I popoli liberi contro gli straricchi strateghi del N.W.O.

 

I popoli liberi contro gli straricchi strateghi del N.W.O.

 

 

All’Onu Primo No ai

“Killer Robots”

Conoscenzealconfine.it – (9 Novembre 2023) – Redazione – ci dice:

 

Con 164 sì e 8 astensioni l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato la sua prima risoluzione – la L56 – presentata dall’Austria e sostenuta dall’Italia, sul contrasto alle armi autonome guidate dall’AI, un successo per la decennale campagna “Stop Killer Robots”.

Vignarca: “Ora un trattato internazionale”.

 

Il 1° novembre 2023 la prima commissione (quella dedicata al Disarmo) dell’”Assemblea Generale delle Nazioni Unite” ha adottato la prima risoluzione in assoluto mai discussa sulle armi autonome (i cosiddetti “killer robots” o LAWS) sottolineando la “necessità urgente per la comunità internazionale di affrontare le sfide e le preoccupazioni sollevate dai sistemi di armi autonome”.

Dopo 10 anni di discussioni internazionali, in un contesto di rapidi sviluppi tecnologici, questo voto rappresenta un passo avanti fondamentale.

Ed apre la strada alla negoziazione di una nuova norma internazionale sulle armi autonome.

Il mese scorso il “segretario generale delle Nazioni Unite” (UNSG) e il “presidente del Comitato internazionale della Croce Rossa” (ICRC) avevano lanciato un appello storico “per stabilire urgentemente nuove regole internazionali sui sistemi di armi autonome, al fine di proteggere l’umanità” entro il 2026.

Pur non spingendosi fino alla richiesta di negoziati, questa risoluzione rafforza la fiducia in un percorso normativo internazionale e segnala la necessità di intraprendere un’azione politica urgente per salvaguardare dai gravi rischi posti dai sistemi di armi autonome.

La Risoluzione L56 è stata presentata dall’Austria e sostenuta da un gruppo eterogeneo di Stati interregionali, tra cui l’Italia che l’ha sostenuta come co-sponsor.

Il testo riconosce “il rapido sviluppo di tecnologie nuove ed emergenti” e fa riferimento alle “serie sfide e preoccupazioni che le nuove applicazioni tecnologiche in ambito militare, comprese quelle relative all’intelligenza artificiale e all’autonomia nei sistemi d’arma, sollevano anche da prospettive umanitarie, legali, di sicurezza, tecnologiche ed etiche”.

 Esprime inoltre preoccupazione per “le possibili conseguenze negative e l’impatto dei sistemi d’arma autonomi sulla sicurezza globale e sulla stabilità regionale e internazionale, compreso il rischio di una corsa agli armamenti, l’abbassamento della soglia di conflitto e la proliferazione, anche verso attori non statali”.

La risoluzione chiede inoltre al “segretario Generale delle Nazioni Unite” di preparare un “Rapporto” che rifletta le opinioni degli Stati membri e degli osservatori sui sistemi di armi autonome e sui modi per affrontare le relative sfide e preoccupazioni che essi sollevano da prospettive umanitarie, legali, di sicurezza, tecnologiche ed etiche e sul ruolo degli esseri umani nell’uso della forza.

Il Rapporto includerà anche le opinioni di altre parti interessate, tra cui le organizzazioni internazionali e regionali, il Comitato internazionale della Croce Rossa, la società civile, la comunità scientifica e l’industria.

 La risoluzione decide inoltre che l’ordine del giorno provvisorio dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del prossimo anno includa un punto all’ordine del giorno intitolato “Sistemi di armi autonome letali”, fornendo un’ulteriore piattaforma all’interno dei forum delle Nazioni Unite per gli Stati che intendono intraprendere azioni per affrontare questo problema.

Nel corso della seduta della Prima Commissione del 1 novembre ben 164 Stati hanno votato a favore della risoluzione L56, solo 5 contro mentre sono state 8 le astensioni.

La risoluzione porterà ora alla creazione di un processo che consentirà a tutti gli Stati di presentare le proprie opinioni sulle armi autonome e dovrebbe stabilire una chiara tabella di marcia per la negoziazione di un nuovo trattato sull’autonomia delle armi.

 

 Le discussioni per l’adozione di uno strumento giuridico sull’autonomia delle armi sono state precedentemente bloccate da una minoranza di Stati militarizzati.

All’Assemblea generale delle Nazioni Unite questi Stati non hanno il potere di veto.

Le armi autonome suscitano profonde sfide legali, etiche, umanitarie e di sicurezza che devono essere affrontate con urgenza, dato che le armi con alcune funzioni autonome vengono già utilizzate nei conflitti.

La disumanizzazione e l’uccisione di persone da parte delle tecnologie con Intelligenza Artificiale in contesti militari è inaccettabile e avrà conseguenze terribili nelle attività di polizia, nel controllo delle frontiere e nella società in generale.

Migliaia di esperti e scienziati di tecnologia e IA, “la campagna Stop Killer Robot” di cui anche “Rete Pace Disarmo” fa parte, Amnesty International, Human Rights Watch, il Comitato internazionale della Croce Rossa, 26 premi Nobel e la società civile in generale hanno sempre chiesto di negoziare con urgenza un nuovo strumento legale internazionale che affronti la questione dell’autonomia dei sistemi d’arma e garantisca un controllo umano significativo sull’uso della forza.

“I 164 voti a favore della risoluzione contro le armi autonome all’”Assemblea Generale ONU “sono un risultato clamoroso – sottolinea Francesco Vignarca, coordinatore campagne della Rete Pace Disarmo.

Questa Risoluzione è un passo significativo verso la negoziazione di una nuova norma internazionale.

 Lo slancio politico è chiaro ed esortiamo ora gli Stati a fare un passo in più per impedire la delega di decisioni di vita e di morte alle macchine.

Siamo poi particolarmente soddisfatti della posizione presa dall’Italia, sia nel voto finale sia con la decisione di sostenere la Risoluzione L56 presentata dall’Austria.

 È tempo di un nuovo Trattato internazionale vincolante che garantisca un significativo controllo umano sull’uso della forza:

questo voto è un chiaro passo nella giusta direzione.”

(sbilanciamoci.info/allonu-primo-no-ai-killer-robots/)

 

 

 

 

La sanguinosa storia che

Oppenheimer non racconta.

Wired.it – Ngofeen Mputubwele – (26 -8-2023) – ci dice:

 

Gran parte dell'uranio necessario alla costruzione della bomba fu estratto nell'allora Congo belga, dove la popolazione locale venne ridotta in uno stato di semi-schiavitù.

(Esiste un primo piano di “Cillian Murhpy in Oppenheimer “di Christopher Nolan.

UNIVERSAL PICTURES.)

Tempo fa mio padre mi raccontò una storia sull'uranio che alimentò la prima bomba nucleare.

Quella sganciata su Hiroshima; uno degli ordigni che si vedono costruire nel film Oppenheimer.

Papà è nato nell'ex Congo belga, oggi Repubblica democratica del Congo.

All'inizio dell'estate sono stato invitato a una proiezione del film, a cui era presente anche il regista “Christopher Nolan”.

 In una scena ricorrente della pellicola, che simboleggia l'avanzamento lento e graduale degli sforzi degli scienziati, Oppenheimer riempie una ciotola di vetro con delle biglie, prima una alla volta, poi a manciate.

Le biglie rappresentano la quantità di uranio che è stata estratta e raffinata con successo allo scopo alimentare la reazione nucleare.

L'esito della seconda guerra mondiale e il futuro dell'umanità dipendono da chi riuscirà a creare per primo quel mostro: l'Asse o gli Alleati.

Più ci avviciniamo al completamento della bomba, più biglie finiscono nella ciotola.

 Ma nel film non si fa cenno alla provenienza di due terzi di quell'uranio: una miniera profonda 24 piani nel Katanga, un'area ricca di minerali nel sud-est del Congo.

Mentre sullo schermo le biglie riempivano la ciotola, io continuavo a vedere quello non era rappresentato nel film:

 i minatori africani che trasportavano terra e pietre per smistare a mano i cumuli di minerale radioattivo.

Papà è nato nel 1946 a Mission Ngi, un piccolo avamposto missionario del Belgio. Ci ha raccontato di come, crescendo, i belgi abbiano insegnato ai congolesi a venerare Dio;

di come i belgi si rivolgessero agli adulti congolesi con l'informale tu francese, al posto del formale vous;

di come i belgi dicessero che mangiare con le mani, come faceva papà a casa, fosse incivile.

Papà ha imparato a scuola che i congolesi erano arretrati e secondari rispetto alla vita moderna.

Eppure, diceva papà, i congolesi erano l'ingrediente essenziale, la conditio sine qua non alla base di quella che probabilmente la creazione più importante della storia moderna.

Nel 1885, quando il re Leopoldo II del Belgio rivendicò per la prima volta la proprietà di questa enorme striscia di terra situata sul fiume più profondo del mondo, proprio al centro dell'Africa, la chiamò “Stato Libero del Congo”.

Naturalmente, per i circa 10-20 milioni di abitanti del paese la vita si era ridotta alla sopravvivenza alla violenza e allo stato di terrore del re.

 In tutto il territorio, trasformato in una serie di piantagioni di cotone e gomma, i soldati del re amputavano gli avambracci dei congolesi che non rispettavano le quote di raccolta previste.

Le politiche di Leopoldo II portarono a carestie e malattie.

 Milioni di persone non ce la fecero.

Nel 1908, quando il governo belga strappò il territorio al re, lo “Stato Libero del Congo” divenne il "Congo Belga".

A quel punto, scrive la storica “Susan Williams”, autrice di “Spies in the Congo”, il settore privato si sostituì al sovrano nel ruolo di estrattore delle risorse naturali del Congo.

La violenza rimase la stessa.

Come se non bastasse, se da una parte lasciavano che i missionari cristiani iniziassero a istruire formalmente i bambini, le autorità belghe erano preoccupate che i congolesi alfabetizzati potessero rovesciare la colonia.

Papà mi ha raccontato che la scolarizzazione oltre la quinta elementare era illegale per la maggior parte dei bambini congolesi.

 Papà, per la gioia di suo padre, avrebbe avuto la possibilità di usufruire di una delle eccezioni della colonia:

alle persone che sarebbero diventati sacerdoti l'istruzione era concessa, un'opportunità che nemmeno alcuni fratelli maggiori di papà avrebbero avuto.

Il sistema coloniale formava lavoratori – o meglio, persone al limite della schiavitù – non studiosi.

 Un ufficiale americano che visitò il Congo belga descrisse la scena che vide il primo giorno:

un uomo congolese in pantaloncini stracciati inginocchiato a terra, sovrastato da un ufficiale belga che brandiva una chicote, una frusta di cuoio con punte di metallo:

 "La frusta fischiava […]. Ogni frustata era seguita da un urlo di agonia […]. Dal collo alla vita, la pelle del nero era una massa di sangue da cui trasparivano le costole".

 Questa, riferì l'americano, era la punizione per aver rubato un pacchetto di sigarette a un belga.

"Benvenuto in Congo", fu detto all'ufficiale statunitense.

La caccia all'uranio.

La più grande azienda del Congo belga era la società mineraria “Union-Minière du Haut-Katanga”.

 Il governo coloniale le aveva concesso i diritti su un'area di circa ventimila chilometri quadrati, più della metà del Belgio.

Una delle miniere, “Shinkolobwe”, era ricca di uranio.

A essere precisi, era piena di uranio che i congolesi avevano già estratto e portato in superficie.

Inizialmente, l'”uranio” era solo un prodotto di scarto degli scavi effettuati per cercare il più prezioso” radio”, la cui scoperta valse il premio Nobel a “Marie Curie”.

Utilizzando l'elemento chimico, nel 1938 i fisici Lise Meitner e Otto Frisch elaborarono i calcoli che definirono la fissione nucleare.

Gli scienziati si resero conto che scindendo un numero sufficiente di nuclei era possibile sprigionare enormi quantità di energia.

L'uranio era diventato un materiale ambito.

Nel 1939, poco prima dell'inizio della seconda guerra mondiale, Albert Einstein scrisse una lettera al presidente americano Franklin D. Roosevelt, che conteneva un avvertimento sommesso:

"L'elemento uranio potrebbe essere trasformato in una nuova e importante fonte di energia nell'immediato futuro […]. È concepibile […] che possano essere costruite bombe estremamente potenti di questo tipo".

La lettera di Einstein menzionava quattro fonti di uranio conosciute:

gli Stati Uniti, che "hanno solo minerali molto poveri di uranio in quantità moderate";

 il Canada e l'ex Cecoslovacchia, dove "c'è qualche buon minerale";

e il Congo, "la più importante fonte di uranio".

Secondo” Jean Bele”, un fisico nucleare congolese del “Massachusetts Institute of Technology” (Mit), da 100 chilogrammi di minerale di uranio congolese era possibile produrre circa un chilogrammo di uranio raffinato.

La stessa quantità di minerale proveniente da altre località avrebbe prodotto solo 2 o 3 grammi dell'uranio raffinato necessario per un'arma di questo tipo.

La compagnia mineraria era solita costruire dei complessi recintati che assomigliavano a campi di prigionia per i lavoratori e le loro famiglie;

 inizialmente l'azienda assegnava a ogni famiglia circa 4 metri quadrati – la dimensione di un piccolo garage – e razioni di cibo settimanali.

 I minatori selezionavano il minerale di uranio a mano.

 Una persona ha descritto un pezzo di uranio di “Shinkolobwe” come un blocco "grande come un maiale", "nero e dorato, come se fosse ricoperto da una schiuma verde o da muschio", delle "pietre sgargianti".

Il direttore dell'”Union-Minière du Haut-Katanga” era “Edgar Sengier”, un uomo belga dal colorito pallido e con dei baffi ben tagliati.

Avendo visto la Germania invadere il Belgio durante la prima guerra mondiale, “Sengier “era incerto sulle conseguenze dell'invasione della Polonia da parte di Hitler nel settembre 1939.

 Il Belgio, o magari le colonie africane, sarebbero state le prossime?

Nell'ottobre di quell'anno, “Sengier” fuggì dal Belgio a New York, dove trasferì le attività commerciali della società mineraria.

 Prima di insediarsi, però, un chimico britannico e lo scienziato premio Nobel “Frédéric Joliot-Curie”, genero di “Marie Curie”, avvisarono “Sengier” che l'uranio del Congo sarebbe potuto diventare essenziale in guerra.

 L'autunno successivo, “Sengier” ordinò di spedirlo a New York.

I lavoratori congolesi trasportarono e caricarono il minerale, che fu inviato via treno a “Port Francqui” (oggi Ilebo), per poi viaggiare in barca lungo i fiumi Kasai e Congo fino alla capitale Leopoldville (oggi Kinshasa).

 Al porto di Matadi, l'uranio iniziava il suo viaggio attraverso l'Oceano Atlantico, superando gli U-Boat tedeschi, fino a un magazzino a “Staten Island”.

“Sengier” stoccò oltre mille tonnellate del minerale negli Stati Uniti.

Circa tremila tonnellate rimasero a “Shinkolobwe”.

Nel maggio 1940, Hitler invase la Francia e il Belgio.

Il governo belga fuggì a Londra e il Terzo Reich insediò nel paese un governo filonazista.

 Il governatore generale del Congo belga, tuttavia, dichiarò che la colonia avrebbe sostenuto gli Alleati.

Arruolò truppe, offrì lavoratori congolesi e creò quote di produzione per fornire agli Alleati il materiale bellico necessario.

E così, durante la guerra, molti congolesi tornarono nelle stesse foreste in cui i loro genitori e nonni avevano subito l'amputazione delle mani, con l'ordine di raccogliere nuovamente la gomma, questa volta per realizzare centinaia di migliaia di pneumatici militari.

Con l'intensificarsi della guerra i minatori congolesi scavavano anche alla ricerca di minerali come il rame, con turni di 24 ore.

Nelle città minerarie di “Sengier”, come altrove, i congolesi non potevano circolare liberamente senza permessi, né tantomeno votare.

Per non incorrere in pesanti conseguenze, i lavoratori dovevano tornare a casa entro le 21.

La paga era terribile.

 Ma nel 1941, nonostante i "nativi" fossero esclusi dai sindacati, i lavoratori neri di alcune miniere di “Sengier” iniziarono a organizzarsi per ottenere salari più alti e migliori condizioni di lavoro.

Le proteste.

Il 7 dicembre 1941 fu un giorno cruciale non solo per il prosieguo della guerra per via dell'attacco a Pearl Harbor, ma anche nella vita dei lavoratori delle miniere congolesi.

Quel giorno, i dipendenti neri della “Sengier” organizzarono un enorme sciopero del settore minerario in tutto il Katanga.

A Elisabethville, 500 lavoratori si rifiutarono di iniziare il loro turno.

Ben presto, i minatori appena usciti dal servizio si unirono a loro e si radunarono davanti agli uffici della direzione, chiedendo un aumento.

Strapparono un accordo che prevedeva una contrattazione il giorno successivo.

La mattina dopo, i lavoratori della miniera si sono presentati allo stadio di calcio locale per negoziare con la società di “Sengier” e il governatore coloniale del Katanga.

Secondo i resoconti, che riportano versioni contrastanti, erano presenti tra gli 800 e i 2000 scioperanti.

L'azienda offrì un accordo verbale per un aumento i salari.

Uno storico la descrive come la “prima espressione di protesta esplicita nella storia sociale del Congo”.

Ma quando un operaio congolese chiamato “Léonard Mpoyi” chiese una conferma scritta dell'aumento salariale, il governatore coloniale insistette perché la folla tornasse a casa.

 

"Mi rifiuto – disse Mpoyi –.

Dovete darci una prova che l'azienda ha accettato di aumentare i nostri salari". "Ho già richiesto che andiate in ufficio a controllare", fu la risposta del governatore, “Amour Marron”, che poi estrasse una pistola dalla tasca e sparò a Mpoyi, a bruciapelo.

Quando i soldati aprirono il fuoco “da tutte le direzioni”, i lavoratori della miniera si riversarono fuori dallo stadio.

 Circa 70 persone morirono quel giorno.

Un centinaio rimase ferita. Il mattino seguente, un altoparlante dell'azienda richiamò tutti al lavoro.

Circa un anno dopo Pearl Harbor, il presidente Roosevelt incaricò il generale “Leslie Groves” di dirigere il progetto Manhattan.

 Il suo primo giorno, nel settembre 1942, Groves e il suo vice, il colonnello Kenneth Nichols, discussero di come procurarsi l'uranio necessario per il progetto.

Nichols parlò a Groves di “Sengier e del suo uranio”, e la mattina seguente Nichols lo incontrò nel suo ufficio di New York.

Alla fine della riunione i due stilarono un accordo su un blocchetto giallo:

"Voglio iniziare a trasportare l'uranio domani", dichiarò Nichols.

 Meno di un mese dopo, Groves assunse J. Robert Oppenheimer per costruire la bomba.

Spie e doppio gioco

Nei due anni successivi, il Congo brulicava di spie americane che circolavano nel paese sotto copertura – come "funzionario del consolato", "impiegato della Texaco", "acquirente di seta" e “collezionista di gorilla vivi” – ma si trovavano nel paese per assicurarsi che il flusso di uranio procedesse senza intoppi.

Il generale “Groves” insistette affinché gli Stati Uniti ottenessero il controllo completo di “Shinkolobwe” e raccomandò al presidente Roosevelt di riaprire la miniera.

Il Corpo degli ingegneri dell'esercito americano fu inviato in Congo per avviare nuovamente le operazioni minerarie.

La posizione della miniera fu cancellata dalle mappe.

Alle spie fu detto di eliminare la parola "uranio" dalle loro conversazioni, sostituendola con termini come "diamanti".

I minatori della compagnia iniziarono a estrarre anche altri minerali necessari per la guerra, sgobbando nel sudore di giorno e davanti a immense fornaci di notte.

 A quel punto, grazie allo sciopero minerario, i salari dei lavoratori erano aumentati del 30-50 per cento.

Tuttavia, alcuni uomini erano obbligati a lavorare in miniera.

 Dal 1938 al 1944, gli incidenti mortali negli stabilimenti dell'azienda furono quasi raddoppiati.

Per evitare le quote di gomma, le persone fuggivano dalle zone rurali per raggiungere città come Elisabethville, la cui popolazione africana passò da 26mila persone nel 1940 a 65mila nel 1945.

Ma il governo statunitense era preoccupato anche dalle spie naziste.

Una spia americana fu incaricata di scoprire se i nazisti contrabbandavano uranio di “Shinkolobwe”.

Uno dei numerosi carichi del minerale di “Sengier” fu intercettato e affondato dal Reich.

Una volta arrivate negli Stati Uniti, le “pietre sgargianti” venivano raffinate in luoghi come “Oak Ridge”, nel Tennessee, e poi spedite a “Oppenheimer” a Los Alamos, nel Nuovo Messico.

Oppenheimer e il suo team impiegarono quasi tre anni per sviluppare le bombe. Anche se i tedeschi si arresero nel maggio 1945 (e fu chiaro che non erano vicini al completamento di una bomba nucleare), la guerra nel Pacifico proseguiva.

