Un governo unico mondiale con un solo uomo al governo.
Un
governo unico mondiale con un solo uomo al governo.
Africa,
l’impoverimento tra sviluppo,
migrazioni,
uomini forti al comando
sorretti
da una borghesia
di
intermediari di lusso.
Repubblica.it
- Jean Leonard Touadi - (24 luglio 2023) – ci dice:
Si è
svolta a Roma la conferenza internazionale tra UE-Italia e i Paesi del
Mediterraneo allargato sulle condizioni di vita nella sponda Sud del mare
nostrum e dell’Africa.
ROMA –
Si è svolto ieri a Roma nella sede del Ministero degli Esteri una conferenza
internazionale tra UE-Italia e i Paesi del Mediterraneo allargato.
Capi
di stato e di governo chiamati a trovare una soluzione alle migrazioni forzate
affrontando il nodo del mancato sviluppo tra le due sponde.
L’idea
di fondo è quella di pensare che assicurando condizioni di vita migliori ai
Paesi della sponda sud del mare nostrum e dell’Africa si fermerebbero i flussi
migratori verso l’Europa.
Idea semplicistica, più volte smentita da dati
e analisi, che non tiene conto della complessità e del carattere multi
fattoriale della mobilità umana.
Le
diverse ragioni della fuga.
Il mancato sviluppo economico è solo uno dei
fattori di espulsione.
Ce ne
sono diversi altri: la mancanza di democrazia; il non rispetto dei diritti
umani; le guerre e le persecuzioni; il dilagare del terrorismo come succede
nell’area del Sahel e i cambiamenti climatici, che ancora molti negano, ma che
stanno già provocando spostamenti massicci di popolazioni dal Sahel e dal Corno
d’Africa.
Questa
conferenza offre l’occasione di una riflessione sullo sviluppo e le prospettive
economiche del continente africano dal quale stanno partendo molti, ma non la maggioranza
degli immigrati che giungono in Italia.
Vittime
dell’asimmetrica guerra economica mondiale.
La
crescita dell’Africa rallenta a 3,1 nel 2023.
La
ripresa dopo la pandemia più lenta del solito appesantita dall’impatto della
guerra russa-Ucraina che ha frenato la domanda mondiale di materie prime;
sconvolto i sistemi alimentari aumentando l’inflazione; accentuato la crisi
energetica.
Occorre
un rilancio che possa partire dalla questione del debito.
Il
debito che strangola le economie nazionali.
Ancora
una volta le economie africane stanno crollando sotto il peso di un debito
insopportabile: 1140 miliardi di dollari che strangolano le finanze nazionali
costrette a pagare oltre 129% di debito rispetto all’export.
In parole povere spendono le magre risorse che
entrano nelle casse dello stato per pagare gli interessi del debito, mentre
continua a crescere l’ammontare complessivo del debito seguendo la perversa
logica del debito che chiama altro debito;
c’è
anche necessità di mettere ordine nei valori macroeconomici a cominciare
dall’inflazione e dalle bilance dei pagamenti (equilibrio tra pagamenti e
vendite) e altri ancora.
Questo
debito ingiusto contratto da governi illiberali con tassi d’interessi variabili
è un cappio al collo.
Non
più esigibili questi soldi restano sospesi nel gigantesco flusso finanziario
mondiale come un monito e una minaccia per I popoli africani e i loro governi
spesso improvvidi.
Come
gestire i dividendi del debito liberato?
Le risorse risparmiate andrebbero investire
negli investimenti produttivi a cominciare dalla valorizzazione della risorsa
umana.
Questo
significa, in parole povere, scuola e sanità per preparare i Paesi africani ad
avere una gioventù formata con competenze professionali in grado di agevolare
la diversificazione di economie africane troppo prigioniere delle materie prime
grezze esportate senza trasformazione;
ma
anche una gioventù africana che sia in grado di intercettare le enormi
potenzialità delle transizioni digitali ed ecologiche.
Gli
investimenti infrastrutturali sì, ma solo dopo.
Poi e solo poi gli investimenti in infrastrutture
in grado di creare una comunità connessa tra Stati africani spesso isolati
(precondizione per il mercato unico).
Ma
oltre che liberarsi del debito, le economie africane possono e devono trovare
meccanismi endogeni di autofinanziamento decidendo, per esempio, di dedicare
oltre 50% dell’export delle materie prime energetiche, oppure a forme di
capitalizzazione nazionale in grado di finanziare progetti strategici
d’interesse nazionale.
La creazione di banche autonome di sviluppo I cui
fondi andrebbero ad aggiungersi ai finanziamenti della BAD (Banca Africana
dello sviluppo) o ad altri fonti di finanziamenti multilaterali (Word Bank,
FMI), bilaterali o private.
Le
leadership attuali: uomini forti o governi autocefali.
Ma tutto questo non è possibile senza una leadership
rinnovata ed istituzioni forti (per ora solo uomini forti e leadership
autocefale), uniche in grado di istituire governance sane delle finanze
pubbliche;
dei
meccanismi di governo trasparenti e responsabili che rispondano del proprio
operato;
infine, una mobilitazione della società civile
capace di liberare energie creatrici senza le costrizioni di governi
autoritari.
La
forza delle “economie vernacolari”.
Queste
popolazioni africane che da decenni dimostrano grandi capacità di ottimizzare
il caos attraverso le risorse inesauribili dell’economia vernacolare:
la
produzione e la riproduzione della ricchezza realizzate dalle persone il cui
profitto ritorna a loro.
Una
forma di economia che parla la lingua del luogo, tutto il contrario dell’economia
predatoria dentro la quale le i sistemi economici africani sono invischiate dal
XVI secolo ad oggi, con i dirigenti africani che si accontentano - si fa per
dire - di giocare il ruolo esclusivo di intermediari d’affari tra gli interessi
esterni e i loro territori, così come facevano i re della Costa durante la
schiavitù.
Una
borghesia di intermediari di lusso.
È la
fascia sociale ben pagata, che mantiene la divisione internazionale del lavoro
di secoli fa e che voleva il continente esportatore di materie prime e di mano
d’opera pressoché gratuita, sia durante la schiavitù che durante i duri decenni
dell’economia coloniale, con l’introduzione del lavoro forzato degli indigeni
come pilastro del funzionamento del modo di produzione coloniale.
Gli esempi sono la raccolta del caucciù in
Congo, le piantagioni di cacao in Costa d’Avorio, la coltura del tè in Kenya,
oltre all’estrazione mineraria dell’oro e di altri prodotti.
Condannate
ad essere esportatori di materie prime, i Paesi africani non hanno maturato
solo un ruolo insignificante nell’economia globale, ma sono estremamente
vulnerabili agli shock esterni delle continue flessioni della domanda mondiale.
Le
spinte neo-predatorie sul continente.
Le economie africane hanno bisogno di una rivoluzione
per diventare “oikos nomos”, ossia produzione e riproduzione della ricchezza
attenta ai bisogni e alle attitudini della “casa”: vernacolare, appunto.
Solo
così potrà evitare le spinte neo predatorie portate dal nuovo arrembaggio
all’Africa di Cina, Russia, USA e potenze medie e piccole.
L’ingresso
nella globalizzazione del continente deve essere condizionato dagli interessi
ed asportazioni dei popoli del continente.
E solo in base a questi discernere i
partenariati afro-compatibili, cioè coerenti con i piani di sviluppo e la
visione del mondo del continente.
Come
esigere l’afro-compatibilità.
Ma per
poter avere la credibilità di esigere l’afro-compatibilità al mondo, la
leadership africana deve dimostrare di essere vernacolare, di parlare la lingua
dei bisogni e delle aspirazioni dei popoli.
Altrimenti sono lievito fuori dalla pasta e
fuori dalla pasta non possono farla lievitare.
Una
élite off-shore non può guidare l’afro-compatibilità dei partenariati globali
del continente.
Occorre quindi una leadership di nuovo conio,
obbediente al popolo e in grado di esprimere e tradurre in progetti politici e
in piano economici la nuova rivoluzione del pensiero politico e della
pianificazione economico-sociale.
E
l’Europa che declama la sua estraneità.
La
declama rispetto alle spinte neo predatorie della globalizzazione mentre
dovrebbe apprendere le lezioni dal suo passato coloniale e dai suoi modelli.
Deve
sforzarsi - se vuole davvero innovare - di essere interlocutore dei governi
(obbligata ad esserlo) ma anche solidale con i popoli e le comunità del
continente.
Una
sfida capace di modificare davvero e profondamente la Cooperazione allo
sviluppo;
i
piani finanziari d’investimento dell’Unione Europea è tutto l’apparato
dell’aiuto pubblico che corre il rischio di camminare i sentieri battuti che
portano al deserto di risultati e all’insignificanza dei loro attori.
(Jean
Leonard Touadi, originario di Brazaville, capitale del Congo ex colonia
francese; è stato deputato della Repubblica italiana, attualmente docente
presso l’”Università La Sapienza” dove insegna in un corso dedicato all’
“Africa emergente nel quadro degli obiettivi di sviluppo sostenibile".)
GIORGIO
AGAMBEN, SU CIÒ CHE SI AVVICINA.
Quodlibet.it
– Giorgio Agamben – (25 settembre 2023) – ci dice:
Su ciò
che si avvicina.
Kavafis
come esergo in una delle sue prime poesie trascrisse una frase di “Filostrato”
che recita:
«Gli
dei sentono il futuro, gli uomini ciò che accade, i sapienti ciò che si
avvicina».
I saggi lasciano agli dei – o agli esperti – la
previsione del futuro, che è sempre lontano e manipolabile e ai giornalisti la
conoscenza – generalmente molto confusa – del presente:
solo
ciò che si sta avvicinando, solo l’imminente li riguarda e li tocca.
L’istante
decisivo, quello che veramente c’interessa e commuove, non è quello in cui
prevediamo un evento futuro, situato in un certo punto del tempo cronologico,
per quanto grave esso possa essere (fosse anche la fine del mondo, che gli
uomini non hanno fatto e non fanno che annunciare e persino datare) – è,
piuttosto, quando percepiamo che qualcosa si sta avvicinando.
«Il
regno si è avvicinato (eggiken)» annuncia il Battista a proposito della venuta
del messia.
Il verbo greco eggizo deriva dall’antico nome
della mano (eggye) e indica pertanto qualcosa che è a portata di mano, che puoi
quasi toccare.
Appartiene
all’essenza del regno (e della fine che coincide con esso) di essere vicino.
Tutto
ciò che ci muove e commuove ha la forma dell’avvicinarsi, del farsi vicino.
La
vicinanza che è qui in questione non è, però, oggettivamente misurabile, non è
semplicemente meno lontana nel tempo cronologico.
Se
così fosse, essa sarebbe pur sempre una forma del futuro, di quello che i
sapienti non vogliono o non possono sentire.
Vicino
è piuttosto qualcosa che abbiamo disallontanato, che ci si è fatto vicino. Il
pensiero è questa facoltà di disallontanare, pensare qualcosa – non importa se
poco o molto distante nel tempo – significa renderlo vicino, accostarlo.
La
vicinanza non è una misura del tempo, ma una sua trasformazione, non ha a che
fare con secoli o giorni, ma con un’alterità e un mutamento nell’esperienza
della durata.
Un
tale tempo incommensurabile e, tuttavia, sempre prossimo, i greci, per
distinguerlo da “chronos”, il tempo che si può calcolare e numerare, lo
chiamavano “kairos”, e lo rappresentavano come un fanciullo che ci viene
incontro correndo con le ali ai piedi e che puoi soltanto afferrare per il
ciuffo che gli pende sulla fronte.
Per
questo i latini lo chiamavano “occasio”, «la breve occasione delle cose: se la
cogli, la tieni, ma una volta fuggita, nemmeno Giove potrebbe riprenderla».
E ai farisei che chiedono a Gesù un «segno dal
cielo», «siete capaci», egli ribatte adirato, «di giudicare i segni della
pioggia o del sereno, ma i segni dei “kairoi”, dei tempi vicini non potete
vederli».
E quando Paolo vuole definire la
trasformazione della vita messianica, scrive:
«Il
tempo, il “kairos2 si è abbreviato, si è contratto» (il verbo che egli usa designa
tanto l’imbrogliare le vele che la contrazione delle membra di un animale prima
di spiccare il salto).
Poiché
è proprio di questo che, in ultimo, si tratta, nella vita, come nel pensiero e
nella politica:
saper
percepire i segni di ciò che si sta avvicinando, di ciò che non è più tempo, ma
ormai solo occasione, percezione di un’urgenza e di un’imminenza che richiede
un gesto deciso o un’azione.
La
vera politica è la sfera di questa premura e di questa particolare vicinanza ed
è così che dobbiamo guardare alla guerra in Ucraina o nel Nagorno Karabakh:
non si tratta di una distanza più o meno
grande, ma di qualcosa che si sta avvicinando, che non cessa di farsi vicino.
Di un “kairos”
– cioè, secondo un detto di Ippocrate, di qualcosa «in cui c’è poco “chronos”,
poco tempo misurabile»:
ma è
proprio questa esigua parcella di tempo che dobbiamo essere capaci di
afferrare.
(Giorgio
Agamben)
Hillary
Clinton afferma che i sostenitori
di
Trump fanno parte di una “setta” e
necessitano
di “de programmazione formale”.
Lifesitenews.com
- Andreas Walzer – (Ven. 6 ottobre 2023) – ci dice:
I
commenti di Clinton hanno acceso polemiche tra i commentatori conservatori, che
hanno paragonato la sua richiesta di "de programmazione formale"
all'istituzione di "campi di rieducazione".
(
LifeSiteNews ) – Hillary Clinton ha affermato che gli “estremisti MAGA” che sostengono
Donald Trump hanno bisogno di una “de programmazione formale” per sfuggire al
loro “culto”.
L’Intervista
di Hillary Clinton alla CNN il 5 ottobre 2023.
In una
recente intervista con “Christiane Amanpour” della “CNN”, Clinton si è
scagliata contro i sostenitori dell’ex presidente Trump, patologizzandoli e
sostenendo che fanno parte di una “setta”.
Clinton
ha affermato che “molti di quegli estremisti, quegli estremisti del MAGA,
prendono gli ordini di marcia da Donald Trump, a cui non è rimasta alcuna
credibilità in alcun modo”.
"E
quando rompono con lui?" lei chiese.
"Perché
ad un certo punto... forse sarà necessaria una de programmazione formale dei
membri della setta, ma qualcosa deve accadere."
La
Clinton, che ha perso contro Trump nelle elezioni presidenziali del 2016, ha
affermato di ritenere che Trump “purtroppo… sarà il candidato” per il Partito
Repubblicano alle elezioni presidenziali del 2024.
“E
dobbiamo sconfiggerlo, e dobbiamo sconfiggere coloro che negano le elezioni,
come abbiamo fatto nel 2020 e nel 2022.
E
dobbiamo, sai, essere solo più intelligenti su come stiamo cercando di dare
potere alle persone giuste all’interno il Partito Repubblicano”, ha continuato
Clinton.
(Hillary
Clinton incolpa i "repubblicani MAGA" per il caldo).
Clinton
ha affermato che il movimento MAGA è “la classica storia di un populista
autoritario che ha davvero controllo sui bisogni emotivi e sui desideri emotivi
e psicologici di una parte della popolazione e della base del Partito
Repubblicano per qualsiasi combinazione di ragioni”.
Ed è
emotivo e psicologico vedere in lui qualcuno che parla per loro, e sono
determinati a continuare a votare per lui, a partecipare alle sue
manifestazioni, a indossare la sua merce, perché, qualunque sia il motivo, lui
e i suoi, sai, una forma di politica molto negativa e cattiva risuona con loro.
“Forse
a loro non piacciono i migranti”, ha detto Clinton in un ulteriore tentativo di
patologizzare gli elettori di Trump e attribuire loro motivazioni malevole,
aggiungendo che “forse non piacciono i gay o i neri o la donna che ha ottenuto
la promozione al lavoro”.
Clinton
ha continuato denigrando i sostenitori di Trump perché “volevano essere
responsabili della propria vita” e avevano libertà di parola, e ha affermato
che volevano insultare chiunque fosse in disaccordo con loro.
"Make America Great Again è stato un tentativo di
nostalgia", ha detto.
“Tornare
in un luogo dove, sai, le persone possono essere responsabili della propria
vita, sentirsi autorizzate, dire quello che vogliono, insultare chiunque si
metta sulla loro strada. E questo è stato davvero interessante per una parte
significativa della base repubblicana”.
"Quindi
è come una setta, e qualcuno deve interrompere questo slancio", ha
concluso.
I
commentatori conservatori hanno condannato duramente i commenti di Clinton sui
sostenitori di Trump e il suo appello a “deprogrammare” i repubblicani MAGA
sull’app di social media “X” (ex Twitter), dove esperti e politici hanno
paragonato il suo sfogo a un appello per “campi di rieducazione”.
Più
avanti nell'intervista, l'ex candidata presidenziale ha affermato di essere
fiduciosa che Joe Biden sarà in grado di sconfiggere Donald Trump se dovessero
affrontarsi di nuovo nelle prossime elezioni presidenziali del 2024,
sottolineando che Biden ha fatto un " lavoro fantastico" e ha
affermato che una rielezione di Trump potrebbe “porre fine alla nostra democrazia”.
"E
non lo dico alla leggera", ha affermato.
Clinton
ha visto la recente destituzione del repubblicano Kevin McCarthy dalla carica
di presidente della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti come una prova
del fatto che il GOP si trova in “una situazione di ostaggio assoluto con i
suoi membri più estremisti”.
Clinton
ha dichiarato che McCarthy è stato “punito” per “aver fatto la cosa giusta”
perché ha votato insieme ai democratici su un disegno di legge di spesa per
evitare una chiusura temporanea del governo.
“Non
continuava a essere prigioniero degli estremisti di estrema destra. Così lo
hanno rovesciato. Era un numero molto piccolo se si guarda al voto. Ma ora
stiamo raccogliendo le conseguenze del loro cattivo comportamento”, ha affermato.
Tuttavia,
Clinton ha contraddetto i suoi precedenti commenti su McCarthy, affermando che
il caucus “non poteva fidarsi” di lui quando gli è stato chiesto perché tutti i
rappresentanti democratici hanno votato insieme agli “estremisti del MAGA” per
cacciarlo.
"Ad
un certo punto, ci sarà bisogno di una reazione contro il controllo di questo
piccolo gruppo di estremisti", ha affermato, anche se la cacciata di
McCarthy è stata possibile solo perché i 208 democratici presenti hanno votato
per rimuoverlo. "E non so chi lo guiderà, ma speriamo che lo faccia
chiunque diventerà il nuovo oratore."
Se al
comando c’è
solo
un uomo.
Ilmanifesto.it
– (25 -2-2022) - Norma Rangeri – ci dice:
GUERRA
IN EUROPA.
Un
uomo che mentre denuncia di voler denazificare l’Ucraina, descrivendola come un
regime di fascisti, nazisti e oligarchi, sembra in realtà preda di un transfert
assoluto.
Non
volevamo credere a quel che temevamo, una guerra d’invasione in un paese
sovrano dell’est europeo.
Questa
volta non sono i carri armati dell’Unione sovietica che invadono la
Cecoslovacchia, sono i carri armati e i missili di Putin che occupano e
bombardano l’Ucraina per rovesciarne il legittimo governo e per sostituirlo con
un regime controllato da Mosca.
Ridisegnando
così il confine di una nuova guerra fredda che l’invasione alimenta,
rafforzando proprio la Nato sulla frontiera est dell’Europa.
In
un’escalation che dal 2014 (seguita dai disattesi accordi di Minsk) tutti hanno
finto di non vedere.
Naturalmente
il disegno di Putin, in un paese che nel 1991 ha scelto al 90 per cento
l’indipendenza dalla Russia, mette nel conto un bagno di sangue e milioni di
cittadini ucraini in fuga.
Ma,
oltre i ragionamenti, le analisi economiche e geopolitiche, dobbiamo fermarci
un momento a riflettere sul fatto che questa è una guerra organizzata, studiata
e voluta da un uomo solo al comando.
Che
non conosce opposizione interna perché nel suo paese gli oppositori rischiano
la vita.
Una
guerra agita da un nemico delle democrazie, derise come incapaci di soddisfare
i bisogni del popolo, e per questo diventato il beniamino degli autocrati di
tutto il mondo:
Trump
in testa che considera Putin un genio.
Un
uomo che mentre denuncia di voler denazificare l’Ucraina, descrivendola come un
regime di fascisti, nazisti e oligarchi, sembra in realtà preda di un transfert
assoluto perché, fascisti, nazisti e oligarchi (presenti e forti a Kiev) sono
fratelli gemelli dei suoi compagni di banco oggi al potere in Russia.
Non
c’è salvezza da questa guerra se non nella pace.
Che
non è una paradisiaca condizione originaria ma qualcosa che cerchiamo di
immaginare, un ideale.
L’unico
ideale per cui vale la pena di spendersi, di lottare, di credere.
E
quella forza che l’Europa non ha, né militarmente, né politicamente perché
divisa tra cinismo e impotenza, può trovarla solo nelle sue opinioni pubbliche
se saranno in grado di suscitare un’onda pacifista contro una guerra capace
solo di nutrire sé stessa.
Contro
la guerra folle,
la
verità della pace.
Ilmanifesto.it
– (26-2-2022) – Tommaso Di Francesco – ci dice:
GUERRA
IN UCRAINA.
Condanniamo
questa avventura del Cremlino, con la stessa forza e chiarezza con cui questo
giornale ha condannato le guerre occidentali (e non solo, a cominciare
dall’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979) all’Iraq, alla Somalia,
all’ex Jugoslavia, all’Afghanistan, alla Libia, a Gaza e alla Palestina, alla
Siria
Noi
diciamo un forte, urlato quanto disperato No all’aggressione militare della
Russia di Putin all’Ucraina che da ieri mattina mostra con la decisone di
sorvoli di caccia militari su Kiev risvegliata dagli allarmi aerei, un aspetto
che sarebbe criminale.
