La transizione verde con tassi così alti è un suicidio.

 

La transizione verde con tassi così alti è un suicidio.

 

 

Il ribasso dei tassi di interesse

è stato un fenomeno mondiale.

Conversazione con Olivier Blanchard.

 

Le grandcontinent.eu – (22 gennaio 2023) – intervista a Olivier Blanchard – ci dice:

 

“Il ribasso dei tassi di interesse è un fenomeno mondiale”, una conversazione con Olivier Blanchard.

Intervista

In occasione della pubblicazione del suo nuovo libro, abbiamo incontrato Olivier Blanchard, Senior Fellow del “Peterson Institute for International Economics” (PIIE).

Per l'ex capo economista del FMI, il periodo di rialzo dei tassi di interesse non durerà.

 Dovremo fare i conti con i bassi tassi di interesse ancora per molto tempo.

In questo "mondo alla rovescia", diventa imperativo reinventare soluzioni che coniughino le politiche fiscali e monetarie.

È appena uscito il suo libro “Fiscal Policy under Low Interest Rates”.

Se torniamo a ciò che l’ha portata a questo argomento, c’è stato un cambiamento nel suo pensiero sulle questioni fiscali durante il periodo trascorso al Fondo Monetario Internazionale, e in particolare durante la crisi greca?

 

Sì, il mio pensiero si è evoluto nel tempo.

Vi faccio un esempio.

Quando sono arrivato al FMI nel 2008, ero molto preoccupato per le dimensioni del debito pubblico giapponese, che già allora era molto elevato.

Pensavo che non avrebbero potuto sostenerlo e che ci sarebbero stati dei problemi.

 Per i primi sei mesi ho detto a “Dominique Strauss-Kahn”, all’epoca direttore generale del “Fondo Monetario Internazionale”, che c’era un vero problema in Giappone.

Alla fine non è successo nulla, non c’è stata nessuna catastrofe – non da quella parte e comunque non per il momento.

Questo mi ha costretto a mettere in discussione ciò che pensavo sul ruolo e sui pericoli del debito.

 

In un testo pubblicato nel 2013 lei aveva già detto che forse il FMI e più in generale la comunità degli economisti avevano commesso un errore nel valutare i moltiplicatori fiscali in situazioni di crisi e recessione…

Da un lato, mi ero reso conto che i tassi di interesse erano scesi dagli anni ’80 in modo quasi secolare.

 In questo contesto di bassi tassi di interesse, il debito era meno pericoloso di quanto avessi percepito in precedenza. 

D’altra parte, c’è stato l’episodio della crisi del debito pubblico greco – il dibattito era diverso, ma correlato.

Alcuni dicevano: hanno un grave problema di debito, devono fare un enorme consolidamento fiscale, perché senza quello non ce la faranno.

 Ma non c’è da preoccuparsi:

 a volte la domanda aggregata non cala bruscamente quando cala la domanda pubblica, perché gli agenti sono talmente rassicurati dal consolidamento fiscale che non ha un effetto negativo sulla domanda totale.

 L’effetto negativo diretto sarà più che compensato da un maggiore ottimismo da parte dei consumatori e delle imprese:

 si tratta di ciò che abbiamo chiamato “expansionary fiscal contraction”. 

 

Mi ero già espresso su questo tema all’inizio degli anni ‘90, in risposta a una pubblicazione di “Francesco Giavazzi” e “Marco Pagano”.

Il mio punto di vista era che quando in un Paese sull’orlo del collasso un governo irresponsabile viene sostituito da un governo responsabile che decide di prendere in mano il bilancio, c’è una buona probabilità che gli investitori siano rassicurati e che questo abbia effetti positivi;

in questo caso, si può pensare che ci saranno forti diminuzioni dei premi di rischio. In un Paese sull’orlo del collasso, gli investitori concedono prestiti a tassi di interesse del 10-20% o più.

Se vengono rassicurati, i tassi possono scendere fino al 5% e questo cambia completamente la dinamica della domanda e l’effetto del consolidamento fiscale.

(OLIVIER BLANCHARD)

Sapevo quindi che poteva succedere, ma non mi sembrava che fosse così nel contesto europeo di allora.

Credevo che l’effetto del consolidamento fiscale potesse essere molto negativo. 

Che posizione ha preso a proposito della Grecia?

Pensavo che alla Grecia fosse stato chiesto uno sforzo assolutamente insostenibile, che se avesse tentato di farlo sarebbe piombato in una recessione catastrofica.

Questo mi portò all’epoca ad assumere una posizione diversa da quella della Commissione europea:

dovevamo essere molto cauti, non dovevamo ignorare gli effetti keynesiani e non c’era alcun miracolo in arrivo.

 Se il debito era troppo alto, doveva essere rinegoziato al ribasso piuttosto che chiedere un consolidamento fiscale eccessivo. 

Ho continuato la mia ricerca sugli effetti del consolidamento fiscale, sui cosiddetti moltiplicatori fiscali.

Nel gennaio 2013, ho pubblicato uno studio insieme a “Daniel Leigh”, che è circolato molto all’interno e all’esterno del FMI, nel quale dimostravamo che i moltiplicatori utilizzati dal FMI e da altre organizzazioni erano, con ogni probabilità, molto deboli.

È stato dimostrato che nei Paesi in cui i programmi erano molto austeri, le proiezioni di attività erano troppo ottimistiche.

Ciò indica che gli effetti negativi del consolidamento fiscale sono stati sottovalutati.

 

Questa posizione mi ha portato a non essere d’accordo con l’Inghilterra, quando David Cameron ha deciso di effettuare un importante consolidamento fiscale.

Mi è sembrato un atteggiamento piuttosto estremo.

Certo, c’era un problema di debito, che non poteva essere ignorato, ma c’era anche un problema di attività e il consolidamento rischiava di avere effetti drammatici.

La previsione si è rivelata sbagliata… Il risanamento del bilancio è avvenuto, ma in misura più limitata rispetto a quanto predetto.

 Ma Cameron l’ha fatto e non è stata una catastrofe.

 A volte ci si sbaglia…

Il mondo, in termini di politica economica, è completamente diverso se “r – g” è negativo.

(OLIVIER BLANCHARD)

Poi ho riflettuto sulle implicazioni del calo strutturale del tasso di interesse privo di rischio, iniziato nei primi anni ’80 e proseguito costantemente.

 Fu qui che iniziai a rendermi conto dell’importanza di “r c g” (il tasso naturale di interesse, r, meno il tasso di crescita, g), un’espressione aritmetica che è diventata quasi un’espressione standard in economia;

il tasso di interesse reale privo di rischio era diventato inferiore al tasso di crescita – e in modo significativo: “r – g” era diventato negativo. Questo è stato sorprendente in Giappone, ma poi è diventato vero anche altrove.

È un po’ astratto per i non economisti, ma se c’è una variabile che conta enormemente in economia è “r – g”.

Il mondo, in termini di politica economica, è completamente diverso se “r – g” è negativo.

Come Phelps ha mostrato nei modelli teorici degli anni ’60, un mondo in cui “r – g” è negativo è quasi un mondo capovolto….  Era questo il caso anche a livello pratico?

 È questa la domanda che ho deciso di approfondire.

Un mondo senza gravità…

“Phelps” aveva dimostrato in un modello teorico che in un mondo in cui “r – g” è permanentemente negativo, il debito pubblico è positivo:

c’è troppo capitale, il suo rendimento è troppo basso, e quindi il debito, che riduce l’accumulazione di capitale, è una buona cosa….

Mi sono chiesto se fossimo entrati in questo strano mondo;

ho iniziato a lavorarci quando ho lasciato il FMI e sono stato nominato presidente dell’”American Economic Association” – il che offre l’opportunità di una grande lezione annuale senza contraddittorio…

 Ho posto la domanda: siamo davvero in un mondo in cui “r – g” è negativo, e quali sono le implicazioni?

In sintesi, ho dimostrato che probabilmente non siamo in quel mondo, ma che ci siamo vicini.

Che il costo del debito, sia esso il costo fiscale o il costo del benessere, era molto più basso rispetto al passato e che questo aveva importanti implicazioni per la politica fiscale. 

Ho continuato a lavorarci e poi ho messo tutto insieme in un libro, che ho terminato nel dicembre 2021.

La “MIT Press”, la mia casa editrice, ha dato libero accesso al libro fin dall’inizio e questo mi ha fornito molti spunti di riflessione e discussione, che ho incorporato nella versione finale uscita il 10 gennaio.

Lei ha terminato il suo libro alla fine del 2021 e nel luglio 2022 la BCE ha aumentato i tassi per la prima volta dopo molti anni.

Il suo libro parla di “tassi d’interesse bassi”, tuttavia le banche centrali non fanno altro che aumentarli…

C’è ovviamente un problema di tempistica.

Avrei preferito che il libro fosse uscito un anno e mezzo fa, perché in quel periodo i tassi di interesse erano molto bassi.

Ora sono più alti.

Sorge quindi la domanda: è un libro di storia – dà una visione di ciò che è accaduto – o è un libro importante per il futuro?

“ Jean Tirole” mi ricorda spesso l’idea del “motivating belief”:

 una volta che si dice qualcosa, si è molto legati ad essa, si vede la realtà attraverso quel prisma.

Ma sono convinto che, in realtà, stiamo vivendo un periodo di transizione in cui i tassi di interesse aumentano a causa della lotta all’inflazione e che scenderanno di nuovo.

In effetti, ancora oggi i tassi sono sorprendentemente bassi.

 Sebbene non siamo molto lontani dal picco dei tassi d’interesse, almeno negli Stati Uniti e nemmeno in Europa, se si considerano i tassi decennali, l’inflazione prevista per dieci anni, i tassi di crescita previsti per i prossimi dieci anni, “r – g” è ancora negativo. 

Sono convinto che, in realtà, stiamo vivendo un periodo di transizione in cui i tassi di interesse aumentano a causa della lotta all’inflazione e che scenderanno di nuovo.

(OLIVIER BLANCHARD)

 

Gli investitori si sbagliano? 

È cambiato qualcosa in modo permanente che fa pensare a tassi di interesse molto più alti in futuro?

 Ho scoperto che il mio amico “Larry Summers” ha recentemente parlato della fine della “secular stagnation”, un termine che ha contribuito a rendere popolare, e che ritiene che questo periodo di “r – g” negativo sia finito.

 

E lei non è d’accordo?

No, non sono d’accordo. 

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo riflettere sui fattori che hanno determinato il calo dei tassi di interesse negli ultimi 40 anni e se questi cambieranno in futuro. 

Prima di tutto, dobbiamo smentire una frottola, quella che accusa le banche centrali di aver scelto questi tassi bassi.

  Sì, i tassi sono scelti dalle banche centrali, ma riflettono solo, nel miglior modo possibile, le variazioni dei tassi necessarie per mantenere l’attività al giusto livello. 

Ciò che determina fondamentalmente i tassi di interesse a medio termine sono i risparmi, gli investimenti e la domanda di beni sicuri.

Il risparmio e l’investimento determinano insieme l’evoluzione dello stock di capitale e, di conseguenza, la produttività marginale del capitale;

la domanda di attività sicure determina il tasso privo di rischio rispetto alla produttività marginale del capitale.   

Il motivo per cui ritengo che i tassi d’interesse rimarranno bassi è che le forze che hanno fatto scendere i tassi, ovvero l’elevato risparmio, i bassi investimenti e l’elevata domanda di asset sicuri, credo rimarranno dominanti.

 Osserviamo l’evoluzione del risparmio:

deriva in gran parte da due fattori, l’aumento dell’aspettativa di vita e il livello generale del reddito.

 L’aumento dell’aspettativa di vita implica che le persone hanno una pensione più lunga e quindi devono risparmiare per la loro pensione (oltre a quanto ricevono dalla previdenza sociale).

Il livello di reddito:

 quando si ha un’economia con un basso tenore di vita, e gran parte della popolazione ha un reddito basso, risparmia poco o nulla.

 Man mano che l’economia si arricchisce, sempre più persone sono in grado di risparmiare.

 Per quanto riguarda la domanda di beni sicuri, non vedo alcun motivo per cui possa cambiare.

Siamo in un mondo sempre più incerto e la regolamentazione finanziaria continuerà a richiedere alle istituzioni finanziarie di detenere asset sicuri.

Credo che le forze che hanno fatto scendere i tassi, ovvero l’elevato risparmio, i bassi investimenti e l’elevata domanda di asset sicuri, rimarranno dominanti.

(OLIVIER BLANCHARD)

Nel suo libro, lei spiega che una delle cause dei bassi tassi di interesse è il “global savings glut”, ovvero il fatto che i risparmi globali sono molto più alti degli investimenti.

 Pensa che gli investimenti nella transizione ecologica e digitale possano invertire questa situazione?

In effetti, l’unica ragione per cui potremmo avere un aumento sostenibile dei tassi di interesse sarebbe un forte aumento degli investimenti verdi, quelli necessari per una forte azione per il clima.

Come dimostrato in particolare dai lavori di “Jean Pisani-Ferry”, se fossimo disposti a mobilitare le somme necessarie, la domanda di investimenti potrebbe aumentare e con essa il tasso di interesse di equilibrio.

 In questo caso, “r – g” potrebbe aumentare in modo significativo.

 Ma realisticamente, non credo che faremo quello che dobbiamo fare, ma meno. Ma è certamente lì che c’è la possibilità di un tasso di interesse di equilibrio più elevato.

 Sarei più che felice se ciò accadesse.

 

L’argomento della stagnazione secolare si basa su un presupposto piuttosto forte, ovvero la sua dimensione internazionale.

Possiamo immaginare che uno dei principali cambiamenti che potrebbero verificarsi oggi sia una profonda modifica degli squilibri della bilancia dei pagamenti e che il “global savings glut” ne risenta.

Certamente parte del calo del tasso di interesse negli anni ’90 è derivato dall’aumento del risparmio e, di conseguenza, dal surplus dei conti correnti in Cina.

Fu in quel momento che “Ben Bernanke” sviluppò il concetto di global savings glut.

Ma oggi l’avanzo delle partite correnti cinesi è ridotto rispetto a quello che era. Possiamo immaginare scenari futuri in cui altri paesi si troveranno nella stessa situazione? Non credo.

Per me questa è storia e per il momento non è fondamentale.

L’aspetto fondamentale, che descrivo nel libro, è che questa diminuzione del tasso di interesse è un fenomeno globale. 

Non sono solo gli Stati Uniti o il Giappone ad essere colpiti, ma tutti i Paesi ricchi. Quindi bisogna cercare le cause a livello globale, non nelle specificità di ciascun Paese. 

 

La politica monetaria deve agire contro l’inflazione.

Possiamo anche pensare che la politica fiscale abbia un ruolo da svolgere e che possa attuare qualcosa di controintuitivo, una politica fiscale espansiva ma disinflazionistica?

Ne ho scritto con “Jean Pisani-Ferry”.

 In Francia, ho insistito per limitare l’aumento dei prezzi dell’elettricità e del gas, non solo per proteggere le famiglie, ma anche per limitare l’inflazione.

La Francia lo ha fatto e ha limitato l’inflazione al 2%, al di sotto della media della zona euro.

Se lo avessero fatto anche gli altri Paesi della zona euro, ci sarebbe stato un 2% di inflazione in meno, il che significa che la BCE non avrebbe dovuto reagire così tanto e che forse avremmo potuto evitare una recessione, il che oggi è ancora possibile.

Ci sono molti giocatori in questo gioco e il governo ha un ruolo da svolgere.

Allo stesso tempo, proteggere le famiglie non significa necessariamente avere un deficit più elevato.

 Questa spesa può essere finanziata tassando i profitti eccezionali delle società energetiche.

Si sarebbe potuto fare. 

Questo ci porta a un’importante questione che è un po’ il filo conduttore del suo libro:

l’interazione tra politica fiscale e monetaria.

In questo nuovo mondo che lei descrive, ci stiamo allontanando da un quadro di dominanza monetaria verso un quadro di dominanza fiscale, c’è qualche ragione per tornare all’indipendenza delle banche centrali?

È una questione di coordinamento.

Non si può avere la politica monetaria da una parte e la politica fiscale dall’altra, le due cose non si parlano, come vediamo troppo spesso.

Oggi il coordinamento è molto scarso, ma è chiaro che ci sono due braccia e che dobbiamo usarle entrambe.

Ci sono rischi da evitare.

 Può darsi che il governo insista affinché le banche centrali mantengano i tassi molto bassi in modo da non dover pagare troppo sul proprio debito, il cosiddetto problema della dominanza fiscale.

 Ma non credo che questo pericolo sia presente nei Paesi ricchi.

Le banche centrali sono indipendenti e rimarranno tali. 

L’indipendenza non impedisce il coordinamento con la politica fiscale, ad esempio in caso di recessione.

In un contesto in cui i tassi di interesse sono già molto bassi, il margine di manovra della politica monetaria per abbassarli e rilanciare l’economia è limitato.

La politica fiscale può e deve aiutare.

Lei difende l’idea che la politica fiscale possa essere più espansiva senza rischi per la sostenibilità del debito, ma è stato, insieme a” Larry Summers”, un critico della politica fiscale statunitense e del piano molto espansivo dell’amministrazione Biden.

 Come si inserisce questa posizione in questa visione più ampia?

Non credo che ci sia alcuna contraddizione.

Al contrario, mi dà una certa credibilità nei confronti di chi dice che sto proponendo qualcosa in termini di politica fiscale e di aumento del debito…

Il piano di Biden era circa tre volte più grande del piano che ritenevo giustificato in termini di auspicabile aumento dell’attività.

 C’era già il piano Trump alla fine della sua presidenza, 900 miliardi di dollari.

Il Presidente Biden ne ha proposto uno nuovo, di 1.900 miliardi di dollari, che mi è sembrato enorme viste le possibilità di ripresa, di spazio per aumentare la produzione.

Per me è stato un errore… La mia posizione era che il volume era troppo alto e che avrebbe prodotto surriscaldamento e inflazione – ed è esattamente quello che abbiamo visto, e questo è un grande problema oggi. 

Ritorniamo sull’inflazione attuale.

In un suo tweet recente sul rapporto tra inflazione e ridistribuzione. Può sviluppare il suo ragionamento?

La mia osservazione si basava su una semplice domanda:

quando e come aumenta l’inflazione?

La prima possibilità è che la domanda di beni sia troppo alta – ad esempio, quando c’è un’espansione fiscale eccessiva, o la banca centrale ha scelto tassi di interesse troppo bassi, o per qualche motivo le famiglie e le imprese diventano molto ottimiste e spendono molto.

Poi si ha un tasso di disoccupazione in calo e a un certo punto il mercato del lavoro si surriscalda.

 I dipendenti vogliono salari più alti.

 Le aziende vogliono aumentare o mantenere i propri margini.

 Questi due desideri sono incompatibili:

i salari aumentano, causando un aumento dei costi e dei prezzi;

i prezzi aumentano, causando la richiesta di aumento dei salari da parte dei lavoratori, ecc. 

Il risultato è l’inflazione.

Il mandato della banca centrale è quello di limitare l’inflazione e l’unico strumento di cui dispone è il tasso d’interesse, quindi aumenta il tasso d’interesse fino a quando il rallentamento dell’attività porta i dipendenti ad accettare salari reali più bassi e le imprese ad accettare margini più bassi. 

(OLIVIER BLANCHARD)

Lo stesso accade quando si verifica un aumento del prezzo dell’energia, ad esempio del petrolio.

 Le aziende che utilizzano il petrolio vedono aumentare i costi e i prezzi.

I dipendenti che vedono diminuire il loro potere d’acquisto chiedono aumenti salariali.

 Gli aumenti salariali aumentano i costi e quindi i prezzi, ecc.

 Il mandato della banca centrale è quello di limitare l’inflazione e l’unico strumento di cui dispone è il tasso d’interesse, quindi aumenta il tasso d’interesse fino a quando il rallentamento dell’attività porta i dipendenti ad accettare salari reali più bassi e le imprese ad accettare margini più bassi.   

In sostanza, l’inflazione riflette un conflitto tra lavoratori e imprese.

Il conflitto può derivare da un surriscaldamento dell’economia o da un aumento, ad esempio, dei prezzi dell’energia.

Oppure può essere la fonte stessa dell’inflazione, come nel caso dell’esplosione di rabbia del 1968 in Francia. 

Come si dovrebbe pensare al ruolo della politica fiscale in Europa?

 Stiamo già vedendo come le misure adottate in diversi Stati membri per proteggere i consumatori dall’aumento dei prezzi dell’energia sollevino questioni legate, tra l’altro, all’integrità del mercato unico.

Non si tratta di un problema di fondo, ma di un problema di coordinamento.

Ci sono casi in cui i governi devono fare cose che, dal loro punto di vista, sono nel loro interesse, ma in cui gli interessi dei Paesi sono diversi.

 In questo caso, mi sembra che tutti gli Stati abbiano più o meno lo stesso obiettivo.

Ognuno di essi si trova ad affrontare più o meno lo stesso problema:

proteggere i consumatori e le piccole imprese.

Quindi non c’è alcuna differenza fondamentale.

È vero che non c’è stato un coordinamento sufficiente.

La polemica sul piano tedesco di 200 miliardi di euro è ipocrita, perché in realtà la Francia ha fatto in gran parte un anno prima quello che la Germania ha annunciato quest’anno.

