L’imbroglio globalista. La verità viene a galla.

 

L’imbroglio globalista. La verità viene a galla.

 

 

La guerra europea alle auto

elettriche cinesi semina

il panico in Germania.

 

Msn.com – investire oggi - Giuseppe Timpone – (7 -10 – 2023) – ci dice:

 

Forse non è stato un vero fulmine a ciel sereno, ma l'apertura di un'indagine della Commissione europea a carico delle auto elettriche cinesi segna ugualmente una svolta nelle relazioni commerciali con Pechino.

Il Dragone ha prontamente reagito tramite il governo e ha fatto sapere che seguirà il caso e che non resterà a guardare.

 Bruxelles assicura per bocca del presidente “Ursula von der Leyen” che l'indagine anti-dumping sarà svolta in conformità alle regole rigorose dell'”Unione Europea” e dell'”Organizzazione Mondiale per il Commercio”.

 Essa sarà tesa ad accertare che la catena di produzione non benefici di sussidi governativi che alterino la concorrenza a discapito dei produttori europei.

Cina in vantaggio su transizione energetica.

Il dubbio risiede circa il fatto che il vantaggio competitivo di cui gode la Cina nella produzione di auto elettriche non sia dovuto solamente a dinamiche di mercato, bensì anche a interventi governativi.

In parole povere, è vero che la manodopera cinese costa molto meno di quella occidentale, ma almeno buona parte del vantaggio in termini di prezzo deriverebbe dai sussidi elargiti dal governo di Pechino alle case automobilistiche.

In pratica, parte dei costi risulterebbe coperto e ciò consentirebbe ai produttori in loco di vendere auto elettriche nel resto del mondo a prezzi calmierati.

 Il punto è che la Commissione europea ha fatto la frittata e adesso cerca di correre ai ripari.

 Dal 2035 non saranno più possibili vendite nell'Unione Europea di auto con motore a combustione.

 La transizione energetica sarà perseguita puntando esclusivamente sulle auto elettriche.

“Bella trovata ideologica della sinistra”, che non ha tenuto conto del fatto che la componentistica sia in possesso perlopiù della Cina.

 Essa detiene quasi il monopolio della costruzione delle batterie, così come è seconda produttrice al mondo di semiconduttori e possiede il controllo anche degli accumulatori.

La Germania teme per industria auto tedesca.

Affidarsi alle sole auto elettriche per combattere i cambiamenti climatici significa sostanzialmente dipendere mani e piedi dalla Cina.

La corsa ai ripari, tardiva, si avrebbe imponendo ai produttori in Cina dazi anti-dumping tali da colmare il divario di prezzo ingiustificato cin i concorrenti europei.

Attenzione, la misura eventualmente varrebbe per gli stessi produttori europei o di altre parti del mondo che fabbricano auto elettriche in Cina.

 E questa è una delle due principali ragioni per cui la Germania trema.

 Il gruppo Volkswagen ha prodotto nell'intero 2022 quasi 3,2 milioni di veicoli in Cina, il 38,5% del totale.

L'interscambio commerciale tra Cina e Germania ha sfiorato lo scorso anno i 300 miliardi.

 Le esportazioni tedesche presso la seconda economia mondiale valevano 107 miliardi, il 2,8% del PIL domestico.

 Numeri che spiegano perché Berlino non guardi con favore alla svolta anti-cinese di Bruxelles.

Ha puntato gli ultimi venti anni sulla crescente integrazione con la Cina per esportare su un mercato ad alto potenziale di crescita.

 Adesso, vede andare in frantumi l'intera sua strategia commerciale.

Asse italo-francese contro auto elettriche cinesi.

Ed è così che la "guerra" dell'Europa alle auto elettriche cinesi sta seminando divisioni tra i partner.

Francia e Italia sono schierate su posizioni dure, tant'è che di recente la prima ha varato una legge che sostanzialmente esclude i veicoli importati dall'Asia dagli incentivi.

 Il governo Meloni vi si vorrebbe ispirare, così da favorire le produzioni domestiche ed europee.

In soldoni, sarebbero valutati i tassi di inquinamento provocati dal trasporto di auto prodotte a lunga distanza e attingendo ad energia non pulita.

È noto, ad esempio, che in Cina quasi la metà dell'energia elettrica sia generata da centrali a carbone.

 L'espediente è stato trovato.

 Guardare ai livelli di inquinamento lungo l'intera catena della produzione per disincentivare le importazioni di auto elettriche cinesi.

Il punto è che la Cina non resterà a guardare e potrebbe reagire imponendo a sua volta restrizioni alle importazioni di auto europee.

La Germania teme di perdere quote di mercato e di non riuscire neppure più a produrre in Cina per vendere le proprie auto in Europa e nel resto del mondo.

Uno scenario preoccupante per un'economia al palo, che già ha perso l'approvvigionamento al gas russo a basso costo e che subirebbe ulteriori contraccolpi pesanti dalla de-globalizzazione in corso.

UE teme anche Stati Uniti.

Tra l'altro, la minaccia cinese non è l'unica a pendere sulle teste dei produttori europei.

Nell'agosto dello scorso anno, l'Inflation Reduction Act (IRA) varato dall'amministrazione Biden ha dato vita a generosi sussidi a favore di imprese e consumatori, con l'intento di rimpatriare quote di produzione strategiche.

 L'obiettivo dichiarato consiste nell'allentare la dipendenza degli Stati Uniti dalla Cina in piena transizione energetica.

 L'apparato di norme, tuttavia, scatena una competizione con la stessa Europa.

La Commissione europea ha chiesto a Washington di rendere il testo non ostile agli interessi dell'Unione.

Ha anche allentato la disciplina sugli aiuti di stato per consentire ai governi di recuperare in corsa.

Il problema è che questo stratagemma finisce per premiare i paesi con margini fiscali come la Germania, che possono permettersi di sussidiare le produzioni ritenute strategiche a colpi di miliardi.

Il governo di Berlino ne ha destinati ben 10 a favore dell'”americana Intel” di recente, al fine di incentivare la costruzione di due stabilimenti nell'Alta Sassonia.

Auto elettriche dividono Francia da Germania.

Sulle auto elettriche si gioca il futuro di un pezzo di industria europea.

Sul tema scricchiola l'asse franco-tedesco, mentre stiamo assistendo a un apparente avvicinamento tra Francia e Italia.

Non dobbiamo dimenticare che il presidente Emmanuel Macron vinse nel 2017 con un programma, che definiremmo impostato sul "sovranismo europeo".

Egli ha sin da subito puntato ad escludere le aziende cinesi dalle gare di appalto, richiedendo tra l'altro che gran parte dei fornitori debbano avere sede nell'Unione Europea.

Posizione divergente dalla Germania, che crede di potersi avvantaggiare solo aprendo le frontiere commerciali con Pechino e insinuandosi nel suo enorme mercato da 1,4 miliardi di consumatori.

(Giuseppe Timpone)  

(Economia - Investireoggi.it.)

 

 

 

 

La verità sulla pandemia

emerge nonostante i depistaggi.

 Vareseinluce.it – (8 Settembre 2023) - Alberto Comuzzi – ci dice:

 

L’incipit di questo editoriale ci è suggerito dal celebre passo da cui si sviluppa l’intera vicenda de “I Promessi sposi” (il cui grande Autore, grazie agli articoli di Giulio Boscagli, abbiamo onorato in questo 150esimo anniversario della morte).

«”Or bene”, gli disse il bravo (il Griso), all’orecchio, ma in tono solenne di comando, “questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai”.

“Ma, signori miei”, replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente,” ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’ miei panni”».

Ecco «non s’ha da fare, né domani, né mai» la Commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione dell’emergenza sanitaria causata dalla diffusione del virus Sars-CoV-2.

Scelga il lettore chi possa vestire i panni del Griso e chi quelli di o dei don Abbondio in circolazione.

Per correttezza d’informazione va precisato che la proposta di una legge (di 7 articoli) per istituire una Commissione d’indagine è stata approvata alla Camera, ma è ancora in attesa dell’esito della votazione al Senato.

Perché siamo molto pessimisti sugli esiti di una tale Commissione?

Perché occupano tuttora uffici di alta responsabilità coloro che verrebbero inquisiti per le gravissime decisioni che hanno preso negli anni del Covid.

Del resto il Capo dello Stato non ha avvertito che l’iniziativa del Parlamento italiano sarebbe un’ingerenza nei confronti della Magistratura che s’è già pronunciata chiudendo la vicenda pandemia?

 Insomma la Commissione d’inchiesta va affossata.

 

Allo stesso tempo però la verità viene a galla e, giorno dopo giorno, si scoprono gli effetti avversi causati dai vaccini imposti a milioni di persone.

 Lo dimostrano le tante morti improvvise sulle quali non s’indaga; e si può capire perché.

 

Tre deputati del Pd si stanno impegnando per far approvare una legge che autorizzi esclusivamente certi “sanitari sicuri” a praticare autopsie.

Domanda: gli Ordini dei medici che fanno?

 Puntano l’indice sugli iscritti riottosi che s’interrogano sul numero e la qualità dei decessi che statisticamente non si sono mai verificati in tale misura nel passato?

La verità sul colossale imbroglio dei sieri mRNA è già venuta a galla in Germania, in Gran Bretagna, ma soprattutto negli Stati Uniti dove tutta la vicenda della pandemia sta per essere scritta nel verso giusto e non secondo gli interessi di parte di una certa nomenclatura politica legata ai colossi farmaceutici e dei relativi personaggi proprietari globalisti.

Antony Fauci, il più noto immunologo statunitense è sotto inchiesta della Camera dei rappresentanti USA per avere usato fondi pubblici per depistare l’attenzione sul laboratorio di Wuhan, dove si svolgevano gli studi sul coronavirus da lui stesso coordinati.

La pandemia s’è inscritta in un progetto molto più ampio che ha generato utili giganteschi a Big Pharma.

È oggi di dominio pubblico l’efficacia corruttiva di aziende importanti come Pfizer, per altro condannata ripetutamente per avere messo in commercio farmaci risultati dannosi.

Per distrarre l’opinione pubblica dalla satanica vicenda Covid si stanno alzando cortine fumogene in ogni direzione.

Così tengono banco il “tradimento” del commissario tecnico della Nazionale di calcio, Roberto Mancini (ma ci si stupisce del valore del denaro in una società che lo idolatra?);

 le strumentali accuse di omofobia rivolte al generale di divisione, Roberto Vannacci (reo di avere fotografato con precisione l’Italia del 2023);

 le dichiarazioni di Giuliano Amato sull’abbattimento del Dc9 Itavia avvenuto nel cielo di Ustica ben 43 anni fa (il Dottor Sottile sta lanciando qualche messaggio?).

Senza contare il cicaleccio mediatico sulla strage di Bologna, il rapimento di Emanuela Orlandi, il salario minimo e il reddito di cittadinanza, il superbonus per il rilancio dell’edilizia (nascondendo la patrimoniale che sta preparando l’Unione europea con il pretesto delle case green), il disordinato incremento di immigrati, le sanzioni ai genitori per abbandono scolastico di figli minorenni, i crescenti e inediti delitti di Trump (che però sale nel gradimento fino al 59 per cento del popolo americano) e via discorrendo.

Fondamentale, però, è non parlare della Commissione Covid.

Sarebbe interessante sapere che cosa pensa il ministro della Sanità, Orazio Schillaci, se fosse accertata la notizia sui vaccini scaduti somministrati agli anziani nelle Residenze sanitarie assistenziali e il contestuale ripristino delle limitazioni delle visite dei loro parenti.

La pandemia ha svelato l’arroganza criminale di porzioni d’élite occidentali contro i propri popoli.

Negli Stati Uniti e in Europa c’è chi è terrorizzato di perdere il potere perché si rende conto che questa volta in gioco non c’è un seggio elettorale, ma il rischio d’incriminazione per reati molto gravi.

Nonostante il massiccio uso dei media per convincere le opinioni pubbliche ad accettare la narrazione unica, emergono fatti circostanziati che stanno svegliando le persone comuni.

Il fumo negli occhi si sta dissolvendo.

 

 

 

Ricchi e potenti. La scoperta

dell’acqua calda: evadono il (loro) fisco.

Centroculturaledimilano.it – (19 febbraio 2022) - Gianfranco Fabi – ci dice:

 

La vicenda Pandora papers e il rito delle operazioni offshore. Una fuga di capitali che produce danni oggettivi all’economia reale. E una narrazione superficiale. Tra paradossi del fisco e un’educazione che non c’è.

Ha destato sensazione nelle scorse settimane l’inchiesta denominata Pandora papers, frutto del lavoro di anni di un Consorzio di giornalisti investigativi.

Una sensazione in verità pari alla scoperta dell’acqua calda, salvo per qualche nome apparentemente insospettabile.

Che ci siano ricchi e potenti che cercano di mettere al sicuro le loro ricchezza, non solo dai ladri, ma anche dal fisco, è un fatto ampiamente noto e risaputo.

 Tanto che da almeno trent’anni nell’ambito dell’Ocse (L’Organizzazione dei paesi industrializzati) è in atto una dura battaglia per armonizzare le regole, per favorire lo scambio di informazioni, per controllare il trasferimento dei capitali ai fini di evasione o di elusione fiscale.

Qualcosa di più delle grida manzoniane che aumentando sempre di più le pene servivano alla fine per dimostrare che il problema era sempre aperto.

Triangolazioni “creative”.

La battaglia dei grandi paesi ha dato invece positivi risultati.

Forse il più clamoroso è quello che ha fatto cadere quel segreto bancario che è stato per secoli uno dei capisaldi del settore finanziario in Svizzera.

Il traguardo finale è ancora lontano, anzi probabilmente non sarà mai raggiunto, ma è significativo che nella lista nera delle giurisdizioni che non rispettano gli standard internazionali ci siano ormai solo nove piccoli paesi:

Samoa, Bahrain, Guam, Isole Marshall, Namibia, Palau, Saint Lucia, Samoa e Trinidad & Tobago.

Certo, ci sono poi altri paesi, da Panama a Singapore, dalle isole inglesi sulla Manica a qualche sperduto arcipelago nel Pacifico, che possono servire per quelle triangolazioni che sa realizzare la più sofisticata ingegneria finanziaria.

 Salvo poi scoprire che i veri paradisi fiscali sono nei paesi federali, come gli Stati Uniti o la stessa Svizzera, dove la competizione tra i sistemi dei singoli stati o dei Cantoni fa sì che si siano vere e proprie oasi di tranquillità fiscale.

È il caso, in parte ridimensionato negli ultimi anni, del Delaware negli Usa oppure del Cantone Zugo nella Confederazione.

 Peraltro in molti altri Cantoni elvetici i ricchi che non hanno bisogno di lavorare possono trasferire la loro residenza utilizzando il metodo “globalista” di pagare le tasse:

cioè una quota fissa concordata non tanto sulla base dei redditi e della ricchezza, ma sul loro livello di vita.

Lussemburgo caput investimenti.

Non è che il Fisco sia uguale per tutti gli altri.

 Le differenze esistono, ma sono differenze nella politica fiscale, nei vantaggi che taluni paesi offrono a chi compie nuovi investimenti, alle garanzie di affidabilità e certezza del diritto.

Anche all’interno dell’Unione europea vi sono differenze sensibili:

 il Portogallo riserva condizioni di grande favore per i pensionati e per chi investe in nuove attività produttive, l’Irlanda ha una legislazione molto favorevole per le grandi multinazionali, il Lussemburgo è un piccolo Granducato dove hanno sede gran parte dei fondi di investimento:

è molto probabile che chi si rivolge a una banca italiana per investire i propri risparmi ottenga, magari a sua insaputa, un prodotto finanziario, del tutto legale, con base proprio in Lussemburgo.

 In questi casi non si parla di evasione, ma di quella che gli esperti chiamano “ottimizzazione fiscale”:

in pratica operazioni che in tutta trasparenza e legalità consentono di sfruttare le occasioni in un mondo in cui si parla spesso di paradisi fiscali, ma non altrettanto spesso si parla di realtà che, almeno in parte, sono degli inferni fiscali.

Penalizzata l’economia reale.

Certo, nei “Pandora papers”, ci sono nomi di dittatori, capi mafia, oligarchi le cui ricchezze non sono certo frutto di normale imprenditorialità.

E questo è un problema per le aule giudiziarie, ammesso che in molti dei paesi interessati la giustizia riesca a fare il suo corso.

 Pur se rilevante questo fenomeno è tuttavia la punta di un iceberg molto più grande e diversificato.

In un recente documento la Congregazione per la dottrina della fede sottolineava che “oggi più della metà del commercio mondiale viene effettuato da grandi soggetti che abbattono il proprio carico fiscale spostando i ricavi da una sede all’altra, a seconda di quanto loro convenga, trasferendo i profitti nei paradisi fiscali e i costi nei Paesi ad elevata imposizione tributaria.

Appare chiaro che tutto ciò ha sottratto risorse decisive all’economia reale e contribuito a generare sistemi economici fondati sulla disuguaglianza.”

Con molti elementi negativi.

Le operazioni finanziarie attraverso le sedi offshore aprono la strada alle operazioni criminali con il conseguente riciclaggio di denaro e la costituzione di patrimoni che sfuggono ad ogni controllo.

 E costituiscono un fattore di attrazione per capitali dei paesi più deboli che potrebbero invece trarre sostegno dal finanziamento di investimenti produttivi.

La stessa Congregazione, tuttavia, non manca di sottolineare come “il sistema tributario approntato dagli Stati non sembra sempre equo”.

 Non è ovviamente una giustificazione all’evasione, ma è soprattutto la sottolineatura di come gli interventi per contrastare l’evasione fiscale non possono essere solo repressivi, ma devono tener conto della necessità di non penalizzare lo spirito di iniziativa e l’imprenditorialità.

 Senza dimenticare che gli stessi effetti redistributivi di una sana politica fiscale costituiscono un fattore fondamentale per la crescita dell’intero sistema economico.

Solo il 5 per cento delle dichiarazioni dei redditi è controllato.

Guardiamo all’Italia.

La lotta all’evasione fiscale è un immancabile rito in ogni programma politico. L’economia sommersa è stimata, da una fonte ufficiale come l’Istat, in quasi 200 miliardi mentre l’evasione fiscale vera e propria supererebbe di poco i cento miliardi.

Cifre molto grandi che fanno da contraltare, tuttavia, ad un sistema fiscale che prevede una fascia molto larga di esenzione per i ceti medio bassi e una pressione nominale significativa per il ceto medio e gli alti redditi.

Il Fisco negli ultimi anni ha affilato le armi:

basti pensare al caso di Valentino Rossi che dopo aver spostato formalmente a Londra la sua residenza è stato “convinto” a dichiarare in Italia, residenza effettiva, i propri redditi e a pagare le relative tasse.

Ma a fronte di pochi casi clamorosi vi è una forte difficoltà ad un contrasto generalizzato all’evasione.

Come ha scritto Ernesto Maria Ruffini, direttore generale dell’Agenzia delle entrate “per quanto sia numeroso il personale della Guardia di Finanza e quello dell’Agenzia delle Entrate, le probabilità che un evasore sia scovato sono davvero scarse.

 Solo il cinque per cento delle dichiarazioni dei redditi è controllato e l’evasore ha il novantacinque per cento di probabilità di farla franca”.

Forse bisognerebbe aggiungere che la lotta all’evasione dovrebbe riguardare chi le tasse non le paga per nulla piuttosto che andare alla ricerca degli errori nella complessità delle dichiarazioni fiscali.

Complessità non tanto perché il Fisco non abbia cercato di facilitare la vita ai contribuenti, per esempio con le dichiarazioni pre-compilate, quanto perché le regole fiscali prevedono tutta una serie di agevolazioni, deduzioni e detrazioni, soggette a loro volta a limiti, barriere e condizioni spesso di complessa attuazione.

 

 

 

 

BANCHE ITALIANE: EVADONO QUASI

300 MILIARDI DI EURO L'ANNO.

OggiTreviso.it - Blog di Controcorrente- Francesca Salvador – (21/05/2014) – ci dice:

MARCO SABA: LA TRUFFA.

 "L'attività annuale di creazione di denaro del settore bancario in Italia (esclusa la banca centrale) è dell'ordine di mille miliardi di euro e a seguito di una imposizione fiscale come l'attuale al 27,5% (IRES), porterebbe nelle casse dello stato 275 miliardi netti all'anno permettendo di eliminare gran parte delle imposte vessatorie oggi in essere.

Ho partecipato recentemente alle assemblee degli azionisti di tre istituti di credito (Unicredit, Intesa e Carige) dove ho fatto rilevare che i bilanci presentati per l'esercizio 2013 erano palesemente falsi per omissione e che non potevano essere in perdita una volta segnalato in bilancio l'aggregato monetario prodotto nell'esercizio in questione.

Questi fondi sono in nero e sono all'attivo delle banche di emissione perché esse, nel momento della creazione del denaro, contabilmente, hanno segnato per convenzione il valore emesso come un passivo.

