L’imbroglio globalista. La verità viene a galla.
L’imbroglio
globalista. La verità viene a galla.
La
guerra europea alle auto
elettriche
cinesi semina
il
panico in Germania.
Msn.com
– investire oggi - Giuseppe Timpone – (7 -10 – 2023) – ci dice:
Forse
non è stato un vero fulmine a ciel sereno, ma l'apertura di un'indagine della
Commissione europea a carico delle auto elettriche cinesi segna ugualmente una
svolta nelle relazioni commerciali con Pechino.
Il
Dragone ha prontamente reagito tramite il governo e ha fatto sapere che seguirà
il caso e che non resterà a guardare.
Bruxelles assicura per bocca del presidente “Ursula
von der Leyen” che l'indagine anti-dumping sarà svolta in conformità alle
regole rigorose dell'”Unione Europea” e dell'”Organizzazione Mondiale per il
Commercio”.
Essa sarà tesa ad accertare che la catena di
produzione non benefici di sussidi governativi che alterino la concorrenza a
discapito dei produttori europei.
Cina
in vantaggio su transizione energetica.
Il
dubbio risiede circa il fatto che il vantaggio competitivo di cui gode la Cina
nella produzione di auto elettriche non sia dovuto solamente a dinamiche di mercato,
bensì anche a interventi governativi.
In
parole povere, è vero che la manodopera cinese costa molto meno di quella
occidentale, ma almeno buona parte del vantaggio in termini di prezzo
deriverebbe dai sussidi elargiti dal governo di Pechino alle case
automobilistiche.
In
pratica, parte dei costi risulterebbe coperto e ciò consentirebbe ai produttori
in loco di vendere auto elettriche nel resto del mondo a prezzi calmierati.
Il punto è che la Commissione europea ha fatto
la frittata e adesso cerca di correre ai ripari.
Dal 2035 non saranno più possibili vendite
nell'Unione Europea di auto con motore a combustione.
La transizione energetica sarà perseguita
puntando esclusivamente sulle auto elettriche.
“Bella
trovata ideologica della sinistra”, che non ha tenuto conto del fatto che la
componentistica sia in possesso perlopiù della Cina.
Essa detiene quasi il monopolio della
costruzione delle batterie, così come è seconda produttrice al mondo di
semiconduttori e possiede il controllo anche degli accumulatori.
La Germania
teme per industria auto tedesca.
Affidarsi
alle sole auto elettriche per combattere i cambiamenti climatici significa
sostanzialmente dipendere mani e piedi dalla Cina.
La
corsa ai ripari, tardiva, si avrebbe imponendo ai produttori in Cina dazi
anti-dumping tali da colmare il divario di prezzo ingiustificato cin i
concorrenti europei.
Attenzione,
la misura eventualmente varrebbe per gli stessi produttori europei o di altre
parti del mondo che fabbricano auto elettriche in Cina.
E questa è una delle due principali ragioni per cui la
Germania trema.
Il gruppo Volkswagen ha prodotto nell'intero
2022 quasi 3,2 milioni di veicoli in Cina, il 38,5% del totale.
L'interscambio
commerciale tra Cina e Germania ha sfiorato lo scorso anno i 300 miliardi.
Le esportazioni tedesche presso la seconda
economia mondiale valevano 107 miliardi, il 2,8% del PIL domestico.
Numeri che spiegano perché Berlino non guardi
con favore alla svolta anti-cinese di Bruxelles.
Ha
puntato gli ultimi venti anni sulla crescente integrazione con la Cina per
esportare su un mercato ad alto potenziale di crescita.
Adesso, vede andare in frantumi l'intera sua strategia
commerciale.
Asse
italo-francese contro auto elettriche cinesi.
Ed è
così che la "guerra" dell'Europa alle auto elettriche cinesi sta
seminando divisioni tra i partner.
Francia
e Italia sono schierate su posizioni dure, tant'è che di recente la prima ha
varato una legge che sostanzialmente esclude i veicoli importati dall'Asia
dagli incentivi.
Il governo Meloni vi si vorrebbe ispirare,
così da favorire le produzioni domestiche ed europee.
In
soldoni, sarebbero valutati i tassi di inquinamento provocati dal trasporto di
auto prodotte a lunga distanza e attingendo ad energia non pulita.
È
noto, ad esempio, che in Cina quasi la metà dell'energia elettrica sia generata
da centrali a carbone.
L'espediente è stato trovato.
Guardare ai livelli di inquinamento lungo
l'intera catena della produzione per disincentivare le importazioni di auto
elettriche cinesi.
Il
punto è che la Cina non resterà a guardare e potrebbe reagire imponendo a sua
volta restrizioni alle importazioni di auto europee.
La
Germania teme di perdere quote di mercato e di non riuscire neppure più a
produrre in Cina per vendere le proprie auto in Europa e nel resto del mondo.
Uno
scenario preoccupante per un'economia al palo, che già ha perso
l'approvvigionamento al gas russo a basso costo e che subirebbe ulteriori
contraccolpi pesanti dalla de-globalizzazione in corso.
UE
teme anche Stati Uniti.
Tra
l'altro, la minaccia cinese non è l'unica a pendere sulle teste dei produttori
europei.
Nell'agosto
dello scorso anno, l'Inflation Reduction Act (IRA) varato dall'amministrazione Biden
ha dato vita a generosi sussidi a favore di imprese e consumatori, con
l'intento di rimpatriare quote di produzione strategiche.
L'obiettivo dichiarato consiste nell'allentare
la dipendenza degli Stati Uniti dalla Cina in piena transizione energetica.
L'apparato di norme, tuttavia, scatena una
competizione con la stessa Europa.
La
Commissione europea ha chiesto a Washington di rendere il testo non ostile agli
interessi dell'Unione.
Ha
anche allentato la disciplina sugli aiuti di stato per consentire ai governi di
recuperare in corsa.
Il
problema è che questo stratagemma finisce per premiare i paesi con margini
fiscali come la Germania, che possono permettersi di sussidiare le produzioni
ritenute strategiche a colpi di miliardi.
Il
governo di Berlino ne ha destinati ben 10 a favore dell'”americana Intel” di
recente, al fine di incentivare la costruzione di due stabilimenti nell'Alta
Sassonia.
Auto
elettriche dividono Francia da Germania.
Sulle
auto elettriche si gioca il futuro di un pezzo di industria europea.
Sul
tema scricchiola l'asse franco-tedesco, mentre stiamo assistendo a un apparente
avvicinamento tra Francia e Italia.
Non
dobbiamo dimenticare che il presidente Emmanuel Macron vinse nel 2017 con un
programma, che definiremmo impostato sul "sovranismo europeo".
Egli
ha sin da subito puntato ad escludere le aziende cinesi dalle gare di appalto,
richiedendo tra l'altro che gran parte dei fornitori debbano avere sede
nell'Unione Europea.
Posizione
divergente dalla Germania, che crede di potersi avvantaggiare solo aprendo le frontiere
commerciali con Pechino e insinuandosi nel suo enorme mercato da 1,4 miliardi
di consumatori.
(Giuseppe
Timpone)
(Economia
- Investireoggi.it.)
La
verità sulla pandemia
emerge
nonostante i depistaggi.
Vareseinluce.it – (8 Settembre 2023) - Alberto
Comuzzi – ci dice:
L’incipit
di questo editoriale ci è suggerito dal celebre passo da cui si sviluppa
l’intera vicenda de “I Promessi sposi” (il cui grande Autore, grazie agli
articoli di Giulio Boscagli, abbiamo onorato in questo 150esimo anniversario
della morte).
«”Or
bene”, gli disse il bravo (il Griso), all’orecchio, ma in tono solenne di
comando, “questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai”.
“Ma,
signori miei”, replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol
persuadere un impaziente,” ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’ miei
panni”».
Ecco
«non s’ha da fare, né domani, né mai» la Commissione parlamentare di inchiesta
sulla gestione dell’emergenza sanitaria causata dalla diffusione del virus
Sars-CoV-2.
Scelga
il lettore chi possa vestire i panni del Griso e chi quelli di o dei don
Abbondio in circolazione.
Per
correttezza d’informazione va precisato che la proposta di una legge (di 7
articoli) per istituire una Commissione d’indagine è stata approvata alla
Camera, ma è ancora in attesa dell’esito della votazione al Senato.
Perché
siamo molto pessimisti sugli esiti di una tale Commissione?
Perché
occupano tuttora uffici di alta responsabilità coloro che verrebbero inquisiti
per le gravissime decisioni che hanno preso negli anni del Covid.
Del
resto il Capo dello Stato non ha avvertito che l’iniziativa del Parlamento
italiano sarebbe un’ingerenza nei confronti della Magistratura che s’è già
pronunciata chiudendo la vicenda pandemia?
Insomma la Commissione d’inchiesta va affossata.
Allo
stesso tempo però la verità viene a galla e, giorno dopo giorno, si scoprono
gli effetti avversi causati dai vaccini imposti a milioni di persone.
Lo dimostrano le tante morti improvvise sulle
quali non s’indaga; e si può capire perché.
Tre
deputati del Pd si stanno impegnando per far approvare una legge che autorizzi
esclusivamente certi “sanitari sicuri” a praticare autopsie.
Domanda:
gli Ordini dei medici che fanno?
Puntano l’indice sugli iscritti riottosi che
s’interrogano sul numero e la qualità dei decessi che statisticamente non si
sono mai verificati in tale misura nel passato?
La
verità sul colossale imbroglio dei sieri mRNA è già venuta a galla in Germania,
in Gran Bretagna, ma soprattutto negli Stati Uniti dove tutta la vicenda della
pandemia sta per essere scritta nel verso giusto e non secondo gli interessi di
parte di una certa nomenclatura politica legata ai colossi farmaceutici e dei
relativi personaggi proprietari globalisti.
Antony
Fauci, il più noto immunologo statunitense è sotto inchiesta della Camera dei
rappresentanti USA per avere usato fondi pubblici per depistare l’attenzione
sul laboratorio di Wuhan, dove si svolgevano gli studi sul coronavirus da lui
stesso coordinati.
La
pandemia s’è inscritta in un progetto molto più ampio che ha generato utili
giganteschi a Big Pharma.
È oggi
di dominio pubblico l’efficacia corruttiva di aziende importanti come Pfizer,
per altro condannata ripetutamente per avere messo in commercio farmaci
risultati dannosi.
Per
distrarre l’opinione pubblica dalla satanica vicenda Covid si stanno alzando
cortine fumogene in ogni direzione.
Così
tengono banco il “tradimento” del commissario tecnico della Nazionale di
calcio, Roberto Mancini (ma ci si stupisce del valore del denaro in una società
che lo idolatra?);
le strumentali accuse di omofobia rivolte al
generale di divisione, Roberto Vannacci (reo di avere fotografato con
precisione l’Italia del 2023);
le dichiarazioni di Giuliano Amato
sull’abbattimento del Dc9 Itavia avvenuto nel cielo di Ustica ben 43 anni fa
(il Dottor Sottile sta lanciando qualche messaggio?).
Senza
contare il cicaleccio mediatico sulla strage di Bologna, il rapimento di Emanuela
Orlandi, il salario minimo e il reddito di cittadinanza, il superbonus per il
rilancio dell’edilizia (nascondendo la patrimoniale che sta preparando l’Unione
europea con il pretesto delle case green), il disordinato incremento di
immigrati, le sanzioni ai genitori per abbandono scolastico di figli minorenni,
i crescenti e inediti delitti di Trump (che però sale nel gradimento fino al 59
per cento del popolo americano) e via discorrendo.
Fondamentale,
però, è non parlare della Commissione Covid.
Sarebbe
interessante sapere che cosa pensa il ministro della Sanità, Orazio Schillaci,
se fosse accertata la notizia sui vaccini scaduti somministrati agli anziani
nelle Residenze sanitarie assistenziali e il contestuale ripristino delle
limitazioni delle visite dei loro parenti.
La
pandemia ha svelato l’arroganza criminale di porzioni d’élite occidentali
contro i propri popoli.
Negli
Stati Uniti e in Europa c’è chi è terrorizzato di perdere il potere perché si
rende conto che questa volta in gioco non c’è un seggio elettorale, ma il
rischio d’incriminazione per reati molto gravi.
Nonostante
il massiccio uso dei media per convincere le opinioni pubbliche ad accettare la
narrazione unica, emergono fatti circostanziati che stanno svegliando le
persone comuni.
Il
fumo negli occhi si sta dissolvendo.
Ricchi
e potenti. La scoperta
dell’acqua
calda: evadono il (loro) fisco.
Centroculturaledimilano.it
– (19 febbraio 2022) - Gianfranco Fabi – ci dice:
La
vicenda Pandora papers e il rito delle operazioni offshore. Una fuga di
capitali che produce danni oggettivi all’economia reale. E una narrazione
superficiale. Tra paradossi del fisco e un’educazione che non c’è.
Ha
destato sensazione nelle scorse settimane l’inchiesta denominata Pandora
papers, frutto del lavoro di anni di un Consorzio di giornalisti investigativi.
Una
sensazione in verità pari alla scoperta dell’acqua calda, salvo per qualche
nome apparentemente insospettabile.
Che ci
siano ricchi e potenti che cercano di mettere al sicuro le loro ricchezza, non
solo dai ladri, ma anche dal fisco, è un fatto ampiamente noto e risaputo.
Tanto che da almeno trent’anni nell’ambito dell’Ocse
(L’Organizzazione dei paesi industrializzati) è in atto una dura battaglia per
armonizzare le regole, per favorire lo scambio di informazioni, per controllare
il trasferimento dei capitali ai fini di evasione o di elusione fiscale.
Qualcosa
di più delle grida manzoniane che aumentando sempre di più le pene servivano
alla fine per dimostrare che il problema era sempre aperto.
Triangolazioni
“creative”.
La
battaglia dei grandi paesi ha dato invece positivi risultati.
Forse
il più clamoroso è quello che ha fatto cadere quel segreto bancario che è stato
per secoli uno dei capisaldi del settore finanziario in Svizzera.
Il
traguardo finale è ancora lontano, anzi probabilmente non sarà mai raggiunto,
ma è significativo che nella lista nera delle giurisdizioni che non rispettano
gli standard internazionali ci siano ormai solo nove piccoli paesi:
Samoa,
Bahrain, Guam, Isole Marshall, Namibia, Palau, Saint Lucia, Samoa e Trinidad
& Tobago.
Certo,
ci sono poi altri paesi, da Panama a Singapore, dalle isole inglesi sulla
Manica a qualche sperduto arcipelago nel Pacifico, che possono servire per
quelle triangolazioni che sa realizzare la più sofisticata ingegneria
finanziaria.
Salvo poi scoprire che i veri paradisi fiscali
sono nei paesi federali, come gli Stati Uniti o la stessa Svizzera, dove la
competizione tra i sistemi dei singoli stati o dei Cantoni fa sì che si siano
vere e proprie oasi di tranquillità fiscale.
È il
caso, in parte ridimensionato negli ultimi anni, del Delaware negli Usa oppure
del Cantone Zugo nella Confederazione.
Peraltro in molti altri Cantoni elvetici i
ricchi che non hanno bisogno di lavorare possono trasferire la loro residenza
utilizzando il metodo “globalista” di pagare le tasse:
cioè
una quota fissa concordata non tanto sulla base dei redditi e della ricchezza,
ma sul loro livello di vita.
Lussemburgo
caput investimenti.
Non è
che il Fisco sia uguale per tutti gli altri.
Le differenze esistono, ma sono differenze
nella politica fiscale, nei vantaggi che taluni paesi offrono a chi compie
nuovi investimenti, alle garanzie di affidabilità e certezza del diritto.
Anche
all’interno dell’Unione europea vi sono differenze sensibili:
il Portogallo riserva condizioni di grande
favore per i pensionati e per chi investe in nuove attività produttive,
l’Irlanda ha una legislazione molto favorevole per le grandi multinazionali, il
Lussemburgo è un piccolo Granducato dove hanno sede gran parte dei fondi di
investimento:
è
molto probabile che chi si rivolge a una banca italiana per investire i propri
risparmi ottenga, magari a sua insaputa, un prodotto finanziario, del tutto
legale, con base proprio in Lussemburgo.
In questi casi non si parla di evasione, ma di
quella che gli esperti chiamano “ottimizzazione fiscale”:
in
pratica operazioni che in tutta trasparenza e legalità consentono di sfruttare
le occasioni in un mondo in cui si parla spesso di paradisi fiscali, ma non
altrettanto spesso si parla di realtà che, almeno in parte, sono degli inferni
fiscali.
Penalizzata
l’economia reale.
Certo,
nei “Pandora papers”, ci sono nomi di dittatori, capi mafia, oligarchi le cui
ricchezze non sono certo frutto di normale imprenditorialità.
E
questo è un problema per le aule giudiziarie, ammesso che in molti dei paesi
interessati la giustizia riesca a fare il suo corso.
Pur se rilevante questo fenomeno è tuttavia la
punta di un iceberg molto più grande e diversificato.
In un
recente documento la Congregazione per la dottrina della fede sottolineava che
“oggi più della metà del commercio mondiale viene effettuato da grandi soggetti
che abbattono il proprio carico fiscale spostando i ricavi da una sede
all’altra, a seconda di quanto loro convenga, trasferendo i profitti nei
paradisi fiscali e i costi nei Paesi ad elevata imposizione tributaria.
Appare
chiaro che tutto ciò ha sottratto risorse decisive all’economia reale e
contribuito a generare sistemi economici fondati sulla disuguaglianza.”
Con
molti elementi negativi.
Le
operazioni finanziarie attraverso le sedi offshore aprono la strada alle
operazioni criminali con il conseguente riciclaggio di denaro e la costituzione
di patrimoni che sfuggono ad ogni controllo.
E costituiscono un fattore di attrazione per
capitali dei paesi più deboli che potrebbero invece trarre sostegno dal
finanziamento di investimenti produttivi.
La
stessa Congregazione, tuttavia, non manca di sottolineare come “il sistema
tributario approntato dagli Stati non sembra sempre equo”.
Non è ovviamente una giustificazione
all’evasione, ma è soprattutto la sottolineatura di come gli interventi per
contrastare l’evasione fiscale non possono essere solo repressivi, ma devono
tener conto della necessità di non penalizzare lo spirito di iniziativa e
l’imprenditorialità.
Senza dimenticare che gli stessi effetti
redistributivi di una sana politica fiscale costituiscono un fattore
fondamentale per la crescita dell’intero sistema economico.
Solo
il 5 per cento delle dichiarazioni dei redditi è controllato.
Guardiamo
all’Italia.
La
lotta all’evasione fiscale è un immancabile rito in ogni programma politico.
L’economia sommersa è stimata, da una fonte ufficiale come l’Istat, in quasi
200 miliardi mentre l’evasione fiscale vera e propria supererebbe di poco i
cento miliardi.
Cifre
molto grandi che fanno da contraltare, tuttavia, ad un sistema fiscale che
prevede una fascia molto larga di esenzione per i ceti medio bassi e una
pressione nominale significativa per il ceto medio e gli alti redditi.
Il
Fisco negli ultimi anni ha affilato le armi:
basti
pensare al caso di Valentino Rossi che dopo aver spostato formalmente a Londra
la sua residenza è stato “convinto” a dichiarare in Italia, residenza
effettiva, i propri redditi e a pagare le relative tasse.
Ma a
fronte di pochi casi clamorosi vi è una forte difficoltà ad un contrasto
generalizzato all’evasione.
Come
ha scritto Ernesto Maria Ruffini, direttore generale dell’Agenzia delle entrate
“per quanto sia numeroso il personale della Guardia di Finanza e quello
dell’Agenzia delle Entrate, le probabilità che un evasore sia scovato sono
davvero scarse.
Solo il cinque per cento delle dichiarazioni
dei redditi è controllato e l’evasore ha il novantacinque per cento di
probabilità di farla franca”.
Forse
bisognerebbe aggiungere che la lotta all’evasione dovrebbe riguardare chi le
tasse non le paga per nulla piuttosto che andare alla ricerca degli errori
nella complessità delle dichiarazioni fiscali.
Complessità
non tanto perché il Fisco non abbia cercato di facilitare la vita ai
contribuenti, per esempio con le dichiarazioni pre-compilate, quanto perché le
regole fiscali prevedono tutta una serie di agevolazioni, deduzioni e
detrazioni, soggette a loro volta a limiti, barriere e condizioni spesso di
complessa attuazione.
BANCHE
ITALIANE: EVADONO QUASI
300
MILIARDI DI EURO L'ANNO.
OggiTreviso.it
- Blog di Controcorrente- Francesca
Salvador – (21/05/2014) – ci dice:
MARCO
SABA: LA TRUFFA.
"L'attività annuale di creazione di denaro del
settore bancario in Italia (esclusa la banca centrale) è dell'ordine di mille
miliardi di euro e a seguito di una imposizione fiscale come l'attuale al 27,5%
(IRES), porterebbe nelle casse dello stato 275 miliardi netti all'anno
permettendo di eliminare gran parte delle imposte vessatorie oggi in essere.
Ho
partecipato recentemente alle assemblee degli azionisti di tre istituti di
credito (Unicredit, Intesa e Carige) dove ho fatto rilevare che i bilanci presentati
per l'esercizio 2013 erano palesemente falsi per omissione e che non potevano
essere in perdita una volta segnalato in bilancio l'aggregato monetario
prodotto nell'esercizio in questione.
Questi
fondi sono in nero e sono all'attivo delle banche di emissione perché esse, nel
momento della creazione del denaro, contabilmente, hanno segnato per
convenzione il valore emesso come un passivo.
