Se a capo di una nazione vi è un tiranno … è troppo tardi!
Se a
capo di una nazione vi è un tiranno … è troppo tardi!
Una
repubblica da mantenere.
Cespi.it
– (13 settembre 2023) - Francesco Olivieri – ci dice:
Negli
Stati Uniti siamo alla vigilia di un nuovo “anno elettorale”, in cui si inizia
e si porta a compimento il macchinoso processo che indicherà, nel novembre del
2024, il prossimo governante della nazione.
Storicamente,
la macchina elettorale americana favorisce la discesa in campo di candidati
vigorosi sprizzanti energia, che vengono proiettati al più alto livello di
potere, sia pure con alterni risultati.
Tra
questi, uomini nuovi che hanno lasciato una traccia, come JF Kennedy, o magari
Obama, oppure che hanno ravvivato la fiamma di dinastie politiche già avviate,
come i Bush o i Roosevelt.
Il
loro biglietto da visita è sempre stato quello del vigore, dello spirito del
“can do”, che proietta un'immagine intonata all'autoritratto dell'America.
Le
ansietà e le aspirazioni del momento in cui si trovano a competere, confluendo
con l'esibizione della personalità che esprimono, vengono esaltate dalla
prepotente retorica che non è mai mancata sulla scena politica statunitense.
Sarà
così anche nel 2024, un anno in cui i maggiori contendenti sono veterani
ottantenni e il paese oscilla tra diverse contrarie visioni del futuro?
Tra
cinque mesi si va infatti al primo voto, le primarie dei partiti per la scelta
finale dei candidati.
Da
parte Democratica, se Biden stesso non decide diversamente, come a volte è
accaduto (Johnson) – la “nomination” del suo partito gli appartiene
praticamente di diritto.
Tuttavia i sondaggi dell'elettorato più vasto
– anche se non proibitivi – non sono entusiastici.
Anche
in America aleggia il dubbio che Biden al termine di una lunga carriera possa
essere oggi troppo anziano e affaticato per esprimere in modo convincente
l'incessante energia che i votanti cercano nel candidato da mandare a
Washington.
Trump
non è tanto più giovane, ma è molto più rumoroso e lo fa dimenticare. Donde il
quesito:
avrà Biden ancora abbastanza consenso
personale da portare il suo partito oltre l'ostacolo?
Una
parte degli elettori del suo partito si dichiara soddisfatta del suo operato;
globalmente, il suo indice di popolarità nel paese gira intorno al 40%.
A un anno dal voto, è un valore mediocre ma non preclusivo, sostanzialmente
pari a quello di cui gode Trump.
Il
solo rivale nel partito è per ora l'ultimo, dirazzato, dei Kennedy, che ha
raccolto circa il 20% dei Democratici contro il suo 60%.
Il bersaglio dei Repubblicani resta perciò
Biden;
ma
mentre è difficile immaginarlo nei panni del tiranno cripto-comunista che
dipingono i suoi avversari, Biden può invece essere vulnerabile in quelli di un
uomo logorato dalle responsabilità di un intenso impegno politico durato
cinquant'anni, con dodici anni di Casa Bianca, e ora sensibile alle ricadute
negative di un figlio discutibile.
Forse
troppo per attirare -oltre al voto convinto del suo partito- anche il voto
degli indipendenti, necessario per un solido nuovo mandato nei tempi
conflittuali che viviamo.
Sulla
riva opposta, c'è ora solo Trump.
Poco
dopo l'inizio delle primarie, avviare anche il suo processo per il tentativo di
interferire con le elezioni del 2020 nello Stato della Georgia: ed è questa
solo una in un nugolo di imputazioni, federali e statali.
L'America
sta finalmente per affrontare il lascito del suo quadriennio, conclusosi con il
molteplice attacco alle istituzioni nel fallito tentativo di perpetuarlo.
La
partita non è decisa a priori: Trump ha un ascendente quasi mussoliniano sui
suoi seguaci, e per lui è ormai troppo tardi per accettare la sconfitta del
2020 senza deluderli;
può
quindi solo rincarare la dose. D'altra parte, il tentativo dei nuovi aspiranti
in seno al partito di presentarsi come una alternativa aggiornata ha prodotto
imitatori che non possono sostituirsi a lui se non superandolo, inutilmente
cercando cioè di essere più trumpisti di Trump (esempio De Santis, il
Governatore dalla Florida).
La
risposta popolare indica invece che gli americani che vogliono un Trump,
vogliono l'originale, non una versione domestica.
Quindi in mancanza di una implosione spontanea di Donald Trump, gli altri
conservatori in lista per il 2024 hanno poco spazio, anche quando sono dei
politici sperimentati (come per esempio Nikky Haley, già Governatore della
Carolina del Sud, o lo stesso De Santis).
Intanto
Trump, che veleggia nella fascia del 40% dei consensi generici ed è sostenuto
da una sua specie di culto, gode pur sempre di un suo appoggio popolare;
e
questo sostegno non è intaccato nemmeno dalla rivalità interna tra gli
aspiranti alla candidatura presidenziale.
In conclusione, il partito Repubblicano ha
oggi ancora bisogno del potere di attrazione di questa improbabile figura per
vincere.
Tuttavia,
politica e giustizia camminano su binari diversi.
La
giustizia ha un proprio ritmo, lento e deliberato, ma si muove.
Proprio
in questi giorni, uno dei primi leader dei gruppi paramilitari impegnati nella
rivolta del 6 gennaio 2021 a Washington è stato condannato a una lunga pena di
detenzione.
Saranno
forse allora i tribunali a decidere le elezioni del prossimo anno?
Le
svariate imputazioni che fioccano contro l'ex Presidente coprono una litania di
reati che partono dalla sua condotta come uomo d'affari – noto per la
disinvoltura con cui maneggiava la sua contabilità – per affrontare poi
l'ancora maggiore disinvoltura con cui da Capo dello Stato ha maneggiato non
solo i segreti della nazione, ma la nazione stessa, al momento di contare i
voti per accogliere il verdetto dei cittadini.
Non essendoci la possibilità di conciliare
truffa elettorale e fedeltà alla democrazia, l'esito parrebbe scontato.
Ma non
lo è.
Si è
atteso molto a lungo questo giudizio: la giustizia, notoriamente bendata, non
può affrettarsi senza un serio rischio di inciampare.
Ne è risultato un macchinario giuridico
complesso, che finisce con l’attivazione dei tribunali proprio sulla soglia di
un anno di elezioni. Anche senza essere una forzatura creata per favorire
l'accusa, questa circostanza sarà sfruttata della difesa.
condanna sarebbe fatale non per la pena stessa
che ne può ricevere, ma per effetto del poco conosciuto “14mo emendamento della
Costituzione americana”, che esclude esplicitamente l'eleggibilità a qualunque
incarico federale di chi abbia complottato contro l'Unione.
Un
verdetto di quel tenore, che potrebbe essere l'esito del processo con
riferimento ai fatti del 6 gennaio, potrebbe sbarrare per sempre la via a
Trump.
Ma potrà davvero essere conclusivo se milioni
di cittadini lo interpreteranno come una mossa politica?
Nella
realtà, il futuro verdetto dei dodici giurati del tribunale per il fallito
putsch del 2021 diventerà finale solo quando sarà avallato dai prevedibili 160
milioni di americani che voteranno nel novembre del 2024.
Quanto
accade in questi tempi negli Stati Uniti cancella l'immagine fantastica di un
paese che ha trovato la formula di un governo democratico senza fatica.
“Questa
sarà una repubblica”, disse Franklin, aggiungendo “…se sapremo conservarla”.
Oggi
più che mai, le sue parole sembrano profetiche.
La repubblica è divisa, non solo dai
prevedibili particolarismi che esistono in seno ad ogni grande e vasta nazione,
ma dalla sempre più difficile convivenza di due contrarie immagini della sua
stessa vocazione nazionale.
Una
parte della cittadinanza crede nel governo delle regole concordate tra i
cittadini, solidamente osservate, e nella forza che deriva dalla loro unione;
l'altra
preferisce invece riferirsi allo spirito di indomito individualismo che ha
caratterizzato la storica sfrenata espansione della nazione.
Per quest'ultima, la legge non basta, se il
poliziotto è distratto: tutto ciò che è a portata può essere ambito ed
appropriato, se non compare ad impedirlo una maggiore forza contraria.
Al
limite, esiste compassione, un dovere morale, ma non solidarietà, un dovere
civile.
Tutto
ciò ha quasi il sapore di una guerra di religione.
Quando questa dicotomia diventa
contrapposizione ideologica si favorisce una frattura nello spirito della
nazione, che sovverte l'idea di unione al suo centro.
È già accaduto una volta, e la ferita non è
ancora completamente cicatrizzata. Non per nulla i padri fondatori degli Stati
Uniti avevano adottato nella loro iconografia nazionale l'immagine romana del
fascio littorio, che si trova ovunque: anche sulla parete che fa da sfondo alla
Camera, nel Congresso, se ne trovano due, muti ed eloquenti, a ricordare agli
americani che senza l'unione non c'è la forza.
Con
queste premesse, il prossimo anno sarà carico di tensione, e sarà più oneroso
il fardello dei suoi governanti.
In
Europa, più che in America, ci si è molto concentrati sull'età del Presidente.
Secondo chi scrive, che ha ragioni anagrafiche per simpatizzare con Biden, può
ritenersi un problema minore:
non
inesistente, ma neanche da esagerare, ed ha anche le sue compensazioni.
Un
antico proverbio spagnolo dice che “il diavolo la sa lunga perché è
vecchio, mica perché è diavolo”. Le schermaglie congressuali di questo biennio tendono
a confermarlo. La più recente crisi parlamentare è stata quella del “plafond del
deficit”, risolta abilmente da un Biden dai capelli bianchi.
Ma
Trump non è un parlamentare, e la massa dei suoi seguaci lo segue proprio
perché invidia la sua disponibilità a avviare obiettivi personali senza
riguardo alle regole.
Questa
filosofia egocentrica, che Trump non ha inventato ma che ha elevato a un palese
principio di vita, a sua volta conduce a una nazione transazionale.
In cambio di un potere quasi autocratico,
Trump offre “panem et circenses” (soprattutto circenses) ai suoi elettori, che
invidiano la sua impenitente noncuranza per la legge.
Non
era certo questa la lezione dei padri della patria, né dei loro successori per
oltre due secoli, nemmeno nei peggiori momenti di crisi nazionale.
La
generazione che ha perpetuato fin qui la visione dei fondatori sta infatti
scomparendo.
La
vecchiaia di Biden non è solo il problema di Biden, è un problema del paese,
non perché il Presidente non sia in grado di fare il suo mestiere, ma perché un
suo fallimento potrebbe segnalare una transizione politica più estesa e più
profonda, e un passaggio di consegne più radicale.
Occorrerebbe
ritrovare un consenso nazionale, che non sembra più implicito ea portata di
mano dei politici attuali.
Inoltre, la vecchiaia è crudelmente
imparziale, e colpisce entrambi i campi: i telegiornali stanno ora dibattendo
la reale portata di alcune presunte manifestazioni di senilità del Presidente
del Senato McConnell, il più autorevole parlamentare Repubblicano della
“vecchia scuola”, a lungo un collega di Biden nel suo periodo al Senato.
Questo
dovrebbe ricordarci che gli equilibri parlamentari non sono garantiti nei
termini elevati che abbiamo conosciuto nel passato, e che hanno consentito
anche a maggioranze ristrette di condurre il paese con sicurezza attraverso
percorsi difficili e non lineari, come all'epoca di McCarthy, Nixon e per altri
versi anche quella dei Bush, con maggioranze ad hoc basate sul buon senso e su
una condivisione dei valori.
Questo
richiederebbe continuità col passato, e comunanza di ideali.
Trump
ha già vinto una volta, e può vincere ancora; e non ha lasciato dubbi su quale
campo sia il suo.
Resta
da ricordare che un suo secondo mandato sarebbe comunque l'ultimo consentito, e
bisogna anche chiedersi allora come userebbe il suo nuovo quadriennio per
costruire una protezione a prova di legge.
Gli attentatori
del duce
Benito
Mussolini.
Storicang.it
- Matteo Dalena – (25 agosto 2021) – ci dice:
Se nel
proprio passato da socialista rivoluzionario Benito Mussolini fu un convinto
assertore del tirannicidio, tra il 1925 e il 1926 il primo ministro italiano
sfruttò i molteplici attentati contro la sua persona per dare una svolta in
senso totalitario al Paese.
FASCISMO.
Durante
il ventennio fascista molti italiani avrebbero accolto con soddisfazione
l’assassino del duce Benito Mussolini.
Molti
altri ne sarebbero rimasti sinceramente affranti, ma solo in pochi – due
uomini, una donna e un ragazzo – ebbero l’ardire di tentare l’impossibile:
eliminare il duce, fondatore e capo del fascismo.
Un
veterano della Prima guerra mondiale e deputato socialista, una lady irlandese
il cui petto ardeva di misticismo, un impavido anarchico già noto alla polizia
e un ragazzino bolognese di soli sedici anni dal 4 novembre 1925 al 31 ottobre
1926 attentarono alla vita del presidente del consiglio del regno d’Italia
Benito Mussolini.
Poi
tra il 1931 e il 1932 ci furono i tentativi anch’essi fallimentari degli
anarchici Michele Schirru e Angelo Pellegrino Sbardellotto, condannati a morte
per fucilazione dal Tribunale Speciale.
I loro
nomi e le loro figure si perdono negli anfratti della storia, perché l’atto
estremo che provarono a mettere in pratica – l’omicidio politico o, in altri
termini, il tirannicidio – per una qualche ragione non andò a buon fine.
Se uno
di loro fosse riuscito nell’intento che si era prefissato, il suo nome avrebbe
fatto uno scatto di notorietà, al pari di quelli di Sante Caserio, Luigi
Lucheni e Gaetano Bresci rispettivamente attentatori del presidente della
repubblica francese Sadi Carnot (1894), di Elisabetta di Baviera detta “Sissi”
(1898) e del re d’Italia Umberto I (1900).
Poche
ore dopo l'attentato alla sua vita del 7 aprile 1926, Benito Mussolini, con un
cerotto sul naso, tenne un discorso dal balcone di Palazzo Chigi davanti a una
folla festante.
Tuttavia
molti storici sono concordi nell’affermare che fra il 1925 e il 1926 gli
attentati falliti ai danni del duce contribuirono a fomentare l’ala destra del
partito nazionale fascista che spingeva verso una svolta in senso totalitario.
Tramite
una serie di misure d’emergenza tra cui l’abolizione di tutti i partiti
politici eccetto il PNF, la chiusura dei giornali indipendenti, l’istituzione
di una nuova polizia politica e di un tribunale rivoluzionario speciale e
infine la reintroduzione della pena di morte nel 1926, l’Italia si apprestava a
diventare una dittatura.
Gli
attentati affrettarono tale deriva.
Se in
passato si tendeva a tener segreti oppure a rintuzzare la portata degli
attentati alla vita di primi ministri e altre istituzioni, secondo lo storico Denis Mack Smith a
quelli del 1925-1926 «fu data larga pubblicità, e ne fu fatto un uso
efficacissimo per attirare simpatie e adesioni».
La
creazione e il mantenimento del consenso richiedevano astuzia e cinismo e, in
tal senso, si diffusero voci sull’utilizzazione di provocatori da parte del
duce per sfruttare i vantaggi pubblicitari connessi a un attentato sventato
alla sua vita.
Il duce degli italiani e l’uomo forte del
fascismo, non poteva non uscire indenne e la sua figura fortificata.
Eppure
nell’estate del 1910 sulla rivista” Lotta di classe” Mussolini, all’epoca
segretario della federazione socialista di Forlì, sposava le ragioni di quelli
che sarebbero stati i suoi futuri assalitori:
«Non
mettiamoci, giudicando questi uomini e gli atti da loro compiuti, sullo stesso
piano della mentalità borghese e poliziesca… Riconosciamo invece che anche gli
atti individuali hanno il loro valore e qualche volta segnano l’inizio di
profonde trasformazioni sociali».
Pur sostenendo che «le bombe non possono
costituire, in tempi normali, un mezzo d’azione socialista» l’infervorato
militante era convinto che «quando un governo – repubblicano o imperiale o
borbonico – imbavaglia e vi getta fuori dall’umanità, oh! Allora non bisogna
imprecare alla violenza, anche se fa qualche vittima innocente».
Il
piccolo borghese
«Un
gesto simbolico di piccola borghesia disingannata e disperata.
Il
piccolo borghese che è stato sinceramente antifascista, tradito in tutte le sue
aspettazioni, aspira al gesto come ad una liberazione».
In
questi termini Palmiro Togliatti, segretario del partito comunista italiano,
avrebbe definito nel 1931 su “Stato Operaio” il proposito di Tito Zaniboni, ex
ufficiale pluridecorato della Prima guerra mondiale, appartenente alla
massoneria e che aveva fatto carriera nel partito socialista fino all’elezione
nel 1921 a deputato per la circoscrizione Udine-Belluno.
Alle
prime ore del mattino del 4 novembre 1925 Tito prese una camera nell’albergo
Dragoni, di fronte a palazzo Chigi a Roma.
Da una
finestra avrebbe potuto senza troppa difficoltà far fuoco con un fucile di
precisione verso il balcone dal quale Benito Mussolini si sarebbe affacciato da
lì a poche ore.
Ma mentre l’attentatore era intento a prepararsi un
gruppo di investigatori irruppe nella stanza d’albergo e lo arrestò.
Zaniboni
fu incarcerato, processato nella primavera del 1927 e condannato a trent’anni
di reclusione per alto tradimento.
Con
l’armistizio, nel 1943, Zaniboni tornò libero ed ebbe l’incarico di alto
commissario per l’epurazione dal fascismo.
Quanto all’attentato fallito, si profilò
l’ipotesi che un provocatore vicino alla polizia avesse incoraggiato e aiutato
Zaniboni nel suo proposito allo scopo di dimostrare al duce la propria fedeltà
ed efficienza.
Ma lo storico Mack Smith è andato oltre: «Zaniboni fu
certamente incoraggiato da un provocatore, e di nuovo l’occasione fu utilizzata
per attaccare immaginari istigatori stranieri. Nel quadro di una campagna
antimassonica, un uomo quasi certamente innocente, il generale Capello, fu
condannato per complicità […] al solito la cosa fu presa a pretesto per
perseguitare alcuni dei principali fogli indipendenti».
Lady
Violet.
«Dall’arma
nella sua mano scaturì uno scoppio e il dittatore tremò mentre il sangue gli
zampillava dal naso.
La donna puntò la pistola per sparare ancora.
Era vicina e da quella distanza era difficile che sbagliasse mira, ma quando
premette il grilletto la pallottola non partì. Ormai era troppo tardi per disarmare
l’arma e sparare ancora:
la
folla isterica si era scagliata contro di lei strappandole vesti e capelli, poi
robusti poliziotti l’avevano atterrata brutalmente».
Così
lo studioso statunitense Richard Oliver Collin descrive l’attimo in cui il 7
aprile 1926 un’esile signora di mezza età, dall’aspetto fragile e indifeso
sparò in volto a Benito Mussolini mentre questi lasciava il Campidoglio, a
Roma, acclamato dalla folla al termine di un convegno di chirurgia.
Violet
Albina Gibson era la figlia di un nobile angloirlandese, pari d’Inghilterra e
frequentatore di Buckingam Palace.
Infatuata
di misticismo a sfondo cattolico o, secondo alcuni, «non del tutto in senno»
per via di gravi problemi di salute che la costrinsero a vari ricoveri, Violet
decise di armarsi contro il primo ministro italiano.
Secondo
Collin fu colpita oltremodo dagli omicidi di marca fascista di don Giovanni
Minzoni (1923) e Giacomo Matteotti (1924) ma in generale dalla politica di
forza bruta e dalla violenza che aveva attanagliato il Paese.
Lo
studioso afferma che dopo l’attentato, durante un periodo di ricovero nel
manicomio di Sant’Onofrio, Violet avrebbe dichiarato che «l’esistenza di
Mussolini è contraria al volere di Dio».
Nonostante
le ipotesi di un possibile complotto antifascista che avrebbe armato la mano di
lady Violet, la donna comparì dinanzi al Tribunale Speciale che decise di
assolverla per infermità mentale.
Espulsa
dal Paese, fece ritorno scortata in Inghilterra dove per lei si spalancarono le
porte della clinica psichiatrica St Andrew's Hospital a Northampton.
Qui si spense – provando più volte a
riottenere la libertà – nel 1956.
Nel
1947 scrisse un’accorata lettera alla principessa e futura regina Elisabetta I:
«Nel 1926 sparai a Mussolini e fui rinchiusa in questo ospedale per compiacere
a Sua Maestà […] Non dovete temere che io tenti ancora di sparare a qualcuno,
poiché sono vecchia e malata e impegnata in attività molto tranquille,
soprattutto preghiere».
Ma
Elisabetta non avrebbe mai ricevuto la lettera in cui Violet invocava la
grazia, probabilmente perché recava una nota di accompagnamento su cui stava
scritto che «il mittente è malato di mente».
Gino
l'anarchico
Anche
in seno al proletariato italiano spuntavano i possibili attentatori del duce.
Erano «difensori arditi», «vindici», «giustizieri», convinti assertori della
«azione diretta», cioè di una risposta mirata e violenta al fascismo.
Secondo
questi «spettri macabri del momento estremo» c’era solo una soluzione alla
tirannide fascista:
«Senza
despota non c’è dispotismo: se si stronca il tiranno, la tirannide finisce»,
scrive il giornalista e studioso Giuseppe Fiori.
Uno degli attentatori era Gino Lucetti, un manovale
marmista ventiseienne originario della Garfagnana e di fede anarchica che provò
a stroncare la vita di Benito Mussolini.
L’11
settembre 1926 Lucetti attendeva tra la Nomentana e il piazzale di Porta Pia il
passaggio della vettura del duce.
Arrivato
dalla Francia pochi mesi prima, era disoccupato e per le sue idee anarchiche
era schedato come sovversivo e dunque considerato un potenziale delinquente.
Sempre secondo il racconto di Fiori, quel
giorno «l’auto del duce viene dalla Nomentana… s’avvicina… Lucetti aspetta che
sia a portata di lancio… è freddo, con forza scaglia una bomba a mano. Ha
mirato giusto. La bomba sbatte contro la parte superiore dello sportello di
destra. Ma scoppia solo dopo essere caduta a terra, e la macchina è distante
già alcuni metri.
Mussolini ne esce incolume, le schegge
feriscono otto passanti. E la folla si accanisce contro l’attentatore».
Nel
1927 Lucetti venne condannato dal Tribunale Speciale a trent’anni di carcere.
Liberato dagli alleati nel 1943 morì durante un bombardamento nazista nei
pressi di Ischia.
Anteo
il ragazzo.
«Se tu
vedessi, babbo, che faccia da delinquente ha Mussolini» confidò il sedicenne
Anteo Zamboni al padre Mammolo, tipografo bolognese d’idee antifasciste:
«Sì Anteo, volle attentare a Mussolini. E noi
non ne sapemmo nulla, perché egli seppe non farci sospettare, seppe non farci
sapere», scrive Mammolo Zamboni, padre di Anteo.
Il 31
ottobre 1926, quarto anniversario della marcia su Roma, Mussolini si trovava a
Bologna per una serie d’inaugurazioni e poco prima delle 18 si apprestava a
raggiungere, a bordo di un’Alfa Romeo scoperta guidata dal gerarca bolognese
Arpinati, la stazione ferroviaria per far ritorno a Roma.
Tra
via Rizzoli e via Indipendenza ci fu «uno sparo. Il colpo lacera la sciarpa
mauriziana e la giubba di Mussolini, poi buca il polsino della camicia nera del
podestà di Bologna.
Sul marciapiede a destra dell’auto, il
subbuglio. Novanta secondi dopo lo sparo, giace con quattordici pugnalate,
segni di strangolamento e un colpo di pistola, un ragazzo esile, slanciato, i
capelli biondicci. Ha sedici anni, si chiama Anteo Zamboni, tipografo…».
Anteo
Zamboni cercò di «liberare l’Italia dalla tirannia dell’uomo nefasto».
Il
quarto tentativo di uccidere il duce divenne la giustificazione per
l’instaurazione di una dittatura fascista.
Si addensarono persino i sospetti mai provati
che alcuni esponenti fascisti avessero progettato di uccidere il duce cercando
poi un capro espiatorio.
Secondo Mack Smith «ragioni di stato indussero
dunque Mussolini ad impartire istruzioni alla magistratura perché fossero
inflitte pesanti pene detentive a due familiari del ragazzo in quanto complici
dell’attentato, benché la polizia non fosse per nulla persuasa della loro
colpevolezza».
Mammolo Zamboni, padre di Anteo, e la zia
Virginia Tabarroni, furono condannati dal Tribunale Speciale a trent’anni di
prigione per aver condizionato il giovane Anteo.
Ricevettero
la grazia nel 1932.
Durante
il processo Mammolo sostenne l’innocenza del figlio e l’estraneità sua e della
cognata Virginia per convenienza, cioè perché «non si poteva dire allora che la
condanna fu conseguenza di un ordine di Mussolini» e dunque un errore
giudiziario.
Ma nel
secondo dopoguerra il padre addolorato fu libero di scrivere che «egli [Anteo]
andò incontro al martirio e alla morte con la ferma volontà di liberare
l’Italia dalla tirannia dell’uomo nefasto».
Conferenza
Bomba sui Vaccini:
“da EMA Fatti Scioccanti”
Conoscenzealconfine.it
- (26 Novembre 2023)- Redazione – Rumble. Com – ci dice:
Conferenza
del 21 novembre 2023 sui vaccini covid. Marcel de Graaff e altri eurodeputati:
“Da EMA fatti scioccanti”.
Rivelazioni
esplosive durante la conferenza stampa al Parlamento europeo. L’eurodeputato
olandese Marcel de Graaff, l’eurodeputato tedesco Joachim Kuhs, l’attivista
Willem Engel e il consulente medico Vibeke Manniche discutono le scioccanti
rivelazioni contenute nella lettera dell’Agenzia Europea per i medicinali,
l’EMA, del 18 ottobre 2023, lettera in risposta alla richiesta di sospensione
delle autorizzazioni di commercializzazione dei vaccini Covid-19 inoltrata
dagli stessi M. de Graaff e J. Kuhs.
Dalla
lettera dell’EMA emerge che l’uso dei vaccini Covid era stato consentito per
l’immunizzazione individuale, non per controllare il contagio e assolutamente
non per prevenire o ridurre le infezioni.
Nessuno
sotto i 60 anni correva il rischio di gravi complicazioni, quindi, salvo casi
particolari, nessuno avrebbe dovuto vaccinarsi.
Le
massicce campagne governative a vaccinarsi per proteggere i propri cari non
solo non erano autorizzate ma erano completamente insensate.
I
palazzetti dello sport pieni sono stati in palese contrasto rispetto all’uso
per il quale il vaccino era stato autorizzato dall’EMA.
Anche
il metodo di segnalazione degli effetti avversi scelto dalle politiche
governative non ha seguito le indicazioni dell’Ema, rendendo inefficace la
sorveglianza e impossibile il consenso informato.
