Bramosia di potere e usura.
Bramosia
di potere e usura.
Gli
Utili Idioti.
Conoscenzealconfine.it
– (26 Ottobre 2023) - Massimo Mazzucco – ci dice:
Mi ha
sinceramente stupito il vedere, nelle ultime settimane, i maggiori esponenti
della stampa di destra strillare all’unisono come galline spennate contro “il
terrorismo di Hamas”.
Come
se fosse genuino.
Forse
i vari Belpietro, Capezzone, Porro e Sallusti non sanno che Hamas è una
creazione di Netanyahu, il quale ne ha voluto la nascita, e l’ha poi foraggiata
in tutti i modi – politicamente ed economicamente – in modo da poterla
utilizzare al momento giusto per perseguire la propria agenda personale.
Se
queste cose le dicessi io, lascerebbero il tempo che trovano.
Ma le
dice “Haaretz”, una delle più importanti testate giornalistiche israeliane.
Dall’articolo
intitolato “Breve storia dell’alleanza fra Netanyahu e Hamas” leggiamo:
“Molto
inchiostro è stato versato per descrivere la relazione duratura – anzi,
l’alleanza – fra Benjamin Netanyahu e Hamas.
Eppure,
il fatto stesso che ci sia stata una stretta collaborazione fra il primo
ministro israeliano (con il supporto di molti della destra) e questa
organizzazione fondamentalista, è improvvisamente scomparso dalle analisi più
recenti:
tutti
parlano di ‘fallimenti’, ‘errori’ e ‘contzeptzioti (idee fisse).
Detto
questo, non solo è necessario rivedere la storia di questa collaborazione, ma
dobbiamo anche concludere in modo inequivoco che il “pogrom del 7 ottobre 2023”
aiuta Netanyahu, e non per la prima volta, a preservare il suo potere, almeno
in tempi brevi “.
“Il
modus operandi di Netanyahu, da quando nel 2009 è tornato ad essere primo
ministro, è sempre stato e continua ad essere, da un lato, un rafforzamento del
ruolo di Hamas nella striscia di Gaza, e dall’altro, un indebolimento
dell’Autorità Palestinese.“
“Negli
ultimi 14 anni, mentre incrementava una politica di divide-et-impera” fra
Cisgiordania e Gaza, Netanyahu si è opposto a qualunque tentativo, militare o
diplomatico, che potesse mettere fine al regime di Hamas.”
“Per
oltre un decennio, Netanyahu ha aiutato in vari modi la crescita militare e
politica di Hamas.
È
stato Netanyahu a trasformare Hamas da una organizzazione terroristica con
poche risorse a qualcosa di simile ad uno stato vero e proprio .“
“Rilasciare
prigionieri palestinesi, permettere il trasferimento di denaro contante – visto
che l’inviato del Qatar entra ed esce da Gaza come vuole – permettere
l’importazione di una vasta gamma di beni e di materiali da costruzione, pur
sapendo che molto di questo materiale servirà al terrorismo e non a costruire
infrastrutture civili, […] tutto questo ha creato una simbiosi tra il fiorire
del terrorismo fondamentalista e la conservazione del potere di Netanyahu.”
“È
importante ricordare che senza questi fondi dal Qatar (e dall’Iran), Hamas non
avrebbe mai avuto i soldi per mantenere il suo regno di terrore.
In pratica, l’iniezione di denaro contante dal
Qatar (e non di depositi bancari, che sono facilmente tracciabili)
rappresentano una pratica che Netanyahu ha supportato ed approvato, e che è
servita a rafforzare il braccio armato di Hamas fin dal 2012.”
L’articolo
poi spiega come, ogni volta che si sia presentata per Israele la possibilità di
distruggere Hamas, Netanyahu si sia adoperato in tutti i modi perché questo non
accadesse.
Prosegue l’articolo:
“Nell’agosto
2019 l’ex primo ministro Ehud Barak ha dichiarato che ‘la strategia di
Netanyahu è quella di mantenere Hamas vivo e vegeto, anche a costo di
abbandonare i suoi cittadini (nel sud di Israele), pur di indebolire l’Autorità
Palestinese di Ramallah’.
Barak
ha aggiunto che grazie ad Hamas, è più facile spiegare agli israeliani che non
c’è nessuno con cui dialogare.
Se
invece l’Autorità Palestinese dovesse rafforzarsi, allora avremmo qualcuno con
cui dobbiamo parlare”.
Nello
stesso anno, l’esponente del “Likud”, “Galkit Atbaryan”, ha dichiarato: “Diciamolo sinceramente, Netanyahu
vuole Hamas ai suoi piedi, ed è disposto a pagare un prezzo quasi
incomprensibile per ottenere questo risultato.”
“Lo
stesso primo ministro (Netanyahu) ha accennato più volte brevemente alla sua
posizione riguardo ad Hamas.
Nel marzo 2019, durante una riunione del “Likud”
dove si stava discutendo il trasferimento di fondi ad Hamas, Netanyahu disse:
‘chiunque si opponga ad uno Stato palestinese
deve supportare i finanziamenti di Gaza, perché mantenere la separazione fra la
Autorità Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza eviterà che venga creato
uno stato palestinese’ “.
“Non
illudetevi – conclude l’articolo – che, finché Netanyahu e il suo governo sono
al potere, il regime di Hamas possa crollare.
Ci
saranno un sacco di discorsi pirotecnici sulla attuale ‘guerra al terrorismo’,
ma sostenere Hamas per Netanyahu è molto più importante di qualche morto nei
kibbutz.”
Avete
capito, Belpietro Capezzone & Company?
Quando
il saggio indica la luna, gli stolti guardano il dito.
Quando
Netanyahu urla contro Hamas, gli stolti guardano le vittime dei kibbutz.
E non
si accorgono che il vero mandante è proprio lui.
“Massimo
Mazzucco)
(luogocomune.net/29-palestina/6353-gli-utili-idioti)
La
Trappola del “Move-In”…
Finiti
i Chilometri
Non si
Può più Circolare.
Conoscenzealconfine.it
– (27 Ottobre 2023) – Presskit.it – Redazione - ci dice:
La
trappola del Move-In è spiegata direttamente dalla Regione Piemonte, lo stesso
è a Milano.
“L’allegato
della delibera introduce l’attivazione del sistema MOVE IN:
‘piattaforma,
ad adesione volontaria, che monitora le percorrenze dei veicoli all’interno dei
territori soggetti a limitazione della circolazione a fini ambientali’. Il
sistema, a fronte dell’assegnazione di una soglia chilometrica annuale al
momento di 9 mila Km, da poter utilizzare nelle aree soggette a limitazione del
traffico per motivi ambientali, obbliga i cittadini ad un limitato uso dei
veicoli privati”,
spiega
l’avv. Francesco Paolo Cinquemani.
“All’esaurimento
dei chilometri ‘concessi’ in funzione delle caratteristiche emissive del
veicolo, lo stesso non potrà più circolare fino alla conclusione dell’annualità
di riferimento.
Il sistema non consente la circolazione dei
veicoli in caso di attivazione delle misure temporanee di limitazione della
circolazione in caso di previsione di perduranti situazioni di accumulo degli
inquinanti, la soglia chilometrica annuale è stabilita nel rispetto degli
obiettivi di riduzione degli inquinanti stabiliti dal PRQA”. (regione.piemonte.it/web/temi/ambiente-territorio/ambiente/move-monitoraggio-dei-veicoli-inquinanti).
“Il
Move In è una trappola in attesa del vostro consenso, e una volta accettato
difficilmente si può tornare indietro.
Il
fatto che il 7 settembre il Consiglio dei Ministri abbia prorogato l’attuazione
della limitazione dei veicoli diesel euro 5, non è una vittoria dei cittadini,
bensì un rinvio alla prossima proposta che non sarà di 9 mila Km, ma
possibilmente la prossima proposta sarà di 15 o 20 mila km, giusto per renderla
più allettante ai cittadini, che a fronte di più km disponibili rispetto a
quelli realmente percorsi in un anno e rispetto alla proposta iniziale di 9
mila km, accetteranno più volentieri.
Sappiate
però che accettato il Move-in inizialmente anche di 30 mila km, nessuno vi
assicura che l’anno successivo non subisca un taglio del 50% e l’anno
successivo di un altro 50%, perché il vero obiettivo non è la diminuzione
dell’inquinamento o la tutela dell’ambiente, ma realizzare le città di 15
minuti.
Tutto
ciò grazie al fatto che voi accettiate volontariamente e passivamente di
limitare la vostra stessa circolazione, perché sanno che non possono imporlo
attivamente”.
(presskit.it/2023/10/21/la-trappola-del-move-finiti-chilometri-non-si-puo-piu-circolare/)
Come
Bill Gates è diventato l'uomo
più
potente nel campo della sanità pubblica.
Lifenews.com
– (27 ottobre 2023) - Maryanne Demasi -
ci dice:
La
Fondazione Bill e Melinda Gates ha investito milioni di dollari nel
finanziamento di produttori di vaccini, ONG, media e agenzie internazionali,
guadagnando al suo omonimo fondatore un peso significativo nel regno politico e
medico.
Bill
Gates, fondatore di “Breakthrough Energy” e copresidente della “Bill &
Melinda Gates Foundation”, parla sul palco del “New York Times Climate Forward
Summit 2023” presso il “Times Center” il 21 settembre 2023, a New York City.
(Maryanne
Demasi ) —
Nel 2017,
la Food and Drug Administration (FDA) statunitense ha stipulato un memorandum d'intesa (MOU) con la Fondazione Bill & Melinda
Gates.
In
base al protocollo d’intesa, le due entità hanno concordato di condividere
informazioni per “facilitare lo sviluppo di prodotti innovativi, comprese
contromisure mediche”, come strumenti diagnostici, vaccini e terapie per
combattere la trasmissione di malattie durante una pandemia.
“Il dottor Mark Trozzi condivide le
strategie per combattere gli effetti della proteina spike COVID e prevenire
l'infezione.)
La FDA
ha accordi d’intesa con molte organizzazioni accademiche e no-profit, ma poche
hanno tanto da guadagnare quanto Bill Gates, che ha investito miliardi in
contromisure pandemiche.
Gli
esperti temono che la Fondazione Gates possa avere un'influenza indebita sulle
decisioni normative della FDA riguardo a queste contromisure.
David
Gortler,
ex consigliere senior del commissario della FDA tra il 2019 e il 2021, afferma
di essere “sospettoso” del “MOU”.
“Se la
Fondazione Gates stipulasse un protocollo d’intesa con un regolatore su un
prodotto che desidera sviluppare, sembra che ci sarebbe un conflitto di
interessi. E se tutte le altre aziende farmaceutiche facessero esattamente la
stessa cosa della Fondazione Gates?”
… lui
dice.
Gortler, ora membro dell'”Ethics and Public
Policy Center” di Washington, DC, ha spiegato che normalmente gli incontri tra
sviluppatori e regolatori dovrebbero essere una parte ufficiale del registro
pubblico e soggetti alle richieste del “Freedom of Information Act”.
"Tuttavia,
un protocollo d'intesa come questo può aggirare i consueti requisiti di
trasparenza delle comunicazioni ufficiali", afferma Gortler.
“In questo modo le loro comunicazioni possono
essere mantenute segrete.”
David
Bell, ex
ufficiale medico dell’”Organizzazione Mondiale della Sanità” (OMS) che ora
lavora come medico di sanità pubblica e consulente biotecnologico, concorda sul
fatto che il protocollo d’intesa ha il potenziale per corrompere il processo
normativo.
"La
narrazione è che le fondazioni filantropiche possono solo essere buone, perché
producono vaccini e salvano migliaia di vite, quindi dobbiamo ridurre la
burocrazia e aiutare la FDA a fare le cose rapidamente altrimenti i bambini
moriranno", dice Bell.
“Ma in realtà ha il potenziale per corrompere
l’intero sistema”.
Bell
aggiunge:
“Parlando
in generale, le strette relazioni tra regolatori e sviluppatori sollevano
inevitabili rischi che scorciatoie e favori possano compromettere il rigore
della revisione del prodotto, mettendo a rischio il pubblico”.
Porta
girevole.
La FDA
è stata aspramente criticata per la sua “porta girevole”.
Dieci
degli ultimi 11 commissari della FDA hanno lasciato l’agenzia e si sono
assicurati ruoli presso aziende farmaceutiche che un tempo regolamentavano.
Allo
stesso modo, la Fondazione Gates ha assunto membri di alto rango della FDA, che
portano con sé una conoscenza approfondita del processo normativo.
Ad
esempio, “Murray Lumpkin” ha lavorato 24 anni presso la FDA, ricoprendo il
ruolo di consulente senior del commissario della FDA e rappresentante per le
questioni globali.
Ora è
vicedirettore degli affari normativi presso la Fondazione Gates e firmatario
del protocollo d'intesa.
E “Margaret
Hamburg”, che ha ricoperto il ruolo di commissario della FDA tra il 2009 e il
2015, fa ora parte del “comitato consultivo scientifico” della “Fondazione
Gates”.
Murray
Lumpkin, vicedirettore degli affari normativi, Fondazione Gates; Margaret
Hamburg, comitato consultivo scientifico, Fondazione Gates.
Il
governo canadese promette 90 milioni di dollari per il “cambiamento climatico”
e l’equità dei vaccini nelle nazioni dei Caraibi.
Bell
non ha dubbi che queste nomine fossero strategiche per “ingannare il sistema”
dicendo:
“Se
lavorassi alla Fondazione Gates, assumerei sicuramente qualcuno come Murray
Lumpkin”.
L’unico
modo per risolvere il problema delle porte girevoli, dice “Bell”, è inserire
una “clausola di non concorrenza” nei loro contratti.
“Potrebbe
darsi che i dipendenti della FDA non possano lavorare per le persone che hanno
regolamentato per almeno 10 anni.
Ci
sono posti che hanno queste regole: le aziende private hanno accordi secondo
cui non puoi lavorare per un rivale”, ha detto “Bell”.
La FDA
ha respinto le domande sul potenziale conflitto di interessi o sulla mancanza
di trasparenza nelle sue comunicazioni con la Fondazione Gates.
In una dichiarazione, la FDA ha affermato:
Il
processo decisionale normativo della FDA è basato sulla scienza. Gli ex
funzionari della FDA non influiscono sulle decisioni normative.
La FDA collabora solo con la Fondazione Bill e
Melinda Gates ai sensi del “MOU” come descritto.
Gates
ha miliardi in gioco.
Gates
si vantava di aver ricevuto un rendimento di 20 a 1 sul suo investimento di 10
miliardi di dollari nel “finanziamento e consegna” di medicinali e vaccini.
"È
il miglior investimento che abbia mai fatto", ha scritto sul “Wall Street Journal” .
"Decenni fa, questi investimenti non
erano scommesse sicure, ma oggi quasi sempre ripagano alla grande."
Nel
settembre 2019, appena prima della pandemia, i documenti depositati presso la”
SEC” mostravano che la fondazione aveva acquistato oltre 1 milione di azioni di
“BioNTech” (partner di “Pfizer”) per 18,10 dollari per azione.
Entro
novembre 2021, la fondazione ha venduto la maggior parte delle azioni per una
media di $ 300 per azione.
Il
giornalista investigativo “Jordan Schachtel”
ha riferito che la fondazione ha
intascato circa 260 milioni di dollari di profitti – più di 15 volte il suo
investimento originale – la maggior parte dei quali non tassati perché
investiti attraverso la fondazione.
Nel
suo recente libro, “How to Prevent the Next Pandemic “, Gates avverte che le future pandemie
rappresentano la più grande minaccia per l’umanità e che la sopravvivenza
dipende dalle strategie globali di preparazione alla pandemia, posizionandosi
fermamente al centro della definizione dell’agenda.
Nell’ottobre
2019, la Fondazione Gates e il World Economic Forum hanno ospitato l’Evento 201 , che ha riunito agenzie governative,
società di social media e organizzazioni di sicurezza nazionale per simulare
una pandemia globale “fittizia”.
Ottobre
2019, Gates e il WEF finanziano l'”evento 201” per simulare una risposta
pandemica globale.
(Il
deputato britannico sostiene che il vaccino anti-COVID è responsabile delle
morti in eccesso nel primo dibattito parlamentare sulla questione).
Le
principali raccomandazioni emerse dall’evento erano che una tale crisi avrebbe
richiesto l’impiego di nuovi vaccini, la sorveglianza e il controllo delle
informazioni e dei comportamenti umani, orchestrando la cooperazione e il
coordinamento delle industrie chiave, dei governi nazionali e delle istituzioni
internazionali.
Diverse
settimane dopo, quando è emersa la pandemia di COVID-19, molti aspetti di
questo “scenario ipotetico” sono diventati una realtà agghiacciante.
Alla
Fondazione Gates, che detiene azioni di
una serie di aziende farmaceutiche tra cui “Merck”, “Pfizer” e “Johnson &
Johnson”, viene ora riconosciuto il merito di esercitare un’influenza
significativa sulla direzione della risposta globale alla pandemia, affermando
che il suo obiettivo è “vaccinare l’intero mondo” con un vaccino
contro il COVID-19.
Dominio
globale.
La
Fondazione Gates ha investito milioni nel finanziamento di ONG, media e agenzie
internazionali, guadagnando a Gates un notevole peso politico.
I
contributi finanziari ai media hanno procurato a Gates una copertura
giornalistica favorevole, vantandosi sul
sito web della fondazione di aver
impegnato quasi 3,5 milioni di dollari per il
“Guardian” nel 2020-2023.
L’ente
regolatore dei medicinali del Regno Unito – l’MHRA – ha rivelato che nel 2022
sono stati necessari circa 3 milioni di dollari in finanziamenti dalla
Fondazione Gates, che si estenderebbero su diversi anni finanziari.
Il
candidato presidenziale Robert F Kennedy, Jr. ha definito Gates “l'uomo più
potente nel campo della sanità pubblica” perché è riuscito a indirizzare la
strategia pandemica dell'OMS concentrandosi principalmente sulla vaccinazione.
Kennedy
ha detto in un'intervista che l'OMS “implora e rinuncia” ai finanziamenti di
Gates, che ora rappresentano oltre l'88% dell'importo totale delle donazioni
dell'OMS da parte di fondazioni filantropiche.
"Penso
che [Gates] creda di essere in qualche modo ordinato divinamente per portare la
salvezza al mondo attraverso la tecnologia", ha detto Kennedy.
"Crede che l'unico percorso per una buona
salute sia dentro una siringa."
L'amministratore
delegato della Gates Foundation,” Mark Suzman, ha risposto alle preoccupazioni
secondo cui la fondazione ha "un'influenza sproporzionata nella
definizione delle agende nazionali e globali, senza alcuna responsabilità
formale nei confronti degli elettori o degli organismi internazionali".
(“Health
Canada” conferma la sequenza del DNA del” virus Simian 40” legato al cancro
trovata nel vaccino Pfizer COVID).
“È
vero che tra i nostri dollari, la nostra voce e il nostro potere di
convocazione, abbiamo accesso e influenza che molti altri non hanno”, ha
ammesso “Suzman” nella sua lettera annuale del 2023.
“Ma
non commettere errori: laddove esiste una soluzione in grado di migliorare i
mezzi di sussistenza e salvare vite umane, la sosterremo con insistenza.
Non
smetteremo di usare la nostra influenza, insieme ai nostri impegni finanziari,
per trovare soluzioni", ha scritto.
Il
colonnello Mac Gregor a Tucker:
l'amministrazione
Biden sta
portando
gli
Stati Uniti in una guerra di "Armageddon"
in
Medio Oriente.
Lifesitenews.com
- Steve Jalsevac – (27 ottobre 2023) – ci dice:
"Sarà
molto difficile per Russia e Turchia non entrare in questa lotta contro di noi
perché non tollereranno il tipo di punizione collettiva che Israele prevede per
Gaza", ha detto il colonnello in pensione.
(
LifeSiteNews ) — Il colonnello Douglas Mac Gregor, veterano di guerra decorato, ha
avvertito che i funzionari dell’amministrazione Biden stanno portando gli Stati
Uniti in una guerra di “Armageddon” che rischia una conflagrazione militare con
Iran, Turchia, Russia e altri al fine di difendere e aiutare a facilitare una
guerra israeliana e crimine di guerra
che è inaccettabile per il mondo e per la maggior parte degli americani.
"Sembra
che la destinazione scelta sia davvero Armageddon", ha detto lo studioso e
autore militare a” Tucker Carlson” nel suo ultimo programma Twitter/”X” .
L’ex
conduttore di punta di Fox News ha aperto l’intervista con un recente clip
televisivo del senatore repubblicano statunitense “Lindsey Graham” della
Carolina del Sud che minaccia l’Iran di attacchi bomba contro le sue raffinerie
di petrolio se il suo gruppo militante alleato in Libano, Hezbollah, “lancia un
massiccio attacco contro Israele” e ”dal nord in risposta al più feroce
attacco mai compiuto da Israele contro la densamente popolata Striscia di Gaza.
"Iran, se intensificherai questa
guerra, verremo a prenderti", ha affermato Graham.
Il
continuo bombardamento israeliano dell'enclave è una risposta all'attacco senza
precedenti del 7 ottobre da parte del gruppo militante islamico Hamas, che
governa la Striscia ed è considerato un'organizzazione terroristica da Israele,
Stati Uniti, Unione Europea, Canada, Regno Unito, Australia, Giappone, Egitto e
Paraguay.
Secondo
le autorità israeliane, i militanti hanno ucciso 1.400 persone, inclusi civili
e bambini, e “Human Rights Watch” ha verificato i video che rivelavano omicidi
freddi e deliberati (crimini di guerra) durante l'attacco.
I
cittadini israeliani stanno ancora affrontando i bombardamenti missilistici e
sono terrorizzati dal fatto che possano subire condizioni ben peggiori man mano
che il conflitto si intensifica e alcune forze islamiste radicali più grandi
potrebbero unirsi ad Hamas nel tentativo di distruggere la loro nazione.
In
un'altra intervista al” London Real”, “Mac Gregor” ha chiarito di condividere
l'opinione secondo cui Hamas è un'organizzazione terroristica che deve essere
eliminata.
“Tutti
coloro che hanno osservato ciò che Hamas ha fatto concordano sul fatto che
Hamas deve essere sradicato.
Non ho
incontrato nessuno che non sia d'accordo con questo.
Ciò
include, ad esempio, il “re Abdullah” di Giordania.
Il
generale "Sisi” in Egitto la pensa allo stesso modo, anche “Erdoğan”, che
ha cambiato opinione, inizialmente si è espresso contro Hamas.
Non
credo che nessuno lo contesti", ha detto Mac Gregor.
Tuttavia,
ha aggiunto, “il problema è che la campagna per sradicare Hamas si è
rapidamente trasformata in una campagna per sradicare effettivamente l’intera
popolazione di Gaza e ciò non sta andando bene nel resto della regione… quindi
qualunque fondamento morale abbiano gli israeliani si sta rapidamente
erodendo”.
“Mac Gregor”
ha indicato che le sue critiche includono una seria preoccupazione per ciò che
accadrà a Israele come risultato della risposta degli Stati Uniti e di Israele
all'attacco di Hamas.
Nell’intervista al “London Real” ha
dichiarato: “La mia più grande preoccupazione in questa fase è che Israele
venga distrutto”.
Sul
versante di Gaza, le autorità del ministero della Sanità di Hamas riferiscono
che dal 7 ottobre sono morte ben 7.028 persone a causa degli attacchi aerei
militari israeliani, tra cui 2.913 bambini e 1.709 donne.
Inoltre, l’OCHA ha riferito che circa 1.600
persone sono scomparse e si presume siano intrappolate o morte sotto le
macerie, di cui 1,4 milioni sono sfollate all’interno della regione sigillata
di 141 miglia quadrate che è sotto un rigido blocco israeliano dal 2007.
Mentre
i palestinesi in Cisgiordania protestano contro il bombardamento di Gaza,
secondo quanto riferito, i soldati israeliani hanno ucciso 102 persone e ferito
1.889.
Israele
riferisce di due morti e 14 feriti tra il proprio personale in questi due
territori occupati.
(Gli
esperti di politica estera sostengono che Israele ha messo in pericolo se
stesso maltrattando i palestinesi per decenni)
Il 9
ottobre, Israele ha tagliato acqua, cibo, carburante e altre risorse a questa
popolazione rinchiusa di oltre 2 milioni di persone, affermando che queste
misure sarebbero rimaste in vigore fino alla restituzione dei circa 200 ostaggi
rapiti da Hamas il 7 ottobre.
Esperti militari e di diritti umani hanno
affermato che queste azioni di Israele, insieme al bombardamento di aree civili
a Gaza, sono classificate come “punizione collettiva”, un crimine di guerra
secondo il diritto internazionale.
Altri commentatori, come “Jewish Voice for
Peace”, chiamano queste misure un genocidio.
Mac Gregor
ha spiegato che se lo scenario minacciato da Graham si realizzasse, con ogni
probabilità, ci troveremo di fronte a una “guerra globale”.
