Il nostro problema si chiama “debito”.

 

Il nostro problema si chiama “debito”.

 

 

Il ministro Giorgetti non convince

e la premier Meloni dà forfait.

Msn.com - Claudia Fusani - Il Riformista – (28-12-2023) – ci dice:

 

Ha aspettato che il ministro economico Giancarlo Giorgetti terminasse l’audizione alla Camera.

 A sorpresa il titolare del Mef ha accettato di rispondere non solo sulla manovra ma anche su Mes e Patto di stabilità e crescita, temi tabù fino alle 14 di ieri.

Alle 16 il ministro aveva terminato il suo crudo resoconto (“dovremo essere disciplinati e rispettare le regole, il nostro problema sarà la disciplina e non la presunta austerity imposta dalla regole”) e a quel punto palazzo Chigi ha fatto uscire due righe secche di comunicato:

 “La tradizionale conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio è rinviata a data da stabilire”.

Probabilmente l’assalto di domande cui Giorgetti è stato sottoposto nell’audizione alla Camera, deve aver convinto la premier Meloni che oggi le sarebbe toccato lo stesso trattamento e le risposte non potevano, nella sostanza, essere diverse: rispettare le nuove regole fiscali e di bilancio, certo, ma siccome è molto difficile, le politiche di bilancio di questo paese sono nei fatti consegnate a Bruxelles.

 Un confronto che la premier deve aver giudicato insostenibile.

Non era mai successo.

Poi ovviamente c’è la versione ufficiale:

“Per una leggera influenza la Presidente Meloni deve rinviare la conferenza stampa”.

Questa volta non si fa neppure lo sforzo di prevedere una nuova data.

 Premier che non parla in pubblico dal 18 dicembre, ed era il palco amico di Atreju.

In questi dieci giorni tra Mes, Patto di Stabilità e crescita, Patto per l’immigrazione, l’Europa è cambiata – si può dire – con una velocità inattesa.

Ma il Paese non ha potuto ascoltare la versione del Capo del governo.

Non si sa se Giorgetti, rispondendo anche su Mes e Patto di stabilità, abbia accettato di fare da cavia, una sorta di simulazione per stamani.

In ogni caso pur con la consueta schiettezza il titolare del Mef non ha convinto del tutto.

Non poteva farlo visto che il primo ad avere dubbi e remore è proprio lui.

Le opposizioni, da Marattin (Iv) a Cecilia Guerra e Pagano (entrambi Pd), da Della Vedova (+Europa) a Grimaldi (Sinistra e Verdi), hanno insistito seppure con toni diversi su alcuni nodi fondamentali:

tra pochi mesi sarà necessaria una manovra correttiva;

dove troveremo i soldi per coprirla;

 dove troveremo i soldi il prossimo anno per confermare il taglio del cuneo fiscale; firmando il Patto ci siamo consegnati mani e piedi a Bruxelles che nei fatti scriverà le nostre prossime leggi di bilancio.

Giorgetti ha chiarito che le nuove regole entreranno in vigore “nel 2025 e che quindi non è prevista una manovra correttiva.

Ha aggiunto che “nessuno ha festeggiato” per la firma del Patto di stabilità (in realtà dovrebbe rivedere le dichiarazioni di molti parlamentari di Fdi in quelle ore, ndr) perché si tratta di “un compromesso che andrà valutato nel tempo”.

 

Giorgetti: mai detto che l'Italia avrebbe ratificato il Mes? (Dailymotion)

Il Mes, infine:

“Non ho mai detto ai colleghi europei che lo avremmo ratificato.

 Io non mento e dico sempre le stesse cose qui, in sede di governo e in sede europea.

 Su questo ho letto cose false.

Io ho sempre rappresentato le difficoltà che si sono nella maggioranza e nelle opposizioni.

Mi scuseranno gli amici 5 Stelle se ho così anticipato quello che sarebbe stato il loro voto.

Ho solo detto che non sarebbe stato più accettabile un nuovo rinvio.

E così il Parlamento si è espresso”.

Tutto ciò premesso, il Mes “non è né la causa né la soluzione ai problemi dell’Italia perché sul banco degli imputati c’è soprattutto il nostro debito che deve essere tenuto sotto controllo specie dopo quattro anni che io definisco psichedelici perché abbiamo ignorato il debito e il deficit”.

 Per Giorgetti sembra questa la priorità:

“Uscire con coraggio dalla fase in cui ci siamo assuefatti a questo Lsd che abbiamo preso per 4 anni per cui abbiamo fatto deficit e scostamenti come se nulla fosse. Ora dobbiamo eliminare punto per punto misure che non ci possiamo permettere”.

In Commissione, al banco del governo, lo ascoltavano il viceministro Maurizio Leo e i sottosegretari Federico Freni e Lucia Albano.

Sul Patto di Stabilità Giorgetti ha chiarito di “non avere alcuna voglia di festeggiare” e però “mi sono preso la responsabilità di accettare un accordo invece di mettere il veto e tornare al vecchio Patto che sarebbe stato peggiorativo per noi”.

È vero, a forza di aggiungere – lo ha fatto ogni paese per giungere al compromesso – “abbiamo creato un caos totale di clausole.

La Commissione ogni anno farà una valutazione su misura su ogni paese sapendo che i criteri cambiano e cambieranno in continuazione”.

 Il problema, ha aggiunto, “non è l’austerità ma la disciplina, cioè la capacità per chi fa politica di rispettare le regole e gli impegni presi e di assumere decisioni anche se impopolari”.

Parole che dicono e non dicono.

 E che non convincono le opposizioni.

Il ministro insiste che non ci sarà bisogno di una manovra correttiva perché le nuove regole saranno in vigore dal 2025.

 “Eppure entrano in vigore a giugno, dopo il voto, e solo per il rientro del debito, stando alle nuove regole, avremo bisogno di una cifra tra i 15 e i 17 miliardi” commentano Guerra e Marattin.

Per Stefano Patuanelli (M5s)

“la sequenza di parole usata dal ministro è agghiacciante:

 ‘un compromesso peggiore della proposta iniziale della Commissione’,

 un ‘caos totale’, un ‘sistema di regole che rischia di diventare prociclico’.

 Espressioni che fotografano i il totale fallimento della strategia negoziale europea del Governo, certificandone subalternità e irrilevanza.

Questo disastro imporrà al Paese tagli e tasse negli anni a venire”.

Tutti i gruppi di opposizione, compreso Calenda (Azione) insistono con le dimissioni di un ministro “che oggi è sembrato un passante”.

 La verità è che Giorgetti ha fatto Giorgett

i: un uomo di numeri che ha risposto con i numeri che rivelano tutta l’incertezza nelle conseguenze del nuovo Patto di stabilità.

E la constatazione che qualunque altra cosa sarebbe stata peggiore.

Il testo della manovra oggi arriva in aula.

 Meloni non ci sarà, non risponderà ai giornalisti, ci sarà però il Consiglio dei Ministri.

 Il clima in maggioranza è pessimo.

Forza Italia è in rivolta.

Una parte non ha gradito la linea Tajani che ha portato all’astensione sul Mes che invece doveva essere votato.

Un’altra parte del partito insiste sulla proroga del bonus edilizio 110%.

Giorgetti dice e ripete che non ci sono soldi.

 Se dovesse essere sfiduciato un’altra volta – magari nel Mille proroghe – la sua permanenza al governo si farebbe problematica.

 

 

 

 

Giorgetti accusa, è scontro:

«Il patto di Stabilità un compromesso.

Il Mes? Il vero problema è il debito».

Corriere.it - Enrico Marro – (27-12-2023) – ci dice:

 

Giorgetti alla Camera: «Via le misure che non possiamo permetterci. Le opposizioni: si dimetta».

Una caratteristica che viene riconosciuta al ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, è la pazienza.

Senza dubbio necessaria nelle difficili trattative in Europa e anche per gestire le tensioni nella maggioranza.

Ma ieri Giorgetti, ascoltato in commissione Bilancio alla Camera, davanti all’incalzare delle opposizioni che lo hanno messo in difficoltà sulla mancata ratifica del Mes, si è armato anche di realismo per respingere gli attacchi.

Giocando soprattutto in difesa.

 Ecco, per esempio, cosa ha detto dell’accordo raggiunto nell’Unione europea sulla riforma del patto di Stabilità:

 «Senza un accordo, sarebbe rimasto il vecchio Patto.

Da questo punto di vista, abbiamo fatto un passo avanti, anche se rispetto alla proposta della Commissione c’è stato un passo indietro.

Sono state introdotte tantissime clausole per le richieste di tanti Paesi.

 È un compromesso.

La valutazione sul nuovo patto di Stabilità la faremo tra qualche anno».

No a nuove manovre.

Nel frattempo, ha aggiunto, «non c’è da fare festa, dobbiamo dire le cose come stanno», senza nascondersi — ha ammesso — che «abbiamo creato un sistema di regole complicato», che «rischia di essere pro-ciclico», cioè di aggravare eventuali recessioni, anziché risolverle.

Detto questo, però, il ministro ha assicurato che le politiche del governo «sono coerenti con quello che è previsto dal nuovo Patto» e quindi «non sono previste manovre aggiuntive».

Ma certo la musica cambia rispetto alla «allucinazione psichedelica nella quale abbiamo vissuto negli ultimi quattro anni» quando, grazie alla sospensione del patto di Stabilità conseguente all’emergenza Covid, si è «pensato di «poter fare debito e deficit».

«Ci siamo assuefatti a questo Lsd — ha ammonito Giorgetti — e dobbiamo eliminare punto per punto tutte le misure che non ci possiamo permettere».

Chiaro riferimento al Superbonus.

Sul quale ha aggiunto:

 «I dati degli ultimi mesi vanno addirittura peggio, in termini di spesa, rispetto al previsto.

Il Parlamento deciderà (su eventuali proroghe, ndr), ma so in cuor mio il limite di quello che posso fare e lo dirò in Consiglio dei ministri (nella riunione di oggi, ndr), perché questa norma ha dei risultati radioattivi che non riusciamo a gestire».

Il fondo salva-Stati.

Più in difficoltà il ministro è parso sulla riforma del Mes, il fondo europeo salva-Stati, che la Camera non ha ratificato (e l’Italia è l’unico Paese che ha detto di no) contrariamente agli auspici dello stesso Giorgetti.

Le opposizioni, che per questa divergenza rispetto alla maggioranza (è stata soprattutto la Lega, partito del ministro, a non volere la ratifica), chiedono da giorni le dimissioni del ministro, ieri sono tornate alla carica.

«Io — si è difeso Giorgetti — non ho mai detto in nessuna sede che l’Italia avrebbe ratificato il Mes».

Poi ha minimizzato: «Il Mes non è né la causa né la soluzione dei nostri problemi. Il nostro problema si chiama debito, in particolare quanto costa».

Gli oneri sul debito.

Da questo punto di vista, il nuovo patto di Stabilità mantiene l’obiettivo di arrivare a un debito non superiore al 60% del Pil (e un deficit non oltre il 3%) ma attraverso un percorso graduale (piani di rientro negoziati con la commissione di 4 anni, o 7 in caso di riforme) ed escludendo dal computo, nella fase di avvio (fino al 2027), proprio i maggiori oneri sul debito.

Non a caso Giorgetti ha sottolineato che «il 2024 non sarà toccato dalle nuove regole.

 Il Patto non può che partire dal 2025».

Anche per questo il ministro non è preoccupato per la manovra.

Anzi, sulla legge di Bilancio, in dirittura d’arrivo proprio alla Camera (l’ok definitivo è previsto per domani), ha detto che «l’esame parlamentare ha prodotto una serie di emendamenti che determinano un miglioramento di tutti i saldi di finanza pubblica».

 Le modifiche passate al Senato non hanno alterato, secondo il ministro, «la quadratura e l’impianto della manovra».

Gli attacchi.

Di parere contrario le opposizioni, su tutti i temi toccati dal ministro.

«Giorgetti — dice Piero De Luca (Pd) — ammette la responsabilità di un accordo al ribasso sul patto di Stabilità.

Si è peggiorata la proposta iniziale della Commissione, danneggiando gravemente l’Italia».

«Il ministro — aggiunge Riccardo Ricciardi, vicepresidente del Movimento 5 Stelle — parla di Lsd e di allucinazione in riferimento agli ultimi quattro anni.

Ebbene, lo stesso Giorgetti ha passato quasi tre anni al governo, prima da ministro dello Sviluppo, poi da ministro dell’Economia».

 Sul Mes c’è stato un botta e risposta con Luigi Marattin.

Il deputato di Italia viva ha chiesto:

«Il senatore Borghi ha dichiarato di aver deciso lui con Meloni il “no” al Mes.

Le chiedo chi è il ministro dell’Economia, lei o il senatore Borghi?».

 «Non so se la decisione sia stata presa con una telefonata tra Borghi e la presidente Meloni.

Tendo anche a non leggere i giornali», ha risposto Giorgetti.

Drastico il leader di Azione, Carlo Calenda:

«Giorgetti dopo aver detto che il “Mes” era positivo per l’Italia e averlo visto bocciare in Aula senza colpo ferire, su iniziativa del suo partito, dovrebbe dimettersi».

 

(Quello che stupisce i non addetti ai lavori di redazione di un Bilancio Pubblico dello Stato Italiano è che non esiste un piano contabile per l’eliminazione totale, in pochi anni, del nostro debito pubblico, ossia più di 2.600 miliardi in totale. 

L’Italia possiede un insieme di grandi banche che complessivamente creano ogni anno circa 1.500 miliardi di euro di prestiti alla clientela.

Questo credito alla clientela le banche possono farlo perché sono autorizzate a creare “denaro dal nulla” appositamente per poter fare i prestiti alla clientela”.

Ed è una cifra rispettabile: circa 1.500 miliardi di euro ogni anno!

E le banche   considerano lecito registrare detta somma come “Passivo contabile”.

Ma non si comprende il motivo per cui “la creazione del denaro dal nulla” non possa essere considerata come una fonte di ricchezza per la banca stessa, ossia un” Attivo contabile” al momento stesso della sua creazione.

Nell’ambito del controllo della finanza sui bilanci bancari risulta quindi che il “denaro creato dal nulla quale fonte di ricchezza bancaria” debba essere soggetto ad un attento esame contabile.

Oltre altri proventi di utile, risulta preponderante la cifra di 1.500 miliardi di euro da cui la banca riceve un utile pari almeno al 20 % del totale del prestito concesso alla clientela.

L’insieme delle banche private, quindi, si permette legalmente di non pagare allo stato una cifra minima totale di circa 300 miliardi di euro ogni anno!

E questo è un fatto sconvolgente in quanto non esiste una legge fiscale che permetta alle banche di “non pagare nulla” su un utile totale ricavato da almeno 1.500 miliardi di euro creati dal nulla, ma che creano un” istantaneo Utile bancario” dal momento della sua creazione! N.D.R.)

 

 

 

 

Ecco perché è stupido odiare i ricchi

 (Il Giornale).

Store.rubbettino.it - Il Giornale – (6 novembre 2012) - Ludwig Von Mises – Redazione – ci dice:

 

L’inedito del grande economista liberale.

Il risentimento verso imprenditori e capitalisti danneggia tutti e spalanca le porte agli abusi di potere.

Pubblichiamo uno stralcio de “In nome dello Stato(Rubbettino, pagg. 212, prefazione di Lorenzo Infantino; traduzione di Enzo Grillo) del grande economista liberale Ludwig Von Mises (1881-1973).

 Il testo, inedito in Italia, dal punto di vista cronologico precede e segue di poco lo scoppio della Seconda guerra mondiale.

Mises interpreta l’ascesa di Hitler nel quadro dell’avversione nei confronti della libertà individuale e del mercato, tipica di tutti i membri della famiglia del totalitarismo.

L’analisi storica quindi lascia il passo alla analisi della mentalità anticapitalistica.

 Ed è da questa parte del libro che preleviamo il capitolo offerto ai nostri lettori.

La riforma non deve cominciare dallo Stato, dal governo e dalla vita pubblica.

Ciascuno deve cominciare da sé stesso e deve essere il primo a liberarsi dal giogo del dogmatismo, che gli impedisce di usare liberamente le sue capacità mentali.

Ogni singolo individuo deve sforzarsi di affrancarsi dalle frasi fatte e dalle formule che oggi considera verità intoccabili.

 Ogni singolo individuo deve riconquistare con un duro lavoro il diritto di poter dubitare di tutto, e di non riconoscere nessuna autorità che non sia quella del pensiero logico.

Per conquistare questa libertà, occorre superare le inibizioni emotive che di solito offuscano il pensiero.

Bisogna accantonare il risentimento e la presunzione.

Il mercato dell’ordine sociale capitalistico è democrazia dei consumatori.

 Gli acquirenti sono sovrani, e la loro domanda – o la mancata domanda – orienta i mezzi di produzione nelle mani di coloro che sanno impiegarli in maniera da soddisfare i desideri e le aspettative dei consumatori nel miglior modo possibile e al minor prezzo possibile.

Che uno diventi più ricco e l’altro più povero è un risultato del comportamento dei consumatori.

Non è il crudele consumatore a rovinare l’imprenditore poco capace, ma l’acquirente che compra dove viene servito meglio e a minor prezzo.

Solo il consumatore domina nell’economia capitalistica.

 Gli imprenditori e i capitalisti sono i suoi servitori, la cui unica preoccupazione è quella di individuare i desideri del consumatore e cercare di soddisfarli con i mezzi disponibili.

 Imprenditori e capitalisti nascono da un ripetuto, quotidiano procedimento di scelta;

essi possono perdere in ogni momento la loro ricchezza e la loro posizione preminente, se i consumatori smettono di essere loro clienti.

È assurdo che il consumatore abbia invidia per la ricchezza delle persone che egli ha fatto ricche, perché ha preteso i loro servizi. Il consumatore danneggia sé stesso quando chiede provvedimenti contro il «big business».

 Chi invidia la ricchezza del proprietario dei grandi magazzini, compri pure dove ottiene una merce più scadente pagandola di più.

Tutti oggi vogliono godere di più, consumare di più, sprecare magari di più e vivere meglio, ma poi invidiano il successo di coloro che hanno fatto del loro meglio per soddisfare questi loro desideri.

Offende l’amor proprio e l’orgoglio del filisteo il fatto di dover ammettere – sia pure controvoglia – che altri sono stati più bravi a procurare tutti quei beni materiali che fanno ricca la vita esteriore.

 Lo umilia il fatto di essere riuscito a occupare nella competizione del mercato solo una posizione modesta.

E allora, per rimuovere questo malumore, escogita una particolare giustificazione. Egli non è più incapace dell’imprenditore di successo, che si è arricchito;

 è solo una persona per bene, ed è più onesto di quei signori di gran successo, ma privi di scrupoli che hanno usato pratiche delinquenziali che egli, per rimanere onesto, ha sempre disprezzato.

 Insomma pensa il nostro fariseo – io sono bravo e capace quanto quelli che sono diventati ricchi;

ma grazie a Dio sono moralmente migliore di loro, che sono il peggio, e sarebbe doveroso da parte dell’autorità punirli per le loro malefatte, sequestrando la loro ricchezza, illecitamente acquisita.

Se il governo procede contro i ricchi borghesi, può essere sicuro dell’applauso della massa.

Questa è una cosa che tanto i demagoghi e i tiranni dell’antichità, quanto i satrapi, i califfi e i cadi d’Oriente e i dittatori di oggi hanno sempre saputo.

Quando un governo non sa far diventare ricche le masse, allora è il caso di far diventare poveri i ricchi.

Tutte le volte che il filosovietico occidentale si è visto costretto ad ammettere che nella Russia dominata da Lenin e da Stalin le masse vivevano in miseria, ha sempre giocato la sua ultima carta: sì, è vero, questi russi moriranno anche di fame e di stenti, ma sono più felici dei lavoratori occidentali, perché si sono presi la soddisfazione di vedere che gli ex «borghesi» russi se la passano peggio di loro.

I francesi hanno preferito perdere una guerra anziché permettere agli imprenditori dell’industria bellica di fare profitti.

 

L’essenza del risentimento sta appunto in questo:

essere prigionieri dei sentimenti di invidia, di vendetta e di gioia perversa per il male altrui, quantunque se ne riceva un danno per sé stessi.

Non meno funesti degli effetti del risentimento sono gli effetti della presunzione, che impedisce agli individui di ammettere il diritto altrui di interloquire.

Come il risentimento, anche l’intolleranza che vuole imporre solo la propria volontà, e perciò invoca il dittatore affinché realizzi ciò che la propria volontà pretende, non è un segno di forza ma di debolezza e impotenza.

 

 

 

 

 

Sinistra e critica radicale.

Ragionipolitiche.wordpress.com – Carlo Galli -Pandora Rivista – (16 gennaio 2021) – ci dice:

 

 Nella mia formazione intellettuale la nozione di sinistra ha a che fare con l’osservazione che l’uomo sia stato reso estraneo a sé stesso e, sulla base di un giudizio negativo di questo dato, si reputi necessario restituirlo a sé stesso.

 L’estraneità di cui si parla non ha radice nel peccato originale, ma è prodotta in un luogo e in un processo sociale specifico, derivante da una determinata struttura economica.

Quindi alla sinistra si confà una capacità di analisi radicale – cioè il ricercare la radice del problema – e una forte valutazione del ruolo della politica, perché è alla politica che si affida il compito di risolverlo, di riumanizzare l’uomo.

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In questa prospettiva lo Stato può apparire come benefico ma, anche se dotato di una legittima e democratica autorità, di per sé non è sufficiente.

 È necessario che ci sia anche un partito.

La politica, infatti, non deve avere soltanto una funzione di gestione e amministrazione ma deve anche saper orientare, dirigere verso una direzione, una parte.

La sinistra, insomma, non può appoggiarsi solo sulla forza dello Stato, ma richiede anche un’idea di partito.