Inoltre,
qualsiasi innovazione derivata dall’uso di tecniche di ingegneria genetica è da
considerarsi alla stregua di un OGM e sottoposta a specifiche normative che non
sono state rispettate.
L’mRNA
infatti non è umano e fa parte degli OGM.
L’EMA
poi era stata informata che alcuni lotti, definiti “blu”, creavano effetti
collaterali molto più numerosi e gravi, eppure nessuno è intervenuto… Ha
dichiarato M. de Graaff: “I governi dovrebbero essere ritenuti responsabili
delle loro bugie e dei loro inganni.”
(rumble.com/v3xl0iz-audio-ita-conferenza-bomba-vaccini-da-ema-fatti-scioccanti-21-nov-2023.html)
(t.me/detoxedinfotelegram)
L’umanità
tra progresso e regresso.
Neuroscienze.net - Guido Brunetti – (Marzo 6,
2019) – ci dice:
Una
nuova età dell’oro, ovvero un nuovo Risorgimento.
L’umanità
fin dall’antichità è in cammino in un percorso che procede e regredisce e
attraverso un’esistenza di cui non sappiamo come andrà a finire.
I
grandi problemi e le grandi sfide dell’umanità.
L’umanità
fin dai tempi antichissimi è in cammino e sempre sostenuta dall’evoluzione
biologica e dall’evoluzione culturale.
Un cammino faticoso, arduo e contraddittorio
nel passaggio dalla barbarie alla civiltà e al progresso e sempre interrotto da
nuovi ostacoli in un feroce ritorno alle pulsioni di aggressività e di “sangue”
(Magris).
Un
percorso che procede e regredisce, che ricomincia, come afferma “Noah Harari”
in “Homo Deus” (Bompiani), con ogni uomo e con un destino incerto, uno scenario
insicuro e un’esistenza di cui non sappiamo come andrà a finire.
E per
questo, appesantita da minacce, miseria, degrado, conflitti e guerre,
ingiustizie, fragilità e precarietà.
Si tratta di un viaggio difficile e spesso
drammatico, tale da sembrare la metafora della salita di Abramo sul monte per
sacrificare il figlio Isacco.
La
nostra analisi mostra che il futuro non è solo progresso e miglioramento.
È
anche insicurezza, ansia e angoscia.
Eppure, la nostra, come concorda il neuro
scienziato americano Damasio, potrebbe essere l’epoca migliore nella storia
dell’umanità.
Addirittura,
studiosi come Goldin e School scrivono che stiamo vivendo in una “Nuova età
dell’oro” (il Saggiatore).
Una
fase di profonda evoluzione che richiama quella del Rinascimento, quando si
posero le basi per un nuovo modello di progresso fondato sull’essere umano, e
sulla diffusione e lo sviluppo della conoscenza.
Negli
ultimi cinquant’anni, i progressi della scienza sono stati straordinari.
Le
neuroscienze stanno compiendo splendidi sviluppi a vantaggio dell’umanità,
offrendoci una “fuga” dal tempo e dalla morte.
È in
atto una rivoluzione scientifica destinata a sconvolgere non soltanto i metodi
di diagnosi e cura in medicina e psichiatria, ma le nostre millenarie
concezioni, a partire dai sistemi filosofici.
Soltanto
un secolo fa, la durata media di vita era di 43 anni, mentre oggi è di 79 anni
per gli uomini e di 83 per le donne.
La
riduzione della mortalità infantile, gli sviluppi delle pratiche igieniche,
l’uso della vaccinazione e degli antibiotici, i nuovi farmaci, la modificazione
del codice della vita, la capacità di diagnosticare le malattie, la speranza di
vita che continua ad aumentare stanno producendo una svolta epocale.
È una
svolta che ad un esame approfondito mette in luce nondimeno il dramma della
commedia umana, i suoi conflitti, la sua violenza, le sue continue tensioni.
È una
condizione che continua ad andare così dalla comparsa dell’uomo.
Se il
Signore- dice la Bibbia- ha visto che la creazione era buona, San Paolo invece
esprime un parere diverso quando scrive: “Il creato è stato condannato a non
avere senso… fino ad ora tutto il creato soffre e geme come una donna che
partorisce”.
Tutto questo, è colpa del peccato originale?
Secondo
una vasta e autorevole letteratura che va dai primi filosofi agli autori
moderni e contemporanei i due principi fondamentali che scandiscono la nostra
esistenza sono il bene e il male.
Che
sono in perenne lotta tra loro e corrispondono alle pulsioni originarie
teorizzate da Freud:
Eros e
Thanatos, amore e odio, egoismo e altruismo, vita e morte, distruzione e
autodistruzione.
La prima e più antica struttura del cervello è
costituita dal cervello rettiliano, che da sempre si oppone al neo cervello,
che è la parte più nobile del cervello umano.
Questo
significa che l’essere umano porta misteriosamente in sé non solo la scintilla
del bene, ovvero la fiammella “divina” (Dostoevskij) della propria redenzione,
ma anche il dramma del male.
L’uomo
nella condizione dolorosa e tragica della vita è sottoposto ad un destino
impietoso e crudele, ad una condizione di immobilismo esistenziale, ad un vuoto
interiore che sfocia nel nichilismo e nell’indifferenza morale, fattori che
evidenziano tutto l’errare e la violenza dell’uomo e tendono spesso a
vanificare la sua aspirazione all’assoluto e all’infinito.
Oggi,
una delle più rilevanti contraddizioni di questo nuovo Medioevo della società
moderna, assalita sempre più da troppi feudatari e parvenus, è l’emergere di
società scientificamente e tecnologicamente progredite, ma barbare sul piano umano, etico e
spirituale.
“Progredi
est regredi”, ogni progresso infatti è anche regresso. Offre nuove, meravigliose possibilità
per il bene, ma apre anche “possibilità abissali di male” (Benedetto XVI), in
un mondo che appare un paesaggio difficile da decifrare e affrontare, sempre
più complesso e convulso, privo di orientamento, di senso, senza guida e
prospettive.
La
nostra specie “accumula” progresso, ma non benessere spirituale,
tranquillità o felicità, secondo la concezione del più grande filosofo romano,
Seneca.
La mancanza di vera cultura, di senso di
umanità e di etica oggi appare un elogio, un privilegio, mentre l’arroganza,
l’ignoranza e la volgarità sono “una garanzia di successo” (H.Arendt).
L’umanità
dunque è in crisi in quanto esposta ad una situazione di “perenne
conflittualità” (Vizioli).
Per
l’umanità, il pericolo maggiore è l’uomo, il suo istinto autodistruttivo.
Il
cervello superiore non è ancora riuscito a dominare la struttura cerebrale
governata da una tendenza biologica suicida.
Il
declino dell’uomo, quindi.
Questo
è il mal sottile che insidia l’essere umano, la caduta delle sue qualità
propriamente umane
E allora ha un rapporto alienato con sé
stesso, con gli altri e con le cose.
E
cerca nell’aggressività e nella violenza la fine di tutte le sue angosce.
Perché
vive in un mondo senz’anima, trascinandosi in una temperie umana e culturale
percorsa da elementi disgregativi, da insicurezze e squilibri, e dalla perdita
della dimensione metafisica e delle credenze.
Viviamo
in una condizione di anestesia psichica e morale, che ha effetti neurologici
negativi.
La
distruttività dell’uomo è presente sin dai tempi preistorici. Gli scimpanzé, i
nostri cugini, non hanno mai “crocifisso” altri scimpanzé (Damasio). Gli
antichi invece hanno inventato la crocifissione, crocifiggendo esseri umani.
Viviamo
in un’epoca- precisa il neuro scienziato americano Damasio- che mentre
glorifica la scienza, traendone vantaggi, sembra “spiritualmente in bancarotta”.
Si educa l’individuo all’uso di stimoli
emotivi negativi con il rischio di un ritorno alla nostra emozionalità animale.
Fatto che porta al degrado sociale, culturale
e morale e al crescente imbarbarimento dell’individuo e della società.
L’immagine
che emerge è quella del battello ebbro di Rimbaud, che vaga senza timoniere né
timone, mettendo a repentaglio l’equipaggio.
La
modernità, la globalizzazione, la distribuzione diseguale della ricchezza, le
carenze del sistema educativo, la diversità culturale, la velocità e
“l’onnipotenza paralizzante” della comunicazione digitale, la realizzazione di
programmi televisivi che veicolano comportamenti diseducativi e violenti,
violando “ogni elementare principio di decenza umana” sono poi tutti fattori
che rischiano di rendere le nostre società “ingovernabili”.
La
nostra è una società post-moderna attraversata, come ha evidenziato il filosofo
Bauman, il teorico del “mondo liquido”, da un relativismo etico, da un
esasperato individualismo, da un’estetica del consumo, dalla scomparsa delle
grandi narrazioni metafisiche e da una ricerca maniacale e ossessiva del
piacere e delle pratiche salutistiche.
Una
società senza progetti e principi, dove l’intero modello sociale, culturale e
morale si è “liquefatto”.
Una
società del “rischio” (Beck).
Il
futuro dell’umanità.
Qual’
è dunque il futuro dell’umanità?
Un
futuro post-umano, secondo lo scienziato “Michio Kaku”.
Tra le
sfide che l’umanità deve affrontare nei prossimi due secoli c’è anzitutto
quella di “avventurarci verso altri mondi, dal momento che il 99,9 per cento
della specie si è rivelato “destinato all’estinzione”.
Le
avversità sono costituite dalle eruzioni vulcaniche gigantesche e dalle 16 mila
294 asteroidi identificate che potrebbero “intercettare” la rotta della Terra.
Marte,
allora, diventa, per Kaku, il primo traguardo per formare una colonia stabile
entro il XXII secolo.
L’uomo
andrà su Marte- aggiunge E. Musk- entro il 2025 è sarà reso un pianeta
abitabile.
Proprio
in questi giorni, la rivista “Science” ha pubblicato una grande scoperta,
l’esistenza di molecole organiche su Marte, fatto che sta ad indicare la
probabilità che tre milioni e mezzo di anni fa sul pianeta Rosso ci fossero
tracce di vita.
Questa
notizia fa seguito all’altra scoperta avvenuta nel 2014 sul rinvenimento
nell’atmosfera marziana del metano, un gas considerato una spia fondamentale
della vita.
Nella
prossima missione su Marte, che avverrà nel 2020, ci sarà un piccolo elicottero
autonomo, il primo velivolo che solcherà un altro pianeta.
Un’altra
grande sfida è legata inoltre allo sviluppo della genetica con la possibilità
di modificare il corpo umano.
L’umanità
è arrivata al massimo del processo di trasformazione, fatto che potrebbe
“aprire” le porte- precisa un altro scienziato, N. Bostrom, al post-umanesimo
attraverso la clonazione delle persone, una realtà ritenuta “inevitabile”, una
volta che la tecnica si perfezionerà negli animali.
Lo sviluppo scientifico poi consentirà di
“controllare” anche i processi di invecchiamento, ipotizzando che presto
“potremmo superare abbondantemente i 100 anni di vita.
In
questa visione, qual è il posto che occupa il nostro Paese?
Da una ricerca approfondita, emerge un Paese
che sembra aver imboccato una strada “priva di ritorno”:
quella
della decadenza “senza rimedio”.
“L’Italia
non c’è più” ha scritto nel suo recente libro Pansa. “Un paese perduto, senza
identità”;
abitato da esseri umani “con ben poco in
comune”.
I
sintomi di questa età della decadenza sono molteplici e riguardano in
particolare: la famiglia, la scuola, gli adolescenti, che non riconoscono più
l’autorità paterna, la politica e i politici, che non sono più rispettati, la
crisi economica, sociale e morale, il fenomeno dell’emigrazione, il sesso, che
imperversa sui quotidiani, in tivù e nella pubblicità, l’esibizionismo e
l’individualismo, la diffusione del bullismo tra i maschi e le ragazze, la
violenza sulle donne, la dipendenza dal web, dai social network, da internet e
dai cellulari, un fatto che sta impoverendo e corrompendo anche la lingua
italiana in un Paese che vede crescere al 70% l’analfabetismo funzionale mentre
solo quattro cittadini su dieci leggono un libro l’anno.
Assistiamo
infine ad un lento e inesorabile processo di indebolimento delle istituzioni.
Concludendo,
i nuovi tempi proiettano nuovi rischi per ora solo intuiti e non ancora
esplorati.
Noi,
d’accordo con altri autori, riteniamo che la chiave del progresso sia
l’educazione, ovvero lo sviluppo sociale, culturale, affettivo e mentale
dell’essere umano, in quanto mira a generare individui e ambienti sani e
maturi, a creare comportamenti etici, a incoraggiare principi morali, a
favorire l’empatia, l’altruismo e la qualità della vita.
L’educazione- la cultura- è conoscenza e la
conoscenza è uno dei principali valori dell’umanità, la quale ci può fornire
gli strumenti per inventare “ogni genere di risposta” e di soluzione ai
progetti di civilizzazione per organizzare e dirigere il corso della nostra
esistenza.
(Guido
Brunetti)
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Progresso
o regresso?
Finimondo.org
– Redazione – Brulotti – (18 giugno 2014)
Pièces
et main d'œuvre.
«Resta inteso che ogni progresso scientifico
compiuto nell'ambito di una struttura sociale
difettosa
non fa che lavorare contro l'uomo,
contribuendo ad aggravarne la condizione»
André
Breton, Le Figaro littéraire, 12 ottobre 1946.
«Paragonando
lo stato delle conoscenze umane con gli stati precedenti, “Fontenelle” scoprì
non proprio l'idea di progresso, che è solo una illusione, ma l'idea di
crescita.
Vide
abbastanza bene che l'umanità, a forza di vivere, acquisisce esperienza ed
anche consistenza. (...) Progresso inizialmente significava solo avanzamento, cammino
nello spazio e nel tempo, con ciò che comporta di felice uno stato di costante
attività.
Più
tardi si diede a questa parola il senso di miglioramento continuo (Turgot),
indefinito (Condorcet) e divenne ridicola»
Remy
de Gourmont, Sur Fontenelle. Promenades littéraires, Mercure de France, 1906.
Ormai da decenni, se non da un secolo o due,
alcune persone cercano la parola, ce l'hanno «sulla punta della lingua», sfugge
loro, lasciandogli una viva e dolorosa frustrazione — senza la parola come dire
la cosa?
Coma
dare e nominare la ragione dello sgomento, della rivolta, del lutto e per
finire dello scoraggiamento e di una indifferenza senza fondo.
Come
se si fosse stati amputati di una parte del cervello: amnesia, zona bianca
nella materia grigia.
La
politica, in ogni caso la politica democratica, comincia con le parole e l'uso
delle parole;
essa
consiste per una parte preponderante nel nominare le cose e quindi nel
nominarle con la parola giusta, con precisione flaubertiana.
Dare
un nome a una cosa è formare una idea. Le idee hanno conseguenze che si
producono inevitabilmente.
La
maggior parte del lavoro di elaborazione della neolingua, in 1984, consiste non
nel creare, ma nel sopprimere delle parole, quindi delle idee — cattive idee,
idee nocive dal punto di vista del Partito —, quindi ogni velleità d'azione
conseguente a quelle parole che formulano cattive idee.
Questa
parola l'abbiamo talvolta abbordata, abbiamo provato «rimpianto» (regret), era
bello «rimpianto», una approssimazione che formava consonanze, pur appartenendo
a un altro ramo etimologico.
Un'altra
volta, abbiamo usato «regresso» (régrès), credendo di coniare un neologismo,
una declinazione di «regressione» che fa rima con «progresso», termine a
termine.
Ci eravamo quasi. Poco tempo fa siamo caduti
su «regresso» (regrès), una buona e vecchia parola francese, «caduta in disuso»
come si dice, buona per il dizionario degli obsoleti che è il cimitero delle
parole.
E
delle idee. E delle loro conseguenze, buone o cattive.
Ovviamente
è impossibile credere che il vocabolo «regresso», l'antonimo di «progresso» sia
sparito per caso dalla lingua e dalle teste.
Il
movimento storico dell'ideologia in un qualsiasi momento del XIX secolo ha
deciso che ormai ci sarà solo progresso, e che la parola regresso non avrà un
maggiore utilizzo di quanto ne avesse la maggior parte del vocabolario sul
cavallo oggi scomparso con l'animale e i suoi molteplici utilizzi che
instauravano una familiarità fra lui e l'uomo di una volta.
Così
le vittime del Progresso, del suo prezzo e dei suoi danni, non avranno più
parole per lamentarsi. Saranno solo degli arretrati e reazionari: il campo del
male e dei maledetti votati alla spazzatura della storia. Se pensate che si
sfondino delle porte aperte, avete ragione.
La cosa sorprendente è che occorra ancora
sfondarle.
Largo
all'Onni Progresso, quindi.
La
parola stessa non aveva in origine una connotazione positiva. Indicava
semplicemente un avanzamento, una progressione.
Anche
i più accaniti progressisti concederanno che l'avanzamento — il progresso — di
un male, del caos climatico, di una epidemia, di una carestia o di qualsiasi
altro fenomeno negativo non costituisce né un piccolo salto né un grande balzo
per l'umanità.
Soprattutto
quando si considera da sé, per voce delle sue autorità scientifiche, politiche,
religiose e morali, sull'orlo dell'abisso.
Ciò che ha reso il progresso così positivo e
imperativo, è la sua alleanza con il potere, enunciata da Bacone, il filosofo
inglese, all'alba del pensiero scientifico e razionalista moderno: «Sapere è
potere».
Questa
alleanza di cui la borghesia mercantile e industriale è stata l'agente e la
principale beneficiaria ha conquistato il mondo.
Il
potere sta al sapere come il denaro sta al denaro.
Il
potere sta al potere.
Alleanza
del microscopio (della provetta, del computer, ecc.) e del Capitale.
Contrariamente a quanto pretendono il socialismo scientifico ed i suoi
innumerevoli postumi (dalla sinistra del PS alla «sinistra della sinistra»), i
senza potere non possono «riappropriarsi» di questo potere.
Non possono nemmeno impadronirsi dell'apparato
scientifico-industriale e farlo funzionare a loro profitto, non più di quanto
la Comune (1871) avrebbe potuto far funzionare a proprio profitto l'apparato di
Stato borghese.
Doveva
distruggerlo.
Ed è
la lezione che ne trae anche Marx in “La guerra civile in Francia”.
I
senza potere non possono «riappropriarsi» di un modo di produzione che esige al
tempo stesso enormi capitali e una gerarchia implacabile.
L'organizzazione
scientifica della società esige alla sua testa degli scienziati: non si
gestisce questa società né una centrale nucleare in assemblea generale, con
democrazia diretta e rotazione dei compiti.
Quelli
che sanno decidono, quale che sia la veste del loro potere.
Contrariamente a quanto immaginava Tocqueville
in una celebre pagina sul carattere «provvidenziale» del progresso scientifico
e democratico, intrecciati nella sua mente, il progresso scientifico è
anzitutto quello del potere sui senza potere.
Certo,
una tecnica ai comandi di un drone può sterminare un guerriero virilista, a
distanza e senza rischi.
Ma ciò
non significa affatto un progresso nell'uguaglianza delle condizioni, quanto un
progresso nella disuguaglianza degli armamenti e delle classi sociali.
È questo avanzamento scientifico che ha
eliminato popoli diversi là, classi diverse qua e prolungato l'impresa statale
in tutti gli anfratti del paese, della società e degli (in)dividui con
l'influenza digitale.
Ogni progresso della potenza tecnologica si
paga con un regresso della condizione umana e dell'emancipazione sociale.
Ormai è un truismo che le macchine, i robot e
l'automazione eliminano l'uomo dalla produzione e dalla riproduzione.
Le
macchine eliminano l'uomo dai rapporti umani (sessuali, sociali, familiari). Lo
eliminano da sé stesso. A che pro vivere?
Le macchine lo fanno talmente meglio di lui.
Non
solo la parola di «Progresso» — connotata a torto in maniera positiva — si è
impadronita del monopolio ideologico dell'era tecnologica, ma questa coalizione
di collaborazionisti della macchina, scienziati transumanisti, imprenditori
high tech, pensatori queer e altri mutanti della French theory si è essa stessa
impadronita del monopolio della parola «Progresso» e delle idee associate.
Doppio
monopolio quindi, e doppia truffa semantica.
Questi
progressisti sul piano tecnologico sono regressisti sul piano sociale e umano.
In
lingua comune si definiscono reazionari, partigiani della peggiore regressione
sociale e umana.
Questa
reazione politica — ma sempre all'avanguardia tecno scientifica — trova la sua
espressione nel futurismo italiano (Marinetti), nel comunismo russo (Trotsky
soprattutto), nel fascismo e nel nazismo, tutti movimenti di ingegneri di
uomini ed anime, miranti a modellare l'uomo nuovo, l'Ubermensch «aumentato» del
cyborg, l'uomo bionico, partendo dalla pasta umana, «ibridata» con impianti e
interfacce.
Il
fascismo, il nazismo ed il comunismo non hanno ceduto che di fronte alla
maggiore potenza tecno scientifica degli USA (nucleare, informatica,
missilistica, ecc.).
Ma
l'essenza del movimento, la volontà di potenza tecno scientifica, si è
reincarnata e amplificata attraverso nuovi involucri politici.
Fin dal 1945 “Norbert Wiener” metteva a punto
la cibernetica, la «macchina per governare» e la «fabbrica automatizzata», vale
a dire il formicaio tecnologico con le sue rotelle e le sue connessioni, i suoi
insetti social-meccanici, ex-umani.
Il suo
discepolo “Kevin Warwick” dichiara oggi: «Ci saranno persone impiantate,
ibridate che domineranno il mondo. Gli altri, che non lo saranno, non saranno
più utili delle nostre attuali mucche guardate a vista».
Quelli
che non lo credono, non credevano al Mein Kampf nel 1933. È questo tecno totalitarismo,
questo «fascismo» dei nostri tempi che combattiamo, noi, luddisti e animali
politici, e vi chiamiamo per aiutarci.
Spezziamo la macchina.
Propaganda.
Finimondo.it
– Redazione – Brulotti – (3 luglio 2022) -
«Quando tutti pensano
alla stessa maniera,
nessuno pensa molto».
(Walter
Lippmann)
Per cominciare, sgombriamo subito il campo da
un equivoco che puntualmente si viene a creare.
Cosa
si intende per propaganda?
Secondo
una definizione risalente ai primi anni 50, più volte ripresa in virtù della
sua sostanziale precisione, la propaganda è «una tecnica di pressione sociale che mira alla formazione di gruppi
psicologici o sociali a struttura unificata, attraverso l’omogeneità degli
stati affettivi e mentali degli individui presi in considerazione».
Occorre
perciò tenere bene in mente che la propaganda costituisce una tecnica di
omologazione, se si vuole comprendere quanto sia errata e fuorviante la
consolidata abitudine di considerarla una sorta di diffusione organizzata di
idee.
Se si limitasse a ciò, ad essere criticabile
sarebbe solo la forma che essa può talvolta assumere, ma di per sé sarebbe
ritenuta comunque giustificata poiché corrispondente ad un bisogno reale
ineludibile.
Nessuno può infatti negare che ogni pensiero degno di
questo nome tende a trovare una propria espressione pratica, e chiunque
desideri realizzare un progetto che vada oltre sé stesso non può esimersi
dall’affrontare il problema di come comunicare al maggior numero di persone ciò
che reputa vero, giusto, utile.
Ma non
è di questo che qui si tratta, e pazienza se nel 1793, in piena Rivoluzione
francese, venne formata in Alsazia una associazione che prese ufficialmente il
nome di “Propaganda”, il cui compito era quello di diffondere le idee
rivoluzionarie nelle città e nei villaggi.
Precedente
storico che potrà forse spiegare l’origine dell’equivoco, ma non per questo
legittimarlo.
Due
significati radicalmente contrapposti non possono convivere in uno stesso
termine senza provocare un certo confusionismo che, invece di alimentare, ci
piacerebbe per quanto possibile provare a dipanare.
Ebbene,
è facile capire come la propaganda non abbia nulla a che vedere con
l’illuminante viaggio di un’idea, non essendo interessata né alla riflessione,
né al dibattito e tanto meno alla consapevolezza.
Essa è
sempre stata un’intenzionale manipolazione di elementi psicologici fondamentali
dell’essere umano.
Non si rivolge all’intelligenza, ma agli
istinti e agli impulsi, spesso quelli più reconditi.
Stimola
tratti primordiali, quali la suggestione e l’imitazione.
Non cerca di persuadere attraverso
argomentazioni, procede martellando comandi e formule.
Il
fine di chi la introduce è quello di provocare un atteggiamento, una decisione,
senza farli passare attraverso il vaglio del pensiero.
Preso atto che l’essere umano il più delle
volte ha sentimenti potenti come l’amore e l’odio non per ragioni attentamente
ponderate, ma in una sorta di sussulto, la propaganda cerca di intervenire
proprio su questa forza segreta in grado di suscitare grandi sentimenti.
Ciò
significa che per la propaganda è fondamentale escludere il più possibile
quanto fa parte della coscienza, della riflessione, della scelta.
Se nella propaganda si discute, non è certo
per la validità degli argomenti, per approfondirne il significato, o con
l’auspicio che un ragionamento possa sortire qualche benefico effetto:
la
parola nella propaganda ha un carattere intellettuale solo in apparenza, di
fatto persegue un obiettivo completamente diverso che è quello di ottenere
l’adesione di un inconscio generalmente molto distante dal contenuto
dell’argomento trattato.
La lontana origine etimologica di questa
tecnica di grassazione psicologica è di per sé significativa in tal senso.
Il
primo apostolato cristiano costituisce già il modello compiuto della campagna
propagandistica su scala internazionale.
Fu
infatti proprio la Chiesa cattolica ad istituire per prima la propaganda,
anticipando di secoli gli Stati, i partiti, i sindacati, le imprese.
Il 22
giugno 1622 papa Gregorio XV rese pubblica la bolla “Inscrutabili divinæ” con
cui annunciava la fondazione della “Sacra Congregazione De propaganda fide”, il
cui scopo era l’organizzazione dell’attività di proselitismo ecclesiastico.
Mai
atto di nascita fu più rivelatore, sui mezzi come sui fini perseguiti. La propaganda è sorta per facilitare
l’espansione planetaria di una forma di colonialismo. Ed è questione di fede.
Diffonde
un sistema di credenze composto da dogmi, ovvero da convinzioni da non mettere
giammai in discussione, allo scopo di conquistare il dominio sul corpo e sulla
mente.
Essa
mira ad influenzare (quindi a controllare) il comportamento globale degli
individui e delle collettività, facendo leva sulle angosce e sulle speranze che
si agitano nel loro subconscio.
Si
tratta di un progetto di potere che ha riscosso un tale successo da suscitare
presto interessi e rivalità anche al di fuori dell’ambito sacrale.
Dopo i
sacerdoti, è stata la volta prima dei politici e poi dei mercanti di farsi
propagandisti.
Dopo
gli infedeli, è toccato prima ai governati e poi ai clienti diventarne preda.
Ed è
proprio in campo economico che la propaganda, sotto il nome di pubblicità, ha
fatto passi da gigante al punto da diventare a sua volta modello e fonte di
ispirazione per molti uomini di Stato.
