I popoli liberi contro gli straricchi strateghi del N.W.O.
I
popoli liberi contro gli straricchi strateghi del N.W.O.
All’Onu
Primo No ai
“Killer
Robots”
Conoscenzealconfine.it
– (9 Novembre 2023) – Redazione – ci dice:
Con
164 sì e 8 astensioni l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato la
sua prima risoluzione – la L56 – presentata dall’Austria e sostenuta
dall’Italia, sul contrasto alle armi autonome guidate dall’AI, un successo per
la decennale campagna “Stop Killer Robots”.
Vignarca:
“Ora un trattato internazionale”.
Il 1°
novembre 2023 la prima commissione (quella dedicata al Disarmo) dell’”Assemblea
Generale delle Nazioni Unite” ha adottato la prima risoluzione in assoluto mai
discussa sulle armi autonome (i cosiddetti “killer robots” o LAWS)
sottolineando la “necessità urgente per la comunità internazionale di
affrontare le sfide e le preoccupazioni sollevate dai sistemi di armi
autonome”.
Dopo
10 anni di discussioni internazionali, in un contesto di rapidi sviluppi
tecnologici, questo voto rappresenta un passo avanti fondamentale.
Ed
apre la strada alla negoziazione di una nuova norma internazionale sulle armi
autonome.
Il
mese scorso il “segretario generale delle Nazioni Unite” (UNSG) e il
“presidente del Comitato internazionale della Croce Rossa” (ICRC) avevano
lanciato un appello storico “per stabilire urgentemente nuove regole
internazionali sui sistemi di armi autonome, al fine di proteggere l’umanità”
entro il 2026.
Pur
non spingendosi fino alla richiesta di negoziati, questa risoluzione rafforza
la fiducia in un percorso normativo internazionale e segnala la necessità di
intraprendere un’azione politica urgente per salvaguardare dai gravi rischi
posti dai sistemi di armi autonome.
La
Risoluzione L56 è stata presentata dall’Austria e sostenuta da un gruppo
eterogeneo di Stati interregionali, tra cui l’Italia che l’ha sostenuta come
co-sponsor.
Il
testo riconosce “il rapido sviluppo di tecnologie nuove ed emergenti” e fa
riferimento alle “serie sfide e preoccupazioni che le nuove applicazioni
tecnologiche in ambito militare, comprese quelle relative all’intelligenza
artificiale e all’autonomia nei sistemi d’arma, sollevano anche da prospettive
umanitarie, legali, di sicurezza, tecnologiche ed etiche”.
Esprime inoltre preoccupazione per “le possibili
conseguenze negative e l’impatto dei sistemi d’arma autonomi sulla sicurezza
globale e sulla stabilità regionale e internazionale, compreso il rischio di
una corsa agli armamenti, l’abbassamento della soglia di conflitto e la
proliferazione, anche verso attori non statali”.
La
risoluzione chiede inoltre al “segretario Generale delle Nazioni Unite” di
preparare un “Rapporto” che rifletta le opinioni degli Stati membri e degli
osservatori sui sistemi di armi autonome e sui modi per affrontare le relative
sfide e preoccupazioni che essi sollevano da prospettive umanitarie, legali, di
sicurezza, tecnologiche ed etiche e sul ruolo degli esseri umani nell’uso della
forza.
Il
Rapporto includerà anche le opinioni di altre parti interessate, tra cui le
organizzazioni internazionali e regionali, il Comitato internazionale della
Croce Rossa, la società civile, la comunità scientifica e l’industria.
La risoluzione decide inoltre che l’ordine del
giorno provvisorio dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del prossimo
anno includa un punto all’ordine del giorno intitolato “Sistemi di armi autonome letali”, fornendo un’ulteriore piattaforma
all’interno dei forum delle Nazioni Unite per gli Stati che intendono
intraprendere azioni per affrontare questo problema.
Nel
corso della seduta della Prima Commissione del 1 novembre ben 164 Stati hanno
votato a favore della risoluzione L56, solo 5 contro mentre sono state 8 le
astensioni.
La
risoluzione porterà ora alla creazione di un processo che consentirà a tutti
gli Stati di presentare le proprie opinioni sulle armi autonome e dovrebbe
stabilire una chiara tabella di marcia per la negoziazione di un nuovo trattato
sull’autonomia delle armi.
Le discussioni per l’adozione di uno strumento
giuridico sull’autonomia delle armi sono state precedentemente bloccate da una
minoranza di Stati militarizzati.
All’Assemblea
generale delle Nazioni Unite questi Stati non hanno il potere di veto.
Le
armi autonome suscitano profonde sfide legali, etiche, umanitarie e di
sicurezza che devono essere affrontate con urgenza, dato che le armi con alcune
funzioni autonome vengono già utilizzate nei conflitti.
La
disumanizzazione e l’uccisione di persone da parte delle tecnologie con
Intelligenza Artificiale in contesti militari è inaccettabile e avrà
conseguenze terribili nelle attività di polizia, nel controllo delle frontiere
e nella società in generale.
Migliaia
di esperti e scienziati di tecnologia e IA, “la campagna Stop Killer Robot” di
cui anche “Rete Pace Disarmo” fa parte, Amnesty International, Human Rights
Watch, il Comitato internazionale della Croce Rossa, 26 premi Nobel e la
società civile in generale hanno sempre chiesto di negoziare con urgenza un
nuovo strumento legale internazionale che affronti la questione dell’autonomia
dei sistemi d’arma e garantisca un controllo umano significativo sull’uso della
forza.
“I 164
voti a favore della risoluzione contro le armi autonome all’”Assemblea Generale
ONU “sono un risultato clamoroso – sottolinea Francesco Vignarca, coordinatore
campagne della Rete Pace Disarmo.
Questa
Risoluzione è un passo significativo verso la negoziazione di una nuova norma
internazionale.
Lo slancio politico è chiaro ed esortiamo ora
gli Stati a fare un passo in più per impedire la delega di decisioni di vita e
di morte alle macchine.
Siamo
poi particolarmente soddisfatti della posizione presa dall’Italia, sia nel voto
finale sia con la decisione di sostenere la Risoluzione L56 presentata
dall’Austria.
È tempo di un nuovo Trattato internazionale
vincolante che garantisca un significativo controllo umano sull’uso della
forza:
questo
voto è un chiaro passo nella giusta direzione.”
(sbilanciamoci.info/allonu-primo-no-ai-killer-robots/)
La
sanguinosa storia che
Oppenheimer
non racconta.
Wired.it
– Ngofeen Mputubwele – (26 -8-2023) – ci dice:
Gran
parte dell'uranio necessario alla costruzione della bomba fu estratto
nell'allora Congo belga, dove la popolazione locale venne ridotta in uno stato
di semi-schiavitù.
(Esiste
un primo piano di “Cillian Murhpy in Oppenheimer “di Christopher Nolan.
UNIVERSAL
PICTURES.)
Tempo
fa mio padre mi raccontò una storia sull'uranio che alimentò la prima bomba
nucleare.
Quella
sganciata su Hiroshima; uno degli ordigni che si vedono costruire nel film
Oppenheimer.
Papà è
nato nell'ex Congo belga, oggi Repubblica democratica del Congo.
All'inizio
dell'estate sono stato invitato a una proiezione del film, a cui era presente
anche il regista “Christopher Nolan”.
In una scena ricorrente della pellicola, che
simboleggia l'avanzamento lento e graduale degli sforzi degli scienziati,
Oppenheimer riempie una ciotola di vetro con delle biglie, prima una alla
volta, poi a manciate.
Le
biglie rappresentano la quantità di uranio che è stata estratta e raffinata con
successo allo scopo alimentare la reazione nucleare.
L'esito
della seconda guerra mondiale e il futuro dell'umanità dipendono da chi
riuscirà a creare per primo quel mostro: l'Asse o gli Alleati.
Più ci
avviciniamo al completamento della bomba, più biglie finiscono nella ciotola.
Ma nel film non si fa cenno alla provenienza
di due terzi di quell'uranio: una miniera profonda 24 piani nel Katanga,
un'area ricca di minerali nel sud-est del Congo.
Mentre
sullo schermo le biglie riempivano la ciotola, io continuavo a vedere quello
non era rappresentato nel film:
i minatori africani che trasportavano terra e
pietre per smistare a mano i cumuli di minerale radioattivo.
Papà è
nato nel 1946 a Mission Ngi, un piccolo avamposto missionario del Belgio. Ci ha
raccontato di come, crescendo, i belgi abbiano insegnato ai congolesi a
venerare Dio;
di
come i belgi si rivolgessero agli adulti congolesi con l'informale tu francese,
al posto del formale vous;
di
come i belgi dicessero che mangiare con le mani, come faceva papà a casa, fosse
incivile.
Papà
ha imparato a scuola che i congolesi erano arretrati e secondari rispetto alla
vita moderna.
Eppure,
diceva papà, i congolesi erano l'ingrediente essenziale, la conditio sine qua
non alla base di quella che probabilmente la creazione più importante della
storia moderna.
Nel
1885, quando il re Leopoldo II del Belgio rivendicò per la prima volta la
proprietà di questa enorme striscia di terra situata sul fiume più profondo del
mondo, proprio al centro dell'Africa, la chiamò “Stato Libero del Congo”.
Naturalmente,
per i circa 10-20 milioni di abitanti del paese la vita si era ridotta alla
sopravvivenza alla violenza e allo stato di terrore del re.
In tutto il territorio, trasformato in una
serie di piantagioni di cotone e gomma, i soldati del re amputavano gli
avambracci dei congolesi che non rispettavano le quote di raccolta previste.
Le
politiche di Leopoldo II portarono a carestie e malattie.
Milioni di persone non ce la fecero.
Nel
1908, quando il governo belga strappò il territorio al re, lo “Stato Libero del
Congo” divenne il "Congo Belga".
A quel
punto, scrive la storica “Susan Williams”, autrice di “Spies in the Congo”, il
settore privato si sostituì al sovrano nel ruolo di estrattore delle risorse
naturali del Congo.
La
violenza rimase la stessa.
Come
se non bastasse, se da una parte lasciavano che i missionari cristiani
iniziassero a istruire formalmente i bambini, le autorità belghe erano
preoccupate che i congolesi alfabetizzati potessero rovesciare la colonia.
Papà
mi ha raccontato che la scolarizzazione oltre la quinta elementare era illegale
per la maggior parte dei bambini congolesi.
Papà, per la gioia di suo padre, avrebbe avuto
la possibilità di usufruire di una delle eccezioni della colonia:
alle
persone che sarebbero diventati sacerdoti l'istruzione era concessa,
un'opportunità che nemmeno alcuni fratelli maggiori di papà avrebbero avuto.
Il
sistema coloniale formava lavoratori – o meglio, persone al limite della
schiavitù – non studiosi.
Un ufficiale americano che visitò il Congo
belga descrisse la scena che vide il primo giorno:
un
uomo congolese in pantaloncini stracciati inginocchiato a terra, sovrastato da
un ufficiale belga che brandiva una chicote, una frusta di cuoio con punte di
metallo:
"La frusta fischiava […]. Ogni frustata
era seguita da un urlo di agonia […]. Dal collo alla vita, la pelle del nero
era una massa di sangue da cui trasparivano le costole".
Questa, riferì l'americano, era la punizione
per aver rubato un pacchetto di sigarette a un belga.
"Benvenuto
in Congo", fu detto all'ufficiale statunitense.
La
caccia all'uranio.
La più
grande azienda del Congo belga era la società mineraria “Union-Minière du
Haut-Katanga”.
Il governo coloniale le aveva concesso i
diritti su un'area di circa ventimila chilometri quadrati, più della metà del
Belgio.
Una
delle miniere, “Shinkolobwe”, era ricca di uranio.
A
essere precisi, era piena di uranio che i congolesi avevano già estratto e
portato in superficie.
Inizialmente,
l'”uranio” era solo un prodotto di scarto degli scavi effettuati per cercare il
più prezioso” radio”, la cui scoperta valse il premio Nobel a “Marie Curie”.
Utilizzando
l'elemento chimico, nel 1938 i fisici Lise Meitner e Otto Frisch elaborarono i
calcoli che definirono la fissione nucleare.
Gli
scienziati si resero conto che scindendo un numero sufficiente di nuclei era
possibile sprigionare enormi quantità di energia.
L'uranio
era diventato un materiale ambito.
Nel
1939, poco prima dell'inizio della seconda guerra mondiale, Albert Einstein
scrisse una lettera al presidente americano Franklin D. Roosevelt, che
conteneva un avvertimento sommesso:
"L'elemento
uranio potrebbe essere trasformato in una nuova e importante fonte di energia
nell'immediato futuro […]. È concepibile […] che possano essere costruite bombe
estremamente potenti di questo tipo".
La
lettera di Einstein menzionava quattro fonti di uranio conosciute:
gli
Stati Uniti, che "hanno solo minerali molto poveri di uranio in quantità
moderate";
il Canada e l'ex Cecoslovacchia, dove
"c'è qualche buon minerale";
e il
Congo, "la più importante fonte di uranio".
Secondo”
Jean Bele”, un fisico nucleare congolese del “Massachusetts Institute of
Technology” (Mit), da 100 chilogrammi di minerale di uranio congolese era
possibile produrre circa un chilogrammo di uranio raffinato.
La
stessa quantità di minerale proveniente da altre località avrebbe prodotto solo
2 o 3 grammi dell'uranio raffinato necessario per un'arma di questo tipo.
La
compagnia mineraria era solita costruire dei complessi recintati che
assomigliavano a campi di prigionia per i lavoratori e le loro famiglie;
inizialmente l'azienda assegnava a ogni
famiglia circa 4 metri quadrati – la dimensione di un piccolo garage – e
razioni di cibo settimanali.
I minatori selezionavano il minerale di uranio
a mano.
Una persona ha descritto un pezzo di uranio di “Shinkolobwe”
come un blocco "grande come un maiale", "nero e dorato, come se
fosse ricoperto da una schiuma verde o da muschio", delle "pietre
sgargianti".
Il
direttore dell'”Union-Minière du Haut-Katanga” era “Edgar Sengier”, un uomo
belga dal colorito pallido e con dei baffi ben tagliati.
Avendo
visto la Germania invadere il Belgio durante la prima guerra mondiale, “Sengier
“era incerto sulle conseguenze dell'invasione della Polonia da parte di Hitler
nel settembre 1939.
Il Belgio, o magari le colonie africane,
sarebbero state le prossime?
Nell'ottobre
di quell'anno, “Sengier” fuggì dal Belgio a New York, dove trasferì le attività
commerciali della società mineraria.
Prima di insediarsi, però, un chimico
britannico e lo scienziato premio Nobel “Frédéric Joliot-Curie”, genero di “Marie
Curie”, avvisarono “Sengier” che l'uranio del Congo sarebbe potuto diventare
essenziale in guerra.
L'autunno successivo, “Sengier” ordinò di
spedirlo a New York.
I
lavoratori congolesi trasportarono e caricarono il minerale, che fu inviato via
treno a “Port Francqui” (oggi Ilebo), per poi viaggiare in barca lungo i fiumi
Kasai e Congo fino alla capitale Leopoldville (oggi Kinshasa).
Al porto di Matadi, l'uranio iniziava il suo
viaggio attraverso l'Oceano Atlantico, superando gli U-Boat tedeschi, fino a un
magazzino a “Staten Island”.
“Sengier”
stoccò oltre mille tonnellate del minerale negli Stati Uniti.
Circa
tremila tonnellate rimasero a “Shinkolobwe”.
Nel
maggio 1940, Hitler invase la Francia e il Belgio.
Il
governo belga fuggì a Londra e il Terzo Reich insediò nel paese un governo
filonazista.
Il governatore generale del Congo belga,
tuttavia, dichiarò che la colonia avrebbe sostenuto gli Alleati.
Arruolò
truppe, offrì lavoratori congolesi e creò quote di produzione per fornire agli
Alleati il materiale bellico necessario.
E
così, durante la guerra, molti congolesi tornarono nelle stesse foreste in cui
i loro genitori e nonni avevano subito l'amputazione delle mani, con l'ordine
di raccogliere nuovamente la gomma, questa volta per realizzare centinaia di
migliaia di pneumatici militari.
Con
l'intensificarsi della guerra i minatori congolesi scavavano anche alla ricerca
di minerali come il rame, con turni di 24 ore.
Nelle
città minerarie di “Sengier”, come altrove, i congolesi non potevano circolare
liberamente senza permessi, né tantomeno votare.
Per
non incorrere in pesanti conseguenze, i lavoratori dovevano tornare a casa
entro le 21.
La
paga era terribile.
Ma nel 1941, nonostante i "nativi"
fossero esclusi dai sindacati, i lavoratori neri di alcune miniere di “Sengier”
iniziarono a organizzarsi per ottenere salari più alti e migliori condizioni di
lavoro.
Le
proteste.
Il 7
dicembre 1941 fu un giorno cruciale non solo per il prosieguo della guerra per
via dell'attacco a Pearl Harbor, ma anche nella vita dei lavoratori delle
miniere congolesi.
Quel
giorno, i dipendenti neri della “Sengier” organizzarono un enorme sciopero del
settore minerario in tutto il Katanga.
A
Elisabethville, 500 lavoratori si rifiutarono di iniziare il loro turno.
Ben
presto, i minatori appena usciti dal servizio si unirono a loro e si radunarono
davanti agli uffici della direzione, chiedendo un aumento.
Strapparono
un accordo che prevedeva una contrattazione il giorno successivo.
La
mattina dopo, i lavoratori della miniera si sono presentati allo stadio di
calcio locale per negoziare con la società di “Sengier” e il governatore
coloniale del Katanga.
Secondo
i resoconti, che riportano versioni contrastanti, erano presenti tra gli 800 e
i 2000 scioperanti.
L'azienda
offrì un accordo verbale per un aumento i salari.
Uno
storico la descrive come la “prima espressione di protesta esplicita nella
storia sociale del Congo”.
Ma
quando un operaio congolese chiamato “Léonard Mpoyi” chiese una conferma
scritta dell'aumento salariale, il governatore coloniale insistette perché la
folla tornasse a casa.
"Mi
rifiuto – disse Mpoyi –.
Dovete
darci una prova che l'azienda ha accettato di aumentare i nostri salari".
"Ho già richiesto che andiate in ufficio a controllare", fu la
risposta del governatore, “Amour Marron”, che poi estrasse una pistola dalla
tasca e sparò a Mpoyi, a bruciapelo.
Quando
i soldati aprirono il fuoco “da tutte le direzioni”, i lavoratori della miniera
si riversarono fuori dallo stadio.
Circa 70 persone morirono quel giorno.
Un
centinaio rimase ferita. Il mattino seguente, un altoparlante dell'azienda
richiamò tutti al lavoro.
Circa
un anno dopo Pearl Harbor, il presidente Roosevelt incaricò il generale “Leslie
Groves” di dirigere il progetto Manhattan.
Il suo primo giorno, nel settembre 1942,
Groves e il suo vice, il colonnello Kenneth Nichols, discussero di come
procurarsi l'uranio necessario per il progetto.
Nichols
parlò a Groves di “Sengier e del suo uranio”, e la mattina seguente Nichols lo
incontrò nel suo ufficio di New York.
Alla
fine della riunione i due stilarono un accordo su un blocchetto giallo:
"Voglio
iniziare a trasportare l'uranio domani", dichiarò Nichols.
Meno di un mese dopo, Groves assunse J. Robert
Oppenheimer per costruire la bomba.
Spie e
doppio gioco
Nei
due anni successivi, il Congo brulicava di spie americane che circolavano nel
paese sotto copertura – come "funzionario del consolato",
"impiegato della Texaco", "acquirente di seta" e
“collezionista di gorilla vivi” – ma si trovavano nel paese per assicurarsi che
il flusso di uranio procedesse senza intoppi.
Il
generale “Groves” insistette affinché gli Stati Uniti ottenessero il controllo
completo di “Shinkolobwe” e raccomandò al presidente Roosevelt di riaprire la
miniera.
Il
Corpo degli ingegneri dell'esercito americano fu inviato in Congo per avviare
nuovamente le operazioni minerarie.
La
posizione della miniera fu cancellata dalle mappe.
Alle
spie fu detto di eliminare la parola "uranio" dalle loro
conversazioni, sostituendola con termini come "diamanti".
I
minatori della compagnia iniziarono a estrarre anche altri minerali necessari
per la guerra, sgobbando nel sudore di giorno e davanti a immense fornaci di
notte.
A quel punto, grazie allo sciopero minerario,
i salari dei lavoratori erano aumentati del 30-50 per cento.
Tuttavia,
alcuni uomini erano obbligati a lavorare in miniera.
Dal 1938 al 1944, gli incidenti mortali negli
stabilimenti dell'azienda furono quasi raddoppiati.
Per
evitare le quote di gomma, le persone fuggivano dalle zone rurali per
raggiungere città come Elisabethville, la cui popolazione africana passò da
26mila persone nel 1940 a 65mila nel 1945.
Ma il
governo statunitense era preoccupato anche dalle spie naziste.
Una
spia americana fu incaricata di scoprire se i nazisti contrabbandavano uranio
di “Shinkolobwe”.
Uno
dei numerosi carichi del minerale di “Sengier” fu intercettato e affondato dal
Reich.
Una
volta arrivate negli Stati Uniti, le “pietre sgargianti” venivano raffinate in
luoghi come “Oak Ridge”, nel Tennessee, e poi spedite a “Oppenheimer” a Los
Alamos, nel Nuovo Messico.
Oppenheimer
e il suo team impiegarono quasi tre anni per sviluppare le bombe. Anche se i
tedeschi si arresero nel maggio 1945 (e fu chiaro che non erano vicini al
completamento di una bomba nucleare), la guerra nel Pacifico proseguiva.