E non deve quindi focalizzarsi sulla diminuzione delle disuguaglianze a valle, attraverso la redistribuzione, ma deve essere la forza che interviene là dove le disuguaglianze si formano e sono brucianti, cioè nel processo produttivo – della produzione materiale e immateriale, e quindi anche nella formazione.

È infatti molto difficile che possa esistere una società equa nella redistribuzione quando persiste un dislivello insuperabile di potere e sapere fra chi controlla la produzione – e la comprende –, e chi partecipa alla fase della produzione in modo passivo.

 L’obiettivo principale della sinistra è ribilanciare una società che non è neutra, che è già divisa, squilibrata.

Dopo le tre grandi rivoluzioni del Novecento, bolscevica, fascista e socialdemocratica, alle quali la sinistra ha partecipato, contribuito o rispetto a cui è sopravvissuta, nell’ultima rivoluzione – cioè quella neoliberista, nella quale ci troviamo dal 1980 circa – la sinistra sembra essersi perduta.

Uno degli obiettivi è allora quello di riprendere le ragioni profonde, strutturali, della sinistra.

 Posto che sinistra è una parola di parte, ciò implica fornire una lettura parziale di una società che è già in sé parziale, dove per parziale si intende potenzialmente conflittuale, e in ogni caso squilibrata, ma che non lo riconosce, non lo ammette nella propria auto narrazione.

Sotto il profilo pratico, molto poco però si può fare nel panorama politico e intellettuale odierno.

 Infatti il grande tema della sinistra, cioè il lavoro, è stato squalificato a livello teorico a favore di un’interpretazione dell’economia fondata sull’individuo e sulla sua, presunta, uguale e libera scelta:

 il lavoro come fonte di valore è scomparso dalle idee e dalle politiche neoliberiste, sostituito dall’importanza del consumo.

 Il lavoro è stato poi distrutto a livello pratico, reso molto raro, quasi un privilegio, e specularmente una condanna (ai bassi salari e ai bassi diritti);

è stato infinitamente spezzettato, e ha assunto tutte le forme e tutte le mancanze di forma, tutte le articolazioni precarie e flessibili, tanto che è molto difficile pensare ad un partito unico del lavoro proprio perché non esiste l’unità del lavoro.

Per quanto riguarda i partiti, poi, i poteri che hanno governato l’ultimo quarantennio hanno voluto dimostrare l’intrinseca malvagità della nozione di partito, che a differenza dello Stato – necessario al capitalismo, ma in funzione servente – è stato fortemente denigrato perché inutile, parassitario, burocratico: da questo si sono creati partiti personali, volatili e insussistenti.

 La società è diventata non la società degli individui – come pensano gli ottimisti – ma una società senza individui;

l’individuo di per sé, d’altra parte, è diventato qualcosa che non ha società, cioè che è privo di legami sociali.

L’esito reale dentro il quale la società si trova dopo 40 anni di neoliberismo, – o ordoliberismo nel caso europeo – è la fine del legame sociale:

ciascuno è isolato, debole e non in grado di riconoscere o immaginare nella propria mente l’idea di un processo sociale che lo veda protagonista.

Nell’universale passività, non a caso prendono corpo fantasmi cospirativi, complottismi, dietrologie, allucinazioni collettive:

 mezzi con i quali si cerca di darsi una ragione di un mondo sociale che non ha ragione.

In questo contesto la sinistra avrebbe terreno fertile per mettere radici: disuguaglianza, alienazione, mancanza di risoluzione del soggetto in sé stesso e nella società, sono tutti argomenti che riguardano la sinistra.

Ma, allo stesso tempo, nessuno di coloro che hanno titolo per essere all’opposizione del sistema vigente sceglie la sinistra.

Quelli che vengono chiamati “populisti” e “sovranisti” sono precisamente coloro che avrebbero titolo a essere interni a un processo di sinistra, cioè a un processo di rafforzamento del potere dello Stato come difesa allo strapotere delle logiche private e come affermazione dei diritti dei singoli e dei ceti più deboli contro il potere sempre più efficace, ma anche sempre più contraddittorio, del capitale.

Una domanda di protezione sociale che è invece intercettata dalla destra, che naturalmente non dà una risposta corretta, ma offre soluzioni illusorie, e non va al di là di additare nuovi capri espiatori…

(L’articolo – tratto dall’intervento dell’Autore del 28 dicembre 2020 nell’ambito del ciclo seminariale «Ripensare la cultura politica della sinistra» – è stato pubblicato in «Pandora Rivista» il 16 gennaio 2021.)

 

 

 

Il politicamente corretto.

Ragionipolitiche.wordpress.com – Carlo Galli – (31 luglio 2020) – ci dice:

 

Il linguaggio politicamente corretto vuol essere soccorrevole verso gli oppressi, raddrizzatore di torti, riequilibratore della bilancia della giustizia.

Ciò che è stato stigmatizzato va riabilitato attraverso una ridefinizione rispettosa. E ciò che ha prevalso va ridimensionato.

Quel linguaggio è un universale artificiale, una neolingua, esperanto, costruito per permettere a ogni particolare di sussistere e di nominarsi, ed essere nominato, in libertà e con uguali diritti.

Un linguaggio privo di passione e di violenza, capace di sterilizzare ogni differenza nella universale indifferenza.

Uno vale uno, insomma.

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Ma questi fini e questi mezzi contengono una contraddizione:

il linguaggio politicamente corretto è pacifico e al tempo stesso aggressivo, vendicativo, intollerante:

 l’uguaglianza amorfa a cui tende è carica di unilaterale violenza.

 La sua logica normale è quella eccezionale del giudizio universale:” nihil inultum remanebit”.

 Tutti i torti vanno conosciuti, puniti e riparati.

 La colpa, l’accusa, è l’orizzonte entro il quale si colloca il politicamente corretto.

Che è politico:

è un atto di decisione fondamentale che critica il passato e lo spazza via.

È un universale immediato, e quindi è un particolare ingigantito.

 È l’espressione di una parte che si fa Tutto, che pretende di giudicare ergendo sé stessa a Legge.

È un dominio, un punto di vista elevato a potenza, che non ne ammette né legittima altri.

Ma non sempre ne è consapevole.

 Il contenuto politico del politicamente corretto è quasi sempre mascherato, e declinato attraverso la morale: l’obiettivo politico è giudicare con moralità assoluta, apodittica, sottratta al tempo e allo spazio.

La neolingua non conosce la storia, la nega, e attraverso l’anacronismo tende all’acronia.

 Si pagano colpe che non erano tali quando furono commesse; i discendenti rispondono oltre la settima generazione.

La purga linguistico-politico-morale deve essere radicale.

Il politicamente corretto ha molti tratti in comune con il razionalismo individualistico moderno:

 condivide con Hobbes l’impulso antistorico, la tesi che «all’antichità nulla sia dovuto», e col giacobinismo il parossismo livellatore che per colpire i sospetti si fa tagliatore di teste.

Condivide l’intreccio fra morale e ragione, fra neutralizzazione spoliticizzante e supremo spasmo politico della sovranità, che monopolizza la ragione per sé e nega ogni ragione a chi è fuori dal suo perimetro – e viene quindi privato di ogni valore, di ogni dignità, gettato fra i reprobi –.

E quindi non è antimoderno, come pure qualcuno ha detto: anzi, il Moderno vi esprime il proprio assolutismo, la propria efficace astrattezza.

Un Moderno ignaro della dialettica, della storia, inconsapevole del fatto che le individualità non nascono già fatte e finite ma sono l’esito di lotte e di contraddizioni, che le soggettività, le società, le istituzioni, i simboli, i linguaggi, recano in sé come propria viva sostanza, come propria drammatica concretezza.

Perse o cancellate le quali l’umana convivenza è un algoritmo che combina monadi irrelate senza passato e senza futuro.

Nel politicamente corretto la severa ideologia liberal che ne fa la propria bandiera si mostra parente dell’euforica ideologia del neoliberismo, della sua visione della società come un giustapporsi di attori individuali, che abitano un eterno presente.

Ciò che si dice del politicamente corretto sotto il profilo linguistico in senso stretto – la polizia e la pulizia del linguaggio – vale anche per quei linguaggi materiali che sono i monumenti e le architetture, attraverso i quali lo spazio pubblico viene scritto e riscritto nei secoli.

 La lotta per l’immagine e il simbolo, o contro di essi, è vecchia come l’umanità: non c’è da scandalizzarsi se avviene sotto il segno della politica, poiché ne fa parte. Si tratta ogni volta di decidere chi è meritevole di rappresentazione e chi no, perché è troppo superiore o troppo inferiore.

Ma è lecito, appunto, leggere quella lotta politicamente, e rifiutarle la patente morale che si autoassegna.

Così, se è comprensibile che non si erigano monumenti a Hitler, ma semmai alle sue vittime, è assurdo che si sia pensato di abbattere la statua di Churchill perché razzista;

 il suo spirito di dominio imperiale, venato di superiorità dell’uomo bianco, è stato vinto dai processi materiali della storia reale;

mentre ciò che conta è che quell’istinto lo ha spinto a capire che il nazismo era un nemico mortale, con cui non si poteva scendere a patti.

E se nel Nord America si abbattono le statue di Colombo ciò significa che gli eredi dei colonizzatori anglosassoni delegittimano il dominio ispanico (veramente distruttivo)?

Oppure in quelle statue abbattute è da leggersi una confessione della colpa originaria di tutti gli europei per avere scoperto l’America, espropriando i nativi (al Nord, al Centro, al Sud)?

E dopo l’autoflagellazione dell’uomo bianco quale riparazione è prevista?

La restituzione ai nativi del banale Monte Rushmore o della più impegnativa isola di Manhattan?

Oppure l’abbattimento della statua salva la coscienza, lava la colpa, e mentre afferma un dominio linguistico liberal mantiene immodificato il dominio economico liberista?

E in quest’ultima ipotesi il politicamente corretto non corre forse il rischio di ridursi a un intimidatorio gioco di potere linguistico fra élites, e di far perdere di vista questioni strutturali che la sua fiaccola illuministica lascia in un cono d’ombra?

È quindi giusto elogiare il dialogo, la divergenza d’opinioni, la tolleranza reciproca: è il minimo che si possa chiedere in una società che si dice liberale.

Ma non con l’obiettivo di neutralizzare il politicamente corretto in una più generale amorfa indifferenza;

non si tratta di ri-legittimare ogni violenza e ogni discriminazione, né di utilizzare l’ingiustizia del passato per giustificare quelle del presente.

Si tratta anzi di decifrare queste nella loro radicalità, e di impegnarsi – questo è il punto – a darne una lettura non moralistica ma storico-politica.

Di riconoscere la complessità della politica non per farne un alibi all’ignavia, ma per vedervi l’occasione di un agire emancipativo meno scontato del politicamente corretto e delle sue ritualità.

 

 

 

La leadership del “mondo libero”

 e l’attacco al diritto di voto

 negli Stati Uniti.

Transform-italia.it – (04 Agosto 2021) - Alessandro Scassellati – ci dice:

Con Biden gli Stati Uniti sono tornati a reclamare il loro tradizionale ruolo di Paese leader del “mondo libero”, ma la democrazia americana continua a non godere di buona salute.

In molti Stati, il Partito Repubblicano, ancora egemonizzato dal conservatorismo etno-nazionalista bianco di Trump e dei trumpisti, sta mettendo sotto attacco il diritto di voto, con l’obiettivo di creare le condizioni per riprendere il controllo del Congresso nelle elezioni di midterm del 2022 e di ricandidare Donald J. Trump alle elezioni presidenziali del 2024.

La “terra dei liberi”?

Quando il presidente degli Stati Uniti Joe Biden dice che “L’America è tornata” e il suo team di politica estera cerca di unire le democrazie del mondo – il cosiddetto “mondo libero” – contro una marea autoritaria crescente, questi obiettivi riflettono la convinzione, raramente messa in discussione dagli americani, che gli Stati Uniti siano in una posizione unica (il cosiddetto “eccezionalismo americano”) per svolgere questo ruolo di leadership.

L’argomento più forte a favore di questa visione è essenzialmente negativo: nessun’altra democrazia ha un potere economico o militare sufficiente per esercitare una “leadership” decisiva (comunque la si voglia definire), e nessun’altra democrazia vuole davvero svolgere questo compito.

Per coloro che sono fautori di questa visione ideologica del “destino” americano, il termine “mondo libero” si riferisce a quegli Stati che sono strutturati sulla base di una serie di istituzioni liberali:

diritti individuali, tolleranza, responsabilità attraverso elezioni libere ed eque, Stato di diritto, libertà di espressione e simili.

Esercitare la “leadership“, a sua volta, significa essere un modello attraente da emulare per gli altri o essere in grado di fare scelte politiche intelligenti, implementarle con successo e convincere gli altri a seguire l’esempio.

Il problema è che gli Stati Uniti da tempo non sono più un buon modello per altri Stati liberali. Agli americani piace chiamare il loro Paese la “terra dei liberi” (land of the free), ma gli Stati Uniti hanno il più alto tasso di carcerazione al mondo, quasi il doppio di quello della Russia.

 Il Paese si colloca solo al 28° posto nella classifica dell’Indice di progresso sociale.

L’indice annuale della democrazia del settimanale di centro-destra “The Economist” ha declassato gli Stati Uniti dalla categoria di “piena democrazia” a “democrazia imperfetta” nel 2017 e da allora li ha mantenuti in questa condizione.

Per affluenza alle urne gli USA sono solo al 26° posto nel mondo e la fiducia del pubblico nel governo è a livelli storicamente bassi.

Ancora oggi, il 25% di tutti gli americani e il 53% dei repubblicani crede che Trump abbia vinto le elezioni del 2020 e che sia il “vero presidente” e quasi la metà di tutti i repubblicani afferma che era appropriato che i legislatori statali provassero a spostare i voti elettorali a Trump negli Stati in cui Biden ha vinto.

I repubblicani che rifiutano la menzogna dell’elezione rubata, come la repubblicana” Liz Cheney”, sono stati rimossi dalle posizioni di leadership nel partito.

L’attacco dei Repubblicani al diritto di voto.

Dopo aver perso le elezioni presidenziali del 3 novembre 2020, i Repubblicani (GOP) hanno scatenato un crescente attacco al diritto di voto in America che, per ora, i Democratici non sono stati in grado di contrastare.

I Repubblicani hanno alimentato per mesi le accuse di frode elettorale della leadership del “mondo libero” e l’attacco al diritto di voto negli Stati Uniti.

(transform-italia.it - 04 Agosto 2021)

Trump, che il risultato delle elezioni presidenziali (non di quelli per la Camera dei Rappresentanti e il Senato, però) sia stato “rubato”.

 Trump continua a dominare la politica del GOP e ad affermare che la sua sconfitta sia stata frutto di brogli elettorali di massa, una bugia ripetutamente rigettata dai tribunali. Le discussioni speciose hanno comunque creato un esercito di elettori che credono erroneamente che la diffusa frode elettorale sia un vero problema.

 Ciò, a sua volta, ha apparentemente fornito ai Repubblicani un pretesto per promuovere e far approvare riforme restrittive dei diritti di voto in diversi Stati, assecondando e alimentando i timori dei bianchi che la crescente popolazione non bianca – afroamericana, latinos, asiatica – stia usurpando il loro dominio.

L’attacco dei Repubblicani al diritto di voto viene portato su due fronti: la presentazione da parte dei Repubblicani nei Congressi statali di oltre 18 Stati di più di 400 progetti di legge che hanno l’obiettivo di limitare l’accesso al voto, giustificandoli con il contrasto alla frode da parte degli elettori, ma che sono visti dalla maggior parte degli analisti come volti alla “soppressione del diritto di voto” di sezioni della popolazione – afroamericani, latinos, giovani, anziani, persone con disabilità – che tendono a votare democratico;

il ridisegno dei distretti elettorali statali sulla base dei dati demografici del censimento nazionale del 2020 forniti dal Census Bureau; ogni 10 anni, la costituzione richiede agli Stati di ridisegnare le mappe sia per i seggi congressuali che per quelli legislativi statali, affidando questo potere ai Congressi degli Stati che dovrebbero concludere questo processo entro la fine del 2021; i Repubblicani raggruppano i loro elettori in determinati distretti (creandosi delle maggioranze),mentre disperdono gli elettori democratici tra gli altri (condannandoli ad essere minoranza per i prossimi 10 anni).

Inoltre, è importante sottolineare che il Census Bureau ha annunciato a fine aprile i totali di ripartizione che determinano quali Stati guadagnano e perdono seggi al Congresso federale.

Colorado, Montana, Oregon, North Carolina e Florida guadagneranno tutti un seggio e il Texas ne aggiungerà due. California, Illinois, Michigan, New York, Ohio, Pennsylvania e West Virginia perderanno tutti un seggio.

Modifiche che sono potenzialmente destinate ad incidere negativamente sulla maggioranza democratica alla Camera dei Rappresentanti già alle elezioni di midterm del 2022.

Il presidente Biden e i Democratici hanno condannato fermamente queste manovre dei Repubblicani, ma finora non sono stati in grado di fermarle.

 Hanno presentato due progetti di legge federali (già approvati dalla Camera):

il “For the People Act” che garantirebbe la registrazione automatica e nello stesso giorno dell’elettore, porrebbe limiti alla manipolazione dei distretti elettorali e ai finanziamenti elettorali delle grandi lobby, e ripristinerebbe i diritti di voto per le persone con condanne penali; il “John Lewis Voting Rights Advancement Act,” una misura intitolata al deputato e attivista  democratico della Georgia morto nel 2020 che autorizzerebbe nuovamente le protezioni dei diritti di voto stabilite nell’era dei diritti civili, ma eliminate dalla Corte Suprema nel 2013.

 

Ma, anche se i Democratici controllano entrambe le Camere del Congresso a Washington – ma, alla Camera dei Rappresentanti la loro maggioranza è di soli 9 voti e il Senato è diviso 50-50, con la  vicepresidente Harris che dà la maggioranza ai Democratici, mentre due senatori democratici conservatori, Joe Manchin del West Virgina e Kyrsten Sinema dell’Arizona , tendono a votare con i repubblicani.

(La leadership del “mondo libero” e l’attacco al diritto di voto negli Stati Uniti.)

(transform-italia.it - 04 Agosto 2021)

I Repubblicani -, non possono approvarli, perché non hanno abbastanza voti per sbarazzarsi dell’ostruzionismo (filibustering), un’arcana regola del Senato che richiede 60 voti per far avanzare la legislazione, evitando che la minoranza (41 senatori su 100) possa bloccare la legislazione.

Per approvare il “For the People Act Biden” e i democratici dovrebbero convincere dei senatori repubblicani ad unirsi a loro.

 Tuttavia, data la continua presa di Trump sul GOP, qualsiasi senatore repubblicano che si unisse ai democratici nel sostenere il” For the People Act” probabilmente finirebbe la sua carriera politica.

Una resa dei conti sull’ostruzionismo si è profilata nei primi 100 giorni dell’amministrazione Biden, ma durante i prossimi mesi è chiaro che è inevitabile una resa dei conti che si sbarazzi della procedura.

Se il Senato non abroga o modifica la regola dell’ostruzionismo e non approva le riforme sui diritti di voto, i Democratici sono destinati a perdere il controllo della Camera e probabilmente del Senato alle prossime elezioni di midterm (novembre 2022) e forse per una generazione, con anche l’angosciante concreta prospettiva della ricanditatura di Donald Trump alle elezioni presidenziali del 2024.

Sulla base dei dati demografici del censimento nazionale del 2020, entro la fine del 2021 gli Stati devono completare il processo di ridisegno delle linee distrettuali (i collegi elettorali).

Sono i legislatori statali che hanno il potere di tracciare le nuove mappe destinate a rimanere in vigore per il prossimo decennio. Servirebbe una legge federale che fissasse nuovi limiti per impedire la pesante manipolazione delle mappe dei distretti per tornaconto di parte.

Anche se probabilmente è già troppo tardi per istituire commissioni di riorganizzazione indipendenti per quest’anno, i Democratici potrebbero ancora approvare nuove regole per imporre processi di ridisegno trasparenti, prevenendo la più grave manipolazione partigiana, il cosiddetto “gerrymandering”.

 

A metà aprile, “Chuck Schumer”, il leader democratico al Senato, aveva fissato per agosto la scadenza per l’approvazione da parte dei Democratici del loro ampio disegno di legge sui diritti di voto, che avrebbe imposto il voto anticipato, la registrazione automatica e lo stesso giorno, tra le altre misure.

“Ron Klain”, capo dello staff di “Biden”, aveva affermato che la Casa Bianca sosteneva questo sforzo.

Ma, il 23 giugno, sotto la presidenza del vicepresidente” Kamala Harris”, un voto procedurale del Senato sull’opportunità di avviare il dibattito sul “For the People Act” si è concluso come previsto con uno stallo 50-50 lungo le linee di partito. “Ogni singolo repubblicano del Senato ha appena votato contro l’inizio del dibattito – l’inizio del dibattito! – sulla legislazione per proteggere i diritti di voto degli americani”, ha detto con rabbia “Schumer”. “Ancora una volta, la minoranza repubblicana al Senato ha lanciato un blocco partigiano su una questione urgente qui al Senato degli Stati Uniti.

Una questione non meno fondamentale del diritto di voto”.

Tre membri democratici della Camera dei rappresentanti e del “Black Congressional Caucus” – “Joyce Beatty” (Ohio),” Hank Johnson” (Georgia) e “Sheila Jackson Lee” (Texas) – sono stati arrestati nel mese di luglio per aver protestato fuori dal Senato contro il ritardo dei legislatori nell’approvazione della legislazione per proteggere i diritti di voto.

Così, agosto è arrivato, la legge non è stata nemmeno discussa e il Congresso è ora in vacanza.

