Bramosia di potere e usura.

 

Bramosia di potere e usura.

 

 

Gli Utili Idioti.

Conoscenzealconfine.it – (26 Ottobre 2023) - Massimo Mazzucco – ci dice:

 

Mi ha sinceramente stupito il vedere, nelle ultime settimane, i maggiori esponenti della stampa di destra strillare all’unisono come galline spennate contro “il terrorismo di Hamas”.

Come se fosse genuino.

Forse i vari Belpietro, Capezzone, Porro e Sallusti non sanno che Hamas è una creazione di Netanyahu, il quale ne ha voluto la nascita, e l’ha poi foraggiata in tutti i modi – politicamente ed economicamente – in modo da poterla utilizzare al momento giusto per perseguire la propria agenda personale.

Se queste cose le dicessi io, lascerebbero il tempo che trovano.

Ma le dice “Haaretz”, una delle più importanti testate giornalistiche israeliane.

Dall’articolo intitolato “Breve storia dell’alleanza fra Netanyahu e Hamas” leggiamo:

“Molto inchiostro è stato versato per descrivere la relazione duratura – anzi, l’alleanza – fra Benjamin Netanyahu e Hamas.

Eppure, il fatto stesso che ci sia stata una stretta collaborazione fra il primo ministro israeliano (con il supporto di molti della destra) e questa organizzazione fondamentalista, è improvvisamente scomparso dalle analisi più recenti:

tutti parlano di ‘fallimenti’, ‘errori’ e ‘contzeptzioti (idee fisse).

Detto questo, non solo è necessario rivedere la storia di questa collaborazione, ma dobbiamo anche concludere in modo inequivoco che il “pogrom del 7 ottobre 2023” aiuta Netanyahu, e non per la prima volta, a preservare il suo potere, almeno in tempi brevi “.

“Il modus operandi di Netanyahu, da quando nel 2009 è tornato ad essere primo ministro, è sempre stato e continua ad essere, da un lato, un rafforzamento del ruolo di Hamas nella striscia di Gaza, e dall’altro, un indebolimento dell’Autorità Palestinese.“

 

“Negli ultimi 14 anni, mentre incrementava una politica di divide-et-impera” fra Cisgiordania e Gaza, Netanyahu si è opposto a qualunque tentativo, militare o diplomatico, che potesse mettere fine al regime di Hamas.”

“Per oltre un decennio, Netanyahu ha aiutato in vari modi la crescita militare e politica di Hamas.

È stato Netanyahu a trasformare Hamas da una organizzazione terroristica con poche risorse a qualcosa di simile ad uno stato vero e proprio .“

 

“Rilasciare prigionieri palestinesi, permettere il trasferimento di denaro contante – visto che l’inviato del Qatar entra ed esce da Gaza come vuole – permettere l’importazione di una vasta gamma di beni e di materiali da costruzione, pur sapendo che molto di questo materiale servirà al terrorismo e non a costruire infrastrutture civili, […] tutto questo ha creato una simbiosi tra il fiorire del terrorismo fondamentalista e la conservazione del potere di Netanyahu.”

“È importante ricordare che senza questi fondi dal Qatar (e dall’Iran), Hamas non avrebbe mai avuto i soldi per mantenere il suo regno di terrore.

 In pratica, l’iniezione di denaro contante dal Qatar (e non di depositi bancari, che sono facilmente tracciabili) rappresentano una pratica che Netanyahu ha supportato ed approvato, e che è servita a rafforzare il braccio armato di Hamas fin dal 2012.”

L’articolo poi spiega come, ogni volta che si sia presentata per Israele la possibilità di distruggere Hamas, Netanyahu si sia adoperato in tutti i modi perché questo non accadesse.

 Prosegue l’articolo:

“Nell’agosto 2019 l’ex primo ministro Ehud Barak ha dichiarato che ‘la strategia di Netanyahu è quella di mantenere Hamas vivo e vegeto, anche a costo di abbandonare i suoi cittadini (nel sud di Israele), pur di indebolire l’Autorità Palestinese di Ramallah’.

Barak ha aggiunto che grazie ad Hamas, è più facile spiegare agli israeliani che non c’è nessuno con cui dialogare.

Se invece l’Autorità Palestinese dovesse rafforzarsi, allora avremmo qualcuno con cui dobbiamo parlare”.

Nello stesso anno, l’esponente del “Likud”, “Galkit Atbaryan”, ha dichiarato: “Diciamolo sinceramente, Netanyahu vuole Hamas ai suoi piedi, ed è disposto a pagare un prezzo quasi incomprensibile per ottenere questo risultato.”

“Lo stesso primo ministro (Netanyahu) ha accennato più volte brevemente alla sua posizione riguardo ad Hamas.

 Nel marzo 2019, durante una riunione del “Likud” dove si stava discutendo il trasferimento di fondi ad Hamas, Netanyahu disse:

 ‘chiunque si opponga ad uno Stato palestinese deve supportare i finanziamenti di Gaza, perché mantenere la separazione fra la Autorità Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza eviterà che venga creato uno stato palestinese’ “.

“Non illudetevi – conclude l’articolo – che, finché Netanyahu e il suo governo sono al potere, il regime di Hamas possa crollare.

Ci saranno un sacco di discorsi pirotecnici sulla attuale ‘guerra al terrorismo’, ma sostenere Hamas per Netanyahu è molto più importante di qualche morto nei kibbutz.”

Avete capito, Belpietro Capezzone & Company?

Quando il saggio indica la luna, gli stolti guardano il dito.

Quando Netanyahu urla contro Hamas, gli stolti guardano le vittime dei kibbutz.

E non si accorgono che il vero mandante è proprio lui.

“Massimo Mazzucco)

(luogocomune.net/29-palestina/6353-gli-utili-idioti)

 

 

 

 

 

La Trappola del “Move-In”…

Finiti i Chilometri

Non si Può più Circolare.

Conoscenzealconfine.it – (27 Ottobre 2023) – Presskit.it – Redazione - ci dice:

 

La trappola del Move-In è spiegata direttamente dalla Regione Piemonte, lo stesso è a Milano.

 

“L’allegato della delibera introduce l’attivazione del sistema MOVE IN:

‘piattaforma, ad adesione volontaria, che monitora le percorrenze dei veicoli all’interno dei territori soggetti a limitazione della circolazione a fini ambientali’. Il sistema, a fronte dell’assegnazione di una soglia chilometrica annuale al momento di 9 mila Km, da poter utilizzare nelle aree soggette a limitazione del traffico per motivi ambientali, obbliga i cittadini ad un limitato uso dei veicoli privati”,

spiega l’avv. Francesco Paolo Cinquemani.

 

“All’esaurimento dei chilometri ‘concessi’ in funzione delle caratteristiche emissive del veicolo, lo stesso non potrà più circolare fino alla conclusione dell’annualità di riferimento.

 Il sistema non consente la circolazione dei veicoli in caso di attivazione delle misure temporanee di limitazione della circolazione in caso di previsione di perduranti situazioni di accumulo degli inquinanti, la soglia chilometrica annuale è stabilita nel rispetto degli obiettivi di riduzione degli inquinanti stabiliti dal PRQA”. (regione.piemonte.it/web/temi/ambiente-territorio/ambiente/move-monitoraggio-dei-veicoli-inquinanti).

 

“Il Move In è una trappola in attesa del vostro consenso, e una volta accettato difficilmente si può tornare indietro.

Il fatto che il 7 settembre il Consiglio dei Ministri abbia prorogato l’attuazione della limitazione dei veicoli diesel euro 5, non è una vittoria dei cittadini, bensì un rinvio alla prossima proposta che non sarà di 9 mila Km, ma possibilmente la prossima proposta sarà di 15 o 20 mila km, giusto per renderla più allettante ai cittadini, che a fronte di più km disponibili rispetto a quelli realmente percorsi in un anno e rispetto alla proposta iniziale di 9 mila km, accetteranno più volentieri.

Sappiate però che accettato il Move-in inizialmente anche di 30 mila km, nessuno vi assicura che l’anno successivo non subisca un taglio del 50% e l’anno successivo di un altro 50%, perché il vero obiettivo non è la diminuzione dell’inquinamento o la tutela dell’ambiente, ma realizzare le città di 15 minuti.

Tutto ciò grazie al fatto che voi accettiate volontariamente e passivamente di limitare la vostra stessa circolazione, perché sanno che non possono imporlo attivamente”.

(presskit.it/2023/10/21/la-trappola-del-move-finiti-chilometri-non-si-puo-piu-circolare/)

 

 

 

 

Come Bill Gates è diventato l'uomo

più potente nel campo della sanità pubblica.

Lifenews.com – (27 ottobre 2023) - Maryanne Demasi -  ci dice:

 

La Fondazione Bill e Melinda Gates ha investito milioni di dollari nel finanziamento di produttori di vaccini, ONG, media e agenzie internazionali, guadagnando al suo omonimo fondatore un peso significativo nel regno politico e medico.

Bill Gates, fondatore di “Breakthrough Energy” e copresidente della “Bill & Melinda Gates Foundation”, parla sul palco del “New York Times Climate Forward Summit 2023” presso il “Times Center” il 21 settembre 2023, a New York City.

(Maryanne Demasi ) — Nel 2017, la Food and Drug Administration (FDA) statunitense ha stipulato un  memorandum d'intesa  (MOU) con la Fondazione Bill & Melinda Gates.

In base al protocollo d’intesa, le due entità hanno concordato di condividere informazioni per “facilitare lo sviluppo di prodotti innovativi, comprese contromisure mediche”, come strumenti diagnostici, vaccini e terapie per combattere la trasmissione di malattie durante una pandemia.

​​“Il dottor Mark Trozzi condivide le strategie per combattere gli effetti della proteina spike COVID e prevenire l'infezione.)

La FDA ha accordi d’intesa con molte organizzazioni accademiche e no-profit, ma poche hanno tanto da guadagnare quanto Bill Gates, che ha investito miliardi in contromisure pandemiche.

Gli esperti temono che la Fondazione Gates possa avere un'influenza indebita sulle decisioni normative della FDA riguardo a queste contromisure.

David Gortler, ex consigliere senior del commissario della FDA tra il 2019 e il 2021, afferma di essere “sospettoso” del “MOU”.

“Se la Fondazione Gates stipulasse un protocollo d’intesa con un regolatore su un prodotto che desidera sviluppare, sembra che ci sarebbe un conflitto di interessi. E se tutte le altre aziende farmaceutiche facessero esattamente la stessa cosa della Fondazione Gates?”

… lui dice.

Gortler, ora membro dell'”Ethics and Public Policy Center” di Washington, DC, ha spiegato che normalmente gli incontri tra sviluppatori e regolatori dovrebbero essere una parte ufficiale del registro pubblico e soggetti alle richieste del “Freedom of Information Act”.

"Tuttavia, un protocollo d'intesa come questo può aggirare i consueti requisiti di trasparenza delle comunicazioni ufficiali", afferma Gortler.

 “In questo modo le loro comunicazioni possono essere mantenute segrete.”

David Bell, ex ufficiale medico dell’”Organizzazione Mondiale della Sanità” (OMS) che ora lavora come medico di sanità pubblica e consulente biotecnologico, concorda sul fatto che il protocollo d’intesa ha il potenziale per corrompere il processo normativo.

"La narrazione è che le fondazioni filantropiche possono solo essere buone, perché producono vaccini e salvano migliaia di vite, quindi dobbiamo ridurre la burocrazia e aiutare la FDA a fare le cose rapidamente altrimenti i bambini moriranno", dice Bell.

 “Ma in realtà ha il potenziale per corrompere l’intero sistema”.

 

Bell aggiunge:

“Parlando in generale, le strette relazioni tra regolatori e sviluppatori sollevano inevitabili rischi che scorciatoie e favori possano compromettere il rigore della revisione del prodotto, mettendo a rischio il pubblico”.

Porta girevole.

La FDA è stata aspramente criticata per la sua “porta girevole”.

Dieci degli ultimi 11 commissari della FDA hanno lasciato l’agenzia e si sono assicurati ruoli presso aziende farmaceutiche che un tempo regolamentavano.

Allo stesso modo, la Fondazione Gates ha assunto membri di alto rango della FDA, che portano con sé una conoscenza approfondita del processo normativo.

Ad esempio, “Murray Lumpkin” ha lavorato 24 anni presso la FDA, ricoprendo il ruolo di consulente senior del commissario della FDA e rappresentante per le questioni globali.

Ora è vicedirettore degli affari normativi presso la Fondazione Gates e firmatario del protocollo d'intesa.

E “Margaret Hamburg”, che ha ricoperto il ruolo di commissario della FDA tra il 2009 e il 2015, fa ora parte del “comitato consultivo scientifico” della “Fondazione Gates”.

 

Murray Lumpkin, vicedirettore degli affari normativi, Fondazione Gates; Margaret Hamburg, comitato consultivo scientifico, Fondazione Gates.

​​Il governo canadese promette 90 milioni di dollari per il “cambiamento climatico” e l’equità dei vaccini nelle nazioni dei Caraibi.

Bell non ha dubbi che queste nomine fossero strategiche per “ingannare il sistema” dicendo:

“Se lavorassi alla Fondazione Gates, assumerei sicuramente qualcuno come Murray Lumpkin”.

L’unico modo per risolvere il problema delle porte girevoli, dice “Bell”, è inserire una “clausola di non concorrenza” nei loro contratti.

“Potrebbe darsi che i dipendenti della FDA non possano lavorare per le persone che hanno regolamentato per almeno 10 anni.

Ci sono posti che hanno queste regole: le aziende private hanno accordi secondo cui non puoi lavorare per un rivale”, ha detto “Bell”.

La FDA ha respinto le domande sul potenziale conflitto di interessi o sulla mancanza di trasparenza nelle sue comunicazioni con la Fondazione Gates.

 In una dichiarazione, la FDA ha affermato:

Il processo decisionale normativo della FDA è basato sulla scienza. Gli ex funzionari della FDA non influiscono sulle decisioni normative.

 La FDA collabora solo con la Fondazione Bill e Melinda Gates ai sensi del “MOU” come descritto.

Gates ha miliardi in gioco.

Gates si vantava di aver ricevuto un rendimento di 20 a 1 sul suo investimento di 10 miliardi di dollari nel “finanziamento e consegna” di medicinali e vaccini.

"È il miglior investimento che abbia mai fatto", ha scritto sul  “Wall Street Journal” .

 "Decenni fa, questi investimenti non erano scommesse sicure, ma oggi quasi sempre ripagano alla grande."

Nel settembre 2019, appena prima della pandemia, i documenti depositati presso la” SEC” mostravano che la fondazione aveva acquistato oltre 1 milione di azioni di “BioNTech” (partner di “Pfizer”) per 18,10 dollari per azione.

Entro novembre 2021, la fondazione ha venduto la maggior parte delle azioni per una media di $ 300 per azione.

Il giornalista investigativo “Jordan Schachtel”  ha riferito che  la fondazione ha intascato circa 260 milioni di dollari di profitti – più di 15 volte il suo investimento originale – la maggior parte dei quali non tassati perché investiti attraverso la fondazione.

Nel suo recente libro, “How to Prevent the Next Pandemic “,  Gates avverte che le future pandemie rappresentano la più grande minaccia per l’umanità e che la sopravvivenza dipende dalle strategie globali di preparazione alla pandemia, posizionandosi fermamente al centro della definizione dell’agenda.

Nell’ottobre 2019, la Fondazione Gates e il World Economic Forum hanno ospitato  l’Evento 201 , che ha riunito agenzie governative, società di social media e organizzazioni di sicurezza nazionale per simulare una pandemia globale “fittizia”.

Ottobre 2019, Gates e il WEF finanziano l'”evento 201” per simulare una risposta pandemica globale.

(​​Il deputato britannico sostiene che il vaccino anti-COVID è responsabile delle morti in eccesso nel primo dibattito parlamentare sulla questione).

Le principali raccomandazioni emerse dall’evento erano che una tale crisi avrebbe richiesto l’impiego di nuovi vaccini, la sorveglianza e il controllo delle informazioni e dei comportamenti umani, orchestrando la cooperazione e il coordinamento delle industrie chiave, dei governi nazionali e delle istituzioni internazionali.

Diverse settimane dopo, quando è emersa la pandemia di COVID-19, molti aspetti di questo “scenario ipotetico” sono diventati una realtà agghiacciante.

Alla Fondazione Gates, che detiene azioni  di una serie di aziende farmaceutiche tra cui “Merck”, “Pfizer” e “Johnson & Johnson”, viene ora  riconosciuto  il merito di esercitare un’influenza significativa sulla direzione della risposta globale alla pandemia, affermando che il suo  obiettivo  è “vaccinare l’intero mondo” con un vaccino contro il COVID-19.

Dominio globale.

La Fondazione Gates ha investito milioni nel finanziamento di ONG, media e agenzie internazionali, guadagnando a Gates un notevole peso politico.

I contributi finanziari ai media hanno procurato a Gates una copertura giornalistica favorevole, vantandosi sul  sito web della fondazione  di aver impegnato quasi 3,5 milioni di dollari per il  “Guardian”  nel 2020-2023.

L’ente regolatore dei medicinali del Regno Unito – l’MHRA – ha rivelato che nel 2022 sono stati necessari circa 3 milioni di dollari in finanziamenti dalla Fondazione Gates, che si estenderebbero su diversi anni finanziari.

Il candidato presidenziale Robert F Kennedy, Jr. ha definito Gates “l'uomo più potente nel campo della sanità pubblica” perché è riuscito a indirizzare la strategia pandemica dell'OMS concentrandosi principalmente sulla vaccinazione.

Kennedy ha detto in un'intervista che l'OMS “implora e rinuncia” ai finanziamenti di Gates, che ora rappresentano oltre l'88% dell'importo totale delle donazioni dell'OMS da parte di fondazioni filantropiche.

"Penso che [Gates] creda di essere in qualche modo ordinato divinamente per portare la salvezza al mondo attraverso la tecnologia", ha detto Kennedy.

 "Crede che l'unico percorso per una buona salute sia dentro una siringa."

L'amministratore delegato della Gates Foundation,” Mark Suzman, ha risposto alle preoccupazioni secondo cui la fondazione ha "un'influenza sproporzionata nella definizione delle agende nazionali e globali, senza alcuna responsabilità formale nei confronti degli elettori o degli organismi internazionali".

 

(“Health Canada” conferma la sequenza del DNA del” virus Simian 40” legato al cancro trovata nel vaccino Pfizer COVID).

“È vero che tra i nostri dollari, la nostra voce e il nostro potere di convocazione, abbiamo accesso e influenza che molti altri non hanno”, ha ammesso “Suzman” nella sua lettera annuale del 2023.

“Ma non commettere errori: laddove esiste una soluzione in grado di migliorare i mezzi di sussistenza e salvare vite umane, la sosterremo con insistenza.

Non smetteremo di usare la nostra influenza, insieme ai nostri impegni finanziari, per trovare soluzioni", ha scritto.

 

 

 

Il colonnello Mac Gregor a Tucker:

l'amministrazione Biden sta portando

gli Stati Uniti in una guerra di "Armageddon"

in Medio Oriente.

Lifesitenews.com - Steve Jalsevac – (27 ottobre 2023) – ci dice:

 

"Sarà molto difficile per Russia e Turchia non entrare in questa lotta contro di noi perché non tollereranno il tipo di punizione collettiva che Israele prevede per Gaza", ha detto il colonnello in pensione.

( LifeSiteNews ) — Il colonnello Douglas Mac Gregor, veterano di guerra decorato, ha avvertito che i funzionari dell’amministrazione Biden stanno portando gli Stati Uniti in una guerra di “Armageddon” che rischia una conflagrazione militare con Iran, Turchia, Russia e altri al fine di difendere e aiutare a facilitare una guerra israeliana e  crimine di guerra che è inaccettabile per il mondo e per la maggior parte degli americani.

 

"Sembra che la destinazione scelta sia davvero Armageddon", ha detto lo studioso e autore militare a” Tucker Carlson” nel suo ultimo programma Twitter/”X” .

L’ex conduttore di punta di Fox News ha aperto l’intervista con un recente clip televisivo del senatore repubblicano statunitense “Lindsey Graham” della Carolina del Sud che minaccia l’Iran di attacchi bomba contro le sue raffinerie di petrolio se il suo gruppo militante alleato in Libano, Hezbollah, “lancia un massiccio attacco contro Israele” e ”dal nord in risposta al più feroce attacco mai compiuto da Israele contro la densamente popolata Striscia di Gaza.

"Iran, se intensificherai questa guerra, verremo a prenderti", ha affermato Graham.

Il continuo bombardamento israeliano dell'enclave è una risposta all'attacco senza precedenti del 7 ottobre da parte del gruppo militante islamico Hamas, che governa la Striscia ed è considerato un'organizzazione terroristica da Israele, Stati Uniti, Unione Europea, Canada, Regno Unito, Australia, Giappone, Egitto e Paraguay.

Secondo le autorità israeliane, i militanti hanno ucciso 1.400 persone, inclusi civili e bambini, e “Human Rights Watch” ha verificato i video che rivelavano omicidi freddi e deliberati (crimini di guerra) durante l'attacco.

I cittadini israeliani stanno ancora affrontando i bombardamenti missilistici e sono terrorizzati dal fatto che possano subire condizioni ben peggiori man mano che il conflitto si intensifica e alcune forze islamiste radicali più grandi potrebbero unirsi ad Hamas nel tentativo di distruggere la loro nazione.

In un'altra intervista al” London Real”, “Mac Gregor” ha chiarito di condividere l'opinione secondo cui Hamas è un'organizzazione terroristica che deve essere eliminata.

“Tutti coloro che hanno osservato ciò che Hamas ha fatto concordano sul fatto che Hamas deve essere sradicato.

Non ho incontrato nessuno che non sia d'accordo con questo.

Ciò include, ad esempio, il “re Abdullah” di Giordania.

Il generale "Sisi” in Egitto la pensa allo stesso modo, anche “Erdoğan”, che ha cambiato opinione, inizialmente si è espresso contro Hamas.

Non credo che nessuno lo contesti", ha detto Mac Gregor.

Tuttavia, ha aggiunto, “il problema è che la campagna per sradicare Hamas si è rapidamente trasformata in una campagna per sradicare effettivamente l’intera popolazione di Gaza e ciò non sta andando bene nel resto della regione… quindi qualunque fondamento morale abbiano gli israeliani si sta rapidamente erodendo”.

“Mac Gregor” ha indicato che le sue critiche includono una seria preoccupazione per ciò che accadrà a Israele come risultato della risposta degli Stati Uniti e di Israele all'attacco di Hamas.

 Nell’intervista al “London Real” ha dichiarato: “La mia più grande preoccupazione in questa fase è che Israele venga distrutto”.

Sul versante di Gaza, le autorità del ministero della Sanità di Hamas riferiscono che dal 7 ottobre sono morte ben 7.028 persone a causa degli attacchi aerei militari israeliani, tra cui 2.913 bambini e 1.709 donne.

 Inoltre, l’OCHA ha riferito che circa 1.600 persone sono scomparse e si presume siano intrappolate o morte sotto le macerie, di cui 1,4 milioni sono sfollate all’interno della regione sigillata di 141 miglia quadrate che è sotto un rigido blocco israeliano dal 2007.

Mentre i palestinesi in Cisgiordania protestano contro il bombardamento di Gaza, secondo quanto riferito, i soldati israeliani hanno ucciso 102 persone e ferito 1.889.

Israele riferisce di due morti e 14 feriti tra il proprio personale in questi due territori occupati.

(Gli esperti di politica estera sostengono che Israele ha messo in pericolo se stesso maltrattando i palestinesi per decenni)

Il 9 ottobre, Israele ha tagliato acqua, cibo, carburante e altre risorse a questa popolazione rinchiusa di oltre 2 milioni di persone, affermando che queste misure sarebbero rimaste in vigore fino alla restituzione dei circa 200 ostaggi rapiti da Hamas il 7 ottobre.

 Esperti militari e di diritti umani hanno affermato che queste azioni di Israele, insieme al bombardamento di aree civili a Gaza, sono classificate come “punizione collettiva”, un crimine di guerra secondo il diritto internazionale.

 Altri commentatori, come “Jewish Voice for Peace”, chiamano queste misure un genocidio.

Mac Gregor ha spiegato che se lo scenario minacciato da Graham si realizzasse, con ogni probabilità, ci troveremo di fronte a una “guerra globale”.

