La scienza si è trasformata nella narrativa dominante fatta di falsità.
La scienza si è trasformata nella narrativa dominante fatta di falsità.
cui si
rifiuta la scienza.
Ilbolive.unipd.it - Anna Cortelazzo – (13 agosto
2022) – ci dice:
I
campi in cui può manifestarsi un atteggiamento antiscientifico sono moltissimi:
alcuni pensano che il Covid19 sia un'influenza (solo il 61% degli americani
crede che ci sia un grave rischio per la salute pubblica), altri che in Ucraina
non ci sia la guerra, e altri ancora ritengono che il cambiamento climatico sia una
bufala (il
60% degli americani non crede sia una grande minaccia).
La
pericolosità di queste credenze, sia a livello personale che sociale, ha spinto
a chiedersi come mai alcune persone abbiano la tendenza a rifiutare qualsiasi
prova loro fornita:
comprenderlo è utile anche per poter proporre
delle soluzioni possibili per avvicinarle alla scienza.
Da qui
è nata un'articolata analisi pubblicata su “Pnas” che mette in luce alcune dinamiche
interessanti partendo da dati e modelli esplorati dalla psicologia e che rileva
gli elementi comuni che si riscontrano nelle persone ostili alla scienza.
È
interessante notare, anche se il lavoro non lo esplicita, che i motivi per cui si rifiuta la
scienza si possono ricollegare a tutti quei principi che generano il meccanismo
di persuasione e che sono stati teorizzati da “Robert Cialdini” nel suo “Le
armi della persuasione”.
Come e
perché si finisce col dire sì del “1984”:
gli autori, infatti, hanno individuato quattro ragioni per cui le persone
possono non credere nella scienza e hanno proposto delle soluzioni che vanno ad agire
soprattutto sulla comunicazione del messaggio.
La
prima ragione riguarda il mittente del messaggio scientifico (principio di autorità di
Cialdini), che viene percepito come poco affidabile per tre possibili ragioni:
può essere considerato inesperto, disonesto o
poco imparziale e vittima di “bias” cognitivi.
Può succedere per varie ragioni:
gli
scienziati disonesti esistono, e purtroppo alcuni estendono questa
caratteristica all'intera categoria;
l'intero
processo scientifico, poi, procede per prove ed errori, le informazioni fornite
dai diversi attori in gioco sono talvolta in contraddizione e vengono poi
aggiornate a seconda delle nuove evidenze.
È
giusto che sia così, ma chi non è avvezzo al metodo scientifico rischia di
considerare l'intero processo, e quindi anche gli scienziati, poco affidabili.
Per
finire, lo stereotipo dominante vede gli uomini di scienza come atei.
Vero o
no, basta ad attirargli l'odio di una parte politica e di alcune congregazioni,
che hanno maggiori possibilità, rispetto agli scienziati, di influenzare idee e
opinioni dei credenti.
In
questi ambienti, ma anche in altri, viene fatta passare l'idea che gli esperti
siano incentivati, per esempio tramite corruzione, a passare determinate
informazioni (è quello che si è verificato anche con i vaccini contro il Covid).
La
seconda ragione per i comportamenti antiscientifici riguarda i destinatari del messaggio
dei divulgatori.
Le
persone tendono a pensare a sé stesse come componenti di determinati gruppi, e
sulla base di questa appartenenza sono esposte a un certo tipo di informazioni (principio della riprova sociale di
Cialdini).
In particolare, chi appartiene a un gruppo
sottorappresentato nella scienza (per esempio le minoranze etniche) tende a manifestare una naturale
diffidenza verso essa, dando ascolto alle notizie che la presentano come poco
affidabile o peggio ancora truffaldina.
Inoltre le persone tendono a rifiutare tutte quelle
informazioni scientifiche incompatibile con la loro appartenenza (un gruppo di “gamer”, per esempio,
tenderà a rifiutare gli studi che identificano i videogame come dannosi).
Questi
gruppi, tra l'altro, spesso non si considerano antiscientifici, ma anzi pensano
di promuovere una scienza diversa da quella del mainstream.
La naturale conseguenza, in questi casi, è la
polarizzazione del dibattito, che non porta benefici a nessuna delle due parti.
La
terza ragione riguarda il messaggio scientifico di per sé, che diventa irricevibile se
va a contraddire le forti credenze delle persone, che sono disposte a fare di
tutto per evitare la dissonanza cognitiva che causerebbe l'accettazione della
nuova scoperta (principio di coerenza di Cialdini):
è più
facile negare qualcosa che smantellare un intero sistema di credenze mettendone
in dubbio anche solo una.
È ciò che è successo a tutte quelle persone
che hanno rifiutato il “sistema eliocentrico”, ma anche ai fumatori che per non
rinunciare alla loro abitudine mettono in dubbio gli studi che rilevano i danni
che il loro vizio può causare.
È
quello che accade anche con le “fake news”, che si diffondono molto più
velocemente di quelle vere perché fanno più rumore.
Se il
gruppo a cui sentiamo di appartenere condivide una notizia, tendiamo a fidarci
e a negare le prove contrarie (qui interviene anche il” bias” di conferma, che spinge a
cercare e accettare solo le prove che confermano ciò che già pensiamo).
Lo
stesso accade se le ricerche scientifiche vanno a ledere i nostri valori:
per
questo motivo, una persona che si ritiene ambientalista ma che non vuole
rinunciare all'aria condizionata tenderà a rifiutare l'idea che il cambiamento
climatico è causato dall'uomo, perché questo gli permette di non rinunciare
agli agi ma nemmeno all'ideale di rispettare l'ambiente.
La
quarta ragione, per
finire, è il disallineamento cognitivo tra il mittente e il destinatario del
messaggio, per esempio quando il primo parla in termini troppo astratti, oppure
quando utilizza un linguaggio tecnico non alla portata dell'interlocutore (principio di simpatia di Cialdini).
In alcuni casi si verifica anche un paradosso:
più
l'informazione è accurata e scientificamente verificata, più l'interlocutore si
allontana, accordando la sua preferenza a un'informazione errata ma più
semplice da comprendere.
A
seconda delle ragioni che determinano la scarsa fiducia nel sapere scientifico,
possiamo apportare dei correttivi, che naturalmente non sono universali, ma che
gli autori dell'articolo hanno indicato come un punto di partenza.
Se le persone ritengono i divulgatori poco
affidabili, è necessario che essi riescano a presentarsi come più autorevoli,
anche ripetendo come funziona il dibattito scientifico, in modo che gli
interlocutori possano comprendere che le opinioni discordanti non sono un
problema per la scienza e che anzi, entro certi limiti, sono auspicabili.
Gli scienziati dovrebbero inoltre essere
affiancati da giornalisti, rappresentanti dei vari enti, da politici e
personaggi pubblici, che hanno un filo più diretto con le persone, perché non
gli si riconosce quella patina di freddezza che a volte viene attribuita alle
persone di scienza.
Per
avvicinarsi al pubblico, i divulgatori dovrebbero inoltre sforzarsi di utilizzare un
linguaggio semplice (è stato proposto di affiancare un riassunto per non
addetti ai lavori agli abstract delle ricerche).
In
generale, bisognerebbe mettersi nei panni degli interlocutori, ammettendo
onestamente le criticità e i problemi che un risultato porta con sé, per poi
ribadire le motivazioni della sua validità.
Se il
divulgatore si trova invece di fronte a un ascoltatore che si identifica in un
gruppo che ha una visione opposta alla sua, potrebbe provare a portare alla
luce elementi comuni tra lui e questo gruppo per ridurre la polarizzazione del
dibattito.
Allo
stesso modo, è utile mettere in evidenza gli obiettivi che possono essere
condivisi con il gruppo esterno, che può diventare più collaborativo in nome di
un ideale superiore.
Il
terzo caso è molto delicato:
bisognerebbe
prevenire la formazione di un sistema di credenze sbagliate che assecondano i
principi o i vizi delle persone ma, anche se c'è ancora un dibattito su questo
punto, sembrerebbe che aumentare la conoscenza degli argomenti specifici si
riveli un autogol.
Siccome
bisogna agire sulla prevenzione, la proposta degli autori è invece quella di
educare al senso critico e al metodo scientifico.
Quando
però è troppo tardi, si può provare a recuperare in extremis, per esempio
identificando l'ideale che l'ascoltatore persegue e riformulando il messaggio
per assecondarlo (per esempio, la lotta al cambiamento climatico è stata presentata come una
forma di lealtà nei confronti del proprio paese, e parte dei conservatori ha
risposto positivamente.
Nel
caso dei democratici, invece, il messaggio ha funzionato meglio quando veniva
messo l'accento sulla difesa delle persone più deboli e svantaggiate, che sono
le prime vittime del “climate warming”).
Nel
quarto caso,
infine, a parole è tutto molto semplice:
bisogna
abbinare il proprio stile comunicativo ed epistemico a quello
dell'interlocutore.
Nella
pratica non è una cosa immediata, ma si può procedere partendo dai dati per
fare un'analisi del target analoga a quella dei pubblicitari, che da sempre
hanno cercato di adattare un messaggio al segmento sociale a cui si rivolgevano.
Per
esempio, la maggior parte delle persone è più spaventata dal rischio di una
perdita che stimolata dalla possibilità di un guadagno, ma ci sono delle
eccezioni.
È evidente che a questi due gruppi dovrebbero arrivare dei messaggi diversi.
Si
possono attuare molte iniziative, per esempio quelle che prevedono il
coinvolgimento dei gruppi precedentemente emarginati dalla scienza, ma il punto
di partenza è sempre uno:
mettere in gioco la propria empatia, perché
spesso chi manifesta opinioni antiscientifiche non è un nemico, ma solo
qualcuno che, come chi fa ricerca, sta cercando la verità, in questo caso
partendo purtroppo da assunti errati.
Uno
sguardo alla transizione
energetica
in Cina e in India.
Ilbolive.unipd.it - Francesco Suman – (10
luglio 2023) – ci dice:
Narendra Modi e Xi Jinping.
Il
primo ministro indiano Narendra Modi e il presidente cinese Xi Jinping al
meeting dei BRICS del 2017.
A fine
2022 nel mondo era installata una capacità di generazione di energia elettrica
da fonti rinnovabili pari a 3.372 GW.
Secondo” IRENA,” l’”Agenzia internazionale per
l’energia rinnovabile”, il 48% di questa potenza era operativa in Asia (1.630
GW), la gran parte della quale, tra solare, eolico, idroelettrico e altre fonti
minori per un totale di 1.160 GW, nella sola Cina.
Qui l’idroelettrico da solo aveva una capacità
installata di 367 GW, l’eolico di 365 GW, il solare di 392 GW.
La
transizione energetica sarà però incentrata su due fonti rinnovabili in
particolare, il solare e l’eolico, che nello scenario “Net Zero by 2050” della”
IEA”, l’”Agenzia internazionale dell’energia”, da soli copriranno a metà secolo
il 70% della produzione elettrica di un mondo che avrà puntato massicciamente
sull’elettrificazione dei consumi, abbandonando quasi del tutto i combustibili
fossili.
Questo
accadrà perché solare ed eolico, come ribadito anche dall’”IPCC”, il “gruppo
intergovernativo sui cambiamenti climatici”, sono le due tecnologie in grado di
abbattere più emissioni a costi minori.
(L’IPCC
ritiene che la CO2 voli in alto nei cieli pur essendo più pesante
dell’atmosfera! N.D.R.)
La
Cina pertanto si è data l’obiettivo di raddoppiare la propria capacità
installata di solare ed eolico e arrivare entro il 2030 a 1.200 GW.
Ora un
rapporto di “Global Energy Monitor”, rivela che quell’obiettivo sarà raggiunto
con 5 anni di anticipo, nel 2025.
La
maggior parte delle nuove installazioni di solare utility-scale (cioè di scala
industriale) per circa 379 GW e di eolico (onshore e offshore) per 371 GW sono
infatti previste dal 14esimo piano quinquennale approvato dal governo cinese e
valido dal 2021 al 2025.
(È
facile per la Cina “sfondare” con il solare e con l’eolico, in quanto così può “asfaltare”
per sempre la capacità industriale del mondo occidentale! N.D.R.)
Se confrontata
a Europa e Stati Uniti, la Cina surclassa i suoi competitor:
i 228 GW di solare utility-scale già oggi
operativi in Cina sono più di tutti quelli installati nel resto del mondo (per
la stessa categoria), mentre l’eolico offshore cinese, che rappresenta da solo
un decimo di tutto l’eolico disponibile nel Paese, è con i suoi 31 GW più di
tutto l’eolico offshore presente nei Paesi europei.
Anche
sul fronte degli investimenti la Cina la fa da padrone.
Nel 2022, secondo “BloombergNEF”, nel mondo
sono stati investiti 495 miliardi di dollari in rinnovabili e la Cina da sola
si prendeva il 55% della torta:
per il
solare aveva allocato 164 miliardi di dollari e per l’eolico 109 miliardi, più
di quanto hanno investito insieme Europa e Stati Uniti.
Un
altro obiettivo fissato da Xi Jinping a dicembre 2020 era quello di arrivare al
25% di energia primaria non fossile entro il 2030.
Nella
stessa data la Cina prevede anche di raggiungere il picco delle emissioni di
CO2 (l’Europa vorrebbe arrivarci entro il 2025) per poi ridurle
progressivamente fino al traguardo della neutralità climatica del 2060
(l’Europa ha fissato il suo al 2050).
(Gli
scienziati cinesi sanno che la CO2 è una tigre di carta per la Cina e per il
mondo. E non diranno mai che la CO2 è più pesante dell’aria! N.D.R.)
Come
si sa, Pechino domina anche il mercato delle auto elettriche, della lavorazione
dei minerali critici e della produzione di componenti tecnologiche fondamentali
come i pannelli fotovoltaici.
Ciononostante,
arrivare a un quarto dell’energia complessiva (non solo elettrica) prodotta da
fonti a basse emissioni non è un compito banale, visto che solo nel 2020,
secondo i dati dell’IEA, solare, eolico, idroelettrico, nucleare e bioenergie
superavano di poco il 10% del paniere cinese.
Quasi
il 60% dell’energia che alimentava la Cina proveniva infatti dal carbone, circa
il 20% dal petrolio e quasi il 10% dal gas naturale.
(Cina
energy mix 2020.
Energy
mix della Cina fino al 2020, IEA.)
Pechino
guida certamente la corsa a una transizione energetica basata sulle
rinnovabili, ma resta al momento anche la più alta interprete di un modello di
sviluppo economico basato sui combustibili fossili, dato che consuma da sola
metà del carbone
(il
più inquinante tra gli idrocarburi) bruciato ogni anno nel mondo ed è in cima
alla classifica delle emissioni climalteranti globali, con circa 11,5 miliardi
di tonnellate (Gt) di “CO2 equivalente” prodotti nel 2021, più di un quarto delle emissioni
annuali prodotte dal consumo di combustibili fossili e dal settore industriale
nel mondo (il totale è poco meno di 40 Gt).
(“CO2
equivalente” vuol dire che la CO2 non può volare nei cieli in alto; ma può solo
“strisciare” sulla terra, sugli alberi e sul mare! N.D.R.)
A
inizio 2023, da gennaio a marzo, il governo di Xi Jinping ha dato il via libera
a nuove centrali elettriche a carbone per un totale di circa 20 GW, due volte e
mezzo più di quanto fatto nello stesso periodo l’anno precedente (8,6 GW) e più
di quanto approvato nel corso di tutto il 2021 (18 GW).
Questo
significa che per soddisfare la crescente domanda di energia del Paese,
l’aggiunta, per quanto impressionante, di risorse rinnovabili non basta.
(“La
Cina sa “che le fonti di energia dai fossili Petrolio, Gas, Carbone non
potranno mai essere sostituite dalle fonti rinnovabili eolico e solare! N.D.R.)
Nella
Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (UNFCC)
firmata nel 1992 la Cina figurava tra Paesi in via di sviluppo:
in
quanto tale rivendica il diritto di accesso a quelle risorse emissive e
inquinanti che hanno permesso per decenni e secoli la prosperità economica ai
Paesi occidentali.
Trent’anni
dopo però la Cina è diventata la seconda economia mondiale e la sua ambigua
permanenza in quella lista è stata fonte di scontro con i Paesi
industrializzati alle ultime Conferenze sul clima.
Un
discorso analogo vale per l’India, che al momento della stesura del testo
finale della” Cop26 di Glasgow” si impose (ma anche gli Stati Uniti erano
d’accordo) per rifiutare la dicitura di eliminazione (phase out) del carbone,
spingendo per un più morbido termine come riduzione graduale (phase down).
Se si
guardano alle emissioni storicamente prodotte dai singoli Paesi dalla
rivoluzione industriale in avanti infatti l’India risulta responsabile solo del
3% di quelle accumulate in atmosfera, gli Stati Uniti del 25%, l’Europa del
22%, la Cina di quasi il 13% ma la maggior parte di queste si sono condensate
negli ultimi 30 anni.
(Ma la
Co2, come tutti gi scienziati del clima sanno, essendo più pesante dell’aria
atmosferica non potrà mai cambiare il suo status di “NON GAS SERRA! N.D.R.)
(Cop26 di Glasgow: le parole sono
importanti ma non sufficienti)
L’India
ha ormai superato la Cina per numero di abitanti ed è terza nella classifica
dei Paesi che emettono di più in un anno, dietro Cina e Stati Uniti, appaiata
all’Unione Europea.
Se si
guarda alle emissioni pro capite tuttavia un indiano emette 2 tonnellate di “CO2
equivalente” ogni anno, mentre la media mondiale è intorno alle 7 tonnellate,
che è anche quanto emette in media un europeo.
Un cinese invece ne emette 10, uno
statunitense quasi 15.
(La
CO2 prodotta dall’uomo, essendo più pesante dell’aria, non potrà mai sostituire
i veri gas serra! N.D.R.)
Anche
l’India sta investendo massicciamente sulle rinnovabili.
Sebbene
i suoi numeri non siano paragonabili a quelli cinesi, lo sforzo è tale che si
parla di “leapfrog”, un salto in avanti nella “decarbonizzazione” del suo
sistema energetico ed emissivo.
Tuttavia, nel 2020 anche l’India era
dipendente per oltre il 40% della sua produzione energetica dal carbone (da cui
deriva il 70% dell’energia elettrica), per 20% dal petrolio e per circa 10% dal
gas naturale.
(“Decarbonizzazione”
vorrebbe dire togliere il carbone come fonte energetica. E questo non avverrà
mai! Tutti lo sanno ma nessuno lo ammetterà mai! N.D.R).
Il primo ministro Narendra Modi ha fissato
l’obiettivo di produrre metà dell’energia elettrica indiana da fonti
rinnovabili entro il 2030 (che significa arrivare a 500 GW di capacità
rinnovabile installata), di tagliare del 45% le emissioni per fine decennio
(rispetto ai valori del 2005) e di raggiungere le zero emissioni nette entro il
2070, 10 anni dopo la Cina e 20 anni dopo l’Unione Europea.
(India
energy mix 2020
Energy
mix dell'India fino al 2020, IEA.)
La
diffusione di energia solare in India gode di costi di produzione bassi ed è
spinta da un settore di aziende private che la “IEA “definisce vibrante, tanto
che la crescita del fotovoltaico sta già avvenendo a ritmi che non hanno eguali
in altri Paesi (esclusa la Cina):
nel
2022 sono stati aggiunti quasi 14 GW mentre il miglior Paese in Europa (la
Germania) si era fermato a 8 GW. Si prevede che la capacità di aggiunta annuale
raddoppierà entro il 2026.
I
sussidi per petrolio e diesel sono stati tolti nei primi anni ‘10 del 2000,
mentre quelli per i veicoli elettrici introdotti nel 2019.
Il
governo ha anche messo in piedi un programma per l’efficienza energetica (l’altro pilastro della transizione
assieme all’elettrificazione) che la IEA definisce robusto per il settore degli edifici,
dei trasporti e delle industrie.
Il
Paese sta anche gettando le basi per aumentare la produzione di batterie,
acciaio, cemento e fertilizzanti prodotti a basse emissioni.
L’India
dispone inoltre di grande capacità di produzione di bioenergia.
Secondo la” IEA”, nei prossimi anni supererà Cina e
Canada piazzandosi al terzo posto tra i produttori di (bio)etanolo, dietro
Stati Uniti e Brasile.