Così
viene trattato nei bilanci il valore creato, mentre dall'altra parte la massa
monetaria creata da impiegati di questi enti privati scivola invisibilmente
via, raggiungendo le centrali di appianamento internazionale che, come minimo,
avrebbero il compito di aiutare le autorità a rintracciare questo enorme volume
di evasione fiscale.
Chi ha
avuto un prestito bancario, diciamo di 100.000 euro, a un certo punto ha finito
di ripagarlo alla banca.
Il
dovuto del cliente va a zero, il conteggio bancario pure risulta a zero, ma i
100.000 euro rimangono nella cassa della banca in nero!
E
questi 100.000 euro in nero, che chiameremo medium rientrato riciclabile,
saranno a disposizione della banca non tassati, perché contabilmente non ne è
stata denunciata la creazione, e vengono riciclati per attività non controllate.
Cioè
questo denaro finisce sulle centrali di compensazione interbancaria (v.
correlati) che ci sono in Europa: Euroclear, Clearstream e Swift.
Infatti,
se noi andiamo a vedere l'aggregato di attività di queste tre società di
compensazione, troveremo che nell'anno 2000 erano almeno 80 trilioni di euro
(80 mila miliardi di euro)!
Cioè
proprio quei soldi creati con il beneplacito della BCE e senza essere stati
messi all'attivo, che grazie a questo tipo di contabilità non vengono tassati e
spariscono nel ventre delle banche.
Immaginate
di chiedere un mutuo di 100.000 €. La banca crea la somma come denaro virtuale,
ma contabilmente ne registra solo l'uscita, cioè non registra l'atto di creazione
di questi soldi.
Quindi
che cosa succede?
In
pratica il prestito ha creato un -100.000 che è andato al cliente che se lo
investe come vuole lui, anche se è negativo, e un +100.000 che resta alla banca e
che però non viene ancora contabilizzato, sebbene esista.
La
contabilizzazione avviene quando passa sui conti nascosti, non visibili al
pubblico, presso le centrali di compensazione interbancaria Euroclear,
Clearstream e Swift.
Nel
tempo il cliente dovrà restituire alla banca questi 100.000, spostamento che
porta la contabilità sia del cliente che della banca a zero.
Nella
contabilità che magari è soggetta a tassazione rientrano solo gli interessi,
che io per il momento ho omesso di discutere.
Tutta
questa creazione in nero di denaro fa sì che ogni anno il sistema bancario
italiano porti via alla comunità più di metà del debito pubblico (ovvero oltre 1.000
miliardi di euro).
Ogni
anno.
Senza
che nessuno se ne accorga, soprattutto i professori universitari.
Non se
ne accorgono. Perché?
Perché
hanno studiato un modello e nessuno gli ha mai chiesto di occuparsi di
contabilità.
Si
occupano di 'dinamiche economiche'.
Hanno
studiato un modello fittizio proposto dallo stesso sistema bancario, secondo il
quale detta creazione di denaro non dovrebbe essere registrata se non come
passivo.
Cioè
si accetta l'assurdità che una persona con un portafoglio vuoto possa
dichiarare un passivo nel momento in cui crea un prestito.
Inoltre
ci si fa indurre nell'errore di confondere il mezzo monetario con quella che è
la scrittura contabile pre-definita, e alla fine della fiera tutti questi soldi
vengono trasferiti in queste centrali di compensazione.
La
stessa cosa succede negli USA, la stessa cosa succede in Giappone, etc. in
tutto il sistema occidentale.
Questo
non lo dico solo a livello accademico.
Sono
andato all'assemblea della Banca Carige, sono andato all'assemblea della Banca
Intesa e ho chiesto ragione di questa non scrittura contabile all'interno del
bilancio.
L'amministratore
di Banca Carige, Montani, mi ha sfidato a fargli causa; l'amministratore
delegato di Banca Intesa, dr. Messina, ha risposto che si tratterebbe di
'raccolta' e non rappresenterebbe un profitto per la Banca.
Ma non
c'entra proprio niente qui la raccolta, stiamo parlando dell'atto di creazione
ab inizio dello strumento monetario.
Ho parlato
di mille miliardi l'anno, quindi vuol dire che ogni giorno il sistema bancario
sottrae 3 miliardi alla comunità senza che nessuno se ne accorga.
Questi
soldi che vanno a finire nelle centrali di compensazione internazionali poi
vanno a finire in conti presso le British Virgin Islands, le Cayman, o possono
andare a finire, non so, alla èlite Ucraina per convincerla ad entrare
nell'Unione Europea, oppure possono servire a pagare dei mercenari che fanno
dei colpi di stato in Africa, per esempio!
In
definitiva, tale massa di denaro-ombra creata continuamente dal sistema
bancario, in nero, senza denuncia nei registri contabili e ufficiali, crea un
potere immenso oscuro che poi ci ritroviamo nelle dinamiche a danno dei popoli
e del pianeta.
Dunque
quando udite di un prestito dei mille miliardi fatti alle banche, significa che
la Banca Centrale ha creato dal nulla mille miliardi, e che non li ha messi a
bilancio;
li ha messi solo in perdita quando li ha usati
per comprare titoli di stato o per fare altre spese sue.
Ora
quando gli ritornano indietro ci vuole far credere che va in pareggio?
Piuttosto
invece si ritrova mille miliardi in nero, non dichiarati nel bilancio!
Soldi
che la gente non vede e di cui non conosce neanche l'esistenza.
E
nemmeno i professori universitari sanno che esistono, dal momento che non ne
parlano.
Perché
credono davvero che possa esistere una moneta negativa, quella così
contabilizzata: l'antimateria!
Non è
così!
Ogni
volta che una banca crea uno strumento monetario esso ha un valore
esclusivamente positivo per chi lo detiene.
E la
contabilità bancaria deve sottostare alle regole dettate per tutte le altre
società, tant'è che proprio nella circolare 2.6.2. sulla redazione del bilancio
della Banca d'Italia sta scritto che se in casi eccezionali le regole
internazionali che vengono seguite per redigere la contabilità non danno un
quadro finanziario, economico e patrimoniale corretto dell'azienda, queste
regole non vanno seguite.
Quando
l'amministratore di Banca Intesa mi ha risposto che lui per la contabilità ha
seguito le regole pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale europea, ha detto una
cosa che non lo giustifica per niente.
Da
notare che tutte quelle famose riserve della Lira che non sono state restituite
al ministero del Tesoro, con la privatizzazione della Banca d'Italia che è diventata
ufficiale con il decreto di gennaio 2014 Imu-bankitalia, vengono rubate
direttamente da tutti i soci proprietari della Banca d'Italia, che sono dei
privati.
Quindi
non sono tanto quei 7.5 miliardi di euro, contabili, di cui si è molto
discusso, ma sono i depositi che la Banca d'Italia ha su un conto nascosto alla
centrale di compensazione interbancaria presso la Clearstream, più altri valori
come:
2700
tonnellate d'oro, 800 immobili pregiati, migliaia di miliardi di linee di
credito in valute estere, tutte cose che con la privatizzazione avrebbero
dovuto essere immediatamente restituite al Ministero dell'economia, ovvero allo
Stato, se non fosse che siamo arrivati ad un tal punto di degrado e corruzione
per cui nello Stato entrano gli stessi uomini delle banche.
Praticamente
tutto il denaro, tranne le monetine, è creato in questo modo dal sistema
bancario.
Ma se
tutto il denaro il sistema lo crea pretendendo sopra un interesse, cioè una
somma maggiore di quella che è stata creata, in fin dei conti, questo vuol dire
che ci ritroviamo in una situazione in cui c'è un esproprio continuo e forzato
da parte del sistema bancario nei confronti di tutti gli usufruitori finali
della massa monetaria.
È una
truffa!
È un
sistema che non è solvibile, per definizione, “ab initio”.
Dal
punto di vista giuridico ogni contratto di questo tipo dovrebbe essere nullo in
quanto matematicamente impossibile da soddisfare.
I
contratti impossibili non hanno valore legale.
Questo
non è un problema che riguarda solo gli economisti, ma anche il diritto!"
(Marco
Saba, tratto da una conferenza in video - sintesi e trascrizione a cura di L.
Acerra)
Nota
Finale - L. Acerra.
Nell'iniziativa
che Auriti ebbe negli ultimi anni della sua vita, fu Marco Saba a convincere il
professore che bisognava portare in tribunale quella famosa causa sul
signoraggio terminata con la Cassazione che giudicò i giudici inadatti a
giudicare.
Andò
proprio così:
sulla
causa del Signoraggio al popolo la Cassazione sancì che i giudici non possano
giudicare!
Ma
oggi abbiamo capito che si tratta di una evasione fiscale colossale da parte di
chi crea massa monetaria, (soggetto che non è più lo stato) e ciò fa subire ai
cittadini una iper-tassazione ingiusta.
Siamo
stati inseriti in un sistema ove vige l'insolvenza permanente, matematicamente
irrisolvibile, che garantisce che le banche abbiano la scusa legale per
sottrarre beni ai cittadini più esposti.
Sottraggono
beni e tempo ai cittadini e patrimonio delle nazioni.
Ma voi
vi rendete conto?
I banchieri
rubano tutto, lasciano quattro briciole sul tavolo e poi dicono (alla classe
politica) ora vedete come gli elettori vogliono distribuire queste briciole!
E la
Soluzione?
Ci
sono tanti possibili sistemi tecnici per riappropriarci del signoraggio.
Un
sistema tecnico molto semplice è esigere che le banche che vogliono operare in
Italia si dotino di moneta “statale”, emessa da noi Italia, come riserve al
100% per poter prestare e quant'altro.
Moneta
“statale” significa che noi emettiamo titoli di stato in una nuova valuta che
vale solo in Italia, solo a livello nazionale.
Questa
è solo una possibilità. Ci sono varie gradazioni.
La
cosa più importante è capire dove sta l'imbroglio.
L'Italia
può andare ad esaminare il debito pubblico caso per caso.
Può
decidere di restituirlo solo ai cittadini privati e utilizzarlo per farsi
restituire ciò che ancora gli devono indietro le banche.
In
conclusione, le centrali di compensazione Clearstream, Euroclear, Swift e le
altre americane, costituiscono una potente leva e strumento di manipolazione
attraverso cui hanno creato simboli monetari per 100 volte il PIL mondiale.
Cioè
tutta la popolazione del mondo deve lavorare per un secolo prima di produrre il
controvalore sulla massa monetaria in nero, non tassata, che affrancata dal
passaggio attraverso le centrali di compensazione interbancaria è una risorsa
costante utile a manipolare la politica, le persone, le scelte, a finanziare le
guerre.
Nel
2000 ci fu un processo in Francia per cui si riuscì a scoprire che su 32.000
conti esistenti di queste centrali di compensazione internazionali europee, 16
- 17.000 conti erano segreti, invisibili al pubblico.
E il
Lussemburgo non ha mai dato l'autorizzazione ai magistrati di metterci il naso.
E su questi conti che viene girata questa moneta fantasma che vale cento volte
il PIL di tutto il mondo, e che è semplicemente il provento del signoraggio
fatto dagli istituti bancari privati.
La
banca presta la moneta
che
non ha.
Ilmanifesto.it
– (22 aprile 2016) – Enrico Grazzini -Luciano Gallino – ci dicono:
ECONOMIA.
L’insegnamento di Luciano Gallino sulla moneta: «Lo Stato si decida a fare in
piccolo quello che le banche private fanno in grande: creare denaro dal nulla».
La
banca presta la moneta che non ha.
Una
delle radici più profonde e nascoste della crisi è la moneta/debito, come
insegna Luciano Gallino (“Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai
nostri nipoti“, Einaudi, 2015).
Il
senso del suo insegnamento radicale e controcorrente si può sintetizzare così:
la
grande maggioranza della moneta che utilizziamo viene creata ex nihilo dalle
banche private sotto forma di prestiti, cioè di moneta/debito.
Questa
è la vera causa dell’esplosione globale dei debiti privati e pubblici che
soffocano l’economia.
La
moneta bancaria aumenta i debiti e sottrae ricchezza all’economia reale.
La
moneta dovrebbe invece diventare un bene pubblico, una risorsa messa a
disposizione dallo Stato per produrre ricchezza e benessere grazie alla piena
occupazione e alla svolta ecologica dell’economia.
È l’unica via d’uscita dalla crisi.
In
continuità con gli studi e le lezioni sulla “moneta endogena” di economisti
insigni, come John M. Keynes e Hyman Minsky e, in Italia, Augusto Graziani,
Gallino spiega il malefico ingranaggio:
«Una banca moderna crea denaro quando concede
un credito. La credenza popolare per cui la banca presterebbe ad altri il
denaro già depositato da un altro correntista è infondata».
A
sostegno della sua tesi, lo studioso cita la Banca d’Inghilterra:
«Generalmente si ritiene che le banche
agiscano come intermediari dando prestiti in base ai depositi dei
risparmiatori.
Ma è
falso.
Nella
realtà dell’economia moderna le banche commerciali sono le vere creatrici del
denaro depositato.
È
l’atto di prestare denaro creato dal nulla che crea l’attivo bancario.
Questo
processo è il contrario della sequenza tipicamente descritta nei manuali».
Il
potere della democrazia e della politica ne è soverchiato.
E
ricorda già ai primi dell’Ottocento il presidente degli Stati uniti Thomas
Jefferson affermava che «le istituzioni bancarie sono più pericolose per le nostre
libertà di un esercito in armi. Il potere di emettere denaro dovrebbe essere
tolto alle banche e restituito al popolo al quale propriamente appartiene».
La
moneta legale, ovvero le banconote stampate dalla banca centrale, sono solo una
parte minoritaria del denaro che effettivamente circola nell’economia.
Le
banconote con valore legale che ritiriamo dai bancomat, valgono solo per il 5%
del denaro che utilizziamo: il 95% del denaro che usiamo per le transazioni
(stipendi, investimenti, acquisto casa, auto,ecc.) è moneta digitale creata
dalle banche.
Le
banche hanno in teoria dei vincoli all’offerta di moneta/prestiti (come per
esempio la riserva obbligatoria):
ma in
pratica creano moneta a loro piacimento grazie alla leva monetaria.
Per un euro di capitale proprio hanno attività
fino a 30-50 euro.
Neppure
le banche centrali controllano la massa monetaria circolante:
tentano
di manovrare il credito grazie al tasso principale di interesse, senza
riuscirci.
Quando c’è il boom economico e la domanda di denaro è
forte, le banche private fanno prestiti, creano denaro in eccesso;
quando
scoppia la bolla finanziaria, allora ritirano il denaro dall’economia e creano
recessione (come avviene nell’eurozona).
La
moneta bancaria è pro-ciclica e genera crisi.
Gallino
ci spiega che le grandi banche, dagli anni ’80 in poi, hanno creato nuova
“falsa moneta” con la loro attività finanziaria.
Si
sono trasformate in trader e scommettono (mettendo a rischio i soldi dei
risparmiatori) in ardite operazioni speculative per ottenere profitti immediati
e enormi.
Grazie
a società-veicolo fuori bilancio le banche internazionali organizzano un
immenso sistema bancario-ombra che, a sua volta, crea un gigantesco mercato
opaco di titoli finanziari esotici cosiddetti derivati, fuori dai mercati
ufficiali e da ogni regola pubblica.
Il
peggio è che i derivati – come i futures, le opzioni, i credit default swap –
sono diventati “nudi”, ovvero sono delle pure scommesse nelle quali il valore
sottostante della merce su cui poggia il valore del derivato non ha alcuna
importanza per chi effettua le compravendite.
Il
mercato dei derivati scambiati in questo capitalismo casinò è immenso: circa
700 triliardi (cioè migliaia di miliardi) di dollari, ovvero circa dieci volte
il Pil mondiale. La moneta privata e sfuggita ad ogni controllo pubblico.
Ma
l’alternativa esiste:
le banche devono ritornare a rispettare
vincoli precisi, i movimenti di capitale e il mercato dei derivati devono
essere strettamente disciplinati.
La
politica deve ritrovare la sovranità sulla finanza.
Nella
prospettiva indicata da Gallino (e da Positivemoney.org, che Gallino richiama
nel suo libro) la moneta dovrebbe essere emessa esclusivamente dallo stato e
distribuita ai cittadini e alle imprese in base a decisioni di politica
economica prese democraticamente da organi pubblici.
Gallino
è stato l’unico grande intellettuale italiano che ha avuto il coraggio di
promuovere un progetto innovativo come il fiscal money.
La moneta fiscale non è che un titolo pubblico
emesso dallo stato, convertibile in euro – come i Bot e i Btp -, valido per
“pagare le tasse” dopo due anni, da distribuire gratuitamente (sottolineo:
gratuitamente) a cittadini, imprese e amministrazioni pubbliche.
La
moneta fiscale emessa dallo stato diventerebbe moneta a tutti gli effetti, con
valore riconosciuto:
infatti il fisco costituisce larga parte (40%
circa) dell’economia e un titolo con valore di sconto fiscale è accettato da
tutti.
Nella
sua prefazione all’eBook edito da Micromega nel 2015, “Per una moneta fiscale
gratuita” ha spiegato che si «osa proporre nientemeno che, allo scopo di
combattere la disoccupazione e la stagnazione produttiva in corso, lo stato si
decida a fare in piccolo qualcosa che le banche private fanno da generazioni in
misura immensamente più grande: creare denaro dal nulla».
La
moneta fiscale ha tre caratteristiche fondamentali che la rendono alternativa
alla moneta bancaria:
è
emessa e distribuita dallo Stato e non dalle banche private;
è una
moneta nazionale e non una moneta prodotta dalle banche internazionali (come
l’euro);
è una
moneta-credito (ovvero distribuita gratuitamente) e non una moneta-debito.
Grazie
a questo titolo/moneta, lo stato – disintermediando in parte le banche – potrebbe
combattere l’austerità dell’euro, rilanciare i consumi, gli investimenti e
l’occupazione senza aumentare il debito pubblico (grazie al moltiplicatore
keynesiano).
Non a
caso anche Mediobanca in un suo recente report ha scritto che con la moneta
fiscale il Pil crescerebbe del doppio senza squilibrare il bilancio pubblico e
la bilancia commerciale.
Obiettivo
13 Agenda 2030:
Combattere
il cambiamento climatico
Karmametrix.com
– (1°marzo 2023) – Redazione – ci dice:
Il
cambiamento climatico non è più una previsione, ma un dato di fatto.
A
differenza di qualche anno fa, non serve più solamente fidarsi delle predizioni
di scienziati ed esperti per credere al cambiamento climatico, è sufficiente
osservare la vita di tutti i giorni:
inverni più corti, estati più lunghe, qualità
dell’aria sempre peggiore e mancanza di piogge abbondanti.
Evidenze
chiarissime di eventi disastrosi come questi caratterizzano, purtroppo, il
mondo di oggi e sono in gran parte causate dall’azione umana dei globalisti più
ricchi.
Cos’è
l’Agenda 2030?
Per
contrastare il cambiamento climatico, insieme ad altri problemi globali, nel
settembre del 2015 i Paesi membri dell’ONU si sono riuniti a New York per
sottoscrivere l’Agenda 2030 per lo “Sviluppo Sostenibile”, un programma di 169
traguardi da raggiungere entro il 2030.
L’Agenda
2030 è una continuazione degli “Obiettivi di sviluppo del Millennio delle
Nazioni Unite” (2000-2015), che ai loro tempi costituivano il primo passo a
livello internazionale per affrontare problemi globali come l’eliminazione
della povertà estrema e della fame e per promuovere miglioramenti nell’accesso
all’istruzione.
Sebbene
gli obiettivi non siano stati pienamente raggiunti, hanno comunque fornito la
base per un progresso significativo che, nel 2015, è stato esteso attraverso
l’Agenda 2030.
Come
dichiarato nel documento della stessa Agenda il programma è riferito a
“Persone, Pianeta e Prosperità”, ed è articolato in 17 Obiettivi che mirano a
risolvere problematiche ambientali, sociali ed economiche.
Tra
questi compare un Obiettivo o “Goal” riferito esclusivamente al cambiamento
climatico:
Obiettivo
13: promuovere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento
climatico.
Obiettivo
13: cos’è e perché è importante.
Era
davvero necessario dedicare un intero obiettivo globale dell’Agenda 2030 alla
lotta al cambiamento climatico?
Se,
come scritto sopra, la chiara evidenza di quello che ci succede intorno non è
sufficiente a spiegare la cruciale importanza dell’Obiettivo 13, ecco qualche
dato concreto per comprendere ancora meglio la situazione sul nostro Pianeta:
Rispetto
ai livelli preindustriali la temperatura media del Pianeta è aumentata di 0,98
°centigradi.
Se la
temperatura aumenterà ancora fino a 1,5°centigradi, si perderà fino al 90%
delle barriere coralline.
Il 97%
degli scienziati (ben pagati dalle aziende globaliste sovranazionali) attribuisce
le conseguenze del riscaldamento globale alle attività umane.
Rispetto
alla media degli anni 1985-2005, la temperatura del Mediterraneo è aumentata di
4 gradi. (Ma
chi ci crede?)
Nel
2021 le emissioni di CO2 (che essendo più pesante dell’aria se ne sta buono, buono
vicino alla terra ed al mare. N.D.R.) dovute al consumo di energia hanno
raggiunto i livelli più alti di sempre.
Quali
sono i target dell’Obiettivo 13?
Come
riportato nella versione integrale dell’Agenda 2030 ogni Obiettivo è suddiviso
in target ben precisi, utili per sviluppare strategie più dettagliate ed
efficienti.
