La scienza si è trasformata nella narrativa dominante fatta di falsità.

 

La scienza si è trasformata nella narrativa dominante fatta di falsità.

 

 

 Quattro motivi per

cui si rifiuta la scienza.

 Ilbolive.unipd.it - Anna Cortelazzo – (13 agosto 2022) – ci dice:

 

I campi in cui può manifestarsi un atteggiamento antiscientifico sono moltissimi: alcuni pensano che il Covid19 sia un'influenza (solo il 61% degli americani crede che ci sia un grave rischio per la salute pubblica), altri che in Ucraina non ci sia la guerra, e altri ancora ritengono che il cambiamento climatico sia una bufala (il 60% degli americani non crede sia una grande minaccia).

La pericolosità di queste credenze, sia a livello personale che sociale, ha spinto a chiedersi come mai alcune persone abbiano la tendenza a rifiutare qualsiasi prova loro fornita:

 comprenderlo è utile anche per poter proporre delle soluzioni possibili per avvicinarle alla scienza.

Da qui è nata un'articolata analisi pubblicata su “Pnas” che mette in luce alcune dinamiche interessanti partendo da dati e modelli esplorati dalla psicologia e che rileva gli elementi comuni che si riscontrano nelle persone ostili alla scienza.

È interessante notare, anche se il lavoro non lo esplicita, che i motivi per cui si rifiuta la scienza si possono ricollegare a tutti quei principi che generano il meccanismo di persuasione e che sono stati teorizzati da “Robert Cialdini” nel suo “Le armi della persuasione”.

Come e perché si finisce col dire sì del “1984”:

 gli autori, infatti, hanno individuato quattro ragioni per cui le persone possono non credere nella scienza e hanno proposto delle soluzioni che vanno ad agire soprattutto sulla comunicazione del messaggio.

La prima ragione riguarda il mittente del messaggio scientifico (principio di autorità di Cialdini), che viene percepito come poco affidabile per tre possibili ragioni:

 può essere considerato inesperto, disonesto o poco imparziale e vittima di “bias” cognitivi.

 Può succedere per varie ragioni:

gli scienziati disonesti esistono, e purtroppo alcuni estendono questa caratteristica all'intera categoria;

l'intero processo scientifico, poi, procede per prove ed errori, le informazioni fornite dai diversi attori in gioco sono talvolta in contraddizione e vengono poi aggiornate a seconda delle nuove evidenze.

È giusto che sia così, ma chi non è avvezzo al metodo scientifico rischia di considerare l'intero processo, e quindi anche gli scienziati, poco affidabili.

Per finire, lo stereotipo dominante vede gli uomini di scienza come atei.

Vero o no, basta ad attirargli l'odio di una parte politica e di alcune congregazioni, che hanno maggiori possibilità, rispetto agli scienziati, di influenzare idee e opinioni dei credenti.

In questi ambienti, ma anche in altri, viene fatta passare l'idea che gli esperti siano incentivati, per esempio tramite corruzione, a passare determinate informazioni (è quello che si è verificato anche con i vaccini contro il Covid).

 

La seconda ragione per i comportamenti antiscientifici riguarda i destinatari del messaggio dei divulgatori.

Le persone tendono a pensare a sé stesse come componenti di determinati gruppi, e sulla base di questa appartenenza sono esposte a un certo tipo di informazioni (principio della riprova sociale di Cialdini).

 In particolare, chi appartiene a un gruppo sottorappresentato nella scienza (per esempio le minoranze etniche) tende a manifestare una naturale diffidenza verso essa, dando ascolto alle notizie che la presentano come poco affidabile o peggio ancora truffaldina.

 Inoltre le persone tendono a rifiutare tutte quelle informazioni scientifiche incompatibile con la loro appartenenza (un gruppo di “gamer”, per esempio, tenderà a rifiutare gli studi che identificano i videogame come dannosi).

Questi gruppi, tra l'altro, spesso non si considerano antiscientifici, ma anzi pensano di promuovere una scienza diversa da quella del mainstream.

 La naturale conseguenza, in questi casi, è la polarizzazione del dibattito, che non porta benefici a nessuna delle due parti.

La terza ragione riguarda il messaggio scientifico di per sé, che diventa irricevibile se va a contraddire le forti credenze delle persone, che sono disposte a fare di tutto per evitare la dissonanza cognitiva che causerebbe l'accettazione della nuova scoperta (principio di coerenza di Cialdini):

è più facile negare qualcosa che smantellare un intero sistema di credenze mettendone in dubbio anche solo una.

 È ciò che è successo a tutte quelle persone che hanno rifiutato il “sistema eliocentrico”, ma anche ai fumatori che per non rinunciare alla loro abitudine mettono in dubbio gli studi che rilevano i danni che il loro vizio può causare.

È quello che accade anche con le “fake news”, che si diffondono molto più velocemente di quelle vere perché fanno più rumore.

Se il gruppo a cui sentiamo di appartenere condivide una notizia, tendiamo a fidarci e a negare le prove contrarie (qui interviene anche il” bias” di conferma, che spinge a cercare e accettare solo le prove che confermano ciò che già pensiamo).

Lo stesso accade se le ricerche scientifiche vanno a ledere i nostri valori:

per questo motivo, una persona che si ritiene ambientalista ma che non vuole rinunciare all'aria condizionata tenderà a rifiutare l'idea che il cambiamento climatico è causato dall'uomo, perché questo gli permette di non rinunciare agli agi ma nemmeno all'ideale di rispettare l'ambiente.

La quarta ragione, per finire, è il disallineamento cognitivo tra il mittente e il destinatario del messaggio, per esempio quando il primo parla in termini troppo astratti, oppure quando utilizza un linguaggio tecnico non alla portata dell'interlocutore (principio di simpatia di Cialdini).

 In alcuni casi si verifica anche un paradosso:

più l'informazione è accurata e scientificamente verificata, più l'interlocutore si allontana, accordando la sua preferenza a un'informazione errata ma più semplice da comprendere.

A seconda delle ragioni che determinano la scarsa fiducia nel sapere scientifico, possiamo apportare dei correttivi, che naturalmente non sono universali, ma che gli autori dell'articolo hanno indicato come un punto di partenza.

 Se le persone ritengono i divulgatori poco affidabili, è necessario che essi riescano a presentarsi come più autorevoli, anche ripetendo come funziona il dibattito scientifico, in modo che gli interlocutori possano comprendere che le opinioni discordanti non sono un problema per la scienza e che anzi, entro certi limiti, sono auspicabili.

 Gli scienziati dovrebbero inoltre essere affiancati da giornalisti, rappresentanti dei vari enti, da politici e personaggi pubblici, che hanno un filo più diretto con le persone, perché non gli si riconosce quella patina di freddezza che a volte viene attribuita alle persone di scienza.

Per avvicinarsi al pubblico, i divulgatori dovrebbero inoltre sforzarsi di utilizzare un linguaggio semplice (è stato proposto di affiancare un riassunto per non addetti ai lavori agli abstract delle ricerche).

In generale, bisognerebbe mettersi nei panni degli interlocutori, ammettendo onestamente le criticità e i problemi che un risultato porta con sé, per poi ribadire le motivazioni della sua validità.

Se il divulgatore si trova invece di fronte a un ascoltatore che si identifica in un gruppo che ha una visione opposta alla sua, potrebbe provare a portare alla luce elementi comuni tra lui e questo gruppo per ridurre la polarizzazione del dibattito.

Allo stesso modo, è utile mettere in evidenza gli obiettivi che possono essere condivisi con il gruppo esterno, che può diventare più collaborativo in nome di un ideale superiore.

Il terzo caso è molto delicato:

bisognerebbe prevenire la formazione di un sistema di credenze sbagliate che assecondano i principi o i vizi delle persone ma, anche se c'è ancora un dibattito su questo punto, sembrerebbe che aumentare la conoscenza degli argomenti specifici si riveli un autogol.

Siccome bisogna agire sulla prevenzione, la proposta degli autori è invece quella di educare al senso critico e al metodo scientifico.

Quando però è troppo tardi, si può provare a recuperare in extremis, per esempio identificando l'ideale che l'ascoltatore persegue e riformulando il messaggio per assecondarlo (per esempio, la lotta al cambiamento climatico è stata presentata come una forma di lealtà nei confronti del proprio paese, e parte dei conservatori ha risposto positivamente.

Nel caso dei democratici, invece, il messaggio ha funzionato meglio quando veniva messo l'accento sulla difesa delle persone più deboli e svantaggiate, che sono le prime vittime del “climate warming).

 

Nel quarto caso, infine, a parole è tutto molto semplice:

bisogna abbinare il proprio stile comunicativo ed epistemico a quello dell'interlocutore.

Nella pratica non è una cosa immediata, ma si può procedere partendo dai dati per fare un'analisi del target analoga a quella dei pubblicitari, che da sempre hanno cercato di adattare un messaggio al segmento sociale a cui si rivolgevano.

Per esempio, la maggior parte delle persone è più spaventata dal rischio di una perdita che stimolata dalla possibilità di un guadagno, ma ci sono delle eccezioni. È evidente che a questi due gruppi dovrebbero arrivare dei messaggi diversi.

Si possono attuare molte iniziative, per esempio quelle che prevedono il coinvolgimento dei gruppi precedentemente emarginati dalla scienza, ma il punto di partenza è sempre uno:

 mettere in gioco la propria empatia, perché spesso chi manifesta opinioni antiscientifiche non è un nemico, ma solo qualcuno che, come chi fa ricerca, sta cercando la verità, in questo caso partendo purtroppo da assunti errati.

 

 

 

 

Uno sguardo alla transizione

energetica in Cina e in India.

 Ilbolive.unipd.it - Francesco Suman – (10 luglio 2023) – ci dice:

 

 Narendra Modi e Xi Jinping.

Il primo ministro indiano Narendra Modi e il presidente cinese Xi Jinping al meeting dei BRICS del 2017.

A fine 2022 nel mondo era installata una capacità di generazione di energia elettrica da fonti rinnovabili pari a 3.372 GW.

 Secondo” IRENA,” l’”Agenzia internazionale per l’energia rinnovabile”, il 48% di questa potenza era operativa in Asia (1.630 GW), la gran parte della quale, tra solare, eolico, idroelettrico e altre fonti minori per un totale di 1.160 GW, nella sola Cina.

 Qui l’idroelettrico da solo aveva una capacità installata di 367 GW, l’eolico di 365 GW, il solare di 392 GW.

 

La transizione energetica sarà però incentrata su due fonti rinnovabili in particolare, il solare e l’eolico, che nello scenario “Net Zero by 2050” della” IEA”, l’”Agenzia internazionale dell’energia”, da soli copriranno a metà secolo il 70% della produzione elettrica di un mondo che avrà puntato massicciamente sull’elettrificazione dei consumi, abbandonando quasi del tutto i combustibili fossili.

Questo accadrà perché solare ed eolico, come ribadito anche dall’”IPCC”, il “gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici”, sono le due tecnologie in grado di abbattere più emissioni a costi minori.

(L’IPCC ritiene che la CO2 voli in alto nei cieli pur essendo più pesante dell’atmosfera! N.D.R.)

La Cina pertanto si è data l’obiettivo di raddoppiare la propria capacità installata di solare ed eolico e arrivare entro il 2030 a 1.200 GW.

Ora un rapporto di “Global Energy Monitor”, rivela che quell’obiettivo sarà raggiunto con 5 anni di anticipo, nel 2025.

La maggior parte delle nuove installazioni di solare utility-scale (cioè di scala industriale) per circa 379 GW e di eolico (onshore e offshore) per 371 GW sono infatti previste dal 14esimo piano quinquennale approvato dal governo cinese e valido dal 2021 al 2025.

(È facile per la Cina “sfondare” con il solare e con l’eolico, in quanto così può “asfaltare” per sempre la capacità industriale del mondo occidentale! N.D.R.)

Se confrontata a Europa e Stati Uniti, la Cina surclassa i suoi competitor:

 i 228 GW di solare utility-scale già oggi operativi in Cina sono più di tutti quelli installati nel resto del mondo (per la stessa categoria), mentre l’eolico offshore cinese, che rappresenta da solo un decimo di tutto l’eolico disponibile nel Paese, è con i suoi 31 GW più di tutto l’eolico offshore presente nei Paesi europei.

Anche sul fronte degli investimenti la Cina la fa da padrone.

 Nel 2022, secondo “BloombergNEF”, nel mondo sono stati investiti 495 miliardi di dollari in rinnovabili e la Cina da sola si prendeva il 55% della torta:

per il solare aveva allocato 164 miliardi di dollari e per l’eolico 109 miliardi, più di quanto hanno investito insieme Europa e Stati Uniti.

Un altro obiettivo fissato da Xi Jinping a dicembre 2020 era quello di arrivare al 25% di energia primaria non fossile entro il 2030.

Nella stessa data la Cina prevede anche di raggiungere il picco delle emissioni di CO2 (l’Europa vorrebbe arrivarci entro il 2025) per poi ridurle progressivamente fino al traguardo della neutralità climatica del 2060 (l’Europa ha fissato il suo al 2050).

(Gli scienziati cinesi sanno che la CO2 è una tigre di carta per la Cina e per il mondo. E non diranno mai che la CO2 è più pesante dell’aria! N.D.R.)

Come si sa, Pechino domina anche il mercato delle auto elettriche, della lavorazione dei minerali critici e della produzione di componenti tecnologiche fondamentali come i pannelli fotovoltaici.

Ciononostante, arrivare a un quarto dell’energia complessiva (non solo elettrica) prodotta da fonti a basse emissioni non è un compito banale, visto che solo nel 2020, secondo i dati dell’IEA, solare, eolico, idroelettrico, nucleare e bioenergie superavano di poco il 10% del paniere cinese.

Quasi il 60% dell’energia che alimentava la Cina proveniva infatti dal carbone, circa il 20% dal petrolio e quasi il 10% dal gas naturale.

(Cina energy mix 2020.

Energy mix della Cina fino al 2020, IEA.)

Pechino guida certamente la corsa a una transizione energetica basata sulle rinnovabili, ma resta al momento anche la più alta interprete di un modello di sviluppo economico basato sui combustibili fossili, dato che consuma da sola metà del carbone

(il più inquinante tra gli idrocarburi) bruciato ogni anno nel mondo ed è in cima alla classifica delle emissioni climalteranti globali, con circa 11,5 miliardi di tonnellate (Gt) di “CO2 equivalente” prodotti nel 2021, più di un quarto delle emissioni annuali prodotte dal consumo di combustibili fossili e dal settore industriale nel mondo (il totale è poco meno di 40 Gt).

(“CO2 equivalente” vuol dire che la CO2 non può volare nei cieli in alto; ma può solo “strisciare” sulla terra, sugli alberi e sul mare! N.D.R.)

A inizio 2023, da gennaio a marzo, il governo di Xi Jinping ha dato il via libera a nuove centrali elettriche a carbone per un totale di circa 20 GW, due volte e mezzo più di quanto fatto nello stesso periodo l’anno precedente (8,6 GW) e più di quanto approvato nel corso di tutto il 2021 (18 GW).

Questo significa che per soddisfare la crescente domanda di energia del Paese, l’aggiunta, per quanto impressionante, di risorse rinnovabili non basta.

(“La Cina sa “che le fonti di energia dai fossili Petrolio, Gas, Carbone non potranno mai essere sostituite dalle fonti rinnovabili eolico e solare! N.D.R.)

Nella Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (UNFCC) firmata nel 1992 la Cina figurava tra Paesi in via di sviluppo:

in quanto tale rivendica il diritto di accesso a quelle risorse emissive e inquinanti che hanno permesso per decenni e secoli la prosperità economica ai Paesi occidentali.

Trent’anni dopo però la Cina è diventata la seconda economia mondiale e la sua ambigua permanenza in quella lista è stata fonte di scontro con i Paesi industrializzati alle ultime Conferenze sul clima.

Un discorso analogo vale per l’India, che al momento della stesura del testo finale della” Cop26 di Glasgow” si impose (ma anche gli Stati Uniti erano d’accordo) per rifiutare la dicitura di eliminazione (phase out) del carbone, spingendo per un più morbido termine come riduzione graduale (phase down).

Se si guardano alle emissioni storicamente prodotte dai singoli Paesi dalla rivoluzione industriale in avanti infatti l’India risulta responsabile solo del 3% di quelle accumulate in atmosfera, gli Stati Uniti del 25%, l’Europa del 22%, la Cina di quasi il 13% ma la maggior parte di queste si sono condensate negli ultimi 30 anni.

(Ma la Co2, come tutti gi scienziati del clima sanno, essendo più pesante dell’aria atmosferica non potrà mai cambiare il suo status di “NON GAS SERRA! N.D.R.)

(Cop26 di Glasgow: le parole sono importanti ma non sufficienti)

L’India ha ormai superato la Cina per numero di abitanti ed è terza nella classifica dei Paesi che emettono di più in un anno, dietro Cina e Stati Uniti, appaiata all’Unione Europea.

Se si guarda alle emissioni pro capite tuttavia un indiano emette 2 tonnellate di “CO2 equivalente” ogni anno, mentre la media mondiale è intorno alle 7 tonnellate, che è anche quanto emette in media un europeo.

 Un cinese invece ne emette 10, uno statunitense quasi 15.

(La CO2 prodotta dall’uomo, essendo più pesante dell’aria, non potrà mai sostituire i veri gas serra! N.D.R.)

Anche l’India sta investendo massicciamente sulle rinnovabili.

Sebbene i suoi numeri non siano paragonabili a quelli cinesi, lo sforzo è tale che si parla di “leapfrog”, un salto in avanti nella “decarbonizzazione” del suo sistema energetico ed emissivo.

 Tuttavia, nel 2020 anche l’India era dipendente per oltre il 40% della sua produzione energetica dal carbone (da cui deriva il 70% dell’energia elettrica), per 20% dal petrolio e per circa 10% dal gas naturale.

(“Decarbonizzazione” vorrebbe dire togliere il carbone come fonte energetica. E questo non avverrà mai! Tutti lo sanno ma nessuno lo ammetterà mai! N.D.R).

 Il primo ministro Narendra Modi ha fissato l’obiettivo di produrre metà dell’energia elettrica indiana da fonti rinnovabili entro il 2030 (che significa arrivare a 500 GW di capacità rinnovabile installata), di tagliare del 45% le emissioni per fine decennio (rispetto ai valori del 2005) e di raggiungere le zero emissioni nette entro il 2070, 10 anni dopo la Cina e 20 anni dopo l’Unione Europea.

(India energy mix 2020

Energy mix dell'India fino al 2020, IEA.)

La diffusione di energia solare in India gode di costi di produzione bassi ed è spinta da un settore di aziende private che la “IEA “definisce vibrante, tanto che la crescita del fotovoltaico sta già avvenendo a ritmi che non hanno eguali in altri Paesi (esclusa la Cina):

nel 2022 sono stati aggiunti quasi 14 GW mentre il miglior Paese in Europa (la Germania) si era fermato a 8 GW. Si prevede che la capacità di aggiunta annuale raddoppierà entro il 2026.

I sussidi per petrolio e diesel sono stati tolti nei primi anni ‘10 del 2000, mentre quelli per i veicoli elettrici introdotti nel 2019.

Il governo ha anche messo in piedi un programma per l’efficienza energetica (l’altro pilastro della transizione assieme all’elettrificazione) che la IEA definisce robusto per il settore degli edifici, dei trasporti e delle industrie.

Il Paese sta anche gettando le basi per aumentare la produzione di batterie, acciaio, cemento e fertilizzanti prodotti a basse emissioni.

L’India dispone inoltre di grande capacità di produzione di bioenergia.