Così viene trattato nei bilanci il valore creato, mentre dall'altra parte la massa monetaria creata da impiegati di questi enti privati scivola invisibilmente via, raggiungendo le centrali di appianamento internazionale che, come minimo, avrebbero il compito di aiutare le autorità a rintracciare questo enorme volume di evasione fiscale.

Chi ha avuto un prestito bancario, diciamo di 100.000 euro, a un certo punto ha finito di ripagarlo alla banca.

Il dovuto del cliente va a zero, il conteggio bancario pure risulta a zero, ma i 100.000 euro rimangono nella cassa della banca in nero!

E questi 100.000 euro in nero, che chiameremo medium rientrato riciclabile, saranno a disposizione della banca non tassati, perché contabilmente non ne è stata denunciata la creazione, e vengono riciclati per attività non controllate.

Cioè questo denaro finisce sulle centrali di compensazione interbancaria (v. correlati) che ci sono in Europa: Euroclear, Clearstream e Swift.

Infatti, se noi andiamo a vedere l'aggregato di attività di queste tre società di compensazione, troveremo che nell'anno 2000 erano almeno 80 trilioni di euro (80 mila miliardi di euro)!

Cioè proprio quei soldi creati con il beneplacito della BCE e senza essere stati messi all'attivo, che grazie a questo tipo di contabilità non vengono tassati e spariscono nel ventre delle banche.

Immaginate di chiedere un mutuo di 100.000 €. La banca crea la somma come denaro virtuale, ma contabilmente ne registra solo l'uscita, cioè non registra l'atto di creazione di questi soldi.

Quindi che cosa succede?

In pratica il prestito ha creato un -100.000 che è andato al cliente che se lo investe come vuole lui, anche se è negativo, e un +100.000 che resta alla banca e che però non viene ancora contabilizzato, sebbene esista.

La contabilizzazione avviene quando passa sui conti nascosti, non visibili al pubblico, presso le centrali di compensazione interbancaria Euroclear, Clearstream e Swift.

Nel tempo il cliente dovrà restituire alla banca questi 100.000, spostamento che porta la contabilità sia del cliente che della banca a zero.

Nella contabilità che magari è soggetta a tassazione rientrano solo gli interessi, che io per il momento ho omesso di discutere.

Tutta questa creazione in nero di denaro fa sì che ogni anno il sistema bancario italiano porti via alla comunità più di metà del debito pubblico (ovvero oltre 1.000 miliardi di euro).

Ogni anno.

Senza che nessuno se ne accorga, soprattutto i professori universitari.

Non se ne accorgono. Perché?

Perché hanno studiato un modello e nessuno gli ha mai chiesto di occuparsi di contabilità.

Si occupano di 'dinamiche economiche'.

Hanno studiato un modello fittizio proposto dallo stesso sistema bancario, secondo il quale detta creazione di denaro non dovrebbe essere registrata se non come passivo.

Cioè si accetta l'assurdità che una persona con un portafoglio vuoto possa dichiarare un passivo nel momento in cui crea un prestito.

Inoltre ci si fa indurre nell'errore di confondere il mezzo monetario con quella che è la scrittura contabile pre-definita, e alla fine della fiera tutti questi soldi vengono trasferiti in queste centrali di compensazione.

La stessa cosa succede negli USA, la stessa cosa succede in Giappone, etc. in tutto il sistema occidentale.

Questo non lo dico solo a livello accademico.

Sono andato all'assemblea della Banca Carige, sono andato all'assemblea della Banca Intesa e ho chiesto ragione di questa non scrittura contabile all'interno del bilancio.

 

L'amministratore di Banca Carige, Montani, mi ha sfidato a fargli causa; l'amministratore delegato di Banca Intesa, dr. Messina, ha risposto che si tratterebbe di 'raccolta' e non rappresenterebbe un profitto per la Banca.

Ma non c'entra proprio niente qui la raccolta, stiamo parlando dell'atto di creazione ab inizio dello strumento monetario.

Ho parlato di mille miliardi l'anno, quindi vuol dire che ogni giorno il sistema bancario sottrae 3 miliardi alla comunità senza che nessuno se ne accorga.

Questi soldi che vanno a finire nelle centrali di compensazione internazionali poi vanno a finire in conti presso le British Virgin Islands, le Cayman, o possono andare a finire, non so, alla èlite Ucraina per convincerla ad entrare nell'Unione Europea, oppure possono servire a pagare dei mercenari che fanno dei colpi di stato in Africa, per esempio!

In definitiva, tale massa di denaro-ombra creata continuamente dal sistema bancario, in nero, senza denuncia nei registri contabili e ufficiali, crea un potere immenso oscuro che poi ci ritroviamo nelle dinamiche a danno dei popoli e del pianeta.

Dunque quando udite di un prestito dei mille miliardi fatti alle banche, significa che la Banca Centrale ha creato dal nulla mille miliardi, e che non li ha messi a bilancio;

 li ha messi solo in perdita quando li ha usati per comprare titoli di stato o per fare altre spese sue.

Ora quando gli ritornano indietro ci vuole far credere che va in pareggio?

Piuttosto invece si ritrova mille miliardi in nero, non dichiarati nel bilancio!

Soldi che la gente non vede e di cui non conosce neanche l'esistenza.

E nemmeno i professori universitari sanno che esistono, dal momento che non ne parlano.

Perché credono davvero che possa esistere una moneta negativa, quella così contabilizzata: l'antimateria!

Non è così!

Ogni volta che una banca crea uno strumento monetario esso ha un valore esclusivamente positivo per chi lo detiene.

E la contabilità bancaria deve sottostare alle regole dettate per tutte le altre società, tant'è che proprio nella circolare 2.6.2. sulla redazione del bilancio della Banca d'Italia sta scritto che se in casi eccezionali le regole internazionali che vengono seguite per redigere la contabilità non danno un quadro finanziario, economico e patrimoniale corretto dell'azienda, queste regole non vanno seguite.

Quando l'amministratore di Banca Intesa mi ha risposto che lui per la contabilità ha seguito le regole pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale europea, ha detto una cosa che non lo giustifica per niente.

Da notare che tutte quelle famose riserve della Lira che non sono state restituite al ministero del Tesoro, con la privatizzazione della Banca d'Italia che è diventata ufficiale con il decreto di gennaio 2014 Imu-bankitalia, vengono rubate direttamente da tutti i soci proprietari della Banca d'Italia, che sono dei privati.

 

Quindi non sono tanto quei 7.5 miliardi di euro, contabili, di cui si è molto discusso, ma sono i depositi che la Banca d'Italia ha su un conto nascosto alla centrale di compensazione interbancaria presso la Clearstream, più altri valori come:

2700 tonnellate d'oro, 800 immobili pregiati, migliaia di miliardi di linee di credito in valute estere, tutte cose che con la privatizzazione avrebbero dovuto essere immediatamente restituite al Ministero dell'economia, ovvero allo Stato, se non fosse che siamo arrivati ad un tal punto di degrado e corruzione per cui nello Stato entrano gli stessi uomini delle banche.

Praticamente tutto il denaro, tranne le monetine, è creato in questo modo dal sistema bancario.

Ma se tutto il denaro il sistema lo crea pretendendo sopra un interesse, cioè una somma maggiore di quella che è stata creata, in fin dei conti, questo vuol dire che ci ritroviamo in una situazione in cui c'è un esproprio continuo e forzato da parte del sistema bancario nei confronti di tutti gli usufruitori finali della massa monetaria.

È una truffa!

È un sistema che non è solvibile, per definizione, “ab initio”.

Dal punto di vista giuridico ogni contratto di questo tipo dovrebbe essere nullo in quanto matematicamente impossibile da soddisfare.

I contratti impossibili non hanno valore legale.

Questo non è un problema che riguarda solo gli economisti, ma anche il diritto!"

(Marco Saba, tratto da una conferenza in video - sintesi e trascrizione a cura di L. Acerra)

 

Nota Finale - L. Acerra.

Nell'iniziativa che Auriti ebbe negli ultimi anni della sua vita, fu Marco Saba a convincere il professore che bisognava portare in tribunale quella famosa causa sul signoraggio terminata con la Cassazione che giudicò i giudici inadatti a giudicare.

Andò proprio così:

sulla causa del Signoraggio al popolo la Cassazione sancì che i giudici non possano giudicare!

Ma oggi abbiamo capito che si tratta di una evasione fiscale colossale da parte di chi crea massa monetaria, (soggetto che non è più lo stato) e ciò fa subire ai cittadini una iper-tassazione ingiusta.

Siamo stati inseriti in un sistema ove vige l'insolvenza permanente, matematicamente irrisolvibile, che garantisce che le banche abbiano la scusa legale per sottrarre beni ai cittadini più esposti.

Sottraggono beni e tempo ai cittadini e patrimonio delle nazioni.

Ma voi vi rendete conto?

I banchieri rubano tutto, lasciano quattro briciole sul tavolo e poi dicono (alla classe politica) ora vedete come gli elettori vogliono distribuire queste briciole!

E la Soluzione?

Ci sono tanti possibili sistemi tecnici per riappropriarci del signoraggio.

Un sistema tecnico molto semplice è esigere che le banche che vogliono operare in Italia si dotino di moneta “statale”, emessa da noi Italia, come riserve al 100% per poter prestare e quant'altro.

 

Moneta “statale” significa che noi emettiamo titoli di stato in una nuova valuta che vale solo in Italia, solo a livello nazionale.

Questa è solo una possibilità. Ci sono varie gradazioni.

La cosa più importante è capire dove sta l'imbroglio.

L'Italia può andare ad esaminare il debito pubblico caso per caso.

Può decidere di restituirlo solo ai cittadini privati e utilizzarlo per farsi restituire ciò che ancora gli devono indietro le banche.

In conclusione, le centrali di compensazione Clearstream, Euroclear, Swift e le altre americane, costituiscono una potente leva e strumento di manipolazione attraverso cui hanno creato simboli monetari per 100 volte il PIL mondiale.

Cioè tutta la popolazione del mondo deve lavorare per un secolo prima di produrre il controvalore sulla massa monetaria in nero, non tassata, che affrancata dal passaggio attraverso le centrali di compensazione interbancaria è una risorsa costante utile a manipolare la politica, le persone, le scelte, a finanziare le guerre.

Nel 2000 ci fu un processo in Francia per cui si riuscì a scoprire che su 32.000 conti esistenti di queste centrali di compensazione internazionali europee, 16 - 17.000 conti erano segreti, invisibili al pubblico.

E il Lussemburgo non ha mai dato l'autorizzazione ai magistrati di metterci il naso. E su questi conti che viene girata questa moneta fantasma che vale cento volte il PIL di tutto il mondo, e che è semplicemente il provento del signoraggio fatto dagli istituti bancari privati.

 

 

 

La banca presta la moneta

che non ha.

Ilmanifesto.it – (22 aprile 2016) – Enrico Grazzini -Luciano Gallino – ci dicono:

 

ECONOMIA. L’insegnamento di Luciano Gallino sulla moneta: «Lo Stato si decida a fare in piccolo quello che le banche private fanno in grande: creare denaro dal nulla».

La banca presta la moneta che non ha.

Una delle radici più profonde e nascoste della crisi è la moneta/debito, come insegna Luciano Gallino (“Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti“, Einaudi, 2015).

Il senso del suo insegnamento radicale e controcorrente si può sintetizzare così:

la grande maggioranza della moneta che utilizziamo viene creata ex nihilo dalle banche private sotto forma di prestiti, cioè di moneta/debito.

Questa è la vera causa dell’esplosione globale dei debiti privati e pubblici che soffocano l’economia.

La moneta bancaria aumenta i debiti e sottrae ricchezza all’economia reale.

La moneta dovrebbe invece diventare un bene pubblico, una risorsa messa a disposizione dallo Stato per produrre ricchezza e benessere grazie alla piena occupazione e alla svolta ecologica dell’economia.

 È l’unica via d’uscita dalla crisi.

In continuità con gli studi e le lezioni sulla “moneta endogena” di economisti insigni, come John M. Keynes e Hyman Minsky e, in Italia, Augusto Graziani, Gallino spiega il malefico ingranaggio:

 «Una banca moderna crea denaro quando concede un credito. La credenza popolare per cui la banca presterebbe ad altri il denaro già depositato da un altro correntista è infondata».

A sostegno della sua tesi, lo studioso cita la Banca d’Inghilterra:

 «Generalmente si ritiene che le banche agiscano come intermediari dando prestiti in base ai depositi dei risparmiatori.

Ma è falso.

Nella realtà dell’economia moderna le banche commerciali sono le vere creatrici del denaro depositato.

È l’atto di prestare denaro creato dal nulla che crea l’attivo bancario.

Questo processo è il contrario della sequenza tipicamente descritta nei manuali».

Il potere della democrazia e della politica ne è soverchiato.

E ricorda già ai primi dell’Ottocento il presidente degli Stati uniti Thomas Jefferson affermava che «le istituzioni bancarie sono più pericolose per le nostre libertà di un esercito in armi. Il potere di emettere denaro dovrebbe essere tolto alle banche e restituito al popolo al quale propriamente appartiene».

La moneta legale, ovvero le banconote stampate dalla banca centrale, sono solo una parte minoritaria del denaro che effettivamente circola nell’economia.

Le banconote con valore legale che ritiriamo dai bancomat, valgono solo per il 5% del denaro che utilizziamo: il 95% del denaro che usiamo per le transazioni (stipendi, investimenti, acquisto casa, auto,ecc.) è moneta digitale creata dalle banche.

Le banche hanno in teoria dei vincoli all’offerta di moneta/prestiti (come per esempio la riserva obbligatoria):

ma in pratica creano moneta a loro piacimento grazie alla leva monetaria.

 Per un euro di capitale proprio hanno attività fino a 30-50 euro.

Neppure le banche centrali controllano la massa monetaria circolante:

tentano di manovrare il credito grazie al tasso principale di interesse, senza riuscirci.

 Quando c’è il boom economico e la domanda di denaro è forte, le banche private fanno prestiti, creano denaro in eccesso;

quando scoppia la bolla finanziaria, allora ritirano il denaro dall’economia e creano recessione (come avviene nell’eurozona).

La moneta bancaria è pro-ciclica e genera crisi.

Gallino ci spiega che le grandi banche, dagli anni ’80 in poi, hanno creato nuova “falsa moneta” con la loro attività finanziaria.

Si sono trasformate in trader e scommettono (mettendo a rischio i soldi dei risparmiatori) in ardite operazioni speculative per ottenere profitti immediati e enormi.

Grazie a società-veicolo fuori bilancio le banche internazionali organizzano un immenso sistema bancario-ombra che, a sua volta, crea un gigantesco mercato opaco di titoli finanziari esotici cosiddetti derivati, fuori dai mercati ufficiali e da ogni regola pubblica.

Il peggio è che i derivati – come i futures, le opzioni, i credit default swap – sono diventati “nudi”, ovvero sono delle pure scommesse nelle quali il valore sottostante della merce su cui poggia il valore del derivato non ha alcuna importanza per chi effettua le compravendite.

Il mercato dei derivati scambiati in questo capitalismo casinò è immenso: circa 700 triliardi (cioè migliaia di miliardi) di dollari, ovvero circa dieci volte il Pil mondiale. La moneta privata e sfuggita ad ogni controllo pubblico.

Ma l’alternativa esiste:

 le banche devono ritornare a rispettare vincoli precisi, i movimenti di capitale e il mercato dei derivati devono essere strettamente disciplinati.

La politica deve ritrovare la sovranità sulla finanza.

Nella prospettiva indicata da Gallino (e da Positivemoney.org, che Gallino richiama nel suo libro) la moneta dovrebbe essere emessa esclusivamente dallo stato e distribuita ai cittadini e alle imprese in base a decisioni di politica economica prese democraticamente da organi pubblici.

Gallino è stato l’unico grande intellettuale italiano che ha avuto il coraggio di promuovere un progetto innovativo come il fiscal money.

 La moneta fiscale non è che un titolo pubblico emesso dallo stato, convertibile in euro – come i Bot e i Btp -, valido per “pagare le tasse” dopo due anni, da distribuire gratuitamente (sottolineo: gratuitamente) a cittadini, imprese e amministrazioni pubbliche.

La moneta fiscale emessa dallo stato diventerebbe moneta a tutti gli effetti, con valore riconosciuto:

 infatti il fisco costituisce larga parte (40% circa) dell’economia e un titolo con valore di sconto fiscale è accettato da tutti.

Nella sua prefazione all’eBook edito da Micromega nel 2015, “Per una moneta fiscale gratuita” ha spiegato che si «osa proporre nientemeno che, allo scopo di combattere la disoccupazione e la stagnazione produttiva in corso, lo stato si decida a fare in piccolo qualcosa che le banche private fanno da generazioni in misura immensamente più grande: creare denaro dal nulla».

La moneta fiscale ha tre caratteristiche fondamentali che la rendono alternativa alla moneta bancaria:

è emessa e distribuita dallo Stato e non dalle banche private;

è una moneta nazionale e non una moneta prodotta dalle banche internazionali (come l’euro);

è una moneta-credito (ovvero distribuita gratuitamente) e non una moneta-debito.

Grazie a questo titolo/moneta, lo stato – disintermediando in parte le banche – potrebbe combattere l’austerità dell’euro, rilanciare i consumi, gli investimenti e l’occupazione senza aumentare il debito pubblico (grazie al moltiplicatore keynesiano).

Non a caso anche Mediobanca in un suo recente report ha scritto che con la moneta fiscale il Pil crescerebbe del doppio senza squilibrare il bilancio pubblico e la bilancia commerciale.

 

 

 

 

 

Obiettivo 13 Agenda 2030:

Combattere il cambiamento climatico

Karmametrix.com – (1°marzo 2023) – Redazione – ci dice:

 

Il cambiamento climatico non è più una previsione, ma un dato di fatto.

A differenza di qualche anno fa, non serve più solamente fidarsi delle predizioni di scienziati ed esperti per credere al cambiamento climatico, è sufficiente osservare la vita di tutti i giorni:

 inverni più corti, estati più lunghe, qualità dell’aria sempre peggiore e mancanza di piogge abbondanti.

Evidenze chiarissime di eventi disastrosi come questi caratterizzano, purtroppo, il mondo di oggi e sono in gran parte causate dall’azione umana dei globalisti più ricchi.

 

Cos’è l’Agenda 2030?

Per contrastare il cambiamento climatico, insieme ad altri problemi globali, nel settembre del 2015 i Paesi membri dell’ONU si sono riuniti a New York per sottoscrivere l’Agenda 2030 per lo “Sviluppo Sostenibile”, un programma di 169 traguardi da raggiungere entro il 2030.

L’Agenda 2030 è una continuazione degli “Obiettivi di sviluppo del Millennio delle Nazioni Unite” (2000-2015), che ai loro tempi costituivano il primo passo a livello internazionale per affrontare problemi globali come l’eliminazione della povertà estrema e della fame e per promuovere miglioramenti nell’accesso all’istruzione.

Sebbene gli obiettivi non siano stati pienamente raggiunti, hanno comunque fornito la base per un progresso significativo che, nel 2015, è stato esteso attraverso l’Agenda 2030.

Come dichiarato nel documento della stessa Agenda il programma è riferito a “Persone, Pianeta e Prosperità”, ed è articolato in 17 Obiettivi che mirano a risolvere problematiche ambientali, sociali ed economiche.

Tra questi compare un Obiettivo o “Goal” riferito esclusivamente al cambiamento climatico:

 

Obiettivo 13: promuovere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico.

Obiettivo 13: cos’è e perché è importante.

Era davvero necessario dedicare un intero obiettivo globale dell’Agenda 2030 alla lotta al cambiamento climatico?

Se, come scritto sopra, la chiara evidenza di quello che ci succede intorno non è sufficiente a spiegare la cruciale importanza dell’Obiettivo 13, ecco qualche dato concreto per comprendere ancora meglio la situazione sul nostro Pianeta:

Rispetto ai livelli preindustriali la temperatura media del Pianeta è aumentata di 0,98 °centigradi.

Se la temperatura aumenterà ancora fino a 1,5°centigradi, si perderà fino al 90% delle barriere coralline.

Il 97% degli scienziati (ben pagati dalle aziende globaliste sovranazionali) attribuisce le conseguenze del riscaldamento globale alle attività umane.

Rispetto alla media degli anni 1985-2005, la temperatura del Mediterraneo è aumentata di 4 gradi. (Ma chi ci crede?)

Nel 2021 le emissioni di CO2 (che essendo più pesante dell’aria se ne sta buono, buono vicino alla terra ed al mare. N.D.R.) dovute al consumo di energia hanno raggiunto i livelli più alti di sempre.

Quali sono i target dell’Obiettivo 13?

Come riportato nella versione integrale dell’Agenda 2030 ogni Obiettivo è suddiviso in target ben precisi, utili per sviluppare strategie più dettagliate ed efficienti.