Abbiamo messo in atto uno scudo tariffario e abbiamo avuto ragione.

Ma non sono assolutamente sicuro che abbiamo parlato con i tedeschi quando l’abbiamo messa in atto.

L’unica cosa è che i tedeschi lo hanno fatto con un anno di ritardo, annunciando una cifra molto grande e, per quanto ne so, senza coordinamento.

Abbiamo rimproverato loro di dare un vantaggio alle aziende tedesche, ma in realtà avevamo già dato un vantaggio alle aziende francesi.

 Dovremmo coordinarci di più.

Ma per me rimane un problema minore.

La polemica sul piano tedesco di 200 miliardi di euro è ipocrita, perché in realtà la Francia ha fatto in gran parte un anno prima quello che la Germania ha annunciato quest’anno.

(OLIVIER BLANCHARD)

Anche la questione della legge statunitense sull’inflazione e il suo impatto sulla competitività dell’industria europea è una questione di coordinamento?

No, non si tratta affatto di un problema secondario.

L’Europa ha deciso di combattere il “riscaldamento globale” in gran parte attraverso la tassazione, sia attraverso il sistema di scambio di quote di emissione sia attraverso la carbon tax alle frontiere, che è l’approccio giusto.

Gli Stati Uniti hanno deciso di utilizzare soprattutto i sussidi. 

Questo dà un enorme vantaggio competitivo alle aziende statunitensi.

 In generale, la politica degli Stati Uniti sta assumendo sempre più l’aspetto di una guerra commerciale, di sussidi alle aziende che producono negli Stati Uniti o che vi si trasferiscono, il che è inaccettabile per i suoi partner.

Tuttavia, è molto difficile immaginare un prezzo del carbonio negli Stati Uniti, semplicemente perché l’opinione pubblica non è affatto favorevole e non esiste una coalizione politica in grado di farlo passare al Congresso.

Quindi spetta piuttosto agli europei coordinarsi sui sussidi?

La “carbon tax” è molto meglio dei sussidi. 

Permette alle aziende di prendere decisioni coerenti.

I sussidi sono spesso troppo onerosi e costano allo Stato una fortuna.

È vero che in tutti i Paesi c’è una forte opposizione alle tasse sul carbonio e che è politicamente difficile per i governi implementarle.

 D’altra parte, i sondaggi mostrano che quando le entrate vengono ridistribuite alle persone che saranno maggiormente colpite dalla transizione, la tendenza si inverte e la maggioranza è quasi favorevole.

 A mio avviso, la porta non è chiusa e un governo coraggioso può riuscire ad approvare una carbon tax.

Per quanto riguarda la carbon tax alle frontiere, in teoria è facile.

 In pratica è difficile.

 In particolare, quando un altro Paese sovvenziona massicciamente la propria industria e quindi riesce a ridurre le proprie emissioni di CO2, cosa che gli Stati Uniti stanno cercando di fare, si crea un problema evidente:

se le importazioni statunitensi rispettano gli impegni ambientali, non c’è bisogno di imporre una carbon tax alle frontiere;

 ma poiché l’approccio consiste principalmente in sussidi, le aziende esportatrici statunitensi ottengono un grande vantaggio competitivo.

La carbon tax è molto meglio dei sussidi. 

Permette alle aziende di prendere decisioni coerenti.

I sussidi sono spesso troppo onerosi e costano allo Stato una fortuna.

(OLIVIER BLANCHARD)

Allo stesso tempo, non ci stiamo complicando la vita con un problema che, in un’economia aperta con un tasso di cambio flessibile, può essere risolto con il solo aggiustamento del tasso di cambio?

Sì, con l’adeguamento del tasso di cambio, alcune industrie diventeranno meno competitive e altre più competitive.

Siamo soddisfatti del risultato?

Sono queste le industrie che dovevamo e volevamo proteggere?

In linea di principio, il tasso di cambio può aggiustarsi, ma lo farà con un forte effetto redistributivo che non è necessariamente quello desiderato.

La Commissione europea ha presentato le sue proposte di riforma del “Patto di stabilità e crescita”.

Cosa ne pensa?

Le regole europee erano molto inadeguate per il semplice motivo che è impossibile giudicare la politica fiscale da semplici cifre come il deficit nominale o il debito, a causa del ruolo centrale di “r – g” nel decidere se il debito è sostenibile o meno.

 Il problema è diventato sempre più evidente con la riduzione dei tassi di interesse e quindi del costo del debito.

Ho quindi sostenuto con” Jeromin Zettelmeyer” e “Alvaro Leandro” l’idea di basarsi su uno studio delle possibili evoluzioni del debito, tenendo in conto, per ogni paese, della possibile evoluzione dei tassi di interesse, dei tassi di crescita, delle obbligazioni, ecc.…, ciò che in gergo si chiama analisi stocastica della sostenibilità del debito e in seguito decidere sulla base di questo studio se si debbano operare dei cambi di rotta.

 Anche la Commissione ha adottato un principio molto simile nella sua proposta, pur mantenendo le regole del 60% e del 3%, il che è comprensibile, perché un cambiamento significherebbe aprire i trattati.

Questo è un grande passo avanti.

Ma per il momento si tratta solo di una proposta.

 Gli Stati devono accettarlo.

 Spero proprio che lo facciano. 

 

 

 

Quando il cambiamento climatico

diventerà irreversibile?

 Ilbolive.unipd.it - Francesco Suman – (9 giugno 2022) – dice:

 

 Quando il cambiamento climatico diventerà irreversibile?

Questa domanda è fondamentale per "il mondo che verrà", tema che è stato scelto come titolo del “Cicap Fest di quest'anno”.

La domanda è più che legittima, tuttavia ha dei problemi nel modo in cui è formulata.

È problematica perché delinea implicitamente, seppur in modo intuitivo, che cosa sia il cambiamento climatico e come dovrebbe agire.

 In altri termini nella domanda sono presenti quelle che in gergo scientifico si chiamano delle assunzioni implicite.

Se ci chiediamo “quando il cambiamento climatico diventerà irreversibile” ci aspettiamo che la risposta sia una certa data, in un futuro più o meno lontano.

Ed è proprio qui l’errore.

Se dovessi dare la risposta breve direi che il cambiamento climatico è già irreversibile, nel senso che la temperatura del pianeta è già salita a causa dell’azione antropica e il cambiamento climatico è già in atto.

Più precisamente sappiamo che dall’era preindustriale a oggi, quindi negli ultimi 200-250 anni circa, la temperatura del pianeta è salita di 1,1°C.

Pensate se invece di andare in giro con una temperatura corporea di circa 36,5°C doveste andare al lavoro o a scuola con una temperatura corporea stabile a 37,6°C.

 Sarebbe alquanto faticoso, sareste in affanno, esattamente come il pianeta oggi è già in affanno.

Non solo:

 gli studi che sono stati fatti dagli ultimi rapporti dell’IPCC, il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici, ci dicono chiaramente che se l’uomo non avesse abitato il pianeta nell’ultimo paio di secoli la temperatura del pianeta si sarebbe alzata di 0,02°C.

 Il riscaldamento globale e il cambiamento climatico dunque sono già in atto e sono interamente responsabilità dell’uomo.

 

Cambiamento climatico.

Bias cognitivi.

Questa la risposta breve.

Ma visto che abbiamo un po’ di tempo possiamo provare a capire meglio il cambiamento climatico, che è un fenomeno alquanto complesso e difficile da osservare direttamente per noi piccoli esseri umani che siamo abituati a focalizzare la nostra attenzione sulle nostre attività quotidiane.

 

Certo, possiamo sentire il caldo sulla nostra pelle, ma il meteo è cosa diversa dal clima.

 I nostri sensi non sono in grado di percepire i microscopici aumenti di temperatura che anno dopo anno si accumulano.

Il cambiamento climatico è un fenomeno fuori scala per il nostro sistema cognitivo e per questo ancora oggi molti dicono “ma dov’è questo cambiamento climatico? Io non lo vedo”.

Nel negare, o anche solo ignorare il cambiamento climatico, impersoniamo alla perfezione il principio della rana bollita, secondo cui una rana nuota liberamente in una pentola sotto cui è acceso un tenue fuocherello, che a poco a poco scalda l’acqua ma lo fa troppo lentamente perché la rana se ne accorga.

La rana continuerà a pensare che va tutto bene perché non coglierà la differenza di temperatura, fino a che la pentola inizierà a bollire e la rana si troverà bollita.

Se non vogliamo fare la fine della povera rana non dobbiamo affidarci esclusivamente ai nostri sensi, dobbiamo allargare lo sguardo e indossare le lenti della scienza, che indaga cause ed effetti dei fenomeni naturali.

 Vi parlerò allora prima delle cause e poi degli effetti del cambiamento climatico.

Vi anticipo subito che alcuni di questi effetti sono già irreversibili, come lo scioglimento dei ghiacci, l’innalzamento del livello dei mari, l’acidificazione degli oceani.

Una volta avviati questi processi non sono arrestabili tirando semplicemente il freno a mano.

Questi processi li abbiamo già innescati, sono già irreversibili.

Quello che è ancora in nostro potere è provare a contenere la gravità di questi fenomeni e questo dipende da quanto saremo in grado di fare nei prossimi anni in termini di riduzione delle emissioni e quindi di riduzione della temperatura del pianeta.

Ogni decimo di grado al di sopra del limite soglia di 1,5°C di riscaldamento globale stabilito dagli accordi di Parigi nel 2015 porterà ulteriori gravissimi impatti non solo sugli ecosistemi naturali ma anche sulla società e sui sistemi produttivi quali agricoltura, pesca, gestione delle foreste.

Starà a noi rendere più o meno gravi, più o meno irreversibili gli effetti del cambiamento climatico che è già in atto.

 

Emissioni.

Cause.

Come sapete, la causa del riscaldamento globale sono le emissioni dei gas a effetto serra o gas climalteranti.

La CO2, l’anidride carbonica, è il principale, ma non il solo, responsabile dell’effetto serra.

(La Co2 è più pesante dell’atmosfera. Pertanto non vi è alcuna possibilità che raggiunga la stratosfera e quindi possa prendere parte alla creazione della volta dell’effetto serra! N.D.R)

È presente in piccolissime percentuali in atmosfera, ma siccome questa molecola è in grado di trattenere il calore della radiazione solare, se noi aumentiamo la concentrazione di CO2 in atmosfera, aumentiamo anche la quantità di calore che questa trattiene.

(La Co2 non potrà mai aumentare la sua concentrazione nell’atmosfera. Come è stato sopra indicato la Co2 è presente sul terreno, a livello delle cime degli alberi e sul mare. Ma la sua permanenza è solo sulla terra e sul mare, mai nell’atmosfera: di cui, infatti, è più pesante. Quindi se anche i vulcani la spingano verso l’alto dei cieli, poi, inesorabilmente scende sulla terra o sul mare! N.D.R)

Dobbiamo immaginarci l’anidride carbonica in atmosfera come una sorta di coperta stesa sopra di noi che trattiene il calore che noi emettiamo e che arriva dal sole.

Più CO2 immettiamo in atmosfera, più spessa diventa questa coperta e più caldo fa sotto questa coperta.

Pensate che negli ultimi 800.000 anni la concentrazione di CO2 in atmosfera è sempre oscillata tra le 180 e le 280 ppm (parti per milione).

 Da circa metà del XX secolo abbiamo sforato le 300 ppm e da lì è stata un’ascesa inarrestabile.

Intorno al 2016 abbiamo superato le 400 ppm e oggi siamo sopra le a 410 ppm.

Questo perché dalla rivoluzione industriale in avanti abbiamo immesso in atmosfera quantità crescenti di anidride carbonica (quella CO2 è sempre precipitata sulla terra o sul mare essendo più pesante dell’aria! N.D.R)

 e altri gas a effetto serra come il metano o gli ossidi di azoto che tuttavia vengono sempre calcolati in termini di anidride carbonica equivalente.

(È molto comodo calcolare i gas serra come fossero Co2, ma “loro”, i veri gas serra, sono più leggeri dell’aria e quindi possono salire nell’atmosfera dove non esiste “nessuna libera” Co2! N.D.R)

L’ultimo anno le nostre attività industriali, il riscaldamento domestico, il sistema dei trasporti, il sistema agricolo e tutte le altre attività produttive della nostra società dei consumi hanno emesso in atmosfera l’equivalente di circa 45 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (anche se le stime variano).

 Circa i 3/4 delle emissioni totali provengono dal settore dell’energia (36 miliardi di tonnellate di CO2/eq nel 2021), un settore retto dai combustibili fossili, ovvero carbone, petrolio e gas, che dobbiamo quindi ripensare completamente, che dobbiamo decarbonizzare.

(Ma avete mai visto i combustibili fossili, carbone, petrolio trasformati in gas serra che svolazzano nei cieli? Ma gli scienziati sono tutti rimbecilliti o ultra corrotti dal peso del denaro che hanno acquisito prestandosi a riferire a noi le loro sciocchezze madornali? N.D.R)

Quali sono le conseguenze di tutte queste emissioni che causano il riscaldamento globale?

A questo tema è dedicato tutto un altro rapporto dell’IPCC (ultra corrotto. N.D.R) pubblicato a febbraio di quest’anno.

 

Effetti già provocati.

Come vi dicevo più calore in atmosfera, trattenuto dalla CO2, significa più energia in atmosfera.

(Ma la Co2 non può trattenere nessun calore in atmosfera, in quanto essendo più pesante dell’aria atmosferica precipita sempre ed alla svelta nel mare o sulla terra! N.D.R)

E prima o poi questa energia si scarica a terra, in una forma o nell’altra.

Può essere tramite ondate di calore, come quella che ha colpito l’India poche settimane fa, che ha provocato danni all’agricoltura e ad altri sistemi produttivi. Ma può essere anche tramite precipitazioni più abbondanti, quelle che ogni tanto chiamiamo bombe d’acqua, o più correttamente nubifragi, o vere e proprie tempeste tropicali, che provocano ugualmente danni all’agricoltura e ad altri sistemi, ma questa volta tramite alluvioni e allagamenti.

Capite bene quindi che siccità estrema e piogge estreme sono due fenomeni apparentemente opposti ma in realtà sono due facce della stessa medaglia, ovvero la maggiore quantità di calore in atmosfera.

(Ma cosa c’entra con questi fatti la Co2? N.D.R)

Il rapporto dell’IPCC dice chiaramente che ondate di calore, siccità e alluvioni si stanno verificando con frequenza e intensità già aumentate rispetto al passato e il loro impatto si è già fatto sentire, sia sugli ecosistemi naturali, sia sulla società e l’economia.

Il cambiamento climatico ha già ridotto la crescita economica in Africa (per quanto riguarda ad esempio un rallentamento della crescita della produttività agricola) dagli anni ‘60 a oggi e ha già aumentato le disuguaglianze di reddito Paesi Africani e Paesi del nord a climi temperati.

Il cambiamento climatico ha già costretto milioni di persone a migrare dai propri luoghi di origine, in Africa, in Asia e in altre parti del mondo.

Le morti causate dalle alluvioni che ogni anno si abbattono in Uganda, l’Uganda di Vanessa Nakate, dove l’assenza di infrastrutture adeguate fa sì che le strade si trasformino in fiumi di fango, sono già irreversibili.

L’Africa è una delle zone maggiormente colpite dal cambiamento climatico, anche se è responsabile solo del 3% delle emissioni prodotte negli ultimi tre secoli.

 Il cambiamento climatico non solo non è uguale per tutti, nel senso che colpisce più duramente i Paesi più poveri che non hanno le infrastrutture per difendersi, ma è anche stato prodotto in modo non uguale da tutti, con i Paesi ricchi che hanno più responsabilità dei Paesi poveri: il cambiamento climatico è anche una questione di giustizia sociale, di giustizia climatica.

Il cambiamento climatico colpisce più duramente i Paesi più poveri, ma si fa sentire anche nei Paesi ricchi. Ricorderete l’estate scorse le alluvioni che hanno colpito l’Europa continentale, dove sono morte più di 200 persone, o le piogge record che si sono abbattute l’estate scorsa sulla Liguria.

Un’analisi dell’agenzia ambientale europea mostra che negli ultimi 40 anni, dal 1980 al 2019, gli eventi meteorologici estremi, che il cambiamento climatico ha reso più frequenti e più intensi negli ultimi anni, sono costati 72,5 miliardi di euro all'Italia, 107,4 miliardi di euro alla Germania, 67,5 miliardi di euro alla Francia.

 La transizione ecologica costerà, avrà bisogno di ingenti investimenti per cambiare il nostro sistema produttivo, ma costerà comunque meno rispetto a quello che pagheremmo in termini ambientali e sanitari per sistemare i danni provocati dal cambiamento climatico.

Ai tropici intere specie stanno scomparendo, mentre più a nord interi biomi si stanno lentamente spostando alla ricerca di temperature più fresche. Potrei parlarvi delle specie animali e vegetali che sono già state duramente colpite, dagli incendi o all’innalzamento del livello del mare.

Vi menzionerò soltanto un roditore australiano, “Melomys rubicola”, che nel 2016 è stato dichiarato estinto: si tratta della prima estinzione di una specie di mammifero causata dal cambiamento climatico: era endemico di una piccola isola corallina “Bramble Cay” e la sua estinzione è dovuta alla perdita dell’habitat conseguente all’aumento del livello del mare e a tempeste che hanno colpito lo stretto di Torres.

Potrei parlarvi delle barriere coralline dell’Australia e di moltissime altre isole del mondo che stanno già morendo a causa del riscaldamento degli oceani e delle ondate di calore marine.

Con loro stanno scomparendo interi ecosistemi marini e le economie basate sul turismo. La loro perdita è già irreversibile.

Potrei parlarvi della foresta amazzonica che è drammaticamente vicina a un punto di non ritorno, perché non riesce più a rigenerarsi a causa della crescente siccità.

Nel giro di qualche decennio la foresta potrebbe lasciar spazio a macchie di savana che gradualmente la sostituiranno.

E ancora ci sono già e sono destinati ad aumentare i problemi di sicurezza alimentare, dovuti a una diminuzione della produttività agricola in moltissime aree, e i problemi di sicurezza idrica, che tagliano la disponibilità di acqua in aree anche benestanti come la California.

Pianeta.

Che fare?

Tornando quindi alla domanda iniziale da cui siamo partiti “Quando il cambiamento climatico diventerà irreversibile?” spero di avervi fatto capire che forse la domanda giusta da porci è semmai “Cosa dobbiamo fare per rendere meno gravi le conseguenze del cambiamento climatico?”

Gli ultimi rapporti IPCC sono stati molto chiari a riguardo: “le mezze misure non sono più un’opzione”.

I governi nazionali e le organizzazione sovranazionali stanno lavorando a piani non solo di mitigazione, cioè di riduzione delle emissioni, ma anche di adattamento al cambiamento climatico, proprio perché alcune sue conseguenze ormai non sono più evitabili, sono già irreversibili e noi dovremo adattarci nel modo migliore possibile.

Le centinaia di scienziati che hanno partecipato ai gruppi di lavoro dell’IPCC ritengono che per mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C è necessario che il picco delle emissioni globali venga raggiunto prima del 2025.

Poi avremmo 5 anni a disposizione per ridurre le emissioni del 43% entro il 2030 (rispetto ai livelli del 2005).

Dovremmo ridurle del 25% per stare al di sotto dei 2°C, che è la soglia massima che ci siamo dati e oltre la quale il sistema di regolazione climatica del pianeta va a gambe all’aria.

L’Europa però si è posta un obiettivo ancora più ambizioso, ridurle del 55% entro il 2030 (rispetto ai livelli del 1990).

Come capite bene la finestra per l'azione è molto stretta: è il più classico degli "ora o mai più".

Abbiamo tutte le tecnologie e le conoscenze per farlo. Ciò che manca è la volontà politica di compiere un deciso passo in questa direzione.

“Gli impegni presi finora invece di diminuire le emissioni porteranno a un aumento del 14% delle emissioni.

 I maggiori emettitori non stanno nemmeno mettendo in pratica gli impegni presi per mantenere le loro già inadeguate promesse”.

 Queste parole che vi riporto le ha pronunciate “Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu”, in occasione della presentazione dell’ultimo rapporto IPCC e proprio con le sue parole pronunciate vorrei concludere:

“finora abbiamo assistito a impegni vuoti che ci consegneranno un mondo invivibile.

Stiamo viaggiando ad alta velocità verso un vero disastro climatico: molte città sott’acqua, ondate di calore e tempeste senza precedenti, scarsità di acqua, estinzione di un milione di specie di piante e animali.

Non è una fiction o un’esagerazione, è quello la scienza ci dice risulterà dalle attuali politiche energetiche.

Arriveremo a raddoppiare il grado e mezzo di riscaldamento globale.

 Siamo sulla strada di un aumento di 3°C.

Certi governi e uomini d’affari dicono una cosa e ne fanno un’altra.

Detto in maniera semplice: stanno mentendo.

Stanno soffocando il nostro pianeta con i loro interessi e investendo sui combustibili fossili, quando le rinnovabili sono soluzioni più convenienti, generano posti di lavoro e sicurezza energetica.

Gli attivisti climatici sono a volte presentati come pericolosi radicali, ma i veri pericolosi radicali sono coloro che stanno aumentando le emissioni.

 Investire in nuove infrastrutture per i combustibili fossili è moralmente e economicamente una follia.

