La morte dei popoli poveri è stata decisa dai globalisti super ricchi.

 

La morte dei popoli poveri è stata decisa dai globalisti super ricchi.

 

Il disastro dell’amministrazione Biden

in politica estera sta devastando

l’economia europea.

 msn.com – investire oggi - Giuseppe Timpone – (13 – 10-2023) – ci dice:

(Economia - Investireoggi.it.)

Tra tredici mesi si terranno negli Stati Uniti le elezioni presidenziali.

 Se si votasse oggi, Joe Biden non resterebbe certamente alla Casa Bianca.

 Il popolo americano avrà i suoi motivi per negargli un secondo mandato, noi europei ne abbiamo certamente di più per sperare che gli venga negato.

 È proprio l'economia europea a pagare il prezzo più alto per i disastri commessi dall'attuale amministrazione di Washington in politica estera.

Nell'immaginario collettivo, fu forse la fuga dei militari americani e il ritorno al potere dei talebani in Afghanistan nel Ferragosto del 2021 a dare la prima impressione negativa sull'operato di Biden.

 La crisi afghana non ha fatto che aggravare uno dei capitoli più spinosi che il Vecchio Continente affronta da tempo: gli sbarchi di clandestini e profughi.

Persa Arabia Saudita per abbracciare Iran.

Fu solo l'inizio di una serie di errori commessi l'uno dietro l'altro e che alla fine hanno tutti punito l'economia europea più di ogni altra parte del mondo.

 L'amministrazione Biden ha subito reciso i rapporti con lo storico alleato dell'Arabia Saudita.

 Viceversa, ha preferito portare avanti una politica di riavvicinamento all'Iran, nonostante fosse accertato che dopo l'accordo sul nucleare siglato con gli Stati Uniti di Barack Obama a fine 2015, Teheran abbia sfruttato la relativa libertà di arricchire l'uranio per costruire armi.

E adesso vi sarebbe a un passo.

Questo clima di appeasement verso l'ayatollah Khamenei non ha certamente aiutato la causa dei diritti umani in Medio Oriente.

Basti pensare al “caso Amini” e alla conseguente brutale repressione delle proteste di piazza.

Ha avuto, invece, altri effetti.

 Uno è stato di avere consentito alla Repubblica Islamica di esportare petrolio in barba alle sanzioni, incassando preziosi dollari non certamente destinati ad accrescere il benessere della popolazione.

Verosimilmente, sono andati a finire nella difesa e nel mantenimento della rete di sostegno internazionale, che passa principalmente per gli Hezbollah in Libano e il regime siriano.

E adesso abbiamo visto anche per Hamas in Palestina. Effetto collaterale indiretto è stato l'indisposizione crescente dei sauditi.

 Il principe Mohammed bin Salman ha iniziato ad usare il petrolio come leva per sanzionare gli Stati Uniti di Biden e i suoi alleati.

Tagli crescenti all'offerta e cartello con la Russia hanno spinto di recente le quotazioni fino a 100 dollari al barile, pur in una congiuntura internazionale che non giustifica di certo un simile mercato.

 L'economia europea, priva di materie prime, ne sta pagando il costo.

Pasticci su materie prime.

Anche in Sud America Biden si sta comportando senza alcun raziocinio.

 Dopo essersi felicitato della vittoria di Lula in Brasile, salvo apprendere un attimo dopo che fosse filo-putiniano e anti-occidentale, non ha trovato di meglio che tentare un riallacciamento delle relazioni con il Venezuela di Nicolas Maduro.

 In teoria, servirebbe a contenere lo strapotere dell'OPEC, consentendogli di rimettere in moto la sua decaduta industria petrolifera.

Nei fatti, già dal suo insediamento non si contano i cargo che fanno la spola tra Sud America e Asia e che vedono proprio l'Iran essere ormai principale esportatore di greggio verso Caracas, dal quale lo riceve successivamente raffinato.

In pratica, l'amministrazione Biden ha fatto il gioco dei suoi nemici, che si ritrova oggi compatti contro Israele e l'Occidente.

In cambio, ha perso per strada gli amici, che ha gettato tra le braccia di Russia e Cina.

A rimetterci le penne è stata l'economia europea, dicevamo.

 In tutto questo marasma, abbiamo ottenuto che il petrolio ci costa più della media degli anni passati, così come il gas per via dell'interruzione delle importazioni dalla Russia.

 E anche sulle altre materie prime siamo messi male.

Biden ha pensato bene di alzare la voce con la Cina, diremmo giustamente. Peccato che non abbia coinvolto gli alleati europei nella sua strategia di "reshoring".

Anzi, stia tentando di fregarli con l'”Inflation Reduction Act” (IRA), un complesso di norme che punta a incentivare le produzioni nazionali con la scusa della transizione energetica.

L’ Economia europea risente dei disastri di Biden.

Nessuno si aspetterebbe da alcun governo americano che metta prima o alla pari l'interesse dell'economia europea rispetto agli Stati Uniti.

Ma non c'era mai stato, almeno nella storia recente, un'amministrazione così incapace di avere un'idea complessiva dell'ordine mondiale.

Neppure sulla Tunisia Biden è riuscito a trovare una soluzione, con la conseguenza che a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste vi è un'economia sull'orlo del default e che sta già usando l'arma degli sbarchi per mettere sotto scacco l'Europa.

L'apertura di numerosi fronti di conflitto rischia seriamente di indebolire la posizione occidentale su ognuno di essi.

 Ci sono anche Taiwan, Ucraina, Israele e su nessuno esiste una qualche soluzione alla portata.

Le tensioni montano, gli investitori prendono nota e l'economia europea ne risente per il venir meno dei presupposti su cui va avanti, cioè mercati aperti e materie prime non troppo costose. (Giuseppe Timpone).     

“Se la classe inferiore sapesse”.

 Chi sono i ricchi e perché

continuano a essere ammirati.

Altreconomia.it - Nicola Villa — (21 Giugno 2023) - ci dice:

Nel suo nuovo libro “Giulio Marcon” esplora la disparità tra poveri e ricchi, evidenziando la mancanza di informazioni sul mondo delle classi agiate.

Si interroga perché un popolo che ha sperimentato la povertà finisca per celebrare i modelli dei super ricchi.

Una documentata critica al neoliberismo e al potere delle élite.

Dei poveri e della povertà sappiamo molte cose:

possiamo consultare studi e libri, abbiamo dati e numeri aggiornati ogni anno.

Dei ricchi e della loro ricchezza, al contrario, sappiamo poco o niente, e anche quando vengono pubblicate inchieste internazionali (Panama o Pandora Papers), che scoperchiano enormi giri finanziari illegali, società in paradisi fiscali per evadere le tasse, liste di ricconi evasori, sembra che l’interesse dei nostri media duri poche ore, nonostante si stimi che l’8% del patrimonio finanziario globale sia in paradisi fiscali.

(Solo le banche italiane per fare prestiti alla clientela “creano denaro dal nulla” -registrandolo come passivo- più di mille miliardi di euro l’anno di prestiti che (quale utile non dichiarato) vanno ad arricchire le banche estere dei padroni del mondo. Non pagano neppure un euro di tasse su questo utile ricevuto da sé stessi prima del prestito! N.D.R)

Diversamente dal mondo anglosassone, in Italia non ci sono molti studi che analizzano chi sono i ricchi nella nostra società, che cosa pensano, leggono, vivono, chi detiene la maggior parte della ricchezza in un dato periodo e per quali ragioni. Da questo stimolo è nata l’idea a Giulio Marcon di scrivere “Se la classe inferiore sapesse”, con una prefazione di “Goffredo Fofi”, appena pubblicato dalla casa editrice People.

 

Il titolo rimanda a una citazione del drammaturgo “August Strindberg”, socialista delle origini, che individuava proprio nell’ignoranza, nella condizione di inferiorità, il fatto che le classi subalterne non si ribellassero a quelle dominanti.

“Marcon” prova subito a rispondere alla domanda su questo disinteresse, perché in fondo l’aspetto sociale e culturale, il retaggio cattolico, hanno imposto alla nostra società un pudore a parlare di denaro e a dichiarare in pubblico le proprie ricchezze e i propri privilegi.

In una società protestante, invece, in cui i “talenti” sono sia le proprie capacità sia i soldi, non esiste questa vergogna sociale.

 Implicitamente il libro cerca anche di rispondere a un’altra domanda:

perché un popolo i cui antenati hanno vissuto la fame, l’emigrazione e la povertà nera -un popolo che si è conquistato il benessere con il lavoro- ammira oggi così tanto i ricchi, soprattutto sui consumi e gli stili di vita?

 Perché un popolo di risparmiatori, dovrebbe ammirare coloro che hanno ereditato prevalentemente i loro beni o godono di rendita?

Più difficile rispondere a questo quesito, ma nel libro di “Marcon”, che è una rassegna molto corposa di tanti libri, spiccano le risposte di “Luciano Gallino”, il più importante sociologo del Novecento italiano, su quella che lui stesso definiva “La lotta di classe dopo la lotta di classe”:

la presa d’atto è che le classi inferiori sono state sconfitte nella lotta di classe dal reaganismo e dal thatcherismo, del “non esiste più la società ma gli individui” e che quindi oggi i ricchi siano diventati dei modelli insuperabili, in un contesto sociale fortemente frammentato.

 

“Se la classe inferiore sapesse” è ricco di dati, ottenuti (non facilmente) dal “Global wealth report” e pubblicati da “Credit Suisse.”

 I super ricchi (dal patrimonio singolo oltre i 100 milioni) sono 84mila nel mondo, quasi 4mila in Italia, mentre i milionari sono cresciuti nei due anni della pandemia da 57 a 62 milioni nel mondo, visto che la ricchezza mondiale è cresciuta del 9% solo per l’un per cento della popolazione (i super ricchi sono cresciuti del 33%, i ricchi del 46%).

Questa espansione della ricchezza non è fatta tanto di redditi quanto di patrimoni. Cresce perché è il prodotto dell’espansione dei mercati finanziari, non è tassata o è tassata troppo poco.

Non è difficile trovarli i membri di questa ricchissima classe agiata, basta seguire i soldi e i beni di lusso.

 

“Marcon” analizza come le élite abbiano rinunciato al ruolo di classe dirigente per ricoprire quello di gruppo di interesse e di potere, al quale la politica è sottomessa.

Per farlo riprende le analisi di Wright Mills, “L’élite del potere”, e di Christopher Lasch, “La ribellione delle élite”, altri due sociologi fondamentali per capire le trasformazioni del nostro presente.

 I ricchi sono apolidi, vivono cioè in un “senza Stato” dove si incontrano:

 i club dal sapore ottocentesco di New York, Londra e Milano, ma anche i circoli esclusivi di Roma, oppure la ricchezza nascosta in magazzini caveau protetti militarmente in Svizzera, dove si stima ci siano alcune importanti opere d’arte che nessuno può vedere, custodite come beni rifugio.

La subalternità della politica è evidente:

l’autore, nella sua esperienza di parlamentare, ha visto circolare, in commissione Bilancio della Camera, emendamenti scritti direttamente dagli uffici legali delle multinazionali.

“Se la classe inferiore sapesse” è anche una retrospettiva del capitalismo italiano del Novecento:

“Marcon” mette a confronto l’evoluzione e il pensiero della vecchia classe imprenditoriale italiana -Agnelli, Pirelli, Falck, Olivetti, Marzotto e Rossi- individuando differenze sostanziali tra visioni paternaliste, egoiste e moderne, sposando anche la tesi dello storico “Berta” sull’insuccesso del “modello Olivetti” contro l’egemonia di quelloFiat.

L’impianto del libro è quello di una critica radicale all’ideologia dominante neoliberista, che si è appunto imposta negli anni Ottanta, della crescita a tutti i costi, della necessità di ripensare la nostra società come classista (divisa in classe disagiata, media e agiata), dell’idolatria della ricchezza e della necessità di tassare i grandi patrimoni per redistribuirli nel pubblico.

In questa direzione il libro riprende la campagna italiana “Tax The Rich” sostenuta da “Sbilanciamoci! “per togliere privilegi, fiscali e non solo, ai grandi patrimoni e agli speculatori.

 L’obiettivo è portare i finanziamenti della sanità al 7% del Pil, riduzione del 20% delle spese militari, istruzione pubblica per tutti, un piano del lavoro e il salario minimo.

(Sarebbe sufficiente che in Italia lo stato fosse l’unico ente pubblico che avesse la potestà di creare denaro dal nulla. Le banche private sarebbero esonerate da questo impegno gravoso. Lo stato incasserebbe ogni anno 300 miliardi circa per permettere ai più ricchi di arricchirsi ulteriormente pagando le giuste tasse! Credo che i Rothschild avrebbero qualcosa da ridire al riguardo! N.D.R.). 

 

 

 

Ricchezza e Povertà due POLI

ma nello stesso MONDO.

 

Lacruna.it – News- Associazione per la Pedagogia Steiner – (4-5-2023) – Redazione – ci dice:

La disuguaglianza economica varia tra le società e nei diversi periodi storici: tra strutture o sistemi economici (come capitalismo e socialismo), guerre passate e future, differenze nella capacità degli individui di creare ricchezza.

Esistono pareri discordanti sull’accettabilità morale e sull´utilità della disuguaglianza, su quanta disuguaglianza sia necessaria o tollerabile in una società, e su come ci si debba comportare.

Aumenta il divario economico e sociale nel mondo: aumentano i ricchi e i poveri, si assottiglia la classe media.

Cresce la ricchezza a livello mondiale, a dispetto della stagnazione dell’economia e della crisi.

Aumentano soprattutto le discrepanze fra ricchi e poveri, come evidenziato in un recente rapporto.

I ricchi nel mondo sono 15,4 milioni, con una crescita del 4,9% rispetto all’anno precedente.

 L’analisi prende come parametro gli “High Net Worth Individuals” ovvero le persone che vantano un patrimonio superiore a 1 milione di dollari.

La ricchezza, inoltre, non appare equamente distribuita, ma i “Paperoni” sono cresciuti soprattutto in alcune zone del globo:

lo scorso anno c’è stato uno storico sorpasso dell’Asia sul Nord America, con la più alta concentrazione della ricchezza a livello globale.

I 62, uomini più ricchi al mondo detengono la stessa ricchezza dei 3 miliardi di abitanti più poveri del pianeta, a dimostrazione del fatto che le ricchezze mondiali tendono sempre più a concentrarsi in poche, pochissime mani.

 Soltanto cinque anni fa, infatti, serviva una lista non di 62 bensì di 388 ricchissimi per raggiungere la stessa cifra.

 E si aggiunga che la ricchezza dei 62 già citati è cresciuta del 44% dal 2010 a oggi, in un contesto che continua a lasciare le donne in condizione di grave svantaggio (perfino tra i 62 super-ricchi solo 9 sono donne).

Mentre ci sono tre miliardi di persone al mondo che vivono con 2,5 dollari al giorno (1,8 euro), di cui il 75% sono donne. Sembra impossibile, ma è così.

Questo dato è ottenuto da una media delle soglie di povertà nei 15 paesi più poveri.

Secondo la Banca mondiale il paese più povero del mondo è Haiti, dove più della metà della popolazione (poco più d 10 milioni di abitanti) vive con meno di 1 dollaro al giorno, mentre circa l’80% del paese vive con meno di 2 dollari al giorno.

“Tutto ciò è terribile” dice in proposito Oxfam, una delle più importanti confederazioni internazionali nel Mondo specializzata in aiuto umanitario e progetti di sviluppo.

Il divario è drammaticamente cresciuto negli ultimi 12 mesi tanto che si sono avverate con un anno di anticipo le previsioni secondo le quali “l’1% della popolazione mondiale avrebbe posseduto più del restante 99% entro il 2016”.

Tutto ciò e frutto dell’uomo, perché tutti i bambini dovrebbero nascere uguali, con le stesse possibilità, con le stesse opportunità, ma così non è.

 Spesso si dice che i soldi non fanno la felicità, certo non la fanno per chi i soldi ce l’ha, ma per un bambino del Terzo mondo sono un modo per iniziarla.

 

La povertà assume volti diversi, volti che cambiano nei luoghi e nel tempo, ed è stata descritta in molti modi.

La povertà richiede azioni sia da parte dei poveri che dei benestanti, e richiede di cambiare il mondo per far sì che molte più persone possano avere un buon livello di nutrizione, un alloggio adeguato, accesso all’educazione e alla salute, protezione dalla violenza, e voce in tutto ciò che succede nella loro comunità.

Perché di fronte alla morte non esiste più ricco o povero.

 Bisogna sempre rendersi conto delle fortune che uno ha, ma a volte vengono annebbiate dai “problemi”.

Non voglio fare il moralista. Non voglio farvi piangere. Non voglio nemmeno farvi riflettere.

 Voglio che ognuno di voi, concretamente, faccia qualcosa per aiutare un bambino che non ha acqua nel suo Paese, o che, semplicemente, doni un giubbotto vecchio, dimenticato in soffitta, a una persona che non ha casa, che chiede l’elemosina all´uscita della stazione.

È finito il momento di pensare, ora bisogna agire!

E voi cosa farete?

 

 

 

 

Il virus della disuguaglianza: 1.000 super ricchi

recuperano le perdite per la pandemia

in 9 mesi, ma miliardi di persone

i impiegheranno oltre 10 anni.

Repubblica.it – Redazione – (25 gennaio 2021) – ci dice:

Il report di OXFAM.

Dall’inizio della pandemia, il patrimonio dei primi 10 miliardari del mondo è aumentato di 540 miliardi di dollari sufficienti a garantire un accesso universale al vaccino.

ROMA - A dicembre la ricchezza dei miliardari nel mondo aveva raggiunto il massimo storico di 11.950 miliardi di dollari, ossia quanto stanziato da tutti i Paesi del G20 per rispondere al coronavirus.

 Dall’inizio della pandemia, il patrimonio dei primi 10 miliardari del mondo è aumentato di 540 miliardi di dollari complessivi: risorse sufficienti a garantire un accesso universale al vaccino anti-Covid e assicurare che nessuno cada in povertà a causa del virus.

Da marzo la ricchezza di 36 miliardari italiani è aumentata di oltre 45,7 miliardi di euro, pari a 7.500 euro per ognuno dei 6 milioni più poveri dei nostri connazionali. In Italia oggi un'infermiera dovrebbe lavorare 127 anni per guadagnare quanto un amministratore delegato in un anno.

È la fotografia contenuta nel nuovo report diffuso oggi da Oxfam, in occasione dell’apertura del “World Economic Forum” di Davos, che si svolgerà in forma virtuale.

Ecco l’analisi di “DisuguItalia” e si può firmare la petizione di Oxfam. #STOPDISUGUAGLIANZE.

 

Disparità simultanee in tutti i Paesi del mondo.

Insomma, le 1.000 persone più ricche del mondo hanno recuperato in appena nove mesi tutte le perdite che avevano accumulato per l’emergenza Covid-19, mentre i più poveri per riprendersi dalle catastrofiche conseguenze economiche della pandemia potrebbero impiegare più di 10 anni.

Per la prima volta in un secolo, si potrebbe registrare un aumento della disuguaglianza economica in quasi tutti i paesi contemporaneamente.

 Un sondaggio globale svolto da Oxfam tra 295 economisti in 79 paesi – tra cui Jeffrey Sachs, Jayati Ghosh e Gabriel Zucman – rafforza tali previsioni, con l’87% degli intervistati che si aspetta “un aumento” o “un significativo aumento” della disuguaglianza di reddito nel proprio paese, a causa della pandemia.

In assenza di un’azione adeguata e coerente da parte dei Governi, la Banca Mondiale prevede inoltre che entro il 2030 oltre mezzo miliardo di persone in più vivranno in povertà, con un reddito inferiore a 5,50 dollari al giorno.

C'è chi accumula ricchezza nonostante la crisi.

 Il virus della disuguaglianza mostra come la pandemia abbia acuito gli squilibri economici e sociali, razziali e di genere preesistenti:

grazie a un sistema economico iniquo un’élite di miliardari ha continuato a accumulare ricchezza nel corso della più grave crisi dai tempi della “Grande Depressione”, mentre miliardi di persone sono state spinte sull’orlo della povertà.

La recessione è finita per i super-ricchi.

 Nel mondo i 10 uomini più ricchi hanno visto la loro ricchezza aumentare di 540 miliardi di dollari dall’inizio della pandemia:

 si tratta di una somma che sarebbe più che sufficiente a pagare il vaccino per tutti gli abitanti del pianeta e ad assicurare che nessuno cada in povertà a causa del virus.

Basti pensare che tra marzo e dicembre 2020, mentre la pandemia innescava la più grave crisi occupazionale degli ultimi 90 anni, lasciando centinaia di milioni di persone disoccupate o sottooccupate, il valore netto del patrimonio di Jeff Bezos è aumentato di 78,2 miliardi di dollari.

 In Italia da marzo la ricchezza di 36 miliardari italiani è aumentata di oltre 45,7 miliardi di euro:

 una somma che equivale a 7.570 euro per ognuno dei 6 milioni di italiani facenti parte del 10% più povero.

Le donne, ancora una volta, le più colpite.

A livello globale, le donne sono maggiormente impiegate proprio nei settori professionali più duramente colpiti dalla pandemia.

Se il livello di occupazione tra uomini e donne fosse uguale in questi settori, 112 milioni di donne non correrebbero più il rischio di perdere il proprio lavoro e quindi il proprio reddito.

Ciò è evidente in Medioriente e Africa del nord, dove le donne rappresentano solo il 20% della forza lavoro ma le perdite di posti di lavoro dovute al Covid-19, secondo le stime, incideranno sull’occupazione femminile per il 40%.

  In generale, le donne rappresentano oltre il 70% della forza lavoro impiegata in professioni sanitarie o lavori sociali e di cura.

 Questo le espone a maggiori rischi in tempo di pandemia – sanitari ma anche collegati alla tutela del reddito.

In Italia oggi un'infermiera dovrebbe lavorare 127 anni per guadagnare quanto un amministratore delegato di una grande azienda in un anno.

La pandemia uccide in modo disuguale.

I brasiliani di ascendenza africana hanno il 40% di probabilità in più di morire di COVID-19 rispetto alla popolazione bianca;

negli Stati Uniti, 22.000 cittadini afroamericani e latino-americani sarebbero ancora vivi se il loro tasso di mortalità fosse stato uguale a quello dei bianchi.

 

La ripresa dal Covid dipende da sistemi economici più equi.

Una tassa temporanea sugli extra-profitti maturati da 32 multinazionali durante la pandemia avrebbe generato 104 miliardi di dollari nel 2020, un ammontare di risorse equivalente a quello necessario per garantire indennità di disoccupazione a tutti i lavoratori e supporto finanziario per bambini e anziani in tutti i paesi a basso e medio reddito.

La distanza tra ricchi e poveri più letale del virus.

 "Potremmo assistere ad un aumento esponenziale delle disuguaglianze, come mai prima d’ora. – ha detto “Gabriela Bucher”, direttrice di Oxfam International.

 Una distanza tanto profonda tra ricchi e poveri da rivelarsi più letale del virus stesso.

Mentre un’élite di pochi miliardari ha tratto enormi profitti dalla pandemia, le piccole e medie attività stentano a resistere, e sempre più persone perdono il lavoro, finendo in povertà.

Tra tutti sono le donne e le minoranze etniche a subire il peso maggiore della crisi. In molti paesi sono i primi a rischiare di soffrire la fame e ritrovarsi tagliati fuori dall’assistenza sanitaria”.

Le forniture militari ai massimi storici.

 Con la ripresa dei mercati azionari le fortune dei miliardari hanno raggiunto i massimi storici:

a dicembre la loro ricchezza totale aveva raggiunto gli 11.950 miliardi di dollari, l’equivalente delle risorse stanziate da tutti i Paesi del G20 per rispondere agli effetti della pandemia.

La ripresa per chi era in difficoltà già prima del Covid sarà dura e lunga: prima che il virus colpisse, la metà dei lavoratori nei Paesi più vulnerabili versava in condizione di povertà e i tre quarti della forza lavoro non godeva di alcuna forma di protezione sociale, come l’indennità di malattia e i sussidi di disoccupazione.

La disparità non è inevitabile, dipende dalla politica.

 “L’aumento delle disuguaglianze non è un fenomeno inevitabile, ma dipende dalle scelte politiche dei governi – aggiunge “Bucher “- la crisi generata dal Covid-19 offre ai governi di tutto il mondo l’occasione di adottare politiche in grado di promuovere sistemi economici più equi e inclusivi".

Affrontare le cause strutturali della disuguaglianza per Oxfam vuol dire:

- investire nella copertura sanitaria universale e gratuita, nell'istruzione e in altri servizi pubblici che possono ridurre le disparità;

- promuovere il lavoro dignitoso, libero dallo sfruttamento anche incentivando modelli di impresa che distribuiscono il valore in modo più equo tra tutte le parti interessate e non incentrati sulla mera massimizzazione degli utili per gli azionisti;

- attuare politiche orientate alla giustizia fiscale;

- riorientare i nostri modelli di produzione e consumo in modo da porre un freno alla grave crisi climatica.

