Condannare la violenza da parte di chi cerca di difendere il proprio popolo.

Condannare la violenza da parte di chi cerca di difendere il proprio popolo.

 

 

Attacco Ospedale di Gaza:

 Centinaia di Morti e Scambio

 di Accuse Hamas-Israele.

Conoscenzealconfine.it – (19 Ottobre 2023) - Anna Maria Stanca – ci dice:

 

Un razzo o un missile colpisce l’ospedale battista al-Ahli Arabi a Gaza, provocando centinaia di morti, circa 500, e un numero imprecisato di feriti. L’esplosione avviene attorno alle 19 locali del 17 ottobre 2023, alla fine dell’ennesima giornata di tensione.

Le autorità di Gaza e Hamas accusano Israele per il massacro di civili:

 nell’ospedale erano stati accolti molti residenti di Gaza costretti a lasciare le proprie case.

Israele prima annuncia verifiche, poi replica: l’ospedale è stato colpito da un razzo lanciato dalla Jihad islamica.

Accuse a Israele e agli Stati Uniti.

Il presidente dell’Autorità palestinese “Mahmoud Abbas” dichiara tre giorni di lutto per il “massacro dell’ospedale” e annuncia che non incontrerà il presidente degli Stati Uniti “Joe Biden” a Amman, in Giordania, nel meeting programmato il 18 ottobre.

Proclamiamo “tre giorni di lutto e bandiere a mezz’asta per i martiri del massacro all’ospedale Battista e tutti i martiri del popolo”, dice “Abbas”.

“Il massacro dell’ospedale al-Ahli non ha precedenti nella nostra storia. Negli ultimi anni e in questi giorni abbiamo assistito a tragedie, ma quello che è accaduto stasera somiglia a un genocidio”, dice “Mahmoud Basal”, portavoce del ministero della “Difesa palestinese”, accusando Israele, contro cui puntano il dito anche Egitto e Giordania.

“Hamas” prende posizione attraverso le parole del leader “Ismail Haniyeh”, che definisce gli Stati Uniti responsabili per l’attacco all’ospedale.

“Gli Stati Uniti sono responsabili dell’attacco all’ospedale per la copertura che garantiscono all’aggressione israeliana”, dice “Haniyeh” condannando la “brutalità” di Israele.

Più tardi, interviene “Osama Hamdan”, portavoce dell’organizzazione:

 “Credo che questo crimine non si sarebbe verificato se non ci fosse stato il semaforo verde degli Stati Uniti.

Tutti sanno che il segretario di Stato americano “Antony Blinken” ha passato la serata di lunedì con il gabinetto di guerra israeliano – più di 5 ore.

 E nella regione tutti stanno aspettando il presidente Biden.

 È chiaro che stanno preparando il terreno per dire a chiunque che sono stati effettuati tutti i passi per evacuare Gaza: questo non avverrà.

Credo che i palestinesi non se ne andranno, credo che i paesi arabi non lo accetteranno.

 Stiamo assistendo ad un crimine di guerra commesso non solo dagli israeliani ma anche dagli americani “.

Israele: “Ospedale Colpito da Razzo della Jihad”

Israele inizialmente reagisce alle accuse con un atteggiamento ‘attendista’ e dalle forze armate filtra un messaggio prudente:

“Verificheremo, ma Hamas ci ha abituato alle fake news”.

Passano le ore e la posizione israeliana diventa sempre più netta.

“Tutto il mondo deve saperlo: i barbari terroristi a Gaza hanno attaccato l’ospedale, non le forze armate israeliane. Chi ha ucciso con crudeltà i nostri bambini ha ucciso anche i propri bambini”, dice il premier israeliano “Benyamin Netanyahu”.

“Un ospedale è un edificio altamente sensibile e non è un obiettivo delle Forze di difesa israeliane (Idf).

L’Idf sta indagando sulla fonte dell’esplosione e, come sempre, dà la priorità, all’accuratezza e l’affidabilità.

Esortiamo tutti a procedere con cautela nel riferire affermazioni non verificate di una organizzazione terroristica “, dice un portavoce dell’esercito israeliano all’emittente britannica Bbc.

Poco dopo, una nuova comunicazione delle Idf:

 “Sulla base di informazione di intelligence, un lancio fallito di un razzo da parte della Jihad islamica ha provocato l’esplosione mortale all’ospedale”, affermano le forze armate.

“Da un’analisi compiuta con i sistemi operativi dell’Idf e sulla base delle informazioni di intelligence fornite da diverse fonti, la Jihad islamica è responsabile del lancio fallito che ha centrato l’ospedale “.

Il colonnello “Jonathan Conricus”, uno dei portavoce delle forze armate, afferma che Israele è certo al 100% che l’ospedale non sia stato colpito da un loro missile:

“Certo come può esserlo chiunque in una guerra con milioni di pezzi di informazioni che svolazzano.

 Dopo un’analisi approfondita, posso dire che questa è l’informazione che abbiamo ora e siamo fiduciosi: secondo l’informazione, si è trattato di un lancio fallito dalla Jihad”, ribadisce.

A chiosare, le parole di “Mark Regev”, un consigliere del premier Netanyahu:

“Ci sono stati colloqui tra la parte israeliana e la parte americana. Abbiamo condiviso con gli americani le informazioni che abbiamo”.

(Anna Maria Stanca)

(internationalwebpost.org/contents/ATTACCO_OSPEDALE_GAZA,_CENTINAIA_DI_MORTI:SCAMBIO_DI_ACCUSE_HAMAS-ISRAELE_32126.html)

 

 

 

Il potere che soffoca.

Billy Budd come metafora

Magazine.cisp.unipi.it – (25 Giugno 2020) – Tommaso Greco – ci dice:

 

Il bavaglio di Billy.

 

In quella “legal obsession” che è il “Billy Budd” di “Herman Melville”, la scena clou è quella in cui il protagonista, accusato ingiustamente e del tutto falsamente di aver ordito un ammutinamento della nave sulla quale è in servizio, non riesce a trovare le parole per difendersi, a causa dell’unico difetto che impoverisce la sua imponente figura di bellezza: quando è sotto pressione la parola gli si blocca e comincia a balbettare.

Nel momento in cui il perfido maestro d’armi “John Claggart” lo accusa davanti al capitano “Vere”, Billy Budd rimane «impalato e imbavagliato».

Appare come «una vestale condannata nel momento in cui sta per essere sepolta viva, e lotta contro i primi sintomi di soffocazione».

Sta soffocando a tal punto, il buono ma forte Billy, che quando il Capitano, rendendosi conto delle difficoltà del suo marinaio, gli dice di fare «con calma», per lui non c’è modo di ritrovare la parola.

Tutti gli sforzi sono vani, e “Melville” non nasconde nulla della drammaticità della scena: la paralisi conferiva al volto del marinaio «un’espressione che pareva quella di un crocifisso».

Se si ricostruisce il filo del racconto, dal momento in cui Billy viene costretto ad abbandonare la nave mercantile sulla quale viaggiava fino al punto in cui il «bel marinaio» perde la voce davanti al suo accusatore, e peraltro senza nessun avvocato che lo possa difendere, non è difficile ricondurre la vicenda sotto il segno di un potere che cerca di dominare l’elemento che gli è estraneo.

 La scena in cui il protagonista del racconto lascia la sua prima nave è significativa: il suo saluto al veliero — «And good-bye to you too, old Rights-of-Man» — apparirà presto come un saluto a quei Diritti di cui la nave porta il nome (e come tale quel saluto viene riportato nel film di “Peter Ustinov” del 1962, nel quale Billy grida semplicemente «Addio, Diritti dell’uomo!»).

 

Sembra, ed è, una profezia di tutto ciò che avverrà di lì in avanti. Ambientata in un’epoca di conflitti – esterni: tra l’Inghilterra e la Francia rivoluzionaria, ed interni: tra il governo e i suoi coscritti -, la storia ci appare come metafora di un potere che per evitare «la rivolta sfrenata e indomabile» degli ammutinati non può rischiare di aver a che fare con soggetti che per loro natura mostrano di non poter essere ‘dominati’.

Tale appare in effetti Billy Budd:

quella «specie di barbaro onesto, molto simile forse ad Adamo», dotato di «virtù primitive» che sembrano in contrasto con l’abitudine e la convenzione, non può lasciare tranquillo il potere incarnato da Claggart.

 Troppo innocente, troppo trasparente, troppo buono, persino troppo remissivo, Billy Budd, per non insospettire un potere che vive di sospetto e nel sospetto, un potere dallo «sguardo vigile e autoritario» e che è abituato a «stare a spade sguainate dietro agli uomini che manovravano i cannoni».

 Un potere che addirittura è abituato a seminare «piccole trappole» al fine di generare quel sentimento di preoccupata agitazione che è (o dovrebbe essere, negli intenti) votato a produrre un’obbedienza passiva.

Un potere, infine, che non disdegna le «irregolarità legittimate» pur di raggiungere i suoi scopi: ha infatti l’abitudine di mettere al suo servizio persone di «dubbia condotta», arruolandole con «procedura sommaria», e facendo in modo che una volta arruolate si sentano «in un santuario, come i trasgressori del Medio Evo che si rifugiavano all’ombra dell’altare».

La violenza degli imbavagliatori.

A cosa ci serve ricordare oggi Billy Budd?

È molto semplice: a capire – e denunciare – la natura di un potere che ti ordina di parlare mentre ti toglie il respiro.

 Appare troppo facile, troppo immediato, troppo giusto il riferimento a “George Floyd “e al suo grido strozzato?

“I can’t breathe” non è forse il grido di un inerme su cui il potere incombe con tutto il suo peso?

Non è il grido di un soggetto a cui il potere, letteralmente, toglie il respiro sentendosi nel pieno diritto di farlo?

Non sorprende che un potere che appare così assurdamente incontrollato scateni risposte del tutto incontrollate:

come è quella di “Billy Budd”, che con un pugno «fulmineo come la fiammata di un cannone che spara nella notte» uccide il maestro d’armi che lo accusa;

come è quella di una comunità di uomini e donne, che a causa del colore della loro pelle si sentono continuamente osservati e accusati, e che reagiscono violentemente contro un sistema che li considera sostanzialmente ‘estranei’ da assoggettare.

 A volte questo atteggiamento ha assunto persino forme istituzionali:

basti pensare al sistema sudafricano dell’apartheid, lucidamente denunciato in quel toccante discorso in tribunale pronunciato da “Nelson Mandela” nell’ottobre del 1962;

 a volte, più frequentemente, esso si manifesta in episodi singoli che, ahi noi, non sono isolati come possono sembrare, e soprattutto rivelano un atteggiamento, una inclinazione, una mentalità.

Non si può disquisire perciò sulla dismisura delle reazioni – che certamente può esserci stata – se non si ragiona a mente lucida sulla dismisura delle cause che le generano.

Perché qui siamo oltre il tema weberiano dell’uso legittimo della forza; qui abbiamo a che fare con un potere che è (o quanto meno, viene percepito, e spesso a ragione) come ciò che eccede ogni sua legittima prerogativa e che ha l’ossessione del controllo di coloro che percepisce come soggetti non da custodire e proteggere, ma da ‘contenere’, controllare, ‘costringere’.

Solo questo, infatti, dà sicurezza al potere: che tutti siano dominabili, soprattutto coloro che non appaiono tali.

Il nome del potere.

Il “potere che soffoca” e la violenza dei soffocati sono dunque due facce di una stessa medaglia.

Una medaglia che vorremmo sotterrare per sempre, ma che non saremo in grado di mettere da parte fino a quando saremo convinti che il potere, e il diritto che ne è espressione, possano coincidere con la mera possibilità di farsi valere, con la mera capacità di imporre il volere di chi comanda, con la bruta forza di cui il ‘sovrano’ è detentore.

Non è, questa, una convinzione che appartiene ai soli potenti, a coloro che sono al vertice della gerarchia politica e sociale;

anzi, essa è radicata proprio nella mente dei ‘dominati’, che in questo modo credono (sbagliando) di esorcizzare la natura del potere.

E invece, se si dà ragione a “Trasimaco” pensando che «la giustizia è l’utile del più forte» non si sta facendo alcuna operazione di svelamento della vera natura del potere, non si sta “educando il popolo” come pensano gli autori realisti, ma si sta solo dando (nostro malgrado) una copertura ad un’operazione che tornerà sempre e comunque a vantaggio del potere e dei suoi detentori.

Poiché non si esce dal cerchio del potere se non nelle utopie di una impossibile società senza potere, occorre definire con precisione in cosa esso consista, ben consapevoli che ogni definizione è una legittimazione:

 come per tutto ciò che ha a che fare con lo studio della politica e del diritto, non ci sono infatti definizioni ‘innocenti’.

 Si potrà dire allora che il potere non coincide con la forza e con la violenza, e che ogni suo esercizio arbitrario non è potere ma forza e violenza?

Il potere, così come il diritto, sono funzioni sociali, sono necessari ad una società che si organizza e che deve coordinare le relazioni tra i soggetti.

 Ad entrambi è quindi intrinseca una dimensione relazionale che passa dal riconoscimento dei soggetti che vi sono coinvolti.

 Più questa dimensione è dimenticata e occultata, più il potere e il diritto si spostano verso il puro dominio: diventano mero esercizio di forza.

Così come non è possibile pensare ad un diritto che si regga sul solo funzionamento delle carceri e delle strutture sanzionatorie, allo stesso modo non è possibile pensare ad un potere che si regga sul mero dominio esercitato con strumenti (più o meno violenti, più o meno visibili) di controllo.

Il potere deve essere legittimo, come ci ha insegnato “Max Weber”, di cui si è appena ricordato il centenario della morte;

e non a caso esso cerca sempre il riconoscimento dei suoi sottoposti.

 Proprio nel momento in cui condanna” Billy Budd”, il potere che lo sta mandando a morte vuole ottenerne l’accettazione:

 «se egli conoscesse i nostri cuori — dice il capitano “Vere” — lo ritengo così generoso da aver simpatia perfino per noi, che il dovere militare costringe così duramente».

Vuole la comprensione di “George Floyd”, il poliziotto che gli tiene il ginocchio sul collo;

vuole persino essere compatito per il duro compito che egli sta svolgendo.

Ma se l’incubo del potere è sempre il «preferirei di no!» di Bartleby lo scrivano, l’altro indimenticabile protagonista di un racconto melvilliano, allora c’è un solo modo per ottenere questo riconoscimento:

 far sì che tutti possano far sentire la propria voce, e che le proprie ragioni possano giungere là dove si prendono le decisioni.

Quando questo non avviene, diceva “Guido Calogero”, si ha il dovere di disubbidire:

 «certamente non si deve obbedire in tutti i casi in cui un’autorità presenti il proprio comando come assoluto e incondizionato», scriveva il filosofo del dialogo; e questo perché «nessun ordinamento di diritto può essere seriamente stabilito da un’autorità, che pretenda essa medesima di sottrarsi a ogni norma di diritto».

La domanda è antica, ed è sempre la stessa: cosa si deve fare quando il potere si trasforma in bruta violenza?

Quando, come “Mandela” e il suo popolo, ci si trova davanti «all’assoluta mancanza da parte del governo di attenzione e considerazione» che cosa rimane da fare?

Anche la risposta sembra dover essere la stessa, ed è quella del leader sudafricano: «a tale dilemma gli uomini onesti, gli uomini determinati, gli uomini di pubblica moralità e coscienza possono dare una sola risposta. Devono seguire i dettami della coscienza, indipendentemente dalle conseguenze che, per questo, potranno subire».

 Perché è chiaro che non possiamo dare il nostro riconoscimento a un potere che si trasforma in violenza; e questo nostro riconoscimento viene meno a cominciare dal nome che gli diamo.

Un potere che soffoca è violenza e non può generare altro che violenza.

(Tommaso Greco è Professore ordinario di Filosofia del diritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa).

 

 

 

 

La nuova “Mappa dell’Intolleranza”:

riflessioni sull’odio online.

 Magazine.cisp.unipi.it - (1° Marzo 2023) - Cecilia Siccardi – ci dice:

 

 La Mappa dell’Intolleranza: il progetto.

Come ogni anno, “Vox-Diritt”i ha pubblicato i risultati del progetto “La Mappa dell’Intolleranza”, ormai alla settima edizione.

Come abbiamo già avuto modo di raccontare l’anno passato, la Mappa dell’Intolleranza è un progetto volto a monitorare la diffusione dell’odio sui social network, in collaborazione con quattro Università (Università degli Studi di Milano, l’Università Aldo Moro di Bari, l’Università Sapienza di Roma, Università Cattolica di Milano).

Un software, sviluppato dall’Università di Bari, estrapola da “twitter” le parole discriminatorie contro donne, persone con disabilità, le persone omosessuali, straniere, di religione islamica, di religione ebraica, consentendo di monitorare la diffusione dell’odio on line.

Grazie alla geo-localizzazione dei tweet sono state create delle mappe “termografiche” della penisola che individuano le zone di Italia dove l’odio è più diffuso.

I risultati.

Il 17 gennaio 2023 sono stati presentati, in presenza, all’Università degli Studi di Milano, i risultati della settimana edizione del progetto.

Dei 629.151 tweet raccolti, da gennaio a ottobre 2022, il 93% circa è risultato discriminatorio.

 La percentuale di “tweet negativi” è aumentata rispetto all’anno passato, dimostrando una significativa radicalizzazione dell’”odio on line”.

Questo incremento è probabilmente dovuto ai gravi eventi che hanno segnato il 2022, come l’invasione dell’Ucraina, la crisi energetica, l’inflazione, ma anche al dibattito innescato dalle ultime elezioni politiche.

I risultati di questa edizione confermano alcune evidenze degli anni passati e mostrano alcune novità.

La distribuzione geografica dell’odio sembra analoga a quella delle edizioni precedenti.

 Si odia in particolare nelle città, come Roma e Milano.

Ancora, come negli anni passati, l’odio online si scatena in concomitanza con alcuni avvenimenti riportati dalle cronache nazionali.

Ad esempio, l’odio contro i migranti si incendia al momento degli sbarchi, quello contro le persone omossessuali in concomitanza con notizie di aggressioni omofobe.

 Tra questi “picchi” di odio online, quello che più caratterizza l’edizione del 2022 è la nomina di Giorgia Meloni alla Presidenza del Consiglio.

 La nomina della prima donna Presidente del Consiglio della storia della Repubblica non ha comportato una maggior attenzione alla parità di genere sui social network, ma anzi ha costituito un momento di forte diffusione di misoginia sui social.

Sarebbe interessante comprendere come abbia impattato sul linguaggio del web la scelta della Presidente di farsi chiamare “il Presidente”.

Un’altra analogia rispetto agli anni passati riguarda la correlazione tra parole d’odio e violenza.

Soprattutto osservando i dati relativi ai “tweet misogini” emerge un’inquietante correlazione tra parole e violenza di genere.

Negli stessi mesi in cui si è registrato un incremento della misoginia sul web, sono stati compiuti diversi femminicidi.

 

 

 

 

Fede&giustizia

Esiste la guerra giusta? La Chiesa

di fronte a una domanda ancora cruciale

aggiornamentisociali.it - Christian MELLON – (10 febbraio 2023) – ci dice:

 

Basandosi su un’interpretazione letterale del comandamento biblico “Non uccidere” e soprattutto di alcuni testi evangelici, come l’invito a porgere l’altra guancia o ad amare i nemici (Matteo 5,38-48), i pensatori cristiani hanno sostenuto in varie epoche che un discepolo di Gesù non può attentare alla vita di una persona, neanche di un nemico, in nessun caso, anche se fosse solo per difendersi.

Questa posizione è stata maggioritaria fino al III secolo, per poi divenire minoritaria fino al suo ritorno in auge nel XX secolo.

A partire dalla riflessione sull’esperienza della Seconda guerra mondiale e delle guerre di liberazione, i sostenitori di questa tesi si sono resi conto che è inutile condannare la violenza senza offrire alternative credibili alle sfide poste dagli atti di aggressione o dalle situazioni di ingiustizia strutturale.

Scostandosi da una lettura fondamentalista (ideologica) del Discorso della montagna e richiamandosi alle lotte di Gandhi, Martin Luther King e altri, questi cristiani preferiscono allora parlare di nonviolenza invece che di pacifismo.

 

L’apertura alla resistenza non violenta.

Nella costituzione pastorale “Gaudium et spes” del 1965, il concilio Vaticano II, prendendo atto di questo cambiamento di prospettiva, ha incoraggiato «coloro che, rinunciando alla violenza nella rivendicazione dei loro diritti, ricorrono a quei mezzi di difesa che sono, del resto, alla portata anche dei più deboli, purché ciò si possa fare senza pregiudizio dei diritti e dei doveri degli altri o della comunità» (GS, n. 78), utilizzando una formula contorta per evitare la parola nonviolenza.

 Il termine, tuttavia, appare nel 1971 nel documento sinodale La giustizia nel mondo:

«È assolutamente necessario che i conflitti tra le nazioni non siano risolti attraverso la guerra, ma siano trovate per essi altre soluzioni che siano conformi alla natura umana. Deve essere, inoltre, favorita la strategia della non violenza» (Sinodo dei vescovi 1971, n. 1296).

«Qualcuno potrà dirvi che la scelta della non violenza non è in definitiva altro che una passiva accettazione di situazioni d’ingiustizia.

 Potrà sostenere che è da vili non usare violenza contro ciò che è ingiusto, o rifiutare di difendere con violenza gli oppressi.

Ma nulla potrebbe essere più lontano dalla verità.

Non vi è nulla di passivo nella non violenza, quando è una scelta dettata dall’amore.

 Non ha nulla a che vedere con l’indifferenza».

Giovanni Paolo II, Discorso ai giovani, Maseru (Lesotho), 15 settembre 1988.

 

L’”istruzione Libertà cristiana e liberazione”, pubblicata nel 1986 dalla “Congregazione per la Dottrina della fede”, conferma questa posizione, anche se utilizza l’espressione meno appropriata di «resistenza passiva» per designare la resistenza nonviolenta.

Negli anni ’70 e ’80, molti cristiani in America latina, incoraggiati da diversi vescovi, in particolare don” Helder Camara”, vi hanno fatto ricorso per difendere i diritti umani violati dalle dittature militari.

Nel febbraio 1986, i vescovi delle Filippine hanno sostenuto e organizzato una protesta nonviolenta a Manila per far cadere il regime del dittatore Marcos.

 In varie occasioni, Giovanni Paolo II l’ha elogiata, sottolineandone le radici bibliche [sull’argomento cfr Valpiana 2022, N.d.R.]).

 

Quando si può parlare di una guerra giusta?

Ma che dire della resistenza attraverso le armi?

 La dottrina della guerra giusta, sostenuta già da Aristotele e Cicerone e sviluppata da autori cristiani come Agostino, Tommaso d’Aquino, Francisco de Vitoria, consiste in una serie di criteri per giudicare quando è moralmente lecito ricorrere alle armi (jus ad bellum) e quali limiti devono essere rispettati nel loro impiego (jus in bello).

Queste riflessioni hanno contribuito all’elaborazione del diritto internazionale della guerra.

Tuttavia, per i moralisti cattolici, la conformità di una decisione al diritto internazionale, pur essendo molto importante, non è dirimente:

può verificarsi che una decisione presa da un potere legittimo in conformità al diritto non sia moralmente giusta e, viceversa, che possa essere giudicato legittimo un ricorso alle armi non permesso sul piano giuridico.

 Per la Chiesa vanno tenute in conto altre condizioni, che devono essere tutte soddisfatte.

Prima di tutto, la giusta causa.

L’unica oggi accettata è la legittima difesa: «una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa» (GS, n. 79).

La Chiesa riconosce anche che un popolo possa legittimamente ricorrere alle armi per liberarsi dal potere di un tiranno che lo opprime.