Se gli Stati Uniti dovessero entrare in questo conflitto come “cobelligeranti” con Israele, “sarebbe molto difficile per Russia e Turchia non entrare in questa lotta contro di noi perché non tollereranno il tipo di punizione collettiva che Israele pianifica, per Gaza”.

Inoltre, il veterano della prima guerra in Iraq ha continuato spiegando che il segretario di Stato “Antony Blinken” e altri decisori ai vertici del governo degli Stati Uniti sembrano avere un’idea sbagliata credendo che la disparità tra le capacità militari americane e quelle del loro potenziale gli avversari sono simili a quelli che erano all’inizio degli anni ’90.

“Non siamo più la potenza che eravamo nel 1991”, ha valutato Mac Gregor. Inoltre, “bisogna considerare l’arsenale di missili che l’Iran possiede, e possono raggiungere 1.200 miglia con grande precisione, [consegnando] testate convenzionali ad altissimo potenziale esplosivo che farebbero danni enormi, distruggendo interi isolati di città in posti come Haifa e Tel Aviv.

Se gli Stati Uniti bombardassero l’Iran, Mac Gregor ha detto che “tutte le basi che abbiamo in Iraq e Siria… verrebbero prese di mira e questa volta le prenderebbero di mira in modo accurato e questa distruzione sarebbe totale”.

Ha anche avvertito che potrebbero manifestarsi attacchi terroristici in patria “potenzialmente peggiori dell’11 settembre”, affermando che ci sono “molti agenti Hezbollah negli Stati Uniti”.

Inoltre, se gli israeliani entrano a Gaza e Hezbollah interviene nel nord, innescando un attacco americano contro l’Iran, “ci ritroveremo in uno scontro con la Russia. La Russia non resterà in silenzio a guardare l’Iran distrutto dalla potenza aerea e navale degli Stati Uniti nella regione”, ha affermato.

Ciò renderebbe le portaerei americane e le altre navi da guerra nel Mediterraneo orientale, che trasportano molte migliaia di soldati statunitensi, “vulnerabili ai missili Kinzhal e ad altri missili, missili da crociera e missili ipersonici di cui dispongono i russi”.

“E dubito seriamente a quel punto che i turchi sarebbero in grado di restarne fuori”, ha continuato Mac Gregor.

I turchi sono “i leader de facto del mondo musulmano sunnita. Hanno le più grandi forze armate della regione. Sono molto vicini a Israele. Potrebbero spostare le forze a sud attraverso la Siria molto rapidamente” e senza ostacoli.

Mac Gregor: "Incoraggio gli americani di tutto il mondo ad ascoltare il discorso del re Abdullah di Giordania."

Ciò che è fondamentale anche qui, ancora una volta, è “la questione della punizione collettiva”, ha ribadito il colonnello in pensione.

Ha criticato Blinken per aver affermato che Israele e gli Stati Uniti avrebbero fatto “tutto il necessario” per distruggere Hamas in chiaro disprezzo del diritto internazionale che richiede la protezione dei civili innocenti nei conflitti armati.

E comprendendo la probabile risposta delle nazioni vicine, questa politica dell’amministrazione Biden, dominata dai neoconservatori e sionisti, indica una chiara intenzione di innescare una guerra regionale e persino globale.

Mac Gregor ha continuato “incoraggiando gli americani di tutto il mondo ad ascoltare il discorso del re Abdullah di Giordania al Cairo di diversi giorni fa”.

Pur condannando la violenza contro tutti i civili a Gaza, in Cisgiordania e in Israele, il monarca “continua sottolineando che la punizione collettiva inflitta a 2 milioni di persone è inaccettabile, sia secondo il diritto internazionale che per ragioni umanitarie.

 Questo è il problema."

Affrontando la crisi, “Abdullah” ha detto specificamente:

“Sono indignato e addolorato per quegli atti di violenza compiuti contro civili innocenti a Gaza, in Cisgiordania e in Israele.

L’incessante campagna di bombardamenti in corso a Gaza, mentre parliamo, è crudele e inconcepibile a tutti i livelli.

È la punizione collettiva di un popolo assediato e indifeso.

Si tratta di una flagrante violazione del diritto internazionale umanitario.

È un crimine di guerra”.

“Tuttavia, quanto più profondi sono i tagli della crisi e della crudeltà, tanto meno il mondo sembra preoccuparsene.

Chiunque altro attaccasse le infrastrutture civili e affamasse deliberatamente un’intera popolazione di cibo, acqua, elettricità e beni di prima necessità sarebbe condannato.

 La responsabilità verrebbe applicata immediatamente, inequivocabilmente”, ha proposto.

 “Ma non a Gaza”.

Ha continuato mettendo in guardia dai pericoli “catastrofici” dell’applicazione selettiva del diritto internazionale, che considera la vita di alcuni esseri umani più preziosa di altri, in base alla razza, alla religione e ai confini.

E ha stabilito le priorità per il vertice di pace per porre fine alle ostilità, fornire aiuti umanitari ai civili a Gaza e affermare il “rifiuto inequivocabile” dello sfollamento forzato o interno dei palestinesi, che secondo lui è un crimine di guerra e “una linea rossa per tutti noi."

“Oggi Israele sta letteralmente affamando i civili a Gaza”, ha detto Abdullah.

 “Ma per decenni i palestinesi sono stati privati ​​della speranza, della libertà e di un futuro, perché quando le bombe smettono di cadere, Israele non viene mai ritenuto responsabile

 Le ingiustizie dell’occupazione continuano e il mondo se ne va”.

(Il Patriarca cattolico di Gerusalemme chiede la fine dell'occupazione israeliana della Palestina, preghiera rinnovata)

Mac Gregor ha detto a Carlson che nello “sforzo americano di stare al fianco di Israele e di aiutare a proteggere Israele, abbiamo preso una strada diversa e abbiamo messo da parte la turpitudine morale”.

“Come si può aiutare uno [Israele] senza commettere un crimine di guerra contro l’altro [i Palestinesi]?

Questo è il problema della punizione collettiva.

Questo è il problema dell’annientamento di Gaza e del tentativo di spazzare via la sua popolazione”, ha detto.

 “Questo è inaccettabile per noi americani”.

Israele ha commesso una punizione collettiva “inaccettabile” per gli americani; la guerra che ne deriverebbe potrebbe minacciare l’esistenza dello Stato ebraico.

Inoltre, poiché i leader israeliani nel corso degli anni hanno generalmente avuto come obiettivo l’espansione dei loro confini “all’intera Palestina” , comportando “l’evacuazione generale” della popolazione araba, anche sotto “brutale costrizione”, Mac Gregor ha ricordato a Carlson che “ gli israeliani vorrebbero cacciare la popolazione [di Gaza]” verso l’Egitto, il che rimane un crimine di guerra.

“E man mano che gli americani vedono sempre più distruzione, e sempre più filmati e fotografie escono da Gaza che mostrano bambini, donne, anziani che muoiono, vengono uccisi, il sostegno a Israele si eroderà”, ha avvertito il colonnello in pensione.

“E allo stesso tempo, la rabbia e l’odio all’interno della regione, che già detesta Israele, saranno fenomenali”.

Queste dinamiche stanno già prendendo piede, come dimostrato dal governo egiziano che, pur essendo uno dei principali destinatari degli aiuti esteri americani, “è stato un buon partner strategico per Israele”.

Ma a causa della protesta pubblica scoppiata nella loro nazione per il bombardamento di Gaza, “almeno 100.000 soldati egiziani sono stati spostati verso il confine con Gaza”, riconoscendo che “potrebbero dover affrontare gli israeliani” poiché nessun altro li proteggerà per oltre 2 anni. Vi sono milioni di civili nell'enclave.

 

Se ciò dovesse accadere, con l’Egitto che attacca da sud e Hezbollah da nord, coinvolgendo tutte le altre potenze, compresi gli Stati Uniti, questa guerra regionale inizierà non solo danneggiando l’America economicamente e fisicamente, “ma potrebbe minacciare l’esistenza stessa di Israele. "

Sebbene gli Stati Uniti vogliano proteggere Israele, “potremmo non essere in grado di farlo se la guerra dovesse sfuggire al controllo.

E siamo sinceri: storicamente, le guerre sono fuori controllo.

Si muovono in direzioni che non avresti mai previsto.

Quindi, se pensi di poter tracciare questa strada, come pensa “Lindsey Graham”, sei pazzo.

Una volta scatenato, non è più gestibile”, ha detto Mac Gregor.

Il conflitto potrebbe portare alla Terza Guerra Mondiale, con una Russia rafforzata che non avrà paura di affrontare gli Stati Uniti indeboliti.

Mac Gregor ha anche osservato che, contrariamente a quanto riportato dai media, “l’opinione in Israele è divisa.

Chiunque pensi che dietro a tutto ciò ci siano tutti in Israele si sbaglia.

Ci sono persone là fuori disposte a mediare.

Ci sono persone che coopereranno con loro in queste circostanze all’interno del mondo arabo-musulmano”.

Mettendo in risalto la cruda realtà della situazione attuale, ha aggiunto:

“Sai, a un certo punto qualcuno in Israele deve dire che se non possiamo uccidere tutti, dobbiamo convivere con tutti, che ci piaccia o no”.

Nel chiedere un “periodo di riflessione” nel conflitto nel tentativo di portare la pace, Mac Gregor è stato incoraggiato da un’offerta all’inizio di questa settimana da parte del presidente turco “Recep Tayyip Erdoğan” di mediare la disputa tra Israele e Hamas.

“La sua volontà di mediare è una luce brillante in un cielo altrimenti molto buio. E dovremmo tenerne conto perché non vogliamo la guerra regionale. Ci distruggerà economicamente”, ha detto.

 “La Russia è militarmente più potente di quanto non lo sia stata dagli anni '80, ed è pronta a schierarsi dalla parte dell'Iran.

Dovremmo tutti pensarci seriamente”.

“E chiunque pensi che [i decisori stranieri] diranno:

'Oh, no, abbiamo paura dell'America, non correremo questo rischio, si sbaglia.

Non hanno paura di rischiare di attaccare Israele per paura di scontrarsi con noi. Non siamo più la potenza che eravamo nel 1991, e loro lo sanno. Ed economicamente, la nostra posizione è molto fragile”.

Il colonnello Douglas Mac Gregor dice a Tucker che la gestione americana della guerra in Ucraina è stata "ritorta contro."

I leader cristiani a Gerusalemme sollecitano Israele a consentire l'ingresso degli aiuti umanitari a Gaza.

Il più grande onore per i nostri veterani è opporsi a tutte le guerre orchestrate dai neoconservatori - sionisti, a cominciare dall’Ucraina.

Gli esperti di politica estera sostengono che Israele ha messo in pericolo sé stesso maltrattando i palestinesi per decenni.

 

 

 

L'FBI ha ricevuto "informazioni criminali"

su Biden da 40 fonti riservate,

afferma il senatore Grassley.

Lifesitenews.com – Giuseppe Summers – (27 ottobre 2023) – ci dice:

 

Il senatore americano sostiene che l'ufficio locale dell'agenzia a Washington è riuscito in alcuni casi a chiudere con successo i resoconti e le informazioni provenienti da fonti screditando falsamente le informazioni come disinformazione straniera.

WASHINGTON, DC ( LifeSiteNews ) – Il senatore repubblicano americano Chuck Grassley dell’Iowa ha affermato che il Federal Bureau of Investigation (FBI) ha ricevuto “informazioni criminali” da 40 fonti riservate che parlavano della famiglia Biden.

 

Martedì, in una lettera al procuratore generale “Merrick Garland “e al direttore dell'FBI “Christopher Wray”, Grassley ha affermato che le informazioni fornite all'agenzia si riferivano al presidente Joe Biden, a suo figlio Hunter e al fratello di Joe Biden, James.

"Questa lettera si basa su anni di indagini, inclusa la fornitura di informazioni, documenti e accuse da parte di numerosi informatori del Dipartimento di Giustizia [DOJ] che indicano che c'è - ed è stato - uno sforzo da parte di alcuni funzionari del Dipartimento di Giustizia e dell'FBI per ritardare in modo improprio e interrompere l'attività investigativa totale e completa sulla famiglia Biden, inclusi ma non limitati agli FD-1023 che fanno riferimento alla famiglia Biden", ha scritto Grassley.

Le informazioni, fornite all'FBI da “Confidential Human Sources”(CHS), sono state gestite da diversi uffici sul campo dell'FBI a livello nazionale.

Grassley sostiene inoltre, tuttavia, che l'ufficio locale dell'agenzia a Washington è riuscito in alcuni casi a chiudere con successo i resoconti e le informazioni provenienti dalle fonti screditando falsamente le informazioni come disinformazione straniera, qualcosa che secondo Grassley "ha causato la cessazione dell'attività investigativa".

"Sulla base delle informazioni fornite al mio ufficio per un periodo di anni da numerosi informatori credibili, sembra che ci sia uno sforzo da parte del Dipartimento di Giustizia e dell'FBI per chiudere l'attività investigativa relativa alla famiglia Biden", ha affermato Grassley.

“Tali decisioni indicano un significativo pregiudizio politico che infetta il processo decisionale non solo del procuratore generale e del direttore dell’FBI, ma anche degli agenti diretti e dei pubblici ministeri”.

La lettera di Grassley descrive in dettaglio un caso di presunta interferenza in cui una task force dell'FBI ha tentato di chiudere un'indagine su un FD-1023 secondo cui Joe e Hunter Biden avrebbero ricevuto 5 milioni di dollari da Mykola Zlochevsky , oligarca ucraino e amministratore delegato di Burisma Holdings, in cambio del licenziamento.

 Il procuratore ucraino Viktor Shokin, che all'epoca stava indagando su Burisma e quando Hunter era nel consiglio di amministrazione della società - un atto di cui Joe Biden, secondo quanto riferito, si vantava.

Secondo Grassley, nel febbraio 2020 ha avuto luogo un incontro presso l'ufficio locale dell'FBI a Pittsburgh per discutere di "questioni investigative" relative a un'indagine che coinvolge Hunter Biden.

 Il mese successivo è stata istituita una valutazione “guardian” per analizzare le informazioni fornite all'FBI relative a Hunter Biden da Rudy Giuliani, all'epoca avvocato dell'ex presidente Donald Trump.

L'analisi ha trovato un FD-1023 del marzo 2017 relativo a un'indagine di cleptocrazia su “Zlochevsky” che faceva riferimento a “Hunter Biden”, spingendo il Dipartimento di Giustizia e l'FBI a chiedere al responsabile del CHS che ha presentato il documento di intervistarlo nuovamente.

La seconda intervista ha portato alla creazione di un FD-1023 di giugno 2020, che Grassley ha rilasciato a luglio.

Grassley sostiene inoltre che, poiché l'ufficio sul campo stava eseguendo una valutazione, erano "limitati nelle loro capacità investigative" e potevano solo condurre controlli di ricerca dei dati piuttosto che emettere mandati di comparizione e di perquisizione.

Tuttavia, una valutazione dell'agosto 2020 avviata dall'analista dell'intelligence di supervisione dell'FBI “Brian Auten” è stata utilizzata dalla “Task Force sull'influenza straniera” per cercare informazioni CHS relative ai Biden nel tentativo di screditarli come "disinformazione straniera" e ha tentato di chiudere le fasi investigative. con il pretesto che contenesse “disinformazione”.

Nel frattempo, “Grassley” e il senatore repubblicano “Ron Johnson” del Wisconsin furono “informati in modo improprio ” quel mese dalla task force in relazione alla loro indagine sui Biden dopo aver ricevuto “pressioni da parte dei democratici del Congresso”.

"La base precisa su cui la squadra del quartier generale dell'FBI ha selezionato le informazioni specifiche da includere nella valutazione di “Auten” non è nota, ma il focus dell'attenzione della squadra del quartier generale dell'FBI riguardava informazioni dispregiative su “Hunter Biden” e “Joe Biden", ha scritto “Grassley”.

La valutazione dell'ufficio locale di Pittsburgh venne infine chiusa nel settembre di quell'anno, e i suoi risultati furono inviati dal “Procuratore statunitense per il Distretto Occidentale della Pennsylvania” “Scott Brady” al Dipartimento di Giustizia principale. Grassley afferma inoltre che Brady si è coordinato con l'ufficio del procuratore americano per il distretto orientale di New York per determinare se l'FD-1023 contenesse o meno disinformazione.

L’ufficio ha stabilito che non conteneva “nessun riscontro a fonti note di disinformazione russa”, ha affermato Grassley nella lettera.

Ha anche scritto che le informazioni contenute nel documento sono state fornite a “David Weiss”, attualmente in qualità di consulente speciale che guida le indagini sui rapporti d'affari dei “Biden”.

Il mese successivo, l'assistente procuratore americano “Lesley Wolf” fu informata del documento, ma lei "impedì agli investigatori di cercare informazioni sul coinvolgimento di Joe Biden negli accordi criminali di Hunter Biden", sostiene “Grassley” .

 Gli informatori dell'”Internal Revenue Service” (IRS) hanno avanzato accuse simili contro “Wolf,” ha riferito “FOX New”s .

Grassley ha inoltre affermato che l'agente speciale responsabile “Tim Thibault” ha ordinato la chiusura di una "via di segnalazioni dispregiative di Hunter Biden" nell'ottobre 2020 "a sostegno della valutazione di “Auten".

Grassley chiude la lettera chiedendo al Dipartimento di Giustizia e all'FBI di inviargli tutti i documenti relativi alle accuse avanzate e afferma che intende intervistare 25 membri del “Dipartimento di Giustizia” e dell'”FBI” collegati alle accuse formulate nella lettera.

Le agenzie hanno tempo fino al 17 novembre per rispondere.

Grassley ha scritto più lettere a entrambe le agenzie in passato in relazione ai rapporti d'affari della famiglia Biden.

Nel maggio 2022, ha inviato alle agenzie una lettera in cui esprimeva preoccupazione per la condotta di “Thibault” sui social media, mostrando un'apparente animosità nei confronti di “Donald Trump” e dei suoi sostenitori.

Le prove raccolte da un “laptop” abbandonato da “Hunter Biden” in un'officina di riparazione computer del Delaware nell'aprile 2019 forniscono una serie di prove che suggeriscono che la “famiglia Biden” ha guadagnato milioni di dollari grazie alla facilitazione da parte di “Hunter” degli incontri tra suo padre e interessi commerciali in tutto il mondo mentre “Joe Biden” era vicepresidente degli Stati Uniti sotto “Barack Obama”.

Nell’immediato periodo precedente alle elezioni presidenziali del 2020, i media tradizionali e gli ex funzionari dell’intelligence statunitense hanno sostenuto che l’  autentico  laptop era in realtà la disinformazione russa.

Nel frattempo, la condivisione della storia sui social media è stata gravemente limitata, una combinazione di fattori che potenzialmente hanno fatto pendere le elezioni a favore di Joe Biden.

Da parte sua, il” presidente Biden” ha  negato con veemenza  le accuse di coinvolgimento negli affari di suo figlio, nonostante il fatto che le prove suggeriscano che abbia  parlato con  suo figlio riguardo al suo coinvolgimento con la compagnia petrolifera cinese “CEFC” in almeno un'occasione, e che sia stato  messo in vivavoce molte volte. 

durante gli incontri all'estero di “Hunter Biden” con i partner commerciali, e che lo stesso “Hunter “ ha suggerito in un messaggio di testo a sua figlia  di dare a suo padre la metà del suo stipendio.

Ad agosto, i repubblicani della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti hanno pubblicato una nota che dettagliava i registri bancari dei rapporti d'affari della famiglia Biden, incluso con “Burisma”.

 

Il “Dipartimento di Giustizia” deve ancora rispondere alla richiesta di commento di “LifeSite” e l'FBI ha rifiutato di offrire commenti sulla lettera al “Daily Caller” , riferendo lo sbocco a “Weiss”.

 

 

Geopolitica del clima: gli interessi politici

ed economici dietro la crisi climatica.

Indiscreto.org – (07/05/2021) - Philippe Pelletier – ci dice:

 

Pelletier analizza gli ingranaggi della macchina ideologica che sta dietro la “collassologia”.

Se è vero che alcuni fenomeni sono inediti o inattesi, il metodo per analizzarli rimane comunque lo stesso:

attenersi alle osservazioni e diffidare delle narrazioni sensazionalistiche. Riscopriamo così che la scienza, e dunque anche l’ecologia e la climatologia, talvolta «non sanno», e magari sbagliano.

Questo testo è tratto da “Clima, capitalismo verde e catastrofismo”, di Philippe Pellettier.

 Ringraziamo “Eleuthera” per la gentile concessione.

(…)

 

Da Roma (1968) a Vienna (1979) e poi a Villach (1985).

“Bert Bolin” gioca un ruolo cruciale nella conferenza mondiale sul clima organizzata dall’”Omm” e dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) a Vienna nel 1979, la prima di quel genere.

 L’”Unep” è un nuovo attore istituzionale, finanziario e ideologico creato proprio per occuparsi della problematica energetico-climatica.

Fondato nel 1972, gode di un budget annuale attorno ai 30 milioni di dollari.

 Il suo primo presidente, fino al 1976, è “Maurice Strong”, il secondo personaggio chiave della questione climatica.

Canadese, Strong è un uomo d’affari specializzato in idrocarburi che ha costituito diverse compagnie attive nel settore del gas e del petrolio (1948-1961).

 Diventa quindi vicepresidente esecutivo della “Power Corporation of Canada” (1961-1966), società d’investimento privata nel settore dell’energia;

dopo le dimissioni dall’”Unep”, nel 1976 diventa presidente di “Petro-Canada”, compagnia nazionale canadese. Strong è anche membro di quattro influenti gruppi oligarchici: niente meno che il Club di Roma, il Bilderberg Group, la Trilaterale e l’Aspen Institute.

Nel 1971 commissiona un rapporto sull’ambiente in vista del vertice di Stoccolma del 1972.

Il titolo è sufficiente ad annunciare la vulgata catastrofista e della miserabilità che si svilupperà fino ai giorni nostri:

“Only One Earth”, “the Care and Maintenance of a Small Planet” (Una sola Terra: la cura e la manutenzione di un piccolo pianeta).

Questo rapporto, divenuto poi un libro, viene redatto da due cristiani credenti: Barbara Ward (1914-1981), cattolica militante, e René Dubos (1901-1982), autore di “Dieux de l’écologie” (1973).

In seguito Strong è il principale organizzatore del “Summit della Terra” tenutosi a Rio de Janeiro (1992).

Per organizzarlo sceglie come braccio destro “Serge Antoine”, un altro membro del Club di Roma.

 Questo vertice approda al “Protocollo di Kyoto” (1997), che tenta di regolamentare le emissioni di gas a effetto serra e di organizzare il mercato delle quote di carbone.

 Le entrature di Strong in diverse istituzioni e il suo budget gli consentono di mettere sul conto spese anche i viaggi dei militanti ecologisti europei e statunitensi invitati a questi vertici internazionali, che peraltro si svolgono in località lontane e indubbiamente affascinanti…

Insignito di una ventina di premi internazionali, Maurice Strong, tra l’altro fervente adepto della “New Age”, ha una miriade di altre responsabilità, così tante da far girare la testa:

nel wwf, nella Banca Mondiale (consigliere del presidente), nell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, in vari istituti che si occupano di ambiente (Stoccolma, Indonesia…), nella “Universidad para la Paz” del Costa Rica, nella co-presidenza del “Forum di Davos”, e persino in qualche impresa come la “China Carbon Corporation”…

 Ma le sue qualità vanno ben oltre. Ad esempio, nel 2005 viene coinvolto nello scandalo del programma “Oil for Food” destinato all’Iraq: a quanto pare nel 1997 ha incassato una “mazzetta” piuttosto consistente.

Nel 1979, la “conferenza mondiale sul clima” di Vienna afferma la necessità di prevenire i cambiamenti climatici causati dall’uomo che potrebbero minacciare il benessere dell’umanità.

Ma il passo decisivo viene compiuto sei anni dopo, nel 1985, alla “conferenza sul clima di Villach”, in Austria, che si tiene nel momento in cui il «buco nell’ozono» è al centro delle cronache.

Per quanto poco conosciuto, è invece un incontro fondamentale.

Riunisce rappresentanti dell’”omm”, dell’”unep” e del “garp” (Global Atmospheric Research Programme), ed è presieduto da “Bert Bolin”.