La crescita dei parchi solari (il più grande
al mondo, il Bhadla Solar Park con 2,25 GW, è indiano) permetterà anche di
puntare sulla produzione di idrogeno verde (si parla di 5 milioni di tonnellate
entro il 2030), che potrebbe contribuire a trainare l’economia indiana nei
prossimi anni e ridurre le emissioni dei settori industriali “hard-to-abate”.
Sia
Cina sia India poi si sono impegnate nella costruzione di nuove centrali
nucleari.
Delle circa 50 in programma o in costruzione
nel mondo, 19 sono in Cina e 8 sono in India.
La
nuova energia nucleare tuttavia non è paragonabile alla crescita che avranno le
rinnovabili in questi Paesi.
Proprio
per la loro forte dipendenza dal carbone, le popolazioni sia cinese sia indiana
devono fare i conti con una qualità dell’aria tra le più scarse al mondo, con
tutti i problemi sanitari che ne conseguono.
Entrambi
i Paesi inoltre negli ultimi anni sono stati attraversati da ondate di calore
che hanno fatto registrare temperature record e gravi siccità.
Sulle
coste del sud-est asiatico il Bangladesh è tra i Paesi che maggiormente
soffrirà l’innalzamento del livello dei mari, una delle conseguenze attese del
cambiamento climatico causato principalmente dal consumo di combustibili
fossili, costringendo milioni di persone ad abbandonare le proprie abitazioni.
(L’innalzamento
dei livelli dei mari non può essere impedito se la “colpa vera” è attribuibile
alla produzione di CO2 da parte dell’uomo! N.D.R).
Proprio
per ridurre le emissioni climalteranti e gli inquinanti che derivano dalla
combustione del carbone, i due più popolosi Paesi asiatici, oltre a lavorare al
miglioramento di una rete elettrica spesso inefficiente, stanno tentando di
sostituire la più sporca delle fonti fossili con maggiori quote di gas
naturale.
Fino
ad oggi gran parte del gas consumato in Asia arrivava in forma liquefatta via
nave:
l’uscita
dalla fase acuta della pandemia nel 2021 e la repentina crescita di domanda di
gas che è venuta soprattutto da Oriente è stata tra i principali fattori che
hanno fatto crescere i prezzi dell’energia già prima dell’invasione russa
dell’Ucraina.
Il GNL
(Gas naturale liquefatto) è considerato però un asset poco affidabile, per
prezzi volatili (specialmente negli ultimi due anni) e limitata disponibilità
aggiuntiva, scrive Global Energy Monitor in un altro rapporto.
Nel 2022 ad esempio solo poco più del 2%
dell’energia elettrica indiana è stata prodotta a partire dal gas, la
percentuale più bassa da 20 anni a questa parte, secondo un rapporto di “Ember”.
Anche
per questo la Cina si tiene stretta l’alleanza con la Russia da cui vorrebbe
far arrivare più gas via tubature:
Gazprom
ha in programma di far arrivare al Dragone 50 miliardi di metri cubi di gas
all’anno entro il 2030 tramite una nuova infrastruttura di 2.600 km che passerà
dalla Mongolia:
si chiamerà “Power of Siberia 2” e sarà la
sorella di “Power of Siberia 1”, che nel 2019 ha iniziato a far arrivare in
Cina 5 miliardi di mc di gas, nel 2022 ne ha fatti arrivare 15 e si stima,
aggiungendo nuovi pezzi, possa raggiungere i 38 miliardi di mc annui.
Una
buona parte del gas russo da cui l’Europa ha scelto di emanciparsi dopo
l’aggressione all’Ucraina fluirà quindi verso Est, per sostenere la “decarbonizzazione “di
un’Asia ancora troppo dipendente dal carbone.
Questa
scelta strategica tuttavia incontra anche in Oriente forme di contestazione
organizzata da parte della cittadinanza:
“l’espansione
del gas in Asia dovrebbe essere mirata ad affrontare la povertà energetica e la
crisi energetica nella regione.
Ma il
gas non è una soluzione.
Né
dovrebbe essere parte della risposta alla crisi climatica, non è un carburante
di transizione” si legge sul sito della campagna” Don’t Gas Asia”, lanciata a
inizio maggio 2023 in occasione del meeting annuale della “Asian Development
Bank”. “La
soluzione risiede nella rapida, giusta ed equa transizione a 100% energia
rinnovabile”.
Attiva
in numerosi Paesi e città asiatiche (ma non in Cina), la campagna contro il gas
in Asia vuole essere “un veicolo comune per le organizzazioni e i movimenti che
vogliono lavorare insieme per far crescere e intensificare la battaglia contro
il gas fossile in Asia” si legge nel sito.
A riprova che il fenomeno dei nuovi movimenti
ambientalisti ha sempre più una portata globale.
Per
combattere la povertà energetica
serve
una cittadinanza energetica.
Ilbolive.unipd.it
- Francesco Suman – (4 luglio 2023) – ci dice:
Assieme ai prezzi dell’energia schizzati alle
stelle nel corso del 2022 ha ricevuto sempre più attenzione, politica e
mediatica, anche il tema della povertà energetica.
Dal
2019 l’”OIPE” (“Osservatorio Italiano sulla Povertà Energetica”) monitora
l’andamento del fenomeno in Italia e venerdì 23 giugno presso il Palazzo Levi
Cases, a Padova, ha presentato il rapporto 2023.
Il
costo dell’energia è iniziato a salire già verso la fine del 2021, con la
ripresa della domanda di quei Paesi (su tutti la Cina) che uscivano dalla fase
acuta della pandemia.
“Poi
la guerra in Ucraina ha letteralmente gettato benzina sul fuoco” ha spiegato “Luciano
Lavecchia”, economista di Banca d’Italia, che ha curato il rapporto 2023 (il
terzo redatto dall’Osservatorio) assieme a” Marta Castellini” (università di
Padova), “Ivan Faiella” (Banca d’Italia),” Raffaele Miniaci” (università di
Brescia) e “Paola Valbonesi” (direttrice del dipartimento di economia e
management dell’università di Padova).
Povertà
energetica.
La
povertà energetica in Italia, rapporto” OIPE 2023”.
Misurazione
della povertà energetica.
Una
famiglia viene classificata in povertà energetica (PE) se, a fronte di una
spesa totale bassa (valore che approssima il livello di benessere), ha una
spesa energetica che si prende una fetta troppo grande del bilancio famigliare:
l’accesso ai servizi energetici comporta in
questo caso una distrazione di risorse superiore a un valore stabilito come
normale.
C’è tuttavia un’altra faccia della medaglia:
i
ricercatori dell’OIPE includono tra i poveri energetici anche le famiglie che
risultano con una spesa energetica nulla, in quanto si trovano a vivere sulla
propria pelle il dilemma “to eat or to heat”: mangiare o riscaldarsi. Altre definizioni di “PE” includono
anche la scarsa efficienza energetica delle abitazioni in cui spesso vivono le
famiglie vulnerabili.
Dal
2017 si è iniziato a parlare di povertà energetica nella “Strategia Energetica
Nazionale”, ma lo si è fatto anche nel “PNIEC” (Piano Nazionale Integrato di
Energia e Clima) del 2020 lo si farà nel suo imminente aggiornamento.
Anche
a livello internazionale vi è una forte attenzione sul fenomeno, come
testimoniano diversi rapporti dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) e
documenti ufficiali della Commissione Europea.
Il
dato italiano da cui si partiva era quello del 2021, quando la povertà
energetica interessava l’8,5% delle famiglie italiane: 2,2 milioni di famiglie,
lo stesso numero del 2019.
Il
nuovo rapporto” OIPE “analizza il dato scomponendolo per la prima volta su base
regionale, trovando un gradiente nord-sud che riflette la distribuzione della
povertà in Italia:
si va
da un minimo di incidenza del 4,6% nelle Marche a un massimo di 16,7% di
famiglie colpite in Calabria.
La
povertà energetica nelle regioni italiane nel 2021, per ripartizione
territoriale ) e per comune .
Rapporto OIPE 2023.
Seguendo
le stimolazioni di “Save The Children Italia”, l’OIPE ha anche quantificato che
il 10% dei minori risiede in ambienti poco salubri, scarsamente riscaldati e
raffreddati, o poco illuminati:
sono interessate 583.000 famiglie e 950.000
minori.
La situazione si aggrava nel caso di minori in
famiglie di immigrati:
“Nel 2021, l’incidenza della PE nelle famiglie
con minori era 2,5 volte più alta nelle famiglie straniere (circa 162.000
famiglie)” si legge nel rapporto, e supera le 4 volte nel caso di minori in
famiglie straniere al Sud.
“PE”
minori e stranieri.
Numero
di minori in povertà energetica per cittadinanza della persona di riferimento
(PR) e ripartizione di residenza.
Rapporto OIPE 2023.
Una
ricerca condotta dalla “Fondazione Di Vittorio” esplora invece il fenomeno
anche nei Comuni delle aree periferiche, solitamente più esposti a esclusione
sociale.
Qui coloro che non qualificano strettamente
come poveri energetici rientrano ugualmente nella categoria di vulnerabilità
energetica, specialmente a causa dell’inefficienza delle abitazioni in cui
vivono.
Politiche
di contrasto alla povertà energetica.
Proprio
l’investimento sull’efficienza energetica degli edifici è una delle misure più
importanti da intraprendere sul medio-lungo termine, ma prima di arrivare ad
analizzarle il rapporto si concentra su quelle a breve termine, valutando
quanto fatto dal governo italiano nel corso del 2022.
Di
queste politiche cosiddette di protezione, volte a limitare gli effetti
distributivi avversi (in gergo regressivi) dell’inflazione fanno parte:
misure
di contenimento dei prezzi dell’energia in bolletta (riduzione dell’IVA o degli
oneri di sistema), tagli alle accise dei carburanti ed erogazione di indennità
una tantum a categorie vulnerabili, come il bonus energia.
Dal
secondo trimestre 2021 al primo trimestre 2023 il governo italiano ha speso più
di 90 miliardi di euro per tutelare le famiglie maggiormente esposte al caro
energia, una cifra pari al 4,8% del PIL nazionale e nettamente superiore a
quanto hanno speso altri Paesi europei come Francia (3,5% del suo Pil),
Germania (3,1%) e Spagna (3,1%).
“L’impatto
dell'inflazione è stato fortemente regressivo” ha commentato “Luciano Lavecchia”,
“ma guardando agli indicatori di PE gli interventi del governo hanno avuto un
effetto positivo nell’alleggerirla”.
Il
rapporto mostra infatti che le misure sono state complessivamente efficaci nel
proteggere le famiglie dal caro energia, ma stimare quanto lo siano
effettivamente state non è semplice:
studi
diversi giungono a conclusioni diverse.
Quello
compiuto da un gruppo di ricercatori di università di Firenze, Agenzia delle
entrate e Ufficio Parlamentare di Bilancio valuta infatti che partendo da uno
scenario base di PE all’8,2%, gli interventi governativi hanno portato sì a un
aumento della PE al 9,8% (+1,6%), ma hanno evitato quello che altrimenti
sarebbe stato quasi un raddoppio dell’incidenza: in assenza di politiche di
protezione infatti la PE si sarebbe assestata al 15,9%.
Un
altro studio condotto da Prometeia, anch’esso basato su simulazioni di dati
2022 ma a partire da dataset diversi, conclude che addirittura le politiche
governative sono arrivate ad abbassare la povertà energetica al 6,5%, mentre
senza tali interventi sarebbe salita al 9,1%.
Allo
stesso modo gli scarsi dati a disposizione non sono in grado di valutare con
precisione l’efficacia di alcune politiche cosiddette di promozione, ovvero
volte a contrastare la PE sul medio-lungo termine.
Tra
queste ci sono l’Ecobouns e il Superbonus, quest’ultimo oggetto di una forte
polarizzazione politica che non agevola il compito di valutazione: di certo c’è
solo che è costato allo Stato oltre 80 miliardi di euro.
Comunità
Energetiche Rinnovabili.
Uno
degli strumenti cui più viene attribuita la capacità di contrastare la PE sono le Comunità Energetiche Rinnovabili” (CER), il cui sviluppo è
particolarmente “auspicato nel caso dell’edilizia residenziale pubblica, meglio
note come case popolari, che spesso versano in condizioni di scarsa efficienza
energetica, generando sprechi che gravano ulteriormente sulle spalle delle
famiglie vulnerabili.”
Le CER
incorporano un modello radicalmente nuovo di produzione, consumo e
distribuzione dell’energia.
Da anni nelle economie mature la domanda
energetica è in stallo se non addirittura in contrazione.
Ciò significa che non c’è più bisogno di
costruire grandi centrali che distribuiscono l’energia elettrica in modo
verticale a piccoli consumatori:
occorre piuttosto riorganizzare la produzione
energetica andando verso un sistema decentralizzato, ottimizzando i vantaggi
economici e sociali per la cittadinanza e minimizzando gli impatti ambientali.
I
cittadini possono e devono svolgere un ruolo attivo in un sistema energetico
dove le rinnovabili come il fotovoltaico hanno e avranno un ruolo sempre
maggiore.
Nelle
CER diventa centrale infatti la figura del prosumer (produttore e consumatore
al contempo), che beneficia a pieno dei vantaggi di un’energia pulita prodotta
e consumata in loco, il cui eccesso viene eventualmente distribuito ad altri
nodi di una rete più digitalizzata e intelligente.
“Tuttavia,
la capacità di queste iniziative di combattere la povertà energetica rimane per
il momento su un piano teorico” si legge nel rapporto.
“Il
processo di inclusione non è cosa semplice” ha spiegato “Marta Castellini”, che
ha curato questa sezione del rapporto OIPE.
Questo
perché, “si osserva una tendenza all’omogeneità sociale dei partecipanti,
generalmente di estrazione sociale e culturale medio-alta”.
Esistono
però casi virtuosi a cui guardare, come quello di Saragozza, in Spagna, “dove
il comune ha messo a disposizione i tetti degli edifici pubblici (scuole,
palestre) per creare un quartiere solare, in cui gli abitanti e i commercianti
beneficiano direttamente dell'elettricità prodotta su questi edifici nei 500
metri circostanti.
Una percentuale dell'energia prodotta va alle
famiglie del quartiere in condizioni di povertà energetica”.
Sebbene
in Italia ad oggi le “CER” sono all'incirca solo una cinquantina, per circa 1,5
MW di potenza, ci si è posti l'obiettivo di arrivare a 7 GW nel 2030,
coinvolgendo dalle 20.000 alle 100.000 famiglie.
In
Europa oggi le CER sono circa 10.500 e si stima che nel 2050 le famiglie che ne
faranno ricorso saranno 64 milioni.
Tuttavia, esistono “tensioni da discutere
riguardo alla combinazione fra una logica di mercato e l'ambizione europea di
creare un'energia accessibile a tutti i cittadini” sottolinea il rapporto.
Restando
a livello nazionale invece, “al momento, la possibilità di concretizzare le
opportunità offerte dalle CER dipende fortemente dalla definizione della
normativa nazionale che governerà le comunità energetiche ed il riconoscimento
degli incentivi.
La risoluzione di tale incertezza faciliterà
il processo di creazione delle comunità, ma di per sé non incrementa il
contributo delle comunità energetiche alla lotta alla povertà energetica, che
ad oggi è limitato”.
In
altri termini le CER non si faranno da sole né risolveranno da sole la povertà
energetica: occorrerà indirizzarle verso questo obiettivo.
Da
consumatori a cittadini energetici.
Secondo
il Segretario generale di “ARER”A (l’autorità di regolazione per energia reti e
ambiente) “Roberto Malaman”, intervenuto alla presentazione del terzo rapporto”
OPIE”, guardando al futuro occorre circoscrivere meglio il target cui destinare
gli interventi di protezione per il contrasto immediato alla PE.
“L’ISEE, su cui si basa l’assegnazione del
bonus energetico, è un buono strumento di accesso agli interventi, viene
compilato ed è un automatismo.
L’intervento del bonus va ai poveri, ma va ai
poveri energetici?
Probabilmente
sì, ma si può fare di più”.
Ampliando
l’orizzonte temporale, bisogna lavorare anche sulle abitudini di consumo delle
famiglie, suggerisce “Malaman”, “perché il bonus incide limitatamente sulle
abitudini di consumo energetico”.
A fine
giugno il governo italiano ha inviato alla Commissione Europea la versione
aggiornata del “Piano Nazionale Integrato Energia e Clima” (PNIEC), che oltre a
fissare nuovi obiettivi di decarbonizzazione, include anche una sezione sulla
Povertà Energetica.
Secondo
un rapporto di maggio della” Agenzia Internazionale dell’Energia” sul nostro
paese (Italy
2023, Energy Policy Review), che cita anche i rapporti dell’”OIPE”, il governo dovrebbe,
tra le altre cose, anche “condurre sistematicamente campagne di informazione e
sensibilizzazione per migliorare la comprensione della popolazione sui fattori
necessari a una transizione verso un sistema energetico pulito” e sul ruolo
delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica in essa.
Occorre
costruire quella cittadinanza energetica necessaria all’attuazione partecipata
della transizione ecologica, che comporta nuovi ruoli e responsabilità sociali
della cittadinanza in termini di produzione di energia, riduzione di emissioni
e degli sprechi, aumento dell’efficienza.
Altrettanto
importante è il tema dell’accesso al credito:
le
famiglie povere avendo scarsa disponibilità fiscale spesso fanno fatica a
usufruire degli strumenti per migliorare l’efficienza delle abitazioni in cui
vivono (cambiare caldaia o gli infissi).
Nell’ottica
di tutelare fasce di popolazione meno attrezzate in termini di alfabetizzazione
sia energetica sia finanziaria, secondo la” IEA” il governo dovrebbe anche
“lavorare in direzione di una migliore gestione dell’uso dell’energia da parte
delle famiglie per un’ottimizzazione dei costi legati agli acquisti dei servizi
energetici, anche aiutando gli utenti a selezionare prezzi e servizi offerti
dai fornitori”.
A
riprova dell’importanza della tematica, a marzo 2022 è stato istituito con
decreto ministeriale il” nuovo Osservatorio Nazionale della Povertà Energetica”,
che sarà coordinato dal “MASE” (Ministero dell’ambiente e sicurezza
energetica), da “Arera” e dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
“È
un’iniziativa interessante”, secondo “Massimo Pallottino” di “Caritas Italia”,
intervenuto alla presentazione del rapporto OIPE, “ma forse manca uno spazio di
confronto con le azioni portate avanti da soggetti della società civile, come
Caritas”, che pure è molto sensibile alla povertà energetica.
“Anche l’OIPE è un network informale” ha
aggiunto “Luciano Lavecchia” “speriamo di essere coinvolti in futuro nei lavori
istituzionali dell’ONPE”.
Nigeria: Fallito il Primo Test
al
Mondo di Attacco al Contante!
Conoscenzealconfine.it
– (10 Settembre 2023) - Maurizio Martucci – ci dice:
Clamoroso
in Nigeria: “eNaira”, la moneta digitale “CBDC” non è più obbligatoria, fallito
il primo test al mondo di attacco al contante.
Arrestato
il Governatore promotore!
“Il
caso della Nigeria aiuterà gli altri banchieri centrali e tutti i cittadini del
mondo a giungere alle stesse conclusioni?
Probabilmente no, ed è per questo che
aspettiamo il prossimo disastro economico”.
(Jan
M. Fijor, giornalista dell’Istituto Mise)
Colpo
di scena nella Repubblica Federale della Nigeria:
attacco
al cuore mondiale della transizione digitale;
fallite
in un colpo solo la riforma pioneristica della “moneta 2.0” e il tentativo
d’annullare la liquidità col denaro creato dal nulla!
L’esperimento
è durato appena 108 giorni tra violenti tumulti e carestie.
Questo,
prima dello scandalo e delle manette ai polsi per il governatore Godwin
Emefiele, ora agli arresti, ma fino al 10 Febbraio 2023 ancora nella lista
degli ospiti internazionali a Davos nel meeting annuale del Forum Economico
Mondiale, insieme a “Giancarlo Giorgetti” e “Giuseppe Valditara”, ministri
italiani del Governo Meloni:
“L’obiettivo, per quanto mi riguarda, è
raggiungere un’economia senza contanti al 100% in Nigeria “.
