La transizione verde con tassi così alti è un suicidio.
La
transizione verde con tassi così alti è un suicidio.
Il
ribasso dei tassi di interesse
è
stato un fenomeno mondiale.
Conversazione
con Olivier Blanchard.
Le
grandcontinent.eu – (22 gennaio 2023) – intervista a Olivier Blanchard – ci
dice:
“Il
ribasso dei tassi di interesse è un fenomeno mondiale”, una conversazione con
Olivier Blanchard.
Intervista
In
occasione della pubblicazione del suo nuovo libro, abbiamo incontrato Olivier
Blanchard, Senior Fellow del “Peterson Institute for International Economics”
(PIIE).
Per
l'ex capo economista del FMI, il periodo di rialzo dei tassi di interesse non
durerà.
Dovremo fare i conti con i bassi tassi di
interesse ancora per molto tempo.
In
questo "mondo alla rovescia", diventa imperativo reinventare
soluzioni che coniughino le politiche fiscali e monetarie.
È
appena uscito il suo libro “Fiscal Policy under Low Interest Rates”.
Se
torniamo a ciò che l’ha portata a questo argomento, c’è stato un cambiamento
nel suo pensiero sulle questioni fiscali durante il periodo trascorso al Fondo
Monetario Internazionale, e in particolare durante la crisi greca?
Sì, il
mio pensiero si è evoluto nel tempo.
Vi
faccio un esempio.
Quando
sono arrivato al FMI nel 2008, ero molto preoccupato per le dimensioni del
debito pubblico giapponese, che già allora era molto elevato.
Pensavo
che non avrebbero potuto sostenerlo e che ci sarebbero stati dei problemi.
Per i primi sei mesi ho detto a “Dominique
Strauss-Kahn”, all’epoca direttore generale del “Fondo Monetario
Internazionale”, che c’era un vero problema in Giappone.
Alla
fine non è successo nulla, non c’è stata nessuna catastrofe – non da quella
parte e comunque non per il momento.
Questo
mi ha costretto a mettere in discussione ciò che pensavo sul ruolo e sui
pericoli del debito.
In un
testo pubblicato nel 2013 lei aveva già detto che forse il FMI e più in
generale la comunità degli economisti avevano commesso un errore nel valutare i
moltiplicatori fiscali in situazioni di crisi e recessione…
Da un
lato, mi ero reso conto che i tassi di interesse erano scesi dagli anni ’80 in
modo quasi secolare.
In questo contesto di bassi tassi di
interesse, il debito era meno pericoloso di quanto avessi percepito in
precedenza.
D’altra
parte, c’è stato l’episodio della crisi del debito pubblico greco – il
dibattito era diverso, ma correlato.
Alcuni
dicevano: hanno un grave problema di debito, devono fare un enorme
consolidamento fiscale, perché senza quello non ce la faranno.
Ma non c’è da preoccuparsi:
a volte la domanda aggregata non cala
bruscamente quando cala la domanda pubblica, perché gli agenti sono talmente
rassicurati dal consolidamento fiscale che non ha un effetto negativo sulla
domanda totale.
L’effetto negativo diretto sarà più che
compensato da un maggiore ottimismo da parte dei consumatori e delle imprese:
si tratta di ciò che abbiamo chiamato “expansionary fiscal
contraction”.
Mi ero
già espresso su questo tema all’inizio degli anni ‘90, in risposta a una
pubblicazione di “Francesco Giavazzi” e “Marco Pagano”.
Il mio
punto di vista era che quando in un Paese sull’orlo del collasso un governo
irresponsabile viene sostituito da un governo responsabile che decide di
prendere in mano il bilancio, c’è una buona probabilità che gli investitori
siano rassicurati e che questo abbia effetti positivi;
in questo
caso, si può pensare che ci saranno forti diminuzioni dei premi di rischio. In un Paese sull’orlo del collasso,
gli investitori concedono prestiti a tassi di interesse del 10-20% o più.
Se
vengono rassicurati, i tassi possono scendere fino al 5% e questo cambia
completamente la dinamica della domanda e l’effetto del consolidamento fiscale.
(OLIVIER BLANCHARD)
Sapevo
quindi che poteva succedere, ma non mi sembrava che fosse così nel contesto
europeo di allora.
Credevo
che l’effetto del consolidamento fiscale potesse essere molto negativo.
Che
posizione ha preso a proposito della Grecia?
Pensavo
che alla Grecia fosse stato chiesto uno sforzo assolutamente insostenibile, che
se avesse tentato di farlo sarebbe piombato in una recessione catastrofica.
Questo
mi portò all’epoca ad assumere una posizione diversa da quella della
Commissione europea:
dovevamo
essere molto cauti, non dovevamo ignorare gli effetti keynesiani e non c’era
alcun miracolo in arrivo.
Se il debito era troppo alto, doveva essere
rinegoziato al ribasso piuttosto che chiedere un consolidamento fiscale
eccessivo.
Ho
continuato la mia ricerca sugli effetti del consolidamento fiscale, sui
cosiddetti moltiplicatori fiscali.
Nel
gennaio 2013, ho pubblicato uno studio insieme a “Daniel Leigh”, che è
circolato molto all’interno e all’esterno del FMI, nel quale dimostravamo che i
moltiplicatori utilizzati dal FMI e da altre organizzazioni erano, con ogni
probabilità, molto deboli.
È
stato dimostrato che nei Paesi in cui i programmi erano molto austeri, le
proiezioni di attività erano troppo ottimistiche.
Ciò
indica che gli effetti negativi del consolidamento fiscale sono stati
sottovalutati.
Questa
posizione mi ha portato a non essere d’accordo con l’Inghilterra, quando David
Cameron ha deciso di effettuare un importante consolidamento fiscale.
Mi è
sembrato un atteggiamento piuttosto estremo.
Certo,
c’era un problema di debito, che non poteva essere ignorato, ma c’era anche un
problema di attività e il consolidamento rischiava di avere effetti drammatici.
La
previsione si è rivelata sbagliata… Il risanamento del bilancio è avvenuto, ma
in misura più limitata rispetto a quanto predetto.
Ma Cameron l’ha fatto e non è stata una
catastrofe.
A volte ci si sbaglia…
Il
mondo, in termini di politica economica, è completamente diverso se “r – g” è
negativo.
(OLIVIER BLANCHARD)
Poi ho
riflettuto sulle implicazioni del calo strutturale del tasso di interesse privo
di rischio, iniziato nei primi anni ’80 e proseguito costantemente.
Fu qui che iniziai a rendermi conto
dell’importanza di “r c g” (il tasso naturale di interesse, r, meno il tasso di
crescita, g),
un’espressione aritmetica che è diventata quasi un’espressione standard in
economia;
il
tasso di interesse reale privo di rischio era diventato inferiore al tasso di
crescita – e in modo significativo: “r – g” era diventato negativo. Questo è
stato sorprendente in Giappone, ma poi è diventato vero anche altrove.
È un
po’ astratto per i non economisti, ma se c’è una variabile che conta
enormemente in economia è “r – g”.
Il
mondo, in termini di politica economica, è completamente diverso se “r – g” è
negativo.
Come
Phelps ha mostrato nei modelli teorici degli anni ’60, un mondo in cui “r – g”
è negativo è quasi un mondo capovolto….
Era questo il caso anche a livello pratico?
È questa la domanda che ho deciso di
approfondire.
Un
mondo senza gravità…
“Phelps”
aveva dimostrato in un modello teorico che in un mondo in cui “r – g” è
permanentemente negativo, il debito pubblico è positivo:
c’è
troppo capitale, il suo rendimento è troppo basso, e quindi il debito, che
riduce l’accumulazione di capitale, è una buona cosa….
Mi
sono chiesto se fossimo entrati in questo strano mondo;
ho
iniziato a lavorarci quando ho lasciato il FMI e sono stato nominato presidente
dell’”American Economic Association” – il che offre l’opportunità di una grande
lezione annuale senza contraddittorio…
Ho posto la domanda: siamo davvero in un mondo in cui
“r – g” è negativo, e quali sono le implicazioni?
In
sintesi, ho dimostrato che probabilmente non siamo in quel mondo, ma che ci
siamo vicini.
Che il
costo del debito, sia esso il costo fiscale o il costo del benessere, era molto
più basso rispetto al passato e che questo aveva importanti implicazioni per la
politica fiscale.
Ho
continuato a lavorarci e poi ho messo tutto insieme in un libro, che ho
terminato nel dicembre 2021.
La “MIT
Press”, la mia casa editrice, ha dato libero accesso al libro fin dall’inizio e
questo mi ha fornito molti spunti di riflessione e discussione, che ho
incorporato nella versione finale uscita il 10 gennaio.
Lei ha
terminato il suo libro alla fine del 2021 e nel luglio 2022 la BCE ha aumentato
i tassi per la prima volta dopo molti anni.
Il suo
libro parla di “tassi d’interesse bassi”, tuttavia le banche centrali non fanno
altro che aumentarli…
C’è
ovviamente un problema di tempistica.
Avrei
preferito che il libro fosse uscito un anno e mezzo fa, perché in quel periodo
i tassi di interesse erano molto bassi.
Ora
sono più alti.
Sorge
quindi la domanda: è un libro di storia – dà una visione di ciò che è accaduto
– o è un libro importante per il futuro?
“ Jean
Tirole” mi ricorda spesso l’idea del “motivating belief”:
una volta che si dice qualcosa, si è molto
legati ad essa, si vede la realtà attraverso quel prisma.
Ma
sono convinto che, in realtà, stiamo vivendo un periodo di transizione in cui i
tassi di interesse aumentano a causa della lotta all’inflazione e che
scenderanno di nuovo.
In
effetti, ancora oggi i tassi sono sorprendentemente bassi.
Sebbene non siamo molto lontani dal picco dei
tassi d’interesse, almeno negli Stati Uniti e nemmeno in Europa, se si
considerano i tassi decennali, l’inflazione prevista per dieci anni, i tassi di
crescita previsti per i prossimi dieci anni, “r – g” è ancora negativo.
Sono
convinto che, in realtà, stiamo vivendo un periodo di transizione in cui i
tassi di interesse aumentano a causa della lotta all’inflazione e che
scenderanno di nuovo.
(OLIVIER BLANCHARD)
Gli
investitori si sbagliano?
È
cambiato qualcosa in modo permanente che fa pensare a tassi di interesse molto
più alti in futuro?
Ho scoperto che il mio amico “Larry Summers”
ha recentemente parlato della fine della “secular stagnation”, un termine che
ha contribuito a rendere popolare, e che ritiene che questo periodo di “r – g”
negativo sia finito.
E lei
non è d’accordo?
No,
non sono d’accordo.
Per
rispondere a questa domanda, dobbiamo riflettere sui fattori che hanno
determinato il calo dei tassi di interesse negli ultimi 40 anni e se questi
cambieranno in futuro.
Prima
di tutto, dobbiamo smentire una frottola, quella che accusa le banche centrali
di aver scelto questi tassi bassi.
Sì, i tassi sono scelti dalle banche
centrali, ma riflettono solo, nel miglior modo possibile, le variazioni dei
tassi necessarie per mantenere l’attività al giusto livello.
Ciò
che determina fondamentalmente i tassi di interesse a medio termine sono i
risparmi, gli investimenti e la domanda di beni sicuri.
Il
risparmio e l’investimento determinano insieme l’evoluzione dello stock di
capitale e, di conseguenza, la produttività marginale del capitale;
la
domanda di attività sicure determina il tasso privo di rischio rispetto alla
produttività marginale del capitale.
Il
motivo per cui ritengo che i tassi d’interesse rimarranno bassi è che le forze
che hanno fatto scendere i tassi, ovvero l’elevato risparmio, i bassi
investimenti e l’elevata domanda di asset sicuri, credo rimarranno dominanti.
Osserviamo l’evoluzione del risparmio:
deriva
in gran parte da due fattori, l’aumento dell’aspettativa di vita e il livello
generale del reddito.
L’aumento dell’aspettativa di vita implica che
le persone hanno una pensione più lunga e quindi devono risparmiare per la loro
pensione (oltre a quanto ricevono dalla previdenza sociale).
Il
livello di reddito:
quando si ha un’economia con un basso tenore
di vita, e gran parte della popolazione ha un reddito basso, risparmia poco o
nulla.
Man mano che l’economia si arricchisce, sempre
più persone sono in grado di risparmiare.
Per quanto riguarda la domanda di beni sicuri,
non vedo alcun motivo per cui possa cambiare.
Siamo
in un mondo sempre più incerto e la regolamentazione finanziaria continuerà a
richiedere alle istituzioni finanziarie di detenere asset sicuri.
Credo
che le forze che hanno fatto scendere i tassi, ovvero l’elevato risparmio, i
bassi investimenti e l’elevata domanda di asset sicuri, rimarranno dominanti.
(OLIVIER BLANCHARD)
Nel
suo libro, lei spiega che una delle cause dei bassi tassi di interesse è il “global savings glut”, ovvero il fatto che i risparmi
globali sono molto più alti degli investimenti.
Pensa che gli investimenti nella transizione
ecologica e digitale possano invertire questa situazione?
In
effetti, l’unica ragione per cui potremmo avere un aumento sostenibile dei
tassi di interesse sarebbe un forte aumento degli investimenti verdi, quelli
necessari per una forte azione per il clima.
Come
dimostrato in particolare dai lavori di “Jean Pisani-Ferry”, se fossimo
disposti a mobilitare le somme necessarie, la domanda di investimenti potrebbe
aumentare e con essa il tasso di interesse di equilibrio.
In questo caso, “r – g” potrebbe aumentare in
modo significativo.
Ma realisticamente, non credo che faremo
quello che dobbiamo fare, ma meno. Ma è certamente lì che c’è la possibilità di
un tasso di interesse di equilibrio più elevato.
Sarei più che felice se ciò accadesse.
L’argomento
della stagnazione secolare si basa su un presupposto piuttosto forte, ovvero la
sua dimensione internazionale.
Possiamo
immaginare che uno dei principali cambiamenti che potrebbero verificarsi oggi
sia una profonda modifica degli squilibri della bilancia dei pagamenti e che il
“global
savings glut” ne risenta.
Certamente
parte del calo del tasso di interesse negli anni ’90 è derivato dall’aumento
del risparmio e, di conseguenza, dal surplus dei conti correnti in Cina.
Fu in
quel momento che “Ben Bernanke” sviluppò il concetto di global savings glut.
Ma
oggi l’avanzo delle partite correnti cinesi è ridotto rispetto a quello che
era. Possiamo immaginare scenari futuri in cui altri paesi si troveranno nella
stessa situazione? Non credo.
Per me
questa è storia e per il momento non è fondamentale.
L’aspetto
fondamentale, che descrivo nel libro, è che questa diminuzione del tasso di
interesse è un fenomeno globale.
Non
sono solo gli Stati Uniti o il Giappone ad essere colpiti, ma tutti i Paesi
ricchi. Quindi bisogna cercare le cause a livello globale, non nelle specificità
di ciascun Paese.
La
politica monetaria deve agire contro l’inflazione.
Possiamo
anche pensare che la politica fiscale abbia un ruolo da svolgere e che possa
attuare qualcosa di controintuitivo, una politica fiscale espansiva ma
disinflazionistica?
Ne ho
scritto con “Jean Pisani-Ferry”.
In Francia, ho insistito per limitare
l’aumento dei prezzi dell’elettricità e del gas, non solo per proteggere le
famiglie, ma anche per limitare l’inflazione.
La
Francia lo ha fatto e ha limitato l’inflazione al 2%, al di sotto della media
della zona euro.
Se lo
avessero fatto anche gli altri Paesi della zona euro, ci sarebbe stato un 2% di
inflazione in meno, il che significa che la BCE non avrebbe dovuto reagire così
tanto e che forse avremmo potuto evitare una recessione, il che oggi è ancora
possibile.
Ci
sono molti giocatori in questo gioco e il governo ha un ruolo da svolgere.
Allo
stesso tempo, proteggere le famiglie non significa necessariamente avere un
deficit più elevato.
Questa spesa può essere finanziata tassando i
profitti eccezionali delle società energetiche.
Si
sarebbe potuto fare.
Questo
ci porta a un’importante questione che è un po’ il filo conduttore del suo
libro:
l’interazione
tra politica fiscale e monetaria.
In
questo nuovo mondo che lei descrive, ci stiamo allontanando da un quadro di
dominanza monetaria verso un quadro di dominanza fiscale, c’è qualche ragione
per tornare all’indipendenza delle banche centrali?
È una
questione di coordinamento.
Non si
può avere la politica monetaria da una parte e la politica fiscale dall’altra,
le due cose non si parlano, come vediamo troppo spesso.
Oggi
il coordinamento è molto scarso, ma è chiaro che ci sono due braccia e che
dobbiamo usarle entrambe.
Ci
sono rischi da evitare.
Può darsi che il governo insista affinché le
banche centrali mantengano i tassi molto bassi in modo da non dover pagare
troppo sul proprio debito, il cosiddetto problema della dominanza fiscale.
Ma non credo che questo pericolo sia presente
nei Paesi ricchi.
Le
banche centrali sono indipendenti e rimarranno tali.
L’indipendenza
non impedisce il coordinamento con la politica fiscale, ad esempio in caso di
recessione.
In un
contesto in cui i tassi di interesse sono già molto bassi, il margine di
manovra della politica monetaria per abbassarli e rilanciare l’economia è
limitato.
La
politica fiscale può e deve aiutare.
Lei
difende l’idea che la politica fiscale possa essere più espansiva senza rischi
per la sostenibilità del debito, ma è stato, insieme a” Larry Summers”, un
critico della politica fiscale statunitense e del piano molto espansivo
dell’amministrazione Biden.
Come si inserisce questa posizione in questa
visione più ampia?
Non
credo che ci sia alcuna contraddizione.
Al
contrario, mi dà una certa credibilità nei confronti di chi dice che sto
proponendo qualcosa in termini di politica fiscale e di aumento del debito…
Il
piano di Biden era circa tre volte più grande del piano che ritenevo
giustificato in termini di auspicabile aumento dell’attività.
C’era già il piano Trump alla fine della sua
presidenza, 900 miliardi di dollari.
Il
Presidente Biden ne ha proposto uno nuovo, di 1.900 miliardi di dollari, che mi
è sembrato enorme viste le possibilità di ripresa, di spazio per aumentare la
produzione.
Per me
è stato un errore… La mia posizione era che il volume era troppo alto e che
avrebbe prodotto surriscaldamento e inflazione – ed è esattamente quello che
abbiamo visto, e questo è un grande problema oggi.
Ritorniamo
sull’inflazione attuale.
In un
suo tweet recente sul rapporto tra inflazione e ridistribuzione. Può sviluppare
il suo ragionamento?
La mia
osservazione si basava su una semplice domanda:
quando
e come aumenta l’inflazione?
La
prima possibilità è che la domanda di beni sia troppo alta – ad esempio, quando
c’è un’espansione fiscale eccessiva, o la banca centrale ha scelto tassi di
interesse troppo bassi, o per qualche motivo le famiglie e le imprese diventano
molto ottimiste e spendono molto.
Poi si
ha un tasso di disoccupazione in calo e a un certo punto il mercato del lavoro
si surriscalda.
I dipendenti vogliono salari più alti.
Le aziende vogliono aumentare o mantenere i
propri margini.
Questi due desideri sono incompatibili:
i
salari aumentano, causando un aumento dei costi e dei prezzi;
i
prezzi aumentano, causando la richiesta di aumento dei salari da parte dei
lavoratori, ecc.
Il
risultato è l’inflazione.
Il
mandato della banca centrale è quello di limitare l’inflazione e l’unico
strumento di cui dispone è il tasso d’interesse, quindi aumenta il tasso
d’interesse fino a quando il rallentamento dell’attività porta i dipendenti ad
accettare salari reali più bassi e le imprese ad accettare margini più bassi.
(OLIVIER BLANCHARD)
Lo
stesso accade quando si verifica un aumento del prezzo dell’energia, ad esempio
del petrolio.
Le aziende che utilizzano il petrolio vedono aumentare
i costi e i prezzi.
I
dipendenti che vedono diminuire il loro potere d’acquisto chiedono aumenti
salariali.
Gli aumenti salariali aumentano i costi e
quindi i prezzi, ecc.
Il mandato della banca centrale è quello di
limitare l’inflazione e l’unico strumento di cui dispone è il tasso
d’interesse, quindi aumenta il tasso d’interesse fino a quando il rallentamento
dell’attività porta i dipendenti ad accettare salari reali più bassi e le
imprese ad accettare margini più bassi.
In
sostanza, l’inflazione riflette un conflitto tra lavoratori e imprese.
Il
conflitto può derivare da un surriscaldamento dell’economia o da un aumento, ad
esempio, dei prezzi dell’energia.
Oppure
può essere la fonte stessa dell’inflazione, come nel caso dell’esplosione di
rabbia del 1968 in Francia.
Come
si dovrebbe pensare al ruolo della politica fiscale in Europa?
Stiamo già vedendo come le misure adottate in
diversi Stati membri per proteggere i consumatori dall’aumento dei prezzi
dell’energia sollevino questioni legate, tra l’altro, all’integrità del mercato
unico.
Non si
tratta di un problema di fondo, ma di un problema di coordinamento.
Ci
sono casi in cui i governi devono fare cose che, dal loro punto di vista, sono
nel loro interesse, ma in cui gli interessi dei Paesi sono diversi.
In questo caso, mi sembra che tutti gli Stati
abbiano più o meno lo stesso obiettivo.
Ognuno
di essi si trova ad affrontare più o meno lo stesso problema:
proteggere
i consumatori e le piccole imprese.
Quindi
non c’è alcuna differenza fondamentale.
È vero
che non c’è stato un coordinamento sufficiente.
La
polemica sul piano tedesco di 200 miliardi di euro è ipocrita, perché in realtà
la Francia ha fatto in gran parte un anno prima quello che la Germania ha
annunciato quest’anno.
