decenni, che ha già svuotato di senso, in misura nient’affatto trascurabile, le categorie e gli strumenti della democrazia rappresentativa.

Bene, anzi male:

 il ravvedimento operoso di una classe politica incautamente ignava, se non in penosa malafede, deve passare per alcuni punti salienti, da mettere a segno – si auspica – entro l’estate 2023.

Legge elettorale. Non c’è stato giorno, nei mesi scorsi, in cui non si sia gettata la croce sul Rosatellum-bis.

Buona o malafede che fosse, occorre ora che la legge elettorale sia adeguata a logiche di comprensibilità ed eguaglianza del voto, assicurando in termini più stringenti quella conoscibilità elettore-eletto che la Corte costituzionale ha posto alla base del principio di rappresentanza.

Quale tipo di sistema usare, non è qui rilevante;

 conta però che, qualunque sia la scelta, essa si appoggi sui tre pilastri della conoscibilità – liste brevi, no voto bloccato, no pluricandidature – e che neutralizzi, a tale scopo, gli effetti della commistione maggioritario-proporzionale.

Basterebbe già questo a rinsaldare il legame fra territorio e istituzioni:

si eviterebbero gli effetti del paracadutismo di certi prossimi parlamentari, e ad altri, ormai futuri ex, si risparmierebbe la brutta figura del fallito atterraggio.

Si può?

Impresentabili.

Se sì, allora si affronti, senza remore, il tema dei rapporti tra “politica” e forme di clientelismo elettorale che talora sfociano, da Sud a Nord, nel supporto alla criminalità organizzata.

 Se non si vuole affidare ai giudici il potere di decidere chi può candidarsi e chi no, come da tonitruante retorica “garantista”, si renda vincolante il parere della Commissione Antimafia, al netto di ogni indagine in corso.

Una clausola interna sottoscritta da tutti i partiti, attivabile da ciascun iscritto in caso di violazione, in attesa di una legge che renda più pregnante il “metodo democratico” con riguardo alle forme della rappresentanza partitica.

Resterebbe al giudice il compito di decidere sull’eventuale impugnazione da parte dell’escluso;

 tuttavia, se la clausola prevedesse con un buon grado di dettaglio i casi di esclusione, il tasso di politicità della decisione si ridurrebbe.

Se la preferenza, si dice, implica il rafforzamento del clientelismo, allora si colga l’occasione di bonificare la rappresentanza dalle sue degenerazioni.

Sradicare, in ogni sua forma, il voto di scambio – che da più parti, incredibilmente, si accomuna al reddito di cittadinanza, come se lo Stato e le mafie fossero legittimati in pari misura nel migliorare le condizioni di vita e lavoro dei cittadini, e come se una legge generale equivalesse a un accordo fuorilegge fra singoli – è un passaggio cruciale per far sì che, anche nelle aree più socialmente depresse, l’elettore torni ad attribuire al suo gesto un significato concreto.

Fuorisede.

Una fetta cospicua di studenti e lavoratori, soprattutto giovani, e soprattutto originari del Sud, vive e lavora lontano dal luogo di residenza.

Disinteressarsi della loro partecipazione, costringerli a spostarsi comprando biglietti a prezzi gonfiati – peraltro, in tempi di Covid crescente – è stata un’imperdonabile leggerezza.

Si può provare a consentire loro di votare rimanendo nel luogo in cui dimorano – lavorano, studiano, vivono.

 La tecnologia potrebbe rendere utilizzabile una tessera elettorale in altro seggio anche senza recarsi fisicamente presso quello originario.

 

Firme digitali.

Il caso Cappato, che ha minacciato la regolarità del voto fino a pochi giorni prima dell’apertura delle urne, evidenzia un’altra imperdonabile leggerezza – peraltro, dall’acre sapore discriminatorio verso le liste nuove, già discriminate ex se dall’obbligo stesso di raccolta delle firme.

