Condannare la violenza da parte di chi cerca di difendere il proprio popolo.
Condannare
la violenza da parte di chi cerca di difendere il proprio popolo.
Attacco
Ospedale di Gaza:
Centinaia di Morti e Scambio
di Accuse Hamas-Israele.
Conoscenzealconfine.it
– (19 Ottobre 2023) - Anna Maria Stanca – ci dice:
Un
razzo o un missile colpisce l’ospedale battista al-Ahli Arabi a Gaza,
provocando centinaia di morti, circa 500, e un numero imprecisato di feriti.
L’esplosione avviene attorno alle 19 locali del 17 ottobre 2023, alla fine
dell’ennesima giornata di tensione.
Le
autorità di Gaza e Hamas accusano Israele per il massacro di civili:
nell’ospedale erano stati accolti molti
residenti di Gaza costretti a lasciare le proprie case.
Israele
prima annuncia verifiche, poi replica: l’ospedale è stato colpito da un razzo
lanciato dalla Jihad islamica.
Accuse
a Israele e agli Stati Uniti.
Il
presidente dell’Autorità palestinese “Mahmoud Abbas” dichiara tre giorni di
lutto per il “massacro dell’ospedale” e annuncia che non incontrerà il
presidente degli Stati Uniti “Joe Biden” a Amman, in Giordania, nel meeting
programmato il 18 ottobre.
Proclamiamo
“tre giorni di lutto e bandiere a mezz’asta per i martiri del massacro
all’ospedale Battista e tutti i martiri del popolo”, dice “Abbas”.
“Il
massacro dell’ospedale al-Ahli non ha precedenti nella nostra storia. Negli
ultimi anni e in questi giorni abbiamo assistito a tragedie, ma quello che è
accaduto stasera somiglia a un genocidio”, dice “Mahmoud Basal”, portavoce del
ministero della “Difesa palestinese”, accusando Israele, contro cui puntano il
dito anche Egitto e Giordania.
“Hamas”
prende posizione attraverso le parole del leader “Ismail Haniyeh”, che
definisce gli Stati Uniti responsabili per l’attacco all’ospedale.
“Gli
Stati Uniti sono responsabili dell’attacco all’ospedale per la copertura che
garantiscono all’aggressione israeliana”, dice “Haniyeh” condannando la
“brutalità” di Israele.
Più
tardi, interviene “Osama Hamdan”, portavoce dell’organizzazione:
“Credo che questo crimine non si sarebbe
verificato se non ci fosse stato il semaforo verde degli Stati Uniti.
Tutti
sanno che il segretario di Stato americano “Antony Blinken” ha passato la
serata di lunedì con il gabinetto di guerra israeliano – più di 5 ore.
E nella regione tutti stanno aspettando il
presidente Biden.
È chiaro che stanno preparando il terreno per
dire a chiunque che sono stati effettuati tutti i passi per evacuare Gaza:
questo non avverrà.
Credo
che i palestinesi non se ne andranno, credo che i paesi arabi non lo
accetteranno.
Stiamo assistendo ad un crimine di guerra
commesso non solo dagli israeliani ma anche dagli americani “.
Israele:
“Ospedale Colpito da Razzo della Jihad”
Israele
inizialmente reagisce alle accuse con un atteggiamento ‘attendista’ e dalle
forze armate filtra un messaggio prudente:
“Verificheremo,
ma Hamas ci ha abituato alle fake news”.
Passano
le ore e la posizione israeliana diventa sempre più netta.
“Tutto
il mondo deve saperlo: i barbari terroristi a Gaza hanno attaccato l’ospedale,
non le forze armate israeliane. Chi ha ucciso con crudeltà i nostri bambini ha
ucciso anche i propri bambini”, dice il premier israeliano “Benyamin Netanyahu”.
“Un
ospedale è un edificio altamente sensibile e non è un obiettivo delle Forze di
difesa israeliane (Idf).
L’Idf
sta indagando sulla fonte dell’esplosione e, come sempre, dà la priorità,
all’accuratezza e l’affidabilità.
Esortiamo
tutti a procedere con cautela nel riferire affermazioni non verificate di una
organizzazione terroristica “, dice un portavoce dell’esercito israeliano
all’emittente britannica Bbc.
Poco
dopo, una nuova comunicazione delle Idf:
“Sulla base di informazione di intelligence,
un lancio fallito di un razzo da parte della Jihad islamica ha provocato
l’esplosione mortale all’ospedale”, affermano le forze armate.
“Da
un’analisi compiuta con i sistemi operativi dell’Idf e sulla base delle
informazioni di intelligence fornite da diverse fonti, la Jihad islamica è
responsabile del lancio fallito che ha centrato l’ospedale “.
Il
colonnello “Jonathan Conricus”, uno dei portavoce delle forze armate, afferma che Israele è
certo al 100% che l’ospedale non sia stato colpito da un loro missile:
“Certo
come può esserlo chiunque in una guerra con milioni di pezzi di informazioni
che svolazzano.
Dopo un’analisi approfondita, posso dire che
questa è l’informazione che abbiamo ora e siamo fiduciosi: secondo
l’informazione, si è trattato di un lancio fallito dalla Jihad”, ribadisce.
A
chiosare, le parole di “Mark Regev”, un consigliere del premier Netanyahu:
“Ci
sono stati colloqui tra la parte israeliana e la parte americana. Abbiamo
condiviso con gli americani le informazioni che abbiamo”.
(Anna
Maria Stanca)
(internationalwebpost.org/contents/ATTACCO_OSPEDALE_GAZA,_CENTINAIA_DI_MORTI:SCAMBIO_DI_ACCUSE_HAMAS-ISRAELE_32126.html)
Il
potere che soffoca.
Billy
Budd come metafora
Magazine.cisp.unipi.it
– (25 Giugno 2020) – Tommaso Greco – ci dice:
Il
bavaglio di Billy.
In
quella “legal obsession” che è il “Billy Budd” di “Herman Melville”, la scena
clou è quella in cui il protagonista, accusato ingiustamente e del tutto
falsamente di aver ordito un ammutinamento della nave sulla quale è in
servizio, non riesce a trovare le parole per difendersi, a causa dell’unico
difetto che impoverisce la sua imponente figura di bellezza: quando è sotto
pressione la parola gli si blocca e comincia a balbettare.
Nel
momento in cui il perfido maestro d’armi “John Claggart” lo accusa davanti al
capitano “Vere”, Billy Budd rimane «impalato e imbavagliato».
Appare
come «una vestale condannata nel momento in cui sta per essere sepolta viva, e
lotta contro i primi sintomi di soffocazione».
Sta
soffocando a tal punto, il buono ma forte Billy, che quando il Capitano, rendendosi
conto delle difficoltà del suo marinaio, gli dice di fare «con calma», per lui
non c’è modo di ritrovare la parola.
Tutti
gli sforzi sono vani, e “Melville” non nasconde nulla della drammaticità della
scena: la paralisi conferiva al volto del marinaio «un’espressione che pareva
quella di un crocifisso».
Se si
ricostruisce il filo del racconto, dal momento in cui Billy viene costretto ad
abbandonare la nave mercantile sulla quale viaggiava fino al punto in cui il
«bel marinaio» perde la voce davanti al suo accusatore, e peraltro senza nessun
avvocato che lo possa difendere, non è difficile ricondurre la vicenda sotto il
segno di un potere che cerca di dominare l’elemento che gli è estraneo.
La scena in cui il protagonista del racconto
lascia la sua prima nave è significativa: il suo saluto al veliero — «And good-bye to you too, old
Rights-of-Man» — apparirà presto come un saluto a quei Diritti di cui la nave porta il
nome (e come tale quel saluto viene riportato nel film di “Peter Ustinov” del
1962, nel quale Billy grida semplicemente «Addio, Diritti dell’uomo!»).
Sembra,
ed è, una profezia di tutto ciò che avverrà di lì in avanti. Ambientata in un’epoca di conflitti –
esterni: tra l’Inghilterra e la Francia rivoluzionaria, ed interni: tra il
governo e i suoi coscritti -, la storia ci appare come metafora di un potere
che per evitare «la rivolta sfrenata e indomabile» degli ammutinati non può
rischiare di aver a che fare con soggetti che per loro natura mostrano di non
poter essere ‘dominati’.
Tale
appare in effetti Billy Budd:
quella
«specie di barbaro onesto, molto simile forse ad Adamo», dotato di «virtù
primitive» che sembrano in contrasto con l’abitudine e la convenzione, non può
lasciare tranquillo il potere incarnato da Claggart.
Troppo innocente, troppo trasparente, troppo
buono, persino troppo remissivo, Billy Budd, per non insospettire un potere che
vive di sospetto e nel sospetto, un potere dallo «sguardo vigile e autoritario»
e che è abituato a «stare a spade sguainate dietro agli uomini che manovravano
i cannoni».
Un potere che addirittura è abituato a seminare
«piccole trappole» al fine di generare quel sentimento di preoccupata
agitazione che è (o dovrebbe essere, negli intenti) votato a produrre
un’obbedienza passiva.
Un
potere, infine, che non disdegna le «irregolarità legittimate» pur di
raggiungere i suoi scopi: ha infatti l’abitudine di mettere al suo servizio
persone di «dubbia condotta», arruolandole con «procedura sommaria», e facendo
in modo che una volta arruolate si sentano «in un santuario, come i
trasgressori del Medio Evo che si rifugiavano all’ombra dell’altare».
La
violenza degli imbavagliatori.
A cosa
ci serve ricordare oggi Billy Budd?
È
molto semplice: a capire – e denunciare – la natura di un potere che ti ordina
di parlare mentre ti toglie il respiro.
Appare troppo facile, troppo immediato, troppo
giusto il riferimento a “George Floyd “e al suo grido strozzato?
“I
can’t breathe” non è forse il grido di un inerme su cui il potere incombe con
tutto il suo peso?
Non è
il grido di un soggetto a cui il potere, letteralmente, toglie il respiro
sentendosi nel pieno diritto di farlo?
Non
sorprende che un potere che appare così assurdamente incontrollato scateni
risposte del tutto incontrollate:
come è
quella di “Billy Budd”, che con un pugno «fulmineo come la fiammata di un
cannone che spara nella notte» uccide il maestro d’armi che lo accusa;
come è
quella di una comunità di uomini e donne, che a causa del colore della loro
pelle si sentono continuamente osservati e accusati, e che reagiscono
violentemente contro un sistema che li considera sostanzialmente ‘estranei’ da
assoggettare.
A volte questo atteggiamento ha assunto
persino forme istituzionali:
basti
pensare al sistema sudafricano dell’apartheid, lucidamente denunciato in quel
toccante discorso in tribunale pronunciato da “Nelson Mandela” nell’ottobre del
1962;
a volte, più frequentemente, esso si manifesta
in episodi singoli che, ahi noi, non sono isolati come possono sembrare, e
soprattutto rivelano un atteggiamento, una inclinazione, una mentalità.
Non si
può disquisire perciò sulla dismisura delle reazioni – che certamente può
esserci stata – se non si ragiona a mente lucida sulla dismisura delle cause
che le generano.
Perché
qui siamo oltre il tema weberiano dell’uso legittimo della forza; qui abbiamo a
che fare con un potere che è (o quanto meno, viene percepito, e spesso a
ragione) come ciò che eccede ogni sua legittima prerogativa e che ha
l’ossessione del controllo di coloro che percepisce come soggetti non da
custodire e proteggere, ma da ‘contenere’, controllare, ‘costringere’.
Solo
questo, infatti, dà sicurezza al potere: che tutti siano dominabili,
soprattutto coloro che non appaiono tali.
Il
nome del potere.
Il
“potere che soffoca” e la violenza dei soffocati sono dunque due facce di una
stessa medaglia.
Una
medaglia che vorremmo sotterrare per sempre, ma che non saremo in grado di
mettere da parte fino a quando saremo convinti che il potere, e il diritto che
ne è espressione, possano coincidere con la mera possibilità di farsi valere,
con la mera capacità di imporre il volere di chi comanda, con la bruta forza di
cui il ‘sovrano’ è detentore.
Non è,
questa, una convinzione che appartiene ai soli potenti, a coloro che sono al
vertice della gerarchia politica e sociale;
anzi,
essa è radicata proprio nella mente dei ‘dominati’, che in questo modo credono
(sbagliando) di esorcizzare la natura del potere.
E
invece, se si dà ragione a “Trasimaco” pensando che «la giustizia è l’utile del
più forte» non si sta facendo alcuna operazione di svelamento della vera natura
del potere, non si sta “educando il popolo” come pensano gli autori realisti,
ma si sta solo dando (nostro malgrado) una copertura ad un’operazione che
tornerà sempre e comunque a vantaggio del potere e dei suoi detentori.
Poiché
non si esce dal cerchio del potere se non nelle utopie di una impossibile
società senza potere, occorre definire con precisione in cosa esso consista,
ben consapevoli che ogni definizione è una legittimazione:
come per tutto ciò che ha a che fare con lo
studio della politica e del diritto, non ci sono infatti definizioni
‘innocenti’.
Si potrà dire allora che il potere non coincide con la
forza e con la violenza, e che ogni suo esercizio arbitrario non è potere ma
forza e violenza?
Il
potere, così come il diritto, sono funzioni sociali, sono necessari ad una
società che si organizza e che deve coordinare le relazioni tra i soggetti.
Ad entrambi è quindi intrinseca una dimensione
relazionale che passa dal riconoscimento dei soggetti che vi sono coinvolti.
Più questa dimensione è dimenticata e
occultata, più il potere e il diritto si spostano verso il puro dominio:
diventano mero esercizio di forza.
Così
come non è possibile pensare ad un diritto che si regga sul solo funzionamento
delle carceri e delle strutture sanzionatorie, allo stesso modo non è possibile
pensare ad un potere che si regga sul mero dominio esercitato con strumenti
(più o meno violenti, più o meno visibili) di controllo.
Il
potere deve essere legittimo, come ci ha insegnato “Max Weber”, di cui si è
appena ricordato il centenario della morte;
e non
a caso esso cerca sempre il riconoscimento dei suoi sottoposti.
Proprio nel momento in cui condanna” Billy
Budd”, il potere che lo sta mandando a morte vuole ottenerne l’accettazione:
«se egli conoscesse i nostri cuori — dice il
capitano “Vere” — lo ritengo così generoso da aver simpatia perfino per noi,
che il dovere militare costringe così duramente».
Vuole
la comprensione di “George Floyd”, il poliziotto che gli tiene il ginocchio sul
collo;
vuole
persino essere compatito per il duro compito che egli sta svolgendo.
Ma se
l’incubo del potere è sempre il «preferirei di no!» di Bartleby lo scrivano,
l’altro indimenticabile protagonista di un racconto melvilliano, allora c’è un
solo modo per ottenere questo riconoscimento:
far sì che tutti possano far sentire la
propria voce, e che le proprie ragioni possano giungere là dove si prendono le
decisioni.
Quando
questo non avviene, diceva “Guido Calogero”, si ha il dovere di disubbidire:
«certamente non si deve obbedire in tutti i
casi in cui un’autorità presenti il proprio comando come assoluto e
incondizionato», scriveva il filosofo del dialogo; e questo perché «nessun ordinamento
di diritto può essere seriamente stabilito da un’autorità, che pretenda essa
medesima di sottrarsi a ogni norma di diritto».
La
domanda è antica, ed è sempre la stessa: cosa si deve fare quando il potere si
trasforma in bruta violenza?
Quando,
come “Mandela” e il suo popolo, ci si trova davanti «all’assoluta mancanza da
parte del governo di attenzione e considerazione» che cosa rimane da fare?
Anche
la risposta sembra dover essere la stessa, ed è quella del leader sudafricano:
«a tale dilemma gli uomini onesti, gli uomini determinati, gli uomini di
pubblica moralità e coscienza possono dare una sola risposta. Devono seguire i dettami della
coscienza, indipendentemente dalle conseguenze che, per questo, potranno subire».
Perché è chiaro che non possiamo dare il
nostro riconoscimento a un potere che si trasforma in violenza; e questo nostro
riconoscimento viene meno a cominciare dal nome che gli diamo.
Un
potere che soffoca è violenza e non può generare altro che violenza.
(Tommaso
Greco è Professore ordinario di Filosofia del diritto presso il Dipartimento di
Giurisprudenza dell’Università di Pisa).
La
nuova “Mappa dell’Intolleranza”:
riflessioni
sull’odio online.
Magazine.cisp.unipi.it - (1° Marzo 2023) -
Cecilia Siccardi – ci dice:
La Mappa dell’Intolleranza: il progetto.
Come
ogni anno, “Vox-Diritt”i ha pubblicato i risultati del progetto “La Mappa
dell’Intolleranza”, ormai alla settima edizione.
Come
abbiamo già avuto modo di raccontare l’anno passato, la Mappa dell’Intolleranza
è un progetto volto a monitorare la diffusione dell’odio sui social network, in
collaborazione con quattro Università (Università degli Studi di Milano,
l’Università Aldo Moro di Bari, l’Università Sapienza di Roma, Università
Cattolica di Milano).
Un
software, sviluppato dall’Università di Bari, estrapola da “twitter” le parole
discriminatorie contro donne, persone con disabilità, le persone omosessuali,
straniere, di religione islamica, di religione ebraica, consentendo di
monitorare la diffusione dell’odio on line.
Grazie
alla geo-localizzazione dei tweet sono state create delle mappe “termografiche”
della penisola che individuano le zone di Italia dove l’odio è più diffuso.
I risultati.
Il 17
gennaio 2023 sono stati presentati, in presenza, all’Università degli Studi di
Milano, i risultati della settimana edizione del progetto.
Dei
629.151 tweet raccolti, da gennaio a ottobre 2022, il 93% circa è risultato
discriminatorio.
La percentuale di “tweet negativi” è aumentata
rispetto all’anno passato, dimostrando una significativa radicalizzazione dell’”odio
on line”.
Questo
incremento è probabilmente dovuto ai gravi eventi che hanno segnato il 2022,
come l’invasione dell’Ucraina, la crisi energetica, l’inflazione, ma anche al
dibattito innescato dalle ultime elezioni politiche.
I
risultati di questa edizione confermano alcune evidenze degli anni passati e
mostrano alcune novità.
La
distribuzione geografica dell’odio sembra analoga a quella delle edizioni
precedenti.
Si odia in particolare nelle città, come Roma
e Milano.
Ancora,
come negli anni passati, l’odio online si scatena in concomitanza con alcuni
avvenimenti riportati dalle cronache nazionali.
Ad
esempio, l’odio contro i migranti si incendia al momento degli sbarchi, quello
contro le persone omossessuali in concomitanza con notizie di aggressioni
omofobe.
Tra questi “picchi” di odio online, quello che
più caratterizza l’edizione del 2022 è la nomina di Giorgia Meloni alla Presidenza del
Consiglio.
La nomina della prima donna Presidente del
Consiglio della storia della Repubblica non ha comportato una maggior
attenzione alla parità di genere sui social network, ma anzi ha costituito un
momento di forte diffusione di misoginia sui social.
Sarebbe
interessante comprendere come abbia impattato sul linguaggio del web la scelta
della Presidente di farsi chiamare “il Presidente”.
Un’altra
analogia rispetto agli anni passati riguarda la correlazione tra parole d’odio
e violenza.
Soprattutto
osservando i dati relativi ai “tweet misogini” emerge un’inquietante
correlazione tra parole e violenza di genere.
Negli
stessi mesi in cui si è registrato un incremento della misoginia sul web, sono
stati compiuti diversi femminicidi.
Fede&giustizia
Esiste
la guerra giusta? La Chiesa
di
fronte a una domanda ancora cruciale
aggiornamentisociali.it
- Christian MELLON – (10 febbraio 2023)
– ci dice:
Basandosi
su un’interpretazione letterale del comandamento biblico “Non uccidere” e
soprattutto di alcuni testi evangelici, come l’invito a porgere l’altra guancia
o ad amare i nemici (Matteo 5,38-48), i pensatori cristiani hanno sostenuto in
varie epoche che un discepolo di Gesù non può attentare alla vita di una
persona, neanche di un nemico, in nessun caso, anche se fosse solo per
difendersi.
Questa
posizione è stata maggioritaria fino al III secolo, per poi divenire
minoritaria fino al suo ritorno in auge nel XX secolo.
A
partire dalla riflessione sull’esperienza della Seconda guerra mondiale e delle
guerre di liberazione, i sostenitori di questa tesi si sono resi conto che è
inutile condannare la violenza senza offrire alternative credibili alle sfide
poste dagli atti di aggressione o dalle situazioni di ingiustizia strutturale.
Scostandosi
da una lettura fondamentalista (ideologica) del Discorso della montagna e
richiamandosi alle lotte di Gandhi, Martin Luther King e altri, questi
cristiani preferiscono allora parlare di nonviolenza invece che di pacifismo.
L’apertura
alla resistenza non violenta.
Nella
costituzione pastorale “Gaudium et spes” del 1965, il concilio Vaticano II,
prendendo atto di questo cambiamento di prospettiva, ha incoraggiato «coloro
che, rinunciando alla violenza nella rivendicazione dei loro diritti, ricorrono
a quei mezzi di difesa che sono, del resto, alla portata anche dei più deboli,
purché ciò si possa fare senza pregiudizio dei diritti e dei doveri degli altri
o della comunità» (GS, n. 78), utilizzando una formula contorta per evitare la
parola nonviolenza.
Il termine, tuttavia, appare nel 1971 nel
documento sinodale La giustizia nel mondo:
«È
assolutamente necessario che i conflitti tra le nazioni non siano risolti
attraverso la guerra, ma siano trovate per essi altre soluzioni che siano
conformi alla natura umana. Deve essere, inoltre, favorita la strategia della
non violenza» (Sinodo dei vescovi 1971, n. 1296).
«Qualcuno
potrà dirvi che la scelta della non violenza non è in definitiva altro che una
passiva accettazione di situazioni d’ingiustizia.
Potrà sostenere che è da vili non usare
violenza contro ciò che è ingiusto, o rifiutare di difendere con violenza gli
oppressi.
Ma
nulla potrebbe essere più lontano dalla verità.
Non vi
è nulla di passivo nella non violenza, quando è una scelta dettata dall’amore.
Non ha nulla a che vedere con l’indifferenza».
Giovanni
Paolo II,
Discorso ai giovani, Maseru (Lesotho), 15 settembre 1988.
L’”istruzione
Libertà cristiana e liberazione”, pubblicata nel 1986 dalla “Congregazione per
la Dottrina della fede”, conferma questa posizione, anche se utilizza
l’espressione meno appropriata di «resistenza passiva» per designare la
resistenza nonviolenta.
Negli
anni ’70 e ’80, molti cristiani in America latina, incoraggiati da diversi
vescovi, in particolare don” Helder Camara”, vi hanno fatto ricorso per
difendere i diritti umani violati dalle dittature militari.
Nel
febbraio 1986, i vescovi delle Filippine hanno sostenuto e organizzato una
protesta nonviolenta a Manila per far cadere il regime del dittatore Marcos.
In varie occasioni, Giovanni Paolo II l’ha
elogiata, sottolineandone le radici bibliche [sull’argomento cfr Valpiana 2022,
N.d.R.]).
Quando
si può parlare di una guerra giusta?
Ma che
dire della resistenza attraverso le armi?
La dottrina della guerra giusta, sostenuta già
da Aristotele e Cicerone e sviluppata da autori cristiani come Agostino,
Tommaso d’Aquino, Francisco de Vitoria, consiste in una serie di criteri per
giudicare quando è moralmente lecito ricorrere alle armi (jus ad bellum) e
quali limiti devono essere rispettati nel loro impiego (jus in bello).
Queste
riflessioni hanno contribuito all’elaborazione del diritto internazionale della
guerra.
Tuttavia,
per i moralisti cattolici, la conformità di una decisione al diritto
internazionale, pur essendo molto importante, non è dirimente:
può
verificarsi che una decisione presa da un potere legittimo in conformità al
diritto non sia moralmente giusta e, viceversa, che possa essere giudicato
legittimo un ricorso alle armi non permesso sul piano giuridico.
Per la Chiesa vanno tenute in conto altre
condizioni, che devono essere tutte soddisfatte.
Prima
di tutto, la giusta causa.
L’unica
oggi accettata è la legittima difesa: «una volta esaurite tutte le possibilità
di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una
legittima difesa» (GS, n. 79).
La
Chiesa riconosce anche che un popolo possa legittimamente ricorrere alle armi
per liberarsi dal potere di un tiranno che lo opprime.