Abbiamo
messo in atto uno scudo tariffario e abbiamo avuto ragione.
Ma non
sono assolutamente sicuro che abbiamo parlato con i tedeschi quando l’abbiamo
messa in atto.
L’unica
cosa è che i tedeschi lo hanno fatto con un anno di ritardo, annunciando una
cifra molto grande e, per quanto ne so, senza coordinamento.
Abbiamo
rimproverato loro di dare un vantaggio alle aziende tedesche, ma in realtà
avevamo già dato un vantaggio alle aziende francesi.
Dovremmo coordinarci di più.
Ma per
me rimane un problema minore.
La
polemica sul piano tedesco di 200 miliardi di euro è ipocrita, perché in realtà
la Francia ha fatto in gran parte un anno prima quello che la Germania ha
annunciato quest’anno.
(OLIVIER BLANCHARD)
Anche
la questione della legge statunitense sull’inflazione e il suo impatto sulla
competitività dell’industria europea è una questione di coordinamento?
No,
non si tratta affatto di un problema secondario.
L’Europa
ha deciso di combattere il “riscaldamento globale” in gran parte attraverso la
tassazione, sia attraverso il sistema di scambio di quote di emissione sia
attraverso la carbon tax alle frontiere, che è l’approccio giusto.
Gli
Stati Uniti hanno deciso di utilizzare soprattutto i sussidi.
Questo
dà un enorme vantaggio competitivo alle aziende statunitensi.
In generale, la politica degli Stati Uniti sta
assumendo sempre più l’aspetto di una guerra commerciale, di sussidi alle
aziende che producono negli Stati Uniti o che vi si trasferiscono, il che è
inaccettabile per i suoi partner.
Tuttavia,
è molto difficile immaginare un prezzo del carbonio negli Stati Uniti,
semplicemente perché l’opinione pubblica non è affatto favorevole e non esiste
una coalizione politica in grado di farlo passare al Congresso.
Quindi
spetta piuttosto agli europei coordinarsi sui sussidi?
La “carbon
tax” è molto meglio dei sussidi.
Permette
alle aziende di prendere decisioni coerenti.
I
sussidi sono spesso troppo onerosi e costano allo Stato una fortuna.
È vero
che in tutti i Paesi c’è una forte opposizione alle tasse sul carbonio e che è politicamente
difficile per i governi implementarle.
D’altra parte, i sondaggi mostrano che quando
le entrate vengono ridistribuite alle persone che saranno maggiormente colpite
dalla transizione, la tendenza si inverte e la maggioranza è quasi favorevole.
A mio avviso, la porta non è chiusa e un
governo coraggioso può riuscire ad approvare una carbon tax.
Per
quanto riguarda la carbon tax alle frontiere, in teoria è facile.
In pratica è difficile.
In particolare, quando un altro Paese
sovvenziona massicciamente la propria industria e quindi riesce a ridurre le proprie
emissioni di CO2, cosa che gli Stati Uniti stanno cercando di fare, si crea un
problema evidente:
se le
importazioni statunitensi rispettano gli impegni ambientali, non c’è bisogno di
imporre una carbon tax alle frontiere;
ma poiché l’approccio consiste principalmente
in sussidi, le aziende esportatrici statunitensi ottengono un grande vantaggio
competitivo.
La
carbon tax è molto meglio dei sussidi.
Permette
alle aziende di prendere decisioni coerenti.
I
sussidi sono spesso troppo onerosi e costano allo Stato una fortuna.
(OLIVIER BLANCHARD)
Allo
stesso tempo, non ci stiamo complicando la vita con un problema che, in
un’economia aperta con un tasso di cambio flessibile, può essere risolto con il
solo aggiustamento del tasso di cambio?
Sì,
con l’adeguamento del tasso di cambio, alcune industrie diventeranno meno
competitive e altre più competitive.
Siamo
soddisfatti del risultato?
Sono
queste le industrie che dovevamo e volevamo proteggere?
In
linea di principio, il tasso di cambio può aggiustarsi, ma lo farà con un forte
effetto redistributivo che non è necessariamente quello desiderato.
La
Commissione europea ha presentato le sue proposte di riforma del “Patto di
stabilità e crescita”.
Cosa
ne pensa?
Le
regole europee erano molto inadeguate per il semplice motivo che è impossibile
giudicare la politica fiscale da semplici cifre come il deficit nominale o il
debito, a causa del ruolo centrale di “r – g” nel decidere se il debito è
sostenibile o meno.
Il problema è diventato sempre più evidente
con la riduzione dei tassi di interesse e quindi del costo del debito.
Ho
quindi sostenuto con” Jeromin Zettelmeyer” e “Alvaro Leandro” l’idea di basarsi
su uno studio delle possibili evoluzioni del debito, tenendo in conto, per ogni
paese, della possibile evoluzione dei tassi di interesse, dei tassi di
crescita, delle obbligazioni, ecc.…, ciò che in gergo si chiama analisi
stocastica della sostenibilità del debito e in seguito decidere sulla base di
questo studio se si debbano operare dei cambi di rotta.
Anche la Commissione ha adottato un principio
molto simile nella sua proposta, pur mantenendo le regole del 60% e del 3%, il
che è comprensibile, perché un cambiamento significherebbe aprire i trattati.
Questo
è un grande passo avanti.
Ma per
il momento si tratta solo di una proposta.
Gli Stati devono accettarlo.
Spero proprio che lo facciano.
Quando
il cambiamento climatico
diventerà
irreversibile?
Ilbolive.unipd.it - Francesco Suman – (9
giugno 2022) – dice:
Quando il cambiamento climatico diventerà
irreversibile?
Questa
domanda è fondamentale per "il mondo che verrà", tema che è stato scelto
come titolo del “Cicap Fest di quest'anno”.
La
domanda è più che legittima, tuttavia ha dei problemi nel modo in cui è
formulata.
È
problematica perché delinea implicitamente, seppur in modo intuitivo, che cosa
sia il cambiamento climatico e come dovrebbe agire.
In altri termini nella domanda sono presenti
quelle che in gergo scientifico si chiamano delle assunzioni implicite.
Se ci
chiediamo “quando il cambiamento climatico diventerà irreversibile” ci
aspettiamo che la risposta sia una certa data, in un futuro più o meno lontano.
Ed è
proprio qui l’errore.
Se
dovessi dare la risposta breve direi che il cambiamento climatico è già
irreversibile, nel senso che la temperatura del pianeta è già salita a causa
dell’azione antropica e il cambiamento climatico è già in atto.
Più
precisamente sappiamo che dall’era preindustriale a oggi, quindi negli ultimi
200-250 anni circa, la temperatura del pianeta è salita di 1,1°C.
Pensate
se invece di andare in giro con una temperatura corporea di circa 36,5°C
doveste andare al lavoro o a scuola con una temperatura corporea stabile a
37,6°C.
Sarebbe alquanto faticoso, sareste in affanno,
esattamente come il pianeta oggi è già in affanno.
Non
solo:
gli studi che sono stati fatti dagli ultimi
rapporti dell’IPCC, il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici, ci dicono chiaramente che se l’uomo
non avesse abitato il pianeta nell’ultimo paio di secoli la temperatura del
pianeta si sarebbe alzata di 0,02°C.
Il riscaldamento globale e il cambiamento
climatico dunque sono già in atto e sono interamente responsabilità dell’uomo.
Cambiamento
climatico.
Bias
cognitivi.
Questa
la risposta breve.
Ma
visto che abbiamo un po’ di tempo possiamo provare a capire meglio il
cambiamento climatico, che è un fenomeno alquanto complesso e difficile da
osservare direttamente per noi piccoli esseri umani che siamo abituati a
focalizzare la nostra attenzione sulle nostre attività quotidiane.
Certo,
possiamo sentire il caldo sulla nostra pelle, ma il meteo è cosa diversa dal
clima.
I nostri sensi non sono in grado di percepire
i microscopici aumenti di temperatura che anno dopo anno si accumulano.
Il
cambiamento climatico è un fenomeno fuori scala per il nostro sistema cognitivo
e per questo ancora oggi molti dicono “ma dov’è questo cambiamento climatico?
Io non lo vedo”.
Nel
negare, o anche solo ignorare il cambiamento climatico, impersoniamo alla
perfezione il principio della rana bollita, secondo cui una rana nuota
liberamente in una pentola sotto cui è acceso un tenue fuocherello, che a poco
a poco scalda l’acqua ma lo fa troppo lentamente perché la rana se ne accorga.
La
rana continuerà a pensare che va tutto bene perché non coglierà la differenza
di temperatura, fino a che la pentola inizierà a bollire e la rana si troverà
bollita.
Se non
vogliamo fare la fine della povera rana non dobbiamo affidarci esclusivamente
ai nostri sensi, dobbiamo allargare lo sguardo e indossare le lenti della
scienza, che indaga cause ed effetti dei fenomeni naturali.
Vi parlerò allora prima delle cause e poi
degli effetti del cambiamento climatico.
Vi
anticipo subito che alcuni di questi effetti sono già irreversibili, come lo
scioglimento dei ghiacci, l’innalzamento del livello dei mari, l’acidificazione
degli oceani.
Una
volta avviati questi processi non sono arrestabili tirando semplicemente il
freno a mano.
Questi
processi li abbiamo già innescati, sono già irreversibili.
Quello
che è ancora in nostro potere è provare a contenere la gravità di questi
fenomeni e questo dipende da quanto saremo in grado di fare nei prossimi anni
in termini di riduzione delle emissioni e quindi di riduzione della temperatura
del pianeta.
Ogni
decimo di grado al di sopra del limite soglia di 1,5°C di riscaldamento globale
stabilito dagli accordi di Parigi nel 2015 porterà ulteriori gravissimi impatti
non solo sugli ecosistemi naturali ma anche sulla società e sui sistemi
produttivi quali agricoltura, pesca, gestione delle foreste.
Starà
a noi rendere più o meno gravi, più o meno irreversibili gli effetti del
cambiamento climatico che è già in atto.
Emissioni.
Cause.
Come
sapete, la causa del riscaldamento globale sono le emissioni dei gas a effetto
serra o gas climalteranti.
La
CO2, l’anidride carbonica, è il principale, ma non il solo, responsabile
dell’effetto serra.
(La
Co2 è più pesante dell’atmosfera. Pertanto non vi è alcuna possibilità che
raggiunga la stratosfera e quindi possa prendere parte alla creazione della
volta dell’effetto serra! N.D.R)
È
presente in piccolissime percentuali in atmosfera, ma siccome questa molecola è
in grado di trattenere il calore della radiazione solare, se noi aumentiamo la
concentrazione di CO2 in atmosfera, aumentiamo anche la quantità di calore che
questa trattiene.
(La
Co2 non potrà mai aumentare la sua concentrazione nell’atmosfera. Come è stato
sopra indicato la Co2 è presente sul terreno, a livello delle cime degli alberi
e sul mare. Ma la sua permanenza è solo sulla terra e sul mare, mai
nell’atmosfera: di cui, infatti, è più pesante. Quindi se anche i vulcani la
spingano verso l’alto dei cieli, poi, inesorabilmente scende sulla terra o sul
mare! N.D.R)
Dobbiamo
immaginarci l’anidride carbonica in atmosfera come una sorta di coperta stesa
sopra di noi che trattiene il calore che noi emettiamo e che arriva dal sole.
Più
CO2 immettiamo in atmosfera, più spessa diventa questa coperta e più caldo fa
sotto questa coperta.
Pensate
che negli ultimi 800.000 anni la concentrazione di CO2 in atmosfera è sempre
oscillata tra le 180 e le 280 ppm (parti per milione).
Da circa metà del XX secolo abbiamo sforato le
300 ppm e da lì è stata un’ascesa inarrestabile.
Intorno
al 2016 abbiamo superato le 400 ppm e oggi siamo sopra le a 410 ppm.
Questo
perché dalla rivoluzione industriale in avanti abbiamo immesso in atmosfera
quantità crescenti di anidride carbonica (quella CO2 è sempre precipitata sulla
terra o sul mare essendo più pesante dell’aria! N.D.R)
e altri gas a effetto serra come il metano o
gli ossidi di azoto che tuttavia vengono sempre calcolati in termini di
anidride carbonica equivalente.
(È
molto comodo calcolare i gas serra come fossero Co2, ma “loro”, i veri gas
serra, sono più leggeri dell’aria e quindi possono salire nell’atmosfera dove
non esiste “nessuna libera” Co2! N.D.R)
L’ultimo
anno le nostre attività industriali, il riscaldamento domestico, il sistema dei
trasporti, il sistema agricolo e tutte le altre attività produttive della nostra
società dei consumi hanno emesso in atmosfera l’equivalente di circa 45
miliardi di tonnellate di anidride carbonica (anche se le stime variano).
Circa i 3/4 delle emissioni totali provengono dal
settore dell’energia (36 miliardi di tonnellate di CO2/eq nel 2021), un settore
retto dai combustibili fossili, ovvero carbone, petrolio e gas, che dobbiamo
quindi ripensare completamente, che dobbiamo decarbonizzare.
(Ma
avete mai visto i combustibili fossili, carbone, petrolio trasformati in gas
serra che svolazzano nei cieli? Ma gli scienziati sono tutti rimbecilliti o
ultra corrotti dal peso del denaro che hanno acquisito prestandosi a riferire a
noi le loro sciocchezze madornali? N.D.R)
Quali
sono le conseguenze di tutte queste emissioni che causano il riscaldamento
globale?
A
questo tema è dedicato tutto un altro rapporto dell’IPCC (ultra corrotto. N.D.R) pubblicato a febbraio di quest’anno.
Effetti
già provocati.
Come
vi dicevo più calore in atmosfera, trattenuto dalla CO2, significa più energia
in atmosfera.
(Ma la Co2 non può trattenere nessun
calore in atmosfera, in quanto essendo più pesante dell’aria atmosferica precipita
sempre ed alla svelta nel mare o sulla terra! N.D.R)
E
prima o poi questa energia si scarica a terra, in una forma o nell’altra.
Può
essere tramite ondate di calore, come quella che ha colpito l’India poche
settimane fa, che ha provocato danni all’agricoltura e ad altri sistemi
produttivi. Ma può essere anche tramite precipitazioni più abbondanti, quelle
che ogni tanto chiamiamo bombe d’acqua, o più correttamente nubifragi, o vere e
proprie tempeste tropicali, che provocano ugualmente danni all’agricoltura e ad
altri sistemi, ma questa volta tramite alluvioni e allagamenti.
Capite
bene quindi che siccità estrema e piogge estreme sono due fenomeni
apparentemente opposti ma in realtà sono due facce della stessa medaglia,
ovvero la maggiore quantità di calore in atmosfera.
(Ma cosa c’entra con questi fatti la
Co2? N.D.R)
Il
rapporto dell’IPCC dice chiaramente che ondate di calore, siccità e alluvioni
si stanno verificando con frequenza e intensità già aumentate rispetto al
passato e il loro impatto si è già fatto sentire, sia sugli ecosistemi naturali,
sia sulla società e l’economia.
Il
cambiamento climatico ha già ridotto la crescita economica in Africa (per
quanto riguarda ad esempio un rallentamento della crescita della produttività
agricola) dagli anni ‘60 a oggi e ha già aumentato le disuguaglianze di reddito
Paesi Africani e Paesi del nord a climi temperati.
Il
cambiamento climatico ha già costretto milioni di persone a migrare dai propri
luoghi di origine, in Africa, in Asia e in altre parti del mondo.
Le
morti causate dalle alluvioni che ogni anno si abbattono in Uganda, l’Uganda di
Vanessa Nakate, dove l’assenza di infrastrutture adeguate fa sì che le strade
si trasformino in fiumi di fango, sono già irreversibili.
L’Africa
è una delle zone maggiormente colpite dal cambiamento climatico, anche se è
responsabile solo del 3% delle emissioni prodotte negli ultimi tre secoli.
Il cambiamento climatico non solo non è uguale
per tutti, nel senso che colpisce più duramente i Paesi più poveri che non
hanno le infrastrutture per difendersi, ma è anche stato prodotto in modo non
uguale da tutti, con i Paesi ricchi che hanno più responsabilità dei Paesi
poveri: il cambiamento climatico è anche una questione di giustizia sociale, di
giustizia climatica.
Il
cambiamento climatico colpisce più duramente i Paesi più poveri, ma si fa
sentire anche nei Paesi ricchi. Ricorderete l’estate scorse le alluvioni che
hanno colpito l’Europa continentale, dove sono morte più di 200 persone, o le
piogge record che si sono abbattute l’estate scorsa sulla Liguria.
Un’analisi
dell’agenzia ambientale europea mostra che negli ultimi 40 anni, dal 1980 al
2019, gli eventi meteorologici estremi, che il cambiamento climatico ha reso
più frequenti e più intensi negli ultimi anni, sono costati 72,5 miliardi di
euro all'Italia, 107,4 miliardi di euro alla Germania, 67,5 miliardi di euro
alla Francia.
La transizione ecologica costerà, avrà bisogno
di ingenti investimenti per cambiare il nostro sistema produttivo, ma costerà
comunque meno rispetto a quello che pagheremmo in termini ambientali e sanitari
per sistemare i danni provocati dal cambiamento climatico.
Ai
tropici intere specie stanno scomparendo, mentre più a nord interi biomi si
stanno lentamente spostando alla ricerca di temperature più fresche. Potrei
parlarvi delle specie animali e vegetali che sono già state duramente colpite,
dagli incendi o all’innalzamento del livello del mare.
Vi
menzionerò soltanto un roditore australiano, “Melomys rubicola”, che nel 2016 è
stato dichiarato estinto: si tratta della prima estinzione di una specie di
mammifero causata dal cambiamento climatico: era endemico di una piccola isola
corallina “Bramble Cay” e la sua estinzione è dovuta alla perdita dell’habitat
conseguente all’aumento del livello del mare e a tempeste che hanno colpito lo
stretto di Torres.
Potrei
parlarvi delle barriere coralline dell’Australia e di moltissime altre isole
del mondo che stanno già morendo a causa del riscaldamento degli oceani e delle
ondate di calore marine.
Con
loro stanno scomparendo interi ecosistemi marini e le economie basate sul
turismo. La loro perdita è già irreversibile.
Potrei
parlarvi della foresta amazzonica che è drammaticamente vicina a un punto di
non ritorno, perché non riesce più a rigenerarsi a causa della crescente
siccità.
Nel
giro di qualche decennio la foresta potrebbe lasciar spazio a macchie di savana
che gradualmente la sostituiranno.
E
ancora ci sono già e sono destinati ad aumentare i problemi di sicurezza
alimentare, dovuti a una diminuzione della produttività agricola in moltissime
aree, e i problemi di sicurezza idrica, che tagliano la disponibilità di acqua
in aree anche benestanti come la California.
Pianeta.
Che
fare?
Tornando
quindi alla domanda iniziale da cui siamo partiti “Quando il cambiamento
climatico diventerà irreversibile?” spero di avervi fatto capire che forse la
domanda giusta da porci è semmai “Cosa dobbiamo fare per rendere meno gravi le
conseguenze del cambiamento climatico?”
Gli
ultimi rapporti IPCC sono stati molto chiari a riguardo: “le mezze misure non
sono più un’opzione”.
I
governi nazionali e le organizzazione sovranazionali stanno lavorando a piani
non solo di mitigazione, cioè di riduzione delle emissioni, ma anche di
adattamento al cambiamento climatico, proprio perché alcune sue conseguenze ormai
non sono più evitabili, sono già irreversibili e noi dovremo adattarci nel modo
migliore possibile.
Le
centinaia di scienziati che hanno partecipato ai gruppi di lavoro dell’IPCC
ritengono che per mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C è
necessario che il picco delle emissioni globali venga raggiunto prima del 2025.
Poi
avremmo 5 anni a disposizione per ridurre le emissioni del 43% entro il 2030
(rispetto ai livelli del 2005).
Dovremmo
ridurle del 25% per stare al di sotto dei 2°C, che è la soglia massima che ci
siamo dati e oltre la quale il sistema di regolazione climatica del pianeta va
a gambe all’aria.
L’Europa
però si è posta un obiettivo ancora più ambizioso, ridurle del 55% entro il
2030 (rispetto ai livelli del 1990).
Come
capite bene la finestra per l'azione è molto stretta: è il più classico degli
"ora o mai più".
Abbiamo
tutte le tecnologie e le conoscenze per farlo. Ciò che manca è la volontà
politica di compiere un deciso passo in questa direzione.
“Gli
impegni presi finora invece di diminuire le emissioni porteranno a un aumento
del 14% delle emissioni.
I maggiori emettitori non stanno nemmeno
mettendo in pratica gli impegni presi per mantenere le loro già inadeguate
promesse”.
Queste parole che vi riporto le ha pronunciate
“Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu”, in occasione della
presentazione dell’ultimo rapporto IPCC e proprio con le sue parole pronunciate
vorrei concludere:
“finora
abbiamo assistito a impegni vuoti che ci consegneranno un mondo invivibile.
Stiamo
viaggiando ad alta velocità verso un vero disastro climatico: molte città
sott’acqua, ondate di calore e tempeste senza precedenti, scarsità di acqua,
estinzione di un milione di specie di piante e animali.
Non è
una fiction o un’esagerazione, è quello la scienza ci dice risulterà dalle
attuali politiche energetiche.
Arriveremo
a raddoppiare il grado e mezzo di riscaldamento globale.
Siamo sulla strada di un aumento di 3°C.
Certi
governi e uomini d’affari dicono una cosa e ne fanno un’altra.
Detto
in maniera semplice: stanno mentendo.
Stanno
soffocando il nostro pianeta con i loro interessi e investendo sui combustibili
fossili, quando le rinnovabili sono soluzioni più convenienti, generano posti
di lavoro e sicurezza energetica.
Gli
attivisti climatici sono a volte presentati come pericolosi radicali, ma i veri
pericolosi radicali sono coloro che stanno aumentando le emissioni.
Investire in nuove infrastrutture per i
combustibili fossili è moralmente e economicamente una follia.