Mentre
la Banca Centrale Europea (BCE) vuole un “CBDC digitale in euro” (Moneta
Digitale della Banca Centrale) come valuta elettronica a valore legale emessa
non da banche commerciali, in Africa il progetto pilota è quindi saltato per
mano della tecno rivolta della Nigeria, il paese con la popolazione più
numerosa di tutto il continente nero (200 milioni di abitanti).
Il primo paese non solo in Africa ma nel mondo
intero ad aver adottato in via esclusiva e per ben tre mesi e mezzo “eNaira
Wallet” con “tecnologia blockchain”, cioè il portafogli elettronico
sperimentato dal 2021 con moneta digitale garantita per legge, e in un primo momento solo
affiancata al contante (nonostante la contrarietà delle tribù espressa al 99,5%
nel referendum del 2022) e poi nel 2023 definitivamente sostitutiva della “Naira”, la
moneta locale cartacea ridotta a carta straccia.
“È
facile capire perché il 16 febbraio 2023 sono scoppiate violente rivolte nel
paese, provocando vittime.
Privati
di tutte le loro ricchezze, persone disperate e affamate scesero in piazza,
chiedendo il ripristino della validità della vecchia moneta cartacea.
Circolavano
voci secondo cui il “governo Buhari “aveva emesso una nuova valuta cartacea, la
“nuova naira”, da utilizzare temporaneamente. (…)
Il
problema era che i nuovi soldi non si trovavano da nessuna parte.
Ancora
oggi, quando la banca centrale si è ritirata dall’esperimento, l’offerta di
nuovo contante non ha raggiunto nemmeno il 10% dell’intera offerta valutaria
nigeriana.
Non
c’è nuova moneta da nessuna parte; anche se lo fosse, non vi è alcuna
possibilità di scambiare in massa la “vecchia naira” invalidata con la nuova.”
In
pratica è fallito il primo vero test del” Fondo Monetario Internazionale” e del
“Forum Economico Mondiale” nel “Grande Reset Tecnologico”, cioè quello di
gestire centralmente tutte le transazioni solo ed esclusivamente col digitale.
I
nigeriani si sono ribellati:
Godwin Emefiele ex governatore della banca è stato
arrestato per “violazione criminale della fiducia, sabotaggio economico,
finanziamento di attività terroristiche e cattiva gestione delle riserve valutarie“e
altri 17 pesantissimi capi d’accusa, mentre per le strade scontri e morti si
sono verificati durante le violente proteste, con la popolazione ridotta alla
fame ma impegnata in baratti e scambi commerciali per spezzare il monopolio
elettronico di “eNaira”, adesso non più moneta esclusiva.
Il
dato è ancora più clamoroso se si pensa che la Nigeria è uno dei paesi più
avanzati al mondo nel riconoscimento biometrico/identità digitale e che –
secondo uno studio di Blocktables – ha pure il più alto tasso di adozione di
criptovalute, pari al 24,2% (più alto del 17,7% dell’Australia, del 15,6% di
Singapore e del 10,4% degli Stati Uniti).
Non
solo, nel 2021 il” Forum Economico Mondiale” affermava che “i nigeriani usano
spesso i loro telefoni anche per scambiarsi denaro o per pagare nei negozi “,
motivo per cui la “Banca Centrale della Nigeria” s’era spinta a vietare agli
istituti finanziari di elaborare transazioni in criptovaluta:
si è
puntato tutto su “eNaira”, finita in un flop!
“La
situazione a Lagos, Abuja e Port Harcourt sta ora tornando alla normalità e “eNaira”
è solo una delle numerose valute legali. (…)
Dall’arresto
di Emefiele lo spettro del “monopolio delle CBDC” è scomparso.
Coloro
che trovano più conveniente la moneta elettronica la usano.
La
gente ora sa che non ci sarebbe stato un tale caos se la digitalizzazione della valuta fosse
stata volontaria e non accompagnata dalla delega del contante “.
(Maurizio
Martucci)
(oasisana.com/2023/09/08/clamoroso-in-nigeria-enaira-la-moneta-digitale-cbdc-non-e-piu-obbligatoria-fallito-il-primo-test-al-mondo-arrestato-il-governatore-promotore/)
Quando
i talk show diventano
il
palco della disinformazione.
Forward.recentiprogressi.it
- Intervista a Paul Offit – Redazione – (10 ottobre 2018) – ci dice:
(P.O. Direttore
del Vaccine education center, Division of infectious diseases, Children’s
hospital of Philadelphia)
Perché
i dibattiti sui temi controversi che riguardano la salute non sempre sono
bilanciati.
Pediatra
infettivologo, co-inventore del vaccino pentavalente contro il rotavirus, Paul
Offit è autore di “Autism’s false prophets”.
Nel
suo ultimo libro “Bad Advice. Or why celebrities, politicians, and activists
aren’t your best source of health information”
spiega come le storie raccontate dai media non
supportate dalle prove scientifiche possano diventare convinzioni diffuse.
Perché
è così importante una comunicazione efficace sulla salute?
Perché
molte informazioni sbagliate a cui siamo esposti possono spingere le persone a
prendere decisioni errate e rischiose per loro stessi o per i loro figli.
Per
esempio, su internet circolano informazioni fuorvianti sui vaccini che possono
far sì che alcuni genitori scelgano volutamente di non vaccinare i propri figli
facendogli correre rischi inutili.
Quindi
è importante comunicare al pubblico in modo efficace temi di scienza, medicina
e salute.
Cominciamo
con il parlare del suo rifiuto di apparire con l’attrice “Jenny McCarthy “nel
“talk show Oprah Winfrey”… Cosa è successo?
Nel
settembre 2007, mi era stato chiesto di partecipare con l’attrice “Jenny
McCarthy all’Oprah Winfrey show”.
McCarthy
avrebbe parlato di un vaccino che lei era certa fosse la causa dell’autismo di
suo figlio.
Inizialmente
mi era sembrata una buona idea:
avrei
potuto spiegare al pubblico perché i vaccini non causano l’autismo e come, con
molti dati e studi alla mano, sapevamo che non ne fosse la causa.
Poteva
essere un’occasione per calmare le acque.
Ma alla fine decisi di non andarci,
essenzialmente perché ritenevo che fosse il contesto sbagliato per comunicare
una buona scienza.
La conduttrice Oprah Winfrey era lì per
raccontare una storia.
E la
sua storia aveva tre ruoli:
l’eroe,
la vittima e il cattivo.
McCarthy
rappresentava l’eroe, suo figlio la vittima e il sottoscritto il cattivo.
Sarei
stato solo un tipo che andava allo show per dire a Jenny McCarthy che era in
errore e, di conseguenza, per dire a Oprah che aveva sbagliato a invitarla allo
show.
Non lo consideravo il modo migliore per
comunicare la scienza e la salute.
Credo che si debba scegliere il contesto
giusto discernendo dove si può essere più efficaci e dove non si può esserlo.
Una
ricercatrice italiana in semeiotica, “Anna Maria Lorusso”, suggerisce che con
l’approccio del “false balance” gli spettacoli televisivi abbiano un ruolo
chiave nel rendere più debole la verità.
Cosa ne pensa?
Penso
che questo sia il problema maggiore.
Spesso
nei media, in televisione, alla radio e sui giornali per ogni storia si
presentano due versioni di cui solo una è sostenuta dalla scienza.
Per
esempio, da un lato c’è una persona che dichiara che i vaccini causano
l’autismo e dall’altro una persona che afferma il contrario.
Invece ciò che importa non è quello che viene
ribadito dalle persone:
l’unica
cosa che conta davvero è quello che dicono gli studi, e gli studi dimostrano
che i vaccini non causano l’autismo.
Pertanto
avere qualcuno in televisione che ribadisce l’associazione tra vaccini e
autismo quando le prove dimostrano il contrario non è bilanciato:
è un “false balance”.
Ciò
che i programmi televisivi dovrebbero fare è offrire una prospettiva basata
sulle prove scientifiche ma questa modalità non fa audience né fa vendere più
pubblicità:
conviene
molto di più avere sul palco una controversia anche quando non esiste alcuna
controversia scientificamente parlando.
Per
esempio il reporter di “Philadelphia TV “aveva messo a confronto i suoi
commenti con quelli della lobbista antivax “Sherry Tenpenny”, autrice del libro
“Saying no to vaccines”.
Presentare
come esperta di vaccini una persona come “Sherry Tenpenny” che esperta non è,
che non ha mai pubblicato uno studio scientifico, che non ha esperienza di
vaccini è proprio ciò che i produttori televisivi non dovrebbero fare.
Non ho
mai avuto un confronto diretto con “Sherry Tenpenny” ma mi è capitato di
discutere in televisione con altri attivisti anti-vax come “Mary Holland”.
È
difficile sapere se è giusto o meno partecipare a un dibattito in televisione
su temi che sono scientificamente indiscutibili.
D’altronde
se non lo fai quell’informazione resterà un’informazione senza contraddittorio.
Nel
suo libro “Bad Advice” scrive che i ricercatori e gli “esperti” non sempre
dovrebbero farsi coinvolgere in programmi televisivi.
Sì,
perché in realtà quando partecipi a questi programmi non convincerai la persona
con cui stai discutendo e spesso nemmeno il conduttore il cui unico interesse è
sollevare una controversia.
Ma è
anche vero che parte delle persone che guardano questi spettacoli o che li
rivedono su “YouTube” ascoltano ciò che hai da dire e si fanno persuadere dalle
tue argomentazioni.
La
cosa importante è essere consapevoli che quando partecipi a dibattiti
televisivi di questo genere lo scopo non è convincere chi hai di fronte o il
conduttore, ma tentare di dare informazioni corrette con la speranza che
saranno influenti.
Gli
scienziati dovrebbero diventare un esercito della scienza che esce allo
scoperto per educare il paese. — “Paul Offit, Bad Advice”
Perché
celebrità e politici danno “cattivi consigli” sulla salute al pubblico?
Innanzitutto,
spesso le celebrità e i politici non provengono da una formazione medica o
scientifica e quindi si possono lasciare convincere da discussioni che non sono
basate sulla scienza.
Oltre
a ciò, alcuni fanno un uso strumentale del palco non tanto per informare quanto
per fuorviare gli spettatori.
Penso che lo facciano per dimostrarsi
comprensivi agli occhi del pubblico.
Per
esempio quando durante uno dei dibattiti presidenziali il nostro presidente
Donald Trump affermò che i vaccini causano l’autismo molto probabilmente
credeva in quanto asseriva, e pensava di esprimere compassione per i bambini
autistici sostenendo l’opinione di alcuni genitori sulla pericolosità dei
vaccini.
Forse pensava di essere comprensivo.
I medici Ben Carson e Rand Paul, presenti in
quello stesso dibattito presidenziale, affermarono che secondo loro i bambini
ricevono troppi vaccini e troppo precocemente.
Forse
pure loro pensavano di dimostrarsi empatici ma in realtà le loro affermazioni
non erano basate sulla scienza nonostante fossero entrambi medici.
Cosa
ne pensa delle “fake news” che circolano su temi che riguardano la salute?
Vivo
nel paese di Donald Trump che usa il termine “fake news” quasi ogni giorno, ma
in realtà lo usa per affermare che quella che è una vera notizia non gli piace.
Per
lui è questo il significato di fake news.
Siamo
tutti consapevoli di essere continuamente bombardati da notizie false o
distorte.
Ma
penso che sia davvero difficile per le persone riconoscere l’informazione buona
da quelle cattiva.
Nell’ambito
della salute e delle scienze mediche le persone dovrebbero affidarsi a
istituzioni e organizzazioni affermate che supportano la scienza, quali i “Centers
for disease control”, l’”American academy of pediatrics” o l’”American
association for the advancement of science”.
Ma la
maggior parte della gente non ha punti di riferimento.
COME
LA SCIENZA SI È
TRASFORMATA
IN PROPAGANDA
Opinioni.it
- Gerardo Coco – (14 settembre 2021) – ci dice:
L’essenza
di ogni regime è la politicizzazione di tutto, poiché il tutto deve sostenere
lo status quo altrimenti ogni parte non politicizzata, quindi libera di
dissentire, sarebbe una minaccia.
In un
regime autoritario non c’è via di mezzo e quindi tutto, letteralmente tutto,
deve essere politicizzato per essere trasformato in propaganda e ciò che non
può essere politicizzato deve cessare di esistere o essere relegato in una zona
oscura, poiché il semplice atto di tentare di riconoscere un’esperienza non
politicizzata è di per sé una minaccia allo status quo.
In
questa zona oscura è ormai discesa anche la scienza della salute pubblica.
L’essenza
di qualsiasi scienza è il dibattito.
Uno
scienziato propone un’ipotesi che viene poi testata con la sperimentazione.
Se i
dati empirici tendono a confutare l’ipotesi, può essere abbandonata a favore di
una nuova ipotesi.
Allo
stesso tempo, altri professionisti possono mettere in discussione l’ipotesi o
proporre la propria.
Il dibattito va avanti fino a quando non si
raggiunge un consenso.
Ma,
anche allora, il consenso può durare solo fino a quando non arriva un’ipotesi
ancora migliore e così via.
La vera scienza non è mai definitiva, si
evolve.
Questo
non è il caso della “scienza” che circonda la pandemia di Covid che,
politicizzandosi, è diventata propaganda di regime al punto che molti cittadini
non ne hanno più fiducia.
Negli ultimi due mesi abbiamo assistito a un
completo fallimento dei vaccini che invece di frenare la diffusione del
Covid-19 sembrano facilitarla.
In diversi Paesi con tassi di vaccinazione
molto elevati, come Israele, Gran Bretagna e Seychelles, ad esempio, stanno
registrando tassi di infezione più alti in presenza di più varianti del Covid.
Eppure, la risposta della “scienza” è sempre
la stessa:
dobbiamo
indossare maschere, essere vaccinati, distanziarci socialmente e magari…
rinchiuderci ancora.
Ma
anche un neofita capisce che il vaccino di oggi non darà necessariamente la
stessa immunità né per la variante di oggi né per quella di domani.
La
“scienza” invece spinge per la vaccinazione universale, mentre l’efficacia dei
vaccini sta calando.
Non
volendo accettare la responsabilità di queste contraddizioni, la “scienza” ha
cambiato la sua narrativa.
Ora ci
sta dicendo che, anche se i suoi vaccini non ci proteggono dalle infezioni,
sono comunque efficaci nel proteggerci da malattie gravi e dalla morte.
Questo
nuovo mantra dell’establishment scientifico viene ripetuto in ogni singolo
notiziario.
“Se
sei vaccinato”, ci dicono, “puoi ancora essere infettato, ma non ti ammalerai
gravemente o morirai perché i vaccini sono ancora efficaci”.
L’affermazione
che i vaccini proteggano dal Covid e dalla morte, tuttavia, è propaganda che si basa sulla stessa
metodologia fraudolenta utilizzata per sostenere le prime false affermazioni
sulla loro efficacia e che è oggi è confutata da dati empirici.
I numeri ci stanno infatti dicendo che la
maggior parte dei casi gravi di Covid e morte sta avvenendo nelle nazioni con
programmi di vaccinazione avanzati e tra i vaccinati.
Ma la
soluzione al problema del “vaccino” (che non è un vaccino) è… ancora più
vaccino.
Sono necessari richiami, si dice, ogni 5/8
mesi per tenere a bada il Covid.
Qual è dunque l’ordine del giorno?
Chiaramente,
non la salute del pubblico ma i profitti eterni per le case farmaceutiche.
E così
si arriva a capire come la scienza nella salute pubblica sia stata
politicizzata, diventando propaganda al fine di spingere e mobilitare il
maggior numero verso obiettivi che non riguardano affatto la salute pubblica.
In primis, la Comunità della ricerca è stata
avvelenata dall’influenza dei finanziamenti.
Ciò
che guida la scienza oggi sono le sovvenzioni dei governi e delle fondazioni e
non più la motivazione e la genialità di studiosi indipendenti come gli “Edward
Jenner” o i “Louis Pasteur”.
Il finanziamento pubblico ha reso ormai la
scienza dipendente dallo Stato, cioè dalla politica.
Le
Università e gli scienziati fanno pressioni affinché i governi diano loro
denaro per i loro programmi di ricerca allo stesso modo di come le lobby
industriali premono per sussidi.
Gli
scienziati ottengono i soldi dal Governo ma in cambio devono seguirne le
indicazioni.
Ma c’è
di più. Come
per la crisi climatica, anche per il Covid il dibattito di politica pubblica ha
dimostrato che i cosiddetti scienziati non sono sempre parti disinteressate.
Sembrano
essere diventati politici e partigiani quanto i politici, utilizzando
selettivamente le “prove” scientifiche per giustificare il loro punto di vista
ideologico.
I modelli di comportamento che promuovono il
finanziamento pubblico sono stati sorprendentemente simili a quelli del clima:
uso
selettivo dei dati, manipolazione del processo di revisione tra pari, censura,
persecuzione e demonizzazione dei colleghi dissenzienti per arrivare, alla fine
a un falso “consenso” scientifico da propagandare a fini politici.
L’attuale
approccio standardizzato alle vaccinazioni di massa, che tratta tutti i
riceventi come se fossero organismi identici da processare su una catena di
montaggio medica, è tipico dei peggiori regimi totalitari.
L’inoculazione universale viene portata avanti
senza nemmeno un’adesione rudimentale alla necessità di screening medico e
consultazione caso per caso.
Ci si
è dimenticati di come venivano affrontate le epidemie influenzali molto più
gravi della fine degli anni Sessanta e della fine degli anni Cinquanta?
Nel
grande schema delle cose queste epidemie erano “non eventi” non essendoci a
quell’epoca le condizioni per sfruttarle, come si sta facendo oggi, a scopo
politico.
La
questione allora riguardava il rapporto paziente/medico.
Ma
medici privati hanno cessato di esistere da quando il regime li ha costretti a
diventare semplici dipendenti di massicce organizzazioni di “assistenza
sanitaria” che si proteggono dalla responsabilità seguendo i protocolli
stabiliti dai vari ministeri della salute in combutta con le case
farmaceutiche, cosicché i medici finiscono per eseguire essenzialmente gli
ordini delle aziende farmaceutiche.
I medici indipendenti possono ancora
utilizzare la loro formazione e abilità per aiutare i loro pazienti, ma con
grande cautela:
il regime, dove tutto deve essere
politicizzato, potrebbe comprometterne la carriera.
L’universalizzazione
delle vaccinazioni in corso per iniettare e etichettare il bestiame viene
ovviamente propagandata, appellandosi al “bene o interesse comune”.
Ma
solo i grulli dimenticano che sotto questa bandiera sono stati commessi, nel corso della
storia, i crimini più spregevoli.
AMBIENTE:
LA CATTURA E LO STOCCAGGIO
DELLA
CO2 NEI SETTORI “HARD TO ABATE”
Opinioni.it
- Donato Bonanni – (11 settembre 2023) – ci dice:
In
Italia, i settori produttivi “hard to abate” generano 94 miliardi di euro di valore aggiunto e
1,25 milioni di posti di lavoro, emettendo 63,7 milioni di tonnellate di Co2
all’anno.
Ci
riferiamo ai settori della siderurgia, della raffinazione del petrolio, della
chimica, del cemento, della ceramica, della carta, del vetro e della produzione
alimentare che hanno un peso rilevante nell’economia.
Negli
ultimi anni diverse imprese italiane hanno deciso di investire in processi
tecnologici innovativi per il raggiungimento degli obiettivi di
decarbonizzazione (emissioni zero), così come previsto dai programmi “green”
dell’Ue e dell’Agenda globale Onu.
La
cattura e lo stoccaggio della Co2 è una di queste soluzioni strategiche per
ridurre le emissioni delle industrie “hard to abate”, salvaguardando così la
sopravvivenza e competitività di importanti settori economici e coniugando,
nello stesso tempo, obiettivi di sostenibilità ambientale, sociale e
industriale.
Ma
vediamo meglio come funziona questa tecnologia.
La
cattura e lo stoccaggio del carbonio (CO2) (Carbon Capture and storage, Ccs) hanno lo scopo di togliere
dall’atmosfera l’anidride carbonica prodotta da industrie e centrali elettriche
e di depositarla nei giacimenti (sotterranei) esauriti di petrolio e gas.
