La ricca élite globalista ha iniziato l’operazione demolizione dell’uomo qualunque.
La
ricca élite globalista ha iniziato l’operazione demolizione dell’uomo
qualunque.
La
costruzione dello Stato di
biosicurezza
in Italia (e altrove).
Lo
svisceramento della democrazia:
un
progetto a lungo termine.
trasform-italia.it – (06/07/2022) - Peter
Cooke – ci dice:
Ospitiamo
questo articolo che non rappresenta il nostro punto di vista ma che ci sembra utile per
aprire un dibattito a sinistra sul pericolo di un controllo sociale sempre più
stringente.
La
nostra civiltà capitalista neo liberalizzata è entrata ormai in una fase di
profondissima crisi.
Gli
avvenimenti drammatici della pandemia da Covid-19 possono essere interpretati
come sintomi di questa crisi.
Vanno
esaminati infatti in un contesto non solo sanitario, ma anche politico.
Lo
scopo della serie di altri articoli che si propone qui è quello di offrire una
spiegazione coerente di un’emergenza politico-sanitaria che ha aperto, o
svelato, divisioni profonde nella società occidentale, nel contesto di un
sistema “democratico” che, in realtà, maschera – in modo sempre meno
convincente – il potere praticamente incontestato di un’oligarchia
globalizzata.
La
tesi centrale proposta qui è che la pandemia ha offerto al sistema capitalista
in crisi l’occasione per la rapida costruzione di un nuovo paradigma di governo
in grado di controllare una popolazione globale – e soprattutto occidentale –
sempre più turbolenta.
È
quest’ultimo un sistema tecnocratico e autoritario che, appoggiandosi sulle
riflessioni di Giorgio Agamben, alcuni commentatori denominano ormai “lo Stato
di biosicurezza”.
Il
primo articolo della serie esamina la questione della “democrazia” occidentale
come contesto politico della crisi sanitaria.
Dopo aver spiegato la realtà profondamente
oligarchica del sistema attuale creato sistematicamente durante quattro decenni
di controrivoluzione neoliberista, esamina l’ideologia della tecnocrazia, cara
all’élite globale, come forma di potere.
Finalmente, offre una prima analisi della
gestione tecnocratica dell’emergenza pandemica, focalizzandosi sul contesto
italiano.
Gli
avvenimenti degli ultimi due anni e mezzo sono stati profondamente traumatici.
Dubito
perciò che, nelle condizioni attuali, sia ancora umanamente possibile discutere
il tema della pandemia Covid-19 con una vera e propria oggettività. Inoltre,
ogni aspetto del fenomeno pandemico è stato politicizzato.
In
quasi tutti i paesi del mondo occidentale, sulla questione così importante
della maniera in cui l’epidemia è stata gestita e rappresentata, la società si
è spaccata. Non mi sembra possibile prendere una posizione neutrale a riguardo,
tanto meno dopo aver cercato di approfondire il tema.
Ciò
che segue, benché sia il frutto di molte letture e di lunghe riflessioni, è
dunque necessariamente una interpretazione che rimane, almeno in parte,
soggettiva. Inevitabilmente, è anche una interpretazione politica.
Infatti,
ciò che m’interessa capire soprattutto in questo sconcertante fenomeno
politico-sanitario è come mai sia stato possibile, in un paese “democratico”
come l’Italia, gestire un’epidemia in un modo così straordinariamente
repressivo.
Si può
dire, in verità, che viviamo ormai in una democrazia liberale?
È
fondamentale capire che, in realtà, la progressiva demolizione del sistema
democratico occidentale del dopoguerra è un progetto a lungo termine che risale
almeno agli anni 1970.
Questo
processo graduale di smantellamento e di svisceramento si è accelerato
drammaticamente durante la pandemia, che ha fatto nascere ciò che molti non
esitano a denominare “dittatura sanitaria”, benché molti altri respingono il
termine con sdegno.
In effetti,
la gestione di questo avvenimento sanitario disastroso, in Italia e altrove, si
è caratterizzata da una deriva liberticida che non solo ha sgomentato molti
cittadini, infliggendo peraltro sofferenze notevoli a tantissime persone, ma ha
anche aperto faglie profonde e dolorose nel tessuto sociale.
Troppa
democrazia.
Già
dal 1975, gli autori del libro influente The Crisis of Democracy” sostenevano
che c’era “troppa democrazia”.
Il
sottotitolo di questo studio, commissionato a tre politologhi di destra, Michel
Crozier, Samuel P. Huntingdon e Joji Watanuki, è assai esplicito:
Rapporto
sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilaterale.
Quest’ultima,
importantissimo pensatoio oligarchico lanciato a Washington nel 1973, ha
svolto, si sa, un ruolo di spicco nel vasto progetto capitalista della
globalizzazione neoliberista.
Gli autori della “Crisi della Democrazia” non
si sono limitati a analizzare il problema che rappresentava per i capitalisti
nei paesi occidentali questo “eccesso di democrazia”, ma hanno anche proposto
delle soluzioni che si sono dimostrate assai efficaci.
I progetti di attacco alle democrazie ideati
nel libro sono stati tradotti in tecnica ed applicati sistematicamente.
I punti centrali della strategia
anti-democratica attivata dagli anni settanta in poi si possono riassumere come
segue:
de-ideologizzazione
della sfera politica;
riduzione
dell’interesse dei cittadini alla partecipazione democratica;
trasformazione
dell’individuo da cittadino in consumatore;
dirottamento
del dibattito politico su binari consentiti predeterminati;
cooptazione
dei sindacati;
abbassamento
del livello di educazione delle masse;
controllo
dei media.
Il
risultato dell’attualizzazione di questo piano è stato lo svuotamento
progressivo delle strutture democratiche al punto che quello che ne è rimasto
oggi si è ridotto, praticamente, a una mera facciata, un guscio vuoto.
Gli
inediti e traumatici eventi politici e sociali degli ultimi due anni e mezzo
sembrano indicare che l’oligarchia occidentale abbia deciso che il momento sia
venuto di demolire – in modo controllato, beninteso – anche questa facciata.
La
nuova oligarchia.
Il
fatto che la democrazia occidentale si sia trasformata, de facto, in oligarchia
è riconosciuto ormai da non pochi commentatori politici.
Descrivendo
le tendenze oligarchiche odierne nel suo libro bestseller “Capitalism in the
Twenty-First Century”, Thomas Piketty parla addirittura di “un processo in cui i paesi ricchi
diventano la proprietà dei loro propri miliardari”.
“Il ‘Capitalismo di oggi è in realtà un’oligarchia di
plurimiliardari che detengono il potere, assistiti da un organico di
specialisti relativamente ben formati e pagati” spiega “Kees Van der Pijl”.
Nel
suo libro del 2020, “The System”.” Who Rigged It, How We Fix It” (tradotto e
pubblicato l’anno seguente in italiano), “Robert Reich” scrive:
“Persino un sistema che si definisce
una democrazia può diventare un’oligarchia se il potere finisce per
concentrarsi nelle mani di un’élite imprenditoriale e finanziaria.”
“Reich” riconosce che “L’America ha conosciuto l’oligarchia
due volte prima d’ora.”
La prima volta fu l’epoca della fondazione degli Stati
Uniti (“Molti
degli uomini che fondarono gli Stati Uniti erano oligarchi bianchi proprietari
di schiavi.”);
la
seconda fu l’era di uomini spietati come J. Pierpoint Morgan, John D.
Rockefeller, Andrew Carnegie, Cornelius Vanderbilt e Andre Mellon, i famigerati
“robber barons” (“baroni della rapina”) dell’industrializzazione sfrenata della
fine dell’ottocento e dei primi decenni del novecento.
Fu il “New
Deal” di Roosevelt, compiuto durante la “Grande Depressione” con l’obiettivo di
scongiurare la minaccia di una rivoluzione, a porre fine all’oligarchia dei “robber
barons”, instaurando un equilibrio (tutto relativo) tra il potere del capitale
e le esigenze economiche e sociali dei lavoratori.
“A
partire dal 1980 circa”, continua Reich, “è emersa una terza oligarchia
americana”.
“Reich”
si riferisce qui alla “controrivoluzione neoliberista”, lanciata infatti
intorno all’anno 1980 con l’intento (più o meno mascherato) di disfare
completamente il sistema del New Deal.
Questo
processo è risultato inevitabilmente in una disuguaglianza del reddito e della
ricchezza sempre più grande.
“Reich”
descrive la situazione economica negli Stati Uniti come segue:
Tra il
1980 e il 2019 la quota del reddito familiare totale del paese appannaggio
dell’1% più ricco della popolazione è più che raddoppiata, mentre il reddito
del 90% più povero è cresciuto pochissimo (tenendo conto dell’inflazione).
La
retribuzione media di un CEO è cresciuta del 940%, quella del lavoratore tipo
del 12%.
Negli
anni Sessanta il tipico CEO di una grande azienda americana guadagnava circa
venti volte più del lavoratore tipo;
nel 2019
guadagnava trecento volte tanto.
La
disuguaglianza della ricchezza è esplosa ancora più rapidamente.
Secondo
una ricerca degli economisti” Emmanuel Saez” e “Gabriel Zucman”, negli ultimi
quarant’anni la quota della ricchezza totale detenuta dallo 0,1% più ricco –
circa 160,000 famiglie americane – è passata da meno del 10% al 20%.
Oggi
queste famiglie posseggono una ricchezza pari quasi a quella del 90% delle
famiglie più povere messe assieme.
L’intera
metà inferiore della popolazione americana oggi possiede appena l’1,3% della
ricchezza totale.
La
conseguenza necessaria di questa crescente disuguaglianza economica è stata una
crescente disuguaglianza di potere politico.
“Le grandi imprese, i CEO e un manipolo di persone
estremamente ricche”, osserva “Reich”, “hanno più influenza di ogni altro
gruppo paragonabile dai tempi dei baroni della rapina.
A
differenza del reddito o della ricchezza, il potere è un gioco a somma zero:
più ce n’è a la vertice, meno ce n’è altrove”.
Per
varie ragioni storiche, le condizioni economiche e politiche degli Stati Uniti
rappresentano un caso estremo nel mondo occidentale, ma la tendenza verso una
concentrazione sempre maggiore di ricchezza economica e di potere politico al
vertice della società caratterizza tutte le “democrazie” occidentali.
Essendo
il neoliberismo un progetto essenzialmente oligarchico, una delle conseguenze
inevitabili del suo sviluppo incontrastato nel corso degli ultimi quattro
decenni è stata la distruzione quasi totale della democrazia rappresentativa e
l’instaurazione di una potente oligarchia globalista.
La
barbarie del neoliberismo.
È
importante capire a che punto questa ideologia neoliberista, che ha smantellato
progressivamente il sistema molto più equilibrato del New Deal, rappresenti una
forma di violenza.
Il
termine “neoliberismo” si riferisce a politiche economiche che promuovono la
subordinazione integrante della società al capitale (“il mercato”).
Sotto la sua maschera teorica, è una forma di “raw
capitalism” (“capitalismo crudo”), un fenomeno fondamentalmente predatorio che
cerca sempre di imporre la legge del più forte, noncurante degli effetti
distruttivi delle sue azioni sul piano umano, sociale, ecologico, ecc.
Fa
parte, in realtà, di quella barbarie del ventesimo e del ventunesimo secolo
denunciata da “Giuliano Pontara” nel primo capitolo di “L’Antibarbarie”.
“Naomi
Klein” descrive nel suo libro seminale “The Shock Doctrine” come le teorie
estremiste del teorico americano del neoliberismo “Milton Friedman” furono
applicate per la prima volta nel Cile, sulla scia del colpo di stato (fomentato
dalla CIA) di Augusto Pinochet che nel 1973 rovesciò il governo socialista,
democraticamente eletto, di Salvador Allende.
Le
misure drastiche di privatizzazione, liberalizzazione del mercato e riduzione
massiccia delle spese pubbliche proposte da Friedman (la classica ricetta
neoliberista), che secondo lui sarebbero risultato, dopo lo “shock” iniziale,
in “un miracolo economico”, risultarono invece in una catastrofe economica –
“una orgia di auto-mutilazione” per dirla con le parole del “Economist” – che
devastò il paese e instaurò nella società cilena disuguaglianze enormi.
Nel
1988, quando l’economia cilena si era finalmente stabilizzata, il 45% della
popolazione era caduta nella povertà e il ceto medio era stato decimato.
Nello
stesso tempo, il decimo più ricco aveva visto crescere il suo reddito dell’83%.
Ancora oggi, il Cile rimane uno dei paesi più disuguali del mondo.
La
controrivoluzione neoliberista in Cile fu dunque un’operazione assolutamente
spietata che risultò in un incremento di ricchezza massiccio per il segmento
più ricco della società al costo dell’impoverimento delle masse.
L’esperimento
cileno si replicò in numerosi paesi.
Tristemente
notorie rimangono le violenze fisiche orripilanti, commesse a vasta scala, che
accompagnarono la controrivoluzione neoliberista sotto le dittature militari
instaurate con il sostegno della CIA negli anni 1970 nell’America Latina e
altrove.
Lo stesso tipo di crimine di stato commesso
sistematicamente nel Cile di Pinochet caratterizzò anche i regimi dittatoriali
del Brasile e dell’Argentina, per esempio.
Come
osserva” Klein”, il sadismo, anche se ha avuto certamente la sua parte in
questo disgustoso fenomeno, non basta a spiegare tutto un sistema di
incarcerazione, tortura, assassinio e sparizioni.
Poco prima di essere abbattuto dai militari,
l’attivista argentino “Rodolfo Walsh” scrisse:
“È
nella politica economica di questo governo che scopriamo non solo la
spiegazione dei crimini, ma anche un’atrocità più grande che punisce milioni di
esseri umani con la miseria pianificata”.
Le
riforme neoliberiste imposte a partire degli anni ottanta nei paesi occidentali
– negli Stati Uniti e nel Regno Unito in primis – rappresentano anche lì un
processo fondamentalmente violento.
Anche se non accompagnata dal sistema di
violenza fisica spietata vigente nei regimi dittatoriali, nei paesi occidentali
“democratici” abbiamo vissuto da quarant’anni una controrivoluzione brutale che
ha avuto come conseguenza diretta l’instaurazione progressiva di una sempre più
grande violenza economica strutturale.
Perché il neoliberismo impone la povertà, e la
povertà, come diceva Gandhi, è una delle forme peggiori di violenza.
Un
potere sovranazionale anti-democratico.
Nell’era
della globalizzazione finanziaria e economica guidata dall’anglosfera, gli
Stati individuali stanno perdendo sempre più la loro sovranità effettiva;
ormai tutte le decisioni politiche ed
economiche più importanti sono prese a livello sovranazionale in un contesto
tutt’altro che trasparente.
Si
parla in questo senso dell’“internazionalizzazione dello Stato”.
In
questo “Stato internazionalizzato”, i gestori del sistema monetario e
finanziario (le banche centrali sovranazionali), le grandi corporations
multinazionali e una rete di istituzioni private (fondazioni, pensatoi
oligarchici, NGO, ecc.) esercitano un’influenza preponderante sui governi che
nessun movimento politico è in grado di contrastare.
Nel
contesto europeo, il ruolo essenziale svolto dall’Unione Europea – che in realtà
è una istituzione profondamente anti-democratica – è quello di imporre la
volontà del cartello capitalista oligarchico.
Ormai,
gli stati europei hanno devoluto gran parte della propria sovranità a poteri
tecnocratici non elettivi.
Il risultato sconcertante dell’ascendenza
incontestata dei poteri finanziari e commerciali apolidi – “la caste des
banquiers commerçants” – è che, per citare la ricercatrice francese” Valérie
Bugault,” “ormai gli Stati non sono più che gusci vuoti”
Mantenere
la facciata democratica, l’illusione della democrazia, è da molto tempo una
delle funzioni principali sia dei media mainstream sia dei politici.
Già dal 1995, nel suo saggio “The Unconscious
Civilisation”, “John Ralston Saul” metteva in luce la tendenza socioculturale a
mascherare, nel linguaggio come nell’informazione, il vero sistema di potere
che ha poco a che vedere con gli assunti legittimanti dei moderni ordinamenti
occidentali:
democrazia,
trasparenza, rule of law.
Il
sistema di potere odierno è organizzato, invece, secondo principi di
monopolio/cartello privato delle risorse primarie, di stretto controllo
dell’informazione pubblica e di governo distante – sempre più distante – dalle
popolazioni.
Si può
“aggiustare” la democrazia?
“Robert
Reich” crede che, malgrado l’instaurazione de facto negli Stati Uniti di una
oligarchia sempre più ricca e sempre più influente, è ancora possibile
ripristinare la democrazia.
Secondo
lui, è un sistema che si può “aggiustare”.
È
questo un ottimismo che, nelle circostanze attuali, può sembrare alquanto
ingenuo.
Su
questo punto, “Rana Dasgupta”, nella sua analisi accurata “The Silenced Majority: Can America
Still Afford Democracy?”, è molto più pessimista di Reich.
“
Dasgupta” esamina la crisi politica prolungata degli Stati Uniti nel contesto
di tendenze storiche e economiche più vaste.
La sua
tesi centrale è che le condizioni economiche contemporanee non favoriscono più
la permanenza del sistema democratico occidentale e che stiamo tornando alla
situazione di potere capitalista oligarchico che caratterizzava l’epoca che
precedeva la Rivoluzione Industriale.
Si
parla infatti, in questo contesto, di un fenomeno assai inquietante: il neo-feudalesimo.
È
comunque essenziale capire che la democrazia è semplicemente il risultato di
concessioni politiche e sociali che il lavoro a potuto strappare dal capitale
in certe circostanze storiche.
Oggigiorno,
la classe operaia, e più generalmente il principio del lavoro, ha perso gran
parte del suo potere contrattuale di fronte al capitale, grazie soprattutto
allo smantellamento della produzione industriale – in gran parte trasferita in
Cina e in altri paesi asiatici poco democratici – e alle nuove tecnologie
digitali che stanno rendendo sempre più inutili gli operai, ma anche i
professionisti.
Allo
stesso tempo sta emergendo una fusione di tecnologie capaci di distruggere le
frontiere tra i mondi fisici, digitali e biologici.
Si
tratta della Quarta Rivoluzione Industriale cara a Klaus Schwab, il fondatore e
direttore del World Economic Forum (WEF)19.
Secondo un “White Paper” del WEF, nell’anno
2030, fra il 13 e il 23% della popolazione mondiale diventerà temporaneamente o
permanentemente disoccupato.
Infatti, una parte sempre più grande della
popolazione sta diventando economicamente e socialmente inutile per il sistema
capitalista.
Se i
popoli stanno diventando economicamente superflui per un’oligarchia capitalista
internazionale che, in un modo sempre più evidente, controlla praticamente
tutto, i popoli si trovano in una situazione pericolosa.
Nello
stesso tempo, la gestione di questi miliardi di persone “inutili” rappresenta
per l’oligarchia un problema assai grande. Infatti, gli effetti cumulativi del
processo di globalizzazione neoliberista, che ha prodotto non solo grandi
incrementi di ricchezza, ma anche disuguaglianze economiche enormi,
precarizzazione del lavoro a vasta scala e grandissima distruzione sociale,
morale ed ecologica, si manifestano in un fermento sociale a livello globale
senza precedenti.
Controllare
il popolo con la paura e la sorveglianza.
Questo
problema è diventato sempre più urgente dopo il crollo economico del 2008 che
non ha fatto altro che accelerare una lotta sociale a scala globale.
Non
solo questa catastrofe finanziaria ha fatto capire quanto fragile – per non
dire insostenibile – fosse diventata l’economia occidentale finanziarizzata,
questo “late-stage financialised capitalism” così squilibrato e instabile, in
preda a una speculazione sfrenata e avventata a scala gigantesca ed una
corruzione sempre più dilagante –, ma il salvataggio massiccio delle banche, i “famigerati
bailouts”, nello stesso momento in cui milioni di disoccupati perdevano tutto,
ha fatto capire al popolo che gli interessi del 99% dei cittadini contavano ben
poco in confronto a quelli del 1% più ricco – l’oligarchia, precisamente.
Dopo
2008, osserva Van der Pijls, “ogni record di fermento sociale è stato
infranto”.
Contenere, impedire, reprimere, manipolare e
sciogliere in tutti i modi i grandi movimenti di protesta – potenzialmente
rivoluzionari – nati sulla scia del disastro del 2008 è diventato una delle
priorità più importanti del sistema capitalista in crisi.
Un
passo importante verso la costruzione di un nuovo sistema di governo in grado
di controllare i popoli occidentali sempre più impoveriti, sempre più
precarizzati e sempre più arrabbiati è stato già rappresentato dal “War on
Terror” di George W. Bush, una “guerra” lanciata a seguito degli attentati
terroristici del “9/11” nel 2001.