La finestra temporale per i Democratici di avere il maggior impatto con la loro legislazione si sta rapidamente chiudendo.

Attualmente, gli elettori registrati come repubblicani costituiscono solo circa il 25% dell’elettorato americano e quella percentuale sembra diminuire sulla scia della disgraziata uscita di Trump. Ma, le regole costituzionali ed elettorali da decenni operano a favore dei Repubblicani, dato gli Stati, la leadership del “mondo libero” e l’attacco al diritto di voto negli Stati Uniti, rurali repubblicani come il Wyoming (con circa 575 mila abitanti) ottengono due senatori proprio come quelli densamente popolati ed urbanizzati come la California (con quasi 40 milioni), e dato che gli Stati repubblicani hanno distretti che eleggono i membri della Camera che sono manipolati, dando loro circa 19 seggi in più rispetto a quelli che avrebbero senza manipolazioni.

Ora, a questo squilibrio si aggiungono le leggi statali post-Trump che hanno reso o stanno rendendo più difficile votare per gli elettori con propensioni per i Democratici e più facile per le legislature statali dominate dai Repubblicani per manipolare i conteggi dei voti.

Ammesso che i Democratici riescano ad approvare il “John Lewis Voting Rights Advancement Act”, l’efficacia di questa nuova legge dipenderebbe da un Dipartimento di Giustizia attivista, disposto a bloccare i cambiamenti statali nelle leggi elettorali che sopprimono i diritti di voto, e da una Corte Suprema attivista, disposta a sostenere tali decisioni del Dipartimento di Giustizia.

Difficile pensare che queste due cose possano avvenire.

Sotto Trump il Dipartimento di Giustizia è stato completamente soggetto ai desideri del presidente, mentre la Corte Suprema ha visto la nomina di tre relativamente giovani giudici conservatori e si è già schierata con gli Stati repubblicani, approvando (30 giugno) le misure sostenute dai Repubblicani in Arizona che una corte inferiore aveva deciso che gravassero in modo sproporzionato sugli elettori neri, latini e nativi americani.

Inoltre, una nuova legge federale sui diritti di voto non sarebbe in grado di annullare la recente ondata di leggi sulla soppressione e repressione degli elettori degli Stati repubblicani.

Secondo un osservatore acutamente critico come “Robert Reich”, parte della spiegazione per una mancata energica reazione dei Democratici all’attacco dei Repubblicani al diritto di voto “risiede in un gruppo esterno che ha quasi la stessa influenza sul Partito Democratico come su quello Repubblicano, e che non è particolarmente entusiasta della riforma elettorale:

gli interessi dei ricchi che finanziano entrambi i partiti.

Una democrazia più solida renderebbe più difficile per i ricchi mantenere basse le tasse e alti i profitti.

Così, mentre i suprematisti bianchi hanno fomentato i timori dei bianchi sull’usurpazione del loro dominio da parte dei non bianchi, i ricchi americani

hanno speso ingenti somme in donazioni per campagne e lobbisti per impedire alla maggioranza di usurpare il proprio denaro”.

L’evoluzione del Partito Repubblicano.

Il conservatorismo etno-nazionalista di Trump ha ormai permeato interamente il Partito Repubblicano. Già nel 2018, i candidati repubblicani per i governatorati in Florida e Georgia avevano condotto due delle campagne più esplicitamente razziste degli ultimi decenni e (seppure di poco) avevano vinto.

Con Trump e i trumpiani si è completato lo spostamento degli elettori bianchi conservatori del sud dal Partito Democratico verso il Partito Repubblicano, iniziato negli anni ’60 – per la prima volta tentato dal candidato alla presidenza “Barry Goldwater” nel 1964 e poi praticato con la “strategia del sud” da Richard Nixon nel 1968 e 1972 con il supporto di “Strom Thurmond”, il famigerato senatore

segregazionista della Carolina del Sud – allorquando il Partito Democratico è diventato più liberale progressista e ha approvato la legislazione sui diritti civili.

La presidenza di Trump è stata anche il prodotto finale dell’evoluzione del Partito Repubblicano durata oltre un quarto di secolo (avviata dall’ex presidente della Camera, “Newt Gingrich”, e da personaggi come “Pat Buchanan” e il conduttore di talk-show radiofonici” Rush Limbaugh” nei primi.

La leadership del “mondo libero” e l’attacco al diritto di voto negli Stati Uniti che lo ha portato da essere l’aggregatore politico di un blocco conservatore di interessi sociali diversificati all’essere lo strumento politico di una fazione della destra radicale che ha messo da parte la componente moderata (dei McCain e dei Bush Sr.) per perseguire l’idea di conquistare il potere assoluto e rendere l’America uno Stato monopartitico governato da persone dedite ai tagli fiscali per i ricchi e le grandi corporations, alla deregolamentazione di lavoro e ambiente, alla soppressione del voto delle minoranze e alla saturazione dei tribunali federali con giudici disposti ad annullare il contratto sociale dell’era del New Deal/diritti civili.

Un movimento radicale che crede che la libertà – definita principalmente come uno Stato “leggero” senza tasse punitive sui ricchi – sia più importante della democrazia, che la democrazia (con le sue regole consuetudinarie e norme scritte) minacci la libertà, permettendo a molti di derubare i pochi.

Trump ha portato alle estreme conseguenze questo progetto, passando gran parte dei suoi anni di presidenza a estendere i poteri dello Studio Ovale a scapito delle altre istituzioni statali e ad infrangere le norme e le tradizioni che hanno definito a lungo la democrazia americana.

Trump ha anche accentuato l’identità del Partito Repubblicano attorno al nazionalismo bianco, che considera uomini, donne e bambini dalla pelle scura parte di una umanità degradata e come tale privi di qualsiasi valore intrinseco e indegni di protezione.

Trump ha paragonato uomini, donne e bambini centro-americani immigrati a parassiti che vogliono “infestare il nostro Paese“.

Lo si è potuto vedere quando il suo fidato collaboratore, “Stephen Miller”, ha dipinto i migranti come minacce, non candidati all’asilo quanto piuttosto all’incarcerazione.

Il 3 novembre 2020 gli americani hanno votato, oltre che per eleggere il presidente, anche per 35 seggi senatoriali, per il rinnovo della Camera dei Rappresentanti e di alcuni governatorati statali.

I Democratici speravano che sarebbero stati puniti i deputati e i senatori repubblicani che hanno permesso che prendessero piede quelle modalità autoritarie e anti-democratiche di gestione del potere che hanno caratterizzato gli anni di Trump.

 “Biden” è stato in grado di ottenere i voti necessari degli elettori con elevati livelli di istruzione dei sobborghi (ad Atlanta, Detroit, Milwaukee,

Philadelphia e Phoenix), ma molti di questi elettori, tradizionalmente repubblicani, hanno votato in modo disgiunto, votando per un candidato repubblicano al Senato e alla Camera.

Nonostante Biden abbia guadagnato voti tra gli elettori bianchi non istruiti nel Midwest rurale, i guadagni dei candidati democratici al Congresso sono stati minimi.

I Democratici moderati hanno accusato la sinistra interna di essere la vera responsabile della debacle parlamentare per aver agitato parole e temi come “socialismo”, “Medicare for all” e “definanziare la polizia” (slogan del movimento “Black Lives Matters”), mentre la” Ocasio-Cortez” ha sostenuto che la causa era da identificarsi nella piattaforma eccessivamente moderata del partito.

Difficile far coabitare centristi (come il senatore del West Virgina Joe Manchin o quella dell’Arizona Kyrsten Sinema o quello del Montana Jon Tester) e progressisti (come Sanders e Ocasio-Cortez) all’interno dello stesso partito.

A causa di un sistema elettorale federale basato sulla rappresentanza statale e di distretto e non direttamente sul voto popolare, e del “gerrymandering”, per vincere le elezioni i Democratici non solo devono vincere avendo una sorta di super maggioranza a livello nazionale, ma devono adattare il loro messaggio politico ai diversi contesti territoriali.

 I centristi moderati, la corrente maggioritaria del Partito Democratico, pensano di dover correre a destra per ottenere la super maggioranza, per catturare gli elettori di centro-destra dei sobborghi che essenzialmente sono benestanti e repubblicani. Ma, correndo a destra, non solo si finisce per La leadership del “mondo libero” e l’attacco al diritto di voto negli Stati Uniti, abbracciare politiche neoliberiste distruttive per la coesione del Paese, si mette a repentaglio l’entusiasmo della stessa base popolare democratica delle lower-middle e working classes.

Il partito è bloccato in questo dilemma, e i centristi non sono disposti ad affrontarlo, perché hanno una storia intrinseca di attacchi alla sinistra che risale alla Guerra Fredda.

I Democratici puntavano a togliere la maggioranza ai Repubblicani al Senato (che era di 53 a 47), cercando di guadagnare almeno 3 seggi.

 Invece, i risultati del 3 novembre hanno portato ad un rapporto di forze favorevole, anche se non definitivo – 50 a 48 – per i Repubblicani.

Mitch McConnell, il leader repubblicano al Senato, che ha perseguito una linea improntata all’ostruzionismo più totale durante la presidenza Obama e ha appoggiato le scelte di Trump, è stato rieletto e non ha pagato alcun prezzo politico.

Per il controllo del Senato sono diventate cruciali le elezioni per i ballottaggi dei due seggi senatoriali della Georgia il 5 gennaio 2021.

 La vittoria (in parte inaspettata) dei candidati democratici ha portato ad un controllo del Senato da parte del Partito Democratico, grazie al voto della vicepresidente Harris, consentendo a Biden di combattere le “grandi battaglie del nostro tempo” di cui ha parlato mentre delineava sei priorità chiave: il coronavirus, l’economia, l’assistenza sanitaria, “la battaglia per ottenere la giustizia razziale e sradicare il razzismo sistemico“, la crisi climatica e “la battaglia per ripristinare la decenza, difendere la democrazia e dare a tutti in questo Paese una giusta possibilità”.

Alla Camera, dove i Democratici avevano conquistato un’ampia maggioranza nel 2018 (232 contro

197) e puntavano ad ampliarla, hanno mantenuto il controllo (222 contro 213), nonostante importanti sconfitte in Florida, Nord Carolina, New York e Minnesota. Se nelle file dei democratici si è irrobustita l’ala progressista (con figure come Cory Bush, Jamaal Bowman, Ritchie Torres, Mondaire Jones, etc.), in quelle dei repubblicani si è ampliata l’ala della destra più radicale (con figure come Madison Cawthorn, Marjorie Taylor Greene e Laureen Boebert).

Se il Senato rimane bloccato dal filibustering gestito dai Repubblicani e Biden continuerà ad avere le mani legate, la Camera controllata dai Democratici diventerà sempre più insoddisfatta e intollerante, alimentando così la ribellione nell’ala sinistra del partito, soprattutto proveniente da Stati molto progressisti come California e New York.

Per Biden una delle questioni cruciali sarà la futura evoluzione politica di Trump e del Partito Repubblicano. Durante la sua presidenza, Trump ha rimodellato a sua immagine il Partito Repubblicano e per quattro anni i repubblicani gli hanno assicurato la loro incrollabile lealtà.

 Lo

hanno protetto dagli impeachment, hanno tacitamente approvato quando al confine con il Messico i bambini sono stati separati dai genitori e messi in gabbie, e hanno guardato dall’altra parte mentre gli americani che protestavano pacificamente venivano gasati per dare a Trump un’opportunità fotografica.

Le elezioni del 3 novembre 2020 hanno dimostrato che Trump e il trumpismo, il movimento politico sociale radicale che lo aveva portato alla presidenza nel 2016 e sostenuto durante i 4 anni di presidenza, sono ormai una parte fondamentale della società americana con cui dover fare i conti.

Trump ha ottenuto circa 74 milioni di voti (il secondo più alto totale nella storia americana), pari al 47,2% dei voti a livello nazionale, vincendo in 25 Stati su 50, inclusi Florida e Texas. Ha dimostrato di avere una presa straordinaria su vasti territori (i red States) e una connessione viscerale con milioni di sostenitori che ha prodotto una devozione quasi simile a un culto di una religione della La leadership del “mondo libero” e l’attacco al diritto di voto negli Stati Uniti.

Sfiducia e risentimento verso lo Stato e tutto ciò che è pubblico, la politica mainstream (regole basilari della democrazia, partiti, istituzioni, stampa, organizzazioni di rappresentanza, cultura, accademica), la globalizzazione, e i valori tradizionali americani come il fair play istituzionale, il pragmatismo, lo Stato di diritto e la libertà di stampa.

Ciò nonostante Trump è stato sconfitto, diventando uno dei soli quattro presidenti nell’era moderna a non avere vinto un secondo mandato.

Non è riuscito a espandere il suo sostegno elettorale oltre la sua base adorante e, francamente, non si è neanche sforzato di farlo, rimanendo un presidente deliberatamente divisivo.

 Il malcontento, la rabbia, l’odio e la paura (della globalizzazione, del declino economico, delle disuguaglianze, delle discriminazioni razziali, della “sostituzione” della popolazione bianca, etc.) con cui hanno convissuto la maggior parte degli americani dopo la crisi finanziaria nel 2008 e che hanno portato Trump al potere nel 2016 non sono scomparsi.

La sensazione di milioni di cittadini americani (soprattutto uomini bianchi appartenenti alla classe lavoratrice e all’America rurale) di essere stati abbandonati, lasciati fuori e soli, ignorati o liquidati come “deplorevoli” è ancora forte.

Secondo il “Brookings Institute”, Biden ha conquistato 477 contee grandi, urbane, suburbane e densamente popolate che rappresentano il 70% dell’economia americana, mentre la base elettorale di Trump comprende 2.497 contee che rappresentano solo il 30% e che sono più bianche e meno istruite, comprendono soprattutto piccole città e aree rurali in difficoltà.

Finché gli americani bianchi poveri avranno poche speranze di una vita migliore, continueranno a cercare un leader come Trump, anche se poi realmente, a parte il razzismo, la xenofobia anti-immigrati, lo sdoganamento di una comunicazione un politically correct e il bigottismo religioso, Trump non ha avuto nulla da offrire a loro. La prova è stata la riforma fiscale voluta da Trump che ha rappresentato l’ennesimo regalo a favore dei ricchi e delle grandi corporations e poco o nulla ha inciso sulla condizione economica del ceto medio e delle working classes bianche. Finché non si affronteranno le profonde fratture e disuguaglianze che si sono create nella politica e società americana negli ultimi decenni, è assai probabile che gran parte dell’America rossa e del blocco sociale radical-conservatore che Trump è arrivato a dominare, anelerà un suo ritorno.

 Trump continuerà a essere la figura dominante nel movimento radical-conservatore anche negli anni a venire.

Il trumpismo potrebbe finire per avere lo stesso effetto trasformativo sul conservatorismo americano del reaganismo.

I precedenti che Trump ha stabilito, i dubbi che ha seminato e le affermazioni che ha fatto rimarranno.

Trump rimarrà una figura profondamente polarizzante e potrebbe candidarsi di nuovo nel 2024, parlando delle stesse teorie del complotto sulla frode elettorale e sulle elezioni che gli sono state rubate nel 2020.

Questo significa che la frattura politica della società americana, che non è solo ideologica, ma anche frutto di una divisione di classe e di una polarizzazione rurale-urbana, potrebbe diventare più profonda e più a lungo termine.

 Con il Partito Repubblicano e una grossa fetta degli elettori dalla sua parte, Trump – come leader de facto dell’opposizione, tweeter freelance, star di

talk show o barone dei media – continuerà ad attirare enormi livelli di attenzione e sostegno, che utilizzerà per pressare ed indebolire i democratici, svergognare pubblicamente deputati e senatori repubblicani per spingerli a combattere Biden su tutto, e per lanciare lo stesso messaggio stizzoso, controfattuale, noi-contro-gli-esperti-e-tutti-gli altri che ha diffuso nei quattro anni di presidenza.

 Tra l’altro è importante sottolineare che i sei Stati altalenanti che hanno dato a Biden le elezioni del 2020 – Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Georgia, Arizona e Nevada – hanno tutti dei Congressi controllati dai repubblicani e la maggior parte ha governatori repubblicani. Sono queste legislature che promulgano le leggi che influenzano più direttamente la maggior parte degli americani – bloccando le misure per combattere il Covid-19, privando i voti delle minoranze e dei giovani elettori, ridisegnando i distretti elettorali statali, rinnovando gli assalti all’autonomia sessuale e riproduttiva e, in generale, ripristinando l’egemonia maschile bianca tradizionale.

Allo stesso tempo, è anche possibile che emerga un nuovo leader più giovane, un politico più capace, più disciplinato sul piano politico-organizzativo e con un messaggio ideologico più inclusivo (ad esempio, meno esplicitamente razzista e sessista, più “pro-lavoratore” e pro-classe media).

 Figure come i senatori Ted Cruz, Tom Cotton, Marco Rubio, Josh Hawley o Lindsey Graham, o il deputato texano Dan Crenshaw, o il governatore della Florida, Ron DeSantis, un fedele alleato di Trump, o l’ex vicepresidente Mike Pence o Mike Pompeo, l’ex Segretario di Stato di Trump, o ancora Nikki Haley, l’ex ambasciatrice all’ONU.

Oppure, la base trumpiana potrebbe spostarsi completamente verso i teorici della cospirazione, i vigilantes armati, un rinato “Ku Klux Klan”.

 Si potrebbe entrare in uno scenario pericoloso in cui l’incapacità del governo Biden di implementare delle policies o la rabbia dei repubblicani per i tentativi del governo Biden di farlo, non farà che intensificare la già viziosa polarizzazione del Paese, riducendo ulteriormente le possibilità di cooperazione e, possibilmente, portando alla violenza.

Infine, è assai improbabile che si apra una battaglia interna per la direzione futura del Partito Repubblicano tra la fazione radicale guidata da Trump e quei pochi leader rimasti della componente centrista-moderata – come Mitt Romney, senatore per lo Utah – sopravvissuti in silenzio agli anni di presidenza di Trump. Questi moderati, però, potrebbero decidere di (o essere costretti ad) abbandonare il partito e fare un’alleanza bipartisan con Biden in cambio di incarichi governativi e di un riformismo molto, molto moderato. Se i repubblicani moderati devono gestire il difficile rapporto con l’ala della destra radicale trumpiana, Biden deve gestire il complesso rapporto con l’ala democratico-socialista di Sanders, Ocasio-Cortez e Warren, e un accordo bipartisan con i repubblicani moderati potrebbe dare a Biden i voti sia alla Camera sia al Senato per far passare alcune riforme (seppure molto moderate) o il piano di investimenti nelle infrastrutture.

L’attacco al diritto di voto da parte degli Stati controllati dai Repubblicani

In 23 Stati degli USA – tra cui Arkansas, Florida, Idaho, Iowa, Kentucky, Louisiana, Michigan, Montana, North Carolina, North Virginia, Oklahoma, South Carolina, Tennessee, Texas, Utah – i Repubblicani detengono il governatorato e il controllo del Congresso, dando al Partito un potere quasi totale per far avanzare le sue politiche. Nel 2021, i Repubblicani hanno usato questo potere per spingere in modo aggressivo la loro agenda sociale conservatrice, mirando all’accesso all’aborto, ai diritti dei transgender, al controllo delle armi e al diritto di protesta in luogo pubblico, nonché alle leggi di voto.

La Costituzione conferisce poco potere al livello federale nel campo della legislazione sul voto, riservando le competenze quasi esclusivamente agli Stati. Secondo il “Brennan Center for Justice”, a metà maggio 14 Stati avevano emanato 22 leggi restrittive del diritto di voto.

 A metà luglio gli Stati sono diventati 18 e le leggi 30.

Questo, anche se c’è da dire che almeno 25 Stati hanno promulgato 54 leggi con disposizioni per ampliare l’accesso al voto.

I Congressi statali controllati dai Repubblicani stanno rendendo più facile possedere una pistola che votare, ha detto “Schumer”.

Stanno rendendo più difficile votare in anticipo, più difficile votare per La leadership del “mondo libero” e l’attacco al diritto di voto negli Stati Uniti.

Più difficile votare per posta, più difficile votare dopo il lavoro. Stanno rendendo un crimine dare cibo o acqua agli elettori che aspettano in lunghe file.

 Stanno cercando di rendere più difficile per gli afroamericani e i latinos che frequentano una chiesa di votare di domenica. E in realtà stanno rendendo più facile per giudici non eletti e commissioni elettorali partigiane ribaltare i risultati di un’elezione, aprendo la porta a un demagogo di tipo trumpiano, forse lo stesso Trump, per cercare di sovvertire le elezioni nello stesso modo in cui Trump ha provato a fare nel 2020.

Il primo Stato ad approvare leggi restrittive del diritto di voto è stata la Georgia, dopo che lo Stato ha registrato un’affluenza record alle elezioni di novembre 2020 e ai ballottaggi al Senato federale del gennaio 2021, comprese le impennate tra gli elettori neri e di altre minoranze. Il 25 marzo il governatore repubblicano “Brian Kemp” ha firmato una legge che Biden ha definito “Jim Crow nel 21° secolo“, un riferimento al sistema di segregazione razzista che è rimasto in vigore per 100 anni dopo la guerra civile (1865-1965).

 La legge impone nuove e radicali restrizioni all’accesso al voto nello Stato che rendono più difficile il voto per corrispondenza e danno al legislatore statale più potere sulle elezioni.

Richiede agli elettori di presentare le informazioni sull’identità sia con una richiesta di voto per corrispondenza che con il voto stesso.

Limita l’uso delle urne elettorali per il voto in “absentia”, consente sfide illimitate alle qualifiche di un elettore, riduce il periodo di ballottaggio da nove a quattro settimane e riduce significativamente la quantità di tempo a disposizione degli elettori per richiedere un voto per corrispondenza.