Nel
caso dell’Obiettivo 13 sono stati individuati i seguenti punti d’azione:
13.1 –
Rafforzare in tutti i paesi la capacità di ripresa e di adattamento ai rischi
legati al clima e ai disastri naturali.
13.2 –
Integrare le misure di cambiamento climatico nelle politiche, strategie e
pianificazione nazionali.
13.3 –
Migliorare l’istruzione, la sensibilizzazione e la capacità umana e
istituzionale per quanto riguarda la mitigazione del cambiamento climatico,
l’adattamento, la riduzione dell’impatto e l’allerta tempestiva.
13.a –
Rendere effettivo l’impegno assunto dai partiti dei paesi sviluppati verso la “Convenzione
Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico” che prevede la
mobilizzazione, entro il 2020, di circa 100 miliardi di euro all’anno,
provenienti da tutti i paesi aderenti all’impegno preso, da indirizzare ai
bisogni dei paesi in via di sviluppo, in un contesto di azioni di mitigazione
significative e di trasparenza nell’implementazione, e rendere pienamente
operativo il prima possibile il “Fondo Verde per il Clima” attraverso la sua
capitalizzazione.
(Ma a
questo “fondo verde” non dovrebbero partecipare solo le maggiori industrie
globaliste del pianeta? N.D.R.)
13.b –
Promuovere meccanismi per aumentare la capacità effettiva di pianificazione e
gestione di interventi inerenti al cambiamento climatico nei paesi meno
sviluppati, nei piccoli stati insulari in via di sviluppo, con particolare
attenzione a donne e giovani e alle comunità locali e marginali.
Politiche
in Europa per promuovere l’Obiettivo 13
Utilizzando
l’Obiettivo 13 e l’Agenda 2030 in generale come linea guida, l’”Unione Europea”
ha introdotto diverse strategie per cercare di contrastare il cambiamento
climatico.
Leggi,
Direttive, sanzioni, comitati e riunioni internazionali, potremmo elencare decine
di azioni che negli ultimi anni hanno tentato di dare un contributo concreto,
ma in questo paragrafo elenchiamo quelle più tangibili e di successo, spiegate
in maniera molto sintetica al semplice scopo di disegnare un quadro generale:
Direttiva
sulla qualità dell’aria: la direttiva stabilisce standard per la qualità dell’aria
nell’UE e stabilisce limiti di emissione per alcune sostanze inquinanti.
Piano
climatico per il 2030: il Piano stabilisce l’obiettivo dell’UE di ridurre le
emissioni di gas a effetto serra del 40% entro il 2030 rispetto ai livelli del
1990. Questa strategia comprende anche obiettivi per aumentare la quota di
energia rinnovabile nell’UE e migliorare l’efficienza energetica.
Fondo
europeo per lo sviluppo sostenibile (EFSD): il Fondo fornisce finanziamenti a
progetti che promuovono lo sviluppo sostenibile, compresi progetti per la
riduzione delle emissioni di gas a effetto serra.
Green
Deal europeo: il Green Deal europeo è un piano d’azione che mira a rendere l’Europa
il primo continente a emissioni zero entro il 2050, comprende obiettivi
ambiziosi per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, l’aumento
dell’efficienza energetica, l’uso di energie rinnovabili e la creazione di
posti di lavoro “green”.
COSA
MANCA?
Le politiche
a livello nazionale ed internazionale non mancano, ma purtroppo non sono
sufficienti a garantire un corretto avanzamento di uno sviluppo sostenibile, dal momento che non sono stati
inclusi tutti i settori che devono ridurre le emissioni di “CO2”.
(Ma è proprio necessario pensare alla
CO2 -più pesante dell’aria, che oltre a salvare la vita umana, vegetale e del
bestiame se ne sta tranquilla a livello del terreno, delle piante del mare, non
facendo del male a nessuno! N.D.R.)
Per
questo motivo” Johan Rockström, climatologo e divulgatore scientifico di fama
internazionale, durante la sua intervista al podcast “Transformers”, ha
dichiarato che “Non esistono attualmente indicazioni che avremo successo” riferendosi alle azioni che stiamo introducendo
a livello globale per contrastare il cambiamento climatico.
L’importanza
della sostenibilità digitale.
Nel
2023 è infatti necessario portare avanti con maggior impegno politiche che
riguardino la sostenibilità digitale, un elemento chiave per ridurre le emissioni
di CO2.
Il trasferimento dei dati richiede
elettricità, che crea emissioni di carbonio e che a sua volta incide sul
cambiamento climatico.
La
richiesta di energia proviene dai notevoli consumi dei data center che ospitano
siti web e servizi cloud utilizzati quotidianamente, aumentando giorno dopo
giorno la loro “digital carbon(CO2) footprint”.
Per
fortuna esistono realtà nazionali come la “Fondazione per la Sostenibilità
Digitale ed internazionali “come CODES (Coalition for Digital Environmental
Sustainability), che portano avanti azioni per promuovere la sostenibilità
digitale e ridurre le emissioni CO2 di internet.
Quest’ultima
organizzazione sta portando avanti anche un vero e proprio “Action Plan” per
creare infrastrutture sostenibili nel 2023 in un’ottica di sostenibilità
digitale.
Con il
percorso “Karma Metrix” cerchiamo di dare un contributo per ridurre
l’inquinamento digitale e promuovere l’Obiettivo 13 dell’Agenda 2030.
Nel
2023 il cambiamento climatico non è più solo di una questione ambientale,
esterna alla società e all’economia, ma è un problema che riguarda anche la
salute dei cittadini, l’economia ed il mercato nazionale ed internazionale.
L’adozione
di politiche che contrastino il cambiamento climatico è infatti un elemento
chiave per sviluppare una “strategia ESG a livello aziendale”, un quadro ben
definito in cui la sostenibilità digitale non può mancare in una società che si
sposta sempre di più nel mondo web.
Lotta
contro i cambiamenti climatici.
Europarl.europa.eu
– Nicoleta Lipcaneau – Georgios Amanatidis – (10-4-2023) – ci dicono:
L'Unione
europea è una delle potenze economiche più attive nella lotta alle emissioni di
gas serra.
Nel
2020 le emissioni di gas a effetto serra dell'UE sono diminuite del 31 %
rispetto ai livelli del 1990, raggiungendo il livello più basso degli ultimi
trent'anni e superando persino l'obiettivo dell'UE stabilito nel protocollo di
Kyoto di ridurre le emissioni del 20 % entro il 2020.
Nel
2019 la Commissione europea ha presentato il Green Deal europeo e ora propone una serie di misure
ambiziose intese a ridurre le emissioni di gas serra dell'UE del 55 % entro il
2030 e a decarbonizzare
completamente l'economia dell'UE entro il 2050, conformemente all'accordo di Parigi.
Base
giuridica e obiettivi.
L'articolo
191 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE) definisce la
lotta ai cambiamenti climatici quale obiettivo dichiarato della politica
ambientale dell'UE.
Contesto
generale
Attività
umane quali l'utilizzo di combustibili fossili, la deforestazione e
l'agricoltura producono emissioni di biossido di carbonio (CO2), metano (CH4),
protossido di azoto (N2O) e fluorocarburi.
(È veramente incredibile che l’unione
europea non sappia ancora che la CO2 è un gas che è più pesante dell’atmosfera
e come cavolo fa ad alzarsi nell’alto dei cieli e raggiungere gli altri gas
serra? N.D.R)
Tali gas a effetto serra catturano il calore
che viene irradiato dalla superficie terrestre e ne impediscono la dispersione
nello spazio, provocando il riscaldamento globale.
Le
stime più attendibili dell'aumento della temperatura media globale entro la
fine del secolo variano tra 1,4ºC e 4,4ºC, stando alla sesta relazione di
sintesi sui cambiamenti climatici del Gruppo intergovernativo di esperti sul
cambiamento climatico, pubblicata nel 2023.
Il
riscaldamento globale ha provocato e provocherà fenomeni meteorologici estremi
più frequenti (quali inondazioni, siccità, piogge intense e ondate di calore),
incendi boschivi, scarsità delle risorse idriche, scomparsa dei ghiacciai e
innalzamento del livello del mare, perdita di biodiversità, malattie delle
piante e parassiti, scarsità di alimenti e acqua potabile, nonché migrazione di
persone in fuga da tali pericoli.
La
scienza dimostra che il rischio di un cambiamento irreversibile e catastrofico
aumenterebbe in modo rilevante qualora il riscaldamento globale superasse i 2°C
– o anche solo i 1,5°C – rispetto ai valori preindustriali.
Nel
2006 la relazione “Stern” ha indicato che la gestione del riscaldamento globale
sarebbe costata all'incirca l'1 % del PIL mondiale ogni anno, mentre il costo
dell'inazione si sarebbe attestato intorno ad almeno il 5 %, fino ad arrivare
al 20 %, del PIL globale nello scenario peggiore fra quelli ipotizzabili.
Pertanto,
sarebbe necessaria soltanto una piccola parte del PIL globale totale per
investire in un'economia a basse emissioni di carbonio (CO2), e la lotta ai
cambiamenti climatici apporterebbe in cambio vantaggi netti ben superiori.
Il protocollo
di Kyoto è stato il primo trattato internazionale a fissare obiettivi
giuridicamente vincolanti in materia di riduzione delle emissioni di gas a
effetto serra.
È stato adottato l'11 dicembre 1997 ed è
entrato in vigore nel 2005.
Il
protocollo è stato ratificato da 192 parti e rappresenta un accordo
internazionale fondamentale nella lotta contro i cambiamenti climatici.
Ha
sancito l'impegno dei paesi industrializzati a ridurre le loro emissioni di gas
a effetto serra in linea con gli obiettivi individuali concordati in base al
principio della "responsabilità condivisa ma differenziata e delle
rispettive capacità".
Il primo accordo universale (accordo di
Parigi) per la lotta contro i cambiamenti climatici è stato adottato nel
dicembre 2015, in occasione della 21ª Conferenza delle Parti (COP21) della
Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Parigi.
Tale accordo mira a mantenere l'aumento della
temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C, cercando di limitarlo a
1,5°C rispetto ai livelli preindustriali.
A tal
fine, le parti mirano a stabilizzare quanto prima le emissioni di gas a effetto
serra a livello mondiale e di conseguire l'azzeramento delle emissioni nette
nella seconda metà del secolo.
Le fonti di finanziamento devono essere
coerenti con tali obiettivi.
Per la
prima volta tutte le parti devono compiere sforzi ambiziosi per ridurre le loro
emissioni di gas a effetto serra seguendo il principio della
"responsabilità condivisa ma differenziata e delle rispettive
capacità", vale a dire in base alle rispettive situazioni e alle
possibilità di cui dispongono.
Sono
tenute ad aggiornare i loro piani d'azione per il clima ("contributi
determinati a livello nazionale") ogni cinque anni e a comunicarli in modo
trasparente.
I paesi più vulnerabili, i paesi meno
sviluppati e i piccoli Stati insulari in via di sviluppo saranno sostenuti sia
a livello finanziario che di sviluppo delle capacità. L'adattamento (ad esempio
la conservazione delle risorse idriche, la rotazione delle colture, la
pianificazione pubblica e l'opera di sensibilizzazione, l'innalzamento degli
argini e lo spostamento dei porti) e la mitigazione (ad esempio l'aumento
dell'uso di energie rinnovabili e la promozione di cambiamenti comportamentali)
sono riconosciuti come sfide globali, così come viene sottolineata l'importanza
di affrontare "le perdite e i danni" associati agli effetti negativi
dei cambiamenti climatici.
L'accordo è entrato in vigore nel novembre
2016 dopo essere stato ratificato dal numero minimo di 55 governi che
rappresentano almeno il 55 % delle emissioni globali di gas a effetto serra.
Tutti
gli Stati membri dell'UE hanno ratificato l'accordo di Parigi.
Obiettivi
e risultati.
A.
Azione dell'UE volta a contrastare i cambiamenti climatici.
Nell'ambito
del suo quadro 2030 per il clima e l'energia, concordato nel 2014 prima
dell'accordo di Parigi, l'UE si è impegnata a conseguire i seguenti obiettivi
entro il 2030:
ridurre
le emissioni di gas a effetto serra almeno del 40 % al di sotto dei livelli del
1990, migliorare l'efficienza energetica del 32,5 % e portare al 32 % la quota
di energie da fonti rinnovabili nel consumo finale.
Il quadro 2030 fa seguito agli obiettivi
"20-20-20" concordati nel 2007 dai leader dell'UE per il 2020:
una riduzione pari al 20 % delle emissioni di
gas a effetto serra, un aumento del 20 % della quota di energie rinnovabili nel
consumo finale di energia e una riduzione del 20 % del consumo totale di
energia primaria dell'UE (rispetto ai livelli del 1990). Tali obiettivi sono
stati tradotti in misure legislative vincolanti, collegate anche agli obiettivi
dell'UE previsti nell'ambito del protocollo di Kyoto.
Il
sistema di scambio di quote di emissione dell'UE (ETS), il primo e il più
grande mercato internazionale del carbonio (CO2), è uno strumento strategico
fondamentale dell'UE nella lotta ai cambiamenti climatici.
Tale
sistema si basa sul principio di "limitazione e scambio":
viene
fissato un tetto massimo alla quantità totale di emissioni di gas a effetto
serra che possono essere prodotte da 11 000 impianti del sistema (fabbriche,
centrali elettriche, ecc.).
Ogni impianto acquista o riceve "quote di
emissione" messe all'asta dagli Stati membri.
Se
inutilizzati, tali crediti – che corrispondono a una tonnellata di CO2 ciascuno
– possono essere scambiati con altri impianti.
(Ma
per quale motivo devono essere commerciate quote di gas CO2 che non può
esistere o essere trasferito nella stratosfera essendo più pesante dell’aria? Ho il dubbio che qualche
organizzazione pensi fare guadagni favolosi vendendo quote di un gas CO2 (gas
serra falso) che non è possibile adottarlo per l’utilità di serra
stratosferica. N.D.R)
Col
tempo la quantità totale di quote viene progressivamente ridotta.
Due
fondi, uno per la modernizzazione e uno per l'innovazione, contribuiscono a
rimodernare i sistemi energetici degli Stati membri a basso reddito e a
incoraggiare l'innovazione finanziando progetti in materia di energie
rinnovabili, cattura e stoccaggio del carbonio, nonché progetti a basse
emissioni di carbonio.
L'ETS
comprende anche le emissioni derivanti dal settore del trasporto aereo;
tuttavia, l'esenzione attualmente in vigore per i voli intercontinentali è
stata prorogata fino alla fine del 2023, quando sarà avviata la prima fase del
regime di compensazione e riduzione delle emissioni di carbonio del trasporto
aereo internazionale (CORSIA) dell'Organizzazione per l'aviazione civile
internazionale (ICAO).
La
Svizzera e l'UE hanno convenuto di collegare i loro sistemi di scambio delle
emissioni.
Le
emissioni prodotte da settori non coperti dall'ETS, quali il trasporto su
strada, la gestione dei rifiuti, l'agricoltura e l'edilizia, sono soggette agli
obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra su
base annua per ciascuno Stato membro, fissati nel regolamento sulla
condivisione degli sforzi.
Il Parlamento e il Consiglio hanno adottato
obiettivi minimi per il periodo 2021-2030 per facilitare il raggiungimento
dell'obiettivo dell'UE di ridurre del 30 % le emissioni di gas a effetto serra
in detti settori rispetto al 2005 e contribuire alla realizzazione degli
impegni assunti nell'ambito dell'accordo di Parigi.
Inoltre, per la prima volta gli Stati membri
devono garantire che le emissioni derivanti dall'uso del suolo, dal cambiamento
di uso del suolo e dalla silvicoltura non superino il loro tasso di
assorbimento.
In altri termini, le foreste, le terre
coltivate e i pascoli devono essere gestiti in modo sostenibile al fine di
assorbire la maggior quantità possibile di emissioni di gas serra
dall'atmosfera, o per lo meno la quantità emessa dal settore ("regola del
non debito"), apportando così un importante contributo alla lotta contro i
cambiamenti climatici.
(Pazzesco!
… il povero gas serra(?) CO2 dovrebbe servire a rendere ancora più ricchi i
capi globalisti che sono perfettamente al corrente che la CO2 non svolazza nei
cieli, ma se ne sta tranquilla a pochi metri dal terreno e sul mare! N.D.R)
La
direttiva sulla promozione delle energie rinnovabili è intesa a garantire che,
entro il 2030, le energie rinnovabili quali biomassa ed energie eolica,
idroelettrica e solare rappresentino un obiettivo iniziale pari ad almeno il 32
% del consumo totale di energia dell'UE in termini di produzione di
elettricità, trasporto, riscaldamento e raffreddamento.
Ciascuno Stato membro è tenuto ad adottare il
proprio piano di azione nazionale per le energie rinnovabili, comprensivo di
obiettivi settoriali.
Al
fine di integrare l'uso delle energie rinnovabili nel settore dei trasporti,
gli Stati membri devono imporre ai fornitori di carburante l'obbligo di garantire,
entro il 2030, che la quota di energia generata da fonti rinnovabili sia pari
almeno al 14 % del consumo finale di energia del settore dei trasporti.
La
revisione del 2018 della direttiva sull'efficienza energetica fissa un
obiettivo di efficienza energetica del 32,5 % per l'UE (calcolato utilizzando
lo scenario di riferimento del 2007), con una clausola di revisione al rialzo
entro il 2023.
Inoltre
la direttiva riveduta sulla prestazione energetica nell'edilizia, adottata nel
maggio 2018, comprende misure volte ad accelerare la ristrutturazione degli
edifici e la transizione verso sistemi più efficienti sotto il profilo
energetico e sistemi intelligenti di gestione dell'energia.
Inoltre,
per la prima volta il regolamento sulla governance attua un processo di
governance trasparente per seguire i progressi compiuti verso il raggiungimento
degli obiettivi dell'Unione dell'energia e dell'azione per il clima dell'UE,
comprese le norme in materia di monitoraggio e comunicazione.
Gli
Stati membri sono tenuti ad adottare piani nazionali per l'energia e il clima
per il periodo 2021-2030.
Nel
settembre 2020 la Commissione ha fatto il punto sui piani definitivi e ha
confermato la loro sostanziale conformità con gli obiettivi dell'Unione per il
2030, ad eccezione dell'efficienza energetica, per la quale permane un divario
a livello di obiettivi per il 2030.
Il processo di governance offre inoltre l'opportunità
di aggiornare i piani ogni due anni al fine di integrare le lezioni apprese e
trarre vantaggio dalle nuove opportunità per il resto del decennio.
Le
tecnologie per la cattura e lo stoccaggio del carbonio separano il CO2 dalle
emissioni atmosferiche (derivanti dai processi industriali), lo comprimono e lo
trasportano in un luogo in cui può essere stoccato.
Secondo
il gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico delle Nazioni
Unite, tali tecnologie potrebbero eliminare tra l'80 % e il 90 % delle
emissioni di CO2 prodotte da centrali elettriche a combustibili fossili.
Tuttavia, l'attuazione di tali progetti
dimostrativi in Europa si è rivelata più difficile di quanto inizialmente
previsto, principalmente a causa dei costi elevati.
Le autovetture
nuove immatricolate nell'UE devono rispettare le norme in materia di emissioni
di CO2 che, per le autovetture, prevedono un obiettivo pari a 95 g/km a partire
dal 2021.
Per
incentivare il settore a investire nelle nuove tecnologie, il regolamento
prevede i cosiddetti "super crediti", in base ai quali le autovetture
più rispettose dell'ambiente nella gamma di ciascun produttore contano per più
di un veicolo nel computo della media delle emissioni specifiche di CO2.
La
qualità del carburante è un altro elemento importante ai fini della riduzione
delle emissioni di gas a effetto serra.
La legislazione dell'UE mirava a ridurre del 6
% l'intensità delle emissioni di gas a effetto serra dovute ai carburanti entro
il 2020;
tale
obiettivo sarebbe stato conseguito, insieme ad altre misure, mediante
l'utilizzo di biocarburanti, che tuttavia dovevano rispettare alcuni criteri di
sostenibilità.
Il
settore del trasporto marittimo internazionale produce un notevole quantitativo
di emissioni di CO2, che si prevede aumenteranno in misura significativa.
(Ma se le emissioni di CO2 restano
obbligatoriamente- essendo più pesanti dell’aria- a contatto del mare (o della
terra) che tipo di fastidio possono dare allo scudo del gas serra nell’alto dei
cieli? N.D.R)
Pur
insistendo su un approccio globale, l'UE ha istituito un sistema funzionale di
monitoraggio, comunicazione e verifica delle emissioni di CO2 generate dalle
navi quale primo passo verso una riduzione delle stesse.
Le navi di grandi dimensioni sono tenute a
monitorare e riferire su base annua in merito alle emissioni di CO2 rilevate,
rilasciate lungo i loro tragitti verso e dai porti dell'UE e all'interno dei
medesimi, insieme ad altre informazioni pertinenti.
In
seguito ai divieti sull'uso di clorofluorocarburi imposti negli anni '80 per
arrestare la riduzione dello strato di ozono, i gas fluorurati sono oggi
utilizzati come sostituti in una serie di applicazioni industriali, quali il
condizionamento dell'aria e la refrigerazione, poiché non danneggiano lo strato
di ozono.
Essi possono tuttavia avere un potenziale di
riscaldamento globale fino a 25 000 volte superiore a quello del CO2.
L'Unione europea ha pertanto adottato misure
volte a controllare l'uso di gas fluorurati e a vietarne l'impiego nei nuovi
impianti di condizionamento dell'aria e refrigeratori entro il periodo
2022-2025, aprendo così la strada a una loro graduale eliminazione a livello
globale.