 Secondo la” IEA”, nei prossimi anni supererà Cina e Canada piazzandosi al terzo posto tra i produttori di (bio)etanolo, dietro Stati Uniti e Brasile.

 La crescita dei parchi solari (il più grande al mondo, il Bhadla Solar Park con 2,25 GW, è indiano) permetterà anche di puntare sulla produzione di idrogeno verde (si parla di 5 milioni di tonnellate entro il 2030), che potrebbe contribuire a trainare l’economia indiana nei prossimi anni e ridurre le emissioni dei settori industriali “hard-to-abate”.

Sia Cina sia India poi si sono impegnate nella costruzione di nuove centrali nucleari.

 Delle circa 50 in programma o in costruzione nel mondo, 19 sono in Cina e 8 sono in India.

La nuova energia nucleare tuttavia non è paragonabile alla crescita che avranno le rinnovabili in questi Paesi.

Proprio per la loro forte dipendenza dal carbone, le popolazioni sia cinese sia indiana devono fare i conti con una qualità dell’aria tra le più scarse al mondo, con tutti i problemi sanitari che ne conseguono.

Entrambi i Paesi inoltre negli ultimi anni sono stati attraversati da ondate di calore che hanno fatto registrare temperature record e gravi siccità.

Sulle coste del sud-est asiatico il Bangladesh è tra i Paesi che maggiormente soffrirà l’innalzamento del livello dei mari, una delle conseguenze attese del cambiamento climatico causato principalmente dal consumo di combustibili fossili, costringendo milioni di persone ad abbandonare le proprie abitazioni.

(L’innalzamento dei livelli dei mari non può essere impedito se la “colpa vera” è attribuibile alla produzione di CO2 da parte dell’uomo! N.D.R).

Proprio per ridurre le emissioni climalteranti e gli inquinanti che derivano dalla combustione del carbone, i due più popolosi Paesi asiatici, oltre a lavorare al miglioramento di una rete elettrica spesso inefficiente, stanno tentando di sostituire la più sporca delle fonti fossili con maggiori quote di gas naturale.

Fino ad oggi gran parte del gas consumato in Asia arrivava in forma liquefatta via nave:

l’uscita dalla fase acuta della pandemia nel 2021 e la repentina crescita di domanda di gas che è venuta soprattutto da Oriente è stata tra i principali fattori che hanno fatto crescere i prezzi dell’energia già prima dell’invasione russa dell’Ucraina.

Il GNL (Gas naturale liquefatto) è considerato però un asset poco affidabile, per prezzi volatili (specialmente negli ultimi due anni) e limitata disponibilità aggiuntiva, scrive Global Energy Monitor in un altro rapporto.

 Nel 2022 ad esempio solo poco più del 2% dell’energia elettrica indiana è stata prodotta a partire dal gas, la percentuale più bassa da 20 anni a questa parte, secondo un rapporto di “Ember”.

Anche per questo la Cina si tiene stretta l’alleanza con la Russia da cui vorrebbe far arrivare più gas via tubature:

Gazprom ha in programma di far arrivare al Dragone 50 miliardi di metri cubi di gas all’anno entro il 2030 tramite una nuova infrastruttura di 2.600 km che passerà dalla Mongolia:

 si chiamerà “Power of Siberia 2” e sarà la sorella di “Power of Siberia 1”, che nel 2019 ha iniziato a far arrivare in Cina 5 miliardi di mc di gas, nel 2022 ne ha fatti arrivare 15 e si stima, aggiungendo nuovi pezzi, possa raggiungere i 38 miliardi di mc annui.

Una buona parte del gas russo da cui l’Europa ha scelto di emanciparsi dopo l’aggressione all’Ucraina fluirà quindi verso Est, per sostenere la “decarbonizzazione “di un’Asia ancora troppo dipendente dal carbone.

Questa scelta strategica tuttavia incontra anche in Oriente forme di contestazione organizzata da parte della cittadinanza:

“l’espansione del gas in Asia dovrebbe essere mirata ad affrontare la povertà energetica e la crisi energetica nella regione.

Ma il gas non è una soluzione.

Né dovrebbe essere parte della risposta alla crisi climatica, non è un carburante di transizione” si legge sul sito della campagna” Don’t Gas Asia”, lanciata a inizio maggio 2023 in occasione del meeting annuale della “Asian Development Bank”. “La soluzione risiede nella rapida, giusta ed equa transizione a 100% energia rinnovabile”.

 

Attiva in numerosi Paesi e città asiatiche (ma non in Cina), la campagna contro il gas in Asia vuole essere “un veicolo comune per le organizzazioni e i movimenti che vogliono lavorare insieme per far crescere e intensificare la battaglia contro il gas fossile in Asia” si legge nel sito.

 A riprova che il fenomeno dei nuovi movimenti ambientalisti ha sempre più una portata globale.

 

 

 

Per combattere la povertà energetica

serve una cittadinanza energetica.

Ilbolive.unipd.it - Francesco Suman – (4 luglio 2023) – ci dice:  

 

 Assieme ai prezzi dell’energia schizzati alle stelle nel corso del 2022 ha ricevuto sempre più attenzione, politica e mediatica, anche il tema della povertà energetica.

Dal 2019 l’”OIPE” (“Osservatorio Italiano sulla Povertà Energetica”) monitora l’andamento del fenomeno in Italia e venerdì 23 giugno presso il Palazzo Levi Cases, a Padova, ha presentato il rapporto 2023.

Il costo dell’energia è iniziato a salire già verso la fine del 2021, con la ripresa della domanda di quei Paesi (su tutti la Cina) che uscivano dalla fase acuta della pandemia.

“Poi la guerra in Ucraina ha letteralmente gettato benzina sul fuoco” ha spiegato “Luciano Lavecchia”, economista di Banca d’Italia, che ha curato il rapporto 2023 (il terzo redatto dall’Osservatorio) assieme a” Marta Castellini” (università di Padova), “Ivan Faiella” (Banca d’Italia),” Raffaele Miniaci” (università di Brescia) e “Paola Valbonesi” (direttrice del dipartimento di economia e management dell’università di Padova).

Povertà energetica.

La povertà energetica in Italia, rapporto” OIPE 2023”.

Misurazione della povertà energetica.

Una famiglia viene classificata in povertà energetica (PE) se, a fronte di una spesa totale bassa (valore che approssima il livello di benessere), ha una spesa energetica che si prende una fetta troppo grande del bilancio famigliare:

 l’accesso ai servizi energetici comporta in questo caso una distrazione di risorse superiore a un valore stabilito come normale.

 C’è tuttavia un’altra faccia della medaglia:

i ricercatori dell’OIPE includono tra i poveri energetici anche le famiglie che risultano con una spesa energetica nulla, in quanto si trovano a vivere sulla propria pelle il dilemma “to eat or to heat”: mangiare o riscaldarsi. Altre definizioni di “PE” includono anche la scarsa efficienza energetica delle abitazioni in cui spesso vivono le famiglie vulnerabili.

Dal 2017 si è iniziato a parlare di povertà energetica nella “Strategia Energetica Nazionale”, ma lo si è fatto anche nel “PNIEC” (Piano Nazionale Integrato di Energia e Clima) del 2020 lo si farà nel suo imminente aggiornamento.

Anche a livello internazionale vi è una forte attenzione sul fenomeno, come testimoniano diversi rapporti dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) e documenti ufficiali della Commissione Europea.

Il dato italiano da cui si partiva era quello del 2021, quando la povertà energetica interessava l’8,5% delle famiglie italiane: 2,2 milioni di famiglie, lo stesso numero del 2019.

Il nuovo rapporto” OIPE “analizza il dato scomponendolo per la prima volta su base regionale, trovando un gradiente nord-sud che riflette la distribuzione della povertà in Italia:

si va da un minimo di incidenza del 4,6% nelle Marche a un massimo di 16,7% di famiglie colpite in Calabria.

 

La povertà energetica nelle regioni italiane nel 2021, per ripartizione territoriale ) e per comune .

 Rapporto OIPE 2023.

 

Seguendo le stimolazioni di “Save The Children Italia”, l’OIPE ha anche quantificato che il 10% dei minori risiede in ambienti poco salubri, scarsamente riscaldati e raffreddati, o poco illuminati:

 sono interessate 583.000 famiglie e 950.000 minori.

 La situazione si aggrava nel caso di minori in famiglie di immigrati:

 “Nel 2021, l’incidenza della PE nelle famiglie con minori era 2,5 volte più alta nelle famiglie straniere (circa 162.000 famiglie)” si legge nel rapporto, e supera le 4 volte nel caso di minori in famiglie straniere al Sud.

“PE” minori e stranieri.

Numero di minori in povertà energetica per cittadinanza della persona di riferimento (PR) e ripartizione di residenza.

 Rapporto OIPE 2023.

Una ricerca condotta dalla “Fondazione Di Vittorio” esplora invece il fenomeno anche nei Comuni delle aree periferiche, solitamente più esposti a esclusione sociale.

 Qui coloro che non qualificano strettamente come poveri energetici rientrano ugualmente nella categoria di vulnerabilità energetica, specialmente a causa dell’inefficienza delle abitazioni in cui vivono.

Politiche di contrasto alla povertà energetica.

Proprio l’investimento sull’efficienza energetica degli edifici è una delle misure più importanti da intraprendere sul medio-lungo termine, ma prima di arrivare ad analizzarle il rapporto si concentra su quelle a breve termine, valutando quanto fatto dal governo italiano nel corso del 2022.

Di queste politiche cosiddette di protezione, volte a limitare gli effetti distributivi avversi (in gergo regressivi) dell’inflazione fanno parte:

misure di contenimento dei prezzi dell’energia in bolletta (riduzione dell’IVA o degli oneri di sistema), tagli alle accise dei carburanti ed erogazione di indennità una tantum a categorie vulnerabili, come il bonus energia.

Dal secondo trimestre 2021 al primo trimestre 2023 il governo italiano ha speso più di 90 miliardi di euro per tutelare le famiglie maggiormente esposte al caro energia, una cifra pari al 4,8% del PIL nazionale e nettamente superiore a quanto hanno speso altri Paesi europei come Francia (3,5% del suo Pil), Germania (3,1%) e Spagna (3,1%).

“L’impatto dell'inflazione è stato fortemente regressivo” ha commentato “Luciano Lavecchia”, “ma guardando agli indicatori di PE gli interventi del governo hanno avuto un effetto positivo nell’alleggerirla”.

Il rapporto mostra infatti che le misure sono state complessivamente efficaci nel proteggere le famiglie dal caro energia, ma stimare quanto lo siano effettivamente state non è semplice:

studi diversi giungono a conclusioni diverse.

 

Quello compiuto da un gruppo di ricercatori di università di Firenze, Agenzia delle entrate e Ufficio Parlamentare di Bilancio valuta infatti che partendo da uno scenario base di PE all’8,2%, gli interventi governativi hanno portato sì a un aumento della PE al 9,8% (+1,6%), ma hanno evitato quello che altrimenti sarebbe stato quasi un raddoppio dell’incidenza: in assenza di politiche di protezione infatti la PE si sarebbe assestata al 15,9%.

Un altro studio condotto da Prometeia, anch’esso basato su simulazioni di dati 2022 ma a partire da dataset diversi, conclude che addirittura le politiche governative sono arrivate ad abbassare la povertà energetica al 6,5%, mentre senza tali interventi sarebbe salita al 9,1%.

Allo stesso modo gli scarsi dati a disposizione non sono in grado di valutare con precisione l’efficacia di alcune politiche cosiddette di promozione, ovvero volte a contrastare la PE sul medio-lungo termine.

Tra queste ci sono l’Ecobouns e il Superbonus, quest’ultimo oggetto di una forte polarizzazione politica che non agevola il compito di valutazione: di certo c’è solo che è costato allo Stato oltre 80 miliardi di euro.

Comunità Energetiche Rinnovabili.

Uno degli strumenti cui più viene attribuita la capacità di contrastare la PE sono le Comunità Energetiche Rinnovabili” (CER), il cui sviluppo è particolarmente “auspicato nel caso dell’edilizia residenziale pubblica, meglio note come case popolari, che spesso versano in condizioni di scarsa efficienza energetica, generando sprechi che gravano ulteriormente sulle spalle delle famiglie vulnerabili.”

Le CER incorporano un modello radicalmente nuovo di produzione, consumo e distribuzione dell’energia.

 Da anni nelle economie mature la domanda energetica è in stallo se non addirittura in contrazione.

 Ciò significa che non c’è più bisogno di costruire grandi centrali che distribuiscono l’energia elettrica in modo verticale a piccoli consumatori:

 occorre piuttosto riorganizzare la produzione energetica andando verso un sistema decentralizzato, ottimizzando i vantaggi economici e sociali per la cittadinanza e minimizzando gli impatti ambientali.

I cittadini possono e devono svolgere un ruolo attivo in un sistema energetico dove le rinnovabili come il fotovoltaico hanno e avranno un ruolo sempre maggiore.

Nelle CER diventa centrale infatti la figura del prosumer (produttore e consumatore al contempo), che beneficia a pieno dei vantaggi di un’energia pulita prodotta e consumata in loco, il cui eccesso viene eventualmente distribuito ad altri nodi di una rete più digitalizzata e intelligente.

“Tuttavia, la capacità di queste iniziative di combattere la povertà energetica rimane per il momento su un piano teorico” si legge nel rapporto.

“Il processo di inclusione non è cosa semplice” ha spiegato “Marta Castellini”, che ha curato questa sezione del rapporto OIPE.

Questo perché, “si osserva una tendenza all’omogeneità sociale dei partecipanti, generalmente di estrazione sociale e culturale medio-alta”.

Esistono però casi virtuosi a cui guardare, come quello di Saragozza, in Spagna, “dove il comune ha messo a disposizione i tetti degli edifici pubblici (scuole, palestre) per creare un quartiere solare, in cui gli abitanti e i commercianti beneficiano direttamente dell'elettricità prodotta su questi edifici nei 500 metri circostanti.

 Una percentuale dell'energia prodotta va alle famiglie del quartiere in condizioni di povertà energetica”.

Sebbene in Italia ad oggi le “CER” sono all'incirca solo una cinquantina, per circa 1,5 MW di potenza, ci si è posti l'obiettivo di arrivare a 7 GW nel 2030, coinvolgendo dalle 20.000 alle 100.000 famiglie.

In Europa oggi le CER sono circa 10.500 e si stima che nel 2050 le famiglie che ne faranno ricorso saranno 64 milioni.

 Tuttavia, esistono “tensioni da discutere riguardo alla combinazione fra una logica di mercato e l'ambizione europea di creare un'energia accessibile a tutti i cittadini” sottolinea il rapporto.

Restando a livello nazionale invece, “al momento, la possibilità di concretizzare le opportunità offerte dalle CER dipende fortemente dalla definizione della normativa nazionale che governerà le comunità energetiche ed il riconoscimento degli incentivi.

 La risoluzione di tale incertezza faciliterà il processo di creazione delle comunità, ma di per sé non incrementa il contributo delle comunità energetiche alla lotta alla povertà energetica, che ad oggi è limitato”.

In altri termini le CER non si faranno da sole né risolveranno da sole la povertà energetica: occorrerà indirizzarle verso questo obiettivo.

 

 

Da consumatori a cittadini energetici.

Secondo il Segretario generale di “ARER”A (l’autorità di regolazione per energia reti e ambiente) “Roberto Malaman”, intervenuto alla presentazione del terzo rapporto” OPIE”, guardando al futuro occorre circoscrivere meglio il target cui destinare gli interventi di protezione per il contrasto immediato alla PE.

 “L’ISEE, su cui si basa l’assegnazione del bonus energetico, è un buono strumento di accesso agli interventi, viene compilato ed è un automatismo.

 L’intervento del bonus va ai poveri, ma va ai poveri energetici?

Probabilmente sì, ma si può fare di più”.

Ampliando l’orizzonte temporale, bisogna lavorare anche sulle abitudini di consumo delle famiglie, suggerisce “Malaman”, “perché il bonus incide limitatamente sulle abitudini di consumo energetico”.

A fine giugno il governo italiano ha inviato alla Commissione Europea la versione aggiornata del “Piano Nazionale Integrato Energia e Clima” (PNIEC), che oltre a fissare nuovi obiettivi di decarbonizzazione, include anche una sezione sulla Povertà Energetica.

Secondo un rapporto di maggio della” Agenzia Internazionale dell’Energia” sul nostro paese (Italy 2023, Energy Policy Review), che cita anche i rapporti dell’”OIPE”, il governo dovrebbe, tra le altre cose, anche “condurre sistematicamente campagne di informazione e sensibilizzazione per migliorare la comprensione della popolazione sui fattori necessari a una transizione verso un sistema energetico pulito” e sul ruolo delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica in essa.

Occorre costruire quella cittadinanza energetica necessaria all’attuazione partecipata della transizione ecologica, che comporta nuovi ruoli e responsabilità sociali della cittadinanza in termini di produzione di energia, riduzione di emissioni e degli sprechi, aumento dell’efficienza.

Altrettanto importante è il tema dell’accesso al credito:

le famiglie povere avendo scarsa disponibilità fiscale spesso fanno fatica a usufruire degli strumenti per migliorare l’efficienza delle abitazioni in cui vivono (cambiare caldaia o gli infissi).

Nell’ottica di tutelare fasce di popolazione meno attrezzate in termini di alfabetizzazione sia energetica sia finanziaria, secondo la” IEA” il governo dovrebbe anche “lavorare in direzione di una migliore gestione dell’uso dell’energia da parte delle famiglie per un’ottimizzazione dei costi legati agli acquisti dei servizi energetici, anche aiutando gli utenti a selezionare prezzi e servizi offerti dai fornitori”.

A riprova dell’importanza della tematica, a marzo 2022 è stato istituito con decreto ministeriale il” nuovo Osservatorio Nazionale della Povertà Energetica”, che sarà coordinato dal “MASE” (Ministero dell’ambiente e sicurezza energetica), da “Arera” e dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

“È un’iniziativa interessante”, secondo “Massimo Pallottino” di “Caritas Italia”, intervenuto alla presentazione del rapporto OIPE, “ma forse manca uno spazio di confronto con le azioni portate avanti da soggetti della società civile, come Caritas”, che pure è molto sensibile alla povertà energetica.

 “Anche l’OIPE è un network informale” ha aggiunto “Luciano Lavecchia” “speriamo di essere coinvolti in futuro nei lavori istituzionali dell’ONPE”.

 

 

 

Nigeria: Fallito il Primo Test

al Mondo di Attacco al Contante!

Conoscenzealconfine.it – (10 Settembre 2023) - Maurizio Martucci – ci dice:

 

Clamoroso in Nigeria: “eNaira”, la moneta digitale “CBDC” non è più obbligatoria, fallito il primo test al mondo di attacco al contante.

Arrestato il Governatore promotore!

“Il caso della Nigeria aiuterà gli altri banchieri centrali e tutti i cittadini del mondo a giungere alle stesse conclusioni?

 Probabilmente no, ed è per questo che aspettiamo il prossimo disastro economico”.

(Jan M. Fijor, giornalista dell’Istituto Mise)

 

Colpo di scena nella Repubblica Federale della Nigeria:

attacco al cuore mondiale della transizione digitale;

fallite in un colpo solo la riforma pioneristica della “moneta 2.0” e il tentativo d’annullare la liquidità col denaro creato dal nulla!

L’esperimento è durato appena 108 giorni tra violenti tumulti e carestie.

Questo, prima dello scandalo e delle manette ai polsi per il governatore Godwin Emefiele, ora agli arresti, ma fino al 10 Febbraio 2023 ancora nella lista degli ospiti internazionali a Davos nel meeting annuale del Forum Economico Mondiale, insieme a “Giancarlo Giorgetti” e “Giuseppe Valditara”, ministri italiani del Governo Meloni:

 “L’obiettivo, per quanto mi riguarda, è raggiungere un’economia senza contanti al 100% in Nigeria “.