Prevedere modalità di sottoscrizione digitale delle candidature è già possibile, anzi in verità sarebbe (stato) obbligatorio per il Governo in base alla delega contenuta nella legge 165/2017 (art. 3, comma 7).

Cinque anni (con quattro diverse maggioranze) non sono stati sufficienti.

 Che questo sia quello buono?

 

Elettori a mobilità ridotta.

Anche in questo caso, può valutarsi un uso più ampio della tecnologia disponibile, rendendo più semplice votare per chi non può recarsi al seggio.

 Trascurare il contributo dei più fragili alla costruzione della comunità politica è un (altro) brutto segno; cancellarlo con azioni di segno opposto è doveroso e urgente.

Infine, una critica, garbata ma doverosa, al Presidente Mattarella.

Come ricordava il Comunicato del 21 luglio 2022,

“il periodo che attraversiamo non consente pause”;

 di qui lo scioglimento istantaneo, senza consultazioni di rito, e pure il riconoscimento al Governo Draghi di poteri normativi assai penetranti, benché in regime di “disbrigo degli affari correnti”.

 Ora, a fronte di un tale comportamento, forse, un’attenzione più puntigliosa alla qualità della rappresentanza prossima ventura sarebbe stata opportuna, proprio per le ragioni esposte nel Comunicato. Concertare col Governo una o due settimane in più di campagna elettorale, ad esempio, avrebbe permesso ai partiti nuovi di farsi conoscere meglio, e a quelli più consolidati di promuovere con maggior vigore la partecipazione dei cittadini all’evento elettorale. Avrebbe aiutato a ridurre l’astensionismo?

Forse.

Ma avrebbe dato il senso dell’importanza dell’evento, dell’attenzione, della partecipazione di cuore e ragione che le istituzioni si attendono dai cittadini quando spetta a ciascuno di loro l’esercizio della responsabilità pubblica più alta.

Altrimenti, si dà fiato ai sospetti peggiori:

 quelli di aver trattato quest’elezione, come la precedente e, chissà, la prossima, come un dente da cavarsi alla svelta.

Fare in fretta per non disturbare il “manovratore”;

ché tanto le linee generali della politica italiana andranno avanti “col pilota automatico europeo”. 

Il voto, vale la pena ribadirlo, deve tornare ad essere percepito come un momento decisivo, come un evento emotivamente forte.

E, perché sia percepito come tale, deve tornare ad esserlo, in una certa misura.

La necessità di rispettare i vincoli finanziari europei, di non turbare i mercati e di non agitare gli alleati internazionali non può essere assoluta, ma deve bilanciarsi col diritto di voto.

Dovere civico e diritto fondamentale, il voto, cardine della sovranità popolare di cui all’art. 1 della Costituzione, da proteggere nei suoi risvolti formali e sostanziali.

Se non passa questo principio, e se l’incuria continuerà a corrodere la rappresentanza, il 63,9% dei votanti alla prossima tornata sarà un risultato difficilmente eguagliabile.

E chi glielo spiegherà, allora, all’Europa, ai mercati e agli alleati, che i governanti controlleranno i palazzi ma non le istituzioni che rappresentano?

 

 

L’IDEA DI EMANCIPARE

LE MASSE È PURA UTOPIA!

Sfero.me – Antonio Ceparano – (27 agosto 2023) – ci dice:

 

In una partita di scacchi vince chi:

riesce ad anticipare le mosse dell’avversario;

possiede una buona strategia, finalizzata a creare le opportunità tattiche per conseguire i propri obiettivi;

 è capace di adattarsi alle situazioni impreviste.

Il Potere così come ne abbiamo esperienza, e cioè un esiguo numero di uomini capaci di fascinare le masse e coartarne la volontà alla propria, ha tutte le caratteristiche di un bravo giocatore di scacchi perché conosce alla perfezione la struttura mentale dei popoli, e sa volgere a suo vantaggio l’irrazionalità ed emotività propria delle masse.