Alla fine, nell'agosto 1945, gli Stati Uniti sganciarono due bombe su Hiroshima e Nagasaki, la prima delle quali era riempita di uranio congolese, come diceva papà.

“Jean Bele”, il fisico nucleare, mi dice che oggi gli isotopi radioattivi sono ancora nel terreno vicino a “Shinkolobwe”:

 "I rifiuti solidi radioattivi entrano nell'acqua, nelle colture, negli alberi, nel suolo, negli animali e arrivano agli esseri umani", spiega.

Non conosciamo l'entità delle radiazioni.

 Sappiamo che a” Oak Ridge” la mortalità per cancro è aumentata.

E che nei pressi di St. Louis, nel Missouri, dove venivano scaricati i resti dei minerali congolesi, la contaminazione comporterà dei rischi per i lavoratori per i prossimi mille anni.

Dopo la proiezione di Oppenheimer, come un fan qualsiasi, ho avvicinato “Nolan nella hall”.

Sono riuscito a chiedergli delle biglie, del perché le abbia scelti e di quale problema creativo abbiano risolto.

 Il regista ha risposto con un cenno cortese:

“Avevo bisogno di un modo per dimostrare quanto tempo ci sarebbe voluto per raffinare tutto quel minerale”.

Poi ha aggiunto: "Il numero di biglie era in realtà matematicamente calcolato per rappresentare la quantità necessaria".

Senza il Congo ovviamente ottenere tutto quel minerale sarebbe stato impossibile. Nella corsa alla costruzione della bomba, entrambe gli schieramenti volevano il minerale congolese.

 Secondo il colonnello Nichols, la miniera di “Shinkolobwe” è stata "un caso anomalo in natura": "Non è mai stato trovato nulla di simile".

E questo, ovviamente, significa che senza i lavoratori neri del Congo, terrorizzati e costretti alla sottomissione e a estrarre minerali bellici essenziali 24 ore al giorno, l'esito di quello che probabilmente è il progetto più importante della storia dell'umanità sarebbe stato molto diverso.

 

Nel 1946,” Sengier” divenne il primo non americano a ricevere la medaglia al merito, assegnata dal presidente degli Stati Uniti per riconoscere "un atto eccezionalmente meritorio o coraggioso", in questo caso quello che sancì la vittoria degli Alleati.

In una foto della cerimonia, c'è chi però potrebbe vedere anche qualcos'altro:

un uomo con qualcosa da nascondere.

I servizi segreti durante la guerra rivelarono che la società di “Sengier” aveva venduto ai nazisti circa 1,5 milioni di chili di uranio congolese.

 Nel 1948, un minerale radioattivo fu ribattezzato in onore di “Sengier”: sengierite.

Allo stesso tempo, i congolesi, il popolo da cui discendo, iniziarono ad abbattere i sistemi coloniali che li opprimevano.

Nel 1960 ottennero l'indipendenza.

 All'epoca papà aveva 13 anni e, anche se ci sarebbero voluti anni prima di conoscere la storia dei minatori di uranio, ha sempre saputo che il popolo congolese ha un posto importante nella storia.

(Questo articolo è apparso originariamente su “Wired US”.)

 

 

 

Sempre più stati vogliono

controllare i dati dei propri cittadini.

Ilpost.it – Redazione – (21 giugno 2022) – ci dice:

Lo mostrano varie ricerche, secondo cui la dottrina della "sovranità digitale" è sempre più popolare, e potrebbe cambiare internet

Negli ultimi anni, decine di governi hanno approvato o stanno approvando leggi e misure di gestione e controllo dei dati e dei contenuti online, con l’obiettivo di rafforzare la propria “sovranità digitale”:

 l’idea, cioè, che i dati generati da una persona, un’azienda o un ente dovrebbero essere immagazzinati all’interno del loro paese d’origine, o almeno essere gestiti in conformità con gli standard di privacy e sicurezza stabiliti dal governo.

(Ad esempio in Europa è nato il Green Pass del denaro. Via libera dell’Europa all’App che traccerà, da oggi, la nostra vita! N.D.R.)

Le misure proposte per ottenere questo controllo sui dati, negli anni, sono state sia tecniche sia politiche e, come hanno scritto i giornalisti del “New York Times” “David McCabe” e “Adam Satariano, potrebbero alterare in maniera consistente il modo in cui internet ha funzionato da quando si è diffuso a livello commerciale negli anni Novanta, ponendo limitazioni serie alla libera circolazione dei dati.

Soltanto tra il 2017 e il 2021, il numero di leggi, regolamenti e politiche governative che richiedono l’archiviazione delle informazioni digitali in un determinato paese è più che raddoppiato, passando da 67 in 35 paesi a 144 in 62 Paesi, secondo il “centro studi Information Technology and Innovation Foundation” (ITIF).

Ogni giorno, le persone che usano Internet producono enormi quantità di informazioni.

Pubblicare un post sui social, correre mentre si indossa uno smartwatch, parlare ad assistenti virtuali come Alexa, pagare con la carta di credito, fare una ricerca su Google:

tutto genera dati, che vengono poi venduti, scambiati, condivisi e analizzati da varie aziende che ricavano così un profitto, generalmente vendendo annunci pubblicitari.

Nella maggior parte del mondo, negli ultimi trent’anni la libera circolazione dei dati è stata centrale per la crescita di aziende tecnologiche oggi onnipresenti come Amazon, Apple, Facebook o Google.

Se, inizialmente, la maggior parte dei dati veniva archiviata localmente, su computer privati o su server aziendali, oggi i servizi di “cloud computing” permettono a un italiano di archiviare le foto delle vacanze in un server nel Nevada, o a un’azienda francese di avere un sito web gestito da Amazon Web Services, i cui centri di elaborazione dati, o data center, sono sparpagliati in tutto il mondo, da Singapore all’Irlanda.

Gli Stati Uniti sono il paese che ne ospita di più (oltre 2.600), seguiti da Regno Unito, Germania, Cina e Paesi Bassi.

La crescente diffidenza verso il modo in cui le aziende gestiscono i dati in loro possesso e le tensioni internazionali alimentate da rivelazioni come quelle di “Edward Snowden” – che nel 2013 rivelò come la “National Security Agency statunitense” spiasse le telecomunicazioni degli altri paesi attraverso i cavi e le rete che compongono internet – hanno portato diversi stati e attori istituzionali come l’Unione Europea a cercare soluzioni per limitare la propria dipendenza da un’architettura di internet realizzata e di fatto gestita dagli Stati Uniti:

 è per questo che negli ultimi anni si è cominciato a parlare sempre più di frequente di “sovranità digitale”.

 

Oggi, alcuni governi limitano il trasferimento al di fuori dei propri confini di particolari tipi di dati, come quelli sanitari, bancari, finanziari o fiscali, ma anche quelli aziendali di società quotate in borsa o quelli relativi a contenuti generati dagli utenti sui social media.

Altri stati limitano più vagamente il trasferimento di dati ritenuti “sensibili” o “legati alla sicurezza nazionale”.

L’Unione Europea.

A queste due possibilità si aggiungono i casi di leggi che rendono il trasferimento transnazionale di dati così complicato o costoso da rendere indirettamente obbligatorio per le aziende l’immagazzinamento locale dei dati:

è il caso, secondo l’ITIF, del “Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) introdotto nell’Unione Europea nel 2018”, che ha fatto entrare in vigore molte nuove regole su come le aziende devono trattare i dati degli utenti.

L’Unione sta lavorando anche ad altri progetti di legge, come quello sull’intelligenza artificiale, che aggiungerebbero ulteriori livelli di complessità per le aziende straniere.

Alcune di queste politiche, come il GDPR e le altre leggi in materia che vengono discusse in Europa, sono motivate principalmente da preoccupazioni per la privacy e la sicurezza dei dati dei cittadini, ma finiscono per avere ripercussioni anche sui rapporti economici e politici con paesi extraeuropei, anzitutto gli Stati Uniti.

Per esempio, una delle questioni più rilevanti nei rapporti tra Unione Europea e Stati Uniti in quest’ambito ha riguardato gli accordi sul libero trasferimento dei dati dei cittadini europei verso gli Stati Uniti a fini commerciali, che sono stati annullati per ben due volte dalla Corte di giustizia europea (nel 2015 e nel 2020) perché non rispetterebbero gli standard europei di privacy.

Questi accordi sono tuttavia essenziali per migliaia di aziende sia europee sia americane, che si sono trovate senza un quadro normativo chiaro sul trasferimento dei dati.

I regimi autoritari.

In altri casi, in cui i governi che cercano di raggiungere la “sovranità digitale” sono meno affidabili per quanto riguarda il rispetto della libertà d’espressione e l’accettazione del dissenso politico, queste leggi sul controllo dei dati assumono connotazioni che preoccupano gli esperti di diritti umani.

È il caso della Cina, che fin dagli anni Novanta ha sviluppato un proprio internet separato quasi completamente da quello del resto del mondo, ma anche di stati come il Pakistan e il Vietnam, dove il rischio è che la localizzazione dei dati (cioè la presenza dei server con i dati dei cittadini sul territorio dello stato) non porti a una maggiore privacy, ma soltanto a un maggiore accesso alle informazioni sensibili da parte del governo.

«I governi autoritari, guidati da Cina e Russia, vedono l’accesso fisico ai data center come un fattore critico di sorveglianza e controllo politico.

 La localizzazione dei dati consente l’oppressione politica portando le informazioni sotto il controllo del governo e consentendo al governo di identificare e minacciare le persone, incidendo così sulla privacy, sulla protezione dei dati e sulla libertà di espressione», si legge nel report dell’ITIF.

Le ricadute sulle aziende.

A livello economico, queste leggi per la “sovranità digitale” complicano la vita delle aziende, che in questi anni hanno tratto grande beneficio dal libero flusso dei dati.

Benché affermino spesso che, se le società dovessero immagazzinare tutti i dati localmente, sarebbe molto complesso continuare a offrire gli stessi prodotti e servizi in tutto il mondo, le grosse aziende statunitensi leader del settore si sono finora adeguate alle richieste governative, cominciando a offrire servizi che consentono alle aziende di archiviare le informazioni all’interno di un determinato territorio.

“Amazon Web Services” ora consente ai clienti di controllare dove sono stati archiviati i dati in Europa; in Francia, Spagna e Germania, Google Cloud ha firmato accordi con fornitori di servizi tecnologici e di telecomunicazioni per far sì che siano aziende locali a gestire i dati prodotti sui servizi di Google.

La sicurezza.

Una critica più interessante alla dottrina della “sovranità digitale” arriva dal mondo della sicurezza informatica, che da anni sottolinea come la privacy e la sicurezza dei dati dipendono più da come i dati vengono trasmessi e archiviati piuttosto che da dove si trovano fisicamente.

Come si legge anche nel report dell’ITIF, «la sicurezza dei dati dipende principalmente dai controlli logici e fisici utilizzati per proteggerli, come la crittografia avanzata sui dispositivi e la sicurezza perimetrale per i data center. La nazionalità di chi possiede o controlla i server o il paese in cui si trovano questi dispositivi ha poco a che fare con la loro sicurezza».

«I politici sembrano non capire che la riservatezza dei dati non dipende generalmente dal paese in cui sono archiviate le informazioni, ma solo dalle misure utilizzate per archiviarle in modo sicuro.

Un server sicuro in Malesia non è diverso da un server sicuro nel Regno Unito.

 La sicurezza dei dati dipende dai controlli tecnici, fisici e amministrativi implementati dal fornitore di servizi, che possono essere forti o deboli, indipendentemente da dove sono archiviati i dati», continua l’ITIF, secondo cui, anzi, «la localizzazione dei dati impedisce ai fornitori di servizi cloud di utilizzare le migliori pratiche di sicurezza informatica.

 

 

 

Caro affitti a Milano: sale il

prezzo delle case, anche in periferia.

 

Ilsole24ore.com - Laura Cavestri – ( 8 novembre 2023) – ci dice:

Presentato il primo report dell’Osservatorio Casa Abbordabile (Oca) promosso da Consorzio Cooperative Lavoratori (Ccl), Delta Ecopolis e il Politecnico di Milano.

Una città che prende più di quello che riesce a dare:

questa è la contraddizione che rischia di vivere Milano, dove il 34% dei contribuenti dichiara un reddito lordo inferiore a 15mila euro l’anno, ma dove nel periodo 2015-2021 i prezzi medi delle abitazioni sono cresciuti del 41%, gli affitti medi del 22% e la retribuzione media di operai e impiegati è cresciuta, rispettivamente, solo del 3 e del 7 per cento.

Sono i dati principali emersi dal report dell’”Osservatorio Casa Abbordabile” (Oca), promosso dalle cooperative di costruzioni Ccl e Delta Ecopolis, in partnership con il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano.

Secondo lo studio, in Italia, i processi di ridimensionamento e trasformazione dell’intervento pubblico nel campo delle politiche della casa rispetto alle dinamiche di un mercato immobiliare in buona parte slegato dall’economia reale, redditi e retribuzioni in contrazione, con poche città realmente attrattive che richiamano una forte domanda a fronte di un’offerta rimasta per lo più vetusta e inadeguata hanno contribuito a far emergere la questione.

A Milano, la proporzione tra redditi e costi abitativi per chi accede all’abitazione è diventata assai critica.

Dal 2015, il rialzo dei valori immobiliari in zone sempre più lontane dal centro ha pesato progressivamente sulle spalle dei lavoratori a reddito medio basso.

Se si analizzano i dati relativi al numero di alloggi di edilizia residenziale pubblica, si può notare come, dal 2015 al 2021, nel comune di Milano sono stati richiesti permessi di costruire da enti pubblici per soli 196 alloggi, pari all’1,1% del totale dei permessi richiesti, con una conseguente offerta di alloggi pubblici largamente inferiore alla domanda espressa:

nel 2022 sono state presentate domande da 36.946 nuclei familiari a fronte di 1.523 alloggi messi in avviso e di 1.297 alloggi assegnati.

 

Più contratti di locazione (e anche più cari).

Un mercato in rapida crescita, una offerta pubblica stagnante e un’offerta sociale che si sta dimostrando economicamente troppo costosa per i nuclei a basso reddito:

 a Milano, i contratti di locazione sono cresciuti da 40.165 nel 2015 a 55.830 nel 2021, ma soprattutto nel mercato transitorio (che passa dal 17,5% al 27,2% dei nuovi contratti) e con canoni in forte crescita:

 il canone medio registrato da “Omi” (Osservatorio Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle Entrate) è cresciuto da 129,6 euro/mq annuo nel 2015 a 173,4 euro/mq annuo nel 2022 (+33,8%), mentre il portale di “intermediazione Immobiliare.it” per gli stessi anni registra canoni da 182,4 euro/mq annuo nel 2015 a 239,9 euro/mq annuo nel 2022 (+31,5% per cento).

 

Si mantiene molto bassa l’offerta a canone concordato e agevolato studenti, complessivamente ferme al 5% dei contratti.

Per quanto riguarda le compravendite, il prezzo al metro quadro è cresciuto mediamente del 40,7% tra il 2015 e il 2021, con un aumento rilevante delle quotazioni di quei quartieri riconosciuti fino al 2014 come più economici (identificati tramite zone omogenee Omi).

In particolare, risulta preoccupante la crescita dei valori in tre zone:

Stazione Centrale-Viale Stelvio (+ 32,7%); i quartieri di Cenisio, Farini e Sarpi (+ 24,6%); Tabacchi, Sarfatti e Crema (+22,8 per cento).

 

I prezzi e le retribuzioni.

L’indagine spiega anche che i prezzi delle abitazioni crescono tre volte più rapidamente di redditi e retribuzioni, gli affitti quasi due volte più rapidamente.

Ma se guardiamo alle retribuzioni stagnanti delle categorie medio-basse, nella classificazione Inps denominate “operai” (in media 1.410 euro di retribuzione mensile lorda) e “impiegati” (in media 2.435 euro) – che insieme rappresentano il 61% dei lavoratori milanesi –, i prezzi di acquisto crescono ben 13,6 volte più velocemente delle retribuzioni degli “operai” e 5,8 volte di quelle degli “impiegati”; i canoni di locazione crescono rispettivamente 7,3 e 3,1 volte più velocemente delle retribuzioni medie delle stesse categorie.

I dati restituiscono la realtà di una città in cui per molti, soprattutto per i nuovi arrivati (chi non era già in possesso di un immobile a Milano) e per i profili reddituali medio bassi, il reddito da lavoro non è più sufficiente a garantire una vita quanto meno dignitosa:

infatti, il 57% dei contribuenti milanesi dichiara un reddito lordo inferiore a 26mila euro l’anno e il 34% dichiara un reddito lordo inferiore a 15mila euro l’anno.

La fascia di reddito medio-bassa (15mila-26mila euro) risulta sovra-rappresentata nei quartieri periferici, la fascia medio-alta (26mila- 55mila euro) tende a concentrarsi nei quartieri semicentrali e in alcuni quartieri periferici mentre le fasce di reddito più elevate (>55mila euro) sono sovra-rappresentate nei quartieri centrali e semi-centrali.

Operai e impiegati «espulsi».

Tradotto, in centro, semicentro e resto della città, chi ha una retribuzione media annua lorda di 16.919 euro) vede un indice di metri quadri teoricamente abbordabili pari a 12 mq nei quartieri del centro storico, 17 mq in quelli semicentrali, e 30 metri quadri nel resto della città.

L’impiegato medio (retribuzione media annua lorda di 29.219 euro) invece vede un indice di metri quadri teoricamente abbordabili di 16 metri quadri nei quartieri del centro storico, 23 mq in quelli semicentrali, e 40 mq nel resto della città. Ciò significa che, anche nelle zone periferiche, il mercato residenziale fatica ad offrire alle retribuzioni più diffuse una offerta abitativa adeguata.

 

 

 

 

Sorveglianza di massa, la Cina

è un sistema a “diritti affievoliti”:

perché lo tolleriamo e cosa rischiamo.

Agendadigitale.eu - Barbara Calderini – (22 Nov. 2022) – ci dice:

 

Sicurezza Digitale.

Da tempo, i cittadini cinesi si sono abituati all’idea di essere costantemente sorvegliati in cambio di una governance che, idealmente, rende le loro vite più sicure e facili.

Ma la Cina non è sola: anche l’Europa deve rispondere delle proprie responsabilità, finora sottaciute, per lo sviluppo di tecnologie di sorveglianza.

China surveillance.

Il Partito Comunista cinese, peraltro con la partecipazione della Silicon Valley, Intel, IBM, Seagate, Cisco e Sun Technologies (che hanno contribuito a rendere i sistemi di sorveglianza all’avanguardia accessibili e convenienti), è riuscito a costruire un nuovo contratto sociale con i suoi cittadini.

Una sorta di stato di polizia distopico presidiato dalle forze di sicurezza nazionale, armate di intelligenza artificiale:

sostenuti da pensatori scientifici cinesi fondamentali come “Qian Xuesen”, i cinesi si sottomettono alla sorveglianza digitale in cambio di una governance più precisa che, idealmente, rende le loro vite più sicure e più facili;

dai modelli di traffico alla sicurezza alimentare, alla risposta alle emergenze.

Uno stato di cose delineato chiaramente dai giornalisti del “Wall Street Journal” “Josh Chin” e “Liza Lin”, autori di “Surveillance State: Inside China’s Quest to Launch a New Era of Social Control”.

 

Surveillance State: il controllo sociale in Cina che plasma la volontà delle persone.

“Alibaba” e “Tencent”, giganti tech cinesi, tornati sotto il controllo del Partito Comunista a seguito del “giro di vite” intrapreso dalla Cina contro le società tecnologiche più potenti, controllano enormi quantità di dati comportamentali; tutti accessibili al governo:

 sin dal 2016 nella città di Hangzhou,” Alibaba” ha sviluppato una piattaforma cloud chiamata “City Brain “che monitora le condizioni del traffico, rileva incidenti stradali, regola i semafori per ridurre i tempi di viaggio e persino i tempi di risposta dei veicoli di emergenza.

L’intelligenza artificiale di City Brain, asservita alle velleità del governo, è solo una delle tante applicazioni in grado controllare i veicoli di un’intera città.

 

Grandi quantità di dati, (la Cina ha già superato gli Stati Uniti per quanto riguarda la quantità totale di dati che è in grado di trattare e produrre) vengono raccolte, elaborate da algoritmi nei supercomputer, quindi reinserite nei sistemi della città, resi disponibili all’autorità.

Leadership confuciana.

Ogni espressione dell’autorità di governo in Cina viene intesa dai cinesi alla stregua di un assioma ontologico: l’interesse pubblico prevale su quello del singolo; il capillare controllo della società e le esigenze di pubblica sicurezza si impongono sui diritti degli individui.

Non è un caso che la Repubblica Popolare Cinese sia oggi il più importante esempio di Stato socialista ancora esistente, sebbene con alcune evidenti peculiarità che ne hanno caratterizzato il discostamento rispetto alla concezione tradizionale:

prima fra tutte la capacità della classe dirigente cinese di interpretare le dinamiche dell’attuale fase storica della globalizzazione e di volgerle a proprio favore consentendole di emergere come protagonisti indiscussi della scena economica internazionale.