B. Il
Green Deal europeo.
L'11
dicembre 2019 la Commissione ha presentato il Green Deal europeo, un pacchetto
ambizioso di misure finalizzate al raggiungimento della neutralità dell'UE in
termini di emissioni di carbonio (CO2) entro il 2050.
Le misure, accompagnate da una tabella di
marcia delle politiche principali, spaziano dai tagli ambiziosi alle emissioni
agli investimenti in attività di ricerca e innovazione all'avanguardia, fino
alla conservazione dell'ambiente naturale dell'Europa.
Sostenuto da investimenti in tecnologie verdi,
soluzioni sostenibili e nuove imprese, il “Green Deal” è anche concepito come
nuova strategia di crescita in grado di trasformare l'UE in un'economia
sostenibile e competitiva.
La partecipazione e l'impegno del pubblico e
di tutte le parti interessate sono fondamentali ai fini del suo successo.
Tra le principali misure proposte nell'ambito
del “Green Deal europeo” figura la normativa europea sul clima, volta a
garantire un'Unione a impatto climatico zero entro il 2050.
Nello specifico, prevede di aumentare
l'obiettivo di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra fissato per il
2030, portandolo almeno al 55 %.
Altre proposte della Commissione comprendono
comunicazioni sul piano di investimenti per un'Europa sostenibile e sul patto
europeo per il clima, proposte di regolamento che istituiscono il Fondo per una
transizione giusta e rivedono gli orientamenti per le infrastrutture
energetiche transeuropee, nonché strategie dell'UE per l'integrazione del
sistema energetico e per l'idrogeno e una nuova strategia dell'UE di
adattamento ai cambiamenti climatici.
Il 14
luglio 2021 la Commissione ha presentato un pacchetto di proposte legislative
volto a rendere l'UE "pronta per il 55 %" e a realizzare i
cambiamenti trasformativi necessari nella sfera economica, sociale e
industriale, con l'obiettivo ultimo di conseguire la neutralità climatica entro
il 2050.
Tali
proposte comprendono l'estensione del sistema ETS al trasporto marittimo e su
strada e all'edilizia nonché carburanti più puliti per i settori aereo e
marittimo, comprese nuove infrastrutture per i carburanti alternativi.
Il 17
dicembre 2022 il Parlamento e il Consiglio hanno raggiunto un accordo relativo
a misure più ambiziose per riformare il sistema ETS;
l'obiettivo di riduzione delle emissioni entro
il 2030 è stato fissato al 62 % rispetto ai livelli del 2005.
Per sostenere gli Stati membri nei loro sforzi
di riduzione delle emissioni prodotte dall'edilizia, dal trasporto su strada e
da taluni settori industriali, nel 2027 entrerà in funzione un nuovo sistema
separato di scambio di quote di emissione (ETS II).
Il
suddetto pacchetto introduce inoltre il nuovo meccanismo di adeguamento del
carbonio alle frontiere per contrastare la rilocalizzazione delle emissioni di
CO2, il nuovo Fondo sociale per il clima e il potenziamento dei fondi per la
modernizzazione e l'innovazione.
Il
regolamento sulla condivisione degli sforzi, approvato nel marzo 2023
nell'ambito del pacchetto "Pronti per il 55 %", rafforza l'ambizione
dell'UE in materia di azione per il clima.
In
particolare, tutti i settori contemplati dal regolamento sono tenuti a
conseguire una riduzione collettiva delle loro emissioni pari al 40 % entro il
2030 rispetto ai livelli del 2005.
La
direttiva aggiornata sulle energie rinnovabili propone di rafforzare
l'obiettivo generale vincolante di portare al 42,5 % la quota di energie
rinnovabili nel mix energetico dell'UE.
La
revisione della direttiva sull'efficienza energetica, a cui hanno fatto seguito
i negoziati interistituzionali del marzo 2023, fissa un ambizioso obiettivo
dell'UE in materia di efficienza energetica, pari all'11,7 % entro il 2030.
Inoltre,
il 5 aprile 2022 la Commissione ha presentato una proposta rafforzata sui gas
fluorurati che mira a risparmiare l'equivalente di 40 milioni di tonnellate di
emissioni di CO2 entro il 2030.
Il 14
ottobre 2020 la Commissione ha inoltre presentato una strategia dell'UE per
ridurre le emissioni di metano.
Il metano è il secondo principale responsabile
dei cambiamenti climatici dopo il CO2.
La
riduzione delle emissioni di metano è quindi fondamentale per raggiungere gli
obiettivi climatici per il 2030 e l'obiettivo della neutralità climatica per il
2050.
Il 15
dicembre 2021 la Commissione ha presentato un'ulteriore proposta volta a
ridurre le emissioni di metano nel settore dell'energia in Europa e nella
catena di approvvigionamento globale.
La
revisione della direttiva sulla prestazione energetica nell'edilizia, adottata
il 15 dicembre 2021, aggiorna il quadro normativo vigente, garantendo agli
Stati membri la flessibilità necessaria per tenere conto delle differenze
presenti nel parco immobiliare europeo.
La
direttiva è attualmente in fase di rifusione.
Il 14
marzo 2023 il Parlamento ha approvato in Aula la sua ambiziosa posizione sulla
direttiva, sulla base della quale negozierà con gli Stati membri.
La direttiva riveduta stabilisce le modalità
con cui l'Europa può conseguire un parco immobiliare a zero emissioni e
completamente decarbonizzato entro il 2050.
Nel
febbraio 2023 il Parlamento e il Consiglio hanno concordato un ulteriore
obiettivo di riduzione delle emissioni entro il 2030 per l'intero parco veicoli
dell'UE, pari al 55 % per le autovetture nuove e al 50 % e i furgoni nuovi.
Hanno
inoltre introdotto un obiettivo di riduzione delle emissioni di CO2 del 30 %
per i nuovi autocarri, con un obiettivo intermedio del 15 % entro il 2025.
La
revisione del regolamento relativo all'uso del suolo, al cambiamento di uso del
suolo e alla silvicoltura è stata adottata dal Parlamento il 14 marzo 2023,
stabilendo per il 2030 il nuovo obiettivo di aumentare del 15 % i pozzi di
assorbimento del carbonio dell'UE.
Il 23
marzo 2023 il Parlamento e il Consiglio hanno raggiunto un accordo informale
sulla normativa sui combustibili sostenibili per uso marittimo, che mira a
ridurre le emissioni delle navi del 2 % a partire dal 2025 e dell'80 % a
partire dal 2050.
Inoltre,
entro il 2034 almeno il 2 % dei combustibili dell'UE per il trasporto marittimo
dovrà provenire da elettro carburanti prodotti con elettricità verde.
La
fase successiva della procedura legislativa sarà un accordo formale sul
fascicolo, che fa parte del pacchetto "Pronti per il 55 %".
Ruolo
del Parlamento europeo
Il
Parlamento ha sempre partecipato ai negoziati interistituzionali con il
Consiglio europeo su questioni relative ai cambiamenti climatici sostenendo
obiettivi più ambiziosi per l'UE.
Prima
della COP21 del 2015, il Parlamento aveva ribadito l'urgente necessità di
"regolamentare e limitare efficacemente le emissioni derivanti dal
trasporto aereo e marittimo internazionale".
Il
Parlamento aveva espresso la propria delusione per il fatto che l'ICAO non
avesse raggiunto un accordo in materia di riduzione delle emissioni.
L'introduzione del sistema CORSIA pone
l'accento sulle compensazioni, che non hanno alcuna garanzia di qualità e
diventeranno giuridicamente vincolanti solo a partire dal 2027.
I
principali membri dell'ICAO non si sono ancora impegnati a partecipare alla
fase volontaria.
Il
Parlamento si è espresso a favore di una tariffazione del carbonio su base
ampia e ha sostenuto l'assegnazione di profitti derivanti dallo scambio di
emissioni agli investimenti legati al clima.
Ha chiesto che siano adottate misure concrete,
compreso un calendario, finalizzate all'eliminazione progressiva di tutte le
sovvenzioni ai combustibili fossili.
In un
precedente aggiornamento relativo alle emissioni di CO2 di autovetture e
furgoni, il Parlamento ha evidenziato la necessità di introdurre quanto prima
il nuovo ciclo di test globale delle Nazioni Unite, al fine di riprodurre condizioni di
guida reali nella misurazione delle emissioni di CO2.
In
vista della 24a Conferenza delle Parti di Katowice, nella sua risoluzione del
25 ottobre 2018 il Parlamento ha chiesto per la prima volta che l'obiettivo
dell'UE di ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 55 % entro il 2030
sia reso più ambizioso.
Il Parlamento ritiene inoltre che gli effetti
profondi, e molto probabilmente irreversibili, di un aumento di 2°C delle
temperature globali possano essere evitati perseguendo l'obiettivo più
ambizioso di un aumento di 1,5°C;
tuttavia,
ciò implicherebbe la necessità di azzerare al più tardi entro il 2050 le
emissioni globali di gas a effetto serra, che sono invece in aumento.
Ha
invitato pertanto la Commissione a proporre una strategia dell'Unione a lungo
termine per l'eliminazione delle emissioni nette di gas serra entro metà
secolo.
Nel
luglio 2018 il Parlamento ha approvato una risoluzione sulla diplomazia
climatica dell'UE, in cui ha sottolineato che l'UE ha la responsabilità di
guidare l'azione per il clima e la prevenzione dei conflitti.
Il testo ha posto l'accento sulla necessità di
consolidare le capacità diplomatiche dell'UE al fine di promuovere l'azione per
il clima a livello globale, sostenere l'attuazione dell'accordo di Parigi e
prevenire i conflitti legati ai cambiamenti climatici.
Il 28
novembre 2019 il Parlamento ha dichiarato l'emergenza climatica in Europa e ha
esortato tutti gli Stati membri a impegnarsi ad azzerare le emissioni nette di
gas serra entro il 2050.
Il Parlamento ha inoltre sollecitato la
Commissione a garantire che tutte le proposte legislative e di bilancio
pertinenti siano pienamente in linea con l'obiettivo di contenere il
riscaldamento globale entro 1,5°C.
L'8
ottobre 2020 il Parlamento ha approvato il suo mandato negoziale sulla legge
dell'UE sul clima, chiedendo che l'obiettivo di riduzione delle emissioni per
il 2030 sia portato al 60 %.
Sebbene
l'accordo interistituzionale raggiunto il 21 aprile 2021 tra il Parlamento e il
Consiglio abbia confermato l'obiettivo del 55 % proposto dalla Commissione, il
Parlamento è riuscito a rafforzare il ruolo e il contributo della rimozione del
carbonio, che potrebbe portare l'obiettivo al 57 %.
Inoltre, conformemente al mandato del
Parlamento, la Commissione presenterà una proposta di obiettivo per il 2040 al
più tardi sei mesi dopo il primo bilancio globale dell'accordo di Parigi,
tenendo conto del bilancio indicativo dell'UE per i gas a effetto serra.
Infine,
considerata l'importanza di una consulenza scientifica indipendente, è stato
istituito un comitato consultivo sui cambiamenti climatici per valutare la
conformità delle politiche agli obiettivi fissati e monitorare i progressi,
come suggerito dal Parlamento.
Il 15
settembre 2022 il Parlamento ha approvato una risoluzione sulle conseguenze
della siccità, degli incendi e di altri fenomeni meteorologici estremi, volta a
rafforzare ulteriormente gli sforzi dell'UE nella lotta ai cambiamenti climatici.
(Nicoleta
Lipcaneanu / Georgios Amanatidis)
Lettera
aperta ai leader del mondo:
"Tassare
i ricchi per una trasformazione
economica
sostenibile."
Repubblica.it
– (16 GENNAIO 2023) -Redazione - ci
dice:
Earth4All
(Una Terra per Tutti) - Transformational Economics Commission.
Cari
leader,
Tra
pochi giorni, alcuni tra le persone più ricche del pianeta si riuniranno a
Davos per discutere i problemi più pressanti per l'umanità.
Tuttavia è improbabile che abbiano il coraggio
di discutere davvero le cause alla radice di questi problemi.
Questa
lettera aperta è rivolta a tutti i leader che vogliono costruire delle società
democratiche stabili in questo secolo;
società
capaci di prendere delle decisioni di lungo-termine per il bene comune.
I valori
e le istituzioni democratiche uniscono destra e sinistra.
Ma le
crescenti diseguaglianze nei redditi e nei patrimoni che registriamo nel mondo
stanno contribuendo all'erosione di questi stessi valori e istituzioni
democratiche.
La “Transformational
Economics Commission” dell'iniziativa Earth4All (in italiano, "Una Terra
per Tutti") nel corso dei suoi lavori ha concluso che, se non controllata,
le diseguaglianze di ricchezza e di reddito continueranno a crescere in questo
secolo, determinando crescenti tensioni sociali.
C'è
bisogno di un nuovo contratto sociale tra cittadini e governi fondato su una
distribuzione della ricchezza più equa:
politiche
fiscali più giuste che tassino la grande ricchezza per diminuire le
diseguaglianze.
Perché
proprio ora?
Nonostante
milioni di persone siano morte durante la recente pandemia globale da COVID19 e
miliardi ne abbiano sofferto, i dieci uomini più ricchi del mondo hanno
raddoppiato il loro patrimonio.
Il 10% più ricco della popolazione mondiale
ora raccoglie il 52% del reddito globale e accumula il 77% della ricchezza.
La metà più povera della popolazione mondiale
guadagna solo l'8% del reddito globale e possiede il 2% della ricchezza.
E
questo divario si sta allargando.
Nonostante
il mondo stia vivendo un'emergenza climatica, l'1% più ricco - 80 milioni di
persone - è di gran lunga la fonte di emissioni in più rapida crescita .
Questo
"consumo di carbonio (CO2) di lusso" arriva in un momento in cui ogni
singolo mese il mondo brucia l'1% del cosiddetto budget di carbonio(CO2) che
rimane se vogliamo stabilizzare il clima nel limite di 1.5°C.
Nonostante
il fatto che il mondo non sia mai stato così ricco, la maggior parte delle
persone è tenuta in uno stato di insicurezza economica.
Il
mondo è nel mezzo di una poli-crisi.
I
cittadini di tutto il mondo soffrono a causa dell’aumento del costo della vita,
dei salari stagnanti, di una recessione incombente e di una povertà duratura,
tutti fattori che contribuiscono ad un deterioramento della democrazia.
(Questi malanni per l’umanità tutta
sono indicati dai globalisti straricchi al fine di dare in pasto ai poveri
rintriciulliti dai programmi Internet, la lotta senza sosta alla CO2, gas che
secondo i ricchi globalisti li
danneggia.
Infatti
la CO2 pur non potendo volare alti nei
cieli per il fatto di essere più pesante dell’aria potrebbe mandare per aria tutti i programmi da loro studiati per
de-popolare il mondo! N.D.R)
Nonostante
il fatto che il mondo sia nel bel mezzo di una crisi energetica acuita dalla
guerra in Ucraina, le compagnie di combustibili fossili (di proprietà dei
globalisti) stanno guadagnando nell'ordine di centinaia di miliardi di dollari.
Il
mondo non riuscirà ad uscire da questa situazione senza far nulla.
Queste
crisi continueranno ad evolversi, si scontreranno tra loro e peggioreranno
rapidamente, con sfortunatamente crisi ancora più grandi all'orizzonte:
la scienza ha confermato che l'umanità ha già
sorpassato sei dei nove "limiti naturali del pianeta", indicati dai
ricchi globalisti su indicazione degli scienziati da loro pagati.
Il
crescente divario tra una manciata di super ricchi e tutti gli altri è una
ricetta per società profondamente disfunzionali e polarizzate.
Non
può andare avanti.
La
concentrazione della ricchezza porta inevitabilmente alla concentrazione di
potere, dando ai più ricchi un'influenza sproporzionata sulle istituzioni
governative.
Questo
mina la fiducia nella democrazia, il che rende poi più difficile per i governi
prendere decisioni a lungo termine a beneficio della maggioranza delle persone.
Paesi
più equi tendono invece ad avere risultati migliori in termini di fiducia,
istruzione, mobilità sociale, longevità, salute, obesità, mortalità infantile,
salute mentale, omicidi e altri crimini, abuso di droghe, e rispetto e
protezione dell'ambiente.
Ridurre
le diseguaglianze di ricchezza e di reddito è la chiave affinché le nostre
società possano rispondere alle molteplici crisi del nostro tempo e garantire
una maggiore sicurezza economica.
Una
distribuzione più equa della ricchezza e del reddito ridurrà le tensioni
sociali e migliorerà il benessere di tutti.
Contribuirà inoltre a rendere le democrazie
più stabili in modo che siano maggiormente in grado di affrontare gli shock e
prendere decisioni razionali a lungo termine per il bene comune.
Se
diamo valore alla democrazia, se diamo valore alla stabilità e se diamo valore
al nostro futuro, i governi devono ridistribuire la ricchezza e il reddito in
modo più equo.
Proponiamo
che entro il 2030 - in tutti i Paesi - il 10% più ricco riceva meno del 40% del
reddito nazionale, con una ulteriore diminuzione delle diseguaglianze negli
anni successivi.
Sappiamo
che ci sono molti modi per realizzare una trasformazione così importante - ma
tutti necessitano un coinvolgimento maggiore da parte del settore pubblico e
della spesa pubblica.
Ridurre
le diseguaglianze può essere raggiunto attraverso una tassazione più
progressiva su reddito e patrimoni per individui e imprese.
Il problema è che attualmente la maggior parte
dei sistemi fiscali nel mondo è regressivo e sorpassato.
Non
generano le entrate necessarie, né assicurano che chi è ricco paghi relativamente
di più di chi e povero.
Ma ci
sono modi per aggiustare questa situazione, se ce la volontà politica di
prendere le giuste misure.
Questo
è il motivo per cui chiediamo ai leader mondiali di compiere alcuni passi
coraggiosi quest'anno:
• Tassare
la ricchezza, in particolare i grandi patrimoni, ovunque questa ricchezza sia
detenuta, compresi i paradisi fiscali, e rendere possibile ciò sviluppando e
condividendo registri nazionali dei patrimoni detenuti in diverse forme.
•
Tassare il reddito, inclusi i redditi da capitale, in maniera più progressiva.
•
Tassare le imprese - applicando un'imposta globale minima sulle società nel
2023 che sia vicina all'aliquota media globale del 25% e rendendo le società
multinazionali soggette alle stesse aliquote delle società nazionali
introducendo la tassazione unitaria dei loro profitti globali sulla base delle
singole quote nazionali di vendite, occupazione e beni detenuti in ciascun
Paese.
•
Tassare i profitti eccezionali (n.d.r. windfall profits) in tutti i settori, in
particolare i profitti realizzati durante i periodi di scarsità e speculazione
quando il resto del mondo è in crisi.
•
Tassare il "consumo di carbonio (CO2) e della biosfera di lusso" ed
eliminare tutti gli incentivi fiscali per i combustibili fossili.
(È proprio buffo che i combustili
fossili siano i nemici della povera gente! Infatti in Cina, dove non tutti sono
ricchi, pensano che sia giusto attuare nuove centrali a carbone per
incrementare il progresso umano ed allungare, così, la vita stessa della povera
gente! N.D.R)
Infine,
i governi devono colmare una volta per tutte le scappatoie fiscali
internazionali, eliminare le strutture fiscali perverse di tutte le forme e
garantire che le entrate aggiuntive derivanti dall'imposta progressiva sulla
ricchezza e sul reddito siano destinate a programmi sociali, all'emancipazione
delle donne, alla decarbonizzazione, e alla trasformazione dei sistemi
energetici e alimentari.
I
leader del globalismo più ricco ed esclusivo del settore privato che si
riuniscono a Davos questa settimana potrebbero ritenere che questa strategia
sia contraria ai loro interessi a breve termine e individuali, ma questa è una
visione molto limitata e in definitiva autodistruttiva.
Chiediamo loro di sostenere questa agenda e di
essere una forza positiva per la democrazia, la stabilità e il futuro a lungo
termine dell'umanità.
(Ma i
combustibili fossili sono l’unica sicurezza per il progresso dell’umanità
povera! N.D.R)
(Lettera
della “Transformational Economics Commission”.)
Un
No-global
a
tutto tondo.
Comune-info.net
- Antonio Castronovo – (19 Gennaio 2018) – ci dice:
Quelli
che sono in alto hanno dichiarato guerra ai popoli. Come resistere, come
ricostruire comunità solidali passando “dalla cooperazione per competere” alla
“competizione per cooperare” per dirla con Bruno Amoroso?
La
priorità, al tempo della globalizzazione, dovrebbe essere liberare territori e
comunità.
“La
globalizzazione non è un fenomeno oggettivo della modernizzazione, è una forma
contingente assunta dal capitalismo – scrive Amoroso -, uno stadio particolare
ed eventualmente, il suo ultimo stadio.
È il
capitalismo nella sua forma più maligna, poiché si diffonde come una forma
tumorale;
come
una metastasi si concentra su poche aree strategiche, … sul resto enormi
effetti distruttivi.
Con buona pace delle moltitudini di Toni Negri
e dei new-global della globalizzazione buona…”.
Mondializzazione,
comunità, bene comune:
un
viaggio nel pensiero di Bruno Amoroso.
Il 20
gennaio di un anno fa ci ha lasciati Bruno Amoroso, economista e saggista
italiano, allievo di Federico Caffè.
Per
ricordarlo pubblichiamo questo articolo (titolo originale Mondializzazione e
comunità, lavoro e bene comune in Bruno Amoroso), uscito in “Ciao Bruno” (Castelvecchi) di Antonio
Castronovo.
