Democrazia in Pericolo.

 

Democrazia in Pericolo.

 

 

Democrazia in bilico, dall’America scosse

che annunciano il “Big One.”

Msn.com -Ital press – Redazione - Stefano Vaccara – (21.12-2023) – ci dice:

 

 NEW YORK (STATI UNITI) (ITALPRESS) –

Dappertutto nel mondo si avvertono gli scossoni politici che ormai danno l’impressione di annunciare una nuova epoca per le nazioni democratiche.

 Gli Stati Uniti non solo non ne sono immuni, ma quello avvenuto ormai due anni fa, con l’”assalto al Congresso” da parte di una folla “insurrezionalista” il 6 gennaio 2021, ha confermato che è proprio in America l’epicentro da dove si propagano le scosse.

 Ma quelle di due anni fa, a sue volte arrivate dopo il primo grande terremoto politico del novembre 2016 - anno dell’elezione di Trump - non erano state delle scosse di assestamento.

Semmai, erano le premonitrici del “Big One”, del sisma capace di far crollare il sistema su cui si basa la più longeva democrazia del mondo.

E questo sia se Donald Trump - ormai sospettato di voler tornare al governo per instaurare una dittatura - riesca o meno a essere rieletto alla carica di presidente.

La decisione della “Corte Suprema del Colorado” di escludere Trump dalle primarie repubblicane a causa del 14esimo emendamento della Costituzione, ha allargato la spaccatura di un elettorato degli Stati Uniti già iper polarizzato.

Sia gli esperti che la massa degli elettori, sono divisi in tre correnti principali:

una crede che sia un dovere escludere Trump dalle elezioni perché è rispettando la Costituzione che si salva il pilastro che tiene in piedi la democrazia (ne fanno parte i maggiori costituzionalisti e l'elite del partito democratico);

 un’altra crede invece che sarebbe gravissimo escludere Trump, perché la Costituzione verrebbe così “malignamente” interpretata e inoltre in nessuna corte di tribunale è stato ancora provato che l’ex presidente, quando era alla Casa Bianca, abbia organizzato e partecipato all’insurrezione del 6 gennaio (di questa corrente di pensiero ne fanno parte i maggiori esponenti repubblicani al Congresso, tra cui lo speaker Mike Johnson);

infine una terza corrente, che sceglie “il minore dei mali”.

Ne fanno parte i maggiori avversari di Trump per le primarie del partito repubblicano, “Nikki Haley” e “Ron De Santis” (e aggiungiamo, almeno per la corsa nel New Hampshire, “Chris Christie”) che sembrano voler sostenere che, anche se la Costituzione permette di escludere l’ex presidente dalle elezioni, non “convenga” alla democrazia impedirgli di partecipare:

meglio che Trump sia fermato dalla scelta degli elettori e non dai giudici, altrimenti le conseguenze sulla legittimità del sistema democratico americano sarebbero incalcolabili…

Sarà la Corte Suprema chiamata a sciogliere il dilemma su cosa “convenga” al mantenimento della democrazia in America?

 Decidere cioè se in questo caso, aiuti più la democrazia già sopravvissuta anche ad una guerra civile, applicare la legge “alla lettera” della Costituzione - come di solito auspicano i giudici conservatori - o invece questa volta essere più “flessibili” per evitare una rottura fatale?

Anche se la Corte Suprema può dare una forte spinta all’evoluzione degli eventi sul peso del 14esimo emendamento nelle prossime elezioni, ci sono altre decisioni in sospeso capaci di forti conseguenze.

 Come quella se sia legittimo o meno poter processare Trump per il 6 gennaio 2021, come sta facendo lo speciale procuratore federale “Jack Smith”, tutte questioni che aggiungeranno altre “scosse” in preparazione del “big one”.

(La decisione è se per certi crimini che Trump avrebbe commesso da presidente, da ex presidente perda le sue immunità…).

 I padri fondatori degli Stati Uniti non crearono la Corte Suprema per diventare il plotone d’esecuzione della scelta elettorale dei cittadini per la Casa Bianca.

Infatti poche volte è stata costretta, sua malgrado, a “scegliere” per loro.

Quella più conosciuta e ricordata, è quando bloccando la riconta dei voti in Florida, decise per la vittoria di G. W. Bush su Al Gore.

La meno conosciuta, ma pur sempre decisiva, fu quando i nove giudici supremi decisero, il 24 luglio del 1974, contro la richiesta di “Richard Nixon” di poter mantenere l’“executive privilege” per tenere segreti i nastri registrati nello Studio Ovale sul “Watergate", provocando così le inevitabili dimissioni del presidente prima che fosse il Congresso a defenestrarlo.

Ma nella Costituzione degli USA i padri fondatori scrissero chi poteva partecipare e chi no alle elezioni.

 E poi, con il 14esimo emendamento (approvato il 9 luglio 1868) il Congresso decise anche di vietare la candidatura presidenziale a chi, dopo aver giurato sulla Costituzione, aveva partecipato (o “aiutato e confortato”) una insurrezione contro gli Stati Uniti.

Toccherà ancora alla Corte Suprema - accettando o meno di prendere il caso dell’esclusione di Trump in Colorado - di prendersi la responsabilità di decidere se l’ex presidente potrà essere un contendente per la Casa Bianca?

In questo caso nemmeno il suo “sì” o “no” potrà essere decisivo, anche se sicuramente avrà un impatto.

Negli USA infatti non esiste un sistema elettorale unico federale ma ben 50 sistemi governati dalle 50 legislature statali, con non poche differenze per ogni Stato.

 La Costituzione federale degli Stati Uniti è stata tutta fondata sulla “tensione” autonomista degli Stati, che restano gelosi delle loro prerogative.

 Quindi, anche se la Corte Suprema non “annullasse” la decisione del Colorado e decidesse semplicemente di non occuparsene, ciò non escluderebbe Trump dalla corsa negli altri Stati, che decideranno autonomamente se seguire o meno l’esempio “esclusivista” affermato dai giudici supremi del “Mountain State”.

 Nella decisione che prenderà la Corte Suprema su Trump e il 14esimo emendamento, potrebbero pesare anche le potenziali conseguenze su altre cariche pubbliche elettive degli Stati Uniti.

Pensiamo a quella “pesantissima" di “Mike Johnson”, speaker della Camera.

 Già, anche il congressman della Louisiana deve partecipare alle elezioni di novembre 2024, ma anche lui potrebbe essere accusato di aver avuto “parte attiva” all’insurrezione del 6 novembre, e di aver “aiutato e confortato” gli insurrezionalisti…

Quanti altri sono i congressman e senatori che potrebbero subire la stessa sorte?

 La democrazia americana resta in bilico in attesa della scossa del “big one”, prevista nel novembre 2024.

Per questo l’America si interrogherà in questi mesi se sia “un bene o un male” quando i giudici, supremi o statali che siano, seguano e facciano rispettare “alla lettera” la legge, facendo rimanere “accountable”, cioè responsabile delle sue azioni, il 45esimo presidente.

La democrazia americana è davanti al bivio e il percorso che deciderà di intraprendere da qui al novembre 2024, determinerà l’intensità delle scosse dell'atteso “big one”.

 Queste, siatene certi, si avvertiranno in tutta la loro potenza, anche nelle democrazie della vecchia e fragile Europa.

 (ITALPRESS).

 

 

 

 

MESsinscena Conte, Salvini e Meloni,

 i populisti si ritrovano con l’Europa:

 l’Italia obbedisce a Francia e Germania.

  msn.com - Claudia Fusani - Il Riformista – Redazione – (22-12-2023) – ci dice: 

 

Sono, quelle appena passate, le 36 ore della verità per la maggioranza.

 Il “passaggio di svolta”, il “disvelamento” per il governo Meloni.

 Il 20 dicembre 2023, la mattina, l’approvazione del “Patto europeo di migrazione e asilo” che schiaccia l’Italia nello scomodissimo ruolo di paese di frontiera che non avrà alcuna certezza sui rimpatri dei migranti irregolari e non aventi diritto.

Qualche ora dopo, alle 19, è arrivato l’ok unanime, Italia compresa quindi, al “nuovo Patto di Stabilità e crescita”, in vigore da gennaio 2024, dove c’è molta poca flessibilità e molta discrezione della “Commissione Ue” rispetto ai conti, ai bilanci e ai debiti sovrani di ogni singolo stato.

Ieri mattina alle 12 e 48 è finita anche la “messinscena del Mes”, la “ratifica della modifica del Fondo Salva-stati”:

 il Parlamento respinge la ratifica, unici in Europa, ed è subito un torto e uno stigma.

Neppure 36 ore, in realtà succede tutto in 28 ore, notte compresa.

Il risultato è un’Italia costretta ad obbedire dall’asse franco-tedesco, “fatta uscire dal salotto buono e messa nella stanza dei bambini insieme a Orban mentre gli adulti decidono sul futuro dell’Italia (sic Magi, + Europa)”.

Se questo è lo scenario di politica economica, sul fronte della politica nazionale il voto sul “Mes” ieri mattina è stata la dimostrazione plastica che “il populismo e l’antieuropeismo in Italia è vivo e vegeto e governa ed è rappresentato da Conte, Salvini e Meloni” ha detto Matteo Renzi (Iv).

Nel voto infatti si sono spaccate tanto la maggioranza quanto l’opposizione, “il campo largo non c’è più ed è chiaro che i riformisti, anche del Pd, non possono allearsi con i 5 Stelle”.

I 5 Stelle hanno votato contro la ratifica dopo una dichiarazione di voto di Giuseppe Conte che è stata un manifesto dell’ira e dello scontento.

Forza Italia si è astenuta visto che avrebbe voluto rinviare ancora il voto a gennaio, prendere tempo e aspettare.

Non mettere un nesso di causalità così netto ed evidente tra il via libera al Patto di Stabilità della sera prima e il No al Mes del giorno dopo.

Con le ripicche si va da poche parti quando si ha la responsabilità di guidare il paese.

 

Risultato:

72 i voti a favore della ratifica, quelli del Pd, Italia viva, Azione e parte del Misto; 184 quelli contrari, Fratelli d’Italia, Lega e 5 Stelle, 44 gli astenuti (Forza Italia e Sinistra).

 Macerie.

Su cui banchetta la Lega leccandosi i baffi in vista delle Europee. Matteo Salvini s’intesta la vittoria, “una battaglia della Lega combattuta per anni e finalmente vinta. Avanti così. A testa alta e senza paura”.

Lo seguono i fedelissimi finalmente felici, Borghi, Bagnai, Candiani.

La gioia di Salvini in realtà poggia sugli stessi argomenti che invece preoccupano Meloni (ancora a casa influenzata).

Il voto di ieri ha schiacciato Fratelli d’Italia sul fronte antieuropeista – territorio di Salvini – e l’ha allontanata da quello Conservatore dialogante con il Ppe.

In realtà la premier da casa ha cercato di tenere bassa la faccenda (“La Camera ha deciso con il voto”) e di banalizzarla (“è di relativo interesse e attualità per l’Italia”).

Anzi, questo stop “può essere l’occasione per avviare una riflessione”.

La verità è ben diversa.

Come dimostrano le numerose telefonate tra gli alleati già la sera prima per scongiurare la spaccatura.

Tajani e Forza Italia avevano chiesto un nuovo rinvio, “almeno fino a gennaio, dateci tempo perché noi non possiamo votare contro il Mes”.

 Invece il tempo non gli è stato dato e Forza Italia ha scelto il male minore: l’astensione.

È necessario allora capire come si arriva al voto di ieri mattina che ha visto andare in frantumi maggioranza ed opposizione.

Il Riformista ha parlato con una fonte di Fratelli d’Italia molto vicina al dossier.

“Mercoledì pomeriggio – racconta – quando molti di noi erano al Quirinale per gli auguri, si era più o meno tutti convinti che “la trattativa sul Patto di stabilità” potesse essere rinviata alla prossima settimana.

 Il ministro Giorgetti e la stessa premier si erano spesi contro una riunione così importante eppure svolta da remoto”.

In un’ora però è cambiato tutto.

 “Francia e Germania hanno voluto accelerare e a quel punto non avevano più alternative.

 Il veto sarebbe stato molto peggio e non è mai stata una vera opzione”.

Il governo e Giorgetti hanno così dovuto ingoiare, nello stupore generale di chi era rimasto a Roma, la firma del “nuovo Patto di stabilità e crescita”.

 “Cose buone e altre meno” ha ammesso Giorgetti che all’Ecofin ha parlato per ultimo a cose già decise.

 Le stesse, tra l’altro, di una settimana prima quando l’Italia minacciava il veto.

Alle 19 di mercoledì, appunto, il Patto di stabilità è legge.

Il Mes, tenuto da parte in questo anno di governo Meloni come moneta di scambio nella logica del pacchetto, del “dot ut des” rispetto alle nuove regole di bilancio, diventa moneta scaduta.

La “logica del pacchetto” è andata in frantumi tra Parigi e Berlino.

Buona solo per la vendetta.

 Anzi, un piccolo dispetto.

“Diciamo – spiega la stessa fonte – che le notizie da Bruxelles ci hanno convinto mercoledì sera ad accelerare sul Mes e a votare contro oggi”.

Lo strappo con Forza Italia si è consumato l’altra sera.

Unico compromesso possibile è stato l’astensione.

Ma la maggioranza è spaccata.

Ora e per i prossimi sei mesi di campagna elettorale.

Due ministri di peso come Giorgetti (lega) e Tajani (Forza Italia) escono da questa storia con le ossa rotte.

“Un ministro dell’Economia sbugiardato dall’aula e sbeffeggiato dal suo leader e dal suo partito deve trarre le conseguenze di quanto è successo in queste ore.

 La crisi di governo è chiara” ha attaccato Amendola (Pd).

Nicola Danti, eurodeputato di” Iv-Renew Eu”, ci ha messo anche Tajani.

Due ministri sconfessati, bipolarismo spaccato, Europa più lontana.

E Forza Italia che manda al macero la sua storia nel Ppe e si degrada a fare l’ancella di Giorgia Meloni”, Il capogruppo azzurro Paolo Barelli ieri tranquillizzava i cronisti. “Non succede nulla, la maggioranza è solida”.

La fonte di Fratelli d’Italia aggiunge:

“Il nostro obiettivo è fare molto bene alle elezioni, incidere e avere peso nella nuova Commissione UE che potrà cambiare il Patto di stabilità”.

Il voto di ieri manda in soffitta, se ci fosse bisogno di altre conferme, il campo largo del centrosinistra.

Il dibattito in aula ha polarizzato lo scontro tra 5 Stelle e Fratelli d’Italia.

Un Giuseppe Conte sopra le righe contro una Meloni assente dall’aula.

 Tutto per rinfacciarsi accuse di “incoerenza” (Conte) e sudditanza (Meloni). Interessante che abbiano votato insieme. Contro il Mes.

 Ieri però è stato chiaro perché Meloni, al netto della febbriciattola, ha scelto di rinviare la conferenza stampa di fine anno.

La sua leadership europea ieri ha francamente traballato.

(Il Riformista)

 

 

UN MONDO DI DEMOCRAZIE

IN PERICOLO.

 Treccani.it – (19 GIUGNO 2022) - Gian Giacomo Migone – ci dice:

Un mondo di democrazie in pericolo.

La democrazia americana è anche nostra.

E scriviamo americana in senso proprio, perché intendiamo riferirci a un intero continente di cui gli Stati Uniti costituiscono una parte, oggi meno egemone che mai.

L’ intesa come sistema di governo fondato sulla sovranità popolare di cittadini elettori, a cui spettano diritti di rappresentanza e di libertà, in primo luogo di espressione, nel rispetto delle minoranze – è oggi indebolita ovunque sia ancora presente, con scarsa consapevolezza dei suoi aventi diritto, anche a causa della reticenza mediatica e dei condizionamenti crescenti della e sulla rete Internet.

È utile un esempio.

 I principali media, non soltanto italiani, hanno trascurato una notizia di rilevanza mondiale.

 Gli esponenti principali delle forze armate del Brasile, ove si svolgeranno elezioni presidenziali quest’autunno, hanno appena espresso la convinzione che esse non si svolgeranno regolarmente.

 Il presidente in carica – che nei sondaggi d’opinione risulta inferiore di oltre una ventina di punti rispetto al suo sfidante, (già presidente, illegalmente detenuto per alcuni anni a seguito di accuse di corruzione rivelatesi false) – ha subito cavalcato questa delegittimazione preventiva di un sistema elettorale a cui deve la poltrona su cui è seduto da quattro anni, ipotizzando un meccanismo di controllo parallelo, gestito dagli stessi militari.

Con ogni probabilità si tratta del preannuncio di un tentativo di golpe, nel caso di un esito favorevole allo sfidante, nel Paese dal corpo elettorale attivo più numeroso del mondo, dopo quello dell’India e degli Stati Uniti.

In India le elezioni hanno appena avuto luogo in forma regolare, anche se con un esito per altri versi inquietante, in quanto hanno confermato, a grande maggioranza, il governo, il quale persegue una politica che calpesta i diritti delle minoranze non indù – in primo luogo, quella musulmana – e, di conseguenza, il compromesso costituzionale su cui si fonda quella democrazia.

Altrettanto, se non più pericoloso, per il potere militare colà detenuto, è lo stato della democrazia negli Stati Uniti d’America.

Come è noto, è in corso un’indagine della Camera dei rappresentanti (ove, fino alle elezioni legislative di novembre, i Democratici detengono la maggioranza) su quanto avvenuto in occasione dell’insediamento della presidenza, il 6 gennaio 2021.

Da filmati e testimonianze raccolte – non esclusa quella del ministro della Giustizia dell’amministrazione – l’assalto violento dei dimostranti, guidati da gruppi parafascisti, alla sede del Congresso non è stato soltanto ispirato, in parte aizzato, dal presidente uscente, ma ha avuto lo scopo di annullare e sovvertire l’esito elettorale che, secondo la procedura costituzionale, era in corso di definizione in quella sede.

L’inchiesta in atto, forse destinata a sfociare nell’incriminazione di Donald Trump, potrebbe essere interpretata come un segno di buona salute democratica, se non fosse accompagnata da una molteplicità di elementi di fatto che ne rendono problematica la conclusione.

 In primo luogo la maggioranza dell’elettorato che ha dato il proprio voto a Trump – che, secondo i risultati ufficiali, ha conseguito il 46,8% dei voti contro il 51,7% che ha assicurato la vittoria di Biden – continua a essere convinta che l’esito sia stato contraffatto a favore del presidente in carica.

 In ciò incoraggiati da “Fox News”, la più seguita emittente televisiva del Paese, oltre che, sin dall’inizio – occorre non sottacerlo –, da regole e meccanismi elettorali così assurdamente variegati, Stato per Stato, addirittura contea per contea, da offrire un’aura di plausibilità anche a contestazioni palesemente strumentali.

 Colpisce altrettanto la scarsa attenzione che l’altra parte del Paese, quella democratica, sembra dedicare alla controversia in corso.

Un’opinione pubblica trasversale è oggi maggiormente concentrata su temi quali l’inflazione, la sicurezza pubblica, l’immigrazione per gli effetti reali e percepiti sulle condizioni di vita di ciascun cittadino.

 I sondaggi di gradimento del presidente in carica, intorno al 30%, stanno a indicare il pericolo di una rielezione di un presidente ostile, quantomeno indifferente, ai valori costituzionali del suo Paese.

È sempre più evidente, nella politica estera di Washington, la contraddizione tra i valori professati e il modo in cui vengono esportati manu militari in altri Paesi con effetti negativi, mentre permangono le ferite all’habeas corpus causate dalle amministrazioni precedenti di cui la permanenza del campo di concentramento   costituisce monumento eloquente.

È comunque da registrare in senso positivo lo sviluppo di un’area progressista, all’interno del Partito democratico.

Se la tensione contrapposta di schieramenti avversi a oggi tende a determinare una crescita della partecipazione al voto negli Stati Uniti, in Europa il principale sintomo di crisi della democrazia è, invece, costituito da un ormai perdurante calo delle percentuali di votanti.

 Le recentissime prove elettorali in Francia e in Italia ne costituiscono una drammatica manifestazione intimamente legata al discredito della classe politica, alimentata da un’attenzione mediatica che viene risparmiata ai dirigenti della finanza e dell’economia.

Mentre negli Stati Uniti è presente una dialettica politica fin troppo aspra su temi percepiti come rilevanti nella vita dei cittadini – non di rado tali da evocare differenze e contrapposizioni di ordine economico e sociale – in Europa tali problematiche sembrano espulse dalle agende dei partiti, dal tramonto del firmamento partitico britannico e con la sola eccezione dell’ascesa di Macron nel corso delle elezioni presidenziali francesi.