È certo, il fatto che la Cina, in tale contesto, si ponga come un sistema a “diritti affievoliti” non stupisce. Tanto è connaturato alla sua stessa storia e tradizione.

È altresì sancito espressamente nella Carta costituzionale cinese dove, a fronte di un elenco di diritti e doveri fondamentali, è infatti previsto che “i cittadini nell’esercizio dei loro diritti e libertà, non possano violare gli interessi dello Stato, della società o della collettività” (art.li 51, 53 e 54).

Il Partito è l’interprete unico dell’uniformità di intenti che deve contraddistinguere l’azione statale a tutti i livelli; le assemblee popolari, dal parlamento a quelle dei diversi enti locali, province regioni autonome, prefetture e contee, assurgono al ruolo di “organi e strumenti del potere statale”.

Ed è in tale contesto che trovano terreno fertile le molteplici applicazioni e i sistemi di sorveglianza che rendono le città cinesi le più monitorate al mondo: “Golden Shield”, “Skynet”, “Safe Cites”, “Police Clouds”,” Project Sharp Eyes”, e altri.

Da tempo i cittadini cinesi si sono adattati a tale forzosa convivenza. E la leadership cinese, forte degli strumenti di governance derivanti dalla dottrina della “Grande Armonia”, ha in tal modo potuto perseguire i nuovi programmi di sviluppo e di soft power culturale globale, radicandoli proprio nella tradizione e nella ferrea obbedienza dei cinesi ai capisaldi dell’etica confuciana.

Un sofisticato database nazionale collega documenti di identificazione, telecamere a circuito chiuso, sistemi di riconoscimento di aziende cinesi come “Huawei”, “Sensetime,” “Megvii” e “China Electronics Technology Group Corporation”, registrazioni di impronte digitali, campioni di DNA, scansioni dell’iride e gruppi sanguigni, cronologie di viaggio, tracciamento dei telefoni, monitoraggio degli acquisti online e meccanismi di decrittazione dei messaggi scambiati dagli individui: tutte informazioni sottomesse al monitoraggio del governo cinese.

“Xue Liang”, ovvero “Occhio di falco” è il nome del programma di videosorveglianza a tappeto del presidente Xi Jinping e di Pechino.

Spyware nei cellulari, telecamere per il riconoscimento facciale, wi-fi sniffer: si basa su un mix di tecnologie vecchie e nuove la grande rete voluta dal presidente Xi che punta a “controllare” 1,4 mld di abitanti in Cina.

 

Diffusione e pervasività della sorveglianza sociale che la società di sicurezza “Comparitec”h ha voluto classificare a livello mondiale:

la Cina ospita oltre 540 milioni di telecamere di sorveglianza, circa la metà di tutte le telecamere del mondo e detiene il primato con otto delle prime 10 città più sorvegliate al mondo.

L’apice si tocca a “Chongqing”, grande agglomerato urbano situato nel sud-ovest del paese, dove confluiscono i fiumi Azzurro e Jialing, con quasi 2,6 milioni di telecamere, ovvero 168,03 per 1.000 persone.

 Seguono “Shenzhen”, nella provincia meridionale del Guangdong e Urumqi, nota capitale della regione autonoma cinese dello “Xinjiang Uygur.”

Apposite telecamere vengono posizionate dove le persone si recano per soddisfare i loro bisogni comuni, come mangiare, viaggiare, fare shopping e divertirsi; telecamere per il riconoscimento facciale si trovano all’interno di spazi privati, come edifici residenziali, sale karaoke e hotel;

 dispositivi, noti come wi-fi sniffer e catcher IMSI, raccolgono informazioni dagli smartphone consentendo alla polizia di tracciare i movimenti di un dato bersaglio.

Due giornalisti del “New York Times”, “Paul Mozur” e “Aaron Krolik”, hanno descritto il modo in cui i vari strumenti di sorveglianza vengono combinati all’interno di un vasto sistema integrato e connesso, alimentato da un insieme di tecnologie, alcune all’avanguardia ed altre piuttosto datate.

L’articolo del NYT presenta, con ricchezza di particolari e riscontri video, come tutte queste funzionalità siano diventate largamente disponibili per le Autorità di polizia di ogni livello e come i dati raccolti possano essere resi accessibili ad una vasta gamma di terze parti sia pubbliche, per scopi di intelligence e sicurezza pubblica, che private, per scopi commerciali e di marketing.

 Il tutto, peraltro, attraverso pratiche di sicurezza del tutto assenti se non inadeguate, livelli di fallacia algoritmica piuttosto significativi e un livello inquietante di pregiudizi sistemici.

“Human Rights Watch” (HRW), con sede a New York, riporta l’esistenza di un documento ufficiale, risalente al 2017, chiamato “The [Xinjiang Uyghur Autonomous] Region Working Guidelines on the Accurate Registration and Verification of Population” (全区人口精准登记核实工作指南, “The Population Registration Program”), che descrive il funzionamento di una banca dati biometrica, destinata in modo specifico al controllo delle minoranza etnica Uiguri, che aggrega e archivia su server governativi le delicate informazioni degli individui coinvolti in nome di apparenti politiche antiterrorismo:

 operazioni che le Nazioni Unite hanno già dichiarato idonee a costituire crimini contro l’umanità.

Le stesse applicazioni di monitoraggio sviluppate in costanza di pandemia, come quella chiamata “Health Code” (Codice sanitario), lanciata dalla città cinese di “Hangzhou”, sembrerebbero essere destinate a non esaurire la loro funzione con la fine dell’emergenza sanitaria ma a diventare veri e propri “passaporti digitali” dei cittadini in pianta stabile.

Come dire un upgrade permanente della sorveglianza di massa che grava sui cittadini in Cina.

 

L’”IoT” offre l’infrastruttura necessaria per la sorveglianza.

“Edward Schwarck”, uno studente in sicurezza pubblica cinese presso l’Università di Oxford, ha approfondito “il ruolo del ministero della Pubblica Sicurezza Cinese” descrivendone lo sviluppo nel corso del tempo in chiave di intelligence.

Le sue analisi hanno evidenziato come il ministero iniziò a riformare ed aggiornare le sue strutture di intelligence all’inizio degli anni 2000 con l’intento di ristabilire il “dominio dell’informazione” su una società sempre più fluida e tecnologicamente sofisticata.

 Le evidenze raccolte hanno dimostrato come lo stesso si sia adattato allo sviluppo tecnologico trasformando ed adeguando, alle potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, le proprie procedure di raccolta, analisi e diffusione delle informazioni, fino a dare forma all’attuale sistema di intelligence di pubblica sicurezza.

Ebbene, secondo “Schwarck ““definire un modello simile come sistema di polizia basato sull’intelligence o sulle analisi predittive distoglie l’attenzione dal fatto che ciò che sta accadendo in alcune aree del Paese, come nello “Xinjiang”: non riguarda affatto la polizia, ma una forma di vera e propria ingegneria sociale”.

Nel frattempo, mentre da una parte le reazioni della comunità internazionale sulla questione dei diritti umani nello “Xinjiang” e di altri crimini umanitari nel mondo rimangono piuttosto deboli e poco coordinate, rivelando ben più di una frattura a seconda degli interessi economici con Pechino, dall’altra, le tattiche di propaganda e disinformazione dei regimi autoritari, tra cui la Cina, evolvono in forme sempre più sofisticate, e al centro di questi sforzi globali di repressione e controllo dell’informazione ci sono sempre i social media: Twitter, Facebook, YouTube, oltre naturalmente a TikTok.

 

Chiaro, dunque, che applicazioni omnicomprensive “di fatto insostituibili” come “WeChat” assumono, nell’alveo del loro terreno d’elezione – lo spazio digitale – un ruolo strategico sinergico e cruciale, con effetti calamitanti dentro e fuori dal territorio cinese.

Un universo non solo di sorveglianza ferrea ma anche “geo mediatico”, peraltro, ben sedimentato:

le prime interferenze governative riscontrate su “Wechat” risalgono al 2013, con la censura dei post e delle chat contenenti le parole “Falun Gong” (轮功) e “Southern Weekend” (南方周末).

Più di un miliardo di smartphone in tutto il mondo dove l’app interagisce con gli apparati di polizia fornendo l’accesso a query di ricerca e contrassegni di tag specifici e dove persino l’inattività digitale stessa può destare sospetti.

Censura e propaganda.

Il controllo dell’informazione è un elemento ritenuto cruciale; l’apparato di propaganda “visibile” della Cina è ben radicato e la gestione della verifica dei contenuti informativi sia interna che esterna riveste una priorità assoluta per il PCC.

Censura, insomma.

Ma non solo, perché alla censura si accompagna l’attività di propaganda:

gli obiettivi di controllo sulle informazioni della Cina abbracciano tanto operazioni di influenza negli ecosistemi tradizionali quanto nei social media, ritenuti non a caso percorsi preferenziali usati per deviare il dibattito come veri e propri distrattori sociali.

 

Luoghi virtuali di condivisione in cui l’utilizzo di contenuti di terze parti rivela un potenziale di amplificazione ed effetti di rete talmente appetibili da porsi in perfetta sinergia con l’operato interno dei media governativi, strategicamente coordinati per orientare il discorso pubblico e la governance internazionale, a scapito dei diritti e delle libertà fondamentali universali.

Una sorta di “censura inversa” che si oppone al dissenso politico anticinese con il rumore creato dall’effetto cascata dei post governativi appositamente costruiti.

Tutte circostanze queste ben descritte nello studio sulle operazioni di informazione a spettro completo della Cina, analizzato dall’”Hoover Institution” e dall’”Osservatorio Internet di Stanford”, di cui sono autrici Renèe Diresta, Carly Miller, Vanessa Molter, Jhon Pomfret e Glenn Tiffert, ma anche nel rapporto di Recorded Future e nell’analisi dell’”Australian Strategic Policy Institute”, che documentano in modo esauriente e con dovizia di particolari le armi di propaganda e censura del governo cinese.

Il “Great Firewall” è l’ulteriore strumento di sorveglianza che blocca decine di migliaia di siti Web invisi al Partito.

Proprio il rafforzamento della “sfera ideologica” nel contesto di quella che la Cina stessa definisce una “Guerra globale dell’informazione” viene esplicitamente identificato dal Comitato centrale del Partito comunista tra gli obiettivi cardine, imprescindibile per l’affermazione della supremazia del Paese, nonché baluardo contro i pericoli derivanti dalla minaccia delle avverse forze occidentali:

dai valori universali e fondamentali espressione della democrazia costituzionale di matrice neo liberalista, alla concezione occidentale dell’ecosistema informativo che sfida il principio cinese secondo cui i media e il sistema editoriale dovrebbero essere soggetti alla disciplina del Partito.

Sotto la leadership del Presidente “Xi”, la repressione di qualsiasi voce dissenziente ha, infatti, ricevuto una svolta ulteriormente restrittiva e rigorosa.

Non è un mistero che proprio la Cina detenga oggi il primato di giornalisti incarcerati, ponendosi al primo posto nella classifica dei Paesi con il maggior numero di reporter reclusi, prima di Turchia, Arabia Saudita ed Egitto.

Una situazione che lo stesso Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj) ha definito “in costante peggioramento”.

E altrettanto significative in tal senso risultano le numerose “espulsioni” dei giornalisti occidentali ritenuti spesso “ostili”: ne sono coinvolti testate come il “Wall Street Journal”, “Bloomberg” e il “New York Times”.

Il sistema nazionale di credito sociale.

Non ultimo rileva, in termini di controllo, il sistema nazionale di credito sociale (un insieme di «modelli» per verificare l’«affidabilità» delle persone associandole a un punteggio e a blacklist) finalizzato a valutare “e dunque prevenire” la condotta di ogni cittadino cinese, in ogni ambito: dall’accesso al credito alla tendenza alla commissione dei crimini.

E il “sistema dei crediti sociali” rappresenta solo uno dei tanti aspetti oscuri e distopici dei piani di ingegnerizzazione sociale in Cina.

Se infatti da una parte i crediti sociali mirano a creare una società basata sulla fiducia dove però cosa è virtuoso e morale lo decide il partito comunista, un’ulteriore “griglia sociale” viene stabilita dalle smart city, a loro volta governate socialmente attraverso crediti sociali e capacità tecnologiche che consentono raccolta ed elaborazioni di dati continua.

Forme di iper-sorveglianza nei confronti della quale milioni di cinesi nel mondo, e non solo, stanno divenendo ormai insensibili e dove la libertà personale ha un costo inimmaginabile.

E le possibilità di scelta sono inesistenti.

Dall’IA alle smart cities, passando per le applicazioni social come “WeChat”, la Cina ha infatti assunto una posizione pesantemente sfidante e per il momento vincente rispetto alla supremazia tecnologica filoccidentale.

Nella hall dell’“Institute of Automation”, il campus di laboratori nazionali dell’”Accademia cinese delle scienze”, un poster gigante del Presidente Xi Jinping in abito nero, convalida quanto l’obiettivo del potenziamento del sistema digitale di controllo sociale – pattugliato da algoritmi precognitivi addestrati al riconoscimento dell’iride, alla sintesi vocale basata su cloud e al controllo dei potenziali dissidenti in tempo reale – rappresenti per la nazione la priorità assoluta.

I Big Data costituiscono la risorsa inestimabile per fare tali previsioni.

I funzionari possono attingere a questa capacità per gestire crimini, proteste o impennate dell’opinione pubblica online.

Un network, quindi, dove la repressione del crimine va di pari passo con l’analisi di polizia predittiva e la censura con la propaganda:

coloro che esprimono opinioni non ortodosse online possono diventare soggetti di attacchi personali mirati nei media statali.

La sorveglianza e l’intimidazione sono ulteriormente integrate da una vera e propria coercizione, tra cui visite di polizia, arresti, “confinamenti rieducativi”.

Ubi data ibi imperium.

In tutto ciò il Partito Comunista è stato straordinariamente abile nel plasmare la conversazione sulla privacy.

In tal senso uno degli eventi normativi significativi dell’ultimo periodo è senza dubbio l’introduzione della legge sulla privacy cinese, “Personal information protection law” (“Pipl”) cinese, che interessa molte aziende internazionali operanti in Cina o intenzionate a coltivare relazioni commerciali con il territorio cinese.

Una legge che si inserisce in un sistema regolatorio in costante evoluzione, di cui fanno parte anche la “Cybersecurity Law”, in vigore dal primo giugno 2017 e la “Data Security Law” approvata il 10 giugno 2021, in vigore da settembre 2021, con impatti a livello domestico e internazionale estremamente imprevedibili, specie per i riflessi in fatto di circolazione internazionale dei dati e dell’adozione di misure destinate allo sviluppo di tecnologie relative al riconoscimento facciale, all’intelligenza artificiale e all’analisi dei dati.

Parliamo di un sistema giuridico solido dove impiantare il regime di sicurezza delle informazioni e dei dati in Cina, mira, in modo specifico, a potenziare le esigenze di sovranità digitale ritenute prioritarie da Pechino, a maggior ragione nel contesto dell’attuale competizione tecnologica e commerciale con gli USA.

 

Lo Stato, Pechino, sede del potere politico, diviene a tutti gli effetti il tutore della salvaguardia dei dati e della sovranità digitale della società cinese.

Sorveglianza di Stato e Capitalismo di sorveglianza ovunque.

Ma la Cina non è l’unico paese ad utilizzare e ad offrire una visione chiara di come gli Stati dovrebbero utilizzare le tecnologie di sorveglianza (i sistemi di controllo della polizia cinese vengono venduti in più di 80 paesi in tutto il mondo, comprese diverse democrazie).

La stessa Europa viene chiamata a rispondere delle proprie responsabilità, finora sottaciute, per lo sviluppo di tecnologie di sorveglianza.

Negli anni, la collaborazione dell’Ue con i Paesi limitrofi per il controllo delle migrazioni ha rafforzato i regimi autoritari, fornito un boom di profitti per le imprese della sicurezza e ai produttori di armamenti, distolto risorse dallo sviluppo e indebolito i diritti umani.

A settembre 2020 “Amnesty International”, auspicando il divieto assoluto dell’uso indiscriminato delle tecnologie di riconoscimento facciale, ha diffuso il rapporto “Out of Control: Failing EU Laws for Digital Surveillance Export”, in cui ha reso evidente come tre aziende europee con sede in Francia, Svezia e Paesi Bassi abbiano venduto sistemi di sorveglianza ad agenzie di sicurezza cinesi coinvolte nelle violazioni dei diritti umani.

 Il caso più conosciuto è quello che riguarda la “minoranza musulmana uiguri” nella regione dello Xinjiang.

E il riferimento è rispettivamente a “Morpho” (ora Idemia),” Axis Communications” e “Noldus Information”.

Ma tra tutti il rapporto che ha destato il rumore maggiore, per l’ampiezza e specificità delle denunce (tutte documentate) è senza dubbio lo studio “Surveillance Disclosures Show Urgent Need for Reforms to EU Aid Programmes” pubblicato il 10 novembre 2020 da “Privacy International” di cui si consiglia l’attenta lettura.

Sono molte le organizzazioni europee coinvolte nelle recriminazioni:

 dall’Agenzia di frontiera Frontex al Servizio europeo per l’azione esterna, dal Fondo fiduciario dell’UE per l’Africa all’Agenzia dell’Unione europea per la formazione delle forze dell’ordine (CEPOL) e all’EUROPOL;

comprese le istanze di chiarimento rivolte all’EDPS quanto all’Opinion 2/2018 relativa agli otto mandati negoziali volti alla conclusione di accordi internazionale che consentirebbero lo scambio di dati tra Europol e paesi terzi.

Il riconoscimento facciale è sedimentato e certo “ben sovvenzionato” da tempo. In Europa, Cina e ovunque:

in Florida, l’ufficio dello sceriffo della contea di Pinellas (PCSO) gestisce uno dei più grandi database di riconoscimento facciale in America.

Se dunque i governi dei paesi autocratici e semi-autocratici sono più inclini ad abusare della sorveglianza dell’IA rispetto ai governi delle democrazie liberali, queste restano comunque i principali utilizzatori e fornitori della sorveglianza dell’IA.

L’origine dell’odierno “Panopticon cinese” e la sua inarrestabile evoluzione non sono altro che il risultato di un’accelerazione resa possibile dalla grande trasformazione tecnologica del paese (e con essa la nuova straordinaria capacità di raccogliere dati biometrici da parte di Pechino).

La diffusione della sorveglianza, in particolar modo applicata all’AI, continua senza sosta.

E se il suo utilizzo da parte di regimi autoritari per progettare repressioni contro popolazioni mirate ha già suonato campanelli d’allarme, tuttavia anche in paesi con forti tradizioni di stato di diritto, l’IA fa sorgere problematiche etiche fastidiose ed urgenti.

Un numero crescente di stati nel mondo oltre alla Cina sta implementando strumenti avanzati di sorveglianza dell’IA per monitorare, rintracciare e sorvegliare i cittadini per raggiungere una serie di obiettivi politici: alcuni legali, altri che violano palesemente i diritti umani e molti che cadono in una via di mezzo oscura.

Questo è il quadro descritto da “Carnegie Endowment for International Peace”, uno dei più antichi e autorevoli think tank statunitensi di studi internazionali.

La tecnologia legata alle società cinesi – in particolare Huawei, Hikvision, Dahua e ZTE – fornisce la tecnologia di sorveglianza dell’IA in 63 paesi, 36 dei quali hanno aderito alla “Belt and Road Initiative cinese” afferma il Rapporto.

Oltre alle società cinesi, la giapponese NEC fornisce la tecnologia di sorveglianza dell’IA a 14 paesi e IBM in 11 paesi, secondo il rapporto Carnegie.

“Anche altre società con sede in democrazie liberali – Francia, Germania, Israele, Giappone – svolgono un ruolo importante nel proliferare di questa tecnologia”.

Tutti questi paesi, evidenzia il Rapporto “non stanno però adottando misure adeguate a monitorare e controllare la diffusione di tecnologie sofisticate collegate a una serie di importanti violazioni.

Gli esperti esprimono preoccupazione in merito ai tassi di errore del riconoscimento facciale e all’aumento dei falsi positivi per le popolazioni minoritarie.

Il pubblico è sempre più consapevole dei pregiudizi algoritmici nei set di dati di addestramento di AI e del loro impatto pregiudizievole sugli algoritmi di polizia predittiva e altri strumenti analitici utilizzati dalle forze dell’ordine.

Anche applicazioni” IoT benigne” – altoparlanti intelligenti, blocchi di accesso remoti senza chiave, display con trattino intelligente per autoveicoli – possono aprire percorsi problematici alla sorveglianza.

Le tecnologie pilota che gli Stati stanno testando ai loro confini – come il sistema di riconoscimento affettivo di “iBorderCtrl” – si stanno espandendo nonostante le critiche che si basano su scienza difettosa e ricerca non comprovata.

