La megalomania delle élite al comando verso il potere globale.
La
megalomania delle élite al comando verso il potere globale.
Limitiamo
il potere delle élite
tecnologiche
per salvare
libertà
e democrazia.
Agendadigitale.eu – (4 novembre 2021) – Lelio
Demichelis – ci dice:
(Lelio
Demichelis -Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia-
Università degli Studi dell’Insubria).
Cultura
E Società Digitali.
Dall’accordo
sindacale in Amazon Italia, passando per il progetto “Metaverso” di Facebook,
per arrivare al “reddito minimo universale” e alle parole di Papa Francesco:
sono molti gli spunti su cui riflettere fin da ora e con lungimiranza per
garantire un futuro libero e democratico alle prossime generazioni.
Interessanti
davvero, queste ultime settimane.
Ricche
di spunti per fare qualche ulteriore riflessione a freddo.
Cioè
fermando o almeno rallentando la macchina del tempo: non quella
fantascientifica di “H. G. Wells,” nel suo romanzo del 1895, o la “DeLorean” di
“Ritorno al futuro” e molte altre ancora – macchine per andare avanti e
indietro appunto nel tempo;
ma
quella macchina invasiva e alienante che ci porta incessantemente ad accelerare
i nostri tempi ciclo di lavoro e soprattutto di vita, facendoci perdere il
passato (travolto da un presente incalzante e a mobilitazione crescente) e
impedendoci di guardare avanti esercitando quella buona pratica che abbiamo
totalmente dimenticato e che aveva nome di lungimiranza – e che in sé contiene
pensiero riflessivo, capacità di immaginare, responsabilità verso le future
generazioni.
Partiremo
allora – scegliendo alcuni di questi spunti – dall’accordo sindacale in “Amazon
Italia”, apriremo una parentesi su “Metaverso”, per arrivare al “reddito minimo
universale” e a Papa Francesco che non smette di stupirci – e se i media lo
mettessero in prima pagina (detto da un non-credente o da un
diversamente-credente come chi scrive) invece di nasconderlo tra le ultime
notizie, forse capiremmo di più del mondo e perché funziona così male.
Indice
degli argomenti:
“Amazon”
e il sindacato.
“Pandora
papers” e global tax.
Il “Metaverso”
di Mark Zuckerberg.
“Salario
minimo” e riduzione dell’orario di lavoro.
In
nome della Ragione.
Amazon
e il sindacato.
Ciò
che ad Amazon era riuscito facilmente in America nell’aprile scorso – far
fallire un referendum indetto tra i lavoratori per provare a costituire un
sindacato aziendale nel magazzino di “Bessemer” in Alabama – non è riuscito in
Italia e Amazon ha dovuto accettare che la democrazia entrasse nei suoi luoghi
di lavoro.
A “Bessemer” per la Retail, “Wholesale and
Department Store Union” (RWDSU) –
il
sindacato che i lavoratori avevano appunto contattato per provare ad aprire una
sezione sindacale nei capannoni di Amazon – su 3.215 voti, quelli contro la
sindacalizzazione sono stati 1.798, mentre quelli a favore sono stati solo 738.
Il
potere di ricatto e la (im)moral suasion di Amazon hanno portato i lavoratori a
negarsi un diritto che dovrebbe essere normale in ogni democrazia (ma sappiamo
che gli Usa sono una democrazia molto sui generis…).
Ed è
altresì vero – ce lo ricorda la storia, cioè il passato che tendiamo invece a
dimenticare credendo che tutto sia un eterno presente – che da Ford a Taylor
passando per Marchionne e Jobs e arrivando oggi a Bezos l’imprenditore non ha
mai amato e non ama il sindacato, lo considera un intralcio alla libertà
d’impresa, un rallentamento dell’efficienza dell’organizzazione (e del suo
comando e del suo controllo sui lavoratori) e un ostacolo alla massimizzazione
della produttività e quindi dei profitti.
In
Italia, invece, dopo una lunga lotta, si è arrivati – lo scorso 15 settembre,
al Ministero del lavoro – a siglare un contratto collettivo di lavoro e ad
ottenere un po’ di democrazia anche nella antidemocratica e antisindacale
Amazon – in questo ben allineata con tutto il capitalismo delle piattaforme e
della sorveglianza, ma anche con l’industria classica e finanziarizzata, come
nel caso della “Gkn” di Campi Bisenzio in Toscana o della” Whirlpool” di
Napoli.
Modello
italiano virtuoso e partecipativo contro modello americano neoliberista, per
Amazon
Democrazia economica e sindacato contro
autocrazia d’impresa, per “Gkn” e “Whirlpool”.
Dunque,
Amazon – dopo cinque anni di resistenza autocratica e antidemocratica alla
sindacalizzazione e alla contrattazione – ha infine accettato il confronto
sindacale ed ha sottoscritto un accordo nel quale riconosce la rappresentanza
collettiva, il ruolo del sindacato e il “Contratto collettivo nazionale della
Logistica e Trasporto Merci”, nonché il confronto con il sindacato nei vari
livelli di contrattazione nazionale e territoriale;
impegnandosi
inoltre concretamente per il miglioramento generale delle condizioni dei
lavoratori.
Un risultato non da poco anche se dimostra che
le nuove tecnologie non sono il nuovo che avanza e che non si deve fermare, ma
ci fanno tornare indietro di decenni quanto a democrazia dell’impresa e
nell’impresa, e dunque vanno fermate e riportate a normalità democratica.
Pandora
papers e global tax.
Secondo
spunto, i “Pandora Papers”.
L’indagine è stata realizzata dall”’ICIJ,” il “Consorzio
internazionale dei giornalisti investigativi” che ha mobilitato 600 di loro –
in rappresentanza di 151 media di 117 paesi diversi – per indagare
sull’evasione/elusione fiscale nel mondo.
Dall’analisi di ben 12 milioni di documenti
fiscali è così emerso un autentico e ben strutturato sistema di evasione
fiscale e riciclaggio a livello mondiale.
Se i
precedenti “Panama Papers” del 2015 provenivano dai files di un singolo
fornitore di consulenza per servizi legali-finanziari come appunto lo studio
legale panamense “Mossack-Fonseca” – con più di 500 impiegati ed oltre 40
uffici in tutto il mondo – oggi i “Pandora Papers” hanno rivelato (lo si
sapeva, mancavano le prove provate – e fortunatamente esiste ancora un
giornalismo investigativo) che il sistema è ancora più ampio e dove avvocati e
intermediari finanziari e false imprese come meri recapiti legali sono la
struttura di una globale industria del riciclaggio e dell’evasione/elusione
fiscale creata al servizio di politici, miliardari, imprese hi-tech, attori e
allenatori di calcio e molto altro ancora.
D’altra
parte, è stata l’”Ocse”, in uno studio pubblicato nel 2020, ad avere
quantificato – ma molto per difetto, per ammissione della stessa Organizzazione
– in almeno 11,3 trilioni di dollari la ricchezza scomparsa dai sistemi fiscali
statali;
non
solo illegalmente ma spesso e volentieri, aggiungiamo, con la complicità degli
stessi stati, che chiamano però questa forma particolare di evasione/elusione
fiscale legalizzata e concessa dallo stato, attrattività per le imprese e i loro
investimenti.
È
davvero quindi poca cosa – risibile – la global minimum tax del 15% decisa
nelle scorse settimane dal G20:
uno
specchietto per le allodole, pur esaltato come assolutamente nuovo e buono e
giusto dalla gran parte dei media e dai politici mainstream, ma che ha fatto
dire a “Oxfam” che quello che avrebbe potuto essere un accordo storico per mettere fine ai
paradisi fiscali è in realtà un rabberciamento tra i paesi ricchi, che andrà a
svantaggio dei più poveri e aumenterà le diseguaglianze.
Eppure,
i recenti premi Nobel per l’economia – in realtà premi in scienze economiche
della Banca di Svezia, in memory of Alfred Nobel – “David Card”, “Joshua D.
Angrist” e “Guido W. Imbens” hanno dimostrato, come scrive l’economista
svizzero “Silvano Toppi”, che
“non è vero né dimostrato, come invece
sostiene il neoliberismo (ad esempio la votazione in Svizzera del 2014
sull’introduzione del salario minimo, rifiutata dal 76 per cento dei votanti,
sotto minaccia padronale di un crollo generale dell’economia) che l’introduzione
di un salario minimo ha un effetto negativo sul lavoro, sull’occupazione,
sull’attribuzione del reddito (il salario minimo aumenta i redditi dei
lavoratori a basso salario), sulla crescita. Risulta anzi vero il contrario”.
Eppure, il neoliberismo “ha sempre preteso che
ciò che è favorevole al lavoratore è negativo per l’economia e, in generale,
per il benessere” di un paese;
e in
questo dogma ancora viviamo, nonostante il suo più che evidente fallimento.
Colpa
della egemonia della filosofia (sic!) neoliberale, per cui, dagli anni Ottanta
in poi, il mantra condiviso da tutti, anche a sinistra, continua Toppi,
“è
stato quello di attribuire ogni colpa di uno squilibrio economico ai salari o
al lavoro (ridotto solo a un costo che gonfia i prezzi).
Ed è
da lì che la cosiddetta moderazione salariale è diventata dogma e costante
ricatto dottrinale e politico.
E
cioè: moderazione (!) come unica condizione per lavorare, essere competitivi,
crescere.”
In Svizzera, come in tutta Europa. E non solo.
Quello
stesso neoliberalismo per cui occorreva anche e allo stesso tempo (è il secondo
mantra della filosofia neoliberale da recitare ogni giorno) detassare i ricchi
in modo che la loro ricchezza potesse naturalmente gocciolare verso il basso
della società, facendo salire la marea del benessere di tutti – una autentica
fake news.
Si è
prodotto infatti esattamente il contrario, questo processo affiancandosi alla
parallela” eterogenesi dei fini” legata alle nuove tecnologie, che appunto
negli anni ’90 promettevano di farci lavorare meno, fare meno fatica, poter
avere più tempo libero e garantivano una nuova era di crescita
infinita/illimitata.
Praticamente
il Paradiso in terra. E ci abbiamo creduto. Ma è appunto accaduto il contrario.
Il “Metaverso”
di Mark Zuckerberg.
Parentesi
su Metaverso, la novità di Facebook arrivata (con classica tecnica – usata con
tempismo perfetto – di distrazione di massa) giusto pochi giorni dopo le accuse
al social di massimizzare i profitti attivando deliberatamente odio,
antagonismo e fake news.