 

Bolin è molto attivo in quell’occasione.

E ottiene finalmente la sua rivincita, lui che era stato marginalizzato nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, quando le sue ricerche controcorrente sulla “relazione fra co2 e riscaldamento climatico” venivano snobbate dagli esperti, che invece diagnosticavano un raffreddamento del clima.

 È Bolin a redarre il rapporto conclusivo, secondo cui le modellizzazioni prevedono un riscaldamento delle temperature in superficie di 4,5 °C, cosa che a suo parere avrebbe provocato un innalzamento del livello dei mari di almeno 140 cm.

In sostanza, la “conferenza di Villach lancia la problematica del global warming legato alla co2”.

Ma come far passare questo discorso, frutto di una conferenza scientifica ignota al grande pubblico, così da sensibilizzare al tempo stesso i decisori e le masse?

 La risposta arriva ancora una volta da Bolin e Strong, ma a un livello di portata infinitamente più ampia:

 i due sono infatti membri della “Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo”, creata nel 1983 e presieduta dalla norvegese “Gro Harlem Brundtland”, un’esponente del partito socialdemocratico, di formazione medico, che è stata primo ministro della Norvegia per tre volte: nel 1981, nel 1986-1989 e nel 1990-1996.

Strong viene scelto da Kofi Annan, allora segretario generale dell’Onu, per diventare il membro chiave di questa nuova struttura, in cui ritroviamo un altro membro del Club di Roma, Ōkita Saburō.

Il rapporto della “Commissione Brundtland” (1987), ampiamente diffuso, non solo riprende integralmente le conclusioni della conferenza di Villach ma propugna l’ormai famoso concetto di «sviluppo sostenibile», esortando a combattere contro il riscaldamento climatico.

 Sulla scia del rapporto, nel 1988 viene creato l’”ipcc”, con Bolin presidente dal 1988 al 1997. L’operazione viene effettuata su impulso del g7 che si riunisce quello stesso anno.

La creazione dell’”ipcc” (1988).

In occasione del g7 del 1988, la creazione dell’”ipcc” come «gruppo intergovernativo», e non come organizzazione di esperti in climatologia, è sostenuta con forza da due personalità politiche europee: Jacques Delors e, soprattutto, Margaret Thatcher.

Il primo ministro britannico dell’epoca vuole prendere due piccioni con una fava: sbarazzarsi delle miniere di carbone britanniche, con i loro sindacati troppo radicali, e al contempo promuovere l’industria nucleare nazionale.

Grande opportunista, vede nell’ipotesi del riscaldamento globale – che in seguito contesterà quando i giacimenti petroliferi del Mare del Nord si riveleranno più redditizi – un buon mezzo per aumentare la popolarità della propria linea politica, e tutto per una buona causa:

salvare il pianeta.

 

Nel settembre 1988, al cospetto della “Royal Society”, sostiene perciò che «ci viene annunciato che un riscaldamento di un grado oltrepasserebbe ampiamente la capacità di adattamento del nostro habitat.

Un riscaldamento del genere potrebbe accelerare la fusione dei ghiacci e aumentare il livello del mare di parecchi piedi».

Il discorso politico catastrofista viene quindi introdotto una decina di anni prima di “Al Gore”, e con lo stesso riferimento “cripto-religioso al Diluvio” …

Il governo Thatcher avanza immediatamente la richiesta al “Met Office”, l’ufficio meteorologico britannico, di costituire quello che sarà denominato “Hadley Centre for Climate Prediction and Research”, un istituto che avrà il compito di elaborare modellizzazioni e valutare le possibili conseguenze dell’emissione industriale di co2.

Il centro viene aperto il 25 maggio 1990, e sir “John Theodore Houghton” (1931-2020), all’epoca direttore generale del “Met Office”, diventa presidente del gruppo di lavoro scientifico in seno all’”ipcc”.

Ritorneremo più avanti sulla militanza evangelica di Houghton; per ora basti notare che nel 2000 diventerà membro della “Fondazione Shell”.

 

“Jacques Delors”, da parte sua, rappresenta l’Unione Europea presso il g7, mentre “François Mitterrand” partecipa per conto della Francia.

Delors è un importante uomo politico di un paese, come la Francia, fortemente impegnato nel nucleare.

Come abbiamo visto, questo socialdemocratico-cristiano è stato anche membro del gruppo ecologista Diogène (1970-1973), fondato da “Denis de Rougemont”.

 

Gli scienziati statunitensi abbracciano quasi immediatamente l’idea di base dell”’ipcc”, con il suo discorso predefinito.

Il più noto fra loro è “James Edward Hansen” (nato nel 1941), informatico, laureato in fisica e astronomia, estremamente attivo.

All’epoca direttore del “Goddard Institute for Space Studies,” una sezione della “Nasa” allora in deficit di credito, Hansen è alla ricerca di una nuova causa.

Non è affatto un climatologo, ma il suo lavoro precedente sull’atmosfera di Venere lo ha sensibilizzato alla questione grazie a una lunga e complessa polemica scientifica sulla natura dell’atmosfera venusiana andata avanti per tutti gli anni Sessanta e Settanta.

Per contro è un fautore della modellizzazione colui che ha ispirato “Stephen Schneider” nella sua diagnosi di un «raffreddamento globale».

Fra l’altro Hansen è amico di Al Gore, vicepresidente americano dal 1993 al 2001, il quale lancia al galoppo il cavallo catastrofista e apocalittico, in sintonia con le sue credenze evangeliche, grazie al libro e al film “Una scomoda verità”.

Per convincere i leader politici, e quindi i cittadini, della validità delle sue tesi sul riscaldamento globale, Hansen mette a segno un colpo da maestro:

 il giorno in cui presenta le sue teorie davanti al senato americano – il 23 giugno 1988 – fa un caldo soffocante e oltretutto il condizionamento della sala dell’audizione non funziona adeguatamente.

E così, dato che Hansen e Gore hanno battuto la gran cassa per annunciare una seduta eccezionale nel corso della quale ci sarebbero state rivelazioni scioccanti, i rappresentanti dei media non si sono mossi invano… La via è ormai imboccata.

Ospite abituale di convegni scientifici e di trasmissioni televisive, il discorso catastrofista di Hansen sul riscaldamento globale causato dalle emissioni umane di co2 vede un crescendo inarrestabile.

 Si tratta di «salvare l’umanità» pensando ai nostri «nipoti», come recita il titolo di uno dei suoi libri.

Nel 2007 non esita a paragonare i convogli di carbone ai «treni della morte». Coerentemente, chiede di «decarbonizzare l’elettricità» e di trovare nuove fonti di energia, il che lo porta a sostenere l’energia elettronucleare.

In una conferenza al “Mit” dell’aprile 2015 cita la Francia come esempio di una buona politica in questo settore.

Insomma, per chi vuol capire la situazione è chiarissima. Dobbiamo anche ricordare che l”’ipcc” non è un organismo scientifico anche se mobilita scienziati, che però sono ben lontani dall’essere climatologi e che spesso si occupano di modelli informatici.

Piuttosto, è un organo politico, come indica il suo nome in inglese («Intergovernmental Panel»), in francese («Groupe Intergouvernemental») o in italiano («Gruppo Intergovernativo»).

In altre parole, i suoi orientamenti sono soggetti alle forze politiche.

 Le implicazioni di questa situazione sono due: scientifiche e geopolitiche.

La «stretta» dell’”ipcc”.

Nonostante le apparenze, che pure tendono ad attenuarsi, il rigore scientifico non è la virtù cardinale dell’ “ipcc”.

 A questo proposito le critiche si moltiplicano, e un certo numero di castronerie cominciano a essere note:

oltre alle già citate approssimazioni di “Pachauri”, possiamo citare il funzionamento opaco dell’istituzione, caratterizzato da una «stretta» sulle qualifiche scientifiche che appare quanto meno azzardata, se non palesemente manipolatoria.

Uno degli esempi più noti di questi «malfunzionamenti» è la frode commessa da Benjamin D. Santer (nato nel 1955) nel secondo rapporto Ipcc del 1995.

 Questo climatologo americano, laureato alla “East Anglia University”, era stato incaricato dai suoi due superiori gerarchici, “John Houghton”, responsabile del Gruppo i, e “Bert Bolin”, presidente dell’ “Ipcc”, di curare, come autore principale, il capitolo 8 del rapporto, dedicato al riscaldamento globale.

Una volta pronta la stesura finale del capitolo, “Santer” inserisce nella sintesi posta all’inizio del documento, l’unica destinata a essere letta da decisori e giornalisti, la seguente frase:

 «Le prove suggeriscono che sussiste una visibile influenza umana sul clima del pianeta».

Poiché questa frase contraddice quanto hanno scritto gli altri autori del rapporto tecnico, nel prosieguo del documento “Santer” semplicemente rimuove le frasi imbarazzanti.

Uno di questi autori censurati, “Frederick Seitz” (1911-2008), fisico, ex presidente della “National Academy of Sciences” americana, si accorge dell’abuso e rende pubblico il suo sdegno:

«Oltre quindici passaggi del capitolo 8 sono stati cancellati o modificati dopo che gli autori avevano dato la loro approvazione ai testi da mandare in stampa.

 Nei miei sessant’anni di carriera nella comunità scientifica […], non ho mai visto una corruzione così sconvolgente come il processo che ha portato alla pubblicazione di questo rapporto Ipcc».

 “Santer ribatte” che, essendo l’Ipcc un organo politico, non è soggetto alle procedure in vigore negli organismi scientifici…

E “Seitz” ha buon gioco a concludere che «se l’Ipcc non è in grado di seguire queste procedure di base, sarebbe meglio che scomparisse».

Un altro esempio:

Paul Reiter, dell’Institut Pasteur, viene invitato dall’Ipcc a contribuire, in quanto esperto mondiale di malaria, al capitolo dedicato al potenziale impatto che questa può avere sulla salute umana (Gruppo ii), capitolo incluso nel secondo rapporto (1995).

Con sua grande sorpresa scopre che nessun altro esperto di malaria è tra gli autori che hanno contribuito allo stesso capitolo e che nessuno dei principali autori presenti ha mai scritto nulla al riguardo…

Viceversa, scopre che due di loro sono dei noti attivisti ambientali.

 A questo punto contesta apertamente anche la semplicità di alcune delle analisi pubblicate.

 In particolare lo attesta con forza nel 2004 a Mosca, durante una riunione dell’Ipcc il cui l’obiettivo è quello di far aderire la Russia al Protocollo di Kyoto:

solleva uno scandalo, ma in realtà non ci sono ulteriori conseguenze.

Si dimette allora dall’Ipcc…

 A sua volta “Nils-Axel Mörner”, che ha insegnato geologia alla “Stockholms Universitet” per più di trent’anni e che ha inoltre presieduto la “Commission of Sea Level Changes and Coastal Evolution” (e quindi conosce tutti gli specialisti mondiali in materia), scopre con stupore che tra i ventidue «esperti» che si occupano della questione per il terzo rapporto dell’Ipcc (2001) solo uno di loro gli risulta noto…

Incuriosita dalle modalità di reclutamento degli esperti messe in campo dall’Ipcc, la giornalista investigativa canadese “Donna Laframboise” ha condotto un’indagine.

 E ha rilevato che più della metà dei contributi scientifici vengono esaminati, prima di essere convalidati, da persone che appartengono alla stessa organizzazione ambientalista dell’autore, in particolare il wwf, le cui origini ambigue sono già state ricordate.

 In altre parole, la mano destra serve la mano sinistra, ed entrambe indicano la stessa direzione visto che il wwf è un forte sostenitore della teoria del riscaldamento globale.

 

“Donna Laframboise” scopre anche che una delle autrici del rapporto del 1995 è una studentessa di venticinque anni, “Sari Kovats”, che prima di quello non aveva mai pubblicato nulla.

“ Kovats” è poi diventata l’autore principale del rapporto del 2001 e ha partecipato alla stesura di quattro capitoli inclusi in quello del 2007… ovvero tre anni prima di completare nel 2010 la sua tesi di dottorato!

 

Ma tutto questo non sorprende più quando scopriamo che le principali ong ambientaliste (Wwf, Friends of the Earth, Greenpeace…) partecipano Ialla scelta degli «esperti indipendenti» che redigono i rapporti Ipcc… E infatti, lo scenario climatico ancora più allarmista presente nel terzo rapporto dell’Ipcc (2001), che prevede un riscaldamento di 5,8 °C entro il 2100, una cifra ben memorizzata dai media, è scritto da un certo “Sven Teske” che è ufficialmente il coordinatore internazionale di “Greenpeace” e scrive articoli per l’”Associazione Europea dell’Industria Fotovoltaica” (Epia)…

Dall’”Ipcc” (1988) al “Protocollo di Kyoto” (1997) e alla “carbon tax”.

Il prevalere della politica sulla scienza all’interno dell’Ipcc non si traduce peraltro in un’armonia consensuale fra tutti gli Stati del mondo ma in un perenne rapporto di forza tra quelli che sono più potenti e che più finanziano.

In maniera simmetrica, ciò non implica una convergenza di interessi scientifici, economici e politici appunto perché il rapporto di forza si riproduce in ogni settore.

Il Protocollo di Kyoto (adottato nel 1997 e attuato nel 2005) è al tempo stesso punto fermo e punto critico: mira a ridurre le emissioni di co2.

 Mentre la Russia alla fine lo ha ratificato (nel 2004), gli Stati Uniti e l’Australia, che rappresentano circa un quarto di queste emissioni, si rifiutano di farlo.

 E il Canada si è ritirato nel 2006.

Oltre alle misure fiscali e normative, il protocollo stabilisce l’organizzazione di un mercato per i permessi sulle emissioni di Gas a Effetto Serra (Ges) a livello aziendale o statale, sancito dalla conferenza di Buenos Aires (dicembre 2004).

Fondamentalmente, il meccanismo è il seguente:

gli Stati ricevono diritti di emissione negoziati, che assegnano gratuitamente alle società interessate che operano nel loro territorio, ma chi non utilizza tutte le proprie quote può rivenderle al miglior offerente, in modo simile al funzionamento della borsa.

Come scrive “Pascal Acot”, «il nostro futuro climatico è nel cestino dei rifiuti».

Le aziende che superano le loro quote Ges sono costrette a investire in tecnologie di produzione considerate più pulite oppure ad acquistare i diritti immessi sul mercato.

L’abbondanza di questi diritti fa scendere i loro prezzi, e così è più redditizio acquistarli piuttosto che investire in nuove tecnologie.

Ancora una volta il mercato capitalista è lastricato di buone intenzioni…

Tra le altre cose, questo sistema significa che gli Stati e le aziende possono esportare il loro inquinamento, anche se sono previsti «meccanismi di sviluppo pulito».

Allo stesso modo in cui il capitale delocalizza le sue fabbriche e la sua forza lavoro per ottenere un «vantaggio sociale», così cerca altrove nuovi spazi e nuove popolazioni da intossicare.

Ma è per il bene del pianeta, no?

 Ci sono persone che ci credono!

“Nicholas Stern” è uno dei principali promotori di questa politica da gioco delle tre carte:

 ex capo economista della Banca Mondiale, “Stern aderisce alla teoria del riscaldamento globale”.

Per il momento, l’attore più potente nella battaglia politico-economica per il clima è il campo occidentale (Stati Uniti, Unione Europea, Giappone) che cerca di frenare l’emergere economico di nuove potenze.

Il 20 agosto 2015, anche il Commissario europeo responsabile dell’«azione per il clima» (sic!), “Miguel Arias Cañete”, ha stigmatizzato, nell’ottica della cop21, un certo numero di paesi che «non fanno abbastanza sforzi» per ridurre i gas serra: come per un caso fortuito cita solo “Cina, India, Turchia, Brasile e Sudafrica” …

 

La battaglia fra idrocarburi, energia nucleare ed energie rinnovabili richiede investimenti massicci e costosi; sempre più massicci e sempre più costosi.

Ma il capitale, tranne pochi audaci o visionari, non ama investire a fondo perduto e senza ottenere profitto.

Il suo storico copilota, lo Stato, è fortunatamente lì per aiutarlo:

soprattutto perché i nuovi partiti ecologisti stanno spingendo in questa direzione, facendo affidamento su un elettorato della classe media ora convertito alla causa planetaria, a condizione che non si mettano in discussione la proprietà privata o il denaro.

Uno dei principali strumenti dello Stato, oltre alla pletora di regolamenti, norme e divieti di ogni genere, è la tassazione.

Gli ambientalisti hanno quindi spinto l’idea di una «tassa sul carbonio», basandosi sull’idea molto diffusa di una «impronta del carbonio», che però è difficile da calcolare.

Questo tipo di imposta è però ingiusto, come l’iva, a differenza dell’imposta sul reddito diretta e decrescente.

Aumenta infatti la tassazione delle famiglie, già pesantemente tassate, soprattutto in tempi di recessione economica, e penalizza gli automobilisti ordinari più dei grandi inquinatori.

 I poveri devono quindi pagare come i ricchi, ma in una società in cui sono scomparse le classi, sostituite dalle «generazioni future», tutto ciò non pone alcun problema ideologico o politico.

L’idea alla base della «carbon tax» è anche quella di ridurre il parco veicoli, senza che sia garantito con certezza che sarà sostituito da un trasporto pubblico di pari qualità.

Il lavoratore se la dovrà cavare… Il rilancio in Francia di questa idea, nell’autunno del 2018, è stato all’origine del forte movimento di protesta dei «gilet gialli», uno dei cui slogan è stato:

 «La fine del mese arriva prima della fine del mondo».

 

Durante la campagna presidenziale francese del 1973, il candidato ecologista “René Dumont” e, con lui, quasi tutti gli ecologisti, chiesero un notevole aumento del prezzo della benzina per far retrocedere l’automobile.

Quasi cinquant’anni più tardi non solo i prezzi della benzina sono aumentati a un livello che questi ecologisti non osavano immaginare, ma in giro non ci sono mai state così tante auto, né così tanto petrolio.

Lungi dal retrocedere, automobili e petrolio sono cresciuti e i profitti delle multinazionali del petrolio sono aumentati di pari passo.

Il principio del «chi inquina paga» è quindi completamente fuorviante.

Le principali fonti di inquinamento sono esonerate, mentre l’individuo medio viene fatto sentire in colpa e riportato alle sue «scelte di consumo», come se la gamma delle sue possibilità fosse infinita, semplice, e si basasse solo sul suo comportamento libero e responsabile di “homo economicus” secondo il credo della filosofia liberale.

La geopolitica del “Diluvio insulare”.

I leader dei piccoli Stati insulari si sono resi conto che potevano usare politicamente la questione dell’innalzamento del livello del mare e del «cambiamento climatico» per negoziare con le grandi potenze.

 Il loro approccio è comprensibile: provengono da paesi precedentemente colonizzati – spesso brutalmente, a volte in maniera più insidiosa (evangelizzazione) – e generalmente poveri.

Ma questa legittimità di comportamento non dovrebbe mascherare le relazioni di potere all’interno di quei paesi e nei confronti degli altri paesi, né impedire una corretta analisi dei fenomeni geofisici ed ecologici.

 Perché la strategia dei leader locali è in sostanza ottenere sussidi e un posto sulla scena mondiale.

Nel 1990, diversi piccoli Stati insulari si sono riuniti in un’associazione: l’”Alliance of Small Island States” (Aosis), che ha raggiunto i quarantaquattro membri nel 2018, di cui trentanove membri dell’Onu.

Questi Stati hanno colto la possibilità di giocare sull’allarmismo, ma al contempo sulla vittimizzazione e sul senso di colpa, soprattutto nei confronti dei paesi occidentali considerati responsabili del cambiamento climatico.

Secondo “Jean-Christophe Gay”, un geografo specializzato sulle isole dell’oceano Pacifico, «essi formano un bacino elettorale alle Nazioni Unite o in altri forum, e contrattano con gli altri paesi mettendo in campo i loro voti e le loro alleanze».

“Tuvalu”, paese entrato a far parte delle Nazioni Unite nel 2000, ha così riconosciuto l’indipendenza dell’”Abkhazia” e dell’”Ossezia meridionale”, due territori georgiani occupati dall’esercito russo.

“Nauru,” un paese che è diventato membro delle Nazioni Unite nel 1999, ha fatto lo stesso nel 2009.

Dopo Russia, Nicaragua e Venezuela, è il quarto Stato a stabilire relazioni con questi due paesi.

Prima della visita del suo ministro degli Esteri, il suo governo avrebbe chiesto alla Russia un aiuto economico di 34 milioni di euro.

Secondo le autorità russe, “Nauru” avrebbe ricevuto aiuti internazionali in cambio del riconoscimento del” Kosovo”.

Nel 2002, secondo quanto riferito, la “Repubblica popolare cinese” ha concesso un credito di 89 milioni di euro in cambio dell’annullamento del riconoscimento di Taiwan.

Ma a causa del ritardo nell’adempimento della promessa, “Nauru” non si è allineato con Pechino.

 

Alle “Kiribati”, “Anote Tong”, presidente del paese dal 2003 al 2016, ama spiegare, sia all’estero che ai suoi concittadini, che l’arcipelago sarà inabitabile entro il 2050.

Tra il 1994 e il 2014 gli aiuti allo sviluppo concessi alle Kiribati” sono passati da 20 milioni di dollari a 142 milioni:

«Un vero paradosso investire in un paese che sta per affondare».

Ma, ancora una volta, un giornalista che dedica il suo articolo alle “Kiribati” ignora questo fatto e preferisce invece citare «la delegazione di “Tuvalu” a Copenhagen nel 2009 che gridò forte e chiaro: ‘Dai ascolto alle isole! Dai ascolto alle isole’».

Da parte loro, i grandi Stati stanno già speculando sulla scomparsa di alcune isole. Per questo usano una nuova categoria, quella dei «rifugiati climatici».

 Un termine che è stato inventato non da climatologi o geografi, ma da politologi e giuristi, e che deriva da un altro concetto inventato in precedenza, quello di «rifugiato ambientale».

Sulla scena internazionale, il certificato di nascita simbolico del concetto di «rifugiato ambientale» è in genere associato alla pubblicazione di numerosi rapporti nella seconda metà degli anni Ottanta.

 Nel 1988 “Jodi L. Jacobson”, giornalista specializzata in questioni di salute e di genere, nonché membro del” Wwf”, ha così stimato che «tra i vari problemi ambientali che causano l’allontanamento delle popolazioni dai loro habitat, nessuno può competere con i potenziali effetti dell’innalzamento del livello del mare dovuti ai cambiamenti di origine antropica del clima planetario».

Nel suo primo rapporto sintetico del 1992, l’Ipcc ha insistito sulla natura eccezionale e dannosa dei previsti sconvolgimenti migratori:

«Gli effetti più gravi del cambiamento climatico riguardano indubbiamente la migrazione umana:

 milioni di persone saranno costrette a spostarsi, scacciati dall’erosione costiera, dall’inondazione dei litorali e dalla siccità.

 Molte delle aree in cui cercheranno rifugio probabilmente non dispongono di strutture igienico-sanitarie sufficienti per accoglierli.

Le epidemie rischiano dunque di penetrare e insediarsi nei campi profughi, oltre che di estendersi alle comunità vicine.

Inoltre, il ricollocamento è spesso fonte di tensioni psicologiche e sociali che possono influire negativamente sulla salute e sul benessere delle popolazioni sfollate».

I giuristi si impadroniscono allora della questione per sviluppare la categoria di «rifugiato climatico», la quale consente di assegnare uno status ai migranti e, sulla scia di questo, di determinare a chi sarà devoluta la defunta Zee (Zona Economica Esclusiva) degli” Stati insulari “che scompariranno.

 Catalogare i migranti come «rifugiati climatici» e quindi spiegare le migrazioni con un fenomeno naturale – anche se si sostiene che siano state provocate o aggravate dall’azione umana – in realtà è un modo per mascherare le vere cause della mobilità umana in un gran numero di paesi, specialmente ai tropici.

Queste cause sono invece ben note:

 fuggire dalla miseria economica (povertà, mancanza di reddito), sociale (conservatorismo) o politica (guerre e dittature) e raggiungere i paesi che rappresentano la situazione opposta, a torto o a ragione.

Infatti, la migrazione dei” tuvaluani” in Nuova Zelanda, ad esempio, è fondamentalmente correlata a questo fattore.