Ne consegue un indebolimento dei contropoteri parlamentare e giudiziario rispetto a un potere esecutivo comunque subalterno a quello finanziario che concentra nelle mani degli “happy few” una ricchezza crescente a spese di una maggioranza di cittadini, a sua volta crescente, ma sempre meno rappresentata nelle istituzioni.

 

Infine, la perdurante guerra, scatenata dalla guerra civile nel Paese, alimentata dal rilancio armato di un’Alleanza atlantica altrimenti obsoleta dopo la caduta, tende a una restaurazione che la definisce una terza guerra mondiale – che, per sua natura, assimila le democrazie alle dittature avversarie (Russa, Bielorussia) o potenzialmente tali (Cina).

Ne risulta un indebolimento di un percorso multipolare, ancora non governato, ma compatibile con un rafforzamento della legalità e dell’organizzazione internazionale, della libertà degli scambi e della salvaguardia dei sistemi democratici vigenti.

 Esso richiederebbe, inoltre, la convivenza pacifica con una dittatura in ascesa (la Cina) e una dittatura in declino (la Russia).

Resterebbero da realizzare problematiche tappe intermedie quali l’incremento del processo d’integrazione europea, l’affrancamento iniziato dell’America Latina dall’egemonia statunitense, un ruolo sempre più attivo nell’immediato per far fronte alla carestia non soltanto in agguato.

Con un’incombente crisi economica di cui s’ignorano l’entità, le articolazioni e le conseguenze politiche.

 Spes ultima dea.

(Immagine: Vasilij V. Kandinskij, Improvvisazione n. 30 (Cannoni), 1913. Crediti: Art Institute Chicago)

Le democrazie sono

in pericolo?

Italiaoggi.it - Gianni Pardo – (26-08 – 2022) – ci dice:

 

Sono tanto criticate perché esse sono il solo sistema politico che permette le critiche.

Sembrano in affanno ma sono più forti delle autocrazie.

 Prevedere il futuro è impossibile, ma è anche impossibile resistere alla voglia di prevederlo.

 O almeno di ipotizzarlo.

 Così uno si chiede: «Che ne sarà dell'Occidente»? E la domanda non è assurda. Nella storia si sono già inabissati parecchi grandi imperi e aree culturali come la koinè greca.

Del resto, per chi è carico di anni si tratta di qualcosa che ha quasi vissuto.

Intorno agli Anni Settanta del secolo scorso molti si sono sentiti vicini al tracollo dell'Occidente:

da un lato la potenza militare sovietica appariva straripante e irresistibile, dall'altro molti intellettuali davano per morta la civiltà occidentale.

 Il trionfo del marxismo era considerato talmente inevitabile, nel mondo, che alcuni personaggi di alto livello proponevano di arrendersi prima di combattere. Per evitare inutili sofferenze.

Sappiamo come finì.

 Ma questo non vuol dire che, se ci sarà una nuova occasione, finirà come l'altra volta.

La prima ragione per essere pessimisti sulle sorti del sistema democratico occidentale è che la gente non capisce la famosa frase di “Winston Churchill” secondo cui:

«Il sistema democratico è il peggiore (the worst), se non consideriamo tutti gli altri».

Infatti molti si fermano alla prima metà dell'affermazione e prendono la seconda per una battuta.

 Infatti appena possono, mettono l'accento sugli infiniti difetti della democrazia. Sulle sue magagne, sulla demagogia di cui è spesso vittima, sull'innegabile pochezza dei politici, sulla difficoltà di assumere decisioni coraggiose, sull'inefficienza dello Stato persino in materia di ordine pubblico.

 Con un'instancabile voglia di criticare.

Fin quasi ad affermare seriamente che la democrazia è il peggiore di tutti i regimi.

Churchill fu un battutista formidabile, ma stavolta l'humour lo usava per esprimere un concetto vero e profondo.

Avendo conosciuto a fondo la politica, e avendo anche governato in tempi difficili, sapeva per esperienza quanto cattiva (pessima, «worst») fosse la democrazia:

ma appunto, da persona piena di esperienza, sapeva anche che effettivamente gli altri regimi sono peggiori.

 Hanno più difetti delle democrazie e per giunta non permettono di porre un termine nemmeno alle peggiori tirannie.

Ammettendo che la democrazia sia cattiva come il cancro alla prostata o al pancreas, la tirannia è talmente peggiore che chi ha questo secondo tipo di malattia pagherebbe per avere soltanto il cancro alla prostata.

 Come mai dunque la democrazia è tanto criticata?

 La prima ragione è che essa è la sola che permette le critiche.

Ma ci sono anche ragioni più profonde.

Le formiche e le api hanno un tipo di vita in comune molto più perfetto del nostro, e ciò perché sono autentici animali sociali.

 L'uomo invece lo è fino ad un certo punto.

Al contrario di quanto avviene nella società delle api in lui l'egoismo prevale sull'altruismo.

Dunque quell'uomo che, a parole, si sente l'unico animale «morale» e fornito di un'anima immortale in realtà è altruista nella misura in cui ciò non gli costa molto e vede che anzi gli è utile.

Poi, non appena si apre uno spiraglio all'egoismo impunito, solo pochi resistono. Addirittura, quando le cose si mettono veramente male, l'altruismo sparisce del tutto e l'individuo è disposto a fare una strage pur di salvare sé stesso.

Noi siamo animali sociali «fino a un certo punto».

 Così come siamo carnivori ma fino a un certo punto, vegetariani ma fino a un certo punto, e soprattutto razionali fino a un certo punto.

E così spesso mettiamo sul conto della democrazia colpe che sono invece della specie umana.

Un'altra delle differenze fra democrazia e tirannide, come detto, è l'informazione. Dove c'è la libertà apprendiamo tutto ciò che non va, a volte perfino esagerato dalla stampa scandalistica, e crediamo di vivere nel peggiore dei mondi possibili; mentre dove non c'è libertà di aprire bocca, o di scrivere ciò che si vuole sui giornali, gli ingenui credono che ciò che essi non vedono o non sanno non esiste.

Nelle autocrazie le magagne, le prevaricazioni, la corruzione, la concussione e tutto il marciume della società sono ancora maggiori che in democrazia.

 E ciò proprio perché non c'è nemmeno il freno della pubblica denuncia e della conseguente indignazione popolare.

 I russi si tengono Putin, venerandolo, malgrado i crimini contro l'umanità commessi in Ucraina, mentre gli americani hanno destituito un eccellente presidente, Nixon, nientemeno perché per salvarsi di un'accusa ha pubblicamente mentito.

 Ecco la differenza fra dittatura e democrazia.

È vero, mancando i freni della pubblica opinione e dei partiti di opposizione, le dittature sono molto più forti.

 Possono meglio prepararsi alla guerra a costo di affamare il popolo.

 Si pensi alla Russia che, con un pil inferiore a quello italiano, cerca con le minacce di spacciarsi per una superpotenza.

Le autocrazie si preparano alla guerra e la dichiarano senza aspettare il consenso del popolo.

 Ma chi dice che poi quella guerra la vincano?

Hitler ha forse trionfato?

È stato forse un benefattore della Germania?

 E come dimenticare che la potenza militare dell'Unione Sovietica era pagata da una vita talmente miserabile del popolo che alla fine il regime stesso è imploso?

 La democrazia è disprezzata da chi non ha mai assaggiato, nemmeno culturalmente, un altro tipo di regime.

Perché non ha mai letto “Kravcenko”, “Koestler”, “Orwell”, “Kundera”.

 Ecco perché Churchill ha potuto scrivere quella frase: perché oltre che un politico era anche uno scrittore, uno storico e soprattutto un uomo dotato di un formidabile senso del reale.

(giannipardo1-gmail.com).

 

 

 

 

LA DEMOCRAZIA IN PERICOLO.

Hbritalia.it – Redazione di Harvard Business Review Italia – (10-giugno 2020)                                                                   REBECCA HENDERSON, LAURA AMICO e altri – ci dicono:

 

LA DEMOCRAZIA È IN DIFFICOLTÀ.

I dati di un recente sondaggio dipingono un quadro che dà da pensare:

Il 55% degli americani sostiene che la loro democrazia è "debole" e il 68% teme che stia diventando sempre più debole.

Circa la metà è d'accordo sul fatto che l'America è in "reale pericolo di diventare un Paese non democratico e autoritario".

 Inoltre, molti credono che il sistema sia truccato:

circa il 70% degli americani afferma che "il nostro sistema politico sembra funzionare solo per chi ci sta dentro con denaro e potere".

Questo non è solo un fenomeno americano:

 l'insoddisfazione per la democrazia è aumentata in tutto il mondo e solo il 45% delle persone dichiara di essere "soddisfatte del modo in cui la democrazia funziona nel loro Paese".

Queste preoccupazioni sono particolarmente forti tra i giovani.

Quasi due terzi degli americani tra i 18 e i 29 anni hanno "più paura che speranza sul futuro della democrazia in America".

 Negli Stati Uniti e nel Regno Unito, solo il 30% circa degli elettori più giovani ritiene che sia "essenziale" vivere in una democrazia, rispetto a più di tre quarti degli elettori nati prima della seconda guerra mondiale.

Questi atteggiamenti sono in linea con quanto è successo in tutto il mondo nell'ultimo decennio.

Leader populisti e autoritari hanno preso il controllo di molti Paesi, tra cui le Filippine, l'Ungheria, la Turchia, la Polonia e il Venezuela - e persino gli Stati Uniti, il Regno Unito e l'India.

Il Democracy Index, che valuta lo stato della democrazia in 167 Paesi sulla base dei processi elettorali, del funzionamento del Governo, della partecipazione politica, della cultura politica democratica e delle libertà civili, dà attualmente al mondo un punteggio globale di 5,4 su 10, il più basso da quando il sondaggio è iniziato nel 2006.

Non sono la prima a segnalare queste tendenze, né sono la prima a cercare di capire come siamo arrivati a questo punto e come potremmo sopravvivere a questo momento incerto della storia.

Ma sono una dei pochi a chiedersi cosa c'è in gioco per il business e se le imprese dovrebbero fare qualcosa per invertire queste tendenze.

A parità di condizioni, è improbabile che le aziende si precipitino in soccorso della democrazia.

Il mondo del business, dopo tutto, è in pieno boom (questo articolo è stato scritto prima dello scoppio della crisi del Coronavirus e del crollo del Pil in molti Paesi, NdR).

 Secondo molteplici indicatori, il mondo non è mai stato così prospero.

Il PIL mondiale - in base all'inflazione - è aumentato di sei volte negli ultimi 60 anni e il PIL pro capite è quasi triplicato.

Inoltre, imprenditori e manager tendono a non preoccuparsi troppo di quanto fa il Governo, associandolo a normative onerose, tasse, inerzia burocratica e incompetenza.

Invece di lavorare per costruire Governi, gli interessi delle imprese hanno condotto campagne contro di essi per decenni, spesso minando le istituzioni che sostengono la democrazia.

 Negli Stati Uniti, gli imprenditori combatterono ferocemente contro il New Deal e contro programmi come la previdenza sociale e l'assistenza sanitaria.

Le grandi aziende hanno boicottato i sindacati, si sono scontrate con la stampa libera e hanno inondato il sistema politico di denaro nel tentativo di controllare la politica.

Ma il risultato non è stato il trionfo del libero mercato, come speravano i leader delle imprese.

 Al contrario, ci è stato lasciato consegnato un sistema che favorisce i ricchi e i benestanti a spese della popolazione in generale.

 Le disuguaglianze sono salite alle stelle e il degrado ambientale ha accelerato a un ritmo senza precedenti.

Senza Governi democraticamente responsabili che garantiscano che i mercati rimangano liberi ed equi;

che le "esternalità" come l'inquinamento siano adeguatamente controllate;

 e che le opportunità siano disponibili a tutti, le società rischiano di cadere nel populismo.

Nei Paesi di tutto il mondo, i populisti di sinistra sperimentano forme di controllo dello Stato, e i governi populisti di destra stanno degenerando in un capitalismo di comodo (o peggio).

Nessuno dei due è un bene per il business ed entrambi avranno tremendi effetti sulla nostra società e sul pianeta.

Se il Governo è il contrappeso del libero mercato, la democrazia è la forza che assicura che i Governi non si trasformino in tirannia, prendendo il controllo dei mercati nel processo.

Credo che rafforzare la democrazia sia l'unico modo per garantire la sopravvivenza diffusa del capitalismo di libero mercato, e con essa la prosperità e le opportunità che hanno cambiato la vita di miliardi di persone.

È anche l'unico modo per affrontare le più grandi minacce del mondo, dal riscaldamento globale alle disuguaglianze.

Le imprese hanno le risorse, il potere politico, gli incentivi e la responsabilità di realizzare progressi significativi in questo sforzo.

In effetti, godono di un ampio sostegno.

Le indagini ci dicono che oggi la gente si fida più del proprio datore di lavoro che del Governo o dei media, e un recente sondaggio globale ha rilevato che il 71% degli intervistati ritiene che "è di fondamentale importanza che il mio “CEO” dia risposte adeguate a questi tempi difficili".

La business community ha svolto un ruolo importante nel rafforzamento della democrazia e nella ricostruzione della società in molti Paesi, come Cile, Sudafrica e Germania.

Può accadere di nuovo, ma solo se i leader delle imprese dimostreranno di capire fino a che punto i liberi mercati dipendono dai governi democratici - e solo se sono disposti a smettere di darsi da fare per distruggerli.

DI COSA HA BISOGNO IL LIBERO MERCATO PER SOPRAVVIVERE.

 

Il libero mercato è una delle grandi conquiste del genere umano. È stato un motore di innovazione, opportunità e ricchezza in tutto il mondo.

Ma il libero mercato ha bisogno di sistemi politici liberi per avere successo.

Per vedere cosa succede ai mercati in loro assenza, considerate il caso della Russia. Dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo dell'Unione Sovietica, la Russia si è mossa in modo aggressivo per avviare un mercato senza vincoli.

Ma nessuno si è preso la briga (o ha avuto l’impulso) di costruire le istituzioni democratiche essenziali per un libero mercato.

Il governo russo ha venduto le partecipazioni statali - la stragrande maggioranza dell'economia - a un piccolo gruppo di oligarchi, creando una forma particolarmente maligna di capitalismo clientelare, che esiste ancora oggi.

Il governo democratico protegge e rafforza il libero mercato fornendo (almeno!) quattro dei pilastri essenziali di un capitalismo veramente libero ed equo.

Un sistema giudiziario imparziale.

I liberi mercati richiedono diritti di proprietà e contratti che proteggono tutto, dalla terra e dalle patate alle idee e alle informazioni.

Essi si basano anche sulla consapevolezza che i partecipanti al mercato manterranno i loro impegni - e che se non lo faranno, ci saranno conseguenze.

Entrambe le cose dipendono dallo Stato di diritto.

 Senza di esso, la corruzione fiorisce:

 i diritti di proprietà cambiano di mano per capriccio dei potenti;

i contratti non valgono la carta su cui sono stampati.

Nessun sistema giuridico è mai completamente imparziale o efficace, naturalmente, ma i Paesi in cui il Governo è democraticamente responsabile tendono ad avere sistemi giudiziari molto più forti e meno corrotti.

Prezzi che riflettono i costi reali.

I prezzi permettono a migliaia di compratori e di venditori di lavorare insieme senza bisogno di un coordinamento formale - un miracolo quotidiano che crea prosperità globale.

“Milton Friedman” ha parlato in modo eloquente di come il meccanismo dei prezzi funzioni per facilitare le centinaia di transazioni - tra "persone che non parlano la stessa lingua, che praticano religioni diverse, che potrebbero odiarsi se mai si incontrassero" - necessarie per fare qualcosa di semplice come una matita.

Ma i prezzi fanno la loro magia solo quando riflettono l’incrocio tra i costi reali e la reale volontà di pagare.

Negli Stati Uniti, per esempio, l'elettricità prodotta da combustibili fossili è troppo economica.

L'elettricità prodotta da centrali a carbone costa circa cinque centesimi per chilowattora (¢/kWh).

Ma un prezzo accurato - un prezzo che rifletta il costo della combustione del carbone - terrebbe conto di come questo aggravi l'inquinamento atmosferico e contribuisca al riscaldamento globale.

 I costi sanitari associati alla produzione di un chilowattora di elettricità a carbone, per esempio, sono stati stimati a 4¢/kWh. Se a ciò si aggiungono altri 4 centesimi di danni legati al clima, il costo reale della combustione del carbone è molto più vicino a 13¢/kWh.

Finché i prezzi rimangono artificialmente bassi, tuttavia, le aziende hanno pochi incentivi a smettere di generare enormi quantità di inquinamento da particolato e gas serra.

Se i mercati devono essere efficienti, hanno bisogno che i Governi garantiscano che le esternalità abbiano un prezzo adeguato - in questo caso, per esempio, tassando le emissioni di carbonio e l'inquinamento.

Una vera concorrenza.

 I mercati sono liberi ed equi solo quando è facile entrarvi e uscirne, e quando si impedisce ai partecipanti di colludere.

 In questo caso la concorrenza prospera, sollecitando le imprese ad adottare le tecniche più recenti e a migliorare efficienza e produttività.

 Le forza a innovare, alimentando il ciclo di "distruzione creativa" che l'economista politico “Joseph Schumpeter” ha celebrato e che noi apprezziamo ogni volta che beneficiamo di un nuovo farmaco o dell'ultima applicazione per smartphone. Senza regole per salvaguardare la concorrenza, l'innovazione si blocca, l'efficienza crolla e i prezzi aumentano costantemente.

È stato il governo americano a spezzare AT&T e IBM, innescando un'esplosione della concorrenza e determinando un notevole calo dei prezzi.

Sarà quasi certamente il Governo a garantire che ci sia una vera concorrenza per aziende come Amazon, Google e Facebook.

Opportunità per tutti.

 Infine, ma non meno importante, i mercati sono veramente liberi solo quando tutti possono parteciparvi.

Quando l'economia è controllata dallo Stato o dall'élite politica, è vero il contrario: l'accesso ai posti di lavoro e alle opportunità economiche è strettamente controllato.

I parenti dei ricchi e dei potenti possono avviare imprese, ma per voi non è possibile.

 Trovare un lavoro è una questione di relazioni e di accesso - di andare col cappello in mano da chi controlla le leve del potere.

In un mercato libero, chiunque può partecipare.

Gli imprenditori immigrati possono creare le proprie imprese e prosperare.

Le donne possono diventare CEO, medici e icone dello sport.

 I Governi sono vitali nel sostenere la libertà di opportunità, fungendo da controllo del potere delle élite e fornendo i beni pubblici, come l'istruzione e l'assistenza sanitaria, che gettano le basi per il successo di tutti i cittadini, indipendentemente dal reddito dei loro genitori, dalla loro razza o dal loro sesso.

Alcuni credono che il mercato possa sorvegliare sé stesso e fornire beni pubblici essenziali - e a volte lo può fare.

Ad esempio, la “Camera di Commercio Internazionale”, che facilita gli scambi internazionali fissando regole, arbitrando le controversie e impegnandosi nella difesa delle politiche commerciali, è un organismo interamente volontario e autoregolamentato.

 Ma la mia ricerca e quella di molti altri suggeriscono che tali esempi sono relativamente rari.

In pratica, il potere di mercato è bilanciato in modo più affidabile dal potere pubblico - e i Governi sono tenuti sotto controllo in modo più efficace nel contesto di una fiorente democrazia.

COME SONO LE SOCIETÀ LIBERE.

 

Ogni singola entità - che si tratti di imprese, di Governi o di sindacati - può diventare troppo potente in assenza di un contropotere.

 In tal caso, il risultato è spesso un sistema escludente, in cui le istituzioni concentrano il potere politico ed economico nelle mani di una potente élite che gestisce lo Stato (e il mercato) a proprio vantaggio.

Tali società sono caratterizzate da reti di rapporti clientelari, da diritti di proprietà deboli e da monopoli diffusi.

Cina, Angola, Corea del Nord e Turkmenistan sono esempi di nazioni con istituzioni escludenti.

Ma quando le principali istituzioni di un Paese - sia economiche che politiche - sono inclusive e in equilibrio tra loro, la società fiorisce.

Le istituzioni economiche inclusive sostengono l'efficace funzionamento di un libero mercato, mentre le istituzioni politiche inclusive consentono a tutti di partecipare al processo politico e di monitorare e controllare il Governo.

 Gli Stati Uniti, la Germania, il Cile, la Corea del Sud e il Giappone sono tutti esempi classici di società con istituzioni inclusive.

Naturalmente, le cose non sono sempre in bianco e nero.

 Un Paese può essere economicamente inclusivo ma politicamente escludente e viceversa.