L'analisi di DisuguItalia.

Anche prima dell’abbattersi della pandemia sul nostro Paese, l’Italia era profondamente disuguale, contrassegnata da ampi squilibri nella distribuzione della ricchezza nazionale aumentati negli ultimi vent’anni.

 A metà 2019 – secondo gli ultimi dati disponibili - il top-10% (in termini patrimoniali) della popolazione italiana possedeva oltre 6 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.

Chi con la pandemia non ha avuto "cuscinetti" finanziari.

 Allo scoppio dell’emergenza sanitaria il grado di resilienza economica delle famiglie italiane era estremamente diversificato, con poco più del 40% degli italiani in condizioni di povertà finanziaria, ovvero senza risparmi accumulati sufficienti per vivere, in assenza di reddito o altre entrate, sopra la soglia di povertà relativa per oltre tre mesi.

Circa 10 milioni di nostri concittadini più poveri, con un valore medio del risparmio non superiore a 400 euro, non avevano nessun cuscinetto finanziario per resistere autonomamente allo shock pandemico.

Il quadro secondo la Banca d’Italia.

Durante il primo lockdown di marzo metà delle famiglie italiane dichiarava di aver subito una contrazione del proprio reddito ed il 15% di aver visto dimezzarsi le proprie entrate, con solo il 20% dei lavoratori autonomi che non aveva subito contraccolpi.

A fine estate nel 20% delle famiglie con figli minori di 14 anni uno o tutti e due i genitori aveva ridotto l’orario lavorativo o rinunciato al lavoro per accudirli.

Mentre il 30% dichiarava di non disporre di risorse sufficienti per far fronte a spese essenziali nemmeno per un mese, in assenza di altre entrate.

Con i sostegni del Governo disparità attenuate.

In questo contesto, le misure di sostegno pubblico al reddito, al lavoro e alle famiglie emanate nel corso del 2020 dal Governo hanno contribuito ad attenuare gli impatti della crisi e a ridurre moderatamente i divari retributivi e reddituali.

Prime stime rilevano che le misure di emergenza abbiano determinato una riduzione di 1,7% della disuguaglianza dei redditi da lavoro di 1,1% di quella dei redditi disponibili equivalenti delle famiglie italiane, oltre ad attenuare la crescita dell’incidenza della povertà.

Tuttavia, questa moderata riduzione delle disparità è stata accompagnata da un calo dei redditi per una quota ampia della popolazione meno abbiente.

 Inoltre, tale riduzione delle disuguaglianze non è l’effetto di un intervento strutturale ma esclusivamente di misure compensative che hanno semmai bisogno di essere mantenute fino a un pieno recupero dell’economia.

Il World Economic Forum di Davos.

Durante la settimana del 25 gennaio, il World Economic Forum (WEF) i leader mondiali si riuniranno virtualmente in occasione dei “Davos Dialogues”.

Il summit avrà al centro lo stato della crisi mondiale generata dalla pandemia da Covid-19.

Le fonti dei dati di OXFAM.

I calcoli di Oxfam si basano sulle fonti disponibili di dati più aggiornati e completi.

 I dati sugli individui più ricchi del pianeta sono tratti dalla lista Forbes per il 2020. Poiché nel 2020 i dati sulla ricchezza erano molto volatili, gli estensori del Global Wealth Report” di Credit Suisse hanno rinviato al 2021 la pubblicazione di stime annuali sulla distribuzione della ricchezza globale.

Per questo motivo, a differenza dei rapporti pubblicati negli anni precedenti, Oxfam non è stata in grado di confrontare la ricchezza dei miliardari con quella della metà più povera del mondo.

 

 

 

Scuole dell’Infanzia: i Nuovi (folli)

Parametri per Psichiatrizzare la Crescita.

Conoscenzealconfine.it – (12 Ottobre 2023) - Agata Iacono – ci dice:

Si sono riaperte le scuole e devo confessare che sono stata troppo ottimista in passato.

Mi ero illusa che quel processo di emarginazione, omologazione, colpevolizzazione individuale, appiattimento, accelerato dalla gestione disumana della pandemia, potesse lentamente regredire.

Criticavo la “Dad”, il bonus psicologico per psichiatrizzare il disagio, evidenziavo la crescita esponenziale dei tentativi di suicidio dei giovanissimi, (denunciata dal Bambin Gesù e confermata da Telefono Amico, ultimamente, in occasione della Giornata Mondiale per la prevenzione del suicidio).

Ma ero stata troppo ottimista.

Ho due nipotine che frequentano le scuole dell’infanzia.

 I genitori della maggior parte degli alunni in questa tenera età, a Roma, sono già stato invitati ad effettuare una visita presso la neuropsichiatra infantile, che, tra l’altro, vanta liste d’attesa tali che i genitori sono costretti a rivolgersi al privato prima che il figlio diventi già maggiorenne quando verrà il suo turno.

Questa altissima incidenza mi ha incuriosita e preoccupata.

 Improvvisamente i nostri bambini hanno sviluppato gravi problemi di natura psichiatrica?

 Le “novità” sono i parametri, i protocolli.

 Non solo protocolli sanitari, quindi…

 

Mi spiego meglio:

 ad ogni bambino dovrebbe essere riconosciuto l’inalienabile diritto al rispetto del proprio tempo di crescita:

fino a pochi anni fa, prima della aziendalizzazione scolastica, non era considerato un disadattato disabile un bambino che non rispettava gli standard convenzionali, stabiliti in Svezia o negli USA.

Quando negli Stati Uniti un bambino vivace veniva bollato come iperattivo e riempito di farmaci, in Italia, (patria indegna di Basaglia), si criticava la psichiatrizzazione del disagio, (disagio degli adulti, dei genitori e degli insegnanti, sia chiaro).

Imperava, certo, la scuola che privilegiava la terapia familiare in presenza di un grido d’aiuto del minore.

La società ne usciva comunque assolta.

Ma ci si fermava lì. Ora non più.

I parametri per stabilire se un bambino è a-normale sono costruiti su rigidi criteri che individuano ritardi (Sic: “ritardi”) del linguaggio o della psicomotricità, secondo tabelle equiparabili a quelle di un allevamento intensivo di polli da batteria.

Tutti uguali, conformi, omologati, tutti standardizzati.

Così devono essere.

Tutti bisognosi di insegnanti di sostegno, di logopedisti, di esperti di psicomotricità in palestre pagate profumatamente.

Tutti in possesso di un certificato lasciapassare della neuropsichiatra infantile, che rimarrà il marchio per il futuro, a scuola e fuori dalla scuola. Il bambino fin dai due anni deve convincersi di non essere adeguato, di essere in ritardo sulla tabella di marcia, di non poter essere accettato se non raggiungerà il traguardo prestabilito per tutti.

La propria identità non ha valore, il proprio carattere deve essere vissuto come un ostacolo.

 E qui non c’entra l’inclusione scolastica a favore dei bambini affetti davvero di disturbi della mobilità o cognitivi.

Anzi, saranno anche i bambini che hanno veramente bisogno di sostegno a farne le spese, perché l’attenzione è altrove.

Il bambino, l’adolescente, non devono sviluppare senso critico, identità, capacità di crescere attraverso quel rito arcaico che Freud chiamava “uccisione del padre”.

Oggi si parla di punizione con il 7 in condotta per bullismo, di riabilitazione attraverso i servizi sociali, addirittura di carcere per i minori che “mancano di rispetto agli insegnanti”.

Si interviene, malissimo, solo sulle conseguenze.

Mai sulle cause.

Ma il “dulcis in fundo” è rappresentato da una novità passata dolosamente in sordina sui media generalisti.

 Si tratta della modifica del codice deontologico dell’Ordine Nazionale degli Psicologi.

Una riforma che rappresenta un obbrobrio degno, questo sì, di un regime dittatoriale, e che non scandalizza nessuno, destra o sinistra, maggioranza o opposizione.

Gli psicologi stanno infatti discutendo, proprio in questi giorni, sulla riforma che attribuisce allo psicologo il potere di segnalare i bambini per un trattamento psicologico obbligatorio.

Gli psicologi di “Progetto Medusa” e il “Comitato Madri Unite “sono tra le voci che, in queste ore, stanno sollevando dubbi sulle modifiche proposte.

In particolare, per quanto riguarda l’articolo 31, le associazioni temono che gli interventi previsti possano ledere il libero arbitrio del paziente o delle figure genitoriali.

Per queste associazioni c’è il rischio, soprattutto in ambito peritale, che “i Consulenti tecnici d’ufficio (Ctu) avranno il potere di imporre qualsiasi trattamento psicologico ai bambini senza il consenso dei genitori.

“Si tratterebbe di un vero e proprio Tso (scrive in un post su facebook” Progetto Medusa”) e gli individui perderebbero la facoltà di decidere se o meno sottoporsi a psicoterapia o percorsi, perdendo anche il diritto di decidere per i propri figli”.

Resettare, riprogrammare, il robot transumano del futuro, questo il compito.

O renderlo innocuo, sostituirlo, se “non si comporta bene”…

Il 4 ottobre il Senato all’unanimità, con 147 sì e due astenuti, ha approvato tre disegni di legge “riguardanti la tragedia delle Foibe, riuniti nel ddl riguardante le iniziative per la promozione della conoscenza tra le giovani generazioni”.

Ecco, in cambio del reset, i nostri ragazzi potranno usufruire di una gita revisionista alle Foibe…

(Agata Iacono – Sociologa e antropologa)

(lantidiplomatico.it/dettnews-scuole_dellinfanzia_i_nuovi_folli_parametri_per_psichiatrizzare_la_crescita/39130_51111/)

 

 

 

LA “FOLLIA” DELLA

CRISI CLIMATICA.

Comedonchisciotte.org – CptHook – (13 Ottobre 2023) - Remy Prud’homme – ci dice:”

 

La lotta ossessiva per "salvare il pianeta", dagli effetti del cambiamento climatico di origine antropica, è un fenomeno collettivo assolutamente sconcertante, che non ha precedenti nella storia. Restando inaccessibile alla ragione più elementare, sta trascinando le economie e, più in generale, le società occidentali in un vicolo cieco mortale.

A luglio 2023 Valeurs Actuelles”, rivista di orientamento liberal-conservatore, ha dedicato un numero monografico al riscaldamento climatico, dando voce ai maggiori scettici del clima (anzi “realisti del clima” come preferiscono essere chiamati), francesi e internazionali.

L’articolo di prefazione è dell’economista “Remy Prud’homme”, che riassume un po’ gli argomenti contro la narrazione ufficiale.

L’autore parla di “sillogismo” del clima.

In effetti il credo climatico non consiste in un’unica affermazione, ma in una serie di articoli di fede combinati tra loro.

Il pianeta si sta surriscaldando in maniera significativa rispetto al passato (nonostante l’alternarsi nei secoli di periodi caldi e freddi ecc.

La causa prima del riscaldamento è principalmente l’aumento della CO2 nell’atmosfera (e non altro, come le macchie solari ecc.)

(Questa è la balla delle balle. La CO2 essendo un gas più leggero dell’aria non può salire nell’atmosfera. E se i vulcani l’hanno spinta in alto, il suo peso extra aria lo riporta velocemente verso la terra e verso il mare! N.D.R).

L’aumento dei gas serra è di origine antropica (e non dipende da niente altro, come i vulcani ecc.).

 

Gli svantaggi del riscaldamento climatico sono gravi e superiori agli svantaggi (chissà se gli abitanti della Siberia e del Canada sono d’accordo).

È possibile ottenere risultati sostanziali con azioni politiche:

 il rapporto costi benefici della decarbonizzazione è superiore a quello della non decarbonizzazione (questo è il punto cruciale che, infatti, si evita di discutere).

Le modalità dell’azione politica (tempi, obiettivi, distribuzione dei costi tra le classi sociali sono già correttamente prestabilite dalle istituzioni internazionali.

Le prime tre ipotesi sono date di fatto, di competenza della scienza (quella vera, non quella influenzata dal potere e dal denaro).

 Le ultime tre asserzioni invece sono valutazioni pratiche, di competenza dell’etica e della politica, e quindi soggette al giudizio di tutti i cittadini.

Trattandosi di una catena logica, è sufficiente mettere in dubbio una sola di queste premesse, rompere un anello della catena, per far venir meno la conclusione.

 Ecco la funzione dell’epiteto “negazionista climatico”:

impedisce il confronto, non permette all’interlocutore di spiegare cosa sta negando esattamente.

Attribuire la colpa di tutto all’ideologia, come fa l’autore, pare riduttivo:

se a promuovere la transizione ecologica sono i maggiori poteri finanziari, sottostanno evidentemente interessi economici e (geo)politici.

(Rémy Prud’homme – Valeurs Actuelles – Luglio 2023)

Nel maggio 2023 uno scienziato indiscusso,” John Clauser”, ricercatore americano che ha vinto il premio Nobel per la fisica nel 2022 (insieme a un francese e un austriaco), ha scritto:

“Il discorso dominante sul cambiamento climatico riflette una pericolosa corruzione della scienza, che minaccia l’economia mondiale e il benessere di milioni di persone.

Una scienza del clima mal condotta si è trasformata in una pseudo-scienza giornalistica.

Questa pseudo-scienza è poi diventata il capro espiatorio, la pseudo-causa, di ogni sorta di mali.

 Questa evoluzione è stata provocata e diffusa da comunicatori aziendali, politici, giornalisti, istituzioni pubbliche e ambientalisti.

La mia opinione è che non esiste una crisi climatica.

Esiste invece il problema molto reale di offrire un tenore di vita decente a gran parte dell’umanità, e una crisi energetica correlata.

Tale problema è inutilmente aggravato da quella che è, a mio avviso, una scienza del clima scorretta”.

(come fa uno scienziato del clima – anche se corrotto – a sostenere che il gas CO2, pur essendo più pesante dell’atmosfera, si permette di vagare, spinto dei venti atmosferici, nella stratosfera! N.D.R.)

“Lord Lawson”, recentemente scomparso, non era uno scienziato: era solo (scusate se è poco) l’ex ministro delle finanze di Margaret Thatcher, l’uomo che aveva rimesso in piedi l’economia britannica.

 Dotato di umorismo e buon senso, la pensava come “Clauser” e usò una formula degna di “La Rochefoucauld” per parlare della” transizione energetica”:

“Una soluzione disastrosa ad un problema inesistente “.

Discuteremo qui brevemente i due temi di questa formula.

 Ma prima l’autore ritiene di dover rispondere all’obiezione di incompetenza. Spesso mi viene posta la domanda: “Sei un climatologo?”

 Che è un modo per dire: “Non sei un climatologo e non hai il diritto di parlare dell’argomento“.

 La mia risposta è che sono un climatologo almeno quanto lo sono il presidente dell’IPCC o il suo predecessore.

L’attuale Presidente,” Hoesung Lee”, ha studiato Economia alla “Seoul National University” (la migliore università della Corea) ed ha successivamente conseguito un dottorato in economia alla “Rutgers University” (la 55° università americana per prestigio).

Ha lavorato per alcuni anni presso la compagnia petrolifera Exxon ed ha diretto un importante ed apprezzato centro di ricerca governativo, il “Korea Energy and Environment Institute”.

Suo fratello è stato Primo Ministro della Corea.

 

Rajenda Pachauri, il precedente presidente dell’IPCC deceduto nel 2020, aveva fatto studi di Ingegneria all’”Indian Institute of Railways” (le ferrovie indiane, che hanno un peso notevole ed una propria università, che non è mediocre), completati da un dottorato di ricerca in Modellazione presso l’Università della Carolina del Nord (la 77° università degli Stati Uniti).

 Tornato in patria, ha fatto una carriera più amministrativa che scientifica, dirigendo vari centri di ricerca pubblici, prima di essere eletto presidente dell’IPCC. Era più conosciuto per i suoi romanzi erotici che per le sue pubblicazioni scientifiche.

Il sottoscritto ha conseguito una laurea e un dottorato in Economia presso ottime istituzioni (HEC, Università di Parigi e Harvard), prima di diventare professore universitario nel sistema francese, e anche al MIT, come “visiting professor”.

Ha trascorso diversi anni presso la “Direzione Ambiente dell’OCSE” come vicedirettore.

 Il mio profilo è quindi abbastanza paragonabile a quello di questi due presidenti. Per quanto riguarda la fisica e la meteorologia, è un profilo basso, come il loro.

 Per quanto riguarda la scienza in generale, è un profilo onorevole, almeno quanto il loro.

Delle due l’una: o si ritiene che io non sia un climatologo, e in questo caso bisogna riconoscere che l’IPCC, la cosiddetta” Mecca della scienza climatica”, è presieduta da non-climatologi, oppure il signor Pachauri e il signor Lee si possono considerare abbastanza qualificati per produrre e diffondere la “scienza climatica”, e in tal caso io sono abbastanza qualificato per criticarla.

Un problema inesistente.

Entità del riscaldamento – Nessuno nega che le temperature medie globali siano aumentate negli ultimi 150 anni.

Ma l’entità di questo aumento è modesta: tra 1° e 1,2° centigradi dal 1880.

 È molto meno delle variazioni di temperatura tra il giorno e la notte (spesso 10 °C) o tra Parigi e Marsiglia (circa 6 °C).

Tale riscaldamento è abbastanza capriccioso, varia a seconda dei paesi e dei sottoperiodi e, soprattutto, non è senza precedenti.

Faceva più caldo a Roma nell’anno 200, o in Groenlandia nell’anno 1000, che in quelle zone nel 2020.

L’abitudine diffusa di confrontare l’evoluzione dal 1880 in poi è arbitraria e distorsiva:

il 1880 infatti è un punto minimo, particolarmente freddo.

 Infine, nulla conferma l’esistenza di una “accelerazione” delle temperature (che giustificherebbe una “emergenza” climatica).

Tra il 2015 e il 2023, la temperatura media globale non è aumentata, né tantomeno accelerata ma, al contrario è diminuita, anche se questi 8 anni sono tra i più caldi registrati dal 1880.

Cause del riscaldamento

La tesi dell’IPCC, diffusa ovunque, è che questo modesto riscaldamento abbia un’unica causa (90 o 95%):

 le emissioni di CO2 (e di altri gas serra come il metano) legate all’attività umana. Senza entrare in controversie molto tecniche, alcune osservazioni di buon senso invitano alla cautela.

 La CO2 rappresenta solo lo 0,04% dell’atmosfera.

 Al tempo dei Romani, o nel Medioevo, temperature elevate coesistevano con emissioni antropiche di CO2 nulle.

La correlazione (peraltro piuttosto imperfetta) tra temperatura e livelli di CO2 nell’ultimo secolo non ci dice nulla sulla causalità tra le due variabili:

il fatto che le emissioni di CO2 dagli oceani aumentino con la temperatura potrebbe suggerire che è la variazione di temperatura che spiega la variazione di CO2, e non il contrario.

Il sole, le nuvole e gli oceani hanno effetti evidenti, anche se non perfettamente compresi, sulle temperature terrestri.

In breve, la spiegazione mono causale dominante forse non è impossibile, ma è tutt’altro che certa.

 Ne consegue che i modelli che “calcolano” la futura evoluzione delle temperature nel 2100 e oltre, sulla base della CO2 come unica spiegazione, devono essere presi “cum grano salis”.

(Ma la CO2 fa molto comodo a questi scienziati fasulli. Infatti la Co2 è la fonte di vita delle piante, degli uomini e degli animali. Dato che pesa più dell’aria rimane sempre a nostra disposizione e non fugge nel cielo come se fosse un nostro nemico dichiarato! N.D.R.)

Conseguenze del riscaldamento – Secondo la vulgata attuale, la “doxa” (δόξα), tutte le disgrazie del mondo sono “colpa del riscaldamento globale”:

siccità, e al tempo stesso inondazioni, innalzamento delle acque, impoverimento del suolo, aggravamento della fame nel mondo, guerre e persino ondate di freddo e circoncisione femminile. Il presidente Hollande è arrivato al punto di dichiarare solennemente (a Manila nel 2015) che terremoti e tsunami erano causati dal “cambiamento climatico”, e “lo hanno dimostrato”.

Non c’è abbastanza spazio qui per dimostrare che la maggior parte di queste affermazioni (che hanno poco a che fare con la climatologia) è priva di fondamento.

Ci limiteremo al caso della fame, che è essenziale e chiaro.

Cosa dicono i dati della FAO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura?

 Che la produzione agricola mondiale pro-capite è in costante aumento dal 2000 al 2020.

 È aumentata dell’11% per i cereali, del 19% per gli alimenti, del 21% per il latte.

Di conseguenza, riferisce la FAO, la denutrizione è diminuita del 30% passando dal 13% al 9% (della popolazione totale).

 In Africa, la produzione cerealicola, sempre nel periodo 2000-2020 e pro-capite, è quasi raddoppiata.

In questo continente, la denutrizione è diminuita del 24%, passando dal 29% al 22%.

Nell’Asia orientale e meridionale la riduzione della denutrizione è ancora più spettacolare: del 77%.

 In realtà, le carestie di origine agricola sono completamente scomparse; rimangono, purtroppo, le carestie di origine militare causate da guerre civili o tra stati.

 Naturalmente, la denutrizione della popolazione africana resta drammaticamente alta e bisogna fare tutto il possibile per ridurla.

 Ma l’essenziale è che in tutto il mondo, nonostante (o a causa del) l’aumento dei livelli di CO2, la fame sta diminuendo, e uomini donne e bambini mangiano di più e meglio – e muoiono di meno – che in qualsiasi altra epoca della storia umana.

“Una soluzione disastrosa.”

Se il riscaldamento globale porta a disastri spaventosi, e se è interamente causato dalle emissioni antropiche di CO2, allora è necessaria una soluzione politica: eliminare le emissioni di CO2 il prima possibile.

(Mancando la CO2 la vita sulla terra non potrebbe più esistere. E gli artefici globalisti di queste proposte avrebbero raggiunto il traguardo da sempre agognato: de popolare la terra. Eliminare gli uomini inutili e ridurre al minimo possibile la popolazione terrestre. Ma forse qualche uomo è rimasto ancora contrario a queste pretese folli! N.D.R.)

Questo sillogismo semplicistico, rafforzato dall’IPCC, è stato adottato da tutte le organizzazioni internazionali (ONU, Unione Europea, Unep, Ocse, Aie, Banca Mondiale, FMI, BCE, Papato, ecc.), dai governi dei paesi occidentali, da tutte le banche private occidentali, dalla maggior parte dei grandi gruppi capitalisti e dalla stragrande maggioranza dei media occidentali. (La potenza del denaro dei globalisti occidentali! In specie di quelli bancari! N.D.R.)

Esistono tuttavia due importanti eccezioni:

 i governi dei paesi non occidentali, (come la Russia, l’India, la Cina o i paesi africani) che, nei fatti se non nelle parole, rifiutano di seguire l’esempio dei paesi ricchi; e l’opinione pubblica, anche europea, che in tutti i sondaggi non ha mai messo la transizione ecologica in cima alla lista delle sue preoccupazioni.

 

“Inverdimento” generalizzato – L’obiettivo di ridurre le emissioni di CO2 è così diventato il principale obiettivo della politica economica, in quasi tutti i settori.

La politica dei trasporti equivale alla politica di decarbonizzazione dei trasporti: meno autovetture e solo elettriche, eliminazione virtuale dell’aereo, più treni elettrici, priorità alla bicicletta.

 La politica energetica si riduce alla “transizione” verso la scomparsa dei combustibili fossili (e, stranamente, del nucleare a lungo condannato anche in Francia dalla maggior parte dei presidenti, ministri, parlamentari, Ong e giornalisti).

 La politica agricola si limita alla promozione dell’agricoltura “biologica “, senza fertilizzanti;

la politica abitativa è ora definita come “lotta contro le perdite energetiche “.

 La politica industriale consiste principalmente nella scelta e nella promozione di industrie “verdi “, chiamate “industrie del futuro “.

A volte ci si chiede a cosa servano i nostri quaranta ministri, dal momento che la loro attività è dominata e dettata dal Ministro per la Transizione ecologica.

Nel 2017, il presidente Macron aveva chiaramente indicato questa preminenza nominando il suo Ministro dell’Ambiente, Nicolas Hulot, numero 3 del governo (dietro il Primo Ministro e il Ministro dell’Interno).

Inutilità del “tutto-verde”. 

Questa corsa frenetica allo zero CO2 è, innanzitutto, inutile e vana.

 Supponiamo per un momento che sia la quantità di CO2 accumulata nella nostra atmosfera a determinare la temperatura del globo.

Le emissioni annuali della Francia rappresentano meno dell’1% delle emissioni globali, che a loro volta rappresentano l’1% di questa quantità.

Le nostre emissioni annuali rappresentano quindi l’1% dell’1%, ovvero lo 0,01% di tale quantità.