“Ci
sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e
sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi,
però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili” (Bertolt Brecht, In morte di Lenin).
Da
alcuni anni, anzi decenni, è in corso nel mondo una guerra che è stata definita
come “terzo conflitto mondiale”.
I
protagonisti ne sono le élite globali del capitalismo triadico che la
combattono – con gli strumenti della guerra democratica, della politica, del
terrorismo, della guerra economica e delle guerre di religione – contro i
popoli, gli stati sovrani, le comunità locali che non intendono sottomettersi
ai diktat della omologazione del mondo ai dettami dell’impero globale.
Non ci
sarebbe posto nel mondo globalizzato per i popoli e le comunità che praticano
la sovranità nei loro territori, che aspirano a vivere in territori
deglobalizzati e liberi dal dominio delle transnazionali e della finanza, che
aspirano alla sovranità politica ed economica, orientate e centrate sullo
sviluppo locale, sull’autodeterminazione, sulla democrazia sovrana.
Lo scontro in atto è tra fautori di un mondo unipolare
e fautori di un mondo multipolare.
Questa
guerra distrugge e disintegra stati, nazioni, popoli ed economie locali e
nazionali attraverso le guerre democratiche e religiose, la depredazione delle
risorse pregiate, il monopolio e la privatizzazione della conoscenza e
attraverso le migrazioni forzate di milioni di disperati e profughi ambientali,
di guerre e di conflitti religiosi, verso altri paesi, specie europei.
Come
affrontare il presente stato del mondo?
Come
schierarsi in questo immane conflitto che divide e supera le antiche
contrapposizioni tra destra e sinistra?
Schierarsi
dalla parte della globalizzazione, universalizzando i diritti umani contro i nazionalismi e i
“vecchi” Stati-Nazione, oppure dalla parte dei no-global e propugnare una
de-globalizzazione del mondo, difendendo spazi di sovranità di popoli
e comunità in un quadro di nuova
solidarietà e cooperazione reciproca per rispondere alla sfida della
mondializzazione?
Come si ricostruisce una comunità solidale passando
“dalla cooperazione per competere” alla “competizione per cooperare” per dirla
con le parole di Bruno Amoroso?
Come
affrontano questi dilemmi l’opera e il pensiero di Bruno Amoroso?
Sono
convinto che per rispondere a queste alternative, sfuggendo da tentazioni new
globaliste, occorra sporcarsi le mani e interrogare e attraversare i vari
populismi, nazionalismi, sovranismi, l’opposizione popolare all’immigrazione,
le domane identitarie, le comunità ribelli, e interpretarli come forme, anche
se non tutte accettabili, della attuale resistenza alla globalizzazione.
La
parola d’ordine prioritaria dovrebbe essere quella di “liberare” territori,
comunità, nazioni, popoli dal potere globale e dalle sue influenze locali:
è
l’”agire locale e pensare globale” del primo movimento no-global.
La rivoluzione, che in parte è già in atto in
forme a noi estranee, sarà innanzitutto politica e non economica, e sarà dei
popoli contro la attuale globalizzazione e i suoi poteri.
I lavoratori, orfani della classe e del
partito operaio e rivoluzionario – illusi prima e vittime poi del fallimento
dei miti del progresso e della rivoluzione proletaria – devono provare a fare e
a farsi popolo e mettersi alla testa o comunque diventare parte del movimento
di resistenza nelle comunità, nei territori, nelle nazioni, contro il dominio
della globalizzazione.
Il fronte del conflitto nel mondo oggi passa, infatti,
nella divisione tra globalizzatori e antiglobalizzatori, tra unipolaristi e
multipolaristi, che destabilizza le antiche divisioni tra destra e sinistra
storica incentrata sul conflitto capitale-lavoro, e su quello
democrazia-autoritarismo.
“La lotta alla globalizzazione – afferma
Amoroso – non viene dal centro, dalla destra o dalla sinistra, ma da forze
trasversali, in quanto le vecchie divisioni non rappresentano più i poli del
conflitto” (Per il Bene Comune).
Esistono,
infatti, oggi nel mondo una destra e una sinistra sia globalista che
antiglobalista.
La sinistra globalizzatrice parla di diritti
universali ed è anti sovranista e cosmopolita come le élite globali.
La
sinistra no-global aspira e lotta invece per un mondo multipolare che cooperi fra
popoli, stati, regioni, nazioni, comunità per una economia sostenibile e
solidale radicata nei territori e nelle comunità sottratti al dominio e al
controllo delle grandi multinazionali e governati da popoli sovrani.
Il disegno dei globalizzatori liberisti è il
dominio sul mondo, regolato
da un solo potere, quello delle transnazionali e dei loro organi, senza stati
sovrani ma frantumati in protettorati
divisi tra loro per linee etniche e religiose, per poter essere più facilmente
dominati.
Non
c’è posto in questa visione del mondo per grandi Stati meso-regionali come la
Russia, la Cina, l’India, per l’Europa politica e federata, perché troppo
grandi e perché ostacolano il potere e il pieno dispiegarsi degli interessi dei
globalizzatori e dei loro stati-guida, USA e Gran Bretagna.
Il
sovranismo è una bandiera in prevalenza delle élite locali e statali di destra
tradizionale, non inserite fra le élite globali, che resistono alla
omologazione e alla distruzione della loro sovranità minacciata.
Questi Stati vengono additati come stati-canaglia e antidemocratici,
quindi da destabilizzare anche attraverso le “guerre umanitarie” o condotte per
procura, oppure attraverso rivoluzioni finanziate ed orchestrate dalle élite
globali, come le cosiddette “rivoluzioni
colorate”.
Penso,
senza tema di sbagliare, che Bruno Amoroso sia stato tra i più convinti e
combattivi sostenitori di una lotta senza tregua alla globalizzazione e ai suoi
apologeti, che lui ha definito come progetto criminale.
Così lui la descrive:
“La globalizzazione non è un fenomeno oggettivo
della modernizzazione, è una forma contingente assunta dal capitalismo, uno
stadio particolare ed eventualmente, il suo ultimo stadio.
È il capitalismo nella sua forma più maligna,
poiché si diffonde come una forma tumorale;
come
una metastasi si concentra su poche aree strategiche, ... sul resto enormi
effetti distruttivi.
Con
buona pace delle moltitudini di Toni Negri e dei new-global della
globalizzazione buona” (Persone e Comunità).
Citando
K. Galbraith (Lo Stato Predatore) ne definisce, Il Bene Comune, criminale e predatorio il
sistema della globalizzazione:
“Lo
stato industriale – scrive Galbraith – è stato sostituito dallo stato
predatorio, una coalizione di instancabili oppositori ad ogni idea di interesse
pubblico che ha lo scopo di controllare la
struttura dello stato per dare
potere a un’alta plutocrazia provvista solo di obiettivi immorali e di rapina”.
Lui è
stato, senza dubbio alcuno, un no- global a tutto tondo!
Mondializzazione
e comunità
C’è
una domanda e un bisogno di comunità crescente nel mondo, anche nei paesi che
hanno vissuto la stagione dell’abbondanza e della ricchezza e che soffrono oggi
i morsi della crisi e dell’emarginazione progressiva dal nucleo dei paesi più
forti della economia della Triade.
Questa domanda e questo bisogno trovano risposte
diverse e non sempre piacevoli e condivisibili – il ritorno alla sovranità,
alla Stato-Nazione, al nazionalismo o alle comunità e alla cooperazione fra
Stati – ma hanno un comune carattere: contestare e contrapporsi alla
globalizzazione dei vincenti.
Tardano invece a trovare risposte da parte delle
culture e del pensiero della vecchia sinistra sociale e politica. Anzi, a tale
bisogno di ricucitura dei legami comunitari, distrutti dal capitalismo
globalizzato, si risponde in prevalenza con le categorie dell’universalismo e
dei diritti universali, rinnegando o avversando queste aspirazioni alla
sovranità e alla comunità delle popolazioni – derubricate come populismi –
spingendo così questo legittimo bisogno di sicurezza popolare verso ideologie e
pratiche razziste ed identitarie.
Chi ha
conosciuto Bruno sa che spesso le sue posizioni eretiche in politica potevano
procurare “scandalo” per le preferenze da lui spesso accordate a posizioni anti
sistemiche, rispetto a quelle politically correct, quando erano orientate a
contrastare l’oligarchia finanziaria europea o a difendere il capitalismo
nazionale.
Bruno
non avrebbe certo disdegnato di autodefinirsi “populista” o di polemizzare
contro quelli che etichettano i vari
populismi come proto-fascismo diventato questo, purtroppo, uno slogan
semplificatorio di una certa sinistra
rivoluzionaria globalista nonché della vecchia sinistra neo-liberista
dal “volto umano”, che osteggiano come
“sovranisti” quelli che vogliono ricostruire comunità riunificando le comunità frantumate
dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione capitalistica e che
sostengono la necessità che popoli e
territori lottino per riconquistare autonomia scollegandosi dal mercato globale.
È,
questa, una sinistra incapace di distinguere fra mondializzazione dei mercati (tendenza insita nella natura del
capitalismo fin dalle sue origini) e globalizzazione, che è la forma assunta dal
capitalismo triadico contemporaneo.
Senza
comprendere o voler comprendere che la globalizzazione è la risposta delle
élite dominanti dell’occidente al processo di mondializzazione e all’ingresso
di popoli e paese nuovi (Cina e India, e non solo ) nell’economia e nel mercato
mondiale che si vogliono invece ingabbiare ed escludere dallo sviluppo.
Confusione che porta a esaltare sia la
globalizzazione come apportatrice di benessere per i popoli del mondo per la
sua presunta capacità di liberarli dalla miseria e dall’indigenza, e sia il
cosmopolitismo come forma suprema della moderna libertà!
Devo
confessare un certo fastidio, per non dire rabbia, verso l’ideologia
cosmopolita del nomadismo e la sua esaltazione acritica da parte di questa
sinistra.
Nel
futuro saremo davvero tutti apolidi?
L’ideologia
del nomadismo ci racconta che siamo tutti cittadini del mondo.
Sarà vero?
O si
dimentica che il 99 per cento dell’umanità è per sua natura stanziale e che il
nomadismo e l’emigrazione sono una tragedia, una rottura forzata con la propria storia e cultura, con le
proprie radici, con le amicizie, con gli affetti e con la famiglia, una
lacerazione profonda nella identità che provoca spaesamento e sofferenze?
È
questo il lato oscuro del cosmopolitismo che viene nascosto in questa
narrazione edulcorata del nomadismo!
Ma chi
sono i veri cittadini del mondo?
Adam
Smith, il fondatore dell’economia classica, ce lo spiega ne “La Ricchezza delle
nazioni”:
“Il
possessore di capitali è propriamente un cittadino del mondo e non è
necessariamente legato a nessun paese particolare.
Egli sarebbe pronto ad abbandonare il paese in
cui è stato esposto a una indagine vessatoria per l’accertamento di un’imposta
gravosa e trasferirebbe i suoi fondi in qualche altro paese dove poter svolgere
la sua attività o godersi la sua ricchezza a suo agio”.
Il cosmopolitismo è oggi una ideologia costruita su
misura per le élite del capitalismo globalizzato, per quell’1 per cento che si
considerano “cittadini del mondo” ma senza gli obblighi che la cittadinanza
normalmente comporta.
È
l’ideologia della libertà irresponsabile.
Ma
“senza comunità non c’è libertà – ci ricorda Bruno Amoroso in” L’apartheid
globale” – ma solo la concorrenza di tutti contro tutti.
Proprio le spinte disgregatrici della
globalizzazione rendono urgente ridefinire il concetto di comunità.
Il primo elemento costitutivo della comunità è
la popolazione.
La
globalizzazione immagina sistemi di
società in cui la popolazione non serve, non ha ruolo.
Le economie si delocalizzano rispetto alla
gente di cui non hanno bisogno oppure
trasferiscono altre persone da
altre comunità all’interno del paese.
Non
esiste comunità senza popolazione.
Il secondo elemento è il territorio, il
radicamento della popolazione nel
territorio. La caratteristica principale della globalizzazione, invece, è la
de-territorializzazione:
il territorio non conta perché si può produrre
ovunque…
Altro
aspetto fondamentale della comunità sono le istituzioni, basate su forme di
rappresentanza dal basso di persone saldamente ancorate al territorio.
La globalizzazione distrugge il sistema
istituzionale esistente e lo evolve in forme tecnocratiche di rappresentanza”.
Bruno
Amoroso è stato un fervente sostenitore dell’idea e del progetto di costruzione
di comunità.
In “Memorie
di un intruso” è narrato lo svilupparsi del suo senso della comunità a partire
dalla sua precoce militanza nella sezione del Pci di Donna Olimpia a Monteverde, che si esplicava con la sua attitudine a coniugare la
militanza politica con forme di vita collettive e di svago.
Per
lui “comunismo” non era solo espressione di un’adesione ideale ma di una
“empatia che trasformava il gruppo in comunità” e la vita culturale della
sezione era animata: si ospitavano gruppi teatrali e il “teatro di massa” e le
persone del quartiere partecipavano con grande passione alle domeniche del
ballo, alle gite, alle feste, alle attività sportive, alle cene collettive.
Combinare militanza, amicizia, affetti era
l’essenza del suo fare comunità che gli valse una crescente ostilità nel
partito che le considerava estranee e nocive all’impegno politico.
Scrive
Bruno in “Persone e Comunità”:
“La
comunità è una costruzione umana e sociale.
Il
locale è la comunità. La sua dimensione è variabile.
La
cellula fondamentale è la persona e il suo nucleo di appartenenza (la famiglia,
gli amici).
Questi
diversi nuclei s’intrecciano tra di loro come anelli olimpici e formano la
comunità.
Essa è fortemente connessa a un determinato
territorio e con forte identità culturale.
Questo
spazio vitale scopre il bisogno di organizzarsi per far fronte alle
sollecitazioni esterne della mondializzazione e della globalizzazione.
Alla mondializzazione la comunità risponde,
per far fronte alla crescente interdipendenza delle varie comunità, con
politiche di cooperazione e solidali nel campo sociale, ambientale e nell’uso
delle risorse (gli anelli e le reti della solidarietà).
Alla
globalizzazione, alla quale non ci si può opporre col localismo, (la comunità risponde)
con strutture nazionali di cooperazioni tra Stati della medesima
meso-regione per proteggere le comunità dalle forze omologanti della
globalizzazione”.
Questa
concezione della comunità penso debba molto al progetto di Stato comunitario,
propugnato da Adriano Olivetti e illustrato nel Manifesto programmatico di
Comunità nel 1953:
“Lo Stato comunitario… fondato sulla
integrazione armonica delle forze del lavoro e della cultura con quelle della
democrazia, su una proprietà socializzata e radicata agli Enti territoriali
autonomi (le Comunità), insisterà sulla tradizionale separazione dei poteri e
sul principio di un nuovo integrale federalismo interno, inteso nel senso di
equilibrio di autonomie tra periferia e centro”.
Visione,
questa, coniugata alla “necessità di concentrare gli sforzi in favore del
superamento degli Stati nazionali interamente sovrani e in favore della
costituzione di ordinamenti giuridici superiori, federazioni continentali o sub
continentali”.
La Federazione europea, che Olivetti
auspicava, “darà all’Europa autonomia e salvezza, ma ciò stabilmente per sé e
in modo esemplare per gli esterni, solo se federazione è intesa nel senso
integrale di decentramento assoluto, di autonomia generale anche nei confini
degli Stati, di articolazione politica e amministrativa antimonopolistica in
ogni senso”.
La
costruzione di un’alternativa al capitalismo globale si fonda per Bruno proprio
su un progetto di alleanze solidali di comunità, di paesi, di nazioni (le
meso-regioni), di tipo federalista, che restituiscano loro la possibilità di scegliere le proprie forme
di organizzazione economica, sociale e politica in una configurazione
policentrica e plurale del mondo.
La
rifondazione delle comunità in un quadro
di mondializzazione è la risposta all’affermarsi della globalizzazione
come sistema dell’apartheid globale del capitalismo triadico dei paesi ricchi
contro il resto del pianeta.
Lui guardava alla modernità non dalla
prospettiva dei globalizzatori, ma da quella delle ”comunità e dei villaggi del
mondo per sette miliardi di persone”.
Fare comunità e “risocializzare” lo Stato, passare
dallo “Stato del Benessere” alla “Società del Benessere”, questo è stato il suo
programma e il filo rosso della sua elaborazione.
Bruno
Amoroso e il sindacato.
Bruno
Amoroso è stato in vita un attento e acuto studioso e osservatore delle
trasformazioni dell’economia-mondo e dei sistemi sociali, in particolare di
quelli scandinavi, nonché del movimento sindacale e del suo ruolo nel sistema
produttivo e nello Stato del Benessere.
Fin da giovane, da militante comunista, da osservatore e
partecipe delle vicende sindacali della “Manifattura Tabacchi” in cui lui
lavorò per un breve periodo – del cui sindacato suo padre Pelino fu segretario
nazionale nella Cgil unitaria –
mostrò una capacità straordinaria di saper cogliere la natura e l’essenza delle
questioni in campo.
Comprese
in anticipo sui tempi la deriva burocratica in cui stava scivolando il
sindacato con la decisione verticistica del PCI e della Cgil, non più unitaria,
di sopprimere la Federazione sindacale dei Monopoli di Stato per
accorparla alla Federazione degli Statali
– con l’umiliante e cinica estromissione del padre dalla direzione del
sindacato – e colse con lucida preveggenza
l’errore della scelta dell’americanizzazione del sistema produttivo
nazionale che anche il PCI e la Cgil a loro modo sostennero.
La “Manifattura
Tabacchi” a Roma con le vicende
sindacali dell’epoca a cui suo padre
partecipò, furono il companatico quotidiano di cui si nutrì la sua formazione e la sua concezione del sindacato che
“trasforma gli interessi corporativi e i bisogni diversi in un progetto comune di
organizzazione aziendale ispirato alla solidarietà verso i più deboli”.
Bruno
ricorda che suo padre era solito “saggiare le sue tesi politiche, o le sue
relazioni per convegni o congressi discutendone in famiglia, sul tavola di
cucina fino a tarda notte e questa fu in parte – racconta – la nostra scuola”.
Non
amava Bruno i sindacalisti col sigaro e la sigaretta e poi quelli con la
pipa.
Lui
amava i sindacalisti alla Di Vittorio che diventarono comunisti per esperienza
di vita famigliare e di povertà e non per scelte ideologiche o per ambizioni
politiche e di carriera personale.
Bruno riporta in “Memorie di un intruso” una
risposta di Giuseppe Di Vittorio alla domanda di un giornalista sul perché
fosse diventato comunista:
“Da
bambini – rispose Di Vittorio – le nostre mamme lavoravano sui campi dei
padroni dall’alba alla sera per la raccolta della frutta, ed erano costrette a
portarci con loro.
Noi
venivamo deposti intorno ad un albero e i ‘caporali’ ci mettevano la museruola
per essere sicuri che non mangiassimo la frutta.
Io sono uno di quei bambini ed è per questo
che sono diventato comunista”.
Bruno
era stato un convinto assertore dell’unità del sindacato e del mondo del lavoro
contro le rotture che intervennero nel 1948, ma anche della sua autonomia come
motore di una alleanza popolare più vasta con il ceto medio e i vari e diversi
settori produttivi della società che lui auspicava anche in polemica contro le
tendenze opposte che avanzavano nel partito e nel sindacato.
L’americanizzazione
delle forme di produzione e consumo. Il fordismo e il post- fordismo.
Bruno
Amoroso è sempre stato un critico avveduto del processo di “americanizzazione”
delle forme di produzione e consumo introdotti in Italia dopo la liberazione e
che improntò il miracolo economico del dopoguerra con una forte crescita e
sviluppo del sistema industriale incentrato sulla grande impresa e con un forte incremento dei consumi
popolari.
Il
prezzo pagato per questo tipo di sviluppo sono inscritte nelle devastazioni del
territorio, nella crescita abnorme delle città, nello spopolamento dei piccoli
centri e nel biblico flusso migratorio
da Sud verso il Nord che svuotò le campagne in pochi anni di oltre due milioni
di addetti.
Nel
dibattito all’interno del PCI e del Sindacato convivevano due Italie:
quella di Emilio Sereni che indicava una via
alla modernità che includesse il mondo rurale e contadino, e quella di Manlio
Rossi Doria che spingeva per una più
spinta applicazione del modello fordista della grande impresa da estendere
anche alla produzione agricola, per incrementare la produttività del settore.
La
sinistra e il sindacato abbracciarono il modello di produzione fordista
contrastando le posizioni di Emilio Sereni e il modello “ comunitario”
propugnato da Adriano Olivetti.
Il
convegno dell’Istituto Gramsci del 1962 sulle Tendenze del capitalismo italiano
legittimò teoricamente questa scelta con
l’illusione che questo salto forzato nello sviluppo sarebbe stato ricambiato
con una maggiore partecipazione dei lavoratori
alla spartizione dei dividendi dello sviluppo illimitato e del crescente profitto.
Il
sindacato fu così ridisegnato sul modello della grande impresa fordista,
abbandonando il sindacalismo popolare e confederale di Di Vittorio, per il
nuovo sindacalismo contrattualista e verticale degli anni 60-70, che godette
dell’introduzione dell’istituto della contrattazione articolata con i contratti del 1962.
Scrive
in “Persone e Comunità”:
“Il
paradigma fordista (grande impresa, economia di scala, consumi di massa,
organizzazione taylorista del lavoro) fu immediatamente percepito come il
paradigma della modernizzazione assunto passivamente anche dai sindacati e dai
partiti operai, socialisti e comunisti.