Se gli
Stati Uniti dovessero entrare in questo conflitto come “cobelligeranti” con
Israele, “sarebbe molto difficile per Russia e Turchia non entrare in questa
lotta contro di noi perché non tollereranno il tipo di punizione collettiva che
Israele pianifica, per Gaza”.
Inoltre,
il veterano della prima guerra in Iraq ha continuato spiegando che il
segretario di Stato “Antony Blinken” e altri decisori ai vertici del governo
degli Stati Uniti sembrano avere un’idea sbagliata credendo che la disparità
tra le capacità militari americane e quelle del loro potenziale gli avversari
sono simili a quelli che erano all’inizio degli anni ’90.
“Non
siamo più la potenza che eravamo nel 1991”, ha valutato Mac Gregor. Inoltre,
“bisogna considerare l’arsenale di missili che l’Iran possiede, e possono
raggiungere 1.200 miglia con grande precisione, [consegnando] testate
convenzionali ad altissimo potenziale esplosivo che farebbero danni enormi,
distruggendo interi isolati di città in posti come Haifa e Tel Aviv.
Se gli
Stati Uniti bombardassero l’Iran, Mac Gregor ha detto che “tutte le basi che
abbiamo in Iraq e Siria… verrebbero prese di mira e questa volta le
prenderebbero di mira in modo accurato e questa distruzione sarebbe totale”.
Ha
anche avvertito che potrebbero manifestarsi attacchi terroristici in patria
“potenzialmente peggiori dell’11 settembre”, affermando che ci sono “molti
agenti Hezbollah negli Stati Uniti”.
Inoltre,
se gli israeliani entrano a Gaza e Hezbollah interviene nel nord, innescando un
attacco americano contro l’Iran, “ci ritroveremo in uno scontro con la Russia.
La Russia non resterà in silenzio a guardare l’Iran distrutto dalla potenza
aerea e navale degli Stati Uniti nella regione”, ha affermato.
Ciò
renderebbe le portaerei americane e le altre navi da guerra nel Mediterraneo
orientale, che trasportano molte migliaia di soldati statunitensi, “vulnerabili
ai missili Kinzhal e ad altri missili, missili da crociera e missili ipersonici
di cui dispongono i russi”.
“E
dubito seriamente a quel punto che i turchi sarebbero in grado di restarne
fuori”, ha continuato Mac Gregor.
I
turchi sono “i leader de facto del mondo musulmano sunnita. Hanno le più grandi
forze armate della regione. Sono molto vicini a Israele. Potrebbero spostare le
forze a sud attraverso la Siria molto rapidamente” e senza ostacoli.
Mac Gregor:
"Incoraggio gli americani di tutto il mondo ad ascoltare il discorso del
re Abdullah di Giordania."
Ciò
che è fondamentale anche qui, ancora una volta, è “la questione della punizione
collettiva”, ha ribadito il colonnello in pensione.
Ha
criticato Blinken per aver affermato che Israele e gli Stati Uniti avrebbero
fatto “tutto il necessario” per distruggere Hamas in chiaro disprezzo del
diritto internazionale che richiede la protezione dei civili innocenti nei
conflitti armati.
E
comprendendo la probabile risposta delle nazioni vicine, questa politica
dell’amministrazione Biden, dominata dai neoconservatori e sionisti, indica una
chiara intenzione di innescare una guerra regionale e persino globale.
Mac Gregor
ha continuato “incoraggiando gli americani di tutto il mondo ad ascoltare il
discorso del re Abdullah di Giordania al Cairo di diversi giorni fa”.
Pur
condannando la violenza contro tutti i civili a Gaza, in Cisgiordania e in
Israele, il monarca “continua sottolineando che la punizione collettiva
inflitta a 2 milioni di persone è inaccettabile, sia secondo il diritto
internazionale che per ragioni umanitarie.
Questo è il problema."
Affrontando
la crisi, “Abdullah” ha detto specificamente:
“Sono
indignato e addolorato per quegli atti di violenza compiuti contro civili
innocenti a Gaza, in Cisgiordania e in Israele.
L’incessante
campagna di bombardamenti in corso a Gaza, mentre parliamo, è crudele e
inconcepibile a tutti i livelli.
È la
punizione collettiva di un popolo assediato e indifeso.
Si
tratta di una flagrante violazione del diritto internazionale umanitario.
È un
crimine di guerra”.
“Tuttavia,
quanto più profondi sono i tagli della crisi e della crudeltà, tanto meno il
mondo sembra preoccuparsene.
Chiunque
altro attaccasse le infrastrutture civili e affamasse deliberatamente un’intera
popolazione di cibo, acqua, elettricità e beni di prima necessità sarebbe
condannato.
La responsabilità verrebbe applicata
immediatamente, inequivocabilmente”, ha proposto.
“Ma non a Gaza”.
Ha
continuato mettendo in guardia dai pericoli “catastrofici” dell’applicazione
selettiva del diritto internazionale, che considera la vita di alcuni esseri
umani più preziosa di altri, in base alla razza, alla religione e ai confini.
E ha
stabilito le priorità per il vertice di pace per porre fine alle ostilità,
fornire aiuti umanitari ai civili a Gaza e affermare il “rifiuto
inequivocabile” dello sfollamento forzato o interno dei palestinesi, che
secondo lui è un crimine di guerra e “una linea rossa per tutti noi."
“Oggi
Israele sta letteralmente affamando i civili a Gaza”, ha detto Abdullah.
“Ma per decenni i palestinesi sono stati
privati della speranza, della libertà e di un futuro, perché quando le bombe
smettono di cadere, Israele non viene mai ritenuto responsabile
Le ingiustizie dell’occupazione continuano e
il mondo se ne va”.
(Il
Patriarca cattolico di Gerusalemme chiede la fine dell'occupazione israeliana
della Palestina, preghiera rinnovata)
Mac Gregor
ha detto a Carlson che nello “sforzo americano di stare al fianco di Israele e di aiutare a
proteggere Israele, abbiamo preso una strada diversa e abbiamo messo da parte
la turpitudine morale”.
“Come
si può aiutare uno [Israele] senza commettere un crimine di guerra contro
l’altro [i Palestinesi]?
Questo
è il problema della punizione collettiva.
Questo
è il problema dell’annientamento di Gaza e del tentativo di spazzare via la sua
popolazione”, ha detto.
“Questo è inaccettabile per noi americani”.
Israele
ha commesso una punizione collettiva “inaccettabile” per gli americani; la
guerra che ne deriverebbe potrebbe minacciare l’esistenza dello Stato ebraico.
Inoltre,
poiché i leader israeliani nel corso degli anni hanno generalmente avuto come
obiettivo l’espansione dei loro confini “all’intera Palestina” , comportando
“l’evacuazione generale” della popolazione araba, anche sotto “brutale
costrizione”, Mac Gregor ha ricordato a Carlson che “ gli israeliani vorrebbero cacciare
la popolazione [di Gaza]” verso l’Egitto, il che rimane un crimine di guerra.
“E man
mano che gli americani vedono sempre più distruzione, e sempre più filmati e
fotografie escono da Gaza che mostrano bambini, donne, anziani che muoiono,
vengono uccisi, il sostegno a Israele si eroderà”, ha avvertito il colonnello
in pensione.
“E
allo stesso tempo, la rabbia e l’odio all’interno della regione, che già
detesta Israele, saranno fenomenali”.
Queste
dinamiche stanno già prendendo piede, come dimostrato dal governo egiziano che,
pur essendo uno dei principali destinatari degli aiuti esteri americani, “è
stato un buon partner strategico per Israele”.
Ma a
causa della protesta pubblica scoppiata nella loro nazione per il bombardamento
di Gaza, “almeno 100.000 soldati egiziani sono stati spostati verso il confine
con Gaza”, riconoscendo che “potrebbero dover affrontare gli israeliani” poiché
nessun altro li proteggerà per oltre 2 anni. Vi sono milioni di civili
nell'enclave.
Se ciò
dovesse accadere, con l’Egitto che attacca da sud e Hezbollah da nord,
coinvolgendo tutte le altre potenze, compresi gli Stati Uniti, questa guerra
regionale inizierà non solo danneggiando l’America economicamente e
fisicamente, “ma potrebbe minacciare l’esistenza stessa di Israele. "
Sebbene
gli Stati Uniti vogliano proteggere Israele, “potremmo non essere in grado di
farlo se la guerra dovesse sfuggire al controllo.
E
siamo sinceri: storicamente, le guerre sono fuori controllo.
Si
muovono in direzioni che non avresti mai previsto.
Quindi,
se pensi di poter tracciare questa strada, come pensa “Lindsey Graham”, sei
pazzo.
Una
volta scatenato, non è più gestibile”, ha detto Mac Gregor.
Il
conflitto potrebbe portare alla Terza Guerra Mondiale, con una Russia
rafforzata che non avrà paura di affrontare gli Stati Uniti indeboliti.
Mac Gregor
ha anche osservato che, contrariamente a quanto riportato dai media,
“l’opinione in Israele è divisa.
Chiunque
pensi che dietro a tutto ciò ci siano tutti in Israele si sbaglia.
Ci
sono persone là fuori disposte a mediare.
Ci
sono persone che coopereranno con loro in queste circostanze all’interno del
mondo arabo-musulmano”.
Mettendo
in risalto la cruda realtà della situazione attuale, ha aggiunto:
“Sai,
a un certo punto qualcuno in Israele deve dire che se non possiamo uccidere
tutti, dobbiamo convivere con tutti, che ci piaccia o no”.
Nel
chiedere un “periodo di riflessione” nel conflitto nel tentativo di portare la
pace, Mac Gregor è stato incoraggiato da un’offerta all’inizio di questa
settimana da parte del presidente turco “Recep Tayyip Erdoğan” di mediare la
disputa tra Israele e Hamas.
“La
sua volontà di mediare è una luce brillante in un cielo altrimenti molto buio.
E dovremmo tenerne conto perché non vogliamo la guerra regionale. Ci
distruggerà economicamente”, ha detto.
“La Russia è militarmente più potente di
quanto non lo sia stata dagli anni '80, ed è pronta a schierarsi dalla parte
dell'Iran.
Dovremmo
tutti pensarci seriamente”.
“E
chiunque pensi che [i decisori stranieri] diranno:
'Oh,
no, abbiamo paura dell'America, non correremo questo rischio, si sbaglia.
Non
hanno paura di rischiare di attaccare Israele per paura di scontrarsi con noi.
Non siamo più la potenza che eravamo nel 1991, e loro lo sanno. Ed economicamente,
la nostra posizione è molto fragile”.
Il
colonnello Douglas Mac Gregor dice a Tucker che la gestione americana della
guerra in Ucraina è stata "ritorta contro."
I
leader cristiani a Gerusalemme sollecitano Israele a consentire l'ingresso
degli aiuti umanitari a Gaza.
Il più
grande onore per i nostri veterani è opporsi a tutte le guerre orchestrate dai
neoconservatori - sionisti, a cominciare dall’Ucraina.
Gli
esperti di politica estera sostengono che Israele ha messo in pericolo sé
stesso maltrattando i palestinesi per decenni.
L'FBI
ha ricevuto "informazioni criminali"
su
Biden da 40 fonti riservate,
afferma
il senatore Grassley.
Lifesitenews.com
– Giuseppe Summers – (27 ottobre 2023) – ci dice:
Il
senatore americano sostiene che l'ufficio locale dell'agenzia a Washington è
riuscito in alcuni casi a chiudere con successo i resoconti e le informazioni
provenienti da fonti screditando falsamente le informazioni come
disinformazione straniera.
WASHINGTON,
DC ( LifeSiteNews ) – Il senatore repubblicano americano Chuck Grassley dell’Iowa
ha affermato che il Federal Bureau of Investigation (FBI) ha ricevuto
“informazioni criminali” da 40 fonti riservate che parlavano della famiglia
Biden.
Martedì,
in una lettera al procuratore generale “Merrick Garland “e al direttore
dell'FBI “Christopher Wray”, Grassley ha affermato che le informazioni fornite
all'agenzia si riferivano al presidente Joe Biden, a suo figlio Hunter e al
fratello di Joe Biden, James.
"Questa
lettera si basa su anni di indagini, inclusa la fornitura di informazioni,
documenti e accuse da parte di numerosi informatori del Dipartimento di
Giustizia [DOJ] che indicano che c'è - ed è stato - uno sforzo da parte di
alcuni funzionari del Dipartimento di Giustizia e dell'FBI per ritardare in
modo improprio e interrompere l'attività investigativa totale e completa sulla
famiglia Biden, inclusi ma non limitati agli FD-1023 che fanno riferimento alla
famiglia Biden", ha scritto Grassley.
Le
informazioni, fornite all'FBI da “Confidential Human Sources”(CHS), sono state
gestite da diversi uffici sul campo dell'FBI a livello nazionale.
Grassley
sostiene inoltre, tuttavia, che l'ufficio locale dell'agenzia a Washington è
riuscito in alcuni casi a chiudere con successo i resoconti e le informazioni
provenienti dalle fonti screditando falsamente le informazioni come
disinformazione straniera, qualcosa che secondo Grassley "ha causato la
cessazione dell'attività investigativa".
"Sulla
base delle informazioni fornite al mio ufficio per un periodo di anni da
numerosi informatori credibili, sembra che ci sia uno sforzo da parte del
Dipartimento di Giustizia e dell'FBI per chiudere l'attività investigativa
relativa alla famiglia Biden", ha affermato Grassley.
“Tali
decisioni indicano un significativo pregiudizio politico che infetta il
processo decisionale non solo del procuratore generale e del direttore
dell’FBI, ma anche degli agenti diretti e dei pubblici ministeri”.
La
lettera di Grassley descrive in dettaglio un caso di presunta interferenza in
cui una task force dell'FBI ha tentato di chiudere un'indagine su un FD-1023
secondo cui Joe e Hunter Biden avrebbero ricevuto 5 milioni di dollari da
Mykola Zlochevsky , oligarca ucraino e amministratore delegato di Burisma
Holdings, in cambio del licenziamento.
Il procuratore ucraino Viktor Shokin, che
all'epoca stava indagando su Burisma e quando Hunter era nel consiglio di
amministrazione della società - un atto di cui Joe Biden, secondo quanto
riferito, si vantava.
Secondo
Grassley, nel febbraio 2020 ha avuto luogo un incontro presso l'ufficio locale
dell'FBI a Pittsburgh per discutere di "questioni investigative"
relative a un'indagine che coinvolge Hunter Biden.
Il mese successivo è stata istituita una
valutazione “guardian” per analizzare le informazioni fornite all'FBI relative
a Hunter Biden da Rudy Giuliani, all'epoca avvocato dell'ex presidente Donald
Trump.
L'analisi
ha trovato un FD-1023 del marzo 2017 relativo a un'indagine di cleptocrazia su “Zlochevsky”
che faceva riferimento a “Hunter Biden”, spingendo il Dipartimento di Giustizia
e l'FBI a chiedere al responsabile del CHS che ha presentato il documento di
intervistarlo nuovamente.
La
seconda intervista ha portato alla creazione di un FD-1023 di giugno 2020, che
Grassley ha rilasciato a luglio.
Grassley
sostiene inoltre che, poiché l'ufficio sul campo stava eseguendo una
valutazione, erano "limitati nelle loro capacità investigative" e potevano solo condurre
controlli di ricerca dei dati piuttosto che emettere mandati di comparizione e
di perquisizione.
Tuttavia,
una valutazione dell'agosto 2020 avviata dall'analista dell'intelligence di
supervisione dell'FBI “Brian Auten” è stata utilizzata dalla “Task Force
sull'influenza straniera” per cercare informazioni CHS relative ai Biden nel
tentativo di screditarli come "disinformazione straniera" e ha
tentato di chiudere le fasi investigative. con il pretesto che contenesse
“disinformazione”.
Nel
frattempo, “Grassley” e il senatore repubblicano “Ron Johnson” del Wisconsin
furono “informati in modo improprio ” quel mese dalla task force in relazione
alla loro indagine sui Biden dopo aver ricevuto “pressioni da parte dei democratici
del Congresso”.
"La
base precisa su cui la squadra del quartier generale dell'FBI ha selezionato le
informazioni specifiche da includere nella valutazione di “Auten” non è nota,
ma il focus dell'attenzione della squadra del quartier generale dell'FBI
riguardava informazioni dispregiative su “Hunter Biden” e “Joe Biden", ha
scritto “Grassley”.
La
valutazione dell'ufficio locale di Pittsburgh venne infine chiusa nel settembre
di quell'anno, e i suoi risultati furono inviati dal “Procuratore statunitense
per il Distretto Occidentale della Pennsylvania” “Scott Brady” al Dipartimento
di Giustizia principale. Grassley afferma inoltre che Brady si è coordinato con
l'ufficio del procuratore americano per il distretto orientale di New York per
determinare se l'FD-1023 contenesse o meno disinformazione.
L’ufficio
ha stabilito che non conteneva “nessun riscontro a fonti note di
disinformazione russa”, ha affermato Grassley nella lettera.
Ha
anche scritto che le informazioni contenute nel documento sono state fornite a “David
Weiss”, attualmente in qualità di consulente speciale che guida le indagini sui
rapporti d'affari dei “Biden”.
Il
mese successivo, l'assistente procuratore americano “Lesley Wolf” fu informata
del documento, ma lei "impedì agli investigatori di cercare informazioni sul
coinvolgimento di Joe Biden negli accordi criminali di Hunter Biden", sostiene “Grassley” .
Gli informatori dell'”Internal Revenue Service”
(IRS) hanno avanzato accuse simili contro “Wolf,” ha riferito “FOX New”s .
Grassley
ha inoltre affermato che l'agente speciale responsabile “Tim Thibault” ha ordinato la chiusura di una
"via di segnalazioni dispregiative di Hunter Biden" nell'ottobre 2020 "a
sostegno della valutazione di “Auten".
Grassley
chiude la lettera chiedendo al Dipartimento di Giustizia e all'FBI di inviargli
tutti i documenti relativi alle accuse avanzate e afferma che intende
intervistare 25 membri del “Dipartimento di Giustizia” e dell'”FBI” collegati
alle accuse formulate nella lettera.
Le agenzie
hanno tempo fino al 17 novembre per rispondere.
Grassley
ha scritto più lettere a entrambe le agenzie in passato in relazione ai
rapporti d'affari della famiglia Biden.
Nel
maggio 2022, ha inviato alle agenzie una lettera in cui esprimeva
preoccupazione per la condotta di “Thibault” sui social media, mostrando
un'apparente animosità nei confronti di “Donald Trump” e dei suoi sostenitori.
Le
prove raccolte da un “laptop” abbandonato da “Hunter Biden” in un'officina di
riparazione computer del Delaware nell'aprile 2019 forniscono una serie di
prove che suggeriscono che la “famiglia Biden” ha guadagnato milioni di dollari
grazie alla facilitazione da parte di “Hunter” degli incontri tra suo padre e
interessi commerciali in tutto il mondo mentre “Joe Biden” era vicepresidente
degli Stati Uniti sotto “Barack Obama”.
Nell’immediato
periodo precedente alle elezioni presidenziali del 2020, i media tradizionali e
gli ex funzionari dell’intelligence statunitense hanno sostenuto che l’ autentico
laptop era in realtà la disinformazione russa.
Nel
frattempo, la condivisione della storia sui social media è stata gravemente
limitata, una combinazione di fattori che potenzialmente hanno fatto pendere le
elezioni a favore di Joe Biden.
Da
parte sua, il” presidente Biden” ha
negato con veemenza le accuse di
coinvolgimento negli affari di suo figlio, nonostante il fatto che le prove
suggeriscano che abbia parlato con suo figlio riguardo al suo coinvolgimento con
la compagnia petrolifera cinese “CEFC” in almeno un'occasione, e che sia
stato messo in vivavoce molte
volte.
durante
gli incontri all'estero di “Hunter Biden” con i partner commerciali, e che lo
stesso “Hunter “ ha suggerito in un messaggio di testo a sua figlia di dare a suo padre la metà del suo
stipendio.
Ad
agosto, i repubblicani della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti hanno
pubblicato una nota che dettagliava i registri bancari dei rapporti d'affari
della famiglia Biden, incluso con “Burisma”.
Il “Dipartimento
di Giustizia” deve ancora rispondere alla richiesta di commento di “LifeSite” e
l'FBI ha rifiutato di offrire commenti sulla lettera al “Daily Caller” ,
riferendo lo sbocco a “Weiss”.
Geopolitica
del clima: gli interessi politici
ed
economici dietro la crisi climatica.
Indiscreto.org
– (07/05/2021) - Philippe Pelletier – ci dice:
Pelletier
analizza gli ingranaggi della macchina ideologica che sta dietro la
“collassologia”.
Se è
vero che alcuni fenomeni sono inediti o inattesi, il metodo per analizzarli
rimane comunque lo stesso:
attenersi
alle osservazioni e diffidare delle narrazioni sensazionalistiche. Riscopriamo così che la scienza, e
dunque anche l’ecologia e la climatologia, talvolta «non sanno», e magari
sbagliano.
Questo
testo è tratto da “Clima, capitalismo verde e catastrofismo”, di Philippe
Pellettier.
Ringraziamo “Eleuthera” per la gentile
concessione.
(…)
Da
Roma (1968) a Vienna (1979) e poi a Villach (1985).
“Bert
Bolin” gioca un ruolo cruciale nella conferenza mondiale sul clima organizzata
dall’”Omm” e dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) a Vienna
nel 1979, la prima di quel genere.
L’”Unep” è un nuovo attore istituzionale,
finanziario e ideologico creato proprio per occuparsi della problematica
energetico-climatica.
Fondato
nel 1972, gode di un budget annuale attorno ai 30 milioni di dollari.
Il suo primo presidente, fino al 1976, è “Maurice
Strong”, il secondo personaggio chiave della questione climatica.
Canadese,
Strong è un uomo d’affari specializzato in idrocarburi che ha costituito
diverse compagnie attive nel settore del gas e del petrolio (1948-1961).
Diventa quindi vicepresidente esecutivo della “Power
Corporation of Canada” (1961-1966), società d’investimento privata nel settore
dell’energia;
dopo
le dimissioni dall’”Unep”, nel 1976 diventa presidente di “Petro-Canada”,
compagnia nazionale canadese. Strong è anche membro di quattro influenti gruppi
oligarchici: niente meno che il Club di Roma, il Bilderberg Group, la
Trilaterale e l’Aspen Institute.
Nel
1971 commissiona un rapporto sull’ambiente in vista del vertice di Stoccolma
del 1972.
Il
titolo è sufficiente ad annunciare la vulgata catastrofista e della miserabilità
che si svilupperà fino ai giorni nostri:
“Only
One Earth”, “the Care and Maintenance of a Small Planet” (Una sola Terra: la
cura e la manutenzione di un piccolo pianeta).
Questo
rapporto, divenuto poi un libro, viene redatto da due cristiani credenti: Barbara Ward (1914-1981), cattolica
militante, e René Dubos (1901-1982), autore di “Dieux de l’écologie” (1973).
In
seguito Strong è il principale organizzatore del “Summit della Terra” tenutosi
a Rio de Janeiro (1992).
Per
organizzarlo sceglie come braccio destro “Serge Antoine”, un altro membro del
Club di Roma.
Questo vertice approda al “Protocollo di Kyoto”
(1997), che tenta di regolamentare le emissioni di gas a effetto serra e di
organizzare il mercato delle quote di carbone.
Le entrature di Strong in diverse istituzioni
e il suo budget gli consentono di mettere sul conto spese anche i viaggi dei
militanti ecologisti europei e statunitensi invitati a questi vertici
internazionali, che peraltro si svolgono in località lontane e indubbiamente
affascinanti…
Insignito
di una ventina di premi internazionali, Maurice Strong, tra l’altro fervente
adepto della “New Age”, ha una miriade di altre responsabilità, così tante da
far girare la testa:
nel
wwf, nella Banca Mondiale (consigliere del presidente), nell’Unione Internazionale per la
Conservazione della Natura, in vari istituti che si occupano di ambiente
(Stoccolma, Indonesia…), nella “Universidad para la Paz” del Costa Rica, nella
co-presidenza del “Forum di Davos”, e persino in qualche impresa come la “China
Carbon Corporation”…
Ma le sue qualità vanno ben oltre. Ad esempio, nel
2005 viene coinvolto nello scandalo del programma “Oil for Food” destinato
all’Iraq: a quanto pare nel 1997 ha incassato una “mazzetta” piuttosto
consistente.
Nel
1979, la “conferenza mondiale sul clima” di Vienna afferma la necessità di
prevenire i cambiamenti climatici causati dall’uomo che potrebbero minacciare
il benessere dell’umanità.
Ma il
passo decisivo viene compiuto sei anni dopo, nel 1985, alla “conferenza sul
clima di Villach”, in Austria, che si tiene nel momento in cui il «buco
nell’ozono» è al centro delle cronache.
Per
quanto poco conosciuto, è invece un incontro fondamentale.
Riunisce
rappresentanti dell’”omm”, dell’”unep” e del “garp” (Global Atmospheric
Research Programme), ed è presieduto da “Bert Bolin”.
Bolin
è molto attivo in quell’occasione.