Ma non
deve andare per forza così.
Dobbiamo
triplicare la velocità della transizione verso le energie rinnovabili. Questo
significa spostare gli investimenti dai combustibili fossili alle rinnovabili,
ora.
In
molti casi le rinnovabili sono la soluzione più economica.
Governi, istituzioni finanziarie e grandi
corporazioni devono sostenere le economie emergenti in questa transizione”.
Non so
a voi ma a me le parole di “Guterres” non suonano per nulla diverse da quelle
più volte ribadite dai giovani attivisti per il clima.
Forse è il caso che ascoltiamo un po’ più
attentamente cosa hanno da dire questi ragazzi e queste ragazze.
(A me pare che queste ragazze e ragazzi
non fanno mai neppure un cenno al fatto di avere notato che la Co2 sia vista
svolazzare libera nei cieli.
Infatti è loro noto che è solo la presenza
sulla superfice terrestre e sul mare della Co2 che rende possibile la
continuità della vita degli animali, degli uomini e della vegetazione! N.D.R).
Tassi
troppo alti i nuovi nemici
della
transizione verde.
Vertaeaffari.it
– Nino Sunseri – (27 settembre 2023) – ci dice:
L'alto
costo del denaro allontana l'obiettivo Net Zero al 2050 e rende difficili i
target europei del Fit for 55 entro il 2030.
Tassi
troppo alti i nuovi nemici della transizione verde.
INFOGRAFICA.
L'andamento del prezzo del petrolio Brent
Verona, 26 set (GEA) –
Nell'infografica di Gea, l'andamento del
prezzo del petrolio Brent, aumentato di oltre il 25% in questo trimestre fino a
sfiorare i 95 dollari al barile la scorsa settimana. ùSecondo un'analisi di”
Ing”, i prezzi del petrolio supereranno i 100 dollari al barile nel breve
termine poiché i tagli all’offerta da parte dei paesi “Opec+” hanno più che
compensato la debolezza della domanda dovuta al rallentamento dell’economia
globale. (AFT/VLN)
Vento
e sole a caro prezzo.
L’inflazione
non molla spinta dal caro petrolio e le banche centrali non allentano sui
tassi.
Annunciano
altri rialzi o promettono di mantenerli alti per lungo tempo.
Due
brutte notizie per l’obiettivo Net Zero al 2050 ma anche per i target europei
del Fit for 55 entro il 2030.
Parlano
gli esperti.
“Thomas
Ferguson”, professore emerito all’”Università del Mit” e “Servaas Storm”,
docente all’”Università di Tecnologia” di Delft
hanno scritto sul “Guardian” che “tassi di interesse elevati rallentano notevolmente la transizione
energetica”.
Infatti
gli investimenti nelle rinnovabili sono competitivi rispetto alle energie
tradizionali solo quando i tassi sono bassi”.
Alcuni studi – citati dal “Guardian” –
mostrano che, con o tassi al 4/4,5% il costo dell’elettricità solare e
dell’eolico terrestre aumenterà rispettivamente dell’11% e del 25%.
Sussidi
dei governi al rallentatore.
I
governi non hanno risorse a sufficienza per sussidiare la transizione
considerato che, per vendere titolo di Stato, devono offrire rendimenti sempre
più alti.
Le stime dell’”Agenzia internazionale per l’energia”
spiegano che il costo dell’elettricità prodotta da una centrale a gas aumenta
di circa il 4% con tassi fra il 3% al 7%, mentre quello dell’eolico offshore e
del fotovoltaico può salire del 30%.
Non a
caso – aggiungono “Ferguson e Storm” – “gli alti tassi di interesse proteggono
i produttori tradizionali di petrolio e gas dalla concorrenza dell’energia a
basse emissioni”.
Investimenti
ad alto rischio.
Il
tema è semplice.
Gli investimenti
costano:
finanziarli con gli interessi del 2% ha un
impatto sopportabile con interessi del 6-7% la situazione è ben diversa.
Ne
sanno qualcosa le utilities italiane, alle prese con investimenti a debito in
solare ed eolico.
In una settimana l’indice Ftse Italia “All-Share
Utilities” ha lasciato sul terreno il 5%.
Piazza
Affari.
Oggi
soffrono Erg, che perde l’1,7% a 23
euro, A2A e Terna (entrambi in rosso di quasi un punto percentuale).
Rimbalzano
invece “algo wat”t (+11%), anche se il suo valore si è dimezzato rispetto a un
anno fa, e “Alerion” (+0,7%) dopo aver perso 10 euro in dieci mesi.
“Italgas”,
dopo un balzo nel 2023 a sfiorare i 6 euro è tornata ai 5 euro di un anno fa.
Sull’utility torinese pesa comunque anche
l’operazione dell’azionista Snam (ferma nei confronti di fine settembre 2022
mentre il Ftse Mib è salito di quasi il 30%).
Snam
la scorsa settimana ha piazzato sul mercato un bond da 500 milioni convertibile
in azioni Italgas, in scia all’ultima tendenza di Wall Street.
Obbligazioni
convertibili.
Infatti
in risposta agli aggressivi aumenti dei tassi di interesse da parte della
Federal Reserve, le società statunitensi di alto livello stanno ricorrendo
sempre più alle convertibili per alleviare i crescenti costi di finanziamento.
Quest’anno, secondo i dati della Bank of
America sono stati emessi 12 miliardi di dollari in obbligazioni convertibili,
pari a oltre un terzo dell’emissione totale.
Si
tratta della percentuale più alta in almeno un decennio.
Il
fatto è che l’economia globale potrebbe non essere pronta ad affrontare lo
scenario peggiore, ovvero un aumento del tasso di interesse statunitense fino
al 7% con stagflazione, ha detto a Bloomberg “Jamie Dimon”,” Ceo” del colosso
bancario Jp Morgan.
Da marzo 2022, la Federal Reserve ha aumentato
il costo del denaro di 525 punti base, portandolo nell’intervallo 5,25%-5,5%,
per contenere l’inflazione.
Secondo “Dimon”, la Fed potrebbe aumentare
ancora i tassi per contenere l’inflazione con effetti dannosi per l’economia
globale.
“Passare
dallo zero al 2% non è stato un problema. Passare dallo zero al 5% ha colto di
sorpresa”, ha detto Dimon, durante un’intervista al Times of India.
“Non
sono sicuro che il mondo sia preparato per il 7%”.
Comportamento
suicida.
Msdmanuals.com - Christine Moutier , MD, “American
Foundation For Suicide Prevention” -
(10 luglio
2023) – ci dice:
Il
suicidio è la morte causata da un atto di autolesionismo che ha come obiettivo
di essere letale.
Il comportamento suicida comprende uno spettro
di comportamenti che vanno dal tentativo di suicidio e da comportamenti
propedeutici al suicidio completato. L'ideazione suicidaria si riferisce al
processo di pensare, considerare o pianificare il suicidio.
I
progressi nella scienza, il supporto e la riduzione dello stigma hanno portato
a un'evoluzione della maggior parte della terminologia relativa al suicidio,
compresi quei concetti già definiti sopra:
Intenzione
suicida:
intenzione di porre fine alla propria vita attraverso l'atto di comportamento
suicidario.
Tentativo
di suicidio:
un comportamento non fatale e potenzialmente dannoso diretto contro il sé con
l'intenzione di morire in seguito al comportamento.
Suicide
attempt survivors (Sopravvissuti a un tentativo di suicidio):
persone con una propria esperienza personale
di pensieri o tentativi di suicidio; spesso importanti nel movimento a favore
della prevenzione del suicidio;
a
volte i sopravvissuti ai tentativi di suicidio uniscono le forze con altri
sostenitori.
Suicide
loss survivors (persone che hanno perso esseri cari per suicidio) o persone in lutto a
seguito di un suicidio: membri della famiglia, amici o colleghi di una persona
deceduta per suicidio.
Altri
tre importanti cambiamenti nella terminologia del suicidio sono passati nel
vocabolario professionale:
È
morto per suicidio:
questa
terminologia raccomandata è preferita alla frase "ha commesso
suicidio".
È
accettabile anche un altro tipo di linguaggio semplice (p. es., "si è
suicidato", "ha messo fine alla sua vita", "si è tolto la
vita").
Autolesionismo
non suicidario e autolesionismo: questi comportamenti sono definiti come il ferirsi
deliberatamente senza intento suicidario;
'auto-taglio
è la forma più comune, ma le ustioni, i graffi, i colpi e l'impedire
intenzionalmente la guarigione delle ferite sono altre forme.
Anche se il comportamento in sé è senza intento
suicidario, le persone che hanno un pattern di autolesionismo non suicidario
hanno mostrato di essere a rischio più alto di suicidio nel lungo termine.
Suicidabilità: questo termine è spesso usato in
ambito clinico tra professionisti per riferirsi allo spettro delle possibili
esperienze suicidarie;
non
specifica se vi sia stata ideazione suicidaria o tentativo di suicidio, o se la
natura dell'ideazione o dei tentativi fosse cronica/ricorrente o un evento
singolare o multiplo. In molti casi, la comunicazione può essere più efficace e
chiara se si articola il problema reale a portata di mano, (p. es., l'ideazione
o il tentativo), e si includono eventuali dettagli rilevanti.
Epidemiologia
del comportamento suicida.
Le
statistiche sul comportamento suicida si basano principalmente sui certificati
di morte e sui reperti delle inchieste e ne sottostimano la reale incidenza.
Per
fornire informazioni più attendibili negli Stati Uniti, il Centers for Disease Control and
Prevention (CDC) ha istituito un sistema statale chiamato National Violent Death Reporting
System (NVDRS), che raccoglie informazioni su ogni incidente violento da varie fonti per
fornire una migliore comprensione delle cause di morti violente (omicidi e
suicidi).
Il
sistema nazionale di segnalazione delle morti violente è attualmente in vigore
in tutti e 50 gli stati, nel distretto di Columbia ed a Porto Rico.
Negli
Stati Uniti, il suicidio è stato la decima causa di morte per diversi decenni,
fino al 2020;
quando
il COVID-19 è diventato la terza causa di morte, ha spostato il suicidio oltre
le prime 10 .
Il
tasso di suicidi negli Stati Uniti è aumentato dal 1999 al 2018 del 36% (da
10,2 a 14,2/100 000 persone all'anno), seguito da 2 anni consecutivi di tassi
decrescenti nel 2019 e nel 2020.
I dati sui suicidi negli Stati Uniti nel 2021,
sfortunatamente, hanno mostrato un aumento del 4% dal 2020 al 2021.
Poiché
il suicidio è noto per essere una condizione multifattoriale e complessa, le
ragioni delle variazioni dei tassi nella popolazione sono difficili da
identificare, ma si pensa che siano correlate a fattori come gli atteggiamenti
culturali verso la salute mentale e la ricerca di aiuto, l'accesso alle cure di
salute mentale, l'accesso a mezzi letali e numerose altre influenze.
Si
ritiene che le tendenze esterne della società e le esperienze personali
interagiscano con fattori di rischio individuali interni, come per esempio aver
vissuto un trauma o avere una predisposizione genetica che può aumentare il
rischio di suicidio.
Nel
2021, le fasce di età con tassi di suicidio più alti erano gli adulti di età
compresa tra 25 e 34 anni e 75-84, ma i tassi erano più alti per gli adulti di
età superiore agli 85 anni.
Il più alto tasso di suicidi tra i gruppi
razziali ed etnici per età si riscontra tra i giovani indiani d'America.
Tuttavia,
in termini di carico globale di suicidio, i maschi bianchi, che rappresentano
circa un terzo della popolazione degli Stati Uniti, rappresentano 7 su ogni 10
suicidi negli Stati Uniti.
I dati emergenti indicano anche un aumento dei
tassi di suicidio tra i neri, gli ispanici e gli asiatici. Per le attuali statistiche sul
suicidio, vedi i dati forniti dall'”American Foundation for Suicide Prevention”.
Negli
anni '90, il tasso di suicidio in età giovanile si è ridotto dopo più di un
decennio di costante aumento, solo per ricominciare a aumentare all'inizio
degli anni 2000 con un preoccupante aumento delle morti per suicidio da arma da
fuoco. Numerose influenze sono probabilmente correlate alla crescente tendenza
dei tassi di suicidio tra i bambini e gli adolescenti, tra cui le seguenti :
Condizioni
di salute mentale non affrontate (tra cui disturbo depressivo maggiore, disturbo
bipolare, disturbi da uso di sostanze, psicosi, disturbi alimentari, disturbo
da deficit di attenzione/iperattività, disturbi d'ansia e/o traumi);
Condizioni
di salute come lesioni cerebrali traumatiche o disturbi dello spettro autistico;
Eventi
avversi dell'infanzia (compresi abuso, incuria, perdita);
Esperienze
di trauma o di perdita (tra cui ambiente familiare instabile; crescere con un
genitore con malattia mentale; esposizione al suicidio di coetanei e/o di un
parente morto per suicidio; esperienza di bullismo o di discriminazione basata
sulla razza, il genere, o l'orientamento sessuale);
La
ricerca sul ruolo dei social media sta evolvendo e finora rivela un'influenza
complessa e variabile dell'uso dei social media, che va dagli effetti dannosi
sull'umore, il sonno e l'ideazione suicidaria alla connettività interpersonale
positiva per alcune persone, che può effettivamente essere protettiva.
(Vedi
anche Eziologia).
Ulteriori
dati suggeriscono anche un possibile effetto degli avvertimenti sulle scatole
di farmaci emessi dalle agenzie di regolamentazione circa l'aumento del rischio
di suicidio nei bambini e negli adolescenti associato all'uso di
antidepressivi, che può aver portato a una riduzione del trattamento dei
disturbi depressivi maggiori.
Le
morti maschili per suicidio superano le morti delle donne di circa 2,5:1 a 4:1 a livello
globale e quasi 4:1 negli Stati Uniti.
I
motivi non sono chiari, ma le spiegazioni possibili comprendono:
Gli
uomini sono meno propensi a cercare aiuto quando sono in difficoltà.
Gli
uomini hanno una maggiore prevalenza di alcolismo e di disturbo da uso di
sostanze, entrambi i quali danno origine a comportamenti impulsivi.
Gli
uomini tendono ad essere più aggressivi e utilizzano mezzi più letali quando
tentano il suicidio.
Il
numero di suicidi negli uomini comprende suicidi tra il personale militare e i
veterani, dove vi è una maggiore proporzione di uomini rispetto alle donne.
In
termini di spettro di esperienze correlate al suicidio, circa 14 milioni di
americani sperimentano ideazioni suicidarie, 1,4 milioni di adulti americani
hanno fatto un tentativo di suicidio, e poco meno di 50 000 muoiono per
suicidio ogni anno.
L'ideazione
suicidaria è un'esperienza abbastanza comune nella popolazione generale e più
comune nelle popolazioni cliniche.
Tra
quelli che considerano il suicidio, molti meno agiscono su pensieri o impulsi
suicidi.
Tra le
persone che sopravvivono anche a gravi tentativi di suicidio, più del 90% non
muore per suicidio.
Sulla durata della vita, gli adolescenti e i
giovani adulti hanno la più alta incidenza di idee suicidarie;
le donne tentano il suicidio più dei maschi,
ma i maschi muoiono per suicidio con un tasso 3-4 volte il tasso delle donne.
Tra
gli anziani, sebbene l'ideazione suicidaria sia meno frequente, 1 su 4
tentativi di suicidio si conclude con la morte.
Una
nota di suicidio viene lasciata all'incirca da 1 suicida su 6.
Il contenuto può fornire indizi riguardanti i
fattori che hanno portato al suicidio (p. es., malattia psichiatrica,
disperazione, costrizione cognitiva e restringimento delle opzioni percepite
per andare avanti, percezione di essere un peso per gli altri, e senso di
isolamento).
L'intersezione
di questi e altri fattori di stress o perdite della vita può accelerare il
suicidio.
Il
contagio suicidario si riferisce a un fenomeno in cui un suicidio sembra
generarne altri in una comunità, a scuola o sul posto di lavoro.
I suicidi altamente pubblicizzati possono
avere un effetto molto ampio.
Le persone affette sono di solito quelle già
vulnerabili.
Gli
esseri umani sono creature sociali inclini a imitarsi l'un l'altro, e gli
adolescenti sono più propensi a impegnarsi nell'imitazione rispetto agli adulti
a causa del loro stadio di sviluppo psicologico e neurologico.
Si
stima che il contagio sia un fattore nell'1-5% di tutti i suicidi di
adolescenti.
Il
contagio può verificarsi per esposizione a un coetaneo che tenta di suicidarsi
o muore per suicidio, attraverso una copertura mediatica diffusa del suicidio
di una celebrità, o attraverso la rappresentazione grafica e/o sensazionale del
suicidio nei media popolari.
Viceversa,
la copertura mediatica con messaggi positivi su un decesso per suicidio può
mitigare il rischio e/o l'impatto del contagio suicidario per i giovani
vulnerabili.
I messaggi di prevenzione del suicidio a tema
positivo in genere comportano la rappresentazione delle difficoltà legate alla
salute mentale come parte della vita e dell'esperienza umana, evitando lo
stigma legato alla ricerca di aiuto e trattamento.
Dopo
che si è verificato un suicidio, i messaggi positivi in una scuola o sul posto
di lavoro devono comunicare chiaramente sulla tragica perdita di un membro della
comunità ed esprimere il sostegno per la comunità in lutto e fornire risorse di
supporto.
Il linguaggio che un leader utilizza per
discutere del suicidio, sia per iscritto che durante incontri personali, per il
debriefing della perdita è importante.
Per informazioni più dettagliate sulla
comunicazione e i modelli per la comunicazione scritta, consultare l'After A Suicide Toolkit liberamente
disponibile dell'American Foundation for Suicide Prevention ( afsp.org ).
Il
contagio suicidario può diffondersi anche nelle scuole e nei luoghi di lavoro,
che sono gli ambienti importanti per implementare e seguire le linee guida di
post-prevenzione per prevenire futuri suicidi.
Altre
categorie di suicidio sono rare. Tra questi:
Suicidi
di gruppo.
Omicidi/suicidi.
"Suicidio tramite poliziotto" (situazioni in cui le persone
agiscono in un modo, per esempio brandendo un'arma, che spinge le forze
dell'ordine ad agire con forza letale)
Riferimenti
epidemiologici.
Eziologia
del comportamento suicida.
Il
suicidio è un evento complesso legato alla salute che coinvolge una serie di
fattori genetici, ambientali e psicologici e comportamentali.
Gli
studi di autopsia psicologica mostrano chiaramente che in ogni caso di
suicidio, i defunti stavano vivendo molteplici fattori di rischio per il
suicidio.
La
morte per suicidio è molto più frequente fra le persone con una malattia
psichiatrica, rispetto ai controlli appaiati per età e sesso.
In alcuni studi, quasi il 90% delle persone
che muoiono per suicidio hanno una condizione di salute mentale diagnosticabile
al momento del loro decesso.
Frequenza
dei disturbi di salute mentale nel suicidio.
Uno
dei più comuni, potenti e rimediabili fattori di rischio per il suicidio è la
depressione.
Per i
pazienti con depressione, il rischio di suicidio può aumentare durante i
periodi in cui la depressione è più grave, e quando convergono diversi altri
fattori di rischio. Inoltre, il suicidio sembra essere più comune quando un'ansia
intensa, impulsività, uso di sostanze e problemi del sonno sono parte di una
depressione maggiore o di una depressione bipolare.
Il
rischio di pensieri (e raramente di tentativi suicidari) può aumentare nei
gruppi di età più giovane dopo l'inizio di una terapia antidepressiva (vedi
Trattamento della depressione e del rischio suicidario e Rischio di suicidio e
antidepressivi).
Il
trattamento efficace della depressione con farmaci e/o qualche forma di
psicoterapia è considerato un modo efficace per ridurre in generale il rischio
di suicidio.
Altri
fattori di rischio per il suicidio comprendono:
La
maggior parte delle altre gravi condizioni di salute mentale.
Precedenti
tentativi di suicidio.
Disturbi
della personalità (p. es., disturbo borderline della personalità).
Impulsività
e aggressività.
Esperienze
traumatiche infantili.
Anamnesi
familiare di suicidio e/o di condizioni psichiatriche.
Uso di
alcol, droghe illecite e analgesici da prescrizione.
Condizioni
di salute fisica gravi o croniche (p. es., dolore cronico, lesione cerebrale
traumatica).
Tempi
di perdita (p. es., morte dei familiari o degli amici.)
Conflitto
relazionale (p. es., il divorzio).
Interruzione
del lavoro (p. es., disoccupazione).
Periodi
di transizione professionale (p. es., il cambiamento del proprio status militare
da servizio attivo a stato di veterano o pensionamento).
Stress
finanziari (p. es., recessioni economiche, sottoccupazione).
Bullismo
o altre esperienze umilianti (p. es., cyberbullismo, rifiuto sociale,
discriminazione, problemi professionali o legali).
Fattori
di rischio e segnali di allarme per il suicidio.
Le
persone affette da schizofrenia muoiono per suicidio a un tasso molto più alto
rispetto alla popolazione generale, con circa il 10% dei pazienti con
schizofrenia che muore per suicidio.
I fattori che determinano il rischio di
suicidio tra le persone con schizofrenia comprendono la malattia in fase
precoce, gli episodi depressivi, le allucinazioni, la mancanza di accesso o la
non aderenza a un trattamento efficace, la disabilità, la disperazione e
l'acatisia.
Altri
noti fattori di rischio psicosociale per il suicidio comprendono l'interruzione
di una relazione, la disoccupazione e la perdita.
L'alcol
e le droghe illecite possono aumentare la disinibizione e l'impulsività, nonché
peggiorare l'umore.
Tra il
30% e il 40% dei soggetti che muore per suicidio ha assunto alcol prima del
tentativo, e circa la metà di essi si trova in stato di ebbrezza nel momento in
cui lo compie.