Una misura nella legge vieta di fornire cibo o acqua alle persone in fila per votare (introdotta anche in Arkansas).

I legislatori Repubblicani del Texas hanno usato il parafulmine dell'”integrità elettorale” per introdurre almeno 49 progetti di legge con disposizioni di voto restrittive nel 2021 (29 cercavano di creare nuove barriere al voto creando o potenziando anche le sanzioni penali ad esse collegate), il numero più alto di qualsiasi Stato negli Stati Uniti.

In particolare, il Congresso statale controllato dai Repubblicani ha deciso di approvare il disegno di legge omnibus, noto come SB7, che rende più difficile votare in uno Stato già famigerato per essere il luogo dove è più difficile votare a livello nazionale. L’SB7 elimina misure come il voto drive-through e limita le ore del voto anticipato. Dà anche potere agli osservatori/scrutatori partigiani delle votazioni, alimentando preoccupazioni per le tattiche di intimidazione in uno Stato con una lunga storia di vigilantismo razzista.

I due repubblicani che hanno messo insieme l’SB7, il senatore “Bryan Hughes” e il deputato “Briscoe Cain”, hanno definito il disegno di legge “uno dei progetti di riforma elettorale più completi e sensati” nella storia dello Stato.

“Greg Abbott”, il governatore repubblicano del Texas, ha detto che lo avrebbe firmato. I legislatori Democratici del Texas hanno organizzato una protesta, abbandonando le aule parlamentari dello Stato, nel tentativo di bloccare l’approvazione di questa e altre leggi restrittive.

Hanno detto anche che ricorreranno in tribunale (fino alla Corte Suprema, se necessario), mentre anche imprese locali, Camere di Commercio e alcune delle principali società nazionali – tra cui Etsy, American Airlines, Warby Parker, Microsoft e molte altre – hanno invitato i membri del Congresso del Texas ad opporsi a qualsiasi cambiamento che renderebbe più difficile votare. I Repubblicani si sono scrollati di dosso tali obiezioni.

Joe Biden ha condannato come “sbagliato e non americano; nel 21° secolo, dovremmo rendere più facile, non più difficile, votare per ogni elettore idoneo”. Secondo il presidente, il disegno di legge del Texas “attacca il sacro diritto di voto“, in particolare tra le minoranze. Le modifiche, infatti, potrebbero limitare in modo sproporzionato il diritto di voto dei texani anziani e diversamente abili, nonché degli elettori di colore e degli abitanti delle città.

L’SB7 impone una pesante revisione del sistema elettorale in Texas, che interessa quasi ogni area del codice elettorale, ma che in particolare prende di mira a eliminare o limitare fortemente pratiche di voto specifiche che si sono verificate in luoghi specifici dove gli elettori democratici sono in maggioranza.

In Michigan, dopo che Trump ha perso per un pelo uno degli Stati chiave dove c’è stata un’affluenza record, i Repubblicani hanno deciso di muoversi per attuare ampie restrizioni per limitare l’accesso alle urne. Ad aprile hanno annunciato l’intenzione di utilizzare una manovra procedurale poco usata e anti democratica per aggirare un veto del governatore democratico e promulgare una legge elettorale che contiene pesanti restrizioni al voto.

 Vogliono approfittare di una stranezza prevista dalla legge del Michigan che consente agli elettori di inviare un disegno di legge al legislatore se poco più di 340 mila elettori firmano una petizione chiedendo loro di accoglierla.

 A questo tipo di disegni di legge non può essere posto il veto dal governatore.

Le proposte repubblicane includono misure incredibilmente restrittive del diritto di voto, anche se ritardate rispetto ad altre misure che gli Stati stanno prendendo in considerazione. Un disegno di legge vieta al Segretario di Stato del Michigan non solo di inviare le domande di voto per corrispondenza a tutti gli elettori, ma impedisce anche di fornire un link su un sito web statale a una richiesta di voto per corrispondenza.

Un’altra proposta non consente agli elettori di utilizzare le urne per il voto in “absentia “dopo le 17.00 del giorno prima del giorno delle elezioni.

Una misura diversa richiederebbe agli elettori di fare una fotocopia del proprio documento d’identità (che negli USA non è obbligatorio) e di inviarlo per posta per votare.

Riuscire ad approvare nuove restrizioni del diritto di voto è urgente per i Repubblicani perché stanno per perdere uno dei loro più potenti vantaggi nella legislatura statale. Un decennio fa, i Repubblicani hanno manipolato i confini dei distretti elettorali in modo tale da garantire virtualmente che avrebbero ottenuto la maggioranza dei seggi.

Quella manipolazione, chiamata “gerrymendering”, ha permesso ai repubblicani di controllare la legislatura dal 2011.

Ma nel 2018, gli elettori hanno approvato a stragrande maggioranza una misura elettorale per privare i legislatori della loro capacità di ridisegnare i distretti, dando il potere a una commissione indipendente. Con la commissione destinata a disegnare nuovi distretti entro la fine dell’anno, le nuove restrizioni potrebbero essere l’ultimo tentativo dei Repubblicani di distorcere le regole di voto per dare loro un vantaggio nelle elezioni. Inoltre, sempre nel 2018, gli elettori hanno approvato a stragrande maggioranza un emendamento costituzionale per espandere il voto per corrispondenza nello Stato, un diritto che ora i Repubblicani stanno cercando di limitare se non di annullare con le loro riforme.

Un cittadino un voto, ma ognuno con un peso diverso: il meccanismo del “Collegio Elettorale Nazionale”.

Nel 2016, Donald J. Trump è diventato il 45mo presidente degli Stati Uniti vincendo nel Collegio Elettorale Nazionale, ma essendo stato sconfitto nel voto popolare per circa 2,8 milioni di voti, con solo il 46,4% (nel 2000 George W. Bush vinse le presidenziali in un modo simile).

Il meccanismo del “Collegio Elettorale Nazionale” conferisce un potere sproporzionato agli Stati rurali più piccoli, che sono quasi invariabilmente poco popolati e conservatori.

Ogni Stato riceve un numero di grandi elettori pari al numero dei membri della Camera dei Rappresentanti provenienti da quello Stato, più due aggiuntivi (come due sono i senatori di ogni Stato a prescindere dalla popolazione), in questo modo il potere di voto effettivo degli Stati più piccoli viene triplicato.

La Clinton è stato il quarto candidato – dopo Samuel Tilden (1876), Grover Cleveland (1888) e Al Gore (2000) – a perdere il collegio elettorale vincendo il voto popolare.

Nel 2016, Trump ha rovesciato l’establishment neoconservatore repubblicano (battendo 16 rivali nelle primarie e riuscendo nell’impresa già tentata dal businessman miliardario “Ross Perot” nel 1992 e nel 1996 con un terzo partito) e fatto una campagna elettorale anti-globalizzazione all’insegna di slogan come America first! (già utilizzato dall’anti-globalista e nazionalista di destra “Pat Buchanan” negli anni ’90 e soprattutto dal movimento filo-nazista americano negli anni immediatamente precedenti all’entrata degli USA nella Seconda Guerra Mondiale), “fare di nuovo grande l’America” (già utilizzato da Reagan nella campagna del 1980) e “riportare in America i posti di lavoro che ci

hanno rubato”, raccogliendo voti di maschi bianchi bene educati appartenenti ai ceti medi alti attratti dalla promessa di una riduzione del carico fiscale, di operai bianchi impoveriti e impauriti, di giovani disoccupati, di lavoratori con un background di immigrazione terrorizzati dalla concorrenza sul mercato del lavoro da parte di nuovi immigrati.

A portare Trump alla Casa Bianca è stata la sua immagine di paladino delle middle and working classes e della middle America, e i voti degli (ex) operai bianchi del Michigan, Pennsylvania e Wisconsin (dove Trump ha vinto, rispettivamente, per 10.705 voti, 44.292 voti e 22.748 voti, ossia per un totale di 77.744 voti che gli hanno dato la maggioranza nel “Collegio Elettorale Nazionale”) sono stati decisivi, rendendo irrilevanti i milioni di voti della Clinton negli Stati di New York e California.

“Tutte le decisioni verranno prese nell’interesse dell’America. Commercio, immigrazione:

farò ogni scelta tenendo conto dei nostri, i vostri interessi. Siete stati dimenticati troppo a lungo. Io non lo farò. America First!”

Alle elezioni di midterm del 2018, Trump aveva condotto in prima persona una campagna elettorale all’insegna del noi-contro-loro, costruita sui temi della paura dell’immigrazione, del nazionalismo, del protezionismo economico e culturale, e delle contrapposizioni razziali, nel tentativo di salvare il controllo repubblicano del Congresso per i restanti due anni del suo mandato.

 L’affluenza record (31 milioni di votanti in più dei 114 milioni del 2014) ha dimostrato la sua capacità di infiammare la sua base e di galvanizzare l’opposizione.

I Democratici avevano vinto il voto popolare a livello nazionale

di oltre l’8% alle elezioni per la Camera (secondo il “Brookings Institution”, i distretti in cui hanno vinto i Democratici producono oltre il 60% del PIL americano) e hanno avuto 11 milioni di voti in più a quelle per il Senato, nelle quali però i Repubblicani hanno potuto uscire complessivamente vincenti perché uno Stato rurale conservatore quasi disabitato, come il “Wyoming” – circa 575 mila abitanti ha la stessa rappresentanza – due seggi – della progressista California, dove vivono 39 milioni di persone.

Un sistema elettorale sbilanciato che, grazie al “Collegio Elettorale Nazionale” (previsto dall’articolo 2 della Costituzione) per le elezioni presidenziali, dà un potere sproporzionato alla parte perdente in termini di numero dei voti dei cittadini.

 L’esistenza del “Collegio Elettorale Nazionale è frutto del compromesso politico raggiunto tra i 13 Stati originari che costituirono l’Unione nata con la Costituzione del 1787.

Questi Stati si unirono a condizione che fosse istituito un governo presidenziale espressione paritaria delle entità statali componenti.

All’origine quel compromesso tenne insieme Stati grandi e piccoli (addirittura con un conteggio che ponderava gli schiavi meno dei bianchi) e, dopo la Guerra Civile, ha consentito la riunificazione del Paese purché gli Stati perdenti della Confederazione continuassero a pesare come quelli nordisti, a mantenere l’autonomia statale prevista in Costituzione ed a preservare il meccanismo doppio, popolazione (il voto popolare) e Stati, nelle elezioni presidenziali. Per cui, il sistema elettorale presidenziale è fondato sulle scelte maggioritarie Stato per Stato e il presidente non rappresenta solo i cittadini americani, ma ancor più gli Stati.

Quando gli americani votano per il presidente, in realtà votano per un rappresentante del partito di quel candidato che diviene un grande elettore.

 I grandi elettori sono 538 e votano per il presidente a nome del popolo del loro Stato. Ad ogni Stato viene assegnato un certo numero di questi grandi elettori (minimo 3), in base al numero di distretti congressuali che hanno (ossia del numero dei rappresentanti alla Camera, riflettendo solo in parte la distribuzione della popolazione), più due voti aggiuntivi che rappresentano i seggi del Senato dello Stato. Washington DC riceve tre voti elettorali, nonostante non abbia una rappresentanza elettorale al Congresso.

Per vincere la presidenza è necessaria una maggioranza di 270 dei voti grandi elettori. I grandi elettori vengono assegnati quasi sempre (ad eccezione di Maine e Nebraska che hanno adottato il “metodo del distretto congressuale“) con un sistema “winner-takes-all, per cui il candidato con il maggior numero di voti in uno Stato ottiene tutti i voti dei grandi elettori di quello Stato.

 Ciò significa che un candidato ha bisogno di un solo voto in più di qualsiasi altro candidato per conquistare tutti i grandi elettori dello Stato.

Ad esempio, nel 2016, Trump ha battuto la Clinton in Florida con un margine di appena il 2,2%, ma ciò ha significato che ha ottenuto tutti i 29 voti del

Collegio Elettorale Nazionale cruciali della Florida.

Per come è strutturato, questo sistema favorisce una sovra rappresentanza della minoranza rurale, che è geograficamente dispersa sul territorio, seppure concentrata soprattutto negli Stati centromeridionali (originariamente gli Stati schiavisti) con bassa densità di popolazione, prevalentemente

repubblicana, cristiana, anziana, bianca e senza un diploma universitario (e spesso alleata con la classe media suburbana bianca), rispetto alla crescente e diversificata (per classe sociale, genere, cultura, fede religiosa ed etnia) maggioranza che vive nelle piattaforme urbane e metropolitane e che è prevalentemente democratica, ha un maggiore livello di istruzione ed è più giovane.

Il Wyoming ha un voto per il Collegio Elettorale Nazionale ogni 193 mila persone, mentre la California un voto ogni 718 mila persone. Ciò significa che ogni voto elettorale in California rappresenta oltre il triplo di persone rispetto a uno nel Wyoming.

Queste disparità si ripetono in tutto il Paese.

È quindi un sistema che è costantemente a rischio di perdere legittimità agli occhi dei cittadini, considerando anche che entro il 2040, il 70% degli americani vivrà nei 15 Stati più fortemente urbanizzati, con circa il 40% in soli 5 Stati che saranno rappresentati solo da 10 senatori. Il che significa che, se il sistema non verrà modificato, il 30% degli americani eleggerà 70 dei 100 senatori.

Tuttavia, tutte le volte che sono state avanzate proposte per eleggere il presidente con il voto diretto dei cittadini e riequilibrare la composizione del Senato, le iniziative sono state bocciate da un Senato che non vuole spogliarsi delle sue prerogative. D’altra parte, per modificare con un emendamento la Costituzione – ma l’unico articolo immodificabile della Costituzione è quello che prevede che ogni

Stato non può essere privato del diritto di avere due senatori – occorre l’iniziativa dei due terzi di entrambi i rami del Congresso e per ratificarlo il voto dei tre quarti degli Stati, condizioni che molto probabilmente non potranno essere mai raggiunte.

Molti osservatori ritengono che le polarizzazioni e le fratture tribali e politico-culturali nella società americana che Trump ha personalmente evocato, favorito e cavalcato durante la sua presidenza come nessun presidente ha mai fatto da prima dell’era dei diritti civili, arrivando a fomentare il tentativo di colpo di Stato del 6 gennaio 2021 da parte dei suoi fedeli “patrioti”, dureranno sicuramente a lungo.

Trump aveva trasformato le elezioni presidenziali del 3 novembre 2020 in una sorta di referendum su sé stesso e le sue distopie politiche.

 Si è autodescritto come un “nazionalista” e ha demonizzato i Democratici, accusando che “l’agenda democratica produrrà un incubo socialista, riducendo

l’America come il Venezuela”.

Ma, Biden, attento a non ripetere gli errori della Clinton nel 2016, ha profuso la sua attenzione sul trio di Stati della “rust belt” che avevano dato la vittoria a Trump:

Pennsylvania, Wisconsin e Michigan.

Ha ricostruito il “blue wall” del Midwest che Trump aveva in parte abbattuto nel 2016, ma ha anche colto le opportunità per cambiare il panorama elettorale tradizionale, vincendo in bastioni repubblicani come Arizona e Georgia.

Biden ha detto di voler essere “un presidente che non cerca di dividere, ma di unire“, di voler “restaurare l’anima dell’America, ricostruire la spina dorsale della nazione, la classe media, e rendere di nuovo l’America rispettata nel mondo“. “Per fare progressi, dobbiamo smetterla di trattare i nostri avversari come nostri nemici. Non siamo nemici. Siamo americani.”

Un appello che deve fare i conti con le profonde disuguaglianze economiche e sociali presenti nella società americana e con il fatto che il “popolo di Trump” ha dimostrato di essere vivo e pronto a resistere e combattere in vista delle elezioni del 2022 e 2024, con il rischio che la presidenza del centrista moderato Biden si riveli solo una tregua temporanea.

 

 

 

 

Chi sono i manager

più pagati d’Italia.

Lespresso.it – Vittorio Malagutti – (13 aprile 2023) – ci dice:

In testa alla classifica l’ad di “Stellantis”, “Carlos Tavares”.

 Il suo compenso di 23 milioni di euro ha ricevuto proprio oggi il via libera degli azionisti del gruppo.

Sul podio della graduatoria elaborata dell’Espresso, anche “Marco Gobbetti” di “Ferragamo” e il banchiere “Giovanni Tamburi.

È “Carlos Tavares” il manager più pagato della Borsa italiana. Tra stipendio e bonus vari, l’amministratore delegato di” Stellantis” l’anno scorso ha ricevuto un compenso di 11,8 milioni di euro, quanto basta per scalare la vetta della classifica elaborata dall’Espresso sulla base dei dati pubblicati in questi giorni dalle società quotate sul listino milanese.

La somma attribuita a “Tavares”, dal 2021 a capo del gruppo nato dalla fusione tra “Fca” e la francese “Psa”, non comprende gli incentivi sotto forma di azioni.

Se si considerano anche questi premi, maturati ma non ancora incassati, la retribuzione complessiva del numero uno della multinazionale dell’auto arriva a 23,4 milioni di euro, pari a 365 volte lo stipendio medio della forza lavoro del gruppo.

Come dire che l’amministratore delegato guadagna in un giorno quello che, in media, i 268 mila dipendenti di “Stellantis” ricevono in un anno.

 

Proprio oggi, il gruppo presieduto da “John Elkann” (per lui 2 milioni di compensi più 3,7 milioni di bonus in azioni) ha riunito l’assemblea dei soci per l’approvazione dei conti del 2022.

 Com’era prevedibile, l’entità della retribuzione di “Tavares” ha attirato le critiche di numerosi investitori internazionali.

L’anno scorso, gli azionisti avevano già bocciato i compensi elargiti al manager (19,1 milioni) con un voto, contrario per il 52 per cento del capitale, che comunque era solo consultivo.

Sulla questione era all’epoca intervenuto anche il presidente francese “Emmanuel Macron”, che aveva definito «scioccante ed eccessivo» lo stipendio di “Tavares”. Lo Stato francese, tramite la banca pubblica “Bpi france”, è azionista di rilievo del gruppo, con una quota del 6 per cento.

“Stellantis” ha chiuso il 2022 con profitti in forte crescita (16,8 miliardi, +26 per cento sul 2021) e si prepara a distribuire ai soci un ricco dividendo.

Le buone notizie non sono bastate ad ammorbidire alcuni fondi d’investimento che sono tornati alla carica sui compensi.

Al momento del voto, però, una maggioranza schiacciante, pari all’80 per cento del capitale, ha comunque dato via libera alle decisioni del consiglio di amministrazione.

“Tavares”, a lungo a capo di “Peugeot” prima della fusione con “Fca”, si conferma quindi al vertice della speciale classifica degli stipendi, una classifica che prende in esame tutte le principali società quotate, a parte alcune, come “Enel” e “Poste Italiane”, che ancora devono pubblicare i documenti obbligatori per legge.

Staccato da “Tavares di poche” decine di migliaia di euro, troviamo un nome molto noto dell’industria della moda come “Marco Gobbetti£, nominato l’anno scorso al vertice di “Ferragamo”.

Nel 2022 Gobbetti ha ricevuto, tra l’altro, 4,4 milioni a titolo di «welcome bonus», un compenso extra legato, secondo quanto si legge nelle carte aziendali, «all’impegno del manager a mantenere il rapporto di lavoro con l’azienda per un periodo di tempo determinato».

 MARCO GOBBETTI.

Il gradino più basso del podio nella classifica dell’Espresso è invece occupato da “Giovanni Tamburi”, banchiere d’affari di lungo corso molto noto nel mondo della finanza nostrana.

“Tamburi” ha fondato una banca d’affari di cui è presidente e importante azionista, la “Tamburi investment partners”, e il suo compenso è frutto in gran parte di bonus calcolati in percentuale su due voci di bilancio:

il 7 per cento dei ricavi dell’attività di advisory, pari l’anno scorso a 1,8 milioni, e il 6,2 per cento degli utili consolidati della società al lordo delle tasse, 137 milioni nel 2022.

 Si arriva così a circa 10 milioni di compensi variabili che si sommano allo stipendio fisso di 550 mila euro.

GIOVANNI TAMBURI.

Dopo il terzetto di testa, con retribuzioni comprese tra 5 e 10 milioni di euro, troviamo tra gli altri i big delle assicurazioni, con “Carlo Cimbri” di “Unipol” davanti a “Philippe Donnet” di Generali.

Del gruppo fa parte anche il capo di “Eni”, “Claudio Descalzi” appena riconfermato dal governo.

E poi “Paolo Rocca” di “Tenaris” e “Pietro Salini” di” Webuild”.

 

Premi e incentivi di varia natura valgono quasi sempre ben oltre la metà delle retribuzioni dei top manager e sono calcolati sulla base di complessi parametri che tengono conto dei risultati aziendali e, da qualche anno, anche dei cosiddetti criteri “ESG”, acronimo di gran moda che sta per” environmental, social and governance”.

 Le aziende cercano così di segnalare la loro attenzione alla sostenibilità degli investimenti e al rispetto, per esempio, della parità di genere.

Capita sempre più spesso, però, che le valutazioni dei consigli di amministrazione finiscano sotto il fuoco delle critiche degli azionisti, in particolare dei fondi internazionali cosiddetti attivisti.

Prima ancora di “Tavares”, il mese scorso era toccato a “Unicredit” vincere la resistenza di una pattuglia di investitori contrari all’aumento di stipendio dell’amministratore delegato “Andrea Orcel”, che è comunque stato approvato il 31 marzo con il voto favorevole del 69 per cento del capitale presente in assemblea.

 In “Telecom Italia”, alle critiche di una parte degli investitori istituzionali si è aggiunto anche il gruppo francese “Vivendi”, primo azionista da tempo su posizioni critiche nel merito della gestione e delle prospettive dell’”azienda di tlc”.