Le
stragi spettacolari compiute dall’Al Qaeda hanno offerto al regime di Bush
l’occasione per giustificare l’invasione del Afganistan e dell’Iraq,
rilanciando in questo modo l’industria militare prima di saccheggiare le
risorse naturali di questi due sfortunati paesi.
Non solo, ma 45 giorni dopo gli attentati dell’11
settembre, il governo americano passò il famigerato “Patriot Act”, una legge
importante che ha limitato i diritti e le libertà dei cittadini americani con
il preteso della necessità di difendere il Paese contro il terrorismo.
In
questo modo, ogni cittadino americano è divenuto, in realtà, sospettato. Allo
stesso tempo, il governo americano ha instaurato quel sistema illegale di
sorveglianza di massa – il programma di “Total Information Awareness” –
svelato più tardi da Edward Snowden.
Paradossalmente,
si può interpretare la “Guerra contro il terrore” come una forma di terrorismo
di Stato.
Come
osservò” Al Gore” nel 2004, il terrorismo, che rappresenta la
strumentalizzazione della paura per uno scopo politico, intende “travisare la realtà politica di una
nazione suscitando nel popolo una paura massicciamente sproporzionata rispetto
al vero pericolo che i terroristi sono in grado di rappresentare”.
Secondo
“Gore”, il corso precipitoso di Bush verso la guerra contro l’Iraq costituiva
una forma di terrorismo.
Bush
aveva terrorizzato la sua propria nazione con l’avvertimento completamente
ingannevole secondo cui “impiegando armi chimiche, biologiche, o, in futuro, anche
nucleari, ottenute con l’aiuto dell’Iraq, i terroristi erano in grado […] di
uccidere migliaia o centinaia di migliaia di persone in questo paese”.
“Il
presidente Bush e la sua amministrazione”, fece notare “Gore”, “ha fatto
ingurgitare al popolo americano una paura dell’Iraq grandemente esagerata, una
paura completamente sproporzionata in confronto al pericolo che quel paese
rappresenta in realtà”.
Lo Stato americano aveva adottato una
strategia terroristica nei confronti del popolo americano.
Siccome,
dopo decenni di politiche economiche e sociali neoliberiste, il capitalismo non
è più in grado di offrire alla popolazione un contratto sociale accettabile –
anzi, il neoliberismo rappresenta la negazione del contratto sociale – governare con la paura è diventata
una strategia centrale del mondo occidentale.
Siamo entrati ormai nell’epoca dello stato di
emergenza permanente, della guerra permanente:
“La guerra è resa endemica”, spiega “Jeff
Halper”, “poiché non è né possibile né desiderabile porre termine allo ‘stato
di emergenza permanente’ […]. Pacificare l’umanità diventa l’unico modo di
scongiurare la guerra, ma quell’impresa è diventata un progetto totalitario
violento, senza fine”.
Torneremo
alla questione del nuovo totalitarismo nel terzo articolo.
“Oltre
la libertà e la dignità”
L’instaurazione
di un sistema di sorveglianza statale dei cittadini è stata accompagnata – e
facilitata – dall’emergere di un nuovo sistema economico che, in uno studio
fondamentale,” Shoshana Zuboff” denomina “surveillance capitalism” – “il capitalismo della sorveglianza”.
Conviene
però notare che sin dall’inizio la” rivoluzione IT” è stata formata dal paradigma
del” Total Information Awareness” nel contesto di una guerra della classe dominante
contro il popolo e che tutte le grandi ditte della Big Tech mantengono relazioni strette
con il Pentagono.
Il
sistema del “capitalismo della sorveglianza”, sviluppato dai “tech giants”
della Silicon Valley, con Google e Facebook in testa, si basa sempre di più non
solo sullo sfruttamento economico (e politico) dei dati – di ogni genere –
raccolti furtivamente dagli utenti, ma anche sulla manipolazione dei
comportamenti del consumatore (e anche degli elettori).
È questo un tipo di potere subdolo che” Zuboff” chiama
“instrumentarian”.
In
questo ambito, le imprese tech approfittano, con una precisione sempre
maggiore, degli strumenti creati dagli psicologi comportamentali, come il
famoso o notorio “”B. F. Skinner, che s’interessano soprattutto del
comportamento di gruppo, di gregge.
Questi
scienziati, infatti, svilupparono inizialmente le loro tecniche di
manipolazione psicologica studiando gli animali.
Non
c’è, da questo punto di vista, alcuna differenza fondamentale tra il gregge
animale e il gruppo umano;
tutt’e
due si possono dirigere dall’alto utilizzando metodi psicologici appropriati.
Secondo
“Skinner”, nel suo famigerato libro” Beyond Freedom & Dignity” (Oltre la libertà e la dignità), il libero
arbitrio e la libertà di scelta dell’individuo cari al liberalismo occidentale
sono in realtà una semplice illusione e, per il bene comune, la società va
gestita continuamente dagli scienziati utilizzando strumenti psicologici.
È la sua una visione del mondo essenzialmente
tecnocratica; a “Skinner” non piaceva per niente la democrazia.
“Zuboff
“osserva con rammarico che quando il libro di Skinner uscì nel 1971 suscitò
grande scalpore, mentre che cinquant’anni dopo, “La credenza che possiamo noi stessi
scegliere il nostro destino viene assediato, e, in una inversione drammatica
della situazione, il sogno di una tecnologia in grado di predire e dirigere il
comportamento – per il quale Skinner subì tanto disprezzo pubblico – è diventato
ormai un fatto fiorente. Adesso, questo obiettivo attrae un capitale immenso,
il genio umano, l’elaborazione scientifica, interi ecosistemi di
istituzionalizzazione, e il fascino che accompagnerà sempre il potere”.
Dalla
sorveglianza statale di massa e dal capitalismo della sorveglianza, con la sua
crescente enfasi sulla modificazione del comportamento, non è molto grande il
passo che conduce al sistema di Credito Sociale che si sta sviluppando
attualmente in Cina.
Lo
scopo di questo nuovo sistema, spiega il sinologo” Rogier Creemers”, è quello
di “utilizzare
l’esplosione dei dati personali […] per migliorare il comportamento dei
cittadini […].
Agli individui e alle imprese saranno assegnati punti in relazione a vari
aspetti del loro comportamento – dove vai, che cosa compri e chi conosci – e
questi punti saranno integrati in una base di dati comprensiva connessa non
solo all’informazione governativa, ma anche ai dati raccolti da imprese
private”.
Il
nuovo sistema cinese sorveglia il comportamento “buono” e “cattivo” in varie
attività finanziarie e sociali.
Le ricompense e le punizioni sono assegnate
automaticamente, allo scopo di plasmare il comportamento individuale e
collettivo in modo di “costruire sincerità” nella vita economica, sociale e
politica.
“L’intenzione”, spiega “Mara Hvistendhal”, “è
che ogni cittadino cinese sia seguito tramite una scheda compilata da dati
provenienti da fonti pubbliche e privati”.
A
molti potrebbe forse sembrare inverosimile l’idea di instaurare un sistema
simile nei paesi “democratici” del occidente, ma quello che vediamo svolgersi
nella Cina governata dal repressivo Partito Comunista è la costruzione di una
realtà inquietante che, secondo Zuboff, “ci permette di contemplare una
versione di un nostro futuro definito dalla fusione comprensiva del potere
instrumentarian con il potere statale”.
Il
sistema di Credito Sociale non è altro, in realtà, che la realizzazione,
tramite gli strumenti invasivi offerti dalla rivoluzione digitale, della
visione tecnocratica di “B. F. Skinner “e dei suoi seguaci:
una vita umana “oltre la libertà e la
dignità”.
La
tecnocrazia.
A
questo punto sarà opportuno aprire una parentesi sulla tecnocrazia.
Dopo
tutto, la gestione della pandemia da Covid-19 è stato un esercizio strettamente
tecnocratico.
Denunciata già dal 1933 in modo
indimenticabile da Aldous Huxley nel suo romanzo distopico “Brave New World”,
la tecnocrazia rimane un’ideologia importantissima.
Anzi, il suo potere va sempre crescendo.
La breve discussione che segue si basa in gran
parte sugli studi fondamentali di “Patrick Wood”, soprattutto il suo libro più
recente,” Technocracy: The Hard Road to World Order”.
La
tecnocrazia, intesa come ideologia, ha le sue radici storiche nello scientismo utopista
del pensatore francese Henri de Saint-Simon (1760-1825).
Saint-Simon
afferma la superiorità dello scienziato, definito come “l’uomo che prevede”, su
tutti gli altri uomini.
Lo
scientismo, insieme alla sua progenie la tecnocrazia, funziona da surrogato
della religione, sostituendo la fede in Dio con la fede nella Scienza e nella
Tecnologia.
La scienza, secondo questa visione del mondo, salverà l’umanità instaurando la
nuova Utopia tecnocratica.
Gli scienziati
e i tecnocrati sono dunque i preti di questa pseudo-religione.
Secondo loro, soltanto la scienza ha la
capacità di risolvere tutti i problemi della società, e la scienza dev’essere
applicata alla vita senza sentimentalismo – anzi, senza sentimenti.
In
questa visione essenzialmente materialista, la natura – e anche l’essere umano
– non è altro che un complesso meccanismo; chi capisce il funzionamento del
meccanismo ha il dovere di controllarlo.
Il potere dev’essere messo nelle mani di
un’élite tecnocratica – per il bene comune, s’intende – e qualsiasi opposizione
a questa concentrazione di potere anti-democratica è considerata profondamente
sbagliata e va combattuta in tutti i modi.
Niente deve ostacolare la realizzazione
dell’Utopia.
L’ideologia
tecnocratica predomina nell’ambito dell’élite globale – Bill Gates offre un
esempio perfetto di questa tendenza – e la sua visione profondamente
anti-democratica è alla base di tutti i grandi progetti globali, come lo
Sviluppo sostenibile, l’Agenda 21 e l’Agenda 2030.
Ormai
una tecnocrazia globalista domina le Nazioni Unite e l’Unione Europea e si
dedica assiduamente a soppiantare la sovranità nazionale con il preteso di
risolvere i problemi globali tramite l’imposizione di metodi tecnocratici
centralizzati.
Uno di questi problemi è quello delle
pandemie.
Conviene
osservare a questo punto che la tecnocrazia è essenzialmente una forma di potere e che s’intreccia ormai strettamente
con gli interessi dell’oligarchia globalista. Anzi, si palesa sempre di più che la
tecnocrazia sia diventata lo strumento essenziale che questa oligarchia sta
utilizzando per esercitare il suo potere sul mondo.
Non
dovrebbe dunque sorprendere che la pandemia sia stata gestita in modo
tecnocratico.
Nel
suo saggio “Sulle ‘ragioni’ dell’emergenza”, pubblicato alla fine del libro
recente di “Mariano Bizzarri, Covid-19”:
Un’epidemia da decodificare, il filosofo
Massimo Cacciari spiega che “l’ideologia della Scienza, fino a tonalità
religiose, che Bizzarri denuncia, è parte integrante del sistema
tecnico-economico-politico che sta dominando le nostre vite (e dunque
nient’affatto qualcosa di meramente ‘sovrastrutturale’)”.
Questo
sistema sta dominando infatti le nostre vite sempre di più e sta creando una
realtà sempre più distopica.
Perché,
come avvertiva Huxley in “Brave New World”, i tentativi umani per creare
l’Utopia – in questo caso l’Utopia tecnocratica – finiscono sempre per creare
invece la Distopia.
La
religione della scienza nella gestione della pandemia.
Bizzarri
denuncia un fenomeno inquietante che ha caratterizzato l’atteggiamento di molte
persone durante l’epidemia da Covid-19:
È di
moda che le persone di cultura medio-alta dichiarino di non essere “religiose”
(se non apertamente atee), dicendo invece che ripongono la loro “credenza”
nella scienza, parlando di questa come se sostituisse la religione.
È
curioso come sotto stress, soprattutto ora che il Covid ci ricorda che la morte
esiste – nonostante ci si affanni a rimuoverne la presenza nelle nostre società
epicuree ed edonistiche – riemerga il sentimento religioso in forme aberranti e
deviate.
La fede viene oggi risposta nella “scienza”,
credendo che questa sia fonte di verità assoluta e univoca.
In
questo, la maggior parte delle persone non fanno che trasferire la ricerca
della certezza dalla religione alla scienza.
Anche “Giorgio
Agamben” si preoccupa di questa aberrazione.
In un libro importante,” A che punto siamo”?
L’epidemia come politica, pubblicato nel 2020,
il filosofo si domanda “Com’è potuto avvenire che un intero Paese sia, senza
accorgersene, eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia?”
L’Italia, infatti, ha abdicato “ai propri principi etici e politici”.
“Come
abbiamo potuto accettare”, scrive ancora Agamben, “soltanto in nome di un
rischio che non era possibile precisare che le persone che ci sono care e degli
esseri umani in generale non soltanto morissero da soli ma che, cosa mai
avvenuta prima nella storia da Antigone a oggi, che i loro cadaveri fossero
bruciati senza un funerale?”
Il
filosofo denuncia anche “la Chiesa, che, facendosi ancella della scienza ormai
diventata la vera religione del nostro tempo, ha radicalmente rinnegato i suoi
principi essenziali. La Chiesa sotto un papa che si chiama Francesco ha
dimenticato che Francesco abbracciava i lebbrosi.
Ha
dimenticato che una delle opere della misericordia è quella di visitare gli
ammalati.
Ha dimenticato che i martiri insegnano che si
deve essere disposti a sacrificare la vita piuttosto che la fede e che
rinunciare al proprio prossimo significa rinunciare alla fede”.
Infatti,
la scienza, o piuttosto lo scientismo, è diventata “la vera religione del
nostro tempo” perché l’intera storia dell’umanità ci insegna che gli esseri
umani non possono vivere senza religione, senza fede, così che quando perdono
la fede in una vera religione – o in una religione diventata falsa, corrotta e
malvagia – si affrettano di creare una pseudo-religione, una nuova ideologia in
grado di soddisfare il bisogno profondissimo di credere.
Ho
personalmente sentito dire da un italiano, cattolico praticante d’altronde, che
si vanta di rispettare moltissimo le “verità della scienza”, che il vaccino era
“un dogma della fede”.
Ma la
scienza – quella vera – non ha dogmi, li ha solo la religione.
Citiamo
qui ancora le parole accorate di “Mariano Bizzarri”:
La
ricerca scientifica è stata l’amore della mia vita. Ma ora, dopo più di
quarant’anni vissuti in laboratorio e nelle corsie ospedaliere, mi sento
tradito, sgomento come chi possa scoprire – solo a tarda età – di aver mal
riposto il proprio affetto in colei, che come diceva De André “non lo amava
niente”.
Le decisioni pronunciate in nome della scienza
sono diventate arbitri di vita, di morte, condizioni imprescindibili per
consentire l’accesso a libertà che pure dovrebbero essere fondamentali.
Tutto
ciò che conta è stato influenzato dalla scienza, dagli esperti che la
interpretano e da coloro che impongono misure basate sulle interpretazioni
mediatiche, ritorte e stravolte nel contesto della guerra politica.
Ovviamente, questa “scienza” nulla ha a che
vedere con la Scienza, quella vera, che per sua natura rifugge dalle
affermazioni assolute, dal trionfalismo, e avversa il sensazionalismo
preferendo il più tormentato – ma assolutamente più onesto – rifugio del
dubbio.
Non che la situazione fosse idilliaca prima
del Covid;
ma
oggi, le norme basilari che impongono alla ricerca scientifica onestà
intellettuale, disinteresse, cauto scetticismo e disponibilità al confronto e
alla condivisione dei dati sono apertamente e sistematicamente violate.
Ciò
che descrive qui Bizzarri, con tanta amarezza, è la strumentalizzazione politica
della scienza.
È la scienza messa al servizio della
tecnocrazia.
La scienza ufficiale, “la vera religione del nostro
tempo”, è diventata uno strumento di oppressione, come lo era diventata per
tanti secoli anche la religione ufficiale.
Le
statistiche e la gestione tecnocratica dell’emergenza sanitaria.
Offrirò
nel secondo articolo un’analisi critica della gestione sanitaria della pandemia
da Covid-19.
Qui,
invece, voglio sottolineare il modo strettamente tecnocratico in cui è stata
gestita l’emergenza.
In questa gestione le statistiche, i dati,
hanno svolto un ruolo centrale.
Si potrebbe dire infatti, senza esagerazione, che i dati costituiscono il sangue di
quell’essere gigantesco è disumano che si chiama Tecnocrazia.
Senza
i dati, le cifre, le statistiche, non può vivere.
I dati sulla pandemia – numeri di “casi”,
“decessi”, “ricoverati”, ecc. – emessi costantemente dai governi e accettati,
diffusi e commentati in modo totalmente acritico dai media, servivano a
costruire nella mente della popolazione una situazione drammatica che potesse
giustificare ingerenze senza precedenti nella vita dei cittadini, ingerenze
che, de facto, li spogliavano dai loro diritti costituzionali.
Ciò
che conta, osservava già dal 1995 uno studioso della contabilità, non è che i
dati siano affidabili, ma che vengano presentati in un modo che sembra neutrale
e factual (basata sui fatti) in modo di non poter essere messi in discussione;
i dati devono sembrare intrinsecamente veri.
Per la
tecnocrazia, i dati sono fonte di potere.
In
Italia, durante la prima fase della pandemia, la campagna ufficiale
d’informazione aveva il compito d’influenzare nella popolazione la percezione
della realtà, infondendo paura tramite la diffusione di dati mettendo in
evidenza la gravità della crisi.
Lo
strumento principale di questa campagna è stato la conferenza stampa tenuta dal
commercialista e revisore dei conti “Angelo Borreli”, capo dell’Unità di
Protezione Civile, trasmessa ogni giorno alle ore 18 da tutti i canali di
notizie televisivi.
L’impatto di questi “bollettini di guerra” è stato
grandissimo: secondo Auditel, nel mese di marzo 2020, quando il virus si stava
diffondendo attraverso l’Italia, ben cinque milioni di persone guardavano la
conferenza stampa ogni giorno.
Inoltre, i media italiani facevano
costantemente riferimento ai bollettini, in programmi televisivi come “I Numeri
della Pandemia” e anche nella stampa cartacea.
Durante
la seconda fase della strategia pandemica ufficiale, le conferenze stampa erano
tenute da “Domenico Arcuri”, il “Commissario straordinario per l’emergenza
epidemiologica” (anche lui commercialista e revisore dei conti di primo
livello), nominato dal governo il 18 marzo 2020.
Arcuri
si focalizzava soprattutto sui numeri dei decessi e dei ricoveri in terapia
intensiva.
Paragonava frequentemente la situazione ad una
guerra.
Il 18 aprile, per esempio, il Commissario
spiegò che nella città di Milano durante la Seconda Guerra Mondiale, 2.000
civili furono uccisi dai bombardamenti, mentre il virus aveva preso la vita di
11.815 italiani in soli due mesi.
Grazie allo stato di paura e d’incertezza
fomentato dalla diffusione costante di statistiche allarmanti, gli italiani si
sono adattati rapidamente alle nuove misure invasive ed a un tenore di vita
molto diminuito.
L’utilizzazione
delle informazioni numeriche è una strategia di legittimazione governativa di
lunga data e si è dimostrata, anche in passato, molto efficace nel far
accettare in modo acritico dalle popolazioni i dati forniti dai media.
A che
punto però tutti questi dati così impressionanti, diffusi in modo martellante
dai media italiani, erano affidabili e significativi?
Già dal 2 giugno 2020, Luca Ricolfi, Presidente e
Responsabile scientifico della Fondazione Hume, esperto di analisi dati,
affermava che “dei dati è stato fatto un uso folle” e che “la qualità dei dati
della Protezione Civile è pessima.
È importante osservare che questi dati erano
sempre presentati senza alcuna contestualizzazione:
per
esempio, le cifre di decessi da coronavirus erano pubblicate senza alcun
riferimento ai numeri di decessi normali nello stesso periodo dell’anno, e non
venivano mai paragonate ai decessi provocati abitualmente dall’influenza
stagionale.
Più
grave ancora è il fatto – analizzato nel secondo articolo – che i risultati dei
tamponi erano completamente inaffidabili, perché i test producevano
automaticamente una certa percentuale di falsi negativi, ma soprattutto
un’altissima percentuale di falsi positivi, cioè molte persone risultavano
positive, ma non erano in realtà né infette né infettanti.
Ma,
nei dati ufficiali i “positivi” venivano sempre presentati come “casi”.