Nel caso dell’Obiettivo 13 sono stati individuati i seguenti punti d’azione:

13.1 – Rafforzare in tutti i paesi la capacità di ripresa e di adattamento ai rischi legati al clima e ai disastri naturali.

13.2 – Integrare le misure di cambiamento climatico nelle politiche, strategie e pianificazione nazionali.

13.3 – Migliorare l’istruzione, la sensibilizzazione e la capacità umana e istituzionale per quanto riguarda la mitigazione del cambiamento climatico, l’adattamento, la riduzione dell’impatto e l’allerta tempestiva.

13.a – Rendere effettivo l’impegno assunto dai partiti dei paesi sviluppati verso la “Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico” che prevede la mobilizzazione, entro il 2020, di circa 100 miliardi di euro all’anno, provenienti da tutti i paesi aderenti all’impegno preso, da indirizzare ai bisogni dei paesi in via di sviluppo, in un contesto di azioni di mitigazione significative e di trasparenza nell’implementazione, e rendere pienamente operativo il prima possibile il “Fondo Verde per il Clima” attraverso la sua capitalizzazione.

(Ma a questo “fondo verde” non dovrebbero partecipare solo le maggiori industrie globaliste del pianeta? N.D.R.)

13.b – Promuovere meccanismi per aumentare la capacità effettiva di pianificazione e gestione di interventi inerenti al cambiamento climatico nei paesi meno sviluppati, nei piccoli stati insulari in via di sviluppo, con particolare attenzione a donne e giovani e alle comunità locali e marginali.

Politiche in Europa per promuovere l’Obiettivo 13

Utilizzando l’Obiettivo 13 e l’Agenda 2030 in generale come linea guida, l’”Unione Europea” ha introdotto diverse strategie per cercare di contrastare il cambiamento climatico.

Leggi, Direttive, sanzioni, comitati e riunioni internazionali, potremmo elencare decine di azioni che negli ultimi anni hanno tentato di dare un contributo concreto, ma in questo paragrafo elenchiamo quelle più tangibili e di successo, spiegate in maniera molto sintetica al semplice scopo di disegnare un quadro generale:

Direttiva sulla qualità dell’aria: la direttiva stabilisce standard per la qualità dell’aria nell’UE e stabilisce limiti di emissione per alcune sostanze inquinanti.

Piano climatico per il 2030: il Piano stabilisce l’obiettivo dell’UE di ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 40% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Questa strategia comprende anche obiettivi per aumentare la quota di energia rinnovabile nell’UE e migliorare l’efficienza energetica.

Fondo europeo per lo sviluppo sostenibile (EFSD): il Fondo fornisce finanziamenti a progetti che promuovono lo sviluppo sostenibile, compresi progetti per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra.

Green Deal europeo: il Green Deal europeo è un piano d’azione che mira a rendere l’Europa il primo continente a emissioni zero entro il 2050, comprende obiettivi ambiziosi per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, l’aumento dell’efficienza energetica, l’uso di energie rinnovabili e la creazione di posti di lavoro “green”.

COSA MANCA?

Le politiche a livello nazionale ed internazionale non mancano, ma purtroppo non sono sufficienti a garantire un corretto avanzamento di uno sviluppo sostenibile, dal momento che non sono stati inclusi tutti i settori che devono ridurre le emissioni di “CO2”.

(Ma è proprio necessario pensare alla CO2 -più pesante dell’aria, che oltre a salvare la vita umana, vegetale e del bestiame se ne sta tranquilla a livello del terreno, delle piante del mare, non facendo del male a nessuno! N.D.R.)

 

Per questo motivo” Johan Rockström, climatologo e divulgatore scientifico di fama internazionale, durante la sua intervista al podcast “Transformers”, ha dichiarato che “Non esistono attualmente indicazioni che avremo successo” riferendosi alle azioni che stiamo introducendo a livello globale per contrastare il cambiamento climatico.

L’importanza della sostenibilità digitale.

Nel 2023 è infatti necessario portare avanti con maggior impegno politiche che riguardino la sostenibilità digitale, un elemento chiave per ridurre le emissioni di CO2.

 Il trasferimento dei dati richiede elettricità, che crea emissioni di carbonio e che a sua volta incide sul cambiamento climatico.

La richiesta di energia proviene dai notevoli consumi dei data center che ospitano siti web e servizi cloud utilizzati quotidianamente, aumentando giorno dopo giorno la loro “digital carbon(CO2) footprint”.

 

Per fortuna esistono realtà nazionali come la “Fondazione per la Sostenibilità Digitale ed internazionali “come CODES (Coalition for Digital Environmental Sustainability), che portano avanti azioni per promuovere la sostenibilità digitale e ridurre le emissioni CO2 di internet.

Quest’ultima organizzazione sta portando avanti anche un vero e proprio “Action Plan” per creare infrastrutture sostenibili nel 2023 in un’ottica di sostenibilità digitale.

Con il percorso “Karma Metrix” cerchiamo di dare un contributo per ridurre l’inquinamento digitale e promuovere l’Obiettivo 13 dell’Agenda 2030.

Nel 2023 il cambiamento climatico non è più solo di una questione ambientale, esterna alla società e all’economia, ma è un problema che riguarda anche la salute dei cittadini, l’economia ed il mercato nazionale ed internazionale.

L’adozione di politiche che contrastino il cambiamento climatico è infatti un elemento chiave per sviluppare una “strategia ESG a livello aziendale”, un quadro ben definito in cui la sostenibilità digitale non può mancare in una società che si sposta sempre di più nel mondo web.

 

 

 

 

Lotta contro i cambiamenti climatici.

 

Europarl.europa.eu – Nicoleta Lipcaneau – Georgios Amanatidis – (10-4-2023) – ci dicono:

L'Unione europea è una delle potenze economiche più attive nella lotta alle emissioni di gas serra.

Nel 2020 le emissioni di gas a effetto serra dell'UE sono diminuite del 31 % rispetto ai livelli del 1990, raggiungendo il livello più basso degli ultimi trent'anni e superando persino l'obiettivo dell'UE stabilito nel protocollo di Kyoto di ridurre le emissioni del 20 % entro il 2020.

Nel 2019 la Commissione europea ha presentato il Green Deal europeo e ora propone una serie di misure ambiziose intese a ridurre le emissioni di gas serra dell'UE del 55 % entro il 2030 e a decarbonizzare completamente l'economia dell'UE entro il 2050, conformemente all'accordo di Parigi.

Base giuridica e obiettivi.

L'articolo 191 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE) definisce la lotta ai cambiamenti climatici quale obiettivo dichiarato della politica ambientale dell'UE.

Contesto generale

Attività umane quali l'utilizzo di combustibili fossili, la deforestazione e l'agricoltura producono emissioni di biossido di carbonio (CO2), metano (CH4), protossido di azoto (N2O) e fluorocarburi.

veramente incredibile che l’unione europea non sappia ancora che la CO2 è un gas che è più pesante dell’atmosfera e come cavolo fa ad alzarsi nell’alto dei cieli e raggiungere gli altri gas serra? N.D.R)

 Tali gas a effetto serra catturano il calore che viene irradiato dalla superficie terrestre e ne impediscono la dispersione nello spazio, provocando il riscaldamento globale.

Le stime più attendibili dell'aumento della temperatura media globale entro la fine del secolo variano tra 1,4ºC e 4,4ºC, stando alla sesta relazione di sintesi sui cambiamenti climatici del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico, pubblicata nel 2023.

Il riscaldamento globale ha provocato e provocherà fenomeni meteorologici estremi più frequenti (quali inondazioni, siccità, piogge intense e ondate di calore), incendi boschivi, scarsità delle risorse idriche, scomparsa dei ghiacciai e innalzamento del livello del mare, perdita di biodiversità, malattie delle piante e parassiti, scarsità di alimenti e acqua potabile, nonché migrazione di persone in fuga da tali pericoli.

La scienza dimostra che il rischio di un cambiamento irreversibile e catastrofico aumenterebbe in modo rilevante qualora il riscaldamento globale superasse i 2°C – o anche solo i 1,5°C – rispetto ai valori preindustriali.

Nel 2006 la relazione “Stern” ha indicato che la gestione del riscaldamento globale sarebbe costata all'incirca l'1 % del PIL mondiale ogni anno, mentre il costo dell'inazione si sarebbe attestato intorno ad almeno il 5 %, fino ad arrivare al 20 %, del PIL globale nello scenario peggiore fra quelli ipotizzabili.

Pertanto, sarebbe necessaria soltanto una piccola parte del PIL globale totale per investire in un'economia a basse emissioni di carbonio (CO2), e la lotta ai cambiamenti climatici apporterebbe in cambio vantaggi netti ben superiori.

Il protocollo di Kyoto è stato il primo trattato internazionale a fissare obiettivi giuridicamente vincolanti in materia di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra.

 È stato adottato l'11 dicembre 1997 ed è entrato in vigore nel 2005.

Il protocollo è stato ratificato da 192 parti e rappresenta un accordo internazionale fondamentale nella lotta contro i cambiamenti climatici. 

Ha sancito l'impegno dei paesi industrializzati a ridurre le loro emissioni di gas a effetto serra in linea con gli obiettivi individuali concordati in base al principio della "responsabilità condivisa ma differenziata e delle rispettive capacità".

 Il primo accordo universale (accordo di Parigi) per la lotta contro i cambiamenti climatici è stato adottato nel dicembre 2015, in occasione della 21ª Conferenza delle Parti (COP21) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Parigi.

 Tale accordo mira a mantenere l'aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C, cercando di limitarlo a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali.

A tal fine, le parti mirano a stabilizzare quanto prima le emissioni di gas a effetto serra a livello mondiale e di conseguire l'azzeramento delle emissioni nette nella seconda metà del secolo.

 

 Le fonti di finanziamento devono essere coerenti con tali obiettivi.

Per la prima volta tutte le parti devono compiere sforzi ambiziosi per ridurre le loro emissioni di gas a effetto serra seguendo il principio della "responsabilità condivisa ma differenziata e delle rispettive capacità", vale a dire in base alle rispettive situazioni e alle possibilità di cui dispongono.

Sono tenute ad aggiornare i loro piani d'azione per il clima ("contributi determinati a livello nazionale") ogni cinque anni e a comunicarli in modo trasparente.

 I paesi più vulnerabili, i paesi meno sviluppati e i piccoli Stati insulari in via di sviluppo saranno sostenuti sia a livello finanziario che di sviluppo delle capacità. L'adattamento (ad esempio la conservazione delle risorse idriche, la rotazione delle colture, la pianificazione pubblica e l'opera di sensibilizzazione, l'innalzamento degli argini e lo spostamento dei porti) e la mitigazione (ad esempio l'aumento dell'uso di energie rinnovabili e la promozione di cambiamenti comportamentali) sono riconosciuti come sfide globali, così come viene sottolineata l'importanza di affrontare "le perdite e i danni" associati agli effetti negativi dei cambiamenti climatici.

 L'accordo è entrato in vigore nel novembre 2016 dopo essere stato ratificato dal numero minimo di 55 governi che rappresentano almeno il 55 % delle emissioni globali di gas a effetto serra.

Tutti gli Stati membri dell'UE hanno ratificato l'accordo di Parigi.

Obiettivi e risultati.

A. Azione dell'UE volta a contrastare i cambiamenti climatici.

Nell'ambito del suo quadro 2030 per il clima e l'energia, concordato nel 2014 prima dell'accordo di Parigi, l'UE si è impegnata a conseguire i seguenti obiettivi entro il 2030:

ridurre le emissioni di gas a effetto serra almeno del 40 % al di sotto dei livelli del 1990, migliorare l'efficienza energetica del 32,5 % e portare al 32 % la quota di energie da fonti rinnovabili nel consumo finale.

 Il quadro 2030 fa seguito agli obiettivi "20-20-20" concordati nel 2007 dai leader dell'UE per il 2020:

 una riduzione pari al 20 % delle emissioni di gas a effetto serra, un aumento del 20 % della quota di energie rinnovabili nel consumo finale di energia e una riduzione del 20 % del consumo totale di energia primaria dell'UE (rispetto ai livelli del 1990). Tali obiettivi sono stati tradotti in misure legislative vincolanti, collegate anche agli obiettivi dell'UE previsti nell'ambito del protocollo di Kyoto.

Il sistema di scambio di quote di emissione dell'UE (ETS), il primo e il più grande mercato internazionale del carbonio (CO2), è uno strumento strategico fondamentale dell'UE nella lotta ai cambiamenti climatici.

Tale sistema si basa sul principio di "limitazione e scambio":

viene fissato un tetto massimo alla quantità totale di emissioni di gas a effetto serra che possono essere prodotte da 11 000 impianti del sistema (fabbriche, centrali elettriche, ecc.).

 Ogni impianto acquista o riceve "quote di emissione" messe all'asta dagli Stati membri.

Se inutilizzati, tali crediti – che corrispondono a una tonnellata di CO2 ciascuno – possono essere scambiati con altri impianti.

(Ma per quale motivo devono essere commerciate quote di gas CO2 che non può esistere o essere trasferito nella stratosfera essendo più pesante dell’aria? Ho il dubbio che qualche organizzazione pensi fare guadagni favolosi vendendo quote di un gas CO2 (gas serra falso) che non è possibile adottarlo per l’utilità di serra stratosferica. N.D.R)

Col tempo la quantità totale di quote viene progressivamente ridotta.

Due fondi, uno per la modernizzazione e uno per l'innovazione, contribuiscono a rimodernare i sistemi energetici degli Stati membri a basso reddito e a incoraggiare l'innovazione finanziando progetti in materia di energie rinnovabili, cattura e stoccaggio del carbonio, nonché progetti a basse emissioni di carbonio.

L'ETS comprende anche le emissioni derivanti dal settore del trasporto aereo; tuttavia, l'esenzione attualmente in vigore per i voli intercontinentali è stata prorogata fino alla fine del 2023, quando sarà avviata la prima fase del regime di compensazione e riduzione delle emissioni di carbonio del trasporto aereo internazionale (CORSIA) dell'Organizzazione per l'aviazione civile internazionale (ICAO).

La Svizzera e l'UE hanno convenuto di collegare i loro sistemi di scambio delle emissioni.

 

Le emissioni prodotte da settori non coperti dall'ETS, quali il trasporto su strada, la gestione dei rifiuti, l'agricoltura e l'edilizia, sono soggette agli obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra su base annua per ciascuno Stato membro, fissati nel regolamento sulla condivisione degli sforzi.

 Il Parlamento e il Consiglio hanno adottato obiettivi minimi per il periodo 2021-2030 per facilitare il raggiungimento dell'obiettivo dell'UE di ridurre del 30 % le emissioni di gas a effetto serra in detti settori rispetto al 2005 e contribuire alla realizzazione degli impegni assunti nell'ambito dell'accordo di Parigi.

 Inoltre, per la prima volta gli Stati membri devono garantire che le emissioni derivanti dall'uso del suolo, dal cambiamento di uso del suolo e dalla silvicoltura non superino il loro tasso di assorbimento.

 In altri termini, le foreste, le terre coltivate e i pascoli devono essere gestiti in modo sostenibile al fine di assorbire la maggior quantità possibile di emissioni di gas serra dall'atmosfera, o per lo meno la quantità emessa dal settore ("regola del non debito"), apportando così un importante contributo alla lotta contro i cambiamenti climatici.

(Pazzesco! … il povero gas serra(?) CO2 dovrebbe servire a rendere ancora più ricchi i capi globalisti che sono perfettamente al corrente che la CO2 non svolazza nei cieli, ma se ne sta tranquilla a pochi metri dal terreno e sul mare! N.D.R)

La direttiva sulla promozione delle energie rinnovabili è intesa a garantire che, entro il 2030, le energie rinnovabili quali biomassa ed energie eolica, idroelettrica e solare rappresentino un obiettivo iniziale pari ad almeno il 32 % del consumo totale di energia dell'UE in termini di produzione di elettricità, trasporto, riscaldamento e raffreddamento.

 Ciascuno Stato membro è tenuto ad adottare il proprio piano di azione nazionale per le energie rinnovabili, comprensivo di obiettivi settoriali.

Al fine di integrare l'uso delle energie rinnovabili nel settore dei trasporti, gli Stati membri devono imporre ai fornitori di carburante l'obbligo di garantire, entro il 2030, che la quota di energia generata da fonti rinnovabili sia pari almeno al 14 % del consumo finale di energia del settore dei trasporti.

La revisione del 2018 della direttiva sull'efficienza energetica fissa un obiettivo di efficienza energetica del 32,5 % per l'UE (calcolato utilizzando lo scenario di riferimento del 2007), con una clausola di revisione al rialzo entro il 2023.

Inoltre la direttiva riveduta sulla prestazione energetica nell'edilizia, adottata nel maggio 2018, comprende misure volte ad accelerare la ristrutturazione degli edifici e la transizione verso sistemi più efficienti sotto il profilo energetico e sistemi intelligenti di gestione dell'energia.

Inoltre, per la prima volta il regolamento sulla governance attua un processo di governance trasparente per seguire i progressi compiuti verso il raggiungimento degli obiettivi dell'Unione dell'energia e dell'azione per il clima dell'UE, comprese le norme in materia di monitoraggio e comunicazione.

Gli Stati membri sono tenuti ad adottare piani nazionali per l'energia e il clima per il periodo 2021-2030.

Nel settembre 2020 la Commissione ha fatto il punto sui piani definitivi e ha confermato la loro sostanziale conformità con gli obiettivi dell'Unione per il 2030, ad eccezione dell'efficienza energetica, per la quale permane un divario a livello di obiettivi per il 2030.

 Il processo di governance offre inoltre l'opportunità di aggiornare i piani ogni due anni al fine di integrare le lezioni apprese e trarre vantaggio dalle nuove opportunità per il resto del decennio.

Le tecnologie per la cattura e lo stoccaggio del carbonio separano il CO2 dalle emissioni atmosferiche (derivanti dai processi industriali), lo comprimono e lo trasportano in un luogo in cui può essere stoccato.

Secondo il gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, tali tecnologie potrebbero eliminare tra l'80 % e il 90 % delle emissioni di CO2 prodotte da centrali elettriche a combustibili fossili.

 Tuttavia, l'attuazione di tali progetti dimostrativi in Europa si è rivelata più difficile di quanto inizialmente previsto, principalmente a causa dei costi elevati.

Le autovetture nuove immatricolate nell'UE devono rispettare le norme in materia di emissioni di CO2 che, per le autovetture, prevedono un obiettivo pari a 95 g/km a partire dal 2021.

Per incentivare il settore a investire nelle nuove tecnologie, il regolamento prevede i cosiddetti "super crediti", in base ai quali le autovetture più rispettose dell'ambiente nella gamma di ciascun produttore contano per più di un veicolo nel computo della media delle emissioni specifiche di CO2.

 

La qualità del carburante è un altro elemento importante ai fini della riduzione delle emissioni di gas a effetto serra.

 La legislazione dell'UE mirava a ridurre del 6 % l'intensità delle emissioni di gas a effetto serra dovute ai carburanti entro il 2020;

tale obiettivo sarebbe stato conseguito, insieme ad altre misure, mediante l'utilizzo di biocarburanti, che tuttavia dovevano rispettare alcuni criteri di sostenibilità.

Il settore del trasporto marittimo internazionale produce un notevole quantitativo di emissioni di CO2, che si prevede aumenteranno in misura significativa.

(Ma se le emissioni di CO2 restano obbligatoriamente- essendo più pesanti dell’aria- a contatto del mare (o della terra) che tipo di fastidio possono dare allo scudo del gas serra nell’alto dei cieli? N.D.R)

Pur insistendo su un approccio globale, l'UE ha istituito un sistema funzionale di monitoraggio, comunicazione e verifica delle emissioni di CO2 generate dalle navi quale primo passo verso una riduzione delle stesse.

 Le navi di grandi dimensioni sono tenute a monitorare e riferire su base annua in merito alle emissioni di CO2 rilevate, rilasciate lungo i loro tragitti verso e dai porti dell'UE e all'interno dei medesimi, insieme ad altre informazioni pertinenti.

In seguito ai divieti sull'uso di clorofluorocarburi imposti negli anni '80 per arrestare la riduzione dello strato di ozono, i gas fluorurati sono oggi utilizzati come sostituti in una serie di applicazioni industriali, quali il condizionamento dell'aria e la refrigerazione, poiché non danneggiano lo strato di ozono.

 Essi possono tuttavia avere un potenziale di riscaldamento globale fino a 25 000 volte superiore a quello del CO2.

 L'Unione europea ha pertanto adottato misure volte a controllare l'uso di gas fluorurati e a vietarne l'impiego nei nuovi impianti di condizionamento dell'aria e refrigeratori entro il periodo 2022-2025, aprendo così la strada a una loro graduale eliminazione a livello globale.

 

B. Il Green Deal europeo.

 

L'11 dicembre 2019 la Commissione ha presentato il Green Deal europeo, un pacchetto ambizioso di misure finalizzate al raggiungimento della neutralità dell'UE in termini di emissioni di carbonio (CO2) entro il 2050.