Questo
caso è stato evocato nell’enciclica Popolorum progressio del 1967 da Paolo VI, ma come eccezione alla condanna
dell’insurrezione rivoluzionaria:
«salvo nel caso di una tirannia evidente e
prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia
in modo pericoloso al bene comune del Paese» (PP, n. 31).
I
conflitti armati degli anni ’90 hanno condotto le autorità ecclesiastiche a
porsi nuove domande sulla nozione di legittima difesa:
si tratta solo dell’autodifesa o anche della
difesa di un terzo che è stato ingiustamente attaccato?
Su
questo tema fortemente dibattuto, conosciuto come dovere di ingerenza, poi
ribattezzato responsabilità di proteggere dall’ONU [cfr Christiansen 2022,
N.d.R.], Giovanni Paolo II ha preso una posizione chiara.
Nel
1993, in riferimento al conflitto bosniaco, ha affermato:
«Una
volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici, i processi
previsti dalle convenzioni e dalle organizzazioni internazionali sono stati
attuati, e nonostante ciò le popolazioni stanno soccombendo sotto i colpi di un
aggressore ingiusto, gli Stati non hanno più il “diritto all’indifferenza”.
Sembra
che il loro dovere sia quello di disarmare l’aggressore, se tutti gli altri
mezzi si sono dimostrati inefficaci.
I principi di sovranità degli Stati e di non
ingerenza nei loro affari interni – che sono ancora di grande valore – non
possono essere usati come paravento dietro cui è possibile torturare e uccidere» (Giovanni Paolo II 1993, n. 13).
L’espressione
«disarmare l’aggressore» pone un limite rigoroso: non appena l’aggressore è
disarmato (e quindi non può più nuocere), non è più giustificata la
prosecuzione dell’azione militare, per perseguire ulteriori obiettivi, come la
caduta di un regime totalitario, l’acquisizione di territori o risorse,
l’estensione di un’area di influenza, ecc.
Questo
criterio della retta intenzione, raramente invocato, è difficile da verificare
e da rispettare.
La
guerra scatenata nel 2003 dall’amministrazione Bush contro l’Iraq ha fornito
l’occasione per chiarire un altro limite del principio di autodifesa: esso non
può legittimare una guerra preventiva.
Un
altro criterio importante è quello dell’ultimo ricorso: nessun uso delle armi è
legittimo se esiste un altro mezzo non letale per disarmare l’aggressore.
Ma
come possiamo essere sicuri che tutte le possibilità di una soluzione pacifica
siano state esaurite?
I
criteri della proporzionalità e della speranza di successo.
Un
ulteriore elemento è dato dalla nozione di proporzionalità:
il
rimedio non deve essere peggiore del male.
Può
accadere, come ha affermato Pio XII (1953), che si abbia «l’obbligo di subire
l’ingiustizia».
Vi ha
fatto riferimento anche Giovanni Paolo II nel discorso agli ambasciatori
accreditati presso la Santa Sede a proposito della prima guerra del Golfo
(1990-1991).
Dopo
aver sottolineato che le operazioni militari sarebbero state «particolarmente
sanguinose, senza contare le conseguenze ecologiche, politiche, economiche e
strategiche», ha ricordato che «il ricorso alla forza per una giusta causa non
sarebbe ammissibile che se questo ricorso fosse proporzionale al risultato che
si vuole ottenere, e se si pesassero le conseguenze che azioni militari, rese
sempre più devastatrici dalla tecnologia moderna, avrebbero per la
sopravvivenza delle popolazioni e dello stesso pianeta» (Giovanni Paolo II 1991, n. 8).
Questo
principio svolge un ruolo essenziale nella condanna di qualsiasi uso di armi di
distruzione di massa, anche per la legittima difesa.
Il
criterio dell’autorità legittima mira a proibire le guerre private:
la
decisione di ricorrere alle armi compete solo a coloro che detengono la
legittima autorità, in quanto garanti del bene comune.
La Gaudium et spes riconosce il diritto della
legittima difesa ai Governi, ma il Concilio specifica subito che questo vale
finché «non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze
efficaci» (GS, n. 79).
L’ONU può essere identificata, nel suo stato
attuale, con questa autorità pubblica con una competenza universale?
È
proprio l’aggiramento delle Nazioni Unite da parte dell’amministrazione Bush
nel 2003, in occasione della seconda guerra del Golfo, che ha condotto Giovanni
Paolo II a condannare l’iniziativa statunitense.
Infine,
la speranza di successo:
la
decisione di ricorrere alle armi è moralmente giusta solo se ci sono serie
ragioni per ritenere che porterà al disarmo dell’aggressore.
I
testi contemporanei della Chiesa non menzionano quasi più questo principio di
saggezza, ma un documento pubblicato nel 2000 dalla Conferenza episcopale
francese vi fa riferimento per confutare l’idea che gli interventi stranieri
siano immorali perché mirano a salvare alcuni e non altri (l’argomento del doppio
standard: salviamo i kosovari, ma abbandoniamo i tibetani al loro oppressore):
«La
valutazione etica deve tenere conto del “prevedibile successo” delle
operazioni. Questo non è cinismo.
Il vecchio adagio secondo cui nessuno è tenuto
a fare l’impossibile non è solo Realpolitik, ma anche un principio etico.
Disprezzarlo significherebbe promuovere
un’idea pericolosa:
si
dovrebbe sempre fare qualcosa “per principio”, anche nei casi in cui il
rapporto tra le forze suggerisce che non c’è alcuna possibilità di sottrarre le
vittime ai loro aguzzini con la forza armata» (Justice et Paix France 2000).
La
distinzione tra atti e crimini di guerra.
Una
volta giustificato il principio dell’intervento armato resta da delimitare ciò
che è consentito o meno quando si ricorre alle armi (jus in bello).
L’intero
sviluppo del diritto internazionale della guerra si basa sulla differenza tra
atti e crimini di guerra.
Questa
riflessione incorpora soprattutto il principio di discriminazione, cioè di
distinzione, tra combattenti e non combattenti, per evitare che vi siano
vittime “non necessarie”.
Tale
principio è presente nei regolamenti delle forze armate di quasi tutti gli
Stati moderni ed è al centro delle riflessioni contemporanee sull’etica della
guerra, di matrice religiosa e non.
La sua
base è semplice:
se si accetta che il rispetto di ogni vita
umana è un requisito fondamentale di ogni etica, allora si deve ammettere il
minor numero possibile di eccezioni.
Pertanto,
è possibile colpire in modo intenzionale solo gli autori dell’aggressione, del
genocidio, del massacro o pulizia etnica che si vuol far cessare.
Tutti
gli altri sono innocenti nel senso etimologico del termine: non nuocciono,
perché non hanno alcun ruolo nell’aggressione da fermare.
Questo
principio è invocato molto spesso nei testi della Chiesa, specie nella “Gaudium
et spes”.
Per il Concilio questo limite è imperativo.
Se per
difendersi vengono commessi atti che danneggiano deliberatamente non
combattenti, non si tratta più di atti di guerra ma di crimini di guerra.
Il
rifiuto di obbedire diventa allora un dovere morale:
«Deve essere sostenuto il coraggio di coloro
che non temono di opporsi apertamente a quelli che ordinano tali misfatti» (GS,
n. 79).
La Chiesa fa proprio così il principio di Norimberga:
quando
un esecutore riceve l’ordine di compiere atti criminali, non può sottrarsi alla
propria responsabilità con il pretesto di aver semplicemente obbedito agli
ordini di un superiore.
Ciò
vale in primo luogo per la strategia definita “anti-città”, che il Concilio
condanna con particolare solennità:
«Ogni atto di guerra, che mira indiscriminatamente
alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è
delitto contro Dio e contro la stessa umanità e va condannato con fermezza e
senza esitazione» (GS, n. 80).
Questa valutazione si riferisce anche al
passato, alla morte dei civili a Dresda, Amburgo o Tokyo, nonché a Hiroshima e
Nagasaki.
Il
rispetto di questo principio di discriminazione non è scontato oggigiorno,
visto che i conflitti armati spesso contrappongono eserciti regolari a
guerriglieri o milizie, e i combattenti non sono facilmente distinguibili dalle
popolazioni non combattenti.
Inoltre,
la potenza militare di un Paese dipende, molto più che in passato, da
molteplici fattori che si intrecciano con l’attività civile ordinaria: ricerca,
comunicazioni, capacità produttiva, ecc.
Queste
evoluzioni, che rendono il confine tra combattenti e non combattenti meno
chiaro che in passato, non possono essere ignorate dal giudizio morale:
tuttavia
non è che questo confine non esista più per il fatto di essere diventato più
labile.
«Una
mentalità completamente nuova».
Quanto
fin qui abbiamo visto mostra che il magistero contemporaneo considera ancora
attuale l’apparato concettuale sviluppato nel corso dei secoli a proposito
della guerra giusta, almeno fino all’avvento di papa Francesco.
Ci si può quindi interrogare sul significato
della formula conciliare che invita a «considerare l’argomento della guerra con
mentalità completamente nuova» (GS, n. 80).
In che
cosa consiste la novità?
In
realtà, ciò che sembra «completamente nuovo» è che la Chiesa, senza abbandonare
i suoi vecchi criteri, ora ne propone un’applicazione così rigorosa che i casi
in cui il ricorso alle armi li soddisfa tutti diventano estremamente rari.
La mentalità nuova consiste quindi nel dare al
polo della limitazione la netta preminenza sul polo della legittimazione (che
avrebbe dovuto sempre avere):
una
coscienza cristiana può legittimare un’attività così contraria al Vangelo solo
se sussistono le circostanze del tutto eccezionali definite dal” jus ad bellum”.
Vi è
un’altra manifestazione di questa «mentalità completamente nuova»:
l’espressione guerra giusta è desueta, quasi scomparsa dal magistero cattolico
ufficiale.
Per i
Padri conciliari non si tratta più di accontentarsi di umanizzare la guerra, ma
di puntare a sradicarla.
Nella frase in cui riconosce il diritto alla
legittima difesa, il Concilio introduce un inciso che può sembrare anodino:
«fintantoché esisterà il pericolo della guerra» (GS, n. 79).
Queste
parole rifiutano l’idea che la guerra sia così insita nella natura umana da
poter essere solo regolamentata.
Ecco perché l’aggettivo “giusto”, che evoca
qualcosa di positivo, non può più essere accostato al sostantivo “guerra”:
la guerra è un male, a volte un male minore,
ma sempre un male.
Quali
sono le ragioni di questo cambiamento?
Innanzitutto, l’avvento, nell’ultimo secolo,
della guerra totale, che coinvolge l’intera società e non solo i militari, e
che quindi mina i principi di proporzionalità e discriminazione.
Lo
sviluppo delle armi di distruzione di massa, in particolare quelle nucleari, ha
aumentato notevolmente questa consapevolezza.
La
posizione di papa Francesco.
Dall’inizio
del pontificato di papa Francesco, questa «mentalità completamente nuova» è
stata espressa in modo ancor più chiaro.
In
diverse occasioni, il Papa ha condannato il ricorso alle armi come risposta
alla violenza.
Nel
suo messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2017, ad esempio, ha
affermato che «rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore
delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi
quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze
quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei
malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo.
Nel
peggiore dei casi, può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se
non addirittura di tutti» (Papa Francesco 2017).
Nel
Messaggio Urbi et Orbi per la Pasqua 2021, il Pontefice usa l’aggettivo
“scandaloso” in riferimento ai conflitti armati che non cessano e agli arsenali
militari che vengono potenziati.
Nell’enciclica
Fratelli tutti, affronta la questione della guerra giusta in questi termini:
«oggi
è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per
parlare di una possibile “guerra giusta”» (FT, n. 258).
È una
rottura con quanto detto dai suoi predecessori?
Le parole di papa Francesco vanno soppesate
con attenzione:
ritiene
«molto difficile» difendere «i criteri razionali», ma non impossibile.
L’impiego di un termine di questo tipo equivarrebbe logicamente a dichiarare
che non è mai ammissibile l’uso delle armi (anche nel caso di resistenza a
un’aggressione armata o di intervento per fermare un genocidio) e che, quindi,
la professione militare è incompatibile con l’etica cristiana.
Il Papa non si spinge così lontano, ma compie
un ulteriore passo nell’evoluzione descritta in precedenza:
più è
difficile rispettare i «criteri razionali», più rare, o addirittura
eccezionali, sono le situazioni che giustificano l’uso della violenza armata.
Il
ministro dell'istruzione:
«Impropria la lettera della
preside
di Firenze, nessun pericolo fascista».
Vanityfair.it
– (23-2-2023) - CHIARA PIZZIMENTI – ci dice:
Valditara
interviene sulla lettera aperta che la preside del liceo “Leonardo da Vinci” ha inviato ai suoi
studenti dopo l'aggressione al liceo Michelangiolo.
«Il
fascismo è nato sui bordi di un marciapiede», ha scritto “Annalisa Savino”.
Il
ministro dell'Istruzione “Giuseppe Valditara” ha commentato alla trasmissione “Mattino
5” la lettera scritta dalla preside del Liceo da Vinci di Firenze agli
studenti, dopo l'aggressione avvenuta sabato mattina davanti al liceo
Michelangiolo.
«È una lettera del tutto impropria», ha detto
il ministro, «mi è dispiaciuto leggerla, non compete ad una preside lanciare
messaggi di questo tipo e il contenuto non ha nulla a che vedere con la realtà:
in
Italia non c'è alcuna deriva violenta e autoritaria, non c'è alcun pericolo
fascista, difendere le frontiere non ha nulla a che vedere con il nazismo o con
il fascismo. Sono iniziative strumentali che esprimono una politicizzazione che
auspico che non abbia più posto nelle scuole; se l'atteggiamento dovesse
persistere vedremo se sarà necessario prendere misure».
Sempre
sulla lettera di” Annalisa Savino” il ministro “Valditara” aggiunge: «Difendere le frontiere e ricordare
il proprio passato o l'identità di un popolo non ha nulla a che vedere con il
fascismo o, peggio, con il nazismo. Quindi inviterei la preside a riflettere
più attentamente sulla storia e sul presente».
La
lettera.
In una
lettera agli studenti diventata virale la preside Savino aveva scritto:
«Il
fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone.
È nato ai bordi di un marciapiede qualunque,
con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé
stessa da passanti indifferenti.
"Odio
gli indifferenti" diceva un grande italiano, Antonio Gramsci, che i
fascisti chiusero in carcere fino alla morte, impauriti come conigli dalla
forza delle sue idee».
La
lettera è stata scritta dopo l'aggressione ad alcuni studenti del liceo
Michelangiolo ripresa in alcuni video sabato mattina.
L'aggressione
è stata subita dagli studenti del “collettivo Sum” e compiuta da parte di
militanti di destra.
La
Digos ha identificato i presunti aggressori in sei ragazzi, tre maggiorenni e
tre minorenni.
Nei
video si vede un ragazzino con sulle spalle lo zainetto di scuola è a terra
sull'asfalto preso a calci da una persona.
I
militanti di destra avrebbero fatto volantinaggio davanti alla scuola senza
autorizzazione e avrebbero avuto una discussione con gli studenti del
collettivo di sinistra.
Questa
la ricostruzione degli studenti del Consiglio d'istituto:
«Davanti alla scuola c'erano due ragazzini che
volantinavano per Casaggì.
Alcuni
studenti sono andati a far loro delle domande.
In
tutta risposta hanno preso degli spintoni, ma all'improvviso 5-6 uomini tra i
25 e i 30 anni - fino a quel momento nascosti - sono spuntati fuori e sono
partiti con l'aggressione.
Una
cosa terrificante, un attacco premeditato». Immediato l'intervento del sindaco
di Firenze Dario Nardella:
«Un’aggressione squadrista di questa gravità e
davanti ad una scuola è un fatto intollerabile.
Ho
parlato al Questore perché venga fatta chiarezza al più presto e vengano
individuati i responsabili. Firenze e la scuola non meritano violenze del
genere».
Il coordinamento di Fratelli d'Italia di
Firenze «esprime profondo rammarico per gli scontri avvenuti stamani nei pressi
del liceo Michelangiolo e condanna ogni forma di violenza da chiunque
esercitata.
La
politica deve essere strumento di confronto anche aspro e duro ma non può e non
deve travalicare mai in scontro fisico e limitazione della libertà di
espressione».
Martedì 21 febbraio c'è stata una
manifestazione antifascista a Firenze con almeno 2000 persone in piazza.
Nella
lettera contestata dal ministro Valditara la preside del Liceo Da Vinci si
rivolge direttamente agli studenti:
«Siate
consapevoli che è in momenti come questi che, nella storia, i totalitarismi
hanno preso piede e fondato le loro fortune, rovinando quelle di intere
generazioni.
Nei periodi di incertezza, di sfiducia
collettiva nelle istituzioni, di sguardo ripiegato dentro al proprio recinto,
abbiamo tutti bisogno di avere fiducia nel futuro e di aprirci al mondo,
condannando sempre la violenza e la prepotenza.
Chi
decanta il valore delle frontiere, chi onora il sangue degli avi in
contrapposizione ai diversi, continuando ad alzare muri, va lasciato solo,
chiamato con il suo nome, combattuto con le idee e con la cultura.
Senza
illudersi che questo disgustoso rigurgito passi da sé.
Lo
pensavano anche tanti italiani per bene cento anni fa ma non è andata così».
Intervistata
dal Corriere della Sera ha spiegato:
«Come non avere preoccupazioni in questo
momento storico globale per il futuro di tutti noi?
Il mio voleva essere un messaggio agli
studenti affinché non fossero indifferenti a quanto accaduto a Firenze davanti
al Liceo Michelangiolo.
La peggior cosa è pensare che questi episodi
non contino niente e che tutto sempre evolva verso più rosei orizzonti.
La
violenza politica è un pericolo e va sempre stigmatizzata».
Stupri
e femminicidi. Don Patriciello:
“Non
lasciamo educare i nostri ragazzi
da strada o social: sono cattivi maestri .”
difesapopolo.it
– (28/08/2023) – Giliola Alfaro -ci dice:
Di
fronte alle tante violenze che quest’estate vedono vittime giovanissime e
donne, il parroco di Caivano invita tutti a fare un esame di coscienza.
Una
lunga scia di sangue e di violenza, che vede vittime donne, da molto giovani ad
adulte, caratterizza l’estate 2023.
Notizie
di stupri di gruppo ai danni di ragazzine poco più che bambine, com’è successo
nel “Parco Verde” di Caivano che ha avuto per protagoniste due bambine, due
cuginette, da parte di un folto gruppo di giovanissimi, o di una diciannovenne,
vittima di 7 ragazzi a Palermo, o di femminicidi, uno degli ultimi si è
consumato contro “Anna Scala”, 56 anni, accoltellata alle spalle dal suo ex a
Piano di Sorrento.
Di
tutto questo orrore parliamo con il parroco della chiesa di San Paolo Apostolo,
nel “Parco Verde” di Caivano, “don Maurizio Patriciello”.
Cosa
ha pensato quando ha saputo dello stupro subito dalle due cuginette del Parco
Verde?
Sono
parroco a Caivano, la maggior parte di questi ragazzi li ho battezzati io.
Prima dell’indignazione, prima della rabbia, dello sconcerto, viene una
sofferenza grandissima e acutissima.
È come
all’improvviso quando ti viene un infarto fulminante.
Il
quartiere di Parco Verde è già tristemente noto…
È un
quartiere nato dopo il terremoto del 1980 e vi hanno ammassato tutte le persone
povere che prima abitavano in altre zone.
Qui lo Stato non è mai stato presente:
togli
la chiesa, togli la scuola, i Carabinieri, non c’è altro, non ci sono una
farmacia, una fermata dell’autobus, i servizi sociali, non c’è nessuno che si
prenda cura delle persone che ci vivono.
Non
c’è stata neppure l’attenzione del Comune:
avevamo
a pochi passi dalla parrocchia un centro sportivo enorme: è stato vandalizzato,
adesso è tutto rotto e sotto sequestro.
Il
Comune non si è fatto carico di ripristinarlo.
Adesso
non abbiamo neanche il sindaco, ci sono tre commissari straordinari perché
l’ultima Amministrazione comunale è stata sciolta per camorra.
Se in
un quartiere problematico, a rischio, dove ci sta un commercio della droga tra
i più fiorenti di tutta l’Italia, le infrastrutture, luoghi di aggregazione per
ragazzi e i servizi sociali non ci sono -e le famiglie sono quello che sono -,
la strada e i social, come Facebook e Tik Tok , e la pornografia diventano
maestri.
La domanda che dobbiamo porci è questa:
chi ha
educato questi ragazzini all’amore, al sentimento, anche alla sessualità? Non
li ha educati nessuno.
Li ha educati la pornografia!
Ma
questi temi non si toccano mai, sono un tabù.
Perché
succede questo?
Gli
adulti hanno abdicato alla fatica dell’educazione perché educare, diceva San
Giovanni Bosco, è cosa del cuore e quando non c’è la passione di educare la
persona amata – questo succede con i genitori, con la scuola, anche con la
chiesa – la strada fa da maestra, fa crescere molto in fretta ma anche in un
modo distorto.
Al
Parco Verde abbiamo due bambine che sono vittime, su questo non ci sono dubbi,
ma i maschietti, che sono i carnefici, sono vittime anche loro:
il
trauma che hanno avuto le bambine sarà il trauma che si portano dentro questi
maschietti, anche se cercano di camuffarlo con il maschilismo.
Dobbiamo
aiutare i ragazzi a capire che essere educati e dolci, rispettare l’altro,
essere solidali non è un segno di debolezza, è un segno di forza.
Ma abbiamo mai provato a insegnarglielo?
Sia
gli stupri sia i sempre più numerosi femminicidi non indicano un profondo
disprezzo della donna?
Sì,
alla
base c’è sempre questo disprezzo della donna che deve essere ridotta a un
oggetto.
Non
siamo mai migliorati da questo punto di vista anche se abbiamo fatto finta di
superare il maschilismo: in realtà ce lo portiamo ancora dentro il nostro Dna.
Ne dobbiamo
fare di strada ancora: dobbiamo insistere, insistere, insistere sempre.
Come
si possono difendere le donne da questa violenza? L’abbiamo visto anche nel
femminicidio di “Anna Scala”:
la donna aveva denunciato il suo ex ben due
volte per le violenze subite, ma le denunce sono state addirittura scatenanti
di una violenza peggiore, cieca e assassina, da parte del suo carnefice…
Nella
mia vita di prete ho invitato decine di donne ad andare a denunciare le
violenze subite.
Tante volte le ho accompagnate io stesso a
fare denuncia.
Quando ho letto che “Anna” ha denunciato una
volta, poi una seconda volta e non è stata in qualche modo protetta, mi sono
chiesto se dovesse venire da me una donna a dirmi: ‘Padre, mio marito mi
picchia’, avrò il coraggio di dirle: ‘Corri subito in caserma?’.
O,
piuttosto, sarò preso dal terrore di condannare a morte questa donna, se dopo
la denuncia non si mette in moto la catena che dovrebbe difenderla?
È
terribile da dirsi, ma se non si prendono immediati provvedimenti dopo una
denuncia, consigliare una donna di denunciare equivale a condannarla a morte.
Questo
è il problema, è inutile girarci intorno.
Possiamo
fare tutte le manifestazioni che vogliamo, possiamo esporre scarpe rosse,
possiamo installare panchine rosse, ma tutto lascia il tempo che trova.
Se la denuncia, alla fine, serve solo a
istigare di più la persona violenta, piuttosto che a fermarla, a bloccarla, mi
domando davanti a Dio, essendo un prete, se non condanno la donna cui consiglio
di denunciare.
Io ho lavorato in ospedale per tanti anni. I
l
Pronto soccorso è molto importante:
se
arriva un ammalato la prima cosa che fai cerchi di tamponare la ferita ma poi
alle spalle devi avere il reparto adatto dove ricoverare l’ammalato e dove
possa ricevere le cure del caso.
Dopo
la denuncia che io paragono a un Pronto soccorso se non si mettono in moto
tutti i meccanismi per mettere al sicuro la donna e isolare il delinquente che
la sta minacciando e le sta usando violenza allora corriamo dei rischi troppo
grossi.
Poi
parliamo degli stupri da parte dei ragazzi.
Ma
domandiamoci: che esempio abbiamo dato?
Chi è
che ha ammazzato 76 donne in questi primi 8 mesi dell’anno?
Sono stati gli adulti.
C’è un
fil rouge che lega tutto?