L’esperienza
ventennale di stoccaggio nei siti al largo delle coste norvegesi e quella più
recente nei siti offshore di Canada e Stati Uniti ne sono una dimostrazione con
ottimi risultati in termini di sicurezza, efficienza e sostenibilità.
In
Europa, la direttiva Ue sullo stoccaggio di Co2 del 2009 prevede una serie di
regolamenti e di requisiti chiari per l’individuazione di siti di stoccaggio
adeguati e per la garanzia della sicurezza delle operazioni successive.
Diversi
studi hanno dimostrato che la Co2 può essere stoccata in modo sicuro nel
sottosuolo (grazie a una serie di fattori geologici e geochimici) per migliaia
di anni, basandosi sulle evidenze dei diversi bacini di Co2 naturali esistenti
da milioni di anni.
Un
recente studio – “Carbon capture and storage” – del Forum Ambrosetti di Cernobbio
ha evidenziato l’importanza strategica del primo impianto italiano (e del sud
Europa) progettato dalla joint venture Eni-Snam, che consiste nell’utilizzo
delle condotte di Snam per convogliare la Co2 in un’unica rete di raccolta, per
poi comprimerla e stoccarla nei giacimenti privi di gas metano di Eni al largo
di Ravenna.
L’hub romagnolo consentirà (una volta in
funzione) di evitare 16 milioni di tonnellate di Co2 all’anno, di stoccarne una
grande quantità e di sviluppare una nuova filiera specializzata a livello
nazionale, generando un valore aggiunto (aggiuntivo) di 30 miliardi di euro
entro il 2050, oltre a buone opportunità di occupazione.
Intere
aree industriali potranno, insomma, diventare protagoniste del percorso verso
la decarbonizzazione (zero CO2), conciliando gli obiettivi di riduzione delle
emissioni e della tutela della salute pubblica con la continuità operativa e la
competitività.
Una
“giusta” transizione energetica che non lascia indietro nessuno:
le imprese, i lavoratori e le comunità
territoriali, motori indispensabili per la crescita economica e sociale del
Paese.
La
scienza è una
grande, fondamentale, questione democratica.
Valigiablu.it – (1° Febbraio 2018) - Antonio
Scalari - ci dice:
Molti
di voi lo ricorderanno.
All'inizio
dello scorso anno si era innescato un dibattito piuttosto acceso attorno
all'affermazione «la scienza non è democratica».
Quello
“slogan”, come è stato in seguito definito da chi l'ha proposto, nasceva
nell'ambito di una discussione sulla pagina Facebook di “Roberto Burioni”,
medico e docente di microbiologia e virologia all'università Vita-Salute San
Raffaele di Milano.
Burioni,
impegnato nella “battaglia” contro la disinformazione sui vaccini, si era visto
costretto a cancellare alcuni commenti a un post che prendeva di mira la tesi
secondo la quale i casi di meningite registrati nel 2016 in Italia, in
particolare in Toscana, fossero dovuti all'arrivo di migranti dall'Africa.
Il
medico aveva motivato la sua decisione in un commento che si concludeva proprio
così: «la scienza non è democratica».
L'anno
scorso, prendendo spunto da questo episodio, avevo scritto un articolo dedicato
soprattutto al tema della “comunicazione della scienza”.
Vi
chiederete: perché tornare a parlarne a un anno di distanza?
Perché
dopo aver avuto una grandissima visibilità, questa frase ha acquisito una
specie di vita propria.
Succede, infatti, ancora oggi di partecipare o
assistere a discussioni su temi scientifici in cui a un certo punto qualcuno
interviene dichiarando: «la scienza non è democratica».
In genere si tratta di un modo per dire: «le cose
stanno così, su questo non si può discutere».
In
questo post non voglio mettere in discussione la gestione dei commenti e la
modalità di comunicazione su una pagina Facebook.
Quello
che vorrei fare è mostrare che nel momento in cui si afferma “la scienza non è
democratica” si fa un passo molto lungo che conduce ben oltre i vaccini e le
diatribe su questo argomento.
Si
finisce appunto per parlare di "scienza" e "democrazia",
quindi di temi ancora più impegnativi e complessi.
Lo so che non era questa l'intenzione
dell'autore (che ha poi spiegato e chiarito ciò che intendeva dire). Ma quello slogan, nel momento in cui
continua a essere preso e ripetuto così com'è, lancia un messaggio che causa
fraintendimenti e confusione.
Il
punto però non è dividersi tra due partiti, quello a favore della democraticità
della scienza e quello contrario.
Proverò
certo a proporre delle conclusioni e delle personali interpretazioni. Ma ciò
che farò sarà soprattutto portare degli argomenti ed esaminare dei concetti che
consentano di cogliere i significati di quell'affermazione. Ognuno alla fine si
farà una propria idea a riguardo.
Intravedo
due questioni distinte e collegate tra loro, che riassumo in due rispettive
domande:
La
scienza presenta, oppure no, qualche affinità con la democrazia?
Qual è
il rapporto tra scienza e democrazia, cioè tra scienza e società nel contesto
di una democrazia?
Per
cercare di rispondere dobbiamo chiarire il significato dei termini. Cominciamo proprio con la parola
“democrazia”.
Cosa è
la democrazia.
Ho l'impressione
che molti trascurino il fatto che se si dice che «la scienza non è democratica»
si sta affermando qualcosa non solo sulla scienza, ma anche sulla democrazia.
Si sta
dicendo che la scienza non è democratica perché priva delle caratteristiche che
si ritiene definiscano la democrazia.
E qual
è l'idea di democrazia che giustificherebbe la negazione contenuta in quella
frase?
La scienza, si dice, non è democratica perché nella
scienza ha «diritto di parola» solo «chi ha studiato» e perché «non mette ai
voti» dati, ipotesi e teorie.
«La velocità della luce non si decide per
alzata di mano», è un esempio che si porta a sostegno della tesi.
Nell'immaginario
collettivo, in effetti, è molto diffusa la tendenza ad associare la democrazia
quasi sempre a questi due elementi: il diritto di parola e il voto.
La
democrazia sarebbe quel sistema che garantisce a tutti libertà di opinione su
ogni argomento e che prende decisioni attraverso il voto.
Cerchiamo
di capire quindi se la democrazia sia solo questo.
Sono
state riempite intere biblioteche su cosa sia la democrazia e naturalmente non
pretendo di riassumere tutto il dibattito che si è svolto al riguardo nel campo
della filosofia politica e della politologia.
Cerchiamo però di fissare alcuni punti
prendendo come base di partenza la definizione che dà di democrazia “Norberto
Bobbio”, uno dei maggiori politologi italiani del '900, in questa intervista
del 1985:
Bobbio
in questo intervento dà quella che lui stesso definisce una «definizione
minima» di democrazia:
(...)
Un metodo per prendere decisioni collettive. Si chiama gruppo democratico quel
gruppo in cui valgono almeno queste due regole per prendere decisioni
collettive.
Primo:
tutti partecipano alla decisione direttamente o indirettamente.
Secondo: la decisione viene presa dopo una
libera discussione a maggioranza.
E
precisa in seguito:
Qui
stiamo parlando di democrazia politica. Infatti io ho considerato come una
delle promesse non mantenute della democrazia proprio il fatto che la
democrazia politica non si è estesa alla società e non si è trasformata in
democrazia sociale.
A
rigore una società democratica dovrebbe essere democratica, cioè dovrebbe avere queste regole di
funzionamento, nella maggior parte dei centri di potere.
Quindi:
un
metodo per prendere delle decisioni all'interno di una collettività, di
qualsiasi natura e dimensioni.
Un
metodo che dovrebbe estendersi alla maggior parte dei settori e delle
organizzazioni perché una società possa essere definita democratica (viene
citata per esempio la fabbrica come luogo in cui la democrazia non è ancora
penetrata).
Bobbio
spiega poi che quella che ha appena tracciato è una definizione “formale”,
“procedurale”, di democrazia.
C'è
poi, prosegue, una definizione “contenutistica” o “sostanziale” (storicamente
contrapposta talvolta a quella formale) che comprende anche la nozione di
uguaglianza sociale ed economica.
Ricordiamo,
semplificando a grandi linee, come si è sviluppata la democrazia nel corso
della storia.
Nell'età
moderna si è partiti da una linea di pensiero, riconducibile al liberalismo,
che in opposizione all'assolutismo dell'epoca ha rivendicato dapprima quelli
che oggi chiamiamo diritti civili.
Ad
esempio:
la libertà di opinione, di stampa e di religione.
In
seguito sono stati introdotti anche dei diritti politici, come il diritto di
partecipazione al voto e quindi alla discussione sulle decisioni collettive.
All'inizio
ristretti a una piccola percentuale della popolazione, i diritti politici sono
stati poi estesi a tutti e si è arrivati al suffragio universale.
Ai diritti civili e politici si sono poi
aggiunti dei diritti sociali, per esempio il diritto al lavoro, alla salute,
all'istruzione.
Correnti
politiche come il socialismo, spiega Bobbio, hanno «cercato di riempire la
democrazia – questa “scatola vuota”, formale – di certi contenuti», come per
esempio l'«uguaglianza non solo giuridica ma sociale ed economica».
La nascita dello Stato sociale è stato il punto di
arrivo di un percorso storico al termine del quale la parola “democrazia” è
arrivata a designare qualcosa di ben più ampio del diritto di voto:
un'idea
di società in cui siano garantiti diritti non solo “formali”, ma anche
“sostanziali” (e anche in questi ambiti le “promesse della democrazia”, per
citare Bobbio, sono ancora lontane dall'essere pienamente realizzate).
La
democrazia perciò ha finito per identificarsi non solo con una procedura
formale, ma anche con un sistema di valori di riferimento (libertà,
uguaglianza, tolleranza, solidarietà, ecc.).
Secondo il "Dizionario di Filosofia" di “Nicola
Abbagnano”, «il concetto di democrazia va oltre la configurazione di 'forma di
governo', per presentarsi come un vero e proprio stile di vita individuale e
sociale».
Oggi
non potremmo (o meglio dovremmo) accettare che si riempisse quella “scatola
vuota” con contenuti (cioè leggi e decisioni collettive) che violano alcuni
principi come quelli fissati dalla Costituzione.
Attraverso un metodo formalmente democratico si
possono prendere decisioni in contrasto con quei principi fondamentali.
Per
esempio decisioni che introducono forme di discriminazione su base etnica,
religiosa o sociale.
È
proprio per questo motivo che la democrazia può permettersi di adottare leggi
che abbiano l'obiettivo di impedire la diffusione di alcune idee ritenute
pericolose per la democrazia stessa (si pensi in Italia alla "Legge
Mancino" contro i crimini d'odio).
Arrivati
fin qui possiamo quindi fissare in sintesi alcuni punti da tenere a mente:
La
democrazia, sul piano formale, è un «metodo per prendere delle decisioni
collettive».
In una
collettività democratica tutti partecipano a una decisione e alla relativa
discussione.
Oltre
a quello formale c'è poi un piano sostanziale che caratterizza la democrazia
come una forma di organizzazione della società basata non solo sulla
partecipazione ma anche su una pluralità di diritti e che trova fondamento in
un sistema di valori che orientano il “contenuto” delle decisioni.
Vediamo
ora se la scienza ha qualcosa a che vedere con tutto questo.
Cosa è
la scienza (e
le sue affinità con la democrazia).
La
parola "scienza" ha diversi significati.
Qui parliamo naturalmente delle scienze
naturali e delle loro applicazioni come la medicina (in questo contesto tralasciamo le
scienze sociali che si occupano di fenomeni differenti).
In un
primo significato, “scienza” è quindi tutto ciò che noi sappiamo riguardo al
mondo naturale e a come funziona. Dall'origine dell'Universo all'evoluzione della
vita, dalla struttura della materia ai meccanismi dei terremoti.
In
questo significato la scienza è ciò che si legge nei libri di biologia, fisica,
chimica, geologia, eccetera.
La
scienza però non è solo un elenco di nozioni.
In un secondo significato è anche una visione
del mondo che ha implicazioni filosofiche, etiche, sociali.
La
teoria dell'evoluzione, per esempio, ha introdotto una prospettiva del tutto
nuova sul rapporto tra uomo e natura.
Terzo
significato: la scienza è un metodo.
Tutti
abbiamo sentito parlare di una cosa che si chiama “metodo scientifico”.
Sulla
sua natura c'è stato, e c'è ancora, un grande dibattito che trae le sue origini
già nel pensiero elaborato dalla filosofia antica, e poi da quella medievale,
sulla conoscenza umana, la logica e il ragionamento.
Ma è
lo sviluppo della rivoluzione scientifica, tra '500 e '600, che conduce alla
moderna riflessione sulla scienza.
Dopo secoli di avanzamento delle nostre
conoscenze sulla natura, la filosofia della scienza del '900 ha cercato di
spiegare e descrivere come avanza la scienza, quindi come si accumula nuova
conoscenza, ma anche come le vecchie teorie vengono sostituite o integrate da
quelle nuove.
Riassumere
anche per sommi capi questa difficile riflessione andrebbe davvero oltre gli
scopi di questo articolo.
In questo contesto ci basta comunque ricordare
che per metodo scientifico non dobbiamo intendere una ricetta che viene seguita
nello stesso identico modo in tutte le scienze.
Se
dovessimo però proprio trasformare il metodo in una ricetta, potremmo
descriverlo così:
si parte dall'osservazione di un fenomeno; ci si pone
delle domande su questo fenomeno; si immaginano possibili spiegazioni in forma
di ipotesi; si raccolgono dati, si eseguono esperimenti o calcoli, allo scopo
di trovare una conferma dell'ipotesi.
Attraverso questo procedimento si può scartare
l'ipotesi di partenza oppure si può confermarla elaborando delle previsioni che
possono essere verificate con successivi esperimenti e ricerche.
Sullo
stesso fenomeno, o insieme di fenomeni, si può arrivare a sviluppare, ed
eventualmente confermare, più ipotesi.
In
seguito, l'accumularsi di conferme, dati ed evidenze può sfociare
nell'elaborazione di una teoria.
L'evoluzione
biologica è un fatto della cui esistenza abbiamo numerose evidenze. Ma è anche
una teoria, cioè un complesso di spiegazioni di questo fatto e delle
osservazioni che si sono accumulate su più fenomeni ad esso associati.
Ma
questa è una versione semplificata di quello che chiamiamo "metodo
scientifico".
Il
lavoro concreto degli scienziati comprende un insieme di numerose attività sia
teoriche che pratiche (analisi della letteratura scientifica, interpretazioni
dei dati, costruzione di modelli teorici...) che scandiscono il faticoso
cammino verso la scoperta scientifica.
Ed è un tragitto non predeterminato perché può portare
anche a esiti inaspettati. Soprattutto, è un cammino a cui partecipano più
scienziati e gruppi di scienziati, il cui lavoro con il tempo porta ad
approfondire sempre di più un particolare problema, accumulando conferme ed
evidenze e confermando e scartando ipotesi.
Quest'ultima
considerazione ci permette di introdurre un quarto significato della parola
“scienza”: una comunità di ricerca.
Se in passato le grandi elaborazioni teoriche
e le celebri scoperte erano spesso il prodotto del “genio” di singoli
scienziati (nomi come Galileo, Newton, Darwin), oggi sono più spesso il frutto del
lavoro congiunto o collaborativo di ricercatori e gruppi sparsi nel mondo.
La
comunità scientifica è il luogo dove gli scienziati esperti di un campo
specifico mettono in discussione i propri studi e si confrontano.
Oggi
un lavoro non può essere definito davvero “scientifico” se non viene pubblicato
su riviste dove gli articoli che riportano gli studi vengono selezionati e
valutati da “pari”, cioè persone di competenza simile a quella degli autori
della ricerca.
Questo
“filtro” non è perfetto né immune da errori e non garantisce sempre che non
vengano pubblicati anche studi deboli o controversi, quando non vere frodi. Ma la pubblicazione di uno studio
costituisce un primo vaglio che dà la possibilità alla comunità scientifica di
conoscerlo e criticarlo.
Giunti
a questa ultima definizione di scienza, possiamo finalmente tornare al
confronto tra la scienza e la democrazia.
Sostengono
alcuni:
«la
scienza non è democratica» perché la validità di ipotesi e teorie non si mette
ai voti, ma deve essere dimostrata con delle prove.
Che
nella scienza servano prove ed evidenze, lo abbiamo visto, è indubbio. E avendo
accettato la definizione “formale” di democrazia data da Bobbio, cioè un «metodo per prendere delle decisioni», verrebbe spontaneo pensare di mettere
a confronto il metodo democratico con quello scientifico e di concludere che
siano due mondi totalmente contrapposti.
Ricordate
però cosa aveva detto” Bobbio” riguardo al
“metodo democratico ” ? :
«...tutti
partecipano alla decisione direttamente o indirettamente. Secondo: la decisione
viene presa dopo una libera discussione a maggioranza»
La
parola discussione ci fa forse intuire che in realtà, a dispetto di quanto
alcuni ritengono, non è la scienza come metodo che deve essere messa a
confronto con la democrazia, ma la scienza come comunità.
Come ho sottolineato prima, l'avanzamento della
conoscenza in un determinato campo non è solo il risultato di un lavoro
individuale o di un singolo gruppo, ma di una comunità.
La dimensione pubblica è un tratto che
contraddistingue la scienza fin dalla nascita, con la rivoluzione scientifica,
delle accademie, luoghi di incontro e di discussione appunto.
Nella
scienza avviene una libera discussione in cui la ricerca viene sottoposta a un
controllo pubblico.
La
pubblicazione di uno studio, come ho accennato, è una delle modalità con cui
viene esercitato questo controllo.
Se la
discussione in un gruppo democratico ha come esito una decisione da prendere,
qual è nella scienza l'equivalente di questa decisione?
Lo
scopo degli scienziati è quello di raggiungere un consenso più ampio possibile
su un certo problema.
Quello che si chiama “consenso scientifico”
non è altro che la posizione che la comunità di scienziati che lavorano in un
campo specifico esprime su un particolare tema.
Per
esempio: perché
oggi possiamo affermare che esiste il riscaldamento globale e che noi esseri
umani siamo i principali responsabili di questo fenomeno?
Possiamo
farlo perché l'analisi della letteratura pubblicata dimostra che gli scienziati
che si occupano di clima hanno con il tempo raggiunto un chiaro accordo su una
specifica affermazione:
«è
estremamente probabile che l'influenza umana sia stata la causa dominante del
riscaldamento osservato dalla metà del XX secolo».
E
questo consenso oggi emerge dalle posizioni delle accademie e delle associazioni
che rappresentano gli esperti di diverse discipline scientifiche.
Certo,
questa “decisione” non viene presa attraverso una esplicita deliberazione
assembleare, come in una collettività che applica il metodo democratico.
Non
c'è un momento in cui si mette ai voti l'esistenza del riscaldamento globale e
la responsabilità dell'uomo.
Ma
nella “Repubblica della Scienza” non c'è una “auctoritas centrale” che possa
decidere arbitrariamente da sola.
Tutti
i cittadini di questa "Repubblica" possono partecipare con il loro
lavoro a un processo di accumulo della conoscenza, di controllo pubblico, di
discussione dei rispettivi risultati e di (spesso faticosa, lenta e tortuosa)
costruzione di un consenso.
Ma la
democrazia, lo abbiamo visto, si configura anche come un sistema di valori. È
possibile quindi che scienza e democrazia condividano qualcosa da questo punto
di vista?
Esistono dei “valori scientifici”?
In un
suo testo del 1942 “Robert K. Merton”, considerato il fondatore della
sociologia della scienza, ha individuato una “struttura normativa della
scienza” basata su quattro norme che possiamo sintetizzare così:
Comunitarismo: le scoperte sono patrimonio della
comunità scientifica, perché sono frutto di un lavoro collettivo.
Universalismo: affermazioni, tesi e risultati non
vengono giudicati in base alle caratteristiche personali del loro autore. Il
loro valore è quindi indipendente da nazionalità, religione e classe sociale.
Disinteresse: l'interesse primario dello
scienziato è l'avanzamento della conoscenza.
Scetticismo
organizzato:
lo scienziato sottopone a critica i risultati altrui e i propri.