 Le misure, accompagnate da una tabella di marcia delle politiche principali, spaziano dai tagli ambiziosi alle emissioni agli investimenti in attività di ricerca e innovazione all'avanguardia, fino alla conservazione dell'ambiente naturale dell'Europa.

 Sostenuto da investimenti in tecnologie verdi, soluzioni sostenibili e nuove imprese, il “Green Deal” è anche concepito come nuova strategia di crescita in grado di trasformare l'UE in un'economia sostenibile e competitiva.

 La partecipazione e l'impegno del pubblico e di tutte le parti interessate sono fondamentali ai fini del suo successo.

 Tra le principali misure proposte nell'ambito del “Green Deal europeo” figura la normativa europea sul clima, volta a garantire un'Unione a impatto climatico zero entro il 2050.

 Nello specifico, prevede di aumentare l'obiettivo di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra fissato per il 2030, portandolo almeno al 55 %.

 Altre proposte della Commissione comprendono comunicazioni sul piano di investimenti per un'Europa sostenibile e sul patto europeo per il clima, proposte di regolamento che istituiscono il Fondo per una transizione giusta e rivedono gli orientamenti per le infrastrutture energetiche transeuropee, nonché strategie dell'UE per l'integrazione del sistema energetico e per l'idrogeno e una nuova strategia dell'UE di adattamento ai cambiamenti climatici.

Il 14 luglio 2021 la Commissione ha presentato un pacchetto di proposte legislative volto a rendere l'UE "pronta per il 55 %" e a realizzare i cambiamenti trasformativi necessari nella sfera economica, sociale e industriale, con l'obiettivo ultimo di conseguire la neutralità climatica entro il 2050.

Tali proposte comprendono l'estensione del sistema ETS al trasporto marittimo e su strada e all'edilizia nonché carburanti più puliti per i settori aereo e marittimo, comprese nuove infrastrutture per i carburanti alternativi.

Il 17 dicembre 2022 il Parlamento e il Consiglio hanno raggiunto un accordo relativo a misure più ambiziose per riformare il sistema ETS;

 l'obiettivo di riduzione delle emissioni entro il 2030 è stato fissato al 62 % rispetto ai livelli del 2005.

 Per sostenere gli Stati membri nei loro sforzi di riduzione delle emissioni prodotte dall'edilizia, dal trasporto su strada e da taluni settori industriali, nel 2027 entrerà in funzione un nuovo sistema separato di scambio di quote di emissione (ETS II).

Il suddetto pacchetto introduce inoltre il nuovo meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere per contrastare la rilocalizzazione delle emissioni di CO2, il nuovo Fondo sociale per il clima e il potenziamento dei fondi per la modernizzazione e l'innovazione.

 

Il regolamento sulla condivisione degli sforzi, approvato nel marzo 2023 nell'ambito del pacchetto "Pronti per il 55 %", rafforza l'ambizione dell'UE in materia di azione per il clima.

In particolare, tutti i settori contemplati dal regolamento sono tenuti a conseguire una riduzione collettiva delle loro emissioni pari al 40 % entro il 2030 rispetto ai livelli del 2005.

La direttiva aggiornata sulle energie rinnovabili propone di rafforzare l'obiettivo generale vincolante di portare al 42,5 % la quota di energie rinnovabili nel mix energetico dell'UE.

La revisione della direttiva sull'efficienza energetica, a cui hanno fatto seguito i negoziati interistituzionali del marzo 2023, fissa un ambizioso obiettivo dell'UE in materia di efficienza energetica, pari all'11,7 % entro il 2030.

Inoltre, il 5 aprile 2022 la Commissione ha presentato una proposta rafforzata sui gas fluorurati che mira a risparmiare l'equivalente di 40 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 entro il 2030.

Il 14 ottobre 2020 la Commissione ha inoltre presentato una strategia dell'UE per ridurre le emissioni di metano.

 Il metano è il secondo principale responsabile dei cambiamenti climatici dopo il CO2.

La riduzione delle emissioni di metano è quindi fondamentale per raggiungere gli obiettivi climatici per il 2030 e l'obiettivo della neutralità climatica per il 2050.

Il 15 dicembre 2021 la Commissione ha presentato un'ulteriore proposta volta a ridurre le emissioni di metano nel settore dell'energia in Europa e nella catena di approvvigionamento globale.

 

La revisione della direttiva sulla prestazione energetica nell'edilizia, adottata il 15 dicembre 2021, aggiorna il quadro normativo vigente, garantendo agli Stati membri la flessibilità necessaria per tenere conto delle differenze presenti nel parco immobiliare europeo.

La direttiva è attualmente in fase di rifusione.

Il 14 marzo 2023 il Parlamento ha approvato in Aula la sua ambiziosa posizione sulla direttiva, sulla base della quale negozierà con gli Stati membri.

 La direttiva riveduta stabilisce le modalità con cui l'Europa può conseguire un parco immobiliare a zero emissioni e completamente decarbonizzato entro il 2050.

Nel febbraio 2023 il Parlamento e il Consiglio hanno concordato un ulteriore obiettivo di riduzione delle emissioni entro il 2030 per l'intero parco veicoli dell'UE, pari al 55 % per le autovetture nuove e al 50 % e i furgoni nuovi.

Hanno inoltre introdotto un obiettivo di riduzione delle emissioni di CO2 del 30 % per i nuovi autocarri, con un obiettivo intermedio del 15 % entro il 2025.

La revisione del regolamento relativo all'uso del suolo, al cambiamento di uso del suolo e alla silvicoltura è stata adottata dal Parlamento il 14 marzo 2023, stabilendo per il 2030 il nuovo obiettivo di aumentare del 15 % i pozzi di assorbimento del carbonio dell'UE.

Il 23 marzo 2023 il Parlamento e il Consiglio hanno raggiunto un accordo informale sulla normativa sui combustibili sostenibili per uso marittimo, che mira a ridurre le emissioni delle navi del 2 % a partire dal 2025 e dell'80 % a partire dal 2050.

Inoltre, entro il 2034 almeno il 2 % dei combustibili dell'UE per il trasporto marittimo dovrà provenire da elettro carburanti prodotti con elettricità verde.

La fase successiva della procedura legislativa sarà un accordo formale sul fascicolo, che fa parte del pacchetto "Pronti per il 55 %". 

Ruolo del Parlamento europeo

Il Parlamento ha sempre partecipato ai negoziati interistituzionali con il Consiglio europeo su questioni relative ai cambiamenti climatici sostenendo obiettivi più ambiziosi per l'UE.

 

Prima della COP21 del 2015, il Parlamento aveva ribadito l'urgente necessità di "regolamentare e limitare efficacemente le emissioni derivanti dal trasporto aereo e marittimo internazionale".

Il Parlamento aveva espresso la propria delusione per il fatto che l'ICAO non avesse raggiunto un accordo in materia di riduzione delle emissioni.

 L'introduzione del sistema CORSIA pone l'accento sulle compensazioni, che non hanno alcuna garanzia di qualità e diventeranno giuridicamente vincolanti solo a partire dal 2027.

I principali membri dell'ICAO non si sono ancora impegnati a partecipare alla fase volontaria.

Il Parlamento si è espresso a favore di una tariffazione del carbonio su base ampia e ha sostenuto l'assegnazione di profitti derivanti dallo scambio di emissioni agli investimenti legati al clima.

 Ha chiesto che siano adottate misure concrete, compreso un calendario, finalizzate all'eliminazione progressiva di tutte le sovvenzioni ai combustibili fossili.

In un precedente aggiornamento relativo alle emissioni di CO2 di autovetture e furgoni, il Parlamento ha evidenziato la necessità di introdurre quanto prima il nuovo ciclo di test globale delle Nazioni Unite, al fine di riprodurre condizioni di guida reali nella misurazione delle emissioni di CO2.

In vista della 24a Conferenza delle Parti di Katowice, nella sua risoluzione del 25 ottobre 2018 il Parlamento ha chiesto per la prima volta che l'obiettivo dell'UE di ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 55 % entro il 2030 sia reso più ambizioso.

 Il Parlamento ritiene inoltre che gli effetti profondi, e molto probabilmente irreversibili, di un aumento di 2°C delle temperature globali possano essere evitati perseguendo l'obiettivo più ambizioso di un aumento di 1,5°C;

tuttavia, ciò implicherebbe la necessità di azzerare al più tardi entro il 2050 le emissioni globali di gas a effetto serra, che sono invece in aumento.

Ha invitato pertanto la Commissione a proporre una strategia dell'Unione a lungo termine per l'eliminazione delle emissioni nette di gas serra entro metà secolo.

 

Nel luglio 2018 il Parlamento ha approvato una risoluzione sulla diplomazia climatica dell'UE, in cui ha sottolineato che l'UE ha la responsabilità di guidare l'azione per il clima e la prevenzione dei conflitti.

 Il testo ha posto l'accento sulla necessità di consolidare le capacità diplomatiche dell'UE al fine di promuovere l'azione per il clima a livello globale, sostenere l'attuazione dell'accordo di Parigi e prevenire i conflitti legati ai cambiamenti climatici.

Il 28 novembre 2019 il Parlamento ha dichiarato l'emergenza climatica in Europa e ha esortato tutti gli Stati membri a impegnarsi ad azzerare le emissioni nette di gas serra entro il 2050.

 Il Parlamento ha inoltre sollecitato la Commissione a garantire che tutte le proposte legislative e di bilancio pertinenti siano pienamente in linea con l'obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro 1,5°C.

L'8 ottobre 2020 il Parlamento ha approvato il suo mandato negoziale sulla legge dell'UE sul clima, chiedendo che l'obiettivo di riduzione delle emissioni per il 2030 sia portato al 60 %.

Sebbene l'accordo interistituzionale raggiunto il 21 aprile 2021 tra il Parlamento e il Consiglio abbia confermato l'obiettivo del 55 % proposto dalla Commissione, il Parlamento è riuscito a rafforzare il ruolo e il contributo della rimozione del carbonio, che potrebbe portare l'obiettivo al 57 %.

 Inoltre, conformemente al mandato del Parlamento, la Commissione presenterà una proposta di obiettivo per il 2040 al più tardi sei mesi dopo il primo bilancio globale dell'accordo di Parigi, tenendo conto del bilancio indicativo dell'UE per i gas a effetto serra.

Infine, considerata l'importanza di una consulenza scientifica indipendente, è stato istituito un comitato consultivo sui cambiamenti climatici per valutare la conformità delle politiche agli obiettivi fissati e monitorare i progressi, come suggerito dal Parlamento.

Il 15 settembre 2022 il Parlamento ha approvato una risoluzione sulle conseguenze della siccità, degli incendi e di altri fenomeni meteorologici estremi, volta a rafforzare ulteriormente gli sforzi dell'UE nella lotta ai cambiamenti climatici.

(Nicoleta Lipcaneanu / Georgios Amanatidis)

Lettera aperta ai leader del mondo:

"Tassare i ricchi per una trasformazione

economica sostenibile."

Repubblica.it – (16 GENNAIO 2023) -Redazione -  ci dice:

Earth4All (Una Terra per Tutti) - Transformational Economics Commission.

 

Cari leader,

Tra pochi giorni, alcuni tra le persone più ricche del pianeta si riuniranno a Davos per discutere i problemi più pressanti per l'umanità.

 Tuttavia è improbabile che abbiano il coraggio di discutere davvero le cause alla radice di questi problemi.

Questa lettera aperta è rivolta a tutti i leader che vogliono costruire delle società democratiche stabili in questo secolo;

società capaci di prendere delle decisioni di lungo-termine per il bene comune.

I valori e le istituzioni democratiche uniscono destra e sinistra.

Ma le crescenti diseguaglianze nei redditi e nei patrimoni che registriamo nel mondo stanno contribuendo all'erosione di questi stessi valori e istituzioni democratiche.

 

La “Transformational Economics Commission” dell'iniziativa Earth4All (in italiano, "Una Terra per Tutti") nel corso dei suoi lavori ha concluso che, se non controllata, le diseguaglianze di ricchezza e di reddito continueranno a crescere in questo secolo, determinando crescenti tensioni sociali.

C'è bisogno di un nuovo contratto sociale tra cittadini e governi fondato su una distribuzione della ricchezza più equa:

politiche fiscali più giuste che tassino la grande ricchezza per diminuire le diseguaglianze.

Perché proprio ora?

Nonostante milioni di persone siano morte durante la recente pandemia globale da COVID19 e miliardi ne abbiano sofferto, i dieci uomini più ricchi del mondo hanno raddoppiato il loro patrimonio.

 Il 10% più ricco della popolazione mondiale ora raccoglie il 52% del reddito globale e accumula il 77% della ricchezza.

 La metà più povera della popolazione mondiale guadagna solo l'8% del reddito globale e possiede il 2% della ricchezza.

E questo divario si sta allargando.

Nonostante il mondo stia vivendo un'emergenza climatica, l'1% più ricco - 80 milioni di persone - è di gran lunga la fonte di emissioni in più rapida crescita .

Questo "consumo di carbonio (CO2) di lusso" arriva in un momento in cui ogni singolo mese il mondo brucia l'1% del cosiddetto budget di carbonio(CO2) che rimane se vogliamo stabilizzare il clima nel limite di 1.5°C.

Nonostante il fatto che il mondo non sia mai stato così ricco, la maggior parte delle persone è tenuta in uno stato di insicurezza economica.

Il mondo è nel mezzo di una poli-crisi.

I cittadini di tutto il mondo soffrono a causa dell’aumento del costo della vita, dei salari stagnanti, di una recessione incombente e di una povertà duratura, tutti fattori che contribuiscono ad un deterioramento della democrazia.

(Questi malanni per l’umanità tutta sono indicati dai globalisti straricchi al fine di dare in pasto ai poveri rintriciulliti dai programmi Internet, la lotta senza sosta alla CO2, gas che secondo  i ricchi globalisti li danneggia.

Infatti la CO2  pur non potendo volare alti nei cieli per il fatto di essere più pesante dell’aria potrebbe mandare per  aria tutti i programmi da loro studiati per de-popolare il mondo! N.D.R)

Nonostante il fatto che il mondo sia nel bel mezzo di una crisi energetica acuita dalla guerra in Ucraina, le compagnie di combustibili fossili (di proprietà dei globalisti) stanno guadagnando nell'ordine di centinaia di miliardi di dollari.

Il mondo non riuscirà ad uscire da questa situazione senza far nulla.

Queste crisi continueranno ad evolversi, si scontreranno tra loro e peggioreranno rapidamente, con sfortunatamente crisi ancora più grandi all'orizzonte:

 la scienza ha confermato che l'umanità ha già sorpassato sei dei nove "limiti naturali del pianeta", indicati dai ricchi globalisti su indicazione degli scienziati da loro pagati.

Il crescente divario tra una manciata di super ricchi e tutti gli altri è una ricetta per società profondamente disfunzionali e polarizzate.

Non può andare avanti.

La concentrazione della ricchezza porta inevitabilmente alla concentrazione di potere, dando ai più ricchi un'influenza sproporzionata sulle istituzioni governative.

Questo mina la fiducia nella democrazia, il che rende poi più difficile per i governi prendere decisioni a lungo termine a beneficio della maggioranza delle persone.

Paesi più equi tendono invece ad avere risultati migliori in termini di fiducia, istruzione, mobilità sociale, longevità, salute, obesità, mortalità infantile, salute mentale, omicidi e altri crimini, abuso di droghe, e rispetto e protezione dell'ambiente.

Ridurre le diseguaglianze di ricchezza e di reddito è la chiave affinché le nostre società possano rispondere alle molteplici crisi del nostro tempo e garantire una maggiore sicurezza economica.

Una distribuzione più equa della ricchezza e del reddito ridurrà le tensioni sociali e migliorerà il benessere di tutti.

 Contribuirà inoltre a rendere le democrazie più stabili in modo che siano maggiormente in grado di affrontare gli shock e prendere decisioni razionali a lungo termine per il bene comune.

Se diamo valore alla democrazia, se diamo valore alla stabilità e se diamo valore al nostro futuro, i governi devono ridistribuire la ricchezza e il reddito in modo più equo.

 

Proponiamo che entro il 2030 - in tutti i Paesi - il 10% più ricco riceva meno del 40% del reddito nazionale, con una ulteriore diminuzione delle diseguaglianze negli anni successivi.

Sappiamo che ci sono molti modi per realizzare una trasformazione così importante - ma tutti necessitano un coinvolgimento maggiore da parte del settore pubblico e della spesa pubblica.

Ridurre le diseguaglianze può essere raggiunto attraverso una tassazione più progressiva su reddito e patrimoni per individui e imprese.

 Il problema è che attualmente la maggior parte dei sistemi fiscali nel mondo è regressivo e sorpassato.

Non generano le entrate necessarie, né assicurano che chi è ricco paghi relativamente di più di chi e povero.

Ma ci sono modi per aggiustare questa situazione, se ce la volontà politica di prendere le giuste misure.

Questo è il motivo per cui chiediamo ai leader mondiali di compiere alcuni passi coraggiosi quest'anno:

• Tassare la ricchezza, in particolare i grandi patrimoni, ovunque questa ricchezza sia detenuta, compresi i paradisi fiscali, e rendere possibile ciò sviluppando e condividendo registri nazionali dei patrimoni detenuti in diverse forme.

• Tassare il reddito, inclusi i redditi da capitale, in maniera più progressiva.

• Tassare le imprese - applicando un'imposta globale minima sulle società nel 2023 che sia vicina all'aliquota media globale del 25% e rendendo le società multinazionali soggette alle stesse aliquote delle società nazionali introducendo la tassazione unitaria dei loro profitti globali sulla base delle singole quote nazionali di vendite, occupazione e beni detenuti in ciascun Paese.

• Tassare i profitti eccezionali (n.d.r. windfall profits) in tutti i settori, in particolare i profitti realizzati durante i periodi di scarsità e speculazione quando il resto del mondo è in crisi.

• Tassare il "consumo di carbonio (CO2) e della biosfera di lusso" ed eliminare tutti gli incentivi fiscali per i combustibili fossili.

(È proprio buffo che i combustili fossili siano i nemici della povera gente! Infatti in Cina, dove non tutti sono ricchi, pensano che sia giusto attuare nuove centrali a carbone per incrementare il progresso umano ed allungare, così, la vita stessa della povera gente! N.D.R)

Infine, i governi devono colmare una volta per tutte le scappatoie fiscali internazionali, eliminare le strutture fiscali perverse di tutte le forme e garantire che le entrate aggiuntive derivanti dall'imposta progressiva sulla ricchezza e sul reddito siano destinate a programmi sociali, all'emancipazione delle donne, alla decarbonizzazione, e alla trasformazione dei sistemi energetici e alimentari.

I leader del globalismo più ricco ed esclusivo del settore privato che si riuniscono a Davos questa settimana potrebbero ritenere che questa strategia sia contraria ai loro interessi a breve termine e individuali, ma questa è una visione molto limitata e in definitiva autodistruttiva.

 Chiediamo loro di sostenere questa agenda e di essere una forza positiva per la democrazia, la stabilità e il futuro a lungo termine dell'umanità.

(Ma i combustibili fossili sono l’unica sicurezza per il progresso dell’umanità povera! N.D.R)

(Lettera della “Transformational Economics Commission”.)

 

 

 

Un No-global

a tutto tondo.

Comune-info.net - Antonio Castronovo – (19 Gennaio 2018) – ci dice:

Quelli che sono in alto hanno dichiarato guerra ai popoli. Come resistere, come ricostruire comunità solidali passando “dalla cooperazione per competere” alla “competizione per cooperare” per dirla con Bruno Amoroso?

La priorità, al tempo della globalizzazione, dovrebbe essere liberare territori e comunità.

“La globalizzazione non è un fenomeno oggettivo della modernizzazione, è una forma contingente assunta dal capitalismo – scrive Amoroso -, uno stadio particolare ed eventualmente, il suo ultimo stadio.

È il capitalismo nella sua forma più maligna, poiché si diffonde come una forma tumorale;

come una metastasi si concentra su poche aree strategiche, … sul resto enormi effetti distruttivi.

 Con buona pace delle moltitudini di Toni Negri e dei new-global della globalizzazione buona…”.

Mondializzazione, comunità, bene comune:

un viaggio nel pensiero di Bruno Amoroso.

 

Il 20 gennaio di un anno fa ci ha lasciati Bruno Amoroso, economista e saggista italiano, allievo di Federico Caffè.

Per ricordarlo pubblichiamo questo articolo (titolo originale Mondializzazione e comunità, lavoro e bene comune in Bruno Amoroso), uscito  in “Ciao Bruno” (Castelvecchi) di Antonio Castronovo.

 

“Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili” (Bertolt Brecht,  In morte di Lenin).

Da alcuni anni, anzi decenni, è in corso nel mondo una guerra che è stata definita come “terzo conflitto mondiale”.