Questo caso è stato evocato nell’enciclica Popolorum progressio del 1967 da Paolo VI, ma come eccezione alla condanna dell’insurrezione rivoluzionaria:

 «salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del Paese» (PP, n. 31).

I conflitti armati degli anni ’90 hanno condotto le autorità ecclesiastiche a porsi nuove domande sulla nozione di legittima difesa:

 si tratta solo dell’autodifesa o anche della difesa di un terzo che è stato ingiustamente attaccato?

Su questo tema fortemente dibattuto, conosciuto come dovere di ingerenza, poi ribattezzato responsabilità di proteggere dall’ONU [cfr Christiansen 2022, N.d.R.], Giovanni Paolo II ha preso una posizione chiara.

Nel 1993, in riferimento al conflitto bosniaco, ha affermato:

«Una volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici, i processi previsti dalle convenzioni e dalle organizzazioni internazionali sono stati attuati, e nonostante ciò le popolazioni stanno soccombendo sotto i colpi di un aggressore ingiusto, gli Stati non hanno più il “diritto all’indifferenza”.

Sembra che il loro dovere sia quello di disarmare l’aggressore, se tutti gli altri mezzi si sono dimostrati inefficaci.

 I principi di sovranità degli Stati e di non ingerenza nei loro affari interni – che sono ancora di grande valore – non possono essere usati come paravento dietro cui è possibile torturare e uccidere» (Giovanni Paolo II 1993, n. 13).

L’espressione «disarmare l’aggressore» pone un limite rigoroso: non appena l’aggressore è disarmato (e quindi non può più nuocere), non è più giustificata la prosecuzione dell’azione militare, per perseguire ulteriori obiettivi, come la caduta di un regime totalitario, l’acquisizione di territori o risorse, l’estensione di un’area di influenza, ecc.

Questo criterio della retta intenzione, raramente invocato, è difficile da verificare e da rispettare.

La guerra scatenata nel 2003 dall’amministrazione Bush contro l’Iraq ha fornito l’occasione per chiarire un altro limite del principio di autodifesa: esso non può legittimare una guerra preventiva.

Un altro criterio importante è quello dell’ultimo ricorso: nessun uso delle armi è legittimo se esiste un altro mezzo non letale per disarmare l’aggressore.

Ma come possiamo essere sicuri che tutte le possibilità di una soluzione pacifica siano state esaurite?

I criteri della proporzionalità e della speranza di successo.

Un ulteriore elemento è dato dalla nozione di proporzionalità:

il rimedio non deve essere peggiore del male.

Può accadere, come ha affermato Pio XII (1953), che si abbia «l’obbligo di subire l’ingiustizia».

Vi ha fatto riferimento anche Giovanni Paolo II nel discorso agli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede a proposito della prima guerra del Golfo (1990-1991).

Dopo aver sottolineato che le operazioni militari sarebbero state «particolarmente sanguinose, senza contare le conseguenze ecologiche, politiche, economiche e strategiche», ha ricordato che «il ricorso alla forza per una giusta causa non sarebbe ammissibile che se questo ricorso fosse proporzionale al risultato che si vuole ottenere, e se si pesassero le conseguenze che azioni militari, rese sempre più devastatrici dalla tecnologia moderna, avrebbero per la sopravvivenza delle popolazioni e dello stesso pianeta» (Giovanni Paolo II 1991, n. 8).

Questo principio svolge un ruolo essenziale nella condanna di qualsiasi uso di armi di distruzione di massa, anche per la legittima difesa.

 

Il criterio dell’autorità legittima mira a proibire le guerre private:

la decisione di ricorrere alle armi compete solo a coloro che detengono la legittima autorità, in quanto garanti del bene comune.

 La Gaudium et spes riconosce il diritto della legittima difesa ai Governi, ma il Concilio specifica subito che questo vale finché «non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci» (GS, n. 79).

 L’ONU può essere identificata, nel suo stato attuale, con questa autorità pubblica con una competenza universale?

È proprio l’aggiramento delle Nazioni Unite da parte dell’amministrazione Bush nel 2003, in occasione della seconda guerra del Golfo, che ha condotto Giovanni Paolo II a condannare l’iniziativa statunitense.

Infine, la speranza di successo:

la decisione di ricorrere alle armi è moralmente giusta solo se ci sono serie ragioni per ritenere che porterà al disarmo dell’aggressore.

I testi contemporanei della Chiesa non menzionano quasi più questo principio di saggezza, ma un documento pubblicato nel 2000 dalla Conferenza episcopale francese vi fa riferimento per confutare l’idea che gli interventi stranieri siano immorali perché mirano a salvare alcuni e non altri (l’argomento del doppio standard: salviamo i kosovari, ma abbandoniamo i tibetani al loro oppressore):

«La valutazione etica deve tenere conto del “prevedibile successo” delle operazioni. Questo non è cinismo.

 Il vecchio adagio secondo cui nessuno è tenuto a fare l’impossibile non è solo Realpolitik, ma anche un principio etico.

 Disprezzarlo significherebbe promuovere un’idea pericolosa:

si dovrebbe sempre fare qualcosa “per principio”, anche nei casi in cui il rapporto tra le forze suggerisce che non c’è alcuna possibilità di sottrarre le vittime ai loro aguzzini con la forza armata» (Justice et Paix France 2000).

La distinzione tra atti e crimini di guerra.

Una volta giustificato il principio dell’intervento armato resta da delimitare ciò che è consentito o meno quando si ricorre alle armi (jus in bello).

L’intero sviluppo del diritto internazionale della guerra si basa sulla differenza tra atti e crimini di guerra.

Questa riflessione incorpora soprattutto il principio di discriminazione, cioè di distinzione, tra combattenti e non combattenti, per evitare che vi siano vittime “non necessarie”.

Tale principio è presente nei regolamenti delle forze armate di quasi tutti gli Stati moderni ed è al centro delle riflessioni contemporanee sull’etica della guerra, di matrice religiosa e non.

La sua base è semplice:

 se si accetta che il rispetto di ogni vita umana è un requisito fondamentale di ogni etica, allora si deve ammettere il minor numero possibile di eccezioni.

Pertanto, è possibile colpire in modo intenzionale solo gli autori dell’aggressione, del genocidio, del massacro o pulizia etnica che si vuol far cessare.

Tutti gli altri sono innocenti nel senso etimologico del termine: non nuocciono, perché non hanno alcun ruolo nell’aggressione da fermare.

Questo principio è invocato molto spesso nei testi della Chiesa, specie nella “Gaudium et spes”.

 Per il Concilio questo limite è imperativo.

Se per difendersi vengono commessi atti che danneggiano deliberatamente non combattenti, non si tratta più di atti di guerra ma di crimini di guerra.

Il rifiuto di obbedire diventa allora un dovere morale:

 «Deve essere sostenuto il coraggio di coloro che non temono di opporsi apertamente a quelli che ordinano tali misfatti» (GS, n. 79).

 La Chiesa fa proprio così il principio di Norimberga:

quando un esecutore riceve l’ordine di compiere atti criminali, non può sottrarsi alla propria responsabilità con il pretesto di aver semplicemente obbedito agli ordini di un superiore.

Ciò vale in primo luogo per la strategia definita “anti-città”, che il Concilio condanna con particolare solennità:

 «Ogni atto di guerra, che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e va condannato con fermezza e senza esitazione» (GS, n. 80).

 Questa valutazione si riferisce anche al passato, alla morte dei civili a Dresda, Amburgo o Tokyo, nonché a Hiroshima e Nagasaki.

Il rispetto di questo principio di discriminazione non è scontato oggigiorno, visto che i conflitti armati spesso contrappongono eserciti regolari a guerriglieri o milizie, e i combattenti non sono facilmente distinguibili dalle popolazioni non combattenti.

Inoltre, la potenza militare di un Paese dipende, molto più che in passato, da molteplici fattori che si intrecciano con l’attività civile ordinaria: ricerca, comunicazioni, capacità produttiva, ecc.

Queste evoluzioni, che rendono il confine tra combattenti e non combattenti meno chiaro che in passato, non possono essere ignorate dal giudizio morale:

tuttavia non è che questo confine non esista più per il fatto di essere diventato più labile.

 

«Una mentalità completamente nuova».

Quanto fin qui abbiamo visto mostra che il magistero contemporaneo considera ancora attuale l’apparato concettuale sviluppato nel corso dei secoli a proposito della guerra giusta, almeno fino all’avvento di papa Francesco.

 Ci si può quindi interrogare sul significato della formula conciliare che invita a «considerare l’argomento della guerra con mentalità completamente nuova» (GS, n. 80).

In che cosa consiste la novità?

In realtà, ciò che sembra «completamente nuovo» è che la Chiesa, senza abbandonare i suoi vecchi criteri, ora ne propone un’applicazione così rigorosa che i casi in cui il ricorso alle armi li soddisfa tutti diventano estremamente rari.

 La mentalità nuova consiste quindi nel dare al polo della limitazione la netta preminenza sul polo della legittimazione (che avrebbe dovuto sempre avere):

una coscienza cristiana può legittimare un’attività così contraria al Vangelo solo se sussistono le circostanze del tutto eccezionali definite dal” jus ad bellum”.

Vi è un’altra manifestazione di questa «mentalità completamente nuova»: l’espressione guerra giusta è desueta, quasi scomparsa dal magistero cattolico ufficiale.

Per i Padri conciliari non si tratta più di accontentarsi di umanizzare la guerra, ma di puntare a sradicarla.

 Nella frase in cui riconosce il diritto alla legittima difesa, il Concilio introduce un inciso che può sembrare anodino: «fintantoché esisterà il pericolo della guerra» (GS, n. 79).

Queste parole rifiutano l’idea che la guerra sia così insita nella natura umana da poter essere solo regolamentata.

 Ecco perché l’aggettivo “giusto”, che evoca qualcosa di positivo, non può più essere accostato al sostantivo “guerra”:

 la guerra è un male, a volte un male minore, ma sempre un male.

Quali sono le ragioni di questo cambiamento?

 Innanzitutto, l’avvento, nell’ultimo secolo, della guerra totale, che coinvolge l’intera società e non solo i militari, e che quindi mina i principi di proporzionalità e discriminazione.

Lo sviluppo delle armi di distruzione di massa, in particolare quelle nucleari, ha aumentato notevolmente questa consapevolezza.

La posizione di papa Francesco.

Dall’inizio del pontificato di papa Francesco, questa «mentalità completamente nuova» è stata espressa in modo ancor più chiaro.

In diverse occasioni, il Papa ha condannato il ricorso alle armi come risposta alla violenza.

Nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2017, ad esempio, ha affermato che «rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo.

Nel peggiore dei casi, può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti» (Papa Francesco 2017).

Nel Messaggio Urbi et Orbi per la Pasqua 2021, il Pontefice usa l’aggettivo “scandaloso” in riferimento ai conflitti armati che non cessano e agli arsenali militari che vengono potenziati.

Nell’enciclica Fratelli tutti, affronta la questione della guerra giusta in questi termini:

«oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”» (FT, n. 258).

È una rottura con quanto detto dai suoi predecessori?

 Le parole di papa Francesco vanno soppesate con attenzione:

ritiene «molto difficile» difendere «i criteri razionali», ma non impossibile. L’impiego di un termine di questo tipo equivarrebbe logicamente a dichiarare che non è mai ammissibile l’uso delle armi (anche nel caso di resistenza a un’aggressione armata o di intervento per fermare un genocidio) e che, quindi, la professione militare è incompatibile con l’etica cristiana.

 Il Papa non si spinge così lontano, ma compie un ulteriore passo nell’evoluzione descritta in precedenza:

più è difficile rispettare i «criteri razionali», più rare, o addirittura eccezionali, sono le situazioni che giustificano l’uso della violenza armata.

 

 

Il ministro dell'istruzione:

«Impropria la lettera della

preside di Firenze, nessun pericolo fascista».

Vanityfair.it – (23-2-2023) - CHIARA PIZZIMENTI – ci dice:

 

Valditara interviene sulla lettera aperta che la preside del liceo  “Leonardo da Vinci” ha inviato ai suoi studenti dopo l'aggressione al liceo Michelangiolo.

«Il fascismo è nato sui bordi di un marciapiede», ha scritto “Annalisa Savino”.

Il ministro dell'Istruzione “Giuseppe Valditara” ha commentato alla trasmissione “Mattino 5” la lettera scritta dalla preside del Liceo da Vinci di Firenze agli studenti, dopo l'aggressione avvenuta sabato mattina davanti al liceo Michelangiolo.

 «È una lettera del tutto impropria», ha detto il ministro, «mi è dispiaciuto leggerla, non compete ad una preside lanciare messaggi di questo tipo e il contenuto non ha nulla a che vedere con la realtà:

in Italia non c'è alcuna deriva violenta e autoritaria, non c'è alcun pericolo fascista, difendere le frontiere non ha nulla a che vedere con il nazismo o con il fascismo. Sono iniziative strumentali che esprimono una politicizzazione che auspico che non abbia più posto nelle scuole; se l'atteggiamento dovesse persistere vedremo se sarà necessario prendere misure».

Sempre sulla lettera di” Annalisa Savino” il ministro “Valditara” aggiunge: «Difendere le frontiere e ricordare il proprio passato o l'identità di un popolo non ha nulla a che vedere con il fascismo o, peggio, con il nazismo. Quindi inviterei la preside a riflettere più attentamente sulla storia e sul presente».

La lettera.

In una lettera agli studenti diventata virale la preside Savino aveva scritto:

«Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone.

 È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti.

"Odio gli indifferenti" diceva un grande italiano, Antonio Gramsci, che i fascisti chiusero in carcere fino alla morte, impauriti come conigli dalla forza delle sue idee».

La lettera è stata scritta dopo l'aggressione ad alcuni studenti del liceo Michelangiolo ripresa in alcuni video sabato mattina.

L'aggressione è stata subita dagli studenti del “collettivo Sum” e compiuta da parte di militanti di destra.

La Digos ha identificato i presunti aggressori in sei ragazzi, tre maggiorenni e tre minorenni.

Nei video si vede un ragazzino con sulle spalle lo zainetto di scuola è a terra sull'asfalto preso a calci da una persona.

I militanti di destra avrebbero fatto volantinaggio davanti alla scuola senza autorizzazione e avrebbero avuto una discussione con gli studenti del collettivo di sinistra.

Questa la ricostruzione degli studenti del Consiglio d'istituto:

 «Davanti alla scuola c'erano due ragazzini che volantinavano per Casaggì.

Alcuni studenti sono andati a far loro delle domande.

In tutta risposta hanno preso degli spintoni, ma all'improvviso 5-6 uomini tra i 25 e i 30 anni - fino a quel momento nascosti - sono spuntati fuori e sono partiti con l'aggressione.

 

Una cosa terrificante, un attacco premeditato». Immediato l'intervento del sindaco di Firenze Dario Nardella:

 «Un’aggressione squadrista di questa gravità e davanti ad una scuola è un fatto intollerabile.

Ho parlato al Questore perché venga fatta chiarezza al più presto e vengano individuati i responsabili. Firenze e la scuola non meritano violenze del genere».

 Il coordinamento di Fratelli d'Italia di Firenze «esprime profondo rammarico per gli scontri avvenuti stamani nei pressi del liceo Michelangiolo e condanna ogni forma di violenza da chiunque esercitata.

La politica deve essere strumento di confronto anche aspro e duro ma non può e non deve travalicare mai in scontro fisico e limitazione della libertà di espressione».

 Martedì 21 febbraio c'è stata una manifestazione antifascista a Firenze con almeno 2000 persone in piazza.

Nella lettera contestata dal ministro Valditara la preside del Liceo Da Vinci si rivolge direttamente agli studenti:

«Siate consapevoli che è in momenti come questi che, nella storia, i totalitarismi hanno preso piede e fondato le loro fortune, rovinando quelle di intere generazioni.

 Nei periodi di incertezza, di sfiducia collettiva nelle istituzioni, di sguardo ripiegato dentro al proprio recinto, abbiamo tutti bisogno di avere fiducia nel futuro e di aprirci al mondo, condannando sempre la violenza e la prepotenza.

Chi decanta il valore delle frontiere, chi onora il sangue degli avi in contrapposizione ai diversi, continuando ad alzare muri, va lasciato solo, chiamato con il suo nome, combattuto con le idee e con la cultura.

Senza illudersi che questo disgustoso rigurgito passi da sé.

Lo pensavano anche tanti italiani per bene cento anni fa ma non è andata così».

Intervistata dal Corriere della Sera ha spiegato:

 «Come non avere preoccupazioni in questo momento storico globale per il futuro di tutti noi?

 Il mio voleva essere un messaggio agli studenti affinché non fossero indifferenti a quanto accaduto a Firenze davanti al Liceo Michelangiolo.

 La peggior cosa è pensare che questi episodi non contino niente e che tutto sempre evolva verso più rosei orizzonti.

La violenza politica è un pericolo e va sempre stigmatizzata».

 

 

 

Stupri e femminicidi. Don Patriciello:

“Non lasciamo educare i nostri ragazzi

 da strada o social: sono cattivi maestri .”

difesapopolo.it – (28/08/2023) – Giliola Alfaro -ci dice:

 

Di fronte alle tante violenze che quest’estate vedono vittime giovanissime e donne, il parroco di Caivano invita tutti a fare un esame di coscienza.

Una lunga scia di sangue e di violenza, che vede vittime donne, da molto giovani ad adulte, caratterizza l’estate 2023.

Notizie di stupri di gruppo ai danni di ragazzine poco più che bambine, com’è successo nel “Parco Verde” di Caivano che ha avuto per protagoniste due bambine, due cuginette, da parte di un folto gruppo di giovanissimi, o di una diciannovenne, vittima di 7 ragazzi a Palermo, o di femminicidi, uno degli ultimi si è consumato contro “Anna Scala”, 56 anni, accoltellata alle spalle dal suo ex a Piano di Sorrento.

Di tutto questo orrore parliamo con il parroco della chiesa di San Paolo Apostolo, nel “Parco Verde” di Caivano, “don Maurizio Patriciello”.

Cosa ha pensato quando ha saputo dello stupro subito dalle due cuginette del Parco Verde?

Sono parroco a Caivano, la maggior parte di questi ragazzi li ho battezzati io. Prima dell’indignazione, prima della rabbia, dello sconcerto, viene una sofferenza grandissima e acutissima.

È come all’improvviso quando ti viene un infarto fulminante.

Il quartiere di Parco Verde è già tristemente noto…

È un quartiere nato dopo il terremoto del 1980 e vi hanno ammassato tutte le persone povere che prima abitavano in altre zone.

 Qui lo Stato non è mai stato presente:

togli la chiesa, togli la scuola, i Carabinieri, non c’è altro, non ci sono una farmacia, una fermata dell’autobus, i servizi sociali, non c’è nessuno che si prenda cura delle persone che ci vivono.

Non c’è stata neppure l’attenzione del Comune:

avevamo a pochi passi dalla parrocchia un centro sportivo enorme: è stato vandalizzato, adesso è tutto rotto e sotto sequestro.

Il Comune non si è fatto carico di ripristinarlo.

Adesso non abbiamo neanche il sindaco, ci sono tre commissari straordinari perché l’ultima Amministrazione comunale è stata sciolta per camorra.

Se in un quartiere problematico, a rischio, dove ci sta un commercio della droga tra i più fiorenti di tutta l’Italia, le infrastrutture, luoghi di aggregazione per ragazzi e i servizi sociali non ci sono -e le famiglie sono quello che sono -, la strada e i social, come Facebook e Tik Tok , e la pornografia diventano maestri.

 La domanda che dobbiamo porci è questa:

chi ha educato questi ragazzini all’amore, al sentimento, anche alla sessualità? Non li ha educati nessuno.

 Li ha educati la pornografia!

Ma questi temi non si toccano mai, sono un tabù.

Perché succede questo?

Gli adulti hanno abdicato alla fatica dell’educazione perché educare, diceva San Giovanni Bosco, è cosa del cuore e quando non c’è la passione di educare la persona amata – questo succede con i genitori, con la scuola, anche con la chiesa – la strada fa da maestra, fa crescere molto in fretta ma anche in un modo distorto.

Al Parco Verde abbiamo due bambine che sono vittime, su questo non ci sono dubbi, ma i maschietti, che sono i carnefici, sono vittime anche loro:

il trauma che hanno avuto le bambine sarà il trauma che si portano dentro questi maschietti, anche se cercano di camuffarlo con il maschilismo.

Dobbiamo aiutare i ragazzi a capire che essere educati e dolci, rispettare l’altro, essere solidali non è un segno di debolezza, è un segno di forza.

 Ma abbiamo mai provato a insegnarglielo?

Sia gli stupri sia i sempre più numerosi femminicidi non indicano un profondo disprezzo della donna?

Sì,

alla base c’è sempre questo disprezzo della donna che deve essere ridotta a un oggetto.

Non siamo mai migliorati da questo punto di vista anche se abbiamo fatto finta di superare il maschilismo: in realtà ce lo portiamo ancora dentro il nostro Dna.

Ne dobbiamo fare di strada ancora: dobbiamo insistere, insistere, insistere sempre.

Come si possono difendere le donne da questa violenza? L’abbiamo visto anche nel femminicidio di “Anna Scala”:

 la donna aveva denunciato il suo ex ben due volte per le violenze subite, ma le denunce sono state addirittura scatenanti di una violenza peggiore, cieca e assassina, da parte del suo carnefice…

Nella mia vita di prete ho invitato decine di donne ad andare a denunciare le violenze subite.

 Tante volte le ho accompagnate io stesso a fare denuncia.

 Quando ho letto che “Anna” ha denunciato una volta, poi una seconda volta e non è stata in qualche modo protetta, mi sono chiesto se dovesse venire da me una donna a dirmi: ‘Padre, mio marito mi picchia’, avrò il coraggio di dirle: ‘Corri subito in caserma?’.

O, piuttosto, sarò preso dal terrore di condannare a morte questa donna, se dopo la denuncia non si mette in moto la catena che dovrebbe difenderla?

È terribile da dirsi, ma se non si prendono immediati provvedimenti dopo una denuncia, consigliare una donna di denunciare equivale a condannarla a morte.

Questo è il problema, è inutile girarci intorno.

Possiamo fare tutte le manifestazioni che vogliamo, possiamo esporre scarpe rosse, possiamo installare panchine rosse, ma tutto lascia il tempo che trova.

 Se la denuncia, alla fine, serve solo a istigare di più la persona violenta, piuttosto che a fermarla, a bloccarla, mi domando davanti a Dio, essendo un prete, se non condanno la donna cui consiglio di denunciare.

 Io ho lavorato in ospedale per tanti anni. I

l Pronto soccorso è molto importante:

se arriva un ammalato la prima cosa che fai cerchi di tamponare la ferita ma poi alle spalle devi avere il reparto adatto dove ricoverare l’ammalato e dove possa ricevere le cure del caso.

Dopo la denuncia che io paragono a un Pronto soccorso se non si mettono in moto tutti i meccanismi per mettere al sicuro la donna e isolare il delinquente che la sta minacciando e le sta usando violenza allora corriamo dei rischi troppo grossi.

Poi parliamo degli stupri da parte dei ragazzi.

Ma domandiamoci: che esempio abbiamo dato?

Chi è che ha ammazzato 76 donne in questi primi 8 mesi dell’anno?

 Sono stati gli adulti.

C’è un fil rouge che lega tutto?

Sono convinto che gli stupri di questi ragazzini e i femminicidi vanno studiati e osservati insieme.

E poi mi chiedo: chi c’è dietro a queste 76 donne – mamme, figlie, sorelle, amiche – che sono morte per mano violenta di un uomo?

 Se loro sono 76, ce ne sono almeno 760 persone che stanno soffrendo.