Mentre la Banca Centrale Europea (BCE) vuole un “CBDC digitale in euro” (Moneta Digitale della Banca Centrale) come valuta elettronica a valore legale emessa non da banche commerciali, in Africa il progetto pilota è quindi saltato per mano della tecno rivolta della Nigeria, il paese con la popolazione più numerosa di tutto il continente nero (200 milioni di abitanti).

 Il primo paese non solo in Africa ma nel mondo intero ad aver adottato in via esclusiva e per ben tre mesi e mezzo “eNaira Wallet” con “tecnologia blockchain”, cioè il portafogli elettronico sperimentato dal 2021 con moneta digitale garantita per legge, e in un primo momento solo affiancata al contante (nonostante la contrarietà delle tribù espressa al 99,5% nel referendum del 2022) e poi nel 2023 definitivamente sostitutiva della “Naira”, la moneta locale cartacea ridotta a carta straccia.

“È facile capire perché il 16 febbraio 2023 sono scoppiate violente rivolte nel paese, provocando vittime.

Privati ​​di tutte le loro ricchezze, persone disperate e affamate scesero in piazza, chiedendo il ripristino della validità della vecchia moneta cartacea.

Circolavano voci secondo cui il “governo Buhari “aveva emesso una nuova valuta cartacea, la “nuova naira”, da utilizzare temporaneamente. (…)

Il problema era che i nuovi soldi non si trovavano da nessuna parte.

Ancora oggi, quando la banca centrale si è ritirata dall’esperimento, l’offerta di nuovo contante non ha raggiunto nemmeno il 10% dell’intera offerta valutaria nigeriana.

Non c’è nuova moneta da nessuna parte; anche se lo fosse, non vi è alcuna possibilità di scambiare in massa la “vecchia naira” invalidata con la nuova.”

In pratica è fallito il primo vero test del” Fondo Monetario Internazionale” e del “Forum Economico Mondiale” nel “Grande Reset Tecnologico”, cioè quello di gestire centralmente tutte le transazioni solo ed esclusivamente col digitale.

I nigeriani si sono ribellati:

 Godwin Emefiele ex governatore della banca è stato arrestato per “violazione criminale della fiducia, sabotaggio economico, finanziamento di attività terroristiche e cattiva gestione delle riserve valutarie“e altri 17 pesantissimi capi d’accusa, mentre per le strade scontri e morti si sono verificati durante le violente proteste, con la popolazione ridotta alla fame ma impegnata in baratti e scambi commerciali per spezzare il monopolio elettronico di “eNaira”, adesso non più moneta esclusiva.

Il dato è ancora più clamoroso se si pensa che la Nigeria è uno dei paesi più avanzati al mondo nel riconoscimento biometrico/identità digitale e che – secondo uno studio di Blocktables – ha pure il più alto tasso di adozione di criptovalute, pari al 24,2% (più alto del 17,7% dell’Australia, del 15,6% di Singapore e del 10,4% degli Stati Uniti).

Non solo, nel 2021 il” Forum Economico Mondiale” affermava che “i nigeriani usano spesso i loro telefoni anche per scambiarsi denaro o per pagare nei negozi “, motivo per cui la “Banca Centrale della Nigeria” s’era spinta a vietare agli istituti finanziari di elaborare transazioni in criptovaluta:

si è puntato tutto su “eNaira”, finita in un flop!

 

“La situazione a Lagos, Abuja e Port Harcourt sta ora tornando alla normalità e “eNaira” è solo una delle numerose valute legali. (…)

Dall’arresto di Emefiele lo spettro del “monopolio delle CBDC” è scomparso.

Coloro che trovano più conveniente la moneta elettronica la usano.

La gente ora sa che non ci sarebbe stato un tale caos se la digitalizzazione della valuta fosse stata volontaria e non accompagnata dalla delega del contante “.

(Maurizio Martucci)

(oasisana.com/2023/09/08/clamoroso-in-nigeria-enaira-la-moneta-digitale-cbdc-non-e-piu-obbligatoria-fallito-il-primo-test-al-mondo-arrestato-il-governatore-promotore/)

 

 

 

 

Quando i talk show diventano

il palco della disinformazione.

Forward.recentiprogressi.it - Intervista a Paul Offit – Redazione – (10 ottobre 2018) – ci dice:

(P.O. Direttore del Vaccine education center, Division of infectious diseases, Children’s hospital of Philadelphia)

 

Perché i dibattiti sui temi controversi che riguardano la salute non sempre sono bilanciati.

Pediatra infettivologo, co-inventore del vaccino pentavalente contro il rotavirus, Paul Offit è autore di “Autism’s false prophets”.

Nel suo ultimo libro “Bad Advice. Or why celebrities, politicians, and activists aren’t your best source of health information”

 spiega come le storie raccontate dai media non supportate dalle prove scientifiche possano diventare convinzioni diffuse.

Perché è così importante una comunicazione efficace sulla salute?

Perché molte informazioni sbagliate a cui siamo esposti possono spingere le persone a prendere decisioni errate e rischiose per loro stessi o per i loro figli.

Per esempio, su internet circolano informazioni fuorvianti sui vaccini che possono far sì che alcuni genitori scelgano volutamente di non vaccinare i propri figli facendogli correre rischi inutili.

Quindi è importante comunicare al pubblico in modo efficace temi di scienza, medicina e salute.

Cominciamo con il parlare del suo rifiuto di apparire con l’attrice “Jenny McCarthy “nel “talk show Oprah Winfrey”… Cosa è successo?

Nel settembre 2007, mi era stato chiesto di partecipare con l’attrice “Jenny McCarthy all’Oprah Winfrey show”.

McCarthy avrebbe parlato di un vaccino che lei era certa fosse la causa dell’autismo di suo figlio.

Inizialmente mi era sembrata una buona idea:

avrei potuto spiegare al pubblico perché i vaccini non causano l’autismo e come, con molti dati e studi alla mano, sapevamo che non ne fosse la causa.

Poteva essere un’occasione per calmare le acque.

 Ma alla fine decisi di non andarci, essenzialmente perché ritenevo che fosse il contesto sbagliato per comunicare una buona scienza.

 La conduttrice Oprah Winfrey era lì per raccontare una storia.

E la sua storia aveva tre ruoli:

l’eroe, la vittima e il cattivo.

McCarthy rappresentava l’eroe, suo figlio la vittima e il sottoscritto il cattivo.

Sarei stato solo un tipo che andava allo show per dire a Jenny McCarthy che era in errore e, di conseguenza, per dire a Oprah che aveva sbagliato a invitarla allo show.

 Non lo consideravo il modo migliore per comunicare la scienza e la salute.

 Credo che si debba scegliere il contesto giusto discernendo dove si può essere più efficaci e dove non si può esserlo.

 

Una ricercatrice italiana in semeiotica, “Anna Maria Lorusso”, suggerisce che con l’approccio del “false balance” gli spettacoli televisivi abbiano un ruolo chiave nel rendere più debole la verità.

 Cosa ne pensa?

Penso che questo sia il problema maggiore.

Spesso nei media, in televisione, alla radio e sui giornali per ogni storia si presentano due versioni di cui solo una è sostenuta dalla scienza.

Per esempio, da un lato c’è una persona che dichiara che i vaccini causano l’autismo e dall’altro una persona che afferma il contrario.

 Invece ciò che importa non è quello che viene ribadito dalle persone:

l’unica cosa che conta davvero è quello che dicono gli studi, e gli studi dimostrano che i vaccini non causano l’autismo.

Pertanto avere qualcuno in televisione che ribadisce l’associazione tra vaccini e autismo quando le prove dimostrano il contrario non è bilanciato:

 è un “false balance”.

Ciò che i programmi televisivi dovrebbero fare è offrire una prospettiva basata sulle prove scientifiche ma questa modalità non fa audience né fa vendere più pubblicità:

conviene molto di più avere sul palco una controversia anche quando non esiste alcuna controversia scientificamente parlando.

 

Per esempio il reporter di “Philadelphia TV “aveva messo a confronto i suoi commenti con quelli della lobbista antivax “Sherry Tenpenny”, autrice del libro “Saying no to vaccines”.

Presentare come esperta di vaccini una persona come “Sherry Tenpenny” che esperta non è, che non ha mai pubblicato uno studio scientifico, che non ha esperienza di vaccini è proprio ciò che i produttori televisivi non dovrebbero fare.

Non ho mai avuto un confronto diretto con “Sherry Tenpenny” ma mi è capitato di discutere in televisione con altri attivisti anti-vax come “Mary Holland”.

È difficile sapere se è giusto o meno partecipare a un dibattito in televisione su temi che sono scientificamente indiscutibili.

D’altronde se non lo fai quell’informazione resterà un’informazione senza contraddittorio.

 

Nel suo libro “Bad Advice” scrive che i ricercatori e gli “esperti” non sempre dovrebbero farsi coinvolgere in programmi televisivi.

Sì, perché in realtà quando partecipi a questi programmi non convincerai la persona con cui stai discutendo e spesso nemmeno il conduttore il cui unico interesse è sollevare una controversia.

Ma è anche vero che parte delle persone che guardano questi spettacoli o che li rivedono su “YouTube” ascoltano ciò che hai da dire e si fanno persuadere dalle tue argomentazioni.

La cosa importante è essere consapevoli che quando partecipi a dibattiti televisivi di questo genere lo scopo non è convincere chi hai di fronte o il conduttore, ma tentare di dare informazioni corrette con la speranza che saranno influenti.

Gli scienziati dovrebbero diventare un esercito della scienza che esce allo scoperto per educare il paese. — “Paul Offit, Bad Advice”

 

Perché celebrità e politici danno “cattivi consigli” sulla salute al pubblico?

Innanzitutto, spesso le celebrità e i politici non provengono da una formazione medica o scientifica e quindi si possono lasciare convincere da discussioni che non sono basate sulla scienza.

Oltre a ciò, alcuni fanno un uso strumentale del palco non tanto per informare quanto per fuorviare gli spettatori.

 Penso che lo facciano per dimostrarsi comprensivi agli occhi del pubblico.

Per esempio quando durante uno dei dibattiti presidenziali il nostro presidente Donald Trump affermò che i vaccini causano l’autismo molto probabilmente credeva in quanto asseriva, e pensava di esprimere compassione per i bambini autistici sostenendo l’opinione di alcuni genitori sulla pericolosità dei vaccini.

 Forse pensava di essere comprensivo.

 I medici Ben Carson e Rand Paul, presenti in quello stesso dibattito presidenziale, affermarono che secondo loro i bambini ricevono troppi vaccini e troppo precocemente.

Forse pure loro pensavano di dimostrarsi empatici ma in realtà le loro affermazioni non erano basate sulla scienza nonostante fossero entrambi medici.

Cosa ne pensa delle “fake news” che circolano su temi che riguardano la salute?

Vivo nel paese di Donald Trump che usa il termine “fake news” quasi ogni giorno, ma in realtà lo usa per affermare che quella che è una vera notizia non gli piace.

Per lui è questo il significato di fake news.

Siamo tutti consapevoli di essere continuamente bombardati da notizie false o distorte.

Ma penso che sia davvero difficile per le persone riconoscere l’informazione buona da quelle cattiva.

Nell’ambito della salute e delle scienze mediche le persone dovrebbero affidarsi a istituzioni e organizzazioni affermate che supportano la scienza, quali i “Centers for disease control”, l’”American academy of pediatrics” o l’”American association for the advancement of science”.

Ma la maggior parte della gente non ha punti di riferimento.

 

 

 

COME LA SCIENZA SI È

TRASFORMATA IN PROPAGANDA

Opinioni.it - Gerardo Coco – (14 settembre 2021) – ci dice:

L’essenza di ogni regime è la politicizzazione di tutto, poiché il tutto deve sostenere lo status quo altrimenti ogni parte non politicizzata, quindi libera di dissentire, sarebbe una minaccia.

In un regime autoritario non c’è via di mezzo e quindi tutto, letteralmente tutto, deve essere politicizzato per essere trasformato in propaganda e ciò che non può essere politicizzato deve cessare di esistere o essere relegato in una zona oscura, poiché il semplice atto di tentare di riconoscere un’esperienza non politicizzata è di per sé una minaccia allo status quo.

In questa zona oscura è ormai discesa anche la scienza della salute pubblica.

L’essenza di qualsiasi scienza è il dibattito.

Uno scienziato propone un’ipotesi che viene poi testata con la sperimentazione.

Se i dati empirici tendono a confutare l’ipotesi, può essere abbandonata a favore di una nuova ipotesi.

Allo stesso tempo, altri professionisti possono mettere in discussione l’ipotesi o proporre la propria.

 Il dibattito va avanti fino a quando non si raggiunge un consenso.

Ma, anche allora, il consenso può durare solo fino a quando non arriva un’ipotesi ancora migliore e così via.

 La vera scienza non è mai definitiva, si evolve.

Questo non è il caso della “scienza” che circonda la pandemia di Covid che, politicizzandosi, è diventata propaganda di regime al punto che molti cittadini non ne hanno più fiducia.

 Negli ultimi due mesi abbiamo assistito a un completo fallimento dei vaccini che invece di frenare la diffusione del Covid-19 sembrano facilitarla.

 In diversi Paesi con tassi di vaccinazione molto elevati, come Israele, Gran Bretagna e Seychelles, ad esempio, stanno registrando tassi di infezione più alti in presenza di più varianti del Covid.

 Eppure, la risposta della “scienza” è sempre la stessa:

dobbiamo indossare maschere, essere vaccinati, distanziarci socialmente e magari… rinchiuderci ancora.

Ma anche un neofita capisce che il vaccino di oggi non darà necessariamente la stessa immunità né per la variante di oggi né per quella di domani.

La “scienza” invece spinge per la vaccinazione universale, mentre l’efficacia dei vaccini sta calando.

Non volendo accettare la responsabilità di queste contraddizioni, la “scienza” ha cambiato la sua narrativa.

Ora ci sta dicendo che, anche se i suoi vaccini non ci proteggono dalle infezioni, sono comunque efficaci nel proteggerci da malattie gravi e dalla morte.

Questo nuovo mantra dell’establishment scientifico viene ripetuto in ogni singolo notiziario.

“Se sei vaccinato”, ci dicono, “puoi ancora essere infettato, ma non ti ammalerai gravemente o morirai perché i vaccini sono ancora efficaci”.

L’affermazione che i vaccini proteggano dal Covid e dalla morte, tuttavia, è propaganda che si basa sulla stessa metodologia fraudolenta utilizzata per sostenere le prime false affermazioni sulla loro efficacia e che è oggi è confutata da dati empirici.

 I numeri ci stanno infatti dicendo che la maggior parte dei casi gravi di Covid e morte sta avvenendo nelle nazioni con programmi di vaccinazione avanzati e tra i vaccinati.

Ma la soluzione al problema del “vaccino” (che non è un vaccino) è… ancora più vaccino.

 Sono necessari richiami, si dice, ogni 5/8 mesi per tenere a bada il Covid.

 Qual è dunque l’ordine del giorno?

Chiaramente, non la salute del pubblico ma i profitti eterni per le case farmaceutiche.

E così si arriva a capire come la scienza nella salute pubblica sia stata politicizzata, diventando propaganda al fine di spingere e mobilitare il maggior numero verso obiettivi che non riguardano affatto la salute pubblica.

 In primis, la Comunità della ricerca è stata avvelenata dall’influenza dei finanziamenti.

Ciò che guida la scienza oggi sono le sovvenzioni dei governi e delle fondazioni e non più la motivazione e la genialità di studiosi indipendenti come gli “Edward Jenner” o i “Louis Pasteur”.

 Il finanziamento pubblico ha reso ormai la scienza dipendente dallo Stato, cioè dalla politica.

Le Università e gli scienziati fanno pressioni affinché i governi diano loro denaro per i loro programmi di ricerca allo stesso modo di come le lobby industriali premono per sussidi.

Gli scienziati ottengono i soldi dal Governo ma in cambio devono seguirne le indicazioni.

Ma c’è di più. Come per la crisi climatica, anche per il Covid il dibattito di politica pubblica ha dimostrato che i cosiddetti scienziati non sono sempre parti disinteressate.

Sembrano essere diventati politici e partigiani quanto i politici, utilizzando selettivamente le “prove” scientifiche per giustificare il loro punto di vista ideologico.

 I modelli di comportamento che promuovono il finanziamento pubblico sono stati sorprendentemente simili a quelli del clima:

uso selettivo dei dati, manipolazione del processo di revisione tra pari, censura, persecuzione e demonizzazione dei colleghi dissenzienti per arrivare, alla fine a un falso “consenso” scientifico da propagandare a fini politici.

L’attuale approccio standardizzato alle vaccinazioni di massa, che tratta tutti i riceventi come se fossero organismi identici da processare su una catena di montaggio medica, è tipico dei peggiori regimi totalitari.

 L’inoculazione universale viene portata avanti senza nemmeno un’adesione rudimentale alla necessità di screening medico e consultazione caso per caso.

Ci si è dimenticati di come venivano affrontate le epidemie influenzali molto più gravi della fine degli anni Sessanta e della fine degli anni Cinquanta?

Nel grande schema delle cose queste epidemie erano “non eventi” non essendoci a quell’epoca le condizioni per sfruttarle, come si sta facendo oggi, a scopo politico.

La questione allora riguardava il rapporto paziente/medico.

Ma medici privati hanno cessato di esistere da quando il regime li ha costretti a diventare semplici dipendenti di massicce organizzazioni di “assistenza sanitaria” che si proteggono dalla responsabilità seguendo i protocolli stabiliti dai vari ministeri della salute in combutta con le case farmaceutiche, cosicché i medici finiscono per eseguire essenzialmente gli ordini delle aziende farmaceutiche.

 I medici indipendenti possono ancora utilizzare la loro formazione e abilità per aiutare i loro pazienti, ma con grande cautela:

 il regime, dove tutto deve essere politicizzato, potrebbe comprometterne la carriera.

L’universalizzazione delle vaccinazioni in corso per iniettare e etichettare il bestiame viene ovviamente propagandata, appellandosi al “bene o interesse comune”.

Ma solo i grulli dimenticano che sotto questa bandiera sono stati commessi, nel corso della storia, i crimini più spregevoli.

 

 

 

AMBIENTE: LA CATTURA E LO STOCCAGGIO

DELLA CO2 NEI SETTORI “HARD TO ABATE”

Opinioni.it - Donato Bonanni – (11 settembre 2023) – ci dice:

 

In Italia, i settori produttivi “hard to abate” generano 94 miliardi di euro di valore aggiunto e 1,25 milioni di posti di lavoro, emettendo 63,7 milioni di tonnellate di Co2 all’anno.

Ci riferiamo ai settori della siderurgia, della raffinazione del petrolio, della chimica, del cemento, della ceramica, della carta, del vetro e della produzione alimentare che hanno un peso rilevante nell’economia.

Negli ultimi anni diverse imprese italiane hanno deciso di investire in processi tecnologici innovativi per il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione (emissioni zero), così come previsto dai programmi “green” dell’Ue e dell’Agenda globale Onu.

La cattura e lo stoccaggio della Co2 è una di queste soluzioni strategiche per ridurre le emissioni delle industrie “hard to abate”, salvaguardando così la sopravvivenza e competitività di importanti settori economici e coniugando, nello stesso tempo, obiettivi di sostenibilità ambientale, sociale e industriale.

 

Ma vediamo meglio come funziona questa tecnologia.