I protagonisti ne sono le élite globali del capitalismo triadico che la combattono – con gli strumenti della guerra democratica, della politica, del terrorismo, della guerra economica e delle guerre di religione – contro i popoli, gli stati sovrani, le comunità locali che non intendono sottomettersi ai diktat della omologazione del mondo ai dettami dell’impero globale.

Non ci sarebbe posto nel mondo globalizzato per i popoli e le comunità che praticano la sovranità nei loro territori, che aspirano a vivere in territori deglobalizzati e liberi dal dominio delle transnazionali e della finanza, che aspirano alla sovranità politica ed economica, orientate e centrate sullo sviluppo locale, sull’autodeterminazione, sulla democrazia sovrana.

 Lo scontro in atto è tra fautori di un mondo unipolare e fautori di un mondo multipolare.

Questa guerra distrugge e disintegra stati, nazioni, popoli ed economie locali e nazionali attraverso le guerre democratiche e religiose, la depredazione delle risorse pregiate, il monopolio e la privatizzazione della conoscenza e attraverso le migrazioni forzate di milioni di disperati e profughi ambientali, di guerre e di conflitti religiosi, verso altri paesi, specie europei.

Come affrontare il presente stato del mondo?

Come schierarsi in questo immane conflitto che divide e supera le antiche contrapposizioni tra destra e sinistra?

Schierarsi dalla parte della globalizzazione, universalizzando  i diritti umani contro i nazionalismi e i “vecchi” Stati-Nazione, oppure dalla parte dei no-global e propugnare una de-globalizzazione del mondo, difendendo spazi di sovranità  di popoli  e comunità in un  quadro di nuova solidarietà e cooperazione reciproca per rispondere alla sfida della mondializzazione?

 Come si ricostruisce una comunità solidale passando “dalla cooperazione per competere” alla “competizione per cooperare” per dirla con le parole di Bruno Amoroso?

Come affrontano questi dilemmi l’opera e il pensiero di Bruno Amoroso?

Sono convinto che per rispondere a queste alternative, sfuggendo da tentazioni new globaliste, occorra sporcarsi le mani e interrogare e attraversare i vari populismi, nazionalismi, sovranismi, l’opposizione popolare all’immigrazione, le domane identitarie, le comunità ribelli, e interpretarli come forme, anche se non tutte accettabili, della attuale resistenza alla globalizzazione.

La parola d’ordine prioritaria dovrebbe essere quella di “liberare” territori, comunità, nazioni, popoli dal potere globale e dalle sue influenze locali:

è l’”agire locale e pensare globale” del primo movimento no-global.

 La rivoluzione, che in parte è già in atto in forme a noi estranee, sarà innanzitutto politica e non economica, e sarà dei popoli contro la attuale globalizzazione e i suoi poteri.

 I lavoratori, orfani della classe e del partito operaio e rivoluzionario – illusi prima e vittime poi del fallimento dei miti del progresso e della rivoluzione proletaria – devono provare a fare e a farsi popolo e mettersi alla testa o comunque diventare parte del movimento di resistenza nelle comunità, nei territori, nelle nazioni, contro il dominio della globalizzazione.

 Il fronte del conflitto nel mondo oggi passa, infatti, nella divisione tra globalizzatori e antiglobalizzatori, tra unipolaristi e multipolaristi, che destabilizza le antiche divisioni tra destra e sinistra storica incentrata sul conflitto capitale-lavoro, e su quello democrazia-autoritarismo.

 “La lotta alla globalizzazione – afferma Amoroso – non viene dal centro, dalla destra o dalla sinistra, ma da forze trasversali, in quanto le vecchie divisioni non rappresentano più i poli del conflitto” (Per il Bene Comune).

Esistono, infatti, oggi nel mondo una destra e una sinistra sia globalista che antiglobalista.

 La sinistra globalizzatrice parla di diritti universali ed è anti sovranista e cosmopolita come le élite globali.

La sinistra no-global aspira e lotta invece   per un mondo multipolare che cooperi fra popoli, stati, regioni, nazioni, comunità per una economia sostenibile e solidale radicata nei territori e nelle comunità sottratti al dominio e al controllo delle grandi multinazionali e governati da popoli sovrani.

 Il disegno dei globalizzatori liberisti è il dominio sul mondo, regolato da un solo potere, quello delle transnazionali e dei loro organi, senza stati sovrani ma  frantumati in protettorati divisi tra loro per linee etniche e religiose, per poter essere più facilmente dominati.

Non c’è posto in questa visione del mondo per grandi Stati meso-regionali come la Russia, la Cina, l’India, per l’Europa politica e federata, perché troppo grandi e perché ostacolano il potere e il pieno dispiegarsi degli interessi dei globalizzatori e dei loro stati-guida, USA e Gran Bretagna.

Il sovranismo è una bandiera in prevalenza delle élite locali e statali di destra tradizionale, non inserite fra le élite globali, che resistono alla omologazione e alla distruzione della loro sovranità minacciata.

 Questi Stati vengono additati come stati-canaglia e antidemocratici, quindi da destabilizzare anche attraverso le “guerre umanitarie” o condotte per procura, oppure attraverso rivoluzioni finanziate ed orchestrate dalle élite globali, come le  cosiddette “rivoluzioni colorate”.

 

Penso, senza tema di sbagliare, che Bruno Amoroso sia stato tra i più convinti e combattivi sostenitori di una lotta senza tregua alla globalizzazione e ai suoi apologeti, che lui ha definito come progetto criminale.

 Così lui la descrive:

 “La globalizzazione non è un fenomeno oggettivo della modernizzazione, è una forma contingente assunta dal capitalismo, uno stadio particolare ed eventualmente, il suo ultimo stadio.

 È il capitalismo nella sua forma più maligna, poiché si diffonde come una forma tumorale;

come una metastasi si concentra su poche aree strategiche, ... sul resto enormi effetti distruttivi.

Con buona pace delle moltitudini di Toni Negri e dei new-global della globalizzazione buona” (Persone e Comunità).

Citando K. Galbraith (Lo Stato Predatore) ne definisce, Il Bene Comune, criminale e predatorio il sistema della globalizzazione:

“Lo stato industriale – scrive Galbraith – è stato sostituito dallo stato predatorio, una coalizione di instancabili oppositori ad ogni idea di interesse pubblico che ha lo scopo di controllare la  struttura dello stato  per dare potere a un’alta plutocrazia provvista solo di obiettivi immorali e di rapina”.

Lui è stato, senza dubbio alcuno, un no- global a tutto tondo!

Mondializzazione e comunità

C’è una domanda e un bisogno di comunità crescente nel mondo, anche nei paesi che hanno vissuto la stagione dell’abbondanza e della ricchezza e che soffrono oggi i morsi della crisi e dell’emarginazione progressiva dal nucleo dei paesi più forti della economia della Triade.

 Questa domanda e questo bisogno trovano risposte diverse e non sempre piacevoli e condivisibili – il ritorno alla sovranità, alla Stato-Nazione, al nazionalismo o alle comunità e alla cooperazione fra Stati – ma hanno un comune carattere: contestare e contrapporsi alla globalizzazione dei vincenti.

 Tardano invece a trovare risposte da parte delle culture e del pensiero della vecchia sinistra sociale e politica. Anzi, a tale bisogno di ricucitura dei legami comunitari, distrutti dal capitalismo globalizzato, si risponde in prevalenza con le categorie dell’universalismo e dei diritti universali, rinnegando o avversando queste aspirazioni alla sovranità e alla comunità delle popolazioni – derubricate come populismi – spingendo così questo legittimo bisogno di sicurezza popolare verso ideologie e pratiche razziste ed identitarie.

Chi ha conosciuto Bruno sa che spesso le sue posizioni eretiche in politica potevano procurare “scandalo” per le preferenze da lui spesso accordate a posizioni anti sistemiche, rispetto a quelle politically correct, quando erano orientate a contrastare l’oligarchia finanziaria europea o a difendere il capitalismo nazionale.

Bruno non avrebbe certo disdegnato di autodefinirsi “populista” o di polemizzare contro quelli  che etichettano i vari populismi  come proto-fascismo  diventato questo, purtroppo, uno slogan semplificatorio di una certa sinistra  rivoluzionaria globalista nonché della vecchia sinistra neo-liberista dal “volto umano”, che osteggiano  come “sovranisti” quelli che vogliono ricostruire comunità riunificando le comunità  frantumate  dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione capitalistica e che sostengono la  necessità che popoli e territori lottino per riconquistare autonomia scollegandosi  dal mercato globale.

È, questa, una sinistra incapace di distinguere fra mondializzazione dei mercati (tendenza insita nella natura del capitalismo fin dalle sue origini) e globalizzazione, che è la forma assunta dal capitalismo triadico contemporaneo.

Senza comprendere o voler comprendere che la globalizzazione è la risposta delle élite dominanti dell’occidente al processo di mondializzazione e all’ingresso di popoli e paese nuovi (Cina e India, e non solo ) nell’economia e nel mercato mondiale che si vogliono invece ingabbiare ed escludere dallo sviluppo.

 Confusione che porta a esaltare sia la globalizzazione come apportatrice di benessere per i popoli del mondo per la sua presunta capacità di liberarli dalla miseria e dall’indigenza, e sia il cosmopolitismo come forma suprema della moderna libertà!

Devo confessare un certo fastidio, per non dire rabbia, verso l’ideologia cosmopolita del nomadismo e la sua esaltazione acritica da parte di questa sinistra.

Nel futuro saremo davvero tutti apolidi?

L’ideologia del nomadismo ci racconta che siamo tutti cittadini del mondo.

 Sarà vero? 

O si dimentica che il 99 per cento dell’umanità è per sua natura stanziale e che il nomadismo e l’emigrazione sono una tragedia, una rottura forzata   con la propria storia e cultura, con le proprie radici, con le amicizie, con gli affetti e con la famiglia, una lacerazione profonda nella identità che provoca spaesamento e sofferenze?

È questo il lato oscuro del cosmopolitismo che viene nascosto in questa narrazione edulcorata del nomadismo!

Ma chi sono i veri cittadini del mondo?

Adam Smith, il fondatore dell’economia classica, ce lo spiega ne “La Ricchezza delle nazioni”: 

“Il possessore di capitali è propriamente un cittadino del mondo e non è necessariamente legato a nessun paese particolare.

 Egli sarebbe pronto ad abbandonare il paese in cui è stato esposto a una indagine vessatoria per l’accertamento di un’imposta gravosa e trasferirebbe i suoi fondi in qualche altro paese dove poter svolgere la sua attività o godersi la sua ricchezza a suo agio”.

 Il cosmopolitismo è oggi una ideologia costruita su misura per le élite del capitalismo globalizzato, per quell’1 per cento che si considerano “cittadini del mondo” ma senza gli obblighi che la cittadinanza normalmente comporta. 

È l’ideologia della libertà irresponsabile.

Ma “senza comunità non c’è libertà – ci ricorda Bruno Amoroso in” L’apartheid globale” – ma solo la concorrenza di tutti contro tutti.

 Proprio le spinte disgregatrici della globalizzazione rendono urgente ridefinire il concetto di comunità.

 Il primo elemento costitutivo della comunità è la popolazione. 

La globalizzazione immagina   sistemi di società in cui la popolazione non serve, non ha ruolo.

 Le economie si delocalizzano rispetto alla gente di cui non hanno bisogno oppure  trasferiscono altre persone  da altre comunità all’interno del paese.

Non esiste comunità senza popolazione.

 Il secondo elemento è il territorio, il radicamento  della popolazione nel territorio. La caratteristica principale della globalizzazione, invece, è la de-territorializzazione:

 il territorio non conta perché si può produrre ovunque…

Altro aspetto fondamentale della comunità sono le istituzioni, basate su forme di rappresentanza dal basso di persone saldamente ancorate al territorio.

 La globalizzazione distrugge il sistema istituzionale esistente e lo evolve in forme tecnocratiche di rappresentanza”.

Bruno Amoroso è stato un fervente sostenitore dell’idea e del progetto di costruzione di comunità.

In “Memorie di un intruso” è narrato lo svilupparsi del suo senso della comunità a partire dalla sua precoce militanza nella sezione del Pci di Donna Olimpia  a Monteverde, che si esplicava  con la sua attitudine a coniugare la militanza politica con forme di vita collettive e di svago.

Per lui “comunismo” non era solo espressione di un’adesione ideale ma di una “empatia che trasformava il gruppo in comunità” e la vita culturale della sezione era animata: si ospitavano gruppi teatrali e il “teatro di massa” e le persone del quartiere partecipavano con grande passione alle domeniche del ballo, alle gite, alle feste, alle attività sportive, alle cene collettive.

 Combinare militanza, amicizia, affetti era l’essenza del suo fare comunità che gli valse una crescente ostilità nel partito che le considerava estranee e nocive all’impegno politico.

Scrive Bruno in “Persone e Comunità”:

“La comunità è una costruzione umana e sociale.

Il locale è la comunità. La sua dimensione è variabile.

La cellula fondamentale è la persona e il suo nucleo di appartenenza (la famiglia, gli amici).

Questi diversi nuclei s’intrecciano tra di loro come anelli olimpici e formano la comunità.

 Essa è fortemente connessa a un determinato territorio e con forte identità culturale.

Questo spazio vitale scopre il bisogno di organizzarsi per far fronte alle sollecitazioni esterne della mondializzazione e della globalizzazione.

 Alla mondializzazione la comunità risponde, per far fronte alla crescente interdipendenza delle varie comunità, con politiche di cooperazione e solidali nel campo sociale, ambientale e nell’uso delle risorse (gli anelli e le reti della solidarietà).

Alla globalizzazione, alla quale non ci si può opporre col localismo, (la comunità  risponde)  con strutture nazionali di cooperazioni tra Stati della medesima meso-regione per proteggere le comunità dalle forze omologanti della globalizzazione”.  

Questa concezione della comunità penso debba molto al progetto di Stato comunitario, propugnato da Adriano Olivetti e illustrato nel Manifesto programmatico di Comunità nel 1953:

 “Lo Stato comunitario… fondato sulla integrazione armonica delle forze del lavoro e della cultura con quelle della democrazia, su una proprietà socializzata e radicata agli Enti territoriali autonomi (le Comunità), insisterà sulla tradizionale separazione dei poteri e sul principio di un nuovo integrale federalismo interno, inteso nel senso di equilibrio di autonomie tra periferia e centro”.

Visione, questa, coniugata alla “necessità di concentrare gli sforzi in favore del superamento degli Stati nazionali interamente sovrani e in favore della costituzione di ordinamenti giuridici superiori, federazioni continentali o sub continentali”.

 La Federazione europea, che Olivetti auspicava, “darà all’Europa autonomia e salvezza, ma ciò stabilmente per sé e in modo esemplare per gli esterni, solo se federazione è intesa nel senso integrale di decentramento assoluto, di autonomia generale anche nei confini degli Stati, di articolazione politica e amministrativa antimonopolistica in ogni senso”.

La costruzione di un’alternativa al capitalismo globale si fonda per Bruno proprio su un progetto di alleanze solidali di comunità, di paesi, di nazioni (le meso-regioni), di tipo federalista, che restituiscano loro  la possibilità di scegliere le proprie forme di organizzazione economica, sociale e politica in una configurazione policentrica e plurale del mondo.

La rifondazione delle comunità in un quadro  di mondializzazione è la risposta all’affermarsi della globalizzazione come sistema dell’apartheid globale del capitalismo triadico dei paesi ricchi contro  il resto del pianeta.

 Lui guardava alla modernità non dalla prospettiva dei globalizzatori, ma da quella delle ”comunità e dei villaggi del mondo per sette miliardi di persone”.

Fare  comunità e “risocializzare” lo Stato, passare dallo “Stato del Benessere” alla “Società del Benessere”, questo è stato il suo programma e il filo rosso della sua elaborazione.

 

Bruno Amoroso e il sindacato.

Bruno Amoroso è stato in vita un attento e acuto studioso e osservatore delle trasformazioni dell’economia-mondo e dei sistemi sociali, in particolare di quelli scandinavi, nonché del movimento sindacale e del suo ruolo nel sistema produttivo e nello Stato del Benessere.

 Fin da giovane, da   militante comunista, da osservatore e partecipe delle vicende sindacali della “Manifattura Tabacchi” in cui lui lavorò per un breve periodo – del cui sindacato suo padre Pelino fu segretario nazionale nella Cgil unitaria  – mostrò  una capacità straordinaria  di saper cogliere la natura e l’essenza delle questioni in campo.

Comprese in anticipo sui tempi la deriva burocratica in cui stava scivolando il sindacato con la decisione verticistica del PCI e della Cgil, non più unitaria, di sopprimere la Federazione sindacale dei Monopoli di Stato per accorparla  alla Federazione  degli Statali  – con l’umiliante e cinica estromissione del padre dalla direzione del sindacato – e colse con lucida preveggenza  l’errore della scelta dell’americanizzazione del sistema produttivo nazionale che anche  il PCI  e la Cgil a loro modo sostennero.

La “Manifattura Tabacchi”  a Roma con le vicende sindacali dell’epoca  a cui suo padre partecipò, furono il companatico quotidiano di cui si nutrì  la sua formazione  e la sua concezione del sindacato che “trasforma gli interessi corporativi e i bisogni diversi in un progetto comune di organizzazione aziendale ispirato alla solidarietà verso i più deboli”.

Bruno ricorda che suo padre era solito “saggiare le sue tesi politiche, o le sue relazioni per convegni o congressi discutendone in famiglia, sul tavola di cucina fino a tarda notte e questa fu in parte – racconta – la nostra scuola”.

Non amava Bruno i sindacalisti col sigaro e la sigaretta e poi quelli con la pipa. 

Lui amava i sindacalisti alla Di Vittorio che diventarono comunisti per esperienza di vita famigliare e di povertà e non per scelte ideologiche o per ambizioni politiche e di carriera personale.

 Bruno riporta in “Memorie di un intruso” una risposta di Giuseppe Di Vittorio alla domanda di un giornalista sul perché fosse diventato comunista:

“Da bambini – rispose Di Vittorio – le nostre mamme lavoravano sui campi dei padroni dall’alba alla sera per la raccolta della frutta, ed erano costrette a portarci con loro.

Noi venivamo deposti intorno ad un albero e i ‘caporali’ ci mettevano la museruola per essere sicuri che non mangiassimo la frutta.

 Io sono uno di quei bambini ed è per questo che sono diventato comunista”.

Bruno era stato un convinto assertore dell’unità del sindacato e del mondo del lavoro contro le rotture che intervennero nel 1948, ma anche della sua autonomia come motore di una alleanza popolare più vasta con il ceto medio e i vari e diversi settori produttivi della società che lui auspicava anche in polemica contro le tendenze opposte che avanzavano nel partito e nel sindacato.

L’americanizzazione delle forme di produzione e consumo. Il fordismo e il post- fordismo.

Bruno Amoroso è sempre stato un critico avveduto del processo di “americanizzazione” delle forme di produzione e consumo introdotti in Italia dopo la liberazione e che improntò il miracolo economico del dopoguerra con una forte crescita e sviluppo del sistema industriale incentrato sulla grande impresa  e con un forte incremento dei consumi popolari.

Il prezzo pagato per questo tipo di sviluppo sono inscritte nelle devastazioni del territorio, nella crescita abnorme delle città, nello spopolamento dei piccoli centri  e nel biblico flusso migratorio da Sud verso il Nord che svuotò le campagne in pochi anni di oltre due milioni di addetti.

Nel dibattito all’interno del PCI e del Sindacato convivevano due Italie:

 quella di Emilio Sereni che indicava una via alla modernità che includesse il mondo rurale e contadino, e quella di Manlio Rossi Doria che spingeva per una  più spinta applicazione del modello fordista della grande impresa da estendere anche alla produzione agricola, per incrementare la produttività del settore.

La sinistra e il sindacato abbracciarono il modello di produzione fordista contrastando le posizioni di Emilio Sereni e il modello “ comunitario” propugnato da  Adriano Olivetti.

Il convegno dell’Istituto Gramsci del 1962 sulle Tendenze del capitalismo italiano legittimò teoricamente questa scelta  con l’illusione che questo salto forzato nello sviluppo sarebbe stato ricambiato con una maggiore partecipazione dei lavoratori  alla spartizione dei dividendi dello sviluppo  illimitato e del crescente profitto.

Il sindacato fu così ridisegnato sul modello della grande impresa fordista, abbandonando il sindacalismo popolare e confederale di Di Vittorio, per il nuovo sindacalismo contrattualista e verticale degli anni 60-70, che godette dell’introduzione dell’istituto della contrattazione articolata con i  contratti del 1962.

Scrive in “Persone e Comunità”:

“Il paradigma fordista (grande impresa, economia di scala, consumi di massa, organizzazione taylorista del lavoro) fu immediatamente percepito come il paradigma della modernizzazione assunto passivamente anche dai sindacati e dai partiti operai, socialisti e comunisti. 