 I ragazzi cosa hanno appreso dai social, da Facebook, dalla televisione?

Che c’è stato un uomo di poco più di 50 anni che ha accoltellato vigliaccamente la sua donna alle spalle?

 Cosa devono imparare questi ragazzi?

Se aggiungiamo che l’educazione sentimentale e sessuale viene fatta dalla pornografia e dai social, come dicevo prima, capiamo che gli episodi eclatanti dei quali veniamo a conoscenza sono solo la punta dell’iceberg ma non solo a Caivano, in tutta l’Italia:

per una donna che denuncia uno stupro o una violenza, chissà quante ce ne sono che non denunciano.

Se vogliamo fare sul serio ci dobbiamo fermiamo e a reti unificate, come si fa per il messaggio di fine anno del presidente della Repubblica, dobbiamo tutti insieme domandarci se vogliamo davvero mettere fine a questo scempio.

Se sì, agiamo di conseguenza.

Se non ci interessa davvero, continueremo a indignarci per un giorno al prossimo stupro o femminicidio, ma poi già il giorno seguente sarà dimenticato.

Se avesse l’occasione di parlare con i ragazzi di Caivano che hanno violentato le cuginette di Parco Verde cosa direbbe?

Non lo so, così a freddo, certe cose si sentono all’istante e di conseguenza si parla. Poi bisogna anche capire chi sono questi ragazzi, la loro storia, come sono stati coinvolti.

Le persone vanno prese una per una cercando di aiutarle laddove è possibile.

Questi ragazzi crescono molto in fretta.

 Un ragazzo di 14 anni di Parco Verde è paragonabile a uno di 20 di un altro posto. Se la strada lo ha forgiato, sappiamo che è una pessima maestra perché fa maturare molto tempo prima, ma in un modo distorto.

(Gigliola Alfaro)

 

 

 

Israele sotto attacco. La condanna di Usa,

Ue e Nato. L'Iran "fiero" di Hamas,

Mosca e Riad chiedono il cessate il fuoco.

Huffpost.it – Redazione Italia – (7 ottobre 2023) – ci dice:

 

Unanime la condanna dell'Occidente all'attacco a sorpresa con migliaia di razzi sul territorio israeliano.

Atteso un colloquio tra il presidente Biden e il premier Netanyahu.

Dalla Farnesina a Bruxelles, dal Cremlino alla Casa Bianca:

è condivisa la condanna all'attacco a sorpresa dalla Striscia di Gaza con miliziani armati che, questa mattina, sono entrati in territorio israeliano.

 L'Iran, invece, si dichiara "fiero" dei combattenti di Hamas.

Il governo italiano ha fatto sapere di seguire da vicino l'attacco in Israele, condannando "con la massima fermezza il terrore e la violenza contro civili innocenti in corso" e dando "sostegno al diritto di Israele a difendersi".

"Hamas cessi subito questa barbara violenza", ha chiesto il ministro degli Esteri Antonio Tajani prima di riferire che "tutti gli italiani in Israele sono stati contattati. Sono circa 18 mila - ha aggiunto - quelli che vivono in Israele, qualcuno ha anche il doppio passaporto.

E sono 250 quelli che sono temporaneamente in Israele e ci sono una ventina di italiani nella striscia di Gaza".

L'ambasciatore d'Italia in Israele, “Sergio Barbanti”, ha sottolineato da Cernobbio che tutti gli italiani in Israele stanno bene, mentre la Farnesina, con il Consolato Generale e l'Unità di crisi, è in contatto con tutti gli italiani presenti a Gaza e le varie organizzazioni di riferimento.

"In queste drammatiche circostanze giungano a lei, signor Presidente, e a tutti i cittadini israeliani le espressioni della solidarietà dell'Italia”, sottolinea “Sergio Mattarella nel messaggio inviato al Presidente israeliano “Isaac Herzog”.

 "Siamo sinceramente vicini al lutto delle famiglie delle vittime – ha aggiunto –, desidero ribadire la più ferma e convinta condanna di questo attacco, che attenta alla sicurezza di Israele e allontana la prospettiva di una pace duratura".

Parole di condanna giungono dall’Unione Europea. "

Israele ha il diritto di difendersi da questi odiosi attacchi", ha scritto su “X” la presidente della Commissione europea, “Ursula von der Leyen”, esprimendo la sua "inequivocabile condanna" per gli attacchi condotti da Hamas che definisce "terrorismo nella sua forma più spregevole".

Anche il capo della diplomazia europea, “Josep Borrell,” esprime la sua solidarietà con Israele "in questi momenti difficili. Seguiamo con angoscia le notizie provenienti da Israele.

 Condanniamo senza equivoci gli attacchi di Hamas.

Questa orribile violenza deve cessare immediatamente: il terrorismo e la violenza non risolvono nulla".

"Condanno con forza gli attacchi indiscriminati lanciati questa mattina contro Israele e la sua popolazione portando terrore e violenza per cittadini innocenti", sono state le parole del presidente del Consiglio europeo, “Charles Michel”.

"Il mio pensiero va a tutte le vittime - ha aggiunto - L'Ue è solidale con il popolo israeliano in questo momento orribile."

Dall’altra parte dell’oceano, “Adrienne Watson”, portavoce del consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, fa sapere che "gli Stati Uniti condannano gli attacchi dei terroristi di Hamas contro i civili israeliani.

Non c'è mai giustificazione per il terrorismo.

Siamo fermamente accanto al governo e al popolo di Israele".

La Nato condanna "fermamente" gli "attacchi terroristici" di Hamas contro Israele, ha dichiarato sabato un portavoce.

"Condanniamo con forza gli attacchi terroristici compiuti oggi da Hamas contro Israele, un partner della Nato.

I nostri pensieri sono rivolti alle vittime e a tutte le persone colpite. Il terrorismo è una minaccia fondamentale per le società libere e Israele ha il diritto di difendersi", scrive il portavoce “Dylan White” su “X”.

 

Anche l'Ucraina ha espresso solidarietà a Israele condannando "fermamente gli attacchi terroristici in corso contro Israele, compresi i razzi contro la popolazione civile di Gerusalemme e Tel Aviv.

Esprimiamo il nostro sostegno a Israele nel suo diritto di difendere sé stesso e il suo popolo", ha dichiarato il Ministero degli Esteri ucraino sui social media.

Mentre la Russia chiede "moderazione" in seguito agli attacchi contro Israele da parte di Hamas e si dice "sorpresa".

"Se l'avessimo saputo l'avremmo evitato", ha dichiarato “Mikhail Bogdanov,” vice ministro degli Esteri russo e inviato del Cremlino per il Medio Oriente e l'Africa, citato dall'agenzia Interfax.

"Siamo in contatto con tutti. Con gli israeliani, i palestinesi e gli arabi" e "naturalmente, chiediamo sempre la moderazione", ha sottolineato.

Da parte sua, l’Egitto avverte delle gravi conseguenze dell’escalation in Israele in una dichiarazione del ministero degli Esteri diffusa sabato dall'agenzia di stampa statale.

Si chiedeva di "esercitare la massima moderazione ed evitare di esporre i civili a ulteriori pericoli".

 L'Iran si è invece detto "fiero" dei combattenti di Hamas:

"Saremo al fianco dei combattenti palestinesi fino alla liberazione della Palestina e di Gerusalemme", ha dichiarato il consigliere della Guida suprema iraniana “Ali Khamenei, Rahim Safavi”.

E gli Hezbollah libanesi filo-iraniani hanno riferito che seguono "da vicino e con grande interesse gli sviluppi sul terreno palestinese".

Il presidente turco, “Recep Tayyip Erdogan”, ha invece invitato israeliani e palestinesi ad "agire ragionevolmente" per evitare un'escalation di violenza. "Chiediamo a tutte le parti di agire in modo ragionevole e di astenersi da azioni impulsive, che aumenterebbero le tensioni", ha dichiarato il leader turco.

 

L'Arabia Saudita, che sta negoziando con Israele per normalizzare i rapporti tra i due Paesi, ha chiesto la fine immediata dell'escalation.

 "Il regno sta seguendo da vicino gli sviluppi senza precedenti tra un certo numero di fazioni palestinesi e le forze di occupazione israeliane", ha dichiarato il ministero degli esteri saudita in una dichiarazione pubblicata su “X”.

"Il regno chiede la fine immediata dell'escalation tra le due parti, proteggere i civili e dare prova di moderazione".

 

 

 

 

Transizione energetica, la via

per le rinnovabili passa dall’innovazione.

Agendadigitale.eu – Mirella Castigli – (3 novembre 2021) – ci dice: 

 

Sostenibilità Ambientale E Smart City.

Semplificazioni reali, adeguamento normativo e digitale:

ecco la ricetta per la transizione energetica, necessaria per affrontare la sfida climatica.

La strada per aumentare il contributo delle rinnovabili è ancora lunga, ma nuove opportunità arrivano anche dal settore dei cavi sottomarini e dagli impianti eolici offshore.

Energie rinnovabili.

La transizione energetica è inevitabile e serve per evitare i disastri causati dai cambiamenti climatici, ma l’Italia è in ritardo nell’adozione delle strategie per affrontare il riscaldamento globale e le immense sfide al centro di Cop26, il summit di Glasgow sulla crisi climatica.

Attualmente il nostro Paese genera circa 21 Gigawatt dal fotovoltaico e appena 10 Gigawatt dai parchi eolici, “quando dovremmo almeno triplicare il primo e raddoppiare il secondo per raggiungere quota 70% del contributo rinnovabili al mix elettrico (che oggi è fermo al 38%, ndr)”, afferma “Livio Desantoli”, professore dell’”Università La Sapienza” di Roma, responsabile dell’energia della Sapienza e che si occupa di tematiche legate alla pianificazione energetica e alla generazione distribuita dell’energia con sistemi innovativi.

 

Transizione energetica, i ritardi nello sviluppo delle rinnovabili.

La strada per la transizione energetica è segnata, grazie agli ambiziosi e ineludibili obiettivi europei:

 taglio del 55% delle emissioni di anidride carbonica(CO2) entro il 2030, previsto dal” Green Deal”, per giungere alle zero emissioni nette, il traguardo della neutralità climatica, entro il 2050 in Unione europea.

(E’ incredibile che si continui a dire che il pericolo per l’umanità tutta  è dato dalla “CO2” che essendo più pesante dell’aria non può “volare” nell’atmosfera e quindi è impossibilitata a raggiungere gli altri gas serra .In questo modo non potrà mai arrivare alla neutralità climatica! (N.D.R.)

 Ma l’Italia accumula ritardi da anni e deve compiere un salto di qualità.

“Per essere in linea con gli obiettivi europei dovremmo installare 70 nuovi Gigawatt di rinnovabili in meno di dieci anni”, continua il professor “Livio Desantoli”.

Per fare due conti, l’Italia dovrebbe aggiungere oltre 7 Gigawatt di rinnovabili all’anno fino al 2030, mentre il Paese arranca a un aumento di appena un Gigawatt all’anno.

 “Per fortuna il PNRR favorisce il processo di transizione, permettendo l’avvio di un ciclo virtuoso e introducendo uno sviluppo per 3-4 anni, poi dovremo attrezzarci”.

Cosa serve alla transizione energetica in Italia.

A pesare sul ritardo italiano sono vari fattori, ne citiamo almeno due:

l’eccesso di burocrazia nelle autorizzazioni;

l’assenza di target regionali, per mettere in atto il “burden sharing”, l’obiettivo nazionale di sviluppo delle rinnovabili.

Sotto ai nostri occhi è il ritardo delle regioni italiane a varare piani regionali di sviluppo delle rinnovabili, per raggiungere l’aumento di 70 GigaWatt di fonti rinnovabili entro il 2030: sappiamo quanto bisogna installare per le rinnovabili, ma non sappiamo neanche in quali zone, perché la ripartizione per Regione è ancora in alto mare.

(Lo sviluppo delle rinnovabili è troppo costoso e a lungo termine non potrà mai sostituire l’energia ricavata dalle fonti fossili, che saranno per sempre non sostituibili! N.D.R.)

“Infatti servono semplificazioni reali, oggi quasi la metà delle autorizzazioni richieste non diventa un impianto e l’altra metà accumula sei anni di ritardo sulla tempistica stimata dalla normativa”, continua “Desantoli” che denuncia le farraginose e lunghe tempistiche italiane con i costi più alti per ambire all’autorizzazione, “per non parlare dei ritardi normativi da adeguare, un ostacolo sui nuovi investimenti nella transizione energetica”.

(Ma chi sono questi pazzi pseudo -scienziati che vogliono imporci di raggiungere a breve dei traguardi impossibili e solo per odio forsennato contro le fonti fossili non sostituibili.” Cina docet” ! N.D.R.)

Ma non è solo questione di sburocratizzazioni e di coerenza normativa: “Infatti servono anche innovazione nei sistemi di produzione e di accumulo per immagazzinare energia per mesi, progressi nell’offshore, nel fotovoltaico galleggiante, nell’idrogeno rinnovabile”, conclude “Desantoli”: “Ma soprattutto bisogna evitare di distrarre fondi verso i gas e combustibili fossili, l’obiettivo deve essere solo la de-carbonizzazione (cioè eliminare la CO2! N.D.R.).

I problemi dello stoccaggio dell’energia.

Lo stesso premier Mario Draghi qualche giorno fa ha ricordato che le rinnovabili hanno limiti e vanno affiancate ad altre fonti (ad esempio gas naturale, che inquina meno di altre non rinnovabili).

 I limiti sono nella gestione dei cali di energia quando il sole o il vento calano di intensità.

La soluzione tipica sarebbe lo storage dell’energia prodotta prima per poterla usare nei momenti critici e così dare continuità alla fornitura.

Le soluzioni storage in batteria sono in continua evoluzione, tuttavia al momento presentano alcune problematiche:

 per diventare il supporto adatto devono compiere progressi sotto il profilo della sicurezza e devono anche immagazzinare energia per tempi più lunghi.

 Per non parlare delle problematiche legate allo smaltimento e alla questione geopolitica nel reperimento delle terre rare necessarie per produrle.

Come centrare gli obiettivi del Green Deal.

Ma come si può fare in concreto la transizione energetica verso le rinnovabili?

Giuseppe Zollino”, professore della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Padova, esprime scetticismo sull’eolico, a meno che non sia offshore, invece è più ottimista sul fotovoltaico:

“Nell’eolico, in Italia, i temi urgenti sono due:

 le enormi dimensioni delle pale (e più la tecnologia progredisce, più i sistemi sono enormi), con i problemi di impatto ambientale e paesaggistico evidenziati nel nostro Paese; anche nello sviluppo offshore, va detto che il Mediterraneo è un mare subito molto profondo, bisogna studiare progetti pilota con le piattaforme galleggianti e le innovazioni in questo campo”.

(Ma quando il nostro mare genera sempre onde paurose le piattaforme galleggianti sul mare  sono inutili. N.D.R.)

“L’implementazione del fotovoltaico“, conclude Giuseppe Zollino “invece è più semplice:

basterebbe dotare di impianti fotovoltaici tutti i tetti delle fabbriche, dei centri commerciali e dei condomini per raggiungere gli obiettivi prefissati dal Green Deal e dal traguardo di una UE a zero emissioni entro il 2050.  

(Ma per sviluppare il fotovoltaico necessario a sostituire le fonti fossili occorrerebbero quantità enormi di terreni tolti all’agricoltura. Non sono sufficienti a questo fine tutti i tetti di tutte le fabbriche italiane! N.D.R.)

Ricordiamoci infine che l’Italia usava solo le rinnovabili fino agli anni ’50: l’idroelettrico potrebbe continuare a fornire un importante contributo all’abbandono del combustibile fossile”.

(Ma l’idroelettrico richiede da subito la costruzione di enormi quantità di dighe. E questo non può essere realizzabile a breve termine! N.D.R)

La filiera dell’idrogeno rinnovabile.

Ora è importante che l’Italia sostituisca le fonti fossili con le rinnovabili e l’idrogeno green, rendendo più efficiente la produzione, il trasporto, la distribuzione.

Le infrastrutture di stoccaggio di fonti rinnovabili – che per natura sono distribuite e intermittenti – devono predisporre la convergenza dei settori (per l’idrogeno, il settore energetico e dei trasporti) e l’integrazione con i sistemi digitali, dove sensori” IoT”, dispositivi di realtà aumentata, analisi predittiva possono abilitare processi di monitoraggio, diagnostica e manutenzione.

(Nel breve termine le infrastrutture di stoccaggio oltre il costo enorme non sono di facile realizzazione a breve termine dati i costi prevedibili e le difficoltà burocratiche inerenti. N.D.R).

Per esempio, le “smart grid” possono modulare i consumi e ridurre i picchi energetici.

Il digitale inoltre valorizza i “prosumer”, grazie alle reti decentralizzate e allo stoccaggio di energia da fonti rinnovabili nei sistemi residenziali.

Al centro di “Next generation EU” è poi lo sviluppo di filiera dell’”idrogeno green”, prodotto cioè da fonti rinnovabili, attraverso l’energia elettrica in eccesso prodotta dalle fonti green intermittenti.

(Tutte proposte campate in aria nel breve termine! N.D.R.)

Gli investimenti in rinnovabili invece genererebbero posti di lavoro e Pil:

il “Green Deal” è in grado di produrre, soltanto nel settore elettrico italiano, 100 miliardi di investimenti privati e 90 mila nuovi posti di lavoro entro il 2030.

(Questa è una bufala colossale. Andiamo incontro a dei tassi di interesse sui capitali presi a prestito talmente elevati che nessun privato si proporrebbe per realizzare questi sogni impossibili. L’intervento pubblico è impossibile con lo stato attuale del bilancio annuale fuori da ogni possibile controllo del calcolo economico di recupero dei finanziamenti necessari! N.D.R.)

Il ruolo dei cavi sottomarini nella transizione energetica.

Mentre cambia il modo in cui l’energia viene consumata (con le auto elettriche) e prodotta (con le rinnovabili), la transizione energetica richiede soluzioni innovative per risolvere problemi complessi.

L’Italia deve uscire dalla dimensione nazionale ed imparare a sfruttare le interconnessioni europee, anche perché la parola chiave che giunge da Cop26 è “collaborare”.

Anche attraverso i cavi sottomarini.

Non sempre il vento soffia, mentre il sole, già assente di notte, può essere oscurato dalle nuvole di giorno.

Tutti questi fattori rendono aleatoria ed intermittente la produzione di energia rinnovabile.

Dunque, non solo bisogna creare un buon mix elettrico e differenziare per non rischiare black-out, ma è anche necessario separare il consumo dalla produzione, soprattutto perché è importante distribuire l’energia da dove è prodotta a dove viene utilizzata.

 

Infatti, una volta prodotta l’energia con le rinnovabili, poi bisogna pensare allo stoccaggio nei sistemi di accumulo oppure trasferirla laddove serve.

 Per trasferire l’energia, invece, si possono usare “smart grid “oppure sfruttare appositi cavi sottomarini.

I cavi sottomarini, realizzati in un mix di acciaio, alluminio, piombo e materiali isolanti, pesano 150 chilogrammi al metro (infatti, una bobina di 30 metri pesa quanto la torre Eiffel) e sono efficienti nel trasferire l’energia.

 Soprattutto rappresentano svolte promettenti.

L’export di energia attraverso i cavi è passato da 2% degli anni ’70 al 4,3% di energia generata dai membri dell’Ocse nel 2018.

 Credit Suisse stima che il settore dei cavi sottomarini passerà dai 4,5 miliardi di dollari di quest’anno ai 5,5 miliardi di dollari nel 2022.

L’elettricità sta diventando una commodity commerciabile.

Connettere le “power grid” con produzioni energetiche differenti potrebbe risolvere numerosi problemi attuali connessi con le rinnovabili.

Le dimensioni delle installazioni eoliche offshore sono destinate a triplicare entro il 2035.

 La Danimarca ha scommesso molto sulle turbine eoliche, ma quando non soffia il vento potrebbero rimanere ferme.

 Per evitare di ricorrere a combustibili fossili, quando l’eolico non funziona, a Copenhagen basterebbe collegarsi alla Norvegia, un Paese con alto potenziale idroelettrico.

Grazie ai cavi, quando soffia il vento, sia la Norvegia che la Danimarca potrebbero sfruttare l’energia eolica danese, mantenendo l’acqua della Norvegia in riserva. Quando c’è invece calma piatta e non soffia un refolo di vento, potrebbero entrare in azione i laghi norvegesi anche per andare in soccorso alla Danimarca.

(Ma velo immaginate un mondo in guerra totale che si occupa di come predisporre l’energia elettrica distribuibile solo tramite cavi sottomarini facilmente soggetti ad attentati dinamitardi già effettuati con successo contro i collegamenti di rete di distribuzione sottomarina di gas? N.D.R.)

 

Questo esempio dimostra che l’elettricità sta entrando nell’era della commodity commerciabile.

 E lo dimostrano i collegamenti fra Danimarca e Olanda, Svezia, Germania e Gran Bretagna (attivo dal 2023, secondo recenti previsioni).

Per ridurre le emissioni di CO2, non è sempre necessario costruire parchi eolici e impianti fotovoltaici in posti che poi si rivelano sbagliati, ma per de-carbonizzare (eliminare la CO2) può rivelarsi più semplice firmare un contratto con gli operatori giusti, per ottenere elettricità prodotta altrove con le rinnovabili.

La transizione energetica apre nuovi scenari nel Mediterraneo.

Anche in Italia la transizione energetica rappresenta un’opportunità interessante. Per esempio, potrebbe colmare il divario fra Nord e Sud:

infatti, le industrie energivore si trovano nel Centro-Nord, ma il sole splende e il vento soffia soprattutto a Sud, dunque, ad alimentare le fabbriche del Nord Italia potrebbero in futuro arrivare in soccorso i parchi eolici e fotovoltaici del Mezzogiorno.

Anche “Stefano Antonio Donnarumma” di Terna, manager delle linee di trasmissione, vede nelle rinnovabili un nuovo modo per bilanciare gli squilibri fra le regioni italiane e superare i divari fra il Nord produttivo e regioni finora meno sviluppate del Paese.

Il mercato dei cavi è uno dei rari settori industriali in cui domina l’Europa. L’entusiasmo degli investitori per i cavi elettrici ha portato rialzi fra il 48-125% delle azioni della” francese Nexans”, della “danese nkt” e dell’”italiana Prysmian”.

 

“Nexans North Sea Link project” - episode 5.

Come funzionano i cavi sottomarini

I cavi possono essere stesi anche a 3 mila metri di profondità, anche grazie all’utilizzo di appositi robot, e ciò spalanca nuovi scenari nel mar Mediterraneo.

In Grecia la nave Nexans Aurora sta collegando l’isola di Creta alla terraferma della penisola ellenica.

 In cantiere c’è il collegamento di 720 Km fra Norvegia e Regno Unito, mentre si studiano interconnessioni fra Grecia e Israele o Irlanda e Francia.

Se vi sembra invece più avveniristico il collegamento fra i campi assolati del Marocco, ideali per il fotovoltaico, e la Gran Bretagna, a causa dei 3.800 Km di distanza fra i due Paesi, è anche vero che un consorzio dell’altro emisfero punta a collegare coi cavi Australia, Indonesia e Singapore per 4.200 Km.

“Christopher Guérin”, capo di “Nexans”, prevede di stendere cavi per 72.000 Km fino al 2030.

In futuro parchi eolici galleggianti potranno essere connessi alle power grid.

La “International Energy Agency”, club energetico dei Paesi più ricchi, stima che 80 Giga Watt di parchi eolici offshore dovranno essere installati ogni anno fino al 2030 per raggiungere gli obiettivi della neutralità climatica.