Questi
principi dovrebbero rappresentare non solo delle norme di comportamento
pratico, ma anche un vero e proprio ethos scientifico, un insieme di valori che
contraddistinguono la scienza:
una comunità di ricercatori che perseguono il bene
comune della conoscenza, una repubblica di uguali, senza distinzioni etniche,
religiose e di classe, che sottopongono il loro lavoro a un controllo pubblico
interno.
Naturalmente
“Merton” era consapevole del fatto che nel mondo reale non sempre questi
principi vengono rispettati.
Più
che descrivere la scienza per come funziona sempre, queste norme indicano come
dovrebbe funzionare.
C'è
stato peraltro chi ha osservato che qualche volta il progresso della conoscenza
può venire avvantaggiato da una violazione di queste norme.
Per
esempio l'insistenza nel lavorare su una ipotesi, anche dopo che è stata
“demolita” dai colleghi, potrebbe portare uno scienziato a ottenere risultati
interessanti e inaspettati.
Possiamo
comunque considerare le “norme mertoniane” alla stregua di principi-guida che
dovrebbero ispirare la comunità scientifica, una sorta di Costituzione della
scienza.
Tutto
quello che ho scritto finora dimostra quindi che la scienza è democratica?
Perché
la scienza è una questione democratica.
La
prima domanda che ci siamo fatti era: la scienza presenta, oppure no, qualche
affinità con la democrazia?
Tutto sommato, per come funziona al suo
interno e per le norme che, almeno secondo Merton, segue (o dovrebbe seguire),
la scienza sembra avere più somiglianze che differenze rispetto a ciò che noi
oggi chiamiamo “democrazia”.
La
risposta alla prima domanda potrebbe quindi essere sì.
Ma al di là della risposta, affrontare questo
punto era necessario perché ci ha permesso di chiarire il significato di parole
come “democrazia” e “scienza”, date troppo per scontate e di individuare alcune
analogie e differenze tra le due.
Ma
finora ho parlato soltanto di come funziona la scienza al suo interno.
Penso
tuttavia che il vero problema posto dallo slogan “la scienza non è democratica”
stia nella seconda domanda che ci siamo fatti:
qual è
il rapporto tra scienza e democrazia, cioè tra scienza, istituzioni e società
nel contesto di una democrazia?
Detto
in altri termini: a parte il suo funzionamento interno, la scienza è
democratica verso l'esterno, cioè nei confronti del resto della società?
Rispondono
alcuni:
no, la scienza non è democratica perché chi non è
esperto non può intervenire in una discussione su un tema specialistico.
Ha
diritto di parola solo “chi ha studiato”.
Ma è
davvero questo il punto?
C'è qualcuno forse che pensa che sulla storia
medievale, la filologia classica o il diritto penale chiunque invece possa
parlare senza avere alcuna conoscenza di quelle materie?
Affermare
che “la scienza non è democratica” perché per intervenire su un tema
scientifico bisogna “avere studiato” è una ovvietà, condivisibile, ma che non
ci dà nessuna informazione sulla scienza stessa né ci fa capire in cosa essa
eventualmente si distingua non solo da altre discipline, ma perfino da saperi
tecnico-manuali (io non do consigli su come riparare una caldaia perché non ne saprei
quasi nulla).
Il
problema perciò è un altro.
E credo sia questo: il dibattito su questo slogan si è
inserito in un momento di grande scontro su temi, come i vaccini, che hanno
sollevato il problema del rapporto tra la comunità scientifica e il resto della
società.
Cioè, tra esperti e non esperti.
La
responsabilità di questo problema viene di norma scaricata interamente sulla
società.
Cioè,
gli scienziati sono incompresi e la gente comune è "antiscientifica".
La
scienza però non è tutta controversa e rifiutata.
Che io sappia, nessuno dubita dell'esistenza
degli elettroni o di come funziona la fotosintesi clorofilliana o della
neuroanatomia (o se c'è è davvero minoritario).
Ci
sono teorie scientifiche, come quella dell'evoluzione, che vengono rifiutate
per motivazioni culturali-religiose da una parte della società, anche
percentualmente rilevante in alcuni paesi come gli Stati Uniti, dove sono
diffuse forme di creazionismo che impongono di fatto il rifiuto di nozioni
fondamentali della biologia, della geologia e non solo.
Ma
perché ci sono persone che "rifiutano" alcuni fatti scientifici? Il modo con cui alcune evidenze
scientifiche, che di per sé sarebbero “neutre”, si incastrano all'interno delle
visioni personali è talvolta complicato.
Ed è
per questo che può essere piuttosto difficile far “accettare” fatti anche
ripetutamente comprovati.
Sarebbe
tutto molto più semplice se così non fosse.
Ma così è.
E non
è sempre e solo un problema di ignoranza e di scarsa considerazione della
scienza.
La
posizione sugli organismi geneticamente modificati in agricoltura o il
riscaldamento globale è di frequente influenzata dall'esperienza e dalle idee
personali.
Ci sono persone entusiasticamente “pro-Ogm”
che diventano “scettiche” sul riscaldamento globale.
D'altra
parte, tra diverse associazioni ambientaliste, che riconoscono l'esistenza del
riscaldamento globale e giustamente si battono per l'ambiente, si riscontrano
ancora preconcetti nei confronti dell'uso di Ogm in agricoltura.
Accade
quindi che si accettino le evidenze scientifiche che non mettono in crisi la
propria visione o che la sostengono e si rifiutino quelle che (magari anche a
torto) si pensa che siano incompatibili con i propri valori. Si finisce per dividersi in campi avversi per
contrapposizioni che sembrano non ricomponibili (ad esempio: “pro-Ogm” o
“anti-Ogm”).
Non è
una regola, ma è un fenomeno che si osserva.
Questa
complicata interazione tra fatti e valori si deve in parte al fatto che la
scienza, con le sue scoperte, dà dei messaggi talvolta
"contrastanti":
qualche
volta ci rassicura (come sui vaccini), altre volte ci mette in guardia (come
sul clima e l'ambiente).
Tra
chi lamenta il "rifiuto della scienza", la spiegazione che va per la maggiore
è però molto più semplice e sbrigativa:
la
colpa è del pregiudizio "antiscientifico” e dell'atteggiamento
“irrazionale” che dilagherebbero nella società.
Ma non
esiste un “partito anti scienza” inteso come un settore della società
“antiscientifico” su tutto, monolitico e numericamente vincente.
Osserva, un centro di ricerca sui rapporti tra
scienza e società, rileva una crescente alfabetizzazione scientifica nella
popolazione italiana e una sempre maggiore attenzione e interesse per la
scienza.
Un
dato che sembra contrastare con una certa retorica a riguardo.
La
realtà è fatta sicuramente di chiari e di scuri e anche di dati di più
difficile interpretazione, se non apparentemente contraddittori (come quelli
che proprio “Osserva” ha registrato l'anno scorso rispetto all'opinione degli
italiani sui vaccini).
Ma
quella dell'“anti scienza dilagante” e dell'"oscurantismo" come
spiegazione universale è una narrazione stereotipata e di comodo che semplifica
questa realtà.
Anche
l'antivaccinismo radicale è una frangia minoritaria, le cui tesi vanno
certamente contrastate.
Ma c'è
un fenomeno molto più ampio di “esitazione vaccinale”, fatto di attitudini e
atteggiamenti pratici più variegati e sfumati che portano magari a rifiutare un
solo vaccino.
D'altra
parte anche gli scienziati e le scienziate non sono esseri umani avulsi dalla
società.
Sono
cittadini che partecipano alla vita sociale, economica, qualche volta anche
politica.
Lo
fanno essi stessi con le proprie idee, pregiudizi, errori, opinioni e visioni
del mondo.
Indipendentemente
dalle diversissime posizioni che ognuno può maturare su ogni specifico
"fatto scientifico", penso che la vera questione che dovrebbe
interessare sia gli scienziati che tutti gli altri cittadini sia questa:
la
scienza è una grande, fondamentale, questione democratica.
Si fa
un gran parlare di scienza oggi in relazione ai vaccini, invocati per tracciare
divisioni tra "pro-scienza" e "anti scienza".
Ma che
dire di una questione come quella delle politiche della ricerca?
"Scienza" è anche la ricerca
pubblica, quella ricerca di base che ha come obiettivo principale proprio
l'avanzamento della conoscenza sulla natura:
la
curiosità scientifica fine a sé stessa, al di là delle eventuali applicazioni
pratiche e dei benefici che potrebbe produrre.
Vogliamo
quindi investire nella ricerca (non solo scientifica) e nell'Università, dove
si formeranno gli scienziati di domani?
È una domanda che riguarda scelte collettive.
Scelte
politiche, non scientifico-tecniche, sulla direzione che vuole prendere un
paese, cosa che non interessa solo la comunità scientifica.
Eppure
di questo non si parla molto neanche in campagna elettorale, nonostante la
situazione in cui ancora oggi versano in Italia la ricerca pubblica e
l'Università.
Pensiamo
poi a tutti quei temi di cui si parla sui media, rispetto ai quali per i non
esperti è molto più difficile capire "cosa dice la scienza".
Ad esempio, sulla questione dell'utilizzo del glifosato in
agricoltura,
di fronte all'opinione pubblica si svolge una discussione delicata tra
scienziati ed enti regolatori su dati non conclusivi, studi interpretati
diversamente, valutazione del rischio.
Oltre
a essere di difficile comprensione per molti cittadini, questo non è un
problema solo per gli addetti ai lavori.
Giunge
dalla società una richiesta di maggiore trasparenza da parte degli organismi di
controllo.
Quando
si chiede alla gente di "credere nella scienza" in ambiti come la
sicurezza alimentare e la sanità pubblica, le si sta in realtà chiedendo anche
di avere fiducia in enti tecnico-scientifici di controllo.
Parliamo
di organi guidati da esperti che però nello stesso tempo rivestono dei ruoli
pubblici.
Un
pezzo di comunità scientifica che sta dentro la democrazia, come sistema di
governo.
La fiducia nella scienza in questo caso è la
fiducia nelle istituzioni.
Contemporaneamente
però alcuni si rivolgono ai cittadini non esperti dicendo loro che non hanno
“diritto di parola” su temi tecnico-scientifici che li riguardano da vicino.
Perché certo, non hanno sufficienti competenze
per occuparsene.
Ma
sono gli stessi cittadini che poi si esprimono in referendum sull'energia
nucleare, la fecondazione assistita o le trivellazioni in mare.
Infatti
la scienza di cui si discute pubblicamente ha spesso a che vedere con
particolari applicazioni:
le biotecnologie, l'utilizzo dell'energia nucleare,
appunto, o le energie alternative, l'uso di alcuni animali nella
sperimentazione di laboratorio, l'impiego di fitofarmaci in agricoltura o gli
stessi vaccini.
Tutti
questi ambiti sono scienza, ma nello stesso tempo sono anche questioni che si
sovrappongono con l'economia, il diritto, l'etica, le politiche sull'ambiente.
E che
interessano tutti noi, non solo gli scienziati.
Come
si può chiedere ai cittadini di limitarsi a essere solo spettatori, invece che
anche attori, di tutte queste discussioni?
Per
questa ragione su tanti e importanti temi scientifici, sanitari, ambientali
abbiamo bisogno sia di un consenso scientifico (e spesso per fortuna c'è già, come
sulla sicurezza dei vaccini e il clima), sia di un consenso democratico.
Certo
abbiamo anche un enorme bisogno di un dibattito adeguato e informato.
E in questo è fondamentale il compito che deve
svolgere la comunicazione della scienza.
Che
tuttavia non può più essere solo quello di trasferire fatti e nozioni come
accade nella divulgazione scientifica tradizionale, ancora comunque preziosa e
necessaria.
È
vero, l'informazione che circola è spesso carente, poco chiara, disorientante.
Ma
l'informazione da sola, in molte circostanze, non è sufficiente a cambiare le
opinioni e i comportamenti di chi per alcune motivazioni "rifiuta"
una certa evidenza scientifica.
La comunicazione della scienza quindi dovrebbe essere
anche una “cerniera”, uno strumento di mediazione tra scienza, società e
politica.
Un
mezzo per accorciare le distanze, promuovere il coinvolgimento del pubblico,
trovare linguaggi comuni e affrontare le ragioni alla base di quelle
contrapposizioni che, come dicevo, determinano il formarsi di fronti
"pro" e "contro".
Rispetto
a tutto questo complesso scenario che caratterizza i tempi in cui viviamo, mi
pare che la
frase “la scienza non è democratica” contenga in sé un'idea e un messaggio
di isolamento ed estraniazione della scienza dal resto della società e dai
processi di partecipazione e costruzione del consenso anche su temi che la
riguardano da vicino.
E
addirittura di ostilità nei confronti della democrazia (e ripeto quanto ho detto all'inizio:
anche al di là delle intenzioni con cui si pronuncia quella frase).
Si fa
megafono di una idea della democrazia impoverita e svilita, molto lontana da
quella dimensione sostanziale e valoriale di cui parlavo all'inizio.
A
forza di associare il concetto di democrazia al caos delle "opinioni"
(nell'accezione, secondo alcuni, di "affermazioni a vanvera") e delle
bufale, potremmo finire per avere sempre più sfiducia in questa forma di
governo e di organizzazione sociale e nei suoi valori.
A qualcuno, chissà, potrebbe venire voglia di
chiedere a gran voce di rivedere il suffragio universale per impedire agli
"ignoranti" di votare (e capita già di leggere commenti di questo
tenore).
Cosa che non impedirebbe la diffusione di
bufale, teorie del complotto (come quelle che sono circolate riguardo al batterio Xylella)
e pseudoscienze
(ricordiamoci
peraltro che parecchie tesi pseudoscientifiche sono state inventate, o vengono
appoggiate, anche da medici e scienziati).
Il
futuro è un altro.
La scienza e la democrazia condividono un
destino comune e non possono che essere l'una l'orizzonte di riferimento
dell'altra, in un processo di positiva contaminazione reciproca.
Non esiste tra di esse una soluzione di
continuità sociale.
L'etica scientifica (le norme di Merton),
lungi dall'essere antidemocratica, può anzi essere una fonte di ispirazione per
il dibattito pubblico.
Credo
che questa "contaminazione" sia l'unica strada che possiamo
percorrere per far sì che la società e quindi la politica (in definitiva: noi
tutti) trovino su tante questioni fondamentali quel "consenso razionale di
opinione" di cui abbiamo così tanto bisogno.
Astensionismo,
una minaccia
per la
democrazia.
Lavoce.info - RICCARDO CESARI – (10/08/2022) –
ci dice:
Il
disagio economico e sociale è alla radice dell’astensionismo nelle elezioni
politiche.
La sua
crescita, soprattutto tra i giovani, indebolisce la partecipazione politica e
corrode alla base i fondamenti democratici della società civile.
Il
partito del “non voto.”
Sembra
che l’unica cosa certa dei risultati elettorali del prossimo 25 settembre sarà la vittoria del “partito del
non-voto”.
Non si
può considerare una novità, visto che la quota dell’astensione in Italia è in
forte crescita dal 1979 . E, se a settembre si dovesse ripresentare il boom di
astensioni delle comunali di giugno (45 per cento), il prossimo dato nazionale
sfonderà di molto la soglia del 30 per cento, cinque volte il minimo storico
degli anni Settanta.
In
termini assoluti, questo 30 per cento si traduce in 15 milioni di elettori
astenuti su 50, cioè, rispetto ai votanti, ben 43 per cento (=15/35).
Qualcuno
potrebbe osservare che il 70 per cento degli elettori – o anche solo il 60 per
cento – sono la grande maggioranza del corpo elettorale.
Se,
per conoscere l’opinione di una popolazione, se ne intervistasse un campione
del 60 per cento si otterrebbero risultati molto rappresentativi.
Tuttavia,
è così solo perché quel 40 per cento che non si è contattato o che non ha
risposto è un gruppo casuale e la sua assenza non inficia la rappresentatività
del restante 60 per cento.
Se,
viceversa, quel 40 per cento di assenze è un gruppo sistematico, per esempio
tutte donne, o tutti meridionali, o tutti del Nord, o tutti giovani, il
risultato di quel sondaggio uscirebbe fortemente distorto e per nulla
rappresentativo dell’intera popolazione.
Qui sta il problema.
Come è
stato di recente sottolineato da “Ludovica Geraci” e “Massimo Taddei” per
l’Italia e da “Alexandria Symond”s in un confronto internazionale, la
componente degli elettori giovani è tendenzialmente più assente al momento del
voto rispetto agli anziani.
Quanto
incide la povertà.
Tra
gli aspetti che aiutano a spiegare questi livelli di astensionismo, oltre a
questioni logistiche, di costi-opportunità, di “habit formation” e di forme alternative di
partecipazione attiva, credo abbia un ruolo la morsa della povertà, nella
doppia tenaglia dei problemi più pressanti che incombono sul potenziale
elettore e della forte disillusione che la politica sia ancora capace di darvi
una risposta.
Infatti,
oltre a spiegare una quota elevatissima (63 per cento) della variabilità
interregionale dell’astensione, la relazione tra povertà e astensionismo elettorale
mostra molto nettamente, nei dati 2018, il ritorno di un dualismo Nord-Sud che
si pensava almeno in parte superato.
La povertà relativa è definita con riferimento
allo standard di una famiglia di due persone con consumi totali uguali o
inferiori al consumo medio pro capite.
Con
l’eccezione virtuosa dell’Abruzzo, tutte le regioni del Sud mostrano livelli
record di astensione e di povertà, mentre le regioni del Centro-Nord sono tutte
accomunate da bassa astensione e ridotta povertà.
Guardando
dentro il dato di povertà, che colpisce in misura più che doppia i giovani
rispetto agli anziani, si trovano due fattori di grave disagio sociale:
l’abbandono scolastico e la disoccupazione (Neet, Not in employment, education
or training), vale a dire rispettivamente la povertà educativa e la povertà
economica, che si sommano e si combinano per corrodere alla base i fondamenti
democratici della società civile.
Aggiungendo
questi due fattori alla correlazione si vede come la povertà famigliare perde
di significato in favore delle altre due componenti.
L’R2 della regressione sale dal 63 all’85 per
cento e le stime indicano quasi mezzo punto di astensionismo per ogni punto di
abbandono prematuro degli studi e oltre un quarto di punto di astensione
elettorale per ogni punto di Neet.
Il
risultato così ottenuto indica, in modo abbastanza chiaro, che le politiche
educative ed economiche per i giovani possono avere ricadute positive anche in
termini di partecipazione sociale, per ridare senso e vigore a un sistema
politico avviato su una pericolosa deriva che sta progressivamente togliendo il
demos alla democrazia.
Quei
164 miliardi di euro
che le
banche “devono” a tutti noi.
Cos’è
il signoraggio.
Tempi.it
– (17 ottobre 2015) – Giovanni Passali – ci dice:
Il
sistema perverso per cui un nostro bene (la moneta in circolazione) diventa un
nostro debito.
Un peso finanziario intollerabile in tempo di
crisi economica.
Gentile
direttore, nell’ultimo articolo ho riportato il bilancio della Banca d’Italia
per mostrare l’incongruenza di un sistema che non solo non serve l’economia
reale, ma procura un danno finanziario oggettivo alle casse dello Stato.
L’aspetto
trascurato riguarda la definizione di signoraggio.
Secondo
la Banca d’Italia il signoraggio è «l’insieme dei redditi derivanti
dall’emissione di moneta», come confermato anche dal sito web ufficiale.
Tali
redditi sono quindi “derivati” dall’emissione di moneta, non sono la stessa
moneta.
In altre parole, il signoraggio sono gli
interessi dei titoli di Stato ricevuti in cambio della moneta stampata e poi
trasmessa alle banche commerciali.
Ora
invece il buon senso ci dice che il reale signoraggio sono proprio le banconote
in circolazione, che senza alcun motivo sono poste tra “i passivi del bilancio”.
Un
motivo storico in realtà c’è.
Il
motivo è che, quando la moneta era l’oro, essa veniva depositata presso chi già
era attrezzato per conservarlo adeguatamente, cioè chi lavorava l’oro.
Il depositante riceveva una ricevuta, una
“nota di banco”, antenata dell’attuale banconota.