Singapore, ad esempio, vanta un mercato vivace e aperto, ma le elezioni politiche non sono né libere né eque e la libertà di parola è limitata.

Potreste pensare:

 "I governi escludenti sono sempre una cosa negativa?

Guardate la Cina: la sua economia ha goduto di una crescita notevole - il suo Governo sembra ottimo per gli affari.

Ed è vero che la crescita economica più rapida del mondo è stata in nazioni con istituzioni escludenti.

 In Nigeria, per esempio, un governo di questo tipo, che si è occupato degli interessi petroliferi e ha ricevuto massicce tangenti dalle operazioni di trivellazione, ha visto il suo PIL crescere in media del 7,6% all'anno dal 2006 al 2015.

 Nello stesso periodo il Turkmenistan, che reprime fortemente le libertà religiose e politiche, è cresciuto dell'11%.

Ma numeri impressionanti come questi sono spesso dovuti al fatto che, nelle economie deboli, le piccole riforme possono fare una grande differenza.

Non c'è da stupirsi che, quando i Paesi storicamente chiusi al commercio globale liberalizzano segmenti mirati delle loro economie, spesso ne risulta una crescita formidabile.

Ma i tassi di crescita sono molto più stabili sotto regimi inclusivi, poiché le istituzioni inclusive sembrano essere molto più propense a incoraggiare il tipo di distruzione creativa che porta a una crescita sostenuta.

Al contrario, le istituzioni escludenti spesso non sono in grado di generare un'innovazione sostanziale perché i potenziali nuovi entranti sono di norma ostacolati nei loro sforzi per creare valore.

E quando le innovazioni emergono, spesso vengono espropriate o spazzate via da entità consolidate.

Gli effetti soffocanti dei governi escludenti non possono essere sottovalutati.

Alcuni anni fa ho incontrato un giovane di una delle nazioni dell'Europa dell'Est che ha recentemente abbracciato una forma particolarmente virulenta di “populismo nazionalista”.

 All'epoca, stava per fondare una società di software ed era orgoglioso del fatto che stesse mettendo a frutto la sua educazione statunitense per creare posti di lavoro nel suo Paese natale.

 La sua azienda ha prosperato, ma quando ci siamo incontrati di recente, mi ha detto che stava deliberatamente frenando la sua crescita.

"Non devo diventare troppo grande", ha detto.

"Se lo faccio, i politici mi toglieranno l'azienda".

 

A istituzioni fortemente inclusive si associano non solo migliori risultati economici, ma anche minori disuguaglianze di reddito, maggiore mobilità socioeconomica, maggiori libertà sociali e maggiori aumenti del benessere sociale.

 Gli Stati Uniti, un esempio paradigmatico dell’economia liberale di mercato, è un classico caso rappresentativo di questa dinamica - almeno fino a poco tempo fa.

 (Come osserva la storica “Jill Lepore "nel 2016, il “Democracy Index” della per la prima volta ha valutato gli Stati Uniti come una democrazia imperfetta, e da allora è diventata solo più imperfetta").

Non è sempre facile navigare con Governi inclusivi, naturalmente.

Come ogni imprenditore vi dirà, anche i Governi più inclusivi e meglio regolamentati possono essere estremamente difficili da gestire.

Ma questa è la natura della bestia.

Il dare e avere del processo politico in combinazione con l'attenzione al bene pubblico piuttosto che al profitto privato fa sì che i Governi sembrino spesso meno "efficienti" del mondo dell’economia.

Ma mentre l'efficienza è qualcosa che spesso ossessiona i leader aziendali, non è la misura giusta per valutare le prestazioni di un Governo.

Ciò che conta di più è che il Governo sia pulito, reattivo, trasparente e democratico.

Il business è una macchina super efficiente per il profitto, ma senza i guardrail che un Governo democratico può fornire, alla fine mette a repentaglio il proprio successo.

Ed è esattamente quello che sta succedendo oggi.

DOVE VA IL MONDO SE NON CAMBIA NULLA.

Mio marito, “James Morone”, uno storico che ha passato l'ultimo anno a scrivere sulla crescente polarizzazione politica in America, è venuto nel mio ufficio un giorno dell'autunno scorso.

 "Sai - ha detto - sono colpito da quanto la corsa alla guerra civile sia simile al nostro momento attuale:

la stessa convinzione che l'altra parte voglia distruggere la repubblica;

la stessa volontà di fare qualsiasi cosa per far sì che la propria parte vinca. È inquietante".

Potrebbe aver scoperto qualcosa.

Uno dei primi segnali che indicano che una nazione sta diventando meno democratica è che diventa più polarizzata.

 Lo vediamo accadere negli Stati Uniti.

A causa in gran parte della manipolazione dei collegi elettorali, più del 90% dei rappresentanti degli Stati Uniti vengono rieletti.

L'unica vera minaccia che devono affrontare è quella che viene dall'interno del loro stesso partito, una dinamica che li spinge ad assumere posizioni sempre più estreme.

Pochi legislatori sono incentivati a scendere a compromessi.

La crescente polarizzazione sta portando a una situazione di stallo.

Aggiungete la diffusa tendenza all’astensione degli elettori e i meccanismi problematici come le circoscrizioni elettorali, e non c'è da stupirsi che la gente stia diventando cinica nei confronti della democrazia.

Se la società non riesce ad affrontare questi problemi, le disuguaglianze non faranno che peggiorare, a maggior ragione in un momento in cui gli effetti accelerati del cambiamento climatico rendono sempre più difficile costruire un'economia più sostenibile.

Penso che sia improbabile che orde rivoluzionarie vadano a stanare i ricchi, e non credo che gli Stati Uniti siano indirizzati verso un'altra guerra civile.

Ma temo che gli Stati Uniti e il mondo diventeranno sempre più polarizzati, sempre più ingiusti e sempre più scomodi.

 In questo ambiente instabile, i Paesi hanno più probabilità di cadere preda del populismo.

E come ho detto, il populismo spesso non è amico del libero mercato.

Conosco pochi uomini d'affari appassionati della piattaforma del partito laburista britannico, per esempio, e il populismo di sinistra ha causato enormi danni economici (per non parlare di quelli sociali) in Sud America e in Africa.

 Il populismo di destra ha una storia altrettanto travagliata, se non di più.

I populisti di destra sono regolarmente diventati dittatori autoritari. Peron ha sconvolto l'economia argentina, e Hitler e Stalin - entrambi populisti classici della destra - hanno distrutto completamente le loro società.

COME PUÒ IL MONDO DEGLI AFFARI AIUTARE A RICOSTRUIRE LA DEMOCRAZIA?

 

Le sfide di oggi fanno tremare i polsi e sono enormemente complesse.

 Mentre ci sono passi proattivi che i singoli leader delle imprese possono fare da soli - parlare dell'importanza del buon governo, dare ai dipendenti il giorno libero per votare, essere trasparenti in merito alle loro spese politiche - le cose difficilmente miglioreranno fino a quando l'impresa nel suo complesso non riconoscerà di avere un ruolo centrale nella continua erosione della democrazia.

E che spetta alle imprese e al Governo lavorare insieme per salvarla.

Guardiamo ora alle mosse che il business potrebbe prendere per guidare un cambiamento positivo:

Smettere di erodere le istituzioni democratiche.

 Una delle ragioni per cui la democrazia globale è in declino è che le imprese hanno speso enormi somme di denaro per sovvertirla.

Esempi non ne mancano.

 Guardiamone un paio che riguardano gli Stati Uniti.

Nel 1971, il futuro giudice della Corte Suprema “Lewis Powell” affermò in un articolo di ampia diffusione, noto come "il memo Powell", che il sistema economico americano era sotto attacco - da parte del Governo.

All'epoca l'accusa sembrava in qualche modo plausibile.

 Il Governo era popolare e forte, e la generazione più giovane stava mettendo in forte discussione i meriti del capitalismo.

Il promemoria Powell chiedeva una mobilitazione nella lotta politica:

"Il mondo degli affari deve imparare la lezione... che il potere politico è necessario; che tale potere deve essere coltivato con assiduità; e che, quando necessario, deve essere usato in modo aggressivo e con determinazione - senza imbarazzo e senza la riluttanza che è stata così caratteristica del business americano".

Molti leader d’impresa hanno raccolto questa sfida con determinazione.

Forse i più fortunati sono stati “Charles e David Koch”, unici proprietari delle” Koch Industries” e - fino alla scomparsa di David Koch - due degli uomini più ricchi d'America.

 Erano i leader de facto di un continuo sforzo per ridurre le dimensioni e il potere del governo degli Stati Uniti (oggi, Charles porta la fiaccola da solo).

La rete da loro fondata, ora finanziata da più di 200 ricchi donatori, è impegnata a ottenere tagli alle tasse, a bloccare o eliminare la regolamentazione sulle imprese, a ridurre i finanziamenti per l'istruzione pubblica e le iniziative di assistenza sociale, a indebolire i sindacati pubblici e privati, a ostacolare una facile registrazione degli elettori e a ridurre i giorni e le ore di voto.

 

La democrazia è stata ulteriormente indebolita dall'influenza sempre più corrosiva del denaro in politica. A seguito di una decisione della “Corte Suprema degli Stati Uniti del 2010”, la spesa esterna per le elezioni presidenziali è passata da 338 milioni di dollari nel 2008 a 1,4 miliardi di dollari nel 2016.

Questa cifra non tiene conto delle donazioni motivate politicamente provenienti dalle fondazioni di beneficenza esenti da tasse delle aziende statunitensi, che un recente studio ha stimato in 1,6 miliardi di dollari nel 2014.

La spesa per le attività di lobbying è più che raddoppiata dal 2000 al 2010 (da 1,6 miliardi di dollari a 3,5 miliardi di dollari) e da allora si è stabilizzata a circa 3,3 miliardi di dollari all'anno.

Sebbene gran parte della crescita della spesa politica provenga probabilmente da individui molto ricchi piuttosto che da imprese, il fatto che ora in politica ci sia molto più denaro di origine aziendale è fuori di dubbio.

Gran parte di questo è "denaro nero";

non sappiamo chi ci sia dietro.

Ed è una spesa corrosiva perché crea la percezione - e plausibilmente la realtà - che il sistema sia truccato a favore dei ricchi e che i voti individuali dei cittadini non contino.

Nel 2014, ad esempio, gli scienziati politici “Martin Gilens” e “Benjamin Page” hanno pubblicato uno studio che esamina il rapporto tra il sostegno popolare a una determinata politica e le probabilità che essa diventi legge.

Hanno scoperto che negli Stati Uniti non c'è quasi nessuna correlazione tra le opinioni del "cittadino medio" e i cambiamenti di politica.

Le proposte sostenute dal 90% della popolazione generale non hanno avuto più probabilità di passare di quelle sostenute dal 10%.

Ma se i ricchi sostenevano una politica, questa veniva approvata.

 I sondaggi condotti prima del taglio delle tasse del 2017, per esempio, suggerivano che non era condivisa dalla maggior parte degli elettori e anche ora, oltre due anni dopo, solo il 40% circa degli americani approva la legge.

Non c'è da stupirsi: la maggior parte delle stime suggerisce che almeno l'80% dei benefici del taglio sono andati al 10% più ricco.

Negli Stati Uniti e in molti altri Paesi oggi, i pilastri che hanno mantenuto il mercato libero ed equo si stanno erodendo e opachi gruppi di interesse e monopoli aziendali (si consideri una qualsiasi delle maggiori aziende tecnologiche) stanno guadagnando potere politico.

 L'inclusione sta lasciando il posto all'esclusione.

Queste tendenze rafforzano la narrazione che descrive i "ricchi" che si comportano come banditi e che, al contempo, distruggono il mondo per le generazioni future.

Sempre meno persone credono che i loro figli staranno meglio di loro. Contribuendo a indebolire i guardrail di un governo inclusivo, il mondo del business può aver rafforzato la propria posizione finanziaria a breve termine, ma ha seminato il seme della sua stessa distruzione.

Tutto questo deve finire.

Il business deve rinunciare al suo potere politico e operare forti pressioni contro l’afflusso di denaro in politica.

Deve agire per rafforzare quelle stesse istituzioni che possono opporsi agli interessi delle imprese.

 Il business può essere un valido contributo al dibattito politico, ma solo quando i consumatori, gli esperti, i sindacati e le organizzazioni di base svolgono tutti un ruolo forte.

Altrimenti, l'impegno delle aziende in politica è pericolosamente destabilizzante. Le imprese devono diventare un partner nella costruzione della società, non un dominatore.

La distinzione chiave che le imprese devono fare è tra civismo e politica.

 Piuttosto che assumere una posizione di parte (o spendere soldi) su politiche specifiche, le aziende dovrebbero invece concentrarsi sul processo di elaborazione politica, sostenendo attivamente una democrazia sana e funzionante, in modo che tutti gli stakeholder e le comunità possano impegnarsi in un dibattito attivo su quali debbano essere tali politiche.

Formare coalizioni con il Governo.

 La ricostruzione della democrazia richiederà quasi certamente modifiche legali o costituzionali per garantire che ogni cittadino possa partecipare e influenzare il processo politico e che le attività di lobbying e la spesa politica siano dichiarate e divulgate apertamente (o eliminate del tutto).

 Richiederà anche di ristabilire la fiducia nei media e di coltivare una sorta di voce organizzata per i dipendenti.

Nessuna azienda da sola può mettere in moto questo tipo di cambiamenti.

Ma la storia suggerisce che quando gruppi di aziende o leader aziendali agiscono insieme in collaborazione con la società civile e il Governo per appoggiare cambiamenti strutturali, possono accadere grandi cose.

Prendiamo il caso della Danimarca.

Nella seconda metà del XIX secolo, la Danimarca era una nazione sconvolta.

Nel 1864, il Paese fu sconfitto nella seconda guerra dello “Schleswig” dalla Prussia e dall'Austria, perdendo territori che erano stati sotto il controllo danese fin dal XII secolo.

Si trattava di una lunga serie di sconfitte che avevano reso la Danimarca un Paese piccolo e povero, che non poteva più aspirare a essere una grande potenza.

Negli anni Novanta del XIX secolo, l'aspro conflitto tra il Partito di destra danese (una nociva alleanza tra i grandi interessi agricoli e i principali industriali danesi) e i socialdemocratici (il partito della classe operaia) minacciava di paralizzare l'industria e di distruggere il Paese.

Ma nel 1896,” Niels Anderson”, membro del Parlamento e imprenditore ferroviario, dotato di una grande capacità di costruire il consenso, prese l'iniziativa di formare la “Confederazione dei datori di lavoro danesi, o DA”.

Vendette l'idea ai suoi colleghi presentandola come mezzo per influenzare la politica pubblica in assenza di una maggioranza legislativa e per raggiungere la pace industriale unificando la voce del mondo degli affari.

Ebbe un notevole successo nel raggiungere entrambi gli obiettivi.

Il “DA” ha lavorato duramente per unire i sindacati danesi in un'unica federazione - la “LO”, o “Confederazione danese dei sindacati “- e poi vi ha collaborato per costruire un sistema nazionale di contrattazione collettiva e una stretta collaborazione con il Governo.

Oggi la Danimarca combina un mercato libero dinamicamente competitivo con una ampia assistenza sanitaria nazionale, un'assistenza sanitaria ai bambini fortemente sovvenzionata e investimenti significativi nella formazione dei lavoratori - una combinazione che le ha dato uno dei più alti salari minimi medi del mondo, con 16,35 dollari nel 2015, e uno dei più bassi livelli di disuguaglianza di reddito tra i Paesi dell'OCSE.

 Il processo decisionale in Danimarca è altamente collaborativo e riunisce Governo, datori di lavoro e sindacati in un processo comune che risale a più di cento anni fa.

 L'approccio ha reso possibile un mix unico di regole del lavoro flessibili (che favoriscono le imprese) e un forte stato sociale (che favorisce i lavoratori).

Questo è uno dei tanti esempi.

Quando “Seewoosagur Ramgoolam” divenne il primo premier di una “libera Mauritius” nel 1967, dopo un'elezione aspramente combattuta, il Paese sembrava a rischio di crollo.

 Avrebbe potuto creare uno Stato monopartitico o nazionalizzare le piantagioni di zucchero del Paese.

Ma invece ha scelto di formare un Governo di unità nazionale esteso dal suo stesso partito di marxisti dichiarati ai capitalisti baroni dello zucchero che dominavano l'economia.

 Il partito avversario decise di cooperare e insieme le due parti stipularono un vero e proprio accordo di condivisione del potere.

L'accordo si è rivelato un successo sorprendente: le elezioni sono state libere ed eque e hanno costantemente portato a alternanze di potere.

Oggi Mauritius è al 13° posto nell'indice della” Banca Mondiale per la facilità di fare affari” e come ottava "economia più libera del mondo".

Potrebbe accadere di nuovo una tale cooperazione?

 I leader d’impresa potrebbero coalizzarsi, insieme al Governo, per sostenere le riforme democratiche?

E possono trovare un modo per mantenere la pace e la prosperità che hanno reso gli ultimi 50-100 anni un'età dell'oro per molti?

 

Un segnale di speranza è che questa crisi sta iniziando a suscitare l'interesse dei dirigenti d'impresa:

da un sondaggio è emerso che quasi il 70% dei dirigenti è preoccupato per lo stato della democrazia e più della metà ritiene che i leader delle imprese abbiano la responsabilità di risolverla.

Vi sono forti motivi che suggeriscono una decisa azione collettiva - e le imprese agiscono già collettivamente tutto il tempo.

 Le associazioni di categoria fanno pressione per un cambiamento che andrà a beneficio dell'industria nel suo complesso.

La “U.S. Chamber of Commerce” è proprio il tipo di "associazione di punta" che ha fatto tanta differenza nel caso della Danimarca.

E ci sono già molti esempi di imprese che agiscono collettivamente su scala ridotta. In città come Minneapolis, Cleveland, Detroit e Chattanooga, ad esempio, le associazioni imprenditoriali locali lavorano a stretto contatto con il governo locale per sostenere gli investimenti nell'istruzione e nei trasporti e per affrontare il riscaldamento globale.

Negli Stati Uniti, in particolare, la democrazia è un processo locale, e le associazioni imprenditoriali cittadine o statali sono ben posizionate per fare una grande differenza nel caso in cui decidano di sostenere le riforme politiche.

Per esempio, le regole di voto sono quasi interamente nelle mani degli stati americani.

Se la comunità imprenditoriale di ogni stato si unisse a sostegno delle riforme democratiche, le cose potrebbero cambiare molto rapidamente.

Succede che molti respingano i miei esempi e le mie argomentazioni, o si chiedano se il mondo degli affari deciderà prima o poi di attivarsi per salvare la democrazia. "In ogni ciascuno dei casi che menzioni" dicono, "il Paese era vicino al disastro; le imprese non avevano altra scelta che agire". Esattamente.

Credo che ci troviamo pericolosamente vicini - se non addirittura alle soglie - di un grave disastro.

 Il mondo del business sceglierà di agire?

Voi lo farete?

(“Rebecca Henderson” è Professoressa alla Harvard University e alla Harvard Business School dove insegna general management e strategia. È autrice del libro di prossima pubblicazione, “Reimaging Capitalism in a World on Fire”.)

 

 

DEMOCRAZIA E CAPITALISMO HANNO DAVVERO BISOGNO L'UNA DELL'ALTRO?

“Studiosi di tutto il mondo a confronto” di “Laura Amico”.

 

DEMOCRAZIA E CAPITALISMO coesistono in molte varianti in tutto il mondo, ognuna delle quali è continuamente ridisegnata dalle specifiche condizioni oggettive e dalle persone che la compongono.

Sempre più spesso la gente esprime profonda preoccupazione per il destino di entrambi.

In un recente sondaggio globale, “Pew “ha rilevato che, tra gli intervistati di 27 Paesi, il 51% è insoddisfatto del funzionamento attuale della democrazia.

Inoltre, i “millennial e la generazione Z” dimostrano di essere sempre meno interessati al capitalismo, mentre solo la metà di essi lo considera un fattore positivo negli Stati Uniti.

Nel suo articolo, “Rebecca Henderson” sostiene che il fallimento di ciascuno dei due sistemi è connesso all'altro, e che per ricostruire un mercato libero forte dovremo rafforzare la democrazia.

Ma gli altri osservatori sono d'accordo?

 

Per saperne di più sulle complesse relazioni globali tra democrazia e capitalismo – e sul perché il sostegno dell'opinione pubblica globale sui due sistemi sembra oggi in declino – “Harvard Business Review” ha interpellato i migliori economisti ed esperti in scienze politiche specializzati nello studio della democrazia provenienti od operanti in Paesi che si trovano oggi in difficoltà.