Ogni gigawatt di capacità offshore richiede circa 250 milioni di euro di cavi, inclusa l’installazione, secondo Max Yates di Credit Suisse.

Conclusioni.

L’Italia deve colmare il ritardo nelle rinnovabili, anche perché la lentezza nell’attuare la transizione energetica si riflette nel caro-bolletta, un freno alla stessa crescita del Paese.

L’Italia deve affrettarsi a incrementare il contributo delle rinnovabili al mix energetico, abbandonando i combustibili fossili, in linea con il Green deal, l’accordo europeo sul clima, gli obiettivi del G20 e quelli di Cop 26 di Glasgow.

La soluzione consiste nelle semplificazioni burocratiche e nello stare al passo con l’innovazione tecnologica.

L’Italia deve scommettere nelle infrastrutture, non solo per connettere i siti di produzione con quelli di consumo, ma anche per integrare il crescente numero di risorse distribuite e per coordinare produzione e distribuzione di energie alternative, a partire dall’idrogeno green.

Nonostante i gravi ritardi, l’Italia e l’Europa hanno anche interessanti opportunità da cogliere proprio sul fronte delle rinnovabili, dei parchi eolici offshore e dei cavi sottomarini per trasferire l’energia da dove è prodotta a dove realmente serve.

Il momento di investire è ora, anche per approfittare delle nuove “autostrade energetiche” che possono essere stese coi cavi nei nostri fondali marini.

 

 

 

Sostenibilità, innovazione e reti:

gli obiettivi delle imprese

per spingere la competitività.

 Corriere.it -Economia – (11 ottobre 2023) - Maria Elena Viggiano –  Fausta  Chiesa e altri -ci dicono:

 

L’energia è centrale per le persone e le imprese ma è importante capire come affrontare la transizione anche attraverso l’utilizzo delle innovazioni tecnologiche.

Con al centro sostenibilità e competitività.

Sono state queste le linee guida della quinta edizione del “Green & Blue Talk di Rcs Academy,” in collaborazione con il “Corriere della Sera” e “Pianeta 2030”.

 «Dobbiamo andare avanti verso il futuro cambiando la struttura produttiva. Oggi siamo sicuri dei quantitativi di gas ma i prezzi oscillano, ormai determinati da fattori esogeni», ha affermato “Gilberto Pichetto Fratin”, ministro dell’”Ambiente e della Sicurezza energetica”, mentre per quanto riguarda l’automotive, «non possiamo dipendere per le batterie solo dalla Cina”.

ENERGIA

Gas, quotazioni in forte rialzo: da Israele al Libano al presunto sabotaggio della rete in Finlandia.

 (Fausta Chiesa)

L’abbattimento delle emissioni.

“La strada sarà l’elettrico ma bisogna concentrare l’attenzione sulle emissioni, ci battiamo per il biocarburante e abbiamo un interesse nazionale perché siamo produttori».

Per “Claudio Descalzi,” ceo del gruppo Eni, «gli stoccaggi sono pieni a una media del 95% ma c’è volatilità dei prezzi, questo dipende dalla tensione tra domanda e offerta. Bisogna continuare a lavorare con i Paesi che ci forniscono il gas».

 «Gli ultimi avvenimenti geopolitici ci stanno dimostrando la strategicità dei rigassificatori.

In questo senso quello di Porto Empedocle diventa un’opera strategica e indispensabile per fronteggiare eventuali nuove crisi a livello internazionale», ha aggiunto “Nicola Lanzetta”, direttore Italia Enel.

Mentre per “Stefano Venier,” ceo Snam, «un sistema energetico resiliente si costruisce lungo un percorso di diversificazione, i rigassificatori sono fondamentali».

 «Dobbiamo usare tutte le fonti di energie che ci permettono di decarbonizzare», (eliminare il CO2) ha detto “Ugo Salerno” numero uno di Rina.

Per “Paolo Gallo”, ceo Italgas, «gestiamo il passaggio da una produzione più centralizzata a una produzione distribuita sul territorio».

ENERGIA

Eni, 70 anni di storia da protagonista nell’innovazione e nello sviluppo

(Andrea Ducci)

I progetti infrastrutturali.

Anche” Federico Colombara”, partner e director “Bcg”, sostiene «una visione territoriale dell’energia con un recupero di risorse e di competenze».

Fabrizio Palermo”, amministratore delegato Acea, in tema di acqua ha sottolineato:

«c’è una frammentazione eccessiva sul territorio e tra gli operatori, le infrastrutture non sono collegate a livello regionale e non esiste una rete nazionale.

 L’acqua influenza il 18% del Pil.

Ma in Italia si investono circa 56 euro per abitante all’anno contro una media europea di 78».

Mentre “Elio Catania”, presidente “Innovatec”, ha posto l’accento sul «ridisegnare l’intera struttura produttiva delle aziende, per due terzi degli imprenditori la transizione è un fattore di competitività».

Per “Alessandro Bresciani,” senior vice president “Climate Technology Solutions”, “IET, Baker Hughes”, «dobbiamo sdoganare i progetti che sono snodi infrastrutturali».

Nicola Monti”, ceo Edison, ha sottolineato che «non solo sono necessarie risorse economiche ma anche capitale umano con competenze specifiche».

ENERGIA

Centrale nucleare nel 2032, l’annuncio di Salvini: «Da milanese la vorrei a Milano»

(Massimiliano Jattoni Dall’Asén)

Una cultura

Mentre per “Bernardo Ricci Armani”, di “Statkraft Italia”, «la sostenibilità deve essere un elemento di cultura».

E se per “Luca Schieppati”, managing director Tap, l’obiettivo è «arrivare alla neutralità carbonica»-(Niente CO2)  per “Massimo Battaini”, ceo designato di “Prysmian”, «la nostra attuale strategia è connettere il mondo in tema di rinnovabili».

Stefano Buono”, ceo e fondatore “Newcleo”, ha sostenuto che «è possibile produrre un nucleare più sostenibile grazie alla tecnologia moderna ma è una industria da implementare».

 E “Luca Dal Fabbro”, presidente “Iren”, punta sul «recupero delle materie prime critiche attraverso il riutilizzo dei rifiuti, l’Italia dipende per il 95% da Paesi extra Ue».

 Per “Giuseppe Argirò”, ad Cva, «rilanciamo l’idroelettrico per lo sviluppo del nostro Paese» mentre “Arrigo Giana”, ad Atm, vede «nel trasporto pubblico locale un volano».

Per “Daniela Bernacchi,” executive director “UN Global Compact Network Italia”, sono decisive «alleanze per raggiungere un bene comune»;

e “Serena Giacomin”, presidente” Italian Climate Network”, sono i dati «ad aumentare la nostra consapevolezza».

Concorda “Maria Siclari”, direttore generale” Ispra”, «i dati e le informazioni devono essere aperti».

 Conclude” Candido Fabrizio Pirri”, direttore “Center for Sustainable Future Technologies” Istituto Italiano di Tecnologia di Torino, «l’AI e la robotica saranno essenziali nella transizione energetica».

(Di investimenti per la transizione energetica tramite prestiti bancari, nessuno ne parla…però! N.D.R.)

 

 

 

 

Convegno nazionale 2022. Tecnologia

e innovazione per una transizione energetica.

L’intervento di Maurizio Sella.

 Cavalieridellavoro.it – Maurizio Sella – (26.09.2022) ci dice:

 

Roma – 24 settembre 2022.

Autorità, Signore, Signori, cari colleghi Cavalieri del Lavoro,

è per me un onore concludere questo convegno nazionale dedicato alla transizione energetica e, molto significativamente, dedicato ai contributi concreti che noi Cavalieri del Lavoro abbiamo già introdotto per accelerare questo passaggio epocale.

Prima di esprimervi le mie considerazioni voglio ringraziare il Gruppo Centrale e il suo presidente “Vittorio Di Paola” per la perfetta organizzazione dei lavori di questa giornata, e il collega “Franco Bernabè” che ne ha tracciato il percorso di avvicinamento.

Siamo arrivati al grado di consapevolezza di oggi grazie ai “workshop preparatori” che in questi mesi ci hanno visto coinvolti.

La mia riconoscenza va anche al nostro “Consiglio Direttivo”, costante strumento di stimolo e di confronto, che a questi temi ha inteso dedicare una riunione tematica lo scorso 13 giugno.

Ringrazio e mi rallegro anche con i relatori, per l’impegno con cui hanno partecipato a questa iniziativa e per i contributi di riflessione che hanno portato. Ne abbiamo tratto motivi di conoscenza e spunti su nuove prospettive tecnologiche.

Il convegno nazionale dello scorso anno ci vide impegnati sul tema della “Grande Transizione”.

In quell’occasione mi autodefinii un “missionario della sostenibilità” e indicai quella transizione come prioritaria.

 Quello che sta accadendo ha confermato quanto il senso di urgenza emerso da quel dibattito fosse opportuno.

L’energia e la sostenibilità sono infatti strettamente connesse.

Vi faccio rivedere aggiornati i dati dell’anno scorso.

Dati e fatti, dunque, ci dicono senza alcun dubbio che la sostenibilità ambientale merita il nostro impegno prioritario, come persone, come cittadini, come collettività, e come imprese.

Gli effetti dei cambiamenti climatici sono talmente rapidi da essere percepibili nel corso di un solo decennio:

 siccità, ondate di calore, scioglimento dei ghiacciai, incendi, fenomeni meteorologici estremi colpiscono ogni anno con frequenza ed intensità sempre maggiori.

La necessità che in campo energetico vi sia una transizione non è che l’altra faccia della transizione ambientale.

 La scienza ci ha spiegato come all’origine del riscaldamento globale ci sia l’effetto serra e come a causare l’effetto serra sia in gran parte il rapido sviluppo di una rivoluzione industriale alimentata da sorgenti energetiche fossili, dall’aumento della popolazione mondiale e dal connesso incremento di bisogni e consumi.

Cosa fare?

Mi limito a ragionare su alcuni punti.

Nel processo di transizione energetica è essenziale lavorare sul frazionamento dei rischi.

Credo che il settore dell’energia degli ultimi anni sia stata basata su un errore gestionale che un banchiere non farebbe.

Senza accorgercene, forse anche per la comodità del basso costo del gas russo, abbiamo concentrato i rischi.

Il primo rischio che abbiamo concentrato è che ci siamo basati su produzioni che derivavano soprattutto dal gas.

Se guardiamo al prospetto sulle fonti energetiche citato dal presidente “Jonathan Adair Turner” nella sua relazione, ci rendiamo conto che noi avevamo un gas che, fatto 100 il totale, era molto alto.

Questo è un rischio da non correre, meglio avere molte fonti diverse di energie.

Nell’ambito delle molte fonti, e quindi facendo scendere decisamente il gas, dobbiamo evitare un secondo rischio, quello relativo ai fornitori.

È molto meglio la situazione odierna, cambiata in poco tempo dal presidente Draghi, di molti fornitori di gas, che basarci su un fornitore solo.

Poi si sono le tecnologie e l’innovazione.

Il terzo rischio è di concentrare la fornitura di soluzioni, materie prime o prodotti su pochi fornitori.

 Pensiamo ai microchip, forniti soprattutto da Taiwan, o anche al solare, dove le forniture dei pannelli è soprattutto di derivazione cinese.

Bisogna ritornare a produzioni nazionali.

Va dunque incoraggiata la diversificazione di fonti, fornitori e tecnologie.

Per quel che riguarda le tecnologie rinnovabili (solare, eolico, idroelettrico, biomasse, geotermico, maree, onde, correnti sottomarine, per citare solo le principali), dobbiamo tenere in conto che per tutte le tecnologie rinnovabili lo sviluppo sarà portato dal mercato.

 E io sono totalmente d’accordo con chi ha detto “non sia il governo a orientare le tecnologie, lasciamo fare al mercato”. E vincerà il migliore.

(Ma purtroppo il mercato non può preferire-se non prima di un secolo - le tecnologie rinnovabili se queste- come oggi accade - rimangono con prezzi di utilizzo attuali mostruosamente incomparabili con quelle alimentate da combustibili fossili! Basta con le menzogne! N.D.R)

Altro aspetto da tenere in grande considerazione, dal mio punto di vista, è quello dei costi.

 Abbiamo visto come, nel corso degli ultimi dieci anni, sia stata significativa la discesa dei costi del solare e dell’eolico.

Se questa discesa continuerà anche nei prossimi dieci o venti anni alla stessa velocità degli anni precedenti, cambieranno anche le relazioni e i rapporti. 

Determinate fonti energetiche potranno non essere più convenienti, sia di nuovo o sia di vecchio stampo.

Quindi anche negli investimenti che ciascuno di voi farà nelle rinnovabili è importante il problema dell’evoluzione del costo e, quindi, del prezzo.

(Ma è importante conoscere quanto tempo occorra - per rendere accettabili per il mercato il costo di utilizzazione delle fonti rinnovabili. Non si può attendere un secolo perché il miracolo si compia! N.D.R.)

Nel settore energetico sta accadendo quello che a metà del secolo scorso è accaduto in quello informatico.

Il potenziamento esponenziale delle tecnologie informatiche (legge di Moore) è stato il motore dell’innovazione che ha cambiato le nostre vite, il nostro modo di fare impresa. 

Cambierà in modo analogo anche il nostro modo di produrre energia.

(Ma per produrre energia occorre che i prodotti cha la generano non abbiano costi astronomici rispetto ai combustibili fossili sino ad ora sul mercato! N.D.R)

La soddisfazione che ho è che uscendo dal convegno di Bologna, un anno fa, avrei valutato un 30% di colleghi Cavalieri del Lavoro sensibili a questo tema, oggi mi pare che siamo ben oltre il 70%.

 La consapevolezza dei Cavalieri del Lavoro gli esperti intervenuti è tale per cui ho la sensazione che la cultura stia cambiando molto velocemente.

(Per ora la cultura definita “scientifica” non ha ancora compreso che il gas CO2 è più pesante dell’aria e quindi non può volare nell’atmosfera per nascondersi dietro la volta dove si trovano i veri gas serra! N.D R.)

Stiamo passando da una produzione centralizzata dell’energia a una produzione decentralizzata, questo vuol dire che a giocare un ruolo sempre più decisivo saranno anche i singoli operatori, le piccole imprese, le famiglie.

E proprio per questo credo ci siano buone ragioni per essere ottimisti.

(Purtroppo i singoli operatori, le piccole imprese, le famiglie, ecc. sono le vittime della colossale bufala sul riscaldamento globale inventata da quei burloni che risiedono a Davos! N.D.R.)

Il coinvolgimento crescente dei cittadini nel processo di transizione energetica si accompagna a una altrettanto crescente sensibilizzazione della cultura pubblica.

Sono gli investitori i primi a informarsi sulla sostenibilità di un’azienda, sono i clienti i primi a voler conoscere l’impatto ambientale dei prodotti finanziari che acquistano.

 Sono sempre di più gli ingegneri che nelle nostre aziende sono chiamati a occuparsi di tecnologie per la transizione energetica.

Questa crescente consapevolezza culturale incide profondamente sul mercato e sui processi industriali, apre scenari e prospettive nuove che non dobbiamo temere ma, anzi, incoraggiare.

Negli ultimi dieci anni la questione climatica ed energetica riguarda soprattutto le soluzioni.

Se siamo qui oggi è perché sappiamo, lo abbiamo capito da tempo, di voler essere dalla parte delle soluzioni.

Il titolo del nostro convegno, del resto, lo dice esplicitamente: “Tecnologia e innovazione per una transizione energetica. Il contributo dei Cavalieri del Lavoro”. Siamo portatori – e ne sentiamo forte la responsabilità sociale – della cultura del lavoro, del fare, del realizzare.

(Certo, ma il compito dei cavalieri del lavoro è anche di dire la verità sulla “CO2”. E che questo gas-  come indicano gli” scienziati non corrotti”- è più pesante dell’aria e quindi non può svolazzare per i lontani cieli! N.D.R.)

Viviamo nel pieno di un cambio di paradigma:

comportamenti e modelli considerati fino a ieri immodificabili sono in rapida trasformazione.

Si sta configurando un nuovo mondo, animato da linguaggi inediti e scandito da metriche ancora da definire, un mondo che i presenti in questa sala, attraverso pratiche, scelte di mercato, nuovi e diversi investimenti, innovazioni di processo e di prodotto, attraverso nuove modalità di organizzazione delle di fabbriche e imprese, hanno già realizzato.

Lasciatemi sottolineare come molti dei progressi tecnologici nelle rinnovabili possano rappresentare una straordinaria occasione per il nostro Paese, in particolare per il Centro Sud.

 Ricordo cosa è successo in Norvegia quando ha scoperto di avere ingenti risorse di oil e di gas fossili.

È stato un cambiamento epocale.

 Penso che lo stesso possa accadere in Italia.

 Con la significativa differenza che, mentre per la Norvegia parliamo di fonti fossili, per il Centro Sud parliamo di fonti rinnovabili.

Da questo punto di vista, la Norvegia rappresenta il passato, mentre il nostro Mezzogiorno rappresenta il futuro.

(la Norvegia assieme alla Cina rappresentano il futuro, che per almeno cento anni è dato dai combustibili fossili! N.D.R.)

Il Mezzogiorno è nelle condizioni di creare energia e ricchezza.

Di questo non c’è ancora una chiara percezione, ma sono certo che tale consapevolezza sia sempre più forte.

È un’opportunità straordinaria per un Centro Sud che per tanto tempo ha fatto fatica.

Alla vigilia di un appuntamento elettorale importantissimo per il nostro Paese, voglio oggi sottolineare come il Governo guidato da Mario Draghi abbia fatto tanto, e bene, per fronteggiare le numerose emergenze che l’Italia si è trovata a dover affrontare nell’ultimo anno.

Si è finalmente iniziato a liberalizzare l’installazione dei pannelli fotovoltaici, sono stati sbloccati 11 parchi eolici, sull’installazione dei nuovi rigassificatori si sono date indicazioni certe e si è dato il via libera allo sfruttamento di fonti energetiche, come il geotermico, da anni accantonate.

Tutti questi sforzi non vanno vanificati.

Si parla, per esempio, di semplificazione ma poi si leggono cose che lasciano interdetti.

Da un recente rapporto (Osservatorio Regions 2030) pubblicato dal Sole 24 ore emerge come il 70% dei progetti sulle rinnovabili sia stato bloccato per vincoli paesaggistici.

Non c’è dubbio che si tratti vincoli più che legittimi, ma spesso si arriva a dei parossismi.

Chi vede più i vecchi tralicci? Nessuno.

Ma non perché non ci sono più, semplicemente perché nessuno ci fa più caso.

Gli stranieri, per esempio danesi, tedeschi, svedesi, sono talmente abituati ai parchi eolici e ai pannelli solari che quando vengono in Italia chiedono come mai non ci siano.

Lo stupore è il contrario!

 Le pale eoliche, i pannelli solari certamente incidono sul paesaggio, spesso però capita che chi vi si oppone lo fa in nome di uno status quo cui ci si è semplicemente abituati e non in nome di un paesaggio migliore.

Mi chiedo quale sia il vantaggio di proteggere il paesaggio se poi si lascia bruciare, allagare e devastare dalle frane il nostro territorio e il pianeta.

Gli impianti necessari, con le necessarie cautele, vanno realizzati. E in fretta.

È evidente che l’Italia non può vincere questa battaglia da sola.

 Nessun Paese può, da solo, rispondere alle difficoltà dettate dalla dipendenza del gas russo e, più in generale, alle enormi sfide della transizione energetica.

Sul prezzo del Gas il Governo italiano è stato il primo a proporre il meccanismo del “price cap” e la Commissione Europea ci sta finalmente lavorando.

Come è stato ribadito anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, cui voglio qui rinnovare – a nome di tutti – il un profondo ringraziamento per il suo inappuntabile lavoro teso a tutelare il prestigio del nostro Paese, “l’Europa è chiamata, ancora una volta, a compiere un salto in avanti”.

Altro tema riguarda le banche.

Un tema che, al contrario di quel che si potrebbe ritenere, non incide solo su noi banchieri ma, più in generale, su tutte le imprese.

Coerentemente con la strategia Europea per la finanza sostenibile, nel settore finanziario e bancario molteplici sono gli ambiti sui quali stanno intervenendo le diverse autorità di regolamentazione, dalla Commissione Europea, all’EBA alle Autorità di Vigilanza Europea a quelle Nazionali, agli standard setters come Efrag, GRI, IASB, per disciplinare i temi legati ai fattori ESG, con particolare attenzione all’inclusione dei rischi connessi ai cambiamenti climatici e ambientali nelle valutazioni di rischio degli enti finanziari.

 

Abbiamo una pletora di nuove normative.

Tra direttive, regolamenti, aspettative di vigilanza, linee guida, sono più di venti gli interventi normativi di ampia portata che riguardano l’ambito ESG a cui vanno poi aggiunte le norme che ne danno attuazione (atti delegati, decreti attuativi, regulatory technical standards e gli Implementing technical standards), con i conseguenti impatti in termini organizzativi e economici necessari per poter essere “compliance”.

Diversi di questi interventi normativi hanno già sviluppato i loro effetti, altri li svilupperanno nei prossimi mesi e nei prossimi due o tre anni.

Tra i principali temi di intervento normativo in ambito ESG, che trasversalmente riguardano molteplici ambiti dell’attività bancaria, troviamo il credito, i requisiti di capitale, la pianificazione strategica, la disclosure, gli investimenti, e la gestione dei rischi.

Queste normative, che in taluni casi sembrano impattare esclusivamente o prioritariamente le banche, in realtà coinvolgono in maniera importante anche le imprese e l’intero sistema produttivo.

Infatti, la rilevanza che assumono i rischi climatici e ambientali in particolare nell’influenzare il rischio di credito e il conseguente inserimento di questi fattori nella valutazione del merito creditizio dei clienti da parte delle banche comporta necessariamente il forte coinvolgimento delle imprese che in qualità di clienti sono chiamate a fornire i dati e le informazioni necessarie nel rapporto banca impresa.

La qualità dei dati forniti dalle imprese alle banche, la loro disponibilità e condivisione è elemento essenziale per consentire al sistema finanziario di giocare il proprio ruolo nel supporto della transizione verso un’economia a basse emissioni e certamente rappresenta un passaggio fondamentale per tutti gli attori coinvolti: autorità, intermediari finanziari e imprese.

L’Europa è l’attore fondamentale per tracciare la strada della transizione, anche se occorre sempre tener presente lo scenario globale.

Non ci sfugge affatto l’impatto di una decisione come quella di bandire in modo unilaterale la vendita di tutti i motori endotermici a partire dal 2035.

Siamo sicuri che il governo provvederà a coadiuvare le imprese coinvolte nella transizione di questo settore, così come provvederà a coadiuvare le imprese dei settori energivori.

Il 2035 rimane, tuttavia, un orizzonte temporale fermo.

Molti vedono in questa scelta solo criticità, ma come dicevo anche prima:

viviamo un cambio di paradigma, i modelli che finora hanno generato ricchezza devono lasciare spazio a nuovi modelli, sostenibili e altrettanto gravidi di benessere. (O di forte criticità, tenuta nascosta dai padroni del mondo, ingordi solo di illusioni da propagandare presso il popolo bue! N.D.R)

La decrescita felice, lo sappiamo bene, è solo una illusione ideologica utile a facili quanto sterili populismi.

I Cavalieri del Lavoro rappresentano una parte importante dell’economia del Paese – come la ricerca condotta in collaborazione con Crif dimostra.

 Anche in un anno di forte crisi come il 2020 (ultimi dati consolidati disponibili) le aziende dei Cavalieri del Lavoro hanno fatto registrare una significativa propensione agli investimenti:

oltre il 4% del fatturato rispetto a una media nazionale inferiore all’1%.

