Il nostro problema si chiama “debito”.
Il
nostro problema si chiama “debito”.
Il
ministro Giorgetti non convince
e la
premier Meloni dà forfait.
Msn.com
- Claudia Fusani - Il Riformista – (28-12-2023) – ci dice:
Ha
aspettato che il ministro economico Giancarlo Giorgetti terminasse l’audizione
alla Camera.
A sorpresa il titolare del Mef ha accettato di
rispondere non solo sulla manovra ma anche su Mes e Patto di stabilità e
crescita, temi tabù fino alle 14 di ieri.
Alle
16 il ministro aveva terminato il suo crudo resoconto (“dovremo essere
disciplinati e rispettare le regole, il nostro problema sarà la disciplina e
non la presunta austerity imposta dalla regole”) e a quel punto palazzo Chigi
ha fatto uscire due righe secche di comunicato:
“La tradizionale conferenza stampa di fine
anno del presidente del Consiglio è rinviata a data da stabilire”.
Probabilmente
l’assalto di domande cui Giorgetti è stato sottoposto nell’audizione alla
Camera, deve aver convinto la premier Meloni che oggi le sarebbe toccato lo
stesso trattamento e le risposte non potevano, nella sostanza, essere diverse:
rispettare le nuove regole fiscali e di bilancio, certo, ma siccome è molto
difficile, le politiche di bilancio di questo paese sono nei fatti consegnate a
Bruxelles.
Un confronto che la premier deve aver
giudicato insostenibile.
Non
era mai successo.
Poi
ovviamente c’è la versione ufficiale:
“Per
una leggera influenza la Presidente Meloni deve rinviare la conferenza stampa”.
Questa
volta non si fa neppure lo sforzo di prevedere una nuova data.
Premier che non parla in pubblico dal 18
dicembre, ed era il palco amico di Atreju.
In
questi dieci giorni tra Mes, Patto di Stabilità e crescita, Patto per
l’immigrazione, l’Europa è cambiata – si può dire – con una velocità inattesa.
Ma il
Paese non ha potuto ascoltare la versione del Capo del governo.
Non si
sa se Giorgetti, rispondendo anche su Mes e Patto di stabilità, abbia accettato
di fare da cavia, una sorta di simulazione per stamani.
In
ogni caso pur con la consueta schiettezza il titolare del Mef non ha convinto
del tutto.
Non
poteva farlo visto che il primo ad avere dubbi e remore è proprio lui.
Le
opposizioni, da Marattin (Iv) a Cecilia Guerra e Pagano (entrambi Pd), da Della
Vedova (+Europa) a Grimaldi (Sinistra e Verdi), hanno insistito seppure con
toni diversi su alcuni nodi fondamentali:
tra
pochi mesi sarà necessaria una manovra correttiva;
dove
troveremo i soldi per coprirla;
dove troveremo i soldi il prossimo anno per
confermare il taglio del cuneo fiscale; firmando il Patto ci siamo consegnati
mani e piedi a Bruxelles che nei fatti scriverà le nostre prossime leggi di
bilancio.
Giorgetti
ha chiarito che le nuove regole entreranno in vigore “nel 2025 e che quindi non
è prevista una manovra correttiva.
Ha
aggiunto che “nessuno ha festeggiato” per la firma del Patto di stabilità (in
realtà dovrebbe rivedere le dichiarazioni di molti parlamentari di Fdi in
quelle ore, ndr) perché si tratta di “un compromesso che andrà valutato nel
tempo”.
Giorgetti:
mai detto che l'Italia avrebbe ratificato il Mes? (Dailymotion)
Il
Mes, infine:
“Non
ho mai detto ai colleghi europei che lo avremmo ratificato.
Io non mento e dico sempre le stesse cose qui,
in sede di governo e in sede europea.
Su questo ho letto cose false.
Io ho
sempre rappresentato le difficoltà che si sono nella maggioranza e nelle
opposizioni.
Mi
scuseranno gli amici 5 Stelle se ho così anticipato quello che sarebbe stato il
loro voto.
Ho
solo detto che non sarebbe stato più accettabile un nuovo rinvio.
E così
il Parlamento si è espresso”.
Tutto
ciò premesso, il Mes “non è né la causa né la soluzione ai problemi dell’Italia
perché sul banco degli imputati c’è soprattutto il nostro debito che deve
essere tenuto sotto controllo specie dopo quattro anni che io definisco
psichedelici perché abbiamo ignorato il debito e il deficit”.
Per Giorgetti sembra questa la priorità:
“Uscire
con coraggio dalla fase in cui ci siamo assuefatti a questo Lsd che abbiamo
preso per 4 anni per cui abbiamo fatto deficit e scostamenti come se nulla
fosse. Ora dobbiamo eliminare punto per punto misure che non ci possiamo
permettere”.
In
Commissione, al banco del governo, lo ascoltavano il viceministro Maurizio Leo
e i sottosegretari Federico Freni e Lucia Albano.
Sul
Patto di Stabilità Giorgetti ha chiarito di “non avere alcuna voglia di
festeggiare” e però “mi sono preso la responsabilità di accettare un accordo
invece di mettere il veto e tornare al vecchio Patto che sarebbe stato
peggiorativo per noi”.
È
vero, a forza di aggiungere – lo ha fatto ogni paese per giungere al
compromesso – “abbiamo creato un caos totale di clausole.
La
Commissione ogni anno farà una valutazione su misura su ogni paese sapendo che
i criteri cambiano e cambieranno in continuazione”.
Il problema, ha aggiunto, “non è l’austerità
ma la disciplina, cioè la capacità per chi fa politica di rispettare le regole
e gli impegni presi e di assumere decisioni anche se impopolari”.
Parole
che dicono e non dicono.
E che non convincono le opposizioni.
Il
ministro insiste che non ci sarà bisogno di una manovra correttiva perché le
nuove regole saranno in vigore dal 2025.
“Eppure entrano in vigore a giugno, dopo il
voto, e solo per il rientro del debito, stando alle nuove regole, avremo
bisogno di una cifra tra i 15 e i 17 miliardi” commentano Guerra e Marattin.
Per
Stefano Patuanelli (M5s)
“la
sequenza di parole usata dal ministro è agghiacciante:
‘un compromesso peggiore della proposta
iniziale della Commissione’,
un ‘caos totale’, un ‘sistema di regole che
rischia di diventare prociclico’.
Espressioni che fotografano i il totale
fallimento della strategia negoziale europea del Governo, certificandone
subalternità e irrilevanza.
Questo
disastro imporrà al Paese tagli e tasse negli anni a venire”.
Tutti
i gruppi di opposizione, compreso Calenda (Azione) insistono con le dimissioni
di un ministro “che oggi è sembrato un passante”.
La verità è che Giorgetti ha fatto Giorgett
i: un
uomo di numeri che ha risposto con i numeri che rivelano tutta l’incertezza
nelle conseguenze del nuovo Patto di stabilità.
E la
constatazione che qualunque altra cosa sarebbe stata peggiore.
Il
testo della manovra oggi arriva in aula.
Meloni non ci sarà, non risponderà ai
giornalisti, ci sarà però il Consiglio dei Ministri.
Il clima in maggioranza è pessimo.
Forza
Italia è in rivolta.
Una
parte non ha gradito la linea Tajani che ha portato all’astensione sul Mes che
invece doveva essere votato.
Un’altra
parte del partito insiste sulla proroga del bonus edilizio 110%.
Giorgetti
dice e ripete che non ci sono soldi.
Se dovesse essere sfiduciato un’altra volta –
magari nel Mille proroghe – la sua permanenza al governo si farebbe
problematica.
Giorgetti
accusa, è scontro:
«Il
patto di Stabilità un compromesso.
Il
Mes? Il vero problema è il debito».
Corriere.it
- Enrico Marro – (27-12-2023) – ci dice:
Giorgetti
alla Camera: «Via le misure che non possiamo permetterci. Le opposizioni: si
dimetta».
Una
caratteristica che viene riconosciuta al ministro dell’Economia, Giancarlo
Giorgetti, è la pazienza.
Senza
dubbio necessaria nelle difficili trattative in Europa e anche per gestire le
tensioni nella maggioranza.
Ma
ieri Giorgetti, ascoltato in commissione Bilancio alla Camera, davanti
all’incalzare delle opposizioni che lo hanno messo in difficoltà sulla mancata
ratifica del Mes, si è armato anche di realismo per respingere gli attacchi.
Giocando
soprattutto in difesa.
Ecco, per esempio, cosa ha detto dell’accordo
raggiunto nell’Unione europea sulla riforma del patto di Stabilità:
«Senza un accordo, sarebbe rimasto il vecchio
Patto.
Da
questo punto di vista, abbiamo fatto un passo avanti, anche se rispetto alla
proposta della Commissione c’è stato un passo indietro.
Sono
state introdotte tantissime clausole per le richieste di tanti Paesi.
È un compromesso.
La
valutazione sul nuovo patto di Stabilità la faremo tra qualche anno».
No a
nuove manovre.
Nel
frattempo, ha aggiunto, «non c’è da fare festa, dobbiamo dire le cose come
stanno», senza nascondersi — ha ammesso — che «abbiamo creato un sistema di
regole complicato», che «rischia di essere pro-ciclico», cioè di aggravare
eventuali recessioni, anziché risolverle.
Detto
questo, però, il ministro ha assicurato che le politiche del governo «sono
coerenti con quello che è previsto dal nuovo Patto» e quindi «non sono previste
manovre aggiuntive».
Ma
certo la musica cambia rispetto alla «allucinazione psichedelica nella quale
abbiamo vissuto negli ultimi quattro anni» quando, grazie alla sospensione del
patto di Stabilità conseguente all’emergenza Covid, si è «pensato di «poter
fare debito e deficit».
«Ci
siamo assuefatti a questo Lsd — ha ammonito Giorgetti — e dobbiamo eliminare
punto per punto tutte le misure che non ci possiamo permettere».
Chiaro
riferimento al Superbonus.
Sul
quale ha aggiunto:
«I dati degli ultimi mesi vanno addirittura
peggio, in termini di spesa, rispetto al previsto.
Il
Parlamento deciderà (su eventuali proroghe, ndr), ma so in cuor mio il limite
di quello che posso fare e lo dirò in Consiglio dei ministri (nella riunione di
oggi, ndr), perché questa norma ha dei risultati radioattivi che non riusciamo
a gestire».
Il
fondo salva-Stati.
Più in
difficoltà il ministro è parso sulla riforma del Mes, il fondo europeo
salva-Stati, che la Camera non ha ratificato (e l’Italia è l’unico Paese che ha
detto di no) contrariamente agli auspici dello stesso Giorgetti.
Le
opposizioni, che per questa divergenza rispetto alla maggioranza (è stata
soprattutto la Lega, partito del ministro, a non volere la ratifica), chiedono
da giorni le dimissioni del ministro, ieri sono tornate alla carica.
«Io —
si è difeso Giorgetti — non ho mai detto in nessuna sede che l’Italia avrebbe
ratificato il Mes».
Poi ha
minimizzato: «Il Mes non è né la causa né la soluzione dei nostri problemi. Il
nostro problema si chiama debito, in particolare quanto costa».
Gli
oneri sul debito.
Da
questo punto di vista, il nuovo patto di Stabilità mantiene l’obiettivo di
arrivare a un debito non superiore al 60% del Pil (e un deficit non oltre il
3%) ma attraverso un percorso graduale (piani di rientro negoziati con la
commissione di 4 anni, o 7 in caso di riforme) ed escludendo dal computo, nella
fase di avvio (fino al 2027), proprio i maggiori oneri sul debito.
Non a
caso Giorgetti ha sottolineato che «il 2024 non sarà toccato dalle nuove
regole.
Il Patto non può che partire dal 2025».
Anche
per questo il ministro non è preoccupato per la manovra.
Anzi,
sulla legge di Bilancio, in dirittura d’arrivo proprio alla Camera (l’ok
definitivo è previsto per domani), ha detto che «l’esame parlamentare ha
prodotto una serie di emendamenti che determinano un miglioramento di tutti i
saldi di finanza pubblica».
Le modifiche passate al Senato non hanno
alterato, secondo il ministro, «la quadratura e l’impianto della manovra».
Gli
attacchi.
Di
parere contrario le opposizioni, su tutti i temi toccati dal ministro.
«Giorgetti
— dice Piero De Luca (Pd) — ammette la responsabilità di un accordo al ribasso
sul patto di Stabilità.
Si è
peggiorata la proposta iniziale della Commissione, danneggiando gravemente
l’Italia».
«Il
ministro — aggiunge Riccardo Ricciardi, vicepresidente del Movimento 5 Stelle —
parla di Lsd e di allucinazione in riferimento agli ultimi quattro anni.
Ebbene,
lo stesso Giorgetti ha passato quasi tre anni al governo, prima da ministro
dello Sviluppo, poi da ministro dell’Economia».
Sul Mes c’è stato un botta e risposta con
Luigi Marattin.
Il
deputato di Italia viva ha chiesto:
«Il senatore Borghi ha dichiarato di aver deciso lui con
Meloni il “no” al Mes.
Le
chiedo chi è il ministro dell’Economia, lei o il senatore Borghi?».
«Non so se la decisione sia stata presa con
una telefonata tra Borghi e la presidente Meloni.
Tendo
anche a non leggere i giornali», ha risposto Giorgetti.
Drastico
il leader di Azione, Carlo Calenda:
«Giorgetti dopo aver
detto che il “Mes” era positivo per l’Italia e averlo visto bocciare in Aula
senza colpo ferire, su iniziativa del suo partito, dovrebbe dimettersi».
(Quello
che stupisce i non addetti ai lavori di redazione di un Bilancio Pubblico dello
Stato Italiano è che non esiste un piano contabile per l’eliminazione totale,
in pochi anni, del nostro debito pubblico, ossia più di 2.600 miliardi in
totale.
L’Italia
possiede un insieme di grandi banche che complessivamente creano ogni anno
circa 1.500 miliardi di euro di prestiti alla clientela.
Questo
credito alla clientela le banche possono farlo perché sono autorizzate a creare
“denaro dal nulla” appositamente per poter fare i prestiti alla clientela”.
Ed è
una cifra rispettabile: circa 1.500 miliardi di euro ogni anno!
E le
banche considerano lecito registrare
detta somma come “Passivo contabile”.
Ma non
si comprende il motivo per cui “la creazione del denaro dal nulla” non possa
essere considerata come una fonte di ricchezza per la banca stessa, ossia un”
Attivo contabile” al momento stesso della sua creazione.
Nell’ambito
del controllo della finanza sui bilanci bancari risulta quindi che il “denaro
creato dal nulla quale fonte di ricchezza bancaria” debba essere soggetto ad un
attento esame contabile.
Oltre
altri proventi di utile, risulta preponderante la cifra di 1.500 miliardi di
euro da cui la banca riceve un utile pari almeno al 20 % del totale del
prestito concesso alla clientela.
L’insieme
delle banche private, quindi, si permette legalmente di non pagare allo stato
una cifra minima totale di circa 300 miliardi di euro ogni anno!
E
questo è un fatto sconvolgente in quanto non esiste una legge fiscale che
permetta alle banche di “non pagare nulla” su un utile totale ricavato da
almeno 1.500 miliardi di euro creati dal nulla, ma che creano un” istantaneo
Utile bancario” dal momento della sua creazione! N.D.R.)
Ecco
perché è stupido odiare i ricchi
(Il Giornale).
Store.rubbettino.it - Il Giornale – (6
novembre 2012) - Ludwig Von Mises – Redazione – ci dice:
L’inedito
del grande economista liberale.
Il
risentimento verso imprenditori e capitalisti danneggia tutti e spalanca le
porte agli abusi di potere.
Pubblichiamo
uno stralcio de “In nome dello Stato” (Rubbettino, pagg. 212, prefazione di Lorenzo Infantino;
traduzione di Enzo Grillo) del grande economista liberale Ludwig Von Mises (1881-1973).
Il testo, inedito in Italia, dal punto di
vista cronologico precede e segue di poco lo scoppio della Seconda guerra
mondiale.
Mises
interpreta l’ascesa di Hitler nel quadro dell’avversione nei confronti della
libertà individuale e del mercato, tipica di tutti i membri della famiglia del totalitarismo.
L’analisi
storica quindi lascia il passo alla analisi della mentalità anticapitalistica.
Ed è da questa parte del libro che preleviamo
il capitolo offerto ai nostri lettori.
La
riforma non deve cominciare dallo Stato, dal governo e dalla vita pubblica.
Ciascuno
deve cominciare da sé stesso e deve essere il primo a liberarsi dal giogo del
dogmatismo, che gli impedisce di usare liberamente le sue capacità mentali.
Ogni
singolo individuo deve sforzarsi di affrancarsi dalle frasi fatte e dalle
formule che oggi considera verità intoccabili.
Ogni singolo individuo deve riconquistare con un duro
lavoro il diritto di poter dubitare di tutto, e di non riconoscere nessuna
autorità che non sia quella del pensiero logico.
Per
conquistare questa libertà, occorre superare le inibizioni emotive che di
solito offuscano il pensiero.
Bisogna
accantonare il risentimento e la presunzione.
Il
mercato dell’ordine sociale capitalistico è democrazia dei consumatori.
Gli acquirenti sono sovrani, e la loro domanda – o la
mancata domanda – orienta i mezzi di produzione nelle mani di coloro che sanno
impiegarli in maniera da soddisfare i desideri e le aspettative dei consumatori
nel miglior modo possibile e al minor prezzo possibile.
Che
uno diventi più ricco e l’altro più povero è un risultato del comportamento dei
consumatori.
Non è
il crudele consumatore a rovinare l’imprenditore poco capace, ma l’acquirente
che compra dove viene servito meglio e a minor prezzo.
Solo
il consumatore domina nell’economia capitalistica.
Gli imprenditori e i capitalisti sono i suoi
servitori, la cui unica preoccupazione è quella di individuare i desideri del
consumatore e cercare di soddisfarli con i mezzi disponibili.
Imprenditori e capitalisti nascono da un
ripetuto, quotidiano procedimento di scelta;
essi
possono perdere in ogni momento la loro ricchezza e la loro posizione
preminente, se i consumatori smettono di essere loro clienti.
È
assurdo che il consumatore abbia invidia per la ricchezza delle persone che egli
ha fatto ricche, perché ha preteso i loro servizi. Il consumatore danneggia sé stesso
quando chiede provvedimenti contro il «big business».
Chi invidia la ricchezza del proprietario dei
grandi magazzini, compri pure dove ottiene una merce più scadente pagandola di
più.
Tutti
oggi vogliono godere di più, consumare di più, sprecare magari di più e vivere
meglio, ma poi invidiano il successo di coloro che hanno fatto del loro meglio
per soddisfare questi loro desideri.
Offende
l’amor proprio e l’orgoglio del filisteo il fatto di dover ammettere – sia pure
controvoglia – che altri sono stati più bravi a procurare tutti quei beni
materiali che fanno ricca la vita esteriore.
Lo umilia il fatto di essere riuscito a occupare nella
competizione del mercato solo una posizione modesta.
E
allora, per rimuovere questo malumore, escogita una particolare
giustificazione. Egli non è più incapace dell’imprenditore di successo, che si
è arricchito;
è solo una persona per bene, ed è più onesto
di quei signori di gran successo, ma privi di scrupoli che hanno usato pratiche
delinquenziali che egli, per rimanere onesto, ha sempre disprezzato.
Insomma pensa il nostro fariseo – io sono
bravo e capace quanto quelli che sono diventati ricchi;
ma
grazie a Dio sono moralmente migliore di loro, che sono il peggio, e sarebbe
doveroso da parte dell’autorità punirli per le loro malefatte, sequestrando la
loro ricchezza, illecitamente acquisita.
Se il
governo procede contro i ricchi borghesi, può essere sicuro dell’applauso della
massa.
Questa
è una cosa che tanto i demagoghi e i tiranni dell’antichità, quanto i satrapi,
i califfi e i cadi d’Oriente e i dittatori di oggi hanno sempre saputo.
Quando
un governo non sa far diventare ricche le masse, allora è il caso di far
diventare poveri i ricchi.
Tutte
le volte che il filosovietico occidentale si è visto costretto ad ammettere che
nella Russia dominata da Lenin e da Stalin le masse vivevano in miseria, ha
sempre giocato la sua ultima carta: sì, è vero, questi russi moriranno anche di
fame e di stenti, ma sono più felici dei lavoratori occidentali, perché si sono
presi la soddisfazione di vedere che gli ex «borghesi» russi se la passano
peggio di loro.
I
francesi hanno preferito perdere una guerra anziché permettere agli
imprenditori dell’industria bellica di fare profitti.
L’essenza
del risentimento sta appunto in questo:
essere
prigionieri dei sentimenti di invidia, di vendetta e di gioia perversa per il
male altrui, quantunque se ne riceva un danno per sé stessi.
Non
meno funesti degli effetti del risentimento sono gli effetti della presunzione,
che impedisce agli individui di ammettere il diritto altrui di interloquire.
Come
il risentimento, anche l’intolleranza che vuole imporre solo la propria
volontà, e perciò invoca il dittatore affinché realizzi ciò che la propria
volontà pretende, non è un segno di forza ma di debolezza e impotenza.
Sinistra
e critica radicale.
Ragionipolitiche.wordpress.com
– Carlo Galli -Pandora Rivista – (16 gennaio 2021) – ci dice:
Nella mia formazione intellettuale la nozione
di sinistra ha a che fare con l’osservazione che l’uomo sia stato reso estraneo
a sé stesso e, sulla base di un giudizio negativo di questo dato, si reputi
necessario restituirlo a sé stesso.
L’estraneità di cui si parla non ha radice nel peccato
originale, ma è prodotta in un luogo e in un processo sociale specifico,
derivante da una determinata struttura economica.
Quindi
alla sinistra si confà una capacità di analisi radicale – cioè il ricercare la
radice del problema – e una forte valutazione del ruolo della politica, perché
è alla politica che si affida il compito di risolverlo, di riumanizzare l’uomo.
Impostazioni
sulla privacy.
In
questa prospettiva lo Stato può apparire come benefico ma, anche se dotato di
una legittima e democratica autorità, di per sé non è sufficiente.
È necessario che ci sia anche un partito.
La
politica, infatti, non deve avere soltanto una funzione di gestione e
amministrazione ma deve anche saper orientare, dirigere verso una direzione,
una parte.