Ciò
non può certo sorprendere. In effetti, una tecnica capace di spingere le masse a
compiere atti totalmente irriflessivi può essere utilizzata per qualsiasi fine:
pregare un Dio, votare un politico, acquistare una merce...
Da
questo punto di vista, anche la nascita della propaganda nella sua forma più
moderna è assai istruttiva.
Essa
viene fatta risalire al primo massacro mondiale, allorquando il governo degli
Stati Uniti si trovò ad affrontare il problema di come mobilitare l’ardore dei
soldati e suscitare l’adesione delle masse a favore di una guerra fino a quel
momento assai poco popolare (perché mai attraversare un oceano per andare a
morire in una trincea straniera?).
Il 13 aprile 1917, sette giorni dopo aver
annunciato l’ingresso del paese nel conflitto mondiale, il presidente Woodrow
Wilson — che alcuni mesi prima si era fatto rieleggere vantandosi di aver
«tenuto gli USA fuori dalla guerra» — istituì il Comitato sulla Pubblica Informazione.
Compito
di questa agenzia governativa era influenzare l’opinione pubblica con ogni
mezzo possibile, ingenerando il massimo entusiasmo verso lo sforzo bellico.
La sua
guida venne assegnata al giornalista “George Creel”, il quale assunse uno
stuolo di collaboratori fra cui coloro che sarebbero stati in seguito ricordati
come i padri fondatori delle «pubbliche relazioni».
Per
intenderci, pubblicitari del calibro di “Ivy Lee” ed “Edward Bernays”.
Il
primo è stato l’inventore del comunicato stampa e nel 1914 ha orchestrato la
campagna stampa per difendere il magnate Rockfeller dall’accusa di essere il
mandante del massacro di Ludlow;
il secondo era nipote di Sigmund Freud e si è distinto
come abile agente stampa di artisti internazionali, applicando alla psicologia
di massa le scoperte psicanalitiche dello zio.
Benché
critico dell’operato di Creel, un altro consigliere del presidente Wilson fu “Walter
Lippmann”, il celebre giornalista che forse per primo sostenne la necessità
delle tecniche di condizionamento dell’opinione pubblica.
Ed è
proprio in questa fucina che, a titolo di esempio, venne coniato un ritornello
che ancora oggi risuona inesorabilmente nelle orecchie di tutti, ogni qual
volta l’esercito degli Stati Uniti si appresta a bombardare:
lo “zio Sam” entra in guerra non per proprio
tornaconto, ma per «portare la democrazia» laddove è assente.
Vale la pena riassumere.
La
propaganda politica moderna è nata in un paese democratico al fine di
giustificare un eccidio mondiale;
fra i
suoi ostetrici figuravano non pochi agenti pubblicitari; il suo successo è dipeso dalla
quantità e dalla varietà dei mezzi tecnici impiegati.
Ecco perché ritenere che essa sia una prerogativa dei
soli regimi dittatoriali, impossibile da rintracciare nelle società civili dove
è presente una «libertà di scelta» fra diverse informazioni contrastanti,
denota la stessa ingenuità di chi si ritiene libero perché può decidere se
acquistare una lattina di Coca Cola o una di Pepsi Cola.
I
legami simbiotici che intercorrono fra propaganda politica e pubblicità
commerciale, nonché fra dittatura e democrazia, si manifestano talvolta in
maniera esplicita quasi imbarazzante.
Nella
sua autobiografia, Creel riesce a descrivere la campagna a favore di una guerra
che causò una ventina di milioni di morti con queste parole:
«In tutte le cose, dalla prima all’ultima, senza sosta
o cambiamento, è stata una chiara proposta pubblicitaria, una vasta impresa
della capacità di vendere, la più grande avventura del mondo nella pubblicità».
Sull’altro
versante, il nazista Goebbels non nascose di considerare come suo maestro di
propaganda l’agente stampa di Broadway che aveva reso celebre negli Stati Uniti
il tenore Enrico Caruso, ovvero quell’”Edward Bernays “che dall’esperienza con
il C.P.I. aveva tratto la conclusione che se le tecniche di persuasione di
massa funzionavano in tempo di guerra, avrebbero potuto funzionare egregiamente
anche in tempo di pace.
Consapevole
del fatto che «noi siamo governati, le nostre menti vengono plasmate, i nostri
gusti vengono formati, le nostre idee sono quasi totalmente influenzate da
uomini di cui non abbiamo mai nemmeno sentito parlare», Bernays fece carriera
come consulente sia di grandi multinazionali che di politici, fra cui alcuni
inquilini della Casa Bianca.
Nel
1925 “Walter Lippmann” pubblicò una specie di seguito della sua opera più
famosa (“L’opinione pubblica”), a cui diede il titolo “Il pubblico fantasma”.
In
questo libro demolisce l’illusione democratica secondo cui l’esistenza di un
«cittadino sovrano e onni competente», in grado di occuparsi della «cosa
pubblica», sarebbe possibile non solo nelle piccole città greche
dell’antichità, ma anche nella complessa «Grande Società» contemporanea.
Di
fatto il cittadino moderno, preso fra lavoro e divertimento, è null’altro che
uno «spettatore sordo seduto nell’ultima fila», motivo per cui è insensato
ritenere «che la composizione di ignoranze individuali in masse di persone
possa produrre una forza direttrice continua negli affari pubblici».
Il cosiddetto pubblico può soltanto allinearsi
ad un partito politico.
Seguire e moderarsi sono le due grandi responsabilità
politiche del cittadino, il quale deve astenersi dall’interferire nel dibattito
con la sua ignoranza e le sue osservazioni banali.
Lippmann non ha dubbi in proposito:
«il
pubblico deve essere messo al suo posto, in modo che... ognuno di noi possa
vivere libero dallo scalpiccio e dai muggiti di una mandria disorientata».
L’esercizio della democrazia deve quindi
essere affidato a una classe specializzata, ad una élite politica.
Proprio
in quello stesso anno, il 1925, dall’altra parte dell’oceano Atlantico vedeva
la luce un’opera destinata a diventare tristemente celebre.
L’autore era un ex-imbianchino austriaco, da
pochi anni diventato segretario del “Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori”.
Nel
suo “Mein Kampf”, Adolf Hitler spiegava che «Non è lo scopo della Democrazia
odierna quello di formare un’assemblea di uomini saggi, ma piuttosto di
prenderli da una folla di nullità servili che possano essere facilmente portate verso
determinate direzioni, specialmente se l’intelligenza di ognuna di esse è
limitata... la forza di un partito politico non consiste nella grande e
autonoma intellettualità dei singoli membri, ma in una disciplinata obbedienza
prestata dai membri alla direzione intellettuale».
Il
futuro dittatore prescriveva con brutale schiettezza ciò che il giornalista
liberale constatava con fredda indifferenza.
La
propaganda non è dunque caratteristica di determinati regimi politici, ma di
qualsiasi forma di potere che disponga di strumenti tecnici in grado di
influenzare e controllare gli individui, omologandoli in una società
massificata.
È
l’arma principale di chi vorrebbe persuaderci che la «massa» sia una realtà
sociale omogenea, unita in una comunione naturale, laddove non è altro che
l’aberrante risultato della propaganda che l’ha raccolta, fabbricata e
neutralizzata, distruggendo in ciascuno ogni barlume di coscienza individuale.
Che
miri ad ottenere devoti fedeli, obbedienti cittadini o assidui clienti, scopo
della propaganda rimane infatti la diffusione del conformismo.
Poiché
la sua pressione tende ad orientare in una determinata direzione il
comportamento degli individui, uno dei suoi compiti primari consiste nel
ridurre al massimo il margine di iniziativa autonoma o la tendenza
all’isolamento degli individui presi in considerazione.
Se
suggerisce un modello di comportamento ben delineato, se insiste in maniera
ossessiva nella sua presentazione, è per tracciare una linea di condotta che
non incoraggi alcuna fantasia individuale, al fine di scongiurare ogni
possibilità di evasione da schemi collettivi prestabiliti. Da qui la necessità di
neutralizzare una possibile solitudine in cui coltivare uno spirito critico in
grado di indebolire l’atteggiamento imposto.
Il metodo più sicuro diventa allora quello di
sollecitare a tuffarsi periodicamente nell’atmosfera di gruppo, poiché appena
l’individuo entra a far parte di un gruppo solidamente strutturato non può fare
a meno di uniformarsi agli ideali generali e di accettare determinati schemi di
comportamento. Anche gli spiriti più critici e ribelli perdono mordente, quando si
trovano immersi in un’inebriante atmosfera collettiva.
Ma,
come si è detto, questa massificazione non sarebbe possibile se non esistessero
strumenti tecnici in grado di imporla.
A tale
proposito rimangono indimenticabili le parole del ministro nazista per gli
armamenti e la produzione bellica, “Albert Speer”, davanti ai giurati di
Norimberga:
« Con l’ausilio di mezzi tecnici, come la radio e
l’altoparlante, la volontà di un solo uomo ha potuto dominare ottanta milioni
di uomini... Il sistema autoritario, nell’era della tecnica, può permettersi di
rinunciare ai quadri direttivi inferiori: li sostituisce, meccanizzandoli, con
i mezzi moderni di comunicazione».
E
infatti, a partire dagli anni 30, in molte abitazioni dei paesi occidentali
dello scorso secolo compare un soprammobile in più: l’apparecchio radiofonico.
Non è
molto decorativo, ma cambia tutto.
Ogni giorno, al desco serale, prende posto un
convitato i cui inarrestabili monologhi vengono ascoltati dai presenti con la
massima attenzione.
Annuncia fatti e pronuncia giudizi, senza possibilità
di dibattito o discussione. Seguiranno anni terribili di cui il minimo che si
possa dire è che hanno propagato su tutto il pianeta e determinato in tutte le
popolazioni una varietà di meccanismi psicologici di attesa, di ricettività, di
sottomissione, che fanno della propaganda un detergente in grado di rimuovere
fin la minima traccia di pensiero autonomo e critico, sostituendo la ragione
con l’emotività e oscurando la linea di demarcazione tra il vero e il falso.
Con lo
sviluppo di nuove tecnologie, le tattiche utilizzate dagli ingegneri di anime
(contraffazione, censura, esagerazione, minimizzazione, distrazione,
ridondanza...) si sono moltiplicate come i loro mezzi. Fino agli anni 50 gli
strumenti tecnici della propaganda (giornali e radio) erano costruiti per lo
più attorno alla sola parola.
Quanto
alla propaganda mediante il cinema, non poteva che essere relativamente debole.
Ciò non solo perché all’inizio non si andava
molto oltre la proiezione di cerimonie e sfilate militari, ma anche e
soprattutto perché il cinema non permette una costante ripetizione, tipico
martellamento della propaganda.
L’avvento della televisione ha cambiato
completamente lo scenario.
Il
nuovo elettrodomestico è diventato un’arma fondamentale per dominare l’essere
umano.
Come
la radio, lo raggiunge quotidianamente in casa, nel suo ambiente, nella sua
vita privata, senza chiedergli nessuna decisione o sforzo.
Ma, a
differenza della radio, lo ghermisce del tutto, non lasciandogli alcuna
possibilità di muoversi o di pensare ad altro, inchiodandolo davanti allo
schermo. Ciò
perché la televisione possiede la potenza-shock dell’immagine, che è
infinitamente superiore rispetto a quella del suono della parola.
Lippmann
lo aveva
già intuito fin dall’inizio degli anni 20, quando riconosceva senza mezzi
termini che l’opinione pubblica è composta da immagini, non da idee: «Le
immagini che sono nella mente degli esseri umani, le immagini di sé stessi,
degli altri, delle loro esigenze, dei loro intenti e delle loro relazioni,
rappresentano le loro opinioni pubbliche. Queste immagini, quando vengono
gestite da gruppi di persone o da individui che agiscono in nome di gruppi,
costituiscono l’Opinione Pubblica con le iniziali maiuscole».
Per
parte sua, Hitler annotava quante «maggiori prospettive possiede l’immagine in
tutte le sue forme... Qui, c’è ancor meno bisogno di lavorare con l’intelletto:
basta guardare, tutt’al più leggere brevi testi: perciò molti sono più disposti
ad accogliere in sé un’esposizione fatta con l’immagine che a leggere un lungo
scritto».
Ecco
spiegata in breve la sconfinata superiorità propagandistica della televisione
rispetto alla radio.
La seconda è fatta unicamente di parole che
evocano immagini da elaborare singolarmente, la prima offre immagini già
confezionate per un consumo collettivo.
La parola va capita e ponderata con la logica,
l’immagine no, basta percepirla e memorizzarla.
Ciò
rende più facile cogliere quanto sia vertiginoso il cambiamento avvenuto
all’inizio del terzo millennio con l’introduzione delle tecnologie digitali.
Già da
decenni l’effetto ipnotico della propaganda non si rileva tanto nelle parole
d’ordine dei partiti, quanto nei film delle serie televisive, negli spot
pubblicitari, nelle colonne sonore dei videoclip, nelle canzonette dei centri
commerciali.
È in questo modo che è stata diffusa
capillarmente una sensibilità comune: attraverso immagini che rimbalzano uguali
in tutto il mondo è stato promosso un tipo di vita basato sul consumo di merci
e sull’obbedienza all’autorità. E in progressione, nel giro di pochi anni, da
un lato la televisione stessa si è fatta interattiva — permettendo in qualche
modo agli spettatori di prendervi parte, superando così il proprio ruolo di
utenti passivi — dall’altro è stata affiancata da nuovi dispositivi tecnici.
Ci
riferiamo ovviamente alla comparsa degli smartphone, nel 2007, dispositivi in
grado di connettere 24 ore su 24 al fantasmagorico mondo virtuale esseri umani
isolati, sradicati, persi nella massa, dai legami sociali indeboliti,
particolarmente esposti alla sofferenza psicologica, vulnerabili all’ideologia,
manipolabili dall’adulazione e dalla seduzione.
Esseri
umani che si prestano alla propaganda, la richiedono, la esigono, perché in
essa trovano una certa soddisfazione.
Nella
società tecnica essa costituisce infatti un sostegno necessario per affrontare
condizioni di vita difficili, il peso del lavoro e l’ansia per il futuro.
E
quale migliore e più efficiente sostegno di quello fornito da questi piccoli
specchi neri sempre sotto mano, capaci di funzionare al tempo stesso come
telefoni, macchine fotografiche, videocamere, registratori, calcolatrici,
computer, televisori...?
Nel
giro di poco tempo sono diventati indispensabili sia per svolgere il lavoro che
per procurare lo svago, ed è ad essi che ci si rivolge per risolvere qualsiasi
problema o per superare la noia.
Non si
limitano ad accompagnare la vita, la organizzano minuziosamente attraverso
algoritmi sempre più sofisticati calcolati dalle grandi compagnie.
Fanno
da guida nelle faccende quotidiane, al punto che senza le loro applicazioni si
prova un senso di smarrimento, di impotenza… di solitudine persino, considerato
che sollecitano di continuo l’attenzione umana con i loro esaspera(n)ti
richiami sonori.
Le
conseguenze di tutto ciò sono devastanti.
Gli
effetti provocati dall’uso degli smartphone sono gli stessi riscontrati nei più
accaniti telespettatori (difficoltà di concentrazione, perdita della memoria,
riduzione del linguaggio, regressione delle capacità intellettive), accresciuti
però in maniera esponenziale.
Questo perché la televisione resta pur sempre
un ingombrante apparecchio domestico, che è possibile guardare solo per una
parte più o meno lunga della giornata.
Lo
smartphone no, è diventato letteralmente un’appendice del corpo umano.
E
nell’apprendere che il risultato della sua consultazione ossessivo-compulsiva è
stato battezzato «demenza digitale», non possiamo fare a meno di ricordare
ancora una volta le parole di Hitler:
«tutta
la propaganda deve essere popolare e deve adattare il proprio livello
intellettuale alla capacità ricettiva della persona più limitata fra coloro a
cui desidera rivolgersi.
Quindi il suo livello intellettuale deve
essere tanto più basso quanto più numerosa è la massa di persone da
raggiungere».
I mezzi tecnici moderni di cui dispone oggi la
propaganda consentono di raggiungere, avviluppare e indirizzare l’essere umano
in ogni istante della giornata, dall’alba al tramonto.
Ciò fa
sì che il loro compito immediato sia andato ridefinendosi, passando dalla
susseguente pressione esteriore (allineamento forzato di chi esce dai ranghi
sociali) alla preventiva formattazione interiore (produzione seriale di bisogni
e desideri in un essere umano ridotto a meccanismo), realizzando così
l’auspicio di Goebbels di «ancorare le cose dello Stato alle larghe masse in
modo che l’intera nazione si senta parte di esse».
Oggigiorno
l’introduzione del digitale sta portando a termine una vera e propria mutazione
antropologica, in grado di far introiettare all’essere umano, attimo per
attimo, i modelli di esistenza individuale e collettiva considerati migliori —
perché più efficienti, redditizi, «performanti».
E ciò
avviene in maniera quasi impercettibile, tanto da dare la sensazione di un
nuovo ordine naturale delle cose.
Ma lo
scopo essenziale della propaganda resta il medesimo di sempre:
il dominio assoluto della ragione di Stato e
del prezzo di Mercato, ottenuto mediante la neutralizzazione di ogni altro
possibile.
Abbiamo qui raccolto alcuni interventi sulla
propaganda, di alcuni suoi critici ma anche di alcuni suoi apologeti.
Chissà che la lettura di queste pagine, oltre
a costituire un buon esercizio per liberare le vie psichiche, non contribuisca
a meglio avvistare e scacciare gli sparvieri mentali che da tempo immemore
oscurano il cielo.
Cosa
tanto più necessaria ed urgente oggi, allorquando ci troviamo nel secondo anno
di guerra pandemica, bombardati e soffocati da una campagna planetaria di
terrorismo mediatico-virale mai vista, in grado di prostrare un’umanità
totalmente in balìa di un’emotività indotta.
Vero e
proprio stupro delle masse, per riprendere la nota espressione di Ciacotin, il
quale aveva ben colto che «la prima legge della propaganda... è la legge della
conservazione dell’individuo.
E per
renderla efficace nel comportamento di quest’ultimo, il capo deve usare lo
stratagemma seguente:
deve
suggerire la paura e fare intravvedere lo scioglimento della situazione
pericolosa, la possibilità di raggiungere la sicurezza per mezzo delle azioni
che egli suggerisce».
La
facilità con cui scienziati e politici sono riusciti ad incrementare in modo
inaudito la servitù volontaria, a paralizzare muscoli e cervelli presentando un
virus influenzale (più o meno ostico, non è questo il punto) come l’undicesima
piaga biblica, a spacciare la rinuncia volontaria ad ogni libertà per una forma
di civile rispetto nei confronti degli altri, e dulcis in fundo a scatenare una
corsa sfrenata all’irrimediabile inoculazione di intrugli vaccinali
sperimentali dagli esiti sconosciuti persino a chi li ha prodotti — non sarebbe
mai stata possibile senza una preventiva e consolidata abitudine all’assenza di
ogni minima riflessione critica.
Non ci
libereremo mai della propaganda finché non cesseremo di credere e non
(ri)cominceremo a pensare.
(PROPAGANDA -detergente del pensiero critico -
gratisedizioni.org)
Cercare
la polveriera.
Finimondo.it
– Redazione – intempestivi – (15-10-2021) – ci dice:
Cercare
la polveriera.
«Non
vi dice l'esperienza vissuta che dove lo schiavo s'adagia e si rassegna al
giogo, non hanno più freno la tracotanza e l'avidità del padrone?»
Da quanto tempo sta andando avanti?
Ne
abbiamo quasi perso memoria, sommersa com'è dalla nausea ed il disgusto.
Hanno
provocato, indirettamente o direttamente, una pandemia.
Ne hanno aggravato la letalità, con misure
politico-sanitarie del tutto insensate. Hanno lasciato morire privi
dell'affetto dei loro cari chi ne veniva colpito e stremato.
Hanno
vietato le autopsie che avrebbero potuto contribuire a chiarire la realtà.
Hanno mentito su cause ed effetti di quanto stava accadendo.
Hanno
intenzionalmente seminato a piene mani la paura e il terrore allo scopo di
paralizzarci.
Ci
hanno costretto a stare chiusi in casa.
Ci
hanno messo un bavaglio sulla bocca, impedendoci di respirare e di parlare.
Ci
hanno proibito di spostarci, di incontrarci, di toccarci.
Hanno
ucciso i reietti della società che per primi protestavano.
Hanno creato e diffuso una vera e propria psicosi di
massa, mettendoci gli uni contro gli altri.
Hanno
reso disponibili il cuore al sospetto, la lingua alla delazione, il braccio al
linciaggio.
Hanno fatto perdere la fonte di sussistenza a
milioni di persone, gettandole nella disperazione.
Hanno insultato, umiliato, calunniato,
talvolta arrestato, chiunque li criticasse. Hanno scatenato una caccia
all'untore contro chi non rispettava i loro divieti. Hanno usato come carta da
culo quella Costituzione su cui loro hanno giurato, pretendendo però che noi la
rispettassimo a comando.
Hanno eletto a capo del governo un famigerato
cravattaro, osannandolo come salvatore supremo.
Hanno ricattato prima una categoria, poi tutti
i lavoratori, affinché facessero da ignare cavie ad un vaccino.
Hanno cantato la virtù della resilienza che si
adatta, denigrando il vizio della resistenza che si oppone.
Hanno
aumentato a dismisura il prezzo di materie prime oggi indispensabili alla
sopravvivenza.
Hanno
permesso che nostalgici del duce assaltassero la sede di un sindacato per poter
tacciare di fascismo chiunque manifesti la propria contrarietà alla loro
politica.
Ora
pretendono che le persone sane che vanno a lavorare dimostrino quotidianamente,
e a proprie spese, di essere sane per poter andare a lavorare. Ormai ridotti ad
essere liberi solo di obbedire, dobbiamo perfino pagare per farci sfruttare...
Insomma,
in meno di due anni hanno calpestato ogni libertà, umiliato ogni intelligenza,
stuprato ogni dignità.
Hanno travestito da emergenza sanitaria la
loro urgenza politica di arrivare ad un controllo totale, dei corpi e del
territorio.
E lo
hanno fatto con premuroso candore, senza incontrare finora grosse difficoltà,
sfrontatamente, tra il tremulo consenso della maggioranza e l'educato dissenso
della minoranza.
Decenni
di pace sociale — infastidita saltuariamente da qualche agitazione cittadina —
lo hanno permesso.
A
scorrere nel sangue umano, sempre più artificiale, non sono più passioni
eccitanti, bensì potenti anestetici inibitori dell'azione.
E laddove non sono la «responsabilità politica», il
«senso civico» o il «rispetto per la legalità» a sedare gli animi, ecco
arrivare la «decisione assembleare», le «considerazioni strategiche» o il
«rispetto per le dinamiche collettive».
Storditi
e ammutoliti, non troviamo più parole.
Non
vogliamo nemmeno trovarle, le parole.
Men che meno qualche nuovo soggetto sociale
disposto a ripeterle in coro.
È altro che andrebbe cercato.
Con
ostinazione, con furia, con impazienza, con ferocia.
In
ostaggio.
Finimondo.it
– Redazione - Intempestivi – (2-9-2017)
– ci dice:
Mai
come in questi giorni la realtà ha preso in ostaggio l'immaginazione.
I
nostri desideri e sogni più folli sono sovrastati da una catastrofe invisibile
che ci minaccia, ci confina, legandoci mani e piedi al capestro della paura.
Qualcosa
di essenziale si gioca oggi attorno alla catastrofe in corso.
Ignorate le poche Cassandre che da decenni
lanciavano i loro avvertimenti, ora siamo passati dall'idea astratta al fatto
concreto.
Come
dimostra l'odierna emergenza con tutti i suoi divieti, ad essere in ballo non è
la mera probabilità di sopravvivere, ma qualcosa di ben più importante: la
possibilità di vivere.
Ciò significa che la catastrofe che oggi ci
perseguita non è tanto l'imminente estinzione umana — da evitare, ci viene
assicurato sia in alto che in basso, solo con una completa obbedienza agli
esperti della riproduzione sociale — quanto l'onnipresente artificialità di
un'esistenza la cui pervasività ci impedisce di immaginare la fine del
presente.
«Catastrofe»:
dal greco katastrophé, «capovolgimento», «rovesciamento»; sostantivo del verbo
katastrépho, da kata «sotto, giù» e stréphein «rovesciare, girare».
Sin dall'antichità questo termine ha conservato fra i
suoi significati quello di un avvenimento violento che porta con sé la forza di
cambiare il corso delle cose, un evento che costituisce al tempo stesso una
rottura e un cambiamento di senso, e che di conseguenza può essere sia un
inizio che una fine.
Un
evento decisivo, insomma, che spezzando la continuità dell'ordine del mondo
permette la nascita di tutt'altro.
L'immagine
facile ed immediata dell'aratro che spacca e rivolta una zolla di terra seccata
ed esausta, rivivificando e preparando il terreno a una nuova semina e ad un
nuovo raccolto, rende bene l'aspetto fecondo presente in un termine solitamente
associato al solo epilogo drammatico.
Da qui
l'ambivalenza di sentimenti umani suscitati in un lontano passato dalla
catastrofe, che vanno dal timor panico al fascino estremo.
Al di
là e contro ogni paura della morte, per lunghi secoli gli esseri umani hanno
percepito l'infinito attraverso la distruzione catastrofica, cercando al suo
interno la folgorante rivelazione fisica di ciò che non erano.
Dal Caos primordiale all'Apocalisse, dal
Diluvio universale alla Fine dei tempi, dalla torre di Babele all'anno Mille,
numerosi sono stati gli immaginari catastrofici attorno ai quali l'umanità ha
cercato di definirsi, nella sua relazione con la vita ed il mondo sensibile,
sotto il segno dell'accidente.
Il sentimento di catastrofe è stato con ogni
probabilità la prima intima percezione della dirompenza dell'immaginario, una
fessura permanente nella (presunta) uniformità della realtà.
Avvicinarsi
ai bordi di questa fessura, seguirne la linea, significava cedere alla
tentazione di interrogare il destino, non ostentare la presunzione di
rispondervi. Immaginaria o reale, la catastrofe possedeva la forza prodigiosa
di emergere in quanto oggettivazione di ciò che eccede la più triste condizione
umana.
È solo
verso la metà del XVIII secolo, dopo la scoperta dei resti di Pompei nel 1748
ed il grande terremoto di Lisbona del 1755, che la parola catastrofe ha
cominciato ad essere usata nel comune linguaggio per definire un disastro
improvviso di enormi dimensioni.
Slittamento di significato facilitato dal
fatto che, dopo il 1789 e la presa della Bastiglia, sarà un'altra la parola
impiegata per indicare un ribaltamento, una rottura irreversibile dell'ordine
pre-esistente in grado di preparare l'avvento di un mondo nuovo.
Nato
nel secolo dei Lumi, il concetto di rivoluzione non poteva però che avere un
carattere intenzionale, fortemente legato alla ragione, e perciò lo si è legato
al compimento di un processo, all'evoluzione di un'idea, al risultato di una
scienza.
È
questa la profonda differenza che ha con la catastrofe che l'ha preceduta, e
che in un certo senso l'accompagna.