Condanniamo
questa avventura del Cremlino che è una aperta violazione del diritto internazionale,
con la stessa forza e chiarezza con cui questo giornale ha condannato le guerre
occidentali (e non solo, a cominciare dall’invasione sovietica dell’Afghanistan nel
1979) all’Iraq,
alla Somalia, all’ex Jugoslavia, all’Afghanistan, alla Libia, a Gaza e alla
Palestina, alla Siria…
Comunque
le immagini della metropolitana di Kiev con bambini e donne terrorizzate sono
una ferita della memoria:
con un
indicibile dolore personale, ci ricordano le notti dei bombardamenti Nato di
Belgrado di 23 anni fa, che avremmo voluto fossero le ultime nella storia
d’Europa.
Speriamo
che non arrivi mai anche stavolta per le vittime civili il disprezzo
dell’etichetta «effetti collaterali».
Il nostro cuore dalla parte degli ultimi e dei
deboli e la nostra ragione «internazionale» stanno in questo momento con i
civili ucraini. E con quelli russi che manifestano per la pace, contro la
guerra.
Non
amiamo la geopolitica: alla fine è disposizione di bandierine su carte
geografiche per giochi di guerra sempre contro le sorti del mondo.
Va da
sé che ci troviamo di fronte allo stravolgimento degli assetti strategici
mondiali.
Siamo
contro la guerra, nessuna ragione politica la giustifica, contro a prescindere
da chi la muova, siamo contro i complessi militari-industriali siano essi
occidentali, cinesi e russi:
queste
istituzioni che presiedono ai Pil nazionali e alle politiche di potenza
preparano scenari distruttivi e di morte come questo.
La
pace è una costruzione non solo una volontà.
Sarebbe
ora che la politica ne prendesse atto invece di relegare questioni come la
pace, lo stop alla crescita della spesa militare, il disarmo, la dismissione
delle diffusissime armi nucleari in Europa, in uno scantinato negletto e
dimenticato; come se non riguardassero l’allocazione delle risorse non solo
energetiche, l’uscita dal disastro pandemico, la transizione ecologica.
Balcani:
se l’Occidente sbaglia
approccio
sul dossier kosovaro.
Ispionline.it
– (6 settembre 2023) – Giorgio Fruscione – ci dice:
Dopo
un'estate di tensioni, sembra tornata una fragile calma nei Balcani. Nonostante
la possibilità di guerre aperte nella regione sembri qualcosa di remoto, rimane
una costante tensione latente e, dunque, un equilibrio precario.
È
stata l’ennesima, calda estate nei Balcani, soprattutto tra Kosovo e Serbia.
Dopo
le violenze di fine maggio e le successive tensioni di confine, la situazione è
tornata ad una calma apparente.
In
attesa del prossimo episodio che faccia temere al resto d’Europa che nei
Balcani stia per scoppiare una nuova guerra.
Un’ipotesi
però da escludere, per diversi motivi:
la
mancanza di risorse e di budget militari, ma soprattutto la sconvenienza
politica.
Belgrado
e Pristina hanno un reciproco vantaggio politico nel minacciarsi continuamente
la guerra:
il
timore del vecchio nemico aiuta infatti a rinsaldare le due leadership più di
qualsiasi accordo o negoziato.
Che di
fatto c’è, ma non si vede.
L’Accordo
di Ohrid non è mai stato preso sul serio dalle due parti.
Privo
di firma e protocolli diplomatici, il testo è stato prima accettato a fine
febbraio a Bruxelles e, il 18 marzo, integrato dall’annesso di implementazione
nella cittadina macedone.
Basata
sull’accordo che normalizzò le relazioni tra le due Germanie nel 1972, l’intesa
si compone di 11 articoli e porta le parti a un mutuo riconoscimento di fatto,
senza mai menzionarlo apertamente.
Inoltre, mentre Pristina si impegna a
istituire l’organo di autogoverno per i serbo-kosovari – ciò che gli accordi di
Bruxelles del 2013 chiamano Associazione/Comunità dei Comuni Serbi (ASM) –
Belgrado rinuncia al boicottaggio delle candidature del Kosovo nelle assemblee
internazionali.
Impegni
che, ad oggi, non sono stati rispettati.
Se a
Pristina non c’è ancora consenso, né un reale impegno politico, per uno statuto
che definisca e regoli l’ASM, a Belgrado non sembra esserci l’intenzione di
interrompere la campagna diplomatica contro l’adesione kosovara nelle
organizzazioni internazionali.
Ad appena un mese dall’Accordo di Ohrid,
infatti, la Serbia ha votato contrariamente all’adesione di Pristina al
“Consiglio d’Europa” (CoE).
E un reale impegno per l’implementazione manca
anche da parte degli stati membri dell’Unione Europea, dove persiste
un’incoerenza formale per via dei cinque paesi che non riconoscono il Kosovo,
tra cui Slovacchia e Spagna che però esprimono rispettivamente l’inviato
speciale per il dialogo tra Belgrado e Pristina, “Miroslav Lajcak”, e l’Alto
rappresentante per la politica estera dell’UE,” Josep Borrell”.
Insieme
alla Serbia, anche la Spagna e altri tre paesi UE – Cipro, Romania e Ungheria –
hanno votato contro la membership kosovara al CoE.
Ciò
che sorprende, però, non è tanto che singoli paesi UE non cambino la propria
politica nei confronti della sovranità kosovara, quanto piuttosto l’approccio
comune adottato dalla “Commissione europea” e dagli “Stati Uniti”.
Dopo
le violenze contro i militari KFOR di fine maggio, quando l’insediamento dei
sindaci albanesi nei quattro comuni del nord del Kosovo scatenò la reazione
serba, sia Bruxelles che Washington hanno sanzionato il governo kosovaro,
ritenuto colpevole della provocazione che ha portato all’escalation, un’azione
decisa autonomamente senza informare i partner internazionali.
Il
Kosovo è stato prima escluso dalle esercitazioni militari “Defender Europe 23”
a guida USA, quindi l’UE ne ha congelato l’erogazione di fondi fintanto che non
si impegna per la de-escalation.
Allo
stesso tempo, nessuna sanzione è stata invece indirizzata alla Serbia, nemmeno
quando due settimane dopo i disordini nel nord la polizia ha arrestato tre
poliziotti kosovari nella zona di confine tra i due paesi.
Un
approccio quindi molto sbilanciato, che colpisce l’esecutivo guidato da “Albin
Kurti” e, indirettamente, favorisce l’agenda del presidente serbo “Aleksandar
Vucic”.
Un’opinione
condivisa anche da più di cinquanta parlamentari europei, britannici e
statunitensi, che ad inizio agosto hanno inviato una lettera a “UE”, “USA” e
“UK” invitandoli a cambiare strategia sul dossier kosovaro.
I
rischi di un tale approccio sono due.
In primis, lascia in sospeso l’impegno
diplomatico iniziato con l’allora iniziativa franco-tedesca, poi tradottasi
nell’”Accordo di Ohrid”, e, di riflesso, chiude un occhio sulla postura della
Serbia nella regione, dove Belgrado porta avanti un’azione d’interferenza
politica tesa a costruire il cosiddetto “mondo serbo”:
una
via di mezzo tra una versione aggiornata del programma nazionalista “grande
Serbia” e la politica di Mosca nel suo vicinato chiamato “russkiy mir” (mondo
russo).
Quanto
al primo rischio, gli “Accordi di Ohrid “si ponevano due obiettivi geopolitici
di lungo termine:
evitare
focolai di tensione tra i due paesi e sottrarre la Serbia dall’orbita russa,
avvicinandola al campo occidentale.
Sebbene
convincere Belgrado ad adottare sanzioni contro Mosca sia al momento tanto
utopistico quanto poco consistente dal punto di vista del loro eventuale
impatto economico, la speranza è perlomeno che la Serbia interrompa la sua
decennale oscillazione tra Russia e Unione Europea.
In
particolare, qualora la Serbia smettesse di ostacolare l’accesso del Kosovo
all’ONU e alle altre organizzazioni, l’alleanza politica con la Russia sarebbe
svuotata di significato.
L’attuale
assenza di equidistanza diplomatica rende però irrealizzabili questi obiettivi.
Relativamente
al secondo rischio, lasciare campo libero all’agenda regionale della Serbia di
“Vucic” – i cui governi hanno sempre goduto dell’appoggio delle principali
cancellerie ed istituzioni occidentali, contribuendo alle cosiddette
“stabilitocrazie” – significa innanzitutto minare il processo di dialogo e la
normalizzazione tanto auspicata tra Belgrado e Pristina.
E, di
conseguenza, compromettere ulteriormente la stabilità politica di tutta la
regione balcanica.
Sebbene “Vucic” faccia regolarmente ricorso ad
una retorica con cui si autopromuove garante di pace e stabilità regionale,
l’atteggiamento verso quei paesi dell’ex Jugoslavia con una consistente
minoranza serba mira a destabilizzare i governi locali.
Una
fattispecie che nel nord del Kosovo si concretizza con la “Lista serba”,
principale partito serbo-kosovaro che risponde però esclusivamente ai voleri di
Belgrado.
In
modo simile, in queste settimane, il fenomeno si può osservare anche in
Montenegro.
A Podgorica sta nascendo il terzo governo
senza il partito dell’ex presidente “Milo Djukanovic” – che dal 2020 è passato
all’opposizione dopo trent’anni di dominio quasi incontrastato – e
nell’esecutivo che sarà guidato dal centrista “Milojko Spajic” non dovrebbero
figurare i partiti filoserbi.
Un’eventualità
che ha attivato le intimidazioni politiche di Belgrado.
Due
settimane fa, il ministro della Difesa “Milos Vucevic” ha minacciato sulla tv
nazionale il Montenegro (e la Macedonia del Nord) per aver riconosciuto il
Kosovo: “Un errore che gli si ritorcerà contro, esattamente come accaduto in
Ucraina”, ha dichiarato” Vucevic” sull’emittente filogovernativa “Pink”.
Anche se il riconoscimento del Kosovo è del
2008, la minaccia al paese NATO arriva ora che l’esecutivo montenegrino
dovrebbe escludere figure politiche vicine al presidente serbo e che durante la
campagna elettorale promettevano che, con loro al governo, il Montenegro
avrebbe ritirato il riconoscimento di Pristina e sarebbe uscito dall’Alleanza
atlantica.
Il
“mondo serbo” – sintagma coniato dall’ex ministro dell’Interno e oggi capo dei
Servizi segreti “Aleksandar Vulin” – è esattamente questo:
un
apparato retorico teso a minacciare gli stati vicini di cui il governo serbo
intende influenzare il corso politico a proprio uso e consumo.
Non un
programma politico sostenuto da un budget bellicistico come fu negli anni
Novanta, bensì una scorta nazionalista che grava sui delicati rapporti
regionali, nonché sui processi di riconciliazione interna.
Un
atteggiamento che negli ultimi anni ha agevolato le mosse secessioniste dei
serbo-bosniaci del filorusso “Milorad Dodik”, che lo scorso giugno ha promosso
una legge per invalidare le decisioni della corte costituzionale della “Bosnia-Erzegovina”
in quella che si potrebbe definire “secessione giuridica” della “Republika
Srpska” (una delle due entità che compongono il paese).
Uno
sbilanciamento diplomatico dell’Occidente sul dossier kosovaro, pertanto,
darebbe ulteriore legittimazione a una politica serba tanto autoritaria a
livello interno quanto destabilizzante nei paesi vicini.
Nonostante
l’influenza russa sulla Serbia difficilmente si possa tradurre in un sostegno
militare attivo, ciò non esclude che Belgrado non continui ad importare da
Mosca il suo modello politico, fatto di autocrazia interna e aggressività
regionale.
Un
modello che, nei Balcani, probabilmente non produrrà guerre aperte, ma che
terrà in vita una costante tensione latente sui già precari equilibri
etno-politici.
VLADIMIR
PUTIN, UN APPROCCIO
FISIOPATOLOGICO:
NELLA MENTE
DELL’UOMO
SOLO AL COMANDO.
Iassp.org
– (8 agosto 2022) – Prof. Francesco Cetta – ci dice:
Vladimir
Putin è nato a San Pietroburgo, all’epoca Leningrado, il 7 Ottobre 1952. Ha
quindi 69 anni, e dal 31 Dicembre 1999 ha di fatto sostituito Eltsin alla guida
della Federazione Russa.
È quindi
al potere ininterrottamente da 23 anni, a capo di uno degli Stati militarmente
più potenti al mondo.
Putin
eredita una Russia disastrata, dopo il collasso dell’Unione Sovietica
successivo alla caduta del Muro di Berlino.
Le
notizie sulla sua infanzia, oltre che da pochi documenti ufficiali, sono
ricavabili da una autobiografia, “In prima persona”, stampata per la campagna
elettorale del 2000.
Si
apprende che ha vissuto un’infanzia povera in una Kommunalka a San
Pietroburgo.
Il
padre e la madre, entrambi nati nel 1911, e morti, la madre nel 1998 ed il
padre nel 1999, rispettivamente ad 87 ed 88 anni, (cioè prima che diventasse
Presidente della Federazione Russa) erano di condizione non agiata.
Il padre, meccanico e sommergibilista durante la
guerra e poi arruolato nei reparti speciali come “sabotatore”, era comunista
militante e ateo, mentre la madre era operaia, cattolica ortodossa, ed era
riuscita ad ottenere il “nulla osta” del marito a portare il piccolo Vladimir
in Chiesa con lei.
Putin
si dichiara “credente”, si considera di fede cristiana e ha contribuito
notevolmente al ravvicinamento tra Chiesa Ortodossa e governo attuale in Russia.
Ha
avuto due fratelli, entrambi morti durante i primi anni di vita, per cui è
cresciuto da solo, prevalentemente con la madre, (perché il padre era talvolta
lontano), ma non è “automatico” che abbia avuto un’“infanzia infelice” e senza
affetti, come pure sostengono moderni commentatori, che intendono attribuire
all’ambiente esterno gran parte della sua “struttura organismica” e della
formazione della sua personalità.
Il
nonno paterno aveva conosciuto personalmente sia Lenin che Stalin, perché aveva
lavorato a lungo, come cuoco, in una “dacia” di loro proprietà. Indubbiamente
non apparteneva ad una famiglia agiata.
Ha
dovuto impegnarsi e “lottare” per farsi strada. Secondo le sue stesse parole
“La strada di Leningrado mi ha insegnato:
se la
rissa è inevitabile, colpisci tu per primo”.
Come
emerge dalle pagine successive, io credo di aver individuato in alcuni suoi comportamenti
(la tenacia, la dedizione maniacale per il lavoro o la “mission” che aveva
scelto per sé), la spiccata tendenza alla “sistematizzazione” alcuni tratti che
si riscontrano frequentemente in soggetti inquadrabili nello “spettro
dell’autismo”, ma particolarmente dotati nella capacità di “analizzare e
pianificare”, secondo l’interpretazione di Baron-Cohen.
Con
questo non è che provo ad immaginare Vladimir come un tipico “bambino
autistico”, con deficit di apprendimento o disturbi motori, che impara a
camminare a 4 anni, o è incapace di infilare il bottone nell’asola della giacca
come “Kim Peek”, il protagonista del film “Rain Man”, interpretato da “Dustin
Hoffman”, e nemmeno un bambino incapace di “fissare negli occhi”, come “Daniel
Tammet”, o “Greta Thunberg” (due autistici famosi dotati di memoria
straordinaria), entrambi caratterizzati dall’ “evitamento dello sguardo”.
Putin
al contrario ti guarda fisso negli occhi ed appare dotato di sguardo
magnetico.
Ma,
sulla base delle considerazioni fisiopatologiche esposte nel presente saggio e
la spiegazione dei talenti come espressione di “plus” e “minus” a livello di
struttura organismica, analizzando quello che appare della personalità di
Putin, è evidente come a fronte di qualità e talenti, che ne fanno un uomo
fuori dalla norma, uno dei “diversi”, o dei “folli” di cui mi occupo nel
saggio, dimostri anche una scarso apprezzamento per la sofferenza altrui, e la
“costitutiva” tendenza a considerare le vittime di azioni di guerra o di
repressioni ordinate da lui come “effetti collaterali”, eventi quasi
“obbligati”, che non lo fanno distogliere più di tanto dal perseguire il suo
obbiettivo.
Io
ritengo che questi caratteri (carattere), sia i talenti di cui è indubbiamente
dotato, che il suo cinismo, la sua freddezza, lucidità, così come la scarsa
empatia nei confronti degli altri, incluso amici e parenti, abbiano cominciato
ad emergere e si siano sviluppata fin dall’infanzia e abbiano raggiunto il loro
completamento o punto di non ritorno nell’età matura.
E non solo a causa dell’infanzia infelice e
priva di affetti, ma per il combinato disposto tra genetica, epigenetica e
ambiente circostante e le loro interazioni con l’organismo durante le varie
finestre di suscettibilità nel corso dello sviluppo.
Vladimir
è uno studente appartato, taciturno, che supera brillantemente gli esami,
nonostante le condizioni economiche disagiate (o proprio per quello!), e nel
1975, a 23 anni, consegue la “Laurea in Diritto Internazionale” presso la
Facoltà di Legge dell’Università Statale di Leningrado.
Subito
dopo viene arruolato nel “KGB”, la polizia di Stato segreta dell’Unione
Sovietica.
Dopo
10 anni in Russia, viene inviato a “Dresda”, nella Germania Est, controllata
dall’URSS.
La sua
“copertura” è come interprete.
Conosce
bene il tedesco, è in grado di esprimersi in inglese e anche in svedese.
Rimane
funzionario del KGB per 16 anni, raggiungendo il grado militare di tenente
colonnello.
In realtà non è questa la carica più alta
avuta da Putin nei servizi, perché nel 1998 Eltsin lo nomina “Capo dell’FSB”,
una delle agenzie dei Servizi, che sono succedute al KGB, dopo il suo
smantellamento in seguito al tentato Colpo di Stato per destituire “Gorbacev”,
avvenuto con l’avallo proprio dei vertici del KGB.
Nel frattempo conosce la futura moglie,
Ljudmila”, nata nel 1958 a Kaliningrad, (l’antica Königsberg, la patria di
Immanuel Kant, che non si è mai staccato da questa città), che studia a
Leningrado e che poi ottiene nel 1986 “la Laurea in Lingua spagnola e Filologia
“all’Università di Leningrado-San Pietroburgo.
I due
si frequentano mentre lei lavora come hostess, assistente di volo all’Aeroflot,
si sposano nel 1983 e vivono, prima a Leningrado e poi a Dresda.
La prima figlia Maria nasce a Leningrado nel
1985;
la
seconda, Ekaterina, nasce a Dresda nel 1986.
La moglie Ljudmila dal 1990 al 1994 ha poi
insegnato tedesco presso il Dipartimento di Filologia a Leningrado, mentre le
figlie hanno frequentato entrambe la “Scuola Tedesca” di Mosca.
La
moglie di Putin può aver avuto un ruolo nel suo interesse per la “lingua russa”
come radice e fattore unificante dell’identità di una nazione.
Infatti si è spesa molto personalmente per
mantenere e preservare la lingua russa dalla “riforma ortografica”, ed è stata
al centro di una campagna contro la modifica dell’ortografia nella lingua russa
tradizionale.
Putin
stesso ha scritto un saggio sull’ “Unità storica di Russia e Ucraina”,
pubblicato a Mosca nel 2021.
Quindi
Putin (così
come Trump -che viene considerato dai suoi denigratori un incolto, o uno che
non ha effettuato studi adeguati, mentre si è “laureato in Finanza presso
l’Università della Pennsylvania”, una delle 9 appartenenti alla prestigiosa
“Ivy League” e ha scritto decine di libri) conosce 4 lingue, ha conseguito una
laurea in Diritto internazionale e, successivamente, il 27 Giugno 1997, anche
un Master in Economia presso l’Istituto Minerario, con una tesi sulla
“Progettazione strategica delle risorse regionali sotto la formazione dei
rapporti del mercato”. (Putin più tardi è stato accusato dai suoi detrattori di aver
“copiato” 16 pagine della sua relazione da un saggio di “progettazione
strategica” pubblicato da due esperti statunitensi l’anno precedente).
Comunque non è sicuramente un incolto, sia per gli
studi di perfezionamento fatti mentre era in forza al KGB, che per l’esperienza
e le relazioni intrattenute mentre era a Dresda con la copertura come
“interprete”.
Ufficialmente
non è stato mai impegnato come “agente operativo”.
Il suo compito specifico era quello di
“redigere rapporti” che passava ai suoi superiori ed in cui metteva in mostra
le sue abilità di analisi e di “sistematizzazione”.
Putin
rassegnò le dimissioni dal KGB il 20 Agosto 1991, dopo il golpe contro “Gorbacev”
tentato proprio dai vertici del KGB.
Tuttavia,
a proposito del servizio nel KGB, i suoi biografi riportano: “Dopo la caduta del Muro a Berlino,
il 9 Novembre 1989, Putin era rimasto l’ufficiale più alto in grado nella sede
di Dresda, perché il suo superiore si era dato alla fuga”.
La folla inferocita aveva prima dato l’assalto alla
sede della STASI, la sanguinaria polizia segreta della DDR, e successivamente
voleva assalire anche la sede del KGB, che è vicinissima (in un mio recente viaggio in
Germania ho visitato i luoghi della STASI e del KGB a Lipsia e Dresda).
Secondo
il resoconto ufficiale:
“Putin
uscì nel cortile armato di pistola per fermare i manifestanti i quali, dopo
aver invaso la sede della STASI, volevano assaltare anche la sede del KGB.
Si
qualificò come interprete e spiegò che quello era territorio sovietico,
riuscendo a convincere la folla a non scavalcare il muro di cinta”.
Si
riferisce che disse:
“Ho 12
pallottole. Una la lascio per me. Ma comprendete che è mio dovere. Dovrò
sparare su di voi se provate a scavalcare”.
In realtà, la folla inferocita fu dispersa
dall’esercito russo intervenuto a difesa della extraterritorialità della sede,
assimilata all’Ambasciata.
Si
tratta di uno dei tanti episodi, non si sa quanto “romanzati”, che sono stati
utilizzati per alimentare l’immagine di un Putin duro, coraggioso,
inflessibile, con alto senso del dovere, che è stata diffusa per generare
attorno al leader una sorta di “culto della personalità”.
Del resto Putin è noto per la sua passione per
le arti marziali.
È stato campione di judo di San Pietroburgo
(cintura rosso-bianca, 8° dan) ed anche di karatè.
Alto 1
m e 70 cm, attualmente pesa 77 kg, ma ha sempre tenuto a dimostrare di
mantenersi in ottima forma fisica, con attività e coordinazione muscolare al
top (tutto
l’opposto degli “autistici”, muscolarmente scoordinati).