Nello
stesso tempo, i dati sui morti da coronavirus erano anch’essi inaffidabili, le
cifre essendo sicuramente molto gonfiate dallo strano e innovativo sistema di
conteggio che confondeva chi moriva di Covid con chi moriva con il Covid (cioè
che testava positivo al tampone molecolare), un sistema che violava tutte le
linee guida internazionali.
La correlazione non è causazione. Inoltre, i
tassi di mortalità erano basati su una frazione cui elementi non erano
conosciuti con precisione.
La
cifra più importante da capire in qualsiasi epidemia è quella del tasso di
mortalità mediano.
Nel
luglio di 2020, dopo l’analisi di vari studi scientifici, l’epidemiologo
eminente di Stanford,” John Ioannidis”, dimostrò che il tasso di mortalità
mediano per Covid-19 era solo 0.27%, l’equivalente di una brutta influenza
stagionale.
Il
governo italiano non ha mai diffuso questa informazione essenziale.
“Puoi fare molto coi numeri”, osservano gli scienziati
tedeschi “Sucharit Bhakdi” e “Karina Reiss”, “Soprattutto, puoi spaventare la
gente”.
Stiamo
parlando dunque della creazione di ciò che costituisce, in verità, un intero
sistema di falsa contabilità.
“Quella che stiamo vivendo”, scriveva
Agamben ad aprile 2020, “prima di essere una inaudita manipolazione delle
libertà di ciascuno, è, infatti, una gigantesca operazione di falsificazione
della verità”.
Infatti,
la manipolazione dei dati in Italia (e in altri paesi) durante la pandemia –
denunciata ormai da molti scienziati – fa inevitabilmente pensare al detto
inglese “Lies, damned lies and statistics”.
Le
statistiche, infatti, possono essere le peggiori delle menzogne.
Nella
tecnocrazia, le statistiche – vere o false che siano – svolgono soprattutto la
funzione di influenzare la mente dei cittadini e di giustificare le misure,
spesso oppressive, imposte dal governo.
Non
esito ad affermare che la campagna d’informazione ufficiale condotta in Italia
durante la pandemia non sia stata altro che una campagna di pura propaganda
degna di un regime totalitario, degna infatti dell’orwelliano Ministero della
Verità.
Una tecnocrazia
sanitaria mondiale corrotta.
Il
tecnocrate si rappresenta sempre come “l’uomo della scienza”, un essere fatto
di oggettività, disinteresse e neutralità politica.
La
realtà è diversa.
E
questa realtà è diventata estremamente importante dal momento che una
tecnocrazia sanitaria ha assunto il potere sulla vita delle popolazioni.
Marco Pizzuti non esagera quando scrive che “Nel corso
della storia non era mai accaduto prima che i vertici della sanità mondiale
potessero assumere il controllo delle nazioni fino al punto di poter sospendere
i diritti fondamentali dei loro cittadini, impedire i funerali e separare le
famiglie in base alle decisioni di comitati tecno-scientifici che sono la
diretta emanazione degli interessi particolari dell’industria farmaceutica”.
La
corruzione dilagante, sistemica, che imperversa ormai da tanti anni nel mondo
farmaceutico-sanitario è un tema che sarà trattato più a lungo nel terzo
articolo.
Ci
limiteremo qui ad osservare che l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ovvero il massimo organo della sanità
pubblica a livello globale, non è forse in realtà l’autorità scientifica
imparziale descritta dai canali d’informazione ufficiali.
Infatti,
nel contesto dello svisceramento della democrazia esaminato qui, è essenziale capire
che, al termine di un lungo processo di neo liberalizzazione delle istituzioni,
ormai
l’OMS rappresenta solo gli interessi di una oligarchia capitalista
globalizzata.
La
sovranità dell’OMS è una sovranità derivata.
“A
causa della sua nuova dipendenza finanziaria [sorta negli anni 1990]”, osserva
Van der Pijl, “cadde, come il nuovo ordine neoliberale nell’insieme, sotto il
dominio del capitale, implementato dallo Stato internazionalizzato”.
Pizzuti
spiega come l’ente riceve la maggior parte del suo budget – ben 4,6 miliardi di
dollari su 5,6 – dalle donazioni volontarie provenienti da aziende e fondazioni
private.
L’autore
aggiunge che “ben i tre quarti delle sue risorse finanziare provengono
direttamente dall’industria farmaceutica e in particolare dai produttori dei
vaccini”.
Nel
biennio 2016-2017, per esempio, le donazioni volontarie hanno rappresentato
quasi l’87% del budget totale dell’OMS e il British Medical Journal ha
documentato che solo nel 2017 l’80% di questi fondi era condizionato a una
precisa agenda decisa dai donatori privati.
Già dal 2011 Il Sole 24 Ore denunciava la
totale perdita di credibilità dell’OMS come ente pubblico:
da
almeno trent’anni, “l’OMS ha perso il controllo, prima delle proprie politiche
e poi delle proprie finanze”, un cambiamento che “ha avuto inizio negli anni in
cui le sorti del mondo venivano ridisegnate secondo il modello neo-liberista”.
L’articolo illustra la perdita di controllo
delle politiche sanitarie dell’OMS con l’esempio del “decennio dei vaccini
annunciato da Bill Gates all’assemblea mondiale a maggio”.
Tenendo
conto del ruolo di primo piano svolto da Bill Gates durante la pandemia da
Covid-19, non è indifferente sapere che sin dai primi 2000 il plurimiliardario
ha iniziato a trasferire i suoi affari dal mondo del software al settore
farmaceutico, comprando pacchetti di azioni delle più grandi case
farmaceutiche;
che,
dopo gli Stati Uniti, la Bill & Melinda Gates Foundation è attualmente il
secondo finanziatore in assoluto dell’OMS (con la GAVI Alliance, anch’essa
fondata da Gates, che occupa il terzo posto);
e che lo stesso Gates viene considerato dai
dipendenti dell’OMS come il suo “amministratore delegato”.
Gli
interessi di Gates si focalizzano in particolar modo sui vaccini – che il
miliardario ha riconosciuto come estremamente lucrosi – e sulle campagne di
prevenzione sanitaria dell’OMS.
Le donazioni importantissime di Gates
consentono all’autoproclamato “filantrocapitalista” di decidere le priorità
dell’OMS insieme a quelle dei governi colpiti dalle emergenze sanitarie.
Sono i desideri di Gates e delle case
farmaceutiche che hanno realizzato “il decennio dei vaccini”.
L’Organizzazione
Mondiale della Sanità è ormai parte integrante di una tecnocrazia globalizzata
gestita da un’oligarchia capitalista internazionale dedicata unicamente
all’incremento costante dei suoi profitti e del suo potere.
È questa una realtà assai inquietante per
chiunque tenga ai valori liberali di democrazia e libertà o alla priorità della
salute e del benessere dell’umanità intera sui profitti economici e sugli
interessi politici dei pochi.
Stando
le cose così, forse non è tanto saggio fidarsi troppo delle direttive
provenienti dall’OMS.
Il
neoliberismo trionfante ha provocato non solo una profondissima crisi
economica, sociale e politica che sta travolgendo il mondo, ma una grandissima
perdita di credibilità delle istituzioni pubbliche, che sono diventate in
realtà delle “Public-Private Parternships” in cui il potere decisionale è
ritenuto non dal pubblico, ma dal privato.
Per
dirla con altre parole, la sfera pubblica è stata divorata dalla sfera privata.
Un
singolo episodio importantissimo servirà a far capire il modus operandi
dell’OMS contemporaneo guidato dagli interessi del capitalismo oligarchico.
Si tratta dello scandalo clamoroso – subito
insabbiato – che La Stampa del 7 giugno 2010 chiamava “La grande truffa della ‘suina’”.
La
“truffa” è stata scoperta e denunciata dal medico tedesco “Wolfgang Wodarg”,
presidente dell’”Assemblea parlamentare del Comitato sanitario del Consiglio
d’Europa”.
Il 26 gennaio del 2010, l’OMS è stata invitata
al Consiglio d’Europa di Strasburgo per rispondere alla mozione “Le false
pandemie, una minaccia per la salute”.
Wodarg
accusò l’OMS di aver terrorizzato il mondo con epidemie ingiustificate,
l’ultima nella serie essendo quella suina del 2009:
“Milioni
di persone sono state vaccinate inutilmente, com’è possibile che l’OMS sia
arrivata a promuovere una iniziativa così sciocca e costosa?
Prima
l’aviaria, ora la suina.
Per
l’OMS è una tragica perdita di credibilità”.
La
Commissione Sanità accusò l’OMS di avere creato una “falsa pandemia”:
“Il Consiglio d’Europa vuole sapere se l’OMS
si è fatta condizionare dall’industria farmaceutica, che grazie alla pandemia
ha registrato incassi record.
Ma gli
scenari pandemici annunciati non si sono avverati.
Una
bufala gigantesca o un errore di valutazione?”
È
interessante notare che il 4 maggio 2009, solo qualche settimana prima di
dichiarare la pandemia dall’influenza suina A/H1N1, l’OMS aveva cambiato la sua
definizione di pandemia, abbassando notevolmente le condizioni requisite:
non
era più necessario che un’epidemia si diffondesse rapidamente in molti paesi,
che ci fosse un’assenza d’immunità o un’immunità inadeguata, o che ci fosse una
quantità estrema di decessi o di malattie gravi;
ormai bastava la diffusione di un nuovo virus,
una quantità di malati superiore al normale – e la decisione di dichiarare una
pandemia.
Secondo
“Van der Pijl”, il piano sul quale fu basato il cambiamento di definizione era
stato scritto dall’IFPMA, un gruppo che promuove gli interessi dell’industria
farmaceutica, insieme alla DCVMN, un’organizzazione dei produttori di vaccini
per il mondo in sviluppo.
L’OMS
respinse le accuse di corruzione, che tacciò da “complottismo”, ma in seguito
fu stabilito da un’indagine condotta dal Consiglio d’Europa che gli esperti dell’ente
sanitario che avevano fatto alzare l’allarme al livello 6 (il massimo) avevano
tutti gravi conflitti d’interessi dovuti ai loro legami con i produttori dei
vaccini.
Non
solo, ma il 19 maggio, tre settimane prima della dichiarazione della pandemia,
una delegazione di trenta case farmaceutiche aveva visitato il quartiere
generale dell’OMS a Geneva per consultare il Direttore Generale Margaret Chan.
Analisti
finanziari hanno calcolato che le case farmaceutiche guadagnarono più di sette
miliardi di dollari quando i governi, allarmati inutilmente dall’OMS,
comprarono vaccini dalle case farmaceutiche in grande quantità.
La
maggior parte di questi stock fu buttata via.
Gli
esperti avevano gonfiato enormemente il rischio rappresentato dall’influenza
suina A/H1N1, che in realtà era più debole dell’influenza stagionale.
Sulla
scia della dichiarazione ufficiale di pandemia, i media, i virologi e i governi
del mondo occidentale avevano terrorizzato la popolazione con dichiarazioni
allarmistiche sull’imminente morte di decine di milioni di persone, convincendo
milioni a farsi vaccinare inutilmente.
Quando
la falsa pandemia fu sventata, i media lasciarono cadere nel vuoto questo
gravissimo episodio di corruzione.
“Il
giorno dopo”, scrive Pizzuti, “come se niente fosse, i virologi scomparvero dai
salotti televisivi e i grandi canali d’informazione iniziarono a parlare
d’altro mentre le istituzioni governative di tutto i mondo si eclissarono senza
prendere alcun provvedimento che potesse evitare il ripetersi di quanto
accaduto”.
Tutto
quell’intreccio di conflitti di interessi, istituzioni sanitarie “catturati”
dall’industria, esperti venduti e mass media che lavorano, non per informare le
popolazioni, ma per servire gli interessi dell’oligarchia capitalista, è rimasto
completamente intatto.
Covid
19 e la “Grande Trasformazione.”
Siccome
la “truffa” gigantesca della pandemia da influenza A/H1N1 è stata realizzata
senza che nessuno fra gli implicati abbia mai dovuto pagare le conseguenze, è
legittimo domandarsi perché questa operazione enormemente lucrosa non potesse
ripetersi.
È anche
legittimo chiedersi se la pandemia da Covid-19 non sia stata, in realtà, la
ripetizione, ad una scala molto più vasta, della stessa truffa, attuata questa
volta con scopi non solo economici, ma anche politici.
È
questa una domanda che non pochi commentatori si sono fatti.
Non
voglio esaminare a questo punto le teorie del complotto che sono state
sviluppate a riguardo non solo nel mondo dei “complottisti” della Rete ma nelle
pagine di libri seri e ben documentati.
Ciò che voglio sottolineare qui invece è che le
politiche messe in essere durante l’emergenza sanitaria hanno comunque servito
ad accelerare enormemente varie agende convergenti care all’oligarchia
globalista.
Nell’estate
di 2020 Klaus Schwab, il presidente del World Economic Forum, ha dato un nuovo
nome a l’insieme di queste agende: il “Great Reset”.
“Now
is the time for a ‘Great Reset’” – “È ora il momento per un ‘Grande Reset’” –
annunciò Schwab alla riunione annuale del World Economic Forum, a Davos
(Svizzera), il 3 giugno 2020:
“I governi dovrebbero attuare riforme attese
da tempo che promuovono risultati più equi. […]
Noi
dobbiamo costruire basi completamente nuove per i nostri sistemi economici e
sociali”.
Qualche giorno dopo, “Kristalina Georgieva”,
il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, pubblicò un discorso
intitolato “Dal
Grande Lockdown alla Grande Trasformazione”.
Secondo
lei, la serrata delle economie e le misure di repressione che avevano sospeso
la libertà di movimento di milioni di persone, distruggendo allo stesso tempo
centinaia di migliaia di piccole imprese e provocando fame e miseria nei paesi
poveri e danni psicologici nei paesi ricchi, offrivano grandi “opportunità”,
come la “trasformazione digitale” e la possibilità di muoversi verso una
società eco-sostenibile.
Le
implicazioni poco rassicuranti di questa “Grande Trasformazione”, di questo
“Grande Reset”, presentato al mondo come una nuova visione economico-sociale
altruista, equa, e ecologica, benché promossa dagli stessi poteri capitalisti
che hanno devastato e schiavizzato il mondo, sarà esaminata nel quarto
articolo.
Sottolineiamo
qui invece che al cuore di questa trasformazione epocale è la Quarta
Rivoluzione Industriale, strettamente legata ad un nuovo sistema di controllo sociale
alla cinese.
Grandi
passi verso la realizzazione di questi due fenomeni interconnessi sono stati
compiuti nel corso della pandemia, con l’instaurazione su scala massiccia del
lavoro a distanza, cioè il lavoro da casa tramite il computer durante i
lockdown;
l’instaurazione
della didattica a distanza (DAD), e l’imposizione in alcuni paesi, come
l’Italia, del “passaporto vaccinale” o “Green Pass” che, come vedremo
nell’ultimo articolo, più che un sistema di controllo epidemiologico
rappresenta un sistema digitale di controllo sociale.
Dagli
sconvolgimenti epocali provocati dalla pandemia da Covid-19 sta emergendo un
nuovo mondo.
La realtà assai inquietante di questo mondo,
di questo nuovo normale, sarà esaminata nel terzo e nel quarto articolo.
Il
secondo articolo sarà invece dedicato ad un’analisi critica della gestione
sanitaria dell’epidemia.
Perché la gestione è stata non solo sanitaria,
ma anche, e allo stesso tempo, politica:
nel
nuovo paradigma che i governi occidentali stanno costruendo in fretta, il
sanitario e il politico sono strettamente legati.
La salute umana si sta trasformando in
biosicurezza.
Il
Mondo è Multipolare!
Conoscenzealconfine.it
– (27 Agosto 2023) - Margherita Furlan – ci dice:
La
notizia è di quelle epocali. Yalta non esiste più!
Il
mondo ora è multipolare.
A
riconoscerlo è persino Matteo Renzi, di colpo divenuto esperto di politica
estera nel salotto televisivo, se così si può definire, di Giuseppe Brindisi.
La
notizia è di quelle epocali. Yalta non esiste più.
Questa
volta è ufficiale e alla luce del Sole. Argentina, Egitto, Iran, Etiopia,
Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti entreranno a far parte dei BRICS dal 1°
gennaio 2024, durante la presidenza russa dell’organizzazione oramai più
importante al mondo, contro cui l’ex potente Impero cerca invano, attraverso la
NATO e i servizi d’intelligence, di esalare gli ultimi respiri, portando con
sé, tra i rantoli, tutti i Paesi che hanno a Washington ceduto sovranità e
dignità, in cambio dello snaturamento dell’essere umano.
Ad
annunciarlo nei giorni scorsi al 15° summit dell’organizzazione, il presidente
sudafricano “Cyril Ramaphosa”, che ha aggiunto:
“Apprezziamo l’interesse di altri
Paesi nella costruzione di una partnership con i BRICS. Abbiamo quindi
incaricato i nostri ministri degli Esteri per sviluppare ulteriormente il
modello dei Paesi partners”.
Nella
dichiarazione finale congiunta, i cinque Paesi fondatori dei BRICS hanno
inoltre ammesso Egitto, Emirati Arabi e Bangladesh nella “New Development Bank”.
Il nuovo
blocco è dunque ora realtà.
Undici Paesi, tra cui i tre principali produttori di
petrolio al mondo, il 37% del PIL mondiale, l’Iran e l’Arabia Saudita,
audacemente insieme per un nuovo corso della storia, il Sud globale, ricco di
minerali e materie prime ancora intatte, con le sue aree strategiche, compreso
il Corno d’Africa, rappresentato per la prima volta nei consessi
internazionali.
Per
Putin, intervenuto in videoconferenza e che quindi non è stato possibile
fermare da una sentenza della Corte Penale Internazionale, oramai obsoleta e
rappresentata anche da un giudice italiano,
“la maggioranza mondiale, alla quale
appartengono i paesi qui presenti, è sempre più stanca di ogni tipo di
pressione, di ogni tipo di manipolazione, ma è pronta a una cooperazione
onesta, paritaria e reciprocamente rispettosa.
È da questa posizione che i BRICS affrontano
lo sviluppo di relazioni multiformi con tutti gli Stati qui rappresentati e con
gli altri Stati interessati, nonché con le strutture d’integrazione regionale,
tra cui la CSI (Comunità degli Stati Indipendenti), l’EurAsEC (Comunità
Economica Eurasiatica), la SCO (Organizzazione per la Cooperazione di
Shanghai), l’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico), la
Comunità dei Caraibi, il Consiglio di Cooperazione degli Stati Arabi del
Golfo.”
Secondo
Putin, la prossima priorità riguarda la questione della moneta unica dei BRICS,
materia complessa, “ma sui cui è necessario muoversi con rapidità e con
determinata precisione”.
Per il
presidente cinese, Xi Jinping, oggi si è fatta la storia con un nuovo punto di
partenza per la cooperazione globale.
Il
ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, al Meeting di Rimini ha tentato
invece di spiegare quello che ha definito “l’impegno del governo italiano verso
il continente africano” con queste parole:
“Rimuovere
l’approccio coloniale, che per molto tempo ha condizionato la storia dei
rapporti dell’Italia con i Paesi africani, presentare il ‘Piano Mattei per
l’Africa’ come sezione italiana del piano Marshall europeo, per vincere la
sfida delle migrazione e dell’instabilità in quel continente, sul cui fuoco
soffia la Russia con le sue milizie Wagner“.
Un’Italia,
questa, a Rimini rappresentata dall’attuale capo della Farnesina, già colonia
statunitense nel cuore del Mediterraneo, oramai ridicola, polverizzata, in un
nuovo corso storico, dalla sua stessa ignavia e slealtà verso i martiri che
hanno dato la vita per il fu Belpaese.
(Margherita
Furlan)
(t.me/CASADELSOLETV)
La
politica polarizzata.
Naufraghi.ch
– (8 maggio 2023) – Redazione - Piero Ignazi, Il Mulino.it – ci dice:
Quanto
sono di destra i partiti di destra e quanto stanno a sinistra quelli di
sinistra?
La
forbice politica è ormai larga in tutta Europa, riportata tale da partiti e
movimenti di destra a cui la sinistra non sa cosa contrapporre.
Da
molti anni in America si discute della crescente polarizzazione della politica.
Un
fenomeno che coinvolge in maniera più o meno accentuata molti Paesi.
Ma
anche in Italia assistiamo a una polarizzazione del conflitto?
Per orientarsi su questo aspetto è opportuno
rivolgersi, ancora una volta, a Giovanni Sartori, uno dei massimi politologi
del Novecento.