Ma non deve andare per forza così.

Dobbiamo triplicare la velocità della transizione verso le energie rinnovabili. Questo significa spostare gli investimenti dai combustibili fossili alle rinnovabili, ora.

In molti casi le rinnovabili sono la soluzione più economica.

 Governi, istituzioni finanziarie e grandi corporazioni devono sostenere le economie emergenti in questa transizione”.

Non so a voi ma a me le parole di “Guterres” non suonano per nulla diverse da quelle più volte ribadite dai giovani attivisti per il clima.

 Forse è il caso che ascoltiamo un po’ più attentamente cosa hanno da dire questi ragazzi e queste ragazze.

(A me pare che queste ragazze e ragazzi non fanno mai neppure un cenno al fatto di avere notato che la Co2 sia vista svolazzare libera nei cieli.

 Infatti è loro noto che è solo la presenza sulla superfice terrestre e sul mare della Co2 che rende possibile la continuità della vita degli animali, degli uomini e della vegetazione! N.D.R).

 

 

 

 

Tassi troppo alti i nuovi nemici

della transizione verde.

Vertaeaffari.it – Nino Sunseri – (27 settembre 2023) – ci dice:

L'alto costo del denaro allontana l'obiettivo Net Zero al 2050 e rende difficili i target europei del Fit for 55 entro il 2030.

Tassi troppo alti i nuovi nemici della transizione verde.

INFOGRAFICA.

 L'andamento del prezzo del petrolio Brent Verona, 26 set (GEA) –

 Nell'infografica di Gea, l'andamento del prezzo del petrolio Brent, aumentato di oltre il 25% in questo trimestre fino a sfiorare i 95 dollari al barile la scorsa settimana. ùSecondo un'analisi di” Ing”, i prezzi del petrolio supereranno i 100 dollari al barile nel breve termine poiché i tagli all’offerta da parte dei paesi “Opec+” hanno più che compensato la debolezza della domanda dovuta al rallentamento dell’economia globale. (AFT/VLN)

Vento e sole a caro prezzo.

L’inflazione non molla spinta dal caro petrolio e le banche centrali non allentano sui tassi.

Annunciano altri rialzi o promettono di mantenerli alti per lungo tempo.

Due brutte notizie per l’obiettivo Net Zero al 2050 ma anche per i target europei del Fit for 55 entro il 2030.

Parlano gli esperti.

“Thomas Ferguson”, professore emerito all’”Università del Mit” e “Servaas Storm”, docente all’”Università di Tecnologia” di Delft  hanno scritto sul “Guardian” che “tassi di interesse  elevati rallentano notevolmente la transizione energetica”.

Infatti gli investimenti nelle rinnovabili sono competitivi rispetto alle energie tradizionali solo quando i tassi sono bassi”.

 Alcuni studi – citati dal “Guardian” – mostrano che, con o tassi al 4/4,5% il costo dell’elettricità solare e dell’eolico terrestre aumenterà rispettivamente dell’11% e del 25%.

Sussidi dei governi al rallentatore.

I governi non hanno risorse a sufficienza per sussidiare la transizione considerato che, per vendere titolo di Stato, devono offrire rendimenti sempre più alti.

 Le stime dell’”Agenzia internazionale per l’energia” spiegano che il costo dell’elettricità prodotta da una centrale a gas aumenta di circa il 4% con tassi fra il 3% al 7%, mentre quello dell’eolico offshore e del fotovoltaico può salire del 30%.

Non a caso – aggiungono “Ferguson e Storm” – “gli alti tassi di interesse proteggono i produttori tradizionali di petrolio e gas dalla concorrenza dell’energia a basse emissioni”.

Investimenti ad alto rischio.

Il tema è semplice.

Gli investimenti costano:

 finanziarli con gli interessi del 2% ha un impatto sopportabile con interessi del 6-7% la situazione è ben diversa.

Ne sanno qualcosa le utilities italiane, alle prese con investimenti a debito in solare ed eolico.

 In una settimana l’indice Ftse Italia “All-Share Utilities” ha lasciato sul terreno il 5%.

Piazza Affari.

Oggi soffrono Erg, che perde l’1,7%  a 23 euro, A2A e Terna (entrambi in rosso di quasi un punto percentuale).

Rimbalzano invece “algo wat”t (+11%), anche se il suo valore si è dimezzato rispetto a un anno fa, e “Alerion” (+0,7%) dopo aver perso 10 euro in dieci mesi.

“Italgas”, dopo un balzo nel 2023 a sfiorare i 6 euro è tornata ai 5 euro di un anno fa.

 Sull’utility torinese pesa comunque anche l’operazione dell’azionista Snam (ferma nei confronti di fine settembre 2022 mentre il Ftse Mib è salito di quasi il 30%).

Snam la scorsa settimana ha piazzato sul mercato un bond da 500 milioni convertibile in azioni Italgas, in scia all’ultima tendenza di Wall Street.

Obbligazioni convertibili.

Infatti in risposta agli aggressivi aumenti dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve, le società statunitensi di alto livello stanno ricorrendo sempre più alle convertibili per alleviare i crescenti costi di finanziamento.

 Quest’anno, secondo i dati della Bank of America sono stati emessi 12 miliardi di dollari in obbligazioni convertibili, pari a oltre un terzo dell’emissione totale.

Si tratta della percentuale più alta in almeno un decennio.

Il fatto è che l’economia globale potrebbe non essere pronta ad affrontare lo scenario peggiore, ovvero un aumento del tasso di interesse statunitense fino al 7% con stagflazione, ha detto a Bloomberg “Jamie Dimon”,” Ceo” del colosso bancario Jp Morgan.

 Da marzo 2022, la Federal Reserve ha aumentato il costo del denaro di 525 punti base, portandolo nell’intervallo 5,25%-5,5%, per contenere l’inflazione.

 Secondo “Dimon”, la Fed potrebbe aumentare ancora i tassi per contenere l’inflazione con effetti dannosi per l’economia globale.

“Passare dallo zero al 2% non è stato un problema. Passare dallo zero al 5% ha colto di sorpresa”, ha detto Dimon, durante un’intervista al Times of India.

“Non sono sicuro che il mondo sia preparato per il 7%”.

 

 

 

 

Comportamento suicida.

 Msdmanuals.com - Christine Moutier , MD, “American Foundation For Suicide Prevention” -

(10 luglio 2023) – ci dice:

 

Il suicidio è la morte causata da un atto di autolesionismo che ha come obiettivo di essere letale.

 Il comportamento suicida comprende uno spettro di comportamenti che vanno dal tentativo di suicidio e da comportamenti propedeutici al suicidio completato. L'ideazione suicidaria si riferisce al processo di pensare, considerare o pianificare il suicidio.

I progressi nella scienza, il supporto e la riduzione dello stigma hanno portato a un'evoluzione della maggior parte della terminologia relativa al suicidio, compresi quei concetti già definiti sopra:

Intenzione suicida: intenzione di porre fine alla propria vita attraverso l'atto di comportamento suicidario.

Tentativo di suicidio: un comportamento non fatale e potenzialmente dannoso diretto contro il sé con l'intenzione di morire in seguito al comportamento.

Suicide attempt survivors (Sopravvissuti a un tentativo di suicidio):

 persone con una propria esperienza personale di pensieri o tentativi di suicidio; spesso importanti nel movimento a favore della prevenzione del suicidio;

a volte i sopravvissuti ai tentativi di suicidio uniscono le forze con altri sostenitori.

Suicide loss survivors (persone che hanno perso esseri cari per suicidio) o persone in lutto a seguito di un suicidio: membri della famiglia, amici o colleghi di una persona deceduta per suicidio.

Altri tre importanti cambiamenti nella terminologia del suicidio sono passati nel vocabolario professionale:

 

È morto per suicidio:

questa terminologia raccomandata è preferita alla frase "ha commesso suicidio".

È accettabile anche un altro tipo di linguaggio semplice (p. es., "si è suicidato", "ha messo fine alla sua vita", "si è tolto la vita").

Autolesionismo non suicidario e autolesionismo: questi comportamenti sono definiti come il ferirsi deliberatamente senza intento suicidario;

'auto-taglio è la forma più comune, ma le ustioni, i graffi, i colpi e l'impedire intenzionalmente la guarigione delle ferite sono altre forme.

 Anche se il comportamento in sé è senza intento suicidario, le persone che hanno un pattern di autolesionismo non suicidario hanno mostrato di essere a rischio più alto di suicidio nel lungo termine.

Suicidabilità: questo termine è spesso usato in ambito clinico tra professionisti per riferirsi allo spettro delle possibili esperienze suicidarie;

non specifica se vi sia stata ideazione suicidaria o tentativo di suicidio, o se la natura dell'ideazione o dei tentativi fosse cronica/ricorrente o un evento singolare o multiplo. In molti casi, la comunicazione può essere più efficace e chiara se si articola il problema reale a portata di mano, (p. es., l'ideazione o il tentativo), e si includono eventuali dettagli rilevanti.

Epidemiologia del comportamento suicida.

Le statistiche sul comportamento suicida si basano principalmente sui certificati di morte e sui reperti delle inchieste e ne sottostimano la reale incidenza.

Per fornire informazioni più attendibili negli Stati Uniti, il Centers for Disease Control and Prevention (CDC) ha istituito un sistema statale chiamato National Violent Death Reporting System (NVDRS), che raccoglie informazioni su ogni incidente violento da varie fonti per fornire una migliore comprensione delle cause di morti violente (omicidi e suicidi).

Il sistema nazionale di segnalazione delle morti violente è attualmente in vigore in tutti e 50 gli stati, nel distretto di Columbia ed a Porto Rico.

Negli Stati Uniti, il suicidio è stato la decima causa di morte per diversi decenni, fino al 2020;

quando il COVID-19 è diventato la terza causa di morte, ha spostato il suicidio oltre le prime 10 .

Il tasso di suicidi negli Stati Uniti è aumentato dal 1999 al 2018 del 36% (da 10,2 a 14,2/100 000 persone all'anno), seguito da 2 anni consecutivi di tassi decrescenti nel 2019 e nel 2020.

 I dati sui suicidi negli Stati Uniti nel 2021, sfortunatamente, hanno mostrato un aumento del 4% dal 2020 al 2021.

Poiché il suicidio è noto per essere una condizione multifattoriale e complessa, le ragioni delle variazioni dei tassi nella popolazione sono difficili da identificare, ma si pensa che siano correlate a fattori come gli atteggiamenti culturali verso la salute mentale e la ricerca di aiuto, l'accesso alle cure di salute mentale, l'accesso a mezzi letali e numerose altre influenze.

Si ritiene che le tendenze esterne della società e le esperienze personali interagiscano con fattori di rischio individuali interni, come per esempio aver vissuto un trauma o avere una predisposizione genetica che può aumentare il rischio di suicidio.

 

Nel 2021, le fasce di età con tassi di suicidio più alti erano gli adulti di età compresa tra 25 e 34 anni e 75-84, ma i tassi erano più alti per gli adulti di età superiore agli 85 anni.

 Il più alto tasso di suicidi tra i gruppi razziali ed etnici per età si riscontra tra i giovani indiani d'America.

Tuttavia, in termini di carico globale di suicidio, i maschi bianchi, che rappresentano circa un terzo della popolazione degli Stati Uniti, rappresentano 7 su ogni 10 suicidi negli Stati Uniti.

 I dati emergenti indicano anche un aumento dei tassi di suicidio tra i neri, gli ispanici e gli asiatici. Per le attuali statistiche sul suicidio, vedi i dati forniti dall'”American Foundation for Suicide Prevention”.

Negli anni '90, il tasso di suicidio in età giovanile si è ridotto dopo più di un decennio di costante aumento, solo per ricominciare a aumentare all'inizio degli anni 2000 con un preoccupante aumento delle morti per suicidio da arma da fuoco. Numerose influenze sono probabilmente correlate alla crescente tendenza dei tassi di suicidio tra i bambini e gli adolescenti, tra cui le seguenti :

Condizioni di salute mentale non affrontate (tra cui disturbo depressivo maggiore, disturbo bipolare, disturbi da uso di sostanze, psicosi, disturbi alimentari, disturbo da deficit di attenzione/iperattività, disturbi d'ansia e/o traumi);

Condizioni di salute come lesioni cerebrali traumatiche o disturbi dello spettro autistico;

Eventi avversi dell'infanzia (compresi abuso, incuria, perdita);

Esperienze di trauma o di perdita (tra cui ambiente familiare instabile; crescere con un genitore con malattia mentale; esposizione al suicidio di coetanei e/o di un parente morto per suicidio; esperienza di bullismo o di discriminazione basata sulla razza, il genere, o l'orientamento sessuale);

La ricerca sul ruolo dei social media sta evolvendo e finora rivela un'influenza complessa e variabile dell'uso dei social media, che va dagli effetti dannosi sull'umore, il sonno e l'ideazione suicidaria alla connettività interpersonale positiva per alcune persone, che può effettivamente essere protettiva.

(Vedi anche Eziologia).

Ulteriori dati suggeriscono anche un possibile effetto degli avvertimenti sulle scatole di farmaci emessi dalle agenzie di regolamentazione circa l'aumento del rischio di suicidio nei bambini e negli adolescenti associato all'uso di antidepressivi, che può aver portato a una riduzione del trattamento dei disturbi depressivi maggiori.

Le morti maschili per suicidio superano le morti delle donne di circa 2,5:1 a 4:1 a livello globale e quasi 4:1 negli Stati Uniti.

I motivi non sono chiari, ma le spiegazioni possibili comprendono:

Gli uomini sono meno propensi a cercare aiuto quando sono in difficoltà.

Gli uomini hanno una maggiore prevalenza di alcolismo e di disturbo da uso di sostanze, entrambi i quali danno origine a comportamenti impulsivi.

Gli uomini tendono ad essere più aggressivi e utilizzano mezzi più letali quando tentano il suicidio.

Il numero di suicidi negli uomini comprende suicidi tra il personale militare e i veterani, dove vi è una maggiore proporzione di uomini rispetto alle donne.

In termini di spettro di esperienze correlate al suicidio, circa 14 milioni di americani sperimentano ideazioni suicidarie, 1,4 milioni di adulti americani hanno fatto un tentativo di suicidio, e poco meno di 50 000 muoiono per suicidio ogni anno.

L'ideazione suicidaria è un'esperienza abbastanza comune nella popolazione generale e più comune nelle popolazioni cliniche.

Tra quelli che considerano il suicidio, molti meno agiscono su pensieri o impulsi suicidi.

Tra le persone che sopravvivono anche a gravi tentativi di suicidio, più del 90% non muore per suicidio.

 Sulla durata della vita, gli adolescenti e i giovani adulti hanno la più alta incidenza di idee suicidarie;

 le donne tentano il suicidio più dei maschi, ma i maschi muoiono per suicidio con un tasso 3-4 volte il tasso delle donne.

Tra gli anziani, sebbene l'ideazione suicidaria sia meno frequente, 1 su 4 tentativi di suicidio si conclude con la morte.

Una nota di suicidio viene lasciata all'incirca da 1 suicida su 6.

 Il contenuto può fornire indizi riguardanti i fattori che hanno portato al suicidio (p. es., malattia psichiatrica, disperazione, costrizione cognitiva e restringimento delle opzioni percepite per andare avanti, percezione di essere un peso per gli altri, e senso di isolamento).

L'intersezione di questi e altri fattori di stress o perdite della vita può accelerare il suicidio.

Il contagio suicidario si riferisce a un fenomeno in cui un suicidio sembra generarne altri in una comunità, a scuola o sul posto di lavoro.

 I suicidi altamente pubblicizzati possono avere un effetto molto ampio.

 Le persone affette sono di solito quelle già vulnerabili.

Gli esseri umani sono creature sociali inclini a imitarsi l'un l'altro, e gli adolescenti sono più propensi a impegnarsi nell'imitazione rispetto agli adulti a causa del loro stadio di sviluppo psicologico e neurologico.

Si stima che il contagio sia un fattore nell'1-5% di tutti i suicidi di adolescenti.

Il contagio può verificarsi per esposizione a un coetaneo che tenta di suicidarsi o muore per suicidio, attraverso una copertura mediatica diffusa del suicidio di una celebrità, o attraverso la rappresentazione grafica e/o sensazionale del suicidio nei media popolari.

Viceversa, la copertura mediatica con messaggi positivi su un decesso per suicidio può mitigare il rischio e/o l'impatto del contagio suicidario per i giovani vulnerabili.

 I messaggi di prevenzione del suicidio a tema positivo in genere comportano la rappresentazione delle difficoltà legate alla salute mentale come parte della vita e dell'esperienza umana, evitando lo stigma legato alla ricerca di aiuto e trattamento.

Dopo che si è verificato un suicidio, i messaggi positivi in una scuola o sul posto di lavoro devono comunicare chiaramente sulla tragica perdita di un membro della comunità ed esprimere il sostegno per la comunità in lutto e fornire risorse di supporto.

 Il linguaggio che un leader utilizza per discutere del suicidio, sia per iscritto che durante incontri personali, per il debriefing della perdita è importante.

 Per informazioni più dettagliate sulla comunicazione e i modelli per la comunicazione scritta, consultare l'After A Suicide Toolkit liberamente disponibile dell'American Foundation for Suicide Prevention ( afsp.org ).

Il contagio suicidario può diffondersi anche nelle scuole e nei luoghi di lavoro, che sono gli ambienti importanti per implementare e seguire le linee guida di post-prevenzione per prevenire futuri suicidi.

Altre categorie di suicidio sono rare. Tra questi:

 

Suicidi di gruppo.

Omicidi/suicidi.

"Suicidio tramite poliziotto" (situazioni in cui le persone agiscono in un modo, per esempio brandendo un'arma, che spinge le forze dell'ordine ad agire con forza letale)

Riferimenti epidemiologici.

Eziologia del comportamento suicida.

Il suicidio è un evento complesso legato alla salute che coinvolge una serie di fattori genetici, ambientali e psicologici e comportamentali.

Gli studi di autopsia psicologica mostrano chiaramente che in ogni caso di suicidio, i defunti stavano vivendo molteplici fattori di rischio per il suicidio.

La morte per suicidio è molto più frequente fra le persone con una malattia psichiatrica, rispetto ai controlli appaiati per età e sesso.

 In alcuni studi, quasi il 90% delle persone che muoiono per suicidio hanno una condizione di salute mentale diagnosticabile al momento del loro decesso.

Frequenza dei disturbi di salute mentale nel suicidio.        

Uno dei più comuni, potenti e rimediabili fattori di rischio per il suicidio è la depressione.

Per i pazienti con depressione, il rischio di suicidio può aumentare durante i periodi in cui la depressione è più grave, e quando convergono diversi altri fattori di rischio. Inoltre, il suicidio sembra essere più comune quando un'ansia intensa, impulsività, uso di sostanze e problemi del sonno sono parte di una depressione maggiore o di una depressione bipolare.

Il rischio di pensieri (e raramente di tentativi suicidari) può aumentare nei gruppi di età più giovane dopo l'inizio di una terapia antidepressiva (vedi Trattamento della depressione e del rischio suicidario e Rischio di suicidio e antidepressivi).

Il trattamento efficace della depressione con farmaci e/o qualche forma di psicoterapia è considerato un modo efficace per ridurre in generale il rischio di suicidio.

 

Altri fattori di rischio per il suicidio comprendono:

La maggior parte delle altre gravi condizioni di salute mentale.

Precedenti tentativi di suicidio.

Disturbi della personalità (p. es., disturbo borderline della personalità).

Impulsività e aggressività.

Esperienze traumatiche infantili.

Anamnesi familiare di suicidio e/o di condizioni psichiatriche.

Uso di alcol, droghe illecite e analgesici da prescrizione.

Condizioni di salute fisica gravi o croniche (p. es., dolore cronico, lesione cerebrale traumatica).

Tempi di perdita (p. es., morte dei familiari o degli amici.)

Conflitto relazionale (p. es., il divorzio).

Interruzione del lavoro (p. es., disoccupazione).

Periodi di transizione professionale (p. es., il cambiamento del proprio status militare da servizio attivo a stato di veterano o pensionamento).

Stress finanziari (p. es., recessioni economiche, sottoccupazione).

Bullismo o altre esperienze umilianti (p. es., cyberbullismo, rifiuto sociale, discriminazione, problemi professionali o legali).

Fattori di rischio e segnali di allarme per il suicidio.       

Le persone affette da schizofrenia muoiono per suicidio a un tasso molto più alto rispetto alla popolazione generale, con circa il 10% dei pazienti con schizofrenia che muore per suicidio.

 I fattori che determinano il rischio di suicidio tra le persone con schizofrenia comprendono la malattia in fase precoce, gli episodi depressivi, le allucinazioni, la mancanza di accesso o la non aderenza a un trattamento efficace, la disabilità, la disperazione e l'acatisia.

Altri noti fattori di rischio psicosociale per il suicidio comprendono l'interruzione di una relazione, la disoccupazione e la perdita.

 

L'alcol e le droghe illecite possono aumentare la disinibizione e l'impulsività, nonché peggiorare l'umore.

Tra il 30% e il 40% dei soggetti che muore per suicidio ha assunto alcol prima del tentativo, e circa la metà di essi si trova in stato di ebbrezza nel momento in cui lo compie.

