Democrazia in Pericolo.
Democrazia
in Pericolo.
Democrazia
in bilico, dall’America scosse
che
annunciano il “Big One.”
Msn.com
-Ital press – Redazione - Stefano Vaccara – (21.12-2023) – ci dice:
NEW YORK (STATI UNITI) (ITALPRESS) –
Dappertutto
nel mondo si avvertono gli scossoni politici che ormai danno l’impressione di
annunciare una nuova epoca per le nazioni democratiche.
Gli Stati Uniti non solo non ne sono immuni,
ma quello avvenuto ormai due anni fa, con l’”assalto al Congresso” da parte di
una folla “insurrezionalista” il 6 gennaio 2021, ha confermato che è proprio in
America l’epicentro da dove si propagano le scosse.
Ma quelle di due anni fa, a sue volte arrivate dopo il
primo grande terremoto politico del novembre 2016 - anno dell’elezione di Trump
- non erano state delle scosse di assestamento.
Semmai,
erano le premonitrici del “Big One”, del sisma capace di far crollare il
sistema su cui si basa la più longeva democrazia del mondo.
E
questo sia se Donald Trump - ormai sospettato di voler tornare al governo per
instaurare una dittatura - riesca o meno a essere rieletto alla carica di
presidente.
La
decisione della “Corte Suprema del Colorado” di escludere Trump dalle primarie
repubblicane a causa del 14esimo emendamento della Costituzione, ha allargato
la spaccatura di un elettorato degli Stati Uniti già iper polarizzato.
Sia
gli esperti che la massa degli elettori, sono divisi in tre correnti
principali:
una
crede che
sia un dovere escludere Trump dalle elezioni perché è rispettando la
Costituzione che si salva il pilastro che tiene in piedi la democrazia (ne
fanno parte i maggiori costituzionalisti e l'elite del partito democratico);
un’altra crede invece che sarebbe gravissimo
escludere Trump, perché la Costituzione verrebbe così “malignamente”
interpretata e inoltre in nessuna corte di tribunale è stato ancora provato che
l’ex presidente, quando era alla Casa Bianca, abbia organizzato e partecipato
all’insurrezione del 6 gennaio (di questa corrente di pensiero ne fanno parte i
maggiori esponenti repubblicani al Congresso, tra cui lo speaker Mike Johnson);
infine
una terza corrente, che sceglie “il minore dei mali”.
Ne
fanno parte i maggiori avversari di Trump per le primarie del partito
repubblicano, “Nikki Haley” e “Ron De Santis” (e aggiungiamo, almeno per la
corsa nel New Hampshire, “Chris Christie”) che sembrano voler sostenere che,
anche se la Costituzione permette di escludere l’ex presidente dalle elezioni,
non “convenga” alla democrazia impedirgli di partecipare:
meglio
che Trump sia fermato dalla scelta degli elettori e non dai giudici, altrimenti
le conseguenze sulla legittimità del sistema democratico americano sarebbero
incalcolabili…
Sarà
la Corte Suprema chiamata a sciogliere il dilemma su cosa “convenga” al
mantenimento della democrazia in America?
Decidere cioè se in questo caso, aiuti più la
democrazia già sopravvissuta anche ad una guerra civile, applicare la legge
“alla lettera” della Costituzione - come di solito auspicano i giudici
conservatori - o invece questa volta essere più “flessibili” per evitare una
rottura fatale?
Anche
se la Corte Suprema può dare una forte spinta all’evoluzione degli eventi sul
peso del 14esimo emendamento nelle prossime elezioni, ci sono altre decisioni
in sospeso capaci di forti conseguenze.
Come quella se sia legittimo o meno poter
processare Trump per il 6 gennaio 2021, come sta facendo lo speciale
procuratore federale “Jack Smith”, tutte questioni che aggiungeranno altre
“scosse” in preparazione del “big one”.
(La
decisione è se per certi crimini che Trump avrebbe commesso da presidente, da
ex presidente perda le sue immunità…).
I padri fondatori degli Stati Uniti non
crearono la Corte Suprema per diventare il plotone d’esecuzione della scelta
elettorale dei cittadini per la Casa Bianca.
Infatti
poche volte è stata costretta, sua malgrado, a “scegliere” per loro.
Quella
più conosciuta e ricordata, è quando bloccando la riconta dei voti in Florida,
decise per la vittoria di G. W. Bush su Al Gore.
La
meno conosciuta, ma pur sempre decisiva, fu quando i nove giudici supremi
decisero, il 24 luglio del 1974, contro la richiesta di “Richard Nixon” di
poter mantenere l’“executive privilege” per tenere segreti i nastri registrati
nello Studio Ovale sul “Watergate", provocando così le inevitabili
dimissioni del presidente prima che fosse il Congresso a defenestrarlo.
Ma
nella Costituzione degli USA i padri fondatori scrissero chi poteva partecipare
e chi no alle elezioni.
E poi, con il 14esimo emendamento (approvato
il 9 luglio 1868) il Congresso decise anche di vietare la candidatura
presidenziale a chi, dopo aver giurato sulla Costituzione, aveva partecipato (o
“aiutato e confortato”) una insurrezione contro gli Stati Uniti.
Toccherà
ancora alla Corte Suprema - accettando o meno di prendere il caso
dell’esclusione di Trump in Colorado - di prendersi la responsabilità di
decidere se l’ex presidente potrà essere un contendente per la Casa Bianca?
In
questo caso nemmeno il suo “sì” o “no” potrà essere decisivo, anche se
sicuramente avrà un impatto.
Negli
USA infatti non esiste un sistema elettorale unico federale ma ben 50 sistemi
governati dalle 50 legislature statali, con non poche differenze per ogni Stato.
La Costituzione federale degli Stati Uniti è
stata tutta fondata sulla “tensione” autonomista degli Stati, che restano
gelosi delle loro prerogative.
Quindi, anche se la Corte Suprema non “annullasse” la
decisione del Colorado e decidesse semplicemente di non occuparsene, ciò non
escluderebbe Trump dalla corsa negli altri Stati, che decideranno autonomamente
se seguire o meno l’esempio “esclusivista” affermato dai giudici supremi del “Mountain
State”.
Nella decisione che prenderà la Corte Suprema
su Trump e il 14esimo emendamento, potrebbero pesare anche le potenziali
conseguenze su altre cariche pubbliche elettive degli Stati Uniti.
Pensiamo
a quella “pesantissima" di “Mike Johnson”, speaker della Camera.
Già, anche il congressman della Louisiana deve
partecipare alle elezioni di novembre 2024, ma anche lui potrebbe essere accusato
di aver avuto “parte attiva” all’insurrezione del 6 novembre, e di aver “aiutato e confortato”
gli insurrezionalisti…
Quanti
altri sono i congressman e senatori che potrebbero subire la stessa sorte?
La democrazia americana resta in bilico in
attesa della scossa del “big one”, prevista nel novembre 2024.
Per
questo l’America si interrogherà in questi mesi se sia “un bene o un male”
quando i giudici, supremi o statali che siano, seguano e facciano rispettare
“alla lettera” la legge, facendo rimanere “accountable”, cioè responsabile
delle sue azioni, il 45esimo presidente.
La
democrazia americana è davanti al bivio e il percorso che deciderà di
intraprendere da qui al novembre 2024, determinerà l’intensità delle scosse
dell'atteso “big one”.
Queste, siatene certi, si avvertiranno in
tutta la loro potenza, anche nelle democrazie della vecchia e fragile Europa.
(ITALPRESS).
MESsinscena
Conte, Salvini e Meloni,
i populisti si ritrovano con l’Europa:
l’Italia obbedisce a Francia e Germania.
msn.com - Claudia Fusani - Il Riformista –
Redazione – (22-12-2023) – ci dice:
Sono,
quelle appena passate, le 36 ore della verità per la maggioranza.
Il “passaggio di svolta”, il “disvelamento”
per il governo Meloni.
Il 20 dicembre 2023, la mattina,
l’approvazione del “Patto europeo di migrazione e asilo” che schiaccia l’Italia
nello scomodissimo ruolo di paese di frontiera che non avrà alcuna certezza sui
rimpatri dei migranti irregolari e non aventi diritto.
Qualche
ora dopo, alle 19, è arrivato l’ok unanime, Italia compresa quindi, al “nuovo Patto di Stabilità e crescita”, in vigore da gennaio 2024, dove
c’è molta poca flessibilità e molta discrezione della “Commissione Ue” rispetto
ai conti, ai bilanci e ai debiti sovrani di ogni singolo stato.
Ieri
mattina alle 12 e 48 è finita anche la “messinscena del Mes”, la “ratifica
della modifica del Fondo Salva-stati”:
il Parlamento respinge la ratifica, unici in
Europa, ed è subito un torto e uno stigma.
Neppure
36 ore, in realtà succede tutto in 28 ore, notte compresa.
Il
risultato è un’Italia costretta ad obbedire dall’asse franco-tedesco, “fatta
uscire dal salotto buono e messa nella stanza dei bambini insieme a Orban
mentre gli adulti decidono sul futuro dell’Italia (sic Magi, + Europa)”.
Se
questo è lo scenario di politica economica, sul fronte della politica nazionale
il voto sul “Mes” ieri mattina è stata la dimostrazione plastica che “il populismo e l’antieuropeismo in
Italia è vivo e vegeto e governa ed è rappresentato da Conte, Salvini e Meloni”
ha detto Matteo Renzi (Iv).
Nel
voto infatti si sono spaccate tanto la maggioranza quanto l’opposizione, “il
campo largo non c’è più ed è chiaro che i riformisti, anche del Pd, non possono
allearsi con i 5 Stelle”.
I 5
Stelle hanno votato contro la ratifica dopo una dichiarazione di voto di
Giuseppe Conte che è stata un manifesto dell’ira e dello scontento.
Forza
Italia si è astenuta visto che avrebbe voluto rinviare ancora il voto a
gennaio, prendere tempo e aspettare.
Non
mettere un nesso di causalità così netto ed evidente tra il via libera al Patto
di Stabilità della sera prima e il No al Mes del giorno dopo.
Con le
ripicche si va da poche parti quando si ha la responsabilità di guidare il
paese.
Risultato:
72 i
voti a favore della ratifica, quelli del Pd, Italia viva, Azione e parte del
Misto; 184 quelli contrari, Fratelli d’Italia, Lega e 5 Stelle, 44 gli astenuti
(Forza Italia e Sinistra).
Macerie.
Su cui
banchetta la Lega leccandosi i baffi in vista delle Europee. Matteo Salvini
s’intesta la vittoria, “una battaglia della Lega combattuta per anni e
finalmente vinta. Avanti così. A testa alta e senza paura”.
Lo
seguono i fedelissimi finalmente felici, Borghi, Bagnai, Candiani.
La
gioia di Salvini in realtà poggia sugli stessi argomenti che invece preoccupano
Meloni (ancora a casa influenzata).
Il
voto di ieri ha schiacciato Fratelli d’Italia sul fronte antieuropeista –
territorio di Salvini – e l’ha allontanata da quello Conservatore dialogante
con il Ppe.
In
realtà la premier da casa ha cercato di tenere bassa la faccenda (“La Camera ha
deciso con il voto”) e di banalizzarla (“è di relativo interesse e attualità
per l’Italia”).
Anzi,
questo stop “può essere l’occasione per avviare una riflessione”.
La
verità è ben diversa.
Come
dimostrano le numerose telefonate tra gli alleati già la sera prima per
scongiurare la spaccatura.
Tajani
e Forza Italia avevano chiesto un nuovo rinvio, “almeno fino a gennaio, dateci
tempo perché noi non possiamo votare contro il Mes”.
Invece il tempo non gli è stato dato e Forza
Italia ha scelto il male minore: l’astensione.
È
necessario allora capire come si arriva al voto di ieri mattina che ha visto
andare in frantumi maggioranza ed opposizione.
Il
Riformista ha parlato con una fonte di Fratelli d’Italia molto vicina al
dossier.
“Mercoledì
pomeriggio – racconta – quando molti di noi erano al Quirinale per gli auguri,
si era più o meno tutti convinti che “la trattativa sul Patto di stabilità”
potesse essere rinviata alla prossima settimana.
Il ministro Giorgetti e la stessa premier si erano
spesi contro una riunione così importante eppure svolta da remoto”.
In
un’ora però è cambiato tutto.
“Francia e Germania hanno voluto accelerare e
a quel punto non avevano più alternative.
Il veto sarebbe stato molto peggio e non è mai
stata una vera opzione”.
Il
governo e Giorgetti hanno così dovuto ingoiare, nello stupore generale di chi
era rimasto a Roma, la firma del “nuovo Patto di stabilità e crescita”.
“Cose buone e altre meno” ha ammesso Giorgetti
che all’Ecofin ha parlato per ultimo a cose già decise.
Le stesse, tra l’altro, di una settimana prima
quando l’Italia minacciava il veto.
Alle
19 di mercoledì, appunto, il Patto di stabilità è legge.
Il
Mes, tenuto da parte in questo anno di governo Meloni come moneta di scambio
nella logica del pacchetto, del “dot ut des” rispetto alle nuove regole di
bilancio, diventa moneta scaduta.
La
“logica del pacchetto” è andata in frantumi tra Parigi e Berlino.
Buona
solo per la vendetta.
Anzi, un piccolo dispetto.
“Diciamo
– spiega la stessa fonte – che le notizie da Bruxelles ci hanno convinto
mercoledì sera ad accelerare sul Mes e a votare contro oggi”.
Lo
strappo con Forza Italia si è consumato l’altra sera.
Unico
compromesso possibile è stato l’astensione.
Ma la
maggioranza è spaccata.
Ora e
per i prossimi sei mesi di campagna elettorale.
Due
ministri di peso come Giorgetti (lega) e Tajani (Forza Italia) escono da questa
storia con le ossa rotte.
“Un
ministro dell’Economia sbugiardato dall’aula e sbeffeggiato dal suo leader e
dal suo partito deve trarre le conseguenze di quanto è successo in queste ore.
La crisi di governo è chiara” ha attaccato
Amendola (Pd).
Nicola
Danti, eurodeputato di” Iv-Renew Eu”, ci ha messo anche Tajani.
“Due ministri sconfessati, bipolarismo
spaccato, Europa più lontana.
E
Forza Italia che manda al macero la sua storia nel Ppe e si degrada a fare
l’ancella di Giorgia Meloni”, Il capogruppo azzurro Paolo Barelli ieri
tranquillizzava i cronisti. “Non succede nulla, la maggioranza è solida”.
La
fonte di Fratelli d’Italia aggiunge:
“Il
nostro obiettivo è fare molto bene alle elezioni, incidere e avere peso nella
nuova Commissione UE che potrà cambiare il Patto di stabilità”.
Il
voto di ieri manda in soffitta, se ci fosse bisogno di altre conferme, il campo
largo del centrosinistra.
Il
dibattito in aula ha polarizzato lo scontro tra 5 Stelle e Fratelli d’Italia.
Un
Giuseppe Conte sopra le righe contro una Meloni assente dall’aula.
Tutto per rinfacciarsi accuse di “incoerenza” (Conte)
e sudditanza (Meloni). Interessante che abbiano votato insieme. Contro il Mes.
Ieri però è stato chiaro perché Meloni, al
netto della febbriciattola, ha scelto di rinviare la conferenza stampa di fine
anno.
La sua
leadership europea ieri ha francamente traballato.
(Il
Riformista)
UN
MONDO DI DEMOCRAZIE
IN
PERICOLO.
Treccani.it – (19 GIUGNO 2022) - Gian Giacomo
Migone – ci dice:
Un
mondo di democrazie in pericolo.
La
democrazia americana è anche nostra.
E
scriviamo americana in senso proprio, perché intendiamo riferirci a un intero
continente di cui gli Stati Uniti costituiscono una parte, oggi meno egemone
che mai.
L’
intesa come sistema di governo fondato sulla sovranità popolare di cittadini
elettori, a cui spettano diritti di rappresentanza e di libertà, in primo luogo
di espressione, nel rispetto delle minoranze – è oggi indebolita ovunque sia
ancora presente, con scarsa consapevolezza dei suoi aventi diritto, anche a
causa della reticenza mediatica e dei condizionamenti crescenti della e sulla
rete Internet.
È
utile un esempio.
I principali media, non soltanto italiani,
hanno trascurato una notizia di rilevanza mondiale.
Gli esponenti principali delle forze armate
del Brasile, ove si svolgeranno elezioni presidenziali quest’autunno, hanno
appena espresso la convinzione che esse non si svolgeranno regolarmente.
Il presidente in carica – che nei sondaggi d’opinione
risulta inferiore di oltre una ventina di punti rispetto al suo sfidante, (già
presidente, illegalmente detenuto per alcuni anni a seguito di accuse di
corruzione rivelatesi false) – ha subito cavalcato questa delegittimazione
preventiva di un sistema elettorale a cui deve la poltrona su cui è seduto da
quattro anni, ipotizzando un meccanismo di controllo parallelo, gestito dagli
stessi militari.
Con
ogni probabilità si tratta del preannuncio di un tentativo di golpe, nel caso
di un esito favorevole allo sfidante, nel Paese dal corpo elettorale attivo più
numeroso del mondo, dopo quello dell’India e degli Stati Uniti.
In
India le elezioni hanno appena avuto luogo in forma regolare, anche se con un
esito per altri versi inquietante, in quanto hanno confermato, a grande
maggioranza, il governo, il quale persegue una politica che calpesta i diritti
delle minoranze non indù – in primo luogo, quella musulmana – e, di
conseguenza, il compromesso costituzionale su cui si fonda quella democrazia.
Altrettanto,
se non più pericoloso, per il potere militare colà detenuto, è lo stato della
democrazia negli Stati Uniti d’America.
Come è
noto, è in corso un’indagine della Camera dei rappresentanti (ove, fino alle
elezioni legislative di novembre, i Democratici detengono la maggioranza) su
quanto avvenuto in occasione dell’insediamento della presidenza, il 6 gennaio
2021.
Da
filmati e testimonianze raccolte – non esclusa quella del ministro della
Giustizia dell’amministrazione – l’assalto violento dei dimostranti, guidati da
gruppi parafascisti, alla sede del Congresso non è stato soltanto ispirato, in
parte aizzato, dal presidente uscente, ma ha avuto lo scopo di annullare e
sovvertire l’esito elettorale che, secondo la procedura costituzionale, era in
corso di definizione in quella sede.
L’inchiesta
in atto, forse destinata a sfociare nell’incriminazione di Donald Trump,
potrebbe essere interpretata come un segno di buona salute democratica, se non
fosse accompagnata da una molteplicità di elementi di fatto che ne rendono
problematica la conclusione.
In primo luogo la maggioranza dell’elettorato
che ha dato il proprio voto a Trump – che, secondo i risultati ufficiali, ha
conseguito il 46,8% dei voti contro il 51,7% che ha assicurato la vittoria di
Biden – continua a essere convinta che l’esito sia stato contraffatto a favore
del presidente in carica.
In ciò incoraggiati da “Fox News”, la più
seguita emittente televisiva del Paese, oltre che, sin dall’inizio – occorre
non sottacerlo –, da regole e meccanismi elettorali così assurdamente
variegati, Stato per Stato, addirittura contea per contea, da offrire un’aura
di plausibilità anche a contestazioni palesemente strumentali.
Colpisce altrettanto la scarsa attenzione che l’altra
parte del Paese, quella democratica, sembra dedicare alla controversia in
corso.
Un’opinione
pubblica trasversale è oggi maggiormente concentrata su temi quali l’inflazione, la sicurezza pubblica,
l’immigrazione per gli effetti reali e percepiti sulle condizioni di vita di ciascun
cittadino.
I sondaggi di gradimento del presidente in carica,
intorno al 30%, stanno a indicare il pericolo di una rielezione di un
presidente ostile, quantomeno indifferente, ai valori costituzionali del suo
Paese.
È
sempre più evidente, nella politica estera di Washington, la contraddizione tra
i valori professati e il modo in cui vengono esportati manu militari in altri
Paesi con effetti negativi, mentre permangono le ferite all’habeas corpus
causate dalle amministrazioni precedenti di cui la permanenza del campo di
concentramento costituisce monumento
eloquente.
È
comunque da registrare in senso positivo lo sviluppo di un’area progressista,
all’interno del Partito democratico.
Se la
tensione contrapposta di schieramenti avversi a oggi tende a determinare una
crescita della partecipazione al voto negli Stati Uniti, in Europa il
principale sintomo di crisi della democrazia è, invece, costituito da un ormai
perdurante calo delle percentuali di votanti.
Le recentissime prove elettorali in Francia e
in Italia ne costituiscono una drammatica manifestazione intimamente legata al
discredito della classe politica, alimentata da un’attenzione mediatica che
viene risparmiata ai dirigenti della finanza e dell’economia.
Mentre
negli Stati Uniti è presente una dialettica politica fin troppo aspra su temi
percepiti come rilevanti nella vita dei cittadini – non di rado tali da evocare
differenze e contrapposizioni di ordine economico e sociale – in Europa tali
problematiche sembrano espulse dalle agende dei partiti, dal tramonto del
firmamento partitico britannico e con la sola eccezione dell’ascesa di Macron nel corso
delle elezioni presidenziali francesi.