Sono
convinto che gli stupri di questi ragazzini e i femminicidi vanno studiati e
osservati insieme.
E poi
mi chiedo: chi c’è dietro a queste 76 donne – mamme, figlie, sorelle, amiche –
che sono morte per mano violenta di un uomo?
Se loro sono 76, ce ne sono almeno 760 persone
che stanno soffrendo.
I ragazzi cosa hanno appreso dai social, da
Facebook, dalla televisione?
Che
c’è stato un uomo di poco più di 50 anni che ha accoltellato vigliaccamente la
sua donna alle spalle?
Cosa devono imparare questi ragazzi?
Se
aggiungiamo che l’educazione sentimentale e sessuale viene fatta dalla
pornografia e dai social, come dicevo prima, capiamo che gli episodi eclatanti
dei quali veniamo a conoscenza sono solo la punta dell’iceberg ma non solo a
Caivano, in tutta l’Italia:
per
una donna che denuncia uno stupro o una violenza, chissà quante ce ne sono che
non denunciano.
Se
vogliamo fare sul serio ci dobbiamo fermiamo e a reti unificate, come si fa per
il messaggio di fine anno del presidente della Repubblica, dobbiamo tutti
insieme domandarci se vogliamo davvero mettere fine a questo scempio.
Se sì,
agiamo di conseguenza.
Se non
ci interessa davvero, continueremo a indignarci per un giorno al prossimo
stupro o femminicidio, ma poi già il giorno seguente sarà dimenticato.
Se
avesse l’occasione di parlare con i ragazzi di Caivano che hanno violentato le
cuginette di Parco Verde cosa direbbe?
Non lo
so, così a freddo, certe cose si sentono all’istante e di conseguenza si parla.
Poi bisogna anche capire chi sono questi ragazzi, la loro storia, come sono
stati coinvolti.
Le
persone vanno prese una per una cercando di aiutarle laddove è possibile.
Questi
ragazzi crescono molto in fretta.
Un ragazzo di 14 anni di Parco Verde è
paragonabile a uno di 20 di un altro posto. Se la strada lo ha forgiato,
sappiamo che è una pessima maestra perché fa maturare molto tempo prima, ma in
un modo distorto.
(Gigliola
Alfaro)
Israele
sotto attacco. La condanna di Usa,
Ue e
Nato. L'Iran "fiero" di Hamas,
Mosca
e Riad chiedono il cessate il fuoco.
Huffpost.it
– Redazione Italia – (7 ottobre 2023) – ci dice:
Unanime
la condanna dell'Occidente all'attacco a sorpresa con migliaia di razzi sul
territorio israeliano.
Atteso
un colloquio tra il presidente Biden e il premier Netanyahu.
Dalla
Farnesina a Bruxelles, dal Cremlino alla Casa Bianca:
è
condivisa la condanna all'attacco a sorpresa dalla Striscia di Gaza con
miliziani armati che, questa mattina, sono entrati in territorio israeliano.
L'Iran, invece, si dichiara "fiero"
dei combattenti di Hamas.
Il
governo italiano ha fatto sapere di seguire da vicino l'attacco in Israele,
condannando "con la massima fermezza il terrore e la violenza contro
civili innocenti in corso" e dando "sostegno al diritto di Israele a
difendersi".
"Hamas
cessi subito questa barbara violenza", ha chiesto il ministro degli Esteri
Antonio Tajani prima di riferire che "tutti gli italiani in Israele sono
stati contattati. Sono circa 18 mila - ha aggiunto - quelli che vivono in
Israele, qualcuno ha anche il doppio passaporto.
E sono
250 quelli che sono temporaneamente in Israele e ci sono una ventina di
italiani nella striscia di Gaza".
L'ambasciatore
d'Italia in Israele, “Sergio Barbanti”, ha sottolineato da Cernobbio che tutti
gli italiani in Israele stanno bene, mentre la Farnesina, con il Consolato
Generale e l'Unità di crisi, è in contatto con tutti gli italiani presenti a
Gaza e le varie organizzazioni di riferimento.
"In
queste drammatiche circostanze giungano a lei, signor Presidente, e a tutti i
cittadini israeliani le espressioni della solidarietà dell'Italia”, sottolinea “Sergio
Mattarella nel messaggio inviato al Presidente israeliano “Isaac Herzog”.
"Siamo sinceramente vicini al lutto delle
famiglie delle vittime – ha aggiunto –, desidero ribadire la più ferma e
convinta condanna di questo attacco, che attenta alla sicurezza di Israele e
allontana la prospettiva di una pace duratura".
Parole
di condanna giungono dall’Unione Europea. "
Israele
ha il diritto di difendersi da questi odiosi attacchi", ha scritto su “X”
la presidente della Commissione europea, “Ursula von der Leyen”, esprimendo la
sua "inequivocabile condanna" per gli attacchi condotti da Hamas che
definisce "terrorismo nella sua forma più spregevole".
Anche
il capo della diplomazia europea, “Josep Borrell,” esprime la sua solidarietà
con Israele "in questi momenti difficili. Seguiamo con angoscia le notizie
provenienti da Israele.
Condanniamo senza equivoci gli attacchi di
Hamas.
Questa
orribile violenza deve cessare immediatamente: il terrorismo e la violenza non
risolvono nulla".
"Condanno
con forza gli attacchi indiscriminati lanciati questa mattina contro Israele e
la sua popolazione portando terrore e violenza per cittadini innocenti",
sono state le parole del presidente del Consiglio europeo, “Charles Michel”.
"Il
mio pensiero va a tutte le vittime - ha aggiunto - L'Ue è solidale con il
popolo israeliano in questo momento orribile."
Dall’altra
parte dell’oceano, “Adrienne Watson”, portavoce del consiglio per la sicurezza
nazionale della Casa Bianca, fa sapere che "gli Stati Uniti condannano gli
attacchi dei terroristi di Hamas contro i civili israeliani.
Non
c'è mai giustificazione per il terrorismo.
Siamo fermamente
accanto al governo e al popolo di Israele".
La
Nato condanna "fermamente" gli "attacchi terroristici" di
Hamas contro Israele, ha dichiarato sabato un portavoce.
"Condanniamo
con forza gli attacchi terroristici compiuti oggi da Hamas contro Israele, un
partner della Nato.
I
nostri pensieri sono rivolti alle vittime e a tutte le persone colpite. Il
terrorismo è una minaccia fondamentale per le società libere e Israele ha il
diritto di difendersi", scrive il portavoce “Dylan White” su “X”.
Anche
l'Ucraina ha espresso solidarietà a Israele condannando "fermamente gli
attacchi terroristici in corso contro Israele, compresi i razzi contro la
popolazione civile di Gerusalemme e Tel Aviv.
Esprimiamo
il nostro sostegno a Israele nel suo diritto di difendere sé stesso e il suo
popolo", ha dichiarato il Ministero degli Esteri ucraino sui social media.
Mentre
la Russia chiede "moderazione" in seguito agli attacchi contro
Israele da parte di Hamas e si dice "sorpresa".
"Se
l'avessimo saputo l'avremmo evitato", ha dichiarato “Mikhail Bogdanov,”
vice ministro degli Esteri russo e inviato del Cremlino per il Medio Oriente e
l'Africa, citato dall'agenzia Interfax.
"Siamo
in contatto con tutti. Con gli israeliani, i palestinesi e gli arabi" e
"naturalmente, chiediamo sempre la moderazione", ha sottolineato.
Da
parte sua, l’Egitto avverte delle gravi conseguenze dell’escalation in Israele
in una dichiarazione del ministero degli Esteri diffusa sabato dall'agenzia di
stampa statale.
Si
chiedeva di "esercitare la massima moderazione ed evitare di esporre i
civili a ulteriori pericoli".
L'Iran si è invece detto "fiero" dei
combattenti di Hamas:
"Saremo
al fianco dei combattenti palestinesi fino alla liberazione della Palestina e
di Gerusalemme", ha dichiarato il consigliere della Guida suprema iraniana
“Ali Khamenei, Rahim Safavi”.
E gli
Hezbollah libanesi filo-iraniani hanno riferito che seguono "da vicino e
con grande interesse gli sviluppi sul terreno palestinese".
Il
presidente turco, “Recep Tayyip Erdogan”, ha invece invitato israeliani e
palestinesi ad "agire ragionevolmente" per evitare un'escalation di
violenza. "Chiediamo a tutte le parti di agire in modo ragionevole e di
astenersi da azioni impulsive, che aumenterebbero le tensioni", ha
dichiarato il leader turco.
L'Arabia
Saudita, che sta negoziando con Israele per normalizzare i rapporti tra i due
Paesi, ha chiesto la fine immediata dell'escalation.
"Il regno sta seguendo da vicino gli
sviluppi senza precedenti tra un certo numero di fazioni palestinesi e le forze
di occupazione israeliane", ha dichiarato il ministero degli esteri
saudita in una dichiarazione pubblicata su “X”.
"Il
regno chiede la fine immediata dell'escalation tra le due parti, proteggere i
civili e dare prova di moderazione".
Transizione
energetica,
la via
per le
rinnovabili passa dall’innovazione.
Agendadigitale.eu
– Mirella Castigli – (3 novembre 2021) – ci dice:
Sostenibilità
Ambientale E Smart City.
Semplificazioni
reali, adeguamento normativo e digitale:
ecco
la ricetta per la transizione energetica, necessaria per affrontare la sfida
climatica.
La
strada per aumentare il contributo delle rinnovabili è ancora lunga, ma nuove
opportunità arrivano anche dal settore dei cavi sottomarini e dagli impianti
eolici offshore.
Energie
rinnovabili.
La transizione
energetica è inevitabile e serve per evitare i disastri causati dai cambiamenti
climatici, ma l’Italia è in ritardo nell’adozione delle strategie per
affrontare il riscaldamento globale e le immense sfide al centro di Cop26, il
summit di Glasgow sulla crisi climatica.
Attualmente
il nostro Paese genera circa 21 Gigawatt dal fotovoltaico e appena 10 Gigawatt
dai parchi eolici, “quando dovremmo almeno triplicare il primo e raddoppiare il
secondo per raggiungere quota 70% del contributo rinnovabili al mix elettrico
(che oggi è fermo al 38%, ndr)”, afferma “Livio Desantoli”, professore dell’”Università
La Sapienza” di Roma, responsabile dell’energia della Sapienza e che si occupa
di tematiche legate alla pianificazione energetica e alla generazione distribuita
dell’energia con sistemi innovativi.
Transizione
energetica, i ritardi nello sviluppo delle rinnovabili.
La
strada per la transizione energetica è segnata, grazie agli ambiziosi e
ineludibili obiettivi europei:
taglio del 55% delle emissioni di anidride
carbonica(CO2) entro il 2030, previsto dal” Green Deal”, per giungere alle zero
emissioni nette, il traguardo della neutralità climatica, entro il 2050 in
Unione europea.
(E’ incredibile che si continui a dire
che il pericolo per l’umanità tutta è
dato dalla “CO2” che essendo più pesante dell’aria non può “volare”
nell’atmosfera e quindi è impossibilitata a raggiungere gli altri gas serra .In
questo modo non potrà mai arrivare alla neutralità climatica! (N.D.R.)
Ma l’Italia accumula ritardi da anni e deve
compiere un salto di qualità.
“Per
essere in linea con gli obiettivi europei dovremmo installare 70 nuovi Gigawatt
di rinnovabili in meno di dieci anni”, continua il professor “Livio
Desantoli”.
Per
fare due conti, l’Italia dovrebbe aggiungere oltre 7 Gigawatt di rinnovabili
all’anno fino al 2030, mentre il Paese arranca a un aumento di appena un
Gigawatt all’anno.
“Per fortuna il PNRR favorisce il processo di
transizione, permettendo l’avvio di un ciclo virtuoso e introducendo uno
sviluppo per 3-4 anni, poi dovremo attrezzarci”.
Cosa
serve alla transizione energetica in Italia.
A
pesare sul ritardo italiano sono vari fattori, ne citiamo almeno due:
l’eccesso
di burocrazia nelle autorizzazioni;
l’assenza
di target regionali, per mettere in atto il “burden sharing”, l’obiettivo nazionale di sviluppo
delle rinnovabili.
Sotto
ai nostri occhi è il ritardo delle regioni italiane a varare piani regionali di
sviluppo delle rinnovabili, per raggiungere l’aumento di 70 GigaWatt di fonti
rinnovabili entro il 2030: sappiamo quanto bisogna installare per le
rinnovabili, ma non sappiamo neanche in quali zone, perché la ripartizione per
Regione è ancora in alto mare.
(Lo
sviluppo delle rinnovabili è troppo costoso e a lungo termine non potrà mai
sostituire l’energia ricavata dalle fonti fossili, che saranno per sempre non
sostituibili! N.D.R.)
“Infatti
servono semplificazioni reali, oggi quasi la metà delle autorizzazioni
richieste non diventa un impianto e l’altra metà accumula sei anni di ritardo
sulla tempistica stimata dalla normativa”, continua “Desantoli” che denuncia
le farraginose e lunghe tempistiche italiane con i costi più alti per ambire
all’autorizzazione, “per non parlare dei ritardi normativi da adeguare, un
ostacolo sui nuovi investimenti nella transizione energetica”.
(Ma
chi sono questi pazzi pseudo -scienziati che vogliono imporci di raggiungere a
breve dei traguardi impossibili e solo per odio forsennato contro le fonti
fossili non sostituibili.” Cina docet” ! N.D.R.)
Ma non
è solo questione di sburocratizzazioni e di coerenza normativa: “Infatti
servono anche innovazione nei sistemi di produzione e di accumulo per
immagazzinare energia per mesi, progressi nell’offshore, nel fotovoltaico
galleggiante, nell’idrogeno rinnovabile”, conclude “Desantoli”: “Ma soprattutto bisogna evitare di
distrarre fondi verso i gas e combustibili fossili, l’obiettivo deve essere
solo la de-carbonizzazione (cioè eliminare la CO2! N.D.R.).
I
problemi dello stoccaggio dell’energia.
Lo
stesso premier Mario Draghi qualche giorno fa ha ricordato che le rinnovabili
hanno limiti e vanno affiancate ad altre fonti (ad esempio gas naturale, che
inquina meno di altre non rinnovabili).
I limiti sono nella gestione dei cali di
energia quando il sole o il vento calano di intensità.
La
soluzione tipica sarebbe lo storage dell’energia prodotta prima per poterla
usare nei momenti critici e così dare continuità alla fornitura.
Le
soluzioni storage in batteria sono in continua evoluzione, tuttavia al momento
presentano alcune problematiche:
per diventare il supporto adatto devono
compiere progressi sotto il profilo della sicurezza e devono anche
immagazzinare energia per tempi più lunghi.
Per non parlare delle problematiche legate
allo smaltimento e alla questione geopolitica nel reperimento delle terre rare
necessarie per produrle.
Come
centrare gli obiettivi del Green Deal.
Ma
come si può fare in concreto la transizione energetica verso le rinnovabili?
“Giuseppe Zollino”, professore della Facoltà
di Ingegneria dell’Università di Padova, esprime scetticismo sull’eolico, a
meno che non sia offshore, invece è più ottimista sul fotovoltaico:
“Nell’eolico,
in Italia, i temi urgenti sono due:
le enormi dimensioni delle pale (e più la tecnologia progredisce, più
i sistemi sono enormi), con i problemi di impatto ambientale e paesaggistico
evidenziati nel nostro Paese; anche nello sviluppo offshore, va detto che il Mediterraneo è
un mare subito molto profondo, bisogna studiare progetti pilota con le
piattaforme galleggianti e le innovazioni in questo campo”.
(Ma quando il nostro mare genera
sempre onde paurose le piattaforme galleggianti sul mare sono inutili. N.D.R.)
“L’implementazione
del fotovoltaico“, conclude Giuseppe Zollino “invece è più semplice:
basterebbe
dotare di impianti fotovoltaici tutti i tetti delle fabbriche, dei centri
commerciali e dei condomini per raggiungere gli obiettivi prefissati dal Green
Deal e dal traguardo di una UE a zero emissioni entro il 2050.
(Ma per sviluppare il fotovoltaico necessario a
sostituire le fonti fossili occorrerebbero quantità enormi di terreni tolti
all’agricoltura. Non sono sufficienti a questo fine tutti i tetti di tutte le
fabbriche italiane! N.D.R.)
Ricordiamoci
infine che l’Italia usava solo le rinnovabili fino agli anni ’50:
l’idroelettrico potrebbe continuare a fornire un importante contributo
all’abbandono del combustibile fossile”.
(Ma
l’idroelettrico richiede da subito la costruzione di enormi quantità di dighe.
E questo non può essere realizzabile a breve termine! N.D.R)
La
filiera dell’idrogeno rinnovabile.
Ora è
importante che l’Italia sostituisca le fonti fossili con le rinnovabili e
l’idrogeno green, rendendo più efficiente la produzione, il trasporto, la
distribuzione.
Le
infrastrutture di stoccaggio di fonti rinnovabili – che per natura sono
distribuite e intermittenti – devono predisporre la convergenza dei settori
(per l’idrogeno, il settore energetico e dei trasporti) e l’integrazione con i
sistemi digitali, dove sensori” IoT”, dispositivi di realtà aumentata, analisi
predittiva possono abilitare processi di monitoraggio, diagnostica e
manutenzione.
(Nel
breve termine le infrastrutture di stoccaggio oltre il costo enorme non sono di
facile realizzazione a breve termine dati i costi prevedibili e le difficoltà
burocratiche inerenti. N.D.R).
Per
esempio, le “smart grid” possono modulare i consumi e ridurre i picchi
energetici.
Il
digitale inoltre valorizza i “prosumer”, grazie alle reti decentralizzate e
allo stoccaggio di energia da fonti rinnovabili nei sistemi residenziali.
Al
centro di “Next generation EU” è poi lo sviluppo di filiera dell’”idrogeno
green”, prodotto cioè da fonti rinnovabili, attraverso l’energia elettrica in
eccesso prodotta dalle fonti green intermittenti.
(Tutte
proposte campate in aria nel breve termine! N.D.R.)
Gli
investimenti in rinnovabili invece genererebbero posti di lavoro e Pil:
il “Green
Deal” è in grado di produrre, soltanto nel settore elettrico italiano, 100
miliardi di investimenti privati e 90 mila nuovi posti di lavoro entro il 2030.
(Questa è una bufala colossale.
Andiamo incontro a dei tassi di interesse sui capitali presi a prestito
talmente elevati che nessun privato si proporrebbe per realizzare questi sogni
impossibili. L’intervento pubblico è impossibile con lo stato attuale del
bilancio annuale fuori da ogni possibile controllo del calcolo economico di
recupero dei finanziamenti necessari! N.D.R.)
Il
ruolo dei cavi sottomarini nella transizione energetica.
Mentre
cambia il modo in cui l’energia viene consumata (con le auto elettriche) e
prodotta (con le rinnovabili), la transizione energetica richiede soluzioni
innovative per risolvere problemi complessi.
L’Italia
deve uscire dalla dimensione nazionale ed imparare a sfruttare le
interconnessioni europee, anche perché la parola chiave che giunge da Cop26 è
“collaborare”.
Anche
attraverso i cavi sottomarini.
Non
sempre il vento soffia, mentre il sole, già assente di notte, può essere
oscurato dalle nuvole di giorno.
Tutti
questi fattori rendono aleatoria ed intermittente la produzione di energia
rinnovabile.
Dunque,
non solo bisogna creare un buon mix elettrico e differenziare per non rischiare
black-out, ma è anche necessario separare il consumo dalla produzione,
soprattutto perché è importante distribuire l’energia da dove è prodotta a dove
viene utilizzata.
Infatti,
una volta prodotta l’energia con le rinnovabili, poi bisogna pensare allo
stoccaggio nei sistemi di accumulo oppure trasferirla laddove serve.
Per trasferire l’energia, invece, si possono
usare “smart grid “oppure sfruttare appositi cavi sottomarini.
I cavi
sottomarini, realizzati in un mix di acciaio, alluminio, piombo e materiali
isolanti, pesano 150 chilogrammi al metro (infatti, una bobina di 30 metri pesa
quanto la torre Eiffel) e sono efficienti nel trasferire l’energia.
Soprattutto rappresentano svolte promettenti.
L’export
di energia attraverso i cavi è passato da 2% degli anni ’70 al 4,3% di energia
generata dai membri dell’Ocse nel 2018.
Credit Suisse stima che il settore dei cavi
sottomarini passerà dai 4,5 miliardi di dollari di quest’anno ai 5,5 miliardi
di dollari nel 2022.
L’elettricità
sta diventando una commodity commerciabile.
Connettere
le “power grid” con produzioni energetiche differenti potrebbe risolvere
numerosi problemi attuali connessi con le rinnovabili.
Le
dimensioni delle installazioni eoliche offshore sono destinate a triplicare
entro il 2035.
La Danimarca ha scommesso molto sulle turbine
eoliche, ma quando non soffia il vento potrebbero rimanere ferme.
Per evitare di ricorrere a combustibili
fossili, quando l’eolico non funziona, a Copenhagen basterebbe collegarsi alla
Norvegia, un Paese con alto potenziale idroelettrico.
Grazie
ai cavi, quando soffia il vento, sia la Norvegia che la Danimarca potrebbero
sfruttare l’energia eolica danese, mantenendo l’acqua della Norvegia in
riserva. Quando c’è invece calma piatta e non soffia un refolo di vento,
potrebbero entrare in azione i laghi norvegesi anche per andare in soccorso
alla Danimarca.
(Ma
velo immaginate un mondo in guerra totale che si occupa di come predisporre
l’energia elettrica distribuibile solo tramite cavi sottomarini facilmente soggetti
ad attentati dinamitardi già effettuati con successo contro i collegamenti di
rete di distribuzione sottomarina di gas? N.D.R.)
Questo
esempio dimostra che l’elettricità sta entrando nell’era della commodity
commerciabile.
E lo dimostrano i collegamenti fra Danimarca e
Olanda, Svezia, Germania e Gran Bretagna (attivo dal 2023, secondo recenti
previsioni).
Per
ridurre le emissioni di CO2, non è sempre necessario costruire parchi eolici e
impianti fotovoltaici in posti che poi si rivelano sbagliati, ma per
de-carbonizzare (eliminare la CO2) può rivelarsi più semplice firmare un
contratto con gli operatori giusti, per ottenere elettricità prodotta altrove
con le rinnovabili.
La
transizione energetica apre nuovi scenari nel Mediterraneo.
Anche
in Italia la transizione energetica rappresenta un’opportunità interessante.
Per esempio, potrebbe colmare il divario fra Nord e Sud:
infatti,
le industrie energivore si trovano nel Centro-Nord, ma il sole splende e il
vento soffia soprattutto a Sud, dunque, ad alimentare le fabbriche del Nord
Italia potrebbero in futuro arrivare in soccorso i parchi eolici e fotovoltaici
del Mezzogiorno.
Anche “Stefano
Antonio Donnarumma” di Terna, manager delle linee di trasmissione, vede nelle
rinnovabili un nuovo modo per bilanciare gli squilibri fra le regioni italiane
e superare i divari fra il Nord produttivo e regioni finora meno sviluppate del
Paese.
Il
mercato dei cavi è uno dei rari settori industriali in cui domina l’Europa.
L’entusiasmo degli investitori per i cavi elettrici ha portato rialzi fra il
48-125% delle azioni della” francese Nexans”, della “danese nkt” e dell’”italiana
Prysmian”.
“Nexans
North Sea Link project” - episode 5.
Come
funzionano i cavi sottomarini
I cavi
possono essere stesi anche a 3 mila metri di profondità, anche grazie
all’utilizzo di appositi robot, e ciò spalanca nuovi scenari nel mar
Mediterraneo.
In
Grecia la nave Nexans Aurora sta collegando l’isola di Creta alla terraferma
della penisola ellenica.
In cantiere c’è il collegamento di 720 Km fra
Norvegia e Regno Unito, mentre si studiano interconnessioni fra Grecia e
Israele o Irlanda e Francia.
Se vi
sembra invece più avveniristico il collegamento fra i campi assolati del
Marocco, ideali per il fotovoltaico, e la Gran Bretagna, a causa dei 3.800 Km
di distanza fra i due Paesi, è anche vero che un consorzio dell’altro emisfero
punta a collegare coi cavi Australia, Indonesia e Singapore per 4.200 Km.
“Christopher
Guérin”, capo di “Nexans”, prevede di stendere cavi per 72.000 Km fino al 2030.
In
futuro parchi eolici galleggianti potranno essere connessi alle power grid.