Inevitabilmente sorgono le domande inquietanti sull’accuratezza, correttezza, coerenza metodologica e impatto pregiudizievole delle tecnologie di sorveglianza avanzate.

Conclusioni.

Dal momento che gli algoritmi non sono neutrali, imparziali ed oggettivi e che molto difficilmente le loro implementazioni potranno tradursi in mere scelte amministrative, di ordine pubblico e sicurezza nazionale o di business, allora la domanda è: perché si continuano a tollerare, se non addirittura a favorire, scelte “politiche” che prestano il fianco alle ambizioni degli stati dispotici, o anche democratici, primattori dei diversi approcci di sorveglianza a vantaggio dello sfruttamento commerciale, governativo e a scapito dei diritti umani?

La risposta a questa domanda è complessa. E per le democrazie avanzate la sfida lanciata da queste problematiche è globale e immensa.

I soli adeguamenti normativi, sebbene necessari, non basteranno a garantire trasparenza e correttezza.

Ugualmente non saranno sufficienti le pronunce delle alte Corti per definire precisi ambiti di responsabilità e, neppure i progressi tecnologici, tesi ad abbattere il margine di fallacia dei processi algoritmici, potranno arginare adeguatamente i rischi di discriminazione.

 

Neppure sarà sufficiente “tagliare la catena di approvvigionamento globale della tecnologia di sorveglianza”.

In tanti, non solo negli stati autoritari, continueranno a “fidarsi supinamente” degli (ab)usi promossi da queste tecnologie, vittime di un approccio incauto che rende la sorveglianza parte integrante e naturale del panorama contemporaneo.

Quello tra l’Occidente e la Cina non è un rapporto di sole relazioni tra governi, è altresì una connessione, ancora per nulla compresa, tra le diverse percezioni, che i rispettivi cittadini hanno su temi divisivi, come può esserlo quello dei diritti fondamentali e del potere che promana dall’autorità statale.

La necessità di pensare in modo critico e consapevole sui sistemi di sorveglianza e certo sugli algoritmi di AI in generale diventa evidente.

Non servono, però, approcci solo teorici, di parte o peggio solo distopici.

 Se da una parte la strategia cinese mira al controllo totalitario della propria società e al predominio in campo scientifico entro il 2030 e quella russa si concentra sulle applicazioni in materia di intelligence, dall’altra, negli Stati Uniti, il modello liberista crea una biforcazione tra settore pubblico e privato, in cui i colossi tecnologici della Silicon Valley puntano alla mercificazione deregolata delle opportunità tecnologiche.

E, ancora oggi, il ruolo dell’Unione europea nell’ecosistema digitale globale è in gran parte ancora da decidere.

Parlando di intelligenza artificiale – ci riferiamo a qualcosa che in realtà ha zero intelligenza e zero semantica: il significato e il senso lo danno le persone.

Che si parli di stato totalitario o di sorveglianza di massa piuttosto che di monopolio digitale e di capitalismo di sorveglianza, il solo discrimine e la vera ricchezza tra ciò che ci consentirà o meno di guidare consapevolmente ed efficacemente il percorso verso un progetto umano sostenibile e la necessaria riconciliazione tra l’umanità e lo sviluppo tecnologico, dipende in primis dall’uomo stesso, dalle sue scelte.

E dunque ampio spazio all’alta politica che rivela “l’arte dei migliori”, capace di generare una cultura diffusa in grado potenziare valori radicati ed impregnati di umanità così da fornire adeguate risposte ai sonori biasimi sollevati.

Poiché l’avanzata dei modelli di sorveglianza sociale rischia di farci perdere una guerra che non è di predomino economico e politico, ma di civiltà.

 

 

 

Israele ha già Perso la Partita Politica.

Conoscenzealconfine.it – (10 Novembre 2023) - Gianmarco Landi – ci dice:

 

Il ministro degli esteri dell’Iran ha esortato il gruppo di nazioni BRICS a intervenire in modo attivo, costruttivo e responsabile per fermare i crimini di guerra del regime israeliano nella Striscia di Gaza.

L’Iran, potenza militare in Medioriente con 100 milioni di abitanti e ben 3 milioni di soldati, entrerà nei Brics da gennaio 2024, ma virtualmente è già una nazione alleata della Russia e della Cina.

Il potente senatore “Lindsey Graham”, aveva acclamato l’ipotesi di bombardare l’Iran in modo da concretizzare il sostegno alle politiche del Governo di Israele, attualmente intento a martoriare un paio di milioni di persone che pretende di spazzare via da territori che secondo l’ONU non sono israeliani.

C’è però un enorme problema a cui “Graham” non ha evidentemente pensato:

 il ministro degli esteri dell’Iran ha esortato il gruppo di nazioni BRICS a intervenire in modo attivo, costruttivo e responsabile per fermare i crimini di guerra del regime israeliano nella Striscia di Gaza.

Oh cazzo Houston… abbiamo un problema:

Stanley Kubrik è morto, Armstrong è rimasto sulla Luna, Biden non sappiamo se sia vivo, morto o comunque cosa effettivamente sia stato, e ora il senatore “Graham”, l’anti Trump del Congresso, è molto, molto stanco.

Il ministro degli Esteri dell’Iran, “Hossein Amir-Abdollahian” ha fatto la richiesta in lettere separate indirizzate domenica alle sue controparti nei cinque Stati membri dei BRICS: Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa.

L’alto diplomatico iraniano nelle lettere ha espresso “profonda preoccupazione e dolore” per le atrocità del regime israeliano contro la popolazione di Gaza.

Tradotto dal politichese:

 dobbiamo stangare il governo Israeliano e chiunque gli stia dietro.

Poveretti, non fanno in tempo a perdere in Ucraina e a sostituire le bandiere gialloblù dai balconi con quelle della stella di David, che già hanno perso la partita politica in Medioriente.

(Gianmarco Landi).

(presstv.ir/Detail/2023/11/05/714088/Iran-BRICS-Israel-war-Gaza-United-Nations-Guterres)

(t.me/Unisciti_a_IGR).

 

 

 

 

Israele perderà.

Ecco perché.

 Unz.com - KEVIN BARRETT – (8 NOVEMBRE 2023) – ci dice:

 

Da febbraio 2022, i media mainstream occidentali dicono che la Russia non può assolutamente vincere la sua guerra in Ucraina.

Zelenskyj, con il sostegno dell'Occidente da centinaia di miliardi di dollari, prevarrebbe sicuramente.

La Russia ha sempre subito perdite insopportabilmente pesanti.

 Putin è sempre sul punto di morire.

Una nuova spedizione di armi miracolose degli Stati Uniti cambierà la situazione. Una schiacciante vittoria ucraina è sempre a portata di mano.

Poiché non potevamo immaginare che l'Ucraina perdesse, gli esperti occidentali non potevano vedere che stava perdendo.

 Hanno perso il fatto che dal momento in cui la maggioranza del mondo non occidentale si è rifiutata di accettare le sanzioni statunitensi contro la Russia, era effettivamente finita.

Praticamente l'intera guerra è stata combattuta all'ombra di un'inevitabile vittoria russa. È sempre stata solo una questione di tempo.

Una situazione simile potrebbe prevalere nella guerra per la Palestina?

 La maggioranza del mondo non occidentale si è rivoltata bruscamente contro Israele, ancora più bruscamente di quanto non si sia rivolta contro gli Stati Uniti nella loro guerra contro la Russia attraverso l'Ucraina.

 Eppure i media occidentali continuano a fabbricare e ad abitare una bolla completamente avulsa dalla realtà morale e strategica.

Non riusciamo nemmeno a immaginare che Israele abbia torto, anche se ovviamente lo è.

 Non riusciamo a immaginare che “Hamas” sia un combattente nobile e cavalleresco e che gli israeliani siano dei terroristi codardi che uccidono bambini, anche se questo è ovviamente il caso.

Non possono riconoscere che la stragrande maggioranza del mondo non è d'accordo con loro per ottime ragioni, non a causa dell'"antisemitismo".

E soprattutto non riescono a immaginare che Israele, nonostante (o a causa di) il suo attacco genocida contro i civili, sta perdendo la guerra.

 

Proprio come bisognava leggere fonti "filo-russe" (come il colonnello “Douglas MacGregor”) per ottenere la verità sulla guerra in Ucraina, è necessario stare al passo con il punto di vista della maggioranza globale pro-Resistenza per avere un quadro accurato della guerra per la Palestina.

A tal fine, date un'occhiata alla mia rapida interpretazione, assistita da Google, di un illuminante articolo pubblicato ieri da Al-Jazeera.

“Kevin Barrett” e “Zuhair Hamdani” e “Talal Mushati” per “Al-Jazeera”.

I leader israeliani stanno preparando un'opinione pubblica israeliana tesa e frustrata a sorprese impreviste nella loro guerra contro Gaza, parlando di una guerra lunga, costosa e crudele.

Le grandi aspettative che hanno fissato per la loro guerra saranno difficili da realizzare, mancando di un chiaro piano militare o politico.

Il capo di stato maggiore israeliano “Herzi Halevy” dice: "Stiamo conducendo una guerra con un nemico crudele, e questa guerra ha un prezzo doloroso e pesante", mentre il ministro della Difesa “Benny Gantz” riassume la difficoltà della guerra di terra:

"Le immagini che arrivano dalla battaglia di terra sono dolorose, e le nostre lacrime scendono quando vediamo i nostri soldati cadere".

La leadership israeliana ha lanciato la sua guerra contro Gaza in un momento in cui ha la fiducia solo del 27% dell'opinione pubblica israeliana, mentre solo il 51% circa si fida dell'esercito israeliano.

 A questo si aggiungono i fardelli di 250.000 persone che cercano rifugio dalla regione di Gaza e dalle aree settentrionali vicino al Libano, così come gli oltre 240 israeliani tenuti prigionieri dalla resistenza a Gaza.

Di conseguenza, per Israele, questa guerra non è come le guerre precedenti.

Israele sta subendo enormi perdite quotidiane e l'erosione delle risorse, compresi i soldati, l'equipaggiamento, il tempo, il denaro e la legittimità (sostegno interno ed esterno).

 Il costo continuerà a salire man mano che la guerra si allunga o si espande.

 

Il quotidiano “Maariv” commenta le condizioni della guerra di terra che si sta svolgendo alla periferia di Gaza, dicendo:

 "Le forze di resistenza sono molto lontane dall'essere sconfitte. Nonostante le liquidazioni e gli omicidi, “Hamas” sta riuscendo nella maggior parte dei casi a mantenere un metodo di combattimento organizzato, basato principalmente sui combattimenti nei tunnel, sull'uscita dai nascondigli e sul lancio di missili contro i nostri veicoli corazzati".

Due fattori preponderanti guidano la feroce guerra israeliana contro Gaza:

lo shock della clamorosa sconfitta militare e il fallimento della sicurezza e dell'intelligence che è risultato dal lancio da parte della resistenza palestinese dell'operazione "Tempesta di Al-Aqsa" il 7 ottobre;

 e la difficile situazione dell'enorme numero di prigionieri detenuti dalle Brigate Al-Qassam e da altre fazioni palestinesi.

Pertanto, l'azione militare ruota attorno a questi due obiettivi.

Sotto l'influenza psicologica degli eventi del "sabato nero", gli israeliani sono andati direttamente all'obiettivo finale di ogni guerra, che è "distruggere il nemico".

Si trattava di un tetto alto che probabilmente sapevano, in virtù dell'esperienza precedente, non poter raggiungere. Non può accadere se non a un prezzo che non potrebbe permettersi di pagare.

In questo contesto, il ministro della Difesa “Yoav Galant” ha dichiarato: "Non c'è posto per “Hamas” a Gaza.

Alla fine della nostra battaglia, non ci sarà più “Hamas".

Si tratta di un obiettivo irrealistico, basato sull'esperienza passata e sulle realtà sul campo.

 

Considerando le guerre precedenti, tra cui quella del 2008 e del 2014, troviamo che "distruggere Hamas" è sempre stato un obiettivo fondamentale che non è mai stato raggiungibile.

 Non c'è motivo di credere che questa volta sarà realizzabile, soprattutto perché il movimento è ora molto più forte, con radici molto più profonde nella Striscia di Gaza, rispetto a prima.

 Le sue difese militari e il suo arsenale sono stati rafforzati al punto da essere difficili da penetrare, e alla fine non è uno Stato o un esercito regolare che può annunciare la sua resa, ma piuttosto un movimento di resistenza popolare esteso nel percorso di una lunga resistenza di tanti palestinesi.

 

La guerra che Israele non vuole.

Se la guerra consiste in operazioni di combattimento che richiedono la mobilitazione delle risorse e delle capacità dello Stato per realizzare una specifica campagna militare al fine di attuare obiettivi militari e politici, che vanno dallo spostamento di un fronte al raggiungimento di successi tattici e all'imposizione di determinate condizioni o allo svolgimento di una battaglia decisiva che spezza la volontà del "nemico",

 "Quindi richiede una leadership concordata che goda di un certo grado di consenso.

Richiede un apparato militare addestrato, equipaggiato e almeno minimamente mobilitato psicologicamente per il combattimento;

un adeguato piano di confronto;

e un fronte politico e sociale interno unificato e coeso diretto verso quell'obiettivo.

Richiede anche una mobilitazione economica che comprenda le circostanze e il corso della guerra e le sue sorprese, e un fronte internazionale e regionale comprensivo o solidale.

 La vittoria è difficile da ottenere se una o tutte queste condizioni sono assenti, soprattutto nel caso di lunghe battaglie che richiedono una mobilitazione continua.

 I risultati sono anche legati alla reazione del nemico, all'entità della sua forza e alle tattiche che sceglie.

Israele era pronto?

In termini di capacità militare, Israele sembra sempre pronto alla guerra su più fronti.

Ma le capacità tecnico-militari e le armi da sole non risolvono le guerre, specialmente se non sono il tipo di guerre luminose che Israele favorisce.

In pratica, Israele soffre di difetti significativi in quasi tutti gli ingredienti sopra menzionati per vincere una guerra.

A livello dirigenziale:

 Non c'è una leadership concordata in Israele che goda del consenso o del carisma necessario.

 Il primo ministro Benjamin Netanyahu, come mostrare i sondaggi, è estremamente impopolare.

In un recente sondaggio sull'opinione pubblica israeliana condotta dal quotidiano israeliano “Maariv”, è emerso che solo il 27% degli israeliani sostiene la sua sopravvivenza politica, e le sue decisioni politiche e militari non sono accettate e sono soggette a critiche diffuse.

Il corso della guerra ha anche dimostrato che è indeciso e non ha un piano chiaro e convincente per un'azione militare o politica.

 

Netanyahu rifiuta anche di assumersi la responsabilità per il fallimento della sicurezza del 7 ottobre, che lo ha esposto a gravi critiche interne.

 Il leader dell'opposizione israeliana “Yair Lapid”, ad esempio, ha avvertito che i tentativi di “Netanyahu” di eludere le responsabilità e incolpare l'establishment della sicurezza, indebolendo così l'esercito israeliano, equivalgono a "oltrepassare le linee rosse".

Il fronte interno:

 Il fronte interno sembra essersi disintegrato. Gli israeliani vivono in uno stato di grave divisione a livello partitico, popolare e politico.

Particolarmente controverso è il modo in cui affrontare la questione dei prigionieri detenuti dalla resistenza, alla luce dei pericoli di una guerra di terra e delle grandi perdite che comporterebbe.

Netanyahu e i membri estremisti del suo governo sono accusati di dividere la società israeliana.

 Il leader del partito laburista d'opposizione, “Merav Michaeli”, ha accusato il primo ministro di "combattere l'esercito e il popolo di Israele".

Anche la questione dei prigionieri detenuti dalla resistenza ha suscitato divisioni interne, soprattutto dopo che il ministro del Patrimonio “Amichai Eliyahu “ha chiesto di bombardare Gaza con un'arma nucleare, dicendo:

 "Cosa significa ostaggio? In guerra si paga il prezzo. Perché la vita degli ostaggi è più preziosa di quella dei soldati?"

Ciò è stato considerato dagli israeliani come "un abbandono da parte del governo del suo impegno di restituire gli ostaggi".

 

Fronte militare:

gli eventi del "Diluvio di Al-Aqsa", soprattutto nelle prime sei ore del 7 ottobre, hanno dimostrato che l'esercito israeliano soffre di gravi carenze, così come i suoi numerosi servizi di sicurezza.

Ora le perdite quotidiane che sta subendo nelle sue operazioni di terra in corso lo hanno reso oggetto di sospetto all'interno della società israeliana, che contava su di esso per mantenere un'aura di sicurezza e stabilità.

Situazione economica:

 la situazione economica israeliana è nella peggiore delle ipotesi, con settori importanti come il turismo paralizzato, i viaggi in calo e il settore agricolo che subisce danni.

Con la mobilitazione di circa 360.000 soldati di riserva, la maggior parte dei quali improvvisamente rimossi dalla forza lavoro, e l'evacuazione di circa 250.000 coloni, l'economia sta assistendo a una grave carenza di manodopera in vari settori.

 Israele ha recentemente annunciato che le ultime tre settimane di guerra sono costate circa 7 miliardi di dollari, senza contare i danni diretti e indiretti.

Sebbene questi danni possano costare circa 3 miliardi di dollari al mese, le stime preliminari mostrano che la guerra a Gaza costerà al bilancio israeliano 200 miliardi di shekel (51 miliardi di dollari), ovvero circa il 10% del prodotto interno lordo, e poiché la guerra continua per un lungo periodo, l'economia israeliana potrebbe essere paralizzata secondo le stime israeliane.

Fronte diplomatico:

dopo lo scorso 7 ottobre, i paesi occidentali storicamente prevenuti nei confronti di Israele si sono affrettati a sostenerlo, ma questo sostegno ha cominciato rapidamente a erodersi a causa dell'impatto dei crimini israeliani e dei dubbi sulla capacità dell'esercito israeliano di risolvere la guerra.

Molti paesi hanno condannato Israele o hanno interrotto le loro relazioni diplomatiche con esso (Colombia, Bolivia), mentre altri paesi hanno richiamato i loro ambasciatori (Cile, Giordania, Bahrein, Turchia, Honduras...).

 La pressione popolare globale sempre crescente spinge i governi ad adottare misure di boicottaggio, esponendo Israele a un isolamento che ha cominciato a peggiorare.

 

Il sostegno degli Stati Uniti a Israele si sta indebolendo?

In contrasto con il sostegno diretto iniziale, l'amministrazione del presidente “Joe Biden” ha iniziato a rivalutare il suo sostegno assoluto a Netanyahu per paura che le cose degenerassero in una guerra regionale più ampia.

Washington teme gli scenari folli che Netanyahu potrebbe creare nel tentativo di salvare il suo futuro a spese dell'America.

Dopo circa un mese, gli americani si resero conto che l'unica costante nel piano israeliano era l'uso di una massiccia forza distruttiva contro i civili e le infrastrutture nella Striscia di Gaza.

Sembrava che Netanyahu stesse aspettando una soluzione per salvarsi da una dura situazione nelle sabbie di Gaza – e aspettando l'illusione di una resa della resistenza che non sarebbe avvenuta.

 Cominciarono ad avere dubbi sulla gestione della guerra da parte di Israele e sui suoi risultati.

La CNN ha indicato che il presidente degli Stati Uniti “Joe Biden” e alti funzionari dell'amministrazione statunitense hanno avvertito Israele che il sostegno si sta erodendo mentre la rabbia globale si intensifica per l'entità della sofferenza umana derivante dai crimini commessi a Gaza.

Cosa sta succedendo in campo?

Nel corso di circa un mese di guerra, non sembra che Israele abbia ottenuto alcun risultato significativo sul terreno.

Dichiarazioni contraddittorie indicano confusione su come gestire la battaglia e fissare gli obiettivi finali di fronte a una forte resistenza.

 Lo shock della battaglia mal gestita del 7 ottobre e le cicatrici psicologiche che ha lasciato sull'intero sistema militare israeliano perseguitano ancora il corso della guerra.

Questa atmosfera psicologica incombe anche sui soldati, che si rendono conto che il loro ritorno dalle sabbie di Gaza richiederebbe un miracolo.

Ricordano le esperienze dei loro colleghi e i loro amari ricordi della guerra del 2014 mentre assistono all'annegamento dell'élite della “Brigata Givati” nelle sabbie di Gaza in una battaglia che è ancora agli inizi.

In effetti, l'esercito israeliano è avanzato di pochi metri in terre aperte nel nord della Striscia di Gaza e ha perso 30 soldati, il che significa che è possibile che centinaia di soldati andrebbero persi se l'esercito avanzasse di qualche chilometro, in mezzo a una complessa rete di tunnel e fortificazioni, campi minati, cecchini, ordigni esplosivi e combattimenti corpo a corpo nelle strade di fronte alla volontà di combattimento illimitata della resistenza.

Poiché Israele non ha un piano chiaro per la guerra, è propenso a procedere lentamente e con movimenti calcolati all'interno di Gaza.

Pertanto, il raggiungimento del dubbio obiettivo finale potrebbe richiedere un lungo periodo e perdite insopportabilmente pesanti.