La cattura e lo stoccaggio del carbonio (CO2) (Carbon Capture and storage, Ccs) hanno lo scopo di togliere dall’atmosfera l’anidride carbonica prodotta da industrie e centrali elettriche e di depositarla nei giacimenti (sotterranei) esauriti di petrolio e gas.

L’esperienza ventennale di stoccaggio nei siti al largo delle coste norvegesi e quella più recente nei siti offshore di Canada e Stati Uniti ne sono una dimostrazione con ottimi risultati in termini di sicurezza, efficienza e sostenibilità.

In Europa, la direttiva Ue sullo stoccaggio di Co2 del 2009 prevede una serie di regolamenti e di requisiti chiari per l’individuazione di siti di stoccaggio adeguati e per la garanzia della sicurezza delle operazioni successive.

Diversi studi hanno dimostrato che la Co2 può essere stoccata in modo sicuro nel sottosuolo (grazie a una serie di fattori geologici e geochimici) per migliaia di anni, basandosi sulle evidenze dei diversi bacini di Co2 naturali esistenti da milioni di anni.

Un recente studio – “Carbon capture and storage” – del Forum Ambrosetti di Cernobbio ha evidenziato l’importanza strategica del primo impianto italiano (e del sud Europa) progettato dalla joint venture Eni-Snam, che consiste nell’utilizzo delle condotte di Snam per convogliare la Co2 in un’unica rete di raccolta, per poi comprimerla e stoccarla nei giacimenti privi di gas metano di Eni al largo di Ravenna.

 L’hub romagnolo consentirà (una volta in funzione) di evitare 16 milioni di tonnellate di Co2 all’anno, di stoccarne una grande quantità e di sviluppare una nuova filiera specializzata a livello nazionale, generando un valore aggiunto (aggiuntivo) di 30 miliardi di euro entro il 2050, oltre a buone opportunità di occupazione.

Intere aree industriali potranno, insomma, diventare protagoniste del percorso verso la decarbonizzazione (zero CO2), conciliando gli obiettivi di riduzione delle emissioni e della tutela della salute pubblica con la continuità operativa e la competitività.

Una “giusta” transizione energetica che non lascia indietro nessuno:

 le imprese, i lavoratori e le comunità territoriali, motori indispensabili per la crescita economica e sociale del Paese.

 

 

 

 

La scienza è una grande, fondamentale, questione democratica.

  Valigiablu.it – (1° Febbraio 2018) - Antonio Scalari - ci dice:

Molti di voi lo ricorderanno.

All'inizio dello scorso anno si era innescato un dibattito piuttosto acceso attorno all'affermazione «la scienza non è democratica».

Quello “slogan”, come è stato in seguito definito da chi l'ha proposto, nasceva nell'ambito di una discussione sulla pagina Facebook di “Roberto Burioni”, medico e docente di microbiologia e virologia all'università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

Burioni, impegnato nella “battaglia” contro la disinformazione sui vaccini, si era visto costretto a cancellare alcuni commenti a un post che prendeva di mira la tesi secondo la quale i casi di meningite registrati nel 2016 in Italia, in particolare in Toscana, fossero dovuti all'arrivo di migranti dall'Africa.

Il medico aveva motivato la sua decisione in un commento che si concludeva proprio così: «la scienza non è democratica».

L'anno scorso, prendendo spunto da questo episodio, avevo scritto un articolo dedicato soprattutto al tema della “comunicazione della scienza”.

Vi chiederete: perché tornare a parlarne a un anno di distanza?

Perché dopo aver avuto una grandissima visibilità, questa frase ha acquisito una specie di vita propria.

 Succede, infatti, ancora oggi di partecipare o assistere a discussioni su temi scientifici in cui a un certo punto qualcuno interviene dichiarando: «la scienza non è democratica».

 In genere si tratta di un modo per dire: «le cose stanno così, su questo non si può discutere».

In questo post non voglio mettere in discussione la gestione dei commenti e la modalità di comunicazione su una pagina Facebook.

Quello che vorrei fare è mostrare che nel momento in cui si afferma “la scienza non è democratica” si fa un passo molto lungo che conduce ben oltre i vaccini e le diatribe su questo argomento.

Si finisce appunto per parlare di "scienza" e "democrazia", quindi di temi ancora più impegnativi e complessi.

 Lo so che non era questa l'intenzione dell'autore (che ha poi spiegato e chiarito ciò che intendeva dire). Ma quello slogan, nel momento in cui continua a essere preso e ripetuto così com'è, lancia un messaggio che causa fraintendimenti e confusione.

Il punto però non è dividersi tra due partiti, quello a favore della democraticità della scienza e quello contrario.

Proverò certo a proporre delle conclusioni e delle personali interpretazioni. Ma ciò che farò sarà soprattutto portare degli argomenti ed esaminare dei concetti che consentano di cogliere i significati di quell'affermazione. Ognuno alla fine si farà una propria idea a riguardo.

Intravedo due questioni distinte e collegate tra loro, che riassumo in due rispettive domande:

La scienza presenta, oppure no, qualche affinità con la democrazia?

Qual è il rapporto tra scienza e democrazia, cioè tra scienza e società nel contesto di una democrazia?

Per cercare di rispondere dobbiamo chiarire il significato dei termini. Cominciamo proprio con la parola “democrazia”.

 

Cosa è la democrazia.

Ho l'impressione che molti trascurino il fatto che se si dice che «la scienza non è democratica» si sta affermando qualcosa non solo sulla scienza, ma anche sulla democrazia.

Si sta dicendo che la scienza non è democratica perché priva delle caratteristiche che si ritiene definiscano la democrazia.

E qual è l'idea di democrazia che giustificherebbe la negazione contenuta in quella frase?

 La scienza, si dice, non è democratica perché nella scienza ha «diritto di parola» solo «chi ha studiato» e perché «non mette ai voti» dati, ipotesi e teorie.

 «La velocità della luce non si decide per alzata di mano», è un esempio che si porta a sostegno della tesi.

Nell'immaginario collettivo, in effetti, è molto diffusa la tendenza ad associare la democrazia quasi sempre a questi due elementi: il diritto di parola e il voto.

La democrazia sarebbe quel sistema che garantisce a tutti libertà di opinione su ogni argomento e che prende decisioni attraverso il voto.

Cerchiamo di capire quindi se la democrazia sia solo questo.

Sono state riempite intere biblioteche su cosa sia la democrazia e naturalmente non pretendo di riassumere tutto il dibattito che si è svolto al riguardo nel campo della filosofia politica e della politologia.

 Cerchiamo però di fissare alcuni punti prendendo come base di partenza la definizione che dà di democrazia “Norberto Bobbio”, uno dei maggiori politologi italiani del '900, in questa intervista del 1985:

Bobbio in questo intervento dà quella che lui stesso definisce una «definizione minima» di democrazia:

 

(...) Un metodo per prendere decisioni collettive. Si chiama gruppo democratico quel gruppo in cui valgono almeno queste due regole per prendere decisioni collettive.

Primo: tutti partecipano alla decisione direttamente o indirettamente.

 Secondo: la decisione viene presa dopo una libera discussione a maggioranza.

E precisa in seguito:

Qui stiamo parlando di democrazia politica. Infatti io ho considerato come una delle promesse non mantenute della democrazia proprio il fatto che la democrazia politica non si è estesa alla società e non si è trasformata in democrazia sociale.

A rigore una società democratica dovrebbe essere democratica, cioè dovrebbe avere queste regole di funzionamento, nella maggior parte dei centri di potere.

Quindi:

un metodo per prendere delle decisioni all'interno di una collettività, di qualsiasi natura e dimensioni.

Un metodo che dovrebbe estendersi alla maggior parte dei settori e delle organizzazioni perché una società possa essere definita democratica (viene citata per esempio la fabbrica come luogo in cui la democrazia non è ancora penetrata).

Bobbio spiega poi che quella che ha appena tracciato è una definizione “formale”, “procedurale”, di democrazia.

C'è poi, prosegue, una definizione “contenutistica” o “sostanziale” (storicamente contrapposta talvolta a quella formale) che comprende anche la nozione di uguaglianza sociale ed economica.

Ricordiamo, semplificando a grandi linee, come si è sviluppata la democrazia nel corso della storia.

Nell'età moderna si è partiti da una linea di pensiero, riconducibile al liberalismo, che in opposizione all'assolutismo dell'epoca ha rivendicato dapprima quelli che oggi chiamiamo diritti civili.

Ad esempio: la libertà di opinione, di stampa e di religione.

In seguito sono stati introdotti anche dei diritti politici, come il diritto di partecipazione al voto e quindi alla discussione sulle decisioni collettive.

All'inizio ristretti a una piccola percentuale della popolazione, i diritti politici sono stati poi estesi a tutti e si è arrivati al suffragio universale.

 Ai diritti civili e politici si sono poi aggiunti dei diritti sociali, per esempio il diritto al lavoro, alla salute, all'istruzione.

Correnti politiche come il socialismo, spiega Bobbio, hanno «cercato di riempire la democrazia – questa “scatola vuota”, formale – di certi contenuti», come per esempio l'«uguaglianza non solo giuridica ma sociale ed economica».

 La nascita dello Stato sociale è stato il punto di arrivo di un percorso storico al termine del quale la parola “democrazia” è arrivata a designare qualcosa di ben più ampio del diritto di voto:

un'idea di società in cui siano garantiti diritti non solo “formali”, ma anche “sostanziali” (e anche in questi ambiti le “promesse della democrazia”, per citare Bobbio, sono ancora lontane dall'essere pienamente realizzate).

La democrazia perciò ha finito per identificarsi non solo con una procedura formale, ma anche con un sistema di valori di riferimento (libertà, uguaglianza, tolleranza, solidarietà, ecc.).

 Secondo il "Dizionario di Filosofia" di “Nicola Abbagnano”, «il concetto di democrazia va oltre la configurazione di 'forma di governo', per presentarsi come un vero e proprio stile di vita individuale e sociale».

Oggi non potremmo (o meglio dovremmo) accettare che si riempisse quella “scatola vuota” con contenuti (cioè leggi e decisioni collettive) che violano alcuni principi come quelli fissati dalla Costituzione.

 Attraverso un metodo formalmente democratico si possono prendere decisioni in contrasto con quei principi fondamentali. 

Per esempio decisioni che introducono forme di discriminazione su base etnica, religiosa o sociale.

È proprio per questo motivo che la democrazia può permettersi di adottare leggi che abbiano l'obiettivo di impedire la diffusione di alcune idee ritenute pericolose per la democrazia stessa (si pensi in Italia alla "Legge Mancino" contro i crimini d'odio).

Arrivati fin qui possiamo quindi fissare in sintesi alcuni punti da tenere a mente:

La democrazia, sul piano formale, è un «metodo per prendere delle decisioni collettive».

In una collettività democratica tutti partecipano a una decisione e alla relativa discussione.

Oltre a quello formale c'è poi un piano sostanziale che caratterizza la democrazia come una forma di organizzazione della società basata non solo sulla partecipazione ma anche su una pluralità di diritti e che trova fondamento in un sistema di valori che orientano il “contenuto” delle decisioni.

Vediamo ora se la scienza ha qualcosa a che vedere con tutto questo.

Cosa è la scienza (e le sue affinità con la democrazia).

La parola "scienza" ha diversi significati.

 Qui parliamo naturalmente delle scienze naturali e delle loro applicazioni come la medicina (in questo contesto tralasciamo le scienze sociali che si occupano di fenomeni differenti).

In un primo significato, “scienza” è quindi tutto ciò che noi sappiamo riguardo al mondo naturale e a come funziona. Dall'origine dell'Universo all'evoluzione della vita, dalla struttura della materia ai meccanismi dei terremoti.

In questo significato la scienza è ciò che si legge nei libri di biologia, fisica, chimica, geologia, eccetera.

La scienza però non è solo un elenco di nozioni.

 In un secondo significato è anche una visione del mondo che ha implicazioni filosofiche, etiche, sociali.

La teoria dell'evoluzione, per esempio, ha introdotto una prospettiva del tutto nuova sul rapporto tra uomo e natura.

Terzo significato: la scienza è un metodo.

Tutti abbiamo sentito parlare di una cosa che si chiama “metodo scientifico”.

Sulla sua natura c'è stato, e c'è ancora, un grande dibattito che trae le sue origini già nel pensiero elaborato dalla filosofia antica, e poi da quella medievale, sulla conoscenza umana, la logica e il ragionamento.

Ma è lo sviluppo della rivoluzione scientifica, tra '500 e '600, che conduce alla moderna riflessione sulla scienza.

 Dopo secoli di avanzamento delle nostre conoscenze sulla natura, la filosofia della scienza del '900 ha cercato di spiegare e descrivere come avanza la scienza, quindi come si accumula nuova conoscenza, ma anche come le vecchie teorie vengono sostituite o integrate da quelle nuove.

Riassumere anche per sommi capi questa difficile riflessione andrebbe davvero oltre gli scopi di questo articolo.

 In questo contesto ci basta comunque ricordare che per metodo scientifico non dobbiamo intendere una ricetta che viene seguita nello stesso identico modo in tutte le scienze.

Se dovessimo però proprio trasformare il metodo in una ricetta, potremmo descriverlo così:

 si parte dall'osservazione di un fenomeno; ci si pone delle domande su questo fenomeno; si immaginano possibili spiegazioni in forma di ipotesi; si raccolgono dati, si eseguono esperimenti o calcoli, allo scopo di trovare una conferma dell'ipotesi.

 Attraverso questo procedimento si può scartare l'ipotesi di partenza oppure si può confermarla elaborando delle previsioni che possono essere verificate con successivi esperimenti e ricerche.

Sullo stesso fenomeno, o insieme di fenomeni, si può arrivare a sviluppare, ed eventualmente confermare, più ipotesi.

In seguito, l'accumularsi di conferme, dati ed evidenze può sfociare nell'elaborazione di una teoria.

L'evoluzione biologica è un fatto della cui esistenza abbiamo numerose evidenze. Ma è anche una teoria, cioè un complesso di spiegazioni di questo fatto e delle osservazioni che si sono accumulate su più fenomeni ad esso associati.

Ma questa è una versione semplificata di quello che chiamiamo "metodo scientifico".

Il lavoro concreto degli scienziati comprende un insieme di numerose attività sia teoriche che pratiche (analisi della letteratura scientifica, interpretazioni dei dati, costruzione di modelli teorici...) che scandiscono il faticoso cammino verso la scoperta scientifica.

 Ed è un tragitto non predeterminato perché può portare anche a esiti inaspettati. Soprattutto, è un cammino a cui partecipano più scienziati e gruppi di scienziati, il cui lavoro con il tempo porta ad approfondire sempre di più un particolare problema, accumulando conferme ed evidenze e confermando e scartando ipotesi.

Quest'ultima considerazione ci permette di introdurre un quarto significato della parola “scienza”: una comunità di ricerca.

 Se in passato le grandi elaborazioni teoriche e le celebri scoperte erano spesso il prodotto del “genio” di singoli scienziati (nomi come Galileo, Newton, Darwin), oggi sono più spesso il frutto del lavoro congiunto o collaborativo di ricercatori e gruppi sparsi nel mondo.

La comunità scientifica è il luogo dove gli scienziati esperti di un campo specifico mettono in discussione i propri studi e si confrontano.

Oggi un lavoro non può essere definito davvero “scientifico” se non viene pubblicato su riviste dove gli articoli che riportano gli studi vengono selezionati e valutati da “pari”, cioè persone di competenza simile a quella degli autori della ricerca.

Questo “filtro” non è perfetto né immune da errori e non garantisce sempre che non vengano pubblicati anche studi deboli o controversi, quando non vere frodi. Ma la pubblicazione di uno studio costituisce un primo vaglio che dà la possibilità alla comunità scientifica di conoscerlo e criticarlo.

Giunti a questa ultima definizione di scienza, possiamo finalmente tornare al confronto tra la scienza e la democrazia.

Sostengono alcuni:

«la scienza non è democratica» perché la validità di ipotesi e teorie non si mette ai voti, ma deve essere dimostrata con delle prove.

Che nella scienza servano prove ed evidenze, lo abbiamo visto, è indubbio. E avendo accettato la definizione “formale” di democrazia data da Bobbio, cioè un «metodo per prendere delle decisioni», verrebbe spontaneo pensare di mettere a confronto il metodo democratico con quello scientifico e di concludere che siano due mondi totalmente contrapposti.

Ricordate però cosa aveva detto” Bobbio” riguardo al

metodo democratico ” ? :

«...tutti partecipano alla decisione direttamente o indirettamente. Secondo: la decisione viene presa dopo una libera discussione a maggioranza»

La parola discussione ci fa forse intuire che in realtà, a dispetto di quanto alcuni ritengono, non è la scienza come metodo che deve essere messa a confronto con la democrazia, ma la scienza come comunità.

 Come ho sottolineato prima, l'avanzamento della conoscenza in un determinato campo non è solo il risultato di un lavoro individuale o di un singolo gruppo, ma di una comunità.

 La dimensione pubblica è un tratto che contraddistingue la scienza fin dalla nascita, con la rivoluzione scientifica, delle accademie, luoghi di incontro e di discussione appunto.

Nella scienza avviene una libera discussione in cui la ricerca viene sottoposta a un controllo pubblico.

La pubblicazione di uno studio, come ho accennato, è una delle modalità con cui viene esercitato questo controllo.

Se la discussione in un gruppo democratico ha come esito una decisione da prendere, qual è nella scienza l'equivalente di questa decisione?

Lo scopo degli scienziati è quello di raggiungere un consenso più ampio possibile su un certo problema.

 Quello che si chiama “consenso scientifico” non è altro che la posizione che la comunità di scienziati che lavorano in un campo specifico esprime su un particolare tema.

Per esempio: perché oggi possiamo affermare che esiste il riscaldamento globale e che noi esseri umani siamo i principali responsabili di questo fenomeno?

Possiamo farlo perché l'analisi della letteratura pubblicata dimostra che gli scienziati che si occupano di clima hanno con il tempo raggiunto un chiaro accordo su una specifica affermazione:

«è estremamente probabile che l'influenza umana sia stata la causa dominante del riscaldamento osservato dalla metà del XX secolo».

E questo consenso oggi emerge dalle posizioni delle accademie e delle associazioni che rappresentano gli esperti di diverse discipline scientifiche.

Certo, questa “decisione” non viene presa attraverso una esplicita deliberazione assembleare, come in una collettività che applica il metodo democratico.

Non c'è un momento in cui si mette ai voti l'esistenza del riscaldamento globale e la responsabilità dell'uomo.

Ma nella “Repubblica della Scienza” non c'è una “auctoritas centrale” che possa decidere arbitrariamente da sola.

Tutti i cittadini di questa "Repubblica" possono partecipare con il loro lavoro a un processo di accumulo della conoscenza, di controllo pubblico, di discussione dei rispettivi risultati e di (spesso faticosa, lenta e tortuosa) costruzione di un consenso.

Ma la democrazia, lo abbiamo visto, si configura anche come un sistema di valori. È possibile quindi che scienza e democrazia condividano qualcosa da questo punto di vista?

 Esistono dei “valori scientifici”?

 

In un suo testo del 1942 “Robert K. Merton”, considerato il fondatore della sociologia della scienza, ha individuato una “struttura normativa della scienza” basata su quattro norme che possiamo sintetizzare così:

Comunitarismo: le scoperte sono patrimonio della comunità scientifica, perché sono frutto di un lavoro collettivo.

Universalismo: affermazioni, tesi e risultati non vengono giudicati in base alle caratteristiche personali del loro autore. Il loro valore è quindi indipendente da nazionalità, religione e classe sociale.

Disinteresse: l'interesse primario dello scienziato è l'avanzamento della conoscenza.