 Inoltre, metà delle nostre emissioni viene assorbita dagli oceani e dalla vegetazione e non contribuisce all’aumento dell’accumulo.

Se, con un colpo di bacchetta magica, la Francia azzerasse le proprie emissioni di CO2, la quantità di CO2 diminuirebbe dello 0,005%.

 La “doxa” afferma che un raddoppio di questa quantità porta ad un aumento della temperatura di 2 °C (molti studi suggeriscono un aumento molto minore). Una semplice regola proporzionale mostra che zero CO2 francese avrebbe l’effetto di ridurre la temperatura del globo, e della Francia, di 0,0001 gradi, il che è prossimo a nulla.

Più in generale, la realtà è che le emissioni di CO2 dei paesi sviluppati (OCSE) rappresentano ora il 31% delle emissioni globali, e sono stagnanti o in calo, mentre quelle del resto del mondo, che rappresentano la maggior parte delle emissioni mondiali, sono in costante aumento.

Nel momento in cui la Francia sta chiudendo con gran clamore tre delle sue quattro centrali elettriche a carbone, la Cina ne sta costruendo 400.

 Il risultato (400 – 3 = 397) illustra in modo caricaturale la vanità dei nostri sforzi. Non servono quasi a nulla.

Costi del “tutto-verde”.

 Ma questo quasi nulla è terribilmente costoso.

Citeremo brevemente quattro mali verso i quali ci stanno portando le attuali politiche di riduzione del carbonio (CO2):

l’inflazione, il debito, la crisi bancaria, la disuguaglianza.

 

 Il “verde” può essere bello, ma è sicuramente costoso.

Quasi tutte le innovazioni ecologiche che la “doxa” [ispira] e i nostri governi ci impongono, comportano un aumento dei costi, e quindi dei prezzi.

 Il veicolo elettrico costa più del veicolo endotermico, il biocarburante più di quello convenzionale, l’energia eolica e solare più del carbone, del gas o del nucleare, le case isolate termicamente più di quelle non isolate, il treno più dell’automobile, e l’idrogeno è più costoso di tutto il resto.

Il costo equivale al consumo di risorse scarse.

Inoltre, l’opposizione ambientalista agli investimenti nella ricerca e nell’estrazione di petrolio e gas, in particolare il gas di scisto, sta facendo salire i prezzi del petrolio, del gas e dell’energia in generale, incrementando le rendite dei proprietari russi, sauditi o qatarioti.

Un recente rapporto ufficiale, firmato” Jean Pisani-Ferry” e “Selma Mahfouz”, stima in 70 miliardi di euro all’anno gli investimenti aggiuntivi necessari per l’obiettivo ufficiale di decarbonizzazione (senza CO2) in Francia.

Ma gli investimenti sono solo una parte dei costi aggiuntivi di questa politica.

Nel settore dei trasporti, ad esempio, la politica verde ha l’effetto di aumentare i tempi di percorrenza e ridurre la mobilità (nelle aree urbane, sostituire l’automobile con i mezzi pubblici dimezza la velocità degli spostamenti).

Questa limitazione ha un costo economico elevato.

Riduce le dimensioni e l’efficienza dei mercati del lavoro, così come il commercio interregionale e internazionale e, quindi, la concorrenza.

In tutte le analisi dei progetti di investimento nel settore dei trasporti, il risparmio di tempo generato dal progetto è, di gran lunga, la sua principale giustificazione.

La somma attualizzata del risparmio di tempo è generalmente dello stesso ordine di grandezza dell’importo dell’investimento.

 Un altro esempio di costo non ricompreso negli investimenti è legato all’eco-ansia. Sembra assodato che il discorso apocalittico, ripetuto fino alla nausea nelle scuole e nei media, abbia conseguenze psicologiche preoccupanti su un gran numero di adolescenti, compreso il suicidio.

Il costo di questo danno è difficile da valutare, ma non è trascurabile.

 Le conseguenze per le finanze pubbliche sono deplorevoli.

Tutte le grandi innovazioni degli ultimi due secoli (come il treno, la barca a motore, l’elettricità, le telecomunicazioni, ecc.) hanno portato a una riduzione dei costi che ha soddisfatto la domanda.

Queste innovazioni si sono sviluppate spontaneamente, senza un (importante) intervento pubblico.

Con le innovazioni verdi sta accadendo il contrario.

Poiché comportano un aumento dei costi, non si sviluppano senza interventi pubblici.

Sussidi e divieti sono la fonte di nutrimento della transizione ecologica.

(Quello che stupisce è che l’umanità è a rischio estinzione a causa della “follia della crisi climatica” studiata a tavolino dai dementi totali riuniti a Davos! N.D.R.)

Il caso dell’auto elettrica in Francia (e altrove) è doppiamente eclatante.

L’acquisto un veicolo di questo tipo è sovvenzionato per circa 7.000 euro;

sostituire 40 milioni di veicoli costerà quindi quasi 280 miliardi (e non si pensi che la sostituzione sovvenzionata delle batterie importate dalla Cina, con batterie prodotte in Francia, riduca il conto).

Inoltre, e soprattutto, le tasse specifiche sui carburanti fruttano al fisco più di 36 miliardi all’anno;

 la fine dei veicoli termici priverà quindi il bilancio di 36 miliardi di entrate all’anno. In vent’anni, il veicolo elettrico aumenterà quindi il debito pubblico francese di circa 1.000 miliardi di euro (un po’ meno, fortunatamente, perché la transizione non avverrà da un giorno all’altro).

Le banche, e anche le banche centrali, che vogliono apparire ed essere virtuose, sono tutte impegnate a fare del “verde” un criterio importante dei loro investimenti.

Tra un’operazione classica redditizia e un’operazione verde rischiosa, dichiarano di preferire la seconda.

 Questo atteggiamento indirizzerà gli investimenti verso la transizione ecologica, ma aumenterà anche il rischio di fallimento, che nel settore bancario diventa rapidamente sistemico.

Le banche che sono fallite negli ultimi mesi sono state quattro banche in prima linea nel sostenere la “transizione”.

La SVC (Silicon Valley Bank) ne faceva un vanto.

 Aveva un direttore per il rispetto dei criteri ESG (environmental, social, governance), ma il ruolo di direttore dei rischi era vacante da un anno.

 Non possiamo concludere che il suo crollo sia necessariamente il risultato del suo impegno, ma fa pensare alla morte del canarino nella miniera.

Una battuta corre dietro le quinte di Wall Street: “go woke, go broke“; il lettore ci perdonerà la citazione in inglese, ma queste quattro parole esprimono, meglio di un “seguite la corrente e farete bancarotta”, il pericolo del “tutto-verde” nei nostri sistemi bancari.

Il costo del verde pesa più sui poveri che sui ricchi.

 I costi del clima sono intrinsecamente regressivi.

Questo perché, in rapporto al loro reddito, i poveri sono forti consumatori di beni che emettono CO2, come l’abitazione, i trasporti, il cibo, l’elettricità, ecc. L’aumento del costo di tali beni è una percentuale del reddito molto più alta per i poveri che per i ricchi.

In Francia, una legge (la legge-quadro sui trasporti terrestri del 30 dicembre 1982) è in linea con il buon senso e stabilisce che tutti i grandi progetti devono essere sottoposti ad un’analisi costi-benefici.

La somma attualizzata dei benefici deve essere maggiore della somma attualizzata dei costi.

Il grande progetto per ridurre le nostre emissioni di CO2 non è stato ovviamente sottoposto a questo esame.

 Se lo fosse, certamente non lo supererebbe.

I costi sono immediati, certi e considerevoli.

I benefici sono lontani, incerti e probabilmente esigui.

(I ricchi sfondati globalisti occidentali hanno dichiarato che vogliono distruggere l’umanità, che sono dei pazzi criminali e che si propongono come i prossimi  autori del nostro genocidio … ma perché  nessuno si oppone a questo prossimo olocausto finale?)

 Ideologia delirante.

Solo Ideologia per confondere le menti.

 La ragione fatica a capire il prodigioso successo del movimento ambientalista in Occidente, che pretende di spiegare tutto con due idee semplicistiche e ci impegna in una politica economica suicida.

L’immagine più eloquente di questo delirio incomprensibile è senza dubbio il pubblico di Greta Thunberg.

 Il movimento ambientalista vuole e pretende di basarsi sulla “Scienza “, ma sceglie come portavoce un’adolescente svedese che ha lasciato la scuola a 15 anni e che quindi incarna l’anti-scienza, o quantomeno la non-scienza.

 E funziona!

 Papa Francesco, il presidente Macron, il segretario generale delle Nazioni Unite, gli esperti di Davos, e naturalmente il capo dell’IPCC la ascoltano religiosamente, si congratulano con lei, la approvano e giurano che attueranno tutte le sue raccomandazioni.

(Gli ignoranti prezzolati dai padroni del mondo non si vergognano dell’abisso in cui sono precipitati volontariamente! N.D.R.)

Alla scienza del premio Nobel per la fisica Clauser”, tutti i dirigenti occidentali e i loro consiglieri, le istituzioni e i media preferiscono la scienza dell’ignorante Greta.

 Qui c’è un mistero.

“Cervantes” ce ne offre una chiave di lettura.

Il brillante scrittore, che aveva trascorso cinque anni come schiavo ad Algeri (sì, c’erano migliaia di schiavi europei in Africa nel sedicesimo secolo, e nessuno schiavo africano in Europa) aveva vissuto sulla propria pelle gli eccessi del fanatismo.

 Il suo “Don Chisciotte” è un’eco di questa esperienza.

 L’eroe del libro non è affatto un modello da imitare, al contrario, viene presentato come un esempio da evitare.

Don Chisciotte è il simbolo e il ritratto dell’ideologo.

Vive in un mondo fantastico, in questo caso quello dei romanzi cavallereschi dei secoli precedenti, e questa monomania gli impedisce di vedere le cose come sono realmente.

 Sulla sua strada, ci sono mulini a vento:

vede dei briganti e li attacca;

sulla sua tavola, un piatto da barbiere: lo scambia per un elmo da cavaliere e lo indossa;

nel tugurio dove dorme, si avvicina la puttana della locanda:

per lui è la sua Dulcinea e le tende le braccia.

Non è stupido, e nemmeno cattivo, è piuttosto simpatico.

Ma i suoi occhiali ideologici lo portano a sbagliare continuamente. Le botte che prende, che ci fanno ridere, non lo illuminano in alcun modo, e anzi rafforzano la sua convinzione.

L’ecologismo appare così come un’ideologia, come una fede, come una religione, forse addirittura come la religione dei tempi moderni.

“Malraux” profetizzò che il ventunesimo secolo sarebbe stato religioso o non sarebbe stato.

“Woody Allen” dice la stessa cosa con la famosa battuta: “Dio è morto, Marx è morto, e anch’io io non mi sento molto bene“.

L’arretramento o la scomparsa delle grandi ideologie (cristianesimo, nazismo, comunismo – che ovviamente non sono equivalenti, ma che hanno caratteristiche comuni) lascia un vuoto, un bisogno di “ismo” che l’ecologismo riempie.

 Esso presenta la maggior parte delle caratteristiche delle ideologie, con i suoi pontefici, i suoi concili, i suoi libri sacri, i suoi catechismi, i suoi dogmi, il suo clero, i suoi devoti, i suoi missionari, la sua scienza, le sue scuole, i suoi finanziatori, le sue prebende, le sue censure, i suoi giornali, il suo inferno, il suo paradiso, la sua morale, le sue prescrizioni, le sue profezie, le sue apocalissi.

L’”odio per la CO2” e il folle amore di Swann…

Le molle psicologiche dell’ambientalismo sono classiche.

La prima è il sostegno di una pseudo scienza (il comunismo era il “socialismo scientifico “), che profetizza un’apocalisse.

 La seconda è la cultura della paura di disgrazie (inferno, povertà crescente) che inevitabilmente ci attendono se non facciamo nulla.

La terza è il senso di colpa: ognuno di noi è responsabile.

 La quarta è l’obbligo della penitenza: se vi battete il petto, se accettate cambiamenti rivoluzionari, se ci obbedite, allora avrete una speranza di redenzione.

Tutto questo, sistematizzato, pesa più della ragione.

Alla cieca non c’è un risveglio.

Comprendiamo meglio come e perché tante persone intelligenti, oneste e informate depongono la ragione, ed entrano di buon passo nella cappella per cantare il comune inno ecologista.

Abbiamo visto lo stesso fenomeno con tutte le altre ideologie.

 Nel 1930, il popolo tedesco, che era tra i più istruiti del pianeta, fu affascinato da un burattino, palesemente assurdo, Hitler.

 Dopo la guerra, la maggior parte degli intellettuali francesi (soprattutto filosofi e storici) ingoiò avidamente il rospo comunista, a cominciare da “Sartre” per il quale il marxismo era “l’orizzonte filosofico insuperabile del nostro tempo“.

La scienza stessa non protegge da tali eccessi.

Hitler trovò facilmente un centinaio di grandi scienziati tedeschi per diffamare la scienza di Einstein (il quale rispose: “Perché cento? Ne basterebbe uno, con un’argomentazione solida“).

Nell’URSS, dopo la guerra, “Mičurin” e “Lysenko” svilupparono idee assurde sulla genetica, ma che piacevano a Stalin; queste idee furono ardentemente difese in Francia da molti biologi comunisti, come “Charles Mathon”, direttore della ricerca al CNRS, che creò l’”Associazione francese degli amici di” Mičurin”, con il sostegno del direttore del CNRS,” Georges Teissier”.

 In alcuni casi, la rinuncia al buon senso era motivata dall’opportunismo, ma in molti altri casi si spiega con la forza torrenziale di un’ideologia che agisce come una droga e travolge la coscienza.

“L’ideologia “, diceva “Jean-François Revel”, “è ciò che pensa per te “.

Per concludere, passiamo a “La ricerca del tempo perduto”.

L’odio per la CO2 ricorda l’amore folle del sofisticato “Swann” per” Odette”, una donna di facili costumi, che finirà per sposare e che lo tradirà.

 Alla fine della sua vita, in un momento di lucidità, Swann “grida a sé stesso “:

 “Pensare che ho sprecato anni della mia vita, che volevo morire, che ho rinunciato al mio più grande amore, per una donna che non mi piaceva, che non era il mio tipo “.

(Rémy Prud'homme, classe 1936, è professore emerito di università ed ex vicedirettore per l’Ambiente presso l’OCSE.)

Quando, come e perché la ribellione paga.

Farward.recentiprogressi.it – intervista a Francesca Gino – (10-12-2021) – Redazione - ci dice:

 

(Francesca Gino - Ricercatrice in scienze comportamentali, “Tandon family “professor of business administration, Harvard business school.)

 

I ribelli sono maestri dell’arte di reinventarsi, e per questo hanno molto da insegnare in questa fase di ripresa “contro”.

 

“La prima volta che ho incontrato “Massimo Bottura “era nella sua Osteria Francescana, nel centro di Modena.

 Erano le nove del mattino.

Indossava la sua giacca bianca da chef e spazzava l’ingresso del suo ristorante. Mi chiedevo perché lo facesse.

Ma poi mi sono resa conto di quanto fosse contagiosa la sua passione per un lavoro di squadra.

Tutti i membri del suo staff sapevano di essere parte di qualcosa di importante, erano consapevoli di non essere ingabbiati in ruoli predefiniti e si sentivano ispirati a grandi imprese”.

Così ci racconta Francesca Gino, docente alla Harvard business school, autrice del libro “Talento ribelle” che inizia con l’esempio del grande chef che ha voluto superare i vincoli della tradizione e fare squadra per sperimentare piatti unici e singolari quali “La parte croccante della lasagna” e “Il bollito non bollito”. Violazione delle regole da una parte e dall’altra dedizione al lavoro di squadra.

Chi sono i “ribelli” di cui parla nel suo libro? E quali sono i tratti distintivi dei talenti ribelli?

Sono persone che infrangono le regole in modo positivo e produttivo.

Persone che ho incontrato negli anni che ho dedicato allo studio dei “ribelli” in diversi ambienti di lavoro:

dai call center nelle aree rurali dell’India agli uffici newyorkesi di Goldman Sachs, dai teatri di improvvisazione agli studi della Pixar, dagli stabilimenti di produzione alle sessioni di formazione in aziende di servizi professionali.

Persone quindi con percorsi di vita diversi ma che hanno in comune delle qualità che formano quello che chiamo “talento ribelle”:

novità, curiosità, prospettiva, diversità e autenticità.

 Essere ribelli richiede avere il coraggio di usare spesso questi talenti, al lavoro e nella nostra vita professionale.

Penso che incoraggiare il giusto tipo di violazione delle regole è ciò che i leader di oggi devono fare per aiutare le loro organizzazioni ad adattarsi e a crescere.

Incoraggiare il giusto tipo di violazione delle regole è ciò che i leader di oggi devono fare per aiutare le loro organizzazioni ad adattarsi e a crescere.

Un’altra caratteristica imprescindibile per essere un buon leader ribelle?

L’essere umili.

C’è una grande differenza tra i leader che pensano di essere ribelli e quelli che lo sono, e di solito si riduce all’umiltà.

 I leader ribelli non credono di guadagnare rispetto solo per il loro titolo ma sanno che devono dimostrare sul campo il loro valore.

Si guadagnano da vivere scendendo in trincea con la loro stessa squadra, come ci insegna del resto la storia di “Napoleone Bonaparte” soprannominato “il piccolo caporale” dai suoi stessi uomini.

Molti storici hanno raffigurato Bonaparte come un uomo dal grande ego e arrogante.

Ma era anche il caporale che si buttava nella mischia quando il suo esercito affrontava il fuoco diretto.

 Durante la battaglia di Lodi, nel maggio del 1796, si era cimentato di persona con il puntamento di uno dei suoi cannoni, compito eseguito di solito da un caporale. Prima della battaglia faceva visita ai soldati negli accampamenti per chiedere loro come andassero le cose a casa e per dirsi fiducioso che avrebbero vinto il nemico.

Questo suo stesso spirito guidò le sue riforme politiche liberali a partire dal codice napoleonico che istituì un sistema legale in cui tutti erano uguali davanti alla legge, niente più privilegi ma solo merito, fino all’abolizione del feudalesimo, alla codifica della tolleranza religiosa.

È singolare che in un ambiente rigido come quello militare la ribellione paghi. Come lo spiega?

Sì, la cultura militare può essere piuttosto contraria al cambiamento.

 Alle reclute viene insegnato a rispettare le regole e a eseguire gli ordini fin da subito, senza fare domande.

 E chi si arruola nell’esercito giura di obbedire agli ordini degli ufficiali.

Per garantire l’ordine i leader mantengono una rigida gerarchizzazione.

 In questo Napoleone Bonaparte fu l’eccezione nelle sue strategie di combattimento: il suo infrangere le regole cambiando le strategie militari e mettendosi al servizio dei suoi sottoposti gli permise di vincere insieme ai suoi soldati battaglie impossibili e, allo stesso tempo, di guadagnare rispetto.

Si rivelò un eroe e un valido leader ribelle.

Rompere le righe può essere vantaggioso.

 Quattro anni fa ho lavorato con il nuovo leader di un’organizzazione dell’air force statunitense che si occupa di voli spia attrezzati con sistemi di sorveglianze e intelligence.

Fin dall’inizio questo comandante ha detto esplicitamente alla sua squadra:

“Se noi vogliamo cambiare il futuro e raggiungere livelli di performance elevati che ci permettano di essere pronti al combattimento, dobbiamo affrontare il lavoro in modo più creativo, far emergere idee più innovative e cambiare modo di pensare”.

 Come prima cosa spiegò che serviva studiare la regolamentazione affinché l’innovazione venisse all’interno di regole prestabilite.

Poi diede pieno potere ai colleghi aspettandosi di più da loro.

In pochi anni la sua squadra è riuscita a fare grandi passi avanti sviluppando nuove soluzioni tecnologiche senza sapere nulla di software.

Si era creato un ambiente di lavoro innovativo grazie al leader che aveva dato la possibilità ai membri del suo gruppo di sentirsi più liberi e di sperimentare in modo intelligente all’interno delle regole prestabilite.

Questo vale in qualsiasi tipo di organizzazione.

Quando la ribellione può portare al successo?

Non è l’ambiente creativo che aiuta i ribelli ad avere successo.

Lo è piuttosto quell’ambiente in cui uno spirito ribelle è considerato “sano”.

Un leader ribelle si prende il tempo necessario per analizzare ciò che funziona e ciò che non funziona nella propria azienda o squadra di lavoro e ha il coraggio di innescare un cambiamento positivo laddove serve.

 Chiede esplicitamente alle persone di trovare nuove soluzioni e di uscire dagli schemi lasciando che la loro ribellione diriga la strada.

 Conoscere sé stessi ed essere consapevoli dei propri limiti senza però credere che ve ne siano di limiti su ciò che si può conseguire.

Cercare di spingere verso confini prima impensabili, fare più domande, non perdere la curiosità.

 Così il ribelle arriva al successo. “Cosa posso imparare oggi?”:

questa è una domanda che spesso si fa il capitano “Chesley Burnett” “Sully” Sullenberger, ora in pensione, noto per aver portato a termine, nel 2009, l’ammaraggio del volo 1549 sul fiume Hudson a Manhattan.

L’aeronautica è dotata di procedure operative standard a cui attenersi scrupolosamente anche in condizioni nel caso di un’emergenza.

Ma quel giorno non c’era il tempo per seguire l’intera checklist e” Sully” trovò una soluzione al problema grazie al suo atteggiamento mentale ribelle e, soprattutto, al continuo apprendimento.

Non si domandava “cosa dovrei fare” ma piuttosto “cosa potrei fare” sforzandosi di non smettere mai di imparare.

In un’intervista “Sully” mi raccontò che manteneva sempre aperta la possibilità che ogni volo apportasse una qualche nuova conoscenza o intuizione.

 Il succo del discorso è che non bisogna smettere mai di fare domande.

Questo vale per ogni persona all’interno di un’azienda, indipendentemente dal suo ruolo e dalla sua esperienza, dallo stipendio o dal background.

Dovremmo tutti conservare quella curiosità di sapere cosa potrebbe accadere dopo.

Dovremmo non smettere mai di fare domande e conservare quella curiosità di sapere cosa potrebbe accadere dopo.

La creatività è tra gli attori principi nei programmi di ripresa dalla pandemia.

Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2021 l’anno dell’economia creativa per lo sviluppo sostenibile.

Come cambierà l’organizzazione del lavoro?

I cinque talenti ribelli by Francesca Gino.

Dipende da come sfrutteremo questo momento di crisi per interrogarci su come cambiare.

 Prima della pandemia eravamo intrappolati in una routine che dava poco spazio al pensiero creativo e al lavoro in team.

 Dai dati che ho raccolto nei mesi scorsi ho riscontrato delle marcate differenze fra i leader che hanno continuato a ripetersi “non vedo l’ora di tornare in ufficio”, “non vedo l’ora che questa crisi finisca”, e i leader che invece si chiedevano come prendere spunto da questo periodo anormale per pensare in modo innovativo a come disegnare il prossimo capitolo.

Proprio questi ultimi stanno avendo più successo con persone all’interno della propria organizzazione disposte a portare spunti innovativi, persone che ‒ nonostante le responsabilità e difficoltà che si sono aggiunte in questo nuovo modo di lavorare ‒ sono disponibili a fare anche un passo in più e sono molto più coinvolte nel lavoro che svolgono;

che non vedono il lavoro come luogo di mancata soddisfazione ma come risorsa per esprimersi.

Prevedo quindi che nella fase di ripresa osserveremo delle differenze fra i leader che sono stati capaci di creare un contesto di lavoro dove le persone sentono la fiducia dei propri leader, e sentono anche di far parte di una squadra, e i leader che invece vedranno alcuni dei loro dipendenti dimettersi volontariamente e cercare lavoro altrove.

 Dipende dalla capacità di trasformare i momenti di crisi in opportunità di cambiamento, per dare spazio alla creatività, alla curiosità e alle novità, per guardare all’organizzazione del lavoro con occhi diversi cercando di capire se lo status quo, sebbene confortevole, potrebbe non rivelarsi l’approccio migliore.

Infrangere le regole ‒ nel modo giusto e nelle giuste dosi ‒ può dare una spinta in più e arricchisce ogni aspetto del nostro vivere.

La ribellione serve anche nella quotidianità per superare pregiudizi e stereotipi?

Sì, è un approccio che tutti possiamo sposare nella vita. Mi sono occupata come ricercatrice di cosa comporti infrangere le regole nel lavoro. Ma infrangere le regole ‒ nel modo giusto e nelle giuste dosi ‒ può dare una spinta in più e arricchisce ogni aspetto del nostro vivere e non solo il lavoro.

 Essere ribelle significa combattere quegli impulsi naturali perché ormai familiari.

La nostra tendenza è quella di conformarci alle opinioni, alle preferenze e ai comportamenti degli altri da cui desideriamo essere riconosciuti, è anche quella di accettare i ruoli sociali esistenti e di cadere preda di pregiudizi inconsci come gli stereotipi.