Alla
fine, nell'agosto 1945, gli Stati Uniti sganciarono due bombe su Hiroshima e
Nagasaki, la prima delle quali era riempita di uranio congolese, come diceva
papà.
“Jean
Bele”, il fisico nucleare, mi dice che oggi gli isotopi radioattivi sono ancora
nel terreno vicino a “Shinkolobwe”:
"I rifiuti solidi radioattivi entrano
nell'acqua, nelle colture, negli alberi, nel suolo, negli animali e arrivano
agli esseri umani", spiega.
Non
conosciamo l'entità delle radiazioni.
Sappiamo che a” Oak Ridge” la mortalità per
cancro è aumentata.
E che
nei pressi di St. Louis, nel Missouri, dove venivano scaricati i resti dei
minerali congolesi, la contaminazione comporterà dei rischi per i lavoratori
per i prossimi mille anni.
Dopo
la proiezione di Oppenheimer, come un fan qualsiasi, ho avvicinato “Nolan nella
hall”.
Sono
riuscito a chiedergli delle biglie, del perché le abbia scelti e di quale
problema creativo abbiano risolto.
Il regista ha risposto con un cenno cortese:
“Avevo
bisogno di un modo per dimostrare quanto tempo ci sarebbe voluto per raffinare
tutto quel minerale”.
Poi ha
aggiunto: "Il numero di biglie era in realtà matematicamente calcolato per
rappresentare la quantità necessaria".
Senza
il Congo ovviamente ottenere tutto quel minerale sarebbe stato impossibile.
Nella corsa alla costruzione della bomba, entrambe gli schieramenti volevano il
minerale congolese.
Secondo il colonnello Nichols, la miniera di “Shinkolobwe”
è stata "un caso anomalo in natura": "Non è mai stato trovato
nulla di simile".
E
questo, ovviamente, significa che senza i lavoratori neri del Congo,
terrorizzati e costretti alla sottomissione e a estrarre minerali bellici
essenziali 24 ore al giorno, l'esito di quello che probabilmente è il progetto
più importante della storia dell'umanità sarebbe stato molto diverso.
Nel
1946,” Sengier” divenne il primo non americano a ricevere la medaglia al
merito, assegnata dal presidente degli Stati Uniti per riconoscere "un
atto eccezionalmente meritorio o coraggioso", in questo caso quello che
sancì la vittoria degli Alleati.
In una
foto della cerimonia, c'è chi però potrebbe vedere anche qualcos'altro:
un
uomo con qualcosa da nascondere.
I
servizi segreti durante la guerra rivelarono che la società di “Sengier” aveva
venduto ai nazisti circa 1,5 milioni di chili di uranio congolese.
Nel 1948, un minerale radioattivo fu
ribattezzato in onore di “Sengier”: sengierite.
Allo
stesso tempo, i congolesi, il popolo da cui discendo, iniziarono ad abbattere i
sistemi coloniali che li opprimevano.
Nel
1960 ottennero l'indipendenza.
All'epoca papà aveva 13 anni e, anche se ci
sarebbero voluti anni prima di conoscere la storia dei minatori di uranio, ha
sempre saputo che il popolo congolese ha un posto importante nella storia.
(Questo
articolo è apparso originariamente su “Wired US”.)
Sempre
più stati vogliono
controllare
i dati dei propri cittadini.
Ilpost.it
– Redazione – (21 giugno 2022) – ci dice:
Lo
mostrano varie ricerche, secondo cui la dottrina della "sovranità
digitale" è sempre più popolare, e potrebbe cambiare internet
Negli
ultimi anni, decine di governi hanno approvato o stanno approvando leggi e
misure di gestione e controllo dei dati e dei contenuti online, con l’obiettivo
di rafforzare la propria “sovranità digitale”:
l’idea, cioè, che i dati generati da una
persona, un’azienda o un ente dovrebbero essere immagazzinati all’interno del
loro paese d’origine, o almeno essere gestiti in conformità con gli standard di
privacy e sicurezza stabiliti dal governo.
(Ad
esempio in Europa è nato il Green Pass del denaro. Via libera dell’Europa
all’App che traccerà, da oggi, la nostra vita! N.D.R.)
Le
misure proposte per ottenere questo controllo sui dati, negli anni, sono state
sia tecniche sia politiche e, come hanno scritto i giornalisti del “New York
Times” “David McCabe” e “Adam Satariano, potrebbero alterare in maniera
consistente il modo in cui internet ha funzionato da quando si è diffuso a
livello commerciale negli anni Novanta, ponendo limitazioni serie alla libera
circolazione dei dati.
Soltanto
tra il 2017 e il 2021, il numero di leggi, regolamenti e politiche governative
che richiedono l’archiviazione delle informazioni digitali in un determinato
paese è più che raddoppiato, passando da 67 in 35 paesi a 144 in 62 Paesi,
secondo il “centro studi Information Technology and Innovation Foundation”
(ITIF).
Ogni
giorno, le persone che usano Internet producono enormi quantità di
informazioni.
Pubblicare
un post sui social, correre mentre si indossa uno smartwatch, parlare ad
assistenti virtuali come Alexa, pagare con la carta di credito, fare una
ricerca su Google:
tutto
genera dati, che vengono poi venduti, scambiati, condivisi e analizzati da
varie aziende che ricavano così un profitto, generalmente vendendo annunci
pubblicitari.
Nella
maggior parte del mondo, negli ultimi trent’anni la libera circolazione dei
dati è stata centrale per la crescita di aziende tecnologiche oggi onnipresenti
come Amazon, Apple, Facebook o Google.
Se,
inizialmente, la maggior parte dei dati veniva archiviata localmente, su
computer privati o su server aziendali, oggi i servizi di “cloud computing”
permettono a un italiano di archiviare le foto delle vacanze in un server nel
Nevada, o a un’azienda francese di avere un sito web gestito da Amazon Web
Services, i cui centri di elaborazione dati, o data center, sono sparpagliati
in tutto il mondo, da Singapore all’Irlanda.
Gli
Stati Uniti sono il paese che ne ospita di più (oltre 2.600), seguiti da Regno
Unito, Germania, Cina e Paesi Bassi.
La
crescente diffidenza verso il modo in cui le aziende gestiscono i dati in loro
possesso e le tensioni internazionali alimentate da rivelazioni come quelle di “Edward
Snowden” – che nel 2013 rivelò come la “National Security Agency statunitense”
spiasse le telecomunicazioni degli altri paesi attraverso i cavi e le rete che
compongono internet – hanno portato diversi stati e attori istituzionali come
l’Unione Europea a cercare soluzioni per limitare la propria dipendenza da
un’architettura di internet realizzata e di fatto gestita dagli Stati Uniti:
è per questo che negli ultimi anni si è cominciato a
parlare sempre più di frequente di “sovranità digitale”.
Oggi,
alcuni governi limitano il trasferimento al di fuori dei propri confini di
particolari tipi di dati, come quelli sanitari, bancari, finanziari o fiscali,
ma anche quelli aziendali di società quotate in borsa o quelli relativi a
contenuti generati dagli utenti sui social media.
Altri
stati limitano più vagamente il trasferimento di dati ritenuti “sensibili” o
“legati alla sicurezza nazionale”.
L’Unione
Europea.
A
queste due possibilità si aggiungono i casi di leggi che rendono il
trasferimento transnazionale di dati così complicato o costoso da rendere
indirettamente obbligatorio per le aziende l’immagazzinamento locale dei dati:
è il
caso, secondo l’ITIF, del “Regolamento generale sulla protezione dei dati
(GDPR) introdotto nell’Unione Europea nel 2018”, che ha fatto entrare in vigore
molte nuove regole su come le aziende devono trattare i dati degli utenti.
L’Unione
sta lavorando anche ad altri progetti di legge, come quello sull’intelligenza
artificiale,
che aggiungerebbero ulteriori livelli di complessità per le aziende straniere.
Alcune
di queste politiche, come il GDPR e le altre leggi in materia che vengono
discusse in Europa, sono motivate principalmente da preoccupazioni per la
privacy e la sicurezza dei dati dei cittadini, ma finiscono per avere
ripercussioni anche sui rapporti economici e politici con paesi extraeuropei,
anzitutto gli Stati Uniti.
Per
esempio, una delle questioni più rilevanti nei rapporti tra Unione Europea e
Stati Uniti in quest’ambito ha riguardato gli accordi sul libero trasferimento
dei dati dei cittadini europei verso gli Stati Uniti a fini commerciali, che
sono stati annullati per ben due volte dalla Corte di giustizia europea (nel
2015 e nel 2020) perché non rispetterebbero gli standard europei di privacy.
Questi
accordi sono tuttavia essenziali per migliaia di aziende sia europee sia
americane, che si sono trovate senza un quadro normativo chiaro sul
trasferimento dei dati.
I
regimi autoritari.
In
altri casi, in cui i governi che cercano di raggiungere la “sovranità digitale”
sono meno affidabili per quanto riguarda il rispetto della libertà
d’espressione e l’accettazione del dissenso politico, queste leggi sul
controllo dei dati assumono connotazioni che preoccupano gli esperti di diritti
umani.
È il
caso della Cina, che fin dagli anni Novanta ha sviluppato un proprio internet
separato quasi completamente da quello del resto del mondo, ma anche di stati
come il Pakistan e il Vietnam, dove il rischio è che la localizzazione dei dati
(cioè la presenza dei server con i dati dei cittadini sul territorio dello
stato) non porti a una maggiore privacy, ma soltanto a un maggiore accesso alle
informazioni sensibili da parte del governo.
«I
governi autoritari, guidati da Cina e Russia, vedono l’accesso fisico ai data
center come un fattore critico di sorveglianza e controllo politico.
La localizzazione dei dati consente
l’oppressione politica portando le informazioni sotto il controllo del governo
e consentendo al governo di identificare e minacciare le persone, incidendo
così sulla privacy, sulla protezione dei dati e sulla libertà di espressione»,
si legge nel report dell’ITIF.
Le
ricadute sulle aziende.
A
livello economico, queste leggi per la “sovranità digitale” complicano la vita
delle aziende, che in questi anni hanno tratto grande beneficio dal libero
flusso dei dati.
Benché
affermino spesso che, se le società dovessero immagazzinare tutti i dati
localmente, sarebbe molto complesso continuare a offrire gli stessi prodotti e
servizi in tutto il mondo, le grosse aziende statunitensi leader del settore si
sono finora adeguate alle richieste governative, cominciando a offrire servizi
che consentono alle aziende di archiviare le informazioni all’interno di un
determinato territorio.
“Amazon
Web Services” ora consente ai clienti di controllare dove sono stati archiviati
i dati in Europa; in Francia, Spagna e Germania, Google Cloud ha firmato
accordi con fornitori di servizi tecnologici e di telecomunicazioni per far sì
che siano aziende locali a gestire i dati prodotti sui servizi di Google.
La
sicurezza.
Una
critica più interessante alla dottrina della “sovranità digitale” arriva dal
mondo della sicurezza informatica, che da anni sottolinea come la privacy e la
sicurezza dei dati dipendono più da come i dati vengono trasmessi e archiviati
piuttosto che da dove si trovano fisicamente.
Come
si legge anche nel report dell’ITIF, «la sicurezza dei dati dipende
principalmente dai controlli logici e fisici utilizzati per proteggerli, come
la crittografia avanzata sui dispositivi e la sicurezza perimetrale per i data
center. La nazionalità di chi possiede o controlla i server o il paese in cui
si trovano questi dispositivi ha poco a che fare con la loro sicurezza».
«I
politici sembrano non capire che la riservatezza dei dati non dipende
generalmente dal paese in cui sono archiviate le informazioni, ma solo dalle
misure utilizzate per archiviarle in modo sicuro.
Un
server sicuro in Malesia non è diverso da un server sicuro nel Regno Unito.
La sicurezza dei dati dipende dai controlli tecnici,
fisici e amministrativi implementati dal fornitore di servizi, che possono
essere forti o deboli, indipendentemente da dove sono archiviati i dati»,
continua l’ITIF, secondo cui, anzi, «la localizzazione dei dati impedisce ai
fornitori di servizi cloud di utilizzare le migliori pratiche di sicurezza
informatica.
Caro
affitti a Milano: sale il
prezzo
delle case, anche in periferia.
Ilsole24ore.com
- Laura Cavestri – ( 8 novembre 2023) – ci dice:
Presentato
il primo report dell’Osservatorio Casa Abbordabile (Oca) promosso da Consorzio
Cooperative Lavoratori (Ccl), Delta Ecopolis e il Politecnico di Milano.
Una
città che prende più di quello che riesce a dare:
questa
è la contraddizione che rischia di vivere Milano, dove il 34% dei contribuenti
dichiara un reddito lordo inferiore a 15mila euro l’anno, ma dove nel periodo
2015-2021 i prezzi medi delle abitazioni sono cresciuti del 41%, gli affitti
medi del 22% e la retribuzione media di operai e impiegati è cresciuta,
rispettivamente, solo del 3 e del 7 per cento.
Sono i
dati principali emersi dal report dell’”Osservatorio Casa Abbordabile” (Oca),
promosso dalle cooperative di costruzioni Ccl e Delta Ecopolis, in partnership
con il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano.
Secondo
lo studio, in Italia, i processi di ridimensionamento e trasformazione
dell’intervento pubblico nel campo delle politiche della casa rispetto alle
dinamiche di un mercato immobiliare in buona parte slegato dall’economia reale,
redditi e retribuzioni in contrazione, con poche città realmente attrattive che
richiamano una forte domanda a fronte di un’offerta rimasta per lo più vetusta
e inadeguata hanno contribuito a far emergere la questione.
A
Milano, la proporzione tra redditi e costi abitativi per chi accede
all’abitazione è diventata assai critica.
Dal
2015, il rialzo dei valori immobiliari in zone sempre più lontane dal centro ha
pesato progressivamente sulle spalle dei lavoratori a reddito medio basso.
Se si
analizzano i dati relativi al numero di alloggi di edilizia residenziale
pubblica, si può notare come, dal 2015 al 2021, nel comune di Milano sono stati
richiesti permessi di costruire da enti pubblici per soli 196 alloggi, pari
all’1,1% del totale dei permessi richiesti, con una conseguente offerta di
alloggi pubblici largamente inferiore alla domanda espressa:
nel
2022 sono state presentate domande da 36.946 nuclei familiari a fronte di 1.523
alloggi messi in avviso e di 1.297 alloggi assegnati.
Più
contratti di locazione (e anche più cari).
Un mercato
in rapida crescita, una offerta pubblica stagnante e un’offerta sociale che si
sta dimostrando economicamente troppo costosa per i nuclei a basso reddito:
a Milano, i contratti di locazione sono
cresciuti da 40.165 nel 2015 a 55.830 nel 2021, ma soprattutto nel mercato
transitorio (che passa dal 17,5% al 27,2% dei nuovi contratti) e con canoni in
forte crescita:
il canone medio registrato da “Omi”
(Osservatorio Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle Entrate) è cresciuto da
129,6 euro/mq annuo nel 2015 a 173,4 euro/mq annuo nel 2022 (+33,8%), mentre il
portale di “intermediazione Immobiliare.it” per gli stessi anni registra canoni
da 182,4 euro/mq annuo nel 2015 a 239,9 euro/mq annuo nel 2022 (+31,5% per
cento).
Si
mantiene molto bassa l’offerta a canone concordato e agevolato studenti,
complessivamente ferme al 5% dei contratti.
Per
quanto riguarda le compravendite, il prezzo al metro quadro è cresciuto
mediamente del 40,7% tra il 2015 e il 2021, con un aumento rilevante delle
quotazioni di quei quartieri riconosciuti fino al 2014 come più economici
(identificati tramite zone omogenee Omi).
In
particolare, risulta preoccupante la crescita dei valori in tre zone:
Stazione
Centrale-Viale Stelvio (+ 32,7%); i quartieri di Cenisio, Farini e Sarpi (+
24,6%); Tabacchi, Sarfatti e Crema (+22,8 per cento).
I
prezzi e le retribuzioni.
L’indagine
spiega anche che i prezzi delle abitazioni crescono tre volte più rapidamente
di redditi e retribuzioni, gli affitti quasi due volte più rapidamente.
Ma se
guardiamo alle retribuzioni stagnanti delle categorie medio-basse, nella
classificazione Inps denominate “operai” (in media 1.410 euro di retribuzione
mensile lorda) e “impiegati” (in media 2.435 euro) – che insieme rappresentano
il 61% dei lavoratori milanesi –, i prezzi di acquisto crescono ben 13,6 volte
più velocemente delle retribuzioni degli “operai” e 5,8 volte di quelle degli
“impiegati”; i canoni di locazione crescono rispettivamente 7,3 e 3,1 volte più
velocemente delle retribuzioni medie delle stesse categorie.
I dati
restituiscono la realtà di una città in cui per molti, soprattutto per i nuovi
arrivati (chi non era già in possesso di un immobile a Milano) e per i profili
reddituali medio bassi, il reddito da lavoro non è più sufficiente a garantire
una vita quanto meno dignitosa:
infatti,
il 57% dei contribuenti milanesi dichiara un reddito lordo inferiore a 26mila
euro l’anno e il 34% dichiara un reddito lordo inferiore a 15mila euro l’anno.
La
fascia di reddito medio-bassa (15mila-26mila euro) risulta sovra-rappresentata
nei quartieri periferici, la fascia medio-alta (26mila- 55mila euro) tende a
concentrarsi nei quartieri semicentrali e in alcuni quartieri periferici mentre
le fasce di reddito più elevate (>55mila euro) sono sovra-rappresentate nei
quartieri centrali e semi-centrali.
Operai
e impiegati «espulsi».
Tradotto,
in centro, semicentro e resto della città, chi ha una retribuzione media annua
lorda di 16.919 euro) vede un indice di metri quadri teoricamente abbordabili
pari a 12 mq nei quartieri del centro storico, 17 mq in quelli semicentrali, e
30 metri quadri nel resto della città.
L’impiegato
medio (retribuzione media annua lorda di 29.219 euro) invece vede un indice di
metri quadri teoricamente abbordabili di 16 metri quadri nei quartieri del
centro storico, 23 mq in quelli semicentrali, e 40 mq nel resto della città.
Ciò significa che, anche nelle zone periferiche, il mercato residenziale fatica
ad offrire alle retribuzioni più diffuse una offerta abitativa adeguata.
Sorveglianza
di massa, la Cina
è un
sistema a “diritti affievoliti”:
perché
lo tolleriamo e cosa rischiamo.
Agendadigitale.eu
- Barbara Calderini – (22 Nov. 2022) – ci dice:
Sicurezza
Digitale.
Da
tempo, i cittadini cinesi si sono abituati all’idea di essere costantemente
sorvegliati in cambio di una governance che, idealmente, rende le loro vite più
sicure e facili.
Ma la
Cina non è sola: anche l’Europa deve rispondere delle proprie responsabilità,
finora sottaciute, per lo sviluppo di tecnologie di sorveglianza.
China
surveillance.
Il
Partito Comunista cinese, peraltro con la partecipazione della Silicon Valley,
Intel, IBM, Seagate, Cisco e Sun Technologies (che hanno contribuito a rendere
i sistemi di sorveglianza all’avanguardia accessibili e convenienti), è
riuscito a costruire un nuovo contratto sociale con i suoi cittadini.
Una
sorta di stato di polizia distopico presidiato dalle forze di sicurezza
nazionale, armate di intelligenza artificiale:
sostenuti
da pensatori scientifici cinesi fondamentali come “Qian Xuesen”, i cinesi si
sottomettono alla sorveglianza digitale in cambio di una governance più precisa
che, idealmente, rende le loro vite più sicure e più facili;
dai
modelli di traffico alla sicurezza alimentare, alla risposta alle emergenze.
Uno
stato di cose delineato chiaramente dai giornalisti del “Wall Street Journal” “Josh
Chin” e “Liza Lin”, autori di “Surveillance State: Inside China’s Quest to
Launch a New Era of Social Control”.
Surveillance
State: il controllo sociale in Cina che plasma la volontà delle persone.
“Alibaba”
e “Tencent”, giganti tech cinesi, tornati sotto il controllo del Partito
Comunista a seguito del “giro di vite” intrapreso dalla Cina contro le società
tecnologiche più potenti, controllano enormi quantità di dati comportamentali;
tutti accessibili al governo:
sin dal 2016 nella città di Hangzhou,”
Alibaba” ha sviluppato una piattaforma cloud chiamata “City Brain “che monitora
le condizioni del traffico, rileva incidenti stradali, regola i semafori per
ridurre i tempi di viaggio e persino i tempi di risposta dei veicoli di
emergenza.
L’intelligenza
artificiale di City Brain, asservita alle velleità del governo, è solo una
delle tante applicazioni in grado controllare i veicoli di un’intera città.
Grandi
quantità di dati, (la Cina ha già superato gli Stati Uniti per quanto riguarda
la quantità totale di dati che è in grado di trattare e produrre) vengono
raccolte, elaborate da algoritmi nei supercomputer, quindi reinserite nei
sistemi della città, resi disponibili all’autorità.
Leadership
confuciana.
Ogni
espressione dell’autorità di governo in Cina viene intesa dai cinesi alla
stregua di un assioma ontologico: l’interesse pubblico prevale su quello del
singolo; il capillare controllo della società e le esigenze di pubblica
sicurezza si impongono sui diritti degli individui.