Quando
il depositante poi, girando per il mondo con la sua “nota di banco”, realizzava
un acquisto di merce, invece di cedere l’oro, cedeva la “nota di banco”. Quindi l’oro smise di spostarsi e nel
bilancio l’oro era posto tra gli attivi, mentre le “note di banco” erano
giustamente tra i passivi.
Ma
oggi le nostre banconote non vengono emesse in ragione di una quantità di oro
depositato, sono create dal nulla in funzione delle richieste del mercato, quindi la loro apposizione tra i
passivi è solo una convenzione, una convenzione che può (e dovrà) essere
cambiata.
Tanto è vero che per il bilancio dello Stato già è
così, quando lo Stato oggi stampa le monetine euro queste vengono ovviamente
messe tra gli attivi.
E se tornasse a stampare la sua moneta, lo Stato
metterebbe tra i propri attivi tutta la moneta creata, con enorme beneficio per
il proprio bilancio e per l’abbattimento del debito pubblico.
Quelli
che una volta detenevano l’oro erano anche in grado di fare prestiti
(relativamente al loro oro), ma invece di dare l’oro iniziarono anche loro a
dare la “nota di banco”, che tutti accettavano perché sapevano che c’era l’oro
a garanzia. Quella “nota di banco” valeva l’oro che rappresentava.
Da
Bretton Woods alla moneta come debito.
Ora
facciamo un grande salto e arriviamo al 1944, agli accordi di Bretton Woods.
Con quegli accordi si sancì che tutte le monete potevano essere cambiate in
dollari e i dollari potevano essere cambiati in oro, una forzatura imposta
dagli Stati Uniti ormai sicuri vincitori della guerra mondiale.
Quindi
alla fine le monete avevano un sottostante, cioè un bene prezioso grazie al
quale il valore monetario non era messo in discussione.
Quello
che però ancora non si era compreso è che la moneta, se funziona come moneta,
ha valore in sé.
E tale
valore è massimamente consistente nella fiducia che tutti gli utilizzatori
ripongono nella moneta.
Non a
caso l’odierna crisi è scoppiata nel 2007, quando le banche hanno iniziato a
non avere più fiducia tra di loro, a non prestarsi più denaro tra loro.
L’unica
istituzione che aveva rilevato lo stretto legame tra la moneta e la fiducia, o
meglio la natura sociale del denaro, fu la Chiesa cattolica, che nella lettera
enciclica Quadragesimo Anno affermava che
«si dovrà soprattutto avere riguardo della
doppia natura, individuale e sociale propria, sia del capitale quanto del
lavoro».
Questa
lettera è stata scritta nel 1931, cioè nel pieno della tempesta finanziaria
causata dalla grande depressione del ’29.
Questo
è il difetto di tanta cultura economica moderna: il non tenere conto della
“natura sociale” del capitale, cioè della moneta.
Facciamo
un altro salto temporale.
Nel
1971 gli Stati Uniti decisero unilateralmente di abolire gli accordi di Bretton
Woods, cioè di non cambiare più i loro dollari con il loro oro.
Oltre all’aspetto morale di una decisione
unilaterale, occorre considerare che non poteva finire diversamente, poiché
tutto l’oro del mondo non era sufficiente a supportare, come moneta, gli scambi
commerciali del mondo.
E così
l’emissione monetaria fu svincolata dall’oro depositato.
Questo
non portò a nessun disastro finanziario immediato, i sistemi monetari
continuarono a funzionare.
Da
allora l’esperienza rese evidente il valore sociale proprio della moneta.
Ma nessuno rilevò questo fatto, nessuno prese
coscienza di questo valore.
Il
problema è che il sistema delle banche centrali utilizzò questo potere, il
potere di creare dal nulla un mezzo il cui valore è la fiducia del popolo che
lo usa, per prendere progressivamente il dominio finanziario nel mondo,
favorendo la speculazione e i capitali e indebitando gli Stati.
Non si
prese coscienza del fatto che le banche centrali creano denaro dal nulla,
poiché non hanno alcun obbligo di riserva rispetto alla moneta creata.
Però questa creazione diventa di fatto debito
per la collettività.
Questo
è il danno oggettivo del denaro creato dal nulla e messo tra i passivi del
bilancio.
E
questo danno è il signoraggio bancario, cioè l’intero capitale creato, non i
«redditi derivati dall’emissione».
Le
banche centrali possono pure affermare che per loro il reddito da signoraggio
sono gli interessi dei titoli acquistati con il denaro creato dal nulla. Ma in
realtà il reddito da signoraggio che tolgono agli Stati è precisamente il
capitale creato.
Un
passivo che produce un attivo?
Le
banche ovviamente negano, dicono che devono mettere le “banconote in
circolazione” tra i passivi perché queste per loro sono un debito.
Ora,
non si è mai visto che una qualsiasi azienda lavori per prodursi un passivo, un
debito.
E non
si è mai sentito che un debito produca un interesse, un attivo.
Una
stortura logica tollerata dalle leggi particolari per la redazione dei bilanci
delle banche centrali.
Rimane un fatto indiscusso: se quelle banconote fossero create
dallo Stato, quella somma sarebbe tra gli attivi del bilancio dello Stato,
quindi il danno finanziario per lo Stato è esattamente pari a quella cifra.
A
conferma di questa interpretazione c’è il già citato discorso del governatore
della Banca centrale svizzera Jean-Pierre Roth, il quale nel 2003 affermò che
la Svizzera non era entrata nell’euro perché avrebbe perso il signoraggio, cioè
40 miliardi di franchi, cioè 26 miliardi di euro all’epoca.
Quindi lo Stato perde esattamente il denaro stampato.
Roth
arriva addirittura a quantificarlo in 3.700 euro a persona.
Oggi,
calcolando per l’Italia 164 miliardi diviso 60 milioni di abitanti, abbiamo
circa 2.700 euro a testa, dal neonato all’ultracentenario.
A
ulteriore conferma c’è proprio il sito ufficiale della Banca d’Italia, nella
pagina già indicata sopra dedicata al tema signoraggio.
Questa
pagina contiene un brano con due affermazioni corrette e due gravissime
menzogne finali.
Dopo
aver ribadito che il signoraggio è dato dai redditi derivanti dall’emissione di
moneta, verso la fine della pagina, dove parla della differenza tra la stampa
di moneta effettuata dallo Stato e quella fatta dalla banca centrale, si può
leggere testualmente:
«La
principale differenza consiste nelle modalità con cui si forma il signoraggio.
Quando
la moneta è prodotta dallo Stato, è quest’ultimo che, spendendola ad esempio
per acquistare beni e servizi, la mette in circolo nell’economia e realizza
immediatamente il controvalore, al netto dei costi di produzione.
Quando
invece è la banca centrale a emettere le banconote (o, più in generale, la base
monetaria, che include anche le riserve costituite dalle banche su conti presso
la banca centrale), queste non sono spese in beni e servizi ma fornite alle
banche commerciali, in forma di prestito, per le esigenze del sistema
economico, o utilizzate per l’acquisto di attività finanziarie, come i titoli
di Stato o le attività in valuta estera;
al
valore delle banconote, iscritto al passivo del bilancio della banca centrale,
corrisponde quindi l’iscrizione di attività fruttifere nell’attivo del
bilancio, che rendono un interesse.
Perciò
la banca centrale ottiene il signoraggio nel corso del tempo, come flusso di
interessi sulle proprie attività fruttifere, al netto del costo di produzione
delle banconote.
Il valore scontato di tale flusso, che come si
è detto è riversato allo Stato, è pari a quello che quest’ultimo avrebbe
ottenuto immettendo direttamente la banconota nel circuito economico».
All’inizio
si afferma quanto io ho già affermato, cioè che lo Stato spendendo la moneta
che si è stampata realizza il controvalore di quella moneta, cioè i 164
miliardi nel caso dell’Italia.
Nel
secondo caso, quando è la banca a stampare moneta, questa realizza il profitto
degli interessi, che è ovviamente una cifra molto minore: quest’anno circa 3
miliardi.
Ora
veniamo alla frase finale, che contiene due gravi affermazioni.
La
prima affermazione è che i redditi della banca centrale sono riversati allo
Stato.
Ma
guardiamo ai numeri:
lo Stato quest’anno ha incassato 2 miliardi
sui 3 di reddito (il 60 per cento, come stabilito a norma di statuto).
Ma
quanto ha incassato di interessi la Banca d’Italia?
Sempre
dal bilancio vediamo alla voce “interessi attivi” la bella cifra di 5,7
miliardi di euro.
Ma chi
ha pagato questi interessi?
Ovviamente
Bankitalia detiene titoli di Stato, quindi quegli interessi li abbiamo pagati
noi.
Quindi
lo Stato ha incassato 2 miliardi dai redditi, più un miliardo di tasse.
Però
ha pagato 5,7 miliardi di euro per interessi.
Inoltre
si parla di “flusso riversato allo Stato”, come se alle banche italiane
“Partecipanti” non toccasse nulla. Ma non è così.
Quest’anno
si sono prese 340 milioni, come scritto a bilancio a pagina 216, di cui qui
riporto la parte interessata.
Se un
bene di tutti diventa un peso.
Ma la
cosa ancora più grave è la frase finale:
«Il valore scontato di tale flusso (2 miliardi
per quest’anno, ndr) è pari a quello che quest’ultimo avrebbe ottenuto
immettendo direttamente la banconota nel circuito economico».
Per la
Banca d’Italia quindi 2 miliardi sono pari a 164 e dobbiamo essere contenti
così!
Quindi
il problema del signoraggio è prima di tutto un gravissimo problema morale,
perché la Banca d’Italia si appropria di un bene della collettività e
mettendolo tra i passivi finisce col farlo diventare un debito per la
collettività, realizzando il capolavoro contabile per cui un nostro bene
diventa un nostro debito.
Ma
questo problema morale diventa un chiaro e lampante peso finanziario,
intollerabile soprattutto in un momento di grave crisi economica.
Questo
è il vero, grande motivo per cui la banca centrale deve tornare nel pieno
possesso dello Stato, stampando moneta che finisca tra gli attivi dello Stato (come già oggi succede per le
monetine).
E
tutti noi dobbiamo prendere coscienza del fatto che quando lo Stato stampa
moneta non compie un abuso, ma crea uno strumento che rappresenta un valore
sociale, il valore della nostra società, il valore della nostra civiltà.
Un
valore il cui unico sovrano è il popolo italiano, perché la sovranità
appartiene al popolo (non al governo o al parlamento o alla Banca d’Italia),
come recita l’articolo 1 della nostra Costituzione.
Meloni
tassa le banche ma non basta:
da
sinistra urge una proposta
di
riforma del sistema monetario.
Micromega.net
- Enrico Grazzini – (21 Agosto 2023) – ci dice:
La
tassa sugli extraprofitti delle banche non colpisce lo strapotere della
finanza. Occorrono riforme strutturali e non strumenti fiscali una tantum.
La
sinistra dovrebbe rivedere radicalmente la sua visione e il rapporto di
subalternità che ha finora intrattenuto con il settore finanziario globalista.
Lo Stato dovrebbe riconquistare il potere sulla moneta
che attualmente è completamente in mano al settore privato.
Le
tasse sui superprofitti bancari decise a sorpresa all’inizio di agosto da
Giorgia Meloni, capo del governo italiano di destra, saranno anche frutto del
suo populismo demagogico e di calcolo elettorale;
tuttavia
bisogna ammettere che il Pd di Enrico Letta e dei suoi predecessori e nessun
governo passato di centro-sinistra si sarebbero mai azzardati a toccare
l’establishment bancario, mentre la Giorgia nazionale, per ragioni di immagine
o semplicemente per necessità di cassa, il coraggio di fare prevalere la
politica sulla grande finanza almeno per una volta l’ha avuto.
Che le
banche abbiano maturato superprofitti grazie all’aumento dei tassi di interesse
deciso dalla Banca Centrale Europea di Christine Lagarde è assolutamente certo:
i profitti bancari sono aumentati nel primo
semestre di questo anno del 63% rispetto a quelli del semestre dell’anno
precedente.
Le banche non hanno incrementato le remunerazioni dei
depositi dei risparmiatori ma hanno aumentato gli interessi sui prestiti: da
qui i superprofitti.
Questi
si trasformeranno in lauti dividendi per gli azionisti e andranno ad arricchire
le grandi finanziarie, in buona parte estere, che controllano le banche
italiane.
Solo
per fare un esempio:
Unicredit,
la seconda banca italiana, dichiara di essere “una public company, controllata
circa all’85% da investitori professionali, di cui la maggioranza è ubicata
fuori dall’Italia” (ovvero in America e Gran Bretagna).
Sapendo
che le banche non godono di ottima reputazione presso la pubblica opinione, il
governo in affanno di liquidità ha dunque deciso di tassare i sovraprofitti che
tra l’altro, sotto forma di dividendi per gli azionisti, andranno in parte
all’estero.
Naturalmente
la misura fiscale è una tantum e, subito dopo essere stata annunciata, è anche
stata subito ridimensionata:
il
capo della Lega Matteo Salvini aveva all’inizio enfaticamente affermato che la
tassa straordinaria sulle banche avrebbe portato nelle casse dello Stato 10
miliardi, ma il giorno dopo le regole sono state subito modificate, e ora le
entrate previste sono stimate pari a circa 2 miliardi.
Un po’ poco per dare sollievo alle famiglie e
alle aziende alle prese con il carovita, il caro-affitti, il caro-mutui,
l’annullamento del reddito di cittadinanza, il rischio concreto di recessione e
la contrazione dei prestiti bancari.
Il Financial Times, portavoce degli interessi
finanziari, si è lamentato delle misure fiscali del governo italiano ma lo
spread, almeno per ora non è salito, segno che i mercati e la big finance sanno
che, al di là di qualche colpo di testa, possono sempre contare sul governo di
Giorgia Meloni.
Tuttavia
è pericoloso pizzicare la tigre della finanza con un ago, si rischia che si
rivolti contro e ti azzanni anche solo per una piccola puntura. La tigre si
addomestica solo se viene ingabbiata.
Se
davvero si vuole domare lo strapotere della finanza occorrono riforme
strutturali e non strumenti fiscali una tantum.
Ovviamente
la destra, al di là della demagogia, non vuole realmente dare fastidio
all’establishment, né tanto meno contrastare la grande finanza globalista.
Donald
Trump, il presidente americano che Giorgia Meloni e Matteo Salvini tanto hanno
ammirato e declamato, ha sempre accarezzato, difeso e protetto big finance e la
speculazione finanziaria.
Toccherebbe
invece alla sinistra riformare radicalmente i rapporti di potere contro una
finanza predatrice globalista con cui il Pd è alleato.
La
sinistra dovrebbe allora innanzitutto rivedere la sua visione e il rapporto di
subalternità che ha finora intrattenuto con il settore finanziario gloalista.
Il
nocciolo vero della questione è che lo Stato dovrebbe riconquistare il potere
sulla moneta che attualmente è completamente in mano al settore privato.
Sul
piano culturale bisogna innanzitutto prendere atto che – come ha spiegato
ufficialmente e definitivamente Bank of England, la banca centrale della Gran
Bretagna – sono le banche commerciali a creare dal nulla la moneta che
normalmente utilizziamo [1].
La moneta che circola nell’economia reale, e
anche nella finanza, è per il 95% moneta bancaria.
Il sistema bancario produce moneta quando concede dei
crediti.
(Ossia
fa prestiti ai suoi clienti, che annota nel passivo bancario, anziché
nell’attivo. La moneta prodotta e prestata nasce dal nulla e quindi dovrebbe
essere annotata come utile bancario, ossia come nuovo capitale bancario
concesso poi in prestito ad interesse! N.D.R)
Ovviamente
le banche private emettono moneta al solo scopo di aumentare il profitto degli
azionisti: la moneta dunque non è neutra, come crede la maggioranza
dell’opinione pubblica, ma deriva dal settore bancario e serve ad arricchirlo.
La Bce
“indipendente” emette le banconote, che costituiscono l’unica moneta legale e
pubblica:
ma queste contano solo per il 5% circa del
denaro che utilizziamo.
Le
banconote e le monetine servono solo per le spese spicciole quotidiane.
Come
spiego nel mio libro su Il fallimento della moneta (Fazi editore), le banche
commerciali creano dal nulla i depositi bancari (cioè moneta di prima
emissione) quando offrono dei prestiti ai clienti [2].
In
base al regime attuale, la moneta bancaria viene creata “out of thin air “mediante
una semplice operazione contabile:
la
banca computa all’attivo la somma che deve essere restituita dal cliente con
gli interessi, e al passivo il deposito di uguale importo creato a favore del
cliente.
I depositi bancari sono poi la moneta
utilizzata normalmente dalle imprese per pagare i fornitori e i dipendenti, e
quella che le famiglie usano per esempio per acquistare una casa, pagare il
mutuo o beni durevoli come l’automobile.
Le
banche – ovviamente in maniera legittima e in base alle leggi vigenti –
emettono moneta (bit) a costi tendenzialmente pari a zero digitando il computer
e ne ricavano lauti profitti.
Lo
Stato infatti concede alle banche l’enorme potere di creare moneta dal nulla, e
soprattutto concede al sistema bancario la possibilità di trasformare la moneta
privata in banconote, cioè in moneta legale.
Infatti
quando un soggetto riceve un prestito dalla banca può andare al bancomat e
ritirare le banconote, che sono l’unica moneta legale (e che sono anche la
moneta più sicura perché garantita dallo Stato e, in ultima analisi, dalle
tasse pagate dai cittadini e dalle imprese).
Senza
un conto bancario non è neppure possibile ricevere banconote di prima
emissione: anche la moneta emessa dalla banca centrale dipende dunque dal
circuito privato.
Così
il regime monetario attuale legittima la privatizzazione della moneta.
Il problema fondamentale è però che, se
le banche creano moneta quando fanno credito, allora la moneta è immediatamente
debito per la società.
(La moneta creata dal nulla è immediatamente di
proprietà della banca che dovrebbe registrala in attivo bancario in caso di
prestito della stessa ai clienti!
N.D.R).
Infatti
per definizione ogni credito è anche un debito.
Più
moneta bancaria viene emessa più aumenta il debito.
La moneta poi viene a sua volta prestata e il
debito cresce a dismisura per effetto degli interessi composti.
Non a
caso il mondo è sommerso dai debiti che sono arrivati complessivamente a oltre
il 300% del PIL globale.
La
tendenza è strutturale:
il
debito cresce molto più del PIL e genera periodiche violente crisi finanziarie.
Infatti una economia fondata sulla moneta-debito è destinata alle crisi e al
fallimento.
L’unica
possibilità di rompere questa spirale è che lo Stato, tramite la monetizzazione
del debito pubblico da parte della banca centrale, emetta una moneta pubblica
senza debito a favore della società, e non per il profitto di pochi. Una moneta immediatamente
spendibile per il benessere della società e gli investimenti pubblici.
Nel “finanzcapitalismo”,
come lo chiamava Luciano Gallino, la sovranità monetaria è però in mano al
settore privato, e perfino gli Stati – che paradossalmente garantiscono il
valore della moneta grazie alle entrate fiscali – devono sottostare al potere
della moneta privatizzata e ai mercati[3].
I
mercati finanziari disciplinano la spesa pubblica e decretano l’austerità delle
nazioni, cioè il fatto che buona parte della spesa sia devoluta a servire i
debiti pubblici (in Italia gli interessi sul debito pubblico sono pari ogni
anno a circa 70, fino a 100 miliardi; nel nostro paese l’importo degli
interessi è pari all’incirca al 4% del PIL, cioè quanto spendiamo per
l’istruzione).
Il
debito a favore del sistema bancario e finanziario strangola l’economia.
Come
sarebbe possibile allora per gli Stati democratici dell’eurozona riprendere in
mano pezzi di sovranità monetaria per finanziare gli ingenti investimenti
indispensabili per potenziare la sanità, l’istruzione, la ricerca, le
infrastrutture e l’edilizia pubblica, per finanziare le energie alternative,
pensioni dignitose, la sicurezza dei cittadini e quant’altro?
La
prima cosa che un governo davvero riformatore dovrebbe fare è di istituire una grande banca pubblica
che acceda ai lauti finanziamenti della Bce e che sottoscriva gli investimenti
pubblici che le banche private orientate al profitto di breve termine non amano
finanziare, come per esempio quelli delle energie rinnovabili.