Laddove
la rivoluzione è un'incarnazione della Storia, la catastrofe è una sua
interruzione.
Tanto
la prima viene programmata nelle strutture, progettata negli scopi, organizzata
nei mezzi, quanto la seconda è inaspettata nei tempi, imprevista nelle forme,
inopportuna nelle conseguenze.
Non
innalza uomini e donne soddisfacendoli nelle loro aspirazioni e convinzioni,
originali o indotte che siano, li fa precipitare al di fuori delle loro misure
comuni e delle loro rappresentazioni, fino a ridurli ad elementi insignificanti
di un fenomeno senza alcuna legge.
Ancor
più della rivoluzione, l'esplosione catastrofica del disordine spazzava via il
vecchio mondo, aprendo la strada ad altre possibilità.
Dopo
che si è materializzato l'impensabile, gli esseri umani non possono più
rimanere gli stessi poiché non hanno visto con i loro occhi crollare solo le
case, i monumenti, le chiese o i parlamenti. Anche le fedi, le teorie, le leggi
— tutto è finito in macerie.
L'antico
fascino della catastrofe nasce da lì, da quell'orizzonte caotico irriducibile
ad ogni calcolo, nel momento in cui uno sconvolgimento senza precedenti spezza
bruscamente ogni riferimento stabile, ponendo brutalmente la questione del
senso della vita le cui infinite ripercussioni richiedono, in risposta, un
eccesso d'immaginazione.
La
catastrofe è servita all'individuo, nella drammatica scoperta di qualcosa che
va al di là della sua identità, per confondersi nuovamente con la natura, il
suolo primordiale o la fonte della creazione.
Ma a
partire dalla fine della seconda guerra mondiale, contrassegnata dalla prima
esplosione atomica, cosa è accaduto?
Che la
prospettiva rivoluzionaria è andata via via spegnendosi, cancellata dai cuori e
dalle menti.
Così al loro interno è rimasta incontrastata
una sola forma possibile di sconvolgimento materiale, per di più in possesso di
ulteriori formidabili mezzi tecnici per manifestarsi.
Ma la
catastrofe odierna ha ben poco in comune con quella degli evi trascorsi.
Non è
più la folgore della natura o l'opera di un Dio che pone l'essere umano davanti
a sé stesso — è un mero prodotto dell'arroganza scientifica, tecnologica,
politica ed economica.
Se
mettendo a soqquadro l'ordine stabilito le catastrofi del passato incitavano a
guardare in faccia l'impossibile, le catastrofi moderne si limitano a scavare
ulteriormente nel possibile.
Invece di aprire l'orizzonte e condurre
lontano, lo chiudono ed inchiodano a quanto di più vicino ci sia.
L'immaginazione selvaggia lascia il passo al
rischio calcolato, per cui non si desidera più vivere un'altra vita, si ambisce
a sopravvivere gestendo i danni.
Una
dopo l'altra, le catastrofi verificatesi in questi ultimi decenni sfilano
davanti ai nostri occhi come se fossero state semplicemente una conseguenza
della miopia tecno-scientifica e del cattivo governo, da superare con tecnici e
politici più attenti e lungimiranti.
Le catastrofi del presente e del futuro
diventano perciò evitabili, o per lo meno riducibili, solo e soltanto con un
controllo sempre maggiore delle attività umane, poste in condizioni di perenne
emergenza.
Effetto
di questa logica, i disastri «naturali» vengono subito dimenticati e rimossi in
un contesto distante, quasi fossero eventi minori, mentre i soli disastri
«umani» occupano il centro della scena in una narrazione che ci invita ad
accettare l'inaccettabile.
Se ci
terrorizzano, è solo perché la nostra sopravvivenza fisica come specie è
minacciata.
Ed è
questo che andrebbe temuto più di ogni altra cosa, la catastrofe invisibile
della sottomissione sostenibile, dell'amministrazione del disastro, quella che
incatena e paralizza la nostra smisurata voglia di vivere imponendole distanze
e misure di sicurezza.
Lo
stato nelle vene.
Finimondo.it
– Redazione – intempestivi – (2 – 9 - 2017) ci dice:
Lo
Stato nelle vene.
«Se
l'individuo non fosse, come è, sopraffatto, se il diritto non nascesse, come in
effetti avviene, dalla moltiplicazione dell'unità, come sarebbe possibile
costringere le masse a piegare anche solo un poco il capo davanti a questa
morale senza fondamento, davanti a questa cosa astratta che esiste per se
stessa e grazie alla forza della stupidità? Ecco perché è necessario livellare,
formare una società (che parola ridicola!) a furia di colpi assestati con
l'aspersorio o col calcio del fucile. L'aspersorio può anche essere laico,
questo mi è indifferente, dal momento che è obbligatorio. Obbligatorio! Oggi,
tutto è obbligatorio, dall'istruzione al servizio militare: domani lo sarà
anche il matrimonio. E non basta: c'è la vaccinazione. La mania dell'uniformità,
dell'uguaglianza davanti all'assurdo, spinta fino all'avvelenamento fisico! Del
pus inoculato a forza, di cui l'uomo non avrebbe nessun bisogno se la morale
non gli imponesse di disprezzare il proprio corpo, della bava infetta iniettata
nel sangue a rischio di uccidervi (chi può contare i cadaveri dei bambini
assassinati a colpi di ago?) del veleno che vi introducono nelle vene per
uccidere i vostri istinti, per intossicare il vostro essere, per fare di voi,
per quanto è possibile, una delle tante particelle passive che costituiscono la
banalità collettiva e morale…»
Georges
Darien.
Un
piccolo passo indietro. Lo scorso maggio la ministra della Salute Lorenzin ha
annunciato la sua proposta di legge sull’obbligatorietà dei vaccini.
I mass
media hanno dato ampio risalto alla notizia, riportando come in base alla nuova
normativa tutti i genitori avrebbero dovuto sottoporre i loro figli (da 0 a 16
anni) a ben 12 vaccinazioni, pena il divieto di frequentare asili nido e
scuole, nonché l’applicazione di sanzioni pecuniarie rinnovabili ogni anno fino
a 7.500 euro, fino alla paventata perdita della patria potestà.
Fra i
vaccini ovviamente era incluso anche quello infame contro l’epatite B, virus
trasmesso principalmente per via sessuale, voluto nel 1991 dall’allora ministro
De Lorenzo dietro sollecitazione di una tangente di seicento milioni di lire
versati dalla multinazionale GlaxoSmithKline.
Ebbene,
questa proposta di legge — non indecente, semplicemente a-b-e-r-r-a-n-t-e — ha
suscitato più perplessità che rabbia.
Lo
stesso è accaduto per la radiazione dall’albo professionale di quei pochi
medici che hanno osato criticare pubblicamente l’obbligo dei vaccini.
Davanti
a questo plateale ed arrogante attacco alla libertà e alla coscienza
individuale da parte dello Stato, la reazione è stata di… un po’ di
indignazione e tante discussioni.
Ci
sono state alcune manifestazioni contro la proposta di legge, certo, ma nemmeno
tanto partecipate.
Ai
cortei nazionali di Roma e Milano hanno sfilato poche migliaia di persone,
infinitamente meno di quanti si rovesciano per le strade in occasione di
qualche scudetto vinto dalla propria «squadra del cuore».
In generale ha predominato il solito
fatalismo: è la dittatura della merda, passerà anche questa.
Eppure
fino a non molto tempo fa una legge di tal fatta non sarebbe stata solo
improponibile, sarebbe stata impensabile.
C’era da non credere ai propri occhi nel
vedere il modo in cui veniva creato artificialmente il clima di panico ed astio
nei confronti dei bambini non vaccinati, messi alla berlina in quanto untori
dell’epidemia del morbillo.
Morbillo?
Ma stiamo scherzando?
La
quasi totalità della popolazione italiana ultraquarantenne ha avuto il
morbillo, e non è morta.
Il
vaccino contro il morbillo è stato introdotto qui in Italia nel 1984.
Fino
ad allora ammalarsi di morbillo da bambini era considerata una cosa del tutto
normale, un piccolo fastidio da sbrigare il più in fretta possibile.
Di
più, un fastidio necessario perché rendeva immuni per sempre alla malattia.
Quando un bambino si ammalava di morbillo, le mamme dei suoi amici mandavano i
propri figli a fargli visita allo scopo di farli ammalare a loro volta — meglio
togliersi subito il pensiero.
Le malattie esantematiche sono molto
pericolose da adulti, ma per lo più innocue se capitano nel corso
dell’infanzia.
Il bambino sta a casa alcuni giorni da scuola,
guarisce, dopo di che non ha più nulla da temere da quella malattia.
Ora,
non è affatto difficile capire che l’immunizzazione è mille volte meglio della
vaccinazione.
Che la
prima è un fenomeno naturale che protegge per sempre dalla malattia e non ha
controindicazioni, mentre la seconda è un espediente scientifico che in linea
di massima protegge per un lasso di tempo e può causare danni collaterali.
Che
vaccinarsi significa diventare dipendenti dall’industria farmaceutica giacché i
vaccini, per essere considerati efficaci, hanno bisogno di essere ripetuti nel
tempo. Le persone vaccinate, superata una certa soglia di età, non potranno più
ammalarsi senza incorrere in grossi rischi e quindi saranno costrette a
vaccinarsi periodicamente per tutta la loro vita adulta.
Cosa
che farà la gioia dell’industria farmaceutica, la quale non ha interesse né ad
uccidere né a guarire i propri clienti, ma a renderli pazienti cronici in fila
davanti agli sportelli delle farmacie per acquistare le sue merci fino al loro
ultimo respiro.
Questo
la ministra Stronzolin, classe 1971, lo sa bene.
Quasi
sicuramente anche lei è immune al morbillo, si sarà anche lei ammalata da
piccola.
Lo stesso dicasi per la stragrande maggioranza
dei politici, degli esperti, dei commentatori e dei giornalisti che hanno
pompato la sua proposta di legge senza battere ciglio, in nome della salute
pubblica che deve essere tutelata e garantita dallo Stato.
Anche qui, c’è da rimanere sbalorditi.
Secondo
le statistiche ufficiali, la prima causa di mortalità è il fumo che provoca qui
in Italia oltre 200 vittime al giorno.
Ma poiché i tabacchi sono monopolio di Stato,
questi morti non fanno scalpore. Non ce ne vogliano i fumatori, ma come non
constatare che ottimo affare sia per lo Stato, incassare 15 miliardi di euro
all’anno per la vendita di sigarette e spenderne la metà per la cura del cancro
ai polmoni.
Già, ma in questo caso c’è il libero arbitrio
da rispettare!
Lo
hanno dimenticato, lor signori? Forse neanche loro ricordano più bene contro
chi siano in guerra, se contro l’Eurasia o l’Oceania… ah, già, contro il
morbillo!
Quel
morbillo che, a detta della ministra Stronzolin, nel 2013 avrebbe fatto strage
di bambini in Inghilterra, provocando ben 270 vittime.
Oppure
sono in guerra contro la meningite, di cui viene denunciata una epidemia in
corso su tutto il territorio nazionale, ma solo a partire dal 2015.
Nulla di vero, sono pure menzogne.
Nel 2013 è morto solo un venticinquenne per
morbillo in Inghilterra, quanto alla meningite si è registrato un incremento di
casi nella sola Toscana (guarda caso, la regione in cui hanno sede le
multinazionali che producono i vaccini anti-meningite), pochi mesi dopo
l’incarico affidato all’Italia nel corso del “Global Health Security Agenda”,
di guidare per i prossimi cinque anni le strategie e le campagne vaccinali nel
mondo.
Perfino
alcuni esperti dell’Istituto Superiore di Sanità hanno dovuto pubblicamente
riconoscere che quella della meningite è «solamente una “epidemia mediatica”,
il cui patogeno, che si sta moltiplicando a dismisura, contagiando giornali e
lettori, è semplicemente la notizia giornalistica».
Ma la
propaganda bellica, è notorio, si nutre di menzogne.
E la
guerra in corso, una guerra spietata che si combatte su tutti i campi,
quotidianamente, è quella contro la libertà, contro la possibilità di dire,
fare, amare, vivere come si vuole, senza dover adattarsi alla norma.
Gli
esseri umani, così diversi tra loro per via di quella ormai obsoleta
caratteristica che è la singolarità, devono essere trasformati in cittadini
omologati nell’obbedienza.
Devono
essere vaccinati, schedati, marchiati — a vita.
Nel
totalitarismo democratico l’erosione della libertà avviene poco alla volta, non
è il risultato immediato di un colpo di Stato militare notturno.
Giorno
dopo giorno vengono prese misure che limitano e vietano i movimenti e
l’autonomia, misure che partono in sordina — per permettere di renderle
sopportabili, in modo di abituarvisi — e poi aumentano, si moltiplicano, si
incrociano.
Avete
notato come i politici che vogliono far passare proposte di leggi
particolarmente liberticide assomiglino ai magistrati accusatori che vogliono
ottenere sentenze di condanna?
Entrambi
chiedono tanto per ottenere qualcosa.
Così,
i cambiamenti subiti dalla proposta di legge originale sui vaccini (prima la
riduzione del numero di vaccini obbligatori e delle sanzioni economiche in caso
di inadempimento, nonché la conferma dell'inviolabilità della patria potestà,
poi la possibilità dell'autocertificazione della richiesta di effettuare le
vaccinazioni) sono stati accolti dal pubblico quasi come se si fosse trattato
di un passo indietro da parte del potere, laddove in realtà costituiscono un
balzo in avanti vertiginoso.
Pensate,
all’inizio ci volevano sprangare in testa ma poi per fortuna hanno deciso di
spezzarci solo una gamba… Meno male, che sollievo! C’è da essere riconoscente a
chi si cura tanto di noi.
Dopo aver
incatenato i nostri corpi, dopo aver colonizzato la nostra mente, adesso lo
Stato vuole anche scorrere nelle nostre vene.
Guerra
alla guerra.
Finimondo.it
– Redazione – Papiri – (10 – 7 - 2022) ci dice:
Contro
la guerra e la mobilitazione militare.
Lo
Stato russo sta cercando di conquistare l'Ucraina.
Quello
stesso Stato che ha contribuito a reprimere il movimento bielorusso verso la
libertà e che, appena poche settimane fa, ha schiacciato la rivolta in
Kazakistan coi suoi carri armati.
Putin
cerca di estendere il suo potere autocratico e di stritolare ogni movimento di
ribellione o resistenza, all’interno e all’esterno dei suoi confini.
Eppure, quando tutti i democratici occidentali
cantano in coro la difesa della libertà e della pace, non è che un’ipocrisia
orchestrata:
sono
gli stessi democratici ad imporre con la forza rapporti coloniali di potere e
di sfruttamento attraverso le loro «operazioni di pace», cioè guerre di
aggressione a colpi di droni e di bombe o di occupazioni di territori;
gli
stessi che riforniscono d’armi i dittatori e i carnefici; gli stessi che sono
direttamente o indirettamente responsabili dei massacri di rifugiati e insorti,
giurando oggi solo per la pace.
Una
pace sacra in Europa, che del resto non esiste come promesso da 70 anni, e che
ha sempre significato guerra nei paesi globalizzati del Sud — attraverso guerre
per procura, attraverso forniture di armi, attraverso le frontiere e il
colonialismo. Se l'Occidente sostiene pienamente l'Ucraina, è perché è un suo
alleato.
Siamo
disgustati da entrambe le parti di questa guerra:
invece
di posizionarci da una parte o dall'altra, ci opponiamo a tutti gli eserciti
statali e alle loro guerre — detestiamo non solo i loro massacri, ma anche la
loro obbedienza da cadavere, il loro nazionalismo, il fetore da caserma, la
disciplina e le gerarchie.
Assumere
una posizione contro ogni forma di militarismo e di Stato non significa
rifiutare di prendere le armi...
GREEN,
COLORE E SIMBOLO
DELL’ALIENAZIONE.
Nuovogiornalenazionale.com
- Silvano Danesi – (17 Settembre 2023) – ci dice:
Politica.
“Per i risvegliati
(εγρηγορóσιν)
c’è un cosmo unico e
comune,
ma ciascuno dei
dormienti
s’ involge in un
mondo proprio”.
(Eraclito, Fr. DK
22B89).
Un libricino
edito da Bollati Boringhieri contiene due scritti di “C.G.Jung”:
“Anima
e morte” e “Sul rinascere”.
Il primo è del 1934 e la sua attenta lettura
ci dà le chiavi per comprendere come il green (verde) sia assurto a colore e
simbolo dell’alienazione e a costume di vita degli alienati.
“Il
terreno da cui trae alimento l’anima – scrive Jung – è la vita naturale.
Chi
non la segue rimane disseccato e campato in aria”.
Poche
righe sopra, “Jung” scrive che “il corpo vivente è un sistema di finalismi che
tendono alla propria realizzazione”.
Abbiamo
qui due affermazioni di estrema importanza. La prima è che la vita va vissuta
pienamente in rapporto con la natura e, quindi anche con la corporeità.
La
seconda è che il corpo vivente è un sistema di finalismi, la qual cosa implica
che il corpo vivente abbia dei fini.
Quali?
Tra i
molteplici fini dei quali è possibile discutere, quello che trovo interessante,
in questo periodo che prelude all’Equinozio d’Autunno, punto di enantiotropia, ossia di
conversione nell’opposto, è l’inversione successiva alla raggiunta maturità.
“Si
riscaldano le cose fredde, le calde si raffreddano; diventano secche le cose
umide, le aride si inumidiscono”. (EraclitoFr. DK 2B126).
Vale
per gli esseri umani, vale per le civiltà, vale per ogni realtà soggetta alla
trasformazione.
Scrive
“Jung” che “molti uomini s’inaridiscono con l’età: si volgono indietro, con una
segreta paura della morte nel cuore.
Si
sottraggono, almeno psicologicamente, al processo vitale, simili alla mitica
statua di sale si rivolgono vivacemente ai ricordi della giovinezza, ma perdono
ogni vivente contatto col presente.
Nella
seconda metà dell’esistenza rimane vivo soltanto chi, con la vita, vuole
morire.
Perché ciò che accade nell’ora segreta del
mezzogiorno della vita è l’inversione della parabola, è la nascita della
morte”.
Se il
Solstizio d’Estate è il punto enantiodromico nel quale la crescita di converte
nel declino, l’Equinozio d’Autunno è il punto enantiodromico nel quale si passa
dalla luce all’oscurità.
L’Equinozio
d’Autunno è la nascita della morte.
Il
tema che si presenta alla riflessione è la morte.
Ma chi
muore?
Prima
di procedere occupiamoci del green.
“Essere
vecchi – scrive Jung – è estremamente impopolare.
Non ci si rende conto che il «non poter
invecchiare» è cosa da deficienti, come lo è il non poter uscire dall’infanzia.
Un
uomo di trent’anni che è ancora infantile viene compatito; ma un settantenne
giovanile viene considerato «delizioso».
Eppure sono entrambi perversi, senza stile e
psicologicamente deformi.
Un
giovane che non lotta e non vince, si lascia sfuggire la parte migliore della
giovinezza; un vecchio che si rifiuta di dare ascolto al mistero del torrente
che scroscia dalle cime verso le valli, è dissennato, è una mummia spirituale e
quindi null’altro che un passato cristallizzato.
Egli
se ne sta fuori dalla propria vita e non fa che ripetersi meccanicamente fino
alla più stucchevole sazietà.
Che razza di civiltà può essere quella che ha
bisogno di simili fantasmi?”.
Eccoci
giunti a fare la conoscenza dei “vecchi ever green”, quelli che si sono
cristallizzati in un passato, che non vivono più, non sanno fare i conti con la
realtà e pensano che aggiustare l’esteriorità (lifting, chirurgo plastico,
vestiti giovanili, atteggiamenti da giovanotto e via discorrendo) possa
modificare la realtà.
Gli “ever
green” sono solo corpo materiale e sono pertanto preda di chi, come le teorie
transumaniste, fanno pensare ad una sorta di eternità materiale e tecnologica.
Sono
degli alienati, ossia sono diventati incapaci di considerarsi nella loro intera
umanità, che non è solo corpo materiale e che hanno perso anche l’aspetto
finalistico della vita e dell’esistenza, che non è solo materiale. Sono alienati consegnati alla
disperazione.
“Noi –
scrive Jung – attribuiamo uno scopo e un senso al sorgere della vita; e perché
non dovremmo fare altrettanto per il suo declino? La nascita dell’uomo è densa di
significato, e perché non dovrebbe esserlo la morte?”.
E qui
siamo messi di fronte alla questione di chi muore. Muore l’intero essere umano
e di lui non resta nulla, se non, in qualche raro caso le sue opere, oppure
muore solo una parte dell’essere umano, quella del corpo materiale e rimane
un’altra parte che non muore?
Qui è
la questione della differenza tra l’ecologia senza l’essere umano, l’ecologia
che comprende l’essere umano e l’ecologia dell’essere umano.
L’ecologia
senza l’essere umano è quella della cultura green e woke (vocabolo invertito nel suo
significato di risveglio perché chi lo afferma come linea ideologica vuole
addormentare le masse).
Siamo
di fronte ad una casa (òikos) dove l’essere umano è vissuto come un estraneo,
possibilmente da eliminare.
Òikos
è una parola che deriva dal greco antico e significa casa, famiglia, ma non
solo.
L'òikos,
per i greci, rappresentava anche un organismo sociale, collettivo e dinamico.
L’ecologia
che comprende l’essere umano è quella che accoglie i criteri della natura, non
li violenta e fa dell’essere umano un collaboratore.
In
questo caso l’òikos, la casa, è una famiglia naturale, dove l’essere umano e
gli altri esseri viventi convivono in un equilibrio che tiene contro della
struttura della casa stessa e dei suoi criteri costruttivi.
L’ecologia
dell’essere umano è la cura della casa dell’essere umano, che è sì il corpo
materiale, ma anche altro, ossia il corpo di luce o corpo di gloria che dir si
voglia: quello con il quale siamo arrivati e con il quale ce ne andremo
lasciando sul terreno la salma.
Salma,
dal latino tardo sagma, *sauma, dal greco σάγμα «carico, basto», che richiama anche soma, da cui
somaro, portatore di basto, in senso lato rappresenta qualcosa di greve, di
pesante e quindi di soggiacente allo spazio tempo, alla gravità.
La
casa dell’essere umano è la salma? O questa è solo la sua casa quando è nel campo
gravitazionale?
La
casa dell’essere umano come corpo di luce non appartiene al campo
gravitazionale e non soggiace alle regole della corporeità materiale, ma a
quelle della corporeità “luminosa”.
E qui
arriviamo ad un altro crocevia essenziale per capire come il green sia divenuto
il simbolo dell’alienazione:
le
religioni.
“Si
può dire – afferma “Jung” – (…) che la più parte di quelle religioni sono dei
complessi sistemi di preparazione alla morte; in quanto per esse la vita non
significa altro – precisamente nel senso della formula paradossale sopra
enunciato – che una preparazione al termine estremo, alla morte”.
La
questione è stata ben delineata, dal punto di vista religioso cristiano, da un
grande intellettuale come “Joseph Ratzinger”, il quale, già salito al Soglio di
Pietro come Benedetto XVI, intervenendo al Bundestag, il 22 settembre 2011, ha
detto:
“L’importanza
dell’ecologia è ormai indiscussa. Dobbiamo ascoltare il linguaggio della natura
e rispondervi coerentemente.
Vorrei
però affrontare con forza un punto che – mi pare – venga trascurato oggi come ieri: esiste anche un’ecologia dell’uomo.
Anche
l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a
piacere.
L’uomo
non è soltanto una libertà che si crea da sé.
L’uomo
non crea sé stesso.
Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e
la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando
accetta sé stesso per quello che è, e che non si è creato da sé.
Proprio
così e soltanto così si realizza la vera libertà umana”.
Le
religioni, spiega “Jung”, “non sorgono quali frutti di un’elucubrazione
cosciente, ma provengono dalla vita naturale dell’anima inconscia, che in
qualche modo esprimono adeguatamente.
Ciò
spiega la loro diffusione universale e la loro straordinaria efficacia storica
sull’umanità”.
Dove
troviamo l’alienazione green riguardo alle religioni? La troviamo quando anziché occuparsi
dell’anima, della morte, della sopravvivenza dell’essere umano alla morte del
corpo materiale, si occupano dell’ecologia senza l’essere umano, di una casa che
l’essere umano lo sente come un fastidioso occupante.
Quando,
cioè, si accostano all’ecologia con gli schemi della green economy, del green
deal, degli interessi della finanza.
I
simboli religiosi, sostiene “Jung”
,
hanno anche un netto carattere di «rivelazione», appunto come prodotti
spontanei di un’attività psichica inconscia. Essi sono tutto fuorché «pensati»;
sono cresciuti lentamente, come piante, nel corso dei millenni, quali
manifestazioni naturali dell’anima dell’umanità”.
L’anima
dell’umanità è del tutto dimenticata in una deriva green che guarda solo al
corpo materiale, ai corpi materiali, alle dinamiche di quella che
impropriamente viene definita come fosse un essere vivente, perché se così
fosse, sarebbe la personificazione mitologica della Terra che genera le razze
divine.
La teoria di Gaia, quella a cui si riferiscono gli
adepti della nuova religione verde-climatica, è stata proposta nel 1979 dallo
scienziato inglese “James Lovelock” e Gaia è altra cosa dalla “Madre Terra “e
altro ancora dalla “Grande Madre Cosmica”.
Per “Lovelock”Gaia
non è un essere vivente, ma un organismo autoregolantesi, al quale si deve
rispetto, usando i criteri della natura, cosa che gli adepti della green
economy non fanno, in quanto con la mano destra attivano politiche di finta
salvaguardia del pianeta e con la mano sinistra lo depredano.
L’appiattirsi
delle religioni, come fa quella cattolica apostolica romana con le posizioni di
Papa Francesco, sulle posizioni dell’ideologia green ha lo stesso effetto
alienante del vecchio che rifiuta di essere tale e si comporta da ever green o
del giovane che non cresce mai.
La religione diventa un fantasma e, per dirla
ancora con Jung: “Che razza di civiltà può essere quella che ha bisogno di
simili fantasmi?”.
Torniamo
a Eraclito. “Si riscaldano le cose fredde, le calde si raffreddano; diventano
secche le cose umide, le aride si inumidiscono”. (EraclitoFr. DK 2B126).
Come
riscaldare le cose fredde?
Riguardo
alla religione, nell’occuparsi delle ragioni per le quali è nata.
Veniamo
all’Occidente.
Nel
1900 la Civiltà occidentale aveva sotto il proprio controllo il 44,3 per cento
della popolazione mondiale. Nel 2010 la cifra si è abbassata all’11,5 e nel
2025 sarà del 10,11.
L’Europa
ha perso la sua influenza politica, geopolitica ed economica nel mondo e gli
Usa sono progressivamente in difficoltà.
Emergono altre potenze e ora ben i tre quarti
del mondo dicono di non volere che l’Occidente domini.
È del
tutto evidente, senza andare oltre con i riferimenti (energia, materie prime,
ecc.) che il corpo materiale dell’Occidente è assai indebolito e che si sta
indebolendo sempre di più con una politica suicida che risponde all’ideologia
green.