E
ottiene finalmente la sua rivincita, lui che era stato marginalizzato nel corso
degli anni Cinquanta e Sessanta, quando le sue ricerche controcorrente sulla “relazione
fra co2 e riscaldamento climatico” venivano snobbate dagli esperti, che invece diagnosticavano un
raffreddamento del clima.
È Bolin a redarre il rapporto conclusivo,
secondo cui le modellizzazioni prevedono un riscaldamento delle temperature in
superficie di 4,5 °C, cosa che a suo parere avrebbe provocato un innalzamento
del livello dei mari di almeno 140 cm.
In
sostanza, la “conferenza di Villach lancia la problematica del global warming
legato alla co2”.
Ma
come far passare questo discorso, frutto di una conferenza scientifica ignota
al grande pubblico, così da sensibilizzare al tempo stesso i decisori e le
masse?
La risposta arriva ancora una volta da Bolin e Strong, ma a un livello di portata
infinitamente più ampia:
i due sono infatti membri della “Commissione Mondiale
sull’Ambiente e lo Sviluppo”, creata nel 1983 e presieduta dalla norvegese “Gro
Harlem Brundtland”, un’esponente del partito socialdemocratico, di formazione
medico, che è stata primo ministro della Norvegia per tre volte: nel 1981, nel
1986-1989 e nel 1990-1996.
Strong
viene scelto da Kofi Annan, allora segretario generale dell’Onu, per diventare il membro
chiave di questa nuova struttura, in cui ritroviamo un altro membro del Club di
Roma, Ōkita Saburō.
Il
rapporto della “Commissione Brundtland” (1987), ampiamente diffuso, non solo
riprende integralmente le conclusioni della conferenza di Villach ma propugna
l’ormai famoso concetto di «sviluppo sostenibile», esortando a combattere contro il
riscaldamento climatico.
Sulla scia del rapporto, nel 1988 viene creato l’”ipcc”,
con Bolin presidente dal 1988 al 1997. L’operazione viene effettuata su impulso
del g7 che si riunisce quello stesso anno.
La
creazione dell’”ipcc” (1988).
In
occasione del g7 del 1988, la creazione dell’”ipcc” come «gruppo
intergovernativo», e non come organizzazione di esperti in climatologia, è sostenuta con forza da due
personalità politiche europee: Jacques Delors e, soprattutto, Margaret Thatcher.
Il
primo ministro britannico dell’epoca vuole prendere due piccioni con una fava:
sbarazzarsi delle miniere di carbone britanniche, con i loro sindacati troppo
radicali, e al contempo promuovere l’industria nucleare nazionale.
Grande
opportunista, vede nell’ipotesi del riscaldamento globale – che in seguito
contesterà quando i giacimenti petroliferi del Mare del Nord si riveleranno più
redditizi – un buon mezzo per aumentare la popolarità della propria linea
politica, e tutto per una buona causa:
salvare
il pianeta.
Nel
settembre 1988, al cospetto della “Royal Society”, sostiene perciò che «ci
viene annunciato che un riscaldamento di un grado oltrepasserebbe ampiamente la
capacità di adattamento del nostro habitat.
Un
riscaldamento del genere potrebbe accelerare la fusione dei ghiacci e aumentare
il livello del mare di parecchi piedi».
Il
discorso politico catastrofista viene quindi introdotto una decina di anni
prima di “Al Gore”, e con lo stesso riferimento “cripto-religioso al Diluvio” …
Il
governo Thatcher avanza immediatamente la richiesta al “Met Office”, l’ufficio
meteorologico britannico, di costituire quello che sarà denominato “Hadley
Centre for Climate Prediction and Research”, un istituto che avrà il compito di
elaborare modellizzazioni e valutare le possibili conseguenze dell’emissione
industriale di co2.
Il
centro viene aperto il 25 maggio 1990, e sir “John Theodore Houghton”
(1931-2020), all’epoca direttore generale del “Met Office”, diventa presidente
del gruppo di lavoro scientifico in seno all’”ipcc”.
Ritorneremo
più avanti sulla militanza evangelica di Houghton; per ora basti notare che nel
2000 diventerà membro della “Fondazione Shell”.
“Jacques
Delors”, da parte sua, rappresenta l’Unione Europea presso il g7, mentre “François
Mitterrand” partecipa per conto della Francia.
Delors
è un importante uomo politico di un paese, come la Francia, fortemente
impegnato nel nucleare.
Come
abbiamo visto, questo socialdemocratico-cristiano è stato anche membro del
gruppo ecologista Diogène (1970-1973), fondato da “Denis de Rougemont”.
Gli
scienziati statunitensi abbracciano quasi immediatamente l’idea di base dell”’ipcc”,
con il suo discorso predefinito.
Il più
noto fra loro è “James Edward Hansen” (nato nel 1941), informatico, laureato in
fisica e astronomia, estremamente attivo.
All’epoca
direttore del “Goddard Institute for Space Studies,” una sezione della “Nasa”
allora in deficit di credito, Hansen è alla ricerca di una nuova causa.
Non è
affatto un climatologo, ma il suo lavoro precedente sull’atmosfera di Venere lo
ha sensibilizzato alla questione grazie a una lunga e complessa polemica
scientifica sulla natura dell’atmosfera venusiana andata avanti per tutti gli
anni Sessanta e Settanta.
Per
contro è un fautore della modellizzazione colui che ha ispirato “Stephen
Schneider” nella sua diagnosi di un «raffreddamento globale».
Fra
l’altro Hansen è amico di Al Gore, vicepresidente americano dal 1993 al 2001,
il quale lancia al galoppo il cavallo catastrofista e apocalittico, in sintonia
con le sue credenze evangeliche, grazie al libro e al film “Una scomoda verità”.
Per
convincere i leader politici, e quindi i cittadini, della validità delle sue
tesi sul riscaldamento globale, Hansen mette a segno un colpo da maestro:
il giorno in cui presenta le sue teorie
davanti al senato americano – il 23 giugno 1988 – fa un caldo soffocante e
oltretutto il condizionamento della sala dell’audizione non funziona
adeguatamente.
E
così, dato che Hansen e Gore hanno battuto la gran cassa per annunciare una seduta
eccezionale nel corso della quale ci sarebbero state rivelazioni scioccanti, i
rappresentanti dei media non si sono mossi invano… La via è ormai imboccata.
Ospite
abituale di convegni scientifici e di trasmissioni televisive, il discorso
catastrofista di Hansen sul riscaldamento globale causato dalle emissioni umane
di co2 vede un crescendo inarrestabile.
Si tratta di «salvare l’umanità» pensando ai
nostri «nipoti», come recita il titolo di uno dei suoi libri.
Nel
2007 non esita a paragonare i convogli di carbone ai «treni della morte».
Coerentemente, chiede di «decarbonizzare l’elettricità» e di trovare nuove
fonti di energia, il che lo porta a sostenere l’energia elettronucleare.
In una
conferenza al “Mit” dell’aprile 2015 cita la Francia come esempio di una buona
politica in questo settore.
Insomma,
per chi vuol capire la situazione è chiarissima. Dobbiamo anche ricordare che l”’ipcc” non è un organismo
scientifico anche se mobilita scienziati, che però sono ben lontani dall’essere
climatologi e che spesso si occupano di modelli informatici.
Piuttosto,
è un organo politico, come indica il suo nome in inglese («Intergovernmental
Panel»), in francese («Groupe Intergouvernemental») o in italiano («Gruppo
Intergovernativo»).
In
altre parole, i suoi orientamenti sono soggetti alle forze politiche.
Le implicazioni di questa situazione sono due:
scientifiche
e geopolitiche.
La
«stretta» dell’”ipcc”.
Nonostante
le apparenze, che pure tendono ad attenuarsi, il rigore scientifico non è la
virtù cardinale dell’ “ipcc”.
A questo proposito le critiche si moltiplicano, e un
certo numero di castronerie cominciano a essere note:
oltre
alle già citate approssimazioni di “Pachauri”, possiamo citare il funzionamento
opaco dell’istituzione, caratterizzato da una «stretta» sulle qualifiche scientifiche
che appare quanto meno azzardata, se non palesemente manipolatoria.
Uno
degli esempi più noti di questi «malfunzionamenti» è la frode commessa da
Benjamin D. Santer (nato nel 1955) nel secondo rapporto Ipcc del 1995.
Questo climatologo americano, laureato alla “East
Anglia University”, era stato incaricato dai suoi due superiori gerarchici, “John
Houghton”, responsabile del Gruppo i, e “Bert Bolin”, presidente dell’ “Ipcc”,
di curare, come autore principale, il capitolo 8 del rapporto, dedicato al
riscaldamento globale.
Una
volta pronta la stesura finale del capitolo, “Santer” inserisce nella sintesi
posta all’inizio del documento, l’unica destinata a essere letta da decisori e
giornalisti, la seguente frase:
«Le prove suggeriscono che sussiste una
visibile influenza umana sul clima del pianeta».
Poiché
questa frase contraddice quanto hanno scritto gli altri autori del rapporto
tecnico, nel prosieguo del documento “Santer” semplicemente rimuove le frasi
imbarazzanti.
Uno di
questi autori censurati, “Frederick Seitz” (1911-2008), fisico, ex presidente
della “National Academy of Sciences” americana, si accorge dell’abuso e rende
pubblico il suo sdegno:
«Oltre
quindici passaggi del capitolo 8 sono stati cancellati o modificati dopo che
gli autori avevano dato la loro approvazione ai testi da mandare in stampa.
Nei miei sessant’anni di carriera nella
comunità scientifica […], non ho mai visto una corruzione così sconvolgente
come il processo che ha portato alla pubblicazione di questo rapporto Ipcc».
“Santer ribatte” che, essendo l’Ipcc un organo
politico, non è soggetto alle procedure in vigore negli organismi scientifici…
E “Seitz”
ha buon gioco a concludere che «se l’Ipcc non è in grado di seguire queste procedure
di base, sarebbe meglio che scomparisse».
Un
altro esempio:
Paul
Reiter, dell’Institut Pasteur, viene invitato dall’Ipcc a contribuire, in
quanto esperto mondiale di malaria, al capitolo dedicato al potenziale impatto
che questa può avere sulla salute umana (Gruppo ii), capitolo incluso nel
secondo rapporto (1995).
Con
sua grande sorpresa scopre che nessun altro esperto di malaria è tra gli autori
che hanno contribuito allo stesso capitolo e che nessuno dei principali autori
presenti ha mai scritto nulla al riguardo…
Viceversa,
scopre che due di loro sono dei noti attivisti ambientali.
A questo punto contesta apertamente anche la
semplicità di alcune delle analisi pubblicate.
In particolare lo attesta con forza nel 2004 a Mosca,
durante una riunione dell’Ipcc il cui l’obiettivo è quello di far aderire la
Russia al Protocollo di Kyoto:
solleva
uno scandalo, ma in realtà non ci sono ulteriori conseguenze.
Si
dimette allora dall’Ipcc…
A sua volta “Nils-Axel Mörner”, che ha
insegnato geologia alla “Stockholms Universitet” per più di trent’anni e che ha
inoltre presieduto la “Commission of Sea Level Changes and Coastal Evolution”
(e quindi conosce tutti gli specialisti mondiali in materia), scopre con
stupore che tra i ventidue «esperti» che si occupano della questione per il
terzo rapporto dell’Ipcc (2001) solo uno di loro gli risulta noto…
Incuriosita
dalle modalità di reclutamento degli esperti messe in campo dall’Ipcc, la
giornalista investigativa canadese “Donna Laframboise” ha condotto un’indagine.
E ha rilevato che più della metà dei
contributi scientifici vengono esaminati, prima di essere convalidati, da
persone che appartengono alla stessa organizzazione ambientalista dell’autore,
in particolare il wwf, le cui origini ambigue sono già state ricordate.
In altre parole, la mano destra serve la mano
sinistra, ed entrambe indicano la stessa direzione visto che il wwf è un forte sostenitore della teoria
del riscaldamento globale.
“Donna
Laframboise” scopre anche che una delle autrici del rapporto del 1995 è una
studentessa di venticinque anni, “Sari Kovats”, che prima di quello non aveva
mai pubblicato nulla.
“
Kovats” è poi diventata l’autore principale del rapporto del 2001 e ha
partecipato alla stesura di quattro capitoli inclusi in quello del 2007… ovvero
tre anni prima di completare nel 2010 la sua tesi di dottorato!
Ma
tutto questo non sorprende più quando scopriamo che le principali ong
ambientaliste (Wwf, Friends of the Earth, Greenpeace…) partecipano Ialla scelta degli
«esperti indipendenti» che redigono i rapporti Ipcc… E infatti, lo scenario
climatico ancora più allarmista presente nel terzo rapporto dell’Ipcc (2001),
che prevede un riscaldamento di 5,8 °C entro il 2100, una cifra ben memorizzata
dai media, è scritto da un certo “Sven Teske” che è ufficialmente il
coordinatore internazionale di “Greenpeace” e scrive articoli per l’”Associazione
Europea dell’Industria Fotovoltaica” (Epia)…
Dall’”Ipcc”
(1988) al “Protocollo di Kyoto” (1997) e alla “carbon tax”.
Il
prevalere della politica sulla scienza all’interno dell’Ipcc non si traduce
peraltro in un’armonia consensuale fra tutti gli Stati del mondo ma in un
perenne rapporto di forza tra quelli che sono più potenti e che più finanziano.
In
maniera simmetrica, ciò non implica una convergenza di interessi scientifici,
economici e politici appunto perché il rapporto di forza si riproduce in ogni
settore.
Il
Protocollo di Kyoto (adottato nel 1997 e attuato nel 2005) è al tempo stesso punto fermo e punto
critico: mira a ridurre le emissioni di co2.
Mentre la Russia alla fine lo ha ratificato
(nel 2004), gli Stati Uniti e l’Australia, che rappresentano circa un quarto di
queste emissioni, si rifiutano di farlo.
E il Canada si è ritirato nel 2006.
Oltre
alle misure fiscali e normative, il protocollo stabilisce l’organizzazione di
un mercato per i permessi sulle emissioni di Gas a Effetto Serra (Ges) a
livello aziendale o statale, sancito dalla conferenza di Buenos Aires (dicembre
2004).
Fondamentalmente,
il meccanismo è il seguente:
gli
Stati ricevono diritti di emissione negoziati, che assegnano gratuitamente alle
società interessate che operano nel loro territorio, ma chi non utilizza tutte
le proprie quote può rivenderle al miglior offerente, in modo simile al
funzionamento della borsa.
Come
scrive “Pascal Acot”, «il nostro futuro climatico è nel cestino dei rifiuti».
Le
aziende che superano le loro quote Ges sono costrette a investire in tecnologie
di produzione considerate più pulite oppure ad acquistare i diritti immessi sul
mercato.
L’abbondanza
di questi diritti fa scendere i loro prezzi, e così è più redditizio
acquistarli piuttosto che investire in nuove tecnologie.
Ancora
una volta il mercato capitalista è lastricato di buone intenzioni…
Tra le
altre cose, questo sistema significa che gli Stati e le aziende possono
esportare il loro inquinamento, anche se sono previsti «meccanismi di sviluppo
pulito».
Allo
stesso modo in cui il capitale delocalizza le sue fabbriche e la sua forza
lavoro per ottenere un «vantaggio sociale», così cerca altrove nuovi spazi e
nuove popolazioni da intossicare.
Ma è
per il bene del pianeta, no?
Ci sono persone che ci credono!
“Nicholas
Stern” è uno dei principali promotori di questa politica da gioco delle tre
carte:
ex capo economista della Banca Mondiale, “Stern
aderisce alla teoria del riscaldamento globale”.
Per il
momento, l’attore più potente nella battaglia politico-economica per il clima è
il campo occidentale (Stati Uniti, Unione Europea, Giappone) che cerca di
frenare l’emergere economico di nuove potenze.
Il 20
agosto 2015, anche il Commissario europeo responsabile dell’«azione per il
clima» (sic!), “Miguel Arias Cañete”, ha stigmatizzato, nell’ottica della
cop21, un certo numero di paesi che «non fanno abbastanza sforzi» per ridurre i
gas serra: come per un caso fortuito cita solo “Cina, India, Turchia, Brasile e
Sudafrica” …
La
battaglia fra idrocarburi, energia nucleare ed energie rinnovabili richiede
investimenti massicci e costosi; sempre più massicci e sempre più costosi.
Ma il
capitale, tranne pochi audaci o visionari, non ama investire a fondo perduto e
senza ottenere profitto.
Il suo
storico copilota, lo Stato, è fortunatamente lì per aiutarlo:
soprattutto
perché i nuovi partiti ecologisti stanno spingendo in questa direzione, facendo
affidamento su un elettorato della classe media ora convertito alla causa
planetaria, a condizione che non si mettano in discussione la proprietà privata
o il denaro.
Uno
dei principali strumenti dello Stato, oltre alla pletora di regolamenti, norme
e divieti di ogni genere, è la tassazione.
Gli
ambientalisti hanno quindi spinto l’idea di una «tassa sul carbonio», basandosi
sull’idea molto diffusa di una «impronta del carbonio», che però è difficile da
calcolare.
Questo
tipo di imposta è però ingiusto, come l’iva, a differenza dell’imposta sul
reddito diretta e decrescente.
Aumenta
infatti la tassazione delle famiglie, già pesantemente tassate, soprattutto in
tempi di recessione economica, e penalizza gli automobilisti ordinari più dei
grandi inquinatori.
I poveri devono quindi pagare come i ricchi,
ma in una società in cui sono scomparse le classi, sostituite dalle
«generazioni future», tutto ciò non pone alcun problema ideologico o politico.
L’idea
alla base della «carbon tax» è anche quella di ridurre il parco veicoli, senza
che sia garantito con certezza che sarà sostituito da un trasporto pubblico di
pari qualità.
Il
lavoratore se la dovrà cavare… Il rilancio in Francia di questa idea,
nell’autunno del 2018, è stato all’origine del forte movimento di protesta dei
«gilet gialli», uno dei cui slogan è stato:
«La fine del mese arriva prima della fine del
mondo».
Durante
la campagna presidenziale francese del 1973, il candidato ecologista “René
Dumont” e, con lui, quasi tutti gli ecologisti, chiesero un notevole aumento
del prezzo della benzina per far retrocedere l’automobile.
Quasi
cinquant’anni più tardi non solo i prezzi della benzina sono aumentati a un
livello che questi ecologisti non osavano immaginare, ma in giro non ci sono
mai state così tante auto, né così tanto petrolio.
Lungi
dal retrocedere, automobili e petrolio sono cresciuti e i profitti delle
multinazionali del petrolio sono aumentati di pari passo.
Il
principio del «chi inquina paga» è quindi completamente fuorviante.
Le
principali fonti di inquinamento sono esonerate, mentre l’individuo medio viene
fatto sentire in colpa e riportato alle sue «scelte di consumo», come se la
gamma delle sue possibilità fosse infinita, semplice, e si basasse solo sul suo
comportamento libero e responsabile di “homo economicus” secondo il credo della
filosofia liberale.
La
geopolitica del “Diluvio insulare”.
I
leader dei piccoli Stati insulari si sono resi conto che potevano usare
politicamente la questione dell’innalzamento del livello del mare e del «cambiamento climatico» per negoziare con le grandi potenze.
Il loro approccio è comprensibile: provengono
da paesi precedentemente colonizzati – spesso brutalmente, a volte in maniera
più insidiosa (evangelizzazione) – e generalmente poveri.
Ma
questa legittimità di comportamento non dovrebbe mascherare le relazioni di
potere all’interno di quei paesi e nei confronti degli altri paesi, né impedire
una corretta analisi dei fenomeni geofisici ed ecologici.
Perché la strategia dei leader locali è in
sostanza ottenere sussidi e un posto sulla scena mondiale.
Nel
1990, diversi piccoli Stati insulari si sono riuniti in un’associazione: l’”Alliance
of Small Island States” (Aosis), che ha raggiunto i quarantaquattro membri nel
2018, di cui trentanove membri dell’Onu.
Questi
Stati hanno colto la possibilità di giocare sull’allarmismo, ma al contempo
sulla vittimizzazione e sul senso di colpa, soprattutto nei confronti dei paesi
occidentali considerati responsabili del cambiamento climatico.
Secondo
“Jean-Christophe Gay”, un geografo specializzato sulle isole dell’oceano
Pacifico, «essi formano un bacino elettorale alle Nazioni Unite o in altri
forum, e contrattano con gli altri paesi mettendo in campo i loro voti e le
loro alleanze».
“Tuvalu”,
paese entrato a far parte delle Nazioni Unite nel 2000, ha così riconosciuto
l’indipendenza dell’”Abkhazia” e dell’”Ossezia meridionale”, due territori
georgiani occupati dall’esercito russo.
“Nauru,”
un paese che è diventato membro delle Nazioni Unite nel 1999, ha fatto lo
stesso nel 2009.
Dopo
Russia, Nicaragua e Venezuela, è il quarto Stato a stabilire relazioni con
questi due paesi.
Prima
della visita del suo ministro degli Esteri, il suo governo avrebbe chiesto alla
Russia un aiuto economico di 34 milioni di euro.
Secondo
le autorità russe, “Nauru” avrebbe ricevuto aiuti internazionali in cambio del
riconoscimento del” Kosovo”.
Nel
2002, secondo quanto riferito, la “Repubblica popolare cinese” ha concesso un
credito di 89 milioni di euro in cambio dell’annullamento del riconoscimento di
Taiwan.
Ma a
causa del ritardo nell’adempimento della promessa, “Nauru” non si è allineato
con Pechino.
Alle “Kiribati”,
“Anote Tong”, presidente del paese dal 2003 al 2016, ama spiegare, sia
all’estero che ai suoi concittadini, che l’arcipelago sarà inabitabile entro il
2050.
Tra il
1994 e il 2014 gli aiuti allo sviluppo concessi alle Kiribati” sono passati da
20 milioni di dollari a 142 milioni:
«Un
vero paradosso investire in un paese che sta per affondare».
Ma,
ancora una volta, un giornalista che dedica il suo articolo alle “Kiribati”
ignora questo fatto e preferisce invece citare «la delegazione di “Tuvalu” a
Copenhagen nel 2009 che gridò forte e chiaro: ‘Dai ascolto alle isole! Dai
ascolto alle isole’».
Da
parte loro, i grandi Stati stanno già speculando sulla scomparsa di alcune
isole. Per questo usano una nuova categoria, quella dei «rifugiati climatici».
Un termine che è stato inventato non da
climatologi o geografi, ma da politologi e giuristi, e che deriva da un altro
concetto inventato in precedenza, quello di «rifugiato ambientale».
Sulla
scena internazionale, il certificato di nascita simbolico del concetto di
«rifugiato ambientale» è in genere associato alla pubblicazione di numerosi
rapporti nella seconda metà degli anni Ottanta.
Nel 1988 “Jodi L. Jacobson”, giornalista
specializzata in questioni di salute e di genere, nonché membro del” Wwf”, ha
così stimato che «tra i vari problemi ambientali che causano l’allontanamento
delle popolazioni dai loro habitat, nessuno può competere con i potenziali
effetti dell’innalzamento del livello del mare dovuti ai cambiamenti di origine antropica
del clima planetario».
Nel
suo primo rapporto sintetico del 1992, l’Ipcc ha insistito sulla natura
eccezionale e dannosa dei previsti sconvolgimenti migratori:
«Gli
effetti più gravi del cambiamento climatico riguardano indubbiamente la
migrazione umana:
milioni di persone saranno costrette a
spostarsi, scacciati dall’erosione costiera, dall’inondazione dei litorali e
dalla siccità.
Molte delle aree in cui cercheranno rifugio
probabilmente non dispongono di strutture igienico-sanitarie sufficienti per
accoglierli.
Le
epidemie rischiano dunque di penetrare e insediarsi nei campi profughi, oltre
che di estendersi alle comunità vicine.
Inoltre,
il ricollocamento è spesso fonte di tensioni psicologiche e sociali che possono
influire negativamente sulla salute e sul benessere delle popolazioni
sfollate».
I
giuristi si impadroniscono allora della questione per sviluppare la categoria
di «rifugiato
climatico»,
la quale consente di assegnare uno status ai migranti e, sulla scia di questo,
di determinare a chi sarà devoluta la defunta Zee (Zona Economica Esclusiva)
degli” Stati insulari “che scompariranno.
Catalogare i migranti come «rifugiati climatici» e
quindi spiegare le migrazioni con un fenomeno naturale – anche se si sostiene
che siano state provocate o aggravate dall’azione umana – in realtà è un modo
per mascherare le vere cause della mobilità umana in un gran numero di paesi,
specialmente ai tropici.
Queste
cause sono invece ben note:
fuggire dalla miseria economica (povertà,
mancanza di reddito), sociale (conservatorismo) o politica (guerre e dittature)
e raggiungere i paesi che rappresentano la situazione opposta, a torto o a
ragione.
Infatti,
la migrazione dei” tuvaluani” in Nuova Zelanda, ad esempio, è fondamentalmente
correlata a questo fattore.
Gli esiliati hanno allora buon gioco a far
valere l’idea di «rifugiato climatico» se questo dà loro qualche vantaggio.
Inoltre,
la devastazione provocata dal recente aumento del traffico di droga in molte
isole del Pacifico sembra più preoccupante dell’«innalzamento delle acque».