Le imprese dei Cavalieri del Lavoro hanno mostrato una tenuta migliore in termini di metriche creditizie, di sostenibilità del debito, di patrimonializzazione e di occupazione.

 Sono dati notevoli, perché le aziende sane non solo contribuiscono a rendere più solido e fertile il tessuto produttivo in cui operano, ma concorrono a migliorare la tanto importante reputazione internazionale del Paese.

Essere un’eccellenza comporta grandi responsabilità e noi le assumiamo con orgoglio, animati da forza di volontà e reale capacità realizzativa.

Oggi ne abbiamo avuto un ennesimo esempio:

dalla generazione di energia alle reti distributive, dalla trasformazione delle filiere manifatturiere allo sviluppo di tecnologie innovative, le imprese dei Cavalieri del Lavoro protagonisti nella transizione energetica.

L’Italia è un grande Paese.

Chiunque avrà responsabilità di governo sappia esserne all’altezza e contribuisca ad accrescere la stima e la reputazione che, giorno dopo giorno, le nostre imprese si guadagnano in giro per il mondo.

Chiunque vinca dovrà essere incentivato a non cambiare questa situazione.

Tra gli impegni più gravosi e urgenti del nuovo esecutivo ci sarà senza dubbio la piena attuazione delle richieste del Pnrr.

 Ci auguriamo che non ci siano tentennamenti e che si percorra con puntualità e competenza la strada finora intrapresa.

Immaginate un governo che ci farà rinunciare al grande regalo del Pnrr perché non agisce come Draghi?

 Io lo ritengo impossibile.

Con il Pnrr l’Europa ha saputo dare una risposta adeguata a un’emergenza senza precedenti. Lo ha fatto pensando innanzitutto alle nuove generazioni, alla Next Generation Eu.

È quello che invito tutti noi a fare adesso.

La transizione energetica è una sfida enorme e noi, donne e uomini di impresa, non possiamo che guardare ai più giovani non solo per trovare il senso ultimo delle nostre responsabilità, dobbiamo guardare ai giovani anche per trarre ispirazione dai loro comportamenti.

“Contiamo sui giovani – faccio qui mie le parole pronunciate da Draghi pochi giorni fa in occasione del “Youth4Climate”, a margine dell’assemblea generale dell’Onu a New York – affinché ci aiutino a raggiungere gli “Obiettivi di Sviluppo Sostenibile” e ad attuare l’Accordo di Parigi.

 La loro connessione con le comunità, la loro capacità di trovare soluzioni innovative, la loro determinazione a costruire società più sostenibili sono oggi più che mai necessarie”.

Dai più giovani traiamo una spinta fortissima verso produzioni, verso consumi e tecnologie sostenibili, verso un uso più responsabile delle risorse.

 I più giovani ci conducono al cambiamento e noi abbiamo il dovere di farli crescere nel solco di questo profondo cambiamento culturale.

Sono certo che, così come abbiamo sempre fatto in passato, noi Cavalieri del Lavoro sapremo coltivare e favorire questo passaggio culturale.

 Sono certo continueremo a essere protagonisti del cambiamento anche in futuro. Nell’interesse di tutti.

 Personalmente sono molto ottimista.

Grazie.

(Maurizio Sella)

 

 

 

 

Emilia Romagna: La Misura è Colma,

l’Esasperazione è Tanta.

Conoscenzealconfine.it – (20 Ottobre 2023) - Renata Lizzi - ComeDonChisciotte.org – ci dice:

 

“Le promesse nel fango” dopo l’alluvione:

 Una storia di contrasti politici, ritardi e incapacità, di delusioni e amarezze.

L’alluvione in Romagna ha rappresentato un’emergenza eccezionale, provocata da eventi meteo indubbiamente straordinari, abbattutisi su un territorio notoriamente a rischio idrogeologico, che quindi hanno avuto un impatto e provocato danni imprevisti e imprevedibili: la terza catastrofe naturale del 2023, secondo il “Global Catastrophe Recap” (Ignazi 2023).

 

L’impatto è stato inatteso e distruttivo sul territorio delle province di Forlì-Cesena e Ravenna, le più colpite da frane, esondazioni, allagamenti estesi di residenze e campi coltivati, strade e autostrade, con vite stroncate dalla furia inaspettata delle acque.

La conta dei danni è impressionante: sarebbero 5.885 gli interventi di somma urgenza subito da avviare, relativi a viabilità, territorio, fiumi, canali e reti;

 726 le strade provinciali e comunali interrotte totalmente o parzialmente;

936 le frane (in buona parte nella provincia di FC);

 ben 23 i fiumi e i canali esondati; 70.300 gli edifici coinvolti (privati e pubblici, di questi 1.890 per frane);

14.200 le imprese (soprattutto piccole e esercizi commerciali) e 12.000 le aziende agricole parte delle quali con danni pluriennali (RER 2023).

 

La risposta politica non è stata all’altezza della gravità della situazione purtroppo: dopo i primi annunci di solidarietà e di vicinanza, nelle settimane successive a quelle dei primi soccorsi è sembrata compromessa la necessaria collaborazione e lo stretto coordinamento fra governo centrale e enti regionali e locali, fra politici e tecnici, fra autorità ordinarie e commissario all’emergenza.

 Divisioni politiche e istituzionali hanno fatto mancare quella capacità di risposta rapida e quel raccordo necessario nelle emergenze per garantire l’efficacia degli interventi di messa in sicurezza e ripristino.

La stessa nomina del” Commissario straordinario” è stata oggetto di un ‘tira e molla’ che si doveva evitare:

lo scontro politico dovrebbe evitare l’uso strumentale delle tragedie e dei disastri.

Anche le risposte delle amministrazioni locali sono state insufficienti:

 la complessità e la gravità della situazione, la limitata disponibilità di risorse umane e finanziarie ridotte al minimo dopo decenni di tagli nei bilanci e di blocco delle assunzioni non hanno consentito una risposta adeguata.

Tutto ciò ha fatto ricadere in massima parte su imprese e cittadini alluvionati l’onere di provvedere alle opere di ripristino e riparazione dei danni.

Cittadini alluvionati che si sono sentiti amareggiati, abbandonati e si sono mobilitati in “Comitati spontanei” che sabato 14 ottobre 2023 hanno organizzato una manifestazione unitaria.

Da osservatori, oltre che da cittadini delle zone colpite, ci corre il dovere di provare a ricostruire questa storia di annunci e di promesse mancate, utilizzando alcuni dati dell’illuminante “Report di Milena Gabanelli” (Corriere della Sera di lunedì 9 ottobre 2023) e facendo nostri gli appelli accorati e le richieste civili e moderate dei 3000 partecipanti alla manifestazione, di cittadini e famiglie alluvionate della Romagna che hanno sfilato per le vie della città di Forlì per amarezza oltre che per protesta.

È un contributo a loro innanzitutto, alla loro richiesta di spiegazioni e sostegno, oltre che di aiuti economici e ristori.

Le Promesse Annunciate della Politica e le Risposte Inadeguate.

In questi 5 mesi trascorsi dal 16 maggio 2023, la risposta della politica all’alluvione in Romagna ha spesso assunto i toni dello scontro politico, ha rivelato manovre di bassa lega per ritardare la nomina del “Commissario straordinario all’emergenza” e ha giocato per settimane sulle cifre delle risorse effettivamente stanziate, né sono mancati gli scambi di accuse fra Roma e Bologna.

Uno spettacolo a dire poco umiliante.

Dopo le prime dichiarazioni del” Presidente del Consiglio Meloni” che aveva espresso tutta la sua solidarietà e il pieno sostegno del governo alla gente di Romagna, promesso risarcimenti al 100% per tutti i danni subiti in un territorio che pesa il 2,2% del PIL nazionale, i fatti sono andati diversamente.

Innanzitutto vi è stato lo scontro politico per la nomina del” Commissario straordinario”:

l’urgenza avrebbe giustificato l’attribuzione della nomina al Presidente della regione Bonaccini, ma non è andata così.

 La nomina del Commissario straordinario all’emergenza nella figura del Generale Figliuolo, è stata formalizzata solamente il 3 luglio 2023 e solamente la legge 100/2023 del 31 luglio ha predisposto risorse e tempi per il funzionamento della struttura commissariale di supporto.

In realtà il “Commissario in pectore Figliuolo” ha presenziato a una serie di visite e sopralluoghi e incontri con i sindaci dei Comuni colpiti, ma la sua operatività ha tardato di molto.

Ancora a fine agosto la struttura del Commissario non era costituita: le 60 unità di personale che avrebbero dovuto essere comandate da altre amministrazioni e corpi tecnici mancavano dall’essere individuate.

A fine agosto 2023, le sue dichiarazioni rilasciate alla stampa lasciano basiti, sorpresi:

“È inutile che io venga a dare delle date… stiamo per mettere a punto le piattaforme e le procedure, dopo di che arriveranno le richieste e noi, con quello che abbiamo, facendo le proiezioni, andremo a chiedere anche altri fondi ed erogheremo i rimborsi.

 Dobbiamo solo mettere a punto… schemi e modelli di perizie, bisogna asseverare i danni e dare la modellistica, la daremo a breve.

Io una data non ce l’ho. Non sono in grado di darla “(Ansa – 31 agosto 2023).

Era dunque già il 31 agosto 2023 ed è trascorso anche tutto settembre per sapere che le procedure e il portale, le indicazioni su requisiti e modelli di perizia e di domanda dei contributi arriveranno a metà novembre 2023.

Confidiamo nella provvidenza come ai tempi di Manzoni…

Eppure già il decreto legge 88 del 6 luglio 2023 (poi annullato e confluito nella legge 100/2023 del 31 luglio) prevedeva che il Commissario – entro due mesi dalla nomina –  per quanto riguarda la ricostruzione privata  individuasse gli interventi di immediata riparazione degli edifici residenziali e produttivi, definisse i criteri  di  indirizzo per progettazione e la realizzazione degli interventi di ricostruzione e di riparazione o ripristino degli edifici danneggiati, definisse procedure, tempistiche.

 

La vicenda delle risorse promesse ma mai destinate, il balletto delle cifre annunciate (4,5 miliardi) e il difficile conteggio di quelle effettivamente stanziate (2,2 miliardi) con una serie di provvedimenti successivi hanno provocato gravi tensioni fra il presidente Meloni e Bonaccini.

In una lettera che la premier Meloni ha inviato il 12 agosto 2023 al governatore dell’Emilia Romagna e sub commissario alla ricostruzione Stefano Bonaccini, si legge che “…non sarebbe corretta l’informazione secondo la quale in Romagna non si sarebbe visto un euro… il governatore mette in discussione l’impegno del governo per desiderio di visibilità” (Sole 24 ore del 12 agosto 2023).

In realtà sono stati emanati due decreti legge, poi confluiti nella legge 100 del 2023, di difficile lettura per il conteggio effettivo delle risorse stanziate e/o disponibili, ma una buona parte delle risorse erano destinate a far ripartire le attività produttive e riservata alla cassa integrazione dei lavoratori.

Risorse che non sono state utilizzate.

Nel frattempo e in attesa che il “Commissario Figliuolo” diventasse operativo, la Regione e gli enti locali sono intervenuti con misure di immediato sostegno e hanno provveduto agli interventi di somma urgenza sul territorio, anticipando le risorse.

Sono stati attivati gli aiuti immediati alla popolazione, attraverso le domande di CIS e CAS (Contributo Immediato sostegno e Aiuto subito), che ciascuna famiglia e residente alluvionato poteva inoltrare ai Comuni, ricevendo un anticipo di 3000 euro e un saldo di altri 2000 euro dopo verifica dei danni e dei costi sostenuti.

A partire da giugno, sono stati aperti 74 cantieri in somma urgenza: 28 anche in provincia di Bologna, 23 nel ravennate, 14 nella provincia di Forlì-Cesena, 4 nel riminese, 3 nel modenese e 2 nella provincia di Reggio Emilia.

Nel corso dell’estate sono proseguiti interventi per la riparazione degli argini, la sistemazione dei danni da tracimazioni, smottamenti, rimozione di legname e materiali portati dalle piene, interventi sulle opere idrauliche danneggiate.

 Si tratta di 5.885 interventi, individuati di concerto con Province e Comuni, i cui costi sono stimati per oltre 1,8 miliardi di euro.

Degli oltre 1,8 miliardi di euro stimati, più di 516 milioni sono già stati spesi per 972 lavori già attuati e per 1.912 in corso d’opera.

Si tratta di interventi che hanno tutti necessità di copertura finanziaria nazionale (RER 2023).

Le Domande Inevase dei Cittadini e le Ragioni della Manifestazione “Terre alluvionate” del 14 ottobre 2023.

A cinque mesi dall’evento calamitoso che ha travolto la Romagna – secondo il “Comitato Terre alluvionate” che ha promosso la manifestazione – si deve constatare con disappunto e amarezza quanto si sia ancora lontani da una risposta adeguata per tempi, entità e certezza di risorse alle urgenze dei territori e delle persone coinvolte.

Sono gravi i ritardi e le insufficienze che espongono le realtà alluvionate ai pericoli di un periodo autunno/invernale che si avvicina.

Come è stato possibile?

 Quali sono le ragioni del malcontento e dell’esasperazione, ma soprattutto dell’amarezza e della delusione che hanno spinto quasi 3000 cittadini – provenienti da quartieri e campagne, Comuni e città limitrofe, accompagnati e sostenuti da decine di sindaci con la fascia tricolore – a sfilare per le strade della città di Forlì?

In parte si è già risposto sopra, con il racconto dei ritardi, delle risposte inadeguate e contradditorie del governo centrale.

 Anche le forze politiche dell’opposizione – che pure in questi territori hanno tradizionalmente raccolto ampi consensi (seppure in progressivo calo) – non si sono attivati né mobilitati al fianco dei cittadini e dei sindaci che ancora provengono dalle loro file.

E allora, come ha scritto Ignazi (2023) non resta che la mobilitazione della società civile.

 

Anche da parte delle amministrazioni locali – nei confronti dei cittadini e dei privati alluvionati – non c’è stata sempre e in tutti i Comuni la risposta attesa e il sostegno (non solo economico) di cui gli alluvionati hanno inevitabilmente bisogno.

Nei vincoli e nei limiti di risorse e capacità disponibili, le amministrazioni locali hanno mancato di dare la necessaria attenzione e le dovute indicazioni ai cittadini, ai privati, ai piccoli esercizi commerciali:

 è mancata la comunicazione sulle priorità da affrontare, un accurato inventario dei danni relativi al residenziale privato;

è invece stato attribuito alle dichiarazioni private e alle richieste che verranno inoltrate per i maggiori contributi – accompagnate da perizie di tecnici comunque scelti e nominati dai privati – l’oneroso e difficile compito della stima dei danni e dei costi.

In tal modo, si è lasciato il compito e la responsabilità alle famiglie di provvedere non solo finanziariamente ma anche operativamente alla gravosa impresa delle riparazioni e dei ripristini, a volte persistendo le situazioni di rischio e incertezza.

Ogni cittadino e famiglia alluvionata ha impegnato l’estate, oltre che nei lavori di ripulitura di stanze e garage, nel recupero di mobili e beni perduti, nella ricerca di imprese e artigiani, ditte termoelettriche, idrauliche ed edili per ottenere preventivi, per valutare l’opportunità e la sicurezza dei lavori, per guadagnarsi l’impegno di avvio dei lavori quanto prima possibile.

 La ricerca ha poi coinvolto ingegneri e geometri per le perizie asseverate di accompagnamento alle prossime richieste di contributo al di sopra dei 3000-5000 euro.

Come sempre accade quando la domanda eccede l’offerta si crea tensione sul mercato e così è successo in Romagna, dove le ditte e le imprese sono overbooking e i prezzi sono lievitati a dismisura.

Molte imprese hanno presentato preventivi un po’ gonfiati – specie nel caso di condomini – e richiesto clausole di garanzie per versamenti anticipati… Insomma l’azienda termoelettrica che specula sul danno del vicino di casa alluvionato, nello steso quartiere, nella stessa città.

Questo ha ulteriormente gettato nello sconforto i cittadini alluvionati.

 La misura è colma, l’esasperazione è tanta:

subire un’alluvione, vedere i propri beni e i ricordi di una vita portati via dall’acqua e rovinati dal fango è qualcosa che non si può raccontare, viene meno una parte di te.

 È una violenza che migliaia di famiglie hanno subito.

 Eppure la manifestazione di sabato 14 ottobre è stata composta, civile, nessun discorso pubblico, nessuna rivendicazione urlata, soltanto una voce accorata:

se siamo un paese, se siamo una città ci aspettiamo il sostegno e il supporto delle nostre autorità, l’onestà dei professionisti e delle imprese, la trasparenza e la rapidità delle procedure e dei contributi, a coprire gli enormi costi già sostenuti e ancora da sostenere.

(ansa.it/emiliaromagna/notizie/2023/08/31/alluvione-figliuolo-una-data-per-i-ristori-ora-non-so-darla_920ad211-4f1c-4f75-8427-47574d8fbf00.html)

 

 

 

 

 

Eni Award, scienza e la tecnologia

applicate all'ambiente

per un futuro migliore.

Repubblica.it - Sibilla Di Palma – (13 OTTOBRE 2023) – ci dice:

 

Edizione 2022.

Istituito nel 2007, il riconoscimento punta a sviluppare un migliore utilizzo delle fonti energetiche, promuovere la scienza e la tecnologia applicate all'ambiente e valorizzare le nuove generazioni di ricercatori.

"Se l'umanità vuole sopravvivere avremo bisogno di un vero e proprio nuovo modo di pensare".

La frase del celebre fisico tedesco “Albert Einstein” appare oggi più che mai attuale alla luce dei fenomeni climatici sempre più estremi che stiamo vivendo e che rappresentano una minaccia molto grave per l'economia, il benessere delle persone e la salute del Pianeta.

Di qui la consapevolezza di essere chiamati a favorire un modello di sviluppo il più possibile sostenibile e in questo un ruolo molto importante è giocato dai temi legati all'energia.

Il settore si trova infatti davanti a una duplice sfida:

continuare a soddisfare i fabbisogni energetici della popolazione, in costante crescita a livello globale, riducendo al contempo le emissioni immesse in atmosfera.

Un contesto nel quale cresce l'importanza della ricerca e dell'innovazione tecnologica.

E proprio sviluppare un migliore utilizzo delle fonti energetiche, promuovere la scienza e la tecnologia applicate all'ambiente e valorizzare le nuove generazioni di ricercatori è l'obiettivo di “Eni Award”.

 

Origini ed evoluzione.

Nato nel 2007, in sostituzione del premio “Eni-Italgas”, negli anni il riconoscimento si è evoluto, affermandosi come un appuntamento di rilievo internazionale e abbracciando temi come il risanamento ambientale, le fonti rinnovabili e la progressiva decarbonizzazione (senza CO2) del sistema energetico.

Comprende una sezione dedicata alle migliori tesi di dottorato e alle più importanti innovazioni tecnologiche sviluppate da ricercatori e tecnici Eni;

 dal 2017 si è aperto anche ai ricercatori provenienti dal continente africano, con l'obiettivo di valorizzarne le forti potenzialità.

Inoltre, negli ultimi anni sono state incluse ricerche su tematiche riguardanti la sostenibilità e l'accesso all'energia connesse al raggiungimento dei 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite.

Attualmente sono previste tre sezioni principali (Frontiere dell'Energia, Soluzioni Ambientali Avanzate e Transizione Energetica), alle quali si affiancano i premi "Giovane Ricercatore dell'Anno" e "Debutto nella ricerca: Giovani Talenti dall'Africa" e i riconoscimenti all'Innovazione riservati ai ricercatori Eni.

 Numeri e progetti premiati.

Dalla prima edizione a oggi sono pervenute oltre 11mila candidature (per l'edizione 2024 è possibile presentare le domande fino al prossimo 24 novembre) e sono stati premiati 108 lavori che hanno reso possibili importanti innovazioni nei settori dell'efficienza energetica, delle rinnovabili, della decarbonizzazione (senza CO2) e della tutela dell'ambiente.

Tra i premiati negli anni ci sono la statunitense “Frances H. Arnold,” insignita nel 2018 del premio Nobel per la chimica dall'”Accademia Reale delle Scienze della Svezia”, che si è aggiudicata l'”Eni Award per le energie rinnovabili”;

 la canadese “Barbara Sherwood Lollar”, diventata famosa per i suoi studi sulla presenza di acqua su Marte, che nel 2012 ha ottenuto il riconoscimento per il suo lavoro sull'applicazione della geochimica degli isotopi stabili alla protezione delle risorse di falda e dell'ambiente;

il ricercatore italiano “Roberto Danovaro”, riconosciuto dalla prestigiosa piattaforma Expertscape come principale scienziato al mondo nella categoria oceani e mari, che è stato premiato nell'ambito dell'Eni Award per i suoi studi sull'ambiente marino e sul suo ruolo nel ciclo della CO2;

“Giorgio Parisi” e “Klaus Hasselmann”, insigniti del Premio Nobel per la Fisica 2021, che sono risultati entrambi vincitori di Eni Award (allora Premio Eni-Italgas) rispettivamente nel 1993 e nel 1996.

Tra i partecipanti anche illustri scienziati come “John Craig Venter”, noto per il sequenziamento del genoma umano, “Gérard Férey”, ricercatore dei solidi ibridi e inorganici nano porosi scomparso nel 2017, “Emiliano Mutti”, uno dei padri della geologia italiana moderna.

 

 

 

La transizione energetica può

generare una coincidenza divina?

Ecb.europa.eu -Fabio Panetta – (16 novembre 2022) – ci dice:

Intervento di Fabio Panetta, Membro del Comitato esecutivo della BCE, presso l’Associazione bancaria italiana.

La composizione delle fonti di energia deve cambiare radicalmente per ottenere emissioni nette nulle di carbonio (Co2) entro il 2050.

La profonda trasformazione imposta dalla transizione ecologica può però incidere sull’evoluzione futura dei prezzi dell’energia.

A questo proposito, viene talora sostenuto che la transizione verde provocherà un aumento persistente dei prezzi delle materie prime energetiche e dell’inflazione.

Gli effetti della transizione ecologica sul costo dell’energia non sono però semplici da valutare.

La transizione influenzerà numerosi fattori, che a loro volta incideranno sul mercato dell’energia.

 Ad esempio, essa influenzerà sia la domanda sia l’offerta di combustibili fossili attraverso molteplici canali, con effetti complessivi incerti sui prezzi nella fase di cambiamento.

 La transizione si rifletterà inoltre sul costo e sulla disponibilità di energie rinnovabili, influenzando anche per questa via la domanda e le quotazioni dei combustibili fossili.

Nel mio intervento odierno analizzerò le possibili ricadute della transizione ecologica sui prezzi dell’energia.

Sosterrò che il progresso verso un’economia più verde non implica necessariamente una maggiore inflazione.

 Molto dipenderà dalle politiche che adotteremo per sostituire le fonti di energia più inquinanti.

Sosterrò inoltre che possiamo raggiungere una “coincidenza divina” fra stabilità dei prezzi e decarbonizzazione (niente Co2).

 

Gli effetti di variazioni della domanda e dell’offerta di energia fossile e rinnovabile.

La transizione ecologica inciderà sul prezzo dei combustibili fossili e di altre fonti di energia, in particolare quelle rinnovabili, determinando l’evoluzione futura del costo complessivo dell’energia.

L’imposizione fiscale avrà un ruolo importante.

 Una tassazione più bassa (ossia una agevolazione fiscale) dell’energia verde e una tassazione più elevata (ossia una penalizzazione fiscale) dei combustibili fossili avranno effetti sia sui prezzi relativi sia sulla domanda di ciascuna fonte di energia.