La resa dei conti è prevista per il prossimo 20 aprile, quando è in programma l’assemblea dei soci chiamata ad approvare i conti del 2022 in perdita per 2,93 miliardi e a esprimere un parere sui compensi dei manager.

Tra questi, anche quello dell’amministratore delegato “Pietro Labriola” a cui sono state assegnate, sulla base dei risultati di bilancio, azioni “Telecom Italia” per un valore massimo di 25,8 milioni di euro.

(Vittorio Malagutti, Manager)

 

 

 

 

 

Gli stipendi osceni dei top manager,

limitarli è una questione etica.

Editorialedomani.it - Alfredo Roma – (14 maggio 2023) – ci dice:

Il recente fallimento di “Svb” e i crolli in Borsa di “Credit Suisse” e “Deutsche Bank” hanno ancora messo in luce le assurde remunerazioni milionarie di cui godono i vertici delle banche.

Nel 2021 l’80 per cento degli amministratori delegati delle società quotate sul “Ftse Mib “ha percepito uno stipendio superiore al milione di euro.

Il primo possibile intervento su questo problema etico è quello fiscale:

la tassazione sui redditi delle persone fisiche (Irpef), dovrebbe essere leggera sui redditi bassi ma poi progressiva fino a un’aliquota del 60 o 70 per cento.

Il recente fallimento della “Silicon Valley Bank” (SVB) e i crolli in Borsa di “Credit Suisse” e “Deutsche Bank” hanno ancora una volta messo in luce le assurde remunerazioni milionarie di cui godono i vertici delle banche.

Remunerazioni che spesso sono state pagate anche quando la banca stava per fallire.

I bonus ai dirigenti della “SVB” sono arrivati puntuali pochi minuti prima che la banca guidata da “Greg Becker” passasse sotto il controllo della “Fdic”, l’ente federale che tutela i depositi.

Secondo il canale televisivo “Cnbc”, “Becker” e i direttori della divisione finanziaria e del management, “Beck” e “Draper”, a partire dal primo dicembre del 2022 hanno venduto le stock options della” Svb” per un valore complessivo di 5,1 milioni di dollari.

Tipica operazione da insider trading sulla quale neppure la “Sec” (l’ente che controlla la Borsa americana) è intervenuta.

 

I VERTICI DELLE BANCHE.

Il “Credit Suisse” ha chiuso l’esercizio 2022 con una perdita record di 7,3 miliardi di franchi svizzeri.

 Malgrado questa pessima performance, Il Ceo “Ulrich Körner” in carica da agosto 2022, ha ricevuto 2,5 milioni di franchi svizzeri il giorno prima del crollo in Borsa del 15 marzo 2023.

Per la “Deutsce Bank” vi era stato un primo segnale di allarme con l’aumento del costo dell’assicurazione del debito contro il default, che significava un valore dubbio dei suoi assets.

Poi le obbligazioni, che scadono nel 2028, erano crollate da poco più di 98 centesimi di dollaro prima dell'implosione della “SVB”, a 89 centesimi all'indomani del crollo di “Credit Suisse”.

 Così il 24 marzo 2023 è avvenuto il crollo in Borsa delle azioni” Deutsche Bank”. Malgrado questo, per il 2022 la banca ha pagato al Ceo “Christian Sewing” un compenso di nove milioni di euro.

Secondo i dati dell’”Autorità bancaria europea”, nel 2021 quasi 2mila banchieri avevano uno stipendio annuo di oltre un milione di euro.

Nella classifica dei più pagati, gli amministratori delegati degli istituti di credito italiani si piazzano al terzo posto.

Anche a dispetto della crisi.

 Basti pensare che i banchieri che superano il milione di euro di guadagno annuo sono in aumento dell’88 per cento rispetto al 2020.

 Quest’anno, se gli obiettivi verranno raggiunti, “Andrea Orcel”, numero uno di “Unicredit”, vedrà lievitare notevolmente il suo compenso annuo che passerà da 7,5 milioni a 9,75 milioni.

 

 

I VERTICI DELLE SOCIETÀ QUOTATE.

Secondo la 27esima edizione dello” Spencer & Stuart Board Index”, nel 2021 l’80 per cento degli amministratori delegati delle società quotate sul” Ftse Mib” ha percepito uno stipendio superiore al milione di euro.

In particolare, il 16 per cento ha ricevuto un compenso superiore ai cinque milioni di euro.

 Il più pagato è stato il numero uno di “Stellantis”, “Carlos Tavares,” che ha intascato 19 milioni.

Una cifra che ha generato non poche polemiche a livello internazionale, soprattutto per il delicato momento che l’industria dell’auto stava vivendo.

 Come esempio di bonus pagati ai vertici di aziende in stato fallimentare ricordiamo quelli pagati ai nove capi azienda che si sono alternati alla guida di “Alitalia” dal 2007 al 2023.

 

LA STORIA ITALIANA.

Nel 1980 gli amministratori delegati più pagati avevano un salario pari a 45 volte quello di un loro dipendente.

Nel 2008 la media delle remunerazioni dei primi 10 top manager italiani era di 6,41 milioni di euro, 416 volte lo stipendio medio annuo di un operaio.

Nel 2020 è stata di 9,59 milioni, cioè 649 volte.

Sono i numeri che emergono da un’analisi del Corriere della Sera.

 

Più volte si è ricordato “Adriano Olivetti” che diceva:

 «Nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario più basso».

 In quegli anni di boom economico per il nostro paese, l’amministratore delegato della Fiat “Vittorio Valletta” guadagnava 12 volte il salario di un operaio.

L’ultimo stipendio di “Sergio Marchionne” in” FCA” nel 2017 fu 9,7 milioni di euro: 437 volte quello di un metalmeccanico.

 

La linea dettata da Olivetti viene in parte rispettata dalla media degli stipendi dei dirigenti intermedi.

Nel 2008 ci volevano 8,3 stipendi di un operaio per fare quello di un dirigente medio, nel 2020 si è passati a dieci.

 

LA SITUAZIONE DEGLI STATI UNITI.

Negli Stati Uniti si parla di “pay gap” per riferirsi alla differenza salariale.

Dal 2018, per tutte le aziende quotate è obbligatorio trasmettere questo valore alla “Sec”.

Secondo l’”American Federation of Labor” nel 2020 la retribuzione media degli amministratori delegati delle aziende quotate allo “S&P 500 “è stata di 299 volte superiore a quella mediana dei lavoratori.

Questa comunicazione obbligatoria mostra che le autorità statunitensi si sono rese conto del problema etico e sociale rappresentato dalle eccessive remunerazioni dei vertici aziendali.

Nel contesto americano è infatti apparso come uno scandalo il caso di “Kevin Clark”, Ceo della società di componenti automobilistici “Aptiv PLC”, che con i suoi 31,2 milioni di dollari ha guadagnato 5.294 volte lo stipendio mediano.

I CORRETTIVI NECESSARI.

Questa breve analisi delle remunerazioni dei vertici aziendali richiede un approccio critico.

Innanzitutto bisogna ricordare che una banca o un’azienda sono un fatto sociale perché la loro patologia colpisce creditori e dipendenti, oltre agli azionisti.

 Quindi eccessivi stipendi sottraggono risorse a una gestione responsabile.

Ci troviamo in una fase storica in cui le disuguaglianze sociali, create dalle teorie economiche del liberismo, sono aumentate dagli anni ottanta del secolo scorso.

 Una fase storica che ha prodotto due serie crisi economico-finanziarie, una” pandemia” e una “flessione della globalizzazione”.

Una fase che ha evidenziato l’urgenza della transizione ecologica per la salvezza del pianeta e dei suoi abitanti.

Tutto questo richiede nuove politiche economiche e assestamenti geopolitici, oltre a ingenti risorse.

Rivedere le remunerazioni dei top manager di banche e imprese ha quindi una ragione economica ma anche etica.

 Un primo strumento è quello fiscale.

In Italia, ad esempio, serve una politica opposta a quella della “flat tax”.

La tassazione sui redditi delle persone fisiche (Irpef), dovrebbe essere leggera sui redditi bassi ma poi progressiva fino a un’aliquota del 60 o 70 per cento, come accadeva negli anni settanta del secolo scorso.

 Infatti, se il percettore di un reddito pari a tre milioni annui fosse soggetto a un’aliquota del 70 per cento sugli ultimi 500mila euro, di questi 500mila gli resterebbero comunque 150mila euro, pari a quattro volte e mezzo il reddito medio annuo di un single.

I progetti di riforma fiscale e il rifiuto di adottare un salario minimo da parte dell’attuale governo italiano mostrano una decisa attenzione alle classi abbienti piuttosto che alle classi povere.

 Quindi nulla possiamo aspettarci sul tema delle remunerazioni eccessive dei vertici di banche e imprese che, invece, rappresenta un serio problema di responsabilità morale.

La recessione è scongiurata ma l’economia italiana ha solo l’occasione del Pnrr.

(ALFREDO ROMA)

(Alfredo Roma, economista, già presidente dell'Ente Nazionale Aviazione Civile (Enac) e dell'European Civil Aviation Conference (Ecac), ex coordinatore nazionale del Programma Galileo presso la presidenza del Consiglio dei ministri.)

 

 

 

 

Sequestrato il patrimonio dell’ex

pupillo di Meloni: socialmente pericoloso.

 

Editorialedomani.it - NELLO TROCCHIA – (15 novembre 2023) - ci dice:

Il tribunale di Roma ha messo i sigilli al patrimonio di “Pasquale Maietta”, secondo i giudici vive abitualmente anche con proventi di attività delittuose.

Nel provvedimento, eseguito dalla guardia di Finanza, si ricostruiscono anche i rapporti con gli uomini del crimine organizzato.

È imputato per reati gravi e vive abitualmente anche con i proventi di attività delittuose.

Per questo duplice aspetto di pericolosità sociale il tribunale di Roma, su richiesta della procura capitolina, ha disposto il sequestro di beni per un valore di cinque milioni di euro nei confronti di “Pasquale Maietta”.

Il “commercialista” prima di essere travolto da inchieste giudiziarie è stato pupillo di “Giorgia Meloni” e “tesoriere del partito”, «uno dei migliori dirigenti nazionali di Fratelli d'Italia», lo definiva l’attuale presidente del Consiglio.

 

“Maietta” era presidente del “Latina calcio” e contemporaneamente in stretti rapporti con i vertici del “clan Di Silvio,” famiglia criminale mafiosa, egemone in provincia di Latina, e imparentata con i “Casamonica”.

“Costantino Di Silvio”, detto “Cha Cha”, era stato scelto da “Maietta” come magazziniere e accompagnatore della squadra, un riconoscimento anche per il ruolo che svolgeva di mediatore tra la società e la curva nei periodi neri della squadra. I

l provvedimento del tribunale passa in rassegna” la carriera di Maietta” e i suoi guai giudiziari, viene definito «ideatore di articolati modelli di evasione fiscale, realizzati nel tempo con la compartecipazione di numerosi soggetti ad essi riconducibili».

L’ex dirigente del partito meloniano, dal 2016 allontanatosi dal partito, è finito coinvolto in sedici procedimenti penali, i reati che gli vengono contestati sono uno stuolo:

 associazione a delinquere finalizzata alla realizzazione di reati fiscali e riciclaggio, abuso d'ufficio, turbativa d'asta, falsità ideologica in atto pubblico, concussione, attività edilizia abusiva, truffa aggravata.

“ Maietta” era sottoposto ad indagini anche nell'ambito del procedimento penale istruito dalla direzione distrettuale antimafia di Roma «relativo alle minacce perpetrate nei confronti di “Umberto Di Mario” in occasione della sfiducia che nel 2015 portò alla caduta dell'allora sindaco di Terracina (LT), Nicola Procaccini (estraneo alle indagini e parlamentare europeo di Fratelli d’Italia, ndr)», si legge nel decreto.

 

I RAPPORTI CON IL CLAN.

“Maietta” e “Di Silvio”, detto “Cha Cha”, sono stati indagati per minacce aggravate dalla modalità mafiosa con il ruolo di istigatore il primo e di esecutore materiale, il secondo.

Cosa veniva contestato ai due in concorso con persone rimaste ignote?

 Un’azione intimidatoria nei confronti di un consigliere comunale «facendogli arrestare la marcia della sua autovettura, e nell'intimargli armati di pistola di non votare la sfiducia al sindaco del Comune di Terracina, “Procaccini”, paventando in caso contrario ritorsioni nei suoi confronti, impedivano e comunque turbavano l'attività del consigliere comunale “Di Mario”».

Nel decreto viene riportata l’intercettazione, risalente al 2020, nella quale l’ex consigliere raccontava di aver sentito “Maietta” al telefono molto adirato mezz’ora prima dell’incontro con gli aggressori.

In un’altra conversazione intercettata “Di Mario” diceva alla moglie che mai avrebbe accusato “Maietta” anche se lo aveva minacciato.

 E la ragione era esplicitata dalla moglie in questa intercettazione con” Di Mario”: «Tu hai ragion, ma lui sapeva che gli zingari lo difendevano...gli zingari, pagati da lui, sarebbero andati a ammazza' pure qualcuno».

La paura di ritorsioni aveva spinto i coniugi a mostrarsi reticenti durante l’interrogatorio in commissariato.

E così l’indagine si è chiusa con l’archiviazione, in quanto, sebbene siano emerse in modo chiaro le minacce «che “Maietta” ha messo in atto nei confronti di “Di Mario”, tuttavia non sono emersi elementi di prova idonei a sostenere l'accusa in giudizio con riferimento al mandato che “Maietta” avrebbe dato a “Di Silvio” e ad altri soggetti di “etnia rom” al fine di minacciare “Di Mario” per impedirgli di sfiduciare il Sindaco di Terracina».

Le stesse vittime non hanno riconosciuto le fotografie di “Cha Cha” e di altri esponenti del clan quando sono state ascoltate dagli investigatori.

 Per raccontare i rapporti tra la criminalità feroce dei “Di Silvio” e “Maietta” viene ricordata anche la testimonianza di “Angelo Nardoni” che, mentre partecipava a un incontro politico alla presidenza di “Nicola Calandrini (oggi senatore di Fratelli d’Italia) e “Maietta”, veniva avvicinato da “Cha Cha” che gli disse «vattene perché altrimenti per te finisce male».

Nel provvedimento vengono presi in esame i rapporti di “Maietta” non solo con “Di Silvio Costantino”, ma anche con “Pugliese Renato” (figlio) e “Riccardo Agostino”, tutti condannati per reati di associazione mafiosa finalizzata al traffico di stupefacenti.

 La proposta di sequestro, accolta dal tribunale, analizza la sproporzione tra i redditi di “Maietta” e dei congiunti in rapporto al patrimonio accumulato e al tenore di vita.

La guardia di Finanza ha così messo i sigilli ad appartamenti, partecipazioni societarie, disponibilità finanziarie nella disponibilità di “Maietta”.

(NELLO TROCCHIA.)

(È inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste.)

 

 

 

 

Alcuni tra i manager più ricchi

ed influenti del pianeta.

Ecommerceguru.it - Samuele Camatari – (3 Maggio 2019) – ci dice:

 

 I manager più ricchi al mondo, chi sono e cosa hanno scatenato con i loro business?

Qui una rassegna aggiornata al febbraio 2019 degli uomini più ricchi al mondo. Sono loro ad influenzare costantemente le nostre vite quotidiane con le loro idee di business rivoluzionarie.

“Jeff Bezos”, dal “bookstore online” al colosso” Amazon”.

Con un patrimonio attuale di 135.5 miliardi di dollari Jeff Bezos si colloca di diritto tra i manager più ricchi al mondo (il più ricco!), ma anche uno dei più influenti.

Il suo business nasce in un garage di Seattle nel 1994.

Originariamente con l’obiettivo di fungere da online bookstore e gravato dal 70% di possibilità di fallimento.

Amazon oggi è il più grande colosso e-commerce mondiale di cui Bezos, fondatore, presidente e amministratore delegato, possiede il 16%.

Anche se questa quota potrebbe essere ricalcolata in seguito al divorzio con “Mckenzie Tuttle”, facendo precipitare il magnate dal primo posto nella classifica degli uomini più ricchi del mondo.

Visionario e lungimirante, “Bezos” sogna da sempre lo spazio.

Per questa ragione fonda nel 2000 “Blue Origin”, azienda che si occupa dello sviluppo di tecnologie aereospaziali che trasporteranno l’uomo a spasso per l’universo.

Convinto che l’informazione sia essenziale, infine, il businessman ha acquistato il “Washington Post” nel 2013.

“Bill Gates”, “Microsoft” e le “charity.

Al secondo posto, dopo anni di primato, Bill Gates.

Il fondatore di Microsoft rimane in testa nella classifica con un patrimonio di 96.6 miliardi di dollari.

Dal lontano 1975, anno in cui ideò Microsoft insieme a “Paul Allen”, il mondo della tecnologia ha subito numerose trasformazioni.

La sua azienda, di cui possiede ormai soltanto l’1%, è rimasta competitiva ed ha saputo innovarsi.

Attento al bisogno dei più sfortunati, oggi il businessman devolve parte dei suoi guadagni ed ha istituito con sua moglie “Melinda” la fondazione di beneficenza “Bill&Melinda”.

 Seguendo questa inclinazione filantropica del suo fondatore anche Microsoft di recente ha deciso di investire nella riqualificazione delle città messe in ginocchio dai giganti tech, puntando sull’acquisto di case popolari da mettere a disposizione della collettività.

 

“Warren Buffett”, uno degli uomini più ricchi di tutti i tempi.

Il quasi novantenne “Warren Buffet” è il terzo uomo più ricco al mondo con un patrimonio di 84.9 miliardi di dollari e il quarantesimo uomo più ricco di tutti i tempi.

Economista e imprenditore, “Buffet” è conosciuto globalmente per la precisione dei suoi investimenti e l’esattezza delle sue predizioni finanziarie.

Per questa ragione è chiamato l’oracolo di Ohama (sua città natale, nel Nebraska).

Il suo talento si scopre già ad 11 anni quando acquista le sue prime azioni di “Cities Service”, una compagnia di servizi petroliferi, convinto di beneficiare della svalutazione dello stock.

Il CEO di “Berkshire Hathaway”, una delle più grandi holding del mondo che ingloba 60 aziende tra cui “Duracell”, “Geico” o la catena di ristoranti “Dairy Queen”, ha annunciato che devolverà il 99% del suo patrimonio.

Fino ad ora ha già donato 35 miliardi di dollari, molti dei quali sono confluiti nel fondo “Bill&Melinda” del suo caro amico Gates.

 

“Bernard Arnault”, visionario del lusso.

Con 77,6 miliardi di dollari di capitale, “Bernard Arnauld” è uno degli uomini più ricchi al mondo e sicuramente il presidente e il CEO del più importante gruppo mondiale nel settore del lusso: “LVMH”.

Estremamente persuaso che i brand francesi del lusso possano coesistere nello stesso gruppo, nel 1987 inizia tutta una serie di fortunate acquisizioni che lo porteranno alla guida di “LVMH Moët Hennessy” – “Louis Vuitton”.

 Nella holding convivono le varie anime del lusso francese:

pregiati vini e alcolici che fanno capo a famosissimi marchi come “Moët & Chandon”, “Krug”, “Veuve Clicquot”, “Hennessy”, “Château d’Yquem”;

moda e pelletteria rappresentate da brand come Louis Vuitton, Loewe, Fendi, Givenchy, Christian Dior, Marc Jacobs;

profumi e cosmetici siglati Guerlain, Acqua di Parma, Fresh;

Orologi e gioielleria marchiati Bulgari, Zenith, Chaumet, Hublot; le maison di distribuzione come Sephora, Le Bon Marchè Rive Gauche ecc…

 

“Carlos Slim Helú”, da bambino prodigio a magnate del capitalismo indigeno.

L’uomo più ricco del Messico possiede la più importante compagnia di telecomunicazione dell’America Centrale e dei Caraibi,” America Movil”, con un patrimonio familiare pari a 65 miliardi di dollari.

Nato da genitori Libanesi emigrati in Messico, acquista il suo primo buono del tesoro messicano a 12 anni.

Convinto del valore della sua terra, mantiene le sue ricchezze in Messico negli anni ’80 in un periodo di vendite e fughe di capitali all’estero.

 Nel 1990 acquista “Telmex”, l’unica compagnia telefonica del Messico dei tempi, ad un valore infinitesimale dell’attuale.

Telmex oggi è parte di “America Movil”, ma non è l’unica fonte di ricchezza del magnate.

Fautore del liberalismo indigeno, “Carlos Slim Helú” possiede quote di partecipazione nel settore delle costruzioni messicane, nel settore immobiliare oltre a possedere il 17% del “New York Times”.

 

“Amancio Ortega”, pioniere della fast fashion.

“Ortega” comincia la sua carriera come fattorino in una sartoria di La Coruña. Durante la sua gavetta si accorge dell’importanza della moda anche per le classi meno abbienti e comincia a pensare ad un modello di business fashion che accontenti tutti.

Nel 1963 crea la “Confecciones GOA”, una piccola merceria in cui vende intimo, vestaglie e pigiami e nel 1975 apre il suo primo negozio” Zara”, che lo renderà uno dei manager più ricchi al mondo.

Attento ai gusti dei clienti “Ortega” disegna, cuce e propone.

Nessun magazzino: i capi vengono rimpiazzati ogni 2 settimane, facendo il successo di “Zara” e di “Ortega” che, con 64.8 miliardi di dollari di patrimonio, è oggi è il presidente di “Inditex”, la holding spagnola che include” Zara”, ma anche “Massimo Dutti”, “Pull and Bear”, “Bershka”, “Stradivarius”, “Oysho”, “Uterque” ecc…

 

“Mark Zuckerberg”, il re del social network Facebook, immancabile tra i più ricchi del mondo.