La
sinistra, insomma, non può appoggiarsi solo sulla forza dello Stato, ma
richiede anche un’idea di partito.
E non
deve quindi focalizzarsi sulla diminuzione delle disuguaglianze a valle,
attraverso la redistribuzione, ma deve essere la forza che interviene là dove
le disuguaglianze si formano e sono brucianti, cioè nel processo produttivo –
della produzione materiale e immateriale, e quindi anche nella formazione.
È
infatti molto difficile che possa esistere una società equa nella
redistribuzione quando persiste un dislivello insuperabile di potere e sapere fra chi
controlla la produzione – e la comprende –, e chi partecipa alla fase della
produzione in modo passivo.
L’obiettivo principale della sinistra è
ribilanciare una società che non è neutra, che è già divisa, squilibrata.
Dopo
le tre grandi rivoluzioni del Novecento, bolscevica, fascista e
socialdemocratica, alle quali la sinistra ha partecipato, contribuito o
rispetto a cui è sopravvissuta, nell’ultima rivoluzione – cioè quella
neoliberista, nella quale ci troviamo dal 1980 circa – la sinistra sembra
essersi perduta.
Uno
degli obiettivi è allora quello di riprendere le ragioni profonde, strutturali,
della sinistra.
Posto che sinistra è una parola di parte, ciò implica
fornire una lettura parziale di una società che è già in sé parziale, dove per
parziale si intende potenzialmente conflittuale, e in ogni caso squilibrata, ma
che non lo riconosce, non lo ammette nella propria auto narrazione.
Sotto
il profilo pratico, molto poco però si può fare nel panorama politico e
intellettuale odierno.
Infatti il grande tema della sinistra, cioè il
lavoro, è stato squalificato a livello teorico a favore di un’interpretazione
dell’economia fondata sull’individuo e sulla sua, presunta, uguale e libera
scelta:
il lavoro come fonte di valore è scomparso
dalle idee e dalle politiche neoliberiste, sostituito dall’importanza del
consumo.
Il lavoro è stato poi distrutto a livello
pratico, reso molto raro, quasi un privilegio, e specularmente una condanna (ai
bassi salari e ai bassi diritti);
è
stato infinitamente spezzettato, e ha assunto tutte le forme e tutte le
mancanze di forma, tutte le articolazioni precarie e flessibili, tanto che è
molto difficile pensare ad un partito unico del lavoro proprio perché non
esiste l’unità del lavoro.
Per
quanto riguarda i partiti, poi, i poteri che hanno governato l’ultimo
quarantennio hanno voluto dimostrare l’intrinseca malvagità della nozione di
partito, che a differenza dello Stato – necessario al capitalismo, ma in
funzione servente – è stato fortemente denigrato perché inutile, parassitario,
burocratico: da questo si sono creati partiti personali, volatili e
insussistenti.
La società è diventata non la società degli individui
– come pensano gli ottimisti – ma una società senza individui;
l’individuo
di per sé, d’altra parte, è diventato qualcosa che non ha società, cioè che è
privo di legami sociali.
L’esito
reale dentro il quale la società si trova dopo 40 anni di neoliberismo, – o
ordoliberismo nel caso europeo – è la fine del legame sociale:
ciascuno
è isolato, debole e non in grado di riconoscere o immaginare nella propria
mente l’idea di un processo sociale che lo veda protagonista.
Nell’universale
passività, non a caso prendono corpo fantasmi cospirativi, complottismi,
dietrologie, allucinazioni collettive:
mezzi con i quali si cerca di darsi una
ragione di un mondo sociale che non ha ragione.
In
questo contesto la sinistra avrebbe terreno fertile per mettere radici:
disuguaglianza, alienazione, mancanza di risoluzione del soggetto in sé stesso
e nella società, sono tutti argomenti che riguardano la sinistra.
Ma,
allo stesso tempo, nessuno di coloro che hanno titolo per essere
all’opposizione del sistema vigente sceglie la sinistra.
Quelli
che vengono chiamati “populisti” e “sovranisti” sono precisamente coloro che
avrebbero titolo a essere interni a un processo di sinistra, cioè a un processo
di rafforzamento del potere dello Stato come difesa allo strapotere delle
logiche private e come affermazione dei diritti dei singoli e dei ceti più
deboli contro il potere sempre più efficace, ma anche sempre più
contraddittorio, del capitale.
Una
domanda di protezione sociale che è invece intercettata dalla destra, che
naturalmente non dà una risposta corretta, ma offre soluzioni illusorie, e non
va al di là di additare nuovi capri espiatori…
(L’articolo
– tratto dall’intervento dell’Autore del 28 dicembre 2020 nell’ambito del ciclo
seminariale «Ripensare la cultura politica della sinistra» – è stato pubblicato
in «Pandora Rivista» il 16 gennaio 2021.)
Il
politicamente corretto.
Ragionipolitiche.wordpress.com
– Carlo Galli – (31 luglio 2020) – ci dice:
Il
linguaggio politicamente corretto vuol essere soccorrevole verso gli oppressi,
raddrizzatore di torti, riequilibratore della bilancia della giustizia.
Ciò
che è stato stigmatizzato va riabilitato attraverso una ridefinizione
rispettosa. E ciò che ha prevalso va ridimensionato.
Quel
linguaggio è un universale artificiale, una neolingua, esperanto, costruito per
permettere a ogni particolare di sussistere e di nominarsi, ed essere nominato,
in libertà e con uguali diritti.
Un
linguaggio privo di passione e di violenza, capace di sterilizzare ogni
differenza nella universale indifferenza.
Uno
vale uno, insomma.
Impostazioni
sulla privacy.
Ma
questi fini e questi mezzi contengono una contraddizione:
il
linguaggio politicamente corretto è pacifico e al tempo stesso aggressivo,
vendicativo, intollerante:
l’uguaglianza amorfa a cui tende è carica di
unilaterale violenza.
La sua logica normale è quella eccezionale del
giudizio universale:” nihil inultum remanebit”.
Tutti i torti vanno conosciuti, puniti e
riparati.
La colpa, l’accusa, è l’orizzonte entro il
quale si colloca il politicamente corretto.
Che è
politico:
è un
atto di decisione fondamentale che critica il passato e lo spazza via.
È un
universale immediato, e quindi è un particolare ingigantito.
È l’espressione di una parte che si fa Tutto,
che pretende di giudicare ergendo sé stessa a Legge.
È un
dominio, un punto di vista elevato a potenza, che non ne ammette né legittima
altri.
Ma non
sempre ne è consapevole.
Il contenuto politico del politicamente
corretto è quasi sempre mascherato, e declinato attraverso la morale:
l’obiettivo politico è giudicare con moralità assoluta, apodittica, sottratta
al tempo e allo spazio.
La
neolingua non conosce la storia, la nega, e attraverso l’anacronismo tende
all’acronia.
Si pagano colpe che non erano tali quando
furono commesse; i discendenti rispondono oltre la settima generazione.
La
purga linguistico-politico-morale deve essere radicale.
Il
politicamente corretto ha molti tratti in comune con il razionalismo
individualistico moderno:
condivide con Hobbes l’impulso antistorico, la
tesi che «all’antichità nulla sia dovuto», e col giacobinismo il parossismo
livellatore che per colpire i sospetti si fa tagliatore di teste.
Condivide
l’intreccio fra morale e ragione, fra neutralizzazione spoliticizzante e
supremo spasmo politico della sovranità, che monopolizza la ragione per sé e
nega ogni ragione a chi è fuori dal suo perimetro – e viene quindi privato di
ogni valore, di ogni dignità, gettato fra i reprobi –.
E quindi
non è antimoderno, come pure qualcuno ha detto: anzi, il Moderno vi esprime il
proprio assolutismo, la propria efficace astrattezza.
Un
Moderno ignaro della dialettica, della storia, inconsapevole del fatto che le
individualità non nascono già fatte e finite ma sono l’esito di lotte e di
contraddizioni, che le soggettività, le società, le istituzioni, i simboli, i
linguaggi, recano in sé come propria viva sostanza, come propria drammatica
concretezza.
Perse
o cancellate le quali l’umana convivenza è un algoritmo che combina monadi
irrelate senza passato e senza futuro.
Nel
politicamente corretto la severa ideologia liberal che ne fa la propria
bandiera si mostra parente dell’euforica ideologia del neoliberismo, della sua
visione della società come un giustapporsi di attori individuali, che abitano
un eterno presente.
Ciò
che si dice del politicamente corretto sotto il profilo linguistico in senso
stretto – la polizia e la pulizia del linguaggio – vale anche per quei
linguaggi materiali che sono i monumenti e le architetture, attraverso i quali
lo spazio pubblico viene scritto e riscritto nei secoli.
La lotta per l’immagine e il simbolo, o contro
di essi, è vecchia come l’umanità: non c’è da scandalizzarsi se avviene sotto
il segno della politica, poiché ne fa parte. Si tratta ogni volta di decidere
chi è meritevole di rappresentazione e chi no, perché è troppo superiore o
troppo inferiore.
Ma è
lecito, appunto, leggere quella lotta politicamente, e rifiutarle la patente
morale che si autoassegna.
Così,
se è comprensibile che non si erigano monumenti a Hitler, ma semmai alle sue
vittime, è assurdo che si sia pensato di abbattere la statua di Churchill
perché razzista;
il suo spirito di dominio imperiale, venato di
superiorità dell’uomo bianco, è stato vinto dai processi materiali della storia
reale;
mentre
ciò che conta è che quell’istinto lo ha spinto a capire che il nazismo era un
nemico mortale, con cui non si poteva scendere a patti.
E se
nel Nord America si abbattono le statue di Colombo ciò significa che gli eredi
dei colonizzatori anglosassoni delegittimano il dominio ispanico (veramente
distruttivo)?
Oppure
in quelle statue abbattute è da leggersi una confessione della colpa originaria
di tutti gli europei per avere scoperto l’America, espropriando i nativi (al
Nord, al Centro, al Sud)?
E dopo
l’autoflagellazione dell’uomo bianco quale riparazione è prevista?
La
restituzione ai nativi del banale Monte Rushmore o della più impegnativa isola
di Manhattan?
Oppure
l’abbattimento della statua salva la coscienza, lava la colpa, e mentre afferma
un dominio linguistico liberal mantiene immodificato il dominio economico
liberista?
E in
quest’ultima ipotesi il politicamente corretto non corre forse il rischio di
ridursi a un intimidatorio gioco di potere linguistico fra élites, e di far
perdere di vista questioni strutturali che la sua fiaccola illuministica lascia
in un cono d’ombra?
È
quindi giusto elogiare il dialogo, la divergenza d’opinioni, la tolleranza
reciproca: è il minimo che si possa chiedere in una società che si dice
liberale.
Ma non
con l’obiettivo di neutralizzare il politicamente corretto in una più generale
amorfa indifferenza;
non si
tratta di ri-legittimare ogni violenza e ogni discriminazione, né di utilizzare
l’ingiustizia del passato per giustificare quelle del presente.
Si
tratta anzi di decifrare queste nella loro radicalità, e di impegnarsi – questo
è il punto – a darne una lettura non moralistica ma storico-politica.
Di
riconoscere la complessità della politica non per farne un alibi all’ignavia,
ma per vedervi l’occasione di un agire emancipativo meno scontato del
politicamente corretto e delle sue ritualità.
La
leadership del “mondo libero”
e l’attacco al diritto di voto
negli Stati Uniti.
Transform-italia.it
– (04 Agosto 2021) - Alessandro Scassellati – ci dice:
Con
Biden gli Stati Uniti sono tornati a reclamare il loro tradizionale ruolo di
Paese leader del “mondo libero”, ma la democrazia americana continua a non
godere di buona salute.
In
molti Stati, il Partito Repubblicano, ancora egemonizzato dal conservatorismo
etno-nazionalista bianco di Trump e dei trumpisti, sta mettendo sotto attacco
il diritto di voto, con l’obiettivo di creare le condizioni per riprendere il
controllo del Congresso nelle elezioni di midterm del 2022 e di ricandidare
Donald J. Trump alle elezioni presidenziali del 2024.
La
“terra dei liberi”?
Quando
il presidente degli Stati Uniti Joe Biden dice che “L’America è tornata” e il
suo team di politica estera cerca di unire le democrazie del mondo – il
cosiddetto “mondo libero” – contro una marea autoritaria crescente, questi
obiettivi riflettono la convinzione, raramente messa in discussione dagli
americani, che gli Stati Uniti siano in una posizione unica (il cosiddetto
“eccezionalismo americano”) per svolgere questo ruolo di leadership.
L’argomento
più forte a favore di questa visione è essenzialmente negativo: nessun’altra
democrazia ha un potere economico o militare sufficiente per esercitare una
“leadership” decisiva (comunque la si voglia definire), e nessun’altra
democrazia vuole davvero svolgere questo compito.
Per
coloro che sono fautori di questa visione ideologica del “destino” americano,
il termine “mondo libero” si riferisce a quegli Stati che sono strutturati
sulla base di una serie di istituzioni liberali:
diritti
individuali, tolleranza, responsabilità attraverso elezioni libere ed eque,
Stato di diritto, libertà di espressione e simili.
Esercitare
la “leadership“, a sua volta, significa essere un modello attraente da emulare
per gli altri o essere in grado di fare scelte politiche intelligenti,
implementarle con successo e convincere gli altri a seguire l’esempio.
Il
problema è che gli Stati Uniti da tempo non sono più un buon modello per altri
Stati liberali. Agli americani piace chiamare il loro Paese la “terra dei
liberi” (land of the free), ma gli Stati Uniti hanno il più alto tasso di
carcerazione al mondo, quasi il doppio di quello della Russia.
Il Paese si colloca solo al 28° posto nella
classifica dell’Indice di progresso sociale.
L’indice
annuale della democrazia del settimanale di centro-destra “The Economist” ha
declassato gli Stati Uniti dalla categoria di “piena democrazia” a “democrazia
imperfetta” nel 2017 e da allora li ha mantenuti in questa condizione.
Per
affluenza alle urne gli USA sono solo al 26° posto nel mondo e la fiducia del
pubblico nel governo è a livelli storicamente bassi.
Ancora
oggi, il 25% di tutti gli americani e il 53% dei repubblicani crede che Trump
abbia vinto le elezioni del 2020 e che sia il “vero presidente” e quasi la metà
di tutti i repubblicani afferma che era appropriato che i legislatori statali
provassero a spostare i voti elettorali a Trump negli Stati in cui Biden ha
vinto.
I
repubblicani che rifiutano la menzogna dell’elezione rubata, come la
repubblicana” Liz Cheney”, sono stati rimossi dalle posizioni di leadership nel
partito.
L’attacco
dei Repubblicani al diritto di voto.
Dopo
aver perso le elezioni presidenziali del 3 novembre 2020, i Repubblicani (GOP)
hanno scatenato un crescente attacco al diritto di voto in America che, per
ora, i Democratici non sono stati in grado di contrastare.
I
Repubblicani hanno alimentato per mesi le accuse di frode elettorale della
leadership del “mondo libero” e l’attacco al diritto di voto negli Stati Uniti.
(transform-italia.it
- 04 Agosto 2021)
Trump,
che il risultato delle elezioni presidenziali (non di quelli per la Camera dei
Rappresentanti e il Senato, però) sia stato “rubato”.
Trump continua a dominare la politica del GOP
e ad affermare che la sua sconfitta sia stata frutto di brogli elettorali di
massa, una bugia ripetutamente rigettata dai tribunali. Le discussioni speciose
hanno comunque creato un esercito di elettori che credono erroneamente che la
diffusa frode elettorale sia un vero problema.
Ciò, a sua volta, ha apparentemente fornito ai
Repubblicani un pretesto per promuovere e far approvare riforme restrittive dei
diritti di voto in diversi Stati, assecondando e alimentando i timori dei
bianchi che la crescente popolazione non bianca – afroamericana, latinos,
asiatica – stia usurpando il loro dominio.
L’attacco
dei Repubblicani al diritto di voto viene portato su due fronti: la
presentazione da parte dei Repubblicani nei Congressi statali di oltre 18 Stati
di più di 400 progetti di legge che hanno l’obiettivo di limitare l’accesso al
voto, giustificandoli con il contrasto alla frode da parte degli elettori, ma
che sono visti dalla maggior parte degli analisti come volti alla “soppressione
del diritto di voto” di sezioni della popolazione – afroamericani, latinos,
giovani, anziani, persone con disabilità – che tendono a votare democratico;
il
ridisegno dei distretti elettorali statali sulla base dei dati demografici del
censimento nazionale del 2020 forniti dal Census Bureau; ogni 10 anni, la
costituzione richiede agli Stati di ridisegnare le mappe sia per i seggi
congressuali che per quelli legislativi statali, affidando questo potere ai Congressi
degli Stati che dovrebbero concludere questo processo entro la fine del 2021; i
Repubblicani raggruppano i loro elettori in determinati distretti (creandosi
delle maggioranze),mentre disperdono gli elettori democratici tra gli altri
(condannandoli ad essere minoranza per i prossimi 10 anni).
Inoltre,
è importante sottolineare che il Census Bureau ha annunciato a fine aprile i
totali di ripartizione che determinano quali Stati guadagnano e perdono seggi
al Congresso federale.
Colorado,
Montana, Oregon, North Carolina e Florida guadagneranno tutti un seggio e il
Texas ne aggiungerà due. California, Illinois, Michigan, New York, Ohio,
Pennsylvania e West Virginia perderanno tutti un seggio.
Modifiche
che sono potenzialmente destinate ad incidere negativamente sulla maggioranza
democratica alla Camera dei Rappresentanti già alle elezioni di midterm del 2022.
Il
presidente Biden e i Democratici hanno condannato fermamente queste manovre dei
Repubblicani, ma finora non sono stati in grado di fermarle.
Hanno presentato due progetti di legge
federali (già approvati dalla Camera):
il “For
the People Act” che garantirebbe la registrazione automatica e nello stesso
giorno dell’elettore, porrebbe limiti alla manipolazione dei distretti
elettorali e ai finanziamenti elettorali delle grandi lobby, e ripristinerebbe
i diritti di voto per le persone con condanne penali; il “John Lewis Voting
Rights Advancement Act,” una misura intitolata al deputato e attivista democratico della Georgia morto nel 2020 che
autorizzerebbe nuovamente le protezioni dei diritti di voto stabilite nell’era
dei diritti civili, ma eliminate dalla Corte Suprema nel 2013.
Ma,
anche se i Democratici controllano entrambe le Camere del Congresso a
Washington – ma, alla Camera dei Rappresentanti la loro maggioranza è di soli 9
voti e il Senato è diviso 50-50, con la vicepresidente
Harris che dà la maggioranza ai Democratici, mentre due senatori democratici conservatori,
Joe Manchin del West Virgina e Kyrsten Sinema dell’Arizona , tendono a votare
con i repubblicani.
(La
leadership del “mondo libero” e l’attacco al diritto di voto negli Stati Uniti.)
(transform-italia.it - 04 Agosto 2021)
I Repubblicani
-, non possono approvarli, perché non hanno abbastanza voti per sbarazzarsi dell’ostruzionismo
(filibustering), un’arcana regola del Senato che richiede 60 voti per far
avanzare la legislazione, evitando che la minoranza (41 senatori su 100) possa
bloccare la legislazione.
Per
approvare il “For the People Act Biden” e i democratici dovrebbero convincere
dei senatori repubblicani ad unirsi a loro.
Tuttavia, data la continua presa di Trump sul
GOP, qualsiasi senatore repubblicano che si unisse ai democratici nel sostenere
il” For the People Act” probabilmente finirebbe la sua carriera politica.
Una
resa dei conti sull’ostruzionismo si è profilata nei primi 100 giorni
dell’amministrazione Biden, ma durante i prossimi mesi è chiaro che è
inevitabile una resa dei conti che si sbarazzi della procedura.
Se il
Senato non abroga o modifica la regola dell’ostruzionismo e non approva le
riforme sui diritti di voto, i Democratici sono destinati a perdere il
controllo della Camera e probabilmente del Senato alle prossime elezioni di
midterm (novembre 2022) e forse per una generazione, con anche l’angosciante
concreta prospettiva della ricanditatura di Donald Trump alle elezioni presidenziali
del 2024.
Sulla
base dei dati demografici del censimento nazionale del 2020, entro la fine del
2021 gli Stati devono completare il processo di ridisegno delle linee
distrettuali (i collegi elettorali).
Sono i
legislatori statali che hanno il potere di tracciare le nuove mappe destinate a
rimanere in vigore per il prossimo decennio. Servirebbe una legge federale che
fissasse nuovi limiti per impedire la pesante manipolazione delle mappe dei
distretti per tornaconto di parte.
Anche
se probabilmente è già troppo tardi per istituire commissioni di
riorganizzazione indipendenti per quest’anno, i Democratici potrebbero ancora
approvare nuove regole per imporre processi di ridisegno trasparenti, prevenendo
la più grave manipolazione partigiana, il cosiddetto “gerrymandering”.
A metà
aprile, “Chuck Schumer”, il leader democratico al Senato, aveva fissato per
agosto la scadenza per l’approvazione da parte dei Democratici del loro ampio
disegno di legge sui diritti di voto, che avrebbe imposto il voto anticipato,
la registrazione automatica e lo stesso giorno, tra le altre misure.
“Ron
Klain”, capo dello staff di “Biden”, aveva affermato che la Casa Bianca
sosteneva questo sforzo.
Ma, il
23 giugno, sotto la presidenza del vicepresidente” Kamala Harris”, un voto
procedurale del Senato sull’opportunità di avviare il dibattito sul “For the
People Act” si è concluso come previsto con uno stallo 50-50 lungo le linee di
partito. “Ogni singolo repubblicano del Senato ha appena votato contro l’inizio
del dibattito – l’inizio del dibattito! – sulla legislazione per proteggere i
diritti di voto degli americani”, ha detto con rabbia “Schumer”. “Ancora una
volta, la minoranza repubblicana al Senato ha lanciato un blocco partigiano su
una questione urgente qui al Senato degli Stati Uniti.
Una
questione non meno fondamentale del diritto di voto”.
Tre
membri democratici della Camera dei rappresentanti e del “Black Congressional
Caucus” – “Joyce Beatty” (Ohio),” Hank Johnson” (Georgia) e “Sheila Jackson Lee”
(Texas) – sono stati arrestati nel mese di luglio per aver protestato fuori dal
Senato contro il ritardo dei legislatori nell’approvazione della legislazione
per proteggere i diritti di voto.