Qualcosa
di ancora sconosciuto nei suoi dettagli, però Metaverso è già un nome
fascinoso, evoca qualcosa di insieme metafisico e di universale, di reale e di
utopistico, di qui e oltre e attira il feticismo mediatico – che diventa
propaganda subliminale – per l’innovazione tecnologica.
Ha
commentato” Christian Rocca”:
Metaverso
“è soltanto cosmesi per nascondere il fatto che Zuckerberg non ha alcuna
intenzione di cambiare rotta, anzi pensa di modellare la società del futuro sui
principi del gaming e di passare al nuovo livello di controllore unico
dell’ambiente virtuale e fisico collegato a Internet.
Questo
è il metaverso di cui parla Zuckerberg.
Una
prospettiva spaventosa, visti i precedenti.
Sui giornali americani il dibattito è partito
con grande intensità. L’editoriale di apertura dell’ultimo numero dell’”Atlantic”
lo scrive senza giri di parole:
Facebook
[è molte cose insieme], ma in realtà è anche una potenza straniera ostile.
E come
una potenza ostile andrebbe affrontato, perché a una potenza straniera ostile
non si può consentire che si costruisca un suo ecosistema virtuale e
alternativo a quello reale, dentro il quale intrappolare e manipolare miliardi
di utenti. […]
Il
problema è che le piattaforme digitali non esercitano solo una forma di
sovranità sugli utenti e sui cittadini, ma ne determinano anche i
comportamenti.
Le
ricerche, riportate da “Bloomberg”, dimostrano per esempio che l’algoritmo di
Facebook tende a indirizzare gli utenti più anziani verso contenuti
cospirazionisti e i teenager sui temi legati al proprio corpo”.
Salario
minimo e riduzione dell’orario di lavoro.
Chiusa
la parentesi, arriviamo al tema del salario minimo – per legge o per accordo
sindacale.
Ne
scriviamo richiamando le riflessioni di Papa Francesco, espresse a metà
ottobre, ragionando sul post-pandemia.
Che è una sfida tra tornare come prima o
costruire un percorso politico, economico, sociale e ambientale veramente
nuovo.
Perché
è evidente che non si può “ritornare agli schemi precedenti”; perché farlo,
scrive Francesco “sarebbe davvero suicida e, se mi consentite di forzare un po’
le parole, ecocida e genocida”.
Ma cosa fare in pratica?
“Io
non ho la risposta, perciò dobbiamo sognare insieme e trovarla insieme”.
Tuttavia,
ha insistito, “ci sono misure concrete che forse possono permettere qualche
cambiamento significativo”. Come il salario universale e la riduzione della
giornata lavorativa”.
Un
reddito minimo e universale affinché “ogni persona in questo mondo possa
accedere ai beni più elementari della vita”.
Ed è
quindi “compito dei Governi stabilire schemi fiscali e redistributivi affinché
la ricchezza di una parte sia condivisa con equità […]“. E insieme al reddito
minimo “la riduzione della giornata lavorativa è un’altra possibilità” che
“occorre analizzare seriamente”.
Nel
XIX secolo “gli operai lavoravano dodici, quattordici, sedici ore al giorno”.
Quando
riuscirono a ottenere la giornata di otto ore “non collassò nulla, come invece
alcuni settori avevano previsto”.
“Allora” – prosegue Francesco – “lavorare meno
affinché più gente abbia accesso al mercato del lavoro è un aspetto che
dobbiamo esplorare con una certa urgenza”. Pur sapendo che proprio le nuove
tecnologie e il digitale spingono invece in direzione contraria, quasi volendo
dare ragione a Marx per il quale è tendenza del capitalismo l’estensione della
giornata lavorativa alle 24 ore e dello sfruttamento del plus lavoro, arrivando
oggi al lavoro gratuito.
Di
fatto, per Francesco l’urgenza è quella di “mettere l’economia al servizio dei
popoli”.
E non
viceversa, come sta accadendo invece da quarant’anni a questa parte, da quando
abbiamo cioè abbandonato le politiche keynesiane di redistribuzione della
ricchezza dall’alto verso il basso per l’azione diretta dei governi e quindi in nome di quel concetto-base
di ogni società – senza il quale una società non esiste e non può esistere –
quello cioè della giustizia sociale.
In
nome della Ragione.
Francesco
ha rivolto poi un appello forte al cambiamento, ovviamente “in nome di Dio”,
rivolgendosi a chi ha il potere di decidere.
Noi
riprendiamo parti del suo appello, ma lo facciamo in nome della Ragione o in
nome (ma è la stessa cosa) della responsabilità nostra, oggi, verso le future
generazioni.
“A
tutti voglio chiedere, in nome di Dio” dice Francesco – in nome della Ragione,
dell’umanità, della giustizia sociale e oggi anche o soprattutto ambientale,
noi chiediamo: ai grandi laboratori e alle imprese farmaceutiche, che
liberalizzino i brevetti sui vaccini anti-Covid; ai gruppi finanziari e agli
organismi internazionali di credito di permettere ai Paesi poveri di garantire
i bisogni primari della gente e di condonare quei debiti tante volte contratti
contro gli interessi di quegli stessi popoli; alle grandi compagnie estrattive,
forestali, agroalimentari, di smettere di distruggere i boschi, le aree umide e
le montagne, di smettere d’inquinare i fiumi e i mari, di smettere
d’intossicare i popoli e gli alimenti; ai fabbricanti e ai trafficanti di armi
di cessare totalmente la loro attività; ai giganti della tecnologia di smettere
di sfruttare la fragilità umana, le vulnerabilità delle persone fomentando per
proprio profitto i discorsi di odio, le fake-news, le teorie cospirative, la
manipolazione politica; ai mezzi di comunicazione di porre fine alla logica
della post-verità, alla disinformazione, alla diffamazione, alla calunnia e a
quell’attrazione malata per lo scandalo e il torbido. E altro ancora.
Un
programma utopistico? Troppo ambizioso? A noi sembra il minimo necessario,
doveroso e dovuto. Per restare umani.
Ai
governi e ai politici di tutti i partiti, Francesco ha chiesto soprattutto di “evitare di ascoltare soltanto le
élite economiche”.
E noi aggiungiamo:
di
evitare di ascoltare soltanto le élite tecnologiche. Perché la nostra capacità
di regolamentare questo potere e di democratizzarlo salvando la democrazia e la
libertà – è la tesi anche di “Kate Crawford” – dipende dai limiti che sapremo
porre e imporre al loro potere.
“Presto,
un piano di repressione
contro gli scettici climatici.”
Maurizioblondet.it - Maurizio Blondet
– (18 Gennaio 2024) – ci dice:
Un
sondaggio ha rivelato un notevole scetticismo tra il pubblico giovane riguardo
all’allarmismo climatico, uno sviluppo che ha destato acutissimo allarme e
rabbia per l’apparato globale dell’Impostura Climatica sostenitori di un’azione
urgente per il clima, “è già troppo tardi”, l’agricoltura inquina, niente più
combustibili fossili eccetera: insomma il programma di spopolamento con la
scusa della “lotta al CO2”.
Lo
studio è stato pubblicato il 16 gennaio dal “Center for Countering Digital
Hate” (CCDH), un’organizzazione di sinistra che è stata citata in giudizio da
“Elon Musk” per aver lanciato una “campagna di paura” per allontanare gli
inserzionisti da” X”, ex Twitter
Lo
studio rivela un aumento significativo tra il 2018 e il 2023 dei contenuti di “YouTube£
che esprimono uno dei seguenti tre punti di vista:
“le
soluzioni climatiche non funzioneranno”,
“la
scienza del clima e il movimento per il clima sono inaffidabili” o
“gli impatti del riscaldamento globale sono
utili o innocui”.
I
ricercatori hanno anche scoperto che circa un terzo degli adolescenti (il
pubblico predominante su YouTube) sostiene opinioni come “le politiche climatiche causano più
danni che benefici” o considera “il cambiamento climatico una bufala per
controllare e opprimere le persone”.
I
risultati – che il CCDH definisce allarmanti e “sorprendenti” – suggeriscono
che c’è un crescente rifiuto delle narrazioni sul clima che enfatizzano
l’imminente catastrofe globale.
Il
gruppo afferma di trovare preoccupante la tendenza e sta esortando le grandi
piattaforme tecnologiche come” YouTube” a censurare i contenuti che “contraddicono l’autorevole consenso
scientifico” sul cambiamento climatico.
censura-su-x.
“Nuovo
negazionismo del clima.”
I
ricercatori del “CCDH” hanno raccolto le trascrizioni di oltre 12.000 video
pubblicati su 96 canali “YouTube” tra il 2018 e il 2023, quindi hanno
analizzato il contenuto dal punto di vista delle narrazioni legate al cambiamento
climatico.
Per
esempio,
I
contenuti che esprimono l’opinione che “la scienza del clima e il movimento per
il clima sono inaffidabili” sono saliti al 35% dal 23%, mentre la narrativa
secondo cui “gli impatti del riscaldamento globale sono benefici o innocui” è
balzata al 6% dal 4%.
Questo
cambiamento, etichettato come “nuovo negazionismo”, costituisce ora la
maggioranza (70%) dei contenuti scettici sul clima su “YouTube”.
Si è
inoltre rilevato che il 33% degli adolescenti pensa che “le politiche
climatiche causano più danni che benefici” e il 30% ritiene che “non ci si
possa fidare della scienza del clima e del movimento per il clima”.
“La
diffusione del “New Climate Denial” può avere un impatto catastrofico
sull’azione per il clima”, ha affermato il “CCDH” in una dichiarazione in cui
il gruppo ha invitato” Google”, che possiede “YouTube”, a intensificare la sua
politica di demonetizzazione e deamplificazione dei contenuti scettici sul
clima.
“Charlie
Cray”, senior strategist di “Greenpeace USA”, ha espresso un punto simile in
una dichiarazione riguardante lo studio:
“I
negazionisti del clima hanno ora accesso a un vasto pubblico globale attraverso
le piattaforme digitali. Consentire loro di indebolire costantemente il
sostegno pubblico all’azione per il clima, soprattutto tra gli spettatori più
giovani, potrebbe avere conseguenze devastanti per il futuro del nostro pianeta”.