I giovani, che sono generalmente più inclini a
comportamenti impulsivi, sono particolarmente suscettibili agli effetti
dell'alcol;
anche
moderati livelli di intossicazione possono indurre a utilizzare metodi di
suicidio più letali.
Tuttavia,
le persone con il disturbo da abuso di alcol sono ad alto rischio di suicidio
anche quando sono sobri.
Condizioni
di salute fisiche gravi, specialmente quelli cronici e dolorosi, contribuiscono
per circa il 20% dei suicidi nei pazienti anziani.
Anche condizioni di salute fisica
diagnosticate di recente o di nuova insorgenza possono aumentare il rischio di
suicidio (p. es., diabete, epilessia, condizioni di dolore, sclerosi multipla,
cancro, infezioni, HIV/AIDS).
Queste
condizioni di salute possono influenzare direttamente il funzionamento
fisiologico del cervello e, quindi, aumentare il rischio di suicidio.
Gli
effetti psicologici della disabilità, del dolore, o di una nuova diagnosi di
una grave condizione di salute possono anche aumentare il rischio di suicidio.
Gli
individui con disturbi di personalità sono predisposti al suicidio, soprattutto
le persone con disturbo borderline di personalità o disturbo antisociale di
personalità, che probabilmente hanno problemi con l'intolleranza allo stress e
con i modelli di reattività interpersonale, inclusi autolesionismo e
aggressività.
Le
esperienze infantili traumatiche, in particolare lo stress causato da abusi
sessuali o fisici o dalla privazione dei genitori, sono significativamente
associate al comportamento suicidario e probabilmente al suicidio portato a
termine.
La
genetica del rischio di suicidio è un'importante area di ricerca e sembra
influenzare il rischio di suicidio.
Anche se il rischio di suicidio può essere
presente in alcune famiglie, i geni sembrano spiegare solo una parte di tale
rischio.
Una storia
familiare di suicidio, di tentativi di suicidio o di disturbi psichiatrici è
associata a un aumentato rischio suicidario.
Ci
sono anche prove che suggeriscono che le interazioni genetiche e ambientali
contribuiscano al rischio di suicidio .
I
cambiamenti epigenetici (p. es., la mutilazione del DNA) che influenzano
l'espressione genica possono aumentare o diminuire il rischio di suicidio,
influenzando la neurofisiologia, la cognizione o la regolazione dello stress.
Questo
significa che esperienze negative come traumi e, al contrario, esperienze
positive come il supporto sociale della psicoterapia possono effettivamente
cambiare l'espressione genica e influenzare significativamente la resilienza di
un individuo e il rischio di suicidio di un individuo.
Caratteristiche
psicologiche come la tendenza all'impulsività, la rigidità cognitiva, la
sensibilità al rifiuto interpersonale o il nevroticismo grave possono anche
aumentare il rischio.
Riferimenti
relativi all'eziologia.
Metodi
di suicidio.
La
scelta dei metodi per il suicidio è determinata da molti fattori, tra cui
elementi culturali, disponibilità di mezzi per completare il suicidio e la
serietà dell'intenzione.
Per
esempio, l'auto-avvelenamento da pesticidi si verifica più comunemente nelle
aree rurali dei paesi asiatici e del Pacifico occidentale.
Alcuni
metodi (p. es., saltare nel vuoto da grandi altezze) rendono quasi impossibile
la sopravvivenza, mentre altri (p. es., ingestione di farmaci o di droghe
illecite) possono consentire il soccorso.
Tuttavia,
l'uso di un metodo che si dimostra non fatale non implica necessariamente che
l'intenzione sia meno seria.
Per i
tentativi di suicidio, l'ingestione di droghe, farmaci o tossine è il metodo
più comunemente usato.
I
metodi violenti, come l'impiccagione o l'uso di armi da fuoco, sono meno
frequenti nei tentativi di suicidio.
Approssimativamente
il 50% di suicidi portati a termine negli Stati Uniti avviene tramite armi da
fuoco;
gli
uomini usano questo metodo più delle donne.
Ulteriori
dati riguardanti le tendenze dei tassi di suicidio in base al sesso, razza e
etnia sono stati resi disponibili dai Centers for Disease Control and
Prevention (CDC).
Riferimenti
metodologici.
Gestione
del comportamento suicida.
Valutazione
del rischio di suicidio.
Pianificazione
della sicurezza.
Follow-up
e monitoraggio ravvicinato.
La National Action Alliance for Suicide
Prevention (Action Alliance) ha pubblicato le linee guida per gli standard raccomandati
per i pazienti a rischio di suicidio.
Queste
comprendono le raccomandazioni dello screening, della valutazione del rischio
suicidario e l'assistenza clinica per le cure generali, la salute
comportamentale e le strutture di pronto soccorso.
È
importante notare che quel rischio di suicidio è dinamico.
Il
rischio acuto generalmente dura solo un breve periodo di tempo (da ore a
giorni).
Nella
maggior parte dei suicidi, i pazienti erano stati visitati in varie strutture
sanitarie durante il periodo di rischio acuto, ma il rischio di suicidio non è
stato rilevato.
Le
strategie per mitigare i rischi correlati al suicidio che possono essere utilizzati
dai medici (anche quelli al di fuori della salute comportamentale) comprendono
Rispondere
in maniera premurosa e non giudicante
Fornire
interventi brevi (p. es., pianificazione della sicurezza e consulenza sui mezzi
letali).
Comunicare
con la famiglia e gli amici intimi del paziente.
Fornire
risorse di salute mentale per le crisi e altre situazioni come 988, il Suicide
& Crisis Lifeline negli Stati Uniti
Indirizzare
il paziente alle cure appropriate.
Follow-up
del paziente (anche per telefono) tra le visite.
Alcuni
periodi di tempo sono associati a un elevato rischio di suicidio.
In
particolare, il periodo di giorni o settimane dopo la dimissione dal pronto
soccorso o dall'ospedale psichiatrico per i pazienti ricoverati per ideazione suicidaria
o per un tentativo di suicidio è ad alto rischio e, quindi, un punto
fondamentale di intervento.
Un
medico che sospetti l'imminente possibilità di un suicidio di un paziente è,
nella maggior parte delle giurisdizioni, tenuto a informare un servizio
autorizzato a intervenire.
Il non
farlo può portare a un processo civile e penale.
I pazienti a rischio non devono essere
lasciati soli fino a quando non sono in un ambiente protetto (spesso una
struttura psichiatrica).
Se
necessario, questi pazienti devono essere trasportati in quell'ambiente sicuro
da professionisti qualificati (p. es., tecnici medici di emergenza, agenti di
polizia). Sforzi
negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Nuova Zelanda, in Australia e altrove
mirano a riformare il sistema di risposta alle crisi per fare affidamento su un
insieme più robusto di risorse per la salute mentale a più livelli come unità
mobili di crisi e assistenza globale in caso di crisi e indipendenti dai
servizi di emergenza e delle forze dell'ordine.
Qualunque
atto suicidario, indipendentemente dal fatto che sia un gesto dimostrativo
oppure un tentativo finalizzato, deve essere seriamente considerato. Ogni
persona con una seria ferita auto-inflitta deve essere valutata e trattata in
conseguenza del danno fisico.
Se
un'overdose di farmaci potenzialmente letali viene confermata, si prendono
immediati provvedimenti, a somministrare un antidoto e a fornire una terapia di
supporto.
La
valutazione iniziale può essere effettuata da qualunque medico qualificato
nella valutazione e nella gestione del comportamento suicida.
Tuttavia, tutti i pazienti devono ricevere
un'accurata valutazione del rischio di suicidio, che di solito viene eseguita
da uno psichiatra, uno psicologo o un altro professionista della salute mentale,
il prima possibile. È necessario decidere se i pazienti debbano essere
ricoverati volontariamente o se debbano essere indotti al trattamento contro la
loro volontà, e se siano necessarie delle restrizioni (vedi anche Emergenze
comportamentali).
I
pazienti con disturbo psicotico e quelli con depressione grave e crisi
irrisolta devono essere ricoverati presso un'unità psichiatrica.
I pazienti con manifestazioni di disturbi
medici potenzialmente confondenti (p. es., delirium, convulsioni, febbre)
possono avere bisogno di essere ricoverati in una struttura medica adatta alle
opportune precauzioni contro i suicidi.
Dopo
un tentativo di suicidio, il paziente può negare ogni problema, perché la grave
depressione che conduce all'atto suicidiario può essere seguita da un breve
periodo di sollevamento del tono dell'umore.
Tuttavia,
il rischio che un altro tentativo di suicidio riesca è alto se il paziente non
riceve un trattamento e un supporto psicologico continui.
La
valutazione del rischio suicidario identifica i fattori chiave che
contribuiscono all'attuale rischio suicidario dell'individuo e aiuta il medico
a programmare un trattamento adeguato.
Essa
comprende i seguenti passi:
Stabilire
un rapporto e ascoltare la narrativa del paziente.
Comprendere
le ragioni del tentativo di suicidio, ciò che ne fa da sfondo, gli eventi che
lo hanno preceduto e le circostanze nelle quali si è verificato.
Indagare
sui sintomi di salute mentale e su eventuali farmaci o trattamenti alternativi
che il paziente può star assumendo per il trattamento della sua condizione di
salute mentale o per il sollievo dai sintomi.
Valutare
in maniera completa lo stato mentale del paziente, con particolare riguardo
all'identificazione di depressione, ansia, agitazione, attacchi di panico,
insonnia grave o di altri disturbi mentali, nonché ai disturbi di uso di alcol
o di sostanze (molti di questi problemi richiedono un trattamento specifico,
oltre all'intervento critico).
Comprendere
in maniera adeguata le relazioni familiari e personali, così come le reti
sociali, che spesso sono collegate al tentativo di suicidio e al trattamento di
follow up.
Fare
colloqui con i familiari e gli amici più vicini.
Indagare
sulla presenza di un'arma da fuoco o di altri mezzi letali in casa e fornire
consulenza sui mezzi letali (questo può includere la facilitazione del deposito
sicuro o dello smaltimento dei mezzi letali lontano da casa)
I
medici possono utilizzare strumenti validati come il Columbia Suicide Severity Rating
Scale (C-SSRS) o lo strumento "Ask Suicide-Screening Questions" (ASQ)
sviluppato dal National Institute of Mental Health (NIMH) per una guida dello
screening e della valutazione del rischio suicidario.
La
pianificazione della sicurezza, il primo passo dopo la valutazione, è un
intervento essenziale che viene effettuato per aiutare i pazienti a
identificare i fattori scatenanti della pianificazione suicidaria e sviluppare
piani per affrontare i pensieri suicidi quando si verificano.
Altre
misure che i medici devono intraprendere comprendono la fornitura al paziente
di risorse per le crisi, la consulenza sulla rimozione o il deposito di mezzi
letali (5, 6), e il rinvio a cure appropriate per la riduzione del rischio (p.
es., terapia cognitivo-comportamentale, terapia dialettico-comportamentale,
valutazione collaborativa e gestione della suicidabilità, terapia familiare.
I
medici possono anche fornire al paziente un contatto più frequente attraverso
visite ambulatoriali o varie forme di comunicazione, alcune delle quali possono
essere fornite da altri membri del team sanitario.
Dr.
Peter McCullough al Parlamento Europeo:
“Ritirare
Subito tutti i Vaccini mRNA dal Mercato”
Conoscenzealconfine.it
– (29 Settembre 2023) - Dr. Peter McCullough- ci dice:
Dr.
Peter McCullough:”I ‘vaccini’ a mRNA hanno devastato la popolazione mondiale.
Nessuno faccia un’altra iniezione. Nessuno!”
Intervento
del Dr. Peter McCullough (radcliffecardiology.com/authors/peter-mccullough), cardiologo, internista ed
epidemiologo, al Parlamento Europeo nella sessione:
“Salute
e democrazia sotto le nuove regole proposte dall’OMS, benefici e rischi per la
società civile”.
L’OMS,
afferma il Dr. McCullough, sembra far parte di un “complesso sindacato
biofarmaceutico”, di cui fa parte anche il WEF, l’ONU, la Fondazione Gates, la
Fondazione Rockefeller ed altri.
Questo
“sindacato” ha inflitto sofferenza al mondo attraverso delle false narrazioni:
che il SARS-CoV-2 non può essere debellato, che i vaccini
sono sicuri, efficaci e l’unica via percorribile, e che non è il vaccino a
creare questi problemi attuali, ma il “long covid”.
Invece
proprio questi “vaccini” a mRNA hanno devastato la popolazione mondiale e
stanno causando un’enorme ondata di malattie.
È
stata l’idea peggiore di sempre iniettare un codice genetico” afferma
McCullough.
Gli
effetti avversi interessano sostanzialmente 4 ambiti:
si registrano effetti cardiovascolari,
neurologici, coaguli di sangue ed anomalie immunologiche.
In un gruppo che rappresenta il 4,2% sono
addirittura alle stelle.
“Nessuno
faccia un’altra iniezione. Nessuno. Non sono sicuri per l’uso umano.
Imploro l’EMA di esercitare ogni pressione e la dovuta urgenza per ritirare dal
mercato i vaccini contro il Covid.”
Ringraziamo
Agenda2029.is (agenda2029.is/it/ ) per i sottotitoli e la collaborazione per la
realizzazione di questo video!
(Ma i pazzi dell’élite globalista
anche verde - sopra indicati nominalmente - non debbono essere reclusi in
appositi manicomi criminali, dopo l’apposito processo? N.D.R)
Forse
non è tutta colpa
del
Credit Suisse.
Lamiafinanza.it - Paolo Brambilla –
Alessandro Arrighi - (28/03/2023) – ci dicono:
Com’è
noto, dopo il crollo in borsa, Credit Suisse ha annunciato l’intenzione di
realizzare una fusione entro la fine del 2023 con UBS.
Fino ad allora, Credit Suisse continuerà la
sua attività come istituto indipendente. Durante la fase di integrazione,
Credit Suisse insieme a UBS lavorerà con il massimo impegno per assicurare ai
clienti un’agevole transizione e la piena continuità dei servizi.
Le relazioni con la clientela e tutti i
servizi erogati proseguono senza variazioni: fino alla fusione con UBS, Credit
Suisse proseguirà la sua attività come di consueto e rimarranno invariati gli
accessi all’online & mobile banking, che consentono di effettuare le
transazioni desiderate.
Sulla
situazione di questi giorni abbiamo sentito il parere dell’economista
Alessandro Arrighi.
“La
scienza economica, oltre che il buon senso, insegna che all’aumentare dei
consumi aumentano i tassi di interesse” esordisce Alessandro Arrighi.
“La
cosiddetta “mano invisibile”, ossia il meccanismo di auto riequilibrio dei
mercati, fa in modo, che al crescere dei tassi di interesse, il denaro valga e
costi di più.
Semplificando:
il
denaro è, da questo punto di vista, un bene, come tutti gli altri e se vale e
costa di più, essendo il tasso di interesse il prezzo del denaro, la gente è
meno propensa a scambiarlo con i beni;
in questo modo, le persone consumano di meno e
così i prezzi tornano a scendere o almeno diminuisce il tasso di inflazione.
La scorciatoia per fare diminuire l’inflazione
è quella per cui la Banca Centrale, aumenta i tassi, ottenendo lo stesso scopo.
Tecnicamente,
si scambia recessione, con inflazione, perché l’inflazione è considerata un
male”.
Intervista
all’economista Alessandro Arrighi.
Ma
cosa succede se i prezzi sono invece aumentati perché c’è una guerra, anziché
perché sono aumentati i consumi?
“L’effetto
recessivo, in questo caso, ovviamente viene decisamente amplificato perché
l’aumento dei prezzi non è dovuto a un meccanismo di crescita, che sta
funzionando “troppo bene”, ma al contrario è esso stesso determinato dalla
scarsità.
I beni che devono essere acquistati costano
troppo perché sono difficili da reperire e quindi i prezzi aumentano.
Quando
aumentano anche i tassi di interesse, in pratica le persone si trovano a pagare
tassi di interessi spropositati per i mutui e contemporaneamente prezzi più
alti per i beni che devono acquistare, senza che gli stipendi possano salire,
poiché, in effetti, l’inflazione non è quella determinata dallo sviluppo, ma,
come detto, dalla scarsità”.
Questo
aspetto vale solo per i privati o anche per le imprese?
“Questo
vale a maggior ragione per le imprese, che non possono più investire perché i
prezzi degli impianti da comprare sono troppo alti, ma soprattutto troppo alti
sono i prezzi dei finanziamenti che servirebbero all’impresa e, a differenza di
quello che succede nel caso dello sviluppo, le imprese medesime non possono
aumentare i prezzi.
Ma non
solo, spesso non riescono nemmeno più a trovare le persone da assumere, perché
allo stesso livello di salario le persone non sono disponibili a lavorare e
d’altronde, essendo aumentati i prezzi di acquisto dei beni “scarsi”, e non
potendosi aumentare quelli di vendita a causa della recessione, le imprese
falliscono”.
Le
banche, e il Credit Suisse in particolare, hanno affrontato lo stesso problema?
“Tragicamente,
in un sistema capitalistico avanzato come il nostro, le prime imprese a fallire
sono proprio le banche, che, per effetto della politica di aumento dei tassi,
pagano troppo la loro materia prima, ossia il denaro.
E in un sistema in piena recessione, in cui le
imprese di produzione e le famiglie non riescono più ad investire, le banche
non riescono a vendere i loro prodotti, ossia il denaro al prezzo più alto, che
consentirebbe l’equilibrio”.
Stiamo
attraversando certamente un periodo storico contradditorio…
“Non
solo: una guerra, purtroppo, al di là delle considerazioni etiche, è un
elemento capace di fare saltare, quantomeno nel medio termine, il meccanismo
della mano invisibile e questo diventa molto più evidente, se quella guerra non
è in un altro continente economicamente lontano, come accade per i disordini in
Africa o nel Medio Oriente, ma nella nostra Eurasia, in cui i Paesi sono
connessi in modo indissolubile”.
Tutto
questo sarebbe diverso nel continente americano?
“L’economia
europea non è quella americana:
quest’ultima, già in pieno sviluppo prima
della guerra, dal conflitto può persino avvantaggiarsi;
basti
guardare l’effetto benefico sul dollaro che, infatti, si è apprezzato
consistentemente sull’euro.
La Fed
pertanto può giustamente alzare i tassi e , forse, pagare anche il fallimento
di qualche banca come la “Silicon Valley Bank”;
non è
indolore, ma è sostenibile per un sistema in crescita, e dove comunque c’è la
necessità di rallentare la velocità dell’economia e fare diminuire i tassi di
crescita e quindi quelli dell’inflazione.
L’Europa rimane orfana di un pezzo integrante, non
solo della propria civiltà, ma dal punto di vista economico anche di un pezzo
del proprio mercato, che inevitabilmente si sposta verso la Cina”.
Come
possiamo concludere questa intervista?
“Così:
siamo noi ad essere isolati da quella stessa
Eurasia che resta integra e compatta senza di noi, geograficamente isolati e
sempre più satelliti dei ricchi Stati Uniti.
Nel
momento in cui perdiamo un pezzo così importante del nostro mercato, in termini
di capacità di acquisto (gas, combustibili, ma anche prodotti delle terre rare),
la politica economica restrittiva rischia di essere un suicidio per l’Europa, e
per i Paesi più deboli come l’Italia l’omicidio sembra ineluttabile.
La
Svizzera sembra tragicamente essere stata solo la più efficiente nell’avere
interpretato quello che sta per accadere.
Non si
negano difficoltà strutturali dell’istituto Credit Suisse già prima della
guerra e della politica della Lagarde, ma stiamo parlando di una banca
riconosciuta come storicamente tra le più solide di Europa e forse del mondo, in un Paese che, avendo una moneta
nazionale, avrebbe avuto la possibilità di intervenire in modo molto più ampio
di quello che succederà nei paesi europei.
Se non
vi sarà un’inversione importante della rotta, questo è solo l’inizio”.
Basta
accusare l'uomo per
un'emergenza
climatica che non c'è.
Lanuovabq.it
– Ernesto Pedrocchi – ( 12-3-2023) – ci dice:
La
transizione energetica viene ora identificata con la rinuncia ai combustibili
fossili.
La decarbonizzazione trova la sua
giustificazione nell'ipotesi che le emissioni antropiche di CO2 siano una grave
minaccia per il clima.
Ma non ci sono prove sufficienti per
affermarlo e i dati che abbiamo non dimostrano un'emergenza climatica.
La
transizione energetica è parte importante della transizione ecologica.
Essa
viene ora identificata con la decarbonizzazione ovvero la rinuncia all’uso dei
combustibili fossili sostituendoli con le fonti rinnovabili in particolare
solare fotovoltaico ed eolico.
La
decarbonizzazione trova la sua giustificazione nell’ipotesi che le emissioni
antropiche di CO2 costituiscano una grave minaccia per il clima del pianeta al
punto di renderlo inabitabile in un prossimo futuro.
Tale
ipotesi, fortemente supportata e propagandata dall’ONU (corrotta! N.D.R) tramite le associazioni IPCC e
UNFCCC (entrambe
corrotte! N.D.R) non è scevra da dubbi e criticità, che i suoi sostenitori minimizzano e
i suoi critici enfatizzano.
Nel seguito, pertanto, si riassumono senza intenti
polemici e obiettivamente, cioè fondandosi su dati verificabili e riportati
dalla stessa IPCC, i principali dubbi sulla natura antropica del cambiamento
climatico in atto.
(Ma
come è possibile che un gas CO2 - più pesante dell’atmosfera- si possa alzare
da terra e rifugiarsi sotto una coperta -gas serra – posta nella stratosfera
-per trattenere il calore emanato dal sole e dalla terra stessa! N.D.R)
Il
clima globale riguarda tutto il pianeta ed è ovviamente l’insieme di tanti
climi locali.
La
variabile principe che lo caratterizza è la temperatura globale media di
superficie (Tgm) che influisce sulle due principali variabili globali che sono
la copertura niveo-glaciale e il livello del mare.