Sartori
introdusse negli anni Sessanta una classificazione dei sistemi di partito
destinata a diventare il riferimento per tutta la letteratura mondiale sul
tema;
e, per quanto il suo schema abbia valore
generale, in alcune sue parti è ispirato dal caso italiano.
In
quegli anni il nostro sistema partitico era caratterizzato dalla presenza di
molti partiti, con un grande partito collocato al centro – la Democrazia
cristiana – che rimaneva sempre al governo grazie al sostengo di un numero
variabile ma ben definito di quattro piccoli alleati.
La stabilità dipendeva dal fatto che, alla
destra e alla sinistra delle coalizioni di governo, vi erano delle opposizioni
“irresponsabili”, vale a dire, nella terminologia sartoriana, portatrici di valori
e ideologie incompatibili con i fondamenti del sistema costituzionale.
Il
Partito comunista e i neofascisti del Movimento sociale, collocati ai poli
estremi di sinistra e di destra, costituivano opposizioni ideologicamente
inconciliabili con il sistema politico;
inoltre
la loro politica, sia a livello visibile sia invisibile (cioè attraverso
messaggi subliminali o coperti all’interno delle rispettive organizzazioni),
puntava a delegittimare il sistema.
In
estrema sintesi, queste caratteristiche configurano il celebre pluralismo
polarizzato.
Ma in
che cosa consisteva esattamente la polarizzazione?
Sartori utilizza due indicatori per
individuarla: la temperatura e la distanza ideologica.
Il primo indicatore rimanda a quanto sia aspro
e ultimativo il conflitto tra i partiti, a quanto alta sia la febbre
ideologica.
Il
secondo segnala la distanza empiricamente misurabile tra i partiti: più
precisamente, quanto siano distanti i partiti estremi su una scala
destra-sinistra dove 10 è il valore massimo di destra e 0 quello massimo di
sinistra (o viceversa).
La
posizione di un partito su questa scala destra-sinistra è desunta dalle
risposte che forniscono i cittadini che si identificano con quel partito, i
quali gli attribuiscono un determinato valore.
In tal
modo ogni partito ha un suo punteggio.
I sistemi scarsamente polarizzati hanno una
distanza ridotta tra quello più a destra e quello più a sinistra.
Quelli polarizzati mostrano invece un grande
divario.
In
Italia, da quando si operano queste indagini, il gap tra l’estrema destra e
l’estrema sinistra è sempre stato altissimo.
E
questo non solo nel corso della cosiddetta Prima Repubblica, quando si votava
con il proporzionale:
anche
dopo il 1994, quando si è votato con sistemi più o meno maggioritari.
In
alcuni anni la distanza si è poi un po’ accorciata, salvo impennarsi di nuovo
soprattutto nelle ultime elezioni, dove i tre partiti di destra sono
concentrati, con poca differenza tra l’uno e l’altro, intorno al valore 9 su 10
della scala destra-sinistra.
Il
conflitto destra-sinistra sembra quindi tornato in tutta la sua forza,
imponendo una ulteriore fiammata polarizzante.
Ovviamente
in un Paese profondamente diviso e di scarsa cultura democratica e di quasi
inesistente cultura liberale (il termine liberal-democratico pone una serie di problemi,
come sottolinea Nadia Urbinati in The Ambiguities of “Liberal-Democracy”,
“Polis: The Journal for Ancient Greek and Roman Political Thought”, vol. 36, n.
3/2019), la polarizzazione tiene sempre in
tensione il sistema.
Ridurla è quindi cosa buona. Ma non al costo
devastante di annebbiare le posizioni tra i partiti e gli schieramenti.
La
visione di un grande centro dove si rifugia la gran parte degli elettori, punto
focale del celeberrimo lavoro di” Antony Downs” La teoria economica della democrazia (trad. it. Il Mulino, 1988), è da tempo depassé.
Essa
rifletteva un particolare contesto storico e geografico, le democrazie
anglosassoni degli anni Cinquanta, dove i maggiori partiti convergevano verso
il centro perché condividevano buona parte delle rispettive politiche.
In Gran Bretagna, quando i conservatori
tornano al potere nel 1951, non smantellarono il Welfare system del governo
laburista di Clement Attlee e non toccarono nemmeno le nazionalizzazioni.
Lo stesso negli Stati Uniti: l’eredità
rooseveltiana del New Deal fu in parte accettata dai Repubblicani.
Anche
perché gli “indipendenti” che non si riconoscevano né nell’uno né nell’altro
partito erano molti e dovevano essere conquistati.
È
sorprendente come venga ignorato che la rottura dell’”age of consensus “nelle
democrazie anglosassoni sia venuta dalla destra, dal neo-conservatorismo.
I
neo-con americani, con un gruppo di ideologi anche di provenienza trotzkista
(Irving Kristol su tutti), hanno lanciato l’attacco alle fondamenta del New
Deal identificando nello Stato e nelle sue funzioni sociali il nemico da abbattere:
“The government is the problem”, sentenziò Ronald Reagan.
Lo
stesso accadde in Gran Bretagna con la conquista della leadership del partito e
poi del governo da parte di Margaret Thatcher, che emarginò rapidamente i wet
della corrente sociale di “One Nation”.
Ma
quello non è stato che l’inizio.
Progressivamente
la polarizzazione negli Stati Uniti, in particolare, si è impennata a valori
mai visti prima.
Donald
Trump non ha fatto altro che dare voce a quello che ormai circolava in tanta
parte dell’elettorato di destra.
Gli esempi riportati da “Ezra Klein” (Why we’re Polarized, Profile
Books, 2020) sono tanto illuminanti quanto sorprendenti.
Questa
tendenza a spostare sempre più a destra il baricentro politico ha avuto due
effetti principali.
Da un lato, ha trovato la sinistra incapace di reagire: una volta che le veniva sfilato il
mito dello Stato-provvidenza e il mercato diventa il nuovo totem intangibile,
non sapeva più cosa proporre sul terreno socio-economico.
Per sua fortuna la sinistra ha trovato un altro
terreno di competizione in cui ha ripreso in mano il gioco: l’agenda libertaria dei diritti
civili.
Lanciata inizialmente dai Verdi, in primis dai
Grünen tedeschi, negli anni Ottanta, è stata poi adottata dai partiti socialisti.
Proprio
su molti aspetti libertari e sul terreno dei diritti sul piano etico-morale i
partiti di sinistra hanno conquistato nuovi ceti sociali metropolitani,
acculturati, di classe media e medio-alta.
Questo
spostamento dall’asse economico a quello valoriale ha tenuto a galla i partiti
socialisti, ma a un costo:
la perdita di parte dell’elettorato popolare,
variamente disperso, in parte verso l’estrema destra, in gran parte verso
l’astensione (cfr. D. Tuorto, Underprivileged Voters and Electoral Exclusion in
Contemporary Europe, Palgrave, 2022).
Dall’altro
lato, invece, i neoconservatori, radicalizzando le loro posizioni, hanno
spianato la strada all’irruzione di formazioni ancora più estreme, di cui il “Front
national” francese (ora Rassemblement national) della famiglia Le Pen
rappresenta l’archetipo.
La
forbice politica si è quindi allargata in tutta Europa, rincorrendo
paradossalmente le caratteristiche del sistema partitico italiano d’antan.
E non
c’è possibilità, ad avviso di chi scrive, di un rewind.
Perché
l’efficienza elettorale dei partiti non dipende più dalla rincorsa di un mitico
elettore mediano, vestigia di una politica che fu, bensì dall’enfatizzare le proprie
posizioni distinguendole nettamente da quelle degli altri attori politici. […]
L’elettore
viene catturato da un partito quando questo offre posizioni chiare, nette,
precise, distinte;
non
quando le diluisce cercando di aggregare un numero maggiore di votanti, che
invece si disperdono perché non trovano ragione di identificarsi.
Per
cui, gli inviti alla depolarizzazione e addirittura a superare la divisone
destra-sinistra riproponendo ancora una volta un governo dei sapienti, sono
destinati a scontrarsi con l’insofferenza e il fastidio degli elettori che non
vogliono essere guidati come scolaretti da supposti esperti.
Il fallimento in Italia di “Scelta civica”,
scioltasi come neve al sole dopo il mancato successo del 2013, la recente
rottura dei due iper-narcisi del Terzo Polo, l’illusione che l’agenda Draghi
avesse un qualche appeal al di là degli ovattati salotti della classe
dirigente, dovrebbero ormai rendere chiaro che l’elettorato vuole esprimere le
proprie preferenze in termini univoci.
Il successo di “FdI”, unico partito all’opposizione
del governo Draghi, dovrebbe avere insegnato qualcosa:
solo
chi “takes stand” chiaramente, vince.
Infine,
l’annebbiamento delle differenze tra i partiti a favore di un indistinto
embrassons-nous contribuisce a fomentare atteggiamenti di rifiuto della politica
– “sono tutti uguali” – che alimentano partiti estremi e populisti oppure
apatia e astensionismo.
La
democrazia funziona
come
un
sistema naturale: se la polarizzazione
riduce
la diversità rischia il collasso.
Greenreport.it
– (7 dicembre 2021) – Redazione – ci dice:
«La
tassazione progressiva potrebbe ridurre le difficoltà economiche, le tensioni
sociali che alimentano la polarizzazione».
Secondo
la nuova edizione speciale “The Dynamics of Political Polarization” di Proceedings of the
National Academy of Sciences (PNAS), nato da una collaborazione tra la Princeton
University e l’Arizona State University (ASU e che presenta una serie di nuovi studi
che esaminano la polarizzazione politica come un insieme di sistemi complessi
in continua evoluzione,
«Proprio come un ecosistema sovrasfruttato, il
panorama politico sempre più polarizzato negli Stati Uniti – e in gran parte
del mondo – sta vivendo una catastrofica perdita di diversità che minaccia la
resilienza non solo della democrazia, ma anche della società».
Si tratta di un lavoro che ha impegnato 15
gruppi interdisciplinari di scienziati politici e teorici dei sistemi complessi
nelle scienze naturali e nell’ ingegneria che hanno cercato di capire come si
produce la polarizzazione politica e come viene influenzata nel tempo dalle
azioni e dalle interazioni dei singoli elettori, di chi è al potere e dei vari
social network.
All’High
Meadows Environmental Institute (HMEI) della “Princeton University” dicono che:
«In
definitiva, poiché le interazioni sociali e le decisioni individuali isolano le
persone in pochi campi intrattabili, il sistema politico diventa incapace di
affrontare la gamma dei problemi – o formulare la varietà di soluzioni –
necessarie affinché il governo funzioni e fornisca i servizi critici per la
società».
Nell’introduzione
agli studi, gli editor Simon Levin, professore di ecologia e biologia evoluzionistica alla Princeton, Helen Milner, professoressa di affari pubblici
alla BC Forbes e p di politica e affari internazionali alla Princeton, e Charles Perrings, professore di economia ambientale
all’ASU, scrivono che
«La prospettiva dei sistemi complessi dimostra che la
perdita di diversità associata alla polarizzazione mina la cooperazione e la
capacità delle società di fornire i beni pubblici che rendono la società sana.
La polarizzazione è un processo dinamico ed è
ciò che la teoria della complessità può aiutarci a capire meglio.
Come hanno dimostrato in altri contesti gli
scienziati ambientali e della complessità, il mantenimento della diversità è
fondamentale per far prosperare e spesso a sopravvivere molti sistemi».
Levin sottolinea che
«I
sistemi adattativi complessi sono diffusi in campi che vanno dalla fisica e ai
sistemi finanziari, ai sistemi naturali guidati dall’evoluzione ed ai sistemi
socioeconomici-politici.
Questi
sistemi sono composti da agenti individuali, nei quali esiste un’interazione, e
forse una coevoluzione, tra gli atteggiamenti e le azioni dei singoli agenti e
le proprietà emergenti dei sistemi a cui appartengono.
In queste applicazioni, ci sono sfide simili
che comportano la necessità di una meccanica statistica per passare dagli individui ai
collettivi, all’emergere di modelli e processi come le norme sociali».
Oer
Milner,
che è docente associato all’MEI,
«Nonostante
l’aumento della faziosità, del populismo e della polarizzazione, questi
fenomeni non sono stati studiati a fondo come sistemi dinamici costituiti da
più componenti interagenti e caratteristiche su larga scala.
James
Madison aveva sperato che il sistema ideato nella Costituzione avrebbe evitato
il tipo di polarizzazione che i Partiti politici possono produrre e che possono
minare il funzionamento del governo.
Purtroppo, oggi stiamo assistendo alla
polarizzazione e a una conseguente perdita di diversità nella gamma di posizioni nella
società negli Stati Uniti e nel mondo.
I
paper in questo numero [di PNAS] dimostrano da una prospettiva sistemica le
forze che portano alla polarizzazione – e alcune delle sue conseguenze – con la
speranza che la loro comprensione porterà a una migliore governance».
Gli
studi hanno esplorato questioni da come le persone si isolano inconsapevolmente
in reti faziose attraverso i social media e come garantire riforme elettorali
di successo utilizzando modelli, a come l’opinione pubblica alimenta
l’estremismo tra le élite politiche, nonché i potenziali benefici della
polarizzazione nelle giuste circostanze.
Dagli
studi emerge che, nella politica dei social network,
«Le persone si polarizzano inconsapevolmente
abbandonando i follower considerati inaffidabili».
Un
modello computazionale testato con i dati di Twitter ha dimostrato che
«Gli
utenti dei social media possono inavvertitamente classificarsi in reti polarizzate
da utenti “non seguiti” che prendono in considerazione fonti di notizie non
affidabili».
I
ricercatori della Princeton University Andy Guess , assistente professore di
politica e affari pubblici, Corina Tarnita, professoressa di ecologia e biologia
evolutiva, e il pricipale autore, Christopher Tokita, che ha conseguityo il
dottorato di ricerca.ai Princeton nel 2021, hanno scoperto che
«Quando
le persone sono meno reattive alle notizie, il loro ambiente online resta
politicamente misto.
Tuttavia,
quando gli utenti reagiscono costantemente e condividono articoli dalle loro
fonti di notizie preferite, è più probabile che sviluppino reti politicamente
isolate, o quelle che i ricercatori chiamano “bolle epistemiche”.
Una
volta che gli utenti sono in queste bolle, in realtà perdono più articoli di
notizie, inclusi quelli dei loro media preferiti».
Guess evidenzia che
«Non è
difficile trovare prove di discorsi polarizzati sui social media, ma sappiamo
meno sui meccanismi di come i social media possono allontanare le persone.
Il nostro contributo è mostrare che la
polarizzazione dei social network online emerge naturalmente quando le persone
curano i loro feed.
Contro
intuitivamente, questo può accadere anche senza conoscere le identità di parte
degli altri utenti».
Mentre
prima era la politica ad orientare l’opinione pubblica ora sono le oscillazioni
dell’elettorato conservatore ad aumentare l’estremismo dei parlamentari di
centro-destra.
I ricercatori hanno collegato l’attuale
estremismo dei membri repubblicani del Congresso Usa all’opinione pubblica.
Mentre è ben documentato che gli americani non
sono così polarizzati come le persone che eleggono, lo studio condotto da Naomi Ehrich Leonard, Edwin S. Wilsey,
professore di Mechanical and Aerospace
Engineering a Princeton, Keena Lipsitz , che insegna scienze politiche al
Queens College- CUNY, e alla dottoranda di Princeton Anastasia Bizyaeva
dimostra che
«Gli americani sono ancora in parte responsabili
dell’estremismo dei loro rappresentanti eletti».
I
ricercatori hanno scoperto che:
«Nel
tempo, le oscillazioni conservatrici nell’opinione pubblica – che sono in
genere leggermente più ampie e più prolungate delle oscillazioni della sinistra
liberal – esacerbano i processi di auto-rafforzamento per i legislatori
repubblicani, con cui i legislatori rispondono all’opinione pubblica favorevole
rafforzando ulteriormente le proprie posizioni».
Il team di ricercatori ha identificato un
punto di svolta oltre il quale il processo di polarizzazione accelera man mano
che le forze che lo guidano si estremizzano e le forze che mitigano la
polarizzazione vengono sopraffatte e dicono che
«I
repubblicani potrebbero aver superato questa soglia critica mentre i
democratici si stanno avvicinando rapidamente».
Leonard spiega che
«Combinando
la nostra esperienza sui processi politici con la nostra esperienza sui feedback e sulla non linearità in processi
complessi che variano nel tempo, siamo stati in grado di fare nuove scoperte
sui meccanismi che possono spiegare e potenzialmente mitigare la polarizzazione
politica.
Finora,
i modi in cui l’opinione pubblica cambia nel tempo non erano stati implicati
nella polarizzazione politica dei legislatori.
Tuttavia,
tenendo conto della non linearità nel modo in cui i legislatori rispondono
all’opinione pubblica, dimostriamo che queste differenze contano in modo
significativo e che piccole differenze nelle oscillazioni dell’opinione
pubblica possono infatti portare a grandi cambiamenti nella polarizzazione.
Sono fiducioso
che gli strumenti analitici che abbiamo sviluppato per questo studio si
dimostreranno utili per trovare modi per rallentare il trend».
E non
è un caso che, proprio mentre la destra-centro italiana va in tutt’altra
direzione, dagli studi pubblicati su PNAS emerge che
«La tassazione progressiva potrebbe ridurre le
difficoltà economiche, le tensioni sociali che alimentano la polarizzazione».
Secondo
lo studio realizzato da Nolan McCarty, Susan Dod Brown, professoressa di Politics and Public Affairs alla Princeton, e
Joshua Plotkin, che insegna scienze naturali all’uiversità della Pennsylvania ,
«Il conflitto tra gruppi innescato da difficoltà
economiche può ridurre le interazioni sociali ed economiche, che a loro volta
esacerbano ulteriormente il declino economico e la polarizzazione politica, I
risultati suggeriscono che una tassazione progressiva progettata per garantire
un’adeguata rete di sicurezza sociale potrebbe aiutare a prevenire le ansie
economiche che alimentano i conflitti etnici e razziali».
McCarty
ricorda
che
«Negli ultimi 20 anni, gli Stati Uniti e molti
altri Paesi hanno vissuto profondi sconvolgimenti economici, sociali e
politici, tra cui crisi economiche, crescenti disuguaglianze, esacerbazione dei
conflitti razziali ed etnici e approfondimento della polarizzazione politica.
Il
nostro documento è un tentativo di comprendere le complesse dinamiche che
collegano questi sviluppi ed esplorare modi per interrompere il ciclo
negativo».
Lo
studio condotto da Fernando Santos, professore all’università di Amsterdam, con
Simon Levin, e Yphtach Lelkes, che insegna
comunicazione all’Università della Pennsylvania sottolinea che:
Il
problema è che, al centro di una politica sempre più debole, meno diversificata
(in particolare
con la scomparsa della sinistra politica) ma più polarizzata (evidentemente il maggioritario non
porta la governabilità promessa) è la
diversità dei social network che può intensificare o moderare gli atteggiamenti
personali:
«I social network a cui le persone appartengono
possono “ricablare” i loro atteggiamenti personali nel tempo per riflettere le
opinioni delle persone a cui sono legati, I ricercatori hanno scoperto che
quando le persone si connettono preferenzialmente a persone con opinioni
simili, creano una camera di eco che polarizza sempre più le opinioni di tutti
nella rete.
D’altra
parte, le persone che fanno parte di una rete composta da una varietà di punti
di vista tendono a moderarsi a vicenda.
Capire
che i social network influenzano la polarizzazione, piuttosto che semplicemente
rifletterla, potrebbe essere cruciale nello sviluppo di interventi per frenare la
polarizzazione online e la diffusione dell’estremismo politico, riferiscono i
ricercatori».
Levin fa notare che
«Questo
è un fenomeno relativamente nuovo e, come altri meccanismi di Internet e dei
media, ha probabilmente accelerato e rafforzato la segmentazione delle nostre
società».
Ma la
polarizzazione non è sempre un danno:
«Può giovare alla società quando le parti opposte
sono costituite da popolazioni diverse».
A
dirlo la ricerca guidata da Vitor Vasconcelos , dell’Università di Amsterdam e
del suo team composto da Elke Weber, Sara Constantino, Levin e McDonnell della Princeton University,
secondo i quali
«La polarizzazione può effettivamente avvantaggiare la
società quando i punti di vista opposti rappresentano ciascuno una varietà di
persone e comunità con valori condivisi.
La
polarizzazione diventa dannosa quando segrega i social network ed esclude le
informazioni sulle preferenze delle persone diverse dai vicini.
La
cooperazione diventa meno probabile quando queste reti locali distorcono o
minano il valore della collaborazione con gli oppositori, il che può comportare una serie di
effetti tra cui l’indebolimento dei processi democratici».