Ne
consegue un indebolimento dei contropoteri parlamentare e giudiziario rispetto
a un potere esecutivo comunque subalterno a quello finanziario che concentra
nelle mani degli “happy few” una ricchezza crescente a spese di una maggioranza
di cittadini, a sua volta crescente, ma sempre meno rappresentata nelle
istituzioni.
Infine,
la perdurante guerra, scatenata dalla guerra civile nel Paese, alimentata dal
rilancio armato di un’Alleanza atlantica altrimenti obsoleta dopo la caduta, tende a una restaurazione che la
definisce una terza guerra mondiale – che, per sua natura, assimila le
democrazie alle dittature avversarie (Russa, Bielorussia) o potenzialmente tali
(Cina).
Ne
risulta un indebolimento di un percorso multipolare, ancora non governato, ma
compatibile con un rafforzamento della legalità e dell’organizzazione
internazionale, della libertà degli scambi e della salvaguardia dei sistemi
democratici vigenti.
Esso richiederebbe, inoltre, la convivenza
pacifica con una dittatura in ascesa (la Cina) e una dittatura in declino (la
Russia).
Resterebbero
da realizzare problematiche tappe intermedie quali l’incremento del processo
d’integrazione europea, l’affrancamento iniziato dell’America Latina
dall’egemonia statunitense, un ruolo sempre più attivo nell’immediato per far
fronte alla carestia non soltanto in agguato.
Con
un’incombente crisi economica di cui s’ignorano l’entità, le articolazioni e le
conseguenze politiche.
Spes ultima dea.
(Immagine:
Vasilij V. Kandinskij, Improvvisazione n. 30 (Cannoni), 1913. Crediti: Art
Institute Chicago)
Le
democrazie sono
in
pericolo?
Italiaoggi.it
- Gianni Pardo – (26-08 – 2022) – ci dice:
Sono
tanto criticate perché esse sono il solo sistema politico che permette le
critiche.
Sembrano
in affanno ma sono più forti delle autocrazie.
Prevedere il futuro è impossibile, ma è anche
impossibile resistere alla voglia di prevederlo.
O almeno di ipotizzarlo.
Così uno si chiede: «Che ne sarà
dell'Occidente»? E la domanda non è assurda. Nella storia si sono già
inabissati parecchi grandi imperi e aree culturali come la koinè greca.
Del
resto, per chi è carico di anni si tratta di qualcosa che ha quasi vissuto.
Intorno
agli Anni Settanta del secolo scorso molti si sono sentiti vicini al tracollo
dell'Occidente:
da un
lato la potenza militare sovietica appariva straripante e irresistibile,
dall'altro molti intellettuali davano per morta la civiltà occidentale.
Il trionfo del marxismo era considerato
talmente inevitabile, nel mondo, che alcuni personaggi di alto livello
proponevano di arrendersi prima di combattere. Per evitare inutili sofferenze.
Sappiamo
come finì.
Ma questo non vuol dire che, se ci sarà una
nuova occasione, finirà come l'altra volta.
La
prima ragione per essere pessimisti sulle sorti del sistema democratico
occidentale è che la gente non capisce la famosa frase di “Winston Churchill”
secondo cui:
«Il
sistema democratico è il peggiore (the worst), se non consideriamo tutti gli
altri».
Infatti
molti si fermano alla prima metà dell'affermazione e prendono la seconda per
una battuta.
Infatti appena possono, mettono l'accento
sugli infiniti difetti della democrazia. Sulle sue magagne, sulla demagogia di
cui è spesso vittima, sull'innegabile pochezza dei politici, sulla difficoltà
di assumere decisioni coraggiose, sull'inefficienza dello Stato persino in
materia di ordine pubblico.
Con un'instancabile voglia di criticare.
Fin
quasi ad affermare seriamente che la democrazia è il peggiore di tutti i
regimi.
Churchill
fu un battutista formidabile, ma stavolta l'humour lo usava per esprimere un
concetto vero e profondo.
Avendo
conosciuto a fondo la politica, e avendo anche governato in tempi difficili,
sapeva per esperienza quanto cattiva (pessima, «worst») fosse la democrazia:
ma
appunto, da persona piena di esperienza, sapeva anche che effettivamente gli
altri regimi sono peggiori.
Hanno più difetti delle democrazie e per
giunta non permettono di porre un termine nemmeno alle peggiori tirannie.
Ammettendo
che la democrazia sia cattiva come il cancro alla prostata o al pancreas, la
tirannia è talmente peggiore che chi ha questo secondo tipo di malattia
pagherebbe per avere soltanto il cancro alla prostata.
Come mai dunque la democrazia è tanto
criticata?
La prima ragione è che essa è la sola che
permette le critiche.
Ma ci
sono anche ragioni più profonde.
Le
formiche e le api hanno un tipo di vita in comune molto più perfetto del
nostro, e ciò perché sono autentici animali sociali.
L'uomo invece lo è fino ad un certo punto.
Al
contrario di quanto avviene nella società delle api in lui l'egoismo prevale
sull'altruismo.
Dunque
quell'uomo che, a parole, si sente l'unico animale «morale» e fornito di
un'anima immortale in realtà è altruista nella misura in cui ciò non gli costa
molto e vede che anzi gli è utile.
Poi,
non appena si apre uno spiraglio all'egoismo impunito, solo pochi resistono.
Addirittura, quando le cose si mettono veramente male, l'altruismo sparisce del
tutto e l'individuo è disposto a fare una strage pur di salvare sé stesso.
Noi
siamo animali sociali «fino a un certo punto».
Così come siamo carnivori ma fino a un certo
punto, vegetariani ma fino a un certo punto, e soprattutto razionali fino a un
certo punto.
E così
spesso mettiamo sul conto della democrazia colpe che sono invece della specie
umana.
Un'altra
delle differenze fra democrazia e tirannide, come detto, è l'informazione. Dove
c'è la libertà apprendiamo tutto ciò che non va, a volte perfino esagerato
dalla stampa scandalistica, e crediamo di vivere nel peggiore dei mondi
possibili;
mentre
dove non c'è libertà di aprire bocca, o di scrivere ciò che si vuole sui
giornali, gli ingenui credono che ciò che essi non vedono o non sanno non
esiste.
Nelle autocrazie
le magagne, le prevaricazioni, la corruzione, la concussione e tutto il
marciume della società sono ancora maggiori che in democrazia.
E ciò proprio perché non c'è nemmeno il freno
della pubblica denuncia e della conseguente indignazione popolare.
I russi si tengono Putin, venerandolo,
malgrado i crimini contro l'umanità commessi in Ucraina, mentre gli americani
hanno destituito un eccellente presidente, Nixon, nientemeno perché per
salvarsi di un'accusa ha pubblicamente mentito.
Ecco la differenza fra dittatura e democrazia.
È
vero, mancando i freni della pubblica opinione e dei partiti di opposizione, le
dittature sono molto più forti.
Possono meglio prepararsi alla guerra a costo di
affamare il popolo.
Si pensi alla Russia che, con un pil inferiore
a quello italiano, cerca con le minacce di spacciarsi per una superpotenza.
Le
autocrazie si preparano alla guerra e la dichiarano senza aspettare il consenso
del popolo.
Ma chi dice che poi quella guerra la vincano?
Hitler
ha forse trionfato?
È
stato forse un benefattore della Germania?
E come dimenticare che la potenza militare
dell'Unione Sovietica era pagata da una vita talmente miserabile del popolo che
alla fine il regime stesso è imploso?
La democrazia è disprezzata da chi non ha mai
assaggiato, nemmeno culturalmente, un altro tipo di regime.
Perché
non ha mai letto “Kravcenko”, “Koestler”, “Orwell”, “Kundera”.
Ecco perché Churchill ha potuto scrivere
quella frase: perché oltre che un politico era anche uno scrittore, uno storico
e soprattutto un uomo dotato di un formidabile senso del reale.
(giannipardo1-gmail.com).
LA
DEMOCRAZIA IN PERICOLO.
Hbritalia.it
– Redazione di Harvard Business Review Italia – (10-giugno 2020)
REBECCA HENDERSON, LAURA AMICO e altri – ci dicono:
LA
DEMOCRAZIA È IN DIFFICOLTÀ.
I dati
di un recente sondaggio dipingono un quadro che dà da pensare:
Il 55%
degli americani sostiene che la loro democrazia è "debole" e il 68%
teme che stia diventando sempre più debole.
Circa
la metà è d'accordo sul fatto che l'America è in "reale pericolo di
diventare un Paese non democratico e autoritario".
Inoltre, molti credono che il sistema sia
truccato:
circa
il 70% degli americani afferma che "il nostro sistema politico sembra
funzionare solo per chi ci sta dentro con denaro e potere".
Questo
non è solo un fenomeno americano:
l'insoddisfazione per la democrazia è
aumentata in tutto il mondo e solo il 45% delle persone dichiara di essere
"soddisfatte del modo in cui la democrazia funziona nel loro Paese".
Queste
preoccupazioni sono particolarmente forti tra i giovani.
Quasi
due terzi degli americani tra i 18 e i 29 anni hanno "più paura che
speranza sul futuro della democrazia in America".
Negli Stati Uniti e nel Regno Unito, solo il
30% circa degli elettori più giovani ritiene che sia "essenziale"
vivere in una democrazia, rispetto a più di tre quarti degli elettori nati
prima della seconda guerra mondiale.
Questi
atteggiamenti sono in linea con quanto è successo in tutto il mondo nell'ultimo
decennio.
Leader
populisti e autoritari hanno preso il controllo di molti Paesi, tra cui le
Filippine, l'Ungheria, la Turchia, la Polonia e il Venezuela - e persino gli
Stati Uniti, il Regno Unito e l'India.
Il
Democracy Index, che valuta lo stato della democrazia in 167 Paesi sulla base
dei processi elettorali, del funzionamento del Governo, della partecipazione
politica, della cultura politica democratica e delle libertà civili, dà
attualmente al mondo un punteggio globale di 5,4 su 10, il più basso da quando
il sondaggio è iniziato nel 2006.
Non
sono la prima a segnalare queste tendenze, né sono la prima a cercare di capire
come siamo arrivati a questo punto e come potremmo sopravvivere a questo
momento incerto della storia.
Ma
sono una dei pochi a chiedersi cosa c'è in gioco per il business e se le
imprese dovrebbero fare qualcosa per invertire queste tendenze.
A
parità di condizioni, è improbabile che le aziende si precipitino in soccorso
della democrazia.
Il
mondo del business, dopo tutto, è in pieno boom (questo articolo è stato
scritto prima dello scoppio della crisi del Coronavirus e del crollo del Pil in
molti Paesi, NdR).
Secondo molteplici indicatori, il mondo non è
mai stato così prospero.
Il PIL
mondiale - in base all'inflazione - è aumentato di sei volte negli ultimi 60
anni e il PIL pro capite è quasi triplicato.
Inoltre,
imprenditori e manager tendono a non preoccuparsi troppo di quanto fa il
Governo, associandolo a normative onerose, tasse, inerzia burocratica e
incompetenza.
Invece
di lavorare per costruire Governi, gli interessi delle imprese hanno condotto
campagne contro di essi per decenni, spesso minando le istituzioni che
sostengono la democrazia.
Negli Stati Uniti, gli imprenditori
combatterono ferocemente contro il New Deal e contro programmi come la
previdenza sociale e l'assistenza sanitaria.
Le
grandi aziende hanno boicottato i sindacati, si sono scontrate con la stampa
libera e hanno
inondato il sistema politico di denaro nel tentativo di controllare la
politica.
Ma il
risultato non è stato il trionfo del libero mercato, come speravano i leader
delle imprese.
Al contrario, ci è stato lasciato consegnato
un sistema che favorisce i ricchi e i benestanti a spese della popolazione in
generale.
Le disuguaglianze sono salite alle stelle e il
degrado ambientale ha accelerato a un ritmo senza precedenti.
Senza
Governi democraticamente responsabili che garantiscano che i mercati rimangano
liberi ed equi;
che le
"esternalità" come l'inquinamento siano adeguatamente controllate;
e che le opportunità siano disponibili a
tutti, le società rischiano di cadere nel populismo.
Nei
Paesi di tutto il mondo, i populisti di sinistra sperimentano forme di
controllo dello Stato, e i governi populisti di destra stanno degenerando in un
capitalismo di comodo (o peggio).
Nessuno
dei due è un bene per il business ed entrambi avranno tremendi effetti sulla
nostra società e sul pianeta.
Se il
Governo è il contrappeso del libero mercato, la democrazia è la forza che
assicura che i Governi non si trasformino in tirannia, prendendo il controllo
dei mercati nel processo.
Credo
che rafforzare la democrazia sia l'unico modo per garantire la sopravvivenza
diffusa del capitalismo di libero mercato, e con essa la prosperità e le
opportunità che hanno cambiato la vita di miliardi di persone.
È
anche l'unico modo per affrontare le più grandi minacce del mondo, dal
riscaldamento globale alle disuguaglianze.
Le
imprese hanno le risorse, il potere politico, gli incentivi e la responsabilità
di realizzare progressi significativi in questo sforzo.
In
effetti, godono di un ampio sostegno.
Le
indagini ci dicono che oggi la gente si fida più del proprio datore di lavoro
che del Governo o dei media, e un recente sondaggio globale ha rilevato che il
71% degli intervistati ritiene che "è di fondamentale importanza che il
mio “CEO” dia risposte adeguate a questi tempi difficili".
La
business community ha svolto un ruolo importante nel rafforzamento della
democrazia e nella ricostruzione della società in molti Paesi, come Cile,
Sudafrica e Germania.
Può
accadere di nuovo, ma solo se i leader delle imprese dimostreranno di capire
fino a che punto i liberi mercati dipendono dai governi democratici - e solo se
sono disposti a smettere di darsi da fare per distruggerli.
DI
COSA HA BISOGNO IL LIBERO MERCATO PER SOPRAVVIVERE.
Il
libero mercato è una delle grandi conquiste del genere umano. È stato un motore di innovazione,
opportunità e ricchezza in tutto il mondo.
Ma il
libero mercato ha bisogno di sistemi politici liberi per avere successo.
Per
vedere cosa succede ai mercati in loro assenza, considerate il caso della
Russia. Dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo dell'Unione Sovietica,
la Russia si è mossa in modo aggressivo per avviare un mercato senza vincoli.
Ma
nessuno si è preso la briga (o ha avuto l’impulso) di costruire le istituzioni
democratiche essenziali per un libero mercato.
Il
governo russo ha venduto le partecipazioni statali - la stragrande maggioranza
dell'economia - a un piccolo gruppo di oligarchi, creando una forma
particolarmente maligna di capitalismo clientelare, che esiste ancora oggi.
Il
governo democratico protegge e rafforza il libero mercato fornendo (almeno!) quattro dei pilastri essenziali di un capitalismo veramente libero ed
equo.
Un
sistema giudiziario imparziale.
I
liberi mercati richiedono diritti di proprietà e contratti che proteggono
tutto, dalla terra e dalle patate alle idee e alle informazioni.
Essi
si basano anche sulla consapevolezza che i partecipanti al mercato manterranno
i loro impegni - e che se non lo faranno, ci saranno conseguenze.
Entrambe
le cose dipendono dallo Stato di diritto.
Senza di esso, la corruzione fiorisce:
i diritti di proprietà cambiano di mano per
capriccio dei potenti;
i
contratti non valgono la carta su cui sono stampati.
Nessun
sistema giuridico è mai completamente imparziale o efficace, naturalmente, ma i
Paesi in cui il Governo è democraticamente responsabile tendono ad avere
sistemi giudiziari molto più forti e meno corrotti.
Prezzi
che riflettono i costi reali.
I
prezzi permettono a migliaia di compratori e di venditori di lavorare insieme
senza bisogno di un coordinamento formale - un miracolo quotidiano che crea
prosperità globale.
“Milton
Friedman” ha parlato in modo eloquente di come il meccanismo dei prezzi
funzioni per facilitare le centinaia di transazioni - tra "persone che non
parlano la stessa lingua, che praticano religioni diverse, che potrebbero
odiarsi se mai si incontrassero" - necessarie per fare qualcosa di
semplice come una matita.
Ma i
prezzi fanno la loro magia solo quando riflettono l’incrocio tra i costi reali
e la reale volontà di pagare.
Negli
Stati Uniti, per esempio, l'elettricità prodotta da combustibili fossili è
troppo economica.
L'elettricità
prodotta da centrali a carbone costa circa cinque centesimi per chilowattora
(¢/kWh).
Ma un
prezzo accurato - un prezzo che rifletta il costo della combustione del carbone
- terrebbe conto di come questo aggravi l'inquinamento atmosferico e
contribuisca al riscaldamento globale.
I costi sanitari associati alla produzione di un
chilowattora di elettricità a carbone, per esempio, sono stati stimati a 4¢/kWh. Se a ciò si aggiungono altri 4
centesimi di danni legati al clima, il costo reale della combustione del
carbone è molto più vicino a 13¢/kWh.
Finché
i prezzi rimangono artificialmente bassi, tuttavia, le aziende hanno pochi
incentivi a smettere di generare enormi quantità di inquinamento da particolato
e gas serra.
Se i
mercati devono essere efficienti, hanno bisogno che i Governi garantiscano che
le esternalità abbiano un prezzo adeguato - in questo caso, per esempio,
tassando le emissioni di carbonio e l'inquinamento.
Una
vera concorrenza.
I mercati sono liberi ed equi solo quando è
facile entrarvi e uscirne, e quando si impedisce ai partecipanti di colludere.
In questo caso la concorrenza prospera,
sollecitando le imprese ad adottare le tecniche più recenti e a migliorare
efficienza e produttività.
Le forza a innovare, alimentando il ciclo di
"distruzione creativa" che l'economista politico “Joseph Schumpeter”
ha celebrato e che noi apprezziamo ogni volta che beneficiamo di un nuovo
farmaco o dell'ultima applicazione per smartphone. Senza regole per salvaguardare la
concorrenza, l'innovazione si blocca, l'efficienza crolla e i prezzi aumentano
costantemente.
È
stato il governo americano a spezzare AT&T e IBM, innescando un'esplosione
della concorrenza e determinando un notevole calo dei prezzi.
Sarà
quasi certamente il Governo a garantire che ci sia una vera concorrenza per
aziende come Amazon, Google e Facebook.
Opportunità
per tutti.
Infine, ma non meno importante, i mercati sono
veramente liberi solo quando tutti possono parteciparvi.
Quando
l'economia è controllata dallo Stato o dall'élite politica, è vero il
contrario: l'accesso ai posti di lavoro e alle opportunità economiche è
strettamente controllato.
I
parenti dei ricchi e dei potenti possono avviare imprese, ma per voi non è
possibile.
Trovare un lavoro è una questione di relazioni
e di accesso - di andare col cappello in mano da chi controlla le leve del
potere.
In un
mercato libero, chiunque può partecipare.
Gli
imprenditori immigrati possono creare le proprie imprese e prosperare.
Le
donne possono diventare CEO, medici e icone dello sport.
I Governi sono vitali nel sostenere la libertà
di opportunità, fungendo da controllo del potere delle élite e fornendo i beni
pubblici, come l'istruzione e l'assistenza sanitaria, che gettano le basi per
il successo di tutti i cittadini, indipendentemente dal reddito dei loro
genitori, dalla loro razza o dal loro sesso.
Alcuni
credono che il mercato possa sorvegliare sé stesso e fornire beni pubblici
essenziali - e a volte lo può fare.
Ad
esempio, la “Camera di Commercio Internazionale”, che facilita gli scambi
internazionali fissando regole, arbitrando le controversie e impegnandosi nella
difesa delle politiche commerciali, è un organismo interamente volontario e
autoregolamentato.
Ma la mia ricerca e quella di molti altri
suggeriscono che tali esempi sono relativamente rari.
In
pratica, il potere di mercato è bilanciato in modo più affidabile dal potere
pubblico - e i Governi sono tenuti sotto controllo in modo più efficace nel
contesto di una fiorente democrazia.
COME
SONO LE SOCIETÀ LIBERE.
Ogni
singola entità - che si tratti di imprese, di Governi o di sindacati - può
diventare troppo potente in assenza di un contropotere.
In tal caso, il risultato è spesso un sistema
escludente, in cui le istituzioni concentrano il potere politico ed economico
nelle mani di una potente élite che gestisce lo Stato (e il mercato) a proprio
vantaggio.
Tali
società sono caratterizzate da reti di rapporti clientelari, da diritti di
proprietà deboli e da monopoli diffusi.
Cina,
Angola, Corea del Nord e Turkmenistan sono esempi di nazioni con istituzioni
escludenti.
Ma
quando le principali istituzioni di un Paese - sia economiche che politiche -
sono inclusive e in equilibrio tra loro, la società fiorisce.
Le
istituzioni economiche inclusive sostengono l'efficace funzionamento di un
libero mercato, mentre le istituzioni politiche inclusive consentono a tutti di
partecipare al processo politico e di monitorare e controllare il Governo.
Gli Stati Uniti, la Germania, il Cile, la
Corea del Sud e il Giappone sono tutti esempi classici di società con
istituzioni inclusive.
Naturalmente,
le cose non sono sempre in bianco e nero.
Un Paese può essere economicamente inclusivo
ma politicamente escludente e viceversa.