La
variazione del clima globale potrebbe causare aumento dei così detti eventi
estremi sia in termini di frequenza che di intensità.
Una recentissima ricerca sul problema evidenzia, in
accordo con il rapporto AR6 dell’IPCC (2021), che l’unico dato che evidenzia
aumento della frequenza riguarda il fenomeno delle ondate di calore.
Tutti
gli altri eventi estremi, inondazioni, siccità, uragani, tornado non mostrano
aumentati di intensità e di frequenza da circa 50 anni, per periodi più lunghi
non ci sono dati attendibili.
A
livello locale può essere che si siano verificati aumenti di intensità e di frequenza
di eventi estremi, ma è sempre molto difficile conoscere i dati del passato per
la disomogeneità e inadeguatezza dei sistemi di rilevamento.
Ben diverso è il problema dei danni causati
dai fenomeni estremi a livello locale che possono essere fortemente aumentati a
causa prevalentemente della antropizzazione incontrollata del territorio.
Per
quanto riguarda invece il legame tra la variazione del clima globale e le
emissioni antropiche di anidride carbonica, si segnalano le seguenti criticità.
1- Non
è certo che l’aumento della concentrazione di CO2 in atto dal 1700 derivi
prevalentemente dalle emissioni antropiche che solo ora contribuiscono al 5%
del totale immesso in atmosfera.
(Ma
giova ripetere che è impossibile che la Co2 gas più pesante dell’atmosfera svolazzi
sempre più in alto nel cielo, spinto solo
dall’incredibile aspiratore celeste! N.D.R)
I combustili fossili hanno iniziato a
rappresentare un contributo significativo solo dopo il 1850 poiché in
precedenza il petrolio e il gas naturale non erano ancora usati a fini
energetici e non c’erano centrali termoelettriche.
Ciò
significa che per circa un secolo la concentrazione di CO2 è aumentata per
cause diverse molto probabilmente naturali.
Anche la variazione della concentrazione
isotopica del C in atmosfera C13/C12 e C14/C12, assunto dai sostenitori
dell’AGW come prova che l’aumento derivi dalle emissioni antropiche, è un
fenomeno fortemente legato anche ad altri fatti quali la concentrazione di C13
in tutta i prodotti organici e il forte aumento di C14 in atmosfera a seguito
delle prove di bombe nucleari negli anni ‘60 e non giustifica l’AGW.
Si consideri inoltre che l’aumento della Tgm associato
con quello della concentrazione di CO2 ha probabilmente contribuito nell’ultimo
mezzo secolo al generale rinverdimento della terra che è un fatto accertato e
positivo per tutta l’umanità.
2-
L’aumento della concentrazione di CO2 è stato ed è tuttora praticamente eguale
nei due emisferi terrestri, mentre le emissioni antropiche sono fortemente
concentrate nell’emisfero nord.
È
scientificamente accertato, anche con misure molto accurate di prodotti radioattivi
emessi nell’emisfero nord fino agli anni ’60 a seguito di test di bombe
“atomiche”, che la barriera equatoriale è piuttosto impervia al miscelamento
dell’atmosfera tra i due emisferi.
Non si capisce quindi, se l’aumento della
concentrazione di anidride carbonica fosse essenzialmente dovuto alle emissioni
antropiche, come non resti alcun segno di questa differenza tra i due emisferi.
3- C’è
il forte dubbio dovuto alla disponibilità di molti dati sperimentali recenti e
remoti, supportato anche da 140 pubblicazioni scientificamente accreditate, che
a livelli elevati di concentrazione di CO2 in atmosfera, anche inferiori al
livello attuale, essa non abbia più alcun effetto sulla temperatura globale
media (Tgm).
Una volta che la CO2 abbia raggiunto una
concentrazione tale da assorbire tutta l’energia compresa nel suo spettro di
assorbimento ulteriori aumenti diventano irrilevanti e questa situazione
potrebbe essere già stata raggiunta.
Diversi
rilievi sperimentali relativi alle ultime glaciazioni e inter glaciazioni,
ottenuti dall’analisi dei carotaggi di ghiaccio nelle zone polari, mostrano
inoltre che in generale è l’aumento di temperatura che precede la crescita
della concentrazione di CO2 e non il contrario, come supporrebbe l’ipotesi del
riscaldamento globale causato dalle emissioni antropiche di gas serra.
L’andamento della Tgm è disponibile mediante
misure dirette e ritenute attendibili solo dal 1850.
Da
allora essa è variata sia in aumento sia in diminuzione attestandosi alla fine
del 2021 a circa 1°C più alta rispetto al valore di riferimento iniziale.
Dall’inizio
del 2020 alla fine del 2021 la Tgm è diminuita di circa 0.5°C pari alla metà
dell’aumento dal 1850.
Variazioni di questo ordine non sono indici di
emergenza climatica.
La Tgm anche negli ultimi millenni -quindi non
includendo le transizioni tra glaciazioni e interglaciazioni - è variata più
volte in aumento e diminuzione con valori maggiori, a titolo di esempio nel
così detto “periodo caldo medioevale” nell’emisfero nord è stata stimata essere
di circa 2°C superiore al livello attuale e ciò è confermato dal fatto che i
ghiacciai alpini ora in ritirata fanno emergere sui loro fronti (~2500m slm)
grandi alberi che esistevano, sotto l’attuale coltre ghiacciata, nel periodo
caldo medioevale.
Le
previsioni catastrofiche che ora vengono propinate (solo per interesse antropico economico
dei padroni del mondo bugiardi scatenati e pazzi furiosi! N.D.R) sono basate sui risultati ottenuti
con modelli matematici che differiscono anche molto fra loro e che in media
danno risultati non attendibili sia per periodi recenti che remoti.
D'altronde l’IPCC (ben pagata dai padroni del mondo per dire cose non vere!
N.D.R) stesso riconosce che il sistema
climatico è molto complesso ed è molto difficile fare previsioni attendibili a
lungo termine, ciononostante fa proiezioni allarmanti per orientare le scelte politiche
dei padroni del mondo.
L’insieme
dei dubbi sulla natura antropica del recente cambiamento climatico, l’entità
rilevata finora e la poca attendibilità dei modelli fanno pensare che non si sia in uno
stato di emergenza climatica causato dalle emissioni antropiche di CO2 (che essendo più pesante dell’aria non
può volare libera nel cielo! N.D.R)
(È
tutto un volgare e criminale intento distruttivo dell’esistente posto in atto
dai criminali padroni del mondo per impadronirsi di tutto quanto ancora rimane
di prezioso sulla terra! N.D.R)
Le relazioni
tra guerra e
crisi
climatica ed ecologica.
Emetgency.it
– Roberto Mezzalama – (6 maggio 2022) – ci dice:
Roberto
Mezzalama, esperto ambientale e autore, esplora con noi le relazioni tra guerra
e crisi climatica ed ecologica.
La trascrizione
integrale dell’intervento di Roberto Mezzalama per “Giù le armi”.
Buongiorno,
grazie per questa opportunità.
Oggi vi parlerò delle relazioni tra guerre e
crisi climatica ed ecologica, che sono delle relazioni piuttosto complicate e
che richiederebbero delle analisi molto complesse e approfondite.
Quindi oggi, senza nessuna pretesa di
completezza, mi limiterò ad esplorare tre aspetti, che considero fondamentali
in questo contesto così complesso.
Il
primo riguarda l’importanza del settore militare nelle emissioni, soprattutto
di gas a effetto serra, che sono la causa principale della crisi climatica ed
ecologica;
il secondo sono gli effetti dei conflitti
armati;
il terzo, perché si fa la guerra in relazione
al petrolio, alle fonti fossili di energia e quindi, la relazione inversa, cioè
la causa della crisi climatica che diventa anche la causa dei conflitti armati.
Tra il
2001 e il 2017 si è stimato che il Dipartimento di Stato americano abbia emesso
1,2 miliardi di tonnellate di CO², che sono più o meno il consumo annuo, o
meglio, le emissioni annue di 257 milioni di macchine, che sono esattamente il
doppio di quelle che circolano negli Stati Uniti.
A
livello europeo siamo messi un po’ meglio, comunque il settore militare emette
– al netto del Regno Unito – più o meno 8 milioni di tonnellate l’anno di CO²,
a cui però bisogna aggiungere anche quelle che arrivano dalle aziende che sono
impegnate nelle attività militari – per l’Italia, ad esempio Leonardo, ma anche
altre aziende – e, quindi, se mettiamo insieme tutto quanto arriviamo a
emissioni di CO2 che sono di quasi 25 milioni di tonnellate l’anno, che
corrispondono più o meno a circa 14 milioni di autovetture oppure al 10% delle
emissioni dell’Italia. Emissioni molto significative.
Le
emissioni dell’apparato militare italiano sono poco più di 2 milioni (tra 1
milione e 2 milioni e mezzo) che comunque coincidono, vuoto per pieno, alle
emissioni di una città come Torino, quindi non così piccola.
Il
settore militare anche in tempo di pace è un settore che emette molte quantità
di gas a effetto serra, che consuma molti combustibili fossili.
Li
consuma nei suoi mezzi:
l’aviazione
è l’arma che di gran lunga consuma più combustibili.
Si stima che quest’anno l’aviazione americana
sparerà 5 miliardi di dollari di combustibili.
E poi ci sono ovviamente tutte le basi, gli
edifici, le infrastrutture che vanno mantenuti.
Si calcola che tra l’1 e il 6% delle terre
emerse in realtà siano dedicate ad attività militare.
E in
questi posti, poi, dove si svolgono esercitazioni e attività di utilizzo di
armi ci sono effetti anche diversi da quelli delle emissioni di gas a effetto
serra come l’inquinamento da idrocarburi, l’inquinamento da sostanze organiche
o da metalli, ogni tanto anche l’inquinamento da sostanze radioattive, quindi
grandi quantità di materiali pericolosi che vengono emessi durante le
esercitazioni, che prevedono spesso esplosioni, incendi…
E
quindi è chiaro che aumentare le spese militari anche in tempo di pace
significa anche aumentare le emissioni che sono legate alla produzione delle
armi, allo stoccaggio, alla manutenzione, alle esercitazioni, alle manovre
militari…
Quindi,
per dare anche qui un paragone, si stima che le spese militari siano state di 2
miliardi di dollari nel 2021.
Eppure, durante la Cop 26 a Glasgow, i Paesi
sviluppati non sono riusciti a trovare 100 milioni per costituire un fondo con
cui compensare i Paesi più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico.
C’è da
dire anche un’altra cosa, che almeno l’esercito americano è impegnato a ridurre
i suoi consumi.
Lo fa per ragioni strategiche, non solo per
ragioni ambientali, perché comunque la dipendenza dal petrolio, come più è un
problema e quindi c’è un progetto di investimento, c’è un programma di
investimento di parla di 750 milioni di dollari per passare a energie
rinnovabili, inclusi biocombustibili e motori elettrici per far andare avanti i
mezzi militari, probabilmente non quelli critici per le emissioni, però, questo
è anche un altro processo in corso nell’ambiente militare.
Cosa
succede durante le guerre, durante i conflitti armati?
Le cose ovviamente peggiorano moltissimo.
Intanto
per i mezzi militari, che sono alimentati a fonti fossili e che spesso sono
tenuti negli hangar o nei magazzini e che vengono utilizzati di continuo.
Degli
1,2 miliardi di tonnellate di gas a effetto serra di cui parlavo prima, cioè
dal 2001 al 2017 (per l’esercito americano si è scelto il 2001 perché sono
partite le cosiddette Guerre al terrore di Bush), pensate che 1/3 di quelli
sono stati emessi direttamente durante le attività di combattimento.
Quindi
400 milioni di tonnellate di CO² sono state emesse durante i combattimenti,
soprattutto in Iraq e Afghanistan.
E poi, ovviamente, quando si combatte si usano
esplosivi e questi rilasciano, nel corso dell’esplosione, degli incendi gas a
effetto serra, inquinanti, organici, inorganici…
Si
polverizzano metalli, inclusi, metalli pesanti.
È
anche il caso di uranio impoverito.
Si
sterilizza il suolo perché le esplosioni causano temperature elevatissime e
quindi si sterilizza il suolo e si uccidono milioni di animali.
Si è
stimato che durante i conflitti in Asia e in Africa fino al 90% dei vertebrati
terrestri vengano uccisi direttamente dalle attività belliche e poi anche
indirettamente, perché in genere i soldati si dedicano anche alla caccia.
Insomma, ogni tanto da quelle parti restano
anche senza viveri e quindi questo è successo in modo ampio.
I
crateri che vengono lasciati dalle bombe modificano il suolo, spesso espongono
la falda superficiale, gli inquinanti che sono rilasciati durante le
esplosioni.
E
proprio l’esempio più noto da questo punto di vista è quello della guerra del
Vietnam, perché si stima che l’esercito americano lì abbia sganciato più di 7
milioni di bombe, e non solo in Vietnam, ma anche in Laos e in Cambogia.
Queste
hanno sconvolto il paesaggio e molto spesso non è stato possibile ripristinare
le condizioni precedenti, ripristinare le coltivazioni perché la circolazione
della parte superficiale era stata completamente stravolta e, in alcuni casi,
come ripiego sono stati poi trasformati in stagni per allevare dei pesci.
Un
altro esempio famoso di disastro ambientale legato a un conflitto è quello che
è successo durante la prima guerra del Golfo quando, in seguito all’invasione
del Kuwait, gli iracheni hanno fatto saltare in aria 800 pozzi di petrolio e
600 di questi hanno preso fuoco e si stima che le emissioni generate da questi
incendi siano state pari al 3-4% delle emissioni globali di quell’anno.
Questo
è un po’ la proporzione di quello che è successo.
E lì,
invece, dai pozzi che non hanno preso fuoco si sono fuoriusciti costantemente
enormi quantità di idrocarburi che hanno coperto quasi 200 chilometri quadrati
di suolo.
E
ancora adesso si sta cercando di bonificare questi terreni a 30 anni di
distanza.
Nelle
guerre moderne è abbastanza frequente che vengano presi di mira, in modo più o
meno volontario, obiettivi industriali come impianti chimici, siderurgici,
petrolchimici, per incidere sulla fornitura di materiali all’esercito nemico.
Un
caso famoso è quello del bombardamento della Nato della Serbia nel 1999, quando
è stata colpita la raffineria di Novi Sad.
E, le
Nazioni Unite, hanno stimato che siano uscite 50.000 tonnellate di petrolio, in
parte bruciate, in parte sono andate a contaminare il terreno circostante.
E
questo, se veniamo all’attualità, è esattamente quel che sta succedendo in
Ucraina.
Continuano
ad arrivare notizie di attacchi a impianti industriali o depositi di
carburante.
E l’Ucraina è un Paese industrializzato,
soprattutto nella regione del Donbass dove ci sono la gran parte dei
combattimenti.
Il
ministero dell’Ambiente ucraino stima che ci siano oltre 23.000 siti nel Paese
che hanno o sostanze tossiche o rifiuti tossici stoccati.
E qui è probabile che alcune decine di questi
siano già stati danneggiati, con il rilascio conseguente poi delle sostanze
tossiche.
È il caso di una fabbrica da bombardamento a
nord dell’Ucraina da cui si è liberata una nuvola di ammoniaca che ha
interessato un raggio di due chilometri e mezzo.
E così, come è noto, anche il caso dei
combattimenti tra una centrale di Chernobyl che hanno provocato il sollevamento
di polveri radioattive.
E pare
ci siano stati anche degli effetti sui soldati russi che erano stati esposti a
questa polvere radioattiva.
C’è un
altro effetto dei conflitti, che durante le guerre crollano le strutture che
reggono la vita civile.
Tra
queste ci sono anche le infrastrutture e le istituzioni che si preoccupano di
proteggere l’ambiente.
Durante
la guerra civile del Congo, ad esempio, c’è stato un crollo della popolazione
dei gorilla perché i guardiani del parco non potevano più fare il loro lavoro e
spesso erano stati anche uccisi e quindi c’è stato un effetto molto diretto.
Poi
pensate a tutti gli impianti di presidio dell’ambiente, come gli impianti di
depurazione delle acque, gli impianti di smaltimento dei rifiuti, le
discariche, gli impianti di compostaggio, gli impianti di bonifica di siti
contaminati, sono tutti a rischio di danni fisici, ma anche di abbandono da
parte di chi è stato richiamato a combattere o semplicemente non può rischiare
la vita per andare a farli funzionare.
E
quindi qui siamo di nuovo di fronte a tutta una serie di fenomeni di
inquinamento secondario, se vogliamo il rilascio di gas a effetto serra
secondario, che però sono estremamente importanti e che colpiscono alcuni
comparti ambientali in particolare, ed espongono anche la popolazione poi a
degli effetti secondari.
Perché
poi?
Le acque non depurate, i rifiuti non smaltiti.
Come
dire, gli impianti di bonifica non funzionano, poi al fine generano altro
generato inquinamento.
E qui voglio introdurre un altro elemento, a
costo di sembrare molto, molto cinico. Durante questi periodi di conflitto cosa
succede?
L’altra
cosa succede è che si fermano le normali attività, diciamo così, civili e
normali attività produttive.
E quindi c’è un contraltare a tutto questo.
Quest’anno
stimiamo che il PIL, si stima che il PIL dell’Ucraina crolli del 35-40%. Questo
provocherà anche un crollo delle emissioni di gas a effetto serra, che però, e
questo è il motivo per cui, per citare questo fatto, spesso queste diminuzioni
legate ai conflitti vengono più che compensate dal dagli investimenti e dalle
attività di ricostruzione che hanno luogo dopo la fine del conflitto.
E
quindi, come dire, alla fine il bilancio netto di tutto questo è un bilancio
gravemente negativo.
E qui
voglio ribadire, al di là e al di sopra di tutte le sofferenze umane, ciò che
queste attività di guerra comportano.
E qui
vengo al terzo angolo, diciamo, dal quale volevo provare un po’ a guardare:
il
problema oggi delle relazioni tra attività militari, guerre, conflitti e crisi
climatica ed ecologica, che è quello della motivazione perché si fa la guerra.
Perché?
Perché
ci si combatte nel corso della storia?
Molto
spesso ci si è combattuti proprio per il controllo delle fonti fossili di
energia. E durante la seconda guerra mondiale ci sono stati – ma addirittura
nella prima guerra mondiale – dei casi emblematici di due battaglie che si sono
svolte intorno a quelle che allora erano le grandi regioni petrolifere:
la
regione di Ploiesti in Romania e la regione di Baku in Azerbaigian.
Ci
sono state, prima i tedeschi hanno cercato di controllare Baku, poi i sovietici
hanno preso la regione di Ploiesti e hanno lasciato la Germania nazista senza
una delle sue fonti principali di idrocarburi e quindi diciamo il combattersi
per il controllo delle risorse.
Sostanzialmente
del petrolio, ma anche in maniera crescente anche del gas.
È una costante che abbiamo trovato in conflitti
che possiamo trovare nella nostra storia, in conflitti, soprattutto nel secondo
dopoguerra, ma anche durante la Seconda guerra mondiale.
Anche
guerre, come dire dimenticate.
Pensate
alla guerra del Biafra in Nigeria, dove abbiamo cercato di rendersi
indipendente dopo, dopo l’indipendenza della Nigeria.
Qui ci
sono stati numerosi combattimenti intorno alle alla regione petrolifera di Port
Harcourt, nella regione del Delta del Niger, dove ancora adesso che è ancora
adesso la capitale petrolifera della Nigeria, dove ancora adesso Eni ha grandi
interessi e grandi e grandi basi.
Poi c’è, l’ho già citato, forse l’esempio più
famoso di conflitto armato contro le risorse petrolifere, che è quello appunto
delle due guerre del Golfo che sono appunto iniziate con l’invasione del Kuwait
da parte dell’Iraq e poi proseguite.
Ci sono state due ondate o state due guerre
del Golfo guidate dagli Stati Uniti e partecipato a una coalizione nella quale
c’era anche l’Italia.
L’origine di tutto questo è stata il controllo
dei, diciamo così, dei giacimenti petroliferi che stanno al confine tra Kuwait
e Iraq.
Questo
ha scatenato in qualche modo la prima guerra del Golfo e poi ha fatto partire
anche tra la prima e la seconda guerra del Golfo.
C’è
stato una fortissima pressione sul governo americano per prendere il controllo
delle risorse petrolifere irachene che erano e sono ancora immense.
Ricordo
che nel governo di George Bush c’erano ai tempi della guerra al Golfo
Condoleezza Rice, che era membro del Consiglio d’amministrazione di Shell
Brown, e Dick Cheney, che era stato l’amministratore delegato di Al Barton,
forse il più grande contractor petrolifero del mondo.
E
quindi ci sono sicuramente state forti pressioni per arrivare a questi a queste
situazioni.
Ma guardate, ci sono anche, come dire, altre
guerre dimenticate.
È
stata una piccola fase della guerra tra il Sudan e il Sud Sudan, che è stata
anche legata al controllo di una località petrolifera.
Un breve periodo in cui però 100.000 civili
hanno dovuto lasciare le loro case.
E le
tensioni nel Mar Cinese Meridionale tra Cina, Indonesia, Malesia, Filippine
sono anche legate al fatto che in quell’area ci sono risorse petrolifere.
Ma anche se veniamo al Mediterraneo, le
esplorazioni petrolifere intorno a Cipro hanno causato tensioni.
Il dispiegamento di navi militari turche nel
Mediterraneo occidentale.
Fino a
cosa?
Anche
un po’, come dire, folcloristiche.
C’è una tensione diplomatica tra la Danimarca
e il Canada per il controllo di una minuscola isola nell’Artico intorno al
quale c’è petrolio che è stata nominata la guerra del whisky.
Poi chi vuole approfondire potrà cercare
quindi il controllo delle risorse petrolifere.
È una
continua fonte di tensione ed è chiaro che la spinta verso la decarbonizzazione
dell’economia, che deriva dal tentativo di combattere i cambiamenti climatici,
sta mettendo a dura prova gli equilibri geopolitici che si sono stratificati
nel corso nel corso del tempo e quindi anche le relazioni tra Paesi e blocchi,
tra i blocchi di Paesi.