Ha sin da ragazzo seguito uno stile di vita salutare.
Non
beve (è astemio), non fa uso di droghe, si mantiene quotidianamente in perfetta
forma fisica: nuota, fa ginnastica, ha giocato ad hockey sul ghiaccio fino a 63
anni.
È di
questi giorni la notizia che sia affetto – sembra da 4 anni secondo una fonte
russa indipendente – da cancro della tiroide.
La
forma più frequente di tumore maligno della tiroide, il carcinoma papillifero,
che rappresenta oltre l’80% dei casi, ha un’ottima prognosi e, se diagnosticato
in tempo, trattato chirurgicamente con tiroidectomia totale ed eventuale
terapia complementare con radio-Iodio, consente una lunghissima sopravvivenza (oltre
10-20 anni).
Le
fonti ufficiali del Cremlino hanno smentito la notizia, perché il leader
affetto da tumore può suscitare illazioni circa l’appropriatezza delle sue
decisioni
Comunque
per tutto ciò che riguarda la vecchia URSS e l’attuale (Federazione Russa) è
sempre difficile distinguere la verità dalla propaganda.
E soprattutto le notizie sulle condizioni di
salute del capo politico sono sempre circondate dal massimo riserbo.
Finita
l’esperienza col KGB, Putin e la moglie tornano a Leningrado, che ha cambiato
nome in San Pietroburgo.
Lui viene immediatamente coinvolto in
politica, mentre la moglie insegna tedesco al Dipartimento di Filologia.
I due
si separeranno nel 2013.
Lei si è successivamente sposata con un
imprenditore russo di 20 anni più giovane , ma pare che il matrimonio sia
durato solo dal 2015 al 2016, mentre lui ha avuto una serie di relazioni, tra
cui anche una con una spia, “Anna Chapman”.
Si
vocifera che abbia avuto una terza figlia da” Svetlana Krinogovich” ed una
quarta figlia ed una coppia di gemelli maschi, nel 2019, con “Alina Kabaeva” ,
ex olimpionica, medaglia d’oro di ginnastica ritmica, 36enne all’epoca della
gravidanza plurima (Campbell M “Kremlin silent on reports Vladimir Putin and
Alina Kabaeva,”, his secret first lady,
have had twins”. “The Times”, 26 May,
2019).
La
carriera politica di Putin è stata travolgente.
Ritornato
a San Pietroburgo, è stato inserito nella “Sezione Affari Internazionali
dell’Università statale”.
Grazie
ai pregressi rapporti instaurati all’epoca degli studi universitari, rafforza i
legami con un suo docente, “Anatolij Sobca”k, che era diventato nel frattempo
Sindaco di San Pietroburgo.
Putin
diventa Vicesindaco di San Pietroburgo e si candida come deputato.
Mentre
è a San Pietroburgo rinsalda i rapporti con personaggi importanti, come il CEO
di “Gasprom”, ed altri oligarchi che costituiranno la sua cerchia
ristretta.
Chiamato
a Mosca da Eltsin, nel 1998 viene nominato capo della FSB (agenzia succeduta al
KGB), ruolo che tiene per 1 anno, oltre che membro permanente del Consiglio di
Sicurezza.
Si
distingue come “Presidente della Commissione per la Limitazione del potere
delle Regioni”, voluta da Eltsin e si impegna a far firmare un decreto che di
fatto grazia gli ex presidenti prosciogliendoli da accuse giudiziarie (Eltsin
era sospettato della creazione di un enorme patrimonio personale segreto
all’estero).
Nel
frattempo acquisisce crediti, perché aiuta Eltsin a difendersi dai suoi nemici
ed oppositori, senza remore nell’uso di mezzi “atipici” per eliminarli.
Il principale critico ed accusatore di Eltsin,
il Procuratore Generale di Russia “Jurji Skuratov”, che indagava su fondi neri,
conti segreti in Svizzera e carte di credito riconducibili a Eltsin e alle
figlie Elena e Tatiana, è condannato anche grazie ad un video prodotto in
giudizio da Putin, in cui si vede un uomo nudo (somigliante al Procuratore) con
due donne, durante un’orgia offerta in premio per facilitazioni concesse agli
oligarchi russi.
(Pare che anche Trump, durante un suo viaggio
a Mosca, prima che entrasse in politica, quando era già comunque un tycoon
famoso, sia stato filmato a sua insaputa in un albergo di Mosca in pose hard).
Per
indubbie capacità come leader e per “servizi resi” comunque Eltsin nomina Putin
Primo Ministro nell’Agosto 1999 e suo successore, come Presidente vicario il 31
Dicembre 1999 (all’età di 47 anni).
Da
Presidente vicario vince le elezioni a Presidente della Federazione Russa che
si tengono anticipatamente nel Marzo 2000, sbaragliando i due possibili
concorrenti più pericolosi.
Da
allora è stato eletto per 4 volte Presidente della Federazione russa, l’ultima
volta per 6 anni nel 2018, col 76% dei consensi.
Il suo
mandato scade nel 2024.
Nel frattempo supera i problemi di
incompatibilità nella successione di più mandati, accontentandosi del ruolo di
Primo Ministro dal 2004 al 2008, facendo eleggere Presidente della Federazione
Russa il fedele Medvedev, ma avocando a sé i poteri più importanti e lascando
la politica estera nelle mani del fedele ministro Lavrov.
Nel
1999 si trova a fronteggiare i ribelli in Cecenia, facendosi notare per la
fermezza della sua repressione nel sangue.
Nel
2001, dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York, è stato il primo a
telefonare al Presidente americano Bush e ad esprimere la sua solidarietà e il
suo appoggio incondizionato al contrasto del terrorismo islamico.
Nel
2008 ha represso nel sangue la rivolta nella Georgia con la creazione degli
stati indipendenti dell’”Ossezia” e dell’”Abkasia”, mentre è poi intervenuto
pesantemente nel 2015-2016 nella guerra in Siria salvando dalla deposizione “Al
Assad” e distruggendo con raid aeri le forze nemiche dopo averle ridotte allo
stremo.
Putin
ha eliminato in patria numerose libertà civili e pianifica da oltre vent’anni
la ricostruzione della “grande Russia”, cioè qualcosa che abbia i contorni
geografici dell’impero degli zar.
In
particolare tollera malvolentieri che ci sia in Ucraina o Bielorussia un
governo diverso da quello che egli stesso ha instaurato a Mosca.
Questo
è in breve il Putin, impegnato in numerose guerre guerreggiate, che ci viene
consegnato dalle notizie ufficiali.
Il
Putin meno noto è proprietario di una enorme villa vicino a San Pietroburgo e
di una enorme dacia a “Gelendzik”, sul Mar Nero.
Un
finanziere americano ha dichiarato che Putin è l’uomo con il maggior patrimonio
personale al mondo, patrimonio che supera i 200 miliardi di dollari.
Ma
questo patrimonio è per il momento molto ben occultato.
Secondo
il vecchio presidente ucraino” Poroshenko”, Putin è un “pazzo”, che ha ormai
perso l’auto-controllo.
Odia
il mondo occidentale e i valori europei; pensa che l’Europa sia debole, che gli
europei siano deboli, e che i valori europei siano valori “deboli”.
Un
giudizio opposto proviene dal capo della CIA, l’Agenzia di intelligence
americana.
Putin “non è pazzo”.
Al
contrario, è un uomo molto determinato, metodico, lucido, sistematico, che
pianifica con cura e per tempo tutte le sue mosse, valutando attentamente i
“pro” e i “contro”.
Pertanto,
bisogna prenderlo molto sul serio.
Infine,
secondo la valutazione effettuata dallo psicologo “Jerrold Post,” del Centro
per l’Analisi della Personalità e il comportamento politico della CIA, Vladimir
Putin è “un narcisista, un dittatore brutale senza regole, con una natura di
calcolatore estremo, costantemente alla ricerca di meticolose giustificazioni
pseudo-legali per le sue azioni.
Il
Presidente Russo è “ossessionato” dalla mascolinità, dall’altezza, dalla forza
e dal potere.
In
particolare, la sua preoccupazione per l’altezza e la forza rappresentano una
sorta di iper-compensazione per la sua insicurezza di fondo”.
Putin
non è un “pazzo”, se a questa etichetta si vuole associare la connotazione di
uomo “fragile”, caratterizzato da debolezza strutturale intrinseca, che ha
bisogno continuamente di essere rassicurato, o dell’aiuto di farmaci e terapie
di supporto psichiatrico per superare le crisi paranoiche.
No.
Putin
è ben saldo e corazzato nella sua struttura, in cui sono presenti poche
“crepe”.
È un
“folle”, ma un folle “visionario” che ha una “sua” visione, che è diversa da
quella della maggior parte di coloro che vivono in Europa o che fanno parte del
mondo anglosassone.
Putin,
sulla base dei criteri di valutazione usati in questo saggio, rientra a pieno
titolo nella categoria dei folli, degli “uomini soli al comando”.
Proprio
perché è al potere da ventitré anni, Putin è riuscito a creare un certo livello
di empatia con il suo popolo di seguaci e sostenitori.
Non
sarà seguito da tutta la Russia.
Ha
molti contestatori o gente che lo odia, come odiano Trump negli USA o come in
Italia, in maniera più “soft” e più attenuata, risultava inviso e odiato
Berlusconi.
In più
Putin ha consolidato attorno a sé un potere personale, per cui può permettersi
di far arrestare in un sol giorno 4000 contestatori, che avevano semplicemente
osato scendere in piazza e protestare contro la guerra.
Cosa
che né Trump, né Berlusconi, eletti rispettivamente Presidente e Premier in due
democrazie di diritto, potevano fare.
Anche
se a livello di “struttura organismica personale” lo avrebbero “desiderato”.
Deporre
Putin, o “costringerlo” a ritornare sui suoi passi non è facile.
Ma, soprattutto, se anche i suoi seguaci
decidessero di “farlo cadere”, è molto verosimile che chi prenderà il suo
posto, anche se diverso per tratti personali e somatici, avrà caratteristiche
simili a lui.
Sarà
un altro capo carismatico a cui i russi potranno chiedere “Facci sognare”.
Putin incarna questo sogno presente in molti suoi supporter, per cui,
attraverso il comunismo, la Russia era diventata alla fine della seconda guerra
mondiale una delle maggiori potenze del mondo.
Aveva
vinto la guerra ed estendeva la sua influenza dall’Europa al Pacifico, dal Mar
Nero al Mar Baltico.
Putin,
interpretando questo sentimento, che lo accomuna a molti altri russi, non vuole
rinunciare, dopo le umiliazioni seguite allo smantellamento dell’Unione
Sovietica, al compito (desiderio, illusione?) di riunificare in una stessa
grande nazione (anche se con gradazioni diverse di autodeterminazione e
indipendenza relativa) tutti i popoli che parlano la stessa lingua o sono
accomunati da secoli da una stessa cultura.
E per
questo che, dal “punto di vista fisiopatologico”, piuttosto che chiamare a
consulto psichiatri per una “cura” a distanza di Putin, è opportuno tentare di
“entrare nella sua mente”, penetrare nel suo cervello, che è tutt’uno col suo
organismo, per provare a capire attraverso la “teoria della mente” o il funzionamento
dei suoi “neuroni specchio”, quali potrebbero essere le sue mosse ed i suoi
comportamenti futuri.
Avendo
ben chiaro in mente che non si può sperare in una pace duratura se non si
capisce appieno la sua “visione”.
Che è
condivisa da molti altri.
Dai
Russi sedotti dal suo carisma, i quali in ben 2 referendum successivi, nel 2004
e nel 2008, alla domanda, “preferireste vivere in un paese molto grande,
rispettato e temuto dagli altri paesi, (ma con meno soldi a disposizione), o in
un paese piccolo, prospero, ma innocuo?”, hanno risposto in larga maggioranza
(75%) a favore della prima opzione.
Ma
anche dalla Cina e dall’India, che sono a favore di una visione del mondo
“multipolare”, in cui il ruolo di guida spirituale ed economica degli Usa e
dell’Europa sarà necessariamente ridimensionato.
Putin
si può fermare con la forza o la deterrenza.
Ma
perché la pace non sia solo una perenne “tregua armata”, o una nuova lunga
“guerra fredda”, bisogna provare a capire, (e in un certo senso, a rispettare)
il pensiero di milioni di russi che sono in sintonia con la sua visione e che
lo supportano.
L’approccio
fisiopatologico può essere di aiuto in questo caso, perché permette di
interpretare anche visioni, modi di pensare che sono diversi dal nostro, e
addirittura inquadrare e dare una nuova lettura anche a movimenti di pensiero
che hanno avuto un grande impatto nel corso della storia, come ad esempio il
Romanticismo, che nasce in opposizione all’Illuminismo e al razionalismo
settecentesco.
Questi movimenti potrebbero essere considerati non
solo come eventi “localizzati”, collocabili in una ben precisa cornice tempo-spaziale,
ma come espressione di caratteri, atteggiamenti, comportamenti, scelte
motivazionali, che esistono e continuano ad esistere e a coesistere nell’uomo,
anche all’interno di un singolo individuo.
Ad
esempio, è possibile interpretarli come espressione della “doppia anima”
maschile e femminile del corpo umano – come direbbero gli psicanalisti o gli
psicologi alla Jung – oppure di forze e meccanismi contrapposti, ma conviventi
all’interno di ciascuna struttura organismica, come propongo io in questo saggio.
Romanticismo
vs. razionalismo; le ragioni dell’individuo in confronto a quelle della
società; il nazionalismo, o l’attaccamento alla singolarità delle radici
linguistiche e culturali in contrapposizione a regole e principi universali.
Le scienze del corpo umano dimostrano che i
due aspetti o modalità di comportamento possono convivere in simbiosi.
A
seconda dei momenti della vita del singolo, piuttosto che dei momenti storici,
si può privilegiare o far prendere il sopravvento all’uno o all’altro, ma sono
due “anime” entrambe presenti, in quanto la loro coesistenza è possibile anche
all’interno dello stesso organismo, così come è possibile talvolta il viraggio
da animo “romantico” ad animo “razionale” e viceversa.
Il
Romanticismo storico, che ebbe il suo apice nelle prime decadi dell’Ottocento,
si caratterizzò per l’entusiasmo nei confronti di tutto ciò che è passione,
impulso, soggettività, e costituì una spinta verso la ricerca incondizionata
della libertà, tanto degli uomini, quanto dei popoli.
In
questo senso fornì le basi ideali per la nascita dei nazionalismi e delle
“patrie”.
Durante
l’Illuminismo sia i pensatori che gli artisti avevano forgiato una cultura con
una “vocazione universale” basata su codici comprensibili in tutto il mondo,
qualunque fosse il luogo di provenienza.
Qualcosa
di simile alla moderna “globalizzazione” con progressiva acquisizione di gusti,
modi di essere, stili di vita il più possibile uniformi.
Per i romantici, invece, l’importante era l’individuo,
ma con lui assunse importanza anche la nazione in cui era nato, intesa come la
comunità di uomini che erano uniti da una lingua, una cultura, una religione,
dei costumi e anche un’etnia comune.
Per questo i romantici dedicarono anima e corpo
alla ricerca di leggende e miti popolari, costumi, tradizioni ed aspetti
folcloristici, fiabe ed epopee in cui rintracciare l’origine comune, ma anche
da utilizzare per produrre nuove rappresentazioni, drammi od opere teatrali.
I “Discorsi alla nazione tedesca” di “Fichte”,
o le opere di “Von Herder”, contrappongono il concetto di “Volkstum”
(nazione-popolo) a quello di Stato, quest’ultimo visto come una “creazione
artificiale”.
Uno
degli argomenti più saldi dei discorsi di “Fichte” era proprio quello della
“lingua”, considerata il risultato di una elaborazione profonda dell’ “anima
collettiva” che era possibile tracciare fino alle origini, e costituiva quindi
un potente “elemento di coesione nazionale”.
“Tutti
gli individui che parlano la stessa lingua sono uniti sin dall’inizio da legami
indivisibili”.
La
minaccia che comportava per l’Europa il dominio napoleonico, nonostante la
concomitante spinta alla libertà e all’autodeterminazione attraverso una
rivoluzione simile a quella francese, metteva in pericolo la “singolarità”
delle sue culture.
L’opera
di “Fichte” costituì pertanto una chiamata alla difesa non solo della nazione
tedesca, ma di qualunque nazione sottomessa, contro le “intromissioni”
straniere.
È
possibile che Putin intenda farsi passare come un “eroe romantico”, il
difensore dell’integrità della nazione russa – unita dalla medesima lingua-
minacciata dall’invasione degli stranieri, che non solo parlano un’altra lingua
ed hanno altri costumi, ma sono per giunta espressione del “capitalismo
sfrenato” di matrice americana.
Nella
sua “visione” si tratterebbe di un tentativo estremo di difesa come quello
contro le armate di Napoleone o quelle della Germania nazista durante la
seconda guerra mondiale.
Non si
tratta di prendere in considerazione un anacronistico ritorno all’eroe
romantico, quello che fa della propria vita la sua opera più importante, che
mette in primo piano la lingua comune, la nazione, piuttosto che la distinzione
ottocentesche tra “nazione” come espressione del Volkgeist (spirito del popolo)
e “Stato” come insieme di confini territoriali, o di difendere a spada tratta
il principio “una lingua, una cultura, una nazione”.
Fermare
le lancette del tempo per permettere un ritorno all’Ottocento può sembrare
illogico dal punto di vista storico.
L’approccio fisiopatologico dimostra però che
questa componente dell’organismo umano è tuttora ampiamente rappresentata, non
solo in Putin e in Trump, ma nei milioni di strutture organismiche che si fanno
“sedurre” da questo tipo di leader. Anche oggi, nel 2022.
Io intendo mettere in guardia dalle facili
illusioni e invito alla cautela.
Molti
ucraini, sollecitati da motivazioni economiche e dai possibili aiuti fatti
trapelare dall’Occidente vorrebbero entrare da subito nella Comunità Europea.
Non va dimenticato che fino al 1988 il PIL pro capite delle repubbliche
dell’Est era simile.
Attualmente,
mentre il PIL/ab dell’Ucraina è rimasto a 2.194 $ USA (dati del 2016), quello
di nazioni entrate nella UE e nel sistema dell’Euro, come la Romania, la
Polonia, l’Ungheria, la Cechia e la Slovacchia è salito rispettivamente a 9465,
12.316, 12.778, 18.286 e 16.499.
La
Germania Est si è fusa con la Germania Ovest, ma il gap di 3 generazioni di
vita comunista è stato pagato dai tedeschi.
Il gap
per portare l’Ucraina ad un PIL simile a quello della Polonia o della Cechia
sarà pagato da noi, che non avremmo in futuro più aiuti comunitari per il
nostro Sud, perché i contributi della EC andranno tutti alle regioni più
disagiate dell’Ucraina, che hanno bisogno di adeguarsi al nuovo standard.
Anche
questo è uno scenario da aver chiaro in mente.
Però,
non basta dire che la “coscienza soggettiva” non esiste perché non è spiegabile
con le leggi universali.
Analogamente non si può liquidare l’afflato
romantico presente negli uomini del XXI secolo che vogliono “accomunare” –
talora anche con la forza e la sopraffazione – le popolazioni che parlano una
stessa lingua, sostenendo sbrigativamente che questo è inaccettabile, perché
bisogna privilegiare l’autodeterminazione dei popoli.
Addirittura, dal punto di vista formale,
alcuni arrivano a giustificare l’annessione della Crimea alla Russia, solo
perché c’è stata una “votazione popolare”, così come una libera elezione ha
portato col 75 % dei voti all’elezione di Zelenski, che prometteva il
progressivo avvicinamento dell’Ucraina all’Occidente con l’ingresso a breve
prima nella Unione Europea e poi nella NATO.
Anche le libere elezioni o i plebisciti sono
spesso alterati da emozioni o situazioni contingenti.
Il
plebiscito per l’annessione della Crimea si è tenuto mentre erano ancora
presenti i carri armati russi.
Non va
dimenticato però che la Crimea è sempre stato un territorio della Russia ed è
stata unita “tecnicamente”, per continuità territoriale, alla “repubblica
ucraina”, che faceva parte dell’URSS, solo nel 1954, per espresso volere del
Cremlino.
Ma
anche l’elezione di Biden negli USA è frutto di un “cartello anti-Trump”,
rafforzato dalla comparsa improvvisa degli effetti negativi della pandemia da
Covid -19.
A
distanza di un anno, Biden non otterrebbe nemmeno la metà dei voti che ha preso
a Novembre 2020.
Perché
la maggioranza dei cittadini americani non voleva un Presidente privo di nerbo
e carisma a capo della nazione più potente della terra.
Ma hanno avuto il sopravvento le “pulsioni”
del momento.
Quindi
l’autodeterminazione dei popoli sembrerebbe un logico principio universale.
Ma io
sono “scettico” nei confronti dell’applicabilità all’uomo di qualsiasi legge
universale e, soprattutto della estensione dello stesso tipo di governo (ad
esempio una democrazia simile a quella americana) al giorno d’oggi e
contemporaneamente a tutte le macroregioni della terra, che hanno diverse
storie e culture e che stanno attraversando momenti diversi di sviluppo ed
evoluzione.
Io
sono contro il “dogma della democrazia” come miglior governo per definizione,
come se si trattasse di una legge universale.
Per me
questo dogma è uguale a quello del credo nei dogmi della religione da parte di
molti fisici, biologi, “scienziati delle origini”, che a mio parere non sono
sufficientemente scettici e, nonostante il dichiarato “ateismo”, si rivelano
adoratori in realtà del Dio Bayes o del Dio Darwin.
Io
sono a favore dell’aristocrazia del “sapere critico”.
Uso il
termine “aristocrazia”, sulla base dell’evidenza fisiopatologica che il sapere
critico non è posseduto da tutti alla stessa maniera, ma solo da una minoranza.
Se
volessi essere più vicino ad una espressione “politically correct”, e mantenere il termine democrazia,
potrei
usare la locuzione “democrazia degli aventi sapere critico”.
Ma la
sostanza non cambia.
Non è
il numero che deve prevalere ad ogni costo.
Non dobbiamo farci guidare come legge
universale dal criterio “1 uguale ad 1”, perché siamo tutti uguali, in quanto
figli dello stesso padre e discendenti dallo stesso antenato comune, quando le
“scienze del corpo umano” dimostrano l’opposto, cioè che siamo tutti diversi.