In
realtà, più di 1.600 scienziati e professionisti informati hanno recentemente
firmato un impegno in cui dichiarano che non esiste “nessuna emergenza
climatica”, sostenendo che modelli imperfetti e retorica allarmista hanno
soffocato la realtà scientifica per amore del denaro e del potere.
Tra i
firmatari figurano premi Nobel, fisici teorici, meteorologi, professori e
scienziati ambientali di tutto il mondo.
Il
cambiamento climatico, o “emergenza climatica”, come molti attivisti insistono
a chiamarla, è diventato un grido di battaglia globalista sempre più forte negli
ultimi anni.
Ora,
l’adozione del terrorismo climatico è stata assunta esplicitamente a Davos:
L’ex
vicepresidente “Al Gore “ha messo in guardia contro le “bombe a pioggia” e gli
oceani “in ebollizione” in un discorso emozionante sul cambiamento climatico in
occasione di un incontro delle élite globali al Forum economico mondiale in
Svizzera lo scorso anno.
Il
segretario generale delle Nazioni Unite “Antonio Guterres” ha tenuto un
discorso altrettanto allarmista durante l’evento, affermando che “stiamo
flirtando con il disastro climatico” e che “ogni settimana porta con sé una
nuova storia dell’orrore climatico”.
Quest’anno,
la direttiva è stata ancora più estrema:
L’agricoltura
e la pesca dovrebbero essere considerati reati ambientali: forme di ecocidio.
Lo ha
affermato tale” Jojo Mehta”, fondatrice di “Stop Ecocide Now”, a cui il “World
Economic Forum” ha dato il palcoscenico.
L’attivista nel corso del suo intervento ha
discusso l’idea di rendere crimini penalmente perseguibili gli effetti
collaterali ecologici derivanti da attività come l’agricoltura, la pesca e la
produzione di energia.
Inoltre,
auspica l’istituzione di una nuova categoria penale internazionale di
“ecocidio” per prevenire il «danno e la distruzione di massa della natura».
Mentre
finora sono considerate forme di ecocidio disastri come le fuoriuscite di
petrolio e le fusioni nucleari, “Mehta” suggerisce di estendere tale reato
anche alle funzioni necessarie dell’umanità.
Il
blogger “Ugo Fuoco” segnala che
Al WEF
la Cina aderisce all’Impostura Climatica.
ATTUARE
AGENDA 2030 IN TOTO, MA DIFFERENZIATA, PER COMBATTERE I CAMBIAMENTI CLIMATICI.
PREMIER
CINESE LI QIANG.
Li
Qiang (it.m.wikipedia.org/wiki/Li_Qiang), Premier di quella Cina che
inaugura tre nuove centrali a carbone a settimana, ha affermato dal palco del
WEF24 che bisogna attuare l’Agenda 2030 ma differenziata (ovvero la Cina se ne infischia
mentre noi invece dobbiamo farla).
La
Cina, infatti, usa ed userà fonti fossili per distruggere gli ecosistemi
naturali col fine di estrarre materie prime con cui costruire una mole enorme
di dannosissime auto elettriche attraverso cui invadere il mercato globale.
Ecco
perché il paese del dragone, pur fregandosene altamente del clima e
dell’ambiente entro i propri confini nazionali, spinge per l’attuazione delle
politiche verdi.
Deve invadere il mercato dei suoi finti
prodotti green, dietro ai quali ci sono investitori amici di Davos quali “Balckrock”,
“BalckStone”, “Vanguard” e “State Street”.
Al
WEF, “Jake Sullivan”, il consigliere nazionale di Biden è stato affrontato dal
generale “Flynn” con domande puntuali:
(twitter.com/ChanceGardiner/status/1747715667531579642).
I
leader del governo USA devono rendersi conto che siamo di fronte a una minaccia
reale che proviene dall’adesione al WEF.
Noi
votiamo per chi ci aspettiamo prendano decisioni sulla nostra vita, non per ricchi globalisti che pensano
di sapere cosa è meglio per la mia famiglia!
Il
Piano Pandemico di Schillaci
è Solo
un Piano Totalitario
all’Insegna
della “SinEstra.”
Conoscenzealconfine.it
– (21 Gennaio 2024) - Max Del Papa – ci
dice:
Il
Piano Pandemico di Schillaci è come quello di Speranza: non c’è.
C’è
solo “un piano totalitario” all’insegna della “SinEstra”.
L’esperimento
sociale che aveva scandalizzato il resto del mondo continua. Come era chiaro.
Tutti
gli strumenti di controllo, gli errori, le misure eversive escono confermate e
potenziate.
Logico: il popolo va schiacciato, come
vogliono “UE”, “WEF”, “OMS” eccetera.
Non
sforzatevi di capire.
Non
c’è niente da capire. È già tutto chiaro e lo era da subito, e lo diciamo da un
anno che è chiaro.
Non c’è soluzione di continuità, quando un
regime autoritario, concentrazionario ha preso piede lo si può allentare,
temporaneamente, si può fingere di congelarlo, tanto per dare l’illusione a chi
vota che il vento sia cambiato.
Ma
l’esperimento è fatto per restare e l’esperimento italiano è stato quello che
meglio ha attecchito al mondo:
nessun
ripensamento, nessuna assunzione di responsabilità, l’informazione di regime,
vergognosa, da meretricio, ora come allora prona, pronta a sottoscrivere la
totale sconfessione delle libertà democratiche, della Costituzione sventolata,
della scienza e coscienza che ora più di allora conferma:
le
misure autoritarie, le coercizioni, le rappresaglie sbirresche, l’approccio
sudamericano o cinese dei Conte e Draghi supportati da Mattarella, non si
toccano.
Si è
rivelato inutile e controproducente, letale e infame?
Proprio
per questo bisogna insistere, riprenderlo da dove lo si era interrotto.
E
difatti lo riprende il regime di oggi che non è diverso da quello di ieri, nel
solco di un Sinistra-Destra, una SinEstra che ricalca il suo piano pandemico
per i prossimi 4 anni, 2024-2028, fedelmente sul precedente sciagurato e
criminale di Speranza.
Un
piano che non esisteva, che per non rifarsi a lineamenti vecchi di 15 anni,
improvvisò sulla scia di un contagio misterioso, sconosciuto e risolto secondo
indicazioni, suggestioni cinesi:
bloccare tutto, chiudere tutto, alienare
tutti, poi mentire a tutti, nascondere, obbligare, ricattare, costringere ad
avvelenarsi e infine negare le conseguenze, mandare i servi, le puttane di
regime a irridere i malati, i morti, a spingere al suicidio i medici
coscienziosi, che proponevano metodi alternativi per arginare il virus.
Dite
che quei metodi, infamati da vacche e sciacalli, si son poi dimostrati fondati,
anzi gli unici fondati?
Proprio
per questo vanno oggi più di allora odiati e svergognati gli artefici,
boicottati quei medici, uccisa la loro memoria.
Il
piano pandemico è il” velo di Maya”, è il pretesto per un regime che finge di
litigare, di rinfacciarsi le commissioni d’inchiesta che non varerà mai
davvero, mentre condivide, oggi come allora, la responsabilità lugubre di una
dittatura disumana che accomunò tutti, in realtà:
dai vertici supremi alle ultime istituzioni
locali, dai propagandisti sanitari a quelli mediatici, dai partiti di governo a
quelli di opposizione, da destra a sinistra, da sopra a sotto.
SinEstra.
SinEstra.
Il
piano pandemico 2024-2028, non sforzatevi di capirlo, di studiarlo: non esiste,
è letteralmente la copia, il clone delle misure eversive degli scorsi tre
governi.
Vi si
postula:
distanziamento
sociale, chiusure indiscriminate, divieto di uscita e di movimento, coprifuoco,
lockdown (senza precisarne senso e proporzioni: per intenderci, la stessa
allucinazione per cui in un dato negozio una merce su uno scaffale era
accessibile, un’altra sullo scaffale a fianco vietata), sanzioni per i
renitenti, misure di polizia, ampio ricorso alla tecnologia autoritaria del
controllo.
La
differenza, se mai, è che in 24 mesi questa tecnologia si è ulteriormente
sviluppata e adesso consente un monitoraggio più capillare e spietato, ciò che
peraltro viene codificato negli organismi ultra nazionali e sovranazionali.
Su
tutto, il ricorso assoluto, totale e indiscriminato ai vaccini.
Come
sempre, più di sempre.
Con
ciò, il governo Meloni esce se non altro dall’ambiguità cautelativa della sua
stagione di preparazione al potere:
mai
contrari, ma neanche esplicitamente favorevoli, per non offrire sponde troppo
evidenti al regime PD-5 Stelle-Lega.
Oggi
Meloni spinge sui vaccini senza riserve.
Nessun’altra
profilassi è contemplata.
Nessuna obiezione ammessa.
Vaccinarsi
significa ammalarsi, se va bene, morire fulminati se va peggio.
Come
una casistica ormai nell’ordine delle centinaia di migliaia di vittime
illustra.
Non
importa, non si torna indietro, non ci si interroga, non si spiega. Tanto la
magistratura, almeno in questo caso, non boicotterà, anzi blinda.
Il
piano pandemico del ministro Schillaci è quello del predecessore Speranza, suo
superiore che praticamente lo nominò su mandato di Mattarella.
Schillaci ha mantenuto tutte le violazioni
sanitarie che poteva, avendo cura di congelare le altre, ma nessuna mai
veramente abolita:
stavano
lì, stanno lì, nei cassetti, pronte per venire risfoderate.
“Solo
in caso di effettiva necessità…”,
che è
la presa in giro di ogni regime feroce quando ai cittadini sudditi si dice:
“io posso decidere tutto e tu obbedirai, che
ti piaccia o no”.
Che
poi questo oltraggio plateale, questo schiaffo in piena faccia alla
cittadinanza, chiamala popolo, chiamala plebe se preferisci, sia calcolato bene
nei suoi effetti, o che piuttosto venga riposta eccessiva fiducia nella
manipolazione mediatica dei telegiornali e delle puttane di regime, che sono le
stesse, buone per ogni regime, è questione che si potrà verificare, scoprire
solo vivendo.
O
morendo.
Comunque
questo piano pandemico che non c’è, è pura Agenda 2030.
È
Davos. È UE. È Wef.
È il “contagio
X “del cialtrone dell’OMS, Ghebrejesus, “verrà una pandemia ignota e non
risparmierà nessuno”.