La transizione ecologica non sarà un gioco a
somma zero per tutti.
È
chiaro che, ad esempio, le ricchissime dinastie del Golfo saranno probabilmente
tra i perdenti.
E
quindi è chiaro che da un punto di vista politico ci siano forti pressioni per
anche rallentare, modificare, insomma incidere su questo fenomeno storico.
E
quindi, per concludere, credo che tutto questo da portare a riflettere, perché
noi siamo in un momento storico in cui la crisi climatica ecologica dovrebbe
indurre l’umanità intera a unirsi per trovare una soluzione alla crisi
climatica.
E in tutto questo una ripresa,
un’accelerazione della militarizzazione del mondo è estremamente negativo,
estremamente rischioso non solo per i rischi diretti dei conflitti, ma anche
perché questo distrae enormi risorse, enormi capitali politici, economici,
sociali dall’obiettivo comune e crea poi dei solchi, crea delle divisioni là
dove invece bisognerebbe lavorare tutti insieme per trovare delle soluzioni.
E quindi questa è, dal mio punto di vista, una
riflessione e una preoccupazione principale che tutti dovremmo avere nel
considerare appunto il problema dei rapporti delle relazioni tra attività
militari, guerra e crisi climatica ed ecologica.
Vi
ringrazio.
GREEN
BOND: COMPRENDERE
LE
OBBLIGAZIONE VERDI.
Gsam.com - (13 Feb. 2023) – Bram Boss –
Goldman Sachs – ci dice:
I
green bond sono strumenti di debito che finanziano progetti con benefici per
l’ambiente.
Il
mercato dei green bond è uno dei segmenti più dinamici e in più rapida crescita
nel reddito fisso.
I
green bond offrono una potenziale opportunità per ogni investitore
obbligazionario.
Il
mercato dei green bond o “obbligazioni verdi”, è uno dei segmenti a più rapida
crescita e più dinamici del settore obbligazionario.
Negli
ultimi cinque anni, i green bond hanno attraversato un’importante
trasformazione che li ha portati a diventare da segmento impact di nicchia a
potenziale opportunità per ogni investitore obbligazionario.
COSA
SONO I GREEN BOND?
I
green bond sono strumenti di debito che finanziano progetti con benefici per
l’ambiente.
Gli
emittenti possono essere società, governi o agenzie che si impegnano a
utilizzare i proventi esclusivamente per finanziare progetti, asset o attività
legati al clima o all’ambiente.
È proprio questo impegno che distingue i green
bond dalle obbligazioni tradizionali.
Le
caratteristiche finanziarie dei green bond, come la struttura, il rischio e i
rendimenti, sono simili a quelle delle obbligazioni tradizionali.
La loro qualità creditizia varia da investment
grade a non-investment grade, ma la maggior parte delle obbligazioni verdi
corporate sono investment grade.
Il
profilo di credito di un green bond è uguale a quello di un bond tradizionale
dello stesso emittente e in termini di prezzo non ci sono differenze
significative tra un’obbligazione verde e una che non lo è.
La
liquidità degli emittenti di green bond varia a seconda dei settori e delle
regioni, data la rapida crescita del mercato globale.
Quindi,
nelle regioni in cui le opzioni di liquidità sono più limitate, gli investitori
potrebbero trovare difficoltà nella vendita di questi strumenti.
I
detentori di obbligazioni verdi hanno lo stesso diritto di rivalsa nei
confronti dell’emittente.
In
sostanza, si tratta di obbligazioni standard con una componente addizionale di
carattere green.
I green bond hanno scadenze a breve o a lungo
termine e presentano vari tipi di cedole e rendimenti.
CHI
DECIDE SE UN’OBBLIGAZIONE È VERDE?
Gli
emittenti di green bond si definiscono “verdi” sulla base delle indicazioni
delle autorità di regolamentazione, delle borse valori e delle associazioni di
mercato.
Diverse
organizzazioni hanno sviluppato standard ed etichette di sostenibilità per
fornire maggiore trasparenza sulla qualità e sulle performance ambientali di un
prodotto, processo o servizio.
Secondo
l’”International Capital Market Association” (ICMA), l’uso di tali etichette
come riferimento per valutare quanto un determinato investimento sia green è
una prassi già presente da anni nel mercato delle obbligazioni verdi.
Gli
emittenti spesso includono questi standard nei loro quadri di riferimento per
garantire l’impiego dei proventi a fini ambientali.
Uno
degli standard più utilizzati, i “Green Bond Principles” (principi relativi alle
obbligazioni verdi), è stato pubblicato dall’ICMA nel 2014.
Una
fonte di preoccupazione nel mercato delle obbligazioni verdi è il cosiddetto “greenwashing”, ovvero il rischio che gli obiettivi
ambientali di un’obbligazione verde non vengano raggiunti o vengano
sovrastimati.
Gli investitori devono prestare particolare
attenzione alla documentazione delle obbligazioni, al loro impatto ambientale
(compreso il rispetto degli standard dei green bond) e alla strategia di
sostenibilità di un emittente di obbligazioni.
COME
VENGONO IMPIEGATI I PROVENTI?
I
progetti finanziati con obbligazioni verdi sono finalizzati a produrre precisi
benefici ambientali che possono essere valutati e, ove possibile, quantificati
dall’emittente.
I
Green Bond Principles contengono categorie di progetti di ampia portata, ma
contribuiscono tutti a obiettivi ambientali come:
la
mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico, la conservazione delle
risorse naturali e della biodiversità, e la prevenzione e il controllo dell’inquinamento.
In
assenza di una definizione di progetti verdi specifica e accettata a livello
globale, la maggior parte degli emittenti attualmente incarica revisori
indipendenti affinché certifichino i loro programmi di investimento in
obbligazioni verdi e/o le loro emissioni specifiche a beneficio degli
investitori.
I Green Bond Principles promuovono inoltre un elevato grado
di trasparenza e raccomandano una revisione esterna per integrare il processo
di valutazione e selezione dei progetti da parte dell’emittente.
L’UTILIZZO
DEI PROVENTI SECONDO I GREEN BOND PRINCIPLES.
Understanding
Green Bonds_Graph_IT
Fonte:
ICMA.
QUALI
SONO GLI ESEMPI DI EMISSIONE DI OBBLIGAZIONI VERDI?
Nel
2007, la “Banca Europea per gli Investimenti,” l’entità finanziaria dell’Unione
Europea, ha emesso la sua prima obbligazione verde, il “Climate Awareness Bond”.
Un
anno dopo, anche “la Banca Mondiale” ha introdotto il suo primo green bond.
Queste
due emissioni costituiscono il modello dell’attuale mercato delle obbligazioni
verdi e il quadro di riferimento per la definizione dei progetti idonei al
finanziamento con questi titoli.
Nel
2015,[1] la Banca Popolare Cinese ha pubblicato le proprie linee guida in
materia di obbligazioni verdi per stimolarne l’emissione e la Cina è diventata
uno dei più importanti mercati mondiali.
[1] Ad
agosto 2022, la Cina ha pubblicato un nuovo quadro di riferimento per le
obbligazioni verdi, i China Green Bond Principles, per allinearsi agli standard
internazionali e uniformare i mercati cinesi dei green bond onshore.
La Polonia ha emesso il suo primo green bond
sovrano a dicembre 2016.
Inoltre, nel 2017, diversi comuni statunitensi
hanno varato emissioni considerevoli per finanziare progetti locali nel campo
dei trasporti e delle risorse idriche.
La
prima emissione di obbligazioni verdi del governo olandese, nel 2019, aveva
come obiettivo il finanziamento di progetti volti ad aiutare il Paese ad
adattarsi al cambiamento climatico.
Poiché
gran parte dei Paesi Bassi, infatti, si trova al di sotto del livello del mare
ed è quindi vulnerabile al cambiamento climatico, questi progetti riguardano il
rafforzamento delle difese contro le inondazioni, il monitoraggio e la gestione
dei livelli idrici, e l’ottimizzazione della distribuzione dell’acqua.
Esempi
più recenti di progetti di green bond includono un’obbligazione ventennale da 5
miliardi di euro emessa dalla Spagna a settembre 2021 per promuovere il
trasporto pulito.
Poiché
i trasporti sono uno dei principali responsabili delle emissioni globali di gas
serra, le obbligazioni verdi sono un modo utile per finanziare il processo di
elettrificazione del settore.
A
marzo 2022, è stato emesso un green bond ventennale da 1,75 miliardi di euro
per sviluppare e finanziare il Grand Paris Express.
Il
progetto riguarda una linea metropolitana di 200 chilometri che dovrebbe
collegare la periferia di Parigi al centro della città, per rispondere alla
crescente esigenza di una mobilità sostenibile.
Questo progetto è una componente fondamentale
dell’obiettivo di rendere Parigi una città a zero emissioni di carbonio e
completamente alimentata da energie rinnovabili entro il 2050.
Infine,
la Germania ha emesso una nuova offerta di obbligazioni verdi ad agosto 2022
per 5 miliardi di euro, con scadenza a 5 anni.
I
proventi netti finanzieranno spese ecosostenibili come progetti di trasporto
pulito, energia rinnovabile, agricoltura e silvicoltura sostenibili.
CONCLUSIONE
Riteniamo
che le obbligazioni verdi saranno uno strumento sempre più importante per
finanziare gli investimenti necessari ad accelerare la transizione energetica e
a costruire un’economia sostenibile.
Inoltre, con la crescita e la progressiva
diversificazione dell’universo dei green bond, riteniamo che questi titoli
diventeranno una componente fondamentale delle allocazioni nel comparto
obbligazionario, poiché offrono agli investitori l’opportunità di produrre un
impatto positivo sull’ambiente, generando al contempo rendimenti potenziali simili
a quelli delle obbligazioni tradizionali.
(Bram
Bos)
GREEN
BOND: COME SI INSERISCONO
IN UN
PORTAFOGLIO OBBLIGAZIONARIO.
Gsam.com
- (20 Feb. 2023) – Bran Bos – ci dice:
Un
tempo considerate un prodotto di nicchia, le obbligazioni “verdi” che finanziano
progetti con un impatto ambientale positivo figurano ormai fra le principali
asset class.
Le
loro caratteristiche finanziarie, come la struttura dei prestiti, il profilo di
rischio e i rendimenti storici, sono simili a quelle dei loro equivalenti non
verdi.
Crediamo
che la continua enfasi posta dagli emittenti obbligazionari sulla lotta e
sull’adattamento ai cambiamenti climatici crei un solido potenziale di crescita
per il mercato dei green bond.
Finanziare
la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio (CO2) è oggi più
importante che mai, dato l’impatto che i cambiamenti climatici continuano ad
avere sulle economie, sulle imprese e sulle comunità a livello globale.
La guerra in Ucraina ha causato un’impennata
dei prezzi energetici, motivando ulteriormente i paesi europei a ridurre la
loro dipendenza dagli approvvigionamenti di petrolio e gas russi.
Per finanziare la decarbonizzazione nei
diversi settori occorreranno soluzioni innovative, il cui sviluppo richiederà
ingenti quantità di capitale.
In
questa spinta verso un futuro più sostenibile, i mercati obbligazionari globali
hanno il potenziale per diventare un’importante fonte di investimenti.
Tuttavia, sino a poco tempo fa, gli
investitori obbligazionari che miravano a investire nella transizione climatica
e a ridurre l’impronta di carbonio dei loro portafogli – senza sacrificare
liquidità e rendimenti – disponevano di poche opzioni interessanti.
La
continua crescita delle emissioni di green bond sta cambiando le cose.
Un
tempo considerate un prodotto di nicchia, le obbligazioni “verdi” che
finanziano progetti con un impatto ambientale positivo figurano ormai fra le
principali asset class.
Il
mercato dei green bond registra una continua espansione, con una crescita media
di circa il 90% all’anno nel periodo dal 2016 al 2021.
Grazie a questa rapida crescita e
all’ampliamento della gamma di fondi di investimento che offrono un’esposizione
alle emissioni green, per gli investitori è oggi più facile inserire questi
titoli nelle proprie allocazioni obbligazionarie.
OBBLIGAZIONI
TRADIZIONALI CON UN OBIETTIVO GREEN.
Per
alcuni aspetti, i green bond sembreranno familiari a chi investe in
obbligazioni tradizionali.
Le loro caratteristiche finanziarie, come la
struttura dei prestiti, il profilo di rischio e i rendimenti storici, sono
simili a quelle dei loro equivalenti non verdi.
La
gamma di scadenze e profili creditizi è vasta, e i detentori di green bond
hanno gli stessi diritti nei confronti degli emittenti.
La
differenza principale è che l’obiettivo dei green bond è finanziare
esclusivamente progetti e attività focalizzati sui cambiamenti climatici, come
le energie rinnovabili, i trasporti puliti, la gestione sostenibile delle
risorse idriche e l’efficienza energetica.
Le
obbligazioni green mirano a generare un impatto ambientale positivo e
misurabile, e ciò le rende uno strumento efficace per finanziare la transizione
climatica.
Ora
che i green bond sono diventati un segmento consolidato del mercato
obbligazionario, un’allocazione a questi titoli rappresenta un’opzione sempre
più fattibile per gli investitori.
La base di emittenti di obbligazioni green ha
continuato ad ampliarsi, con una crescente diversificazione a livello sia
settoriale che geografico.
I
titoli possono essere negoziati sul mercato secondario e il mercato delle nuove
emissioni dovrebbe ritrovare un trend di forte espansione nel 2023, dopo un
2022 difficile per i mercati obbligazionari in generale.
UNA
PERFORMANCE STORICA SIMILE A QUELLA DELLE OBBLIGAZIONI TRADIZIONALI.
L’obiettivo
primario di qualsiasi investimento obbligazionario consiste nel massimizzare il
rendimento corretto per il rischio, e i green bond non fanno eccezione.
La nostra analisi dimostra che, a livello di
mercato, gli investitori in titoli green possono aspettarsi rendimenti corretti
per il rischio simili a quelli degli omologhi tradizionali.
Nei sei anni dal 2016 al 2021, i green bond
denominati in euro a livello aggregato hanno sovraperformato i loro equivalenti
non verdi di 52 punti base (su base annualizzata).
Nel
2022, i green bond hanno segnato il passo rispetto alle obbligazioni
tradizionali per due ragioni principali legate ad alcune peculiarità degli
indici, che gli investitori dovrebbero conoscere.
Innanzitutto, il benchmark aggregato delle
obbligazioni green (Bloomberg MSCI Euro Green Bond Total Return Index) ha una
duration più lunga di un anno rispetto al suo equivalente non verde (Bloomberg Euro Agg Total Return Index), principalmente per il fatto che
gli emittenti sovrani come l’Unione Europea hanno emesso bond nel segmento a
lungo termine della curva quando i tassi di interessi erano più bassi.
Questo rende il benchmark dei green bond più sensibile ai rialzi aggressivi
dei tassi attuati da molte banche centrali nel tentativo di contrastare
l’inflazione.
In
secondo luogo, il benchmark delle obbligazioni societarie green (Bloomberg MSCI
Global Green Bond Corporate 5% Issuer Cap Index), pur avendo complessivamente la
stessa qualità creditizia del suo omologo non verde (Bloomberg Global Agg Corporate Total
Return Index), è
lievemente orientato verso le emissioni con rating BBB, nella fascia più bassa
del range investment grade, e comprende un maggior numero di REIT, che nel 2022 hanno
sottoperformato il mercato.
Inoltre, il benchmark dei green bond di emittenti corporate non include
comprensibilmente le società del settore petrolifero e del gas, che nel 2022
hanno messo a segno performance particolarmente brillanti grazie all’impennata
dei prezzi energetici.
PECULIARITÀ
DEL MERCATO DEI GREEN BOND.
Oltre
a un benchmark con una duration più lunga e lievemente orientato verso gli
emittenti con rating BBB, questo mercato presenta anche alcune differenze
strutturali.
La
prima è il peso delle diverse valute nel mercato.
Il
mercato globale dei titoli di debito è dominato dal dollaro USA.
Circa
il 45% delle obbligazioni in circolazione è in dollari, seguito dalle emissioni
denominate in euro (21%).
Per
contro, nel mercato dei green bond, la predominanza delle obbligazioni in euro
è persino superiore a quella delle emissioni in dollari nell’ambito del mercato
complessivo.
Le
obbligazioni in euro rappresentano infatti circa il 66% dei titoli green in
circolazione, mentre quelle in dollari sono solo il 20%, anche se in crescita.
Inoltre,
è opportuno ricordare che la composizione del mercato dei green bond societari
differisce sensibilmente da quella del suo equivalente non verde.
I
principali emittenti del mercato obbligazionario più ampio sono le società
industriali, le cui obbligazioni rappresentano circa il 52% del totale, seguite
dai bond del settore finanziario (quasi il 40%) e dei servizi di pubblica
utilità (poco più dell’8%).
Sul mercato dei green bond, gli istituti
finanziari sono la categoria di emittenti più importante con il 61% delle
obbligazioni in circolazione, seguiti dalle utility a quasi il 28% e dagli
emittenti industriali, al terzo posto con l’11%.
Queste
differenze strutturali possono incidere sulla performance a livello di indice
in vari momenti del ciclo economico.
Ad esempio, il maggior peso delle utility nel
benchmark dei green bond può imprimere slancio alla performance dell’indice in
presenza di condizioni di mercato simili a quelle osservate nel 2022, poiché si
tratta di titoli non ciclici che spesso sovraperformano nelle fasi di
rallentamento della crescita economica.
Per
contro, nei periodi di solida espansione economica questi titoli potrebbero
frenare la performance.
SOSTENERE
LA TRANSIZIONE CLIMATICA.
Oltre
a un profilo di rischio e rendimento competitivo rispetto alle obbligazioni
tradizionali e a un mercato liquido oggi ben diversificato in termini sia
settoriali che geografici, i green bond offrono all’investitore il vantaggio
aggiuntivo di finanziare progetti sostenibili.
Acquistando obbligazioni verdi, gli
investitori possono contribuire potenzialmente al raggiungimento degli
obiettivi dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatic] e degli Obiettivi
per lo sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, SDG) delle Nazioni Unite.
Gli
emittenti tendono sempre più spesso ad allineare i loro titoli a queste
iniziative globali per il clima, mentre i gestori patrimoniali che offrono
un’esposizione al mercato dei green bond utilizzano gli obiettivi degli SDG e
dell’Accordo di Parigi come criteri di selezione dei potenziali investimenti e
per dimostrarne il possibile impatto sui portafogli dei clienti.
Nondimeno,
per gli investitori può essere difficile comprendere pienamente l’impatto
ambientale positivo che i green bond potrebbero avere a livello di portafoglio.
Ad esempio, il mercato ha adottato poche linee
guida in tema di misurazione dell’impatto ambientale, probabilmente in ragione
della varietà di impieghi dei proventi.
La
scelta di un gestore specializzato in green bond con rigorosi criteri di
selezione, una rendicontazione dettagliata e una solida gestione del rischio
può aiutare gli investitori a limitare il rischio di ribasso e scoprire
opportunità con rendimenti potenzialmente interessanti.
Inoltre,
la sostituzione di parte delle obbligazioni tradizionali in portafoglio con
green bond con una qualità creditizia e una duration simili offre
potenzialmente una gamma di ulteriori vantaggi.
Le
emissioni green possono finanziare asset come gli edifici sostenibili, che
possono comportare un rischio di credito inferiore nel tempo.
Inoltre,
possono contribuire a mitigare i rischi del portafoglio legati ai cambiamenti
climatici e derivanti da cambiamenti delle politiche, come la tassazione del
carbonio(CO2).
L’IMPATTO
AMBIENTALE POSITIVO HA UN COSTO?
Una
questione molto dibattuta tra gli investitori è l’esistenza di un “greenium”, o
premio green, implicando che la scelta di supportare tematiche ambientali
investendo in obbligazioni verdi vada a scapito della performance finanziaria.
L’idea
è che un green bond con le stesse caratteristiche finanziarie (come rating e
scadenza) di un’obbligazione tradizionale possa offrire livelli di spread
inferiori rispetto al suo equivalente non verde.
Di conseguenza, la detenzione di questi titoli
fino alla scadenza potrebbe generare un rendimento inferiore.
In
teoria, non vi è alcun motivo per cui la natura green di un’obbligazione debba
incidere sul suo prezzo.
Sebbene
l’emissione di green bond comporti alcune spese aggiuntive legate alla
revisione e alla certificazione da parte di terzi, questi costi sono diminuiti
nel tempo.
Un
elemento del mercato dei green bond che ha sostenuto il greenium è la combinazione tra la forte
domanda di obbligazioni verdi da parte degli investitori e un’offerta
relativamente limitata.
Con
l’aumento delle emissioni, gli investitori potrebbero essere sempre meno
disposti a pagare un prezzo più alto per le obbligazioni verdi.
Un
rapporto pubblicato nel 2021 dall’Association for Financial Markets in Europe (AFME) ha stimato che i premi sulle
emissioni societarie green si sono “significativamente ridotti”, scendendo
sostanzialmente a zero punti base. Sebbene ci siano prove della sussistenza di un
greenium in alcuni settori meno sviluppati del mercato delle obbligazioni
verdi, nel mercato più ampio questo premio si è ridotto notevolmente negli
ultimi anni.
La
transizione verso un’economia mondiale a basse emissioni di carbonio (CO2) è un
processo complesso.
In
futuro una delle sfide fondamentali sarà quella di finanziare gli ingenti
investimenti richiesti per sostenere lo sviluppo di tutto ciò che servirà in
questo processo, dalle infrastrutture verdi alle tecnologie all’avanguardia che
permetteranno di azzerare le emissioni nette entro il 2050 e frenare il
riscaldamento globale.
Crediamo
che la continua enfasi posta dagli emittenti obbligazionari sulla lotta e
sull’adattamento ai cambiamenti climatici crei un solido potenziale di crescita
per il mercato dei green bond, e che tale crescita si rifletta in un ampliamento
della gamma di opportunità per gli investitori.