Così,
agosto è arrivato, la legge non è stata nemmeno discussa e il Congresso è ora
in vacanza.
La
finestra temporale per i Democratici di avere il maggior impatto con la loro
legislazione si sta rapidamente chiudendo.
Attualmente,
gli elettori registrati come repubblicani costituiscono solo circa il 25%
dell’elettorato americano e quella percentuale sembra diminuire sulla scia
della disgraziata uscita di Trump. Ma, le regole costituzionali ed elettorali
da decenni operano a favore dei Repubblicani, dato gli Stati, la leadership del
“mondo libero” e l’attacco al diritto di voto negli Stati Uniti, rurali
repubblicani come il Wyoming (con circa 575 mila abitanti) ottengono due
senatori proprio come quelli densamente popolati ed urbanizzati come la
California (con quasi 40 milioni), e dato che gli Stati repubblicani hanno
distretti che eleggono i membri della Camera che sono manipolati, dando loro
circa 19 seggi in più rispetto a quelli che avrebbero senza manipolazioni.
Ora, a
questo squilibrio si aggiungono le leggi statali post-Trump che hanno reso o
stanno rendendo più difficile votare per gli elettori con propensioni per i
Democratici e più facile per le legislature statali dominate dai Repubblicani per
manipolare i conteggi dei voti.
Ammesso
che i Democratici riescano ad approvare il “John Lewis Voting Rights
Advancement Act”, l’efficacia di questa nuova legge dipenderebbe da un
Dipartimento di Giustizia attivista, disposto a bloccare i cambiamenti statali
nelle leggi elettorali che sopprimono i diritti di voto, e da una Corte Suprema
attivista, disposta a sostenere tali decisioni del Dipartimento di Giustizia.
Difficile
pensare che queste due cose possano avvenire.
Sotto
Trump il Dipartimento di Giustizia è stato completamente soggetto ai desideri
del presidente, mentre la Corte Suprema ha visto la nomina di tre relativamente
giovani giudici conservatori e si è già schierata con gli Stati repubblicani, approvando
(30 giugno) le misure sostenute dai Repubblicani in Arizona che una corte
inferiore aveva deciso che gravassero in modo sproporzionato sugli elettori
neri, latini e nativi americani.
Inoltre,
una nuova legge federale sui diritti di voto non sarebbe in grado di annullare
la recente ondata di leggi sulla soppressione e repressione degli elettori
degli Stati repubblicani.
Secondo
un osservatore acutamente critico come “Robert Reich”, parte della spiegazione
per una mancata energica reazione dei Democratici all’attacco dei Repubblicani
al diritto di voto “risiede in un gruppo esterno che ha quasi la stessa
influenza sul Partito Democratico come su quello Repubblicano, e che non è
particolarmente entusiasta della riforma elettorale:
gli
interessi dei ricchi che finanziano entrambi i partiti.
Una
democrazia più solida renderebbe più difficile per i ricchi mantenere basse le
tasse e alti i profitti.
Così,
mentre i suprematisti bianchi hanno fomentato i timori dei bianchi
sull’usurpazione del loro dominio da parte dei non bianchi, i ricchi americani
hanno
speso ingenti somme in donazioni per campagne e lobbisti per impedire alla
maggioranza di usurpare il proprio denaro”.
L’evoluzione
del Partito Repubblicano.
Il
conservatorismo etno-nazionalista di Trump ha ormai permeato interamente il
Partito Repubblicano. Già nel 2018, i candidati repubblicani per i
governatorati in Florida e Georgia avevano condotto due delle campagne più
esplicitamente razziste degli ultimi decenni e (seppure di poco) avevano vinto.
Con
Trump e i trumpiani si è completato lo spostamento degli elettori bianchi
conservatori del sud dal Partito Democratico verso il Partito Repubblicano,
iniziato negli anni ’60 – per la prima volta tentato dal candidato alla
presidenza “Barry Goldwater” nel 1964 e poi praticato con la “strategia del sud”
da Richard Nixon nel 1968 e 1972 con il supporto di “Strom Thurmond”, il
famigerato senatore
segregazionista
della Carolina del Sud – allorquando il Partito Democratico è diventato più
liberale progressista e ha approvato la legislazione sui diritti civili.
La
presidenza di Trump è stata anche il prodotto finale dell’evoluzione del
Partito Repubblicano durata oltre un quarto di secolo (avviata dall’ex
presidente della Camera, “Newt Gingrich”, e da personaggi come “Pat Buchanan” e
il conduttore di talk-show radiofonici” Rush Limbaugh” nei primi.
La
leadership del “mondo libero” e l’attacco al diritto di voto negli Stati Uniti che
lo ha portato da essere l’aggregatore politico di un blocco conservatore di
interessi sociali diversificati all’essere lo strumento politico di una fazione
della destra radicale che ha messo da parte la componente moderata (dei McCain
e dei Bush Sr.) per perseguire l’idea di conquistare il potere assoluto e
rendere l’America uno Stato monopartitico governato da persone dedite ai tagli fiscali
per i ricchi e le grandi corporations, alla deregolamentazione di lavoro e
ambiente, alla soppressione del voto delle minoranze e alla saturazione dei
tribunali federali con giudici disposti ad annullare il contratto sociale
dell’era del New Deal/diritti civili.
Un
movimento radicale che crede che la libertà – definita principalmente come uno
Stato “leggero” senza tasse punitive sui ricchi – sia più importante della
democrazia, che la democrazia (con le sue regole consuetudinarie e norme
scritte) minacci la libertà, permettendo a molti di derubare i pochi.
Trump
ha portato alle estreme conseguenze questo progetto, passando gran parte dei
suoi anni di presidenza a estendere i poteri dello Studio Ovale a scapito delle
altre istituzioni statali e ad infrangere le norme e le tradizioni che hanno
definito a lungo la democrazia americana.
Trump
ha anche accentuato l’identità del Partito Repubblicano attorno al nazionalismo
bianco, che considera uomini, donne e bambini dalla pelle scura parte di una
umanità degradata e come tale privi di qualsiasi valore intrinseco e indegni di
protezione.
Trump
ha paragonato uomini, donne e bambini centro-americani immigrati a parassiti
che vogliono “infestare il nostro Paese“.
Lo si
è potuto vedere quando il suo fidato collaboratore, “Stephen Miller”, ha
dipinto i migranti come minacce, non candidati all’asilo quanto piuttosto
all’incarcerazione.
Il 3
novembre 2020 gli americani hanno votato, oltre che per eleggere il presidente,
anche per 35 seggi senatoriali, per il rinnovo della Camera dei Rappresentanti
e di alcuni governatorati statali.
I Democratici
speravano che sarebbero stati puniti i deputati e i senatori repubblicani che
hanno permesso che prendessero piede quelle modalità autoritarie e
anti-democratiche di gestione del potere che hanno caratterizzato gli anni di
Trump.
“Biden” è stato in grado di ottenere i voti
necessari degli elettori con elevati livelli di istruzione dei sobborghi (ad
Atlanta, Detroit, Milwaukee,
Philadelphia
e Phoenix), ma molti di questi elettori, tradizionalmente repubblicani, hanno
votato in modo disgiunto, votando per un candidato repubblicano al Senato e
alla Camera.
Nonostante
Biden abbia guadagnato voti tra gli elettori bianchi non istruiti nel Midwest
rurale, i guadagni dei candidati democratici al Congresso sono stati minimi.
I
Democratici moderati hanno accusato la sinistra interna di essere la vera
responsabile della debacle parlamentare per aver agitato parole e temi come
“socialismo”, “Medicare for all” e “definanziare la polizia” (slogan del
movimento “Black Lives Matters”), mentre la” Ocasio-Cortez” ha sostenuto che la
causa era da identificarsi nella piattaforma eccessivamente moderata del
partito.
Difficile
far coabitare centristi (come il senatore del West Virgina Joe Manchin o quella
dell’Arizona Kyrsten Sinema o quello del Montana Jon Tester) e progressisti
(come Sanders e Ocasio-Cortez) all’interno dello stesso partito.
A
causa di un sistema elettorale federale basato sulla rappresentanza statale e
di distretto e non direttamente sul voto popolare, e del “gerrymandering”, per
vincere le elezioni i Democratici non solo devono vincere avendo una sorta di
super maggioranza a livello nazionale, ma devono adattare il loro messaggio
politico ai diversi contesti territoriali.
I centristi moderati, la corrente
maggioritaria del Partito Democratico, pensano di dover correre a destra per ottenere
la super maggioranza, per catturare gli elettori di centro-destra dei sobborghi
che essenzialmente sono benestanti e repubblicani. Ma, correndo a destra, non
solo si finisce per La leadership del “mondo libero” e l’attacco al diritto di
voto negli Stati Uniti, abbracciare politiche neoliberiste distruttive per la
coesione del Paese, si mette a repentaglio l’entusiasmo della stessa base popolare
democratica delle lower-middle e working classes.
Il
partito è bloccato in questo dilemma, e i centristi non sono disposti ad
affrontarlo, perché hanno una storia intrinseca di attacchi alla sinistra che
risale alla Guerra Fredda.
I
Democratici puntavano a togliere la maggioranza ai Repubblicani al Senato (che
era di 53 a 47), cercando di guadagnare almeno 3 seggi.
Invece, i risultati del 3 novembre hanno
portato ad un rapporto di forze favorevole, anche se non definitivo – 50 a 48 –
per i Repubblicani.
Mitch McConnell,
il leader repubblicano al Senato, che ha perseguito una linea improntata all’ostruzionismo
più totale durante la presidenza Obama e ha appoggiato le scelte di Trump, è stato
rieletto e non ha pagato alcun prezzo politico.
Per il
controllo del Senato sono diventate cruciali le elezioni per i ballottaggi dei
due seggi senatoriali della Georgia il 5 gennaio 2021.
La vittoria (in parte inaspettata) dei
candidati democratici ha portato ad un controllo del Senato da parte del
Partito Democratico, grazie al voto della vicepresidente Harris, consentendo a
Biden di combattere le “grandi battaglie del nostro tempo” di cui ha parlato
mentre delineava sei priorità chiave: il coronavirus, l’economia, l’assistenza sanitaria,
“la battaglia per ottenere la giustizia razziale e sradicare il razzismo
sistemico“, la crisi climatica e “la battaglia per ripristinare la decenza,
difendere la democrazia e dare a tutti in questo Paese una giusta possibilità”.
Alla
Camera, dove i Democratici avevano conquistato un’ampia maggioranza nel 2018
(232 contro
197) e
puntavano ad ampliarla, hanno mantenuto il controllo (222 contro 213),
nonostante importanti sconfitte in Florida, Nord Carolina, New York e
Minnesota. Se nelle file dei democratici si è irrobustita l’ala progressista
(con figure come Cory Bush, Jamaal Bowman, Ritchie Torres, Mondaire Jones,
etc.), in quelle dei repubblicani si è ampliata l’ala della destra più radicale
(con figure come Madison Cawthorn, Marjorie Taylor Greene e Laureen Boebert).
Se il
Senato rimane bloccato dal filibustering gestito dai Repubblicani e Biden
continuerà ad avere le mani legate, la Camera controllata dai Democratici
diventerà sempre più insoddisfatta e intollerante, alimentando così la
ribellione nell’ala sinistra del partito, soprattutto proveniente da Stati
molto progressisti come California e New York.
Per
Biden una delle questioni cruciali sarà la futura evoluzione politica di Trump
e del Partito Repubblicano. Durante la sua presidenza, Trump ha rimodellato a
sua immagine il Partito Repubblicano e per quattro anni i repubblicani gli
hanno assicurato la loro incrollabile lealtà.
Lo
hanno
protetto dagli impeachment, hanno tacitamente approvato quando al confine con
il Messico i bambini sono stati separati dai genitori e messi in gabbie, e
hanno guardato dall’altra parte mentre gli americani che protestavano
pacificamente venivano gasati per dare a Trump un’opportunità fotografica.
Le
elezioni del 3 novembre 2020 hanno dimostrato che Trump e il trumpismo, il
movimento politico sociale radicale che lo aveva portato alla presidenza nel
2016 e sostenuto durante i 4 anni di presidenza, sono ormai una parte
fondamentale della società americana con cui dover fare i conti.
Trump
ha ottenuto circa 74 milioni di voti (il secondo più alto totale nella storia
americana), pari al 47,2% dei voti a livello nazionale, vincendo in 25 Stati su
50, inclusi Florida e Texas. Ha dimostrato di avere una presa straordinaria su
vasti territori (i red States) e una connessione viscerale con milioni di
sostenitori che ha prodotto una devozione quasi simile a un culto di una
religione della La leadership del “mondo libero” e l’attacco al diritto di voto
negli Stati Uniti.
Sfiducia
e risentimento verso lo Stato e tutto ciò che è pubblico, la politica
mainstream (regole basilari della democrazia, partiti, istituzioni, stampa,
organizzazioni di rappresentanza, cultura, accademica), la globalizzazione, e i
valori tradizionali americani come il fair play istituzionale, il pragmatismo,
lo Stato di diritto e la libertà di stampa.
Ciò
nonostante Trump è stato sconfitto, diventando uno dei soli quattro presidenti
nell’era moderna a non avere vinto un secondo mandato.
Non è
riuscito a espandere il suo sostegno elettorale oltre la sua base adorante e,
francamente, non si è neanche sforzato di farlo, rimanendo un presidente deliberatamente
divisivo.
Il malcontento, la rabbia, l’odio e la paura (della
globalizzazione, del declino economico, delle disuguaglianze, delle
discriminazioni razziali, della “sostituzione” della popolazione bianca, etc.)
con cui hanno convissuto la maggior parte degli americani dopo la crisi finanziaria
nel 2008 e che hanno portato Trump al potere nel 2016 non sono scomparsi.
La sensazione
di milioni di cittadini americani (soprattutto uomini bianchi appartenenti alla
classe lavoratrice e all’America rurale) di essere stati abbandonati, lasciati
fuori e soli, ignorati o liquidati come “deplorevoli” è ancora forte.
Secondo
il “Brookings Institute”, Biden ha conquistato 477 contee grandi, urbane,
suburbane e densamente popolate che rappresentano il 70% dell’economia
americana, mentre la base elettorale di Trump comprende 2.497 contee che
rappresentano solo il 30% e che sono più bianche e meno istruite, comprendono
soprattutto piccole città e aree rurali in difficoltà.
Finché
gli americani bianchi poveri avranno poche speranze di una vita migliore,
continueranno a cercare un leader come Trump, anche se poi realmente, a parte
il razzismo, la xenofobia anti-immigrati, lo sdoganamento di una comunicazione
un politically correct e il bigottismo religioso, Trump non ha avuto nulla da
offrire a loro. La prova è stata la riforma fiscale voluta da Trump che ha
rappresentato l’ennesimo regalo a favore dei ricchi e delle grandi corporations
e poco o nulla ha inciso sulla condizione economica del ceto medio e delle
working classes bianche. Finché non si affronteranno le profonde fratture e disuguaglianze
che si sono create nella politica e società americana negli ultimi decenni, è
assai probabile che gran parte dell’America rossa e del blocco sociale
radical-conservatore che Trump è arrivato a dominare, anelerà un suo ritorno.
Trump continuerà a essere la figura dominante
nel movimento radical-conservatore anche negli anni a venire.
Il
trumpismo potrebbe finire per avere lo stesso effetto trasformativo sul
conservatorismo americano del reaganismo.
I
precedenti che Trump ha stabilito, i dubbi che ha seminato e le affermazioni
che ha fatto rimarranno.
Trump
rimarrà una figura profondamente polarizzante e potrebbe candidarsi di nuovo
nel 2024, parlando delle stesse teorie del complotto sulla frode elettorale e
sulle elezioni che gli sono state rubate nel 2020.
Questo
significa che la frattura politica della società americana, che non è solo ideologica,
ma anche frutto di una divisione di classe e di una polarizzazione
rurale-urbana, potrebbe diventare più profonda e più a lungo termine.
Con il Partito Repubblicano e una grossa fetta
degli elettori dalla sua parte, Trump – come leader de facto dell’opposizione,
tweeter freelance, star di
talk
show o barone dei media – continuerà ad attirare enormi livelli di attenzione e
sostegno, che utilizzerà per pressare ed indebolire i democratici, svergognare
pubblicamente deputati e senatori repubblicani per spingerli a combattere Biden
su tutto, e per lanciare lo stesso messaggio stizzoso, controfattuale,
noi-contro-gli-esperti-e-tutti-gli altri che ha diffuso nei quattro anni di
presidenza.
Tra l’altro è importante sottolineare che i
sei Stati altalenanti che hanno dato a Biden le elezioni del 2020 –
Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Georgia, Arizona e Nevada – hanno tutti dei
Congressi controllati dai repubblicani e la maggior parte ha governatori
repubblicani. Sono queste legislature che promulgano le leggi che influenzano
più direttamente la maggior parte degli americani – bloccando le misure per
combattere il Covid-19, privando i voti delle minoranze e dei giovani elettori,
ridisegnando i distretti elettorali statali, rinnovando gli assalti
all’autonomia sessuale e riproduttiva e, in generale, ripristinando l’egemonia
maschile bianca tradizionale.
Allo
stesso tempo, è anche possibile che emerga un nuovo leader più giovane, un
politico più capace, più disciplinato sul piano politico-organizzativo e con un
messaggio ideologico più inclusivo (ad esempio, meno esplicitamente razzista e
sessista, più “pro-lavoratore” e pro-classe media).
Figure come i senatori Ted Cruz, Tom Cotton,
Marco Rubio, Josh Hawley o Lindsey Graham, o il deputato texano Dan Crenshaw, o
il governatore della Florida, Ron DeSantis, un fedele alleato di Trump, o l’ex vicepresidente
Mike Pence o Mike Pompeo, l’ex Segretario di Stato di Trump, o ancora Nikki
Haley, l’ex ambasciatrice all’ONU.
Oppure,
la base trumpiana potrebbe spostarsi completamente verso i teorici della
cospirazione, i vigilantes armati, un rinato “Ku Klux Klan”.
Si potrebbe entrare in uno scenario pericoloso
in cui l’incapacità del governo Biden di implementare delle policies o la
rabbia dei repubblicani per i tentativi del governo Biden di farlo, non farà
che intensificare la già viziosa polarizzazione del Paese, riducendo
ulteriormente le possibilità di cooperazione e, possibilmente, portando alla
violenza.
Infine,
è assai improbabile che si apra una battaglia interna per la direzione futura
del Partito Repubblicano tra la fazione radicale guidata da Trump e quei pochi
leader rimasti della componente centrista-moderata – come Mitt Romney, senatore
per lo Utah – sopravvissuti in silenzio agli anni di presidenza di Trump.
Questi moderati, però, potrebbero decidere di (o essere costretti ad) abbandonare
il partito e fare un’alleanza bipartisan con Biden in cambio di incarichi
governativi e di un riformismo molto, molto moderato. Se i repubblicani
moderati devono gestire il difficile rapporto con l’ala della destra radicale
trumpiana, Biden deve gestire il complesso rapporto con l’ala democratico-socialista
di Sanders, Ocasio-Cortez e Warren, e un accordo bipartisan con i repubblicani
moderati potrebbe dare a Biden i voti sia alla Camera sia al Senato per far
passare alcune riforme (seppure molto moderate) o il piano di investimenti
nelle infrastrutture.
L’attacco
al diritto di voto da parte degli Stati controllati dai Repubblicani
In 23
Stati degli USA – tra cui Arkansas, Florida, Idaho, Iowa, Kentucky, Louisiana,
Michigan, Montana, North Carolina, North Virginia, Oklahoma, South Carolina,
Tennessee, Texas, Utah – i Repubblicani detengono il governatorato e il
controllo del Congresso, dando al Partito un potere quasi totale per far
avanzare le sue politiche. Nel 2021, i Repubblicani hanno usato questo potere per
spingere in modo aggressivo la loro agenda sociale conservatrice, mirando
all’accesso all’aborto, ai diritti dei transgender, al controllo delle armi e
al diritto di protesta in luogo pubblico, nonché alle leggi di voto.
La
Costituzione conferisce poco potere al livello federale nel campo della
legislazione sul voto, riservando le competenze quasi esclusivamente agli
Stati. Secondo il “Brennan Center for Justice”, a metà maggio 14 Stati avevano
emanato 22 leggi restrittive del diritto di voto.
A metà luglio gli Stati sono diventati 18 e le
leggi 30.
Questo,
anche se c’è da dire che almeno 25 Stati hanno promulgato 54 leggi con
disposizioni per ampliare l’accesso al voto.
I
Congressi statali controllati dai Repubblicani stanno rendendo più facile
possedere una pistola che votare, ha detto “Schumer”.
Stanno
rendendo più difficile votare in anticipo, più difficile votare per La
leadership del “mondo libero” e l’attacco al diritto di voto negli Stati Uniti.
Più
difficile votare per posta, più difficile votare dopo il lavoro. Stanno
rendendo un crimine dare cibo o acqua agli elettori che aspettano in lunghe
file.
Stanno cercando di rendere più difficile per
gli afroamericani e i latinos che frequentano una chiesa di votare di domenica.
E in realtà stanno rendendo più facile per giudici non eletti e commissioni
elettorali partigiane ribaltare i risultati di un’elezione, aprendo la porta a
un demagogo di tipo trumpiano, forse lo stesso Trump, per cercare di sovvertire
le elezioni nello stesso modo in cui Trump ha provato a fare nel 2020.
Il
primo Stato ad approvare leggi restrittive del diritto di voto è stata la
Georgia, dopo che lo Stato ha registrato un’affluenza record alle elezioni di
novembre 2020 e ai ballottaggi al Senato federale del gennaio 2021, comprese le
impennate tra gli elettori neri e di altre minoranze. Il 25 marzo il governatore
repubblicano “Brian Kemp” ha firmato una legge che Biden ha definito “Jim Crow
nel 21° secolo“, un riferimento al sistema di segregazione razzista che è
rimasto in vigore per 100 anni dopo la guerra civile (1865-1965).
La legge impone nuove e radicali restrizioni
all’accesso al voto nello Stato che rendono più difficile il voto per
corrispondenza e danno al legislatore statale più potere sulle elezioni.