Cambiare la nostra mentalità non è facile, e di conseguenza non lo è nemmeno cambiare i nostri comportamenti.

Però se proviamo a fare nostri i talenti ribelli possiamo sentirci attori del cambiamento:

la voglia di accettare la novità invece di cadere nella routine di quello che già sappiamo fare;

la curiosità con cui siamo nati ma che si perde quando diventiamo adulti;

 la prospettiva più allargata per essere aperti alle idee degli altri;

la diversità da valorizzare rimodellando le situazioni, evitando stereotipi e pregiudizi che affossano;

l’autenticità, mostrandosi per quello che si è e mettendo gli altri nelle condizioni di fare altrettanto. Se quotidianamente ci apriamo alla possibilità di utilizzare questi talenti ribelli, le opportunità sono infinite.

(Francesca Giono).

(Talento ribelle. Perché infrangere le regole paga “nel lavoro e nella vita” - Milano: Egea, 2019.)

 

 

 

 

 

Revolt. La ribellione nel mondo

contro la globalizzazione.

Libreriauniversitaria.it -Redazione – (4-2-2021) - Nadav Eyal – Autore – ci dice:

Descrizione del libro.

“Revolt guerra alla globalizzazione” di Nadav Eyal è un saggio che nel 2018 ha sbancato i botteghini letterari israeliani.

 Corrispondente internazionale, Eyal ha capito che la rivolta contro la globalizzazione è diventata una piattaforma di contraccolpi contro il concetto di razionalità e progresso e per valori universali e preoccupazioni che ormai la gente attribuisce semplicemente alle banche o alla globalizzazione.

 Così però i fatti non corrispondono alla realtà e, per rendere questa rivolta veritiera, senza false attribuzioni, bisogna fare un passo indietro.

 L’estremismo è figlio di questo tempo e di questa tendenza, perché mette in risalto le contraddizioni più forti di questi anni.

Nadav Eyal mette così in relazione fatti economici, atti terroristici, movimenti liberali e trova la giusta connessione e il modo per raccontarci un’altra realtà.

 Il mondo ha iniziato a trasformarsi già nel 1945 e uno dei punti focali di questo cambiamento è stato proprio Israele e le sue lotte per i territori palestinesi.

 Perché da allora la politica, la società e i movimenti non sono riusciti ad andare d’accordo?

Che cosa ci ha spinto a vivere in questo modo?

In “Revolt guerra alla globalizzazione” le risposte sono tante, ma le domande sono ancora di più.

 

Trasformazione digitale:

comprensione, non ribellione.

 Ilregno.it – moralia blog - Luca Peyron – (25/05/2022) – ci dice:

 

L’uomo, dunque, non deve dimenticare che «la sua capacità di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo col proprio lavoro ... si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio».

Egli non deve «disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà, come se essa non avesse una propria forma e una destinazione anteriore datale da Dio, che l’uomo può, sì, sviluppare, ma non deve tradire».

Quando si comporta in questo modo, «invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell’opera della creazione, l’uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura, piuttosto tiranneggiata che governata da lui».

Così recita il n. 460 del “Compendio della dottrina sociale della Chiesa”.

Vi sono molte avvisaglie che la natura si stia ribellando alla trasformazione tecnica e in particolare alla rivoluzione digitale compiuta dall’essere umano.

L’elemento curioso è che a ribellarsi non è la natura intesa come creato – animali, piante, ecosistema nel suo complesso –, ma la natura umana, l’essere umano stesso.

 Può sembrare contraddittorio, e in effetti le modalità in cui questo sta avvenendo sono del tutto contraddittorie, ma avviene.

Complice la pandemia, che ha accelerato processi e messo sotto severo stress l’intero sistema di correlazioni tra esseri umani e macchine, siamo verosimilmente giunti a un punto di rottura.

Per comprenderlo dobbiamo fare un passo indietro però.

Il sistema tecnico di cui la rivoluzione digitale è figlia primogenita, nato con la rivoluzione industriale, ha alcune caratteristiche precise, una in particolare per quanto di nostro interesse in queste considerazioni: si autoalimenta e giustifica.

La tecnologia e la cultura tecnica hanno sempre detto bene di sé stesse, hanno veicolato un’accettazione acritica di qualunque risultato si ottenesse, e anche i fallimenti sono stati sempre gestiti e raccontati come utili per il raggiungimento del risultato finale.

Ne è derivata una concezione formale della tecnica e della scienza come nuove vestali di ogni forma di verità e di bene.

Vestali piuttosto gelose come sappiamo, tanto da soppiantare a mano a mano ogni altra forma di fondazione autoritativa quale la religione, la morale, persino la democrazia.

 La politica è stata sostituita dall’amministrazione e ogni decisione sembra migliore se avallata da un comitato scientifico e tecnico.

La pandemia, come sappiamo, ha messo a nudo tutte le lacune di tale impianto. Prima di tutte la lacuna epistemologica di fondo:

 la scienza e la tecnica non possono essere considerate al di sopra di sé stesse, non possono che obbedire a un sano principio di falsificazione e di raffronto con la verità delle cose per essere scienza e tecnica, per rispondere al loro sistema epistemologico di riferimento.

Se il sistema tecnico funziona esteriormente, cioè funzionalmente, esso non si può reggere senza un sottostante sistema valoriale e di senso che lo avalli e culturalmente lo giustifichi.

 La verità rende liberi, la performance tecnologica affascina, ma alla lunga si rivela per quello che è.

La rivolta al green pass è stato uno dei primi segnali forti in questo senso.

 Non basta la tecnica a convincere della bontà di una decisione.

Per trasformare davvero è necessario educare, convincere, veicolare senso e socializzarlo.

La tecnica non lo ha fatto per molto tempo e non può pensare di poter continuare a farlo senza subire delle conseguenze.

Per quanto possa essere decisivo e utile il suo apporto deve fare i conti con l’animo umano e la scintilla divina che lo abita, che alla lunga svela i falsi idoli. 

Dobbiamo però notare che tale «ribellione» non è guidata, sorprendentemente, dai giovani.

 Forse complici alcune paure e difficoltà di base, sono le generazioni non digitali a sentire fastidio oggi per la tecnologia e la sua pervasività, per la cultura tecnica e le sue pretese.

Per i giovani, per quanto valore possa avere un’affermazione di massima, lo status quo non è problematico benché sia perennemente fluido.

Non abbiamo qui lo spazio per ulteriormente approfondire il tema, ma è importante segnalarlo per risvegliare la coscienza un po’ sopita delle generazioni adulte rispetto a una loro ulteriore responsabilità nei confronti del futuro, responsabilità da assumere ora.

Esiste dunque un’adultità da prendere in mano rispetto alla trasformazione tecnologica e alla contigua e seguente trasformazione sociale.

 Non se ne occuperanno i giovani.

Manca loro una visione prospettica dovuta, semplicemente, a questioni anagrafiche, alla mancanza di un passato analogico che possa essere di raffronto e di confronto.

Non possiamo demandare a loro tali questioni in nome della loro – presunta – maggiore sensibilità o accortezza.

 E in nome di una nostra nascosta fatica a riprendere in mano la conoscenza in un necessario e dovuto aggiornamento.

Non è dunque la ribellione la strada, ma la comprensione, la presa di coscienza piuttosto della presa d’atto.

 Il dialogo con le generazioni più giovani, non per delegare ma per assumersi insieme la responsabilità del presente.

Di essere figli di Dio e padri di quei figli oggi un po’ orfani di futuro e in cerca di paternità e maternità affidabili.

(Luca Peyron è presbitero della diocesi di Torino, docente di Teologia all’Università cattolica di Milano e di Spiritualità delle tecnologie emergenti all’Università degli studi di Torino.)

 

 

 

 

 

 

E fu... ribellione

di massa!

Lamentino.it – (14 ottobre 2022) – Maria Arcieri - lamentino7 – ci dice:

 

È all'inizio fu pandemia, Covid.

Terrore allo stato puro.

Incertezza informazione continuata e uno shakeraggio al proprio medico di base.

Poi fu silenzio, obbedienza ai Dpcm, distanziamento riflessione sulla propria esistenza.

Dei veri bravi e obbedienti cittadini.

Poi i nomi dei contagiati amici e nemici che trapelavano dai pettegoli amici e nemici e gioia sui nemici e tristezza sugli amici.

Poi la rinascita con i primi vaccini in sperimentazione.

Una liberazione per poter tornare ai ristoranti senza dover controllare l’ orologio e nei negozi senza saltare i week end.

Poi i primi allarmismi sui vaccini e ci si dimentica" u passato" cantava una a nota melodia napoletana.

 E inizia la prima riflessione mondiale.

 Era assopita la gente frastornata incapace di reagire alla pandemia ai suoi dictat. Poi la prima frenata.

 I più esasperati sono scappati a farsi pungere il braccio pur di tornare alle gioie della vita.

 I più distaccati erano affogati dalle notizie dei media o esasperati di riceverne tante e tutte omologate.

E hanno iniziato a rallentare la folle corsa perché qualcosa non li convinceva e le foto dei politici nelle sale di attesa degli ospedali ancora meno.

E forse hanno aspettato la mossa mondiale o nazionale o europea successiva. Arriva il green pass, la certificazione per essere liberi di vivere la vita senza costrizioni.

 Com'era prima!

Non ci credono tutti ricordano la storia che hanno studiato sui libri a scuola e non gli piace.

Fase successiva. La ribellione.

Un passo indietro.

O meglio due iniezioni indietro.

Non lo vogliono il certificato perché devono poter lavorare cenare o viaggiare.

Anzi non vogliono essere costretti a vaccinarsi per tornare a essere liberi. Preferiscono il Covid.

Non vogliono non poter decidere. Non hanno più paura. Sono più decisionisti. (Incazz… di obbedire e subire).

Hanno obbedito. In tutto. Hanno seguito le regole.

Ma la libertà di poter decidere questa volta non la accettano.

È una costrizione il green pass, la certificazione che ci consente di partire, andare nei ristoranti nelle palestre e di lavorare per alcune categorie.

Dopo il terrore iniziale e la speranza di poter studiare la sperimentazione di un vaccino, i primi risultati.

Esattamente dopo un anno dai primi contagi.

Per qualcuno troppo poco tempo. Per altri era già pronto.

Il dato è che è terminato l’entusiasmo iniziale, e le comunicazioni sugli effetti collaterali che colpisce una piccolissima parte della popolazione.

I segnali di ribellione al green pass sono una risposta diversa, non solo dei cittadini “no vax” ma anche dei pentiti di aver creduto che tutto sarebbe finito con il vaccino.

E non che sarebbero stati costretti a ripeterlo dopo sei mesi e che alcune multinazionali ne vorrebbero tre di dosi e non due.

E che non è finita ma che ci saranno altre ondate di contagi.

E l'immunità di gregge?

 

 

 

 

I Media Occidentali si Preparano

a Coprire e Giustificare lo

Sterminio di Migliaia di Palestinesi.

Conoscenzealconfine.it – (13 Ottobre 2023) - Redazione CDC (Belisario per comeDonChisciotte.org) – ci dice:

 

La rivolta di Gaza come la rivolta del ghetto di Varsavia.

1. Tutti, a scuola, qui in Occidente, abbiamo studiato la rivolta ebraica nel ghetto di Varsavia del 16 aprile – 16 maggio 1943.

 Come noto, dopo le invasioni nazista e sovietica del settembre 1939, la Polonia, e conseguentemente la comunità ebraica residente (ridotta dall’emigrazione a circa 2,5-2,7 milioni di persone, contro i 3,1 milioni del censimento polacco del 1931) furono spartite tra Germania e URSS.

Molti Ebrei si trovarono o scapparono nell’area della Polonia divenuta sovietica. Nell’area occupata dai nazisti, gli Ebrei vennero rinchiusi e concentrati nell’entità denominata “Governatorato Generale” – nella visione dei nazisti, l’erede del “Pale of Settecento zarista”  durato 126 anni, fino al 1917 – ed in una serie di ghetti cittadini, tra i quali quello di Varsavia, inizialmente popolato da almeno 350.000 Ebrei, fu il più grande.

La vita nei ghetti ebraici non aveva nulla di normale:

le autorità naziste controllavano rigidamente l’entrata e l’uscita delle persone, degli alimenti e dei prodotti di rilevanza bellica (armi, carburante, cemento, vernici, sostanze chimiche, medicinali, etc.), avvalendosi della collaborazione forzata delle autorità ebraiche (Judenrat).

Il risultato di tale “politica” nazista fu povertà, fame e epidemie (tifo, tbc, etc.), di molto oltre i livelli provocati dalla guerra nei territori polacchi occupati.

 Da diversi documenti storici, emerge che le condizioni disumane della vita nei ghetti ebraici sconvolsero genuinamente anche diversi osservatori e visitatori nazisti:

 ma invece di imputarle direttamente alla politica criminale nazista, con suprema ipocrisia razzista gli osservatori nazisti le spiegarono quasi sempre come prova e risultato dell’evidente inferiorità razziale ebraica!

Dal 16 aprile al 16 maggio 1943 il ghetto di Varsavia insorse contro l’occupazione nazista, ed il risultato fu l’uccisione di circa 7.000 Ebrei e, nei mesi successivi, la deportazione nei notori campi di “Madjanek” e “Treblinka” dei restanti circa 40-50.000 Ebrei.

Dal lato nazista, le perdite furono solo di qualche centinaio di militari.

2. La striscia di Gaza è popolata da oltre 2 milioni di Palestinesi, accatastati in soli 365 km quadrati, ossia la terza area più densamente popolata del mondo: una prigione a cielo aperto.

Le condizioni di vita a Gaza sono letteralmente miserabili da diversi decenni.

Le autorità israeliane, infatti, controllano rigidamente l’entrata e l’uscita delle persone, degli alimenti e dei prodotti di rilevanza bellica (armi, carburante, cemento, vernici, sostanze chimiche, medicinali, etc.);

ogni tanto interrompono perfino la fornitura di energia elettrica.

 Il risultato di tale “politica” israeliana è la povertà di massa, di molto oltre i livelli di povertà nelle altre aree vicine palestinesi o arabe.

Ed ovviamente tale povertà impressiona anche diversi osservatori israeliani e occidentali:

ma invece di imputarla alla politica israeliana, con suprema ipocrisia viene spiegata come prova o risultato dell’inferiorità della cultura palestinese, ed in ultima istanza dell’intera cultura islamica.

Qualche giorno fa a Gaza è inevitabilmente esplosa l’ennesima rivolta armata. Incredibile, ma vero: nei media occidentali c’è chi si domanda “come mai” e “perché”!

Come rischia di finire la rivolta?

 La previsione è purtroppo molto facile:

con l’assedio di 2 milioni di persone, la fuga in Egitto di decine di migliaia di disgraziati, e decine di migliaia di rivoltosi e di civili Palestinesi sterminati, contro alcune migliaia di militari e civili Israeliani.

Si profila – tanto per capirci – un massacro indiscriminato simile a quello nel ghetto di Varsavia del maggio 1943, o simile a quello perpetrato da USA e GB nella seconda aggressione all’Iraq (700.000 civili morti), ormai dimenticato.

 E la responsabilità del massacro verrà interamente addossata dai media occidentali ai Palestinesi e, in ultima istanza, al mondo islamico.

Così il mondo islamico – oltre un miliardo di persone, ma evidentemente non bastano per ottenere rispetto – continuerà a domandarsi per quale ragione, mentre i rivoltosi del ghetto di Varsavia sono celebrati come eroi dalla storiografia occidentale degli ultimi 80 anni, i rivoltosi di Gaza (Olp, Hamas, etc.) sarebbero sempre e comunque solo “sporchi terroristi islamici”.

Ed a domandarsi perché in Occidente si farfuglia di una nuova Norimberga per Vladimir Putin, ma mai per George Bush e Tony Blair…

Grazie a Israele ed alla sua politica di apartheid e segregazione si profila, quindi, una ulteriore, profonda frattura nelle relazioni tra mondo occidentale e mondo islamico:

 la rivolta di Gaza rappresenta infatti la lapide tombale di qualunque residua, remota speranza di uno Stato palestinese.

È un’altra profonda ferita che si aggiunge alle altre degli ultimi decenni, dal terrorismo di Al Qaeda e l’11 settembre, all’invasione dell’Afghanistan, la seconda invasione dell’Iraq e la guerra alla Libia: nessuna persona sensata ne avvertiva il bisogno.

3. Bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà. Purtroppo a Washington e New York la “lobby Neo Global” (DEM + Conservatori + Sionisti) che controllava la Presidenza Obama e che ora controlla la Presidenza Biden (nonché, ormai, anche la Commissione UE e la BCE) ha deciso che l’Occidente può permettersi sia di condurre una guerra contro la Russia, sia di confrontare aggressivamente la Cina, sia di inasprire ulteriormente le relazioni con il mondo islamico.

E noi qui in Italia e in Europa, ormai da circa 15 anni, e precisamente dall’ignobile guerra che ha distrutto la Libia, passando per il golpe in Ucraina del 2014, tutti zitti:

non fiata quasi nessuno, ormai chi “comanda” è a tutti gli effetti la signora Ursula Albrecht Von der Leyen, nella sua mera e quanto mai meschina qualità di terminale vivente finale degli ordini provenienti da Washington e New York.

Lo stupidimento collettivo indotto dai mass media occidentali è ormai evidente.

 Il famoso modello democratico occidentale è ormai un malato in fase terminale:

in Europa votiamo liberamente, ma per Governi nazionali che non conservano nemmeno il 30% dei poteri pre-trattato di Maastricht e pre-adozione dell’Euro.

Chi governa è la Commissione UE, eletta da nessuno e responsabile verso nessuno.

Negli USA, il candidato sostenuto da almeno il 45% dell’elettorato, Donald Trump, è stato colpito da 91 imputazioni, una più ridicola dell’altra, ed a rischio perfino di estromissione ed esproprio delle sue proprietà a New York.

In tale contesto, è evidente che Israele potrà “senza dubbio alcuno” continuare la sua politica di apartheid e segregazione, ed a fare esattamente tutto quello che vuole, incluso assediare 2 milioni di persone e sterminare migliaia di Palestinesi.

Chi non è d’accordo, per i media occidentali è semplicemente – indovinate un po’ – un antisemita.

Il ricatto morale dell’accusa infamante e gratuita di antisemitismo, purtroppo, continua a funzionare egregiamente.

 Uno finisce inevitabilmente per domandarsi se non sia, invece, un alibi.

(Belisario per ComeDonChisciotte.org)

(comedonchisciotte.org/i-mass-media-occidentali-si-preparano-a-coprire-e-giustificare-lo-sterminio-di-migliaia-di-palestinesi/)

 

 

 

 

Lezione da Oslo agli “eco ansiosi”.

Non è l’uomo che “riscalda il clima “.

Laverità.info – (14 -10-2023) – Carlo Cambi – ci dice:

 

L’ISTAT norvegese: le temperature variano ciclicamente, in passato sono state più alte.

E se il riscaldamento globale provocato dall’uomo fosse una enorme Bufala?

E se avesse ragione il professor Antonino Zichichi, sbeffeggiato da molti, che sostiene: tutto dipende dal sole?

E se avesse ragione Franco Prodi che stima in appena il 5% l’incidenza dell’attività umana sul clima?

 E se alla fine l’ISTAT nostrana che continua a parlare dei mesi più caldi di sempre avesse sbagliato i dati?

Il dubbio è venuto ai norvegesi che con l’ostinazione nordica si sono messi a studiare tutti i dati disponibili prendendo un po' in giro anche i “cosiddetti scienziati del clima corrotti” riuniti nel mitologico IPCC?

L’ufficio statistico del governo norvegese-nazione che campa di petrolio, di pesca, di parchi naturali e ha con poco meno di 90.000 dollari a testa il quinto PIL pro capite al mondo – mette in rilievo che i dati statistici si possono leggere in molti modi facendo loro dire tutto e il contrario di tutto.

Se si basa, ad esempio, sulla misurazione della temperatura degli oceani che fino agli anni novanta del secolo scorso veniva fatta prelevando secchiate di acqua di mare.

Scrivono gli statisti norvegesi: “pare che ci sia un largo consenso tra i ricercatori sul fatto che l’aumento della temperatura degli ultimi decenni sia sistematico (e in parte causato dall’uomo).

Questa è certamente l’impressione trasmessa dai mass media. Per i non esperti è molto difficile ottenere un quadro completo della ricerca in questo campo, ed è quasi impossibile ottenere una panoramica e una comprensione delle basi scientifiche su cui si fonda tale consenso.

Per dimostrare questo “paper” che è frutto di due anni di lavoro su tutti i dati statistici disponibili ed è stato rilasciato a fine settembre 2023 ha fatto quello che si potrebbe dire uno “stress test” dei cosiddetti modelli climatici globali confrontandoli con le serie storiche  disponibili e con i dati  derivanti dai carotaggi  in Groenlandia, del cosiddetto ghiaccio blu dell’Antartide, con le temperature della superficie del globo distinguendo tra terra e mare, con le temperature di cento città disponibili a partire dalla fine del ‘600.

La conclusione degli scienziati norvegesi è una sentenza senza appello:

“Questi testi dimostrano che i modelli climatici standard vengono respinti dai dati delle serie temporali sulle temperature globali”.

E giusto per non dare adito a dubbi aggiungono:

“Utilizzando argomentazioni teoriche e test statistici troviamo, come in Dagsvik ed altri (2020), che l’effetto serra delle emissioni di CO2 provocate dall’uomo non sembra essere abbastanza forte da causare cambiamenti sistematici nelle fluttuazioni della temperatura negli ultimi 200 anni”.

“Nei modelli climatici globali (Gcm) la maggior parte del riscaldamento avvenuto dal 1950 è attribuita all’attività umana.

Storicamente, tuttavia, ci sono state grandi variazioni climatiche. Le ricostruzioni della temperatura indicano che esiste una tendenza al riscaldamento che sembra andare avanti da circa 400 anni.

Prima degli ultimi 250 anni circa, tale tendenza poteva essere dovuta solo a cause naturali.

La lunghezza delle serie temporali osservate è quindi di cruciale importanza per analizzare empiricamente l’andamento delle fluttuazioni di temperatura e per avere qualche speranza di distinguere le variazioni naturali della temperatura da quelle provocate dall’uomo “.

E tanto per non farci mancare nulla chiariscono:

“Queste ricostruzioni mostrano che negli ultimi 10.000 anni le temperature per lunghi periodi erano più alte di quelle attuali. La fase più calda si è verificata tra 4.000 e 8.000 anni fa”.

E perché accade?

Ecco la risposta : In altri studi recenti (Scafetta e Bianchini, 2022) si suggerisce che le variabilità della temperatura globale  della Terra abbiano cicli di temperatura stazionari forzati solare-lunare fino a 4.500 anni”. 

Insomma va bene tutto, ma paragonare la forza delle attività umane a quella del sole pare troppo.

Qualcuno lo spieghi a Ursula von der Leyen e magari anche a Papa Francesco.  

 

 

 

L’Europa tra ideologia globalista,

spoliticizzazione e populismi.

Journals.openedition.org - Geminello Preterossi – (10-12-2021) – ci dice:

 

Questo lavoro prende le mosse dalla crisi del Globalismo giuridico per mettere «in questione» la relazione tra diritto, politica e territorio, così come questa si è cristallizzata negli ultimi anni nel dibattito tra gli studiosi.

Tale opera di scandaglio e di discussione segue una tesi precisa:

 uno spazio deterritorializzato è uno spazio non politico o a bassa intensità politica, dunque un «luogo» dell’agire tendenzialmente poco democratico e poco vincolato da «cornici» costituzionali, considerate come garanzia di diritti individuali e sociali. Tale spazio deterritorializzato, così, per come si presenta, sembra irrimediabilmente «destinato» ai flussi del capitale e della finanza internazionale. Dati tali presupposti, l’analisi si servirà, perlopiù, dello strumentario concettuale che la riflessione schmittiana sul “Nomos” e sulle varie «forme» di teologia (politica, giuridica, economica) ci consegna per offrire uno sguardo alternativo.

1. Diritto senza territorio?

2. Nomos globale e grandi spazi.

3. Il ritorno della nazione e gli equivoci del post-nazionale.

4. L’Europa come spazio di spoliticizzazione neoliberale.

1. Diritto senza territorio?

In questi ultimi decenni, segnati dal cosiddetto «globalismo giuridico», abbiamo assistito a un progressivo divorzio tra diritto e territorio e all’affermazione di uno spazio giuridico deterritorializzato, egemonizzato dai flussi finanziari.

Depositatasi la polvere della retorica, della giustizia globale e della religione dei diritti umani quali fondamenti di un nuovo ordine mondiale, è rimasto ben poco.

Mentre campeggiano i poteri economici transnazionali, che non avendo problemi di legittimazione politica, possono permettersi di ignorare gli effetti sui territori –cioè sui concreti legami sociali– dell’estrazione sistematica di valore in basso e della sua sussunzione in alto, nello spazio gassoso dei «flussi».