Nel frattempo potrebbero verificarsi importanti trasformazioni militari o politiche che devasteranno l'intero piano.

Nelle sue attuali operazioni, Israele perde fino a 5 soldati ogni giorno alla periferia di Gaza senza un'avanzata militare chiara ed efficace.

“Nahum Barnea”, il giornalista israeliano del quotidiano “Yedioth Ahronoth”, dice: "Una guerra di logoramento alla periferia di Gaza è l'ultima cosa che gli israeliani vogliono sperimentare".

I funzionari militari israeliani si rendono conto che è impossibile liberare militarmente i prigionieri, ma stanno comunque procedendo sotto pressione politica, nonostante il fatto che le famiglie dei prigionieri, così come i paesi che hanno cittadini tra i prigionieri, vogliano un accordo di scambio.

Netanyahu ritiene che un accordo sarebbe un riconoscimento definitivo della sconfitta e una vittoria per “Hamas” e la “resistenza palestinese”.

La coesione della resistenza e il non-piano israeliano.

L'opinione pubblica israeliana teme che la guerra sarà persa su due o più fronti, non riuscendo a liberare o rilasciare i prigionieri (circa 60 di loro sono già stati uccisi nei raid israeliani) e non riuscendo a smantellare le capacità del movimento “Hamas” e della “resistenza palestinese”.

 Peggio ancora, un gran numero di soldati sarà ucciso, forse un centinaio.

In contrasto con il non-piano israeliano, dopo il doloroso colpo militare diretto contro Israele la mattina del 7 ottobre, il piano di “Hamas” e della “resistenza” sembra chiaro:

fermare la guerra, effettuare uno scambio completo di prigionieri e togliere l'assedio di Gaza.

La resistenza sta conducendo una guerra di logoramento contro l'esercito israeliano, infliggendo perdite quotidiane sempre crescenti, e sembra pronta a una lunga guerra per erodere gli elementi del potere israeliano.

Il tempo non è dalla parte di Israele, che perde più soldi, uomini e legittimità, la sua crisi interna peggiora e le pressioni e i dubbi che aumentano la comunità, con la possibilità che la situazione esploda a livello regionale.

Al contrario, è dalla parte della “resistenza palestinese”, che crede che tutte queste pressioni militari e politiche interne ed esterne alla fine faranno sì che Israele ceda e accetti le sue condizioni.

In tal caso, la guerra non finirebbe solo con la sconfitta di Netanyahu, ma anche con la sconfitta del governo di estrema destra e del suo programma razzista.

 La società israeliana ha sempre più rifiutato le politiche di questo governo a tutti i livelli, e la guerra ha dimostrato che non può imporre la resa al popolo palestinese nonostante le tragedie causate dai crimini israeliani a Gaza, le cui ripercussioni hanno reso la comunità internazionale diffidente e incline a rifiutare le narrazioni israeliane.

 

La difficile situazione di Netanyahu.

La comunità internazionale ha iniziato a rendersi conto che la campagna lanciata da “Benjamin Netanyahu” su Gaza non è altro che una serie di orribili massacri quotidiani contro i civili che non ha ottenuto alcun significativo passo avanti militare.

La prognosi:

 Israele sarà costretto a sottomettersi alla sconfitta sotto pressioni interne ed esterne.

Già seri movimenti sono iniziati dalla comunità internazionale per fermare la guerra sulla scia dell'orrore dei massacri israeliani in corso.

“Nadav Eyal” afferma nel suo articolo sul quotidiano “Yedioth Ahronoth” che l'esercito israeliano non può essere soddisfatto dell'"immagine di vittoria" nella sua guerra contro Gaza, e che l'era della di "falciare l'erba" (ridurre le minacce a un livello accettabile) è finita.

 Invece, Israele ha bisogno di una "vera vittoria".

Ma questo lascia il primo ministro” Benjamin Netanyahu” in una situazione profondamente angosciante

Il dilemma principale riguarda lo stesso Netanyahu, che non vuole scendere dall'alto dell'albero su cui si è arrampicato la mattina del 7 ottobre.

Si rende conto di essere politicamente finito (a causa della tempesta di Al-Aqsa) ma sogna una resurrezione legata ai risultati della sua campagna a Gaza.

Netanyahu e il suo gabinetto di guerra stanno agendo impulsivamente sotto l'influenza dello shock del 7 ottobre, senza un chiaro piano militare per la guerra, che viene combattuta principalmente come reazione emotiva insensata alla resistenza ben preparata a Gaza.

Israele non ha un piano chiaro per liberare o recuperare i prigionieri, o per affrontare le enormi e sempre crescenti proteste internazionali, al punto che Netanyahu ha iniziato a rivolgersi ai soldati israeliani a Gaza con citazioni dalla Bibbia, dicendo loro di "ricordare ciò che “Amalek” vi ha fatto". (Amalek rappresenta l'apice del male nella tradizione ebraica.)

Netanyahu ha usato il riferimento ad “Amalek” più di una volta per motivare l'esercito israeliano nella sua guerra contro Gaza.

Netanyahu sta accumulando perdite su tutti i fronti, cercando di cancellare il "sabato nero", ignorando che la sua leadership non gode dell'accettazione popolare, e fingendo di non accorgersi dell'esercito israeliano in pezzi, dell'economia in erosione, della reputazione internazionale minata, del fronte interno disintegrato, delle grandi perdite militari quotidiane e della condanna dei suoi crimini da parte delle Nazioni Unite.

 

 

 

LA FINE DELL’EGEMONIA STATUNITENSE:

QUESTO L’OBIETTIVO CONGIUNTO

DI RUSSIA E CINA.

Comedonchisciotte.org - Katia Migliore – (10 Novembre 2023) – ci dice: 

 

 

Gli esiti inattesi del conflitto Russia-Ucraina e l'avvio del processo di de-dollarizzazione.

Riportandoci indietro di almeno un anno, e trattando del tema della de-dollarizzazione, è necessario ricordare cosa sia avvenuto sul fronte economico e monetario negli ultimi mesi.

 Va ricordato, innanzitutto, il refrain dei media occidentali sul preteso (e presunto) isolamento della Russia dovuto alle sanzioni occidentali.

Ora, sappiamo bene ormai che questa disfatta economica russa, di fatto, non c’è stata.

La narrazione diffusa di tutti i media italiani di una Russia allo sbando, cioè del tutto priva di una strategia anche sul piano delle contromosse economiche e finanziarie, non aveva convinto chi guardava le sorti del conflitto in un’ottica di analisi geopolitica razionale.

E questo per almeno tre buoni motivi:

 il primo, è che sarebbe parso quantomeno bizzarro che un’azione premeditata come quella dell’attacco all’Ucraina non fosse stata valutata anche nei suoi aspetti di reazione del mondo occidentale con le relative contromosse;

 il secondo, perché la via d’uscita in realtà era già stata segnata attraverso gli sviluppi delle relazioni economiche tra Russia e Cina in tempi non sospetti;

terzo perché, va ammesso, dubitiamo di ciò che ci è stato raccontato dai media occidentali che non ci pare abbiano brillato negli ultimi anni per serietà nel dare correttamente le notizie, spesso spudoratamente di parte.

La prima domanda da porsi è se questa accelerazione verso la bipolarizzazione dei blocchi sia andata effettivamente a discapito dell’egemonia USA, sempre più schiacciata dalle iniziative congiunte di Russia e Cina, miranti ormai da anni a uscire dall’influenza finanziaria del blocco occidentale.

Le sanzioni a danno della Russia dimostrano al mondo che le riserve valutarie in dollari americani accumulate dalle banche centrali possono essere bloccate sulla base di iniziative politiche unilaterali.

 Questa situazione di fatto ha generato una perdita di fiducia nel sistema a trazione americana basato sul dollaro:

il peso di questa scelta, lungi dal giudicarne qui l’efficacia nelle sorti del conflitto, rivoluziona in termini geopolitici, economici e finanziari le relazioni fra blocchi di potere, e mette in crisi la gestione economica e persino il ruolo internazionale del dollaro statunitense.

Animato dalla necessità di porre un freno all’iniziativa di Putin, e costretto a rinunciare a qualsiasi intervento diretto di tipo bellico, l’Occidente a guida USA aveva attivato le sanzioni bloccando l’accesso della banca centrale russa alla maggior parte delle sue riserve estere, ravvivando però la rilevanza tra le più grandi nazioni del mondo della domanda non nuova ma fondamentale:

“quanto è alto il rischio?”.

In questa situazione geopolitica, infatti, accumulare attività estere è ormai considerato potenzialmente pericoloso:

i due blocchi militari ed economici, occidentale da un lato ed euroasiatico dall’altro, sembrano destinati ad allontanarsi sempre più l’uno dall’altro, con il rischio non improbabile di non comunicare tra loro, o almeno in modo non ufficiale.

Dopo che Mosca aveva attaccato l’Ucraina, gli Stati Uniti e i loro alleati per ritorsione avevano bloccato l’accesso della banca centrale russa alla maggior parte di miliardi di dollari di riserve estere.

Volendo semplificare la portata di questa decisione, possiamo dire che gli USA avevano deciso, unilateralmente, che tali riserve non valevano più nulla, diventando, de facto, di “qualcun altro”.

 E qui arriviamo al punto:

i saldi in dollari americani diventavano palesemente voci di computer senza valore e non garantivano più l’acquisto di beni essenziali, di conseguenza per Mosca diventava logico smettere di accumularne.

Dal punto di vista russo, meglio investire in ricchezza fisica come grano, barili di petrolio e, naturalmente, metalli preziosi.

O anche, con portata enorme sul piano geopolitico, investendo in attività manifatturiere cinesi.

I legami finanziari ed economici tra le due superpotenze si sono rafforzati, e con un effetto a catena anche le nazioni non sanzionate ma appartenenti all’area filorusso-cinese, o semplicemente neutrali, potrebbero voler diversificare il proprio rischio, spingendo in una direzione del tutto contraria alla globalizzazione, destinando il mondo a consolidare due blocchi separati di potere tecnologico, monetario e militare.

Una realtà impensabile anche solo fino a pochi mesi fa.

La seconda domanda è se il consolidamento del rapporto tra Russia e Cina si andrà sempre più rafforzando, specie attraverso accordi commerciali di grande respiro, ciò metterà a rischio l’egemonia della valuta statunitense nel resto del mondo?

 La politica di Biden, sempre più vicino alle prossime elezioni statunitensi, riuscirà a ricostruire la fiducia nella moneta verde fondata su un’economia reale e in salute?

La sensazione è che le decisioni riguardanti le sanzioni alla Russia abbiano tracciato un percorso di declino molto lento ma inesorabile che colpisce chi le ha messe in atto, accentuando all’estero l’impressione di una Nazione (o insieme di Nazioni) non più in grado di reagire efficacemente di fronte alla crisi interna e alle spinte verso la de-dollarizzazione e la de-globalizzazione.

Ciò che sembra logico aspettarsi è la possibilità per Russia e Cina di creare un sistema finanziario alternativo e competitivo.

 In linea con l’Euroasiatismo di Aleksandr Dugin, filosofo russo e figura controversa, convinto antioccidentalista e antiglobalista, Putin si muove compiendo a pieno la volontà di fare della Russia una civiltà a sé stante, e utilizza i mezzi finanziari ed economici per arrivare al suo obiettivo.

Il conflitto con l’Ucraina è solo una prima fase strategica di un progetto epocale. Se i piani russi andranno in porto, globalizzazione, atlantismo e great reset rischieranno di essere, a medio termine, parole prive di senso almeno per metà del nostro mondo.

 

Un fatto è certo:

 nel tentativo di fermare Putin, l’Occidente ha dato il via allo sganciamento della Russia dal mondo europeo.

 Cercando e generando soluzioni alternative in materia di valute monetarie, beni essenziali, energia, oro e criptovalute, la Russia, spinta dalle sanzioni occidentali, si agganciava all’area asiatica (India compresa), e rilanciava in chiave totalmente indipendente e pienamente sovrana, affermando il diritto di pagare i debiti ai creditori di paesi che commettono «azioni ostili» in rubli.

Il 2022 si era rivelato come un anno di svolta per il rafforzamento delle relazioni bilaterali tra Cina e Russia sul piano commerciale e finanziario, fenomeno già avviato a seguito della crisi della Crimea nel 2014.

 La Borsa di Mosca, che mantiene fondi per conto delle banche del Paese e dei loro clienti, aveva visto esplodere la sua dotazione di riserve estere, che per paura di imminenti sanzioni venivano convertite in massa da dollari ed euro, incassati grazie alle esportazioni in crescita, in yuan, che viene utilizzato sempre di più in Russia tra imprese, investitori e correntisti come riserva di valore, mezzo di pagamento a discapito del dollaro.

Nell’ottica dell’obiettivo della de-dollarizzazione, a inizio settembre 2022 Gazprom aveva annunciato di aver siglato un accordo con la “China National Petroleum Corporation” per iniziare ad effettuare i pagamenti relativi alle forniture di gas per un 50% in rubli e l’altro 50% in yuan.

Un numero sempre più elevato di banche russe sta offrendo ai propri clienti l’opzione di aprire conti in valuta cinese.

Il fatto che gli interessi maturati su questi depositi siano in alcuni casi inferiori a quelli pagati in Cina testimonia l’abbondanza della valuta cinese nelle tasche dei privati in Russia.

L’esclusione del dollaro dal sistema finanziario russo ha giocato a favore di un rafforzamento della moneta cinese come alternativa valutaria, evidenziandone lo spiccato ruolo politico in una situazione in divenire nell’ambito dei precari equilibri mondiali, per i quali la de-dollarizzazione rappresenta sicuramente l’obiettivo e il punto di svolta.

(Katia Migliore)

(wallstreetitalia.com/e-guerra-la-russia-e-pronta-da-anni-anche-economicamente-noi-no/)

 

 

 

 

 

FALSE FLAG E TEORIE DEL COMPLOTTO. 

LE TEORIE DEL COMPLOTTO.

Comedonchisciotte.org – Larry Romanoff – bluemoonofshanghai - Markus – (10 Novembre 2023) – Redazione – ci dicono: 

 

Teoria del complotto” è il nome dato alle percezioni o alle convinzioni del pubblico che, su un particolare evento, differiscono dalla storia ufficiale (di solito governativa), evento di cui una parte significativa del pubblico ritiene che il governo stia nascondendo una parte o tutta la verità.

Le teorie del complotto sorgono generalmente quando sono giustificate, ovvero quando la storia ufficiale non è supportata dai fatti ed è spesso piena di incongruenze, quando i fatti presentati vanno dall’implausibile all’impossibile, quando la storia cambia ripetutamente, quando la logica è difettosa e i pezzi non si incastrano.

Così, quando i fatti non tornano, quando la storia non ha senso, crediamo che ci stiano mentendo ancora una volta. E probabilmente è così.

Il termine “teoria del complotto” era nato decenni fa come parte di un piano deliberato per screditare i membri del pubblico che mettevano in dubbio la versione ufficiale degli eventi, coloro che rendevano pubblici i loro sospetti sulle attività criminali del governo.

 Il piano consisteva nel richiedere l’assistenza dei principali mezzi di comunicazione per applicare l’etichetta di “teorico della cospirazione” a questi individui come modo per metterli a tacere e scoraggiare un’attenzione razionale alle loro affermazioni.

 Il processo era decisamente sgradevole ed efficace, poiché gli attacchi pubblici dei media insinuavano che questi individui erano mentalmente squilibrati e deliranti, e la deprecabile attenzione pubblica era spesso sufficiente a rovinare una reputazione e distruggere una carriera.

Oggi l’espressione è spesso usata per liquidare come un pazzo qualcuno le cui idee non sono degne di attenzione ma, come ha scritto “Mike Adams,” “è una tattica frequentemente usata dalla moderna polizia del pensiero nel disperato tentativo di chiedere ‘Non andare lì!’”.

 

In Occidente ne abbiamo visto molto durante l’incubo COVID, soprattutto nei Paesi di lingua inglese, dove molti medici e scienziati altamente qualificati erano stati minacciati o avevano perso la licenza di esercitare la professione, il tutto sostenuto con forza dai mass media.

Oggi, infatti, i media occidentali sono specializzati nell’attaccare e calunniare le persone che criticano le versioni ufficiali degli eventi o che tentano di correggere i resoconti storici palesemente errati o di riempire alcune delle pagine vuote dei nostri libri di storia.

Nei Paesi occidentali, nonostante l’incessante sostegno sciovinista ai miti della libertà di parola e del pensiero indipendente, questa indipendenza è fortemente limitata quando si tratta di sfidare la versione ufficiale del governo su qualsiasi evento.

 Inoltre, qualsiasi fonte che tenti di documentare le prove dei fatti contro una storia discutibile o che offra confutazioni fattuali delle storie ufficiali, viene generalmente derisa dai media e liquidata come un “sito web di cospirazione”, scoraggiando senza dubbio molti lettori ben intenzionati dal conoscere la verità di un evento.

Ma queste teorie sono raramente opera di pazzi folli o di ingenui senza speranza.

 Il più delle volte, coloro che promuovono queste obiezioni sono sostenuti da una parte dell’opinione pubblica, spesso istruita e ben informata, che ha una formazione specializzata o che ha fatto parte dell’establishment ed è in grado di valutare le circostanze.

Le teorie del complotto sorgono più spesso nei Paesi di fatto politicamente di destra come gli Stati Uniti, il Regno Unito e Israele, perché questi governi dicono bugie più grandi molto più spesso di altri governi e perché è quasi esclusivamente questo gruppo a condurre le operazioni false-flag che danno origine a queste accuse.

In vari momenti, [questi Paesi] commettono ogni sorta di attività deleteria o illegale e, se smascherati, rivendicano la “negabilità plausibile”, si impegnano in tentativi di insabbiamento, diffondono disinformazione e attaccano in modo personale i loro accusatori.

La verità viene ammessa solo quando è finalmente impossibile evitarla.

Le teorie cospiratorie possono peggiorare le sensazioni di ansia.

Ci sono stati molti eventi di questo tipo in cui la spiegazione ufficiale era insensata o evitava di affrontare evidenti carenze e anomalie.

Dato il loro sordido passato e l’ampio coinvolgimento dimostrato in atti illegali clandestini, non è difficile ammettere la possibilità molto concreta che questi governi o militari stiano mentendo ancora una volta.

 Perché non dovremmo essere sospettosi?

Queste teorie sorgono quasi invariabilmente nelle nazioni “occidentali-alleate”.

Poche altre popolazioni hanno avuto motivo di sospettare così profondamente il coinvolgimento dei loro governi o delle loro agenzie di spionaggio in gravi crimini o atrocità, e ci sono pochi esempi di questo tipo in tutto il mondo che non coinvolgano gli Stati Uniti o Israele.

Già questo dovrebbe far riflettere.

Nel corso degli anni, molti eventi accaduti in queste nazioni, o che le hanno coinvolte, avevano fatto nascere nell’opinione pubblica la convinzione di un’attività criminale sponsorizzata dallo Stato, che era stata vigorosamente – e spesso ferocemente – denunciata all’epoca, per poi dimostrarsi vera molti decenni dopo, quando i documenti erano stati declassificati.

 In genere, la verità emerge solo dopo 60 o 70 anni, spesso dopo che i responsabili sono morti da tempo e troppo tardi per avere un effetto sugli eventi attuali.

Tali eventi includono l’affondamento della USS Maine nel porto dell’Avana, l’affondamento del Lusitania, l’attacco a Pearl Harbor, l’incidente del Golfo del Tonchino, l’abbandono dei prigionieri di guerra statunitensi in Vietnam e l’assassinio di Martin Luther King.

 In genere, l’establishment statunitense – il governo e le sue varie agenzie e i media mainstream – fa quadrato e organizza campagne di pubbliche relazioni estese e feroci per screditare chi si rifiuta di accettare la narrazione ufficiale di un evento importante e, cosa ancora più significativa, per avvertire gli altri di “non andare lì”.

Le persone vengono derise, molestate, minacciate, ignorate, rese disoccupate e spesso inoccupabili, la loro documentazione viene trascurata dai media e i loro sforzi per scoprire la verità vengono ostacolati ad ogni passo.

I governi degli Stati Uniti, del Regno Unito e di Israele, per più di un secolo hanno perpetrato e poi coperto una moltitudine di atrocità, eseguito innumerevoli crimini spregevoli e poi mentito su di essi solo per far scoprire la verità in seguito, ma continuano a seguire questo schema anche oggi, e il pubblico in generale appare disinformato e credulone come sempre.

 

Pochi eventi importanti nella storia recente degli Stati Uniti hanno generato un dibattito pubblico così eccezionale e diffuso e accuse di coinvolgimento dello Stato in crimini come l’assassinio di John F. Kennedy e gli attacchi dell’11 settembre al World Trade Center.

In entrambi i casi, le grida di incredulità dell’opinione pubblica nei confronti della narrazione ufficiale hanno infine portato all’istituzione di un’inchiesta pubblica del Congresso, ma in entrambi i casi l’inchiesta stessa era talmente infarcita di falsità e incongruenze che, invece di mettere a tacere la questione nella mente dell’opinione pubblica, ha creato ancora più accuse di cospirazione e insabbiamento da parte del governo.