L’Europa,
in particolare, va verso il proprio suicidio verde.
L’Occidente
si comporta come quel vecchio ever green e quel giovane che non vuole crescere;
è un fantasma e, sempre per citare Jung: “Che razza di civiltà può essere
quella che ha bisogno di simili fantasmi?”.
Inoltre
l’Occidente, con l”’ideologia del risveglio” (Woke), che nasconde furbescamente
l’ideologia del rimbambimento delle masse, sta distruggendo tutto quello che ha
a che fare con l’essenza dell’essere umano e con le grandi conquiste della
Civiltà occidentale in materia spirituale.
Nichilismo,
materialismo, negazione della storia e delle radici, sono un tratto evidente
dell’”ideologia woke” che sta portando l’Occidente all’eutanasia verde.
L’Occidente,
senza alcuna finalizzazione della vita e della morte, senza che ormai si ponga
domande sull’essenza dell’essere umano, lo considera merce al pari delle altre merci,
una merce che consuma altre merci e che può essere eliminata quando si dimostra
inservibile ai fini del capitale finanziario.
L’alienazione
green è la fine dell’Occidente come civiltà, in attesa che l’Occidente finisca
anche come realtà.
Ridiamo la parola a Eraclito: “Si riscaldano le cose fredde, le
calde si raffreddano; diventano secche le cose umide, le aride si inumidiscono”. (EraclitoFr. DK 2B126).
Come
riscaldare l’Occidente?
Tornando a considerarlo nel suo insieme e non
solo come lo vuole il capitalismo finanziario orwelliano, ossia un pezzo di
mondo che è composto da più popoli, con le proprie radici, la propria storia,
la propria arte, il proprio modo di vivere.
Tutte peculiarità che vanno salvaguardate,
inumidite quando sono secche, riscaldate quando si raffreddano, per poi
armonizzarle in un’orchestra fatta di molti strumenti.
Perché
la transizione è verde.
Gognablog.sherpa-gate.com
– (27 Dicembre 2022) -Redazione -
Lorenzo Merlo – ci dice:
Perché
la transizione è verde di “L’Urlo della Terra”.
“Sebbene
sia piuttosto vero che ogni politica radicale di applicazione delle teorie
eugenetiche sarà impossibile per molti anni a venire (ragioni politiche e
psicologiche lo impediranno), è importante che l’UNESCO continui a esaminare
l’eugenetica con la massima attenzione, informando nel miglior modo possibile
l’opinione pubblica sull’argomento e sulle sue possibili implicazioni. In
questo modo, quello che oggi è considerato impensabile potrà in futuro almeno
cominciare a essere preso in considerazione senza tabù di sorta (Julian Huxley,
1946)”.
Nel
programma di re settaggio e di Grande Trasformazione in corso tanti gli aspetti
che vengono toccati, sia per trasformarli irrimediabilmente, sia per renderli
obsoleti e quindi da destinare nel dimenticatoio della storia.
Esiste
però un aspetto che non solo è chiamato a comprendere tutti gli altri, ma ha
anche origini più antiche: l’ecologia.
Su questo tema vi sono questioni ampiamente
denunciate e dibattute, a volte anche dagli stessi responsabili dell’ecocidio
in atto.
Nel
tempo, denunciare il rischio ecologico e poi portare a risolverlo si è rilevato
molto remunerativo per tutta l’industria, da quella chimica ed energetica a
quella farmaceutica.
Tutti
parlano di ecologia, evidentemente a sproposito, per poi adottare strategie
commerciali o politiche che rappresentano tutto l’opposto.
L’ecologia
è talmente considerata che anche a Davos tra aguzzini della finanza e delle
multinazionali gira una giovane ragazza in treccine che li riporta alle loro
responsabilità in merito al cambiamento climatico, tanto da far percepire quasi
un po’ di bonomia etica, ma è solo un attimo perché uno sguardo attento
mostrerebbe subito gli artigli assassini di tutti costoro.
Ormai
sembra essere evidente ai più che tutta la ristrutturazione del comparto
tecno-industriale si basa su retoriche ambientaliste, tanto che è stato coniato
un termine specifico per evidenziare e denunciare questo fenomeno, ovviamente
con un inglesismo: “green washing”.
L’industria,
nelle sue multiformi vesti, adotta lo stile ecologico per continuare, non solo
quello che ha sempre fatto a discapito di terre e corpi, ma per continuare a
farlo ancora meglio, soprattutto con la possibilità di un nuovo rivestimento
che mimetizza le nefandezze in una cornice di ecosostenibilità.
Il
verde sta quindi colorando tutto, anche le terre rare e rarissime che sono la
base energetica per le batterie di tutti i nuovi dispositivi che andranno ad
arricchire il guardaroba della transizione ecologica.
Da una
visione superficiale sembrerebbe di trovarsi di fronte a un qualcosa di
positivo, l’ecologia, che ad un certo punto ha subito una degenerazione.
Le
ragioni per cui questo cammino ha avuto un’involuzione o delle prassi di
tradimento rispetto l’idea originaria sarebbero da ricercare nel solito
profitto, nell’avidità senza scrupoli dell’industria.
L’avidità
economica sembra dunque essere sempre il motore che tutto muove.
Noi sosteniamo che certamente il lato
economico è importante, ma, ancora una volta, vorremmo sottolineare come questo
sia già appagato da molto tempo, considerando che queste élite di potere stanno
a capo delle stamperie del denaro con il potere di aprire e chiudere i
rubinetti a seconda del progetto in corso.
Quando
parliamo di ecologia in questo contesto ci riferiamo a quella promossa dalle
compagnie, dagli Stati, portata avanti dalle grandi corporazioni ambientaliste,
ONG, fondazioni e dall’associazionismo ascoltato nei grandi forum
internazionali.
Questo
tipo di ecologia che potremmo definire senza alcun dubbio scientifica ci
riporta all’opera di razionalizzazione della natura.
In
questo testo vorremmo occuparci di quest’ecologia scientifica che da decenni
accompagna il potere nella sua presa della natura, dell’umano e degli altri
animali.
Siamo
convinti che il vero motore di questa ecologia del potere sia stato sempre
quello di trasformare il mondo naturale secondo determinate visioni tanto care
a precise élite di scienziati del secolo scorso e dei tempi presenti.
Se
questa precisa concezione di ecologia nei suoi grandi programmi ha sempre
rappresentato lo sviluppo del dominio nei suoi vari aspetti, non stupisce oggi
vedersela puntare contro quale arma di ricatto per la nostra irresponsabilità
nei confronti del pianeta, non avendo noi avuto un giusto “stile di vita”, come
si chiamava una vecchia campagna del WWF Italia.
Siamo
fortemente convinti che questa visione estesa oggi a livello mondiale abbia
origini molto lontane.
A livello teorico deriva da determinate correnti di
pensiero ecologista che dettero vita al transumanesimo di cui il clan Huxley
era il più rappresentativo. Julian Huxley, che coniò il termine transumanesimo,
gettò le basi sulle quali si edificò il pensiero eugenetico e transumanista e a
seguire anche il pensiero cibernetico.
Una
razionalizzazione, un controllo e gestione, al fine di riprogettare tutto il
vivente dirigendo la sua evoluzione.
Ma la “maggior parte del lavoro” secondo
Huxley sarebbe stata fatta sull’umano.
Risaliremo
alle origini di questa ecologia scientifica e transumana, alla sua idea di
conservazione della natura e ai suoi campioni di natura, tracciando i punti
cardine di questo pensiero che nell’organizzazione cosciente e sistematica del
mondo – espressa nel testo chiave di Julian Huxley “Ciò che oso pensare del
1931” – rappresenta quel pensiero che vediamo oggi prendere drammaticamente
forma in tutte le sue molteplici espressioni in questa transizione verde.
Determinati
interventi e programmi che vediamo oggi nella cosiddetta conservazione della “Natura”
hanno origini antiche, come quelle principesche che dettero i natali al “Fondo
Mondiale Per La Natura” (WWF) dove figurava come primo presidente il principe
Bernardo dei Paesi Bassi simpatizzante del Terzo Reich e organizzatore dei
primi incontri del Club Bilderberg.
Negli
anni ’60 tra i fondatori di questa organizzazione e lobby ambientalista
figurava anche Julian Huxley.
Huxley
nei suoi scritti, in particolare La biologia e l’ambiente fisico dell’uomo,
esprime in maniera molto chiara la necessità di controllare i sistemi naturali,
per evitare quello che descrive come caos, disordine e sviluppi che lasciati a
sé stessi potrebbero rivelarsi, a suo avviso, nocivi.
Si rende quindi necessario controllare e
stabilire nuovi equilibri che siano convenienti agli scopi dell’essere umano.
Il
punto di partenza per tale controllo e gestione dell’intero vivente è proprio
la conservazione della natura, che diventerà la politica centrale del WWF e di
tutti i vari organismi governativi che verranno dopo.
Per la
salvaguardia della natura selvaggia e in particolare degli animali in
estinzione Huxley osserva come l’essere umano si è reso responsabile della
scomparsa di tante specie e, nel suo significativo libro “Ciò che oso pensare”,
scrive: “Dobbiamo
sapere dove e quando procreano, quanti piccoli mettono al mondo, e quanto tempo
questi impiegano per crescere, quale è la loro mortalità naturale; poi sulla
base di tali cognizioni predisporre il nostro sfruttamento in modo che esso
incida soltanto la superproduzione”. Il tutto se “vogliamo che le specie selvagge
continuino a fornire olio, pellicce, concimi, carni e sport dobbiamo regolare
la loro situazione come regoleremmo un affare”.
In questo elenco sembra proprio che Huxley stia
pensando alla propria classe agiata e influente di cui fa parte da generazioni. Più che di un naturalista sembra
essere in presenza di un allevatore coscienzioso e lungimirante che prodiga
buone cure perché sa che queste permetteranno un mantenimento e una buona
produzione nel tempo. Per aumentare le rese di cibo per gli animali da allevamento
Huxley scrive:
“se è
migliorata la macchina animale per utilizzare l’erba, bisogna in corrispondenza
migliorare la macchina vegetale cui è affidato il primo stadio del processo,
cioè la elaborazione di materiali greggi della terra e dell’aria. Perciò le
ricerche proseguono alacri per scoprire i migliori fertilizzanti dell’erba, ma
anche per produrre nuovi tipi vegetali che per efficienza siano superiori
all’erba ordinaria quanto una moderna mucca da latte lo è rispetto alla mucca
primitiva”.
Viene
enunciato con chiarezza come si dovrebbe attuare questa trasformazione ed
emerge con forza il legame tra ecologia e genetica:
“L’ecologia
qui si congiunge con la genetica… perché essa offre la prospettiva delle
trasformazioni più radicali del nostro ambiente. Mucche e montoni, alberi della
gomma o barbabietole, rappresentano sotto un certo aspetto altrettante macchine
viventi, designate a trasformare materiale greggio in prodotti finiti, valevoli
per gli usi dell’uomo”.
Si
arriva anche a fare quelle che all’apparenza sembrano semplici speculazioni
filosofiche o più probabilmente dei sogni di un’eugenista:
“Se volessimo, potremmo infliggere ad altri
felini ciò che abbiamo inflitto a numerose specie di gatto domestico, cioè la
placida amabilità invece della ferocia truculenta, e così ottenere tigri che
fossero realmente, e non soltanto nei versi di Belloc, vezzose e miti”.
Tutto
può portare ad esiti sorprendenti, ma solo se si “riesca a perfezionare la
scienza ecologica che sola può fornirci le cognizioni necessarie”.
Oltre
alla conservazione delle singole specie l’interesse si è spostato presto verso
l’intero ambiente, tanto che il “WWF” attualmente usa ancora le stesse
affermazioni del suo storico fondatore.
Secondo
Huxley è molto facile mescolare natura e civiltà in modo tale che l’essenza di
una è distrutta e quella dell’altra non del tutto realizzata con il risultato
finale di un insoddisfacente compromesso.
“Diversi
sono l’equilibrio della natura e quello della civiltà: ognuno di essi è
mirabile nel suo genere, e di entrambi possiamo progettare la conservazione”.
Per far fronte all’insoddisfacente compromesso è necessaria un’organizzazione
cosciente.
Nella
sua idea conservazionista Huxley intendeva che “certe aree dovrebbero essere
messe a parte come campioni della natura, nello stesso modo che nei musei
conserviamo esemplari interessanti di animali e piante.
Esse sarebbero dei santuari della natura, ai
quali bisognerebbe concedere con parsimonia accesso, e soprattutto a scopo di
studio scientifico. In aggiunta a queste categorie principali, si potrebbero
stabilire riserve per usi speciali: per la vita degli uccelli, per la
conservazione di piante rare o belle, o anche di strani esseri umani, quali i
pigmei”.
La
necessità di mantenere delle zone non immediatamente ad uso umano hanno portato
alla creazione di quei progetti che oggi chiamiamo parchi o oasi naturali, ma è
possibile intendere anche particolari zoo o bioparchi.
Cosa
intende quindi Huxley con conservazione della natura?
Una
sua catalogazione e organizzazione sistematica, al fine di renderla
illimitatamente disponibile.
Una
parte di essa dovrà conservare le sue proprietà naturali e originarie che
potrebbero sempre servire, come quando oggi viene conservato il germoplasma dei
semi antichi nella Banca del seme, un’altra parte di essa servirà come bacino
di materia prima da sfruttare, ma la parte più grande, o, meglio l’intera
natura per come viene concepita, diventerà spazio di controllo, gestione,
intervento e modificazione da parte dell’umano.
Conservare la natura per averla disponibile da
modificare in base alle proprie esigenze e da riprogettare in base alla propria
idea di evoluzione e progresso.
Una
conservazione e una gestione anche degli ambienti selvaggi sotto la mano
dell’organizzazione cosciente.
L’ecologia, intesa come conoscenza dei
processi naturali, è fondamentale per raggiungere questi scopi.
Ben presto Huxley arriva a toccare il punto
cardine del suo pensiero: “per preservare la natura noi dobbiamo conoscere il
meccanismo che ne assicura l’equilibrio, ci aiuta in ciò la ben sviluppata
scienza che è detta ecologia”.
Un’ecologia
scientifica che da sempre ha avuto un’ossessione non solo per il controllo, ma
per regolare e dirigere il corso della natura, di tutti gli esseri viventi e
degli stessi fenomeni, perché è necessario, ricorda ancora il fondatore del
WWF, sfruttare la natura in modo “cosciente e sistematico” e stabilire “nuovi
equilibri” funzionali ai nostri scopi.
Una
riorganizzazione e produzione della natura che necessita di sopprimere tutto
ciò che esiste in modo autonomo e spontaneo. Non potrà esistere manifestazione
vivente fuori da razionalizzazioni e da previsioni, il principio razionale
scientifico-ecologico decreterà nuove norme necessarie per il buon andamento di
ogni cosa.
Huxley
con dispiacere afferma che l’umano non riuscirà forse mai ad avere un completo
controllo dell’ambiente perché non riuscirà a impedire tutti quei fenomeni come
terremoti, alluvioni e non riuscirà a cambiare il clima, ma rimane fiducioso
nelle future possibilità a cui condurranno gli sviluppi scientifici.
Nel frattempo, in attesa di giungere a un totale
controllo l’umano potrà comunque intervenire nei processi naturali al fine di
regolarli e guidarli.
Il
controllo totale sarà necessario al fine di irrompere nei processi naturali per
stravolgerli e modificarli.
Ovviamente fin tanto che tutto ciò non sarà
ancora possibile la natura continuerà ad essere sfruttata in modo sistematico.
Questo
modo di intendere l’ecologia e la conservazione della natura non è stato uguale
in ogni parte del mondo anche se il modello proposto da Huxley con il suo WWF
ha avuto la meglio, soprattutto nel permeare di scienza qualsiasi visione,
anche in ambito sociale.
Dal
controllo e gestione dell’ambiente naturale alla scienza del controllo e della
gestione delle condotte, alla gestione coordinata e pianificata degli spazi,
alla gestione ordinata e ottimale del mondo grazie al potere razionalizzante
della tecnica e in particolar modo della cibernetica.
Controllo
e pianificazione totali saranno possibili grazie alla scienza.
Questa natura addomesticata avrà bisogno del
controllo efficace operato dalla scienza, “unica vera guida” che potrà portare
l’umano al suo possibile “destino evolutivo”.
Senza
questo accompagnamento scientifico la società andrebbe incontro ad un “crollo e
ad un ristagno”.
L’umano
viene posto all’interno di un “gigantesco esperimento evolutivo” che deve
essere controllato e guidato dalla scienza ed ora, grazie alle tecno-scienze e
alla biologia sintetica anche modificato e riprogettato dal suo interno
permettendo così la massima realizzazione delle loro iniziali aspirazioni e dei
loro fini.
Tra
vetrini, provette e colture di cellule nei loro laboratori, effettuando
esperimenti minuziosamente descritti in Ciò che oso pensare, questi scienziati
non erano mossi da una morbosa o folle curiosità e non giocavano a diventare
dio, ma si stavano dotando delle conoscenze e degli strumenti per loro
necessari a intervenire poi sull’intero vivente, umano incluso, al fine di
governarne l’evoluzione.
Esperimenti
durante lo sviluppo embrionale di alcuni animali cambiando la temperatura,
introducendo sostanze tossiche o durante il successivo sviluppo esportandone le
ghiandole endocrine per osservare come si sarebbe modificata la crescita di
alcuni organi affermando che tutto questo era molto interessante dal punto di
vista teorico, ma chiedendosi come applicarlo all’umano.
In
quella conservazione della natura Huxley sembra intravedere quindi una
possibilità non solo importante, ma irrinunciabile.
Il
campo di intervento è la biologia infarcita di eugenismo che andrà a dare corpo
al suo “umanesimo scientifico”: “alla vita umana si può applicare il procedimento già
applicato con tanto successo alla materia inerte, agli animali, alle piante”.
In più
di un’occasione – forse non per caso, e forse nemmeno come semplice megalomania
di chi sa di far parte di un’élite chiamata a svolgere compiti superiori –
Huxley confonde i ritmi di un’evoluzione naturale con un determinismo
tecno-scientifico, proprio quello che chiamerà come il nuovo “umanesimo
scientifico”.
Leggiamo
queste sue parole: “La maggior parte di noi vorrebbe vivere più a lungo, godersi
una vita più sana e felice, poter controllare il sesso dei figli quando sono
concepiti, e poi modellare il proprio corpo, intelletto e temperamento nel
miglior modo possibile, ridurre le sofferenze non necessarie a un minimo;
stimolare al massimo le proprie energie senza poi risentirne effetti nocivi.
Sarebbe piacevole creare a nostro talento nuove specie animali e di piante,
così come si preparano tanti composti chimici, raddoppiare il rendimento di un
ettaro di grano o di un gregge, mantenere la bilancia della natura in nostro
favore, bandire dal mondo parassiti e i germi delle malattie.
Sin
dai tempi di Platone, e anche prima, vi sono stati utopisti che sognarono di
controllare il flusso della razza umana, non soltanto nella quantità, ma anche
nella qualità, affinché l’umanità potesse fiorire con caratteri nuovi”.
Anche
in queste righe quasi recitate in seconda persona, come un qualcosa di collettivo sicuramente condiviso dai
più, sta pensando al proprio di programma, a quello del suo clan familiare e a
quello di tutta un’élite di cui lui era un ottimo rappresentante.
È
molto importante seguire questo filone di pensiero, comprendendo che l’ecologia
per questa élite transumanista non era un mero involucro dove nascondere altri
intenti e obiettivi, ma era ed è parte dello stesso discorso.
Fuori dall’ambiente selvatico, che costoro
allora – come ancora adesso – percepivano come un qualcosa di simile ad una
teca da museo che si può ammirare in un fine settimana o in gita scolastica con
il professore di scienze, vi è l’allevamento per gli animali e la coltivazione
per i vegetali.
Le
persone più capaci sono chiamate ad essere i selezionatori dei più adatti.
Impregnati
di Malthusianesimo e di Darwinismo sociale – tutto rimane in famiglia a quanto
pare -sono sfociati nei più ampi programmi di eugenetica che nei decenni sono
sopravvissuti a tutte le turbolenze, anche a quelle degli orrori dei campi di
sterminio, o forse sono sopravvissuti proprio grazie a questi.
Nel pieno della propaganda nazista durante la “Galton
Lecture” del 1936 presso la “Società di Eugenetica” Huxley afferma:
“Gli
strati più bassi, presumibilmente meno dotati geneticamente, si riproducono
relativamente troppo velocemente.
Per
questo motivo è necessario insegnare loro i metodi di controllo delle nascite;
non devono avere un accesso facilitato all’assistenza o alle cure ospedaliere,
per evitare che la rimozione dell’ultimo riscontro della selezione naturale
renda troppo facile la produzione o la sopravvivenza dei bambini;
una lunga disoccupazione dovrebbe essere un
motivo di sterilizzazione”.
Costoro, che a Norimberga da vincitori
avrebbero dettato le regole morali ai vinti nazisti, non erano altro che
arrivati alle stesse conclusioni, tanto da far dichiarare a degli imputati in
quel processo che si erano ispirati agli Stati Uniti d’America, dove da anni si
portavano avanti politiche eugeniste regolamentate da leggi democratiche.
Quella
che è evidente, ieri come oggi, è che si vuole arrivare ad un’“umanità
scientifica”, usando la definizione di Huxley.
Questa
praxis scientifica si vuole universale, ma ovviamente solo un’élite ne
conoscerà i più segreti meccanismi.
Huxley
mette in guardia dal possibile crearsi di una dittatura, ma ne propone una su
base biologica e si sbizzarrisce nel parlare di esperimenti evolutivi dove la
vita può raggiungere “nuovi livelli di realizzazioni e di esperienze”.
Il tipo di società desiderata è bene esposta
da “Aldous”, fratello maggiore di “Julian”.
Aldous
Huxley era un altro noto eugenista che nel suo romanzo” Il Mondo Nuovo “in
realtà non aveva voluto lanciare un allarme, il libro è da interpretare come un
manifesto del clan Huxley, da sempre promotori di certe teorie.
Solo
realizzando un’“umanità scientifica”, ci ricorda Julian Huxley, l’umano potrà
affermare il suo privilegiato diritto: quello di “diventare un primo
organismo che eserciti un controllo cosciente sul proprio destino evolutivo”.
Nel
loro immaginario il mondo “sarà suddiviso in modo razionale, secondo i bisogni delle
messi, delle foreste, dei giardini, dei parchi, della caccia, della
conservazione della natura selvaggia; ciò che crescerà in qualsiasi parte della
superficie terrestre sarà dovuto ad una precisa idea dell’uomo; molte specie di
animali dovranno al controllo umano non soltanto il fatto della loro esistenza
e crescita, ma anche le loro caratteristiche e la loro stessa natura”.
Questa
idea di conservazione viaggia strettamente in parallelo con quella che era, ed
è tuttora, la filantropia:
fondazioni
miliardarie con poteri smisurati piene di buone intenzioni, ovviamente quelle
che loro ritengono buone intenzioni.
C’è la
povertà nel mondo?
Costoro da sempre si prodigano a controllare e
gestire la popolazione nella sua alimentazione, ma soprattutto nella sua
riproduzione con precise politiche che hanno sempre condizionato nei paesi del
Sud del mondo le decisioni più importanti in ambito sociale e sanitario.
Sono
passati decenni da quando questi pensieri vennero non solo elaborati, ma poi
concretizzati attraverso strumenti operativi per agire nel reale.
Lo stesso Huxley, oltre ad aver fondato il “WWF”,
fu presidente dell’UNESCO per circa due anni per poi dimissionare in modo non
del tutto chiaro.
In quegli anni si parlava della povertà in
Africa e del grave flagello della febbre gialla elogiando coloro che al tempo erano i
filantropi per eccellenza essendo i promotori della Rivoluzione Verde: la
famiglia Rockfeller.
Significativo
che Huxley affermò: “la febbre gialla sta perdendo terreno nella guerra che le ha
dichiarato il signor Rockfeller”.
Huxley
si interroga sul fatto se tutti questi risultati potessero essere considerati
buoni:
“Perché
eliminando una malattia, la necessità biologica della resistenza andrebbe a
sparire e i meno resistenti sopravvivranno al pari dei più resistenti, e la
resistenza della media della popolazione scemerà gradualmente.
E, se
molte malattie fossero bandite da un paese, lasciando per il resto le cose al
loro andamento, è quasi certo che ne conseguirebbe un abbassamento della
vitalità generale, essenza menomata della popolazione dalla sproporzionata
sopravvivenza degli individui deboli che le malattie avrebbero spietatamente
eliminato.
In
altre parole, la popolazione sarebbe più sana per quanto riguarda quelle
determinate malattie, ma come razza avrebbe messo i piedi nella pericolosa
china della degenerazione”.
Dietro
apparentemente tanti dubbi e interrogativi trasuda una ben chiara visione di
mondo, che affronta una questione tanto cara a quell’élite di allora come a
quelle di oggi: la sovrappopolazione.
I
numeri delle bocche da sfamare, ma anche i più adatti a esserlo.
Se
Huxley si differenzia da alcuni suoi contemporanei come “Galton”, “Spencer” e “Mendel”
– a quest’ultimo gli toccò di smettere di torturare animali per passare ai
piselli per non irritare le autorità ecclesiastiche – dichiaratamente razzisti,
non lo fa per buonismo o perché la pensasse diversamente.
Semplicemente
ritenne più efficace la sua formula dell’ecologia che, a quanto pare, gli aveva
permesso di innestare il suo pensiero nel tempo, assicurandogli una durata che
gli è sopravvissuta.
Queste
visioni ecologiste, almeno quelle del “clan Huxley”, avranno un enorme peso nel
consolidare le politiche ambientali nei vari decenni, sicuramente quelle del
conservazionismo di Stato e soprattutto del WWF.
Questa
organizzazione è stata la più rappresentativa di quella visione di mondo, tanto
da spostare, sterilizzare, reprimere e uccidere popoli originari indigeni per
preservare specie in estinzione, arrivando a promuovere lo sviluppo di
tecnologie invasive pur di far rientrare le proprie cornici di vita selvatica
degna o non degna di sopravvivere.
Una piccolissima percentuale di vita selvatica
ingegnerizzata e costantemente monitorata rinchiusa in ristrettissimi parchi
per il sollazzo di quella che con il tempo si restringerà in una piccola élite
pagante che vorrà sentire da vicino il gusto del selvatico arricchito magari da
performance multimediali.
La
storia di questi filantropi-naturalisti che hanno portato le loro teorie e i
loro sogni transumanisti fino ai nostri tempi è ricca di sorprese.
Non si
può considerare una generosità verso i poveri il loro costante impegno per
debellare gravi malattie del Sud del mondo come la malaria.
Costoro
odiavano i poveri e il loro mondo, tutto ciò che questo poteva rappresentare,
considerato come uno spreco e più spesso come una minaccia per la loro
sopravvivenza, essendo loro i portatori di privilegi unici, ovviamente su base
biologica.
Parlando
del flagello della mosca tse-tse e la conseguente diffusione del morbo Huxley
sostiene la necessità di intervenire in modo diretto o indiretto non solo sulla
mosca, ma su tutto l’ambiente, in modo che gli insetti sgraditi non trovino più
le condizioni favorevoli per la loro diffusione.