Quindi
conviene drogarsi di vaccini per morire prima.
Avvelenarsi
per ammalarsi per vaccinarsi per guarire, assumendo altri vaccini per altre
malattie in un circolo infinito, che termina solo con lo stroncarsi
dell’organismo vivente.
È
Davos, sì, è Zuckerberg, Schwab, è Ursula Borderline, è Bill Gates… sono gli
amici di Giorgia Meloni che sono gli stessi della sinistra globalista.
È
strumento di controllo come vogliono l’Unione e i suoi derivati.
È l’esperimento senza fine.
È l’assoluta superfluità di distinguere, di
cercare una alternativa, di separare il regime di prima da quello di adesso, la
destra dalla sinistra.
È la
SinEstra che ha una gran voglia di nuovi contagi e se non li ha li trova, li
crea, li inventa, perché nel tempo delle parole mosce, delle favole false,
della sessualità inesistente, della gioventù celenterata, l’unico modo di governare torna
quello delle democrazie populiste o negative che nascondono, malamente, le
dittature totalitarie, dei gulag, dei laogai, dei lager.
E delle siringhe di veleno nel sangue dei
cristi in croce.
Non
sforzatevi di capire.
È chiaro, è già chiaro, è tutto chiaro.
(Max
Del Papa)
(ilgiornaleditalia.it/news/politica/569637/il-piano-pandemico-di-schillaci-e-come-quello-di-speranza-non-c-e-c-e-solo-un-piano-totalitario-all-insegna-della-sinestra.html)
Delirio
di onnipotenza.
Nichelino.com
– (04 FEBBRAIO 2022) – Luciano Mancini – ci dice:
Da
sempre l'uomo ha dovuto lottare per la sopravvivenza. È stata ed è tuttora una
lotta complessa, perché combattuta su molti fronti:
contro
la fame e la sete, contro il freddo e gli agenti atmosferici, contro le
malattie, contro i movimenti tellurici e per assurdo anche contro sé stesso
ossia uomo contro uomo negli scontri bellici.
La
necessità aguzza l'ingegno, perciò l'uomo dotato di raziocinio, si è aggregato,
attrezzato ed organizzato per affrontare i pericoli e soddisfare i propri
bisogni individuali e collettivi.
Il
percorso dell'umanità per conquistare il benessere e la sicurezza è stato lungo
e faticoso;
ha
dovuto studiare le leggi della natura per debellare le numerose malattie alle
quali è purtroppo soggetto ed ideare nuove tecnologie al servizio della
produzione.
I
risultati conseguiti sono stati in parte apprezzabili ed in parte deludenti.
Non sempre l'uomo è in grado di controllare e dominare
gli eventi e pertanto avverte un senso di impotenza di fronte alle forze della
natura ed un senso di smarrimento di fronte all'immensità dell'universo.
Soprattutto davanti all'ineluttabilità della morte, l'uomo si è posto la grande
domanda sul senso della vita.
Osservando
lo spettacolo della natura e la grande varietà e complessità degli esseri
viventi, l'uomo si è chiesto se tutto questo possa essere il prodotto casuale
di una materia priva di consapevolezza o piuttosto il prodotto di
un’intelligenza superiore.
Alzando
lo sguardo verso l'immensità del cielo l'uomo ha cercato una risposta al senso
della vita invocando l'aiuto di un Creatore onnipotente. L'uomo riconoscendo le proprie colpe
e responsabilità, in ogni epoca ed in ogni regione della terra si è raccolto
nei luoghi di culto per implorare salvezza dall'alto cercando di ingraziarsi la
Divinità per mezzo di sacrifici propiziatori.
Oggi
le scienze e la tecnologia sono talmente progredite che l'uomo moderno pensa di
dover confidare solo nelle proprie capacità, per cui l'dea di un Dio creatore è
diventata, per molti, un mito da sfatare, un mito generato dalla paura e dalla
mancanza di conoscenza nell'uomo primitivo.
Davvero l'uomo oggi è in grado di avere il
pieno controllo sulla sua vita?
L'idea di un Dio creatore è veramente
obsoleta?
Possiamo sostituire la religione con la
moderna “teologia” scientifica?
Questa
illusione, in ultima analisi, non genera forse nell'uomo una sorta di “delirio
di onnipotenza”?
La minaccia di un piccolo virus ha sconvolto
la vita di tutte le nazioni e mandato in crisi molti settori dell'economia.
Per
paura le nazioni si rinchiudono nei propri confini e le persone nelle proprie
case, si evitano i contatti personali e tutti avvertono una grave limitazione
delle libertà.
Dominano
l'allarmismo e la confusione:
il
vaccino garantisce l'immunità con una dose?
No due, forse tre.
I suoi effetti sono garantiti per dodici mesi?
No
nove, no massimo sei.
Poi ci
sono le varianti che possono “bucare” il vaccino, forse sì o forse no...!
È fiorita una inusitata violenza verbale fra
vaccinati e non vaccinati e contro le restrizioni delle libertà individuali,
per alcuni necessarie, ma per altri dannose oltre modo all'economia.
Per
nostra fortuna - così almeno recita la televisione - l'Italia ha assunto il
ruolo di capofila nella lotta al Covid.
Basteranno
i nostri “draghi” o ci vorrà un “dragone”?
(Luciano
Mancini)
Cos’è
il delirio di onnipotenza
o
grandezza.
Tizianacorteccioni.it
– (24 Aprile 2018) – Dott.ssa Tiziana Corteccioni – ci dice:
I
deliri di onnipotenza o grandezza possono essere presenti sia nel disturbo
bipolare sia nei disturbi psicotici.
La schizofrenia, probabilmente più debilitante
rispetto al disturbo bipolare, è un disturbo caratterizzato da comportamenti
socialmente inappropriati e bizzarri, deliri, allucinazioni, sintomi negativi e
cognitivi.
I
sintomi psicotici (deliri e allucinazioni) più comunemente attribuibili alla
schizofrenia possono essere associati anche a disturbi dell’umore (quali la
Depressione Maggiore e il disturbo bipolare).
La
mania o fase maniacale del disturbo bipolare è un periodo della durata di una
settimana o più durante il quale una persona sperimenta un cambiamento nel
comportamento abituale che incide drasticamente sul funzionamento quotidiano.
La mania va differenziata dall’ipomania perché
l’ipomania non causa un grave deficit nel funzionamento sociale o lavorativo ed
è un periodo della durata di almeno 4 giorni.
I
sintomi che definiscono la mania sono l’aumentata loquacità o rapidità di
linguaggio, la scarsa necessità di dormire (differente rispetto alla
depressione o all’ansia dove esiste il bisogno di dormire ma l’incapacità a
farlo), la velocità di pensiero, la distraibilità, l’aumento dell’attività
finalizzata e l’agitazione psicomotoria.
Altri tratti distintivi della mania sono:
umore
elevato o espanso, labilità affettiva, impulsività, irritabilità e grandiosità.
Se l’individuo che presenta questi sintomi
richiede il ricovero in ospedale allora questi sintomi si qualificano
automaticamente come mania e non come ipomania, anche se presenti per meno di
una settimana.
La
mania deve essere distinta dall’aumentata energia e dall’alterazione del
funzionamento che deriva dall’uso di sostanze stupefacenti, da condizioni
mediche o da altre cause.
Una
singola fase maniacale è sufficiente per effettuare una diagnosi di disturbo
bipolare di tipo I.
La
fase maniacale presenta comunemente manifestazioni psicotiche come deliri e
allucinazioni.
I deliri di onnipotenza o grandezza
comprendono la convinzione di essere personaggi importanti, agenti speciali, di
alto livello come spie, funzionari governativi, membri di servizi segreti.
Nella
fase maniacale possono essere presenti altri tipi di delirio?
I deliri di grandezza possono trasformarsi in
deliri a carattere persecutorio durante i quali i pazienti credono che altre
persone li stiano perseguitando o sorvegliando.
Possono
credere che tutto ciò sia svolto da agenzie governative o bande criminali.
Generalmente
gli individui stessi non capiscono cosa stia succedendo.
Il problema viene notato principalmente dagli
altri, inclusi familiari, amici e persino estranei o poliziotti.
Nel
disturbo bipolare a cicli rapidi sono presenti almeno 4 o più episodi di
variazione del tono dell’umore in un periodo di dodici mesi.
Questi episodi possono essere maniacali,
ipomaniacali o depressivi ma devono soddisfare i criteri diagnostici e la
durata.
Questi
episodi devono essere separati da periodi di remissione parziale o totale di
almeno due mesi o essere separati da un passaggio ad un episodio di polarità
opposta, come da mania o ipomania all’episodio depressivo maggiore.
I pazienti con disturbo bipolare a cicli
rapidi sembrerebbero più resistenti alle terapie (Dailey & Saadabadi,
2018).
Qual è
il significato del delirio di onnipotenza o grandezza in psichiatria?
È
stato proposto un modello cognitivo preliminare nel quale i deliri persecutori
e di grandezza sembrerebbero avere processi psicologici distinti ma
sovrapposti.
I
pazienti con deliri presenterebbero un deficit del funzionamento della teoria
della mente (ToM) che potrebbe contribuire al mantenimento di questi sintomi
(Boyden et al., 2015).
Oltre
che nella fase maniacale del disturbo bipolare, i deliri di onnipotenza o
grandezza possono essere presenti nella schizofrenia e nel disturbo delirante.
Il
sottotipo paranoide della schizofrenia è molto comune nella popolazione.
Dati clinici comparativi e recenti di genetica
molecolare trovano elementi comuni fenotipici e genotipici tra i pazienti con
diagnosi di schizofrenia e disturbo bipolare che supportano l’idea che esista
una radice comune tra schizofrenia di tipo paranoide e disturbo bipolare (Lake,
2008).
Rispetto alla schizofrenia, i pazienti con
disturbo bipolare presenterebbero un pattern neuropsicologico di menomazione
simile ma meno grave.
I sintomi psicotici possono essere distribuiti
lungo un continuum che si estende dalla schizofrenia ai disturbi dell’umore con
manifestazioni psicotiche dotate di un crescente livello di gravità (Demily et al., 2009).
Cosa
fare se un familiare presenta un delirio di onnipotenza o grandezza e se si
trova in una fase maniacale conclamata?
Se si
notano i sintomi di un episodio maniacale con un evidente cambiamento
comportamentale è necessario portare il familiare al pronto soccorso.