Ora siamo in una fase nuova, determinata dagli effetti della crisi di sistema apertasi nel 2007 e dal disvelamento delle illusioni aporetiche alimentate dopo l’Ottantanove (Maria Rosaria Ferrarese ha parlato di recente di «promesse mancate»).

A giudizio di molti osservatori, siamo anzi entrati in un processo di deglobalizzazione.

Persino Sabino Cassese, scrive di una «rivincita del territorio». Mentre “Wolfgang Streeck”, la cui analisi delle «bolle» connaturate al modello neoliberista negli ultimi quarant’anni e delle contraddizioni strutturali dell’eurozona sono imprescindibili, denuncia la fine del matrimonio di convenienza tra capitalismo e democrazia.

 

Come si riflette ciò sul nesso spazio-diritto e sulla triangolazione locale- statale-sovranazionale?

La mia tesi è che uno spazio deterritorializzato sia uno spazio non politico, o a bassa intensità politica.

 Il problema è che i diritti hanno bisogno della politica per essere realizzati.

Quindi rischia di essere uno spazio de costituzionalizzato e post-democratico. Inoltre, il fatto che lo spazio sia spoliticizzato, non vuol dire che non sia attraversato da dinamiche di potere (per lo più sregolato) e che sia immune dalla violenza.

Il cosiddetto «spazio globale» è un «non luogo» di confluenza di teologia economica e teologia giuridica.

L’anomia che ne deriva rilancia i fantasmi del «politico»:

micro-stati di eccezione normalizzati in prassi amministrativa, guerre asimmetriche, norme-manifesto sulla sicurezza.

Ma sono appunto fantasmi: sintomi di una patologia deformante, se si vuole, non strumenti effettivamente ordinativi o «costituenti».

 La «naturalizzazione» dei flussi, uno dei formanti dell’ideologia neoliberale, è incompatibile con corpi politici artificiali dotati di autonoma progettualità.

 

Quella che oggi viene qualificata come «teologia economica» è a mio avviso una variante antipolitica della teologia politica. Nello stesso senso in cui i processi di neutralizzazione in funzione di un’amministrazione «tecnica», in grado di escludere qualsiasi interferenza nell’agire spontaneo per il mercato di individui auto-interessati, costituiscono allo stesso tempo una modalità di spoliticizzazione dei soggetti, e una forma di politica peculiarmente intensa, dominata dall’ostilità per l’autonomia delle scelte collettive e la loro trascendenza rispetto al particolarismo degli interessi.

 Il tratto differenziale di tale impostazione che esclude la possibilità stessa di alternative e di conflitti sui fini è la negazione del proprio carattere situato e partigiano.

Ma tale ideologia monopolistica che nega la legittimità di tutte le (altre) ideologie sembra collocarsi ancora nel teologico-politico, seppure nella forma paradossale del suo scardinamento e della sua esasperazione.

Peraltro, da un punto di vista storico-concettuale non è per nulla ovvio che i due paradigmi –teologia politica e teologia economica– siano concepibili come separati e alternativi;

lo statuto dei loro reciproci nessi è molto incerto e soggetto a slittamenti nelle stesse letture che hanno proposto la formula della «teologia economica» per indicare un paradigma autonomo rispetto a quello teologico-politico (da Foucault ad Agamben).

La saldatura di un diritto sempre meno preoccupato dell’effettività e della certezza con la «morale» neoliberale non è solo il segno di una generale crisi del «giuridico», ma allo stesso tempo il tentativo, disperato e fallimentare, di individuare una sfera legale eticamente immunizzata, che compensi la perdita di auctoritas delle istituzioni e l’inaridimento della sfera pubblica.

 Il diritto slitta sempre più in sacralizzazione moralistica, volta a esibire simbolicamente ambiti resi intoccabili, in ordinamenti sempre più laicizzati, per rispondere al bisogno di vittime, testimoni e storie esemplari in cui identificarsi, tipico delle soggettivazioni neoliberali.

 Ciò non significa che acquisisca più autorevolezza e forza, ma che si presta a usi confusi e strumentali.

Insomma, al di là del suo apparato «principialista», la teologia giuridico-morale si presenta come un dispositivo funzionale a coprire di veste «normativa» l’agenda dettata dai poteri «indiretti» della globalizzazione.

 Non a caso, il suo presunto universalismo a bassa intensità politica si rivela il più delle volte profondamente asimmetrico.

 

2. Nomos globale e grandi spazi.

Dopo l’universitas medievale (dove la linea di confine era spirituale, e poteva contenere un pluralismo giuridico spiccato), nella modernità si afferma una delimitazione simbolica stringente dell’ordine, cui corrisponde un aggancio territoriale: universali politici concreti.

Un processo di centralizzazione e monopolizzazione del potere di lunga durata (anche se segnato da scarti simbolici puntuali), realizzatosi in virtù di un cospicuo riduzionismo politico-giuridico e di un processo di omogeneizzazione sociale non privo di costi.

Ma il guadagno non fu banale:

 pacificazione delle guerre di civili di religione, secolarizzazione degli ordinamenti, emersione della società civile come spazio pubblico non statuale, pluralismo sociale, lotta per i diritti, fino allo Stato pluriclasse.

Non a caso, la necessità di preservare quel «contenitore» (l’unità politica statale), pur nelle sue metamorfosi, è condivisa anche da giuristi democratici (come Böckenförde, che ha elaborato una sorta di urbanizzazione del confine e della dicotomia amico-nemico).

 Lo stesso Tribunale costituzionale federale tedesco oggi ragiona ancora così, ponendo sull’Europa le domande che altri evitano.

È evidente che quel monopolio normativo non è attualmente praticabile.

 Però, al netto della fine del mondo vestfaliano europeo, siamo sicuri che ci sia un’alternativa credibile agli universali politici concreti?

Credo sia necessario mettere in discussione la tesi schmittiana sul tramonto della statualità:

diventata un topos comune a impostazioni teorico-politiche assai lontane, va collocata nel contesto specifico dei presupposti di Schmitt, secondo il quale qualsiasi forma di Stato che si distanziasse da un modello stretto (e per certi aspetti ideale) di unità era da considerarsi una deformazione.

Gli Stati non solo ci sono, ma sono proliferati.

Certo, non sono tutti sullo stesso piano, né operano in solitudine.

Ma restano ancora gli attori politici principali sulla scena internazionale.

A fianco non tanto di istituzioni sovranazionali (politicamente gracili), ma dei poteri indiretti «assolutistici» del finanzcapitalismo:

in un rapporto di cooperazione, funzionalizzazione, a volte tensione.

Alcuni, di questi grandi spazi statali, sono ipersovrani (e certamente ben più autonomi di altri: quelli che hanno l’atomica, un apparato militare poderoso, e controllano risorse strategiche).

 Se la tesi sul tramonto della statualità è azzardata e segnata da nostalgia eurocentrica, occorre anche riconoscere, come lo stesso Habermas è arrivato ad ammettere, che altrettanto fuorviante è l’analogia domestica.

Da queste due smentite di timori e illusioni globalisti, derivano precise conseguenze in termini di realismo critico.

Una cosa è l’internazionalismo come visione politica, altra cosa un globalismo senza polis, come pure flusso di poteri selvaggi.

La sovranità politica aveva l’obbligo di garantire l’ordine della sopravvivenza, scambiando protezione-obbedienza in un contesto determinato.

Ciò esponeva ai rischi della sua primazia, ma implicava anche un’assunzione di responsabilità specifica da parte dell’autorità politica, che doveva strutturarsi istituzionalmente su un territorio.

In realtà, a differenza di quello che pensa Ferrajoli, la sovranità moderna non è un potere selvaggio.

 Può esserlo stato in determinate circostanze storiche, ma non lo è strutturalmente.

 In questo senso, quelle economiche attuali solo metaforicamente possono essere qualificate come sovranità economiche: probabilmente per la loro pretesa di assolutezza e immunità;

ma per la loro modalità di esercizio privatistica, il loro rapporto con il territorio (dove atterrano per sfruttarlo per poi librarsi in volo), la loro coesistenza con gli altri poteri (che mirano semmai a funzionalizzare), sfuggono alla configurazione precipua dell’obbligo politico.

Inoltre, bisogna sempre ricordare che nell’analisi delle relazioni internazionali, dal paradigma vestfaliano si è passati al modello anarchico (la cui rappresentazione più emblematica è stata elaborata da Bull):

è come se l’idea del diritto internazionale come diritto interstatale fosse stato generalizzata e trasfusa in un modello realistico-politologico complessivo.

Pur con significative trasformazioni, e affiancato ad altri paradigmi come quello umanitario (che però il più delle volte è invocato strumentalmente, a paradossale supporto di interessi geopolitici), l’immagine dello stato di natura internazionale resiste, così come l’esigenza del contenimento realistico del disordine.

Come sappiamo, il diritto pubblico vestfaliano è stato possibile in Europa sullo sfondo di immani spazi liberi (per la conquista) e della opposizione dialettica terra-mare.

Dialettica infranta dal compimento della proiezione oceanica dello spirito commerciale, connessa ambiguamente all’internazionalismo liberal, da un lato, e alla definizione di linee di confine globali ferree (dottrina Monroe), dall’altro: universalismo polemico e macro-spazializzazione (che unifica terra e mare in un unico grande spazio di influenza da presidiare) convivono, giustificate entrambe dall’eccezionalismo americano, sempre in bilico tra ripiegamento comunitario e slancio missionario.

Ma le due spinte sono solo parzialmente in contrasto, poiché l’obbiettivo è sempre l’egemonia americana, mentre la divisione è sulle strategie e le modalità di realizzazione più efficace.

Inoltre è bene precisare un punto, che funge da avvertenza rispetto a certi luoghi comuni «global»:

il fatto che sullo sfondo degli ordinamenti territoriali statali ci fossero «grandi spazi» globali (come accadde anche dopo la seconda guerra mondiale, «costituente» dell’equilibrio bipolare), non significava né l’azzeramento della politicità dello spazio, della striatura del globo, né l’integrale funzionalizzazione degli Stati alle logiche privatistiche della finanza (anzi, in Occidente si realizzò, nel secondo dopoguerra, il compromesso keynesiano che rese possibili democrazie ad alta inclusione sociale).

La globalizzazione ha una genealogia risalente.

E non significa necessariamente negazione degli spazi concreti di conflitto.

A patto però di leggerla fuori dal dottrinarismo neoliberale e da quello postmoderno.

 La lotta per la democratizzazione, e a un certo punto nel mondo coloniale per l’indipendenza e l’autodeterminazione, sono state possibili all’interno (o in nome) di contesti statali.

Non sorprende che, rivelatasi la natura strumentale e illusoria dell’ideologia del governo mondiale, fallito l’azzardo imperiale dei neoconservatori, scontate le difficoltà del soft power in virtù dell’esplosione delle «bolle» finanziarie, oggi emerga reattivamente una spazializzazione difensiva (anche della forza lavoro).

 Il problema è che non si mettono affatto in discussione le cause strutturali dell’inferiorizzazione del ceto medio e del lavoro povero (individuati efficacemente da Luciano Gallino nelle dinamiche della «finanza ombra» e nei costi sociali della lotta di classe dall’alto), ma si tenta solo di arginarne fittiziamente gli effetti, spettacolarizzando una sorta di rivoluzione reazionaria, sia con chiusure dimostrativo-punitive sia diffondendo una narrazione alternativa rispetto al «politicamente corretto» globalista, così da compensare il senso di frustrazione ed esclusione dei ceti medio-bassi impoveriti.

Dal punto di vista analitico, aperta è la questione se strumenti giuridici riterritorializzanti e pragmatiche (rispetto al dogma dell’autosufficienza dei mercati) aperture a investimenti pubblici (soprattutto militari o anche infrastrutturali?) avranno una portata significativa e potranno produrre effetti di reintegrazione sociale.

E resta il nodo inquietante del segno politico-culturale complessivo, da nuova «rivoluzione conservatrice», di tale inversione di marcia (almeno in USA e probabilmente in Europa, anche se i segnali che provengono dal Regno Unito di Corbyn dimostrano che non ci sono destini reazionari già scritti).

3. Il ritorno della nazione e gli equivoci del post-nazionale.

Non si tratta qui (se non blandamente, o con qualche specifica eccezione) della risorsa-nazione in chiave culturale egemonica, o come fattore di mobilitazione politica intensa (che ha avuto versioni molto diverse: dalla primavera dei popoli mazziniana all’interventismo bellico).

Stiamo ragionando di un uso della nozione di nazione in chiave funzionale, in qualche modo «economica»: come riferimento per delimitare uno spazio di interessi prevalenti (cosa che riesce benissimo alla Germania, ma che certo non praticano solo i tedeschi).

Queste considerazioni non sono in contraddizione con la messa in guardia rispetto ai pericoli del nazionalismo identitario ed escludente e al fatto che questa carta venga già effettivamente giocata e abbia dimostrato di funzionare, soprattutto in certi contesti (ad esempio, nell’Europa dell’Est).

 Ma questo uso politico della nazione è oggi puramente retorico-polemico: rassicurare, compensare il senso di inferiorizzazione, offrire un capro espiatorio. Non è una vera alternativa alla nazione ordoliberale tedesca, organico-economica (o alla nazione amministrativo-tecnocratica francese, finché regge).

 Né tanto meno mira a ricostruire un effettivo legame democratico, un collante inclusivo largo.

Offre sfogatoi senza risposte integrative.

Il disagio motivato rispetto agli effetti disgreganti e alla polarizzazione inegualitaria della globalizzazione, i legittimi bisogni di riconoscimento, non trovano risposte proprio perché manca nella retorica nazionalista la comprensione delle effettive cause (le dinamiche del capitalismo finanziario, le conseguenze della rivoluzione neoliberista).

Come sostiene Zizek la lotta di classe slitta in lotta d’identità: il neo-nazionalismo etnico è il rovescio speculare dello spazio liscio neoliberale.

È possibile invece neutralizzare tale pericolo attraverso un rilancio dello Stato politico come Stato sociale democratico, evitando il travestimento nazionalistico del neoliberismo?

 Questa è a mio avviso la grande questione che una riflessione politica realmente radicale, perché al contempo critica e realista, deve affrontare.

 

Del resto, credo sia necessario chiedersi cosa si intenda di preciso, in senso politico e giuridico, per «post-nazionale».

 Se è un dato culturale, allora si confonde con una generale attitudine cosmopolitica, ma non è un’invenzione recente e soprattutto non implica una forma politica.

Se invece il concetto deve avere una caratura politica e istituzionale, si rivela una nebulosa.

Infatti, non si può confondere post-nazionale con «federale», perché gli Stati federali sono sì unioni complesse, ma caratterizzate da una forza politica centrifuga (appunto quella federativa, com’è evidente in Jefferson);

inoltre, il loro carattere multietnico (e quindi in un certo senso multinazionale, da un punto di vista culturale) non impedisce di basarsi su una qualche idea di «nazione» come appartenenza comune di diversi, religione civile, patriottismo ecc., che di fatto fa rientrare in campo un contenuto sostanziale minimo della cittadinanza.

Se invece per post-nazionale si intende «sovranazionale», allora bisogna dire che questo livello non solo non è politicamente originario perché strutturalmente derivativo, pattizio, ma non è neppure suscettibile di democratizzazione, perché non ha alle spalle una istituzionalizzazione su grandi spazi tale da consentire il radicarsi di un principio di legittimità autonomo.

 Viene il sospetto che per post-nazionale si intenda semplicemente indebolimento della sovranità, giurisdizionalizzazione del potere ecc.:

un processo da un lato oggettivo in virtù della maggiore porosità dei confini e della proliferazione reticolare degli scambi (anche se i veri sovrani, cioè gli Stati che se lo possono permettere, cercano di conservare gelosamente le prerogative immunitarie della sovranità, soprattutto in campo militare, per quanto adattandole al nuovo contesto di forte interdipendenza globale), dall’altro fortemente ideologico (segnato dalla confluenza del ripudio hayekiano della taxis e della fuga normativista, genericamente «progressista» dal potere).

 Ma l’idea di un ordine interamente giuridificato e a bassissima intensità politica si è rivelata un’astrazione e un inganno: un’astrazione perché non regge di fronte alle istanze fondative che deve affrontare, un inganno perché le comunità politiche robuste si sono guardate bene dal seguirla in concreto, preferendo trarre vantaggi competitivi dalla sua diffusione propagandistica.

Alla fine a troneggiare sono le sovranità economiche «indirette» del mercato «assoluto», e le iper sovranità militari e poliziesche alle quali non si applica il diritto umanitario.

 Alla luce di queste considerazioni, credo si possa concludere che, allo stato, il post-nazionale sia ineluttabilmente post-democratico.

E quindi non possa essere la risorsa prioritaria per riguadagnare uno spazio agonistico.

 

È difficile dire se stia incubando una nuova forma del potere, in grado di «costituire» un assetto globale stabile e in condizione di colmare l’attuale deficit di legittimazione.

 O se si tratti semplicemente di un accumulo più o meno disordinato di poteri, intorno a un arcipelago di potenze, di cui quella americana resta almeno per ora egemone.

Molto incerta è non solo la consistenza della nozione stessa di ordine globale, ma soprattutto la sua natura, che appare molto lontana da quella del «costituzionalismo mondiale» (ammesso e non concesso che questa sia una prospettiva credibile).

 Certo è che all’erosione dei confini come limiti simbolici (un problema per la stabilità e l’integrazione degli ordinamenti) si risponde con l’innalzamento compensativo di muri fisici, oppure con l’uso delle zone di confine e dei luoghi di gestione preventiva dell’immigrazione, sia extraterritoriali (Australia, USA) che endo territoriali (i CPR):

tutte risposte reattive all’ingovernabilità del caos geopolitico e alla crisi della «neutralizzazione» (per erosione dei suoi presupposti istituzionali);

destinate all’inefficacia, probabilmente, ma funzionali a rassicurare.

Questa messinscena dei fantasmi truci della sovranità (militari e repressivi) è una delle conseguenze più evidenti del fallimento dell’illusione globalista e post-politica.

 Impariamo la lezione: pensare di liberarsi delle ipoteche del «politico» è molto azzardato, perché le sue sfide si ripresentano, in forme incattivite.

 Scindere diritto e territorio è impossibile.

Se ne paga il fio.

L’obiettivo a cui puntare è riconfigurarne il rapporto, come è sempre accaduto nella storia.

 

Si pone dunque un’esigenza di spazializzazione politica che non va demonizzata, anche perché può essere resa funzionale a un recupero di effettività del costituzionalismo sociale e una lotta per la democratizzazione degli spazi politici.

Si tratta di pensare forme di spazializzazione inclusive e civili (altrimenti l’operazione si farà comunque, ma sarà monopolizzata da forze regressive).

Del resto, c’è un’evidente persistenza degli strumenti codificati nel «momento nazione» nella globalizzazione (democrazia, diritti di cittadinanza, interessi geopolitici e strategici).

Più che di improbabili superamenti, si può parlare di «coesistenza» tra Stato, città, reti globali, poteri economici transnazionali.

Il problema è il governo dei flussi:

perché sia possibile, occorre una strategia per renderli più solidi, dotati di gravità. Solo così saranno contenibili, obbligati a rispondere a istanze collettive.

Spesso si invocano, giustamente, i «soggetti» (in vista di un cambiamento).

Ma questi hanno bisogno di «contenitori» effettivi, dove sia agibile il conflitto per la distribuzione delle risorse, e sulla tutela e la gestione collettiva di beni ambientali e civili.

Il diritto deve decidere se servire la civitas, o società integralmente di diritto privato, attraversate da scoppi endemici e crescenti di violenza insensata.

Una cosa è certa: globalismo neoliberale e internazionalismo non sono la stessa cosa.

4. L’Europa come spazio di spoliticizzazione neoliberale.

Siamo dunque di fronte allo scacco delle illusioni post-politiche alimentate dalla globalizzazione neoliberista.

Come mostrano platealmente alcune ipoteche che molto ingenuamente si è pensato potessero essere definitivamente superate dall’omologazione del mondo attraverso il mercato, mentre in realtà si tratta di costanti di sfida che chiedono risposte politico-simboliche e non economicistiche:

persistenza del residuo della violenza, ritorno di bisogni identitari, necessità di riannodare il legame sociale e di fronteggiare gli effetti della tensione capitalismo-democrazia.

Per fortuna, l’organizzazione dei raggruppamenti umani è irriducibilmente plurale e perciò refrattaria alle uniformazioni coatte e astoriche.

Il precipitato perfetto di quelle illusioni globaliste sono le contraddizioni strutturali della costruzione europea, coltivate per certi aspetti ingenuamente (nella speranza mal risposta che avrebbero favorito un’integrazione politica para-federale), per altri cinicamente (perché il loro portato sociale, in termini di riallocazione del potere a favore del capitale finanziario e a discapito del lavoro, non era affatto neutro né imprevedibile).

 

La stessa questione della democrazia (ce la possiamo ancora permettere?) in Europa si è fatta particolarmente spinosa, anche perché investe un architrave dell’autolegittimazione dell’Occidente:

sta di fatto che la sovranità popolare oggi è vista con sempre maggiore sospetto dalle élites liberal-globaliste;

 ed è impressionante come documenti del FMI e della Banca Mondiale qualifichino ormai come «populiste» tutte le posizioni che rivendicano politiche per il lavoro e diritti sociali (quindi l’applicazione delle Costituzioni del secondo dopoguerra).

Pur con tutte le cautele rispetto alle possibili distorsioni nella rivendicazione della sovranità popolare (se assolutizzata, svincolata dalle regole della rappresentanza pluralistica), il più grande pericolo attuale mi sembra quello di giustificare politiche antipopolari, per paura del populismo.

Anche perché si preparerebbe così il terreno a risposte regressive, da rivoluzione passiva globale.

 Ormai anche il pensiero mainstream ha cominciato, seppur timidamente, a dire l’indicibile. Del re (...)

Se la narrazione neoliberale è in crisi, è altrettanto vero che un paradigma alternativo fatica ad emergere, almeno per ora.

Perché?

Un rilancio globalista in chiave alternativa appare oggi astratto e senza presa politica.

Mentre dominano titubanze e paure –soprattutto a sinistra (in questo speculare alle élites neoliberali, tranne poche, preziose eccezioni, come quella di Corbyn)– sul recupero di spazi politici concreti, nei quali tornare ad esercitare il conflitto sociale e un’autonomia democratica effettiva.

 In qualche modo, è quindi inevitabile muoversi tra residui (novecenteschi), persistenze concettuali (moderne) e illusioni (globaliste).

Certo, contrapporre residui a illusioni può essere rischioso.

Ma non si tratta di fare macchina indietro, ovviamente (sarebbe impossibile, peraltro).

Piuttosto, il punto è recuperare, rilanciandone il portato emancipativo e l’attualità, il precipitato politico del costituzionalismo sociale e democratico.

Senza complessi di inferiorità rispetto al potere, alla sua istituzionalizzazione e alla stessa forma-Stato come spazio del conflitto politico (certo non l’unico, ma a tutt’oggi il più rilevante dal punto di vista della legittimazione democratica).

Del resto, è dalla riappropriazione democratica della sfera pubblica statale in chiave anti-neoliberista che derivano le possibilità concrete di proficue connessioni di lotta internazionaliste e le stesse condizioni (oggi inesistenti, a dispetto della retorica sulla governance sovranazionale) per una cooperazione effettivamente paritaria (e non disciplinare, gerarchizzante, come quella dell’eurozona).

 Ciò implica anche uscire dal grande equivoco dell’europeismo di maniera, che è una delle cause principali che alimentano le pulsioni antieuropee:

in particolare, si tratta di riconoscere razionalmente che l’euro è un simulacro fallito di sovra nazionalità, per restare attaccati al quale occorre pagare il prezzo assai oneroso di politiche antisociali che mettono a rischio la democrazia.

Ne vale la pena?

 

Il punto da cui partire, a mio avviso, per inquadrare in una prospettiva complessiva l’impasse europeo, è la natura neoliberale dell’Europa di Maastricht:

al centro c’è il mercato e la competizione sul suo terreno;

la stessa nozione di libertà è quella auto-imprenditoriale dell’homo oeconomicus.

La Carta dei diritti (in teoria l’altra gamba dell’UE, per compensarne l’impianto economicistico) è valida ma ineffettuale politicamente: le politiche imposte dalla BCE non paiono ispirate al titolo IV dedicato alla «Solidarietà».

Il Rapporto della Trilaterale del 1975 individuava la causa della crisi della democrazia nell’eccesso di pretese che aveva ingenerato.

Un’analisi per nulla innocente, che conteneva una diagnosi dal carattere spiccatamente ideologico.

Davvero il Welfare e le spinte partecipative si erano fatti insostenibili?