Non è
un caso che la Repubblica Popolare Cinese sia oggi il più importante esempio di
Stato socialista ancora esistente, sebbene con alcune evidenti peculiarità che
ne hanno caratterizzato il discostamento rispetto alla concezione tradizionale:
prima
fra tutte la capacità della classe dirigente cinese di interpretare le
dinamiche dell’attuale fase storica della globalizzazione e di volgerle a
proprio favore consentendole di emergere come protagonisti indiscussi della
scena economica internazionale.
È
certo, il fatto che la Cina, in tale contesto, si ponga come un sistema a
“diritti affievoliti” non stupisce. Tanto è connaturato alla sua stessa storia
e tradizione.
È
altresì sancito espressamente nella Carta costituzionale cinese dove, a fronte
di un elenco di diritti e doveri fondamentali, è infatti previsto che “i
cittadini nell’esercizio dei loro diritti e libertà, non possano violare gli
interessi dello Stato, della società o della collettività” (art.li 51, 53 e
54).
Il
Partito è l’interprete unico dell’uniformità di intenti che deve
contraddistinguere l’azione statale a tutti i livelli; le assemblee popolari,
dal parlamento a quelle dei diversi enti locali, province regioni autonome,
prefetture e contee, assurgono al ruolo di “organi e strumenti del potere
statale”.
Ed è
in tale contesto che trovano terreno fertile le molteplici applicazioni e i
sistemi di sorveglianza che rendono le città cinesi le più monitorate al mondo:
“Golden Shield”, “Skynet”, “Safe Cites”, “Police Clouds”,” Project Sharp Eyes”,
e altri.
Da
tempo i cittadini cinesi si sono adattati a tale forzosa convivenza. E la
leadership cinese, forte degli strumenti di governance derivanti dalla dottrina
della “Grande Armonia”, ha in tal modo potuto perseguire i nuovi programmi di
sviluppo e di soft power culturale globale, radicandoli proprio nella
tradizione e nella ferrea obbedienza dei cinesi ai capisaldi dell’etica
confuciana.
Un
sofisticato database nazionale collega documenti di identificazione, telecamere
a circuito chiuso, sistemi di riconoscimento di aziende cinesi come “Huawei”, “Sensetime,”
“Megvii” e “China Electronics Technology Group Corporation”, registrazioni di
impronte digitali, campioni di DNA, scansioni dell’iride e gruppi sanguigni,
cronologie di viaggio, tracciamento dei telefoni, monitoraggio degli acquisti
online e meccanismi di decrittazione dei messaggi scambiati dagli individui:
tutte informazioni sottomesse al monitoraggio del governo cinese.
“Xue
Liang”, ovvero “Occhio di falco” è il nome del programma di videosorveglianza a
tappeto del presidente Xi Jinping e di Pechino.
Spyware
nei cellulari, telecamere per il riconoscimento facciale, wi-fi sniffer: si
basa su un mix di tecnologie vecchie e nuove la grande rete voluta dal
presidente Xi che punta a “controllare” 1,4 mld di abitanti in Cina.
Diffusione
e pervasività della sorveglianza sociale che la società di sicurezza “Comparitec”h
ha voluto classificare a livello mondiale:
la
Cina ospita oltre 540 milioni di telecamere di sorveglianza, circa la metà di
tutte le telecamere del mondo e detiene il primato con otto delle prime 10
città più sorvegliate al mondo.
L’apice
si tocca a “Chongqing”, grande agglomerato urbano situato nel sud-ovest del
paese, dove confluiscono i fiumi Azzurro e Jialing, con quasi 2,6 milioni di
telecamere, ovvero 168,03 per 1.000 persone.
Seguono “Shenzhen”, nella provincia
meridionale del Guangdong e Urumqi, nota capitale della regione autonoma cinese
dello “Xinjiang Uygur.”
Apposite
telecamere vengono posizionate dove le persone si recano per soddisfare i loro
bisogni comuni, come mangiare, viaggiare, fare shopping e divertirsi;
telecamere per il riconoscimento facciale si trovano all’interno di spazi
privati, come edifici residenziali, sale karaoke e hotel;
dispositivi, noti come wi-fi sniffer e catcher
IMSI, raccolgono informazioni dagli smartphone consentendo alla polizia di
tracciare i movimenti di un dato bersaglio.
Due
giornalisti del “New York Times”, “Paul Mozur” e “Aaron Krolik”, hanno descritto
il modo in cui i vari strumenti di sorveglianza vengono combinati all’interno
di un vasto sistema integrato e connesso, alimentato da un insieme di
tecnologie, alcune all’avanguardia ed altre piuttosto datate.
L’articolo
del NYT presenta, con ricchezza di particolari e riscontri video, come tutte
queste funzionalità siano diventate largamente disponibili per le Autorità di
polizia di ogni livello e come i dati raccolti possano essere resi accessibili
ad una vasta gamma di terze parti sia pubbliche, per scopi di intelligence e
sicurezza pubblica, che private, per scopi commerciali e di marketing.
Il tutto, peraltro, attraverso pratiche di
sicurezza del tutto assenti se non inadeguate, livelli di fallacia algoritmica
piuttosto significativi e un livello inquietante di pregiudizi sistemici.
“Human
Rights Watch” (HRW), con sede a New York, riporta l’esistenza di un documento
ufficiale, risalente al 2017, chiamato “The [Xinjiang Uyghur Autonomous] Region
Working Guidelines on the Accurate Registration and Verification of Population”
(全区人口精准登记核实工作指南, “The Population Registration
Program”), che descrive il funzionamento di una banca dati biometrica,
destinata in modo specifico al controllo delle minoranza etnica Uiguri, che
aggrega e archivia su server governativi le delicate informazioni degli individui
coinvolti in nome di apparenti politiche antiterrorismo:
operazioni che le Nazioni Unite hanno già
dichiarato idonee a costituire crimini contro l’umanità.
Le
stesse applicazioni di monitoraggio sviluppate in costanza di pandemia, come
quella chiamata “Health Code” (Codice sanitario), lanciata dalla città cinese
di “Hangzhou”, sembrerebbero essere destinate a non esaurire la loro funzione
con la fine dell’emergenza sanitaria ma a diventare veri e propri “passaporti
digitali” dei cittadini in pianta stabile.
Come
dire un upgrade permanente della sorveglianza di massa che grava sui cittadini
in Cina.
L’”IoT”
offre l’infrastruttura necessaria per la sorveglianza.
“Edward
Schwarck”, uno studente in sicurezza pubblica cinese presso l’Università di
Oxford, ha approfondito “il ruolo del ministero della Pubblica Sicurezza Cinese”
descrivendone lo sviluppo nel corso del tempo in chiave di intelligence.
Le sue
analisi hanno evidenziato come il ministero iniziò a riformare ed aggiornare le
sue strutture di intelligence all’inizio degli anni 2000 con l’intento di
ristabilire il “dominio dell’informazione” su una società sempre più fluida e
tecnologicamente sofisticata.
Le evidenze raccolte hanno dimostrato come lo
stesso si sia adattato allo sviluppo tecnologico trasformando ed adeguando,
alle potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, le proprie procedure di
raccolta, analisi e diffusione delle informazioni, fino a dare forma
all’attuale sistema di intelligence di pubblica sicurezza.
Ebbene,
secondo “Schwarck ““definire un modello simile come sistema di polizia basato
sull’intelligence o sulle analisi predittive distoglie l’attenzione dal fatto
che ciò che sta accadendo in alcune aree del Paese, come nello “Xinjiang”: non
riguarda affatto la polizia, ma una forma di vera e propria ingegneria
sociale”.
Nel
frattempo, mentre da una parte le reazioni della comunità internazionale sulla
questione dei diritti umani nello “Xinjiang” e di altri crimini umanitari nel
mondo rimangono piuttosto deboli e poco coordinate, rivelando ben più di una
frattura a seconda degli interessi economici con Pechino, dall’altra, le
tattiche di propaganda e disinformazione dei regimi autoritari, tra cui la
Cina, evolvono in forme sempre più sofisticate, e al centro di questi sforzi
globali di repressione e controllo dell’informazione ci sono sempre i social
media: Twitter, Facebook, YouTube, oltre naturalmente a TikTok.
Chiaro,
dunque, che applicazioni omnicomprensive “di fatto insostituibili” come “WeChat”
assumono, nell’alveo del loro terreno d’elezione – lo spazio digitale – un
ruolo strategico sinergico e cruciale, con effetti calamitanti dentro e fuori
dal territorio cinese.
Un
universo non solo di sorveglianza ferrea ma anche “geo mediatico”, peraltro,
ben sedimentato:
le
prime interferenze governative riscontrate su “Wechat” risalgono al 2013, con
la censura dei post e delle chat contenenti le parole “Falun Gong” (法轮功) e “Southern Weekend” (南方周末).
Più di
un miliardo di smartphone in tutto il mondo dove l’app interagisce con gli apparati
di polizia fornendo l’accesso a query di ricerca e contrassegni di tag
specifici e dove persino l’inattività digitale stessa può destare sospetti.
Censura
e propaganda.
Il
controllo dell’informazione è un elemento ritenuto cruciale; l’apparato di
propaganda “visibile” della Cina è ben radicato e la gestione della verifica
dei contenuti informativi sia interna che esterna riveste una priorità assoluta
per il PCC.
Censura,
insomma.
Ma non
solo, perché alla censura si accompagna l’attività di propaganda:
gli
obiettivi di controllo sulle informazioni della Cina abbracciano tanto
operazioni di influenza negli ecosistemi tradizionali quanto nei social media,
ritenuti non a caso percorsi preferenziali usati per deviare il dibattito come
veri e propri distrattori sociali.
Luoghi
virtuali di condivisione in cui l’utilizzo di contenuti di terze parti rivela
un potenziale di amplificazione ed effetti di rete talmente appetibili da porsi
in perfetta sinergia con l’operato interno dei media governativi,
strategicamente coordinati per orientare il discorso pubblico e la governance
internazionale, a scapito dei diritti e delle libertà fondamentali universali.
Una
sorta di “censura inversa” che si oppone al dissenso politico anticinese con il
rumore creato dall’effetto cascata dei post governativi appositamente
costruiti.
Tutte
circostanze queste ben descritte nello studio sulle operazioni di informazione
a spettro completo della Cina, analizzato dall’”Hoover Institution” e dall’”Osservatorio
Internet di Stanford”, di cui sono autrici Renèe Diresta, Carly Miller, Vanessa
Molter, Jhon Pomfret e Glenn Tiffert, ma anche nel rapporto di Recorded Future
e nell’analisi dell’”Australian Strategic Policy Institute”, che documentano in
modo esauriente e con dovizia di particolari le armi di propaganda e censura
del governo cinese.
Il “Great
Firewall” è l’ulteriore strumento di sorveglianza che blocca decine di migliaia
di siti Web invisi al Partito.
Proprio
il rafforzamento della “sfera ideologica” nel contesto di quella che la Cina
stessa definisce una “Guerra globale dell’informazione” viene esplicitamente
identificato dal Comitato centrale del Partito comunista tra gli obiettivi
cardine, imprescindibile per l’affermazione della supremazia del Paese, nonché
baluardo contro i pericoli derivanti dalla minaccia delle avverse forze
occidentali:
dai
valori universali e fondamentali espressione della democrazia costituzionale di
matrice neo liberalista, alla concezione occidentale dell’ecosistema
informativo che sfida il principio cinese secondo cui i media e il sistema
editoriale dovrebbero essere soggetti alla disciplina del Partito.
Sotto
la leadership del Presidente “Xi”, la repressione di qualsiasi voce
dissenziente ha, infatti, ricevuto una svolta ulteriormente restrittiva e
rigorosa.
Non è
un mistero che proprio la Cina detenga oggi il primato di giornalisti
incarcerati, ponendosi al primo posto nella classifica dei Paesi con il maggior
numero di reporter reclusi, prima di Turchia, Arabia Saudita ed Egitto.
Una
situazione che lo stesso Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj) ha
definito “in costante peggioramento”.
E
altrettanto significative in tal senso risultano le numerose “espulsioni” dei
giornalisti occidentali ritenuti spesso “ostili”: ne sono coinvolti testate
come il “Wall Street Journal”, “Bloomberg” e il “New York Times”.
Il
sistema nazionale di credito sociale.
Non
ultimo rileva, in termini di controllo, il sistema nazionale di credito sociale
(un insieme di «modelli» per verificare l’«affidabilità» delle persone
associandole a un punteggio e a blacklist) finalizzato a valutare “e dunque
prevenire” la condotta di ogni cittadino cinese, in ogni ambito: dall’accesso
al credito alla tendenza alla commissione dei crimini.
E il
“sistema dei crediti sociali” rappresenta solo uno dei tanti aspetti oscuri e
distopici dei piani di ingegnerizzazione sociale in Cina.
Se
infatti da una parte i crediti sociali mirano a creare una società basata sulla
fiducia dove però cosa è virtuoso e morale lo decide il partito comunista,
un’ulteriore “griglia sociale” viene stabilita dalle smart city, a loro volta
governate socialmente attraverso crediti sociali e capacità tecnologiche che
consentono raccolta ed elaborazioni di dati continua.
Forme
di iper-sorveglianza nei confronti della quale milioni di cinesi nel mondo, e
non solo, stanno divenendo ormai insensibili e dove la libertà personale ha un
costo inimmaginabile.
E le
possibilità di scelta sono inesistenti.
Dall’IA
alle smart cities, passando per le applicazioni social come “WeChat”, la Cina ha infatti
assunto una posizione pesantemente sfidante e per il momento vincente rispetto
alla supremazia tecnologica filoccidentale.
Nella
hall dell’“Institute of Automation”, il campus di laboratori nazionali dell’”Accademia
cinese delle scienze”, un poster gigante del Presidente Xi Jinping in abito
nero, convalida quanto l’obiettivo del potenziamento del sistema digitale di
controllo sociale – pattugliato da algoritmi precognitivi addestrati al
riconoscimento dell’iride, alla sintesi vocale basata su cloud e al controllo
dei potenziali dissidenti in tempo reale – rappresenti per la nazione la
priorità assoluta.
I Big
Data costituiscono la risorsa inestimabile per fare tali previsioni.
I
funzionari possono attingere a questa capacità per gestire crimini, proteste o
impennate dell’opinione pubblica online.
Un
network, quindi, dove la repressione del crimine va di pari passo con l’analisi
di polizia predittiva e la censura con la propaganda:
coloro
che esprimono opinioni non ortodosse online possono diventare soggetti di
attacchi personali mirati nei media statali.
La
sorveglianza e l’intimidazione sono ulteriormente integrate da una vera e
propria coercizione, tra cui visite di polizia, arresti, “confinamenti
rieducativi”.
Ubi
data ibi imperium.
In
tutto ciò il Partito Comunista è stato straordinariamente abile nel plasmare la
conversazione sulla privacy.
In tal
senso uno degli eventi normativi significativi dell’ultimo periodo è senza
dubbio l’introduzione della legge sulla privacy cinese, “Personal information
protection law” (“Pipl”) cinese, che interessa molte aziende internazionali
operanti in Cina o intenzionate a coltivare relazioni commerciali con il
territorio cinese.
Una
legge che si inserisce in un sistema regolatorio in costante evoluzione, di cui
fanno parte anche la “Cybersecurity Law”, in vigore dal primo giugno 2017 e la “Data
Security Law” approvata il 10 giugno 2021, in vigore da settembre 2021, con
impatti a livello domestico e internazionale estremamente imprevedibili, specie
per i riflessi in fatto di circolazione internazionale dei dati e dell’adozione
di misure destinate allo sviluppo di tecnologie relative al riconoscimento
facciale, all’intelligenza artificiale e all’analisi dei dati.
Parliamo
di un sistema giuridico solido dove impiantare il regime di sicurezza delle
informazioni e dei dati in Cina, mira, in modo specifico, a potenziare le
esigenze di sovranità digitale ritenute prioritarie da Pechino, a maggior ragione
nel contesto dell’attuale competizione tecnologica e commerciale con gli USA.
Lo
Stato, Pechino, sede del potere politico, diviene a tutti gli effetti il tutore
della salvaguardia dei dati e della sovranità digitale della società cinese.
Sorveglianza
di Stato e Capitalismo di sorveglianza ovunque.
Ma la
Cina non è l’unico paese ad utilizzare e ad offrire una visione chiara di come
gli Stati dovrebbero utilizzare le tecnologie di sorveglianza (i sistemi di
controllo della polizia cinese vengono venduti in più di 80 paesi in tutto il
mondo, comprese diverse democrazie).
La
stessa Europa viene chiamata a rispondere delle proprie responsabilità, finora
sottaciute, per lo sviluppo di tecnologie di sorveglianza.
Negli
anni, la collaborazione dell’Ue con i Paesi limitrofi per il controllo delle
migrazioni ha rafforzato i regimi autoritari, fornito un boom di profitti per
le imprese della sicurezza e ai produttori di armamenti, distolto risorse dallo
sviluppo e indebolito i diritti umani.
A
settembre 2020 “Amnesty International”, auspicando il divieto assoluto dell’uso
indiscriminato delle tecnologie di riconoscimento facciale, ha diffuso il
rapporto “Out of Control: Failing EU Laws for Digital Surveillance Export”, in
cui ha reso evidente come tre aziende europee con sede in Francia, Svezia e
Paesi Bassi abbiano venduto sistemi di sorveglianza ad agenzie di sicurezza
cinesi coinvolte nelle violazioni dei diritti umani.
Il caso più conosciuto è quello che riguarda
la “minoranza musulmana uiguri” nella regione dello Xinjiang.
E il
riferimento è rispettivamente a “Morpho” (ora Idemia),” Axis Communications” e “Noldus
Information”.
Ma tra
tutti il rapporto che ha destato il rumore maggiore, per l’ampiezza e
specificità delle denunce (tutte documentate) è senza dubbio lo studio “Surveillance Disclosures Show Urgent
Need for Reforms to EU Aid Programmes” pubblicato il 10 novembre 2020 da “Privacy
International” di cui si consiglia l’attenta lettura.
Sono
molte le organizzazioni europee coinvolte nelle recriminazioni:
dall’Agenzia di frontiera Frontex al Servizio
europeo per l’azione esterna, dal Fondo fiduciario dell’UE per l’Africa
all’Agenzia dell’Unione europea per la formazione delle forze dell’ordine
(CEPOL) e all’EUROPOL;
comprese
le istanze di chiarimento rivolte all’EDPS quanto all’Opinion 2/2018 relativa
agli otto mandati negoziali volti alla conclusione di accordi internazionale
che consentirebbero lo scambio di dati tra Europol e paesi terzi.
Il
riconoscimento facciale è sedimentato e certo “ben sovvenzionato” da tempo. In
Europa, Cina e ovunque:
in
Florida, l’ufficio dello sceriffo della contea di Pinellas (PCSO) gestisce uno
dei più grandi database di riconoscimento facciale in America.
Se
dunque i governi dei paesi autocratici e semi-autocratici sono più inclini ad
abusare della sorveglianza dell’IA rispetto ai governi delle democrazie
liberali, queste restano comunque i principali utilizzatori e fornitori della
sorveglianza dell’IA.
L’origine
dell’odierno “Panopticon cinese” e la sua inarrestabile evoluzione non sono
altro che il risultato di un’accelerazione resa possibile dalla grande
trasformazione tecnologica del paese (e con essa la nuova straordinaria
capacità di raccogliere dati biometrici da parte di Pechino).
La
diffusione della sorveglianza, in particolar modo applicata all’AI, continua
senza sosta.
E se
il suo utilizzo da parte di regimi autoritari per progettare repressioni contro
popolazioni mirate ha già suonato campanelli d’allarme, tuttavia anche in paesi
con forti tradizioni di stato di diritto, l’IA fa sorgere problematiche etiche
fastidiose ed urgenti.
Un
numero crescente di stati nel mondo oltre alla Cina sta implementando strumenti
avanzati di sorveglianza dell’IA per monitorare, rintracciare e sorvegliare i
cittadini per raggiungere una serie di obiettivi politici: alcuni legali, altri
che violano palesemente i diritti umani e molti che cadono in una via di mezzo
oscura.
Questo
è il quadro descritto da “Carnegie Endowment for International Peace”, uno dei
più antichi e autorevoli think tank statunitensi di studi internazionali.
“La
tecnologia legata alle società cinesi – in particolare Huawei, Hikvision, Dahua
e ZTE – fornisce la tecnologia di sorveglianza dell’IA in 63 paesi, 36 dei
quali hanno aderito alla “Belt and Road Initiative cinese” afferma il Rapporto.
Oltre
alle società cinesi, la giapponese NEC fornisce la tecnologia di sorveglianza
dell’IA a 14 paesi e IBM in 11 paesi, secondo il rapporto Carnegie.
“Anche
altre società con sede in democrazie liberali – Francia, Germania, Israele,
Giappone – svolgono un ruolo importante nel proliferare di questa tecnologia”.
Tutti
questi paesi, evidenzia il Rapporto “non stanno però adottando misure adeguate
a monitorare e controllare la diffusione di tecnologie sofisticate collegate a
una serie di importanti violazioni”.
Gli
esperti esprimono preoccupazione in merito ai tassi di errore del
riconoscimento facciale e all’aumento dei falsi positivi per le popolazioni
minoritarie.
Il
pubblico è sempre più consapevole dei pregiudizi algoritmici nei set di dati di
addestramento di AI e del loro impatto pregiudizievole sugli algoritmi di
polizia predittiva e altri strumenti analitici utilizzati dalle forze
dell’ordine.
Anche
applicazioni” IoT benigne” – altoparlanti intelligenti, blocchi di accesso
remoti senza chiave, display con trattino intelligente per autoveicoli –
possono aprire percorsi problematici alla sorveglianza.
Le
tecnologie pilota che gli Stati stanno testando ai loro confini – come il
sistema di riconoscimento affettivo di “iBorderCtrl” – si stanno espandendo
nonostante le critiche che si basano su scienza difettosa e ricerca non
comprovata.