Al Potere non interessa l’individuo in quanto singolo, ma l’agglomerato di uomini che possiede l’indiscutibile merito dell’obbedienza passiva all’autorità.

 E poiché il Potere transita attraverso gli individui che formano tutti insieme il corpo della massa, il singolo individuo che osa metterne in discussione la legittimità e l’autorità viene emarginato e discriminato non dagli strumenti repressivi del Potere, ma da quella stessa massa per non essersi conformato alle norme o ai valori dominanti della comunità.

Nessuna violenza, nessuna coercizione:

“similia similibus curantur” (i simili si curano coi simili).

L’esclusione gregaria è un metodo assai più efficace della punizione fisica.

Il passaggio storico dal supplizio (basato sulla tortura e sulla sofferenza fisica del corpo del condannato) al carcere (basata sul controllo e sulla normalizzazione dell'anima del delinquente), che rappresenta uno dei temi centrali del saggio di “Michel Foucault” “Sorvegliare e punire”, segna il momento in cui il Potere ha potuto disporre di laboratori sperimentali per testare su soggetti umani una nuova tecnologia politica del potere basata sulla sorveglianza, che consiste nel disporre tutti gli individui in uno spazio visibile e controllabile, come nel modello del “panopticon” ideato da “Bentham”, e sulla sanzione normalizzatrice simile al sistema di credito sociale cinese, che consiste nel valutare e correggere i comportamenti degli individui.

Coloro che si discostano dalla norma prestabilita, verranno penalizzati con la decurtazione dei crediti sociali, quelli che si conformano saranno, invece, premiati con l’incremento dei crediti.

L’esperienza acquisita attraverso i vari metodi di detenzione, adottati nei vari penitenziari, è stata quindi adottata come nuovo strumento di controllo e dominio delle folle.

 L’avvento poi della «società di massa», con la sua combinazione di consumismo e individualismo ha fatto il resto, facilitando l’avvento di nuove forme di potere dispotico, capaci di annichilire qualunque desiderio di ribellione e di libertà.

 

Quell’agglomerato di individui che concorrono alla formazione delle folle, delle masse, possiede caratteristiche nuove ben diverse da quelle dei singoli individui che le compongono.

 Il pensiero critico svanisce, e i sentimenti e le idee di tutte le singole unità si orientano nella medesima direzione, come le molecole d’acqua esposte ad un potente campo magnetico esterno.

Così la folla diventa in tutto e per tutto simile ad un gregge che non può fare a meno di un padrone.

 E se gli togli quel padrone senza metterne al suo posto un altro, ti ucciderà e ripristinerà il precedente, perché – ripeto – non sa fare a meno di despoti.

Organizziamoci noi – come minoranza – perché si possa vivere da uomini liberi e non topi.

 

Subito un intenzionato/a per combattere:

STEFANIA CONCA  col suo intervento inviato il 27 agosto 2023 alle 20:47,

è’ molto convinta dal credo di Antonio Ceparano e della sua idea :

 “ EMANCIPARE LE MASSE È PURA UTOPIA! “

Molto vero.

“ Angelo Georgianni” , magistrato di cui ho molta stima e che seguo , sostiene che presto ci sarà un nuovo mondo .

Molti sociologi fra cui “Cianti “sostengono lo stesso e il tutto avverrà intorno al 2025/2026 .

Nel senso che, o vincono loro o vinciamo noi, come avevi detto anche tu, per cui, per forza la parte di umanità che attualmente si trova in minoranza e vorrà resistere a quella che sarà la loro agenda 2030 e volerla in qualche modo aggirare , dovrà attrezzarsi , entro quella data , per poter riuscire a costruire una nuova comunità dove riuscire a resistere e cooperare lontano dalla loro follia , con le nostre scuole , nostri ospedali , terreni coltivabili , artigianato ecc. ecc.