Scetticismo organizzato: lo scienziato sottopone a critica i risultati altrui e i propri.

Questi principi dovrebbero rappresentare non solo delle norme di comportamento pratico, ma anche un vero e proprio ethos scientifico, un insieme di valori che contraddistinguono la scienza:

 una comunità di ricercatori che perseguono il bene comune della conoscenza, una repubblica di uguali, senza distinzioni etniche, religiose e di classe, che sottopongono il loro lavoro a un controllo pubblico interno.

Naturalmente “Merton” era consapevole del fatto che nel mondo reale non sempre questi principi vengono rispettati.

Più che descrivere la scienza per come funziona sempre, queste norme indicano come dovrebbe funzionare.

C'è stato peraltro chi ha osservato che qualche volta il progresso della conoscenza può venire avvantaggiato da una violazione di queste norme.

Per esempio l'insistenza nel lavorare su una ipotesi, anche dopo che è stata “demolita” dai colleghi, potrebbe portare uno scienziato a ottenere risultati interessanti e inaspettati.

Possiamo comunque considerare le “norme mertoniane” alla stregua di principi-guida che dovrebbero ispirare la comunità scientifica, una sorta di Costituzione della scienza.

Tutto quello che ho scritto finora dimostra quindi che la scienza è democratica?

Perché la scienza è una questione democratica.

La prima domanda che ci siamo fatti era: la scienza presenta, oppure no, qualche affinità con la democrazia?

 Tutto sommato, per come funziona al suo interno e per le norme che, almeno secondo Merton, segue (o dovrebbe seguire), la scienza sembra avere più somiglianze che differenze rispetto a ciò che noi oggi chiamiamo “democrazia”.

La risposta alla prima domanda potrebbe quindi essere sì.

 Ma al di là della risposta, affrontare questo punto era necessario perché ci ha permesso di chiarire il significato di parole come “democrazia” e “scienza”, date troppo per scontate e di individuare alcune analogie e differenze tra le due.

Ma finora ho parlato soltanto di come funziona la scienza al suo interno.

Penso tuttavia che il vero problema posto dallo slogan “la scienza non è democratica” stia nella seconda domanda che ci siamo fatti:

qual è il rapporto tra scienza e democrazia, cioè tra scienza, istituzioni e società nel contesto di una democrazia?

 

Detto in altri termini: a parte il suo funzionamento interno, la scienza è democratica verso l'esterno, cioè nei confronti del resto della società?

Rispondono alcuni:

 no, la scienza non è democratica perché chi non è esperto non può intervenire in una discussione su un tema specialistico.

Ha diritto di parola solo “chi ha studiato”.

Ma è davvero questo il punto?

 C'è qualcuno forse che pensa che sulla storia medievale, la filologia classica o il diritto penale chiunque invece possa parlare senza avere alcuna conoscenza di quelle materie?

Affermare che “la scienza non è democratica” perché per intervenire su un tema scientifico bisogna “avere studiato” è una ovvietà, condivisibile, ma che non ci dà nessuna informazione sulla scienza stessa né ci fa capire in cosa essa eventualmente si distingua non solo da altre discipline, ma perfino da saperi tecnico-manuali (io non do consigli su come riparare una caldaia perché non ne saprei quasi nulla).

Il problema perciò è un altro.

 E credo sia questo: il dibattito su questo slogan si è inserito in un momento di grande scontro su temi, come i vaccini, che hanno sollevato il problema del rapporto tra la comunità scientifica e il resto della società.

 Cioè, tra esperti e non esperti.

La responsabilità di questo problema viene di norma scaricata interamente sulla società.

Cioè, gli scienziati sono incompresi e la gente comune è "antiscientifica".

La scienza però non è tutta controversa e rifiutata.

 Che io sappia, nessuno dubita dell'esistenza degli elettroni o di come funziona la fotosintesi clorofilliana o della neuroanatomia (o se c'è è davvero minoritario).

Ci sono teorie scientifiche, come quella dell'evoluzione, che vengono rifiutate per motivazioni culturali-religiose da una parte della società, anche percentualmente rilevante in alcuni paesi come gli Stati Uniti, dove sono diffuse forme di creazionismo che impongono di fatto il rifiuto di nozioni fondamentali della biologia, della geologia e non solo.

Ma perché ci sono persone che "rifiutano" alcuni fatti scientifici? Il modo con cui alcune evidenze scientifiche, che di per sé sarebbero “neutre”, si incastrano all'interno delle visioni personali è talvolta complicato.

Ed è per questo che può essere piuttosto difficile far “accettare” fatti anche ripetutamente comprovati.

Sarebbe tutto molto più semplice se così non fosse.

 Ma così è.

E non è sempre e solo un problema di ignoranza e di scarsa considerazione della scienza.

La posizione sugli organismi geneticamente modificati in agricoltura o il riscaldamento globale è di frequente influenzata dall'esperienza e dalle idee personali.

 Ci sono persone entusiasticamente “pro-Ogm” che diventano “scettiche” sul riscaldamento globale. 

D'altra parte, tra diverse associazioni ambientaliste, che riconoscono l'esistenza del riscaldamento globale e giustamente si battono per l'ambiente, si riscontrano ancora preconcetti nei confronti dell'uso di Ogm in agricoltura.

Accade quindi che si accettino le evidenze scientifiche che non mettono in crisi la propria visione o che la sostengono e si rifiutino quelle che (magari anche a torto) si pensa che siano incompatibili con i propri valori.  Si finisce per dividersi in campi avversi per contrapposizioni che sembrano non ricomponibili (ad esempio: “pro-Ogm” o “anti-Ogm”).

Non è una regola, ma è un fenomeno che si osserva.

Questa complicata interazione tra fatti e valori si deve in parte al fatto che la scienza, con le sue scoperte, dà dei messaggi talvolta "contrastanti":

qualche volta ci rassicura (come sui vaccini), altre volte ci mette in guardia (come sul clima e l'ambiente).

Tra chi lamenta il "rifiuto della scienza", la spiegazione che va per la maggiore è però molto più semplice e sbrigativa:

la colpa è del pregiudizio "antiscientifico” e dell'atteggiamento “irrazionale” che dilagherebbero nella società.

Ma non esiste un “partito anti scienza” inteso come un settore della società “antiscientifico” su tutto, monolitico e numericamente vincente.

 Osserva, un centro di ricerca sui rapporti tra scienza e società, rileva una crescente alfabetizzazione scientifica nella popolazione italiana e una sempre maggiore attenzione e interesse per la scienza.

Un dato che sembra contrastare con una certa retorica a riguardo.

La realtà è fatta sicuramente di chiari e di scuri e anche di dati di più difficile interpretazione, se non apparentemente contraddittori (come quelli che proprio “Osserva” ha registrato l'anno scorso rispetto all'opinione degli italiani sui vaccini).

Ma quella dell'“anti scienza dilagante” e dell'"oscurantismo" come spiegazione universale è una narrazione stereotipata e di comodo che semplifica questa realtà.

 

Anche l'antivaccinismo radicale è una frangia minoritaria, le cui tesi vanno certamente contrastate.

Ma c'è un fenomeno molto più ampio di “esitazione vaccinale”, fatto di attitudini e atteggiamenti pratici più variegati e sfumati che portano magari a rifiutare un solo vaccino.

D'altra parte anche gli scienziati e le scienziate non sono esseri umani avulsi dalla società.

Sono cittadini che partecipano alla vita sociale, economica, qualche volta anche politica.

Lo fanno essi stessi con le proprie idee, pregiudizi, errori, opinioni e visioni del mondo.

Indipendentemente dalle diversissime posizioni che ognuno può maturare su ogni specifico "fatto scientifico", penso che la vera questione che dovrebbe interessare sia gli scienziati che tutti gli altri cittadini sia questa:

la scienza è una grande, fondamentale, questione democratica.

Si fa un gran parlare di scienza oggi in relazione ai vaccini, invocati per tracciare divisioni tra "pro-scienza" e "anti scienza".

Ma che dire di una questione come quella delle politiche della ricerca?

 "Scienza" è anche la ricerca pubblica, quella ricerca di base che ha come obiettivo principale proprio l'avanzamento della conoscenza sulla natura:

la curiosità scientifica fine a sé stessa, al di là delle eventuali applicazioni pratiche e dei benefici che potrebbe produrre.

Vogliamo quindi investire nella ricerca (non solo scientifica) e nell'Università, dove si formeranno gli scienziati di domani?

 È una domanda che riguarda scelte collettive.

Scelte politiche, non scientifico-tecniche, sulla direzione che vuole prendere un paese, cosa che non interessa solo la comunità scientifica.

Eppure di questo non si parla molto neanche in campagna elettorale, nonostante la situazione in cui ancora oggi versano in Italia la ricerca pubblica e l'Università.

Pensiamo poi a tutti quei temi di cui si parla sui media, rispetto ai quali per i non esperti è molto più difficile capire "cosa dice la scienza".

 Ad esempio, sulla questione dell'utilizzo del glifosato in agricoltura, di fronte all'opinione pubblica si svolge una discussione delicata tra scienziati ed enti regolatori su dati non conclusivi, studi interpretati diversamente, valutazione del rischio.

Oltre a essere di difficile comprensione per molti cittadini, questo non è un problema solo per gli addetti ai lavori.

Giunge dalla società una richiesta di maggiore trasparenza da parte degli organismi di controllo.

Quando si chiede alla gente di "credere nella scienza" in ambiti come la sicurezza alimentare e la sanità pubblica, le si sta in realtà chiedendo anche di avere fiducia in enti tecnico-scientifici di controllo.

Parliamo di organi guidati da esperti che però nello stesso tempo rivestono dei ruoli pubblici.

Un pezzo di comunità scientifica che sta dentro la democrazia, come sistema di governo.

 La fiducia nella scienza in questo caso è la fiducia nelle istituzioni.

Contemporaneamente però alcuni si rivolgono ai cittadini non esperti dicendo loro che non hanno “diritto di parola” su temi tecnico-scientifici che li riguardano da vicino.

 Perché certo, non hanno sufficienti competenze per occuparsene.

Ma sono gli stessi cittadini che poi si esprimono in referendum sull'energia nucleare, la fecondazione assistita o le trivellazioni in mare.

Infatti la scienza di cui si discute pubblicamente ha spesso a che vedere con particolari applicazioni:

 le biotecnologie, l'utilizzo dell'energia nucleare, appunto, o le energie alternative, l'uso di alcuni animali nella sperimentazione di laboratorio, l'impiego di fitofarmaci in agricoltura o gli stessi vaccini.

Tutti questi ambiti sono scienza, ma nello stesso tempo sono anche questioni che si sovrappongono con l'economia, il diritto, l'etica, le politiche sull'ambiente.

E che interessano tutti noi, non solo gli scienziati.

Come si può chiedere ai cittadini di limitarsi a essere solo spettatori, invece che anche attori, di tutte queste discussioni?

Per questa ragione su tanti e importanti temi scientifici, sanitari, ambientali abbiamo bisogno sia di un consenso scientifico (e spesso per fortuna c'è già, come sulla sicurezza dei vaccini e il clima), sia di un consenso democratico.

Certo abbiamo anche un enorme bisogno di un dibattito adeguato e informato.

 E in questo è fondamentale il compito che deve svolgere la comunicazione della scienza.

Che tuttavia non può più essere solo quello di trasferire fatti e nozioni come accade nella divulgazione scientifica tradizionale, ancora comunque preziosa e necessaria.

È vero, l'informazione che circola è spesso carente, poco chiara, disorientante.

Ma l'informazione da sola, in molte circostanze, non è sufficiente a cambiare le opinioni e i comportamenti di chi per alcune motivazioni "rifiuta" una certa evidenza scientifica.

 La comunicazione della scienza quindi dovrebbe essere anche una “cerniera”, uno strumento di mediazione tra scienza, società e politica.

Un mezzo per accorciare le distanze, promuovere il coinvolgimento del pubblico, trovare linguaggi comuni e affrontare le ragioni alla base di quelle contrapposizioni che, come dicevo, determinano il formarsi di fronti "pro" e "contro".

Rispetto a tutto questo complesso scenario che caratterizza i tempi in cui viviamo, mi pare che la frase “la scienza non è democratica” contenga in sé un'idea e un messaggio di isolamento ed estraniazione della scienza dal resto della società e dai processi di partecipazione e costruzione del consenso anche su temi che la riguardano da vicino.

E addirittura di ostilità nei confronti della democrazia (e ripeto quanto ho detto all'inizio: anche al di là delle intenzioni con cui si pronuncia quella frase).

Si fa megafono di una idea della democrazia impoverita e svilita, molto lontana da quella dimensione sostanziale e valoriale di cui parlavo all'inizio.

A forza di associare il concetto di democrazia al caos delle "opinioni" (nell'accezione, secondo alcuni, di "affermazioni a vanvera") e delle bufale, potremmo finire per avere sempre più sfiducia in questa forma di governo e di organizzazione sociale e nei suoi valori.

 A qualcuno, chissà, potrebbe venire voglia di chiedere a gran voce di rivedere il suffragio universale per impedire agli "ignoranti" di votare (e capita già di leggere commenti di questo tenore).

 Cosa che non impedirebbe la diffusione di bufale, teorie del complotto (come quelle che sono circolate riguardo al batterio Xylella) e pseudoscienze (ricordiamoci peraltro che parecchie tesi pseudoscientifiche sono state inventate, o vengono appoggiate, anche da medici e scienziati).

Il futuro è un altro.

 La scienza e la democrazia condividono un destino comune e non possono che essere l'una l'orizzonte di riferimento dell'altra, in un processo di positiva contaminazione reciproca.

 Non esiste tra di esse una soluzione di continuità sociale.

 L'etica scientifica (le norme di Merton), lungi dall'essere antidemocratica, può anzi essere una fonte di ispirazione per il dibattito pubblico.

Credo che questa "contaminazione" sia l'unica strada che possiamo percorrere per far sì che la società e quindi la politica (in definitiva: noi tutti) trovino su tante questioni fondamentali quel "consenso razionale di opinione" di cui abbiamo così tanto bisogno.

 

 

 

 

Astensionismo, una minaccia

per la democrazia.

 Lavoce.info - RICCARDO CESARI – (10/08/2022) – ci dice:

Il disagio economico e sociale è alla radice dell’astensionismo nelle elezioni politiche.

La sua crescita, soprattutto tra i giovani, indebolisce la partecipazione politica e corrode alla base i fondamenti democratici della società civile.

Il partito del “non voto.”

Sembra che l’unica cosa certa dei risultati elettorali del prossimo 25 settembre sarà la vittoria del “partito del non-voto”.

Non si può considerare una novità, visto che la quota dell’astensione in Italia è in forte crescita dal 1979 . E, se a settembre si dovesse ripresentare il boom di astensioni delle comunali di giugno (45 per cento), il prossimo dato nazionale sfonderà di molto la soglia del 30 per cento, cinque volte il minimo storico degli anni Settanta.

In termini assoluti, questo 30 per cento si traduce in 15 milioni di elettori astenuti su 50, cioè, rispetto ai votanti, ben 43 per cento (=15/35).

Qualcuno potrebbe osservare che il 70 per cento degli elettori – o anche solo il 60 per cento – sono la grande maggioranza del corpo elettorale.

Se, per conoscere l’opinione di una popolazione, se ne intervistasse un campione del 60 per cento si otterrebbero risultati molto rappresentativi.

Tuttavia, è così solo perché quel 40 per cento che non si è contattato o che non ha risposto è un gruppo casuale e la sua assenza non inficia la rappresentatività del restante 60 per cento.

Se, viceversa, quel 40 per cento di assenze è un gruppo sistematico, per esempio tutte donne, o tutti meridionali, o tutti del Nord, o tutti giovani, il risultato di quel sondaggio uscirebbe fortemente distorto e per nulla rappresentativo dell’intera popolazione.

 Qui sta il problema.  

Come è stato di recente sottolineato da “Ludovica Geraci” e “Massimo Taddei” per l’Italia e da “Alexandria Symond”s in un confronto internazionale, la componente degli elettori giovani è tendenzialmente più assente al momento del voto rispetto agli anziani.

Quanto incide la povertà.

Tra gli aspetti che aiutano a spiegare questi livelli di astensionismo, oltre a questioni logistiche, di costi-opportunità, di “habit formation” e di forme alternative di partecipazione attiva, credo abbia un ruolo la morsa della povertà, nella doppia tenaglia dei problemi più pressanti che incombono sul potenziale elettore e della forte disillusione che la politica sia ancora capace di darvi una risposta.

Infatti, oltre a spiegare una quota elevatissima (63 per cento) della variabilità interregionale dell’astensione, la relazione tra povertà e astensionismo elettorale mostra molto nettamente, nei dati 2018, il ritorno di un dualismo Nord-Sud che si pensava almeno in parte superato.

 La povertà relativa è definita con riferimento allo standard di una famiglia di due persone con consumi totali uguali o inferiori al consumo medio pro capite.

Con l’eccezione virtuosa dell’Abruzzo, tutte le regioni del Sud mostrano livelli record di astensione e di povertà, mentre le regioni del Centro-Nord sono tutte accomunate da bassa astensione e ridotta povertà.

Guardando dentro il dato di povertà, che colpisce in misura più che doppia i giovani rispetto agli anziani, si trovano due fattori di grave disagio sociale: l’abbandono scolastico e la disoccupazione (Neet, Not in employment, education or training), vale a dire rispettivamente la povertà educativa e la povertà economica, che si sommano e si combinano per corrodere alla base i fondamenti democratici della società civile.

 

Aggiungendo questi due fattori alla correlazione si vede come la povertà famigliare perde di significato in favore delle altre due componenti.

 L’R2 della regressione sale dal 63 all’85 per cento e le stime indicano quasi mezzo punto di astensionismo per ogni punto di abbandono prematuro degli studi e oltre un quarto di punto di astensione elettorale per ogni punto di Neet.

Il risultato così ottenuto indica, in modo abbastanza chiaro, che le politiche educative ed economiche per i giovani possono avere ricadute positive anche in termini di partecipazione sociale, per ridare senso e vigore a un sistema politico avviato su una pericolosa deriva che sta progressivamente togliendo il demos alla democrazia.

 

 

 

 

Quei 164 miliardi di euro

che le banche “devono” a tutti noi.

Cos’è il signoraggio.

Tempi.it – (17 ottobre 2015) – Giovanni Passali – ci dice:

 

Il sistema perverso per cui un nostro bene (la moneta in circolazione) diventa un nostro debito.

 Un peso finanziario intollerabile in tempo di crisi economica.

Gentile direttore, nell’ultimo articolo ho riportato il bilancio della Banca d’Italia per mostrare l’incongruenza di un sistema che non solo non serve l’economia reale, ma procura un danno finanziario oggettivo alle casse dello Stato.

L’aspetto trascurato riguarda la definizione di signoraggio.

Secondo la Banca d’Italia il signoraggio è «l’insieme dei redditi derivanti dall’emissione di moneta», come confermato anche dal sito web ufficiale.

Tali redditi sono quindi “derivati” dall’emissione di moneta, non sono la stessa moneta.

 In altre parole, il signoraggio sono gli interessi dei titoli di Stato ricevuti in cambio della moneta stampata e poi trasmessa alle banche commerciali.

 

Ora invece il buon senso ci dice che il reale signoraggio sono proprio le banconote in circolazione, che senza alcun motivo sono poste tra “i passivi del bilancio”.

Un motivo storico in realtà c’è.

Il motivo è che, quando la moneta era l’oro, essa veniva depositata presso chi già era attrezzato per conservarlo adeguatamente, cioè chi lavorava l’oro.

 Il depositante riceveva una ricevuta, una “nota di banco”, antenata dell’attuale banconota.