 I giovani, che sono generalmente più inclini a comportamenti impulsivi, sono particolarmente suscettibili agli effetti dell'alcol;

anche moderati livelli di intossicazione possono indurre a utilizzare metodi di suicidio più letali.

Tuttavia, le persone con il disturbo da abuso di alcol sono ad alto rischio di suicidio anche quando sono sobri.

Condizioni di salute fisiche gravi, specialmente quelli cronici e dolorosi, contribuiscono per circa il 20% dei suicidi nei pazienti anziani.

 Anche condizioni di salute fisica diagnosticate di recente o di nuova insorgenza possono aumentare il rischio di suicidio (p. es., diabete, epilessia, condizioni di dolore, sclerosi multipla, cancro, infezioni, HIV/AIDS).

Queste condizioni di salute possono influenzare direttamente il funzionamento fisiologico del cervello e, quindi, aumentare il rischio di suicidio.

Gli effetti psicologici della disabilità, del dolore, o di una nuova diagnosi di una grave condizione di salute possono anche aumentare il rischio di suicidio.

Gli individui con disturbi di personalità sono predisposti al suicidio, soprattutto le persone con disturbo borderline di personalità o disturbo antisociale di personalità, che probabilmente hanno problemi con l'intolleranza allo stress e con i modelli di reattività interpersonale, inclusi autolesionismo e aggressività.

Le esperienze infantili traumatiche, in particolare lo stress causato da abusi sessuali o fisici o dalla privazione dei genitori, sono significativamente associate al comportamento suicidario e probabilmente al suicidio portato a termine.

 

La genetica del rischio di suicidio è un'importante area di ricerca e sembra influenzare il rischio di suicidio.

 Anche se il rischio di suicidio può essere presente in alcune famiglie, i geni sembrano spiegare solo una parte di tale rischio.

Una storia familiare di suicidio, di tentativi di suicidio o di disturbi psichiatrici è associata a un aumentato rischio suicidario.

Ci sono anche prove che suggeriscono che le interazioni genetiche e ambientali contribuiscano al rischio di suicidio .

I cambiamenti epigenetici (p. es., la mutilazione del DNA) che influenzano l'espressione genica possono aumentare o diminuire il rischio di suicidio, influenzando la neurofisiologia, la cognizione o la regolazione dello stress.

Questo significa che esperienze negative come traumi e, al contrario, esperienze positive come il supporto sociale della psicoterapia possono effettivamente cambiare l'espressione genica e influenzare significativamente la resilienza di un individuo e il rischio di suicidio di un individuo.

Caratteristiche psicologiche come la tendenza all'impulsività, la rigidità cognitiva, la sensibilità al rifiuto interpersonale o il nevroticismo grave possono anche aumentare il rischio.

Riferimenti relativi all'eziologia.

Metodi di suicidio.

La scelta dei metodi per il suicidio è determinata da molti fattori, tra cui elementi culturali, disponibilità di mezzi per completare il suicidio e la serietà dell'intenzione.

Per esempio, l'auto-avvelenamento da pesticidi si verifica più comunemente nelle aree rurali dei paesi asiatici e del Pacifico occidentale.

Alcuni metodi (p. es., saltare nel vuoto da grandi altezze) rendono quasi impossibile la sopravvivenza, mentre altri (p. es., ingestione di farmaci o di droghe illecite) possono consentire il soccorso.

Tuttavia, l'uso di un metodo che si dimostra non fatale non implica necessariamente che l'intenzione sia meno seria.

Per i tentativi di suicidio, l'ingestione di droghe, farmaci o tossine è il metodo più comunemente usato.

I metodi violenti, come l'impiccagione o l'uso di armi da fuoco, sono meno frequenti nei tentativi di suicidio.

Approssimativamente il 50% di suicidi portati a termine negli Stati Uniti avviene tramite armi da fuoco;

gli uomini usano questo metodo più delle donne.

Ulteriori dati riguardanti le tendenze dei tassi di suicidio in base al sesso, razza e etnia sono stati resi disponibili dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC).

 

Riferimenti metodologici.

Gestione del comportamento suicida.

Valutazione del rischio di suicidio.

Pianificazione della sicurezza.

Follow-up e monitoraggio ravvicinato.

La National Action Alliance for Suicide Prevention (Action Alliance) ha pubblicato le linee guida per gli standard raccomandati per i pazienti a rischio di suicidio.

Queste comprendono le raccomandazioni dello screening, della valutazione del rischio suicidario e l'assistenza clinica per le cure generali, la salute comportamentale e le strutture di pronto soccorso.

È importante notare che quel rischio di suicidio è dinamico.

Il rischio acuto generalmente dura solo un breve periodo di tempo (da ore a giorni).

Nella maggior parte dei suicidi, i pazienti erano stati visitati in varie strutture sanitarie durante il periodo di rischio acuto, ma il rischio di suicidio non è stato rilevato.

Le strategie per mitigare i rischi correlati al suicidio che possono essere utilizzati dai medici (anche quelli al di fuori della salute comportamentale) comprendono

Rispondere in maniera premurosa e non giudicante

Fornire interventi brevi (p. es., pianificazione della sicurezza e consulenza sui mezzi letali).

Comunicare con la famiglia e gli amici intimi del paziente.

Fornire risorse di salute mentale per le crisi e altre situazioni come 988, il Suicide & Crisis Lifeline negli Stati Uniti

Indirizzare il paziente alle cure appropriate.

Follow-up del paziente (anche per telefono) tra le visite.

Alcuni periodi di tempo sono associati a un elevato rischio di suicidio.

In particolare, il periodo di giorni o settimane dopo la dimissione dal pronto soccorso o dall'ospedale psichiatrico per i pazienti ricoverati per ideazione suicidaria o per un tentativo di suicidio è ad alto rischio e, quindi, un punto fondamentale di intervento.

Un medico che sospetti l'imminente possibilità di un suicidio di un paziente è, nella maggior parte delle giurisdizioni, tenuto a informare un servizio autorizzato a intervenire.

Il non farlo può portare a un processo civile e penale.

 I pazienti a rischio non devono essere lasciati soli fino a quando non sono in un ambiente protetto (spesso una struttura psichiatrica).

Se necessario, questi pazienti devono essere trasportati in quell'ambiente sicuro da professionisti qualificati (p. es., tecnici medici di emergenza, agenti di polizia). Sforzi negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Nuova Zelanda, in Australia e altrove mirano a riformare il sistema di risposta alle crisi per fare affidamento su un insieme più robusto di risorse per la salute mentale a più livelli come unità mobili di crisi e assistenza globale in caso di crisi e indipendenti dai servizi di emergenza e delle forze dell'ordine.

Qualunque atto suicidario, indipendentemente dal fatto che sia un gesto dimostrativo oppure un tentativo finalizzato, deve essere seriamente considerato. Ogni persona con una seria ferita auto-inflitta deve essere valutata e trattata in conseguenza del danno fisico.

Se un'overdose di farmaci potenzialmente letali viene confermata, si prendono immediati provvedimenti, a somministrare un antidoto e a fornire una terapia di supporto.

La valutazione iniziale può essere effettuata da qualunque medico qualificato nella valutazione e nella gestione del comportamento suicida.

 Tuttavia, tutti i pazienti devono ricevere un'accurata valutazione del rischio di suicidio, che di solito viene eseguita da uno psichiatra, uno psicologo o un altro professionista della salute mentale, il prima possibile. È necessario decidere se i pazienti debbano essere ricoverati volontariamente o se debbano essere indotti al trattamento contro la loro volontà, e se siano necessarie delle restrizioni (vedi anche Emergenze comportamentali).

I pazienti con disturbo psicotico e quelli con depressione grave e crisi irrisolta devono essere ricoverati presso un'unità psichiatrica.

 I pazienti con manifestazioni di disturbi medici potenzialmente confondenti (p. es., delirium, convulsioni, febbre) possono avere bisogno di essere ricoverati in una struttura medica adatta alle opportune precauzioni contro i suicidi.

Dopo un tentativo di suicidio, il paziente può negare ogni problema, perché la grave depressione che conduce all'atto suicidiario può essere seguita da un breve periodo di sollevamento del tono dell'umore.

Tuttavia, il rischio che un altro tentativo di suicidio riesca è alto se il paziente non riceve un trattamento e un supporto psicologico continui.

La valutazione del rischio suicidario identifica i fattori chiave che contribuiscono all'attuale rischio suicidario dell'individuo e aiuta il medico a programmare un trattamento adeguato.

Essa comprende i seguenti passi:

Stabilire un rapporto e ascoltare la narrativa del paziente.

Comprendere le ragioni del tentativo di suicidio, ciò che ne fa da sfondo, gli eventi che lo hanno preceduto e le circostanze nelle quali si è verificato.

Indagare sui sintomi di salute mentale e su eventuali farmaci o trattamenti alternativi che il paziente può star assumendo per il trattamento della sua condizione di salute mentale o per il sollievo dai sintomi.

Valutare in maniera completa lo stato mentale del paziente, con particolare riguardo all'identificazione di depressione, ansia, agitazione, attacchi di panico, insonnia grave o di altri disturbi mentali, nonché ai disturbi di uso di alcol o di sostanze (molti di questi problemi richiedono un trattamento specifico, oltre all'intervento critico).

Comprendere in maniera adeguata le relazioni familiari e personali, così come le reti sociali, che spesso sono collegate al tentativo di suicidio e al trattamento di follow up.

Fare colloqui con i familiari e gli amici più vicini.

Indagare sulla presenza di un'arma da fuoco o di altri mezzi letali in casa e fornire consulenza sui mezzi letali (questo può includere la facilitazione del deposito sicuro o dello smaltimento dei mezzi letali lontano da casa)

I medici possono utilizzare strumenti validati come il Columbia Suicide Severity Rating Scale (C-SSRS) o lo strumento "Ask Suicide-Screening Questions" (ASQ) sviluppato dal National Institute of Mental Health (NIMH) per una guida dello screening e della valutazione del rischio suicidario.

La pianificazione della sicurezza, il primo passo dopo la valutazione, è un intervento essenziale che viene effettuato per aiutare i pazienti a identificare i fattori scatenanti della pianificazione suicidaria e sviluppare piani per affrontare i pensieri suicidi quando si verificano.

Altre misure che i medici devono intraprendere comprendono la fornitura al paziente di risorse per le crisi, la consulenza sulla rimozione o il deposito di mezzi letali (5, 6), e il rinvio a cure appropriate per la riduzione del rischio (p. es., terapia cognitivo-comportamentale, terapia dialettico-comportamentale, valutazione collaborativa e gestione della suicidabilità, terapia familiare.

I medici possono anche fornire al paziente un contatto più frequente attraverso visite ambulatoriali o varie forme di comunicazione, alcune delle quali possono essere fornite da altri membri del team sanitario.

 

 

Dr. Peter McCullough al Parlamento Europeo:

“Ritirare Subito tutti i Vaccini mRNA dal Mercato”

Conoscenzealconfine.it – (29 Settembre 2023) - Dr. Peter McCullough- ci dice:

 

Dr. Peter McCullough:”I ‘vaccini’ a mRNA hanno devastato la popolazione mondiale. Nessuno faccia un’altra iniezione. Nessuno!”

Intervento del Dr. Peter McCullough (radcliffecardiology.com/authors/peter-mccullough), cardiologo, internista ed epidemiologo, al Parlamento Europeo nella sessione:

“Salute e democrazia sotto le nuove regole proposte dall’OMS, benefici e rischi per la società civile”.

L’OMS, afferma il Dr. McCullough, sembra far parte di un “complesso sindacato biofarmaceutico”, di cui fa parte anche il WEF, l’ONU, la Fondazione Gates, la Fondazione Rockefeller ed altri.

Questo “sindacato” ha inflitto sofferenza al mondo attraverso delle false narrazioni:

 che il SARS-CoV-2 non può essere debellato, che i vaccini sono sicuri, efficaci e l’unica via percorribile, e che non è il vaccino a creare questi problemi attuali, ma il “long covid”.

Invece proprio questi “vaccini” a mRNA hanno devastato la popolazione mondiale e stanno causando un’enorme ondata di malattie.

È stata l’idea peggiore di sempre iniettare un codice genetico” afferma McCullough.

 

Gli effetti avversi interessano sostanzialmente 4 ambiti:

 si registrano effetti cardiovascolari, neurologici, coaguli di sangue ed anomalie immunologiche.

 In un gruppo che rappresenta il 4,2% sono addirittura alle stelle.

“Nessuno faccia un’altra iniezione. Nessuno. Non sono sicuri per l’uso umano.

 Imploro l’EMA di esercitare ogni pressione e la dovuta urgenza per ritirare dal mercato i vaccini contro il Covid.”

Ringraziamo Agenda2029.is (agenda2029.is/it/ ) per i sottotitoli e la collaborazione per la realizzazione di questo video!

(Ma i pazzi dell’élite globalista anche verde - sopra indicati nominalmente - non debbono essere reclusi in appositi manicomi criminali, dopo l’apposito processo? N.D.R)

 

 

 

Forse non è tutta colpa

del Credit Suisse.

  Lamiafinanza.it - Paolo Brambilla – Alessandro Arrighi - (28/03/2023) – ci dicono:

Com’è noto, dopo il crollo in borsa, Credit Suisse ha annunciato l’intenzione di realizzare una fusione entro la fine del 2023 con UBS.

 Fino ad allora, Credit Suisse continuerà la sua attività come istituto indipendente. Durante la fase di integrazione, Credit Suisse insieme a UBS lavorerà con il massimo impegno per assicurare ai clienti un’agevole transizione e la piena continuità dei servizi.

 Le relazioni con la clientela e tutti i servizi erogati proseguono senza variazioni: fino alla fusione con UBS, Credit Suisse proseguirà la sua attività come di consueto e rimarranno invariati gli accessi all’online & mobile banking, che consentono di effettuare le transazioni desiderate.

Sulla situazione di questi giorni abbiamo sentito il parere dell’economista Alessandro Arrighi.

“La scienza economica, oltre che il buon senso, insegna che all’aumentare dei consumi aumentano i tassi di interesse” esordisce Alessandro Arrighi.

“La cosiddetta “mano invisibile”, ossia il meccanismo di auto riequilibrio dei mercati, fa in modo, che al crescere dei tassi di interesse, il denaro valga e costi di più.

Semplificando:

il denaro è, da questo punto di vista, un bene, come tutti gli altri e se vale e costa di più, essendo il tasso di interesse il prezzo del denaro, la gente è meno propensa a scambiarlo con i beni;

 in questo modo, le persone consumano di meno e così i prezzi tornano a scendere o almeno diminuisce il tasso di inflazione.

 La scorciatoia per fare diminuire l’inflazione è quella per cui la Banca Centrale, aumenta i tassi, ottenendo lo stesso scopo.

Tecnicamente, si scambia recessione, con inflazione, perché l’inflazione è considerata un male”.

Intervista all’economista Alessandro Arrighi.

Ma cosa succede se i prezzi sono invece aumentati perché c’è una guerra, anziché perché sono aumentati i consumi?

 

“L’effetto recessivo, in questo caso, ovviamente viene decisamente amplificato perché l’aumento dei prezzi non è dovuto a un meccanismo di crescita, che sta funzionando “troppo bene”, ma al contrario è esso stesso determinato dalla scarsità.

 I beni che devono essere acquistati costano troppo perché sono difficili da reperire e quindi i prezzi aumentano.

Quando aumentano anche i tassi di interesse, in pratica le persone si trovano a pagare tassi di interessi spropositati per i mutui e contemporaneamente prezzi più alti per i beni che devono acquistare, senza che gli stipendi possano salire, poiché, in effetti, l’inflazione non è quella determinata dallo sviluppo, ma, come detto, dalla scarsità”.

Questo aspetto vale solo per i privati o anche per le imprese?

“Questo vale a maggior ragione per le imprese, che non possono più investire perché i prezzi degli impianti da comprare sono troppo alti, ma soprattutto troppo alti sono i prezzi dei finanziamenti che servirebbero all’impresa e, a differenza di quello che succede nel caso dello sviluppo, le imprese medesime non possono aumentare i prezzi.

Ma non solo, spesso non riescono nemmeno più a trovare le persone da assumere, perché allo stesso livello di salario le persone non sono disponibili a lavorare e d’altronde, essendo aumentati i prezzi di acquisto dei beni “scarsi”, e non potendosi aumentare quelli di vendita a causa della recessione, le imprese falliscono”.

Le banche, e il Credit Suisse in particolare, hanno affrontato lo stesso problema?

“Tragicamente, in un sistema capitalistico avanzato come il nostro, le prime imprese a fallire sono proprio le banche, che, per effetto della politica di aumento dei tassi, pagano troppo la loro materia prima, ossia il denaro.

 E in un sistema in piena recessione, in cui le imprese di produzione e le famiglie non riescono più ad investire, le banche non riescono a vendere i loro prodotti, ossia il denaro al prezzo più alto, che consentirebbe l’equilibrio”.

Stiamo attraversando certamente un periodo storico contradditorio…

“Non solo: una guerra, purtroppo, al di là delle considerazioni etiche, è un elemento capace di fare saltare, quantomeno nel medio termine, il meccanismo della mano invisibile e questo diventa molto più evidente, se quella guerra non è in un altro continente economicamente lontano, come accade per i disordini in Africa o nel Medio Oriente, ma nella nostra Eurasia, in cui i Paesi sono connessi in modo indissolubile”.

Tutto questo sarebbe diverso nel continente americano?

“L’economia europea non è quella americana:

 quest’ultima, già in pieno sviluppo prima della guerra, dal conflitto può persino avvantaggiarsi;

basti guardare l’effetto benefico sul dollaro che, infatti, si è apprezzato consistentemente sull’euro.

La Fed pertanto può giustamente alzare i tassi e , forse, pagare anche il fallimento di qualche banca come la “Silicon Valley Bank”;

non è indolore, ma è sostenibile per un sistema in crescita, e dove comunque c’è la necessità di rallentare la velocità dell’economia e fare diminuire i tassi di crescita e quindi quelli dell’inflazione.

 L’Europa rimane orfana di un pezzo integrante, non solo della propria civiltà, ma dal punto di vista economico anche di un pezzo del proprio mercato, che inevitabilmente si sposta verso la Cina”.

Come possiamo concludere questa intervista?

“Così:

 siamo noi ad essere isolati da quella stessa Eurasia che resta integra e compatta senza di noi, geograficamente isolati e sempre più satelliti dei ricchi Stati Uniti.

Nel momento in cui perdiamo un pezzo così importante del nostro mercato, in termini di capacità di acquisto (gas, combustibili, ma anche prodotti delle terre rare), la politica economica restrittiva rischia di essere un suicidio per l’Europa, e per i Paesi più deboli come l’Italia l’omicidio sembra ineluttabile.

La Svizzera sembra tragicamente essere stata solo la più efficiente nell’avere interpretato quello che sta per accadere.

Non si negano difficoltà strutturali dell’istituto Credit Suisse già prima della guerra e della politica della Lagarde, ma stiamo parlando di una banca riconosciuta come storicamente tra le più solide di Europa e forse del mondo, in un Paese che, avendo una moneta nazionale, avrebbe avuto la possibilità di intervenire in modo molto più ampio di quello che succederà nei paesi europei.

Se non vi sarà un’inversione importante della rotta, questo è solo l’inizio”.

Basta accusare l'uomo per

un'emergenza climatica che non c'è.

Lanuovabq.it – Ernesto Pedrocchi – ( 12-3-2023) – ci dice:

La transizione energetica viene ora identificata con la rinuncia ai combustibili fossili.

 La decarbonizzazione trova la sua giustificazione nell'ipotesi che le emissioni antropiche di CO2 siano una grave minaccia per il clima.

 Ma non ci sono prove sufficienti per affermarlo e i dati che abbiamo non dimostrano un'emergenza climatica.

La transizione energetica è parte importante della transizione ecologica.

Essa viene ora identificata con la decarbonizzazione ovvero la rinuncia all’uso dei combustibili fossili sostituendoli con le fonti rinnovabili in particolare solare fotovoltaico ed eolico.

La decarbonizzazione trova la sua giustificazione nell’ipotesi che le emissioni antropiche di CO2 costituiscano una grave minaccia per il clima del pianeta al punto di renderlo inabitabile in un prossimo futuro.

Tale ipotesi, fortemente supportata e propagandata dall’ONU (corrotta! N.D.R) tramite le associazioni IPCC e UNFCCC (entrambe corrotte! N.D.R) non è scevra da dubbi e criticità, che i suoi sostenitori minimizzano e i suoi critici enfatizzano.

 Nel seguito, pertanto, si riassumono senza intenti polemici e obiettivamente, cioè fondandosi su dati verificabili e riportati dalla stessa IPCC, i principali dubbi sulla natura antropica del cambiamento climatico in atto.

(Ma come è possibile che un gas CO2 - più pesante dell’atmosfera- si possa alzare da terra e rifugiarsi sotto una coperta -gas serra – posta nella stratosfera -per trattenere il calore emanato dal sole e dalla terra stessa! N.D.R)

Il clima globale riguarda tutto il pianeta ed è ovviamente l’insieme di tanti climi locali.

La variabile principe che lo caratterizza è la temperatura globale media di superficie (Tgm) che influisce sulle due principali variabili globali che sono la copertura niveo-glaciale e il livello del mare.