I
pazienti in fase maniacale, infatti, si impegnano generalmente in attività
finalizzate che possono comportare conseguenze dannose, come spendere
eccessivamente denaro, avviare attività, viaggiare o avere comportamenti
disinibiti.
Molti
pazienti procurano danni materiali a sé stessi o altri ed effettuano
aggressioni verbali o fisiche.
Possono diventare anche molto aggressivi,
agitati o irritabili.
Anche
se il paziente ha una scarsa consapevolezza del disturbo e potrebbe non
riconoscere i sintomi è importante non entrare in conflitto con lui.
Come
si curano i deliri di onnipotenza o grandezza?
La
terapia prevede la prescrizione di farmaci antipsicotici e benzodiazepine da
parte di uno psichiatra.
QUELLE
DI PUTIN NON SEMBRANO
MANIFESTAZIONI
DI UN DELIRIO
DI
ONNIPOTENZA. LO SONO.
Thevision.com – Silvia Granziero – (21 OTTOBRE
2022) ci dice:
Quando
Vladimir Putin ha attaccato l’Ucraina, lo scorso febbraio, e ancor più nelle
settimane successive, quando si è visto che non aveva intenzione di ritirarsi
nemmeno davanti alla resistenza locale, e poi quando ha iniziato a minacciare
con l’atomica, in molti hanno cominciato a parlare di pazzia o di una qualche
misteriosa malattia – forse un tumore al cervello – che avesse gravemente
danneggiato le funzionalità cerebrali del presidente russo.
In
realtà, quello a cui abbiamo assistito è il coronamento di anni di politica
aggressiva e imperialista – in stile autoritario, anche se non sideralmente
lontana da quanto fanno altre potenze mondiali – mossa da interessi
geopolitici, economici e ritorni politici interni, conditi da qualche
valutazione sbagliata;
oltre
a questo, però, non si può ignorare il ruolo giocato da un fenomeno psicologico
che è effetto stesso del potere.
Di
fatto, quelle di Putin non si limitano ad apparire come manifestazioni di un
delirio di onnipotenza che ha perso il contatto con la realtà, in effetti lo
sono, e la scienza sembra confermarlo.
Ucraina,
2022.
Nella
mente di chi detiene il potere, infatti, succede qualcosa che lo estrania
completamente dal resto della società.
Lo
sottolinea lo storico nederlandese “Rutger Bregman”, autore del libro “Una
nuova storia (non cinica) dell’umanità”, in cui sostiene che questo fenomeno è
caratteristico dei potenti, che si staccano così dalla norma rappresentata dal
comportamento della maggioranza, che è essenzialmente pacifica e altruista.
“Bregman”
evidenzia come “Niccolò Machiavelli” basi “Il principe” e la sua famosa
trattazione del potere su un’interpretazione del tutto sbagliata dell’essere
umano, come fa anche “Thomas Hobbes “nel “Leviatano”:
entrambi,
infatti, partono dal presupposto che l’essere umano sia essenzialmente malvagio
e che vada, quindi, gestito, manipolato e contenuto con la forza da chi è in
posizione di comando.
Per “Bregman”, invece, questa concezione
sarebbe errata, dato che la vera forza della società umana è la cooperazione,
resa possibile da una sorta di superpotere dell’essere umano: l’empatia.
Nonostante
ciò, queste opere hanno plasmato il modo stesso in cui oggi pensiamo al potere,
cioè come qualcosa che riguarda spietatezza, violenza strategica e persino
inganno e frode, secondo un’interpretazione che confonde il potere con il
dominio, considerandolo come una strategia per costringere e manipolare le
persone.
Le
basi teoriche con cui sono cresciute generazioni di politici e militari, che
hanno provocato – e continuano a provocare – un’infinita serie di storture e
atrocità, non sono poi lontane da quelle, e sono in grado di influenzare la
vita della specie umana, la cui caratteristica fondamentale – come mostra
sempre “Bregman”, citando diversi studi – in realtà sarebbe la compassione.
La modalità di vita associata propria
dell’essere umano, infatti, per certi aspetti, come hanno fatto notare vari
ricercatori, tra cui “Bregman”, non sarebbe nata dalla legge del più forte, ma
del più socievole;
e il
nostro parente più prossimo non è l’aggressivo” gorilla”, ma l’amichevole e
pacifico” bonobo”, presso i cui gruppi si osservano fenomeni in cui la maggior
parte degli elementi si coalizzano contro gli individui accentratori o
eccessivamente arroganti.
Ucraina,
2022.
Se
molti politici illiberali, ancora oggi, continuano a scatenare guerre,
esercitare un controllo autoritario sulla popolazione, reprimendo diritti e
proteste, secondo questo filone di ricerca sarebbe anche perché, assieme a una
cultura del potere fondata su modelli fuorvianti, interviene anche un
meccanismo psicologico che si potrebbe sintetizzare con il famoso detto per il
quale” il potere logora chi ce l’ha”, o – più precisamente – “logora le sue
capacità cognitive”.
Sotto
i disperati tentativi di mantenere il potere con la forza, ovviamente, ci sono
interessi economici e politici, ma c’entra anche la mente.
A tutti i livelli, non solo ai vertici del
potere istituzionale:
le stesse dinamiche, infatti, sembrerebbero
influenzare il comportamento di un superiore arrogante con gli impiegati, come
pure gli automobilisti con l’auto più grossa e costosa, oppure chi non si
preoccupa di fare rumore mentre sorseggia il caffè.
Vladimir
Putin.
Come
sottolinea “Dacher Keltner”, psicologo, ricercatore e docente di psicologia
all’”Università di Berkeley”, la malvagità non è insita nel potere, che non si
può limitare alla definizione di “forza”, mentre è semplicemente “la capacità
di influenzare le persone,” tanto che per il filosofo “Bertrand Russell” era un
mezzo fondamentale della vita sociale.
Il
problema è che una volta ottenuto spesso se ne abusa.
Non
solo l’aneddotica, ma anche la letteratura scientifica dimostra infatti che il
potere affievolisce le inibizioni, rendendo chi ce l’ha più libero di esprimere
le proprie tendenze – cosa che può essere un bene in alcuni casi, un disastro
colossale in altri – senza preoccuparsi di vincoli sociali, opinione pubblica e
conseguenze.
Questo diventa via via sempre più
preoccupante:
in generale, infatti, le persone tendono a
diventare più egocentriche e desiderose di arricchirsi una volta al comando,
sempre meno attente agli altri e più impulsive.
Questo fenomeno è osservabile anche nella vita
quotidiana:
chi si
trova su un gradino sociale più alto o si percepisce come tale, tende più
facilmente a mentire e a legittimare da parte propria la violazione delle
regole che gli altri devono seguire (perché il fine giustifica i mezzi, no?);
chi ha l’auto più grossa, per esempio, tende
persino a guidare in modo più aggressivo, perché il veicolo rappresenta la
ricchezza e quindi una posizione dominante sugli altri automobilisti.
Bertrand
Russell.
L’effetto
del potere sulle persone che lo detengono è analogo a quello di una lesione
cerebrale traumatica: rende più impulsivi, meno prudenti e meno empatici.
Anche
gli esperimenti di “Sukhvinder Obhi”, neuroscienziato della “Mc Master
University”, in Canada, confermano lo stesso quadro.
Dalla
stimolazione magnetica transcranica effettuata su un campione misto di persone
con e senza un qualche potere emerge un’alterazione del processo neurale del
mirroring, effetto dell’empatia;
una
sorta di spontanea imitazione degli altri, per esempio quando ridono o quando
si sentono a disagio, legata all’attivazione della stessa area del cervello in
chi compie l’azione e in chi la guarda.
Alcuni
test hanno così dimostrato che le persone che detengono una qualche forma di
potere fanno più fatica a percepire e interpretare il pensiero degli altri.
Questo
meccanismo è controproducente, perché non porta a società più sane,
economicamente benestanti e giuste, ma il contrario, motivo per cui alla lunga
provoca malcontento e sollevazioni popolari.
In democrazia, non a caso, il ruolo del potente di
turno è bilanciato da collaboratori e avversari politici, e l’opinione pubblica
può esprimersi attraverso comportamenti sociali che possono a loro volta
influenzare il potere, dalla satira alle proteste di piazza.
Questo
fenomeno riguarda anche dimensioni sociali più ridotte:
secondo
l’antropologo “Christopher Boehm”, per esempio, le società di
cacciatori-raccoglitori usavano e usano tuttora l’ironia, i commenti e i
pettegolezzi per vigilare su chi esercita il potere e poi, eventualmente,
isolarlo o allontanarlo se viola in modo grave le regole del gruppo;
qualcosa
di simile – sottolinea ancora “Bregman” – accade a scuola nei confronti degli
insegnanti troppo autoritari:
l’ironia
degli studenti nei loro confronti, infatti, può essere spietata.
Si
tratta di modi per esorcizzare e riportare alla realtà il potere, che inebria e
corrompe portando addirittura a credere di essere più attraenti e più
intelligenti degli altri – è sufficiente evocare il nome di “Donald Trump” – e
a poco a poco fa perdere il contatto con la realtà.
Non bisogna dimenticare, infatti, che presso i
primati, i bambini della scuola materna o gli studenti universitari non sono i
bulli e i manipolatori ad acquisire potere, ma coloro che dimostrano empatia ed
entusiasmo, aiutando gli altri e promuovendo così il bene dell’intero gruppo.
Quello
che spesso accade è quindi un paradosso, che “Keltner” chiama proprio
“paradosso del potere”:
le seduzioni del comando, cioè, inducono a
perdere quelle stesse caratteristiche, come l’altruismo e l’allegria, che hanno
permesso di acquisirlo.
Donald
Trump.
Il
paradosso del potere, dopotutto, non dovrebbe sorprenderci, eppure spesso non
prendiamo davvero in considerazione le sue implicazioni:
considerando
che tutti possono esserne in qualche misura corrotti, bisognerebbe stare sempre
molto attenti a chi detiene qualsiasi tipo di potere.
Ecco
perché è indispensabile nutrire una democrazia sana, mentre i problemi maggiori
riguardano inevitabilmente quelle che sono democrazie di facciata o veri e
propri regimi, dove la possibile follia – o più spesso l’abuso di potere – di
chi è al comando – in questi casi un gruppo molto ristretto di persone o
persino una sola persona – non è tenuta sotto controllo.