Abbiamo posto loro queste domande:

la democrazia e il capitalismo hanno bisogno l'una dell'altro?

Perché? Oppure: perché no?

Ecco come hanno risposto.

Isabelle Ferreras.

(Membro della Fondazione Nazionale Belga per la Scienza, professoressa all'”Università di Lovanio” e ricercatrice senior del “Labor and Worklife Program” presso la “Harvard Law School”.)

Chiaramente no:

 il capitalismo, come possiamo vedere in tutto il mondo, è compatibile con tutti i diversi tipi di regimi politici: liberal-democratici, comunisti, autocratici e ora anche con le democrazie illiberali.

La democrazia è un sistema di governo basato sul riconoscimento che le persone sono uguali "nella dignità e nei diritti" e dovrebbero quindi avere uguali diritti politici.

Questo ideale può essere applicato a entità di qualsiasi dimensione.

Anche il capitalismo è un sistema di governo, ma ineguale.

 Esso concede diritti politici basati sulla proprietà del capitale.

La sua istituzione principale è l'impresa, fondata su due fattori:

il capitale e il lavoro.

 Nelle imprese capitaliste, i diritti politici di governo sono unicamente nelle mani degli investitori di capitale, nella cornice legale della società.

Gli unici cittadini che contano nella logica esclusiva dell'impresa capitalista sono quelli che possiedono il capitale - in altre parole, gli azionisti.

 Essi esercitano il potere e raccolgono la maggior parte dei profitti finanziari, mentre gli investitori in lavoro (cioè i lavoratori) sono privati del diritto di voto - e le risorse del pianeta vengono esaurite.

Il capitalismo non è naturalmente destinato a sostenere il libero mercato.

 Il mercato è un meccanismo di scambio legalmente e culturalmente generato e garantito dallo Stato.

 La sua superiorità nel coordinare la domanda e l'offerta è stata dimostrata, ma raramente si riconosce che l'economia di mercato è compatibile, a livello aziendale, sia con i Governi democratici sia con quelli capitalisti.

 Il capitalismo e la democrazia hanno entrambi bisogno dei mercati, non l'uno dell'altra.

Questa confusione ha creato l'illusione che democrazia e capitalismo vadano di pari passo, quando, in realtà, si contraddicono reciprocamente.

 I leader politici di oggi (democratici o meno) si affannano a nascondere la loro impotenza nel ridurre le disuguaglianze o nel salvare il pianeta di fronte alle multinazionali capitaliste.

Uno dei risultati di tutto ciò è lo sgretolamento delle democrazie.

 Abbiamo una scelta chiara davanti a noi:

 espandere il nostro impegno democratico per includere le società per azioni, attraverso una loro democratizzazione interna (includendo la rappresentanza dei lavoratori accanto all’attuale rappresentanza degli azionisti), oppure cedere i nostri diritti democratici ai detentori del capitale - una possibilità che si profila all'orizzonte, in particolare negli Stati Uniti.

 

 Isabel V. Sawhill.

(Senior Fellow in studi economici presso la “Brookings Institution” e autrice di “The Forgotten Americans: An Economic Agenda for a Divided Nation).

 

 Il capitalismo e la democrazia hanno assolutamente bisogno l'uno dell'altra per sopravvivere, ma in questo momento è la democrazia ad essere più minacciata.

Il capitalismo è il modo giusto di organizzare un'economia, ma non è un buon modo per organizzare una società.

I mercati fanno un buon lavoro nell'allocare le risorse, nel promuovere il dinamismo e nel preservare le scelte individuali, ma non possono trovare soluzioni al cambiamento climatico, alle troppe disuguaglianze o alla situazione critica in cui si trovano i lavoratori privati del loro lavoro dalle nuove prospettive del commercio o dalla tecnologia.

Quando il Governo non riesce ad affrontare questi o altri problemi sistemici, la democrazia comincia a perdere la sua legittimazione.

In preda alla disperazione, i cittadini si rivolgono ai populisti di destra o di sinistra.

E se questi leader si dimostrano a loro volta incapaci di mantenere le loro promesse, la fiducia nel Governo si erode ulteriormente.

L'instabilità politica comincia a minacciare il capitalismo stesso.

Stiamo oggi assistendo a questa spirale in movimento.

 L'insoddisfazione per la democrazia negli Stati Uniti è aumentata di un terzo dalla metà degli anni Novanta e ora interessa circa la metà della popolazione, secondo il “Centre for the Future of Democracy” dell'Università di Cambridge.

 È stata la classe operaia bianca, le cui contee erano state devastate dalla perdita di posti di lavoro, a eleggere “Donald Trump” nel 2016.

 I suoi sostenitori erano preda di ansie culturali (in particolare l'opposizione all'immigrazione) oltre che economiche, ma non si può negare la correlazione sorprendentemente forte a livello di contea tra i voti a favore di Trump e le difficoltà economiche a lungo termine, i tassi di occupazione molto bassi, le chiusure di stabilimenti legate al commercio con l’estero e la crisi derivante dall’epidemia di oppiacei.

Ora gli Stati Uniti sono nel bel mezzo di un'altra campagna presidenziale e i segnali di instabilità stanno aumentando a sinistra.

Se Bernie Sanders vincerà (questo articolo è stato scritto prima del ritiro, l’8 aprile 2020, di Sanders, a favore della candidatura di Joe Biden, NdR) la nomina democratica quest'anno, sarà chiaro che non è solo la classe operaia a essere stufa, ma anche i giovani e i progressisti, che credono che il sistema sia corrotto e che solo un socialista democratico possa salvare la situazione.

Ma una rivoluzione Sanders deluderebbe quasi sicuramente ancora di più i suoi elettori, poiché l'attuazione della maggior parte delle sue proposte è politicamente irrealizzabile e porterebbe quindi a una maggiore sfiducia nel Governo.

Meno della metà dei giovani tra i 18 e i 29 anni sostiene oggi il capitalismo.

Hanno ragione sul fatto che i mercati senza barriere protettive non producono una società sana.

Ma un Governo che si spinge troppo oltre, cercando di sostituire il mercato in settori come la sanità o la creazione di posti di lavoro, non riuscirà a ripristinare questa fiducia.

Questo è il difficile equilibrio che ci troviamo ad affrontare.

 

Archon Fung.

(“Professore di Citizenship and Self-Government alla “John F. Kennedy School of Government”, “Harvard University”.)

 

Naturalmente non hanno bisogno l'una dell'altro.

L'antica Atene e gli Stati Uniti rivoluzionari erano democratici ma non capitalisti, e la Cina pratica quello che alcuni chiamano il capitalismo di Stato senza democrazia.

Per essere provocatorio, lasciatemi porre una domanda diversa: la democrazia e il capitalismo possono coesistere?

La democrazia è un sistema di governo in cui le persone possono contribuire a creare leggi e politiche come cittadini in condizioni di uguaglianza.

Ma in regime di capitalismo, i capitalisti tendono ad avocare a sé il potere di fare le leggi e le politiche.

Il nuovo “Oxford Dictionary” definisce il capitalismo come "un sistema economico e politico in cui il commercio e l'industria di un Paese sono controllati da proprietari privati a scopo di profitto".

Questa, semplicemente, non è democrazia.

Nelle società che contengono elementi sia di democrazia sia di capitalismo, la sfida è quella di mantenere l'uguaglianza politica contro la disuguaglianza economica che il capitalismo tende a generare.

 Le democrazie capitaliste con una maggiore uguaglianza politica tendono a sembrare meno capitaliste;

penso ai Paesi del Nord Europa con sistemi di protezione sociale più generosi, sindacati più forti per controbilanciare il potere politico delle imprese, aliquote fiscali più alte e politiche di mercato del lavoro e della distribuzione più ugualitarie.

In effetti, questi Paesi sono comunemente chiamati "socialdemocrazie", piuttosto che democrazie capitalistiche.

E i Paesi a maggiore vocazione capitalistica tendono ad essere meno democratici. Negli Stati Uniti, per esempio, il politologo “Martin Gilens” ha dimostrato che, nel corso di molti decenni, numerose politiche pubbliche sono state molto reattive ai desideri della popolazione che si trova in cima alla distribuzione del reddito, ma per nulla rispondenti ai bisogni del restante 80% degli americani.

 

 Reetika Khera.

(Economista dello sviluppo indiano e Professore associato presso l’”Indian Institute of Management Ahmedabad”.)

Mentre né il capitalismo né la democrazia esistono nella loro forma ideale, soprattutto oggi, dal mio punto di vista ciò che la democrazia promette è più attraente di ciò che il capitalismo promette.

Per esempio, a differenza della democrazia, il capitalismo non esprime alcun impegno a favore dell'uguaglianza.

Gli insuccessi della democrazia sono palesi attorno a noi.

L'ascesa del Governo autoritario in India e i livelli rivoltanti di disuguaglianza sociale ed economica ne sono i segnali.

Troppo spesso la mano per niente invisibile del capitalismo clientelare è evidente in questo contesto.

Eppure, la democrazia indiana - anche se fragile e malata - ha mostrato il suo valore e ha espresso i barlumi di una potenziale capacità di alimentare il cambiamento sociale:

dall'indipendenza del Paese nel 1947, l'aspettativa di vita alla nascita è più che raddoppiata, passando da 32 anni nel 1951 a 66 anni nel 2011.

Un altro spunto:

nel 2017, una sentenza di nove giudici della” Corte Suprema dell'India” ha riaffermato il diritto alla privacy come diritto fondamentale, aprendo la strada alla soppressione della “Sezione 377 del Codice Penale Indiano”, che criminalizzava le relazioni omosessuali.

Allo stesso modo, la realtà del capitalismo è preoccupante.

Che si tratti di case automobilistiche che falsificano i dati sulle emissioni, di banche che spostano impunemente il denaro della droga o, in India, di magnati affaristi che fuggono dal Paese quando i loro debitori bussano alla porta, vivere secondo lo Stato di diritto e il principio di uguaglianza davanti alla legge non sembra essere la norma.

Quand’anche i potenti capitalisti non violino le leggi, si comprano il potere di modellare il processo legislativo a loro vantaggio (ad esempio, affossando le iniziative di base per la protezione dei lavoratori) e commettono semplicemente dei furti legali.

Nei decenni passati, le industrie dello zucchero e del tabacco hanno sponsorizzato ricerche di parte per coprire gli effetti negativi dei loro prodotti;

oggi vediamo l'industria tecnologica compiere azioni simili, come mettere a repentaglio elezioni libere ed eque, fondamento di una democrazia efficiente.

La democrazia e il capitalismo hanno bisogno l'una dell'altro?

Il capitalismo ha bisogno di una finzione di democrazia più che della democrazia in senso stretto.

Sempre più spesso sento che le plutocrazie si spacciano per democrazie.

Nelle plutocrazie, il capitalismo sta consolidando la sua ricchezza e il suo potere mantenendo una farsa di democrazia.

 

 Manuel Agosin.

(Professore di economia, Facoltà di Economia e Commercio, “Università del Cile”, già preside di facoltà ,2010-2018).

Il capitalismo può sopravvivere a lungo senza democrazia, come dimostrano le esperienze di Cina, Russia, Turchia e altri Stati autoritari.

Tuttavia, il capitalismo senza democrazia favorisce normalmente la corruzione e il controllo delle risorse attraverso mezzi diversi dal merito, come la lealtà ai partiti.

Detto questo, nel breve periodo, abbiamo visto le democrazie abusate per profitti personali in molti Paesi per lo più democratici.

 I molti casi di mega-corruzione che sono venuti alla luce nei Paesi democratici dell'America Latina (l’operazione Lava Jato o Car Wash in Brasile, e i casi Odebrecht in tutto il continente) ne sono la prova.

Anche gli Stati Uniti sono stati tutt'altro che impermeabili al sovvertimento della democrazia da parte di un aspirante autocrate.

Enfatizzando l’individualismo e i guadagni personali, il capitalismo tende ad alimentare la concentrazione del mercato e una lunga serie di abusi, come ha chiaramente dimostrato” la Grande Recessione”.

Individui e società sono continuamente tentati di eludere la legge o di trovare scappatoie legali.

Il settore finanziario è particolarmente incline a questo tipo di comportamento, poiché permette agli operatori del mercato di generare profitti non solo producendo servizi di cui la gente ha bisogno, ma anche attraverso abili manipolazioni di ingegneria finanziaria.

 Il più delle volte tale creatività non produce alcun valore per la società; anzi, spesso genera condizioni che creano crisi finanziarie lungo la strada.

Ecco perché solo una vera democrazia può correggere, attraverso l'uso del potere statale, mali del capitalismo quali la mancanza di concorrenza e una distribuzione distorta dei profitti.

 Le democrazie forti hanno pesi e contrappesi che possono porre un limite a ciò che il capitalismo può fare:

tribunali dove i casi di mercati in cui non si rispettano le regole di leale concorrenza, di corruzione e sovversione della democrazia possono essere processati e puniti.

Infatti, i massimi benefici del capitalismo possono essere pienamente raccolti solo in una società democratica.

 E così la sfida più pressante per le società democratiche è questa:

come fare in modo che la finanza serva i bisogni reali dei cittadini, piuttosto che foderare le tasche di chi ha la fortuna di vincere al gioco della finanza.

 

 Steven Klein.

(Assistente di Scienze politiche all'”Università della Florida”; docente presso il dipartimento di economia politica del “King's College” di Londra.)

Gli ultimi 30 anni hanno dimostrato che il capitalismo non ha bisogno di democrazia per mettere radici:

in Cina, l'introduzione del capitalismo non ha portato a un'espansione dei diritti democratici e anche i governi autoritari di altri Paesi - come l'Ungheria - hanno abbracciato con entusiasmo il capitalismo.

Allo stesso tempo, è chiaro che il capitalismo ha bisogno di democrazia per salvarsi da sé stesso.

 Le crisi finanziarie negli Stati Uniti e in Europa dimostrano come le istituzioni democratiche siano state chiamate in soccorso del capitalismo.

Storicamente, sappiamo che democrazia e capitalismo possono evolvere insieme. Città-stato mercantili come Firenze e Amsterdam hanno avuto forme di governo rappresentative, e in Gran Bretagna lo sviluppo della democrazia ha protetto gli interessi delle nascenti classi mercantili contro i vecchi interessi acquisiti.

 Eppure, la stessa Gran Bretagna aveva realizzato solo una parziale democratizzazione, dato che il voto dipendeva da diritti di proprietà, in un’epoca in cui l’opinione prevalente era che il suffragio universale avrebbe distrutto tali diritti e, per estensione, il capitalismo stesso.

Più oltre, in Europa, il crollo finale della democrazia fu legato alle esigenze del capitalismo:

 la politica di austerità del cancelliere tedesco “Heinrich Brüning” degli anni '30, uno sforzo teso a salvare il “gold standard” in Germania e a mantenere il Paese sulla scena del capitalismo globale, contribuì a spingere i nazisti al potere.

I principi organizzativi della democrazia e del capitalismo sono diversi.

 La democrazia si basa sulla convinzione che tutti debbano avere pari voce in capitolo nelle decisioni che li riguardano.

Il capitalismo non lo fa.

 Al contrario, esso basa la produzione sul profitto e sulla capacità di entrare e uscire da relazioni di tipo opportunistico.

Questo è il cuore delle tensioni tra democrazia e capitalismo:

realizzare un ideale di parità di diritti può significare limitare la possibilità, per individui e imprese, di sciogliere i loro rapporti economici e politici quando il contesto democratico non li favoriscono.

 Sappiamo qual è l'esito di questa tensione:

i capitalisti spesso scelgono di appoggiare soluzioni autoritarie prima di decidere di accettare un nuovo regime di controllo democratico.

(“Laura Amico” è redattore senior presso la “Harvard Business Review”.)

 

L’affermazione di un “capitalismo politico.”

Intervista a “Massimo Cacciari”.

Prof. Cacciari, su “HBR” scriviamo che la democrazia è in difficoltà.

Non solo per l’assalto del populismo, ma per la sfiducia nei meccanismi democratici crescente in molti Paesi, Italia compresa.

 Negli Stati Uniti la maggioranza ritiene che "il Paese sia in reale pericolo di diventare non democratico e autoritario”.

Ma l'insoddisfazione per la democrazia è aumentata in tutto il mondo e solo una minoranza degli elettori più giovani ritiene che sia "essenziale" vivere in una democrazia, rispetto a più di tre quarti dei nati prima della seconda guerra mondiale.

Come valuta questi timori?

Li ritiene fondati? O troppo allarmistici?

L'adesione popolare a una prospettiva di "democrazia progressiva" è fisiologicamente legata, nel corso del secondo dopoguerra, a crescita di benessere, a mobilità sociale e a uguaglianza nelle opportunità.

Dalla caduta del Muro, dalla fine della "Terza guerra mondiale", queste prospettive nei Paesi occidentali si sono indebolite fino a subire colpi gravissimi con la crisi del 2007.

 Da qui l'affermarsi di varie forme di populismo, per il momento contenute ma, in seguito al dramma della pandemia, destinate, temo, a riesplodere.

Questa crisi imporrebbe un autentico “New Deal”, in Europa soprattutto, ma non se ne vede la volontà.

 

È d’accordo con “Henderson” che il mondo del business abbia nell’insieme contribuito a minare la legittimità degli ordinamenti democratici?

 O le sembra una posizione massimalista, poco ancorata alla realtà?

È nell'essenza del sistema sociale capitalistico (che non è un fatto semplicemente economico) ritenere l'apparato del potere pubblico un freno e un impedimento all'espressione della propria vitalità nei periodi di sviluppo e richiamarlo a proprio sostegno quando il ciclo si inverte.

Nulla di nuovo sotto il sole.

Lo Stato dovrebbe svolgere, per il capitale, esclusivamente un ruolo anti-ciclico.

La democrazia non può limitarsi ad esso, poiché, come abbiamo visto, si regge nella misura in cui soddisfa esigenze di benessere sociale e di uguaglianza.

Da qui la possibilità sempre aperta di conflitto.

Oggi però la situazione è diversa.

La contraddizione non è più tra statalismo, diversamente declinato, e liberalismo.

 L'attuale populismo non credo sia una variante di vecchi statalismi.

Il "modello" che vedo affermarsi è quello di un "capitalismo politico", e cioè di un sistema in cui leadership economico-finanziaria ed élite politica formano un unico organismo, all'interno del quale vi è scambio continuo di ruoli e funzioni.

E gli interessi alla fine coincidono.

Cina e Russia, in forma diversa, sono esempi di un tale modello.

Ma "pulsioni" in questa direzione sono credo evidenti anche negli Stati Uniti.

 

Qual è il ruolo dell’impresa?

 Si può limitare, come sosteneva “Milton Friedman”, a realizzare utili rispettando le leggi per creare ricchezza, benessere e occupazione?

O deve farsi carico di obiettivi di responsabilità sociale e ambientale?

O addirittura divenire soggetto politico attivo a supporto di obiettivi di rafforzamento della democrazia?

Non credo affatto agli "statuti etici" e cose simili.

Credo piuttosto ancora possibile un rafforzamento o una riforma delle istituzioni della democrazia liberale in grado di "compromessi alti" con il sistema economico e i suoi leader.

Democrazia politica e successo economico sono stati per lungo tempo considerati inscindibili.

Ma la realtà degli ultimi decenni dimostra che non è sempre così, e si cita in primo luogo il caso cinese, ma anche di altri Paesi in Europa, Sud America e Africa.

Occorre considerare il legame comunque una regola prevalente e quei casi come eccezioni?

O è più opportuno riconoscere che anche regimi autoritari, o addirittura tirannici, possano creare condizioni di benessere per i loro popoli?

 In questo secondo caso, quali ne sono le implicazioni?

Che sussista un nesso fisiologico tra democrazia e sistema di mercato è null'altro che l'ideologica estrapolazione di quanto avvenuto per circostanze storiche assolutamente particolari in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale.

Forse si tratta di un'esperienza finita e l'avvenire è quello del "capitalismo politico".

Quale forma potrà assumere la "democrazia" in tale sistema non è dato poterlo dire, ma certamente non avrà nulla a che fare con quella che abbiamo conosciuto.

(Massimo Cacciari, filosofo, politico, accademico, ex sindaco di Venezia. Attualmente insegna “Pensare filosofico e metafisica” presso la Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, di cui è stato anche prorettore vicario).

 

La democrazia non è una commodity.

di Giulio Tremonti.

 

 Nel 1835, e poi nel 1840, Alexis de Tocqueville scrive “La democrazia in America”. Come è già nel titolo, un saggio sulla democrazia, in specie sulla democrazia come allora era in straordinario divenire in America.