La variazione del clima globale potrebbe causare aumento dei così detti eventi estremi sia in termini di frequenza che di intensità.

 Una recentissima ricerca sul problema evidenzia, in accordo con il rapporto AR6 dell’IPCC (2021), che l’unico dato che evidenzia aumento della frequenza riguarda il fenomeno delle ondate di calore.

Tutti gli altri eventi estremi, inondazioni, siccità, uragani, tornado non mostrano aumentati di intensità e di frequenza da circa 50 anni, per periodi più lunghi non ci sono dati attendibili.

A livello locale può essere che si siano verificati aumenti di intensità e di frequenza di eventi estremi, ma è sempre molto difficile conoscere i dati del passato per la disomogeneità e inadeguatezza dei sistemi di rilevamento.

 Ben diverso è il problema dei danni causati dai fenomeni estremi a livello locale che possono essere fortemente aumentati a causa prevalentemente della antropizzazione incontrollata del territorio.

Per quanto riguarda invece il legame tra la variazione del clima globale e le emissioni antropiche di anidride carbonica, si segnalano le seguenti criticità.

 

1- Non è certo che l’aumento della concentrazione di CO2 in atto dal 1700 derivi prevalentemente dalle emissioni antropiche che solo ora contribuiscono al 5% del totale immesso in atmosfera.

(Ma giova ripetere che è impossibile che la Co2 gas più pesante dell’atmosfera svolazzi sempre più in alto nel cielo, spinto solo  dall’incredibile aspiratore celeste! N.D.R)

 I combustili fossili hanno iniziato a rappresentare un contributo significativo solo dopo il 1850 poiché in precedenza il petrolio e il gas naturale non erano ancora usati a fini energetici e non c’erano centrali termoelettriche.

Ciò significa che per circa un secolo la concentrazione di CO2 è aumentata per cause diverse molto probabilmente naturali.

 Anche la variazione della concentrazione isotopica del C in atmosfera C13/C12 e C14/C12, assunto dai sostenitori dell’AGW come prova che l’aumento derivi dalle emissioni antropiche, è un fenomeno fortemente legato anche ad altri fatti quali la concentrazione di C13 in tutta i prodotti organici e il forte aumento di C14 in atmosfera a seguito delle prove di bombe nucleari negli anni ‘60 e non giustifica l’AGW.

  Si consideri inoltre che l’aumento della Tgm associato con quello della concentrazione di CO2 ha probabilmente contribuito nell’ultimo mezzo secolo al generale rinverdimento della terra che è un fatto accertato e positivo per tutta l’umanità.

2- L’aumento della concentrazione di CO2 è stato ed è tuttora praticamente eguale nei due emisferi terrestri, mentre le emissioni antropiche sono fortemente concentrate nell’emisfero nord.

È scientificamente accertato, anche con misure molto accurate di prodotti radioattivi emessi nell’emisfero nord fino agli anni ’60 a seguito di test di bombe “atomiche”, che la barriera equatoriale è piuttosto impervia al miscelamento dell’atmosfera tra i due emisferi.

 Non si capisce quindi, se l’aumento della concentrazione di anidride carbonica fosse essenzialmente dovuto alle emissioni antropiche, come non resti alcun segno di questa differenza tra i due emisferi.

 

3- C’è il forte dubbio dovuto alla disponibilità di molti dati sperimentali recenti e remoti, supportato anche da 140 pubblicazioni scientificamente accreditate, che a livelli elevati di concentrazione di CO2 in atmosfera, anche inferiori al livello attuale, essa non abbia più alcun effetto sulla temperatura globale media (Tgm).

 Una volta che la CO2 abbia raggiunto una concentrazione tale da assorbire tutta l’energia compresa nel suo spettro di assorbimento ulteriori aumenti diventano irrilevanti e questa situazione potrebbe essere già stata raggiunta.

Diversi rilievi sperimentali relativi alle ultime glaciazioni e inter glaciazioni, ottenuti dall’analisi dei carotaggi di ghiaccio nelle zone polari, mostrano inoltre che in generale è l’aumento di temperatura che precede la crescita della concentrazione di CO2 e non il contrario, come supporrebbe l’ipotesi del riscaldamento globale causato dalle emissioni antropiche di gas serra.

 

 L’andamento della Tgm è disponibile mediante misure dirette e ritenute attendibili solo dal 1850.

Da allora essa è variata sia in aumento sia in diminuzione attestandosi alla fine del 2021 a circa 1°C più alta rispetto al valore di riferimento iniziale.

Dall’inizio del 2020 alla fine del 2021 la Tgm è diminuita di circa 0.5°C pari alla metà dell’aumento dal 1850.

 Variazioni di questo ordine non sono indici di emergenza climatica.

 La Tgm anche negli ultimi millenni -quindi non includendo le transizioni tra glaciazioni e interglaciazioni - è variata più volte in aumento e diminuzione con valori maggiori, a titolo di esempio nel così detto “periodo caldo medioevale” nell’emisfero nord è stata stimata essere di circa 2°C superiore al livello attuale e ciò è confermato dal fatto che i ghiacciai alpini ora in ritirata fanno emergere sui loro fronti (~2500m slm) grandi alberi che esistevano, sotto l’attuale coltre ghiacciata, nel periodo caldo  medioevale.

Le previsioni catastrofiche che ora vengono propinate (solo per interesse antropico economico dei padroni del mondo bugiardi scatenati e pazzi furiosi! N.D.R) sono basate sui risultati ottenuti con modelli matematici che differiscono anche molto fra loro e che in media danno risultati non attendibili sia per periodi recenti che remoti.

D'altronde   l’IPCC  (ben pagata dai padroni del mondo per dire cose non vere! N.D.R) stesso riconosce che il sistema climatico è molto complesso ed è molto difficile fare previsioni attendibili a lungo termine, ciononostante fa proiezioni allarmanti per orientare le scelte politiche dei padroni del mondo.

L’insieme dei dubbi sulla natura antropica del recente cambiamento climatico, l’entità rilevata finora e la poca attendibilità dei modelli fanno pensare che non si sia in uno stato di emergenza climatica causato dalle emissioni antropiche di CO2 (che essendo più pesante dell’aria non può volare libera nel cielo! N.D.R)

(È tutto un volgare e criminale intento distruttivo dell’esistente posto in atto dai criminali padroni del mondo per impadronirsi di tutto quanto ancora rimane di prezioso sulla terra! N.D.R)

 

 

 

 

Le relazioni tra guerra e

crisi climatica ed ecologica.

Emetgency.it – Roberto Mezzalama – (6 maggio 2022) – ci dice:

 

Roberto Mezzalama, esperto ambientale e autore, esplora con noi le relazioni tra guerra e crisi climatica ed ecologica.

La trascrizione integrale dell’intervento di Roberto Mezzalama per “Giù le armi”.

Buongiorno, grazie per questa opportunità.

 Oggi vi parlerò delle relazioni tra guerre e crisi climatica ed ecologica, che sono delle relazioni piuttosto complicate e che richiederebbero delle analisi molto complesse e approfondite.

 Quindi oggi, senza nessuna pretesa di completezza, mi limiterò ad esplorare tre aspetti, che considero fondamentali in questo contesto così complesso.

Il primo riguarda l’importanza del settore militare nelle emissioni, soprattutto di gas a effetto serra, che sono la causa principale della crisi climatica ed ecologica;

 il secondo sono gli effetti dei conflitti armati;

 il terzo, perché si fa la guerra in relazione al petrolio, alle fonti fossili di energia e quindi, la relazione inversa, cioè la causa della crisi climatica che diventa anche la causa dei conflitti armati.

 

Tra il 2001 e il 2017 si è stimato che il Dipartimento di Stato americano abbia emesso 1,2 miliardi di tonnellate di CO², che sono più o meno il consumo annuo, o meglio, le emissioni annue di 257 milioni di macchine, che sono esattamente il doppio di quelle che circolano negli Stati Uniti.

A livello europeo siamo messi un po’ meglio, comunque il settore militare emette – al netto del Regno Unito – più o meno 8 milioni di tonnellate l’anno di CO², a cui però bisogna aggiungere anche quelle che arrivano dalle aziende che sono impegnate nelle attività militari – per l’Italia, ad esempio Leonardo, ma anche altre aziende – e, quindi, se mettiamo insieme tutto quanto arriviamo a emissioni di CO2 che sono di quasi 25 milioni di tonnellate l’anno, che corrispondono più o meno a circa 14 milioni di autovetture oppure al 10% delle emissioni dell’Italia. Emissioni molto significative.

Le emissioni dell’apparato militare italiano sono poco più di 2 milioni (tra 1 milione e 2 milioni e mezzo) che comunque coincidono, vuoto per pieno, alle emissioni di una città come Torino, quindi non così piccola.

Il settore militare anche in tempo di pace è un settore che emette molte quantità di gas a effetto serra, che consuma molti combustibili fossili.

Li consuma nei suoi mezzi:

l’aviazione è l’arma che di gran lunga consuma più combustibili.

 Si stima che quest’anno l’aviazione americana sparerà 5 miliardi di dollari di combustibili.

 E poi ci sono ovviamente tutte le basi, gli edifici, le infrastrutture che vanno mantenuti.

 Si calcola che tra l’1 e il 6% delle terre emerse in realtà siano dedicate ad attività militare.

E in questi posti, poi, dove si svolgono esercitazioni e attività di utilizzo di armi ci sono effetti anche diversi da quelli delle emissioni di gas a effetto serra come l’inquinamento da idrocarburi, l’inquinamento da sostanze organiche o da metalli, ogni tanto anche l’inquinamento da sostanze radioattive, quindi grandi quantità di materiali pericolosi che vengono emessi durante le esercitazioni, che prevedono spesso esplosioni, incendi…

E quindi è chiaro che aumentare le spese militari anche in tempo di pace significa anche aumentare le emissioni che sono legate alla produzione delle armi, allo stoccaggio, alla manutenzione, alle esercitazioni, alle manovre militari…

Quindi, per dare anche qui un paragone, si stima che le spese militari siano state di 2 miliardi di dollari nel 2021.

 Eppure, durante la Cop 26 a Glasgow, i Paesi sviluppati non sono riusciti a trovare 100 milioni per costituire un fondo con cui compensare i Paesi più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico.

C’è da dire anche un’altra cosa, che almeno l’esercito americano è impegnato a ridurre i suoi consumi.

 Lo fa per ragioni strategiche, non solo per ragioni ambientali, perché comunque la dipendenza dal petrolio, come più è un problema e quindi c’è un progetto di investimento, c’è un programma di investimento di parla di 750 milioni di dollari per passare a energie rinnovabili, inclusi biocombustibili e motori elettrici per far andare avanti i mezzi militari, probabilmente non quelli critici per le emissioni, però, questo è anche un altro processo in corso nell’ambiente militare.

Cosa succede durante le guerre, durante i conflitti armati?

 Le cose ovviamente peggiorano moltissimo.

Intanto per i mezzi militari, che sono alimentati a fonti fossili e che spesso sono tenuti negli hangar o nei magazzini e che vengono utilizzati di continuo.

Degli 1,2 miliardi di tonnellate di gas a effetto serra di cui parlavo prima, cioè dal 2001 al 2017 (per l’esercito americano si è scelto il 2001 perché sono partite le cosiddette Guerre al terrore di Bush), pensate che 1/3 di quelli sono stati emessi direttamente durante le attività di combattimento.

Quindi 400 milioni di tonnellate di CO² sono state emesse durante i combattimenti, soprattutto in Iraq e Afghanistan.

 E poi, ovviamente, quando si combatte si usano esplosivi e questi rilasciano, nel corso dell’esplosione, degli incendi gas a effetto serra, inquinanti, organici, inorganici…

Si polverizzano metalli, inclusi, metalli pesanti.

È anche il caso di uranio impoverito.

Si sterilizza il suolo perché le esplosioni causano temperature elevatissime e quindi si sterilizza il suolo e si uccidono milioni di animali.

Si è stimato che durante i conflitti in Asia e in Africa fino al 90% dei vertebrati terrestri vengano uccisi direttamente dalle attività belliche e poi anche indirettamente, perché in genere i soldati si dedicano anche alla caccia.

 Insomma, ogni tanto da quelle parti restano anche senza viveri e quindi questo è successo in modo ampio.

I crateri che vengono lasciati dalle bombe modificano il suolo, spesso espongono la falda superficiale, gli inquinanti che sono rilasciati durante le esplosioni.

E proprio l’esempio più noto da questo punto di vista è quello della guerra del Vietnam, perché si stima che l’esercito americano lì abbia sganciato più di 7 milioni di bombe, e non solo in Vietnam, ma anche in Laos e in Cambogia.

Queste hanno sconvolto il paesaggio e molto spesso non è stato possibile ripristinare le condizioni precedenti, ripristinare le coltivazioni perché la circolazione della parte superficiale era stata completamente stravolta e, in alcuni casi, come ripiego sono stati poi trasformati in stagni per allevare dei pesci.

Un altro esempio famoso di disastro ambientale legato a un conflitto è quello che è successo durante la prima guerra del Golfo quando, in seguito all’invasione del Kuwait, gli iracheni hanno fatto saltare in aria 800 pozzi di petrolio e 600 di questi hanno preso fuoco e si stima che le emissioni generate da questi incendi siano state pari al 3-4% delle emissioni globali di quell’anno.

Questo è un po’ la proporzione di quello che è successo.

E lì, invece, dai pozzi che non hanno preso fuoco si sono fuoriusciti costantemente enormi quantità di idrocarburi che hanno coperto quasi 200 chilometri quadrati di suolo.

E ancora adesso si sta cercando di bonificare questi terreni a 30 anni di distanza.

Nelle guerre moderne è abbastanza frequente che vengano presi di mira, in modo più o meno volontario, obiettivi industriali come impianti chimici, siderurgici, petrolchimici, per incidere sulla fornitura di materiali all’esercito nemico.

Un caso famoso è quello del bombardamento della Nato della Serbia nel 1999, quando è stata colpita la raffineria di Novi Sad.

E, le Nazioni Unite, hanno stimato che siano uscite 50.000 tonnellate di petrolio, in parte bruciate, in parte sono andate a contaminare il terreno circostante.

E questo, se veniamo all’attualità, è esattamente quel che sta succedendo in Ucraina.

Continuano ad arrivare notizie di attacchi a impianti industriali o depositi di carburante.

 E l’Ucraina è un Paese industrializzato, soprattutto nella regione del Donbass dove ci sono la gran parte dei combattimenti.

Il ministero dell’Ambiente ucraino stima che ci siano oltre 23.000 siti nel Paese che hanno o sostanze tossiche o rifiuti tossici stoccati.

 E qui è probabile che alcune decine di questi siano già stati danneggiati, con il rilascio conseguente poi delle sostanze tossiche.

 È il caso di una fabbrica da bombardamento a nord dell’Ucraina da cui si è liberata una nuvola di ammoniaca che ha interessato un raggio di due chilometri e mezzo.

 E così, come è noto, anche il caso dei combattimenti tra una centrale di Chernobyl che hanno provocato il sollevamento di polveri radioattive.

E pare ci siano stati anche degli effetti sui soldati russi che erano stati esposti a questa polvere radioattiva.

C’è un altro effetto dei conflitti, che durante le guerre crollano le strutture che reggono la vita civile.

Tra queste ci sono anche le infrastrutture e le istituzioni che si preoccupano di proteggere l’ambiente.

Durante la guerra civile del Congo, ad esempio, c’è stato un crollo della popolazione dei gorilla perché i guardiani del parco non potevano più fare il loro lavoro e spesso erano stati anche uccisi e quindi c’è stato un effetto molto diretto.

Poi pensate a tutti gli impianti di presidio dell’ambiente, come gli impianti di depurazione delle acque, gli impianti di smaltimento dei rifiuti, le discariche, gli impianti di compostaggio, gli impianti di bonifica di siti contaminati, sono tutti a rischio di danni fisici, ma anche di abbandono da parte di chi è stato richiamato a combattere o semplicemente non può rischiare la vita per andare a farli funzionare.

E quindi qui siamo di nuovo di fronte a tutta una serie di fenomeni di inquinamento secondario, se vogliamo il rilascio di gas a effetto serra secondario, che però sono estremamente importanti e che colpiscono alcuni comparti ambientali in particolare, ed espongono anche la popolazione poi a degli effetti secondari.

Perché poi?

 Le acque non depurate, i rifiuti non smaltiti.

Come dire, gli impianti di bonifica non funzionano, poi al fine generano altro generato inquinamento.

 E qui voglio introdurre un altro elemento, a costo di sembrare molto, molto cinico. Durante questi periodi di conflitto cosa succede?

L’altra cosa succede è che si fermano le normali attività, diciamo così, civili e normali attività produttive.

 E quindi c’è un contraltare a tutto questo.

Quest’anno stimiamo che il PIL, si stima che il PIL dell’Ucraina crolli del 35-40%. Questo provocherà anche un crollo delle emissioni di gas a effetto serra, che però, e questo è il motivo per cui, per citare questo fatto, spesso queste diminuzioni legate ai conflitti vengono più che compensate dal dagli investimenti e dalle attività di ricostruzione che hanno luogo dopo la fine del conflitto.

E quindi, come dire, alla fine il bilancio netto di tutto questo è un bilancio gravemente negativo.

E qui voglio ribadire, al di là e al di sopra di tutte le sofferenze umane, ciò che queste attività di guerra comportano.

E qui vengo al terzo angolo, diciamo, dal quale volevo provare un po’ a guardare:

il problema oggi delle relazioni tra attività militari, guerre, conflitti e crisi climatica ed ecologica, che è quello della motivazione perché si fa la guerra.

Perché?

Perché ci si combatte nel corso della storia?

Molto spesso ci si è combattuti proprio per il controllo delle fonti fossili di energia. E durante la seconda guerra mondiale ci sono stati – ma addirittura nella prima guerra mondiale – dei casi emblematici di due battaglie che si sono svolte intorno a quelle che allora erano le grandi regioni petrolifere:

la regione di Ploiesti in Romania e la regione di Baku in Azerbaigian.

Ci sono state, prima i tedeschi hanno cercato di controllare Baku, poi i sovietici hanno preso la regione di Ploiesti e hanno lasciato la Germania nazista senza una delle sue fonti principali di idrocarburi e quindi diciamo il combattersi per il controllo delle risorse.

Sostanzialmente del petrolio, ma anche in maniera crescente anche del gas.

 È una costante che abbiamo trovato in conflitti che possiamo trovare nella nostra storia, in conflitti, soprattutto nel secondo dopoguerra, ma anche durante la Seconda guerra mondiale.

Anche guerre, come dire dimenticate.

Pensate alla guerra del Biafra in Nigeria, dove abbiamo cercato di rendersi indipendente dopo, dopo l’indipendenza della Nigeria.

Qui ci sono stati numerosi combattimenti intorno alle alla regione petrolifera di Port Harcourt, nella regione del Delta del Niger, dove ancora adesso che è ancora adesso la capitale petrolifera della Nigeria, dove ancora adesso Eni ha grandi interessi e grandi e grandi basi.

 Poi c’è, l’ho già citato, forse l’esempio più famoso di conflitto armato contro le risorse petrolifere, che è quello appunto delle due guerre del Golfo che sono appunto iniziate con l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq e poi proseguite.

 Ci sono state due ondate o state due guerre del Golfo guidate dagli Stati Uniti e partecipato a una coalizione nella quale c’era anche l’Italia.

 L’origine di tutto questo è stata il controllo dei, diciamo così, dei giacimenti petroliferi che stanno al confine tra Kuwait e Iraq.

Questo ha scatenato in qualche modo la prima guerra del Golfo e poi ha fatto partire anche tra la prima e la seconda guerra del Golfo.

C’è stato una fortissima pressione sul governo americano per prendere il controllo delle risorse petrolifere irachene che erano e sono ancora immense.

Ricordo che nel governo di George Bush c’erano ai tempi della guerra al Golfo Condoleezza Rice, che era membro del Consiglio d’amministrazione di Shell Brown, e Dick Cheney, che era stato l’amministratore delegato di Al Barton, forse il più grande contractor petrolifero del mondo.

E quindi ci sono sicuramente state forti pressioni per arrivare a questi a queste situazioni.

 Ma guardate, ci sono anche, come dire, altre guerre dimenticate.

È stata una piccola fase della guerra tra il Sudan e il Sud Sudan, che è stata anche legata al controllo di una località petrolifera.

 Un breve periodo in cui però 100.000 civili hanno dovuto lasciare le loro case.

E le tensioni nel Mar Cinese Meridionale tra Cina, Indonesia, Malesia, Filippine sono anche legate al fatto che in quell’area ci sono risorse petrolifere.

 Ma anche se veniamo al Mediterraneo, le esplorazioni petrolifere intorno a Cipro hanno causato tensioni.

 Il dispiegamento di navi militari turche nel Mediterraneo occidentale.

Fino a cosa?

Anche un po’, come dire, folcloristiche.

 C’è una tensione diplomatica tra la Danimarca e il Canada per il controllo di una minuscola isola nell’Artico intorno al quale c’è petrolio che è stata nominata la guerra del whisky.

 Poi chi vuole approfondire potrà cercare quindi il controllo delle risorse petrolifere.