Un’ampia letteratura ha tematizzato, enfatizzandola, la «crisi fiscale» dello Stato keynesiano;

certo, c’erano anche fattori endogeni nella battuta d’arresto del modello socialdemocratico, ma non bisogna dimenticare lo shock petrolifero degli anni Settanta e il peso di fattori geopolitici.

Soprattutto, non si può dimenticare l’offensiva egemonica neoliberista, che ha accompagnato il revanscismo del profitto sul salario, come conseguenza proprio dei successi delle politiche keynesiane, che avevano garantito piena occupazione (la quale dette forza al conflitto redistributivo), riduzione delle diseguaglianze, attivazione dell’ascensore sociale.

 La cosa singolare è che la narrazione neoliberale sul Welfare è stata fatta propria anche da certe correnti «post-moderne» della sinistra «radical».

 

Possiamo dire che l’Europa di Maastricht si è allineata al Rapporto della Trilaterale e alla nuova ideologia neoliberista (lo stesso Guido Carli lo riconosceva lucidamente nei suoi appunti):

 non conta la disoccupazione, solo l’inflazione;

ovvero non contano l’inclusione sociale e la qualità della produzione, ma la rimunerazione borsistica del capitale (come ha magistralmente messo in evidenza Luciano Gallino).

Con la crisi del 2007 si disvela un’aporia che ha le sue radici in quella svolta: il capitalismo promette benessere, ora deve puntare sulla colpa/debito.

Vi sono dei nodi di fondo della costruzione europea che sono stati sottovalutati (forse non aveva tutti i torti Schmitt a qualificarla come un processo di integrazione per progressive neutralizzazioni):

 innanzitutto quello della forma politico-istituzionale (federazione, confederazione, Stati Uniti d’Europa, altro? Ma cosa? Un UFO, cioè un oggetto non identificato? Si può dire che sia un’unione pattizia, la quale ha in sé qualcosa in più di un’alleanza: burocrazia stabile, istituzioni comunitarie).

Una cosa è certa: dall’UE si può recedere, quindi non ha nulla di politicamente originario.

 I signori dei trattati rimangono gli Stati membri.

Di conseguenza l’Unione non può avere una vera e propria «costituzione» (al massimo un trattato costituzionale).

 Dall’euro invece non si capisce se si può recedere (ma il fatto che non sia previsto non esclude che accada).

Certo, il disciplinamento operato dalla Bce (ad es. verso la Grecia), anche in funzione preventiva ed esemplare, indica che la Banca centrale si pensa e opera come un potere sovraordinato. Paradossalmente, perché in teoria è un potere tecnico.

Di fatto, nell’anomalia di una moneta senza Stato, è un potere politico indiretto, democraticamente irresponsabile.

Ho sempre pensato che tale difficoltà di qualificazione politica e istituzionale dell’Europa fosse alla lunga un problema, non una risorsa.

Non lo sarebbe stato, forse, se si fosse rimasti sul piano di un’unione commerciale, doganale, o di una parziale convergenza giuridica (parziale perché l’idea che le decisioni giurisdizionali sovranazionali impattino senza filtri negli ordinamenti interni, ad esempio nel campo penale, è molto problematica e va controllata con molta cura; così come è del tutto conseguente che le Corti costituzionali vigilino sull’intangibilità del nucleo indisponibile delle Costituzioni statali, erigendo alla bisogna lo scudo dei «controlimiti»).

Ma nel momento in cui si tocca una delle prerogative fondamentali della sovranità (quella monetaria) il problema sorge con forza.

Il post-sovrano si è rivelato un’illusione velenosa:

 sia perché vale solo per alcuni (non per i più forti), sia perché niente affatto progressivo socialmente e ben poco democratico (avendo lasciato campo libero alla lex mercatoria).

 Realisticamente dobbiamo constatare la persistenza, peraltro comprensibile da un punto di vista geopolitico, dell’interesse nazionale (di crisi dello Stato si parla da più di un secolo: ma i sostituti latitano). C’è poi un problema evidente, e sempre più evocato, di legittimazione democratica (ma davvero quello di sovranità popolare è un concetto anti-europeo?).

Per non parlare delle problematiche complesse relative a quei fattori coesivi, tanto culturali quanti legati alla cura degli interessi di una comunità, necessari a generare vincoli di solidarietà, che trovano tuttora nelle identità nazionali il loro riferimento privilegiato (identità che come sappiamo sono artificiali, certo, ma frutto di accumuli storici che le rendono spesse, non agevolmente scioglibili in contenitori più vasti e sottili, perlomeno non in poco tempo e in condizioni ordinarie).

Certo, la violenza interna inter-europea è stata bandita: una conquista non da poco.

Ma non basta a generare uno spazio politico, e comunque è stata realizzata sulla base di presupposti non scontati, che debbono essere costantemente rigenerati.

La formula «multilevel system of government» (utilizzata spesso da Habermas, tra gli altri, per indicare uno spazio sovranazionale a bassa intensità politica ma a suo dire in grado di democratizzarsi, almeno parzialmente) si è rivelata a mio avviso ambigua e fuorviante (come la nozione di governance).

Perché dietro l’apparenza della mitigazione del potere e dell’orizzontalità stratificata, delinea uno spazio giuridico-economico senza effettivi luoghi del conflitto e della legittimazione.

 La democrazia nasce invece nello Stato nazione e lo presuppone.

Perché la lotta per la democratizzazione è stata possibile al livello dello Stato.

In astratto, l’analogia domestica non sarebbe forse fuorviante sul piano di un grande spazio europeo politicizzato.

Ma occorrerebbe una decisione costituente in tal senso, che non è all’orizzonte: probabilmente si è sottovalutato il peso delle storie e delle tradizioni nazionali e del fattore tempo.

 E si è preferito non vedere come solo un’erogazione di energia politica poderosa, che di solito avviene dopo eventi traumatici, può accelerare quei tempi, mobilitare i popoli, «inventare» tradizioni comuni.

Certo, si può puntare il dito sulla mancanza di coraggio e visione delle attuali classi dirigenti europee.

Ma forse certi equivoci vengono da lontano e ora si stanno semplicemente disvelando, legati come sono all’oscillazione inevitabile tra cura dell’interesse nazionale (prevalente) e integrazione cooperativa (parziale), in assenza di un’unione politica della solidarietà (che implica condivisione di destino, trasferimenti interni di risorse, eurobond, progetti e investimenti comuni con un budget federale significativo, fino a una politica estera e di difesa condivisa).

Per garantire tutto ciò non può essere sufficiente uno spazio di mercato tecnocratico, che sarà perfetto per i poteri indiretti transnazionali (che così possono scorrazzare senza argini e controlli), ma che non potrà mai essere una comunità dotata di un minimo comun denominatore politico (per quanto multinazionale e articolata al suo interno):

“Böckenförde” aveva posto qualche anno fa la questione correttamente.

 Come a suo modo lo stesso “Grimm”.

Si è preferito liquidarli come passatisti.

 

Non sorprende pertanto che l’Europa attuale sia diventata uno spazio di spoliticizzazione post-democratica, ispirata alla peculiare variante euro-tedesca del neoliberismo: l’ordoliberalismo.

 In quanto tale, non è, non può essere un campo di battaglia, nel quale agire il conflitto politico e rappresentare quello sociale.

Questa immunizzazione del potere euro-tedesco fa sì, però, che le refrattarietà si manifestino sul piano nazionale, in forma di profonda sfiducia e disconoscimento dei rappresentanti.

 I cosiddetti «populismi» ne sono l’effetto (e bisognerebbe evitare di mettere tutto in un unico calderone: la Le Pen, Podemos, Mélenchon, persino Corbyn).

Certi tassi di disoccupazione, soprattutto giovanili, sono incompatibili con la democrazia: abbiamo davvero del tutto rimosso la lezione di Polanyi e Keynes?

Com’è ormai chiaro, inferiorizzando il ceto medio, comprimendo i salari, creando disoccupazione e lavoro povero di massa, c’è bisogno di bolle (finanziaria, immobiliare, tecnologica) per sostenere fittiziamente la macchina.

 Ma a un certo punto i nodi vengono al pettine, com’è accaduto con la crisi finanziaria e la recessione globale che ne è derivata.

Cui si è risposto, però, non rivedendo assiomi e ricette fallimentari, ma con una poderosa operazione di pubblicizzazione del debito privato, che è stato scaricato sul «pubblico», anche grazie a una grande manipolazione veicolata dal circuito mediatico mainstream, giocata sulla demonizzazione del Welfare e sull’ostilità verso lo Stato politico interventista, cioè ancora sull’onda lunga dello spartiacque del 1989.

 Chi ne sta pagando il conto, ad esempio nell’eurozona?

 I Paesi più fragili, i giovani, i pensionati, i lavoratori dipendenti;

ma anche i piccoli imprenditori, gli artigiani, in generale chi vive di domanda interna.

Quanto può durare la giostra degli inganni?

È così strano che ci sia una crisi generale di consenso e di fiducia, che ha già travolto il socialismo europeo?

 

Ordoliberalismo e neoliberismo sono due varianti dello stesso assunto anti keynesiano.

 Ma lo Stato sociale democratico può essere anti-keynesiano?

Se consideriamo che il passaggio dallo Stato monoclasse allo Stato pluriclasse ha mostrato come il Welfare serva a creare le premesse dell’inclusione democratica, la risposta non può che essere negativa.

L’ordoliberalismo postula che l’inclusione sociale passa realizzarsi solo attraverso il mercato.

In questo senso non ha nulla a che fare con l’idea fallace, diffusa nel dibattito pubblico italiano, secondo cui l’economia sociale di mercato rappresenti una correzione dell’economia di mercato in senso sociale e welfaristico.

 Si tratta di un modello che prevede sì una iper-regolazione, ma per escludere qualsiasi eteronomia rispetto alle leggi di mercato (ad esempio, le politiche keynesiane) e garantire le condizioni della competitività.

Al di là del fatto che questa impostazione ha un nucleo fideistico, e che spoliticizza il conflitto, il problema è che (probabilmente) funziona solo per la Germania (un Paese che, nonostante alcuni scricchiolii e una crescente polarizzazione della società tra un corpo sociale integrato e una parte esclusa e impoverita, soprattutto a Est, rappresenta ancora un sistema abbastanza compatto e coeso, anche grazie ai presupposti organicistici e alla retorica del bene comune oggettivo cui subordinare gli interessi di parte, che fanno parte della tradizione tedesca).

Del resto l’ordoliberalismo è una filosofia sociale elaborata come alternativa al comunismo e al nazismo, per tenere insieme le società di massa.

 L’ordoliberalismo in questo senso è un tentativo di offrire una base organica al mercato, inteso quale meccanismo di socializzazione anticollettivista.

C’è però il problema che quel modello, ancora abbastanza efficace per la Germania, anche a fini di consenso politico, scarica sugli altri i problemi:

 il perseguimento del surplus come premessa per una sorta di Stato sociale in un solo Paese (pur con le sue contraddizioni e disfunzionalità da correggere: disuguaglianze sociali e territoriali, compressione salariale, mini-jobs) implica la rinuncia a svolgere una funzione di traino, generando squilibri in nome del proprio vantaggio competitivo sul fronte delle esportazioni:

 gli effetti sono la gerarchizzazione dell’Europa e la svalutazione del lavoro come svalutazione interna imposta ai Paesi più deboli da una moneta senza Stato, sottratta al controllo democratico (non a caso, già teorizzata da Hayek).

La Germania cura il proprio interesse nazionale a qualsiasi costo e di fatto considera l’euro il marco.

 Ma non ha senso trattare moralisticamente la questione:

è un calcolo di interessi, forse non lungimirante, ma razionale;

sono gli altri che non si attrezzano per tutelarsi: noi, in modo particolare.

Inoltre, pragmaticamente, quando serve, la mano pubblica interviene eccome a difesa dell’industria e delle banche tedesche (ma anche la Francia non si comporta diversamente).

 La domanda di fondo è:

ha senso autoimporsi un vincolo esterno in nome di un apparato dottrinario fideistico che ha generato il paradosso dell’austerità espansiva e delle politiche pro-cicliche in una fase di crisi strutturale?

Un’impostazione che oltre ad essere inefficace e a generare un profondo scollamento tra classi dirigenti e ceti popolari, ci condanna all’autolesionismo e alla disattivazione del contenuto sociale della democrazia costituzionale.

 A dispetto delle trivialità sulla fine della storia, ancora una volta:

hic Rhodus, hic salta!     

 

 

 

 

Sulla risposta alla crisi globale

si gioca il futuro dell’umanità.

 

 Editorialedomani.it - IAN BREMMER - (18 agosto 2022) – ci dice:

Mai prima d’ora così tanti esseri umani hanno avuto la possibilità di sopravvivere al parto, andare a scuola, sfuggire alla povertà, accedere a un’istruzione superiore, incontrare persone lontane e guadagnarsi da vivere.

Ma mai come oggi rischiamo una catastrofe che è accelerata dagli stessi strumenti che potrebbero scongiurarla.

(Questo testo è un estratto dal nuovo libro di Ian Bremmer, Il potere della crisi - Come tre minacce e la nostra risposta cambieranno il mondo, pubblicato da Egea”.

Il testo fa parte del numero di Scenari:

 “Alla corte di Xi Jinping”, in edicola e in digitale dal 12 agosto.)

inventare qualcosa di nuovo, votare, ricevere cure mediche di qualità, attraversare i confini e offrire ai propri figli gli stessi vantaggi.

Oggi miliardi di persone hanno agi e opportunità nettamente superiori a quelli che potevano vantare i re medievali.

 L’inventiva umana ha raggiunto picchi inimmaginabili anche solo una generazione fa.

Ma, come ho spiegato in questo libro, rischiamo anche la catastrofe.

 Le conquiste storiche degli ultimi cinquant’anni – compresa la più importante, ossia la nascita del primo ceto medio mondiale – sono minacciate dall’incapacità dei nostri leader di collaborare per proteggerci dalle malattie infettive, dall’innalzamento dei mari, dal cambiamento climatico, dalle ondate di disinformazione tossica, dagli sconvolgimenti causati dalle tecnologie che sottraggono il lavoro agli esseri umani, dalla dittatura digitalmente potenziata e dalle nuove forme di guerra.

E tutto avviene alla velocità della luce.

 Per miliardi di anni il nostro pianeta non ha ospitato alcuna forma di vita intelligente.

 Per milioni di anni ha ospitato forme di vita intelligenti ma senza alcuna traccia di esseri umani.

Per altri due milioni di anni qualche essere umano c’è stato, ma non c’erano la cooperazione e la comunicazione necessarie a costruire società e a consentire il progresso.

Poi è arrivato il commercio tra le persone che per sopravvivere si dedicavano alla caccia e alla pesca. Le ragioni di scambio sono diventate più complesse, sono state scritte delle regole e create autorità indipendenti dedite a risolvere le controversie.

Le popolazioni hanno cominciato ad aumentare, e con esse la complessità delle relazioni.

Nel I secolo d.C. c’erano 170 milioni di persone sulla Terra.

 Nel corso dei mille anni successivi questo numero è salito a 254 milioni.

Grazie alla peste bubbonica nel 1400 c’erano ancora solo 343 milioni di esseri umani.

Ci sono voluti due milioni di anni per raggiungere (nel 1804) una popolazione mondiale di un miliardo di persone e solo altri duecento anni per arrivare a sette miliardi.

L’accelerazione dello sviluppo umano è ancora più evidente nelle nostre tecnologie.

Agli albori del XX secolo i soldati combattevano ancora a cavallo; nel 1945 gli Stati Uniti hanno lanciato bombe atomiche su due città giapponesi. O, ancora, pensiamo ai progressi della comunicazione.

La prima chiamata effettuata da un telefono cellulare portatile risale al 1973, e fu fatta con un dispositivo che pesava quasi un chilo.

Nel 1989 Tim Berners-Lee inventò il World Wide Web e il primo browser.

 Oggi più di 4,4 miliardi di persone esplorano il cyberspazio.

Pensate alla velocità con cui il volo ci ha consentito di raggiungere nuove vette. Nel 1903 Orville Wright pilotò un biplano a 36 metri di altezza e rimase in volo per dodici secondi.

 Appena 58 anni dopo l’Unione Sovietica lanciò Yuri Gagarin nello spazio, e otto anni dopo Neil Armstrong atterrò sulla Luna.

Nel 2021 la NASA ha fatto volare sulla superficie di Marte un drone che trasportava un pezzo dell’aereo dei fratelli Wright grande come un francobollo.

Ora facciamo un salto di venticinque anni nel futuro.

Sono queste le prospettive che ci servono per visualizzare il punto in cui ci troviamo, dove stiamo andando e a quale velocità ci stiamo arrivando.

La nostra capacità sia di creare che di distruggere sta accelerando più velocemente di quanto riusciamo a registrare.

Abbiamo liberato forze che stanno cambiando il pianeta e sfuggendo al nostro controllo e, se non riusciremo ad accordarci su come gestirne in maniera saggia le conseguenze, potremmo distruggere tutto ciò che gli esseri umani hanno creato.

Siamo davanti a un bivio.

Come spero abbiate compreso dalla lettura di questo libro, le sfide globali senza precedenti di cui vi ho parlato non incombono in un futuro imprecisato:

 sono qui con noi in questo preciso momento.

Il cambiamento climatico si intensificherà, qualunque cosa facciamo, e i suoi effetti verranno avvertiti ovunque.

Gran parte del nostro pianeta sta diventando ostile alla vita.

Le nazioni e le persone più ricche spenderanno qualsiasi somma per proteggersi dagli effetti peggiori di questa calamità in atto, ma gli stravolgimenti e le sofferenze continueranno.

Solo una risposta globale potrà contenere i danni.

 I nostri leader nel mondo della politica, degli affari e della filantropia devono trovare compromessi, cooperare e coordinarsi in nuovi modi.

 

Man mano che il cambiamento climatico sconvolgerà più vite e costringerà più persone a lasciare le proprie case, accentuando ulteriormente la disuguaglianza globale, milioni di queste vittime diventeranno disperate e arrabbiate.

 Alcuni useranno la violenza per manifestare queste emozioni, e la storia ci insegna che la violenza può generare altra violenza.

Per i privilegiati il danno è contenuto finché gli emarginati si limitano a brandire bastoni e pietre. O pistole. O bombe al nitrato d’ammonio.

Ma quando l’inventiva umana dà loro accesso a nuove e pericolose tecnologie – armi in grado di colpire gli spazi che tutti condividiamo nel mondo reale e virtuale – più persone verranno uccise e intere società destabilizzate.

Il ritmo del cambiamento tecnologico è il rischio più grande di tutti.

Oggi le aziende utilizzano l’intelligenza artificiale per scoprire modi più efficaci e proficui di cambiare il comportamento umano, senza chiedersi quale effetto possa avere realmente quella tecnologia sulle persone che ne diventano dipendenti.

Persino nel bel mezzo di una pandemia che mette in pericolo la vita di decine di milioni di persone non ci azzardiamo a utilizzare un nuovo vaccino senza prima averlo testato.

Vogliamo sapere come inciderà sulle persone, se le proteggerà, quanto dureranno i suoi effetti e se causerà effetti collaterali.

Regolamentiamo il tabacco e gli alcolici.

 Vogliamo impedire ai più giovani di fumare sigarette o di fare uso di narcotici.

Ma quando sviluppiamo nuovi algoritmi che decidono quali idee, informazioni e immagini assumiamo, quali prodotti consumeremo, come spenderemo i nostri soldi o come interagiremo con altre persone, non facciamo alcun test. Iniettiamo tutto nel flusso sanguigno del corpo politico senza neanche pensarci.

 

Le nuove tecnologie stanno già modificando la nozione stessa di essere umano, e non abbiamo idea delle possibili conseguenze di ciò. Questi sono problemi che nessuna nazione può risolvere da sola. E proprio per questo offrono agli esseri umani un’opportunità senza precedenti: quella di fondere il loro estro pratico e morale per il bene di tutti.

 

Guerra e pandemia aumentano le disuguaglianze e minacciano la democrazia.

(NICOLA LACETERA, economista.)

COOPERAZIONE PRATICA.

Tutte le persone – quelle che vivono nelle democrazie e nelle dittature, nei paesi ricchi e in quelli poveri e in tutte le terre di mezzo – sono accomunate da molte aspirazioni: in primis la sicurezza, la dignità e la prosperità.

Vogliamo un accesso sicuro al cibo e all’acqua. Vogliamo che la legge ci protegga e che protegga i nostri beni e i nostri diritti. Vogliamo buone possibilità di guadagnarci da vivere. Se perdiamo il lavoro, vogliamo sapere che possiamo trovarne un altro.

Tutte queste cose le vogliamo anche per i nostri figli. Ma tutto questo dipende sempre più da ciò che accade molto lontano dai nostri confini. I confini cambiano, gli imperi sorgono e cadono, le alleanze si forgiano e si dissolvono e i leader politici vanno e vengono ma, oggi più che mai, i problemi degli altri stanno diventando i nostri problemi.

Il panico spaventa i mercati di tutti i continenti. Le tempeste infuriano nonostante le barriere marittime. Le malattie si diffondono. La criminalità scatena altra criminalità. I disordini politici ridisegnano intere società. Le guerre cambiano le vite delle persone a migliaia di chilometri di distanza dal campo di battaglia.

Fino a quando le persone più ricche del mondo non si lanceranno nello spazio per costruirsi lussuose tenute stellari, dovremo condividere tutti un unico ecosistema, in senso sia metaforico che letterale.

 Questo libro vuole ribadire l’importanza di una cooperazione pratica su alcune questioni fondamentali.

Non dobbiamo necessariamente piacerci, tantomeno accordarci su un unico insieme di valori politici ed economici.

Non c’è bisogno che tutti lavorino assieme.

 Non dobbiamo risolvere ogni singolo problema. Di certo non abbiamo bisogno di un unico governo mondiale che ci salvi dal caos.

Ma non è mai stato più chiaro di così: i cittadini di tutti i paesi del mondo devono cooperare se vogliono raccogliere i frutti pressoché universali degli obiettivi che non si possono raggiungere da soli.

Sono un americano patriottico.

Sono veramente grato per tutto quello che il mio paese ha fatto per me e per i miei cari, e per ogni opportunità che ha creato per noi.

Ma non sono un nazionalista. Non credo che i nostri valori siano intrinsecamente superiori a quelli degli altri.

L’America è una comunità di persone con opinioni diverse e convincimenti contrastanti, un consesso di razze, persone di ogni fede e cittadini non credenti.

 Né credo che i «valori americani» offrano la soluzione migliore a ogni problema. La democrazia rappresentativa è, a mio avviso, la migliore forma di governo, ma nessuna nazione governata da un dittatore se la passerebbe meglio se tenesse libere elezioni fra tre mesi.

 

Per costruire la democrazia ci vuole tempo, e la democrazia non è la migliore forma di governo per ogni singola fase dello sviluppo di una nazione.

Fu la tirannia del comunismo sovietico a sottrarre la Russia al feudalesimo zarista nel 1917 e a portare Gagarin in orbita appena 44 anni dopo.

Nessuna democrazia ha liberato centinaia di milioni di persone dalla povertà come ha fatto il Partito comunista cinese.

I comunisti sovietici e cinesi si sono macchiati di alcuni tra i peggiori crimini della storia contro persone innocenti.

Ma è vero anche che gran parte della prosperità democratica dell’odierna Europa è stata costruita su secoli di imperialismo, e che gran parte della ricchezza attuale dell’America è stata accumulata sulle schiene di persone condotte lì in catene.

Non essendo un nazionalista, non ho problemi ad ammettere che tutte queste cose sono vere.

Né credo in una marcia ineluttabile verso la pace, l’uguaglianza, la giustizia o la libertà.

La storia ci insegna che nessuno di questi risultati è inevitabile.

 Eppure, per decine di migliaia di anni abbiamo sì potenziato la nostra capacità di uccidere, ma anche la nostra capacità di cooperare.

L’archeologia ci svela la progressione dal semplice al complesso compiuta dalla storia umana.

 È stata la collaborazione tra le persone a gettare le basi di questa complessità. Dall’invenzione della ruota alla nascita del baratto, fino allo sviluppo della democrazia e alla creazione delle moderne filiere produttive e reti di ammortizzatori sociali, le nostre conquiste dipendono sempre più non solo dalle nuove tecnologie ma anche da forme complesse di impegno sociale, cooperazione e coordinamento.

La nostra disponibilità a cooperare deve progredire più velocemente delle forze distruttive che abbiamo messo in moto.

 I vari processi che oggi chiamiamo «globalizzazione» hanno lasciato troppe persone a vivere nella miseria, e a un palmo di naso dai ricchi.

Vedendo nell’efficienza e nella redditività l’unica strada verso la prosperità, abbiamo creato una forma brutale di governo che avvelena il suolo su cui crescono le società civili, generando guadagni per proprietari e azionisti e abbandonando milioni di persone.

Il contenimento di questa pericolosa disuguaglianza comincia in patria, preparando i lavoratori ad assorbire gli shock e ad affrontare le sfide che inevitabilmente accompagnano l’accelerazione del cambiamento.