La “International
Energy Agency”, club energetico dei Paesi più ricchi, stima che 80 Giga Watt di
parchi eolici offshore dovranno essere installati ogni anno fino al 2030 per
raggiungere gli obiettivi della neutralità climatica.
Ogni
gigawatt di capacità offshore richiede circa 250 milioni di euro di cavi, inclusa
l’installazione, secondo Max Yates di Credit Suisse.
Conclusioni.
L’Italia
deve colmare il ritardo nelle rinnovabili, anche perché la lentezza
nell’attuare la transizione energetica si riflette nel caro-bolletta, un freno
alla stessa crescita del Paese.
L’Italia
deve affrettarsi a incrementare il contributo delle rinnovabili al mix
energetico, abbandonando i combustibili fossili, in linea con il Green deal,
l’accordo europeo sul clima, gli obiettivi del G20 e quelli di Cop 26 di Glasgow.
La
soluzione consiste nelle semplificazioni burocratiche e nello stare al passo
con l’innovazione tecnologica.
L’Italia
deve scommettere nelle infrastrutture, non solo per connettere i siti di
produzione con quelli di consumo, ma anche per integrare il crescente numero di
risorse distribuite e per coordinare produzione e distribuzione di energie
alternative, a partire dall’idrogeno green.
Nonostante
i gravi ritardi, l’Italia e l’Europa hanno anche interessanti opportunità da
cogliere proprio sul fronte delle rinnovabili, dei parchi eolici offshore e dei
cavi sottomarini per trasferire l’energia da dove è prodotta a dove realmente
serve.
Il
momento di investire è ora, anche per approfittare delle nuove “autostrade
energetiche” che possono essere stese coi cavi nei nostri fondali marini.
Sostenibilità,
innovazione e reti:
gli
obiettivi delle imprese
per
spingere la competitività.
Corriere.it -Economia – (11 ottobre 2023) - Maria
Elena Viggiano – Fausta Chiesa e altri -ci dicono:
L’energia
è centrale per le persone e le imprese ma è importante capire come affrontare
la transizione anche attraverso l’utilizzo delle innovazioni tecnologiche.
Con al
centro sostenibilità e competitività.
Sono
state queste le linee guida della quinta edizione del “Green & Blue Talk di
Rcs Academy,” in collaborazione con il “Corriere della Sera” e “Pianeta 2030”.
«Dobbiamo andare avanti verso il futuro
cambiando la struttura produttiva. Oggi siamo sicuri dei quantitativi di gas ma
i prezzi oscillano, ormai determinati da fattori esogeni», ha affermato “Gilberto Pichetto
Fratin”, ministro dell’”Ambiente e della Sicurezza energetica”, mentre per
quanto riguarda l’automotive, «non possiamo dipendere per le batterie solo dalla Cina”.
ENERGIA
Gas,
quotazioni in forte rialzo: da Israele al Libano al presunto sabotaggio della
rete in Finlandia.
(Fausta Chiesa)
L’abbattimento
delle emissioni.
“La
strada sarà l’elettrico ma bisogna concentrare l’attenzione sulle emissioni, ci
battiamo per il biocarburante e abbiamo un interesse nazionale perché siamo
produttori».
Per
“Claudio Descalzi,” ceo del gruppo Eni, «gli stoccaggi sono pieni a una media del
95% ma c’è volatilità dei prezzi, questo dipende dalla tensione tra domanda e
offerta. Bisogna continuare a lavorare con i Paesi che ci forniscono il gas».
«Gli ultimi avvenimenti geopolitici ci stanno
dimostrando la strategicità dei rigassificatori.
In
questo senso quello di Porto Empedocle diventa un’opera strategica e
indispensabile per fronteggiare eventuali nuove crisi a livello
internazionale», ha aggiunto “Nicola Lanzetta”, direttore Italia Enel.
Mentre
per “Stefano Venier,” ceo Snam, «un sistema energetico resiliente si costruisce lungo
un percorso di diversificazione, i rigassificatori sono fondamentali».
«Dobbiamo usare tutte le fonti di energie che ci
permettono di decarbonizzare», (eliminare il CO2) ha detto “Ugo Salerno” numero uno
di Rina.
Per “Paolo
Gallo”, ceo Italgas, «gestiamo il passaggio da una produzione più centralizzata a
una produzione distribuita sul territorio».
ENERGIA
Eni,
70 anni di storia da protagonista nell’innovazione e nello sviluppo
(Andrea
Ducci)
I
progetti infrastrutturali.
Anche”
Federico Colombara”, partner e director “Bcg”, sostiene «una visione territoriale
dell’energia con un recupero di risorse e di competenze».
“Fabrizio Palermo”, amministratore
delegato Acea, in tema di acqua ha sottolineato:
«c’è
una frammentazione eccessiva sul territorio e tra gli operatori, le infrastrutture
non sono collegate a livello regionale e non esiste una rete nazionale.
L’acqua influenza il 18% del Pil.
Ma in
Italia si investono circa 56 euro per abitante all’anno contro una media
europea di 78».
Mentre
“Elio Catania”, presidente “Innovatec”, ha posto l’accento sul «ridisegnare l’intera struttura
produttiva delle aziende, per due terzi degli imprenditori la transizione è un
fattore di competitività».
Per “Alessandro
Bresciani,” senior vice president “Climate Technology Solutions”, “IET, Baker
Hughes”, «dobbiamo
sdoganare i progetti che sono snodi infrastrutturali».
“Nicola Monti”, ceo Edison, ha
sottolineato che «non solo sono necessarie risorse economiche ma anche capitale umano con
competenze specifiche».
ENERGIA
Centrale
nucleare nel 2032, l’annuncio di Salvini: «Da milanese la vorrei a Milano»
(Massimiliano
Jattoni Dall’Asén)
Una
cultura
Mentre
per “Bernardo Ricci Armani”, di “Statkraft Italia”, «la sostenibilità deve essere un
elemento di cultura».
E se
per “Luca Schieppati”, managing director Tap, l’obiettivo è «arrivare alla
neutralità carbonica»-(Niente CO2) per “Massimo
Battaini”, ceo designato di “Prysmian”, «la nostra attuale strategia è
connettere il mondo in tema di rinnovabili».
“Stefano Buono”, ceo e fondatore “Newcleo”,
ha sostenuto che «è possibile produrre un nucleare più sostenibile grazie alla tecnologia
moderna ma è una industria da implementare».
E “Luca Dal Fabbro”, presidente “Iren”, punta
sul «recupero
delle materie prime critiche attraverso il riutilizzo dei rifiuti, l’Italia
dipende per il 95% da Paesi extra Ue».
Per “Giuseppe Argirò”, ad Cva, «rilanciamo l’idroelettrico per lo sviluppo
del nostro Paese» mentre “Arrigo Giana”, ad Atm, vede «nel trasporto pubblico locale
un volano».
Per “Daniela
Bernacchi,” executive director “UN Global Compact Network Italia”, sono
decisive «alleanze
per raggiungere un bene comune»;
e “Serena
Giacomin”, presidente” Italian Climate Network”, sono i dati «ad aumentare la
nostra consapevolezza».
Concorda
“Maria Siclari”, direttore generale” Ispra”, «i dati e le informazioni devono
essere aperti».
Conclude” Candido Fabrizio Pirri”, direttore “Center
for Sustainable Future Technologies” Istituto Italiano di Tecnologia di Torino,
«l’AI e la
robotica saranno essenziali nella transizione energetica».
(Di
investimenti per la transizione energetica tramite prestiti bancari, nessuno ne
parla…però! N.D.R.)
Convegno
nazionale 2022. Tecnologia
e
innovazione per una transizione energetica.
L’intervento
di Maurizio Sella.
Cavalieridellavoro.it – Maurizio Sella – (26.09.2022)
ci dice:
Roma –
24 settembre 2022.
Autorità,
Signore, Signori, cari colleghi Cavalieri del Lavoro,
è per
me un onore concludere questo convegno nazionale dedicato alla transizione
energetica e, molto significativamente, dedicato ai contributi concreti che noi
Cavalieri del Lavoro abbiamo già introdotto per accelerare questo passaggio
epocale.
Prima
di esprimervi le mie considerazioni voglio ringraziare il Gruppo Centrale e il
suo presidente “Vittorio Di Paola” per la perfetta organizzazione dei lavori di
questa giornata, e il collega “Franco Bernabè” che ne ha tracciato il percorso
di avvicinamento.
Siamo
arrivati al grado di consapevolezza di oggi grazie ai “workshop preparatori”
che in questi mesi ci hanno visto coinvolti.
La mia
riconoscenza va anche al nostro “Consiglio Direttivo”, costante strumento di
stimolo e di confronto, che a questi temi ha inteso dedicare una riunione
tematica lo scorso 13 giugno.
Ringrazio
e mi rallegro anche con i relatori, per l’impegno con cui hanno partecipato a
questa iniziativa e per i contributi di riflessione che hanno portato. Ne
abbiamo tratto motivi di conoscenza e spunti su nuove prospettive tecnologiche.
Il
convegno nazionale dello scorso anno ci vide impegnati sul tema della “Grande Transizione”.
In
quell’occasione mi autodefinii un “missionario della sostenibilità” e indicai
quella transizione come prioritaria.
Quello che sta accadendo ha confermato quanto
il senso di urgenza emerso da quel dibattito fosse opportuno.
L’energia
e la sostenibilità sono infatti strettamente connesse.
Vi
faccio rivedere aggiornati i dati dell’anno scorso.
Dati e
fatti, dunque, ci dicono senza alcun dubbio che la sostenibilità ambientale
merita il nostro impegno prioritario, come persone, come cittadini, come
collettività, e come imprese.
Gli
effetti dei cambiamenti climatici sono talmente rapidi da essere percepibili
nel corso di un solo decennio:
siccità, ondate di calore, scioglimento dei
ghiacciai, incendi, fenomeni meteorologici estremi colpiscono ogni anno con
frequenza ed intensità sempre maggiori.
La
necessità che in campo energetico vi sia una transizione non è che l’altra
faccia della transizione ambientale.
La scienza ci ha spiegato come all’origine del
riscaldamento globale ci sia l’effetto serra e come a causare l’effetto serra sia
in gran parte il rapido sviluppo di una rivoluzione industriale alimentata da
sorgenti energetiche fossili, dall’aumento della popolazione mondiale e dal
connesso incremento di bisogni e consumi.
Cosa
fare?
Mi
limito a ragionare su alcuni punti.
Nel
processo di transizione energetica è essenziale lavorare sul frazionamento dei
rischi.
Credo
che il settore dell’energia degli ultimi anni sia stata basata su un errore
gestionale che un banchiere non farebbe.
Senza accorgercene,
forse anche per la comodità del basso costo del gas russo, abbiamo concentrato
i rischi.
Il
primo rischio che abbiamo concentrato è che ci siamo basati su produzioni che
derivavano soprattutto dal gas.
Se
guardiamo al prospetto sulle fonti energetiche citato dal presidente “Jonathan
Adair Turner” nella sua relazione, ci rendiamo conto che noi avevamo un gas
che, fatto 100 il totale, era molto alto.
Questo
è un rischio da non correre, meglio avere molte fonti diverse di energie.
Nell’ambito
delle molte fonti, e quindi facendo scendere decisamente il gas, dobbiamo
evitare un secondo rischio, quello relativo ai fornitori.
È
molto meglio la situazione odierna, cambiata in poco tempo dal presidente
Draghi, di molti fornitori di gas, che basarci su un fornitore solo.
Poi si
sono le tecnologie e l’innovazione.
Il
terzo rischio è di concentrare la fornitura di soluzioni, materie prime o
prodotti su pochi fornitori.
Pensiamo ai microchip, forniti soprattutto da
Taiwan, o anche al solare, dove le forniture dei pannelli è soprattutto di
derivazione cinese.
Bisogna
ritornare a produzioni nazionali.
Va dunque
incoraggiata la diversificazione di fonti, fornitori e tecnologie.
Per
quel che riguarda le tecnologie rinnovabili (solare, eolico, idroelettrico,
biomasse, geotermico, maree, onde, correnti sottomarine, per citare solo le
principali), dobbiamo tenere in conto che per tutte le tecnologie rinnovabili lo
sviluppo sarà portato dal mercato.
E io sono totalmente d’accordo con chi ha
detto “non
sia il governo a orientare le tecnologie, lasciamo fare al mercato”. E vincerà
il migliore.
(Ma purtroppo il mercato non può
preferire-se non prima di un secolo - le tecnologie rinnovabili se queste- come
oggi accade - rimangono con prezzi di utilizzo attuali mostruosamente
incomparabili con quelle alimentate da combustibili fossili! Basta con le
menzogne! N.D.R)
Altro
aspetto da tenere in grande considerazione, dal mio punto di vista, è quello
dei costi.
Abbiamo visto come, nel corso degli ultimi
dieci anni, sia stata significativa la discesa dei costi del solare e
dell’eolico.
Se
questa discesa continuerà anche nei prossimi dieci o venti anni alla stessa
velocità degli anni precedenti, cambieranno anche le relazioni e i
rapporti.
Determinate
fonti energetiche potranno non essere più convenienti, sia di nuovo o sia di
vecchio stampo.
Quindi
anche negli investimenti che ciascuno di voi farà nelle rinnovabili è
importante il problema dell’evoluzione del costo e, quindi, del prezzo.
(Ma è importante conoscere quanto
tempo occorra - per rendere accettabili per il mercato il costo di
utilizzazione delle fonti rinnovabili. Non si può attendere un secolo perché il
miracolo si compia! N.D.R.)
Nel
settore energetico sta accadendo quello che a metà del secolo scorso è accaduto
in quello informatico.
Il
potenziamento esponenziale delle tecnologie informatiche (legge di Moore) è
stato il motore dell’innovazione che ha cambiato le nostre vite, il nostro modo
di fare impresa.
Cambierà
in modo analogo anche il nostro modo di produrre energia.
(Ma per produrre energia occorre che i
prodotti cha la generano non abbiano costi astronomici rispetto ai combustibili
fossili sino ad ora sul mercato! N.D.R)
La
soddisfazione che ho è che uscendo dal convegno di Bologna, un anno fa, avrei
valutato un 30% di colleghi Cavalieri del Lavoro sensibili a questo tema, oggi
mi pare che siamo ben oltre il 70%.
La consapevolezza dei Cavalieri del Lavoro gli
esperti intervenuti è tale per cui ho la sensazione che la cultura stia
cambiando molto velocemente.
(Per ora la cultura definita
“scientifica” non ha ancora compreso che il gas CO2 è più pesante dell’aria e
quindi non può volare nell’atmosfera per nascondersi dietro la volta dove si
trovano i veri gas serra! N.D R.)
Stiamo
passando da una produzione centralizzata dell’energia a una produzione
decentralizzata, questo vuol dire che a giocare un ruolo sempre più decisivo
saranno anche i singoli operatori, le piccole imprese, le famiglie.
E
proprio per questo credo ci siano buone ragioni per essere ottimisti.
(Purtroppo i singoli operatori, le
piccole imprese, le famiglie, ecc. sono le vittime della colossale bufala sul
riscaldamento globale inventata da quei burloni che risiedono a Davos! N.D.R.)
Il
coinvolgimento crescente dei cittadini nel processo di transizione energetica
si accompagna a una altrettanto crescente sensibilizzazione della cultura
pubblica.
Sono
gli investitori i primi a informarsi sulla sostenibilità di un’azienda, sono i
clienti i primi a voler conoscere l’impatto ambientale dei prodotti finanziari
che acquistano.
Sono sempre di più gli ingegneri che nelle
nostre aziende sono chiamati a occuparsi di tecnologie per la transizione
energetica.
Questa
crescente consapevolezza culturale incide profondamente sul mercato e sui
processi industriali, apre scenari e prospettive nuove che non dobbiamo temere
ma, anzi, incoraggiare.
Negli
ultimi dieci anni la questione climatica ed energetica riguarda soprattutto le
soluzioni.
Se
siamo qui oggi è perché sappiamo, lo abbiamo capito da tempo, di voler essere
dalla parte delle soluzioni.
Il
titolo del nostro convegno, del resto, lo dice esplicitamente: “Tecnologia e
innovazione per una transizione energetica. Il contributo dei Cavalieri del
Lavoro”. Siamo portatori – e ne sentiamo forte la responsabilità sociale –
della cultura del lavoro, del fare, del realizzare.
(Certo, ma il compito dei cavalieri
del lavoro è anche di dire la verità sulla “CO2”. E che questo gas- come indicano gli” scienziati non corrotti”-
è più pesante dell’aria e quindi non può svolazzare per i lontani cieli!
N.D.R.)
Viviamo
nel pieno di un cambio di paradigma:
comportamenti
e modelli considerati fino a ieri immodificabili sono in rapida trasformazione.
Si sta
configurando un nuovo mondo, animato da linguaggi inediti e scandito da
metriche ancora da definire, un mondo che i presenti in questa sala, attraverso
pratiche, scelte di mercato, nuovi e diversi investimenti, innovazioni di
processo e di prodotto, attraverso nuove modalità di organizzazione delle di
fabbriche e imprese, hanno già realizzato.
Lasciatemi
sottolineare come molti dei progressi tecnologici nelle rinnovabili possano
rappresentare una straordinaria occasione per il nostro Paese, in particolare
per il Centro Sud.
Ricordo cosa è successo in Norvegia quando ha
scoperto di avere ingenti risorse di oil e di gas fossili.
È
stato un cambiamento epocale.
Penso che lo stesso possa accadere in Italia.
Con la significativa differenza che, mentre
per la Norvegia parliamo di fonti fossili, per il Centro Sud parliamo di fonti
rinnovabili.
Da
questo punto di vista, la Norvegia rappresenta il passato, mentre il nostro
Mezzogiorno rappresenta il futuro.
(la Norvegia assieme alla Cina
rappresentano il futuro, che per almeno cento anni è dato dai combustibili
fossili! N.D.R.)
Il
Mezzogiorno è nelle condizioni di creare energia e ricchezza.
Di
questo non c’è ancora una chiara percezione, ma sono certo che tale
consapevolezza sia sempre più forte.
È
un’opportunità straordinaria per un Centro Sud che per tanto tempo ha fatto
fatica.
Alla
vigilia di un appuntamento elettorale importantissimo per il nostro Paese, voglio
oggi sottolineare come il Governo guidato da Mario Draghi abbia fatto tanto, e
bene, per fronteggiare le numerose emergenze che l’Italia si è trovata a dover
affrontare nell’ultimo anno.
Si è
finalmente iniziato a liberalizzare l’installazione dei pannelli fotovoltaici,
sono stati sbloccati 11 parchi eolici, sull’installazione dei nuovi
rigassificatori si sono date indicazioni certe e si è dato il via libera allo
sfruttamento di fonti energetiche, come il geotermico, da anni accantonate.
Tutti
questi sforzi non vanno vanificati.
Si
parla, per esempio, di semplificazione ma poi si leggono cose che lasciano
interdetti.
Da un
recente rapporto (Osservatorio Regions 2030) pubblicato dal Sole 24 ore emerge
come il 70% dei progetti sulle rinnovabili sia stato bloccato per vincoli
paesaggistici.
Non
c’è dubbio che si tratti vincoli più che legittimi, ma spesso si arriva a dei
parossismi.
Chi
vede più i vecchi tralicci? Nessuno.
Ma non
perché non ci sono più, semplicemente perché nessuno ci fa più caso.
Gli
stranieri, per esempio danesi, tedeschi, svedesi, sono talmente abituati ai
parchi eolici e ai pannelli solari che quando vengono in Italia chiedono come
mai non ci siano.
Lo
stupore è il contrario!
Le pale eoliche, i pannelli solari certamente
incidono sul paesaggio, spesso però capita che chi vi si oppone lo fa in nome
di uno status quo cui ci si è semplicemente abituati e non in nome di un
paesaggio migliore.
Mi
chiedo quale sia il vantaggio di proteggere il paesaggio se poi si lascia
bruciare, allagare e devastare dalle frane il nostro territorio e il pianeta.
Gli
impianti necessari, con le necessarie cautele, vanno realizzati. E in fretta.
È
evidente che l’Italia non può vincere questa battaglia da sola.
Nessun Paese può, da solo, rispondere alle
difficoltà dettate dalla dipendenza del gas russo e, più in generale, alle
enormi sfide della transizione energetica.
Sul
prezzo del Gas il Governo italiano è stato il primo a proporre il meccanismo
del “price cap” e la Commissione Europea ci sta finalmente lavorando.
Come è
stato ribadito anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, cui
voglio qui rinnovare – a nome di tutti – il un profondo ringraziamento per il
suo inappuntabile lavoro teso a tutelare il prestigio del nostro Paese, “l’Europa è chiamata, ancora una
volta, a compiere un salto in avanti”.
Altro
tema riguarda le banche.
Un
tema che, al contrario di quel che si potrebbe ritenere, non incide solo su noi
banchieri ma, più in generale, su tutte le imprese.
Coerentemente
con la strategia Europea per la finanza sostenibile, nel settore finanziario e
bancario molteplici sono gli ambiti sui quali stanno intervenendo le diverse
autorità di regolamentazione, dalla Commissione Europea, all’EBA alle Autorità
di Vigilanza Europea a quelle Nazionali, agli standard setters come Efrag, GRI,
IASB, per disciplinare i temi legati ai fattori ESG, con particolare attenzione
all’inclusione dei rischi connessi ai cambiamenti climatici e ambientali nelle
valutazioni di rischio degli enti finanziari.
Abbiamo
una pletora di nuove normative.
Tra
direttive, regolamenti, aspettative di vigilanza, linee guida, sono più di
venti gli interventi normativi di ampia portata che riguardano l’ambito ESG a
cui vanno poi aggiunte le norme che ne danno attuazione (atti delegati, decreti
attuativi, regulatory technical standards e gli Implementing technical
standards), con i conseguenti impatti in termini organizzativi e economici
necessari per poter essere “compliance”.
Diversi
di questi interventi normativi hanno già sviluppato i loro effetti, altri li
svilupperanno nei prossimi mesi e nei prossimi due o tre anni.
Tra i
principali temi di intervento normativo in ambito ESG, che trasversalmente
riguardano molteplici ambiti dell’attività bancaria, troviamo il credito, i
requisiti di capitale, la pianificazione strategica, la disclosure, gli
investimenti, e la gestione dei rischi.
Queste
normative, che in taluni casi sembrano impattare esclusivamente o
prioritariamente le banche, in realtà coinvolgono in maniera importante anche
le imprese e l’intero sistema produttivo.
Infatti,
la rilevanza che assumono i rischi climatici e ambientali in particolare
nell’influenzare il rischio di credito e il conseguente inserimento di questi
fattori nella valutazione del merito creditizio dei clienti da parte delle
banche comporta necessariamente il forte coinvolgimento delle imprese che in
qualità di clienti sono chiamate a fornire i dati e le informazioni necessarie
nel rapporto banca impresa.
La
qualità dei dati forniti dalle imprese alle banche, la loro disponibilità e
condivisione è elemento essenziale per consentire al sistema finanziario di
giocare il proprio ruolo nel supporto della transizione verso un’economia a
basse emissioni e certamente rappresenta un passaggio fondamentale per tutti
gli attori coinvolti: autorità, intermediari finanziari e imprese.
L’Europa
è l’attore fondamentale per tracciare la strada della transizione, anche se
occorre sempre tener presente lo scenario globale.
Non ci
sfugge affatto l’impatto di una decisione come quella di bandire in modo
unilaterale la vendita di tutti i motori endotermici a partire dal 2035.
Siamo
sicuri che il governo provvederà a coadiuvare le imprese coinvolte nella
transizione di questo settore, così come provvederà a coadiuvare le imprese dei
settori energivori.
Il
2035 rimane, tuttavia, un orizzonte temporale fermo.
Molti
vedono in questa scelta solo criticità, ma come dicevo anche prima:
viviamo un cambio di paradigma, i modelli che finora
hanno generato ricchezza devono lasciare spazio a nuovi modelli, sostenibili e
altrettanto gravidi di benessere. (O di forte criticità, tenuta nascosta dai padroni del
mondo, ingordi solo di illusioni da propagandare presso il popolo bue! N.D.R)
La
decrescita felice, lo sappiamo bene, è solo una illusione ideologica utile a
facili quanto sterili populismi.
I
Cavalieri del Lavoro rappresentano una parte importante dell’economia del Paese
– come la ricerca condotta in collaborazione con Crif dimostra.