È
facile immaginare, quindi, cosa può accadere quando il potere non è distribuito
democraticamente ma accentrato nelle mani di una sola persona che, dopo diversi
mandati al governo, tra collaboratori accondiscendenti e sottomessi e
un’opinione pubblica silenziata con censura e arresti, in quella che di fatto
appare apertamente come una dittatura, perde il contatto con la realtà.
Lo stiamo vedendo in Russia e a pagare in
questo caso sono innanzitutto i cittadini ucraini, ma anche gli stessi russi,
con conseguenze che ricadono su tutti.
CONSENSO
E POTERE.
Dicesi
Leader.
Da
Platone a Machiavelli e Gramsci.
Ilfoglio.it - MICHELE MAGNO – (30 AGO. 2021)
- ci dice:
Sono
tanti gli studiosi che hanno investigato su quell’innato istinto di dominio
dell’uomo.
Ma c’è
differenza tra carisma e populismo.
Perché
nel passaggio di secolo, in forma prima silenziosa, poi via via più rumorosa e
eclatante, la sfiducia nelle élite politiche è esplosa così clamorosamente?
Almeno
in Italia, la risposta che forse ha ricevuto più credito è anche la più
semplice:
la “casta” è diventata insopportabile perché i
leader sono peggiorati.
Come
si suol dire, “non ci sono più i capi di una volta”.
La stessa maggioranza dei parlamentari è
spesso considerata come esempio di impreparazione, di cattiva conoscenza dei
problemi, di inefficienza, marcata dal vizio del privilegio e dell’affarismo.
Ora,
non c’è dubbio che l’irruzione nella scena pubblica domestica di “Mario Draghi”
ha contribuito a rimettere in discussione questa linea di pensiero di matrice
populista.
Ma
cos’è la leadership?
Il termine deriva dal verbo inglese “to lead”,
che è stato comunemente usato per tradurre il latino “ducere”.
Nelle scienze sociali le sue definizioni si
sono moltiplicate nel corso del tempo.
Storicamente,
è stato forse “Platone” il primo ad affermare il principio della leadership.
Nelle “Leggi”, il filosofo greco afferma che
vi è chi, essendo nato e educato per questa funzione, deve “comandare, guidare e governare” gli altri perseguendo il bene della
polis.
Nella
cultura ellenica e latina l’interesse per i grandi leader politici e militari è
costante.
Ma
solo nel 69 d.C. la “Lex de imperio Vespasiani” legittima il potere personale
assoluto dell’imperatore romano, da cui trae origine la categoria politica del
cesarismo.
Se cavalieri e re rappresentano i leader più
rilevanti del Medioevo, la “Great Rebellion” inglese del Seicento apre la via
al primo episodio cesaristico moderno, la dittatura personale di Oliviero
Cromwell.
Con la
“Glorius Revolution” di fine secolo comincia invece l’era della monarchia
costituzionale, che culminerà nella creazione del Gabinetto di governo e
dell’istituto del premier.
Per altro verso, dalla “Rivoluzione americana”
e dalla “Convenzione che ne sancisce la vittoria” (1787) nasce la repubblica
presidenziale.
Le due
democrazie anglosassoni si sono così assicurate una leadership personale forte
attraverso la sua progressiva istituzionalizzazione.
I
principali Stati europei svilupperanno il “modello della democrazia
parlamentare”, ma la Francia ha vissuto con i “due Bonaparte esperienze
illiberali”, che hanno ispirato una nuova categoria della politica:
il” bonapartismo”, coincidente con il cesarismo per
l’essenziale, ossia il potere personale appoggiato dall’esercito e dal popolo tramite
l’istituto del plebiscito.
Da
ultimo, in pieno Ventesimo secolo, Italia, Germania e Russia sono state
soggette a regimi totalitari.
La
riflessione scientifica sulla leadership matura tra la fine dell’Ottocento e
l’inizio del secolo scorso, con i contributi di “Gaetano Mosca” sulla classe
politica e di “Vilfredo Pareto” sulle élite, di “Roberto Michels” sui partiti e
sui sindacati operai e poi sul fascismo.
Nel
secolare dibattito sulla leadership non sono mancate impostazioni poco precise
e partigiane, in particolare del rapporto tra leader e società.
Secondo
gli studiosi più avvertiti si tratta di un rapporto di interazione, che va
esaminato nel suo concreto equilibrio in ciascun caso storico.
Cogliendo
questo aspetto del problema,” Machiavelli “scrive nel” Principe” che per
conoscere la “virtù” di Mosè, la “grandezza d’animo” di Ciro e la “eccellenza”
di Teseo erano necessarie le condizioni rispettivamente di schiavitù, oppressione e dispersione
dei loro popoli;
e che
quelle tre condizioni si trovavano unitamente presenti nella nostra penisola,
ma esasperate, forse proprio per mettere alla prova “la virtù di uno spirito
italico”.
Quale
che sia il giudizio sulle qualità della leadership, l’evidenza empirica ci dice
che essa ha giocato un ruolo cruciale soprattutto nelle situazioni
straordinarie, ossia di fondazione o trasformazione di uno Stato.
Si è
appena detto di “Machiavelli”, scienziato assai pragmatico della politica.
Ma
nella “filosofia della storia di Hegel” l’individuo “cosmico-storico” è pur
sempre il protagonista delle grandi crisi di transizione, colui che squarcia
l’involucro soffocante del vecchio ordine per farne nascere uno nuovo.
Solo
che per il grande fiorentino il leader solca un mare dalle rotte sempre ignote,
mentre per il filosofo tedesco (e per Marx) il porto in cui approderà è
comunque prestabilito.
Ma è
stato soprattutto “Max Weber” a lasciare l’impronta più profonda con
l’elaborazione del “concetto di carisma”.
La forza del carisma sta nell’ascendenza
divina che (si tratti di re o profeti) viene solitamente associata al capo, e
nella natura messianica del suo messaggio.
Il carisma nasce da uno stato di grazia unito,
quasi sempre, a una disponibilità al sacrificio come occasione palingenetica.
Il
capo carismatico promette per sua natura un nuovo inizio, e in questa promessa
sta la sua capacità di trascinare le folle.
Quando”
Weber” scriveva le sue tesi, non c’era ancora la radio come canale di
intrattenimento.
Il cinema faceva i suoi primi passi, muti.
E la televisione non era neppure immaginabile.
Tuttavia, non aveva sottovalutato le potenzialità del
potere carismatico.
Con ciò presagendo genialmente la nascita,
dopo pochi anni in tutta Europa, di leader visionari e magnetici.
Per
quanto essi facessero largo uso della propaganda di stampa e, da un certo momento in avanti, della radio, il loro appeal sulle folle era
mediato soprattutto dagli assembramenti fisici, dalle “adunate oceaniche”.
Che
cosa sarebbe successo - come domanderà una fortunata pubblicità televisiva a
proposito di “Gandhi”- se i leader carismatici avessero avuto a disposizione i
moderni mezzi di comunicazione?
Forse meno di quanto si possa immaginare.
Perché, come i nuovi video-leader avrebbero imparato a
proprie spese, i media hanno la capacità di rendere celebre in tempi
rapidissimi un nuovo personaggio e il suo messaggio;
ma, in
tempi altrettanto rapidissimi, possono logorarlo e distruggerlo.
Secondo
“Mauro Calise”, che ha dedicato diversi libri all’argomento, è ciò che rende i
“capi attuali così potenti e, insieme, così fragili”.
Beninteso,
senza nulla togliere al fatto che la televisione e i social network hanno
trasformato le mille piazze reali di un paese in un’unica piazza virtuale, con
una capacità di fuoco comunicativa praticamente illimitata.
Innovazione che ha cambiato anche la natura
del messaggio -e del linguaggio- con cui i nuovi leader si rivolgono alla
propria audience.
In
Italia, dalla metà degli anni Ottanta, i leader politici sono tracimati prima
nei talk-show e poi nelle trasmissioni di intrattenimento, per ballare,
cantare, cucinare, nel tentativo di apparire più vicini (o più simpatici) ai
loro potenziali elettori.
Questa
mutazione genetica riflette tendenze più ampie, che concorrono a segnare quella
che è stata chiamata “era del narcisismo”.
Si spettacolarizza la società (come aveva previsto “Guy Debord” nel
1967) e si
spettacolarizza la politica (come aveva previsto” Neil Postman” nel 1986).
A
questo punto, la domanda è:
perché
il potere ha consenso?
Di
primo acchito, la risposta di “Carl Schmitt” sembra la più plausibile:
“In
certi casi per fiducia, in altri per paura, a volte per speranza, a volte per
disperazione” “(Dialogo sul potere”).
Secondo il giurista di “Plettenberg” gli
uomini hanno bisogno di protezione, e cercano questa protezione nel potere.
Il legame tra protezione e obbedienza è per
lui l’unica spiegazione del potere.
Chi
non ha il potere di proteggere qualcuno non ha nemmeno il diritto di esigerne
l’obbedienza.
Viceversa, “chi cerca protezione e la ottiene
non ha il diritto di negare la propria obbedienza”.
Il
potere ha una logica interna che va al di là di chi lo esercita:
“è più forte di ogni volontà di potenza, più
forte di ogni bontà umana e, per fortuna, di ogni umana cattiveria”.
Il
potere, insomma, non ha identità, ma produce identità, quella per il cui
riconoscimento servo e padrone si affrontano nella hegeliana “Fenomenologia
dello spirito”.
C’è
qualcosa di tragico in questa visione.
Quando
“Schmitt “concepisce il suo pamphlet (1954), il potere veniva già identificato
da “Martin Heiddeger” con la “gabbia della tecnica”, con la capacità di ridurre
gli uomini a “piccoli funzionari” dell’apparato globale.
Tuttavia, il pensiero di “Schmitt” si discosta
non poco da quello del filosofo di “Essere e tempo”, di cui era buon amico.
Il
titolo esteso del “Dialogo” recita, infatti, sull’accesso a coloro che lo
detengono.
Il
problema del potere è cioè quello di come sia possibile entrarvi in contatto.
Partendo dall’affermazione che “ogni potere
diretto è sottoposto immediatamente a influenze indirette”, la sua conclusione
è che “non esiste alcun potere senza questa anticamera, senza questo corridoio”
(nel 1890” Bismarck” si dimise quando l’”imperatore Guglielmo” rifiutò il
preventivo assenso del cancelliere sui suoi ospiti a corte).