Singapore,
ad esempio, vanta un mercato vivace e aperto, ma le elezioni politiche non sono
né libere né eque e la libertà di parola è limitata.
Potreste
pensare:
"I governi escludenti sono sempre una cosa
negativa?
Guardate
la Cina: la sua economia ha goduto di una crescita notevole - il suo Governo
sembra ottimo per gli affari.
Ed è
vero che la crescita economica più rapida del mondo è stata in nazioni con
istituzioni escludenti.
In Nigeria, per esempio, un governo di questo
tipo, che si è occupato degli interessi petroliferi e ha ricevuto massicce
tangenti dalle operazioni di trivellazione, ha visto il suo PIL crescere in
media del 7,6% all'anno dal 2006 al 2015.
Nello stesso periodo il Turkmenistan, che
reprime fortemente le libertà religiose e politiche, è cresciuto dell'11%.
Ma
numeri impressionanti come questi sono spesso dovuti al fatto che, nelle
economie deboli, le piccole riforme possono fare una grande differenza.
Non
c'è da stupirsi che, quando i Paesi storicamente chiusi al commercio globale
liberalizzano segmenti mirati delle loro economie, spesso ne risulta una
crescita formidabile.
Ma i
tassi di crescita sono molto più stabili sotto regimi inclusivi, poiché le
istituzioni inclusive sembrano essere molto più propense a incoraggiare il tipo
di distruzione creativa che porta a una crescita sostenuta.
Al
contrario, le istituzioni escludenti spesso non sono in grado di generare
un'innovazione sostanziale perché i potenziali nuovi entranti sono di norma
ostacolati nei loro sforzi per creare valore.
E
quando le innovazioni emergono, spesso vengono espropriate o spazzate via da
entità consolidate.
Gli
effetti soffocanti dei governi escludenti non possono essere sottovalutati.
Alcuni
anni fa ho incontrato un giovane di una delle nazioni dell'Europa dell'Est che
ha recentemente abbracciato una forma particolarmente virulenta di “populismo
nazionalista”.
All'epoca, stava per fondare una società di software
ed era orgoglioso del fatto che stesse mettendo a frutto la sua educazione
statunitense per creare posti di lavoro nel suo Paese natale.
La sua azienda ha prosperato, ma quando ci
siamo incontrati di recente, mi ha detto che stava deliberatamente frenando la
sua crescita.
"Non
devo diventare troppo grande", ha detto.
"Se
lo faccio, i politici mi toglieranno l'azienda".
A
istituzioni fortemente inclusive si associano non solo migliori risultati
economici, ma anche minori disuguaglianze di reddito, maggiore mobilità
socioeconomica, maggiori libertà sociali e maggiori aumenti del benessere
sociale.
Gli Stati Uniti, un esempio paradigmatico
dell’economia liberale di mercato, è un classico caso rappresentativo di questa
dinamica - almeno fino a poco tempo fa.
(Come osserva la storica “Jill Lepore
"nel 2016, il “Democracy Index” della per la prima volta ha valutato gli
Stati Uniti come una democrazia imperfetta, e da allora è diventata solo più
imperfetta").
Non è
sempre facile navigare con Governi inclusivi, naturalmente.
Come
ogni imprenditore vi dirà, anche i Governi più inclusivi e meglio regolamentati
possono essere estremamente difficili da gestire.
Ma
questa è la natura della bestia.
Il
dare e avere del processo politico in combinazione con l'attenzione al bene
pubblico piuttosto che al profitto privato fa sì che i Governi sembrino spesso
meno "efficienti" del mondo dell’economia.
Ma
mentre l'efficienza è qualcosa che spesso ossessiona i leader aziendali, non è
la misura giusta per valutare le prestazioni di un Governo.
Ciò
che conta di più è che il Governo sia pulito, reattivo, trasparente e
democratico.
Il
business è una macchina super efficiente per il profitto, ma senza i guardrail
che un Governo democratico può fornire, alla fine mette a repentaglio il
proprio successo.
Ed è
esattamente quello che sta succedendo oggi.
DOVE
VA IL MONDO SE NON CAMBIA NULLA.
Mio
marito, “James Morone”, uno storico che ha passato l'ultimo anno a scrivere
sulla crescente polarizzazione politica in America, è venuto nel mio ufficio un
giorno dell'autunno scorso.
"Sai - ha detto - sono colpito da
quanto la corsa alla guerra civile sia simile al nostro momento attuale:
la
stessa convinzione che l'altra parte voglia distruggere la repubblica;
la
stessa volontà di fare qualsiasi cosa per far sì che la propria parte vinca. È
inquietante".
Potrebbe
aver scoperto qualcosa.
Uno
dei primi segnali che indicano che una nazione sta diventando meno democratica
è che diventa più polarizzata.
Lo vediamo accadere negli Stati Uniti.
A
causa in gran parte della manipolazione dei collegi elettorali, più del 90% dei
rappresentanti degli Stati Uniti vengono rieletti.
L'unica
vera minaccia che devono affrontare è quella che viene dall'interno del loro
stesso partito, una dinamica che li spinge ad assumere posizioni sempre più
estreme.
Pochi
legislatori sono incentivati a scendere a compromessi.
La
crescente polarizzazione sta portando a una situazione di stallo.
Aggiungete
la diffusa tendenza all’astensione degli elettori e i meccanismi problematici
come le circoscrizioni elettorali, e non c'è da stupirsi che la gente stia
diventando cinica nei confronti della democrazia.
Se la
società non riesce ad affrontare questi problemi, le disuguaglianze non faranno
che peggiorare, a maggior ragione in un momento in cui gli effetti accelerati
del cambiamento climatico rendono sempre più difficile costruire un'economia
più sostenibile.
Penso
che sia improbabile che orde rivoluzionarie vadano a stanare i ricchi, e non
credo che gli Stati Uniti siano indirizzati verso un'altra guerra civile.
Ma
temo che gli Stati Uniti e il mondo diventeranno sempre più polarizzati, sempre
più ingiusti e sempre più scomodi.
In questo ambiente instabile, i Paesi hanno
più probabilità di cadere preda del populismo.
E come
ho detto, il populismo spesso non è amico del libero mercato.
Conosco
pochi uomini d'affari appassionati della piattaforma del partito laburista
britannico, per esempio, e il populismo di sinistra ha causato enormi danni
economici (per non parlare di quelli sociali) in Sud America e in Africa.
Il populismo di destra ha una storia altrettanto
travagliata, se non di più.
I
populisti di destra sono regolarmente diventati dittatori autoritari. Peron ha sconvolto l'economia
argentina, e Hitler e Stalin - entrambi populisti classici della destra - hanno
distrutto completamente le loro società.
COME
PUÒ IL MONDO DEGLI AFFARI AIUTARE A RICOSTRUIRE LA DEMOCRAZIA?
Le
sfide di oggi fanno tremare i polsi e sono enormemente complesse.
Mentre ci sono passi proattivi che i singoli leader
delle imprese possono fare da soli - parlare dell'importanza del buon governo,
dare ai dipendenti il giorno libero per votare, essere trasparenti in merito
alle loro spese politiche - le cose difficilmente miglioreranno fino a quando
l'impresa nel suo complesso non riconoscerà di avere un ruolo centrale nella
continua erosione della democrazia.
E che
spetta alle imprese e al Governo lavorare insieme per salvarla.
Guardiamo
ora alle mosse che il business potrebbe prendere per guidare un cambiamento
positivo:
Smettere
di erodere le istituzioni democratiche.
Una delle ragioni per cui la democrazia globale è in
declino è che le imprese hanno speso enormi somme di denaro per sovvertirla.
Esempi
non ne mancano.
Guardiamone un paio che riguardano gli Stati
Uniti.
Nel
1971, il futuro giudice della Corte Suprema “Lewis Powell” affermò in un
articolo di ampia diffusione, noto come "il memo Powell", che il
sistema economico americano era sotto attacco - da parte del Governo.
All'epoca
l'accusa sembrava in qualche modo plausibile.
Il Governo era popolare e forte, e la
generazione più giovane stava mettendo in forte discussione i meriti del
capitalismo.
Il
promemoria Powell chiedeva una mobilitazione nella lotta politica:
"Il
mondo degli affari deve imparare la lezione... che il potere politico è
necessario; che tale potere deve essere coltivato con assiduità; e che, quando
necessario, deve essere usato in modo aggressivo e con determinazione - senza
imbarazzo e senza la riluttanza che è stata così caratteristica del business
americano".
Molti
leader d’impresa hanno raccolto questa sfida con determinazione.
Forse
i più fortunati sono stati “Charles e David Koch”, unici proprietari delle”
Koch Industries” e - fino alla scomparsa di David Koch - due degli uomini più
ricchi d'America.
Erano i leader de facto di un continuo sforzo
per ridurre le dimensioni e il potere del governo degli Stati Uniti (oggi,
Charles porta la fiaccola da solo).
La
rete da loro fondata, ora finanziata da più di 200 ricchi donatori, è impegnata
a ottenere tagli alle tasse, a bloccare o eliminare la regolamentazione sulle
imprese, a ridurre i finanziamenti per l'istruzione pubblica e le iniziative di
assistenza sociale, a indebolire i sindacati pubblici e privati, a ostacolare
una facile registrazione degli elettori e a ridurre i giorni e le ore di voto.
La
democrazia è stata ulteriormente indebolita dall'influenza sempre più corrosiva
del denaro in politica. A seguito di una decisione della “Corte Suprema degli Stati
Uniti del 2010”, la spesa esterna per le elezioni presidenziali è passata da
338 milioni di dollari nel 2008 a 1,4 miliardi di dollari nel 2016.
Questa
cifra non tiene conto delle donazioni motivate politicamente provenienti dalle
fondazioni di beneficenza esenti da tasse delle aziende statunitensi, che un
recente studio ha stimato in 1,6 miliardi di dollari nel 2014.
La
spesa per le attività di lobbying è più che raddoppiata dal 2000 al 2010 (da
1,6 miliardi di dollari a 3,5 miliardi di dollari) e da allora si è
stabilizzata a circa 3,3 miliardi di dollari all'anno.
Sebbene
gran parte della crescita della spesa politica provenga probabilmente da
individui molto ricchi piuttosto che da imprese, il fatto che ora in politica
ci sia molto più denaro di origine aziendale è fuori di dubbio.
Gran
parte di questo è "denaro nero";
non
sappiamo chi ci sia dietro.
Ed è
una spesa corrosiva perché crea la percezione - e plausibilmente la realtà -
che il sistema sia truccato a favore dei ricchi e che i voti individuali dei
cittadini non contino.
Nel
2014, ad esempio, gli scienziati politici “Martin Gilens” e “Benjamin Page”
hanno pubblicato uno studio che esamina il rapporto tra il sostegno popolare a
una determinata politica e le probabilità che essa diventi legge.
Hanno
scoperto che negli Stati Uniti non c'è quasi nessuna correlazione tra le
opinioni del "cittadino medio" e i cambiamenti di politica.
Le
proposte sostenute dal 90% della popolazione generale non hanno avuto più
probabilità di passare di quelle sostenute dal 10%.
Ma se
i ricchi sostenevano una politica, questa veniva approvata.
I sondaggi condotti prima del taglio delle
tasse del 2017, per esempio, suggerivano che non era condivisa dalla maggior
parte degli elettori e anche ora, oltre due anni dopo, solo il 40% circa degli
americani approva la legge.
Non
c'è da stupirsi: la maggior parte delle stime suggerisce che almeno l'80% dei
benefici del taglio sono andati al 10% più ricco.
Negli
Stati Uniti e in molti altri Paesi oggi, i pilastri che hanno mantenuto il
mercato libero ed equo si stanno erodendo e opachi gruppi di interesse e
monopoli aziendali (si consideri una qualsiasi delle maggiori aziende
tecnologiche) stanno guadagnando potere politico.
L'inclusione sta lasciando il posto
all'esclusione.
Queste
tendenze rafforzano la narrazione che descrive i "ricchi" che si
comportano come banditi e che, al contempo, distruggono il mondo per le
generazioni future.
Sempre
meno persone credono che i loro figli staranno meglio di loro. Contribuendo a indebolire i guardrail
di un governo inclusivo, il mondo del business può aver rafforzato la propria
posizione finanziaria a breve termine, ma ha seminato il seme della sua stessa distruzione.
Tutto
questo deve finire.
Il
business deve rinunciare al suo potere politico e operare forti pressioni
contro l’afflusso di denaro in politica.
Deve
agire per rafforzare quelle stesse istituzioni che possono opporsi agli
interessi delle imprese.
Il business può essere un valido contributo al
dibattito politico, ma solo quando i consumatori, gli esperti, i sindacati e le
organizzazioni di base svolgono tutti un ruolo forte.
Altrimenti,
l'impegno delle aziende in politica è pericolosamente destabilizzante. Le
imprese devono diventare un partner nella costruzione della società, non un
dominatore.
La
distinzione chiave che le imprese devono fare è tra civismo e politica.
Piuttosto che assumere una posizione di parte
(o spendere soldi) su politiche specifiche, le aziende dovrebbero invece
concentrarsi sul processo di elaborazione politica, sostenendo attivamente una
democrazia sana e funzionante, in modo che tutti gli stakeholder e le comunità
possano impegnarsi in un dibattito attivo su quali debbano essere tali
politiche.
Formare
coalizioni con il Governo.
La ricostruzione della democrazia richiederà
quasi certamente modifiche legali o costituzionali per garantire che ogni
cittadino possa partecipare e influenzare il processo politico e che le
attività di lobbying e la spesa politica siano dichiarate e divulgate
apertamente (o eliminate del tutto).
Richiederà anche di ristabilire la fiducia nei
media e di coltivare una sorta di voce organizzata per i dipendenti.
Nessuna
azienda da sola può mettere in moto questo tipo di cambiamenti.
Ma la
storia suggerisce che quando gruppi di aziende o leader aziendali agiscono
insieme in collaborazione con la società civile e il Governo per appoggiare
cambiamenti strutturali, possono accadere grandi cose.
Prendiamo
il caso della Danimarca.
Nella
seconda metà del XIX secolo, la Danimarca era una nazione sconvolta.
Nel
1864, il Paese fu sconfitto nella seconda guerra dello “Schleswig” dalla
Prussia e dall'Austria, perdendo territori che erano stati sotto il controllo
danese fin dal XII secolo.
Si
trattava di una lunga serie di sconfitte che avevano reso la Danimarca un Paese
piccolo e povero, che non poteva più aspirare a essere una grande potenza.
Negli
anni Novanta del XIX secolo, l'aspro conflitto tra il Partito di destra danese
(una nociva alleanza tra i grandi interessi agricoli e i principali industriali
danesi) e i socialdemocratici (il partito della classe operaia) minacciava di
paralizzare l'industria e di distruggere il Paese.
Ma nel
1896,” Niels Anderson”, membro del Parlamento e imprenditore ferroviario,
dotato di una grande capacità di costruire il consenso, prese l'iniziativa di
formare la “Confederazione dei datori di lavoro danesi, o DA”.
Vendette
l'idea ai suoi colleghi presentandola come mezzo per influenzare la politica
pubblica in assenza di una maggioranza legislativa e per raggiungere la pace
industriale unificando la voce del mondo degli affari.
Ebbe
un notevole successo nel raggiungere entrambi gli obiettivi.
Il “DA”
ha lavorato duramente per unire i sindacati danesi in un'unica federazione - la
“LO”, o “Confederazione danese dei sindacati “- e poi vi ha collaborato per
costruire un sistema nazionale di contrattazione collettiva e una stretta
collaborazione con il Governo.
Oggi
la Danimarca combina un mercato libero dinamicamente competitivo con una ampia
assistenza sanitaria nazionale, un'assistenza sanitaria ai bambini fortemente
sovvenzionata e investimenti significativi nella formazione dei lavoratori -
una combinazione che le ha dato uno dei più alti salari minimi medi del mondo,
con 16,35 dollari nel 2015, e uno dei più bassi livelli di disuguaglianza di
reddito tra i Paesi dell'OCSE.
Il processo decisionale in Danimarca è altamente
collaborativo e riunisce Governo, datori di lavoro e sindacati in un processo
comune che risale a più di cento anni fa.
L'approccio ha reso possibile un mix unico di regole
del lavoro flessibili (che favoriscono le imprese) e un forte stato sociale
(che favorisce i lavoratori).
Questo
è uno dei tanti esempi.
Quando
“Seewoosagur Ramgoolam” divenne il primo premier di una “libera Mauritius” nel
1967, dopo un'elezione aspramente combattuta, il Paese sembrava a rischio di
crollo.
Avrebbe potuto creare uno Stato monopartitico
o nazionalizzare le piantagioni di zucchero del Paese.
Ma
invece ha scelto di formare un Governo di unità nazionale esteso dal suo stesso
partito di marxisti dichiarati ai capitalisti baroni dello zucchero che
dominavano l'economia.
Il partito avversario decise di cooperare e
insieme le due parti stipularono un vero e proprio accordo di condivisione del
potere.
L'accordo
si è rivelato un successo sorprendente: le elezioni sono state libere ed eque e
hanno costantemente portato a alternanze di potere.
Oggi
Mauritius è al 13° posto nell'indice della” Banca Mondiale per la facilità di
fare affari” e come ottava "economia più libera del mondo".
Potrebbe
accadere di nuovo una tale cooperazione?
I leader d’impresa potrebbero coalizzarsi,
insieme al Governo, per sostenere le riforme democratiche?
E
possono trovare un modo per mantenere la pace e la prosperità che hanno reso
gli ultimi 50-100 anni un'età dell'oro per molti?
Un
segnale di speranza è che questa crisi sta iniziando a suscitare l'interesse
dei dirigenti d'impresa:
da un
sondaggio è emerso che quasi il 70% dei dirigenti è preoccupato per lo stato
della democrazia e più della metà ritiene che i leader delle imprese abbiano la
responsabilità di risolverla.
Vi
sono forti motivi che suggeriscono una decisa azione collettiva - e le imprese
agiscono già collettivamente tutto il tempo.
Le associazioni di categoria fanno pressione
per un cambiamento che andrà a beneficio dell'industria nel suo complesso.
La “U.S.
Chamber of Commerce” è proprio il tipo di "associazione di punta" che
ha fatto tanta differenza nel caso della Danimarca.
E ci
sono già molti esempi di imprese che agiscono collettivamente su scala ridotta.
In città come Minneapolis, Cleveland, Detroit e Chattanooga, ad esempio, le
associazioni imprenditoriali locali lavorano a stretto contatto con il governo
locale per sostenere gli investimenti nell'istruzione e nei trasporti e per
affrontare il riscaldamento globale.
Negli
Stati Uniti, in particolare, la democrazia è un processo locale, e le
associazioni imprenditoriali cittadine o statali sono ben posizionate per fare
una grande differenza nel caso in cui decidano di sostenere le riforme
politiche.
Per
esempio, le regole di voto sono quasi interamente nelle mani degli stati
americani.
Se la
comunità imprenditoriale di ogni stato si unisse a sostegno delle riforme
democratiche, le cose potrebbero cambiare molto rapidamente.
Succede
che molti respingano i miei esempi e le mie argomentazioni, o si chiedano se il
mondo degli affari deciderà prima o poi di attivarsi per salvare la democrazia.
"In
ogni ciascuno dei casi che menzioni" dicono, "il Paese era vicino al
disastro; le imprese non avevano altra scelta che agire". Esattamente.
Credo
che ci troviamo pericolosamente vicini - se non addirittura alle soglie - di un
grave disastro.
Il mondo del business sceglierà di agire?
Voi lo
farete?
(“Rebecca
Henderson” è Professoressa alla Harvard University e alla Harvard Business
School dove insegna general management e strategia. È autrice del libro di
prossima pubblicazione, “Reimaging Capitalism in a World on Fire”.)
DEMOCRAZIA
E CAPITALISMO HANNO DAVVERO BISOGNO L'UNA DELL'ALTRO?
“Studiosi
di tutto il mondo a confronto” di “Laura Amico”.
DEMOCRAZIA
E CAPITALISMO coesistono in molte varianti in tutto il mondo, ognuna delle
quali è continuamente ridisegnata dalle specifiche condizioni oggettive e dalle
persone che la compongono.
Sempre
più spesso la gente esprime profonda preoccupazione per il destino di entrambi.
In un
recente sondaggio globale, “Pew “ha rilevato che, tra gli intervistati di 27
Paesi, il 51% è insoddisfatto del funzionamento attuale della democrazia.
Inoltre,
i “millennial e la generazione Z” dimostrano di essere sempre meno interessati
al capitalismo, mentre solo la metà di essi lo considera un fattore positivo
negli Stati Uniti.
Nel
suo articolo, “Rebecca Henderson” sostiene che il fallimento di ciascuno dei
due sistemi è connesso all'altro, e che per ricostruire un mercato libero forte
dovremo rafforzare la democrazia.
Ma gli
altri osservatori sono d'accordo?
Per
saperne di più sulle complesse relazioni globali tra democrazia e capitalismo –
e sul perché il sostegno dell'opinione pubblica globale sui due sistemi sembra
oggi in declino – “Harvard Business Review” ha interpellato i migliori
economisti ed esperti in scienze politiche specializzati nello studio della
democrazia provenienti od operanti in Paesi che si trovano oggi in difficoltà.