Anche in un anno di forte crisi come il 2020
(ultimi dati consolidati disponibili) le aziende dei Cavalieri del Lavoro hanno
fatto registrare una significativa propensione agli investimenti:
oltre
il 4% del fatturato rispetto a una media nazionale inferiore all’1%.
Le
imprese dei Cavalieri del Lavoro hanno mostrato una tenuta migliore in termini
di metriche creditizie, di sostenibilità del debito, di patrimonializzazione e
di occupazione.
Sono dati notevoli, perché le aziende sane non
solo contribuiscono a rendere più solido e fertile il tessuto produttivo in cui
operano, ma concorrono a migliorare la tanto importante reputazione
internazionale del Paese.
Essere
un’eccellenza comporta grandi responsabilità e noi le assumiamo con orgoglio,
animati da forza di volontà e reale capacità realizzativa.
Oggi
ne abbiamo avuto un ennesimo esempio:
dalla
generazione di energia alle reti distributive, dalla trasformazione delle
filiere manifatturiere allo sviluppo di tecnologie innovative, le imprese dei
Cavalieri del Lavoro protagonisti nella transizione energetica.
L’Italia
è un grande Paese.
Chiunque
avrà responsabilità di governo sappia esserne all’altezza e contribuisca ad
accrescere la stima e la reputazione che, giorno dopo giorno, le nostre imprese
si guadagnano in giro per il mondo.
Chiunque
vinca dovrà essere incentivato a non cambiare questa situazione.
Tra
gli impegni più gravosi e urgenti del nuovo esecutivo ci sarà senza dubbio la
piena attuazione delle richieste del Pnrr.
Ci auguriamo che non ci siano tentennamenti e
che si percorra con puntualità e competenza la strada finora intrapresa.
Immaginate
un governo che ci farà rinunciare al grande regalo del Pnrr perché non agisce
come Draghi?
Io lo ritengo impossibile.
Con il
Pnrr l’Europa ha saputo dare una risposta adeguata a un’emergenza senza
precedenti. Lo ha fatto pensando innanzitutto alle nuove generazioni, alla Next
Generation Eu.
È
quello che invito tutti noi a fare adesso.
La
transizione energetica è una sfida enorme e noi, donne e uomini di impresa, non
possiamo che guardare ai più giovani non solo per trovare il senso ultimo delle
nostre responsabilità, dobbiamo guardare ai giovani anche per trarre
ispirazione dai loro comportamenti.
“Contiamo
sui giovani – faccio qui mie le parole pronunciate da Draghi pochi giorni fa in
occasione del “Youth4Climate”, a margine dell’assemblea generale dell’Onu a New
York – affinché ci aiutino a raggiungere gli “Obiettivi di Sviluppo Sostenibile”
e ad attuare l’Accordo di Parigi.
La loro connessione con le comunità, la loro
capacità di trovare soluzioni innovative, la loro determinazione a costruire
società più sostenibili sono oggi più che mai necessarie”.
Dai
più giovani traiamo una spinta fortissima verso produzioni, verso consumi e
tecnologie sostenibili, verso un uso più responsabile delle risorse.
I più giovani ci conducono al cambiamento e
noi abbiamo il dovere di farli crescere nel solco di questo profondo
cambiamento culturale.
Sono
certo che, così come abbiamo sempre fatto in passato, noi Cavalieri del Lavoro
sapremo coltivare e favorire questo passaggio culturale.
Sono certo continueremo a essere protagonisti
del cambiamento anche in futuro. Nell’interesse di tutti.
Personalmente sono molto ottimista.
Grazie.
(Maurizio Sella)
Emilia
Romagna: La Misura è Colma,
l’Esasperazione
è Tanta.
Conoscenzealconfine.it
– (20 Ottobre 2023) - Renata Lizzi - ComeDonChisciotte.org – ci dice:
“Le
promesse nel fango” dopo l’alluvione:
Una storia di contrasti politici, ritardi e
incapacità, di delusioni e amarezze.
L’alluvione
in Romagna ha rappresentato un’emergenza eccezionale, provocata da eventi meteo
indubbiamente straordinari, abbattutisi su un territorio notoriamente a rischio
idrogeologico, che quindi hanno avuto un impatto e provocato danni imprevisti e
imprevedibili: la terza catastrofe naturale del 2023, secondo il “Global
Catastrophe Recap” (Ignazi 2023).
L’impatto
è stato inatteso e distruttivo sul territorio delle province di Forlì-Cesena e
Ravenna, le più colpite da frane, esondazioni, allagamenti estesi di residenze
e campi coltivati, strade e autostrade, con vite stroncate dalla furia
inaspettata delle acque.
La
conta dei danni è impressionante: sarebbero 5.885 gli interventi di somma
urgenza subito da avviare, relativi a viabilità, territorio, fiumi, canali e
reti;
726 le strade provinciali e comunali
interrotte totalmente o parzialmente;
936 le
frane (in buona parte nella provincia di FC);
ben 23 i fiumi e i canali esondati; 70.300 gli
edifici coinvolti (privati e pubblici, di questi 1.890 per frane);
14.200
le imprese (soprattutto piccole e esercizi commerciali) e 12.000 le aziende
agricole parte delle quali con danni pluriennali (RER 2023).
La
risposta politica non è stata all’altezza della gravità della situazione
purtroppo: dopo i primi annunci di solidarietà e di vicinanza, nelle settimane
successive a quelle dei primi soccorsi è sembrata compromessa la necessaria
collaborazione e lo stretto coordinamento fra governo centrale e enti regionali
e locali, fra politici e tecnici, fra autorità ordinarie e commissario
all’emergenza.
Divisioni politiche e istituzionali hanno
fatto mancare quella capacità di risposta rapida e quel raccordo necessario
nelle emergenze per garantire l’efficacia degli interventi di messa in
sicurezza e ripristino.
La
stessa nomina del” Commissario straordinario” è stata oggetto di un ‘tira e
molla’ che si doveva evitare:
lo
scontro politico dovrebbe evitare l’uso strumentale delle tragedie e dei
disastri.
Anche
le risposte delle amministrazioni locali sono state insufficienti:
la complessità e la gravità della situazione,
la limitata disponibilità di risorse umane e finanziarie ridotte al minimo dopo
decenni di tagli nei bilanci e di blocco delle assunzioni non hanno consentito
una risposta adeguata.
Tutto
ciò ha fatto ricadere in massima parte su imprese e cittadini alluvionati
l’onere di provvedere alle opere di ripristino e riparazione dei danni.
Cittadini
alluvionati che si sono sentiti amareggiati, abbandonati e si sono mobilitati
in “Comitati spontanei” che sabato 14 ottobre 2023 hanno organizzato una
manifestazione unitaria.
Da
osservatori, oltre che da cittadini delle zone colpite, ci corre il dovere di provare
a ricostruire questa storia di annunci e di promesse mancate, utilizzando
alcuni dati dell’illuminante “Report di Milena Gabanelli” (Corriere della Sera
di lunedì 9 ottobre 2023) e facendo nostri gli appelli accorati e le richieste
civili e moderate dei 3000 partecipanti alla manifestazione, di cittadini e
famiglie alluvionate della Romagna che hanno sfilato per le vie della città di
Forlì per amarezza oltre che per protesta.
È un
contributo a loro innanzitutto, alla loro richiesta di spiegazioni e sostegno,
oltre che di aiuti economici e ristori.
Le
Promesse Annunciate della Politica e le Risposte Inadeguate.
In
questi 5 mesi trascorsi dal 16 maggio 2023, la risposta della politica
all’alluvione in Romagna ha spesso assunto i toni dello scontro politico, ha
rivelato manovre di bassa lega per ritardare la nomina del “Commissario
straordinario all’emergenza” e ha giocato per settimane sulle cifre delle
risorse effettivamente stanziate, né sono mancati gli scambi di accuse fra Roma
e Bologna.
Uno
spettacolo a dire poco umiliante.
Dopo
le prime dichiarazioni del” Presidente del Consiglio Meloni” che aveva espresso
tutta la sua solidarietà e il pieno sostegno del governo alla gente di Romagna,
promesso risarcimenti al 100% per tutti i danni subiti in un territorio che
pesa il 2,2% del PIL nazionale, i fatti sono andati diversamente.
Innanzitutto
vi è stato lo scontro politico per la nomina del” Commissario straordinario”:
l’urgenza
avrebbe giustificato l’attribuzione della nomina al Presidente della regione
Bonaccini, ma non è andata così.
La nomina del Commissario straordinario
all’emergenza nella figura del Generale Figliuolo, è stata formalizzata
solamente il 3 luglio 2023 e solamente la legge 100/2023 del 31 luglio ha
predisposto risorse e tempi per il funzionamento della struttura commissariale
di supporto.
In
realtà il “Commissario in pectore Figliuolo” ha presenziato a una serie di
visite e sopralluoghi e incontri con i sindaci dei Comuni colpiti, ma la sua
operatività ha tardato di molto.
Ancora
a fine agosto la struttura del Commissario non era costituita: le 60 unità di
personale che avrebbero dovuto essere comandate da altre amministrazioni e
corpi tecnici mancavano dall’essere individuate.
A fine
agosto 2023, le sue dichiarazioni rilasciate alla stampa lasciano basiti,
sorpresi:
“È
inutile che io venga a dare delle date… stiamo per mettere a punto le
piattaforme e le procedure, dopo di che arriveranno le richieste e noi, con
quello che abbiamo, facendo le proiezioni, andremo a chiedere anche altri fondi
ed erogheremo i rimborsi.
Dobbiamo solo mettere a punto… schemi e
modelli di perizie, bisogna asseverare i danni e dare la modellistica, la
daremo a breve.
Io una
data non ce l’ho. Non sono in grado di darla “(Ansa – 31 agosto 2023).
Era
dunque già il 31 agosto 2023 ed è trascorso anche tutto settembre per sapere
che le procedure e il portale, le indicazioni su requisiti e modelli di perizia
e di domanda dei contributi arriveranno a metà novembre 2023.
Confidiamo
nella provvidenza come ai tempi di Manzoni…
Eppure
già il decreto legge 88 del 6 luglio 2023 (poi annullato e confluito nella
legge 100/2023 del 31 luglio) prevedeva che il Commissario – entro due mesi
dalla nomina – per quanto riguarda la
ricostruzione privata individuasse gli
interventi di immediata riparazione degli edifici residenziali e produttivi,
definisse i criteri di indirizzo per progettazione e la
realizzazione degli interventi di ricostruzione e di riparazione o ripristino
degli edifici danneggiati, definisse procedure, tempistiche.
La
vicenda delle risorse promesse ma mai destinate, il balletto delle cifre
annunciate (4,5 miliardi) e il difficile conteggio di quelle effettivamente
stanziate (2,2 miliardi) con una serie di provvedimenti successivi hanno
provocato gravi tensioni fra il presidente Meloni e Bonaccini.
In una
lettera che la premier Meloni ha inviato il 12 agosto 2023 al governatore
dell’Emilia Romagna e sub commissario alla ricostruzione Stefano Bonaccini, si
legge che “…non
sarebbe corretta l’informazione secondo la quale in Romagna non si sarebbe
visto un euro… il governatore mette in discussione l’impegno del governo per
desiderio di visibilità” (Sole 24 ore del 12 agosto 2023).
In
realtà sono stati emanati due decreti legge, poi confluiti nella legge 100 del
2023, di difficile lettura per il conteggio effettivo delle risorse stanziate
e/o disponibili, ma una buona parte delle risorse erano destinate a far
ripartire le attività produttive e riservata alla cassa integrazione dei
lavoratori.
Risorse
che non sono state utilizzate.
Nel
frattempo e in attesa che il “Commissario Figliuolo” diventasse operativo, la
Regione e gli enti locali sono intervenuti con misure di immediato sostegno e
hanno provveduto agli interventi di somma urgenza sul territorio, anticipando
le risorse.
Sono
stati attivati gli aiuti immediati alla popolazione, attraverso le domande di
CIS e CAS (Contributo Immediato sostegno e Aiuto subito), che ciascuna famiglia
e residente alluvionato poteva inoltrare ai Comuni, ricevendo un anticipo di
3000 euro e un saldo di altri 2000 euro dopo verifica dei danni e dei costi
sostenuti.
A
partire da giugno, sono stati aperti 74 cantieri in somma urgenza: 28 anche in
provincia di Bologna, 23 nel ravennate, 14 nella provincia di Forlì-Cesena, 4
nel riminese, 3 nel modenese e 2 nella provincia di Reggio Emilia.
Nel
corso dell’estate sono proseguiti interventi per la riparazione degli argini,
la sistemazione dei danni da tracimazioni, smottamenti, rimozione di legname e
materiali portati dalle piene, interventi sulle opere idrauliche danneggiate.
Si tratta di 5.885 interventi, individuati di
concerto con Province e Comuni, i cui costi sono stimati per oltre 1,8 miliardi
di euro.
Degli
oltre 1,8 miliardi di euro stimati, più di 516 milioni sono già stati spesi per
972 lavori già attuati e per 1.912 in corso d’opera.
Si
tratta di interventi che hanno tutti necessità di copertura finanziaria
nazionale (RER 2023).
Le
Domande Inevase dei Cittadini e le Ragioni della Manifestazione “Terre
alluvionate” del 14 ottobre 2023.
A
cinque mesi dall’evento calamitoso che ha travolto la Romagna – secondo il “Comitato
Terre alluvionate” che ha promosso la manifestazione – si deve constatare con
disappunto e amarezza quanto si sia ancora lontani da una risposta adeguata per
tempi, entità e certezza di risorse alle urgenze dei territori e delle persone
coinvolte.
Sono
gravi i ritardi e le insufficienze che espongono le realtà alluvionate ai
pericoli di un periodo autunno/invernale che si avvicina.
Come è
stato possibile?
Quali sono le ragioni del malcontento e
dell’esasperazione, ma soprattutto dell’amarezza e della delusione che hanno
spinto quasi 3000 cittadini – provenienti da quartieri e campagne, Comuni e
città limitrofe, accompagnati e sostenuti da decine di sindaci con la fascia tricolore
– a sfilare per le strade della città di Forlì?
In
parte si è già risposto sopra, con il racconto dei ritardi, delle risposte
inadeguate e contradditorie del governo centrale.
Anche le forze politiche dell’opposizione –
che pure in questi territori hanno tradizionalmente raccolto ampi consensi
(seppure in progressivo calo) – non si sono attivati né mobilitati al fianco
dei cittadini e dei sindaci che ancora provengono dalle loro file.
E
allora, come ha scritto Ignazi (2023) non resta che la mobilitazione della
società civile.
Anche
da parte delle amministrazioni locali – nei confronti dei cittadini e dei
privati alluvionati – non c’è stata sempre e in tutti i Comuni la risposta
attesa e il sostegno (non solo economico) di cui gli alluvionati hanno
inevitabilmente bisogno.
Nei
vincoli e nei limiti di risorse e capacità disponibili, le amministrazioni
locali hanno mancato di dare la necessaria attenzione e le dovute indicazioni
ai cittadini, ai privati, ai piccoli esercizi commerciali:
è mancata la comunicazione sulle priorità da
affrontare, un accurato inventario dei danni relativi al residenziale privato;
è
invece stato attribuito alle dichiarazioni private e alle richieste che
verranno inoltrate per i maggiori contributi – accompagnate da perizie di
tecnici comunque scelti e nominati dai privati – l’oneroso e difficile compito
della stima dei danni e dei costi.
In tal
modo, si è lasciato il compito e la responsabilità alle famiglie di provvedere
non solo finanziariamente ma anche operativamente alla gravosa impresa delle
riparazioni e dei ripristini, a volte persistendo le situazioni di rischio e
incertezza.
Ogni
cittadino e famiglia alluvionata ha impegnato l’estate, oltre che nei lavori di
ripulitura di stanze e garage, nel recupero di mobili e beni perduti, nella
ricerca di imprese e artigiani, ditte termoelettriche, idrauliche ed edili per
ottenere preventivi, per valutare l’opportunità e la sicurezza dei lavori, per
guadagnarsi l’impegno di avvio dei lavori quanto prima possibile.
La ricerca ha poi coinvolto ingegneri e
geometri per le perizie asseverate di accompagnamento alle prossime richieste
di contributo al di sopra dei 3000-5000 euro.
Come
sempre accade quando la domanda eccede l’offerta si crea tensione sul mercato e
così è successo in Romagna, dove le ditte e le imprese sono overbooking e i
prezzi sono lievitati a dismisura.
Molte
imprese hanno presentato preventivi un po’ gonfiati – specie nel caso di
condomini – e richiesto clausole di garanzie per versamenti anticipati… Insomma
l’azienda termoelettrica che specula sul danno del vicino di casa alluvionato,
nello steso quartiere, nella stessa città.
Questo
ha ulteriormente gettato nello sconforto i cittadini alluvionati.
La misura è colma, l’esasperazione è tanta:
subire
un’alluvione, vedere i propri beni e i ricordi di una vita portati via
dall’acqua e rovinati dal fango è qualcosa che non si può raccontare, viene
meno una parte di te.
È una violenza che migliaia di famiglie hanno
subito.
Eppure la manifestazione di sabato 14 ottobre
è stata composta, civile, nessun discorso pubblico, nessuna rivendicazione
urlata, soltanto una voce accorata:
se
siamo un paese, se siamo una città ci aspettiamo il sostegno e il supporto
delle nostre autorità, l’onestà dei professionisti e delle imprese, la
trasparenza e la rapidità delle procedure e dei contributi, a coprire gli
enormi costi già sostenuti e ancora da sostenere.
(ansa.it/emiliaromagna/notizie/2023/08/31/alluvione-figliuolo-una-data-per-i-ristori-ora-non-so-darla_920ad211-4f1c-4f75-8427-47574d8fbf00.html)
Eni
Award, scienza e la tecnologia
applicate
all'ambiente
per un
futuro migliore.
Repubblica.it
- Sibilla Di Palma – (13 OTTOBRE 2023) – ci dice:
Edizione
2022.
Istituito
nel 2007, il riconoscimento punta a sviluppare un migliore utilizzo delle fonti
energetiche, promuovere la scienza e la tecnologia applicate all'ambiente e valorizzare
le nuove generazioni di ricercatori.
"Se
l'umanità vuole sopravvivere avremo bisogno di un vero e proprio nuovo modo di
pensare".
La
frase del celebre fisico tedesco “Albert Einstein” appare oggi più che mai
attuale alla luce dei fenomeni climatici sempre più estremi che stiamo vivendo
e che rappresentano una minaccia molto grave per l'economia, il benessere delle
persone e la salute del Pianeta.
Di qui
la consapevolezza di essere chiamati a favorire un modello di sviluppo il più
possibile sostenibile e in questo un ruolo molto importante è giocato dai temi
legati all'energia.
Il
settore si trova infatti davanti a una duplice sfida:
continuare
a soddisfare i fabbisogni energetici della popolazione, in costante crescita a
livello globale, riducendo al contempo le emissioni immesse in atmosfera.
Un
contesto nel quale cresce l'importanza della ricerca e dell'innovazione
tecnologica.
E
proprio sviluppare un migliore utilizzo delle fonti energetiche, promuovere la
scienza e la tecnologia applicate all'ambiente e valorizzare le nuove
generazioni di ricercatori è l'obiettivo di “Eni Award”.
Origini
ed evoluzione.
Nato
nel 2007, in sostituzione del premio “Eni-Italgas”, negli anni il
riconoscimento si è evoluto, affermandosi come un appuntamento di rilievo
internazionale e abbracciando temi come il risanamento ambientale, le fonti
rinnovabili e la progressiva decarbonizzazione (senza CO2) del sistema
energetico.
Comprende
una sezione dedicata alle migliori tesi di dottorato e alle più importanti
innovazioni tecnologiche sviluppate da ricercatori e tecnici Eni;
dal 2017 si è aperto anche ai ricercatori
provenienti dal continente africano, con l'obiettivo di valorizzarne le forti
potenzialità.
Inoltre,
negli ultimi anni sono state incluse ricerche su tematiche riguardanti la
sostenibilità e l'accesso all'energia connesse al raggiungimento dei 17
Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite.
Attualmente
sono previste tre sezioni principali (Frontiere dell'Energia, Soluzioni
Ambientali Avanzate e Transizione Energetica), alle quali si affiancano i premi
"Giovane Ricercatore dell'Anno" e "Debutto nella ricerca:
Giovani Talenti dall'Africa" e i riconoscimenti all'Innovazione riservati
ai ricercatori Eni.
Numeri e progetti premiati.
Dalla
prima edizione a oggi sono pervenute oltre 11mila candidature (per l'edizione
2024 è possibile presentare le domande fino al prossimo 24 novembre) e sono
stati premiati 108 lavori che hanno reso possibili importanti innovazioni nei
settori dell'efficienza energetica, delle rinnovabili, della decarbonizzazione
(senza CO2) e della tutela dell'ambiente.
Tra i
premiati negli anni ci sono la statunitense “Frances H. Arnold,” insignita nel
2018 del premio Nobel per la chimica dall'”Accademia Reale delle Scienze della
Svezia”, che si è aggiudicata l'”Eni Award per le energie rinnovabili”;
la canadese “Barbara Sherwood Lollar”,
diventata famosa per i suoi studi sulla presenza di acqua su Marte, che nel
2012 ha ottenuto il riconoscimento per il suo lavoro sull'applicazione della
geochimica degli isotopi stabili alla protezione delle risorse di falda e
dell'ambiente;
il
ricercatore italiano “Roberto Danovaro”, riconosciuto dalla prestigiosa
piattaforma Expertscape come principale scienziato al mondo nella categoria
oceani e mari, che è stato premiato nell'ambito dell'Eni Award per i suoi studi
sull'ambiente marino e sul suo ruolo nel ciclo della CO2;
“Giorgio
Parisi” e “Klaus Hasselmann”, insigniti del Premio Nobel per la Fisica 2021,
che sono risultati entrambi vincitori di Eni Award (allora Premio Eni-Italgas)
rispettivamente nel 1993 e nel 1996.
Tra i
partecipanti anche illustri scienziati come “John Craig Venter”, noto per il
sequenziamento del genoma umano, “Gérard Férey”, ricercatore dei solidi ibridi
e inorganici nano porosi scomparso nel 2017, “Emiliano Mutti”, uno dei padri
della geologia italiana moderna.
La
transizione energetica può
generare
una coincidenza divina?
Ecb.europa.eu
-Fabio Panetta – (16 novembre 2022) – ci dice:
Intervento
di Fabio Panetta, Membro del Comitato esecutivo della BCE, presso
l’Associazione bancaria italiana.
La composizione
delle fonti di energia deve cambiare radicalmente per ottenere emissioni nette
nulle di carbonio (Co2) entro il 2050.
La
profonda trasformazione imposta dalla transizione ecologica può però incidere
sull’evoluzione futura dei prezzi dell’energia.
A
questo proposito, viene talora sostenuto che la transizione verde provocherà un
aumento persistente dei prezzi delle materie prime energetiche e
dell’inflazione.
Gli
effetti della transizione ecologica sul costo dell’energia non sono però
semplici da valutare.
La
transizione influenzerà numerosi fattori, che a loro volta incideranno sul
mercato dell’energia.
Ad esempio, essa influenzerà sia la domanda
sia l’offerta di combustibili fossili attraverso molteplici canali, con effetti
complessivi incerti sui prezzi nella fase di cambiamento.
La transizione si rifletterà inoltre sul costo
e sulla disponibilità di energie rinnovabili, influenzando anche per questa via
la domanda e le quotazioni dei combustibili fossili.
Nel
mio intervento odierno analizzerò le possibili ricadute della transizione
ecologica sui prezzi dell’energia.
Sosterrò
che il progresso verso un’economia più verde non implica necessariamente una
maggiore inflazione.
Molto dipenderà dalle politiche che adotteremo
per sostituire le fonti di energia più inquinanti.
Sosterrò
inoltre che possiamo raggiungere una “coincidenza divina” fra stabilità dei
prezzi e decarbonizzazione (niente Co2).
Gli
effetti di variazioni della domanda e dell’offerta di energia fossile e
rinnovabile.
La
transizione ecologica inciderà sul prezzo dei combustibili fossili e di altre
fonti di energia, in particolare quelle rinnovabili, determinando l’evoluzione
futura del costo complessivo dell’energia.
L’imposizione
fiscale avrà un ruolo importante.
Una tassazione più bassa (ossia una
agevolazione fiscale) dell’energia verde e una tassazione più elevata (ossia
una penalizzazione fiscale) dei combustibili fossili avranno effetti sia sui
prezzi relativi sia sulla domanda di ciascuna fonte di energia.