Questo di “Rebecca Henderson” è sempre sulla democrazia, ma un saggio diverso, un saggio sulla democrazia che è in crisi (e per la verità in crisi non solo in America).

Ciò premesso, la riflessione che vorrei fare qui di seguito è sul carattere non dogmatico che, da sempre, è proprio della democrazia.

 Fermo l’essenziale dei diritti fondamentali, la democrazia varia infatti in funzione tanto dei tempi quanto dei luoghi.

 Le possibilità di esemplificare a questo proposito sono notevoli:

a) -   la democrazia come è (stata) al tempo della globalizzazione è diversa dalla democrazia come era prima;

b) -   appena quattro decenni fa, in Europa la democrazia era l’eccezione e non la regola, fuori dalla democrazia allora essendo Grecia, Spagna, Portogallo, mezza Germania, tutto l’Est Europa!

E questo perché, fin dalle sue origini, la democrazia è stata un processo e non un prodotto, una costruzione graduale e progressiva, non automatica e non artificiale.

E dunque è l’opposto di quanto si è pensato potesse essere al tempo della globalizzazione integrale quando, nell’ “ideologia del mondo nuovo e dell’uomo nuovo”, e nella metrica di una “nuova armonia universale,” la democrazia era considerata più o meno come una commodity, prefabbricata e standardizzata, e perciò esportabile su scala globale.

Ciò premesso, per proseguire divido questo scritto in due parti:

la prima, sulla crisi della democrazia (soprattutto in Europa);

la seconda, basata su alcune glosse apposte al volume di “Henderson”.

 

 Passaggio di poteri.

La crisi generale della politica ha avuto inizio in Europa e dunque nel luogo in cui la democrazia è nata. Per mezzo secolo, e comunque a partire dal dopoguerra, il sistema politico e democratico europeo è stato basato su tre solidi pilastri:

 

1)-   la dimensione limitata e l’origine quasi «domestica» dei problemi che i governi nazionali dovevano e potevano gestire;

2)- la presenza quasi ovunque di ideologie organizzate in partiti politici permanenti, che potevano recitarle come palinsesti;

3) - la spesa pubblica che, finanziata in deficit e su vasta scala, permetteva di acquisire consenso o di ridurre il dissenso.

 

Questi tre pilastri hanno ormai cominciato a cedere:

1)-    la dimensione e l’origine dei problemi tendono ormai a superare le capacità e le forze dei governi nazionali, spiazzati da problemi diversi da quelli del passato, problemi che vanno dalla paura per il nuovo che viene «da fuori» (l’immigrazione) o che viene «dal futuro» (le macchine ruba-lavoro), per arrivare all’effettivo ma spesso insoddisfatto bisogno di aiuto, a fronte degli effetti delle crisi;

 

2) - le vecchie totalizzanti ideologie politiche sono ormai svanite, anche perché troppo a lungo sono rimaste ferme nella reciproca opposizione tra bene e male, tra destra e sinistra, come se si fosse ancora ai tempi della guerra fredda e non al tempo dei tweet;

3) -   la spesa pubblica in deficit non è più un mezzo per prendere il consenso o per ridurre il dissenso: la partita dei conti pubblici è infatti diventata un mezzo non per prendere, ma per perdere voti!

Nell’insieme siamo arrivati a un’immagine che, rappresentandola, marca un’epoca:

 oggi la foto di Francoforte con i principali capi di Stato e di Governo che presenziano con solenne sottomissione al cambio dei governatori della BCE, è il simbolo della fine della politica, della crisi della democrazia, il segno della loro sottomissione al potere della finanza.

Non sarebbe stato così con De Gaulle, con Adenauer, con De Gasperi, con Mitterrand, etc.!

 Ciò che è stato a partire dal 2012, e in specie a partire dal cosiddetto “whatever it takes”, è stata infatti una progressiva rotazione dell’asse della politica e dunque della democrazia:

dai popoli alla BCE;

da questa al mercato monetario!

Dopo otto anni, da quando un ricovero in pronto soccorso è stato trasformato in una lunga degenza, da quando i liquidi sono stati messi al posto dei solidi, i debiti al posto dei capitali, i tassi sotto zero, i popoli avvertono che la cambiale del 2012 è venuta a scadenza e perciò danno segno di credere sempre meno ai nuovi trilioni messi al posto dei vecchi miliardi.

 Danno segno di non credere più a guaritori, maghi e sciamani.

E questa è comunque una speranza per il ritorno della democrazia.

Riflessioni critiche.

 

Sul saggio di Henderson apposto le seguenti glosse:

A)  “… Ma il risultato non è stato il trionfo del libero mercato, come speravano i leader delle imprese. Al contrario…”.

GLOSSA: cosa vuol dire “al contrario”?

Ovvio che i leader delle imprese perseguono l’interesse delle imprese e non l’eguaglianza dei redditi.

 Lo scopo del libero mercato non è infatti quello di una egualitaria distribuzione dei redditi;

 

B)-   “… È di fondamentale importanza che il mio CEO dia risposte adeguate a questi tempi difficili…".

 

GLOSSA: Henderson assume, evidentemente, che i cittadini non siano particolarmente intelligenti….

 

C)  “… Sarà quasi certamente il Governo a garantire che ci sia una vera concorrenza per aziende come Amazon, Google e Facebook…”.

 

GLOSSA: evidentemente l’esperienza dello spezzettamento di AT&T, e poi di altre compagnie, non è stata ben compresa.

Già oggi 10 tra le più grandi compagnie internet del mondo sono cinesi.

 Se si spezzetteranno Amazon, Google, Facebook, il risultato sarà lo stesso.

Nel mondo reale la competizione è in realtà asimmetrica.

O si chiudono le frontiere, e si applica la vecchia logica dello “Sherman Act”, oppure quella logica è insensata.

 Il mondo dell’economia globalizzata è infatti un mondo hobbesiano, non un mondo kantiano!

D) -   “… Trovare un lavoro è una questione di relazioni e di accesso - di andare col cappello in mano da chi controlla le leve del potere…”.

GLOSSA: questo è esattamente ciò che sostengono i cosiddetti populisti, di destra o di sinistra.

E) -   “… Ma temo che gli Stati Uniti e il mondo diventeranno sempre più polarizzati, sempre più ingiusti e sempre più scomodi. In questo ambiente instabile, i Paesi hanno più probabilità di cadere preda del populismo…”.

GLOSSA: dato che negli USA nell’ultimo mezzo secolo i democratici hanno avuto altrettanto potere dei repubblicani, come mai questo sarebbe avvenuto?

Un” curiosum”: per quale ragione Stalin viene qualificato come un populista di destra?

F)      “… Molti leader d’impresa hanno raccolto questa sfida con determinazione. Forse i più fortunati sono stati… i proprietari delle Koch Industries…”.

 

GLOSSA: in realtà negli USA i democratici hanno sempre avuto più finanziamenti dei repubblicani. Anche alle elezioni presidenziali del 2016!

 

G)    “… Il business deve rinunciare al suo potere politico e operare forti pressioni contro l’afflusso di denaro in politica. Deve agire per rafforzare quelle stesse istituzioni che possono opporsi agli interessi delle imprese…”

 

GLOSSA: … i tacchini dovrebbero chiedere l’anticipo del Natale?

 

H)    “… Le aziende dovrebbero invece concentrarsi sul processo di elaborazione politica, sostenendo attivamente una democrazia sana e funzionante, in modo che tutti gli stakeholder e le comunità possano impegnarsi in un dibattito attivo su quali debbano essere tali politiche…”.

 

GLOSSA: ma perché le imprese dovrebbero avere un ruolo diretto in politica? Il diritto di voto appartiene ai cittadini, non alle imprese. Le imprese hanno il diritto di rappresentare i propri interessi, ma non hanno la funzione di classe universale.

 

I)      “… Oggi, la Danimarca combina un mercato libero dinamicamente competitivo con una ampia assistenza sanitaria nazionale, un'assistenza sanitaria ai bambini fortemente sovvenzionata e investimenti significativi nella formazione dei lavoratori…”.

 

GLOSSA: in Danimarca ci sono solo 5 milioni di persone.

 

J)       “… I leader d’impresa potrebbero coalizzarsi, insieme al Governo, per sostenere le riforme democratiche?... ”

 

GLOSSA: le “riforme democratiche” (cosa sono?) dovrebbero essere decise dai leader d’impresa? Resta solo un problema: quale è la loro fonte di legittimazione politica?

 

(Giulio Tremonti, Presidente Aspen Institute Italia.)

 

Democrazia, capitalismo e ruolo delle imprese.

Richard Edelman.

 

Come dice “Rebecca Henderson”, se il Governo è il contrappeso al libero mercato, la democrazia è la forza che fa sì che i Governi non si trasformino in tirannia, prendendo il controllo dei mercati nel processo.

E credo fermamente che il rafforzamento della democrazia sia l'unico modo per garantire la sopravvivenza diffusa del capitalismo di libero mercato, e con essa la prosperità e le opportunità che hanno cambiato la vita di miliardi di persone.

 Le imprese hanno le risorse, il potere politico, gli incentivi e la responsabilità di compiere progressi significativi in questo sforzo.

 

Il nostro più recente sondaggio annuale globale sulla fiducia – il” Trust Barometer di Edelman” - rileva che il 71% degli intervistati ritiene "di fondamentale importanza che il mio CEO risponda a questi tempi difficili".

La comunità imprenditoriale è chiamata a svolgere un ruolo importante nel rafforzamento della democrazia.

La crisi causata da Covid-19 è quel tipo di shock profondo che fa sì che le aziende siano indotte a riconsiderare i loro modelli di business per assicurarsi di contribuire a un risultato migliore.

Questo è un momento di resa dei conti, un momento in cui le imprese e il Governo devono collaborare per trovare soluzioni e gli amministratori delegati devono dimostrare la loro leadership pubblica.

 Il business deve essere all'altezza dei suoi diversi stakeholder.

È tempo che il business guidi il cambiamento.

Ad esempio, l'industria dei servizi finanziari deve cercare il modo di fornire finanziamenti ai ristoranti, agli alberghi e ad altre piccole e medie imprese temporaneamente danneggiate;

 il settore beni di consumo deve esplorare nuove opzioni distributive in questi tempi di crisi.

E i comunicatori avranno un ruolo chiave nello spiegare, rassicurare, proteggere e costruire la fiducia.

 

Per quanto riguarda la convivenza tra democrazia e capitalismo, le imprese possono svolgere un ruolo strategico.

 Possono dare un contributo vitale per garantire una continuità economica e sociale facendo tutto ciò che possono per mantenersi attive contribuendo, nello stesso tempo, all’interesse generale per superare questo periodo di incertezza. Possono aiutare i loro preziosi dipendenti e clienti a rimanere ben informati, fornendo loro l'accesso a informazioni affidabili e basate su dati scientifici, in modo che tutti le possano adattare alla propria situazione.

(Richard Edelman è Presidente & Chief Executive Officer della società di relazioni pubbliche Edelman)

 

Un nuovo paradigma di collaborazione tra Stato e imprese.

“Andrea Montanino”.

 

È tempo di cooperazione tra imprese e Governi, ci esorta “Rebecca Henderson”, per salvare la democrazia.

 Ma il rischio nel nuovo contesto post Covid non è tanto quello di una ingerenza delle imprese negli affari della politica per condizionarne l’azione – il contesto americano che la Henderson ci descrive nel suo articolo – quanto quello di non trovare le modalità corrette di cooperazione Stato-imprese per salvare le nostre economie.

 

Il contesto è già tracciato, ed è un contesto di iper-indebitamento:

nell’Unione Europea il debito aggregato supererà per la prima volta il 100% del PIL;

 le imprese stanno ottenendo prestiti garantiti dagli Stati e a tasso zero, ma sempre prestiti sono.

 Le famiglie perdono potere di acquisto e si indebitano per mantenere almeno per un po' un certo livello di consumo.

La exit, in contesti democratici, non si può fare per decreto:

imponendo” financial repression “o caricando di ulteriori tasse i cittadini.

Né si può accettare un fallimento generalizzato di Stato, imprese, cittadini.

Se la democrazia vuole salvare l’economia (e sé stessa), bisogna spostarsi su un nuovo paradigma e patto tra istituzioni e impresa, dove ognuno ha un ruolo preciso, come in una recita.

Lo Stato deve essere 1) regolatore e 2) promotore.

Regolatore per stabilire regole che aiutino a ridurre l’incertezza, vero problema delle economie di questi tempi, per dare prospettive di lungo periodo. Ridurre l’incertezza, non il rischio.

Quest’ultimo può essere quantificato, si possono attribuire probabilità, e quindi l’imprenditore può avere la capacità di valutare, sulla base della sua personale propensione al rischio, se vale o meno la pena di intraprendere una certa azione. L’incertezza non può essere incorporata nei processi decisionali e frena le scelte di investimento.

Uno Stato anche promotore, perché l’era post-Covid non lascerà spazio a politiche di spesa pubblica.

 In modo non repressivo, le nostre democrazie dovranno avere la capacità di convogliare risorse private verso obiettivi generali, dove vi generano le maggiori esternalità positive.

 

Se guardiamo all’Italia, ci sono circa 1400 miliardi di euro nei conti correnti e nei depositi che, se ben incanalati, potrebbero finanziare progetti che producano sviluppo e crescita economica.

 Le imprese, finanziarie e non, sarebbero i partner ideali di questo approccio.

(Andrea Montanino, Chief economist, Cassa Depositi e Prestiti e Presidente, Fondo Italiano d’Investimento.)

 

 

 

"Non mi dimetto". La verità

di Giorgetti su “Patto” e “Mes”.

msn.com – Il Giornale - Osvaldo De Paolini – Redazione – ci dice:   

 

Giorgetti contro il governo, Giorgetti scuote la maggioranza, Giorgetti dovrebbe dimettersi:

questi i titoli dei giornali schierati ieri mattina, ma quanto c'è di vero in tutto ciò ministro Giancarlo Giorgetti?

 

«Non sono sorpreso di quei titoli. D'altronde le opposizioni da mesi preparavano l'apocalisse sul Mes.

E puntualmente lo scossone è arrivato al momento del voto.

 Io me la spiego così.

Prima pensavano che crollasse tutto con la manovra, ma le agenzie di rating hanno spiegato che difficilmente avremmo potuto fare meglio quanto a prudenza, responsabilità e stabilità dei conti pubblici.

 Poi anche il Patto di Stabilità è andato nel verso giusto: qualche brusio ma niente più. Non restava che il “Mes...».

Dunque niente dimissioni?

«Fino a quando la maggioranza sosterrà la mia impostazione su progetti seri, credibili e sostenibili non vedo perché lasciare.

Come ho già detto, l'opposizione ha tutto il diritto di dare suggerimenti, anche graditi, poi però decido io».

A proposito del voto sul “Mes”, Matteo Salvini parla di scelta coerente, “Romano Prodi” di scelta folle, altri di decisione bizzarra o sconsiderata.

 Lei ha precisato che quale ministro dell'Economia avrebbe detto sì alla ratifica: cosa dobbiamo pensare?

«Anche qui nessuna sorpresa.

La Lega ha sempre detto che era contraria.

Dunque, è questione di coerenza.

Ciò che appare improprio per un membro dell'Unione è che dopo aver preso un impegno di ratifica, al momento di firmare si tira indietro.

 Ma ribadisco, a quel punto la questione non era più economica bensì politica».

Secondo il “Fondo monetario”, senza il “Mes in versione salva-banche” l'Europa sarà meno stabile.

 È davvero così?

(Arriva il nuovo “Patto di stabilita' Ue”, l'Italia dice si - Dailymotion)

 

«Come ministero dell'Economia abbiamo sempre sostenuto che una cintura in più attorno al sistema bancario è la benvenuta.

Ma il “Mes” è uno strumento come altri, per esempio come i “fondi di risoluzione nazionale e quelli europei:

dunque, niente più che una delle possibili soluzioni al problema vero, che è il debito.

 Ma se si lavora con prudenza, prendendo anche decisioni impopolari per renderlo sostenibile, il “Mes” diventa poco più di una cura sul bancone del farmacista.

 Non credo che l'Europa senza il “Mes in versione salva-banche” corra seriamente rischi di stabilità».

Del resto venerdì scorso è sembrato che i mercati fossero della sua stessa opinione, visto che anche lo “spread Btp-Bund” ha dato segni incoraggianti.

 E tuttavia si parla di perdita di credibilità del governo, che da oggi dovrà lavorare molto per recuperare la fiducia di alcuni partner dell'Unione.

«Io penso che la fiducia nei confronti dell'Italia sarebbe crollata solo se il governo avesse approvato una manovra con proposte bizzarre, come quelle che spesso provengono dall'opposizione.

Per solito i mercati valutano il comportamento di un governo soprattutto rispetto alla sostenibilità del debito».

Cosa risponde a chi l'accusa di essere l'alfiere dei tagli e dell'austerità?

«Un'accusa che mi fa sorridere, perché coloro che alzano il dito sono gli stessi che volevano approvare il “Mes”.

Invece io ringrazio la maggioranza che ha accettato di tenere il punto sulla manovra. E non era facile visto che in alcuni casi abbiamo dovuto assumere decisioni impopolari».

È possibile che i 19 Paesi dell'Eurozona che hanno ratificato il “Mes in versione salva-banche” ora decidano di andare avanti senza l'Italia?

«Tutto è possibile.

 Ma il “Mes” è nato in una certa fase storica con problematiche diverse dalle attuali.

“L'Unione Bancaria” e il “Mercato dei Capitali” sono più importanti, specie per l'Italia.

Capisco l'irritazione dei partner per la bocciatura, anche se sapevano da tempo che questa possibilità era tutt'altro che remota.

 Però ricordo che anche il” governo Draghi “si era rifiutato di presentare il “Mes” in Parlamento, rinviandone l'esame.

Perlomeno noi al voto ci siamo arrivati. Un punto alla fine è stato messo».

Sappiamo che a premere fortemente per un “Mes in versione salva-banche” è soprattutto la Germania, per i ben noti problemi del suo sistema bancario.

Ma allora perché proprio da parte tedesca tanta resistenza verso la promozione di una “Unione Bancaria” degna di tale nome?

«Il punto è che sul tavolo non c'è solo l'”Unione Bancaria”.

 In un momento storico come l'attuale servirebbe una seria normativa che però fatica a trovare paladini nell'”Eurogruppo” piuttosto che nell'”Ecofin”.

Purtroppo sono costretto a riconoscere che manca lo spirito costituente che servirebbe.

Altro che Mes.

Qui non tutti servono gli interessi dell'Unione, c'è chi preferisce fare i fatti propri a spese di tutti.

 Però non mi chieda altro».

A proposito di “Patto di Stabilità”.

Nell'annunciare l'accordo raggiunto con Parigi e Berlino, lei ha parlato di cose buone e meno buone.

Quali sono le meno buone?

«Sono abituato a dire le cose per quel che sono.

Al netto del contenuto positivo relativo al Pnrr, un'Europa che ha l'ambizione di sedere al vertice del sistema geopolitico, di disporre di un proprio esercito, di puntare seriamente alla transizione energetica, non può ignorare che tutto questo implica grandi investimenti pubblici.

Sarebbe come dire che vogliamo andare sulla Luna con il deltaplano.

Le scelte devono essere coerenti con le ambizioni e i mezzi adatti a perseguirle. Ecco le cose che a mio avviso sono meno buone».

 

Non le sembra che il testo del Patto sia troppo complesso?

«Ha ragione. Forse è davvero troppo complesso e quindi ancora poco comprensibile negli sviluppi.

 E tuttavia c'è chi ritiene di avere capito già tutto e spaccia qua e là sciocchezze che non aiutano a capire l'importanza dei passi in avanti.

Proprio perché troppo complesso, serviranno molte simulazioni per capire come funziona realmente.

 Il punto è che in tanti vivono ancora dell'allucinazione pandemica, quando non c'erano regole sul debito e i tassi erano a zero o addirittura negativi.

Oggi la realtà è un'altra.

 I tassi sono volati e fare debito a ripetizione non è più possibile. Soprattutto bisogna capire che il confronto va fatto non con la fase pandemica, ma con il “vecchio Patto di Stabilità».

A proposito di debito, ieri il Tesoro ha annunciato che nel 2023 sono stati emessi titoli pubblici per 516 miliardi contro i 424 miliardi del 2022.

Che cosa ha inciso maggiormente su questo mega-balzo?

«Durante la pandemia le regole erano sospese e per aiutare famiglie e imprese si è fatto molto debito che ora va pagato e con tassi non più a zero.

 Era il debito buono di Draghi, che era giusto fare ma ora siamo chiamati a fare i conti con le conseguenze.

Per capire di più, basti dire che l'Italia attualmente paga circa il doppio di interessi passivi rispetto alla Germania.