Le
isole sentinella del capitalismo verde.
Le
Maldive costituiscono
un caso esemplare di strumentalizzazione climatica in cui la molteplicità dei
fenomeni e dei fattori è sommersa, per così dire, dal catastrofismo che
denuncia l’innalzamento del livello delle acque.
In questo caso la politica, e quindi la
geopolitica, gioca un ruolo cruciale.
Bisogna
risalire alla fine degli anni Settanta e a” Maumoon Abdul Gayoom”.
Costui
è stato presidente dello Stato delle Maldive dal 1978 al 2008, governando con
un pugno sempre più di ferro e un crescente islamismo.
Nel
1987, anno del “Rapporto Brundtland”, si fa notare alle Nazioni Unite per un
discorso in cui per la prima volta viene evocato il rischio che l’innalzamento
del livello del mare possa far scomparire il suo paese.
Si dichiara inoltre «paladino dell’ambiente e
della religione che protegge quelle barriere coralline e i trecentomila
musulmani delle Maldive dalla doppia minaccia del riscaldamento globale e delle
orde in bikini».
Il suo
successore,” Mohamed Anni Nasheed”, ha ripetuto questo discorso fin dalla sua
elezione nel 2009.
Nell’ottobre
di quell’anno ha persino organizzato un consiglio dei ministri in fondo al
mare, con pinne e boccagli, per sensibilizzare la comunità internazionale.
Secondo il geofisico svedese “Nils-Axel Mörner”, “Nasheed” fa rivivere
«opportunisticamente» il «mito» dell’isola in procinto di essere inghiottita
dal mare, recitando persino in un documentario americano intitolato “The Island
President” (2011).
Secondo lo slogan del film, «per salvare il
suo paese, deve salvare il nostro pianeta».
«È un esempio di come un melodramma
hollywoodiano [il film di Al Gore] abbia corrotto la scienza del clima.
Non
bisogna infatti dimenticare che il presidente” Mohamed Nasheed” ha autorizzato
la costruzione di tanti grandi resort in riva al mare e di undici nuovi
aeroporti i cui impatti sull’ambiente sono inevitabili.
Ciò
non impedisce a «Time Magazine» di descriverlo nel 2009 come uno degli «eroi
dell’ambiente» e un «visionario», mentre «Foreign Policy» lo colloca al
trentasettesimo posto nella lista dei «cento pensatori globali» (sic!) del
2010.
Dal
canto suo “Nasheed” non demorde: «Se gli scienziati non sono in grado di salvare le
Maldive, allora non sono in grado di salvare il mondo».
E così si imbarca nell’acquisto di terreni in
diversi paesi (India, Sri Lanka, Australia…) per «costruire le Nuove Maldive»
una volta che quelle attuali saranno sommerse, inghiottite, sprofondate.
Era il
2009. Da allora le Maldive sono ancora lì, e le malelingue si chiedono a quale
sorte e a quale speculazione fondiaria siano stati destinati i terreni
acquistati.
Nel
2013 Nasheed è sostituito da “Abdulla Yameen”, un uomo d’affari che ha fatto
fortuna nel turismo.
Fratellastro
dell’ex presidente Gayoom, condivide le sue convinzioni islamiste e la scelta
di un’alleanza filo-cinese, mentre “Nasheed”, arrestato per «terrorismo»,
riesce a ottenere asilo politico nel Regno Unito (21 maggio 2016).
Di
fatto, il destino ecologico delle Maldive non è esattamente quello che vogliono
far credere i governanti che si sono succeduti.
Uno
dei loro principali problemi ambientali è l’estrazione di sabbia corallina per
le costruzioni, cresciuta enormemente a partire dagli anni Settanta a causa
dell’urbanizzazione della capitale “Malé”, della proliferazione di isole
alberghiere e dei cambiamenti socio-economici.
Alcune
comunità locali, in seguito alle migliorate condizioni economiche grazie alla
meccanizzazione della pesca, hanno infatti abbandonato le palme da cocco che
proteggono le coste a favore dell’estrazione della sabbia.
Tutti
questi fattori, scarsamente controllati, possono solo indebolire le spiagge e
il litorale, e quindi gli atolli.
Poi è
facile accusare il cambiamento climatico dell’avanzata delle acque…
Ma
basta guardare le foto aeree di “Malé” per constatare come quest’isola sia
diventata una città tutta costruita sulla sabbia e con la sabbia.
Le
alluvioni del 1987 e del 1991 sono state favorite dal frenetico scavo della
barriera corallina che circonda l’isola e che la proteggeva dalle mareggiate.
Uno
scavo che non ha nulla a che vedere con un affondamento, ma che è dovuto alla
dilagante urbanizzazione della capitale.
La
demografia di “Malé”, in un paese che ha uno dei tassi di natalità più alti al
mondo (48% nel 1985, 19,8% nel 2000, 13,7% nel 2017), è infatti cresciuta
tumultuosamente a partire dal boom del turismo internazionale negli anni
Settanta.
La
città-isola contava 75.000 abitanti nel 2000 e 134.412 nel 2014, ovvero una
densità di 17.844 abitanti per km² nel 2006, paragonabile a quella di Monaco.
Ora è
circondata da dighe di cemento e tetrapodi.
Anche
prima che lo tsunami del dicembre 2004 devastasse parte dell’arcipelago delle
Maldive, provocando 82 morti e 26 dispersi, il governo giapponese si era già
offerto di finanziare un programma di dighe a seguito delle inondazioni del
1987 e del 1991.
Questo programma è stato finalmente
realizzato.
Finanziato
principalmente dal Giappone, è costato circa 13 milioni di dollari al km,
ovvero 13.000 dollari al metro.
Il
colmo è che la costruzione delle dighe che dovrebbero proteggere Malé dalle
onde continua invece a indebolirla poiché bisogna pur trovare da qualche parte
la sabbia per costruirle.
Per
quanto riguarda l’isola di Thilafushi, situata a 7 km da Malé, dal 1992 è stata
trasformata in un’enorme discarica che si dice immagazzini 330 tonnellate di
rifiuti al giorno.
Una
discarica di cui praticamente non si parla e che non c’entra nulla con il
clima.
Nonostante
la diversità dei fenomeni individuati alle” Maldive”, alle “Kiribati” o a “Tuvalu”,
i media ci presentano queste isole come le sentinelle a guardia del crollo,
come i «campanelli d’allarme», come i «canarini» delle miniere.
Ben
sapendo che l’origine della povertà nei paesi dell’ex Terzo Mondo è causata o
alimentata dalle grandi potenze in un contesto di eredità coloniale,
post-coloniale o ancora imperialista, e che la maggior parte dei leader di
questi paesi punta il dito contro il clima come principale responsabile di
tutti questi mali, è lecito chiedersi se questa visione non vada oltre una
singola strumentalizzazione.
La cosa appare più che possibile se teniamo
presente che oggi alle orecchie dell’opinione pubblica, ma persino degli
attivisti, per non parlare dei giornalisti, il termine «imperialismo» suona
come una parolaccia ancora più scorretta di «capitalismo».
Questo
è uno degli effetti della «guerra globale mobile» che esternalizza i conflitti
in diverse regioni del mondo, combinando in modo complesso l’intervento di
diversi Stati: Siria, Libia, Afghanistan o Yemen ne sono buoni esempi.
Per
quanto riguarda la Francia, ad esempio, il crescente intervento del suo
esercito nei paesi del “Sahel”, in nome della lotta al terrorismo jihadista,
consente soprattutto di tutelare gli interessi minerari di società come la “Orano”
(ex Areva), le cui miniere di uranio si trovano nelle cosiddette aree
«instabili»:
regione
di” Kidal” e “Kona” in Mali, regione di “Arlit” in Niger, Repubblica
Centrafricana e così via.
Questo
uranio viene utilizzato per far funzionare le centrali nucleari, le stesse che,
grazie alle loro basse emissioni di gas serra, combattono il «riscaldamento
globale».
Uno degli ultimi atti del ministro
dell’Ambiente “Nicolas Hulot”, prima delle sue dimissioni nell’estate del 2018,
è stato quello di prolungare il programma elettronucleare francese fino al
2025, scadenza poi posticipata dal primo ministro fino al 2035…
UN
CLIMA DA POLITICA ESTERA.
Eccoclimate.org
– Luca Bergamaschi – (26 GENNAIO 2023) – ci dice:
La
questione del cambiamento climatico è diventata negli ultimi anni una priorità
della politica internazionale, che riguarda scelte, tra le altre, di natura
energetica, di sviluppo industriale, di finanza e sicurezza, e quindi non solo
di natura ambientale.
Oggi
l’urgenza e la complessità della sfida richiedono l’integrazione e la revisione
di una molteplicità di politiche, ben oltre quelle di competenza del Ministero
dell’Ambiente.
Questo
vale anche per la diplomazia.
Identificare il cambiamento climatico come una
priorità di politica estera significa attrezzarsi per rappresentare un paese
nei sempre più innumerevoli tavoli internazionali, trovare compromessi,
convincere i paesi restii a fare passi avanti, supportare lo sviluppo
sostenibile di tutti e in ultima istanza proiettare e difendere gli interessi
nazionali sullo scacchiere internazionale.
La
diplomazia italiana ha un grande potenziale inespresso di rappresentare
l’interesse pubblico nazionale e contribuire all’azione climatica globale.
Tuttavia,
di fronte all’urgenza della sfida climatica, è indispensabile un potenziamento
della diplomazia, in modo simile a quanto già messo in atto dai partner G7.
La
Presidenza italiana del G7 del 2024 può diventare l’occasione giusta.
Per
questo è necessario, da un lato, una più forte presa di coscienza della
centralità del tema per la sicurezza e gli interessi del paese da parte della
politica.
Dall’altro,
il corpo diplomatico deve dotarsi delle competenze e delle strutture necessarie
per giocare un ruolo più forte sui tavoli internazionali.
La
diplomazia climatica nei paesi G7.
Nel
2010, gli Stati Uniti hanno riconosciuto – per la prima volta in un documento
ufficiale – il cambiamento climatico come una minaccia per la sicurezza.
Negli
anni a seguire, con l’eccezione dell’Amministrazione Trump, sono seguite
approfondite analisi del Dipartimento della Difesa, del Dipartimento di Stato e
della Casa Bianca – dotatasi di un ufficio dedicato al clima dal 2009 -,
culminate in una revisione – in continuo aggiornamento – delle priorità della
Strategia Nazionale di Sicurezza.
L’ultima
edizione, rilasciata in ottobre 2022, dichiara:
“Tra
tutti i problemi comuni che dobbiamo affrontare, il cambiamento climatico è il
più grande e potenzialmente esistenziale per tutte le nazioni.
Senza
un’azione globale immediata in questo decennio cruciale, le temperature globali
supereranno la soglia critica di 1,5 gradi Celsius.
Superata
questa soglia, avvertono gli scienziati, alcuni degli impatti climatici più
catastrofici saranno irreversibili.
Gli
effetti del clima e le emergenze umanitarie non potranno che peggiorare negli
anni a venire:
dall’intensificarsi
di incendi e uragani negli Stati Uniti alle inondazioni in Europa,
dall’innalzamento del livello del mare in Oceania alla scarsità d’acqua in
Medio Oriente, dallo scioglimento dei ghiacci nell’Artico alla siccità e alle
temperature mortali nell’Africa subsahariana.
Le
tensioni si intensificheranno ulteriormente quando i Paesi si troveranno a
competere per le risorse e i vantaggi energetici, aumentando i bisogni
umanitari, l’insicurezza alimentare e le minacce alla salute, nonché il
potenziale di instabilità, conflitti e migrazioni di massa.
La
necessità di proteggere le foreste a livello globale, di elettrificare il
settore dei trasporti, di riorientare i flussi finanziari e di creare una
rivoluzione energetica per evitare la crisi climatica è rafforzata
dall’imperativo geopolitico di ridurre la nostra dipendenza collettiva da Stati
come la Russia che cercano di usare l’energia come arma di coercizione.”
Il
nesso tra clima e sicurezza è evidente.
Il clima oggi è identificato come traino della
geopolitica, dell’economia e della finanza.
Per
questo, nel corso degli anni la diplomazia americana si è dotata di personale
tecnico per seguire le questioni negoziali e capire i trend tecnologici.
Gli
stessi negoziati sono passati sotto la responsabilità e competenza del corpo
diplomatico del Dipartimento di Stato.
La
nomina, nel 2020, di “John Kerry”, ex Segretario di Stato americano ed ex
candidato alla Casa Bianca come Inviato presidenziale speciale per il clima,
riflette il senso di questa priorità.
Un
approccio simile è stato adottato nel Regno Unito, considerato il pioniere
della diplomazia climatica.
Il
primo Rappresentante speciale per il clima, “John Ashton”, è stato nominato nel
2006 e rimasto in carica fino al 2012 sotto tre diversi Ministri degli esteri.
Come
per gli Stati Uniti, anche l’establishment di sicurezza e politica estera
britannica ha dichiarato nella sua ultima revisione della strategia di
sicurezza, difesa, sviluppo e politica estera che “nel 2021 e oltre, il Governo
farà della lotta al cambiamento climatico e alla perdita di biodiversità la sua
priorità internazionale numero uno.”
Come
per gli Stati Uniti, anche il Regno Unito segue tutti i negoziati
multilaterali, non solo quelli legati alla “Convenzione ONU” ma anche i
processi G7 e G20, con una squadra integrata di diplomatici e tecnici, tra cui
anche il diplomatico e Rappresentante speciale per il clima, “Nick Bridge”.
Inoltre,
il Regno Unito ha creato un fondo ad hoc per la diplomazia climatica che dal
2020 ad oggi ha messo a disposizione dell’apparato diplomatico 3,7 milioni di
sterline.
Già
prima della “COP26 di Glasgow”, il corpo diplomatico britannico contava 20
diplomatici dedicati a tempo pieno alla questione climatica nelle sedi di
Londra e oltre 100 diplomatici climatici dispiegati a tempo pieno nelle
ambasciate.
A
inizio 2022, la Germania, attraverso un’importante riorganizzazione interna
delle competenze, ha spostato i tecnici competenti dei negoziati internazionali
per il clima dal Ministero dell’Ambiente al Ministero degli Affari Esteri.
Una nuova unità di tecnici e diplomatici è
stata creata per la politica estera climatica, sotto il diretto controllo della
Ministra degli esteri, elevando così al massimo livello politico le competenze
del Ministero dell’Ambiente con quelle della macchina diplomatica tedesca.
Questa
unità è guidata dalla nuova Inviata speciale per il clima “Jennifer Morgan”,
una figura di alto livello proveniente dalla società civile.
Questo passaggio di competenze ha significato
un passaggio di consegna tra ambiente ed esteri, per cui la Ministra tedesca
degli esteri, “Annalena Baerbock”, oggi rappresenta la Germania nei negoziati
climatici.
La
stessa Ministra ha annunciato che tutte le 226 missioni diplomatiche tedesche
nel mondo dovranno diventare “ambasciate del clima”.
Dall’Accordo
di Parigi della COP21 del 2015, presieduta da “Laurence Tubiana” allora Professoressa di “Sciences
Po” e Direttrice
del think tank per lo sviluppo sostenibile IDDRI, la Francia ha posto il clima al
centro della sua politica estera.
Varie
iniziative al più alto livello si sono susseguite, come diverse edizioni del “One
Planet Summit” presiedute dal Presidente Macron, ad indicare una forte sinergia
tra il Ministero degli affari esteri e l’Eliseo.
Dal
2020 è il diplomatico “Stéphane Crouzat” a guidare la diplomazia climatica come
Ambasciatore francese per i negoziati sul cambiamento climatico, le energie
rinnovabili e la prevenzione dei rischi climatici.
Per il
Canada, nell’estate 2022 “Catherine Stewart” è stata elevata al rango di “Ambasciatrice
per il clima” dopo una lunga carriera come responsabile canadese dei negoziati
internazionali.
Il suo
nuovo ruolo prevede, oltre a rappresentare il Canada in tutti i consessi
internazionali, il coordinamento della diplomazia climatica delle ambasciate
canadesi, fornire consulenza trasversali ai Ministeri degli affari esteri,
dello sviluppo e del commercio, condurre iniziative mirate con i principali
Paesi partner e sviluppare e gestire le relazioni con i principali opinion
leader e stakeholder.
Il
Giappone, pur non avendo una figura specifica di spicco come rappresentante per
il clima, ha identificato nel 2018 il clima come questione di “fondamentale
importanza” per il Ministero degli Affari Esteri per:
“seguire
le ultime tendenze in ogni paese, regione geografica e area tematica e
rifletterle nella politica estera attraverso la creazione di un sistema
intersettoriale all’interno del Ministero che ha perciò istituito una task
force per la diplomazia del clima, al fine di rafforzare l’approccio
intersettoriale all’interno del Ministero e promuovere la diplomazia del
cambiamento climatico in modo più attivo ed efficace.”
Infine,
già da qualche anno, anche la “Commissione europea” si è dotata di un “Ambasciatore
per il clima” presso il Servizio europeo per l’azione esterna.
Oggi
la carica è ricoperta da “Mark Vanheukelen” che descrive i tre compiti della
diplomazia climatica europea come:
“primo,
convincere gli altri Paesi a intensificare i loro sforzi per il clima facendo
leva sul potere dell’esempio, sul potere della borsa e sul potere del mercato
interno;
secondo, gestire la geopolitica della
decarbonizzazione associata a una forte riduzione del consumo di combustibili
fossili e all’aumento del consumo di materie prime necessarie per le tecnologie
verdi;
terzo,
affrontare il nesso tra clima e sicurezza”.
E
l’Italia?
L’Italia
ha un potenziale enorme di diventare un attore chiave della politica climatica
internazionale facendo leva sulla sua presenza nel G7 e del G20 – esemplare è
stato il successo del G20 sotto Presidenza italiana del 2021 –, come una
nazione fondatrice dell’Unione Europea e trainante come secondo paese
manifatturiero e capacità di innovazione, come attore commerciale principale
nel Mediterraneo e presente in molti paesi africani e non ultimo come
importante donatore internazionale.
Nel
2022 sono arrivati impegni importanti dalla COP27 di Sharm el-Sheikh e dal G20
di Bali:
è
stato presentato il “Fondo italiano per il clima” con una dotazione di oltre 4
miliardi al 2026 e l’Italia ha contribuito in maniera importante ai “Fondi di
decarbonizzazione dell’Indonesia e del Vietnam”.
Tuttavia,
e nonostante i passi avanti degli ultimi anni, i risultati rimangono parziali
rispetto alle potenzialità del paese e alla capacità di influenza e
partecipazione degli altri paesi G7.
Infatti,
manca ancora una strategia definita e personale dedicato per la diplomazia
climatica, al netto del lavoro cruciale portato avanti dal personale del “Ministero
dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica” (MASE), che finora ha guidato
l’Italia al tavolo dei negoziati internazionali in particolare in sede ONU, G7
e G20.
Al
momento, il MAECI non prevede diplomatici dedicati a tempo pieno per la
diplomazia climatica né una struttura dedicata.
Il
tema è seguito da vicino dalla “Direzione Generale per la mondializzazione e le
questioni globali” ma senza quel mandato e quella “potenza di fuoco”
equiparabili a quelli degli altri paesi G7.
Difficilmente
la situazione può cambiare senza un mandato per una riorganizzazione dal
livello politico.
Senza una maggiore consapevolezza politica e
un rafforzamento delle strutture il rischio è che l’Italia non sia
sufficientemente equipaggiata e quindi in grado di seguire i diversi tavoli
internazionali che si stanno aprendo.
Parte
di questo deficit è da ricercare nell’assenza di priorità del tema clima
all’interno della politica.
Ciò,
nonostante l’opinione pubblica italiana sia tra le più preparate e desiderose
di più azione per il clima (si veda a riguardo la mappatura degli elettori
verso il tema e il confronto internazionale, in cui gli italiani spiccano tra i
paesi G20 per sensibilità).
Inoltre, nonostante i crescenti impatti e gli
ormai evidenti nessi con la sicurezza, l’economia e la finanza, il clima non fa
ancora parte del pensiero di politica estera della classe politica.
Quest’ultima lo identifica come una generica
sfida globale, tuttalpiù all’interno di un quadro di azione europea.
Manca
quindi sia la consapevolezza della minaccia per la sicurezza nazionale,
derivante soprattutto dalla posizione geografica al centro del Mediterraneo
identificato dagli scienziati come un punto nevralgico (“hotspot”) del clima,
sia un senso dell’urgenza di agire per limitare le emissioni.
Manca
inoltre il nesso fondamentale con l’energia:
le
scelte di sicurezza energetica – queste sì ampiamente al centro della politica
estera italiana – rimangono scollegate dalle loro implicazioni per il clima e
per la stabilità dei paesi fornitori di combustibili fossili in un momento di
profonda trasformazione.
Di
conseguenza, la politica estera italiana naviga troppo spesso senza una
direzione o in supporto di specifici interessi economici senza chiedersi se
questi coincidano o meno con l’effettivo interesse pubblico.
Il
primo e finora unico tentativo di iniziare un percorso di rafforzamento del
ruolo diplomatico dell’Italia è stato iniziato sotto il Governo Draghi con la
nomina dell’”Inviato speciale per il clima” del diplomatico “Alessandro Modiano”.
Ricoprendo
anche il ruolo di Direttore per le questioni climatiche internazionali ed
europee presso il MASE, l’Inviato ha avuto modo di lavorare da vicino con il
personale dedicato ai negoziati internazionali, guidati da “Federica Fricano”.
Ciò ha
consentito di portare avanti e difendere sui tavoli internazionali i risultati
della Presidenza italiana del G20 del 2021 – durante un anno, il 2022, che ha
visto un susseguirsi di crisi – e coordinare in modo efficace l’azione
dell’Amministrazione Pubblica, da Palazzo Chigi al Ministero dell’Economia e
delle Finanze (MEF).
A
dimostrazione dell’importanza di unire le competenze tecniche con quelle
diplomatiche, cruciali per difendere e rappresentare l’interesse nazionale e
ottenere risultati ambiziosi in campo internazionale.
Da
fine 2022, il mandato dell’Inviato speciale non è stato rinnovato e vi è
incertezza rispetto al futuro di questa posizione.
Una
nuova struttura dedicata per la diplomazia climatica.
Cosa
si potrebbe dunque fare per aumentare la capacità di azione diplomatica
dell’Italia in vista dei prossimi appuntamenti internazionali in cui l’Italia è
chiamata a giocare un ruolo da protagonista?
Un’opzione
per rafforzare e sfruttare al meglio il sistema della diplomazia italiana può
essere quella di dotare il MAECI di una struttura dedicata con il mandato di
sviluppare e attuare una strategia di diplomazia climatica per l’Italia.
Questa
struttura, guidata da un/a Ambasciatore/Ambasciatrice per il clima che riporti
direttamente al/la Ministro/a, dovrà operare su tre livelli:
Un
primo livello, all’interno del MAECI stesso, per consentire che tutte le
Direzioni di Roma e le Ambasciate nel mondo integrino la dimensione climatica
nei loro lavori, anche aumentando il personale dedicato nelle sedi chiave.
La
politica estera e di cooperazione internazionale deve diventare politica attiva
per il clima, ovvero tutte le scelte devono essere valutate rispetto
all’allineamento degli obiettivi climatici e per il loro impatto sui paesi
terzi, giudicando se e come queste azioni incentivino o meno la transizione e
la resilienza dei paesi.
Gli
obiettivi climatici dovrebbero essere integrati in modo trasversale a tutta la
cooperazione italiana, sia quella indirizzata dal MAECI che quella di
competenza del MASE.
La cooperazione allo sviluppo necessita anche
di una revisione della propria governance e un aggiornamento delle linee guida
settoriali dell’Agenzia Italiana per Cooperazione allo Sviluppo (AICS) sul
clima.
Un secondo livello di coordinamento intra-governativo,
ovvero uno spazio di raccordo tra tutti i Ministeri e Palazzo Chigi, per
assicurare coerenza e integrazione delle politiche.
Ciò
significa assicurarsi che gli obiettivi climatici siano integrati in tutte le
strategie e politiche di difesa e sicurezza, di politica energetica,
commerciale, finanziaria, agricola etc.
Queste
dovrebbero aiutare anche a formare una posizione forte dell’Italia nei vari
Consigli europei.
Questa
funzione potrebbe essere ricoperta da una figura dedicata esclusivamente alla
coerenza intra-governativa delle politiche slegata quindi da compiti di
proiezioni esterna.
Un terzo livello è quello di rappresentare gli
interessi dell’Italia su tutti i tavoli internazionali, portare avanti i
negoziati e preparare gli incontri dei Ministri e del/la Presidente del
Consiglio.
L’Ambasciatrice/Ambasciatore
per il clima, che potrà essere scelta/o anche esternamente all’Amministrazione
Pubblica come personalità o esperta/o di alto livello con le competenze
necessarie, dovrà lavorare per identificare soluzioni per risultati ambiziosi
alle COP, nel G7 e nel G20.