L’effetto
complessivo sui prezzi al consumo dell’energia dipenderà da come verranno
modulate queste misure e da come verranno utilizzati i proventi della
tassazione delle emissioni – ad esempio, per sovvenzionare l’energia verde e
investire in tecnologie verdi.
L’evoluzione
della componente energetica dell’inflazione dipenderà fortemente da come la
domanda e l’offerta di energia reagiranno a questi interventi fiscali e ai
conseguenti effetti sui prezzi.
Gli
effetti della transizione ecologica sui prezzi dei combustibili fossili.
Vi
sono diversi canali attraverso cui la transizione ecologica può incidere sulle
quotazioni delle fonti di energia fossile.
Canali
di trasmissione: impatto della transizione ecologica sui prezzi dei combustibili
fossili.
Esercizi
dello staff della BCE.
L’effetto
di prezzo del canale del costo relativo è incerto a priori, poiché il prezzo
privo di imposte potrebbe diminuire a causa del calo della domanda di
combustibili fossili, ma il prezzo comprensivo
delle imposte potrebbe invece aumentare.
Dal
lato dell’offerta, un canale ampiamente discusso è quello dell’incertezza
sull’evoluzione delle politiche economiche (“policy uncertainty channel”).
Mediante tale canale, le aspettative di un calo della domanda possono aumentare
l’incertezza sul rendimento futuro degli investimenti in combustibili fossili,
comprimendone il volume.
Il calo degli investimenti si rifletterebbe in
una diminuzione dell’offerta e in un incremento dei prezzi.
Ma
altri canali di offerta potrebbero invece determinare una riduzione dei prezzi.
I produttori potrebbero ad esempio decidere di
anticipare lo sfruttamento delle proprie riserve, dando luogo a un aumento
dell’offerta e a un calo dei prezzi di combustibili fossili (“frontloading
channel”).
Effetti analoghi – ossia, maggiori investimenti
e costi più bassi – potrebbero scaturire anche da innovazioni tecnologiche
relative ai combustibili fossili, quali la cattura e il sequestro del carbonio (“brown innovation channel”).
Anche
i canali di domanda possono incidere sui prezzi.
Le
preferenze dei consumatori potrebbero ad esempio orientarsi verso forme di
energia verdi (“preference channel”):
si
pensi ad esempio alla crescente popolarità delle automobili elettriche in
Europa, le cui vendite rappresentano oggi il 14 per cento di quelle
complessive, con un aumento del 160 per cento in soli due anni.
Il
secondo canale è quello del costo relativo (“relative cost channel”), mediante
cui le politiche climatiche possono scoraggiare la domanda di combustibili
fossili, rendendoli più onerosi rispetto alle alternative verdi.
Le
diverse forme di tassazione sulle emissioni di carbonio (carbon pricing)
offrono un esempio di questo meccanismo.
Una
maggiore imposizione fiscale sul carbonio (nonché le misure ad essa
equivalenti, quali il sistema di scambio di quote di emissione) aumenterebbe il
costo dei combustibili fossili, comprimendone la domanda e modificando la
composizione complessiva delle fonti energetiche in favore delle energie rinnovabili.
L’effetto di prezzo è incerto a priori:
trascurando le imposte, il prezzo dell’energia fossile potrebbe diminuire,
mentre quello comprensivo delle imposte potrebbe aumentare.
L’impiego
di nuove tecnologie verdi (“green innovation channel”) potrebbe anch’esso
incrementare la diffusione e la convenienza a utilizzare le fonti di energia
pulite, riducendo quindi la domanda di fonti più inquinanti.
Il vertiginoso incremento del numero di pompe
di calore istallate in Europa negli ultimi due anni per sostituire le caldaie a
gas offre un chiaro esempio di come le nuove tecnologie possano ridurre
rapidamente la domanda di combustibili fossili.
Nel
complesso, l’effetto della transizione ecologica sui prezzi dei combustibili
fossili è di segno incerto.
Esso dipenderà essenzialmente dai canali che
prevarranno tra quelli descritti – canali diversi possono prevalere in momenti
diversi – e sarà influenzato in misura determinante dagli sviluppi tecnologici
e dalle politiche ambientali attuate dai governi a livello globale.
Energie
rinnovabili ed effetti della transizione ecologica sui prezzi dell’energia in
generale.
Come
accennato in precedenza, l’impatto della transizione ecologica sul costo
complessivo dell’energia dipenderà in maniera decisiva dalla disponibilità e
dal prezzo delle fonti rinnovabili.
I
costi associati alle energie rinnovabili sono in calo, e si collocano oggi su
livelli inferiori a quelli dei combustibili fossili.
Già
nel 2020 la creazione di nuovi impianti fotovoltaici e di nuove centrali eoliche
onshore aveva un costo minore di quello necessario sostenuto per la costruzione
di nuove centrali a combustibile fossile.
Nel
2021 i costi dell’eolico onshore sono scesi del 15 per cento rispetto all’anno
precedente;
sono
invece scesi del 13 per cento quelli sia degli impianti eolici offshore, sia
fotovoltaici.
Con
riferimento all’anno in corso, si stima che il costo marginale di produzione di
energia solare sia pari a un quarto di quello relativo alle centrali a gas
esistenti in Europa.
Nell’attuale
crisi energetica i prezzi dell’elettricità all’ingrosso sono stati contenuti
dall’UE ricorrendo in misura maggiore alle energie rinnovabili rispetto al gas
per la generazione di energia elettrica.
La
ricomposizione della produzione e del consumo dell’energia dai combustibili
fossili in favore delle energie rinnovabili non è quindi necessaria unicamente
per raggiungere l’obiettivo di emissioni nette nulle.
Il più
basso costo delle energie rinnovabili può infatti esercitare una pressione al
ribasso sul costo complessivo dell’energia.
A tale
riguardo, l’UE è intervenuta per attenuare l’impatto dell’impennata del prezzo
dell’energia elettrica su famiglie e imprese, imponendo un tetto temporaneo ai
ricavi dei produttori con bassi costi marginali, ossia principalmente
produttori di energia rinnovabile e nucleare.
Una
maggiore produzione di energia rinnovabile consentirebbe inoltre all’economia
europea di affrontare più agevolmente un rincaro e una restrizione dell’offerta
dei combustibili fossili.
Le energie rinnovabili presentano anch’esse
svantaggi, quali l’intermittenza nella produzione e il fabbisogno di materie
prime necessarie per la costruzione degli impianti, ma non richiedono l’impiego
di materie prime durante il ciclo di vita degli impianti.
Cosa
possiamo attenderci in un contesto di incertezza?
Al
fine di valutare gli effetti della transizione verde sui prezzi dell’energia,
organismi internazionali quali il Network for Greening the Financial System
(NGFS) e l’Agenzia internazionale per l’energia (AIE) hanno fatto ricorso ad
analisi di scenario. In questo paragrafo esaminerò due scenari di segno
opposto.
Il
primo ipotizza l’avvio immediato di politiche ambiziose, in grado di garantire
una transizione climatica ordinata.
Esso
limita il riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi facendo ricorso a
politiche rigorose e all’innovazione tecnologica, conseguendo l’obiettivo
globale di emissioni nette nulle entro il 2050, definito nell’Accordo di Parigi.
Lo scenario ipotizzato – il cui successo
richiede interventi decisi e un ampio utilizzo di tecnologia in tutti i settori
dell’economia viene descritto dall’NGFS in termini generali, senza fornire
informazioni dettagliate e granulari sui costi complessivi dell’energia
(inclusi quelli delle fonti rinnovabili), che avrebbero facilitato la
valutazione dei risultati.
L’NGFS
rende però disponibili le stime relative ai prezzi di petrolio, gas e carbone.
I
risultati dell’esercizio indicano che il costo dell’energia aumenterebbe in
misura contenuta nei prossimi dieci anni nello scenario a emissioni nulle.
In particolare, lo scenario prevede una
crescita dei prezzi del petrolio pari a solo il 6 per cento in termini cumulativi
tra il 2020 e il 2030, per effetto dell’aumento dei costi di estrazione.
In presenza di una domanda relativamente
sostenuta, il prezzo del gas registrerebbe un aumento più sostenuto di quello
del petrolio, ma comunque contenuto in termini assoluti.
In uno
scenario analogo a quello dell’NGFS appena descritto, l’AIE stima che i prezzi
dei combustibili fossili (escluso il gas) tenderebbero addirittura a ridursi.
Vi
sono proiezioni delle variazioni dei prezzi del petrolio entro il 2030 in
diversi scenari.
Proiezioni
delle variazioni dei prezzi dei combustibili fossili al lordo delle imposte dal
2020 al 2030.
Lo scenario a zero emissioni nette ha
carattere ambizioso e limita il riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi,
raggiungendo l’azzeramento delle emissioni nette entro il 2050.
Lo
scenario elaborato dall’NGFS in base ai contributi determinati a livello
nazionale (nationally determined contributions, NDC) ha carattere meno
ambizioso e prevede che gli impegni derivanti dalle politiche climatiche
generino un riscaldamento globale pari a circa 2,5 gradi centigradi.
Lo
scenario basato sulle dichiarazioni delle politiche (stated policies scenario,
STEPS) elaborato dall’AIE è utilizzato quale scenario più prossimo allo
scenario NDC.
Per
gli scenari dell’NGFS la figura mostra la media dei tre modelli principali.
Uno
scenario alternativo elaborato dall’NGFS sulla base dei cosiddetti “contributi
determinati a livello nazionale” (nationally determined contributions, NDC)
ipotizza invece che i diversi paesi in futuro attuino unicamente le politiche
ambientali previste dagli impegni già assunti.
In un tale quadro, l’impegno profuso a livello
globale risulterebbe insufficiente a contrastare il riscaldamento globale:
le emissioni si ridurrebbero ma
provocherebbero comunque un aumento delle temperature di almeno 2,6 gradi
centigradi, con gravi rischi legati al verificarsi di fenomeni naturali estremi
(physical risk).
Gli obiettivi climatici fissati dall’Accordo
di Parigi non sarebbero conseguiti, e la Terra registrerebbe un aggravamento
dell’effetto “serra”.
Secondo
l’NGFS gli incrementi dei prezzi dei combustibili fossili sarebbero moderati
anche in un tale scenario.
Questa
previsione contrasta però con i risultati di un esercizio analogo effettuato
dall’AIE, secondo cui l’aumento dei prezzi dei beni energetici risulterebbe più
elevato.
Questa differenza riflette la rapida crescita
ipotizzata per la domanda di gas e petrolio nel breve periodo, cui non
corrisponderebbe un aumento degli investimenti in fonti rinnovabili in grado di
soddisfare il maggiore fabbisogno di energia.
I
risultati appena descritti vanno considerati con cautela. Gli scenari dell’NGFS
non tengono infatti conto delle tensioni che stanno interessando il mercato del
gas e che potrebbero determinare, almeno nel breve termine, un’evoluzione dei
prezzi difforme da quella indicata nelle proiezioni.
Inoltre, i risultati delle simulazioni variano
fortemente in funzione delle ipotesi relative alle politiche in campo
energetico, alle preferenze dei consumatori, all’innovazione tecnologica, agli
andamenti del mercato e a molti altri elementi.
Il
Fondo monetario internazionale (FMI) rileva che gli effetti inflazionistici
della transizione ecologica dipendono soprattutto dalle politiche adottate
nella fase di passaggio.
Benché
secondo alcuni scenari la transizione possa generare pressioni inflazionistiche
moderate, l’FMI è giunto a conclusioni analoghe a quelle dell’NGFS e dell’AIE:
nell’area
dell’euro una transizione volta a ridurre le emissioni di carbonio del 25 per
cento entro il 2030 non influenzerebbe l’inflazione rispetto allo scenario di
base, a condizione che un terzo degli introiti provenienti dai più elevati
prezzi del carbonio venga destinato a sussidi ambientali.
Secondo l’FMI, il costo della transizione
verso l’energia pulita non avrebbe quindi carattere inflazionistico, e
ritardare la transizione comporterebbe unicamente un incremento dei costi.
Nel
complesso, queste analisi indicano che gli effetti della transizione ecologica
sui prezzi dell’energia non vanno in un’unica direzione.
La
transizione non determinerà necessariamente una impennata dei costi
dell’energia; potrebbe anzi avere conseguenze opposte.
I suoi
effetti dipenderanno dall’interazione tra i diversi canali che prevarranno nel
passaggio alle energie pulite e, soprattutto, dalle politiche climatiche
adottate in tale fase.
Ad esempio,
lo sviluppo delle tecnologie necessarie per conseguire l’obiettivo della
decarbonizzazione richiede di realizzare tempestivamente ingenti investimenti
in ricerca e innovazione.
Se la transizione avverrà nei tempi richiesti
e con il sostegno di politiche adeguate, le spinte al rialzo dei prezzi
potranno essere contenute.
E
mettendo a confronto il valore attuale dei benefici derivanti dalle minori
emissioni con quello dei costi necessari per ridurre la nostra dipendenza dai
combustibili fossili e adottare fonti rinnovabili, i vantaggi netti risultano
essere considerevoli.
La
transizione verde sta contribuendo all’attuale crisi energetica?
La
scorsa estate, dopo mesi di crescita continua, i prezzi di petrolio e gas hanno
toccato i livelli massimi da molti anni, sollevando interrogativi circa il
legame tra tali aumenti e la transizione ecologica.
Per
rispondere a questo interrogativo occorre far ricorso all’ampia letteratura
empirica sulle determinanti dei prezzi del petrolio.
Secondo
analisi recenti, la transizione ecologica avrebbe influenzato gli investimenti
nel settore dei combustibili fossili in misura solo limitata.
Negli
ultimi anni le aspettative sulla transizione potrebbero aver provocato una
caduta degli investimenti nel settore petrolifero, probabilmente per effetto
del maggiore costo da sostenere per attrarre risorse finanziarie.
Al
tempo stesso, si stima che uno shock simile a quello che sarebbe necessario per
rispettare l’Accordo di Parigi avrebbe sugli investimenti petroliferi un
effetto trascurabile nel breve termine – tra l’1 e il 2 per cento del volume
degli investimenti complessivi – per poi aumentare in misura comunque limitata.
Il
rischio di transizione non ha sinora inciso in misura significativa sulle quotazioni
petrolifere.
Ciò è
coerente con le analisi descritte in precedenza.
Questi
andamenti possono riflettere numerosi fattori: il calo degli investimenti in
combustibili fossili può aver risentito sia dell’incertezza relativa alle
politiche in materia di energia, sia della minore domanda di questi
combustibili.
Tali
canali di offerta e di domanda hanno effetti opposti sui prezzi, e il loro
impatto complessivo sui prezzi potrebbe pertanto essere stato contenuto o
persino nullo.
Il
diagramma A mostra gli effetti di una variazione del rapporto fra gli articoli
giornalistici sulla transizione ecologica e gli articoli complessivi pubblicati
nelle maggiori testate, utilizzando un metodo di proiezione locale che tiene
conto degli shock individuati dal lato dell’offerta e dal lato della domanda di
petrolio.
Lo shock è rapportato alla copertura negli
articoli rilevati durante la 21o sessione della riunione della Conferenza delle
Parti (Conference of the Parties, COP21) di Parigi nel dicembre del 2015;
il
numero degli impianti internazionali di trivellazione petrolifera è utilizzato
come proxy degli investimenti nel settore petrolifero.
Nei
diagrammi B e C le risposte a impulso e la scomposizione della varianza degli
errori di previsione sono ricavate da un modello BVAR per i prezzi del petrolio
a frequenza mensile, in cui viene individuato uno shock derivante dal rischio
di transizione in aggiunta alla domanda di petrolio, alla domanda specifica di
petrolio e agli shock dal lato dell’offerta di petrolio con restrizioni di
segno e di tipo narrativo.
Nel
diagramma B le risposte a impulso sono rapportate a uno shock di entità simile
a quello osservato durante la riunione della COP21 di Parigi.
Il
periodo del campione è compreso fra l’ottobre del 2013 e il gennaio del 2022.
Analisi
empiriche suggeriscono che il prezzo del petrolio avrebbe sinora risentito
soprattutto degli shock di natura “convenzionale” alla domanda e all’offerta di
petrolio.
Ciò varrebbe anche per le attuali elevate
quotazioni del petrolio, in ampia misura dovute alla ripresa della domanda di
petrolio dopo la pandemia e alla restrizione dell’offerta determinata da motivi
diversi dal cambiamento climatico, quali le decisioni del cartello dei paesi
produttori di petrolio.
Le
turbative dell’offerta hanno un ruolo assai più ampio nella determinazione dei
prezzi del gas nel mercato europeo.
Vi
sono indicazioni secondo cui la Russia, già prima dell’invasione dell’Ucraina,
avrebbe manipolato le forniture di gas sul mercato europeo, riducendo i flussi
di offerta e generando scarsità e incertezza riguardo alle forniture future.
Il gas erogato dalla Russia all’Europa aveva
iniziato a diminuire già nel 2021, nonostante l’aumento dei prezzi e la elevata
domanda.
La
minore offerta ha via via assottigliato le scorte detenute presso gli impianti
europei, pur a fronte della possibilità di espandere le esportazioni di gas.
Dopo l’invasione dell’Ucraina, i flussi di gas
russo provenienti dai gasdotti principali, come il Nord Stream 1, sono stati
ulteriormente ridotti e poi interrotti, causando forti impennate dei prezzi.
Il gas
naturale liquefatto include le forniture dalla Russia.
L’ultima
osservazione si riferisce al 24 ottobre del 2022.
Le tensioni
economiche, inflazionistiche e politiche determinate da questa strategia di
offerta avevano presumibilmente l’obiettivo di frantumare l’unità dell’Europa e
di indebolire il suo supporto alle sanzioni stabilite contro la Russia, in
vista della invasione già pianificata dell’Ucraina e poi avviata nel febbraio
del 2022.
Questo obiettivo non è stato raggiunto.
Questi
eventi devono invece indurre l’UE ad accelerare la transizione ecologica,
piuttosto che a rallentarla, e a rafforzare l’impegno volto ad affrancarsi nel
minor tempo possibile dalla dipendenza dalle fonti fossili provenienti dalla
Russia.
I
progressi considerevoli raggiunti nell’intensità energetica dopo gli shock
petroliferi dei primi anni settanta sono motivo di ottimismo circa la possibilità
di ottenere rapidi progressi in risposta allo shock attuale.
Possiamo
raggiungere una coincidenza divina?
Per
conseguire una “coincidenza divina”, liberandoci dalla dipendenza dai
combustibili fossili senza provocare un aumento dei prezzi dell’energia,
dovremo ridurre l’intensità e innalzare la sicurezza in campo energetico,
finanziando in misura adeguata la transizione.
In
primo luogo, le politiche in campo energetico dovranno fornire adeguati
incentivi alla riduzione della domanda di combustibili fossili.
Ciò
limiterebbe le pressioni al rialzo dei prezzi dell’energia durante la fase di
transizione e contribuirebbe ad abbassare le emissioni di gas serra.
Nell’UE,
il pacchetto “Fit for 55” e il piano “REPowerEU” hanno definito obiettivi di
efficienza energetica ambiziosi, introducendo misure concrete per il loro
raggiungimento.
Nel
breve termine, i ministri dell’UE hanno concordato riduzioni volontarie e
obbligatorie della domanda di elettricità in risposta alla crisi attuale.
I
risultati iniziali sono incoraggianti.
In
secondo luogo, l’intervento pubblico deve essere volto a salvaguardare la
sicurezza energetica e a ridurre il rischio che bruschi rincari dei
combustibili fossili possano ripercuotersi in misura significativa
sull’inflazione.
Questo
compito va coordinato o svolto a livello europeo, poiché interventi realizzati
dai singoli Stati membri al fine di soddisfare il fabbisogno domestico di
energia e di proteggere le proprie imprese dai rincari potrebbero generare
politiche di “beggar-thy-neighbour” che finirebbero per danneggiare altri paesi.
Le
recenti iniziative definite in sede europea vanno nella giusta direzione.
Ad
esempio, il Consiglio dell’UE ha introdotto contributi di solidarietà da parte
delle imprese operanti nel settore dei combustibili fossili, al fine di aiutare
famiglie e imprese.
La
Commissione europea ha proposto acquisti comuni di gas per rafforzare il potere
contrattuale dell’UE e garantire le forniture agli Stati membri.
Essa
ha inoltre proposto meccanismi di solidarietà in caso di carenze di gas e sta
riesaminando il regime degli aiuti di Stato.
Infine,
i ministri degli Stati membri hanno concordato che le misure di bilancio volte
ad attenuare l’impatto dei rincari dell’energia dovrebbero essere dirette alle
famiglie e alle imprese più vulnerabili, senza annullare gli incentivi di
prezzo alla riduzione del consumo di combustibili fossili.
In
terzo luogo, gli interventi pubblici devono sostenere gli investimenti
necessari per realizzare la transizione ecologica.
Secondo
l’AIE, per fronteggiare con efficacia il cambiamento climatico e contenere i
prezzi dell’energia dovremo triplicare il volume degli investimenti in fonti
rinnovabili entro la fine di questo decennio.
Per l’UE nel suo complesso, l’ammontare degli
investimenti necessario per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili
russi e raggiungere gli obiettivi climatici è stimato in circa 500 miliardi di
euro all’anno fra il 2021 e il 2030.
Il
finanziamento di un così ingente volume di investimenti in energia pulita
richiederà il contributo del settore privato.
Incentivi
a tale riguardo possono essere forniti con interventi normativi;
ad esempio, snellendo le procedure
amministrative di approvazione possiamo accelerare la realizzazione dei
progetti di energia rinnovabile.
Nel
campo della finanza sostenibile, progressi volti a garantire informazioni
trasparenti in materia climatica possono contribuire in misura rilevante a
ridurre il costo del capitale relativo agli investimenti verdi.
Il
settore privato avrà bisogno di tempo per adeguarsi, ma potrebbe non disporre
degli incentivi necessari per investire in misura adeguata in progetti aventi
la caratteristica di beni pubblici.
Al
fine di sostenere e accelerare la transizione ecologica, occorrono investimenti
pubblici aventi la funzione di backstop.
Come
ho sostenuto in passato, tali investimenti sarebbero finanziati in maniera più
efficace ed efficiente a livello europeo piuttosto che dai singoli Stati membri.
Essi potrebbero essere realizzati con l’intervento di
un fondo dell’UE dedicato alla sicurezza climatica ed energetica e avente il
compito di sostenere la transizione verde negli anni a venire.
Conclusioni.
La
transizione ecologica è spesso presentata come una minaccia per aspetti
essenziali della nostra vita quotidiana, quali il nostro potere d’acquisto e le
opportunità di crescita della nostra economia.
Una
visione così negativa è ingiustificata.
La “coincidenza divina” non è una vana
illusione: la transizione verde può generare vantaggi economici significativi.
Dipenderà dalle politiche che adotteremo.
Se
sarà gestita correttamente, la risposta globale alla crisi climatica potrà
innalzare la produttività e la crescita attraverso molteplici canali:
ottimizzando l’allocazione delle risorse,
migliorando le condizioni sanitarie, stimolando il progresso tecnologico
Possiamo
rendere, per questa via, “[...] l’azione per il clima un motore fondamentale di
crescita alimentato da investimenti, tecnologia, politiche energetiche e
finanza”.
La
transizione verde non determinerà necessariamente un aumento dell’inflazione.
Politiche adeguate nel campo dell’energia
possono comprimere la domanda di combustibili fossili.
Stimolando
la produzione di energie rinnovabili a basso costo, esse possono contenere le
pressioni inflazionistiche, e persino ridurre l’inflazione rispetto a uno
scenario controfattuale caratterizzato dall’assenza di interventi.
Già oggi stiamo beneficiando del costo
contenuto delle energie rinnovabili al fine di attenuare l’impatto del rincaro
dei combustibili fossili sui prezzi dell’elettricità.
La
forte spinta fornita dall’energia all’attuale aumento dell’inflazione non è
determinata dalla transizione ecologica.
Essa
riflette invece soprattutto la manipolazione dell’offerta di combustibili
fossili da parte della Russia.
Se
avessimo avviato per tempo la transizione verde, avremmo potuto progredire più
agevolmente verso gli obiettivi climatici, e avremmo potuto limitare la nostra
vulnerabilità allo shock energetico e le sue ricadute sull’inflazione.
L’economia
europea avrebbe reagito con maggiore efficacia alla crisi.