 Gli esiliati hanno allora buon gioco a far valere l’idea di «rifugiato climatico» se questo dà loro qualche vantaggio.

Inoltre, la devastazione provocata dal recente aumento del traffico di droga in molte isole del Pacifico sembra più preoccupante dell’«innalzamento delle acque».

Le isole sentinella del capitalismo verde.

Le Maldive costituiscono un caso esemplare di strumentalizzazione climatica in cui la molteplicità dei fenomeni e dei fattori è sommersa, per così dire, dal catastrofismo che denuncia l’innalzamento del livello delle acque.

 In questo caso la politica, e quindi la geopolitica, gioca un ruolo cruciale.

Bisogna risalire alla fine degli anni Settanta e a” Maumoon Abdul Gayoom”.

Costui è stato presidente dello Stato delle Maldive dal 1978 al 2008, governando con un pugno sempre più di ferro e un crescente islamismo.

Nel 1987, anno del “Rapporto Brundtland”, si fa notare alle Nazioni Unite per un discorso in cui per la prima volta viene evocato il rischio che l’innalzamento del livello del mare possa far scomparire il suo paese.

 Si dichiara inoltre «paladino dell’ambiente e della religione che protegge quelle barriere coralline e i trecentomila musulmani delle Maldive dalla doppia minaccia del riscaldamento globale e delle orde in bikini».

Il suo successore,” Mohamed Anni Nasheed”, ha ripetuto questo discorso fin dalla sua elezione nel 2009.

Nell’ottobre di quell’anno ha persino organizzato un consiglio dei ministri in fondo al mare, con pinne e boccagli, per sensibilizzare la comunità internazionale. Secondo il geofisico svedese “Nils-Axel Mörner”, “Nasheed” fa rivivere «opportunisticamente» il «mito» dell’isola in procinto di essere inghiottita dal mare, recitando persino in un documentario americano intitolato “The Island President” (2011).

 Secondo lo slogan del film, «per salvare il suo paese, deve salvare il nostro pianeta».

 «È un esempio di come un melodramma hollywoodiano [il film di Al Gore] abbia corrotto la scienza del clima.

Non bisogna infatti dimenticare che il presidente” Mohamed Nasheed” ha autorizzato la costruzione di tanti grandi resort in riva al mare e di undici nuovi aeroporti i cui impatti sull’ambiente sono inevitabili.

Ciò non impedisce a «Time Magazine» di descriverlo nel 2009 come uno degli «eroi dell’ambiente» e un «visionario», mentre «Foreign Policy» lo colloca al trentasettesimo posto nella lista dei «cento pensatori globali» (sic!) del 2010.

Dal canto suo “Nasheed” non demorde: «Se gli scienziati non sono in grado di salvare le Maldive, allora non sono in grado di salvare il mondo».

 E così si imbarca nell’acquisto di terreni in diversi paesi (India, Sri Lanka, Australia…) per «costruire le Nuove Maldive» una volta che quelle attuali saranno sommerse, inghiottite, sprofondate.

Era il 2009. Da allora le Maldive sono ancora lì, e le malelingue si chiedono a quale sorte e a quale speculazione fondiaria siano stati destinati i terreni acquistati.

Nel 2013 Nasheed è sostituito da “Abdulla Yameen”, un uomo d’affari che ha fatto fortuna nel turismo.

Fratellastro dell’ex presidente Gayoom, condivide le sue convinzioni islamiste e la scelta di un’alleanza filo-cinese, mentre “Nasheed”, arrestato per «terrorismo», riesce a ottenere asilo politico nel Regno Unito (21 maggio 2016).

Di fatto, il destino ecologico delle Maldive non è esattamente quello che vogliono far credere i governanti che si sono succeduti.

Uno dei loro principali problemi ambientali è l’estrazione di sabbia corallina per le costruzioni, cresciuta enormemente a partire dagli anni Settanta a causa dell’urbanizzazione della capitale “Malé”, della proliferazione di isole alberghiere e dei cambiamenti socio-economici.

Alcune comunità locali, in seguito alle migliorate condizioni economiche grazie alla meccanizzazione della pesca, hanno infatti abbandonato le palme da cocco che proteggono le coste a favore dell’estrazione della sabbia.

Tutti questi fattori, scarsamente controllati, possono solo indebolire le spiagge e il litorale, e quindi gli atolli.

Poi è facile accusare il cambiamento climatico dell’avanzata delle acque…

Ma basta guardare le foto aeree di “Malé” per constatare come quest’isola sia diventata una città tutta costruita sulla sabbia e con la sabbia.

Le alluvioni del 1987 e del 1991 sono state favorite dal frenetico scavo della barriera corallina che circonda l’isola e che la proteggeva dalle mareggiate.

Uno scavo che non ha nulla a che vedere con un affondamento, ma che è dovuto alla dilagante urbanizzazione della capitale.

La demografia di “Malé”, in un paese che ha uno dei tassi di natalità più alti al mondo (48% nel 1985, 19,8% nel 2000, 13,7% nel 2017), è infatti cresciuta tumultuosamente a partire dal boom del turismo internazionale negli anni Settanta.

 

La città-isola contava 75.000 abitanti nel 2000 e 134.412 nel 2014, ovvero una densità di 17.844 abitanti per km² nel 2006, paragonabile a quella di Monaco.

Ora è circondata da dighe di cemento e tetrapodi.

Anche prima che lo tsunami del dicembre 2004 devastasse parte dell’arcipelago delle Maldive, provocando 82 morti e 26 dispersi, il governo giapponese si era già offerto di finanziare un programma di dighe a seguito delle inondazioni del 1987 e del 1991.

 Questo programma è stato finalmente realizzato.

Finanziato principalmente dal Giappone, è costato circa 13 milioni di dollari al km, ovvero 13.000 dollari al metro.

Il colmo è che la costruzione delle dighe che dovrebbero proteggere Malé dalle onde continua invece a indebolirla poiché bisogna pur trovare da qualche parte la sabbia per costruirle.

Per quanto riguarda l’isola di Thilafushi, situata a 7 km da Malé, dal 1992 è stata trasformata in un’enorme discarica che si dice immagazzini 330 tonnellate di rifiuti al giorno.

Una discarica di cui praticamente non si parla e che non c’entra nulla con il clima.

Nonostante la diversità dei fenomeni individuati alle” Maldive”, alle “Kiribati” o a “Tuvalu”, i media ci presentano queste isole come le sentinelle a guardia del crollo, come i «campanelli d’allarme», come i «canarini» delle miniere.

Ben sapendo che l’origine della povertà nei paesi dell’ex Terzo Mondo è causata o alimentata dalle grandi potenze in un contesto di eredità coloniale, post-coloniale o ancora imperialista, e che la maggior parte dei leader di questi paesi punta il dito contro il clima come principale responsabile di tutti questi mali, è lecito chiedersi se questa visione non vada oltre una singola strumentalizzazione.

 La cosa appare più che possibile se teniamo presente che oggi alle orecchie dell’opinione pubblica, ma persino degli attivisti, per non parlare dei giornalisti, il termine «imperialismo» suona come una parolaccia ancora più scorretta di «capitalismo».

Questo è uno degli effetti della «guerra globale mobile» che esternalizza i conflitti in diverse regioni del mondo, combinando in modo complesso l’intervento di diversi Stati: Siria, Libia, Afghanistan o Yemen ne sono buoni esempi.

Per quanto riguarda la Francia, ad esempio, il crescente intervento del suo esercito nei paesi del “Sahel”, in nome della lotta al terrorismo jihadista, consente soprattutto di tutelare gli interessi minerari di società come la “Orano” (ex Areva), le cui miniere di uranio si trovano nelle cosiddette aree «instabili»:

regione di” Kidal” e “Kona” in Mali, regione di “Arlit” in Niger, Repubblica Centrafricana e così via.

Questo uranio viene utilizzato per far funzionare le centrali nucleari, le stesse che, grazie alle loro basse emissioni di gas serra, combattono il «riscaldamento globale».

 Uno degli ultimi atti del ministro dell’Ambiente “Nicolas Hulot”, prima delle sue dimissioni nell’estate del 2018, è stato quello di prolungare il programma elettronucleare francese fino al 2025, scadenza poi posticipata dal primo ministro fino al 2035…

 

 

 

 

 

UN CLIMA DA POLITICA ESTERA.

Eccoclimate.org – Luca Bergamaschi – (26 GENNAIO 2023) – ci dice:

La questione del cambiamento climatico è diventata negli ultimi anni una priorità della politica internazionale, che riguarda scelte, tra le altre, di natura energetica, di sviluppo industriale, di finanza e sicurezza, e quindi non solo di natura ambientale.

Oggi l’urgenza e la complessità della sfida richiedono l’integrazione e la revisione di una molteplicità di politiche, ben oltre quelle di competenza del Ministero dell’Ambiente. 

Questo vale anche per la diplomazia.

 Identificare il cambiamento climatico come una priorità di politica estera significa attrezzarsi per rappresentare un paese nei sempre più innumerevoli tavoli internazionali, trovare compromessi, convincere i paesi restii a fare passi avanti, supportare lo sviluppo sostenibile di tutti e in ultima istanza proiettare e difendere gli interessi nazionali sullo scacchiere internazionale. 

La diplomazia italiana ha un grande potenziale inespresso di rappresentare l’interesse pubblico nazionale e contribuire all’azione climatica globale.

Tuttavia, di fronte all’urgenza della sfida climatica, è indispensabile un potenziamento della diplomazia, in modo simile a quanto già messo in atto dai partner G7.

La Presidenza italiana del G7 del 2024 può diventare l’occasione giusta.

Per questo è necessario, da un lato, una più forte presa di coscienza della centralità del tema per la sicurezza e gli interessi del paese da parte della politica.

Dall’altro, il corpo diplomatico deve dotarsi delle competenze e delle strutture necessarie per giocare un ruolo più forte sui tavoli internazionali. 

La diplomazia climatica nei paesi G7.

Nel 2010, gli Stati Uniti hanno riconosciuto – per la prima volta in un documento ufficiale – il cambiamento climatico come una minaccia per la sicurezza.

Negli anni a seguire, con l’eccezione dell’Amministrazione Trump, sono seguite approfondite analisi del Dipartimento della Difesa, del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca – dotatasi di un ufficio dedicato al clima dal 2009 -, culminate in una revisione – in continuo aggiornamento – delle priorità della Strategia Nazionale di Sicurezza.

L’ultima edizione, rilasciata in ottobre 2022, dichiara:

“Tra tutti i problemi comuni che dobbiamo affrontare, il cambiamento climatico è il più grande e potenzialmente esistenziale per tutte le nazioni.

Senza un’azione globale immediata in questo decennio cruciale, le temperature globali supereranno la soglia critica di 1,5 gradi Celsius.

Superata questa soglia, avvertono gli scienziati, alcuni degli impatti climatici più catastrofici saranno irreversibili.

Gli effetti del clima e le emergenze umanitarie non potranno che peggiorare negli anni a venire:

dall’intensificarsi di incendi e uragani negli Stati Uniti alle inondazioni in Europa, dall’innalzamento del livello del mare in Oceania alla scarsità d’acqua in Medio Oriente, dallo scioglimento dei ghiacci nell’Artico alla siccità e alle temperature mortali nell’Africa subsahariana.

Le tensioni si intensificheranno ulteriormente quando i Paesi si troveranno a competere per le risorse e i vantaggi energetici, aumentando i bisogni umanitari, l’insicurezza alimentare e le minacce alla salute, nonché il potenziale di instabilità, conflitti e migrazioni di massa.

La necessità di proteggere le foreste a livello globale, di elettrificare il settore dei trasporti, di riorientare i flussi finanziari e di creare una rivoluzione energetica per evitare la crisi climatica è rafforzata dall’imperativo geopolitico di ridurre la nostra dipendenza collettiva da Stati come la Russia che cercano di usare l’energia come arma di coercizione.”

Il nesso tra clima e sicurezza è evidente.

 Il clima oggi è identificato come traino della geopolitica, dell’economia e della finanza.

Per questo, nel corso degli anni la diplomazia americana si è dotata di personale tecnico per seguire le questioni negoziali e capire i trend tecnologici.

Gli stessi negoziati sono passati sotto la responsabilità e competenza del corpo diplomatico del Dipartimento di Stato.

La nomina, nel 2020, di “John Kerry”, ex Segretario di Stato americano ed ex candidato alla Casa Bianca come Inviato presidenziale speciale per il clima, riflette il senso di questa priorità. 

Un approccio simile è stato adottato nel Regno Unito, considerato il pioniere della diplomazia climatica.

Il primo Rappresentante speciale per il clima, “John Ashton”, è stato nominato nel 2006 e rimasto in carica fino al 2012 sotto tre diversi Ministri degli esteri.

Come per gli Stati Uniti, anche l’establishment di sicurezza e politica estera britannica ha dichiarato nella sua ultima revisione della strategia di sicurezza, difesa, sviluppo e politica estera che “nel 2021 e oltre, il Governo farà della lotta al cambiamento climatico e alla perdita di biodiversità la sua priorità internazionale numero uno.”

Come per gli Stati Uniti, anche il Regno Unito segue tutti i negoziati multilaterali, non solo quelli legati alla “Convenzione ONU” ma anche i processi G7 e G20, con una squadra integrata di diplomatici e tecnici, tra cui anche il diplomatico e Rappresentante speciale per il clima, “Nick Bridge”.

Inoltre, il Regno Unito ha creato un fondo ad hoc per la diplomazia climatica che dal 2020 ad oggi ha messo a disposizione dell’apparato diplomatico 3,7 milioni di sterline.

Già prima della “COP26 di Glasgow”, il corpo diplomatico britannico contava 20 diplomatici dedicati a tempo pieno alla questione climatica nelle sedi di Londra e oltre 100 diplomatici climatici dispiegati a tempo pieno nelle ambasciate. 

A inizio 2022, la Germania, attraverso un’importante riorganizzazione interna delle competenze, ha spostato i tecnici competenti dei negoziati internazionali per il clima dal Ministero dell’Ambiente al Ministero degli Affari Esteri.

 Una nuova unità di tecnici e diplomatici è stata creata per la politica estera climatica, sotto il diretto controllo della Ministra degli esteri, elevando così al massimo livello politico le competenze del Ministero dell’Ambiente con quelle della macchina diplomatica tedesca.

Questa unità è guidata dalla nuova Inviata speciale per il clima “Jennifer Morgan”, una figura di alto livello proveniente dalla società civile.

 Questo passaggio di competenze ha significato un passaggio di consegna tra ambiente ed esteri, per cui la Ministra tedesca degli esteri, “Annalena Baerbock”, oggi rappresenta la Germania nei negoziati climatici.

La stessa Ministra ha annunciato che tutte le 226 missioni diplomatiche tedesche nel mondo dovranno diventare “ambasciate del clima”. 

Dall’Accordo di Parigi della COP21 del 2015, presieduta da “Laurence Tubiana” allora Professoressa di “Sciences Po” e Direttrice del think tank per lo sviluppo sostenibile IDDRI, la Francia ha posto il clima al centro della sua politica estera.

Varie iniziative al più alto livello si sono susseguite, come diverse edizioni del “One Planet Summit” presiedute dal Presidente Macron, ad indicare una forte sinergia tra il Ministero degli affari esteri e l’Eliseo.

Dal 2020 è il diplomatico “Stéphane Crouzat” a guidare la diplomazia climatica come Ambasciatore francese per i negoziati sul cambiamento climatico, le energie rinnovabili e la prevenzione dei rischi climatici. 

Per il Canada, nell’estate 2022 “Catherine Stewart” è stata elevata al rango di “Ambasciatrice per il clima” dopo una lunga carriera come responsabile canadese dei negoziati internazionali.

Il suo nuovo ruolo prevede, oltre a rappresentare il Canada in tutti i consessi internazionali, il coordinamento della diplomazia climatica delle ambasciate canadesi, fornire consulenza trasversali ai Ministeri degli affari esteri, dello sviluppo e del commercio, condurre iniziative mirate con i principali Paesi partner e sviluppare e gestire le relazioni con i principali opinion leader e stakeholder. 

 

Il Giappone, pur non avendo una figura specifica di spicco come rappresentante per il clima, ha identificato nel 2018 il clima come questione di “fondamentale importanza” per il Ministero degli Affari Esteri per:

“seguire le ultime tendenze in ogni paese, regione geografica e area tematica e rifletterle nella politica estera attraverso la creazione di un sistema intersettoriale all’interno del Ministero che ha perciò istituito una task force per la diplomazia del clima, al fine di rafforzare l’approccio intersettoriale all’interno del Ministero e promuovere la diplomazia del cambiamento climatico in modo più attivo ed efficace.”

Infine, già da qualche anno, anche la “Commissione europea” si è dotata di un “Ambasciatore per il clima” presso il Servizio europeo per l’azione esterna.

Oggi la carica è ricoperta da “Mark Vanheukelen” che descrive i tre compiti della diplomazia climatica europea come:

“primo, convincere gli altri Paesi a intensificare i loro sforzi per il clima facendo leva sul potere dell’esempio, sul potere della borsa e sul potere del mercato interno;

 secondo, gestire la geopolitica della decarbonizzazione associata a una forte riduzione del consumo di combustibili fossili e all’aumento del consumo di materie prime necessarie per le tecnologie verdi;

terzo, affrontare il nesso tra clima e sicurezza”.

E l’Italia?

L’Italia ha un potenziale enorme di diventare un attore chiave della politica climatica internazionale facendo leva sulla sua presenza nel G7 e del G20 – esemplare è stato il successo del G20 sotto Presidenza italiana del 2021 –, come una nazione fondatrice dell’Unione Europea e trainante come secondo paese manifatturiero e capacità di innovazione, come attore commerciale principale nel Mediterraneo e presente in molti paesi africani e non ultimo come importante donatore internazionale.

Nel 2022 sono arrivati impegni importanti dalla COP27 di Sharm el-Sheikh e dal G20 di Bali:

è stato presentato il “Fondo italiano per il clima” con una dotazione di oltre 4 miliardi al 2026 e l’Italia ha contribuito in maniera importante ai “Fondi di decarbonizzazione dell’Indonesia e del Vietnam”.

Tuttavia, e nonostante i passi avanti degli ultimi anni, i risultati rimangono parziali rispetto alle potenzialità del paese e alla capacità di influenza e partecipazione degli altri paesi G7.

Infatti, manca ancora una strategia definita e personale dedicato per la diplomazia climatica, al netto del lavoro cruciale portato avanti dal personale del “Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica” (MASE), che finora ha guidato l’Italia al tavolo dei negoziati internazionali in particolare in sede ONU, G7 e G20.

Al momento, il MAECI non prevede diplomatici dedicati a tempo pieno per la diplomazia climatica né una struttura dedicata.

Il tema è seguito da vicino dalla “Direzione Generale per la mondializzazione e le questioni globali” ma senza quel mandato e quella “potenza di fuoco” equiparabili a quelli degli altri paesi G7. 

Difficilmente la situazione può cambiare senza un mandato per una riorganizzazione dal livello politico.

 Senza una maggiore consapevolezza politica e un rafforzamento delle strutture il rischio è che l’Italia non sia sufficientemente equipaggiata e quindi in grado di seguire i diversi tavoli internazionali che si stanno aprendo.

Parte di questo deficit è da ricercare nell’assenza di priorità del tema clima all’interno della politica.

Ciò, nonostante l’opinione pubblica italiana sia tra le più preparate e desiderose di più azione per il clima (si veda a riguardo la mappatura degli elettori verso il tema e il confronto internazionale, in cui gli italiani spiccano tra i paesi G20 per sensibilità).

 Inoltre, nonostante i crescenti impatti e gli ormai evidenti nessi con la sicurezza, l’economia e la finanza, il clima non fa ancora parte del pensiero di politica estera della classe politica.

 Quest’ultima lo identifica come una generica sfida globale, tuttalpiù all’interno di un quadro di azione europea.

Manca quindi sia la consapevolezza della minaccia per la sicurezza nazionale, derivante soprattutto dalla posizione geografica al centro del Mediterraneo identificato dagli scienziati come un punto nevralgico (“hotspot”) del clima, sia un senso dell’urgenza di agire per limitare le emissioni.

Manca inoltre il nesso fondamentale con l’energia:

le scelte di sicurezza energetica – queste sì ampiamente al centro della politica estera italiana – rimangono scollegate dalle loro implicazioni per il clima e per la stabilità dei paesi fornitori di combustibili fossili in un momento di profonda trasformazione.

Di conseguenza, la politica estera italiana naviga troppo spesso senza una direzione o in supporto di specifici interessi economici senza chiedersi se questi coincidano o meno con l’effettivo interesse pubblico. 

Il primo e finora unico tentativo di iniziare un percorso di rafforzamento del ruolo diplomatico dell’Italia è stato iniziato sotto il Governo Draghi con la nomina dell’”Inviato speciale per il clima” del diplomatico “Alessandro Modiano”.

Ricoprendo anche il ruolo di Direttore per le questioni climatiche internazionali ed europee presso il MASE, l’Inviato ha avuto modo di lavorare da vicino con il personale dedicato ai negoziati internazionali, guidati da “Federica Fricano”.

Ciò ha consentito di portare avanti e difendere sui tavoli internazionali i risultati della Presidenza italiana del G20 del 2021 – durante un anno, il 2022, che ha visto un susseguirsi di crisi – e coordinare in modo efficace l’azione dell’Amministrazione Pubblica, da Palazzo Chigi al Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF).

A dimostrazione dell’importanza di unire le competenze tecniche con quelle diplomatiche, cruciali per difendere e rappresentare l’interesse nazionale e ottenere risultati ambiziosi in campo internazionale.

Da fine 2022, il mandato dell’Inviato speciale non è stato rinnovato e vi è incertezza rispetto al futuro di questa posizione. 

Una nuova struttura dedicata per la diplomazia climatica.

Cosa si potrebbe dunque fare per aumentare la capacità di azione diplomatica dell’Italia in vista dei prossimi appuntamenti internazionali in cui l’Italia è chiamata a giocare un ruolo da protagonista? 

Un’opzione per rafforzare e sfruttare al meglio il sistema della diplomazia italiana può essere quella di dotare il MAECI di una struttura dedicata con il mandato di sviluppare e attuare una strategia di diplomazia climatica per l’Italia.

Questa struttura, guidata da un/a Ambasciatore/Ambasciatrice per il clima che riporti direttamente al/la Ministro/a, dovrà operare su tre livelli: 

Un primo livello, all’interno del MAECI stesso, per consentire che tutte le Direzioni di Roma e le Ambasciate nel mondo integrino la dimensione climatica nei loro lavori, anche aumentando il personale dedicato nelle sedi chiave.

La politica estera e di cooperazione internazionale deve diventare politica attiva per il clima, ovvero tutte le scelte devono essere valutate rispetto all’allineamento degli obiettivi climatici e per il loro impatto sui paesi terzi, giudicando se e come queste azioni incentivino o meno la transizione e la resilienza dei paesi.

Gli obiettivi climatici dovrebbero essere integrati in modo trasversale a tutta la cooperazione italiana, sia quella indirizzata dal MAECI che quella di competenza del MASE.

 La cooperazione allo sviluppo necessita anche di una revisione della propria governance e un aggiornamento delle linee guida settoriali dell’Agenzia Italiana per Cooperazione allo Sviluppo (AICS) sul clima.

 Un secondo livello di coordinamento intra-governativo, ovvero uno spazio di raccordo tra tutti i Ministeri e Palazzo Chigi, per assicurare coerenza e integrazione delle politiche.

Ciò significa assicurarsi che gli obiettivi climatici siano integrati in tutte le strategie e politiche di difesa e sicurezza, di politica energetica, commerciale, finanziaria, agricola etc.

Queste dovrebbero aiutare anche a formare una posizione forte dell’Italia nei vari Consigli europei.

Questa funzione potrebbe essere ricoperta da una figura dedicata esclusivamente alla coerenza intra-governativa delle politiche slegata quindi da compiti di proiezioni esterna.

 Un terzo livello è quello di rappresentare gli interessi dell’Italia su tutti i tavoli internazionali, portare avanti i negoziati e preparare gli incontri dei Ministri e del/la Presidente del Consiglio.

L’Ambasciatrice/Ambasciatore per il clima, che potrà essere scelta/o anche esternamente all’Amministrazione Pubblica come personalità o esperta/o di alto livello con le competenze necessarie, dovrà lavorare per identificare soluzioni per risultati ambiziosi alle COP, nel G7 e nel G20.