Alla scala “umana” l’universalismo “non
funziona”.
Né quello delle leggi della fisica e della
chimica, né quello della democrazia basata esclusivamente sul numero, senza
tenere conto della qualità, cioè dei “qualia” e della capacità di “sapere
critico”, o della diversa distribuzione della saggezza e della creatività tra i
vari individui.
La mia
è una ferma condanna “senza se e senza ma” all’occupazione armata dell’Ucraina
da parte dell’esercito russo, cioè di una nazione militarmente più forte, che
sa di poter contare sulla neutralità e il non intervento dell’unico avversario
in grado di contrastarla dal punto di vista militare, cioè la NATO degli USA.
Pertanto
si può proseguire con l’inasprimento delle sanzioni economiche, con l’invio di
armi.
(Ma ci vorrebbero caccia dotati di missili
sofisticati e moderni bombardieri in gran numero per contrastare efficacemente
l’esercito russo già schierato).
Ma non
si può pensare, come pure si illudono i milioni di cittadini scesi a
manifestare nelle piazze del mondo, che sia sufficiente sventolare le bandiere
arcobaleno, o non comprare più il gas da Putin, o limitarsi a perseguire come
unica strada gli incontri della diplomazia e i canali di pace.
Putin
accetterà di concedere i corridoi umanitari, perché non è uno stupido, ma è uno
che sa far bene i suoi calcoli, ed è il leader con la maggior esperienza
personale di guerre al mondo.
Tra la
guerra in Afghanistan, quella in Cecenia nel 1999, quella in Georgia del 2008 e
quella in Siria ha nel frattempo ordinato la repressione nel sangue di decine
di rivolte.
Ma non
è un “serial killer” e nemmeno un sociopatico assetato di sangue.
Facilita
i corridoi umanitari, in maniera da far evacuare donne e bambini dalle città,
per poi bombardare gli edifici e gli uomini che sono “volontariamente “ rimasti
a combattere, dall’alto, con gli aerei e i missili senza alcun contrasto e con
i mortai a distanza, evitando di fare la guerra in città, la guerriglia urbana,
allo scopo di limitare le perdite tra i suoi soldati, ed entrando con i carri
armati e le truppe di occupazione terrestri solo a cose già fatte (come ha già
sperimentato in Cecenia e in Siria).
Putin
ha una personalità lucida, sistematica, di quelle che “Simon Baron-Cohen” nel
recente “I geni della creatività umana.
Come
l’autismo guida l’invenzione umana”, (Raffaello Cortina, 2021) fa rientrare all’interno dello
“spettro dell’autismo”, simile a quella di” Kim Peek”, “Solomon Sherevensky”, “Daniel
Tammet”, ma anche simile a quella di grandi inventori, come “Thomas Alva Edison”,
anch’egli malato, e affetto da “sindrome di Asperger”.
“Edison”
aveva scarse attitudini e capacità sociali, lavorava in maniera maniacale 18
ore al giorno, mangiava e dormiva nel suo laboratorio, non si lavava quasi mai;
usava un “processo esplorativo sistematico”, era dotato di una mente
super-sistematizzante, che gli permetteva di provare in breve tempo ogni
variabile, scartare quelle che non funzionavano e cercare di prevedere in
anticipo il più possibile, utilizzando schemi del tipo “se-e-allora” (vedi Baron-Cohen, 2021).
Anche
Putin appare poco empatico, per nulla “commosso” dalla sofferenza degli altri,
inclusi giovani militari russi, i propri amici o familiari, tutto preso com’è
dal conseguimento della sua “mission” che è quella di riprendersi quello che
nella sua visione “distorta” gli è stato portato via e che invece gli tocca (a
lui in quanto difensore dell’unità della nazione russa).
Ma se
vale il paragone con “Edison”, è verosimile che abbia valutato fino in fondo
prima tutte le possibili opzioni, e quanto a capacità di “sistematizzazione”,
dovrebbe essere secondo a pochi.
Putin
è perfettamente cosciente che le armi di difesa e offesa della Russia sono
“datate”.
Le moderne le testate nucleari sono più
piccole e meno potenti, ma si possono guidare con estrema precisione sul
bersaglio, soprattutto se sono lanciate da sommergibili nucleari e portaerei.
Il
primo gap che deve colmare con gli USA, ma anche con la Cina, è proprio quello
che riguarda la dotazione di portaerei, e sommergibili con le tecnologie più
sofisticate.
E per
far questo ha bisogno di porti aperti tutto l’anno.
La
Russia, per poter competere con le altre superpotenze e rimettersi al passo con
le tecnologie “up-to-date”, ha bisogno di riprendersi i porti del mare di Azov,
che fino al 1990 erano suoi.
Mariupol,
anche se non riesce a conquistare Odessa, ha disperato bisogno di conquistare
Mariupol, (mentre distrugge sistematicamente tutti gli edifici, sta
salvaguardando con accuratezza il porto e le strutture portuali) e la fascia
costiera, e di “russificare” la popolazione, in maniera da prevenire future
rivolte e rendere il mar d’Azov un mare interno su cui progettare la
ricostruzione di basi navali all’altezza di una delle 3 superpotenze mondiali.
Altrimenti ha fallito. Spende quasi la metà
del Pil in armamenti, ma solo con i carri armati e i bombardieri, e senza
essere competitivo sui mari, comprende benissimo che sta perdendo tempo e
risorse.
E questo è un ragionamento lucidissimo, messo
a punto dal 2000, da quando ha preso il potere.
Putin
non è “impazzito” all’improvviso.
Ha
solo atteso la situazione e il momento più favorevole per far ridiventare la
Russia una grande potenza navale.
A
questo punto c’è da chiedersi che cosa vogliano fare veramente gli Stati Uniti
d’America.
Sicuramente
avere in questo momento un Presidente debole, che non ha “carisma” e che
nessuno vuole più, nonostante il consenso popolare ottenuto un anno fa, non
giova né agli USA, né all’Europa, né al mondo occidentale.
Se lo
scopo di Biden è solo quello di “tirare a campare”, senza prendere decisioni,
perché teme le possibili conseguenze, tra breve sarà costretto a fronteggiare
il tentativo di invasione di Taiwan da parte della Cina, sempre nell’ottica
secondo cui “la pace a parole la vogliono tutti” alla stessa maniera, ma appena
una parte è sicura che la controparte non interviene, o pensa di avere il
sopravvento, prende con la forza quello che desidera da tempo.
Quindi
la prima cosa da fare, per preservare la pace, è garantire agli USA
nell’immediato futuro un capo politico e militare carismatico e in grado di
prendere decisioni difficili e di usare tutto il potere di “deterrenza” che
l’America ancora detiene.
È
possibile invece che Biden speri che Putin si “impantani” in Ucraina, come è
successo in Afghanistan.
Ma questo richiede tempi lunghi.
E
soprattutto mesi di guerra guerreggiata, in cui gli ucraini verrebbero usati
strumentalmente, in maniera più o meno deliberata, alla stregua di “vittime
sacrificali”.
Anche
questo va detto con chiarezza e senza false ipocrisie.
Nell’attuale
situazione, però (e con questo smetto di fare il commentatore di eventi politici, ma si
tratta di fatti che interessano il mondo e quindi direttamente anche me, come
tutti, e perciò non è “umano” voltarsi dall’altra parte!), se non interviene pesantemente la
NATO, la scelta immediata è tra limitare le perdite alle decine di migliaia
attuali, oppure alimentare a dismisura il “fiume di sangue” aumentando i morti
fino a centinaia di migliaia.
Il dubbio riguarda solo questo aspetto
numerico.
Non
l’esito della contesa sul campo, che ormai è già scritto.
Pertanto,
a prescindere dalla retorica e dalle narrazioni, tra chi si intesterà la
vittoria, e chi è stato costretto ad arrendersi, l’unica via concreta per
limitare lo scempio di vite umane in questa fase è dividere il territorio
ucraino in due, attribuendo a Putin quelle città e quelle regioni che ha già
conquistato, come la Crimea, il Donbass e un corridoio sul mare tra Crimea e
Russia, siglare una tregua quanto prima, e porre fine per il momento alla morte
e alla distruzione.
Del
resto tutte le guerre si sono concluse con tregue e compromessi, che di volta
in volta hanno stabilito la “divisione” della Corea, quella del Vietnam, e
prima ancora quella dell’impero napoleonico, dell’impero austro-ungarico, o
dell’impero ottomano.
Di
recente, in maniera pacifica, si è verificata in Europa la divisione tra Cechia
e Slovacchia.
Firmare
quanto prima una tregua riduce il sacrificio inutile di vittime innocenti.
Ma
soprattutto aiuta a “prendere tempo”.
Frattanto
la Germania si arma e si dota di armi nucleari, di caccia, bombardieri e
missili sofisticati, e l’Europa segue l’invito di Trump a “triplicare” la
percentuale di PIL da destinare alle spese militari per una difesa più
efficiente, ovviamente sottraendo risorse al sociale o ad altri tipi di
investimenti pubblici.
Giova
ricordare, a questo proposito, il coro di riprovazione e le rimostranze da
parte tutti gli europei dopo le iniziali dichiarazioni di Trump a proposito
dell’aumento della spesa europea per la propria difesa; ora d’improvviso tutti
hanno scoperto che non c’è alternativa!
Allo
stesso tempo Putin, come tutti gli organismi umani, invecchierà (ha 69 anni,
forse è affetto da un cancro della tiroide), e prima o poi sarà sostituito.
Ma non certo da un leader filo-occidentale e
forse nemmeno da uno che attuerà una politica più favorevole all’Europa, come
hanno insegnato le “deposizioni” con eliminazione fisica di Gheddafi e Saddam.
Ma sicuramente si sarà ridotta nell’immediato
l’entità di una carneficina.
Oppure
si può anche provare a condannare Putin per “crimini di guerra” in un nuovo
“processo di Norimberga”. (Ma prima bisogna prenderlo prigioniero, sconfiggendolo
militarmente!)
Quello
che io provo a sottolineare è che se si aspira ad una pace duratura, bisogna
sforzarsi di “comprendere” anche una “visione” come quella di Putin, che
continua a far parte della “struttura organismica” dell’uomo del XXI secolo.
E agire di conseguenza.
Prendendo
le giuste contromisure.
Non “indignandosi”, o affermando che un simile
comportamento, o simili pensieri, non possano esistere nell’uomo, o
semplicemente sventolando le bandiere della pace.
Nel
nostro organismo ci sono 6 circuiti che “modulano” le nostre scelte
motivazionali partendo dal cervello viscerale ed uno solo che lo fa con il
ripensamento e la razionalità.
Se il
corpo umano aumenta di peso, e tende verso la sindrome dismetabolica quando non
fa “attività fisica” e non consuma le calorie che una volta erano necessarie
per procurarsi il cibo, essendo la struttura organismica uguale a quella
dell’uomo delle caverne, non si vede perché l’uomo contemporaneo, che è rimasto
invariato per struttura funzionale e metabolica, debba smettere all’improvviso
di pensare innanzitutto alla propria sopravvivenza e ai propri interessi e
diventare di colpo razionale, generoso ed altruista.
Per
una sorta di “contagio della razionalità” che, come sostiene “Sloterdjik”, ma
anche” Carroll”, si potrebbe diffondere come un contagio virale.
La
coscienza soggettiva, la formazione del “self” sono diverse nell’uomo e nelle
formiche, e non solo per gli 83 miliardi di neuroni dell’uomo in confronto a
960.000 delle api, ma anche per i 360 circuiti funzionali del resto del corpo.
Queste differenze sono importanti.
In
particolare, nell’emergenza della “coscienza soggettiva”, oltre ai genitori e
ai familiari, alla lingua appresa da bambino, sono fondamentali i ricordi
legati alla casa natale, al giardino dell’infanzia, quello in cui si sono
percepiti per la prima volta suoni, odori e profumi, così come le tradizioni e
la cultura della terra di origine.
È
quello che si chiama “mind scape”, cioè il paesaggio della mente, che non
include solo la reminiscenza dei luoghi, ma anche l’insieme, tutto ciò che fa
parte della terra natale, che è unico, personale e sacro (per ciascun
individuo, perché rappresenta le proprie “radici”.
Io
ritengo che le radici siano importanti e che valga la pena difenderle.
Non
difendo invece Putin, che è un dittatore, e soffoca la libertà, né tantomeno il
comunismo che ha portato la Russia alla situazione attuale.
Mio
nonno ha combattuto come soldato americano in Francia durante la prima guerra
mondiale e ha vissuto 50 anni negli USA.
Quando
è tornato in Italia nel 1958 ha voluto mantenere la cittadinanza americana e,
stimolando il mio personale “circuito della ricompensa” con la promessa di
ambiti regali, mi ha spinto ad imparare a memoria in Inglese, all’età di 12
anni, la” Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America”, che
tuttora ricordo e talvolta declamo, come “Tammet” declama le cifre decimali di
“pi greco”.
Mi
sono formato professionalmente negli States a partire dal mio iniziale stage a
Chicago nel 1977.
Il mio
primo “saggio autobiografico”, scritto oltre 10 anni fa e ancora mai
pubblicato, è stato “Come mai il comunismo non ha vinto? Perché noi non siamo
vermi”, in cui – al di là del titolo ad effetto – sostengo sostanzialmente le
stesse tesi del presente saggio, perché il “verme” in questione è il
“Chenorrhabiditis elegans” che, insieme con la “Drosophila melanogaster”, è il
più frequente piccolo animale da esperimento in cui vengono comunemente
effettuati gli studi biologici. Il problema sta nelle “inferenze”.
Quello
che si osserva nei vermi o nei moscerini, così come l’altruismo e il
“comunismo” che si evidenzia nelle api o nelle formiche, (E.O. Wilson) non è
“esportabile” all’uomo.
Queste
sono notazioni e “ripensamenti” autobiografici che dovrebbero però sgombrare il
campo da una mia possibile passata, presente o futura affiliazione al pensiero
o al partito di Putin.
Pur
essendo un convinto assertore del liberalismo sociale, proprio grazie
all’approccio fisiopatologico, non posso negare però che la “globalizzazione”,
con la gestione dei principali canali della rete e delle piattaforme social da
parte dei giganti del web USA, ha significato anche la tendenza verso l’
“omologazione collettiva” con l’acquisizione da parte di nazioni e culture
“distinte e distanti” di alcuni valori (o disvalori) propri del mondo americano
contemporaneo.
Il
modello americano attuale vede la prevalenza in economia della finanza e dei
“soldi fatti attraverso altri soldi” mediante la semplice speculazione o
intermediazione bancaria o finanziaria, il che è diverso dal guadagnare
attraverso l’innovazione, o l’investimento in un’attività industriale con
incremento di beni, servizi e lavoro per tutti.
Ma il
“modello americano” significa anche un aumento dell’ipocrisia, con la
prevalenza dei diritti “gridati”, rispetto a quelli effettivamente garantiti e
rispettati da tutti.
Significa
la tendenza sempre maggiore ad accettare – in ossequio alla difesa delle
minoranze– regole che contrastano con la struttura dell’organismo umano e le
sane “abitudini” della natura umana.
I
dieci bagni diversi negli edifici pubblici di New York, uno per ogni “genere”,
incluso i “transgender”, le manifestazioni sopra le righe dei vari “Gay pride”,
l’amplificazione fino all’estremo di movimenti tipo “Me too”, la distruzione
dei monumenti di Cristoforo Colombo e dei primi navigatori giunti in America,
forse dovrebbero spingere verso una “pausa di riflessione” per chiederci se per
caso non “abbiamo esagerato”.
Così
come forse è eccessiva l’autoflagellazione di moda in alcuni ambienti
americani, per cui il razzismo è una colpa che soltanto i bianchi devono
ammettere, secondo la “Critical Race Therapy”, insegnata nelle scuole pubbliche.
I
bianchi devono espiare per il genocidio contro i nativi del Nord America, il
razzismo contro la popolazione di colore, secondo quanto lamentano movimenti
tipo “Black Live Matters”, o le requisitorie della sinistra “no border” di “Alexandria
Ocasio-Cortez”, che accusa gli USA di tutte le ingiustizie planetarie.
L’America
è considerato l’unico “impero del male”, mentre quello che succede in Russia,
in Cina, o in altre parti del mondo viene “derubricato” a quisquilia, in una
sorta di sindrome auto-distruttiva della democrazia americana.
Bisognerebbe
fermarsi un attimo e “resettare “ il sistema.
Il
pericolo più grave, a mio avviso, è la corsa sfrenata verso l’omogeneizzazione
delle coscienze e il “pensiero unico”, corsa sapientemente guidata proprio con
gli strumenti della teoria della mente e attraverso la capacità di “penetrare
nel cervello” degli utenti e condizionare il pensiero degli altri, messa in
atto scientemente e senza scrupoli dai gestori delle piattaforme informatiche.
Perché
così pretendono i detentori del “politically correct”, coloro che ritengono di
possedere l’esclusiva nel “dettare le regole” da seguire.
Il
pensiero unico è l’opposto del “sapere critico”.
Non sempre
più “moderno” significa progresso reale a livello di funzioni della struttura
organismica.
Al
contrario, può significare più “dipendenza” dalle droghe o dal gioco, dai
videogiochi, dai social, dai “like” o dal web.
Allo
stesso tempo, preservare le diverse “culture”, continuare a considerare come
entità diverse la cultura europea e quella americana, quella cinese, quella
indiana e quella russa può servire a mantenere la “biodiversità umana”, che è
un valore, mentre l’omologazione “urbi et orbi” può diventare un
disvalore.
Si
fanno continui appelli per difendere la biodiversità vegetale del pianeta, con
la preservazione della foresta amazzonica o con la protezione di alcune aree
dell’Oceania, o dell’Africa, o anche delle regioni polari.
Ma
diventa un pensiero “esecrabile” agli occhi dei moderni “mâitres à pénser”
preservare almeno un certo grado di “identità culturale”.
Questo
non giustifica in alcun modo l’aggressione di Putin all’Ucraina,
“costringendola” con la forza ad accettare la cultura e la tradizione della
nazione russa, per giunta secondo la narrativa putiniana, e privandola di fatto
di ogni libertà di decisione su quale strada di sviluppo intende autonomamente
perseguire.
Ripeto, non voglio certo fare di Putin un
“eroe romantico” che lotta per la preservazione di una cultura, come quella
russa, che si è costruita nei secoli attorno ad una lingua, con i suoi miti, le
sue tradizioni, le sue pratiche religiose, il suo folklore.
Io mi
limito a ciò di cui ho esperienza diretta, cioè il “corpo umano”.
E
sostengo che in pieno XXI secolo gli “impulsi animali”, le decisioni umorali,
le scelte provenienti dal “cervello viscerale” sono tuttora prevalenti nella
“scala” umana.
E bisogna “tenerne conto”. Pena il rischio di innescare reazioni
dalle conseguenze imprevedibili.
Ma
credo che anche queste singolari riflessioni sulla preservazione della
“biodiversità”, da cui è nata a mio avviso la “sapienza matura”, con l’incrocio
tra l’ Homo sapiens Etiope e il Neanderthal,
contro il progetto di “omologazione” di tutte le menti, e l’assuefazione
al “pensiero unico” e al “desiderio unico”, vadano tenute nella dovuta
considerazione e meritino un adeguato approfondimento.
In
sintesi, l’aggressione all’Ucraina da parte della Russia va fermata.
Ma non
si tratta solo di condannare Putin, o di scendere in piazza per partecipare a
manifestazioni pacifiste.
Putin va bloccato, perché quella che si prospetta è
una lucida strategia, che può includere il sacrificio di centinaia di migliaia
di vite umane.
Anche senza l’allargamento all’opzione
nucleare.
Nessuna
giustificazione per Putin, quindi, e nessuna possibilità per l’Occidente
liberale e democratico di seguire interpretazioni che avallino le sue scelte.
Ma provare a “penetrare nel suo cervello”, sapere in
anticipo “quello che pensa” e “come” pensa, (analogamente a “quello che sente”
e “come si sente” un artista creativo quando dipinge un quadro), può essere
utile per ridurre la carneficina.
I
dittatori come Putin vanno resi inoffensivi. Ma non ci si può illudere di
“rieducarli”.
Né
“sognare” che non devono esistere perché, per effetto del contagio delle idee e
della progressiva prevalenza nell’uomo della razionalità, siamo diventati di
colpo tutti razionali, generosi e preoccupati della sofferenza altrui.
In
pieno XXI secolo continuano ad esistere serial killer, pedofili inveterati, ma
anche ludopatici, dipendenti da alcol, droga e da Internet, così come “folli”
lucidi e “sistematizzatori”, esperti dell’arte del “Se-e-allora”, secondo
quanto suggerito da Baron-Cohen per gli autistici.
Hitler
era “malato”, ma malato era anche Churchill.
Stalin
era malato, ma malato era pure Roosevelt. I
l
presente saggio suggerisce che sono proprio questi i leader che hanno cambiato
il corso della storia.
Si
tratta di individui “diversi”, malati, eccezionali, i quali presentano tratti
fuori scala, comportamenti “sopra le righe”, poco commendevoli.
I
grandi capi non rientrano nella media, indipendentemente dal fatto – o meno-
che coloro che si attestano “attorno ai valori medi” siano anche “mediocri”.
Putin
presenta i suoi talenti, – associati ai sintomi delle sue malattie, che
riguardano la scarsa compassione per gli altri- pienamente espressi già
all’epoca del completamento dello sviluppo.
È un “malato” e tale rimarrà.
Va precisato però che se è diventato un
dittatore capace di accentrare su di sé poteri così grandi, e di prendere
decisioni incontrastate come quella di ordinare all’esercito russo di invadere
l’Ucraina, questo è stato possibile grazie al regime comunista.
Infatti
nelle democrazie occidentali nessuno, per quanto sia rimasto a lungo al potere,
da Roosevelt a Reagan, da Churchill a De Gaulle, da De Gasperi a Berlusconi,
alla Tatcher e alla Merkel, è mai riuscito a concentrare nelle proprie mani un
potere paragonabile a quello di Stalin, Mao-Tse-Tung, Xi-Jin Ping, o per
l’appunto Putin.
Questo
va ricordato non solo ai filo-Putiniani e agli esperti di geopolitica, ma anche
ai molto più numerosi nostalgici sostenitori della “lotta di classe”
rivoluzionaria come strumento per la vittoria del proletariato.