Richiede
agli elettori di presentare le informazioni sull’identità sia con una richiesta
di voto per corrispondenza che con il voto stesso.
Limita
l’uso delle urne elettorali per il voto in “absentia”, consente sfide
illimitate alle qualifiche di un elettore, riduce il periodo di ballottaggio da
nove a quattro settimane e riduce significativamente la quantità di tempo a disposizione
degli elettori per richiedere un voto per corrispondenza.
Una
misura nella legge vieta di fornire cibo o acqua alle persone in fila per
votare (introdotta anche in Arkansas).
I
legislatori Repubblicani del Texas hanno usato il parafulmine dell'”integrità
elettorale” per introdurre almeno 49 progetti di legge con disposizioni di voto
restrittive nel 2021 (29 cercavano di creare nuove barriere al voto creando o
potenziando anche le sanzioni penali ad esse collegate), il numero più alto di
qualsiasi Stato negli Stati Uniti.
In
particolare, il Congresso statale controllato dai Repubblicani ha deciso di
approvare il disegno di legge omnibus, noto come SB7, che rende più difficile
votare in uno Stato già famigerato per essere il luogo dove è più difficile
votare a livello nazionale. L’SB7 elimina misure come il voto drive-through e
limita le ore del voto anticipato. Dà anche potere agli osservatori/scrutatori
partigiani delle votazioni, alimentando preoccupazioni per le tattiche di
intimidazione in uno Stato con una lunga storia di vigilantismo razzista.
I due
repubblicani che hanno messo insieme l’SB7, il senatore “Bryan Hughes” e il
deputato “Briscoe Cain”, hanno definito il disegno di legge “uno dei progetti
di riforma elettorale più completi e sensati” nella storia dello Stato.
“Greg
Abbott”, il governatore repubblicano del Texas, ha detto che lo avrebbe firmato.
I legislatori Democratici del Texas hanno organizzato una protesta,
abbandonando le aule parlamentari dello Stato, nel tentativo di bloccare
l’approvazione di questa e altre leggi restrittive.
Hanno
detto anche che ricorreranno in tribunale (fino alla Corte Suprema, se
necessario), mentre anche imprese locali, Camere di Commercio e alcune delle
principali società nazionali – tra cui Etsy, American Airlines, Warby Parker,
Microsoft e molte altre – hanno invitato i membri del Congresso del Texas ad
opporsi a qualsiasi cambiamento che renderebbe più difficile votare. I Repubblicani
si sono scrollati di dosso tali obiezioni.
Joe
Biden ha condannato come “sbagliato e non americano; nel 21° secolo, dovremmo
rendere più facile, non più difficile, votare per ogni elettore idoneo”.
Secondo il presidente, il disegno di legge del Texas “attacca il sacro diritto
di voto“, in particolare tra le minoranze. Le modifiche, infatti, potrebbero
limitare in modo sproporzionato il diritto di voto dei texani anziani e
diversamente abili, nonché degli elettori di colore e degli abitanti delle
città.
L’SB7
impone una pesante revisione del sistema elettorale in Texas, che interessa
quasi ogni area del codice elettorale, ma che in particolare prende di mira a
eliminare o limitare fortemente pratiche di voto specifiche che si sono
verificate in luoghi specifici dove gli elettori democratici sono in
maggioranza.
In
Michigan, dopo che Trump ha perso per un pelo uno degli Stati chiave dove c’è
stata un’affluenza record, i Repubblicani hanno deciso di muoversi per attuare
ampie restrizioni per limitare l’accesso alle urne. Ad aprile hanno annunciato
l’intenzione di utilizzare una manovra procedurale poco usata e anti democratica
per aggirare un veto del governatore democratico e promulgare una legge elettorale
che contiene pesanti restrizioni al voto.
Vogliono approfittare di una stranezza
prevista dalla legge del Michigan che consente agli elettori di inviare un
disegno di legge al legislatore se poco più di 340 mila elettori firmano una
petizione chiedendo loro di accoglierla.
A questo tipo di disegni di legge non può
essere posto il veto dal governatore.
Le
proposte repubblicane includono misure incredibilmente restrittive del diritto
di voto, anche se ritardate rispetto ad altre misure che gli Stati stanno
prendendo in considerazione. Un disegno di legge vieta al Segretario di Stato
del Michigan non solo di inviare le domande di voto per corrispondenza a tutti
gli elettori, ma impedisce anche di fornire un link su un sito web statale a
una richiesta di voto per corrispondenza.
Un’altra
proposta non consente agli elettori di utilizzare le urne per il voto in “absentia
“dopo le 17.00 del giorno prima del giorno delle elezioni.
Una
misura diversa richiederebbe agli elettori di fare una fotocopia del proprio
documento d’identità (che negli USA non è obbligatorio) e di inviarlo per posta
per votare.
Riuscire
ad approvare nuove restrizioni del diritto di voto è urgente per i Repubblicani
perché stanno per perdere uno dei loro più potenti vantaggi nella legislatura
statale. Un decennio fa, i Repubblicani hanno manipolato i confini dei
distretti elettorali in modo tale da garantire virtualmente che avrebbero
ottenuto la maggioranza dei seggi.
Quella
manipolazione, chiamata “gerrymendering”, ha permesso ai repubblicani di
controllare la legislatura dal 2011.
Ma nel
2018, gli elettori hanno approvato a stragrande maggioranza una misura
elettorale per privare i legislatori della loro capacità di ridisegnare i
distretti, dando il potere a una commissione indipendente. Con la commissione destinata a
disegnare nuovi distretti entro la fine dell’anno, le nuove restrizioni potrebbero
essere l’ultimo tentativo dei Repubblicani di distorcere le regole di voto per
dare loro un vantaggio nelle elezioni. Inoltre, sempre nel 2018, gli elettori
hanno approvato a stragrande maggioranza un emendamento costituzionale per
espandere il voto per corrispondenza nello Stato, un diritto che ora i
Repubblicani stanno cercando di limitare se non di annullare con le loro
riforme.
Un
cittadino un voto, ma ognuno con un peso diverso: il meccanismo del “Collegio
Elettorale Nazionale”.
Nel
2016, Donald J. Trump è diventato il 45mo presidente degli Stati Uniti vincendo
nel Collegio Elettorale Nazionale, ma essendo stato sconfitto nel voto popolare
per circa 2,8 milioni di voti, con solo il 46,4% (nel 2000 George W. Bush vinse
le presidenziali in un modo simile).
Il
meccanismo del “Collegio Elettorale Nazionale” conferisce un potere
sproporzionato agli Stati rurali più piccoli, che sono quasi invariabilmente
poco popolati e conservatori.
Ogni
Stato riceve un numero di grandi elettori pari al numero dei membri della
Camera dei Rappresentanti provenienti da quello Stato, più due aggiuntivi (come
due sono i senatori di ogni Stato a prescindere dalla popolazione), in questo modo
il potere di voto effettivo degli Stati più piccoli viene triplicato.
La
Clinton è stato il quarto candidato – dopo Samuel Tilden (1876), Grover
Cleveland (1888) e Al Gore (2000) – a perdere il collegio elettorale vincendo
il voto popolare.
Nel
2016, Trump ha rovesciato l’establishment neoconservatore repubblicano
(battendo 16 rivali nelle primarie e riuscendo nell’impresa già tentata dal
businessman miliardario “Ross Perot” nel 1992 e nel 1996 con un terzo partito)
e fatto una campagna elettorale anti-globalizzazione all’insegna di slogan come
America first! (già utilizzato dall’anti-globalista e nazionalista di destra “Pat
Buchanan” negli anni ’90 e soprattutto dal movimento filo-nazista americano
negli anni immediatamente precedenti all’entrata degli USA nella Seconda Guerra
Mondiale), “fare di nuovo grande l’America” (già utilizzato da Reagan nella
campagna del 1980) e “riportare in America i posti di lavoro che ci
hanno
rubato”,
raccogliendo voti di maschi bianchi bene educati appartenenti ai ceti medi alti
attratti dalla promessa di una riduzione del carico fiscale, di operai bianchi
impoveriti e impauriti, di giovani disoccupati, di lavoratori con un background
di immigrazione terrorizzati dalla concorrenza sul mercato del lavoro da parte
di nuovi immigrati.
A
portare Trump alla Casa Bianca è stata la sua immagine di paladino delle middle
and working classes e della middle America, e i voti degli (ex) operai bianchi
del Michigan, Pennsylvania e Wisconsin (dove Trump ha vinto, rispettivamente,
per 10.705 voti, 44.292 voti e 22.748 voti, ossia per un totale di 77.744 voti
che gli hanno dato la maggioranza nel “Collegio Elettorale Nazionale”) sono
stati decisivi, rendendo irrilevanti i milioni di voti della Clinton negli
Stati di New York e California.
“Tutte
le decisioni verranno prese nell’interesse dell’America. Commercio,
immigrazione:
farò
ogni scelta tenendo conto dei nostri, i vostri interessi. Siete stati
dimenticati troppo a lungo. Io non lo farò. America First!”
Alle
elezioni di midterm del 2018, Trump aveva condotto in prima persona una
campagna elettorale all’insegna del noi-contro-loro, costruita sui temi della
paura dell’immigrazione, del nazionalismo, del protezionismo economico e
culturale, e delle contrapposizioni razziali, nel tentativo di salvare il controllo
repubblicano del Congresso per i restanti due anni del suo mandato.
L’affluenza record (31 milioni di votanti in
più dei 114 milioni del 2014) ha dimostrato la sua capacità di infiammare la
sua base e di galvanizzare l’opposizione.
I
Democratici avevano vinto il voto popolare a livello nazionale
di
oltre l’8% alle elezioni per la Camera (secondo il “Brookings Institution”, i
distretti in cui hanno vinto i Democratici producono oltre il 60% del PIL
americano) e hanno avuto 11 milioni di voti in più a quelle per il Senato,
nelle quali però i Repubblicani hanno potuto uscire complessivamente vincenti perché
uno Stato rurale conservatore quasi disabitato, come il “Wyoming” – circa 575
mila abitanti ha la stessa rappresentanza – due seggi – della progressista
California, dove vivono 39 milioni di persone.
Un
sistema elettorale sbilanciato che, grazie al “Collegio Elettorale Nazionale”
(previsto dall’articolo 2 della Costituzione) per le elezioni presidenziali, dà
un potere sproporzionato alla parte perdente in termini di numero dei voti dei
cittadini.
L’esistenza del “Collegio Elettorale Nazionale
è frutto del compromesso politico raggiunto tra i 13 Stati originari che
costituirono l’Unione nata con la Costituzione del 1787.
Questi
Stati si unirono a condizione che fosse istituito un governo presidenziale
espressione paritaria delle entità statali componenti.
All’origine
quel compromesso tenne insieme Stati grandi e piccoli (addirittura con un
conteggio che ponderava gli schiavi meno dei bianchi) e, dopo la Guerra Civile,
ha consentito la riunificazione del Paese purché gli Stati perdenti della
Confederazione continuassero a pesare come quelli nordisti, a mantenere
l’autonomia statale prevista in Costituzione ed a preservare il meccanismo
doppio, popolazione (il voto popolare) e Stati, nelle elezioni presidenziali.
Per cui, il sistema elettorale presidenziale è fondato sulle scelte maggioritarie
Stato per Stato e il presidente non rappresenta solo i cittadini americani, ma
ancor più gli Stati.
Quando
gli americani votano per il presidente, in realtà votano per un rappresentante
del partito di quel candidato che diviene un grande elettore.
I grandi elettori sono 538 e votano per il
presidente a nome del popolo del loro Stato. Ad ogni Stato viene assegnato un
certo numero di questi grandi elettori (minimo 3), in base al numero di
distretti congressuali che hanno (ossia del numero dei rappresentanti alla
Camera, riflettendo solo in parte la distribuzione della popolazione), più due
voti aggiuntivi che rappresentano i seggi del Senato dello Stato. Washington DC
riceve tre voti elettorali, nonostante non abbia una rappresentanza elettorale
al Congresso.
Per
vincere la presidenza è necessaria una maggioranza di 270 dei voti grandi
elettori. I grandi elettori vengono assegnati quasi sempre (ad eccezione di
Maine e Nebraska che hanno adottato il “metodo del distretto congressuale“) con
un sistema “winner-takes-all, per cui il candidato con il maggior numero di
voti in uno Stato ottiene tutti i voti dei grandi elettori di quello Stato.
Ciò significa che un candidato ha bisogno di
un solo voto in più di qualsiasi altro candidato per conquistare tutti i grandi
elettori dello Stato.
Ad
esempio, nel 2016, Trump ha battuto la Clinton in Florida con un margine di
appena il 2,2%, ma ciò ha significato che ha ottenuto tutti i 29 voti del
Collegio
Elettorale Nazionale cruciali della Florida.
Per
come è strutturato, questo sistema favorisce una sovra rappresentanza della
minoranza rurale, che è geograficamente dispersa sul territorio, seppure
concentrata soprattutto negli Stati centromeridionali (originariamente gli
Stati schiavisti) con bassa densità di popolazione, prevalentemente
repubblicana,
cristiana, anziana, bianca e senza un diploma universitario (e spesso alleata
con la classe media suburbana bianca), rispetto alla crescente e diversificata
(per classe sociale, genere, cultura, fede religiosa ed etnia) maggioranza che
vive nelle piattaforme urbane e metropolitane e che è prevalentemente
democratica, ha un maggiore livello di istruzione ed è più giovane.
Il
Wyoming ha un voto per il Collegio Elettorale Nazionale ogni 193 mila persone,
mentre la California un voto ogni 718 mila persone. Ciò significa che ogni voto
elettorale in California rappresenta oltre il triplo di persone rispetto a uno
nel Wyoming.
Queste
disparità si ripetono in tutto il Paese.
È
quindi un sistema che è costantemente a rischio di perdere legittimità agli
occhi dei cittadini, considerando anche che entro il 2040, il 70% degli
americani vivrà nei 15 Stati più fortemente urbanizzati, con circa il 40% in
soli 5 Stati che saranno rappresentati solo da 10 senatori. Il che significa
che, se il sistema non verrà modificato, il 30% degli americani eleggerà 70 dei
100 senatori.
Tuttavia,
tutte le volte che sono state avanzate proposte per eleggere il presidente con
il voto diretto dei cittadini e riequilibrare la composizione del Senato, le
iniziative sono state bocciate da un Senato che non vuole spogliarsi delle sue
prerogative. D’altra parte, per modificare con un emendamento la Costituzione –
ma l’unico articolo immodificabile della Costituzione è quello che prevede che
ogni
Stato
non può essere privato del diritto di avere due senatori – occorre l’iniziativa
dei due terzi di entrambi i rami del Congresso e per ratificarlo il voto dei
tre quarti degli Stati, condizioni che molto probabilmente non potranno essere
mai raggiunte.
Molti
osservatori ritengono che le polarizzazioni e le fratture tribali e
politico-culturali nella società americana che Trump ha personalmente evocato,
favorito e cavalcato durante la sua presidenza come nessun presidente ha mai
fatto da prima dell’era dei diritti civili, arrivando a fomentare il tentativo
di colpo di Stato del 6 gennaio 2021 da parte dei suoi fedeli “patrioti”,
dureranno sicuramente a lungo.
Trump
aveva trasformato le elezioni presidenziali del 3 novembre 2020 in una sorta di
referendum su sé stesso e le sue distopie politiche.
Si è autodescritto come un “nazionalista” e ha
demonizzato i Democratici, accusando che “l’agenda democratica produrrà un
incubo socialista, riducendo
l’America
come il Venezuela”.
Ma,
Biden, attento a non ripetere gli errori della Clinton nel 2016, ha profuso la
sua attenzione sul trio di Stati della “rust belt” che avevano dato la vittoria
a Trump:
Pennsylvania,
Wisconsin e Michigan.
Ha
ricostruito il “blue wall” del Midwest che Trump aveva in parte abbattuto nel
2016, ma ha anche colto le opportunità per cambiare il panorama elettorale tradizionale,
vincendo in bastioni repubblicani come Arizona e Georgia.
Biden
ha detto di voler essere “un presidente che non cerca di dividere, ma di
unire“, di voler “restaurare l’anima dell’America, ricostruire la spina dorsale
della nazione, la classe media, e rendere di nuovo l’America rispettata nel
mondo“. “Per fare progressi, dobbiamo smetterla di trattare i nostri avversari
come nostri nemici. Non siamo nemici. Siamo americani.”
Un
appello che deve fare i conti con le profonde disuguaglianze economiche e
sociali presenti nella società americana e con il fatto che il “popolo di
Trump” ha dimostrato di essere vivo e pronto a resistere e combattere in vista
delle elezioni del 2022 e 2024, con il rischio che la presidenza del centrista moderato
Biden si riveli solo una tregua temporanea.
Chi
sono i manager
più
pagati d’Italia.
Lespresso.it
– Vittorio Malagutti – (13 aprile 2023) – ci dice:
In
testa alla classifica l’ad di “Stellantis”, “Carlos Tavares”.
Il suo compenso di 23 milioni di euro ha ricevuto
proprio oggi il via libera degli azionisti del gruppo.
Sul
podio della graduatoria elaborata dell’Espresso, anche “Marco Gobbetti” di
“Ferragamo” e il banchiere “Giovanni Tamburi.
È
“Carlos Tavares” il manager più pagato della Borsa italiana. Tra stipendio e bonus vari,
l’amministratore delegato di” Stellantis” l’anno scorso ha ricevuto un compenso
di 11,8 milioni di euro, quanto basta per scalare la vetta della classifica
elaborata dall’Espresso sulla base dei dati pubblicati in questi giorni dalle
società quotate sul listino milanese.
La
somma attribuita a “Tavares”, dal 2021 a capo del gruppo nato dalla fusione tra
“Fca” e la francese “Psa”, non comprende gli incentivi sotto forma di azioni.
Se si
considerano anche questi premi, maturati ma non ancora incassati, la
retribuzione complessiva del numero uno della multinazionale dell’auto arriva a
23,4 milioni di euro, pari a 365 volte lo stipendio medio della forza lavoro del
gruppo.
Come
dire che l’amministratore delegato guadagna in un giorno quello che, in media,
i 268 mila dipendenti di “Stellantis” ricevono in un anno.
Proprio
oggi, il gruppo presieduto da “John Elkann” (per lui 2 milioni di compensi più
3,7 milioni di bonus in azioni) ha riunito l’assemblea dei soci per
l’approvazione dei conti del 2022.
Com’era prevedibile, l’entità della
retribuzione di “Tavares” ha attirato le critiche di numerosi investitori
internazionali.
L’anno
scorso, gli azionisti avevano già bocciato i compensi elargiti al manager (19,1
milioni) con un voto, contrario per il 52 per cento del capitale, che comunque
era solo consultivo.
Sulla
questione era all’epoca intervenuto anche il presidente francese “Emmanuel
Macron”, che aveva definito «scioccante ed eccessivo» lo stipendio di
“Tavares”. Lo Stato francese, tramite la banca pubblica “Bpi france”, è
azionista di rilievo del gruppo, con una quota del 6 per cento.
“Stellantis”
ha chiuso il 2022 con profitti in forte crescita (16,8 miliardi, +26 per cento
sul 2021) e si prepara a distribuire ai soci un ricco dividendo.
Le
buone notizie non sono bastate ad ammorbidire alcuni fondi d’investimento che
sono tornati alla carica sui compensi.
Al
momento del voto, però, una maggioranza schiacciante, pari all’80 per cento del
capitale, ha comunque dato via libera alle decisioni del consiglio di
amministrazione.
“Tavares”,
a lungo a capo di “Peugeot” prima della fusione con “Fca”, si conferma quindi
al vertice della speciale classifica degli stipendi, una classifica che prende
in esame tutte le principali società quotate, a parte alcune, come “Enel” e
“Poste Italiane”, che ancora devono pubblicare i documenti obbligatori per
legge.
Staccato
da “Tavares di poche” decine di migliaia di euro, troviamo un nome molto noto
dell’industria della moda come “Marco Gobbetti£, nominato l’anno scorso al
vertice di “Ferragamo”.
Nel
2022 Gobbetti ha ricevuto, tra l’altro, 4,4 milioni a titolo di «welcome
bonus», un compenso extra legato, secondo quanto si legge nelle carte
aziendali, «all’impegno del manager a mantenere il rapporto di lavoro con
l’azienda per un periodo di tempo determinato».
MARCO GOBBETTI.
Il
gradino più basso del podio nella classifica dell’Espresso è invece occupato da
“Giovanni Tamburi”, banchiere d’affari di lungo corso molto noto nel mondo
della finanza nostrana.
“Tamburi”
ha fondato una banca d’affari di cui è presidente e importante azionista, la “Tamburi
investment partners”, e il suo compenso è frutto in gran parte di bonus
calcolati in percentuale su due voci di bilancio:
il 7
per cento dei ricavi dell’attività di advisory, pari l’anno scorso a 1,8
milioni, e il 6,2 per cento degli utili consolidati della società al lordo
delle tasse, 137 milioni nel 2022.
Si arriva così a circa 10 milioni di compensi
variabili che si sommano allo stipendio fisso di 550 mila euro.
GIOVANNI
TAMBURI.
Dopo
il terzetto di testa, con retribuzioni comprese tra 5 e 10 milioni di euro,
troviamo tra gli altri i big delle assicurazioni, con “Carlo Cimbri” di “Unipol”
davanti a “Philippe Donnet” di Generali.
Del
gruppo fa parte anche il capo di “Eni”, “Claudio Descalzi” appena riconfermato
dal governo.
E poi “Paolo
Rocca” di “Tenaris” e “Pietro Salini” di” Webuild”.
Premi
e incentivi di varia natura valgono quasi sempre ben oltre la metà delle
retribuzioni dei top manager e sono calcolati sulla base di complessi parametri
che tengono conto dei risultati aziendali e, da qualche anno, anche dei
cosiddetti criteri “ESG”, acronimo di gran moda che sta per” environmental,
social and governance”.
Le aziende cercano così di segnalare la loro
attenzione alla sostenibilità degli investimenti e al rispetto, per esempio,
della parità di genere.
Capita
sempre più spesso, però, che le valutazioni dei consigli di amministrazione
finiscano sotto il fuoco delle critiche degli azionisti, in particolare dei
fondi internazionali cosiddetti attivisti.