 Lo sforzo che deve fare il ministro dell'Economia è ricordare anche alla maggioranza che lo sostiene che non c'è altra via che mantenere un profilo di finanza pubblica compatibile».

Il 2023 verrà anche ricordato per il via alle privatizzazioni che il governo Meloni, dopo anni di promesse mancate da parte di esecutivi privi di un serio progetto, ha cominciato a realizzare.

 Il collocamento del 25% del Montepaschi è infatti preludio a un'operazione più articolata che potrebbe vedere la luce già l'anno prossimo insieme a un robusto collocamento di azioni di Poste in Borsa.

A questa attività bisogna aggiungere lo storico accordo tra” Ita” e “Lufthansa” e il via libera al rientro della rete di telecomunicazioni nell'alveo pubblico.

Inoltre, un paio di giorni fa il ministro Adolfo Urso si è detto certo che il governo non lascerà morire l'ex Ilva.

Il ministro Giorgetti è altrettanto fiducioso?

«Giorgetti è realista.

 Sull'Ilva siamo impegnati ma chiediamo lo stesso impegno al socio privato.

Non si può chiedere allo Stato di sostenere la società senza che l'azionista privato, cui è affidata la gestione dell'azienda, faccia la sua parte.

 In una parola, il governo è disposto ad accompagnare il rilancio del gruppo, ma servono soci che seguono e che facciano sacrifici al pari dello Stato».

Mercoledì 27 lei sarà alla Camera per riferire su temi della manovra in vista del voto finale.

Si parlerà anche di “proroga del Superbonus” o possiamo dare per chiuso quel capitolo?

«Spero per mercoledì di avere i dati aggiornati e in base alla politica del ministero dell'Economia dirò fino a che punto potremo tutelare le situazioni più fragili.

Però debbo ricordare che ogni mese di superbonus ha un costo enorme, insostenibile in termini di finanza pubblica.

 Si farà solo qualcosa nei limiti in cui non venga pregiudicato l'equilibrio generale dei conti».

 

Il sistema economico globalizzato

trasforma la democrazia da potere

del popolo a dittatura monocratica.

Ilpiacenza.it Carmelo Sciascia (22 aprile 2018) – ci dice:

 

 

L’Italia ha avuto periodi storici in cui è stata indiscutibilmente una potenza, ha avuto una egemonia mondiale in settori diversi, ricordiamo tutti:

Roma e l’Impero romano, per la potenza militare, l’amministrazione, i trasporti, ed il Rinascimento per le arti, dalla pittura all’architettura, dalla scultura alla letteratura tout court.

A questi due periodi lo storico “Fernand Braudel” ne aggiunge un terzo, quello che definisce come Il “secondo Rinascimento” che giunge fino a metà del XVII secolo.

Sarei tentato di aggiungerne un quarto, il periodo del nostro Novecento che va dalla fine della seconda guerra mondiale a tutti gli anni settanta.

 Sì, gli anni della ricostruzione fino agli anni del boom economico, quell’Italia oggi descritta come “italietta”, che poi così piccola ed angusta, come lo si vuole far credere, non lo era affatto.

 L’Italia si era data un’ottima Costituzione ed aveva una sua moneta la Lira, la cosiddetta “liretta”, che priva di valore e significato non lo era affatto se è servita, in quegli anni, come un ottimo strumento di politica economica, per favorire crescita ed occupazione.

Quando la finanza era al servizio della politica e non viceversa, come è avvenuto con la moneta unica europea.

La storia d’Italia è stata una storia di divisioni e di invasioni, fin dai tempi di “Carlo VIII”, che chiamato da” Lodovico il Moro nel 1494”, attraversò la penisola senza colpo ferire, costellando il suo avanzare con razzie e devastazioni ad opera del suo esercito e dei mercenari elvetici che ne costituivano una buona parte.

Da allora sono trascorsi più di cinque secoli ed il tempo sembra essersi fermato, ci troviamo di nuovo soggiogati da un esercito straniero, che non si presenta con le armi in mano ma che usa i sofisticati sistemi economici, finanziari soprattutto, per governare l’economia e sottomettere la politica, nella sua più nobile accezione.

Perché la democrazia, come ci spiega bene con la sua ”Critica matematica della ragione politica” (Rizzoli – 2018) Piergiorgio Odifreddi, oggi semplicemente non esiste!

Formalmente siamo ancora una democrazia parlamentare, nella realtà no.

Nella concezione comune si definisce Democrazia quel sistema politico che si basa sui due termini costitutivi la sua etimologia: “kratos” governo e “demos” popolo.

 Quindi il” governo del popolo”.

Ma vi è un’altra interpretazione che inverte il concetto di popolo, trasformandolo da soggetto attivo in passivo: da soggetto che governa a popolo che deve essere governato.

 Un popolo da governare quindi, che essendo governato, viene conseguentemente privato dellasua podestà.

 

Odifreddi ci ricorda come Il rigore matematico del premio Nobel Kenneth Arrow dimostra l’impossibilità di potere avere un sistema di votazione equo, qualsiasi sistema di voto può essere manipolato o viceversa il solo sistema di voto non manipolabile è la dittatura.

Prendendo le mosse da “Arrow”, anche un altro “premio Nobel Amartya Kumar Sen “dimostra che, c’è un conflitto insanabile tra libertà e diritti, possono crearsi delle situazioni in cui solo un individuo può avere garanzia dei suoi diritti assoluti, il conflitto tra democrazia e diritti quindi può risolversi nella figura di un dittatore, un solo individuo che può averli per tutti.

 Lo stesso “Sen” ha detto:

“L’euro è stata un’idea orribile. Lo penso da tempo. Un errore che ha messo l’economia europea sulla strada sbagliata”.

Ecco quindi come la democrazia si è trasformata:

da potere del popolo a dittatura monocratica che anziché vestire i panni di un singolo personaggio veste i panni di un sistema economico globalizzato.

La democrazia non esiste soprattutto quando i poteri dello stato sono sottomessi alla finanza.

La separazione Banca d’Italia e Tesoro, primi anni ‘80 era stato l’inizio di una impostazione di politica economica che permetteva un trasferimento di sovranità dagli Stati ai mercati.

In Italia c’è un allarme, lanciato da più parti e non da adesso, che “teorizza l’insostenibilità della moneta comune, dell’euro”.

O meglio di una scelta che ci è stata imposta come strumento per sottometterci economicamente e conseguentemente politicamente.

 La storia di Carlo VIII” continua, solo che questa volta a chiamare lo straniero non è stato un principe lombardo ma tutta una classe politica, per suo stesso dire, incapace di governare.

Che la classe politica italiana sia incapace di governare ce ne dà prova adesso come ce ne ha dato prova, in modo continuativo e sostanziale, negli ultimi decenni.

 Basta ricordare il cosiddetto “Governo tecnico di Mario Monti”, un golpe applaudito dai più, passato alla storia oggi per essere stato il più nefasto della storia dell’Italia contemporanea.

Ma il problema oggi che più ci interessa è sottolineare come questa incertezza ed incapacità di governare, possa trascinare con sé alla deriva tutta la civiltà e la cultura italiana.

 Possa, in altri termini, rappresentare la fine di una civiltà, fenomeno che qualcuno indica con l’espressione di “genocidio culturale” concetto, non nuovo, usato già da “Pasolini” nel 1974.

O suicido, come Don Giussani ebbe a scrivere sulla “scomparsa del senso di missione che ogni civiltà porta con sé. Come se l’occidente sentisse di aver esaurito il suo ciclo bimillenario”.

Diversi studi mettono in relazione la fine dell’impero romano con la fine della civiltà occidentale.

Furono gli stessi soldati romani che aiutarono i Goti ad attraversare il” limes”, su comando imperiale.

 Le inefficienze e la corruzione dei funzionari fecero il resto, fino alla sconfitta nei pressi di Adrianopoli dove lo stesso imperatore “Flavio Giulio Valente” venne ucciso.

 Era il 9 agosto del 378 d.c. questo ci dice la storia ed il giornalista “Antonio Socci” lo sottolinea nella sua ultima opera: “Traditi, sottomessi, invasi” (Rizzoli – 2018).

 

Più canonico “Silvano Messina” che nel suo libro “L’ultimo canto del cigno” (Aletti Editore – 2018) pone la classica data storica del 476 come fine dell’impero romano.

Di fatto sono bastati comunque non più di alcuni decenni per fare scomparire un impero, quello romano che dominava tutto il mondo civilizzato.

In questa fenomenologia, si intrecciano fattori esterni ed interni prosegue il Nostro nel descrivere l’Agonia della Civiltà Occidentale, come sottotitola il libro.

Fattori esterni:

 cambiamenti climatici ed idrogeologici, flussi migratori;

fattori interni:

 la politica e le istituzioni, l’economia, l’evoluzione sociale e la legalità.

 La nostra storia contemporanea è quindi un dejà vu, le cause ci sono tutte, non ci rimarrà che aspettare la fine?

Secondo la lingua accadica dei popoli mesopotamici l’Italia avrebbe lo stesso significato originario d’Europa: la terra dove tramonta il sole, l’occidente!

 La fine dell’Italia rappresenterebbe la logica fine di tutto l’occidente.

Già “Spengler,” aveva descritto la fine della civiltà occidentale, negli anni venti, come un periodo culturalmente arido e politicamente fragile.

Un periodo dominato dal denaro, un periodo senza speranza futura.

Ed oggi che siamo dominati dalla Finanza?

Come abbandonare la drammatica ed angosciante postura, che tutti noi abbiamo assunto, dell’uomo urlante di Munch?

Oppure dobbiamo credere che l’uomo sia sempre prigioniero del suo tempo, e che la fine dell’Italia coincida con la fine dell’Europa e dell’intero Occidente, per noi oggi, come lo è stato per i romani? 

Unica risposta possibile: la ricerca di nuovi e credibili paradigmi.

 

 

 

 

INCENDIO DI UNA DEMOCRAZIA.

  Opinione.it - Gerardo Coco – (24 febbraio 2022) – ci dice:

 

In questi ultimi giorni abbiamo assistito in tempo reale alla trasformazione del Canada da regime democratico a totalitario ma non c’è stato un politico occidentale che di fronte all’incendio di questa democrazia liberale, che brucia diritti umani e libertà civili, abbia urlato “al fuoco!”, né abbia riconosciuto ciò che sta accadendo.

 

 I media e praticamente tutte le principali organizzazioni per i diritti civili del pianeta, hanno o quasi ignorato la repressione di “Justin Trudeau” o dipinto la rivolta pacifica dei camionisti canadesi come atto terroristico.

 E se questo incendio si diffondesse rapidamente in diverse democrazie liberali?

Forse che i leader occidentali vorrebbero poter fare ciò che sta facendo il primo ministro canadese e invidiano la sua presa di potere autoritaria?

È difficile non pensarlo dopo che hanno assaporato due anni del potere di polizia sanitaria.

La loro resistenza a rinunciarvi dovrebbe essere l’avvertimento che, per giustificare più poteri statali e la sospensione delle libertà, sarebbero pronti a creare altre emergenze, naturalmente in linea con le direttive della macchina tecnocratica globale di cui sono servitori.

 Trudeau, ormai dittatore a tutti gli effetti, scavalcando il Parlamento, ha introdotto la legge marziale sguinzagliando contro i camionisti la polizia che ha dimostrato al mondo intero di non essere diversa dai nazisti tedeschi per i quali la scusa era sempre la stessa: quella di eseguire solo ordini.

È tragico che stiano difendendo “Trudeau” che, presa la strada oscura della dittatura, sequestra i conti bancari di persone che legittimamente protestano e sceglie di distruggere sulla scena mondiale l’immagine del suo Paese come nazione libera, rispettosa della legge e porto sicuro per il capitale internazionale.

 Chi, ora, investe in Canada dopo che il suo vice primo ministro, “Chrystia Freeland”, ha ammesso che, ai sensi dell’”Emergency Act”, le banche possono congelare o sospendere immediatamente i conti bancari senza un ordine del tribunale ed essere protette dalla responsabilità civile?

Fu il crollo della fiducia a far fuggire i capitali dalla Germania e far nascere in Svizzera le leggi sulla segretezza bancaria.

Sia durante l’iperinflazione di Weimar, sia durante il nazismo, l’apparato politico germanico proibì il possesso di denaro al di fuori del Paese spingendo la Svizzera a creare conti numerati segreti per proteggere i tedeschi in fuga dal regime.

 Come i tedeschi, ora anche i canadesi, camionisti compresi, per aggirare Trudeau stanno aprendo conti in dollari americani al di fuori del sistema bancario canadese.

La polizia canadese aveva una scelta:

o difendere il popolo e la nazione da “Trudeau,” essendo questi un vero e proprio traditore che prende ordini da un’entità straniera:

 il “World economic forum” (Wef),

o unirsi alla tirannia che distruggerà il futuro del suo Paese. Finora si è schierata con la tirannia e contro le loro stesse famiglie.

“ Trudeau” e la “Freeland”, che è nel Consiglio del Wef, sono burattini del fondatore di questa organizzazione, “Klaus Schwab” che li ha indottrinati su un’agenda globalista e anti-umana che cerca di schiavizzare l’umanità, il” Great Reset”, un’agenda globale per eliminare la proprietà privata e instaurare una forma di marxismo tecnocratico su scala globale lasciando ricchezza e potere nelle mani di una ristretta élite dopo aver eliminato libertà, libero mercato e classi medie.

Schwab (in questo video) si vanta apertamente di essere il burattinaio dei leader occidentali e di essersi infiltrato nei loro governi per promuovere questa agenda.

Ciò spiega l’uniformità delle politiche Covid dei Paesi del “mondo libero” che hanno sospeso le libertà civili con blocchi tirannici, mascherine, vaccini, passaporti e dati falsi sulla pandemia.

 Il Covid-19 non è stato altro che un pezzo del puzzle di questa agenda per ridisegnare l’economia mondiale e creare un Governo mondiale che richiede il controllo e la sottomissione delle masse.

Ecco perché, tanto per cominciare, la vicepremier canadese “Freeland” ha affermato di voler rendere permanente l’invasivo sistema di sorveglianza finanziaria per distruggere e reprimere in modo assoluto le proteste per le libertà civili e de-finanziare ogni opposizione.

I parlamentari e i capi delle province canadesi dovrebbero essere consapevoli che la violenza nelle strade di Ottawa contro i camionisti potrebbe essere scatenata anche contro di loro.

 Storicamente, infatti, cosa succede, quando una nazione democratica viene assassinata?

I parlamentari non sembrano capire che ora il loro ex collega, “Justin Trudeau”, può arrestare non solo i camionisti, la cui legittima protesta è stata dichiarata illegale, ma anche gli stessi parlamentari leader dell’opposizione.

Questo potrebbe essere il passo successivo di questa presa di potere.

 I tiranni cercano di sospendere i normali processi parlamentari abbastanza a lungo da svuotare i poteri del corpo legislativo, per garantire che quando e se un Parlamento si riunisce di nuovo sia solo un’assemblea cerimoniale.

 In questa fase non si torna a uno stato precedente dell’ordine della società civile senza una guerra civile.

 Purtroppo, non esiste un modo pacifico per affrontare una dittatura e questo sembra essere il destino del Canada.

Ps: Ventiquattro ore dopo aver scritto il presente articolo, “Trudeau” è stato costretto ad abbandonare il suo “Emergency Act “poiché, in seguito al congelamento dei conti bancari senza un ordine del tribunale, un’incredibile quantità di denaro è fuggita dalle banche canadesi.

 La domanda di dollari è più che triplicata con un aumento del 500 per cento solo nelle 24 ore precedenti.

Questo è il problema dei politici.

Sono semplicemente incapaci di prendere decisioni intelligenti.

“Trudeau” ha creato una crisi molto seria e la semplice revoca del suo atto di emergenza non convincerà il capitale internazionale a fidarsi del Canada finché lui sarà al potere.

 

 

 

IL PIANO PER ATTUARE

UN NUOVO ABOMINIO.

 Opinione.it - Gerardo Coco – (14 febbraio 2023) - Redazione – ci dice:

 

L’ultimo capro espiatorio del culto dell’allarmismo climatico è l’agricoltura, la fonte dell’alimentazione umana.

I leader globali del “World Economic Forum” (Wef) hanno decretato che l’agricoltura deve essere limitata per “salvare il pianeta”.

 Per cui entro il 2030 cercheranno di imporre alla “plebe” la pratica ecologicamente sana dell’entomofagia, cioè della dieta basata sugli insetti.

“Nessuno sarà costretto a mangiare insetti” ha twittato di recente “la Commissione europea”, che segue rigorosamente l’”agenda distopica del Wef”.

Ma la costante propaganda contro il consumo di carne e a favore del programma mangia-insetti con l’uso di parole d’ordine come “sostenibilità”, “rispetto dell’ambiente” e “dieta responsabile” per ridurre le emissioni di gas serra e lo spreco alimentare, ci porta a pensare che l’intenzione sia quella di forzare il consumo mainstream di insetti.

Il nuovo regolamento dell’Unione europea consente, ora, di trasformare grilli, coleotteri e locuste in alimenti ma il suo sito web informa che ci sono altre otto “domande per insetti destinati ad essere commercializzati in forme diverse”.

Il “World Economic Forum” ha scoperto, infatti, fino a cinque modi in cui i pasti a base di insetti possono ridurre il cambiamento climatico.

Quindi l’obiettivo è quello di introdurne quanto più possibile negli alimenti.

Se le normative future consentiranno o richiederanno una certa percentuale di insetti in ogni hamburger venduto nei supermercati, sarà difficile trovare opzioni di carne al cento per cento.

E sempre più aziende agricole saranno costrette a chiudere, per soddisfare le normative dell’Ue sui cambiamenti climatici.

L’inquietante legislazione per infiltrare gli insetti nel nostro cibo è stata sponsorizzata da celebrità che, ora, mangiano insetti davanti alla telecamera e da giornalisti tradizionali che scrivono articoli per promuovere “l’inevitabilità” di mangiare quello che, adesso, chiamano “micro-bestiame”.

La strategia è stata questa.

Creare, attraverso l’allarmismo, il bisogno: proteggere l’ambiente.

 Far sentire le persone virtuose nell’avere tale bisogno.

 E, solo allora, lanciare prodotti che capovolgono paradigmi millenari.

Quindi, guadagnare enormi profitti.

Non sorprende che milioni di dollari siano già stati investiti in allevamenti di insetti.

E siccome non si vuole vederli andare in fumo, si chiederà agli organismi sovranazionali (a cui i governi ormai rispondono) di normalizzare la pratica dell’entomofagia.

Perché dovremmo permettere a questa classe dirigente autoeletta di invertire le norme accettate su cosa mangiare e non mangiare?

 Il consumo di insetti è forse salutare?

 La “Food and Drug Administration”, responsabile del controllo e supervisione della produzione alimentare degli americani, tratta gli insetti come sporcizia o difetti del cibo capaci di provocare danni all’organismo umano.

 Una prima conseguenza dell’entomofagia sono le reazioni allergiche.

Coloro che già soffrono di asma, raffreddore da fieno, eruzioni cutanee o altre allergie potrebbero avere gravi problemi a mangiare insetti e anche persone normali, cominciando a mangiarli, potrebbero sviluppare delle allergie.

Ma ci sono conseguenze peggiori.

Poiché molti insetti si nutrono di materia in decomposizione, sviluppano batteri nocivi e varietà di stafilococchi che causano gravi malattie.

 Gli insetti ospitano anche virus, parassiti, funghi e altri contaminanti, che potrebbero avvelenarci o danneggiare il nostro apparato digerente.

 In fondo, pungiglioni, ali, spine e altre caratteristiche possono rappresentare un rischio di soffocamento.

Le tecniche di produzione possono essere progettate per rimuoverle, ma una porzione delle parti dure degli insetti è destinata a rimanere.

Infine, la chitina, il componente strutturale naturale che si trova negli esoscheletri degli insetti, porta all’esaurimento delle vitamine nel corpo umano.

Ma nonostante questi problemi evidenti, si sta andando avanti con questa abominevole agenda, creando false crisi per spingere il pubblico a consumare insetti.

 

Attualmente, non esistono normative per la loro produzione e il loro consumo.

 Ma il potere delle agenzie sovranazionali, fiorito durante la recente pandemia, piegherà e infrangerà ingegnosamente i vecchi regolamenti creandone di nuovi per servire i padroni politici che anelano al nuovo ordine mondiale.

Per l’élite globalista, la pandemia è stata un test di successo per progettare una crisi, prendere il controllo e guadagnare miliardi nel processo.

A meno di non denunciare le loro macchinazioni, porteranno a termine questa e ulteriori nefandezze.