L’essenza
del potere viene insomma solo adombrata, ma non enunciata esplicitamente.
La condizione dell’”uomo schimittiano” di
fronte al potere somiglia a quella del campagnolo della novella di “Kafka” Vor
dem Gesetz” (pubblicata nel 1915 e poi inserita nel romanzo “Il Processo”), che
attende invano di poter varcare la porta della legge (“Gesetz”), perché un
custode – da cui viene soggiogato – glielo impedisce.
Analogamente, per il teorico dello “stato
d’eccezione” davanti alla porta del potere c’è sempre “un’antichambre”, a cui
prima bisogna accedere per poterla varcare.
Ciò significa che del potere non vediamo mai
il volto, ma soltanto la sua immagine riflessa nello specchio della storia,
della lotta per la sua conquista.
D’altronde,
l’idea che il potere vero stia “altrove”, che sia invisibile e remoto ancorché
influentissimo, ancora oggi è largamente diffusa.
Cos’è,
allora, il potere?
Secondo “Hannah Arendt”, se il potere non ha
bisogno di giustificazione, essendo inerente all’esistenza stessa delle
comunità politiche, non può però fare a meno della legittimazione:
la
violenza può essere giustificabile, ma non sarà mai legittimata.
È pertanto insufficiente affermare che il
potere e la violenza non sono la stessa cosa.
Il potere e la violenza sono opposti; dove
governa l’una, l’altro è assente.
Questo
implica che “non è corretto pensare all’opposto della violenza in termini di non
violenza; parlare di potere non violento è di fatto una ridondanza” (Sulla” violenza”).
Se la
pratica non violenta di Gandhi si fosse scontrata con la Russia di Stalin, la
Germania di Hitler, il Giappone anteguerra, invece che con l’impero britannico,
probabilmente il suo esito sarebbe stato non la decolonizzazione, ma un
massacro.
Riassumendo:
il
potere fa senz’altro parte dell’essenza di tutti i governi, ma la violenza no.
La
violenza è per natura strumentale, mentre il potere è “un fine in sé”.
È come
la pace: un assoluto.
Ci
sono però anche altri vocabolari del potere, che non parlano soltanto
dell’innato istinto di dominio dell’uomo e della sua speculare, congenita
inclinazione all’obbedienza.
C’è il vocabolario delle donne, anzitutto di quelle
donne che hanno saputo affilare le proprie armi – la bellezza, l’intelligenza,
la seduzione, l’astuzia – per mettere in discussione l’arbitrio maschile nella
politica, nella cultura, nell’arte.
C’è poi il vocabolario di quella tradizione
liberale che, partendo dai moralisti scozzesi (“David Hume”, “Adam Smith” e
prima ancora il loro maestro “Francis Hutcheson”) e dalla nozione di “simpatia”, ha visto
il suo ideale compimento nella Scuola austriaca di economia.
Si deve in particolare a “Lorenzo Infantino”,
infaticabile promotore in Italia del pensiero di “Carl Menger”, “Eugen
Böhm-Bawerk”, “Ludwig von Mises”, “Friedrich von Hayek,” il tentativo di sviluppare il
discorso liberale sulla natura del potere in un contesto più vasto: una teoria
generale del potere sociale.
Come
ha osservato “Alberto Mingardi”, il “docente della Luiss” adotta una
prospettiva non lontana da quella di un grande liberale italiano: “Bruno Leoni”.
Proprio
il discepolo di “Gioele Solari “è l’artefice, sul finire degli anni Cinquanta,
di una delle più originali trattazioni in chiave liberale del concetto di
potere.
Le sue
“Lezioni di dottrina dello stato” segnano una sorta di rivoluzione copernicana
nell’infinito dibattito sull’origine e le radici del potere, che ribalta il
vecchio primato dell’elemento conflittuale e lo sostituisce con il primato
dell’elemento cooperativo.
Il
capolavoro di “Leoni”, Freedom and the Law” (“La libertà e la legge”, nel
1961), è
un aspro atto d’accusa contro il “positivismo giuridico”, contro ogni concezione del potere
inteso come strumento di dominio e non di cooperazione tra individui diversi.
Pochi
decenni prima di “Leoni”, commentando la morte di” Lenin”, “Antonio Gramsci “aveva
affidato le sue riflessioni sul potere al settimanale “Ordine Nuovo” (1 marzo
1924).
Esse si collocano agli antipodi della
tradizione liberaldemocratica, ma offrono qualche spunto di discussione su un
tema che da almeno un ventennio monopolizza le cronache della politica
italiana.
“Ogni Stato”, scriveva l’allora segretario del
Partito comunista, “è una dittatura. Ogni Stato non può non avere un governo,
costituito da un ristretto numero di uomini, che a loro volta si organizzano
intorno a uno dotato di maggiore capacità e maggiore chiaroveggenza. Finché
sarà necessario uno Stato, finché sarà storicamente necessario governare gli
uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere dei
capi, di avere un capo”.
“Gramsci”
teorizzava dunque la necessità di quella” leadership carismatica” che oggi
viene vista col fumo negli occhi dai suoi (sedicenti) eredi, né mancava di
deridere la posizione di “quei socialisti [che sostengono di volere] la
dittatura del proletariato, ma di non volere la dittatura dei capi, […] che il
comando si personalizzi”.
Egli si riferiva ovviamente al partito
operaio, ma non è certo un caso che tutte le esperienze totalitarie, di destra
e di sinistra, si siano rette su un culto della personalità assoluto, che
saldava bisogno di adorazione delle masse e megalomania del leader.
Ursula
e le
Bugie
di Guerra
Conoscenzealconfine.it
– (22 Gennaio 2024) - Pino Cabras – ci dice:
La
presidente della Commissione a Davos proclama guerra senza mandato democratico.
Letteralmente
irresponsabile… mente sulla potenza militare russa esponendoci a rischi
esistenziali.
Ironico che attacchi le “fake news” mentre lei
inganna.
Il
discorso di “Ursula Von Der Leyen” al raduno degli esseri squamati di Davos è
stato una chiamata alla guerra.
Vedo
che i giornalisti della corrente principale dei media non osano farle notare
una cosa:
nessun
popolo europeo le ha conferito l’autorità di dichiarare una guerra totale alla
Russia.
Nessun
popolo europeo ha mai partecipato a un dibattito, né a un processo decisionale
che fosse finalizzato a cambiare la pelle del serpente UE, trasformandolo da dittatura dello
spread a istituzione bellica.
Non
avendo costruito una legittimazione per queste responsabilità – dunque non
avendo responsabilità – la presidente della Commissione ha parlato di cose
militari letteralmente da irresponsabile.
E come
tutti gli irresponsabili ha raccontato menzogne gigantesche per indorare la
pillola della guerra.
Davvero,
lei mente per la gola.
La più grave delle menzogne è che la Russia
dall’inizio della guerra “ha perso metà della sua potenza bellica”.
Quando
al contrario qualunque addetto ai lavori sa che la Russia sta aumentando le
forze disponibili e che l’evoluzione delle sue tecnologie militari sta avendo
un’accelerazione vertiginosa.
Solo
un’irresponsabile può permettersi di non venire inchiodata a una menzogna che
espone tutti noi a rischi esistenziali inediti, con un colossale raggiro a danno di
centinaia di milioni di persone.
Curioso
che in questo sontuoso congresso di lingue biforcute uno dei temi chiave sia la
questione delle fake news.
D’altronde è un ritrovo di monopolisti, e
anche del fake vogliono un rigido monopolio.
(Pino
Cabras)
(megachip.globalist.it/guerra-e-verita/2024/01/17/ursula-e-le-bugie-di-guerra/)
Pepe
Escobar - Come è stato
sconfitto
l'Occidente.
Lantidiplomatico.it
- Pepe Escobar – Sputnik – (22 -1-2024) – ci dice:
Emmanuel
Todd, storico, demografo, antropologo, sociologo e analista politico, fa parte
di una razza in via di estinzione:
uno dei pochissimi esponenti rimasti
dell'intellighenzia francese della vecchia scuola – un erede di quelli come Braudel,
Sartre, Deleuze e Foucault che hanno affascinato le successive giovani
generazioni della Guerra Fredda, dall'Occidente all'Oriente.
(Pepe
Escobar – Sputnik)
La
prima chicca che riguarda il suo ultimo libro, “La Défaite de l'occident”
("La sconfitta dell'Occidente") è il piccolo miracolo di essere stato
pubblicato la settimana scorsa in Francia, proprio nell'ambito della NATO: una
bomba a mano di un libro, di un pensatore indipendente, basato su fatti e dati
verificati, che fa saltare tutto l'edificio della russofobia eretto intorno
all'"aggressione" dello "zar" Putin.
Almeno
alcuni settori dei media aziendali francesi, rigorosamente controllati dagli
oligarchi, non potevano ignorare Todd questa volta per diversi motivi.
Soprattutto
perché è stato il primo intellettuale occidentale, già nel 1976, a prevedere la
caduta dell'URSS nel suo libro “La chute finale” ("Il crollo
finale"), con una ricerca basata sui tassi di mortalità infantile
sovietici.
Un
altro motivo fondamentale è stato il suo libro del 2002 “Apres l'empire”
("Dopo l'impero"), una sorta di anteprima del declino e della caduta
dell'Impero, pubblicato pochi mesi prima di “Shock & Awe” in Iraq.
Ora
Todd, in quello che ha definito il suo ultimo libro ("ho chiuso il
cerchio"), si permette di a rischiare il tutto per tutto e di descrivere
meticolosamente la sconfitta non solo degli Stati Uniti, ma dell'Occidente nel
suo complesso – concentrando le sue ricerche sulla guerra in Ucraina.
Considerando
l'ambiente tossico della” NATOstan”, dove la” russofobia” e la “cancel culture”
(la cultura della cancellazione) regnano sovrane e ogni deviazione è punibile,
Todd è stato molto attento a non inquadrare l'attuale processo come una
vittoria russa in Ucraina (anche se ciò è implicito in tutto ciò che descrive, da
diversi indicatori di pace sociale alla stabilità complessiva del "sistema
Putin", che è "un prodotto della storia della Russia, e non l'opera
di un solo uomo").
Piuttosto,
si concentra sulle ragioni principali che hanno portato alla caduta
dell'Occidente.