Sembra
la descrizione dell’asfittica politica italiana che nella sua corsa al centro è
esplosa a destra, polverizzandosi in molti egoismi che non vogliono il
cambiamento ma contendersi l’esistente, magari sbranandosi su Facebook.
Weber riassume:
«Le
società pluralistiche prosperano quando i membri con valori e convinzioni
diversi riescono a discutere queste differenze e sfruttarle per generare
soluzioni vantaggiose per tutti.
Il
nostro documento mostra che i benefici collettivi sono ridotti dalla
polarizzazione dei social network che limitano la comunicazione e la
negoziazione attraverso linee di parte, non dal fatto che non siamo d’accordo
sui valori».
Poi ci
sono le variazioni locali negli atteggiamenti politici che possono portare alla
polarizzazione, in particolare dopo disordini politici.
E il tema della la ricerca guidata da Olivia
Chu, una biologia quantitativa e computazionale della Princeton, e dei suoi
coautori Grigore Pop-Eleches , professore di politica e affari internazionali,
e Jonathan Donges , dell’HMEI e del Potsdam-Instituts für Klimafolgenforschung
(PIK) che hanno implementato “un
adaptive voter model” – che viene utilizzato per studiare le dinamiche di
opinione – in
tutta l’Ucraina per determinare in che modo le percezioni delle persone
sull’Unione europea differivano in base a come le persone nelle loro comunità e
circoli sociali discutevano di rivoluzioni, proteste di massa e altri shock
politici.
Pop-Eleches
ci dice
che:
«La nostra ricerca dimostra che, piuttosto che
trascinare tutti, l’effetto delle rivoluzioni su come le persone pensano alla
politica dipende in parte dagli atteggiamenti delle persone con cui parlano di
politica.
“Coloro
che parlano principalmente con i sostenitori della rivoluzione rischiano di
cambiare le loro opinioni nella direzione opposta rispetto a coloro che parlano
con gli oppositori.
Ciò può portare a sacche di maggiore
polarizzazione anche nei Paesi in cui la maggior parte delle persone sostiene
gli obiettivi della rivoluzione».
Uno
studio condotto da Corina Tarnita e Mari Kawakatsu del Princeton’s Program in
Applied and Computational Mathematics, insieme a Levin e Lelkes, ha esaminato come le interazioni
interpersonali di partito possono indebolire i processi che gli estensori della
Costituzione degli Stati Uniti consideravano salvaguardie contro le fazioni e
la polarizzazione.
I
ricercatori si sono ispirati al saggio di “James Madison”, “Federalist No. 10”
nel quale i sosteneva che una repubblica mitiga i pericoli delle fazioni
favorendo una diversità di interessi politici.
Ma gli
americani oggi si preoccupano di molte più questioni politiche rispetto a 75
anni fa, eppure la polarizzazione è peggiore.
Per indagare il possibile ruolo che le
interazioni tra cittadini appartenenti a una parte politica svolgono in questo
puzzle, gli autori hanno sviluppato un modello teorico di evoluzione culturale
e la loro analisi ha confermato l’intuizione di Madison:
«La coesione sociale aumenta quando gli individui si
preoccupano di una maggiore diversità di questioni.
Ma c’è
una svolta:
in
condizioni di estrema faziosità, l’apertura degli individui all’apprendimento
da parte di coetanei con un’ideologia politica diversa è diminuita.
Questo
porta a un maggiore tribalismo politico che riduce drasticamente la diversità
degli interessi, il che porta a un alto cameratismo all’interno dell’ideologia
e a una maggiore polarizzazione».
Ma i
ricercatori hanno anche trovato un lato positivo:
«Gli
effetti dannosi dell’estrema faziosità sono sostanziali solo quando gli
individui si affidano principalmente ai coetanei sociali per plasmare le
proprie opinioni e strategie e sono limitati nella loro esplorazione
indipendente».
Per
Tarnita,
«Il
nostro modello suggerisce che perseguire attivamente l’apprendimento al di là
della propria rete sociale è fondamentale per mantenere una società coesa»
e Kawakatsu aggiunge:
«Sebbene
sia la formazione dell’opinione che la cooperazione siano argomenti ben
esplorati, capiamo relativamente poco delle dinamiche accoppiate di
cooperazione e polarizzazione.
Le
interazioni inaspettate che abbiamo trovato tra faziosità, cooperazione ed
esplorazione indipendente evidenziano la necessità di studiare la
polarizzazione in un contesto accoppiato e multilivello».
Secondo
un’analisi condotta da Sam Wang , professore di
neuroscienze e direttore
dell’Electoral Innovation Lab a Princeton,
«La teoria dei sistemi complessi può portare a
una comprensione più profonda, a una migliore progettazione di riforme durature
per la democrazia americana.
Le
implicazioni delle riforme democratiche come il voto a scelta classificata e la
riorganizzazione dei distretti dei cittadini possono essere comprese meglio
utilizzando la teoria dei sistemi dinamici basata su ingegneria e biologia».
Wang e
un team multi-istituzionale di scienziati politici dicono che:
«La teoria basata sui sistemi tipicamente utilizzata
nelle scienze può aiutare a comprendere la miriade di interazioni che portano
alle attuali debolezze della democrazia americana:
istituzioni
particolarmente polarizzate, rappresentanti insensibili e l’abilità di una
fazione degli elettori di ottenere il potere a spese della maggioranza.
Concetti
come non linearità e amplificazione, feedback positivo e negativo e
integrazione nel tempo possono aiutare a identificare i problemi nella
rappresentanza e nel potere istituzionale.
Allo
stesso modo, in un contesto di complesse interazioni di rete, l’efficacia di
qualsiasi proposta di riforma è difficile da prevedere.
Una
descrizione matematicamente ricca di come interagiscono i meccanismi elettorali
può massimizzare gli impatti delle riforme nel contesto delle politiche e delle
procedure dei singoli Stati».
Wang,
Conclude:
«Il nostro obiettivo principale era tradurre il
sistema politico americano in una struttura di sistemi matematici complessi che
promuovesse la partecipazione degli studiosi delle scienze naturali.
Vogliamo
incoraggiare gli scienziati naturali a costruire modelli che riproducono
fenomeni politici, creare simulazioni per esplorare scenari alternativi e
progettare interventi che possano migliorare la funzione della democrazia.
Questi obiettivi sono analoghi a quelli degli
ingegneri:
comprendere
un sistema fatto di molte parti abbastanza bene da apportare riparazioni o
miglioramenti».
La
tendenza alla guerra contro la Cina,
con il
pretesto di Taiwan.
Sinistrainrete.info – (22-5-2023) - Daniele
Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli – ci dicono:
(l’Antidiplomatico:
liberi di svelarvi il mondo)
I
fatti si rivelano molteplici e indiscutibili, anche prendendo in esame solo i
primi mesi del 2023.
“Duecento
militari statunitensi risultano ormai presenti ufficialmente a Taiwan
dall'inizio dell'anno.
Gli
Stati Uniti aumenteranno le loro truppe a Taiwan Saliranno dal 30 di un anno fa
a 100-200, con l'obiettivo di addestrare le forze armate dell'isola a resistere
alla minaccia cinese.
Gli
Stati Uniti stanno considerevolmente aumentando il numero di truppe dispiegate
a Taiwan.
Nello specifico, stanno quadruplicando il
numero attuale per rafforzare un programma di addestramento per le forze armate
dell'isola in risposta a una crescente minaccia da parte della Cina.
Secondo
i funzionari americani, nei prossimi mesi gli Stati Uniti dispiegheranno
sull'isola tra le 100 e le 200 truppe, rispetto alle 30 circa presenti un anno
fa.
L'alto
rappresentante dell'Unione Europea, J. Borrell, ha proposto a sua volta
nell'aprile di quest'anno che tutte le marine militari della UE pattuglino
proprio lo stretto di Taiwan.
LONDRA
– “Le navi militari dell’Unione Europea dovrebbero pattugliare lo stretto di
Taiwan, per proteggere l’isola dalla Cina nella disputa tra i governi di
Pechino e di Taipei.
Lo
afferma Josep Borrell, l'Alto rappresentante della Ue per gli affari esteri e
la sicurezza, in un articolo pubblicato stamane dal “Journal Du Dimanche”. Un intervento a favore di un maggiore
ruolo per l'Europa unita, a fianco dell'America, in difesa di Taiwan.”
Rispondendo
come al solito positivamente alle richieste dell'imperialismo USA, a fine
aprile il disastroso governo Meloni ha già inviato una nave militare italiana
verso il Mar Cinese Meridionale, mentre contemporaneamente è stato annunciato
che la marina italiana invierà vicino a Taiwan una squadra navale, inclusa la
portaerei Cavour, verso la fine del 2023.
“Aiuto
agli Usa per Taiwan: navi da guerra italiane verso la Cina.
Anche
l'Italia in campo in una delle partite più delicate dello scenario geopolitico,
quella che vede la Cina determinata a riconquistare l'isola di Taiwan con la
forza.
Su
richiesta degli Stati Uniti avvieremo nuovi pattugliamenti navali e missioni
militari nel Pacifico.
Washington chiama, Roma risponde.
"Quando
nei giorni scorsi il capo di Stato Maggiore della Difesa Giuseppe Cavo Dragone
è andato a Washington per incontrare l'omologo Mark Milley, ovviamente si è
parlato della riunione di Ramstein del gruppo di contatto per aiutare Kiev,
dove l'Italia dà un supporto significativo alle difese aeree",
ricostruisce Repubblica.
Ma sul
tavolo c'era anche la preoccupazione degli Usa per le manovre cinesi a Taiwan
"anche perché Xi ha ordinato ai suoi militari di essere pronti a invadere
l'isola entro il 2027".
Così
gli americani hanno chiesto agli alleati di mandare un segnale a Pechino
"sul piano politico e militare", si legge nell'articolo. In cosa
consiste?
La
Morosini, nave della classe Pattugliatori Polivalenti d'Altura, è già partita
ai primi di aprile per una campagna di cinque mesi in Estremo oriente che la
porterà in Giappone, Corea del Sud, Vietnam, India e nel Mar Cinese
Meridionale, dove Pechino sta costruendo da tempo basi.
Il sottocapo di Stato Maggiore della Marina
italiana, Giuseppe Berutti Bergotto, inoltre, ha annunciato recentemente che
tra la fine del 2023 e l'inizio del 2024 la Marina invierà una squadra
portaerei che comprende la Cavour e il suo cacciatorpediniere di scorta, una
fregata e un rifornitore di squadra, nella regione dell'Indo-Pacifico, fino al
Giappone.
In
aggiunta il “Comando Operativo di Vertice Interforze” ha già inviato una
missione esplorativa a Seul e Tokyo, per definire la possibile partecipazione
ad esercitazioni terrestri con nuclei delle forze speciali, e un tour degli F35
italiani entro la fine dell'anno in Giappone, Corea e Singapore.
Insomma,
la guerra in Ucraina compatta la Nato, e l'Italia è chiamata a fornire il suo
contributo ben oltre l'area del Mediterraneo.”
Come è
purtroppo già avvenuto molte altre volte in passato, inoltre, il 28 aprile un
aereo militare statunitense da pattugliamento del tipo Poseidon è passato in
modo provocatorio sopra lo stretto di Taiwan.
“Tensione
Usa-Cina, aereo militare Poseidon degli Usa sorvola lo stretto di Taiwan”.
Il
teatro orientale dell'”Esercito Popolare di Liberazione cinese” ha dichiarato
di avere monitorato il passaggio di un aereo da pattugliamento marittimo
statunitense e denuncia frequenti "azioni provocatorie" da parte
degli Stati Uniti.
Gli
Usa: "Passaggio in conformità col diritto internazionale".
Nuove
tensioni tra Cina e Stati Uniti nei cieli dopo che un aereo statunitense è
passato sopra lo Stretto di Taiwan.
Il
teatro orientale dell'Esercito Popolare di Liberazione cinese ha dichiarato di
avere monitorato il passaggio di un aereo da pattugliamento marittimo
statunitense P-8A Poseidon e di aver "organizzato aerei da combattimento per seguire
e monitorare l'aereo statunitense durante tutto il processo".
La
Cina: "Da Usa azioni provocatorie."
"Negli
ultimi tempi navi e aerei da guerra statunitensi hanno spesso effettuato azioni
provocatorie, dimostrando pienamente che gli Stati Uniti sono un perturbatore
della pace e della stabilità nello Stretto di Taiwan e creano rischi per la
sicurezza nello Stretto di Taiwan", si legge in una nota del teatro
orientale dell'”Epl” a firma del portavoce “Shi Yi”, sottolineando che "le truppe del teatro mantengono
sempre un alto livello di allerta e difendono risolutamente la sovranità e la
sicurezza nazionale, nonché la pace e la stabilità regionale".
Sul
piano diplomatico, il presidente separatista “Tsai Ing-Wen” nell'aprile di
quest'anno ha incontrato lo speaker della Camera degli Stati Uniti, venendo
accolta con tutti gli onori in terra americana.
“Taiwan,
al via il viaggio del presidente Tsai. La risposta della Cina: "Se avremo
contatti con McCarthy reagiremo con determinazione"
(Tsai
Ing-wen in partenza dal Taoyuan International Airport Tsai Ing-wen in partenza
dal Taoyuan International Airport).
La
tappa che irrita maggiormente Pechino è quella del ritorno, a Los Angeles il 5
aprile.
In California Tsai dovrebbe - anche se non c'è
ancora una conferma ufficiale - incontrare lo speaker della Camera Usa.”
Che
fare contro la spinta alla guerra di una frazione importante dell'imperialismo
occidentale?
Innanzitutto
chiarire a livello di massa, come ha già fatto anche il genio dei Pink Floyd
Roger Waters”, Taiwan, è parte della Cina.
“Roger
Waters sta con la Cina: "Taiwan ne fa parte, andate a studiare se non lo
sapete".
La
leggenda del rock in un'intervista alla” Cnn” commenta la domanda Taiwan
spiegando che la comunità accetta le ragioni cinesi dal 1948.
E non risparmia la guerra in Ucraina.
Roger
Waters sta con la Cina: "Taiwan ne fa parte, andate a studiare se non lo
sapete"-CNN.
"Taiwan non è circondata dalla Cina,
Taiwan è parte della Cina: è scritto in un trattato riconosciuto a livello
internazionale sin dal 1948, prendilo e leggilo!",
risponde
piccato Roger Waters durante un'intervista esclusiva alla “Cnn”. Il breve video
che riprende la leggenda del rock sottolinea le ragioni cinesi sulla questione
Taiwan, viene molto commentato sui social.”
Infatti
l'isola venne abitata dai cinesi fin dal 1200, mentre già nel 1335 la dinastia
Yuan istituì alcuni organismi per Taiwan.
Nel 1662
la popolazione locale insorse contro i colonialisti olandesi, che da alcuni
decenni occupavano l'isola, cacciandoli e riunendosi alla madrepatria; la
lingua usata a Taiwan è il mandarino e tutta la sua cultura risulta di matrice
cinese.
Non
solo: anche la fortissima forza politica di opposizione di Taiwan, il
Kuomintang, riconosce l'appartenenza alla Cina di Taiwan.
Non
solo: con la risoluzione 2758 del 1971, l'ONU ha dichiarato chiaramente che nel
mondo sussiste una sola Cina, e che Taiwan risultava parte integrante della
Cina.
Non
solo: almeno sul piano formale, persino il presidente americano Biden ha
riconosciuto più volte, durante gli ultimi due anni, il principio
dell'esistenza "di una sola Cina", mentre sempre a livello ufficiale
gli USA hanno interrotto i loro rapporti diplomatici con Taiwan nel 1972,
aprendo invece una propria ambasciata a Pechino.
“Escono dall'ambiguità strategica
stabilita nel 1972 da Nixon e Kissinger con Mao Zedong.
Gli
Usa si schierano con Taiwan.
Il
viaggio della Pelosi non è un caso ma è stato voluto.
Parecchi
segnali indicano che gli Stati Uniti intendono porre fine alla loro politica di
«ambiguità strategica» nei confronti di Taiwan.
Com'è
noto, con tale politica Washington s'impegna a riconoscere l'esistenza di «una
sola Cina», aderendo quindi ai desiderata di Pechino.
Al contempo, però, intende mantenere lo status
quo, chiedendo alla Repubblica Popolare di non compiere atti di forza contro
l'isola.
L'ambiguità strategica pone agli americani
problemi di grande portata.
Dopo aver spostato la loro ambasciata a
Pechino in seguito della visita di Nixon e Kissinger a Mao Zedong nel 1972, i
rapporti diplomatici ufficiali con Taiwan furono interrotti, lasciando a Taipei
un semplice ufficio di rappresentanza.
La
mossa si rivelò molto utile per staccare la Cina comunista dall'Unione
Sovietica,
che, a quel tempo, come notò giustamente Roger Waters, conoscere la storia
diventa uno strumento indispensabile per smascherare i fautori occidentali
della guerra contro la Cina, prendendo a pretesto Taiwan.
La
fine del ceto medio.
Jacobitalia.it
- Göran Therborn – (8 Aprile 2021) – ci dice:
Come
la classe operaia tradizionale, anche i membri della classe media stanno
perdendo il loro ruolo in seguito ad automazione, precarietà e mobilità al
ribasso. Bisogna convincere anche loro della necessità dell'uguaglianza.
La
crescita della disuguaglianza dal 1980 è stata spinta dall’alto, dal 10% più
ricco, e dall’1% ancora più ricco e dalle frazioni ancora più piccole dalla
ricchezza faraonica.
L’altro 90% non è stato impoverito, è stato
abbandonato.
Ciò ha
dato origine a un’amara letteratura giornalistica e accademica nel Nord
globale, un’interessante contrapposizione tra le banche di consulenza e
sviluppo e i sogni della «classe media nascente» del Sud globale.
Per
rafforzare la volontà borghese in questo momento di crisi e insicurezza
liberale, “Democracy and Prosperity” (2019) di “Torben Iversen” e” David
Soskice” contiene un omaggio alle «democrazie capitaliste avanzate» (che rivelano più deferenza al
capitalismo che alla democrazia, che viene ritenuta responsabile della
disuguaglianza).
«L’essenza della democrazia – affermano – è il
progresso degli interessi della classe media».
Iversen e Soskice, entrambi eminenti economisti
istituzionali, sostengono che la classe media è allineata al capitale
attraverso due meccanismi chiave.
Uno è
«l’inclusione nel flusso di ricchezza» creato dall’accumulazione di capitale.
L’altro
è lo stato sociale:
il sistema di tassazione e trasferimento
garantisce che i guadagni dell’economia della conoscenza «vengano condivisi con
le classi medie».
È proprio questa «inclusione» e «condivisione»
tra capitalisti e classe media che, secondo recenti ricerche sulla disuguaglianza,
volge al termine.
All’inizio,
la distribuzione neoliberista favoriva gli interessi della classe media.
L’apertura
dei servizi pubblici alle imprese private riconosceva alcuni vantaggi a
segmenti fortunati della classe media.
Il
finanziamento pubblico a singole posizioni di istruzione privata gratuiti,
attraverso un sistema di voucher come in Svezia oggi, ha dato ai genitori della
classe media la gradita opportunità di mandare i propri figli in scuole ben
messe con pochi bambini immigrati o provenienti dalla classe operaia.
L’assistenza
aziendale è stata meno popolare e soggetta a scandali pubblici, ma è ancora
accettata da molti come un familiare accompagnamento all’austerità e alla
scarsità di servizi pubblici.
D’altra
parte, l’esclusione della classe media dagli alloggi urbani di prima qualità
continua a ritmo sostenuto e le differenziazioni di reddito e ricchezza si
intensificano.
Nel
frattempo, l’ambientalismo sta facendo sempre più incursioni nella classe media
istruita, ponendo esplicitamente la sopravvivenza planetaria e la sostenibilità
ecologica al di sopra degli interessi del capitale.
Rotolando
all’indietro.
Poiché
la mediana è il centro esatto di una distribuzione, il rapporto tra i redditi
dell’1% più ricco e la mediana è una buona misura della distanza che separa la “upper
class” dalla “middle class”.
Negli
Stati uniti, questo rapporto è passato da 11 a 1 a 26 a 1 negli anni 1980-2016.
Nel
Regno Unito e in Svezia, è passato da un 3 a 1 relativamente basso a circa 10 a
1.
Anche
in Germania il rapporto è salito, mentre in Francia è sceso leggermente da un
già alto 11 a 1.
Nell’area
“Ocse”, i salari della classe media – quella con redditi tra il 75 e il 200 per
cento della mediana – si sono ridotti e le opportunità di entrarvi sono
diminuite a causa della polarizzazione del reddito.