Una
grande banca pubblica potrebbe innanzitutto garantire e finanziare i mutui
delle famiglie e regolamentare il mercato immobiliare;
infatti
la speculazione immobiliare è la principale fonte delle crisi finanziarie
sistemiche, e anche una delle principali cause dell’inflazione.
Una
sinistra degna di questo nome dovrebbe ribadire con forza che senza banche
pubbliche di sistema e senza l’emissione di moneta e di credito pubblico è
impossibile finanziare uno sviluppo equilibrato e sostenibile.
Una
seconda riforma sostanziale a costo zero sarebbe la cancellazione dei debiti
pubblici (o di parte di essi) da parte della Bce, come aveva proposto il
compianto “David Sassoli” quando era presidente del Parlamento Europeo, e come
propongono alcuni dei più autorevoli economisti europei.
Un
quarto circa del debito pubblico dei paesi europei è infatti in pancia alla
Bce, la quale potrebbe autonomamente cancellarlo almeno in parte senza neppure
procurare dei danni ai mercati:
in tale maniera la Bce offrirebbe ai paesi
europei lo spazio fiscale per effettuare gli investimenti pubblici
indispensabili per la transizione digitale.
Questo
è quanto propongono e auspicano per esempio economisti molto autorevoli e noti,
come “Thomas Piketty” e “Gaël Giraud”, l’economista ecologista che più
interpreta il pensiero di Papa Francesco sull’ecologia e sul benessere sociale [4].
È
stupefacente che i debiti pubblici non vengano cancellati dalla Bce – che
potrebbe farlo senza costo alcuno – e che le popolazioni europee debbano
trascinarsi inutilmente un peso enorme e inutile che zavorra l’economia e il
progresso sociale.
Il vero problema è che i debiti vengano utilizzati
come strumento di potere da parte dei capitali e degli Stati più forti su
quelli più deboli.
Il debito mette il guinzaglio alle nazioni.
Gli
Stati democratici dovrebbero allora riprendere l’iniziativa nel campo bancario
e monetario:
la
moneta e il credito dovrebbero essere orientati al benessere sociale e allo
sviluppo, non alla finanza speculativa che prospera grazie a interessi sul
debito in continua crescita.
Il governo Meloni incapace di rilanciare l’economia e
di aggiustare i conti pubblici ha penalizzato in maniera improvvisata e una
tantum le banche ma non ha minimamente toccato il problema strutturale del
sistema bancario.
La
sinistra progressista (anche se alleata al globalismo DEM USA) dovrebbe invece
cominciare a riflettere in profondità sulla natura privata della moneta e
dovrebbe iniziare a proporre riforme strutturali del sistema monetario e
finanziario.
La politica non può lasciare moneta e credito
esclusivamente nelle mani della grande finanza globalista.
(Enrico
Grazzini)
[1] Bank of England Quarterly Bulletin 2014 Q1
“Money creation in the modern economy” by Michael McLeay, Amar Radia and Ryland
Thomas of the Bank’s Monetary Analysis Directorate.
[2] Enrico Grazzini “Il fallimento della moneta. Banche, debito e
crisi. Perché bisogna emettere una moneta pubblica libera dal debito” Fazi
editore, 2023
[3] Luciano Gallino. “Finanzcapitalismo. La
civiltà del denaro in crisi” Einaudi, 2011
[4] La proposta di cancellazione del debito degli
Stati in carico alla Bce è stata
elaborata da un gruppo di economisti francesi, fra i quali Laurence Scialom e
Gaël Giraud, e è stata sottoscritta da oltre 100 colleghi di diversi Paesi:
oltre alla Francia, che vanta 50 adesioni fra cui quelle di nomi molto noti
come Thomas Piketty, l’Italia, con 21 firme, la Germania, l’Irlanda, il Belgio,
la Spagna, il Lussemburgo, la Svizzera, la Svezia, il Portogallo, la Grecia,
l’Ungheria e il Regno Unito.
MANCANO
I SOLDI?
STAMPIAMONE
DI PIU'!
Marimoreno.it
– Mari Moreno – (5 agosto 2023) ci dice:
L’Italia
è sempre più povera a causa di un debito pubblico in continuo aumento che
comporta un’elevata pressione fiscale.
Una
cosa che ho sempre pensato è “Ma perché non stampiamo + soldi”, ma a chi
appartengono i soldi quando vengono emessi?
La Banca Centrale emette denaro per un valore,
supponiamo, di mille miliardi.
A chi
appartiene la moneta nel momento in cui viene emessa dalla Banca Centrale?
Appartiene
alla Banca Centrale stessa, che quindi ha diritto di farsela pagare dallo Stato
o allo Stato e quindi al popolo?
Questa
è una domanda fondamentale, e dalla risposta che viene data può essere compreso
il debito dello Stato.
La Banca d’Italia (se fosse ancora una banca
centrale) cede a caro prezzo denaro che a essa niente costa e a cui non è essa
a dare il valore, eppure si comporta come se fosse proprietaria del medesimo
denaro, in quanto lo cede allo Stato (e alle banche commerciali) in cambio di
titoli di Stato e contro interessate.
Questo
è veramente paradossale.
È come
se il tipografo, incaricato dagli amministratori della società calcistica
organizzatrice di una partita di stampare 30.000 biglietti di ingresso per le
partite del campionato, col prezzo di € 20 stampato su ogni biglietto,
chiedesse come compenso per il suo lavoro di stampa € 600.000, in base al fatto
che i biglietti che ha prodotto “valgono” € 20 cadauno.
È vero
che essi “valgono” € 20 caduno, ma che essi abbiano un valore non dipende dal
tipografo, bensì dall’associazione sportiva che ha formato la squadra,
procurato il campo da gioco e organizzato la partita, sostenendo i relativi
costi e producendo la domanda di quei biglietti, senza la quali questi niente
varrebbero.
Il potere bancario si comporta come quel
tipografo, al momento in cui viene emesso, il denaro, il suo valore, dovrebbe
logicamente essere ed essere trattato come proprietà del popolo e per esso
dello Stato.
Assolutamente
lo Stato non dovrebbe indebitare sé stesso e il popolo verso una Banca
Centrale, pubblica o privata che sia, per ottenere denaro.
Al
contrario, questo succede su base regolare.
Ma vi
è di peggio: la Banca Centrale, cioè i suoi azionisti, oltre ad appropriarsi, a danno
dello Stato, del valore del denaro che essa emette, nei suoi propri conti segna questo
valore non all’attivo ma al passivo, simulando un debito ed evitando,
così, di pagare le tasse su quello che è un puro incremento di capitale e che,
come tale, dovrebbe essere interamente tassato.
Ma il
denaro non è affatto un debito per la Banca che lo emette.
Se fosse un debito, dovrebbe poter essere
incassato dal portatore presso la Banca medesima, mediante conversione in oro,
e il portatore della banconota aveva il diritto di farsela cambiare in oro
dalla Banca Centrale che l’aveva emessa, come avveniva una volta, fino al 1929
circa, quando il denaro era convertibile in oro.
Anche
in tempi successivi al 1929, molte banconote portavano la scritta “Pagabile a
vista al portatore”.
Ma
pagabile in che cosa, dato che esse non erano convertibili in oro?
In realtà, quei biglietti non erano pagabili
in alcun modo e quella scritta era una menzogna per ingannare il pubblico e
fargli credere che i biglietti di banca fossero convertibili in qualcosa avente
valore proprio o che la banca si fosse indebitata per emetterli, il che è falso
(mentre
era vero in un ormai lontano passato).
Oltre
a questo mi fa raccapricciare l’idea che circa l’85%, del denaro esistente e
circolante al mondo, non è denaro vero, emesso da Banche Centrali, ma denaro
creditizio, ossia aperture di credito e disponibilità di spesa create dal nulla
dalle banche commerciali, le quali, attraverso questa creazione continua di
nuovo denaro creditizio, si impossessano di quote crescenti del potere
d’acquisto complessivo della popolazione mondiale.
Il
denaro creato dal nulla
finanzi
il deficit.
Ilmanifesto.it
– (17-3-2020) - Luigi Pandolfi – ci dice:
BANCHE.
Non basta più agire solo dal lato del costo
del denaro e dare più liquidità alle banche.
Se la
gente sta a casa e le fabbriche chiudono non si capisce come i soldi a buon
mercato possano incentivare gli investimenti privati.
Lo
schema classico non regge più. I soldi ci vogliono, ma devono arrivare
direttamente alla vita reale.
Il
denaro creato dal nulla finanzi il deficit.
Il
coronavirus straripa, l’economia trema.
Tornano
in campo le banche centrali e ai numeri del contagio si affiancano quelli dei
soldi che vengono «pompati nel sistema».
La Fed
annuncia un piano di acquisto di titoli di stato e obbligazioni garantite da
mutui ipotecari per un valore di 700 miliardi di dollari, dal Giappone fanno
sapere che sono pronti a raddoppiare gli acquisti nel settore azionario. Da
seimila a dodicimila miliardi di yen.
Più
modeste, per adesso, le intenzioni della Bce, ma pur sempre di centinaia di
miliardi di euro si tratta.
A cui
si aggiungono le promesse del governo italiano e tedesco di mobilitare
rispettivamente 350 e 550 miliardi di euro, confidando sull’effetto leva delle
prime risorse stanziate.
I
mercati però non si acquietano (Milano tracolla di nuovo, Wall Street non è da
meno), crolla pure il prezzo dell’oro, fino a ieri considerato il principe dei
beni rifugio (si vende l’oro per coprire le perdite nel mercato azionario) e va
a picco quello del petrolio.
Un
vero e proprio tsunami.
Ma da
dove vengono tutti questi soldi?
La
domanda risente di una concezione del denaro che da molto tempo non ha più
attinenza con la realtà.
Se anziché nel 2020 ci trovassimo nel 1600, ai
tempi della peste del Manzoni, per aumentare la base del denaro in circolazione
avremmo dovuto scavare decine e decine di nuove miniere nel Nuovo Mondo.
Perché
all’epoca il denaro era qualcosa di solido (solidus, soldo), coincideva con il
metallo nel quale la moneta veniva coniata.
Oggi
il denaro è fatto per gran parte di numeri, solo il 3% è costituito dalle
banconote e dagli spiccioli che portiamo in tasca, che pure non hanno più alcun
ancoraggio ad altri materiali.
Il
denaro, nella nostra epoca, si fa da sé, scrivendone, per l’appunto, il numero.
Tanto
denaro ma non per tutti.
Le politiche «non convenzionali» delle banche
centrali sono diventate sempre più permanenti. Ma risentono di un limite
strutturale. O ideologico, che forse è più corretto.
Non
contemplano la possibilità che una parte del denaro creato dal nulla finanzi
direttamente la spesa pubblica in deficit.
Gli
Stati devono coprire la propria spesa con le tasse dei cittadini. Se la spesa
eccede la raccolta fiscale c’è solo il mercato.
Debito,
interessi, soldi pubblici che riempiono le tasche dei rentiers della grande finanza
globalista.
Quando
la Lagarde ha detto che la Bce non può intervenire sugli spread ha espresso un
concetto ben codificato nella teoria economica dominante:
il prezzo del finanziamento degli Stati lo
decide il mercato, né gli Stati stessi né l’autorità monetaria.
E i
fatti successivi, ovvero lo spread italiano di nuovo sopra i 250 punti
nonostante l’acquisto di Btp sul mercato (50 milioni su ciascuna operazione),
hanno dimostrato che al di là delle parole, il problema in Europa è sistemico.
Eppure
non è stato sempre così.
Prima
che vincesse l’ideologia monetarista il rapporto tra governi e autorità
monetarie è stato di assoluta complementarietà.
Anche in Italia è stato così, fino agli anni
Ottanta.
Ora è
venuto il momento di ritornare su alcuni passi. L’impatto del coronavirus
sull’economia sarà molto violento.
Il freno alla mobilità, sia interna che
internazionale, fa crollare la domanda di beni e servizi, mentre l’inceppamento
della catena produttiva, da un capo all’altro del pianeta, ne riduce
contestualmente l’offerta (in Cina la produzione industriale è crollata del
13,5% nei primi due mesi dell’anno).
Non
basta più agire solo dal lato del costo del denaro e dare più liquidità alle
banche.
Se la gente sta a casa e le fabbriche chiudono
non si capisce come i soldi a buon mercato possano incentivare gli investimenti
privati.
Lo
schema classico non regge più.
I soldi ci vogliono, ma devono arrivare direttamente
alla vita reale.
Oggi
per fronteggiare l’emergenza, domani per rimettere in sesto un’economia
disastrata dalla crisi.
Ma
serve la mediazione dello Stato.
La
moneta creata dal nulla dalle banche commerciali deve finanziare direttamente i
disavanzi di bilancio necessari per affrontare la situazione che si è venuta a
creare.
In
Europa, questo significa non solo superare il patto di stabilità, ma riformare
lo statuto del «sistema» delle banche centrali.
Anche
perché l’alternativa potrebbe essere la fine del progetto di integrazione.
G20,
accordo al ribasso sull’Ucraina.
Ira di
Zelensky.
Business24tv.it - Giulia Guidi – (9 settembre
2023) – ci dice:
Nikolenko,
portavoce del ministero degli Esteri ucraino ha dichiarato: “Il Gruppo dei 20
non ha nulla di cui essere orgoglioso.”
I
leader del G20 salvano l’unità al prezzo di un accordo al ribasso sull’Ucraina
(che delude Kiev), tra gli sforzi sulla transizione energetica e la lotta ai
cambiamenti climatici che non soddisfano appieno le attese.
Il premier indiano Narendra Modi evita, con
l’appoggio del presidente americano Joe Biden, che il suo summit a New Delhi si
concluda per la prima volta senza una dichiarazione finale, incassa l’ingresso
a pieno titolo dell’Unione africana nel gruppo dei principali Paesi più
industrializzati ed emergenti e fa approvare varie iniziative, tra cui la “Global
Biofuel Alliance” per favorire la diffusione dei biocarburanti e la transizione
energetica a livello globale.
Lo
scoglio principale sul linguaggio da usare, amplificato dalle assenze dei
presidenti cinese Xi Jinping e russo Vladimir Putin (su cui pende un mandato
d’arresto internazionale per la guerra in Ucraina), è stato risolto con la
denuncia “dell’uso della forza” in Ucraina per le conquiste “territoriali” e
con l’omissione dell’aggressione della Russia.
“Una
formula annacquata rispetto a quella del G20 di Bali di novembre 2022,
necessaria per la riuscita del summit e della presidenza indiana”, ha confidato
all’ANSA un’autorevole fonte.
La dichiarazione dei leader, approvata in modo
inusuale al primo giorno di vertice, ricorda “la discussione di Bali, dove
abbiamo ribadito le nostre posizioni nazionali e le risoluzioni adottate dal
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dall’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite”, entrambe approvate a maggioranza.
E poi, tutti gli Stati “devono agire in modo
coerente con gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite nella sua
interezza”, astenendosi “dalla minaccia o dall’uso della forza per perseguire
acquisizioni territoriali contro l’integrità territoriale e la sovranità o
l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”.
G20,
il primo giorno della premier Meloni con Li e Modi.
Il G20
richiede la “piena, tempestiva ed efficace attuazione” dell’accordo sul grano,
“efficace per garantire consegne immediate e senza ostacoli di grano, prodotti
alimentari e fertilizzanti e input agricoli provenienti dalla Russia e
dall’Ucraina”.
Nessun
riferimento alla rottura di Mosca dell’accordo mediato da Onu e Turchia. Nella dichiarazione finale di Bali,
fu usato il termine “guerra” contro il volere di Russia e Cina, con la
“condanna da parte della maggioranza dei membri”.
Forte il contrasto dei toni e forte, come
prevedibile, la delusione di Kiev: “L’Ucraina è grata ai partner che hanno
cercato di includere una formulazione forte nel testo. Allo stesso tempo, il
Gruppo dei 20 non ha nulla di cui essere orgoglioso”, ha notato con amarezza
Oleg Nikolenko, portavoce del ministero degli Esteri ucraino.
Sul
fronte del clima, I leader del G20 spingono sul fronte della transizione
energetica e il cambiamento climatico e si impegnano a sostenere gli sforzi per
triplicare la capacità globale di energia rinnovabile entro il 2030.
Mentre
mancano gli impegni temporali sull’eliminazione dei combustibili fossili, a
dispetto delle indicazioni dell’Onu ad “accelerare gli sforzi verso
l’eliminazione graduale dell’energia a carbone”.
G20,
Biden annuncia corridoio tra India, Medio Oriente ed Europa.
Un’ombra
sulle prossime scadenze, a partire dalla Cop28.
Intanto,
Biden mette a segno un colpo contro la “Belt and Road cinese” grazie ad un
accordo multinazionale (‘Partnership for global infrastructure and investment
and India-Middle East-Europe economic corridor’) sul nuovo progetto di
corridoio economico e infrastrutturale per collegare India, Medio Oriente e
Europa.
Dopo
la firma del memorandum, Biden (che stringe poi la mano al principe ereditario
saudita Mohammed bin Salman, avviando una prova di disgelo) ha detto che si
tratta di un “vero grande affare” che collegherà i porti di due continenti e
porterà a un “Medio Oriente più stabile, più prospero e integrato”, con
“infinite opportunità” per l’energia pulita, l’elettricità pulita e la posa di
cavi per collegare le comunità.
Italia
Cina al G20, Li a Meloni: “Relazione sana e stabile è interesse comune.”
Alla
presentazione, a cui è intervenuta anche la premier Giorgia Meloni, Modi ha
espresso piena soddisfazione:
“Oggi,
mentre ci imbarchiamo in una così grande iniziativa di connettività, stiamo
gettando i semi affinché le generazioni future possano sognare in grande”.
Infine un giallo, segnale delle tensioni
Usa-Cina.
Pechino
si è opposta all’idea della prevista presidenza G20 americana nel 2026,
seguendo una rotazione consolidata:
i funzionari cinesi hanno dato voce a New
Delhi alla loro opposizione, ma il tentativo è fallito.
G20
India, l'annuncio di Modi:
"Raggiunto
un accordo sulla
dichiarazione
finale congiunta."
Nel
passaggio su Kiev non si cita Mosca
Tgcom24
– Redazione – (09 SETTEMBRE 2023) – ci dice:
L'Unione
Africana diventa membro permanente dell'organizzazione.
Meloni: "La risposta ai cambiamenti
climatici deve riguardare tutti."
In una
New Delhi super-blindata, è iniziato il summit G20.
Aprendo i lavori, il premier indiano Narendra
Modi ha detto: "Il mondo soffre di una crisi di fiducia".
Poco
dopo ha annunciato che l'Unione Africana ha ufficialmente un posto al G20 come
membro permanente.
Lo
storico momento è stato salutato dall'applauso dei leader, tra cui il
presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni.
Per il premier "l'inclusione dell'UA in
questo gruppo è strategica per rafforzare la nostra capacità di affrontare le
sfide globali".
L'Italia
destinerà all'Africa oltre il 70% suo Fondo Italiano per il clima:
3
miliardi di euro nei prossimi 5 anni.
Più
tardi, aprendo la seconda sessione dei lavori, il primo ministro indiano, ha
annunciato che "è stato raggiunto un accordo sulla dichiarazione finale
congiunta".
Nel
passaggio su Kiev, il G20 ha criticato "l'uso della forza" in Ucraina
senza però citare mai Mosca.
Stretta
di mano e scambio di battute tra il presidente americano Joe Biden e il
principe ereditario saudita Mohammed bin Salman.
Meloni: "La risposta ai cambiamenti climatici
deve riguardare tutti" "Inutile dire che la risposta al cambiamento
climatico deve riguardare davvero tutti, altrimenti pensare che possa portare
risultati apprezzabili è pura utopia", ha aggiunto Meloni.
"E,
al di à degli impegni sul contenimento del riscaldamento in corso, dobbiamo
considerare prioritaria l'adozione di tutte le misure utili alla mitigazione
delle conseguenze dei cambiamenti climatici, che impattano soprattutto sui
Paesi del sud globale".
Corea del Sud annuncia 300 milioni di dollari
al Fondo globale per il clima La Corea del Sud contribuirà con un ulteriore
stanziamento da 300 milioni di dollari al Fondo globale per il clima (Gcf) nel
quadro del suo impegno contro i cambiamenti climatici.