Tra i
pensatori della sinistra, che si ergono a moderni “maitres à pènser”, ci sono
molti che difendono a spada tratta il pensiero autentico di Marx, Engels,
Gramsci e Lenin e vedrebbero di buon occhio il comunismo nella versione
originale da questi propugnata come il modello ideale per risolvere le
criticità del mondo contemporaneo.
Il
comunismo è una pericolosa illusione, che ha assunto spesso i caratteri di una
religione dogmatica.
Per quanto desiderabile a livello utopico, (tutti gli uomini di una comunità
mettono in comune e condividono i propri beni e le proprie risorse) presenta due aspetti che cozzano con
quanto sostenuto in questo saggio:
1) pretende di essere universale
(l’internazionale comunista) e abbiamo visto che tutto ciò che è universale non
si applica bene al singolo organismo umano:
2) proprio perché impone la “redistribuzione forzata”
delle risorse che ciascuno è in grado di guadagnare a livello individuale (contrariamente ai principi dello Stato liberale “leggero”,
dove “you are on your own”, ognuno deve rimboccarsi le maniche da solo, e chi lavora di più, guadagna di più e sta
meglio), mira
all’egualitarismo obbligato (a ciascuno secondo i propri bisogni, da ciascuno secondo le
proprie possibilità.)
Il
comunismo ha necessità di un governo centralizzato e gerarchico, di uno Stato
forte che redistribuisca, togliendo a chi ha di più, per renderlo uguale a chi
possiede di meno, anche se ha meno voglia di lavorare, è meno dotato di
talenti, o ha una fragilità strutturale costitutiva, oppure semplicemente ha
messo al mondo 10 figli, mentre un altro ne ha solo uno.
E questo nessun individuo è disposto a farlo
“spontaneamente”, perché è contrario alla “natura umana”.
Bisogna
convenire pertanto che, se non fosse stato il frutto di un regime nato per
l’applicazione al mondo reale del comunismo, che deve essere necessariamente
accentratore ed autoritario, Putin non sarebbe mai diventato un dittatore con
un potere così smisurato.
In
definitiva, sapere meglio come “siamo fatti dentro” aiuta.
Lo studio con le metodologie delle “scienze
del corpo umano” serve proprio a questo.
A
fronteggiare meglio le azioni di questi personaggi, che sono per molti versi
“prevedibili”, abitudinari, e che continueranno a comportarsi in futuro come si
sono comportati in passato.
Questo
rende l’approccio fisiopatologico uno strumento utile ai fini
dell’“intelligence”.
La
struttura organismica dei leader, così come quella dei seguaci, al
completamento dello sviluppo si è cristallizzata in un determinato modo.
È
illusorio sperare che “si ravvedano” spontaneamente, o che si possono “rieducare”.
Fanno
parte della specie umana, come i pedofili ed i sado-masochisti.
E la specie Homo sapiens include individui
simili.
I
quali sono parte integrante ed ineliminabile della natura umana.
Oggi
come all’epoca degli uomini che dipingevano le caverne.
Forse
però, senza ipocrisia, bisognerebbe riconoscere che per contrastare un uomo
folle, lucido, sistematico e pianificatore come Putin sarebbe più efficace un presidente
USA diverso da Biden, che non ha lo stesso carisma, non è ugualmente capace di
prendere decisioni difficili, né di sedurre le folle, proprio perché troppo vicino
alla media, e meno “folle”.
Può
apparire “paradossale”, ma un leader cronicamente e gravemente malato come
Lincoln o Churchill, o più simile a Trump, narcisista megalomane, potrebbe
risultare più idoneo a fronteggiare un soggetto come Putin.
Il quale ormai non cambia, o “cambia poco”.
Non si
può continuare a nascondere la testa sotto la sabbia come gli struzzi, o
fingere di non vedere, e rifiutare di apprendere le lezioni indispensabili, che
non sono solo quelle della storia ma anche quelle della fisiopatologia.
Putin
non può vincere nel medio-lungo periodo.
E
tutto il mondo civilizzato deve provare ad isolarlo e a renderlo inoffensivo.
Ma non
solo con le parole delle anime candide.
Se non sono sufficienti le sanzioni economiche,
bisogna pensare ad altro.
Ma
sempre avendo ben chiaro in mente chi si ha di fronte. Non un individuo “pazzo”
nel senso di un debole, fragile, che ha bisogno di farmaci e terapie per
superare le crisi della sua malattia, e che quindi sarà facilmente sconfitto.
Ma un
“folle” lucido, determinato, pianificatore, che ha tenuto il potere per oltre
vent’anni, che si è dimostrato in grado di sedurre le folle, anche perché ha
una sua “visione” (e questo non può essere sminuito o “denigrato”, come la
capacità di “parlare alla pancia”).
Questa
visione è “diversa” da quella prevalente in Occidente.
Da qui
lo scontro.
Si
tratta per giunta di un “folle” il quale presenta alcuni tratti inquadrabili
nella cornice dell’autismo, (anche se Putin non può essere classificato come
“autistico”), che lo facilitano nella sua capacità di sistematizzare e pianificare, ma
per cui (
per l’equilibrio tra + e – all’interno dei 360 circuiti organismici),risulta poco empatico e per nulla
preoccupato della sofferenza altrui.
Ma
l’errore più grave sarebbe sottovalutarlo, dismetterlo come “pazzo”,
rifiutandosi di “penetrare nella sua mente”, provando in particolare a capire
il senso della sua “visione”, per prevedere i suoi comportamenti e limitare al
minimo i danni delle sue azioni.
Un
“compromesso” può essere nell’immediato meglio di una carneficina.
Serve a prendere tempo. Fermo restando che
Putin va fermato.
Costi quello che costi.
E per
far questo, così come per fermare Hitler non si sono dimostrati adeguati
Chamberlain e Pétain, forse bisogna domandarsi quali “aggiustamenti” è
necessario operare al più presto ai vertici delle nazioni che dovrebbero
contrastarlo.
L’approccio
fisiopatologico alla natura umana può offrire chiavi aggiuntive che aiutano a
rispondere anche a queste domande.
(Saggio
del prof. Francesco Cetta, professore Ordinario di Medicina dell’Università di
Siena e docente IASSP, estratto dal libro: “Perché comandano i folli e noi li
facciamo comandare: un approccio fisiopatologico. Volume II”)
Il
fallimento comune di democrazie
e
autocrazie nella “questione sociale”
in
Maghreb: i casi opposti di Egitto e unisia.
Cespi.it - Claudia De Martino – Unimed –
(7-10- 2022) – ci dice:
Il
Mediterraneo allargato, una regione in transizione: conflitti, sfide,
prospettive.
Undici
anni dopo le grandi aspettative di cambiamento suscitate dalle Primavere arabe
- lanciate al grido unanime di “pane e libertà” -, i Paesi del Sud del
Mediterraneo, ed in particolare le economie non petrolifere, non sembrano aver
nessuno raggiunto dei due obiettivi primari – maggiore redistribuzione del
reddito e libertà politica - che esse si erano collettivamente poste.
I
governi arabi, di vecchia o nuova costituzione, non sono stati capaci di
rifondare i fragili patti sociali alla base dei loro sistemi autoritari né di
affrontare le difficili condizioni economiche alla base delle proteste di
piazza che scossero l'insieme del mondo arabo nel 2011.
Per i
tre Paesi del Maghreb investiti dalla prima ondata di Primavere - in Algeria il
movimento di protesta dell'Hiraksi è affermato nel febbraio 2019 - gli unici
esiti positivi sembrano essere stati una relativa stabilità geopolitica e un
parziale rinnovamento costituzionale, anche se nell'unico caso di
democratizzazione riuscita - la Tunisia - si assiste al momento ad una crisi
istituzionale.
Poco o
nulla sembra essere cambiato in meglio rispetto ai fattori strutturali di crisi
– massiccia disoccupazione, soprattutto intellettuale, malcontento per il costo
della vita e bassi salari - evidenziati dalle Primavere, nel frattempo spesso
trasformatesi in “inverni” o fasi di riflusso politico, che hanno permesso il
ritorno al potere di regimi autoritari chiusi a progetti di riforma.
Emblematico
è il caso dell'Egitto di al-Sisi, che non solo non ha registrato alcun
avanzamento nelle libertà civili, ma anzi un netto regresso rispetto al già
screditato record in materia di diritti umani del regime di Mubarak, ignorando
deliberatamente le richieste di miglioramento delle condizioni di vita dei
propri cittadini.
A nove
anni dall'insediamento del nuovo regime (2013), il PIL per abitante è rimasto
invariato nonostante l'aumento di quello aggregato a livello nazionale (+5.9%
nel 2022), dimostrando che la crescita economica non viene indirizzata alla
redistribuzione del reddito né incanalata in progetti con un impatto sociale
(indicatori “International Center for Migration Policy Development, ICMPD,
2020:19).
Il
paradosso è, dunque, che in assenza di una democratizzazione del potere
politico, a dispetto dell'apparente stabilità odierna, incentrata sulla
dimensione militare e securitaria, l'Egitto rimane nel lungo termine un Paese
potenzialmente soggetto a nuove ondate di proteste, rivolte e rivoluzioni,
proprio in virtù della sua incapacità di risolvere i problemi strutturali alla
base della “rivoluzione” abortita del 2011.
In
particolare, la questione demografica si staglia come il maggiore fattore di
squilibrio:
secondo
le statistiche ONU, la popolazione egiziana è tra le più giovani al mondo (con
un 33% sotto i 14 anni e un'età media di 24,6 anni) e la crescita demografica è
costante (2% annuo), classificando l'Egitto al quattordicesimo posto tra i
Paesi più sovrappopolati al mondo con i suoi attuali 106 milioni di abitanti.
Data
la particolare composizione sociologica, la “questione giovanile”, mai sopita,
tornerà ad imporsi come centrale per la sopravvivenza del regime, che nei
prossimi anni sarà sottoposto a due pressioni concomitanti:
quella
di ampliare il proprio sistema di istruzione in modo da assorbire l'ingresso di
milioni di nuovi studenti e quella di creare sufficienti nuovi posti di lavoro
per il milione e mezzo di giovani che ogni anno si affaccia sul mercato
occupazionale.
Nel
primo caso, i dati mostrano che ad oggi l'accesso universale all'istruzione primaria
e secondaria è di massima garantita ai circa 20 milioni di studenti egiziani
(ovvero rispettivamente al 97,45% dei bambini in età di scolarizzazione e
all'85, 49% degli adolescenti, Fondazione europea per la formazione, ETF,
2018).
Tuttavia,
è nel passaggio dal sistema di istruzione al lavoro che l'Egitto disperde al
massimo il proprio capitale umano.
La
popolazione in età di lavoro aumenta del 3,1% ogni anno, ma solo circa l'1,8%
riesce ad essere assorbito dal suo mercato interno, ovvero a trovare una
collocazione stabile ed ufficiale:
il restante 1,3% si riversa, quindi, nei
canali tradizionali dell'economia informale, che tende ad aumentare a dismisura
(48% della forza lavoro, dati Central Agency for Public Mobilization and
Statistics, CAPMAS, 2020) della migrazione, soprattutto verso il Golfo, o della
prolungata inattività (“Neet”, giovani che né lavorano né studiano).
A
fronte di un settore pubblico in pieno arretramento (che ad oggi impiega 5
milioni e mezzo di lavoratori) e un costante ridimensionamento dell'organico
della funzione pubblica (passato dal 33% della forza-lavoro nel 1998 al 26% del
2018),
per un
governo che si è fatto paladino della lotta alla povertà (ridotta dal 32% del
2020 al 27,9% del 2022) e alla disoccupazione (ridotta dal 13,15% del 2013 al
7,4% del 2021), sbandierando il loro calo come uno dei suoi maggiori successi,
l'attuale tasso di inattività dei giovani (15-29 anni), fisso invece al
preoccupante tasso del 30% (POMEPS, 2022), dimostra uno scacco innegabile
nell'attesa il futuro delle nuove generazioni.
In particolare, la linea economica del governo
al-Sisi sembra penalizzare tre principali gruppi, in parte sovrapposti tra
loro:
i
giovani, le donne e le persone qualificate, e favorire la creazione di lavoro a
bassa produttività e altrettanto bassi salari.
Tale
scelta comporta di fatto la creazione di lavoro “vulnerabile”, all'opposto del
modello “dignitoso” dell'ILO (2015).
La
crescita del lavoro informale e l'inattività dei giovani sono i due “talloni
d'Achille” maggiormente sensibili del regime di al-Sisi:
la
disaffezione nei confronti di un sistema che sistematicamente esclude e
penalizza la parte maggioritaria e più viva della società può comportare un
forte rischio per la coesione sociale e la stabilità del governo.
Per
molti giovani egiziani altamente qualificati, infatti, la via migratoria, in
particolare verso i ricchi Paesi del Golfo, rimane l'unico canale stabile
aperto per la propria realizzazione professionale, privando però al
contemporaneo il Paese delle sue forze migliori, ovvero di quelle che potrebbe
spronarne l'innovazione, promuoverne lo sviluppo sostenibile, come anche
costituire il potenziale nucleo di un'alternativa politica.
In definitiva, “Foreign Affairs”, 29 aprile,
2021 e in parte elude il negoziato sindacale (si veda la proposta di
legge-capestro del 2017, lievemente emendata nel 2019, sulla messa al bando dei
sindacati indipendenti come l'EFITU, responsabili dell'ondata di scioperi di
Mahalla preliminari alle proteste del 2011), si dimostra preferenza coerente e
deliberata del regime.
Il
Cairo, troppo spesso considerato dai Paesi europei e dagli Stati Uniti un
fidato alleato in Medio Oriente esclusivamente in considerazione del suo ruolo
geopolitico stabilizzatore nella regione – nella lotta al terrorismo islamico,
nel trasferimento e nella commercializzazione del gas naturale, nella
moderazione delle forze anti -sistema come Hamas nella Striscia di Gaza e nella
cooperazione strutturata con Israele -, non appare affatto al riparo da nuove
rivoluzioni, che potrebbero riesplodere tanto per fattori endogeni strutturali,
come l'endemica corruzione o l'arrogante strapotere del consorzio
militare-industriale ( come esemplificato dal “caso Geneina”, denunciato da
Human Rights Watch, 2016) che per elementi esogeni contingenti, come i
drammatici effetti economici della guerra in Ucraina sul costo dei generi
alimentari di prima necessità come il pane, che, oltre a non essere più
sussidiati dall'agosto 2021, sono oggetto di una galoppante inflazione ( +8,8%
nel febbraio 2022).
Se è vero, infatti, che il barometro arabo
attesta un generale netto raffreddamento dei cittadini di tutti i Paesi MENA
nei confronti della democrazia - oggi consapevoli che “la democrazia non
produce necessariamente crescita economica” (Jamal e Robbins, Foreign Affairs,
marzo/aprile 2022: 24) - è altrettanto evidente che le autocrazie non sembrano
meglio posizionate per assicurare lo sviluppo collettivo e il miglioramento
delle condizioni di vita dei propri cittadini, in quanto tendenzialmente
indifferenti alle loro domande di dignità e giustizia ed impermeabilità alle
pressioni popolari.
Anche
le giovani democrazie arabe, tuttavia, riscontrano i loro cogenti problemi.
Tunisi, presentata fino al 2021 come il «bon élève» della democratizzazione
liberale modello europeo, ha però, malgrado la narrativa rassicurante,
registrato numerosi shock economici e politici interni dal 2011 ad oggi.
In primis, la “rivoluzione” ha marcato un
crollo verticale della crescita economica (-1,9% nel 2011), che si è
successivamente ripresa ma attestata su un tasso fragile del 2,5%, inferiore
agli altri Paesi dell'area MENA e ulteriormente indebolita dagli attacchi
terroristici del luglio 2014 e del marzo 2015, che hanno avuto un impatto
negativamente sul settore turistico.
Nonostante le molte riforme adottate - come il
ridimensionamento della sua popolazione giovanile (passata dal 32% al 22% nel
periodo 2007-2017), ottenuto grazie a un rallentamento della crescita
demografica, i massicci investimenti governativi nel settore dell'istruzione e
delle politiche attive del lavoro (tra i programmi avviati figurano KARAMA,
CIDES, CIVP, CAIP, CRVA, CSC: ANETI, 2018) e l'impegno dei successivi governi
democratici e degli investitori stranieri nella creazione di posti di lavoro,
anche qualificati - sui 100.000 nuove occupazioni del 2018, il 13% sono
qualificati (Agence Nationale pour l'Emploi et le Travail Indépendant, ANETI
2018) -, la Tunisia non è riuscita a vincere la sua maggiore sfida:
la disoccupazione giovanile di massa alla base
della “Rivoluzione dei gelsomini”.
Il tasso di disoccupazione è perfino
aumentato, attestandosi al 18% (2022) rispetto al 13,2% del 2010 appena prima
delle proteste e arrivando a toccare il 42% per i giovani (OCSE Ecoscope, 2022),
con una forte concentrazione tra i laureati (30% nel 2019) e una particolare
penalizzazione delle donne.
La disoccupazione dilagante è spiegata con
l'impossibilità di ricorrere adeguatamente all'impiego in un settore pubblico
costantemente incriminato da FMI e Banca Mondiale per i suoi alti tassi
occupazionali (dai 435.487 funzionari nel 2010 ai 642.918 nel 2017) e accusato
di “acquistare la pace” sociale”, dalla crisi del dinaro svalutato del 40% nel
2017 per facilitare le esportazioni e dalla crisi del debito pubblico in
costante incremento (7 miliardi di dollari nel 2022), nonché da un sistema
economico generalmente a basso valore aggiunto che non ha ricevuto alcun
incentivo a innovarsi, modificare la propria produzione o incrementare la
produttività nel periodo post-rivoluzionario.
Una
dinamica che ha finito per impattare negativamente su due tendenze strutturali
dell'economia tunisina:
il
divario storico tra regioni produttive del Nord e arretrate del Sud (a volte
distinto in base alla linea di faglia tra regioni costiere ed interne), e la
spinta migratoria, alimentata da una maggioranza di giovani tunisini delle
regioni più svantaggiate dell'entroterra.
Il numero degli emigrati è infatti salito dai
487.000 del 2010 agli 813.000 circa del 2019 ei Tunisini tornano oggi ad
ingrossare le fila dell'emigrazione clandestina (Herbert, 2022).
Inoltre,
il settore informale - nell'agricoltura, nel commercio, nei trasporti e nel
turismo - è in costante crescita, anche se in misura più ridotta dell'Egitto (dal
30% nel 2010 al 42% della popolazione attiva nel 2022, Observatoire National de
l'Emploi et des Qualifications, ONEQ), e riguarda una quota consistente di
giovani.
Come
sottolinea un rapporto della Friedrich Ebert Stiftung (FES), il lavoro
informale non è soltanto un fattore strutturale nel Maghreb, ma anche l'
elemento centrale sul quale si gioca ogni nozione di giustizia sociale in Nord
Africa” (Galliano, luglio 2018).
La sua crescita continua ad essere
l'indicatore specifico di una domanda di intervento statale evasa dalle
autorità, democratiche e non, e la prova della sopravvivenza di un modello di
sviluppo economico squilibrato e non inclusivo che favorisce una minoranza di
garantiti contro una maggioranza di precari.
Una
tendenza comune all'Egitto e alla Tunisia, ma che in Tunisia si scontra contro
il paradosso di un processo di apertura e politica negoziatore che, però, non
sembra esser stato capace o intenzionato a produrre cambiamenti sostanziali nel
sistema economico e nei rapporti tra classi sociale.
In
conclusione, la sospensione del Parlamento tunisino da parte del Presidente
Kais Saied (il 25 luglio 2021, attualmente sospeso fino al 17 dicembre 2022,
data delle prossime elezioni) è stata sostenuta da molti Tunisini come una
misura estrema allo stallo politico del Paese, causata da faide interpartitiche
e che non trova uno sbocco parlamentare.
Un'opinione condivisa da molti giovani
tunisini, il cui sostegno alla democrazia sta scemando a favore di modelli più
autoritari, come evidenziato da un sondaggio della “Konrad Adenauer Stirftung”
(gennaio 2021), che riporta un consenso del 75% per “leader forti” capaci di
forzare le procedure politiche e del 61% per la sospensione del Parlamento a
favore di un “uomo forte” al comando.
Lo stesso dato sconfortante rilevato da “Jamal”
e” Robbins” (2022) sulla correlazione tra stagnazione economica e disincanto
verso la democrazia.
I
sistemi autoritari sembrano maggiormente capaci di effettuare decisioni
critiche e assumere provvedimenti economici drastici in tempo reale, tuttavia,
come dimostra il caso dell'Egitto, il fascino per i dittatori non rappresenta
affatto la garanzia per una prosperità diffusa o di maggiore equità sociale.
In
realtà nel 2011 i cittadini arabi si sollevarono in massa per richiedere uno
stato forte che coniugasse rispetto delle libertà civili e politiche a una
protezione sociale sulla falsariga del modello sociale europeo, ovvero
fornitore di beni e servizi dalla “culla alla bara” (cit. piano Beveridge,
1943), capace di provvedere ad ammortizzatori sociali e sovvenzioni, e di
garantire allo stesso tempo crescita economica, stabilità e piena occupazione.
Un
modello complesso e di difficile attuazione, oggi in crisi in tutto il mondo,
inclusa l'UE, che però sembra voler essere sistematicamente negato alla sponda
Sud del Mediterraneo dalle politiche macroeconomiche imposte da Banca Mondiale
e Fondo Monetario Internazionale, con il colpevole concorso degli accordi di
partenariato privilegiato (ALECA, Accord de Libre Échange Complet et Approfondi, con la
Tunisia) o
associazione (con l'Egitto) a carattere neoliberista indifferentemente imposti a tutti
i Paesi MENA dall'Unione Europea, senza riguardo per i rispettivi sforzi di
democratizzazione .
Sulla
risposta alla crisi globale
si
gioca il futuro dell’umanità.
Editorialedomani.it
- IAN BREMMER – (18 agosto 2022) – ci dice:
Mai
prima d’ora così tanti esseri umani hanno avuto la possibilità di sopravvivere
al parto, andare a scuola, sfuggire alla povertà, accedere a un’istruzione
superiore, incontrare persone lontane e guadagnarsi da vivere.