Abbiamo
posto loro queste domande:
la
democrazia e il capitalismo hanno bisogno l'una dell'altro?
Perché?
Oppure: perché no?
Ecco
come hanno risposto.
Isabelle
Ferreras.
(Membro
della Fondazione Nazionale Belga per la Scienza, professoressa all'”Università
di Lovanio” e ricercatrice senior del “Labor and Worklife Program” presso la “Harvard
Law School”.)
Chiaramente
no:
il capitalismo, come possiamo vedere in tutto
il mondo, è compatibile con tutti i diversi tipi di regimi politici:
liberal-democratici, comunisti, autocratici e ora anche con le democrazie
illiberali.
La
democrazia è un sistema di governo basato sul riconoscimento che le persone
sono uguali "nella dignità e nei diritti" e dovrebbero quindi avere
uguali diritti politici.
Questo
ideale può essere applicato a entità di qualsiasi dimensione.
Anche
il capitalismo è un sistema di governo, ma ineguale.
Esso concede diritti politici basati sulla
proprietà del capitale.
La sua
istituzione principale è l'impresa, fondata su due fattori:
il
capitale e il lavoro.
Nelle imprese capitaliste, i diritti politici di
governo sono unicamente nelle mani degli investitori di capitale, nella cornice
legale della società.
Gli
unici cittadini che contano nella logica esclusiva dell'impresa capitalista
sono quelli che possiedono il capitale - in altre parole, gli azionisti.
Essi esercitano il potere e raccolgono la maggior
parte dei profitti finanziari, mentre gli investitori in lavoro (cioè i
lavoratori) sono privati del diritto di voto - e le risorse del pianeta vengono
esaurite.
Il
capitalismo non è naturalmente destinato a sostenere il libero mercato.
Il mercato è un meccanismo di scambio
legalmente e culturalmente generato e garantito dallo Stato.
La sua superiorità nel coordinare la domanda e
l'offerta è stata dimostrata, ma raramente si riconosce che l'economia di
mercato è compatibile, a livello aziendale, sia con i Governi democratici sia
con quelli capitalisti.
Il capitalismo e la democrazia hanno entrambi bisogno
dei mercati,
non l'uno dell'altra.
Questa
confusione ha creato l'illusione che democrazia e capitalismo vadano di pari
passo, quando, in realtà, si contraddicono reciprocamente.
I leader politici di oggi (democratici o meno)
si affannano a nascondere la loro impotenza nel ridurre le disuguaglianze o nel
salvare il pianeta di fronte alle multinazionali capitaliste.
Uno
dei risultati di tutto ciò è lo sgretolamento delle democrazie.
Abbiamo una scelta chiara davanti a noi:
espandere il nostro impegno democratico per includere
le società per azioni, attraverso una loro democratizzazione interna (includendo la rappresentanza dei
lavoratori accanto all’attuale rappresentanza degli azionisti), oppure cedere i
nostri diritti democratici ai detentori del capitale - una possibilità che si
profila all'orizzonte, in particolare negli Stati Uniti.
Isabel V. Sawhill.
(Senior
Fellow in studi economici presso la “Brookings Institution” e autrice di “The
Forgotten Americans: An Economic Agenda for a Divided Nation).
Il capitalismo e la democrazia hanno assolutamente
bisogno l'uno dell'altra per sopravvivere, ma in questo momento è la democrazia
ad essere più minacciata.
Il
capitalismo è il modo giusto di organizzare un'economia, ma non è un buon modo
per organizzare una società.
I
mercati fanno un buon lavoro nell'allocare le risorse, nel promuovere il
dinamismo e nel preservare le scelte individuali, ma non possono trovare
soluzioni al cambiamento climatico, alle troppe disuguaglianze o alla
situazione critica in cui si trovano i lavoratori privati del loro lavoro dalle
nuove prospettive del commercio o dalla tecnologia.
Quando
il Governo non riesce ad affrontare questi o altri problemi sistemici, la
democrazia comincia a perdere la sua legittimazione.
In
preda alla disperazione, i cittadini si rivolgono ai populisti di destra o di
sinistra.
E se
questi leader si dimostrano a loro volta incapaci di mantenere le loro
promesse, la fiducia nel Governo si erode ulteriormente.
L'instabilità
politica comincia a minacciare il capitalismo stesso.
Stiamo
oggi assistendo a questa spirale in movimento.
L'insoddisfazione per la democrazia negli
Stati Uniti è aumentata di un terzo dalla metà degli anni Novanta e ora
interessa circa la metà della popolazione, secondo il “Centre for the Future of
Democracy” dell'Università di Cambridge.
È stata la classe operaia bianca, le cui
contee erano state devastate dalla perdita di posti di lavoro, a eleggere “Donald
Trump” nel 2016.
I suoi sostenitori erano preda di ansie
culturali (in particolare l'opposizione all'immigrazione) oltre che economiche,
ma non si può negare la correlazione sorprendentemente forte a livello di
contea tra i voti a favore di Trump e le difficoltà economiche a lungo termine,
i tassi di occupazione molto bassi, le chiusure di stabilimenti legate al
commercio con l’estero e la crisi derivante dall’epidemia di oppiacei.
Ora
gli Stati Uniti sono nel bel mezzo di un'altra campagna presidenziale e i
segnali di instabilità stanno aumentando a sinistra.
Se
Bernie Sanders vincerà (questo articolo è stato scritto prima del ritiro, l’8
aprile 2020, di Sanders, a favore della candidatura di Joe Biden, NdR) la
nomina democratica quest'anno, sarà chiaro che non è solo la classe operaia a
essere stufa, ma anche i giovani e i progressisti, che credono che il sistema
sia corrotto e che solo un socialista democratico possa salvare la situazione.
Ma una
rivoluzione Sanders deluderebbe quasi sicuramente ancora di più i suoi
elettori, poiché l'attuazione della maggior parte delle sue proposte è
politicamente irrealizzabile e porterebbe quindi a una maggiore sfiducia nel
Governo.
Meno
della metà dei giovani tra i 18 e i 29 anni sostiene oggi il capitalismo.
Hanno
ragione sul fatto che i mercati senza barriere protettive non producono una
società sana.
Ma un
Governo che si spinge troppo oltre, cercando di sostituire il mercato in
settori come la sanità o la creazione di posti di lavoro, non riuscirà a
ripristinare questa fiducia.
Questo
è il difficile equilibrio che ci troviamo ad affrontare.
Archon
Fung.
(“Professore
di Citizenship and Self-Government alla “John F. Kennedy School of Government”,
“Harvard University”.)
Naturalmente
non hanno bisogno l'una dell'altro.
L'antica
Atene e gli Stati Uniti rivoluzionari erano democratici ma non capitalisti, e la Cina pratica quello che alcuni
chiamano il capitalismo di Stato senza democrazia.
Per
essere provocatorio, lasciatemi porre una domanda diversa: la democrazia e il capitalismo
possono coesistere?
La
democrazia è un sistema di governo in cui le persone possono contribuire a
creare leggi e politiche come cittadini in condizioni di uguaglianza.
Ma in
regime di capitalismo, i capitalisti tendono ad avocare a sé il potere di fare
le leggi e le politiche.
Il
nuovo “Oxford Dictionary” definisce il capitalismo come "un sistema
economico e politico in cui il commercio e l'industria di un Paese sono
controllati da proprietari privati a scopo di profitto".
Questa,
semplicemente, non è democrazia.
Nelle
società che contengono elementi sia di democrazia sia di capitalismo, la sfida
è quella di mantenere l'uguaglianza politica contro la disuguaglianza economica
che il capitalismo tende a generare.
Le democrazie capitaliste con una maggiore uguaglianza
politica tendono a sembrare meno capitaliste;
penso
ai Paesi del Nord Europa con sistemi di protezione sociale più generosi,
sindacati più forti per controbilanciare il potere politico delle imprese,
aliquote fiscali più alte e politiche di mercato del lavoro e della
distribuzione più ugualitarie.
In
effetti, questi Paesi sono comunemente chiamati "socialdemocrazie",
piuttosto che democrazie capitalistiche.
E i
Paesi a maggiore vocazione capitalistica tendono ad essere meno democratici.
Negli Stati Uniti, per esempio, il politologo “Martin Gilens” ha dimostrato
che, nel corso di molti decenni, numerose politiche pubbliche sono state molto
reattive ai desideri della popolazione che si trova in cima alla distribuzione
del reddito, ma per nulla rispondenti ai bisogni del restante 80% degli
americani.
Reetika Khera.
(Economista
dello sviluppo indiano e Professore associato presso l’”Indian Institute of
Management Ahmedabad”.)
Mentre
né il capitalismo né la democrazia esistono nella loro forma ideale,
soprattutto oggi, dal mio punto di vista ciò che la democrazia promette è più
attraente di ciò che il capitalismo promette.
Per
esempio, a differenza della democrazia, il capitalismo non esprime alcun
impegno a favore dell'uguaglianza.
Gli
insuccessi della democrazia sono palesi attorno a noi.
L'ascesa
del Governo autoritario in India e i livelli rivoltanti di disuguaglianza
sociale ed economica ne sono i segnali.
Troppo
spesso la mano per niente invisibile del capitalismo clientelare è evidente in
questo contesto.
Eppure,
la democrazia indiana - anche se fragile e malata - ha mostrato il suo valore e
ha espresso i barlumi di una potenziale capacità di alimentare il cambiamento
sociale:
dall'indipendenza
del Paese nel 1947, l'aspettativa di vita alla nascita è più che raddoppiata,
passando da 32 anni nel 1951 a 66 anni nel 2011.
Un
altro spunto:
nel
2017, una sentenza di nove giudici della” Corte Suprema dell'India” ha
riaffermato il diritto alla privacy come diritto fondamentale, aprendo la
strada alla soppressione della “Sezione 377 del Codice Penale Indiano”, che
criminalizzava le relazioni omosessuali.
Allo
stesso modo, la realtà del capitalismo è preoccupante.
Che si
tratti di case automobilistiche che falsificano i dati sulle emissioni, di banche che spostano impunemente il
denaro della droga o, in India, di magnati affaristi che fuggono dal Paese
quando i loro debitori bussano alla porta, vivere secondo lo Stato di diritto e
il principio di uguaglianza davanti alla legge non sembra essere la norma.
Quand’anche
i potenti capitalisti non violino le leggi, si comprano il potere di modellare
il processo legislativo a loro vantaggio (ad esempio, affossando le iniziative
di base per la protezione dei lavoratori) e commettono semplicemente dei furti
legali.
Nei
decenni passati, le industrie dello zucchero e del tabacco hanno sponsorizzato
ricerche di parte per coprire gli effetti negativi dei loro prodotti;
oggi
vediamo l'industria tecnologica compiere azioni simili, come mettere a
repentaglio elezioni libere ed eque, fondamento di una democrazia efficiente.
La
democrazia e il capitalismo hanno bisogno l'una dell'altro?
Il
capitalismo ha bisogno di una finzione di democrazia più che della democrazia
in senso stretto.
Sempre
più spesso sento che le plutocrazie si spacciano per democrazie.
Nelle
plutocrazie, il capitalismo sta consolidando la sua ricchezza e il suo potere
mantenendo una farsa di democrazia.
Manuel Agosin.
(Professore
di economia, Facoltà di Economia e Commercio, “Università del Cile”, già
preside di facoltà ,2010-2018).
Il
capitalismo può sopravvivere a lungo senza democrazia, come dimostrano le
esperienze di Cina, Russia, Turchia e altri Stati autoritari.
Tuttavia,
il capitalismo senza democrazia favorisce normalmente la corruzione e il
controllo delle risorse attraverso mezzi diversi dal merito, come la lealtà ai
partiti.
Detto
questo, nel breve periodo, abbiamo visto le democrazie abusate per profitti
personali in molti Paesi per lo più democratici.
I molti casi di mega-corruzione che sono
venuti alla luce nei Paesi democratici dell'America Latina (l’operazione Lava
Jato o Car Wash in Brasile, e i casi Odebrecht in tutto il continente) ne sono
la prova.
Anche
gli Stati Uniti sono stati tutt'altro che impermeabili al sovvertimento della
democrazia da parte di un aspirante autocrate.
Enfatizzando
l’individualismo e i guadagni personali, il capitalismo tende ad alimentare la
concentrazione del mercato e una lunga serie di abusi, come ha chiaramente
dimostrato” la Grande Recessione”.
Individui
e società sono continuamente tentati di eludere la legge o di trovare
scappatoie legali.
Il
settore finanziario è particolarmente incline a questo tipo di comportamento,
poiché permette agli operatori del mercato di generare profitti non solo
producendo servizi di cui la gente ha bisogno, ma anche attraverso abili
manipolazioni di ingegneria finanziaria.
Il più delle volte tale creatività non produce alcun
valore per la società; anzi, spesso genera condizioni che creano crisi
finanziarie lungo la strada.
Ecco
perché solo una vera democrazia può correggere, attraverso l'uso del potere
statale, mali del capitalismo quali la mancanza di concorrenza e una
distribuzione distorta dei profitti.
Le democrazie forti hanno pesi e contrappesi che
possono porre un limite a ciò che il capitalismo può fare:
tribunali
dove i casi di mercati in cui non si rispettano le regole di leale concorrenza,
di corruzione e sovversione della democrazia possono essere processati e
puniti.
Infatti,
i massimi benefici del capitalismo possono essere pienamente raccolti solo in
una società democratica.
E così la sfida più pressante per le società
democratiche è questa:
come
fare in modo che la finanza serva i bisogni reali dei cittadini, piuttosto che
foderare le tasche di chi ha la fortuna di vincere al gioco della finanza.
Steven Klein.
(Assistente
di Scienze politiche all'”Università della Florida”; docente presso il
dipartimento di economia politica del “King's College” di Londra.)
Gli
ultimi 30 anni hanno dimostrato che il capitalismo non ha bisogno di democrazia
per mettere radici:
in
Cina, l'introduzione del capitalismo non ha portato a un'espansione dei diritti
democratici e anche i governi autoritari di altri Paesi - come l'Ungheria - hanno
abbracciato con entusiasmo il capitalismo.
Allo
stesso tempo, è chiaro che il capitalismo ha bisogno di democrazia per salvarsi
da sé stesso.
Le crisi finanziarie negli Stati Uniti e in
Europa dimostrano come le istituzioni democratiche siano state chiamate in
soccorso del capitalismo.
Storicamente,
sappiamo che democrazia e capitalismo possono evolvere insieme. Città-stato mercantili come Firenze e
Amsterdam hanno avuto forme di governo rappresentative, e in Gran Bretagna lo
sviluppo della democrazia ha protetto gli interessi delle nascenti classi
mercantili contro i vecchi interessi acquisiti.
Eppure, la stessa Gran Bretagna aveva
realizzato solo una parziale democratizzazione, dato che il voto dipendeva da
diritti di proprietà, in un’epoca in cui l’opinione prevalente era che il
suffragio universale avrebbe distrutto tali diritti e, per estensione, il
capitalismo stesso.
Più
oltre, in Europa, il crollo finale della democrazia fu legato alle esigenze del
capitalismo:
la politica di austerità del cancelliere
tedesco “Heinrich Brüning” degli anni '30, uno sforzo teso a salvare il “gold
standard” in Germania e a mantenere il Paese sulla scena del capitalismo
globale, contribuì a spingere i nazisti al potere.
I
principi organizzativi della democrazia e del capitalismo sono diversi.
La democrazia si basa sulla convinzione che
tutti debbano avere pari voce in capitolo nelle decisioni che li riguardano.
Il
capitalismo non lo fa.
Al contrario, esso basa la produzione sul
profitto e sulla capacità di entrare e uscire da relazioni di tipo
opportunistico.
Questo
è il cuore delle tensioni tra democrazia e capitalismo:
realizzare
un ideale di parità di diritti può significare limitare la possibilità, per
individui e imprese, di sciogliere i loro rapporti economici e politici quando
il contesto democratico non li favoriscono.
Sappiamo qual è l'esito di questa tensione:
i
capitalisti spesso scelgono di appoggiare soluzioni autoritarie prima di
decidere di accettare un nuovo regime di controllo democratico.
(“Laura
Amico” è redattore senior presso la “Harvard Business Review”.)
L’affermazione
di un “capitalismo politico.”
Intervista
a “Massimo Cacciari”.
Prof.
Cacciari, su “HBR” scriviamo che la democrazia è in difficoltà.
Non
solo per l’assalto del populismo, ma per la sfiducia nei meccanismi democratici
crescente in molti Paesi, Italia compresa.
Negli Stati Uniti la maggioranza ritiene che
"il Paese sia in reale pericolo di diventare non democratico e
autoritario”.
Ma
l'insoddisfazione per la democrazia è aumentata in tutto il mondo e solo una
minoranza degli elettori più giovani ritiene che sia "essenziale"
vivere in una democrazia, rispetto a più di tre quarti dei nati prima della
seconda guerra mondiale.
Come
valuta questi timori?
Li
ritiene fondati? O troppo allarmistici?
L'adesione
popolare a una prospettiva di "democrazia progressiva" è
fisiologicamente legata, nel corso del secondo dopoguerra, a crescita di
benessere, a mobilità sociale e a uguaglianza nelle opportunità.
Dalla
caduta del Muro, dalla fine della "Terza guerra mondiale", queste
prospettive nei Paesi occidentali si sono indebolite fino a subire colpi
gravissimi con la crisi del 2007.
Da qui l'affermarsi di varie forme di
populismo, per il momento contenute ma, in seguito al dramma della pandemia,
destinate, temo, a riesplodere.
Questa
crisi imporrebbe un autentico “New Deal”, in Europa soprattutto, ma non se ne
vede la volontà.
È
d’accordo con “Henderson” che il mondo del business abbia nell’insieme
contribuito a minare la legittimità degli ordinamenti democratici?
O le sembra una posizione massimalista, poco
ancorata alla realtà?
È
nell'essenza del sistema sociale capitalistico (che non è un fatto semplicemente
economico) ritenere
l'apparato del potere pubblico un freno e un impedimento all'espressione della
propria vitalità nei periodi di sviluppo e richiamarlo a proprio sostegno
quando il ciclo si inverte.
Nulla
di nuovo sotto il sole.
Lo
Stato dovrebbe svolgere, per il capitale, esclusivamente un ruolo anti-ciclico.
La
democrazia non può limitarsi ad esso, poiché, come abbiamo visto, si regge
nella misura in cui soddisfa esigenze di benessere sociale e di uguaglianza.
Da qui
la possibilità sempre aperta di conflitto.
Oggi
però la situazione è diversa.
La
contraddizione non è più tra statalismo, diversamente declinato, e liberalismo.
L'attuale populismo non credo sia una variante di
vecchi statalismi.
Il
"modello" che vedo affermarsi è quello di un "capitalismo
politico", e cioè di un sistema in cui leadership economico-finanziaria ed
élite politica formano un unico organismo, all'interno del quale vi è scambio
continuo di ruoli e funzioni.
E gli
interessi alla fine coincidono.
Cina e
Russia, in forma diversa, sono esempi di un tale modello.
Ma
"pulsioni" in questa direzione sono credo evidenti anche negli Stati
Uniti.
Qual è
il ruolo dell’impresa?
Si può limitare, come sosteneva “Milton Friedman”, a
realizzare utili rispettando le leggi per creare ricchezza, benessere e
occupazione?
O deve
farsi carico di obiettivi di responsabilità sociale e ambientale?
O
addirittura divenire soggetto politico attivo a supporto di obiettivi di
rafforzamento della democrazia?
Non
credo affatto agli "statuti etici" e cose simili.
Credo
piuttosto ancora possibile un rafforzamento o una riforma delle istituzioni
della democrazia liberale in grado di "compromessi alti" con il
sistema economico e i suoi leader.
Democrazia
politica e successo economico sono stati per lungo tempo considerati
inscindibili.
Ma la
realtà degli ultimi decenni dimostra che non è sempre così, e si cita in primo
luogo il caso cinese, ma anche di altri Paesi in Europa, Sud America e Africa.
Occorre
considerare il legame comunque una regola prevalente e quei casi come
eccezioni?
O è
più opportuno riconoscere che anche regimi autoritari, o addirittura tirannici,
possano creare condizioni di benessere per i loro popoli?
In questo secondo caso, quali ne sono le
implicazioni?
Che
sussista un nesso fisiologico tra democrazia e sistema di mercato è null'altro
che l'ideologica estrapolazione di quanto avvenuto per circostanze storiche
assolutamente particolari in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale.
Forse
si tratta di un'esperienza finita e l'avvenire è quello del "capitalismo
politico".
Quale
forma potrà assumere la "democrazia" in tale sistema non è dato
poterlo dire, ma certamente non avrà nulla a che fare con quella che abbiamo
conosciuto.
(Massimo
Cacciari, filosofo, politico, accademico, ex sindaco di Venezia. Attualmente insegna
“Pensare filosofico e metafisica” presso la Facoltà di Filosofia
dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, di cui è stato anche
prorettore vicario).
La
democrazia non è una commodity.
di
Giulio Tremonti.
Nel 1835, e poi nel 1840, Alexis de
Tocqueville scrive “La democrazia in America”. Come è già nel titolo, un saggio
sulla democrazia, in specie sulla democrazia come allora era in straordinario
divenire in America.