Quando il depositante poi, girando per il mondo con la sua “nota di banco”, realizzava un acquisto di merce, invece di cedere l’oro, cedeva la “nota di banco”. Quindi l’oro smise di spostarsi e nel bilancio l’oro era posto tra gli attivi, mentre le “note di banco” erano giustamente tra i passivi.

Ma oggi le nostre banconote non vengono emesse in ragione di una quantità di oro depositato, sono create dal nulla in funzione delle richieste del mercato, quindi la loro apposizione tra i passivi è solo una convenzione, una convenzione che può (e dovrà) essere cambiata.

 Tanto è vero che per il bilancio dello Stato già è così, quando lo Stato oggi stampa le monetine euro queste vengono ovviamente messe tra gli attivi.

 E se tornasse a stampare la sua moneta, lo Stato metterebbe tra i propri attivi tutta la moneta creata, con enorme beneficio per il proprio bilancio e per l’abbattimento del debito pubblico.

Quelli che una volta detenevano l’oro erano anche in grado di fare prestiti (relativamente al loro oro), ma invece di dare l’oro iniziarono anche loro a dare la “nota di banco”, che tutti accettavano perché sapevano che c’era l’oro a garanzia. Quella “nota di banco” valeva l’oro che rappresentava.

Da Bretton Woods alla moneta come debito.

Ora facciamo un grande salto e arriviamo al 1944, agli accordi di Bretton Woods. Con quegli accordi si sancì che tutte le monete potevano essere cambiate in dollari e i dollari potevano essere cambiati in oro, una forzatura imposta dagli Stati Uniti ormai sicuri vincitori della guerra mondiale.

Quindi alla fine le monete avevano un sottostante, cioè un bene prezioso grazie al quale il valore monetario non era messo in discussione.

Quello che però ancora non si era compreso è che la moneta, se funziona come moneta, ha valore in sé.

E tale valore è massimamente consistente nella fiducia che tutti gli utilizzatori ripongono nella moneta.

Non a caso l’odierna crisi è scoppiata nel 2007, quando le banche hanno iniziato a non avere più fiducia tra di loro, a non prestarsi più denaro tra loro.

L’unica istituzione che aveva rilevato lo stretto legame tra la moneta e la fiducia, o meglio la natura sociale del denaro, fu la Chiesa cattolica, che nella lettera enciclica Quadragesimo Anno affermava che

 «si dovrà soprattutto avere riguardo della doppia natura, individuale e sociale propria, sia del capitale quanto del lavoro».

Questa lettera è stata scritta nel 1931, cioè nel pieno della tempesta finanziaria causata dalla grande depressione del ’29.

Questo è il difetto di tanta cultura economica moderna: il non tenere conto della “natura sociale” del capitale, cioè della moneta.

Facciamo un altro salto temporale.

Nel 1971 gli Stati Uniti decisero unilateralmente di abolire gli accordi di Bretton Woods, cioè di non cambiare più i loro dollari con il loro oro.

 Oltre all’aspetto morale di una decisione unilaterale, occorre considerare che non poteva finire diversamente, poiché tutto l’oro del mondo non era sufficiente a supportare, come moneta, gli scambi commerciali del mondo.

E così l’emissione monetaria fu svincolata dall’oro depositato.

Questo non portò a nessun disastro finanziario immediato, i sistemi monetari continuarono a funzionare.

Da allora l’esperienza rese evidente il valore sociale proprio della moneta.

 Ma nessuno rilevò questo fatto, nessuno prese coscienza di questo valore.

Il problema è che il sistema delle banche centrali utilizzò questo potere, il potere di creare dal nulla un mezzo il cui valore è la fiducia del popolo che lo usa, per prendere progressivamente il dominio finanziario nel mondo, favorendo la speculazione e i capitali e indebitando gli Stati.

Non si prese coscienza del fatto che le banche centrali creano denaro dal nulla, poiché non hanno alcun obbligo di riserva rispetto alla moneta creata.

 Però questa creazione diventa di fatto debito per la collettività.

Questo è il danno oggettivo del denaro creato dal nulla e messo tra i passivi del bilancio.

E questo danno è il signoraggio bancario, cioè l’intero capitale creato, non i «redditi derivati dall’emissione».

 

Le banche centrali possono pure affermare che per loro il reddito da signoraggio sono gli interessi dei titoli acquistati con il denaro creato dal nulla. Ma in realtà il reddito da signoraggio che tolgono agli Stati è precisamente il capitale creato.

Un passivo che produce un attivo?

Le banche ovviamente negano, dicono che devono mettere le “banconote in circolazione” tra i passivi perché queste per loro sono un debito.

Ora, non si è mai visto che una qualsiasi azienda lavori per prodursi un passivo, un debito.

E non si è mai sentito che un debito produca un interesse, un attivo.

Una stortura logica tollerata dalle leggi particolari per la redazione dei bilanci delle banche centrali.

 Rimane un fatto indiscusso: se quelle banconote fossero create dallo Stato, quella somma sarebbe tra gli attivi del bilancio dello Stato, quindi il danno finanziario per lo Stato è esattamente pari a quella cifra.

A conferma di questa interpretazione c’è il già citato discorso del governatore della Banca centrale svizzera Jean-Pierre Roth, il quale nel 2003 affermò che la Svizzera non era entrata nell’euro perché avrebbe perso il signoraggio, cioè 40 miliardi di franchi, cioè 26 miliardi di euro all’epoca.

 Quindi lo Stato perde esattamente il denaro stampato.

Roth arriva addirittura a quantificarlo in 3.700 euro a persona.

Oggi, calcolando per l’Italia 164 miliardi diviso 60 milioni di abitanti, abbiamo circa 2.700 euro a testa, dal neonato all’ultracentenario.

 

A ulteriore conferma c’è proprio il sito ufficiale della Banca d’Italia, nella pagina già indicata sopra dedicata al tema signoraggio.

Questa pagina contiene un brano con due affermazioni corrette e due gravissime menzogne finali.

Dopo aver ribadito che il signoraggio è dato dai redditi derivanti dall’emissione di moneta, verso la fine della pagina, dove parla della differenza tra la stampa di moneta effettuata dallo Stato e quella fatta dalla banca centrale, si può leggere testualmente:

«La principale differenza consiste nelle modalità con cui si forma il signoraggio.

Quando la moneta è prodotta dallo Stato, è quest’ultimo che, spendendola ad esempio per acquistare beni e servizi, la mette in circolo nell’economia e realizza immediatamente il controvalore, al netto dei costi di produzione.

Quando invece è la banca centrale a emettere le banconote (o, più in generale, la base monetaria, che include anche le riserve costituite dalle banche su conti presso la banca centrale), queste non sono spese in beni e servizi ma fornite alle banche commerciali, in forma di prestito, per le esigenze del sistema economico, o utilizzate per l’acquisto di attività finanziarie, come i titoli di Stato o le attività in valuta estera;

al valore delle banconote, iscritto al passivo del bilancio della banca centrale, corrisponde quindi l’iscrizione di attività fruttifere nell’attivo del bilancio, che rendono un interesse.

Perciò la banca centrale ottiene il signoraggio nel corso del tempo, come flusso di interessi sulle proprie attività fruttifere, al netto del costo di produzione delle banconote.

 Il valore scontato di tale flusso, che come si è detto è riversato allo Stato, è pari a quello che quest’ultimo avrebbe ottenuto immettendo direttamente la banconota nel circuito economico».

All’inizio si afferma quanto io ho già affermato, cioè che lo Stato spendendo la moneta che si è stampata realizza il controvalore di quella moneta, cioè i 164 miliardi nel caso dell’Italia.

Nel secondo caso, quando è la banca a stampare moneta, questa realizza il profitto degli interessi, che è ovviamente una cifra molto minore: quest’anno circa 3 miliardi.

Ora veniamo alla frase finale, che contiene due gravi affermazioni.

La prima affermazione è che i redditi della banca centrale sono riversati allo Stato.

Ma guardiamo ai numeri:

 lo Stato quest’anno ha incassato 2 miliardi sui 3 di reddito (il 60 per cento, come stabilito a norma di statuto).

Ma quanto ha incassato di interessi la Banca d’Italia?

Sempre dal bilancio vediamo alla voce “interessi attivi” la bella cifra di 5,7 miliardi di euro.

Ma chi ha pagato questi interessi?

Ovviamente Bankitalia detiene titoli di Stato, quindi quegli interessi li abbiamo pagati noi.

Quindi lo Stato ha incassato 2 miliardi dai redditi, più un miliardo di tasse.

Però ha pagato 5,7 miliardi di euro per interessi.

Inoltre si parla di “flusso riversato allo Stato”, come se alle banche italiane “Partecipanti” non toccasse nulla. Ma non è così.

Quest’anno si sono prese 340 milioni, come scritto a bilancio a pagina 216, di cui qui riporto la parte interessata.

 

Se un bene di tutti diventa un peso.

Ma la cosa ancora più grave è la frase finale:

 «Il valore scontato di tale flusso (2 miliardi per quest’anno, ndr) è pari a quello che quest’ultimo avrebbe ottenuto immettendo direttamente la banconota nel circuito economico».

Per la Banca d’Italia quindi 2 miliardi sono pari a 164 e dobbiamo essere contenti così!

Quindi il problema del signoraggio è prima di tutto un gravissimo problema morale, perché la Banca d’Italia si appropria di un bene della collettività e mettendolo tra i passivi finisce col farlo diventare un debito per la collettività, realizzando il capolavoro contabile per cui un nostro bene diventa un nostro debito.

Ma questo problema morale diventa un chiaro e lampante peso finanziario, intollerabile soprattutto in un momento di grave crisi economica.

Questo è il vero, grande motivo per cui la banca centrale deve tornare nel pieno possesso dello Stato, stampando moneta che finisca tra gli attivi dello Stato (come già oggi succede per le monetine).

E tutti noi dobbiamo prendere coscienza del fatto che quando lo Stato stampa moneta non compie un abuso, ma crea uno strumento che rappresenta un valore sociale, il valore della nostra società, il valore della nostra civiltà.

Un valore il cui unico sovrano è il popolo italiano, perché la sovranità appartiene al popolo (non al governo o al parlamento o alla Banca d’Italia), come recita l’articolo 1 della nostra Costituzione.

 

Meloni tassa le banche ma non basta:

da sinistra urge una proposta

di riforma del sistema monetario.

Micromega.net - Enrico Grazzini – (21 Agosto 2023) – ci dice:

 

La tassa sugli extraprofitti delle banche non colpisce lo strapotere della finanza. Occorrono riforme strutturali e non strumenti fiscali una tantum.

La sinistra dovrebbe rivedere radicalmente la sua visione e il rapporto di subalternità che ha finora intrattenuto con il settore finanziario globalista.

 Lo Stato dovrebbe riconquistare il potere sulla moneta che attualmente è completamente in mano al settore privato.

Le tasse sui superprofitti bancari decise a sorpresa all’inizio di agosto da Giorgia Meloni, capo del governo italiano di destra, saranno anche frutto del suo populismo demagogico e di calcolo elettorale;

tuttavia bisogna ammettere che il Pd di Enrico Letta e dei suoi predecessori e nessun governo passato di centro-sinistra si sarebbero mai azzardati a toccare l’establishment bancario, mentre la Giorgia nazionale, per ragioni di immagine o semplicemente per necessità di cassa, il coraggio di fare prevalere la politica sulla grande finanza almeno per una volta l’ha avuto.

Che le banche abbiano maturato superprofitti grazie all’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Banca Centrale Europea di Christine Lagarde è assolutamente certo:

 i profitti bancari sono aumentati nel primo semestre di questo anno del 63% rispetto a quelli del semestre dell’anno precedente.

 Le banche non hanno incrementato le remunerazioni dei depositi dei risparmiatori ma hanno aumentato gli interessi sui prestiti: da qui i superprofitti.

Questi si trasformeranno in lauti dividendi per gli azionisti e andranno ad arricchire le grandi finanziarie, in buona parte estere, che controllano le banche italiane.

 

Solo per fare un esempio:

Unicredit, la seconda banca italiana, dichiara di essere “una public company, controllata circa all’85% da investitori professionali, di cui la maggioranza è ubicata fuori dall’Italia” (ovvero in America e Gran Bretagna).

Sapendo che le banche non godono di ottima reputazione presso la pubblica opinione, il governo in affanno di liquidità ha dunque deciso di tassare i sovraprofitti che tra l’altro, sotto forma di dividendi per gli azionisti, andranno in parte all’estero.

Naturalmente la misura fiscale è una tantum e, subito dopo essere stata annunciata, è anche stata subito ridimensionata:

il capo della Lega Matteo Salvini aveva all’inizio enfaticamente affermato che la tassa straordinaria sulle banche avrebbe portato nelle casse dello Stato 10 miliardi, ma il giorno dopo le regole sono state subito modificate, e ora le entrate previste sono stimate pari a circa 2 miliardi.

 Un po’ poco per dare sollievo alle famiglie e alle aziende alle prese con il carovita, il caro-affitti, il caro-mutui, l’annullamento del reddito di cittadinanza, il rischio concreto di recessione e la contrazione dei prestiti bancari.

 Il Financial Times, portavoce degli interessi finanziari, si è lamentato delle misure fiscali del governo italiano ma lo spread, almeno per ora non è salito, segno che i mercati e la big finance sanno che, al di là di qualche colpo di testa, possono sempre contare sul governo di Giorgia Meloni.

Tuttavia è pericoloso pizzicare la tigre della finanza con un ago, si rischia che si rivolti contro e ti azzanni anche solo per una piccola puntura. La tigre si addomestica solo se viene ingabbiata.

Se davvero si vuole domare lo strapotere della finanza occorrono riforme strutturali e non strumenti fiscali una tantum.

Ovviamente la destra, al di là della demagogia, non vuole realmente dare fastidio all’establishment, né tanto meno contrastare la grande finanza globalista.

Donald Trump, il presidente americano che Giorgia Meloni e Matteo Salvini tanto hanno ammirato e declamato, ha sempre accarezzato, difeso e protetto big finance e la speculazione finanziaria.

Toccherebbe invece alla sinistra riformare radicalmente i rapporti di potere contro una finanza predatrice globalista con cui il Pd è alleato.

La sinistra dovrebbe allora innanzitutto rivedere la sua visione e il rapporto di subalternità che ha finora intrattenuto con il settore finanziario gloalista.

Il nocciolo vero della questione è che lo Stato dovrebbe riconquistare il potere sulla moneta che attualmente è completamente in mano al settore privato.

Sul piano culturale bisogna innanzitutto prendere atto che – come ha spiegato ufficialmente e definitivamente Bank of England, la banca centrale della Gran Bretagna – sono le banche commerciali a creare dal nulla la moneta che normalmente utilizziamo [1].

 La moneta che circola nell’economia reale, e anche nella finanza, è per il 95% moneta bancaria.

 Il sistema bancario produce moneta quando concede dei crediti.

(Ossia fa prestiti ai suoi clienti, che annota nel passivo bancario, anziché nell’attivo. La moneta prodotta e prestata nasce dal nulla e quindi dovrebbe essere annotata come utile bancario, ossia come nuovo capitale bancario concesso poi in prestito ad interesse! N.D.R)

Ovviamente le banche private emettono moneta al solo scopo di aumentare il profitto degli azionisti: la moneta dunque non è neutra, come crede la maggioranza dell’opinione pubblica, ma deriva dal settore bancario e serve ad arricchirlo.

La Bce “indipendente” emette le banconote, che costituiscono l’unica moneta legale e pubblica:

 ma queste contano solo per il 5% circa del denaro che utilizziamo.

Le banconote e le monetine servono solo per le spese spicciole quotidiane.

Come spiego nel mio libro su Il fallimento della moneta (Fazi editore), le banche commerciali creano dal nulla i depositi bancari (cioè moneta di prima emissione) quando offrono dei prestiti ai clienti [2].

In base al regime attuale, la moneta bancaria viene creata “out of thin air “mediante una semplice operazione contabile:

la banca computa all’attivo la somma che deve essere restituita dal cliente con gli interessi, e al passivo il deposito di uguale importo creato a favore del cliente.

 I depositi bancari sono poi la moneta utilizzata normalmente dalle imprese per pagare i fornitori e i dipendenti, e quella che le famiglie usano per esempio per acquistare una casa, pagare il mutuo o beni durevoli come l’automobile.

Le banche – ovviamente in maniera legittima e in base alle leggi vigenti – emettono moneta (bit) a costi tendenzialmente pari a zero digitando il computer e ne ricavano lauti profitti.

Lo Stato infatti concede alle banche l’enorme potere di creare moneta dal nulla, e soprattutto concede al sistema bancario la possibilità di trasformare la moneta privata in banconote, cioè in moneta legale.

Infatti quando un soggetto riceve un prestito dalla banca può andare al bancomat e ritirare le banconote, che sono l’unica moneta legale (e che sono anche la moneta più sicura perché garantita dallo Stato e, in ultima analisi, dalle tasse pagate dai cittadini e dalle imprese).

Senza un conto bancario non è neppure possibile ricevere banconote di prima emissione: anche la moneta emessa dalla banca centrale dipende dunque dal circuito privato.

Così il regime monetario attuale legittima la privatizzazione della moneta.

Il problema fondamentale è però che, se le banche creano moneta quando fanno credito, allora la moneta è immediatamente debito per la società.

 (La moneta creata dal nulla è immediatamente di proprietà della banca che dovrebbe registrala in attivo bancario in caso di prestito della stessa  ai clienti! N.D.R).

Infatti per definizione ogni credito è anche un debito.

Più moneta bancaria viene emessa più aumenta il debito.

 La moneta poi viene a sua volta prestata e il debito cresce a dismisura per effetto degli interessi composti.

Non a caso il mondo è sommerso dai debiti che sono arrivati complessivamente a oltre il 300% del PIL globale.

La tendenza è strutturale:

il debito cresce molto più del PIL e genera periodiche violente crisi finanziarie. Infatti una economia fondata sulla moneta-debito è destinata alle crisi e al fallimento.

L’unica possibilità di rompere questa spirale è che lo Stato, tramite la monetizzazione del debito pubblico da parte della banca centrale, emetta una moneta pubblica senza debito a favore della società, e non per il profitto di pochi. Una moneta immediatamente spendibile per il benessere della società e gli investimenti pubblici.

Nel “finanzcapitalismo”, come lo chiamava Luciano Gallino, la sovranità monetaria è però in mano al settore privato, e perfino gli Stati – che paradossalmente garantiscono il valore della moneta grazie alle entrate fiscali – devono sottostare al potere della moneta privatizzata e ai mercati[3].

I mercati finanziari disciplinano la spesa pubblica e decretano l’austerità delle nazioni, cioè il fatto che buona parte della spesa sia devoluta a servire i debiti pubblici (in Italia gli interessi sul debito pubblico sono pari ogni anno a circa 70, fino a 100 miliardi; nel nostro paese l’importo degli interessi è pari all’incirca al 4% del PIL, cioè quanto spendiamo per l’istruzione).

Il debito a favore del sistema bancario e finanziario strangola l’economia.

Come sarebbe possibile allora per gli Stati democratici dell’eurozona riprendere in mano pezzi di sovranità monetaria per finanziare gli ingenti investimenti indispensabili per potenziare la sanità, l’istruzione, la ricerca, le infrastrutture e l’edilizia pubblica, per finanziare le energie alternative, pensioni dignitose, la sicurezza dei cittadini e quant’altro?

La prima cosa che un governo davvero riformatore dovrebbe fare è di istituire una grande banca pubblica che acceda ai lauti finanziamenti della Bce e che sottoscriva gli investimenti pubblici che le banche private orientate al profitto di breve termine non amano finanziare, come per esempio quelli delle energie rinnovabili.