Ma mai
come oggi rischiamo una catastrofe che è accelerata dagli stessi strumenti che
potrebbero scongiurarla.
Questo
testo è un estratto dal nuovo libro di Ian Bremmer, “Il potere della crisi” - come
tre minacce e la nostra risposta cambieranno il mondo, pubblicato da Egea.
Il
testo fa parte del numero di Scenari:
“Alla
corte di Xi Jinping”, in edicola e in digitale dal 12 agosto.
Viviamo
in un’epoca di straordinarie opportunità.
Mai
prima d’ora così tanti esseri umani hanno avuto la possibilità di sopravvivere
al parto, andare a scuola, sfuggire alla povertà, accedere a un’istruzione
superiore, incontrare persone di altri luoghi, trovare un lavoro, avviare
un’impresa, guadagnarsi da vivere, inventare qualcosa di nuovo, votare,
ricevere cure mediche di qualità, attraversare i confini e offrire ai propri
figli gli stessi vantaggi.
Oggi
miliardi di persone hanno agi e opportunità nettamente superiori a quelli che
potevano vantare i re medievali.
L’inventiva
umana ha raggiunto picchi inimmaginabili anche solo una generazione fa.
Ma,
come ho spiegato in questo libro, rischiamo anche la catastrofe.
Le
conquiste storiche degli ultimi cinquant’anni – compresa la più importante,
ossia la nascita del primo ceto medio mondiale – sono minacciate
dall’incapacità dei nostri leader di collaborare per proteggerci dalle malattie
infettive, dall’innalzamento dei mari, dal cambiamento climatico, dalle ondate
di disinformazione tossica, dagli sconvolgimenti causati dalle tecnologie che
sottraggono il lavoro agli esseri umani, dalla dittatura digitalmente
potenziata e dalle nuove forme di guerra.
E
tutto avviene alla velocità della luce.
Per
miliardi di anni il nostro pianeta non ha ospitato alcuna forma di vita intelligente.
Per
milioni di anni ha ospitato forme di vita intelligenti ma senza alcuna traccia
di esseri umani.
Per
altri due milioni di anni qualche essere umano c’è stato, ma non c’erano la
cooperazione e la comunicazione necessarie a costruire società e a consentire
il progresso.
Poi è
arrivato il commercio tra le persone che per sopravvivere si dedicavano alla
caccia e alla pesca.
Le
ragioni di scambio sono diventate più complesse, sono state scritte delle
regole e create autorità indipendenti dedite a risolvere le controversie.
Le
popolazioni hanno cominciato ad aumentare, e con esse la complessità delle
relazioni.
Nel I
secolo d.C. c’erano 170 milioni di persone sulla Terra.
Nel
corso dei mille anni successivi questo numero è salito a 254 milioni.
Grazie
alla peste bubbonica nel 1400 c’erano ancora solo 343 milioni di esseri umani.
Ci
sono voluti due milioni di anni per raggiungere (nel 1804) una popolazione
mondiale di un miliardo di persone e solo altri duecento anni per arrivare a
sette miliardi.
L’accelerazione
dello sviluppo umano è ancora più evidente nelle nostre tecnologie.
Agli
albori del XX secolo i soldati combattevano ancora a cavallo;
nel
1945 gli Stati Uniti hanno lanciato bombe atomiche su due città giapponesi.
O, ancora, pensiamo ai progressi della
comunicazione.
La
prima chiamata effettuata da un telefono cellulare portatile risale al 1973, e
fu fatta con un dispositivo che pesava quasi un chilo.
Nel 1989 Tim Berners-Lee inventò il “World
Wide Web” e il primo browser.
Oggi
più di 4,4 miliardi di persone esplorano il cyberspazio.
Pensate
alla velocità con cui il volo ci ha consentito di raggiungere nuove vette. Nel
1903 Orville Wright pilotò un biplano a 36 metri di altezza e rimase in volo
per dodici secondi.
Appena
58 anni dopo l’Unione Sovietica lanciò Yuri Gagarin nello spazio, e otto anni
dopo Neil Armstrong atterrò sulla Luna.
Nel 2021 la NASA ha fatto volare sulla
superficie di Marte un drone che trasportava un pezzo dell’aereo dei fratelli
Wright grande come un francobollo.
Ora
facciamo un salto di venticinque anni nel futuro.
Sono
queste le prospettive che ci servono per visualizzare il punto in cui ci
troviamo, dove stiamo andando e a quale velocità ci stiamo arrivando.
La
nostra capacità sia di creare che di distruggere sta accelerando più
velocemente di quanto riusciamo a registrare.
Abbiamo
liberato forze che stanno cambiando il pianeta e sfuggendo al nostro controllo
e, se non riusciremo ad accordarci su come gestirne in maniera saggia le
conseguenze, potremmo distruggere tutto ciò che gli esseri umani hanno creato.
Siamo
davanti a un bivio.
Come
spero abbiate compreso dalla lettura di questo libro, le sfide globali senza
precedenti di cui vi ho parlato non incombono in un futuro imprecisato:
sono
qui con noi in questo preciso momento.
Il cambiamento climatico si intensificherà,
qualunque cosa facciamo, e i suoi effetti verranno avvertiti ovunque.
Gran
parte del nostro pianeta sta diventando ostile alla vita.
(La
bufala della Co2, il gas serra più pesante dell’atmosfera, che per grazia
divina si alza nei cieli per creare
l’effetto serra che ci distruggerà! E tutti credono agli scienziati corrotti
che se lo sono inventato di notte! N.D.R)
Le
nazioni e le persone più ricche spenderanno qualsiasi somma per proteggersi
dagli effetti peggiori di questa calamità in atto, ma gli stravolgimenti e le
sofferenze continueranno.
Solo una risposta globale potrà contenere i
danni.
I
nostri leader nel mondo della politica, degli affari e della filantropia devono
trovare compromessi, cooperare e coordinarsi in nuovi modi.
Man
mano che il cambiamento climatico sconvolgerà più vite e costringerà più
persone a lasciare le proprie case, accentuando ulteriormente la disuguaglianza
globale, milioni di queste vittime diventeranno disperate e arrabbiate.
Alcuni
useranno la violenza per manifestare queste emozioni, e la storia ci insegna
che la violenza può generare altra violenza.
(Tutti gli scienziati corrotti
dovrebbero essere processati da un nuovo processo di Norimberga in cui verrà
dimostrato che il gas CO2 - essendo più pesante dell’atmosfera - se ne sta
acquattato sulla terra e sul mare e non ha alcuna intenzione di danneggiarci
dall’alto dei cieli! N.D.R)
Per i privilegiati il danno è contenuto finché gli
emarginati si limitano a brandire bastoni e pietre. O pistole.
O bombe al nitrato d’ammonio.
Ma
quando l’inventiva umana dà loro accesso a nuove e pericolose tecnologie – armi
in grado di colpire gli spazi che tutti condividiamo nel mondo reale e virtuale
– più persone verranno uccise e intere società destabilizzate.
Il
ritmo del cambiamento tecnologico è il rischio più grande di tutti.
Oggi
le aziende utilizzano l’intelligenza artificiale per scoprire modi più efficaci
e proficui di cambiare il comportamento umano, senza chiedersi quale effetto
possa avere realmente quella tecnologia sulle persone che ne diventano
dipendenti.
Persino
nel bel mezzo di una pandemia che mette in pericolo la vita di decine di
milioni di persone non ci azzardiamo a utilizzare un nuovo vaccino senza prima
averlo testato.
Vogliamo
sapere come inciderà sulle persone, se le proteggerà, quanto dureranno i suoi
effetti e se causerà effetti collaterali.
Regolamentiamo
il tabacco e gli alcolici.
Vogliamo impedire ai più giovani di fumare
sigarette o di fare uso di narcotici.
(E soprattutto vogliamo che ai più
giovani non venga rifilata la “balla “ del “gas CO2” che si anniderebbe nei cieli per distruggerci, pur essendo più
pesante dell’aria! N.D.R).
Ma
quando sviluppiamo nuovi algoritmi che decidono quali idee, informazioni e
immagini assumiamo, quali prodotti consumeremo, come spenderemo i nostri soldi
o come interagiremo con altre persone, non facciamo alcun test.
Iniettiamo
tutto nel flusso sanguigno del corpo politico senza neanche pensarci.
Le
nuove tecnologie stanno già modificando la nozione stessa di essere umano, e
non abbiamo idea delle possibili conseguenze di ciò.
Questi
sono problemi che nessuna nazione può risolvere da sola.
E
proprio per questo offrono agli esseri umani un’opportunità senza precedenti:
quella di fondere il loro estro pratico e morale per il bene di tutti.
Guerra
e pandemia aumentano le disuguaglianze
e minacciano la democrazia.
(NICOLA
LACETERA, economista).
COOPERAZIONE
PRATICA.
Tutte
le persone – quelle che vivono nelle democrazie e nelle dittature, nei paesi
ricchi e in quelli poveri e in tutte le terre di mezzo – sono accomunate da
molte aspirazioni: in primis la sicurezza, la dignità e la prosperità.
Vogliamo
un accesso sicuro al cibo e all’acqua. Vogliamo che la legge ci protegga e che
protegga i nostri beni e i nostri diritti. Vogliamo buone possibilità di
guadagnarci da vivere.
Se
perdiamo il lavoro, vogliamo sapere che possiamo trovarne un altro.
Tutte
queste cose le vogliamo anche per i nostri figli.
Ma tutto questo dipende sempre più da ciò che
accade molto lontano dai nostri confini.
I confini cambiano, gli imperi sorgono e
cadono, le alleanze si forgiano e si dissolvono e i leader politici vanno e
vengono ma, oggi più che mai, i problemi degli altri stanno diventando i nostri
problemi.
Il
panico spaventa i mercati di tutti i continenti. Le tempeste infuriano
nonostante le barriere marittime. Le malattie si diffondono. La criminalità
scatena altra criminalità. I disordini politici ridisegnano intere società. Le guerre cambiano le vite delle
persone a migliaia di chilometri di distanza dal campo di battaglia.
Fino a
quando le persone più ricche del mondo non si lanceranno nello spazio per
costruirsi lussuose tenute stellari, dovremo condividere tutti un unico
ecosistema, in senso sia metaforico che letterale.
Questo
libro vuole ribadire l’importanza di una cooperazione pratica su alcune
questioni fondamentali.
Non
dobbiamo necessariamente piacerci, tantomeno accordarci su un unico insieme di
valori politici ed economici.
Non
c’è bisogno che tutti lavorino assieme.
Non
dobbiamo risolvere ogni singolo problema.
Di
certo non abbiamo bisogno di un unico governo mondiale che ci salvi dal caos.
Ma non
è mai stato più chiaro di così:
i
cittadini di tutti i paesi del mondo devono cooperare se vogliono raccogliere i
frutti pressoché universali degli obiettivi che non si possono raggiungere da
soli.
Sono
un americano patriottico.
Sono
veramente grato per tutto quello che il mio paese ha fatto per me e per i miei
cari, e per ogni opportunità che ha creato per noi.
Ma non
sono un nazionalista. Non credo che i nostri valori siano intrinsecamente
superiori a quelli degli altri.
L’America
è una comunità di persone con opinioni diverse e convincimenti contrastanti, un
consesso di razze, persone di ogni fede e cittadini non credenti.
Né
credo che i «valori americani» offrano la soluzione migliore a ogni problema.
La
democrazia rappresentativa è, a mio avviso, la migliore forma di governo, ma
nessuna nazione governata da un dittatore se la passerebbe meglio se tenesse
libere elezioni fra tre mesi.
Per
costruire la democrazia ci vuole tempo, e la democrazia non è la migliore forma
di governo per ogni singola fase dello sviluppo di una nazione.
Fu la tirannia del comunismo sovietico a
sottrarre la Russia al feudalesimo zarista nel 1917 e a portare Gagarin in
orbita appena 44 anni dopo.
Nessuna
democrazia ha liberato centinaia di milioni di persone dalla povertà come ha
fatto il Partito comunista cinese.
I
comunisti sovietici e cinesi si sono macchiati di alcuni tra i peggiori crimini
della storia contro persone innocenti.
Ma è
vero anche che gran parte della prosperità democratica dell’odierna Europa è
stata costruita su secoli di imperialismo, e che gran parte della ricchezza
attuale dell’America è stata accumulata sulle schiene di persone condotte lì in
catene.
Non
essendo un nazionalista, non ho problemi ad ammettere che tutte queste cose
sono vere.
Né credo in una marcia ineluttabile verso la
pace, l’uguaglianza, la giustizia o la libertà.
La storia ci insegna che nessuno di questi
risultati è inevitabile.
Eppure,
per decine di migliaia di anni abbiamo sì potenziato la nostra capacità di
uccidere, ma anche la nostra capacità di cooperare.
L’archeologia
ci svela la progressione dal semplice al complesso compiuta dalla storia umana.
È stata la collaborazione tra le persone a
gettare le basi di questa complessità. Dall’invenzione della ruota alla
nascita del baratto, fino allo sviluppo della democrazia e alla creazione delle
moderne filiere produttive e reti di ammortizzatori sociali, le nostre
conquiste dipendono sempre più non solo dalle nuove tecnologie ma anche da
forme complesse di impegno sociale, cooperazione e coordinamento.
La
nostra disponibilità a cooperare deve progredire più velocemente delle forze
distruttive che abbiamo messo in moto.
I vari
processi che oggi chiamiamo «globalizzazione» hanno lasciato troppe persone a
vivere nella miseria, e a un palmo di naso dai ricchi.
Vedendo
nell’efficienza e nella redditività l’unica strada verso la prosperità, abbiamo
creato una forma brutale di governo che avvelena il suolo su cui crescono le
società civili, generando guadagni per proprietari e azionisti e abbandonando
milioni di persone.
Il
contenimento di questa pericolosa disuguaglianza comincia in patria, preparando
i lavoratori ad assorbire gli shock e ad affrontare le sfide che
inevitabilmente accompagnano l’accelerazione del cambiamento.
Non è
possibile costruire un nuovo sistema internazionale di cooperazione in una
volta sola.
Bisogna
cominciare dalla collaborazione tra alleati e popoli affini, tra paesi che
condividono gli stessi valori politici e persone già animate da fiducia
reciproca, prima che anche i governi più scettici capiscano che aderire a
questi progetti conviene.
Per arrivarci, gli alleati dovranno stipulare un nuovo
accordo con i loro rivali.
Suona
utopistico?
Prima
di arrenderci a un facile cinismo, ricordiamoci che esiste un precedente
storico per una visione così grandiosa, un precedente che ha permesso a
miliardi di esseri umani di sopravvivere e prosperare nel mondo moderno.
Dopo
la Prima guerra mondiale il conflitto che qualcuno, peccando di ottimismo,
definì «la guerra che mette fine a tutte le guerre», molti americani pensavano
che i futuri presidenti avrebbero dovuto tenere le truppe americane a debita
distanza dalle future guerre europee.
I tentativi di dar vita a una Società delle
Nazioni naufragarono, in parte perché l’America rifiutò di aderirvi, in parte
perché Germania, Italia e Giappone ne uscirono.
Negli
anni Venti e Trenta era ancora possibile credere che gli oceani Atlantico e
Pacifico fornissero tutta la sicurezza di cui gli americani avevano bisogno, e
che gli eventi in Europa, Asia, Africa e Medio Oriente fossero irrilevanti per
la vita americana.
Per le
potenze vittoriose d’Europa la Germania doveva uscire in rovine e umiliata
dalla Prima guerra mondiale.
Come
se la vita potesse tornare alla piena normalità prebellica non appena fermate
le artiglierie e rientrati i soldati dal fronte.
Come
se una potente nazione messa in ginocchio non potesse più risorgere per tornare
a incrinare la pace.
Una
generazione dopo, la Seconda guerra mondiale ha ucciso 75 milioni di persone.
Quando
finì, la Casa Bianca e il Pentagono capirono finalmente che bisognava investire
i soldi dei contribuenti statunitensi nel futuro di quegli stessi paesi che avevano
appena fatto di tutto per mettere fine allo stile di vita americano.
Quell’investimento
saggio e senza precedenti ha reso il mondo un luogo più sicuro per la
democrazia nelle nazioni che erano pronte a costruirla, e ha permesso il
commercio nei luoghi in cui era possibile rimettere in piedi le industrie.
Le due guerre mondiali hanno messo a nudo la capacità
della nostra specie di inventare mezzi sempre più efficaci per seminare
distruzione, ma hanno anche allargato la nostra capacità di cooperazione, per
il bene dei singoli e per quello comune.
Il
fascismo è stato sconfitto. Sono crollati imperi e milioni di persone hanno
ottenuto l’indipendenza. L’umanità ha dato prova di resilienza. Sotto la spinta
delle nuove tecnologie il commercio e gli investimenti globali hanno compiuto
grandi salti in avanti. Il numero di paesi democratici è aumentato.
In
sostanza, gli Alleati usciti vittoriosi dalla Grande guerra hanno creato un
nuovo sistema di governo internazionale fondato su un principio cardine:
il conflitto non cesserà fino a che ciascuno
di noi non si assumerà la responsabilità di tutti quanti gli altri.
Le Nazioni Unite sono state create per
istituzionalizzare l’impegno globale alla sicurezza, alla dignità e alla
prosperità.
La Carta delle Nazioni Unite affida
all’organizzazione il compito di «realizzare la cooperazione internazionale per
risolvere i problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale
o umanitario».
Sono
state create altre istituzioni allo scopo di aiutare i paesi poveri a
sviluppare i propri sistemi politici ed economici per il bene dei cittadini,
per fornire aiuti finanziari a chi ne aveva bisogno e a chi era in grado di
stabilire scambi commerciali liberi ed equi, per condividere le risorse necessarie
a combattere le malattie e per promuovere il rispetto del diritto
internazionale.
La
Seconda guerra mondiale è stata la più grande catastrofe mai abbattutasi sulla
razza umana.
È
stata anche la crisi di cui avevamo bisogno per compiere gli sforzi necessari a
garantire la sopravvivenza e persino la prosperità della nostra specie dopo il
XX secolo.
Sono
stati scritti innumerevoli libri e articoli per illustrare nel dettaglio i
molteplici fallimenti di queste organizzazioni.
Oggi
riflettono l’equilibrio di potere e di influenza che esisteva nel 1962, ma che
nel 2022 non esiste più.
Ma se domani le eliminassimo tutte, avremmo
bisogno di reinventarle il giorno dopo: il mondo interdipendente che queste
istituzioni rispecchiano incide sulla vita di ognuno di noi in misura
esponenzialmente maggiore rispetto ai tempi della loro fondazione.
Le
Nazioni Unite danno voce a ogni nazione sulla scena internazionale e aiutano
gli stati più potenti del mondo a ridurre il rischio di guerre reciproche e con
altri paesi.
Le
forze di pace dell’ONU provengono da molte nazioni, consentendo agli stati
membri di condividere gli oneri, i rischi e i costi connessi al mantenimento
della pace e al contenimento delle sofferenze causate dai conflitti.
L’ONU ha salvato molte vite in molti luoghi e
ha fallito in altri, ma i successi ottenuti hanno fatto del bene a moltissime
persone, e merita un encomio solenne per aver scongiurato una nuova guerra
mondiale.
Anche
l’”Organizzazione mondiale del commercio” crea vantaggi per tutti i paesi che
vi aderiscono.
Le sue regole non sono in grado di prevenire
ogni singola controversia commerciale e la loro applicazione è lenta e
incompleta.
Ma,
come in ogni terreno di forte competizione, è di gran lunga preferibile avere
regole imperfette e un arbitro fallibile che non averne affatto.
Il “Fondo
monetario internazionale” e altri finanziatori multilaterali offrono un’ancora
di salvezza finanziaria alle nazioni che hanno bisogno di aiuto, spesso agendo
come prestatori di ultima istanza.
Talvolta
le condizioni a cui erogano i prestiti danno adito a polemiche, sospetti e
acredini, ma hanno aiutato molte nazioni in via di sviluppo e i loro cittadini
ad evitare la catastrofe.
Anche
l’Unione europea, che da semplice area di libero scambio si è trasformata nella
più ambiziosa organizzazione di governo multinazionale della storia, ha
generato la sua buona dose di delusione, sfiducia e cinismo.
Molti
cittadini degli stati membri accusano le élite politiche europee di usare le
istituzioni dell’UE per scrivere regole che fanno gli interessi dei governi più
potenti a scapito degli stati più piccoli, che arricchiscono le multinazionali
a scapito delle piccole imprese e che soddisfano i bisogni dei burocrati ai
danni delle libertà individuali.
Ma
l’UE ha contribuito a eliminare le guerre in un continente responsabile dei due
conflitti più distruttivi della storia.
Ha aiutato tutti gli stati membri a fare il passo più
lungo della loro «gamba economica» nelle relazioni con gli Stati Uniti, la
Russia e la Cina.
Ha
offerto ai cittadini la possibilità un tempo impensabile di attraversare
liberamente i confini nazionali in cerca di migliori opportunità.
Ha
ripulito l’aria e l’acqua nei paesi i cui governi potrebbero non voler o non
poter spendere per investire in questi progetti.
Ha
assunto il comando sia sugli standard climatici sia su quelli relativi alla
privacy. Ha creato un sistema in cui i paesi più ricchi possono migliorare gli
standard di vita degli stati membri più poveri, e a volte aiutarli a uscire da
una crisi. Ha fornito un modello di cooperazione al resto del mondo.
Criticare
tutte queste istituzioni è facile, specie per chi dalle critiche ci guadagna.
Ma tutte aiutano a tutelare la sicurezza, la dignità e le opportunità di tutti
gli abitanti del mondo.
Proteggono i diritti umani. Rendono le guerre
meno probabili. Soprattutto, alleggeriscono il peso sui singoli governi creando
una struttura che sostiene la responsabilità collettiva.
Ogni
anno che passa ci sono meno persone abbastanza vecchie da ricordare gli orrori
della Seconda guerra mondiale e le sfide della decolonizzazione che hanno
ispirato e reso necessarie queste organizzazioni.
Non
dobbiamo dimenticare le lezioni che simili istituzioni ci hanno insegnato.
Se lo
faremo, dovremo impararle di nuovo, patendo sofferenze ancora più grandi di
quelle che hanno accompagnato le prime assimilazioni.
Oltre
il Covid e la guerra, le malattie infettive tornano a minacciare il mondo.
LA
ROTTA DI COLLISIONE.