Il presidente e amministratore delegato di Facebook è sicuramente l’under 40 tra i manger più ricco al mondo.

Con 63.4 miliardi di patrimonio il re dei social network ha fatto molta strada da quando ideò dal suo dormitorio di Harvard, con altri suoi compagni, la piattaforma messaggistica dedicata agli scambi di informazioni nel campus dell’università. Oggi Facebook può essere considerato un “net-state”, uno “stato digitale”, con una popolazione di 2.27 miliardi.

 

Larry Ellison, una storia di successo partita dal Bronx.

Nato nel Bronx da una ragazza madre, “Larry Ellison” è cresciuto nelle periferie di Chicago con un’insolita passione per la matematica.

Volato in California per cercare fortuna,” Ellison” lavora per otto anni come tecnico, poi la svolta:

nel 1977 l’azienda per cui lavora cerca consulenza per lo sviluppo di un software di archiviazione dati.

Mette su una società di consulenza, e si propone all’azienda.

 Da lì inizia la faticosa ascesa:

nel 1977 viene fondato il “Software Development Laboratories” che diventerà “Oracle Corporation” soltanto nel 1995.

La società attiva nel settore dei database, veloci e di facile implementazione diventerà la più grande produttrice di software al mondo.

Devoto alla ricerca, “Ellison”, il cui patrimonio ammonta a 62,1 miliardi di dollari, ha investito nella ricerca contro il cancro e nella startup per il benessere chiamata “Sensei”.

 

Larry Page, colui che insegnò la ricerca a “Mister Google” è oggi tra i manager più ricchi al mondo.

L’amministratore delegato di “Alphabet”, società madre di Google, è uno dei manager più ricchi al mondo con 51,9 miliardi di dollari di patrimonio.

 I suoi studi di ingegneria informatica lo portano insieme a “Sergey Brin” a fondare nel 1997 “Google Search”.

 Con l’invenzione di “PageRank”, l’algoritmo di ricerca Google, Page si è assicurato all’olimpo della tecnologia.

Ha così la sicurezza nel 2003 di rifiutare l’acquisizione di Microsoft e nel 2005 acquista “Android “puntando sullo sviluppo dei sistemi operativi mobili.

I fratelli Koch, i magnati del petrolio. 

“Charles e David Koch”, il primo presidente e CEO della “Koch Industrie”s e il secondo azionista di maggioranza della medesima azienda, sono i fratelli manager più ricchi al mondo.

Con un patrimonio di circa 50.2 miliardi a testa, i due fratelli ereditano la prestigiosa azienda familiare.

 Questa ha fatto la sua fortuna grazie alla scoperta di un nuovo metodo per raffinare il greggio.

Conservatori per natura e per filosofia aziendale, i fratelli investono da tempo in ricerca e nei media nazionali.

Nel 2017 infatti hanno appoggiato l’acquisizione del “Time” da parte della “Meredith Corp”.

 

“ Jack Ma” tra i manager più ricchi al mondo riscatta la generazione perduta cinese:

Nasce nel pieno del periodo storico cinese definito come “Rivoluzione Culturale”. Jack Ma si appassiona alla lingua inglese a 12 anni e si offre come guida per i turisti stranieri nella sua città Hangzhou, a sud est della Cina.

 Prova ripetutamente ad entrare all’università, ma riuscirà soltanto nel 1988 a laurearsi e a trovare lavoro come professore dopo una serie di rifiuti.

 Nel 1995 si trova negli Stati Uniti come interprete e lì si imbatte per la prima volta in un motore di ricerca.

“Birra” è la parola che digita: nessun risultato che riguardasse la Cina.

 Torna in patria e crea il suo primo sito.

 Poi “China Yellow Pages”, un’agenzia di realizzazione di siti internet. Per poi approdare alla più grande delle sue realizzazioni “Alibaba,” una piattaforma e-commerce che avrebbe fronteggiato i giganti della Silicon Valley.

Con un ardore e una dedizione impensabili nel panorama della Cina post riforme economiche, “Jack Ma” ha sfruttato tutte le potenzialità del mercato cinese.

 E ha reso “Alibaba” non solo una piattaforma per il commercio digitale, ma un ecosistema che ormai ingloba una miriade di realtà più piccole che offrono i più disparati servizi, dai pagamenti online alla messaggistica.

Con 37.7 miliardi di dollari, “Jack Ma” si inserisce tra i manager più ricchi al mondo e come l’uomo più ricco della Cina – nonostante il suo annuncio dello scorso settembre di abbandonare la presidenza del colosso e-commerce cinese e dedicarsi alla filantropia.

(Samuele Camatari) (Fonte: Forbes).

 

 

Modello mafioso e globalizzazione.

 

Centroimpastato.com – Redazione - (3 marzo 2015) – Umberto Santino – ci dice:

 

Modello mafioso e globalizzazione.

 

Il capitale aborre la mancanza di profitto o il profitto molto esiguo.

Quando c’è un profitto proporzionato, il capitale diventa audace.

 Garantitegli il dieci per cento, e lo si può impiegare dappertutto;

il venti per cento, e diventa vivace; il cinquanta per cento, e diventa veramente temerario; per il cento per cento si mette sotto i piedi tutte le leggi umane;

dategli il trecento per cento, e non ci sarà nessun crimine che esso non arrischi, anche pena la forca.

 Se il tumulto e le liti portano profitto, esso incoraggerà l’uno e le altre.

 Prova: contrabbando e tratta degli schiavi (T.J. Dunning in K. Marx 1964, p. 823).

 

Dove il mercato è abbandonato alla sua auto-normatività esso conosce soltanto una dignità della cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni umane originarie di cui le comunità personali siano portatrici (Max Weber 1980, p. 314).

 

Mafia: il paradigma della complessità.

 

Per affrontare il tema della diffusione del modello mafioso nel contesto della globalizzazione sono necessarie alcune puntualizzazioni preliminari.

Per modello mafioso intendo un insieme di caratteristiche riscontrabili nel fenomeno mafioso così come si è sviluppato in Sicilia e come le ho ricostruite e sistematizzate nel mio “paradigma della complessità” (crimine, accumulazione, potere, codice culturale, consenso sociale), e che si possono così sintetizzare:

1) l’esistenza di una struttura organizzativa capace di adeguarsi ai mutamenti del contesto;

2) una serie di attività illegali e legali, storiche e nuove;

3) la loro finalizzazione all’arricchimento e all’acquisizione di posizioni di potere;

4) la vigenza di un codice culturale, insieme radicato ed elastico;

5) il consenso di buona parte del corpo sociale;

6) l’interazione dei gruppi criminali con il contesto sociale (Santino 1995).

 

Stando alle ricostruzioni operate nelle sedi investigative e giudiziarie, sulla scorta delle dichiarazioni di mafiosi collaboratori di giustizia, l’organizzazione mafiosa più nota, “Cosa nostra”, avrebbe una struttura diffusa sul territorio, verticistica e piramidale, con alla base le famiglie e al vertice una commissione interprovinciale presieduta da un capo dei capi.

Famiglia di sangue e famiglia mafiosa non coincidono: l’organizzazione mafiosa ha una base familistico-parentale ma è aperta anche ad estranei e gli associati, provengano o meno dalla cerchia familiare, sono selezionati in base al possesso di doti necessarie per l’esercizio delle attività mafiose, illegali e legali.

 

Ci troviamo di fronte a una struttura formalmente rigida e immodificabile, con tratti di sacralità (il rito iniziatorio con il giuramento, la qualità di “uomo d’onore” che una volta acquisita dura tutta la vita), ma in realtà elastica e flessibile, anche se può riscontrarsi una sostanziale continuità:

qualcosa di molto simile alla struttura organizzativa degli ultimi decenni la ritroviamo nei rapporti del questore di Palermo “Ermanno Sangiorgi “della fine del XIX secolo.

 

L’organizzazione è il frutto di adattamenti succedutisi nel tempo, che in alcuni periodi hanno portato anche allo scioglimento e alla formazione di strutture di comando provvisorie, e recentemente è stata riconsiderata per rispondere alle reazioni causate dalla lievitazione della violenza degli anni ’80 e ’90.

 Negli ultimi anni si è parlato di “mafia invisibile”, di sommersione e clandestinizzazione, cioè di strategie di occultamento con significativi risvolti che riguardano l’affiliazione (non solo il rito ma anche i soggetti), i rapporti tra i membri ecc.

 

Un aspetto fondamentale di questo approccio è il rapporto tra mafia e contesto sociale.

I gruppi criminali formalmente strutturati agiscono all’interno di un sistema relazionale informale, che si configura come un blocco sociale transclassista, egemonizzato da soggetti illegali (i capimafia) e legali (professionisti, imprenditori, amministratori, politici) legati dalla comunanza di interessi e dalla condivisione di codici culturali, definibili come “borghesia mafiosa”.

 

Secondo questa visione, la mafia è soggetto politico, in duplice senso: esercita un potere in proprio, che si configura come signoria territoriale, imponendosi come un’organizzazione di tipo statuale, non riconoscendo il monopolio statale della forza e praticando l’estorsione come una forma di tassazione, e interagisce con le istituzioni, per cui si può parlare di doppia mafia, insieme fuori e dentro lo Stato, in doppio Stato, dato che il monopolio formale della forza convive con quella forma di legittimazione della violenza mafiosa costituita dall’impunità (Santino 1994).

 

Contrariamente allo stereotipo che vede un continuo succedersi a una mafia vecchia di una mafia nuova, erigendo un ovvio dato generazionale a paradigma interpretativo di mutamenti che presentano dinamiche più complesse, l’evoluzione del fenomeno mafioso è vista come un intreccio di continuità e trasformazione: aspetti persistenti, come la signoria territoriale, convivono con aspetti innovativi, come le proiezioni internazionali, in un rapporto di apparente contraddittorietà ma in realtà di reciproca funzionalizzazione.

 

Esempio: il dominio esercitato su una determinata porzione di territorio è stato una delle precondizioni per l’inserimento di mafiosi siciliani nel traffico internazionale di eroina, attraverso l’installazione di laboratori di produzione nelle aree sotto controllo, come pure l’aeroporto di Palermo, che ricade in una zona a tradizionale dominio mafioso, è stato l’infrastruttura indispensabile per l’invio della droga sul mercato americano.

Un altro concetto che va richiamato è quello di “società mafiogena”,

intendendo per tale una società che presenta le seguenti caratteristiche: l’accettazione della violenza e dell’illegalità da buona parte della popolazione, che le considera mezzi di sopravvivenza e canali di mobilità sociale;

 l’esiguità dell’economia legale, la scarsità di opportunità e la possibilità di accaparramento delle risorse attraverso le maglie di un sistema clientelare;

la considerazione dello Stato e delle istituzioni come mondi lontani e inaccessibili, se non attraverso la mediazione dei mafiosi e dei loro amici, fortemente collusi;

la cancellazione della memoria delle lotte precedenti, anche per effetto dell’emigrazione, e la convinzione sedimentata dell’ineluttabilità della sconfitta;

la fragilità e la precarietà del tessuto di società civile e delle forme di partecipazione;

 la diffusione di una cultura della sfiducia e del fatalismo; la solidarietà nell’illegalità e l’aggressività nei comportamenti quotidiani.

 L’interazione di questi vari aspetti genera un contesto adatto per l’inserimento dei gruppi criminali e la ramificazione del loro sistema relazionale (Santino 1998, pp. 45 sg.).

Per quanto riguarda l’eziologia del fenomeno mafioso, rispetto alla spiegazione dominante per molti anni, secondo cui la mafia è prodotto dell’arretratezza e del sottosviluppo, della “deprivazione relativa” e di un deficit, si propone una visione che lega insieme in un processo di causazione complesso le opportunità offerte sia dal sottosviluppo che dallo sviluppo, a partire da un dato di fatto:

 

mafia e altre forme di crimine organizzato ad essa assimilabili nascono e si sviluppano tanto nelle periferie che nei centri e la loro azione si articola con un ventaglio tanto ampio da comprendere attività tradizionali (per esempio le estorsioni) e modernissime (come l’uso di tecnologie sofisticate per il riciclaggio del denaro sporco).

 

Un interrogativo preliminare doveroso: questo modello può applicarsi a realtà sviluppatesi in altri contesti, a livello nazionale e internazionale?

È possibile formulare una teoria generale del crimine organizzato e transnazionale, per di più a partire da un modello storico locale?

 

Posso dire fin d’ora che nello studio delle varie forme di crimine organizzato va evitata la tentazione a cui indulgono i media di vedere tutto sub specie Siciliae e che la rilevazione di uniformità e specificità deve essere condotta attraverso uno studio rigoroso senza fare di ogni erba un fascio.

 L’applicazione del modello mafioso non può essere il frutto di una forzatura e non può indurre a semplificazioni che rischiano di riproporre banalità e stereotipi.

 

Globalizzazione: ideologia e realtà.

 

La letteratura sulla globalizzazione si accresce ogni giorno di nuovi titoli per cui diventa sempre più difficile orientarsi.

Ma non si pone soltanto un problema quantitativo.

La difficoltà principale deriva dal fatto che le cose che si dicono e si scrivono, e la stessa terminologia impiegata, sono segnate dalla indistinzione-sovrapposizione tra processi reali e rappresentazione.

Secondo la definizione che ne dà l’”Und”p (United Nations Development Programme)

la globalizzazione non è un fatto nuovo, ma la presente era ed  ha caratteristiche particolari.

 Lo spazio che si restringe, il tempo che si contrae e i confini che scompaiono stanno legando gli individui in maniera più profonda, più intensa e più immediata di quanto sia mai successo prima.

Sui mercati valutari vengono ora scambiati, ogni giorno, più di 1500 miliardi di dollari, mentre quasi un quinto dei beni e servizi prodotti ogni anno viene scambiato.

Ad ogni modo, la globalizzazione è molto di più del flusso di moneta e merci: consiste nella crescente interdipendenza della popolazione mondiale.

E la globalizzazione è un processo che integra non solo l’economia, ma anche la cultura, la tecnologia e la governance (Undp 1999, p. 17).

 

La definizione rappresenta una mediazione tra visioni che tendono a presentare la globalizzazione come un fatto radicalmente nuovo o totalmente o in larga parte inscritto in processi da tempo avviati, o la riducono alla dimensione economica, considerandola unicamente come un prodotto dell’evoluzione del libero mercato.

Si è detto, non senza fondamento, che l’economia-mondo c’è almeno da quattro secoli e si sono richiamati gli studi di “Arrighi” e di “Wallerstein” che hanno analizzato il capitalismo come sistema unico mondiale a partire da quello che “Braudel chiamava” “il lungo XVI secolo”.

 

 La formazione di un sistema a prevalente modo di produzione capitalistico è il frutto dell’incrociarsi di due processi che portano a una nuova divisione internazionale del lavoro e alla creazione di organismi statuali “forti” (Wallerstein 1978).

L’accumulazione del capitale si presenta come un ciclo: all’inizio abbiamo un’espansione delle risorse finanziarie destinate all’investimento, poi c’è un’espansione della produzione, quindi il ritorno alla finanziarizzazione.

 

 Sul piano del potere la storia degli ultimi secoli vede il succedersi di egemonie politiche territoriali e internazionali.

Secondo questa prospettiva oggi ci troveremmo “alla fine del “lungo XX secolo”, segnato dal ciclo di accumulazione e dal sistema di egemonia politica degli Stati Uniti, che ha preso il posto di quello dominato dalla Gran Bretagna nel “lungo XIX secolo”” (Arrighi, 1996; Pianta 2001).

 

Gli studi sull’economia-mondo hanno il merito di disegnare un quadro unitario in cui si integrano economia e politica e di avvertirci che la tentazione di gridare ad ogni piè sospinto alla novità va governata con una buona dose di memoria storica.

Questo non significa che dobbiamo incorrere in un altro rischio:

 quello di pensare che non c’è nulla di nuovo sotto il sole e che la storia non sia altro che la ripetizione del già vissuto, il replicarsi di un ciclo.

Negli ultimi anni c’è stata un’enorme accentuazione delle interdipendenze, dovuta non solo alla rivoluzione del sistema di comunicazione:

 possiamo dire che oggi non c’è angolo del mondo, gruppo di popolazione che si sottragga all’influenza del mercato mondiale. Produzione e commercio sono coordinati su scala globale, le fasi di lavorazione dei vari prodotti sono distribuite in paesi diversi, i mercati finanziari sono globali:

 tutto questo significa che il capitale circola a livello planetario senza barriere, alla ricerca della forza lavoro al più basso costo o di sbocchi speculativi.

 Va da sé che questo non è nato di colpo, è il frutto di processi maturati nel tempo e bisogna tener conto di varie dimensioni, a cominciare dall’intreccio tra economia e politica.

Una delle tesi più diffuse vuole che la globalizzazione sia un fenomeno irreversibile, cioè sia determinato da fattori come le tecnologie e i sistemi di trasporto il cui sviluppo ha unificato il mondo, e offra opportunità a tutti i suoi abitanti.

In ogni caso non resta che prenderne atto, come se si trattasse di un fenomeno naturale.

 

In realtà la globalizzazione non è il frutto del progresso tecnologico, della fatalità economica, delle leggi inesorabili del mercato, ma di una determinata configurazione delle centrali del potere e di una politica consapevole e deliberata (Amin 1998, Altvater 2000, Bourdieu 2001) a profitto di alcuni e a danno di altri.

Se non ci fosse stata l’implosione del cosiddetto “socialismo reale”, oggi non si parlerebbe di globalizzazione allo stesso modo che ci capita di ascoltare ad ogni ora del giorno.

 La globalizzazione non è solo Internet, è la materializzazione della vittoria del capitalismo che si è sbarazzato di quello che per due secoli è stato il suo nemico storico e impone una sua forma di dittatura imperiale, cercando di cancellare tutto ciò che si richiamava a una prospettiva di mutamento radicale o riformista inscritta nella visione socialista e proclamandosi come l’unico sistema possibile, senza alternativa.

 

Il neoliberismo economico più che sposarsi al liberalismo politico implica una forte carica di decisionismo autoritario e marcia sui binari di quello che è stato definito il “pensiero unico”, cioè una summa di codici culturali ispirati al dogma del profitto, alla sudditanza del lavoro al capitale, alla competitività e al consumismo come filosofia di vita.

 

 A sentire i “maestri cantori” del neoliberismo, il mercato sarebbe una gara a cui tutti possono partecipare, tutti possono vincere e arricchirsi, tutti giocano in borsa o si ripromettono di farlo, tutti sanno tutto del Dow Jones e del Nasdaq, tutti si affrettano a correre nei supermercati a comprare i prodotti, ben che vada inutili spesso dannosi, reclamizzati ossessivamente dai media.

 

In realtà il mondo attuale è un casinò e un supermercato per pochi.

 La globalizzazione si presenta come un sistema di esclusioni, di vera e propria apartheid mondiale che riguarda poco più di un quinto dell’umanità.

Tutti gli altri sono “fuori mercato”, cioè non hanno diritto di cittadinanza, anzi sono visti come un pericolo e una minaccia (Amoroso 1999, p. 49).

 

Ritorniamo al discorso su rappresentazione ideologica e realtà a cui accennavamo prima.

Si dice che la globalizzazione favorisca la crescita economica, riduca la disoccupazione, aumenti la produttività, ma i dati contraddicono queste affermazioni.

 

Riguardo alla crescita del prodotto interno lordo, i paesi “Ocse” (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) hanno avuto una crescita più lenta dopo il 1980 di quella che hanno avuto negli anni ’50 e ’60:

 allora crescevano a un tasso di circa il 5 per cento annuo, mentre negli anni ’80 il tasso di crescita è sceso al 3,2 per cento e negli anni ’90 non ha superato l’1,5 per cento (Gallino 2000, p. 100).

 

Per ciò che riguarda la disoccupazione si registra il ritorno alla disoccupazione di massa nell’Europa occidentale.

Nel 1999, nei 15 paesi dell’Unione Europea, 15,4 milioni di persone erano in cerca di lavoro (Gallino 2000, p.101; Brecher-Costello 1996, p. 39).

Nei 24 paesi industrializzati dell’Ocse il tasso ufficiale di disoccupazione è dell’8,5 per cento, con un esercito di riserva di 35 milioni di persone.

 Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) su una forza lavoro di circa 3 miliardi di persone, più di 1 miliardo è disoccupato o sotto-occupato (“Gallino” 2000, p. 103).

 

Negli ultimi vent’anni la produttività ha avuto un significativo declino rispetto agli anni ’50 e ’60.

Tra il 1980 e il 1995 il Pil dei paesi sviluppati è cresciuto di poco più del 2 per cento l’anno, mentre tra il 1950 e il 1973 l’incremento annuo era quasi del 4 per cento.

Anche negli Stati Uniti, che guidano la marcia trionfale del capitale globalizzato il tasso di incremento della produttività si è dimezzato dopo il 1973, passando dal 2 all’1 per cento (ivi, p. 101).

 

Secondo il rapporto dell’”Undp” del 1999 sullo sviluppo mondiale, nel ’97 il 20 per cento più ricco della popolazione mondiale, quasi tutto nei paesi Ocse, aveva l’86 per cento del Pil del mondo.

Il 20 per cento più povero aveva solo l’1 per cento.

Negli anni ’60 il rapporto tra il quinto più ricco della popolazione mondiale e il quinto più povero era 30: 1; nel ’90, 60: 1 (Undp 1999, p. 19).

 

I paesi indebitati del Sud del mondo dal 1982 al 1990 hanno pagato ai paesi creditori del Nord sei miliardi e mezzo di dollari di interessi e altri sei miliardi di dollari di pagamenti principali ogni mese, ma il debito di questi paesi è cresciuto del 60 per cento (Brecher-Costello 1996, p. 41).