L’effetto complessivo sui prezzi al consumo dell’energia dipenderà da come verranno modulate queste misure e da come verranno utilizzati i proventi della tassazione delle emissioni – ad esempio, per sovvenzionare l’energia verde e investire in tecnologie verdi.

L’evoluzione della componente energetica dell’inflazione dipenderà fortemente da come la domanda e l’offerta di energia reagiranno a questi interventi fiscali e ai conseguenti effetti sui prezzi.

Gli effetti della transizione ecologica sui prezzi dei combustibili fossili.

Vi sono diversi canali attraverso cui la transizione ecologica può incidere sulle quotazioni delle fonti di energia fossile.

Canali di trasmissione: impatto della transizione ecologica sui prezzi dei combustibili fossili.

Esercizi dello staff della BCE.

L’effetto di prezzo del canale del costo relativo è incerto a priori, poiché il prezzo privo di imposte potrebbe diminuire a causa del calo della domanda di combustibili fossili, ma il prezzo comprensivo  delle imposte potrebbe invece aumentare.

Dal lato dell’offerta, un canale ampiamente discusso è quello dell’incertezza sull’evoluzione delle politiche economiche (“policy uncertainty channel”). Mediante tale canale, le aspettative di un calo della domanda possono aumentare l’incertezza sul rendimento futuro degli investimenti in combustibili fossili, comprimendone il volume.

 Il calo degli investimenti si rifletterebbe in una diminuzione dell’offerta e in un incremento dei prezzi.

Ma altri canali di offerta potrebbero invece determinare una riduzione dei prezzi.

 I produttori potrebbero ad esempio decidere di anticipare lo sfruttamento delle proprie riserve, dando luogo a un aumento dell’offerta e a un calo dei prezzi di combustibili fossili (“frontloading channel”).

 Effetti analoghi – ossia, maggiori investimenti e costi più bassi – potrebbero scaturire anche da innovazioni tecnologiche relative ai combustibili fossili, quali la cattura e il sequestro del carbonio (“brown innovation channel”).

Anche i canali di domanda possono incidere sui prezzi.

Le preferenze dei consumatori potrebbero ad esempio orientarsi verso forme di energia verdi (“preference channel”):

si pensi ad esempio alla crescente popolarità delle automobili elettriche in Europa, le cui vendite rappresentano oggi il 14 per cento di quelle complessive, con un aumento del 160 per cento in soli due anni.

Il secondo canale è quello del costo relativo (“relative cost channel”), mediante cui le politiche climatiche possono scoraggiare la domanda di combustibili fossili, rendendoli più onerosi rispetto alle alternative verdi.

Le diverse forme di tassazione sulle emissioni di carbonio (carbon pricing) offrono un esempio di questo meccanismo.

Una maggiore imposizione fiscale sul carbonio (nonché le misure ad essa equivalenti, quali il sistema di scambio di quote di emissione) aumenterebbe il costo dei combustibili fossili, comprimendone la domanda e modificando la composizione complessiva delle fonti energetiche in favore delle energie rinnovabili.

 L’effetto di prezzo è incerto a priori: trascurando le imposte, il prezzo dell’energia fossile potrebbe diminuire, mentre quello comprensivo delle imposte potrebbe aumentare.

L’impiego di nuove tecnologie verdi (“green innovation channel”) potrebbe anch’esso incrementare la diffusione e la convenienza a utilizzare le fonti di energia pulite, riducendo quindi la domanda di fonti più inquinanti.

 Il vertiginoso incremento del numero di pompe di calore istallate in Europa negli ultimi due anni per sostituire le caldaie a gas offre un chiaro esempio di come le nuove tecnologie possano ridurre rapidamente la domanda di combustibili fossili.

 

Nel complesso, l’effetto della transizione ecologica sui prezzi dei combustibili fossili è di segno incerto.

 Esso dipenderà essenzialmente dai canali che prevarranno tra quelli descritti – canali diversi possono prevalere in momenti diversi – e sarà influenzato in misura determinante dagli sviluppi tecnologici e dalle politiche ambientali attuate dai governi a livello globale.

Energie rinnovabili ed effetti della transizione ecologica sui prezzi dell’energia in generale.

Come accennato in precedenza, l’impatto della transizione ecologica sul costo complessivo dell’energia dipenderà in maniera decisiva dalla disponibilità e dal prezzo delle fonti rinnovabili.

I costi associati alle energie rinnovabili sono in calo, e si collocano oggi su livelli inferiori a quelli dei combustibili fossili.

Già nel 2020 la creazione di nuovi impianti fotovoltaici e di nuove centrali eoliche onshore aveva un costo minore di quello necessario sostenuto per la costruzione di nuove centrali a combustibile fossile.

Nel 2021 i costi dell’eolico onshore sono scesi del 15 per cento rispetto all’anno precedente;

sono invece scesi del 13 per cento quelli sia degli impianti eolici offshore, sia fotovoltaici.

Con riferimento all’anno in corso, si stima che il costo marginale di produzione di energia solare sia pari a un quarto di quello relativo alle centrali a gas esistenti in Europa.

Nell’attuale crisi energetica i prezzi dell’elettricità all’ingrosso sono stati contenuti dall’UE ricorrendo in misura maggiore alle energie rinnovabili rispetto al gas per la generazione di energia elettrica.

La ricomposizione della produzione e del consumo dell’energia dai combustibili fossili in favore delle energie rinnovabili non è quindi necessaria unicamente per raggiungere l’obiettivo di emissioni nette nulle.

Il più basso costo delle energie rinnovabili può infatti esercitare una pressione al ribasso sul costo complessivo dell’energia.

A tale riguardo, l’UE è intervenuta per attenuare l’impatto dell’impennata del prezzo dell’energia elettrica su famiglie e imprese, imponendo un tetto temporaneo ai ricavi dei produttori con bassi costi marginali, ossia principalmente produttori di energia rinnovabile e nucleare.

Una maggiore produzione di energia rinnovabile consentirebbe inoltre all’economia europea di affrontare più agevolmente un rincaro e una restrizione dell’offerta dei combustibili fossili.

 Le energie rinnovabili presentano anch’esse svantaggi, quali l’intermittenza nella produzione e il fabbisogno di materie prime necessarie per la costruzione degli impianti, ma non richiedono l’impiego di materie prime durante il ciclo di vita degli impianti.

Cosa possiamo attenderci in un contesto di incertezza?

Al fine di valutare gli effetti della transizione verde sui prezzi dell’energia, organismi internazionali quali il Network for Greening the Financial System (NGFS) e l’Agenzia internazionale per l’energia (AIE) hanno fatto ricorso ad analisi di scenario. In questo paragrafo esaminerò due scenari di segno opposto.

Il primo ipotizza l’avvio immediato di politiche ambiziose, in grado di garantire una transizione climatica ordinata.

Esso limita il riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi facendo ricorso a politiche rigorose e all’innovazione tecnologica, conseguendo l’obiettivo globale di emissioni nette nulle entro il 2050, definito nell’Accordo di Parigi.

 Lo scenario ipotizzato – il cui successo richiede interventi decisi e un ampio utilizzo di tecnologia in tutti i settori dell’economia viene descritto dall’NGFS in termini generali, senza fornire informazioni dettagliate e granulari sui costi complessivi dell’energia (inclusi quelli delle fonti rinnovabili), che avrebbero facilitato la valutazione dei risultati.

L’NGFS rende però disponibili le stime relative ai prezzi di petrolio, gas e carbone.

I risultati dell’esercizio indicano che il costo dell’energia aumenterebbe in misura contenuta nei prossimi dieci anni nello scenario a emissioni nulle.

 In particolare, lo scenario prevede una crescita dei prezzi del petrolio pari a solo il 6 per cento in termini cumulativi tra il 2020 e il 2030, per effetto dell’aumento dei costi di estrazione.

 In presenza di una domanda relativamente sostenuta, il prezzo del gas registrerebbe un aumento più sostenuto di quello del petrolio, ma comunque contenuto in termini assoluti.

In uno scenario analogo a quello dell’NGFS appena descritto, l’AIE stima che i prezzi dei combustibili fossili (escluso il gas) tenderebbero addirittura a ridursi.

Vi sono proiezioni delle variazioni dei prezzi del petrolio entro il 2030 in diversi scenari.

Proiezioni delle variazioni dei prezzi dei combustibili fossili al lordo delle imposte dal 2020 al 2030.

 Lo scenario a zero emissioni nette ha carattere ambizioso e limita il riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi, raggiungendo l’azzeramento delle emissioni nette entro il 2050.

Lo scenario elaborato dall’NGFS in base ai contributi determinati a livello nazionale (nationally determined contributions, NDC) ha carattere meno ambizioso e prevede che gli impegni derivanti dalle politiche climatiche generino un riscaldamento globale pari a circa 2,5 gradi centigradi.

Lo scenario basato sulle dichiarazioni delle politiche (stated policies scenario, STEPS) elaborato dall’AIE è utilizzato quale scenario più prossimo allo scenario NDC.

Per gli scenari dell’NGFS la figura mostra la media dei tre modelli principali.

Uno scenario alternativo elaborato dall’NGFS sulla base dei cosiddetti “contributi determinati a livello nazionale” (nationally determined contributions, NDC) ipotizza invece che i diversi paesi in futuro attuino unicamente le politiche ambientali previste dagli impegni già assunti.

 In un tale quadro, l’impegno profuso a livello globale risulterebbe insufficiente a contrastare il riscaldamento globale:

 le emissioni si ridurrebbero ma provocherebbero comunque un aumento delle temperature di almeno 2,6 gradi centigradi, con gravi rischi legati al verificarsi di fenomeni naturali estremi (physical risk).

 Gli obiettivi climatici fissati dall’Accordo di Parigi non sarebbero conseguiti, e la Terra registrerebbe un aggravamento dell’effetto “serra”.

Secondo l’NGFS gli incrementi dei prezzi dei combustibili fossili sarebbero moderati anche in un tale scenario.

Questa previsione contrasta però con i risultati di un esercizio analogo effettuato dall’AIE, secondo cui l’aumento dei prezzi dei beni energetici risulterebbe più elevato.

 Questa differenza riflette la rapida crescita ipotizzata per la domanda di gas e petrolio nel breve periodo, cui non corrisponderebbe un aumento degli investimenti in fonti rinnovabili in grado di soddisfare il maggiore fabbisogno di energia.

I risultati appena descritti vanno considerati con cautela. Gli scenari dell’NGFS non tengono infatti conto delle tensioni che stanno interessando il mercato del gas e che potrebbero determinare, almeno nel breve termine, un’evoluzione dei prezzi difforme da quella indicata nelle proiezioni.

 Inoltre, i risultati delle simulazioni variano fortemente in funzione delle ipotesi relative alle politiche in campo energetico, alle preferenze dei consumatori, all’innovazione tecnologica, agli andamenti del mercato e a molti altri elementi.

Il Fondo monetario internazionale (FMI) rileva che gli effetti inflazionistici della transizione ecologica dipendono soprattutto dalle politiche adottate nella fase di passaggio.

Benché secondo alcuni scenari la transizione possa generare pressioni inflazionistiche moderate, l’FMI è giunto a conclusioni analoghe a quelle dell’NGFS e dell’AIE:

nell’area dell’euro una transizione volta a ridurre le emissioni di carbonio del 25 per cento entro il 2030 non influenzerebbe l’inflazione rispetto allo scenario di base, a condizione che un terzo degli introiti provenienti dai più elevati prezzi del carbonio venga destinato a sussidi ambientali.

 Secondo l’FMI, il costo della transizione verso l’energia pulita non avrebbe quindi carattere inflazionistico, e ritardare la transizione comporterebbe unicamente un incremento dei costi.

Nel complesso, queste analisi indicano che gli effetti della transizione ecologica sui prezzi dell’energia non vanno in un’unica direzione.

La transizione non determinerà necessariamente una impennata dei costi dell’energia; potrebbe anzi avere conseguenze opposte.

I suoi effetti dipenderanno dall’interazione tra i diversi canali che prevarranno nel passaggio alle energie pulite e, soprattutto, dalle politiche climatiche adottate in tale fase.

Ad esempio, lo sviluppo delle tecnologie necessarie per conseguire l’obiettivo della decarbonizzazione richiede di realizzare tempestivamente ingenti investimenti in ricerca e innovazione.

 Se la transizione avverrà nei tempi richiesti e con il sostegno di politiche adeguate, le spinte al rialzo dei prezzi potranno essere contenute.

E mettendo a confronto il valore attuale dei benefici derivanti dalle minori emissioni con quello dei costi necessari per ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili e adottare fonti rinnovabili, i vantaggi netti risultano essere considerevoli.

La transizione verde sta contribuendo all’attuale crisi energetica?

La scorsa estate, dopo mesi di crescita continua, i prezzi di petrolio e gas hanno toccato i livelli massimi da molti anni, sollevando interrogativi circa il legame tra tali aumenti e la transizione ecologica.

Per rispondere a questo interrogativo occorre far ricorso all’ampia letteratura empirica sulle determinanti dei prezzi del petrolio.

Secondo analisi recenti, la transizione ecologica avrebbe influenzato gli investimenti nel settore dei combustibili fossili in misura solo limitata.

Negli ultimi anni le aspettative sulla transizione potrebbero aver provocato una caduta degli investimenti nel settore petrolifero, probabilmente per effetto del maggiore costo da sostenere per attrarre risorse finanziarie.

Al tempo stesso, si stima che uno shock simile a quello che sarebbe necessario per rispettare l’Accordo di Parigi avrebbe sugli investimenti petroliferi un effetto trascurabile nel breve termine – tra l’1 e il 2 per cento del volume degli investimenti complessivi – per poi aumentare in misura comunque limitata.

Il rischio di transizione non ha sinora inciso in misura significativa sulle quotazioni petrolifere.

Ciò è coerente con le analisi descritte in precedenza.

Questi andamenti possono riflettere numerosi fattori: il calo degli investimenti in combustibili fossili può aver risentito sia dell’incertezza relativa alle politiche in materia di energia, sia della minore domanda di questi combustibili.

Tali canali di offerta e di domanda hanno effetti opposti sui prezzi, e il loro impatto complessivo sui prezzi potrebbe pertanto essere stato contenuto o persino nullo.

Il diagramma A mostra gli effetti di una variazione del rapporto fra gli articoli giornalistici sulla transizione ecologica e gli articoli complessivi pubblicati nelle maggiori testate, utilizzando un metodo di proiezione locale che tiene conto degli shock individuati dal lato dell’offerta e dal lato della domanda di petrolio.

 Lo shock è rapportato alla copertura negli articoli rilevati durante la 21o sessione della riunione della Conferenza delle Parti (Conference of the Parties, COP21) di Parigi nel dicembre del 2015;

il numero degli impianti internazionali di trivellazione petrolifera è utilizzato come proxy degli investimenti nel settore petrolifero.

Nei diagrammi B e C le risposte a impulso e la scomposizione della varianza degli errori di previsione sono ricavate da un modello BVAR per i prezzi del petrolio a frequenza mensile, in cui viene individuato uno shock derivante dal rischio di transizione in aggiunta alla domanda di petrolio, alla domanda specifica di petrolio e agli shock dal lato dell’offerta di petrolio con restrizioni di segno e di tipo narrativo.

Nel diagramma B le risposte a impulso sono rapportate a uno shock di entità simile a quello osservato durante la riunione della COP21 di Parigi.

Il periodo del campione è compreso fra l’ottobre del 2013 e il gennaio del 2022.

Analisi empiriche suggeriscono che il prezzo del petrolio avrebbe sinora risentito soprattutto degli shock di natura “convenzionale” alla domanda e all’offerta di petrolio.

 Ciò varrebbe anche per le attuali elevate quotazioni del petrolio, in ampia misura dovute alla ripresa della domanda di petrolio dopo la pandemia e alla restrizione dell’offerta determinata da motivi diversi dal cambiamento climatico, quali le decisioni del cartello dei paesi produttori di petrolio.

Le turbative dell’offerta hanno un ruolo assai più ampio nella determinazione dei prezzi del gas nel mercato europeo.

Vi sono indicazioni secondo cui la Russia, già prima dell’invasione dell’Ucraina, avrebbe manipolato le forniture di gas sul mercato europeo, riducendo i flussi di offerta e generando scarsità e incertezza riguardo alle forniture future.

 Il gas erogato dalla Russia all’Europa aveva iniziato a diminuire già nel 2021, nonostante l’aumento dei prezzi e la elevata domanda.

La minore offerta ha via via assottigliato le scorte detenute presso gli impianti europei, pur a fronte della possibilità di espandere le esportazioni di gas.

 Dopo l’invasione dell’Ucraina, i flussi di gas russo provenienti dai gasdotti principali, come il Nord Stream 1, sono stati ulteriormente ridotti e poi interrotti, causando forti impennate dei prezzi.

Il gas naturale liquefatto include le forniture dalla Russia.

L’ultima osservazione si riferisce al 24 ottobre del 2022.

Le tensioni economiche, inflazionistiche e politiche determinate da questa strategia di offerta avevano presumibilmente l’obiettivo di frantumare l’unità dell’Europa e di indebolire il suo supporto alle sanzioni stabilite contro la Russia, in vista della invasione già pianificata dell’Ucraina e poi avviata nel febbraio del 2022.

 Questo obiettivo non è stato raggiunto.

Questi eventi devono invece indurre l’UE ad accelerare la transizione ecologica, piuttosto che a rallentarla, e a rafforzare l’impegno volto ad affrancarsi nel minor tempo possibile dalla dipendenza dalle fonti fossili provenienti dalla Russia.

I progressi considerevoli raggiunti nell’intensità energetica dopo gli shock petroliferi dei primi anni settanta sono motivo di ottimismo circa la possibilità di ottenere rapidi progressi in risposta allo shock attuale.

Possiamo raggiungere una coincidenza divina?

Per conseguire una “coincidenza divina”, liberandoci dalla dipendenza dai combustibili fossili senza provocare un aumento dei prezzi dell’energia, dovremo ridurre l’intensità e innalzare la sicurezza in campo energetico, finanziando in misura adeguata la transizione.

In primo luogo, le politiche in campo energetico dovranno fornire adeguati incentivi alla riduzione della domanda di combustibili fossili.

Ciò limiterebbe le pressioni al rialzo dei prezzi dell’energia durante la fase di transizione e contribuirebbe ad abbassare le emissioni di gas serra.

Nell’UE, il pacchetto “Fit for 55” e il piano “REPowerEU” hanno definito obiettivi di efficienza energetica ambiziosi, introducendo misure concrete per il loro raggiungimento.

Nel breve termine, i ministri dell’UE hanno concordato riduzioni volontarie e obbligatorie della domanda di elettricità in risposta alla crisi attuale.

I risultati iniziali sono incoraggianti.

In secondo luogo, l’intervento pubblico deve essere volto a salvaguardare la sicurezza energetica e a ridurre il rischio che bruschi rincari dei combustibili fossili possano ripercuotersi in misura significativa sull’inflazione.

Questo compito va coordinato o svolto a livello europeo, poiché interventi realizzati dai singoli Stati membri al fine di soddisfare il fabbisogno domestico di energia e di proteggere le proprie imprese dai rincari potrebbero generare politiche di “beggar-thy-neighbour” che finirebbero per danneggiare altri paesi.

Le recenti iniziative definite in sede europea vanno nella giusta direzione.

Ad esempio, il Consiglio dell’UE ha introdotto contributi di solidarietà da parte delle imprese operanti nel settore dei combustibili fossili, al fine di aiutare famiglie e imprese.

La Commissione europea ha proposto acquisti comuni di gas per rafforzare il potere contrattuale dell’UE e garantire le forniture agli Stati membri.

Essa ha inoltre proposto meccanismi di solidarietà in caso di carenze di gas e sta riesaminando il regime degli aiuti di Stato.

Infine, i ministri degli Stati membri hanno concordato che le misure di bilancio volte ad attenuare l’impatto dei rincari dell’energia dovrebbero essere dirette alle famiglie e alle imprese più vulnerabili, senza annullare gli incentivi di prezzo alla riduzione del consumo di combustibili fossili.

In terzo luogo, gli interventi pubblici devono sostenere gli investimenti necessari per realizzare la transizione ecologica.

Secondo l’AIE, per fronteggiare con efficacia il cambiamento climatico e contenere i prezzi dell’energia dovremo triplicare il volume degli investimenti in fonti rinnovabili entro la fine di questo decennio.

 Per l’UE nel suo complesso, l’ammontare degli investimenti necessario per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili russi e raggiungere gli obiettivi climatici è stimato in circa 500 miliardi di euro all’anno fra il 2021 e il 2030.

Il finanziamento di un così ingente volume di investimenti in energia pulita richiederà il contributo del settore privato.

Incentivi a tale riguardo possono essere forniti con interventi normativi;

 ad esempio, snellendo le procedure amministrative di approvazione possiamo accelerare la realizzazione dei progetti di energia rinnovabile.

Nel campo della finanza sostenibile, progressi volti a garantire informazioni trasparenti in materia climatica possono contribuire in misura rilevante a ridurre il costo del capitale relativo agli investimenti verdi.

Il settore privato avrà bisogno di tempo per adeguarsi, ma potrebbe non disporre degli incentivi necessari per investire in misura adeguata in progetti aventi la caratteristica di beni pubblici.

Al fine di sostenere e accelerare la transizione ecologica, occorrono investimenti pubblici aventi la funzione di backstop.

Come ho sostenuto in passato, tali investimenti sarebbero finanziati in maniera più efficace ed efficiente a livello europeo piuttosto che dai singoli Stati membri.

 Essi potrebbero essere realizzati con l’intervento di un fondo dell’UE dedicato alla sicurezza climatica ed energetica e avente il compito di sostenere la transizione verde negli anni a venire.

Conclusioni.

La transizione ecologica è spesso presentata come una minaccia per aspetti essenziali della nostra vita quotidiana, quali il nostro potere d’acquisto e le opportunità di crescita della nostra economia.

Una visione così negativa è ingiustificata.

 La “coincidenza divina” non è una vana illusione: la transizione verde può generare vantaggi economici significativi. Dipenderà dalle politiche che adotteremo.

Se sarà gestita correttamente, la risposta globale alla crisi climatica potrà innalzare la produttività e la crescita attraverso molteplici canali:

 ottimizzando l’allocazione delle risorse, migliorando le condizioni sanitarie, stimolando il progresso tecnologico

Possiamo rendere, per questa via, “[...] l’azione per il clima un motore fondamentale di crescita alimentato da investimenti, tecnologia, politiche energetiche e finanza”.

La transizione verde non determinerà necessariamente un aumento dell’inflazione.

 Politiche adeguate nel campo dell’energia possono comprimere la domanda di combustibili fossili.

Stimolando la produzione di energie rinnovabili a basso costo, esse possono contenere le pressioni inflazionistiche, e persino ridurre l’inflazione rispetto a uno scenario controfattuale caratterizzato dall’assenza di interventi.

 Già oggi stiamo beneficiando del costo contenuto delle energie rinnovabili al fine di attenuare l’impatto del rincaro dei combustibili fossili sui prezzi dell’elettricità.

La forte spinta fornita dall’energia all’attuale aumento dell’inflazione non è determinata dalla transizione ecologica.

Essa riflette invece soprattutto la manipolazione dell’offerta di combustibili fossili da parte della Russia.

Se avessimo avviato per tempo la transizione verde, avremmo potuto progredire più agevolmente verso gli obiettivi climatici, e avremmo potuto limitare la nostra vulnerabilità allo shock energetico e le sue ricadute sull’inflazione.

L’economia europea avrebbe reagito con maggiore efficacia alla crisi.

Per combattere il cambiamento climatico, le autorità devono attuare misure tempestive, decise, ambiziose, con il necessario sostegno dei cittadini.