Il suo
effetto fu la distruzione delle pluralità dei sistemi produttivi e dei saperi
locali, dei territori e delle città, l’emigrazione di massa, il declino
dell’artigianato tradizionale, lo spopolamento delle aree interne montane e
collinari, l’abbandono delle campagne, l’americanizzazione dell’agricoltura e
la fine delle società rurali”, che fornì con gli esodi biblici dalle campagne
del sud la manodopera necessaria per
l’impresa fordista del Nord industrializzato.
E così prosegue:
“Tutta
l’organizzazione della società e delle città ruota attorno alla fabbrica
capitalistica e la serve.
Le strategie sindacali e loro strutture
organizzative furono ridisegnate sul modello della produzione di massa e delle
economie di scala del fordismo.
Partiti
e sindacato della classe operaia videro
nella crescita accelerata della classe operaia fordista e nel proletariato
agricolo e bracciantile – formatosi con la crisi della famiglia e dell’impresa
contadina – il formarsi delle forze che avrebbero messo in crisi il
capitalismo.
Il
mito dello sviluppo infinito e del progresso sotto il segno dell’industrialismo
segnò una stagione di lotte e di rivendicazioni del movimento operaio che
arrivò a toccare livelli di consumi e di benessere materiale mai raggiunti nella storia, né
prima e mai più dopo.
L’altra
faccia nascosta di questo progresso fu, come denunciava un inascoltato
Pasolini, l’integrazione della classe operaia nel meccanismo distributivo e la
sua omologazione culturale in quello della mercificazione consumistica”.
L’abbandono
del modello di produzione fordista, a partire dalla seconda metà degli anni
’70, da parte del capitalismo “pensante” per rispondere alle crescenti
pressioni redistributive del movimento
operaio e ai costi crescenti dello Stato del benessere – per riprendere il
controllo della produzione e dello Stato e ridurre l’influenza dei
sindacati in una fase di
sovrapproduzione di merci e di costi crescenti delle materie prime – colse
di sorpresa il movimento operaio e i sindacati.
La vertenza Fiat con la successiva sconfitta
operaia agli inizi degli anni ‘80 segnò una lunga fase difensiva del conflitto sindacale che, di cedimento in
cedimento, ha accompagnato in questi decenni lo “smantellamento progressivo del
sistema produttivo nazionale e del welfare pubblico, la de-centralizzazione
dell’impresa nei territori, la fine del
ruolo propulsivo dei contratti collettivi”, la precarizzazione del lavoro, la nascita dei contratti
individuali (Pacchetto Treu) e, infine, il declino stesso del sindacato.
Scrive
ancora in “Persone e Comunità”:
“Un
errore interpretativo della globalizzazione che ha coinvolto la sinistra e il
Movimento Operaio, è stato quello di concepirla come uno stadio di rilancio del
ciclo di accumulazione, con il risultato di alimentare strategie rivendicative
difensive in vista di una ripresa futura del ciclo espansivo.
Il suo
effetto è stato quello di non cogliere la novità propria della natura della globalizzazione
che espelleva dal suo interno aree di mercato e sistemi produttivi,
de-centralizzandoli e de-nazionalizzandoli, per sottrarre la produzione al
controllo sociale e politico locale e nazionale”.
Nella
sua relazione al seminario del circolo romano de “Il Manifesto” nel 2011 su “Lavoro
e Territorio” all’indomani del referendum
della Fiat di Pomigliano,
così concluse questa riflessione:
“L’assenza
di questa consapevolezza ha fatto sì che siamo rimasti a lungo attaccati alla
speranza di poterci integrare in un modello che non ci comprendeva, anzi ci
respingeva, e per di più a noi in gran parte estraneo.
Trascurando
invece scelte possibili di un altro modello di organizzazione sociale, di
crescita territoriale e sociale e di cooperazione sia europea sia mediterranea”.
Bruno
Trentin fu forse l’unico che nel movimento sindacale avvertì nel 1989 la
tempesta che si avvicinava e colse correttamente la novità della fine di un
ciclo storico, dell’epoca dello sviluppo infinito e dell’occupazione come
variabile da questo dipendente, insieme al tramonto di politiche salariali
espansive.
Nella
sua relazione alla “Conferenza di Programma della Cgil “di quell’anno a Chianciano, così introdusse il suo
intervento:
“Le
trasformazioni delle società industriali, i vincoli crescenti…rimettono in
questione la stessa concezione dello sviluppo economico… ma, soprattutto, il presupposto economico e
ideologico sul quale il sindacato fondava, sin dalle sue origini, la sua funzione
di unificazione del mondo del lavoro…ossia uno sviluppo economico, pieno di
contraddizioni e di diseguaglianze, ma senza limiti quantitativi di lungo
periodo, uno sviluppo economico «inarrestabile» e, come tale, condizione e
garanzia di un progresso sociale e umano, condizione materiale dell’azione
emancipatrice del movimento operaio; questo presupposto e questa premessa di
valore dell’azione solidale del sindacato sono stati duramente contestati dalle
trasformazioni intervenute..”.
E così
proseguì:
“ Lo
sviluppo quantitativo dell’economia, la crescita della produzione di merci e di
servizi, e lo sviluppo dell’occupazione e del lavoro salariato, che del primo
sono stati sempre considerati come dei fattori derivanti e rigidamente
subordinati (delle variabili dipendenti si usava dire), si scontrano sempre più
con dei limiti oggettivi, strutturali… Al punto che oggi l’idea di progresso,
quella di civiltà e quella stessa di solidarietà sono sempre più associate al
rispetto di questi vincoli e alla subordinazione dello sviluppo dell’economia
ai limiti qualitativi che rimettono in questione i suoi obiettivi e le sue
regole”.
Aggiunse
che era destinata alla sconfitta
“una
solidarietà difensiva fondata sulla salvaguardia di un modello autarchico di
sviluppo, sul rifiuto di confrontarsi con le scelte ardue di una nuova
divisione internazionale del lavoro e con la ricerca di una nuova solidarietà
dei lavoratori in Europa”.
Per
proteggere il lavoro da questi rischi incombenti, delineò così una strategia
difensiva fondata sui diritti individuali e collettivi, sulla valorizzazione
della persona e della sua prestazione lavorativa, sulla formazione permanente,
sulla contrattazione anche individuale nel posto di lavoro:
“Dobbiamo
compiere il tentativo di ricondurre alla contrattazione collettiva e ad una
difesa solidale dei diritti individuali fondamentali relazioni di lavoro, anche
molto diverse fra loro, che non coincidono più con il modello tradizionale
dell’occupazione a tempo pieno per tutta la vita…. Non crediamo al salario o al costo del lavoro
come variabili indipendenti. Ma crediamo ad una strategia rivendicativa che
liberi tutte le potenzialità culturali e professionali delle lavoratrici e dei
lavoratori e che trasformi la persona al lavoro in un patrimonio ricco e
costoso nella sua formazione... “
Ancora:
“Diventerà
sempre più un tema della contrattazione collettiva nei luoghi di lavoro quella
dell’informazione sui percorsi professionali individuali e sui sistemi di
remunerazione individuali, in modo da offrire le garanzie di criteri
trasparenti anche all’estendersi di forme di contrattazione individuale del
salario e delle condizioni di lavoro... “
Caratteristiche
queste – dell’autonomia, dell’autodeterminazione, della libertà e della
creatività del lavoro – che sarebbero state fatte proprie dal capitalismo
post-fordista sotto le sembianze del lavoratore imprenditore di sè stesso e
artefice del suo stesso auto-sfruttamento.
Mancò
però in Trentin, ed è mancata nel sindacato anche dopo lui, la visione di un
progetto alternativo al modello di sviluppo e di produzione fordista e
industrialista abbandonato dal capitalismo;
e anche lui fu costretto ad accettare di
contrattare nel 1992, con l’accordo che abolì la scala mobile, l’arretramento
del movimento operaio dalle posizioni conquistate in precedenza per allineare
il paese alle politiche deflazioniste dell’Unione Europea, che lo costrinse
alle dimissioni da segretario generale della Cgil prima e all’uscita definitiva di scena
successivamente.
L’occasione
persa dal sindacato è stata quella di non aver scommesso sul rilancio dei
luoghi, delle produzioni e dei sistemi produttivi abbandonati al loro destino
dal fordismo prima e dalla globalizzazione poi, ricreando forme di aggregazione
tra produttori locali, rilanciando un nuovo modello di sviluppo a partire dalla
rigenerazione delle città devastate dall’inurbamento selvaggio e dal consumo di
suolo, dal ripopolamento delle zone interne abbandonate con politiche di
sviluppo locale e culturale e mettendo in sicurezza il territorio.
Di non aver offerto in questo modo
un’alternativa di mercati locali e regionali al quel mondo della produzione
radicato nei territori, ed estromessi dai mercati della globalizzazione,
attraverso il rilancio dell’Altra Economia, dei mercati contadini, della nuova ruralità.
Da ciò
derivava e deriva la necessità di un’alleanza tra questa economia e la società
civile per ricostruire comunità di vita, di produzione e consumo.
Invece abbiamo stoltamente continuato sulla
strada delle sconfitte difendendo e promuovendo
lo sviluppo dei grandi centri commerciali delle multinazionali
straniere, che hanno ancor più
indebolito la piccola impresa locale e regionale che fatica a trovare sbocchi
autonomi nel mercato e che ora, ironia della sorte, per effetto
dell’automazione crescente, stanno
espellendo proprio quei lavoratori che avevano giustificato l’iniziale consenso sindacale e politico locale al loro
insediamento nel territorio.
“Lavoro
e Bene Comune”
Cos’è
per Amoroso il Bene Comune?
“
Bisogna evitare, usciti dall’incubo
della fabbrica fordista e del consumismo
di massa (con i quali abbiamo perso
mezzo secolo di storia), di inseguire ancora una volta il capitalismo nelle sue
convulsioni con il mito delle
tecnologie, della società dell’informazione, della società dei servizi e, ora,
con la società della conoscenza”…
E
ancora:
“Decrescita
e sobrietà significano partire dai
nostri bisogni, dai bisogni delle comunità -società nelle quali viviamo, per
ricostruire intorno a noi quelle
istituzioni, saperi e sistemi produttivi che ridiano spazio ad una vita
normale” e per riscoprire quella che lui
chiama “ l’acqua calda” della “buona vita” e del “bene comune”.
Il
progetto del “Bene Comune”, così introdotto da Amoroso in “Per
il Bene Comune”, nasce come risposta
all’esaurirsi dell’esperienza dello “Stato del Benessere”, sorto nel novecento
per far fronte alle crisi del mercato
capitalistico e ai disastri della
guerra e della ricostruzione successiva.
Il suo stretto legame col capitalismo
fordista, il suo carattere prevalentemente corporativo, ne ha segnato anche la
progressiva decadenza con l’affermarsi di politiche neoliberiste di
contenimento della spesa pubblica e del welfare.
Il bene comune è un progetto diverso di società e di
modernizzazione che per le società europee significa anzitutto il “distacco
dalla crescita quantitativa e individualistica e un rifiuto della
globalizzazione e delle sue politiche neoliberali”.
“Il
bene comune non è il singolare di beni comuni, né la somma dei beni
individuali” ma, citando “Robert Vachon”, Bruno afferma che “è l’essere
comunitario non riconducibile alla somma delle parti e che non può essere
proprietà di qualcuno”.
È,
continua ancora in “Per il Bene Comune”,
“l’essenza del progetto, il nucleo fondamentale della vita materiale
delle persone e delle comunità, intorno
al quale si articolano gli obiettivi e le funzioni economiche, sociali e
culturali della società.
È quel nucleo che sprigiona i valori, i
principi che danno contenuto e forma in una certa epoca storica al vivere
insieme e dal quale si possono derivare
i beni comuni necessari, come strumenti
per riavviare un discorso su una diversa forma di organizzazione sociale
e di partecipazione”.
Insomma un nuovo patto sociale che sostituisca
lo “Stato del Benesser”e, creato intorno all’obiettivo della crescita
economica, con quello della “Società del Benessere” costruita sul “Bene Comune”.
Così
definito “il progetto di Bene Comune”, la nuova Società del Benessere non può
prescindere dalla solidarietà tra
lavoratori e cittadini, cioè dal concepire il lavoro come bene comune legato
alla comunità e al territorio di appartenenza.
Di
questa concezione del lavoro sono debitore verso l’opera di Bruno Amoroso che ha nutrito, negli ultimi anni della mia
esperienza di dirigente sindacale della Cgil,
la mia rielaborazione, inascoltata,
di un nuovo e diverso approccio al rapporto tra sindacato e
società, come chiave del rinnovamento del sindacato stesso e della sua
fuoriuscita dall’orbita dello schema fordista di rappresentanza del lavoro.
Nella
sua Prefazione al mio libro, “Il Lavoro tra Globalizzazione e Bene Comune” (
2006), individua gli elementi forti della esperienza politica e sindacale in
Italia nella natura popolare del
sindacato nel dopoguerra e nella la sua
costante preoccupazione di legare rivendicazioni e proposte parziali a una idea
e progetto di società più giusta e solidale.
Infatti,
scrive:
“Le
organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori hanno rappresentato sia la
forza maggiore di difesa e di elaborazione di proposte alternative allo
sfruttamento capitalistico e alla degenerazione della società e del mercato da
questo prodotto, sia il punto di fusione di tutte le componenti e le
istituzioni della società civile.
L’emancipazione della ‘classe operaia’
coinvolgeva tutte le componenti personali e sociali della società e produceva
un cambiamento di liberazione (dalle ineguaglianze e dalle discriminazioni) per
tutti”.
Questo
legame organico tra sindacato e società “si è venuto via via indebolendo dagli
anni Sessanta in poi fino alla rottura verso la fine del decennio.
Le
ragioni sono da ricercare nell’affermarsi di un modello industrialista e
fordista di crescita economica che ha plagiato anche i sindacati e i partiti
del movimento operaio acquisendoli così ad una linea di subordinazione al
modello della crescita capitalistica in Italia su basi corporative”.
E così
conclude:
“Questa
è la ragione per il venir meno della anima popolare del movimento… Ma il primo
anello da ricostruire è la ricongiunzione tra movimento operaio e società
civile, sulla base di un progetto di società fuori della globalizzazione e
diverso da quello del capitalismo di mercato”.
Commentando
nel 2011 un mio articolo su “il Manifesto”, “Ripartiamo dal binomio
locale-globale” , nella sua relazione al
già citato seminario organizzato dal circolo romano de il manifesto, così si
espresse a proposito di lavoro e bene comune:
“Ricordo
che di questo tema si parlò in ambito sindacale.
Reagendo
al grande interesse che i sindacati mostravano per l’‘acqua bene comune’
proposi di trattare invece del tema ‘lavoro bene comune’.
Gelo
totale, perché avevano intuito che se il lavoro è un bene comune è compito
delle comunità salvaguardarlo, regolarlo, inserirlo nelle funzioni necessarie,
retribuirlo ecc…
Al che
tutta l’impalcatura del lavoro e dei suoi diritti costruita per una società industriale
capitalistica crolla.
Ma con ciò anche il ruolo che il sindacato si
è disegnato dentro di questa. Dobbiamo prendere atto positivamente che espressioni recenti
anche da parte del sindacato indicano una riflessione critica su questi temi e
sul bisogno di ripensarsi insieme alle altre istituzioni e organizzazioni della
società civile”.
Cioè
il lavoro come bene comune è parte costitutiva dell’essere, del vivere nella
comunità con gli obblighi ed i doveri che ne
derivano, esce cioè dalla pura funzione contrattuale-redistributiva del
rapporto di lavoro.
Questo
dato implica che “il progetto del bene comune” va visto come “superamento della retorica della solidarietà
all’interno de movimento operaio, che non tocca mai gli interessi
costituiti, i diritti acquisiti in una
fase storica”.
Concludeva
il commento al mio articolo con queste mie
parole:
“Il
lavoro può affermare la sua utilità e responsabilità verso la società e le
comunità locali, solo pensandosi ed agendo come lavoro non alienato, come produttore
consapevole che crea l’economia e non ne rimane succube”.
Se si riconcilia, quindi, col sapere e si
mette al servizio del progetto di comunità e del bene comune e non di una
solidarietà ristretta di tipo corporativo.
Se
nella fase della fabbrica fordista il luogo classico della socializzazione e
dell’istituzione dei legami sociali e di classe era la fabbrica oggi, con il
decentramento produttivo, non è più così.
Lo spazio della socializzazione ridiviene il
territorio, luogo di esistenza-resistenza e di convivenza quotidiana.
E gli attori sociali della trasformazione sono
quelli partecipi al territorio e ai suoi bisogni, a partire dai lavoratori,
dalle loro famiglie, e dalle loro organizzazioni sindacali, dal mondo delle
periferie urbane, del non-lavoro e della precarietà esistenziale.
Il
lavoro con le sue forme di esercizio e
di rapportarsi alla società e al bene comune assume ora una precisa responsabilità sociale verso le comunità. Se il lavoro è un bene
comune, può essere compatibile con alcune modalità di esercizio
corporativo del conflitto sindacale in particolar modo nei servizi di pubblica
utilità, cioè dei beni comuni sociali?
È
compatibile con qualsiasi occupazione, anche in quelle produzioni inquinanti
che distruggono e devastano l’ambiente, la terra, l’aria, l’acqua e la vita – cioè i beni comuni naturali –
come nel caso di Taranto?
Come
conciliare la responsabilità sociale del lavoro con il suo essere anche un
mezzo di riproduzione sociale?
Come
affrontare l’alienazione del lavoro dai fini della produzione nell’impresa
capitalistica, irresponsabile verso le comunità e l’ambiente vitale?
Come
rispondere alla domanda di inclusione
sociale del mondo degli esclusi, dei perdenti della globalizzazione, degli
operai senza-fabbrica, dei giovani senza futuro?
Sono
domande, queste, che attendono ancora
risposte compiute.
Nel
momento in cui l’impresa transnazionale separa territori e sistemi produttivi,
istituzioni e popolazioni, si estranea dalle comunità e dai paesi d’origine e
diventa apolide e globale, si può superare tale processo di scissione solo se
lavoro e impresa, comunità e cittadini
diventano partecipi di una rifondazione del paradigma dell’economia diversa e
alternativa a quella impostasi con la globalizzazione.
Il
lavoro ritroverebbe così una sua ragione sociale non alienante ri-mettendo in
discussione la stessa divisione operata
dal fordismo fra lavoro e sapere che aveva trasformato l’operaio in gorilla
ammaestrato, per dirla con la celebre metafora di Gramsci in “Americanismo
e Fordismo”.
È,
questa, una sfida ancora aperta per una sinistra che voglia rinascere e
ritrovare le proprie radici popolari e per un sindacato che abbia voglia di
misurarsi con i suoi ritardi e le proprie granitiche in-certezze che certamente
non hanno aiutato lo svilupparsi di un movimento popolare e democratico di resistenza alla tragedia della
globalizzazione capitalistica preferendo spesso cavalcare il
cavallo vincente piuttosto che
rischiare le sconfitte in proprio.
In un
mio recente articolo, “Considerazioni dalla parte dei vinti”, pubblicato su “Comune-info”, così concludevo
l’ultimo paragrafo destinato al riscatto dei vinti:
“La
Storia non è solo un susseguirsi di eventi lineari in cui il passato sta alle
nostre spalle.
Essa ci parla anche con il linguaggio e la
memoria dei vinti e degli sconfitti redenti
e non solo con quello dei vincitori, affinché quello che non fu
possibile ieri diventi possibile oggi o domani…
Non so
se un giorno il mondo cambierà in meglio.
Ma se
sarà così, lo sarà non grazie a quelli che sono saliti sul carro dei vincitori,
ma grazie ai popoli vinti ma non domati, alle classi oppresse, ai sacrifici e
alle testimonianze di tutti quelli che pur sconfitti ed emarginati, non si sono
mai arresi”.
Grazie anche a uomini come Bruno Amoroso.
Un’Escalation
in Israele
Potrebbe
Innescare una
Reazione
a Catena.
Conoscenzealconfine.it
– (9 Ottobre 2023) - Aleksandr Dugin – ci dice:
I
palestinesi non hanno alcuna possibilità in una guerra del genere, perché non
possono distruggere Israele o infliggergli una sconfitta militare
significativa, ma anche Israele non ha nulla per cui combattere.
La
Palestina è tecnicamente territorio israeliano che non controlla e non può
controllare in nessun caso.
È
altrettanto impossibile distruggere fisicamente tutti i palestinesi.
Se
fossimo in una situazione internazionale diversa, i palestinesi potrebbero
contare sulla compassione della sinistra internazionale, ma gli Stati Uniti
sono guidati da “neocons sionisti dem e globalisti”.
Di certo non si preoccupano dei palestinesi,
anche se non sono nemmeno troppo vicini alle politiche nazionaliste di Israele.
Ma è
la reazione a catena – e soprattutto il comportamento degli Stati islamici (in
primo luogo Iran, Turchia, Arabia Saudita, altri Stati del Golfo ed Egitto) –
che potrebbe essere la logica continuazione.
O
almeno, questo è ciò che gli strateghi di Hamas potrebbero aver avuto in mente
quando hanno deciso di iniziare il conflitto.
Il
multipolarismo si sta rafforzando, l’intensità dell’egemonia occidentale nel
non-occidente collettivo si sta indebolendo.
Gli alleati dell’Occidente nel mondo islamico –
soprattutto la Turchia e i sauditi – non seguono automaticamente ogni ordine di
Washington.
Questa
è la situazione in cui il polo islamico, che di recente si è unito in modo
provocatorio ai BRICS, sarà messo alla prova.