Avrà
il compito di supervisionare i negoziati con tutti i paesi, dai più ai meno
ambiziosi, su temi legati al raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di
Parigi; assicurare il supporto necessario, anche attraverso il nuovo Fondo
italiano per il clima, per la transizione, l’adattamento e la resilienza dei
paesi emergenti e vulnerabili, incluso quello per le perdite e i danni; e
curare le relazioni e l’offerta politica sia a livello Ministeriale che di Capi
di Stato.
Per
operare efficacemente e avere impatto, questa nuova struttura necessita di
personale dedicato sia di natura più tecnica, in prestito ad esempio dal MASE e
dal MEF, e facendo anche leva su expertise esterne all’Amministrazione
Pubblica, sia con le capacità diplomatiche.
La
struttura dovrà inoltre munirsi di esperti di comunicazione come strumento
indispensabile di diplomazia pubblica e visibilità esterna.
Tutto
questo dovrà essere finanziato con risorse sufficienti per permettere lo
svolgimento delle funzioni tecniche di analisi, delle missioni, di
comunicazione e di coinvolgimento degli stakeholder.
L’Italia
può e deve giocare un ruolo più forte sul clima attraverso una politica estera
che dia priorità alla sfida più grande e complicata del XXI secolo, soprattutto
nei paesi dell’area del Mediterraneo e in Africa e sui tavoli multilaterali, a
partire dal ruolo di Presidenza del G7 del 2024.
Ma per
farlo servono più consapevolezza della classa politica e strutture con maggiori
figure professionali dedicate e adatte allo scopo.
IL
CETRIOLO DI Schrödinger
Orazero.org
- Alessia C. F. (ALKA) – (28 Ottobre 2023) – ci dice:
L’OMS
vorrebbe riconoscere la crisi climatica come un’emergenza sanitaria pubblica.
In un
appello pubblicato su oltre 200 riviste scientifiche, scienziati di tutto il
mondo chiedono che la “crisi climatica e naturale” venga dichiarata “emergenza
sanitaria” perché le conseguenze della crisi climatica e la perdita di
biodiversità devono essere combattute in modo concertato.
In
realtà dietro c’è qualcosa di completamente diverso.
Il
rapporto è andato quasi perduto alla luce delle questioni attuali, ma il suo
impatto difficilmente può essere sopravvalutato.
In un
appello coordinato, gli scienziati di oltre 200 riviste specializzate
internazionali hanno chiesto che la “crisi climatica” venga riconosciuta come
“emergenza sanitaria”.
Il motivo è che le conseguenze della crisi
climatica e della perdita di biodiversità rappresentano una minaccia anche per
la salute, motivo per cui dobbiamo concentrarci sulla lotta a questi problemi.
L’affermazione
contiene una frase molto sensibile che è quasi persa nell’affermazione (il corsivo è dell’autore Thomas
Röper):
“Chiediamo pertanto all’OMS di fare questa
dichiarazione prima o durante la 77a Assemblea sanitaria dell’OMS nel maggio
2024”.
Alla
77esima Assemblea sanitaria dell’OMS nel maggio 2024, l’OMS intende adottare il
previsto trattato pandemico dell’OMS e le modifiche al regolamento sanitario
internazionale che, secondo i critici del piano, renderebbero effettivamente
l’OMS un governo mondiale.
La
ragione di ciò è che dopo l’adozione delle modifiche, l’OMS potrebbe dichiarare
un’emergenza sanitaria globale e avrebbe quindi un potere molto ampio per
impartire istruzioni agli Stati membri.
Se la
proposta che è stata avanzata venisse accettata, l’OMS potrebbe dichiarare
un’emergenza sanitaria globale dovuta alla crisi climatica e alla perdita di
biodiversità, acquisendo così il diritto di emanare direttive di ampia portata
agli Stati membri dell’OMS, il che esautorerebbe i parlamenti degli Stati e
abolirebbe di fatto la loro sovranità. L’OMS sarebbe quindi una sorta di
governo mondiale.
Dato
che sembra abbastanza assurdo, lo spiegherò più in dettaglio.
Il RSI
e il Trattato sulle pandemie.
Il
Regolamento sanitario internazionale (RSI), entrato in vigore nel 1971, è una
normativa vincolante dell’OMS ai sensi del diritto internazionale per prevenire
e combattere la diffusione transfrontaliera delle malattie.
È stato modificato e ampliato più volte.
Più
recentemente, sono stati modificati nel 2005 a causa della crescente
globalizzazione e della diffusione internazionale di malattie infettive come la
SARS. Il RSI 2005 è stato recepito nel diritto tedesco nel 2013 attraverso la
legge di attuazione dell’IGV.
La
Germania si è quindi impegnata, ai sensi del diritto internazionale, ad attuare
le misure raccomandate dall’OMS non appena dichiarerà una cosiddetta “emergenza
sanitaria di rilevanza internazionale”.
La
decisione se un simile evento si sia verificato spetta al Direttore Generale
dell’OMS dopo aver consultato i suoi “esperti”.
Presto,
anche se la crisi climatica e la perdita di biodiversità venissero classificate
come “emergenza sanitaria”, potrebbe dichiarare l’emergenza molto rapidamente.
Il
previsto trattato pandemico dell’OMS, che ha suscitato grande opposizione tra i
critici dell’OMS perché conferirebbe all’OMS poteri molto ampi, dovrà ancora
essere ratificato dai parlamenti degli Stati membri se verrà adottato in
occasione della 77a Assemblea dell’OMS sulla salute nel maggio 2024, operazione
che di solito può richiedere anni.
Ciò
non si applica tuttavia alle modifiche al RSI, poiché la loro attuazione è già
stata recepita nel diritto nazionale dagli Stati membri.
Una
volta adottato dall’Assemblea sanitaria dell’OMS, l’RSI modificato entrerebbe
quindi automaticamente in vigore come “soft law” per ciascun Paese membro.
Per la
sua adozione è sufficiente la maggioranza semplice degli Stati membri dell’OMS.
Secondo
questo, se un Paese membro dell’OMS non volesse accettare questi cambiamenti,
dovrebbe respingere esplicitamente le modifiche all’RSI entro dieci mesi dalla
riunione dell’OMS del maggio 2024, altrimenti verrebbero automaticamente
integrate nel diritto nazionale.
Il
pericolo per la sovranità degli Stati deriva soprattutto dalle modifiche
all’RSI, perché potrebbero essere adottate con la maggioranza semplice degli
Stati membri dell’OMS ed entrerebbero in vigore quasi immediatamente.
Il
trattato sulla pandemia, invece, dovrebbe essere approvato con una maggioranza
di due terzi e poi ratificato dagli Stati membri dell’OMS.
La
critica alle misure previste dall’OMS riguarda esclusivamente il trattato sulla
pandemia, mentre non si parla quasi dell’RSI.
Ciò
distoglie il focus della discussione dal pericolo reale e le modifiche al RSI
potrebbero passare quasi inosservate mentre tutti discutono del trattato sulla
pandemia.
L’RSI.
Dal
momento che il direttore generale dell’OMS e una piccola commissione di esperti
dell’OMS decidono se e quando si verifica un’emergenza sanitaria internazionale
o addirittura regionale, che costringerebbe gli Stati membri ad attuare le
misure raccomandate dall’OMS, i critici sostengono che ciò minerebbe la
sovranità degli Stati membri dell’OMS e minano così anche la democrazia.
Inoltre bisogna mettere in discussione la
composizione della commissione, perché ci sono lobbisti di ONG occidentali e
aziende farmaceutiche che guadagnano miliardi da una pandemia, come ha
dimostrato il Covid-19.
Questi
non sono esperti neutrali impegnati solo nella salute globale.
I
singoli Stati membri non hanno voce in capitolo nella decisione di dichiarare
una pandemia.
E altrettanto poco avrebbero voce in capitolo
sulle contromisure da adottare dopo l’adozione del RSI e del trattato sulle
pandemie.
Ciò è
stato spiegato dall’avvocato d’affari italiano “Dr. Renate Holzeisen”, critica
delle riforme dell’OMS:
“Nel
nuovo articolo 12 del RSI è prevista l’estensione del meccanismo di emergenza
internazionale alle sole presunte emergenze regionali, che possono essere
stabilite dal Segretario Generale dell’OMS di propria autorità, senza che le
autorità e il governo di quel Paese possano ancora prendere una decisione in
merito a propria discrezione.
Questo è l’impianto definitivo del meccanismo
di auto potenziamento dell’OMS. Non ci sarà più un’autorità di controllo
indipendente.
In
futuro, l’OMS potrà dichiarare lo stato di pandemia ancora più facilmente e
costringere gli Stati membri a un regime di emergenza per un periodo ancora più
lungo di prima – o in modo permanente”.
In
totale sono previste oltre 300 modifiche al RSI.
In
sintesi, gli avvocati hanno descritto i tre punti chiave nel febbraio 2023 come
segue:
Ampliamento
delle situazioni che costituiscono una PHEIC (PHEIC significa Emergenza Sanitaria
Pubblica di Interesse Internazionale)
Concessione
di poteri all’OMS e alla sua Direzione Generale per l’Emergenza Sanitaria
Legislativa Globale.
Ampliare
la portata dei poteri esecutivi di emergenza dell’OMS.
Se a
questo si aggiunge il fatto che, secondo gli scienziati che hanno appena pubblicato l’appello in oltre 200
riviste scientifiche, l’OMS può anche usare la crisi climatica come pretesto
per dichiarare un’emergenza sanitaria, allora diventa chiaro che si sta
cercando un modo per istituire l’OMS come una sorta di governo mondiale.
Dopo tutto, potrebbe dichiarare un’emergenza
sanitaria senza che esista una malattia e dire agli Stati cosa fare in molti
settori.
L’OMS.
Chiunque
pensi che l’OMS sia un’organizzazione neutrale e obiettiva, impegnata solo
nell’assistenza sanitaria, si sbaglia.
Negli ultimi anni l’OMS è stata “dirottata”
dagli oligarchi occidentali, perché anche per l’OMS vale il detto: chi paga,
ordina la musica.
L’OMS
dispone di un budget annuale di oltre sei miliardi di dollari, anche se negli
ultimi anni è cresciuto notevolmente, visto che nel 2015 era ancora intorno ai
quattro miliardi.
Secondo i dati pubblicati dall’OMS, gli Stati
Uniti sono il principale donatore dell’OMS, rappresentando il 15% del budget,
ovvero 624 milioni di dollari.
La
Fondazione Bill e Melinda Gates segue al secondo posto con quasi l’11% o 431
milioni di dollari.
Il
terzo maggiore donatore dell’OMS è GAVI, l’alleanza per i vaccini controllata
anche da Bill Gates, che trasferisce 316,5 milioni di dollari all’OMS, ovvero
quasi l’8% del budget dell’OMS.
Ciò
rende Gates il più grande finanziatore dell’OMS, poiché contribuisce con quasi
il 19% al budget dell’OMS e quindi ha voce in capitolo nelle decisioni
dell’OMS.
Dalla
sua fondazione, la Fondazione Bill e Melinda Gates ha trasferito quasi 3,4
miliardi di dollari all’OMS.
A ciò si aggiungono i suoi pagamenti
indiretti, ad esempio tramite GAVI. L’influenza di Gates e di altri donatori
occidentali sull’OMS è altrettanto grande, come ho mostrato in dettaglio nel
mio libro “Inside Corona”.
Quando
si tratta di combattere le malattie nei paesi poveri, l’OMS approva solo i
medicinali delle aziende farmaceutiche occidentali, che ovviamente sono molto
più costosi dei medicinali equivalenti provenienti, ad esempio, dall’India.
Abbiamo
visto la stessa cosa con il Covid, quando l’OMS ha approvato quasi
esclusivamente vaccini occidentali per il suo programma di vaccinazione COVAX,
dal quale Bill Gates, in quanto azionista dei produttori, ha guadagnato
miliardi.
I suoi versamenti all’OMS non sono donazioni
generose, ma piuttosto investimenti molto redditizi.
Il
potere di Bill Gates nell’OMS.
Voglio
usare un esempio casuale, nemmeno una somma di denaro molto elevata, per
mostrare come Bill Gates esercita il suo potere nell’OMS.
Anche
la sua Bill and Melinda Gates Foundation (BMGF) ha partecipazioni in aziende
che guadagnano da test e sistemi diagnostici.
Come è noto, si trattava di una licenza per
stampare moneta durante la pandemia di Covid.
All’inizio
di settembre 2020, la BMGF ha investito nelle società “Abbott e “Biosensor ,”
ciascuna delle quali aveva immesso sul mercato un test rapido Covid-19.
E come
vuole una “coincidenza”, il 28 settembre 2020 l’OMS ha annunciato un programma
che ha fornito molti soldi per rendere disponibili i test rapidi Covid-19 ai
paesi più poveri del mondo.
C’erano
dozzine di produttori di test rapidi in tutto il mondo, ma puoi indovinare
velocemente chi sono stati i fortunati a ricevere il grosso ordine dall’OMS.
L’OMS
ha scritto : “Gli accordi tra la Bill & Melinda Gates Foundation e i produttori di
test Abbott e SD Biosensor rendono disponibili test innovativi ai paesi a basso
e medio reddito ad un costo di 5 dollari o meno”.
Il
denaro proviene dal programma COVID-19 Tools (ACT) Accelerator, finanziato
dall’UE.
Il progetto dell’OMS prevedeva circa 120
milioni di test a cinque dollari ciascuno, quindi “Abbott” e “Biosensor “avrebbero
dovuto ottenere dall’OMS circa 600 milioni di dollari.
E Bill
Gates, che ha un’enorme influenza sulle decisioni dell’OMS, è stato coinvolto
per puro caso nei due produttori di test rapidi subito prima che l’OMS
effettuasse l’importante ordine. Strane coincidenze…
Questo
era solo un esempio casuale di come Bill Gates e altri donatori dell’OMS
guadagnano.
La
preparazione.
Bisogna
capirlo guardando l’attuale rapporto secondo cui il cambiamento climatico
dovrebbe ora essere responsabilità anche dell’OMS, perché le aziende e le
fondazioni occidentali hanno da tempo preso il potere nell’OMS.
Dal 15
al 17 ottobre 2023, il “World Health Summit 2023”, durato tre giorni, ha riunito i massimi rappresentanti
dell’industria farmaceutica globale per discutere di “Un anno cruciale per
l’azione sanitaria globale”.
I
media non ne hanno parlato, anche se la strategia mediatica nel “decisivo
riallineamento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità” è stata uno dei temi
centrali della conferenza.
Tra i
relatori figurano oltre ai direttori di testate specializzate come “The Lancet”
anche rappresentanti di “Google” e “YouTube”, che al “World Health Summit”
hanno presentato le loro nuove strategie mediatiche per la salute.
Ricordiamo
tutti come, durante la pandemia, queste società Internet abbiano censurato
tutte le opinioni critiche nei confronti delle misure.
Per
inciso, tra i relatori c’erano solo pochi rappresentanti degli Stati, mentre
alla conferenza erano presenti in gran parte ONG occidentali, fondazioni e
aziende.
Nel
periodo precedente al vertice, al presidente del vertice mondiale sulla sanità,
“Axel R. Piers”, è stato chiesto in che modo il vertice sulla salute avrebbe
contribuito a risolvere vari problemi che vanno dal “cambiamento climatico”
alle “minacce alla democrazia”.
Dalla
sua risposta era chiaro che l’OMS sembra essere in procinto di portare tutte le
questioni politiche ed economiche globali sotto la sua giurisdizione e di
adattare di conseguenza la sua nuova agenda.
La nuova agenda sarà poi attuata dai partner
di cooperazione appena istituiti.
“Piers”
ha detto:
“Il vertice mondiale sulla salute riunisce le
parti interessate e i decisori di tutti i settori rilevanti della politica,
della scienza, del settore privato e della società civile in un’atmosfera
amichevole. Ciò stimola la ricerca di nuovi approcci alle sfide future e crea
nuove alleanze per la loro attuazione”.
E
queste alleanze sono difficili, come mostrano alcuni esempi.
Le
“alleanze” e i progetti.
Nel
marzo 2023 il portale austriaco “tkp” ha analizzato la versione allora attuale
del contratto pandemico.
Si è
parlato anche di malattie che possono trasmettersi dagli animali all’uomo,
scusa che è stata usata come pretesto per conferire all’OMS sempre più poteri
nell’ambito del trattato pandemico.
Tra le
altre cose, si tratta anche di controllo sul cibo e sull’agricoltura.
In
primo luogo, l’OMS dovrebbe acquisire il controllo sull’industria del pollame,
afferma il rapporto “tkp”.
Il
pollame negli Stati contraenti dell’OMS dovrebbe essere controllato, monitorato
e vaccinato in modo uniforme in tutto il mondo.
Il nuovo trattato sulla pandemia stabilirebbe che la
maggior parte delle malattie infettive nell’uomo sono causate dalla
trasmissione del virus dagli animali.
Firmando
l’accordo, un Paese riconosce che “la maggior parte delle malattie infettive
emergenti hanno origine negli animali, compresi quelli selvatici e domestici, e
poi si diffondono all’uomo”, cita il portale dalla bozza del trattato pandemico
dell’OMS.
Di
conseguenza, le parti contraenti devono impegnarsi lealmente verso un
“approccio One Health”, il cui ambito comprende la salute delle persone, degli
animali e degli ecosistemi.
“One
Health” è un argomento a parte perché è ancora una volta un progetto finanziato
e controllato dalle società statunitensi.
Entrare
in questo ambito è eccessivo, ma si tratta anche di un progetto controllato
dall’industria farmaceutica statunitense e da alcuni miliardari statunitensi,
al quale devono sottomettersi gli Stati che firmano il trattato sulla pandemia.
Nell’aprile
2023 la Banca Mondiale ha lanciato un fondo di preparazione alla pandemia da 10
miliardi di dollari, apparentemente destinato a preparare economicamente gli
stati alla prossima pandemia.
I media non ne hanno parlato quasi mai, anche
se i soldi di questo fondo finiranno probabilmente per tornare a coloro che
hanno tratto profitto dall’ultima pandemia (produttori occidentali di vaccini,
test, ecc.).
L’evento
è stato annunciato dal segretario generale dell’Organizzazione mondiale del
commercio (OMC), “Ngozi Okonjo-Iweala”, su Twitter:
“Oggi
la Banca Mondiale ha lanciato il fondo di preparazione alla pandemia da 10
miliardi di dollari sostenuto dal G20 e da TheInd Panel. In qualità di
co-presidente del comitato di alto livello sul finanziamento della preparazione
alla pandemia che ha raccomandato questo fondo, è un piacere vederlo nascere.
Capitalizziamo
il fondo!”
Che il
denaro finisca di nuovo a Bill Gates e ad altri oligarchi statunitensi non
sarebbe una sorpresa, perché “Ngozi Okonjo-Iweala”, segretario generale dell’”Organizzazione
mondiale del commercio”, dal 2015 è anche presidente del consiglio di
amministrazione della lobby delle vaccinazioni GAVI, fondata da Gates e da lui
controllata.
Nel
maggio 2023, anche la “Fondazione Rockefeller”, inosservata dai media, ha
stretto un’alleanza con l’OMS, come ha scritto in un comunicato stampa.
Ancora
una volta, si trattava principalmente di pandemie, ma anche il cambiamento
climatico non poteva essere lasciato fuori, come scrisse Rockefeller:
“Il
cambiamento climatico aumenta sia il rischio di un’altra pandemia globale sia
la necessità di collaborare e condividere dati”, ha affermato il “Dott. Rajiv
Shah”, presidente della “Fondazione Rockefeller”.
“Fortunatamente,
il “Pandemic Hub” dell’OMS ci sta già rendendo più intelligenti e sicuri
aiutandoci a monitorare le minacce, trovare soluzioni e connettere paesi e
continenti.
Siamo
orgogliosi di lavorare con l’Hub per ampliare la sua attenzione sulla
prevenzione delle pandemie causate dai cambiamenti climatici”.
Per
combattere la presunta “disinformazione”, l’OMS ha concordato diverse
collaborazioni.
Secondo il trattato sulla pandemia, gli Stati
membri devono spiare i social media. Per la gestione dell’“infodemia”, Google
sta preparando un programma di censura sui temi sanitari.
Nel “Progetto Mercury”, anch’esso fondato da
Rockefeller e controllato e finanziato da Rockefeller, viene valutata e
ulteriormente sviluppata l’accettazione delle misure da parte di diversi gruppi
di popolazione.
L’elenco
delle “alleanze” e dei progetti che le menti dietro l’OMS, ovvero le
multinazionali e gli oligarchi statunitensi, stanno pianificando non è affatto
completo.
Ma ciò dimostra che le modifiche previste
all’RSI e l’introduzione del trattato sulla pandemia sono un progetto
perfettamente pianificato con dietro molto più di quanto sembri a prima vista.
L’appello
ora pubblicato in 200 riviste specializzate a porre il cambiamento climatico
sotto l’autorità dell’OMS non sorprende se si vede che gli oligarchi
statunitensi si stanno preparando da mesi per rendere il cambiamento climatico
una questione dell’OMS.
La
“lotta contro il cambiamento climatico”.
Ciò
che viene venduto al pubblico come una presunta lotta al cambiamento climatico
è soprattutto una cosa: un gigantesco modello di business.
Questo
è ovvio, perché le aziende guadagnano denaro da tutto ciò che viene fatto nel
corso della presunta lotta contro il cambiamento climatico.
Se le
case hanno bisogno di essere meglio isolate, le aziende producono i materiali
necessari.
Se si promuovono le auto elettriche e le
stazioni di ricarica, i produttori ci guadagnano.
Quando vengono installate le turbine eoliche,
i loro produttori guadagnano denaro.
Quando
si tratta di somme in gioco, non parliamo di miliardi, ma piuttosto di trilioni
di dollari.
Bill
Gates ha capito da tempo che si possono guadagnare molti soldi nella “lotta
contro il cambiamento climatico”, ed è per questo che ha fondato nel 2015 –
insieme ad altri miliardari (tra cui Jeff Bezos, Mike Bloomberg, Richard
Branson, George Soros e Mark Zuckerberg) – il fondo di investimento “Breakthrough
Energy”.
Il
fondo investe nelle aziende che traggono grandi guadagni dal cambiamento
climatico.
Bill
Gates e i suoi amici sono pronti a convogliare i fondi del “Green Deal dell’UE”
verso le aziende in cui hanno investito direttamente o tramite “Breakthrough
Energy”.
Quando
il presidente degli Stati Uniti Biden ha annunciato dopo la sua elezione il suo
programma infrastrutturale da 1,2 trilioni di dollari, dove la protezione del
clima dovrebbe svolgere un ruolo importante, Gates ha annunciato che ne avrebbe
donato un miliardo.
Questo
gli ha procurato una buona risonanza ed era uno stratagemma di pubbliche
relazioni.
Bill Gates è coinvolto, tra l’altro, attraverso “Breakthrough
Energy” nelle aziende che poi ottengono gli ordini e con l’investimento
simbolico di un miliardo, Gates si è assicurato l’accesso agli oltre 1.000
miliardi che Biden vuole immettere nel programma.
Anche
Bill Gates non ha lasciato nulla al caso quando ha fondato “Breakthrough Energy”,
fondandola nello stesso evento in cui il presidente Obama ha annunciato la
“Missione Innovazione” in cui molti paesi occidentali si sono uniti per
raccogliere fondi da destinare alla lotta contro il cambiamento climatico.
Non
c’è stato nemmeno un tentativo di nascondere il fatto che “Mission Innovation”
e “Breakthrough Energy” vanno di pari passo e che il cambiamento climatico è
solo una scusa per incanalare trilioni di denaro pubblico a Gates e ai suoi
colleghi da spendere nella cosiddetta lotta contro il cambiamento climatico. La lotta al cambiamento climatico è
un modello di business, non riguarda il clima.
Bill
Gates si è già assicurato i soldi dell’UE che Ursula von der Leyen vuole
spendere per il suo “Green Deal” questo decennio.
Parliamo
di un trilione di euro.
Von
der Leyen e Gates stessi lo dicono con orgoglio, perché è stata annunciata una
partnership tra il “Green Deal” dell’UE e il fondo di investimento “Breakthrough
Energy” e von der Leyen e Gates hanno pubblicato insieme un simpatico video
promozionale.
Il
ruolo centrale dell’OMS.
L’OMS
è stata silenziosamente trasformata in uno strumento molto potente da Gates e
altri oligarchi statunitensi.
Attraverso
il Regolamento sanitario internazionale, l’OMS è probabilmente l’unica
organizzazione internazionale che ha il diritto di dire agli Stati membri cosa
devono attuare non appena l’OMS dichiara una “emergenza sanitaria pubblica”.
Poi
l’OMS decide molto, compreso il controllo dei giganteschi flussi di denaro che
finiscono nelle tasche degli oligarchi statunitensi.
Il
Covid-19 lo ha dimostrato in modo impressionante.
In
questo contesto diventa chiaro quale sia lo scopo delle modifiche al RSI e al
contratto pandemico.
Il
fatto che il cambiamento climatico debba ora essere trasferito all’autorità
dell’OMS è una mossa intelligente che amplierà enormemente il potere dell’OMS,
o meglio, dei suoi sostenitori.