È una continua fonte di tensione ed è chiaro che la spinta verso la decarbonizzazione dell’economia, che deriva dal tentativo di combattere i cambiamenti climatici, sta mettendo a dura prova gli equilibri geopolitici che si sono stratificati nel corso nel corso del tempo e quindi anche le relazioni tra Paesi e blocchi, tra i blocchi di Paesi.

 La transizione ecologica non sarà un gioco a somma zero per tutti.

È chiaro che, ad esempio, le ricchissime dinastie del Golfo saranno probabilmente tra i perdenti.

E quindi è chiaro che da un punto di vista politico ci siano forti pressioni per anche rallentare, modificare, insomma incidere su questo fenomeno storico.

E quindi, per concludere, credo che tutto questo da portare a riflettere, perché noi siamo in un momento storico in cui la crisi climatica ecologica dovrebbe indurre l’umanità intera a unirsi per trovare una soluzione alla crisi climatica.

 E in tutto questo una ripresa, un’accelerazione della militarizzazione del mondo è estremamente negativo, estremamente rischioso non solo per i rischi diretti dei conflitti, ma anche perché questo distrae enormi risorse, enormi capitali politici, economici, sociali dall’obiettivo comune e crea poi dei solchi, crea delle divisioni là dove invece bisognerebbe lavorare tutti insieme per trovare delle soluzioni.

 E quindi questa è, dal mio punto di vista, una riflessione e una preoccupazione principale che tutti dovremmo avere nel considerare appunto il problema dei rapporti delle relazioni tra attività militari, guerra e crisi climatica ed ecologica.

Vi ringrazio.

 

 

 

 

GREEN BOND: COMPRENDERE

LE OBBLIGAZIONE VERDI.

  Gsam.com - (13 Feb. 2023) – Bram Boss – Goldman Sachs – ci dice:

 

I green bond sono strumenti di debito che finanziano progetti con benefici per l’ambiente.

Il mercato dei green bond è uno dei segmenti più dinamici e in più rapida crescita nel reddito fisso.

I green bond offrono una potenziale opportunità per ogni investitore obbligazionario.

Il mercato dei green bond o “obbligazioni verdi”, è uno dei segmenti a più rapida crescita e più dinamici del settore obbligazionario.

Negli ultimi cinque anni, i green bond hanno attraversato un’importante trasformazione che li ha portati a diventare da segmento impact di nicchia a potenziale opportunità per ogni investitore obbligazionario.

COSA SONO I GREEN BOND?

I green bond sono strumenti di debito che finanziano progetti con benefici per l’ambiente.

Gli emittenti possono essere società, governi o agenzie che si impegnano a utilizzare i proventi esclusivamente per finanziare progetti, asset o attività legati al clima o all’ambiente.

 È proprio questo impegno che distingue i green bond dalle obbligazioni tradizionali.

Le caratteristiche finanziarie dei green bond, come la struttura, il rischio e i rendimenti, sono simili a quelle delle obbligazioni tradizionali.

 La loro qualità creditizia varia da investment grade a non-investment grade, ma la maggior parte delle obbligazioni verdi corporate sono investment grade.

Il profilo di credito di un green bond è uguale a quello di un bond tradizionale dello stesso emittente e in termini di prezzo non ci sono differenze significative tra un’obbligazione verde e una che non lo è.

La liquidità degli emittenti di green bond varia a seconda dei settori e delle regioni, data la rapida crescita del mercato globale.

Quindi, nelle regioni in cui le opzioni di liquidità sono più limitate, gli investitori potrebbero trovare difficoltà nella vendita di questi strumenti.

I detentori di obbligazioni verdi hanno lo stesso diritto di rivalsa nei confronti dell’emittente.

In sostanza, si tratta di obbligazioni standard con una componente addizionale di carattere green.

 I green bond hanno scadenze a breve o a lungo termine e presentano vari tipi di cedole e rendimenti.

CHI DECIDE SE UN’OBBLIGAZIONE È VERDE?

Gli emittenti di green bond si definiscono “verdi” sulla base delle indicazioni delle autorità di regolamentazione, delle borse valori e delle associazioni di mercato.

Diverse organizzazioni hanno sviluppato standard ed etichette di sostenibilità per fornire maggiore trasparenza sulla qualità e sulle performance ambientali di un prodotto, processo o servizio.

 

Secondo l’”International Capital Market Association” (ICMA), l’uso di tali etichette come riferimento per valutare quanto un determinato investimento sia green è una prassi già presente da anni nel mercato delle obbligazioni verdi.

Gli emittenti spesso includono questi standard nei loro quadri di riferimento per garantire l’impiego dei proventi a fini ambientali.

Uno degli standard più utilizzati, i “Green Bond Principles” (principi relativi alle obbligazioni verdi), è stato pubblicato dall’ICMA nel 2014.

Una fonte di preoccupazione nel mercato delle obbligazioni verdi è il cosiddetto “greenwashing”, ovvero il rischio che gli obiettivi ambientali di un’obbligazione verde non vengano raggiunti o vengano sovrastimati.

 Gli investitori devono prestare particolare attenzione alla documentazione delle obbligazioni, al loro impatto ambientale (compreso il rispetto degli standard dei green bond) e alla strategia di sostenibilità di un emittente di obbligazioni.

COME VENGONO IMPIEGATI I PROVENTI?

I progetti finanziati con obbligazioni verdi sono finalizzati a produrre precisi benefici ambientali che possono essere valutati e, ove possibile, quantificati dall’emittente.

I Green Bond Principles contengono categorie di progetti di ampia portata, ma contribuiscono tutti a obiettivi ambientali come:

la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico, la conservazione delle risorse naturali e della biodiversità, e la prevenzione e il controllo dell’inquinamento.

In assenza di una definizione di progetti verdi specifica e accettata a livello globale, la maggior parte degli emittenti attualmente incarica revisori indipendenti affinché certifichino i loro programmi di investimento in obbligazioni verdi e/o le loro emissioni specifiche a beneficio degli investitori.

 I Green Bond Principles promuovono inoltre un elevato grado di trasparenza e raccomandano una revisione esterna per integrare il processo di valutazione e selezione dei progetti da parte dell’emittente.

L’UTILIZZO DEI PROVENTI SECONDO I GREEN BOND PRINCIPLES.

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Fonte: ICMA.

QUALI SONO GLI ESEMPI DI EMISSIONE DI OBBLIGAZIONI VERDI?

Nel 2007, la “Banca Europea per gli Investimenti,” l’entità finanziaria dell’Unione Europea, ha emesso la sua prima obbligazione verde, il “Climate Awareness Bond”.

Un anno dopo, anche “la Banca Mondiale” ha introdotto il suo primo green bond.

Queste due emissioni costituiscono il modello dell’attuale mercato delle obbligazioni verdi e il quadro di riferimento per la definizione dei progetti idonei al finanziamento con questi titoli.

Nel 2015,[1] la Banca Popolare Cinese ha pubblicato le proprie linee guida in materia di obbligazioni verdi per stimolarne l’emissione e la Cina è diventata uno dei più importanti mercati mondiali.

[1] Ad agosto 2022, la Cina ha pubblicato un nuovo quadro di riferimento per le obbligazioni verdi, i China Green Bond Principles, per allinearsi agli standard internazionali e uniformare i mercati cinesi dei green bond onshore.

 La Polonia ha emesso il suo primo green bond sovrano a dicembre 2016.

 Inoltre, nel 2017, diversi comuni statunitensi hanno varato emissioni considerevoli per finanziare progetti locali nel campo dei trasporti e delle risorse idriche.

La prima emissione di obbligazioni verdi del governo olandese, nel 2019, aveva come obiettivo il finanziamento di progetti volti ad aiutare il Paese ad adattarsi al cambiamento climatico.

Poiché gran parte dei Paesi Bassi, infatti, si trova al di sotto del livello del mare ed è quindi vulnerabile al cambiamento climatico, questi progetti riguardano il rafforzamento delle difese contro le inondazioni, il monitoraggio e la gestione dei livelli idrici, e l’ottimizzazione della distribuzione dell’acqua.

Esempi più recenti di progetti di green bond includono un’obbligazione ventennale da 5 miliardi di euro emessa dalla Spagna a settembre 2021 per promuovere il trasporto pulito.

Poiché i trasporti sono uno dei principali responsabili delle emissioni globali di gas serra, le obbligazioni verdi sono un modo utile per finanziare il processo di elettrificazione del settore.

A marzo 2022, è stato emesso un green bond ventennale da 1,75 miliardi di euro per sviluppare e finanziare il Grand Paris Express.

Il progetto riguarda una linea metropolitana di 200 chilometri che dovrebbe collegare la periferia di Parigi al centro della città, per rispondere alla crescente esigenza di una mobilità sostenibile.

 Questo progetto è una componente fondamentale dell’obiettivo di rendere Parigi una città a zero emissioni di carbonio e completamente alimentata da energie rinnovabili entro il 2050.

Infine, la Germania ha emesso una nuova offerta di obbligazioni verdi ad agosto 2022 per 5 miliardi di euro, con scadenza a 5 anni.

I proventi netti finanzieranno spese ecosostenibili come progetti di trasporto pulito, energia rinnovabile, agricoltura e silvicoltura sostenibili.

CONCLUSIONE

Riteniamo che le obbligazioni verdi saranno uno strumento sempre più importante per finanziare gli investimenti necessari ad accelerare la transizione energetica e a costruire un’economia sostenibile.

 Inoltre, con la crescita e la progressiva diversificazione dell’universo dei green bond, riteniamo che questi titoli diventeranno una componente fondamentale delle allocazioni nel comparto obbligazionario, poiché offrono agli investitori l’opportunità di produrre un impatto positivo sull’ambiente, generando al contempo rendimenti potenziali simili a quelli delle obbligazioni tradizionali.

(Bram Bos)

 

 

 

 

GREEN BOND: COME SI INSERISCONO

IN UN PORTAFOGLIO OBBLIGAZIONARIO.

Gsam.com - (20 Feb. 2023) – Bran Bos – ci dice:

Un tempo considerate un prodotto di nicchia, le obbligazioni “verdi” che finanziano progetti con un impatto ambientale positivo figurano ormai fra le principali asset class.

Le loro caratteristiche finanziarie, come la struttura dei prestiti, il profilo di rischio e i rendimenti storici, sono simili a quelle dei loro equivalenti non verdi.

Crediamo che la continua enfasi posta dagli emittenti obbligazionari sulla lotta e sull’adattamento ai cambiamenti climatici crei un solido potenziale di crescita per il mercato dei green bond.

Finanziare la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio (CO2) è oggi più importante che mai, dato l’impatto che i cambiamenti climatici continuano ad avere sulle economie, sulle imprese e sulle comunità a livello globale.

 La guerra in Ucraina ha causato un’impennata dei prezzi energetici, motivando ulteriormente i paesi europei a ridurre la loro dipendenza dagli approvvigionamenti di petrolio e gas russi.

 Per finanziare la decarbonizzazione nei diversi settori occorreranno soluzioni innovative, il cui sviluppo richiederà ingenti quantità di capitale.

In questa spinta verso un futuro più sostenibile, i mercati obbligazionari globali hanno il potenziale per diventare un’importante fonte di investimenti.

 Tuttavia, sino a poco tempo fa, gli investitori obbligazionari che miravano a investire nella transizione climatica e a ridurre l’impronta di carbonio dei loro portafogli – senza sacrificare liquidità e rendimenti – disponevano di poche opzioni interessanti.

La continua crescita delle emissioni di green bond sta cambiando le cose.

Un tempo considerate un prodotto di nicchia, le obbligazioni “verdi” che finanziano progetti con un impatto ambientale positivo figurano ormai fra le principali asset class.

Il mercato dei green bond registra una continua espansione, con una crescita media di circa il 90% all’anno nel periodo dal 2016 al 2021.

 Grazie a questa rapida crescita e all’ampliamento della gamma di fondi di investimento che offrono un’esposizione alle emissioni green, per gli investitori è oggi più facile inserire questi titoli nelle proprie allocazioni obbligazionarie.

OBBLIGAZIONI TRADIZIONALI CON UN OBIETTIVO GREEN.

Per alcuni aspetti, i green bond sembreranno familiari a chi investe in obbligazioni tradizionali.

 Le loro caratteristiche finanziarie, come la struttura dei prestiti, il profilo di rischio e i rendimenti storici, sono simili a quelle dei loro equivalenti non verdi.

La gamma di scadenze e profili creditizi è vasta, e i detentori di green bond hanno gli stessi diritti nei confronti degli emittenti.

 

La differenza principale è che l’obiettivo dei green bond è finanziare esclusivamente progetti e attività focalizzati sui cambiamenti climatici, come le energie rinnovabili, i trasporti puliti, la gestione sostenibile delle risorse idriche e l’efficienza energetica.

Le obbligazioni green mirano a generare un impatto ambientale positivo e misurabile, e ciò le rende uno strumento efficace per finanziare la transizione climatica.

Ora che i green bond sono diventati un segmento consolidato del mercato obbligazionario, un’allocazione a questi titoli rappresenta un’opzione sempre più fattibile per gli investitori.

 La base di emittenti di obbligazioni green ha continuato ad ampliarsi, con una crescente diversificazione a livello sia settoriale che geografico.

I titoli possono essere negoziati sul mercato secondario e il mercato delle nuove emissioni dovrebbe ritrovare un trend di forte espansione nel 2023, dopo un 2022 difficile per i mercati obbligazionari in generale.

UNA PERFORMANCE STORICA SIMILE A QUELLA DELLE OBBLIGAZIONI TRADIZIONALI.

L’obiettivo primario di qualsiasi investimento obbligazionario consiste nel massimizzare il rendimento corretto per il rischio, e i green bond non fanno eccezione.

 La nostra analisi dimostra che, a livello di mercato, gli investitori in titoli green possono aspettarsi rendimenti corretti per il rischio simili a quelli degli omologhi tradizionali.

 Nei sei anni dal 2016 al 2021, i green bond denominati in euro a livello aggregato hanno sovraperformato i loro equivalenti non verdi di 52 punti base (su base annualizzata).

Nel 2022, i green bond hanno segnato il passo rispetto alle obbligazioni tradizionali per due ragioni principali legate ad alcune peculiarità degli indici, che gli investitori dovrebbero conoscere.

 Innanzitutto, il benchmark aggregato delle obbligazioni green (Bloomberg MSCI Euro Green Bond Total Return Index) ha una duration più lunga di un anno rispetto al suo equivalente non verde (Bloomberg Euro Agg Total Return Index), principalmente per il fatto che gli emittenti sovrani come l’Unione Europea hanno emesso bond nel segmento a lungo termine della curva quando i tassi di interessi erano più bassi.

 Questo rende il benchmark dei green bond più sensibile ai rialzi aggressivi dei tassi attuati da molte banche centrali nel tentativo di contrastare l’inflazione.

 

In secondo luogo, il benchmark delle obbligazioni societarie green (Bloomberg MSCI Global Green Bond Corporate 5% Issuer Cap Index), pur avendo complessivamente la stessa qualità creditizia del suo omologo non verde (Bloomberg Global Agg Corporate Total Return Index), è lievemente orientato verso le emissioni con rating BBB, nella fascia più bassa del range investment grade, e comprende un maggior numero di REIT, che nel 2022 hanno sottoperformato il mercato.

 Inoltre, il benchmark dei green bond di emittenti corporate non include comprensibilmente le società del settore petrolifero e del gas, che nel 2022 hanno messo a segno performance particolarmente brillanti grazie all’impennata dei prezzi energetici.

PECULIARITÀ DEL MERCATO DEI GREEN BOND.

Oltre a un benchmark con una duration più lunga e lievemente orientato verso gli emittenti con rating BBB, questo mercato presenta anche alcune differenze strutturali.

La prima è il peso delle diverse valute nel mercato.

Il mercato globale dei titoli di debito è dominato dal dollaro USA.

Circa il 45% delle obbligazioni in circolazione è in dollari, seguito dalle emissioni denominate in euro (21%).

Per contro, nel mercato dei green bond, la predominanza delle obbligazioni in euro è persino superiore a quella delle emissioni in dollari nell’ambito del mercato complessivo.

Le obbligazioni in euro rappresentano infatti circa il 66% dei titoli green in circolazione, mentre quelle in dollari sono solo il 20%, anche se in crescita.

Inoltre, è opportuno ricordare che la composizione del mercato dei green bond societari differisce sensibilmente da quella del suo equivalente non verde.

I principali emittenti del mercato obbligazionario più ampio sono le società industriali, le cui obbligazioni rappresentano circa il 52% del totale, seguite dai bond del settore finanziario (quasi il 40%) e dei servizi di pubblica utilità (poco più dell’8%).

 Sul mercato dei green bond, gli istituti finanziari sono la categoria di emittenti più importante con il 61% delle obbligazioni in circolazione, seguiti dalle utility a quasi il 28% e dagli emittenti industriali, al terzo posto con l’11%.

Queste differenze strutturali possono incidere sulla performance a livello di indice in vari momenti del ciclo economico.

 Ad esempio, il maggior peso delle utility nel benchmark dei green bond può imprimere slancio alla performance dell’indice in presenza di condizioni di mercato simili a quelle osservate nel 2022, poiché si tratta di titoli non ciclici che spesso sovraperformano nelle fasi di rallentamento della crescita economica.

Per contro, nei periodi di solida espansione economica questi titoli potrebbero frenare la performance.

SOSTENERE LA TRANSIZIONE CLIMATICA.

Oltre a un profilo di rischio e rendimento competitivo rispetto alle obbligazioni tradizionali e a un mercato liquido oggi ben diversificato in termini sia settoriali che geografici, i green bond offrono all’investitore il vantaggio aggiuntivo di finanziare progetti sostenibili.

 Acquistando obbligazioni verdi, gli investitori possono contribuire potenzialmente al raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatic] e degli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, SDG) delle Nazioni Unite.

 

Gli emittenti tendono sempre più spesso ad allineare i loro titoli a queste iniziative globali per il clima, mentre i gestori patrimoniali che offrono un’esposizione al mercato dei green bond utilizzano gli obiettivi degli SDG e dell’Accordo di Parigi come criteri di selezione dei potenziali investimenti e per dimostrarne il possibile impatto sui portafogli dei clienti.

Nondimeno, per gli investitori può essere difficile comprendere pienamente l’impatto ambientale positivo che i green bond potrebbero avere a livello di portafoglio.

 Ad esempio, il mercato ha adottato poche linee guida in tema di misurazione dell’impatto ambientale, probabilmente in ragione della varietà di impieghi dei proventi.

La scelta di un gestore specializzato in green bond con rigorosi criteri di selezione, una rendicontazione dettagliata e una solida gestione del rischio può aiutare gli investitori a limitare il rischio di ribasso e scoprire opportunità con rendimenti potenzialmente interessanti.

Inoltre, la sostituzione di parte delle obbligazioni tradizionali in portafoglio con green bond con una qualità creditizia e una duration simili offre potenzialmente una gamma di ulteriori vantaggi.

Le emissioni green possono finanziare asset come gli edifici sostenibili, che possono comportare un rischio di credito inferiore nel tempo.

Inoltre, possono contribuire a mitigare i rischi del portafoglio legati ai cambiamenti climatici e derivanti da cambiamenti delle politiche, come la tassazione del carbonio(CO2).

 

L’IMPATTO AMBIENTALE POSITIVO HA UN COSTO?

Una questione molto dibattuta tra gli investitori è l’esistenza di un “greenium”, o premio green, implicando che la scelta di supportare tematiche ambientali investendo in obbligazioni verdi vada a scapito della performance finanziaria.

L’idea è che un green bond con le stesse caratteristiche finanziarie (come rating e scadenza) di un’obbligazione tradizionale possa offrire livelli di spread inferiori rispetto al suo equivalente non verde.

 Di conseguenza, la detenzione di questi titoli fino alla scadenza potrebbe generare un rendimento inferiore.

In teoria, non vi è alcun motivo per cui la natura green di un’obbligazione debba incidere sul suo prezzo.

Sebbene l’emissione di green bond comporti alcune spese aggiuntive legate alla revisione e alla certificazione da parte di terzi, questi costi sono diminuiti nel tempo.

Un elemento del mercato dei green bond che ha sostenuto il greenium è la combinazione tra la forte domanda di obbligazioni verdi da parte degli investitori e un’offerta relativamente limitata.

Con l’aumento delle emissioni, gli investitori potrebbero essere sempre meno disposti a pagare un prezzo più alto per le obbligazioni verdi.

Un rapporto pubblicato nel 2021 dall’Association for Financial Markets in Europe (AFME) ha stimato che i premi sulle emissioni societarie green si sono “significativamente ridotti”, scendendo sostanzialmente a zero punti base. Sebbene ci siano prove della sussistenza di un greenium in alcuni settori meno sviluppati del mercato delle obbligazioni verdi, nel mercato più ampio questo premio si è ridotto notevolmente negli ultimi anni.

La transizione verso un’economia mondiale a basse emissioni di carbonio (CO2) è un processo complesso.

In futuro una delle sfide fondamentali sarà quella di finanziare gli ingenti investimenti richiesti per sostenere lo sviluppo di tutto ciò che servirà in questo processo, dalle infrastrutture verdi alle tecnologie all’avanguardia che permetteranno di azzerare le emissioni nette entro il 2050 e frenare il riscaldamento globale.

Crediamo che la continua enfasi posta dagli emittenti obbligazionari sulla lotta e sull’adattamento ai cambiamenti climatici crei un solido potenziale di crescita per il mercato dei green bond, e che tale crescita si rifletta in un ampliamento della gamma di opportunità per gli investitori.