Prosegue
poi ritornando a quel legame tanto caro con la genetica:
“possiamo
affrontare il problema secondo un’altra prospettiva, si può modificare
l’essenza stessa della Natura, alterando l’equilibrio col mutare delle qualità
congenite degli organismi in questione, per esempio, invece di assalire un
flagello inserendo il suo nemico o modificando l’ambiente in cui esso opera,
possiamo di proposito allevare una specie che resista direttamente ai suoi
assalti.
Così ora si produce grano che è relativamente
immune dalla ruggine; gli Olandesi ci hanno dato un esempio suggestivo di ciò
che si può compiere applicando a fondo i metodi mendeliani”.
Pochi
anni dopo tutte queste speculazioni sarebbero diventate la “Rivoluzione Verde”:
il più
grande flagello sociale per i popoli del sud del mondo espropriati della loro
autonomia e spesso minacciati nella loro stessa sopravvivenza.
Ma anche la natura avrebbe pagato il suo
prezzo con una degradazione ed erosione di cui ancora oggi si contano le
conseguenze.
Queste
visioni di mondo sono sopravvissute nel tempo e hanno permesso ad altri affini
di mettere in pratica i progetti di costoro.
Dopo la Rivoluzione Verde è arrivata la Rivoluzione
biotecnologica, fino a quella del Crispr/Cas9.
In
Africa assistiamo a progetti ancora una volta di natura filantropica, ancora
una volta per i poveri e ancora una volta per debellare malattie come la
malaria.
Qui
troviamo all’opera la “Fondazione Gates” che ha finanziato progetti come il “Gene
Drive” che consiste nell’immissione in natura di zanzare geneticamente
modificate in grado di portare all’estinzione l’intera specie ritenuta nociva.
Ovviamente
la zanzara è solo l’inizio perché è evidente che si vuole fare ben altro con
queste tecnologie, lo spettro di nocività per questi neo malthusiani è molto
ampio.
A
questo punto viene da porsi la domanda:
che
naturalisti erano questi Huxley passati alla storia proprio come grandi
scienziati ed estimatori del bello naturale?
Basta
andare ancora un po’ indietro nel tempo al “nonno Thomas H. Huxley” che così si
definiva e, riferendosi alle scienze naturali che erano il suo particolare
mestiere:
“ho paura che in me ci sia ben poco del vero
naturalista. Non ho mai fatto raccolte, e la sistematica è sempre stata una
seccatura per me. Nel mio campo di studio mi interessava quel che vi era di
architettonico, e quel che poteva essere studiato da un ingegnere, il
riconoscere quella meravigliosa unità di piano in migliaia di diverse
costruzioni viventi, e le modifiche di apparati simili a scopi diversi”.
Forse
fanno più chiarezza altre sue parole che trasudano distanza verso le categorie
più svantaggiate o semplicemente verso gli sfruttati:
“Pensavo
allora, come mai questa gente non facesse massa e non cercasse di mangiare bene
e saccheggiare secondo il proprio gusto, magari per poche ore finché la polizia
non riuscisse a fermarli, e ad impiccarne qualcuno.
Ma questi poveri rottami non hanno più cuore
nemmeno per questo”.
Ci
sono stati altri naturalisti che hanno dato un fondamentale contributo per
diffondere un senso altro di conservazione della natura con visioni non
paragonabili a quelle transumaniste ed eugeniste.
Uno di
questi pionieri dell’ecologismo di tipo conservazionista è sicuramente
l’americano” John Muir” che ci ha lasciato tra le più belle pagine scritte
attorno alla storia naturale dedicata alle montagne Americane come lo Yosemite,
allora ancora poco esplorate.
La sua
creatura, il “Sierra Club”, presente ancora oggi, fa parte della cloaca
dell’ambientalismo governativo, antropocentrico e produttivista, ma in
principio era altra cosa.
Il suo
fondatore non ha concepito la sua idea di natura selvaggia discutendone nelle
sedute della “Royal Society “tra gentiluomini che avevano in odio qualsiasi
cosa che non rappresentasse la loro categoria e soprattutto il loro metodo
scientifico, abituati a camminare nei lunghi e austeri corridoi del British
Museum ad osservare nelle teche gli ultimi saccheggi effettuati nella natura
selvaggia.
“Muir “può
benissimo essere considerato uno dei fondatori dell’ecologia e nulla in lui,
nel suo pensare e soprattutto nel suo agire, può avvicinarlo anche solo di poco
a quell’ecologia scientifica fatta di calcoli, razionalizzazioni e
pericolosissime manipolazioni.
Quando,
in tempi recenti, l’alibi per far accettare l’inaccettabile – travestito da
un’aurea pura ed ecologica – irrompe con il suo volere con il dogma
tecno-scientifico, personaggi come Muir – instancabili ammiratori e difensori
della natura che ben poco avevano di scientifico – ridanno speranza a quelle
idee e a quelle lotte che hanno compreso l’importanza di proteggere la natura
selvaggia allo stesso modo in cui proteggiamo noi stessi, perché gli squilibri
di uno cadranno irrimediabilmente sull’altro, ma non solo, come scrive John
Muir descrivendo le distese selvagge dell’Alaska:
“Non
ci sarà felicità in questo mondo per chi non è capace di gioire in un posto
simile”.
«IL
COMPOSTAGGIO UMANO: LA MORTE GREEN»
Inchiostroumano.it - Roberto Pecchioli – (13
Gennaio 2023) – ci dice:
”l’ultima
novità ha un nome sconosciuto ai più, inventato in area francofona, “humusation.”
IL
COMPOSTAGGIO UMANO: LA MORTE GREEN.
“Giambattista
Vico” costruì la sua “Scienza Nuova” attorno a postulati universali che
chiamava “degnità”, condivisi da tutti gli uomini, confermati dalle vicende
storiche.
È
assai conosciuto il brano seguente.
“Osserviamo
tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di
luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre
umani costumi:
che
tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte
seppelliscono i loro morti;
né tra nazioni, quantunque selvagge e crude,
si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consacrate
solennità che religioni, matrimoni e sepolture. Ché, per la degnità che idee
uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon aver un principio comune
di vero, dee essere stato dettato a tutte: che da queste tre cose incominciò
appo (presso, accanto f.d.b.) tutte l’umanità, e per ciò si debbano
santissimamente custodire da tutte perché ‘l mondo non s’infierisca e si
rinselvi di nuovo. Perciò abbiamo presi questi tre costumi eterni ed universali
per tre primi principi di questa Scienza.”
In
questa riflessione a cavallo tra filosofia, antropologia culturale e sociologia
(scienze, queste ultime, non ancora nate al tempo di Vico) avvertiamo i
rintocchi di una campana a morto per la civiltà di cui siamo i figli estremi.
La
religione – travolta dal materialismo, da infinite superstizioni e dal culto
della scienza – è sparita dal nostro orizzonte, il matrimonio – con la famiglia
suo corollario – è screditato, sfuggito come la peste, ridotto a stipula
privata a cui è quasi estranea l’alleanza affettiva tra uomo e donna e il
rilievo comunitario della nascita di figli.
Il contratto, revocabile in ogni momento, è
indifferente al sesso dei contraenti e presto al loro numero, in omaggio al
poliamore, nome postmoderno della poligamia.
E
poiché l’Occidente è attraversato da una sconvolgente pulsione di morte unita a
un culto spurio, un singolare pan-ateismo animista nel quale si mescolano in
un’infernale pozione il disprezzo di sé, la tensione verso un’indefinita
energia cosmica e un naturalismo con tratti scientisti, è scomparso il rispetto
per la morte e per il corpo defunto.
Di qui
nuove pratiche che saltano a piè pari i riti di sepoltura che gli uomini
professano da migliaia di anni; diventano inutili i cimiteri, luoghi del
ricordo e della custodia fisica dei resti mortali.
Le
ultime barriere violate, prova del carattere antiumano e necrotico della
postmodernità, sono idee come quella di un professore svedese che, in nome
della salvaguardia ambientale, propone un’umanità saprofita che si ciba dei
cadaveri dei congeneri appena defunti.
Nel
disprezzo radicale per la creatura umana e in nome del culto parareligioso
tributato a una natura dal nome mutato in ambiente, l’ultima novità ha un nome
sconosciuto ai più, inventato in area francofona, “humusation”, la
trasformazione delle salme degli “homines sapientes” (?) in humus, la materia
organica che si forma nel suolo (humus è il termine latino per “terra”) a
seguito della decomposizione di materia vegetale e animale.
Nulla
sapevamo della diffusione di questa pratica (e tecnologia), ma la navigazione
in rete ci ha sbigottito: sono molte le pagine che propagandano con entusiasmo
la riduzione della salma d’uomo a humus.
Gelido
conforto “panico” di fronte al nulla, una sorta di abbraccio finale – nella
dissoluzione fisica- a una confusa anima mundi.
O, per cavarsela con una battuta, il romanesco
“consolarsi con l’aglietto” di chi è a digiuno, ovvero non crede più ad alcuna
trascendenza e nemmeno allo speciale posto nel mondo della scimmia nuda e
intelligente.
In concreto, l’”humusation”, che ci
azzardiamo a tradurre “umusazione” in lingua italiana- a sua volta a rischio di
estinzione per l’indifferenza e l’esterofilia coloniale di gran parte dei
locutori- è un processo controllato di trasformazione dei corpi umani – per
l’azione di microrganismi presenti nei primi centimetri di terreno- in un
composto sminuzzato che trasforma, in dodici mesi, i resti mortali in humus
sano e fertile. Una simil resurrezione senz’anima e senza Sé.
Traiamo
dal sito humusation.org la sua appassionata giustificazione, sentimentale e
culturale.
“Perché
l’umusazione? Perché a differenza della sepoltura e della cremazione, il
procedimento crea un ricco humus che può essere utilizzato per rigenerare la
terra. Ecologicamente ed economicamente, l’umusazione è la soluzione per
permettere ai nostri corpi, alla fine della loro vita, di seguire dolcemente il
ciclo completo di trasformazione.
Riduco
il mio impatto.
Quando
moriamo, generalmente abbiamo solo due opzioni per i nostri corpi: la sepoltura
e la cremazione.
Entrambi però sono molto inquinanti e
interrompono irrimediabilmente il circolo virtuoso della vita sulla terra.
Grazie all’umusazione è possibile rimediare a
questi problemi.”
In
nome di Gaia, cancelliamo la traccia – biologica e culturale- di noi stessi, in
attesa di sparire come specie o di essere trasformati in cyber uomini ibridati
con la macchina, peraltro inquinante ed energivora.
Non
resta che sparire, calare il sipario sull’ animale fastidioso che pretende di
attribuire un senso a sé stesso, alla vita, all’ universo.
Un
distillato di nichilismo. Il nulla “nulleggia”, scrisse Heidegger, ma anche la
logica positivistica alla Carnap o Wittgenstein non se la passa granché bene,
se il destino dell’uomo d’occidente è di oltrepassare il materialismo
nell’abbraccio – mortuario- non con la Terra, ma con l’humus.
L’uomo
occidentale non crede più a sé stesso, a nessuna trascendenza e non intende
neppure lasciare traccia di sé- come individuo, civiltà e forse specie.
È
cancellata anche la memoria consegnata a chi resta: normale, in una
civilizzazione fatiscente che non riconosce padri e non vuole eredi.
Si accontenta di diventare – con opportuni
trattamenti tecnici- humus, come un vegetale qualsiasi o una carcassa animale.
Nessuna
orma dietro di sé, nessun nome, individualità o identità: un brandello di carne
che affida una precaria eternità alla dissoluzione nei processi rigenerativi
dell’ambiente naturale.
In
quest’ottica, si comprende meglio la portata nichilistica della cultura della
cancellazione e diventano meno oscuri i moventi dei mandanti di chi istiga
giovani senza istruzione e senza speranza (una terribile miscela di inanità
dell’intera esperienza umana: non a caso si chiamano Ultima generazione) a
lordare o distruggere opere d’arte.
Niente
come l’arte- ossia l’eccellenza degli uomini migliori, la volontà di perdurare
e trascendere la quotidianità, conferire senso, significato, grandezza alla
creatura umana – rappresenta la distinzione, la diversità costitutiva
dell’essere umano rispetto a ogni altra creatura.
Nessun
animale dipinge, canta, inventa la musica come arte dei suoni, scolpisce, fa
sgorgare poesia dal linguaggio, indaga i perché dei fenomeni naturali.
Nessun altro che l’uomo attinge il pensiero
astratto da cui nasce la matematica, chiave per decifrare i misteri del mondo
fisico.
Nessun’altra
creatura ha il senso di sé, della propria finitudine e l’inesausta aspirazione
all’infinito.
Jorge
Luis Borges arrivò a scrivere che “essere immortale è cosa da poco: tranne
l’uomo, tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte”.
Turba il nostro modo di animalizzarci perdendo
l’ultimo riguardo di sé, il culto dei defunti e la sepoltura, che la liturgia
cristiana chiama pietoso ufficio, dovere di rispetto, devozione religiosa in
senso lato (religio: ciò che lega).
A
egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti, scriveva Foscolo.
Presto nessuno capirà più il significato del verso dei Sepolcri, parola del
passato che sparirà dai vocabolari di domani.
Contemporaneamente,
liberato da tutto ciò che “non serve” immediatamente a un’esistenza animale,
matrimonio e famiglia, fede trascendente e culto dei morti come eredità,
proiezione e continuazione, autostima, l’uomo, con il lessico di Vico,
“s’infierisce e si rinselva di nuovo”, cioè torna allo stato selvaggio, ferino,
ma con la virtuosa giustificazione green.
Dare
la vita dopo la morte rigenerando la terra, recita uno slogan pro-umusazione.
Magra consolazione per l’orgogliosa specie sapiens sapiens, ridotta a
considerare il proprio corpo defunto rifiuto da smaltire ed a entusiasmarsi per
il compostaggio umano come elemento dell’economia circolare che ci riconnette
con la natura.
“La sola pratica funeraria rispettosa al cento
per cento dell’ambiente”, proclama la pagina iniziale di amisdelaterre.be.
Amici
della terra, nemici dell’uomo.
Il
solco è tracciato e in sei stati Usa l’umusazione è già legale, con tanto di
protocolli e tecnologie dedicate. L’ultimo arrivato è lo Stato di New York, capitale del
progressismo globale.
Nessun
dubbio che gli interrogativi etici, fragili dubbi in tempo di mercato misura di
tutte le cose, verranno travolti dal combinato disposto dell’ideologia
neo-ambientale e degli interessi economici che si stanno formando.
Superati alcuni inconvenienti al processo di
umusazione dovuti alla persistenza di alcune parti del corpo, si correrà
spediti verso la nuova frontiera postumana.
A
causa della presenza di elementi umani nell’humus della terra coltivata,
diventeremo- indirettamente- un po’ cannibali.
In un
film degli anni Settanta, “Soylent Green”, (I sopravvissuti), la
sovrappopolazione e la povertà hanno convinto a legalizzare il suicidio
assistito in luoghi chiamati significativamente “Templi”, non troppo diversi
dai lindi ospedali dell’eutanasia e ora dall’ “humusarium” in cui si pratica la
procedura di smaltimento umano, che- evviva- farà di ciascuno un metro cubo e
mezzo di ottimo humus.
Nel film, dai resti umani è ricavata una
farina – il Solyent verde- che diventa- all’insaputa della gente- il principale alimento umano.
Giacomo
Leopardi, nella sua lirica estrema, La ginestra o il fiore del deserto, così scriveva “son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive. Qui mira e qui ti specchia, secol superbo e
sciocco, (…) e volti addietro i passi, del ritornar ti vanti, e procedere il
chiami.”
La
differenza è l’”umana” gente, adesso spinta nel progetto totalitario transumano
e disumano, mascherato da progresso e liberalizzazione.
L’umusazione
è presentata da alcuni sostenitori, tra cui il filosofo “Gaspard Koenig”,
animatore di “Génération Libre”, organismo teso a “promuovere le libertà, tutte le libertà”,
come un elemento di liberazione dell’uomo.
In un
testo diffuso attraverso la facoltà di Scienze Politiche della Sorbona, ripreso
dalla stampa di lingua francese, Koenig descrive il compostaggio umano come
“liberalizzazione della morte”.
Il ragionamento è semplice e, dal punto di
vista del soggettivismo radicale saldato all’ideologia green, non fa una grinza:
quando una persona muore, dovrebbe poter disporre del
suo corpo in modo da nutrire il pianeta.
Koenig stima – chissà in base a quali calcoli-
che dall’arrivo in Europa dell’homo sapiens, cinquantamila anni fa, si siano
accumulate oltre tre miliardi di tonnellate di cadaveri, “con grave rischio per
la salute e l’ambiente”” e (ça va sans dire) trasmissione di virus attraverso
la percolazione dell’acqua dei cimiteri.
Un argomento assai suggestivo in tempi di
Covid, nonostante la possibilità sia assai remota.
Ma
tutto fa, per diffondere la “buona“ causa.
“Gaspard
Koenig” elogia l’umusazione e ne propugna la legalizzazione in quanto, oltre ai
benefici ambientali – “ci consentirebbe una vera scelta di ciò che facciamo del
nostro corpo anche nella morte”.
Sottolinea
i benefici ecologici di questa tecnica, ma ritiene innanzitutto che non debbano
essere posti vincoli o limiti all’ autodeterminazione soggettiva, in vita e
dopo.
“Le società occidentali sono state fondate sul
principio della libertà, ma in realtà l’essere umano non ha una libertà totale
sul proprio corpo.
Divieto
di partorire un figlio per un altro, divieto di prostituzione, divieto di
tecniche funebri:
oggi ci sono proibite una moltitudine di
pratiche o scelte, senza che possano recare danno agli altri “.
Nessuna
preoccupazione etica, non diciamo spirituale, nessun interesse per altro che
non sia l’assoluta autodeterminazione, tanto da esigere con toni ispirati di
conquistare la proprietà di sé, del proprio corpo vivo e del proprio cadavere:
“liberalizziamo la morte”.
Ce la faranno, nell’Occidente che è già morto
e non lo sa.
Che i figli degeneri delle più longeva civiltà
apparsa sulla scena del mondo finiscano in compostaggio, una storia intera
ridotta a un metro e mezzo di humus pro capite, ha elementi di grottesca
comicità.
Per
restare in tema, se non fosse l’ultimo atto della nostra tragedia, diremmo: una
risata ci seppellirà.
(Roberto
PECCHIOLI)
Israele
“Sterilizza” le Donne Etiopi.
Conoscenzealconfine.it
– (27 Novembre 2023) – ci dice:
Alle
donne ebree etiopi è stato impedito di avere figli. Israele, “la più grande
democrazia del Vicino Oriente”, come viene definita dai Paesi occidentali e dai
media embedded, “sterilizza” le donne etiopi.
È
quanto affermato dal quotidiano israeliano “Haaretz”, nella sua edizione del 12
dicembre 2012 riferendosi alla situazione degli immigrati etiopi riconosciuti
come ebrei da Tel Aviv, i cosiddetti “falascia”.
“È
difficile da credere ma in Israele nel 2012 le donne etiopi sono state
sottoposte con la forza al “Depo-Provera”, un’iniezione contraccettiva” si
legge nell’articolo, che prosegue:
“Questa iniezione non è un contraccettivo
comunemente prescritto. (…) Di solito è riservato alle donne che soffrono di
disabilità o che sono malate”.
Il
giornale israeliano si rifà all’inchiesta pubblicata di recente dal programma
“Vacuum documentary” condotto da “Gal Gabay”, e trasmesso sulla “Televisione
Educativa israeliana”, in cui si afferma che “il trattamento è imposto su un
gran numero di immigrati etiopi”.
Secondo
il ricercatore “Reuven Sava”, che ha condotto l’indagine, sono innumerevoli le
donne che sono state sottoposte, contro la loro volontà, all’iniezione di
“Depo-Provera”, un medicinale molto forte che, come si può leggere
tranquillamente su internet, viene usato per curare tumori, per la castrazione
chimica e nelle terapie iniziali per cambiare sesso.
Il
“Depo-Provera”, che ha diverse controindicazioni, tra cui l’osteoporosi e a
lungo andare la sterilità, ha una storia inquietante.
Secondo
una relazione dell’organizzazione “Sha L’Isha”, l’iniezione contraccettiva è
stata sperimentata, tra il 1967 e il 1978, nello Stato della Georgia, negli
Stati Uniti, su più di 13mila donne povere, la metà delle quali erano nere.
La maggior parte di loro, che non erano a
conoscenza della sperimentazione, si sono ammalate.
Molte
altre sono morte.
Medicinali
contraccettivi come il “Depo-Provera” sono stati utilizzati spesso da
Washington per ridurre il tasso di natalità dei poveri.
Nel
1960, gli Usa erano preoccupati per l’aumento della popolazione del Puerto
Rico.
Nel 1965 si è riscontrato che il 34% delle
donne portoricane tra i 20 e il 49 anni erano state sterilizzate.
Nel
caso di Israele, si tratta di politiche “repressive” e “razziste” contro gli
immigrati e contro gli “ebrei neri”.
Lo si
evince dalla storia: tra il 1980 e il 1990 migliaia di ebrei etiopi hanno
trascorso mesi o anni nei campi di transito in Etiopia e in Sudan.
Centinaia
di loro sono morti perché “la più grande democrazia del Vicino Oriente” gli ha
impedito di entrare nel Paese in quanto “non era il momento giusto”, non
c’erano “le condizioni per integrarli” o meglio ancora “non erano
sufficientemente ebrei”.
Si è
mai sentito parlare di “ebrei neri”?
Ancora
oggi, gli immigrati “falascià” sono intrappolati nei campi di transito a causa
della contorta burocrazia israeliana che cerca di “sfiancarli” prima di farli
entrare nel Paese, sistemandoli in centri di integrazione, veri e propri
ghetti, dove le donne ricevono le iniezioni di “Depo-Provera” e i bambini
vengono mandati in “strutture di educazione speciali”.
Secondo
l’indagine condotta da “Vacuum documentary” e ripresa da “Haaretz”, il tutto
avviene contro la loro volontà.
Secondo
l’”American Jewish Joint Distribution”, le dichiarazioni delle donne etiopi
sono “sciocchezze”.
Ma diverse organizzazioni umanitarie hanno
lanciato l’allarme sul razzismo che negli ultimi tempi ha preso piede in
Israele.
Ai
primi di giugno il parlamento israeliano ha approvato una legge che prevede
fino a tre anni di reclusione senza processo per gli immigrati illegali che
saranno sorpresi in Israele.
(Codice
Genesi).
Pravda
americana: Gaza
e la
bufala dell'antisemitismo.
Unz.com
– Ron Unz – (27 novembre 2023) ci dice:
Oltre
14.000 abitanti di Gaza sono morti a causa degli incessanti bombardamenti
israeliani delle ultime settimane, due terzi dei quali donne e bambini e quasi
nessuno di loro è membro di Hamas.
Quel totale rappresentale cifre ufficiali dei
corpi identificati, e con la maggior parte del sistema sanitario locale
distrutto e così tante altre migliaia di dispersi, sepolti sotto le macerie
delle decine di migliaia di edifici demoliti, il vero bilancio delle vittime
probabilmente supera già i 20.000.
Al
contrario, quello a cui stiamo assistendo ora è il deliberato massacro di
civili, volto a scacciare i palestinesi che vivono a Gaza e a rendere
inabitabile la loro enclave.
La maggior parte degli ospedali e delle
strutture mediche di Gaza sono stati eliminati, e quando i giordani hanno
costruito ospedali da campo nel sud di Gaza, anche quelli sono stati
bombardati.
Anche
scuole, panifici e altre strutture necessarie per la continuazione
dell'esistenza umana sono state deliberatamente distrutte, insieme alla maggior
parte del patrimonio abitativo, mentre gli israeliani hanno bloccato gli
abitanti da qualsiasi accesso a cibo, acqua e carburante.
Il
primo ministro Benjamin Netanyahu ha pubblicamente identificato i suoi
avversari palestinesi nella tribù di “Amalek”, di cui il Dio ebraico aveva
comandato lo sterminio fino all'ultimo neonato, e molti altri leader politici
del suo paese hanno usato un linguaggio altrettanto genocida, con un ministro
del governo che ha suggerito che Israele utilizzi il suo arsenale nucleare
illegale per sradicare Gaza e la sua popolazione.
I
sondaggi mostrano che più dell'80% degli ebrei israeliani sostiene le misure
militari estremamente dure del proprio governo, sperando di vedere tutti i
palestinesi uccisi o espulsi.
Si
sono accumulate sempre più prove del fatto che la maggioranza, forse
addirittura la grande maggioranza, dei civili israeliani uccisi nell'attacco di
Hamas sono morti per mano dei militari dal grilletto facile del loro stesso
paese , vittime dei proiettili dei carri armati e dei missili Hellfire.
Quindi il numero effettivo di civili
israeliani disarmati uccisi dai combattenti di Hamas potrebbe essere stato
compreso tra 100 e 200, suggerendo che il numero dei civili palestinesi è
almeno 100 volte maggiore.
Eppure, nonostante questo rapporto di vittime di 100 a
1, un recente articolo in prima pagina sul New York Times del corrispondente di
lunga data” Roger Cohen” ha trattato la tragedia in termini tutt'altro che
pari, con una decisa inclinazione a favore degli israeliani.
Negli
ultimi anni, la vita pubblica in America e nel resto dell'Occidente è diventata
estremamente sensibile alle sfumature della correttezza politica, e molti
considerano l'uso improprio dei pronomi moralmente inconcepibile.
Pertanto, le immagini grafiche diffuse sui social
media del massacro pubblico di così tante migliaia di neonati e bambini
indifesi hanno prodotto un notevole disagio, con ben oltre la metà dei
democratici che sono critici nei confronti di questi sviluppi insieme a una
sostanziale minoranza di repubblicani.
Nel
2015, l'immagine ampiamente diffusa di un bambino siriano annegato
accidentalmente ha portato i governi europei ad aprire i loro confini a milioni
di migranti, sia dalla Siria che da ogni altra parte del mondo, per lo più
giovani uomini nel pieno della salute.
La
Grande Siria ha tradizionalmente compreso la Gaza palestinese, quindi se una
singola vittima accidentale della prima ha avuto un impatto politico così
enorme, trasformando la nazione in tutta Europa, sicuramente le immagini delle
molte migliaia di persone deliberatamente uccise nella seconda devono almeno
sollevare alcune preoccupazioni personali.
Anche
se, poiché alcuni di questi paesi hanno proibito le espressioni di sentimenti
filo-palestinesi, è difficile esserne sicuri.
Molti
ebrei europei hanno sostenuto con tutto il cuore lo Stato ebraico anche quando
ha commesso questo gigantesco massacro pubblico, e questo ha naturalmente
provocato una certa critica popolare.
Profondamente
preoccupato da quest'ultima situazione, il “New York Times” la scorsa settimana
ha pubblicato un altro importante articolo sulla disperata necessità di
combattere tali sentimenti "antisemiti" in Europa, ovviamente uno dei
problemi più terribili del mondo.