Ma
difficilmente ci si può aspettare una protesta pubblica perché, in primo luogo,
quasi nessuno sa tutto questo, e in secondo luogo, l’opinione pubblica mondiale
è distratta dalle guerre in Ucraina e in Medio Oriente.
Resta
da sperare che la maggior parte degli stati globali capisca questo trucco e lo
respinga nel prossimo incontro dell’OMS nel 2024.
Altrimenti,
l’OMS otterrà la “legge di abilitazione” definitiva e diventerà di fatto una
sorta di “governo mondiale” una volta dichiarata un’emergenza sanitaria
pubblica.
(Articolo
tradotto da Alessia C. F.)
(anti-spiegel.ru/2023/die-who-soll-die-klimakrise-als-gesundheitsnotstand-anerkennen/)
RIFLESSIONE
DI ALESSIA C. F.
Scolpitevi
a memoria la frase:
“Ma
difficilmente ci si può aspettare una protesta pubblica perché, in primo luogo,
quasi nessuno sa tutto questo, e in secondo luogo, l’opinione pubblica mondiale
è distratta dalle guerre in Ucraina e in Medio Oriente.”
Stiamo
vivendo tempi interessanti, e siamo molto presi da questo periodo di guerre, ma
le guerre distraggono la massa, permette ai poteri forti di apportare modifiche
importanti da cui poi non si torna più indietro.
Sicuramente
queste guerre in corso sono un riposizionamento geopolitico e indicano un mondo
in profonda evoluzione, ma i veri centri del potere INDISTURBATI continuano
rapidamente con la loro agenda.
Con le
guerre in corso l’agenda del “NWO” corre veloce e nessuno la vede, voi seguite
appassionati le guerre, ma è altrove che dovete porre maggiore attenzione.
Queste
guerre stanno distraendo l’opinione pubblica dai veri grandi problemi, perché
nel frattempo l’OMS tra poco riuscirà a diventare un governo mondiale, a nostra
insaputa perché ci siamo occupati di altro e non delle cose vere molto
pericolose e subdole che non vediamo.
Smettetela
cari utenti di porre troppa enfasi su elezioni americane e le tante guerre in
atto e le altre che verranno, siete miopi.
Poniamo
troppo focus sulle cose che suscitano emozioni immediata, nel mentre non
vediamo le strutture nuove che controlleranno tutti e tutto.
È così
che ci stanno fottendo.
Provo
a spiegarlo in modo diverso e mio marito Paul ha colto l’essenza formulando il
pensiero in modo molto ironico.
Si parlava dopo cena del fatto che tutti mi assillano
con il fatto che prevedibili guerre preannunciate sfociano in stra- prevedibili
dinamiche note.
“Ragazzi” in tempi di guerra le
dinamiche sono stra ovvie, dopo mille riflessioni sulla geopolitica si è poi
tornati a chiederci:
ma
cosa stanno nascondendo e stanno facendo mentre ci tengono occupati con guerre
vere guerreggiate?
E mio
marito Paul come sempre ha ragione, stanno girando pericolosi cetrioli.
<<Meine
liebe Alessia quello che vediamo è il famoso cetriolo di Schrödinger, pensi che
il cetriolo si trovi nel culo altrui, ma quando vai a verificare si trova nel
tuo culo…>> e Paul si riferiva non solo alla guerra, alla geopolitica, al
mondo orwelliano in cui stiamo sprofondando, ma maggiormente perché non vediamo
cose molto pericolose e non siamo in grado di affrontarle, discuterne e
fermarle perché siamo distratti ad arte a seguire altri piani.
E come
dice mio marito Paul, buon Cetriolo di Schrödinger a tutti!
Politiche
Internazionali Green:
dall’Agenda
2030 al Green Deal europeo.
Symbola.net
– (16-2-2022) -Redazione – Marco Frey – ci dice:
Dall'Agenda
2030 al Green Deal europeo: il cambiamento climatico è entrato in maniera
dirompente su tutti gli scenari internazionali.
Agenda
2030.
Realizzato
in collaborazione con Marco Frey.
(Presidente
del Comitato scientifico di Symbola.
Professore
ordinario di Economia e gestione delle imprese, direttore del gruppo di ricerca
sulla sostenibilità (SuM) della Scuola Universitaria Superiore Sant'Anna di
Pisa; docente allo IUSS di Pavia e all’Università Cattolica di Milano;
presidente della Fondazione Global Compact Italia).
Questo
contributo fa parte del decimo rapporto Green Italy, realizzato da Fondazione
Symbola e Unioncamere, in collaborazione con CONAI, Novamont e Ecopneus.
Il
quadro globale e l’Agenda 2030.
É
ormai trascorso un terzo del quindicennio che – da quel 25 settembre 2015 in
cui le Nazioni Unite hanno approvato l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile
– ci conduce al 2030, e non si può che evidenziare la lunga distanza ancora da
percorrere nei confronti del 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs).
il
Rapporto ONU sulla sostenibilità del 2019 ha evidenziato che, nonostante i
progressi conseguiti in molteplici aree, vi è oggi la necessità di azioni e
politiche più rapide e ambiziose per realizzare la trasformazione economica e
sociale necessaria al raggiungimento degli “SDGs”.
A
richiedere interventi più urgenti sono soprattutto la lotta contro il
cambiamento climatico e alle disuguaglianze: nel primo caso, gli effetti
catastrofici e irreversibili che si verificheranno – e in parte già si
manifestano – in assenza di una riduzione delle emissioni di gas serra
renderanno inabitabili molte parti del mondo, colpendo in particolar modo i
Paesi e le persone più vulnerabili; d'altra parte, le diseguaglianze, la
povertà, la fame e le malattie sono in crescita in numerosi Paesi.
A tal
fine, il Rapporto evidenzia alcune linee strategiche che possono determinare
progressi significativi, quali, ad esempio, lo sviluppo della finanza
sostenibile, l'ammodernamento delle istituzioni, un'efficace cooperazione
internazionale nella prospettiva multilaterale, un miglior uso dei dati
statistici e la valorizzazione della scienza, della tecnologia e
dell'innovazione, con una maggior attenzione alla trasformazione digitale.
Più
recentemente nella relazione “Progress towards the Sustainable Development
Goals” il segretario generale dell’ONU “Guterres” ha ribadito l'urgenza di
aumentare drasticamente il ritmo e la portata degli sforzi da compiere nel
prossimo decennio per realizzare gli SDGs.
Se
fino al 2019 i Goal 1 (sconfiggere la povertà), 3 (salute e benessere), 7
(energia pulita e accessibile) hanno fatto registrare progressi importanti,
molti Goal non hanno evidenziato miglioramenti e alcuni hanno persino invertito
la rotta: cresce il numero di persone che soffrono la fame (Goal 2); il
cambiamento climatico si sta verificando con ritmi più veloci del previsto
(Goal 13) e crescono le disuguaglianze all'interno dei Paesi (Goal 10).
Desta
poi particolare preoccupazione l’impatto della pandemia da Covid-19.
Pur iniziando come una emergenza sanitaria,
quella scatenata dal coronavirus è diventata la peggiore crisi sociale ed
economica dal dopoguerra in poi.
In
occasione della presentazione del Rapporto 2020 sullo “Human Development” “Achim
Steiner”, Direttore dell’UNDP ha dichiarato che “la distruzione ha assunto
proporzioni su scala mondiale e in modo sincronizzato senza precedenti tanto da
dovere aggiornare l’indice di sviluppo umano che per la prima volta da 30 anni
sta regredendo e dobbiamo ripensare ai nostri modelli economici e sociali.
Ogni
crisi porta con sé una opportunità che i leader globali devono cogliere”.
L’indice di sviluppo umano, che è un indicatore composito costituito da
variabili economiche (come il PIL pro capite) e sociali (quali il livello
educativo e della salute) non era decresciuto a livello globale neanche negli
anni della crisi finanziaria del 2008.
Nel
2020 è viceversa prevista una decrescita consistente per l’azione congiunta di
tutti i parametri che lo compongono.
Tornando
all’Agenda 2030, gli obiettivi più a carattere economico: l’8, il 9, l’11 e il
12, hanno subito una battuta di arresto, dopo che nei Paesi occidentali avevano
visto una fase di graduale miglioramento.
Gli
obiettivi più ambientali presentano dati altalenanti.
Il
Goal 14 (vita sott’acqua), nonostante il raddoppio delle aree marine protette
rispetto al 2010, registra un aumento dell'acidità degli oceani del 10-30%
rispetto al periodo 2015-2019.
La
percentuale di aree forestali (SDG 15)
è scesa dal 31,9% della superficie totale nel 2000 al 31,2% nel 2020, con una
perdita netta di quasi 100 milioni di ettari di foreste.
Le aree protette non sono concentrate in
contesti fondamentali per la biodiversità e le specie rimangono minacciate di
estinzione.
Infine
il Goal 16 evidenzia che milioni di persone sono state private della loro
sicurezza, dei diritti umani e dall’accesso alla giustizia.
Nel
2018, il numero di persone in fuga da guerre, persecuzioni e conflitti ha
superato i 70 milioni, il livello più alto registrato dall'UNHCR in quasi 70
anni.
A ciò si è aggiunta la pandemia da Covid-19, che può
portare ad un aumento dei disordini sociali che minerebbe la capacità di
raggiungere i target fissati.
Il
quadro mondiale si presenta quindi come particolarmente critico e sino alla
fine della pandemia non sarà facile comprendere quali saranno i tempi e le
condizioni per recuperare il terremo perso nel perseguimento degli obiettivi
dell’Agenda 2030, che continua a rappresentare a livello globale il riferimento
principale per orientare la ripartenza in modo sostenibile, valorizzando gli
ambiti essenziale per la transizione verso uno sviluppo economico e sociale più
resiliente, inclusivo e in armonia con la natura.
Le
rilevanti ricadute socio-economiche della crisi in corso hanno fatto sì che i
principali sforzi dei diversi Paesi si siano concentrati sull’emergenza
occupazione e sociale, spesso trascurando gli investimenti più di lungo periodo
in una prospettiva green.
L’Unione
Europea (UE), grazie anche alla spinta della nuova presidenza costituisce un
esempio di maggiore lungimiranza ed è stata capace negli ultimi mesi di
mantenere una forte coerenza con le linee strategiche definite con il Green
Deal alla fine del 2019.
Sono
numerosi e significativi i documenti strategici e di pianificazioni realizzati
o in programma nel prossimo biennio che articolano questa visione strategica e
che descriveremo sinteticamente nelle prossime pagine.
La
nostra convinzione infatti è che l’UE stia in questo momento provando a fare un
importante salto di qualità nella transizione verso la sostenibilità, facendo
leva sull’eccezionale sforzo di investimento che la ripresa post-pandemica
richiede.
Questa
transizione si articola in diverse dimensioni che vedono il pilastro ambientale
della sostenibilità al centro delle interazioni con l’economia e con il
pilastro sociale:
la
transizione verso la decarbonizzazione (SDG13 dell’Agenda 2030), verso
l’economia circolare (SDG12), la transizione alimentare (SDG2), quella verso un
diverso rapporto con la natura ed ecosistemi più resilienti (SDG 14 e 15),
verso un sistema economico, produttivo ed abitativo ad inquinamento zero (SDG8
e SDG 11), la transizione energetica e infrastrutturale orientata alla
rinnovabilità e sostenibilità (SDG7 e SDG 9).
Tutto ciò con le connesse ricadute sociali ed
economiche che coinvolgono tutti gli altri obiettivi dell’Agenda 2030.
L’Europa
al centro delle politiche Green.
L’Europa
ha iniziato il 2019 con uno degli ultimi atti della “Presidenza Junker” che ha
presentato il 30 gennaio il documento “Verso un’Europa sostenibile entro il
2030”, in cui si misura proprio con l’Agenda 2030.
In tal
documento si evidenzia come gli SDGs grazie alla loro universalità hanno la
potenzialità di risolvere le spinte sociali disgregative sia all’interno che
all’esterno dell’Unione e inducono “a lavorare in un’ottica internazionale,
incitando i paesi, l’industria e le persone a unirsi in questa missione”.
La
capacità di visione sistemica crea le condizioni per costruire la convergenza
delle politiche sociali, ambientali ed economiche, in quanto “La crescita
‘verde’ avvantaggia tutti, i produttori come i consumatori”.
E ciò
si deve realizzare nel quadro della coerenza delle politiche interne ed
esterne. “Dobbiamo fare in modo di non esportare la nostra impronta ecologica o
creare povertà, disuguaglianze e instabilità in altre parti del mondo.
In
quanto europei siamo del tutto consapevoli che gli impatti negativi che si
manifestano altrove avranno a loro volta un effetto boomerang per la nostra
economia e la nostra società”.
A ciò
seguiva la considerazione che una leadership europea nella transizione verso
un’economia verde e inclusiva, dando un forte impulso alla definizione di
regole internazionali è necessaria per conseguire un forte vantaggio
competitivo sul mercato globale.
Fin
qui le dichiarazioni di principio, è poi spettato alla nuova presidente della
Commissione Europea (CE), “Ursula Von del Leyen”, dare un reale impulso
strategico a questi orientamenti generali, segnando l’inizio del suo mandato
con la presentazione l’11 dicembre del Green New Deal.
Al
momento della presentazione le sue dichiarazioni furono:
“Il Green Deal europeo è la nostra nuova
strategia di crescita, per restituire più di quanto togliamo, trasformando il
nostro modo di vivere e lavorare, di produrre e consumare… Tutti possiamo
essere coinvolti nella transizione e tutti possiamo trarre vantaggio dalle
opportunità. Aiuteremo la nostra economia a essere un leader globale muovendoci
per primi e velocemente.
Siamo
determinati ad avere successo per il bene di questo pianeta e della vita su di
esso - per il patrimonio naturale dell'Europa, per la biodiversità, per le
nostre foreste e per i nostri mari. Mostrando al resto del mondo come essere
sostenibili e competitivi, possiamo convincere altri paesi muoversi con
noi".
Con il
Green Deal infatti la Ce si propone di posizionare l’UE come leader mondiale,
anche attraverso un “Patto per il Clima” che sarà presentato nel corso del
2020, e si articola in 8 obiettivi, il primo dei quali riguarda ancora una
volta il clima.
Questi obiettivi li approfondiremo
successivamente uno per uno, salvo quelli più connessi all’energia che
considereremo congiuntamente, in quanto verranno sviluppati nel capitolo
successivo.
Gli obiettivi sono supportati da cinque misure
trasversali:
Perseguire
i finanziamenti e gli investimenti verdi, garantendo una transizione giusta,
con un piano di investimenti per un’Europa sostenibile che comprenda:
un
meccanismo e un Fondo per una transizione giusta, concentrato sulle regioni e
sui settori più dipendenti dalle fonti fossili;
una
strategia rinnovata in materia di finanza sostenibile per indirizzare i flussi
finanziari e di capitale privato verso gli investimenti verdi ed evitare gli
attivi non recuperabili.
E trasformando la BEI nella nuova banca
dell’UE per il clima, prevedendo che il 50% delle sue operazioni siano dedicate
all’azione per il clima entro il 2025;
“Inverdire”
i bilanci nazionali e inviare i giusti segnali di prezzo, riorientando gli
investimenti pubblici, i consumi e la tassazione verso le priorità verdi,
abbandonando le sovvenzioni dannose, definendo con gli stati membri riforme
fiscali ben concepite che possano stimolare la crescita economica, migliorare
la resilienza agli shock climatici, contribuire a una società più equa e
sostenere una transizione giusta;
Stimolare
la ricerca e l’innovazione attraverso Horizon Europe e altre azioni sinergiche
a livello europeo e degli Stati membri, coinvolgendo un’ampia gamma di
portatori d’interessi tra cui regioni, cittadini, imprese, chiamando
in causa tutti i settori e le discipline in
un impegno di sistema;
Fare
leva sull’istruzione e la formazione, definendo un quadro europeo delle
competenze che aiuti a coltivare conoscenze, abilità e attitudini connesse ai
cambiamenti climatici e allo sviluppo sostenibile, utilizzando e aggiornando
strumenti quali il “Fondo sociale europeo Plus”, l’agenda per le competenze e
la garanzia per i giovani;
valutare
preventivamente gl’impatti ambientali, utilizzando gli strumenti di cui la
Commissione dispone per legiferare meglio basandosi sulle consultazioni
pubbliche, sulle previsioni degli effetti ambientali, sociali ed economici,
includendo nelle relazioni che accompagnano tutte le proposte legislative e gli
atti delegati una sezione specifica che illustra come viene garantito il
rispetto di tale principio.
Il 14
gennaio 2020 è stato quindi presentato il “Piano di investimenti connesso al
Green Deal”, finalizzato oltre che alla messa in campo diretta di risorse
comunitarie, nella creazione di un quadro favorevole per facilitare gli
investimenti pubblici e privati necessari per la transizione verso un'economia
climaticamente neutrale, verde, competitiva e inclusiva.
Il
Piano si basa su tre dimensioni:
Finanziamento: mobilitare almeno 1.000 miliardi di
euro di investimenti sostenibili nel prossimo decennio, attribuendo un ruolo
chiave alla “Banca Europea per gli Investimenti” che aumenterà la quota che
riservata ai progetti sostenibili dal 25 al 50%.
Nel
complesso la CE ha previsto di destinare circa un quarto del nuovo budget
pluriennale a progetti sostenibili.
Abilitazione: fornire incentivi per sbloccare e
reindirizzare gli investimenti pubblici e privati, mettendo la finanza
sostenibile al centro del sistema finanziario e facilitando gli investimenti
sostenibili da parte delle autorità pubbliche.
Supporto: la Commissione fornirà supporto
alle autorità pubbliche e ai promotori di progetti nella pianificazione,
ideazione e realizzazione di progetti sostenibili.
Al
tempo stesso è stato introdotto il meccanismo per una transizione giusta (JTM),
uno strumento chiave per garantire che la transizione verso la
decarbonizzazione avvenga in modo equo, senza lasciare indietro nessuno.
Il meccanismo fornisce un sostegno mirato per
aiutare a mobilitare almeno 100 miliardi di euro nel periodo 2021- 2027 per
alleviare l'impatto socioeconomico della transizione, aiutando i lavoratori e
le comunità che dipendono dalla catena del valore dei combustibili fossili.
Successivamente
poi si è avuta la crisi pandemica a livello internazionale che ha condizionato
tutte le scelte di policy.
In
Europa fortunatamente il forte orientamento strategico definito con il Green
Deal ha di fatto indirizzato le scelte di allocazione e condizionerà le
modalità di erogazione degli ingenti fondi per la ripartenza.
Il 27
maggio con la Comunicazione “Il bilancio dell’UE come motore del piano per la
ripresa europea” (COM(2020), 442 final), la CE, rispondendo alle necessità
straordinarie di finanziare la ripresa economica dei paesi membri dell’UE
colpiti dalla crisi del Covid-19, ha proposto l’introduzione di uno strumento
europeo di emergenza per la ripresa (“Next Generation EU”) del valore di 750
miliardi di EURO, in aggiunta a un quadro finanziario pluriennale (QFP)
rinforzato per il periodo 2021-2027 di 1100 miliardi di euro.
La novità del fondo” Next Generation EU” è la
possibilità per gli stati di poter beneficiare di un meccanismo di
finanziamento temporaneo che consente un aumento ingente e tempestivo della
spesa senza accrescere i debiti nazionali.
Per la
prima volta l’UE diventa il garante dell’indebitamento dei Paesi membri,
riuscendo così a contenere in misura significativa anche il costo
dell’indebitamento.
All’interno
della crisi più grave che abbia interessato l’economia globale ed europea negli
ultimi settantacinque anni, si tratta quindi di una grande opportunità per
accelerare la transizione verso un’economia più green e circolare.
Veniamo
ora ad analizzare come il Green Deal (e la connessa Next Generation UE) si
articola nelle politiche sulle dimensioni chiave della green economy.
Partiremo
dalle politiche prioritarie che caratterizzano il Green Deal Europeo, ovvero
la lotta al cambiamento climatico e
l’economia circolare, per poi analizzare le politiche sul sistema alimentare,
sulla biodiversità, sull’inquinamento, con un cenno finale su quelle inerenti
l’energia e i trasporti che saranno analizzate nel prossimo capitolo.
La
sfida per l’Europa, chiara anche prima dell’emergenza sanitaria e incarnata
nella nuova presidenza, è quella di riuscire a esercitare un maggior ruolo
internazionale all’egida della transizione alla green, “circular e decarbonised
economy”, ricostruendo il senso della coesione degli Stati membri, dopo gli
effetti della Brexit e dei neonazionalismi.
Il
cambiamento climatico.
Il
2019 è stato il secondo anno più caldo in assoluto e la fine del decennio più
caldo, dal 2010 al 2019.
Con
una temperatura media globale di 1,1°C al di sopra dei livelli preindustriali
la sfida globale del clima si presenta particolarmente urgente.
Al
fine marzo 2020 sono 185 i Paesi più l’Unione Europea che hanno comunicato il
loro primo “Contributo Nazionale Volontario alla Convenzione quadro delle
Nazioni Unite sui cambiamenti climatici”.
Il
quadro degli impegni non è inadeguato per raggiungere gli obiettivi di 1,5 o
2°C previsti dall'accordo di Parigi e pertanto i Paesi sono stati invitati ad
aggiornare i contributi a livello nazionale o a comunicarne di nuovi entro il
2020, aumentando il loro livello di ambizione nell'azione per il clima.
Anche
se le emissioni di gas serra dovrebbero diminuire del 6% nel 2020 (in Italia la
riduzione è del 7.5% rispetto al 2019 secondo le stime Ispra) e la qualità
dell'aria è migliorata a causa del divieto di viaggiare e del rallentamento
economico dovuto alla pandemia, il miglioramento è solo temporaneo e la crisi
può compromettere alcuni degli impegni ed investimenti previsti.
Viceversa
i governi dovrebbero utilizzare le lezioni apprese per accelerare le
transizioni necessarie per raggiungere l'accordo di Parigi, ridefinire il
rapporto con l'ambiente ed effettuare cambiamenti sistemici per ridurre le
emissioni di gas serra.
L’Europa
è in prima linea in questa sfida.
Tra il
1990 e il 2018 l’UE ha ridotto del 23 % le emissioni di gas a effetto serra,
mentre l'economia è cresciuta del 61 %.
Tuttavia, mantenendo le attuali politiche, la
riduzione delle emissioni di gas a effetto serra sarà limitata al 60% entro il
2050: per Bruxelles occorre fare di più.
Con il
Regolamento europeo sul clima del 4 marzo 2020, propedeutico al preannunciato “Patto
per il Clima”, la CE ha proposto un obiettivo giuridicamente vincolante di
azzeramento delle emissioni nette di gas a effetto serra entro il 2050 (già
indicato nella risoluzione del Parlamento Europeo del 14 marzo 2019), assumendo
il compito di esaminare la legislazione dell'Unione e le politiche vigenti per
valutarne la coerenza rispetto all'obiettivo della neutralità climatica e alla
traiettoria stabilita.
Ciò
coinvolge i Piani nazionali per l'energia e il clima degli Stati membri (la cui
valutazione è prevista all’art.6 del Regolamento), le relazioni periodiche
dell'Agenzia europea dell'ambiente e i
più recenti dati scientifici sui cambiamenti climatici e i relativi
impatti.
Entro
il 2020 la Commissione dovrebbe presentare il Piano corredato di una
valutazione d'impatto per aumentare l'obiettivo dell'UE di riduzione delle
emissioni di gas a effetto serra per il
2030, portandolo almeno al 50%-55% rispetto ai livelli del 1990 (oggi l’obiettivo è al 40%).
Tra le
varie misure da introdurre vi è anche la revisione della direttiva sulla
tassazione dell’energia, introducendo un meccanismo di adeguamento del carbonio
alle frontiere (border carbon tax).
Ciò è
necessario finché l’impegno dei diversi Paesi rispetto all’accordo di Parigi
non sarà più equilibrato.
Sull’adattamento,
cruciale date le conseguenze già evidenti del cambiamento climatico, il
regolamento prevede (art.4) che gli Stati membri elaborino e attuino strategie
e piani di adattamento che includono quadri completi di gestione dei rischi,
fondati su basi di riferimento rigorose in materia di clima e di vulnerabilità
e sulle valutazioni dei progressi compiuti.
Anche
in questo ambito l’UE vuole confermare il proprio ruolo di apripista,
recuperando lo spirito della COP di Parigi, purtroppo un po’ perso nelle COP
successive.
Anche
nell’ultima, tenutasi a dicembre 2019, a Madrid non sono state prese decisioni
particolarmente rilevanti o ambiziose, senza trovare un accordo su uno dei temi
più delicati, cioè il meccanismo che in futuro dovrebbe permettere ai paesi che
inquinano di meno di «cedere» la quota rimanente di gas serra a paesi che
inquinano di più.
Nei
documenti approvati alla fine della conferenza dalla plenaria vi è l’impegno
(anche se non vincolante) a presentare piani per ridurre ulteriormente le
proprie emissioni di gas serra per raggiungere gli obiettivi fissati dagli
Accordi di Parigi sul clima.