Prima
ancora di “Tavares”, il mese scorso era toccato a “Unicredit” vincere la
resistenza di una pattuglia di investitori contrari all’aumento di stipendio
dell’amministratore delegato “Andrea Orcel”, che è comunque stato approvato il
31 marzo con il voto favorevole del 69 per cento del capitale presente in
assemblea.
In “Telecom Italia”, alle critiche di una parte degli
investitori istituzionali si è aggiunto anche il gruppo francese “Vivendi”,
primo azionista da tempo su posizioni critiche nel merito della gestione e
delle prospettive dell’”azienda di tlc”.
La
resa dei conti è prevista per il prossimo 20 aprile, quando è in programma
l’assemblea dei soci chiamata ad approvare i conti del 2022 in perdita per 2,93
miliardi e a esprimere un parere sui compensi dei manager.
Tra
questi, anche quello dell’amministratore delegato “Pietro Labriola” a cui sono
state assegnate, sulla base dei risultati di bilancio, azioni “Telecom Italia”
per un valore massimo di 25,8 milioni di euro.
(Vittorio
Malagutti, Manager)
Gli
stipendi osceni dei top manager,
limitarli
è una questione etica.
Editorialedomani.it
- Alfredo Roma – (14 maggio 2023) – ci dice:
Il recente
fallimento di “Svb” e i crolli in Borsa di “Credit Suisse” e “Deutsche Bank”
hanno ancora messo in luce le assurde remunerazioni milionarie di cui godono i
vertici delle banche.
Nel
2021 l’80 per cento degli amministratori delegati delle società quotate sul
“Ftse Mib “ha percepito uno stipendio superiore al milione di euro.
Il
primo possibile intervento su questo problema etico è quello fiscale:
la
tassazione sui redditi delle persone fisiche (Irpef), dovrebbe essere leggera
sui redditi bassi ma poi progressiva fino a un’aliquota del 60 o 70 per cento.
Il
recente fallimento della “Silicon Valley Bank” (SVB) e i crolli in Borsa di
“Credit Suisse” e “Deutsche Bank” hanno ancora una volta messo in luce le
assurde remunerazioni milionarie di cui godono i vertici delle banche.
Remunerazioni
che spesso sono state pagate anche quando la banca stava per fallire.
I
bonus ai dirigenti della “SVB” sono arrivati puntuali pochi minuti prima che la
banca guidata da “Greg Becker” passasse sotto il controllo della “Fdic”, l’ente
federale che tutela i depositi.
Secondo
il canale televisivo “Cnbc”, “Becker” e i direttori della divisione finanziaria
e del management, “Beck” e “Draper”, a partire dal primo dicembre del 2022
hanno venduto le stock options della” Svb” per un valore complessivo di 5,1
milioni di dollari.
Tipica
operazione da insider trading sulla quale neppure la “Sec” (l’ente che
controlla la Borsa americana) è intervenuta.
I
VERTICI DELLE BANCHE.
Il
“Credit Suisse” ha chiuso l’esercizio 2022 con una perdita record di 7,3
miliardi di franchi svizzeri.
Malgrado questa pessima performance, Il Ceo
“Ulrich Körner” in carica da agosto 2022, ha ricevuto 2,5 milioni di franchi
svizzeri il giorno prima del crollo in Borsa del 15 marzo 2023.
Per la
“Deutsce Bank” vi era stato un primo segnale di allarme con l’aumento del costo
dell’assicurazione del debito contro il default, che significava un valore
dubbio dei suoi assets.
Poi le
obbligazioni, che scadono nel 2028, erano crollate da poco più di 98 centesimi
di dollaro prima dell'implosione della “SVB”, a 89 centesimi all'indomani del
crollo di “Credit Suisse”.
Così il 24 marzo 2023 è avvenuto il crollo in
Borsa delle azioni” Deutsche Bank”. Malgrado questo, per il 2022 la banca ha
pagato al Ceo “Christian Sewing” un compenso di nove milioni di euro.
Secondo
i dati dell’”Autorità bancaria europea”, nel 2021 quasi 2mila banchieri avevano
uno stipendio annuo di oltre un milione di euro.
Nella
classifica dei più pagati, gli amministratori delegati degli istituti di
credito italiani si piazzano al terzo posto.
Anche
a dispetto della crisi.
Basti pensare che i banchieri che superano il
milione di euro di guadagno annuo sono in aumento dell’88 per cento rispetto al
2020.
Quest’anno, se gli obiettivi verranno
raggiunti, “Andrea Orcel”, numero uno di “Unicredit”, vedrà lievitare
notevolmente il suo compenso annuo che passerà da 7,5 milioni a 9,75 milioni.
I
VERTICI DELLE SOCIETÀ QUOTATE.
Secondo
la 27esima edizione dello” Spencer & Stuart Board Index”, nel 2021 l’80 per
cento degli amministratori delegati delle società quotate sul” Ftse Mib” ha
percepito uno stipendio superiore al milione di euro.
In
particolare, il 16 per cento ha ricevuto un compenso superiore ai cinque
milioni di euro.
Il più pagato è stato il numero uno di “Stellantis”,
“Carlos Tavares,” che ha intascato 19 milioni.
Una
cifra che ha generato non poche polemiche a livello internazionale, soprattutto
per il delicato momento che l’industria dell’auto stava vivendo.
Come esempio di bonus pagati ai vertici di
aziende in stato fallimentare ricordiamo quelli pagati ai nove capi azienda che
si sono alternati alla guida di “Alitalia” dal 2007 al 2023.
LA
STORIA ITALIANA.
Nel
1980 gli amministratori delegati più pagati avevano un salario pari a 45 volte
quello di un loro dipendente.
Nel
2008 la media delle remunerazioni dei primi 10 top manager italiani era di 6,41
milioni di euro, 416 volte lo stipendio medio annuo di un operaio.
Nel
2020 è stata di 9,59 milioni, cioè 649 volte.
Sono i
numeri che emergono da un’analisi del Corriere della Sera.
Più
volte si è ricordato “Adriano Olivetti” che diceva:
«Nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve
guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario più basso».
In quegli anni di boom economico per il nostro
paese, l’amministratore delegato della Fiat “Vittorio Valletta” guadagnava 12
volte il salario di un operaio.
L’ultimo
stipendio di “Sergio Marchionne” in” FCA” nel 2017 fu 9,7 milioni di euro: 437
volte quello di un metalmeccanico.
La
linea dettata da Olivetti viene in parte rispettata dalla media degli stipendi
dei dirigenti intermedi.
Nel
2008 ci volevano 8,3 stipendi di un operaio per fare quello di un dirigente
medio, nel 2020 si è passati a dieci.
LA
SITUAZIONE DEGLI STATI UNITI.
Negli
Stati Uniti si parla di “pay gap” per riferirsi alla differenza salariale.
Dal
2018, per tutte le aziende quotate è obbligatorio trasmettere questo valore
alla “Sec”.
Secondo
l’”American Federation of Labor” nel 2020 la retribuzione media degli
amministratori delegati delle aziende quotate allo “S&P 500 “è stata di 299
volte superiore a quella mediana dei lavoratori.
Questa
comunicazione obbligatoria mostra che le autorità statunitensi si sono rese
conto del problema
etico e sociale rappresentato dalle eccessive remunerazioni dei vertici aziendali.
Nel
contesto americano è infatti apparso come uno scandalo il caso di “Kevin Clark”,
Ceo della società di componenti automobilistici “Aptiv PLC”, che con i suoi
31,2 milioni di dollari ha guadagnato 5.294 volte lo stipendio mediano.
I
CORRETTIVI NECESSARI.
Questa
breve analisi delle remunerazioni dei vertici aziendali richiede un approccio
critico.
Innanzitutto
bisogna ricordare che una banca o un’azienda sono un fatto sociale perché la
loro patologia colpisce creditori e dipendenti, oltre agli azionisti.
Quindi eccessivi stipendi sottraggono risorse
a una gestione responsabile.
Ci
troviamo in una fase storica in cui le disuguaglianze sociali, create dalle
teorie economiche del liberismo, sono aumentate dagli anni ottanta del secolo
scorso.
Una fase storica che ha prodotto due serie
crisi economico-finanziarie, una” pandemia” e una “flessione della
globalizzazione”.
Una
fase che ha evidenziato l’urgenza della transizione ecologica per la salvezza
del pianeta e dei suoi abitanti.
Tutto
questo richiede nuove politiche economiche e assestamenti geopolitici, oltre a
ingenti risorse.
Rivedere
le remunerazioni dei top manager di banche e imprese ha quindi una ragione
economica ma anche etica.
Un primo strumento è quello fiscale.
In
Italia, ad esempio, serve una politica opposta a quella della “flat tax”.
La
tassazione sui redditi delle persone fisiche (Irpef), dovrebbe essere leggera
sui redditi bassi ma poi progressiva fino a un’aliquota del 60 o 70 per cento,
come accadeva negli anni settanta del secolo scorso.
Infatti, se il percettore di un reddito pari a
tre milioni annui fosse soggetto a un’aliquota del 70 per cento sugli ultimi
500mila euro, di questi 500mila gli resterebbero comunque 150mila euro, pari a
quattro volte e mezzo il reddito medio annuo di un single.
I
progetti di riforma fiscale e il rifiuto di adottare un salario minimo da parte
dell’attuale governo italiano mostrano una decisa attenzione alle classi
abbienti piuttosto che alle classi povere.
Quindi nulla possiamo aspettarci sul tema
delle remunerazioni eccessive dei vertici di banche e imprese che, invece,
rappresenta un serio problema di responsabilità morale.
La
recessione è scongiurata ma l’economia italiana ha solo l’occasione del Pnrr.
(ALFREDO ROMA)
(Alfredo
Roma, economista, già presidente dell'Ente Nazionale Aviazione Civile (Enac) e
dell'European Civil Aviation Conference (Ecac), ex coordinatore nazionale del
Programma Galileo presso la presidenza del Consiglio dei ministri.)
Sequestrato
il
patrimonio dell’ex
pupillo
di Meloni:
socialmente pericoloso.
Editorialedomani.it
- NELLO TROCCHIA – (15 novembre 2023) - ci dice:
Il
tribunale di Roma ha messo i sigilli al patrimonio di “Pasquale Maietta”,
secondo i giudici vive abitualmente anche con proventi di attività delittuose.
Nel
provvedimento, eseguito dalla guardia di Finanza, si ricostruiscono anche i
rapporti con gli uomini del crimine organizzato.
È
imputato per reati gravi e vive abitualmente anche con i proventi di attività
delittuose.
Per
questo duplice aspetto di pericolosità sociale il tribunale di Roma, su
richiesta della procura capitolina, ha disposto il sequestro di beni per un
valore di cinque milioni di euro nei confronti di “Pasquale Maietta”.
Il “commercialista”
prima di essere travolto da inchieste giudiziarie è stato pupillo di “Giorgia
Meloni” e “tesoriere del partito”, «uno dei migliori dirigenti nazionali di
Fratelli d'Italia», lo definiva l’attuale presidente del Consiglio.
“Maietta”
era presidente del “Latina calcio” e contemporaneamente in stretti
rapporti con i vertici del “clan Di Silvio,” famiglia criminale mafiosa,
egemone in provincia di Latina, e imparentata con i “Casamonica”.
“Costantino
Di Silvio”, detto “Cha Cha”, era stato scelto da “Maietta” come magazziniere e
accompagnatore della squadra, un riconoscimento anche per il ruolo che svolgeva
di mediatore tra la società e la curva nei periodi neri della squadra. I
l
provvedimento del tribunale passa in rassegna” la carriera di Maietta” e i suoi
guai giudiziari, viene definito «ideatore di articolati modelli di evasione fiscale,
realizzati nel tempo con la compartecipazione di numerosi soggetti ad essi riconducibili».
L’ex
dirigente del partito meloniano, dal 2016 allontanatosi dal partito, è finito
coinvolto in sedici procedimenti penali, i reati che gli vengono contestati
sono uno stuolo:
associazione a delinquere finalizzata alla
realizzazione di reati fiscali e riciclaggio, abuso d'ufficio, turbativa
d'asta, falsità ideologica in atto pubblico, concussione, attività edilizia
abusiva, truffa aggravata.
“
Maietta” era sottoposto ad indagini anche nell'ambito del procedimento penale
istruito dalla direzione distrettuale antimafia di Roma «relativo alle minacce
perpetrate nei confronti di “Umberto Di Mario” in occasione della sfiducia che
nel 2015 portò alla caduta dell'allora sindaco di Terracina (LT), Nicola
Procaccini (estraneo
alle indagini e parlamentare europeo di Fratelli d’Italia, ndr)», si legge nel decreto.
I
RAPPORTI CON IL CLAN.
“Maietta”
e “Di Silvio”, detto “Cha Cha”, sono stati indagati per minacce aggravate dalla
modalità mafiosa con il ruolo di istigatore il primo e di esecutore materiale,
il secondo.
Cosa
veniva contestato ai due in concorso con persone rimaste ignote?
Un’azione intimidatoria nei confronti di un
consigliere comunale «facendogli arrestare la marcia della sua autovettura, e
nell'intimargli armati di pistola di non votare la sfiducia al sindaco del
Comune di Terracina, “Procaccini”, paventando in caso contrario ritorsioni nei
suoi confronti, impedivano e comunque turbavano l'attività del consigliere
comunale “Di Mario”».
Nel
decreto viene riportata l’intercettazione, risalente al 2020, nella quale l’ex
consigliere raccontava di aver sentito “Maietta” al telefono molto adirato
mezz’ora prima dell’incontro con gli aggressori.
In
un’altra conversazione intercettata “Di Mario” diceva alla moglie che mai
avrebbe accusato “Maietta” anche se lo aveva minacciato.
E la ragione era esplicitata dalla moglie in questa
intercettazione con” Di Mario”: «Tu hai ragion, ma lui sapeva che gli zingari lo
difendevano...gli zingari, pagati da lui, sarebbero andati a ammazza' pure
qualcuno».
La
paura di ritorsioni aveva spinto i coniugi a mostrarsi reticenti durante
l’interrogatorio in commissariato.
E così
l’indagine si è chiusa con l’archiviazione, in quanto, sebbene siano emerse in
modo chiaro le minacce «che “Maietta” ha messo in atto nei confronti di “Di
Mario”, tuttavia non sono emersi elementi di prova idonei a sostenere l'accusa
in giudizio con riferimento al mandato che “Maietta” avrebbe dato a “Di Silvio”
e ad altri soggetti di “etnia rom” al fine di minacciare “Di Mario” per
impedirgli di sfiduciare il Sindaco di Terracina».
Le
stesse vittime non hanno riconosciuto le fotografie di “Cha Cha” e di altri
esponenti del clan quando sono state ascoltate dagli investigatori.
Per raccontare i rapporti tra la criminalità
feroce dei “Di Silvio” e “Maietta” viene ricordata anche la testimonianza di “Angelo
Nardoni” che, mentre partecipava a un incontro politico alla presidenza di “Nicola
Calandrini (oggi senatore di Fratelli d’Italia) e “Maietta”, veniva avvicinato
da “Cha Cha” che gli disse «vattene perché altrimenti per te finisce male».
Nel
provvedimento vengono presi in esame i rapporti di “Maietta” non solo con “Di
Silvio Costantino”, ma anche con “Pugliese Renato” (figlio) e “Riccardo
Agostino”, tutti condannati per reati di associazione mafiosa finalizzata al
traffico di stupefacenti.
La proposta di sequestro, accolta dal
tribunale, analizza la sproporzione tra i redditi di “Maietta” e dei congiunti
in rapporto al patrimonio accumulato e al tenore di vita.
La
guardia di Finanza ha così messo i sigilli ad appartamenti, partecipazioni
societarie, disponibilità finanziarie nella disponibilità di “Maietta”.
(NELLO
TROCCHIA.)
(È
inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e
“l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste.)
Alcuni
tra i manager più ricchi
ed
influenti del pianeta.
Ecommerceguru.it
- Samuele Camatari – (3 Maggio 2019) – ci dice:
I manager più ricchi al mondo, chi sono e cosa
hanno scatenato con i loro business?
Qui
una rassegna aggiornata al febbraio 2019 degli uomini più ricchi al mondo. Sono
loro ad influenzare costantemente le nostre vite quotidiane con le loro idee di
business rivoluzionarie.
“Jeff
Bezos”, dal “bookstore online” al colosso” Amazon”.
Con un
patrimonio attuale di 135.5 miliardi di dollari Jeff Bezos si colloca di
diritto tra i manager più ricchi al mondo (il più ricco!), ma anche uno dei più
influenti.
Il suo
business nasce in un garage di Seattle nel 1994.
Originariamente
con l’obiettivo di fungere da online bookstore e gravato dal 70% di possibilità
di fallimento.
Amazon
oggi è il più grande colosso e-commerce mondiale di cui Bezos, fondatore,
presidente e amministratore delegato, possiede il 16%.
Anche
se questa quota potrebbe essere ricalcolata in seguito al divorzio con
“Mckenzie Tuttle”, facendo precipitare il magnate dal primo posto nella
classifica degli uomini più ricchi del mondo.
Visionario
e lungimirante, “Bezos” sogna da sempre lo spazio.
Per
questa ragione fonda nel 2000 “Blue Origin”, azienda che si occupa dello
sviluppo di tecnologie aereospaziali che trasporteranno l’uomo a spasso per
l’universo.
Convinto
che l’informazione sia essenziale, infine, il businessman ha acquistato il
“Washington Post” nel 2013.
“Bill
Gates”, “Microsoft” e le “charity.
Al
secondo posto, dopo anni di primato, Bill Gates.
Il
fondatore di Microsoft rimane in testa nella classifica con un patrimonio di
96.6 miliardi di dollari.
Dal
lontano 1975, anno in cui ideò Microsoft insieme a “Paul Allen”, il mondo della
tecnologia ha subito numerose trasformazioni.
La sua
azienda, di cui possiede ormai soltanto l’1%, è rimasta competitiva ed ha
saputo innovarsi.
Attento
al bisogno dei più sfortunati, oggi il businessman devolve parte dei suoi
guadagni ed ha istituito con sua moglie “Melinda” la fondazione di beneficenza
“Bill&Melinda”.
Seguendo questa inclinazione filantropica del suo
fondatore anche Microsoft di recente ha deciso di investire nella
riqualificazione delle città messe in ginocchio dai giganti tech, puntando
sull’acquisto di case popolari da mettere a disposizione della collettività.
“Warren
Buffett”, uno degli uomini più ricchi di tutti i tempi.
Il
quasi novantenne “Warren Buffet” è il terzo uomo più ricco al mondo con un
patrimonio di 84.9 miliardi di dollari e il quarantesimo uomo più ricco di
tutti i tempi.
Economista
e imprenditore, “Buffet” è conosciuto globalmente per la precisione dei suoi
investimenti e l’esattezza delle sue predizioni finanziarie.
Per
questa ragione è chiamato l’oracolo di Ohama (sua città natale, nel Nebraska).
Il suo
talento si scopre già ad 11 anni quando acquista le sue prime azioni di “Cities
Service”, una compagnia di servizi petroliferi, convinto di beneficiare della
svalutazione dello stock.
Il CEO
di “Berkshire Hathaway”, una delle più grandi holding del mondo che ingloba 60
aziende tra cui “Duracell”, “Geico” o la catena di ristoranti “Dairy Queen”, ha
annunciato che devolverà il 99% del suo patrimonio.
Fino
ad ora ha già donato 35 miliardi di dollari, molti dei quali sono confluiti nel
fondo “Bill&Melinda” del suo caro amico Gates.
“Bernard
Arnault”, visionario del lusso.
Con
77,6 miliardi di dollari di capitale, “Bernard Arnauld” è uno degli uomini più
ricchi al mondo e sicuramente il presidente e il CEO del più importante gruppo
mondiale nel settore del lusso: “LVMH”.
Estremamente
persuaso che i brand francesi del lusso possano coesistere nello stesso gruppo,
nel 1987 inizia tutta una serie di fortunate acquisizioni che lo porteranno
alla guida di “LVMH Moët Hennessy” – “Louis Vuitton”.
Nella holding convivono le varie anime del
lusso francese:
pregiati
vini e alcolici che fanno capo a famosissimi marchi come “Moët & Chandon”, “Krug”,
“Veuve Clicquot”, “Hennessy”, “Château d’Yquem”;
moda e
pelletteria rappresentate da brand come Louis Vuitton, Loewe, Fendi, Givenchy,
Christian Dior, Marc Jacobs;
profumi
e cosmetici siglati Guerlain, Acqua di Parma, Fresh;
Orologi
e gioielleria marchiati Bulgari, Zenith, Chaumet, Hublot; le maison di
distribuzione come Sephora, Le Bon Marchè Rive Gauche ecc…
“Carlos
Slim Helú”,
da bambino
prodigio a magnate del capitalismo indigeno.
L’uomo
più ricco del Messico possiede la più importante compagnia di telecomunicazione
dell’America Centrale e dei Caraibi,” America Movil”, con un patrimonio
familiare pari a 65 miliardi di dollari.
Nato
da genitori Libanesi emigrati in Messico, acquista il suo primo buono del
tesoro messicano a 12 anni.
Convinto
del valore della sua terra, mantiene le sue ricchezze in Messico negli anni ’80
in un periodo di vendite e fughe di capitali all’estero.
Nel 1990 acquista “Telmex”, l’unica compagnia
telefonica del Messico dei tempi, ad un valore infinitesimale dell’attuale.
Telmex
oggi è parte di “America Movil”, ma non è l’unica fonte di ricchezza del
magnate.
Fautore
del liberalismo indigeno, “Carlos Slim Helú” possiede quote di partecipazione
nel settore delle costruzioni messicane, nel settore immobiliare oltre a
possedere il 17% del “New York Times”.
“Amancio
Ortega”, pioniere della fast fashion.
“Ortega”
comincia la sua carriera come fattorino in una sartoria di La Coruña. Durante
la sua gavetta si accorge dell’importanza della moda anche per le classi meno
abbienti e comincia a pensare ad un modello di business fashion che accontenti
tutti.
Nel
1963 crea la “Confecciones GOA”, una piccola merceria in cui vende intimo,
vestaglie e pigiami e nel 1975 apre il suo primo negozio” Zara”, che lo renderà
uno dei manager più ricchi al mondo.
Attento
ai gusti dei clienti “Ortega” disegna, cuce e propone.