Non è possibile costruire un nuovo sistema internazionale di cooperazione in una volta sola.

Bisogna cominciare dalla collaborazione tra alleati e popoli affini, tra paesi che condividono gli stessi valori politici e persone già animate da fiducia reciproca, prima che anche i governi più scettici capiscano che aderire a questi progetti conviene.

Per arrivarci, gli alleati dovranno stipulare un nuovo accordo con i loro rivali.

Suona utopistico?

Prima di arrenderci a un facile cinismo, ricordiamoci che esiste un precedente storico per una visione così grandiosa, un precedente che ha permesso a miliardi di esseri umani di sopravvivere e prosperare nel mondo moderno.

 

Dopo la Prima guerra mondiale il conflitto che qualcuno, peccando di ottimismo, definì «la guerra che mette fine a tutte le guerre», molti americani pensavano che i futuri presidenti avrebbero dovuto tenere le truppe americane a debita distanza dalle future guerre europee.

 I tentativi di dar vita a una Società delle Nazioni naufragarono, in parte perché l’America rifiutò di aderirvi, in parte perché Germania, Italia e Giappone ne uscirono.

Negli anni Venti e Trenta era ancora possibile credere che gli oceani Atlantico e Pacifico fornissero tutta la sicurezza di cui gli americani avevano bisogno, e che gli eventi in Europa, Asia, Africa e Medio Oriente fossero irrilevanti per la vita americana.

Per le potenze vittoriose d’Europa la Germania doveva uscire in rovine e umiliata dalla Prima guerra mondiale.

Come se la vita potesse tornare alla piena normalità prebellica non appena fermate le artiglierie e rientrati i soldati dal fronte.

 Come se una potente nazione messa in ginocchio non potesse più risorgere per tornare a incrinare la pace.

Una generazione dopo, la Seconda guerra mondiale ha ucciso 75 milioni di persone.

 Quando finì, la Casa Bianca e il Pentagono capirono finalmente che bisognava investire i soldi dei contribuenti statunitensi nel futuro di quegli stessi paesi che avevano appena fatto di tutto per mettere fine allo stile di vita americano.

Quell’investimento saggio e senza precedenti ha reso il mondo un luogo più sicuro per la democrazia nelle nazioni che erano pronte a costruirla, e ha permesso il commercio nei luoghi in cui era possibile rimettere in piedi le industrie.

Le due guerre mondiali hanno messo a nudo la capacità della nostra specie di inventare mezzi sempre più efficaci per seminare distruzione, ma hanno anche allargato la nostra capacità di cooperazione, per il bene dei singoli e per quello comune.

Il fascismo è stato sconfitto. Sono crollati imperi e milioni di persone hanno ottenuto l’indipendenza. L’umanità ha dato prova di resilienza. Sotto la spinta delle nuove tecnologie il commercio e gli investimenti globali hanno compiuto grandi salti in avanti. Il numero di paesi democratici è aumentato.

In sostanza, gli Alleati usciti vittoriosi dalla Grande guerra hanno creato un nuovo sistema di governo internazionale fondato su un principio cardine:

il conflitto non cesserà fino a che ciascuno di noi non si assumerà la responsabilità di tutti quanti gli altri.

 Le Nazioni Unite sono state create per istituzionalizzare l’impegno globale alla sicurezza, alla dignità e alla prosperità.

 La Carta delle Nazioni Unite affida all’organizzazione il compito di «realizzare la cooperazione internazionale per risolvere i problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale o umanitario».

Sono state create altre istituzioni allo scopo di aiutare i paesi poveri a sviluppare i propri sistemi politici ed economici per il bene dei cittadini, per fornire aiuti finanziari a chi ne aveva bisogno e a chi era in grado di stabilire scambi commerciali liberi ed equi, per condividere le risorse necessarie a combattere le malattie e per promuovere il rispetto del diritto internazionale.

La Seconda guerra mondiale è stata la più grande catastrofe mai abbattutasi sulla razza umana.

È stata anche la crisi di cui avevamo bisogno per compiere gli sforzi necessari a garantire la sopravvivenza e persino la prosperità della nostra specie dopo il XX secolo.

 

Sono stati scritti innumerevoli libri e articoli per illustrare nel dettaglio i molteplici fallimenti di queste organizzazioni.

Oggi riflettono l’equilibrio di potere e di influenza che esisteva nel 1962, ma che nel 2022 non esiste più.

Ma se domani le eliminassimo tutte, avremmo bisogno di reinventarle il giorno dopo: il mondo interdipendente che queste istituzioni rispecchiano incide sulla vita di ognuno di noi in misura esponenzialmente maggiore rispetto ai tempi della loro fondazione.

Le Nazioni Unite danno voce a ogni nazione sulla scena internazionale e aiutano gli stati più potenti del mondo a ridurre il rischio di guerre reciproche e con altri paesi. Le forze di pace dell’ONU provengono da molte nazioni, consentendo agli stati membri di condividere gli oneri, i rischi e i costi connessi al mantenimento della pace e al contenimento delle sofferenze causate dai conflitti.

 L’ONU ha salvato molte vite in molti luoghi e ha fallito in altri, ma i successi ottenuti hanno fatto del bene a moltissime persone, e merita un encomio solenne per aver scongiurato una nuova guerra mondiale.

Anche l’”Organizzazione mondiale del commercio” crea vantaggi per tutti i paesi che vi aderiscono.

 Le sue regole non sono in grado di prevenire ogni singola controversia commerciale e la loro applicazione è lenta e incompleta.

Ma, come in ogni terreno di forte competizione, è di gran lunga preferibile avere regole imperfette e un arbitro fallibile che non averne affatto.

Il “Fondo monetario internazionale” e altri finanziatori multilaterali offrono un’ancora di salvezza finanziaria alle nazioni che hanno bisogno di aiuto, spesso agendo come prestatori di ultima istanza.

Talvolta le condizioni a cui erogano i prestiti danno adito a polemiche, sospetti e acredini, ma hanno aiutato molte nazioni in via di sviluppo e i loro cittadini ad evitare la catastrofe.

Anche l’Unione europea, che da semplice area di libero scambio si è trasformata nella più ambiziosa organizzazione di governo multinazionale della storia, ha generato la sua buona dose di delusione, sfiducia e cinismo.

Molti cittadini degli stati membri accusano le élite politiche europee di usare le istituzioni dell’UE per scrivere regole che fanno gli interessi dei governi più potenti a scapito degli stati più piccoli, che arricchiscono le multinazionali a scapito delle piccole imprese e che soddisfano i bisogni dei burocrati ai danni delle libertà individuali.

Ma l’UE ha contribuito a eliminare le guerre in un continente responsabile dei due conflitti più distruttivi della storia.

 Ha aiutato tutti gli stati membri a fare il passo più lungo della loro «gamba economica» nelle relazioni con gli Stati Uniti, la Russia e la Cina.

Ha offerto ai cittadini la possibilità un tempo impensabile di attraversare liberamente i confini nazionali in cerca di migliori opportunità.

Ha ripulito l’aria e l’acqua nei paesi i cui governi potrebbero non voler o non poter spendere per investire in questi progetti.

Ha assunto il comando sia sugli standard climatici sia su quelli relativi alla privacy. Ha creato un sistema in cui i paesi più ricchi possono migliorare gli standard di vita degli stati membri più poveri, e a volte aiutarli a uscire da una crisi.

Ha fornito un modello di cooperazione al resto del mondo.

Criticare tutte queste istituzioni è facile, specie per chi dalle critiche ci guadagna. Ma tutte aiutano a tutelare la sicurezza, la dignità e le opportunità di tutti gli abitanti del mondo.

 Proteggono i diritti umani. Rendono le guerre meno probabili.

Soprattutto, alleggeriscono il peso sui singoli governi creando una struttura che sostiene la responsabilità collettiva.

Ogni anno che passa ci sono meno persone abbastanza vecchie da ricordare gli orrori della Seconda guerra mondiale e le sfide della decolonizzazione che hanno ispirato e reso necessarie queste organizzazioni.

Non dobbiamo dimenticare le lezioni che simili istituzioni ci hanno insegnato.

Se lo faremo, dovremo impararle di nuovo, patendo sofferenze ancora più grandi di quelle che hanno accompagnato le prime assimilazioni.

 

Oltre il Covid e la guerra, le malattie infettive tornano a minacciare il mondo.

 

LA ROTTA DI COLLISIONE

Precedentemente ho illustrato due rischi di collisione.

Il primo è la lotta tra l’America rossa e quella blu, che ha gravemente danneggiato la vita politica e l’integrità democratica dell’unica superpotenza mondiale.

 Il secondo è il conflitto tra la potenza egemone rappresentata dall’America e quella emergente rappresentata dalla Cina.

Il pericolo maggiore che comportano entrambi è quello di distogliere i governi e le istituzioni più potenti del mondo dall’affrontare le vere sfide che ci attendono. Siamo tutti in rotta di collisione con la prossima inevitabile emergenza sanitaria globale, con il cambiamento climatico e con il potere che le nuove tecnologie dirompenti hanno di destabilizzare le nostre vite e le nostre società.

Questi sono i rischi cui va incontro il nostro futuro in comune.

Ogni attimo, ogni idea, ogni grammo di energia e ogni dollaro sprecato per combatterci, in patria o in una potenziale zona di guerra, fanno aumentare il rischio di ritrovarci uniti nella sofferenza quando queste minacce globali avranno superato la nostra capacità di contenerle.

Non credo che l’avvelenarsi della politica interna distruggerà la democrazia americana.

 Le istituzioni politiche statunitensi devono affrontare minacce reali, ma hanno già assorbito shock considerevoli in passato.

Non intendo sottovalutare il danno che la partigianeria al vetriolo può infliggere alla vita americana, ma continuo a credere nella volontà degli americani di difendere la democrazia dalle minacce concrete e nella capacità delle istituzioni americane di far prevalere la legge sui pregiudizi culturali.

Non credo che gli Stati Uniti e la Cina entreranno in guerra a causa di Taiwan o di altre divergenze.

Entrambi i paesi hanno troppo da perdere da una collisione catastrofica, e né Washington né Pechino possono aspettarsi che altri governi li seguano sulla strada del disastro.

Ma… ho scritto questo libro perché temo che gli americani rossi e blu da una parte e i leader statunitensi e cinesi dall’altra siano così presi dall’idea di un loro possibile scontro da trascurare le reali tempeste all’orizzonte.

Per prepararsi ad affrontarle dovranno cooperare, ma non potranno farlo finché saranno impegnati a scontrarsi sulle chimere dei massimi valori.

 

MONDO.

La grande migrazione: il nuovo numero di Scenari.

LA GIUSTA CRISI.

Gli esseri umani funzionano meglio quando arriva una crisi che reclama la loro attenzione e mette a fuoco la sfida che hanno davanti.

Ma non basta una qualsiasi emergenza.

Abbiamo bisogno di una «crisi alla Riccioli d’Oro»: una crisi abbastanza grande da esigere il nostro impegno ma non tanto distruttiva da non ammettere una risposta efficace.

Abbiamo bisogno di una crisi sufficientemente spaventosa da costringerci a guardare in faccia i rischi di un collasso geopolitico, di una futura pandemia, del cambiamento climatico e degli effetti ad ampio raggio della rivoluzione tecnologica.

Una crisi che causi così tanto dolore e crei così tanti rischi per i leader al potere da indurli finalmente a riconoscere che la collaborazione e il compromesso sono l’unico scudo possibile contro la disfatta totale.

Una crisi di dimensioni sufficientemente grandi da farci stringere intorno a progetti comuni per affrontare le sfide descritte in questo libro.

Nei primissimi giorni del Covid-19 è sembrato che la pandemia potesse creare la perfetta crisi alla Riccioli d’Oro.

Di sicuro era abbastanza grande da toccare le vite di miliardi di persone.

Tutti i governi del pianeta sono stati costretti a reagire. I danni economici provocati sono stati ingenti, preannunciandosi duraturi. Il virus ha messo in pericolo governi, leader politici e aziende che hanno opposto resistenza al cambiamento, mentre ha dato voce e potere agli scienziati e agli innovatori in grado di aiutarci a comprendere la minaccia e ad affrontarne le conseguenze.

Ci siamo trovati dinanzi a una minaccia comune, una minaccia per certi versi non meno avulsa e insidiosa dell’ipotetica invasione aliena di Ronald Reagan.

Eppure troppi dei nostri leader politici hanno cercato di usare questa crisi per fomentare la rabbia verso gli altri, in patria e all’estero.

Nel campo scientifico, i progressi compiuti sul fronte dei tamponi, del tracciamento dei contatti, delle terapie e dello sviluppo dei vaccini ci aiuteranno a superare la prossima tempesta virale.

Le ripercussioni economiche globali del Covid imprimeranno slancio alla transizione dall’economia novecentesca fatta di calce e mattoni verso un futuro digitale in cui la maggior parte delle persone lavorerà, farà acquisti e studierà online.

La pandemia ha inoltre valorizzato le imprese intenzionate a stare sul mercato in maniera ecosostenibile.

 Ma il Covid non ha fatto abbastanza per convincere i governi della necessità di pensare a nuovi modi per garantire la sicurezza e consentire la prosperità.

Il “Covax” ha fornito un modello eccellente per la cooperazione futura in materia di salute globale, ma sono troppo pochi i governi che hanno investito in questo progetto, e l’amministrazione Trump ha negato qualsiasi sostegno nel momento più critico per consentirne il successo.

Come accaduto nelle precedenti crisi, la pandemia ha convinto le banche centrali a cominciare a stampare denaro per aiutare i paesi a reagire.

 Benché necessaria, questa misura ha fatto ben poco per risolvere le profonde disuguaglianze che ci tormentano.

 Piuttosto che disegnare e investire in nuove istituzioni – come per esempio un’”Organizzazione mondiale dei dati” – i nostri leader sembrano accontentarsi di curare i sintomi, non la malattia che mette in pericolo l’intera umanità.

Il cambiamento climatico e le nuove tecnologie dirompenti sono crisi più grandi del Covid, e possono dar vita alle istituzioni nazionali e internazionali di cui abbiamo bisogno.

 Dobbiamo agire ora se vogliamo essere pronti a cogliere le opportunità che queste crisi imminenti creeranno.

UNA VISIONE POSITIVA.

Per inventare nuove forme concrete di cooperazione, tuttavia, agli esseri umani serve qualcosa di più della paura scatenata da una crisi.

Abbiamo bisogno di una visione positiva per il futuro, di piani che possiamo mettere in atto quando e come ne abbiamo bisogno.

Sono troppi i nostri leader e troppi sono quelli tra noi che si fissano su ciò che non possiamo fare e su ciò che secondo noi gli non altri faranno.

 Chiudiamo la porta ancor prima di aver intravisto che cosa potrebbe esserci dall’altra parte.

La condiscendenza consente al cinismo e all’abitudine di prevalere.

Inoltre ci concentriamo troppo sulla soddisfazione dei bisogni a breve termine.

I consumatori non sono gli unici a volere una gratificazione immediata. Anche politici, dirigenti d’azienda e azionisti vogliono la stessa cosa. Sia loro sia noi siamo ossessionati dal mandato immediato del leader in carica, dall’anno da superare, dal raggiungimento degli obiettivi trimestrali o dal prossimo notiziario.

Ma il nostro più grande limite è probabilmente questo: siamo in pochissimi a voler piantare semi i cui frutti verranno raccolti da altri.

Per sopravvivere alle sfide che ci attendono, i nostri leader devono ascoltarsi l’un l’altro e ascoltare tutti gli abitanti del pianeta.

Non serve che siano d’accordo sulle questioni politiche, economiche, culturali o sui valori nazionali.

Ma devono essere d’accordo sul fatto che i conflitti tra superpotenze, le future crisi sanitarie, il cambiamento climatico e le nuove tecnologie comportano minacce globali e che la sopravvivenza della nostra specie dipende dalla cooperazione.

Devono decidere insieme in che cosa investire e come condividere i costi e i rischi. Nei capitoli precedenti ho proposto delle possibili strategie in grado di gettare le basi del compromesso, della cooperazione e del coordinamento tra le nazioni.

Le ripropongo in chiusura.

UN COVAX GLOBALE.

In risposta al Covid-19 172 paesi hanno aderito al progetto “Covax” per collaborare con i produttori dei vaccini e garantire uguale accesso alle dosi a tutti i paesi del mondo.

Cina, Russia e Stati Uniti sono stati molto lenti nel concedere il loro sostegno.

Se il progetto avesse ricevuto il placito e gli investimenti di tutti i maggiori governi internazionali, l’obiettivo di distribuire equamente i vaccini in tutto il mondo sarebbe stato raggiunto meglio e prima.

 Il modello del “Covax” va potenziato e affinato per prepararsi alla prossima pandemia.

Inoltre, il “Covax” può ancora rappresentare quel salto di qualità della capacità di immaginazione globale indispensabile per creare progetti di partenariato simili – e più efficienti – con cui affrontare tutte le emergenze che il futuro ci riserverà.

 

UN ACCORDO VINCOLANTE SULLA RIDUZIONE DELLE EMISSIONI DI CARBONIO (CO2).

Il cambiamento climatico può essere limitato solo a patto di azzerare le emissioni nette di carbonio (CO2) nell’atmosfera entro il 2050.

 Nessuno vuole sacrificarsi più del dovuto e i progressi dipendono dalla fiducia nella capacità degli altri di mantenere le promesse.

Qualsiasi accordo sulle emissioni dovrà essere vincolante e verificato da osservatori internazionali indipendenti.

Per essere credibili le soluzioni hanno bisogno della volontà politica e di scoperte scientifiche, e i governi possono condividere i costi associati allo sviluppo di tecnologie in grado di accelerare il progresso.

UN PIANO MARSHALL VERDE.

Un accordo vincolante sulle emissioni può rientrare in un più ampio patto internazionale che preveda l’investimento e il passaggio all’energia rinnovabile, la creazione di lavori verdi e la risistemazione degli svariati milioni di sfollati creati dai danni che il cambiamento climatico infliggerà anche nei migliori scenari.

 

Dovrà prevedere un accordo globale sui diritti dei rifugiati che aiuti a scongiurare i conflitti futuri e a soddisfare bisogni umanitari sempre più pressanti.

A differenza del Piano Marshall, che contribuì alla ricostruzione dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale con i fondi dei soli Stati Uniti, il successo di un Piano Marshall verde dipenderà dalla condivisione globale dei costi e degli altri oneri.

PER UN’ ORGANIZZAZIONE MONDIALE DEI DATI.

Il mondo ha un disperato bisogno di gestire, attraverso una fonte indipendente, i dati che gli esseri umani producono in quantità sempre maggiori.

 Abbiamo bisogno di regole e standard che valgano per i governi e per le imprese che possiedono e utilizzano le informazioni personali che generiamo.

 

Proprio come l’”Intergovernmental Panel on Climate Change dell’ONU”, che elabora analisi indipendenti sul riscaldamento globale, e l’”Organizzazione mondiale del commercio”, che fissa regole in grado di risolvere le controversie e facilitare il commercio fra tutti i suoi membri, così un’”Organizzazione mondiale dei dati può disciplinare l’intelligenza artificiale, la privacy, la proprietà intellettuale e i diritti dei cittadini”.

La Cina e altri stati autoritari non entreranno subito a farvi parte perché non saranno d’accordo con le democrazie su come bilanciare al meglio sicurezza, privacy, protezione della proprietà e libertà personale.

Ma se le democrazie che viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda creeranno questa organizzazione, e se gli standard fissati da quest’ultima creeranno a loro volta delle opportunità, trovare un compromesso per il bene di tutti diventerà possibile.

CHI RACCOGLIERÀ QUESTA SFIDA.

L’America non ha intrapreso un percorso di riconciliazione tra destra e sinistra.

Le elezioni presidenziali del 2024 saranno probabilmente le più brutte e pericolose della storia americana.

Non è un’esagerazione.

 

Nei prossimi anni la guerra culturale tra destra e sinistra ci regalerà nuovo rancore, soprattutto visto che Donald Trump continua ad attaccare le istituzioni su cui la democrazia americana poggia.

Fortunatamente il mondo non ha bisogno dell’unità americana per affrontare le sfide globali.

Basta che la nazione più potente del mondo dia prova ancora una volta della sua resilienza e continui a farsi carico dei numerosi costi e rischi derivanti dalla leadership su questioni complesse come il cambiamento climatico e la rivoluzione dell’intelligenza artificiale.

Il mondo non ha bisogno nemmeno che Stati Uniti e Cina ricuciano tutti i loro strappi. Non succederà mai.

Ma se Washington e Pechino riusciranno a evitare un’escalation delle ostilità e a scongiurare una nuova Guerra fredda, allora potranno lavorare insieme sulle questioni climatiche e sulle tecnologie dirompenti che minacciano entrambi i paesi e l’umanità tutta.

 

Ma, soprattutto, se riusciremo a disinnescare gli scenari peggiori sia dentro i confini americani che tra Washington e Pechino avremo ancora un margine d’intervento sufficiente per consentire anche ad altri attori di giocare un ruolo chiave.

L’Unione europea dovrà svolgere un ruolo cruciale nell’affrontare le sfide climatiche e tecnologiche e, se gli Stati Uniti e la Cina riusciranno a evitare un conflitto che costringe l’Europa a schierarsi interamente con una parte a scapito dell’altra, Bruxelles potrà rilanciare la cooperazione internazionale in tutti questi ambiti.

Ci sono buoni motivi per essere ottimisti.

Quando il Covid ha colpito l’Europa all’inizio del 2020 facendo crollare i prezzi del petrolio, qualcuno ha temuto che persino nelle file dell’UE – all’avanguardia nelle politiche contro il cambiamento climatico – si sarebbe perso lo slancio regolatorio verso la riduzione delle emissioni di carbonio.

Le crisi passate, tra cui il crollo finanziario del 2008-2010 e la crisi migratoria del 2015-2016, hanno aperto delle fratture tra i paesi dell’UE.

Ma il Covid ha offerto all’Unione la possibilità di disegnare la propria rotta non solo sulla pandemia e sulla ricostruzione economica, ma anche sul cambiamento climatico.

Una delle questioni più controverse al suo interno è se consentire la tassazione comunitaria degli stati membri per poter finanziare obiettivi di più ampio respiro.

Molti dei paesi frugali del Nord Europa si sono opposti a una ridistribuzione su larga scala della ricchezza verso gli stati del Sud finanziariamente più deboli, tra cui Italia, Spagna e Grecia – paesi i cui governi, secondo i detrattori, spenderebbero troppo e tasserebbero troppo poco.

Ma questi stessi paesi del Nord sono anche i più favorevoli a un’audace azione di contenimento del cambiamento climatico.

Facendo della spesa per il clima uno dei cardini del suo bilancio da 1800 miliardi di euro e dei suoi piani di sostegno economico per la ripresa dalla pandemia,” la Commissione europea” ha potenziato la propria capacità di raccogliere fondi da destinare al contenimento delle ricadute della pandemia e del cambiamento climatico presso gli stati membri storicamente riluttanti.

Solo gli stati membri che rispettano le norme UE sulle emissioni e altre politiche rilevanti per il clima possono aspettarsi di ottenere aiuti generosi per la ripresa post pandemia.

 Inoltre il sistema di scambio delle emissioni dell’UE sta entrando nel vivo e si appresta a diventare la carta vincente dell’Europa per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni fissati per il 2030.

La versione più recente del piano prevede la riduzione di anno in anno delle quote di emissione annuali complessive, la creazione di un meccanismo separato per le emissioni dei settori trasporti e costruzioni e l’eliminazione graduale delle «quote gratuite» assegnate a industrie pesanti, compagnie aeree e spedizioni marittime.

La messa a punto di questo piano genererà un fiume di polemiche e mercanteggiamenti, ma il sistema di scambio delle emissioni diventerà più rigoroso e nell’UE i prezzi del carbonio (CO2) saliranno con l’obiettivo di imprimere slancio alla riduzione delle emissioni.

Alcuni leader europei hanno vincolato i salvataggi delle industrie più colpite dal rallentamento causato dal Covid al reshoring, ossia il rimpatrio della produzione nei paesi d’origine.

È una buona notizia per l’occupazione locale ma in alcuni settori, tra cui quello automobilistico, la rilocalizzazione aiuta anche a garantire la conformità dei processi di produzione e dei prodotti finali alle norme climatiche dell’UE.

Non solo: è allo studio un sistema di agevolazioni e sanzioni fiscali in grado di indurre le aziende domiciliate al di fuori dell’UE che vogliono fare affari in Europa a rispettare gli standard europei.

 I fondi raccolti con l’aumento dell’imposizione sui prodotti esteri più inquinanti potranno poi essere indirizzati verso le tecnologie verdi approvate dall’UE.

Si tratta di conquiste storiche, nonché di un esempio del tipo di cooperazione che ci serve per affrontare tutte le sfide discusse in questo libro.