Precedentemente
ho illustrato due rischi di collisione.
Il
primo è la lotta tra l’America rossa e quella blu, che ha gravemente
danneggiato la vita politica e l’integrità democratica dell’unica superpotenza
mondiale.
Il
secondo è il conflitto tra la potenza egemone rappresentata dall’America e
quella emergente rappresentata dalla Cina.
Il
pericolo maggiore che comportano entrambi è quello di distogliere i governi e
le istituzioni più potenti del mondo dall’affrontare le vere sfide che ci
attendono. Siamo
tutti in rotta di collisione con la prossima inevitabile emergenza sanitaria
globale, con il cambiamento climatico e con il potere che le nuove tecnologie
dirompenti hanno di destabilizzare le nostre vite e le nostre società.
Questi
sono i rischi cui va incontro il nostro futuro in comune.
Ogni attimo, ogni idea, ogni grammo di energia
e ogni dollaro sprecato per combatterci, in patria o in una potenziale zona di
guerra, fanno aumentare il rischio di ritrovarci uniti nella sofferenza quando
queste minacce globali avranno superato la nostra capacità di contenerle.
Non
credo che l’avvelenarsi della politica interna distruggerà la democrazia
americana.
Le
istituzioni politiche statunitensi devono affrontare minacce reali, ma hanno
già assorbito shock considerevoli in passato.
Non
intendo sottovalutare il danno che la partigianeria al vetriolo può infliggere
alla vita americana, ma continuo a credere nella volontà degli americani di
difendere la democrazia dalle minacce concrete e nella capacità delle
istituzioni americane di far prevalere la legge sui pregiudizi culturali.
Non
credo che gli Stati Uniti e la Cina entreranno in guerra a causa di Taiwan o di
altre divergenze.
Entrambi i paesi hanno troppo da perdere da
una collisione catastrofica, e né Washington né Pechino possono aspettarsi che
altri governi li seguano sulla strada del disastro.
Ma… ho
scritto questo libro perché temo che gli americani rossi e blu da una parte e i
leader statunitensi e cinesi dall’altra siano così presi dall’idea di un loro
possibile scontro da trascurare le reali tempeste all’orizzonte.
Per prepararsi ad affrontarle dovranno
cooperare, ma non potranno farlo finché saranno impegnati a scontrarsi sulle
chimere dei massimi valori.
MONDO.
La
grande migrazione: il nuovo numero di Scenari.
LA
GIUSTA CRISI.
Gli
esseri umani funzionano meglio quando arriva una crisi che reclama la loro
attenzione e mette a fuoco la sfida che hanno davanti.
Ma non
basta una qualsiasi emergenza.
Abbiamo
bisogno di una «crisi alla Riccioli d’Oro»: una crisi abbastanza grande da
esigere il nostro impegno ma non tanto distruttiva da non ammettere una
risposta efficace.
Abbiamo
bisogno di una crisi sufficientemente spaventosa da costringerci a guardare in
faccia i rischi di un collasso geopolitico, di una futura pandemia, del
cambiamento climatico e degli effetti ad ampio raggio della rivoluzione
tecnologica.
Una
crisi che causi così tanto dolore e crei così tanti rischi per i leader al
potere da indurli finalmente a riconoscere che la collaborazione e il
compromesso sono l’unico scudo possibile contro la disfatta totale.
Una
crisi di dimensioni sufficientemente grandi da farci stringere intorno a
progetti comuni per affrontare le sfide descritte in questo libro.
Nei primissimi giorni del Covid-19 è sembrato
che la pandemia potesse creare la perfetta crisi alla Riccioli d’Oro.
Di
sicuro era abbastanza grande da toccare le vite di miliardi di persone.
Tutti
i governi del pianeta sono stati costretti a reagire. I danni economici
provocati sono stati ingenti, preannunciandosi duraturi.
Il
virus ha messo in pericolo governi, leader politici e aziende che hanno opposto
resistenza al cambiamento, mentre ha dato voce e potere agli scienziati e agli
innovatori in grado di aiutarci a comprendere la minaccia e ad affrontarne le
conseguenze.
Ci
siamo trovati dinanzi a una minaccia comune, una minaccia per certi versi non
meno avulsa e insidiosa dell’ipotetica invasione aliena di Ronald Reagan.
Eppure troppi dei nostri leader politici hanno
cercato di usare questa crisi per fomentare la rabbia verso gli altri, in
patria e all’estero.
Nel
campo scientifico, i progressi compiuti sul fronte dei tamponi, del
tracciamento dei contatti, delle terapie e dello sviluppo dei vaccini ci
aiuteranno a superare la prossima tempesta virale.
Le
ripercussioni economiche globali del Covid imprimeranno slancio alla
transizione dall’economia novecentesca fatta di calce e mattoni verso un futuro
digitale in cui la maggior parte delle persone lavorerà, farà acquisti e
studierà online.
La
pandemia ha inoltre valorizzato le imprese intenzionate a stare sul mercato in
maniera ecosostenibile.
Ma il
Covid non ha fatto abbastanza per convincere i governi della necessità di
pensare a nuovi modi per garantire la sicurezza e consentire la prosperità.
Il “Covax”
ha fornito un modello eccellente per la cooperazione futura in materia di
salute globale, ma sono troppo pochi i governi che hanno investito in questo
progetto,
e l’amministrazione Trump ha negato qualsiasi sostegno nel momento più critico
per consentirne il successo.
Come
accaduto nelle precedenti crisi, la pandemia ha convinto le banche centrali a
cominciare a stampare denaro per aiutare i paesi a reagire.
Benché necessaria, questa misura ha fatto ben
poco per risolvere le profonde disuguaglianze che ci tormentano.
Piuttosto
che disegnare e investire in nuove istituzioni – come per esempio
un’Organizzazione mondiale dei dati – i nostri leader sembrano accontentarsi di
curare i sintomi, non la malattia che mette in pericolo l’intera umanità.
Il
cambiamento climatico e le nuove tecnologie dirompenti sono crisi più grandi
del Covid, e possono dar vita alle istituzioni nazionali e internazionali di
cui abbiamo bisogno.
Dobbiamo
agire ora se vogliamo essere pronti a cogliere le opportunità che queste crisi
imminenti creeranno.
UNA
VISIONE POSITIVA.
Per
inventare nuove forme concrete di cooperazione, tuttavia, agli esseri umani
serve qualcosa di più della paura scatenata da una crisi.
Abbiamo
bisogno di una visione positiva per il futuro, di piani che possiamo mettere in
atto quando e come ne abbiamo bisogno.
Sono
troppi i nostri leader e troppi sono quelli tra noi che si fissano su ciò che
non possiamo fare e su ciò che secondo noi gli non altri faranno.
Chiudiamo la porta ancor prima di aver
intravisto che cosa potrebbe esserci dall’altra parte.
La
condiscendenza consente al cinismo e all’abitudine di prevalere.
Inoltre
ci concentriamo troppo sulla soddisfazione dei bisogni a breve termine.
I consumatori non sono gli unici a volere una
gratificazione immediata.
Anche
politici, dirigenti d’azienda e azionisti vogliono la stessa cosa.
Sia
loro sia noi siamo ossessionati dal mandato immediato del leader in carica,
dall’anno da superare, dal raggiungimento degli obiettivi trimestrali o dal
prossimo notiziario.
Ma il
nostro più grande limite è probabilmente questo: siamo in pochissimi a voler
piantare semi i cui frutti verranno raccolti da altri.
Per sopravvivere alle sfide che ci attendono,
i nostri leader devono ascoltarsi l’un l’altro e ascoltare tutti gli abitanti
del pianeta.
Non
serve che siano d’accordo sulle questioni politiche, economiche, culturali o
sui valori nazionali.
Ma
devono essere d’accordo sul fatto che i conflitti tra superpotenze, le future
crisi sanitarie, il cambiamento climatico e le nuove tecnologie comportano
minacce globali e che la sopravvivenza della nostra specie dipende dalla
cooperazione.
Devono
decidere insieme in che cosa investire e come condividere i costi e i rischi.
Nei capitoli precedenti ho proposto delle possibili strategie in grado di
gettare le basi del compromesso, della cooperazione e del coordinamento tra le
nazioni.
Le ripropongo in chiusura.
UN
COVAX GLOBALE.
In
risposta al Covid-19, 172 paesi hanno aderito al “progetto Cova”x per
collaborare con i produttori dei vaccini e garantire uguale accesso alle dosi a
tutti i paesi del mondo.
Cina,
Russia e Stati Uniti sono stati molto lenti nel concedere il loro sostegno.
Se il
progetto avesse ricevuto il placito e gli investimenti di tutti i maggiori
governi internazionali, l’obiettivo di distribuire equamente i vaccini in tutto
il mondo sarebbe stato raggiunto meglio e prima.
Il
modello del “Covax” va potenziato e affinato per prepararsi alla prossima
pandemia.
Inoltre,
il “Covax “può ancora rappresentare quel salto di qualità della capacità di
immaginazione globale indispensabile per creare progetti di partenariato simili
– e più efficienti – con cui affrontare tutte le emergenze che il futuro ci
riserverà.
UN
ACCORDO VINCOLANTE SULLA RIDUZIONE DELLE EMISSIONI DI CARBONIO.
Ed è
qui che casca l’asino)
Il
cambiamento climatico può essere limitato solo a patto di azzerare le emissioni
nette di carbonio (CO2) nell’atmosfera entro il 2050.
(Cominciamo col dire che non si
comprende il motivo per cui il gas CO2 che è più pesante dell’atmosfera
dovrebbe poter veleggiare sui nostri cieli e raggiungere la volta della serra
che racchiude da sempre i gas serra! N.D.R)
Nessuno
vuole sacrificarsi più del dovuto e i progressi dipendono dalla fiducia nella
capacità degli altri di mantenere le promesse.
Qualsiasi
accordo sulle emissioni dovrà essere vincolante e verificato da osservatori
internazionali indipendenti.
Per
essere credibili le soluzioni hanno bisogno della volontà politica e di
scoperte scientifiche, e i governi possono condividere i costi associati allo
sviluppo di tecnologie in grado di accelerare il progresso.
(Ma se
il progresso richiede divulgare le menzogne, dobbiamo opporci con la forza
della ragione all’ idea che un gas più
pesante dell’atmosfera possa minacciare l’umanità dall’ alto dei cieli
irraggiungibili dalla Co2! N.D.R)
UN
PIANO MARSHALL VERDE.
Un
accordo vincolante sulle emissioni può rientrare in un più ampio patto
internazionale che preveda l’investimento e il passaggio all’energia
rinnovabile, la creazione di lavori verdi e la risistemazione degli svariati
milioni di sfollati creati dai danni che il cambiamento climatico infliggerà
anche nei migliori scenari.
(Non è in vista nessun cambiamento
climatico ad opera del gas CO2 che essendo più pesante dell’aria si interessa
solo alla cura e sviluppo delle piante, degli animali, e del genere umano! N.D.R).
Dovrà
prevedere un accordo globale sui diritti dei rifugiati che aiuti a scongiurare
i conflitti futuri e a soddisfare bisogni umanitari sempre più pressanti.
A differenza del Piano Marshall, che contribuì
alla ricostruzione dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale con i fondi dei
soli Stati Uniti, il successo di un Piano Marshall verde dipenderà dalla
condivisione globale dei costi e degli altri oneri.
PER
UN’ ORGANIZZAZIONE MONDIALE DEI DATI.
Il
mondo ha un disperato bisogno di gestire, attraverso una fonte indipendente, i
dati che gli esseri umani producono in quantità sempre maggiori. Abbiamo
bisogno di regole e standard che valgano per i governi e per le imprese che
possiedono e utilizzano le informazioni personali che generiamo.
Proprio
come l’”Intergovernmental Panel on Climate Change” dell’ONU, che elabora
analisi indipendenti sul riscaldamento globale, e l’Organizzazione mondiale del
commercio, che fissa regole in grado di risolvere le controversie e facilitare
il commercio fra tutti i suoi membri, così un’”Organizzazione mondiale dei dati
può disciplinare l’intelligenza artificiale, la privacy, la proprietà
intellettuale e i diritti dei cittadini.
La
Cina e altri stati autoritari non entreranno subito a farvi parte perché non
saranno d’accordo con le democrazie su come bilanciare al meglio sicurezza,
privacy, protezione della proprietà e libertà personale.
Ma se
le democrazie che viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda creeranno questa
organizzazione, e se gli standard fissati da quest’ultima creeranno a loro
volta delle opportunità, trovare un compromesso per il bene di tutti diventerà
possibile.
CHI
RACCOGLIERÀ QUESTA SFIDA.
L’America
non ha intrapreso un percorso di riconciliazione tra destra e sinistra. Le
elezioni presidenziali del 2024 saranno probabilmente le più brutte e pericolose
della storia americana.
Non è
un’esagerazione.
Nei
prossimi anni la guerra culturale tra destra e sinistra ci regalerà nuovo
rancore, soprattutto visto che Donald Trump continua ad attaccare le
istituzioni su cui la democrazia americana poggia.
Fortunatamente
il mondo non ha bisogno dell’unità americana per affrontare le sfide globali.
Basta
che la nazione più potente del mondo dia prova ancora una volta della sua
resilienza e continui a farsi carico dei numerosi costi e rischi derivanti
dalla leadership su questioni complesse come il cambiamento climatico e la
rivoluzione dell’intelligenza artificiale.
(Ma il
cambiamento climatico è una colossale bufala, infatti il gas CO2
non potrà mai avere influenza sul riscaldamento climatico in quanto è un gas
più pesante dell’aria e quindi non può essere usato come un’esca tesa per
distruggerci! N.D.R)
Il
mondo non ha bisogno nemmeno che Stati Uniti e Cina ricuciano tutti i loro
strappi. Non succederà mai.
Ma se
Washington e Pechino riusciranno a evitare un’escalation delle ostilità e a
scongiurare una nuova Guerra fredda, allora potranno lavorare insieme sulle
questioni climatiche e sulle tecnologie dirompenti che minacciano entrambi i
paesi e l’umanità tutta.
(La
questione climatica non richiede il gas CO2 nell’alta atmosfera che non può
raggiungere in quanto più pesante dell’aria, ma le tecnologie future potrebbero
essere usate per eliminare l’umanità sulla terra! N.D.R)
Se
riusciremo a disinnescare gli scenari peggiori sia dentro i confini americani
che tra Washington e Pechino avremo ancora un margine d’intervento sufficiente
per consentire anche ad altri attori di giocare un ruolo chiave.
L’Unione
europea dovrà svolgere un ruolo cruciale nell’affrontare le sfide climatiche e
tecnologiche e, se gli Stati Uniti e la Cina riusciranno a evitare un conflitto
che costringe l’Europa a schierarsi interamente con una parte a scapito
dell’altra, Bruxelles potrà rilanciare la cooperazione internazionale in tutti
questi ambiti.
Ci
sono buoni motivi per essere ottimisti.
Quando
il Covid ha colpito l’Europa all’inizio del 2020 facendo crollare i prezzi del
petrolio, qualcuno ha temuto che persino nelle file dell’UE – all’avanguardia nelle
politiche contro il cambiamento climatico – si sarebbe perso lo slancio
regolatorio verso la riduzione delle emissioni di carbonio Co2.
(Le
emissioni di gas CO2 possono essere usate per annientare le popolazioni
terrestri tramite armi di distruzione biologiche di massa. E poi addurre come
causa della distruzione la CO2 esistente solo sulla terra e sul mare e ben
nascosta! N.D.R)
Le
crisi passate, tra cui il crollo finanziario del 2008-2010 e la crisi
migratoria del 2015-2016, hanno aperto delle fratture tra i paesi dell’UE.
Ma il
Covid ha offerto all’Unione la possibilità di disegna re la propria rotta non
solo sulla pandemia e sulla ricostruzione economica, ma anche sul cambiamento
climatico.
Una
delle questioni più controverse al suo interno è se consentire la tassazione
comunitaria degli stati membri per poter finanziare obiettivi di più ampio
respiro. Molti dei paesi frugali del Nord Europa si sono opposti a una
ridistribuzione su larga scala della ricchezza verso gli stati del Sud
finanziariamente più deboli, tra cui Italia, Spagna e Grecia – paesi i cui
governi, secondo i detrattori, spenderebbero troppo e tasserebbero troppo poco.
Ma questi stessi paesi del Nord sono anche i più favorevoli a un’audace azione
di contenimento del cambiamento climatico.
(Ma se
il cambiamento climatico è causato dalle armi biologiche globaliste, cosa
c’entra la “bufala” del gas CO2 che pur essendo più pesante dell’aria dovrebbe
viaggiare nell’atmosfera per distruggere l’umanità? N.D.R)
Facendo
della spesa per il clima uno dei cardini del suo bilancio da 1800 miliardi di
euro e dei suoi piani di sostegno economico per la ripresa dalla pandemia, la
Commissione europea ha potenziato la propria capacità di raccogliere fondi da
destinare al contenimento delle ricadute della pandemia e del cambiamento
climatico presso gli stati membri storicamente riluttanti.
Solo
gli stati membri che rispettano le norme UE sulle emissioni e altre politiche
rilevanti per il clima possono aspettarsi di ottenere aiuti generosi per la
ripresa post pandemia.
Inoltre il sistema di scambio delle emissioni
dell’UE sta entrando nel vivo e si appresta a diventare la carta vincente
dell’Europa per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni fissati
per il 2030.
La
versione più recente del piano prevede la riduzione di anno in anno delle quote
di emissione annuali complessive, la creazione di un meccanismo separato per le
emissioni dei settori trasporti e costruzioni e l’eliminazione graduale delle
«quote gratuite» assegnate a industrie pesanti, compagnie aeree e spedizioni
marittime.
La
messa a punto di questo piano genererà un fiume di polemiche e
mercanteggiamenti, ma il sistema di scambio delle emissioni diventerà più
rigoroso e nell’UE i prezzi del carbonio (gas CO2) saliranno con l’obiettivo di
imprimere slancio alla riduzione delle emissioni.
(Allora
la “bufala” del gas CO2 è necessaria ai globalisti “solo “per addebitare le
spese per la distruzione dell’umanità ai cittadini del mondo ignari di un
simile disegno criminale! N.D.R)
Alcuni
leader europei hanno vincolato i salvataggi delle industrie più colpite dal
rallentamento causato dal Covid al reshoring, ossia il rimpatrio della
produzione nei paesi d’origine.
È una buona notizia per l’occupazione locale
ma in alcuni settori, tra cui quello automobilistico, la rilocalizzazione aiuta
anche a garantire la conformità dei processi di produzione e dei prodotti
finali alle norme climatiche dell’UE.
Non
solo: è allo studio un sistema di agevolazioni e sanzioni fiscali in grado di
indurre le aziende domiciliate al di fuori dell’UE che vogliono fare affari in
Europa a rispettare gli standard europei.
I fondi raccolti con l’aumento
dell’imposizione sui prodotti esteri più inquinanti potranno poi essere
indirizzati verso le tecnologie verdi approvate dall’UE.
Si
tratta di conquiste storiche, nonché di un esempio del tipo di cooperazione che
ci serve per affrontare tutte le sfide discusse in questo libro.
L’Unione europea ha usato il Covid-19 per
combattere il cambiamento climatico incanalando i fondi per la ripresa
all’interno di progetti verdi, chiarendo quali progetti possono qualificarsi
come ecologici, vietando a tutti i fondi non destinati a progetti verdi di
finanziare qualunque cosa sia passibile di aggravare il problema del riscaldamento
globale e adottando obiettivi di riduzione delle emissioni più ambiziosi.
L’Europa
sta svolgendo un ruolo cruciale sul piano normativo anche rispetto ad altre
questioni urgenti.
Sui temi dell’utilizzo dei dati e della
privacy i leader dell’UE fanno leva sulle dimensioni del mercato al consumo
europeo per fissare regole che le aziende tecnologiche statunitensi e cinesi
non potranno permettersi di ignorare.
Se
Stati Uniti e Cina possono evitare una nuova Guerra fredda, l’Unione europea
può scrivere regole e fissare standard che aumenteranno il coordinamento
internazionale sulle sfide illustrate in questo libro, al tempo stesso
tutelando i diritti e le libertà delle persone.
Ma il
pensiero deve spingersi oltre i governi, perché i politici non possono creare
da soli un nuovo globalismo.
Alcune aziende hanno sfere d’influenza e
interessi che valicano i confini in modi preclusi ai governi.
La
loro rilevanza non potrà che aumentare.
È una
buona notizia, perché la capacità di queste entità globali di realizzare il
cambiamento è molto meno imbrigliata dai confini artificiali e sono realtà in
grado di adattarsi al cambiamento molto più velocemente.
Tra
esse, le più importanti sono di gran lunga i colossi tecnologici più grandi del
mondo.
Se
aleggiavano ancora dei dubbi sull’enorme potere geopolitico accumulato dalle
Big Tech, le conseguenze della rivolta del 6 gennaio al Campidoglio dovrebbero
averli fugati una volta per tutte.
Sebbene
il Congresso non potesse ritenere Donald Trump responsabile di aver fomentato
il più grave assalto alla democrazia americana a memoria d’uomo, Big Tech ha
intrapreso un’azione decisiva.
A
poche ore dall’assalto al Congresso, Facebook, Twitter, Apple, Google e Amazon
hanno sospeso i profili di Trump e di altri politici che avevano diffuso la
bugia dei brogli elettorali e incoraggiato l’insurrezione.
Hanno
temporaneamente bandito” Parler”, un servizio che molti sostenitori di Trump
usavano per fomentare o coordinare la presa del Campidoglio, tagliandolo fuori
dai servizi di web hosting e dai principali app store.
Il governo e le forze dell’ordine non hanno
avuto alcun ruolo in questa vicenda.
La
cancellazione dalle piattaforme di Trump e dei suoi sostenitori è stata una
decisione presa esclusivamente dalle aziende che avevano il potere di
intervenire su codici, server e politiche sotto il loro esclusivo controllo.
A
maggio il Consiglio di sorveglianza di Facebook – istituito nel 2020 – aveva
deliberato la decisione dell’azienda di sospendere il profilo di Trump.
Le
aziende tecnologiche, inoltre, hanno fatto molto di più di quanto abbiano fatto
o possano fare i governi per scovare ed escludere altri malfattori dal
cyberspazio. Facebook, Google, Amazon, Microsoft ed Apple hanno accumulato un
potere tale da diventare gli arbitri degli affari globali, non dei semplici
spettatori.