Lo ha annunciato nel corso del G20 il
presidente Yoon Suk-yeol.
Durante
il suo intervento alla sessione di apertura dell'evento, dedicata al tema
"Una Terra", Yoon, come riferisce il quotidiano "Korea
Times", ha espresso l'intenzione di Seul di sostenere i Paesi più
vulnerabili di fronte alla sfida del cambiamento climatico.
L'Unione
Africana diventa membro permanente.
Modi, aprendo la sessione inaugurale dei
lavori del G20 di Nuova Delhi, ha invitato Azali Assoumani, capo dell'Unione
Africana e presidente delle Comore, a prendere posto come membro permanente del
summit.
Assoumani
si è quindi seduto tra gli applausi degli altri leader mentre un addetto
sistemava sul tavolo il cartellino dell'UA e la bandiera verde
dell'organizzazione internazionale.
La gioia del presidente del Consiglio europeo Michel
"Sono felice che sia stata concessa all'Unione africana la piena adesione
al G20 - ha quindi scritto poco dopo su X il presidente del Consiglio europeo,
Charles Michel -.
L'Ue è stata un convinto sostenitore di questa
iniziativa e sono lieto di averla sostenuta fin dall'inizio con Macky Sall (ex
presidente dell'UA).
Attendo
con ansia una stretta collaborazione anche in questa sede".
Von der Leyen:
"Il G20 ha molto da guadagnare da una
forte voce africana ".
"L'Unione
europea e l'Africa stanno collaborando per affrontare le priorità del
continente.
Garantire la sicurezza alimentare, garantire i
mezzi per combattere il cambiamento climatico, attrarre investimenti.
Dò il
benvenuto all'Unione Africana come nuovo membro a pieno titolo del G20.
Il G20 ha molto da guadagnare da una forte
voce africana", ha scritto su “X” la presidente della Commissione Ue,
Ursula von der Leyen, impegnata al summit in corso a Nuova Delhi.
Trovata intensa sul corridoio economico
India-Golfo-Europa.
È stata trovata l'intesa sul nuovo progetto di
corridoio economico e infrastrutturale per collegare India, Medio Oriente e
Europa.
Nell'ambito
dei lavori del G20, si è svolto - secondo fonti italiane - l'evento 'Partnership for global
infrastructure and investment and India-Middle East-Europe economic corridor' allo scopo di valorizzare il
lavoro svolto dalla Partnership for Global Infrastructure and Investment, che stanzia risorse per 600
miliardi di dollari.
All'appuntamento
è stato firmato il memorandum d'intesa sul progetto che prevede due direttrici
sia ferroviarie sia marittime per collegare l'India ai Paesi del Golfo e
all'Europa.
Il
pensiero per le vittime del sisma in Marocco Modi, nel suo intervento, ha anche
rivolto un pensiero alla popolazione del Marocco, colpita dal terremoto.
"Prima di iniziare i lavori del G20 - ha
detto - voglio esprimere le mie condoglianze per la perdita di vite umane a
causa del terremoto in Marocco.
Preghiamo
affinché tutti i feriti si riprendano al più presto.
L'India
è pronta a offrire tutta l'assistenza possibile al Marocco in questa difficile
situazione".
Meloni vede Li:
partenariato
strategico faro per Italia-Cina "Forti entrambe di una storia millenaria,
Italia e Cina condividono un Partenariato Strategico Globale di cui il prossimo anno ricorrerà il
ventesimo anniversario e che costituirà il faro per l'avanzamento dell'amicizia
e della collaborazione tra le due Nazioni in ogni settore di comune
interesse".
Lo ha riferito in una nota di Palazzo Chigi
dopo l'incontro fra il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il primo
ministro della Repubblica Popolare Cinese, Li Qiang, avvenuto a margine dei
lavori del G20.
Li a
Meloni:
"Relazione
sana è interesse di Cina e Italia".
Una relazione sana e stabile tra Cina e Italia
"è in linea con gli interessi comuni di entrambi i Paesi ed è necessaria
per un migliore sviluppo di entrambi".
È quanto ha detto il premier Li Qiang
nell'incontro con Giorgia Meloni a margine del G20 di New Delhi, secondo quanto
riportato dall'ambasciatore cinese a Roma, Jia Guide, su X.
"Si
spera che l'Italia fornisca un ambiente imprenditoriale equo, giusto e non
discriminatorio affinché le aziende cinesi possano investire e svilupparsi in
Italia. La Cina continuerà a espandere l'accesso al mercato per creare maggiori
opportunità per i prodotti di qualità di entrare nel mercato".
G20 condanna uso della forza in Ucraina, ma
non cita Mosca Nel testo della dichiarazione finale, il G20 condanna
"l'uso della forza" in Ucraina per conquiste "territoriali"
senza però mai menzionare in forma esplicita l'aggressione della Russia.
Per
altro verso, i leader denunciano che le "crisi a cascata"
rappresentano una minaccia per la crescita globale a lungo termine.
"Chiediamo la piena attuazione
dell'accordo sul grano".
Il G20, inoltre, richiede la "piena,
tempestiva ed efficace attuazione" dell'accordo sul grano, "efficace
per garantire consegne immediate e senza ostacoli di grano, prodotti alimentari
e fertilizzanti e input agricoli provenienti dalla Federazione Russa e
dall'Ucraina.
Questo è necessario per soddisfare la domanda
nei Paesi in via di sviluppo e meno sviluppati, in particolare quelli
africani".
"Basta attacchi a infrastrutture
alimentari ed energia".
In un paragrafo successivo a quello in cui si
chiede la piena attuazione dell'accordo sul grano, si legge ancora:
"Enfatizzando
l'importanza di sostenere la sicurezza alimentare ed energetica, noi abbiamo
chiesto la cessazione della distruzione militare o di altri attacchi a
infrastrutture rilevanti.
Abbiamo
anche espresso profonda preoccupazione per l'impatto negativo che i conflitti
hanno sulla sicurezza dei civili, esacerbando così le fragilità e le
vulnerabilità socioeconomiche esistenti e ostacolando una risposta umanitaria
efficace".
"Impegno a triplicare energie rinnovabili
entro 2030".
I leader del G20 spingono sul fronte della
transizione energetica e il cambiamento climatico e si impegnano a sostenere
gli sforzi per triplicare la capacità globale di energia rinnovabile entro il
2030.
Il
gruppo delle principali economie sviluppate ed emergenti "perseguirà e
incoraggerà gli sforzi per triplicare la capacità di energia rinnovabile.
Ci
impegniamo ad accelerare urgentemente le nostre azioni per affrontare le crisi
ambientali e le sfide, compreso il cambiamento climatico".
"Nessun impegno sullo stop ai
combustibili fossili."
I leader del G20 a sorpresa non menzionano
impegni temporali sull'eliminazione dei combustibili fossili.
A
dispetto dei molteplici segnali negativi sulla crisi climatica, i leader hanno
affermato di riconoscere l'importanza di "accelerare gli sforzi verso
l'eliminazione graduale dell'energia a carbone".
L'assenza
di impegni definiti stona anche considerando che il documento dei leader è
maturato all'indomani del rapporto dell'Onu che ha rimarcato come
l'eliminazione graduale dei combustibili fossili sia "indispensabile"
per lo zero netto delle emissioni.
"Aumentare sostanzialmente gli
investimenti per il clima."
Nella
dichiarazione finale dei leader, approvata nel primo dei due giorni di lavori,
affermano:
"Riconosciamo
la necessità di maggiori investimenti globali per raggiungere i nostri
obiettivi climatici dell'accordo di Parigi, di aumentare rapidamente e
sostanzialmente gli investimenti e la finanza climatica da miliardi a trilioni
di dollari a livello globale da tutte le fonti".
IL
DEBITO PUBBLICO MONDIALE:
72
TRILIONI DI CREDITI FISCALI!
STORIA
DI UN TRADIMENTO.
Comedonchisciotte.org
- Megas Alexandros – (11 Settembre 2023) – ci dice:
Ormai
mi conoscete, e se c’è qualcosa che non sopporto finanche a diventare
prepotente, quel qualcosa sono le falsità.
Soprattutto se in conseguenza di tali falsità
ho davanti a me la sofferenza della maggioranza dei cittadini e delle famiglie
che appartengono alla mia Patria.
Forse
perché l’ho vissuta personalmente, toccando con mano l’agire delinquenziale dei
nostri rappresentanti politici o forse perché la questione, ai miei occhi
appare così talmente colossale, che non me ne vogliate se ancora torno sulla
questione dei crediti fiscali.
Lo
sforzo ed il dispendio di energie che da tempo metto sulla questione, va
nettamente oltre a quello che può apparire come uno sfogo personale, anzi
vorrei che tutti voi comprendeste a pieno come sul tema blocco dei crediti
fiscali si sia consumato l’ennesimo tradimento verso i propri elettori da parte
di una precisa parte politica e verso tutto il popolo italiano riguardo a
quello che è un principio fondamentale sancito dalla nostra Costituzione,
ovvero la sovranità monetaria.
Ripercorrendo
la vicenda, alla luce dei sacri principi sanciti della nostra Carta
Costituzionale, si arriva chiaramente a certificare senza più nessuna ombra di
dubbio, anche, come la nostra democrazia si sia trasformata a tutti gli effetti
in una oligarchia.
Attestando come ogni nostro governo non risponda più
al popolo ma, bensì a poteri profondi che agiscono secondo logiche di
fratellanza e niente hanno a che fare con lo stato di diritto e le fondamenta
democratiche della nostra Repubblica.
Sulla
totale diacronia nell’agire, di una qualsiasi parte politica che pascola nel
belpaese – tra quando si trova all’opposizione e quando ricopre ruoli di
governo – abbiamo scritto paginate intere e tante altre ne potremmo scrivere.
La
Lega, il PD, il M5S, il Renzi rottamatore e chi più ne ha più ne metta – nel
loro agire, dal passaggio dai banchi dell’opposizione alle poltrone di governo
– hanno tutti indistintamente e nei più svariati argomenti, mostrato ai loro
elettori e non, quanto siano totalmente affetti da quello che in medicina viene
definito come disturbo dissociativo dell’identità (Dissociative Identity Disorder
[DID]).
Una
grave malattia della psiche umana, che pare proprio avere caratteristiche
pandemiche proprio nella nostra classe politica, che mostra in pieno i suoi
sintomi diagnostici, caratterizzata da almeno la presenza di due personalità
(nonché multipla) all’interno dell’individuo, che prendano costantemente il
controllo del suo comportamento con una perdita di memoria, andando oltre la
solita dimenticanza.
Insomma,
al di là delle multi-testimonianze rappresentate dai video satirici che girano
in rete, dove si evidenzia in modo palese la diacronia tra le dichiarazioni di
ieri e quelle di oggi, dei vari Di Maio, Renzi, Meloni, Salvini, ecc.;
anche
su temi che all’apparenza possono sembrare di minor importanza – l’esempio di
cambio di direzione più importante per quello che riguarda le vite di tutti noi
italiani è:
il No-Euro pronunciato in campagna elettorale,
divenuto poi per tutti i partiti, totale asservimento all’euro stesso e alle
sue regole, non appena messo piede dentro Palazzo Chigi.
Anche
Fratelli d’Italia e la sua leader oggi al comando della Nazione – dopo aver
vinto le ultime elezioni, grazie all’abbandono da parte di chi non ha votato
(visto l’altissimo astensionismo) e per la mancanza di alternative (tutti gli
altri partiti avevano già tradito) per chi ha avuto lo stomaco di presentarsi
ai seggi – ad oggi non sono riusciti a smentire il noto proverbio: l’eccezione
conferma la regola!
Preme
ricordare ancora una volta che, sul tema crediti fiscali, quando Fratelli d’Italia era
all’opposizione, si rese primo attore nel presentare un dettagliatissimo
disegno di legge, con il chiaro e motivato intento di usare tale strumento per
finanziare le più svariate spese a partire dalle misure per l’occupazione,
integrazione ai redditi più bassi ed alle famiglie.
Chi vi
scrive si fece anche promotore di un incontro sul tema, tra l’allora paladino
della” cd moneta fiscale” “Senatore de Bertoldi”e l’economista americano
“Warren Mosler”, incontro culminato con il noto comunicato stampa del partito,
già da me documentato a suo tempo, dove c’era piena convergenza fra i due sulla
natura non debitoria dei crediti fiscali e sul loro utilizzo per risolvere
l’impellente problema occupazionale nel paese e poter gettare le basi per una
vera e reale ripresa economica, non appena Fratelli d’Italia, come previsto,
avesse assunto l’incarico di governare.
Per
chi volesse ripercorre la storia e toccare con mano la veridicità di quanto
affermo, nelle note a piede di articolo riporto i contributi pubblicati nei
mesi passati, con tutte le fonti a supporto.
Questo
perché è giusto che gli italiani debbano sapere, ed essere informati, su quello
che è uno dei tradimenti, i più grandi della storia repubblicana, messo in
piedi da una classe politica;
oltre
ad essere, come già sottolineato, una prova inconfutabile di come le decisioni
dei governi siano prese, in modo del tutto sovversivo, al di fuori delle
istituzioni democratiche.
Dunque,
è sufficiente ripercorrere l’iter dei disegni di legge e leggere i testi, oltre
ai comunicati stampa a firma del partito e del “Senatore Andrea de Bertoldi”
(firmatario insieme a Urso e la Rauti dei disegni di legge stessi), per
comprendere come l’utilizzo dello strumento dei crediti fiscali fosse – in modo del tutto cosciente e
giusto [ndr] – ritenuto dal partito elemento indispensabile per far ricuperare al
governo italiano, quella capacità di spendere, persa all’interno delle regole
dell’euro imposte dall’alto.
I tre
esponenti di Fratelli d’Italia firmatari del disegno di legge, visto quanto
accaduto e sta accadendo in questi giorni, con le note polemiche sui buchi del
Superbonus lanciate dal loro partito alle prese con la legge di bilancio, non
sono, come sarebbe logico immaginare, esiliati sulla riva del fiume a pescare:
uno il
“Senatore de Bertoldi” è comodamente seduto sulle poltrone del Senato, oltre ad
essere membro della commissione finanze;
l’altro, il “deputato Adolfo Urso” è
addirittura ministro delle imprese e del Made in Italy e poi abbiamo la
senatrice” Isabella Rauti” (figlia del noto Pino), Sottosegretario di Stato al
Ministero della difesa.
Tutti
e tre, di fronte al disconoscimento totale ed immediato dello strumento dei
crediti fiscali da parte del governo presieduto dal loro leader di partito
Giorgia Meloni, non hanno proferito parola, né provato la minima vergogna nel
cambiare maschera e contraddire sé stessi ed i disegni di legge che con forza
avevano sostenuto fino a pochi giorni prima.
Il
blocco alla trasferibilità dei crediti fiscali è stato uno dei primi
provvedimenti che la Meloni ha preso non appena giunta a Palazzo Chigi, sulla
scia – e su ordine – del suo predecessore e mentore Mario Draghi.
Un
voltafaccia che definire clamoroso è estremamente riduttivo e che non può che
certificare che tale decisione sia stata presa da teste pensanti che sono fuori
dalle stanze dall’esecutivo.
A maggior ragione, visto che trattasi del tema da
sempre più caro per quei poteri che vogliono prevalere sulle istituzioni, ossia
la moneta e la sua sovranità.
C’è
ancora qualcuno che ha dubbi sul fatto che le decisioni dei governi non vengano
prese da chi viene eletto dal popolo ma dai poteri profondi che si sono
impossessati delle nostre istituzioni, compresa la Ue?
Se
qualcuno di Voi ancora nutre dubbi, prima di alzare la mano, consiglio
vivamente di leggersi tutta la mia rassegna stampa sulla vicenda (che riporto
nelle note)!
Sentite
un po’ cosa pensa oggi dei crediti fiscali il “Senatore Andrea de Bertoldi”, in
una intervista rilasciata al quotidiano online “L’identità”:
Il
quotidiano online L’identità intervista il Senatore di Fdi Andrea de Bertoldi,
sul tema crediti fiscali, alla luce delle polemiche dei giorni scorsi.
Addirittura, il Senatore de Bertoldi, l’uomo i
cui disegni di legge prevedevano un uso massiccio e prolungato dello strumento
dei crediti fiscali, in questa intervista critica l’ex presidente del Consiglio
Mario Draghi per averne prorogato l’uso all’interno della misura di spesa del
Superbonus.
Azione che, secondo lui e gli esponenti del
suo governo, avrebbe aggravato i conti di finanza pubblica.
Ma, se
i suoi disegni di legge erano pieni di simulazioni e verifiche accertate su
come, agendo sul moltiplicatore, la spesa effettuata con i crediti fiscali, non
solo si sarebbe ripagata da sola negli anni, ma avrebbe contribuito anche ad una
forte espansione del prodotto interno lordo e di conseguenza delle entrate
fiscali per il Tesoro!!
Queste
che vedete sopra erano le dichiarazioni del Senatore de Bertoldi, due anni e
mezzo fa, quando era seduto ai banchi dell’opposizione e sosteneva con forza
l’utilizzo dei crediti fiscali in commissione finanze:
«Speriamo
che il superbonus 110% non sia lo specchietto delle allodole di un
provvedimento di alto impatto mediatico, e certamente utile alla ripresa
economica del paese, ma che la maggioranza non avrebbe la reale intenzione di
far decollare, come dimostrano le liti interne in merito alla utilizzabilità
dei crediti di imposta ed alla durata della misura stessa»
«Mi
auguro quindi che il governo dimostri la tanto proclamata volontà di
collaborazione con le forze parlamentari, iniziando ad ascoltare ed a seguire i
suggerimenti che la Commissione bicamerale di vigilanza sull’anagrafe
tributaria sta fornendo con la relazione, che è stata unitariamente condivisa
dai commissari di tutte le forze politiche».
«Ho espresso, quale capogruppo di
Fratelli d’Italia, la necessità di una forte semplificazione della normativa,
che risulta oltremodo complessa e spesso di dubbia interpretazione, nonché la
proroga dei termini almeno fino alla fine del 2023».
Dall’opposizione
si invocava l’allora governo ad un uso massiccio dei crediti fiscali e che il
Superbonus non fosse solo una misura di facciata per un vantaggio lobbistico
immediato per pochi. Addirittura, in netto contrasto con quanto dichiarato
pochi giorni fa (“Superbonus, la responsabilità non è solo di Conte che l’ha
istituito, ma anche di Conte e Draghi che l’hanno prorogato”) – ne richiedeva
la proroga dei termini almeno fino alla fine del 2023.
Il
disturbo dissociativo di identità, ahinoi, non colpisce però solo la classe
politica ma anche tutto quel sottobosco composto da blog, blogger, commentatori
con funzione di gate keeper, ecc. – tutta gente ed organizzazioni legate a
doppio filo ad alcune parti politiche che hanno il preciso compito di inquinare
acque, pozzi e menti fragili per far apparire nuovamente pura e vergine
l’immagine del politico di turno che ha sballato.
Tra i
tanti estremi tentativi letti nei giorni scorsi, per cercare di far apparire
vino un bicchiere d’acqua – ovvero far credere che i crediti fiscali non siano moneta
creata dallo Stato – ne ho ascoltato uno, che in fatto di intrepida prodezza
saltando nel vuoto senza ali e paracadute, li batte tutti.
Dice
il commentatore gate keeper, supporter della Meloni: “Se il credito fiscale, come dice
Megas, è la moneta che usiamo e si crea senza debito, come mai nel mondo non lo
usa NESSUNO?”
È
incredibile non si riesca a vedere un fungo porcino nel proprio piatto!
Se la
moneta è per definizione un credito fiscale, dimostrato dal fatto che lo Stato
ti promette di accettare le banconote che hai in tasca ed i numeri sul tuo
conto in cambio del pagamento delle tasse e niente più, come si fa a dire che
nel mondo nessuno usa i crediti fiscali?
Al
contrario dovremmo dire che tutti i paesi del mondo usano i crediti fiscali!
Anzi,
per essere ancora più chiari, tutta la moneta in circolazione nel mondo è
rappresentata da un credito fiscale, tanto che potremmo dire che tutto
l’ammontare dei 72 trilioni (euro più dollaro meno), rappresentativi del debito
pubblico del pianeta, sono di fatto tutti crediti fiscali.
(Fabio
Bonciani)
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