Nessun
magazzino: i capi vengono rimpiazzati ogni 2 settimane, facendo il successo di “Zara”
e di “Ortega” che, con 64.8 miliardi di dollari di patrimonio, è oggi è il
presidente di “Inditex”, la holding spagnola che include” Zara”, ma anche “Massimo
Dutti”, “Pull and Bear”, “Bershka”, “Stradivarius”, “Oysho”, “Uterque” ecc…
“Mark
Zuckerberg”, il re del social network Facebook, immancabile tra i più ricchi
del mondo.
Il
presidente e amministratore delegato di Facebook è sicuramente l’under 40 tra i
manger più ricco al mondo.
Con
63.4 miliardi di patrimonio il re dei social network ha fatto molta strada da
quando ideò dal suo dormitorio di Harvard, con altri suoi compagni, la
piattaforma messaggistica dedicata agli scambi di informazioni nel campus
dell’università. Oggi Facebook può essere considerato un “net-state”, uno “stato
digitale”, con una popolazione di 2.27 miliardi.
Larry
Ellison, una storia di successo partita dal Bronx.
Nato
nel Bronx da una ragazza madre, “Larry Ellison” è cresciuto nelle periferie di
Chicago con un’insolita passione per la matematica.
Volato
in California per cercare fortuna,” Ellison” lavora per otto anni come tecnico,
poi la svolta:
nel
1977 l’azienda per cui lavora cerca consulenza per lo sviluppo di un software
di archiviazione dati.
Mette
su una società di consulenza, e si propone all’azienda.
Da lì inizia la faticosa ascesa:
nel
1977 viene fondato il “Software Development Laboratories” che diventerà “Oracle
Corporation” soltanto nel 1995.
La
società attiva nel settore dei database, veloci e di facile implementazione
diventerà la più grande produttrice di software al mondo.
Devoto
alla ricerca, “Ellison”, il cui patrimonio ammonta a 62,1 miliardi di dollari,
ha investito nella ricerca contro il cancro e nella startup per il benessere
chiamata “Sensei”.
Larry
Page, colui che insegnò la ricerca a “Mister
Google” è oggi tra i manager più ricchi al mondo.
L’amministratore
delegato di “Alphabet”, società madre di Google, è uno dei manager più ricchi
al mondo con 51,9 miliardi di dollari di patrimonio.
I suoi studi di ingegneria informatica lo
portano insieme a “Sergey Brin” a fondare nel 1997 “Google Search”.
Con l’invenzione di “PageRank”, l’algoritmo di
ricerca Google, Page si è assicurato all’olimpo della tecnologia.
Ha
così la sicurezza nel 2003 di rifiutare l’acquisizione di Microsoft e nel 2005
acquista “Android “puntando sullo sviluppo dei sistemi operativi mobili.
I
fratelli Koch, i magnati del petrolio.
“Charles
e David Koch”, il primo presidente e CEO della “Koch Industrie”s e il secondo
azionista di maggioranza della medesima azienda, sono i fratelli manager più
ricchi al mondo.
Con un
patrimonio di circa 50.2 miliardi a testa, i due fratelli ereditano la
prestigiosa azienda familiare.
Questa ha fatto la sua fortuna grazie alla
scoperta di un nuovo metodo per raffinare il greggio.
Conservatori
per natura e per filosofia aziendale, i fratelli investono da tempo in ricerca
e nei media nazionali.
Nel
2017 infatti hanno appoggiato l’acquisizione del “Time” da parte della “Meredith
Corp”.
“ Jack
Ma” tra i manager più ricchi al mondo riscatta la generazione perduta cinese:
Nasce
nel pieno del periodo storico cinese definito come “Rivoluzione Culturale”.
Jack Ma si appassiona alla lingua inglese a 12 anni e si offre come guida per i
turisti stranieri nella sua città Hangzhou, a sud est della Cina.
Prova ripetutamente ad entrare all’università,
ma riuscirà soltanto nel 1988 a laurearsi e a trovare lavoro come professore
dopo una serie di rifiuti.
Nel 1995 si trova negli Stati Uniti come
interprete e lì si imbatte per la prima volta in un motore di ricerca.
“Birra”
è la parola che digita: nessun risultato che riguardasse la Cina.
Torna in patria e crea il suo primo sito.
Poi “China Yellow Pages”, un’agenzia di
realizzazione di siti internet. Per poi approdare alla più grande delle sue
realizzazioni “Alibaba,” una piattaforma e-commerce che avrebbe fronteggiato i
giganti della Silicon Valley.
Con un
ardore e una dedizione impensabili nel panorama della Cina post riforme
economiche, “Jack Ma” ha sfruttato tutte le potenzialità del mercato cinese.
E ha reso “Alibaba” non solo una piattaforma
per il commercio digitale, ma un ecosistema che ormai ingloba una miriade di
realtà più piccole che offrono i più disparati servizi, dai pagamenti online
alla messaggistica.
Con
37.7 miliardi di dollari, “Jack Ma” si inserisce tra i manager più ricchi al
mondo e come l’uomo più ricco della Cina – nonostante il suo annuncio dello
scorso settembre di abbandonare la presidenza del colosso e-commerce cinese e
dedicarsi alla filantropia.
(Samuele Camatari) (Fonte: Forbes).
Modello mafioso e
globalizzazione.
Centroimpastato.com
– Redazione - (3 marzo 2015) – Umberto Santino – ci dice:
Modello mafioso e
globalizzazione.
Il capitale aborre
la mancanza di profitto o il profitto molto esiguo.
Quando c’è un
profitto proporzionato, il capitale diventa audace.
Garantitegli il dieci per cento, e lo si può
impiegare dappertutto;
il venti per cento,
e diventa vivace; il cinquanta per cento, e diventa veramente temerario; per il
cento per cento si mette sotto i piedi tutte le leggi umane;
dategli il trecento
per cento, e non ci sarà nessun crimine che esso non arrischi, anche pena la
forca.
Se il tumulto e le liti portano profitto, esso
incoraggerà l’uno e le altre.
Prova: contrabbando e tratta degli schiavi
(T.J. Dunning in K. Marx 1964, p. 823).
Dove il mercato è
abbandonato alla sua auto-normatività esso conosce soltanto una dignità della
cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni
umane originarie di cui le comunità personali siano portatrici (Max Weber 1980,
p. 314).
Mafia: il paradigma
della complessità.
Per affrontare il
tema della diffusione del modello mafioso nel contesto della globalizzazione
sono necessarie alcune puntualizzazioni preliminari.
Per modello mafioso
intendo un insieme di caratteristiche riscontrabili nel fenomeno mafioso così
come si è sviluppato in Sicilia e come le ho ricostruite e sistematizzate nel
mio “paradigma della complessità” (crimine, accumulazione, potere, codice culturale,
consenso sociale), e che si possono così sintetizzare:
1) l’esistenza di
una struttura organizzativa capace di adeguarsi ai mutamenti del contesto;
2) una serie di
attività illegali e legali, storiche e nuove;
3) la loro
finalizzazione all’arricchimento e all’acquisizione di posizioni di potere;
4) la vigenza di un
codice culturale, insieme radicato ed elastico;
5) il consenso di
buona parte del corpo sociale;
6) l’interazione dei
gruppi criminali con il contesto sociale (Santino 1995).
Stando alle
ricostruzioni operate nelle sedi investigative e giudiziarie, sulla scorta
delle dichiarazioni di mafiosi collaboratori di giustizia, l’organizzazione
mafiosa più nota, “Cosa nostra”, avrebbe una struttura diffusa sul territorio,
verticistica e piramidale, con alla base le famiglie e al vertice una
commissione interprovinciale presieduta da un capo dei capi.
Famiglia di sangue e
famiglia mafiosa non coincidono: l’organizzazione
mafiosa ha una base familistico-parentale ma è aperta anche ad estranei e gli
associati, provengano o meno dalla cerchia familiare, sono selezionati in base
al possesso di doti necessarie per l’esercizio delle attività mafiose, illegali
e legali.
Ci troviamo di
fronte a una struttura formalmente rigida e immodificabile, con tratti di
sacralità (il rito iniziatorio con il giuramento, la qualità di “uomo d’onore”
che una volta acquisita dura tutta la vita), ma in realtà elastica e
flessibile, anche se può riscontrarsi una sostanziale continuità:
qualcosa di molto
simile alla struttura organizzativa degli ultimi decenni la ritroviamo nei
rapporti del questore di Palermo “Ermanno Sangiorgi “della fine del XIX secolo.
L’organizzazione è
il frutto di adattamenti succedutisi nel tempo, che in alcuni periodi hanno
portato anche allo scioglimento e alla formazione di strutture di comando
provvisorie, e recentemente è stata riconsiderata per rispondere alle reazioni
causate dalla lievitazione della violenza degli anni ’80 e ’90.
Negli ultimi anni si è parlato di “mafia invisibile”, di sommersione e clandestinizzazione, cioè di strategie di occultamento con significativi
risvolti che riguardano l’affiliazione (non solo il rito ma anche i soggetti),
i rapporti tra i membri ecc.
Un aspetto
fondamentale di questo approccio è il rapporto tra mafia e contesto sociale.
I gruppi criminali
formalmente strutturati agiscono all’interno di un sistema relazionale
informale, che si configura come un blocco sociale transclassista, egemonizzato
da soggetti illegali (i capimafia) e legali (professionisti, imprenditori,
amministratori, politici) legati dalla comunanza di interessi e dalla
condivisione di codici culturali, definibili come “borghesia mafiosa”.
Secondo questa
visione, la mafia è soggetto politico, in duplice senso: esercita un potere in
proprio, che si configura come signoria territoriale, imponendosi come
un’organizzazione di tipo statuale, non riconoscendo il monopolio statale della
forza e praticando l’estorsione come una forma di tassazione, e interagisce con
le istituzioni, per cui si può parlare di doppia mafia, insieme fuori e dentro
lo Stato, in doppio Stato, dato che il monopolio formale della forza convive
con quella forma di legittimazione della violenza mafiosa costituita
dall’impunità (Santino
1994).
Contrariamente allo
stereotipo che vede un continuo succedersi a una mafia vecchia di una mafia
nuova, erigendo un ovvio dato generazionale a paradigma interpretativo di
mutamenti che presentano dinamiche più complesse, l’evoluzione del fenomeno mafioso è vista come un
intreccio di continuità e trasformazione: aspetti persistenti, come la signoria territoriale,
convivono con aspetti innovativi, come le proiezioni internazionali, in un
rapporto di apparente contraddittorietà ma in realtà di reciproca funzionalizzazione.
Esempio: il dominio
esercitato su una determinata porzione di territorio è stato una delle
precondizioni per l’inserimento di mafiosi siciliani nel traffico
internazionale di eroina, attraverso l’installazione di laboratori di
produzione nelle aree sotto controllo, come pure l’aeroporto di Palermo, che
ricade in una zona a tradizionale dominio mafioso, è stato l’infrastruttura
indispensabile per l’invio della droga sul mercato americano.
Un altro concetto
che va richiamato è quello di “società mafiogena”,
intendendo per tale
una società che presenta le seguenti caratteristiche: l’accettazione della
violenza e dell’illegalità da buona parte della popolazione, che le considera
mezzi di sopravvivenza e canali di mobilità sociale;
l’esiguità dell’economia legale, la scarsità
di opportunità e la possibilità di accaparramento delle risorse attraverso le
maglie di un sistema clientelare;
la considerazione
dello Stato e delle istituzioni come mondi lontani e inaccessibili, se non
attraverso la mediazione dei mafiosi e dei loro amici, fortemente collusi;
la cancellazione
della memoria delle lotte precedenti, anche per effetto dell’emigrazione, e la
convinzione sedimentata dell’ineluttabilità della sconfitta;
la fragilità e la
precarietà del tessuto di società civile e delle forme di partecipazione;
la diffusione di una cultura della sfiducia e del fatalismo; la
solidarietà nell’illegalità e l’aggressività nei comportamenti quotidiani.
L’interazione di questi vari aspetti genera un
contesto adatto per l’inserimento dei gruppi criminali e la ramificazione del
loro sistema relazionale (Santino
1998, pp. 45 sg.).
Per quanto riguarda
l’eziologia del fenomeno mafioso, rispetto alla spiegazione dominante per molti
anni, secondo cui la mafia
è prodotto dell’arretratezza e del sottosviluppo, della “deprivazione relativa”
e di un deficit, si propone una visione che lega insieme in un processo di
causazione complesso le opportunità offerte sia dal sottosviluppo che dallo sviluppo,
a partire da un dato di fatto:
mafia e altre forme
di crimine organizzato ad essa assimilabili nascono e si sviluppano tanto nelle
periferie che nei centri e la loro azione si articola con un ventaglio tanto
ampio da comprendere attività tradizionali (per esempio le estorsioni) e modernissime
(come l’uso di tecnologie sofisticate per il riciclaggio del denaro sporco).
Un interrogativo
preliminare doveroso: questo modello può applicarsi a realtà sviluppatesi in
altri contesti, a livello nazionale e internazionale?
È possibile
formulare una teoria generale del crimine organizzato e transnazionale, per di
più a partire da un modello storico locale?
Posso dire fin d’ora
che nello studio delle varie forme di crimine organizzato va evitata la
tentazione a cui indulgono i media di vedere tutto sub specie Siciliae e che la
rilevazione di uniformità e specificità deve essere condotta attraverso uno
studio rigoroso senza fare di ogni erba un fascio.
L’applicazione del modello mafioso non può
essere il frutto di una forzatura e non può indurre a semplificazioni che
rischiano di riproporre banalità e stereotipi.
Globalizzazione:
ideologia e realtà.
La letteratura sulla
globalizzazione si accresce ogni giorno di nuovi titoli per cui diventa sempre
più difficile orientarsi.
Ma non si pone
soltanto un problema quantitativo.
La difficoltà
principale deriva dal fatto che le cose che si dicono e si scrivono, e la
stessa terminologia impiegata, sono segnate dalla indistinzione-sovrapposizione
tra processi reali e rappresentazione.
Secondo la
definizione che ne dà l’”Und”p (United Nations Development Programme)
la globalizzazione
non è un fatto nuovo, ma la presente era ed ha caratteristiche particolari.
Lo spazio che si restringe, il tempo che si
contrae e i confini che scompaiono stanno legando gli individui in maniera più
profonda, più intensa e più immediata di quanto sia mai successo prima.
Sui mercati valutari
vengono ora scambiati, ogni giorno, più di 1500 miliardi di dollari, mentre
quasi un quinto dei beni e servizi prodotti ogni anno viene scambiato.
Ad ogni modo, la
globalizzazione è molto di più del flusso di moneta e merci: consiste nella
crescente interdipendenza della popolazione mondiale.
E la globalizzazione
è un processo che integra non solo l’economia, ma anche la cultura, la
tecnologia e la governance (Undp
1999, p. 17).
La definizione
rappresenta una mediazione tra visioni che tendono a presentare la
globalizzazione come un fatto radicalmente nuovo o totalmente o in larga parte
inscritto in processi da tempo avviati, o la riducono alla dimensione
economica, considerandola unicamente come un prodotto dell’evoluzione del
libero mercato.
Si è detto, non
senza fondamento, che l’economia-mondo c’è almeno da quattro secoli e si sono
richiamati gli studi di “Arrighi” e di “Wallerstein” che hanno analizzato il
capitalismo come sistema unico mondiale a partire da quello che “Braudel
chiamava” “il lungo XVI secolo”.
La formazione di un sistema a prevalente modo
di produzione capitalistico è il frutto dell’incrociarsi di due processi che
portano a una nuova divisione internazionale del lavoro e alla creazione di
organismi statuali “forti”
(Wallerstein 1978).
L’accumulazione del
capitale si presenta come un ciclo: all’inizio abbiamo un’espansione delle
risorse finanziarie destinate all’investimento, poi c’è un’espansione della
produzione, quindi il ritorno alla finanziarizzazione.
Sul piano del potere la storia degli ultimi
secoli vede il succedersi di egemonie politiche territoriali e internazionali.
Secondo questa
prospettiva oggi ci troveremmo “alla fine del “lungo XX secolo”, segnato dal
ciclo di accumulazione e dal sistema di egemonia politica degli Stati Uniti,
che ha preso il posto di quello dominato dalla Gran Bretagna nel “lungo XIX
secolo”” (Arrighi, 1996; Pianta 2001).
Gli studi
sull’economia-mondo hanno il merito di disegnare un quadro unitario in cui si
integrano economia e politica e di avvertirci che la tentazione di gridare ad
ogni piè sospinto alla novità va governata con una buona dose di memoria
storica.
Questo non significa
che dobbiamo incorrere in un altro rischio:
quello di pensare che non c’è nulla di nuovo
sotto il sole e che la storia non sia altro che la ripetizione del già vissuto,
il replicarsi di un ciclo.
Negli ultimi anni
c’è stata un’enorme accentuazione delle interdipendenze, dovuta non solo alla
rivoluzione del sistema di comunicazione:
possiamo dire che oggi non c’è angolo del
mondo, gruppo di popolazione che si sottragga all’influenza del mercato
mondiale. Produzione e
commercio sono coordinati su scala globale, le fasi di lavorazione dei vari
prodotti sono distribuite in paesi diversi, i mercati finanziari sono globali:
tutto questo significa che il capitale circola
a livello planetario senza barriere, alla ricerca della forza lavoro al più
basso costo o di sbocchi speculativi.
Va da sé che questo non è nato di colpo, è il
frutto di processi maturati nel tempo e bisogna tener conto di varie
dimensioni, a cominciare dall’intreccio tra economia e politica.
Una delle tesi più
diffuse vuole che la globalizzazione sia un fenomeno irreversibile, cioè sia
determinato da fattori come le tecnologie e i sistemi di trasporto il cui
sviluppo ha unificato il mondo, e offra opportunità a tutti i suoi abitanti.
In ogni caso non
resta che prenderne atto, come se si trattasse di un fenomeno naturale.
In realtà la
globalizzazione non è il frutto del progresso tecnologico, della fatalità
economica, delle leggi inesorabili del mercato, ma di una determinata
configurazione delle centrali del potere e di una politica consapevole e
deliberata (Amin 1998,
Altvater 2000, Bourdieu 2001) a
profitto di alcuni e a danno di altri.
Se non ci fosse
stata l’implosione del cosiddetto “socialismo reale”, oggi non si parlerebbe di
globalizzazione allo stesso modo che ci capita di ascoltare ad ogni ora del
giorno.
La globalizzazione non è solo Internet, è la materializzazione della
vittoria del capitalismo che si è sbarazzato di quello che per due secoli è
stato il suo nemico storico e impone una sua forma di dittatura imperiale,
cercando di cancellare tutto ciò che si richiamava a una prospettiva di
mutamento radicale o riformista inscritta nella visione socialista e
proclamandosi come l’unico sistema possibile, senza alternativa.
Il neoliberismo
economico più che sposarsi al liberalismo politico implica una forte carica di
decisionismo autoritario e marcia sui binari di quello che è stato definito il “pensiero unico”, cioè una summa di codici culturali ispirati al
dogma del profitto, alla sudditanza del lavoro al capitale, alla competitività
e al consumismo come filosofia di vita.
A sentire i “maestri cantori” del neoliberismo, il mercato sarebbe una gara a cui tutti possono
partecipare, tutti possono vincere e arricchirsi, tutti giocano in borsa o si
ripromettono di farlo, tutti sanno tutto del Dow Jones e del Nasdaq, tutti si
affrettano a correre nei supermercati a comprare i prodotti, ben che vada
inutili spesso dannosi, reclamizzati ossessivamente dai media.
In realtà il mondo
attuale è un casinò e un supermercato per pochi.
La globalizzazione si presenta come un sistema
di esclusioni, di vera e propria apartheid mondiale che riguarda poco più di un
quinto dell’umanità.
Tutti gli altri sono
“fuori mercato”, cioè non hanno diritto di cittadinanza, anzi sono visti come
un pericolo e una minaccia (Amoroso
1999, p. 49).
Ritorniamo al
discorso su rappresentazione ideologica e realtà a cui accennavamo prima.
Si dice che la
globalizzazione favorisca la crescita economica, riduca la disoccupazione,
aumenti la produttività, ma i dati contraddicono queste affermazioni.
Riguardo alla
crescita del prodotto interno lordo, i paesi “Ocse” (Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo economico) hanno avuto una crescita più lenta dopo
il 1980 di quella che hanno avuto negli anni ’50 e ’60:
allora crescevano a un tasso di circa il 5 per
cento annuo, mentre negli anni ’80 il tasso di crescita è sceso al 3,2 per
cento e negli anni ’90 non ha superato l’1,5 per cento (Gallino 2000, p. 100).
Per ciò che riguarda
la disoccupazione si registra il ritorno alla disoccupazione di massa
nell’Europa occidentale.
Nel 1999, nei 15
paesi dell’Unione Europea, 15,4 milioni di persone erano in cerca di lavoro
(Gallino 2000, p.101; Brecher-Costello 1996, p. 39).
Nei 24 paesi
industrializzati dell’Ocse il tasso ufficiale di disoccupazione è dell’8,5 per
cento, con un esercito di riserva di 35 milioni di persone.
Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) su una forza lavoro di circa 3 miliardi di persone, più di 1 miliardo è
disoccupato o sotto-occupato (“Gallino”
2000, p. 103).
Negli ultimi
vent’anni la produttività ha avuto un significativo declino rispetto agli anni
’50 e ’60.
Tra il 1980 e il
1995 il Pil dei paesi sviluppati è cresciuto di poco più del 2 per cento
l’anno, mentre tra il 1950 e il 1973 l’incremento annuo era quasi del 4 per
cento.
Anche negli Stati
Uniti, che guidano la marcia trionfale del capitale globalizzato il tasso di
incremento della produttività si è dimezzato dopo il 1973, passando dal 2 all’1
per cento (ivi, p. 101).
Secondo il rapporto
dell’”Undp” del 1999 sullo sviluppo mondiale, nel ’97 il 20 per cento più ricco
della popolazione mondiale, quasi tutto nei paesi Ocse, aveva l’86 per cento
del Pil del mondo.
Il 20 per cento più
povero aveva solo l’1 per cento.
Negli anni ’60 il
rapporto tra il quinto più ricco della popolazione mondiale e il quinto più
povero era 30: 1; nel ’90, 60: 1 (Undp 1999, p. 19).