 

Un tale risultato richiede una visione realistica e positiva della transizione ecologica.

Dobbiamo rassicurare i cittadini sul fatto che, con politiche adeguate, la transizione verde consentirebbe di accrescere – non di diminuire – le loro opportunità di lavoro, la qualità della loro vita e il loro potere d’acquisto.

 In assenza di interventi, le prospettive sarebbero peggiori, e implicherebbero il ripetersi di crisi come quella che stiamo attraversando.

È nel nostro interesse collettivo dare concretezza a questa visione e realizzare i necessari interventi a livello europeo.

Strategie comuni conferiranno efficacia alle misure volte a migliorare l’efficienza e la sicurezza in campo energetico e a garantire le risorse necessarie per finanziare la transizione climatica.

L’unità ci rende più forti nell’affrontare le difficoltà e ci dà più potere nel disegnare il nostro futuro.

Anche sul fronte del clima e dell’energia.

Desidero ringraziare Ine Van Robays, Fabio Tamburrini e Jean-Francois Jamet per l’aiuto che mi hanno fornito nella preparazione di questo intervento. Ringrazio inoltre Jakob Adolfsen, Juliette Desloires, Donata Faccia, Francesco Drudi, Alessandro Giovannini, Miles Parker, Laura Parisi e Lucas ter Braak per gli utili commenti.

(Fabio Panella).

 

Chiarimenti.

 I combustibili fossili sono rappresentati da carbone, petrolio e gas naturale.

 La convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC) li definisce “depositi geologici combustibili sepolti di materiale organico, formato dal decadimento di piante e animali trasformatisi in greggio, carbone, gas naturale oppure oli pesanti tramite esposizione a calore e pressione nella crosta terrestre nell’arco di centinaia di milioni di anni”.

 La combustione di carbone, petrolio (compresa la benzina) e gas naturale per generare energia rilascia carbonio che si ossida diventando anidride carbonica nell’atmosfera.

 (Occorre precisare che l’anidride carbonica (CO2) è più pesante dell’aria. Non potrebbe rimanere nell’atmosfera e quindi ricadrebbe sulla terra o sul mare. I gas serra dovranno fare a meno della partecipazione operativa della Co2- prodotta dall’uomo- all’interno della cupola in alta atmosfera! N.D.R.)

(Anche aumentando la concentrazione dei gas serra che intrappolano il calore nell’atmosfera (escludendo la  Co2), i combustibili fossili utilizzati dall’uomo non possono così contribuire al cambiamento climatico che dipende  solo - come all’inizio - dall’opera del sole. N.D.R.)

 

 

 

Russia e Cina si uniscono

contro l'impero USA.

 Unz.com - MICHAEL HUDSON – (20 OTTOBRE 2023) – ci dice:

 

Dimitri Sime Jr.:

Ciao a tutti!

Questo è il podcast “New Rules” e questo è il nostro primo” live streaming” in assoluto su “Rumble”.

Sono il vostro ospite, Dimitri Sime Jr., e il nostro ospite di oggi è l'economista Michael Hudson.

 E parleremo dell'incontro “Putin”-“Xi”, dei cambiamenti più ampi nell'economia globale e della possibilità che gli Stati Uniti mantengano il loro status di egemone economico globale.

Professor Hudson, grazie mille per aver aderito al programma.

 

Michael Hudson: Beh, è bello essere di nuovo qui.

Dimitri Sime Jr.:

Quindi immagino di aver voluto iniziare con il contesto più ampio, giusto?

Perché quando guardiamo a come i media statunitensi hanno parlato dell'economia cinese negli ultimi mesi, hanno detto che l'economia cinese è in difficoltà, che la” Belt and Road Initiative” è in stallo.

Fino a che punto, secondo lei, questa è una valutazione equa di ciò che sta accadendo in questo momento?

Michael Hudson

Beh, quando dicono che l'economia cinese è in difficoltà, intendono dire che, nonostante il fatto che stia crescendo più velocemente di quasi tutti i paesi occidentali, non sta crescendo così velocemente come prima.

 E il motivo è il debito immobiliare molto pesante.

Il settore immobiliare cinese è stato finanziato in un modo in cui è stato fatto negli Stati Uniti per il settore immobiliare.

Un'azienda pianificherà lo sviluppo di un edificio o di centinaia di edifici, nel caso di “Evergrande” e altri, e inizierà a prendere in prestito denaro per iniziare la costruzione.

E devono rimborsare il prestito vendendo il diritto di proprietà  agli appartamenti dopo che l'edificio è finito.

E per decenni ha funzionato negli Stati Uniti.

Otterreste un finanziamento iniziale per costruire un edificio.

Ne avreste avuto delle foto, avreste avuto modo di vedere come sarebbe stato. C'erano persone che compravano gli edifici.

 E molto spesso, certamente qui a New York, quando un nuovo edificio veniva costruito, quando l'edificio era finito in cinque anni o giù di lì, il prezzo di mercato dell'edificio era in realtà molto più alto.

Così tante persone non solo volevano il proprio appartamento, ma gli investitori che volevano acquistare appartamenti in condomini o condomini, cooperative e affittare avrebbero realizzato un profitto.

 

E in Cina, pensavano che questo sarebbe andato avanti per sempre, proprio come negli Stati Uniti.

 La gente non vedeva che a un certo punto ci sarebbe stata una recessione.

E il fatto è che i mutuatari, i costruttori che stavano costruendo gli edifici non sono stati in grado di vendere così tanti appartamenti quanti ne stavano comprando e sono rimasti indietro con i pagamenti.

Ebbene, uno dei problemi in Cina è esattamente quello che è successo negli Stati Uniti.

Qui c'era Fannie Mae, la compagnia assicurativa immobiliare governativa che sottoscriveva il rischio di tutti i mutui immobiliari che le banche avrebbero fatto.

In America quasi tutti i mutui sono garantiti dagli Stati Uniti in modo che le banche non perdano soldi sui mutui.

Oggi, le banche possono addebitare il 7,2% sui mutui e hanno la garanzia di non perdere denaro da parte del governo.

La Cina lo ha fatto su scala ancora più ampia.

 E le compagnie di assicurazione cinesi, anzi le banche, le banche hanno garantito i prestiti del grande costruttore perché sembrava alle banche che la nostra proprietà potesse solo salire di prezzo.

Non può scendere.

Ebbene, all'improvviso, in questo momento, i prezzi degli immobili stanno scendendo in Cina.

 

Ora, normalmente si potrebbe pensare che, se i prezzi degli immobili stanno scendendo, dovrebbe essere una buona cosa.

 Se un salariato può pagare meno per la sua casa, allora avrà più soldi per pagare beni e servizi e altre cose.

Ma in questo caso, il calo dei prezzi degli immobili non è positivo se significa che lo sviluppatore non è in grado di pagare alle banche i soldi che ha stipulato o che gli obbligazionisti di “Country Garden” ed “Evergrand”e pagavano tassi di interesse di circa il 13% all'anno.

Ora, questo è un tasso di interesse incredibile.

Se sei un investitore e acquisti un'obbligazione da una delle grandi società immobiliari cinesi, ciò significa che raddoppi il tuo investimento in soli cinque anni rispetto ai tassi di interesse che stavano pagando.

 Nessuna economia può crescere così velocemente.

Nemmeno l'economia cinese.

 E così il governo che non supervisionava queste vendite di appartamenti diceva:

"Aspetta un attimo, il mercato interno può davvero crescere a un ritmo esponenziale così alto che le banche saranno in grado di continuare a vendere tutto ciò che costruiscono a un prezzo crescente?"

 Nessun paese è stato in grado di farlo, ma tutti i paesi si sono imbattuti nello stesso tipo di rallentamento immobiliare in cui si trova ora la Cina.

Ma si scopre che la quantità di denaro garantita per i grandi sviluppatori immobiliari è quasi un sesto di tutte le riserve in dollari esteri che la Cina detiene.

 Quindi questo è un vero problema di cosa fare con il fatto che le grandi aziende non possono pagare i loro debiti, il che normalmente non sarebbe male.

Non possono pagare i debiti, ok?

Perdono i loro soldi e un'altra società arriva e finisce di costruire gli edifici e li vende per qualcosa.

 Ma il problema è che le banche cinesi e le piccole banche spesso hanno garantito le obbligazioni e i debiti, e in sostanza le loro riserve saranno spazzate via.

 E se le banche che hanno garantito questi prestiti immobiliari subiscono una perdita, allora cosa accadrà ai depositanti?

Ebbene, la Cina ha qualcosa di simile in America, la “Federal Reserve”, la FDIC, la “Federal Deposit Insurance Corporation”, che garantisce che fino a circa 250.000 depositanti avranno la garanzia di non perdere i loro soldi.

Chi perderà?

 E come farà il governo cinese a decidere quale depositante perderà quando le banche non sono in grado di coprire le perdite della società immobiliare che finanziano?

Dimitri Simes Jr.:

Ovviamente, la situazione del mercato immobiliare ha creato una situazione difficile per l'economia cinese.

 Ma immagino di voler capire fino a che punto questo è anormale e potenzialmente terminale per l'economia cinese?

 Perché ricordo che abbiamo avuto il “professor Jeffrey Sachs” qualche episodio fa e ha sostenuto che, sì, ci sono sfide nell'economia cinese, ma è normale che le economie che vanno per cicli economici abbiano alti e bassi e che è prematuro dire che il miracolo economico della Cina è giunto al termine o che l'economia cinese è sull'orlo di un grave crollo, come sostengono molti media mainstream.

 Sapete, fino a che punto alcune delle valutazioni più pessimistiche sono giustificate dal vostro punto di vista?

 

Michael Hudson:

Non credo che siano giustificati.

 Penso che gli americani vogliano dire che qualsiasi cosa faccia la Cina non funzionerà, perché fa parte dell'intera giustapposizione di "l'economia degli Stati Uniti funziona, le altre economie dovrebbero essere proprio come noi".

 Ma Jeffrey Sachs ha ragione.

 È normale che l'entusiasmo degli affari sottovaluti il rischio e si renda conto che un boom, soprattutto nel settore immobiliare, non può durare per sempre.

Questo accade in ogni paese.

 Penso che negli ultimi 200 anni ci sia stato un ciclo immobiliare di 19 anni.

Nessuna economia ne è stata sconfitta, ma c'è un ciclo e qualcuno deve sempre perdere.

Molti grandi sviluppatori sono eccessivamente ottimisti e falliscono.

Penso che Donald Trump sia fallito un paio di volte e che le banche li abbiano salvati.

 Quindi, in un certo senso, questo eccesso di entusiasmo è un fenomeno universale, e di solito porta il governo a istituire controlli e contrappesi in modo da non sovraccaricare di nuovo il mercato.

 

E sono sicuro che la Cina sta cercando di dire: come possiamo evitare che questo accada di nuovo?

Di certo hanno abbastanza soldi per coprire tutto.

La Cina può semplicemente cancellare il debito.

Ha abbastanza soldi per permettersi la crisi, ma sta causando un vero problema per gli investitori e le due grandi società immobiliari.

E a quanto pare c'è stato un sacco di cattiva contabilità.

E negli Stati Uniti, le società di revisione contabile sono molto spesso ritenute responsabili per non aver avvertito le banche che le hanno assunte che c'è un problema in arrivo.

Quindi questa sovrastima è un sottoprodotto della bolla.

Le bollicine hanno creato questo entusiasmo e lo hanno sovraccaricato.

Ma l'economia cinese sottostante continua a salire.

E penso che tu abbia menzionato la Belt and Road.

L'economia cinese è molto più che immobiliare.

Ed è di questo che i critici non parlano, perché tutto ciò che non è immobiliare sta procedendo meravigliosamente per la Cina.

 E la sua risposta alle sanzioni commerciali americane è stata quella di rendersi indipendente dalla dipendenza dagli Stati Uniti.

 Questo è sempre il risultato delle sanzioni commerciali.

 Le sanzioni commerciali significano che è il paese che impone le sanzioni, ad esempio, sui chip per computer che perde quel mercato per sempre perché il paese sanzionato ha detto: "Ok, produrremo il nostro".

E la Cina è stata in grado di farlo.

E capisco anche che i taiwanesi stiano investendo di più in attrezzature per la produzione di chip sulla terraferma.

Quindi la Belt and Road sta andando bene. L'industria manifatturiera cinese sta andando bene e i giornali cercano qualcosa da criticare.

E la Cina dovrà fare quello che hanno fatto tutti gli altri paesi: decidere chi subirà una perdita e quanto una perdita e chi salvare.

Dimitri Simes Jr.:

Sì, penso che il tuo punto di vista sull'economia sottostante sia molto interessante e molto importante perché, ancora una volta, non sono un economista, sono un giornalista.

Ma quando guardo da lontano come un dilettante, sembra che la Cina abbia molti dei fondamentali necessari in atto.

 Ha una forte industria, ha una grande popolazione che è sempre più istruita e ha un settore high-tech in via di sviluppo.

 Questo non suggerisce che, anche se ora sta attraversando alcune sfide a causa di errori nel mercato immobiliare, è ben posizionata per essere competitiva nel lungo periodo?

 

Michael Hudson:

Beh, non hai menzionato il suo vantaggio numero uno. A differenza delle economie occidentali, la Cina ha creato denaro, credito e banche come servizio pubblico.

 Ciò significa che è il governo il creditore finale delle banche.

Ora, negli Stati Uniti, non è quello che succede.

Negli Stati Uniti, se le banche falliscono e la società fallisce, ci sono riverberi in tutta l'economia dei fallimenti e anche dei derivati nel 2008. Il fatto che ci siano enormi scommesse di Wall Street sul fatto che le obbligazioni e i mutui vadano in default o meno.

Niente di tutto questo affligge la Cina perché il governo può sempre decidere quando un'azienda fallisce, supponiamo che sia una fabbrica, invece di una società immobiliare, non diremo:

"Beh, l'azienda è in bancarotta. Ok, deve essere venduto a qualcun altro. Forse uno straniero se ne impossesserà, forse un altro investitore se ne impossesserà e lo abbatterà. Vogliamo davvero che questa azienda indebitata fallisca e fallisca?"

 E se la Cina dice:

"beh, no, il motivo per cui l'abbiamo finanziata è perché sta giocando un ruolo positivo nell'economia".

Quindi è un peccato che non possa pagare il debito, ma non vale la pena chiuderlo. E non ci sarà un grande mercato azionario e obbligazionario e la sovrastruttura della speculazione finanziaria che si limita a dire:

 "Ok, stiamo ancora finanziando la nostra industria e gran parte del nostro patrimonio immobiliare per ciò che è nell'interesse nazionale per aumentare gli standard di vita e la prosperità.

Quindi, poiché siamo i creditori, non abbiamo problemi a svalutare i debiti perché i debiti ci sono dovuti".

 Ed è molto facile per i creditori scrivere ciò che è loro dovuto quando è dovuto a sé stessi, non a qualcun altro.

 

Beh, in Occidente, il governo degli Stati Uniti non dirà:

 "Beh, questa azienda, come le farmacie” Rite Aid, è fallita”.

Quindi le banche sono nei guai.

 Non possiamo lasciare che svaluti il debito perché i debiti non ci sono dovuti.

E' dovuto a una banca e lascia che le banche e gli obbligazionisti pignorano".

 La Cina non ha questo problema.

E questo è ciò che distingue davvero questo nuovo ordine economico che stiamo vedendo al di fuori dell'Occidente.

Un'intera ristrutturazione del funzionamento delle economie.

E la Cina ha essenzialmente seguito la stessa politica che ha reso l'industria degli Stati Uniti così di successo nel 19° secolo.

Ha mantenuto le infrastrutture, i trasporti, le comunicazioni, i bisogni di base, l'assistenza sanitaria, l'istruzione, tutto di dominio pubblico.

 E il vantaggio di questo e del fatto che tutto questo è stato spiegato nel 19° secolo dai capitalisti industriali americani.

 Erano gli industriali che sostenevano la spesa pubblica e gli investimenti nelle infrastrutture, perché l'intera idea dei trasporti governativi, delle comunicazioni governative è quella di soddisfare i bisogni di base a tariffe sovvenzionate in modo che i datori di lavoro non debbano pagare abbastanza lavoro salariato da dover pagare prezzi più alti per queste esigenze infrastrutturali di base che sono principalmente monopoli.

 

In Occidente le infrastrutture di base sono state monopolizzate, i prezzi sono molto alti.

 Prendiamo ad esempio l'acqua del Tamigi in Inghilterra.

Guardate che all'inizio degli anni '80, Margaret Thatcher in Inghilterra e Ronald Reagan negli Stati Uniti cominciarono a svendere tutti i servizi di base e a privatizzarli.

 Il risultato è che i prezzi, il costo della vita e del fare affari in Occidente sono aumentati notevolmente.

Ad esempio, l'istruzione.

Costa circa $ 50,000 all'anno solo per andare al college negli Stati Uniti.

La Cina e altri paesi trattano l'istruzione come un bisogno di base, e non devono pagare in questo modo.

Sanità pubblica.

 In America, l'assicurazione sanitaria costa circa $ 25.000 all'anno a persona.

Bene, immaginate un paese che fornisce gratuitamente la sanità pubblica.

 Ciò significa che i suoi datori di lavoro, la sua manodopera non devono pagare, guadagnano salari abbastanza alti da pagare questo enorme costo per l'istruzione, la sanità pubblica, o per il trasporto monopolizzato, che è molto poco costoso in Cina, la comunicazione monopolizzata.

Hai evitato rendite monopolistiche quando hai investimenti governativi in infrastrutture.

 Quindi la Cina sta in un certo senso facendo quello che era l'ideale del capitalismo industriale degli Stati Uniti nel 19° secolo, il decollo industriale tedesco, il decollo industriale dell'Inghilterra

 

 Ha un'economia mista, un settore pubblico e uno privato, con il governo che fornisce i bisogni di base.

Ciò significa che la Cina e gli altri paesi che stanno seguendo le sue politiche saranno produttori a costi molto più bassi rispetto alle loro controparti occidentali.

E questo si chiamava "capitalismo industriale".

 Erano i capitalisti che consigliavano quella che viene chiamata "medicina socializzata" e la cosiddetta "infrastruttura socializzata", perché lo scopo di questa infrastruttura governativa era quello di abbassare il costo di fare affari per l'industria americana in modo che potesse svendere l'Europa e altri paesi che non avevano un'economia mista con infrastrutture pubbliche.

Ebbene, la Cina lo sta facendo, e ora si chiama socialismo.

Non il capitalismo.

 Ma la strategia di base è esattamente la stessa strategia che ha portato l'Occidente a farlo.

 Ma l'Occidente non segue più la strategia.

L'Occidente si è portato ad essere finanziarizzato e privatizzato. E quello che si sta vedendo ora è una spaccatura nel mondo tra privatizzazioni neoliberiste, finanziarizzazione e ricchezza creata dall'ingegneria finanziaria, non dalla formazione di capitale industriale e dalla produzione effettiva.

 Bene, questo è ciò che la Cina sta cercando di fare con la “Belt and Road Initiative” e con il modello per altri paesi.

Quindi stiamo davvero assistendo a un conflitto di sistemi economici, e questa sembra essere una divisione geografica tra gli Stati Uniti e l'Europa, da un lato, quello che Borrell in Europa, il capo dell'Unione Europea chiamava "il Giardino", e il resto del mondo, che significa "la Giungla".

 La giungla significa paesi con forti investimenti governativi per abbassare il costo della vita e aumentare la produttività.

Dimitri Simes Jr.:

Questo è davvero interessante perché ciò che le tue risposte suggeriscono è che la competizione tra Stati Uniti e Cina non è solo una resa dei conti geopolitica, ma è anche una sorta di resa dei conti ideologica ed economica per il modello che dominerà il futuro.

Sarà questa sorta di capitalismo finanziario di rendita che lei descrive ora, a dominare l'Occidente?

O sarà qualcosa sulla falsariga del socialismo industriale, del capitalismo industriale di stato, qualcosa di un modello economico che si basa sulla produzione di cose invece di fornire solo servizi e, sai, giocattoli ad alta tecnologia?

 

Michael Hudson:

L'hai appena detto in poche parole. Questo è esattamente quello che stiamo dicendo, Dimitri.

Dimitri Simes Jr.:

Sì. Quindi, voglio dire, penso che, dato che siamo sul tema di una resa dei conti tra Oriente e Occidente, voglio chiederti qualcosa che Putin ha detto oggi a Pechino, poco dopo l'incontro con Xi Jinping.

 Ha detto quanto segue:

"Le minacce comuni stanno rafforzando la cooperazione tra Russia e Cina".

È d'accordo sul fatto che le sanzioni occidentali stanno, in effetti, contribuendo ad avvicinare Russia e Cina?

 

Michael Hudson:

 Beh, questo è ironico. Qualche anno fa, stavamo tutti parlando di "la Cina prenderà l'iniziativa con altri paesi nel staccarsi dagli Stati Uniti?"

Tutto questo risale alla conferenza di Bandung del 1955, quando i paesi del terzo mondo dissero:

"Beh, non possiamo avere una terza via? Non possiamo essere indipendenti dagli Stati Uniti?"

 Non potevano farcela da soli.

Ma la Cina e la Russia, per la prima volta, sono un'economia abbastanza grande da consentire ad altri paesi di unirsi e non essere soggetti a un ordine mondiale modellato dagli Stati Uniti.

Ma l'ironia è che oggi sono gli Stati Uniti a spingere gli altri paesi a unirsi.

 Sono gli Stati Uniti che stanno distruggendo l'ordine mondiale del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della Corte Penale Internazionale.

 Gli Stati Uniti stanno unendo questi altri paesi, non agendo nel proprio interesse.

 E così la storia sembra ripetersi.

L'Oracolo di Delfi risale al V secolo a.C. circa.

 Il più ricco re dell'Asia Minore, Creso, decise di attaccare la Persia, andò all'Oracolo di Delfi e disse: "Quale sarà il mio destino?"

E l'Oracolo disse: "Distruggerai un grande impero".

E così Creso attaccò il re Ciro e perse.

Poi si scoprì che l'impero che aveva distrutto era il suo.

 Bene, questo è esattamente si potrebbe dire che il presidente “Biden” è andato dai suoi consiglieri, “Blinken” e “Nuland” e gli altri suoi consiglieri, hanno tutti detto:

"Sì, imponete sanzioni commerciali alla Russia e alla Cina, non commerciate con la Cina, dite che è il nostro nemico, isolatela e la distruggerete".

 E quello che hanno distrutto è il mercato cinese, russo e fondamentalmente asiatico per i prodotti che gli Stati Uniti speravano di monopolizzare e di cui beneficiare.

 

Il piano degli Stati Uniti era quello di designare alcuni monopoli che potevano far pagare molto di più del profitto.

Ma un'enorme rendita monopolistica, per esempio, sui chip per computer e sulla tecnologia dell'informazione.

Se potessero impedire ad altri paesi di produrre i propri chip per computer, i propri processori e sistemi di comunicazione, sistemi telefonici, allora potrebbero applicare prezzi enormi e non dovrebbero impiegare molta manodopera.

Sarebbe l'economia della rendita che lei ha detto.

E se le aziende farmaceutiche americane potessero ottenere brevetti sui vaccini, allora potrebbero prendere una pillola che costa $ 0,10 per essere prodotta e potrebbero venderla a 800 o $ 1.000 a causa del potere monopolistico.

Beh, questo è un sistema che gli Stati Uniti pensavano di poter fare.

 Ma quello che ha fatto abusando del suo privilegio e spingendo altri paesi oltre il punto di rottura, quello che ha fatto è stato costringere gli altri paesi a dire:

 "beh, sappiamo che ci sarà un'interruzione dell'interattività mentre investiamo nella nostra produzione di farmaci, investiamo nella produzione dei nostri chip per computer, dei nostri computer e dei nostri macchinari per la produzione di chip. Ma una volta fatto questo, non dobbiamo più dipendere dagli Stati Uniti".