Oggi
non c’è nessun altro attore non statale, e forse non c’è mai stato, che si sia
avvicinato a una simile influenza geopolitica, e ciò crea sia pericoli sia
motivi di ottimismo.
Le principali aziende tecnologiche
statunitensi e cinesi sono attori protagonisti nel dramma che deciderà se il
mondo piomberà in una nuova Guerra fredda o si dirigerà verso un futuro molto
più roseo.
Google,
Facebook, Microsoft, Amazon, Alibaba, Tencent e ByteDance non stanno semplicemente
rispondendo a trend geopolitici: li stanno creando.
Già in
passato il potere privato ha giocato un ruolo significativo nella geopolitica.
La Compagnia delle Indie Orientali e il suo esercito privato hanno governato il
subcontinente asiatico per conto della Corona nel Settecento e nell’Ottocento.
«Big Oil» esercitava un’enorme influenza
politica durante i suoi anni d’oro.
Ma gli
odierni colossi tecnologici differiscono da questi precursori sotto due aspetti
fondamentali.
Innanzitutto,
i colossi tecnologici non esercitano il potere esclusivamente nello spazio
fisico.
Mantengono
ed esercitano una profonda influenza in una sfera del tutto nuova della geo
politica: lo spazio digitale, che essi stessi hanno creato.
Le
persone si rivolgono a queste aziende per apprendere, trovare l’amore, fare
acquisti e accumulare ricchezza – nonché, talvolta, per ordire la destituzione
di governi.
Neanche
il Partito comunista cinese è in grado di controllare fino in fondo questo
territorio.
Lo spazio fisico è finito.
Quello
digitale cresce in maniera esponenziale.
Considerando
i dati grezzi sulla popolazione, i quasi tre miliardi di utenti attivi mensili
di Facebook lo rendono due volte più grande dei più grandi paesi della Terra.
Gli
oltre due miliardi di utenti di YouTube abbracciano più di cento paesi.
Google sostiene che sulla sua piattaforma
viene fruito ogni giorno più di un miliardo di ore di video.
Gli
analisti del settore stimano che le dimensioni complessive della «data sfera» –
la quantità di informazioni digitali create e memorizzate in tutto il mondo
ogni anno – raggiungerà quasi 60 zeta byte nel 2020.
La
data sfera subirà una gigantesca espansione perché nella prossima fase della
rivoluzione digitale auto, fabbriche e intere città verranno cablate con
dispositivi connessi a internet, e ciò non farà che complicare ulteriormente le
cose per i politici.
I
politici stessi sono sempre più asserviti al regno digitale.
La
capacità di un candidato di attrarre follower su Facebook e Twitter – più che i
suoi contatti con i professionisti della politica – è ciò che fa arrivare il
denaro e i voti che servono a vincere le elezioni in molte democrazie.
Per
una nuova generazione di imprenditori il motore di ricerca di Google, gli
strumenti di «targetizzazione» delle inserzioni di Facebook, il marketplace e i
servizi di web hosting di Amazon e l’app store di Apple sono diventati
indispensabili per avviare un business di successo.
Più le
persone ricorrono allo spazio digitale per soddisfare le proprie esigenze
basilari, maggiore è il compito che sono chiamati a svolgere i governi, molti
dei quali già faticano a fornire risposte soddisfacenti ai propri cittadini
dinanzi alle sfide del XXI secolo, come la pandemia, l’aumento della disparità
di reddito, l’epidemia di oppioidi, il cambiamento climatico e lo
sconvolgimento sociale ed economico innescato dal ritmo serrato
dell’innovazione.
I
governi stanno opponendo resistenza a questa usurpazione del loro potere.
La
Cina ha preso di mira aziende tecnologiche nazionali come Alibaba, Ant Group e
altre società online.
L’Unione
europea ha cercato di regolamentare i dati personali, i contenuti online e i gate
keeper (i «controllori dell’accesso») di internet per tutelare la privacy dei
suoi cittadini.
La
sequela di disegni di legge antitrust presentati al Congresso nel corso del
2021 e le pressioni dell’India sulle imprese straniere di social media come
Twitter mostrano come i governi di tutto il mondo stiano cercando di imporre la
propria volontà sulla sregolata sfera digitale.
Ma i
governi sono tendenzialmente lenti a regolamentare un’arena che pochi
legislatori comprendono, e le aziende tecnologiche si sono dimostrate abili nel
resistere ai tentativi dei governi di rovesciarne l’accentramento di potere.
Le
aziende tecnologiche differiscono dai vecchi mediatori di potere del settore
privato anche per la profondità e l’ampiezza della loro portata.
In passato molte aziende private fornivano
acqua, elettricità, trasporti e altri servizi essenziali.
Oggi
una manciata di giganti della tecnologia svolge ruoli cruciali in questi e in
moltissimi altri campi.
Cominciamo
proprio dal settore informatico. Appena quattro aziende – Microsoft, Amazon,
Google e Alibaba – soddisfano il grosso della domanda mondiale di servizi
cloud.
Durante il primo anno della pandemia di
Covid-19 è stata questa infrastruttura informatica essenziale a far funzionare
l’economia globale, a permettere alle persone di lavorare e a consentire di
creare aule virtuali in cui i ragazzi potevano continuare a imparare.
Molto
presto il successo di tutti i settori e di tutti i governi dipenderà quasi
interamente dalla bravura con cui coglieranno le nuove opportunità create dalle
reti 5G, dall’intelligenza artificiale e dall’internet delle cose.
Tutti
dipendono dalle infrastrutture costruite e gestite da questi leader del cloud.
La capacità delle aziende tecnologiche di lavorare con i governi e tra di loro
per rispondere alle future pandemie, limitare i danni del cambiamento climatico
e costruire un approccio più razionale all’ingresso delle nuove tecnologie
nelle nostre vite e società dipenderà dalla natura degli obiettivi perseguiti.
Segnatamente,
questi obiettivi potranno essere globalisti, tecno utopici o nazionalisti.
Tutte
le aziende esistono per fare soldi. Per le imprese che forniscono servizi
digitali è più facile raggiungere quest’obiettivo operando su scala globale.
Per
decenni le aziende tecnologiche di maggior successo hanno seguito una formula
molto semplice: creare una app da urlo e venderla sul mercato più grande
possibile.
Microsoft, Amazon, Google, Facebook e Apple
hanno tutte costruito i loro imperi adottando mentalità globaliste.
Inizialmente hanno puntato a dominare una
nicchia economicamente proficua, per poi cominciare a vendere i loro servizi in
tutto il mondo.
Aziende
cinesi come Alibaba, Tencent e ByteDance hanno scalato il gigantesco e spietato
mercato interno cinese prima di diventare globali, ma il principio che sta
dietro la loro crescita è lo stesso:
aprire
negozi in quanti più paesi possibile, localizzare i contenuti a seconda delle
necessità e competere senza sosta.
I
dipartimenti addetti alle relazioni istituzionali delle principali aziende
tecnologiche del mondo – alcuni dei quali impiegano centinaia di ex diplomatici,
lobbisti e avvocati con una lunga esperienza di governo – denotano la priorità
da sempre assegnata all’approccio globalista.
È
possibile che il globalismo sia la modalità predefinita del settore
tecnologico, ma si trova a competere, e talvolta a scontrarsi, con un impulso
tecno utopista non meno influente nella Silicon Valley, a Seattle, Hangzhou e
Shenzhen.
Alcune
delle aziende tecnologiche più potenti del pianeta sono guidate da fondatori
con visioni straordinarie del ruolo mondiale che le loro imprese sono chiamate
a ricoprire.
In Occidente alcuni di loro, come Mark
Zuckerberg o Larry Page e Sergey Brin di Google, mantengono il controllo delle
rispettive aziende attraverso le azioni dei fondatori o altre strutture
finanziarie.
In
questo modo sono meno esposti alle forme tradizionali di pressione esercitate
dagli azionisti rispetto ad altri fondatori o CEO.
Sono
tutti accomunati da una visione in cui la tecnologia non è solo un’opportunità
commerciale globale ma una forza potenzialmente rivoluzionaria che può salvare
l’umanità da sé stessa.
Elon
Musk, CEO di Tesla e Space “X”, è probabilmente l’esempio più riconoscibile
della tendenza tecno utopista, con la sua dichiarata ambizione di ripensare i
mercati dell’energia per scongiurare il riscaldamento globale, progettare
un’interfaccia cervello-computer a elevata larghezza di banda e rendere
l’umanità una «specie multi planetaria» colonizzando Marte.
Anche
il nazionalismo esercita un’attrattiva sui modelli di business delle aziende
tecnologiche.
A
partire dall’inasprimento dello scontro tecnologico USA-Cina nel 2016 e dalla
decisione dell’Europa di far passare in secondo piano il peso politico e
legislativo rispetto al mantra della «sovranità digitale», sempre più Big Tech
hanno pensato bene di posizionarsi come «campioni nazionali», ossia partner del
governo in importanti domini tecnologici, tra cui il cloud, l’intelligenza
artificiale e la sicurezza cibernetica.
Visto
il ruolo sempre più cruciale svolto da Microsoft nel combattere gli attacchi
informatici perpetrati da malfattori e bande criminali foraggiati dai loro
governi, sia Microsoft sia Amazon competono per fornire infrastrutture di cloud
computing al governo americano.
Queste
tre categorie non colgono appieno la complessità delle aziende tecnologiche e
delle intenzioni dei loro leader.
Le
aziende tecnologiche sono organizzazioni grandi e complesse, e all’interno di
ognuna si combinano motivazioni globaliste, tecno utopiste e nazionaliste.
Ma le categorie possono comunque aiutarci a
capire le scelte che le aziende tecnologiche dovranno operare mentre
attraverseranno la mutevole geopolitica dello spazio fisico e digitale nel
corso del prossimo decennio.
Si
allineeranno con i governi che chiederanno loro di «scegliere da che parte
stare» nella lotta sempre più ideologica tra Stati Uniti e Cina?
Resisteranno alla tentazione di diventare
campioni nazionali, di opporsi alla regolamentazione che minaccia i loro
modelli di business, per preservare un approccio più globalista?
O
scommetteranno su un futuro in cui gli stati svaniranno e le aziende
tecnologiche contribuiranno a introdurre un nuovo contratto sociale o
addirittura nuove forme di governo umano?
Mentre
la competizione tra Washington e Pechino si intensifica e aziende e governi
negoziano il controllo dello spazio digitale, i colossi tecnologici americani
opereranno in uno di questi tre scenari:
lo
stato regna sovrano e i campioni nazionali vengono premiati;
le aziende soggiogano lo stato, consegnando ai
globalisti una vittoria storica;
lo
stato svanisce per dare potere ai tecno utopisti.
Vediamo
che forma potrebbe prendere ciascuno di questi scenari.
Non è
possibile regolare i social negli Stati disuniti.
(STEFANO
BALASSONE)
LO
STATO REGNA SOVRANO/VINCONO I CAMPIONI NAZIONALI.
In
questo scenario gli Stati Uniti e i loro alleati si organizzano per offrire
denaro ai governi e creare leggi che premiano le aziende «patriottiche», quelle
con modelli di business e risorse allineate agli obiettivi nazionali, e
puniscono le imprese che non si adeguano.
Le
aziende, confidando nella presenza di un solido capitale politico e finanziario
a supporto di questo sforzo, alla fine rinunciano a lottare per guadagnarsi
quote di mercato in Cina e abbracciano la via degli Stati Uniti e di altri
governi occidentali nella speranza di poter beneficiare del boom della spesa
pubblica in nuove infrastrutture digitalmente connesse e dei vari servizi
sociali abilitati dalla tecnologia, sponsorizzati da quei governi.
Nella
vita dei cittadini americani lo stato rimane il principale dispensatore di
sicurezza, diritto e beni pubblici, e shock sistemici come la crisi finanziaria
globale e la pandemia cementano ulteriormente il ruolo chiave del governo come
soccorritore di ultima istanza.
In
questo scenario lo slancio bipartisan a favore di una maggiore regolamentazione
limita i poteri delle aziende tecnologiche i cui piani di sviluppo non sono
allineati con quelli del governo.
La
chiave di volta di questo scenario è la presenza di una spinta coordinata degli
Stati Uniti con i governi di altre democrazie industriali avanzate, tesa a
formare alleanze che contengano l’espansione del potere e dell’influenza della
Cina, al tempo stesso investendo in maniera imponente nella ripresa post
pandemia e nella transizione verde.
LE
AZIENDE SOGGIOGANO LO STATO/VINCONO I GLOBALISTI.
In
questo scenario il governo continua a indebolirsi perché la polarizzazione si
intensifica e la disparità di reddito e di ricchezza aumenta di pari passo con
l’automazione e la digitalizzazione.
Il
sentimento di rivalsa contro le maggiori aziende tecnologiche non riesce a
tradursi in riforme incisive sulla privacy o sulla tutela della concorrenza in
grado di stravolgere i modelli di business, lasciando sostanzialmente intatta
la sovranità di Big Tech nella sfera digitale.
Le
autorità regolatorie non riescono a tenere il passo con l’innovazione. Le
imprese profondono ancora più energie per fare lobbying sui politici e impedire
l’introduzione di leggi in grado di limitare le loro attività estere, anche in
paesi autoritari come la Cina e la Russia.
A
differenza dei campioni nazionali, ai globalisti interesserà meno supportare i
governi: la loro priorità sarà quella di assicurarsi che non siano d’intralcio.
I
globalisti hanno bisogno di stabilità per avere successo nel prossimo decennio.
Possono
sopravvivere alla continua erosione delle istituzioni democratiche
statunitensi, ma non allo strapotere dell’apparato statale dell’America.
Possono
gestire periodiche tensioni nelle relazioni USA-Cina e persino il sentimento di
sfiducia perenne tra le due nazioni, ma non una nuova Guerra fredda che li
costringa a scegliere tra Washington e Pechino.
LO
STATO SVANISCE/VINCONO I TECNOUTOPISTI.
In
questo scenario la crescente sfiducia dei cittadini nei confronti dei politici
dissolve il contratto sociale.
Gli
americani e alcuni paesi in via di sviluppo adottano modelli basati su
un’economia digitale che tiene a debita distanza i governi, e la fiducia nel
dollaro in quanto valuta di riserva globale viene meno.
La
disintegrazione del potere centralizzato nell’unica superpotenza del pianeta
indebolisce la capacità del mondo intero di affrontare il cambiamento
climatico, le pandemie, la proliferazione nucleare e altre sfide
internazionali.
Per i
tecno visionari con ambizioni alate e ricchezze inesauribili, il patriottismo
diventa discutibile.
Elon Musk gioca un ruolo più importante nella
trasformazione delle infrastrutture di trasporto, energetiche e di
comunicazione, per non parlare delle modalità con cui esploriamo lo spazio.
Mark
Zuckerberg ha molta più voce in capitolo quando si tratta di decidere come ci
connettiamo con gli altri in privato, sul lavoro e in politica.
Ma
l’erosione dello stato americano non darebbe carta bianca ai tecno utopisti di
tutto il mondo.
Anche
la credibilità interna dello stato cinese dovrebbe subire un tracollo.
LA
SFIDA CINESE.
Questo
modello globalista-nazionalista-tecno utopista non si applica altrettanto bene
alla Cina, dove il potere centralizzato dello stato è infinitamente superiore.
I
tecno utopisti come “Jack Ma” stanno imparando a non sfidare apertamente lo
stato cinese, e anche gli aspiranti globalisti sono costretti a comportarsi
come se fossero prima di tutto nazionalisti.
“Alibaba”,
che ospita i più grandi siti web consumer-to-consumer, consumer-to-business e
business-to-consumer del mondo, deve stare attenta; lo stesso dicasi per “Byte Dance”,
la cui app di condivisione video TikTok l’ha aiutata a diventare l’unicorno di
maggior valore a livello mondiale.
Stessa
sorte tocca a “Tencent”, che coopera di più con la burocrazia della sicurezza
statale cinese di quanto non faccia “Alibaba”.
Se
l’economia cinese cominciasse a stagnare e i campioni nazionali si rivelassero
meno redditizi o meno capaci di stimolare la produttività delle aziende
globaliste, lo stato potrebbe concedere ai globalisti una maggiore libertà
d’azione all’interno dei confini nazionali.
Per il
momento, tuttavia, la Cina continua a premere tenacemente sulle sue aziende
tecnologiche affinché si allineino ai piani e alle strategie statali.
Un mondo in cui lo stato diventasse più forte
sarebbe quello più a rischio di sprofondare in una nuova Guerra fredda e di
soffocare la cooperazione globale.
Se
Washington e Pechino continueranno a prediligere la competizione strategica
sulla cooperazione tecnologica, non ci saranno grandi speranze di poter
utilizzare le soluzioni proposte in questo libro per rafforzare il sistema
internazionale per il bene degli Stati Uniti, della Cina e del mondo intero.
Uno
scenario in cui le aziende tecnologiche diventano più indipendenti dal governo
(ed entrano più in competizione con esso) in entrambi i paesi ha maggiori
probabilità di promuovere la cooperazione per far fronte alle grandi emergenze
e di incoraggiare l’innovazione per raccogliere nuove sfide.
Un
mondo in cui i tecno utopisti hanno l’ultima parola su più fronti è più
difficile da prevedere, perché è un mondo in cui il potere è concentrato in
poche mani, spesso le più eccentriche.
LA
GENERAZIONE “Z”
I
governi devono condividere i costi e le responsabilità derivanti da queste
sfide con tutti i soggetti in grado di dare una mano, perché si tratta di
ambiti che i rappresentanti politici e i legislatori non comprendono e non
controllano.
Le
organizzazioni che investono in progetti che impiegheranno degli anni per
generare profitti – come le banche e le imprese del comparto energia – devono
adottare una visione di più lungo termine rispetto a gran parte dei governi, e
questo rende le loro prospettive particolarmente preziose.
Le
aziende energetiche, in particolare, sanno che i loro profitti futuri dipendono
dalle fonti rinnovabili di carburanti ed elettricità.
Molte delle ONG più lungimiranti del mondo operano su
orizzonti temporali altrettanto estesi.
Persino
in seno ai governi non contano unicamente i leader e i legislatori nazionali.
Quando
Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero abbandonato l’”Accordo
di Parigi sul clima”, governatori e sindaci di tutto il paese hanno dichiarato
che avrebbero tenuto fede agli obiettivi climatici adottati.
Non è
un dettaglio, se pensiamo che l’economia della California è più grande di
quella dell’India, della Gran Bretagna e della Francia.
L’area
metropolitana di New York ha un’economia più grande di quella del Canada o
della Russia.
Nel
mondo dei social media anche i singoli – non solo gli attivisti di fama
mondiale – hanno la capacità di lanciare campagne che i politici e il settore
privato non possono ignorare in eterno.
Abbiamo
inoltre la fortuna che la prossima ondata di persone chiamata a risolvere
questi problemi è diventata adulta in un mondo globalizzato.
La
Generazione Z – quei 2,5 miliardi di persone nate tra il 1996 e il 2016 – vedrà
il proprio impatto sulla politica, sulla cultura e sull’economia globale
aumentare enormemente nel prossimo decennio.
Sarà segnata dalla pandemia e dai suoi effetti
duraturi sull’istruzione e sull’occupazione ma, anche in un mondo dominato
dalla frammentazione del potere e delle comunicazioni, la «Gen Z» è la
generazione più interconnessa a livello globale della storia.
La
stragrande maggioranza di queste persone diventerà maggiorenne nei paesi in via
di sviluppo e, fortunatamente per noi, avrà le proprie idee su che cosa
aspettarsi dai governi, sull’impegno culturale transfrontaliero e su ciò che si
può e non si può fare.
Appellarsi
alla retorica de «i bambini sono il nostro futuro» è fin troppo facile quando
si invoca un cambiamento radicale, ma in questo caso l’esperienza del mondo
vissuta dalla Gen Z è molto diversa da quella della mia generazione.
Sono
cresciuto nella Boston degli anni Settanta e per me i ragazzi che vivevano in
altre parti del mondo erano quelli ritratti nelle foto del National Geographic.
Sapevo,
come penso sapesse la maggior parte dei miei amici, che la nostra visione del
mondo era fortemente filtrata dagli adulti, ma non avevamo grandi possibilità
di rimuovere il filtro e interagire direttamente con i bambini di altri luoghi.
Oggi i
giovani americani ed europei ascoltano e guardano musica e immagini create in
tutto il mondo.
Giocano
in tempo reale con i ragazzi asiatici e africani.
Questa
non è la globalizzazione di 25 anni fa.
I
ragazzi di questa generazione hanno ciò che nessun altro ragazzo ha mai avuto:
una visione a 360° del mondo.
Sono
consapevoli, e lo sono in maniera molto più immediata, di ciò che hanno in
comune con gli altri. In particolare, sanno meglio di qualsiasi generazione che li
ha preceduti che spesso gli adulti hanno vedute ristrette e una scarsa
immaginazione sui problemi che stanno lasciando alle generazioni future.
È
facile essere scettici sull’impatto immediato di attivisti giovani e celebri
come “Greta Thunberg” ma fortunatamente i giovani di tutto il mondo hanno su
questi problemi una prospettiva che pochi adulti possono vantare.
La
loro abilità nel trovare nuovi fini per i mezzi che gli adulti di oggi creano e
di inventare cose che gli adulti di oggi non riescono neanche a immaginare
dovrebbe rinvigorire la nostra fiducia nel futuro.
La
paura di un nemico alieno ha spesso ispirato popoli, tribù e nazioni a lavorare
insieme per sconfiggere o quantomeno sopravvivere a una determinata minaccia.
Reagan e Gorbaciov lo sapevano. Oggi le nazioni e i popoli del mondo non si
trovano dinanzi a una minaccia aliena.
Siamo chiamati
ad affrontare sfide esistenziali comuni che siamo stati noi stessi a creare.
In questo senso siamo interdipendenti, ed è
questo il fondamento della più grande opportunità della storia umana.
La
necessità deve ora diventare la madre della cooperazione.
Dobbiamo
costruire un nuovo sistema internazionale che ci permetta di competere dove si
può e cooperare dove si deve.
Siamo
i primi esseri umani a mettere a fuoco queste minacce globali e gli ultimi in
grado di sconfiggerle.
Vista la posta in gioco, se falliremo non
avremo un’altra possibilità.
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