Per
combattere il cambiamento climatico, le autorità devono attuare misure
tempestive, decise, ambiziose, con il necessario sostegno dei cittadini.
Un
tale risultato richiede una visione realistica e positiva della transizione
ecologica.
Dobbiamo
rassicurare i cittadini sul fatto che, con politiche adeguate, la transizione
verde consentirebbe di accrescere – non di diminuire – le loro opportunità di
lavoro, la qualità della loro vita e il loro potere d’acquisto.
In assenza di interventi, le prospettive
sarebbero peggiori, e implicherebbero il ripetersi di crisi come quella che
stiamo attraversando.
È nel
nostro interesse collettivo dare concretezza a questa visione e realizzare i
necessari interventi a livello europeo.
Strategie
comuni conferiranno efficacia alle misure volte a migliorare l’efficienza e la
sicurezza in campo energetico e a garantire le risorse necessarie per
finanziare la transizione climatica.
L’unità
ci rende più forti nell’affrontare le difficoltà e ci dà più potere nel
disegnare il nostro futuro.
Anche
sul fronte del clima e dell’energia.
Desidero
ringraziare Ine Van Robays, Fabio Tamburrini e Jean-Francois Jamet per l’aiuto
che mi hanno fornito nella preparazione di questo intervento. Ringrazio inoltre
Jakob Adolfsen, Juliette Desloires, Donata Faccia, Francesco Drudi, Alessandro
Giovannini, Miles Parker, Laura Parisi e Lucas ter Braak per gli utili
commenti.
(Fabio
Panella).
Chiarimenti.
I combustibili fossili sono rappresentati da carbone,
petrolio e gas naturale.
La convenzione quadro delle Nazioni Unite sui
cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change,
UNFCCC) li definisce “depositi geologici combustibili sepolti di materiale
organico, formato dal decadimento di piante e animali trasformatisi in greggio,
carbone, gas naturale oppure oli pesanti tramite esposizione a calore e
pressione nella crosta terrestre nell’arco di centinaia di milioni di anni”.
La combustione di carbone, petrolio (compresa
la benzina) e gas naturale per generare energia rilascia carbonio che si ossida
diventando anidride carbonica nell’atmosfera.
(Occorre precisare che l’anidride carbonica (CO2) è
più pesante dell’aria. Non potrebbe rimanere nell’atmosfera e quindi ricadrebbe
sulla terra o sul mare. I gas serra dovranno fare a meno della partecipazione operativa
della Co2- prodotta dall’uomo- all’interno della cupola in alta atmosfera!
N.D.R.)
(Anche
aumentando la concentrazione dei gas serra che intrappolano il calore
nell’atmosfera (escludendo la Co2), i
combustibili fossili utilizzati dall’uomo non possono così contribuire al
cambiamento climatico che dipende solo -
come all’inizio - dall’opera del sole. N.D.R.)
Russia
e Cina si uniscono
contro
l'impero USA.
Unz.com - MICHAEL HUDSON – (20 OTTOBRE 2023) –
ci dice:
Dimitri
Sime Jr.:
Ciao a
tutti!
Questo
è il podcast “New Rules” e questo è il nostro primo” live streaming” in
assoluto su “Rumble”.
Sono
il vostro ospite, Dimitri Sime Jr., e il nostro ospite di oggi è l'economista Michael Hudson.
E parleremo dell'incontro “Putin”-“Xi”, dei cambiamenti più ampi
nell'economia globale e della possibilità che gli Stati Uniti mantengano il
loro status di egemone economico globale.
Professor
Hudson, grazie mille per aver aderito al programma.
Michael
Hudson:
Beh, è bello essere di nuovo qui.
Dimitri
Sime Jr.:
Quindi
immagino di aver voluto iniziare con il contesto più ampio, giusto?
Perché
quando guardiamo a come i media statunitensi hanno parlato dell'economia cinese
negli ultimi mesi, hanno detto che l'economia cinese è in difficoltà, che la”
Belt and Road Initiative” è in stallo.
Fino a
che punto, secondo lei, questa è una valutazione equa di ciò che sta accadendo
in questo momento?
Michael
Hudson:
Beh,
quando dicono che l'economia cinese è in difficoltà, intendono dire che,
nonostante il fatto che stia crescendo più velocemente di quasi tutti i paesi
occidentali, non sta crescendo così velocemente come prima.
E il motivo è il debito immobiliare molto pesante.
Il
settore immobiliare cinese è stato finanziato in un modo in cui è stato fatto
negli Stati Uniti per il settore immobiliare.
Un'azienda
pianificherà lo sviluppo di un edificio o di centinaia di edifici, nel caso di “Evergrande”
e altri, e inizierà a prendere in prestito denaro per iniziare la costruzione.
E
devono rimborsare il prestito vendendo il diritto di proprietà agli appartamenti dopo che l'edificio è
finito.
E per
decenni ha funzionato negli Stati Uniti.
Otterreste
un finanziamento iniziale per costruire un edificio.
Ne
avreste avuto delle foto, avreste avuto modo di vedere come sarebbe stato.
C'erano persone che compravano gli edifici.
E molto spesso, certamente qui a New York,
quando un nuovo edificio veniva costruito, quando l'edificio era finito in
cinque anni o giù di lì, il prezzo di mercato dell'edificio era in realtà molto
più alto.
Così
tante persone non solo volevano il proprio appartamento, ma gli investitori che
volevano acquistare appartamenti in condomini o condomini, cooperative e
affittare avrebbero realizzato un profitto.
E in
Cina, pensavano che questo sarebbe andato avanti per sempre, proprio come negli
Stati Uniti.
La gente non vedeva che a un certo punto ci
sarebbe stata una recessione.
E il
fatto è che i mutuatari, i costruttori che stavano costruendo gli edifici non
sono stati in grado di vendere così tanti appartamenti quanti ne stavano
comprando e sono rimasti indietro con i pagamenti.
Ebbene,
uno dei problemi in Cina è esattamente quello che è successo negli Stati Uniti.
Qui
c'era Fannie Mae, la compagnia assicurativa immobiliare governativa che sottoscriveva il
rischio di tutti i mutui immobiliari che le banche avrebbero fatto.
In
America quasi tutti i mutui sono garantiti dagli Stati Uniti in modo che le
banche non perdano soldi sui mutui.
Oggi,
le banche possono addebitare il 7,2% sui mutui e hanno la garanzia di non
perdere denaro da parte del governo.
La
Cina lo ha fatto su scala ancora più ampia.
E le compagnie di assicurazione cinesi, anzi le
banche, le banche hanno garantito i prestiti del grande costruttore perché
sembrava alle banche che la nostra proprietà potesse solo salire di prezzo.
Non
può scendere.
Ebbene,
all'improvviso, in questo momento, i prezzi degli immobili stanno scendendo in
Cina.
Ora,
normalmente si potrebbe pensare che, se i prezzi degli immobili stanno
scendendo, dovrebbe essere una buona cosa.
Se un salariato può pagare meno per la sua
casa, allora avrà più soldi per pagare beni e servizi e altre cose.
Ma in
questo caso, il calo dei prezzi degli immobili non è positivo se significa che
lo sviluppatore non è in grado di pagare alle banche i soldi che ha stipulato o
che gli obbligazionisti di “Country Garden” ed “Evergrand”e pagavano tassi di
interesse di circa il 13% all'anno.
Ora,
questo è un tasso di interesse incredibile.
Se sei
un investitore e acquisti un'obbligazione da una delle grandi società
immobiliari cinesi, ciò significa che raddoppi il tuo investimento in soli
cinque anni rispetto ai tassi di interesse che stavano pagando.
Nessuna economia può crescere così
velocemente.
Nemmeno
l'economia cinese.
E così il governo che non supervisionava
queste vendite di appartamenti diceva:
"Aspetta
un attimo, il mercato interno può davvero crescere a un ritmo esponenziale così
alto che le banche saranno in grado di continuare a vendere tutto ciò che
costruiscono a un prezzo crescente?"
Nessun paese è stato in grado di farlo, ma
tutti i paesi si sono imbattuti nello stesso tipo di rallentamento immobiliare
in cui si trova ora la Cina.
Ma si
scopre che la quantità di denaro garantita per i grandi sviluppatori
immobiliari è quasi un sesto di tutte le riserve in dollari esteri che la Cina
detiene.
Quindi questo è un vero problema di cosa fare con il
fatto che le grandi aziende non possono pagare i loro debiti, il che
normalmente non sarebbe male.
Non
possono pagare i debiti, ok?
Perdono
i loro soldi e un'altra società arriva e finisce di costruire gli edifici e li
vende per qualcosa.
Ma il problema è che le banche cinesi e le
piccole banche spesso hanno garantito le obbligazioni e i debiti, e in sostanza
le loro riserve saranno spazzate via.
E se le banche che hanno garantito questi
prestiti immobiliari subiscono una perdita, allora cosa accadrà ai depositanti?
Ebbene,
la Cina ha qualcosa di simile in America, la “Federal Reserve”, la FDIC, la “Federal
Deposit Insurance Corporation”, che garantisce che fino a circa 250.000
depositanti avranno la garanzia di non perdere i loro soldi.
Chi
perderà?
E come farà il governo cinese a decidere quale
depositante perderà quando le banche non sono in grado di coprire le perdite
della società immobiliare che finanziano?
Dimitri
Simes Jr.:
Ovviamente,
la situazione del mercato immobiliare ha creato una situazione difficile per
l'economia cinese.
Ma immagino di voler capire fino a che punto
questo è anormale e potenzialmente terminale per l'economia cinese?
Perché ricordo che abbiamo avuto il “professor
Jeffrey Sachs” qualche episodio fa e ha sostenuto che, sì, ci sono sfide
nell'economia cinese, ma è normale che le economie che vanno per cicli
economici abbiano alti e bassi e che è prematuro dire che il miracolo economico
della Cina è giunto al termine o che l'economia cinese è sull'orlo di un grave
crollo, come sostengono molti media mainstream.
Sapete, fino a che punto alcune delle
valutazioni più pessimistiche sono giustificate dal vostro punto di vista?
Michael
Hudson:
Non
credo che siano giustificati.
Penso che gli americani vogliano dire che
qualsiasi cosa faccia la Cina non funzionerà, perché fa parte dell'intera
giustapposizione di "l'economia degli Stati Uniti funziona, le altre
economie dovrebbero essere proprio come noi".
Ma Jeffrey Sachs ha ragione.
È normale che l'entusiasmo degli affari sottovaluti il
rischio e si renda conto che un boom, soprattutto nel settore immobiliare, non
può durare per sempre.
Questo
accade in ogni paese.
Penso che negli ultimi 200 anni ci sia stato
un ciclo immobiliare di 19 anni.
Nessuna
economia ne è stata sconfitta, ma c'è un ciclo e qualcuno deve sempre perdere.
Molti
grandi sviluppatori sono eccessivamente ottimisti e falliscono.
Penso
che Donald Trump sia fallito un paio di volte e che le banche li abbiano
salvati.
Quindi, in un certo senso, questo eccesso di
entusiasmo è un fenomeno universale, e di solito porta il governo a istituire
controlli e contrappesi in modo da non sovraccaricare di nuovo il mercato.
E sono
sicuro che la Cina sta cercando di dire: come possiamo evitare che questo
accada di nuovo?
Di
certo hanno abbastanza soldi per coprire tutto.
La
Cina può semplicemente cancellare il debito.
Ha
abbastanza soldi per permettersi la crisi, ma sta causando un vero problema per
gli investitori e le due grandi società immobiliari.
E a
quanto pare c'è stato un sacco di cattiva contabilità.
E
negli Stati Uniti, le società di revisione contabile sono molto spesso ritenute
responsabili per non aver avvertito le banche che le hanno assunte che c'è un
problema in arrivo.
Quindi
questa sovrastima è un sottoprodotto della bolla.
Le
bollicine hanno creato questo entusiasmo e lo hanno sovraccaricato.
Ma
l'economia cinese sottostante continua a salire.
E
penso che tu abbia menzionato la Belt and Road.
L'economia
cinese è molto più che immobiliare.
Ed è
di questo che i critici non parlano, perché tutto ciò che non è immobiliare sta
procedendo meravigliosamente per la Cina.
E la sua risposta alle sanzioni commerciali americane
è stata quella di rendersi indipendente dalla dipendenza dagli Stati Uniti.
Questo è sempre il risultato delle sanzioni
commerciali.
Le sanzioni commerciali significano che è il
paese che impone le sanzioni, ad esempio, sui chip per computer che perde quel
mercato per sempre perché il paese sanzionato ha detto: "Ok, produrremo il
nostro".
E la
Cina è stata in grado di farlo.
E
capisco anche che i taiwanesi stiano investendo di più in attrezzature per la produzione
di chip sulla terraferma.
Quindi
la Belt and Road sta andando bene. L'industria manifatturiera cinese sta
andando bene e i giornali cercano qualcosa da criticare.
E la
Cina dovrà fare quello che hanno fatto tutti gli altri paesi: decidere chi subirà
una perdita e quanto una perdita e chi salvare.
Dimitri
Simes Jr.:
Sì,
penso che il tuo punto di vista sull'economia sottostante sia molto
interessante e molto importante perché, ancora una volta, non sono un
economista, sono un giornalista.
Ma
quando guardo da lontano come un dilettante, sembra che la Cina abbia molti dei
fondamentali necessari in atto.
Ha una forte industria, ha una grande
popolazione che è sempre più istruita e ha un settore high-tech in via di
sviluppo.
Questo non suggerisce che, anche se ora sta
attraversando alcune sfide a causa di errori nel mercato immobiliare, è ben
posizionata per essere competitiva nel lungo periodo?
Michael
Hudson:
Beh,
non hai menzionato il suo vantaggio numero uno. A differenza delle economie
occidentali, la Cina ha creato denaro, credito e banche come servizio pubblico.
Ciò significa che è il governo il creditore
finale delle banche.
Ora,
negli Stati Uniti, non è quello che succede.
Negli
Stati Uniti, se le banche falliscono e la società fallisce, ci sono riverberi
in tutta l'economia dei fallimenti e anche dei derivati nel 2008. Il fatto che ci siano enormi
scommesse di Wall Street sul fatto che le obbligazioni e i mutui vadano in
default o meno.
Niente
di tutto questo affligge la Cina perché il governo può sempre decidere quando
un'azienda fallisce, supponiamo che sia una fabbrica, invece di una società
immobiliare, non diremo:
"Beh,
l'azienda è in bancarotta. Ok, deve essere venduto a qualcun altro. Forse uno
straniero se ne impossesserà, forse un altro investitore se ne impossesserà e
lo abbatterà. Vogliamo davvero che questa azienda indebitata fallisca e
fallisca?"
E se la Cina dice:
"beh,
no, il motivo per cui l'abbiamo finanziata è perché sta giocando un ruolo
positivo nell'economia".
Quindi
è un peccato che non possa pagare il debito, ma non vale la pena chiuderlo. E
non ci sarà un grande mercato azionario e obbligazionario e la sovrastruttura
della speculazione finanziaria che si limita a dire:
"Ok, stiamo ancora finanziando la nostra
industria e gran parte del nostro patrimonio immobiliare per ciò che è
nell'interesse nazionale per aumentare gli standard di vita e la prosperità.
Quindi,
poiché siamo i creditori, non abbiamo problemi a svalutare i debiti perché i
debiti ci sono dovuti".
Ed è molto facile per i creditori scrivere ciò
che è loro dovuto quando è dovuto a sé stessi, non a qualcun altro.
Beh,
in Occidente, il governo degli Stati Uniti non dirà:
"Beh, questa azienda, come le farmacie”
Rite Aid, è fallita”.
Quindi
le banche sono nei guai.
Non possiamo lasciare che svaluti il debito
perché i debiti non ci sono dovuti.
E'
dovuto a una banca e lascia che le banche e gli obbligazionisti
pignorano".
La Cina non ha questo problema.
E
questo è ciò che distingue davvero questo nuovo ordine economico che stiamo
vedendo al di fuori dell'Occidente.
Un'intera
ristrutturazione del funzionamento delle economie.
E la
Cina ha essenzialmente seguito la stessa politica che ha reso l'industria degli
Stati Uniti così di successo nel 19° secolo.
Ha
mantenuto le infrastrutture, i trasporti, le comunicazioni, i bisogni di base,
l'assistenza sanitaria, l'istruzione, tutto di dominio pubblico.
E il vantaggio di questo e del fatto che tutto
questo è stato spiegato nel 19° secolo dai capitalisti industriali americani.
Erano gli industriali che sostenevano la spesa
pubblica e gli investimenti nelle infrastrutture, perché l'intera idea dei
trasporti governativi, delle comunicazioni governative è quella di soddisfare i
bisogni di base a tariffe sovvenzionate in modo che i datori di lavoro non
debbano pagare abbastanza lavoro salariato da dover pagare prezzi più alti per
queste esigenze infrastrutturali di base che sono principalmente monopoli.
In
Occidente le infrastrutture di base sono state monopolizzate, i prezzi sono
molto alti.
Prendiamo ad esempio l'acqua del Tamigi in
Inghilterra.
Guardate
che all'inizio degli anni '80, Margaret Thatcher in Inghilterra e Ronald Reagan
negli Stati Uniti cominciarono a svendere tutti i servizi di base e a
privatizzarli.
Il risultato è che i prezzi, il costo della
vita e del fare affari in Occidente sono aumentati notevolmente.
Ad
esempio, l'istruzione.
Costa
circa $ 50,000 all'anno solo per andare al college negli Stati Uniti.
La
Cina e altri paesi trattano l'istruzione come un bisogno di base, e non devono
pagare in questo modo.
Sanità
pubblica.
In America, l'assicurazione sanitaria costa
circa $ 25.000 all'anno a persona.
Bene,
immaginate un paese che fornisce gratuitamente la sanità pubblica.
Ciò significa che i suoi datori di lavoro, la
sua manodopera non devono pagare, guadagnano salari abbastanza alti da pagare
questo enorme costo per l'istruzione, la sanità pubblica, o per il trasporto
monopolizzato, che è molto poco costoso in Cina, la comunicazione
monopolizzata.
Hai
evitato rendite monopolistiche quando hai investimenti governativi in
infrastrutture.
Quindi la Cina sta in un certo senso facendo
quello che era l'ideale del capitalismo industriale degli Stati Uniti nel 19°
secolo, il decollo industriale tedesco, il decollo industriale dell'Inghilterra
Ha un'economia mista, un settore pubblico e uno
privato, con il governo che fornisce i bisogni di base.
Ciò
significa che la Cina e gli altri paesi che stanno seguendo le sue politiche
saranno produttori a costi molto più bassi rispetto alle loro controparti
occidentali.
E
questo si chiamava "capitalismo industriale".
Erano i capitalisti che consigliavano quella
che viene chiamata "medicina socializzata" e la cosiddetta
"infrastruttura socializzata", perché lo scopo di questa
infrastruttura governativa era quello di abbassare il costo di fare affari per
l'industria americana in modo che potesse svendere l'Europa e altri paesi che
non avevano un'economia mista con infrastrutture pubbliche.
Ebbene,
la Cina lo sta facendo, e ora si chiama socialismo.
Non il
capitalismo.
Ma la strategia di base è esattamente la
stessa strategia che ha portato l'Occidente a farlo.
Ma l'Occidente non segue più la strategia.
L'Occidente
si è portato ad essere finanziarizzato e privatizzato. E quello che si sta vedendo ora è una
spaccatura nel mondo tra privatizzazioni neoliberiste, finanziarizzazione e
ricchezza creata dall'ingegneria finanziaria, non dalla formazione di capitale
industriale e dalla produzione effettiva.
Bene, questo è ciò che la Cina sta cercando di
fare con la “Belt and Road Initiative” e con il modello per altri paesi.
Quindi
stiamo davvero assistendo a un conflitto di sistemi economici, e questa sembra
essere una divisione geografica tra gli Stati Uniti e l'Europa, da un lato,
quello che Borrell in Europa, il capo dell'Unione Europea chiamava "il
Giardino", e il resto del mondo, che significa "la Giungla".
La giungla significa paesi con forti
investimenti governativi per abbassare il costo della vita e aumentare la
produttività.
Dimitri
Simes Jr.:
Questo
è davvero interessante perché ciò che le tue risposte suggeriscono è che la
competizione tra Stati Uniti e Cina non è solo una resa dei conti geopolitica,
ma è anche una sorta di resa dei conti ideologica ed economica per il modello
che dominerà il futuro.
Sarà
questa sorta di capitalismo finanziario di rendita che lei descrive ora, a
dominare l'Occidente?
O sarà
qualcosa sulla falsariga del socialismo industriale, del capitalismo
industriale di stato, qualcosa di un modello economico che si basa sulla
produzione di cose invece di fornire solo servizi e, sai, giocattoli ad alta
tecnologia?
Michael
Hudson:
L'hai
appena detto in poche parole. Questo è esattamente quello che stiamo dicendo,
Dimitri.
Dimitri
Simes Jr.:
Sì.
Quindi, voglio dire, penso che, dato che siamo sul tema di una resa dei conti
tra Oriente e Occidente, voglio chiederti qualcosa che Putin ha detto oggi a
Pechino, poco dopo l'incontro con Xi Jinping.
Ha detto quanto segue:
"Le
minacce comuni stanno rafforzando la cooperazione tra Russia e Cina".
È
d'accordo sul fatto che le sanzioni occidentali stanno, in effetti,
contribuendo ad avvicinare Russia e Cina?
Michael
Hudson:
Beh, questo è ironico. Qualche anno fa,
stavamo tutti parlando di "la Cina prenderà l'iniziativa con altri paesi
nel staccarsi dagli Stati Uniti?"
Tutto
questo risale alla conferenza di Bandung del 1955, quando i paesi del terzo
mondo dissero:
"Beh,
non possiamo avere una terza via? Non possiamo essere indipendenti dagli Stati
Uniti?"
Non potevano farcela da soli.
Ma la
Cina e la Russia, per la prima volta, sono un'economia abbastanza grande da
consentire ad altri paesi di unirsi e non essere soggetti a un ordine mondiale
modellato dagli Stati Uniti.
Ma
l'ironia è che oggi sono gli Stati Uniti a spingere gli altri paesi a unirsi.
Sono gli Stati Uniti che stanno distruggendo
l'ordine mondiale del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale,
della Corte Penale Internazionale.
Gli Stati Uniti stanno unendo questi altri
paesi, non agendo nel proprio interesse.
E così la storia sembra ripetersi.
L'Oracolo
di Delfi risale al V secolo a.C. circa.
Il più ricco re dell'Asia Minore, Creso,
decise di attaccare la Persia, andò all'Oracolo di Delfi e disse: "Quale
sarà il mio destino?"
E
l'Oracolo disse: "Distruggerai un grande impero".
E così
Creso attaccò il re Ciro e perse.
Poi si
scoprì che l'impero che aveva distrutto era il suo.
Bene, questo è esattamente si potrebbe dire che
il presidente “Biden” è andato dai suoi consiglieri, “Blinken” e “Nuland” e gli
altri suoi consiglieri, hanno tutti detto:
"Sì,
imponete sanzioni commerciali alla Russia e alla Cina, non commerciate con la
Cina, dite che è il nostro nemico, isolatela e la distruggerete".
E quello che hanno distrutto è il mercato cinese,
russo e fondamentalmente asiatico per i prodotti che gli Stati Uniti speravano
di monopolizzare e di cui beneficiare.
Il
piano degli Stati Uniti era quello di designare alcuni monopoli che potevano
far pagare molto di più del profitto.
Ma
un'enorme rendita monopolistica, per esempio, sui chip per computer e sulla
tecnologia dell'informazione.
Se
potessero impedire ad altri paesi di produrre i propri chip per computer, i
propri processori e sistemi di comunicazione, sistemi telefonici, allora
potrebbero applicare prezzi enormi e non dovrebbero impiegare molta manodopera.
Sarebbe
l'economia della rendita che lei ha detto.
E se
le aziende farmaceutiche americane potessero ottenere brevetti sui vaccini,
allora potrebbero prendere una pillola che costa $ 0,10 per essere prodotta e
potrebbero venderla a 800 o $ 1.000 a causa del potere monopolistico.
Beh,
questo è un sistema che gli Stati Uniti pensavano di poter fare.
Ma quello che ha fatto abusando del suo
privilegio e spingendo altri paesi oltre il punto di rottura, quello che ha
fatto è stato costringere gli altri paesi a dire:
"beh, sappiamo che ci sarà
un'interruzione dell'interattività mentre investiamo nella nostra produzione di
farmaci, investiamo nella produzione dei nostri chip per computer, dei nostri
computer e dei nostri macchinari per la produzione di chip. Ma una volta fatto
questo, non dobbiamo più dipendere dagli Stati Uniti".