La
mobilità ascendente verso l’istruzione superiore è in fase di stallo dal 1975,
mentre il rischio di mobilità verso il basso è aumentato negli anni 2010,
soprattutto nel Regno Unito.
Con il
Covid-19 è proseguita, e in diversi paesi si è ulteriormente intensificata, la
rottura tra middle e upper class.
Negli
Stati uniti, la ricchezza dei miliardari è aumentata del 44% da metà marzo 2020
a fine febbraio 2021, in un momento in cui il 50% delle persone laureate o con
istruzione superiore aveva difficoltà a pagare le normali spese domestiche.
Alla
fine di luglio 2020, la ricchezza dei miliardari britannici era cresciuta del
35% rispetto all’anno precedente, mentre quasi un lavoratore con reddito medio
occupato su cinque ha registrato una diminuzione dei risparmi e la metà non ha
subito variazioni.
Il
fallimento di Biden.
I
bambini della classe media sono tenuti fuori da un sistema educativo d’élite
sempre più esclusivo, che va dagli asili alle migliori università selettive, a
causa dei costi irraggiungibili che i genitori della “upper class” stanno
facendo per posizionare i loro figli in posizioni redditizie nel mercato del
lavoro.
David
Markovits,
professore
di diritto a Yale, ha stimato che questi investimenti nella formazione d’élite
al di sopra della spesa media per l’istruzione hanno un valore equivalente a
un’eredità di 16,8 milioni di dollari.
Il
risultato è che «i bambini ricchi ora superano i bambini della classe media al
Sat [il test standard per l’ammissione al college] del doppio rispetto a quanto
i bambini della classe media superano i bambini cresciuti in povertà».
La
Task Force per la classe media di Biden sotto l’amministrazione Obama ha
fallito rispetto all’infanzia e all’accessibilità all’università, nonché
all’assicurazione sanitaria.
Lavoro
in eccedenza.
In
tutta l’area “Ocse”, i ragazzini si trovano di fronte a minori opportunità di
mobilità.
E non
è tutto.
A
essere sotto attacco è il nucleo stesso del lavoro della classe media.
Questo
ha avuto tre forme principali: il lavoro autonomo, il lavoro d’ufficio con
qualche autorità delegata e le professioni.
Nel lungo periodo la piccola borghesia
autonoma, composta solitamente da commercianti e il ramo rurale degli
agricoltori, è diminuita in numero e importanza.
Nel
Regno Unito, tuttavia, in questo secolo si è registrato un aumento degli
imprenditori autonomi urbani.
Tuttavia, questa crescita è guidata
interamente dai commercianti individuali, la maggior parte dei quali sono più
vicini al precariato che alla piccola borghesia storica, i cui negozi si stanno
drasticamente riducendo di numero.
Il
loro reddito medio annuo nel 2015-16 è stato di 21 mila sterline, un terzo del
reddito medio dei lavoratori dipendenti.
Impiegati
e dirigenti di livello inferiore vengono sottoposti a quello che “David Boyle”
ha giustamente chiamato «taylorismo digitale», prima di essere del tutto messi
da parte, come è già accaduto a un gran numero di impiegati postali e di banca
ad esempio.
Un lavoro d’ufficio da colletto bianco non è
più un rifugio sicuro e relativamente comodo dalla classe operaia, ma piuttosto
l’obiettivo principale dell’automazione.
Il
terzo settore classico del lavoro della classe media era nel ramo delle
professioni, occupazioni basate sull’istruzione alta e di lungo corso, che
aveva a che fare con particolari tipi di conoscenza, inaccessibili al pubblico.
Includeva
professioni antiche come l’insegnamento, la medicina, la legge, in molti paesi
anche l’amministrazione pubblica e le «semi professioni» infermieristiche e
sociali del ventesimo secolo, per citarne solo due.
Per
molto tempo, le professioni erano rispettate e considerate poco interessanti
per gli affari e il capitale.
Nella
tradizione tedesca dell’Ottocento e del primo Novecento, erano spesso riassunti
come Bildungsbürgertum (la borghesia colta), che era più o meno alla pari con
il Wirtschaftsbürgertum (la borghesia economica).
La
sociologia ha distinto le professioni dal mondo imprenditoriale, in quanto
orientate alla coltivazione della conoscenza e al servizio pubblico, più che al
profitto.
Le
professioni minate.
Questa
professionalità della classe media è ora sotto attacco – avvocati in gran parte
esclusi – e in procinto di essere distrutta.
L’attacco proviene da più parti, che possono essere
riassunte nel concetto di invasione del managerialismo.
Ciò
comporta una relativa svalutazione della conoscenza specialistica, e una
perdita di rispetto per essa.
In
pratica, ciò implica prima di tutto la subordinazione di professionisti,
insegnanti, ricercatori, medici, infermieri, ingegneri e altri ancora, ai dirigenti amministrativi, nelle
scuole e nelle università, negli ospedali e nelle imprese.
La
pratica della conoscenza professionale è sottoposta a verifiche, valutazioni e
sanzioni da parte dei dirigenti, derivanti da una diffidenza istituzionalizzata
nei confronti dell’autonomia e dell’etica professionale.
La pratica cognitiva professionale e l’etica
sono soggette a calcoli costi-benefici pervasivi, spesso nell’ambito di
quasi-mercati interni escogitati ad arte, come le amministrazioni universitarie
che addebitano ai dipartimenti l’uso dei locali universitari.
Questi
costi-benefici inventati fanno parte anche di un attacco antiprofessionale
particolarmente pesante condotto in nome del vessillo del mercato.
L’imposizione
di una norma ideale del mercato – l’opposto strumentale della mentalità
professionale dei valori intrinseci, della conoscenza, del servizio ai bisogni,
dell’imparzialità della legge e della regolamentazione – è operata sia dalla
gestione privata (di scuole, ospedali, carceri e così via) che dalla cosiddetta
«Nuova
Gestione Pubblica» delle istituzioni finanziate dalle tasse.
Internamente
si suppone che queste ultime lavorino come imprese su una base quasi di
mercato, comprandosi e vendendosi servizi a vicenda, ed esternamente devono
appaltare aziende private per fornire servizi pubblici.
In
questo modo, l’istruzione, la sanità e l’assistenza sociale sono diventate aree
redditizie per l’accumulazione di capitale, suscitando grande interesse da
parte della «borghesia economica», abbattendo la «borghesia culturale» sul suo
vecchio terreno.
Le
professioni della classe media non dovrebbero essere idealizzate, poiché
potrebbero benissimo diventare chiuse, conservatrici, compiacenti e
inefficienti, con routine ripetitive.
Ma questo non è inerente alla professionalità,
e essere un insegnante, un medico o un impiegato statale era una volta grande
fonte di orgoglio e di fiducia in sé stessi per la classe media.
Quell’orgoglio
e autostima adesso vengono calpestati e la frusta manageriale sta prevalendo
sulla collegialità.
Alcuni riescono a trovare riparo nella classe
medio-alta di manager e star delle professioni, ma per il resto il presente – e
probabilmente anche il futuro – è costituito da instabilità e da una
traiettoria discendente.
Una
nuova politica.
La
dialettica del capitalismo industriale, che Marx ha analizzato e predetto con
impressionante accuratezza, non opera più nel nord del mondo ed è stata
ostacolata al sud.
Il
capitalismo postindustriale non produce più una classe operaia in crescita e
sempre più concentrata.
Quel processo è finito a nord nel periodo
1965-1980, quando il peso sociale della classe operaia ha raggiunto il picco.
Nel
sud del mondo, l’occupazione manifatturiera si è arrestata negli anni Novanta e
l’occupazione industriale, comprese le costruzioni e l’estrazione mineraria,
intorno al 2010.
Anche
se si potessero riconquistare i settori della classe operaia finiti a destra,
il movimento operaio è solo una componente necessaria della politica
egualitaria, non più sufficiente come suo centro naturale.
Decisiva
per qualsiasi politica egualitaria di successo nell’era postindustriale è una
politica rivolta alla classe media da parte della sinistra.
Si
tratta di una questione molto delicata e difficile, perché una politica
egualitaria della classe media non può abbandonare i più vulnerabili, né la
metà più povera della popolazione, alle privatizzazioni e alla stagnazione dei
redditi, né i diritti dei lavoratori contro i datori di lavoro.
È l’opposto del blairismo e dell’orientamento
borghese di destra, che ha distrutto il Partito socialista francese e l’Spd
tedesca, l’opposto di voltare le spalle al popolo, del fare bisboccia con il
capitale rappresentando la visione del mondo della classe medio-alta.
Il
compito è convincere la classe media – o parti sostanziali di essa – dei
vantaggi dell’uguaglianza e della solidarietà rispetto ai privilegi
neo-faraonici e alle ricompense per il capitale e i suoi figli.
Il
punto di partenza è che il capitalismo finanziario postindustriale sta abbandonando
ed escludendo la classe media, creando una società dell’1% contro il 99%.
Chi
governa queste lugubri democrazie, non è certamente l’elettore medio delle
teorie economiche della democrazia.
«Non c’è nulla di medio», potrebbe essere la
frase che rappresenta l’epitaffio neoliberista per la classe media.
(Göran
Therborn è professore emerito di sociologia alla University of Cambridge.)
Le
nuove parole della politica.
Il
“Pnrr” da mettere a terra, ma attenti alla postura.
Quotidianodipuglia.it
– (12-3-2023) - Francesco G. Gioffredi – ci dice:
Governanti,
parlamentari, sindaci, assessori: si oscilla da un estremo all’altro.
O il linguaggio “basso”, sguaiato e da social,
oppure quello troppo alto, tecnico a tratti incomprensibile e colmo di
espedienti retorici d’improvviso alla moda.
Non
c’è via di mezzo e a questo punto forse nemmeno d’uscita.
Da un
estremo all’altro, come un pendolo impazzito: il linguaggio della politica è
così, non conosce soluzioni intermedie.
Oscilla
ormai tra il bassissimo e l’apparentemente altissimo.
Quindi: o il lessico sbracato, sguaiato,
semplificato, da osteria social e da sfottò delle scuole medie, oppure quello
oscuro, altisonante, imbevuto di tecnicismi e nuovi tic retorici, di parole
tanto grandi, misteriose, affascinanti, manageriali e soprattutto troppo
ricorrenti da essere alla fine solo attesa, pausa, rinvio, pretesto, “faremo” e
“vedremo”.
Le parole, in un caso e nell’altro e quando
usate fino alla nausea (il segreto è sempre la giusta misura), alla fine
degradano fino a diventare gusci vuoti ed evanescenti, le ascolti e sono solo
fruscio di fondo.
Se c’è una «cabina di regia» qualcosa vorrà
pur dire e starà succedendo, o forse no ed è solo una supercazzola attendista,
e allora pazienza, andiamo avanti.
La politica, quando vuol dire tutto e sempre,
alla fine non dice nulla.
Tra
abitudine e moda
Fatta
la premessa, veniamo al punto: non se ne può più. Di acronimi incomprensibili,
di «Por» e «Lep», di anglicismi benintenzionati, di «due diligence» e di
«deadline», dei dico-e-non-dico, di concetti usati come diversivo,
dell’ampollosa e un po’ buffa retorica di parole che riempiranno pure il cuore
e le insicurezze di chi le pronuncia, ma svuotano l’anima di chi ascolta o
legge smarrito. Cosa diavolo sarà questa «Flat tax»? E perché mai, da destra a
sinistra, hanno preso tutti una cocente sbandata per la «postura», dalla
«postura internazionale», alla «postura ideologica»? Vai a capire. Ma del resto
basta un «Pnrr da mettere a terra» (mai «realizzare»: ormai solo «mettere a
terra»), una «piattaforma programmatica da rilanciare», una «mission da
traguardare» e il gioco è fatto: anche il più naif dei deputati o il più
sprovveduto degli assessori si sentirà lì, nell’olimpo degli statisti da Prima
e Seconda Repubblica e dei grandi mandarini di Stato, o al limite
nell’anticamera, perché così parlano “quelli importanti”, cosi decretano le
“carte” dei ministeri e i tecnici degli assessorati, e così suggeriscono pure i
ghostwriter, che ormai sono le tute blu della grande e rutilante fabbrica della
comunicazione istituzionale e di partito.
Il
difficile gioco della politica
La
politica, nelle democrazie contemporanee, prova a esercitare la propria
egemonia innanzitutto con le parole e col corpo del leader. E il potere, in un
tempo così provvisorio e fugace, è prima di ogni cosa intrattenere e ammaliare
l’elettore, raccontare una bella storia, fare la faccia giusta al momento
giusto, sfoggiare la parola che arriva dritta al cuore o che confonde e
stordisce con una ventata di burocratica complessità. C’è un lessico per tutto,
in politica. Ce n’è uno per la campagna elettorale e per l’opposizione, quando
si può esagerare, sbraitare, indignare e sognare. È lo «storytelling», ma anche
questa è locuzione ormai usata e consunta, o la «narrazione», come evocava il poeta-presidente
Nichi Vendola, o è soltanto il «populismo», cioè l’accusa che tutti fanno a
tutti. E poi c’è un lessico per governare, quando i conti pubblici, l’Europa, i
ministeri, le Agenzie, le Borse e il senso di realtà impongono paletti e limiti
e obbligano al grigiore, all’attenzione, agli equilibri, ai toni curiali e in
definitiva alla responsabilità. A proposito: «i responsabili» - segnatevi anche
questo espediente retorico – a un certo punto di ogni Legislatura diventano in
Parlamento la bombola d’ossigeno delle maggioranze in debito di numeri, ma
banalmente i responsabili sono soltanto i deputati e senatori senza dio che
corrono in soccorso del Potere di turno in difficoltà. D’altro canto – come
disse con fulminante sarcasmo Francesco Cossiga riferendosi ai suoi “straccioni
di Valmy”, portati a sostegno del governo D’Alema – «c’è sempre un’ala
concretista»: altre parole, altro livello, altri tempi.
Ma
tant’è. Persino i più incendiari e incazzati di tutti, cioè i cinque stelle, si
sono subito abbandonati al sottile fascino della responsabilità: una volta al
governo, hanno cambiato registro lessicale, dal “vaffanculo” elettorale in un
batter d’ali si sono arresi a tutta la batteria di arzigogoli tecnici e in
bello stile, per dichiarare senza dire, annunciare senza spiegare, come un
qualsiasi deputato diccì di terza schiera degli anni ‘80. Solito trappolone,
dalla Camera all’ultimo Consiglio comunale, da Nord a Sud, e ovunque stessa
teatralizzazione vacua e ripetitiva.
L'ossessione
per gli acronimi
La coperta
più rassicurante alla quale aggrapparsi, di recente, sono gli acronimi: fanno
chic e impegnano il giusto. Sarà che a far crollare la diga è stato
l’onnipresente Pnrr (test: senza il supporto di Google ricordate tutti per cosa
sta?), ma fioriscono ovunque: i Lep nell’autonomia differenziata, il Pug nelle
città che è anticipato dal Dpp, senza dimenticare – sempre a livello comunale –
il Pums, il Peba e il Prt. C’è ovviamente il Rdc per i più poveri, ora il Mia,
ma in Puglia era stato già varato il Red. Giù al porto invece a governare tutto
ci pensa l’Adsp. E se c’è da spiegare al cittadino-elettore che qui nessuno sta
a guardare e che perciò sarà catapultata una pioggia di risorse dall’Europa e
dintorni, via con la mitragliata di sigle: Por, Fsc, Fse, Fesr, Pac, Psr, Cis,
React Eu, Next Generation Eu. Non è uno scherzo: a ciascuna corrisponde una
direttrice di finanziamento, di spesa e di governance. Ahi, sì, vero, ci siamo
cascati: «governance», la parola-scudo per addolcire la pillola e nobilitare. Se
tutto va a rotoli ed è fuori controllo, allora ricordate che bisogna
«ridisegnare la governance» e sarà la svolta. Magari «spacchettando» le
competenze. Il Pnrr, con tutte le sue ramificazioni e derivazioni, ha
inaugurato una sorta di neo-lingua, ispirata dalla tecnocrazia di Bruxelles e
che risulta sufficientemente grave e impegnata da conferire un tono solenne a
tutti: un progetto, ormai, si può solo «mettere a terra», rispettando i
«target», i «milestone», il «cronoprogramma» e il «documento programmatico».
Male che vada, si può sempre acconciare un «masterplan»: il buon, vecchio piano
è inflazionato, abusato, stropicciato e a furia di rimanere nei cassetti ha
perso credibilità.
Ben
gli sta.
C'è un
tavolo per tutto e tutti
Di
tutto e di più si può sempre discutere nell’immaginifica cabina di regia o al
più tradizionale «tavolo»: nel dubbio, è sempre il caso di convocarne uno per
«l’interlocuzione», altra parola ormai mitologica. Il «dialogo» è troppo
plateale, meglio una eufemistica e tattica «interlocuzione» per arrivare a «un
cambio di passo» e a un «punto di caduta». La politica è da decenni alta
falegnameria: c’è un tavolo per tutto. Per fare un tavolo ci vuole
l’utensileria, ma attenti a cosa scegliete: «apriscatole, trapano, ruspa,
lanciafiamme» appartengono all’altra metà del cielo linguistico-politico, a
quello aggressivo e scomposto, non a questa lingua di parole responsabili,
tecniche e fatue. E non ne parliamo se invadiamo il campo dell’economia, spazio
di un gergo ultra-specialistico e mediato: detto di Flat tax e due diligence,
l’ex Ilva è un «asset strategico», lo Stato deve esercitare la «golden share»
individuando i giusti «driver» e il «board», e poi ci sono l’ambiziosa «pace
fiscale» e i rassicuranti «ristori», ma attenti al giudizio dei «Paesi frugali»
e alla Legge di bilancio corretta da qualche «manina».
Il
politichese, la delizia di tutti
Ecco,
a proposito di manina: qui sconfiniamo nel politichese in senso puro, quello da
manovrieri d’aula. Basta una crisi di governo o al Comune e vabbè, quella è
l’apoteosi: tutti sopraffini strateghi e raffinati analisti d’altri tempi. Ci
sono perciò le «fibrillazioni», «l’inciampo», la «spallata», la «verifica», gli
«ultimatum», le «larghe intese», il «campo largo», «l’anatra zoppa», lo
«strappo», il «misunderstanding», i «due forni», gli infaticabili «pontieri»,
il «rimpasto» e la tanto anelata «discontinuità». Distinguendo «falchi e
colombe», e sulla zoologia ci sarebbe tanto da elencare, dalla «bestia» in poi.
Sulla
lingua della politica al tempo del Covid servirebbe una pagina a sé, ma
comunque tutti sono stati virologi e statistici: il «lockdown», i «cluster», il
«droplet», il «contact tracing», il «plateau», il «distanziamento sociale», i
Dpcm e i mitici «congiunti».
Specchio,
farsa e melodramma
In
generale: se la politica è specchio del Paese, e lo è, la lingua della politica
allora interpreta la nostra attitudine naturale alla farsa e al melodramma, che
sono lo strumento col quale addomestichiamo la realtà. E se tutto degenera,
tranquilli: c’è sempre l’altra faccia della medaglia, le parole triviali e
folcloristiche, la scena politica che diventa oscena, i «rosiconi» e i «gufi»,
la «mangiatoia» e «la pacchia è finita». Ed è finito anche questo pezzo che,
bisogna ammetterlo, per chi ormai da un bel po’ scrive di politica è stato
anche una forma di espiazione e di autodenuncia.
“Smart
Cities”, Nuove
Frontiere
del Degrado.
Conoscenzealconfine.it
– (28 Agosto 2023) - Uriel Crua – ci dice:
Ci si
avvicina a passi da gigante verso l’accettazione, l’introiezione,
l’assimilazione collettiva di paesaggi urbani del tipo distopico: le “smart
cities”.
Il
Pass corporeo, già largamente introdotto e accettato durante la messinscena
pandemica, apre a nuovi meccanismi di premialità con le “scatole nere” da
installare sui propri veicoli “inquinanti” per poter circolare nelle città.
A
giudicare dai chilometri annui “concessi” installando questi dispositivi di
controllo, non cambia affatto il presunto livello di inquinamento delle città,
anzi.
Ma
cambia – come al solito – il livello di controllo che il cittadino è disposto a
subire da parte delle autorità.
Esattamente
come il Pass corporeo non andava a cambiare nulla dal punto di vista sanitario:
anche lì, si trattava di un orpello da
sorveglianza.
L’immagine
dorata, metallica e funzionale delle nuove venture “città intelligenti” si
traduce così in nient’altro che massificazione del controllo e aggregazione di
dati a disposizione dei sorveglianti per poter gestire al meglio le greggi, con
fortissime probabilità di esclusioni, discriminazioni, ghettizzazioni.