L'obiettivo di qualsiasi economia, in linea di principio, è quello di essere indipendente dal fatto che altri paesi possano interrompere la loro attività commerciale imponendo sanzioni o incursioni finanziarie sulla loro valuta.

 Volete proteggervi da un attacco economico o finanziario da parte di altri paesi.

 

E per circa 70 anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il paese non ha dovuto farlo.

 C'era un'economia aperta e i paesi non attaccavano altri paesi.

 Sono gli Stati Uniti che hanno guidato la politica di imporre sanzioni a Russia, Cina, Iran, Venezuela, e ora si stanno estendendo a sempre più paesi.

E stai dicendo che in ogni singolo caso in cui le sanzioni hanno imposto, per esempio, lo stop alle esportazioni alimentari verso la Russia, beh, la Russia ha coltivato il proprio grano ora, ed è un esportatore di grano, non un importatore.

Per quanto riguarda le verdure e i formaggi, è indipendente dagli stranieri.

E si può dire la stessa cosa per l'automobile, per le armi, per i computer, per le automobili.

Ora, la Russia e la Cina stanno producendo le proprie automobili.

Non dipende dall'Europa o dal Giappone o dalla sfera dollaro USA-euro-yen.

 In ogni caso di queste sanzioni, se gli Stati Uniti stanno unendo questi paesi e in qualche modo catalizzando ciò che pensavano di voler fare.

Ma ci deve essere una massa critica di desiderio di staccarsi e creare la propria economia autosufficiente.

 

E gli Stati Uniti hanno reso economicamente vantaggioso e politicamente fattibile per questi paesi dire:

"Ok, stringeremo i denti, diventeremo indipendenti.

Non avremo l'interdipendenza basata sul fatto che gli Stati Uniti siano in grado di continuare a cambiare le regole e di avere un'economia al servizio di se stessi.

Avremo un'economia multipolare, ma questa deve essere basata in una certa misura sull'aiuto reciproco e sul sostegno reciproco.

E avremo il nostro modello di crescita".

Perché è ovvio che il modello degli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale si rivela essere un modello predatorio, sfruttatore e a somma zero, invece di un modello “win-win” che la Cina, la Russia e il Sud del mondo e la maggioranza globale stanno cercando di mettere insieme.

 

Dimitri Simes Jr.:

Sì, e voglio solo dare al nostro pubblico un po' di contesto che penso aiuti a illustrare questa situazione.

Il fatturato commerciale tra Russia e Cina è aumentato del 32% l'anno scorso dopo l'imposizione delle sanzioni occidentali e si prevede che quest'anno supererà il livello record di 200 miliardi di dollari.

 E se si guarda alla vita quotidiana russa, questo è molto evidente perché dopo che i marchi occidentali hanno lasciato il paese, si è visto che, ad esempio, le automobili occidentali sono state sostituite con automobili di fabbricazione cinese.

E lo stesso vale per smartphone, lavatrici, chi più ne ha più ne metta.

Quindi c'è questo tipo di situazione davvero interessante in cui “Biden” dice di voler fermare l'ascesa economica della Cina e, sai, competere con la Cina.

Ma come risultato della sua politica nei confronti della Russia e dell'Ucraina, ha sostanzialmente ceduto un mercato di 150 milioni di persone a uno dei suoi più grandi rivali geopolitici.

 

Michael Hudson:

Ma è esattamente quello che sta succedendo.

La teoria geopolitica parte dall'idea che i paesi agiranno nel proprio interesse. Ebbene, oggi non sta succedendo.

 In un senso più ampio, l'America pensa di agire nel suo interesse ad essere protezionista perché non capisce davvero che gli altri paesi hanno una scelta.

 E così gli Stati Uniti cercano di impedire ad altri paesi di avere una scelta.

E lo sta facendo militarmente nella guerra della NATO contro la Russia in Ucraina. E lo state vedendo farlo nel Vicino Oriente ora, gli Stati Uniti stanno cercando di attaccare la Siria e l'Iran per prendere il controllo dell'intero Vicino Oriente.

E questo è il senso di tutta questa lotta nominalmente su Israele.

Sono gli Stati Uniti che si muovono in Siria.

Ho sentito i generali americani parlare con il principale consigliere economico di Netanyahu, “Uzi Arad”, quando lavoravamo insieme all'Istituto.

I generali americani gli dicevano: "Hai la nostra portaerei atterrata lì. Stiamo usando Israele. Possiamo sempre usarlo per assicurarci di controllare il Medio Oriente e le sue forniture di petrolio".

Beh, era circa il 1974 e cioè quasi 50 anni fa.

Ed è ancora la mentalità degli Stati Uniti, che gli Stati Uniti vogliono essere in grado di fare a tutto il Medio Oriente quello che hanno fatto all'Iraq, semplicemente spostare la loro flotta e prendere il controllo dell'Iraq.

 Il Congresso iracheno dice: "dovete andarvene" verso gli Stati Uniti, da Donald Trump fino al presidente Biden, "non possiamo andarcene, stiamo prendendo tutto il vostro petrolio!"

E stanno prendendo tutto il petrolio e finanziando le operazioni militari degli Stati Uniti in tutto il mondo.

Vogliono fare quello che hanno fatto all'Iraq, alla Siria e fondamentalmente all'Iran.

 E c'è il deputato Mitch McConnell, il leader repubblicano al Congresso, che dice: "Dimenticatevi di attaccare Hamas, attaccate l'Iran. Questo è ciò che dobbiamo davvero fare".

C'è la candidata repubblicana in corsa per la presidenza, “Nikki Haley”, l'ex rappresentante degli Stati Uniti all'ONU, che dice: "Dimenticate Israele, attaccate l'Iran!".

Subito dopo l'11 settembre, gli Stati Uniti non si sono vendicati contro le persone che hanno organizzato l'11 settembre in Arabia Saudita.

 Hanno invaso l'Iraq.

In questo momento, oggi non stanno realmente rispondendo contro “Hamas o il “Libano”.

Biden sta dicendo a Israele, penso, "è meglio che non invada, perché se provi a invadere Gaza sarai dalla parte dei perdenti". Stanno davvero muovendo l'intera armata navale per cercare di eliminare finalmente Assad in Siria e usare l'ISIS, la legione straniera americana, fondamentalmente come ISIS e al-Nusra, i terroristi che fanno a pezzi il paese e lasciano che gli Stati Uniti facciano alla Siria quello che hanno fatto all'Iran.

E poi questo probabilmente porterà l'Iran a reagire e l'intero Vicino Oriente andrà in fiamme.

Ovviamente, nessuno pensava che l'ordine mondiale, l'ordine del Senato degli Stati Uniti si sarebbe spezzato così velocemente.

Ma questa militarizzazione del conflitto economico, il neoliberismo e l'acquisizione da parte degli Stati Uniti delle economie straniere, nessuno pensava che sarebbe diventata così violenta e drastica come è diventata così rapidamente.

 E lo stiamo vedendo oggi.

 Quest'anno vedremo il mondo intero trasformato.

Dimitri Simes Jr.:

Sì, voglio sicuramente parlare di più della situazione in Medio Oriente un po' più avanti, perché almeno a me sembra che stiamo camminando come sonnambuli verso la Terza Guerra Mondiale.

Ma voglio toccare un po' un'idea che abbiamo discusso durante la nostra conversazione, ovvero che c'è questa sorta di modello capitalista di rendita da parte dell'Occidente e un modello economico diverso presentato da Russia e Cina.

Qualcosa che è emerso nei giorni scorsi al “Belt and Road Forum”, e questo è stato articolato sia dal presidente cinese “Xi “che dal presidente russo “Putin”.

 Hanno parlato a lungo dell'importanza di creare nuovi corridoi di trasporto. Potresti spiegare al nostro pubblico occidentale, che è la maggior parte delle persone che guardano, perché questa è una priorità per la Russia e la Cina? Si tratta solo di un imperativo economico o c'è anche una sottolineatura geopolitica?

Michael Hudson:

C'è sempre un imperativo geopolitico perché i paesi non vogliono essere autosufficienti se non possono produrre minerali, materie prime e petrolio più economici.

 La maggior parte dei paesi vorrebbe ridurre al minimo i propri costi per essere più efficiente.

Questo non è vero per la Germania in Europa.

 Vogliono pagare sei volte di più per il loro petrolio.

Ma nessuno si sarebbe aspettato che un paese avrebbe commesso un suicidio industriale in quel modo.

Ma la maggior parte dei paesi vuole avere un'economia interconnessa con altri paesi in modo che tutti possano avere una specializzazione della produzione, una specializzazione del lavoro, e che sia più efficiente geograficamente.

Bene, per avere la specializzazione del lavoro e il sostegno reciproco nel mercato, ogni paese otterrà tutti gli altri paesi intorno al mercato.

 Devi avere un mezzo di trasporto.

 Bisogna avere un mezzo per trasportare petrolio e gas attraverso gli oleodotti in modo che gli Stati Uniti non possano far saltare in aria.

È necessario disporre di porte per la spedizione.

 Bisogna avere delle ferrovie, idealmente del tipo di ferrovia che la Cina ha costruito, la ferrovia molto veloce ed efficiente.

 Queste ferrovie e la “Belt and Road Initiative” sono un po' come le arterie, il sistema di circolazione nel corpo, in modo che possiate essere in grado, sulla base di queste strutture di trasporto, costruire ogni sorta di strutture industriali e agricole intorno a loro.

Così, per esempio, negli Stati Uniti, quando gli Stati Uniti nel 19° secolo costruirono ferrovie lungo tutte le ferrovie, ovunque ci fosse una stazione, c'era un'intera città che cresceva.

E poi, dietro la città, ci sarebbe stata prosperità.

 La prosperità seguì i percorsi della ferrovia.

E la Cina, la Russia, i paesi asiatici possono farlo oggi.

L'Occidente non può farlo, e in particolare gli Stati Uniti non possono farlo perché i treni cinesi, su cui ho fatto viaggi molto piacevoli, tra Pechino e Wuhan, per esempio, il Tianjin vanno così veloci che c'è bisogno di una ferrovia.

C'è un'autostrada da un lato, in una direzione, un'autostrada dall'altro, e su un binario sopraelevato separato, ci sono i binari ferroviari ad alta velocità.

 Ebbene, negli Stati Uniti e in Europa, la terra è così densamente popolata che ci sono edifici residenziali, fabbriche e città sulla strada.

 Bene, immaginate di andare a 150 miglia all'ora attraverso una città con un passaggio a livello che va su e giù.

Avrai dei camion che passano, sai, proprio attraverso i cancelli e kaboom!

 E se hai un incidente ferroviario, a 150 o 200 miglia all'ora, è davvero grave.

Gli Stati Uniti non possono permettersi i soldi per comprare la corsa lontano dai proprietari immobiliari esistenti e non hanno la base legale per dire: "Condanneremo la vostra proprietà e prenderemo il controllo della proprietà per far muovere i treni su un binario rettilineo".

Non si può fare in modo che i treni facciano quello che fanno ora e facciano solo il giro di tutti gli edifici e le fattorie.

Deve andare dritto.

La “Belt and Road Initiative” è progettata in modo tale da ridurre al minimo il costo dei trasporti e rendere meno costoso per la Cina, la Russia o altri paesi asiatici commerciare tra loro rispetto a quello che sarebbe commerciare con gli Stati Uniti e l'Europa.

Quindi questa accessibilità dei mercati gli uni agli altri, dei consumatori, dei loro fornitori e dei vari paesi creerà essenzialmente una prosperità reciproca.

 E la ragione che deve essere reciproca è che se un paese, diciamo, i paesi dell'Asia centrale stanno per acquistare prodotti industriali cinesi e petrolio o gas russo o un prodotto russo.

Dovranno avere dei mezzi finanziari per pagarli.

L'unico modo in cui possono guadagnare i mezzi finanziari che dovranno esportare qualcosa.

E questo significa che la Cina, la Russia dovranno dire: "Va bene, se vogliamo vendere i nostri produttori e altri prodotti al Kazakistan e all'Uzbekistan, cosa compreremo da loro per consentire loro di pagarlo?"

Non possiamo semplicemente prestare loro i soldi e poi dire:

"Pignoreremo il tuo paese quando potrai pagare".

Dobbiamo consentire a questi paesi di pagare per i prodotti che acquistano da noi, in modo da poter avere un mercato in questi paesi.

È qui che i cinesi stanno pensando al futuro e si stanno rendendo conto che non possiamo semplicemente creare una grande dipendenza dall'estero senza sviluppare paesi stranieri.

Gli Stati Uniti non hanno cercato di sviluppare i paesi del Sud del mondo che hanno accumulato un enorme debito in dollari per finanziare i loro deficit della bilancia dei pagamenti.

 Hanno solo detto:

"Beh, non fate concorrenza con noi, comprate quello che produciamo e prendete in prestito i soldi da noi".

Ed è quello che è successo.

L'Argentina, l'America Latina, i paesi africani hanno preso in prestito denaro americano ed europeo e hanno debiti in dollari e debiti in euro, ma non possono produrre dollari ed euro.

 E gli Stati Uniti e l'Europa hanno detto:

"Non importeremo nulla da voi, dall'Argentina, dal Brasile e dall'Africa. Sarete mercati. Ma noi vogliamo fare i soldi e il profitto vendendovi".

E il risultato è che c'è stato un enorme squilibrio.

E potete vedere che l'intera crescita delle riserve monetarie internazionali è una misura di questo squilibrio.

Per i paesi della “Belt and Road” e i “BRICS” più i paesi che si stanno unendo, l'idea non è quella di avere un nuovo tipo di riserve per sostituire il dollaro.

Non si tratta di avere bisogno di riserve così grandi da accumulare sotto forma di debiti verso altri paesi che non possono essere pagati.

E questa sarà la prossima grande sfida per i paesi della “Belt and Road” e per il Sud del mondo.

Come possono i loro governi investire in infrastrutture e allo stesso tempo pagare il risultato del colonialismo finanziario?

Come possono pagare gli obbligazionisti statunitensi, gli obbligazionisti in dollari?

Come possono pagare gli obbligazionisti in euro per un processo di sviluppo dal 1945 che è stato sfruttatore e non aiuta i paesi debitori a svilupparsi?

L'intera relazione tra debitori e predatori sta improvvisamente venendo riconosciuta in Asia e nel Sud del mondo, perché sono loro i debitori, e i creditori non stanno nemmeno guardando a questo.

E il fatto è che il Sud del mondo e i debiti della “Belt and Road Initiative” e dei paesi BRICS nei confronti dell'Occidente devono essere pagati.

E a un certo punto non saranno pagati.

Ma poiché ciò provoca una frattura monetaria e finanziaria, devono essere in grado di mettere in atto una reciproca autosufficienza industriale e agricola per poter procedere da soli.

Quando l'America e l'Europa vanno su tutte le furie per non essere in grado di sfruttare il resto del mondo nel modo in cui sognavano di fare.

Dimitri Simes Jr.:

Penso che tu faccia alcuni punti davvero importanti e interessanti perché quando guardi, per esempio, a ciò che scrive il “New York Times”, quando parla di Russia e Cina, dicono che questi due paesi stanno cercando di detronizzare l'ordine liberale basato sulle regole internazionali.

Ma penso che lei faccia un punto molto importante:

 la Russia e la Cina non sono contrarie all'idea della globalizzazione e dell'interconnettività.

Sono contrari all'attuale approccio neoliberista e basato sulle regole degli Stati Uniti alla globalizzazione, dove fondamentalmente le risorse sono concentrate intorno agli Stati Uniti e altri paesi non hanno una via praticabile per svilupparsi.

Immagino che questo faccia sorgere la domanda, giusto?

Perché, sapete, abbiamo parlato di una sorta di visione di uno sviluppo globale più equo, di questa sorta di Eurasia interconnessa, da Mosca a Pechino, da Vladivostok a Teheran.

Ma, come hai sottolineato, proprio mentre stiamo parlando, stiamo assistendo non a una serie di tensioni senza precedenti in Medio Oriente che in qualsiasi momento, sai, nei prossimi giorni o settimane, potrebbe esplodere in una grande guerra regionale.

 È questo il tipo di modello a cui stanno pensando Russia e Cina?

Fino a che punto è minacciato da ciò che sta accadendo in Medio Oriente in questo momento?

Una grande guerra in Medio Oriente potrebbe mettere a rischio tutte queste ambizioni di una grande Eurasia?

 

Michael Hudson:

Beh, hai detto che sono sonnambuli nella Terza Guerra Mondiale, ma non sono sonnambuli.

Gli Stati Uniti stanno deliberatamente rischiando e persino scatenando la Terza Guerra Mondiale perché si rendono conto che gli Stati Uniti stanno perdendo la loro potenza militare.

E in effetti, la NATO è letteralmente a corto di armi in questo momento a causa della guerra in Ucraina e il modo in cui l'establishment della sicurezza nazionale degli Stati Uniti sta pensando, e sono stato associato ad esso per molti anni, è:

"se avremo una guerra, una terza guerra mondiale, non saremo mai in una posizione più forte di adesso.

La nostra posizione si sta indebolendo.

 Quindi, se vogliamo far saltare in aria il mondo, facciamolo ora, perché faremo esplodere il mondo e perderemo ancora più pesantemente se lo faremo in futuro.

In realtà stanno rischiando la presa di potere ora, soprattutto perché è così centrata nel Vicino Oriente con l'Iran e la Siria, come ho detto, che sono le vere chiavi di tutto questo.

 Pensano che in questo momento forse la Russia ha già bloccato il suo esercito in Ucraina e non c'è nulla che possa fare per venire in aiuto della Siria se gli Stati Uniti si muovono contro la Siria, e una volta che si muovono contro la Siria, i neoconservatori e i conservatori nell'establishment della sicurezza nazionale hanno già detto,

"prima andiamo in Iraq, poi la Siria e poi l'Iran è dove stiamo puntando a tutto questo".

Hanno spiegato tutto nei rapporti sulla sicurezza nazionale.

Questo non è sonnambulismo.

 Questo è un piano molto consapevole che i leader neoconservatori, il gruppo di “Victoria Nuland”, hanno messo insieme.

E in realtà stanno cercando di innescare tutto.

Quindi penso che mentre “Biden” sta cercando di dire a Israele,

"questo non è più un buon momento per combattere Gaza perché stai rivoltando il mondo intero contro di noi", e “Biden” sta scoprendo che il suo sostegno a Netanyahu è un albatro intorno al suo collo, come penso che abbia detto un recente articolo di qualcuno, che in qualche modo ha sostenuto una belligeranza di destra contro la quale la maggioranza degli israeliani ha votato e la maggioranza degli americani I democratici hanno votato contro.

Non è che l'America stia sostenendo Netanyahu, sta sostenendo l'approccio neoliberista di destra del Likud, fondamentalmente.

E il fatto che questa guerra economica stia prendendo una piega così violenta è scioccante per il resto del mondo.

Si rendono davvero conto che non sono i paesi che sono stati sfruttati che combatteranno così duramente come gli sfruttatori.

Gli sfruttatori, i beneficiari di un sistema ingiusto e unilaterale, sono disposti ad andare in guerra perché non hanno più mezzi per sostenersi.

Il loro unico modo di sopravvivere è lo sfruttamento, e stanno combattendo per essere in grado di impadronirsi delle riserve petrolifere altrove.

E il “Consiglio di Sicurezza Nazionale “in America ha detto:

"Se riusciamo a prendere il controllo dell'Iran e del petrolio del Vicino Oriente e con l'Arabia Saudita come prossima, allora possiamo tagliare la fornitura di petrolio a qualsiasi paese che non segua il piano neoliberista degli Stati Uniti.

 E se non hanno petrolio e gas, non hanno elettricità ed energia.

 E il PIL si basa fondamentalmente sull'elettricità e sul consumo di energia: petrolio, gas ed elettricità".

Quindi tutto questo è in realtà tutto fuoriuscito visibilmente.

Ed è quello che stanno facendo gli Stati Uniti, e lo hanno fatto sapere al mondo intero.

Sì, abbiamo un piano per sfruttarti.

Che cosa avete intenzione di fare al riguardo?

Perché se vi difendete, vi faremo quello che abbiamo fatto all'Iraq, quello che stiamo facendo alla Siria, quello che abbiamo fatto all'Iran, quello che abbiamo fatto all'Ucraina.

Vuoi davvero passare attraverso questo? Questo è il “gantlet” che gli Stati Uniti hanno gettato giù.

E penso che altri paesi stiano dicendo: "Non ne faremo parte. Dobbiamo andare per la nostra strada".

 

Dimitri Simes Jr.:

Sai, mentre ascolto la tua analisi e hai menzionato che molte persone negli Stati Uniti o nell'élite politica statunitense, per essere più precisi, pensano che sia meglio ora che dopo, perché in seguito non saremo così forti e considerato l'insoddisfazione politica interna.

Questo è stato molto agghiacciante per me perché ricordo di aver letto le deliberazioni che i leader tedeschi presero prima della Prima Guerra Mondiale.

Hanno anche guardato all'impero russo in Oriente.

Hanno detto che l'economia dell'impero russo sta crescendo molto rapidamente, si sta industrializzando.

E allo stesso tempo abbiamo un movimento socialista in crescita in patria.

Quindi meglio cercare di combattere una guerra ora alle nostre condizioni piuttosto che aspettare dieci anni e potenzialmente perdere.

Immagino però che abbiamo visto “Biden” e “Janet Yellen” e questa è la mia ultima domanda, lo prometto.

Entrambi hanno detto all'inizio di questa settimana che gli Stati Uniti sono in grado di camminare e masticare gomme, che sono in grado di combattere questa guerra per procura in Ucraina, sostenere Israele nel suo conflitto con i suoi vicini e affrontare la Guerra Fredda economica cinese.

 Gli Stati Uniti sono davvero in grado di destreggiarsi tra tutte queste cose allo stesso tempo?

O è solo un'altra illusione di Washington?

Michael Hudson:

Non c'è dubbio, gli Stati Uniti possono andare in guerra su tre fronti.

Inoltre, non c'è dubbio che perderà.

L'esercito, l'esercito ha fatto un piano di gioco e ha detto:

 "E se ci fosse una guerra, prima di tutto, in Ucraina?"

Riconoscono la vittoria della Russia, la totale sconfitta della NATO.

E se ci fosse una guerra nel Vicino Oriente?

 Ogni piano mostra che gli Stati Uniti stanno perdendo.

 E se ci fosse una guerra nel Mar Cinese Meridionale?

Ogni piano militare che è stato annunciato mostra che la marina degli Stati Uniti è stata spazzata via nella prima ora.

Perderà.

Ricordo che durante la guerra del Vietnam, quando lavoravo con “Herman Kahn” all'”Hudson Institute”, ci incontravamo con i principali generali che stavano pianificando la guerra del Vietnam.

E cenavo con loro, e sembravano guidare una marcia per la pace.

"Non possiamo vincere, questo è terribile, non c'è modo di vincere per uscirne".

Sapevano che stavano perdendo, erano i politici che avevano scavalcato l'esercito che aveva questa illusione di dominio mondiale.

Stai avendo la stessa cosa oggi.

L'esercito sa che gli Stati Uniti perderanno.

Ma i politici dicevano: "Noi siamo l'America, vinceremo sempre!"

 È quasi un fervore religioso quello che si riscontra da parte del “Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti” e della “CIA”, lo “Stato profondo”.

Credono davvero che Dio sia dalla loro parte.

E, naturalmente, questo è ciò che avevate nel Medioevo.

C'era che ogni paese pensasse che Dio fosse dalla sua parte.

E questa non è la stessa cosa della strategia militare, elaborare un piano di gioco. 

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