L'obiettivo
di qualsiasi economia, in linea di principio, è quello di essere indipendente
dal fatto che altri paesi possano interrompere la loro attività commerciale
imponendo sanzioni o incursioni finanziarie sulla loro valuta.
Volete proteggervi da un attacco economico o
finanziario da parte di altri paesi.
E per
circa 70 anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il paese non ha
dovuto farlo.
C'era un'economia aperta e i paesi non
attaccavano altri paesi.
Sono gli Stati Uniti che hanno guidato la
politica di imporre sanzioni a Russia, Cina, Iran, Venezuela, e ora si stanno
estendendo a sempre più paesi.
E stai
dicendo che in ogni singolo caso in cui le sanzioni hanno imposto, per esempio,
lo stop alle esportazioni alimentari verso la Russia, beh, la Russia ha
coltivato il proprio grano ora, ed è un esportatore di grano, non un
importatore.
Per
quanto riguarda le verdure e i formaggi, è indipendente dagli stranieri.
E si
può dire la stessa cosa per l'automobile, per le armi, per i computer, per le
automobili.
Ora,
la Russia e la Cina stanno producendo le proprie automobili.
Non
dipende dall'Europa o dal Giappone o dalla sfera dollaro USA-euro-yen.
In ogni caso di queste sanzioni, se gli Stati
Uniti stanno unendo questi paesi e in qualche modo catalizzando ciò che
pensavano di voler fare.
Ma ci
deve essere una massa critica di desiderio di staccarsi e creare la propria
economia autosufficiente.
E gli
Stati Uniti hanno reso economicamente vantaggioso e politicamente fattibile per
questi paesi dire:
"Ok,
stringeremo i denti, diventeremo indipendenti.
Non
avremo l'interdipendenza basata sul fatto che gli Stati Uniti siano in grado di
continuare a cambiare le regole e di avere un'economia al servizio di se
stessi.
Avremo
un'economia multipolare, ma questa deve essere basata in una certa misura
sull'aiuto reciproco e sul sostegno reciproco.
E
avremo il nostro modello di crescita".
Perché
è ovvio che il modello degli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale si
rivela essere un modello predatorio, sfruttatore e a somma zero, invece di un
modello “win-win” che la Cina, la Russia e il Sud del mondo e la maggioranza
globale stanno cercando di mettere insieme.
Dimitri
Simes Jr.:
Sì, e
voglio solo dare al nostro pubblico un po' di contesto che penso aiuti a
illustrare questa situazione.
Il
fatturato commerciale tra Russia e Cina è aumentato del 32% l'anno scorso dopo
l'imposizione delle sanzioni occidentali e si prevede che quest'anno supererà
il livello record di 200 miliardi di dollari.
E se si guarda alla vita quotidiana russa,
questo è molto evidente perché dopo che i marchi occidentali hanno lasciato il
paese, si è visto che, ad esempio, le automobili occidentali sono state
sostituite con automobili di fabbricazione cinese.
E lo
stesso vale per smartphone, lavatrici, chi più ne ha più ne metta.
Quindi
c'è questo tipo di situazione davvero interessante in cui “Biden” dice di voler
fermare l'ascesa economica della Cina e, sai, competere con la Cina.
Ma
come risultato della sua politica nei confronti della Russia e dell'Ucraina, ha
sostanzialmente ceduto un mercato di 150 milioni di persone a uno dei suoi più
grandi rivali geopolitici.
Michael
Hudson:
Ma è
esattamente quello che sta succedendo.
La
teoria geopolitica parte dall'idea che i paesi agiranno nel proprio interesse.
Ebbene, oggi non sta succedendo.
In un senso più ampio, l'America pensa di
agire nel suo interesse ad essere protezionista perché non capisce davvero che
gli altri paesi hanno una scelta.
E così gli Stati Uniti cercano di impedire ad
altri paesi di avere una scelta.
E lo
sta facendo militarmente nella guerra della NATO contro la Russia in Ucraina. E
lo state vedendo farlo nel Vicino Oriente ora, gli Stati Uniti stanno cercando
di attaccare la Siria e l'Iran per prendere il controllo dell'intero Vicino
Oriente.
E questo
è il senso di tutta questa lotta nominalmente su Israele.
Sono
gli Stati Uniti che si muovono in Siria.
Ho
sentito i generali americani parlare con il principale consigliere economico di
Netanyahu, “Uzi Arad”, quando lavoravamo insieme all'Istituto.
I
generali americani gli dicevano: "Hai la nostra portaerei atterrata lì.
Stiamo usando Israele. Possiamo sempre usarlo per assicurarci di controllare il
Medio Oriente e le sue forniture di petrolio".
Beh,
era circa il 1974 e cioè quasi 50 anni fa.
Ed è ancora
la mentalità degli Stati Uniti, che gli Stati Uniti vogliono essere in grado di
fare a tutto il Medio Oriente quello che hanno fatto all'Iraq, semplicemente
spostare la loro flotta e prendere il controllo dell'Iraq.
Il Congresso iracheno dice: "dovete
andarvene" verso gli Stati Uniti, da Donald Trump fino al presidente
Biden, "non possiamo andarcene, stiamo prendendo tutto il vostro
petrolio!"
E
stanno prendendo tutto il petrolio e finanziando le operazioni militari degli
Stati Uniti in tutto il mondo.
Vogliono
fare quello che hanno fatto all'Iraq, alla Siria e fondamentalmente all'Iran.
E c'è il deputato Mitch McConnell, il leader
repubblicano al Congresso, che dice: "Dimenticatevi di attaccare Hamas,
attaccate l'Iran. Questo è ciò che dobbiamo davvero fare".
C'è la
candidata repubblicana in corsa per la presidenza, “Nikki Haley”, l'ex
rappresentante degli Stati Uniti all'ONU, che dice: "Dimenticate Israele,
attaccate l'Iran!".
Subito
dopo l'11 settembre, gli Stati Uniti non si sono vendicati contro le persone
che hanno organizzato l'11 settembre in Arabia Saudita.
Hanno invaso l'Iraq.
In
questo momento, oggi non stanno realmente rispondendo contro “Hamas o il “Libano”.
Biden
sta dicendo a Israele, penso, "è meglio che non invada, perché se provi a
invadere Gaza sarai dalla parte dei perdenti". Stanno davvero muovendo
l'intera armata navale per cercare di eliminare finalmente Assad in Siria e
usare l'ISIS, la legione straniera americana, fondamentalmente come ISIS e
al-Nusra, i terroristi che fanno a pezzi il paese e lasciano che gli Stati
Uniti facciano alla Siria quello che hanno fatto all'Iran.
E poi
questo probabilmente porterà l'Iran a reagire e l'intero Vicino Oriente andrà
in fiamme.
Ovviamente,
nessuno pensava che l'ordine mondiale, l'ordine del Senato degli Stati Uniti si
sarebbe spezzato così velocemente.
Ma
questa militarizzazione del conflitto economico, il neoliberismo e
l'acquisizione da parte degli Stati Uniti delle economie straniere, nessuno
pensava che sarebbe diventata così violenta e drastica come è diventata così
rapidamente.
E lo stiamo vedendo oggi.
Quest'anno vedremo il mondo intero
trasformato.
Dimitri
Simes Jr.:
Sì,
voglio sicuramente parlare di più della situazione in Medio Oriente un po' più
avanti, perché almeno a me sembra che stiamo camminando come sonnambuli verso
la Terza Guerra Mondiale.
Ma
voglio toccare un po' un'idea che abbiamo discusso durante la nostra
conversazione, ovvero che c'è questa sorta di modello capitalista di rendita da
parte dell'Occidente e un modello economico diverso presentato da Russia e
Cina.
Qualcosa
che è emerso nei giorni scorsi al “Belt and Road Forum”, e questo è stato
articolato sia dal presidente cinese “Xi “che dal presidente russo “Putin”.
Hanno parlato a lungo dell'importanza di
creare nuovi corridoi di trasporto. Potresti spiegare al nostro pubblico
occidentale, che è la maggior parte delle persone che guardano, perché questa è
una priorità per la Russia e la Cina? Si tratta solo di un imperativo economico
o c'è anche una sottolineatura geopolitica?
Michael
Hudson:
C'è
sempre un imperativo geopolitico perché i paesi non vogliono essere
autosufficienti se non possono produrre minerali, materie prime e petrolio più
economici.
La maggior parte dei paesi vorrebbe ridurre al
minimo i propri costi per essere più efficiente.
Questo
non è vero per la Germania in Europa.
Vogliono pagare sei volte di più per il loro
petrolio.
Ma
nessuno si sarebbe aspettato che un paese avrebbe commesso un suicidio
industriale in quel modo.
Ma la
maggior parte dei paesi vuole avere un'economia interconnessa con altri paesi
in modo che tutti possano avere una specializzazione della produzione, una
specializzazione del lavoro, e che sia più efficiente geograficamente.
Bene,
per avere la specializzazione del lavoro e il sostegno reciproco nel mercato,
ogni paese otterrà tutti gli altri paesi intorno al mercato.
Devi avere un mezzo di trasporto.
Bisogna avere un mezzo per trasportare
petrolio e gas attraverso gli oleodotti in modo che gli Stati Uniti non possano
far saltare in aria.
È
necessario disporre di porte per la spedizione.
Bisogna avere delle ferrovie, idealmente del
tipo di ferrovia che la Cina ha costruito, la ferrovia molto veloce ed
efficiente.
Queste ferrovie e la “Belt and Road Initiative”
sono un po' come le arterie, il sistema di circolazione nel corpo, in modo che
possiate essere in grado, sulla base di queste strutture di trasporto,
costruire ogni sorta di strutture industriali e agricole intorno a loro.
Così,
per esempio, negli Stati Uniti, quando gli Stati Uniti nel 19° secolo
costruirono ferrovie lungo tutte le ferrovie, ovunque ci fosse una stazione,
c'era un'intera città che cresceva.
E poi,
dietro la città, ci sarebbe stata prosperità.
La prosperità seguì i percorsi della ferrovia.
E la
Cina, la Russia, i paesi asiatici possono farlo oggi.
L'Occidente
non può farlo, e in particolare gli Stati Uniti non possono farlo perché i
treni cinesi, su cui ho fatto viaggi molto piacevoli, tra Pechino e Wuhan, per
esempio, il Tianjin vanno così veloci che c'è bisogno di una ferrovia.
C'è
un'autostrada da un lato, in una direzione, un'autostrada dall'altro, e su un
binario sopraelevato separato, ci sono i binari ferroviari ad alta velocità.
Ebbene, negli Stati Uniti e in Europa, la
terra è così densamente popolata che ci sono edifici residenziali, fabbriche e
città sulla strada.
Bene, immaginate di andare a 150 miglia
all'ora attraverso una città con un passaggio a livello che va su e giù.
Avrai
dei camion che passano, sai, proprio attraverso i cancelli e kaboom!
E se hai un incidente ferroviario, a 150 o 200
miglia all'ora, è davvero grave.
Gli
Stati Uniti non possono permettersi i soldi per comprare la corsa lontano dai
proprietari immobiliari esistenti e non hanno la base legale per dire: "Condanneremo la vostra proprietà e
prenderemo il controllo della proprietà per far muovere i treni su un binario
rettilineo".
Non si
può fare in modo che i treni facciano quello che fanno ora e facciano solo il
giro di tutti gli edifici e le fattorie.
Deve
andare dritto.
La “Belt
and Road Initiative” è progettata in modo tale da ridurre al minimo il costo
dei trasporti e rendere meno costoso per la Cina, la Russia o altri paesi
asiatici commerciare tra loro rispetto a quello che sarebbe commerciare con gli
Stati Uniti e l'Europa.
Quindi
questa accessibilità dei mercati gli uni agli altri, dei consumatori, dei loro
fornitori e dei vari paesi creerà essenzialmente una prosperità reciproca.
E la ragione che deve essere reciproca è che
se un paese, diciamo, i paesi dell'Asia centrale stanno per acquistare prodotti
industriali cinesi e petrolio o gas russo o un prodotto russo.
Dovranno
avere dei mezzi finanziari per pagarli.
L'unico
modo in cui possono guadagnare i mezzi finanziari che dovranno esportare
qualcosa.
E
questo significa che la Cina, la Russia dovranno dire: "Va bene, se
vogliamo vendere i nostri produttori e altri prodotti al Kazakistan e
all'Uzbekistan, cosa compreremo da loro per consentire loro di pagarlo?"
Non
possiamo semplicemente prestare loro i soldi e poi dire:
"Pignoreremo
il tuo paese quando potrai pagare".
Dobbiamo
consentire a questi paesi di pagare per i prodotti che acquistano da noi, in
modo da poter avere un mercato in questi paesi.
È qui
che i cinesi stanno pensando al futuro e si stanno rendendo conto che non
possiamo semplicemente creare una grande dipendenza dall'estero senza
sviluppare paesi stranieri.
Gli
Stati Uniti non hanno cercato di sviluppare i paesi del Sud del mondo che hanno
accumulato un enorme debito in dollari per finanziare i loro deficit della
bilancia dei pagamenti.
Hanno solo detto:
"Beh,
non fate concorrenza con noi, comprate quello che produciamo e prendete in
prestito i soldi da noi".
Ed è
quello che è successo.
L'Argentina,
l'America Latina, i paesi africani hanno preso in prestito denaro americano ed
europeo e hanno debiti in dollari e debiti in euro, ma non possono produrre
dollari ed euro.
E gli Stati Uniti e l'Europa hanno detto:
"Non
importeremo nulla da voi, dall'Argentina, dal Brasile e dall'Africa. Sarete
mercati. Ma noi vogliamo fare i soldi e il profitto vendendovi".
E il
risultato è che c'è stato un enorme squilibrio.
E
potete vedere che l'intera crescita delle riserve monetarie internazionali è
una misura di questo squilibrio.
Per i
paesi della “Belt and Road” e i “BRICS” più i paesi che si stanno unendo,
l'idea non è quella di avere un nuovo tipo di riserve per sostituire il
dollaro.
Non si
tratta di avere bisogno di riserve così grandi da accumulare sotto forma di
debiti verso altri paesi che non possono essere pagati.
E
questa sarà la prossima grande sfida per i paesi della “Belt and Road” e per il
Sud del mondo.
Come
possono i loro governi investire in infrastrutture e allo stesso tempo pagare
il risultato del colonialismo finanziario?
Come
possono pagare gli obbligazionisti statunitensi, gli obbligazionisti in
dollari?
Come
possono pagare gli obbligazionisti in euro per un processo di sviluppo dal 1945
che è stato sfruttatore e non aiuta i paesi debitori a svilupparsi?
L'intera
relazione tra debitori e predatori sta improvvisamente venendo riconosciuta in
Asia e nel Sud del mondo, perché sono loro i debitori, e i creditori non stanno
nemmeno guardando a questo.
E il
fatto è che il Sud del mondo e i debiti della “Belt and Road Initiative” e dei
paesi BRICS nei confronti dell'Occidente devono essere pagati.
E a un
certo punto non saranno pagati.
Ma
poiché ciò provoca una frattura monetaria e finanziaria, devono essere in grado
di mettere in atto una reciproca autosufficienza industriale e agricola per
poter procedere da soli.
Quando
l'America e l'Europa vanno su tutte le furie per non essere in grado di
sfruttare il resto del mondo nel modo in cui sognavano di fare.
Dimitri
Simes Jr.:
Penso
che tu faccia alcuni punti davvero importanti e interessanti perché quando
guardi, per esempio, a ciò che scrive il “New York Times”, quando parla di
Russia e Cina, dicono che questi due paesi stanno cercando di detronizzare
l'ordine liberale basato sulle regole internazionali.
Ma
penso che lei faccia un punto molto importante:
la Russia e la Cina non sono contrarie
all'idea della globalizzazione e dell'interconnettività.
Sono
contrari all'attuale approccio neoliberista e basato sulle regole degli Stati
Uniti alla globalizzazione, dove fondamentalmente le risorse sono concentrate
intorno agli Stati Uniti e altri paesi non hanno una via praticabile per
svilupparsi.
Immagino
che questo faccia sorgere la domanda, giusto?
Perché,
sapete, abbiamo parlato di una sorta di visione di uno sviluppo globale più
equo, di questa sorta di Eurasia interconnessa, da Mosca a Pechino, da
Vladivostok a Teheran.
Ma,
come hai sottolineato, proprio mentre stiamo parlando, stiamo assistendo non a
una serie di tensioni senza precedenti in Medio Oriente che in qualsiasi
momento, sai, nei prossimi giorni o settimane, potrebbe esplodere in una grande
guerra regionale.
È questo il tipo di modello a cui stanno
pensando Russia e Cina?
Fino a
che punto è minacciato da ciò che sta accadendo in Medio Oriente in questo
momento?
Una
grande guerra in Medio Oriente potrebbe mettere a rischio tutte queste
ambizioni di una grande Eurasia?
Michael
Hudson:
Beh,
hai detto che sono sonnambuli nella Terza Guerra Mondiale, ma non sono sonnambuli.
Gli
Stati Uniti stanno deliberatamente rischiando e persino scatenando la Terza
Guerra Mondiale perché si rendono conto che gli Stati Uniti stanno perdendo la
loro potenza militare.
E in
effetti, la NATO è letteralmente a corto di armi in questo momento a causa
della guerra in Ucraina e il modo in cui l'establishment della sicurezza
nazionale degli Stati Uniti sta pensando, e sono stato associato ad esso per
molti anni, è:
"se
avremo una guerra, una terza guerra mondiale, non saremo mai in una posizione
più forte di adesso.
La
nostra posizione si sta indebolendo.
Quindi, se vogliamo far saltare in aria il
mondo, facciamolo ora, perché faremo esplodere il mondo e perderemo ancora più
pesantemente se lo faremo in futuro.
In
realtà stanno rischiando la presa di potere ora, soprattutto perché è così
centrata nel Vicino Oriente con l'Iran e la Siria, come ho detto, che sono le
vere chiavi di tutto questo.
Pensano che in questo momento forse la Russia
ha già bloccato il suo esercito in Ucraina e non c'è nulla che possa fare per
venire in aiuto della Siria se gli Stati Uniti si muovono contro la Siria, e
una volta che si muovono contro la Siria, i neoconservatori e i conservatori
nell'establishment della sicurezza nazionale hanno già detto,
"prima
andiamo in Iraq, poi la Siria e poi l'Iran è dove stiamo puntando a tutto
questo".
Hanno
spiegato tutto nei rapporti sulla sicurezza nazionale.
Questo
non è sonnambulismo.
Questo è un piano molto consapevole che i
leader neoconservatori, il gruppo di “Victoria Nuland”, hanno messo insieme.
E in
realtà stanno cercando di innescare tutto.
Quindi
penso che mentre “Biden” sta cercando di dire a Israele,
"questo
non è più un buon momento per combattere Gaza perché stai rivoltando il mondo
intero contro di noi", e “Biden” sta scoprendo che il suo sostegno a
Netanyahu è un albatro intorno al suo collo, come penso che abbia detto un
recente articolo di qualcuno, che in qualche modo ha sostenuto una belligeranza
di destra contro la quale la maggioranza degli israeliani ha votato e la
maggioranza degli americani I democratici hanno votato contro.
Non è
che l'America stia sostenendo Netanyahu, sta sostenendo l'approccio
neoliberista di destra del Likud, fondamentalmente.
E il
fatto che questa guerra economica stia prendendo una piega così violenta è
scioccante per il resto del mondo.
Si
rendono davvero conto che non sono i paesi che sono stati sfruttati che combatteranno
così duramente come gli sfruttatori.
Gli
sfruttatori, i beneficiari di un sistema ingiusto e unilaterale, sono disposti
ad andare in guerra perché non hanno più mezzi per sostenersi.
Il
loro unico modo di sopravvivere è lo sfruttamento, e stanno combattendo per
essere in grado di impadronirsi delle riserve petrolifere altrove.
E il “Consiglio
di Sicurezza Nazionale “in America ha detto:
"Se
riusciamo a prendere il controllo dell'Iran e del petrolio del Vicino Oriente e
con l'Arabia Saudita come prossima, allora possiamo tagliare la fornitura di
petrolio a qualsiasi paese che non segua il piano neoliberista degli Stati
Uniti.
E se non hanno petrolio e gas, non hanno
elettricità ed energia.
E il PIL si basa fondamentalmente
sull'elettricità e sul consumo di energia: petrolio, gas ed elettricità".
Quindi
tutto questo è in realtà tutto fuoriuscito visibilmente.
Ed è
quello che stanno facendo gli Stati Uniti, e lo hanno fatto sapere al mondo
intero.
Sì,
abbiamo un piano per sfruttarti.
Che
cosa avete intenzione di fare al riguardo?
Perché
se vi difendete, vi faremo quello che abbiamo fatto all'Iraq, quello che stiamo
facendo alla Siria, quello che abbiamo fatto all'Iran, quello che abbiamo fatto
all'Ucraina.
Vuoi
davvero passare attraverso questo? Questo è il “gantlet” che gli Stati Uniti
hanno gettato giù.
E
penso che altri paesi stiano dicendo: "Non ne faremo parte. Dobbiamo
andare per la nostra strada".
Dimitri
Simes Jr.:
Sai,
mentre ascolto la tua analisi e hai menzionato che molte persone negli Stati
Uniti o nell'élite politica statunitense, per essere più precisi, pensano che
sia meglio ora che dopo, perché in seguito non saremo così forti e considerato
l'insoddisfazione politica interna.
Questo
è stato molto agghiacciante per me perché ricordo di aver letto le
deliberazioni che i leader tedeschi presero prima della Prima Guerra Mondiale.
Hanno
anche guardato all'impero russo in Oriente.
Hanno
detto che l'economia dell'impero russo sta crescendo molto rapidamente, si sta
industrializzando.
E allo
stesso tempo abbiamo un movimento socialista in crescita in patria.
Quindi
meglio cercare di combattere una guerra ora alle nostre condizioni piuttosto
che aspettare dieci anni e potenzialmente perdere.
Immagino
però che abbiamo visto “Biden” e “Janet Yellen” e questa è la mia ultima
domanda, lo prometto.
Entrambi
hanno detto all'inizio di questa settimana che gli Stati Uniti sono in grado di
camminare e masticare gomme, che sono in grado di combattere questa guerra per
procura in Ucraina, sostenere Israele nel suo conflitto con i suoi vicini e
affrontare la Guerra Fredda economica cinese.
Gli Stati Uniti sono davvero in grado di
destreggiarsi tra tutte queste cose allo stesso tempo?
O è
solo un'altra illusione di Washington?
Michael
Hudson:
Non
c'è dubbio, gli Stati Uniti possono andare in guerra su tre fronti.
Inoltre,
non c'è dubbio che perderà.
L'esercito,
l'esercito ha fatto un piano di gioco e ha detto:
"E se ci fosse una guerra, prima di
tutto, in Ucraina?"
Riconoscono
la vittoria della Russia, la totale sconfitta della NATO.
E se
ci fosse una guerra nel Vicino Oriente?
Ogni piano mostra che gli Stati Uniti stanno
perdendo.
E se ci fosse una guerra nel Mar Cinese
Meridionale?
Ogni
piano militare che è stato annunciato mostra che la marina degli Stati Uniti è
stata spazzata via nella prima ora.
Perderà.
Ricordo
che durante la guerra del Vietnam, quando lavoravo con “Herman Kahn” all'”Hudson
Institute”, ci incontravamo con i principali generali che stavano pianificando
la guerra del Vietnam.
E
cenavo con loro, e sembravano guidare una marcia per la pace.
"Non possiamo vincere, questo è
terribile, non c'è modo di vincere per uscirne".
Sapevano
che stavano perdendo, erano i politici che avevano scavalcato l'esercito che
aveva questa illusione di dominio mondiale.
Stai
avendo la stessa cosa oggi.
L'esercito
sa che gli Stati Uniti perderanno.
Ma i
politici dicevano: "Noi siamo l'America, vinceremo sempre!"
È quasi un fervore religioso quello che si riscontra
da parte del “Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti” e della “CIA”,
lo “Stato profondo”.
Credono
davvero che Dio sia dalla loro parte.
E,
naturalmente, questo è ciò che avevate nel Medioevo.
C'era
che ogni paese pensasse che Dio fosse dalla sua parte.
E questa non è la stessa cosa della strategia militare, elaborare un piano di gioco.
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