Avrà il compito di supervisionare i negoziati con tutti i paesi, dai più ai meno ambiziosi, su temi legati al raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi; assicurare il supporto necessario, anche attraverso il nuovo Fondo italiano per il clima, per la transizione, l’adattamento e la resilienza dei paesi emergenti e vulnerabili, incluso quello per le perdite e i danni; e curare le relazioni e l’offerta politica sia a livello Ministeriale che di Capi di Stato.

Per operare efficacemente e avere impatto, questa nuova struttura necessita di personale dedicato sia di natura più tecnica, in prestito ad esempio dal MASE e dal MEF, e facendo anche leva su expertise esterne all’Amministrazione Pubblica, sia con le capacità diplomatiche.

La struttura dovrà inoltre munirsi di esperti di comunicazione come strumento indispensabile di diplomazia pubblica e visibilità esterna.

Tutto questo dovrà essere finanziato con risorse sufficienti per permettere lo svolgimento delle funzioni tecniche di analisi, delle missioni, di comunicazione e di coinvolgimento degli stakeholder. 

L’Italia può e deve giocare un ruolo più forte sul clima attraverso una politica estera che dia priorità alla sfida più grande e complicata del XXI secolo, soprattutto nei paesi dell’area del Mediterraneo e in Africa e sui tavoli multilaterali, a partire dal ruolo di Presidenza del G7 del 2024.

Ma per farlo servono più consapevolezza della classa politica e strutture con maggiori figure professionali dedicate e adatte allo scopo.

 

 

 

 

IL CETRIOLO DI Schrödinger

Orazero.org - Alessia C. F. (ALKA) – (28 Ottobre 2023) – ci dice:

 

L’OMS vorrebbe riconoscere la crisi climatica come un’emergenza sanitaria pubblica.

In un appello pubblicato su oltre 200 riviste scientifiche, scienziati di tutto il mondo chiedono che la “crisi climatica e naturale” venga dichiarata “emergenza sanitaria” perché le conseguenze della crisi climatica e la perdita di biodiversità devono essere combattute in modo concertato.

In realtà dietro c’è qualcosa di completamente diverso.

Il rapporto è andato quasi perduto alla luce delle questioni attuali, ma il suo impatto difficilmente può essere sopravvalutato.

In un appello coordinato, gli scienziati di oltre 200 riviste specializzate internazionali hanno chiesto che la “crisi climatica” venga riconosciuta come “emergenza sanitaria”.

 Il motivo è che le conseguenze della crisi climatica e della perdita di biodiversità rappresentano una minaccia anche per la salute, motivo per cui dobbiamo concentrarci sulla lotta a questi problemi.

L’affermazione contiene una frase molto sensibile che è quasi persa nell’affermazione (il corsivo è dell’autore Thomas Röper):

 “Chiediamo pertanto all’OMS di fare questa dichiarazione prima o durante la 77a Assemblea sanitaria dell’OMS nel maggio 2024”.

Alla 77esima Assemblea sanitaria dell’OMS nel maggio 2024, l’OMS intende adottare il previsto trattato pandemico dell’OMS e le modifiche al regolamento sanitario internazionale che, secondo i critici del piano, renderebbero effettivamente l’OMS un governo mondiale.

La ragione di ciò è che dopo l’adozione delle modifiche, l’OMS potrebbe dichiarare un’emergenza sanitaria globale e avrebbe quindi un potere molto ampio per impartire istruzioni agli Stati membri.

Se la proposta che è stata avanzata venisse accettata, l’OMS potrebbe dichiarare un’emergenza sanitaria globale dovuta alla crisi climatica e alla perdita di biodiversità, acquisendo così il diritto di emanare direttive di ampia portata agli Stati membri dell’OMS, il che esautorerebbe i parlamenti degli Stati e abolirebbe di fatto la loro sovranità. L’OMS sarebbe quindi una sorta di governo mondiale.

Dato che sembra abbastanza assurdo, lo spiegherò più in dettaglio.

Il RSI e il Trattato sulle pandemie.

Il Regolamento sanitario internazionale (RSI), entrato in vigore nel 1971, è una normativa vincolante dell’OMS ai sensi del diritto internazionale per prevenire e combattere la diffusione transfrontaliera delle malattie.

 È stato modificato e ampliato più volte.

Più recentemente, sono stati modificati nel 2005 a causa della crescente globalizzazione e della diffusione internazionale di malattie infettive come la SARS. Il RSI 2005 è stato recepito nel diritto tedesco nel 2013 attraverso la legge di attuazione dell’IGV.

La Germania si è quindi impegnata, ai sensi del diritto internazionale, ad attuare le misure raccomandate dall’OMS non appena dichiarerà una cosiddetta “emergenza sanitaria di rilevanza internazionale”.

La decisione se un simile evento si sia verificato spetta al Direttore Generale dell’OMS dopo aver consultato i suoi “esperti”.

Presto, anche se la crisi climatica e la perdita di biodiversità venissero classificate come “emergenza sanitaria”, potrebbe dichiarare l’emergenza molto rapidamente.

Il previsto trattato pandemico dell’OMS, che ha suscitato grande opposizione tra i critici dell’OMS perché conferirebbe all’OMS poteri molto ampi, dovrà ancora essere ratificato dai parlamenti degli Stati membri se verrà adottato in occasione della 77a Assemblea dell’OMS sulla salute nel maggio 2024, operazione che di solito può richiedere anni.

Ciò non si applica tuttavia alle modifiche al RSI, poiché la loro attuazione è già stata recepita nel diritto nazionale dagli Stati membri.

Una volta adottato dall’Assemblea sanitaria dell’OMS, l’RSI modificato entrerebbe quindi automaticamente in vigore come “soft law” per ciascun Paese membro.

Per la sua adozione è sufficiente la maggioranza semplice degli Stati membri dell’OMS.

Secondo questo, se un Paese membro dell’OMS non volesse accettare questi cambiamenti, dovrebbe respingere esplicitamente le modifiche all’RSI entro dieci mesi dalla riunione dell’OMS del maggio 2024, altrimenti verrebbero automaticamente integrate nel diritto nazionale.

Il pericolo per la sovranità degli Stati deriva soprattutto dalle modifiche all’RSI, perché potrebbero essere adottate con la maggioranza semplice degli Stati membri dell’OMS ed entrerebbero in vigore quasi immediatamente.

Il trattato sulla pandemia, invece, dovrebbe essere approvato con una maggioranza di due terzi e poi ratificato dagli Stati membri dell’OMS.

La critica alle misure previste dall’OMS riguarda esclusivamente il trattato sulla pandemia, mentre non si parla quasi dell’RSI.

Ciò distoglie il focus della discussione dal pericolo reale e le modifiche al RSI potrebbero passare quasi inosservate mentre tutti discutono del trattato sulla pandemia.

L’RSI.

Dal momento che il direttore generale dell’OMS e una piccola commissione di esperti dell’OMS decidono se e quando si verifica un’emergenza sanitaria internazionale o addirittura regionale, che costringerebbe gli Stati membri ad attuare le misure raccomandate dall’OMS, i critici sostengono che ciò minerebbe la sovranità degli Stati membri dell’OMS e minano così anche la democrazia.

 Inoltre bisogna mettere in discussione la composizione della commissione, perché ci sono lobbisti di ONG occidentali e aziende farmaceutiche che guadagnano miliardi da una pandemia, come ha dimostrato il Covid-19.

Questi non sono esperti neutrali impegnati solo nella salute globale.

I singoli Stati membri non hanno voce in capitolo nella decisione di dichiarare una pandemia.

 E altrettanto poco avrebbero voce in capitolo sulle contromisure da adottare dopo l’adozione del RSI e del trattato sulle pandemie.

Ciò è stato spiegato dall’avvocato d’affari italiano “Dr. Renate Holzeisen”, critica delle riforme dell’OMS:

“Nel nuovo articolo 12 del RSI è prevista l’estensione del meccanismo di emergenza internazionale alle sole presunte emergenze regionali, che possono essere stabilite dal Segretario Generale dell’OMS di propria autorità, senza che le autorità e il governo di quel Paese possano ancora prendere una decisione in merito a propria discrezione.

 Questo è l’impianto definitivo del meccanismo di auto potenziamento dell’OMS. Non ci sarà più un’autorità di controllo indipendente.

In futuro, l’OMS potrà dichiarare lo stato di pandemia ancora più facilmente e costringere gli Stati membri a un regime di emergenza per un periodo ancora più lungo di prima – o in modo permanente”.

In totale sono previste oltre 300 modifiche al RSI.

In sintesi, gli avvocati hanno descritto i tre punti chiave nel febbraio 2023 come segue:

 

Ampliamento delle situazioni che costituiscono una PHEIC (PHEIC significa Emergenza Sanitaria Pubblica di Interesse Internazionale)

Concessione di poteri all’OMS e alla sua Direzione Generale per l’Emergenza Sanitaria Legislativa Globale.

Ampliare la portata dei poteri esecutivi di emergenza dell’OMS.

Se a questo si aggiunge il fatto che, secondo gli scienziati che hanno appena pubblicato l’appello in oltre 200 riviste scientifiche, l’OMS può anche usare la crisi climatica come pretesto per dichiarare un’emergenza sanitaria, allora diventa chiaro che si sta cercando un modo per istituire l’OMS come una sorta di governo mondiale.

 Dopo tutto, potrebbe dichiarare un’emergenza sanitaria senza che esista una malattia e dire agli Stati cosa fare in molti settori.

L’OMS.

Chiunque pensi che l’OMS sia un’organizzazione neutrale e obiettiva, impegnata solo nell’assistenza sanitaria, si sbaglia.

 Negli ultimi anni l’OMS è stata “dirottata” dagli oligarchi occidentali, perché anche per l’OMS vale il detto: chi paga, ordina la musica.

L’OMS dispone di un budget annuale di oltre sei miliardi di dollari, anche se negli ultimi anni è cresciuto notevolmente, visto che nel 2015 era ancora intorno ai quattro miliardi.

 Secondo i dati pubblicati dall’OMS, gli Stati Uniti sono il principale donatore dell’OMS, rappresentando il 15% del budget, ovvero 624 milioni di dollari.

La Fondazione Bill e Melinda Gates segue al secondo posto con quasi l’11% o 431 milioni di dollari.

Il terzo maggiore donatore dell’OMS è GAVI, l’alleanza per i vaccini controllata anche da Bill Gates, che trasferisce 316,5 milioni di dollari all’OMS, ovvero quasi l’8% del budget dell’OMS.

Ciò rende Gates il più grande finanziatore dell’OMS, poiché contribuisce con quasi il 19% al budget dell’OMS e quindi ha voce in capitolo nelle decisioni dell’OMS.

Dalla sua fondazione, la Fondazione Bill e Melinda Gates ha trasferito quasi 3,4 miliardi di dollari all’OMS.

 A ciò si aggiungono i suoi pagamenti indiretti, ad esempio tramite GAVI. L’influenza di Gates e di altri donatori occidentali sull’OMS è altrettanto grande, come ho mostrato in dettaglio nel mio libro “Inside Corona”.

Quando si tratta di combattere le malattie nei paesi poveri, l’OMS approva solo i medicinali delle aziende farmaceutiche occidentali, che ovviamente sono molto più costosi dei medicinali equivalenti provenienti, ad esempio, dall’India.

Abbiamo visto la stessa cosa con il Covid, quando l’OMS ha approvato quasi esclusivamente vaccini occidentali per il suo programma di vaccinazione COVAX, dal quale Bill Gates, in quanto azionista dei produttori, ha guadagnato miliardi.

 I suoi versamenti all’OMS non sono donazioni generose, ma piuttosto investimenti molto redditizi.

Il potere di Bill Gates nell’OMS.

Voglio usare un esempio casuale, nemmeno una somma di denaro molto elevata, per mostrare come Bill Gates esercita il suo potere nell’OMS.

Anche la sua Bill and Melinda Gates Foundation (BMGF) ha partecipazioni in aziende che guadagnano da test e sistemi diagnostici.

 Come è noto, si trattava di una licenza per stampare moneta durante la pandemia di Covid.

All’inizio di settembre 2020, la BMGF ha investito nelle società “Abbott e “Biosensor ,” ciascuna delle quali aveva immesso sul mercato un test rapido Covid-19.

E come vuole una “coincidenza”, il 28 settembre 2020 l’OMS ha annunciato un programma che ha fornito molti soldi per rendere disponibili i test rapidi Covid-19 ai paesi più poveri del mondo.

C’erano dozzine di produttori di test rapidi in tutto il mondo, ma puoi indovinare velocemente chi sono stati i fortunati a ricevere il grosso ordine dall’OMS.

L’OMS ha scritto : “Gli accordi tra la Bill & Melinda Gates Foundation e i produttori di test Abbott e SD Biosensor rendono disponibili test innovativi ai paesi a basso e medio reddito ad un costo di 5 dollari o meno”.

Il denaro proviene dal programma COVID-19 Tools (ACT) Accelerator, finanziato dall’UE.

 Il progetto dell’OMS prevedeva circa 120 milioni di test a cinque dollari ciascuno, quindi “Abbott” e “Biosensor “avrebbero dovuto ottenere dall’OMS circa 600 milioni di dollari.

E Bill Gates, che ha un’enorme influenza sulle decisioni dell’OMS, è stato coinvolto per puro caso nei due produttori di test rapidi subito prima che l’OMS effettuasse l’importante ordine. Strane coincidenze…

Questo era solo un esempio casuale di come Bill Gates e altri donatori dell’OMS guadagnano.

La preparazione.

Bisogna capirlo guardando l’attuale rapporto secondo cui il cambiamento climatico dovrebbe ora essere responsabilità anche dell’OMS, perché le aziende e le fondazioni occidentali hanno da tempo preso il potere nell’OMS.

Dal 15 al 17 ottobre 2023, il “World Health Summit 2023”, durato tre giorni,  ha riunito i massimi rappresentanti dell’industria farmaceutica globale per discutere di “Un anno cruciale per l’azione sanitaria globale”.

I media non ne hanno parlato, anche se la strategia mediatica nel “decisivo riallineamento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità” è stata uno dei temi centrali della conferenza.

Tra i relatori figurano oltre ai direttori di testate specializzate come “The Lancet” anche rappresentanti di “Google” e “YouTube”, che al “World Health Summit” hanno presentato le loro nuove strategie mediatiche per la salute.

Ricordiamo tutti come, durante la pandemia, queste società Internet abbiano censurato tutte le opinioni critiche nei confronti delle misure.

Per inciso, tra i relatori c’erano solo pochi rappresentanti degli Stati, mentre alla conferenza erano presenti in gran parte ONG occidentali, fondazioni e aziende.

Nel periodo precedente al vertice, al presidente del vertice mondiale sulla sanità, “Axel R. Piers”, è stato chiesto in che modo il vertice sulla salute avrebbe contribuito a risolvere vari problemi che vanno dal “cambiamento climatico” alle “minacce alla democrazia”.

Dalla sua risposta era chiaro che l’OMS sembra essere in procinto di portare tutte le questioni politiche ed economiche globali sotto la sua giurisdizione e di adattare di conseguenza la sua nuova agenda.

 La nuova agenda sarà poi attuata dai partner di cooperazione appena istituiti.

“Piers” ha detto:

 “Il vertice mondiale sulla salute riunisce le parti interessate e i decisori di tutti i settori rilevanti della politica, della scienza, del settore privato e della società civile in un’atmosfera amichevole. Ciò stimola la ricerca di nuovi approcci alle sfide future e crea nuove alleanze per la loro attuazione”.

E queste alleanze sono difficili, come mostrano alcuni esempi.

 

Le “alleanze” e i progetti.

Nel marzo 2023 il portale austriaco “tkp” ha analizzato la versione allora attuale del contratto pandemico.

Si è parlato anche di malattie che possono trasmettersi dagli animali all’uomo, scusa che è stata usata come pretesto per conferire all’OMS sempre più poteri nell’ambito del trattato pandemico.

Tra le altre cose, si tratta anche di controllo sul cibo e sull’agricoltura.

In primo luogo, l’OMS dovrebbe acquisire il controllo sull’industria del pollame, afferma il rapporto “tkp”.

Il pollame negli Stati contraenti dell’OMS dovrebbe essere controllato, monitorato e vaccinato in modo uniforme in tutto il mondo.

 Il nuovo trattato sulla pandemia stabilirebbe che la maggior parte delle malattie infettive nell’uomo sono causate dalla trasmissione del virus dagli animali.

Firmando l’accordo, un Paese riconosce che “la maggior parte delle malattie infettive emergenti hanno origine negli animali, compresi quelli selvatici e domestici, e poi si diffondono all’uomo”, cita il portale dalla bozza del trattato pandemico dell’OMS.

Di conseguenza, le parti contraenti devono impegnarsi lealmente verso un “approccio One Health”, il cui ambito comprende la salute delle persone, degli animali e degli ecosistemi.

“One Health” è un argomento a parte perché è ancora una volta un progetto finanziato e controllato dalle società statunitensi.

Entrare in questo ambito è eccessivo, ma si tratta anche di un progetto controllato dall’industria farmaceutica statunitense e da alcuni miliardari statunitensi, al quale devono sottomettersi gli Stati che firmano il trattato sulla pandemia.

Nell’aprile 2023 la Banca Mondiale ha lanciato un fondo di preparazione alla pandemia da 10 miliardi di dollari, apparentemente destinato a preparare economicamente gli stati alla prossima pandemia.

 I media non ne hanno parlato quasi mai, anche se i soldi di questo fondo finiranno probabilmente per tornare a coloro che hanno tratto profitto dall’ultima pandemia (produttori occidentali di vaccini, test, ecc.).

L’evento è stato annunciato dal segretario generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), “Ngozi Okonjo-Iweala”, su Twitter:

“Oggi la Banca Mondiale ha lanciato il fondo di preparazione alla pandemia da 10 miliardi di dollari sostenuto dal G20 e da TheInd Panel. In qualità di co-presidente del comitato di alto livello sul finanziamento della preparazione alla pandemia che ha raccomandato questo fondo, è un piacere vederlo nascere.

Capitalizziamo il fondo!”

Che il denaro finisca di nuovo a Bill Gates e ad altri oligarchi statunitensi non sarebbe una sorpresa, perché “Ngozi Okonjo-Iweala”, segretario generale dell’”Organizzazione mondiale del commercio”, dal 2015 è anche presidente del consiglio di amministrazione della lobby delle vaccinazioni GAVI, fondata da Gates e da lui controllata.

Nel maggio 2023, anche la “Fondazione Rockefeller”, inosservata dai media, ha stretto un’alleanza con l’OMS, come ha scritto in un comunicato stampa.

Ancora una volta, si trattava principalmente di pandemie, ma anche il cambiamento climatico non poteva essere lasciato fuori, come scrisse Rockefeller:

“Il cambiamento climatico aumenta sia il rischio di un’altra pandemia globale sia la necessità di collaborare e condividere dati”, ha affermato il “Dott. Rajiv Shah”, presidente della “Fondazione Rockefeller”.

“Fortunatamente, il “Pandemic Hub” dell’OMS ci sta già rendendo più intelligenti e sicuri aiutandoci a monitorare le minacce, trovare soluzioni e connettere paesi e continenti.

Siamo orgogliosi di lavorare con l’Hub per ampliare la sua attenzione sulla prevenzione delle pandemie causate dai cambiamenti climatici”.

Per combattere la presunta “disinformazione”, l’OMS ha concordato diverse collaborazioni.

 Secondo il trattato sulla pandemia, gli Stati membri devono spiare i social media. Per la gestione dell’“infodemia”, Google sta preparando un programma di censura sui temi sanitari.

 Nel “Progetto Mercury”, anch’esso fondato da Rockefeller e controllato e finanziato da Rockefeller, viene valutata e ulteriormente sviluppata l’accettazione delle misure da parte di diversi gruppi di popolazione.

L’elenco delle “alleanze” e dei progetti che le menti dietro l’OMS, ovvero le multinazionali e gli oligarchi statunitensi, stanno pianificando non è affatto completo.

 Ma ciò dimostra che le modifiche previste all’RSI e l’introduzione del trattato sulla pandemia sono un progetto perfettamente pianificato con dietro molto più di quanto sembri a prima vista.

L’appello ora pubblicato in 200 riviste specializzate a porre il cambiamento climatico sotto l’autorità dell’OMS non sorprende se si vede che gli oligarchi statunitensi si stanno preparando da mesi per rendere il cambiamento climatico una questione dell’OMS.

La “lotta contro il cambiamento climatico”.

Ciò che viene venduto al pubblico come una presunta lotta al cambiamento climatico è soprattutto una cosa: un gigantesco modello di business.

Questo è ovvio, perché le aziende guadagnano denaro da tutto ciò che viene fatto nel corso della presunta lotta contro il cambiamento climatico.

Se le case hanno bisogno di essere meglio isolate, le aziende producono i materiali necessari.

 Se si promuovono le auto elettriche e le stazioni di ricarica, i produttori ci guadagnano.

 Quando vengono installate le turbine eoliche, i loro produttori guadagnano denaro.

Quando si tratta di somme in gioco, non parliamo di miliardi, ma piuttosto di trilioni di dollari.

Bill Gates ha capito da tempo che si possono guadagnare molti soldi nella “lotta contro il cambiamento climatico”, ed è per questo che ha fondato nel 2015 – insieme ad altri miliardari (tra cui Jeff Bezos, Mike Bloomberg, Richard Branson, George Soros e Mark Zuckerberg) – il fondo di investimento “Breakthrough Energy”.

Il fondo investe nelle aziende che traggono grandi guadagni dal cambiamento climatico.

Bill Gates e i suoi amici sono pronti a convogliare i fondi del “Green Deal dell’UE” verso le aziende in cui hanno investito direttamente o tramite “Breakthrough Energy”.

Quando il presidente degli Stati Uniti Biden ha annunciato dopo la sua elezione il suo programma infrastrutturale da 1,2 trilioni di dollari, dove la protezione del clima dovrebbe svolgere un ruolo importante, Gates ha annunciato che ne avrebbe donato un miliardo.

Questo gli ha procurato una buona risonanza ed era uno stratagemma di pubbliche relazioni.

 Bill Gates è coinvolto, tra l’altro, attraverso “Breakthrough Energy” nelle aziende che poi ottengono gli ordini e con l’investimento simbolico di un miliardo, Gates si è assicurato l’accesso agli oltre 1.000 miliardi che Biden vuole immettere nel programma.

Anche Bill Gates non ha lasciato nulla al caso quando ha fondato “Breakthrough Energy”, fondandola nello stesso evento in cui il presidente Obama ha annunciato la “Missione Innovazione” in cui molti paesi occidentali si sono uniti per raccogliere fondi da destinare alla lotta contro il cambiamento climatico.

Non c’è stato nemmeno un tentativo di nascondere il fatto che “Mission Innovation” e “Breakthrough Energy” vanno di pari passo e che il cambiamento climatico è solo una scusa per incanalare trilioni di denaro pubblico a Gates e ai suoi colleghi da spendere nella cosiddetta lotta contro il cambiamento climatico. La lotta al cambiamento climatico è un modello di business, non riguarda il clima.

Bill Gates si è già assicurato i soldi dell’UE che Ursula von der Leyen vuole spendere per il suo “Green Deal” questo decennio.

Parliamo di un trilione di euro.

Von der Leyen e Gates stessi lo dicono con orgoglio, perché è stata annunciata una partnership tra il “Green Deal” dell’UE e il fondo di investimento “Breakthrough Energy” e von der Leyen e Gates hanno pubblicato insieme un simpatico video promozionale.

Il ruolo centrale dell’OMS.

L’OMS è stata silenziosamente trasformata in uno strumento molto potente da Gates e altri oligarchi statunitensi.

Attraverso il Regolamento sanitario internazionale, l’OMS è probabilmente l’unica organizzazione internazionale che ha il diritto di dire agli Stati membri cosa devono attuare non appena l’OMS dichiara una “emergenza sanitaria pubblica”.

Poi l’OMS decide molto, compreso il controllo dei giganteschi flussi di denaro che finiscono nelle tasche degli oligarchi statunitensi.

Il Covid-19 lo ha dimostrato in modo impressionante.

In questo contesto diventa chiaro quale sia lo scopo delle modifiche al RSI e al contratto pandemico.