 

Sempre secondo l’”Undp”, 2,8 miliardi di persone vivono con meno di due dollari al giorno, 1,2 miliardi con meno di un dollaro, mentre 7 milioni di persone hanno una disponibilità finanziaria di almeno un milione di dollari e 358 miliardari da soli posseggono quanto 2 miliardi e 300 milioni di persone, cioè il 45 per cento della popolazione mondiale.

 

A sostegno della tesi che la globalizzazione offre opportunità a tutti, a condizione che ci si sappia inserire nelle dinamiche del mercato internazionale, si richiama l’esempio dell’Asia (senza la Cina, l’India e il Giappone) che tra il 1973 e il 1998 ha fatto registrare una crescita del 138 per cento, superiore a quella dei paesi più industrializzati, cresciuti tra il 48 e il 78 per cento, ma questi dati andrebbero analizzati alla luce di parametri che non riguardano solo l’incremento del Pil e non possono oscurare un dato di fatto e cioè l’ulteriore impoverimento di gran parte della popolazione mondiale.

 

E questo è il frutto delle politiche della “Banca mondiale” (Bm) e del “Fondo monetario internazionale” (Fmi) i cui programmi di “aggiustamento strutturale” per il rientro dal debito impongono lo smantellamento dell’intervento statale non solo in economia ma in settori come la sanità e l’istruzione, la liquidazione delle economie non competitive, l’offerta di convenienze agli investitori esteri, cioè alle grandi multinazionali, che consistono soprattutto nel bassissimo costo delle materie prime e della forza lavoro.

 

L’”Omc” (Organizzazione mondiale per il commercio) ha imposto una dittatura delle grandi multinazionali, con l’esaltazione dei diritti di proprietà privata che cancellano i diritti elementari delle popolazioni più svantaggiate.

 

Non si tratta di politiche sbagliate, di effetti perversi rimediabili con un po’ di buona volontà, con qualche elargizione suggerita dalla cosiddetta “globalizzazione compassionevole”.

 

La logica della polarizzazione è insita nel sistema stesso (Amin 1997, p. 31); la povertà non è la conseguenza di “scarsità” di risorse umane e materiali, “è piuttosto il risultato dell’eccessiva offerta globale basata sulla disoccupazione e la minimizzazione del costo del lavoro in tutto il mondo” (Chossudovsky 1998, p. 21).

 

 Un enorme esercito di riserva consente di spostare e sminuzzare i processi produttivi dove la forza lavoro ha costi irrisori e dove non bisogna fare i conti con i diritti dei lavoratori, conquistati a duro prezzo e ora soggetti a drastici decurtamenti se non alla cancellazione.

 

Cioè: l’impoverimento e l’emarginazione di grandi masse della popolazione mondiale è una condizione indispensabile per tenere in piedi un sistema che poggia le ragioni del profitto sulla imposizione di flessibilità vessatorie.

 

 Il libero mercato ha come colonna sonora le salmodie della concorrenza e del fair play ma si fonda su una strategia di ricatti.

 

La globalizzazione si presenta come la prova provata del trionfo del capitalismo, come il nuovo ordine mondiale, ma in realtà è un modo per affrontare i problemi posti dalla sua crisi.

Alla crisi economica iniziata negli anni ’70, con un forte declino dei tassi di resa del capitale, le grandi imprese hanno reagito ridefinendo i rapporti capitale-lavoro con strategie volte a rilanciare i profitti con il taglio dei salari e degli altri costi di produzione.

 

La mobilità del capitale alla ricerca della forza-lavoro al più basso costo era una strada già avviata ma il crollo del socialismo e la crisi dei movimenti ad esso ispirati l’ha spianata decisamente, azzerando o riducendo notevolmente i condizionamenti.

 

Lo sviluppo dei mercati finanziari globali ha accelerato ulteriormente la mobilità del capitale.

La superproduzione spinge sempre di più grandi masse di capitale verso la speculazione finanziaria che più che una patologia passeggera si presenta come un dato strutturale.

 

Dalla seconda guerra mondiale era nato un mondo diviso in tre blocchi: il blocco occidentale, quello socialista, il Terzo mondo.

 

Oggi il blocco occidentale esercita un dominio imperiale su tutto il pianeta.

 Ed è un dominio che alimenta disparità e discriminazioni: per un verso abbiamo l’eliminazione delle distanze, una straordinaria rapidità dei mezzi di comunicazione e la libertà di circolazione dei capitali e delle merci, per un altro si ergono e si moltiplicano gli ostacoli alla libera circolazione degli uomini.

Il massimo del progresso tecnologico convive con la mercificazione degli esseri umani e le nuove schiavitù.

 La dittatura del profitto si esprime nel comando di istituzioni globali incontrollate, a servizio degli interessi delle multinazionali, e la religione della proprietà privata celebra i suoi riti con la privatizzazione di risorse come l’acqua, i brevetti sui semi e sui farmaci.

 

Sotto il profilo politico assistiamo a processi che sono stati definiti di “decostruzione della politica” (“Bauman” 2000, pp. 78 sgg.), cioè della formazione di poteri separati dalla politica.

 

I poteri si concentrano nelle mani di istituzioni internazionali sottratte a qualsiasi forma di controllo democratico.

L’istituzione dell’”Omc” è stata definita un “colpo di stato globale” (Brecher-Costello 1996, p. 79) e si è parlato di un “governo mondiale invisibile” (Bourdieu 2001, p. 45) con riferimento a decisioni adottate in segreto, ma gran parte di questo governo è ben visibile anche se ignora le regole elementari della democrazia:

 

l’elettività dei soggetti che lo esercitano e la possibilità di controllare il loro operato.

 

Il caso più eclatante di vera e propria usurpazione del potere è il G7 (o G8, ma la Russia in realtà recita la parte di parente povero):

i rappresentanti dei paesi più industrializzati, che hanno unicamente il mandato di governare i loro paesi, si sono proclamati leaders del pianeta in base all’equazione ricchezza uguale potere, esautorando l’”Onu” e vanificando ogni tentativo di una sua riforma democratica.

 

In questo quadro gli Stati nazionali vedono sminuiti i loro poteri, anche se continuano ad avere un ruolo, mentre partiti e sindacati che agiscono dentro orizzonti nazionali, una volta crollate le prospettive dell’internazionalismo socialista, sono spiazzati rispetto ai compiti suscitati dalla nuova realtà.

 

Nel contesto della formazione di poteri che si impongono al di fuori di ogni regola democratica, sul piano militare lo scioglimento del Patto di Varsavia non è stato bilanciato dallo scioglimento della Nato, che anzi si è rafforzata e ha rivolto le sue attenzioni verso i nuovi “nemici”:

 

 i paesi arabi e gli altri paesi detentori di risorse energetiche che il blocco occidentale intende sfruttare a suo vantaggio.

 

Al fondamentalismo occidentale rispondono altri fondamentalismi e insieme compongono un quadro di tensione permanente che sollecita un’ulteriore corsa agli armamenti, con grandi profitti per le imprese produttrici che si preparano a gestire il progetto di scudo spaziale, voluto fermamente dal nuovo presidente degli Stati Uniti, in violazione di accordi sul disarmo nucleare, contrastato dai paesi dell’Unione europea ma servilmente appoggiato dal governo Berlusconi.

 

Per l’insieme di sperequazioni, usurpazioni, vere e proprie barbarie che

la globalizzazione incorpora, l’espressione “impero del caos” (Amin 1991) non è né esagerata né fuori luogo.

 

 Nessuna sorpresa quindi se invece della “fine della storia” abbiamo sotto gli occhi una vicenda quotidiana fatta di manifestazioni di protesta, iniziative a vari livelli che si pongono come forme di delegittimazione dell’assetto attuale e si proiettano, tra incertezze e contraddizioni, verso la costruzione di alternative possibili.

 

 

Le mafie: forme organizzative e attività.

 

Abbiamo finora tratteggiato a grandi linee il quadro teorico e storico-mondiale entro cui ci muoviamo.

 Ora bisognerà cominciare a porci il problema del proliferare di organizzazioni criminali sul piano nazionale e internazionale e vedere come esso si inserisca nel contesto della globalizzazione.

 

Cosa hanno in comune, oltre la generica etichetta di “mafie”, organizzazioni criminali storiche e nuove come la mafia siciliana (Cosa nostra e le altre), la ‘ndrangheta calabrese, la camorra campana, la Sacra corona unita pugliese, la mafia del Brenta e sul piano internazionale le triadi cinesi, la yakusa giapponese, i cartelli latino-americani, la mafia turca, russa, albanese, nigeriana ecc.?

 

Per l’Italia la legge antimafia del 1982 ha definito l’associazione mafiosa operando un’estensione del modello siciliano nelle sue linee generali: “l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.

 

Quindi, per potersi parlare di mafia, occorre un’organizzazione caratterizzata da alcune peculiarità:

 la forza d’intimidazione con i suoi effetti sugli associati (ma pure sugli esterni), finalizzata allo svolgimento di attività economiche, in collegamento anche con l’uso del denaro pubblico.

 

Dentro questo schema astratto possono ritrovarsi peculiarità connesse con la storia delle singole associazioni e con il territorio entro cui esse agiscono. Non possiamo in questa sede approfondire adeguatamente questo tema, basterà qualche accenno.

 

Per quanto riguarda la Sicilia l’attenzione si è concentrata su Cosa nostra e sulla sua struttura organizzativa piramidale e verticistica, ma in realtà in Sicilia ci sono altri gruppi definibili di tipo mafioso, come la Stidda delle province di Agrigento e Caltanissetta, la cui struttura organizzativa è meno rigida.

 

 La ‘ndrangheta ha un’organizzazione maggiormente ancorata alla famiglia di sangue, mentre la camorra ha una struttura pulviscolare, con formazioni precarie, ma ha pure conosciuto momenti organizzativi più rigidi e duraturi.

La Sacra corona unita è stata definita una organizzazione gangsteristico-mafiosa ma in realtà presenta molti dei caratteri tipici della mafia storica:

una struttura gerarchica, un organo di coordinamento, un codice culturale.

Più vicina a una banda criminale è la mafia del Brenta ma le sue attività hanno avuto la complessità a cui fa riferimento la legge antimafia.

 

A livello internazionale le triadi, la cui presenza come setta segreta è documentata fin dal XVII secolo, hanno struttura verticistica;

le yakusa, considerate fino al 1992 associazioni solidaristiche, sono una serie di gruppi con organizzazione verticistica all’interno, tradizionalmente senza collegamento tra loro ma da qualche tempo con legami di tipo federativo.

 

I cartelli colombiani sono di recente formazione, non sono molto strutturati e non hanno regole rigide.

Si possono considerare delle “imprese individuali che si spartiscono i compiti tra loro e con un gran numero di bande minori” (Santino-La Fiura 1993, p. 183).

 

I legami sono informali e legati alle esigenze quotidiane.

 I clan turchi sono strutturati su base parentale, la mafiya russa ha un’articolazione complessa, che va da micro bande criminali a organizzazioni più ampie, strutturate gerarchicamente, tra cui quella storica dei cosiddetti “ladri nella legge”, i cui capi possono essere anche funzionari pubblici e uomini d’affari.

 

 I gruppi criminali di etnia albanese non hanno struttura verticistica anche se negli ultimi tempi alcuni gruppi sono emersi sugli altri e si sono avviati collegamenti tra i vari gruppi operanti in Italia. I gruppi nigeriani sono strutturati in cellule collegate tra di loro ma senza un assetto gerarchico.

 

Come si vede, anche da un rapido sguardo, ci troviamo di fronte a un panorama variegato, in cui però possiamo individuare motivi ricorrenti: la forma organizzativa può essere rigida o flessibile, in ogni caso è il frutto di un adattamento alle attività che vengono svolte e ai contesti in cui si agisce.

 

Lo studio dei gruppi criminali deve tener conto dei comportamenti nei paesi d’origine e nei nuovi insediamenti, dell’articolazione delle attività, criminali e legali.

 Alcuni di questi gruppi erano presenti già da tempo in vari paesi e agivano da organizzazioni transnazionali.

 

Le attività dei gruppi antichi e recenti si sviluppano secondo una gamma già ampia e suscettibile di ulteriore ampliamento.

Sul piano criminale abbiamo: estorsioni, usura, contraffazione di merci, contrabbando di tabacchi, traffico di droghe, di armi, di materie prime per fabbricazione di armi, di beni artistici, immigrazione clandestina e tratta degli schiavi, prostituzione, traffico di organi, smaltimento di rifiuti tossici e pericolosi.

 

 Sul piano legale: imprese di costruzioni, appalti di opere pubbliche, esercizi commerciali, attività turistico-alberghiere, speculative e finanziarie.

 I processi di omologazione, innescati dal fatto che le varie organizzazioni svolgono le stesse attività e debbono affrontare gli stessi problemi, come il riciclaggio del denaro sporco, vanno a braccetto con le specificità etniche, storiche e culturali.

 

Ho guardato e continuo a guardare con diffidenza a una caricatura di “teoria generale delle mafie” frutto di forzature e di illazioni, sulla base di una visione che ripropone stereotipi vecchi e nuovi.

 

Negli ultimi anni si è parlato di una cupola mondiale del crimine, di una sorta di Onu del delitto, che ricalca l’immagine della piovra universale che imperversa sui teleschermi.

 

Ritengo invece che alcuni elementi del “paradigma della complessità” possano essere utilmente impiegati per capire quello che sta accadendo sulla scena mondiale, a patto che si abbia l’onestà intellettuale di non piegare la realtà a schemi preconfezionati.

 

Anche per altri gruppi di criminalità organizzata di tipo complesso possiamo chiederci come il crimine sia funzionale ai processi di accumulazione e di acquisizione del potere, come operano i codici culturali, come si configurano i rapporti tra legale e illegale, tra gruppi criminali e soggetti sociali e istituzionali.

 

 I concetti di signoria territoriale, di borghesia mafiosa, di società mafiogena possono valere ben oltre l’orizzonte siciliano.

E sul piano eziologico il cosiddetto “crimine transnazionale” ripropone problemi che sono stati affrontati, spesso in modo inadeguato, dagli studiosi di fenomeni locali.

 

Globalizzazione e criminogenesi.

 

Per anni gli studi sui processi di causazione del crimine sono stati dominati dal paradigma del deficit.

 

 La mafia siciliana e le forme di crimine organizzato venivano spiegate come il prodotto di una carenza:

del vuoto dello Stato (Lombroso), della carenza di controllo (Durkheim) o di opportunità per le classi inferiori (Merton), della disorganizzazione sociale (scuola di Chicago) e come espressioni di subcultura.

 

 Solo negli ultimi anni si è fatta strada una visione che lega la nascita e lo sviluppo delle varie forme di crimine organizzato alle opportunità che esso offre e che le società offrono ai professionisti del crimine.

 

 A mio avviso non c’è un’alternativa deficit o ipertrofia delle opportunità, nel senso che possono operare entrambi:

 

“le opportunità per i criminali organizzati nascono tanto sul terreno delle economie periferiche, in crisi e destinate a ulteriore sottosviluppo, che su quello delle aree centrali pienamente sviluppate” (Santino 1995, p. 132).

 

L’eziologia del deficit è stata riproposta dalle Nazioni Unite nel corso della conferenza ministeriale mondiale svoltasi a Napoli nel novembre del 1994.

In quell’occasione l’allora segretario dell’”Onu” avanzò una spiegazione che si può così sintetizzare:

 i paesi capitalistici si reggono su due pilastri: il mercato e il diritto.

 

Oggi, con la mondializzazione dell’economia capitalistica, in molti paesi si è formato un mercato senza Stato e senza regole, un capitalismo primitivo, sregolato, dominato dall’accumulazione illegale, una sorta di giungla. Quindi alla base del crimine ci sono Stati deboli e mercati senza regole (Santino 1999, pp. 168 sg.).

 

Risposte diverse arrivano dagli studiosi che cercano di ricostruire i contesti criminogeni guardando al modo di produzione e utilizzando le categorie analitiche del “fordismo” e del “postfordismo”, inteso come

quel processo di globalizzazione e profonda ristrutturazione dell’economia che ha posto profondamente in questione l’ordine socioeconomico che era emerso all’indomani della seconda guerra mondiale.

 

 Il trasferimento del centro strategico della produzione da quello industriale a quello dei servizi, la perdita della centralità della vecchia produzione “di fabbrica” a favore del tipo di produzione basato sull’informazione elettronica, assai più leggero, decentrato e flessibile, si sono accompagnati alla progressiva marginalizzazione di una classe operaia di fabbrica maschia e sindacalizzata a favore dell’emergere di una nuova classe operaia profondamente divisa, più giovane, povera e femminile.

 

 

 La conseguente “disorganizzazione morale” della “vecchia” classe operaia è andata di pari passo con l’emergere di strati sociali di ricchezza crescente, avidi di consumo sia lecito che illecito.

 

 La campagna ideologica, e le opportunità pratiche, per una nuova imprenditoria hanno quindi ridiretto l’impegno di molti, tra cui molti immigrati, verso la fornitura di sostanze e servizi legati al mercato informale e anche di natura illecita.

 

 È facile quindi avanzare l’ipotesi che le principali figure di devianza legate all’immigrazione – il traffico di droga, la prostituzione, i vari mercati dell’economia informale – abbiano trovato le loro radici all’interno della situazione sopra descritta, in cui sia la domanda di tali servizi sia l’opportunità di offrirli sono ampiamente aumentati (Melossi 1999, pp. 45 sg.).

 

La globalizzazione si presenta come una regolazione criminale:

 

L’attuale rapporto di forze conduce al tentativo di eliminare i modi di regolazione imposti dai rapporti sociali ormai superati, per sostituirli non con la deregulation, la competizione, la concorrenza sui mercati, con tutto il repertorio insomma del discorso liberista, ma piuttosto con la regolazione segreta, clandestina, degli oligopoli, delle multinazionali, del capitale dominante, una regolazione criminale, dotata di trasparenza analoga a quella del Politburo della Corea del Nord o delle riunioni della mafia, un progetto utopistico, capace solo di generare il caos (Amin 1998, p. 10).

 

L’economia della globalizzazione sarebbe di per sé criminale, poiché si regge sui cinque crimini maggiori contro l’umanità:

 1) le transazioni finanziarie, alla cui base c’è il riciclo di tutte le altre forme di criminalità;

 2) il commercio di armi e di materiali nocivi;

3) il commercio di organi umani, viventi e sezionati;

4) il commercio della droga;

5) il saccheggio della natura (Amoroso 1999, p. 50).

 

Si ripropone il problema del rapporto tra capitalismo e mafia e più in generale il crimine organizzato.

 In altra sede mi sono posto questo problema pervenendo alla seguente conclusione.

Sarebbe scorretto identificare capitalismo e mafia, dato che fenomeni di tipo mafioso non si sono registrati dovunque si è imposto il modo di produzione capitalistico.

 

La mafia nei suoi primi sviluppi è assimilabile alle forme dell’accumulazione primitiva, ma non tutte le forme di accumulazione originaria hanno prodotto mafie.

 

 Decisiva a mio avviso è stata l’affermazione della forma Stato come monopolista della forza.

 In Inghilterra è documentata fino agli inizi del XIX secolo la presenza dei Volunteer”, squadre a cavallo a servizio dei proprietari terrieri, che “operavano in maniera molto simile a quella degli antenati dei mafiosi siciliani.

 

Solo che dei “Volunteer” in seguito non si trova traccia mentre i mafiosi siciliani avranno un avvenire assicurato.

Non mi pare che ci sia nessun mistero:

 in Inghilterra la violenza necessaria per portare avanti i processi di espropriazione viene assunta direttamente dallo Stato, mentre in Sicilia vige un oligopolio della violenza che offre ampio spazio all’azione violenta privata (Santino 2000a, pp. 86 sgg.).

 

Nell’evoluzione del rapporto tra capitalismo e mafia-mafie possiamo distinguere tre fasi:

 1) nella transizione dal feudalesimo al capitalismo si formano organizzazioni criminali di tipo mafioso dove non si afferma il monopolio statale della forza (mafia in Sicilia, triadi in Cina, yakusa in Giappone);

 

 2) nei paesi a capitalismo maturo troviamo organizzazioni di tipo mafioso in presenza di determinate condizioni:

 immigrazione, che non significa che tutti gli immigrati sono criminali, ma che tra gli ultimi arrivati ci sono soggetti che usano il crimine come accumulazione primitiva;

mercati neri originati dai proibizionismi, dall’immigrazione clandestina al proibizionismo degli alcolici prima e delle droghe dopo;

 

 3) nel capitalismo globalizzato la diffusione di organizzazioni criminali di tipo mafioso si spiega con le grandi opportunità offerte da un sistema in cui operano come fattori criminogeni dati strutturali come l’aggravamento degli squilibri territoriali e dei divari sociali e i processi di finanziarizzazione (Santino 1999, pp. 172 sg.).

 Oggi più che mai deficit e ipertrofia delle opportunità invece che scontrarsi si danno la mano.

 

 Siamo passati da società mafiogene locali e circoscritte a un villaggio globale mafiogeno, esteso dai centri alle periferie.

 

Abbiamo già detto che la globalizzazione più che un sistema di omologazione e di inclusione è un sistema di esclusione che acuisce squilibri e divari, con il risultato che per molte aree del pianeta (l’Africa, l’America latina, gran parte dell’Asia, gli ex paesi socialisti) l’accumulazione illegale è l’unica economia possibile.

 

Su questo fronte possiamo dire che il paradigma del deficit possa essere utilmente impiegato, ma il crimine non si sviluppa solo nelle periferie emarginate ma pure nei centri del capitale finanziario (e qui le opportunità per il crimine organizzato sono decisamente ipertrofiche).

 

La crescita dell’economia finanziaria non viene considerata solo come un effetto della globalizzazione ma si identifica con essa (Gallino 2000, p. 112).