Inevitabilmente
sorgono le domande inquietanti sull’accuratezza, correttezza, coerenza
metodologica e impatto pregiudizievole delle tecnologie di sorveglianza
avanzate.
Conclusioni.
Dal momento
che gli algoritmi non sono neutrali, imparziali ed oggettivi e che molto
difficilmente le loro implementazioni potranno tradursi in mere scelte
amministrative, di ordine pubblico e sicurezza nazionale o di business, allora
la domanda è: perché si continuano a tollerare, se non addirittura a favorire,
scelte “politiche” che prestano il fianco alle ambizioni degli stati dispotici,
o anche democratici, primattori dei diversi approcci di sorveglianza a
vantaggio dello sfruttamento commerciale, governativo e a scapito dei diritti
umani?
La
risposta a questa domanda è complessa. E per le democrazie avanzate la sfida
lanciata da queste problematiche è globale e immensa.
I soli
adeguamenti normativi, sebbene necessari, non basteranno a garantire
trasparenza e correttezza.
Ugualmente
non saranno sufficienti le pronunce delle alte Corti per definire precisi
ambiti di responsabilità e, neppure i progressi tecnologici, tesi ad abbattere
il margine di fallacia dei processi algoritmici, potranno arginare
adeguatamente i rischi di discriminazione.
Neppure
sarà sufficiente “tagliare la catena di approvvigionamento globale della
tecnologia di sorveglianza”.
In
tanti, non solo negli stati autoritari, continueranno a “fidarsi supinamente”
degli (ab)usi promossi da queste tecnologie, vittime di un approccio incauto
che rende la sorveglianza parte integrante e naturale del panorama
contemporaneo.
Quello
tra l’Occidente e la Cina non è un rapporto di sole relazioni tra governi, è
altresì una connessione, ancora per nulla compresa, tra le diverse percezioni,
che i rispettivi cittadini hanno su temi divisivi, come può esserlo quello dei
diritti fondamentali e del potere che promana dall’autorità statale.
La
necessità di pensare in modo critico e consapevole sui sistemi di sorveglianza
e certo sugli algoritmi di AI in generale diventa evidente.
Non
servono, però, approcci solo teorici, di parte o peggio solo distopici.
Se da una parte la strategia cinese mira al
controllo totalitario della propria società e al predominio in campo
scientifico entro il 2030 e quella russa si concentra sulle applicazioni in
materia di intelligence, dall’altra, negli Stati Uniti, il modello liberista
crea una biforcazione tra settore pubblico e privato, in cui i colossi
tecnologici della Silicon Valley puntano alla mercificazione deregolata delle
opportunità tecnologiche.
E,
ancora oggi, il ruolo dell’Unione europea nell’ecosistema digitale globale è in
gran parte ancora da decidere.
Parlando
di intelligenza artificiale – ci riferiamo a qualcosa che in realtà ha zero
intelligenza e zero semantica: il significato e il senso lo danno le persone.
Che si
parli di stato totalitario o di sorveglianza di massa piuttosto che di
monopolio digitale e di capitalismo di sorveglianza, il solo discrimine e la
vera ricchezza tra ciò che ci consentirà o meno di guidare consapevolmente ed
efficacemente il percorso verso un progetto umano sostenibile e la necessaria
riconciliazione tra l’umanità e lo sviluppo tecnologico, dipende in primis
dall’uomo stesso, dalle sue scelte.
E
dunque ampio spazio all’alta politica che rivela “l’arte dei migliori”, capace
di generare una cultura diffusa in grado potenziare valori radicati ed
impregnati di umanità così da fornire adeguate risposte ai sonori biasimi
sollevati.
Poiché
l’avanzata dei modelli di sorveglianza sociale rischia di farci perdere una
guerra che non è di predomino economico e politico, ma di civiltà.
Israele
ha già Perso la Partita Politica.
Conoscenzealconfine.it
– (10 Novembre 2023) - Gianmarco Landi – ci dice:
Il
ministro degli esteri dell’Iran ha esortato il gruppo di nazioni BRICS a intervenire in modo
attivo, costruttivo e responsabile per fermare i crimini di guerra del regime
israeliano nella Striscia di Gaza.
L’Iran, potenza militare in Medioriente con
100 milioni di abitanti e ben 3 milioni di soldati, entrerà nei Brics da
gennaio 2024, ma virtualmente è già una nazione alleata della Russia e della
Cina.
Il
potente senatore “Lindsey Graham”, aveva acclamato l’ipotesi di bombardare
l’Iran in modo da concretizzare il sostegno alle politiche del Governo di
Israele, attualmente
intento a martoriare un paio di milioni di persone che pretende di spazzare via
da territori che secondo l’ONU non sono israeliani.
C’è
però un enorme problema a cui “Graham” non ha evidentemente pensato:
il ministro degli esteri dell’Iran ha esortato
il gruppo di nazioni BRICS a intervenire in modo attivo, costruttivo e
responsabile per fermare i crimini di guerra del regime israeliano nella
Striscia di Gaza.
Oh
cazzo Houston… abbiamo un problema:
Stanley
Kubrik è morto, Armstrong è rimasto sulla Luna, Biden non sappiamo se sia vivo,
morto o comunque cosa effettivamente sia stato, e ora il senatore “Graham”,
l’anti Trump del Congresso, è molto, molto stanco.
Il
ministro degli Esteri dell’Iran, “Hossein Amir-Abdollahian” ha fatto la
richiesta in lettere separate indirizzate domenica alle sue controparti nei
cinque Stati membri dei BRICS: Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa.
L’alto
diplomatico iraniano nelle lettere ha espresso “profonda preoccupazione e
dolore” per le atrocità del regime israeliano contro la popolazione di Gaza.
Tradotto
dal politichese:
dobbiamo stangare il governo Israeliano e
chiunque gli stia dietro.
Poveretti,
non fanno in tempo a perdere in Ucraina e a sostituire le bandiere gialloblù
dai balconi con quelle della stella di David, che già hanno perso la partita
politica in Medioriente.
(Gianmarco
Landi).
(presstv.ir/Detail/2023/11/05/714088/Iran-BRICS-Israel-war-Gaza-United-Nations-Guterres)
(t.me/Unisciti_a_IGR).
Israele
perderà.
Ecco
perché.
Unz.com - KEVIN BARRETT – (8 NOVEMBRE 2023) – ci
dice:
Da
febbraio 2022, i media mainstream occidentali dicono che la Russia non può
assolutamente vincere la sua guerra in Ucraina.
Zelenskyj,
con il sostegno dell'Occidente da centinaia di miliardi di dollari, prevarrebbe
sicuramente.
La
Russia ha sempre subito perdite insopportabilmente pesanti.
Putin è sempre sul punto di morire.
Una
nuova spedizione di armi miracolose degli Stati Uniti cambierà la situazione.
Una schiacciante vittoria ucraina è sempre a portata di mano.
Poiché
non potevamo immaginare che l'Ucraina perdesse, gli esperti occidentali non
potevano vedere che stava perdendo.
Hanno perso il fatto che dal momento in cui la
maggioranza del mondo non occidentale si è rifiutata di accettare le sanzioni
statunitensi contro la Russia, era effettivamente finita.
Praticamente
l'intera guerra è stata combattuta all'ombra di un'inevitabile vittoria russa.
È sempre stata solo una questione di tempo.
Una
situazione simile potrebbe prevalere nella guerra per la Palestina?
La maggioranza del mondo non occidentale si è
rivoltata bruscamente contro Israele, ancora più bruscamente di quanto non si
sia rivolta contro gli Stati Uniti nella loro guerra contro la Russia
attraverso l'Ucraina.
Eppure i media occidentali continuano a
fabbricare e ad abitare una bolla completamente avulsa dalla realtà morale e
strategica.
Non
riusciamo nemmeno a immaginare che Israele abbia torto, anche se ovviamente lo
è.
Non riusciamo a immaginare che “Hamas” sia un
combattente nobile e cavalleresco e che gli israeliani siano dei terroristi
codardi che uccidono bambini, anche se questo è ovviamente il caso.
Non
possono riconoscere che la stragrande maggioranza del mondo non è d'accordo con
loro per ottime ragioni, non a causa dell'"antisemitismo".
E
soprattutto non riescono a immaginare che Israele, nonostante (o a causa di) il
suo attacco genocida contro i civili, sta perdendo la guerra.
Proprio
come bisognava leggere fonti "filo-russe" (come il colonnello “Douglas
MacGregor”) per ottenere la verità sulla guerra in Ucraina, è necessario stare
al passo con il punto di vista della maggioranza globale pro-Resistenza per
avere un quadro accurato della guerra per la Palestina.
A tal
fine, date un'occhiata alla mia rapida interpretazione, assistita da Google, di
un illuminante articolo pubblicato ieri da Al-Jazeera.
“Kevin
Barrett” e “Zuhair Hamdani” e “Talal Mushati” per “Al-Jazeera”.
I
leader israeliani stanno preparando un'opinione pubblica israeliana tesa e
frustrata a sorprese impreviste nella loro guerra contro Gaza, parlando di una
guerra lunga, costosa e crudele.
Le
grandi aspettative che hanno fissato per la loro guerra saranno difficili da
realizzare, mancando di un chiaro piano militare o politico.
Il
capo di stato maggiore israeliano “Herzi Halevy” dice: "Stiamo conducendo una guerra con un
nemico crudele, e questa guerra ha un prezzo doloroso e pesante", mentre il ministro della
Difesa “Benny Gantz” riassume la difficoltà della guerra di terra:
"Le
immagini che arrivano dalla battaglia di terra sono dolorose, e le nostre
lacrime scendono quando vediamo i nostri soldati cadere".
La
leadership israeliana ha lanciato la sua guerra contro Gaza in un momento in
cui ha la fiducia solo del 27% dell'opinione pubblica israeliana, mentre solo
il 51% circa si fida dell'esercito israeliano.
A questo si aggiungono i fardelli di 250.000
persone che cercano rifugio dalla regione di Gaza e dalle aree settentrionali
vicino al Libano, così come gli oltre 240 israeliani tenuti prigionieri dalla
resistenza a Gaza.
Di
conseguenza, per Israele, questa guerra non è come le guerre precedenti.
Israele
sta subendo enormi perdite quotidiane e l'erosione delle risorse, compresi i
soldati, l'equipaggiamento, il tempo, il denaro e la legittimità (sostegno
interno ed esterno).
Il costo continuerà a salire man mano che la
guerra si allunga o si espande.
Il
quotidiano “Maariv” commenta le condizioni della guerra di terra che si sta
svolgendo alla periferia di Gaza, dicendo:
"Le forze di resistenza sono molto
lontane dall'essere sconfitte. Nonostante le liquidazioni e gli omicidi, “Hamas”
sta riuscendo nella maggior parte dei casi a mantenere un metodo di
combattimento organizzato, basato principalmente sui combattimenti nei tunnel,
sull'uscita dai nascondigli e sul lancio di missili contro i nostri veicoli
corazzati".
Due
fattori preponderanti guidano la feroce guerra israeliana contro Gaza:
lo
shock della clamorosa sconfitta militare e il fallimento della sicurezza e
dell'intelligence che è risultato dal lancio da parte della resistenza
palestinese dell'operazione "Tempesta di Al-Aqsa" il 7 ottobre;
e la difficile situazione dell'enorme numero
di prigionieri detenuti dalle Brigate Al-Qassam e da altre fazioni palestinesi.
Pertanto,
l'azione militare ruota attorno a questi due obiettivi.
Sotto
l'influenza psicologica degli eventi del "sabato nero", gli
israeliani sono andati direttamente all'obiettivo finale di ogni guerra, che è
"distruggere il nemico".
Si
trattava di un tetto alto che probabilmente sapevano, in virtù dell'esperienza
precedente, non poter raggiungere. Non può accadere se non a un prezzo che non
potrebbe permettersi di pagare.
In
questo contesto, il ministro della Difesa “Yoav Galant” ha dichiarato:
"Non c'è posto per “Hamas” a Gaza.
Alla
fine della nostra battaglia, non ci sarà più “Hamas".
Si
tratta di un obiettivo irrealistico, basato sull'esperienza passata e sulle
realtà sul campo.
Considerando
le guerre precedenti, tra cui quella del 2008 e del 2014, troviamo che
"distruggere Hamas" è sempre stato un obiettivo fondamentale che non
è mai stato raggiungibile.
Non c'è motivo di credere che questa volta
sarà realizzabile, soprattutto perché il movimento è ora molto più forte, con
radici molto più profonde nella Striscia di Gaza, rispetto a prima.
Le sue difese militari e il suo arsenale sono
stati rafforzati al punto da essere difficili da penetrare, e alla fine non è
uno Stato o un esercito regolare che può annunciare la sua resa, ma piuttosto
un movimento di resistenza popolare esteso nel percorso di una lunga resistenza
di tanti palestinesi.
La
guerra che Israele non vuole.
Se la
guerra consiste in operazioni di combattimento che richiedono la mobilitazione
delle risorse e delle capacità dello Stato per realizzare una specifica
campagna militare al fine di attuare obiettivi militari e politici, che vanno
dallo spostamento di un fronte al raggiungimento di successi tattici e
all'imposizione di determinate condizioni o allo svolgimento di una battaglia
decisiva che spezza la volontà del "nemico",
"Quindi richiede una leadership
concordata che goda di un certo grado di consenso.
Richiede
un apparato militare addestrato, equipaggiato e almeno minimamente mobilitato
psicologicamente per il combattimento;
un
adeguato piano di confronto;
e un
fronte politico e sociale interno unificato e coeso diretto verso
quell'obiettivo.
Richiede
anche una mobilitazione economica che comprenda le circostanze e il corso della
guerra e le sue sorprese, e un fronte internazionale e regionale comprensivo o
solidale.
La vittoria è difficile da ottenere se una o
tutte queste condizioni sono assenti, soprattutto nel caso di lunghe battaglie
che richiedono una mobilitazione continua.
I risultati sono anche legati alla reazione
del nemico, all'entità della sua forza e alle tattiche che sceglie.
Israele
era pronto?
In
termini di capacità militare, Israele sembra sempre pronto alla guerra su più
fronti.
Ma le
capacità tecnico-militari e le armi da sole non risolvono le guerre,
specialmente se non sono il tipo di guerre luminose che Israele favorisce.
In
pratica, Israele soffre di difetti significativi in quasi tutti gli ingredienti
sopra menzionati per vincere una guerra.
A
livello dirigenziale:
Non c'è una leadership concordata in Israele
che goda del consenso o del carisma necessario.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu, come
mostrare i sondaggi, è estremamente impopolare.
In un
recente sondaggio sull'opinione pubblica israeliana condotta dal quotidiano
israeliano “Maariv”, è emerso che solo il 27% degli israeliani sostiene la sua
sopravvivenza politica, e le sue decisioni politiche e militari non sono
accettate e sono soggette a critiche diffuse.
Il
corso della guerra ha anche dimostrato che è indeciso e non ha un piano chiaro
e convincente per un'azione militare o politica.
Netanyahu
rifiuta anche di assumersi la responsabilità per il fallimento della sicurezza
del 7 ottobre, che lo ha esposto a gravi critiche interne.
Il leader dell'opposizione israeliana “Yair
Lapid”, ad esempio, ha avvertito che i tentativi di “Netanyahu” di eludere le
responsabilità e incolpare l'establishment della sicurezza, indebolendo così
l'esercito israeliano, equivalgono a "oltrepassare le linee rosse".
Il
fronte interno:
Il fronte interno sembra essersi disintegrato.
Gli israeliani vivono in uno stato di grave divisione a livello partitico,
popolare e politico.
Particolarmente
controverso è il modo in cui affrontare la questione dei prigionieri detenuti
dalla resistenza, alla luce dei pericoli di una guerra di terra e delle grandi
perdite che comporterebbe.
Netanyahu
e i membri estremisti del suo governo sono accusati di dividere la società
israeliana.
Il leader del partito laburista d'opposizione,
“Merav Michaeli”, ha accusato il primo ministro di "combattere l'esercito
e il popolo di Israele".
Anche
la questione dei prigionieri detenuti dalla resistenza ha suscitato divisioni
interne, soprattutto dopo che il ministro del Patrimonio “Amichai Eliyahu “ha
chiesto di bombardare Gaza con un'arma nucleare, dicendo:
"Cosa significa ostaggio? In guerra si
paga il prezzo. Perché la vita degli ostaggi è più preziosa di quella dei
soldati?"
Ciò è
stato considerato dagli israeliani come "un abbandono da parte del governo
del suo impegno di restituire gli ostaggi".
Fronte
militare:
gli
eventi del "Diluvio di Al-Aqsa", soprattutto nelle prime sei ore del
7 ottobre, hanno dimostrato che l'esercito israeliano soffre di gravi carenze,
così come i suoi numerosi servizi di sicurezza.
Ora le
perdite quotidiane che sta subendo nelle sue operazioni di terra in corso lo
hanno reso oggetto di sospetto all'interno della società israeliana, che
contava su di esso per mantenere un'aura di sicurezza e stabilità.
Situazione
economica:
la situazione economica israeliana è nella
peggiore delle ipotesi, con settori importanti come il turismo paralizzato, i
viaggi in calo e il settore agricolo che subisce danni.
Con la
mobilitazione di circa 360.000 soldati di riserva, la maggior parte dei quali
improvvisamente rimossi dalla forza lavoro, e l'evacuazione di circa 250.000
coloni, l'economia sta assistendo a una grave carenza di manodopera in vari
settori.
Israele ha recentemente annunciato che le
ultime tre settimane di guerra sono costate circa 7 miliardi di dollari, senza
contare i danni diretti e indiretti.
Sebbene
questi danni possano costare circa 3 miliardi di dollari al mese, le stime
preliminari mostrano che la guerra a Gaza costerà al bilancio israeliano 200
miliardi di shekel (51 miliardi di dollari), ovvero circa il 10% del prodotto
interno lordo, e poiché la guerra continua per un lungo periodo, l'economia
israeliana potrebbe essere paralizzata secondo le stime israeliane.
Fronte
diplomatico:
dopo
lo scorso 7 ottobre, i paesi occidentali storicamente prevenuti nei confronti
di Israele si sono affrettati a sostenerlo, ma questo sostegno ha cominciato
rapidamente a erodersi a causa dell'impatto dei crimini israeliani e dei dubbi
sulla capacità dell'esercito israeliano di risolvere la guerra.
Molti
paesi hanno condannato Israele o hanno interrotto le loro relazioni
diplomatiche con esso (Colombia, Bolivia), mentre altri paesi hanno richiamato
i loro ambasciatori (Cile, Giordania, Bahrein, Turchia, Honduras...).
La pressione popolare globale sempre crescente
spinge i governi ad adottare misure di boicottaggio, esponendo Israele a un
isolamento che ha cominciato a peggiorare.
Il
sostegno degli Stati Uniti a Israele si sta indebolendo?
In
contrasto con il sostegno diretto iniziale, l'amministrazione del presidente “Joe
Biden” ha iniziato a rivalutare il suo sostegno assoluto a Netanyahu per paura
che le cose degenerassero in una guerra regionale più ampia.
Washington
teme gli scenari folli che Netanyahu potrebbe creare nel tentativo di salvare
il suo futuro a spese dell'America.
Dopo
circa un mese, gli americani si resero conto che l'unica costante nel piano
israeliano era l'uso di una massiccia forza distruttiva contro i civili e le
infrastrutture nella Striscia di Gaza.
Sembrava
che Netanyahu stesse aspettando una soluzione per salvarsi da una dura
situazione nelle sabbie di Gaza – e aspettando l'illusione di una resa della
resistenza che non sarebbe avvenuta.
Cominciarono ad avere dubbi sulla gestione
della guerra da parte di Israele e sui suoi risultati.
La CNN
ha indicato che il presidente degli Stati Uniti “Joe Biden” e alti funzionari
dell'amministrazione statunitense hanno avvertito Israele che il sostegno si
sta erodendo mentre la rabbia globale si intensifica per l'entità della
sofferenza umana derivante dai crimini commessi a Gaza.
Cosa
sta succedendo in campo?
Nel
corso di circa un mese di guerra, non sembra che Israele abbia ottenuto alcun
risultato significativo sul terreno.
Dichiarazioni
contraddittorie indicano confusione su come gestire la battaglia e fissare gli
obiettivi finali di fronte a una forte resistenza.
Lo shock della battaglia mal gestita del 7
ottobre e le cicatrici psicologiche che ha lasciato sull'intero sistema
militare israeliano perseguitano ancora il corso della guerra.
Questa
atmosfera psicologica incombe anche sui soldati, che si rendono conto che il
loro ritorno dalle sabbie di Gaza richiederebbe un miracolo.
Ricordano
le esperienze dei loro colleghi e i loro amari ricordi della guerra del 2014
mentre assistono all'annegamento dell'élite della “Brigata Givati” nelle sabbie
di Gaza in una battaglia che è ancora agli inizi.
In
effetti, l'esercito israeliano è avanzato di pochi metri in terre aperte nel
nord della Striscia di Gaza e ha perso 30 soldati, il che significa che è
possibile che centinaia di soldati andrebbero persi se l'esercito avanzasse di
qualche chilometro, in mezzo a una complessa rete di tunnel e fortificazioni,
campi minati, cecchini, ordigni esplosivi e combattimenti corpo a corpo nelle
strade di fronte alla volontà di combattimento illimitata della resistenza.
Poiché
Israele non ha un piano chiaro per la guerra, è propenso a procedere lentamente
e con movimenti calcolati all'interno di Gaza.
Pertanto,
il raggiungimento del dubbio obiettivo finale potrebbe richiedere un lungo
periodo e perdite insopportabilmente pesanti.