Il mondo vecchio al quale siamo da sempre stati abituati, verrà spazzato via con l’automatizzazione, la guerra e la crisi.

Adesso comincia il” Grande Reset”  di Claus Schwab il “pazzo”.

Da settembre purtroppo, con l'aumento del carburante, inflazione e aumento di generi alimentari e “Mes” ci " resetteranno" cioè ci raderanno al suolo come economia e tutto ciò a cui eravamo abituati, comodità incluse, verrà spazzato via con l'automatizzazione e aumenti.

 Il periodo fra il 2023 e il 2025 sarà il più duro e potrà resistere soltanto chi si terrà ben informato e avrà la mente aperta e resiliente.

Credo che quest'autunno ne cominceremo a vedere delle belle, per ora ci hanno ipnotizzato raccontandoci del boom economico della gente in ferie ma adesso piano piano gli albergatori timidamente iniziano a tirare le somme e fra qualche settimana cominceranno le prime notizie sul flop delle strutture alberghiere e ristoranti.

 Tanto ormai è tutto un dire il tutto e il contrario di tutto, come con i vaccini, poi però la verità salta fuori tutta insieme come i tubi rotti e non si potrà ignorare.

Sicuramente scatteranno rivolte, quella sarà la prima naturale conseguenza, alla quale loro reagiranno con l'esercito.

Tocca poi a noi, il 3%, i difetti di fabbricazione, a tenere gli occhi ben aperti e cercare di organizzarci in comunità per sfuggire al loro credito sociale, le loro telecamere, il metaverso, il microchip, la “deficienza artificiale”, le leggi “lgbt”, Woke, e tutte le boiate più assurde che ci verranno fatte ingoiare con la loro prepotenza.

 

 

Il Grande Fratello cinese,

come lavora una dittatura.

 Buonadestra.it - Maria Elena Caffe – (3 Agosto 2023) – ci dice:

 

La Cina ha da tempo adottato una serie di misure rigorose per proteggere la sicurezza nazionale e combattere lo spionaggio, ma la campagna di coinvolgimento del popolo, lanciata dal Ministero della Sicurezza di Stato, con l’apertura di un account su WeChat per ricevere segnalazioni, è solo un altro strumento per sorvegliare e controllare la popolazione.

Piuttosto che promuovere una società aperta e inclusiva, il governo cinese cerca di spingere i cittadini a diventare occhi e orecchie del regime, una sorta di esercito di spie al servizio del potere.

Così sollevano preoccupazioni riguardanti la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

Vi è stato inoltre l’ampliamento delle maglie della legge anti-spionaggio il mese scorso.

 Sebbene lo spionaggio possa rappresentare una minaccia legittima alla sicurezza di qualsiasi nazione, è essenziale garantire che queste misure siano bilanciate e rispettose dei diritti fondamentali dei cittadini.

La Cina ha un’ampia storia di censura e sorveglianza di massa, e questa nuova legge e campagna potrebbero accentuare ulteriormente questi problemi.

Già nel 2016, è stata istituita la “Giornata annuale dell’educazione alla sicurezza nazionale”, durante la quale sono state promosse iniziative volte a sensibilizzare il pubblico sulla minaccia dello spionaggio straniero.

Tuttavia, con l’intensificarsi della narrativa sulla sicurezza nazionale e le continue preoccupazioni riguardanti lo spionaggio, l’attuale campagna potrebbe avere un impatto più significativo sul coinvolgimento dei cittadini nella lotta contro questa minaccia.

La partecipazione attiva del popolo cinese nella segnalazione di attività sospette, ancora di più se accompagnata da un sistema di ricompense per chi denuncia, porterà a denunce infondate e favorirà un clima di sospetto e paura.

Ma il problema non è solo l’accusa infondata del vicino di casa, chi mette davvero paura è, come sempre in uno stato particolarmente autoritario, lo stato stesso.