Questo
di “Rebecca Henderson” è sempre sulla democrazia, ma un saggio diverso, un
saggio sulla democrazia che è in crisi (e per la verità in crisi non solo in
America).
Ciò
premesso, la riflessione che vorrei fare qui di seguito è sul carattere non
dogmatico che, da sempre, è proprio della democrazia.
Fermo l’essenziale dei diritti fondamentali, la
democrazia varia infatti in funzione tanto dei tempi quanto dei luoghi.
Le possibilità di esemplificare a questo
proposito sono notevoli:
a) - la democrazia come è (stata) al tempo della
globalizzazione è diversa dalla democrazia come era prima;
b) - appena quattro decenni fa, in Europa la
democrazia era l’eccezione e non la regola, fuori dalla democrazia allora
essendo Grecia, Spagna, Portogallo, mezza Germania, tutto l’Est Europa!
E
questo perché, fin dalle sue origini, la democrazia è stata un processo e non
un prodotto, una costruzione graduale e progressiva, non automatica e non
artificiale.
E
dunque è l’opposto di quanto si è pensato potesse essere al tempo della
globalizzazione integrale quando, nell’ “ideologia del mondo nuovo e dell’uomo
nuovo”, e nella metrica di una “nuova armonia universale,” la democrazia era
considerata più o meno come una commodity, prefabbricata e standardizzata, e
perciò esportabile su scala globale.
Ciò
premesso, per proseguire divido questo scritto in due parti:
la
prima,
sulla crisi della democrazia (soprattutto in Europa);
la
seconda,
basata su alcune glosse apposte al volume di “Henderson”.
Passaggio di poteri.
La
crisi generale della politica ha avuto inizio in Europa e dunque nel luogo in
cui la democrazia è nata. Per mezzo secolo, e comunque a partire dal
dopoguerra, il sistema politico e democratico europeo è stato basato su tre
solidi pilastri:
1)- la dimensione limitata e l’origine quasi
«domestica» dei problemi che i governi nazionali dovevano e potevano gestire;
2)- la
presenza quasi ovunque di ideologie organizzate in partiti politici permanenti,
che potevano recitarle come palinsesti;
3) -
la spesa pubblica che, finanziata in deficit e su vasta scala, permetteva di
acquisire consenso o di ridurre il dissenso.
Questi
tre pilastri hanno ormai cominciato a cedere:
1)-
la
dimensione e l’origine dei problemi tendono ormai a superare le capacità e le
forze dei governi nazionali, spiazzati da problemi diversi da quelli del
passato, problemi che vanno dalla paura per il nuovo che viene «da fuori»
(l’immigrazione) o che viene «dal futuro» (le macchine ruba-lavoro), per
arrivare all’effettivo ma spesso insoddisfatto bisogno di aiuto, a fronte degli
effetti delle crisi;
2) -
le vecchie totalizzanti ideologie politiche sono ormai svanite, anche perché
troppo a lungo sono rimaste ferme nella reciproca opposizione tra bene e male,
tra destra e sinistra, come se si fosse ancora ai tempi della guerra fredda e
non al tempo dei tweet;
3) - la spesa pubblica in deficit non è più un
mezzo per prendere il consenso o per ridurre il dissenso: la partita dei conti
pubblici è infatti diventata un mezzo non per prendere, ma per perdere voti!
Nell’insieme
siamo arrivati a un’immagine che, rappresentandola, marca un’epoca:
oggi la foto di Francoforte con i principali capi di
Stato e di Governo che presenziano con solenne sottomissione al cambio dei
governatori della BCE, è il simbolo della fine della politica, della crisi
della democrazia, il segno della loro sottomissione al potere della finanza.
Non
sarebbe stato così con De Gaulle, con Adenauer, con De Gasperi, con Mitterrand,
etc.!
Ciò che è stato a partire dal 2012, e in
specie a partire dal cosiddetto “whatever it takes”, è stata infatti una
progressiva rotazione dell’asse della politica e dunque della democrazia:
dai
popoli alla BCE;
da
questa al mercato monetario!
Dopo
otto anni, da quando un ricovero in pronto soccorso è stato trasformato in una
lunga degenza, da quando i liquidi sono stati messi al posto dei solidi, i
debiti al posto dei capitali, i tassi sotto zero, i popoli avvertono che la
cambiale del 2012 è venuta a scadenza e perciò danno segno di credere sempre
meno ai nuovi trilioni messi al posto dei vecchi miliardi.
Danno segno di non credere più a guaritori,
maghi e sciamani.
E
questa è comunque una speranza per il ritorno della democrazia.
Riflessioni
critiche.
Sul
saggio di Henderson apposto le seguenti glosse:
A) “… Ma il risultato non è stato il trionfo del
libero mercato, come speravano i leader delle imprese. Al contrario…”.
GLOSSA:
cosa vuol
dire “al contrario”?
Ovvio
che i leader delle imprese perseguono l’interesse delle imprese e non
l’eguaglianza dei redditi.
Lo scopo del libero mercato non è infatti
quello di una egualitaria distribuzione dei redditi;
B)- “… È di fondamentale importanza che il mio CEO dia
risposte adeguate a questi tempi difficili…".
GLOSSA:
Henderson assume, evidentemente, che i cittadini non siano particolarmente
intelligenti….
C) “… Sarà quasi certamente il Governo a
garantire che ci sia una vera concorrenza per aziende come Amazon, Google e
Facebook…”.
GLOSSA:
evidentemente l’esperienza dello spezzettamento di AT&T, e poi di altre
compagnie, non è stata ben compresa.
Già
oggi 10 tra le più grandi compagnie internet del mondo sono cinesi.
Se si spezzetteranno Amazon, Google, Facebook,
il risultato sarà lo stesso.
Nel
mondo reale la competizione è in realtà asimmetrica.
O si
chiudono le frontiere, e si applica la vecchia logica dello “Sherman Act”,
oppure quella logica è insensata.
Il mondo dell’economia globalizzata è infatti
un mondo hobbesiano, non un mondo kantiano!
D) - “… Trovare un lavoro è una questione di
relazioni e di accesso - di andare col cappello in mano da chi controlla le
leve del potere…”.
GLOSSA:
questo è
esattamente ciò che sostengono i cosiddetti populisti, di destra o di sinistra.
E) - “… Ma temo che gli Stati Uniti e il mondo diventeranno
sempre più polarizzati, sempre più ingiusti e sempre più scomodi. In questo
ambiente instabile, i Paesi hanno più probabilità di cadere preda del populismo…”.
GLOSSA:
dato che
negli USA nell’ultimo mezzo secolo i democratici hanno avuto altrettanto potere
dei repubblicani, come mai questo sarebbe avvenuto?
Un”
curiosum”: per quale ragione Stalin viene qualificato come un populista di
destra?
F) “… Molti leader d’impresa hanno raccolto
questa sfida con determinazione. Forse i più fortunati sono stati… i
proprietari delle Koch Industries…”.
GLOSSA:
in realtà
negli USA i democratici hanno sempre avuto più finanziamenti dei repubblicani.
Anche alle elezioni presidenziali del 2016!
G) “… Il business deve rinunciare al suo
potere politico e operare forti pressioni contro l’afflusso di denaro in
politica. Deve agire per rafforzare quelle stesse istituzioni che possono
opporsi agli interessi delle imprese…”
GLOSSA:
… i
tacchini dovrebbero chiedere l’anticipo del Natale?
H) “… Le aziende dovrebbero invece
concentrarsi sul processo di elaborazione politica, sostenendo attivamente una
democrazia sana e funzionante, in modo che tutti gli stakeholder e le comunità
possano impegnarsi in un dibattito attivo su quali debbano essere tali
politiche…”.
GLOSSA:
ma perché
le imprese dovrebbero avere un ruolo diretto in politica? Il diritto di voto
appartiene ai cittadini, non alle imprese. Le imprese hanno il diritto di
rappresentare i propri interessi, ma non hanno la funzione di classe
universale.
I) “… Oggi, la Danimarca combina un
mercato libero dinamicamente competitivo con una ampia assistenza sanitaria
nazionale, un'assistenza sanitaria ai bambini fortemente sovvenzionata e
investimenti significativi nella formazione dei lavoratori…”.
GLOSSA:
in
Danimarca ci sono solo 5 milioni di persone.
J) “… I leader d’impresa potrebbero
coalizzarsi, insieme al Governo, per sostenere le riforme democratiche?... ”
GLOSSA:
le
“riforme democratiche” (cosa sono?) dovrebbero essere decise dai leader
d’impresa? Resta solo un problema: quale è la loro fonte di legittimazione
politica?
(Giulio
Tremonti, Presidente Aspen Institute Italia.)
Democrazia,
capitalismo e ruolo delle imprese.
Richard
Edelman.
Come
dice “Rebecca Henderson”, se il Governo è il contrappeso al libero mercato, la
democrazia è la forza che fa sì che i Governi non si trasformino in tirannia,
prendendo il controllo dei mercati nel processo.
E
credo fermamente che il rafforzamento della democrazia sia l'unico modo per
garantire la sopravvivenza diffusa del capitalismo di libero mercato, e con
essa la prosperità e le opportunità che hanno cambiato la vita di miliardi di
persone.
Le imprese hanno le risorse, il potere
politico, gli incentivi e la responsabilità di compiere progressi significativi
in questo sforzo.
Il
nostro più recente sondaggio annuale globale sulla fiducia – il” Trust
Barometer di Edelman” - rileva che il 71% degli intervistati ritiene "di fondamentale importanza che il mio
CEO risponda a questi tempi difficili".
La
comunità imprenditoriale è chiamata a svolgere un ruolo importante nel
rafforzamento della democrazia.
La
crisi causata da Covid-19 è quel tipo di shock profondo che fa sì che le
aziende siano indotte a riconsiderare i loro modelli di business per
assicurarsi di contribuire a un risultato migliore.
Questo
è un momento di resa dei conti, un momento in cui le imprese e il Governo
devono collaborare per trovare soluzioni e gli amministratori delegati devono
dimostrare la loro leadership pubblica.
Il business deve essere all'altezza dei suoi
diversi stakeholder.
È
tempo che il business guidi il cambiamento.
Ad
esempio, l'industria dei servizi finanziari deve cercare il modo di fornire
finanziamenti ai ristoranti, agli alberghi e ad altre piccole e medie imprese
temporaneamente danneggiate;
il settore beni di consumo deve esplorare
nuove opzioni distributive in questi tempi di crisi.
E i
comunicatori avranno un ruolo chiave nello spiegare, rassicurare, proteggere e
costruire la fiducia.
Per
quanto riguarda la convivenza tra democrazia e capitalismo, le imprese possono
svolgere un ruolo strategico.
Possono dare un contributo vitale per
garantire una continuità economica e sociale facendo tutto ciò che possono per
mantenersi attive contribuendo, nello stesso tempo, all’interesse generale per
superare questo periodo di incertezza. Possono aiutare i loro preziosi
dipendenti e clienti a rimanere ben informati, fornendo loro l'accesso a
informazioni affidabili e basate su dati scientifici, in modo che tutti le
possano adattare alla propria situazione.
(Richard Edelman è Presidente & Chief Executive
Officer della società di relazioni pubbliche Edelman)
Un
nuovo paradigma di collaborazione tra Stato e imprese.
“Andrea
Montanino”.
È
tempo di cooperazione tra imprese e Governi, ci esorta “Rebecca Henderson”, per
salvare la democrazia.
Ma il rischio nel nuovo contesto post Covid
non è tanto quello di una ingerenza delle imprese negli affari della politica
per condizionarne l’azione – il contesto americano che la Henderson ci descrive
nel suo articolo – quanto quello di non trovare le modalità corrette di
cooperazione Stato-imprese per salvare le nostre economie.
Il
contesto è già tracciato, ed è un contesto di iper-indebitamento:
nell’Unione
Europea il debito aggregato supererà per la prima volta il 100% del PIL;
le imprese stanno ottenendo prestiti garantiti
dagli Stati e a tasso zero, ma sempre prestiti sono.
Le famiglie perdono potere di acquisto e si
indebitano per mantenere almeno per un po' un certo livello di consumo.
La
exit, in contesti democratici, non si può fare per decreto:
imponendo”
financial repression “o caricando di ulteriori tasse i cittadini.
Né si
può accettare un fallimento generalizzato di Stato, imprese, cittadini.
Se la
democrazia vuole salvare l’economia (e sé stessa), bisogna spostarsi su un
nuovo paradigma e patto tra istituzioni e impresa, dove ognuno ha un ruolo
preciso, come in una recita.
Lo
Stato deve essere 1) regolatore e 2) promotore.
Regolatore
per stabilire regole che aiutino a ridurre l’incertezza, vero problema delle
economie di questi tempi, per dare prospettive di lungo periodo. Ridurre
l’incertezza, non il rischio.
Quest’ultimo
può essere quantificato, si possono attribuire probabilità, e quindi
l’imprenditore può avere la capacità di valutare, sulla base della sua
personale propensione al rischio, se vale o meno la pena di intraprendere una
certa azione. L’incertezza non può essere incorporata nei processi decisionali
e frena le scelte di investimento.
Uno
Stato anche promotore, perché l’era post-Covid non lascerà spazio a politiche
di spesa pubblica.
In modo non repressivo, le nostre democrazie dovranno
avere la capacità di convogliare risorse private verso obiettivi generali, dove
vi generano le maggiori esternalità positive.
Se
guardiamo all’Italia, ci sono circa 1400 miliardi di euro nei conti correnti e
nei depositi che, se ben incanalati, potrebbero finanziare progetti che
producano sviluppo e crescita economica.
Le imprese, finanziarie e non, sarebbero i
partner ideali di questo approccio.
(Andrea
Montanino, Chief economist, Cassa Depositi e Prestiti e Presidente, Fondo
Italiano d’Investimento.)
"Non
mi dimetto". La verità
di
Giorgetti su “Patto” e “Mes”.
msn.com
– Il Giornale - Osvaldo De Paolini – Redazione – ci dice:
Giorgetti
contro il governo, Giorgetti scuote la maggioranza, Giorgetti dovrebbe
dimettersi:
questi
i titoli dei giornali schierati ieri mattina, ma quanto c'è di vero in tutto
ciò ministro Giancarlo Giorgetti?
«Non
sono sorpreso di quei titoli. D'altronde le opposizioni da mesi preparavano
l'apocalisse sul Mes.
E
puntualmente lo scossone è arrivato al momento del voto.
Io me la spiego così.
Prima
pensavano che crollasse tutto con la manovra, ma le agenzie di rating hanno
spiegato che difficilmente avremmo potuto fare meglio quanto a prudenza,
responsabilità e stabilità dei conti pubblici.
Poi anche il Patto di Stabilità è andato nel
verso giusto: qualche brusio ma niente più. Non restava che il “Mes...».
Dunque
niente dimissioni?
«Fino
a quando la maggioranza sosterrà la mia impostazione su progetti seri,
credibili e sostenibili non vedo perché lasciare.
Come
ho già detto, l'opposizione ha tutto il diritto di dare suggerimenti, anche
graditi, poi però decido io».
A
proposito del voto sul “Mes”, Matteo Salvini parla di scelta coerente, “Romano
Prodi” di scelta folle, altri di decisione bizzarra o sconsiderata.
Lei ha precisato che quale ministro
dell'Economia avrebbe detto sì alla ratifica: cosa dobbiamo pensare?
«Anche
qui nessuna sorpresa.
La
Lega ha sempre detto che era contraria.
Dunque,
è questione di coerenza.
Ciò
che appare improprio per un membro dell'Unione è che dopo aver preso un impegno
di ratifica, al momento di firmare si tira indietro.
Ma ribadisco, a quel punto la questione non
era più economica bensì politica».
Secondo
il “Fondo monetario”, senza il “Mes in versione salva-banche” l'Europa sarà
meno stabile.
È davvero così?
(Arriva
il nuovo “Patto di stabilita' Ue”, l'Italia dice si - Dailymotion)
«Come
ministero dell'Economia abbiamo sempre sostenuto che una cintura in più attorno
al sistema bancario è la benvenuta.
Ma il “Mes”
è uno strumento come altri, per esempio come i “fondi di risoluzione nazionale
e quelli europei:
dunque,
niente più che una delle possibili soluzioni al problema vero, che è il debito.
Ma se si lavora con prudenza, prendendo anche
decisioni impopolari per renderlo sostenibile, il “Mes” diventa poco più di una
cura sul bancone del farmacista.
Non credo che l'Europa senza il “Mes in versione
salva-banche” corra seriamente rischi di stabilità».
Del
resto venerdì scorso è sembrato che i mercati fossero della sua stessa
opinione, visto che anche lo “spread Btp-Bund” ha dato segni incoraggianti.
E tuttavia si parla di perdita di credibilità
del governo, che da oggi dovrà lavorare molto per recuperare la fiducia di
alcuni partner dell'Unione.
«Io
penso che la fiducia nei confronti dell'Italia sarebbe crollata solo se il
governo avesse approvato una manovra con proposte bizzarre, come quelle che
spesso provengono dall'opposizione.
Per
solito i mercati valutano il comportamento di un governo soprattutto rispetto
alla sostenibilità del debito».
Cosa
risponde a chi l'accusa di essere l'alfiere dei tagli e dell'austerità?
«Un'accusa
che mi fa sorridere, perché coloro che alzano il dito sono gli stessi che
volevano approvare il “Mes”.
Invece
io ringrazio la maggioranza che ha accettato di tenere il punto sulla manovra.
E non era facile visto che in alcuni casi abbiamo dovuto assumere decisioni
impopolari».
È
possibile che i 19 Paesi dell'Eurozona che hanno ratificato il “Mes in versione
salva-banche” ora decidano di andare avanti senza l'Italia?
«Tutto
è possibile.
Ma il “Mes” è nato in una certa fase storica
con problematiche diverse dalle attuali.
“L'Unione
Bancaria” e il “Mercato dei Capitali” sono più importanti, specie per l'Italia.
Capisco
l'irritazione dei partner per la bocciatura, anche se sapevano da tempo che
questa possibilità era tutt'altro che remota.
Però ricordo che anche il” governo Draghi “si
era rifiutato di presentare il “Mes” in Parlamento, rinviandone l'esame.
Perlomeno
noi al voto ci siamo arrivati. Un punto alla fine è stato messo».
Sappiamo
che a premere fortemente per un “Mes in versione salva-banche” è soprattutto la
Germania, per i ben noti problemi del suo sistema bancario.
Ma
allora perché proprio da parte tedesca tanta resistenza verso la promozione di
una “Unione Bancaria” degna di tale nome?
«Il
punto è che sul tavolo non c'è solo l'”Unione Bancaria”.
In un momento storico come l'attuale
servirebbe una seria normativa che però fatica a trovare paladini nell'”Eurogruppo”
piuttosto che nell'”Ecofin”.
Purtroppo
sono costretto a riconoscere che manca lo spirito costituente che servirebbe.
Altro
che Mes.
Qui
non tutti servono gli interessi dell'Unione, c'è chi preferisce fare i fatti
propri a spese di tutti.
Però non mi chieda altro».
A
proposito di “Patto di Stabilità”.
Nell'annunciare
l'accordo raggiunto con Parigi e Berlino, lei ha parlato di cose buone e meno
buone.
Quali
sono le meno buone?
«Sono
abituato a dire le cose per quel che sono.
Al
netto del contenuto positivo relativo al Pnrr, un'Europa che ha l'ambizione di
sedere al vertice del sistema geopolitico, di disporre di un proprio esercito,
di puntare seriamente alla transizione energetica, non può ignorare che tutto questo
implica grandi investimenti pubblici.
Sarebbe
come dire che vogliamo andare sulla Luna con il deltaplano.
Le
scelte devono essere coerenti con le ambizioni e i mezzi adatti a perseguirle.
Ecco le cose che a mio avviso sono meno buone».
Non le
sembra che il testo del Patto sia troppo complesso?
«Ha
ragione. Forse è davvero troppo complesso e quindi ancora poco comprensibile
negli sviluppi.
E tuttavia c'è chi ritiene di avere capito già tutto e
spaccia qua e là sciocchezze che non aiutano a capire l'importanza dei passi in
avanti.
Proprio
perché troppo complesso, serviranno molte simulazioni per capire come funziona
realmente.
Il punto è che in tanti vivono ancora
dell'allucinazione pandemica, quando non c'erano regole sul debito e i tassi
erano a zero o addirittura negativi.
Oggi
la realtà è un'altra.
I tassi sono volati e fare debito a
ripetizione non è più possibile. Soprattutto bisogna capire che il confronto va fatto non con
la fase pandemica, ma con il “vecchio Patto di Stabilità».
A
proposito di debito, ieri il Tesoro ha annunciato che nel 2023 sono stati
emessi titoli pubblici per 516 miliardi contro i 424 miliardi del 2022.
Che
cosa ha inciso maggiormente su questo mega-balzo?
«Durante
la pandemia le regole erano sospese e per aiutare famiglie e imprese si è fatto
molto debito che ora va pagato e con tassi non più a zero.
Era il debito buono di Draghi, che era giusto fare ma
ora siamo chiamati a fare i conti con le conseguenze.
Per
capire di più, basti dire che l'Italia attualmente paga circa il doppio di
interessi passivi rispetto alla Germania.