Il fatto che il cambiamento climatico debba ora essere trasferito all’autorità dell’OMS è una mossa intelligente che amplierà enormemente il potere dell’OMS, o meglio, dei suoi sostenitori.

Ma difficilmente ci si può aspettare una protesta pubblica perché, in primo luogo, quasi nessuno sa tutto questo, e in secondo luogo, l’opinione pubblica mondiale è distratta dalle guerre in Ucraina e in Medio Oriente.

Resta da sperare che la maggior parte degli stati globali capisca questo trucco e lo respinga nel prossimo incontro dell’OMS nel 2024.

Altrimenti, l’OMS otterrà la “legge di abilitazione” definitiva e diventerà di fatto una sorta di “governo mondiale” una volta dichiarata un’emergenza sanitaria pubblica.

(Articolo tradotto da Alessia C. F.) 

(anti-spiegel.ru/2023/die-who-soll-die-klimakrise-als-gesundheitsnotstand-anerkennen/)

RIFLESSIONE DI ALESSIA C. F.

Scolpitevi a memoria la frase:

“Ma difficilmente ci si può aspettare una protesta pubblica perché, in primo luogo, quasi nessuno sa tutto questo, e in secondo luogo, l’opinione pubblica mondiale è distratta dalle guerre in Ucraina e in Medio Oriente.”

Stiamo vivendo tempi interessanti, e siamo molto presi da questo periodo di guerre, ma le guerre distraggono la massa, permette ai poteri forti di apportare modifiche importanti da cui poi non si torna più indietro.

Sicuramente queste guerre in corso sono un riposizionamento geopolitico e indicano un mondo in profonda evoluzione, ma i veri centri del potere INDISTURBATI continuano rapidamente con la loro agenda.

Con le guerre in corso l’agenda del “NWO” corre veloce e nessuno la vede, voi seguite appassionati le guerre, ma è altrove che dovete porre maggiore attenzione.

Queste guerre stanno distraendo l’opinione pubblica dai veri grandi problemi, perché nel frattempo l’OMS tra poco riuscirà a diventare un governo mondiale, a nostra insaputa perché ci siamo occupati di altro e non delle cose vere molto pericolose e subdole che non vediamo.

Smettetela cari utenti di porre troppa enfasi su elezioni americane e le tante guerre in atto e le altre che verranno, siete miopi.

Poniamo troppo focus sulle cose che suscitano emozioni immediata, nel mentre non vediamo le strutture nuove che controlleranno tutti e tutto.

È così che ci stanno fottendo.

Provo a spiegarlo in modo diverso e mio marito Paul ha colto l’essenza formulando il pensiero in modo molto ironico.

 Si parlava dopo cena del fatto che tutti mi assillano con il fatto che prevedibili guerre preannunciate sfociano in stra- prevedibili dinamiche note.

Ragazzi” in tempi di guerra le dinamiche sono stra ovvie, dopo mille riflessioni sulla geopolitica si è poi tornati a chiederci:

ma cosa stanno nascondendo e stanno facendo mentre ci tengono occupati con guerre vere guerreggiate?

E mio marito Paul come sempre ha ragione, stanno girando pericolosi cetrioli.

<<Meine liebe Alessia quello che vediamo è il famoso cetriolo di Schrödinger, pensi che il cetriolo si trovi nel culo altrui, ma quando vai a verificare si trova nel tuo culo…>> e Paul si riferiva non solo alla guerra, alla geopolitica, al mondo orwelliano in cui stiamo sprofondando, ma maggiormente perché non vediamo cose molto pericolose e non siamo in grado di affrontarle, discuterne e fermarle perché siamo distratti ad arte a seguire altri piani.

E come dice mio marito Paul, buon Cetriolo di Schrödinger a tutti!

 

 

 

 

Politiche Internazionali Green:

dall’Agenda 2030 al Green Deal europeo.

 

Symbola.net – (16-2-2022) -Redazione – Marco Frey – ci dice:

 

Dall'Agenda 2030 al Green Deal europeo: il cambiamento climatico è entrato in maniera dirompente su tutti gli scenari internazionali.

Agenda 2030.

Realizzato in collaborazione con Marco Frey.

(Presidente del Comitato scientifico di Symbola. 

Professore ordinario di Economia e gestione delle imprese, direttore del gruppo di ricerca sulla sostenibilità (SuM) della Scuola Universitaria Superiore Sant'Anna di Pisa; docente allo IUSS di Pavia e all’Università Cattolica di Milano; presidente della Fondazione Global Compact Italia).

 

Questo contributo fa parte del decimo rapporto Green Italy, realizzato da Fondazione Symbola e Unioncamere, in collaborazione con CONAI, Novamont e Ecopneus.

 

Il quadro globale e l’Agenda 2030.

É ormai trascorso un terzo del quindicennio che – da quel 25 settembre 2015 in cui le Nazioni Unite hanno approvato l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile – ci conduce al 2030, e non si può che evidenziare la lunga distanza ancora da percorrere nei confronti del 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs).

il Rapporto ONU sulla sostenibilità del 2019 ha evidenziato che, nonostante i progressi conseguiti in molteplici aree, vi è oggi la necessità di azioni e politiche più rapide e ambiziose per realizzare la trasformazione economica e sociale necessaria al raggiungimento degli “SDGs”.

A richiedere interventi più urgenti sono soprattutto la lotta contro il cambiamento climatico e alle disuguaglianze: nel primo caso, gli effetti catastrofici e irreversibili che si verificheranno – e in parte già si manifestano – in assenza di una riduzione delle emissioni di gas serra renderanno inabitabili molte parti del mondo, colpendo in particolar modo i Paesi e le persone più vulnerabili; d'altra parte, le diseguaglianze, la povertà, la fame e le malattie sono in crescita in numerosi Paesi.

A tal fine, il Rapporto evidenzia alcune linee strategiche che possono determinare progressi significativi, quali, ad esempio, lo sviluppo della finanza sostenibile, l'ammodernamento delle istituzioni, un'efficace cooperazione internazionale nella prospettiva multilaterale, un miglior uso dei dati statistici e la valorizzazione della scienza, della tecnologia e dell'innovazione, con una maggior attenzione alla trasformazione digitale.

Più recentemente nella relazione “Progress towards the Sustainable Development Goals” il segretario generale dell’ONU “Guterres” ha ribadito l'urgenza di aumentare drasticamente il ritmo e la portata degli sforzi da compiere nel prossimo decennio per realizzare gli SDGs.

Se fino al 2019 i Goal 1 (sconfiggere la povertà), 3 (salute e benessere), 7 (energia pulita e accessibile) hanno fatto registrare progressi importanti, molti Goal non hanno evidenziato miglioramenti e alcuni hanno persino invertito la rotta: cresce il numero di persone che soffrono la fame (Goal 2); il cambiamento climatico si sta verificando con ritmi più veloci del previsto (Goal 13) e crescono le disuguaglianze all'interno dei Paesi (Goal 10).

Desta poi particolare preoccupazione l’impatto della pandemia da Covid-19.

 Pur iniziando come una emergenza sanitaria, quella scatenata dal coronavirus è diventata la peggiore crisi sociale ed economica dal dopoguerra in poi.

In occasione della presentazione del Rapporto 2020 sullo “Human Development” “Achim Steiner”, Direttore dell’UNDP ha dichiarato che “la distruzione ha assunto proporzioni su scala mondiale e in modo sincronizzato senza precedenti tanto da dovere aggiornare l’indice di sviluppo umano che per la prima volta da 30 anni sta regredendo e dobbiamo ripensare ai nostri modelli economici e sociali.

Ogni crisi porta con sé una opportunità che i leader globali devono cogliere”. L’indice di sviluppo umano, che è un indicatore composito costituito da variabili economiche (come il PIL pro capite) e sociali (quali il livello educativo e della salute) non era decresciuto a livello globale neanche negli anni della crisi finanziaria del 2008.

Nel 2020 è viceversa prevista una decrescita consistente per l’azione congiunta di tutti i parametri che lo compongono.

Tornando all’Agenda 2030, gli obiettivi più a carattere economico: l’8, il 9, l’11 e il 12, hanno subito una battuta di arresto, dopo che nei Paesi occidentali avevano visto una fase di graduale miglioramento.

Gli obiettivi più ambientali presentano dati altalenanti.

Il Goal 14 (vita sott’acqua), nonostante il raddoppio delle aree marine protette rispetto al 2010, registra un aumento dell'acidità degli oceani del 10-30% rispetto al periodo 2015-2019.

La percentuale di   aree forestali (SDG 15) è scesa dal 31,9% della superficie totale nel 2000 al 31,2% nel 2020, con una perdita netta di quasi 100 milioni di ettari di foreste.

 Le aree protette non sono concentrate in contesti fondamentali per la biodiversità e le specie rimangono minacciate di estinzione.

Infine il Goal 16 evidenzia che milioni di persone sono state private della loro sicurezza, dei diritti umani e dall’accesso alla giustizia.

Nel 2018, il numero di persone in fuga da guerre, persecuzioni e conflitti ha superato i 70 milioni, il livello più alto registrato dall'UNHCR in quasi 70 anni.

 A ciò si è aggiunta la pandemia da Covid-19, che può portare ad un aumento dei disordini sociali che minerebbe la capacità di raggiungere i target fissati.

Il quadro mondiale si presenta quindi come particolarmente critico e sino alla fine della pandemia non sarà facile comprendere quali saranno i tempi e le condizioni per recuperare il terremo perso nel perseguimento degli obiettivi dell’Agenda 2030, che continua a rappresentare a livello globale il riferimento principale per orientare la ripartenza in modo sostenibile, valorizzando gli ambiti essenziale per la transizione verso uno sviluppo economico e sociale più resiliente, inclusivo e in armonia con la natura.

Le rilevanti ricadute socio-economiche della crisi in corso hanno fatto sì che i principali sforzi dei diversi Paesi si siano concentrati sull’emergenza occupazione e sociale, spesso trascurando gli investimenti più di lungo periodo in una prospettiva green.

L’Unione Europea (UE), grazie anche alla spinta della nuova presidenza costituisce un esempio di maggiore lungimiranza ed è stata capace negli ultimi mesi di mantenere una forte coerenza con le linee strategiche definite con il Green Deal alla fine del 2019.

Sono numerosi e significativi i documenti strategici e di pianificazioni realizzati o in programma nel prossimo biennio che articolano questa visione strategica e che descriveremo sinteticamente nelle prossime pagine.

La nostra convinzione infatti è che l’UE stia in questo momento provando a fare un importante salto di qualità nella transizione verso la sostenibilità, facendo leva sull’eccezionale sforzo di investimento che la ripresa post-pandemica richiede.

Questa transizione si articola in diverse dimensioni che vedono il pilastro ambientale della sostenibilità al centro delle interazioni con l’economia e con il pilastro sociale:

la transizione verso la decarbonizzazione (SDG13 dell’Agenda 2030), verso l’economia circolare (SDG12), la transizione alimentare (SDG2), quella verso un diverso rapporto con la natura ed ecosistemi più resilienti (SDG 14 e 15), verso un sistema economico, produttivo ed abitativo ad inquinamento zero (SDG8 e SDG 11), la transizione energetica e infrastrutturale orientata alla rinnovabilità e sostenibilità (SDG7 e SDG 9).

 Tutto ciò con le connesse ricadute sociali ed economiche che coinvolgono tutti gli altri obiettivi dell’Agenda 2030.

L’Europa al centro delle politiche Green.

L’Europa ha iniziato il 2019 con uno degli ultimi atti della “Presidenza Junker” che ha presentato il 30 gennaio il documento “Verso un’Europa sostenibile entro il 2030”, in cui si misura proprio con l’Agenda 2030.

In tal documento si evidenzia come gli SDGs grazie alla loro universalità hanno la potenzialità di risolvere le spinte sociali disgregative sia all’interno che all’esterno dell’Unione e inducono “a lavorare in un’ottica internazionale, incitando i paesi, l’industria e le persone a unirsi in questa missione”.

La capacità di visione sistemica crea le condizioni per costruire la convergenza delle politiche sociali, ambientali ed economiche, in quanto “La crescita ‘verde’ avvantaggia tutti, i produttori come i consumatori”.

E ciò si deve realizzare nel quadro della coerenza delle politiche interne ed esterne. “Dobbiamo fare in modo di non esportare la nostra impronta ecologica o creare povertà, disuguaglianze e instabilità in altre parti del mondo.

In quanto europei siamo del tutto consapevoli che gli impatti negativi che si manifestano altrove avranno a loro volta un effetto boomerang per la nostra economia e la nostra società”.

A ciò seguiva la considerazione che una leadership europea nella transizione verso un’economia verde e inclusiva, dando un forte impulso alla definizione di regole internazionali è necessaria per conseguire un forte vantaggio competitivo sul mercato globale.

Fin qui le dichiarazioni di principio, è poi spettato alla nuova presidente della Commissione Europea (CE), “Ursula Von del Leyen”, dare un reale impulso strategico a questi orientamenti generali, segnando l’inizio del suo mandato con la presentazione l’11 dicembre del Green New Deal.

Al momento della presentazione le sue dichiarazioni furono:

 “Il Green Deal europeo è la nostra nuova strategia di crescita, per restituire più di quanto togliamo, trasformando il nostro modo di vivere e lavorare, di produrre e consumare… Tutti possiamo essere coinvolti nella transizione e tutti possiamo trarre vantaggio dalle opportunità. Aiuteremo la nostra economia a essere un leader globale muovendoci per primi e velocemente.

Siamo determinati ad avere successo per il bene di questo pianeta e della vita su di esso - per il patrimonio naturale dell'Europa, per la biodiversità, per le nostre foreste e per i nostri mari. Mostrando al resto del mondo come essere sostenibili e competitivi, possiamo convincere altri paesi muoversi con noi".

Con il Green Deal infatti la Ce si propone di posizionare l’UE come leader mondiale, anche attraverso un “Patto per il Clima” che sarà presentato nel corso del 2020, e si articola in 8 obiettivi, il primo dei quali riguarda ancora una volta il clima.

 Questi obiettivi li approfondiremo successivamente uno per uno, salvo quelli più connessi all’energia che considereremo congiuntamente, in quanto verranno sviluppati nel capitolo successivo.

 

 Gli obiettivi sono supportati da cinque misure trasversali:

Perseguire i finanziamenti e gli investimenti verdi, garantendo una transizione giusta, con un piano di investimenti per un’Europa sostenibile che comprenda:

un meccanismo e un Fondo per una transizione giusta, concentrato sulle regioni e sui settori più dipendenti dalle fonti fossili;

una strategia rinnovata in materia di finanza sostenibile per indirizzare i flussi finanziari e di capitale privato verso gli investimenti verdi ed evitare gli attivi non recuperabili.

 E trasformando la BEI nella nuova banca dell’UE per il clima, prevedendo che il 50% delle sue operazioni siano dedicate all’azione per il clima entro il 2025;

“Inverdire” i bilanci nazionali e inviare i giusti segnali di prezzo, riorientando gli investimenti pubblici, i consumi e la tassazione verso le priorità verdi, abbandonando le sovvenzioni dannose, definendo con gli stati membri riforme fiscali ben concepite che possano stimolare la crescita economica, migliorare la resilienza agli shock climatici, contribuire a una società più equa e sostenere una transizione giusta;

Stimolare la ricerca e l’innovazione attraverso Horizon Europe e altre azioni sinergiche a livello europeo e degli Stati membri, coinvolgendo un’ampia gamma di portatori d’interessi tra cui regioni, cittadini, imprese, chiamando

  in causa tutti i settori e le discipline in un impegno di sistema;

Fare leva sull’istruzione e la formazione, definendo un quadro europeo delle competenze che aiuti a coltivare conoscenze, abilità e attitudini connesse ai cambiamenti climatici e allo sviluppo sostenibile, utilizzando e aggiornando strumenti quali il “Fondo sociale europeo Plus”, l’agenda per le competenze e la garanzia per i giovani;

valutare preventivamente gl’impatti ambientali, utilizzando gli strumenti di cui la Commissione dispone per legiferare meglio basandosi sulle consultazioni pubbliche, sulle previsioni degli effetti ambientali, sociali ed economici, includendo nelle relazioni che accompagnano tutte le proposte legislative e gli atti delegati una sezione specifica che illustra come viene garantito il rispetto di tale principio.

Il 14 gennaio 2020 è stato quindi presentato il “Piano di investimenti connesso al Green Deal”, finalizzato oltre che alla messa in campo diretta di risorse comunitarie, nella creazione di un quadro favorevole per facilitare gli investimenti pubblici e privati necessari per la transizione verso un'economia climaticamente neutrale, verde, competitiva e inclusiva.

Il Piano si basa su tre dimensioni:

Finanziamento: mobilitare almeno 1.000 miliardi di euro di investimenti sostenibili nel prossimo decennio, attribuendo un ruolo chiave alla “Banca Europea per gli Investimenti” che aumenterà la quota che riservata ai progetti sostenibili dal 25 al 50%.

Nel complesso la CE ha previsto di destinare circa un quarto del nuovo budget pluriennale a progetti sostenibili.

Abilitazione: fornire incentivi per sbloccare e reindirizzare gli investimenti pubblici e privati, mettendo la finanza sostenibile al centro del sistema finanziario e facilitando gli investimenti sostenibili da parte delle autorità pubbliche.

Supporto: la Commissione fornirà supporto alle autorità pubbliche e ai promotori di progetti nella pianificazione, ideazione e realizzazione di progetti sostenibili.

Al tempo stesso è stato introdotto il meccanismo per una transizione giusta (JTM), uno strumento chiave per garantire che la transizione verso la decarbonizzazione avvenga in modo equo, senza lasciare indietro nessuno.

 Il meccanismo fornisce un sostegno mirato per aiutare a mobilitare almeno 100 miliardi di euro nel periodo 2021- 2027 per alleviare l'impatto socioeconomico della transizione, aiutando i lavoratori e le comunità che dipendono dalla catena del valore dei combustibili fossili.

Successivamente poi si è avuta la crisi pandemica a livello internazionale che ha condizionato tutte le scelte di policy.

In Europa fortunatamente il forte orientamento strategico definito con il Green Deal ha di fatto indirizzato le scelte di allocazione e condizionerà le modalità di erogazione degli ingenti fondi per la ripartenza.

Il 27 maggio con la Comunicazione “Il bilancio dell’UE come motore del piano per la ripresa europea” (COM(2020), 442 final), la CE, rispondendo alle necessità straordinarie di finanziare la ripresa economica dei paesi membri dell’UE colpiti dalla crisi del Covid-19, ha proposto l’introduzione di uno strumento europeo di emergenza per la ripresa (“Next Generation EU”) del valore di 750 miliardi di EURO, in aggiunta a un quadro finanziario pluriennale (QFP) rinforzato per il periodo 2021-2027 di 1100 miliardi di euro.

 La novità del fondo” Next Generation EU” è la possibilità per gli stati di poter beneficiare di un meccanismo di finanziamento temporaneo che consente un aumento ingente e tempestivo della spesa senza accrescere i debiti nazionali.

Per la prima volta l’UE diventa il garante dell’indebitamento dei Paesi membri, riuscendo così a contenere in misura significativa anche il costo dell’indebitamento.

All’interno della crisi più grave che abbia interessato l’economia globale ed europea negli ultimi settantacinque anni, si tratta quindi di una grande opportunità per accelerare la transizione verso un’economia più green e circolare.

Veniamo ora ad analizzare come il Green Deal (e la connessa Next Generation UE) si articola nelle politiche sulle dimensioni chiave della green economy.

Partiremo dalle politiche prioritarie che caratterizzano il Green Deal Europeo, ovvero la  lotta al cambiamento climatico e l’economia circolare, per poi analizzare le politiche sul sistema alimentare, sulla biodiversità, sull’inquinamento, con un cenno finale su quelle inerenti l’energia e i trasporti che saranno analizzate nel prossimo capitolo.

La sfida per l’Europa, chiara anche prima dell’emergenza sanitaria e incarnata nella nuova presidenza, è quella di riuscire a esercitare un maggior ruolo internazionale all’egida della transizione alla green, “circular e decarbonised economy”, ricostruendo il senso della coesione degli Stati membri, dopo gli effetti della Brexit e dei neonazionalismi.

 

Il cambiamento climatico.

Il 2019 è stato il secondo anno più caldo in assoluto e la fine del decennio più caldo, dal 2010 al 2019.

Con una temperatura media globale di 1,1°C al di sopra dei livelli preindustriali la sfida globale del clima si presenta particolarmente urgente.

Al fine marzo 2020 sono 185 i Paesi più l’Unione Europea che hanno comunicato il loro primo “Contributo Nazionale Volontario alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici”.

Il quadro degli impegni non è inadeguato per raggiungere gli obiettivi di 1,5 o 2°C previsti dall'accordo di Parigi e pertanto i Paesi sono stati invitati ad aggiornare i contributi a livello nazionale o a comunicarne di nuovi entro il 2020, aumentando il loro livello di ambizione nell'azione per il clima.

Anche se le emissioni di gas serra dovrebbero diminuire del 6% nel 2020 (in Italia la riduzione è del 7.5% rispetto al 2019 secondo le stime Ispra) e la qualità dell'aria è migliorata a causa del divieto di viaggiare e del rallentamento economico dovuto alla pandemia, il miglioramento è solo temporaneo e la crisi può compromettere alcuni degli impegni ed investimenti previsti.

Viceversa i governi dovrebbero utilizzare le lezioni apprese per accelerare le transizioni necessarie per raggiungere l'accordo di Parigi, ridefinire il rapporto con l'ambiente ed effettuare cambiamenti sistemici per ridurre le emissioni di gas serra.

L’Europa è in prima linea in questa sfida.

Tra il 1990 e il 2018 l’UE ha ridotto del 23 % le emissioni di gas a effetto serra, mentre l'economia è cresciuta del 61 %.

 Tuttavia, mantenendo le attuali politiche, la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra sarà limitata al 60% entro il 2050: per Bruxelles occorre fare di più.

Con il Regolamento europeo sul clima del 4 marzo 2020, propedeutico al preannunciato “Patto per il Clima”, la CE ha proposto un obiettivo giuridicamente vincolante di azzeramento delle emissioni nette di gas a effetto serra entro il 2050 (già indicato nella risoluzione del Parlamento Europeo del 14 marzo 2019), assumendo il compito di esaminare la legislazione dell'Unione e le politiche vigenti per valutarne la coerenza rispetto all'obiettivo della neutralità climatica e alla traiettoria stabilita.

Ciò coinvolge i Piani nazionali per l'energia e il clima degli Stati membri (la cui valutazione è prevista all’art.6 del Regolamento), le relazioni periodiche dell'Agenzia europea dell'ambiente e i   più recenti dati scientifici sui cambiamenti climatici e i relativi impatti.

Entro il 2020 la Commissione dovrebbe presentare il Piano corredato di una valutazione d'impatto per aumentare l'obiettivo dell'UE di riduzione delle emissioni di gas  a effetto serra per il 2030, portandolo almeno al 50%-55% rispetto ai livelli del 1990 (oggi l’obiettivo è al 40%).

Tra le varie misure da introdurre vi è anche la revisione della direttiva sulla tassazione dell’energia, introducendo un meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (border carbon tax).

Ciò è necessario finché l’impegno dei diversi Paesi rispetto all’accordo di Parigi non sarà più equilibrato.

Sull’adattamento, cruciale date le conseguenze già evidenti del cambiamento climatico, il regolamento prevede (art.4) che gli Stati membri elaborino e attuino strategie e piani di adattamento che includono quadri completi di gestione dei rischi, fondati su basi di riferimento rigorose in materia di clima e di vulnerabilità e sulle valutazioni dei progressi compiuti.

Anche in questo ambito l’UE vuole confermare il proprio ruolo di apripista, recuperando lo spirito della COP di Parigi, purtroppo un po’ perso nelle COP successive.

Anche nell’ultima, tenutasi a dicembre 2019, a Madrid non sono state prese decisioni particolarmente rilevanti o ambiziose, senza trovare un accordo su uno dei temi più delicati, cioè il meccanismo che in futuro dovrebbe permettere ai paesi che inquinano di meno di «cedere» la quota rimanente di gas serra a paesi che inquinano di più.

Nei documenti approvati alla fine della conferenza dalla plenaria vi è l’impegno (anche se non vincolante) a presentare piani per ridurre ulteriormente le proprie emissioni di gas serra per raggiungere gli obiettivi fissati dagli Accordi di Parigi sul clima.