L’Unione europea ha usato il Covid-19 per combattere il cambiamento climatico incanalando i fondi per la ripresa all’interno di progetti verdi, chiarendo quali progetti possono qualificarsi come ecologici, vietando a tutti i fondi non destinati a progetti verdi di finanziare qualunque cosa sia passibile di aggravare il problema del riscaldamento globale e adottando obiettivi di riduzione delle emissioni più ambiziosi.

L’Europa sta svolgendo un ruolo cruciale sul piano normativo anche rispetto ad altre questioni urgenti.

Sui temi dell’utilizzo dei dati e della privacy i leader dell’UE fanno leva sulle dimensioni del mercato al consumo europeo per fissare regole che le aziende tecnologiche statunitensi e cinesi non potranno permettersi di ignorare.

 

Se Stati Uniti e Cina possono evitare una nuova Guerra fredda, l’Unione europea può scrivere regole e fissare standard che aumenteranno il coordinamento internazionale sulle sfide illustrate in questo libro, al tempo stesso tutelando i diritti e le libertà delle persone.

Ma il pensiero deve spingersi oltre i governi, perché i politici non possono creare da soli un nuovo globalismo.

Alcune aziende hanno sfere d’influenza e interessi che valicano i confini in modi preclusi ai governi.

La loro rilevanza non potrà che aumentare.

È una buona notizia, perché la capacità di queste entità globali di realizzare il cambiamento è molto meno imbrigliata dai confini artificiali e sono realtà in grado di adattarsi al cambiamento molto più velocemente. Tra esse, le più importanti sono di gran lunga i colossi tecnologici più grandi del mondo.

Se aleggiavano ancora dei dubbi sull’enorme potere geopolitico accumulato dalle Big Tech, le conseguenze della rivolta del 6 gennaio al Campidoglio dovrebbero averli fugati una volta per tutte.

 Sebbene il Congresso non potesse ritenere Donald Trump responsabile di aver fomentato il più grave assalto alla democrazia americana a memoria d’uomo, Big Tech ha intrapreso un’azione decisiva.

A poche ore dall’assalto al Congresso, Facebook, Twitter, Apple, Google e Amazon hanno sospeso i profili di Trump e di altri politici che avevano diffuso la bugia dei brogli elettorali e incoraggiato l’insurrezione.

Hanno temporaneamente bandito “Parler”, un servizio che molti sostenitori di Trump usavano per fomentare o coordinare la presa del Campidoglio, tagliandolo fuori dai servizi di web hosting e dai principali app store.

Il governo e le forze dell’ordine non hanno avuto alcun ruolo in questa vicenda.

La cancellazione dalle piattaforme di Trump e dei suoi sostenitori è stata una decisione presa esclusivamente dalle aziende che avevano il potere di intervenire su codici, server e politiche sotto il loro esclusivo controllo.

A maggio il Consiglio di sorveglianza di Facebook – istituito nel 2020 – aveva deliberato la decisione dell’azienda di sospendere il profilo di Trump.

Le aziende tecnologiche, inoltre, hanno fatto molto di più di quanto abbiano fatto o possano fare i governi per scovare ed escludere altri malfattori dal cyberspazio. Facebook, Google, Amazon, Microsoft ed Apple hanno accumulato un potere tale da diventare gli arbitri degli affari globali, non dei semplici spettatori.

Oggi non c’è nessun altro attore non statale, e forse non c’è mai stato, che si sia avvicinato a una simile influenza geopolitica, e ciò crea sia pericoli sia motivi di ottimismo.

Le principali aziende tecnologiche statunitensi e cinesi sono attori protagonisti nel dramma che deciderà se il mondo piomberà in una nuova Guerra fredda o si dirigerà verso un futuro molto più roseo.

Google, Facebook, Microsoft, Amazon, Alibaba, Tencent e ByteDance non stanno semplicemente rispondendo a trend geopolitici: li stanno creando.

Già in passato il potere privato ha giocato un ruolo significativo nella geopolitica. La Compagnia delle Indie Orientali e il suo esercito privato hanno governato il subcontinente asiatico per conto della Corona nel Settecento e nell’Ottocento.

«Big Oil» esercitava un’enorme influenza politica durante i suoi anni d’oro.

Ma gli odierni colossi tecnologici differiscono da questi precursori sotto due aspetti fondamentali.

 Innanzitutto, i colossi tecnologici non esercitano il potere esclusivamente nello spazio fisico.

Mantengono ed esercitano una profonda influenza in una sfera del tutto nuova della geo politica:

 lo spazio digitale, che essi stessi hanno creato.

Le persone si rivolgono a queste aziende per apprendere, trovare l’amore, fare acquisti e accumulare ricchezza – nonché, talvolta, per ordire la destituzione di governi.

Neanche il Partito comunista cinese è in grado di controllare fino in fondo questo territorio.

 Lo spazio fisico è finito.

 Quello digitale cresce in maniera esponenziale.

Considerando i dati grezzi sulla popolazione, i quasi tre miliardi di utenti attivi mensili di Facebook lo rendono due volte più grande dei più grandi paesi della Terra.

Gli oltre due miliardi di utenti di YouTube abbracciano più di cento paesi.

 Google sostiene che sulla sua piattaforma viene fruito ogni giorno più di un miliardo di ore di video.

Gli analisti del settore stimano che le dimensioni complessive della «data sfera» – la quantità di informazioni digitali create e memorizzate in tutto il mondo ogni anno – raggiungerà quasi 60 zettabyte nel 2020.

La data sfera subirà una gigantesca espansione perché nella prossima fase della rivoluzione digitale auto, fabbriche e intere città verranno cablate con dispositivi connessi a internet, e ciò non farà che complicare ulteriormente le cose per i politici.

I politici stessi sono sempre più asserviti al regno digitale. La capacità di un candidato di attrarre follower su Facebook e Twitter – più che i suoi contatti con i professionisti della politica – è ciò che fa arrivare il denaro e i voti che servono a vincere le elezioni in molte democrazie.

Per una nuova generazione di imprenditori il motore di ricerca di Google, gli strumenti di «targhettizzazione» delle inserzioni di Facebook, il marketplace e i servizi di web hosting di Amazon e l’app store di Apple sono diventati indispensabili per avviare un business di successo.

Più le persone ricorrono allo spazio digitale per soddisfare le proprie esigenze basilari, maggiore è il compito che sono chiamati a svolgere i governi, molti dei quali già faticano a fornire risposte soddisfacenti ai propri cittadini dinanzi alle sfide del XXI secolo, come la pandemia, l’aumento della disparità di reddito, l’epidemia di oppioidi, il cambiamento climatico e lo sconvolgimento sociale ed economico innescato dal ritmo serrato dell’innovazione.

I governi stanno opponendo resistenza a questa usurpazione del loro potere.

La Cina ha preso di mira aziende tecnologiche nazionali come Alibaba, Ant Group e altre società online. L’Unione europea ha cercato di regolamentare i dati personali, i contenuti online e i gate keeper (i «controllori dell’accesso») di internet per tutelare la privacy dei suoi cittadini.

La sequela di disegni di legge antitrust presentati al Congresso  nel corso del 2021 e le pressioni dell’India sulle imprese straniere di social media come Twitter mostrano come i governi di tutto il mondo stiano cercando di imporre la propria volontà sulla sregolata sfera digitale. Ma i governi sono tendenzialmente lenti a regolamentare un’arena che pochi legislatori comprendono, e le aziende tecnologiche si sono dimostrate abili nel resistere ai tentativi dei governi di rovesciarne l’accentramento di potere.

Le aziende tecnologiche differiscono dai vecchi mediatori di potere del settore privato anche per la profondità e l’ampiezza della loro portata.

In passato molte aziende private fornivano acqua, elettricità, trasporti e altri servizi essenziali.

Oggi una manciata di giganti della tecnologia svolge ruoli cruciali in questi e in moltissimi altri campi.

Cominciamo proprio dal settore informatico.

 Appena quattro aziende – Microsoft, Amazon, Google e Alibaba – soddisfano il grosso della domanda mondiale di servizi cloud.

Durante il primo anno della pandemia di Covid-19 è stata questa infrastruttura informatica essenziale a far funzionare l’economia globale, a permettere alle persone di lavorare e a consentire di creare aule virtuali in cui i ragazzi potevano continuare a imparare.

Molto presto il successo di tutti i settori e di tutti i governi dipenderà quasi interamente dalla bravura con cui coglieranno le nuove opportunità create dalle reti 5G, dall’intelligenza artificiale e dall’internet delle cose.

Tutti dipendono dalle infrastrutture costruite e gestite da questi leader del cloud.

La capacità delle aziende tecnologiche di lavorare con i governi e tra di loro per rispondere alle future pandemie, limitare i danni del cambiamento climatico e costruire un approccio più razionale all’ingresso delle nuove tecnologie nelle nostre vite e società dipenderà dalla natura degli obiettivi perseguiti.

Segnatamente, questi obiettivi potranno essere globalisti, tecno utopici o nazionalisti.

Tutte le aziende esistono per fare soldi.

Per le imprese che forniscono servizi digitali è più facile raggiungere quest’obiettivo operando su scala globale.

Per decenni le aziende tecnologiche di maggior successo hanno seguito una formula molto semplice: creare una app da urlo e venderla sul mercato più grande possibile.

 Microsoft, Amazon, Google, Facebook e Apple hanno tutte costruito i loro imperi adottando mentalità globaliste.

Inizialmente hanno puntato a dominare una nicchia economicamente proficua, per poi cominciare a vendere i loro servizi in tutto il mondo.

 

Aziende cinesi come Alibaba, Tencent e ByteDance hanno scalato il gigantesco e spietato mercato interno cinese prima di diventare globali, ma il principio che sta dietro la loro crescita è lo stesso:

aprire negozi in quanti più paesi possibile, localizzare i contenuti a seconda delle necessità e competere senza sosta.

I dipartimenti addetti alle relazioni istituzionali delle principali aziende tecnologiche del mondo – alcuni dei quali impiegano centinaia di ex diplomatici, lobbisti e avvocati con una lunga esperienza di governo – denotano la priorità da sempre assegnata all’approccio globalista.

 

È possibile che il globalismo sia la modalità predefinita del settore tecnologico, ma si trova a competere, e talvolta a scontrarsi, con un impulso tecno utopista non meno influente nella Silicon Valley, a Seattle, Hangzhou e Shenzhen.

Alcune delle aziende tecnologiche più potenti del pianeta sono guidate da fondatori con visioni straordinarie del ruolo mondiale che le loro imprese sono chiamate a ricoprire.

 In Occidente alcuni di loro, come Mark Zuckerberg o Larry Page e Sergey Brin di Google, mantengono il controllo delle rispettive aziende attraverso le azioni dei fondatori o altre strutture finanziarie.

In questo modo sono meno esposti alle forme tradizionali di pressione esercitate dagli azionisti rispetto ad altri fondatori o CEO.

 Sono tutti accomunati da una visione in cui la tecnologia non è solo un’opportunità commerciale globale ma una forza potenzialmente rivoluzionaria che può salvare l’umanità da se stessa.

Elon Musk, CEO di Tesla e SpaceX, è probabilmente l’esempio più riconoscibile della” tendenza tecno utopista”, con la sua dichiarata ambizione di ripensare i mercati dell’energia per scongiurare il riscaldamento globale, progettare un’interfaccia cervello-computer a elevata larghezza di banda e rendere l’umanità una «specie multi planetaria» colonizzando Marte.

Anche il nazionalismo esercita un’attrattiva sui modelli di business delle aziende tecnologiche.

A partire dall’inasprimento dello scontro tecnologico USA-Cina nel 2016 e dalla decisione dell’Europa di far passare in secondo piano il peso politico e legislativo rispetto al mantra della «sovranità digitale», sempre più Big Tech hanno pensato bene di posizionarsi come «campioni nazionali», ossia partner del governo in importanti domini tecnologici, tra cui il cloud, l’intelligenza artificiale e la sicurezza cibernetica.

Visto il ruolo sempre più cruciale svolto da Microsoft nel combattere gli attacchi informatici perpetrati da malfattori e bande criminali foraggiati dai loro governi, sia Microsoft sia Amazon competono per fornire infrastrutture di cloud computing al governo americano.

Queste tre categorie non colgono appieno la complessità delle aziende tecnologiche e delle intenzioni dei loro leader.

Le aziende tecnologiche sono organizzazioni grandi e complesse, e all’interno di ognuna si combinano motivazioni globaliste, tecno utopiste e nazionaliste.

 Ma le categorie possono comunque aiutarci a capire le scelte che le aziende tecnologiche dovranno operare mentre attraverseranno la mutevole geopolitica dello spazio fisico e digitale nel corso del prossimo decennio.

Si allineeranno con i governi che chiederanno loro di «scegliere da che parte stare» nella lotta sempre più ideologica tra Stati Uniti e Cina?

Resisteranno alla tentazione di diventare campioni nazionali, di opporsi alla regolamentazione che minaccia i loro modelli di business, per preservare un approccio più globalista?

O scommetteranno su un futuro in cui gli stati svaniranno e le aziende tecnologiche contribuiranno a introdurre un nuovo contratto sociale o addirittura nuove forme di governo umano?

 

Mentre la competizione tra Washington e Pechino si intensifica e aziende e governi negoziano il controllo dello spazio digitale, i colossi tecnologici americani opereranno in uno di questi tre scenari:

lo stato regna sovrano e i campioni nazionali vengono premiati;

 le aziende soggiogano lo stato, consegnando ai globalisti una vittoria storica;

lo stato svanisce per dare potere ai tecno utopisti.

 Vediamo che forma potrebbe prendere ciascuno di questi scenari.

Non è possibile regolare i social negli Stati disuniti.

(STEFANO BALASSONE)

 

LO STATO REGNA SOVRANO.

VINCONO I CAMPIONI NAZIONALI.

In questo scenario gli Stati Uniti e i loro alleati si organizzano per offrire denaro ai governi e creare leggi che premiano le aziende «patriottiche», quelle con modelli di business e risorse allineate agli obiettivi nazionali, e puniscono le imprese che non si adeguano.

Le aziende, confidando nella presenza di un solido capitale politico e finanziario a supporto di questo sforzo, alla fine rinunciano a lottare per guadagnarsi quote di mercato in Cina e abbracciano la via degli Stati Uniti e di altri governi occidentali nella speranza di poter beneficiare del boom della spesa pubblica in nuove infrastrutture digitalmente connesse e dei vari servizi sociali abilitati dalla tecnologia, sponsorizzati da quei governi.

 

Nella vita dei cittadini americani lo stato rimane il principale dispensatore di sicurezza, diritto e beni pubblici, e shock sistemici come la crisi finanziaria globale e la pandemia cementano ulteriormente il ruolo chiave del governo come soccorritore di ultima istanza.

In questo scenario lo slancio bipartisan a favore di una maggiore regolamentazione limita i poteri delle aziende tecnologiche i cui piani di sviluppo non sono allineati con quelli del governo.

La chiave di volta di questo scenario è la presenza di una spinta coordinata degli Stati Uniti con i governi di altre democrazie industriali avanzate, tesa a formare alleanze che contengano l’espansione del potere e dell’influenza della Cina, al tempo stesso investendo in maniera imponente nella ripresa post pandemia e nella transizione verde.

LE AZIENDE SOGGIOGANO LO STATO.

VINCONO I GLOBALISTI.

In questo scenario il governo continua a indebolirsi perché la polarizzazione si intensifica e la disparità di reddito e di ricchezza aumenta di pari passo con l’automazione e la digitalizzazione.

Il sentimento di rivalsa contro le maggiori aziende tecnologiche non riesce a tradursi in riforme incisive sulla privacy o sulla tutela della concorrenza in grado di stravolgere i modelli di business, lasciando sostanzialmente intatta la sovranità di Big Tech nella sfera digitale.

Le autorità regolatorie non riescono a tenere il passo con l’innovazione.

 Le imprese profondono ancora più energie per fare lobbying sui politici e impedire l’introduzione di leggi in grado di limitare le loro attività estere, anche in paesi autoritari come la Cina e la Russia.

A differenza dei campioni nazionali, ai globalisti interesserà meno supportare i governi: la loro priorità sarà quella di assicurarsi che non siano d’intralcio.

I globalisti hanno bisogno di stabilità per avere successo nel prossimo decennio. Possono sopravvivere alla continua erosione delle istituzioni democratiche statunitensi, ma non allo strapotere dell’apparato statale dell’America.

Possono gestire periodiche tensioni nelle relazioni USA-Cina e persino il sentimento di sfiducia perenne tra le due nazioni, ma non una nuova Guerra fredda che li costringa a scegliere tra Washington e Pechino.

 

LO STATO SVANISCE.

VINCONO I TECNOUTOPISTI.

In questo scenario la crescente sfiducia dei cittadini nei confronti dei politici dissolve il contratto sociale.

 Gli americani e alcuni paesi in via di sviluppo adottano modelli basati su un’economia digitale che tiene a debita distanza i governi, e la fiducia nel dollaro in quanto valuta di riserva globale viene meno.

La disintegrazione del potere centralizzato nell’unica superpotenza del pianeta indebolisce la capacità del mondo intero di affrontare il cambiamento climatico, le pandemie, la proliferazione nucleare e altre sfide internazionali.

Per i tecno visionari con ambizioni alate e ricchezze inesauribili, il patriottismo diventa discutibile.

Elon Musk gioca un ruolo più importante nella trasformazione delle infrastrutture di trasporto, energetiche e di comunicazione, per non parlare delle modalità con cui esploriamo lo spazio.

Mark Zuckerberg ha molta più voce in capitolo quando si tratta di decidere come ci connettiamo con gli altri in privato, sul lavoro e in politica.

Ma l’erosione dello stato americano non darebbe carta bianca ai tecno utopisti di tutto il mondo. Anche la credibilità interna dello stato cinese dovrebbe subire un tracollo.

 

LA SFIDA CINESE.

Questo modello globalista-nazionalista-tecno utopista non si applica altrettanto bene alla Cina, dove il potere centralizzato dello stato è infinitamente superiore.

 I tecno utopisti come Jack Ma stanno imparando a non sfidare apertamente lo stato cinese, e anche gli aspiranti globalisti sono costretti a comportarsi come se fossero prima di tutto nazionalisti.

“Alibaba”, che ospita i più grandi siti web consumer-to-consumer, consumer-to-business e business-to-consumer del mondo, deve stare attenta;

lo stesso dicasi per” ByteDance”, la cui app di condivisione video “TikTok” l’ha aiutata a diventare l’unicorno di maggior valore a livello mondiale.

Stessa sorte tocca a “Tencent”, che coopera di più con la burocrazia della sicurezza statale cinese di quanto non faccia “Alibaba”.

Se l’economia cinese cominciasse a stagnare e i campioni nazionali si rivelassero meno redditizi o meno capaci di stimolare la produttività delle aziende globaliste, lo stato potrebbe concedere ai globalisti una maggiore libertà d’azione all’interno dei confini nazionali.

Per il momento, tuttavia, la Cina continua a premere tenacemente sulle sue aziende tecnologiche affinché si allineino ai piani e alle strategie statali.

 Un mondo in cui lo stato diventasse più forte sarebbe quello più a rischio di sprofondare in una nuova Guerra fredda e di soffocare la cooperazione globale.

Se Washington e Pechino continueranno a prediligere la competizione strategica sulla cooperazione tecnologica, non ci saranno grandi speranze di poter utilizzare le soluzioni proposte in questo libro per rafforzare il sistema internazionale per il bene degli Stati Uniti, della Cina e del mondo intero.

Uno scenario in cui le aziende tecnologiche diventano più indipendenti dal governo (ed entrano più in competizione con esso) in entrambi i paesi ha maggiori probabilità di promuovere la cooperazione per far fronte alle grandi emergenze e di incoraggiare l’innovazione per raccogliere nuove sfide.

Un mondo in cui i tecno utopisti hanno l’ultima parola su più fronti è più difficile da prevedere, perché è un mondo in cui il potere è concentrato in poche mani, spesso le più eccentriche.

LA GENERAZIONE “Z”

I governi devono condividere i costi e le responsabilità derivanti da queste sfide con tutti i soggetti in grado di dare una mano, perché si tratta di ambiti che i rappresentanti politici e i legislatori non comprendono e non controllano.

Le organizzazioni che investono in progetti che impiegheranno degli anni per generare profitti – come le banche e le imprese del comparto energia – devono adottare una visione di più lungo termine rispetto a gran parte dei governi, e questo rende le loro prospettive particolarmente preziose.

Le aziende energetiche, in particolare, sanno che i loro profitti futuri dipendono dalle fonti rinnovabili di carburanti ed elettricità.

Molte delle ONG più lungimiranti del mondo operano su orizzonti temporali altrettanto estesi.

Persino in seno ai governi non contano unicamente i leader e i legislatori nazionali.

Quando Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero abbandonato l’”Accordo di Parigi sul clima”, governatori e sindaci di tutto il paese hanno dichiarato che avrebbero tenuto fede agli obiettivi climatici adottati.

Non è un dettaglio, se pensiamo che l’economia della California è più grande di quella dell’India, della Gran Bretagna e della Francia.

 L’area metropolitana di New York ha un’economia più grande di quella del Canada o della Russia.

Nel mondo dei social media anche i singoli – non solo gli attivisti di fama mondiale – hanno la capacità di lanciare campagne che i politici e il settore privato non possono ignorare in eterno.

Abbiamo inoltre la fortuna che la prossima ondata di persone chiamata a risolvere questi problemi è diventata adulta in un mondo globalizzato.

La Generazione Z – quei 2,5 miliardi di persone nate tra il 1996 e il 2016 – vedrà il proprio impatto sulla politica, sulla cultura e sull’economia globale aumentare enormemente nel prossimo decennio.

Sarà segnata dalla pandemia e dai suoi effetti duraturi sull’istruzione e sull’occupazione ma, anche in un mondo dominato dalla frammentazione del potere e delle comunicazioni, la «Gen. Z» è la generazione più interconnessa a livello globale della storia.

La stragrande maggioranza di queste persone diventerà maggiorenne nei paesi in via di sviluppo e, fortunatamente per noi, avrà le proprie idee su che cosa aspettarsi dai governi, sull’impegno culturale transfrontaliero e su ciò che si può e non si può fare.

Appellarsi alla retorica de «i bambini sono il nostro futuro» è fin troppo facile quando si invoca un cambiamento radicale, ma in questo caso l’esperienza del mondo vissuta dalla Gen Z è molto diversa da quella della mia generazione.

Sono cresciuto nella Boston degli anni Settanta e per me i ragazzi che vivevano in altre parti del mondo erano quelli ritratti nelle foto del National Geographic. Sapevo, come penso sapesse la maggior parte dei miei amici, che la nostra visione del mondo era fortemente filtrata dagli adulti, ma non avevamo grandi possibilità di rimuovere il filtro e interagire direttamente con i bambini di altri luoghi.

Oggi i giovani americani ed europei ascoltano e guardano musica e immagini create in tutto il mondo.

Giocano in tempo reale con i ragazzi asiatici e africani.

Questa non è la globalizzazione di 25 anni fa.

 I ragazzi di questa generazione hanno ciò che nessun altro ragazzo ha mai avuto: una visione a 360° del mondo.

Sono consapevoli, e lo sono in maniera molto più immediata, di ciò che hanno in comune con gli altri.

 In particolare, sanno meglio di qualsiasi generazione che li ha preceduti che spesso gli adulti hanno vedute ristrette e una scarsa immaginazione sui problemi che stanno lasciando alle generazioni future.

È facile essere scettici sull’impatto immediato di attivisti giovani e celebri come Greta Thunberg ma fortunatamente i giovani di tutto il mondo hanno su questi problemi una prospettiva che pochi adulti possono vantare.

La loro abilità nel trovare nuovi fini per i mezzi che gli adulti di oggi creano e di inventare cose che gli adulti di oggi non riescono neanche a immaginare dovrebbe rinvigorire la nostra fiducia nel futuro.

 

La paura di un nemico alieno ha spesso ispirato popoli, tribù e nazioni a lavorare insieme per sconfiggere o quantomeno sopravvivere a una determinata minaccia. Reagan e Gorbaciov lo sapevano. Oggi le nazioni e i popoli del mondo non si trovano dinanzi a una minaccia aliena.

Siamo chiamati ad affrontare sfide esistenziali comuni che siamo stati noi stessi a creare.

In questo senso siamo interdipendenti, ed è questo il fondamento della più grande opportunità della storia umana.

 La necessità deve ora diventare la madre della cooperazione.

Dobbiamo costruire un nuovo sistema internazionale che ci permetta di competere dove si può e cooperare dove si deve.

Siamo i primi esseri umani a mettere a fuoco queste minacce globali e gli ultimi in grado di sconfiggerle. Vista la posta in gioco, se falliremo non avremo un’altra possibilità.

(IAN BREMMER)

(Ian Bremmer è fondatore e presidente di Eurasia Group e di GZERO Media)

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