Lo sforzo che deve fare il ministro dell'Economia è
ricordare anche alla maggioranza che lo sostiene che non c'è altra via che
mantenere un profilo di finanza pubblica compatibile».
Il
2023 verrà anche ricordato per il via alle privatizzazioni che il governo
Meloni, dopo anni di promesse mancate da parte di esecutivi privi di un serio
progetto, ha cominciato a realizzare.
Il collocamento del 25% del Montepaschi è
infatti preludio a un'operazione più articolata che potrebbe vedere la luce già
l'anno prossimo insieme a un robusto collocamento di azioni di Poste in Borsa.
A
questa attività bisogna aggiungere lo storico accordo tra” Ita” e “Lufthansa” e
il via libera al rientro della rete di telecomunicazioni nell'alveo pubblico.
Inoltre,
un paio di giorni fa il ministro Adolfo Urso si è detto certo che il governo
non lascerà morire l'ex Ilva.
Il
ministro Giorgetti è altrettanto fiducioso?
«Giorgetti
è realista.
Sull'Ilva siamo impegnati ma chiediamo lo
stesso impegno al socio privato.
Non si
può chiedere allo Stato di sostenere la società senza che l'azionista privato,
cui è affidata la gestione dell'azienda, faccia la sua parte.
In una parola, il governo è disposto ad
accompagnare il rilancio del gruppo, ma servono soci che seguono e che facciano
sacrifici al pari dello Stato».
Mercoledì
27 lei sarà alla Camera per riferire su temi della manovra in vista del voto
finale.
Si
parlerà anche di “proroga del Superbonus” o possiamo dare per chiuso quel
capitolo?
«Spero
per mercoledì di avere i dati aggiornati e in base alla politica del ministero
dell'Economia dirò fino a che punto potremo tutelare le situazioni più fragili.
Però
debbo ricordare che ogni mese di superbonus ha un costo enorme, insostenibile
in termini di finanza pubblica.
Si farà solo qualcosa nei limiti in cui non
venga pregiudicato l'equilibrio generale dei conti».
Il
sistema economico globalizzato
trasforma
la democrazia da potere
del
popolo a dittatura monocratica.
Ilpiacenza.it
– Carmelo Sciascia – (22 aprile 2018) – ci dice:
L’Italia
ha avuto periodi storici in cui è stata indiscutibilmente una potenza, ha avuto
una egemonia mondiale in settori diversi, ricordiamo tutti:
Roma e
l’Impero romano, per la potenza militare, l’amministrazione, i trasporti, ed il
Rinascimento per le arti, dalla pittura all’architettura, dalla scultura alla
letteratura tout court.
A
questi due periodi lo storico “Fernand Braudel” ne aggiunge un terzo, quello
che definisce come Il “secondo Rinascimento” che giunge fino a metà del XVII
secolo.
Sarei
tentato di aggiungerne un quarto, il periodo del nostro Novecento che va dalla
fine della seconda guerra mondiale a tutti gli anni settanta.
Sì, gli anni della ricostruzione fino agli
anni del boom economico, quell’Italia oggi descritta come “italietta”, che poi
così piccola ed angusta, come lo si vuole far credere, non lo era affatto.
L’Italia si era data un’ottima Costituzione ed
aveva una sua moneta la Lira, la cosiddetta “liretta”, che priva di valore e
significato non lo era affatto se è servita, in quegli anni, come un ottimo
strumento di politica economica, per favorire crescita ed occupazione.
Quando
la finanza era al servizio della politica e non viceversa, come è avvenuto con
la moneta unica europea.
La
storia d’Italia è stata una storia di divisioni e di invasioni, fin dai tempi
di “Carlo VIII”, che chiamato da” Lodovico il Moro nel 1494”, attraversò la
penisola senza colpo ferire, costellando il suo avanzare con razzie e
devastazioni ad opera del suo esercito e dei mercenari elvetici che ne
costituivano una buona parte.
Da
allora sono trascorsi più di cinque secoli ed il tempo sembra essersi fermato,
ci troviamo di nuovo soggiogati da un esercito straniero, che non si presenta
con le armi in mano ma che usa i sofisticati sistemi economici, finanziari
soprattutto, per governare l’economia e sottomettere la politica, nella sua più
nobile accezione.
Perché
la democrazia, come ci spiega bene con la sua ”Critica matematica della ragione
politica”
(Rizzoli – 2018) Piergiorgio Odifreddi, oggi semplicemente non esiste!
Formalmente
siamo ancora una democrazia parlamentare, nella realtà no.
Nella
concezione comune si definisce Democrazia quel sistema politico che si basa sui
due termini costitutivi la sua etimologia: “kratos” governo e “demos” popolo.
Quindi il” governo del popolo”.
Ma vi
è un’altra interpretazione che inverte il concetto di popolo, trasformandolo da
soggetto attivo in passivo: da soggetto che governa a popolo che deve essere
governato.
Un popolo da governare quindi, che essendo governato,
viene conseguentemente privato dellasua podestà.
Odifreddi
ci ricorda
come Il rigore matematico del premio Nobel Kenneth Arrow dimostra l’impossibilità di potere
avere un sistema di votazione equo, qualsiasi sistema di voto può essere
manipolato o viceversa il solo sistema di voto non manipolabile è la dittatura.
Prendendo
le mosse da “Arrow”, anche un altro “premio Nobel Amartya Kumar Sen “dimostra
che, c’è un conflitto insanabile tra libertà e diritti, possono crearsi delle
situazioni in cui solo un individuo può avere garanzia dei suoi diritti
assoluti, il conflitto tra democrazia e diritti quindi può risolversi nella
figura di un dittatore, un solo individuo che può averli per tutti.
Lo stesso “Sen” ha detto:
“L’euro
è stata un’idea orribile. Lo penso da tempo. Un errore che ha messo l’economia
europea sulla strada sbagliata”.
Ecco
quindi come la democrazia si è trasformata:
da
potere del popolo a dittatura monocratica che anziché vestire i panni di un
singolo personaggio veste i panni di un sistema economico globalizzato.
La
democrazia non esiste soprattutto quando i poteri dello stato sono sottomessi
alla finanza.
La
separazione Banca d’Italia e Tesoro, primi anni ‘80 era stato l’inizio di una
impostazione di politica economica che permetteva un trasferimento di sovranità
dagli Stati ai mercati.
In
Italia c’è un allarme, lanciato da più parti e non da adesso, che “teorizza
l’insostenibilità della moneta comune, dell’euro”.
O
meglio di una scelta che ci è stata imposta come strumento per sottometterci
economicamente e conseguentemente politicamente.
La storia di Carlo VIII” continua, solo che
questa volta a chiamare lo straniero non è stato un principe lombardo ma tutta una classe politica, per suo
stesso dire, incapace di governare.
Che la
classe politica italiana sia incapace di governare ce ne dà prova adesso come
ce ne ha dato prova, in modo continuativo e sostanziale, negli ultimi decenni.
Basta ricordare il cosiddetto “Governo tecnico
di Mario Monti”, un golpe applaudito dai più, passato alla storia oggi per
essere stato il più nefasto della storia dell’Italia contemporanea.
Ma il
problema oggi che più ci interessa è sottolineare come questa incertezza ed
incapacità di governare, possa trascinare con sé alla deriva tutta la civiltà e
la cultura italiana.
Possa, in altri termini, rappresentare la fine
di una civiltà, fenomeno che qualcuno indica con l’espressione di “genocidio
culturale” concetto, non nuovo, usato già da “Pasolini” nel 1974.
O
suicido, come Don Giussani ebbe a scrivere sulla “scomparsa del senso di
missione che ogni civiltà porta con sé. Come se l’occidente sentisse di aver
esaurito il suo ciclo bimillenario”.
Diversi
studi mettono in relazione la fine dell’impero romano con la fine della civiltà
occidentale.
Furono
gli stessi soldati romani che aiutarono i Goti ad attraversare il” limes”, su
comando imperiale.
Le inefficienze e la corruzione dei funzionari
fecero il resto, fino alla sconfitta nei pressi di Adrianopoli dove lo stesso
imperatore “Flavio Giulio Valente” venne ucciso.
Era il 9 agosto del 378 d.c. questo ci dice la
storia ed il giornalista “Antonio Socci” lo sottolinea nella sua ultima opera:
“Traditi, sottomessi, invasi” (Rizzoli – 2018).
Più
canonico “Silvano Messina” che nel suo libro “L’ultimo canto del cigno” (Aletti
Editore – 2018) pone la classica data storica del 476 come fine dell’impero romano.
Di
fatto sono bastati comunque non più di alcuni decenni per fare scomparire un
impero, quello romano che dominava tutto il mondo civilizzato.
In
questa fenomenologia, si intrecciano fattori esterni ed interni prosegue il
Nostro nel descrivere l’Agonia della Civiltà Occidentale, come sottotitola il
libro.
Fattori
esterni:
cambiamenti climatici ed idrogeologici, flussi
migratori;
fattori
interni:
la politica e le istituzioni, l’economia,
l’evoluzione sociale e la legalità.
La nostra storia contemporanea è quindi un
dejà vu, le cause ci sono tutte, non ci rimarrà che aspettare la fine?
Secondo
la lingua accadica dei popoli mesopotamici l’Italia avrebbe lo stesso
significato originario d’Europa: la terra dove tramonta il sole, l’occidente!
La fine dell’Italia rappresenterebbe la logica
fine di tutto l’occidente.
Già “Spengler,”
aveva descritto la fine della civiltà occidentale, negli anni venti, come un
periodo culturalmente arido e politicamente fragile.
Un
periodo dominato dal denaro, un periodo senza speranza futura.
Ed
oggi che siamo dominati dalla Finanza?
Come
abbandonare la drammatica ed angosciante postura, che tutti noi abbiamo
assunto, dell’uomo urlante di Munch?
Oppure
dobbiamo credere che l’uomo sia sempre prigioniero del suo tempo, e che la fine
dell’Italia coincida con la fine dell’Europa e dell’intero Occidente, per noi
oggi, come lo è stato per i romani?
Unica
risposta possibile: la ricerca di nuovi e credibili paradigmi.
INCENDIO
DI UNA DEMOCRAZIA.
Opinione.it - Gerardo Coco – (24 febbraio
2022) – ci dice:
In
questi ultimi giorni abbiamo assistito in tempo reale alla trasformazione del
Canada da regime democratico a totalitario ma non c’è stato un politico
occidentale che di fronte all’incendio di questa democrazia liberale, che
brucia diritti umani e libertà civili, abbia urlato “al fuoco!”, né abbia
riconosciuto ciò che sta accadendo.
I media e praticamente tutte le principali
organizzazioni per i diritti civili del pianeta, hanno o quasi ignorato la
repressione di “Justin Trudeau” o dipinto la rivolta pacifica dei camionisti
canadesi come atto terroristico.
E se questo incendio si diffondesse
rapidamente in diverse democrazie liberali?
Forse
che i leader occidentali vorrebbero poter fare ciò che sta facendo il primo
ministro canadese e invidiano la sua presa di potere autoritaria?
È
difficile non pensarlo dopo che hanno assaporato due anni del potere di polizia
sanitaria.
La
loro resistenza a rinunciarvi dovrebbe essere l’avvertimento che, per
giustificare più poteri statali e la sospensione delle libertà, sarebbero
pronti a creare altre emergenze, naturalmente in linea con le direttive della
macchina tecnocratica globale di cui sono servitori.
Trudeau, ormai dittatore a tutti gli effetti,
scavalcando il Parlamento, ha introdotto la legge marziale sguinzagliando
contro i camionisti la polizia che ha dimostrato al mondo intero di non essere
diversa dai nazisti tedeschi per i quali la scusa era sempre la stessa: quella
di eseguire solo ordini.
È
tragico che stiano difendendo “Trudeau” che, presa la strada oscura della
dittatura, sequestra i conti bancari di persone che legittimamente protestano e
sceglie di distruggere sulla scena mondiale l’immagine del suo Paese come
nazione libera, rispettosa della legge e porto sicuro per il capitale
internazionale.
Chi, ora, investe in Canada dopo che il suo vice primo
ministro, “Chrystia Freeland”, ha ammesso che, ai sensi dell’”Emergency Act”,
le banche possono congelare o sospendere immediatamente i conti bancari senza
un ordine del tribunale ed essere protette dalla responsabilità civile?
Fu il
crollo della fiducia a far fuggire i capitali dalla Germania e far nascere in
Svizzera le leggi sulla segretezza bancaria.
Sia
durante l’iperinflazione di Weimar, sia durante il nazismo, l’apparato politico
germanico proibì il possesso di denaro al di fuori del Paese spingendo la
Svizzera a creare conti numerati segreti per proteggere i tedeschi in fuga dal
regime.
Come i tedeschi, ora anche i canadesi,
camionisti compresi, per aggirare Trudeau stanno aprendo conti in dollari
americani al di fuori del sistema bancario canadese.
La
polizia canadese aveva una scelta:
o
difendere il popolo e la nazione da “Trudeau,” essendo questi un vero e proprio
traditore che prende ordini da un’entità straniera:
il “World economic forum” (Wef),
o
unirsi alla tirannia che distruggerà il futuro del suo Paese. Finora si è schierata con la tirannia
e contro le loro stesse famiglie.
“
Trudeau” e la “Freeland”, che è nel Consiglio del Wef, sono burattini del
fondatore di questa organizzazione, “Klaus Schwab” che li ha indottrinati su
un’agenda globalista e anti-umana che cerca di schiavizzare l’umanità, il”
Great Reset”, un’agenda globale per eliminare la proprietà privata e instaurare
una forma di marxismo tecnocratico su scala globale lasciando ricchezza e
potere nelle mani di una ristretta élite dopo aver eliminato libertà, libero
mercato e classi medie.
Schwab
(in questo video) si vanta apertamente di essere il burattinaio dei leader
occidentali e di essersi infiltrato nei loro governi per promuovere questa
agenda.
Ciò
spiega l’uniformità delle politiche Covid dei Paesi del “mondo libero” che
hanno sospeso le libertà civili con blocchi tirannici, mascherine, vaccini,
passaporti e dati falsi sulla pandemia.
Il Covid-19 non è stato altro che un pezzo del
puzzle di questa agenda per ridisegnare l’economia mondiale e creare un Governo
mondiale che richiede il controllo e la sottomissione delle masse.
Ecco
perché, tanto per cominciare, la vicepremier canadese “Freeland” ha affermato
di voler
rendere permanente l’invasivo sistema di sorveglianza finanziaria per
distruggere e reprimere in modo assoluto le proteste per le libertà civili e
de-finanziare ogni opposizione.
I
parlamentari e i capi delle province canadesi dovrebbero essere consapevoli che
la violenza nelle strade di Ottawa contro i camionisti potrebbe essere
scatenata anche contro di loro.
Storicamente, infatti, cosa succede, quando
una nazione democratica viene assassinata?
I
parlamentari non sembrano capire che ora il loro ex collega, “Justin Trudeau”,
può arrestare non solo i camionisti, la cui legittima protesta è stata
dichiarata illegale, ma anche gli stessi parlamentari leader dell’opposizione.
Questo
potrebbe essere il passo successivo di questa presa di potere.
I tiranni cercano di sospendere i normali
processi parlamentari abbastanza a lungo da svuotare i poteri del corpo
legislativo, per garantire che quando e se un Parlamento si riunisce di nuovo
sia solo un’assemblea cerimoniale.
In questa fase non si torna a uno stato
precedente dell’ordine della società civile senza una guerra civile.
Purtroppo, non esiste un modo pacifico per
affrontare una dittatura e questo sembra essere il destino del Canada.
Ps:
Ventiquattro ore dopo aver scritto il presente articolo, “Trudeau” è stato
costretto ad abbandonare il suo “Emergency Act “poiché, in seguito al
congelamento dei conti bancari senza un ordine del tribunale, un’incredibile
quantità di denaro è fuggita dalle banche canadesi.
La domanda di dollari è più che triplicata con
un aumento del 500 per cento solo nelle 24 ore precedenti.
Questo
è il problema dei politici.
Sono
semplicemente incapaci di prendere decisioni intelligenti.
“Trudeau”
ha creato una crisi molto seria e la semplice revoca del suo atto di emergenza
non convincerà il capitale internazionale a fidarsi del Canada finché lui sarà
al potere.
IL
PIANO PER ATTUARE
UN
NUOVO ABOMINIO.
Opinione.it - Gerardo Coco – (14 febbraio 2023)
- Redazione – ci dice:
L’ultimo
capro espiatorio del culto dell’allarmismo climatico è l’agricoltura, la fonte
dell’alimentazione umana.
I
leader globali del “World Economic Forum” (Wef) hanno decretato che
l’agricoltura deve essere limitata per “salvare il pianeta”.
Per cui entro il 2030 cercheranno di imporre
alla “plebe” la pratica ecologicamente sana dell’entomofagia, cioè della dieta
basata sugli insetti.
“Nessuno
sarà costretto a mangiare insetti” ha twittato di recente “la Commissione
europea”, che segue rigorosamente l’”agenda distopica del Wef”.
Ma la
costante propaganda contro il consumo di carne e a favore del programma
mangia-insetti con l’uso di parole d’ordine come “sostenibilità”, “rispetto
dell’ambiente” e “dieta responsabile” per ridurre le emissioni di gas serra e
lo spreco alimentare, ci porta a pensare che l’intenzione sia quella di forzare
il consumo mainstream di insetti.
Il
nuovo regolamento dell’Unione europea consente, ora, di trasformare grilli,
coleotteri e locuste in alimenti ma il suo sito web informa che ci sono altre
otto “domande per insetti destinati ad essere commercializzati in forme
diverse”.
Il “World
Economic Forum” ha scoperto, infatti, fino a cinque modi in cui i pasti a base
di insetti possono ridurre il cambiamento climatico.
Quindi
l’obiettivo è quello di introdurne quanto più possibile negli alimenti.
Se le
normative future consentiranno o richiederanno una certa percentuale di insetti
in ogni hamburger venduto nei supermercati, sarà difficile trovare opzioni di
carne al cento per cento.
E
sempre più aziende agricole saranno costrette a chiudere, per soddisfare le
normative dell’Ue sui cambiamenti climatici.
L’inquietante
legislazione per infiltrare gli insetti nel nostro cibo è stata sponsorizzata
da celebrità che, ora, mangiano insetti davanti alla telecamera e da
giornalisti tradizionali che scrivono articoli per promuovere “l’inevitabilità”
di mangiare quello che, adesso, chiamano “micro-bestiame”.
La
strategia è stata questa.
Creare,
attraverso l’allarmismo, il bisogno: proteggere l’ambiente.
Far sentire le persone virtuose nell’avere
tale bisogno.
E, solo allora, lanciare prodotti che
capovolgono paradigmi millenari.
Quindi,
guadagnare enormi profitti.
Non
sorprende che milioni di dollari siano già stati investiti in allevamenti di
insetti.
E
siccome non si vuole vederli andare in fumo, si chiederà agli organismi
sovranazionali (a cui i governi ormai rispondono) di normalizzare la pratica
dell’entomofagia.
Perché
dovremmo permettere a questa classe dirigente autoeletta di invertire le norme
accettate su cosa mangiare e non mangiare?
Il consumo di insetti è forse salutare?
La “Food and Drug Administration”,
responsabile del controllo e supervisione della produzione alimentare degli
americani, tratta gli insetti come sporcizia o difetti del cibo capaci di
provocare danni all’organismo umano.
Una prima conseguenza dell’entomofagia sono le
reazioni allergiche.
Coloro
che già soffrono di asma, raffreddore da fieno, eruzioni cutanee o altre
allergie potrebbero avere gravi problemi a mangiare insetti e anche persone
normali, cominciando a mangiarli, potrebbero sviluppare delle allergie.
Ma ci
sono conseguenze peggiori.
Poiché
molti insetti si nutrono di materia in decomposizione, sviluppano batteri
nocivi e varietà di stafilococchi che causano gravi malattie.
Gli insetti ospitano anche virus, parassiti, funghi e
altri contaminanti, che potrebbero avvelenarci o danneggiare il nostro apparato
digerente.
In fondo, pungiglioni, ali, spine e altre
caratteristiche possono rappresentare un rischio di soffocamento.
Le
tecniche di produzione possono essere progettate per rimuoverle, ma una
porzione delle parti dure degli insetti è destinata a rimanere.
Infine,
la chitina, il componente strutturale naturale che si trova negli esoscheletri
degli insetti, porta all’esaurimento delle vitamine nel corpo umano.
Ma
nonostante questi problemi evidenti, si sta andando avanti con questa
abominevole agenda, creando false crisi per spingere il pubblico a consumare
insetti.
Attualmente,
non esistono normative per la loro produzione e il loro consumo.
Ma il potere delle agenzie sovranazionali, fiorito
durante la recente pandemia, piegherà e infrangerà ingegnosamente i vecchi
regolamenti creandone di nuovi per servire i padroni politici che anelano al
nuovo ordine mondiale.
Per
l’élite globalista, la pandemia è stata un test di successo per progettare una
crisi, prendere il controllo e guadagnare miliardi nel processo.
A meno
di non denunciare le loro macchinazioni, porteranno a termine questa e
ulteriori nefandezze.