 

Basterà qualche dato:

nel 1998 c’è stato un movimento giornaliero di capitali di 2.000 miliardi di dollari, di cui una frazione minima (tra un cinquantesimo e un centesimo della cifra totale) riguarda l’economia reale, produttrice di beni e servizi.

Negli ultimi trent’anni gli scambi finanziari hanno avuto un aumento vertiginoso:

nel 1970 erano 10-20 miliardi di dollari, nel 1980 sono passati a 80 miliardi, nel 1990 sono arrivati a 500 miliardi.

 

Il sistema bancario-finanziario è diventato un vero e proprio casinò, per cui si è parlato di “finanza barbara” (Millman 1996) o di “denaro impazzito” (Strange 1999).

Sono ulteriormente proliferate le innovazioni finanziarie e sono comparsi nuovi operatori.

 

 Il mercato dei derivati ha avuto un incremento spettacolare: si calcola che il valore complessivo dei contratti relativi a derivati in circolazione in ventisei paesi nel 1995 equivaleva al doppio della produzione economica mondiale, cioè a circa 47,5 trilioni di dollari (Strange 1999, p. 45).

 

Accanto agli intermediari finanziari (brokers) agiscono gli operatori valutari, professionisti delle speculazioni più ardite e più rovinose per le economie più deboli (va sotto il nome di ramping la speculazione che consiste nel concentrare somme rilevanti in mercati di valute poco trattate, manovrandone l’ascesa o il crollo a seconda delle convenienze).

 

Per quanto riguarda i paradisi fiscali, i paesi e i territori che offrono particolari facilitazioni per attirare i capitali, sarebbero tra 60 e 90.

 

Una lista nera pubblicata dall’”Ocse” nel giugno 2001 comprende 35 paesi.

 

Da un recente studio del “Financial Times” limitato a 37 Stati risulta che la loro attività negli ultimi anni è cresciuta.

 Nel 1997 nelle “isole Vergini britanniche” sono state costituite 50 mila nuove società (nelle isole operano più di 260 mila società), nelle isole Cayman ne sono state costituite più di 42 mila, a Cipro più di 34 mila.

 

 I depositi in denaro hanno raggiunto 241 miliardi di dollari nelle Bahamas e oltre 500 miliardi di dollari nelle isole Cayman, con un incremento del 27,4% nelle isole Vergini britanniche (Santino 2000b).

 

Anche se ubicati in isole offshore i paradisi fiscali si raggruppano nelle vicinanze dell’Europa e degli Stati Uniti, cioè delle grandi centrali finanziarie e obbediscono alle esigenze di frazioni crescenti del capitale di sfuggire ai controlli e cercare sbocchi speculativi più remunerativi degli investimenti produttivi.

 

Non tutto il capitale finanziario è di provenienza illegale ma, data l’opacità del sistema finanziario, è difficile se non impossibile distinguere i vari flussi di capitale.

 

In questo contesto si sviluppano le varie attività criminali, dai traffici di droghe, di armi e di materiali nucleari al saccheggio del territorio, con le deforestazioni, l’abusivismo edilizio, lo smaltimento di rifiuti tossici e nocivi, all’immigrazione clandestina e alla mercificazione degli esseri umani, che va dallo sfruttamento del lavoro in forme schiavistiche alla prostituzione di donne e di minori, al commercio di organi.

 

Spesso queste attività sono condotte senza soluzione di continuo con attività legali e i soggetti criminali operano in perfetta sintonia con imprenditori e istituzioni.

 

 Si formano così gruppi dominanti che ricordano da vicino la borghesia mafiosa siciliana e si sviluppano collegamenti di soggetti criminali con rappresentanti di organizzazioni internazionali.

Al processo di internazionalizzazione dei colletti bianchi si affianca l’internazionalizzazione delle attività dei gruppi criminali interessati a sfruttare le opportunità offerte dalle ingenti risorse in dotazione delle varie istituzioni:

il crimine transnazionale spesso è il frutto di queste interazioni, a cominciare dalle frodi comunitarie nell’ambito dell’Unione europea e dagli appalti di opere pubbliche.

 

Sulla base della difficoltà se non impossibilità di distinguere legale e illegale (Isenburg 2000), si parla di una nuova fase nella storia del crimine organizzato:

 esso sarebbe stato dapprima predatorio, poi parassitario e ora simbiotico (Ruggiero 1992).

 

 Le attività criminali, dai traffici di droghe, di armi, di esseri umani, ai reati ambientali, sono segmenti di percorsi condivisi con altri soggetti, imprenditoriali e istituzionali, ognuno dei quali ha la sua convenienza e percepisce la sua quota di proventi.

 

 In realtà non si tratta soltanto di casi di collusione, gravi ma tutto sommato circoscritti, ma di qualcosa che rimanda alla struttura stessa dell’economia e del mercato, già prima della fase di globalizzazione:

 

studiando l’impresa mafiosa ho proposto di utilizzare l’ipotesi teorica dell'”economia polimorfa” e del “mercato multidimensionale”, in cui economia legale, sommersa e illegale si configurano come scomparti di un unico mercato, dando vita a scenari complessi, che vanno dall’intreccio e complicità alla convivenza e al conflitto (Santino-La Fiura 1990, pp. 93 sg.).

 

La simbiosi è alimentata anche dalla condivisione di un codice culturale.

 

All’interno di quello che è stato definito il “pensiero unico”, il dogma della competitività accomuna soggetti illegali e legali.

 

Del resto che il crimine sia una forma di competitività lo sapevamo già (rituale il riferimento a Merton) e che il capitale non esiti a cogliere tutte le occasioni, comprese quelle criminali, di massimizzazione del profitto lo ricordava già nel XIX secolo Dunning, a cui fa riferimento Marx nel primo libro del Capitale.

 

E l’auto-normatività del mercato reca ancora più marcati i segni già inventariati da Weber:

 tutto viene ridotto a cosa e a merce e l’etica del profitto ricrea comportamenti e relazioni a sua immagine e somiglianza.

 

Al vertice di questa scalata criminale si potrebbero collocare quelli che sono stati definiti gli “Stati-mafia”.

 

 L’espressione è stata impiegata negli ultimi anni per designare alcuni Stati direttamente impegnati in attività criminali.

Si tratta in particolare di Stati balcanici, come la Serbia e l’Albania, nati dopo la dissoluzione dei regimi socialisti.

In questi paesi le organizzazioni mafiose locali, dedite al traffico di droghe e di armi e con un ruolo di primo piano nelle guerre che hanno insanguinato l’area balcanica, si sono annidate ai vertici delle istituzioni, dando vita a regimi criminocratici (“Quaderni speciali di Limes” 2000).

 

Situazioni sostanzialmente omologhe si sono registrate in altri paesi ex socialisti, a cominciare dalla Russia, dove le organizzazioni criminali si sono sviluppate dal seno stesso del Kgb e del Pcus e le borghesie in ascesa sono espressione di gruppi criminali, mentre pratiche illegali e corruzione allignano ai vertici del potere, come nel caso della famiglia Eltsin, coinvolta in operazioni di riciclaggio di capitali attraverso banche di vari paesi.

 

L’espressione è nuova ma il fenomeno non lo è e non si può dire che sia limitato ai paesi ex socialisti.

 

Di criminocrazia, più esattamente di narcocrazia, si è parlato per vari paesi, i cui governanti sono risultati direttamente coinvolti nel traffico di droghe, e tra i casi più eclatanti si citano la dittatura del generale García Meza in Bolivia, il regime di Noriega in Panama, il regime militare in Birmania.

 

Nella storia della mafia siciliana il rapporto con le istituzioni si può considerare un dato costitutivo e si inscrive all’interno dei processi di formazione delle classi dominanti e della concreta configurazione della forma Stato.

Il discorso non va limitato alla mafia.

All’interno dello Stato italiano si sono verificati processi di criminalizzazione del potere e si sono formate delle vere e proprie istituzioni criminali.

 

Tali possono essere considerati i cosiddetti “poteri occulti” (come i servizi segreti “deviati”, i cui dirigenti erano iscritti alla loggia massonica P2) che hanno avuto un ruolo nelle stragi, da Piazza Fontana alla stazione di Bologna, in collaborazione con gruppi neofascisti e altri soggetti impegnati a respingere con ogni mezzo l’avanzata di partiti e movimenti che mettevano in forse l’assetto di potere.

 

 Anche in paesi come gli Stati Uniti ci sono stati fenomeni di criminalità del potere, come nel caso dell’assassinio del Presidente Kennedy, volutamente non chiarito in sede giudiziaria.

Gli Stati-mafia, pertanto, non sono soltanto nei Balcani o in paesi dittatoriali (dalla Grecia dei colonnelli all’America latina) ma l’espressione può essere usata per rappresentare un duplice fenomeno: le connessioni tra organizzazioni criminali e istituzioni, spesso rappresentate da personaggi incriminati per corruzione o per mafia, come in Turchia, dove sono al governo uomini della banda politico-criminale dei Lupi grigi, o nell’Italia berlusconiana, dove sono stati candidati ed eletti uomini condannati o sotto processo, e l’uso, continuativo o anche episodico, di pratiche criminali da parte delle istituzioni stesse.

 

Tirando le somme, possiamo parlare di “crimini della globalizzazione” dando all’espressione questo significato:

 i gruppi criminali proliferano e le attività criminali si sviluppano in un contesto che è criminogeno per i suoi caratteri strutturali e che da più parti viene definito criminale per le modalità dell’accumulazione e della regolazione.

 

 

Le risposte istituzionali.

 

È possibile governare la globalizzazione?

L’Onu ha tentato di porsi il problema e nel corso degli anni ’90 si è formata una “Commission on Global Governance”, formata da 28 membri di 26 paesi.

 La global governance dovrebbe configurarsi come un insieme di regole, introdotte attraverso accordi bilaterali e multilaterali, per controllare i flussi economici mondiali (Gallino 2000, p. 106).

 

 I soggetti dovrebbero essere i governi, le istituzioni intergovernative, le Ong, i movimenti di cittadini, le corporazioni transnazionali, le università, i mass media.

La Commissione ha proposto l’istituzione di un “Consiglio per la sicurezza economica” che dovrebbe avere i seguenti compiti:

monitorare lo stato dell’economia mondiale, elaborare politiche strategiche al fine di promuovere uno sviluppo stabile, equilibrato, sostenibile;

 assicurare la coerenza nell’azione delle organizzazioni internazionali, assicurare una leadership politica.

 Il progetto è rimasto sulla carta per l’incapacità dell’Onu di avere una qualche influenza sul “Fmi”, sulla “Bm”, sull’”Omc” e di contrastare l’affermazione del G8, che si presentano come i detentori del superpotere globale.

 

Sul piano delle politiche anticrimine le “Nazioni Unite” hanno cercato di avere un loro ruolo, cominciando a porsi il problema degli sviluppi internazionali della criminalità organizzata fin dal 1975, gettando le basi per la preparazione di una convenzione internazionale con una serie di iniziative, fino ad arrivare alla conferenza di Palermo del dicembre 2000 per la firma della convenzione sul crimine transnazionale.

 

Per la “Convenzione” un reato è di natura transnazionale se è commesso in più di uno Stato;

se è commesso in un solo Stato ma la sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo ha luogo in un altro Stato;

se è commesso in un solo Stato ma coinvolge un gruppo criminale che svolge attività criminali in più di uno Stato, o è commesso in uno Stato ma ha effetti sostanziali in un altro Stato (art. 3).

 

La “Convenzione” mira a introdurre negli ordinamenti dei paesi firmatari una figura di reato che richiama l’associazione a delinquere di tipo mafioso della legislazione italiana (art. 5), norme contro il riciclaggio (artt. 6-7), contro la corruzione (artt. 8-9), per la confisca dei beni derivanti da attività illecita (artt. 12-14), disponendo che gli Stati non possono opporre il segreto bancario (art. 12), per l’assistenza giudiziaria reciproca (art. 18) e per l’assistenza alle vittime (art. 25). Non c’è nessun accenno ai crimini ambientali.

 

Due protocolli aggiuntivi riguardano la tratta di persone, in particolare di donne e bambini, e il traffico di migranti.

 La firma di un terzo protocollo contro la produzione illecita e il traffico di armi da fuoco è stata rimandata.

 

La “Convenzione” rappresenta il tentativo di creare un diritto penale internazionale a partire dal tema dell’internazionalizzazione del crimine organizzato, ma, a parte l’affidabilità di vari Stati firmatari direttamente o indirettamente coinvolti in attività criminali, non può affrontare il problema della eziologia del crimine.

 

 L’art. 30 prevede misure imprecisate tendenti all’attuazione ottimale della “Convenzione” per mezzo della cooperazione internazionale e parla di “sforzi concreti” degli Stati-parte “per accrescere la loro cooperazione a vari livelli con i paesi in via di sviluppo, in modo da rafforzare la capacità di questi ultimi di prevenire e di combattere la criminalità organizzata transnazionale”, disponendo che gli Stati versino dei contributi volontari.

 

 Ma, ammesso che problemi di così vasta portata possano affrontarsi in questo modo, bisognerà vedere se queste indicazioni troveranno applicazioni.

Per quanto riguarda le norme sul riciclaggio, la produzione legislativa ha assunto ormai una certa consistenza.

Oltre alle norme adottate da vari paesi ci sono le “direttive europee” e la “Convenzione” interviene su un terreno già arato, ma il sistema finanziario ha come regole fondamentali l’efficienza, la sicurezza e la riservatezza e la competizione si gioca nell’intreccio di questi tre termini, il che significa che il segreto bancario continua ad essere in vigore e lo sviluppo della new economy via rete telematica invece di rendere il mercato più trasparente incoraggia l’anonimato delle transazioni, con le convenienze prevedibili per gli operatori illegali.

 

La proposta del premio Nobel per l’economia “Tobin” di introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie, avanzata nel 1972, finora non è stata introdotta per la refrattarietà del capitale finanziario a qualsiasi forma di controllo.

 

In Italia, dove con la legge 197 del 1991 è stata introdotta la legislazione antiriciclaggio, le segnalazioni di transazioni anomale sono molto poche.

Nel periodo 1991-1996 a fronte di 2 miliardi e 100 milioni di transazioni bancarie, le banche hanno segnalato 7134 operazioni anomale, di cui solo 13 hanno portato ad identificare operazioni di riciclaggio (Masciandaro -Pansa 2000, p. 185).

 

Assieme alla innovazione tecnologica dell’informazione (Internet) e alla globalizzazione dei mercati finanziari senza un’armonizzazione degli ordinamenti, per cui proliferano i paradisi fiscali, l’integrazione monetaria europea con l’introduzione dell’euro può offrire opportunità al riciclaggio del denaro sporco innescando un meccanismo di riduzione dei costi di transazione, e questo vale sia per l’economia legale che per quella illegale.

 

Risposte alternative: dall’happening al progetto.

 

Contrariamente a quel che si leggeva sulla pagina dedicata a Palermo nel sito internet dell’Onu durante la conferenza sul crimine transnazionale del dicembre scorso, la lotta alla mafia in Sicilia non è nata negli ultimi anni.

 

La lettura del testo, che riporto in appendice, è davvero illuminante (tra l’altro si riporta in esergo una frase di Giovanni Falcone con la data 2 dicembre 1992:

 anche i più disinformati sanno che Falcone è stato ucciso il 23 maggio dello stesso anno) e, assieme alle affermazioni che ci è toccato di ascoltare durante la conferenza, secondo cui la mafia ormai è alle corde e la Convenzione sarebbe il cappio al collo di un morente, ci dà un’idea del clima culturale in cui si sono svolti i lavori.

 

Non ci vuol molto a capire che la mafia siciliana, pur avendo ricevuto dei colpi, in reazione alla escalation di violenza degli anni ’80 e ’90, non è a pezzi, ma bisogna operare uno sforzo di memoria decisamente controcorrente per recuperare una storia che si è fatto di tutto per dimenticare, seppellendola sotto palate di ignoranza e di stereotipi.

 

La lotta contro la mafia in Sicilia ha avuto le caratteristiche di un grande movimento di massa finché è stata l’aspetto specifico della lotta di classe e del conflitto sociale:

centinaia di migliaia di contadini hanno dato vita a una lotta lunga e durissima per il miglioramento delle condizioni di vita e per il diritto di cittadinanza democratica che per la reazione violenta della mafia e delle classi conservatrici, con la copertura delle istituzioni, ha assunto i caratteri di una vera e propria guerra di liberazione (Santino 2000c).

 

Alla sconfitta di queste lotte ha fatto seguito un imponente flusso migratorio che ha dissanguato la Sicilia inchiodandola alla sudditanza verso classi dominanti che hanno gestito il potere secondo un modello mafioso-clientelare.

 

Negli ultimi decenni, in risposta all’esplosione della violenza mafiosa, settori delle istituzioni e della società civile si sono attivati ma tanto la reazione istituzionale che la mobilitazione della società civile hanno avuto il limite dell’emergenzialismo e quando sono finiti i grandi delitti e le stragi c’è stato un ritorno indietro.

 

 Negli ultimi anni si è registrata l’attenuazione della legislazione d’emergenza e l’affermazione di forze politiche che hanno tra le loro fila personaggi inquisiti o sotto processo, candidati alle elezioni ed eletti con gran numero di voti, ha tutto il sapore di una rivincita.

 

Attualmente siamo nel pieno di una stagione in cui la mafia viene data per vinta, i nemici sembrano essere i magistrati che hanno cercato di portare nelle aule giudiziarie i politici incriminati per i loro rapporti con i mafiosi e l’illegalità e l’impunità vengono sventolate come bandiere di trionfo.

 

Se vogliamo invertire la tendenza abbiamo bisogno di un quadro d’analisi adeguato e soprattutto di superare i limiti dell’antimafia così come si è sviluppata negli ultimi anni.

 

 Più volte abbiamo detto che bisogna passare dall’emozione al progetto, dalla testimonianza al coinvolgimento di ampi strati della popolazione, coniugare valori e interessi ecc. ecc.

Ma tradurre tutto questo in programma concreto e credibile non è facile, soprattutto ora che le emozioni sono sfiorite e la memoria di fatti tragici si allontana.

 

Spesso si dice che bisogna imparare a pensare globalmente e ad agire localmente, ma forse sarebbe più corretto dire che globale e locale debbono andare di pari passo, sul piano dell’analisi e su quello dell’operatività.

 

E questa è l’indicazione più significativa del movimento che è comparso sulla scena a Seattle e si è dato un progetto di sviluppo autonomo a Porto Alegre.

Un movimento antimafia oggi deve porsi dentro una prospettiva transnazionale e fare parte organicamente di un progetto di alternativa globale.

 

I crimini della globalizzazione, nel senso che abbiamo cercato di delineare, debbono figurare a pieno titolo nell’agenda del movimento contro la globalizzazione capitalistica.

Riprendendo i punti essenziali del paradigma della complessità, possiamo indicare, a grandi linee, i terreni su cui si dovrebbe sviluppare il nostro lavoro.

 

Mafie e crimine transnazionale sono figli legittimi del contesto mondiale ma questo non significa che dobbiamo attendere la palingenesi universale.

 

La dimensione penalistica è ineliminabile e bisognerà attrezzare convenientemente la legislazione e gli apparati repressivi, ma bisogna sapere che questo non basta se non si affrontano i problemi di fondo che stanno alla base della riproduzione del crimine e della sua simbiosi con il quadro sociale.

 

Per quanto riguarda l’accumulazione, non si può agire solo sui patrimoni già formati, con la confisca dei beni, e sul riciclaggio, con l’abolizione del segreto bancario e dei paradisi fiscali e con il controllo sui processi di finanziarizzazione, ma pure sulle fonti, dal proibizionismo delle droghe all’immigrazione, dal lavoro nero alla prostituzione, dallo smaltimento dei rifiuti alle opere pubbliche.

 

I rapporti tra mafie e politica sono stati e rimangono la chiave di volta della legittimazione dei gruppi criminali e si pone il problema di andare in controtendenza rispetto ai processi in atto di concentrazione dei poteri:

 occorre più democrazia non meno democrazia e la partecipazione democratica deve svilupparsi attraverso forme diffuse di protagonismo e di controllo.

Sul piano culturale, l’etica della globalizzazione (la competitività, il successo ad ogni costo) è quanto di più ospitale ci possa essere per la cultura mafiosa e le attività di “educazione alla legalità” troppo spesso somigliano a un appello al rispetto di regole quotidianamente calpestate e a un impegno unanimistico che pialla le responsabilità e cade nel vuoto.

 

Ci occorre invece un’etica della radicalità e del conflitto, della coerenza tra dichiarazioni e comportamenti.

 

Il consenso ha una consistente base materiale e se vogliamo suscitare movimenti di massa, riprendendo una linea che fu del movimento contadino, bisognerà operare su questa base, sviluppando l’economia legale e la partecipazione dal basso.

 

Solo così si potranno strappare gli strati popolari all’egemonia mafiosa.

 Bisognerà insomma agire su tutti quei terreni che rendono una società mafiogena, sviluppando un’azione integrata che miri soprattutto alla prevenzione.

 

Come si vede si tratta di problemi di fondo ma non partiamo da zero: negli ultimi anni abbiamo accumulato un patrimonio di analisi e di esperienze che ci consente di muovere passi significativi su questo cammino.

 La “globalizzazione dal basso” ha cominciato a prendere corpo non solo nelle manifestazioni di protesta ma soprattutto attraverso un faticoso lavoro quotidiano a cui ciascuno di noi è chiamato a dare il suo contributo.

E il contributo dalla Sicilia recherà il segno di un impegno che si è sviluppato nel tempo, con un alto costo di sangue.

 Memoria e progetto sono le gambe su cui cammina un movimento che non si limiti a inseguire le scadenze degli altri e voglia andare oltre i riti e gli stereotipi.

 

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