 I blocchi, le interruzioni della filiera di approvvigionamento, la crisi energetica, l’esclusione di famiglie di agricoltori dall’esistenza, l’ondata di misteriosi incendi e incidenti che hanno distrutto l’approvvigionamento alimentare e le strutture di distribuzione:

 tutto ciò ha inaugurato una crisi alimentare ingegnerizzata.

La soluzione proposta dai globalisti, mangiare insetti, potrebbe essere molto più redditizia della truffa del vaccino Covid.

Ma il piano per imporre la nuova tirannia alimentare sarà più difficile da attuare. Gli occidentali non saranno disposti a ripensare il loro approvvigionamento alimentare per “soddisfare la visione totalitaria di psicopatici” che vogliono cancellare anche la cultura del cibo.

 Sappiamo che non c’è niente di razionale o sostenibile nel mangiare insetti. L’umanità è in cima alla catena alimentare e può proteggere la Terra che abita senza ridursi a mangiare insetti.

Dio definisce i cibi impuri un “abominio”.

Le leggi bibliche sulla salute sono delineate nel Levitico 11 e l’umanità che le rifiuta lo fa a suo rischio e pericolo.

 

 

 

 

Trump, il ritorno. Quando tutte

 le strade sembrano portare a una dittatura.

Ilfoglio.it - ROBERT KAGAN – (18 DIC. 2023) – ci dice:

    

Trump sta correndo contro il sistema.

Biden è l'incarnazione vivente del sistema.

 Vantaggio: Trump.

Un sistema giudiziario che non è riuscito a controllare Trump come individuo privato non lo controllerà di certo quando sarà presidente degli Stati Uniti e sarà lui a nominare il proprio procuratore generale.

Al primo mandato, “The Donald” ha manomesso la democrazia americana, e non si riesce ad aggiustarla.

Ora che vuole il secondo mandato, s’aggiunge la determinazione a vendicarsi.

(Un saggio di Robert Kagan)

 

 

Smettiamola di credere alle false illusioni e affrontiamo la cruda realtà:

 negli Stati Uniti esiste un percorso chiaro verso la dittatura, che si accorcia ogni giorno di più.

Fra 13 settimane Donald Trump avrà conquistato la nomination repubblicana. Nella media dei sondaggi di” RealClearPolitics” (per il periodo dal 9 al 20 novembre), Trump è in vantaggio di 47 punti sul concorrente più vicino e di 27 punti su tutti gli altri sommati.

 L’idea che sia ineleggibile alle elezioni generali è insensata – in tutti gli ultimi sondaggi Trump pareggia o è in vantaggio sul presidente Biden – e priva gli altri sfidanti repubblicani della loro ragione di esistenza.

 Il fatto che molti americani potrebbero preferire altri candidati, fatto tanto sbandierato da politici saggi come “Karl Rove”, diventerà presto irrilevante quando milioni di elettori repubblicani si presenteranno per scegliere la persona che nessuno presumibilmente vuole.

Da molti mesi viviamo in un mondo di auto-illusione, pieno di eventualità solo immaginate.

Forse sarà “Ron DeSantis”, o forse “Nikki Haley”.

 Forse le innumerevoli accuse giudiziarie di Trump lo allontaneranno dagli elettori dei sobborghi.

Una speranzosa speculazione come questa ci ha permesso di andare avanti passivamente, fare le nostre cose come al solito, senza reagire in modo drammatico per cambiare il corso della situazione, nella speranza e in attesa che qualcosa accadrà.

Come le persone su una barca in mezzo al fiume, da tempo sappiamo che c’è una cascata davanti, ma supponiamo che in qualche modo troveremo la soluzione per raggiungere la costa prima di arrivarci.

 Ma ora le azioni necessarie per tornare a terra sembrano sempre più difficili, se non assolutamente impossibili.

La fase del pensiero magico sta finendo.

Fatto salvo qualche miracolo, Trump sarà presto il presunto candidato repubblicano alla presidenza.

 Quando ciò accadrà, ci sarà un cambiamento rapido e drammatico nella dinamica del potere politico, a suo favore.

 Finora, i repubblicani e i conservatori hanno goduto di relativa libertà per esprimere sentimenti anti Trump, per parlare apertamente e positivamente di candidati alternativi, per tentare critiche sul comportamento passato e presente di Trump.

 I donatori che trovano Trump disgustoso sono stati liberi di distribuire i loro soldi per aiutare i suoi concorrenti.

I repubblicani dell’establishment non hanno nascosto la loro speranza che Trump venga condannato, e quindi rimosso dall’equazione senza dover prendere posizione contro di lui.

 

Tutto questo finirà quando Trump vincerà il “Super Tuesday”.

 I voti sono la valuta del potere nel nostro sistema, e il denaro segue, e con queste misure Trump sta per diventare molto più potente di quanto non sia già.

 L’ora del casting per le alternative si sta chiudendo.

 La fase successiva riguarda le persone che si sottometteranno.

Infatti, è già tutto iniziato.

 Con la sua nomina che diventa inevitabile, i donatori stanno iniziando a passare da altri candidati a Trump.

La recente decisione del “network politico di Koch” di andare dietro alla speranzosa candidata del Gop “Nikki Haley” è a malapena sufficiente per cambiare questa traiettoria.

E perché?

Se Trump sarà il candidato, ha senso passare con lui finché è ancora grato ai disertori.

 Anche i donatori anti Trump devono chiedersi se la loro causa è meglio servita quando si allontanano del tutto dall’uomo che ha una ragionevole possibilità di essere il prossimo presidente.

I dirigenti aziendali metteranno in pericolo gli interessi dei loro azionisti solo perché loro o i loro coniugi odiano Trump?

 Non sorprende che le persone con parecchi soldi appesi a un filo siano i primi a cambiare casacca.

Il resto del Partito repubblicano seguirà rapidamente.

La recente esortazione di “Rove” che gli elettori delle primarie scelgano chiunque ma non Trump, è l’ultima supplica di questo tipo che probabilmente sentiremo da parte di qualcuno che ha un futuro nel partito.

 Anche in una campagna elettorale normale, il dissenso intrapartitico inizia a scomparire una volta che le primarie producono un chiaro vincitore.

La maggior parte dei principali candidati si sono già impegnati a sostenere Trump dovesse essere il candidato, anche prima che abbia vinto un solo voto alle primarie.

 Immaginate la loro postura dopo che vincerà il Super Tuesday.

La maggior parte dei candidati che ora lo sfidano correranno da lui, facendo campagna in suo favore.

Dopo il Super Tuesday, per un repubblicano non ci sarà un percorso più sicuro e più breve per la presidenza che diventare nel ticket elettorale il fedele compagno di un uomo che avrà 82 anni nel 2028.

I repubblicani che hanno cercato di attraversare l’era Trump mescolando appelli agli elettori non trumpiani con ripetute professioni di fedeltà a Trump finiranno questo show.

Per quanto sia pericoloso per i repubblicani dire una parola negativa su Trump oggi, sarà impossibile una volta che avrà ottenuto la nomination.

Il partito sarà in piena modalità elezioni generali, subordinando tutto alla campagna presidenziale.

Quale repubblicano o conservatore si opporrà a Trump allora?

 La pagina editoriale del “Wall Street Journal”, che si è opposta in modo piuttosto deciso a Trump, continuerà a farlo una volta che sarà il candidato e la scelta tra Trump e Biden sarà una scelta binaria?

Non ci saranno più lotte intestine, ma solo lotte esterne;

 in breve, uno tsunami di sostegno a Trump da tutte le direzioni.

Un vincitore è un vincitore.

E un vincitore che ha una ragionevole possibilità di esercitare tutto il potere che c’è da esercitare nel mondo attirerà consensi a prescindere da chi sarà.

 Questa è la natura del potere, in qualsiasi momento e in qualsiasi società.

Ma Trump non dominerà solo il suo partito.

Diventerà di nuovo il centro dell’attenzione di tutto.

Già oggi i media non possono fare a meno di seguire ogni parola e azione di Trump.

Una volta ottenuta la nomination, egli incomberà sul paese come un colosso, ogni sua parola e gesto saranno oggetto di una cronaca infinita.

 Ancora oggi, i media tradizionali, tra cui il Post” e “Nbc News,” stanno unendo le forze con gli avvocati di Trump per ottenere la copertura televisiva del suo processo penale federale a Washington.

Trump intende usare il processo per promuovere la sua candidatura e screditare il sistema giudiziario americano come corrotto – e i media, al servizio dei loro interessi, lo aiuteranno a farlo.

Trump entrerà quindi nella campagna elettorale generale all’inizio del prossimo anno con un certo slancio, sostenuto da crescenti risorse politiche e finanziarie e da un partito sempre più unito.

 Si può dire lo stesso di Biden?

Il potere di Biden crescerà nei prossimi mesi?

 Il suo partito si unirà attorno a lui, oppure l’allarme e i dubbi dei democratici, che sono già alti, continueranno ad aumentare?

Anche in questo momento, il presidente è alle prese con defezioni a due cifre tra americani di colore ed elettorato più giovane.

“ Jill Stein” e “Robert F. Kennedy Jr”. hanno già lanciato, rispettivamente, campagne con un terzo partito e da indipendente, attaccando Biden soprattutto dalla sinistra populista.

La decisione del senatore democratico “Joe Manchin III” di non ricandidarsi per la rielezione in “West Virginia “e di prendere in considerazione una candidatura con un altro partito alla presidenza è potenzialmente devastante.

È probabile che la coalizione democratica rimanga frammentata mentre i repubblicani si unificano e Trump consolida la sua posizione.

Biden, come alcuni hanno sottolineato, non gode dei consueti vantaggi dell’essere il presidente in carica.

Dopotutto, anche Trump di fatto è stato in carica.

Ciò significa che Biden non può fare la solita affermazione del presidente in carica, secondo cui l’elezione dell’avversario rappresenta un salto nell’ignoto.

 Pochi repubblicani considerano la presidenza Trump come anomala o fallimentare.

Nel suo primo mandato, gli “adulti” rispettati che l’hanno circondato non solo hanno bloccato alcuni dei suoi impulsi più pericolosi, ma li hanno anche tenuti nascosti al pubblico.

 Ancora oggi, alcuni di questi stessi funzionari raramente parlano pubblicamente attaccandolo.

 Perché gli elettori repubblicani dovrebbero avere un problema con Trump se coloro che lo hanno servito non ce l’hanno?

A prescindere da ciò che pensano i nemici di Trump, questa sarà una battaglia tra due presidenti legittimi e collaudati.

 Trump, nel frattempo, gode del solito vantaggio del non essere in carica, ovvero la mancanza di responsabilità.

Biden deve portare i problemi del mondo come una pietra intorno al collo, come ogni presidente in carica, ma la maggior parte dei presidenti in carica può almeno affermare che l’avversario è troppo inesperto per affrontare la gestione di queste crisi.

Biden non può.

Sotto l’egida di Trump non c’è stata un’invasione su larga scala dell’Ucraina, né un grave attacco a Israele, né un’inflazione incontrollata, né una disastrosa ritirata dall’Afghanistan.

È difficile dimostrare l’inadeguatezza di Trump a chi non ci crede già.

 Inoltre, Trump gode di alcuni vantaggi insoliti per uno sfidante.

“Ronald Reagan” non aveva dalla sua né “Fox News” né “speaker della Camera”. Se esistono dei vantaggi strutturali per le prossime elezioni generali, insomma, li ha tutti Trump.

E questo prima ancora di arrivare al problema che ha Biden, problema che non può risolvere: la sua età.

Trump gode anche di un altro vantaggio.

L’umore nazionale a meno di un anno dalle elezioni è di disgusto bipartisan verso il sistema politico in generale.

Raramente nella storia americana è stato così evidente il disordine intrinseco della democrazia.

Nella “Germania di Weimar”, “Hitler” e altri agitatori traevano vantaggio dalla litigiosità dei partiti democratici, di destra e di sinistra, dalle interminabili lotte sul bilancio, dagli ingorghi nella legislatura, dalle coalizioni fragili e fratturate.

Gli elettori tedeschi desideravano sempre di più qualcuno che desse un taglio a tutto questo e portasse a termine qualcosa, qualsiasi cosa.

Non importava nemmeno chi ci fosse dietro la paralisi politica, se l’intransigenza provenisse da destra o da sinistra.

Oggi i repubblicani potrebbero essere responsabili per il malfunzionamento di Washington e potrebbero pagarne il prezzo nelle elezioni non presidenziali.

Ma Trump beneficia della disfunzione perché è colui che offre una risposta semplice: lui stesso.

In queste elezioni, è il candidato con il messaggio “posso usare un potere senza precedenti per ottenere le cose, e al diavolo le regole”.

E un numero crescente di americani sostiene di volere questa cosa, in entrambi i partiti.

 Trump sta correndo contro il sistema.

Biden è l’incarnazione vivente del sistema.

Vantaggio: Trump.

Il che ci porta ai fronti legali sempre più numerosi di Trump.

Senza dubbio Trump avrebbe preferito candidarsi senza passare la maggior parte del tempo a respingere i tentativi di metterlo in prigione.

Tuttavia, è nelle aule di tribunale che nei prossimi mesi mostrerà il suo insolito potere all’interno del sistema politico americano.

 È difficile dare torto a coloro che hanno portato Trump in tribunale.

Sicuramente ha commesso almeno uno dei crimini di cui è accusato;

 non abbiamo bisogno di un processo per sapere che ha cercato di sovvertire le elezioni del 2020.

Né si possono biasimare coloro che hanno sperato in questo modo di ostacolare il suo cammino verso lo Studio Ovale.

Quando un predone si sta abbattendo su casa tua, gli lanci addosso tutto quello che puoi – pentole, padelle, candelabri – nella speranza di rallentarlo e farlo inciampare.

Ma questo non significa che funzioni.

Trump non sarà contenuto dai tribunali o dallo Stato di diritto.

 Al contrario, userà i processi per mostrare il suo potere.

Ecco perché vuole che siano trasmessi in televisione.

Il potere di Trump deriva dal suo seguito, non dalle istituzioni del governo americano, e i suoi devoti elettori lo amano proprio perché supera le barriere e ignora i vecchi confini.

Si sentono autorizzati da questo, e questo a sua volta dà potere a lui.

Anche prima dell’inizio dei processi, si prende gioco dei giudici, costringendoli a cercare di mettergli la museruola, sfidando i loro ordini.

È un po’ come “King Kong” che prova le catene alle braccia, intuendo che può liberarsi quando vuole.

 E aspettate che i voti inizino ad arrivare.

 I giudici metteranno in prigione il candidato repubblicano per oltraggio alla corte? Quando sarà chiaro che non lo faranno, l’equilibrio del potere all’interno del tribunale, e nel paese in generale, si sposterà di nuovo verso Trump.

 L’esito più probabile dei processi sarà quello di dimostrare l’incapacità del nostro sistema giudiziario di contenere una persona come Trump e, incidentalmente, di rivelare l’impotenza del sistema nel controllarlo dovesse diventare presidente.

Incriminare Trump per aver cercato di rovesciare il governo si rivelerà simile a incriminare” Cesare” per aver attraversato il Rubicone, e sarà altrettanto efficace. Come “Cesare”, Trump esercita un potere che trascende le leggi e le istituzioni del governo, basato sull’incrollabile fedeltà personale del suo esercito di seguaci.

Ho detto tutto questo solo per rispondere a una semplice domanda:

Trump può vincere le elezioni?

La risposta, a meno che non accada qualcosa di radicale e imprevisto,

è certo che può.

Se così non fosse, il Partito democratico non sarebbe in preda al panico.

Se Trump vincerà le elezioni, diventerà immediatamente la persona più potente che abbia mai ricoperto quella carica.

Non solo eserciterà gli impressionanti poteri dell’esecutivo americano – poteri che, come lamentavano i conservatori, sono cresciuti nel corso dei decenni – ma lo farà con il minor numero di vincoli di qualsiasi altro presidente, ancora meno di quelli del suo primo mandato.

Cosa limita questi poteri?

La risposta più ovvia è:

le istituzioni della giustizia, che Trump, con la sua stessa elezione, avrà sfidato e rivelato come impotenti.

Un sistema giudiziario che non è riuscito a controllare Trump come individuo privato non lo controllerà di certo quando sarà presidente degli Stati Uniti e sarà lui a nominare il proprio procuratore generale e tutti gli altri alti funzionari del Dipartimento di Giustizia.

Pensate al potere di un uomo che si fa eleggere presidente nonostante le accuse, le apparizioni in tribunale e forse anche la condanna.

Obbedirebbe a una direttiva della Corte suprema?

O chiederebbe invece quante divisioni corazzate ha il presidente della Corte?

Un Congresso in futuro lo fermerà?

 Al giorno d’oggi i presidenti possono fare molto senza l’approvazione del Congresso, come ha dimostrato anche Barack Obama.

 Gli unici controlli che il Congresso ha su un presidente disonesto, l’impeachment e la condanna, si sono già rivelati quasi impossibili, anche quando Trump non era presidente ed esercitava un modesto potere istituzionale sul suo partito.

Un’altra tradizionale forma di controllo su un presidente è la burocrazia federale, quel vasto apparato di funzionari governativi che eseguono le leggi e portano avanti le operazioni di governo sotto ogni presidente.

In genere, il loro compito è quello di limitare le opzioni di presidente.

Come disse una volta “Harry S. Truman”:

“Povero Ike.

 Dice ‘fai questo’ e ‘fai quello’ e non succede niente”.

Questo è stato un problema per Trump durante il suo primo mandato, in parte perché non aveva una propria squadra di governo per riempire l’amministrazione. Questa volta lo farà.

 Coloro che sceglieranno di servire nella sua seconda amministrazione entreranno in carica con l’intenzione di rifiutarsi di eseguire i suoi desideri.

Se la” Heritage Foundation” farà la sua parte, e non c’è motivo di credere che non la farà, molti di questi burocrati di carriera se ne andranno, sostituiti da persone accuratamente “vagliate” per garantire la loro fedeltà a Trump.

 E che dire del desiderio di rielezione, un fattore che limita la maggior parte dei presidenti?

Trump potrebbe non volere o avere bisogno di un terzo mandato.

 E se decidesse di volerne uno, come ha talvolta indicato, davvero il 22esimo emendamento eviterebbe più efficacemente che diventasse presidente a vita rispetto invece a portare tutto davanti alla Corte Suprema, se rifiutasse di essere bloccato dall’emendamento?

Perché si dovrebbe pensare che questo emendamento sia più sacrosanto di qualsiasi altra parte della Costituzione per un uomo come Trump o, forse più importante, per i suoi devoti sostenitori?

Un ultimo vincolo per i presidenti è stato il loro desiderio di una legacy scintillante, con il successo tradizionalmente misurato in termini che equivalgono approssimativamente al benessere del paese.

Ma è questo il modo di pensare di Trump?

 Sì, Trump potrebbe cercare una grande legacy, ma desidera solo la sua gloria. Come per Napoleone, che parlava della gloria della Francia, ma le cui ambizioni ristrette a sé e alla sua famiglia portarono la Francia alla rovina, le ambizioni di Trump, anche se parla di rendere l’America di nuovo grande, iniziano e finiscono chiaramente con sé stesso.

Per quanto riguarda i suoi seguaci, non deve ottenere nulla per mantenere il loro sostegno:

 la mancata costruzione del muro durante il suo primo mandato non ha danneggiato in alcun modo la posizione di milioni di suoi fedelissimi.

Non gli hanno mai chiesto nulla se non di trionfare su quelle forze della società americana che loro odiano.

 E questa, possiamo esserne certi, sarà la missione principale di Trump come presidente.

 

Avendo risposto alla domanda se Trump possa vincere, possiamo ora affrontare la domanda più pressante: questo suo secondo mandato si trasformerà in una dittatura?

 Le probabilità, ancora una volta, sono piuttosto alte.

Vale la pena entrare un po’ nella mente di Trump e immaginare il suo stato d’animo dopo una vittoria elettorale.

Avrà trascorso l’anno precedente, e più, lottando per evitare la prigione, tormentato da innumerevoli accusatori e incapace di fare ciò che gli piace di più: vendicarsi.

Pensate alla furia che si sarà accumulata dentro di lui, una furia che, dal suo punto di vista, ha dovuto contenere con molta fatica.

Come ha detto una volta:

“Penso di essere stato molto limitato, se volete sapere la verità.

Potrei riaccendere tutto”.

Certamente potrebbe, e lo farà.

Abbiamo potuto saggiare la sua profonda sete di vendetta quando ha promesso, nel giorno dei Veterani, di “eliminare i comunisti, i marxisti, i fascisti e gli estremisti di sinistra che vivono come vermi all’interno del nostro paese, mentono, rubano e imbrogliano alle elezioni, e faranno tutto ciò che è possibile, legale e illegale, per distruggere l’America e il sogno americano”.