Il suo effetto fu la distruzione delle pluralità dei sistemi produttivi e dei saperi locali, dei territori e delle città, l’emigrazione di massa, il declino dell’artigianato tradizionale, lo spopolamento delle aree interne montane e collinari, l’abbandono delle campagne, l’americanizzazione dell’agricoltura e la fine delle società rurali”, che fornì con gli esodi biblici dalle campagne del sud   la manodopera necessaria per l’impresa fordista del Nord industrializzato.

 E così prosegue:

“Tutta l’organizzazione della società e delle città ruota attorno alla fabbrica capitalistica e la serve.

 Le strategie sindacali e loro strutture organizzative furono ridisegnate sul modello della produzione di massa e delle economie di scala del fordismo.

Partiti e sindacato della classe operaia   videro nella crescita accelerata della classe operaia fordista e nel proletariato agricolo e bracciantile – formatosi con la crisi della famiglia e dell’impresa contadina – il formarsi delle forze che avrebbero messo in crisi il capitalismo.

Il mito dello sviluppo infinito e del progresso sotto il segno dell’industrialismo segnò una stagione di lotte e di rivendicazioni del movimento operaio che arrivò a  toccare livelli  di consumi e di benessere  materiale mai raggiunti nella storia, né prima e mai più dopo.

L’altra faccia nascosta di questo progresso fu, come denunciava un inascoltato Pasolini, l’integrazione della classe operaia nel meccanismo distributivo e la sua omologazione culturale in quello della mercificazione consumistica”.

L’abbandono del modello di produzione fordista, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, da parte del capitalismo “pensante” per rispondere alle crescenti pressioni redistributive  del movimento operaio e ai costi crescenti dello Stato del benessere – per riprendere il controllo della produzione e dello Stato e ridurre l’influenza dei sindacati  in una fase di sovrapproduzione di merci e di costi crescenti delle materie prime –  colse  di sorpresa il movimento operaio e i sindacati.

La  vertenza Fiat con la successiva sconfitta operaia agli inizi degli anni ‘80 segnò una lunga fase difensiva  del conflitto sindacale che, di cedimento in cedimento, ha accompagnato in questi decenni lo “smantellamento progressivo del sistema produttivo nazionale e del welfare pubblico, la de-centralizzazione dell’impresa nei territori,  la fine del ruolo propulsivo dei contratti collettivi”, la precarizzazione  del lavoro, la nascita dei contratti individuali (Pacchetto Treu) e, infine, il declino stesso del sindacato.

Scrive ancora in “Persone e Comunità”:

“Un errore interpretativo della globalizzazione che ha coinvolto la sinistra e il Movimento Operaio, è stato quello di concepirla come uno stadio di rilancio del ciclo di accumulazione, con il risultato di alimentare strategie rivendicative difensive in vista di una ripresa futura del ciclo espansivo.

Il suo effetto è stato quello di non cogliere la novità propria della natura della globalizzazione che espelleva dal suo interno aree di mercato e sistemi produttivi, de-centralizzandoli e de-nazionalizzandoli, per sottrarre la produzione al controllo sociale e politico locale e nazionale”.

Nella sua relazione al seminario del circolo romano de “Il Manifesto” nel 2011 su “Lavoro e Territorio” all’indomani del referendum  della Fiat di Pomigliano,  così  concluse questa  riflessione:

“L’assenza di questa consapevolezza ha fatto sì che siamo rimasti a lungo attaccati alla speranza di poterci integrare in un modello che non ci comprendeva, anzi ci respingeva, e per di più a noi in gran parte estraneo.

Trascurando invece scelte possibili di un altro modello di organizzazione sociale, di crescita territoriale e sociale e di cooperazione sia europea sia mediterranea”.

Bruno Trentin fu forse l’unico che nel movimento sindacale avvertì nel 1989 la tempesta che si avvicinava e colse correttamente la novità della fine di un ciclo storico, dell’epoca dello sviluppo infinito e dell’occupazione come variabile da questo dipendente, insieme al tramonto di politiche salariali espansive.

Nella sua relazione alla “Conferenza di Programma della Cgil “di quell’anno  a Chianciano, così introdusse il suo intervento:

“Le trasformazioni delle società industriali, i vincoli crescenti…rimettono in questione la stessa concezione dello sviluppo economico…  ma, soprattutto, il presupposto economico e ideologico sul quale il sindacato fondava, sin dalle sue origini, la sua funzione di unificazione del mondo del lavoro…ossia uno sviluppo economico, pieno di contraddizioni e di diseguaglianze, ma senza limiti quantitativi di lungo periodo, uno sviluppo economico «inarrestabile» e, come tale, condizione e garanzia di un progresso sociale e umano, condizione materiale dell’azione emancipatrice del movimento operaio; questo presupposto e questa premessa di valore dell’azione solidale del sindacato sono stati duramente contestati dalle trasformazioni intervenute..”. 

E così proseguì:

“ Lo sviluppo quantitativo dell’economia, la crescita della produzione di merci e di servizi, e lo sviluppo dell’occupazione e del lavoro salariato, che del primo sono stati sempre considerati come dei fattori derivanti e rigidamente subordinati (delle variabili dipendenti si usava dire), si scontrano sempre più con dei limiti oggettivi, strutturali… Al punto che oggi l’idea di progresso, quella di civiltà e quella stessa di solidarietà sono sempre più associate al rispetto di questi vincoli e alla subordinazione dello sviluppo dell’economia ai limiti qualitativi che rimettono in questione i suoi obiettivi e le sue regole”. 

Aggiunse che era destinata alla sconfitta 

“una solidarietà difensiva fondata sulla salvaguardia di un modello autarchico di sviluppo, sul rifiuto di confrontarsi con le scelte ardue di una nuova divisione internazionale del lavoro e con la ricerca di una nuova solidarietà dei lavoratori in Europa”.

Per proteggere il lavoro da questi rischi incombenti, delineò così una strategia difensiva fondata sui diritti individuali e collettivi, sulla valorizzazione della persona e della sua prestazione lavorativa, sulla formazione permanente, sulla contrattazione anche individuale nel posto di lavoro:

“Dobbiamo compiere il tentativo di ricondurre alla contrattazione collettiva e ad una difesa solidale dei diritti individuali fondamentali relazioni di lavoro, anche molto diverse fra loro, che non coincidono più con il modello tradizionale dell’occupazione a tempo pieno per tutta la vita….  Non crediamo al salario o al costo del lavoro come variabili indipendenti. Ma crediamo ad una strategia rivendicativa che liberi tutte le potenzialità culturali e professionali delle lavoratrici e dei lavoratori e che trasformi la persona al lavoro in un patrimonio ricco e costoso nella sua formazione...

Ancora:

“Diventerà sempre più un tema della contrattazione collettiva nei luoghi di lavoro quella dell’informazione sui percorsi professionali individuali e sui sistemi di remunerazione individuali, in modo da offrire le garanzie di criteri trasparenti anche all’estendersi di forme di contrattazione individuale del salario e delle condizioni di lavoro... “

Caratteristiche queste – dell’autonomia, dell’autodeterminazione, della libertà e della creatività del lavoro – che sarebbero state fatte proprie dal capitalismo post-fordista sotto le sembianze del lavoratore imprenditore di sè stesso e artefice del suo stesso auto-sfruttamento.

Mancò però in Trentin, ed è mancata nel sindacato anche dopo lui, la visione di un progetto alternativo al modello di sviluppo e di produzione fordista e industrialista abbandonato dal capitalismo;

 e anche lui fu costretto ad accettare di contrattare nel 1992, con l’accordo che abolì la scala mobile, l’arretramento del movimento operaio dalle posizioni conquistate in precedenza per allineare il paese alle politiche deflazioniste dell’Unione Europea, che lo costrinse alle dimissioni da segretario generale della Cgil prima e all’uscita definitiva  di scena  successivamente.

L’occasione persa dal sindacato è stata quella di non aver scommesso sul rilancio dei luoghi, delle produzioni e dei sistemi produttivi abbandonati al loro destino dal fordismo prima e dalla globalizzazione poi, ricreando forme di aggregazione tra produttori locali, rilanciando un nuovo modello di sviluppo a partire dalla rigenerazione delle città devastate dall’inurbamento selvaggio e dal consumo di suolo, dal ripopolamento delle zone interne abbandonate con politiche di sviluppo locale e culturale e mettendo in sicurezza il territorio.

 Di non aver offerto in questo modo un’alternativa di mercati locali e regionali al quel mondo della produzione radicato nei territori, ed estromessi dai mercati della globalizzazione, attraverso il rilancio dell’Altra Economia, dei mercati contadini, della  nuova ruralità.

Da ciò derivava e deriva la necessità di un’alleanza tra questa economia e la società civile per ricostruire comunità di vita, di produzione e consumo.

 Invece abbiamo stoltamente continuato sulla strada delle sconfitte difendendo e promuovendo  lo sviluppo dei grandi centri commerciali delle multinazionali straniere,  che hanno ancor più indebolito la piccola impresa locale e regionale che fatica a trovare sbocchi autonomi nel mercato e che ora, ironia della sorte, per effetto dell’automazione crescente,  stanno espellendo proprio  quei lavoratori  che avevano giustificato l’iniziale  consenso sindacale e politico locale al loro insediamento nel territorio.

“Lavoro e Bene Comune”

Cos’è per Amoroso il Bene Comune?

“ Bisogna evitare, usciti  dall’incubo della fabbrica fordista  e del consumismo di massa  (con i quali abbiamo perso mezzo secolo di storia), di inseguire ancora una volta il capitalismo nelle sue convulsioni   con il mito delle tecnologie, della società dell’informazione, della società dei servizi e, ora, con la società  della conoscenza”…

E ancora:

“Decrescita e sobrietà  significano partire dai nostri bisogni, dai bisogni delle comunità -società nelle quali viviamo, per ricostruire intorno a noi quelle  istituzioni, saperi e sistemi produttivi che ridiano spazio ad una vita normale” e per  riscoprire quella che lui chiama “ l’acqua calda” della “buona vita” e del  “bene comune”.

Il progetto del “Bene Comune”, così introdotto da Amoroso  in  “Per il Bene  Comune”, nasce come risposta all’esaurirsi dell’esperienza dello “Stato del Benessere”, sorto nel novecento per far fronte alle crisi  del mercato capitalistico e   ai disastri della guerra e della ricostruzione successiva.

 Il suo stretto legame col capitalismo fordista, il suo carattere prevalentemente corporativo, ne ha segnato anche la progressiva decadenza con l’affermarsi di politiche neoliberiste di contenimento della spesa pubblica e del welfare.

 Il bene comune è un progetto diverso di società e di modernizzazione che per le società europee significa anzitutto il “distacco dalla crescita quantitativa e individualistica e un rifiuto della globalizzazione e delle sue politiche neoliberali”.

 

“Il bene comune non è il singolare di beni comuni, né la somma dei beni individuali” ma, citando “Robert Vachon”, Bruno afferma che “è l’essere comunitario non riconducibile alla somma delle parti e che non può essere proprietà di qualcuno”.

 È,  continua ancora in “Per il Bene Comune”,  “l’essenza del progetto, il nucleo fondamentale della vita materiale delle persone e delle comunità,  intorno al quale si articolano gli obiettivi e le funzioni economiche, sociali e culturali della società.

 È quel nucleo che sprigiona i valori, i principi che danno contenuto e forma in una certa epoca storica al vivere insieme e dal quale  si possono derivare i beni comuni necessari, come strumenti  per riavviare un discorso su una diversa forma di organizzazione sociale e di partecipazione”.

 Insomma un nuovo patto sociale che sostituisca lo “Stato del Benesser”e, creato intorno all’obiettivo della crescita economica, con quello della “Società del Benessere” costruita sul  “Bene Comune”.

Così definito “il progetto di Bene Comune”, la nuova Società del Benessere non può prescindere dalla  solidarietà tra lavoratori e cittadini, cioè dal concepire il lavoro come bene comune legato alla comunità e al territorio di appartenenza.

Di questa concezione del lavoro sono debitore verso l’opera di Bruno Amoroso  che ha nutrito, negli ultimi anni della mia esperienza di dirigente sindacale della Cgil,  la mia rielaborazione, inascoltata,  di un nuovo e diverso approccio al rapporto tra sindacato e società,  come chiave del  rinnovamento del sindacato stesso e della sua fuoriuscita dall’orbita dello schema fordista di rappresentanza del lavoro.

Nella sua Prefazione al mio libro, “Il Lavoro tra Globalizzazione e Bene Comune” ( 2006), individua gli elementi forti della esperienza politica e sindacale in Italia nella   natura popolare del sindacato nel dopoguerra e nella  la sua costante preoccupazione di legare rivendicazioni e proposte parziali a una idea e progetto di società più giusta e solidale.

Infatti, scrive:

“Le organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori hanno rappresentato sia la forza maggiore di difesa e di elaborazione di proposte alternative allo sfruttamento capitalistico e alla degenerazione della società e del mercato da questo prodotto, sia il punto di fusione di tutte le componenti e le istituzioni della società civile.

 L’emancipazione della ‘classe operaia’ coinvolgeva tutte le componenti personali e sociali della società e produceva un cambiamento di liberazione (dalle ineguaglianze e dalle discriminazioni) per tutti”.

Questo legame organico tra sindacato e società “si è venuto via via indebolendo dagli anni Sessanta in poi fino alla rottura verso la fine del decennio.

Le ragioni sono da ricercare nell’affermarsi di un modello industrialista e fordista di crescita economica che ha plagiato anche i sindacati e i partiti del movimento operaio acquisendoli così ad una linea di subordinazione al modello della crescita capitalistica in Italia su basi corporative”.

E così conclude:

“Questa è la ragione per il venir meno della anima popolare del movimento… Ma il primo anello da ricostruire è la ricongiunzione tra movimento operaio e società civile, sulla base di un progetto di società fuori della globalizzazione e diverso da quello del capitalismo di mercato”.

Commentando nel 2011 un mio articolo su “il Manifesto”, “Ripartiamo dal binomio locale-globale” , nella sua  relazione al già citato seminario organizzato dal circolo romano de il manifesto, così si espresse a proposito di lavoro e bene comune:

“Ricordo che di questo tema si parlò in ambito sindacale.

Reagendo al grande interesse che i sindacati mostravano per l’‘acqua bene comune’ proposi di trattare invece del tema ‘lavoro bene comune’.

Gelo totale, perché avevano intuito che se il lavoro è un bene comune è compito delle comunità salvaguardarlo, regolarlo, inserirlo nelle funzioni necessarie, retribuirlo ecc…

Al che tutta l’impalcatura del lavoro e dei suoi diritti costruita per una società industriale capitalistica crolla.

 Ma con ciò anche il ruolo che il sindacato si è disegnato dentro di questa. Dobbiamo prendere atto positivamente che espressioni recenti anche da parte del sindacato indicano una riflessione critica su questi temi e sul bisogno di ripensarsi insieme alle altre istituzioni e organizzazioni della società civile”.

Cioè il lavoro come bene comune è parte costitutiva dell’essere, del vivere nella comunità con gli obblighi ed i doveri che ne  derivano, esce cioè dalla pura funzione contrattuale-redistributiva del rapporto di lavoro.

Questo dato implica che  “il progetto del  bene comune” va visto come  “superamento della retorica della solidarietà all’interno de movimento operaio, che non tocca mai gli interessi costituiti,  i diritti acquisiti in una fase storica”.

Concludeva il commento al mio articolo con queste mie  parole:

“Il lavoro può affermare la sua utilità e responsabilità verso la società e le comunità locali, solo pensandosi ed agendo come lavoro non alienato, come produttore consapevole che crea l’economia e non ne rimane succube”.

 Se si riconcilia, quindi, col sapere e si mette al servizio del progetto di comunità e del bene comune e non di una solidarietà ristretta di tipo corporativo.

Se nella fase della fabbrica fordista il luogo classico della socializzazione e dell’istituzione dei legami sociali e di classe era la fabbrica oggi, con il decentramento produttivo, non è più così.

 Lo spazio della socializzazione ridiviene il territorio, luogo di esistenza-resistenza e di convivenza quotidiana.

 E gli attori sociali della trasformazione sono quelli partecipi al territorio e ai suoi bisogni, a partire dai lavoratori, dalle loro famiglie, e dalle loro organizzazioni sindacali, dal mondo delle periferie urbane, del non-lavoro e della precarietà esistenziale.

Il lavoro  con le sue forme di esercizio e di rapportarsi alla società e al bene comune assume ora  una precisa responsabilità sociale  verso le comunità. Se il lavoro è un bene comune,  può essere  compatibile con alcune modalità di esercizio corporativo del conflitto sindacale in particolar modo nei servizi di pubblica utilità, cioè dei beni comuni sociali?

È compatibile con qualsiasi occupazione, anche in quelle produzioni inquinanti che distruggono e devastano l’ambiente, la terra, l’aria, l’acqua  e la vita – cioè i beni comuni naturali – come nel caso di Taranto? 

Come conciliare la responsabilità sociale del lavoro con il suo essere anche un mezzo di riproduzione sociale?

Come affrontare l’alienazione del lavoro dai fini della produzione nell’impresa capitalistica, irresponsabile  verso  le comunità e l’ambiente vitale?

Come rispondere alla domanda  di inclusione sociale del mondo degli esclusi, dei perdenti della globalizzazione, degli operai senza-fabbrica, dei giovani senza futuro?

Sono domande, queste,  che attendono ancora risposte compiute.

Nel momento in cui l’impresa transnazionale separa territori e sistemi produttivi, istituzioni e popolazioni, si estranea dalle comunità e dai paesi d’origine e diventa apolide e globale, si può superare tale processo di scissione solo se lavoro e  impresa, comunità e cittadini diventano partecipi di una rifondazione del paradigma dell’economia diversa e alternativa a quella impostasi con la globalizzazione.

Il lavoro ritroverebbe così una sua ragione sociale non alienante ri-mettendo in discussione  la stessa divisione operata dal fordismo fra lavoro e sapere che aveva trasformato l’operaio in gorilla ammaestrato,  per dirla con la  celebre metafora di Gramsci in “Americanismo e Fordismo”.

È, questa, una sfida ancora aperta per una sinistra che voglia rinascere e ritrovare le proprie radici popolari e per un sindacato che abbia voglia di misurarsi con i suoi ritardi e le proprie granitiche in-certezze che certamente non hanno aiutato lo svilupparsi di un movimento popolare e democratico  di resistenza alla tragedia della globalizzazione capitalistica preferendo spesso cavalcare  il  cavallo  vincente piuttosto che rischiare le sconfitte in proprio.

In un mio recente articolo, “Considerazioni dalla parte dei vinti”, pubblicato su “Comune-info”, così concludevo l’ultimo paragrafo destinato al riscatto dei vinti:

“La Storia non è solo un susseguirsi di eventi lineari in cui il passato sta alle nostre spalle.

 Essa ci parla anche con il linguaggio e la memoria dei vinti e degli sconfitti redenti  e non solo con quello dei vincitori, affinché quello che non fu possibile ieri diventi possibile oggi o domani…

Non so se un giorno il mondo cambierà in meglio. 

Ma se sarà così, lo sarà non grazie a quelli che sono saliti sul carro dei vincitori, ma grazie ai popoli vinti ma non domati, alle classi oppresse, ai sacrifici e alle testimonianze di tutti quelli che pur sconfitti ed emarginati, non si sono mai arresi”.

 Grazie anche a uomini come Bruno Amoroso.

 

 

 

 

Un’Escalation in Israele

Potrebbe Innescare una

Reazione a Catena.

Conoscenzealconfine.it – (9 Ottobre 2023) - Aleksandr Dugin – ci dice:

I palestinesi non hanno alcuna possibilità in una guerra del genere, perché non possono distruggere Israele o infliggergli una sconfitta militare significativa, ma anche Israele non ha nulla per cui combattere.

La Palestina è tecnicamente territorio israeliano che non controlla e non può controllare in nessun caso.

È altrettanto impossibile distruggere fisicamente tutti i palestinesi.

Se fossimo in una situazione internazionale diversa, i palestinesi potrebbero contare sulla compassione della sinistra internazionale, ma gli Stati Uniti sono guidati da “neocons sionisti dem e globalisti”.

 Di certo non si preoccupano dei palestinesi, anche se non sono nemmeno troppo vicini alle politiche nazionaliste di Israele.

Ma è la reazione a catena – e soprattutto il comportamento degli Stati islamici (in primo luogo Iran, Turchia, Arabia Saudita, altri Stati del Golfo ed Egitto) – che potrebbe essere la logica continuazione.

O almeno, questo è ciò che gli strateghi di Hamas potrebbero aver avuto in mente quando hanno deciso di iniziare il conflitto.

Il multipolarismo si sta rafforzando, l’intensità dell’egemonia occidentale nel non-occidente collettivo si sta indebolendo.

 Gli alleati dell’Occidente nel mondo islamico – soprattutto la Turchia e i sauditi – non seguono automaticamente ogni ordine di Washington.

Questa è la situazione in cui il polo islamico, che di recente si è unito in modo provocatorio ai BRICS, sarà messo alla prova.