 Un’altra è stata la storia più recente, e davvero comica, della cattura e dell’uccisione di “Osama bin Laden”, un uomo che era già morto da più di dieci anni.

Raramente una storia era stata infarcita di tante incongruenze e di “fatti” palesemente falsi, e messa in ridicolo dall’opinione pubblica come questa, ma ce ne sono molte altre.

Mi occuperò di alcune di queste in seguito.

 

Bilderberg 2023 a Lisbona: Kissinger e la segretezza.

 Fonte.

Ci sono molte decine di situazioni o eventi storici che sono stati liquidati per decenni come teorie del complotto, prodotti di menti disturbate e di immaginazioni troppo produttive, e che, alla fine, si sono rivelati veri.

Un esempio evidente è il Gruppo Bilderberg e la sua pianificazione di un “Nuovo Ordine Mondiale”, affermazioni che fin dagli anni ’50 sono state ferocemente negate dall’establishment.

Molte carriere sono state rovinate dal rifiuto di accettare le storie ufficiali; gli editorialisti che osavano scriverne perdevano talvolta il lavoro.

 Poi, 50 anni dopo, e dopo l’esposizione di prove inconfutabili, è stato dimostrato che il gruppo Bilderberg esiste e i suoi piani per un governo mondiale controllato dai banchieri ebrei non vengono più negati.

 Alla fine sono usciti allo scoperto, con l’indimenticabile ammissione di David Rockefeller:

“Siamo grati al Washington Post, al New York Times, alla rivista Time e ad altre grandi testate i cui direttori hanno partecipato alle nostre riunioni e rispettato le promesse di discrezione per quasi quarant’anni.

 Sarebbe stato impossibile per noi sviluppare il nostro piano per il mondo se in quegli anni fossimo stati sottoposti alle luci della ribalta pubblica.

 Ma il mondo è ora più sofisticato e pienamente preparato a marciare verso il nostro unico governo mondiale.

La sovranità sovranazionale delle nostre élite intellettuali e dei banchieri mondiali è sicuramente preferibile per il mondo intero“.

Rockefeller aveva anche affermato che il suo gruppo aveva bisogno di un ultimo drammatico impulso,

“un altro evento tipo Pearl Harbor“, per portare sul trono questo “Nuovo Governo Mondiale”.

Secondo gli stessi “teorici della cospirazione”, l’11 settembre doveva essere quell’evento.

 

Dopo l’ammissione pubblica di “Rockefeller” dell’esistenza di questo piano, sono emerse rapidamente molte altre prove, come questa citazione tratta da un discorso tenuto da “Montagu Norman”, all’epoca governatore della Banca Centrale d’Inghilterra di proprietà ebraica Rothschild e rappresentante dei Rothschild.

Norman “aveva detto in un discorso all’”Associazione dei banchieri statunitensi” a New York, nel 1924:

“… le ipoteche [devono essere] pignorate il più rapidamente possibile. Quando… la gente comune perderà la propria casa, diventerà più docile e più facilmente governabile… da un potere centrale della ricchezza sotto la guida di importanti finanzieri.

Queste verità sono ben note ai nostri uomini di spicco, che ora sono impegnati a formare un imperialismo per governare il mondo “.

Non è possibile fraintendere le parole di quest’uomo;

stava descrivendo, quasi 100 anni, fa i piani per il “Nuovo Ordine Mondiale” elaborati da quei banchieri che egli rappresentava, piani volti a soggiogare le popolazioni impoverendole sempre più.

 Le sue parole sono una descrizione precisa del disastro immobiliare del 2008 negli Stati Uniti.

 

Dal 1941, molte persone, comprese alcune autorità, hanno presentato affermazioni documentate secondo cui la Casa Bianca sapeva benissimo dell’imminente attacco giapponese a Pearl Harbor, compresa la data e l’ora, e non ne aveva deliberatamente informato le Hawaii perché Roosevelt aveva bisogno dell’attacco per costringere gli Stati Uniti ad entrare nella guerra europea.

Finalmente ora sono disponibili prove sufficienti per cui questa affermazione non può più essere ragionevolmente contestata, anche se potrebbero passare ancora alcuni decenni prima che la verità appaia nei libri di storia.

 Lo stesso vale per il falso attacco del Golfo del Tonchino che aveva dato agli Stati Uniti il pretesto per entrare nella guerra del Vietnam e, ancora prima, per il falso attacco alla USS Maine nella baia di Guantanamo a Cuba che aveva spinto gli Stati Uniti nella guerra ispano-americana.

Gli stessi teorici della cospirazione hanno ora finalmente dimostrato che gli Stati Uniti avevano effettivamente abbandonato migliaia di prigionieri di guerra americani in Vietnam per evitare l’ignominia di dover pagare le riparazioni di guerra.

Se n’era parlato per oltre 40 anni, con il governo che aveva sempre mantenuto il silenzio e i mass media che avevano ripetutamente denigrato le testimonianze.

La stessa situazione si era verificata con l’ingresso degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale, con l’infame affondamento da parte della Germania del Lusitania, una “innocente nave passeggeri” crudelmente affondata dai tedeschi senza cuore.

Si era subito saputo che il Lusitania non solo trasportava armi e munizioni, ma era stato deliberatamente inviato nelle rotte battute dai sommergibili tedeschi e istruito a navigare lentamente, senza zig-zag, per diventare un bersaglio migliore.

Pochi sanno che il governo tedesco aveva cercato di pubblicare avvertimenti su decine di giornali statunitensi, per evitare vittime civili, e ancora meno sanno che il governo britannico aveva a lungo cercato di localizzare e distruggere con mine il relitto del Lusitania, in modo che la verità non venisse mai a galla.

 Il governo britannico aveva organizzato diverse “manovre in mare” nell’area in cui era affondato il Lusitania sganciando migliaia di tonnellate di esplosivo, nella speranza di cancellare per sempre le prove.

 Ma molte delle bombe di profondità non erano esplose e i tentativi erano falliti e, quando gli operatori addetti al recupero avevano localizzato il Lusitania, avevano scoperto non solo le munizioni inesplose, ma anche migliaia di tonnellate di armi e munizioni in cassette con le scritte “burro” e “formaggio”, un carico che rendeva la nave un obiettivo bellico legale.

In seguito gli storici avevano scoperto documenti d’archivio riguardanti il cambio di comandante, con istruzioni precise di attraversare le aree battute dai sottomarini e di seguire una rotta rettilinea a velocità dimezzata, il tutto per facilitare la scoperta e la distruzione della nave e fornire una scusa per l’entrata in guerra degli Stati Uniti.

Ma, ancora una volta, i cospiratori sono tutti morti, così come tutti i teorici della cospirazione, e le pagine dei libri di storia sono ancora vuote.

Il “programma Phoenix”, durato dal 1967 al 1972, era stato progettato per identificare ed eliminare i Viet Cong (VC) tramite infiltrazione, assassinio, tortura, cattura, antiterrorismo e interrogatori.

 Fonte.

Per decenni il governo degli Stati Uniti ha negato l’esistenza dei programmi “MK-ULTRA della CIA”, ha negato che la “School of the Americas” fosse un’università dittatoriale di tortura e repressione civile, ha negato l’esistenza del “Progetto Phoenix”, in cui ben 250.000 vietnamiti erano stati torturati a morte, ha negato i vasti programmi di tortura a Guantanamo Bay, Abu Ghraib e Baghram, la cui esistenza è stata poi dimostrata da documenti trapelati.

Erano stati i teorici della cospirazione a rendere di pubblico dominio i “Pentagon Papers” che raccontavano le verità sulla guerra del Vietnam, e che avevano provocato un’indignazione pubblica e un tale caos da rendere gli Stati Uniti quasi ingovernabili.

 Erano stati i teorici della cospirazione a rivelare che Nixon aveva ordinato di sparare sugli studenti universitari che protestavano con l’intento di ucciderli, come alla “Kent State University”, per soffocare il movimento di protesta contro la guerra.

 Erano stati i teorici della cospirazione a rivelare che “Martin Luther King Jr.” era stato ucciso dal governo statunitense a causa della minaccia che rappresentava. Erano stati i teorici della cospirazione a sostenere che il” biologo della CIA” Frank Olson” era stato ucciso dal suo governo per paura che rendesse pubblici gli orribili dettagli degli “interrogatori terminali” della CIA e una litania di altri crimini e che, alla fine, avevano fornito prove schiaccianti di quell’omicidio.

 Ecco in foto “Kurt H. Debus”, ex scienziato del programma V-2 diventato in seguito direttore della NASA, tra il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy e il vicepresidente Lyndon B. Johnson.

Fonte.

Il “Centers for Disease Control” (CDC) degli Stati Uniti – il CDC che “salva le vite, protegge le persone” – per decenni è risultato coinvolto principalmente nei programmi di sperimentazione umana e di sviluppo di armi biologiche dell’esercito americano, e tutti i “teorici della cospirazione” che ne parlavano sono stati denunciati come mentalmente tarati.

Ma poi, nel 1994, qualcuno aveva fatto trapelare una serie di documenti di spedizione e fatture che dimostravano che il CDC aveva fornito a molte nazioni un’ampia gamma di materiali per armi biologiche, tra cui l’antrace, la tossina botulinica, il virus del Nilo occidentale, la peste bubbonica e la febbre dengue e, di colpo, il CDC non aveva più potuto negarlo.

Altri “teorici della cospirazione” sostengono che il” CDC sia sempre stato un’organizzazione criminale”, essendo stato inizialmente composto, nell’ambito dell’Operazione Paperclip, da scienziati provenienti dall’Unità 731 giapponese e dai programmi tedeschi per le armi biologiche.

Prigionieri cinesi, guerra di Corea.

Se non fosse stato per la partecipazione dei cinesi, gli americani e i loro alleati avrebbero conquistato l’intera penisola e minacciato direttamente la Cina.

 Il loro sacrificio ha invertito la tendenza imperialista.

Fonte.

Il governo statunitense ha negato per 60 anni che l’”Operazione Paperclip” sia mai esistita.

Poi, di fronte a prove schiaccianti, è stato finalmente costretto ad ammettere che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, migliaia di americani ed Ebrei avevano saccheggiato la Germania del suo patrimonio di proprietà intellettuale e brevetti, rubando letteralmente tutto.

Gli americani avevano anche negato con fermezza l’esistenza della seconda fase dell’Operazione Paperclip, in cui gli Stati Uniti avevano importato migliaia dei più efferati criminali di guerra, soprattutto dal Giappone, ma anche dalla Germania, esperti in sperimentazione umana e guerra biologica, dando loro totale immunità dai procedimenti giudiziari, nuove identità e buoni posti di lavoro in luoghi come Fort Detrick e il CDC.

Avevano anche ammesso di aver mentito accusando la Russia di “propaganda comunista” quando l’URSS aveva perseguito alcuni di questi giapponesi per crimini di guerra.

Il governo degli Stati Uniti continua tuttora a negare il suo vasto programma di guerra biologica contro la Corea del Nord e la Cina, nonostante le prove ormai schiaccianti della diffusione di agenti patogeni biologici sia in Cina che in Corea del Nord durante la guerra di Corea.

In tutti i casi, non solo il governo ha negato, offuscato e mentito fino alla fine, ma ha fatto tutto ciò che era in suo potere per screditare, mandare in bancarotta, imprigionare o uccidere coloro che si avvicinavano troppo alla verità, e tutto ciò con l’avida collaborazione dei mass media.

Tuttavia, in molti di questi casi, la persistenza ha prevalso e la verità è emersa.

Va notato che una parte importante di ciò che qualifica questi eventi come “cospirazioni” è che, di solito, vi sono coinvolti molti individui e agenzie, e le narrative ufficiali vengono sostenute vigorosamente dai proprietari e dagli editori degli organi di informazione.

Questa è la definizione classica di cospirazione.

 Va inoltre notato che gli eventi “false flag” e le “teorie del complotto” sono quasi inscindibili, poiché spesso sono proprio gli eventi false flag a portare alla formazione di queste teorie alternative degli eventi.

 

Come e perché nascono le teorie del complotto?

Quasi sempre sorgono quando la “storia ufficiale” è palesemente falsa e non ha alcun senso razionale.

Abbiamo immediatamente la netta sensazione che ci stiano mentendo e che stiano cercando di coprire qualcosa di nefasto.

 Vediamo due esempi:

il virus ZIKA e la conquista della Luna da parte delle missioni Apollo.

 

ZIKA.

Il virus ZIKA ha viaggiato magicamente (con una zanzara) per 15.000 chilometri dall’Africa fino al laboratorio biologico della Marina degli Stati Uniti, NAMRU-2, poi ha viaggiato di nuovo magicamente per altri 12.000 o 15.000 chilometri, attraversando gran parte dell’Oceano Pacifico, gli Stati Uniti e il Messico, tutta l’America Centrale e i Caraibi, e infine attraversando tutto il Sud America per atterrare sul lato atlantico, a Rio e San Paolo.

Da lì, si è irradiato quasi istantaneamente per 4.000 o 5.000 chilometri in tutte le direzioni, coprendo la maggior parte del Brasile, per poi diffondersi in tutta l’America meridionale e centrale e nei Caraibi, arrivando in più di 20 Paesi nel giro di pochi mesi.

L’OMS (corrotta sino al midollo! N.D.R.)  ritiene che il virus ZIKA sia stato “portato in Brasile da un visitatore infetto della Coppa del Mondo”.

Ma pensiamoci un attimo.

 La ZIKA non è una malattia contagiosa.

Può essere diffusa solo quando si viene punti da una zanzara infetta.

 Per causare questa epidemia, il nostro viaggiatore infetto dovrebbe essere punto da milioni di zanzare locali – che poi (forse) si infetterebbero e che poi (forse) pungerebbero decine di milioni di altre persone, e (forse) le infetterebbero.

Ma come funziona esattamente?

Le zanzare non migrano, non possono.

Possono essere disperse un po’ dai venti locali, ma questi insetti vivono solo pochi giorni e trascorrono la loro vita entro un chilometro dal luogo in cui sono nati.

Come avrebbero fatto gli immaginari milioni di zanzare che avevano punto il nostro turista della Coppa del Mondo a coprire tutto il Sud e il Centro America? Queste piccole zanzare hanno volato per 5.000 chilometri a 30.000 piedi per attraversare le Ande?

Se davvero ci sono tutte queste zanzare, come hanno fatto a coprire 20 Paesi e milioni di chilometri quadrati in così poco tempo?

E hanno una vita molto breve: quando una zanzara infetta muore, è la fine.

 Anche quegli ipotetici milioni di zanzare appena infettate sarebbero tutte morte in una settimana.

 Non avrebbero avuto il tempo di attraversare le Ande o di arrivare in 20 Paesi. Non avrebbero avuto nemmeno il tempo di uscire dalla città, prima di morire.

 

Basta riflettere un attimo per rendersi conto che questa affermazione è ridicole e impossibile.

 L’origine dell’epidemia di ZIKA è stata liquidata con un’unica frase incauta: “si ritiene che sia stata portata in Brasile da un visitatore infetto della Coppa del Mondo”, un’affermazione buttata lì senza alcun supporto probatorio, che appare superficialmente credibile ma che costituisce un’assurdità logica.

 

Riflettiamo un attimo sul presunto (e sicuramente immaginario) visitatore infetto che era andato a vedere la Coppa del Mondo e consideriamo la diffusione sorprendentemente rapida dell’infezione.

Il racconto ufficiale è che il virus è arrivato in Brasile dalla Polinesia francese, ma quante persone, infette o meno, della minuscola popolazione della Polinesia francese potrebbero andare fino in Brasile solo per vedere qualche partita di calcio?

 Due? Dieci?

Allora come hanno fatto le zanzare brasiliane, non infette, a trovare quelle poche persone polinesiane infette, a pungerle e a infettarsi a loro volta, per poi diffondere l’infezione ad altre decine di milioni di insetti in pochi mesi, in modo da pungere e infettare decine o centinaia di milioni di persone in tutta l’America Latina?

 Il volume dell’epidemia e la sua diffusione praticamente istantanea escludono la possibilità che l’infezione abbia avuto origine da un viaggiatore straniero.

Una zanzara che punge una persona non costituisce un’epidemia.

Se vogliamo avere una “diffusione esplosiva” di un virus trasmesso dalle zanzare come lo ZIKA, che ha infettato milioni di persone in pochissimo tempo, abbiamo bisogno di almeno decine di milioni di zanzare, ma più ragionevolmente di centinaia di milioni.

Questo è particolarmente vero quando le zanzare dovrebbero infettare le enormi aree terrestri del Sud e del Centro America, dovendo anche attraversare enormi aree spopolate.

Non tutte le zanzare sono infette, non tutte le zanzare infette troveranno qualcuno da pungere, non tutti saranno morsi e non tutti saranno infettati.

E la vita di una zanzara è davvero molto breve, circa dieci giorni.

Con solo una manciata di persone infette, un’epidemia così diffusa è impossibile con questo metodo di trasmissione.

Il numero di viaggiatori è statisticamente insignificante, quindi anche se tutti fossero stati punti molte volte da insetti diversi, la totalità di questi insetti non avrebbe potuto a sua volta mordere e infettare milioni di persone in 20 Paesi nel giro di pochi mesi, soprattutto Paesi distanti molte migliaia di chilometri, considerando che le zanzare non viaggiano.

 E se una persona si è recata a Rio o a San Paolo per una partita di calcio, come si spiega l’esplosione della malattia in una dozzina di altre città del Brasile, più o meno nello stesso periodo?

Come si spiega la diffusione della malattia in Colombia e in una dozzina di altri Paesi vicini, e a 8.000 km di distanza in Messico e a Porto Rico, poco dopo?

 Anche se i viaggiatori infetti dal Brasile andassero in Messico, quanti verrebbero punti da zanzare locali in grado di trasmettere il virus?

 Statisticamente zero, o giù di lì.

Milioni di zanzare non possono pungere gli stessi dieci viaggiatori, infettarsi, poi pungere milioni di altre persone e causare un’epidemia.

 Non c’è bisogno di essere uno statistico per sapere che non è possibile.

Se milioni di persone sono state infettate, devono esserci state almeno molte decine di milioni di zanzare infette nell’area.

Quindi, la domanda più importante di tutta questa saga è:

come hanno fatto almeno decine, e più probabilmente centinaia, di milioni di insetti a infettarsi?

 Il virus non esisteva in Brasile. Le zanzare autoctone non erano infette dallo ZIKA e avrebbero potuto infettarsi solo pungendo milioni di persone infette, oppure avrebbero potuto essere il risultato di milioni di accoppiamenti con insetti infetti, ma da dove sarebbero venuti?

Pochi viaggiatori infetti non possono spiegare un’epidemia geografica così massiccia nel giro di poche settimane, il che significa che un gran numero di zanzare infette deve essere stato introdotto in quei luoghi.

 Non c’è altra spiegazione possibile.

E la “Oxitec” aveva disperso i suoi insetti geneticamente modificati nel tentativo di controllare la popolazione di insetti.

 

Zanzara Oxitec:

Le zanzare di Oxitec potrebbero ridurre le popolazioni locali.

Nel 2015, l’azienda aveva pubblicato un documento in cui dimostrava che il rilascio di zanzare geneticamente modificate nello stato brasiliano di Bahia riduceva le Aedes aegypti selvatiche di ben il 90 percento, tanto da prevenire le epidemie di dengue.

 Fonte.

Secondo la dichiarazione ufficiale dell’OMS, la ZIKA si sarebbe diffusa così rapidamente per due motivi:

 uno, perché si trattava di una malattia nuova per la regione e quindi la popolazione non aveva alcuna immunità, e due, perché la ZIKA è trasmessa principalmente da una specie di zanzara nota come “A. aegypti”, che vive in tutti i Paesi del Nord e del Sud America tranne in Canada e in Cile.

Queste affermazioni sono deliberatamente fuorvianti e imperdonabilmente disoneste per ciò che non dicono.

 La parte relativa alla mancanza di immunità è vera, ma questa mancanza esiste solo perché, come ha sottolineato la stessa OMS, la ZIKA è una malattia nuova per la regione, cioè non esisteva in Brasile o nell’America centro-meridionale prima d’ora.

L’OMS ci dice che la malattia si è diffusa così rapidamente perché è trasmessa da una specie di zanzara che esiste localmente, ma allora?

 Le zanzare domestiche non erano mai state infettate e quindi non potevano essere responsabili della diffusione del virus.

Il fatto che la specie di zanzara fosse la stessa era una disinformazione irrilevante.

È ovvio per qualsiasi persona pensante che l’intera storia inventata dall’OMS, e così pesantemente sbandierata dai media, è semplicemente una grande menzogna, quindi non è una sorpresa che la gente in tutti i Paesi stia speculando sulla verità dietro questa favola.

La faccia nascosta della Luna.