L’UE ha spinto in tale direzione, ma a frenare
compromessi più ambiziosi sono intervenuti i delegati di paesi come il Brasile
e soprattutto gli Stati Uniti, che hanno avviato le procedure per uscire
formalmente dagli Accordi di Parigi.
Cruciale
per l’impegno globale sul clima sarà pertanto la COP 26 che si terrà a Glasgow
a fine 2021, dopo il rinvio di un anno causa Covid-19.
La
tassonomia europea per la finanza sostenibile è una pietra miliare nell’agenda
verde europea: il primo sistema di classificazione al mondo di attività
economiche sostenibili dal punto di vista ambientale, che darà una spinta reale
agli investimenti sostenibili.
L’economia
circolare e Il nuovo Piano di azione.
Per
quanto riguarda l’Economia circolare (EC), l’ultimo anno ha visto l’emanazione
di diversi provvedimenti comunitari, che sono culminati poi a marzo 2020 con il
nuovo Piano di azione.
A
marzo 2019, la Commissione europea ha adottato una relazione globale
sull'attuazione del piano d'azione per l'economia circolare del 2015.
La
relazione indica, grazie alle attività di monitoraggio previste nel Piano, che l’EC
sta fornendo un contributo significativo nella creazione di occupazione. Nel
2016 nei settori attinenti all'economia circolare erano impiegati oltre quattro
milioni di lavoratori (di cui 510.145 in Italia, saliti a 517.540 nel 2017), il
6% in più rispetto al 2012.
Ulteriori
posti di lavoro sono destinati a essere creati nei prossimi anni al fine di
soddisfare la domanda prevista di materie prime secondarie generata da mercati
pienamente funzionanti.
La circolarità ha inoltre aperto nuove
opportunità commerciali, dato origine a nuovi modelli di impresa e sviluppato nuovi mercati, sia
all'interno sia all'esterno dell'UE.
Nel
2017 attività circolari come la riparazione, il riutilizzo o il riciclaggio
hanno generato quasi 155 miliardi di euro di valore aggiunto, registrando
investimenti pari a circa 18,5 miliardi di euro.
In
Europa il riciclaggio di rifiuti urbani nel periodo 2008-2016 è aumentato e il
contributo dei materiali riciclati alla domanda globale di materiali registra
un continuo incremento.
In media, tuttavia, i materiali riciclati
riescono soltanto a soddisfare meno del 12% della domanda di materiali dell'UE.
Questo
aspetto è ribadito da una recente relazione dei portatori di interessi secondo
la quale la piena circolarità si applicherebbe solo al 9% dell’economia
mondiale, lasciando ampi margini di miglioramento.
La CE
ha messo in campo nell’ultimo quinquennio una serie di azioni nell’ambito della
EC, tra cui la prima strategia settoriale ha riguardato la plastica:
prevedendo
che entro il 2030 tutti gli imballaggi di plastica immessi sul mercato dell'UE
siano riutilizzabili o riciclabili;
e che,
entro il 2025, 10 milioni di tonnellate di plastica riciclata vengano
utilizzati per la realizzazione di nuovi prodotti.
Sono già state raggiunte alcune tappe verso un
riciclaggio della plastica di maggiore qualità.
Tra
queste rientrano il nuovo obiettivo di riciclaggio per gli imballaggi di
plastica, fissato al 55% per il 2030, gli obblighi di raccolta differenziata e
i miglioramenti riguardanti i regimi di responsabilità estesa del produttore.
Si
prevede che questi ultimi agevoleranno la progettazione che mira alla
riciclabilità grazie all'eco-modulazione dei contributi dei produttori.
Ulteriori
passi in avanti sono stati definiti con la direttiva 2019/904/UE sulla
riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente
(come le plastiche monouso).
La
strategia si è poi proposta di allargare a scala globale l’azione della UE.
In
base alle iniziative introdotte, in particolare sulla plastica monouso, la
leadership dell'UE nelle sedi multilaterali ha giocato un ruolo fondamentale
nell’attivare l'interesse internazionale nei confronti dell'agenda sulla
plastica, come dimostrato da iniziative quali la piattaforma “Global Plastics”
in collaborazione con l’UNEP e il partenariato internazionale sui rifiuti di
plastica nel quadro della convenzione di Basilea.
Nel
2020 La Commissione europea ha, infine, adottato un nuovo piano d’azione per
l’economia circolare , uno degli elementi cardine del Green Deal europeo.
Il
nuovo Piano di azione dell’Unione Europea per l’economia circolare esprime la
chiara convinzione che l’estensione dell'economia circolare dai” first movers”
agli operatori economici tradizionali contribuirà in modo significativo al
conseguimento della neutralità climatica entro il 2050 e alla dissociazione
della crescita economica dall'uso delle risorse, garantendo allo stesso tempo
la competitività a lungo termine dell’UE e una ripresa dalla crisi pandemica
orientata alla sostenibilità.
Il modello di crescita circolare viene
chiaramente descritto come rigenerativo e capace di contribuire agli obiettivi
di riduzione dell’impronta dei consumi, grazie alla diffusione di prodotti
circolari.
Esso
intende rappresentare un programma orientato al futuro per costruire un’Europa
più pulita e competitiva in co- creazione con gli operatori economici, i
consumatori, i cittadini e le organizzazioni della società civile, capace di
accelerare il profondo cambiamento richiesto dal Green Deal europeo.
Il
piano d’azione pone un quadro strategico solido e coerente in cui i prodotti, i
servizi e i modelli di business sostenibili costituiranno la norma, ciò:
al
fine di trasformare i modelli di consumo in modo da evitare innanzitutto la
produzione di rifiuti;
focalizzandosi
sulle catene di valore dei prodotti chiave (il Piano ne individua sette:
elettronica e TIC; batterie e veicoli; imballaggi; plastica; prodotti tessili;
costruzioni e edilizia; prodotti alimentari;
riducendo
i rifiuti e garantire il buon funzionamento del mercato interno dell'UE per le
materie prime secondarie di alta qualità;
consentendo
all’Unione si assumerà sempre di più la responsabilità dei rifiuti che produce
(riducendo le spedizioni transfrontaliere).
Secondo
la CE nell’economia circolare esiste un chiaro vantaggio competitivo anche per
le singole aziende, in quanto la spesa delle imprese manifatturiere per
l'acquisto di materiali (circa il 40% della spesa complessiva) potrebbe
sensibilmente ridursi grazie a modelli a ciclo chiuso, incrementando la loro
redditività e proteggendole dalle fluttuazioni dei prezzi delle risorse.
La
transizione verso un modello circolare intende rafforzare la base industriale e
favorire la creazione di imprese e l'imprenditorialità tra le Pmi.
Grazie alla spinta innestata dalla circolarità
le imprese adotteranno modelli innovativi basati su una relazione più stretta
con i clienti, favorendo la personalizzazione di massa e l'economia
collaborativa e partecipata.
Le
tecnologie digitali forniranno una ulteriore impulso alla circolarità e alla
dematerializzazione, consentendo all'Europa di ridurre la dipendenza dalle
materie prime.
Al
proposito è chiara la sinergia con la Strategia Industriale della UE presentata
nel marzo 2020, in cui si individuano tre fattori chiave per l’Europa: essere
più green, più circolare e più digitale.
Per
quanto riguarda i cittadini, l'economia circolare fornirà prodotti di elevata
qualità, funzionali, sicuri, efficienti e economicamente accessibili, che
durano più a lungo e sono concepiti per essere riutilizzati, riparati o
sottoposti a procedimenti di riciclaggio di elevata qualità.
Un’intera
gamma di nuovi servizi sostenibili, modelli di "prodotto come
servizio" (product-as-service) e soluzioni digitali consentiranno di
migliorare la qualità della vita, creare posti di lavoro innovativi e
incrementare le conoscenze e le competenze.
Il piano mira inoltre a garantire che
l'economia circolare vada a beneficio delle persone, delle regioni e delle
città, contribuisca pienamente alla neutralità climatica e sfrutti appieno il
potenziale della ricerca, dell'innovazione e della digitalizzazione.
Il
Piano prevede, infine, l'ulteriore messa a punto di un quadro di monitoraggio
adeguato che contribuisca a misurare il benessere al di là del PIL.
Particolare
attenzione meritano, nell’ambito del Piano, due azioni trasversali, che
dimostrano quale sia il livello di interconnessione tra le diverse politiche
europee.
La
prima attiene alla neutralità climatica. Al fine di conseguire questo
obiettivo la Commissione intende rafforzare le sinergie tra circolarità e
riduzione dei gas a effetto serra. Per fare ciò:
saranno
analizzati i metodi di misura dell'impatto della circolarità sulla mitigazione
dei cambiamenti climatici e sull'adattamento ai medesimi;
verranno
migliorati gli strumenti di modellizzazione per cogliere le ricadute positive
dell'economia circolare sulla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra
a livello nazionale e di UE;
sarà
promosso il rafforzamento del ruolo della circolarità nelle future revisioni
dei piani nazionali per l'energia e il clima e, se del caso, in altre politiche
in materia di clima.
Oltre
alla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, il conseguimento della neutralità
climatica richiederà che il carbonio presente nell'atmosfera sia assorbito,
utilizzato nella nostra economia senza essere rilasciato e, quindi, rimanendo
stoccato per periodi di tempo più lunghi.
Per incentivare l'assorbimento e una maggiore
circolarità del carbonio, nel pieno rispetto degli obiettivi in materia di
biodiversità, la Commissione intende lavorare a un quadro normativo per la
certificazione degli assorbimenti di carbonio basato su una contabilizzazione
del carbonio solida e trasparente al fine di monitorare e verificare
l'autenticità degli assorbimenti.
La
seconda azione trasversale attiene alle politiche economiche. In tale ambito,
la Commissione intende:
migliorare
la divulgazione dei dati ambientali da parte delle imprese grazie al riesame
della direttiva sulla comunicazione di informazioni di carattere non
finanziario;
sostenere
un'iniziativa promossa dalle imprese per sviluppare principi di contabilità
ambientale che integrino i dati finanziari con i dati sulle prestazioni
dell'economia circolare;
promuovere
l'integrazione di criteri di sostenibilità nelle strategie aziendali,
migliorando il quadro in materia di governo societario;
far sì
che gli obiettivi connessi all'economia circolare siano rispecchiati nel quadro
del riorientamento del processo del semestre europeo e nel contesto della
prossima revisione della disciplina in materia di aiuti di Stato a favore
dell'ambiente e dell'energia;
continuare
a incoraggiare l'applicazione più ampia di strumenti economici ben progettati,
come la tassazione ambientale che include imposte per il conferimento in
discarica e l'incenerimento, e a mettere gli Stati membri in condizione di
utilizzare le aliquote dell'imposta sul valore aggiunto (IVA) per promuovere le
attività di economia circolare destinate ai consumatori finali come i servizi
di riparazione.
Sono
molte le novità nel Piano Europeo per l’economia circolare, ci concentriamo qui
su due tra le più significative.
Un
approccio efficace alla circolarità prende il via dalla progettazione dei
prodotti.
Al proposito nel Piano per rendere i prodotti idonei a
un'economia neutra dal punto di vista climatico, efficiente sotto il profilo
delle risorse e circolare, ridurre i rifiuti e garantire che le prestazioni dei
precursori della sostenibilità diventino progressivamente la norma, la
Commissione proporrà un'iniziativa legislativa relativa ad una strategia in
materia di prodotti sostenibili.
L'obiettivo
centrale di questa iniziativa legislativa sarà l'estensione della direttiva
concernente la progettazione ecocompatibile oltre ai prodotti connessi
all'energia, in modo che il quadro della progettazione ecocompatibile possa
applicarsi alla più ampia gamma possibile di prodotti e rispetti i principi
della circolarità.
Dal
punto di vista delle misure, la Commissione valuterà la possibilità di
stabilire dei principi di sostenibilità e altre modalità adeguate a
disciplinare i seguenti aspetti:
miglioramento
della durabilità, della riutilizzabilità, della possibilità di upgrading e
della riparabilità dei prodotti, la questione della presenza di sostanze
chimiche pericolose nei prodotti e l'aumento della loro efficienza sotto il
profilo energetico e delle risorse;
aumento
del contenuto riciclato nei prodotti, garantendone al tempo stesso le
prestazioni e la sicurezza;
la
possibilità di rifabbricazione e di riciclaggio di elevata qualità;
la
riduzione delle impronte carbonio e ambientale;
la
limitazione dei prodotti monouso e la lotta contro l'obsolescenza prematura;
l'introduzione
del divieto di distruggere i beni durevoli non venduti;
la
promozione del modello "prodotto come servizio" o di altri modelli in
cui i produttori mantengono la proprietà del prodotto o la responsabilità delle
sue prestazioni per l'intero ciclo di vita;
la
mobilitazione del potenziale di digitalizzazione delle informazioni relative ai
prodotti, ivi comprese soluzioni come i passaporti, le etichettature e le
filigrane digitali;
un
sistema di ricompense destinate ai prodotti in base alle loro diverse
prestazioni in termini di sostenibilità, anche associando i livelli elevati di
prestazione all'ottenimento di incentivi;
Sarà
data priorità ai gruppi di prodotti individuati nel contesto delle catene di
valore che figurano nel piano d'azione, come l'elettronica, le TIC e i tessili,
ma anche i mobili e i prodotti intermedi ad elevato impatto, come l'acciaio, il
cemento e le sostanze chimiche. Altri gruppi di prodotti saranno individuati in
base all'impatto ambientale e al loro potenziale di circolarità.
Progettare
un sistema alimentare giusto, sano e rispettoso dell’ambiente.
Lo
slogan utilizzato nella Strategia presentata il 20 maggio 2020 con la COM(2020)
381 final è “Dal produttore al consumatore” (from farm to fork).
La UE
si pone l’obiettivo di divenire riferimento mondiale per la sostenibilità,
attraverso una strategia specifica nel settore alimentare coerente con
l’economia circolare.
La
strategia "Dal produttore al consumatore", al centro del Green Deal e
del perseguimento dell’Agenda 2030 da parte della UE (in particolare per quanto
riguarda l’SDG 2), affronta in modo globale le sfide poste dal conseguimento di
sistemi alimentari sostenibili, riconoscendo i legami inscindibili tra persone,
società e pianeta sani.
Il
passaggio a un sistema alimentare sostenibile può apportare benefici
ambientali, sanitari e sociali, offrire vantaggi economici e assicurare che la
ripresa dalla crisi pandemica conduca l’UE su un percorso sostenibile.
Un
sistema alimentare sostenibile deve garantire ai consumatori un
approvvigionamento sufficiente e diversificato di alimenti sicuri, nutrienti,
economicamente accessibili e sostenibili in qualsiasi momento, anche in tempi
di crisi.
Come è
noto noi viviamo una profonda contraddizione tra l’obesità e lo spreco
alimentare da un lato e la carenza di cibo per una parte della popolazione
europea dall’altro.
Il 20% circa degli alimenti prodotti va
sprecato e l'obesità è in aumento, con oltre la metà della popolazione adulta
europea attualmente in sovrappeso.
Al
tempo stesso 33 milioni di cittadini europei non possono permettersi un pasto
di qualità ogni due giorni.
Se i
regimi alimentari europei fossero conformi alle raccomandazioni nutrizionali e
più equilibrati (con una dieta maggiormente basata sui vegetali), l'impronta
ambientale e l’equità sociale dei sistemi alimentari sarebbe notevolmente
migliorata.
Si
stima che nel 2017 nell'UE oltre 950 000 decessi (uno su cinque) e la perdita
di oltre 16 milioni di anni di vita in buona salute fossero attribuibili a
cattive abitudini alimentari e alle malattie connesse.
Eppure
in generale i prodotti alimentari europei costituiscono già uno standard a
livello globale, sinonimo di sicurezza, abbondanza, nutrimento e qualità
elevata. Inoltre il settore agricolo dell'UE è l'unico grande sistema al mondo
ad aver ridotto le emissioni di gas a effetto serra (del 20 % dal 1990).
Questo
è il risultato di anni di politiche dell'UE volte a proteggere la salute umana,
degli animali e delle piante ed è frutto degli sforzi di agricoltori, pescatori
e produttori. I prodotti alimentari europei dovrebbero ora diventare lo
standard globale anche in materia di sostenibilità.
Sono
numerose le azioni che devono essere introdotte a questo fine, la strategia le
delinea, rimandando poi a fasi successive per una effettiva implementazione,
accompagnata da una ampia consultazione con tutti gli stakeholder.
Per
garantire la sostenibilità della produzione alimentare occorre il contributo di
tutti gli attori della filiera alimentare.
Ciò al
fine di accelerare la trasformazione dei metodi di produzione sfruttando al
meglio le “Nature based solutions”, le tecnologie digitali e satellitari per
aumentare la resilienza ai cambiamenti climatici e ridurre e ottimizzare
l'uso di fattori di produzione (acqua,
pesticidi e fertilizzanti).
Queste
soluzioni richiedono investimenti dal punto di vista umano e finanziario, ma
promettono anche rendimenti più elevati creando valore aggiunto e riducendo i
costi.
La CE
mira a ricompensare gli agricoltori, i pescatori e gli altri operatori della
filiera alimentare che hanno già compiuto la transizione verso pratiche
sostenibili, a consentire la transizione di tutti gli altri e a creare
ulteriori opportunità per le loro attività.
Per
estendere l’approccio già sviluppato in molti contesti della UE vi è
l'impellente necessità di ridurre la dipendenza da pesticidi e antimicrobici
(l’obiettivo è di ridurli di un ulteriore 50% entro il 2030, dopo che già sono
stati ridotti del 20% negli ultimi 5 anni), contenere il ricorso ai
fertilizzanti, potenziare l'agricoltura biologica, migliorare il benessere
degli animali e invertire la perdita di biodiversità. Nella strategia vengono
citati alcune aree di innovazione significativamente, come:
a) il
sequestro del carbonio(CO2) da parte di agricoltori e silvicoltori (carbon
farming), con associati sistemi di certificazione e di pagamento;
b) la
bioeconomia circolare, di cui un esempio citato riguarda le bioraffinerie di
cui l’italiana “Novamont “è un pioniere, che si raccorda strettamente con il
Piano per l’economia circolare;
c) un
ambito particolarmente rilevante riguarda le emissioni di gas serra, che
provengono in larga parte (in Europa il 70% delle emissioni provenienti
dall’agricoltura, pari al 10,3% del totale) dall’allevamento, che occupa
peraltro il 68% della superficie agricola.
In
questo contesto la CE intende agire sui mangimi, attraverso ad esempio
l’immissione sul mercato di additivi per mangimi sostenibili e innovativi,
promuovendo le proteine vegetali coltivate nell'UE e materie prime per mangimi
alternative quali gli insetti, le alghe e i sottoprodotti della bioeconomia
(come gli scarti del pesce).
d)
L’agricoltura biologica deve essere promossa ulteriormente:
ha
effetti positivi sulla biodiversità, crea posti di lavoro e attrae giovani
agricoltori, e i consumatori ne riconoscono il valore.
La Commissione presenterà un piano d’azione
sull’agricoltura biologica, con l’obiettivo di raggiungere almeno il 25% della
superficie agricola dell’UE investita ad agricoltura biologica entro il 2030 e
un aumento significativo dell’acquacoltura biologica.
La
transizione verso un’agricoltura sostenibile dovrà essere sostenuta da una PAC
incentrata sul Green Deal.
La nuova PAC, che la Commissione ha proposto
nel giugno 2018, mira ad aiutare gli agricoltori a migliorare le loro
prestazioni ambientali e climatiche attraverso un modello maggiormente
orientato ai risultati, un uso più sistematico dei dati e delle analisi, un
miglioramento delle norme ambientali obbligatorie, nuove misure volontarie e
una maggiore attenzione agli investimenti nelle tecnologie e nelle pratiche
verdi e digitali.
Intende inoltre garantire un reddito dignitoso
che consenta agli agricoltori di provvedere alle proprie famiglie, di resistere
a crisi di ogni tipo e di continuare a svolgere il loro ruolo di custodi del
territorio.
In questa prospettiva la nuova PAC si propone
di migliorare l'efficienza e l'efficacia dei pagamenti diretti con il sostegno
al reddito agli agricoltori che ne hanno bisogno e contribuiscono al
conseguimento degli obiettivi ambientali, anziché a soggetti e imprese che
semplicemente possiedono terreni agricoli.
Occorre
al proposito tenere conto che nel 2017 le sovvenzioni della PAC, ad eccezione
del sostegno agli investimenti, hanno rappresentato il 57% del reddito agricolo
netto nell'UE.
La
capacità degli Stati membri di garantire questa impostazione sarà attentamente
valutata nei piani strategici e monitorata durante tutto il processo di
attuazione.
Inoltre
la CE richiederà, anche attraverso uno specifico codice di condotta, alle
imprese e alle organizzazioni del settore alimentare di impegnarsi in azioni
concrete in materia di salute e sostenibilità, mirate in particolare a:
riformulare
i prodotti alimentari conformemente a linee guida per regimi alimentari sani e
sostenibili, ridurre la propria impronta ambientale e il proprio consumo
energetico, adottare opportune strategie di marketing e pubblicitarie, ridurre
gli imballaggi in linea con il nuovo Piano di azione sull’Economia Circolare.
Tra le
azioni di policy previste vi sono:
a) Il
riesame della normativa sui materiali a contatto con gli alimenti al fine di
migliorare la sicurezza degli alimenti e la salute pubblica, sostenendo
l'impiego di soluzioni di imballaggio innovative e sostenibili che utilizzino
materiali ecologici, riutilizzabili e riciclabili;
b) Il
sostegno, allo scopo di creare filiere più corte la CE, della riduzione della
dipendenza dai trasporti a lunga distanza (nel 2017 circa 1,3 miliardi di
tonnellate di prodotti stati trasportati su strada);
c)
l’introduzione, al fine di consentire ai consumatori di fare scelte alimentari
consapevoli, sane e sostenibili, di un'etichettatura nutrizionale obbligatoria
e armonizzata sulla parte anteriore dell'imballaggio, nonché la possibilità di estendere le indicazioni di origine o di
provenienza;
d)
l’arricchimento delle EPD contemplando congiuntamente gli aspetti nutrizionali,
climatici, ambientali e sociali dei prodotti alimentari.
e) Il
sollecito agli Stati membri di utilizzare le aliquote IVA in modo mirato, ad
esempio per sostenere i prodotti ortofrutticoli biologici.
Preservare
e ripristinare gli ecosistemi e la biodiversità.
La CE
ha definito nel maggio 2020 una nuova strategia per la biodiversità per
assicurare che l’UE svolga un ruolo fondamentale per l’arresto della perdita di
biodiversità a livello internazionale nelle prossime negoziazioni 2020 della “Convenzione
per la diversità biologica”, perseguendo il principio che tutte le politiche
dell’UE contribuiscano a preservare e ripristinare il capitale naturale
europeo.
Nella
strategia si evidenzia come la pandemia di Covid-19 abbia dimostrato una volta
di più quanto sia urgente intervenire per proteggere e ripristinare la natura,
facendo prendere coscienza dei legami che esistono tra la nostra salute e la
salute degli ecosistemi, oltre a dimostrare la necessità di adottare catene di
approvvigionamento e modi di consumo sostenibili che rispettino i limiti del
pianeta.
Da un
lato il rischio di insorgenza e diffusione delle malattie infettive aumenta con
la distruzione della natura, dall’altro investire nella protezione e nel
ripristino della natura sarà di cruciale importanza per la ripresa economica
dell'Europa dalla crisi Covid-19.
La protezione della biodiversità ha
giustificazioni economiche ineludibili, come è stato anche evidenziato
all’ultimo “World Economic Forum”.
I geni, le specie e i servizi ecosistemici
sono fattori di produzione indispensabili per l'industria e le imprese,
soprattutto per la produzione di medicinali.
Oltre la metà del PIL mondiale dipende dalla
natura e dai servizi che fornisce:
in
particolare tre dei settori economici più importanti — edilizia, agricoltura,
settore alimentare e delle bevande — ne sono fortemente dipendenti.
Si è
stimato che dal 1997 al 2011 i cambiamenti nella copertura del suolo abbiano
causato perdite tra 3.500 e 18.500 miliardi di euro l'anno in servizi
ecosistemici a livello mondiale e che il degrado del suolo sia costato
5.500-10.500 miliardi di euro l'anno.
La
conservazione della biodiversità può apportare benefici economici diretti a
molti settori dell'economia. Il rapporto benefici/costi complessivi di un
programma mondiale efficace per la conservazione della natura è valutato essere
superiore a 7 a 1.
Gli investimenti nel capitale naturale sono
così considerati tra le cinque politiche più importanti di risanamento del
bilancio della UE in quanto offrono moltiplicatori economici elevati e un
impatto positivo sul clima.
L’impegno
della UE per il capitale naturale riguarda:
a)
L’Estensione della rete di protezione dell’ambiente: la CE si propone di
proteggere almeno il 30% della superficie terrestre (4% in più di oggi) e il 30
% del mare (19% in più di oggi), con importanti ricadute non solo ambientali,
ma anche economiche.