L’ampia definizione di spionaggio all’interno della legge potrebbe essere utilizzata per reprimere l’opposizione politica e limitare la libertà di stampa e di ricerca.

I giornalisti e gli accademici stranieri presenti in Cina potrebbero trovarsi a rischio di essere accusati di spionaggio semplicemente per aver cercato di raccogliere informazioni critiche sul paese.

Le nuove misure concedono alle autorità poteri estesi, tra cui l’ispezione di strutture, apparecchiature e dispositivi digitali delle persone sospettate di spionaggio.

Questo potrebbe tradursi in un aumento della sorveglianza e del monitoraggio delle attività online, minacciando la privacy e la sicurezza dei cittadini e delle imprese straniere.

I problemi poi si estendono, naturalmente, anche alle imprese straniere presenti in Cina, ora se possibile di fronte a una maggiore incertezza e rischi.

Già in precedenza tuttavia la situazione era abbastanza complessa.

Numerose aziende hanno subito azioni punitive da parte delle autorità cinesi sulla base delle accuse di spionaggio o di minacce alla sicurezza nazionale.

Queste azioni spesso mancano di trasparenza e di una base legale chiara, portando a incertezze legali e operazionali per le imprese straniere.

 

Ad aprile dello scorso anno, diverse società straniere hanno sperimentato incursioni e interrogatori da parte della polizia cinese.

Un esempio è stato l’ufficio di Shanghai di “Bain & Company”, una società di consulenza statunitense, dove i dipendenti sono stati interrogati e dispositivi elettronici sono stati sequestrati.

Anche altre aziende straniere hanno subito azioni simili, inclusa la società statunitense “Mintz” e la casa farmaceutica giapponese “Astellas”.

La nuova legge sul controspionaggio e la campagna di coinvolgimento del popolo della Cina rappresentano una minaccia per i diritti umani, la libertà di espressione e la privacy dei cittadini e delle imprese straniere.

Queste misure dimostrano chiaramente il desiderio del governo cinese di mantenere un controllo totale sulla società e di reprimere qualsiasi forma di opposizione.

È importante che la comunità internazionale prenda atto di queste violazioni e si opponga fermamente a tali pratiche oppressive da parte del governo cinese.

 

 

 

Gli affari nascosti della

criminalità ambientale.

  Ilbolive.unipd.it - Sofia Belardinelli – (24 luglio 2023) – ci dice:  

  I crimini ambientali sono attività illegali dannose per l’ambiente, portate avanti da individui, gruppi o organizzazioni che traggono beneficio dallo sfruttamento, il deterioramento, il commercio o il furto di risorse naturali.

Gli ambiti d’azione dei criminali ambientali sono variegati:

 tra questi si annoverano il traffico di fauna e flora selvatica, il commercio clandestino di legname, l’estrazione illegale di minerali, la contraffazione di pesticidi e altri prodotti chimici, la gestione illegale dei rifiuti.

Quella della criminalità ambientale è una realtà tanto diffusa quanto sconosciuta.

 Sebbene non sia percepita come un pericolo incombente da Stati e cittadini, i dati di monitoraggio degli “eco-crimini” sono allarmanti:

il loro valore monetario globale è cresciuto approssimativamente dell’8% annuo tra il 2014 e il 2018, aumentando il proprio bacino da 70-213 miliardi nel 2014 a 110-281 miliardi nel 2018.

Un tale business fa gola a molti:

non è un caso, infatti, che sia la terza più ampia categoria di attività criminali, dopo il traffico di droga e la contraffazione.

 Di recente, la criminalità ambientale ha addirittura sorpassato, in questa classifica dei crimini più redditizi, il traffico di esseri umani.

Un business in crescita.

Questi dati sono raccolti in un documento che si occupa precisamente di analizzare il legame tra commercio illegale e crimini ambientali, pubblicato a luglio 2023 dall’”OCSE” (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico).