Le
città intelligenti (alla cinese) non saranno nicchie hi-tech funzionali alla
popolazione, alla gestione del quotidiano e al miglioramento della qualità
della vita, ma enormi bunker-prigione, a loro volta suddivisi in zone più o meno
accessibili sulla base delle premialità, ovvero della disposizione del
singolo cittadino di accettare gradi di controllo sempre maggiori, pena
l’esclusione.
Con
una sapiente grammatura di propaganda e creazione del bisogno, i sorveglianti
stanno indirizzando le mandrie dentro nuovi recinti.
L’unico
modo per arrestare il processo è quello di rifiutarsi di eseguire, anche e
soprattutto al costo di vedere sacrificata adesso la qualità della propria
vita, senza rimandare a domani.
Perché
domani sarà già tardi…
Sembra
che anche a Maui avessero intenzione di costruire una smart city… guarda caso
proprio nelle zone “bombardate” e adesso, forse, riusciranno a realizzarla. (nota di conoscenze al confine)
(Uriel
Crua)
(neoprometheus.org/smart-cities-nuove-frontiere-del-degrado)
I
borghi devono
tornare
a essere paesi.
Internazionale.it - Luca Martinelli – (7
ottobre 2022) – ci dice:
(Roccafiorita,
provincia di Messina, novembre 2020.)
Nell’ultimo
anno sono stati pubblicati diversi libri che ragionano sul valore delle aree
interne e sul futuro dei borghi, ormai visti come mete turistiche più che
luoghi da abitare.
“Restare
non significa soltanto contare le macerie, accompagnare i defunti, custodire e
consegnare ricordi e memorie”, ma anche “mantenere il sentimento dei luoghi e
camminare per costruire qui e ora un mondo nuovo, anche a partire dalla rovine
del vecchio”.
Savino
Monterisi è un giornalista abruzzese che ha scelto di tornare a vivere e
lavorare sull’Appennino.
Abita
a Bagnaturo, una frazione del comune di Pratola Peligna, in provincia
dell’Aquila, ai piedi del monte Morrone.
Il suo
ultimo libro, “Infinito restare”, è stato pubblicato quest’anno da un piccolo
editore indipendente, Radici Edizioni, fondato a Capistrello (Aq) da un giovane
abruzzese, Gianluca Salustri.
È allo
stesso tempo un diario di viaggio (perché chi resta è in movimento, sottolinea
Monterisi), un saggio e una raccolta di reportage giornalistici, di storie
dall’Abruzzo interno.
È uno strumento utilissimo: aiuta a ribaltare
narrazioni, decostruire immaginari e cambiare punto di vista.
Un
paragrafo, per esempio, è intitolato “Il borgo è un paese che non ce l’ha
fatta”, ed
è una risposta ironica alla borgomania esplosa durante il primo lockdown, nel
marzo 2020, l’idea che la pandemia sarebbe stata l’occasione di abbandonare le
città ormai invivibili per ricostruire in luoghi più isolati un futuro
apparentemente idilliaco, fatto di orti e aria buona.
“Un
borgo è un paese che ha fatto ricorso alla chirurgia estetica solo per essere
più attraente”, scrive Monterisi.
Senza
la comunità dei suoi abitanti, senza “stratificate convenzioni sociali, riti,
tradizioni, legami familiari, storie dei luoghi” il borgo semplicemente non
esiste, è un guscio vuoto che finirà abbandonato.
Anche dai turisti che il marketing
territoriale vuole attirare:
perché
se mancano gli abitanti, la comunità, non può esserci alcun turismo legato
all’opportunità di condividere esperienze reali, come un corso per preparare la
pasta fatta in casa o una vendemmia, ma se in un paese non ci sono servizi
essenziali non possono esserci abitanti.
Spazio
per turisti.
Il
concetto di abitabilità è al centro del pamphlet Contro i borghi.
“Il
Belpaese” che dimentica i paesi, curato da Filippo Barbera, Domenico Cersosimo
e Antonio De Rossi per Donzelli Editore (2022).
Raccoglie
una ventina di saggi e nasce per rispondere all’idea, abbracciata dalle
istituzioni, che un paese isolato è degno di esistere e di ricevere
finanziamenti pubblici solo se e in quanto borgo, ovvero come spazio per
turisti.
È
l’idea alla base del “bando borghi” del ministero della cultura, che
nell’ambito del Piano nazionale ripresa e resilienza (Pnrr) ha destinato un
miliardo di euro a progetti di rigenerazione urbana, dedicando quasi la metà
del budget alla creazione in ogni singola regione italiana di un “borgo dei
borghi”, una vetrina senza abitanti ma instagrammabile e a misura di turista,
costruita con un finanziamento di 20 milioni di euro.
“Ventuno
borghi straordinari torneranno a vivere.
Un
meccanismo virtuoso voluto dal ministero della cultura ha portato le regioni a
individuare progetti ambiziosi che daranno nuove vocazioni a luoghi
meravigliosi”, ha detto il ministro della cultura Franceschini.
Peccato
che gli interventi finanziati riguardino in alcuni casi aree disabitate, come
il castello di Andora, in Liguria, o prettamente urbane, come il borgo castello
di Gorizia, che fa parte del centro storico della città.
L’equazione semplicistica del ministero è
“turismo uguale sviluppo”.
Il
saggio “Contro i borghi” firmato da Barbera con Joselle Dagnes è un invito a
ribaltare la prospettiva, che arriva a coniare il neologismo” Bruttitalia”, per
indicare una verità che secondo gli autori è sotto gli occhi di tutti:
“L’Italia
è un paese bellissimo fatto, per la maggior parte, di posti brutti”.
Posti dove i turisti non hanno nessun motivo
di andare, ma che continuano a inseguire la chimera della turistizzazione.
Non
sono borghi, sono paesi, dove “esiste, quindi, una rilevante domanda di vita
quotidiana […] che chiede politiche pubbliche attente alle specificità dei
luoghi”,
che abbiano come obiettivo la qualità della vita degli abitanti dei territori, anche “di quelli dove nessun turista
vorrebbe mai trascorrere più di qualche ora”.
In
effetti una politica per le aree interne in Italia c’è.
Si
chiama “Strategia nazionale aree interne” (Snai) e l’ha immaginata nel 2012
Fabrizio Barca.
La Snai ha coinvolto finora un migliaio di
comuni.
La racconta un libro uscito sempre per
Donzelli, nella collana curata dall’associazione Riabitare l’Italia: L’Italia
lontana.
Sabrina
Lucatelli, Daniela Luisi e Filippo Tantillo, tre protagonisti
dell’implementazione della Snai, analizzano successi e limiti della prima
politica pubblica place-based, in cui le scelte strategiche non sono prese al
livello centrale ma coinvolgono gli attori pubblici e privati del territorio
coinvolto.
La
Snai per la prima volta ha visto il governo e le amministrazioni centrali
costruire dal basso gli interventi, coinvolgendo in processi partecipativi
cittadini, amministratori e gruppi d’interesse locali.
Antiche
storie.
“Le
aree interne hanno tutte storie straordinarie, ma la storia straordinaria del
loro possibile futuro è ciò che deve stare al centro, usando e rigenerando (non
sedendosi su) quelle antiche storie”, scrive “Barca” nel testo che introduce il
saggio.
La “Snai”
è al centro anche della raccolta di saggi” L’altra faccia della luna”, curato
da Francesco Monaco e Walter Tortorella per Rubbettino (2022).
Giovanni
Teneggi introduce al concetto di servizi di cittadinanza come questione di
giustizia sociale.
Eppure, sempre più comuni in base agli
indicatori Istat sono classificati come “periferici” e “ultra-periferici”, cioè
distanti rispettivamente 41 o 67 minuti da una stazione ferroviaria servita, da
un ospedale con pronto soccorso, da un’offerta adeguata di scuole superiori.
In
comuni di questo tipo vivono 5,37 milioni di italiani.
Nel
2014 erano 4,22 milioni.
Questo
non significa che sia aumentato il numero di residenti nelle aree interne, ma
semplicemente che sempre più comuni (1.906 contro 1.767) si trovano distanti
dai servizi essenziali.
Diventa
così interessante il racconto delle sperimentazioni in atto, per esempio per
valorizzare le piccole scuole come strumento d’innovazione per un’educazione di
comunità:
montagna non significa isolamento, e quindi i
bambini delle scuole elementari di Sassello, nell’Appennino savonese, fanno
lezione online dialogando con i loro coetanei di Favignana, una delle isole
dell’arcipelago delle Eolie.
La
medicina di prossimità, di cui tanto si parla, è realtà se si racconta la
storia degli infermieri di comunità dell’Appennino reggiano, che si prendono
cura di tutti quelli con più di 65 anni, li vanno a trovare a casa e lavorano
sulla prevenzione, promuovendo attività come passeggiate di gruppo per
combattere la sedentarietà.
O
quella delle ostetriche di comunità, che nell’Appennino abruzzese seguono le
donne fin dall’inizio della gravidanza (le giovani delle aree interne fanno
meno figli, in molti casi perché sanno che non avrebbero alcuna assistenza, se
non percorrendo decine di chilometri).
Dopo
la pandemia, senza investimenti sui servizi essenziali, le persone andate a
lavorare in smart working nel loro paese torneranno in città.
Tra i
servizi essenziali ci sono poi quelli legati alla mobilità e all’accesso alla
rete.
Il tema della connettività è emerso con forza
a partire dalla primavera del 2020, quando almeno centomila lavoratori emigrati
dal sud al nord dell’Italia sono tornati a casa, sfruttando l’opportunità dello
smart working.
Perché
questo fenomeno possa tradursi in un reale ripopolamento, con l’afflusso di
nuovi abitanti che lavorano a distanza, la qualità della vita dovrà essere
soddisfacente, e comunque più alta rispetto a quella delle città.
E per
questo servono servizi, a cominciare da una connessione veloce a internet. Un
antidoto efficace al racconto lezioso di questo fenomeno è il saggio “South
Working”.
Per un futuro sostenibile del lavoro agile in
Italia (Donzelli 2022).
I curatori, Mario Mirabile ed Elena Militello,
sono tra i fondatori dell’associazione “South Working” e coordinano un racconto
a più voci che evidenzia il rischio di una possibile inversione a U:
dopo
la pandemia, in assenza di investimenti sui servizi essenziali, le persone
torneranno al nord o comunque in città.
Due
esempi: a Tursi, in provincia di Matera, è nato un “coworking “all’interno
della vecchia sede del comune, in un ex convento del seicento;
nell’estate del 2022 a Fontanigorda, in alta
val Trebbia, in Liguria, con 240 abitanti, la vecchia scuola chiusa negli anni
novanta è stata trasformata in uno spazio di “coworking”.
“I
luoghi con maggiori speranze sono quelli in cui cittadine e cittadini
intravedono un futuro, costruito con l’orgoglio di una rigenerazione
dell’identità precedente.
Prefigurando
una comunità di destino, non una comunità schiacciata sulla storia passata”,
scrive Fabrizio Barca.
Sottolinea
l’importanza di un sogno concreto che animi le persone che scelgono di restare
o di tornare a vivere nelle aree interne.
E
della consapevolezza che di fronte alla crisi climatica i modelli economici e
sociali prevalenti nelle aree interne – “assolutamente originali e alternativi
agli schemi predominanti” come scrive Augusto Ciuffetti nel suo “Appennino”.
Economie, culture e spazi sociali dal medioevo
all’età contemporanea (Carocci 2019) – potrebbe aiutare a trovare risposte e
nuovi sentieri di sviluppo.
Ciuffetti
cita come esempio la “centralità delle comunità di villaggio e [la] gestione
collettiva delle risorse, come pascoli e boschi, attraverso la pratica degli
usi civici e dei beni comuni”.
Sono i connotati di quella società
tradizionale che aveva permesso all’Appennino di resistere al declino economico
e al ripiegamento demografico almeno fino agli anni cinquanta del novecento,
quando l’Italia attraversò la fase di sviluppo conosciuta come “miracolo
economico”, che schiantò la civiltà contadina e produsse un’emigrazione di
massa nelle città.
È
tempo, probabilmente, di andare a cercare un nuovo equilibrio, che permetta di
vivere in modo dignitoso in ambito urbano e nelle aree interne del paese.
Astensionismo
e
ipocrisie.
Lacostituzione.info – (18 Ottobre 2022) -
Giuliano Vosa – ci dice:
In un
Topolino di qualche decennio fa, di fronte ai suoi campi allagati da
un’improvvisa alluvione, Zio Paperone piangeva con un occhio solo:
finché
non si sarebbe celebrato il raccolto, i mezzadri non sarebbero stati pagati e
le sue monete d’oro non avrebbero lasciato il Deposito.
Quella
vignetta, oltre ad arricchire il novero di riferimenti culturali del dibattito
più recente, calza a pennello alle dichiarazioni di vari esponenti politici
all’indomani delle elezioni del 25 settembre 2022.
Per due motivi.
Uno:
perché
il pianto del coccodrillo a babbo morto, dopo aver stracciato il record
negativo della storia repubblicana già fissato nel 2018, suona tremendamente
ipocrita – poco si è fatto per stimolare la partecipazione in un frangente
storico tanto delicato, sia nei cinque anni precedenti, sia alle soglie del
voto – e alimenta il sospetto per cui un ceto politico chiamato a scelte
impopolari reputi vantaggiosa la graduale riduzione dei cittadini politicamente
attivi, poiché allenta il controllo che gli elettori esercitano sugli eletti.
Secondo:
se il
regolarizzarsi di tale diminuzione assicura ai dirigenti mani più libere nel
breve periodo, non può dubitarsi che, nel lungo termine, pretendere di
governare all’insaputa dei governati equivalga a segare il ramo su cui siedono
gli uni e gli altri, trasformando in gusci vuoti le istituzioni del pluralismo.
“Ezio
Mauro”, dalle colonne di una Repubblica listata a lutto – epperò sempre
speranzosa nel vincolo esterno – suona a raccolta le campane contro la nuova
stagione populista:
tuttavia,
si direbbe, questa stagione è solo una nuova tappa di un “technopopulism” in
atto da decenni, che ha già svuotato di senso, in misura nient’affatto
trascurabile, le categorie e gli strumenti della democrazia rappresentativa.
Bene,
anzi male:
il ravvedimento operoso di una classe politica
incautamente ignava, se non in penosa malafede, deve passare per alcuni punti
salienti, da mettere a segno – si auspica – entro l’estate 2023.
Legge
elettorale. Non c’è stato giorno, nei mesi scorsi, in cui non si sia gettata la
croce sul Rosatellum-bis.
Buona
o malafede che fosse, occorre ora che la legge elettorale sia adeguata a
logiche di comprensibilità ed eguaglianza del voto, assicurando in termini più
stringenti quella conoscibilità elettore-eletto che la Corte costituzionale ha
posto alla base del principio di rappresentanza.
Quale
tipo di sistema usare, non è qui rilevante;
conta però che, qualunque sia la scelta, essa
si appoggi sui tre pilastri della conoscibilità – liste brevi, no voto
bloccato, no pluricandidature – e che neutralizzi, a tale scopo, gli effetti
della commistione maggioritario-proporzionale.
Basterebbe
già questo a rinsaldare il legame fra territorio e istituzioni:
si
eviterebbero gli effetti del paracadutismo di certi prossimi parlamentari, e ad
altri, ormai futuri ex, si risparmierebbe la brutta figura del fallito
atterraggio.
Si
può?
Impresentabili.
Se sì,
allora si affronti, senza remore, il tema dei rapporti tra “politica” e forme
di clientelismo elettorale che talora sfociano, da Sud a Nord, nel supporto
alla criminalità organizzata.
Se non si vuole affidare ai giudici il potere
di decidere chi può candidarsi e chi no, come da tonitruante retorica
“garantista”, si renda vincolante il parere della Commissione Antimafia, al
netto di ogni indagine in corso.
Una
clausola interna sottoscritta da tutti i partiti, attivabile da ciascun
iscritto in caso di violazione, in attesa di una legge che renda più pregnante
il “metodo democratico” con riguardo alle forme della rappresentanza partitica.
Resterebbe
al giudice il compito di decidere sull’eventuale impugnazione da parte
dell’escluso;
tuttavia, se la clausola prevedesse con un
buon grado di dettaglio i casi di esclusione, il tasso di politicità della
decisione si ridurrebbe.
Se la
preferenza, si dice, implica il rafforzamento del clientelismo, allora si colga
l’occasione di bonificare la rappresentanza dalle sue degenerazioni.
Sradicare,
in ogni sua forma, il voto di scambio – che da più parti, incredibilmente, si
accomuna al reddito di cittadinanza, come se lo Stato e le mafie fossero
legittimati in pari misura nel migliorare le condizioni di vita e lavoro dei
cittadini, e come se una legge generale equivalesse a un accordo fuorilegge fra
singoli – è un passaggio cruciale per far sì che, anche nelle aree più
socialmente depresse, l’elettore torni ad attribuire al suo gesto un
significato concreto.
Fuorisede.
Una
fetta cospicua di studenti e lavoratori, soprattutto giovani, e soprattutto
originari del Sud, vive e lavora lontano dal luogo di residenza.
Disinteressarsi
della loro partecipazione, costringerli a spostarsi comprando biglietti a
prezzi gonfiati – peraltro, in tempi di Covid crescente – è stata
un’imperdonabile leggerezza.
Si può
provare a consentire loro di votare rimanendo nel luogo in cui dimorano –
lavorano, studiano, vivono.
La tecnologia potrebbe rendere utilizzabile
una tessera elettorale in altro seggio anche senza recarsi fisicamente presso
quello originario.
Firme
digitali.
Il
caso Cappato, che ha minacciato la regolarità del voto fino a pochi giorni
prima dell’apertura delle urne, evidenzia un’altra imperdonabile leggerezza –
peraltro, dall’acre sapore discriminatorio verso le liste nuove, già
discriminate ex se dall’obbligo stesso di raccolta delle firme.
Prevedere
modalità di sottoscrizione digitale delle candidature è già possibile, anzi in
verità sarebbe (stato) obbligatorio per il Governo in base alla delega
contenuta nella legge 165/2017 (art. 3, comma 7).
Cinque
anni (con quattro diverse maggioranze) non sono stati sufficienti.
Che questo sia quello buono?
Elettori
a mobilità ridotta.
Anche
in questo caso, può valutarsi un uso più ampio della tecnologia disponibile,
rendendo più semplice votare per chi non può recarsi al seggio.
Trascurare il contributo dei più fragili alla
costruzione della comunità politica è un (altro) brutto segno; cancellarlo con
azioni di segno opposto è doveroso e urgente.
Infine,
una critica, garbata ma doverosa, al Presidente Mattarella.
Come
ricordava il Comunicato del 21 luglio 2022,
“il
periodo che attraversiamo non consente pause”;
di qui lo scioglimento istantaneo, senza consultazioni
di rito, e pure il riconoscimento al Governo Draghi di poteri normativi assai
penetranti, benché in regime di “disbrigo degli affari correnti”.
Ora, a fronte di un tale comportamento, forse,
un’attenzione più puntigliosa alla qualità della rappresentanza prossima
ventura sarebbe stata opportuna, proprio per le ragioni esposte nel Comunicato.
Concertare col Governo una o due settimane in più di campagna elettorale, ad
esempio, avrebbe permesso ai partiti nuovi di farsi conoscere meglio, e a quelli
più consolidati di promuovere con maggior vigore la partecipazione dei
cittadini all’evento elettorale. Avrebbe aiutato a ridurre l’astensionismo?
Forse.
Ma
avrebbe dato il senso dell’importanza dell’evento, dell’attenzione, della partecipazione
di cuore e ragione che le istituzioni si attendono dai cittadini quando spetta
a ciascuno di loro l’esercizio della responsabilità pubblica più alta.
Altrimenti,
si dà fiato ai sospetti peggiori:
quelli di aver trattato quest’elezione, come
la precedente e, chissà, la prossima, come un dente da cavarsi alla svelta.
Fare
in fretta per non disturbare il “manovratore”;
ché
tanto le linee generali della politica italiana andranno avanti “col pilota
automatico europeo”.
Il
voto, vale la pena ribadirlo, deve tornare ad essere percepito come un momento
decisivo, come un evento emotivamente forte.
E,
perché sia percepito come tale, deve tornare ad esserlo, in una certa misura.
La
necessità di rispettare i vincoli finanziari europei, di non turbare i mercati
e di non agitare gli alleati internazionali non può essere assoluta, ma deve
bilanciarsi col diritto di voto.