I paesi indebitati
del Sud del mondo dal 1982 al 1990 hanno pagato ai paesi creditori del Nord sei
miliardi e mezzo di dollari di interessi e altri sei miliardi di dollari di
pagamenti principali ogni mese, ma il debito di questi paesi è cresciuto del 60
per cento (Brecher-Costello
1996, p. 41).
Sempre secondo l’”Undp”,
2,8 miliardi di persone vivono con meno di due dollari al giorno, 1,2 miliardi
con meno di un dollaro, mentre 7 milioni di persone hanno una disponibilità
finanziaria di almeno un milione di dollari e 358 miliardari da soli posseggono
quanto 2 miliardi e 300 milioni di persone, cioè il 45 per cento della
popolazione mondiale.
A sostegno della
tesi che la globalizzazione offre opportunità a tutti, a condizione che ci si
sappia inserire nelle dinamiche del mercato internazionale, si richiama
l’esempio dell’Asia (senza la Cina, l’India e il Giappone) che tra il 1973 e il
1998 ha fatto registrare una crescita del 138 per cento, superiore a quella dei
paesi più industrializzati, cresciuti tra il 48 e il 78 per cento, ma questi
dati andrebbero analizzati alla luce di parametri che non riguardano solo
l’incremento del Pil e non possono oscurare un dato di fatto e cioè l’ulteriore
impoverimento di gran parte della popolazione mondiale.
E questo è il frutto
delle politiche della “Banca mondiale” (Bm) e del “Fondo monetario
internazionale” (Fmi) i cui
programmi di “aggiustamento strutturale” per il rientro dal debito impongono lo
smantellamento dell’intervento statale non solo in economia ma in settori come
la sanità e l’istruzione, la liquidazione delle economie non competitive,
l’offerta di convenienze agli investitori esteri, cioè alle grandi
multinazionali, che consistono soprattutto nel bassissimo costo delle materie
prime e della forza lavoro.
L’”Omc”
(Organizzazione mondiale per il commercio) ha imposto una dittatura delle
grandi multinazionali, con l’esaltazione dei diritti di proprietà privata che
cancellano i diritti elementari delle popolazioni più svantaggiate.
Non si tratta di
politiche sbagliate, di effetti perversi rimediabili con un po’ di buona
volontà, con qualche elargizione suggerita dalla cosiddetta “globalizzazione compassionevole”.
La logica della
polarizzazione è insita nel sistema stesso (Amin 1997, p. 31); la povertà non è la conseguenza di “scarsità” di
risorse umane e materiali, “è piuttosto il risultato dell’eccessiva offerta
globale basata sulla disoccupazione e la minimizzazione del costo del lavoro in
tutto il mondo”
(Chossudovsky 1998, p. 21).
Un enorme esercito di riserva consente di
spostare e sminuzzare i processi produttivi dove la forza lavoro ha costi
irrisori e dove non bisogna fare i conti con i diritti dei lavoratori,
conquistati a duro prezzo e ora soggetti a drastici decurtamenti se non alla
cancellazione.
Cioè: l’impoverimento e l’emarginazione di grandi masse
della popolazione mondiale è una condizione indispensabile per tenere in piedi
un sistema che poggia le ragioni del profitto sulla imposizione di flessibilità
vessatorie.
Il libero mercato ha come colonna sonora le
salmodie della concorrenza e del fair play ma si fonda su una strategia di
ricatti.
La globalizzazione
si presenta come la prova provata del trionfo del capitalismo, come il nuovo
ordine mondiale, ma in realtà è un modo per affrontare i problemi posti dalla
sua crisi.
Alla crisi economica
iniziata negli anni ’70, con un forte declino dei tassi di resa del capitale,
le grandi imprese hanno reagito ridefinendo i rapporti capitale-lavoro con
strategie volte a rilanciare i profitti con il taglio dei salari e degli altri
costi di produzione.
La mobilità del
capitale alla ricerca della forza-lavoro al più basso costo era una strada già
avviata ma il crollo del socialismo e la crisi dei movimenti ad esso ispirati
l’ha spianata decisamente, azzerando o riducendo notevolmente i condizionamenti.
Lo sviluppo dei
mercati finanziari globali ha accelerato ulteriormente la mobilità del
capitale.
La superproduzione
spinge sempre di più grandi masse di capitale verso la speculazione finanziaria
che più che una patologia passeggera si presenta come un dato strutturale.
Dalla seconda guerra
mondiale era nato un mondo diviso in tre blocchi: il blocco occidentale, quello
socialista, il Terzo mondo.
Oggi il blocco
occidentale esercita un dominio imperiale su tutto il pianeta.
Ed è un dominio che alimenta disparità e
discriminazioni: per un verso abbiamo l’eliminazione delle distanze, una
straordinaria rapidità dei mezzi di comunicazione e la libertà di circolazione
dei capitali e delle merci, per un altro si ergono e si moltiplicano gli
ostacoli alla libera circolazione degli uomini.
Il massimo del
progresso tecnologico convive con la mercificazione degli esseri umani e le
nuove schiavitù.
La dittatura del profitto si esprime nel comando di istituzioni globali
incontrollate, a servizio degli interessi delle multinazionali, e la religione
della proprietà privata celebra i suoi riti con la privatizzazione di risorse
come l’acqua, i brevetti sui semi e sui farmaci.
Sotto il profilo
politico assistiamo a processi che sono stati definiti di “decostruzione della politica” (“Bauman” 2000, pp. 78 sgg.), cioè della formazione di poteri separati dalla
politica.
I poteri si
concentrano nelle mani di istituzioni internazionali sottratte a qualsiasi
forma di controllo democratico.
L’istituzione dell’”Omc”
è stata definita un “colpo di stato globale” (Brecher-Costello 1996, p. 79) e si è parlato di un “governo mondiale invisibile” (Bourdieu 2001, p. 45) con riferimento a decisioni adottate in segreto, ma
gran parte di questo governo è ben visibile anche se ignora le regole
elementari della democrazia:
l’elettività dei
soggetti che lo esercitano e la possibilità di controllare il loro operato.
Il caso più
eclatante di vera e propria usurpazione del potere è il G7 (o G8, ma la Russia in realtà recita la parte di
parente povero):
i rappresentanti dei
paesi più industrializzati, che hanno unicamente il mandato di governare i loro
paesi, si sono proclamati leaders del pianeta in base all’equazione ricchezza
uguale potere, esautorando l’”Onu” e vanificando ogni tentativo di una sua
riforma democratica.
In questo quadro gli
Stati nazionali vedono sminuiti i loro poteri, anche se continuano ad avere un
ruolo, mentre partiti e sindacati che agiscono dentro orizzonti nazionali, una
volta crollate le prospettive dell’internazionalismo socialista, sono spiazzati
rispetto ai compiti suscitati dalla nuova realtà.
Nel contesto della
formazione di poteri che si impongono al di fuori di ogni regola democratica,
sul piano militare lo scioglimento del Patto di Varsavia non è stato bilanciato
dallo scioglimento della Nato, che anzi si è rafforzata e ha rivolto le sue attenzioni
verso i nuovi “nemici”:
i paesi arabi e gli altri paesi detentori di
risorse energetiche che il blocco occidentale intende sfruttare a suo vantaggio.
Al fondamentalismo
occidentale rispondono altri fondamentalismi e insieme compongono un quadro di
tensione permanente che sollecita un’ulteriore corsa agli armamenti, con grandi
profitti per le imprese produttrici che si preparano a gestire il progetto di
scudo spaziale, voluto fermamente dal nuovo presidente degli Stati Uniti, in
violazione di accordi sul disarmo nucleare, contrastato dai paesi dell’Unione
europea ma servilmente appoggiato dal governo Berlusconi.
Per l’insieme di
sperequazioni, usurpazioni, vere e proprie barbarie che
la globalizzazione
incorpora, l’espressione “impero del caos” (Amin 1991) non è né esagerata né fuori luogo.
Nessuna sorpresa quindi se invece della “fine
della storia” abbiamo sotto gli occhi una vicenda quotidiana fatta di
manifestazioni di protesta, iniziative a vari livelli che si pongono come forme
di delegittimazione dell’assetto attuale e si proiettano, tra incertezze e
contraddizioni, verso la costruzione di alternative possibili.
Le mafie: forme
organizzative e attività.
Abbiamo finora
tratteggiato a grandi linee il quadro teorico e storico-mondiale entro cui ci
muoviamo.
Ora bisognerà cominciare a porci il problema
del proliferare di organizzazioni criminali sul piano nazionale e
internazionale e vedere come esso si inserisca nel contesto della
globalizzazione.
Cosa hanno in
comune, oltre la generica etichetta di “mafie”, organizzazioni criminali
storiche e nuove come la mafia siciliana (Cosa nostra e le altre), la
‘ndrangheta calabrese, la camorra campana, la Sacra corona unita pugliese, la
mafia del Brenta e sul piano internazionale le triadi cinesi, la yakusa
giapponese, i cartelli latino-americani, la mafia turca, russa, albanese,
nigeriana ecc.?
Per l’Italia la
legge antimafia del 1982 ha definito l’associazione mafiosa operando
un’estensione del modello siciliano nelle sue linee generali: “l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne
fanno parte si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo e
delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere
delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il
controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e
servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per
altri”.
Quindi, per potersi
parlare di mafia, occorre un’organizzazione caratterizzata da alcune
peculiarità:
la forza d’intimidazione con i suoi effetti
sugli associati (ma pure sugli esterni), finalizzata allo svolgimento di
attività economiche, in collegamento anche con l’uso del denaro pubblico.
Dentro questo schema
astratto possono ritrovarsi peculiarità connesse con la storia delle singole
associazioni e con il territorio entro cui esse agiscono. Non possiamo in
questa sede approfondire adeguatamente questo tema, basterà qualche accenno.
Per quanto riguarda
la Sicilia l’attenzione si è concentrata su Cosa nostra e sulla sua struttura
organizzativa piramidale e verticistica, ma in realtà in Sicilia ci sono altri
gruppi definibili di tipo mafioso, come la Stidda delle province di Agrigento e
Caltanissetta, la cui struttura organizzativa è meno rigida.
La ‘ndrangheta ha un’organizzazione
maggiormente ancorata alla famiglia di sangue, mentre la camorra ha una
struttura pulviscolare, con formazioni precarie, ma ha pure conosciuto momenti
organizzativi più rigidi e duraturi.
La Sacra corona
unita è stata definita una organizzazione gangsteristico-mafiosa ma in realtà
presenta molti dei caratteri tipici della mafia storica:
una struttura
gerarchica, un organo di coordinamento, un codice culturale.
Più vicina a una
banda criminale è la mafia del Brenta ma le sue attività hanno avuto la
complessità a cui fa riferimento la legge antimafia.
A livello
internazionale le triadi, la cui presenza come setta segreta è documentata fin
dal XVII secolo, hanno struttura verticistica;
le yakusa,
considerate fino al 1992 associazioni solidaristiche, sono una serie di gruppi
con organizzazione verticistica all’interno, tradizionalmente senza
collegamento tra loro ma da qualche tempo con legami di tipo federativo.
I cartelli
colombiani sono di recente formazione, non sono molto strutturati e non hanno
regole rigide.
Si possono
considerare delle “imprese individuali che si spartiscono i compiti tra loro e
con un gran numero di bande minori” (Santino-La Fiura 1993, p. 183).
I legami sono
informali e legati alle esigenze quotidiane.
I clan turchi sono strutturati su base
parentale, la mafiya russa ha un’articolazione complessa, che va da micro bande
criminali a organizzazioni più ampie, strutturate gerarchicamente, tra cui
quella storica dei cosiddetti “ladri nella legge”, i cui capi possono essere
anche funzionari pubblici e uomini d’affari.
I gruppi criminali di etnia albanese non hanno
struttura verticistica anche se negli ultimi tempi alcuni gruppi sono emersi
sugli altri e si sono avviati collegamenti tra i vari gruppi operanti in
Italia. I gruppi nigeriani sono strutturati in cellule collegate tra di loro ma
senza un assetto gerarchico.
Come si vede, anche
da un rapido sguardo, ci troviamo di fronte a un panorama variegato, in cui
però possiamo individuare motivi ricorrenti: la forma organizzativa può essere rigida o flessibile,
in ogni caso è il frutto di un adattamento alle attività che vengono svolte e
ai contesti in cui si agisce.
Lo studio dei gruppi
criminali deve tener conto dei comportamenti nei paesi d’origine e nei nuovi
insediamenti, dell’articolazione delle attività, criminali e legali.
Alcuni di questi gruppi erano presenti già da
tempo in vari paesi e agivano da organizzazioni transnazionali.
Le attività dei
gruppi antichi e recenti si sviluppano secondo una gamma già ampia e
suscettibile di ulteriore ampliamento.
Sul piano criminale abbiamo: estorsioni, usura, contraffazione di merci,
contrabbando di tabacchi, traffico di droghe, di armi, di materie prime per
fabbricazione di armi, di beni artistici, immigrazione clandestina e tratta
degli schiavi, prostituzione, traffico di organi, smaltimento di rifiuti
tossici e pericolosi.
Sul piano legale: imprese di costruzioni, appalti di opere pubbliche,
esercizi commerciali, attività turistico-alberghiere, speculative e
finanziarie.
I processi di omologazione, innescati dal
fatto che le varie organizzazioni svolgono le stesse attività e debbono
affrontare gli stessi problemi, come il riciclaggio del denaro sporco, vanno a
braccetto con le specificità etniche, storiche e culturali.
Ho guardato e
continuo a guardare con diffidenza a una caricatura di “teoria generale delle mafie” frutto di forzature e di illazioni, sulla base di
una visione che ripropone stereotipi vecchi e nuovi.
Negli ultimi anni si
è parlato di una cupola mondiale del crimine, di una sorta di Onu del delitto, che ricalca l’immagine della piovra universale che
imperversa sui teleschermi.
Ritengo invece che
alcuni elementi del “paradigma della complessità” possano essere utilmente
impiegati per capire quello che sta accadendo sulla scena mondiale, a patto che
si abbia l’onestà intellettuale di non piegare la realtà a schemi
preconfezionati.
Anche per altri
gruppi di criminalità organizzata di tipo complesso possiamo chiederci come il
crimine sia funzionale ai processi di accumulazione e di acquisizione del
potere, come operano i codici culturali, come si configurano i rapporti tra
legale e illegale, tra gruppi criminali e soggetti sociali e istituzionali.
I concetti di signoria territoriale, di
borghesia mafiosa, di società mafiogena possono valere ben oltre l’orizzonte
siciliano.
E sul piano
eziologico il cosiddetto “crimine
transnazionale” ripropone
problemi che sono stati affrontati, spesso in modo inadeguato, dagli studiosi
di fenomeni locali.
Globalizzazione e
criminogenesi.
Per anni gli studi
sui processi di causazione del crimine sono stati dominati dal paradigma del
deficit.
La mafia siciliana e le forme di crimine
organizzato venivano spiegate come il prodotto di una carenza:
del vuoto dello
Stato (Lombroso), della carenza di controllo (Durkheim) o di opportunità per le
classi inferiori (Merton), della disorganizzazione sociale (scuola di Chicago)
e come espressioni di subcultura.
Solo negli ultimi anni si è fatta strada una
visione che lega la nascita e lo sviluppo delle varie forme di crimine
organizzato alle opportunità che esso offre e che le società offrono ai
professionisti del crimine.
A mio avviso non c’è un’alternativa deficit o
ipertrofia delle opportunità, nel senso che possono operare entrambi:
“le opportunità per
i criminali organizzati nascono tanto sul terreno delle economie periferiche,
in crisi e destinate a ulteriore sottosviluppo, che su quello delle aree
centrali pienamente sviluppate”
(Santino 1995, p. 132).
L’eziologia del
deficit è stata riproposta dalle Nazioni Unite nel corso della conferenza
ministeriale mondiale svoltasi a Napoli nel novembre del 1994.
In quell’occasione
l’allora segretario dell’”Onu” avanzò una spiegazione che si può così
sintetizzare:
i paesi capitalistici si reggono su due
pilastri: il mercato e il diritto.
Oggi, con la
mondializzazione dell’economia capitalistica, in molti paesi si è formato un
mercato senza Stato e senza regole, un capitalismo primitivo, sregolato,
dominato dall’accumulazione illegale, una sorta di giungla. Quindi alla base
del crimine ci sono Stati deboli e mercati senza regole (Santino 1999, pp. 168 sg.).
Risposte diverse
arrivano dagli studiosi che cercano di ricostruire i contesti criminogeni
guardando al modo di produzione e utilizzando le categorie analitiche del
“fordismo” e del “postfordismo”, inteso come
quel processo di
globalizzazione e profonda ristrutturazione dell’economia che ha posto
profondamente in questione l’ordine socioeconomico che era emerso all’indomani
della seconda guerra mondiale.
Il trasferimento del centro strategico della
produzione da quello industriale a quello dei servizi, la perdita della
centralità della vecchia produzione “di fabbrica” a favore del tipo di
produzione basato sull’informazione elettronica, assai più leggero, decentrato
e flessibile, si sono accompagnati alla progressiva marginalizzazione di una
classe operaia di fabbrica maschia e sindacalizzata a favore dell’emergere di
una nuova classe operaia profondamente divisa, più giovane, povera e femminile.
La conseguente “disorganizzazione morale”
della “vecchia” classe operaia è andata di pari passo con l’emergere di strati
sociali di ricchezza crescente, avidi di consumo sia lecito che illecito.
La campagna ideologica, e le opportunità
pratiche, per una nuova imprenditoria hanno quindi ridiretto l’impegno di
molti, tra cui molti immigrati, verso la fornitura di sostanze e servizi legati
al mercato informale e anche di natura illecita.
È facile quindi avanzare l’ipotesi che le principali figure di devianza
legate all’immigrazione – il traffico di droga, la prostituzione, i vari
mercati dell’economia informale – abbiano trovato le loro radici all’interno
della situazione sopra descritta, in cui sia la domanda di tali servizi sia
l’opportunità di offrirli sono ampiamente aumentati (Melossi 1999, pp. 45 sg.).
La globalizzazione
si presenta come una regolazione criminale:
L’attuale rapporto
di forze conduce al tentativo di eliminare i modi di regolazione imposti dai
rapporti sociali ormai superati, per sostituirli non con la deregulation, la
competizione, la concorrenza sui mercati, con tutto il repertorio insomma del
discorso liberista, ma piuttosto con la regolazione segreta, clandestina, degli
oligopoli, delle multinazionali, del capitale dominante, una regolazione
criminale, dotata di trasparenza analoga a quella del Politburo della Corea del
Nord o delle riunioni della mafia, un progetto utopistico, capace solo di
generare il caos (Amin
1998, p. 10).
L’economia della
globalizzazione sarebbe di per sé criminale, poiché si regge sui cinque crimini maggiori contro l’umanità:
1) le transazioni finanziarie, alla cui base
c’è il riciclo di tutte le altre forme di criminalità;
2) il commercio di armi e di materiali nocivi;
3) il commercio di
organi umani, viventi e sezionati;
4) il commercio
della droga;
5) il saccheggio
della natura (Amoroso 1999,
p. 50).
Si ripropone il
problema del rapporto tra capitalismo e mafia e più in generale il crimine
organizzato.
In altra sede mi sono posto questo problema
pervenendo alla seguente conclusione.
Sarebbe scorretto
identificare capitalismo e mafia, dato che fenomeni di tipo mafioso non si sono
registrati dovunque si è imposto il modo di produzione capitalistico.
La mafia nei suoi
primi sviluppi è assimilabile alle forme dell’accumulazione primitiva, ma non
tutte le forme di accumulazione originaria hanno prodotto mafie.
Decisiva a mio avviso è stata l’affermazione della forma Stato come
monopolista della forza.
In Inghilterra è documentata fino agli inizi del XIX secolo la presenza
dei Volunteer”, squadre a cavallo a servizio dei proprietari terrieri, che “operavano
in maniera molto simile a quella degli antenati dei mafiosi siciliani.
Solo che dei “Volunteer”
in seguito non si trova traccia mentre i mafiosi siciliani avranno un avvenire
assicurato.
Non mi pare che ci
sia nessun mistero:
in Inghilterra la violenza necessaria per
portare avanti i processi di espropriazione viene assunta direttamente dallo
Stato, mentre in Sicilia vige un oligopolio della violenza che offre ampio
spazio all’azione violenta privata (Santino 2000a, pp. 86 sgg.).
Nell’evoluzione del
rapporto tra capitalismo e mafia-mafie possiamo distinguere tre fasi:
1) nella transizione dal feudalesimo al capitalismo si formano organizzazioni criminali di tipo mafioso
dove non si afferma il monopolio statale della forza (mafia in Sicilia, triadi
in Cina, yakusa in Giappone);
2) nei paesi a capitalismo maturo troviamo organizzazioni di tipo mafioso in presenza di
determinate condizioni:
immigrazione, che non significa che tutti gli immigrati sono criminali,
ma che tra gli ultimi arrivati ci sono soggetti che usano il crimine come
accumulazione primitiva;
mercati neri
originati dai proibizionismi, dall’immigrazione clandestina al proibizionismo
degli alcolici prima e delle droghe dopo;
3) nel capitalismo globalizzato la diffusione di organizzazioni criminali di tipo
mafioso si spiega con le grandi opportunità offerte da un sistema in cui
operano come fattori criminogeni dati strutturali come l’aggravamento degli squilibri
territoriali e dei divari sociali e i processi di finanziarizzazione (Santino
1999, pp. 172 sg.).
Oggi più che mai deficit e ipertrofia delle opportunità invece che
scontrarsi si danno la mano.
Siamo passati da società mafiogene locali e circoscritte a un villaggio globale
mafiogeno, esteso dai centri alle periferie.
Abbiamo già detto
che la globalizzazione più che un sistema di omologazione e di inclusione è un
sistema di esclusione che acuisce squilibri e divari, con il risultato che per
molte aree del pianeta (l’Africa, l’America latina, gran parte dell’Asia, gli ex
paesi socialisti) l’accumulazione illegale è l’unica economia possibile.
Su questo fronte
possiamo dire che il paradigma del deficit possa essere utilmente impiegato, ma
il crimine non si sviluppa solo nelle periferie emarginate ma pure nei centri
del capitale finanziario (e qui le opportunità per il crimine organizzato sono decisamente
ipertrofiche).