Notate l’equiparazione tra sé stesso e “l’America e il sogno americano”.

È convinto che lo vogliono distruggere e, da presidente rieletto, restituirà il favore.

Come?

Trump ha già citato alcuni di coloro che intende perseguire una volta eletto: funzionari che hanno ricoperto incarichi importanti durante il suo primo mandato. Come il generale in pensione “John F. Kelly”, il generale “Mark A. Milley”, l’ex procuratore generale “William P. Barr” e altri che hanno detto cose contro di lui dopo le elezioni del 2020;

funzionari dell’ “Fbi” e della “Cia” che lo hanno indagato nell’inchiesta sulla Russia; funzionari del dipartimento di Giustizia che hanno rifiutato le sue richieste di annullare le elezioni del 2020;

 membri della commissione sul 6 gennaio;

avversari del Partito democratico come il rappresentante “Adam B. Schiff” (California); e repubblicani che hanno votato a favore o pubblicamente sostenuto il suo impeachment e la sua condanna.

Ma questo è solo l’inizio.

Dopotutto, Trump non sarà l’unico a cercare vendetta.

 La sua Amministrazione sarà piena di persone con la propria lista di nemici, un gruppo determinato di funzionari “vetted” che considereranno come loro compito autorizzato dal presidente “l’eliminazione” di coloro nel governo di cui non ci si può fidare.

 Molti saranno semplicemente licenziati, ma altri saranno oggetto di indagini che distruggeranno le loro carriere.

 L’Amministrazione Trump sarà piena di persone che non avranno bisogno di istruzioni esplicite da parte di Trump, proprio come i “gauleiters” di Hitler non avevano bisogno di istruzioni.

 In tali circostanze, le persone “lavorano verso il Führer”, cioè anticipano i suoi desideri e cercano il suo favore facendo atti che possono renderlo felice, migliorando così la propria influenza e il proprio potere.

E non sarà difficile trovare motivi per accusare gli avversari.

La nostra storia è purtroppo piena di casi di funzionari presi di mira ingiustamente, considerati dalla parte sbagliata su una determinata questione nel momento sbagliato:

 per esempio i “China Hands” del dipartimento di stato alla fine degli anni 40, le cui carriere furono distrutte perché si trovarono in posizioni di influenza durante la Rivoluzione comunista cinese.

Oggi si sente aria di un nuovo maccartismo.

I repubblicani “Maga” insistono sul fatto che Biden stesso sia un “comunista”, che la sua elezione sia stata una “presa del potere comunista” e che la sua Amministrazione sia un “regime comunista”.

Non sorprende quindi che Biden abbia un “programma pro Partito comunista cinese (Pcc)”, come ha dichiarato quest’anno la “potente presidente della commissione per l’”Energia e il Commercio della Camera”, la repubblicana “Cathy McMorris Rodgers”, e che stia deliberatamente “cedendo leadership e sicurezza americane alla Cina”.

 I repubblicani in questi giorni accusano – è quasi una routine – i loro avversari di essere non soltanto ingenui e poco attenti alla potenza crescente della Cina, ma di essere proprio “simpatizzanti” di Pechino.

“La Cina comunista ha il suo presidente China Joe”, ha twittato la deputata repubblicana Marjorie Taylor Greene  il giorno dell’inaugurazione di Biden.

Il senatore repubblicano “Marco Rubio” ha chiamato il presidente “Pechino Biden”.

Il candidato repubblicano al Senato nel “New Hampshire” dello scorso anno ha addirittura chiamato il governatore repubblicano “Chris Sunun”u un “simpatizzante del Partito comunista cinese.”

 Possiamo aspettarci che questa retorica aumenti quando la guerra contro il “deep state” si farà più seria.

Secondo il senatore repubblicano” Josh Hawley”, c’è un’intera cabala determinata a minare la sicurezza americana, un “Partito Unico” di élite composto da “neoconservatori a destra” e “globalisti liberali a sinistra” che non sono veri americani e quindi non hanno a cuore gli interessi reali dell’America.

 Un tale comportamento “anti americano” può essere reso un reato?

È successo in passato e può esserlo di nuovo.

 

Quindi, l’Amministrazione Trump troverà molti modi per perseguitare i suoi nemici, reali e presunti.

Pensate a tutte le leggi attualmente in vigore che danno al governo federale un enorme potere per sorvegliare le persone a causa di possibili legami con il terrorismo, un termine pericolosamente adattabile, senza dimenticare tutte le consuete possibilità di indagare presunte evasioni fiscali o violazioni delle leggi sulla registrazione di agenti stranieri.

L’”Irs” (l’Agenzia delle entrate americana), sotto la guida di entrambi i partiti, ha occasionalmente valutato la revoca dello status di esenzione fiscale a certi think tank perché sostenevano politiche in linea con le opinioni dei partiti politici.

Cosa succederà al ricercatore di un “think tank” durante un secondo mandato di Trump che sostiene che gli Stati Uniti dovrebbero ammorbidire la pressione sulla Cina?

O al funzionario del governo abbastanza avventato da mettere questo pensiero su carta intestata?

Non serviva molto altro, negli anni 50, per rovinare carriere.

E chi fermerà le indagini e le persecuzioni improprie dei numerosi nemici di Trump? Lo farà il Congresso?

Il Congresso a maggioranza repubblicana sarà impegnato a condurre le proprie indagini, a utilizzare i propri poteri per convocare persone accusate di ogni tipo di crimine, proprio come fa ora.

Avrà importanza che le accuse siano infondate?

E ovviamente in alcuni casi saranno vere, il che darà ancora maggiore validità a inchieste più ampie contro i nemici politici.

Fox News” li difenderà o invece amplificherà le accuse?

I media americani resteranno divisi come lo sono oggi tra quelli che si rivolgono a Trump e al suo pubblico e quelle che non lo fanno.

Ma se chi governa ha dichiarato i media “nemici dello stato”, questi si ritroveranno sotto una pressione significativa e costante.

 I proprietari dei media scopriranno che un presidente ostile e senza freni può rendere la loro vita sgradevole in molti modi.

Infatti, chi difenderà chiunque venga accusato pubblicamente a parte i suoi avvocati?

Con una nuova presidenza Trump, il coraggio che ci vorrà per difenderli non sarà inferiore al coraggio che ci vorrà per opporsi allo stesso Trump.

Quanti saranno disposti a rischiare le proprie carriere per difendere gli altri?

 In una nazione congenitamente sospettosa nei confronti del governo, chi difenderà i diritti degli ex funzionari che diventano bersagli del dipartimento di Giustizia di Trump?

 Ci saranno ampi precedenti per coloro che cercheranno di giustificare la persecuzione.

Abraham Lincoln sospese l’habeas corpus, l’Amministrazione Wilson chiuse giornali e riviste che criticavano la guerra;

 Franklin D. Roosevelt radunò gli americani di origine giapponese e li mise nei campi.

Pagheremo il prezzo per ogni trasgressione mai commessa contro le leggi progettate per garantire i diritti e le libertà individuali.

Come risponderanno gli americani ai primi segni di un regime di persecuzione politica?

 Si ribelleranno indignati? Non contateci troppo.

Coloro che non hanno trovato motivo di opporsi a Trump durante le primarie e nella competizione generale difficilmente avranno un risveglio improvviso quando qualche ex collaboratore di Trump, come “Milley”, si troverà sotto indagine per chissà cosa.

Sapranno soltanto che i procuratori del dipartimento di Giustizia, l’Irs, l’Fbi e diverse commissioni parlamentari hanno aperto delle indagini.

E chi può dire che coloro che vengono perseguitati non siano in realtà evasori fiscali, spie cinesi, pervertiti o qualsiasi altra cosa di cui potranno essere accusati? La maggioranza degli americani riconoscerà la persecuzione e i primi passi per sopprimere l’opposizione a Trump?

La dittatura di Trump non sarà una tirannia comunista, in cui quasi tutti percepiscono l’oppressione e le loro vite ne sono plasmate.

 Nelle tirannie conservatrici e illiberali, ci sono tutti i tipi di limitazioni delle libertà, ma è un problema per le persone soltanto nella misura in cui attribuiscono valore a quelle libertà, e molte persone non lo fanno.

 Il fatto che questa tirannia dipenderà interamente dai capricci di un uomo significherà che i diritti degli americani saranno condizionati anziché garantiti.

Ma se la maggior parte degli americani può svolgere la propria vita quotidiana senza intoppi, potrebbe non preoccuparsi, proprio come molti russi e ungheresi non se ne preoccupano.

Sì, ci sarà un vasto movimento di opposizione centrato sul Partito democratico (Dem Usa), ma è difficile capire esattamente come questa opposizione fermerà la persecuzione.

 Il Congresso e i tribunali offriranno poco sollievo.

I democratici, in particolare i più giovani, sbraiteranno e denunceranno, ma se non saranno sostenuti dai repubblicani, la loro sembrerà la solita partigianeria.

Se i democratici continueranno a controllare una delle due camere del Congresso, potranno contenere alcune derive, ma le probabilità che controllino entrambe le camere dopo il 2024 sono inferiori alle probabilità di una vittoria di Biden.

Né ci sono ragioni sufficienti per sperare che l’opposizione disordinata e disfunzionale a Trump di oggi diventi improvvisamente più unita ed efficace una volta che Trump prenderà il potere.

Non è così che funzionano le cose.

Nelle dittature in evoluzione, l’opposizione è sempre debole e divisa.

È proprio questo in primo luogo che rende possibile la dittatura.

 I movimenti di opposizione raramente diventano più forti e più uniti sotto le pressioni della persecuzione.

 Al giorno d’oggi non c’è un leader dietro cui i democratici possano riunirsi ed è difficile immaginare che possa emergere una volta che Trump riconquisterà il potere.

Ma anche se l’opposizione diventasse forte e unita, non è ovvio che cosa potrebbe fare per proteggere chi è perseguitato dai trumpiani.

La capacità dell’opposizione di esercitare forme legittime, pacifiche e legali del potere è già stata giudicata insufficiente in questo ciclo elettorale, quando democratici e repubblicani anti Trump hanno utilizzato ogni strumento legittimo contro Trump e hanno comunque fallito.

Utilizzeranno quindi azioni illegittime, extralegali?

E come apparirebbe questa scelta?

Gli americani potrebbero scendere in strada.

In effetti, è probabile che molte persone si uniscano a proteste contro il nuovo regime, forse anche prima che abbia avuto la possibilità di dimostrare di meritarle.

Ma poi cosa accadrà?

Anche nel suo primo mandato, Trump e i suoi consiglieri in più di un’occasione hanno discusso dell’invocazione dell”’Insurrection Act”.

Neanche un difensore della democrazia americana come “George H.W. Bush” ha invocato questa legge per affrontare le sommosse di Los Angeles nel 1992.

È difficile immaginare che Trump non lo invochi se “i comunisti, i marxisti, i fascisti e i teppisti della sinistra radicale” scendono in strada.

 Viene il sospetto che non si lascerà scappare questa occasione.

E chi lo fermerà?

 I suoi consiglieri militari? Pare improbabile.

Potrebbe nominare il tenente generale in pensione “Michael Flynn” a capo dello stato maggiore congiunto se lo volesse, ed è improbabile che un Senato repubblicano rifiuti di confermarlo.

Qualcuno pensa che i leader militari disobbediranno ai comandi del loro comandante in capo eletto e autorizzato dalla Costituzione?

 Di più: vogliamo davvero che i militari debbano prendere quella decisione?

 C’è ragione di credere che le truppe in servizio attivo e le riserve siano più inclini a simpatizzare con un presidente Trump appena rieletto rispetto ai presunti “teppisti della sinistra radicale” che causano caos nelle strade delle loro città.

Coloro che sperano di essere salvati da un esercito degli Stati Uniti devoto alla protezione della Costituzione vivono in un mondo di fantasia.

La resistenza potrebbe provenire dai governatori di stati prevalentemente democratici come “California” e “New York” attraverso una forma di nullificazione:

gli stati con governatori e parlamenti democratici potrebbero rifiutarsi di riconoscere l’autorità di un governo federale tirannico.

Questa è sempre un’opzione nel nostro sistema federale.

 (Se Biden vincesse, alcuni stati repubblicani potrebbero fare altrettanto e utilizzare la teoria della nullificazione.)

Ma nemmeno gli stati più progressisti sono monolitici, e i governatori democratici potrebbero trovarsi sotto assedio nel loro stesso territorio se cercano di diventare bastioni di resistenza alla tirannia di Trump.

I repubblicani e i conservatori in tutto il paese saranno energizzati dal trionfo del loro eroe.

Il cambio di potere a livello federale, e il tono di minaccia e vendetta proveniente dalla Casa Bianca, probabilmente incoraggeranno ogni tipo di contro-resistenza persino negli stati profondamente democratici, comprese proteste violente.

Quali risorse avranno i governatori per contrastare gli attacchi e mantenere l’ordine?

La polizia statale e locale?

Queste entità saranno disposte a usare la forza contro i manifestanti che probabilmente godranno del sostegno pubblico del presidente?

 I governatori democratici potrebbero non avere il desiderio di scoprirlo.

Se Trump riuscisse a lanciare una campagna di persecuzione e l’opposizione dimostrasse di essere impotente nel fermarla, allora la nazione avrà iniziato la discesa irreversibile verso la dittatura.

Con il passare dei giorni, sarà sempre più difficile e pericoloso fermarla con qualsiasi mezzo, legale o illegale.

Provate a immaginare cosa significherà candidarsi per un incarico politico nell’ambito dell’opposizione in questa situazione.

In teoria, le elezioni di metà mandato del 2026 potrebbero rappresentare una speranza per il ritorno dei democratici, ma Trump non utilizzerà i suoi considerevoli poteri, sia legali sia illegali, per impedirlo?

Trump insiste e senza dubbio crede che l’Amministrazione attuale abbia corrotto il sistema giudiziario per cercare di impedirgli la rielezione.

Non si considererà giustificato a fare lo stesso una volta che avrà tutto il potere? Ha, naturalmente, già promesso di fare esattamente questo:

utilizzare i poteri del suo incarico per perseguitare chiunque osi sfidarlo.

Questa è la traiettoria che stiamo percorrendo adesso.

È inevitabile la dittatura?

No. Nulla nella storia è inevitabile.

Eventi imprevisti cambiano le traiettorie.

 I lettori di questo mio saggio senza dubbio elencheranno tutte le ragioni per cui è troppo pessimistico e non tiene sufficientemente conto di questa o quella possibilità alternativa.

Forse, nonostante tutto, Trump non vincerà.

Forse la monetina cadendo darà testa e saremo tutti al sicuro.

E forse anche se dovesse vincere, non farà nulla di ciò che dice che farà.

 Potete trovare conforto in questi pensieri, se volete.

Ciò che è certo, però, è che le probabilità che gli Stati Uniti cadano in una dittatura sono cresciute considerevolmente perché molti degli ostacoli a essa sono stati superati e ne restano soltanto alcuni.

Se otto anni fa sembrava letteralmente inconcepibile che un uomo come Trump potesse essere eletto, quell’ostacolo è stato superato nel 2016.

Se poi sembrava impensabile che un presidente americano tentasse di restare in carica dopo aver perso un’elezione, quell’ostacolo è stato superato nel 2020.

 E se nessuno poteva credere che Trump, dopo aver tentato e fallito di invalidare le elezioni e fermare il conteggio dei voti del collegio elettorale, riemergerà comunque come leader indiscusso del Partito repubblicano e suo candidato di nuovo nel 2024, be’, anche quest’ostacolo sarà presto superato.

 In soli pochi anni siamo passati da essere relativamente sicuri della nostra democrazia a essere a pochi passi – questione di mesi – dalla possibilità di una dittatura.

Stiamo facendo qualcosa a riguardo?

Per cambiare metafora: se pensassimo che ci fosse il 50 per cento di possibilità che un asteroide si schiantasse sull’America del nord tra un anno, saremmo contenti di sperare che non accadesse?

 O prenderemmo ogni misura concepibile per cercare di fermarlo, incluso molti interventi che potrebbero non funzionare ma che, data la gravità della crisi, devono essere comunque tentati?

Sì, so che la maggior parte delle persone non pensa che un asteroide si stia dirigendo verso di noi e questo fa parte del problema.

Ma altrettanto grande è stato il problema di coloro che vedono il rischio ma per una varietà di motivi non hanno ritenuto necessario fare sacrifici per prevenirlo.

A ogni punto lungo il percorso, i nostri leader politici, e noi come elettori, abbiamo lasciato passare le occasioni per fermare Trump, convinti che avrebbe incontrato prima o poi un ostacolo insuperabile.

I repubblicani avrebbero potuto fermare Trump dall’ottenere la nomination nel 2016, ma non lo hanno fatto.

Gli elettori avrebbero potuto eleggere “Hillary Clinton”, ma non l’hanno fatto. I senatori repubblicani avrebbero potuto votare per condannare Trump in uno qualsiasi dei suoi processi di impeachment, cosa che avrebbe reso molto più difficile la sua corsa alla presidenza, ma non lo hanno fatto.

Durante questi anni, si è messa in moto una psicologia comprensibile ma fatale.

 A ogni stadio, fermare Trump avrebbe richiesto azioni straordinarie da parte di certe persone, che fossero politici, elettori o donatori, azioni che non si allineavano con i loro interessi immediati o anche semplicemente con le loro preferenze.

 Sarebbe stato straordinario per tutti i repubblicani che si candidavano contro Trump nel 2016 decidere di rinunciare alle loro speranze per la presidenza e unirsi intorno a uno di loro.

 Invece, si sono comportati normalmente, spendendo il loro tempo e il loro denaro attaccandosi l’un l’altro, pensando che Trump non fosse la loro sfida più seria, o che qualcun altro lo avrebbe fermato, aprendo così la strada alla nomination di Trump.

 E hanno, con poche eccezioni, fatto lo stesso in questo ciclo elettorale.

Sarebbe stato straordinario se “Mitch McConnell” e molti altri senatori repubblicani avessero votato per condannare un presidente del loro stesso partito.

Invece, hanno creduto che, dopo il 6 gennaio 2021, Trump fosse finito e quindi che andasse bene non condannarlo ed evitare di diventare dei paria nella vasta folla di sostenitori di Trump.

A ogni passo, la gente ha creduto di poter continuare a perseguire i propri interessi e le proprie ambizioni personali con la convinzione che prima o poi, qualcun altro o qualcos’altro, o semplicemente il destino, avrebbe fermato Trump.

Perché avrebbero dovuto sacrificare loro le proprie carriere?

Dovendo scegliere tra una scommessa ad alto rischio e sperare nel meglio, la gente in generale spera nel meglio.

Dovendo scegliere tra fare il lavoro sporco da soli e lasciare che altri lo facciano, la gente preferisce generalmente la seconda opzione.

 

Si è messa in moto anche una psicologia paralizzante di appeasement.

 A ogni stadio, il prezzo per fermare Trump è aumentato sempre di più.

Nel 2016, il prezzo era rinunciare a un’opportunità per la Casa Bianca.

Una volta che Trump è stato eletto, il prezzo dell’opposizione, o anche solo l’assenza di lealtà ossequiosa, è diventato la fine della propria carriera politica, come hanno scoperto “Jeff Flake,” “Bob Corke”r, “Paul D. Ryan” e molti altri.

Nel 2020, il prezzo è salito di nuovo.

 Come racconta “Mitt Romney” nella recente biografia di “McKay Coppins”, i repubblicani del Congresso che contemplavano di votare a favore dell’impeachment e della condanna di Trump temevano per la loro sicurezza fisica e quella delle loro famiglie.

 Non c’è motivo per cui quella paura debba essere minore oggi.

Ma aspettate che Trump torni al potere e il prezzo di opporsi a lui diventerà persecuzione, perdita economica e pure la perdita della libertà.

 Coloro che hanno esitato a resistere a Trump quando il rischio era soltanto l’oblio politico scopriranno improvvisamente il proprio coraggio quando il costo potrebbe essere la rovina di sé stessi e della propria famiglia?

Siamo più vicini a quel punto oggi di quanto non lo siamo mai stati, eppure continuiamo a scivolare verso la dittatura, sperando ancora in qualche intervento che ci permetta di sfuggire alle conseguenze della nostra codardia collettiva, della nostra ignoranza compiaciuta e deliberata e, soprattutto, della nostra mancanza di un impegno profondo verso la democrazia liberale.

E stiamo scivolando verso la dittatura, come si dice,” not with a bang but a whimper”, non con uno schianto ma con un piagnucolio.

(Robert Kagan, copyright Washington Post)

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