I blocchi, le interruzioni della filiera di
approvvigionamento, la crisi energetica, l’esclusione di famiglie di
agricoltori dall’esistenza, l’ondata di misteriosi incendi e incidenti che
hanno distrutto l’approvvigionamento alimentare e le strutture di
distribuzione:
tutto ciò ha inaugurato una crisi alimentare
ingegnerizzata.
La
soluzione proposta dai globalisti, mangiare insetti, potrebbe essere molto più
redditizia della truffa del vaccino Covid.
Ma il
piano per imporre la nuova tirannia alimentare sarà più difficile da attuare. Gli occidentali non saranno disposti
a ripensare il loro approvvigionamento alimentare per “soddisfare la visione totalitaria di
psicopatici”
che vogliono cancellare anche la cultura del cibo.
Sappiamo che non c’è niente di razionale o sostenibile
nel mangiare insetti. L’umanità è in cima alla catena alimentare e può
proteggere la Terra che abita senza ridursi a mangiare insetti.
Dio
definisce i cibi impuri un “abominio”.
Le
leggi bibliche sulla salute sono delineate nel Levitico 11 e l’umanità che le
rifiuta lo fa a suo rischio e pericolo.
Trump,
il ritorno.
Quando tutte
le strade sembrano portare a una dittatura.
Ilfoglio.it
- ROBERT KAGAN – (18 DIC. 2023) – ci dice:
Trump
sta correndo contro il sistema.
Biden
è l'incarnazione vivente del sistema.
Vantaggio: Trump.
Un
sistema giudiziario che non è riuscito a controllare Trump come individuo
privato non lo controllerà di certo quando sarà presidente degli Stati Uniti e
sarà lui a nominare il proprio procuratore generale.
Al
primo mandato, “The Donald” ha manomesso la democrazia americana, e non si
riesce ad aggiustarla.
Ora
che vuole il secondo mandato, s’aggiunge la determinazione a vendicarsi.
(Un
saggio di Robert Kagan)
Smettiamola
di credere alle false illusioni e affrontiamo la cruda realtà:
negli Stati Uniti esiste un percorso chiaro
verso la dittatura, che si accorcia ogni giorno di più.
Fra 13
settimane Donald Trump avrà conquistato la nomination repubblicana. Nella media
dei sondaggi di” RealClearPolitics” (per il periodo dal 9 al 20 novembre),
Trump è in vantaggio di 47 punti sul concorrente più vicino e di 27 punti su
tutti gli altri sommati.
L’idea che sia ineleggibile alle elezioni generali è
insensata – in tutti gli ultimi sondaggi Trump pareggia o è in vantaggio sul
presidente Biden – e priva gli altri sfidanti repubblicani della loro ragione
di esistenza.
Il fatto che molti americani potrebbero
preferire altri candidati, fatto tanto sbandierato da politici saggi come “Karl
Rove”, diventerà presto irrilevante quando milioni di elettori repubblicani si
presenteranno per scegliere la persona che nessuno presumibilmente vuole.
Da
molti mesi viviamo in un mondo di auto-illusione, pieno di eventualità solo
immaginate.
Forse
sarà “Ron DeSantis”, o forse “Nikki Haley”.
Forse le innumerevoli accuse giudiziarie di
Trump lo allontaneranno dagli elettori dei sobborghi.
Una
speranzosa speculazione come questa ci ha permesso di andare avanti
passivamente, fare le nostre cose come al solito, senza reagire in modo
drammatico per cambiare il corso della situazione, nella speranza e in attesa
che qualcosa accadrà.
Come
le persone su una barca in mezzo al fiume, da tempo sappiamo che c’è una
cascata davanti, ma supponiamo che in qualche modo troveremo la soluzione per
raggiungere la costa prima di arrivarci.
Ma ora le azioni necessarie per tornare a
terra sembrano sempre più difficili, se non assolutamente impossibili.
La
fase del pensiero magico sta finendo.
Fatto
salvo qualche miracolo, Trump sarà presto il presunto candidato repubblicano
alla presidenza.
Quando ciò accadrà, ci sarà un cambiamento
rapido e drammatico nella dinamica del potere politico, a suo favore.
Finora, i repubblicani e i conservatori hanno
goduto di relativa libertà per esprimere sentimenti anti Trump, per parlare
apertamente e positivamente di candidati alternativi, per tentare critiche sul
comportamento passato e presente di Trump.
I donatori che trovano Trump disgustoso sono
stati liberi di distribuire i loro soldi per aiutare i suoi concorrenti.
I
repubblicani dell’establishment non hanno nascosto la loro speranza che Trump
venga condannato, e quindi rimosso dall’equazione senza dover prendere
posizione contro di lui.
Tutto
questo finirà quando Trump vincerà il “Super Tuesday”.
I voti sono la valuta del potere nel nostro
sistema, e il denaro segue, e con queste misure Trump sta per diventare molto
più potente di quanto non sia già.
L’ora del casting per le alternative si sta
chiudendo.
La fase successiva riguarda le persone che si
sottometteranno.
Infatti,
è già tutto iniziato.
Con la sua nomina che diventa inevitabile, i
donatori stanno iniziando a passare da altri candidati a Trump.
La
recente decisione del “network politico di Koch” di andare dietro alla
speranzosa candidata del Gop “Nikki Haley” è a malapena sufficiente per
cambiare questa traiettoria.
E
perché?
Se
Trump sarà il candidato, ha senso passare con lui finché è ancora grato ai
disertori.
Anche i donatori anti Trump devono chiedersi
se la loro causa è meglio servita quando si allontanano del tutto dall’uomo che
ha una ragionevole possibilità di essere il prossimo presidente.
I
dirigenti aziendali metteranno in pericolo gli interessi dei loro azionisti
solo perché loro o i loro coniugi odiano Trump?
Non sorprende che le persone con parecchi
soldi appesi a un filo siano i primi a cambiare casacca.
Il
resto del Partito repubblicano seguirà rapidamente.
La
recente esortazione di “Rove” che gli elettori delle primarie scelgano chiunque
ma non Trump, è l’ultima supplica di questo tipo che probabilmente sentiremo da
parte di qualcuno che ha un futuro nel partito.
Anche in una campagna elettorale normale, il
dissenso intrapartitico inizia a scomparire una volta che le primarie producono
un chiaro vincitore.
La
maggior parte dei principali candidati si sono già impegnati a sostenere Trump
dovesse essere il candidato, anche prima che abbia vinto un solo voto alle
primarie.
Immaginate la loro postura dopo che vincerà il
Super Tuesday.
La
maggior parte dei candidati che ora lo sfidano correranno da lui, facendo
campagna in suo favore.
Dopo
il Super Tuesday, per un repubblicano non ci sarà un percorso più sicuro e più
breve per la presidenza che diventare nel ticket elettorale il fedele compagno
di un uomo che avrà 82 anni nel 2028.
I
repubblicani che hanno cercato di attraversare l’era Trump mescolando appelli
agli elettori non trumpiani con ripetute professioni di fedeltà a Trump
finiranno questo show.
Per
quanto sia pericoloso per i repubblicani dire una parola negativa su Trump
oggi, sarà impossibile una volta che avrà ottenuto la nomination.
Il
partito sarà in piena modalità elezioni generali, subordinando tutto alla
campagna presidenziale.
Quale
repubblicano o conservatore si opporrà a Trump allora?
La pagina editoriale del “Wall Street Journal”,
che si è opposta in modo piuttosto deciso a Trump, continuerà a farlo una volta
che sarà il candidato e la scelta tra Trump e Biden sarà una scelta binaria?
Non ci
saranno più lotte intestine, ma solo lotte esterne;
in breve, uno tsunami di sostegno a Trump da
tutte le direzioni.
Un
vincitore è un vincitore.
E un
vincitore che ha una ragionevole possibilità di esercitare tutto il potere che
c’è da esercitare nel mondo attirerà consensi a prescindere da chi sarà.
Questa è la natura del potere, in qualsiasi
momento e in qualsiasi società.
Ma
Trump non dominerà solo il suo partito.
Diventerà
di nuovo il centro dell’attenzione di tutto.
Già
oggi i media non possono fare a meno di seguire ogni parola e azione di Trump.
Una
volta ottenuta la nomination, egli incomberà sul paese come un colosso, ogni
sua parola e gesto saranno oggetto di una cronaca infinita.
Ancora oggi, i media tradizionali, tra cui il
Post” e “Nbc News,” stanno unendo le forze con gli avvocati di Trump per
ottenere la copertura televisiva del suo processo penale federale a Washington.
Trump
intende usare il processo per promuovere la sua candidatura e screditare il
sistema giudiziario americano come corrotto – e i media, al servizio dei loro
interessi, lo aiuteranno a farlo.
Trump
entrerà quindi nella campagna elettorale generale all’inizio del prossimo anno
con un certo slancio, sostenuto da crescenti risorse politiche e finanziarie e
da un partito sempre più unito.
Si può dire lo stesso di Biden?
Il
potere di Biden crescerà nei prossimi mesi?
Il suo partito si unirà attorno a lui, oppure
l’allarme e i dubbi dei democratici, che sono già alti, continueranno ad
aumentare?
Anche
in questo momento, il presidente è alle prese con defezioni a due cifre tra
americani di colore ed elettorato più giovane.
“ Jill
Stein” e “Robert F. Kennedy Jr”. hanno già lanciato, rispettivamente, campagne
con un terzo partito e da indipendente, attaccando Biden soprattutto dalla
sinistra populista.
La
decisione del senatore democratico “Joe Manchin III” di non ricandidarsi per la
rielezione in “West Virginia “e di prendere in considerazione una candidatura
con un altro partito alla presidenza è potenzialmente devastante.
È
probabile che la coalizione democratica rimanga frammentata mentre i
repubblicani si unificano e Trump consolida la sua posizione.
Biden,
come alcuni hanno sottolineato, non gode dei consueti vantaggi dell’essere il
presidente in carica.
Dopotutto,
anche Trump di fatto è stato in carica.
Ciò
significa che Biden non può fare la solita affermazione del presidente in
carica, secondo cui l’elezione dell’avversario rappresenta un salto
nell’ignoto.
Pochi repubblicani considerano la presidenza
Trump come anomala o fallimentare.
Nel
suo primo mandato, gli “adulti” rispettati che l’hanno circondato non solo
hanno bloccato alcuni dei suoi impulsi più pericolosi, ma li hanno anche tenuti
nascosti al pubblico.
Ancora oggi, alcuni di questi stessi
funzionari raramente parlano pubblicamente attaccandolo.
Perché gli elettori repubblicani dovrebbero
avere un problema con Trump se coloro che lo hanno servito non ce l’hanno?
A
prescindere da ciò che pensano i nemici di Trump, questa sarà una battaglia tra
due presidenti legittimi e collaudati.
Trump, nel frattempo, gode del solito
vantaggio del non essere in carica, ovvero la mancanza di responsabilità.
Biden
deve portare i problemi del mondo come una pietra intorno al collo, come ogni
presidente in carica, ma la maggior parte dei presidenti in carica può almeno
affermare che l’avversario è troppo inesperto per affrontare la gestione di
queste crisi.
Biden
non può.
Sotto
l’egida di Trump non c’è stata un’invasione su larga scala dell’Ucraina, né un
grave attacco a Israele, né un’inflazione incontrollata, né una disastrosa
ritirata dall’Afghanistan.
È
difficile dimostrare l’inadeguatezza di Trump a chi non ci crede già.
Inoltre, Trump gode di alcuni vantaggi
insoliti per uno sfidante.
“Ronald
Reagan” non aveva dalla sua né “Fox News” né “speaker della Camera”. Se
esistono dei vantaggi strutturali per le prossime elezioni generali, insomma,
li ha tutti Trump.
E
questo prima ancora di arrivare al problema che ha Biden, problema che non può
risolvere: la sua età.
Trump
gode anche di un altro vantaggio.
L’umore
nazionale a meno di un anno dalle elezioni è di disgusto bipartisan verso il
sistema politico in generale.
Raramente
nella storia americana è stato così evidente il disordine intrinseco della
democrazia.
Nella “Germania
di Weimar”, “Hitler” e altri agitatori traevano vantaggio dalla litigiosità dei
partiti democratici, di destra e di sinistra, dalle interminabili lotte sul
bilancio, dagli ingorghi nella legislatura, dalle coalizioni fragili e
fratturate.
Gli
elettori tedeschi desideravano sempre di più qualcuno che desse un taglio a
tutto questo e portasse a termine qualcosa, qualsiasi cosa.
Non
importava nemmeno chi ci fosse dietro la paralisi politica, se l’intransigenza
provenisse da destra o da sinistra.
Oggi i
repubblicani potrebbero essere responsabili per il malfunzionamento di
Washington e potrebbero pagarne il prezzo nelle elezioni non presidenziali.
Ma
Trump beneficia della disfunzione perché è colui che offre una risposta
semplice: lui stesso.
In
queste elezioni, è il candidato con il messaggio “posso usare un potere senza
precedenti per ottenere le cose, e al diavolo le regole”.
E un
numero crescente di americani sostiene di volere questa cosa, in entrambi i
partiti.
Trump sta correndo contro il sistema.
Biden
è l’incarnazione vivente del sistema.
Vantaggio:
Trump.
Il che
ci porta ai fronti legali sempre più numerosi di Trump.
Senza
dubbio Trump avrebbe preferito candidarsi senza passare la maggior parte del
tempo a respingere i tentativi di metterlo in prigione.
Tuttavia,
è nelle aule di tribunale che nei prossimi mesi mostrerà il suo insolito potere
all’interno del sistema politico americano.
È difficile dare torto a coloro che hanno
portato Trump in tribunale.
Sicuramente
ha commesso almeno uno dei crimini di cui è accusato;
non abbiamo bisogno di un processo per sapere
che ha cercato di sovvertire le elezioni del 2020.
Né si
possono biasimare coloro che hanno sperato in questo modo di ostacolare il suo
cammino verso lo Studio Ovale.
Quando
un predone si sta abbattendo su casa tua, gli lanci addosso tutto quello che
puoi – pentole, padelle, candelabri – nella speranza di rallentarlo e farlo
inciampare.
Ma
questo non significa che funzioni.
Trump
non sarà contenuto dai tribunali o dallo Stato di diritto.
Al contrario, userà i processi per mostrare il
suo potere.
Ecco
perché vuole che siano trasmessi in televisione.
Il
potere di Trump deriva dal suo seguito, non dalle istituzioni del governo
americano, e i suoi devoti elettori lo amano proprio perché supera le barriere
e ignora i vecchi confini.
Si
sentono autorizzati da questo, e questo a sua volta dà potere a lui.
Anche
prima dell’inizio dei processi, si prende gioco dei giudici, costringendoli a
cercare di mettergli la museruola, sfidando i loro ordini.
È un
po’ come “King Kong” che prova le catene alle braccia, intuendo che può
liberarsi quando vuole.
E aspettate che i voti inizino ad arrivare.
I giudici metteranno in prigione il candidato
repubblicano per oltraggio alla corte? Quando sarà chiaro che non lo faranno,
l’equilibrio del potere all’interno del tribunale, e nel paese in generale, si
sposterà di nuovo verso Trump.
L’esito più probabile dei processi sarà quello
di dimostrare l’incapacità del nostro sistema giudiziario di contenere una
persona come Trump e, incidentalmente, di rivelare l’impotenza del sistema nel
controllarlo dovesse diventare presidente.
Incriminare
Trump per aver cercato di rovesciare il governo si rivelerà simile a
incriminare” Cesare” per aver attraversato il Rubicone, e sarà altrettanto
efficace. Come “Cesare”, Trump esercita un potere che trascende le leggi e le
istituzioni del governo, basato sull’incrollabile fedeltà personale del suo
esercito di seguaci.
Ho
detto tutto questo solo per rispondere a una semplice domanda:
Trump
può vincere le elezioni?
La
risposta, a meno che non accada qualcosa di radicale e imprevisto,
è
certo che può.
Se
così non fosse, il Partito democratico non sarebbe in preda al panico.
Se
Trump vincerà le elezioni, diventerà immediatamente la persona più potente che
abbia mai ricoperto quella carica.
Non
solo eserciterà gli impressionanti poteri dell’esecutivo americano – poteri
che, come lamentavano i conservatori, sono cresciuti nel corso dei decenni – ma
lo farà con il minor numero di vincoli di qualsiasi altro presidente, ancora
meno di quelli del suo primo mandato.
Cosa
limita questi poteri?
La
risposta più ovvia è:
le
istituzioni della giustizia, che Trump, con la sua stessa elezione, avrà
sfidato e rivelato come impotenti.
Un
sistema giudiziario che non è riuscito a controllare Trump come individuo
privato non lo controllerà di certo quando sarà presidente degli Stati Uniti e
sarà lui a nominare il proprio procuratore generale e tutti gli altri alti
funzionari del Dipartimento di Giustizia.
Pensate
al potere di un uomo che si fa eleggere presidente nonostante le accuse, le
apparizioni in tribunale e forse anche la condanna.
Obbedirebbe
a una direttiva della Corte suprema?
O
chiederebbe invece quante divisioni corazzate ha il presidente della Corte?
Un
Congresso in futuro lo fermerà?
Al giorno d’oggi i presidenti possono fare
molto senza l’approvazione del Congresso, come ha dimostrato anche Barack
Obama.
Gli unici controlli che il Congresso ha su un
presidente disonesto, l’impeachment e la condanna, si sono già rivelati quasi
impossibili, anche quando Trump non era presidente ed esercitava un modesto
potere istituzionale sul suo partito.
Un’altra
tradizionale forma di controllo su un presidente è la burocrazia federale, quel
vasto apparato di funzionari governativi che eseguono le leggi e portano avanti
le operazioni di governo sotto ogni presidente.
In
genere, il loro compito è quello di limitare le opzioni di presidente.
Come
disse una volta “Harry S. Truman”:
“Povero
Ike.
Dice ‘fai questo’ e ‘fai quello’ e non succede
niente”.
Questo
è stato un problema per Trump durante il suo primo mandato, in parte perché non
aveva una propria squadra di governo per riempire l’amministrazione. Questa
volta lo farà.
Coloro che sceglieranno di servire nella sua
seconda amministrazione entreranno in carica con l’intenzione di rifiutarsi di
eseguire i suoi desideri.
Se la”
Heritage Foundation” farà la sua parte, e non c’è motivo di credere che non la
farà, molti di questi burocrati di carriera se ne andranno, sostituiti da
persone accuratamente “vagliate” per garantire la loro fedeltà a Trump.
E che dire del desiderio di rielezione, un
fattore che limita la maggior parte dei presidenti?
Trump
potrebbe non volere o avere bisogno di un terzo mandato.
E se decidesse di volerne uno, come ha
talvolta indicato, davvero il 22esimo emendamento eviterebbe più efficacemente
che diventasse presidente a vita rispetto invece a portare tutto davanti alla
Corte Suprema, se rifiutasse di essere bloccato dall’emendamento?
Perché
si dovrebbe pensare che questo emendamento sia più sacrosanto di qualsiasi
altra parte della Costituzione per un uomo come Trump o, forse più importante,
per i suoi devoti sostenitori?
Un
ultimo vincolo per i presidenti è stato il loro desiderio di una legacy
scintillante, con il successo tradizionalmente misurato in termini che
equivalgono approssimativamente al benessere del paese.
Ma è
questo il modo di pensare di Trump?
Sì, Trump potrebbe cercare una grande legacy,
ma desidera solo la sua gloria. Come per Napoleone, che parlava della gloria
della Francia, ma le cui ambizioni ristrette a sé e alla sua famiglia portarono
la Francia alla rovina, le ambizioni di Trump, anche se parla di rendere
l’America di nuovo grande, iniziano e finiscono chiaramente con sé stesso.
Per
quanto riguarda i suoi seguaci, non deve ottenere nulla per mantenere il loro
sostegno:
la mancata costruzione del muro durante il suo
primo mandato non ha danneggiato in alcun modo la posizione di milioni di suoi
fedelissimi.
Non
gli hanno mai chiesto nulla se non di trionfare su quelle forze della società
americana che loro odiano.
E questa, possiamo esserne certi, sarà la
missione principale di Trump come presidente.
Avendo
risposto alla domanda se Trump possa vincere, possiamo ora affrontare la
domanda più pressante: questo suo secondo mandato si trasformerà in una
dittatura?
Le probabilità, ancora una volta, sono
piuttosto alte.
Vale
la pena entrare un po’ nella mente di Trump e immaginare il suo stato d’animo
dopo una vittoria elettorale.
Avrà
trascorso l’anno precedente, e più, lottando per evitare la prigione,
tormentato da innumerevoli accusatori e incapace di fare ciò che gli piace di
più: vendicarsi.
Pensate
alla furia che si sarà accumulata dentro di lui, una furia che, dal suo punto
di vista, ha dovuto contenere con molta fatica.
Come
ha detto una volta:
“Penso
di essere stato molto limitato, se volete sapere la verità.
Potrei
riaccendere tutto”.
Certamente
potrebbe, e lo farà.
Abbiamo
potuto saggiare la sua profonda sete di vendetta quando ha promesso, nel giorno
dei Veterani, di “eliminare i comunisti, i marxisti, i fascisti e gli
estremisti di sinistra che vivono come vermi all’interno del nostro paese,
mentono, rubano e imbrogliano alle elezioni, e faranno tutto ciò che è
possibile, legale e illegale, per distruggere l’America e il sogno americano”.