Naturalmente,
il conflitto potrebbe estendersi ad altri territori.
Non si
può escludere il coinvolgimento dell’Iran e di Hezbollah, il che significa il
potenziale trasferimento delle ostilità ai territori del Libano e della Siria.
Nello stesso Israele ci sono abbastanza
palestinesi che odiano ferocemente gli ebrei.
Tutto
questo potrebbe avere conseguenze imprevedibili.
A mio
avviso, gli Stati Uniti e i globalisti cercheranno di spegnere tutto ora,
poiché non possono ottenere nulla di buono da un’ulteriore escalation.
Un’altra
cosa: le analogie tra separatismo, irredentismo, ecc. in diverse regioni del
mondo non sono più valide.
L’Occidente
riconosce sia l’unità territoriale sia il diritto alla secessione dei popoli
quando ne trae vantaggio e non li riconosce quando non sono vantaggiosi.
Non ci sono regole.
In
effetti, dovremmo trattare la questione allo stesso modo (e in effetti lo
facciamo).
Ciò
che è favorevole a noi è giusto.
Nel
conflitto israelo-palestinese, è difficile – almeno per ora – che la Russia
scelga una sola parte.
Ci sono pro e contro in ogni configurazione.
I legami con i palestinesi sono antichi e,
ovviamente, sono vittime, ma il fianco destro di Israele cerca anche di
perseguire una politica neutralmente amichevole nei confronti della Russia e,
così facendo, si discosta dalla selvaggia e inequivocabile russofobia
dell’Occidente collettivo.
Molto
dipenderà ora dall’evoluzione degli eventi futuri.
E
naturalmente non dobbiamo perdere di vista la dimensione escatologica degli
eventi.
I palestinesi hanno chiamato la loro
operazione “Tempesta di Al-Aqsa”, cioè la tensione intorno a Gerusalemme e
all’orizzonte messianico (per Israele) della costruzione del Terzo Tempio sul
Monte del Tempio (impossibile senza demolire la Moschea di Al-Aqsa, importante
santuario musulmano) sta crescendo di nuovo.
I
palestinesi stanno cercando di accendere la sensibilità escatologica dei
musulmani – sia degli sciiti, che sono sempre più sensibili a questo tema, sia
dei sunniti (del resto, non sono estranei ai motivi della fine del mondo e
della battaglia finale).
Israele
e il sionismo sono il “Dajjal” per i musulmani (essere malvagio destinato a regnare
nel mondo per un periodo di 40 giorni prima del Giorno del giudizio; quale
figura anti-messianica, è paragonabile all’Anticristo della escatologia
cristiana).
Fino a
che punto sia una cosa seria, lo vedremo presto, ma in ogni caso è chiaro che
chi ignora l’escatologia non capirà nulla della grande politica moderna.
E non solo in Medio Oriente, anche se lì è più
evidente.
(Aleksandr
Dugin)
(t.me/lealidelbrujo)
Anidride
carbonica: come
la “CO2”
causa l’effetto serra.
Lifegate.it – (7 gennaio 2010) - Redazione LifeGate –
ci dice:
Negli
ultimi decenni l’emissione eccessiva di gas ha creato una cappa negli strati
alti dell’atmosfera, creando lo stesso surriscaldamento che avviene nelle
serre.
I
principali gas responsabili dell’effetto serra sono: il metano, il vapore
acqueo, gli ossidi d’azoto, i clorofluorocarburi (CFC) e l’anidride carbonica
(CO2).
(Nessun scienziato non corrotto si è
pronunciato su questo fatto reale: la CO2 essendo più pesante dell’atmosfera
non può volare negli strati alti dell’atmosfera e quindi non può partecipare
alla creazione della cappa dell’effetto serra nel cielo alto. N.D.R.)
Emissioni
di CO2 generate dalle automobili.
Le
automobili sono tra le principali cause di inquinamento ed emissioni di
anidride carbonica.
(La
CO2 causata dall’opera dell’uomo sulla terra non può mai salire nei cieli dove
si annida la cappa creata dall’effetto serra, infatti la CO2 è più pesante
dell’aria! N.D.R.)
Emissioni
di CO2, le principali fonti di inquinamento.
La
principale imputata di questo fenomeno è proprio l’anidride carbonica (CO2) che
viene prodotta in tutti i fenomeni di combustione utilizzate per le attività
umane e principalmente per gli autoveicoli e la produzione di energia elettrica.
(La
Co2 rimane a livello della terra, delle piante e del mare. Come già indicato sopra
è più pesante dell’aria e quindi non può volare verso l’alto dei cieli! N.D.R.)
Basti
pensare che a inizio secolo la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera era di circa 290 ppm (parti per
milione), oggi è di circa 370-380 ppm e si pensa che nel 2050 possa raggiungere
le 550-630 ppm se non si prenderanno dei provvedimenti rivolti alla sua
diminuzione.
Negli
ultimi anni è inoltre emerso il reale impatto ambientale degli allevamenti di
bestiame, che generano più gas serra dell’intero settore dei trasporti.
Secondo
il” rapporto Livestock’s Long Shadow”, pubblicato nel 2008 dalle Nazioni Unite,
l’allevamento degli animali è la causa principale dei cambiamenti climatici e
contribuisce a quasi due terzi delle emissioni agricole di gas ad effetto
serra.
Perché
la CO2 causa l’effetto serra.
L’anidride
carbonica (CO2), come un filtro a senso unico, lascia passare l’energia del
sole, ma assorbe le radiazioni emesse dalla Terra, che hanno una maggiore
lunghezza d’onda, creando così una sorta di serra atmosferica intorno al
pianeta.
In
condizioni normali questo gas svolge un ruolo molto utile:
se non
fosse presente nell’atmosfera, infatti, la temperatura media terrestre sarebbe
inferiore di molti gradi rispetto a oggi, rendendo impossibile la nostra vita.
Ma
oggi l’accumulo di anidride carbonica è tale da imprigionare quantità eccessive
di calore e da trasformare la Terra in una gigantesca serra.
(La
CO2 non potrà mai essere co-fautrice o co- creatrice dell’effetto serra.
Infatti essendo più pesante dell’aria non può volare nell’alta atmosfera. Si
accontenta di mantenere in vita la razza umana, quella animale oltre a quella
vegetale. Se mancasse la CO2 la vita sulla terra sarebbe impossibile anche se
gli scienziati corrotti non si esprimono mai
in merito! N.D.R.)
Pannelli
solari su un tetto
L’utilizzo
di energie rinnovabili è indispensabile per ridurre le emissioni inquinanti
generate dalle attività antropiche ossia praticate dall’uomo.
Cos’è
l’anidride carbonica.
L’anidride
carbonica è un gas, detto anche biossido o diossido di carbonio, più pesante dell’aria ed è prodotto della combustione del
carbone, degli idrocarburi e delle sostanze organiche.
Tutti
gli esseri viventi, respirando producono anidride carbonica, l’elevata
concentrazione di CO2 nell’atmosfera terrestre è frutto dell’impiego da parte
dell’uomo di combustibili fossili, come il carbone, il petrolio e il gas,
formatisi da organismi animali e vegetali fossilizzati e sepolti sotto il
suolo.
L’aumento della concentrazione di CO2
nell’atmosfera causa i cambiamenti climatici determinando un incremento delle
temperature medie globali.
(la CO2 essendo più pesante dell’aria
si affretta a lasciare la bassa atmosfera e si concentra nelle immediate
vicinanze della terra e del mare. Quindi svolge le funzioni necessarie per cui
è stata creata da sempre dalla natura ed
ora anche dall’uomo. N.D.R.)
Le
responsabilità degli apparecchi elettrici.
Ogni
anno vengono emessi nell’atmosfera miliardi di tonnellate di CO2, responsabili
di circa metà dell’effetto serra.
(E
questo è un clamoroso falso, che non potrà mai essere documentato, in quanto la
CO2 non può mai salire autonomamente nell’alto dei cieli. E nel caso gli uomini
ve la portassero si affretterebbe ad abbandonare la cupola della serra per
continuare a fare il suo lavoro benefico nei pressi della terra e del mare!
N.D.R.)
La
produzione e il consumo di energia hanno un peso notevole nelle emissioni di
anidride carbonica:
gli
apparecchi elettrici ne emettono una gran quantità.
La
deforestazione, unita all’uso dei combustibili fossili, ha aumentato il livello
dell’anidride carbonica nell’atmosfera del 25 per cento, dall’inizio della
Rivoluzione Industriale.
(La CO2 dall’inizio della rivoluzione
industriale ha continuato a svolgere il suo utile e necessario lavoro a
contatto della terra e del mare. Essendo più pesante dell’atmosfera non potrà
mai salire nell’alto dei cieli di sua spontanea volontà! N.D.R)
La
deforestazione causa emissioni di CO2.
La
deforestazione è responsabile di gran parte delle emissioni di gas a effetto
serra.
(La
mancanza di piante dovuta alla deforestazione produce una riduzione della
produzione di ossigeno creato con la fotosintesi notturna delle piante. L’uomo
e gli animali e le stesse piante non potrebbero vivere senza ossigeno
nell’aria.N.D.R.)
Ridurre
l’uso dei combustibili fossili.
Fra i
combustibili fossili è il carbone, il più abbondante e il più economico, il
responsabile delle concentrazioni più gravi.
Il
carbone rilascia una quantità di CO2 due volte maggiore del metano, e maggiore
di quasi un quarto del petrolio.
(La
CO2 rilasciata dal carbone bruciato o da altri combustibili fossili non può salire nell’alta atmosfera – infatti la
CO2 è più pesante dell’aria- e rimanerci
e quindi non può modificare il contenuto percentuale dei gas serra mantenuti al
disotto della cupola dei gas serra! N.D.R.)
Perciò,
una delle soluzioni al problema dell’effetto serra dovrebbe prevedere
l’utilizzo dei combustibili fossili meno dannosi e in quantità minori.
(Sarebbe
stato più corretto e vero scrivere che l’effetto serra deve essere prodotto da gas più leggeri dell’aria
atmosferica! N.D.R.)
(Licenza
Creative Commons)
Sole,
vento e confusione.
Gognablog.sherpa-gate.com – (5 Ottobre 2023) –
Stefano Deliperi – ci dice:
La
svolta delle energie rinnovabili dovrebbe seguire un percorso di responsabilità
e di massima compatibilità ambientale, a maggior ragione perché è “verde” (o
dovrebbe essere) la scelta di affidarsi a impianti eolici o fotovoltaici.
Invece,
la speculazione è sempre in agguato.
E in Italia progressi vanno fatti non solo
nella quantità degli impianti, ma nella qualità dei siti individuati.
Se si
affida – come sta succedendo – la pianificazione ai privati, si rischia di
perdere su tutti i fronti, anche perché i siti vanno scelti dove si fa il
minimo danno e c’è fabbisogno energetico, e non “a caso”, consumando il suolo
disordinatamente, e seguendo le speculazioni del capitale investito.
E questo è tema che divide le istanze dello
stesso mondo ambientalista.
Ecco
perché invece la pianificazione va affidata allo Stato di concerto con le
Regioni, coinvolgendo gli enti locali e seguendo procedure di tutela.
Sole,
vento e confusione.
Stefano Deliperi, presidente “Gruppo di
Intervento Giuridico”.
(italialibera.online
- 3 luglio 2023).
(Quale
strategia per l’energia rinnovabile in Italia, e dove si sta sbagliando).
Quanto
sta accadendo nel Bel Paese in materia di proliferazione “ad mentula canis”
degli impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili – eolica e
fotovoltaica in particolare – merita un vero e proprio radicale cambiamento di
approccio e di metodologia.
Lasciare che siano gli interessi privati
speculativi a decidere la politica energetica e della gestione del territorio è
una vera e propria follìa, ma è quello che sta accadendo, anche con il sostegno
di parte del mondo ambientalista.
Cosa
ben diversa sarebbe se fosse lo Stato a pianificare in base ai reali fabbisogni
energetici le aree a mare e a terra dove installare gli impianti eolici e
fotovoltaici e, dopo coinvolgimento di Regioni ed Enti locali e svolgimento
delle procedure di valutazione ambientale strategica (V.A.S.), mettesse a bando
di gara i siti al migliore offerente per realizzazione, gestione e rimozione al
termine del ciclo vitale degli impianti di produzione energetica.
Nell’ambito
della pianificazione devono rientrare procedure e premialità per il risparmio,
la conservazione e l’efficienza energetica, nonché procedure giuridicamente
vincolanti per la progressiva dismissione degli impianti di produzione
energetica da fonti fossili.
Siamo
ancora in tempo per cambiare registro. In meglio, naturalmente.
Di
quanta energia ha bisogno l’Italia?
Il
consumo di energia elettrica annuo in Italia è stato di 319.9 TWh
(terawattora), secondo i dati Terna (2021), per l’86,6% di produzione
nazionale, per il restante 13,4% di importazione dall’Estero:
«la
produzione nazionale lorda è stata pari a 289,1 TWh, registrando un +3,0%
rispetto al 2020.
In dettaglio la produzione nazionale è stata
coperta per il 59,0% dalla produzione termoelettrica non rinnovabile (in
aumento del 5,5% rispetto al 2020), per il 16,4% dalla produzione idroelettrica
(-4,1% rispetto al 2020) e per il restante 24,6% dalle fonti eolica,
geotermica, fotovoltaica e bioenergie (eolica +11,5%, fotovoltaica +0,4%,
geotermica -1,9% e bioenergie -2,9% rispetto al 2020)».
Complessivamente gli impianti di produzione energetica
hanno una potenza lorda installata pari a 119,8 GW (2021), assolutamente
sufficiente per le necessità nazionali, che, in media, necessitano di 38,1 GW
di potenza lorda installata.
La
potenza lorda installata termoelettrica è pari a 61,9 GW (51,6%), quella da
fonti rinnovabili è pari a 58,0 GW (48,4%).
In aumento (+ 8,0%) l’autoconsumo (30,7 TWh),
in aumento i sistemi di accumulo energetico (+ 90% rispetto al 2020), sebbene
tuttora molto modesti, con una potenza attiva nominale complessiva di soli
407,1 MW.
Il
Piano Nazionale Integrato per l’Energia e Clima (Pniec).
L’Italia
si è dotata di un Piano Nazionale Integrato per Energia e Clima (Pniec) per
affrontare le emergenze climatiche ed energetiche.
Il
Piano si struttura in cinque linee d’intervento integrate:
dalla
decarbonizzazione all’efficienza e sicurezza energetica, passando attraverso lo
sviluppo del mercato interno dell’energia, della ricerca, dell’innovazione e
della competitività.
L’obiettivo
è quello di realizzare una nuova politica energetica che assicuri la piena
sostenibilità ambientale, sociale ed economica del territorio nazionale e
accompagni tale transizione.
Il Pniec 2030, in attuazione del Regolamento europeo
n. 2018/1999 sulla governance dell’Unione dell’energia e dell’azione per il
clima, è in corso di elaborazione, tuttavia intanto le richieste private di
nuovi impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili crescono
esponenzialmente, in assenza di alcuna reale ed efficace pianificazione.
Difatti, a prescindere da necessità ed
effettivo utilizzo, produrre energia da fonti rinnovabili conviene, perché – a
parte le cospicue forme di incentivi – l’energia prodotta deve essere
acquistata e pagata dal gestore unico della Rete (cioè lo Stato, cioè la
collettività di tutti noi).
Il “land
grabbing” di casa nostra.
A chi
interessa parlare di land grabbing in Marmilla o a Montalto di Castro?
Il
fenomeno crescente del land grabbing – l’accaparramento di terreni a uso
agricolo, pascolativo o boschivo – viene generalmente collocato nell’Africa sub
sahariana, in Asia, nell’America Latina e riguarda la pratica di acquisire in
proprietà, in affitto o in concessione vaste estensioni di territorio da parte
di società di capitali, governi o anche singoli imprenditori con la finalità di
destinarli a un utilizzo esclusivo a fini produttivi.
Non vi
sono molti dubbi sul fatto che ponga in pericolo la tutela degli interessi
nazionali dei vari Paesi alla sovranità alimentare e alla sicurezza nel campo
dell’approvvigionamento alimentare, in quanto le popolazioni locali perdono il
controllo delle risorse naturali del proprio territorio, in particolare i
terreni agricoli e boschivi, nonché l’acqua.
Il “land
grabbing” è giustamente fortemente criticato e avversato in campo economico e
sociale.
Memorabile
la trasmissione “Corsa alla terra” di Report (18 dicembre 2011) con cui Milena
Gabanelli, allora conduttrice della trasmissione di Rai 3, fece conoscere il
fenomeno agli italiani.
Ma le
tante sacrosante contestazioni avverso il “land grabbing” nei Paesi del Terzo
Mondo si accompagnano a un assordante silenzio su quanto sta accadendo in
Italia, dove ampie zone del nostro territorio stanno ormai perdendo le loro
caratteristiche naturalistiche, agricole, storico-culturali, la stessa
identità, ad opera dell’accaparramento dei terreni per l’installazione di
centrali eoliche e fotovoltaiche da parte di società energetiche.
Altrettanto
memorabile la puntata di Report “I Fossilizzati” (17 aprile 2016), che si era
trasformata in uno spot del servizio pubblico per i progetti di centrali solari
termodinamiche del “Gruppo Angelantoni” da realizzarsi nelle campagne sarde
piuttosto che nelle estese aree industriali dismesse, dove il sole batte
ugualmente: espropri e calci in culo agli indigeni, insomma “land grabbing di
casa nostra”, senza che ciò meritasse un minimo cenno.
No, queste cose non si devono raccontare agli
italiani, perché deve imperare la vulgata in favore della speculazione
energetica.
Eppure
questo fenomeno avviene da tempo anche in Europa, anche in Italia.
L’1%
della popolazione mondiale
due
volte più ricco di 6,9 miliardi di persone.
Vita.it
– (19 gennaio 2020) – Redazione – ci dice:
I dati
del rapporto di Oxfam. L'Italia? Oltre il 30% degli occupati giovani guadagna
oggi meno di 800 euro lordi al mese e 13% degli under29 versa in condizione di
povertà lavorativa.
La
ricchezza globale, in crescita tra giugno 2018 e giugno 2019, resta fortemente
concentrata al vertice della piramide distributiva: l’1% più ricco, sotto il
profilo patrimoniale, deteneva a metà 2019 più del doppio della ricchezza netta
posseduta da 6,9 miliardi di persone.
Ribaltando
la prospettiva, la quota di ricchezza della metà più povera dell’umanità –
circa 3,8 miliardi di persone – non sfiorava nemmeno l’1%.
Nel
mondo 2.153 miliardari detenevano più ricchezza di 4,6 miliardi di persone,
circa il 60% della popolazione globale.
Il
patrimonio delle 22 persone più facoltose era superiore alla ricchezza di tutte
le donne africane.
Se le distanze tra i livelli medi di ricchezza
dei Paesi si assottigliano, la disuguaglianza di ricchezza cresce in molti
Paesi.
In Italia, il 10% più ricco possedeva oltre 6
volte la ricchezza del 50% più povero dei nostri connazionali.
Una
quota cresciuta in 20 anni del 7,6% a fronte di una riduzione del 36,6% di
quella della metà più povera degli italiani.
In un
mondo in cui il 46% di persone vive con meno di 5.50$ al giorno, restano forti
le disparità nella distribuzione dei redditi, soprattutto per chi svolge un
lavoro.
Con un reddito medio da lavoro pari a 22$ al
mese nel 2017, un lavoratore collocato nel 10% con retribuzioni più basse,
avrebbe dovuto lavorare quasi tre secoli e mezzo per raggiungere la
retribuzione annuale media di un lavoratore del top-10% globale.
In
Italia, la quota del reddito da lavoro del 10% dei lavoratori con retribuzioni
più elevate (pari a quasi il 30% del reddito da lavoro totale) superava
complessivamente quella della metà dei lavoratori italiani con retribuzioni più
basse (25,82%).
È
l’allarme lanciato oggi da Oxfam, organizzazione impegnata nella lotta alle
disuguaglianze, in “Time to care” – “Aver cura di noi”, pubblicato alla vigilia
del meeting annuale del World Economic Forum di Davos.
Un
dossier che getta nuova luce su un fenomeno che mette a repentaglio i progressi
nella lotta alla povertà, mina la coesione e la mobilità sociale, alimenta un
profondo senso di ingiustizia e insicurezza, genera rancore e aumenta in molti
contesti nazionali l’appeal di proposte politiche populiste o estremiste.
“Il
rapporto è la storia di due estremi.
Dei
pochi che vedono le proprie fortune e il potere economico consolidarsi, e dei
milioni di persone che non vedono adeguatamente ricompensati i propri sforzi e
non beneficiano della crescita che da tempo è tutto fuorché inclusiva.
Ha
detto Elisa Bacciotti, direttrice delle Campagne di Oxfam Italia.
Abbiamo voluto rimettere al centro la dignità
del lavoro, poco tutelato e scarsamente retribuito, frammentato o persino non
riconosciuto né contabilizzato, come quello di cura, per ridarle il giusto
valore”.
Dopo
il rapporto “Ricompensare Il lavoro”, non la ricchezza” del 2018, dedicato al
lavoro sottopagato e a moderne e invisibili forme di sfruttamento nelle catene
di valore globale, “Time to Care-Aver cura di noi” presta attenzione al lavoro
domestico sottopagato e a quello di cura non retribuito che grava, globalmente,
soprattutto sulle spalle delle donne.
Uno
sforzo enorme per garantire un diritto essenziale il cui valore è tuttavia
scarsamente riconosciuto.