Nel
frattempo potrebbero verificarsi importanti trasformazioni militari o politiche
che devasteranno l'intero piano.
Nelle
sue attuali operazioni, Israele perde fino a 5 soldati ogni giorno alla
periferia di Gaza senza un'avanzata militare chiara ed efficace.
“Nahum
Barnea”, il giornalista israeliano del quotidiano “Yedioth Ahronoth”, dice:
"Una guerra di logoramento alla periferia di Gaza è l'ultima cosa che gli
israeliani vogliono sperimentare".
I
funzionari militari israeliani si rendono conto che è impossibile liberare
militarmente i prigionieri, ma stanno comunque procedendo sotto pressione
politica, nonostante il fatto che le famiglie dei prigionieri, così come i
paesi che hanno cittadini tra i prigionieri, vogliano un accordo di scambio.
Netanyahu
ritiene che un accordo sarebbe un riconoscimento definitivo della sconfitta e
una vittoria per “Hamas” e la “resistenza palestinese”.
La
coesione della resistenza e il non-piano israeliano.
L'opinione
pubblica israeliana teme che la guerra sarà persa su due o più fronti, non
riuscendo a liberare o rilasciare i prigionieri (circa 60 di loro sono già
stati uccisi nei raid israeliani) e non riuscendo a smantellare le capacità del
movimento “Hamas” e della “resistenza palestinese”.
Peggio ancora, un gran numero di soldati sarà
ucciso, forse un centinaio.
In
contrasto con il non-piano israeliano, dopo il doloroso colpo militare diretto
contro Israele la mattina del 7 ottobre, il piano di “Hamas” e della “resistenza”
sembra chiaro:
fermare
la guerra, effettuare uno scambio completo di prigionieri e togliere l'assedio
di Gaza.
La
resistenza sta conducendo una guerra di logoramento contro l'esercito
israeliano, infliggendo perdite quotidiane sempre crescenti, e sembra pronta a
una lunga guerra per erodere gli elementi del potere israeliano.
Il
tempo non è dalla parte di Israele, che perde più soldi, uomini e legittimità,
la sua crisi interna peggiora e le pressioni e i dubbi che aumentano la
comunità, con la possibilità che la situazione esploda a livello regionale.
Al
contrario, è dalla parte della “resistenza palestinese”, che crede che tutte
queste pressioni militari e politiche interne ed esterne alla fine faranno sì
che Israele ceda e accetti le sue condizioni.
In tal
caso, la guerra non finirebbe solo con la sconfitta di Netanyahu, ma anche con
la sconfitta del governo di estrema destra e del suo programma razzista.
La società israeliana ha sempre più rifiutato
le politiche di questo governo a tutti i livelli, e la guerra ha dimostrato che
non può imporre la resa al popolo palestinese nonostante le tragedie causate
dai crimini israeliani a Gaza, le cui ripercussioni hanno reso la comunità
internazionale diffidente e incline a rifiutare le narrazioni israeliane.
La
difficile situazione di Netanyahu.
La
comunità internazionale ha iniziato a rendersi conto che la campagna lanciata
da “Benjamin Netanyahu” su Gaza non è altro che una serie di orribili massacri
quotidiani contro i civili che non ha ottenuto alcun significativo passo avanti
militare.
La
prognosi:
Israele sarà costretto a sottomettersi alla
sconfitta sotto pressioni interne ed esterne.
Già
seri movimenti sono iniziati dalla comunità internazionale per fermare la
guerra sulla scia dell'orrore dei massacri israeliani in corso.
“Nadav
Eyal” afferma nel suo articolo sul quotidiano “Yedioth Ahronoth” che l'esercito
israeliano non può essere soddisfatto dell'"immagine di vittoria"
nella sua guerra contro Gaza, e che l'era della di "falciare l'erba"
(ridurre le minacce a un livello accettabile) è finita.
Invece, Israele ha bisogno di una "vera
vittoria".
Ma
questo lascia il primo ministro” Benjamin Netanyahu” in una situazione
profondamente angosciante
Il
dilemma principale riguarda lo stesso Netanyahu, che non vuole scendere
dall'alto dell'albero su cui si è arrampicato la mattina del 7 ottobre.
Si
rende conto di essere politicamente finito (a causa della tempesta di Al-Aqsa)
ma sogna una resurrezione legata ai risultati della sua campagna a Gaza.
Netanyahu
e il suo gabinetto di guerra stanno agendo impulsivamente sotto l'influenza
dello shock del 7 ottobre, senza un chiaro piano militare per la guerra, che
viene combattuta principalmente come reazione emotiva insensata alla resistenza
ben preparata a Gaza.
Israele
non ha un piano chiaro per liberare o recuperare i prigionieri, o per
affrontare le enormi e sempre crescenti proteste internazionali, al punto che
Netanyahu ha iniziato a rivolgersi ai soldati israeliani a Gaza con citazioni
dalla Bibbia, dicendo loro di "ricordare ciò che “Amalek” vi ha
fatto". (Amalek rappresenta l'apice del male nella tradizione ebraica.)
Netanyahu
ha usato il riferimento ad “Amalek” più di una volta per motivare l'esercito
israeliano nella sua guerra contro Gaza.
Netanyahu
sta accumulando perdite su tutti i fronti, cercando di cancellare il
"sabato nero", ignorando che la sua leadership non gode
dell'accettazione popolare, e fingendo di non accorgersi dell'esercito
israeliano in pezzi, dell'economia in erosione, della reputazione
internazionale minata, del fronte interno disintegrato, delle grandi perdite
militari quotidiane e della condanna dei suoi crimini da parte delle Nazioni
Unite.
LA
FINE DELL’EGEMONIA STATUNITENSE:
QUESTO
L’OBIETTIVO CONGIUNTO
DI
RUSSIA E CINA.
Comedonchisciotte.org
- Katia Migliore – (10 Novembre 2023) – ci dice:
Gli
esiti inattesi del conflitto Russia-Ucraina e l'avvio del processo di
de-dollarizzazione.
Riportandoci
indietro di almeno un anno, e trattando del tema della de-dollarizzazione, è
necessario ricordare cosa sia avvenuto sul fronte economico e monetario negli
ultimi mesi.
Va ricordato, innanzitutto, il refrain dei
media occidentali sul preteso (e presunto) isolamento della Russia dovuto alle
sanzioni occidentali.
Ora,
sappiamo bene ormai che questa disfatta economica russa, di fatto, non c’è
stata.
La
narrazione diffusa di tutti i media italiani di una Russia allo sbando, cioè
del tutto priva di una strategia anche sul piano delle contromosse economiche e
finanziarie, non aveva convinto chi guardava le sorti del conflitto in
un’ottica di analisi geopolitica razionale.
E
questo per almeno tre buoni motivi:
il primo, è che sarebbe parso quantomeno bizzarro che
un’azione premeditata come quella dell’attacco all’Ucraina non fosse stata
valutata anche nei suoi aspetti di reazione del mondo occidentale con le
relative contromosse;
il secondo, perché la via d’uscita in realtà era già stata
segnata attraverso gli sviluppi delle relazioni economiche tra Russia e Cina in
tempi non sospetti;
terzo perché, va ammesso, dubitiamo di ciò
che ci è stato raccontato dai media occidentali che non ci pare abbiano
brillato negli ultimi anni per serietà nel dare correttamente le notizie,
spesso spudoratamente di parte.
La
prima domanda da porsi è se questa accelerazione verso la bipolarizzazione dei
blocchi sia andata effettivamente a discapito dell’egemonia USA, sempre più schiacciata dalle
iniziative congiunte di Russia e Cina, miranti ormai da anni a uscire
dall’influenza finanziaria del blocco occidentale.
Le
sanzioni a danno della Russia dimostrano al mondo che le riserve valutarie in
dollari americani accumulate dalle banche centrali possono essere bloccate
sulla base di iniziative politiche unilaterali.
Questa situazione di fatto ha generato una
perdita di fiducia nel sistema a trazione americana basato sul dollaro:
il
peso di questa scelta, lungi dal giudicarne qui l’efficacia nelle sorti del
conflitto, rivoluziona in termini geopolitici, economici e finanziari le
relazioni fra blocchi di potere, e mette in crisi la gestione economica e
persino il ruolo internazionale del dollaro statunitense.
Animato
dalla necessità di porre un freno all’iniziativa di Putin, e costretto a
rinunciare a qualsiasi intervento diretto di tipo bellico, l’Occidente a guida
USA aveva attivato le sanzioni bloccando l’accesso della banca centrale russa
alla maggior parte delle sue riserve estere, ravvivando però la rilevanza tra
le più grandi nazioni del mondo della domanda non nuova ma fondamentale:
“quanto
è alto il rischio?”.
In
questa situazione geopolitica, infatti, accumulare attività estere è ormai
considerato potenzialmente pericoloso:
i due
blocchi militari ed economici, occidentale da un lato ed euroasiatico
dall’altro, sembrano destinati ad allontanarsi sempre più l’uno dall’altro, con
il rischio non improbabile di non comunicare tra loro, o almeno in modo non
ufficiale.
Dopo
che Mosca aveva attaccato l’Ucraina, gli Stati Uniti e i loro alleati per
ritorsione avevano bloccato l’accesso della banca centrale russa alla maggior
parte di miliardi di dollari di riserve estere.
Volendo
semplificare la portata di questa decisione, possiamo dire che gli USA avevano
deciso, unilateralmente, che tali riserve non valevano più nulla, diventando,
de facto, di “qualcun altro”.
E qui arriviamo al punto:
i
saldi in dollari americani diventavano palesemente voci di computer senza
valore e non garantivano più l’acquisto di beni essenziali, di conseguenza per
Mosca diventava logico smettere di accumularne.
Dal
punto di vista russo, meglio investire in ricchezza fisica come grano, barili
di petrolio e, naturalmente, metalli preziosi.
O
anche, con portata enorme sul piano geopolitico, investendo in attività
manifatturiere cinesi.
I
legami finanziari ed economici tra le due superpotenze si sono rafforzati, e
con un effetto a catena anche le nazioni non sanzionate ma appartenenti
all’area filorusso-cinese, o semplicemente neutrali, potrebbero voler
diversificare il proprio rischio, spingendo in una direzione del tutto
contraria alla globalizzazione, destinando il mondo a consolidare due blocchi
separati di potere tecnologico, monetario e militare.
Una
realtà impensabile anche solo fino a pochi mesi fa.
La
seconda domanda è se il consolidamento del rapporto tra Russia e Cina si andrà
sempre più rafforzando, specie attraverso accordi commerciali di grande
respiro, ciò metterà a rischio l’egemonia della valuta statunitense nel resto
del mondo?
La politica di Biden, sempre più vicino alle prossime
elezioni statunitensi, riuscirà a ricostruire la fiducia nella moneta verde
fondata su un’economia reale e in salute?
La
sensazione è che le decisioni riguardanti le sanzioni alla Russia abbiano
tracciato un percorso di declino molto lento ma inesorabile che colpisce chi le
ha messe in atto, accentuando all’estero l’impressione di una Nazione (o
insieme di Nazioni) non più in grado di reagire efficacemente di fronte alla
crisi interna e alle spinte verso la de-dollarizzazione e la
de-globalizzazione.
Ciò
che sembra logico aspettarsi è la possibilità per Russia e Cina di creare un
sistema finanziario alternativo e competitivo.
In linea con l’Euroasiatismo di Aleksandr Dugin,
filosofo russo e figura controversa, convinto antioccidentalista e
antiglobalista, Putin si muove compiendo a pieno la volontà di fare della
Russia una civiltà a sé stante, e utilizza i mezzi finanziari ed economici per
arrivare al suo obiettivo.
Il
conflitto con l’Ucraina è solo una prima fase strategica di un progetto
epocale. Se
i piani russi andranno in porto, globalizzazione, atlantismo e great reset rischieranno di essere, a medio
termine, parole prive di senso almeno per metà del nostro mondo.
Un
fatto è certo:
nel tentativo di fermare Putin, l’Occidente ha
dato il via allo sganciamento della Russia dal mondo europeo.
Cercando e generando soluzioni alternative in
materia di valute monetarie, beni essenziali, energia, oro e criptovalute, la
Russia, spinta dalle sanzioni occidentali, si agganciava all’area asiatica
(India compresa), e rilanciava in chiave totalmente indipendente e pienamente
sovrana, affermando il diritto di pagare i debiti ai creditori di paesi che
commettono «azioni ostili» in rubli.
Il
2022 si era rivelato come un anno di svolta per il rafforzamento delle
relazioni bilaterali tra Cina e Russia sul piano commerciale e finanziario,
fenomeno già avviato a seguito della crisi della Crimea nel 2014.
La Borsa di Mosca, che mantiene fondi per conto delle
banche del Paese e dei loro clienti, aveva visto esplodere la sua dotazione di
riserve estere, che per paura di imminenti sanzioni venivano convertite in
massa da dollari ed euro, incassati grazie alle esportazioni in crescita, in yuan, che viene utilizzato sempre
di più in Russia tra imprese, investitori e correntisti come riserva di valore,
mezzo di pagamento a discapito del dollaro.
Nell’ottica
dell’obiettivo della de-dollarizzazione, a inizio settembre 2022 Gazprom aveva
annunciato di aver siglato un accordo con la “China National Petroleum
Corporation” per iniziare ad effettuare i pagamenti relativi alle forniture di
gas per un 50% in rubli e l’altro 50% in yuan.
Un
numero sempre più elevato di banche russe sta offrendo ai propri clienti
l’opzione di aprire conti in valuta cinese.
Il
fatto che gli interessi maturati su questi depositi siano in alcuni casi
inferiori a quelli pagati in Cina testimonia l’abbondanza della valuta cinese
nelle tasche dei privati in Russia.
L’esclusione
del dollaro dal sistema finanziario russo ha giocato a favore di un
rafforzamento della moneta cinese come alternativa valutaria, evidenziandone lo
spiccato ruolo politico in una situazione in divenire nell’ambito dei precari
equilibri mondiali, per i quali la de-dollarizzazione rappresenta sicuramente
l’obiettivo e il punto di svolta.
(Katia
Migliore)
(wallstreetitalia.com/e-guerra-la-russia-e-pronta-da-anni-anche-economicamente-noi-no/)
FALSE
FLAG E TEORIE DEL COMPLOTTO.
LE
TEORIE DEL COMPLOTTO.
Comedonchisciotte.org
– Larry Romanoff – bluemoonofshanghai - Markus – (10 Novembre 2023) – Redazione
– ci dicono:
“Teoria del complotto” è il nome dato
alle percezioni o alle convinzioni del pubblico che, su un particolare evento,
differiscono dalla storia ufficiale (di solito governativa), evento di cui una
parte significativa del pubblico ritiene che il governo stia nascondendo una
parte o tutta la verità.
Le
teorie del complotto sorgono generalmente quando sono giustificate, ovvero
quando la storia ufficiale non è supportata dai fatti ed è spesso piena di
incongruenze, quando i fatti presentati vanno dall’implausibile
all’impossibile, quando la storia cambia ripetutamente, quando la logica è
difettosa e i pezzi non si incastrano.
Così,
quando i fatti non tornano, quando la storia non ha senso, crediamo che ci
stiano mentendo ancora una volta. E probabilmente è così.
Il
termine “teoria del complotto” era nato decenni fa come parte di un piano
deliberato per screditare i membri del pubblico che mettevano in dubbio la
versione ufficiale degli eventi, coloro che rendevano pubblici i loro sospetti
sulle attività criminali del governo.
Il piano consisteva nel richiedere
l’assistenza dei principali mezzi di comunicazione per applicare l’etichetta di
“teorico della cospirazione” a questi individui come modo per metterli a tacere
e scoraggiare un’attenzione razionale alle loro affermazioni.
Il processo era decisamente sgradevole ed
efficace, poiché gli attacchi pubblici dei media insinuavano che questi
individui erano mentalmente squilibrati e deliranti, e la deprecabile
attenzione pubblica era spesso sufficiente a rovinare una reputazione e
distruggere una carriera.
Oggi
l’espressione è spesso usata per liquidare come un pazzo qualcuno le cui idee
non sono degne di attenzione ma, come ha scritto “Mike Adams,” “è una tattica frequentemente usata
dalla moderna polizia del pensiero nel disperato tentativo di chiedere ‘Non
andare lì!’”.
In
Occidente ne abbiamo visto molto durante l’incubo COVID, soprattutto nei Paesi
di lingua inglese, dove molti medici e scienziati altamente qualificati erano
stati minacciati o avevano perso la licenza di esercitare la professione, il
tutto sostenuto con forza dai mass media.
Oggi,
infatti, i media occidentali sono specializzati nell’attaccare e calunniare le
persone che criticano le versioni ufficiali degli eventi o che tentano di
correggere i resoconti storici palesemente errati o di riempire alcune delle
pagine vuote dei nostri libri di storia.
Nei
Paesi occidentali, nonostante l’incessante sostegno sciovinista ai miti della
libertà di parola e del pensiero indipendente, questa indipendenza è fortemente
limitata quando si tratta di sfidare la versione ufficiale del governo su
qualsiasi evento.
Inoltre, qualsiasi fonte che tenti di
documentare le prove dei fatti contro una storia discutibile o che offra
confutazioni fattuali delle storie ufficiali, viene generalmente derisa dai
media e liquidata come un “sito web di cospirazione”, scoraggiando senza dubbio
molti lettori ben intenzionati dal conoscere la verità di un evento.
Ma
queste teorie sono raramente opera di pazzi folli o di ingenui senza speranza.
Il più delle volte, coloro che promuovono
queste obiezioni sono sostenuti da una parte dell’opinione pubblica, spesso
istruita e ben informata, che ha una formazione specializzata o che ha fatto
parte dell’establishment ed è in grado di valutare le circostanze.
Le
teorie del complotto sorgono più spesso nei Paesi di fatto politicamente di
destra come gli Stati Uniti, il Regno Unito e Israele, perché questi governi
dicono bugie più grandi molto più spesso di altri governi e perché è quasi
esclusivamente questo gruppo a condurre le operazioni false-flag che danno
origine a queste accuse.
In
vari momenti, [questi Paesi] commettono ogni sorta di attività deleteria o
illegale e, se smascherati, rivendicano la “negabilità plausibile”, si
impegnano in tentativi di insabbiamento, diffondono disinformazione e attaccano
in modo personale i loro accusatori.
La
verità viene ammessa solo quando è finalmente impossibile evitarla.
Le
teorie cospiratorie possono peggiorare le sensazioni di ansia.
Ci
sono stati molti eventi di questo tipo in cui la spiegazione ufficiale era
insensata o evitava di affrontare evidenti carenze e anomalie.
Dato
il loro sordido passato e l’ampio coinvolgimento dimostrato in atti illegali
clandestini, non è difficile ammettere la possibilità molto concreta che questi
governi o militari stiano mentendo ancora una volta.
Perché non dovremmo essere sospettosi?
Queste
teorie sorgono quasi invariabilmente nelle nazioni “occidentali-alleate”.
Poche
altre popolazioni hanno avuto motivo di sospettare così profondamente il
coinvolgimento dei loro governi o delle loro agenzie di spionaggio in gravi
crimini o atrocità, e ci sono pochi esempi di questo tipo in tutto il mondo che
non coinvolgano gli Stati Uniti o Israele.
Già
questo dovrebbe far riflettere.
Nel
corso degli anni, molti eventi accaduti in queste nazioni, o che le hanno
coinvolte, avevano fatto nascere nell’opinione pubblica la convinzione di
un’attività criminale sponsorizzata dallo Stato, che era stata vigorosamente –
e spesso ferocemente – denunciata all’epoca, per poi dimostrarsi vera molti
decenni dopo, quando i documenti erano stati declassificati.
In genere, la verità emerge solo dopo 60 o 70
anni, spesso dopo che i responsabili sono morti da tempo e troppo tardi per
avere un effetto sugli eventi attuali.
Tali
eventi includono l’affondamento della USS Maine nel porto dell’Avana,
l’affondamento del Lusitania, l’attacco a Pearl Harbor, l’incidente del Golfo
del Tonchino, l’abbandono dei prigionieri di guerra statunitensi in Vietnam e
l’assassinio di Martin Luther King.
In genere, l’establishment statunitense – il governo e
le sue varie agenzie e i media mainstream – fa quadrato e organizza campagne di
pubbliche relazioni estese e feroci per screditare chi si rifiuta di accettare
la narrazione ufficiale di un evento importante e, cosa ancora più
significativa, per avvertire gli altri di “non andare lì”.
Le
persone vengono derise, molestate, minacciate, ignorate, rese disoccupate e
spesso inoccupabili, la loro documentazione viene trascurata dai media e i loro
sforzi per scoprire la verità vengono ostacolati ad ogni passo.
I
governi degli Stati Uniti, del Regno Unito e di Israele, per più di un secolo
hanno perpetrato e poi coperto una moltitudine di atrocità, eseguito
innumerevoli crimini spregevoli e poi mentito su di essi solo per far scoprire
la verità in seguito, ma continuano a seguire questo schema anche oggi, e il
pubblico in generale appare disinformato e credulone come sempre.
Pochi
eventi importanti nella storia recente degli Stati Uniti hanno generato un
dibattito pubblico così eccezionale e diffuso e accuse di coinvolgimento dello
Stato in crimini come l’assassinio di John F. Kennedy e gli attacchi dell’11
settembre al World Trade Center.
In
entrambi i casi, le grida di incredulità dell’opinione pubblica nei confronti
della narrazione ufficiale hanno infine portato all’istituzione di un’inchiesta
pubblica del Congresso, ma in entrambi i casi l’inchiesta stessa era talmente
infarcita di falsità e incongruenze che, invece di mettere a tacere la
questione nella mente dell’opinione pubblica, ha creato ancora più accuse di
cospirazione e insabbiamento da parte del governo.