I
benefici di Natura 2000 sono stati valutati tra i 200 e i 300 miliardi di EUR
all'anno e i nuovi investimenti per la protezione genererebbero fino a 500.000
nuovi posti di lavoro ; così come nelle zone marine protette per ogni euro
investito se ne genererebbero almeno tre .
b) La
creazione di corridoi ecologici che, nell’ambito di una rete naturalistica
transeuropea davvero resiliente, impediscano l'isolamento genetico, consentano
la migrazione delle specie e preservino e rafforzino l’integrità degli
ecosistemi.
In tale contesto la CE intende sostenere gli
investimenti nelle infrastrutture verdi e blu .
c) La
predisposizione di un Piano di ripristino della natura, di cui l'UE vuole fare
da apripista a livello globale.
Tale
Piano ridurrà le pressioni sugli habitat e le specie, assicurando che gli
ecosistemi siano sempre usati in modo sostenibile, sostenendo il risanamento
della natura, limitando l'impermeabilizzazione del suolo e l'espansione urbana,
contrastando l'inquinamento e le specie esotiche invasive.
In tale ambito la Commissione proporrà nel
2021 obiettivi di ripristino della natura giuridicamente vincolanti al fine di
ripristinare gli ecosistemi degradati.
Gli
Stati membri dovranno assicurare che almeno il 30 % delle specie e degli
habitat il cui attuale stato di conservazione non è soddisfacente lo diventi o
mostri una netta tendenza positiva.
A
questo scopo nel 2020 la Commissione e l'Agenzia europea dell'ambiente
forniranno orientamenti agli Stati membri su come selezionare le specie e gli
habitat e stabilirne l'ordine di priorità.
d)
L’intensificazione degli sforzi per proteggere il suolo (una risorsa
rinnovabile cruciale), ridurne l'erosione e aumentarne la fertilità, attraverso
una revisione nel 2021 della strategia tematica dell'UE per il suolo.
e) La
predisposizione nel 2021 di una specifica “Strategia forestale” coerente con le
ambizioni in materia di biodiversità e neutralità climatica.
La
proposta includerà una tabella di marcia per la piantumazione di almeno 3
miliardi di alberi supplementari nell'UE entro il 2030, nel pieno rispetto dei
principi ecologici.
La
piantumazione di alberi sarà supportata, attingendo dal programma LIFE, anche
dalla nuova piattaforma europea per l'inverdimento urbano.
f) La
proposta di un nuovo Piano d'azione per conservare le risorse della pesca e
proteggere gli ecosistemi marini, favorendo, tra l’altro, la transizione verso
tecniche di pesca più selettive e meno dannose con il sostegno del Fondo
europeo per gli affari marittimi.
g) Un
impegno ad adoperarsi maggiormente per ristabilire gli ecosistemi di acqua
dolce e le funzioni naturali dei fiumi, al fine di conseguire gli obiettivi (la
cui attuazione è in ritardo) della direttiva quadro sulle acque.
Uno
dei modi per farlo consiste nell'eliminare o adeguare le barriere che
impediscono il passaggio dei pesci migratori e nel migliorare il flusso libero
dei sedimenti: s'intende così ristabilire lo scorrimento libero di almeno
25.000 km di fiumi entro il 2030, eliminando le barriere obsolete e
ripristinando le pianure alluvionali.
h) La
volontà di riportare la natura nelle città e ricompensare l'azione delle
comunità, per cui la CE invita le città europee di almeno 20.000 abitanti a
elaborare entro la fine del 2021 piani ambiziosi di inverdimento urbano, che
verranno supportati e valorizzati attraverso una piattaforma UE per il verde
urbano che verrà creata nel 2021.
Inquinamento
zero per un ambiente privo di sostanze tossiche.
La CE
si propone di essere più efficace nel monitorare, segnalare, prevenire e porre
rimedio all’inquinamento atmosferico, idrico, del suolo e dei prodotti di
consumo.
A tal
fine esaminerà insieme agli Stati membri tutte le politiche e i regolamenti in
modo più sistematico, definendo nel 2021 un piano d’azione per l’inquinamento
zero di aria, acqua e suolo.
Nel
caso delle norme sulla qualità dell’aria saranno riviste per allinearle
maggiormente alle raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità.
Sarà perseguito l’Inquinamento zero degl’impianti industriali, aggiornando gli
strumenti normativi in coerenza con gli obiettivi di sostenibilità e
decarbonizzazione.
Il 10
luglio 2020 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sulla Strategia
in materia di sostanze chimiche per la sostenibilità in cui, anticipando alcuni
degli indirizzi per il piano inquinamento zero, evidenzia le interconnessioni
tra diversi piani e strategie del Green Deal, quali la strategia per la
biodiversità, dal produttore al consumatore, economia circolare, nonché il
piano europeo per la lotta contro il cancro.
Il
2019 è stato il secondo anno più caldo in assoluto e la fine del decennio più
caldo, dal 2010 al 2019.
Con
una temperatura media globale di 1,1°C al di sopra dei livelli preindustriali
la sfida globale del clima si presenta particolarmente urgente.
Le
infrastrutture: energia, mobilità e digitale
Disporre
di infrastrutture di elevata efficienza nei settori dell’energia, dei trasporti
e del digitale è essenziale per un’UE integrata e competitiva, in cui i
cittadini e le imprese possano trarre pienamente vantaggio dalla libera
circolazione, dal mercato unico e da infrastrutture sociali adeguate.
Le
reti transeuropee mirano in questa prospettiva a soddisfare il fabbisogno di
infrastrutture resilienti, sostenibili, innovative e senza soluzioni di
continuità.
Due
delle azioni specifiche previste nel Green Deal, energia e mobilità, possono in
questa sede essere semplicemente richiamate, in quanto verranno riprese
successivamente.
In ogni caso qui troviamo le strategie
presentate l’8 luglio 2020 per un sistema energetico integrato [COM(2020) 299
final] e per l’idrogeno pulito [COM(2020) 301 final].
L’interconnessione
tra le diverse strategie è particolarmente richiesta dalla decarbonizzazione (eliminare la CO2) che richiede una visione di
sistema, investimenti e processi che integrino i diversi vettori energetici e
gli usi dell’energia.
La
strategia per l’idrogeno pulito viene ad integrarsi efficacemente quale
chiusura del sistema.
La CE
considera queste strategie come centrali nel piano di risanamento economico,
poiché propongono un percorso a costi contenuti, promuovendo investimenti
mirati nelle infrastrutture, che riducano i costi dell’energia per aziende e
clienti.
Ciò
vale anche nell’ambito della mobilità.
Per
conseguire la neutralità climatica è necessario ridurre le emissioni prodotte
dai trasporti del 90 % entro il 2050 e occorrerà il contributo del trasporto
stradale, ferroviario, aereo e per vie navigabili.
Una
strada importante è quella della mobilità elettrica, dove a livello globale
siamo arrivati a più di 7 milioni di veicoli elettrici per passeggeri o merci
(erano 1,5 milioni nel 2016).
Se in
questo ambito è la Cina a prevalere (con più di 3 milioni), l’Europa arriva a
quasi 2 milioni e nei primi tre mesi dell’anno, in una fase di forte
contrazione del mercato, le immatricolazioni sono cresciute dell’81,7% sul
primo trimestre del 2019.
Nel
2020 la Commissione adotterà una strategia per una mobilità intelligente e
sostenibile per mettere gli utenti al primo posto e fornire loro alternative
più economiche, accessibili e pulite rispetto alle loro attuali abitudini.
In
ultimo, come abbiamo già evidenziato, la trasformazione verde e la
trasformazione digitale sono due sfide indissociabili.
Secondo
il Green Deal europeo, queste sfide richiedono un immediato riorientamento
verso soluzioni più sostenibili che siano circolari, efficienti nell’impiego
delle risorse e a impatto climatico zero.
È
necessario che ogni cittadino, ogni lavoratore, ogni operatore economico,
ovunque viva, abbia un’equa possibilità di cogliere i vantaggi di questa
società sempre più digitalizzata.
La
Comunicazione “Plasmare il futuro digitale dell’Europa” del febbraio 2020 indica un pacchetto di azioni che il
Parlamento europeo a giugno ha fatto proprie, evidenziandone l’importanza nella
trasformazione dell’economia e della società europee, soprattutto quale mezzo
per raggiungere la neutralità climatica dell’UE entro il 2050 e per creare
posti di lavoro, concordando che l’accelerazione della trasformazione digitale
rappresenterà una componente essenziale della risposta dell’UE alla crisi
economica generata dalla pandemia di Covid-19.
Green
Economy e ripartenza.
Il
Consiglio europeo del 23 aprile 2020 accogliendo con favore la “Tabella di
marcia per la ripresa.
Verso un’Europa più resiliente, sostenibile ed
equa” ha sostenuto che l’Unione europea ha bisogno di uno sforzo di
investimento simile al piano Marshall per sostenere la ripresa e modernizzare
l’economia.
Ciò
significa investire massicciamente nella transizione verde e nella
trasformazione digitale nonché nell’economia circolare parallelamente ad altre
politiche quali la politica di coesione e la politica agricola comune.
Una
scelta la cui bontà è confermata da uno studio dell'Università di Oxford
firmato da un team di esperti di fama internazionale, tra cui il Nobel “Joseph
Stiglitz” e l'economista del clima “Lord Nicholas Stern” della “London School
of Economics”, che hanno valutato circa 700 pacchetti di stimolo attuati contro
la crisi del 2008 (utile bussola quindi anche contro la crisi della pandemia):
per
risollevare le economie, la strategia migliore, anche dal punto di vista
economico e dell’occupazione è stata puntare su politiche "green"
riducendo le emissioni di gas serra.
Una
grande opportunità per il nostro Paese, che parte avvantaggiato:
un’altra
recente ricerca dell'Università di Oxford e della Smith School of Enterprise
and the Environment, partendo dal primo e più grande database al mondo di
prodotti green, colloca l'Italia al secondo posto fra i paesi in grado di
esportare "i prodotti più verdi e complessi avendo una capacità di
produzione green altamente avanzata”;
e
addirittura al primo posto per il potenziale per diventare competitiva a
livello globale in prodotti ancora più green e tecnologicamente sofisticati.
In
questo contesto il Green Deal europeo avrà una funzione essenziale in quanto
strategia di crescita inclusiva e sostenibile.
Le
risorse messe in campo come è noto sono molto significative.
Al quadro finanziario pluriennale rinforzato per il
periodo 2021-2027 di 1100 miliardi di euro si vanno a sommare i 750 miliardi di
euro dello strumento europeo di emergenza per la ripresa (“Next Generation
EU”), nonché i 540 miliardi delle misure eccezionali approvate dal Consiglio
europeo del 23 aprile 2020.
Occorre
ricordare come questi stanziamenti eccezionali stiano caratterizzando i
principali Paesi a livello internazionale, con modalità che però risultano poco
coordinate a livello globale.
L’ONU
a marzo con il rapporto “Shared responsibility, global solidarity: Responding
to the socio-economic impacts of COVID-19” , ha posto in evidenza come il mondo
stia affrontando una crisi globale non solo sanitaria, ma umana, diversa da
qualsiasi altra nei 75 anni di storia delle Nazioni Unite proprio per la sua
estensione e profondità.
Questa
crisi richiede una risposta collettiva all’interno dei Paesi e soprattutto tra
Paesi:
“da
sole, le azioni a livello nazionale non possono corrispondere alla scala
globale e alla complessità della crisi”.
L’ONU
sottolinea quindi come tale momento richieda un'azione politica coordinata,
decisa e innovativa da parte delle principali economie mondiali e il massimo
sostegno finanziario e tecnico per le persone e i paesi più poveri e
vulnerabili, che saranno i più colpiti.
Questa
“call to action “ha avuto difficoltà ad essere colta in un contesto
internazionale sempre meno orientato al “multilateralismo”.
In
questo contesto possiamo considerare l’Unione Europea, dopo le prime settimane
in cui ha stentato a trovare una visione comune, come un esempio di politiche
coordinate, in cui l’orientamento strategico green trova uno spazio centrale.
D’altronde
la sfida per l’Europa, chiara anche prima dell’emergenza sanitaria e incarnata
nella nuova presidenza, è quella di riuscire a esercitare un maggior ruolo
internazionale all’egida della transizione alla green, “circular e decarbonised
economy”, ricostruendo il senso della coesione degli Stati membri, dopo gli
effetti della Brexit e dei neonazionalismi.
Nel
frattempo cosa stanno facendo i due Paesi leader dell’economia globale?
Alla
fine del mese di marzo il governo americano ha realizzato un maxi intervento
senza precedenti per stimolare l’economia USA;
è
stato stanziato un pacchetto di aiuti pari a 2.000 miliardi di dollari, circa
il 13% del PIL degli Stati Uniti.
Il
pacchetto è di tipo emergenziale, prevedendo sostegno economico a imprese e
ospedali, oltre che assegni diretti a milioni di americani colpiti dalla
recessione.
Parallelamente
la Cina, che ha innestato la pandemia, ma che è anche riuscita a contenerla sta
cercando di reperire i finanziamenti necessari per una più rapida transizione
green che consenta di superare i problemi ambientali del Paese, insieme alla
sua ripartenza post-Covid.
Il
settore manifatturiero cinese ha recuperato rapidamente, con le aziende che
hanno avviato il ritorno graduale al lavoro nei siti produttivi per i loro
dipendenti, con il supporto dei governi locali.
La
rapida ripresa è testimoniata dal valore del “China Manufacturing Purchasing
Managers Index” (PMI), passato da 35,7 a febbraio a 52 a marzo .
Al
fine di mitigare l’impatto del Covid-19, il governo ha introdotto piani di
stimolo volti a rilanciare il sistema economico, con una particolare attenzione
alle “nuove infrastrutture”:
come i
ripetitori di segnale 5G, l’intelligenza artificiale, la creazione di grandi
database, treni ad alta velocità, griglie ad altissimo voltaggio e colonnine
per veicoli elettrici.
Una
delle politiche più significative messe in campo dalla Cina nell’ultimo periodo
riguarda infatti quella che vedrà diventare elettrici entro il 2020 il 30% dei
veicoli pubblici.
Secondo
“Morgan Stanley”, gli investimenti della Cina in questo genere di
infrastrutture per i prossimi 10 anni ammonteranno a circa 180 miliardi di
dollari. Inoltre, per contrastare eventuali rallentamenti economici di breve
periodo, queste nuove infrastrutture possono aumentare la produttività a lungo
termine sfruttando le tecnologie di nuova generazione.
Questi
investimenti in innovazione sono sempre più spesso correlati alla green economy
oggi corrispondono ad una quota dell’8% del PIL cinese (ovvero circa 740
miliardi di euro).
Il
fabbisogno finanziario rispetto alla sostenibilità in Cina è dell’ordine dei 2
mila miliardi, di cui il governo può supportare solo il 15%.
Per
questo sono favoriti gli investimenti dall’estero di operatori che conoscano le
tecnologie adatte a raggiungere obiettivi utili, come trattamento dell’aria,
epurazione dell’acqua o smaltimento dei rifiuti solidi urbani.
In
questo quadro internazionale cosa ci possiamo attendere per il nostro Paese?
Dalla
Commissione Europea potrebbero arrivare a breve in Italia 110 miliardi:
21 di
fondi riassegnati, 5 dalla BEI, i 36 del MES, 15 dal SURE, più altri 30 di
trasferimenti disponibili.
Ad essi si potrebbero sommare, per comprendere
appieno l’impegno della CE e l’importanza per noi che l’Unione assume, i 180
miliardi di acquisti dei titoli di stato grazie all’estensione del quantitative
easing e i 350 miliardi di rifinanziamenti alle banche italiane per prestiti
alle imprese da parte della BCE.
I
finanziamenti che arriveranno dall’Europa saranno però vincolati alle “Country
Specific Recommendations” elaborate all’interno del processo del Semestre
europeo , che riguardano in particolare, oltre alle consuete raccomandazioni
sul bilancio pubblico e sul debito (questa volta però molto attenuate):
il Green new deal e la digitalizzazione;
l’innovazione, la formazione e lotta alle disuguaglianze; la riforma della
Pubblica amministrazione e della giustizia civile; oltre che il miglioramento
del sistema sanitario, tramite il MES.
Tra
questi, gli investimenti a favore della transizione verde saranno
particolarmente rilevanti per sostenere la ripresa e aumentare la resilienza
futura.
L’Italia è molto vulnerabile ai fenomeni meteorologici
estremi e alle catastrofi idrogeologiche, compresi la siccità e gli incendi
boschivi.
Nella
percezione della CE la trasformazione dell’Italia in un’economia climaticamente
neutra necessiterà di consistenti investimenti pubblici e privati per un lungo
periodo di tempo.
Il
coinvolgimento degli attori finanziari e la tassonomia europea.
Se il
contributo europeo sarà nei prossimi anni consistente è necessario anche un
pari apporto da parte degli attori finanziari privati.
In questo ambito sono proseguiti i passi in
avanti già manifestati negli scorsi anni.
A
livello europeo, nel marzo del 2018 era uscito il “Piano di azione per la
finanza sostenibile”, con l’obiettivo di incrementare gli investimenti in
progetti sostenibili e di promuovere l’integrazione dei criteri ambientali,
sociali e di governance (ESG) nella gestione dei rischi e nell’orizzonte
temporale degli operatori finanziari, in coerenza con l’Agenda 2030 e con
l’accordo di Parigi.
Il
primo passo previsto dal Piano era la predisposizione di una “tassonomia
europea per la finanza sostenibile”, ovvero un sistema condiviso di definizione
e classificazione delle attività economiche sostenibili.
ll Parlamento europeo con la risoluzione del
17 giugno 2020 riguardante “l’Istituzione di un quadro che favorisce gli
investimenti sostenibili” ha chiuso l’iter d’approvazione del regolamento UE
per la Tassonomia, adottato dal Consiglio europeo il 15 aprile 2020.
“Una
pietra miliare nella nostra agenda verde”, ha commentato il vicepresidente
della Commissione europea “Valdis Dombrovskis”, illustrando come si tratti del
“primo sistema di classificazione al mondo di attività economiche sostenibili
dal punto di vista ambientale, che darà una spinta reale agli investimenti
sostenibili”.
Inoltre,
è prevista anche l’istituzione formale di una piattaforma sulla finanza
sostenibile che “svolgerà un ruolo cruciale nello sviluppo della tassonomia
dell’Unione europea e della nostra strategia di finanziamento sostenibile nei
prossimi anni”.
Il
mercato degli investimenti sostenibili (SRI) sta crescendo in modo rapido (+27%
dal 2016 al 2018) e ha ampiamente superato i 30.000 miliardi di dollari.
L’Europa
fa la parte del leone con “Asset under Management” superiori a 14.000 miliardi
di dollari, che rappresentano già la metà del totale degli asset investiti
nella regione.
Anche
i dati di adesione a “UN PRI “testimoniano l’attenzione crescente degli
investitori verso questi temi: nel 2019 i “Principles for Responsible
Investment” hanno superato i 2.500 firmatari con una crescita del 20% rispetto
al 2018.
Le
emissioni di green bond dell’area euro hanno segnato un nuovo record nel 2019:
l’ammontare emesso ha raggiunto 170 miliardi di euro +50% rispetto all’anno
precedente.
Inoltre
lo stock in circolazione di titoli green a livello globale è stato pari a 566
miliardi di euro a fine gennaio 2020.
Il
mercato appare in ulteriore forte crescita: nel solo mese di gennaio di
quest’anno sono stati collocati sul mercato titoli per 20 miliardi di euro pari
al 75% di quanto emesso nel primo trimestre 2019 .
Negli
ultimi anni i green bond hanno conosciuto non solo una crescita delle emissioni
ma anche dei rendimenti.
“NN
Investment Partners” ha analizzato l’andamento degli indici dei green bond
rispetto agli indici tradizionali, nei comparti euro green bond ed euro
corporate green bond negli ultimi quattro anni.
Nel
2019 i green bond hanno generato rendimenti del 7,4% rispetto al 6% delle
obbligazioni ordinarie.
Tuttavia
i dati positivi degli ultimi anni potrebbero nascondere alcune criticità; uno
studio di Insight, la più grande società di asset management del gruppo BNY
Mellon, ha analizzato 83 green bond e 96 social impact bond presenti sul
mercato mondiale nel 2019; il 15% dei green bond e il 16% degli impact bond del
campione risultano in qualche modo sospetti, poiché generano dubbi sulla reale
sostenibilità dell’emissione, soprattutto per una mancanza di trasparenza sul
modo in cui i capitali raccolti verranno utilizzati per finanziare progetti
dichiarati come “verdi”.
Al
fine di orientare gli investitori, gli emittenti e di contrastare problemi come
il greenwashing, occorre quindi uno standard, riconosciuto a livello
internazionale e capace di disciplinare le componenti fondamentali dei green
bond.
Il 18
giugno 2019 il TEG [ ha pubblicato un report con cui ha illustrato la sua
proposta per uno standard europeo dei green bond (EU-GBS), il secondo degli
obiettivi prioritari del Piano di azione sulla finanza sostenibile.
Affinché
un progetto sia finanziabile con il nuovo 2Green Bond Standard” deve essere
allineato alla tassonomia europea;
questo
significa che il progetto deve contribuire in modo sostanziale ad almeno uno
dei 6 obiettivi ambientali identificati dalla tassonomia europea (mitigazione
del cambiamento climatico, adattamento ai cambiamenti climatici, utilizzo
sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine, transizione verso
l’economia circolare, prevenzione e riciclo dei rifiuti, prevenzione e
controllo dell’inquinamento e protezione degli ecosistemi) senza compromettere
il raggiungimento degli altri (è il concetto del “do not significant harm”) e
deve presentare una serie di garanzie sociali minime.
Al
fine di valutare la capacità di un’attività, di un progetto di contribuire al
raggiungimento di uno degli obiettivi della tassonomia è essenziale l’utilizzo
dei “technical screening criteria”;
ad
oggi il TEG ha sviluppato dei criteri tecnici di selezione per valutare la
capacità di un’attività di contribuire agli obiettivi di “climate change
mitigation” e “adaptation”, l’ambito identificato come prioritario dalla CE; in
questo caso sono state individuate 3 classi:
attività
a basse emissioni di carbonio e che già contribuiscono all’obiettivo della
neutralità climatica; si pensi alla produzione di energia solare.
Attività
in fase di transizione; possono contribuire al raggiungimento dell’obiettivo
zero emissioni entro il 2050 ma, attualmente non operano ancora su questo
livello; si pensi alla ristrutturazione di un edificio per assicurare una
maggiore efficienza energetica.
Attività
abilitanti; hanno un impatto sulle categorie precedenti. Per esempio un
produttore di pannelli solari o di pale eoliche consente la produzione di
energia rinnovabile che rientra nella prima classe.
É
interessante osservare un’evoluzione all’interno dei green bond, alla ricerca
di un posizionamento sempre più strategico rispetto alle sfide della
sostenibilità.
Così
settembre 2019 Enel ha lanciato il suo primo “SDG linked Bond, collocando con
successo sul mercato americano un’emissione obbligazionaria da 1,5 miliardi di
dollari;
gli ordini, per circa 4 miliardi di dollari
USA, hanno superato l’emissione di quasi 3 volte; a fronte di questo successo,
ad ottobre 2019 Enel ha deciso di intervenire anche sul mercato europeo con il
nuovo strumento obbligazionario e, ancora una volta, la domanda ha superato
l’offerta.
L’utilizzo
dei proventi non è vincolato ad una serie di progetti green eleggibili, ma agli obiettivi di sviluppo sostenibile
dell’Agenda 2030;
questo
garantisce maggiore flessibilità all’emittente e l’ambito di intervento dei
potenziali investimenti risulta più esteso;
in
particolare Enel si è orientata alla creazione di valore mediante scelte di
business che supportano il perseguimento dei seguenti SDGs:
“Energia
accessibile e pulita” SDG 7, “Imprese, innovazione e infrastrutture” SDG 9,
“Città e comunità sostenibili” SDG 11, “Lotta contro il cambiamento climatico”
SDG 13.
Le
risorse raccolte sul mercato dei capitali soddisfano l’ordinario fabbisogno
finanziario dell’emittente;
quest’ultimo
non utilizza le risorse per un progetto specifico ma per il raggiungimento di
un determinato target al quale corrisponde un KPI.
Per esempio, con l’emissione di settembre
2019, Enel si è impegnata a raggiungere una percentuale di capacità installata
da fonti rinnovabili pari o superiore al 55% della capacità installata totale
consolidata entro il 31 dicembre 2021.
Il
processo di monitoraggio, basato sui KPI, consente di intervenire sul tasso di
interesse in base ai risultati conseguiti dall’azienda;
nel
caso in cui Enel non rispettasse la condizione di capacità di energia
rinnovabile installata nei tempi dichiarati, il tasso di interesse legato al
prestito obbligazionario sarà automaticamente rettificato con un meccanismo di
step up (incremento di 25 bps).
Come
detto il monitoraggio che consente di intervenire sul costo del denaro risulta
molto attraente per gli investitori ed è anche un efficace incentivo per
l’emittente al fine di migliorare la propria performance di sostenibilità nel
tempo.
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