È in questo luogo dove, nel 1969, Neil Armstrong avrebbe fatto il suo “piccolo passo per l’uomo, ma un gigantesco balzo per tutta l’umanità”.

Fonte.

Non avevo intenzione di includere questo argomento nel mio elenco di false flag, ma ci sono alcuni dettagli sull’allunaggio originale dell’Apollo che sono davvero fastidiosi e meritano di essere discussi.

Per i lettori che non ne fossero al corrente, ci sono state continue speculazioni sul fatto che l’allunaggio dell’Apollo 11 del 20 luglio 1969 non sia mai avvenuto e che le foto della NASA dell’evento siano false.

Molte delle foto sembrano effettivamente avere dei problemi, uno dei quali è rappresentato da ombre che inspiegabilmente si diramano in diverse direzioni, anche se la luna ha una sola fonte di luce principale e tutte le ombre dovrebbero essere parallele.

Le ombre multiple possono essere create solo da potenti fonti di luce multiple.

 Ci sono molte foto in cui l’intera area circostante è immersa in un’oscurità nera, ma la bandiera americana e le parole “Stati Uniti” sono sempre illuminate.

 C’è la bandiera americana che sventola nella brezza – su una luna che non ha aria, né atmosfera, né vento.

E tutte le foto sono perfettamente a fuoco ed esposte, anche se avrebbero dovuto essere state scattate da macchine fotografiche che non avevano meccanismi di regolazione per il tempo di esposizione e nemmeno per la messa a fuoco e, dal momento che le macchine fotografiche erano montate permanentemente sulle tute spaziali, non c’era modo di sapere cosa si stesse effettivamente inquadrando. In altre parole, impossibili da realizzare al di fuori di uno studio.

Forse le critiche e l’incredulità più pronunciate sono state generate dalle foto del modulo lunare posato sulla superficie lunare.

 I due problemi principali erano che

(1) non c’era stato alcun riscaldamento del sito di atterraggio e

(2) la polvere della superficie sotto il lander lunare era completamente intatta.

 Il primo problema era che il calore intenso dei razzi di atterraggio avrebbe bruciato il sito di atterraggio fino a farlo diventare nero come l’asso di picche, ma non c’era alcuna traccia di calore sotto il lander lunare.

La sabbia e la polvere avevano il loro colore normale.

Il secondo problema è che l’alta velocità dello scarico dei razzi avrebbe spazzato via qualsiasi polvere o sabbia inconsistente, probabilmente fuori dall’orbita lunare e forse fino a Marte, ma gli strati di suolo e polvere sotto il lander lunare [nelle foto] sono chiaramente indisturbati.

Entrambi i casi sono fisicamente impossibili nell’atterraggio reale di un razzo.

Esaminate la prima foto per vedere la totale assenza di prove di qualsiasi disturbo sulla superficie sotto il lander lunare.

 Questa foto, e molte altre simili, erano state pubblicate non appena erano iniziati i sospetti e le contestazioni.

 E, per 45 anni, la NASA ha difeso queste foto, spiegando stupidamente che i razzi di atterraggio non soffiano via la polvere della superficie e i loro getti di gas non bruciano la superficie di atterraggio.

E se la NASA si fosse fermata lì, avrei lasciato perdere questo argomento.

Ma, nel 2011, la NASA aveva pubblicato una nuova serie di foto con l’intento dichiarato di “mettere a tacere per sempre” l’incredulità sullo sbarco sulla Luna. Ma, così facendo, ha peggiorato le cose.

Le foto diffuse dalla NASA sono apparentemente scattate dall’orbiter lunare e pretendono di mostrare i lander lunari che riposano sulla superficie della luna – una prova che l’uomo sarebbe davvero sbarcato sulla Luna.

 Ma guardate la seconda foto, una delle foto ufficiali della NASA di questa serie, che mostra i siti di atterraggio dell’Apollo e del Challenger.

Nelle foto, il sito di atterraggio è l’area nera; la chiazza bianca al centro è il lander lunare posato sulla superficie lunare.

Si noti che l’intero sito di atterraggio è nero come l’asso di picche, come ci saremmo aspettati da sempre.

Che cosa sta succedendo qui?

Per 45 anni la NASA ha difeso le sue foto originali per convincerci che i lander lunari non anneriscono il sito di atterraggio.

Poi, come prova, ci offrono foto di siti di atterraggio anneriti.

Sembrerebbe che, da qualche parte, qualcuno stia mentendo.

Questo, unito agli altri evidenti problemi di illuminazione, di ombre, di “brezza”, ha naturalmente portato molte persone alla convinzione che la NASA stesse ovviamente mentendo sulle foto, e che quindi stesse coprendo – cosa?

 La conclusione più comune era che, poiché le foto erano state ovviamente scattate da professionisti in studio e quindi erano false, gli sbarchi sulla Luna forse o probabilmente non sono mai avvenuti.

A peggiorare le cose, è documentato che la moglie di “Stanley Kubrick”, l’uomo che aveva realizzato “2001 – Odissea nello spazio”, prima di morire, aveva confidato a diversi media che suo marito era stato incaricato dalla NASA di produrre scene fotografiche realistiche di allunaggi e astronauti sulla Luna.

Sono quindi le foto di Kubrick quelle pubblicate dalla NASA?

È difficile capire cosa pensare, ma l’unica teoria che sembra adattarsi ai fatti è che gli sbarchi sulla Luna potrebbero essere stati reali, ma le foto originali della missione Apollo erano falsi propagandistici realizzati in studio.

 È possibile che le autorità, desiderose di ottenere il sostegno del pubblico nella loro corsa allo spazio con l’URSS, non potessero permettersi un costoso fallimento nelle pubbliche relazioni, e quindi si siano rivolti a Kubrick per delle foto simulate.

 

Come epilogo di questo articolo, vale la pena notare che il satellite lunare cinese ha fotografato ogni metro quadrato della superficie lunare.

Le bandiere e gli altri oggetti lasciati sulla Luna dopo gli sbarchi delle missioni Apollo avrebbero dovuto essere visibili nelle foto scattate dal satellite cinese.

 Ma non abbiamo una parola su questo, e vedo solo due possibilità.

Uno: gli oggetti appaiono nelle foto, ma la Cina non si è preoccupata di rilasciarle per non dare un credito extra agli americani.

Oppure, due, sulla Luna non c’erano oggetti che apparissero nelle foto – il che significa che gli sbarchi non sono mai avvenuti – ma i cinesi hanno deciso di ignorare l’argomento e permettere agli americani di salvare la faccia.

Mi piacerebbe conoscere la risposta corretta a questa domanda.

Ecco perché nascono le “teorie del complotto”.

(Larry Romanoff) - (bluemoonofshanghai)

(bluemoonofshanghai.com/politics/14028/)

 

 

 

 

EURO DIGITALE:

DOBBIAMO PREOCCUPARCI?

Comedonchisciotte.org - Redazione CDC – (11 Novembre 2023) – Massimo Russo – ci dice: 

 

Euro Digitale: dobbiamo preoccuparci?

Riteniamo interessante e per questo pubblichiamo l’articolo che segue, dove vengono presentati alcuni degli aspetti tecnici del progetto” Euro Digitale”,  a tutti gli effetti “una valuta digitale di Banca Centrale” (CBDC).

Parliamo di un nuovo mezzo di pagamento a corso legale, nato apparentemente per contrapporsi alle criptovalute, veri e propri strumenti finanziari ad alto rischio per la loro estrema volatilità, in quanto derivano da una emissione “out of thin aira carattere privato, senza la presenza di alcun sottostante né di garanzie reali.

Cosa bolle davvero in pentola a Francoforte, cosa sarà l’Euro Digitale?

Buona lettura.

Euro Digitale: dobbiamo preoccuparci?

“Massimo Russo”,

In questi ultimi mesi, si fa un gran parlare di Euro digitale, ossia di quello che, nella mente dei nostri burocrati europei, dovrebbe diventare il fratellino digitale della moneta contante.

Dal momento che noi tutti già usiamo la nostra bella carta di credito o di debito per fare i nostri pagamenti elettronici, la domanda che sorge naturale è:

ma davvero se ne sentiva il bisogno?

Cerchiamo quindi di fare ordine per capire di cosa si sta parlando, anche considerando che la fase di preparazione di questa nuova piattaforma di pagamento è partita il primo novembre scorso.

Cos’è l’Euro digitale.

In estrema sintesi, si tratta di una CBDC (Central Bank Digital Currency), ossia della forma digitale della moneta cartacea emessa dalla BCE.

 Si affianca quindi agli altri mezzi di pagamento elettronici, con la differenza fondamentale che qui parliamo di una moneta elettronica emessa direttamente dalla Banca Centrale Europea, moneta che per sua natura “è un’attività” (dal momento della sua creazione! N.P.R.) per il sistema economico in generale, senza diventare la passività di nessuno (neppure per la BCE! N.D.R)

A differenza della moneta elettronica emessa dalle banche commerciali che, all’atto dell’emissione per esempio di un mutuo a un privato, contestualmente vede accendersi un correlativo credito della banca verso chi ha avuto il prestito secondo il seguente schema:

(Quando la Banca privata fa un prestito con denaro creato dal nulla ad un cliente, entra per la banca un “Attivo”-  su cui dovrebbe pagare le imposte dovute allo Stato -  ed un Passivo del cliente per la restituzione del prestito ricevuto! N.D.R.)

Euro Digitale: dobbiamo preoccuparci?

Come si nota, il saldo di ricchezza finanziaria aggiuntiva risulta essere, con la moneta emessa all’interno del sistema delle banche commerciali, uguale a 0 a differenza di quella di BCE che effettivamente può creare nuova ricchezza finanziaria, con l’emissione di moneta che va ad aggiungersi a quella in circolo nel settore privato, grazie alla spesa pubblica dello stato.

Ma al di là dell’aspetto finanziario della questione, cosa cambia a noi utenti dei servizi di pagamento se anziché pagare con la carta di credito che sottrae fondi dal conto corrente del pagatore per accreditarli su quello del venditore, paghiamo con il futuro borsellino elettronico fornitoci dalla BCE?

Pochissimo dal punto di vista operativo ma probabilmente tutto dal punto di vista sostanziale.

Andiamo quindi a capire quali sono le caratteristiche di questo futuro Euro Digitale e i relativi potenziali vantaggi e svantaggi.

Caratteristiche dell’Euro digitale.

Abbiamo affermato sopra che l’Euro Digitale è una CBDC (Central Bank Digital Currency).

La prima lettera dell’acronimo riporta al concetto di centralizzazione e già qui capiamo una differenza con le criptovalute:

queste hanno come caratteristica fondamentale quella di essere decentralizzate su blockchain pubblica, ottenendo vantaggi sia in termini di sicurezza tecnica (almeno con la potenza computazionale attuale) che di riservatezza.

La centralizzazione perseguita da una Banca Centrale, fa invece perdere questi vantaggi tecnici, favorendo il rischio di controllo totale sulle transazioni.

(Ma attenzione, la Banca privata che crea denaro dal nulla per un prestito al cliente dovrebbe -già da ora – registrare come attivo di bilancio l’importo di moneta creata dal nulla e questo anche se il prestito viene fatto ormai con l’Euro Digitale.

Questo vuol dire che se la banca fa un prestito con l’euro digitale deve registrare l’importo del prestito digitale effettuato come utile di impresa su cui dovrà pagare le relative imposte allo stato di appartenenza!  Ossia l’euro digitale BCE  o l’euro creato dal nulla dalla banca privata sono da registrare come Utile della banca privata dal momento che si riferiscono ad un prestito effettuato dalla Banca privata! N.D.R.)

Sappiamo che Fabio Panetta, dal primo novembre 2023 Governatore della Banca d’Italia nonché già membro del Comitato esecutivo della Banca Centrale Europea, ha assicurato sulla testa degli italiani tutti che nessuno si permetterà mai di mettere il becco nelle transazioni digitali di noi cittadini, ma siccome la testa è nostra, avere qualche rassicurazione tecnica sarebbe stato meglio.

Fabio Panetta, nuovo governatore della Banca d’Italia in carica dal 1° novembre 2023, arriva direttamente dal board della Bce.

Legato al tema della riservatezza c’è quello della potenziale programmabilità di questo Euro digitale.

 Anche qui, i documenti assicurano che mai e poi mai questa moneta digitale diventerà, pur essendolo possibile dal punto di vista tecnico, programmabile. Quindi mai nessuno si permetterà di stabilire limiti di spesa avendo riguardo al luogo, al quando, alla cosa e al destinatario dei pagamenti.

Vabbè, fidiamoci sulla parola che non ci bloccheranno l’acquisto di ulteriori litri di carburante o ci lasceranno al freddo perché abbiamo raggiunto i nostri limiti di CO2.

Certo che, se manterranno la parola, non coglieranno uno dei potenziali vantaggi di una CBDC che, nell’ambito degli scambi commerciali, potrebbe offrire dei vantaggi sia in termini di maggiore velocità di vedersi accreditati i denari, che di creazione di regole sottostanti alla transazione finanziaria che potrebbero anticipare eventuali liti in giudizio civile.

Infatti, se realizzata su architettura DLT (come la blockchain), la transazione in Euro digitale potrebbe avere uno “smart contract” associato con una regola per cui al verificarsi di una condizione, per esempio il ritiro della merce da parte del corriere, fa scattare il pagamento.

Direi quindi che, stante le dichiarazioni nei documenti ufficiali, nessun vantaggio rispetto alla moneta elettronica bancaria che già usiamo ma potenziali ulteriori rischi riguardo all’utilizzo del contante per quanto riguarda la riservatezza sulle nostre abitudini.

Un’altra caratteristica dell’Euro digitale è di essere, agli effetti giuridici, esattamente la copia dematerializzata della moneta contante:

 in linea teorica dovrebbe quindi, pur essendo in formato elettronico, dare il vantaggio agli esercenti di riceverla esattamente con lo stesso valore quantitativo del contante senza privazioni dovute alle commissioni bancarie.

 Per ora non è dato sapere se ciò sarà effettivamente così, visto che nel “Digital Euro Package” si citano sibilline remunerazioni per gli intermediari per non meglio specificati servizi a valore aggiunto alla clientela:

il diavolo sta nei dettagli e siccome questi dettagli ancora non li hanno esplicitati, si sente puzza di zolfo.

D’altronde, aspettarsi che la BCE disintermedi le banche sarebbe pura utopia, oltre che un suicidio per molte banche che sicuramente avranno amici alla BCE stessa.

Un vantaggio decantato nei documenti è l’inclusività, concetto con il quale affermano che anche gli anziani e i disabili potranno effettuare pagamenti digitali.

Sembra quasi che siano convinti che attualmente questi concittadini siano esclusi per un qualche bug delle piattaforme di pagamento o che saranno in grado di semplificare rispetto a oggi con l’utilizzo del portafoglio digitale:

 forse pensano a un chip sottocutaneo ma la soluzione sarebbe la stessa già in uso oggi da parte di qualche tifoso della tecnologia spinta.

In realtà, l’unica vera inclusività che si può intravedere è che anche i soggetti attualmente esclusi dal sistema bancario per i più disparati motivi, dovrebbero poter usare l’euro digitale perché in caso contrario, sarebbe come dichiarare che non è contante.

Riguardo all’inclusività un altro vantaggio propinatoci è che con l’Euro digitale potrebbero, in casi di crisi tipo Covid, accreditare direttamente sui portafogli digitali dei cittadini europei gli Euro:

falso vantaggio perché già oggi potrebbero accreditare denari sui nostri conti correnti, anche a quei nostri concittadini che ora sono esclusi dal sistema bancario facendo semplicemente una legge che non permetta di escluderli totalmente, permettendogli le semplici operazioni di versamento, pagamento con carta di debito e prelievo dagli ATM.

Ma quanto è green l’Euro digitale.

Sappiamo che mamma Ue, è molto sensibile al tema dell’ambiente è che è disposta a qualsiasi sacrificio, nostro, per salvare il pianeta.

Peccato che un’infrastruttura tecnologica in grado di supportare il numero di server, con il relativo raffreddamento, necessari a un progetto di questo tipo considerando anche le necessarie crittografie di sicurezza che su tale struttura dovrebbero poggiarsi, sarà molto energivora.

Una piattaforma per un servizio di questo tipo dovrà anche essere anche molto ben ridondata, per cui mi sa che mamma UE dovrà mettersi l’animo in pace riguardo alla CO2.

(Ma la Co2 è più pesante dell’aria che respiriamo e quindi non può volare nell’alta atmosfera per creare danni da gas serra quando non potrà mai raggiungere la “famosa serra”!

Quindi la BCE dovrebbe stare molto attenta a creare la “moneta Ue digitale” con fine di “non far pagare alle banche private “l’imposta sugli utili derivati dall ‘uso attuale del denaro creato dal nulla per prestiti concessi alla clientela, pur nel momento in cui la banca privata non ha soldi reali in cassa da poter prestare ai clienti richiedenti! N.D.R)

Conclusioni.

A dirla tutta, non sembra che l’Euro digitale porterà vantaggi sostanziali rispetto al sistema attuale di piattaforme di pagamenti.

 Come abbiamo visto, anche i vantaggi di inclusività o sono falsi o superabili con delle semplici normative ad hoc che si potrebbero legiferare in un paio di sedute tanto sono semplici.

Al contrario, i rischi relativi alla privacy sono enormi e tutti affidati al buon cuore dei governanti: la limitazione delle libertà personali è dietro l’angolo.

(Massimo Russo).

(Massimo Russo. Esperto di economia, Presidente dell’Associazione MMT Lombardia.)

IL SEME DELLA VIOLENZA.

DAL 1948 ALL’ASCESA DI “HAMAS.”

Comedonchisciotte.org – Domenico Moro - Redazione CDC – (11 Novembre 2023) – ci dice: 

 

Le origini del conflitto israelo-palestinese, pubblichiamo l’ultima puntata della serie che analizza le radici storiche degli orrori che viviamo oggi.

Il periodo che va dalla fine della guerra del 1948, definita dai sionisti prima guerra di indipendenza e dai palestinesi “Nakba” (disastro), fino all’inizio del XXI secolo è caratterizzato da un quadro di grande complessità e denso di forti contraddizioni a livello sia regionale sia mondiale, che ha reso a tutt’oggi la questione palestinese ancora senza soluzione.

La fondazione del nuovo stato di Israele.

La guerra del 1948 lasciò due questioni irrisolte.

 La prima fu il riconoscimento internazionale di Israele, che, sebbene riconosciuto dalla maggior parte dei Paesi (compresa l’Urss), non ebbe il riconoscimento dei Paesi arabi limitrofi.

 La seconda fu la questione della collocazione dei profughi palestinesi, che si ritrovarono senza terra e senza Stato.

Lo Stato sionista, comunque, beneficiò di alcuni vantaggi rispetto ai Paesi del Terzo mondo che, alla fine del colonialismo, si resero indipendenti.

Mentre questi ultimi dovevano adattare le istituzioni ereditate dalla potenza colonialista o costruirle ex novo, Israele poteva contare su istituzioni formatesi nel corso del mezzo secolo precedente.

 Israele poteva beneficiare, inoltre, dell’aiuto degli ebrei della diaspora, che fornivano sostegno politico ed economico al nuovo Stato.

 Si trattava di una sorta di assicurazione economica di cui gli altri Paesi di recente costituzione erano privi.

Israele si caratterizzò sin dall’inizio come uno Stato confessionale.

Infatti, mentre impediva il rientro dei Palestinesi fuggiti durante la guerra del 1948, sollecitava l’immigrazione degli ebrei provenienti da tutto il mondo.

Nel 1950 il parlamento israeliano votò la cosiddetta “Legge del ritorno”, il cui primo articolo stabiliva:

 “Tutti gli ebrei hanno diritto a immigrare nel Paese”.

Del resto, lo Stato sionista si appropriò del 94% delle proprietà dei palestinesi fuoriusciti, assegnandole a ebrei israeliani.

L’omogeneità etnico-religiosa di Israele fu raggiunta, oltre che con la pulizia etnica nei confronti dei palestinesi, favorendo l’immigrazione degli ebrei della diaspora, specie di quelli provenienti dai Paesi musulmani.

 Ben 700mila immigrati fecero ingresso nei primi quattro anni di esistenza di Israele e nei quindici anni successivi ne arrivarono altri 700 mila.

Fra i Paesi arabi gli arrivi maggiori di ebrei provenivano dal Marocco (165mila), dall’Iraq (120mila) e dall’Egitto (80mila).

Comunità ebraiche vecchie di secoli sparirono dall’oggi al domani, tanto che nel 2000 nell’intero mondo arabo rimanevano appena 5mila ebrei.

Gli ebrei arabi lamentarono una certa discriminazione rispetto agli ebrei provenienti dall’Europa, anche perché l’élite dirigente israeliana pensava di dover “civilizzare” i correligionari arabi.

Col tempo gli ebrei arabi sostennero un partito, il” Likud”, che raccoglieva quanti si sentivano esclusi e nutrivano rancore verso l’élite del partito laburista, che però mantenne il controllo delle istituzioni statali, continuando a infoltire le proprie fila.