Qualche
giorno fa, avevo chiesto a un mio amico accademico americano come stavano
reagendo i suoi colleghi a questa situazione sorprendente e lui mi aveva
risposto:
La
gente ha troppa paura di trasmettere le proprie opinioni, credo... Ma penso che
una buona parte degli accademici si renda conto che c'è qualcosa di mostruoso
che sta succedendo.
Questo
mi sembra plausibile, e un altro accademico anziano che conosco ha riportato
una situazione più o meno simile. La paura si aggira per la terra.
Gli
studenti delle nostre università più prestigiose sono stati minacciati di
essere inseriti in una lista nera di posti di lavoro permanenti se avessero
sostenuto la causa palestinese, e un lungo elenco di miliardari ebrei ha
lanciato attacchi simili contro le stesse istituzioni accademiche, qualcosa che
non ricordo sia mai accaduto in passato.
Di
conseguenza, un articolo di analisi giuridica commissionato è approvato per la
pubblicazione sulla prestigiosa “Harvard Law Review” è stato cancellato
all'ultimo momento.
Fin
dalle sue origini nel terrorista Irgun, il partito al governo israeliano Likud
ha sempre sostenuto la creazione di un Grande Israele– "Dal fiume al
mare" – proclamando che il territorio deve essere posto sotto il dominio
ebraico, con tutti i non ebrei sottomessi, espulsi o ucciso.
Ma
negli ultimi decenni, gli antisionisti progressisti hanno cooptato quello stesso slogan
ambiguo, usandolo per simboleggiare il loro obiettivo di un paese unificato
come la Palestina, uno stato democratico laico che offra pari diritti sia agli
ebrei che ai non ebrei, due popolazioni di origine simile e misurare.
Ciò
implicherebbe naturalmente la dissoluzione dello Stato ebraico esistente, un
anatema assoluto per i sionisti impegnati.
Spinta
dalle immagini orribili dei bambini morti a Gaza, questa frase controversa ha
presto cominciato a fare tendenza tra gli antisionisti su Twitter insieme al
discorso sulla "decolonizzazione" dello stato-colono israeliano.
Appassito
sotto gli intensi attacchi sionisti, il proprietario “Elon Musk,” l'uomo più
ricco del mondo, dichiarò che questi slogan progressisti piuttosto vaghi e
innocui costituivano un incitamento al "genocidio", e il loro
utilizzo era motivo di un immediato divieto dalla sua piattaforma.
Al contrario, non ho sentito che “Musk” abbia
bandito nessuno dei politici o attivisti israeliani che chiedono pubblicamente
l'annientamento totale di tutti i palestinesi.
La
famosa attrice di Hollywood “Susan Sarandon” ha trascorso decenni come
un'attivista progressista di spicco, coinvolta in una vasta gamma di cause
politiche, molte delle quali denunciate come "antiamericane" dai suoi
oppositori conservatori, e si è guadagnata l'elogio entusiastico dei suoi
colleghi per il suo impegno.
Eppure, quando recentemente ha mostrato una
certa simpatia pubblica per i palestinesi, un popolo indifeso che ora viene
massacrato a migliaia e forse presto a decine di migliaia, è stata
sommariamente "cancellata" dalla sua agenzia di talenti di lunga
data, e altri hanno subito un destino simile.
Più o meno nello stesso periodo, “Maha Dahkil”,
uno dei migliori agenti di talento di Hollywood, fu retrocesso e quasi
licenziato per ragioni simili.
Ancor
prima che iniziassero gli attuali combattimenti, la rockstar di sinistra Roger Waters
dei Pink Floyd, ottantenne, era stata denigrata dai media internazionali per aver
sostenuto i diritti dei palestinesi e persino stranamente minacciata con un
mandato di arresto tedesco per aver presumibilmente glorificato il nazismo.
L'accusa
letale di "antisemitismo" è l'accusa mossa contro tutti questi
individui, e la paura di subire un destino simile mantiene sicuramente in
silenzio un vasto numero di loro coetanei che la pensano allo stesso modo.
Nel nostro attuale mondo occidentale,
quell'accusa ha lo stesso peso che il "congresso con Lucifero"
avrebbe potuto avere nella “Vecchia Salem” dell'era dei processi alle streghe.
Ho
scoperto che tale timidezza si estende anche a molti siti web alternativi e
blogger liberali di sinistra.
Anche se gli orribili eventi del conflitto tra
Israele e Gaza hanno dominato i titoli dei giornali di tutto il mondo nelle
ultime settimane, sono rimasti piuttosto deluso dal fatto che la copertura di
tali questioni sia sembrata relativamente sommessa e circospetta.
Il
blogger “Moon of Alabama” aveva riportato senza paura tanti fatti controversi
sulla guerra in Ucraina e su altre domande importanti, ma pochi giorni fa ha
pubblicato un post piuttosto apologetico intitolato"Ci sono alcune cose di cui non
posso scrivere",che si apriva con:
Ho
provato a scrivere di Gaza. Ma sono troppo inorridito, indignato e depresso per
creare un pezzo sensato.
Quindi,
invece di inventare qualcosa da solo, vi lascio con alcuni link...
Dato
che il blogger è un tedesco residente in Germania, se fosse stato troppo
schietto nelle sue opinioni avrebbe potuto ragionevolmente temere di bussare
alla porta e di finire in prigione.
Anche
se il blog di “Naked Capitalism” è stato originariamente lanciato con un forte
focus sull'economia, altri argomenti costituiscono regolarmente la maggioranza
sostanziale del contenuto totale, e quindi sono rimasto deluso dalla mancanza
di una copertura approfondita su Gaza.
Tuttavia,
il suo proprietario “Yves Smith” ha finalmente pubblicato un buon post
mercoledì scorso, sostenendo che la tregua proposta e lo scambio di prigionieri
potrebbero semplicemente rappresentare un ostacolo sulla strada per il successo
di Israele nel raggiungere i suoi obiettivi estremi, con le sue frasi
conclusive che recitano:
Forse
alla fine si potrebbe esercitare una pressione internazionale sufficiente sugli
Stati Uniti per indurci a togliere finalmente la catena di strozzamento di
Israele. Ma a quel punto, sembra molto probabile che Israele avrà accertato i
fatti sul campo a Gaza (morti e distruzione dell'ambiente costruito) affinché
Israele abbia vinto in modo decisivo nel suo obiettivo di rimuovere
permanentemente un numero considerevole di palestinesi da Israele.
Solo
molto raramente do un'occhiata ai “thread” di discussione risultanti, ma per
qualche motivo l'ho fatto questa volta e ho notato questo scambio tra un
commentatore e “Lambert Strether”, uno dei blogger:
“cnchal”:
La catena dello strozzatore corre dall'altra
parte. Dal momento che i "globalisti" siedono in cima alla situazione
economica, potrebbero provocare un'istantanea depressione mondiale con uno
sciopero dei capitali.
Ora, dove sarebbe Biden se ciò accadesse?
Da
quindici a ventimila palestinesi morti finora e un altro milione e
novecentottantacinquemila da percorrere, poi la traiettoria è in Cisgiordania
per Moar.
La
pace nel deserto alla fine sarà raggiunta secondo i termini dei globalisti.
Lambert
Strether:
La sua affermazione è antisemita. Non possiamo
permettercelo qui. Non lo stiamo intrattenendo.
(È anche analiticamente terribile e
distruttivo, postulando che la prima lealtà dei capitalisti non è verso il
capitale, il che è assurdo a prima vista).
Vattene.
E
questo vale per chiunque altro abbia la stessa opinione.
AGGIORNAMENTO
E se qualcuno sta pensando di intrufolarsi in questo falso costruito usando un
linguaggio artistico, non ci provi nemmeno. I nostri moderatori sono bravi a
fare cose del genere, e colpiremo anche te.
Gli
ebrei di Israele stanno attualmente commettendo uno dei peggiori massacri
pubblici nella storia del mondo, con le azioni del loro governo fortemente
applaudite da molte o dalla maggior parte delle élite ebraiche e delle
popolazioni d'Europa e d'America, ma prendendo atto di ciò che è ovvio infatti
anche usare costrutti eufemistici è considerato peccato mortale.
In un articolo del 2018 , ho descritto questo
tipo di reazione bizzarra ora così diffusa in tutto l'Occidente:
Credo
che un fattore sia che, nel corso degli anni e dei decenni, i nostri organi
mediatici dominanti di notizie e intrattenimento sono riusciti a condizionare
la maggior parte degli americani a soffrire di una sorta di reazione allergica
mentale ad argomenti sensibili agli ebrei, che porta a considerare tutti i tipi
di questioni assolutamente fuori dai limiti.
E con
le potentissime élite ebraiche americane così isolate da quasi ogni controllo
pubblico, l'arroganza e il comportamento scorretto degli ebrei rimangono in
gran parte incontrollati e possono aumentare completamente senza limiti.
Questo
angosciante panorama mediatico esemplifica anche un aforisma molto scaltro
ampiamente attribuito erroneamente a Voltaire:
Per
sapere chi ti governa, scopri semplicemente chi non ti è consentito criticare.
Come
suggeriscono questi esempi, l'accusa di "antisemitismo" è diventata
un'arma politica enormemente potente nell'Occidente di oggi, brandita da gruppi
ebraici e filo-israeliani come una carta vincente che sembra ancora avere la
meglio su tutti gli altri. Quindi la realtà storica di quel concetto è un argomento
importante e interessante, che avevo discusso a lungo in un paio di articoli
del 2018.
Il primo
di questi spiegava come la mia scoperta, vent'anni fa, di un fatto storico
cruciale riguardante la vera storia della rivoluzione bolscevica abbia portato
a un completo sconvolgimento nella mia comprensione della questione.
Ovviamente,
l'intero panorama fu totalmente trasformato dalla rivoluzione bolscevica del
1917, che spazzò via il vecchio ordine dal potere, massacrando gran parte della
sua leadership e costringendo il resto a fuggire, inaugurando così l'era del
mondo moderno di regimi ideologici e rivoluzionari.
Sono
cresciuto durante gli ultimi decenni della lunga Guerra Fredda, quando l'Unione
Sovietica era il grande avversario internazionale dell'America, quindi la
storia di quella rivoluzione e delle sue conseguenze mi ha sempre affascinato.
Durante
l'università e la scuola di specializzazione ho probabilmente letto almeno un
centinaio di libri su quell'argomento generale, divorando le brillanti opere di
“Solzhenistyn” e” Sholokhov”, i corposi volumi storici di studiosi accademici
mainstream come “Adam Ulam” e “Richard Pipes”, così come gli scritti dei
principali dissidenti sovietici come “Roy Medvedev”, “Andrei Sakharov e Andrei
Amalrik.
Ero
affascinato dalla tragica storia di come Stalin superò in astuzia Trotsky e gli
altri suoi rivali, portando alle massicce purghe degli anni '1930, mentre la
crescente paranoia di Stalin produceva una gigantesca perdita di vite umane.
Non
ero così totalmente ingenuo da non riconoscere alcuni dei potenti tabù che
circondano la discussione sui bolscevichi, in particolare per quanto riguarda
la loro composizione etnica.
Sebbene
la maggior parte dei libri non enfatizzasse quasi questo punto, chiunque abbia
un occhio attento per una frase o un paragrafo occasionale saprebbe sicuramente
che gli ebrei erano enormemente sovra rappresentati tra i massimi
rivoluzionari, con tre dei cinque potenziali successori di Lenin:
Trotsky,
Zinoviev e Kamenev. – tutti provenienti da quel contesto, insieme a molti,
molti altri all'interno della massima leadership comunista.
Ovviamente,
questo era assolutamente sproporzionato in un paese con una popolazione ebraica
pari a forse il 4%, e sicuramente ha contribuito a spiegare il grande aumento
dell'ostilità mondiale nei confronti degli ebrei subito dopo, che a volte ha
assunto le forme più squilibrate e irrazionali, come la popolarità dei
Protocolli dei Savi Anziani di Sion e la famigerata pubblicazione di Henry Ford
The International Jew.
Ma con
gli ebrei russi che avevano molte più probabilità di essere istruiti e
urbanizzati e che soffrivano di una feroce oppressione antisemita sotto gli
zar, tutto sembrava avere un senso ragionevole.
Poi, forse quattordici o quindici anni fa, ho
riscontrato uno squarcio nel mio continuum spazio-temporale personale, tra i
primi di molti a venire.
In
questo caso particolare, un amico particolarmente di destra del teorico
evoluzionista “Gregory Cochran” aveva trascorso lunghe giornate sfogliando le
pagine di, un importante forum Internet per l'estrema destra, e dopo essersi
imbattuto in una notevole affermazione fattuale, mi ha chiesto la mia opinione.
La mia
prima reazione fu che un'idea del genere era del tutto ridicola poiché un fatto
così enormemente esplosivo non avrebbe potuto essere ignorato dalle decine di
libri che avevo letto sulle origini di quella rivoluzione.
Ma la
fonte sembrava estremamente precisa. L' editorialista di nell'edizione del 3
febbraio 1949 del, allora uno dei principali giornali locali, scrisse che
"Oggi il nipote di Jacob, John Schiff, stima che il vecchio abbia
investito circa 20.000.000 di dollari per il trionfo finale del bolscevismo in
Russia".
Dopo
aver controllato un po' in giro, ho scoperto che numerosi resoconti mainstream
descrivevano l'enorme ostilità di “Schiff” verso il regime zarista per il suo
maltrattamento degli ebrei, e di questi tempi anche una fonte così
istituzionalizzata come la voce di Wikipedia su Jacob Schiff nota che egli
giocò un ruolo ruolo importante nel finanziamento della rivoluzione russa del
1905, come rivelato nelle successive memorie di uno dei suoi principali agenti.
E se si esegue una ricerca su "rivoluzione bolscevica di Jacob
Schiff" emergono numerosi altri riferimenti, che rappresentano un'ampia
varietà di posizioni e gradi di credibilità diversi. Un'affermazione molto
interessante appare nelle memorie di Henry Wickham Steed , direttore del Times
di Londra e uno dei più importanti giornalisti internazionali della sua epoca.
Ha menzionato in modo molto pratico che Schiff, Warburg e gli altri importanti
banchieri internazionali ebrei erano tra i principali sostenitori degli ebrei
bolscevichi, attraverso i quali speravano di ottenere un'opportunità per lo
sfruttamento ebraico della Russia, e ha descritto i loro sforzi di lobbying. a
nome dei loro alleati bolscevichi alla Conferenza di pace di Parigi del 1919
dopo la fine della prima guerra mondiale.
Anche
l'analisi molto recente e altamente scettica contenuta nel libro Trotskijdi
Kenneth D. Ackerman del 2016 rileva che i rapporti dell'intelligence militare
americana del periodo facevano direttamente quella sorprendente affermazione,
indicando Trotsky come il canale per il pesante sostegno finanziario di Schiff
e numerosi altri finanzieri ebrei.
Ora,
bisogna ammetterlo, alcuni dettagli potrebbero facilmente essere diventati un
po' confusi nel tempo. Ad esempio, anche se Trotsky divenne rapidamente secondo
solo a Lenin nella gerarchia bolscevica, all'inizio del 1917 i due uomini erano
ancora aspramente ostili a causa di varie controversie ideologiche, quindi
certamente non era considerato un membro di quel partito. E dal momento che
tutti oggi riconoscono che Schiff aveva pesantemente finanziato la fallita
rivoluzione del 1905 in Russia, sembra perfettamente possibile che la cifra di
20 milioni di dollari menzionata da suo nipote si riferisca al totale investito
nel corso degli anni a sostegno di tutti i diversi movimenti e leader
rivoluzionari russi, che insieme alla fine culminarono nella creazione della
Russia bolscevica. Ma con così tante fonti apparentemente credibili e
indipendenti che fanno affermazioni simili, i fatti di base sembrano quasi
indiscutibili.
Considerate
le implicazioni di questa notevole conclusione. Suppongo che la maggior parte
del finanziamento delle attività rivoluzionarie di Schiff sia stato speso in
voci come stipendi per attivisti e tangenti, e aggiustato per i redditi medi
delle famiglie di quell'epoca, 20 milioni di dollari equivarrebbero a 2
miliardi di dollari di denaro attuale . Sicuramente senza un enorme sostegno
finanziario, la probabilità di una vittoria bolscevica sarebbe stata molto più
bassa, forse quasi impossibile.
Quando
la gente scherzava con disinvoltura sulla totale follia delle "teorie del
complotto antisemita", non c'era esempio migliore dell'idea evidentemente
assurda che i banchieri ebrei internazionali fossero creato il movimento
comunista mondiale. E tuttavia, secondo ogni criterio ragionevole, questa
affermazione essere più o meno vera, ea quanto pare è stata ampiamente
conosciuta, almeno in forma approssimativa, per decenni dopo la Rivoluzione
Russa sembra, ma non è mai stata menzionata in nessuna delle numerose storie
più recenti che hanno plasmato la mia conoscenza di quegli eventi. In effetti,
nessuna di queste fonti molto esaurienti aveva mai menzionato il nome di
Schiff, anche se era universalmente riconosciuto che aveva finanziato la
Rivoluzione del 1905, che è stata spesso discussa in modo estremamente
dettagliato in molti di quei libri molto importanti. Quali altri fatti
sorprendenti potrebbero nascondersi allo stesso modo?
Quando
qualcuno si imbatte in nuove rivelazioni straordinarie in un'area della storia
in cui la sua conoscenza era rudimentale, essendo poco più che libri di testo
introduttivi o corsi di Storia 101, il risultato è uno shock e un imbarazzo. Ma
quando la stessa situazione si verifica in un'area in cui aveva letto decine di
migliaia di pagine dei principali testi autorevoli, che apparentemente
esploravano ogni minimo dettaglio, sicuramente il suo senso della realtà inizia
a sgretolarsi.
Nel
1999, l'Università di Harvard ha pubblicato l'edizione inglese del Libro nero
del comunismo, i cui sei coautori hanno dedicato 850 pagine a documentare gli
orrori inflitti al mondo da quel sistema defunto, che aveva prodotto un
bilancio delle vittime totale stimato in 100 milioni. Non ho mai letto quel
libro e ho sentito spesso che il presunto conteggio dei corpi è stato
ampiamente contestato. Ma per me il dettaglio più notevole è che quando esamino
l'indice di 35 pagine, vedo un'enorme profusione di voci di individui
totalmente oscuri i cui nomi sono sicuramente sconosciuti a tutti tranne che
agli specialisti più eruditi.
Ma non c'è voce per Jacob Schiff, il banchiere
ebreo di fama mondiale che a quanto pare ha finanziato in primo luogo la
creazione dell'intero sistema.
Nemmeno uno per Olaf Aschberg, il potente banchiere
ebreo in Svezia, che giocò un ruolo così importante nel fornire ai bolscevichi
un'ancora di salvezza finanziaria durante i primi anni del loro regime
minacciato, e fondò persino la prima banca internazionale sovietica.
Quando
si scopre uno strappo nel tessuto della realtà, c'è una tendenza naturale a
scrutare nervosamente all'interno, chiedendosi quali oggetti misteriosi
potrebbero dimorare all'interno. Il libro di Ackerman denunciava l'idea che
Schiff avesse finanziato i bolscevichi come "uno dei tropi preferiti della
propaganda antiebraica nazista" e poco prima di queste parole aveva
pubblicato una denuncia simile del Dearborn Independent di Henry Ford, una
pubblicazione che una volta non avrebbe significato quasi nulla per me. Anche se il libro di Ackerman non
era ancora stato pubblicato quando ho iniziato a considerare la storia di
Schiff una dozzina di anni fa, molti altri scrittori avevano unito questi due
argomenti in modo simile, così ho deciso di esplorare la questione.
Lo
stesso Ford era un individuo molto interessante, e il suo ruolo
storico-mondiale ha certamente ricevuto una copertura molto scarsa nei miei
libri di storia di base. Anche se le ragioni esatte della sua decisione di
aumentare il salario minimo a 5 dollari al giorno nel 1914– il doppio della
retribuzione media esistente per i lavoratori dell'industria in America –
possono essere contestate, sembra certamente che abbia giocato un ruolo enorme
nella creazione della nostra classe media. . Adottò anche una politica
altamente paternalistica volta a fornire buoni alloggi aziendali e altre
comodità ai suoi lavoratori, un totale allontanamento dal capitalismo del
"Barone Ladro" così ampiamente praticato a quel tempo, affermandosi
così come un eroe mondiale per i lavoratori dell'industria e i loro lavoratori.
sostenitori. In effetti, lo stesso Lenin aveva considerato Ford una figura
imponente nel firmamento rivoluzionario mondiale, sorvolando sulle sue opinioni
conservatrici e sul suo impegno verso il capitalismo e concentrandosi invece
sui suoi notevoli risultati nella produttività dei lavoratori e nel benessere
economico. È un dettaglio storico dimenticato che, anche dopo che la notevole
ostilità di Ford nei confronti della rivoluzione russa divenne ampiamente nota,
i bolscevichi continuarono a descrivere la loro politica di sviluppo
industriale come "fordismo". In effetti, non era raro vedere ritratti
di Lenin e Ford appesi fianco a fianco nelle fabbriche sovietiche , che
rappresentavano i due più grandi santi laici del pantheon bolscevico.
Per
quanto riguarda I lDearborn Independent, Ford aveva apparentemente lanciato il
suo giornale su base nazionale non molto tempo dopo la fine della guerra, con
l'intenzione di concentrarsi su argomenti controversi, in particolare quelli
legati al comportamento scorretto degli ebrei, la cui discussione credeva fosse
ignorata o soppressa da quasi tutti. tutti i principali mezzi di informazione.
Sapevo che era stato a lungo una delle persone più ricche e stimate d'America,
ma rimasi comunque stupito nello scoprire che il suo giornale settimanale,
prima quasi sconosciuto a me, aveva raggiunto una tiratura nazionale totale di
900.000 copie nel 1925. , classificandolo come il secondo più grande del paese
e di gran lunga il più grande con distribuzione nazionale. Non ho trovato mezzi
facili per esaminare il contenuto di un tipico numero, ma a quanto pare gli
articoli antiebraici dei primi due anni erano stati raccolti e pubblicati come
brevi libri, costituendo insieme i quattro volumi di The International Jew: The
World's Foremost Problem A questo punto, , un'opera notoriamente antisemita
menzionata occasionalmente nei miei libri di storia. Alla fine la mia curiosità
ha avuto la meglio su di me, quindi ho cliccato su alcuni pulsanti su
Amazon.com, ho comprato il set e mi sono chiesto cosa avrei scoperto.
Sulla
base di tutti i miei presupposti, mi aspettavo di leggere qualche massetto con
la bava alla bocca, e dubitavo che sarei stato in grado di superare la prima
dozzina di pagine prima di perdere interesse e consegnare i volumi a prendere
polvere sui miei scaffali. Ma quello che ho incontrato in realtà è stato
qualcosa di completamente diverso.
Negli
ultimi vent'anni, l'enorme crescita del potere dei gruppi ebraici e
filo-israeliani in America ha occasionalmente portato gli scrittori a sollevare
con cautela alcuni fatti riguardanti l'influenza negativa di quelle
organizzazioni e attivisti, sottolineando sempre attentamente che la stragrande
maggioranza di Gli ebrei comuni non traggono beneficio da queste politiche e
anzi potrebbero esserne danneggiati, anche tralasciando il possibile rischio di
provocare eventualmente una reazione antiebraica. Con mia notevole sorpresa, ho
scoperto che il materiale nella serie di 300.000 parole di Ford sembrava
seguire esattamente lo stesso schema e lo stesso tono.
I
singoli 80 capitoli dei volumi di Ford trattano generalmente questioni ed
eventi particolari, alcuni dei quali erano ben noti a me, ma la maggior parte
completamente oscurati dal passare di quasi cento anni. Tuttavia, per quanto ne
so, quasi tutte le discussioni sembravano abbastanza plausibili e orientate ai
fatti, anche a volte eccessivamente caute nella loro presentazione, e con una
possibile eccezione non riesco a ricordare nulla che sembrasse fantasioso o
irragionevole. Ad esempio, non c'era alcuna pretesa che Schiff oi suoi colleghi
banchieri ebrei avevano finanziato la rivoluzione bolscevica dal momento che
quei fatti particolari non erano ancora venuti alla luce, ma solo che era
sembrava essere fortemente favorevole al rovesciamento dello zarismo, e aveva
lavorato a tal fine per molti anni, motivato da ciò che considerava l'ostilità
dell'Impero russo verso i suoi sudditi ebrei. Questo tipo di discussione non è
poi così diversa da quella che si potrebbe trovare in una moderna biografia di
Schiff o nella sua voce su Wikipedia, anche se molti dei dettagli importanti
presentati nei libri di Ford sono scomparsi dalla documentazione storica.
Anche
se in qualche modo sono riuscito a sfogliare tutti e quattro i volumi diThe
International Jew,l'incessante tambureggiare degli intrighi e dei comportamenti
scorretti degli ebrei è diventato un po' soporifero dopo un po', soprattutto
perché molti degli esempi forniti possono essere stati piuttosto importanti nel
1920 o nel 1921, ma oggi sono stati quasi completamente dimenticati. La maggior
parte del contenuto era una raccolta di lamentele piuttosto monotona
riguardante le malefatte, gli scandali o la clandestinità ebraica, il tipo di
domande banali che normalmente potrebbero apparire sulle pagine di un normale
giornale o rivista, per non parlare di uno del tipo muckraking .
Tuttavia,
non posso criticare la pubblicazione per avere un focus così ristretto. Un tema
ricorrente era che, a causa del timore intimidatorio nei confronti degli
attivisti e dell'influenza ebraica, praticamente tutti i media regolari
americani evitavano la discussione di qualsiasi di queste importanti questioni,
e poiché questa nuova pubblicazione aveva lo scopo di riempire quel vuoto,
necessariamente forniva una copertura estremamente distorta. verso quel
particolare argomento. Gli articoli miravano anche ad espandere gradualmente la
finestra del dibattito pubblico e, infine, a indurre altri periodici a
discutere del comportamento scorretto degli ebrei. Quando riviste importanti
come The Atlantic Monthly e Century Magazine iniziarono a pubblicare tali articoli,
questo risultato fu salutato come un grande successo.
Un
altro obiettivo importante era quello di rendere gli ebrei comuni più
consapevoli del comportamento molto problematico di molti leader delle loro
comunità. Di tanto in tanto, la pubblicazione riceveva una lettera di elogio da
un autoproclamato "orgoglioso ebreo americano" che elogiava la serie
e talvolta includeva un assegno per acquistare abbonamenti per altri membri
della sua comunità, e questo risultato poteva diventare oggetto di una
discussione approfondita.
E
anche se i dettagli di queste storie individuali differivano considerevolmente
da quelli di oggi, il modello di comportamento critico sembrava notevolmente
simile. Cambiate alcuni fatti, aggiustate la società per un secolo di
progresso, e molte delle storie potrebbero essere esattamente le stesse di cui
le persone ben intenzionate a preoccuparsi del futuro del nostro paese stanno
tranquillamente discutendo oggi. La cosa più notevole è che c'erano anche un
paio di articoli sul rapporto travagliato tra i primi coloni sionisti in
Palestina ei palestinesi nativi circostanti, e profonde lamentele sul fatto
che, sotto la pressione ebraica, i media spesso riportavano in modo
completamente errato o nascondevano alcuni degli oltraggi subiti da
quest'ultimo gruppo.