Come mette in luce il rapporto, il recente aumento del numero di crimini ambientali transfrontalieri è eloquente.

Da alcuni dati raccolti nel 2016 emerge che i settori in cui le attività illegali sono più fiorenti sono la raccolta e la vendita di legname (che produce più di metà dei guadagni illegali su scala mondiale), l’estrazione mineraria (un quarto dei profitti), e poi la pesca, il contrabbando di specie selvatiche e la gestione dei rifiuti, attività la cui pratica illegale garantisce complessivamente un quarto dei profitti.

Inoltre, bisogna tenere a mente che questi dati non prendono in considerazione il giro di denaro derivante dalla contraffazione e dal commercio illegale di prodotti chimici e pesticidi, attività che possono essere considerate crimini ambientali per via del loro impatto distruttivo sia sull’ambiente, sia sulla salute umana.

Una delle principali difficoltà nel far fronte alla questione è la mancanza di una definizione ufficiale del concetto di crimine ambientale e l’assenza di un quadro giuridico condiviso a livello internazionale.

 Di questo vuoto giuridico i criminali ambientali sono consapevoli, e sfruttano questa debolezza istituzionale a proprio vantaggio.

Un sintomo eloquente del fallimento delle istituzioni nazionali e internazionali nell’affrontare questo problema è il fatto che, sempre più di frequente, ad occuparsi di crimini ambientali internazionali sia la criminalità organizzata.

Il crimine ambientale è infatti percepito come un settore a basso rischio, per via della mancanza di una regolamentazione internazionale condivisa e per le basse sanzioni, e ad alti profitti, poiché il contrabbando di merci rare, come le specie selvatiche, o pericolose, come alcuni tipi di rifiuti e diverse sostanze chimiche, sono molto redditizi.

Si tratta dunque di un settore nel quale, anche secondo le mafie, investire conviene.

Impatti sulla natura, sulla salute, sull’economia.

I crimini ambientali deteriorano gli ecosistemi, contribuiscono ad inasprire il cambiamento climatico e incidono sulla già drammatica riduzione della biodiversità, ma non solo.

Infatti, molte di queste attività illegali hanno effetti negativi anche sulla salute umana:

si pensi alle conseguenze dell’utilizzo di pesticidi e altri prodotti chimici contraffatti, che pongono seriamente a rischio la sicurezza alimentare ed espongono lavoratori e comunità a gravi danni per la salute.

 Tale pericolo si concretizza, ad esempio, laddove si esercitano attività estrattive in cui le regole di sicurezza non vengono rispettate, con il rischio concreto di sversamenti di materiali tossici nell’ambiente e la conseguente contaminazione di suoli e acque.

I crimini ambientali, inoltre, causano enormi danni anche sul piano economico e sociale.

Come riporta il documento curato dall’”OCSE”, “i reati ambientali internazionali possono causare ingenti perdite economiche, dal momento che innescano un meccanismo di concorrenza sleale e compromettono i mercati e i commerci legali, come accade nel settore del legname e della pesca”.

La presenza di eco-criminali su un territorio ha un costo molto alto anche dal punto di vista sociale:

come viene sottolineato nel rapporto, queste attività illegali “possono anche minare valori fondanti come i processi democratici, lo stato di diritto, la sicurezza nazionale e la governance globale in materia ambientale”.

A completare il quadro vi è il fatto che quasi sempre i crimini ambientali sono accompagnati da altri reati:

corruzione, riciclaggio di denaro, intralcio delle attività giudiziarie sono attività necessarie per la riuscita delle attività illegali, e la loro realizzazione contribuisce ulteriormente alla disgregazione dello stato di diritto sia nei Paesi in cui queste attività si consumano (molto spesso si tratta di Paesi in via di sviluppo, dove lo Stato e le istituzioni democratiche sono generalmente più fragili, per ragioni storiche e socio-economiche) sia a livello internazionale.

Risposte istituzionali.