Naturalmente, il conflitto potrebbe estendersi ad altri territori.

Non si può escludere il coinvolgimento dell’Iran e di Hezbollah, il che significa il potenziale trasferimento delle ostilità ai territori del Libano e della Siria.

 Nello stesso Israele ci sono abbastanza palestinesi che odiano ferocemente gli ebrei.

Tutto questo potrebbe avere conseguenze imprevedibili.

A mio avviso, gli Stati Uniti e i globalisti cercheranno di spegnere tutto ora, poiché non possono ottenere nulla di buono da un’ulteriore escalation.

Un’altra cosa: le analogie tra separatismo, irredentismo, ecc. in diverse regioni del mondo non sono più valide.

L’Occidente riconosce sia l’unità territoriale sia il diritto alla secessione dei popoli quando ne trae vantaggio e non li riconosce quando non sono vantaggiosi.

 Non ci sono regole.

In effetti, dovremmo trattare la questione allo stesso modo (e in effetti lo facciamo).

Ciò che è favorevole a noi è giusto.

Nel conflitto israelo-palestinese, è difficile – almeno per ora – che la Russia scelga una sola parte.

 Ci sono pro e contro in ogni configurazione.

 I legami con i palestinesi sono antichi e, ovviamente, sono vittime, ma il fianco destro di Israele cerca anche di perseguire una politica neutralmente amichevole nei confronti della Russia e, così facendo, si discosta dalla selvaggia e inequivocabile russofobia dell’Occidente collettivo.

Molto dipenderà ora dall’evoluzione degli eventi futuri.

E naturalmente non dobbiamo perdere di vista la dimensione escatologica degli eventi.

 I palestinesi hanno chiamato la loro operazione “Tempesta di Al-Aqsa”, cioè la tensione intorno a Gerusalemme e all’orizzonte messianico (per Israele) della costruzione del Terzo Tempio sul Monte del Tempio (impossibile senza demolire la Moschea di Al-Aqsa, importante santuario musulmano) sta crescendo di nuovo.

I palestinesi stanno cercando di accendere la sensibilità escatologica dei musulmani – sia degli sciiti, che sono sempre più sensibili a questo tema, sia dei sunniti (del resto, non sono estranei ai motivi della fine del mondo e della battaglia finale).

Israele e il sionismo sono il “Dajjal” per i musulmani (essere malvagio destinato a regnare nel mondo per un periodo di 40 giorni prima del Giorno del giudizio; quale figura anti-messianica, è paragonabile all’Anticristo della escatologia cristiana).

Fino a che punto sia una cosa seria, lo vedremo presto, ma in ogni caso è chiaro che chi ignora l’escatologia non capirà nulla della grande politica moderna.

 E non solo in Medio Oriente, anche se lì è più evidente.

(Aleksandr Dugin)

(t.me/lealidelbrujo)

 

 

Anidride carbonica: come

la “CO2” causa l’effetto serra.

 Lifegate.it – (7 gennaio 2010) - Redazione LifeGate – ci dice:

 

Negli ultimi decenni l’emissione eccessiva di gas ha creato una cappa negli strati alti dell’atmosfera, creando lo stesso surriscaldamento che avviene nelle serre.

I principali gas responsabili dell’effetto serra sono: il metano, il vapore acqueo, gli ossidi d’azoto, i clorofluorocarburi (CFC) e l’anidride carbonica (CO2).

(Nessun scienziato non corrotto si è pronunciato su questo fatto reale: la CO2 essendo più pesante dell’atmosfera non può volare negli strati alti dell’atmosfera e quindi non può partecipare alla creazione della cappa dell’effetto serra nel cielo alto. N.D.R.)

Emissioni di CO2 generate dalle automobili.

Le automobili sono tra le principali cause di inquinamento ed emissioni di anidride carbonica.

(La CO2 causata dall’opera dell’uomo sulla terra non può mai salire nei cieli dove si annida la cappa creata dall’effetto serra, infatti la CO2 è più pesante dell’aria! N.D.R.)

Emissioni di CO2, le principali fonti di inquinamento.

La principale imputata di questo fenomeno è proprio l’anidride carbonica (CO2) che viene prodotta in tutti i fenomeni di combustione utilizzate per le attività umane e principalmente per gli autoveicoli e la produzione di energia elettrica.

(La Co2 rimane a livello della terra, delle piante e del mare. Come già indicato sopra è più pesante dell’aria e quindi non può volare verso l’alto dei cieli! N.D.R.)

Basti pensare che a inizio secolo la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera era di circa 290 ppm (parti per milione), oggi è di circa 370-380 ppm e si pensa che nel 2050 possa raggiungere le 550-630 ppm se non si prenderanno dei provvedimenti rivolti alla sua diminuzione.

Negli ultimi anni è inoltre emerso il reale impatto ambientale degli allevamenti di bestiame, che generano più gas serra dell’intero settore dei trasporti. 

Secondo il” rapporto Livestock’s Long Shadow”, pubblicato nel 2008 dalle Nazioni Unite, l’allevamento degli animali è la causa principale dei cambiamenti climatici e contribuisce a quasi due terzi delle emissioni agricole di gas ad effetto serra.

Perché la CO2 causa l’effetto serra.

L’anidride carbonica (CO2), come un filtro a senso unico, lascia passare l’energia del sole, ma assorbe le radiazioni emesse dalla Terra, che hanno una maggiore lunghezza d’onda, creando così una sorta di serra atmosferica intorno al pianeta.

In condizioni normali questo gas svolge un ruolo molto utile:

se non fosse presente nell’atmosfera, infatti, la temperatura media terrestre sarebbe inferiore di molti gradi rispetto a oggi, rendendo impossibile la nostra vita.

Ma oggi l’accumulo di anidride carbonica è tale da imprigionare quantità eccessive di calore e da trasformare la Terra in una gigantesca serra.

(La CO2 non potrà mai essere co-fautrice o co- creatrice dell’effetto serra. Infatti essendo più pesante dell’aria non può volare nell’alta atmosfera. Si accontenta di mantenere in vita la razza umana, quella animale oltre a quella vegetale. Se mancasse la CO2 la vita sulla terra sarebbe impossibile anche se gli scienziati corrotti non si esprimono mai  in merito! N.D.R.)

Pannelli solari su un tetto

L’utilizzo di energie rinnovabili è indispensabile per ridurre le emissioni inquinanti generate dalle attività antropiche ossia praticate dall’uomo.

Cos’è l’anidride carbonica.

L’anidride carbonica è un gas, detto anche biossido o diossido di carbonio, più pesante dell’aria ed è prodotto della combustione del carbone, degli idrocarburi e delle sostanze organiche.

Tutti gli esseri viventi, respirando producono anidride carbonica, l’elevata concentrazione di CO2 nell’atmosfera terrestre è frutto dell’impiego da parte dell’uomo di combustibili fossili, come il carbone, il petrolio e il gas, formatisi da organismi animali e vegetali fossilizzati e sepolti sotto il suolo.

 L’aumento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera causa i cambiamenti climatici determinando un incremento delle temperature medie globali.

(la CO2 essendo più pesante dell’aria si affretta a lasciare la bassa atmosfera e si concentra nelle immediate vicinanze della terra e del mare. Quindi svolge le funzioni necessarie per cui è stata  creata da sempre dalla natura ed ora anche dall’uomo. N.D.R.)

Le responsabilità degli apparecchi elettrici.

Ogni anno vengono emessi nell’atmosfera miliardi di tonnellate di CO2, responsabili di circa metà dell’effetto serra.

(E questo è un clamoroso falso, che non potrà mai essere documentato, in quanto la CO2 non può mai salire autonomamente nell’alto dei cieli. E nel caso gli uomini ve la portassero si affretterebbe ad abbandonare la cupola della serra per continuare a fare il suo lavoro benefico nei pressi della terra e del mare! N.D.R.)

La produzione e il consumo di energia hanno un peso notevole nelle emissioni di anidride carbonica:

gli apparecchi elettrici ne emettono una gran quantità.

La deforestazione, unita all’uso dei combustibili fossili, ha aumentato il livello dell’anidride carbonica nell’atmosfera del 25 per cento, dall’inizio della Rivoluzione Industriale.

(La CO2 dall’inizio della rivoluzione industriale ha continuato a svolgere il suo utile e necessario lavoro a contatto della terra e del mare. Essendo più pesante dell’atmosfera non potrà mai salire nell’alto dei cieli di sua spontanea volontà! N.D.R)

La deforestazione causa emissioni di CO2.

La deforestazione è responsabile di gran parte delle emissioni di gas a effetto serra.

(La mancanza di piante dovuta alla deforestazione produce una riduzione della produzione di ossigeno creato con la fotosintesi notturna delle piante. L’uomo e gli animali e le stesse piante non potrebbero vivere senza ossigeno nell’aria.N.D.R.)

Ridurre l’uso dei combustibili fossili.

Fra i combustibili fossili è il carbone, il più abbondante e il più economico, il responsabile delle concentrazioni più gravi.

Il carbone rilascia una quantità di CO2 due volte maggiore del metano, e maggiore di quasi un quarto del petrolio.

(La CO2 rilasciata dal carbone bruciato o da altri combustibili fossili  non può salire nell’alta atmosfera – infatti la CO2  è più pesante dell’aria- e rimanerci e quindi non può modificare il contenuto percentuale dei gas serra mantenuti al disotto della cupola dei gas serra! N.D.R.)

Perciò, una delle soluzioni al problema dell’effetto serra dovrebbe prevedere l’utilizzo dei combustibili fossili meno dannosi e in quantità minori.

(Sarebbe stato più corretto e vero scrivere che l’effetto serra deve essere  prodotto da gas più leggeri dell’aria atmosferica! N.D.R.)

(Licenza Creative Commons)

 

 

 

 

Sole, vento e confusione.

 Gognablog.sherpa-gate.com – (5 Ottobre 2023) – Stefano Deliperi – ci dice:

 

La svolta delle energie rinnovabili dovrebbe seguire un percorso di responsabilità e di massima compatibilità ambientale, a maggior ragione perché è “verde” (o dovrebbe essere) la scelta di affidarsi a impianti eolici o fotovoltaici.

Invece, la speculazione è sempre in agguato.

 E in Italia progressi vanno fatti non solo nella quantità degli impianti, ma nella qualità dei siti individuati.

Se si affida – come sta succedendo – la pianificazione ai privati, si rischia di perdere su tutti i fronti, anche perché i siti vanno scelti dove si fa il minimo danno e c’è fabbisogno energetico, e non “a caso”, consumando il suolo disordinatamente, e seguendo le speculazioni del capitale investito.

 E questo è tema che divide le istanze dello stesso mondo ambientalista.

Ecco perché invece la pianificazione va affidata allo Stato di concerto con le Regioni, coinvolgendo gli enti locali e seguendo procedure di tutela.

Sole, vento e confusione.

 Stefano Deliperi, presidente “Gruppo di Intervento Giuridico”.

(italialibera.online - 3 luglio 2023).

(Quale strategia per l’energia rinnovabile in Italia, e dove si sta sbagliando).

 

Quanto sta accadendo nel Bel Paese in materia di proliferazione “ad mentula canis” degli impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili – eolica e fotovoltaica in particolare – merita un vero e proprio radicale cambiamento di approccio e di metodologia.

 Lasciare che siano gli interessi privati speculativi a decidere la politica energetica e della gestione del territorio è una vera e propria follìa, ma è quello che sta accadendo, anche con il sostegno di parte del mondo ambientalista.

Cosa ben diversa sarebbe se fosse lo Stato a pianificare in base ai reali fabbisogni energetici le aree a mare e a terra dove installare gli impianti eolici e fotovoltaici e, dopo coinvolgimento di Regioni ed Enti locali e svolgimento delle procedure di valutazione ambientale strategica (V.A.S.), mettesse a bando di gara i siti al migliore offerente per realizzazione, gestione e rimozione al termine del ciclo vitale degli impianti di produzione energetica.

Nell’ambito della pianificazione devono rientrare procedure e premialità per il risparmio, la conservazione e l’efficienza energetica, nonché procedure giuridicamente vincolanti per la progressiva dismissione degli impianti di produzione energetica da fonti fossili.

Siamo ancora in tempo per cambiare registro. In meglio, naturalmente.

Di quanta energia ha bisogno l’Italia?

Il consumo di energia elettrica annuo in Italia è stato di 319.9 TWh (terawattora), secondo i dati Terna (2021), per l’86,6% di produzione nazionale, per il restante 13,4% di importazione dall’Estero:

«la produzione nazionale lorda è stata pari a 289,1 TWh, registrando un +3,0% rispetto al 2020.

 In dettaglio la produzione nazionale è stata coperta per il 59,0% dalla produzione termoelettrica non rinnovabile (in aumento del 5,5% rispetto al 2020), per il 16,4% dalla produzione idroelettrica (-4,1% rispetto al 2020) e per il restante 24,6% dalle fonti eolica, geotermica, fotovoltaica e bioenergie (eolica +11,5%, fotovoltaica +0,4%, geotermica -1,9% e bioenergie -2,9% rispetto al 2020)».

 Complessivamente gli impianti di produzione energetica hanno una potenza lorda installata pari a 119,8 GW (2021), assolutamente sufficiente per le necessità nazionali, che, in media, necessitano di 38,1 GW di potenza lorda installata.

La potenza lorda installata termoelettrica è pari a 61,9 GW (51,6%), quella da fonti rinnovabili è pari a 58,0 GW (48,4%).

 In aumento (+ 8,0%) l’autoconsumo (30,7 TWh), in aumento i sistemi di accumulo energetico (+ 90% rispetto al 2020), sebbene tuttora molto modesti, con una potenza attiva nominale complessiva di soli 407,1 MW.

Il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e Clima (Pniec).

L’Italia si è dotata di un Piano Nazionale Integrato per Energia e Clima (Pniec) per affrontare le emergenze climatiche ed energetiche.

Il Piano si struttura in cinque linee d’intervento integrate:

dalla decarbonizzazione all’efficienza e sicurezza energetica, passando attraverso lo sviluppo del mercato interno dell’energia, della ricerca, dell’innovazione e della competitività.

L’obiettivo è quello di realizzare una nuova politica energetica che assicuri la piena sostenibilità ambientale, sociale ed economica del territorio nazionale e accompagni tale transizione.

 Il Pniec 2030, in attuazione del Regolamento europeo n. 2018/1999 sulla governance dell’Unione dell’energia e dell’azione per il clima, è in corso di elaborazione, tuttavia intanto le richieste private di nuovi impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili crescono esponenzialmente, in assenza di alcuna reale ed efficace pianificazione.

 Difatti, a prescindere da necessità ed effettivo utilizzo, produrre energia da fonti rinnovabili conviene, perché – a parte le cospicue forme di incentivi – l’energia prodotta deve essere acquistata e pagata dal gestore unico della Rete (cioè lo Stato, cioè la collettività di tutti noi).

Il “land grabbing” di casa nostra.

A chi interessa parlare di land grabbing in Marmilla o a Montalto di Castro?

Il fenomeno crescente del land grabbing – l’accaparramento di terreni a uso agricolo, pascolativo o boschivo – viene generalmente collocato nell’Africa sub sahariana, in Asia, nell’America Latina e riguarda la pratica di acquisire in proprietà, in affitto o in concessione vaste estensioni di territorio da parte di società di capitali, governi o anche singoli imprenditori con la finalità di destinarli a un utilizzo esclusivo a fini produttivi.

Non vi sono molti dubbi sul fatto che ponga in pericolo la tutela degli interessi nazionali dei vari Paesi alla sovranità alimentare e alla sicurezza nel campo dell’approvvigionamento alimentare, in quanto le popolazioni locali perdono il controllo delle risorse naturali del proprio territorio, in particolare i terreni agricoli e boschivi, nonché l’acqua.

Il “land grabbing” è giustamente fortemente criticato e avversato in campo economico e sociale.

Memorabile la trasmissione “Corsa alla terra” di Report (18 dicembre 2011) con cui Milena Gabanelli, allora conduttrice della trasmissione di Rai 3, fece conoscere il fenomeno agli italiani.

 

Ma le tante sacrosante contestazioni avverso il “land grabbing” nei Paesi del Terzo Mondo si accompagnano a un assordante silenzio su quanto sta accadendo in Italia, dove ampie zone del nostro territorio stanno ormai perdendo le loro caratteristiche naturalistiche, agricole, storico-culturali, la stessa identità, ad opera dell’accaparramento dei terreni per l’installazione di centrali eoliche e fotovoltaiche da parte di società energetiche.

Altrettanto memorabile la puntata di Report “I Fossilizzati” (17 aprile 2016), che si era trasformata in uno spot del servizio pubblico per i progetti di centrali solari termodinamiche del “Gruppo Angelantoni” da realizzarsi nelle campagne sarde piuttosto che nelle estese aree industriali dismesse, dove il sole batte ugualmente: espropri e calci in culo agli indigeni, insomma “land grabbing di casa nostra”, senza che ciò meritasse un minimo cenno.

 No, queste cose non si devono raccontare agli italiani, perché deve imperare la vulgata in favore della speculazione energetica.

Eppure questo fenomeno avviene da tempo anche in Europa, anche in Italia.

 

 

 

 

L’1% della popolazione mondiale

due volte più ricco di 6,9 miliardi di persone.

Vita.it – (19 gennaio 2020) – Redazione – ci dice:

 

I dati del rapporto di Oxfam. L'Italia? Oltre il 30% degli occupati giovani guadagna oggi meno di 800 euro lordi al mese e 13% degli under29 versa in condizione di povertà lavorativa.

La ricchezza globale, in crescita tra giugno 2018 e giugno 2019, resta fortemente concentrata al vertice della piramide distributiva: l’1% più ricco, sotto il profilo patrimoniale, deteneva a metà 2019 più del doppio della ricchezza netta posseduta da 6,9 miliardi di persone.

Ribaltando la prospettiva, la quota di ricchezza della metà più povera dell’umanità – circa 3,8 miliardi di persone – non sfiorava nemmeno l’1%.

Nel mondo 2.153 miliardari detenevano più ricchezza di 4,6 miliardi di persone, circa il 60% della popolazione globale.

Il patrimonio delle 22 persone più facoltose era superiore alla ricchezza di tutte le donne africane.

 Se le distanze tra i livelli medi di ricchezza dei Paesi si assottigliano, la disuguaglianza di ricchezza cresce in molti Paesi.

 In Italia, il 10% più ricco possedeva oltre 6 volte la ricchezza del 50% più povero dei nostri connazionali.

Una quota cresciuta in 20 anni del 7,6% a fronte di una riduzione del 36,6% di quella della metà più povera degli italiani.

In un mondo in cui il 46% di persone vive con meno di 5.50$ al giorno, restano forti le disparità nella distribuzione dei redditi, soprattutto per chi svolge un lavoro.

 Con un reddito medio da lavoro pari a 22$ al mese nel 2017, un lavoratore collocato nel 10% con retribuzioni più basse, avrebbe dovuto lavorare quasi tre secoli e mezzo per raggiungere la retribuzione annuale media di un lavoratore del top-10% globale.

In Italia, la quota del reddito da lavoro del 10% dei lavoratori con retribuzioni più elevate (pari a quasi il 30% del reddito da lavoro totale) superava complessivamente quella della metà dei lavoratori italiani con retribuzioni più basse (25,82%).

È l’allarme lanciato oggi da Oxfam, organizzazione impegnata nella lotta alle disuguaglianze, in “Time to care” – “Aver cura di noi”, pubblicato alla vigilia del meeting annuale del World Economic Forum di Davos.

Un dossier che getta nuova luce su un fenomeno che mette a repentaglio i progressi nella lotta alla povertà, mina la coesione e la mobilità sociale, alimenta un profondo senso di ingiustizia e insicurezza, genera rancore e aumenta in molti contesti nazionali l’appeal di proposte politiche populiste o estremiste.

“Il rapporto è la storia di due estremi.

Dei pochi che vedono le proprie fortune e il potere economico consolidarsi, e dei milioni di persone che non vedono adeguatamente ricompensati i propri sforzi e non beneficiano della crescita che da tempo è tutto fuorché inclusiva.

Ha detto Elisa Bacciotti, direttrice delle Campagne di Oxfam Italia.

 Abbiamo voluto rimettere al centro la dignità del lavoro, poco tutelato e scarsamente retribuito, frammentato o persino non riconosciuto né contabilizzato, come quello di cura, per ridarle il giusto valore”.

Dopo il rapporto “Ricompensare Il lavoro”, non la ricchezza” del 2018, dedicato al lavoro sottopagato e a moderne e invisibili forme di sfruttamento nelle catene di valore globale, “Time to Care-Aver cura di noi” presta attenzione al lavoro domestico sottopagato e a quello di cura non retribuito che grava, globalmente, soprattutto sulle spalle delle donne.

Uno sforzo enorme per garantire un diritto essenziale il cui valore è tuttavia scarsamente riconosciuto.