La crescita
dell’economia finanziaria non viene considerata solo come un effetto della
globalizzazione ma si identifica con essa (Gallino 2000, p. 112).
Basterà qualche
dato:
nel 1998 c’è stato
un movimento giornaliero di capitali di 2.000 miliardi di dollari, di cui una
frazione minima (tra un cinquantesimo e un centesimo della cifra totale)
riguarda l’economia reale, produttrice di beni e servizi.
Negli ultimi
trent’anni gli scambi finanziari hanno avuto un aumento vertiginoso:
nel 1970 erano 10-20
miliardi di dollari, nel 1980 sono passati a 80 miliardi, nel 1990 sono
arrivati a 500 miliardi.
Il sistema
bancario-finanziario è diventato un vero e proprio casinò, per cui si è parlato
di “finanza barbara” (Millman 1996) o di “denaro impazzito” (Strange 1999).
Sono ulteriormente
proliferate le innovazioni finanziarie e sono comparsi nuovi operatori.
Il mercato dei derivati ha avuto un incremento
spettacolare: si calcola che il valore complessivo dei contratti relativi a
derivati in circolazione in ventisei paesi nel 1995 equivaleva al doppio della
produzione economica mondiale, cioè a circa 47,5 trilioni di dollari (Strange 1999, p. 45).
Accanto agli
intermediari finanziari (brokers) agiscono gli operatori valutari,
professionisti delle speculazioni più ardite e più rovinose per le economie più
deboli (va sotto il nome di ramping la speculazione che consiste nel
concentrare somme rilevanti in mercati di valute poco trattate, manovrandone
l’ascesa o il crollo a seconda delle convenienze).
Per quanto riguarda
i paradisi fiscali, i paesi e i territori che offrono particolari facilitazioni
per attirare i capitali, sarebbero tra 60 e 90.
Una lista nera
pubblicata dall’”Ocse” nel giugno 2001 comprende 35 paesi.
Da un recente studio
del “Financial Times” limitato a 37 Stati risulta che la loro attività negli
ultimi anni è cresciuta.
Nel 1997 nelle “isole Vergini britanniche” sono state costituite 50
mila nuove società (nelle isole operano più di 260 mila società), nelle isole
Cayman ne sono state costituite più di 42 mila, a Cipro più di 34 mila.
I depositi in denaro hanno raggiunto 241 miliardi di dollari nelle
Bahamas e oltre 500 miliardi di dollari nelle isole Cayman, con un incremento
del 27,4% nelle isole Vergini britanniche (Santino 2000b).
Anche se ubicati in
isole offshore i paradisi fiscali si raggruppano nelle vicinanze dell’Europa e
degli Stati Uniti, cioè delle grandi centrali finanziarie e obbediscono alle
esigenze di frazioni crescenti del capitale di sfuggire ai controlli e cercare
sbocchi speculativi più remunerativi degli investimenti produttivi.
Non tutto il
capitale finanziario è di provenienza illegale ma, data l’opacità del sistema
finanziario, è difficile se non impossibile distinguere i vari flussi di
capitale.
In questo contesto
si sviluppano le varie attività criminali, dai traffici di droghe, di armi e di
materiali nucleari al saccheggio del territorio, con le deforestazioni,
l’abusivismo edilizio, lo smaltimento di rifiuti tossici e nocivi,
all’immigrazione clandestina e alla mercificazione degli esseri umani, che va
dallo sfruttamento del lavoro in forme schiavistiche alla prostituzione di
donne e di minori, al commercio di organi.
Spesso queste
attività sono condotte senza soluzione di continuo con attività legali e i
soggetti criminali operano in perfetta sintonia con imprenditori e istituzioni.
Si formano così gruppi dominanti che ricordano da vicino la borghesia
mafiosa siciliana e si sviluppano collegamenti di soggetti criminali con
rappresentanti di organizzazioni internazionali.
Al processo di
internazionalizzazione dei colletti bianchi si affianca
l’internazionalizzazione delle attività dei gruppi criminali interessati a
sfruttare le opportunità offerte dalle ingenti risorse in dotazione delle varie
istituzioni:
il crimine
transnazionale spesso è il frutto di queste interazioni, a cominciare dalle
frodi comunitarie nell’ambito dell’Unione europea e dagli appalti di opere
pubbliche.
Sulla base della
difficoltà se non impossibilità di distinguere legale e illegale (Isenburg
2000), si parla di una nuova fase nella storia del crimine organizzato:
esso sarebbe stato dapprima predatorio, poi
parassitario e ora simbiotico (Ruggiero 1992).
Le attività criminali, dai traffici di droghe, di armi, di esseri
umani, ai reati ambientali, sono segmenti di percorsi condivisi con altri
soggetti, imprenditoriali e istituzionali, ognuno dei quali ha la sua
convenienza e percepisce la sua quota di proventi.
In realtà non si tratta soltanto di casi di
collusione, gravi ma tutto sommato circoscritti, ma di qualcosa che rimanda
alla struttura stessa dell’economia e del mercato, già prima della fase di
globalizzazione:
studiando l’impresa
mafiosa ho proposto di utilizzare l’ipotesi teorica dell'”economia polimorfa” e
del “mercato multidimensionale”, in cui economia legale, sommersa e illegale si
configurano come scomparti di un unico mercato, dando vita a scenari complessi,
che vanno dall’intreccio e complicità alla convivenza e al conflitto (Santino-La Fiura 1990, pp. 93 sg.).
La simbiosi è
alimentata anche dalla condivisione di un codice culturale.
All’interno di
quello che è stato definito il “pensiero unico”, il dogma della competitività
accomuna soggetti illegali e legali.
Del resto che il
crimine sia una forma di competitività lo sapevamo già (rituale il riferimento
a Merton) e che il capitale non esiti a cogliere tutte le occasioni, comprese
quelle criminali, di massimizzazione del profitto lo ricordava già nel XIX
secolo Dunning, a cui fa riferimento Marx nel primo libro del Capitale.
E l’auto-normatività
del mercato reca ancora più marcati i segni già inventariati da Weber:
tutto viene ridotto a cosa e a merce e l’etica
del profitto ricrea comportamenti e relazioni a sua immagine e somiglianza.
Al vertice di questa
scalata criminale si potrebbero collocare quelli che sono stati definiti gli
“Stati-mafia”.
L’espressione è stata impiegata negli ultimi
anni per designare alcuni Stati direttamente impegnati in attività criminali.
Si tratta in
particolare di Stati balcanici, come la Serbia e l’Albania, nati dopo la dissoluzione dei regimi socialisti.
In questi paesi le
organizzazioni mafiose locali, dedite al traffico di droghe e di armi e con un
ruolo di primo piano nelle guerre che hanno insanguinato l’area balcanica, si
sono annidate ai vertici delle istituzioni, dando vita a regimi criminocratici (“Quaderni speciali di Limes” 2000).
Situazioni
sostanzialmente omologhe si sono registrate in altri paesi ex socialisti, a
cominciare dalla Russia, dove le organizzazioni criminali si sono sviluppate
dal seno stesso del Kgb e del Pcus e le borghesie in ascesa sono espressione di
gruppi criminali, mentre pratiche illegali e corruzione allignano ai vertici
del potere, come nel caso della famiglia Eltsin, coinvolta in operazioni di
riciclaggio di capitali attraverso banche di vari paesi.
L’espressione è
nuova ma il fenomeno non lo è e non si può dire che sia limitato ai paesi ex
socialisti.
Di criminocrazia,
più esattamente di narcocrazia, si è parlato per vari paesi, i cui governanti
sono risultati direttamente coinvolti nel traffico di droghe, e tra i casi più
eclatanti si citano la dittatura del generale García Meza in Bolivia, il regime
di Noriega in Panama, il regime militare in Birmania.
Nella storia della
mafia siciliana il rapporto con le istituzioni si può considerare un dato
costitutivo e si inscrive all’interno dei processi di formazione delle classi
dominanti e della concreta configurazione della forma Stato.
Il discorso non va
limitato alla mafia.
All’interno dello
Stato italiano si sono verificati processi di criminalizzazione del potere e si
sono formate delle vere e proprie istituzioni criminali.
Tali possono essere
considerati i cosiddetti “poteri occulti” (come i servizi segreti “deviati”, i
cui dirigenti erano iscritti alla loggia massonica P2) che hanno avuto un ruolo
nelle stragi, da Piazza Fontana alla stazione di Bologna, in collaborazione con
gruppi neofascisti e altri soggetti impegnati a respingere con ogni mezzo
l’avanzata di partiti e movimenti che mettevano in forse l’assetto di potere.
Anche in paesi come gli Stati Uniti ci sono
stati fenomeni di criminalità del potere, come nel caso dell’assassinio del
Presidente Kennedy, volutamente non chiarito in sede giudiziaria.
Gli Stati-mafia,
pertanto, non sono soltanto nei Balcani o in paesi dittatoriali (dalla Grecia
dei colonnelli all’America latina) ma l’espressione può essere usata per
rappresentare un duplice fenomeno: le connessioni tra organizzazioni criminali
e istituzioni, spesso rappresentate da personaggi incriminati per corruzione o
per mafia, come in Turchia, dove sono al governo uomini della banda
politico-criminale dei Lupi grigi, o nell’Italia berlusconiana, dove sono stati candidati ed eletti uomini
condannati o sotto processo, e l’uso, continuativo o anche episodico, di
pratiche criminali da parte delle istituzioni stesse.
Tirando le somme,
possiamo parlare di “crimini
della globalizzazione”
dando all’espressione questo significato:
i gruppi criminali proliferano e le attività
criminali si sviluppano in un contesto che è criminogeno per i suoi caratteri
strutturali e che da più parti viene definito criminale per le modalità
dell’accumulazione e della regolazione.
Le risposte
istituzionali.
È possibile
governare la globalizzazione?
L’Onu ha tentato di
porsi il problema e nel corso degli anni ’90 si è formata una “Commission on
Global Governance”, formata da 28 membri di 26 paesi.
La global governance dovrebbe configurarsi
come un insieme di regole, introdotte attraverso accordi bilaterali e
multilaterali, per controllare i flussi economici mondiali (Gallino 2000, p.
106).
I soggetti dovrebbero essere i governi, le
istituzioni intergovernative, le Ong, i movimenti di cittadini, le corporazioni
transnazionali, le università, i mass media.
La Commissione ha
proposto l’istituzione di un “Consiglio per la sicurezza economica” che
dovrebbe avere i seguenti compiti:
monitorare lo stato
dell’economia mondiale, elaborare politiche strategiche al fine di promuovere
uno sviluppo stabile, equilibrato, sostenibile;
assicurare la coerenza nell’azione delle
organizzazioni internazionali, assicurare una leadership politica.
Il progetto è rimasto sulla carta per
l’incapacità dell’Onu di avere una qualche influenza sul “Fmi”, sulla “Bm”,
sull’”Omc” e di contrastare l’affermazione del G8, che si presentano come i
detentori del superpotere globale.
Sul piano delle
politiche anticrimine le “Nazioni Unite” hanno cercato di avere un loro ruolo,
cominciando a porsi il problema degli sviluppi internazionali della criminalità
organizzata fin dal 1975, gettando le basi per la preparazione di una
convenzione internazionale con una serie di iniziative, fino ad arrivare alla
conferenza di Palermo del dicembre 2000 per la firma della convenzione sul
crimine transnazionale.
Per la “Convenzione”
un reato è di natura transnazionale se è commesso in più di uno Stato;
se è commesso in un
solo Stato ma la sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo ha
luogo in un altro Stato;
se è commesso in un
solo Stato ma coinvolge un gruppo criminale che svolge attività criminali in
più di uno Stato, o è commesso in uno Stato ma ha effetti sostanziali in un
altro Stato (art. 3).
La “Convenzione”
mira a introdurre negli ordinamenti dei paesi firmatari una figura di reato che
richiama l’associazione a delinquere di tipo mafioso della legislazione
italiana (art. 5), norme contro il riciclaggio (artt. 6-7), contro la
corruzione (artt. 8-9), per la confisca dei beni derivanti da attività illecita
(artt. 12-14), disponendo che gli Stati non possono opporre il segreto bancario
(art. 12), per l’assistenza giudiziaria reciproca (art. 18) e per l’assistenza
alle vittime (art. 25). Non c’è nessun accenno ai crimini ambientali.
Due protocolli
aggiuntivi riguardano la tratta di persone, in particolare di donne e bambini,
e il traffico di migranti.
La firma di un terzo protocollo contro la
produzione illecita e il traffico di armi da fuoco è stata rimandata.
La “Convenzione”
rappresenta il tentativo di creare un diritto penale internazionale a partire
dal tema dell’internazionalizzazione del crimine organizzato, ma, a parte
l’affidabilità di vari Stati firmatari direttamente o indirettamente coinvolti
in attività criminali, non può affrontare il problema della eziologia del
crimine.
L’art. 30 prevede misure imprecisate tendenti
all’attuazione ottimale della “Convenzione” per mezzo della cooperazione
internazionale e parla di “sforzi concreti” degli Stati-parte “per accrescere
la loro cooperazione a vari livelli con i paesi in via di sviluppo, in modo da
rafforzare la capacità di questi ultimi di prevenire e di combattere la
criminalità organizzata transnazionale”, disponendo che gli Stati versino dei
contributi volontari.
Ma, ammesso che problemi di così vasta portata
possano affrontarsi in questo modo, bisognerà vedere se queste indicazioni
troveranno applicazioni.
Per quanto riguarda
le norme sul riciclaggio, la produzione legislativa ha assunto ormai una certa
consistenza.
Oltre alle norme
adottate da vari paesi ci sono le “direttive europee” e la “Convenzione”
interviene su un terreno già arato, ma il sistema finanziario ha come regole
fondamentali l’efficienza, la sicurezza e la riservatezza e la competizione si
gioca nell’intreccio di questi tre termini, il che significa che il segreto
bancario continua ad essere in vigore e lo sviluppo della new economy via rete
telematica invece di rendere il mercato più trasparente incoraggia l’anonimato
delle transazioni, con le convenienze prevedibili per gli operatori illegali.
La proposta del
premio Nobel per l’economia “Tobin” di introdurre una tassa sulle transazioni
finanziarie, avanzata nel 1972, finora non è stata introdotta per la
refrattarietà del capitale finanziario a qualsiasi forma di controllo.
In Italia, dove con
la legge 197 del 1991 è stata introdotta la legislazione antiriciclaggio, le
segnalazioni di transazioni anomale sono molto poche.
Nel periodo
1991-1996 a fronte di 2 miliardi e 100 milioni di transazioni bancarie, le
banche hanno segnalato 7134 operazioni anomale, di cui solo 13 hanno portato ad
identificare operazioni di riciclaggio (Masciandaro -Pansa 2000, p. 185).
Assieme alla
innovazione tecnologica dell’informazione (Internet) e alla globalizzazione dei
mercati finanziari senza un’armonizzazione degli ordinamenti, per cui
proliferano i paradisi fiscali, l’integrazione monetaria europea con
l’introduzione dell’euro può offrire opportunità al riciclaggio del denaro
sporco innescando un meccanismo di riduzione dei costi di transazione, e questo
vale sia per l’economia legale che per quella illegale.
Risposte
alternative: dall’happening al progetto.
Contrariamente a
quel che si leggeva sulla pagina dedicata a Palermo nel sito internet dell’Onu
durante la conferenza sul crimine transnazionale del dicembre scorso, la lotta
alla mafia in Sicilia non è nata negli ultimi anni.
La lettura del
testo, che riporto in appendice, è davvero illuminante (tra l’altro si riporta
in esergo una frase di Giovanni Falcone con la data 2 dicembre 1992:
anche i più disinformati sanno che Falcone è
stato ucciso il 23 maggio dello stesso anno) e, assieme alle affermazioni che
ci è toccato di ascoltare durante la conferenza, secondo cui la mafia ormai è alle corde e la
Convenzione sarebbe il cappio al collo di un morente, ci dà un’idea del clima
culturale in cui si sono svolti i lavori.
Non ci vuol molto a
capire che la mafia siciliana, pur avendo ricevuto dei colpi, in reazione alla
escalation di violenza degli anni ’80 e ’90, non è a pezzi, ma bisogna operare
uno sforzo di memoria decisamente controcorrente per recuperare una storia che
si è fatto di tutto per dimenticare, seppellendola sotto palate di ignoranza e
di stereotipi.
La lotta contro la
mafia in Sicilia ha avuto le caratteristiche di un grande movimento di massa
finché è stata l’aspetto specifico della lotta di classe e del conflitto
sociale:
centinaia di
migliaia di contadini hanno dato vita a una lotta lunga e durissima per il
miglioramento delle condizioni di vita e per il diritto di cittadinanza
democratica che per la reazione violenta della mafia e delle classi
conservatrici, con la copertura delle istituzioni, ha assunto i caratteri di
una vera e propria guerra di liberazione (Santino 2000c).
Alla sconfitta di
queste lotte ha fatto seguito un imponente flusso migratorio che ha dissanguato
la Sicilia inchiodandola alla sudditanza verso classi dominanti che hanno
gestito il potere secondo un modello mafioso-clientelare.
Negli ultimi
decenni, in risposta all’esplosione della violenza mafiosa, settori delle
istituzioni e della società civile si sono attivati ma tanto la reazione
istituzionale che la mobilitazione della società civile hanno avuto il limite
dell’emergenzialismo e quando sono finiti i grandi delitti e le stragi c’è
stato un ritorno indietro.
Negli ultimi anni si è registrata
l’attenuazione della legislazione d’emergenza e l’affermazione di forze
politiche che hanno tra le loro fila personaggi inquisiti o sotto processo,
candidati alle elezioni ed eletti con gran numero di voti, ha tutto il sapore
di una rivincita.
Attualmente siamo
nel pieno di una stagione in cui la mafia viene data per vinta, i nemici
sembrano essere i magistrati che hanno cercato di portare nelle aule
giudiziarie i politici incriminati per i loro rapporti con i mafiosi e
l’illegalità e l’impunità vengono sventolate come bandiere di trionfo.
Se vogliamo
invertire la tendenza abbiamo bisogno di un quadro d’analisi adeguato e
soprattutto di superare i limiti dell’antimafia così come si è sviluppata negli
ultimi anni.
Più volte abbiamo detto che bisogna passare
dall’emozione al progetto, dalla testimonianza al coinvolgimento di ampi strati
della popolazione, coniugare valori e interessi ecc. ecc.
Ma tradurre tutto
questo in programma concreto e credibile non è facile, soprattutto ora che le
emozioni sono sfiorite e la memoria di fatti tragici si allontana.
Spesso si dice che
bisogna imparare a pensare globalmente e ad agire localmente, ma forse sarebbe
più corretto dire che globale e locale debbono andare di pari passo, sul piano
dell’analisi e su quello dell’operatività.
E questa è
l’indicazione più significativa del movimento che è comparso sulla scena a
Seattle e si è dato un progetto di sviluppo autonomo a Porto Alegre.
Un movimento
antimafia oggi deve porsi dentro una prospettiva transnazionale e fare parte
organicamente di un progetto di alternativa globale.
I crimini della
globalizzazione, nel senso che abbiamo cercato di delineare, debbono figurare a
pieno titolo nell’agenda del movimento contro la globalizzazione capitalistica.
Riprendendo i punti
essenziali del paradigma della complessità, possiamo indicare, a grandi linee,
i terreni su cui si dovrebbe sviluppare il nostro lavoro.
Mafie e crimine
transnazionale sono figli legittimi del contesto mondiale ma questo non
significa che dobbiamo attendere la palingenesi universale.
La dimensione
penalistica è ineliminabile e bisognerà attrezzare convenientemente la
legislazione e gli apparati repressivi, ma bisogna sapere che questo non basta
se non si affrontano i problemi di fondo che stanno alla base della
riproduzione del crimine e della sua simbiosi con il quadro sociale.
Per quanto riguarda
l’accumulazione, non si può agire solo sui patrimoni già formati, con la
confisca dei beni, e sul riciclaggio, con l’abolizione del segreto bancario e
dei paradisi fiscali e con il controllo sui processi di finanziarizzazione, ma
pure sulle fonti, dal proibizionismo delle droghe all’immigrazione, dal lavoro
nero alla prostituzione, dallo smaltimento dei rifiuti alle opere pubbliche.
I rapporti tra mafie
e politica sono stati e rimangono la chiave di volta della legittimazione dei
gruppi criminali e si pone il problema di andare in controtendenza rispetto ai
processi in atto di concentrazione dei poteri:
occorre più democrazia non meno democrazia e
la partecipazione democratica deve svilupparsi attraverso forme diffuse di
protagonismo e di controllo.
Sul piano culturale,
l’etica della globalizzazione (la competitività, il successo ad ogni costo) è
quanto di più ospitale ci possa essere per la cultura mafiosa e le attività di
“educazione alla legalità” troppo spesso somigliano a un appello al rispetto di
regole quotidianamente calpestate e a un impegno unanimistico che pialla le
responsabilità e cade nel vuoto.
Ci occorre invece
un’etica della radicalità e del conflitto, della coerenza tra dichiarazioni e
comportamenti.
Il consenso ha una
consistente base materiale e se vogliamo suscitare movimenti di massa,
riprendendo una linea che fu del movimento contadino, bisognerà operare su
questa base, sviluppando l’economia legale e la partecipazione dal basso.
Solo così si potranno
strappare gli strati popolari all’egemonia mafiosa.
Bisognerà insomma agire su tutti quei terreni che rendono una società
mafiogena, sviluppando un’azione integrata che miri soprattutto alla
prevenzione.
Come si vede si
tratta di problemi di fondo ma non partiamo da zero: negli ultimi anni abbiamo
accumulato un patrimonio di analisi e di esperienze che ci consente di muovere
passi significativi su questo cammino.
La “globalizzazione dal basso” ha cominciato a prendere corpo non solo
nelle manifestazioni di protesta ma soprattutto attraverso un faticoso lavoro
quotidiano a cui ciascuno di noi è chiamato a dare il suo contributo.
E il contributo
dalla Sicilia recherà il segno di un impegno che si è sviluppato nel tempo, con
un alto costo di sangue.
Memoria e progetto sono le gambe su cui
cammina un movimento che non si limiti a inseguire le scadenze degli altri e
voglia andare oltre i riti e gli stereotipi.
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