Basti
pensare che:
Le
donne a livello globale impiegano 12,5 miliardi di ore in lavoro di cura non
retribuito ogni giorno, un contributo all’economia globale che vale almeno 10,8
trilioni di dollari all’anno, tre volte il valore del mercato globale di beni e
servizi tecnologici;
nel
mondo il 42% delle donne di fatto non può lavorare perché deve farsi carico
della cura di familiari come anziani, bambini, disabili; solo il 6% degli
uomini si trova nella medesima situazione;
in
Italia, al 2018, l’11,1% delle donne non ha mai avuto un impiego per prendersi
cura dei figli. Un dato fortemente superiore alla media europea del 3,7%,
mentre quasi 1 madre su 2 tra i 18 e i 64 anni (il 38,3%) con figli under 15 è
stata costretta a modificare aspetti professionali per conciliare lavoro e
famiglia. Una quota superiore di oltre 3 volte a quella degli uomini;
le
donne svolgono nel mondo più di tre quarti di tutto il lavoro di cura,
trovandosi spesso nella condizione di dover optare per soluzioni professionali
part-time o a rinunciare definitivamente al proprio impiego nell’impossibilità
di conciliare i tempi di vita e di lavoro. Pur costituendo i due terzi della
forza lavoro retribuita nel settore di cura – come collaboratrici domestiche,
baby-sitter, assistenti per gli anziani – le donne sono spesso sotto pagate,
prive di sussidi, con orari di lavoro irregolari e carichi psico-fisici
debilitanti.
“Solo
politiche veramente mirate a combattere le disuguaglianze potranno correggere
il divario enorme che c’è tra ricchi e poveri.
Tuttavia,
solo pochissimi governi sembrano avere l’intenzione di affrontare il tema – ha
detto Elisa Bacciotti, direttrice delle campagne di Oxfam Italia.
È ora di ripensare anche il modo in cui il
nostro modello economico considera il lavoro di cura.
La
domanda di questo tipo di lavoratori, non retribuiti o sottopagati, è destinata
a crescere nel prossimo decennio dato che la popolazione globale è in aumento
con percentuali di invecchiamento sempre più alte.
Si
stima che entro il 2030, avranno bisogno di assistenza 2,3 miliardi di persone,
un incremento di 200 milioni di persone dal 2015.
È
urgente che i governi reperiscano, tramite politiche fiscali e di spesa
pubblica più orientate alla lotta alle disuguaglianze, le risorse necessarie
per liberare le donne dal lavoro di cura – servizi pubblici, infrastrutture – e
affrontare seriamente le piaghe di disuguaglianza e povertà.”
DISUGUITALIA:
NON UN PAESE PER GIOVANI.
In
Italia, i ricchi sono soprattutto figli dei ricchi e i poveri figli dei poveri:
condizioni
socio-economiche che si tramandano di generazione in generazione.
L’edificio
sociale ha un pavimento e soffitto “appiccicosi”:
1/3
dei figli di genitori più poveri, sotto il profilo patrimoniale, è destinato a
rimanere fermo al piano più basso (quello in cui si colloca il 20% più povero
della popolazione), mentre il 58% di quelli i cui genitori appartengono al 40%
più ricco, manterrebbe una posizione apicale.
I
giovani italiani che ambiscono a un lavoro di qualità devono fare oggi i conti
con un mercato profondamente disuguale, caratterizzato, a fronte della ripresa
dei livelli occupazionali dopo la crisi del 2008, dall’aumento della precarietà
lavorativa e dalla vulnerabilità dei lavori più stabili.
Oltre il 30% degli occupati giovani guadagna
oggi meno di 800 euro lordi al mese. Il 13% degli under-29 italiani versa in
condizione di povertà lavorativa.
Un
quadro d’insieme contraddistinto da carenze nell’orientamento, debolezze
sistemiche nella transizione dalla scuola al mondo del lavoro, da un
arretramento pluridecennale dei livelli retributivi medi per gli occupati più
giovani, dalla sotto-occupazione giovanile, da un marcato scollamento tra la
domanda e l’offerta di lavoro qualificato che costringe da anni tanti giovani
laureati ad abbandonare il nostro Paese in assenza di posizioni lavorative
qualificate e di prospettive di progressione di carriera.
“Tanti,
troppi giovani italiani non studiano né lavorano, lavorano per una paga
risibile, meditano di partire in cerca di un futuro migliore, conclude
Bacciotti.
Servono
interventi efficaci, per fare in modo che le giovani generazioni non siano
lasciate indietro e al contrario siano, come è giusto, una risorsa per il
nostro Paese.
I
giovani italiani reclamano un futuro più equo e aspirano a un profondo
cambiamento della società, non più lacerata da disparità economico-sociali, ma
più equa, dinamica e mobile:
abbiamo
la responsabilità di ascoltare le loro richieste”.
"Sull'orlo
dell'annientamento nucleare"?
Può il mondo permettersi la folle
politica
estera dei “neoconservatori e sionisti” dem "satanici" americani?
Globalrsearch.ca
– (9 ottobre 2023) - Dr. Paul Craig Roberts - ci dice:
Siamo
sull'orlo dell'annientamento nucleare. Ogni accordo fatto durante il 20 °
secolo per ridurre il rischio di guerra nucleare è stato abbandonato da
Washington.
Perché
preoccuparsi, alcuni chiedono, la distruzione reciproca assicurata significa
che né gli Stati Uniti né la Russia inizierebbero un attacco nucleare.
Forse no, ma il più grande pericolo di
“Armageddon nucleare” viene dai falsi allarmi dei sistemi di allarme.
Durante la Guerra Fredda c'erano molti di
questi allarmi.
I falsi allarmi non hanno portato alla distruzione
reciproca perché entrambi i governi stavano lavorando per disinnescare, non
esacerbare, la situazione, e c'era tempo per verificare la validità
dell'allarme prima di premere fatalmente il pulsante.
Oggi
la situazione è completamente diversa.
Washington
e i burattini della NATO hanno una politica di provocare la Russia, con il
colpo di stato del 2014 in Ucraina e le sue conseguenze che sono le peggiori
fino ad oggi.
Inoltre,
le velocità ipersoniche dei missili russi e la vicinanza dei missili statunitensi
al confine russo riducono il tempo prima dell'impatto a 5 o 10 minuti, il che
significa che non c'è tempo per verificare o conferire.
La
straordinaria ostilità offensiva mostrata nei confronti della Russia dagli
Stati Uniti, dalla NATO e dai media occidentali ha convinto il Cremlino che
l'Occidente intende distruggere la Russia.
Il
presidente russo Putin ha dichiarato molte volte che l'Occidente lo ha portato
a questa conclusione.
Un paio di giorni fa al “Valdai Discussion
Club “Putin ha espresso preoccupazione per il fatto che la belligeranza
dell'Occidente verso la Russia potrebbe finire in una guerra nucleare.
Se il
presidente Biden fosse stato un leader responsabile, avrebbe detto che il
presidente russo ha ragione e che dobbiamo fermare l'escalation di minacce.
Invece,
Biden ha inviato bombardieri stealth B-2, aerei specificamente progettati per
un primo attacco nucleare, alle basi europee, aumentando così la minaccia, una
risposta insensata e irresponsabile al presidente Putin.
Negli
Stati Uniti la costante propaganda contro la Russia (e ora la Cina) ha convinto
molti americani che affrontano il pericolo di un attacco nucleare.
Questa non è una situazione in cui è probabile
che venga riconosciuto un falso allarme.
Il
rischio di non credere all'allarme è molto più alto nell'ambiente creato dai
neoconservatori e sionisti americani, che hanno controllato la politica estera
degli Stati Uniti nel 21 ° secolo.
Nella
politica estera e nei ranghi militari degli Stati Uniti ci sono alcuni, specialmente
tra i “think tank “finanziati dall'esercito / dalla sicurezza, che credono,
automaticamente sembra senza prove richieste, che gli Stati Uniti, essendo il
paese più grande e potente di sempre, vincerebbero una guerra nucleare.
Questa
convinzione esiste nonostante la totale assenza di qualsiasi preparazione degli
Stati Uniti per sopravvivere a una guerra nucleare, supponendo che una tale
guerra sia sopravvissuta.
Il
risultato più probabile sarebbe l'inverno nucleare, una situazione in cui la
polvere delle massicce esplosioni blocca la luce del sole e il mondo intero
muore di fame.
Chiediti,
quanto devono essere pazzi e satanici i neoconservatori e sionisti Dem per
pensare che il perseguimento totalmente irrealistico dell'egemonia globale
degli Stati Uniti valga un tale rischio?
Nel
momento in cui l'Unione Sovietica crollò politicamente quando i comunisti
intransigenti arrestarono il presidente Gorbaciov, i neoconservatori scrissero
la dottrina Wolfowitz, che afferma che l'obiettivo principale della politica
estera degli Stati Uniti è quello di prevenire l'ascesa di qualsiasi potenza
che potrebbe limitare l'egemonia americana.
È
questa dottrina neoconservatrice e sionista “dem” assurdamente irrealistica,
non il comportamento russo o cinese, che ha resuscitato la minaccia di un “Armageddon
nucleare”.
La
minaccia è molto reale.
Coloro
che lo respingono sono degli sciocchi assoluti e totali.
Sono
psicopatici. Sono pazzi.
Rischiano
la vita del pianeta.
Sono i
neoconservatori e i sionisti “dem” che
sono il peggior pericolo per la vita che il mondo abbia mai affrontato.
Perché
il Congresso li sopporta?
Perché
il Senato li conferma in carica?
Perché
i media americani sono il loro propagandista?
Perché
i governi del Regno Unito, dell'Europa e del Giappone tollerano tali enormi
rischi imposti da una manciata di pazzi psicopatici?
Questa
è la massima spensieratezza.
Per
coloro che pensano che la guerra nucleare non possa accadere: osservate e vedete
quanto succede nel mondo.
(Paul
Craig Roberts è un rinomato autore e accademico, presidente dell'Institute for
Political Economy).
No,
l'invasione di Hamas non è stata
un
"fallimento dell'intelligence" israeliano.
Globalresearch.ca
– (9 ottobre 2023) - Ben Bartee – ci dice:
Bisognerebbe
essere quasi irrimediabilmente ingenui per accettare la linea dei media statali
corporativi secondo cui l'invasione di Hamas ieri mattina è stata un
"fallimento dell'intelligence" israeliano.
Il
Mossad è una delle più potenti agenzie di intelligence del pianeta, se non la
più potente.
Condivide
regolarmente l'intelligence, inoltre, con i servizi di intelligence "Five
Eyes".
Ha i
suoi tentacoli nel profondo di ogni alleato e nemico di importazione.
Le sue
spie sono disseminate in tutta la Striscia di Gaza, che è un'efficace prigione
a cielo aperto in cui le merci non fluiscono se non per la benedizione dello
stato israeliano.
La
Striscia di Gaza è probabilmente l'area geografica più sorvegliata sulla Terra.
L'invasione
di Hamas nel sud di Israele ieri è stata un'operazione che ha coinvolto decine
di migliaia di operativi, almeno, su terra, mare e aria, usando ogni sorta di
equipaggiamento e armi – droni, migliaia di razzi, innumerevoli armi da fuoco e
persino bulldozer posizionati per abbattere le recinzioni israeliane.
Cospiratori
per la Costituzione: quando il discorso antigovernativo diventa sedizione.
E
MSNBC e CNN vorrebbero farvi credere che tutto questo è stato un grande
"fallimento dell'intelligence" del Mossad.
Bibi
Netanyahu era in veri guai politici prima di questa invasione opportunamente
programmata.
Ora, o
almeno questa è la speranza, gli israeliani si raduneranno attorno alla
bandiera per qualche patriottico calcio in palestinese e l'imminente evidente
corruzione del loro Primo Ministro sarà, almeno temporaneamente, dimenticata,
se non perdonata.
Nel
frattempo, l'intelligence israeliana, piuttosto che essere punita per il suo
"fallimento", userà il suo "fallimento" come pretesto per
raccogliere più finanziamenti e più autorità per se stessa in modo da prevenire
un altro simile "fallimento".
L'invasione
di Hamas è stata solo un "fallimento" se si crede che l'obiettivo del
Mossad sia quello di proteggere i civili israeliani piuttosto che accumulare
più potere per sé stesso.
Come
minimo, il Mossad sapeva dell'attacco in anticipo e lo lasciò accadere per
convenienza politica.
Più probabile, a mio avviso, è che abbia
attivamente facilitato l'attacco.
Il
tipo di persona che crederebbe che si tratti di una grande “Whoopi di
intelligence” è lo stesso tipo di persone che comprerebbe la notizia che una
manciata di abitanti semi-analfabeti delle caverne dall'altra parte del mondo
abbia portato a termine da sola il più grande attacco terroristico nella storia
del mondo senza l'assistenza di spettri e che gli edifici con incendi di
strutture in cima a loro collassano a velocità di caduta libera ordinatamente
nelle loro stesse impronte.
(Ben
Bartee, autore di “Broken English Teacher: Notes From Exile”, è un giornalista
americano indipendente con sede a Bangkok.)
La
lotta Gaza-Israele è "una falsa bandiera"?
Lasciano
che accada? Il loro obiettivo
è "cancellare Gaza dalla carta
geografica"?
Globalresearch.ca
– (9 ottobre 2023) - Philip Giraldi e Prof Michel Chossudovsky – ci dicono:
Sabato
7 ottobre 2023, Hamas ha lanciato l'"Operazione Al-Aqsa Storm"
guidata dal capo militare di Hamas Mohammed Deif.
Lo stesso giorno, Netanyahu ha confermato un
cosiddetto "stato di preparazione alla guerra".
Le
operazioni militari sono invariabilmente pianificate con largo anticipo (vedi la dichiarazione di Netanyahu
del gennaio 2023 di seguito).
L'"Operazione
Al-Aqsa Storm" è stata un "attacco a sorpresa"?
L'intelligence
statunitense afferma di non essere a conoscenza di un imminente attacco di Hamas.
"Bisognerebbe
essere quasi irrimediabilmente ingenui per accettare la linea dei media statali
corporativi secondo cui l'invasione di Hamas è stata un "fallimento
dell'intelligence" israeliano.
Il
Mossad è una delle più potenti agenzie di intelligence del pianeta, se non la
più potente".
Netanyahu
e il suo vasto apparato militare e di intelligence (Mossad et altri) avevano preconoscenza dell'attacco di
Hamas che ha provocato innumerevoli vittime israeliane e palestinesi?
Era
previsto un piano accuratamente formulato per condurre una guerra totale contro
i palestinesi prima del lancio da parte di Hamas dell'"Operazione Al-Aqsa
Storm"?
Questo non è stato un fallimento
dell'intelligence israeliana, come trasmesso dai media.
Anzi.
Prove
e testimonianze suggeriscono che il governo Netanyahu era a conoscenza delle
azioni di Hamas che hanno provocato centinaia di morti israeliani e
palestinesi. E "Hanno lasciato che accadesse":
"Hamas
ha sparato tra i 2 e i 5 mila razzi contro Israele e centinaia di israeliani
sono morti, mentre decine di israeliani sono stati catturati come prigionieri
di guerra.
Nella
successiva risposta aerea da parte di Israele, centinaia di palestinesi sono
stati uccisi a Gaza". (Stefano Sahiounie)
Dopo
l'operazione d'assalto di Al Aqsa del 7 ottobre, il ministro della difesa
israeliano ha descritto i palestinesi come "animali umani" e ha
promesso di "agire di conseguenza", mentre i caccia hanno scatenato
un massiccio bombardamento della Striscia di Gaza di 2,3 milioni di palestinesi. (Middle East Eye)
Questo
non è stato un "attacco a sorpresa".
"Ho
prestato servizio nell'IDF 25 anni fa, nelle forze di intelligence. Non c'è
modo che Israele non sapesse cosa stava arrivando.
Un
gatto che si muove lungo la recinzione sta innescando tutte le forze.
Quindi
questo?
Cosa è
successo all'"esercito più forte del mondo"?
Come
mai i valichi di frontiera erano spalancati?
C'è qualcosa di molto sbagliato qui, qualcosa
è molto strano, questa catena di eventi è molto insolita e non tipica per il
sistema di difesa israeliano.
A me
questo attacco a sorpresa sembra un'operazione pianificata.
Su
tutti i fronti.
Se
fossi un teorico della cospirazione direi che questo sembra il lavoro dello “Stato
Profondo”.(Deep State).
Sembra
che il popolo di Israele e il popolo della Palestina siano stati venduti,
ancora una volta, alle potenze superiori.
(Efrat
Henigson, ex intelligence dell'IDF, 7 ottobre 2023)
Ironia
della sorte, i media (NBC) stanno ora sostenendo che "l'attacco di Hamas
porta segni distintivi del coinvolgimento iraniano".
Storia:
Il rapporto tra Mossad e Hamas.
Qual è
il rapporto tra il Mossad e Hamas?
Hamas
è una risorsa dell'intelligence"?
C'è
una lunga storia.
Hamas
(Harakat al-Muqawama al-Islamiyya) (Movimento di Resistenza Islamica), è stato
fondato nel 1987 dallo sceicco Ahmed Yassin.
È
stato sostenuto all'inizio dall'intelligence israeliana come mezzo per
indebolire l'Autorità palestinese:
Grazie
al Mossad (l'Istituto israeliano per l'intelligence e i compiti speciali),
Hamas ha potuto rafforzare la sua presenza nei territori occupati.
Nel
frattempo, il “Movimento di Fatah” di Arafat per la liberazione nazionale e la
sinistra palestinese sono stati sottoposti alla forma più brutale di
repressione e intimidazione.
Non
dimentichiamo che è stato Israele, di fatto, a creare Hamas.
Secondo
“Zeev Sternell”, storico dell'Università Ebraica di Gerusalemme, "Israele
pensava che fosse uno stratagemma intelligente per spingere gli islamisti
contro l'”Organizzazione per la Liberazione della Palestina” (OLP)". (L'Humanité, tradotto dal francese).
I
legami di Hamas con il Mossad e l'intelligence statunitense sono stati
riconosciuti dal deputato” Ron Paul” in una dichiarazione al Congresso degli
Stati Uniti: "Hamas è stato avviato da Israele"?
"Conoscete
Hamas, se guardate la storia, scoprirete che Hamas è stato incoraggiato e in
realtà avviato da Israele perché volevano che Hamas contrastasse Yasser Arafat. (Ron Paul, 2011)
Ciò
che questa affermazione implica è che Hamas è e rimane "una risorsa di
intelligence", vale a dire "una "risorsa" per le agenzie di
intelligence".
Vedi
anche il WSJ (24 gennaio 2009) "Come Israele ha contribuito a generare
Hamas".
Invece
di cercare di frenare gli islamisti di Gaza fin dall'inizio, dice Cohen,
Israele per anni li ha tollerati e, in alcuni casi, incoraggiati come
contrappeso ai nazionalisti laici dell'”Organizzazione per la Liberazione della
Palestina” e alla sua fazione dominante, “Fatah” di Yasser Arafat. (WSJ)
La
"nuova fase di una lunga guerra" di Netanyahu contro la Palestina.
L'obiettivo
dichiarato di Netanyahu, che costituisce una nuova fase nella guerra di 75 anni
(dalla Nakba, 1948) contro il popolo della Palestina, non si basa più
sull'"apartheid" o sulla "separazione".
Questa
nuova fase – che è anche diretta contro gli israeliani che vogliono la pace –
consiste nella "totale appropriazione" e nella totale esclusione del popolo
palestinese dalla sua patria:
"Queste
sono le linee fondamentali del governo nazionale guidato da me [Netanyahu]:
il
popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le aree della
Terra di Israele.
Il
governo promuoverà e svilupperà insediamenti in tutte le parti della Terra di
Israele – in Galilea, nel Negev, nel Golan, in Giudea e in Samaria.” (Netanyahu gennaio 2023.)
Ecco l'incisiva
analisi del Dr. Philip Giraldi che indica la probabilità di una "False
Flag".
Michel
Chossudovsky, Global Research, 8 ottobre 2023.
(La
lotta Gaza-Israele è "una falsa bandiera"?
Lasciano
che accada?
Il
loro obiettivo è "cancellare Gaza dalla carta geografica"?
di Dr.
Philip Giraldi.)
(8
ottobre 2023).
Sono
l'unico che ha letto di un discorso tenuto da Netanyahu o da qualcuno nel suo
gabinetto circa una settimana fa in cui lui / loro di passaggio hanno fatto riferimento
a una "situazione di sicurezza in via di sviluppo" che suggerisce
piuttosto (a me) che potrebbero aver saputo degli sviluppi a Gaza e hanno
scelto di lasciarlo accadere in modo da poter cancellare Gaza dalla mappa per
rappresaglia e, possibilmente facendo affidamento sull'impegno degli Stati
Uniti di avere la "schiena" di Israele, quindi coinvolgendo l'Iran e
attaccando quel paese.
Non
riesco a trovare un link ad esso, ma ho un ricordo abbastanza forte di ciò che
ho letto come pensavo all'epoca sarebbe servito come pretesto per un altro
massacro di palestinesi.
Come
ex ufficiale dell'intelligence, trovo impossibile credere che Israele non
avesse più informatori all'interno di Gaza e dispositivi di ascolto elettronico
lungo tutto il muro di confine che avrebbero rilevato movimenti di gruppi e
veicoli.
In
altre parole, l'intera faccenda potrebbe essere un tessuto di bugie come spesso
accade.
E come
sempre accade Joe Biden si prepara a mandare qualche miliardo di dollari al
povero piccolo Israele per pagare la "difesa".
(Philip
M. Giraldi, Ph.D., è direttore esecutivo del “Council for the National Interest”)
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