Una grande banca pubblica potrebbe innanzitutto garantire e finanziare i mutui delle famiglie e regolamentare il mercato immobiliare;

infatti la speculazione immobiliare è la principale fonte delle crisi finanziarie sistemiche, e anche una delle principali cause dell’inflazione.

Una sinistra degna di questo nome dovrebbe ribadire con forza che senza banche pubbliche di sistema e senza l’emissione di moneta e di credito pubblico è impossibile finanziare uno sviluppo equilibrato e sostenibile.

Una seconda riforma sostanziale a costo zero sarebbe la cancellazione dei debiti pubblici (o di parte di essi) da parte della Bce, come aveva proposto il compianto “David Sassoli” quando era presidente del Parlamento Europeo, e come propongono alcuni dei più autorevoli economisti europei.

Un quarto circa del debito pubblico dei paesi europei è infatti in pancia alla Bce, la quale potrebbe autonomamente cancellarlo almeno in parte senza neppure procurare dei danni ai mercati:

 in tale maniera la Bce offrirebbe ai paesi europei lo spazio fiscale per effettuare gli investimenti pubblici indispensabili per la transizione digitale.

Questo è quanto propongono e auspicano per esempio economisti molto autorevoli e noti, come “Thomas Piketty” e “Gaël Giraud”, l’economista ecologista che più interpreta il pensiero di Papa Francesco sull’ecologia e sul benessere sociale [4].

È stupefacente che i debiti pubblici non vengano cancellati dalla Bce – che potrebbe farlo senza costo alcuno – e che le popolazioni europee debbano trascinarsi inutilmente un peso enorme e inutile che zavorra l’economia e il progresso sociale.

 Il vero problema è che i debiti vengano utilizzati come strumento di potere da parte dei capitali e degli Stati più forti su quelli più deboli.

 Il debito mette il guinzaglio alle nazioni.

Gli Stati democratici dovrebbero allora riprendere l’iniziativa nel campo bancario e monetario:

la moneta e il credito dovrebbero essere orientati al benessere sociale e allo sviluppo, non alla finanza speculativa che prospera grazie a interessi sul debito in continua crescita.

 Il governo Meloni incapace di rilanciare l’economia e di aggiustare i conti pubblici ha penalizzato in maniera improvvisata e una tantum le banche ma non ha minimamente toccato il problema strutturale del sistema bancario.

La sinistra progressista (anche se alleata al globalismo DEM USA) dovrebbe invece cominciare a riflettere in profondità sulla natura privata della moneta e dovrebbe iniziare a proporre riforme strutturali del sistema monetario e finanziario.

 La politica non può lasciare moneta e credito esclusivamente nelle mani della grande finanza globalista.

(Enrico Grazzini)

[1]   Bank of England Quarterly Bulletin 2014 Q1 “Money creation in the modern economy” by Michael McLeay, Amar Radia and Ryland Thomas of the Bank’s Monetary Analysis Directorate.

[2]   Enrico Grazzini  “Il fallimento della moneta. Banche, debito e crisi. Perché bisogna emettere una moneta pubblica libera dal debito” Fazi editore, 2023

[3]   Luciano Gallino. “Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi” Einaudi, 2011

[4]  La proposta di cancellazione del debito degli Stati  in carico alla Bce è stata elaborata da un gruppo di economisti francesi, fra i quali Laurence Scialom e Gaël Giraud, e è stata sottoscritta da oltre 100 colleghi di diversi Paesi: oltre alla Francia, che vanta 50 adesioni fra cui quelle di nomi molto noti come Thomas Piketty, l’Italia, con 21 firme, la Germania, l’Irlanda, il Belgio, la Spagna, il Lussemburgo, la Svizzera, la Svezia, il Portogallo, la Grecia, l’Ungheria e il Regno Unito.

 

 

 

 

MANCANO I SOLDI?

STAMPIAMONE DI PIU'!

Marimoreno.it – Mari Moreno – (5 agosto 2023) ci dice:

 

L’Italia è sempre più povera a causa di un debito pubblico in continuo aumento che comporta un’elevata pressione fiscale.

Una cosa che ho sempre pensato è “Ma perché non stampiamo + soldi”, ma a chi appartengono i soldi quando vengono emessi?

 La Banca Centrale emette denaro per un valore, supponiamo, di mille miliardi.

A chi appartiene la moneta nel momento in cui viene emessa dalla Banca Centrale?

Appartiene alla Banca Centrale stessa, che quindi ha diritto di farsela pagare dallo Stato o allo Stato e quindi al popolo?

Questa è una domanda fondamentale, e dalla risposta che viene data può essere compreso il debito dello Stato.

 La Banca d’Italia (se fosse ancora una banca centrale) cede a caro prezzo denaro che a essa niente costa e a cui non è essa a dare il valore, eppure si comporta come se fosse proprietaria del medesimo denaro, in quanto lo cede allo Stato (e alle banche commerciali) in cambio di titoli di Stato e contro interessate.

Questo è veramente paradossale.

 

È come se il tipografo, incaricato dagli amministratori della società calcistica organizzatrice di una partita di stampare 30.000 biglietti di ingresso per le partite del campionato, col prezzo di € 20 stampato su ogni biglietto, chiedesse come compenso per il suo lavoro di stampa € 600.000, in base al fatto che i biglietti che ha prodotto “valgono” € 20 cadauno.

È vero che essi “valgono” € 20 caduno, ma che essi abbiano un valore non dipende dal tipografo, bensì dall’associazione sportiva che ha formato la squadra, procurato il campo da gioco e organizzato la partita, sostenendo i relativi costi e producendo la domanda di quei biglietti, senza la quali questi niente varrebbero.

 Il potere bancario si comporta come quel tipografo, al momento in cui viene emesso, il denaro, il suo valore, dovrebbe logicamente essere ed essere trattato come proprietà del popolo e per esso dello Stato.

Assolutamente lo Stato non dovrebbe indebitare sé stesso e il popolo verso una Banca Centrale, pubblica o privata che sia, per ottenere denaro.

Al contrario, questo succede su base regolare.

Ma vi è di peggio: la Banca Centrale, cioè i suoi azionisti, oltre ad appropriarsi, a danno dello Stato, del valore del denaro che essa emette, nei suoi propri conti segna questo valore non all’attivo ma al passivo, simulando un debito ed evitando, così, di pagare le tasse su quello che è un puro incremento di capitale e che, come tale, dovrebbe essere interamente tassato.

Ma il denaro non è affatto un debito per la Banca che lo emette.

 Se fosse un debito, dovrebbe poter essere incassato dal portatore presso la Banca medesima, mediante conversione in oro, e il portatore della banconota aveva il diritto di farsela cambiare in oro dalla Banca Centrale che l’aveva emessa, come avveniva una volta, fino al 1929 circa, quando il denaro era convertibile in oro.

Anche in tempi successivi al 1929, molte banconote portavano la scritta “Pagabile a vista al portatore”.

Ma pagabile in che cosa, dato che esse non erano convertibili in oro?

 In realtà, quei biglietti non erano pagabili in alcun modo e quella scritta era una menzogna per ingannare il pubblico e fargli credere che i biglietti di banca fossero convertibili in qualcosa avente valore proprio o che la banca si fosse indebitata per emetterli, il che è falso (mentre era vero in un ormai lontano passato).

 

Oltre a questo mi fa raccapricciare l’idea che circa l’85%, del denaro esistente e circolante al mondo, non è denaro vero, emesso da Banche Centrali, ma denaro creditizio, ossia aperture di credito e disponibilità di spesa create dal nulla dalle banche commerciali, le quali, attraverso questa creazione continua di nuovo denaro creditizio, si impossessano di quote crescenti del potere d’acquisto complessivo della popolazione mondiale.

 

 

 

 

Il denaro creato dal nulla

finanzi il deficit.

Ilmanifesto.it – (17-3-2020) - Luigi Pandolfi – ci dice:

 

BANCHE.

 Non basta più agire solo dal lato del costo del denaro e dare più liquidità alle banche.

Se la gente sta a casa e le fabbriche chiudono non si capisce come i soldi a buon mercato possano incentivare gli investimenti privati.

Lo schema classico non regge più. I soldi ci vogliono, ma devono arrivare direttamente alla vita reale.

Il denaro creato dal nulla finanzi il deficit.

Il coronavirus straripa, l’economia trema.

Tornano in campo le banche centrali e ai numeri del contagio si affiancano quelli dei soldi che vengono «pompati nel sistema».

La Fed annuncia un piano di acquisto di titoli di stato e obbligazioni garantite da mutui ipotecari per un valore di 700 miliardi di dollari, dal Giappone fanno sapere che sono pronti a raddoppiare gli acquisti nel settore azionario. Da seimila a dodicimila miliardi di yen.

Più modeste, per adesso, le intenzioni della Bce, ma pur sempre di centinaia di miliardi di euro si tratta.

A cui si aggiungono le promesse del governo italiano e tedesco di mobilitare rispettivamente 350 e 550 miliardi di euro, confidando sull’effetto leva delle prime risorse stanziate.

I mercati però non si acquietano (Milano tracolla di nuovo, Wall Street non è da meno), crolla pure il prezzo dell’oro, fino a ieri considerato il principe dei beni rifugio (si vende l’oro per coprire le perdite nel mercato azionario) e va a picco quello del petrolio.

Un vero e proprio tsunami.

Ma da dove vengono tutti questi soldi?

La domanda risente di una concezione del denaro che da molto tempo non ha più attinenza con la realtà.

 Se anziché nel 2020 ci trovassimo nel 1600, ai tempi della peste del Manzoni, per aumentare la base del denaro in circolazione avremmo dovuto scavare decine e decine di nuove miniere nel Nuovo Mondo.

Perché all’epoca il denaro era qualcosa di solido (solidus, soldo), coincideva con il metallo nel quale la moneta veniva coniata.

Oggi il denaro è fatto per gran parte di numeri, solo il 3% è costituito dalle banconote e dagli spiccioli che portiamo in tasca, che pure non hanno più alcun ancoraggio ad altri materiali.

Il denaro, nella nostra epoca, si fa da sé, scrivendone, per l’appunto, il numero.

Tanto denaro ma non per tutti.

 Le politiche «non convenzionali» delle banche centrali sono diventate sempre più permanenti. Ma risentono di un limite strutturale. O ideologico, che forse è più corretto.

Non contemplano la possibilità che una parte del denaro creato dal nulla finanzi direttamente la spesa pubblica in deficit.

Gli Stati devono coprire la propria spesa con le tasse dei cittadini. Se la spesa eccede la raccolta fiscale c’è solo il mercato.

Debito, interessi, soldi pubblici che riempiono le tasche dei rentiers della grande finanza globalista.

Quando la Lagarde ha detto che la Bce non può intervenire sugli spread ha espresso un concetto ben codificato nella teoria economica dominante:

 il prezzo del finanziamento degli Stati lo decide il mercato, né gli Stati stessi né l’autorità monetaria.

E i fatti successivi, ovvero lo spread italiano di nuovo sopra i 250 punti nonostante l’acquisto di Btp sul mercato (50 milioni su ciascuna operazione), hanno dimostrato che al di là delle parole, il problema in Europa è sistemico.

Eppure non è stato sempre così.

Prima che vincesse l’ideologia monetarista il rapporto tra governi e autorità monetarie è stato di assoluta complementarietà.

 Anche in Italia è stato così, fino agli anni Ottanta.

Ora è venuto il momento di ritornare su alcuni passi. L’impatto del coronavirus sull’economia sarà molto violento.

 Il freno alla mobilità, sia interna che internazionale, fa crollare la domanda di beni e servizi, mentre l’inceppamento della catena produttiva, da un capo all’altro del pianeta, ne riduce contestualmente l’offerta (in Cina la produzione industriale è crollata del 13,5% nei primi due mesi dell’anno).

Non basta più agire solo dal lato del costo del denaro e dare più liquidità alle banche.

 Se la gente sta a casa e le fabbriche chiudono non si capisce come i soldi a buon mercato possano incentivare gli investimenti privati.

Lo schema classico non regge più.

 I soldi ci vogliono, ma devono arrivare direttamente alla vita reale.

Oggi per fronteggiare l’emergenza, domani per rimettere in sesto un’economia disastrata dalla crisi.

Ma serve la mediazione dello Stato.

La moneta creata dal nulla dalle banche commerciali deve finanziare direttamente i disavanzi di bilancio necessari per affrontare la situazione che si è venuta a creare.

In Europa, questo significa non solo superare il patto di stabilità, ma riformare lo statuto del «sistema» delle banche centrali.

Anche perché l’alternativa potrebbe essere la fine del progetto di integrazione.

 

 

 

 

G20, accordo al ribasso sull’Ucraina.

Ira di Zelensky.

 Business24tv.it - Giulia Guidi – (9 settembre 2023) – ci dice:

 

Nikolenko, portavoce del ministero degli Esteri ucraino ha dichiarato: “Il Gruppo dei 20 non ha nulla di cui essere orgoglioso.”

I leader del G20 salvano l’unità al prezzo di un accordo al ribasso sull’Ucraina (che delude Kiev), tra gli sforzi sulla transizione energetica e la lotta ai cambiamenti climatici che non soddisfano appieno le attese.

 Il premier indiano Narendra Modi evita, con l’appoggio del presidente americano Joe Biden, che il suo summit a New Delhi si concluda per la prima volta senza una dichiarazione finale, incassa l’ingresso a pieno titolo dell’Unione africana nel gruppo dei principali Paesi più industrializzati ed emergenti e fa approvare varie iniziative, tra cui la “Global Biofuel Alliance” per favorire la diffusione dei biocarburanti e la transizione energetica a livello globale.

Lo scoglio principale sul linguaggio da usare, amplificato dalle assenze dei presidenti cinese Xi Jinping e russo Vladimir Putin (su cui pende un mandato d’arresto internazionale per la guerra in Ucraina), è stato risolto con la denuncia “dell’uso della forza” in Ucraina per le conquiste “territoriali” e con l’omissione dell’aggressione della Russia.

“Una formula annacquata rispetto a quella del G20 di Bali di novembre 2022, necessaria per la riuscita del summit e della presidenza indiana”, ha confidato all’ANSA un’autorevole fonte.

 La dichiarazione dei leader, approvata in modo inusuale al primo giorno di vertice, ricorda “la discussione di Bali, dove abbiamo ribadito le nostre posizioni nazionali e le risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite”, entrambe approvate a maggioranza.

 E poi, tutti gli Stati “devono agire in modo coerente con gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite nella sua interezza”, astenendosi “dalla minaccia o dall’uso della forza per perseguire acquisizioni territoriali contro l’integrità territoriale e la sovranità o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”.

G20, il primo giorno della premier Meloni con Li e Modi.

Il G20 richiede la “piena, tempestiva ed efficace attuazione” dell’accordo sul grano, “efficace per garantire consegne immediate e senza ostacoli di grano, prodotti alimentari e fertilizzanti e input agricoli provenienti dalla Russia e dall’Ucraina”.

Nessun riferimento alla rottura di Mosca dell’accordo mediato da Onu e Turchia. Nella dichiarazione finale di Bali, fu usato il termine “guerra” contro il volere di Russia e Cina, con la “condanna da parte della maggioranza dei membri”.

 Forte il contrasto dei toni e forte, come prevedibile, la delusione di Kiev: “L’Ucraina è grata ai partner che hanno cercato di includere una formulazione forte nel testo. Allo stesso tempo, il Gruppo dei 20 non ha nulla di cui essere orgoglioso”, ha notato con amarezza Oleg Nikolenko, portavoce del ministero degli Esteri ucraino.

Sul fronte del clima, I leader del G20 spingono sul fronte della transizione energetica e il cambiamento climatico e si impegnano a sostenere gli sforzi per triplicare la capacità globale di energia rinnovabile entro il 2030.

Mentre mancano gli impegni temporali sull’eliminazione dei combustibili fossili, a dispetto delle indicazioni dell’Onu ad “accelerare gli sforzi verso l’eliminazione graduale dell’energia a carbone”.

G20, Biden annuncia corridoio tra India, Medio Oriente ed Europa.

Un’ombra sulle prossime scadenze, a partire dalla Cop28.

Intanto, Biden mette a segno un colpo contro la “Belt and Road cinese” grazie ad un accordo multinazionale (‘Partnership for global infrastructure and investment and India-Middle East-Europe economic corridor’) sul nuovo progetto di corridoio economico e infrastrutturale per collegare India, Medio Oriente e Europa.

Dopo la firma del memorandum, Biden (che stringe poi la mano al principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, avviando una prova di disgelo) ha detto che si tratta di un “vero grande affare” che collegherà i porti di due continenti e porterà a un “Medio Oriente più stabile, più prospero e integrato”, con “infinite opportunità” per l’energia pulita, l’elettricità pulita e la posa di cavi per collegare le comunità.

Italia Cina al G20, Li a Meloni: “Relazione sana e stabile è interesse comune.

Alla presentazione, a cui è intervenuta anche la premier Giorgia Meloni, Modi ha espresso piena soddisfazione:

“Oggi, mentre ci imbarchiamo in una così grande iniziativa di connettività, stiamo gettando i semi affinché le generazioni future possano sognare in grande”.

 Infine un giallo, segnale delle tensioni Usa-Cina.

Pechino si è opposta all’idea della prevista presidenza G20 americana nel 2026, seguendo una rotazione consolidata:

 i funzionari cinesi hanno dato voce a New Delhi alla loro opposizione, ma il tentativo è fallito.

 

 

 

G20 India, l'annuncio di Modi:

"Raggiunto un accordo sulla

dichiarazione finale congiunta."

Nel passaggio su Kiev non si cita Mosca

Tgcom24 – Redazione – (09 SETTEMBRE 2023) – ci dice:

 

L'Unione Africana diventa membro permanente dell'organizzazione.

 Meloni: "La risposta ai cambiamenti climatici deve riguardare tutti."

In una New Delhi super-blindata, è iniziato il summit G20.

 Aprendo i lavori, il premier indiano Narendra Modi ha detto: "Il mondo soffre di una crisi di fiducia".

Poco dopo ha annunciato che l'Unione Africana ha ufficialmente un posto al G20 come membro permanente.

Lo storico momento è stato salutato dall'applauso dei leader, tra cui il presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni.

 Per il premier "l'inclusione dell'UA in questo gruppo è strategica per rafforzare la nostra capacità di affrontare le sfide globali".

L'Italia destinerà all'Africa oltre il 70% suo Fondo Italiano per il clima:

3 miliardi di euro nei prossimi 5 anni.

Più tardi, aprendo la seconda sessione dei lavori, il primo ministro indiano, ha annunciato che "è stato raggiunto un accordo sulla dichiarazione finale congiunta".

Nel passaggio su Kiev, il G20 ha criticato "l'uso della forza" in Ucraina senza però citare mai Mosca.

Stretta di mano e scambio di battute tra il presidente americano Joe Biden e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman.

 Meloni: "La risposta ai cambiamenti climatici deve riguardare tutti" "Inutile dire che la risposta al cambiamento climatico deve riguardare davvero tutti, altrimenti pensare che possa portare risultati apprezzabili è pura utopia", ha aggiunto Meloni.

"E, al di à degli impegni sul contenimento del riscaldamento in corso, dobbiamo considerare prioritaria l'adozione di tutte le misure utili alla mitigazione delle conseguenze dei cambiamenti climatici, che impattano soprattutto sui Paesi del sud globale".

 Corea del Sud annuncia 300 milioni di dollari al Fondo globale per il clima La Corea del Sud contribuirà con un ulteriore stanziamento da 300 milioni di dollari al Fondo globale per il clima (Gcf) nel quadro del suo impegno contro i cambiamenti climatici.