Non
posso garantire l'accuratezza complessiva del contenuto di questi volumi, ma
per lo meno costituirebbero una fonte estremamente preziosa di "materia
prima" per ulteriori indagini storiche. Molti degli eventi e degli
incidenti che raccontano sembrano essere stati completamente omessi dalle
principali pubblicazioni mediatiche di quel tempo, e certamente non sono mai
stati inclusi nelle narrazioni storiche successive, dato che anche storie
ampiamente conosciute come il grande sostegno finanziario di Schiff ai
bolscevichi sono state completamente gettate nel "buco della memoria"
di George Orwell.
Ho
trovato queste rivelazioni scioccanti, sia per quanto riguarda il ruolo
cruciale di “Jacob Schiff” nella rivoluzione bolscevica, sia per il contenuto
piuttosto banale e plausibile della famigerata opera di Ford The International
Jew . Ciò mi ha costretto a rivalutare completamente il mio quadro di ipotesi
e, nel mio articolo successivo, ho indagato attentamente la realtà storica
dell'"antisemitismo".
Di
recente ho pubblicato un paio di lunghi saggi e, sebbene si concentrassero
principalmente su altre domande, il tema dell'antisemitismo era un forte tema
secondario. A questo proposito, ho menzionato il mio shock nello scoprire una
dozzina o più di anni fa che molti degli elementi più palesemente assurdi della
follia antisemita, che avevo sempre respinto senza considerazione, erano
probabilmente corretti.
Quando
si scopre che domande di così grande importanza non solo si sono apparentemente
verificate, ma che sono state escluse con successo da quasi tutte le nostre
storie e dalla copertura mediatica per la maggior parte degli ultimi cento
anni, le implicazioni richiedono un po' di tempo per essere digerito
correttamente. Se le "menzogne antisemite" più estreme fossero
probabilmente vere, allora sicuramente l'intera nozione di antisemitismo merita
un attento riesame.
Tutti
noi otteniamo la nostra conoscenza del mondo attraverso due canali diversi.
Alcune cose le scopriamo dalle nostre esperienze personali e dall'evidenza
diretta dei nostri sensi, ma la maggior parte delle informazioni ci arriva
attraverso fonti esterne come i libri ei media, e una crisi può svilupparsi
quando scopriamo che questi due percorsi sono in forte conflitto.
I
media ufficiali della vecchia URSS erano soliti strombazzare all'infinito le
enormi conquiste del suo sistema agricolo collettivizzato, ma quando i
cittadini si accorsero che non c'era mai carne nei loro negozi, la
"Pravda" divenne una parola d'ordine per "Menzogna" "
piuttosto che "Verità".
Consideriamo
ora la nozione di "antisemitismo".
Le
ricerche su Google per quella parola e le sue varianti simili rivelano oltre 24
milioni di risultati, e nel corso degli anni ho sicuramente visto quel termine
decine di migliaia di volte nei miei libri e giornali, e l'ho sentito riportare
all'infinito nei I miei media elettronici e nell'intrattenimento.
Ma
ripensandoci, non sono sicuro di poter ricordare un solo caso di vita reale in
cui mi sia imbattuto personalmente, né ho sentito parlare di quasi nessun caso
del genere dai miei amici o conoscenti.
In
effetti, le uniche persone che hanno mai incontrato fare tali affermazioni
erano individui che portavano segni inequivocabili di gravi squilibri
psicologici.
Quando
i quotidiani sono pieni di racconti raccapriccianti di orribili demoni che
camminano in mezzo a noi e attaccano la gente ad ogni angolo di strada, ma tu
stesso non ne hai mai visto uno, potresti gradualmente diventare sospettoso.
Nel
corso degli anni alcune delle mie ricerche hanno portato alla luce un netto
contrasto tra immagine e realtà.
Alla
fine degli anni '1990, i principali media mainstream come il “New York Times” stavano
ancora denunciando una delle migliori scuole della Ivy League come Princeton il presunto antisemitismo della sua politica
di ammissione al college, ma alcuni anni fa, quando indagavo attentamente la
questione in termini quantitativi per la mia lunga analisi sulla meritocrazia.
Sono
rimasto molto sorpreso di giungere a una conclusione diametralmente opposta.
Secondo le migliori prove disponibili, i
gentili bianchi avevano oltre il 90% in meno di probabilità di essere iscritti
ad “Harvard” e nelle altre” Ivie” rispetto agli ebrei con risultati accademici
simili, una scoperta davvero notevole.
Se la situazione fosse stata invertita e gli
ebrei avrebbero avuto il 90% in meno di probabilità di essere trovati ad “Harvard”
di quanto sembrava giustificato dai loro punti nei test, sicuramente questo
fatto sarebbe stato citato all'infinito come la prova assoluta dell'orrendo
antisemitismo nell'America di oggi.
E'
anche diventato evidente che una parte considerevole di ciò che passa per
"antisemitismo" in questi giorni sembra estendere quel termine al di
là di ogni riconoscimento. Poche settimane fa, una sconosciuta socialista democratica di
28 anni di nome Alexandria Ocasio-Cortez ha ottenuto una sorprendente vittoria
alle primarie contro un democratico di spicco della Camera a New York City, e
naturalmente ha ricevuto una bufera di copertura mediatica come risultato.
Tuttavia,
quando è venuto fuori che aveva denunciato il governo israeliano per il suo
recente massacro di oltre 140 manifestanti palestinesi disarmati a Gaza, sono
apparse presto grida di "antisemiti", e secondo Google ci sono ora
oltre 180.000 colpi di questo tipo che combinano il suo nome e quel duro
termine accusatorio.
Era
ovvio che nel mondo politico di oggi, l'"antisemitismo" era diventato
un'accusa esagerata, persino priva di significato. Così ho deciso di esplorare
attentamente la sua realtà storica nel passato, soprattutto negli anni
precedenti la rivoluzione bolscevica, dato che il coinvolgimento molto pesante
degli ebrei nell'evento aveva successivamente prodotto una reazione popolare in
altri paesi.
Nel
1991 la Cambridge University Press pubblicò di Albert Lindemann, noto studioso
dei movimenti ideologici europei, e il suo libro si concentrò esattamente su
quell'epoca e su quel tipo di incidenti.
Sebbene
il testo sia piuttosto breve, meno di 300 pagine, Lindemann ha costruito la sua
discussione su un'enorme base di letteratura secondaria, con le sue note a piè
di pagina tratte dalle 200 opere incluse nella sua vasta bibliografia.
Per
quanto ho potuto vedere, sembra uno studioso molto scrupoloso, in genere
fornisce resoconti molteplici, spesso contrastanti, di un dato incidente, e
giunge alle sue conclusioni con notevole esitazione.
Pochi
anni dopo, Lindemann ha ampliato la sua analisi dell'antisemitismo storico in
una trattazione molto più ampia, “Le lacrime di Esaù”,che è apparso nel 1997 ed
è stato quasi il doppio, fornendo studi comparativi del panorama sociale in
numerosi altri paesi, tra cui Germania, Gran Bretagna e Italia.
Presi
insieme, i due volumi erano di quasi 900 pagine e costituivano una discussione
molto approfondita e meticolosamente obiettiva su un fenomeno sociale così
ampiamente trattato dai nostri media.
L'obiettivo
principale di Lindemann e il fulcro del suo primo libro erano tre dei più noti
esempi di antisemitismo al mondo prima della Prima Guerra Mondiale, che avevano
avuto conseguenze fatali ea lungo termine mentre ricevevano attenzione nei miei
libri di testo introduttivi.
Questo
approccio è certamente dimostrato nel primo dei suoi casi principali, il famigerato affare Dreyfus della
Francia del tardo XIX secolo, probabilmente uno dei più famosi incidenti
antisemiti della storia. Sebbene concluda che il capitano Alfred Dreyfus era molto
probabilmente innocente dell'accusa di spionaggio, nota le prove apparentemente
assolutamente forti che inizialmente portarono al suo arresto e alla sua
condanna e non trova alcuna indicazione che le sue origini ebraiche abbiano
avuto un ruolo nella sua situazione.
Tuttavia,
egli nota parte del contesto sociale sottostante a questa feroce battaglia
politica. Anche
se solo un francese su mille era ebreo, solo pochi anni prima un gruppo di
ebrei era stato il principale colpevole di diversi enormi scandali finanziari
che avevano impoverito un gran numero di piccoli investitori, e i truffatori in
seguito erano sfuggiti a qualsiasi punizione per mezzo dell'influenza politica
e della corruzione.
Data
questa storia, gran parte dell'indignazione degli anti-dreyfusardi
probabilmente nacque dai loro timori che una spia militare ebrea proveniente da
una famiglia molto ricca poteva essere in grado di camminare libero usando
tattiche simili, e le affermazioni pubbliche secondo cui il fratello di Dreyfus stavamo
offrendo enormi tangenti per ottenere il suo rilascio certamente rafforzarono
questa preoccupazione.
La
discussione di Lindemann sull'affare Leo Frank del 1913, in cui un ricco ebreo
del nord che lavorava ad Atlanta fu accusato di aver aggredito sessualmente e
ucciso una giovane ragazza, è ancora più interessante.
Ancora una volta, nota che, contrariamente
alla narrativa tradizionale, non sembra assolutamente alcun indizio che il
background ebraico di Frank abbia avuto un ruolo nel suo arresto o condanna.
Infatti, al suo processo furono invece i suoi avvocati difensori, ben pagati, che tentarono senza successo di
"giocare la carta della razza" con i giurati, tentando brutalmente di
deviare i sospetti su un lavoratore nero locale per mezzo di invettive a sfondo
razziale.
Sebbene
Lindemann consideri Frank probabilmente innocente, la mia lettura delle prove
che presenta suggerisce la schiacciante probabilità della sua colpevolezza. Nel frattempo, sembra innegabile che
lo sfogo della rabbia popolare contro Frank sia stato prodotto dal vasto oceano
di denaro ebraico proveniente dall'esterno – almeno 15 milioni di dollari o più
in dollari attuali – che è stato impegnato negli sforzi legali per salvare la
vita di qualcuno ampiamente considerato un brutale assassino. Vi sono forti indicazioni che siano
stati impiegati anche mezzi molto più impropri, tra cui corruzione e spaccio di
influenze, tanto che, dopo che Frank fu condannato da una giuria di suoi pari e
tredici ricorsi legali separati furono respinti, un governatore con forti
legami personali con gli avvocati della difesa e gli interessi ebraici scelsero
di risparmiare la vita di Frank pochi mesi prima di lasciare l'incarico. In
queste circostanze, il linciaggio che ha impiccato Frank è stato visto dalla
comunità come una semplice esecuzione della sua condanna a morte ufficiale con
mezzi extragiudiziali.
Scoprii
anche che le figure di spicco del movimento anti-Frank avevano opinioni molto
più sfumate di quanto mi aspettassi.
Ad esempio, lo scrittore populista “Tom Watsonera
stato in precedenza un forte difensore dell'anarchica ebrea “Emma Goldman”,
mentre denunciava ferocemente i Rockefeller, i Morgan ei Gould come i
"veri distruttori" della democrazia jeffersoniana, quindi la sua
indignazione per il fatto che Frank poteva sfuggire alla punizione per omicidio
sembrava motivata dall'estrema ricchezza della famiglia di Frank e dei suoi
sostenitori piuttosto che da sentimenti antisemiti preesistenti.
Dopo
alcune ricerche e letture aggiuntive, alla fine ho concluso che le prove della
colpevolezza di Frank erano assolutamente schiaccianti e ho persino scoperto
che la comprensione tradizionale del caso era in realtà invertita.
Frank
e i suoi alleati ebrei avevano disperatamente giocato sui famigerati sentimenti
razzisti del Vecchio Sud, tentando di orchestrare il linciaggio di vari uomini
neri totalmente innocenti al fine di nascondere la colpevolezza di Frank. Ma la
giuria bianca del Sud ha visto il loro piano e Frank è stato condannato
all'impiccagione, come ho ricapitolato in un articolo all'inizio di quest'anno.
La
conclusione inequivocabile dell'analisi di Lindemann è che se gli imputati nei
casi “Dreyfus” e “Frank” non fossero stati ebrei, avrebbero subito arresti e
condanne identiche, ma in mancanza di una comunità ebraica ricca e
politicamente mobilitata che si radunasse intorno a loro, avrebbero ricevuto le
loro punizioni, giuste o ingiuste, e furono subito dimenticate.
Invece, Theodor Herzl, il padre fondatore del
sionismo, in seguito affermò che il massiccio antisemitismo rivelato
dall'affare Dreyfus era la base del suo risveglio ideologico personale, mentre
l'affare Frank portò alla creazione dell'American Anti-Defamation League. Ed entrambi questi casi sono
entrati nei nostri libri di storia come tra gli esempi più noti di
antisemitismo precedente alla Prima Guerra Mondiale.
La
discussione di Lindemann sulle relazioni spesso difficili tra la riottosa
minoranza ebraica della Russia e la sua enorme maggioranza slava è anch'essa
piuttosto interessante, e fornisce numerosi esempi in cui i principali
incidenti, che dimostrano l'enorme fascino del feroce antisemitismo, sono stati
molto diversi da quanto suggerito dalla leggenda.
Il famoso pogrom di Kishinev del 1903 fu
ovviamente il risultato di una grave tensione etnica in quella città, ma
contrariamente alle regolari accuse degli scrittori successivi, non sembra
esserci assolutamente alcuna prova di un coinvolgimento di alto livello del
governo, e le diffuse affermazioni di 700 morti che inorridirono così tanto il
mondo intero furono grossolanamente esagerate, con solo 45 morti nei disordini
urbani.
“Chaim Weizmann”, il futuro presidente di
Israele, in seguito promosse la storia che lui stesso e alcune altre coraggiose
anime ebraiche avevano personalmente difeso il loro popolo con le rivoltelle in
mano anche quando avevano visto i corpi mutilati di 80 vittime ebree.
Questo racconto era totalmente inventato dal
momento che Weizmann si trovava a centinaia di chilometri di distanza quando si
verificarono i disordini.
Anche
se la tendenza a mentire ed esagerare non era certo esclusiva dei partigiani
politici dell'ebraismo russo, l'esistenza di una potente rete internazionale di
giornalisti ebrei e di media influenzati dagli ebrei assicurava che tali storie
di propaganda inventate ricevessero un'enorme diffusione in tutto il mondo,
mentre la verità seguiva molto dopo, se non del tutto.
Per
ragioni correlate, l'indignazione internazionale si è spesso concentrata sul
confinamento legale della maggior parte degli ebrei russi nel "Pale of
Settlement", suggerendo una sorta di severa reclusione;
ma
quell'area era la sede tradizionale della popolazione ebraica e comprendeva un
territorio vasto quasi quanto la Francia e la Spagna messe insieme.
Il
crescente impoverimento degli ebrei dell'Europa orientale durante quell'epoca
veniva spesso considerato una conseguenza della politica governativa ostile, ma
la spiegazione ovvia era la straordinaria fecondità ebraica, che superò di gran
lunga quella dei loro connazionali slavi, e li portò rapidamente a superare i
posti disponibili.
in qualsiasi delle loro tradizionali
occupazioni di "intermediari", una situazione aggravata dalla loro
totale riluttanza a dedicarsi all'agricoltura o ad altre attività di produzione
primaria.
Le
comunità ebraiche espressero orrore per il rischio di perdere i loro figli a
causa della leva militare zarista, ma questo era semplicemente l'altra faccia
della medaglia della piena cittadinanza russa che era stata loro concessa, e
non diverso da quello che dovettero affrontare i loro vicini non ebrei.
Certamente
gli ebrei russi soffrirono molto a causa delle rivolte diffuse e degli attacchi
della folla nella generazione precedente la prima guerra mondiale, e questi a
volte ricevettero un sostanziale incoraggiamento da parte del governo,
soprattutto in seguito al ruolo molto pesante degli ebrei nella rivoluzione del
1905. Ma
dovremmo tenere presente che un cospiratore ebreo era stato implicato
nell'uccisione dello zar Alessandro II, e che assassini ebrei avevano anche
ucciso diversi importanti ministri russi e numerosi altri funzionari
governativi.
Se
negli ultimi dieci o due decenni i musulmani americani avessero assassinato il
presidente in carica, vari membri di spicco del governo e una serie di altri
funzionari eletti e nominati, sicuramente la posizione dei musulmani in questo
paese sarebbe diventata molto scomoda.
Questi
casi sono ampiamente considerati come tre degli esempi più eclatanti di
antisemitismo in tutta la storia umana, e separatamente diedero vita al
movimento sionista, portarono alla fondazione dell'ADL e ispirarono il fervore rivoluzionario
e anti-zarista e finanziamenti che alla fine portarono alla rivoluzione
bolscevica.
Tuttavia,
se visti alla fredda luce della realtà, non mi era chiaro se qualcuno di essi
costituisse effettivamente "antisemitismo" nel senso legittimo del
termine, e lo stesso era generalmente vero per il lungo elenco di incidenti
molto minori che si sono verificati. riempire il resto delle 900 pagine di
Lindemann con un'attenta analisi storica.
Tutto
ciò suggerisce che l'"antisemitismo" è sempre stato più un fantasma
ideologico utilizzato come arma politica piuttosto che qualsiasi tipo di
concetto significativo nel mondo reale, non solo oggi ma anche nel passato
storico.
Alcuni
studiosi ebrei, restii ad accettare questa possibilità, sembrarono riconoscere
immediatamente la potenziale minaccia politica posta dagli studi oggettivi di
Lindemann e reagirono di conseguenza, sebbene i loro duri attacchi furono
respinti da altri accademici, apparentemente meno ideologicamente guidati:
Ma
anche se ho trovato la sua analisi molto utile e interessante, gli attacchi
straordinariamente duri che il suo testo ha provocato da parte di alcuni
accademici ebrei indignati mi sono sembrati ancora più intriganti.
Non
ero il solo a reagire in questo modo.
“
Richard S. Levy” dell'Università dell'Illinois, un noto studioso di
antisemitismo, espresse stupore per lo sfogo apparentemente irrazionale di “Wistri”ch”,
mentre “Paul Gottfried”, scrivendo in “Chronicles”, suggerì gentilmente che
Lindemann” avesse "toccato nervi scoperti".
In
effetti, la valutazione di “Gottfrie”d ha giustamente criticato Lindemann per
essere stato forse un po' troppo imparziale, a volte presentando numerose
analisi contrastanti senza scegliere tra di esse.
Per
chi fosse interessato, una buona discussione del libro di “Alan Steinweis”, uno
studioso più giovane specializzato nello stesso argomento, è comodamente
disponibile online .
La
notevole ferocia con cui alcuni scrittori ebrei attaccarono il meticoloso
tentativo di “Lindemann” di fornire una storia accurata dell'antisemitismo
potrebbe avere più significato di un semplice scambio di parole rabbiose in
pubblicazioni accademiche a bassa diffusione.
Se i nostri media mainstream modellano la nostra
realtà, i libri accademici e gli articoli che influenzano tendono a definire i
contorni di quella copertura mediatica.
E la capacità di un numero relativamente
piccolo di ebrei agitati ed energici di vigilare sui confini accettabili delle
narrazioni storiche può avere enormi conseguenze per la nostra società nel suo
complesso, dissuadendo
gli studiosi dal riportare oggettivamente fatti storici e impedendo agli
studenti di scoprirli.
Gli
ebrei come popolo sono esistiti per migliaia di anni e il loro conflitto,
spesso aspro, contro gli altri intorno a loro risale certamente a quel periodo
molto lontano, con “Wistrich” che ha pubblicato un libro intitolato” Antisemitismo:
l'odio più lungo”.
La voce di Wikipedia sulla storia
dell'antisemitismo è di 18.000 parole, contiene una moltitudine di riferimenti
e ben oltre 200 note a piè di pagina.
Come
abbiamo visto sopra, le prove storiche dell'esistenza
dell'"antisemitismo" in qualsiasi senso significativo sembrano
davvero piuttosto scarse, e tale apparente ostilità è stata di solito
fabbricata da resoconti pesantemente distorti o è apparsa in risposta diretta a
provocazioni ebraiche molto serie.
Con
forse 20.000 palestinesi di Gaza che sono stati massacrati dagli ebrei, non
dubito che i miserabili sopravvissuti provino attualmente una grande ostilità
nei confronti del gruppo responsabile, ma come potremmo aspettarci qualcosa di
diverso?
Otteniamo qualche intuizione in più
etichettando questa animosità come "antisemitismo"?
Nel
frattempo, in netto contrasto, i principi fondamentali del giudaismo
tradizionale hanno sempre incluso un'enorme quantità di ostilità intrinseca
verso tutti i non ebrei, qualcosa che è stato ampiamente sottolineato per
migliaia di anni. Vieni ho discusso nel 2018:
Ovviamente
al giorno d'oggi il “Talmud” difficilmente viene letto regolarmente tra gli
ebrei comuni, e sospetto che, ad eccezione dei fortemente ortodossi e forse
della maggior parte dei rabbini, appena una piccola parte sia consapevole dei
suoi insegnamenti altamente controversi.
Ma è
importante tenere presente che fino a poche generazioni fa, quasi tutti gli
ebrei europei erano profondamente ortodossi, e anche oggi direi che la
stragrande maggioranza degli ebrei adulti avesse nonni ortodossi.
Modelli
culturali e atteggiamenti sociali altamente distintivi possono facilmente
penetrare in una popolazione considerevolmente più ampia, soprattutto in quella
che rimane ignara dell'origine di tali sentimenti, una condizione che rafforza
la loro influenza non riconosciuta.
Una
religione basata sul principio "Ama il tuo prossimo" può o meno
essere praticabile nella pratica, ma una religione basata sul principio
"Odia il tuo prossimo" potrebbe avere effetti a catena culturale a
lungo termine che si estendono ben oltre la comunità diretta delle persone
profondamente pie.
Se a
quasi tutti gli ebrei per mille o duemila anni è stato insegnato a provare un
odio ribollente verso tutti i non ebrei e hanno anche sviluppato un'enorme
infrastruttura di disonestà culturale per mascherare tale atteggiamento, è
difficile credere che una storia così sfortunata abbia avuto assolutamente
nessuna conseguenza per il nostro mondo attuale, o per quello di un passato
relativamente recente.
Nonostante
questi fatti, il potere significativo del termine "antisemitismo" ha
contribuito a far sì che qualsiasi ostilità manifestata dai gentili nei
confronti degli ebrei goda di un profilo enormemente più alto di qualsiasi
ostilità reciproca nella direzione opposta, con quest'ultimo privo di qualsiasi
nome che dia al concetto un significato solido.
In
effetti, nel corso degli anni ho visto occasionalmente alcuni attivisti
anti-ebraici tentare di colmare questa lacuna inventando nuovi termini come
"anti-goyismo" o "loxismo", ma data la loro mancanza di
potere mediatico, nessuno di questi ha preso piede.
Anche
se nominato o meno, il fenomeno è certamente reale, e di tanto in tanto
trapelano frammenti di prova. Nonostante l'attuale rapporto di 100 a 1 tra le vittime
civili, la tendenziosa propaganda filo-israeliana ha attualmente alimentato
enormi livelli di odio ebraico verso palestinesi, arabi e musulmani, che a
volte porta a eclatanti incidenti nel mondo reale. Solo pochi giorni fa, un ex
funzionario ebreo del Dipartimento di Stato, una figura di alto livello che era
stata responsabile delle relazioni Israele/Palestina nell'amministrazione
Obama, è
stato ripreso in un video mentre rimproverava un venditore ambulante di
carretti alimentari immigrato egiziano a New York City, promettendo utilizzare
i suoi potenti legami politici per far torturare e uccidere brutalmente la
famiglia del povero.
Lo
straordinario videoclip, insieme alle sue versioni più lunghe, ha ricevuto
oltre 10 milioni di impressioni su Twitter e ha suscitato un tale furore da
portare all'arresto dell'uomo con l'accusa di "molestie".
Poiché
la vittima era musulmana, il comportamento oltraggioso è stato descritto come
"islamofobo".
Ma in circostanze leggermente diverse, sono
sicuro che il bersaglio della sua ira avrebbe potuto facilmente essere un
tedesco, un anglosassone o qualsiasi altro gruppo gentile, con un comportamento
privo di qualsiasi nome identificativo. In effetti, lo stesso colpevole avrebbe
aggredito e insultato in modo simile i cittadini di etnia russa all'inizio di
quest'anno.
Solo
poche settimane fa, una figura politica israeliana di spicco intervistata su “KremlinTV”aveva
denunciato la Russia per non essere sufficientemente filo-israeliana
nell'attuale conflitto e aveva minacciato oltraggiosamente il paese che
possiede il più grande arsenale nucleare del mondo:
Infine,
nell'esempio più sorprendente di tutti, l'emittente nazionale israeliana ha
pubblicato un video di propaganda che mostra dolci bambini israeliani che
cantano canzoni che invocano l'annientamento totale di Gaza e di tutti i suoi
abitanti.
Il video è stato infine cancellato dopo che
gli israeliani si sono resi conto che altri popoli in tutto il mondo potrebbero
avere altri modi di pensare e potrebbero considerarlo inappropriato.
Copia questo
sorprendente video musicale rimangono in circolazione e sono state viste molti
milioni di volte in tutto il mondo, forse fornendo un'importante visione del
pensiero degli ebrei israeliani, e questo episodio significativo è stato
discusso su “Grayzon”e.
Nella
sua aspra critica, “Max Blumenthal” ha definito questo video israeliano
"nazista", ma penso che quasi certamente si sbagli.
Se un
simile progetto di propaganda ufficiale fosse mai stato intrapreso nel Terzo
Reich di Adolf Hitler, sicuramente sarebbe diventato il fulcro di ogni
documentario americano che cercasse di dimostrare l'indicibile male della
Germania nazista.
In effetti, sospetto che l'idea che il governo
tedesco insegni ai bambini tedeschi a cantare canzoni che incitano
all'annientamento totale degli ebrei o di qualsiasi altro gruppo sarebbe stata
del tutto inimmaginabile in quella società.
Come
ho suggerito, quasi scherzosamente, in un articolo del 2018, il nazismo
potrebbe ragionevolmente essere caratterizzato come "ebraismo per
deboli".
Ho
spiegato che decenni fa una manciata di scoperte scioccanti mi hanno portato a
rivalutare completamente la mia comprensione del mondo e a iniziare a
considerare idee che in precedenza avrei respinto. Ho il sospetto che le immagini
grafiche provenienti dalla Gaza distrutta e alcuni dei comportamenti
sorprendenti dei leader governativi israeliani e dei suoi sostenitori impegnati
possano ora avere un effetto simile su centinaia di milioni di individui in
tutto il mondo, compresi alcuni nel nostro stesso paese. E questa potrebbe essere la più
importante conseguenza a lungo termine degli eventi sanguinosi innescati
dall'attacco di Hamas il mese scorso.
Dobbiamo distinguere attentamente tra le realtà del mondo e le convinzioni estreme che agitati propagandisti ebrei hanno spesso proiettato sui loro vari avversari, sia passati che presenti. Ho toccato questo tema in molti dei miei articoli dell'inizio di quest'anno, pubblicati prima dello scoppio dell'attuale conflitto Israele/Gaza.
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