La
necessità di garantire un ambiente
sano
per un’economia sostenibile
e una
società equa.
Eea.europa.eu
– (11-5-2021) - Hans Bruyninckx – ci dice:
Il
nostro pianeta sta affrontando sfide senza precedenti in termini di clima e
ambiente che, nel loro insieme, costituiscono una minaccia per il nostro
benessere.
Tuttavia,
siamo ancora in tempo per adottare misure decisive.
Il
compito da svolgere può apparire arduo, ma possiamo ancora invertire alcune
tendenze negative, adattarci per ridurre al minimo i danni, ripristinare
ecosistemi cruciali e meglio proteggere ciò che abbiamo.
Per
conseguire la sostenibilità a lungo termine dobbiamo considerare l’ambiente, il
clima, l’economia e la società come parti inscindibili della stessa entità.
I
cambiamenti hanno costituito una caratteristica costante del nostro pianeta,
interessando le terre emerse, gli oceani, l’atmosfera, il clima e la vita sulla
terra.
Gli
attuali cambiamenti si distinguono da quelli passati per cause e fattori
determinanti, nonché per ritmi e portata senza precedenti.
Eventi
estremi quali tempeste, ondate di calore, inondazioni e siccità, che si
verificavano una volta ogni cento anni, sono divenuti la nostra nuova realtà.
I
titoli di stampa di tutto il mondo alludono a una crisi climatica e ambientale
tale da incidere sul futuro delle nostre specie.
Il
clima globale sta cambiando ad opera dell’uomo.
A
prescindere dall’espressione che scegliamo di usare - «la nostra nuova realtà»
o «crisi molteplici» - i fatti parlano chiaro.
Il clima globale sta cambiando ad opera
dell’uomo.
La
dipendenza delle nostre economie dai combustibili fossili, le pratiche di uso
del suolo e la deforestazione globale stanno aumentando le concentrazioni di
gas a effetto serra nell’atmosfera che, a loro volta, determinano un
cambiamento globale del clima.
Inoltre
emerge con chiarezza che i cambiamenti climatici stanno interessando tutti e
ogni angolo del pianeta, compresa l’Europa.
Alcune
popolazioni potrebbero essere colpite da vasti fenomeni di ondate di calore e
siccità, mentre altre da tempeste più gravi e frequenti.
I cambiamenti climatici hanno un impatto su
persone, natura ed economia.
La
perdita di biodiversità a un ritmo senza precedenti.
La
scienza sostiene fermamente che la vita sulla terra sta registrando una perdita
di diversità a un ritmo insostenibile.
Ogni
anno, molte specie si estinguono a causa del continuo inquinamento,
frammentazione e distruzione dei loro habitat.
Il
diffuso utilizzo di pesticidi ha comportato una drastica riduzione di alcune
specie, come api e farfalle, impollinatori fondamentali per il nostro
benessere.
Gli inquinanti prodotti dalle attività
economiche si accumulano nell’ambiente, riducendo la capacità degli ecosistemi
di rigenerarsi e fornirci servizi vitali.
Il degrado ambientale non colpisce solo piante
e animali, ma anche le persone.
L’insostenibilità
dei sistemi di consumo e produzione.
Il XXI
secolo è stato altresì segnato dalla crisi economica e finanziaria.
Numerose
ricerche confermano che i nostri sistemi di consumo e produzione sono
semplicemente insostenibili.
Il modello economico lineare, che trasformando
le materie prime in prodotti che vengono utilizzati, consumati e poi eliminati, non solo determina un aumento di
inquinamento e di produzione di rifiuti, ma anche una concorrenza globale
per le risorse naturali.
Le reti globali possono diffondersi più di
materiali, prodotti e inquinanti:
partendo
dal settore finanziario in un determinato paese, una crisi può estendersi in
tutto il mondo, causando altresì stagnazioni e contrazioni economiche per anni.
Per di
più è chiaro che i vantaggi della crescita economica non sono suddivisi in modo
equo a livello globale.
I
livelli di reddito variano notevolmente tra e all’interno dei vari paesi,
regioni e città.
Anche
in Europa, dove il tenore di vita supera di gran lunga la media mondiale,
esistono comunità e gruppi di persone che vivono con redditi inferiori alla
soglia di povertà.
Purtroppo,
alcune di queste comunità e persone sono anche più vulnerabili ai rischi
ambientali.
Per
esse, infatti, le probabilità di vivere in aree più esposte all’inquinamento
atmosferico e alle inondazioni, nonché di vivere in case dotate di un
isolamento insufficiente a proteggerle da temperature estreme, sono maggiori.
Le comunità che usufruiscono dei vantaggi non
sono necessariamente quelli che sostengono i costi.
Se le
tendenze attuali dovessero continuare, indipendentemente dal paese e dal
livello di reddito, le generazioni future si troveranno a dover affrontare una
situazione caratterizzata da temperature ed eventi meteorologici più estremi,
riduzione della biodiversità, maggiore scarsità di risorse e più elevati
livelli di inquinamento.
In
quest’ottica non sorprende il fatto che migliaia di giovani europei stiano
manifestando per le strade, esortando i responsabili politici ad adottare
provvedimenti più ambiziosi ed efficaci volti a mitigare i cambiamenti
climatici.
La
possibilità di creare un futuro diverso.
Negli
ultimi 40 anni l’Europa ha attuato politiche intese ad affrontare problemi
specifici, quali l’inquinamento atmosferico e idrico, raggiungendo talvolta
notevoli risultati:
i cittadini europei possono beneficiare di
aria e acque di balneazione più pulite;
si ricicla una maggiore quantità di rifiuti
urbani;
il numero di aree terrestri e marine protette
mostra un continuo incremento;
i
livelli di emissioni di gas a effetto serra nell’Unione europea risultano
ridotti rispetto a quelli del 1990;
sono
stati investiti miliardi di euro a favore di città più vivibili e mobilità
sostenibile;
l’energia generata da fonti rinnovabili è
aumentata in modo esponenziale, ecc.
Ora
anche le nostre conoscenze e la nostra comprensione dell’ambiente si sono
ampliate, sottolineando il fatto che le persone, l’ambiente e l’economia
formano tutti parte dello stesso sistema.
Sin
dalla sua istituzione, avvenuta 25 anni fa, l’Agenzia Europea dell’Ambiente cerca di correlare e sviluppare
questi ambiti di conoscenza allo scopo di migliorare la nostra comprensione
sistemica.
Le persone non possono vivere bene se
l’ambiente e l’economia versano in cattive condizioni.
Le
tensioni sociali continueranno ad essere alimentate dalla disparità nella
ripartizione dei benefici, quali ricchezza economica e aria più pulita, e dei
costi, che includono l’inquinamento e una perdita della resa dovuta alla
siccità.
Si tratta
di fatti difficili da accettare.
Allo
stesso tempo, può risultare difficile modificare le abitudini e le preferenze
dei consumatori nonché le strutture di governance ben consolidate.
Eppure,
malgrado l’entità del compito che ci attende, è ancora possibile costruire un
futuro sostenibile.
Ciò
implica un’interruzione delle pratiche attuali quali, ad esempio, il taglio
delle sovvenzioni dannose per l’ambiente, l’eliminazione graduale e il divieto
di tecnologie inquinanti, favorendo allo stesso tempo alternative sostenibili e
supportando le comunità colpite dal cambiamento.
Un’economia
circolare a zero emissioni di carbonio (CO2) può ridurre l’impatto sul nostro
capitale naturale limitando inoltre l’aumento delle temperature globali.
Cambiando
rotta saremo costretti a modificare anche le nostre abitudini e i nostri
comportamenti, come le nostre modalità di spostamento e le abitudini
alimentari.
Le
conoscenze necessarie per guidare il passaggio verso una sostenibilità a lungo
termine esistono. In aggiunta è possibile contare su un crescente sostegno
pubblico per realizzare il cambiamento che ora, da parte nostra, richiede
assunzione di responsabilità e procedure accelerate.
(Hans
Bruyninckx - Direttore esecutivo dell’AEA).
Draghi:
«Kiev deve vincere la guerra
o per
l’Ue sarà un colpo fatale».
Ilsole24ore.com
- Marco Valsania – Draghi – (8 giugno 2023) – ci dicono:
(Miriam
Pozen Prize 2023)
Nel
suo discorso al MIT delinea le sfide di un mondo passato da competizione a
conflitto.
E il
ruolo da ridefinire dell’Unione Europea.
Ucraina:
Draghi, Kiev deve vincere o per l’Ue sarà fatale.
Ucraina
e inflazione.
Mario
Draghi, nel ricevere il Miriam Pozen Prize al MIT, dove aveva studiato, per la
sua leadership in politica finanziaria internazionale, dà lezione di
geopolitica ed economia, affrontando due drammi interconnessi che, dice, hanno
colto di sorpreso i policymaker.
Frutto
di ciò che descrive come un passaggio epocale, sul palcoscenico globale, dalla
competizione al conflitto.
E che
promettono di continuare a influenzare il futuro, imponendo pedaggi
all'economia e oltre.
Il
discorso di Mario Draghi.
In un
ampio e articolato intervento, Draghi si è concentrato su due eventi che,
assieme alle tensioni crescenti con la Cina, «hanno dominato le relazioni
internazionali e l’economia globale nell’ultimo anno e mezzo: la guerra in
Ucraina e il ritorno dell’inflazione».
E ha
cominciato con una diagnosi delle debolezze che spiegano questo presente: «Supponevamo che le istituzioni che
avevamo costruito, insieme ai legami economici e commerciali, sarebbero state
sufficienti per prevenire una nuova guerra di aggressione in Europa.
E credevamo che le banche centrali
indipendenti avessero padroneggiato la capacità di limitare le aspettative di
inflazione, al punto da temere una stagnazione secolare».
Non è
stato così.
Le
sfide aperte «sono piuttosto una conseguenza di un cambiamento di paradigma che
negli ultimi 25 anni ha visto la geopolitica globale slittare dalla
competizione al conflitto».
Un paradigma che «potrebbe portare a tassi di
crescita potenziale più bassi e richiederebbe politiche che portino a deficit
di bilancio e tassi di interesse più elevati».
La
visione ottimistica della globalizzazione degli anni Novanta, che avrebbe
portato alla diffusione di valori liberali e democratici, si è rivelata
fallace, come dimostrato sia dalla Cina, che non è diventata un'economia di
mercato nonostante l'inclusione nell'Organizzazione mondiale del Commercio, che
dalla Russia, protagonista ora dell’invasione dell’Ucraina con una guerra
d'aggressione.
E Draghi ha sottolineato in particolare il
significato della nuova realtà per la Ue.
Minacciati
i valori europei.
«I
valori esistenziali dell’Unione europea sono la pace, la libertà e il rispetto
della sovranità democratica ed è per questo che non c’è alternativa per gli
Stati Uniti, l’Europa e i loro alleati ad assicurare che l’Ucraina vinca questa
guerra».
Solo
«un cambiamento di politica interna a Mosca» vedrebbe la Russia abbandonare i
suoi obiettivi, «ma non vi è alcun segno che un tale cambiamento si
verificherà».
Draghi
vede «conseguenze geopolitiche di un conflitto prolungato al confine orientale
dell’Europa».
Le
elenca, invitando a prepararsi al meglio.
«In
primo luogo, l’Ue deve essere disposta a rafforzare le proprie capacità di
difesa.
Questo è essenziale per aiutare l’Ucraina per
tutto il tempo necessario e per fornire una deterrenza significativa contro la
Russia».
Poi
«dobbiamo essere pronti a iniziare un viaggio con l’Ucraina che porti alla sua
adesione alla Nato».
Infine,
«dobbiamo prepararci a un periodo prolungato in cui l’economia globale si
comporterà in modo molto diverso dal recente passato».
È qui
che «cambiamenti geopolitici e dinamiche dell’inflazione si intersecano».
La guerra in Ucraina «ha contribuito
all’aumento delle pressioni inflazionistiche a breve termine, ma è anche
probabile che inneschi cambiamenti duraturi che preannunciano un aumento
dell’inflazione in futuro».
L’inflazione
«si sta dimostrando più resiliente di quanto inizialmente ipotizzato dalle
banche centrali».
E la
lotta per domarla «non è finita e richiederà probabilmente una cauta continuazione
della stretta monetaria».
Rischio
deficit di bilancio più elevati per gli Stati.
Draghi
prevede anche che «i governi registrino deficit di bilancio permanentemente più
elevati» in nome di un ventaglio di questioni da affrontare: dalla crisi
climatica, alla necessità di puntellare le nostre catene critiche di
approvvigionamenti, alla difesa, soprattutto nell’Ue.
Queste
«richiederanno investimenti pubblici sostanziali che non possono essere
finanziati solo attraverso aumenti delle imposte».
E un
impatto da simili impegni ci sarà anche sul carovita:
«Questi
livelli più elevati di spesa pubblica eserciteranno ulteriore pressione
sull’inflazione, accanto ad altri possibili shock».
È
quindi probabile «nel lungo periodo che i tassi di interesse siano più elevati
rispetto al passato decennio», in una fase che vedrà un «volatile cocktail»
composto di bassa crescita potenziale, più elevati tassi e elevati livelli di
debito post pandemico.
Spetterà
tuttavia anzitutto ai governi «ridisegnare» le politiche fiscali nella nuova
situazione, tenendo conto di uno «spazio fiscale che non è infinito» come parso
in precedenza.
La
composizione della politica fiscale sarà elemento cruciale:
l'obiettivo
dovrebbe essere alzare la crescita potenziale e allo stesso tempo proteggere e
includere chi ha più bisogno di aiuto.
Un
interrogativo è rappresentato da radicali innovazioni, quali l’Ai, se dovessero
«scuotere il mondo e alzare la crescita globale».
La Ue
in tutto questo dovrà fare i conti con «sfide sovranazionali senza precedenti».
Il suo modello sociale, con la sua rete di
welfare, ha ad oggi protetto i più vulnerabili meglio che altrove dalle
conseguenze più dannose della globalizzazione e le sue istituzioni e regole
robuste hanno meglio contrastato gli effetti collaterali del libero mercato.
Ma l’Unione non era «disegnata per trasformare
il suo peso economico in potere militare e diplomatico».
La
risposta alla Russia è così uno «spartiacque».
Ha
dimostrato come non mai «l'unità della Ue nel difendere i suoi valori
fondanti», al di là delle priorità nazionali.
Una
simile unità sarà essenziale negli anni a venire, per ridisegnare l'Unione al
fine di accomodare l'Ucraina, i paesi dei Balcani e dell'Europa Orientale, per
organizzare un «sistema di difesa europeo complementare e capace di rafforzare
la Nato».
E per gestire sfide collettive del calibro della
transizione climatica e della sicurezza energetica.
Draghi
si è recato negli Stati Uniti per essere insignito del Miriam Pozen Prize 2023,
motivato dal suo ruolo di protagonista in politica finanziaria internazionale.
Il premio, gestito dall'MIT Golub Center for Finance and
Policy,
gli è stato conferito durante una cerimonia presso il Samberg Conference Center a
Cambridge in Massachusetts.
È diventato il secondo vincitore del
riconoscimento, dopo “Stanley Fischer”.
Nel
ricordare la carriera di Draghi, lo MIT GCFP ha sottolineato il suo ruolo di
Presidente della Banca centrale europea, di “Chair del Financial stability
board”, di governatore della Banca d'Italia fino a quello di Primo ministro del
Paese.
Draghi
ha ricevuto un PhD in economia dall'Mit nel 1977, sotto “Franco Modigliani” e “Robert
Solow”.
Il
Miriam Pozen Prize.
Il
Miriam Pozen Prize, più in dettaglio, «riconosce l'eccellenza nella ricerca o
nella pratica della politica finanziaria».
Quando
il premio fu annunciato, a marzo, Draghi fece sapere che «da studente all'MIT
negli anni Settanta non avrei immaginato la carriera che la mia educazione
avrebbe aiutato a lanciare.
Spero
che questo premio ispiri una nuova generazione di economisti ad entrare
nell'arena della politica».
“Robert
Pozen”, che ha istituito il premio in nome di sua madre, aveva per l'occasione
affermato che Draghi «combina l'intuizione di un praticante accademico con la
determinazione di applicare le sue convinzioni al policymaking».
È, ha
aggiunto, «un modello per l'integrazione della teoria e pratica finanziaria che
il Premio intende incoraggiare».
Il
politicamente corretto.
Ragionipolitiche.wordpress.com
– Redazione – (3-7-2020) – ci dice:
Il
linguaggio politicamente corretto vuol essere soccorrevole verso gli oppressi,
raddrizzatore di torti, riequilibratore della bilancia della giustizia.
Ciò
che è stato stigmatizzato va riabilitato attraverso una ridefinizione
rispettosa. E ciò che ha prevalso va ridimensionato.
Quel
linguaggio è un universale artificiale, una neolingua, esperanto, costruito per
permettere a ogni particolare di sussistere e di nominarsi, ed essere nominato,
in libertà e con uguali diritti.
Un linguaggio privo di passione e di violenza,
capace di sterilizzare ogni differenza nella universale indifferenza.
Uno
vale uno, insomma.
Ma
questi fini e questi mezzi contengono una contraddizione:
il linguaggio politicamente corretto è pacifico e al
tempo stesso aggressivo, vendicativo, intollerante:
l’uguaglianza amorfa a cui tende è carica di
unilaterale violenza.
La sua logica normale è quella eccezionale del
giudizio universale:
“nihil
inultum remanebit”.
Tutti
i torti vanno conosciuti, puniti e riparati.
La colpa, l’accusa, è l’orizzonte entro il
quale si colloca il politicamente corretto.
Che è
politico:
è un
atto di decisione fondamentale che critica il passato e lo spazza via.
È un
universale immediato, e quindi è un particolare ingigantito.
È l’espressione di una parte che si fa Tutto,
che pretende di giudicare ergendo sé stessa a Legge.
È un dominio, un punto di vista elevato a
potenza, che non ne ammette né legittima altri.
Ma non
sempre ne è consapevole.
Il contenuto politico del politicamente
corretto è quasi sempre mascherato, e declinato attraverso la morale:
l’obiettivo politico è giudicare con moralità assoluta, apodittica, sottratta
al tempo e allo spazio.
La
neolingua non conosce la storia, la nega, e attraverso l’anacronismo tende
all’acronia.
Si
pagano colpe che non erano tali quando furono commesse;
i discendenti rispondono oltre la settima
generazione.
La
purga linguistico-politico-morale deve essere radicale.
Il
politicamente corretto ha molti tratti in comune con il razionalismo
individualistico moderno:
condivide con Hobbes l’impulso antistorico, la
tesi che «all’antichità nulla sia dovuto», e col giacobinismo il parossismo
livellatore che per colpire i sospetti si fa tagliatore di teste.
Condivide
l’intreccio fra morale e ragione, fra neutralizzazione spoliticizzante e
supremo spasmo politico della sovranità, che monopolizza la ragione per sé e
nega ogni ragione a chi è fuori dal suo perimetro – e viene quindi privato di
ogni valore, di ogni dignità, gettato fra i reprobi.
E
quindi non è antimoderno, come pure qualcuno ha detto:
anzi,
il Moderno vi esprime il proprio assolutismo, la propria efficace astrattezza.
Un
Moderno ignaro della dialettica, della storia, inconsapevole del fatto che le
individualità non nascono già fatte e finite ma sono l’esito di lotte e di
contraddizioni, che le soggettività, le società, le istituzioni, i simboli, i
linguaggi, recano in sé come propria viva sostanza, come propria drammatica
concretezza.
Perse
o cancellate le quali l’umana convivenza è un algoritmo che combina monadi
irrelate senza passato e senza futuro.
Nel politicamente corretto la severa ideologia
liberal che ne fa la propria bandiera si mostra parente dell’euforica ideologia
del neoliberismo, della sua visione della società come un giustapporsi di
attori individuali, che abitano un eterno presente.
Ciò
che si dice del politicamente corretto sotto il profilo linguistico in senso
stretto – la polizia e la pulizia del linguaggio – vale anche per quei
linguaggi materiali che sono i monumenti e le architetture, attraverso i quali
lo spazio pubblico viene scritto e riscritto nei secoli.
La
lotta per l’immagine e il simbolo, o contro di essi, è vecchia come l’umanità:
non c’è da scandalizzarsi se avviene sotto il
segno della politica, poiché ne fa parte.
Si
tratta ogni volta di decidere chi è meritevole di rappresentazione e chi no,
perché è troppo superiore o troppo inferiore.
Ma è
lecito, appunto, leggere quella lotta politicamente, e rifiutarle la patente
morale che si autoassegna.
Così,
se è comprensibile che non si erigano monumenti a Hitler, ma semmai alle sue
vittime, è assurdo che si sia pensato di abbattere la statua di Churchill
perché razzista;
il suo spirito di dominio imperiale, venato di
superiorità dell’uomo bianco, è stato vinto dai processi materiali della storia
reale;
mentre
ciò che conta è che quell’istinto lo ha spinto a capire che il nazismo era un
nemico mortale, con cui non si poteva scendere a patti.
E se
nel Nord America si abbattono le statue di Colombo ciò significa che gli eredi
dei colonizzatori anglosassoni delegittimano il dominio ispanico (veramente
distruttivo)?
Oppure in quelle statue abbattute è da
leggersi una confessione della colpa originaria di tutti gli europei per avere
scoperto l’America, espropriando i nativi (al Nord, al Centro, al Sud)?
E dopo
l’autoflagellazione dell’uomo bianco quale riparazione è prevista?
La
restituzione ai nativi del banale Monte Rushmore o della più impegnativa isola
di Manhattan?
Oppure
l’abbattimento della statua salva la coscienza, lava la colpa, e mentre afferma
un dominio linguistico liberal mantiene immodificato il dominio economico
liberista?