 

 

 

La necessità di garantire un ambiente

sano per un’economia sostenibile

e una società equa.

Eea.europa.eu – (11-5-2021) - Hans Bruyninckx – ci dice:

 

Il nostro pianeta sta affrontando sfide senza precedenti in termini di clima e ambiente che, nel loro insieme, costituiscono una minaccia per il nostro benessere.

Tuttavia, siamo ancora in tempo per adottare misure decisive.

Il compito da svolgere può apparire arduo, ma possiamo ancora invertire alcune tendenze negative, adattarci per ridurre al minimo i danni, ripristinare ecosistemi cruciali e meglio proteggere ciò che abbiamo.

Per conseguire la sostenibilità a lungo termine dobbiamo considerare l’ambiente, il clima, l’economia e la società come parti inscindibili della stessa entità.

I cambiamenti hanno costituito una caratteristica costante del nostro pianeta, interessando le terre emerse, gli oceani, l’atmosfera, il clima e la vita sulla terra.

Gli attuali cambiamenti si distinguono da quelli passati per cause e fattori determinanti, nonché per ritmi e portata senza precedenti.

Eventi estremi quali tempeste, ondate di calore, inondazioni e siccità, che si verificavano una volta ogni cento anni, sono divenuti la nostra nuova realtà.

I titoli di stampa di tutto il mondo alludono a una crisi climatica e ambientale tale da incidere sul futuro delle nostre specie.

Il clima globale sta cambiando ad opera dell’uomo.

A prescindere dall’espressione che scegliamo di usare - «la nostra nuova realtà» o «crisi molteplici» - i fatti parlano chiaro.

 Il clima globale sta cambiando ad opera dell’uomo.

La dipendenza delle nostre economie dai combustibili fossili, le pratiche di uso del suolo e la deforestazione globale stanno aumentando le concentrazioni di gas a effetto serra nell’atmosfera che, a loro volta, determinano un cambiamento globale del clima.

Inoltre emerge con chiarezza che i cambiamenti climatici stanno interessando tutti e ogni angolo del pianeta, compresa l’Europa.

Alcune popolazioni potrebbero essere colpite da vasti fenomeni di ondate di calore e siccità, mentre altre da tempeste più gravi e frequenti.

 I cambiamenti climatici hanno un impatto su persone, natura ed economia.

La perdita di biodiversità a un ritmo senza precedenti.

La scienza sostiene fermamente che la vita sulla terra sta registrando una perdita di diversità a un ritmo insostenibile.

Ogni anno, molte specie si estinguono a causa del continuo inquinamento, frammentazione e distruzione dei loro habitat.

Il diffuso utilizzo di pesticidi ha comportato una drastica riduzione di alcune specie, come api e farfalle, impollinatori fondamentali per il nostro benessere.

 Gli inquinanti prodotti dalle attività economiche si accumulano nell’ambiente, riducendo la capacità degli ecosistemi di rigenerarsi e fornirci servizi vitali.

 Il degrado ambientale non colpisce solo piante e animali, ma anche le persone.

L’insostenibilità dei sistemi di consumo e produzione.

Il XXI secolo è stato altresì segnato dalla crisi economica e finanziaria.

Numerose ricerche confermano che i nostri sistemi di consumo e produzione sono semplicemente insostenibili.

 Il modello economico lineare, che trasformando le materie prime in prodotti che vengono utilizzati, consumati e poi eliminati, non solo determina un aumento di inquinamento e di produzione di rifiuti, ma anche una concorrenza globale per le risorse naturali.

 Le reti globali possono diffondersi più di materiali, prodotti e inquinanti:

partendo dal settore finanziario in un determinato paese, una crisi può estendersi in tutto il mondo, causando altresì stagnazioni e contrazioni economiche per anni.

Per di più è chiaro che i vantaggi della crescita economica non sono suddivisi in modo equo a livello globale.

I livelli di reddito variano notevolmente tra e all’interno dei vari paesi, regioni e città.

Anche in Europa, dove il tenore di vita supera di gran lunga la media mondiale, esistono comunità e gruppi di persone che vivono con redditi inferiori alla soglia di povertà.

Purtroppo, alcune di queste comunità e persone sono anche più vulnerabili ai rischi ambientali.

Per esse, infatti, le probabilità di vivere in aree più esposte all’inquinamento atmosferico e alle inondazioni, nonché di vivere in case dotate di un isolamento insufficiente a proteggerle da temperature estreme, sono maggiori.

 Le comunità che usufruiscono dei vantaggi non sono necessariamente quelli che sostengono i costi.

Se le tendenze attuali dovessero continuare, indipendentemente dal paese e dal livello di reddito, le generazioni future si troveranno a dover affrontare una situazione caratterizzata da temperature ed eventi meteorologici più estremi, riduzione della biodiversità, maggiore scarsità di risorse e più elevati livelli di inquinamento.

In quest’ottica non sorprende il fatto che migliaia di giovani europei stiano manifestando per le strade, esortando i responsabili politici ad adottare provvedimenti più ambiziosi ed efficaci volti a mitigare i cambiamenti climatici.

La possibilità di creare un futuro diverso.

Negli ultimi 40 anni l’Europa ha attuato politiche intese ad affrontare problemi specifici, quali l’inquinamento atmosferico e idrico, raggiungendo talvolta notevoli risultati:

 i cittadini europei possono beneficiare di aria e acque di balneazione più pulite;

 si ricicla una maggiore quantità di rifiuti urbani;

 il numero di aree terrestri e marine protette mostra un continuo incremento;

i livelli di emissioni di gas a effetto serra nell’Unione europea risultano ridotti rispetto a quelli del 1990;

sono stati investiti miliardi di euro a favore di città più vivibili e mobilità sostenibile;

 l’energia generata da fonti rinnovabili è aumentata in modo esponenziale, ecc.

Ora anche le nostre conoscenze e la nostra comprensione dell’ambiente si sono ampliate, sottolineando il fatto che le persone, l’ambiente e l’economia formano tutti parte dello stesso sistema.

Sin dalla sua istituzione, avvenuta 25 anni fa, l’Agenzia Europea dell’Ambiente cerca di correlare e sviluppare questi ambiti di conoscenza allo scopo di migliorare la nostra comprensione sistemica.

 Le persone non possono vivere bene se l’ambiente e l’economia versano in cattive condizioni.

Le tensioni sociali continueranno ad essere alimentate dalla disparità nella ripartizione dei benefici, quali ricchezza economica e aria più pulita, e dei costi, che includono l’inquinamento e una perdita della resa dovuta alla siccità.

Si tratta di fatti difficili da accettare.

Allo stesso tempo, può risultare difficile modificare le abitudini e le preferenze dei consumatori nonché le strutture di governance ben consolidate.

Eppure, malgrado l’entità del compito che ci attende, è ancora possibile costruire un futuro sostenibile.

Ciò implica un’interruzione delle pratiche attuali quali, ad esempio, il taglio delle sovvenzioni dannose per l’ambiente, l’eliminazione graduale e il divieto di tecnologie inquinanti, favorendo allo stesso tempo alternative sostenibili e supportando le comunità colpite dal cambiamento.

Un’economia circolare a zero emissioni di carbonio (CO2) può ridurre l’impatto sul nostro capitale naturale limitando inoltre l’aumento delle temperature globali.

Cambiando rotta saremo costretti a modificare anche le nostre abitudini e i nostri comportamenti, come le nostre modalità di spostamento e le abitudini alimentari.

Le conoscenze necessarie per guidare il passaggio verso una sostenibilità a lungo termine esistono. In aggiunta è possibile contare su un crescente sostegno pubblico per realizzare il cambiamento che ora, da parte nostra, richiede assunzione di responsabilità e procedure accelerate.

(Hans Bruyninckx - Direttore esecutivo dell’AEA).

 

 

 

Draghi: «Kiev deve vincere la guerra

o per l’Ue sarà un colpo fatale».

Ilsole24ore.com - Marco Valsania – Draghi – (8 giugno 2023) – ci dicono:

(Miriam Pozen Prize 2023)

 

Nel suo discorso al MIT delinea le sfide di un mondo passato da competizione a conflitto.

E il ruolo da ridefinire dell’Unione Europea.

Ucraina: Draghi, Kiev deve vincere o per l’Ue sarà fatale.

Ucraina e inflazione.

Mario Draghi, nel ricevere il Miriam Pozen Prize al MIT, dove aveva studiato, per la sua leadership in politica finanziaria internazionale, dà lezione di geopolitica ed economia, affrontando due drammi interconnessi che, dice, hanno colto di sorpreso i policymaker.

Frutto di ciò che descrive come un passaggio epocale, sul palcoscenico globale, dalla competizione al conflitto.

E che promettono di continuare a influenzare il futuro, imponendo pedaggi all'economia e oltre.

 

Il discorso di Mario Draghi.

In un ampio e articolato intervento, Draghi si è concentrato su due eventi che, assieme alle tensioni crescenti con la Cina, «hanno dominato le relazioni internazionali e l’economia globale nell’ultimo anno e mezzo: la guerra in Ucraina e il ritorno dell’inflazione».

E ha cominciato con una diagnosi delle debolezze che spiegano questo presente: «Supponevamo che le istituzioni che avevamo costruito, insieme ai legami economici e commerciali, sarebbero state sufficienti per prevenire una nuova guerra di aggressione in Europa.

 E credevamo che le banche centrali indipendenti avessero padroneggiato la capacità di limitare le aspettative di inflazione, al punto da temere una stagnazione secolare».

Non è stato così.

Le sfide aperte «sono piuttosto una conseguenza di un cambiamento di paradigma che negli ultimi 25 anni ha visto la geopolitica globale slittare dalla competizione al conflitto».

 Un paradigma che «potrebbe portare a tassi di crescita potenziale più bassi e richiederebbe politiche che portino a deficit di bilancio e tassi di interesse più elevati».

La visione ottimistica della globalizzazione degli anni Novanta, che avrebbe portato alla diffusione di valori liberali e democratici, si è rivelata fallace, come dimostrato sia dalla Cina, che non è diventata un'economia di mercato nonostante l'inclusione nell'Organizzazione mondiale del Commercio, che dalla Russia, protagonista ora dell’invasione dell’Ucraina con una guerra d'aggressione.

 E Draghi ha sottolineato in particolare il significato della nuova realtà per la Ue.

Minacciati i valori europei.

«I valori esistenziali dell’Unione europea sono la pace, la libertà e il rispetto della sovranità democratica ed è per questo che non c’è alternativa per gli Stati Uniti, l’Europa e i loro alleati ad assicurare che l’Ucraina vinca questa guerra».

Solo «un cambiamento di politica interna a Mosca» vedrebbe la Russia abbandonare i suoi obiettivi, «ma non vi è alcun segno che un tale cambiamento si verificherà».

Draghi vede «conseguenze geopolitiche di un conflitto prolungato al confine orientale dell’Europa».

Le elenca, invitando a prepararsi al meglio.

«In primo luogo, l’Ue deve essere disposta a rafforzare le proprie capacità di difesa.

 Questo è essenziale per aiutare l’Ucraina per tutto il tempo necessario e per fornire una deterrenza significativa contro la Russia».

Poi «dobbiamo essere pronti a iniziare un viaggio con l’Ucraina che porti alla sua adesione alla Nato».

Infine, «dobbiamo prepararci a un periodo prolungato in cui l’economia globale si comporterà in modo molto diverso dal recente passato».

È qui che «cambiamenti geopolitici e dinamiche dell’inflazione si intersecano».

 La guerra in Ucraina «ha contribuito all’aumento delle pressioni inflazionistiche a breve termine, ma è anche probabile che inneschi cambiamenti duraturi che preannunciano un aumento dell’inflazione in futuro».

L’inflazione «si sta dimostrando più resiliente di quanto inizialmente ipotizzato dalle banche centrali».

E la lotta per domarla «non è finita e richiederà probabilmente una cauta continuazione della stretta monetaria».

Rischio deficit di bilancio più elevati per gli Stati.

Draghi prevede anche che «i governi registrino deficit di bilancio permanentemente più elevati» in nome di un ventaglio di questioni da affrontare: dalla crisi climatica, alla necessità di puntellare le nostre catene critiche di approvvigionamenti, alla difesa, soprattutto nell’Ue.

Queste «richiederanno investimenti pubblici sostanziali che non possono essere finanziati solo attraverso aumenti delle imposte».

E un impatto da simili impegni ci sarà anche sul carovita:

«Questi livelli più elevati di spesa pubblica eserciteranno ulteriore pressione sull’inflazione, accanto ad altri possibili shock».

È quindi probabile «nel lungo periodo che i tassi di interesse siano più elevati rispetto al passato decennio», in una fase che vedrà un «volatile cocktail» composto di bassa crescita potenziale, più elevati tassi e elevati livelli di debito post pandemico.

Spetterà tuttavia anzitutto ai governi «ridisegnare» le politiche fiscali nella nuova situazione, tenendo conto di uno «spazio fiscale che non è infinito» come parso in precedenza.

La composizione della politica fiscale sarà elemento cruciale:

l'obiettivo dovrebbe essere alzare la crescita potenziale e allo stesso tempo proteggere e includere chi ha più bisogno di aiuto.

Un interrogativo è rappresentato da radicali innovazioni, quali l’Ai, se dovessero «scuotere il mondo e alzare la crescita globale».

La Ue in tutto questo dovrà fare i conti con «sfide sovranazionali senza precedenti».

 Il suo modello sociale, con la sua rete di welfare, ha ad oggi protetto i più vulnerabili meglio che altrove dalle conseguenze più dannose della globalizzazione e le sue istituzioni e regole robuste hanno meglio contrastato gli effetti collaterali del libero mercato.

 Ma l’Unione non era «disegnata per trasformare il suo peso economico in potere militare e diplomatico».

La risposta alla Russia è così uno «spartiacque».

Ha dimostrato come non mai «l'unità della Ue nel difendere i suoi valori fondanti», al di là delle priorità nazionali.

Una simile unità sarà essenziale negli anni a venire, per ridisegnare l'Unione al fine di accomodare l'Ucraina, i paesi dei Balcani e dell'Europa Orientale, per organizzare un «sistema di difesa europeo complementare e capace di rafforzare la Nato».

 E per gestire sfide collettive del calibro della transizione climatica e della sicurezza energetica.

Draghi si è recato negli Stati Uniti per essere insignito del Miriam Pozen Prize 2023, motivato dal suo ruolo di protagonista in politica finanziaria internazionale.

 Il premio, gestito dall'MIT Golub Center for Finance and Policy, gli è stato conferito durante una cerimonia presso il Samberg Conference Center a Cambridge in Massachusetts.

 È diventato il secondo vincitore del riconoscimento, dopo “Stanley Fischer”.

Nel ricordare la carriera di Draghi, lo MIT GCFP ha sottolineato il suo ruolo di Presidente della Banca centrale europea, di “Chair del Financial stability board”, di governatore della Banca d'Italia fino a quello di Primo ministro del Paese.

Draghi ha ricevuto un PhD in economia dall'Mit nel 1977, sotto “Franco Modigliani” e “Robert Solow”.

Il Miriam Pozen Prize.

Il Miriam Pozen Prize, più in dettaglio, «riconosce l'eccellenza nella ricerca o nella pratica della politica finanziaria».

Quando il premio fu annunciato, a marzo, Draghi fece sapere che «da studente all'MIT negli anni Settanta non avrei immaginato la carriera che la mia educazione avrebbe aiutato a lanciare.

Spero che questo premio ispiri una nuova generazione di economisti ad entrare nell'arena della politica».

“Robert Pozen”, che ha istituito il premio in nome di sua madre, aveva per l'occasione affermato che Draghi «combina l'intuizione di un praticante accademico con la determinazione di applicare le sue convinzioni al policymaking».

È, ha aggiunto, «un modello per l'integrazione della teoria e pratica finanziaria che il Premio intende incoraggiare».

 

 

 

Il politicamente corretto.

Ragionipolitiche.wordpress.com – Redazione – (3-7-2020) – ci dice:

 

Il linguaggio politicamente corretto vuol essere soccorrevole verso gli oppressi, raddrizzatore di torti, riequilibratore della bilancia della giustizia.

Ciò che è stato stigmatizzato va riabilitato attraverso una ridefinizione rispettosa. E ciò che ha prevalso va ridimensionato.

Quel linguaggio è un universale artificiale, una neolingua, esperanto, costruito per permettere a ogni particolare di sussistere e di nominarsi, ed essere nominato, in libertà e con uguali diritti.

 Un linguaggio privo di passione e di violenza, capace di sterilizzare ogni differenza nella universale indifferenza.

Uno vale uno, insomma.

Ma questi fini e questi mezzi contengono una contraddizione:

 il linguaggio politicamente corretto è pacifico e al tempo stesso aggressivo, vendicativo, intollerante:

 l’uguaglianza amorfa a cui tende è carica di unilaterale violenza.

 La sua logica normale è quella eccezionale del giudizio universale:

“nihil inultum remanebit”.

Tutti i torti vanno conosciuti, puniti e riparati.

 La colpa, l’accusa, è l’orizzonte entro il quale si colloca il politicamente corretto.

Che è politico:

è un atto di decisione fondamentale che critica il passato e lo spazza via.

È un universale immediato, e quindi è un particolare ingigantito.

 È l’espressione di una parte che si fa Tutto, che pretende di giudicare ergendo sé stessa a Legge.

 È un dominio, un punto di vista elevato a potenza, che non ne ammette né legittima altri.

Ma non sempre ne è consapevole.

 Il contenuto politico del politicamente corretto è quasi sempre mascherato, e declinato attraverso la morale: l’obiettivo politico è giudicare con moralità assoluta, apodittica, sottratta al tempo e allo spazio.

La neolingua non conosce la storia, la nega, e attraverso l’anacronismo tende all’acronia.

Si pagano colpe che non erano tali quando furono commesse;

 i discendenti rispondono oltre la settima generazione.

La purga linguistico-politico-morale deve essere radicale.

Il politicamente corretto ha molti tratti in comune con il razionalismo individualistico moderno:

 condivide con Hobbes l’impulso antistorico, la tesi che «all’antichità nulla sia dovuto», e col giacobinismo il parossismo livellatore che per colpire i sospetti si fa tagliatore di teste.

Condivide l’intreccio fra morale e ragione, fra neutralizzazione spoliticizzante e supremo spasmo politico della sovranità, che monopolizza la ragione per sé e nega ogni ragione a chi è fuori dal suo perimetro – e viene quindi privato di ogni valore, di ogni dignità, gettato fra i reprobi.

E quindi non è antimoderno, come pure qualcuno ha detto:

anzi, il Moderno vi esprime il proprio assolutismo, la propria efficace astrattezza.

Un Moderno ignaro della dialettica, della storia, inconsapevole del fatto che le individualità non nascono già fatte e finite ma sono l’esito di lotte e di contraddizioni, che le soggettività, le società, le istituzioni, i simboli, i linguaggi, recano in sé come propria viva sostanza, come propria drammatica concretezza.

Perse o cancellate le quali l’umana convivenza è un algoritmo che combina monadi irrelate senza passato e senza futuro.

 Nel politicamente corretto la severa ideologia liberal che ne fa la propria bandiera si mostra parente dell’euforica ideologia del neoliberismo, della sua visione della società come un giustapporsi di attori individuali, che abitano un eterno presente.

Ciò che si dice del politicamente corretto sotto il profilo linguistico in senso stretto – la polizia e la pulizia del linguaggio – vale anche per quei linguaggi materiali che sono i monumenti e le architetture, attraverso i quali lo spazio pubblico viene scritto e riscritto nei secoli.

La lotta per l’immagine e il simbolo, o contro di essi, è vecchia come l’umanità:

 non c’è da scandalizzarsi se avviene sotto il segno della politica, poiché ne fa parte.

Si tratta ogni volta di decidere chi è meritevole di rappresentazione e chi no, perché è troppo superiore o troppo inferiore.

Ma è lecito, appunto, leggere quella lotta politicamente, e rifiutarle la patente morale che si autoassegna.

Così, se è comprensibile che non si erigano monumenti a Hitler, ma semmai alle sue vittime, è assurdo che si sia pensato di abbattere la statua di Churchill perché razzista;

 il suo spirito di dominio imperiale, venato di superiorità dell’uomo bianco, è stato vinto dai processi materiali della storia reale;

mentre ciò che conta è che quell’istinto lo ha spinto a capire che il nazismo era un nemico mortale, con cui non si poteva scendere a patti.

E se nel Nord America si abbattono le statue di Colombo ciò significa che gli eredi dei colonizzatori anglosassoni delegittimano il dominio ispanico (veramente distruttivo)?

 Oppure in quelle statue abbattute è da leggersi una confessione della colpa originaria di tutti gli europei per avere scoperto l’America, espropriando i nativi (al Nord, al Centro, al Sud)?

E dopo l’autoflagellazione dell’uomo bianco quale riparazione è prevista?

La restituzione ai nativi del banale Monte Rushmore o della più impegnativa isola di Manhattan?

Oppure l’abbattimento della statua salva la coscienza, lava la colpa, e mentre afferma un dominio linguistico liberal mantiene immodificato il dominio economico liberista?