Un’altra è stata la storia più recente, e
davvero comica, della cattura e dell’uccisione di “Osama bin Laden”, un uomo
che era già morto da più di dieci anni.
Raramente
una storia era stata infarcita di tante incongruenze e di “fatti” palesemente
falsi, e messa in ridicolo dall’opinione pubblica come questa, ma ce ne sono
molte altre.
Mi
occuperò di alcune di queste in seguito.
Bilderberg
2023 a Lisbona: Kissinger e la segretezza.
Fonte.
Ci
sono molte decine di situazioni o eventi storici che sono stati liquidati per
decenni come teorie del complotto, prodotti di menti disturbate e di
immaginazioni troppo produttive, e che, alla fine, si sono rivelati veri.
Un
esempio evidente è il Gruppo Bilderberg e la sua pianificazione di un “Nuovo
Ordine Mondiale”, affermazioni che fin dagli anni ’50 sono state ferocemente
negate dall’establishment.
Molte
carriere sono state rovinate dal rifiuto di accettare le storie ufficiali; gli
editorialisti che osavano scriverne perdevano talvolta il lavoro.
Poi, 50 anni dopo, e dopo l’esposizione di
prove inconfutabili, è stato dimostrato che il gruppo Bilderberg esiste e i suoi piani per un governo mondiale
controllato dai banchieri ebrei non vengono più negati.
Alla fine sono usciti allo scoperto, con
l’indimenticabile ammissione di David Rockefeller:
“Siamo
grati al Washington Post, al New York Times, alla rivista Time e ad altre
grandi testate i cui direttori hanno partecipato alle nostre riunioni e
rispettato le promesse di discrezione per quasi quarant’anni.
Sarebbe stato impossibile per noi sviluppare
il nostro piano per il mondo se in quegli anni fossimo stati sottoposti alle
luci della ribalta pubblica.
Ma il mondo è ora più sofisticato e pienamente
preparato a marciare verso il nostro unico governo mondiale.
La
sovranità sovranazionale delle nostre élite intellettuali e dei banchieri
mondiali è sicuramente preferibile per il mondo intero“.
Rockefeller
aveva anche affermato che il suo gruppo aveva bisogno di un ultimo drammatico
impulso,
“un
altro evento tipo Pearl Harbor“, per portare sul trono questo “Nuovo Governo
Mondiale”.
Secondo
gli stessi “teorici della cospirazione”, l’11 settembre doveva essere
quell’evento.
Dopo
l’ammissione pubblica di “Rockefeller” dell’esistenza di questo piano, sono
emerse rapidamente molte altre prove, come questa citazione tratta da un
discorso tenuto da “Montagu Norman”, all’epoca governatore della Banca Centrale d’Inghilterra di
proprietà ebraica Rothschild e rappresentante dei Rothschild.
“Norman “aveva detto in un discorso
all’”Associazione dei banchieri statunitensi” a New York, nel 1924:
“… le
ipoteche [devono essere] pignorate il più rapidamente possibile. Quando… la gente comune perderà la
propria casa, diventerà più docile e più facilmente governabile… da un potere centrale della
ricchezza sotto la guida di importanti finanzieri.
Queste
verità sono ben note ai nostri uomini di spicco, che ora sono impegnati a formare un
imperialismo per governare il mondo “.
Non è
possibile fraintendere le parole di quest’uomo;
stava
descrivendo, quasi 100 anni, fa i piani per il “Nuovo Ordine Mondiale” elaborati da quei banchieri che egli
rappresentava, piani volti a soggiogare le popolazioni impoverendole sempre più.
Le sue parole sono una descrizione precisa del
disastro immobiliare del 2008 negli Stati Uniti.
Dal
1941, molte persone, comprese alcune autorità, hanno presentato affermazioni
documentate secondo cui la Casa Bianca sapeva benissimo dell’imminente attacco
giapponese a Pearl Harbor, compresa la data e l’ora, e non ne aveva
deliberatamente informato le Hawaii perché Roosevelt aveva bisogno dell’attacco
per costringere gli Stati Uniti ad entrare nella guerra europea.
Finalmente
ora sono disponibili prove sufficienti per cui questa affermazione non può più
essere ragionevolmente contestata, anche se potrebbero passare ancora alcuni
decenni prima che la verità appaia nei libri di storia.
Lo stesso vale per il falso attacco del Golfo
del Tonchino che aveva dato agli Stati Uniti il pretesto per entrare nella
guerra del Vietnam e, ancora prima, per il falso attacco alla USS Maine nella
baia di Guantanamo a Cuba che aveva spinto gli Stati Uniti nella guerra
ispano-americana.
Gli
stessi teorici della cospirazione hanno ora finalmente dimostrato che gli Stati
Uniti avevano effettivamente abbandonato migliaia di prigionieri di guerra
americani in Vietnam per evitare l’ignominia di dover pagare le riparazioni di
guerra.
Se
n’era parlato per oltre 40 anni, con il governo che aveva sempre mantenuto il
silenzio e i mass media che avevano ripetutamente denigrato le testimonianze.
La
stessa situazione si era verificata con l’ingresso degli Stati Uniti nella
Prima Guerra Mondiale, con l’infame affondamento da parte della Germania del
Lusitania, una “innocente nave passeggeri” crudelmente affondata dai tedeschi
senza cuore.
Si era
subito saputo che il Lusitania non solo trasportava armi e munizioni, ma era
stato deliberatamente inviato nelle rotte battute dai sommergibili tedeschi e
istruito a navigare lentamente, senza zig-zag, per diventare un bersaglio
migliore.
Pochi
sanno che il governo tedesco aveva cercato di pubblicare avvertimenti su decine
di giornali statunitensi, per evitare vittime civili, e ancora meno sanno che
il governo britannico aveva a lungo cercato di localizzare e distruggere con
mine il relitto del Lusitania, in modo che la verità non venisse mai a galla.
Il governo britannico aveva organizzato diverse
“manovre in mare” nell’area in cui era affondato il Lusitania sganciando
migliaia di tonnellate di esplosivo, nella speranza di cancellare per sempre le
prove.
Ma molte delle bombe di profondità non erano
esplose e i tentativi erano falliti e, quando gli operatori addetti al recupero
avevano localizzato il Lusitania, avevano scoperto non solo le munizioni
inesplose, ma anche migliaia di tonnellate di armi e munizioni in cassette con le
scritte “burro” e “formaggio”, un carico che rendeva la nave un obiettivo
bellico legale.
In
seguito gli storici avevano scoperto documenti d’archivio riguardanti il cambio
di comandante, con istruzioni precise di attraversare le aree battute dai
sottomarini e di seguire una rotta rettilinea a velocità dimezzata, il tutto
per facilitare la scoperta e la distruzione della nave e fornire una scusa per
l’entrata in guerra degli Stati Uniti.
Ma,
ancora una volta, i cospiratori sono tutti morti, così come tutti i teorici
della cospirazione, e le pagine dei libri di storia sono ancora vuote.
Il “programma
Phoenix”, durato dal 1967 al 1972, era stato progettato per identificare ed
eliminare i Viet Cong (VC) tramite infiltrazione, assassinio, tortura, cattura,
antiterrorismo e interrogatori.
Fonte.
Per
decenni il governo degli Stati Uniti ha negato l’esistenza dei programmi “MK-ULTRA
della CIA”, ha negato che la “School of the Americas” fosse un’università
dittatoriale di tortura e repressione civile, ha negato l’esistenza del “Progetto
Phoenix”, in cui ben 250.000 vietnamiti erano stati torturati a morte, ha
negato i vasti programmi di tortura a Guantanamo Bay, Abu Ghraib e Baghram, la
cui esistenza è stata poi dimostrata da documenti trapelati.
Erano
stati i teorici della cospirazione a rendere di pubblico dominio i “Pentagon
Papers” che raccontavano le verità sulla guerra del Vietnam, e che avevano
provocato un’indignazione pubblica e un tale caos da rendere gli Stati Uniti
quasi ingovernabili.
Erano stati i teorici della cospirazione a
rivelare che Nixon aveva ordinato di sparare sugli studenti universitari che
protestavano con l’intento di ucciderli, come alla “Kent State University”, per
soffocare il movimento di protesta contro la guerra.
Erano stati i teorici della cospirazione a rivelare
che “Martin Luther King Jr.” era stato ucciso dal governo statunitense a causa
della minaccia che rappresentava. Erano stati i teorici della cospirazione a
sostenere che il” biologo della CIA” Frank Olson” era stato ucciso dal suo
governo per paura che rendesse pubblici gli orribili dettagli degli
“interrogatori terminali” della CIA e una litania di altri crimini e che, alla
fine, avevano fornito prove schiaccianti di quell’omicidio.
Ecco in foto “Kurt H. Debus”, ex scienziato del programma V-2
diventato in seguito direttore della NASA, tra il presidente degli Stati Uniti
John F. Kennedy e il vicepresidente Lyndon B. Johnson.
Fonte.
Il “Centers
for Disease Control” (CDC) degli Stati Uniti – il CDC che “salva le vite,
protegge le persone” – per decenni è risultato coinvolto principalmente nei
programmi di sperimentazione umana e di sviluppo di armi biologiche
dell’esercito americano, e tutti i “teorici della cospirazione” che ne
parlavano sono stati denunciati come mentalmente tarati.
Ma
poi, nel 1994, qualcuno aveva fatto trapelare una serie di documenti di
spedizione e fatture che dimostravano che il CDC aveva fornito a molte nazioni
un’ampia gamma di materiali per armi biologiche, tra cui l’antrace, la tossina botulinica, il
virus del Nilo occidentale, la peste bubbonica e la febbre dengue e, di colpo, il CDC non aveva più
potuto negarlo.
Altri
“teorici della cospirazione” sostengono che il” CDC sia sempre stato
un’organizzazione criminale”, essendo stato inizialmente composto, nell’ambito dell’Operazione Paperclip, da scienziati provenienti dall’Unità 731 giapponese e dai
programmi tedeschi per le armi biologiche.
Prigionieri
cinesi, guerra di Corea.
Se non
fosse stato per la partecipazione dei cinesi, gli americani e i loro alleati
avrebbero conquistato l’intera penisola e minacciato direttamente la Cina.
Il loro sacrificio ha invertito la tendenza
imperialista.
Fonte.
Il
governo statunitense ha negato per 60 anni che l’”Operazione Paperclip” sia mai
esistita.
Poi,
di fronte a prove schiaccianti, è stato finalmente costretto ad ammettere che,
dopo la Seconda Guerra Mondiale, migliaia di americani ed Ebrei avevano saccheggiato la
Germania del suo patrimonio di proprietà intellettuale e brevetti, rubando
letteralmente tutto.
Gli
americani avevano anche negato con fermezza l’esistenza della seconda fase dell’Operazione Paperclip, in cui gli Stati Uniti avevano
importato migliaia dei più efferati criminali di guerra, soprattutto dal
Giappone, ma anche dalla Germania, esperti in sperimentazione umana e guerra
biologica, dando loro totale immunità dai procedimenti giudiziari, nuove identità
e buoni posti di lavoro in luoghi come Fort Detrick e il CDC.
Avevano
anche ammesso di aver mentito accusando la Russia di “propaganda comunista”
quando l’URSS aveva perseguito alcuni di questi giapponesi per crimini di
guerra.
Il
governo degli Stati Uniti continua tuttora a negare il suo vasto programma di
guerra biologica contro la Corea del Nord e la Cina, nonostante le prove ormai
schiaccianti della diffusione di agenti patogeni biologici sia in Cina che in
Corea del Nord durante la guerra di Corea.
In
tutti i casi, non solo il governo ha negato, offuscato e mentito fino alla
fine, ma ha fatto tutto ciò che era in suo potere per screditare, mandare in
bancarotta, imprigionare o uccidere coloro che si avvicinavano troppo alla
verità, e tutto ciò con l’avida collaborazione dei mass media.
Tuttavia,
in molti di questi casi, la persistenza ha prevalso e la verità è emersa.
Va
notato che una parte importante di ciò che qualifica questi eventi come “cospirazioni” è che, di solito, vi sono coinvolti
molti individui e agenzie, e le narrative ufficiali vengono sostenute
vigorosamente dai proprietari e dagli editori degli organi di informazione.
Questa
è la definizione classica di cospirazione.
Va inoltre notato che gli eventi “false flag” e le “teorie
del complotto” sono quasi inscindibili, poiché spesso sono proprio gli
eventi false flag a portare alla formazione di queste teorie alternative degli
eventi.
Come e
perché nascono le teorie del complotto?
Quasi
sempre sorgono quando la “storia ufficiale” è palesemente falsa e non ha alcun
senso razionale.
Abbiamo
immediatamente la netta sensazione che ci stiano mentendo e che stiano cercando
di coprire qualcosa di nefasto.
Vediamo due esempi:
il
virus ZIKA e la conquista della Luna da parte delle missioni Apollo.
ZIKA.
Il
virus ZIKA ha viaggiato magicamente (con una zanzara) per 15.000 chilometri
dall’Africa fino al laboratorio biologico della Marina degli Stati Uniti,
NAMRU-2, poi ha viaggiato di nuovo magicamente per altri 12.000 o 15.000
chilometri, attraversando gran parte dell’Oceano Pacifico, gli Stati Uniti e il
Messico, tutta l’America Centrale e i Caraibi, e infine attraversando tutto il
Sud America per atterrare sul lato atlantico, a Rio e San Paolo.
Da lì,
si è irradiato quasi istantaneamente per 4.000 o 5.000 chilometri in tutte le
direzioni, coprendo la maggior parte del Brasile, per poi diffondersi in tutta l’America
meridionale e centrale e nei Caraibi, arrivando in più di 20 Paesi nel giro di
pochi mesi.
L’OMS (corrotta sino al midollo! N.D.R.) ritiene che il virus ZIKA sia stato “portato
in Brasile da un visitatore infetto della Coppa del Mondo”.
Ma
pensiamoci un attimo.
La ZIKA non è una malattia contagiosa.
Può
essere diffusa solo quando si viene punti da una zanzara infetta.
Per causare questa epidemia, il nostro
viaggiatore infetto dovrebbe essere punto da milioni di zanzare locali – che
poi (forse) si infetterebbero e che poi (forse) pungerebbero decine di milioni
di altre persone, e (forse) le infetterebbero.
Ma
come funziona esattamente?
Le
zanzare non migrano, non possono.
Possono
essere disperse un po’ dai venti locali, ma questi insetti vivono solo pochi
giorni e trascorrono la loro vita entro un chilometro dal luogo in cui sono
nati.
Come
avrebbero fatto gli immaginari milioni di zanzare che avevano punto il nostro
turista della Coppa del Mondo a coprire tutto il Sud e il Centro America?
Queste piccole zanzare hanno volato per 5.000 chilometri a 30.000 piedi per
attraversare le Ande?
Se
davvero ci sono tutte queste zanzare, come hanno fatto a coprire 20 Paesi e
milioni di chilometri quadrati in così poco tempo?
E
hanno una vita molto breve: quando una zanzara infetta muore, è la fine.
Anche quegli ipotetici milioni di zanzare
appena infettate sarebbero tutte morte in una settimana.
Non avrebbero avuto il tempo di attraversare
le Ande o di arrivare in 20 Paesi. Non avrebbero avuto nemmeno il tempo di
uscire dalla città, prima di morire.
Basta
riflettere un attimo per rendersi conto che questa affermazione è ridicole e
impossibile.
L’origine dell’epidemia di ZIKA è stata
liquidata con un’unica frase incauta: “si ritiene che sia stata portata
in Brasile da un visitatore infetto della Coppa del Mondo”, un’affermazione buttata lì senza
alcun supporto probatorio, che appare superficialmente credibile ma che costituisce un’assurdità logica.
Riflettiamo
un attimo sul presunto (e sicuramente immaginario) visitatore infetto che era
andato a vedere la Coppa del Mondo e consideriamo la diffusione
sorprendentemente rapida dell’infezione.
Il
racconto ufficiale è che il virus è arrivato in Brasile dalla Polinesia
francese, ma quante persone, infette o meno, della minuscola popolazione della
Polinesia francese potrebbero andare fino in Brasile solo per vedere qualche
partita di calcio?
Due? Dieci?
Allora
come hanno fatto le zanzare brasiliane, non infette, a trovare quelle poche
persone polinesiane infette, a pungerle e a infettarsi a loro volta, per poi
diffondere l’infezione ad altre decine di milioni di insetti in pochi mesi, in
modo da pungere e infettare decine o centinaia di milioni di persone in tutta
l’America Latina?
Il volume dell’epidemia e la sua diffusione
praticamente istantanea escludono la possibilità che l’infezione abbia avuto
origine da un viaggiatore straniero.
Una
zanzara che punge una persona non costituisce un’epidemia.
Se
vogliamo avere una “diffusione esplosiva” di un virus trasmesso dalle zanzare
come lo ZIKA, che ha infettato milioni di persone in pochissimo tempo, abbiamo
bisogno di almeno decine di milioni di zanzare, ma più ragionevolmente di
centinaia di milioni.
Questo
è particolarmente vero quando le zanzare dovrebbero infettare le enormi aree
terrestri del Sud e del Centro America, dovendo anche attraversare enormi aree
spopolate.
Non
tutte le zanzare sono infette, non tutte le zanzare infette troveranno qualcuno
da pungere, non tutti saranno morsi e non tutti saranno infettati.
E la
vita di una zanzara è davvero molto breve, circa dieci giorni.
Con
solo una manciata di persone infette, un’epidemia così diffusa è impossibile
con questo metodo di trasmissione.
Il
numero di viaggiatori è statisticamente insignificante, quindi anche se tutti
fossero stati punti molte volte da insetti diversi, la totalità di questi
insetti non avrebbe potuto a sua volta mordere e infettare milioni di persone
in 20 Paesi nel giro di pochi mesi, soprattutto Paesi distanti molte migliaia
di chilometri, considerando che le zanzare non viaggiano.
E se una persona si è recata a Rio o a San
Paolo per una partita di calcio, come si spiega l’esplosione della malattia in
una dozzina di altre città del Brasile, più o meno nello stesso periodo?
Come
si spiega la diffusione della malattia in Colombia e in una dozzina di altri
Paesi vicini, e a 8.000 km di distanza in Messico e a Porto Rico, poco dopo?
Anche se i viaggiatori infetti dal Brasile
andassero in Messico, quanti verrebbero punti da zanzare locali in grado di
trasmettere il virus?
Statisticamente zero, o giù di lì.
Milioni
di zanzare non possono pungere gli stessi dieci viaggiatori, infettarsi, poi
pungere milioni di altre persone e causare un’epidemia.
Non c’è bisogno di essere uno statistico per
sapere che non è possibile.
Se
milioni di persone sono state infettate, devono esserci state almeno molte
decine di milioni di zanzare infette nell’area.
Quindi,
la domanda più importante di tutta questa saga è:
come
hanno fatto almeno decine, e più probabilmente centinaia, di milioni di insetti
a infettarsi?
Il virus non esisteva in Brasile. Le zanzare
autoctone non erano infette dallo ZIKA e avrebbero potuto infettarsi solo
pungendo milioni di persone infette, oppure avrebbero potuto essere il
risultato di milioni di accoppiamenti con insetti infetti, ma da dove sarebbero
venuti?
Pochi
viaggiatori infetti non possono spiegare un’epidemia geografica così massiccia
nel giro di poche settimane, il che significa che un gran numero di zanzare
infette deve essere stato introdotto in quei luoghi.
Non c’è altra spiegazione possibile.
E la “Oxitec”
aveva disperso i suoi insetti geneticamente modificati nel tentativo di
controllare la popolazione di insetti.
Zanzara
Oxitec:
Le
zanzare di Oxitec potrebbero ridurre le popolazioni locali.
Nel
2015, l’azienda aveva pubblicato un documento in cui dimostrava che il rilascio
di zanzare geneticamente modificate nello stato brasiliano di Bahia riduceva le
Aedes aegypti selvatiche di ben il 90 percento, tanto da prevenire le epidemie
di dengue.
Fonte.
Secondo
la dichiarazione ufficiale dell’OMS, la ZIKA si sarebbe diffusa così
rapidamente per due motivi:
uno, perché si trattava di una malattia nuova
per la regione e quindi la popolazione non aveva alcuna immunità, e due, perché
la ZIKA è trasmessa principalmente da una specie di zanzara nota come “A.
aegypti”, che vive in tutti i Paesi del Nord e del Sud America tranne in Canada
e in Cile.
Queste
affermazioni sono deliberatamente fuorvianti e imperdonabilmente disoneste per
ciò che non dicono.
La parte relativa alla mancanza di immunità è
vera, ma questa mancanza esiste solo perché, come ha sottolineato la stessa
OMS, la ZIKA è una malattia nuova per la regione, cioè non esisteva in Brasile
o nell’America centro-meridionale prima d’ora.
L’OMS
ci dice che la malattia si è diffusa così rapidamente perché è trasmessa da una
specie di zanzara che esiste localmente, ma allora?
Le zanzare domestiche non erano mai state
infettate e quindi non potevano essere responsabili della diffusione del virus.
Il
fatto che la specie di zanzara fosse la stessa era una disinformazione
irrilevante.
È
ovvio per qualsiasi persona pensante che l’intera storia inventata dall’OMS, e
così pesantemente sbandierata dai media, è semplicemente una grande menzogna, quindi non è una sorpresa che la
gente in tutti i Paesi stia speculando sulla verità dietro questa favola.
La
faccia nascosta della Luna.