Notate
l’equiparazione tra sé stesso e “l’America e il sogno americano”.
È
convinto che lo vogliono distruggere e, da presidente rieletto, restituirà il
favore.
Come?
Trump
ha già citato alcuni di coloro che intende perseguire una volta eletto:
funzionari che hanno ricoperto incarichi importanti durante il suo primo
mandato. Come il generale in pensione “John F. Kelly”, il generale “Mark A.
Milley”, l’ex procuratore generale “William P. Barr” e altri che hanno detto
cose contro di lui dopo le elezioni del 2020;
funzionari
dell’ “Fbi” e della “Cia” che lo hanno indagato nell’inchiesta sulla Russia;
funzionari del dipartimento di Giustizia che hanno rifiutato le sue richieste
di annullare le elezioni del 2020;
membri della commissione sul 6 gennaio;
avversari
del Partito democratico come il rappresentante “Adam B. Schiff” (California); e
repubblicani che hanno votato a favore o pubblicamente sostenuto il suo
impeachment e la sua condanna.
Ma
questo è solo l’inizio.
Dopotutto,
Trump non sarà l’unico a cercare vendetta.
La sua Amministrazione sarà piena di persone
con la propria lista di nemici, un gruppo determinato di funzionari “vetted”
che considereranno come loro compito autorizzato dal presidente
“l’eliminazione” di coloro nel governo di cui non ci si può fidare.
Molti saranno semplicemente licenziati, ma
altri saranno oggetto di indagini che distruggeranno le loro carriere.
L’Amministrazione Trump sarà piena di persone
che non avranno bisogno di istruzioni esplicite da parte di Trump, proprio come
i “gauleiters” di Hitler non avevano bisogno di istruzioni.
In tali circostanze, le persone “lavorano
verso il Führer”, cioè anticipano i suoi desideri e cercano il suo favore
facendo atti che possono renderlo felice, migliorando così la propria influenza
e il proprio potere.
E non
sarà difficile trovare motivi per accusare gli avversari.
La
nostra storia è purtroppo piena di casi di funzionari presi di mira
ingiustamente, considerati dalla parte sbagliata su una determinata questione
nel momento sbagliato:
per esempio i “China Hands” del dipartimento
di stato alla fine degli anni 40, le cui carriere furono distrutte perché si
trovarono in posizioni di influenza durante la Rivoluzione comunista cinese.
Oggi
si sente aria di un nuovo maccartismo.
I
repubblicani “Maga” insistono sul fatto che Biden stesso sia un “comunista”,
che la sua elezione sia stata una “presa del potere comunista” e che la sua
Amministrazione sia un “regime comunista”.
Non
sorprende quindi che Biden abbia un “programma pro Partito comunista cinese (Pcc)”, come ha dichiarato quest’anno la “potente
presidente della commissione per l’”Energia e il Commercio della Camera”, la repubblicana “Cathy McMorris
Rodgers”, e che stia deliberatamente “cedendo leadership e sicurezza americane
alla Cina”.
I repubblicani in questi giorni accusano – è
quasi una routine – i loro avversari di essere non soltanto ingenui e poco
attenti alla potenza crescente della Cina, ma di essere proprio “simpatizzanti”
di Pechino.
“La
Cina comunista ha il suo presidente China Joe”, ha twittato la deputata
repubblicana Marjorie Taylor Greene il giorno dell’inaugurazione di
Biden.
Il
senatore repubblicano “Marco Rubio” ha chiamato il presidente “Pechino Biden”.
Il
candidato repubblicano al Senato nel “New Hampshire” dello scorso anno ha
addirittura chiamato il governatore repubblicano “Chris Sunun”u un
“simpatizzante del Partito comunista cinese.”
Possiamo aspettarci che questa retorica
aumenti quando la guerra contro il “deep state” si farà più seria.
Secondo
il senatore repubblicano” Josh Hawley”, c’è un’intera cabala determinata a
minare la sicurezza americana, un “Partito Unico” di élite composto da
“neoconservatori a destra” e “globalisti liberali a sinistra” che non sono veri
americani e quindi non hanno a cuore gli interessi reali dell’America.
Un tale comportamento “anti americano” può
essere reso un reato?
È
successo in passato e può esserlo di nuovo.
Quindi,
l’Amministrazione Trump troverà molti modi per perseguitare i suoi nemici,
reali e presunti.
Pensate
a tutte le leggi attualmente in vigore che danno al governo federale un enorme
potere per sorvegliare le persone a causa di possibili legami con il
terrorismo, un termine pericolosamente adattabile, senza dimenticare tutte le
consuete possibilità di indagare presunte evasioni fiscali o violazioni delle
leggi sulla registrazione di agenti stranieri.
L’”Irs”
(l’Agenzia delle entrate americana), sotto la guida di entrambi i partiti, ha
occasionalmente valutato la revoca dello status di esenzione fiscale a certi
think tank perché sostenevano politiche in linea con le opinioni dei partiti
politici.
Cosa
succederà al ricercatore di un “think tank” durante un secondo mandato di Trump
che sostiene che gli Stati Uniti dovrebbero ammorbidire la pressione sulla
Cina?
O al
funzionario del governo abbastanza avventato da mettere questo pensiero su
carta intestata?
Non
serviva molto altro, negli anni 50, per rovinare carriere.
E chi
fermerà le indagini e le persecuzioni improprie dei numerosi nemici di Trump?
Lo farà il Congresso?
Il
Congresso a maggioranza repubblicana sarà impegnato a condurre le proprie
indagini, a utilizzare i propri poteri per convocare persone accusate di ogni
tipo di crimine, proprio come fa ora.
Avrà
importanza che le accuse siano infondate?
E
ovviamente in alcuni casi saranno vere, il che darà ancora maggiore validità a
inchieste più ampie contro i nemici politici.
“Fox News” li difenderà o invece
amplificherà le accuse?
I
media americani resteranno divisi come lo sono oggi tra quelli che si rivolgono
a Trump e al suo pubblico e quelle che non lo fanno.
Ma se
chi governa ha dichiarato i media “nemici dello stato”, questi si ritroveranno
sotto una pressione significativa e costante.
I proprietari dei media scopriranno che un
presidente ostile e senza freni può rendere la loro vita sgradevole in molti
modi.
Infatti,
chi difenderà chiunque venga accusato pubblicamente a parte i suoi avvocati?
Con
una nuova presidenza Trump, il coraggio che ci vorrà per difenderli non sarà
inferiore al coraggio che ci vorrà per opporsi allo stesso Trump.
Quanti
saranno disposti a rischiare le proprie carriere per difendere gli altri?
In una nazione congenitamente sospettosa nei
confronti del governo, chi difenderà i diritti degli ex funzionari che
diventano bersagli del dipartimento di Giustizia di Trump?
Ci saranno ampi precedenti per coloro che
cercheranno di giustificare la persecuzione.
Abraham
Lincoln sospese l’habeas corpus, l’Amministrazione Wilson chiuse giornali e
riviste che criticavano la guerra;
Franklin D. Roosevelt radunò gli americani di
origine giapponese e li mise nei campi.
Pagheremo
il prezzo per ogni trasgressione mai commessa contro le leggi progettate per
garantire i diritti e le libertà individuali.
Come
risponderanno gli americani ai primi segni di un regime di persecuzione
politica?
Si ribelleranno indignati? Non contateci
troppo.
Coloro
che non hanno trovato motivo di opporsi a Trump durante le primarie e nella
competizione generale difficilmente avranno un risveglio improvviso quando
qualche ex collaboratore di Trump, come “Milley”, si troverà sotto indagine per
chissà cosa.
Sapranno
soltanto che i procuratori del dipartimento di Giustizia, l’Irs, l’Fbi e
diverse commissioni parlamentari hanno aperto delle indagini.
E chi
può dire che coloro che vengono perseguitati non siano in realtà evasori
fiscali, spie cinesi, pervertiti o qualsiasi altra cosa di cui potranno essere
accusati? La maggioranza degli americani riconoscerà la persecuzione e i primi
passi per sopprimere l’opposizione a Trump?
La
dittatura di Trump non sarà una tirannia comunista, in cui quasi tutti
percepiscono l’oppressione e le loro vite ne sono plasmate.
Nelle tirannie conservatrici e illiberali, ci
sono tutti i tipi di limitazioni delle libertà, ma è un problema per le persone
soltanto nella misura in cui attribuiscono valore a quelle libertà, e molte
persone non lo fanno.
Il fatto che questa tirannia dipenderà
interamente dai capricci di un uomo significherà che i diritti degli americani
saranno condizionati anziché garantiti.
Ma se
la maggior parte degli americani può svolgere la propria vita quotidiana senza
intoppi, potrebbe non preoccuparsi, proprio come molti russi e ungheresi non se
ne preoccupano.
Sì, ci
sarà un vasto movimento di opposizione centrato sul Partito democratico (Dem
Usa), ma è difficile capire esattamente come questa opposizione fermerà la
persecuzione.
Il Congresso e i tribunali offriranno poco
sollievo.
I
democratici, in particolare i più giovani, sbraiteranno e denunceranno, ma se
non saranno sostenuti dai repubblicani, la loro sembrerà la solita
partigianeria.
Se i
democratici continueranno a controllare una delle due camere del Congresso,
potranno contenere alcune derive, ma le probabilità che controllino entrambe le
camere dopo il 2024 sono inferiori alle probabilità di una vittoria di Biden.
Né ci
sono ragioni sufficienti per sperare che l’opposizione disordinata e
disfunzionale a Trump di oggi diventi improvvisamente più unita ed efficace una
volta che Trump prenderà il potere.
Non è
così che funzionano le cose.
Nelle
dittature in evoluzione, l’opposizione è sempre debole e divisa.
È
proprio questo in primo luogo che rende possibile la dittatura.
I movimenti di opposizione raramente diventano
più forti e più uniti sotto le pressioni della persecuzione.
Al giorno d’oggi non c’è un leader dietro cui
i democratici possano riunirsi ed è difficile immaginare che possa emergere una
volta che Trump riconquisterà il potere.
Ma
anche se l’opposizione diventasse forte e unita, non è ovvio che cosa potrebbe
fare per proteggere chi è perseguitato dai trumpiani.
La
capacità dell’opposizione di esercitare forme legittime, pacifiche e legali del
potere è già stata giudicata insufficiente in questo ciclo elettorale, quando
democratici e repubblicani anti Trump hanno utilizzato ogni strumento legittimo
contro Trump e hanno comunque fallito.
Utilizzeranno
quindi azioni illegittime, extralegali?
E come
apparirebbe questa scelta?
Gli
americani potrebbero scendere in strada.
In
effetti, è probabile che molte persone si uniscano a proteste contro il nuovo
regime, forse anche prima che abbia avuto la possibilità di dimostrare di
meritarle.
Ma poi
cosa accadrà?
Anche
nel suo primo mandato, Trump e i suoi consiglieri in più di un’occasione hanno
discusso dell’invocazione dell”’Insurrection Act”.
Neanche
un difensore della democrazia americana come “George H.W. Bush” ha invocato
questa legge per affrontare le sommosse di Los Angeles nel 1992.
È
difficile immaginare che Trump non lo invochi se “i comunisti, i marxisti, i
fascisti e i teppisti della sinistra radicale” scendono in strada.
Viene il sospetto che non si lascerà scappare
questa occasione.
E chi
lo fermerà?
I suoi consiglieri militari? Pare improbabile.
Potrebbe
nominare il tenente generale in pensione “Michael Flynn” a capo dello stato
maggiore congiunto se lo volesse, ed è improbabile che un Senato repubblicano
rifiuti di confermarlo.
Qualcuno
pensa che i leader militari disobbediranno ai comandi del loro comandante in
capo eletto e autorizzato dalla Costituzione?
Di più: vogliamo davvero che i militari debbano
prendere quella decisione?
C’è ragione di credere che le truppe in
servizio attivo e le riserve siano più inclini a simpatizzare con un presidente
Trump appena rieletto rispetto ai presunti “teppisti della sinistra radicale”
che causano caos nelle strade delle loro città.
Coloro
che sperano di essere salvati da un esercito degli Stati Uniti devoto alla
protezione della Costituzione vivono in un mondo di fantasia.
La
resistenza potrebbe provenire dai governatori di stati prevalentemente
democratici come “California” e “New York” attraverso una forma di
nullificazione:
gli
stati con governatori e parlamenti democratici potrebbero rifiutarsi di
riconoscere l’autorità di un governo federale tirannico.
Questa
è sempre un’opzione nel nostro sistema federale.
(Se Biden vincesse, alcuni stati repubblicani
potrebbero fare altrettanto e utilizzare la teoria della nullificazione.)
Ma
nemmeno gli stati più progressisti sono monolitici, e i governatori democratici
potrebbero trovarsi sotto assedio nel loro stesso territorio se cercano di
diventare bastioni di resistenza alla tirannia di Trump.
I
repubblicani e i conservatori in tutto il paese saranno energizzati dal trionfo
del loro eroe.
Il
cambio di potere a livello federale, e il tono di minaccia e vendetta
proveniente dalla Casa Bianca, probabilmente incoraggeranno ogni tipo di
contro-resistenza persino negli stati profondamente democratici, comprese
proteste violente.
Quali
risorse avranno i governatori per contrastare gli attacchi e mantenere
l’ordine?
La
polizia statale e locale?
Queste
entità saranno disposte a usare la forza contro i manifestanti che
probabilmente godranno del sostegno pubblico del presidente?
I governatori democratici potrebbero non avere
il desiderio di scoprirlo.
Se
Trump riuscisse a lanciare una campagna di persecuzione e l’opposizione
dimostrasse di essere impotente nel fermarla, allora la nazione avrà iniziato
la discesa irreversibile verso la dittatura.
Con il
passare dei giorni, sarà sempre più difficile e pericoloso fermarla con
qualsiasi mezzo, legale o illegale.
Provate
a immaginare cosa significherà candidarsi per un incarico politico nell’ambito
dell’opposizione in questa situazione.
In
teoria, le elezioni di metà mandato del 2026 potrebbero rappresentare una
speranza per il ritorno dei democratici, ma Trump non utilizzerà i suoi
considerevoli poteri, sia legali sia illegali, per impedirlo?
Trump
insiste e senza dubbio crede che l’Amministrazione attuale abbia corrotto il
sistema giudiziario per cercare di impedirgli la rielezione.
Non si
considererà giustificato a fare lo stesso una volta che avrà tutto il potere?
Ha, naturalmente, già promesso di fare esattamente questo:
utilizzare
i poteri del suo incarico per perseguitare chiunque osi sfidarlo.
Questa
è la traiettoria che stiamo percorrendo adesso.
È
inevitabile la dittatura?
No.
Nulla nella storia è inevitabile.
Eventi
imprevisti cambiano le traiettorie.
I lettori di questo mio saggio senza dubbio
elencheranno tutte le ragioni per cui è troppo pessimistico e non tiene
sufficientemente conto di questa o quella possibilità alternativa.
Forse,
nonostante tutto, Trump non vincerà.
Forse
la monetina cadendo darà testa e saremo tutti al sicuro.
E
forse anche se dovesse vincere, non farà nulla di ciò che dice che farà.
Potete trovare conforto in questi pensieri, se
volete.
Ciò
che è certo, però, è che le probabilità che gli Stati Uniti cadano in una
dittatura sono cresciute considerevolmente perché molti degli ostacoli a essa
sono stati superati e ne restano soltanto alcuni.
Se
otto anni fa sembrava letteralmente inconcepibile che un uomo come Trump
potesse essere eletto, quell’ostacolo è stato superato nel 2016.
Se poi
sembrava impensabile che un presidente americano tentasse di restare in carica
dopo aver perso un’elezione, quell’ostacolo è stato superato nel 2020.
E se nessuno poteva credere che Trump, dopo aver
tentato e fallito di invalidare le elezioni e fermare il conteggio dei voti del
collegio elettorale, riemergerà comunque come leader indiscusso del Partito
repubblicano e suo candidato di nuovo nel 2024, be’, anche quest’ostacolo sarà
presto superato.
In soli pochi anni siamo passati da essere
relativamente sicuri della nostra democrazia a essere a pochi passi – questione
di mesi – dalla possibilità di una dittatura.
Stiamo
facendo qualcosa a riguardo?
Per
cambiare metafora: se pensassimo che ci fosse il 50 per cento di possibilità
che un asteroide si schiantasse sull’America del nord tra un anno, saremmo
contenti di sperare che non accadesse?
O prenderemmo ogni misura concepibile per
cercare di fermarlo, incluso molti interventi che potrebbero non funzionare ma
che, data la gravità della crisi, devono essere comunque tentati?
Sì, so
che la maggior parte delle persone non pensa che un asteroide si stia dirigendo
verso di noi e questo fa parte del problema.
Ma
altrettanto grande è stato il problema di coloro che vedono il rischio ma per
una varietà di motivi non hanno ritenuto necessario fare sacrifici per
prevenirlo.
A ogni
punto lungo il percorso, i nostri leader politici, e noi come elettori, abbiamo
lasciato passare le occasioni per fermare Trump, convinti che avrebbe
incontrato prima o poi un ostacolo insuperabile.
I
repubblicani avrebbero potuto fermare Trump dall’ottenere la nomination nel
2016, ma non lo hanno fatto.
Gli
elettori avrebbero potuto eleggere “Hillary Clinton”, ma non l’hanno fatto. I
senatori repubblicani avrebbero potuto votare per condannare Trump in uno
qualsiasi dei suoi processi di impeachment, cosa che avrebbe reso molto più
difficile la sua corsa alla presidenza, ma non lo hanno fatto.
Durante
questi anni, si è messa in moto una psicologia comprensibile ma fatale.
A ogni stadio, fermare Trump avrebbe richiesto azioni
straordinarie da parte di certe persone, che fossero politici, elettori o
donatori, azioni che non si allineavano con i loro interessi immediati o anche
semplicemente con le loro preferenze.
Sarebbe stato straordinario per tutti i repubblicani
che si candidavano contro Trump nel 2016 decidere di rinunciare alle loro
speranze per la presidenza e unirsi intorno a uno di loro.
Invece, si sono comportati normalmente,
spendendo il loro tempo e il loro denaro attaccandosi l’un l’altro, pensando
che Trump non fosse la loro sfida più seria, o che qualcun altro lo avrebbe
fermato, aprendo così la strada alla nomination di Trump.
E hanno, con poche eccezioni, fatto lo stesso
in questo ciclo elettorale.
Sarebbe
stato straordinario se “Mitch McConnell” e molti altri senatori repubblicani
avessero votato per condannare un presidente del loro stesso partito.
Invece,
hanno creduto che, dopo il 6 gennaio 2021, Trump fosse finito e quindi che
andasse bene non condannarlo ed evitare di diventare dei paria nella vasta
folla di sostenitori di Trump.
A ogni
passo, la gente ha creduto di poter continuare a perseguire i propri interessi
e le proprie ambizioni personali con la convinzione che prima o poi, qualcun
altro o qualcos’altro, o semplicemente il destino, avrebbe fermato Trump.
Perché
avrebbero dovuto sacrificare loro le proprie carriere?
Dovendo
scegliere tra una scommessa ad alto rischio e sperare nel meglio, la gente in
generale spera nel meglio.
Dovendo
scegliere tra fare il lavoro sporco da soli e lasciare che altri lo facciano,
la gente preferisce generalmente la seconda opzione.
Si è
messa in moto anche una psicologia paralizzante di appeasement.
A ogni stadio, il prezzo per fermare Trump è aumentato
sempre di più.
Nel
2016, il prezzo era rinunciare a un’opportunità per la Casa Bianca.
Una
volta che Trump è stato eletto, il prezzo dell’opposizione, o anche solo
l’assenza di lealtà ossequiosa, è diventato la fine della propria carriera
politica, come hanno scoperto “Jeff Flake,” “Bob Corke”r, “Paul D. Ryan” e
molti altri.
Nel
2020, il prezzo è salito di nuovo.
Come racconta “Mitt Romney” nella recente
biografia di “McKay Coppins”, i repubblicani del Congresso che contemplavano di
votare a favore dell’impeachment e della condanna di Trump temevano per la loro
sicurezza fisica e quella delle loro famiglie.
Non c’è motivo per cui quella paura debba
essere minore oggi.
Ma
aspettate che Trump torni al potere e il prezzo di opporsi a lui diventerà
persecuzione, perdita economica e pure la perdita della libertà.
Coloro che hanno esitato a resistere a Trump quando il
rischio era soltanto l’oblio politico scopriranno improvvisamente il proprio
coraggio quando il costo potrebbe essere la rovina di sé stessi e della propria
famiglia?
Siamo
più vicini a quel punto oggi di quanto non lo siamo mai stati, eppure
continuiamo a scivolare verso la dittatura, sperando ancora in qualche
intervento che ci permetta di sfuggire alle conseguenze della nostra codardia
collettiva, della nostra ignoranza compiaciuta e deliberata e, soprattutto,
della nostra mancanza di un impegno profondo verso la democrazia liberale.
E
stiamo scivolando verso la dittatura, come si dice,” not with a bang but a
whimper”, non con uno schianto ma con un piagnucolio.
(Robert
Kagan, copyright Washington Post)
Commenti
Posta un commento