Basti pensare che:

Le donne a livello globale impiegano 12,5 miliardi di ore in lavoro di cura non retribuito ogni giorno, un contributo all’economia globale che vale almeno 10,8 trilioni di dollari all’anno, tre volte il valore del mercato globale di beni e servizi tecnologici;

nel mondo il 42% delle donne di fatto non può lavorare perché deve farsi carico della cura di familiari come anziani, bambini, disabili; solo il 6% degli uomini si trova nella medesima situazione;

in Italia, al 2018, l’11,1% delle donne non ha mai avuto un impiego per prendersi cura dei figli. Un dato fortemente superiore alla media europea del 3,7%, mentre quasi 1 madre su 2 tra i 18 e i 64 anni (il 38,3%) con figli under 15 è stata costretta a modificare aspetti professionali per conciliare lavoro e famiglia. Una quota superiore di oltre 3 volte a quella degli uomini;

le donne svolgono nel mondo più di tre quarti di tutto il lavoro di cura, trovandosi spesso nella condizione di dover optare per soluzioni professionali part-time o a rinunciare definitivamente al proprio impiego nell’impossibilità di conciliare i tempi di vita e di lavoro. Pur costituendo i due terzi della forza lavoro retribuita nel settore di cura – come collaboratrici domestiche, baby-sitter, assistenti per gli anziani – le donne sono spesso sotto pagate, prive di sussidi, con orari di lavoro irregolari e carichi psico-fisici debilitanti.

“Solo politiche veramente mirate a combattere le disuguaglianze potranno correggere il divario enorme che c’è tra ricchi e poveri.

Tuttavia, solo pochissimi governi sembrano avere l’intenzione di affrontare il tema – ha detto Elisa Bacciotti, direttrice delle campagne di Oxfam Italia.

 È ora di ripensare anche il modo in cui il nostro modello economico considera il lavoro di cura.

La domanda di questo tipo di lavoratori, non retribuiti o sottopagati, è destinata a crescere nel prossimo decennio dato che la popolazione globale è in aumento con percentuali di invecchiamento sempre più alte.

Si stima che entro il 2030, avranno bisogno di assistenza 2,3 miliardi di persone, un incremento di 200 milioni di persone dal 2015.

È urgente che i governi reperiscano, tramite politiche fiscali e di spesa pubblica più orientate alla lotta alle disuguaglianze, le risorse necessarie per liberare le donne dal lavoro di cura – servizi pubblici, infrastrutture – e affrontare seriamente le piaghe di disuguaglianza e povertà.”

DISUGUITALIA: NON UN PAESE PER GIOVANI.

In Italia, i ricchi sono soprattutto figli dei ricchi e i poveri figli dei poveri:

condizioni socio-economiche che si tramandano di generazione in generazione.

L’edificio sociale ha un pavimento e soffitto “appiccicosi”:

1/3 dei figli di genitori più poveri, sotto il profilo patrimoniale, è destinato a rimanere fermo al piano più basso (quello in cui si colloca il 20% più povero della popolazione), mentre il 58% di quelli i cui genitori appartengono al 40% più ricco, manterrebbe una posizione apicale.

I giovani italiani che ambiscono a un lavoro di qualità devono fare oggi i conti con un mercato profondamente disuguale, caratterizzato, a fronte della ripresa dei livelli occupazionali dopo la crisi del 2008, dall’aumento della precarietà lavorativa e dalla vulnerabilità dei lavori più stabili.

 Oltre il 30% degli occupati giovani guadagna oggi meno di 800 euro lordi al mese. Il 13% degli under-29 italiani versa in condizione di povertà lavorativa.

Un quadro d’insieme contraddistinto da carenze nell’orientamento, debolezze sistemiche nella transizione dalla scuola al mondo del lavoro, da un arretramento pluridecennale dei livelli retributivi medi per gli occupati più giovani, dalla sotto-occupazione giovanile, da un marcato scollamento tra la domanda e l’offerta di lavoro qualificato che costringe da anni tanti giovani laureati ad abbandonare il nostro Paese in assenza di posizioni lavorative qualificate e di prospettive di progressione di carriera.

 

“Tanti, troppi giovani italiani non studiano né lavorano, lavorano per una paga risibile, meditano di partire in cerca di un futuro migliore, conclude Bacciotti. 

Servono interventi efficaci, per fare in modo che le giovani generazioni non siano lasciate indietro e al contrario siano, come è giusto, una risorsa per il nostro Paese.

I giovani italiani reclamano un futuro più equo e aspirano a un profondo cambiamento della società, non più lacerata da disparità economico-sociali, ma più equa, dinamica e mobile:

abbiamo la responsabilità di ascoltare le loro richieste”.

 

 

"Sull'orlo dell'annientamento nucleare"?

 Può il mondo permettersi la folle

politica estera dei “neoconservatori e sionisti” dem "satanici" americani?

Globalrsearch.ca – (9 ottobre 2023) - Dr. Paul Craig Roberts - ci dice:

 

Siamo sull'orlo dell'annientamento nucleare. Ogni accordo fatto durante il 20 ° secolo per ridurre il rischio di guerra nucleare è stato abbandonato da Washington.

Perché preoccuparsi, alcuni chiedono, la distruzione reciproca assicurata significa che né gli Stati Uniti né la Russia inizierebbero un attacco nucleare.

 Forse no, ma il più grande pericolo di “Armageddon nucleare” viene dai falsi allarmi dei sistemi di allarme.

 Durante la Guerra Fredda c'erano molti di questi allarmi.

 I falsi allarmi non hanno portato alla distruzione reciproca perché entrambi i governi stavano lavorando per disinnescare, non esacerbare, la situazione, e c'era tempo per verificare la validità dell'allarme prima di premere fatalmente il pulsante.

Oggi la situazione è completamente diversa.

Washington e i burattini della NATO hanno una politica di provocare la Russia, con il colpo di stato del 2014 in Ucraina e le sue conseguenze che sono le peggiori fino ad oggi.

Inoltre, le velocità ipersoniche dei missili russi e la vicinanza dei missili statunitensi al confine russo riducono il tempo prima dell'impatto a 5 o 10 minuti, il che significa che non c'è tempo per verificare o conferire.

La straordinaria ostilità offensiva mostrata nei confronti della Russia dagli Stati Uniti, dalla NATO e dai media occidentali ha convinto il Cremlino che l'Occidente intende distruggere la Russia.

Il presidente russo Putin ha dichiarato molte volte che l'Occidente lo ha portato a questa conclusione.

 Un paio di giorni fa al “Valdai Discussion Club “Putin ha espresso preoccupazione per il fatto che la belligeranza dell'Occidente verso la Russia potrebbe finire in una guerra nucleare.

Se il presidente Biden fosse stato un leader responsabile, avrebbe detto che il presidente russo ha ragione e che dobbiamo fermare l'escalation di minacce.

Invece, Biden ha inviato bombardieri stealth B-2, aerei specificamente progettati per un primo attacco nucleare, alle basi europee, aumentando così la minaccia, una risposta insensata e irresponsabile al presidente Putin.

Negli Stati Uniti la costante propaganda contro la Russia (e ora la Cina) ha convinto molti americani che affrontano il pericolo di un attacco nucleare.

 Questa non è una situazione in cui è probabile che venga riconosciuto un falso allarme.

Il rischio di non credere all'allarme è molto più alto nell'ambiente creato dai neoconservatori e sionisti americani, che hanno controllato la politica estera degli Stati Uniti nel 21 ° secolo.

Nella politica estera e nei ranghi militari degli Stati Uniti ci sono alcuni, specialmente tra i “think tank “finanziati dall'esercito / dalla sicurezza, che credono, automaticamente sembra senza prove richieste, che gli Stati Uniti, essendo il paese più grande e potente di sempre, vincerebbero una guerra nucleare.

Questa convinzione esiste nonostante la totale assenza di qualsiasi preparazione degli Stati Uniti per sopravvivere a una guerra nucleare, supponendo che una tale guerra sia sopravvissuta.

Il risultato più probabile sarebbe l'inverno nucleare, una situazione in cui la polvere delle massicce esplosioni blocca la luce del sole e il mondo intero muore di fame.

Chiediti, quanto devono essere pazzi e satanici i neoconservatori e sionisti Dem per pensare che il perseguimento totalmente irrealistico dell'egemonia globale degli Stati Uniti valga un tale rischio?

Nel momento in cui l'Unione Sovietica crollò politicamente quando i comunisti intransigenti arrestarono il presidente Gorbaciov, i neoconservatori scrissero la dottrina Wolfowitz, che afferma che l'obiettivo principale della politica estera degli Stati Uniti è quello di prevenire l'ascesa di qualsiasi potenza che potrebbe limitare l'egemonia americana.

È questa dottrina neoconservatrice e sionista “dem” assurdamente irrealistica, non il comportamento russo o cinese, che ha resuscitato la minaccia di un “Armageddon nucleare”.

La minaccia è molto reale.

Coloro che lo respingono sono degli sciocchi assoluti e totali.

Sono psicopatici. Sono pazzi.

Rischiano la vita del pianeta.

Sono i neoconservatori e i  sionisti “dem” che sono il peggior pericolo per la vita che il mondo abbia mai affrontato.

Perché il Congresso li sopporta?

Perché il Senato li conferma in carica?

Perché i media americani sono il loro propagandista?

Perché i governi del Regno Unito, dell'Europa e del Giappone tollerano tali enormi rischi imposti da una manciata di pazzi psicopatici?

Questa è la massima spensieratezza.

Per coloro che pensano che la guerra nucleare non possa accadere: osservate e vedete quanto succede nel mondo.

(Paul Craig Roberts è un rinomato autore e accademico, presidente dell'Institute for Political Economy).

 

 

 

 

No, l'invasione di Hamas non è stata

un "fallimento dell'intelligence" israeliano.

Globalresearch.ca – (9 ottobre 2023) - Ben Bartee – ci dice:

 

Bisognerebbe essere quasi irrimediabilmente ingenui per accettare la linea dei media statali corporativi secondo cui l'invasione di Hamas ieri mattina è stata un "fallimento dell'intelligence" israeliano.

Il Mossad è una delle più potenti agenzie di intelligence del pianeta, se non la più potente.

Condivide regolarmente l'intelligence, inoltre, con i servizi di intelligence "Five Eyes".

Ha i suoi tentacoli nel profondo di ogni alleato e nemico di importazione.

Le sue spie sono disseminate in tutta la Striscia di Gaza, che è un'efficace prigione a cielo aperto in cui le merci non fluiscono se non per la benedizione dello stato israeliano.

La Striscia di Gaza è probabilmente l'area geografica più sorvegliata sulla Terra.

L'invasione di Hamas nel sud di Israele ieri è stata un'operazione che ha coinvolto decine di migliaia di operativi, almeno, su terra, mare e aria, usando ogni sorta di equipaggiamento e armi – droni, migliaia di razzi, innumerevoli armi da fuoco e persino bulldozer posizionati per abbattere le recinzioni israeliane.

Cospiratori per la Costituzione: quando il discorso antigovernativo diventa sedizione.

E MSNBC e CNN vorrebbero farvi credere che tutto questo è stato un grande "fallimento dell'intelligence" del Mossad.

Bibi Netanyahu era in veri guai politici prima di questa invasione opportunamente programmata.

Ora, o almeno questa è la speranza, gli israeliani si raduneranno attorno alla bandiera per qualche patriottico calcio in palestinese e l'imminente evidente corruzione del loro Primo Ministro sarà, almeno temporaneamente, dimenticata, se non perdonata.

Nel frattempo, l'intelligence israeliana, piuttosto che essere punita per il suo "fallimento", userà il suo "fallimento" come pretesto per raccogliere più finanziamenti e più autorità per se stessa in modo da prevenire un altro simile "fallimento".

L'invasione di Hamas è stata solo un "fallimento" se si crede che l'obiettivo del Mossad sia quello di proteggere i civili israeliani piuttosto che accumulare più potere per sé stesso.

Come minimo, il Mossad sapeva dell'attacco in anticipo e lo lasciò accadere per convenienza politica.

 Più probabile, a mio avviso, è che abbia attivamente facilitato l'attacco.

Il tipo di persona che crederebbe che si tratti di una grande “Whoopi di intelligence” è lo stesso tipo di persone che comprerebbe la notizia che una manciata di abitanti semi-analfabeti delle caverne dall'altra parte del mondo abbia portato a termine da sola il più grande attacco terroristico nella storia del mondo senza l'assistenza di spettri e che gli edifici con incendi di strutture in cima a loro collassano a velocità di caduta libera ordinatamente nelle loro stesse impronte.

(Ben Bartee, autore di “Broken English Teacher: Notes From Exile”, è un giornalista americano indipendente con sede a Bangkok.)

 

 

 

La lotta Gaza-Israele è "una falsa bandiera"?

Lasciano che accada? Il loro obiettivo

 è "cancellare Gaza dalla carta geografica"?

 

Globalresearch.ca – (9 ottobre 2023) - Philip Giraldi e Prof Michel Chossudovsky – ci dicono:

 

Sabato 7 ottobre 2023, Hamas ha lanciato l'"Operazione Al-Aqsa Storm" guidata dal capo militare di Hamas Mohammed Deif.

 Lo stesso giorno, Netanyahu ha confermato un cosiddetto "stato di preparazione alla guerra".

Le operazioni militari sono invariabilmente pianificate con largo anticipo (vedi la dichiarazione di Netanyahu del gennaio 2023 di seguito).

L'"Operazione Al-Aqsa Storm" è stata un "attacco a sorpresa"?

L'intelligence statunitense afferma di non essere a conoscenza di un imminente attacco di Hamas.

"Bisognerebbe essere quasi irrimediabilmente ingenui per accettare la linea dei media statali corporativi secondo cui l'invasione di Hamas è stata un "fallimento dell'intelligence" israeliano.

Il Mossad è una delle più potenti agenzie di intelligence del pianeta, se non la più potente".

Netanyahu e il suo vasto apparato militare e di intelligence (Mossad et altri) avevano preconoscenza dell'attacco di Hamas che ha provocato innumerevoli vittime israeliane e palestinesi?

Era previsto un piano accuratamente formulato per condurre una guerra totale contro i palestinesi prima del lancio da parte di Hamas dell'"Operazione Al-Aqsa Storm"?

 Questo non è stato un fallimento dell'intelligence israeliana, come trasmesso dai media.

Anzi.

Prove e testimonianze suggeriscono che il governo Netanyahu era a conoscenza delle azioni di Hamas che hanno provocato centinaia di morti israeliani e palestinesi. E "Hanno lasciato che accadesse":

"Hamas ha sparato tra i 2 e i 5 mila razzi contro Israele e centinaia di israeliani sono morti, mentre decine di israeliani sono stati catturati come prigionieri di guerra.

Nella successiva risposta aerea da parte di Israele, centinaia di palestinesi sono stati uccisi a Gaza". (Stefano Sahiounie)

Dopo l'operazione d'assalto di Al Aqsa del 7 ottobre, il ministro della difesa israeliano ha descritto i palestinesi come "animali umani" e ha promesso di "agire di conseguenza", mentre i caccia hanno scatenato un massiccio bombardamento della Striscia di Gaza di 2,3 milioni di palestinesi. (Middle East Eye)

Questo non è stato un "attacco a sorpresa".

"Ho prestato servizio nell'IDF 25 anni fa, nelle forze di intelligence. Non c'è modo che Israele non sapesse cosa stava arrivando.

Un gatto che si muove lungo la recinzione sta innescando tutte le forze.

Quindi questo?

Cosa è successo all'"esercito più forte del mondo"?

Come mai i valichi di frontiera erano spalancati?

 C'è qualcosa di molto sbagliato qui, qualcosa è molto strano, questa catena di eventi è molto insolita e non tipica per il sistema di difesa israeliano.

A me questo attacco a sorpresa sembra un'operazione pianificata.

Su tutti i fronti.

Se fossi un teorico della cospirazione direi che questo sembra il lavoro dello “Stato Profondo”.(Deep State).

Sembra che il popolo di Israele e il popolo della Palestina siano stati venduti, ancora una volta, alle potenze superiori.

(Efrat Henigson, ex intelligence dell'IDF, 7 ottobre 2023)

Ironia della sorte, i media (NBC) stanno ora sostenendo che "l'attacco di Hamas porta segni distintivi del coinvolgimento iraniano".

Storia: Il rapporto tra Mossad e Hamas.

Qual è il rapporto tra il Mossad e Hamas?

Hamas è una risorsa dell'intelligence"?

C'è una lunga storia.

Hamas (Harakat al-Muqawama al-Islamiyya) (Movimento di Resistenza Islamica), è stato fondato nel 1987 dallo sceicco Ahmed Yassin.

È stato sostenuto all'inizio dall'intelligence israeliana come mezzo per indebolire l'Autorità palestinese:

Grazie al Mossad (l'Istituto israeliano per l'intelligence e i compiti speciali), Hamas ha potuto rafforzare la sua presenza nei territori occupati.

Nel frattempo, il “Movimento di Fatah” di Arafat per la liberazione nazionale e la sinistra palestinese sono stati sottoposti alla forma più brutale di repressione e intimidazione.

Non dimentichiamo che è stato Israele, di fatto, a creare Hamas.

Secondo “Zeev Sternell”, storico dell'Università Ebraica di Gerusalemme, "Israele pensava che fosse uno stratagemma intelligente per spingere gli islamisti contro l'”Organizzazione per la Liberazione della Palestina” (OLP)". (L'Humanité, tradotto dal francese).

I legami di Hamas con il Mossad e l'intelligence statunitense sono stati riconosciuti dal deputato” Ron Paul” in una dichiarazione al Congresso degli Stati Uniti: "Hamas è stato avviato da Israele"?

"Conoscete Hamas, se guardate la storia, scoprirete che Hamas è stato incoraggiato e in realtà avviato da Israele perché volevano che Hamas contrastasse Yasser Arafat. (Ron Paul, 2011)

Ciò che questa affermazione implica è che Hamas è e rimane "una risorsa di intelligence", vale a dire "una "risorsa" per le agenzie di intelligence".

Vedi anche il WSJ (24 gennaio 2009) "Come Israele ha contribuito a generare Hamas".

Invece di cercare di frenare gli islamisti di Gaza fin dall'inizio, dice Cohen, Israele per anni li ha tollerati e, in alcuni casi, incoraggiati come contrappeso ai nazionalisti laici dell'”Organizzazione per la Liberazione della Palestina” e alla sua fazione dominante, “Fatah” di Yasser Arafat. (WSJ)

La "nuova fase di una lunga guerra" di Netanyahu contro la Palestina.

L'obiettivo dichiarato di Netanyahu, che costituisce una nuova fase nella guerra di 75 anni (dalla Nakba, 1948) contro il popolo della Palestina, non si basa più sull'"apartheid" o sulla "separazione".

Questa nuova fase – che è anche diretta contro gli israeliani che vogliono la pace – consiste nella "totale appropriazione" e nella totale esclusione del popolo palestinese dalla sua patria:

"Queste sono le linee fondamentali del governo nazionale guidato da me [Netanyahu]:

il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le aree della Terra di Israele.

Il governo promuoverà e svilupperà insediamenti in tutte le parti della Terra di Israele – in Galilea, nel Negev, nel Golan, in Giudea e in Samaria.” (Netanyahu gennaio 2023.)

Ecco l'incisiva analisi del Dr. Philip Giraldi che indica la probabilità di una "False Flag".

Michel Chossudovsky, Global Research, 8 ottobre 2023.

(La lotta Gaza-Israele è "una falsa bandiera"?

Lasciano che accada?

Il loro obiettivo è "cancellare Gaza dalla carta geografica"?

di Dr. Philip Giraldi.)

(8 ottobre 2023).

Sono l'unico che ha letto di un discorso tenuto da Netanyahu o da qualcuno nel suo gabinetto circa una settimana fa in cui lui / loro di passaggio hanno fatto riferimento a una "situazione di sicurezza in via di sviluppo" che suggerisce piuttosto (a me) che potrebbero aver saputo degli sviluppi a Gaza e hanno scelto di lasciarlo accadere in modo da poter cancellare Gaza dalla mappa per rappresaglia e, possibilmente facendo affidamento sull'impegno degli Stati Uniti di avere la "schiena" di Israele, quindi coinvolgendo l'Iran e attaccando quel paese.

Non riesco a trovare un link ad esso, ma ho un ricordo abbastanza forte di ciò che ho letto come pensavo all'epoca sarebbe servito come pretesto per un altro massacro di palestinesi.

Come ex ufficiale dell'intelligence, trovo impossibile credere che Israele non avesse più informatori all'interno di Gaza e dispositivi di ascolto elettronico lungo tutto il muro di confine che avrebbero rilevato movimenti di gruppi e veicoli.

In altre parole, l'intera faccenda potrebbe essere un tessuto di bugie come spesso accade.

E come sempre accade Joe Biden si prepara a mandare qualche miliardo di dollari al povero piccolo Israele per pagare la "difesa".

(Philip M. Giraldi, Ph.D., è direttore esecutivo del “Council for the National Interest”)

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