Dovere
civico e diritto fondamentale, il voto, cardine della sovranità popolare di cui
all’art. 1 della Costituzione, da proteggere nei suoi risvolti formali e
sostanziali.
Se non
passa questo principio, e se l’incuria continuerà a corrodere la
rappresentanza, il 63,9% dei votanti alla prossima tornata sarà un risultato
difficilmente eguagliabile.
E chi
glielo spiegherà, allora, all’Europa, ai mercati e agli alleati, che i
governanti controlleranno i palazzi ma non le istituzioni che rappresentano?
L’IDEA
DI EMANCIPARE
LE
MASSE È PURA UTOPIA!
Sfero.me
– Antonio Ceparano – (27 agosto 2023) – ci dice:
In una
partita di scacchi vince chi:
riesce
ad anticipare le mosse dell’avversario;
possiede
una buona strategia, finalizzata a creare le opportunità tattiche per
conseguire i propri obiettivi;
è capace di adattarsi alle situazioni
impreviste.
Il
Potere così come ne abbiamo esperienza, e cioè un esiguo numero di uomini
capaci di fascinare le masse e coartarne la volontà alla propria, ha tutte le
caratteristiche di un bravo giocatore di scacchi perché conosce alla perfezione
la struttura mentale dei popoli, e sa volgere a suo vantaggio l’irrazionalità
ed emotività propria delle masse.
Al
Potere non interessa l’individuo in quanto singolo, ma l’agglomerato di uomini
che possiede l’indiscutibile merito dell’obbedienza passiva all’autorità.
E poiché il Potere transita attraverso gli
individui che formano tutti insieme il corpo della massa, il singolo individuo
che osa metterne in discussione la legittimità e l’autorità viene emarginato e
discriminato non dagli strumenti repressivi del Potere, ma da quella stessa
massa per non essersi conformato alle norme o ai valori dominanti della
comunità.
Nessuna
violenza, nessuna coercizione:
“similia
similibus curantur” (i simili si curano coi simili).
L’esclusione
gregaria è un metodo assai più efficace della punizione fisica.
Il
passaggio storico dal supplizio (basato sulla tortura e sulla sofferenza fisica
del corpo del condannato) al carcere (basata sul controllo e sulla
normalizzazione dell'anima del delinquente), che rappresenta uno dei temi
centrali del saggio di “Michel Foucault” “Sorvegliare e punire”, segna il
momento in cui il Potere ha potuto disporre di laboratori sperimentali per
testare su soggetti umani una nuova tecnologia politica del potere basata sulla
sorveglianza, che consiste nel disporre tutti gli individui in uno spazio
visibile e controllabile, come nel modello del “panopticon” ideato da
“Bentham”, e sulla sanzione normalizzatrice simile al sistema di credito
sociale cinese, che consiste nel valutare e correggere i comportamenti degli
individui.
Coloro
che si discostano dalla norma prestabilita, verranno penalizzati con la
decurtazione dei crediti sociali, quelli che si conformano saranno, invece,
premiati con l’incremento dei crediti.
L’esperienza
acquisita attraverso i vari metodi di detenzione, adottati nei vari
penitenziari, è stata quindi adottata come nuovo strumento di controllo e
dominio delle folle.
L’avvento poi della «società di massa», con la
sua combinazione di consumismo e individualismo ha fatto il resto, facilitando
l’avvento di nuove forme di potere dispotico, capaci di annichilire qualunque
desiderio di ribellione e di libertà.
Quell’agglomerato
di individui che concorrono alla formazione delle folle, delle masse, possiede
caratteristiche nuove ben diverse da quelle dei singoli individui che le
compongono.
Il pensiero critico svanisce, e i sentimenti e
le idee di tutte le singole unità si orientano nella medesima direzione, come
le molecole d’acqua esposte ad un potente campo magnetico esterno.
Così
la folla diventa in tutto e per tutto simile ad un gregge che non può fare a
meno di un padrone.
E se gli togli quel padrone senza metterne al
suo posto un altro, ti ucciderà e ripristinerà il precedente, perché – ripeto –
non sa fare a meno di despoti.
Organizziamoci
noi – come minoranza – perché si possa vivere da uomini liberi e non topi.
Subito
un intenzionato/a per combattere:
STEFANIA
CONCA col suo intervento inviato il 27
agosto 2023 alle 20:47,
è’
molto convinta dal credo di Antonio Ceparano e della sua idea :
“ EMANCIPARE LE MASSE È PURA UTOPIA! “
Molto
vero.
“
Angelo Georgianni” , magistrato di cui ho molta stima e che seguo , sostiene
che presto ci sarà un nuovo mondo .
Molti
sociologi fra cui “Cianti “sostengono lo stesso e il tutto avverrà intorno al
2025/2026 .
Nel
senso che, o vincono loro o vinciamo noi, come avevi detto anche tu, per cui,
per forza la parte di umanità che attualmente si trova in minoranza e vorrà
resistere a quella che sarà la loro agenda 2030 e volerla in qualche modo aggirare ,
dovrà attrezzarsi , entro quella data , per poter riuscire a costruire una
nuova comunità dove riuscire a resistere e cooperare lontano dalla loro follia
, con le nostre scuole , nostri ospedali , terreni coltivabili , artigianato
ecc. ecc.
Il
mondo vecchio al quale siamo da sempre stati abituati, verrà spazzato via con l’automatizzazione,
la guerra e la crisi.
Adesso
comincia il” Grande Reset” di Claus
Schwab il “pazzo”.
Da
settembre purtroppo, con l'aumento del carburante, inflazione e aumento di
generi alimentari e “Mes” ci " resetteranno" cioè ci raderanno al
suolo come economia e tutto ciò a cui eravamo abituati, comodità incluse, verrà
spazzato via con l'automatizzazione e aumenti.
Il periodo fra il 2023 e il 2025 sarà il più
duro e potrà resistere soltanto chi si terrà ben informato e avrà la mente
aperta e resiliente.
Credo
che quest'autunno ne cominceremo a vedere delle belle, per ora ci hanno
ipnotizzato raccontandoci del boom economico della gente in ferie ma adesso
piano piano gli albergatori timidamente iniziano a tirare le somme e fra
qualche settimana cominceranno le prime notizie sul flop delle strutture
alberghiere e ristoranti.
Tanto ormai è tutto un dire il tutto e il
contrario di tutto, come con i vaccini, poi però la verità salta fuori tutta
insieme come i tubi rotti e non si potrà ignorare.
Sicuramente
scatteranno rivolte, quella sarà la prima naturale conseguenza, alla quale loro
reagiranno con l'esercito.
Tocca
poi a noi, il 3%, i difetti di fabbricazione, a tenere gli occhi ben aperti e
cercare di organizzarci in comunità per sfuggire al loro credito sociale, le
loro telecamere, il metaverso, il microchip, la “deficienza artificiale”, le leggi “lgbt”, Woke, e tutte le
boiate più assurde che ci verranno fatte ingoiare con la loro prepotenza.
Il
Grande Fratello cinese,
come
lavora una dittatura.
Buonadestra.it - Maria Elena Caffe – (3 Agosto
2023) – ci dice:
La
Cina ha da tempo adottato una serie di misure rigorose per proteggere la
sicurezza nazionale e combattere lo spionaggio, ma la campagna di
coinvolgimento del popolo, lanciata dal Ministero della Sicurezza di Stato, con
l’apertura di un account su WeChat per ricevere segnalazioni, è solo un altro
strumento per sorvegliare e controllare la popolazione.
Piuttosto
che promuovere una società aperta e inclusiva, il governo cinese cerca di
spingere i cittadini a diventare occhi e orecchie del regime, una sorta di
esercito di spie al servizio del potere.
Così
sollevano preoccupazioni riguardanti la protezione dei diritti umani e delle
libertà fondamentali.
Vi è
stato inoltre l’ampliamento delle maglie della legge anti-spionaggio il mese
scorso.
Sebbene lo spionaggio possa rappresentare una
minaccia legittima alla sicurezza di qualsiasi nazione, è essenziale garantire
che queste misure siano bilanciate e rispettose dei diritti fondamentali dei
cittadini.
La
Cina ha un’ampia storia di censura e sorveglianza di massa, e questa nuova
legge e campagna potrebbero accentuare ulteriormente questi problemi.
Già
nel 2016, è stata istituita la “Giornata annuale dell’educazione alla sicurezza
nazionale”, durante la quale sono state promosse iniziative volte a
sensibilizzare il pubblico sulla minaccia dello spionaggio straniero.
Tuttavia,
con l’intensificarsi della narrativa sulla sicurezza nazionale e le continue
preoccupazioni riguardanti lo spionaggio, l’attuale campagna potrebbe avere un
impatto più significativo sul coinvolgimento dei cittadini nella lotta contro
questa minaccia.
La
partecipazione attiva del popolo cinese nella segnalazione di attività
sospette, ancora di più se accompagnata da un sistema di ricompense per chi
denuncia, porterà a denunce infondate e favorirà un clima di sospetto e paura.
Ma il
problema non è solo l’accusa infondata del vicino di casa, chi mette davvero
paura è, come sempre in uno stato particolarmente autoritario, lo stato stesso.
L’ampia
definizione di spionaggio all’interno della legge potrebbe essere utilizzata
per reprimere l’opposizione politica e limitare la libertà di stampa e di
ricerca.
I
giornalisti e gli accademici stranieri presenti in Cina potrebbero trovarsi a
rischio di essere accusati di spionaggio semplicemente per aver cercato di
raccogliere informazioni critiche sul paese.
Le
nuove misure concedono alle autorità poteri estesi, tra cui l’ispezione di
strutture, apparecchiature e dispositivi digitali delle persone sospettate di
spionaggio.
Questo
potrebbe tradursi in un aumento della sorveglianza e del monitoraggio delle
attività online, minacciando la privacy e la sicurezza dei cittadini e delle
imprese straniere.
I
problemi poi si estendono, naturalmente, anche alle imprese straniere presenti
in Cina, ora se possibile di fronte a una maggiore incertezza e rischi.
Già in
precedenza tuttavia la situazione era abbastanza complessa.
Numerose
aziende hanno subito azioni punitive da parte delle autorità cinesi sulla base
delle accuse di spionaggio o di minacce alla sicurezza nazionale.
Queste
azioni spesso mancano di trasparenza e di una base legale chiara, portando a
incertezze legali e operazionali per le imprese straniere.
Ad
aprile dello scorso anno, diverse società straniere hanno sperimentato
incursioni e interrogatori da parte della polizia cinese.
Un
esempio è stato l’ufficio di Shanghai di “Bain & Company”, una società di
consulenza statunitense, dove i dipendenti sono stati interrogati e dispositivi
elettronici sono stati sequestrati.
Anche
altre aziende straniere hanno subito azioni simili, inclusa la società
statunitense “Mintz” e la casa farmaceutica giapponese “Astellas”.
La
nuova legge sul controspionaggio e la campagna di coinvolgimento del popolo
della Cina rappresentano una minaccia per i diritti umani, la libertà di
espressione e la privacy dei cittadini e delle imprese straniere.
Queste
misure dimostrano chiaramente il desiderio del governo cinese di mantenere un
controllo totale sulla società e di reprimere qualsiasi forma di opposizione.
È
importante che la comunità internazionale prenda atto di queste violazioni e si
opponga fermamente a tali pratiche oppressive da parte del governo cinese.
Gli
affari nascosti della
criminalità
ambientale.
Ilbolive.unipd.it - Sofia Belardinelli – (24
luglio 2023) – ci dice:
I crimini ambientali sono attività
illegali dannose per l’ambiente, portate avanti da individui, gruppi o
organizzazioni che traggono beneficio dallo sfruttamento, il deterioramento, il
commercio o il furto di risorse naturali.
Gli
ambiti d’azione dei criminali ambientali sono variegati:
tra questi si annoverano il traffico di fauna
e flora selvatica, il commercio clandestino di legname, l’estrazione illegale
di minerali, la contraffazione di pesticidi e altri prodotti chimici, la
gestione illegale dei rifiuti.
Quella
della criminalità ambientale è una realtà tanto diffusa quanto sconosciuta.
Sebbene non sia percepita come un pericolo
incombente da Stati e cittadini, i dati di monitoraggio degli “eco-crimini”
sono allarmanti:
il
loro valore monetario globale è cresciuto approssimativamente dell’8% annuo tra
il 2014 e il 2018, aumentando il proprio bacino da 70-213 miliardi nel 2014 a
110-281 miliardi nel 2018.
Un
tale business fa gola a molti:
non è
un caso, infatti, che sia la terza più ampia categoria di attività criminali,
dopo il traffico di droga e la contraffazione.
Di recente, la criminalità ambientale ha addirittura
sorpassato, in questa classifica dei crimini più redditizi, il traffico di
esseri umani.
Un
business in crescita.
Questi
dati sono raccolti in un documento che si occupa precisamente di analizzare il
legame tra commercio illegale e crimini ambientali, pubblicato a luglio 2023
dall’”OCSE” (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico).
Come
mette in luce il rapporto, il recente aumento del numero di crimini ambientali
transfrontalieri è eloquente.
Da
alcuni dati raccolti nel 2016 emerge che i settori in cui le attività illegali
sono più fiorenti sono la raccolta e la vendita di legname (che produce più di
metà dei guadagni illegali su scala mondiale), l’estrazione mineraria (un
quarto dei profitti), e poi la pesca, il contrabbando di specie selvatiche e la
gestione dei rifiuti, attività la cui pratica illegale garantisce
complessivamente un quarto dei profitti.
Inoltre,
bisogna tenere a mente che questi dati non prendono in considerazione il giro di denaro derivante dalla
contraffazione e dal commercio illegale di prodotti chimici e pesticidi, attività che possono essere
considerate crimini ambientali per via del loro impatto distruttivo sia
sull’ambiente, sia sulla salute umana.
Una
delle principali difficoltà nel far fronte alla questione è la mancanza di una definizione
ufficiale del concetto di crimine ambientale e l’assenza di un quadro giuridico
condiviso a livello internazionale.
Di questo vuoto giuridico i criminali
ambientali sono consapevoli, e sfruttano questa debolezza istituzionale a
proprio vantaggio.
Un
sintomo eloquente del fallimento delle istituzioni nazionali e internazionali
nell’affrontare questo problema è il fatto che, sempre più di frequente, ad occuparsi di crimini ambientali
internazionali sia la criminalità organizzata.
Il
crimine ambientale è infatti percepito come un settore a basso rischio, per via
della mancanza di una regolamentazione internazionale condivisa e per le basse
sanzioni, e ad alti profitti, poiché il contrabbando di merci rare, come le
specie selvatiche, o pericolose, come alcuni tipi di rifiuti e diverse sostanze
chimiche, sono molto redditizi.
Si
tratta dunque di un settore nel quale, anche secondo le mafie, investire
conviene.
Impatti
sulla natura, sulla salute, sull’economia.
I
crimini ambientali deteriorano gli ecosistemi, contribuiscono ad inasprire il
cambiamento climatico e incidono sulla già drammatica riduzione della
biodiversità, ma non solo.
Infatti,
molte di queste attività illegali hanno effetti negativi anche sulla salute
umana:
si
pensi alle conseguenze dell’utilizzo di pesticidi e altri prodotti chimici
contraffatti, che pongono seriamente a rischio la sicurezza alimentare ed
espongono lavoratori e comunità a gravi danni per la salute.
Tale pericolo si concretizza, ad esempio,
laddove si esercitano attività estrattive in cui le regole di sicurezza non
vengono rispettate, con il rischio concreto di sversamenti di materiali tossici
nell’ambiente e la conseguente contaminazione di suoli e acque.
I
crimini ambientali, inoltre, causano enormi danni anche sul piano economico e
sociale.
Come
riporta il documento curato dall’”OCSE”, “i reati ambientali internazionali
possono causare ingenti perdite economiche, dal momento che innescano un meccanismo
di concorrenza sleale e compromettono i mercati e i commerci legali, come
accade nel settore del legname e della pesca”.
La
presenza di eco-criminali su un territorio ha un costo molto alto anche dal
punto di vista sociale:
come
viene sottolineato nel rapporto, queste attività illegali “possono anche minare
valori fondanti come i processi democratici, lo stato di diritto, la sicurezza
nazionale e la governance globale in materia ambientale”.
A
completare il quadro vi è il fatto che quasi sempre i crimini ambientali sono
accompagnati da altri reati:
corruzione,
riciclaggio di denaro, intralcio delle attività giudiziarie sono attività
necessarie per la riuscita delle attività illegali, e la loro realizzazione
contribuisce ulteriormente alla disgregazione dello stato di diritto sia nei
Paesi in cui queste attività si consumano (molto spesso si tratta di Paesi in
via di sviluppo, dove lo Stato e le istituzioni democratiche sono generalmente
più fragili, per ragioni storiche e socio-economiche) sia a livello internazionale.
Risposte
istituzionali.
Uno
dei punti focali degli ecoreati a livello globale è l’Europa:
ad
oggi, infatti, il vecchio continente rappresenta ancora il più importante
centro economico e commerciale del pianeta, e per questo motivo gran parte dei
reati ambientali internazionali si consuma, almeno in parte, sul suolo
comunitario.
Solo
in Italia, i crimini contro l’ambiente perpetrati nel 2022 sono stati 30.686,
come riportato nell’ultima edizione del rapporto “Ecomafia”, pubblicato
annualmente da Legambiente.
Tra questi, l’abusivismo edilizio, il
commercio illecito di fauna selvatica e il ciclo illegale dei rifiuti la fanno
da padrone nel nostro Paese.
Pur
essendo un obiettivo privilegiato per la criminalità ambientale, l’Unione
europea è anche tra le realtà istituzionali più attive nel far fronte a questa
problematica.
I casi di reati ambientali gestiti dall’Agenzia
europea per la cooperazione giudiziaria penale (Eurojust) sono aumentati di
quattro volte tra il 2014 e il 2018; inoltre, gli Stati membri dell’Unione
hanno largamente aderito alle numerose iniziative internazionali vòlte a
prevenire e ridurre i traffici ambientali illeciti.
Alcuni
degli strumenti più utili ed efficaci a livello internazionali sono i “Multilateral
Environmental Agreements” (MEAs), che forniscono un quadro giuridico vincolante
e condiviso a livello internazionale per contrastare alcuni dei reati
ambientali più diffusi.
Tra i
principali “MEA ricordiamo” la “CITES”, che è la convenzione che regolamenta il
commercio di specie selvatiche;
la Convenzione di Basilea, che stabilisce
regole per la compravendita di rifiuti;
la
Convenzione di Rotterdam, che disciplina il commercio di sostanze chimiche
pericolose con l’obiettivo di tutelare la salute ambientale e umana;
la
Convenzione di Minamata – il cui nome ricorda il disastro ambientale
consumatosi nell’omonima cittadina giapponese – che regolamenta l’utilizzo del
mercurio;
il
Protocollo di Montreal, che istituisce un quadro giuridico per la gestione
delle sostanze che corrodono lo strato di ozono atmosferico.
Questi
strumenti hanno svolto, negli anni, un fondamentale ruolo di rafforzamento
della cooperazione internazionale.
Tuttavia – si evidenzia nel rapporto dell’”OCSE”
– questo approccio multilaterale presenta alcune lacune:
ad esempio, i “MEA” non riescono ad
armonizzare gli approcci di politica internazionale e la gestione dei controlli
di frontiera, che sottostanno alle leggi dei singoli Stati.
Inoltre, diversi settori in cui la criminalità
ambientale è fiorente non sono ancora protetti da alcun tipo di accordo
multilaterale con valore giuridico, il che rende ancor più difficile il
contenimento dei fenomeni criminosi.
Alla
luce della situazione corrente, in cui la mancanza di un impianto giuridico
condiviso è riconosciuta come uno dei principali elementi che facilitano
l’azione criminale, il primo passo da compiere è senz’altro la costituzione di
un corpus giuridico condiviso su scala internazionale che consenta di
combattere la criminalità ambientale in maniera organica e coerente.
Inoltre,
è importante riconoscere e affrontare le motivazioni socio-economiche che rendono
la criminalità ambientale così appetibile.
Chi
commette questo genere di reati è, molto spesso, spinto dall’indigenza:
limitarsi a punire chi viene riconosciuto come responsabile di un reato
ambientale non è sufficiente, ma bisogna assicurarsi che, soprattutto per chi
opera alla base della catena di illegalità, vi sia un’alternativa praticabile
per sostentare sé stessi e la propria famiglia.
Infine,
è essenziale aumentare l’attenzione pubblica e diffondere la conoscenza sul
tema della criminalità ambientale, sottolineando quanto le conseguenze di
queste attività illecite incidano, direttamente o indirettamente, sulla vita e
sulla salute di tutti noi.
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