È in
questo luogo dove, nel 1969, Neil Armstrong avrebbe fatto il suo “piccolo passo
per l’uomo, ma un gigantesco balzo per tutta l’umanità”.
Fonte.
Non
avevo intenzione di includere questo argomento nel mio elenco di false flag, ma
ci sono alcuni dettagli sull’allunaggio originale dell’Apollo che sono davvero
fastidiosi e meritano di essere discussi.
Per i
lettori che non ne fossero al corrente, ci sono state continue speculazioni sul
fatto che l’allunaggio dell’Apollo 11 del 20 luglio 1969 non sia mai avvenuto e
che le foto della NASA dell’evento siano false.
Molte
delle foto sembrano effettivamente avere dei problemi, uno dei quali è
rappresentato da ombre che inspiegabilmente si diramano in diverse direzioni,
anche se la luna ha una sola fonte di luce principale e tutte le ombre
dovrebbero essere parallele.
Le
ombre multiple possono essere create solo da potenti fonti di luce multiple.
Ci sono molte foto in cui l’intera area
circostante è immersa in un’oscurità nera, ma la bandiera americana e le parole
“Stati Uniti” sono sempre illuminate.
C’è la bandiera americana che sventola nella
brezza – su una luna che non ha aria, né atmosfera, né vento.
E
tutte le foto sono perfettamente a fuoco ed esposte, anche se avrebbero dovuto
essere state scattate da macchine fotografiche che non avevano meccanismi di
regolazione per il tempo di esposizione e nemmeno per la messa a fuoco e, dal
momento che le macchine fotografiche erano montate permanentemente sulle tute
spaziali, non c’era modo di sapere cosa si stesse effettivamente inquadrando. In altre parole, impossibili da
realizzare al di fuori di uno studio.
Forse
le critiche e l’incredulità più pronunciate sono state generate dalle foto del
modulo lunare posato sulla superficie lunare.
I due problemi principali erano che
(1)
non c’era stato alcun riscaldamento del sito di atterraggio e
(2) la
polvere della superficie sotto il lander lunare era completamente intatta.
Il primo problema era che il calore intenso
dei razzi di atterraggio avrebbe bruciato il sito di atterraggio fino a farlo
diventare nero come l’asso di picche, ma non c’era alcuna traccia di calore
sotto il lander lunare.
La
sabbia e la polvere avevano il loro colore normale.
Il
secondo problema è che l’alta velocità dello scarico dei razzi avrebbe spazzato
via qualsiasi polvere o sabbia inconsistente, probabilmente fuori dall’orbita
lunare e forse fino a Marte, ma gli strati di suolo e polvere sotto il lander
lunare [nelle foto] sono chiaramente indisturbati.
Entrambi
i casi sono fisicamente impossibili nell’atterraggio reale di un razzo.
Esaminate
la prima foto per vedere la totale assenza di prove di qualsiasi disturbo sulla
superficie sotto il lander lunare.
Questa foto, e molte altre simili, erano state
pubblicate non appena erano iniziati i sospetti e le contestazioni.
E, per 45 anni, la NASA ha difeso queste foto,
spiegando stupidamente che i razzi di atterraggio non soffiano via la polvere
della superficie e i loro getti di gas non bruciano la superficie di
atterraggio.
E se
la NASA si fosse fermata lì, avrei lasciato perdere questo argomento.
Ma,
nel 2011, la NASA aveva pubblicato una nuova serie di foto con l’intento
dichiarato di “mettere a tacere per sempre” l’incredulità sullo sbarco sulla
Luna. Ma, così facendo, ha peggiorato le cose.
Le
foto diffuse dalla NASA sono apparentemente scattate dall’orbiter lunare e
pretendono di mostrare i lander lunari che riposano sulla superficie della luna
– una prova che l’uomo sarebbe davvero sbarcato sulla Luna.
Ma guardate la seconda foto, una delle foto
ufficiali della NASA di questa serie, che mostra i siti di atterraggio
dell’Apollo e del Challenger.
Nelle
foto, il sito di atterraggio è l’area nera; la chiazza bianca al centro è il
lander lunare posato sulla superficie lunare.
Si
noti che l’intero sito di atterraggio è nero come l’asso di picche, come ci
saremmo aspettati da sempre.
Che
cosa sta succedendo qui?
Per 45
anni la NASA ha difeso le sue foto originali per convincerci che i lander
lunari non anneriscono il sito di atterraggio.
Poi,
come prova, ci offrono foto di siti di atterraggio anneriti.
Sembrerebbe
che, da qualche parte, qualcuno stia mentendo.
Questo,
unito agli altri evidenti problemi di illuminazione, di ombre, di “brezza”, ha
naturalmente portato molte persone alla convinzione che la NASA stesse
ovviamente mentendo sulle foto, e che quindi stesse coprendo – cosa?
La conclusione più comune era che, poiché le
foto erano state ovviamente scattate da professionisti in studio e quindi erano
false, gli sbarchi sulla Luna forse o probabilmente non sono mai avvenuti.
A
peggiorare le cose, è documentato che la moglie di “Stanley Kubrick”, l’uomo
che aveva realizzato “2001 – Odissea nello spazio”, prima di morire, aveva
confidato a diversi media che suo marito era stato incaricato dalla NASA di
produrre scene fotografiche realistiche di allunaggi e astronauti sulla Luna.
Sono
quindi le foto di Kubrick quelle pubblicate dalla NASA?
È
difficile capire cosa pensare, ma l’unica teoria che sembra adattarsi ai fatti
è che gli sbarchi sulla Luna potrebbero essere stati reali, ma le foto
originali della missione Apollo erano falsi propagandistici realizzati in
studio.
È possibile che le autorità, desiderose di
ottenere il sostegno del pubblico nella loro corsa allo spazio con l’URSS, non
potessero permettersi un costoso fallimento nelle pubbliche relazioni, e quindi
si siano rivolti a Kubrick per delle foto simulate.
Come
epilogo di questo articolo, vale la pena notare che il satellite lunare cinese
ha fotografato ogni metro quadrato della superficie lunare.
Le
bandiere e gli altri oggetti lasciati sulla Luna dopo gli sbarchi delle
missioni Apollo avrebbero dovuto essere visibili nelle foto scattate dal
satellite cinese.
Ma non abbiamo una parola su questo, e vedo
solo due possibilità.
Uno: gli oggetti appaiono nelle foto, ma
la Cina non si è preoccupata di rilasciarle per non dare un credito extra agli
americani.
Oppure,
due, sulla
Luna non c’erano oggetti che apparissero nelle foto – il che significa che gli
sbarchi non sono mai avvenuti – ma i cinesi hanno deciso di ignorare l’argomento e
permettere agli americani di salvare la faccia.
Mi
piacerebbe conoscere la risposta corretta a questa domanda.
Ecco
perché nascono le “teorie del complotto”.
(Larry
Romanoff) - (bluemoonofshanghai)
(bluemoonofshanghai.com/politics/14028/)
EURO
DIGITALE:
DOBBIAMO
PREOCCUPARCI?
Comedonchisciotte.org
- Redazione CDC – (11 Novembre 2023) – Massimo Russo – ci dice:
Euro
Digitale: dobbiamo preoccuparci?
Riteniamo
interessante e per questo pubblichiamo l’articolo che segue, dove vengono
presentati alcuni degli aspetti tecnici del progetto” Euro Digitale”, a tutti gli effetti “una valuta digitale di
Banca Centrale” (CBDC).
Parliamo
di un nuovo mezzo di pagamento a corso legale, nato apparentemente per
contrapporsi alle criptovalute, veri e propri strumenti finanziari ad alto
rischio per la loro estrema volatilità, in quanto derivano da una emissione “out of thin air” a carattere privato, senza la
presenza di alcun sottostante né di garanzie reali.
Cosa
bolle davvero in pentola a Francoforte, cosa sarà l’Euro Digitale?
Buona
lettura.
Euro
Digitale: dobbiamo preoccuparci?
“Massimo
Russo”,
In
questi ultimi mesi, si fa un gran parlare di Euro digitale, ossia di quello
che, nella mente dei nostri burocrati europei, dovrebbe diventare il fratellino
digitale della moneta contante.
Dal
momento che noi tutti già usiamo la nostra bella carta di credito o di debito
per fare i nostri pagamenti elettronici, la domanda che sorge naturale è:
ma
davvero se ne sentiva il bisogno?
Cerchiamo
quindi di fare ordine per capire di cosa si sta parlando, anche considerando
che la fase di preparazione di questa nuova piattaforma di pagamento è partita
il primo novembre scorso.
Cos’è
l’Euro digitale.
In
estrema sintesi, si tratta di una CBDC (Central Bank Digital Currency), ossia della forma digitale della moneta cartacea
emessa dalla BCE.
Si affianca quindi agli altri mezzi di
pagamento elettronici, con la differenza fondamentale che qui parliamo di una moneta elettronica emessa
direttamente dalla Banca Centrale Europea, moneta che per sua natura “è
un’attività” (dal momento della sua creazione! N.P.R.) per il sistema economico in
generale, senza
diventare la passività di nessuno (neppure per la BCE! N.D.R)
A
differenza della moneta elettronica emessa dalle banche commerciali che, all’atto dell’emissione per
esempio di un mutuo a un privato, contestualmente vede accendersi un correlativo
credito della banca verso chi ha avuto il prestito secondo il seguente schema:
(Quando
la Banca privata fa un prestito con denaro creato dal nulla ad un cliente,
entra per la banca un “Attivo”- su cui dovrebbe
pagare le imposte dovute allo Stato - ed
un Passivo del cliente per la restituzione del prestito ricevuto! N.D.R.)
Euro
Digitale: dobbiamo preoccuparci?
Come
si nota, il saldo di ricchezza finanziaria aggiuntiva risulta essere, con la
moneta emessa all’interno del sistema delle banche commerciali, uguale a 0 a
differenza di quella di BCE che effettivamente può creare nuova ricchezza
finanziaria, con l’emissione di moneta che va ad aggiungersi a quella in
circolo nel settore privato, grazie alla spesa pubblica dello stato.
Ma al
di là dell’aspetto finanziario della questione, cosa cambia a noi utenti dei
servizi di pagamento se anziché pagare con la carta di credito che sottrae
fondi dal conto corrente del pagatore per accreditarli su quello del venditore,
paghiamo con il futuro borsellino elettronico fornitoci dalla BCE?
Pochissimo
dal punto di vista operativo ma probabilmente tutto dal punto di vista
sostanziale.
Andiamo
quindi a capire quali sono le caratteristiche di questo futuro Euro Digitale e i
relativi potenziali vantaggi e svantaggi.
Caratteristiche
dell’Euro digitale.
Abbiamo
affermato sopra che l’Euro Digitale è una CBDC (Central Bank Digital Currency).
La
prima lettera dell’acronimo riporta al concetto di centralizzazione e già qui
capiamo una differenza con le criptovalute:
queste
hanno come caratteristica fondamentale quella di essere decentralizzate su
blockchain pubblica, ottenendo vantaggi sia in termini di sicurezza tecnica
(almeno con la potenza computazionale attuale) che di riservatezza.
La
centralizzazione perseguita da una Banca Centrale, fa invece perdere questi
vantaggi tecnici, favorendo il rischio di controllo totale sulle transazioni.
(Ma
attenzione, la Banca privata che crea denaro dal nulla per un prestito al
cliente dovrebbe -già da ora – registrare come attivo di bilancio l’importo di
moneta creata dal nulla e questo anche se il prestito viene fatto ormai con
l’Euro Digitale.
Questo
vuol dire che se la banca fa un prestito con l’euro digitale deve registrare
l’importo del prestito digitale effettuato come utile di impresa su cui dovrà
pagare le relative imposte allo stato di appartenenza! Ossia l’euro digitale BCE o l’euro creato dal nulla dalla banca privata
sono da registrare come Utile della banca privata dal momento che si
riferiscono ad un prestito effettuato dalla Banca privata! N.D.R.)
Sappiamo
che Fabio Panetta, dal primo novembre 2023 Governatore della Banca d’Italia
nonché già membro del Comitato esecutivo della Banca Centrale Europea, ha
assicurato sulla testa degli italiani tutti che nessuno si permetterà mai di
mettere il becco nelle transazioni digitali di noi cittadini, ma siccome la
testa è nostra, avere qualche rassicurazione tecnica sarebbe stato meglio.
Fabio
Panetta, nuovo governatore della Banca d’Italia in carica dal 1° novembre 2023,
arriva direttamente dal board della Bce.
Legato
al tema della riservatezza c’è quello della potenziale programmabilità di
questo Euro digitale.
Anche qui, i documenti assicurano che mai e
poi mai questa moneta digitale diventerà, pur essendolo possibile dal punto di
vista tecnico, programmabile. Quindi mai nessuno si permetterà di stabilire
limiti di spesa avendo riguardo al luogo, al quando, alla cosa e al
destinatario dei pagamenti.
Vabbè,
fidiamoci sulla parola che non ci bloccheranno l’acquisto di ulteriori litri di
carburante o ci lasceranno al freddo perché abbiamo raggiunto i nostri limiti
di CO2.
Certo
che, se manterranno la parola, non coglieranno uno dei potenziali vantaggi di
una CBDC che, nell’ambito degli scambi commerciali, potrebbe offrire dei
vantaggi sia in termini di maggiore velocità di vedersi accreditati i denari,
che di creazione di regole sottostanti alla transazione finanziaria che
potrebbero anticipare eventuali liti in giudizio civile.
Infatti,
se realizzata su architettura DLT (come la blockchain), la transazione in Euro
digitale potrebbe avere uno “smart contract” associato con una regola per cui
al verificarsi di una condizione, per esempio il ritiro della merce da parte
del corriere, fa scattare il pagamento.
Direi
quindi che, stante le dichiarazioni nei documenti ufficiali, nessun vantaggio
rispetto alla moneta elettronica bancaria che già usiamo ma potenziali
ulteriori rischi riguardo all’utilizzo del contante per quanto riguarda la
riservatezza sulle nostre abitudini.
Un’altra
caratteristica dell’Euro digitale è di essere, agli effetti giuridici,
esattamente la copia dematerializzata della moneta contante:
in linea teorica dovrebbe quindi, pur essendo
in formato elettronico, dare il vantaggio agli esercenti di riceverla
esattamente con lo stesso valore quantitativo del contante senza privazioni
dovute alle commissioni bancarie.
Per ora non è dato sapere se ciò sarà
effettivamente così, visto che nel “Digital Euro Package” si citano sibilline
remunerazioni per gli intermediari per non meglio specificati servizi a valore
aggiunto alla clientela:
il
diavolo sta nei dettagli e siccome questi dettagli ancora non li hanno
esplicitati, si sente puzza di zolfo.
D’altronde,
aspettarsi che la BCE disintermedi le banche sarebbe pura utopia, oltre che un
suicidio per molte banche che sicuramente avranno amici alla BCE stessa.
Un
vantaggio decantato nei documenti è l’inclusività, concetto con il quale
affermano che anche gli anziani e i disabili potranno effettuare pagamenti
digitali.
Sembra
quasi che siano convinti che attualmente questi concittadini siano esclusi per
un qualche bug delle piattaforme di pagamento o che saranno in grado di
semplificare rispetto a oggi con l’utilizzo del portafoglio digitale:
forse pensano a un chip sottocutaneo ma la
soluzione sarebbe la stessa già in uso oggi da parte di qualche tifoso della
tecnologia spinta.
In
realtà, l’unica vera inclusività che si può intravedere è che anche i soggetti
attualmente esclusi dal sistema bancario per i più disparati motivi, dovrebbero
poter usare l’euro digitale perché in caso contrario, sarebbe come dichiarare
che non è contante.
Riguardo
all’inclusività un altro vantaggio propinatoci è che con l’Euro digitale
potrebbero, in casi di crisi tipo Covid, accreditare direttamente sui
portafogli digitali dei cittadini europei gli Euro:
falso
vantaggio perché già oggi potrebbero accreditare denari sui nostri conti
correnti, anche a quei nostri concittadini che ora sono esclusi dal sistema
bancario facendo semplicemente una legge che non permetta di escluderli
totalmente, permettendogli le semplici operazioni di versamento, pagamento con
carta di debito e prelievo dagli ATM.
Ma
quanto è green l’Euro digitale.
Sappiamo
che mamma Ue, è molto sensibile al tema dell’ambiente è che è disposta a
qualsiasi sacrificio, nostro, per salvare il pianeta.
Peccato
che un’infrastruttura tecnologica in grado di supportare il numero di server,
con il relativo raffreddamento, necessari a un progetto di questo tipo
considerando anche le necessarie crittografie di sicurezza che su tale
struttura dovrebbero poggiarsi, sarà molto energivora.
Una
piattaforma per un servizio di questo tipo dovrà anche essere anche molto ben
ridondata, per cui mi sa che mamma UE dovrà mettersi l’animo in pace riguardo
alla CO2.
(Ma la
Co2 è più pesante dell’aria che respiriamo e quindi non può volare nell’alta
atmosfera per creare danni da gas serra quando non potrà mai raggiungere la
“famosa serra”!
Quindi
la BCE dovrebbe stare molto attenta a creare la “moneta Ue digitale” con fine
di “non far pagare alle banche private “l’imposta sugli utili derivati dall
‘uso attuale del denaro creato dal nulla per prestiti concessi alla clientela, pur
nel momento in cui la banca privata non ha soldi reali in cassa da poter prestare
ai clienti richiedenti! N.D.R)
Conclusioni.
A
dirla tutta, non sembra che l’Euro digitale porterà vantaggi sostanziali
rispetto al sistema attuale di piattaforme di pagamenti.
Come abbiamo visto, anche i vantaggi di
inclusività o sono falsi o superabili con delle semplici normative ad hoc che
si potrebbero legiferare in un paio di sedute tanto sono semplici.
Al
contrario, i rischi relativi alla privacy sono enormi e tutti affidati al buon
cuore dei governanti: la limitazione delle libertà personali è dietro l’angolo.
(Massimo
Russo).
(Massimo
Russo. Esperto di economia, Presidente dell’Associazione MMT Lombardia.)
IL
SEME DELLA VIOLENZA.
DAL
1948 ALL’ASCESA DI “HAMAS.”
Comedonchisciotte.org
– Domenico Moro - Redazione CDC – (11 Novembre 2023) – ci dice:
Le origini
del conflitto israelo-palestinese, pubblichiamo l’ultima puntata della serie
che analizza le radici storiche degli orrori che viviamo oggi.
Il
periodo che va dalla fine della guerra del 1948, definita dai sionisti prima
guerra di indipendenza e dai palestinesi “Nakba” (disastro), fino all’inizio
del XXI secolo è caratterizzato da un quadro di grande complessità e denso di
forti contraddizioni a livello sia regionale sia mondiale, che ha reso a
tutt’oggi la questione palestinese ancora senza soluzione.
La
fondazione del nuovo stato di Israele.
La
guerra del 1948 lasciò due questioni irrisolte.
La prima fu il riconoscimento internazionale
di Israele, che, sebbene riconosciuto dalla maggior parte dei Paesi (compresa
l’Urss), non ebbe il riconoscimento dei Paesi arabi limitrofi.
La seconda fu la questione della collocazione
dei profughi palestinesi, che si ritrovarono senza terra e senza Stato.
Lo
Stato sionista, comunque, beneficiò di alcuni vantaggi rispetto ai Paesi del
Terzo mondo che, alla fine del colonialismo, si resero indipendenti.
Mentre
questi ultimi dovevano adattare le istituzioni ereditate dalla potenza
colonialista o costruirle ex novo, Israele poteva contare su istituzioni
formatesi nel corso del mezzo secolo precedente.
Israele poteva beneficiare, inoltre,
dell’aiuto degli ebrei della diaspora, che fornivano sostegno politico ed
economico al nuovo Stato.
Si trattava di una sorta di assicurazione
economica di cui gli altri Paesi di recente costituzione erano privi.
Israele
si caratterizzò sin dall’inizio come uno Stato confessionale.
Infatti,
mentre impediva il rientro dei Palestinesi fuggiti durante la guerra del 1948,
sollecitava l’immigrazione degli ebrei provenienti da tutto il mondo.
Nel
1950 il parlamento israeliano votò la cosiddetta “Legge del ritorno”, il cui
primo articolo stabiliva:
“Tutti gli ebrei hanno diritto a immigrare nel
Paese”.
Del
resto, lo Stato sionista si appropriò del 94% delle proprietà dei palestinesi
fuoriusciti, assegnandole a ebrei israeliani.
L’omogeneità
etnico-religiosa di Israele fu raggiunta, oltre che con la pulizia etnica nei
confronti dei palestinesi, favorendo l’immigrazione degli ebrei della diaspora,
specie di quelli provenienti dai Paesi musulmani.
Ben 700mila immigrati fecero ingresso nei
primi quattro anni di esistenza di Israele e nei quindici anni successivi ne
arrivarono altri 700 mila.
Fra i
Paesi arabi gli arrivi maggiori di ebrei provenivano dal Marocco (165mila),
dall’Iraq (120mila) e dall’Egitto (80mila).
Comunità
ebraiche vecchie di secoli sparirono dall’oggi al domani, tanto che nel 2000
nell’intero mondo arabo rimanevano appena 5mila ebrei.
Gli
ebrei arabi lamentarono una certa discriminazione rispetto agli ebrei
provenienti dall’Europa, anche perché l’élite dirigente israeliana pensava di
dover “civilizzare” i correligionari arabi.
Col
tempo gli ebrei arabi sostennero un partito, il” Likud”, che raccoglieva quanti
si sentivano esclusi e nutrivano rancore verso l’élite del partito laburista,
che però mantenne il controllo delle istituzioni statali, continuando a
infoltire le proprie fila.