Le istituzioni preesistenti alla proclamazione dello Stato di Israele subirono delle modifiche.

Molte funzioni svolte da organizzazioni private passarono sotto la responsabilità dello Stato.

Ad esempio, lo Stato continuò a consentire al sindacato, la “Histadrut”, di provvedere ai servizi sociali, ma pretese che l’istruzione gli venisse ceduta.

Per garantirsi il monopolio dell’uso della forza, fondamentale aspetto della sovranità di uno Stato, il governo di “Ben Gurion” bombardò una nave che trasportava armi per conto dell’”Irgun”, che si era rifiutato di consegnarle.

 In quell’occasione furono uccisi 16 combattenti dell’”Irgun”, ma il monopolio sulla violenza dello Stato non fu più messo in discussione.

Lo Stato di Israele poté contare e conta tutt’ora sulla cosiddetta “rendita”, cioè su risorse finanziarie extra rispetto alla normale tassazione applicata dallo Stato sui suoi cittadini.

I finanziamenti vengono sia dal mondo ebraico sia da altri Stati che aiutano Israele.

 Per facilitare i contributi provenienti da privati, si sono resi deducibili dalle tasse i contributi degli ebrei statunitensi all’”Agenzia ebraica” e al “Fondo nazionale ebraico”.

L’aiuto di altri Stati verso Israele è cominciato molto presto.

Nel 1953, ad esempio, la Repubblica federale tedesca ha devoluto ben 700 milioni di dollari come riparazione per la Shoah.

La Francia nello stesso periodo ha cominciato a fornire assistenza militare.

Il maggiore contributo viene dagli Usa, che da decenni contribuiscono con circa 3,8 miliardi di dollari all’anno sotto forma di aiuto diretto e quasi altrettanti in forma indiretta (cancellazione del debito, sovvenzioni speciali).

Il conflitto arabo-israeliano.

Israele non fu l’unico Stato a subire modificazioni nell’area medio-orientale.

 A Partire dalla fine degli anni ‘40 del secolo scorso ci furono diversi colpi di stato messi in atto da gruppi di militari che avevano come obiettivo l’emancipazione dei loro paesi dall’imperialismo occidentale, in particolare britannico.

 Il più famoso di questi militari fu” Giamal ‘Abd an-Nasir”, meglio conosciuto come “Nasser”, che nel 1952 assunse il potere in Egitto.

Gli israeliani si mostrarono subito ostili verso il nuovo Egitto di Nasser.

Nel 1954 gli egiziani scoprirono il piano sionista, conosciuto come “affare Lavon”, dal nome dell’allora ministro della difesa israeliano, che prevedeva di fare alcuni attentati contro installazioni britanniche e statunitensi in Egitto.

 Gli Israeliani pensavano di far ricadere la responsabilità di questi attentati sugli egiziani, per indurre gli Usa a interrompere la fornitura di armi all’Egitto e i britannici a interrompere i negoziati per il ritiro delle loro truppe dalla zona del canale di Suez.

In quel periodo gli israeliani fecero una incursione su Gaza, all’epoca controllata dall’Egitto.

Nasser fece richiesta di armi ai paesi occidentali, che però rifiutarono.

 Di conseguenza Nasser, dopo aver proclamato il “non allineamento”, si rivolse per le armi alla Cecoslovacchia, che all’epoca era parte del blocco sovietico.

Inoltre, Nasser riconobbe ufficialmente la Cina comunista, con grande disappunto degli Usa.

Gli Usa per risposta bloccarono un prestito della Banca mondiale agli egiziani per costruire la diga di Assuan.

A sua volta Nasser decise di nazionalizzare il canale di Suez, cosa che innescò la cosiddetta crisi di Suez (1956).

In risposta alla nazionalizzazione, le vecchie potenze coloniali, la Gran Bretagna e la Francia, d’accordo con Israele, provarono a invadere l’Egitto.

L’invasione, però, suscitò la riprovazione della comunità internazionale e in particolare degli Usa.

 Questi ultimi erano contrariati perché Suez sviava l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale dall’Ungheria dove si registrava un intervento militare sovietico.

 Gli Usa imposero il ritiro delle truppe anglo-francesi, e da quel momento assunsero il ruolo di potenza egemone nel Medio-Oriente al posto della Gran Bretagna e della Francia.

Nasser, comunque, era sempre più convinto del pericolo rappresentato da Israele.

Il 14 maggio 1967 scoppiò di nuovo la guerra tra, da una parte, Israele e, dall’altra parte, Egitto, Siria e Giordania.

 L’esito del conflitto per questi ultimi fu disastroso:

in sei giorni Israele sbaragliò gli avversari e occupò diversi territori appartenenti agli stati arabi, la penisola del Sinai, le alture del Golan, la Cisgiordania, la striscia di Gaza e Gerusalemme est.

Quindi, dopo la guerra la posta in gioco non sarebbe più stata l’esistenza di Israele ma la restituzione dei territori occupati.

 La risoluzione 242 dell’Onu (22 novembre 1967) formalizzò tale situazione, secondo la formula “terra in cambio di pace”.

Israeliani, egiziani e giordani accettarono la risoluzione in breve tempo, i siriani nel 1973.

Nonostante questo i governi del Likud di fatto sostituirono alla formula “terra per pace” la formula “pace per pace”.

In questo periodo, i paesi arabi rifiutarono di trattare direttamente con Israele, intendendo trattare solo attraverso Usa e Unione sovietica.

 Dal momento che l’Unione Sovietica aveva interrotto i rapporti con Israele furono gli Usa ad intervenire come forza di mediazione.

Il loro vero obiettivo, però, era quello di escludere l’Unione Sovietica da aree significative del mondo come il Medio-Oriente.

Inoltre, gli Usa scelsero la strategia di fornire ad Israele armi sufficienti da poter essere superiore a tutti gli stati arabi messi insieme.

Per superare la situazione di stallo, che gli Usa avevano contribuito a creare, egiziani e siriani intrapresero una nuova guerra contro Israele nel 1973 (Guerra del Kippur).

La guerra fu un quasi pareggio:

non portò a esiti risolutivi ma dimostrò agli arabi che Israele non era così forte come si credeva.

Finita la guerra, il segretario di stato Usa, Kissinger, dovette fare la spola tra Damasco, il Cairo e Tel Aviv per occuparsi nei minimi dettagli del riposizionamento delle truppe israeliane e arabe.

I territori occupati.

Israele opponeva motivi ideologici e pratici alla restituzione dei territori occupati, ad esempio di Gerusalemme est, dal momento che Gerusalemme era stata definita capitale dello Stato.

Differente era il discorso per il Sinai che non aveva mai fatto storicamente parte di Israele e che alla fine fu restituito all’Egitto nel 1979.

Israele fu invece restia a restituire le alture del Golan perché rappresentano un luogo di importanza strategica dal punto di vista militare, dal momento che dominano la Galilea.

Per quanto riguarda Gaza e la Cisgiordania, dopo il 1967 questi territori furono integrati nell’economia israeliana:

i palestinesi potevano andare liberamente a lavorare in Israele, dove furono usati come forza lavoro a basso costo.

Dal momento che l’integrazione era avvenuta forzosamente e data la grande differenza nello sviluppo di Israele e dei territori occupati, di fatto l’economia di questi ultimi fu di tipo coloniale dipendente.

Nel 1993 Israele però decise di fare a meno della forza lavoro palestinese, favorendo l’immigrazione dall’Asia orientale e meridionale, dall’Europa dell’Est e dall’Africa, con effetti devastanti a Gaza sulla disoccupazione e sulla povertà che aumentarono vertiginosamente.

Ma l’elemento che ha ostacolato maggiormente lo scambio di terra in cambio di pace è sempre stata la presenza di insediamenti di coloni israeliani nei territori occupati.

Il numero dei coloni israeliani è cresciuto esponenzialmente e gli insediamenti sono numerosi nella Cisgiordania, dove sono protetti dall’esercito.

L’insediamento di coloni, che è stato ripetutamente condannato dall’Onu, è facilitato da incentivi e agevolazioni fiscali disposti dallo Stato israeliano.

L’economia e la società palestinese dei territori occupati venne sconquassata.

Regole e normative fastidiose e vessatorie pervadevano tutti gli aspetti della vita.

 La terra era espropriata dalle autorità di occupazione per le più svariate ragioni a favore dei coloni, mentre le politiche agricole israeliane avevano ridotto la superfice dei coltivi a un livello più basso di quello del 1947.

Le politiche del lavoro erano discriminatorie nei confronti dei lavoratori palestinesi.

 La densità abitativa a Gaza era altissima.

Tutto questo portò alla rivolta che si concretizzò nella prima intifada che iniziò nel 1987, durando per cinque anni.

 I giovani palestinesi impegnavano l’esercito con sassi e fionde, mentre gli adulti praticavano la mobilitazione passiva, basata sul boicottaggio e sulla disobbedienza civile.

 La reazione israeliana fu durissima: tra 1987 e 1993 furono uccisi dai soldati israeliani dai 900 ai 1200 palestinesi, 18000 furono feriti, 175000 furono detenuti, 23000 furono torturati, furono distrutte 2000 abitazioni palestinesi per rappresaglia e infine il livello di vita nei territori si abbassò del 40%.

 

Tra le organizzazioni venute alla luce durante la prima intifada ci fu il “Movimento di resistenza islamica”, meglio noto con l’acronimo di “Hamas”, che sfidò l’egemonia dell’Olp, l’organizzazione storica del movimento di liberazione della Palestina guidata da Yasser Arafat.

“Hamas” si differenzia dalla laica “Olp” non solo perché si rifiuta di riconoscere Israele ma anche perché vuole rimodellare la società palestinese secondo principi islamici.

 L’affermazione di “Hamas” fu facilitata dallo sviluppo di istituzioni caritative e associazioni di assistenza sociale islamiche, finanziate da Kuwait e Arabia Saudita.

 Nel 1967 a Gaza c’erano 77 moschee, allo scoppio dell’intifada ce n’erano 150, che spesso furono incubatrici delle nuove organizzazioni politiche islamiche.

L’altro fattore di sviluppo di “Hamas” e di altre “organizzazioni islamiche” fu l’appoggio di Israele.

Così scrive lo storico statunitense “James L. Gelvin”:

“Dal canto loro, gli israeliani fornirono un tacito appoggio alla diffusione delle associazioni islamiche nei territori.

Il governo israeliano credeva che, fornendo assistenza e servizi alla popolazione dei territori, […] le associazioni islamiche ne avrebbero alleviato le durissime condizioni, contribuendo, in tal modo, a tenere calmi i palestinesi.

 Inoltre, gli israeliani erano convinti che le associazioni islamiche […] potessero contrapporsi, indebolendola, all’”Olp”.

Insomma, non si resero conto che stavano scherzando col fuoco.”

Hamas” ha certamente controbilanciato il potere dell’”Olp” e si è tenuto alla larga dall’Autorità palestinese (Ap), vale a dire dall’embrione di governo costituitasi, a seguito dell’”Accordo di Oslo”, nel 1995 nelle zone di “Gaza e Cisgiordania”.

 Tuttavia, “Hamas” nel gennaio del 2006 partecipò alle elezioni del Parlamento palestinese, risultando, tra la sorpresa generale, la prima forza politica e conquistando 72 seggi su 132.

La vittoria di “Hamas” non significò che la maggioranza dei palestinesi fosse diventata integralista, ma piuttosto rifletteva la stanchezza nei confronti dei limiti dei politici dell’”Olp”.

 

L’accordo di Oslo e la sua vanificazione.

Nel 1991 l’Unione sovietica venne sciolta.

La fine dell’Urss determinò una modificazione del quadro internazionale, dal momento che con essa veniva meno il confronto tra il blocco occidentale e quello sovietico, che aveva avuto una influenza notevole anche sul conflitto arabo-israeliano.

 È in questo nuovo quadro, caratterizzato da globalizzazione e neoliberismo, che si inserisce l’Accordo di Oslo.

Dal dicembre 1992 all’agosto 1993 una delegazione israeliana tenne diversi incontri con una delegazione palestinese a Oslo in Norvegia.

 Da questi incontri scaturì un accordo di pace, che avrebbe dovuto mettere fine al conflitto israelo-palestinese. L’Accordo di Oslo, firmato dal governo israeliano di “Yitzhac Rabin” e dall’”Olp”, si compone di due protocolli.

Il primo è uno scambio di lettere tra “Arafat” e “Rabin,” in cui le due parti si riconoscono vicendevolmente.

Arafat riconobbe lo Stato di Israele e Rabin il diritto dei palestinesi alla creazione di uno Stato sovrano.

In effetti, da parte palestinese si accettò che l’80% della Palestina storica fosse definitivamente sottratto a qualsiasi ulteriore negoziato. Ulteriori negoziati avrebbero riguardato solamente Gaza e la Cisgiordania.

In questo modo il territorio sotto il dominio israeliano avrebbe soltanto potuto ampliarsi, mentre quello sotto dominio palestinese soltanto ridursi.

 

Il secondo protocollo, noto come “Dichiarazione di principi”, stabiliva che l’esercito israeliano si sarebbe ritirato entro tre mesi da Gaza e dall’area di Gerico, cui sarebbe stato attribuito uno status di autonomia, attraverso la costituzione di una autorità di autogoverno provvisoria, cioè l’Autorità palestinese.

L’accordo suddivideva la Cisgiordania in tre zone diversamente controllate da Israele.

All’interno di queste zone fu consentita la costruzione di tangenziali che collegassero i vari insediamenti israeliani e dalle quali erano esclusi i palestinesi, il cui libero spostamento era così impedito.

In sintesi, gli israeliani furono negoziatori più abili dei palestinesi.

Ciononostante il primo ministro Rabin fu accusato dall’opposizione interna del Likud di aver svenduto tutto.

Nel 1995 Rabin fu ucciso da un estremista religioso ebraico, e pochi mesi dopo fu eletto primo ministro Benjamin Netanyahu, candidato del Likud contrario a Oslo.

Il governo di Netanyahu si oppose a qualsiasi ulteriore concessione e soprattutto ridusse al minimo la portata delle concessioni precedenti.

 Gli accordi di Oslo furono vanificati e Israele, oltre a costruire nuovi insediamenti, iniziò a impedire l’ingresso dei lavoratori palestinesi, rimpiazzandoli con immigrati provenienti da altre aree del mondo.

Di conseguenza, la miseria si diffuse nei territori occupati.

 

In questo periodo emerse la figura di “Ariel Sharon”, già generale dell’esercito israeliano e importante esponente del” Likud”.

 Sharon da ministro della Difesa del governo di Begin nel 1982 aveva organizzato l’invasione del Libano, che per Israele risultò essere qualcosa di simile al Vietnam per gli Usa.

Durante l’invasione l’esercito israeliano bombardò indiscriminatamente per ottantotto giorni la capitale del Libano, Beirut, sollevando la condanna di tutto il mondo.

Sharon fu anche complice del massacro di 2750 palestinesi (dati della Croce Rossa) ad opera delle milizie cristiane di destra in due campi profughi, “Sabra” e” Shatila”.

Successivamente da ministro del governo di Netanyahu, presiedette alla più grande espansione degli insediamenti israeliani nei territori occupati.

Il 28 settembre 2000 Sharon fece la famosa e provocatoria passeggiata nella spianata delle moschee, luogo sacro per i mussulmani.

 La manifestazione di protesta dei palestinesi fu repressa nel sangue dalla polizia israeliana e quattro palestinesi rimasero uccisi. Immediatamente dopo scoppiò la seconda intifada, che si caratterizzò anche per gli attentati suicidi portati avanti soprattutto da “Hamas” e “Jihad” islamico.

 La seconda intifada, tra 2000 e 2005, registrò circa quattromila vittime di cui tremila palestinesi, fra le quali cinquecento di età inferiore ai diciotto anni.

Durante la seconda intifada, l’11 settembre 2001 avvenne l’attacco alle torri gemelle di New York, che portò l’amministrazione statunitense di George Bush a proclamare la cosiddetta “guerra al terrorismo”.

Quest’ultima divenne il contesto nel quale fu consentito a Israele di imporre una soluzione unilaterale al problema palestinese.

Bush diede carta bianca a “Sharon”, diventato nel frattempo capo del governo, in quanto alleato nella guerra al terrorismo.

 Nel marzo 2002 “Sharon” ordinò l’”Operazione scudo protettivo”, la più grande incursione israeliana nei territori occupati del dopo Oslo, che provocò la morte di cinquecento palestinesi.

L’accordo di Oslo venne definitivamente accantonato.

Nell’aprile 2002 il governo israeliano annunciò la costruzione di un muro divisorio lungo 750 chilometri che penetra profondamente nelle aree occupate e comprende i più grandi insediamenti israeliani della Cisgiordania e di Gerusalemme.

La costruzione del muro comporta lo sradicamento dei palestinesi, la confisca della loro terra, la separazione dei villaggi dai terreni coltivati.

Nel febbraio 2004 Sharon annunciò i piani per l’abbandono di Gaza, che fu sbandierato dagli Usa come una dimostrazione di buona volontà da parte israeliana.

 In realtà, Israele ha continuato, anche dopo il suo disimpegno da Gaza a controllare il confine della striscia, il suo spazio aereo, il commercio, le forniture elettriche, il flusso dei lavoratori e delle esportazioni verso Israele e dei trasferimenti tra Gaza e la Cisgiordania.

 Soprattutto, come ha sostenuto “Dov Weisglass”, uno stretto collaboratore di “Sharon”, il disimpegno da Gaza e da alcune zone della Cisgiordania doveva servire a “…congelare il processo di pace. […]

Se si congela il processo di pace, si impedisce la creazione di uno Stato palestinese, e si impedisce la discussione sui profughi, sui confini, su Gerusalemme.

 Il tutto con la benedizione presidenziale statunitense e la ratifica di entrambi i rami del Congresso.”

Nel frattempo “Sharon” era uscito dal “Likud” e aveva fondato un suo partito, “Kadima”.

Quando Sharon fu colpito, subito dopo, da un ictus cerebrale, fu sostituito al vertice del partito da “Ehud Olmert”, che nel marzo 2006 fu eletto primo ministro.

Secondo il piano di Olmert la Cisgiordania sarebbe stata divisa in tre cantoni separati e circondati dalla presenza israeliana.

Nella primavera del 2006 il conflitto sembravo chiuso a vantaggio di Israele, ma i palestinesi non intendevano cedere.

Nel giugno 2006 militanti di “Hamas” e di altri due gruppi entrarono in Israele da Gaza uccidendo alcuni soldati israeliani e catturandone altri.

Qualche giorno dopo “Hezbollah”, partendo dal Libano, fece lo stesso. Israele reagì con pesanti bombardamenti, che provocarono ampie distruzioni e 1500 morti fra i civili, e una vasta operazione di terra, durante la quale incontrò una forte e disciplinata resistenza soprattutto in Libano da parte di Hezbollah.

La guerra durò 34 giorni e sul piano dell’immagine fu una vittoria per “Hezbollah” che era riuscito a resistere al forte esercito israeliano.

 

Tre mesi prima sia l’autorità palestinese sia Israele avevano registrato sommovimenti politici in occasione degli insediamenti dei rispettivi governi di “Hamas” e “Kadima”.

Allo scopo di piegare Hamas all’accettazione del riconoscimento dello Stato israeliano, Israele cessò di versare tasse e diritti doganali, riscossi per conto dell’Autorità palestinese, e Usa e Ue cessarono di fornire aiuti finanziari.

Dal momento che l’Autorità palestinese deve agli aiuti stranieri metà del suo bilancio, si trovò nella impossibilità a far fronte alle spese e persino a pagare i suoi 165mila dipendenti.

Il tasso di povertà e di disoccupazione aumentò vertiginosamente e il consenso nei confronti di “Hamas” cadde al 30-35%.

Anche “Kadima”, in Israele, si trovò in una situazione difficile.

La sua vittoria elettorale fu molto meno ampia del previsto e soprattutto il “piano di ritiro di Olmert”, e prima di lui di “Sharon”, andò incontro a molte critiche, perché fu accusato di lasciare ai nemici di Israele il controllo di territori, come Gaza, da cui era possibile lanciare attacchi.

 Per rispondere alla situazione di debolezza in cui si trovava, il governo israeliano decise di ricorrere alla propria forza di dissuasione, basata sulla strapotenza militare, da cui l’uso sproporzionato dei bombardamenti.

 La deterrenza israeliana era stata pensata per una lotta tra Stati e non risultava efficace se usata contro avversari che non erano Stati e che dimostravano di non voler giocare secondo le vecchie regole.

 Di fatto, il conflitto israelo-palestinese si ritrovò nuovamente in una situazione di stallo.

Da quanto abbiamo visto, appare chiaramente che Israele non ha intenzione realmente di addivenire alla soluzione di compromesso basata sul principio “due popoli e due stati” e che gli Usa, pur essendo fondamentali per il sostegno allo Stato di Israele, non hanno intenzione di far pesare questo sostegno per costringere Israele ad accettare il compromesso.

(Domenico Moro).

(Domenico Moro si occupa di globalizzazione e di economia politica internazionale).

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