 L’UE ha spinto in tale direzione, ma a frenare compromessi più ambiziosi sono intervenuti i delegati di paesi come il Brasile e soprattutto gli Stati Uniti, che hanno avviato le procedure per uscire formalmente dagli Accordi di Parigi.

Cruciale per l’impegno globale sul clima sarà pertanto la COP 26 che si terrà a Glasgow a fine 2021, dopo il rinvio di un anno causa Covid-19.

La tassonomia europea per la finanza sostenibile è una pietra miliare nell’agenda verde europea: il primo sistema di classificazione al mondo di attività economiche sostenibili dal punto di vista ambientale, che darà una spinta reale agli investimenti sostenibili.

L’economia circolare e Il nuovo Piano di azione.

Per quanto riguarda l’Economia circolare (EC), l’ultimo anno ha visto l’emanazione di diversi provvedimenti comunitari, che sono culminati poi a marzo 2020 con il nuovo Piano di azione.

A marzo 2019, la Commissione europea ha adottato una relazione globale sull'attuazione del piano d'azione per l'economia circolare del 2015.

La relazione indica, grazie alle attività di monitoraggio previste nel Piano, che l’EC sta fornendo un contributo significativo nella creazione di occupazione. Nel 2016 nei settori attinenti all'economia circolare erano impiegati oltre quattro milioni di lavoratori (di cui 510.145 in Italia, saliti a 517.540 nel 2017), il 6% in più rispetto al 2012.

Ulteriori posti di lavoro sono destinati a essere creati nei prossimi anni al fine di soddisfare la domanda prevista di materie prime secondarie generata da mercati pienamente funzionanti.

 La circolarità ha inoltre aperto nuove opportunità commerciali, dato origine a nuovi modelli   di impresa e sviluppato nuovi mercati, sia all'interno sia all'esterno dell'UE.

Nel 2017 attività circolari come la riparazione, il riutilizzo o il riciclaggio hanno generato quasi 155 miliardi di euro di valore aggiunto, registrando investimenti pari a circa 18,5 miliardi di euro.

In Europa il riciclaggio di rifiuti urbani nel periodo 2008-2016 è aumentato e il contributo dei materiali riciclati alla domanda globale di materiali registra un continuo incremento.

 In media, tuttavia, i materiali riciclati riescono soltanto a soddisfare meno del 12% della domanda di materiali dell'UE.

Questo aspetto è ribadito da una recente relazione dei portatori di interessi secondo la quale la piena circolarità si applicherebbe solo al 9% dell’economia mondiale, lasciando ampi margini di miglioramento.

 

La CE ha messo in campo nell’ultimo quinquennio una serie di azioni nell’ambito della EC, tra cui la prima strategia settoriale ha riguardato la plastica:

prevedendo che entro il 2030 tutti gli imballaggi di plastica immessi sul mercato dell'UE siano riutilizzabili o riciclabili;

e che, entro il 2025, 10 milioni di tonnellate di plastica riciclata vengano utilizzati per la realizzazione di nuovi prodotti.

 Sono già state raggiunte alcune tappe verso un riciclaggio della plastica di maggiore qualità.

Tra queste rientrano il nuovo obiettivo di riciclaggio per gli imballaggi di plastica, fissato al 55% per il 2030, gli obblighi di raccolta differenziata e i miglioramenti riguardanti i regimi di responsabilità estesa del produttore.

Si prevede che questi ultimi agevoleranno la progettazione che mira alla riciclabilità grazie all'eco-modulazione dei contributi dei produttori.

Ulteriori passi in avanti sono stati definiti con la direttiva 2019/904/UE sulla riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente (come le plastiche monouso).

La strategia si è poi proposta di allargare a scala globale l’azione della UE.

In base alle iniziative introdotte, in particolare sulla plastica monouso, la leadership dell'UE nelle sedi multilaterali ha giocato un ruolo fondamentale nell’attivare l'interesse internazionale nei confronti dell'agenda sulla plastica, come dimostrato da iniziative quali la piattaforma “Global Plastics” in collaborazione con l’UNEP e il partenariato internazionale sui rifiuti di plastica nel quadro della convenzione di Basilea.

Nel 2020 La Commissione europea ha, infine, adottato un nuovo piano d’azione per l’economia circolare , uno degli elementi cardine del Green Deal europeo.

 

Il nuovo Piano di azione dell’Unione Europea per l’economia circolare esprime la chiara convinzione che l’estensione dell'economia circolare dai” first movers” agli operatori economici tradizionali contribuirà in modo significativo al conseguimento della neutralità climatica entro il 2050 e alla dissociazione della crescita economica dall'uso delle risorse, garantendo allo stesso tempo la competitività a lungo termine dell’UE e una ripresa dalla crisi pandemica orientata alla sostenibilità.

 Il modello di crescita circolare viene chiaramente descritto come rigenerativo e capace di contribuire agli obiettivi di riduzione dell’impronta dei consumi, grazie alla diffusione di prodotti circolari.

Esso intende rappresentare un programma orientato al futuro per costruire un’Europa più pulita e competitiva in co- creazione con gli operatori economici, i consumatori, i cittadini e le organizzazioni della società civile, capace di accelerare il profondo cambiamento richiesto dal Green Deal europeo.

Il piano d’azione pone un quadro strategico solido e coerente in cui i prodotti, i servizi e i modelli di business sostenibili costituiranno la norma, ciò:

al fine di trasformare i modelli di consumo in modo da evitare innanzitutto la produzione di rifiuti;

focalizzandosi sulle catene di valore dei prodotti chiave (il Piano ne individua sette: elettronica e TIC; batterie e veicoli; imballaggi; plastica; prodotti tessili; costruzioni e edilizia; prodotti alimentari;

riducendo i rifiuti e garantire il buon funzionamento del mercato interno dell'UE per le materie prime secondarie di alta qualità;

consentendo all’Unione si assumerà sempre di più la responsabilità dei rifiuti che produce (riducendo le spedizioni transfrontaliere).

Secondo la CE nell’economia circolare esiste un chiaro vantaggio competitivo anche per le singole aziende, in quanto la spesa delle imprese manifatturiere per l'acquisto di materiali (circa il 40% della spesa complessiva) potrebbe sensibilmente ridursi grazie a modelli a ciclo chiuso, incrementando la loro redditività e proteggendole dalle fluttuazioni dei prezzi delle risorse.

La transizione verso un modello circolare intende rafforzare la base industriale e favorire la creazione di imprese e l'imprenditorialità tra le Pmi.

 Grazie alla spinta innestata dalla circolarità le imprese adotteranno modelli innovativi basati su una relazione più stretta con i clienti, favorendo la personalizzazione di massa e l'economia collaborativa e partecipata.

Le tecnologie digitali forniranno una ulteriore impulso alla circolarità e alla dematerializzazione, consentendo all'Europa di ridurre la dipendenza dalle materie prime.

Al proposito è chiara la sinergia con la Strategia Industriale della UE presentata nel marzo 2020, in cui si individuano tre fattori chiave per l’Europa: essere più green, più circolare e più digitale.

Per quanto riguarda i cittadini, l'economia circolare fornirà prodotti di elevata qualità, funzionali, sicuri, efficienti e economicamente accessibili, che durano più a lungo e sono concepiti per essere riutilizzati, riparati o sottoposti a procedimenti di riciclaggio di elevata qualità.

Un’intera gamma di nuovi servizi sostenibili, modelli di "prodotto come servizio" (product-as-service) e soluzioni digitali consentiranno di migliorare la qualità della vita, creare posti di lavoro innovativi e incrementare le conoscenze e le competenze.

 Il piano mira inoltre a garantire che l'economia circolare vada a beneficio delle persone, delle regioni e delle città, contribuisca pienamente alla neutralità climatica e sfrutti appieno il potenziale della ricerca, dell'innovazione e della digitalizzazione.

Il Piano prevede, infine, l'ulteriore messa a punto di un quadro di monitoraggio adeguato che contribuisca a misurare il benessere al di là del PIL.

Particolare attenzione meritano, nell’ambito del Piano, due azioni trasversali, che dimostrano quale sia il livello di interconnessione tra le diverse politiche europee.

 

La prima attiene alla neutralità climatica. Al fine di conseguire questo obiettivo la Commissione intende rafforzare le sinergie tra circolarità e riduzione dei gas a effetto serra. Per fare ciò:

saranno analizzati i metodi di misura dell'impatto della circolarità sulla mitigazione dei cambiamenti climatici e sull'adattamento ai medesimi;

verranno migliorati gli strumenti di modellizzazione per cogliere le ricadute positive dell'economia circolare sulla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra a livello nazionale e di UE;

sarà promosso il rafforzamento del ruolo della circolarità nelle future revisioni dei piani nazionali per l'energia e il clima e, se del caso, in altre politiche in materia di clima.

Oltre alla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, il conseguimento della neutralità climatica richiederà che il carbonio presente nell'atmosfera sia assorbito, utilizzato nella nostra economia senza essere rilasciato e, quindi, rimanendo stoccato per periodi di tempo più lunghi.

 Per incentivare l'assorbimento e una maggiore circolarità del carbonio, nel pieno rispetto degli obiettivi in materia di biodiversità, la Commissione intende lavorare a un quadro normativo per la certificazione degli assorbimenti di carbonio basato su una contabilizzazione del carbonio solida e trasparente al fine di monitorare e verificare l'autenticità degli assorbimenti.

 

La seconda azione trasversale attiene alle politiche economiche. In tale ambito, la Commissione intende:

migliorare la divulgazione dei dati ambientali da parte delle imprese grazie al riesame della direttiva sulla comunicazione di informazioni di carattere non finanziario;

sostenere un'iniziativa promossa dalle imprese per sviluppare principi di contabilità ambientale che integrino i dati finanziari con i dati sulle prestazioni dell'economia circolare;

promuovere l'integrazione di criteri di sostenibilità nelle strategie aziendali, migliorando il quadro in materia di governo societario;

far sì che gli obiettivi connessi all'economia circolare siano rispecchiati nel quadro del riorientamento del processo del semestre europeo e nel contesto della prossima revisione della disciplina in materia di aiuti di Stato a favore dell'ambiente e dell'energia;

continuare a incoraggiare l'applicazione più ampia di strumenti economici ben progettati, come la tassazione ambientale che include imposte per il conferimento in discarica e l'incenerimento, e a mettere gli Stati membri in condizione di utilizzare le aliquote dell'imposta sul valore aggiunto (IVA) per promuovere le attività di economia circolare destinate ai consumatori finali come i servizi di riparazione.

Sono molte le novità nel Piano Europeo per l’economia circolare, ci concentriamo qui su due tra le più significative.

Un approccio efficace alla circolarità prende il via dalla progettazione dei prodotti.

 Al proposito nel Piano per rendere i prodotti idonei a un'economia neutra dal punto di vista climatico, efficiente sotto il profilo delle risorse e circolare, ridurre i rifiuti e garantire che le prestazioni dei precursori della sostenibilità diventino progressivamente la norma, la Commissione proporrà un'iniziativa legislativa relativa ad una strategia in materia di prodotti sostenibili.

L'obiettivo centrale di questa iniziativa legislativa sarà l'estensione della direttiva concernente la progettazione ecocompatibile oltre ai prodotti connessi all'energia, in modo che il quadro della progettazione ecocompatibile possa applicarsi alla più ampia gamma possibile di prodotti e rispetti i principi della circolarità.

Dal punto di vista delle misure, la Commissione valuterà la possibilità di stabilire dei principi di sostenibilità e altre modalità adeguate a disciplinare i seguenti aspetti:

miglioramento della durabilità, della riutilizzabilità, della possibilità di upgrading e della riparabilità dei prodotti, la questione della presenza di sostanze chimiche pericolose nei prodotti e l'aumento della loro efficienza sotto il profilo energetico e delle risorse;

aumento del contenuto riciclato nei prodotti, garantendone al tempo stesso le prestazioni e la sicurezza;

la possibilità di rifabbricazione e di riciclaggio di elevata qualità;

la riduzione delle impronte carbonio e ambientale;

la limitazione dei prodotti monouso e la lotta contro l'obsolescenza prematura;

l'introduzione del divieto di distruggere i beni durevoli non venduti;

la promozione del modello "prodotto come servizio" o di altri modelli in cui i produttori mantengono la proprietà del prodotto o la responsabilità delle sue prestazioni per l'intero ciclo di vita;

la mobilitazione del potenziale di digitalizzazione delle informazioni relative ai prodotti, ivi comprese soluzioni come i passaporti, le etichettature e le filigrane digitali;

un sistema di ricompense destinate ai prodotti in base alle loro diverse prestazioni in termini di sostenibilità, anche associando i livelli elevati di prestazione all'ottenimento di incentivi;

Sarà data priorità ai gruppi di prodotti individuati nel contesto delle catene di valore che figurano nel piano d'azione, come l'elettronica, le TIC e i tessili, ma anche i mobili e i prodotti intermedi ad elevato impatto, come l'acciaio, il cemento e le sostanze chimiche. Altri gruppi di prodotti saranno individuati in base all'impatto ambientale e al loro potenziale di circolarità.

Progettare un sistema alimentare giusto, sano e rispettoso dell’ambiente.

Lo slogan utilizzato nella Strategia presentata il 20 maggio 2020 con la COM(2020) 381 final è “Dal produttore al consumatore” (from farm to fork).

La UE si pone l’obiettivo di divenire riferimento mondiale per la sostenibilità, attraverso una strategia specifica nel settore alimentare coerente con l’economia circolare.

La strategia "Dal produttore al consumatore", al centro del Green Deal e del perseguimento dell’Agenda 2030 da parte della UE (in particolare per quanto riguarda l’SDG 2), affronta in modo globale le sfide poste dal conseguimento di sistemi alimentari sostenibili, riconoscendo i legami inscindibili tra persone, società e pianeta sani.

Il passaggio a un sistema alimentare sostenibile può apportare benefici ambientali, sanitari e sociali, offrire vantaggi economici e assicurare che la ripresa dalla crisi pandemica conduca l’UE su un percorso sostenibile.

Un sistema alimentare sostenibile deve garantire ai consumatori un approvvigionamento sufficiente e diversificato di alimenti sicuri, nutrienti, economicamente accessibili e sostenibili in qualsiasi momento, anche in tempi di crisi.

Come è noto noi viviamo una profonda contraddizione tra l’obesità e lo spreco alimentare da un lato e la carenza di cibo per una parte della popolazione europea dall’altro.

 Il 20% circa degli alimenti prodotti va sprecato e l'obesità è in aumento, con oltre la metà della popolazione adulta europea attualmente in sovrappeso.

Al tempo stesso 33 milioni di cittadini europei non possono permettersi un pasto di qualità ogni due giorni.

Se i regimi alimentari europei fossero conformi alle raccomandazioni nutrizionali e più equilibrati (con una dieta maggiormente basata sui vegetali), l'impronta ambientale e l’equità sociale dei sistemi alimentari sarebbe notevolmente migliorata.

Si stima che nel 2017 nell'UE oltre 950 000 decessi (uno su cinque) e la perdita di oltre 16 milioni di anni di vita in buona salute fossero attribuibili a cattive abitudini alimentari e alle malattie connesse.

Eppure in generale i prodotti alimentari europei costituiscono già uno standard a livello globale, sinonimo di sicurezza, abbondanza, nutrimento e qualità elevata. Inoltre il settore agricolo dell'UE è l'unico grande sistema al mondo ad aver ridotto le emissioni di gas a effetto serra (del 20 % dal 1990).

Questo è il risultato di anni di politiche dell'UE volte a proteggere la salute umana, degli animali e delle piante ed è frutto degli sforzi di agricoltori, pescatori e produttori. I prodotti alimentari europei dovrebbero ora diventare lo standard globale anche in materia di sostenibilità.

Sono numerose le azioni che devono essere introdotte a questo fine, la strategia le delinea, rimandando poi a fasi successive per una effettiva implementazione, accompagnata da una ampia consultazione con tutti gli stakeholder.

Per garantire la sostenibilità della produzione alimentare occorre il contributo di tutti gli attori della filiera alimentare.

Ciò al fine di accelerare la trasformazione dei metodi di produzione sfruttando al meglio le “Nature based solutions”, le tecnologie digitali e satellitari per aumentare la resilienza ai cambiamenti climatici e ridurre e ottimizzare l'uso  di fattori di produzione (acqua, pesticidi e fertilizzanti).

Queste soluzioni richiedono investimenti dal punto di vista umano e finanziario, ma promettono anche rendimenti più elevati creando valore aggiunto e riducendo i costi.

La CE mira a ricompensare gli agricoltori, i pescatori e gli altri operatori della filiera alimentare che hanno già compiuto la transizione verso pratiche sostenibili, a consentire la transizione di tutti gli altri e a creare ulteriori opportunità per le loro attività.

Per estendere l’approccio già sviluppato in molti contesti della UE vi è l'impellente necessità di ridurre la dipendenza da pesticidi e antimicrobici (l’obiettivo è di ridurli di un ulteriore 50% entro il 2030, dopo che già sono stati ridotti del 20% negli ultimi 5 anni), contenere il ricorso ai fertilizzanti, potenziare l'agricoltura biologica, migliorare il benessere degli animali e invertire la perdita di biodiversità. Nella strategia vengono citati alcune aree di innovazione significativamente, come:

a) il sequestro del carbonio(CO2) da parte di agricoltori e silvicoltori (carbon farming), con associati sistemi di certificazione e di pagamento;

b) la bioeconomia circolare, di cui un esempio citato riguarda le bioraffinerie di cui l’italiana “Novamont “è un pioniere, che si raccorda strettamente con il Piano per l’economia circolare;

c) un ambito particolarmente rilevante riguarda le emissioni di gas serra, che provengono in larga parte (in Europa il 70% delle emissioni provenienti dall’agricoltura, pari al 10,3% del totale) dall’allevamento, che occupa peraltro il 68% della superficie agricola.

In questo contesto la CE intende agire sui mangimi, attraverso ad esempio l’immissione sul mercato di additivi per mangimi sostenibili e innovativi, promuovendo le proteine vegetali coltivate nell'UE e materie prime per mangimi alternative quali gli insetti, le alghe e i sottoprodotti della bioeconomia (come gli scarti del pesce).

d) L’agricoltura biologica deve essere promossa ulteriormente:

ha effetti positivi sulla biodiversità, crea posti di lavoro e attrae giovani agricoltori, e i consumatori ne riconoscono il valore.

 La Commissione presenterà un piano d’azione sull’agricoltura biologica, con l’obiettivo di raggiungere almeno il 25% della superficie agricola dell’UE investita ad agricoltura biologica entro il 2030 e un aumento significativo dell’acquacoltura biologica.

La transizione verso un’agricoltura sostenibile dovrà essere sostenuta da una PAC incentrata sul Green Deal.

 La nuova PAC, che la Commissione ha proposto nel giugno 2018, mira ad aiutare gli agricoltori a migliorare le loro prestazioni ambientali e climatiche attraverso un modello maggiormente orientato ai risultati, un uso più sistematico dei dati e delle analisi, un miglioramento delle norme ambientali obbligatorie, nuove misure volontarie e una maggiore attenzione agli investimenti nelle tecnologie e nelle pratiche verdi e digitali.

 Intende inoltre garantire un reddito dignitoso che consenta agli agricoltori di provvedere alle proprie famiglie, di resistere a crisi di ogni tipo e di continuare a svolgere il loro ruolo di custodi del territorio.

 In questa prospettiva la nuova PAC si propone di migliorare l'efficienza e l'efficacia dei pagamenti diretti con il sostegno al reddito agli agricoltori che ne hanno bisogno e contribuiscono al conseguimento degli obiettivi ambientali, anziché a soggetti e imprese che semplicemente possiedono terreni agricoli.

Occorre al proposito tenere conto che nel 2017 le sovvenzioni della PAC, ad eccezione del sostegno agli investimenti, hanno rappresentato il 57% del reddito agricolo netto nell'UE.

La capacità degli Stati membri di garantire questa impostazione sarà attentamente valutata nei piani strategici e monitorata durante tutto il processo di attuazione.

Inoltre la CE richiederà, anche attraverso uno specifico codice di condotta, alle imprese e alle organizzazioni del settore alimentare di impegnarsi in azioni concrete in materia di salute e sostenibilità, mirate in particolare a:

riformulare i prodotti alimentari conformemente a linee guida per regimi alimentari sani e sostenibili, ridurre la propria impronta ambientale e il proprio consumo energetico, adottare opportune strategie di marketing e pubblicitarie, ridurre gli imballaggi in linea con il nuovo Piano di azione sull’Economia Circolare.

 

Tra le azioni di policy previste vi sono:

 

a) Il riesame della normativa sui materiali a contatto con gli alimenti al fine di migliorare la sicurezza degli alimenti e la salute pubblica, sostenendo l'impiego di soluzioni di imballaggio innovative e sostenibili che utilizzino materiali ecologici, riutilizzabili e riciclabili;

b) Il sostegno, allo scopo di creare filiere più corte la CE, della riduzione della dipendenza dai trasporti a lunga distanza (nel 2017 circa 1,3 miliardi di tonnellate di prodotti stati trasportati su strada);

c) l’introduzione, al fine di consentire ai consumatori di fare scelte alimentari consapevoli, sane e sostenibili, di un'etichettatura nutrizionale obbligatoria e armonizzata sulla parte anteriore dell'imballaggio, nonché la possibilità   di estendere le indicazioni di origine o di provenienza;

d) l’arricchimento delle EPD contemplando congiuntamente gli aspetti nutrizionali, climatici, ambientali e sociali dei prodotti alimentari.

e) Il sollecito agli Stati membri di utilizzare le aliquote IVA in modo mirato, ad esempio per sostenere i prodotti ortofrutticoli biologici.

Preservare e ripristinare gli ecosistemi e la biodiversità.

La CE ha definito nel maggio 2020 una nuova strategia per la biodiversità per assicurare che l’UE svolga un ruolo fondamentale per l’arresto della perdita di biodiversità a livello internazionale nelle prossime negoziazioni 2020 della “Convenzione per la diversità biologica”, perseguendo il principio che tutte le politiche dell’UE contribuiscano a preservare e ripristinare il capitale naturale europeo.

Nella strategia si evidenzia come la pandemia di Covid-19 abbia dimostrato una volta di più quanto sia urgente intervenire per proteggere e ripristinare la natura, facendo prendere coscienza dei legami che esistono tra la nostra salute e la salute degli ecosistemi, oltre a dimostrare la necessità di adottare catene di approvvigionamento e modi di consumo sostenibili che rispettino i limiti del pianeta.

Da un lato il rischio di insorgenza e diffusione delle malattie infettive aumenta con la distruzione della natura, dall’altro investire nella protezione e nel ripristino della natura sarà di cruciale importanza per la ripresa economica dell'Europa dalla crisi Covid-19.

 La protezione della biodiversità ha giustificazioni economiche ineludibili, come è stato anche evidenziato all’ultimo “World Economic Forum”.

 I geni, le specie e i servizi ecosistemici sono fattori di produzione indispensabili per l'industria e le imprese, soprattutto per la produzione di medicinali.

 Oltre la metà del PIL mondiale dipende dalla natura e dai servizi che fornisce:

in particolare tre dei settori economici più importanti — edilizia, agricoltura, settore alimentare e delle bevande — ne sono fortemente dipendenti.

Si è stimato che dal 1997 al 2011 i cambiamenti nella copertura del suolo abbiano causato perdite tra 3.500 e 18.500 miliardi di euro l'anno in servizi ecosistemici a livello mondiale e che il degrado del suolo sia costato 5.500-10.500 miliardi di euro l'anno.

La conservazione della biodiversità può apportare benefici economici diretti a molti settori dell'economia. Il rapporto benefici/costi complessivi di un programma mondiale efficace per la conservazione della natura è valutato essere superiore a 7 a 1.

 Gli investimenti nel capitale naturale sono così considerati tra le cinque politiche più importanti di risanamento del bilancio della UE in quanto offrono moltiplicatori economici elevati e un impatto positivo sul clima.

L’impegno della UE per il capitale naturale riguarda:

a) L’Estensione della rete di protezione dell’ambiente: la CE si propone di proteggere almeno il 30% della superficie terrestre (4% in più di oggi) e il 30 % del mare (19% in più di oggi), con importanti ricadute non solo ambientali, ma anche economiche.