E in quest’ultima ipotesi il politicamente
corretto non corre forse il rischio di ridursi a un intimidatorio gioco di
potere linguistico fra élites, e di far perdere di vista questioni strutturali
che la sua fiaccola illuministica lascia in un cono d’ombra?
È
quindi giusto elogiare il dialogo, la divergenza d’opinioni, la tolleranza
reciproca: è il minimo che si possa chiedere in una società che si dice
liberale.
Ma non
con l’obiettivo di neutralizzare il politicamente corretto in una più generale
amorfa indifferenza;
non si tratta di ri-legittimare ogni violenza
e ogni discriminazione, né di utilizzare l’ingiustizia del passato per
giustificare quelle del presente.
Si
tratta anzi di decifrare queste nella loro radicalità, e di impegnarsi – questo
è il punto – a darne una lettura non moralistica ma storico-politica.
Di
riconoscere la complessità della politica non per farne un alibi all’ignavia,
ma per vedervi l’occasione di un agire emancipativo meno scontato del
politicamente corretto e delle sue ritualità.
Il
problema del nostro Paese
è che viviamo in un’egemonia
intellettuale
neoliberista.
Intervista
con “Annamaria Iantaffi”.
Ragionipolitiche.wordpress.com
– Redazione – (2 giugno 2020) – ci dice:
Presidente,
il 2 giugno 2020, dati gli eventi degli ultimi mesi, è una ricorrenza unica
nella storia della Repubblica. Lei come percepisce oggi il rapporto dei
cittadini con le istituzioni Repubblicane?
Mi
sembra che il rapporto abbia preso una doppia piega.
È
abbastanza tipico durante le emergenze che i cittadini guardino alle
istituzioni, perché sentono il bisogno di essere garantiti.
Sicuramente
anche il tasso piuttosto alto di popolarità del Presidente del Consiglio
dimostra che l’emergenza ha suscitato un forte bisogno di istituzioni.
E
questa non è una novità:
in Italia
buona parte dell’antipolitica e della critica delle istituzioni nasce in realtà
dal bisogno delle istituzioni, dall’idea che le istituzioni siano inadeguate.
D’altro
canto c’è una discreta probabilità che nel momento in cui si attenuasse
l’emergenza sanitaria e si presentassero le sue conseguenze economiche, il
rapporto con le istituzioni tornerebbe ad essere conflittuale e che queste
verrebbero sempre più interpretate come ostili.
Le
chiedo di proiettarsi invece al prossimo autunno, quando si potrebbe presentare
una seconda ondata pandemica a causa delle mutate condizioni climatiche.
Secondo
lei c’è il rischio di disordini sociali?
Molto
dipenderà da come i bisogni economici di una discreta parte della popolazione
siano o non siano stati soddisfatti.
Se ci
fossero gravi momenti di sofferenza economica, fino alla disperazione per certe
categorie, e se intervenisse un secondo lockdown, francamente la situazione
sarebbe davvero critica.
C’è da augurarsi che nessuna delle due ipotesi
si avveri, cioè che non sia automatico l’avvento di una seconda ondata della
pandemia e che le situazioni di sofferenza dell’economia, e soprattutto di
certe categorie, possano essere in un qualche modo sanate.
I
bambini, anche mossi dai genitori, prima scrivevano ovunque “andrà tutto bene”.
Ora l’EU stanzia 750 miliardi, anche se non tutti sono a fondo perduto.
È andato tutto bene?
L’EU
non stanzia 750 miliardi.
L’Europa
deve prima di tutto raccogliere 750 miliardi sui mercati finanziari mondiali.
Poi ne
mette a disposizione agli Stati delle tranches.
Alcune a fondo perduto, altre in forma di
prestiti che devono essere restituiti, ed evidentemente in modo condizionato.
In
ogni caso questa quantità di denaro, ove sia raccolta, entrerà in circolo
soltanto quando scatterà il bilancio della UE, nel 2021.
Poi anche la quota a fondo perduto che viene
data gli Stati che la richiedono sarà in qualche modo restituita, perché gli
Stati che dovranno istituire delle euro-imposte, per rimborsare la UE, che a
sua volta deve restituire i fondi a coloro che glieli hanno dati.
Perché
tutto nasce dal fatto che la BCE non stampa denaro.
Questo
è il punto vero:
che
nessuno ha voluto trasformare il sistema economico finanziario europeo in un
sistema che avesse come punto culminante una capacità di prestatore di ultima
istanza da parte della BCE, come fa la Federal Reserve in USA.
Quindi
cosa potrebbe accadere, se ricevessimo il” Next Generation Fund”?
Ci
accorgeremo che questi soldi non vengono inventati dal nulla, e questo qualcuno
sono i cittadini che pagheranno le nuove tasse europee, oltre alle tasse
statali.
Per di
più, questi denari, anche quelli a fondo perduto, verranno elargiti soltanto a
seguito del fatto che lo Stato beneficiario si adegui alle richieste di riforme
strutturali avanzate dalla UE.
Il che vuol dire che la UE vuole che lo Stato
Italiano sia più ricco e che i cittadini italiani siano più poveri, vuole
spostare ricchezza dai conti correnti degli italiani alle casse dello Stato.
Quello
che nessun Governo nazionale in questo momento ha il coraggio di fare, cioè una
patrimoniale, verrà probabilmente innescato dalla dinamica europea. L’Italia
potrà godere di finanziamenti soltanto se sarà in grado di implementare le
riforme che l’Europa le chiederà.
E
tutto ciò potrebbe essere estremamente doloroso, a partire dal 2021.
Prima
di quella data cosa faremo?
Prima
resta soltanto il ricorso al MEF, il quale a sua volta elargisce pochi soldi e
con condizionalità, perché è un sistema di prestito, non è un sistema di denaro
a fondo perduto.
Chi
ottiene questi fondi deve anche soggiacere al controllo ravvicinato dei
creditori, che significa o la troika o qualche cosa che le assomiglia
moltissimo.
Tutto
ciò vuol dire che lo scenario economico è particolarmente pericoloso.
Prima di tutto per la debolezza intrinseca,
cioè il crollo della domanda determinata dal lockdown, e poi per il fatto che
ad essa si reagisce con politiche finanziarie che comporteranno a loro volta
impoverimenti, anche di quelle fasce di popolazione che non sono state
pesantemente colpite;
penso
ai pensionati che, con ogni verosimiglianza, si vedranno ristrutturare la
pensione o sui cui conti correnti inciderà una tassazione straordinaria.
Tutto
ciò, se messo insieme a un ipotetico secondo lockdown, crea uno scenario non
facilmente controllabile dalle istituzioni.
Naturalmente,
quello che le ho descritto è lo scenario peggiore;
poi ci
sono auspicabilmente gradi di intensità minore dei problemi, tanto sanitari
quanto economici.
Nello scenario migliore non c’è la seconda
ondata, la domanda riparte autonomamente, non abbiamo bisogno di ricevere o
chiedere tanti soldi e poi non avremo bisogno di misure di austerità tanto
severe per restituirli.
In
cosa potremmo trovare un sollievo?
Una
notizia che darebbe sollievo, tanto sanitario quanto economico, sarebbe il
vaccino:
farebbe
venir meno quel senso di vulnerabilità estrema che è il risultato più evidente
della pandemia.
Le crisi economiche sono molto dure da
sopportare, ma vi siamo in un qualche modo abituati;
quello
a cui non eravamo abituati sono le crisi sanitarie, soprattutto attraverso il
lockdown che è stato molto doloroso, che ha anche distrutto beni immateriali
importantissimi, come ad esempio la pubblica istruzione.
Non illudiamoci infatti che abbiano imparato
molto, i nostri studenti, quest’anno, nonostante gli sforzi benemeriti dei
docenti e degli stessi studenti.
L’insegnamento
richiede la presenza, la relazione.
Alcune
delle libertà costituzionali hanno subito una contrazione durante la stasi
coatta in casa;
lei a tal proposito ha parlato di un esercizio
di sovranità, può spiegarci in cosa consiste?
Premetto
che la parola sovranità è una bellissima parola che fa parte del primo articolo
della Costituzione della Repubblica e non significa nulla che non sia
compatibile con l’esercizio democratico del potere.
La
sovranità si è manifestata per quello che è, cioè il desiderio di esistere di
un sistema politico e di un popolo.
Un
desiderio che vuole realizzarsi e adopera tutti gli strumenti legalmente a
disposizione, anche con qualche forzatura.
C’è
stata una compressione delle libertà, tutti lo dicono, tutti ce ne siamo accorti.
Il
punto non è che ci sia stato un mezzo colpo di Stato ma che, nonostante nel
nostro ordinamento non sia presente in modo esplicito una fattispecie
definibile come caso d’emergenza, siamo arrivati alla compressione dei diritti, sia pure
attraverso vie un po’ tortuose sotto il profilo giuridico, e che tutto ciò era
inevitabile.
Nel
caso d’emergenza ti comporti come la necessità richiede, anche se non hai una
Costituzione che parla con chiarezza dello strumento necessario.
Oltretutto si è fatto ricorso ad uno strumento legale,
non è stato nemmeno violata la Costituzione, sono stati semplicemente messi in
gerarchia i diritti costituzionali e si è detto che il più importante è il
diritto alla vita.
Mi interessa
inoltre sottolineare che la sovranità si è manifestata nelle sue forme più
tipiche, più radicali, smontando la società, che improvvisamente si è trovata
come sgretolata:
le sue vecchie forme sono quasi scomparse e ha
assunto nuove forme. Improvvisamente le persone non sono più state ad esempio
il professore, il giornalista, il deputato, lo studente, l’operaio,
l’impiegato, ma erano la persona sana, il portatore sano e inconsapevole, il
malato leggero, il malato grave, quello da ricoverare in ospedale, il malato da
mettere in terapia intensiva, il morto.
La società aveva perduto le sue forme e ne
aveva assunto delle altre, sulla base di atti sovrani, orientati al valore
della sanità e della vita.
E
inoltre, la sovranità si è manifestata attraverso uno dei suoi strumenti
fondamentali:
il
confinamento delle persone in casa e la chiusura dei confini alle frontiere.
Abbiamo
quindi perso libertà che ci sono state garantite per più di 70 anni?
È
inutile dire che la sovranità è una brutta parola o che non esiste, che è
obsoleta. Il virus è la globalizzazione, e contro la globalizzazione agisce la
sovranità.
Il virus passa le frontiere e per difendersi
si lavora sul confine, si cede spazio, per guadagnare tempo.
Oggi vale la pena di dire tutto ciò, per sfatare la
leggenda del Sovranismo, che è un imbroglio concettuale.
Anziché
Sovranismo si dovrebbe dire ‘esercizio della sovranità orientato a destra’. E a
me non piace.
Ma non
si può dire che la sovranità sia un concetto obsoleto o errato, perché questo è
falso.
Il 2
giugno ricorre anche la data della morte di Garibaldi;
cosa è
rimasto dei valori risorgimentali tra i cittadini?
E tra i politici?
L’ultimo
politico che pensava a Garibaldi credo sia stato Bettino Craxi, che era un
collezionista di cimeli garibaldini.
Oggi
penso che Garibaldi sia una figura al di fuori dell’orizzonte e dell’interesse
dei cittadini e dei politici.
E non
sto dicendo che ciò sia giusto. Al contrario.
Ma più
in generale mi chiedo: quale rapporto questo Paese vuole avere con la propria
storia?
Questo
Paese sa di avere una storia? Gli interessa?
Interessa a qualcuno che esista un’identità
storica italiana?
Questo
Paese vuole esistere in senso storico-politico come esistono la Francia o la
Germania o la Gran Bretagna o la Spagna?
Questi
sono Paesi democratici, pieni di problemi come tutti, ma coltivano un rapporto
con la propria storia, in modo diverso a seconda degli orientamenti.
Noi,
qual è la cosa più lontana nel tempo cui facciamo riferimento?
Forse
la Resistenza…
Molti
dei problemi della contemporaneità non sono forse pregressi?
Penso ad esempio alla polemica sull’Euro….
La
debolezza della compagine nazionale unitaria non l’ha inventata l’euro, la
debolezza internazionale dell’Italia purtroppo è una costante della nostra
storia.
La
capacità di interpretare la politica anche in dimensione storica fa parte del
modo con cui i politici dovrebbero lavorare, ma oggi francamente, politici così
non ce ne sono.
Lo
dico con cognizione di causa perché li ho anche frequentati.
Anche
perché gli intellettuali di riferimento in questo momento sono gli economisti,
i quali non vogliono pensare in chiave storica, perché credono che l’economia
si avvicini ad una scienza naturale, che sia qualche cosa che ha delle leggi
proprie, che in alcuni di loro diventano dei dogmi.
È
rarissimo vedere un economista che ha capacità di pensiero storicamente
profondo, che mette in fila i problemi economici in chiave storica, che
relativizza in qualche modo l’economia perché ne vede la storicità.
Questa
mancanza di visione storica è il limite degli economisti liberisti
contemporanei?
Eh,
sì, è proprio così.
Questo
è il pensiero unico: “è così perché è sempre stato così”, oppure, “prima di noi
c’era il Medio Evo”.
Il
problema del nostro Paese è che siamo dentro un’egemonia intellettuale di cui
spesso le persone non si rendono conto, ma che è nata quaranta anni fa, cioè la
grande svolta all’insegna del Neoliberismo che ha permeato di sé non solo le
strutture dell’economia, della finanza e la politica, ma anche la psicologia
delle masse e quella dei politici.
(Pubblicata in «Tiburno» il 2 giugno
2020)
Atlante
geopolitico, India:
il
grande enigma.
Fortuneita.com - GABRIELE GIANNINI – (LUGLIO
15, 2023) – ci dice:
L’incredibile
India.
Il paese dai mille colori, dagli inebrianti
profumi e dai nauseanti odori.
Il
paese delle contraddizioni e delle diseguaglianze.
Chiunque
sia stato in India, ne percepisce l’essenza sin da subito.
Atterrando
su Mumbai, metropoli e centro economico del sub-continente, ci si accorge
immediatamente di quanto questo paese, intrappolato ancora in un rigido sistema
castale e tenuto in ostaggio da un elefantiaco apparato burocratico
inefficiente e corrotto, sia una contraddizione vivente.
Ville meravigliose con annessi giardini dai
prati all’inglese perfettamente curati e accanto… baraccopoli immense di
plastica e lamiere che arrivano ad ospitare anche sei milioni di persone.
La più
grande democrazia al mondo, la chiamano.
È il paese della tolleranza, culla di quattro
tra le più importanti religioni del pianeta, tra cui induismo e buddhismo.
È
anche il paese dell’abbandono:
qui,
bisogna lasciarsi trasportare dal suo popolo e percepire la spiritualità che
solo l’India riesce a infondere persino ad un individuo occidentale, razionale,
pragmatico e disilluso.
Ma è
anche il paese del grande dolore, del grande cinismo.
A tal
proposito, fa sorridere l’immagine del primo ministro indiano Modi, candido ed
elegantissimo, intento a praticare yoga davanti al palazzo di vetro dell’ONU a
fine giugno.
E fa sorridere come lo stesso sia stato
accolto con urla di giubilo dal Congresso americano per ben la seconda volta,
onore riservato nella storia solamente a tre capi di governo: Churchill,
Mandela e Zelensky.
Fa sorridere perché in realtà gli americani
trascurano un piccolo particolare:
il
trattamento che in India viene riservato alle minoranze musulmane e cristiane
dallo stesso partito islamofobico di Modi contro più di 200 milioni di persone.
Un
partito, questo, intriso di un malsano nazionalismo induista.
L’India viene chiamata dai più, e non a torto,
un’“autocrazia elettorale”, o con un’espressione alla moda, una democrazia
illiberale.
La
stampa molto spesso viene censurata e la giustizia non si può considerare del
tutto indipendente.
Siamo
tuttavia ormai avvezzi alle intermittenze della politica americana, oscillante
tra idealismo e cinico realismo politico.
Predicare
bene e razzolare male:
quello
che Washington sta cercando di fare con il governo di Nuova Dehli è forgiare
un’alleanza d’affari, un matrimonio di convenienza, con un solo scopo: sfidare
la leadership cinese sia nell’Indo-pacifico sia all’interno di quel circolo
definito come il Sud Globale, una vasta coalizione di paesi tra Africa, Asia e
America Latina non disposti a seguire le ferree regole del gioco internazionale
tra le due superpotenze.
Non è
un caso che il primo ministro Modi sia stato ricevuto da Biden proprio adesso,
a fine giugno.
Questo
denota un cambiamento nelle relazioni bilaterali USA-India, un qualcosa di
profondamente inedito per il sub-continente.
Capofila
del Gruppo dei paesi non allineati, co-fondato dal Presidente indiano Nehru nel
1961, l’approccio di Nuova Delhi è storicamente improntato alla neutralità.
Non
sentendosi di appartenere a nessuno dei due schieramenti contrapposti, l’India
è da sempre promotrice di una nuova visione delle relazioni internazionali,
imperniata sul multipolarismo e distante da rigide logiche bipolari.
Leadership.
Presidenti
e capi di Governo dei cosiddetti paesi non allineati, co-fondato dal Presidente
indiano Nehru nel 1961
Ciononostante,
oggi qualcosa è cambiato.
Nuova
Dehli si sente minacciata dal Dragone cinese, con il quale condivide ben 3500
Km di confine.
Nel
2020, in Ladakh, regione nord del sub-continente, le forze armate cinesi hanno
prepotentemente affermato il loro potere su due aeree controllate in precedenza
dalle forze indiane.
Ancora,
nell’”Arunachal Pradesh”, regione all’estremo nord-est, a dicembre sono stati
frequenti i semi-conflitti tra le forze armate di entrambe le fazioni.
Il conflitto con Pechino, tuttavia, non si limita solo
a piccole scaramucce di confine. Il governo Modi intende rendere il
sub-continente un’alternativa alla Cina in diversi settori cruciali per la
nuova “digital economy mondiale”.
Dall’high
tech alla produzione di micro-chip, dal “quantum computing” all’”AI”, Nuova
Dehli desidera strappare il monopolio manifatturiero dalle mani di Pechino.
Motivo per cui sono state bannate in India decine di app “made in China” per
ragioni di sicurezza.
Prima fra tutte, era prevedibile, “TikTok”.
Secondo
la
calcolatrice logica statunitense, in un inseguimento disperato del solito mito della
deterrenza, un’India più forte e più incisiva nel panorama internazionale
garantirebbe al contempo un equilibrio più stabile nell’intera area
indo-pacifica.
Perfettamente
imperniati su questa logica gli accordi sottoscritti da Nuova Dehli e
Washington a fine giugno, di carattere squisitamente difensivo e tecnologico.
Nello
specifico, gli USA si impegnano a fornire droni MQ-9B al governo indiano.
È stata inaugurata, al contempo, una
co-produzione di motori destinati ad aerei militari tra l’americana “General
Electric” e l’indiana” Hindustan Aereonautics LTD”.
Ancora,
le esercitazioni militari tra forze armate statunitensi e indiane hanno
raggiunto un numero record, divenendo, gli USA, il primo partner militare di
Nuova Dehli.
Risale,
infine, a gennaio un’iniziativa congiunta USA-India sulle tecnologie critiche,
sulla difesa e sullo spazio.
Washington
punta ad un consolidamento dell’hard power indiano che possa rappresentare una
via alternativa alla Cina.
Ed è quindi in questo schema che si inserisce
perfettamente l’”alleanza Quad” tra “India, Australia e Giappone”
nell’Indo-pacifico.
Leadership.
Narendra
Modi, primo ministro della Repubblica dell’India e il presidente degli Stati
Uniti Joe Biden.
La
politica del primo ministro Modi, tuttavia, risente di alcune ambiguità. Di
questo gli americani ne sono ben consapevoli.
Primo elemento di ambiguità:
desiderando
divenire leader del Sud Globale, Nuova Dehli si è astenuta dal condannare la
Russia all’indomani dell’invasione dell’Ucraina.
Un rapporto, quello con Mosca, profondamente
intrecciato da interessi economici radicati e accordi di lunga data, in
particolar modo per la fornitura di armi e idrocarburi.
Entrando più nello specifico, l’India importa
dalla Russia il greggio a basso prezzo e, dopo averlo raffinato, lo rivende a
prezzo pieno anche ai paesi europei, aggirando in questo modo le sanzioni.
Secondo
elemento di ambiguità:
l’India non si unirà mai ad un’alleanza
occidentale tout-court.
Fa
parte della Shanghai Cooperation Organization, forum precluso a tutti i paesi
occidentali, contendendone a Pechino la leadership.
Il sub-continente, al contrario, intende assurgere
al ruolo di potenza neutrale, non facendo distinzioni tra autocrazie, dittature
o democrazie nella scelta dei suoi partner strategici.
Nuova
Dehli è decisa a scongiurare il rischio che il Sud Globale venga inglobato
nelle intricate trame cinesi, consapevole di essere l’unica potenza a
rivaleggiare con il Dragone, nella ricerca come nel fiorente business delle
terre rare.
E per
questo motivo utilizza gli USA.
È un
matrimonio di convenienza, di cui entrambi sono consapevoli.
Servendosi
di Washington, la strategia di Modi è quella di propendere più dalla parte
statunitense in un probabile scontro con Pechino, per poi distanziarsene e
costruire un vero e proprio ordine multipolare, assumendo conseguentemente la
leadership del Sud globale.
Insomma,
potete starne certi:
l’India
non prenderà mai parte ad un eventuale conflitto tra USA e Cina per la presa di
Taiwan.
Mai farà una scelta netta di campo.
Navigherà
nella sua ambiguità, nella sua zona d’ombra, a meno che la sua sicurezza
nazionale non venga toccata.
È un
cinico realismo quello indiano.
Teniamola
d’occhio, potrebbe darci grandi soddisfazioni in futuro, o anche grandi
dispiaceri.
Dimentichiamoci una strenua difesa da parte
del governo Modi dei nostri amati valori universali-occidentali, la
salvaguardia dei quali proprio non gli interessa.
Commenti
Posta un commento