 Lo ha annunciato nel corso del G20 il presidente Yoon Suk-yeol.

Durante il suo intervento alla sessione di apertura dell'evento, dedicata al tema "Una Terra", Yoon, come riferisce il quotidiano "Korea Times", ha espresso l'intenzione di Seul di sostenere i Paesi più vulnerabili di fronte alla sfida del cambiamento climatico.

L'Unione Africana diventa membro permanente.

 Modi, aprendo la sessione inaugurale dei lavori del G20 di Nuova Delhi, ha invitato Azali Assoumani, capo dell'Unione Africana e presidente delle Comore, a prendere posto come membro permanente del summit.

Assoumani si è quindi seduto tra gli applausi degli altri leader mentre un addetto sistemava sul tavolo il cartellino dell'UA e la bandiera verde dell'organizzazione internazionale.

 La gioia del presidente del Consiglio europeo Michel "Sono felice che sia stata concessa all'Unione africana la piena adesione al G20 - ha quindi scritto poco dopo su X il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel -.

 L'Ue è stata un convinto sostenitore di questa iniziativa e sono lieto di averla sostenuta fin dall'inizio con Macky Sall (ex presidente dell'UA).

Attendo con ansia una stretta collaborazione anche in questa sede".

 Von der Leyen:

 "Il G20 ha molto da guadagnare da una forte voce africana ".

"L'Unione europea e l'Africa stanno collaborando per affrontare le priorità del continente.

 Garantire la sicurezza alimentare, garantire i mezzi per combattere il cambiamento climatico, attrarre investimenti.

Dò il benvenuto all'Unione Africana come nuovo membro a pieno titolo del G20.

 Il G20 ha molto da guadagnare da una forte voce africana", ha scritto su “X” la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, impegnata al summit in corso a Nuova Delhi.

 Trovata intensa sul corridoio economico India-Golfo-Europa.

 È stata trovata l'intesa sul nuovo progetto di corridoio economico e infrastrutturale per collegare India, Medio Oriente e Europa.

Nell'ambito dei lavori del G20, si è svolto - secondo fonti italiane - l'evento 'Partnership for global infrastructure and investment and India-Middle East-Europe economic corridor' allo scopo di valorizzare il lavoro svolto dalla Partnership for Global Infrastructure and Investment, che stanzia risorse per 600 miliardi di dollari.

All'appuntamento è stato firmato il memorandum d'intesa sul progetto che prevede due direttrici sia ferroviarie sia marittime per collegare l'India ai Paesi del Golfo e all'Europa.

 

Il pensiero per le vittime del sisma in Marocco Modi, nel suo intervento, ha anche rivolto un pensiero alla popolazione del Marocco, colpita dal terremoto.

 "Prima di iniziare i lavori del G20 - ha detto - voglio esprimere le mie condoglianze per la perdita di vite umane a causa del terremoto in Marocco.

Preghiamo affinché tutti i feriti si riprendano al più presto.

L'India è pronta a offrire tutta l'assistenza possibile al Marocco in questa difficile situazione".

 Meloni vede Li:

partenariato strategico faro per Italia-Cina "Forti entrambe di una storia millenaria, Italia e Cina condividono un Partenariato Strategico Globale di cui il prossimo anno ricorrerà il ventesimo anniversario e che costituirà il faro per l'avanzamento dell'amicizia e della collaborazione tra le due Nazioni in ogni settore di comune interesse".

 Lo ha riferito in una nota di Palazzo Chigi dopo l'incontro fra il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il primo ministro della Repubblica Popolare Cinese, Li Qiang, avvenuto a margine dei lavori del G20.

Li a Meloni:

"Relazione sana è interesse di Cina e Italia".

 Una relazione sana e stabile tra Cina e Italia "è in linea con gli interessi comuni di entrambi i Paesi ed è necessaria per un migliore sviluppo di entrambi".

 È quanto ha detto il premier Li Qiang nell'incontro con Giorgia Meloni a margine del G20 di New Delhi, secondo quanto riportato dall'ambasciatore cinese a Roma, Jia Guide, su X.

"Si spera che l'Italia fornisca un ambiente imprenditoriale equo, giusto e non discriminatorio affinché le aziende cinesi possano investire e svilupparsi in Italia. La Cina continuerà a espandere l'accesso al mercato per creare maggiori opportunità per i prodotti di qualità di entrare nel mercato".

 G20 condanna uso della forza in Ucraina, ma non cita Mosca Nel testo della dichiarazione finale, il G20 condanna "l'uso della forza" in Ucraina per conquiste "territoriali" senza però mai menzionare in forma esplicita l'aggressione della Russia.

Per altro verso, i leader denunciano che le "crisi a cascata" rappresentano una minaccia per la crescita globale a lungo termine.

 "Chiediamo la piena attuazione dell'accordo sul grano".

 Il G20, inoltre, richiede la "piena, tempestiva ed efficace attuazione" dell'accordo sul grano, "efficace per garantire consegne immediate e senza ostacoli di grano, prodotti alimentari e fertilizzanti e input agricoli provenienti dalla Federazione Russa e dall'Ucraina.

 Questo è necessario per soddisfare la domanda nei Paesi in via di sviluppo e meno sviluppati, in particolare quelli africani".

 "Basta attacchi a infrastrutture alimentari ed energia".

 In un paragrafo successivo a quello in cui si chiede la piena attuazione dell'accordo sul grano, si legge ancora:

"Enfatizzando l'importanza di sostenere la sicurezza alimentare ed energetica, noi abbiamo chiesto la cessazione della distruzione militare o di altri attacchi a infrastrutture rilevanti.

Abbiamo anche espresso profonda preoccupazione per l'impatto negativo che i conflitti hanno sulla sicurezza dei civili, esacerbando così le fragilità e le vulnerabilità socioeconomiche esistenti e ostacolando una risposta umanitaria efficace".

 "Impegno a triplicare energie rinnovabili entro 2030".

 I leader del G20 spingono sul fronte della transizione energetica e il cambiamento climatico e si impegnano a sostenere gli sforzi per triplicare la capacità globale di energia rinnovabile entro il 2030.

Il gruppo delle principali economie sviluppate ed emergenti "perseguirà e incoraggerà gli sforzi per triplicare la capacità di energia rinnovabile.

Ci impegniamo ad accelerare urgentemente le nostre azioni per affrontare le crisi ambientali e le sfide, compreso il cambiamento climatico".

 "Nessun impegno sullo stop ai combustibili fossili."

 I leader del G20 a sorpresa non menzionano impegni temporali sull'eliminazione dei combustibili fossili.

A dispetto dei molteplici segnali negativi sulla crisi climatica, i leader hanno affermato di riconoscere l'importanza di "accelerare gli sforzi verso l'eliminazione graduale dell'energia a carbone".

L'assenza di impegni definiti stona anche considerando che il documento dei leader è maturato all'indomani del rapporto dell'Onu che ha rimarcato come l'eliminazione graduale dei combustibili fossili sia "indispensabile" per lo zero netto delle emissioni.

 "Aumentare sostanzialmente gli investimenti per il clima."

Nella dichiarazione finale dei leader, approvata nel primo dei due giorni di lavori, affermano:

"Riconosciamo la necessità di maggiori investimenti globali per raggiungere i nostri obiettivi climatici dell'accordo di Parigi, di aumentare rapidamente e sostanzialmente gli investimenti e la finanza climatica da miliardi a trilioni di dollari a livello globale da tutte le fonti".

IL DEBITO PUBBLICO MONDIALE:

72 TRILIONI DI CREDITI FISCALI!

STORIA DI UN TRADIMENTO.

Comedonchisciotte.org - Megas Alexandros – (11 Settembre 2023) – ci dice: 

 

Ormai mi conoscete, e se c’è qualcosa che non sopporto finanche a diventare prepotente, quel qualcosa sono le falsità.

 Soprattutto se in conseguenza di tali falsità ho davanti a me la sofferenza della maggioranza dei cittadini e delle famiglie che appartengono alla mia Patria.

Forse perché l’ho vissuta personalmente, toccando con mano l’agire delinquenziale dei nostri rappresentanti politici o forse perché la questione, ai miei occhi appare così talmente colossale, che non me ne vogliate se ancora torno sulla questione dei crediti fiscali.

Lo sforzo ed il dispendio di energie che da tempo metto sulla questione, va nettamente oltre a quello che può apparire come uno sfogo personale, anzi vorrei che tutti voi comprendeste a pieno come sul tema blocco dei crediti fiscali si sia consumato l’ennesimo tradimento verso i propri elettori da parte di una precisa parte politica e verso tutto il popolo italiano riguardo a quello che è un principio fondamentale sancito dalla nostra Costituzione, ovvero la sovranità monetaria.

Ripercorrendo la vicenda, alla luce dei sacri principi sanciti della nostra Carta Costituzionale, si arriva chiaramente a certificare senza più nessuna ombra di dubbio, anche, come la nostra democrazia si sia trasformata a tutti gli effetti in una oligarchia.

 Attestando come ogni nostro governo non risponda più al popolo ma, bensì a poteri profondi che agiscono secondo logiche di fratellanza e niente hanno a che fare con lo stato di diritto e le fondamenta democratiche della nostra Repubblica.

Sulla totale diacronia nell’agire, di una qualsiasi parte politica che pascola nel belpaese – tra quando si trova all’opposizione e quando ricopre ruoli di governo – abbiamo scritto paginate intere e tante altre ne potremmo scrivere.

La Lega, il PD, il M5S, il Renzi rottamatore e chi più ne ha più ne metta – nel loro agire, dal passaggio dai banchi dell’opposizione alle poltrone di governo – hanno tutti indistintamente e nei più svariati argomenti, mostrato ai loro elettori e non, quanto siano totalmente affetti da quello che in medicina viene definito come disturbo dissociativo dell’identità (Dissociative Identity Disorder [DID]).

Una grave malattia della psiche umana, che pare proprio avere caratteristiche pandemiche proprio nella nostra classe politica, che mostra in pieno i suoi sintomi diagnostici, caratterizzata da almeno la presenza di due personalità (nonché multipla) all’interno dell’individuo, che prendano costantemente il controllo del suo comportamento con una perdita di memoria, andando oltre la solita dimenticanza.

 

Insomma, al di là delle multi-testimonianze rappresentate dai video satirici che girano in rete, dove si evidenzia in modo palese la diacronia tra le dichiarazioni di ieri e quelle di oggi, dei vari Di Maio, Renzi, Meloni, Salvini, ecc.;

anche su temi che all’apparenza possono sembrare di minor importanza – l’esempio di cambio di direzione più importante per quello che riguarda le vite di tutti noi italiani è:

 il No-Euro pronunciato in campagna elettorale, divenuto poi per tutti i partiti, totale asservimento all’euro stesso e alle sue regole, non appena messo piede dentro Palazzo Chigi.

 

Anche Fratelli d’Italia e la sua leader oggi al comando della Nazione – dopo aver vinto le ultime elezioni, grazie all’abbandono da parte di chi non ha votato (visto l’altissimo astensionismo) e per la mancanza di alternative (tutti gli altri partiti avevano già tradito) per chi ha avuto lo stomaco di presentarsi ai seggi – ad oggi non sono riusciti a smentire il noto proverbio: l’eccezione conferma la regola!

Preme ricordare ancora una volta che, sul tema crediti fiscali, quando Fratelli d’Italia era all’opposizione, si rese primo attore nel presentare un dettagliatissimo disegno di legge, con il chiaro e motivato intento di usare tale strumento per finanziare le più svariate spese a partire dalle misure per l’occupazione, integrazione ai redditi più bassi ed alle famiglie.

Chi vi scrive si fece anche promotore di un incontro sul tema, tra l’allora paladino della” cd moneta fiscale” “Senatore de Bertoldi”e l’economista americano “Warren Mosler”, incontro culminato con il noto comunicato stampa del partito, già da me documentato a suo tempo, dove c’era piena convergenza fra i due sulla natura non debitoria dei crediti fiscali e sul loro utilizzo per risolvere l’impellente problema occupazionale nel paese e poter gettare le basi per una vera e reale ripresa economica, non appena Fratelli d’Italia, come previsto, avesse assunto l’incarico di governare.

Per chi volesse ripercorre la storia e toccare con mano la veridicità di quanto affermo, nelle note a piede di articolo riporto i contributi pubblicati nei mesi passati, con tutte le fonti a supporto.

Questo perché è giusto che gli italiani debbano sapere, ed essere informati, su quello che è uno dei tradimenti, i più grandi della storia repubblicana, messo in piedi da una classe politica;

oltre ad essere, come già sottolineato, una prova inconfutabile di come le decisioni dei governi siano prese, in modo del tutto sovversivo, al di fuori delle istituzioni democratiche.

Dunque, è sufficiente ripercorrere l’iter dei disegni di legge e leggere i testi, oltre ai comunicati stampa a firma del partito e del “Senatore Andrea de Bertoldi” (firmatario insieme a Urso e la Rauti dei disegni di legge stessi), per comprendere come l’utilizzo dello strumento dei crediti fiscali fosse – in modo del tutto cosciente e giusto [ndr] – ritenuto dal partito elemento indispensabile per far ricuperare al governo italiano, quella capacità di spendere, persa all’interno delle regole dell’euro imposte dall’alto.

I tre esponenti di Fratelli d’Italia firmatari del disegno di legge, visto quanto accaduto e sta accadendo in questi giorni, con le note polemiche sui buchi del Superbonus lanciate dal loro partito alle prese con la legge di bilancio, non sono, come sarebbe logico immaginare, esiliati sulla riva del fiume a pescare:

uno il “Senatore de Bertoldi” è comodamente seduto sulle poltrone del Senato, oltre ad essere membro della commissione finanze;

 l’altro, il “deputato Adolfo Urso” è addirittura ministro delle imprese e del Made in Italy e poi abbiamo la senatrice” Isabella Rauti” (figlia del noto Pino), Sottosegretario di Stato al Ministero della difesa.

Tutti e tre, di fronte al disconoscimento totale ed immediato dello strumento dei crediti fiscali da parte del governo presieduto dal loro leader di partito Giorgia Meloni, non hanno proferito parola, né provato la minima vergogna nel cambiare maschera e contraddire sé stessi ed i disegni di legge che con forza avevano sostenuto fino a pochi giorni prima.

Il blocco alla trasferibilità dei crediti fiscali è stato uno dei primi provvedimenti che la Meloni ha preso non appena giunta a Palazzo Chigi, sulla scia – e su ordine – del suo predecessore e mentore Mario Draghi.

Un voltafaccia che definire clamoroso è estremamente riduttivo e che non può che certificare che tale decisione sia stata presa da teste pensanti che sono fuori dalle stanze dall’esecutivo.

 A maggior ragione, visto che trattasi del tema da sempre più caro per quei poteri che vogliono prevalere sulle istituzioni, ossia la moneta e la sua sovranità.

C’è ancora qualcuno che ha dubbi sul fatto che le decisioni dei governi non vengano prese da chi viene eletto dal popolo ma dai poteri profondi che si sono impossessati delle nostre istituzioni, compresa la Ue?

Se qualcuno di Voi ancora nutre dubbi, prima di alzare la mano, consiglio vivamente di leggersi tutta la mia rassegna stampa sulla vicenda (che riporto nelle note)!

Sentite un po’ cosa pensa oggi dei crediti fiscali il “Senatore Andrea de Bertoldi”, in una intervista rilasciata al quotidiano online “L’identità”:

Il quotidiano online L’identità intervista il Senatore di Fdi Andrea de Bertoldi, sul tema crediti fiscali, alla luce delle polemiche dei giorni scorsi.

 Addirittura, il Senatore de Bertoldi, l’uomo i cui disegni di legge prevedevano un uso massiccio e prolungato dello strumento dei crediti fiscali, in questa intervista critica l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi per averne prorogato l’uso all’interno della misura di spesa del Superbonus.

 Azione che, secondo lui e gli esponenti del suo governo, avrebbe aggravato i conti di finanza pubblica.

Ma, se i suoi disegni di legge erano pieni di simulazioni e verifiche accertate su come, agendo sul moltiplicatore, la spesa effettuata con i crediti fiscali, non solo si sarebbe ripagata da sola negli anni, ma avrebbe contribuito anche ad una forte espansione del prodotto interno lordo e di conseguenza delle entrate fiscali per il Tesoro!!

Queste che vedete sopra erano le dichiarazioni del Senatore de Bertoldi, due anni e mezzo fa, quando era seduto ai banchi dell’opposizione e sosteneva con forza l’utilizzo dei crediti fiscali in commissione finanze:

«Speriamo che il superbonus 110% non sia lo specchietto delle allodole di un provvedimento di alto impatto mediatico, e certamente utile alla ripresa economica del paese, ma che la maggioranza non avrebbe la reale intenzione di far decollare, come dimostrano le liti interne in merito alla utilizzabilità dei crediti di imposta ed alla durata della misura stessa»

«Mi auguro quindi che il governo dimostri la tanto proclamata volontà di collaborazione con le forze parlamentari, iniziando ad ascoltare ed a seguire i suggerimenti che la Commissione bicamerale di vigilanza sull’anagrafe tributaria sta fornendo con la relazione, che è stata unitariamente condivisa dai commissari di tutte le forze politiche».

«Ho espresso, quale capogruppo di Fratelli d’Italia, la necessità di una forte semplificazione della normativa, che risulta oltremodo complessa e spesso di dubbia interpretazione, nonché la proroga dei termini almeno fino alla fine del 2023».

Dall’opposizione si invocava l’allora governo ad un uso massiccio dei crediti fiscali e che il Superbonus non fosse solo una misura di facciata per un vantaggio lobbistico immediato per pochi. Addirittura, in netto contrasto con quanto dichiarato pochi giorni fa (“Superbonus, la responsabilità non è solo di Conte che l’ha istituito, ma anche di Conte e Draghi che l’hanno prorogato”) – ne richiedeva la proroga dei termini almeno fino alla fine del 2023.

 

Il disturbo dissociativo di identità, ahinoi, non colpisce però solo la classe politica ma anche tutto quel sottobosco composto da blog, blogger, commentatori con funzione di gate keeper, ecc. – tutta gente ed organizzazioni legate a doppio filo ad alcune parti politiche che hanno il preciso compito di inquinare acque, pozzi e menti fragili per far apparire nuovamente pura e vergine l’immagine del politico di turno che ha sballato.

Tra i tanti estremi tentativi letti nei giorni scorsi, per cercare di far apparire vino un bicchiere d’acqua – ovvero far credere che i crediti fiscali non siano moneta creata dallo Stato – ne ho ascoltato uno, che in fatto di intrepida prodezza saltando nel vuoto senza ali e paracadute, li batte tutti.

Dice il commentatore gate keeper, supporter della Meloni: “Se il credito fiscale, come dice Megas, è la moneta che usiamo e si crea senza debito, come mai nel mondo non lo usa NESSUNO?”

È incredibile non si riesca a vedere un fungo porcino nel proprio piatto!

Se la moneta è per definizione un credito fiscale, dimostrato dal fatto che lo Stato ti promette di accettare le banconote che hai in tasca ed i numeri sul tuo conto in cambio del pagamento delle tasse e niente più, come si fa a dire che nel mondo nessuno usa i crediti fiscali?

Al contrario dovremmo dire che tutti i paesi del mondo usano i crediti fiscali!

Anzi, per essere ancora più chiari, tutta la moneta in circolazione nel mondo è rappresentata da un credito fiscale, tanto che potremmo dire che tutto l’ammontare dei 72 trilioni (euro più dollaro meno), rappresentativi del debito pubblico del pianeta, sono di fatto tutti crediti fiscali.

(Fabio Bonciani)

 

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