Le
istituzioni preesistenti alla proclamazione dello Stato di Israele subirono
delle modifiche.
Molte
funzioni svolte da organizzazioni private passarono sotto la responsabilità
dello Stato.
Ad
esempio, lo Stato continuò a consentire al sindacato, la “Histadrut”, di
provvedere ai servizi sociali, ma pretese che l’istruzione gli venisse ceduta.
Per
garantirsi il monopolio dell’uso della forza, fondamentale aspetto della
sovranità di uno Stato, il governo di “Ben Gurion” bombardò una nave che
trasportava armi per conto dell’”Irgun”, che si era rifiutato di consegnarle.
In quell’occasione furono uccisi 16 combattenti dell’”Irgun”,
ma il monopolio sulla violenza dello Stato non fu più messo in discussione.
Lo
Stato di Israele poté contare e conta tutt’ora sulla cosiddetta “rendita”, cioè
su risorse finanziarie extra rispetto alla normale tassazione applicata dallo
Stato sui suoi cittadini.
I
finanziamenti vengono sia dal mondo ebraico sia da altri Stati che aiutano
Israele.
Per facilitare i contributi provenienti da
privati, si sono resi deducibili dalle tasse i contributi degli ebrei
statunitensi all’”Agenzia ebraica” e al “Fondo nazionale ebraico”.
L’aiuto
di altri Stati verso Israele è cominciato molto presto.
Nel
1953, ad esempio, la Repubblica federale tedesca ha devoluto ben 700 milioni di
dollari come riparazione per la Shoah.
La
Francia nello stesso periodo ha cominciato a fornire assistenza militare.
Il
maggiore contributo viene dagli Usa, che da decenni contribuiscono con circa
3,8 miliardi di dollari all’anno sotto forma di aiuto diretto e quasi
altrettanti in forma indiretta (cancellazione del debito, sovvenzioni speciali).
Il
conflitto arabo-israeliano.
Israele
non fu l’unico Stato a subire modificazioni nell’area medio-orientale.
A Partire dalla fine degli anni ‘40 del secolo scorso
ci furono diversi colpi di stato messi in atto da gruppi di militari che
avevano come obiettivo l’emancipazione dei loro paesi dall’imperialismo
occidentale, in particolare britannico.
Il più famoso di questi militari fu” Giamal
‘Abd an-Nasir”, meglio conosciuto come “Nasser”, che nel 1952 assunse il potere
in Egitto.
Gli
israeliani si mostrarono subito ostili verso il nuovo Egitto di Nasser.
Nel
1954 gli egiziani scoprirono il piano sionista, conosciuto come “affare Lavon”,
dal nome dell’allora ministro della difesa israeliano, che prevedeva di fare alcuni
attentati contro installazioni britanniche e statunitensi in Egitto.
Gli Israeliani pensavano di far ricadere la
responsabilità di questi attentati sugli egiziani, per indurre gli Usa a
interrompere la fornitura di armi all’Egitto e i britannici a interrompere i
negoziati per il ritiro delle loro truppe dalla zona del canale di Suez.
In
quel periodo gli israeliani fecero una incursione su Gaza, all’epoca
controllata dall’Egitto.
Nasser
fece richiesta di armi ai paesi occidentali, che però rifiutarono.
Di conseguenza Nasser, dopo aver proclamato il
“non allineamento”, si rivolse per le armi alla Cecoslovacchia, che all’epoca
era parte del blocco sovietico.
Inoltre,
Nasser riconobbe ufficialmente la Cina comunista, con grande disappunto degli
Usa.
Gli
Usa per risposta bloccarono un prestito della Banca mondiale agli egiziani per
costruire la diga di Assuan.
A sua
volta Nasser decise di nazionalizzare il canale di Suez, cosa che innescò la
cosiddetta crisi di Suez (1956).
In
risposta alla nazionalizzazione, le vecchie potenze coloniali, la Gran Bretagna
e la Francia, d’accordo con Israele, provarono a invadere l’Egitto.
L’invasione,
però, suscitò la riprovazione della comunità internazionale e in particolare
degli Usa.
Questi ultimi erano contrariati perché Suez sviava
l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale dall’Ungheria dove si registrava
un intervento militare sovietico.
Gli Usa imposero il ritiro delle truppe
anglo-francesi, e da quel momento assunsero il ruolo di potenza egemone nel
Medio-Oriente al posto della Gran Bretagna e della Francia.
Nasser,
comunque, era sempre più convinto del pericolo rappresentato da Israele.
Il 14
maggio 1967 scoppiò di nuovo la guerra tra, da una parte, Israele e, dall’altra
parte, Egitto, Siria e Giordania.
L’esito del conflitto per questi ultimi fu
disastroso:
in sei
giorni Israele sbaragliò gli avversari e occupò diversi territori appartenenti
agli stati arabi, la penisola del Sinai, le alture del Golan, la Cisgiordania,
la striscia di Gaza e Gerusalemme est.
Quindi,
dopo la guerra la posta in gioco non sarebbe più stata l’esistenza di Israele
ma la restituzione dei territori occupati.
La risoluzione 242 dell’Onu (22 novembre 1967)
formalizzò tale situazione, secondo la formula “terra in cambio di pace”.
Israeliani,
egiziani e giordani accettarono la risoluzione in breve tempo, i siriani nel
1973.
Nonostante
questo i governi del Likud di fatto sostituirono alla formula “terra per pace”
la formula “pace per pace”.
In
questo periodo, i paesi arabi rifiutarono di trattare direttamente con Israele,
intendendo trattare solo attraverso Usa e Unione sovietica.
Dal momento che l’Unione Sovietica aveva
interrotto i rapporti con Israele furono gli Usa ad intervenire come forza di
mediazione.
Il
loro vero obiettivo, però, era quello di escludere l’Unione Sovietica da aree
significative del mondo come il Medio-Oriente.
Inoltre,
gli Usa scelsero la strategia di fornire ad Israele armi sufficienti da poter
essere superiore a tutti gli stati arabi messi insieme.
Per
superare la situazione di stallo, che gli Usa avevano contribuito a creare,
egiziani e siriani intrapresero una nuova guerra contro Israele nel 1973
(Guerra del Kippur).
La
guerra fu un quasi pareggio:
non
portò a esiti risolutivi ma dimostrò agli arabi che Israele non era così forte
come si credeva.
Finita
la guerra, il segretario di stato Usa, Kissinger, dovette fare la spola tra
Damasco, il Cairo e Tel Aviv per occuparsi nei minimi dettagli del
riposizionamento delle truppe israeliane e arabe.
I
territori occupati.
Israele
opponeva motivi ideologici e pratici alla restituzione dei territori occupati,
ad esempio di Gerusalemme est, dal momento che Gerusalemme era stata definita
capitale dello Stato.
Differente
era il discorso per il Sinai che non aveva mai fatto storicamente parte di
Israele e che alla fine fu restituito all’Egitto nel 1979.
Israele
fu invece restia a restituire le alture del Golan perché rappresentano un luogo
di importanza strategica dal punto di vista militare, dal momento che dominano
la Galilea.
Per
quanto riguarda Gaza e la Cisgiordania, dopo il 1967 questi territori furono
integrati nell’economia israeliana:
i
palestinesi potevano andare liberamente a lavorare in Israele, dove furono
usati come forza lavoro a basso costo.
Dal
momento che l’integrazione era avvenuta forzosamente e data la grande
differenza nello sviluppo di Israele e dei territori occupati, di fatto
l’economia di questi ultimi fu di tipo coloniale dipendente.
Nel
1993 Israele però decise di fare a meno della forza lavoro palestinese,
favorendo l’immigrazione dall’Asia orientale e meridionale, dall’Europa
dell’Est e dall’Africa, con effetti devastanti a Gaza sulla disoccupazione e
sulla povertà che aumentarono vertiginosamente.
Ma
l’elemento che ha ostacolato maggiormente lo scambio di terra in cambio di pace
è sempre stata la presenza di insediamenti di coloni israeliani nei territori
occupati.
Il
numero dei coloni israeliani è cresciuto esponenzialmente e gli insediamenti
sono numerosi nella Cisgiordania, dove sono protetti dall’esercito.
L’insediamento
di coloni, che è stato ripetutamente condannato dall’Onu, è facilitato da
incentivi e agevolazioni fiscali disposti dallo Stato israeliano.
L’economia
e la società palestinese dei territori occupati venne sconquassata.
Regole
e normative fastidiose e vessatorie pervadevano tutti gli aspetti della vita.
La terra era espropriata dalle autorità di
occupazione per le più svariate ragioni a favore dei coloni, mentre le
politiche agricole israeliane avevano ridotto la superfice dei coltivi a un
livello più basso di quello del 1947.
Le
politiche del lavoro erano discriminatorie nei confronti dei lavoratori
palestinesi.
La densità abitativa a Gaza era altissima.
Tutto
questo portò alla rivolta che si concretizzò nella prima intifada che iniziò
nel 1987, durando per cinque anni.
I giovani palestinesi impegnavano l’esercito
con sassi e fionde, mentre gli adulti praticavano la mobilitazione passiva,
basata sul boicottaggio e sulla disobbedienza civile.
La reazione israeliana fu durissima: tra 1987 e 1993
furono uccisi dai soldati israeliani dai 900 ai 1200 palestinesi, 18000 furono
feriti, 175000 furono detenuti, 23000 furono torturati, furono distrutte 2000
abitazioni palestinesi per rappresaglia e infine il livello di vita nei
territori si abbassò del 40%.
Tra le
organizzazioni venute alla luce durante la prima intifada ci fu il “Movimento di resistenza islamica”,
meglio noto con l’acronimo di “Hamas”, che sfidò l’egemonia dell’Olp, l’organizzazione
storica del movimento di liberazione della Palestina guidata da Yasser Arafat.
“Hamas”
si differenzia dalla laica “Olp” non solo perché si rifiuta di riconoscere
Israele ma anche perché vuole rimodellare la società palestinese secondo
principi islamici.
L’affermazione di “Hamas” fu facilitata dallo
sviluppo di istituzioni caritative e associazioni di assistenza sociale
islamiche, finanziate da Kuwait e Arabia Saudita.
Nel 1967 a Gaza c’erano 77 moschee, allo
scoppio dell’intifada ce n’erano 150, che spesso furono incubatrici delle nuove
organizzazioni politiche islamiche.
L’altro
fattore di sviluppo di “Hamas” e di altre “organizzazioni islamiche” fu
l’appoggio di Israele.
Così
scrive lo storico statunitense “James L. Gelvin”:
“Dal
canto loro, gli israeliani fornirono un tacito appoggio alla diffusione delle
associazioni islamiche nei territori.
Il
governo israeliano credeva che, fornendo assistenza e servizi alla popolazione
dei territori, […] le associazioni islamiche ne avrebbero alleviato le
durissime condizioni, contribuendo, in tal modo, a tenere calmi i palestinesi.
Inoltre, gli israeliani erano convinti che le
associazioni islamiche […] potessero contrapporsi, indebolendola, all’”Olp”.
Insomma,
non si resero conto che stavano scherzando col fuoco.”
“Hamas” ha certamente controbilanciato
il potere dell’”Olp” e si è tenuto alla larga dall’Autorità palestinese (Ap),
vale a dire dall’embrione di governo costituitasi, a seguito dell’”Accordo di
Oslo”, nel 1995 nelle zone di “Gaza e Cisgiordania”.
Tuttavia, “Hamas” nel gennaio del 2006
partecipò alle elezioni del Parlamento palestinese, risultando, tra la sorpresa
generale, la prima forza politica e conquistando 72 seggi su 132.
La
vittoria di “Hamas” non significò che la maggioranza dei palestinesi fosse
diventata integralista, ma piuttosto rifletteva la stanchezza nei confronti dei
limiti dei politici dell’”Olp”.
L’accordo
di Oslo e la sua vanificazione.
Nel
1991 l’Unione sovietica venne sciolta.
La
fine dell’Urss determinò una modificazione del quadro internazionale, dal
momento che con essa veniva meno il confronto tra il blocco occidentale e
quello sovietico, che aveva avuto una influenza notevole anche sul conflitto
arabo-israeliano.
È in questo nuovo quadro, caratterizzato da
globalizzazione e neoliberismo, che si inserisce l’Accordo di Oslo.
Dal
dicembre 1992 all’agosto 1993 una delegazione israeliana tenne diversi incontri
con una delegazione palestinese a Oslo in Norvegia.
Da questi incontri scaturì un accordo di pace, che
avrebbe dovuto mettere fine al conflitto israelo-palestinese. L’Accordo di Oslo, firmato dal
governo israeliano di “Yitzhac Rabin” e dall’”Olp”, si compone di due
protocolli.
Il
primo è uno scambio di lettere tra “Arafat” e “Rabin,” in cui le due parti si
riconoscono vicendevolmente.
Arafat
riconobbe lo Stato di Israele e Rabin il diritto dei palestinesi alla creazione
di uno Stato sovrano.
In
effetti, da parte palestinese si accettò che l’80% della Palestina storica
fosse definitivamente sottratto a qualsiasi ulteriore negoziato. Ulteriori
negoziati avrebbero riguardato solamente Gaza e la Cisgiordania.
In
questo modo il territorio sotto il dominio israeliano avrebbe soltanto potuto
ampliarsi, mentre quello sotto dominio palestinese soltanto ridursi.
Il
secondo protocollo, noto come “Dichiarazione di principi”, stabiliva che
l’esercito israeliano si sarebbe ritirato entro tre mesi da Gaza e dall’area di
Gerico, cui sarebbe stato attribuito uno status di autonomia, attraverso la
costituzione di una autorità di autogoverno provvisoria, cioè l’Autorità palestinese.
L’accordo
suddivideva la Cisgiordania in tre zone diversamente controllate da Israele.
All’interno
di queste zone fu consentita la costruzione di tangenziali che collegassero i
vari insediamenti israeliani e dalle quali erano esclusi i palestinesi, il cui
libero spostamento era così impedito.
In
sintesi, gli israeliani furono negoziatori più abili dei palestinesi.
Ciononostante
il primo ministro Rabin fu accusato dall’opposizione interna del Likud di aver
svenduto tutto.
Nel
1995 Rabin fu ucciso da un estremista religioso ebraico, e pochi mesi dopo fu
eletto primo ministro Benjamin Netanyahu, candidato del Likud contrario a Oslo.
Il
governo di Netanyahu si oppose a qualsiasi ulteriore concessione e soprattutto
ridusse al minimo la portata delle concessioni precedenti.
Gli accordi di Oslo furono vanificati e Israele, oltre
a costruire nuovi insediamenti, iniziò a impedire l’ingresso dei lavoratori
palestinesi, rimpiazzandoli con immigrati provenienti da altre aree del mondo.
Di
conseguenza, la miseria si diffuse nei territori occupati.
In
questo periodo emerse la figura di “Ariel Sharon”, già generale dell’esercito
israeliano e importante esponente del” Likud”.
Sharon da ministro della Difesa del governo di
Begin nel 1982 aveva organizzato l’invasione del Libano, che per Israele
risultò essere qualcosa di simile al Vietnam per gli Usa.
Durante
l’invasione l’esercito israeliano bombardò indiscriminatamente per ottantotto
giorni la capitale del Libano, Beirut, sollevando la condanna di tutto il
mondo.
Sharon
fu anche complice del massacro di 2750 palestinesi (dati della Croce Rossa) ad
opera delle milizie cristiane di destra in due campi profughi, “Sabra” e”
Shatila”.
Successivamente
da ministro del governo di Netanyahu, presiedette alla più grande espansione
degli insediamenti israeliani nei territori occupati.
Il 28
settembre 2000 Sharon fece la famosa e provocatoria passeggiata nella spianata
delle moschee, luogo sacro per i mussulmani.
La manifestazione di protesta dei palestinesi
fu repressa nel sangue dalla polizia israeliana e quattro palestinesi rimasero
uccisi. Immediatamente dopo scoppiò la seconda intifada, che si caratterizzò
anche per gli attentati suicidi portati avanti soprattutto da “Hamas” e “Jihad”
islamico.
La seconda intifada, tra 2000 e 2005, registrò
circa quattromila vittime di cui tremila palestinesi, fra le quali cinquecento
di età inferiore ai diciotto anni.
Durante
la seconda intifada, l’11 settembre 2001 avvenne l’attacco alle torri gemelle
di New York, che portò l’amministrazione statunitense di George Bush a
proclamare la cosiddetta “guerra al terrorismo”.
Quest’ultima
divenne il contesto nel quale fu consentito a Israele di imporre una soluzione
unilaterale al problema palestinese.
Bush
diede carta bianca a “Sharon”, diventato nel frattempo capo del governo, in
quanto alleato nella guerra al terrorismo.
Nel marzo 2002 “Sharon” ordinò l’”Operazione scudo
protettivo”, la più grande incursione israeliana nei territori occupati del
dopo Oslo, che provocò la morte di cinquecento palestinesi.
L’accordo
di Oslo venne definitivamente accantonato.
Nell’aprile
2002 il governo israeliano annunciò la costruzione di un muro divisorio lungo
750 chilometri che penetra profondamente nelle aree occupate e comprende i più
grandi insediamenti israeliani della Cisgiordania e di Gerusalemme.
La
costruzione del muro comporta lo sradicamento dei palestinesi, la confisca
della loro terra, la separazione dei villaggi dai terreni coltivati.
Nel
febbraio 2004 Sharon annunciò i piani per l’abbandono di Gaza, che fu
sbandierato dagli Usa come una dimostrazione di buona volontà da parte
israeliana.
In realtà, Israele ha continuato, anche dopo
il suo disimpegno da Gaza a controllare il confine della striscia, il suo
spazio aereo, il commercio, le forniture elettriche, il flusso dei lavoratori e
delle esportazioni verso Israele e dei trasferimenti tra Gaza e la
Cisgiordania.
Soprattutto, come ha sostenuto “Dov Weisglass”, uno
stretto collaboratore di “Sharon”, il disimpegno da Gaza e da alcune zone della
Cisgiordania doveva servire a “…congelare il processo di pace. […]
Se si
congela il processo di pace, si impedisce la creazione di uno Stato
palestinese, e si impedisce la discussione sui profughi, sui confini, su
Gerusalemme.
Il tutto con la benedizione presidenziale
statunitense e la ratifica di entrambi i rami del Congresso.”
Nel
frattempo “Sharon” era uscito dal “Likud” e aveva fondato un suo partito, “Kadima”.
Quando
Sharon fu colpito, subito dopo, da un ictus cerebrale, fu sostituito al vertice
del partito da “Ehud Olmert”, che nel marzo 2006 fu eletto primo ministro.
Secondo
il piano di Olmert la Cisgiordania sarebbe stata divisa in tre cantoni separati
e circondati dalla presenza israeliana.
Nella
primavera del 2006 il conflitto sembravo chiuso a vantaggio di Israele, ma i
palestinesi non intendevano cedere.
Nel
giugno 2006 militanti di “Hamas” e di altri due gruppi entrarono in Israele da
Gaza uccidendo alcuni soldati israeliani e catturandone altri.
Qualche
giorno dopo “Hezbollah”, partendo dal Libano, fece lo stesso. Israele reagì con
pesanti bombardamenti, che provocarono ampie distruzioni e 1500 morti fra i
civili, e una vasta operazione di terra, durante la quale incontrò una forte e
disciplinata resistenza soprattutto in Libano da parte di Hezbollah.
La
guerra durò 34 giorni e sul piano dell’immagine fu una vittoria per “Hezbollah”
che era riuscito a resistere al forte esercito israeliano.
Tre
mesi prima sia l’autorità palestinese sia Israele avevano registrato
sommovimenti politici in occasione degli insediamenti dei rispettivi governi di
“Hamas” e “Kadima”.
Allo
scopo di piegare Hamas all’accettazione del riconoscimento dello Stato
israeliano, Israele cessò di versare tasse e diritti doganali, riscossi per
conto dell’Autorità palestinese, e Usa e Ue cessarono di fornire aiuti
finanziari.
Dal
momento che l’Autorità palestinese deve agli aiuti stranieri metà del suo
bilancio, si trovò nella impossibilità a far fronte alle spese e persino a
pagare i suoi 165mila dipendenti.
Il
tasso di povertà e di disoccupazione aumentò vertiginosamente e il consenso nei
confronti di “Hamas” cadde al 30-35%.
Anche “Kadima”,
in Israele, si trovò in una situazione difficile.
La sua
vittoria elettorale fu molto meno ampia del previsto e soprattutto il “piano di
ritiro di Olmert”, e prima di lui di “Sharon”, andò incontro a molte critiche,
perché fu accusato di lasciare ai nemici di Israele il controllo di territori,
come Gaza, da cui era possibile lanciare attacchi.
Per rispondere alla situazione di debolezza in
cui si trovava, il governo israeliano decise di ricorrere alla propria forza di
dissuasione, basata sulla strapotenza militare, da cui l’uso sproporzionato dei
bombardamenti.
La deterrenza israeliana era stata pensata per
una lotta tra Stati e non risultava efficace se usata contro avversari che non
erano Stati e che dimostravano di non voler giocare secondo le vecchie regole.
Di fatto, il conflitto israelo-palestinese si ritrovò
nuovamente in una situazione di stallo.
Da
quanto abbiamo visto, appare chiaramente che Israele non ha intenzione
realmente di addivenire alla soluzione di compromesso basata sul principio “due popoli e due stati” e che gli Usa, pur essendo
fondamentali per il sostegno allo Stato di Israele, non hanno intenzione di far pesare
questo sostegno per costringere Israele ad accettare il compromesso.
(Domenico
Moro).
(Domenico
Moro si occupa di globalizzazione e di economia politica internazionale).
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