 E in quest’ultima ipotesi il politicamente corretto non corre forse il rischio di ridursi a un intimidatorio gioco di potere linguistico fra élites, e di far perdere di vista questioni strutturali che la sua fiaccola illuministica lascia in un cono d’ombra?

È quindi giusto elogiare il dialogo, la divergenza d’opinioni, la tolleranza reciproca: è il minimo che si possa chiedere in una società che si dice liberale.

Ma non con l’obiettivo di neutralizzare il politicamente corretto in una più generale amorfa indifferenza;

 non si tratta di ri-legittimare ogni violenza e ogni discriminazione, né di utilizzare l’ingiustizia del passato per giustificare quelle del presente.

Si tratta anzi di decifrare queste nella loro radicalità, e di impegnarsi – questo è il punto – a darne una lettura non moralistica ma storico-politica.

Di riconoscere la complessità della politica non per farne un alibi all’ignavia, ma per vedervi l’occasione di un agire emancipativo meno scontato del politicamente corretto e delle sue ritualità.

 

 

 

 

Il problema del nostro Paese

 è che viviamo in un’egemonia

intellettuale neoliberista.

Intervista con “Annamaria Iantaffi”.

 

Ragionipolitiche.wordpress.com – Redazione – (2 giugno 2020) – ci dice:

 

Presidente, il 2 giugno 2020, dati gli eventi degli ultimi mesi, è una ricorrenza unica nella storia della Repubblica. Lei come percepisce oggi il rapporto dei cittadini con le istituzioni Repubblicane?

Mi sembra che il rapporto abbia preso una doppia piega.

È abbastanza tipico durante le emergenze che i cittadini guardino alle istituzioni, perché sentono il bisogno di essere garantiti.

Sicuramente anche il tasso piuttosto alto di popolarità del Presidente del Consiglio dimostra che l’emergenza ha suscitato un forte bisogno di istituzioni.

E questa non è una novità:

in Italia buona parte dell’antipolitica e della critica delle istituzioni nasce in realtà dal bisogno delle istituzioni, dall’idea che le istituzioni siano inadeguate.

D’altro canto c’è una discreta probabilità che nel momento in cui si attenuasse l’emergenza sanitaria e si presentassero le sue conseguenze economiche, il rapporto con le istituzioni tornerebbe ad essere conflittuale e che queste verrebbero sempre più interpretate come ostili.

Le chiedo di proiettarsi invece al prossimo autunno, quando si potrebbe presentare una seconda ondata pandemica a causa delle mutate condizioni climatiche.

Secondo lei c’è il rischio di disordini sociali?

 

Molto dipenderà da come i bisogni economici di una discreta parte della popolazione siano o non siano stati soddisfatti.

Se ci fossero gravi momenti di sofferenza economica, fino alla disperazione per certe categorie, e se intervenisse un secondo lockdown, francamente la situazione sarebbe davvero critica.

 C’è da augurarsi che nessuna delle due ipotesi si avveri, cioè che non sia automatico l’avvento di una seconda ondata della pandemia e che le situazioni di sofferenza dell’economia, e soprattutto di certe categorie, possano essere in un qualche modo sanate.

I bambini, anche mossi dai genitori, prima scrivevano ovunque “andrà tutto bene”. Ora l’EU stanzia 750 miliardi, anche se non tutti sono a fondo perduto.

 È andato tutto bene?

L’EU non stanzia 750 miliardi.

L’Europa deve prima di tutto raccogliere 750 miliardi sui mercati finanziari mondiali.

Poi ne mette a disposizione agli Stati delle tranches.

 Alcune a fondo perduto, altre in forma di prestiti che devono essere restituiti, ed evidentemente in modo condizionato.

In ogni caso questa quantità di denaro, ove sia raccolta, entrerà in circolo soltanto quando scatterà il bilancio della UE, nel 2021.

 Poi anche la quota a fondo perduto che viene data gli Stati che la richiedono sarà in qualche modo restituita, perché gli Stati che dovranno istituire delle euro-imposte, per rimborsare la UE, che a sua volta deve restituire i fondi a coloro che glieli hanno dati.

Perché tutto nasce dal fatto che la BCE non stampa denaro.

Questo è il punto vero:

che nessuno ha voluto trasformare il sistema economico finanziario europeo in un sistema che avesse come punto culminante una capacità di prestatore di ultima istanza da parte della BCE, come fa la Federal Reserve in USA.

Quindi cosa potrebbe accadere, se ricevessimo il” Next Generation Fund”?

Ci accorgeremo che questi soldi non vengono inventati dal nulla, e questo qualcuno sono i cittadini che pagheranno le nuove tasse europee, oltre alle tasse statali.

Per di più, questi denari, anche quelli a fondo perduto, verranno elargiti soltanto a seguito del fatto che lo Stato beneficiario si adegui alle richieste di riforme strutturali avanzate dalla UE.

 Il che vuol dire che la UE vuole che lo Stato Italiano sia più ricco e che i cittadini italiani siano più poveri, vuole spostare ricchezza dai conti correnti degli italiani alle casse dello Stato.

Quello che nessun Governo nazionale in questo momento ha il coraggio di fare, cioè una patrimoniale, verrà probabilmente innescato dalla dinamica europea. L’Italia potrà godere di finanziamenti soltanto se sarà in grado di implementare le riforme che l’Europa le chiederà.

E tutto ciò potrebbe essere estremamente doloroso, a partire dal 2021.

Prima di quella data cosa faremo?

Prima resta soltanto il ricorso al MEF, il quale a sua volta elargisce pochi soldi e con condizionalità, perché è un sistema di prestito, non è un sistema di denaro a fondo perduto.

Chi ottiene questi fondi deve anche soggiacere al controllo ravvicinato dei creditori, che significa o la troika o qualche cosa che le assomiglia moltissimo.

Tutto ciò vuol dire che lo scenario economico è particolarmente pericoloso.

 Prima di tutto per la debolezza intrinseca, cioè il crollo della domanda determinata dal lockdown, e poi per il fatto che ad essa si reagisce con politiche finanziarie che comporteranno a loro volta impoverimenti, anche di quelle fasce di popolazione che non sono state pesantemente colpite;

penso ai pensionati che, con ogni verosimiglianza, si vedranno ristrutturare la pensione o sui cui conti correnti inciderà una tassazione straordinaria.

Tutto ciò, se messo insieme a un ipotetico secondo lockdown, crea uno scenario non facilmente controllabile dalle istituzioni.

Naturalmente, quello che le ho descritto è lo scenario peggiore; 

poi ci sono auspicabilmente gradi di intensità minore dei problemi, tanto sanitari quanto economici.

 Nello scenario migliore non c’è la seconda ondata, la domanda riparte autonomamente, non abbiamo bisogno di ricevere o chiedere tanti soldi e poi non avremo bisogno di misure di austerità tanto severe per restituirli.

In cosa potremmo trovare un sollievo?

Una notizia che darebbe sollievo, tanto sanitario quanto economico, sarebbe il vaccino:

farebbe venir meno quel senso di vulnerabilità estrema che è il risultato più evidente della pandemia.

 Le crisi economiche sono molto dure da sopportare, ma vi siamo in un qualche modo abituati;

quello a cui non eravamo abituati sono le crisi sanitarie, soprattutto attraverso il lockdown che è stato molto doloroso, che ha anche distrutto beni immateriali importantissimi, come ad esempio la pubblica istruzione.

 Non illudiamoci infatti che abbiano imparato molto, i nostri studenti, quest’anno, nonostante gli sforzi benemeriti dei docenti e degli stessi studenti.

L’insegnamento richiede la presenza, la relazione.

Alcune delle libertà costituzionali hanno subito una contrazione durante la stasi coatta in casa;

 lei a tal proposito ha parlato di un esercizio di sovranità, può spiegarci in cosa consiste?

Premetto che la parola sovranità è una bellissima parola che fa parte del primo articolo della Costituzione della Repubblica e non significa nulla che non sia compatibile con l’esercizio democratico del potere.

La sovranità si è manifestata per quello che è, cioè il desiderio di esistere di un sistema politico e di un popolo.

Un desiderio che vuole realizzarsi e adopera tutti gli strumenti legalmente a disposizione, anche con qualche forzatura.

C’è stata una compressione delle libertà, tutti lo dicono, tutti ce ne siamo accorti.

Il punto non è che ci sia stato un mezzo colpo di Stato ma che, nonostante nel nostro ordinamento non sia presente in modo esplicito una fattispecie definibile come caso d’emergenza, siamo arrivati alla compressione dei diritti, sia pure attraverso vie un po’ tortuose sotto il profilo giuridico, e che tutto ciò era inevitabile.

Nel caso d’emergenza ti comporti come la necessità richiede, anche se non hai una Costituzione che parla con chiarezza dello strumento necessario.

 Oltretutto si è fatto ricorso ad uno strumento legale, non è stato nemmeno violata la Costituzione, sono stati semplicemente messi in gerarchia i diritti costituzionali e si è detto che il più importante è il diritto alla vita.

Mi interessa inoltre sottolineare che la sovranità si è manifestata nelle sue forme più tipiche, più radicali, smontando la società, che improvvisamente si è trovata come sgretolata:

 le sue vecchie forme sono quasi scomparse e ha assunto nuove forme. Improvvisamente le persone non sono più state ad esempio il professore, il giornalista, il deputato, lo studente, l’operaio, l’impiegato, ma erano la persona sana, il portatore sano e inconsapevole, il malato leggero, il malato grave, quello da ricoverare in ospedale, il malato da mettere in terapia intensiva, il morto.

 La società aveva perduto le sue forme e ne aveva assunto delle altre, sulla base di atti sovrani, orientati al valore della sanità e della vita.

E inoltre, la sovranità si è manifestata attraverso uno dei suoi strumenti fondamentali:

il confinamento delle persone in casa e la chiusura dei confini alle frontiere.

Abbiamo quindi perso libertà che ci sono state garantite per più di 70 anni?

È inutile dire che la sovranità è una brutta parola o che non esiste, che è obsoleta. Il virus è la globalizzazione, e contro la globalizzazione agisce la sovranità.

 Il virus passa le frontiere e per difendersi si lavora sul confine, si cede spazio, per guadagnare tempo.

 Oggi vale la pena di dire tutto ciò, per sfatare la leggenda del Sovranismo, che è un imbroglio concettuale.

Anziché Sovranismo si dovrebbe dire ‘esercizio della sovranità orientato a destra’. E a me non piace.

Ma non si può dire che la sovranità sia un concetto obsoleto o errato, perché questo è falso.

Il 2 giugno ricorre anche la data della morte di Garibaldi; 

cosa è rimasto dei valori risorgimentali tra i cittadini?

 E tra i politici?

L’ultimo politico che pensava a Garibaldi credo sia stato Bettino Craxi, che era un collezionista di cimeli garibaldini.

Oggi penso che Garibaldi sia una figura al di fuori dell’orizzonte e dell’interesse dei cittadini e dei politici.

E non sto dicendo che ciò sia giusto. Al contrario.

Ma più in generale mi chiedo: quale rapporto questo Paese vuole avere con la propria storia?

Questo Paese sa di avere una storia? Gli interessa?

 Interessa a qualcuno che esista un’identità storica italiana?

Questo Paese vuole esistere in senso storico-politico come esistono la Francia o la Germania o la Gran Bretagna o la Spagna?

Questi sono Paesi democratici, pieni di problemi come tutti, ma coltivano un rapporto con la propria storia, in modo diverso a seconda degli orientamenti.

Noi, qual è la cosa più lontana nel tempo cui facciamo riferimento?

Forse la Resistenza…

Molti dei problemi della contemporaneità non sono forse pregressi?

 Penso ad esempio alla polemica sull’Euro….

La debolezza della compagine nazionale unitaria non l’ha inventata l’euro, la debolezza internazionale dell’Italia purtroppo è una costante della nostra storia.

La capacità di interpretare la politica anche in dimensione storica fa parte del modo con cui i politici dovrebbero lavorare, ma oggi francamente, politici così non ce ne sono.

Lo dico con cognizione di causa perché li ho anche frequentati.

Anche perché gli intellettuali di riferimento in questo momento sono gli economisti, i quali non vogliono pensare in chiave storica, perché credono che l’economia si avvicini ad una scienza naturale, che sia qualche cosa che ha delle leggi proprie, che in alcuni di loro diventano dei dogmi.

È rarissimo vedere un economista che ha capacità di pensiero storicamente profondo, che mette in fila i problemi economici in chiave storica, che relativizza in qualche modo l’economia perché ne vede la storicità.

Questa mancanza di visione storica è il limite degli economisti liberisti contemporanei?

Eh, sì, è proprio così.

Questo è il pensiero unico: “è così perché è sempre stato così”, oppure, “prima di noi c’era il Medio Evo”.

Il problema del nostro Paese è che siamo dentro un’egemonia intellettuale di cui spesso le persone non si rendono conto, ma che è nata quaranta anni fa, cioè la grande svolta all’insegna del Neoliberismo che ha permeato di sé non solo le strutture dell’economia, della finanza e la politica, ma anche la psicologia delle masse e quella dei politici.

(Pubblicata in «Tiburno» il 2 giugno 2020)

 

 

 

Atlante geopolitico, India:

il grande enigma.

  Fortuneita.com - GABRIELE GIANNINI – (LUGLIO 15, 2023) – ci dice:

L’incredibile India.

 Il paese dai mille colori, dagli inebrianti profumi e dai nauseanti odori.

Il paese delle contraddizioni e delle diseguaglianze.

Chiunque sia stato in India, ne percepisce l’essenza sin da subito.

Atterrando su Mumbai, metropoli e centro economico del sub-continente, ci si accorge immediatamente di quanto questo paese, intrappolato ancora in un rigido sistema castale e tenuto in ostaggio da un elefantiaco apparato burocratico inefficiente e corrotto, sia una contraddizione vivente.

 Ville meravigliose con annessi giardini dai prati all’inglese perfettamente curati e accanto… baraccopoli immense di plastica e lamiere che arrivano ad ospitare anche sei milioni di persone.

La più grande democrazia al mondo, la chiamano.

 È il paese della tolleranza, culla di quattro tra le più importanti religioni del pianeta, tra cui induismo e buddhismo.

È anche il paese dell’abbandono:

qui, bisogna lasciarsi trasportare dal suo popolo e percepire la spiritualità che solo l’India riesce a infondere persino ad un individuo occidentale, razionale, pragmatico e disilluso.

Ma è anche il paese del grande dolore, del grande cinismo.

A tal proposito, fa sorridere l’immagine del primo ministro indiano Modi, candido ed elegantissimo, intento a praticare yoga davanti al palazzo di vetro dell’ONU a fine giugno.

 E fa sorridere come lo stesso sia stato accolto con urla di giubilo dal Congresso americano per ben la seconda volta, onore riservato nella storia solamente a tre capi di governo: Churchill, Mandela e Zelensky.

 Fa sorridere perché in realtà gli americani trascurano un piccolo particolare:

il trattamento che in India viene riservato alle minoranze musulmane e cristiane dallo stesso partito islamofobico di Modi contro più di 200 milioni di persone.

Un partito, questo, intriso di un malsano nazionalismo induista.

 L’India viene chiamata dai più, e non a torto, un’“autocrazia elettorale”, o con un’espressione alla moda, una democrazia illiberale.

La stampa molto spesso viene censurata e la giustizia non si può considerare del tutto indipendente.

Siamo tuttavia ormai avvezzi alle intermittenze della politica americana, oscillante tra idealismo e cinico realismo politico.

Predicare bene e razzolare male:

quello che Washington sta cercando di fare con il governo di Nuova Dehli è forgiare un’alleanza d’affari, un matrimonio di convenienza, con un solo scopo: sfidare la leadership cinese sia nell’Indo-pacifico sia all’interno di quel circolo definito come il Sud Globale, una vasta coalizione di paesi tra Africa, Asia e America Latina non disposti a seguire le ferree regole del gioco internazionale tra le due superpotenze.

Non è un caso che il primo ministro Modi sia stato ricevuto da Biden proprio adesso, a fine giugno.

Questo denota un cambiamento nelle relazioni bilaterali USA-India, un qualcosa di profondamente inedito per il sub-continente.

Capofila del Gruppo dei paesi non allineati, co-fondato dal Presidente indiano Nehru nel 1961, l’approccio di Nuova Delhi è storicamente improntato alla neutralità.

Non sentendosi di appartenere a nessuno dei due schieramenti contrapposti, l’India è da sempre promotrice di una nuova visione delle relazioni internazionali, imperniata sul multipolarismo e distante da rigide logiche bipolari.

Leadership.

Presidenti e capi di Governo dei cosiddetti paesi non allineati, co-fondato dal Presidente indiano Nehru nel 1961

Ciononostante, oggi qualcosa è cambiato.

Nuova Dehli si sente minacciata dal Dragone cinese, con il quale condivide ben 3500 Km di confine.

Nel 2020, in Ladakh, regione nord del sub-continente, le forze armate cinesi hanno prepotentemente affermato il loro potere su due aeree controllate in precedenza dalle forze indiane.

Ancora, nell’”Arunachal Pradesh”, regione all’estremo nord-est, a dicembre sono stati frequenti i semi-conflitti tra le forze armate di entrambe le fazioni.

 Il conflitto con Pechino, tuttavia, non si limita solo a piccole scaramucce di confine. Il governo Modi intende rendere il sub-continente un’alternativa alla Cina in diversi settori cruciali per la nuova “digital economy mondiale”.

Dall’high tech alla produzione di micro-chip, dal “quantum computing” all’”AI”, Nuova Dehli desidera strappare il monopolio manifatturiero dalle mani di Pechino. Motivo per cui sono state bannate in India decine di app “made in China” per ragioni di sicurezza.

 Prima fra tutte, era prevedibile, “TikTok”.

Secondo la calcolatrice logica statunitense, in un inseguimento disperato del solito mito della deterrenza, un’India più forte e più incisiva nel panorama internazionale garantirebbe al contempo un equilibrio più stabile nell’intera area indo-pacifica.

Perfettamente imperniati su questa logica gli accordi sottoscritti da Nuova Dehli e Washington a fine giugno, di carattere squisitamente difensivo e tecnologico.

Nello specifico, gli USA si impegnano a fornire droni MQ-9B al governo indiano.

 È stata inaugurata, al contempo, una co-produzione di motori destinati ad aerei militari tra l’americana “General Electric” e l’indiana” Hindustan Aereonautics LTD”.

Ancora, le esercitazioni militari tra forze armate statunitensi e indiane hanno raggiunto un numero record, divenendo, gli USA, il primo partner militare di Nuova Dehli.

Risale, infine, a gennaio un’iniziativa congiunta USA-India sulle tecnologie critiche, sulla difesa e sullo spazio.

Washington punta ad un consolidamento dell’hard power indiano che possa rappresentare una via alternativa alla Cina.

 Ed è quindi in questo schema che si inserisce perfettamente l’”alleanza Quad” tra “India, Australia e Giappone” nell’Indo-pacifico.

Leadership.

Narendra Modi, primo ministro della Repubblica dell’India e il presidente degli Stati Uniti Joe Biden.

La politica del primo ministro Modi, tuttavia, risente di alcune ambiguità. Di questo gli americani ne sono ben consapevoli.

 Primo elemento di ambiguità:

desiderando divenire leader del Sud Globale, Nuova Dehli si è astenuta dal condannare la Russia all’indomani dell’invasione dell’Ucraina.

 Un rapporto, quello con Mosca, profondamente intrecciato da interessi economici radicati e accordi di lunga data, in particolar modo per la fornitura di armi e idrocarburi.

 Entrando più nello specifico, l’India importa dalla Russia il greggio a basso prezzo e, dopo averlo raffinato, lo rivende a prezzo pieno anche ai paesi europei, aggirando in questo modo le sanzioni.

Secondo elemento di ambiguità:

 l’India non si unirà mai ad un’alleanza occidentale tout-court.

Fa parte della Shanghai Cooperation Organization, forum precluso a tutti i paesi occidentali, contendendone a Pechino la leadership.

 Il sub-continente, al contrario, intende assurgere al ruolo di potenza neutrale, non facendo distinzioni tra autocrazie, dittature o democrazie nella scelta dei suoi partner strategici.

Nuova Dehli è decisa a scongiurare il rischio che il Sud Globale venga inglobato nelle intricate trame cinesi, consapevole di essere l’unica potenza a rivaleggiare con il Dragone, nella ricerca come nel fiorente business delle terre rare.

E per questo motivo utilizza gli USA.

È un matrimonio di convenienza, di cui entrambi sono consapevoli.

Servendosi di Washington, la strategia di Modi è quella di propendere più dalla parte statunitense in un probabile scontro con Pechino, per poi distanziarsene e costruire un vero e proprio ordine multipolare, assumendo conseguentemente la leadership del Sud globale.

Insomma, potete starne certi:

l’India non prenderà mai parte ad un eventuale conflitto tra USA e Cina per la presa di Taiwan.

 Mai farà una scelta netta di campo.

Navigherà nella sua ambiguità, nella sua zona d’ombra, a meno che la sua sicurezza nazionale non venga toccata.

È un cinico realismo quello indiano.

Teniamola d’occhio, potrebbe darci grandi soddisfazioni in futuro, o anche grandi dispiaceri.

 Dimentichiamoci una strenua difesa da parte del governo Modi dei nostri amati valori universali-occidentali, la salvaguardia dei quali proprio non gli interessa.

 

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