Uno dei punti focali degli ecoreati a livello globale è l’Europa:

ad oggi, infatti, il vecchio continente rappresenta ancora il più importante centro economico e commerciale del pianeta, e per questo motivo gran parte dei reati ambientali internazionali si consuma, almeno in parte, sul suolo comunitario.

Solo in Italia, i crimini contro l’ambiente perpetrati nel 2022 sono stati 30.686, come riportato nell’ultima edizione del rapporto “Ecomafia”, pubblicato annualmente da Legambiente.

 Tra questi, l’abusivismo edilizio, il commercio illecito di fauna selvatica e il ciclo illegale dei rifiuti la fanno da padrone nel nostro Paese.

Pur essendo un obiettivo privilegiato per la criminalità ambientale, l’Unione europea è anche tra le realtà istituzionali più attive nel far fronte a questa problematica.

 I casi di reati ambientali gestiti dall’Agenzia europea per la cooperazione giudiziaria penale (Eurojust) sono aumentati di quattro volte tra il 2014 e il 2018; inoltre, gli Stati membri dell’Unione hanno largamente aderito alle numerose iniziative internazionali vòlte a prevenire e ridurre i traffici ambientali illeciti.

Alcuni degli strumenti più utili ed efficaci a livello internazionali sono i “Multilateral Environmental Agreements” (MEAs), che forniscono un quadro giuridico vincolante e condiviso a livello internazionale per contrastare alcuni dei reati ambientali più diffusi.

Tra i principali “MEA ricordiamo” la “CITES”, che è la convenzione che regolamenta il commercio di specie selvatiche;

 la Convenzione di Basilea, che stabilisce regole per la compravendita di rifiuti;

la Convenzione di Rotterdam, che disciplina il commercio di sostanze chimiche pericolose con l’obiettivo di tutelare la salute ambientale e umana;

la Convenzione di Minamata – il cui nome ricorda il disastro ambientale consumatosi nell’omonima cittadina giapponese – che regolamenta l’utilizzo del mercurio;

il Protocollo di Montreal, che istituisce un quadro giuridico per la gestione delle sostanze che corrodono lo strato di ozono atmosferico.

Questi strumenti hanno svolto, negli anni, un fondamentale ruolo di rafforzamento della cooperazione internazionale.

 Tuttavia – si evidenzia nel rapporto dell’”OCSE” – questo approccio multilaterale presenta alcune lacune:

 ad esempio, i “MEA” non riescono ad armonizzare gli approcci di politica internazionale e la gestione dei controlli di frontiera, che sottostanno alle leggi dei singoli Stati.

 Inoltre, diversi settori in cui la criminalità ambientale è fiorente non sono ancora protetti da alcun tipo di accordo multilaterale con valore giuridico, il che rende ancor più difficile il contenimento dei fenomeni criminosi.

Alla luce della situazione corrente, in cui la mancanza di un impianto giuridico condiviso è riconosciuta come uno dei principali elementi che facilitano l’azione criminale, il primo passo da compiere è senz’altro la costituzione di un corpus giuridico condiviso su scala internazionale che consenta di combattere la criminalità ambientale in maniera organica e coerente.

Inoltre, è importante riconoscere e affrontare le motivazioni socio-economiche che rendono la criminalità ambientale così appetibile.

Chi commette questo genere di reati è, molto spesso, spinto dall’indigenza: limitarsi a punire chi viene riconosciuto come responsabile di un reato ambientale non è sufficiente, ma bisogna assicurarsi che, soprattutto per chi opera alla base della catena di illegalità, vi sia un’alternativa praticabile per sostentare sé stessi e la propria famiglia.

 

Infine, è essenziale aumentare l’attenzione pubblica e diffondere la conoscenza sul tema della criminalità ambientale, sottolineando quanto le conseguenze di queste attività illecite incidano, direttamente o indirettamente, sulla vita e sulla salute di tutti noi.

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