I benefici di Natura 2000 sono stati valutati tra i 200 e i 300 miliardi di EUR all'anno e i nuovi investimenti per la protezione genererebbero fino a 500.000 nuovi posti di lavoro ; così come nelle zone marine protette per ogni euro investito se ne genererebbero almeno tre .

b) La creazione di corridoi ecologici che, nell’ambito di una rete naturalistica transeuropea davvero resiliente, impediscano l'isolamento genetico, consentano la migrazione delle specie e preservino e rafforzino l’integrità degli ecosistemi.

 In tale contesto la CE intende sostenere gli investimenti nelle infrastrutture verdi e blu .

c) La predisposizione di un Piano di ripristino della natura, di cui l'UE vuole fare da apripista a livello globale.

Tale Piano ridurrà le pressioni sugli habitat e le specie, assicurando che gli ecosistemi siano sempre usati in modo sostenibile, sostenendo il risanamento della natura, limitando l'impermeabilizzazione del suolo e l'espansione urbana, contrastando l'inquinamento e le specie esotiche invasive.

 In tale ambito la Commissione proporrà nel 2021 obiettivi di ripristino della natura giuridicamente vincolanti al fine di ripristinare gli ecosistemi degradati.

Gli Stati membri dovranno assicurare che almeno il 30 % delle specie e degli habitat il cui attuale stato di conservazione non è soddisfacente lo diventi o mostri una netta tendenza positiva.

A questo scopo nel 2020 la Commissione e l'Agenzia europea dell'ambiente forniranno orientamenti agli Stati membri su come selezionare le specie e gli habitat e stabilirne l'ordine di priorità.

d) L’intensificazione degli sforzi per proteggere il suolo (una risorsa rinnovabile cruciale), ridurne l'erosione e aumentarne la fertilità, attraverso una revisione nel 2021 della strategia tematica dell'UE per il suolo.

e) La predisposizione nel 2021 di una specifica “Strategia forestale” coerente con le ambizioni in materia di biodiversità e neutralità climatica.

La proposta includerà una tabella di marcia per la piantumazione di almeno 3 miliardi di alberi supplementari nell'UE entro il 2030, nel pieno rispetto dei principi ecologici.

La piantumazione di alberi sarà supportata, attingendo dal programma LIFE, anche dalla nuova piattaforma europea per l'inverdimento urbano.

f) La proposta di un nuovo Piano d'azione per conservare le risorse della pesca e proteggere gli ecosistemi marini, favorendo, tra l’altro, la transizione verso tecniche di pesca più selettive e meno dannose con il sostegno del Fondo europeo per gli affari marittimi.

g) Un impegno ad adoperarsi maggiormente per ristabilire gli ecosistemi di acqua dolce e le funzioni naturali dei fiumi, al fine di conseguire gli obiettivi (la cui attuazione è in ritardo) della direttiva quadro sulle acque.

Uno dei modi per farlo consiste nell'eliminare o adeguare le barriere che impediscono il passaggio dei pesci migratori e nel migliorare il flusso libero dei sedimenti: s'intende così ristabilire lo scorrimento libero di almeno 25.000 km di fiumi entro il 2030, eliminando le barriere obsolete e ripristinando le pianure alluvionali.

h) La volontà di riportare la natura nelle città e ricompensare l'azione delle comunità, per cui la CE invita le città europee di almeno 20.000 abitanti a elaborare entro la fine del 2021 piani ambiziosi di inverdimento urbano, che verranno supportati e valorizzati attraverso una piattaforma UE per il verde urbano che verrà creata nel 2021.

Inquinamento zero per un ambiente privo di sostanze tossiche.

La CE si propone di essere più efficace nel monitorare, segnalare, prevenire e porre rimedio all’inquinamento atmosferico, idrico, del suolo e dei prodotti di consumo.

A tal fine esaminerà insieme agli Stati membri tutte le politiche e i regolamenti in modo più sistematico, definendo nel 2021 un piano d’azione per l’inquinamento zero di aria, acqua e suolo.

Nel caso delle norme sulla qualità dell’aria saranno riviste per allinearle maggiormente alle raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità. Sarà perseguito l’Inquinamento zero degl’impianti industriali, aggiornando gli strumenti normativi in coerenza con gli obiettivi di sostenibilità e decarbonizzazione.

Il 10 luglio 2020 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sulla Strategia in materia di sostanze chimiche per la sostenibilità in cui, anticipando alcuni degli indirizzi per il piano inquinamento zero, evidenzia le interconnessioni tra diversi piani e strategie del Green Deal, quali la strategia per la biodiversità, dal produttore al consumatore, economia circolare, nonché il piano europeo per la lotta contro il cancro.

Il 2019 è stato il secondo anno più caldo in assoluto e la fine del decennio più caldo, dal 2010 al 2019.

Con una temperatura media globale di 1,1°C al di sopra dei livelli preindustriali la sfida globale del clima si presenta particolarmente urgente.

Le infrastrutture: energia, mobilità e digitale

Disporre di infrastrutture di elevata efficienza nei settori dell’energia, dei trasporti e del digitale è essenziale per un’UE integrata e competitiva, in cui i cittadini e le imprese possano trarre pienamente vantaggio dalla libera circolazione, dal mercato unico e da infrastrutture sociali adeguate.

Le reti transeuropee mirano in questa prospettiva a soddisfare il fabbisogno di infrastrutture resilienti, sostenibili, innovative e senza soluzioni di continuità.

Due delle azioni specifiche previste nel Green Deal, energia e mobilità, possono in questa sede essere semplicemente richiamate, in quanto verranno riprese successivamente.

 In ogni caso qui troviamo le strategie presentate l’8 luglio 2020 per un sistema energetico integrato [COM(2020) 299 final] e per l’idrogeno pulito [COM(2020) 301 final].

L’interconnessione tra le diverse strategie è particolarmente richiesta dalla decarbonizzazione (eliminare la CO2) che richiede una visione di sistema, investimenti e processi che integrino i diversi vettori energetici e gli usi dell’energia.

La strategia per l’idrogeno pulito viene ad integrarsi efficacemente quale chiusura del sistema.

La CE considera queste strategie come centrali nel piano di risanamento economico, poiché propongono un percorso a costi contenuti, promuovendo investimenti mirati nelle infrastrutture, che riducano i costi dell’energia per aziende e clienti.

Ciò vale anche nell’ambito della mobilità.

Per conseguire la neutralità climatica è necessario ridurre le emissioni prodotte dai trasporti del 90 % entro il 2050 e occorrerà il contributo del trasporto stradale, ferroviario, aereo e per vie navigabili.

Una strada importante è quella della mobilità elettrica, dove a livello globale siamo arrivati a più di 7 milioni di veicoli elettrici per passeggeri o merci (erano 1,5 milioni nel 2016).

Se in questo ambito è la Cina a prevalere (con più di 3 milioni), l’Europa arriva a quasi 2 milioni e nei primi tre mesi dell’anno, in una fase di forte contrazione del mercato, le immatricolazioni sono cresciute dell’81,7% sul primo trimestre del 2019.

Nel 2020 la Commissione adotterà una strategia per una mobilità intelligente e sostenibile per mettere gli utenti al primo posto e fornire loro alternative più economiche, accessibili e pulite rispetto alle loro attuali abitudini.

In ultimo, come abbiamo già evidenziato, la trasformazione verde e la trasformazione digitale sono due sfide indissociabili.

Secondo il Green Deal europeo, queste sfide richiedono un immediato riorientamento verso soluzioni più sostenibili che siano circolari, efficienti nell’impiego delle risorse e a impatto climatico zero.

È necessario che ogni cittadino, ogni lavoratore, ogni operatore economico, ovunque viva, abbia un’equa possibilità di cogliere i vantaggi di questa società sempre più digitalizzata.

La Comunicazione “Plasmare il futuro digitale dell’Europa” del febbraio 2020  indica un pacchetto di azioni che il Parlamento europeo a giugno ha fatto proprie, evidenziandone l’importanza nella trasformazione dell’economia e della società europee, soprattutto quale mezzo per raggiungere la neutralità climatica dell’UE entro il 2050 e per creare posti di lavoro, concordando che l’accelerazione della trasformazione digitale rappresenterà una componente essenziale della risposta dell’UE alla crisi economica generata dalla pandemia di Covid-19.

Green Economy e ripartenza.

Il Consiglio europeo del 23 aprile 2020 accogliendo con favore la “Tabella di marcia per la ripresa.

 Verso un’Europa più resiliente, sostenibile ed equa” ha sostenuto che l’Unione europea ha bisogno di uno sforzo di investimento simile al piano Marshall per sostenere la ripresa e modernizzare l’economia.

Ciò significa investire massicciamente nella transizione verde e nella trasformazione digitale nonché nell’economia circolare parallelamente ad altre politiche quali la politica di coesione e la politica agricola comune.

Una scelta la cui bontà è confermata da uno studio dell'Università di Oxford firmato da un team di esperti di fama internazionale, tra cui il Nobel “Joseph Stiglitz” e l'economista del clima “Lord Nicholas Stern” della “London School of Economics”, che hanno valutato circa 700 pacchetti di stimolo attuati contro la crisi del 2008 (utile bussola quindi anche contro la crisi della pandemia):

per risollevare le economie, la strategia migliore, anche dal punto di vista economico e dell’occupazione è stata puntare su politiche "green" riducendo le emissioni di gas serra.

Una grande opportunità per il nostro Paese, che parte avvantaggiato:

un’altra recente ricerca dell'Università di Oxford e della Smith School of Enterprise and the Environment, partendo dal primo e più grande database al mondo di prodotti green, colloca l'Italia al secondo posto fra i paesi in grado di esportare "i prodotti più verdi e complessi avendo una capacità di produzione green altamente avanzata”;

e addirittura al primo posto per il potenziale per diventare competitiva a livello globale in prodotti ancora più green e tecnologicamente sofisticati.

In questo contesto il Green Deal europeo avrà una funzione essenziale in quanto strategia di crescita inclusiva e sostenibile.

Le risorse messe in campo come è noto sono molto significative.

 Al quadro finanziario pluriennale rinforzato per il periodo 2021-2027 di 1100 miliardi di euro si vanno a sommare i 750 miliardi di euro dello strumento europeo di emergenza per la ripresa (“Next Generation EU”), nonché i 540 miliardi delle misure eccezionali approvate dal Consiglio europeo del 23 aprile 2020.

Occorre ricordare come questi stanziamenti eccezionali stiano caratterizzando i principali Paesi a livello internazionale, con modalità che però risultano poco coordinate a livello globale.

L’ONU a marzo con il rapporto “Shared responsibility, global solidarity: Responding to the socio-economic impacts of COVID-19” , ha posto in evidenza come il mondo stia affrontando una crisi globale non solo sanitaria, ma umana, diversa da qualsiasi altra nei 75 anni di storia delle Nazioni Unite proprio per la sua estensione e profondità.

Questa crisi richiede una risposta collettiva all’interno dei Paesi e soprattutto tra Paesi:

“da sole, le azioni a livello nazionale non possono corrispondere alla scala globale e alla complessità della crisi”.

L’ONU sottolinea quindi come tale momento richieda un'azione politica coordinata, decisa e innovativa da parte delle principali economie mondiali e il massimo sostegno finanziario e tecnico per le persone e i paesi più poveri e vulnerabili, che saranno i più colpiti.

Questa “call to action “ha avuto difficoltà ad essere colta in un contesto internazionale sempre meno orientato al “multilateralismo”.

In questo contesto possiamo considerare l’Unione Europea, dopo le prime settimane in cui ha stentato a trovare una visione comune, come un esempio di politiche coordinate, in cui l’orientamento strategico green trova uno spazio centrale.

D’altronde la sfida per l’Europa, chiara anche prima dell’emergenza sanitaria e incarnata nella nuova presidenza, è quella di riuscire a esercitare un maggior ruolo internazionale all’egida della transizione alla green, “circular e decarbonised economy”, ricostruendo il senso della coesione degli Stati membri, dopo gli effetti della Brexit e dei neonazionalismi.

Nel frattempo cosa stanno facendo i due Paesi leader dell’economia globale?

Alla fine del mese di marzo il governo americano ha realizzato un maxi intervento senza precedenti per stimolare l’economia USA;

è stato stanziato un pacchetto di aiuti pari a 2.000 miliardi di dollari, circa il 13% del PIL degli Stati Uniti.

Il pacchetto è di tipo emergenziale, prevedendo sostegno economico a imprese e ospedali, oltre che assegni diretti a milioni di americani colpiti dalla recessione.

Parallelamente la Cina, che ha innestato la pandemia, ma che è anche riuscita a contenerla sta cercando di reperire i finanziamenti necessari per una più rapida transizione green che consenta di superare i problemi ambientali del Paese, insieme alla sua ripartenza post-Covid.

Il settore manifatturiero cinese ha recuperato rapidamente, con le aziende che hanno avviato il ritorno graduale al lavoro nei siti produttivi per i loro dipendenti, con il supporto dei governi locali.

La rapida ripresa è testimoniata dal valore del “China Manufacturing Purchasing Managers Index” (PMI), passato da 35,7 a febbraio a 52 a marzo .

Al fine di mitigare l’impatto del Covid-19, il governo ha introdotto piani di stimolo volti a rilanciare il sistema economico, con una particolare attenzione alle “nuove infrastrutture”:

come i ripetitori di segnale 5G, l’intelligenza artificiale, la creazione di grandi database, treni ad alta velocità, griglie ad altissimo voltaggio e colonnine per veicoli elettrici.

Una delle politiche più significative messe in campo dalla Cina nell’ultimo periodo riguarda infatti quella che vedrà diventare elettrici entro il 2020 il 30% dei veicoli pubblici.

Secondo “Morgan Stanley”, gli investimenti della Cina in questo genere di infrastrutture per i prossimi 10 anni ammonteranno a circa 180 miliardi di dollari. Inoltre, per contrastare eventuali rallentamenti economici di breve periodo, queste nuove infrastrutture possono aumentare la produttività a lungo termine sfruttando le tecnologie di nuova generazione.

Questi investimenti in innovazione sono sempre più spesso correlati alla green economy oggi corrispondono ad una quota dell’8% del PIL cinese (ovvero circa 740 miliardi di euro).

Il fabbisogno finanziario rispetto alla sostenibilità in Cina è dell’ordine dei 2 mila miliardi, di cui il governo può supportare solo il 15%.

Per questo sono favoriti gli investimenti dall’estero di operatori che conoscano le tecnologie adatte a raggiungere obiettivi utili, come trattamento dell’aria, epurazione dell’acqua o smaltimento dei rifiuti solidi urbani.

In questo quadro internazionale cosa ci possiamo attendere per il nostro Paese?

Dalla Commissione Europea potrebbero arrivare a breve in Italia 110 miliardi:

21 di fondi riassegnati, 5 dalla BEI, i 36 del MES, 15 dal SURE, più altri 30 di trasferimenti disponibili.

 Ad essi si potrebbero sommare, per comprendere appieno l’impegno della CE e l’importanza per noi che l’Unione assume, i 180 miliardi di acquisti dei titoli di stato grazie all’estensione del quantitative easing e i 350 miliardi di rifinanziamenti alle banche italiane per prestiti alle imprese da parte della BCE.

I finanziamenti che arriveranno dall’Europa saranno però vincolati alle “Country Specific Recommendations” elaborate all’interno del processo del Semestre europeo , che riguardano in particolare, oltre alle consuete raccomandazioni sul bilancio pubblico e sul debito (questa volta però molto attenuate):

 il Green new deal e la digitalizzazione; l’innovazione, la formazione e lotta alle disuguaglianze; la riforma della Pubblica amministrazione e della giustizia civile; oltre che il miglioramento del sistema sanitario, tramite il MES.

Tra questi, gli investimenti a favore della transizione verde saranno particolarmente rilevanti per sostenere la ripresa e aumentare la resilienza futura.

 L’Italia è molto vulnerabile ai fenomeni meteorologici estremi e alle catastrofi idrogeologiche, compresi la siccità e gli incendi boschivi.

Nella percezione della CE la trasformazione dell’Italia in un’economia climaticamente neutra necessiterà di consistenti investimenti pubblici e privati per un lungo periodo di tempo.

Il coinvolgimento degli attori finanziari e la tassonomia europea.

Se il contributo europeo sarà nei prossimi anni consistente è necessario anche un pari apporto da parte degli attori finanziari privati.

 In questo ambito sono proseguiti i passi in avanti già manifestati negli scorsi anni.

A livello europeo, nel marzo del 2018 era uscito il “Piano di azione per la finanza sostenibile”, con l’obiettivo di incrementare gli investimenti in progetti sostenibili e di promuovere l’integrazione dei criteri ambientali, sociali e di governance (ESG) nella gestione dei rischi e nell’orizzonte temporale degli operatori finanziari, in coerenza con l’Agenda 2030 e con l’accordo di Parigi.

Il primo passo previsto dal Piano era la predisposizione di una “tassonomia europea per la finanza sostenibile”, ovvero un sistema condiviso di definizione e classificazione delle attività economiche sostenibili.

 ll Parlamento europeo con la risoluzione del 17 giugno 2020 riguardante “l’Istituzione di un quadro che favorisce gli investimenti sostenibili” ha chiuso l’iter d’approvazione del regolamento UE per la Tassonomia, adottato dal Consiglio europeo il 15 aprile 2020.

“Una pietra miliare nella nostra agenda verde”, ha commentato il vicepresidente della Commissione europea “Valdis Dombrovskis”, illustrando come si tratti del “primo sistema di classificazione al mondo di attività economiche sostenibili dal punto di vista ambientale, che darà una spinta reale agli investimenti sostenibili”.

Inoltre, è prevista anche l’istituzione formale di una piattaforma sulla finanza sostenibile che “svolgerà un ruolo cruciale nello sviluppo della tassonomia dell’Unione europea e della nostra strategia di finanziamento sostenibile nei prossimi anni”.

Il mercato degli investimenti sostenibili (SRI) sta crescendo in modo rapido (+27% dal 2016 al 2018) e ha ampiamente superato i 30.000 miliardi di dollari.

L’Europa fa la parte del leone con “Asset under Management” superiori a 14.000 miliardi di dollari, che rappresentano già la metà del totale degli asset investiti nella regione.

Anche i dati di adesione a “UN PRI “testimoniano l’attenzione crescente degli investitori verso questi temi: nel 2019 i “Principles for Responsible Investment” hanno superato i 2.500 firmatari con una crescita del 20% rispetto al 2018.

Le emissioni di green bond dell’area euro hanno segnato un nuovo record nel 2019: l’ammontare emesso ha raggiunto 170 miliardi di euro +50% rispetto all’anno precedente.

Inoltre lo stock in circolazione di titoli green a livello globale è stato pari a 566 miliardi di euro a fine gennaio 2020.

Il mercato appare in ulteriore forte crescita: nel solo mese di gennaio di quest’anno sono stati collocati sul mercato titoli per 20 miliardi di euro pari al 75% di quanto emesso nel primo trimestre 2019 .

Negli ultimi anni i green bond hanno conosciuto non solo una crescita delle emissioni ma anche dei rendimenti.

“NN Investment Partners” ha analizzato l’andamento degli indici dei green bond rispetto agli indici tradizionali, nei comparti euro green bond ed euro corporate green bond negli ultimi quattro anni.

Nel 2019 i green bond hanno generato rendimenti del 7,4% rispetto al 6% delle obbligazioni ordinarie.

 

Tuttavia i dati positivi degli ultimi anni potrebbero nascondere alcune criticità; uno studio di Insight, la più grande società di asset management del gruppo BNY Mellon, ha analizzato 83 green bond e 96 social impact bond presenti sul mercato mondiale nel 2019; il 15% dei green bond e il 16% degli impact bond del campione risultano in qualche modo sospetti, poiché generano dubbi sulla reale sostenibilità dell’emissione, soprattutto per una mancanza di trasparenza sul modo in cui i capitali raccolti verranno utilizzati per finanziare progetti dichiarati come “verdi”.

Al fine di orientare gli investitori, gli emittenti e di contrastare problemi come il greenwashing, occorre quindi uno standard, riconosciuto a livello internazionale e capace di disciplinare le componenti fondamentali dei green bond.

Il 18 giugno 2019 il TEG [ ha pubblicato un report con cui ha illustrato la sua proposta per uno standard europeo dei green bond (EU-GBS), il secondo degli obiettivi prioritari del Piano di azione sulla finanza sostenibile.

Affinché un progetto sia finanziabile con il nuovo 2Green Bond Standard” deve essere allineato alla tassonomia europea;

questo significa che il progetto deve contribuire in modo sostanziale ad almeno uno dei 6 obiettivi ambientali identificati dalla tassonomia europea (mitigazione del cambiamento climatico, adattamento ai cambiamenti climatici, utilizzo sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine, transizione verso l’economia circolare, prevenzione e riciclo dei rifiuti, prevenzione e controllo dell’inquinamento e protezione degli ecosistemi) senza compromettere il raggiungimento degli altri (è il concetto del “do not significant harm”) e deve presentare una serie di garanzie sociali minime.

Al fine di valutare la capacità di un’attività, di un progetto di contribuire al raggiungimento di uno degli obiettivi della tassonomia è essenziale l’utilizzo dei “technical screening criteria”;

ad oggi il TEG ha sviluppato dei criteri tecnici di selezione per valutare la capacità di un’attività di contribuire agli obiettivi di “climate change mitigation” e “adaptation”, l’ambito identificato come prioritario dalla CE; in questo caso sono state individuate 3 classi:

attività a basse emissioni di carbonio e che già contribuiscono all’obiettivo della neutralità climatica; si pensi alla produzione di energia solare.

Attività in fase di transizione; possono contribuire al raggiungimento dell’obiettivo zero emissioni entro il 2050 ma, attualmente non operano ancora su questo livello; si pensi alla ristrutturazione di un edificio per assicurare una maggiore efficienza energetica.

Attività abilitanti; hanno un impatto sulle categorie precedenti. Per esempio un produttore di pannelli solari o di pale eoliche consente la produzione di energia rinnovabile che rientra nella prima classe.

É interessante osservare un’evoluzione all’interno dei green bond, alla ricerca di un posizionamento sempre più strategico rispetto alle sfide della sostenibilità.

Così settembre 2019 Enel ha lanciato il suo primo “SDG linked Bond, collocando con successo sul mercato americano un’emissione obbligazionaria da 1,5 miliardi di dollari;

 gli ordini, per circa 4 miliardi di dollari USA, hanno superato l’emissione di quasi 3 volte; a fronte di questo successo, ad ottobre 2019 Enel ha deciso di intervenire anche sul mercato europeo con il nuovo strumento obbligazionario e, ancora una volta, la domanda ha superato l’offerta.

L’utilizzo dei proventi non è vincolato ad una serie di progetti green eleggibili, ma  agli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030;

questo garantisce maggiore flessibilità all’emittente e l’ambito di intervento dei potenziali investimenti risulta più esteso;

in particolare Enel si è orientata alla creazione di valore mediante scelte di business che supportano il perseguimento dei seguenti SDGs:

“Energia accessibile e pulita” SDG 7, “Imprese, innovazione e infrastrutture” SDG 9, “Città e comunità sostenibili” SDG 11, “Lotta contro il cambiamento climatico” SDG 13.

Le risorse raccolte sul mercato dei capitali soddisfano l’ordinario fabbisogno finanziario dell’emittente;

quest’ultimo non utilizza le risorse per un progetto specifico ma per il raggiungimento di un determinato target al quale corrisponde un KPI.

 Per esempio, con l’emissione di settembre 2019, Enel si è impegnata a raggiungere una percentuale di capacità installata da fonti rinnovabili pari o superiore al 55% della capacità installata totale consolidata entro il 31 dicembre 2021.

Il processo di monitoraggio, basato sui KPI, consente di intervenire sul tasso di interesse in base ai risultati conseguiti dall’azienda;

nel caso in cui Enel non rispettasse la condizione di capacità di energia rinnovabile installata nei tempi dichiarati, il tasso di interesse legato al prestito obbligazionario sarà automaticamente rettificato con un meccanismo di step up (incremento di 25 bps).

Come detto il monitoraggio che consente di intervenire sul costo del denaro risulta molto attraente per gli investitori ed è anche un efficace incentivo per l’emittente al fine di migliorare la propria performance di sostenibilità nel tempo.

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