Tra
queste:
la
fine dello Stato-nazione;
la
deindustrializzazione (che spiega il deficit della NATO nella produzione di
armi per l'Ucraina);
il
"grado zero" della matrice religiosa dell'Occidente, il
protestantesimo;
il “forte aumento del tasso di mortalità negli
Stati Uniti” (molto più alto che in Russia), insieme a suicidi e omicidi; e la supremazia di un nichilismo
imperiale espresso dall'ossessione delle Guerre Eterne.
Il crollo del protestantesimo.
Todd
analizza metodicamente, in sequenza, Russia, Ucraina, Europa dell'Est,
Germania, Gran Bretagna, Scandinavia e infine l'Impero. Concentriamoci su
quelli che sarebbero i “12 Greatest Hits” del suo notevole esercizio.
All'inizio
dell'Operazione Militare Speciale (OMS) nel febbraio 2022, il PIL combinato di
Russia e Bielorussia era solo il 3,3% dell'Occidente combinato (in questo caso la sfera NATO più
Giappone e Corea del Sud).
Todd
si stupisce di come questo 3,3% in grado di produrre più armi dell'intero
colosso occidentale non solo stia vincendo la guerra, ma stia riducendo in
frantumi le nozioni dominanti di "economia politica neoliberale" (tassi di PIL).
La "solitudine ideologica" e il
"narcisismo ideologico" dell'Occidente – incapace di comprendere, ad
esempio, come "l'intero mondo musulmano sembra considerare la Russia un
partner piuttosto che un avversario".
Todd rifugge dalla nozione di "Stati
weberiani" – evocando una squisita compatibilità di vedute tra “Putin” e
l'esperto di realpolitik statunitense “John Mearsheimer”.
Costretti
a sopravvivere in un ambiente in cui contano solo le relazioni di potere, gli
Stati agiscono ora come "agenti hobbesiani".
E questo ci porta alla nozione russa di
Stato-nazione, incentrata sulla "sovranità":
la capacità di uno Stato di definire
autonomamente le proprie politiche interne ed esterne, senza alcuna
interferenza straniera.
L'implosione,
passo dopo passo, della “cultura WASP”, che ha portato, "a partire dagli
anni '60", a "un impero privo di un centro e di un progetto, un
organismo essenzialmente militare gestito da un gruppo senza cultura (in senso
antropologico)".
Questo
è Todd che definisce i neocons statunitensi.
Gli Stati Uniti come entità
"post-imperiale": solo un guscio di macchina militare privato di una
cultura guidata dall'intelligence, che porta a "un'accentuata espansione
militare in una fase di massiccia contrazione della sua base industriale".
Come sottolinea Todd, "la guerra moderna
senza industria è un ossimoro".
La
trappola demografica:
Todd mostra come gli strateghi di Washington "hanno dimenticato che uno Stato
la cui popolazione gode di un alto livello educativo e tecnologico, anche se in
diminuzione, non perde la sua potenza militare".
Questo
è esattamente il caso della Russia durante gli anni di Putin.
Qui arriviamo al punto cruciale
dell'argomentazione di Todd:
la sua reinterpretazione post-Max Weber de”
L'etica protestante e lo spirito del capitalismo”, pubblicato poco più di un
secolo fa, nel 1904/1905:
"Se
il protestantesimo è stato la matrice dell'ascesa dell'Occidente, la sua morte,
oggi, è la causa della disintegrazione e della sconfitta".
Todd definisce chiaramente come la
"Gloriosa Rivoluzione" inglese del 1688, la “Dichiarazione
d'Indipendenza americana del 1776” e la “Rivoluzione francese del 1789” siano
stati i veri pilastri dell'Occidente liberale.
Di
conseguenza, un "Occidente" espanso non è storicamente "liberale",
perché ha anche progettato "il fascismo italiano, il nazismo tedesco e il
militarismo giapponese".
In
poche parole, Todd mostra come il protestantesimo abbia imposto
l'alfabetizzazione universale alle popolazioni che controllava, "perché
tutti i fedeli devono accedere direttamente alle Sacre Scritture. Una
popolazione alfabetizzata è capace di sviluppo economico e tecnologico. La
religione protestante ha modellato, per caso, una forza lavoro superiore ed
efficiente."
Ed è
in questo senso che la Germania è stata "al centro dello sviluppo
occidentale", anche se la Rivoluzione industriale ha avuto luogo in
Inghilterra.
La
formulazione chiave di Todd è indiscutibile: "Il fattore cruciale dell'ascesa
dell'Occidente fu l'attaccamento del protestantesimo
all'alfabetizzazione."
Inoltre
il protestantesimo, sottolinea Todd, è due volte al centro della storia
dell'Occidente:
attraverso
la spinta educativa ed economica – con la paura della dannazione e il bisogno
di sentirsi scelti da Dio che generano un'etica del lavoro e una forte moralità
collettiva – e attraverso l'idea che gli uomini sono diseguali (ricordate il Fardello dell'Uomo
Bianco).
Il
crollo del protestantesimo non poteva che distruggere l'etica del lavoro a
vantaggio dell'avidità di massa:
ecco
il neoliberismo.
Il
transgenderismo e il culto del falso.
L'acuta
critica di Todd allo spirito del 1968 meriterebbe un intero libro. Egli fa riferimento a "una delle
grandi illusioni degli anni Sessanta, tra la rivoluzione sessuale
anglo-americana e il maggio 68 francese":
"credere
che l'individuo sarebbe stato più grande se liberato dal collettivo".
Questo
ha portato a un'inevitabile debacle:
"Ora
che siamo liberi, in massa, dalle credenze metafisiche, fondative e derivate,
comuniste, socialiste o nazionaliste, viviamo l'esperienza del vuoto."
Ed è
così che siamo diventati
"una moltitudine di nani mimetici che non osano
pensare da soli – ma si rivelano capaci di intolleranza come i credenti dei
tempi antichi".
La
breve analisi di Todd sul significato più profondo del transgenderismo manda
completamente in frantumi la” Chiesa di Woke” – da New York alla sfera dell'UE,
e provocherà attacchi di rabbia seriali.
Egli
mostra come il transgenderismo sia "una delle bandiere di questo
nichilismo che ora definisce l'Occidente, questa spinta a distruggere, non solo
le cose e gli esseri umani, ma la realtà".
E c'è
un ulteriore bonus analitico:
"L'ideologia
transgender dice che un uomo può diventare una donna e una donna può diventare
un uomo.
È un'affermazione falsa e, in questo senso,
vicina al cuore teorico del nichilismo occidentale."
La
situazione peggiora quando si parla di “ramificazioni geopolitiche”. Todd stabilisce una giocosa
connessione mentale e sociale tra questo culto del falso e il comportamento
traballante dell'Egemone nelle relazioni internazionali.
Un
esempio:
l'accordo
sul nucleare iraniano concluso sotto Obama, che diventa un regime sanzionatorio
duro sotto Trump.
Todd: "La politica estera americana è, a
suo modo, gender fluid."
Il
"suicidio assistito" dell'Europa.
Todd
ci ricorda che all'inizio l'Europa era una coppia franco-tedesca.
Poi,
dopo la crisi finanziaria del 2007/2008, si è trasformata in "un
matrimonio patriarcale, con la Germania come coniuge dominante che non ascolta
più la sua compagna".
L'UE
ha abbandonato ogni pretesa di difendere gli interessi dell'Europa –
tagliandosi fuori dall'energia e dal commercio con il suo partner russo e
auto-sanzionandosi.
Todd identifica, correttamente, l'asse
Parigi-Berlino sostituito dall'asse Londra-Varsavia-Kiev:
quella fu "la fine dell'Europa come
attore geopolitico autonomo".
E ciò
è avvenuto solo 20 anni dopo l'opposizione congiunta di Francia-Germania alla
guerra neocon all'Iraq.
Todd definisce correttamente la “NATO”
sprofondando nel "loro inconscio":
"Notiamo
che il suo meccanismo militare, ideologico e psicologico non esiste per
proteggere l'Europa occidentale, ma per controllarla."
Insieme a diversi analisti in Russia, Cina,
Iran e tra gli indipendenti in Europa, Todd è sicuro che l'ossessione degli
Stati Uniti – dagli anni '90 – di tagliare fuori la Germania dalla Russia
porterà al fallimento:
"Prima
o poi collaboreranno, perché "le loro specializzazioni economiche li
definiscono complementari."
La
sconfitta in Ucraina aprirà la strada, poiché una "forza
gravitazionale" seduce reciprocamente Germania e Russia.
Prima di ciò, e a differenza di quasi tutti
gli "analisti" occidentali della sfera mainstream di “NATOstan”, Todd
capisce che Mosca è destinata a vincere contro l'intera NATO, non solo contro
l'Ucraina, approfittando di una finestra di opportunità individuata da Putin
all'inizio del 2022.
Todd
scommette su una finestra di 5 anni, cioè su un finale entro il 2027. È
illuminante fare un confronto con il Ministro della Difesa” Shoigu”, che ha
dichiarato l'anno scorso:
l'”OMS”
finirà entro il 2025.
Qualunque
sia la scadenza, in tutto questo è insita una vittoria totale della Russia –
con il vincitore che detta tutte le condizioni.
Nessun
negoziato, nessun cessate il fuoco, nessun conflitto congelato – come l'Egemone
(Usa) sta ora disperatamente girando.
Davos
mette in scena "Il trionfo dell'Occidente."
Il
grande merito di Todd, così evidente nel libro, è quello di usare la storia e
l'antropologia per portare sul divano la falsa coscienza della società
occidentale.
Ed è
così che, concentrandosi ad esempio sullo studio di strutture familiari molto
specifiche in Europa, riesce a spiegare la realtà in un modo che sfugge
totalmente alle masse collettive occidentali sottoposte al lavaggio del
cervello e al turbo-neoliberismo.
Va da
sé che il libro di Todd, basato sulla realtà, non sarà un grande hit tra le
élite di Davos.
Ciò
che sta accadendo questa settimana a Davos è stato immensamente illuminante.
Tutto
è alla luce del sole.
Da
parte di tutti i soliti sospetti – la tossica Medusa dell'UE von der Leyen;
il guerrafondaio Stoltenberg della NATO;
BlackRock, JP Morgan e gli “altri capoccia” che stringono la mano al loro
giocattolo in felpa sudata a Kiev – il messaggio del "Trionfo
dell'Occidente" è monolitico.
La
guerra è pace.
L'Ucraina
non (corsivo mio) sta perdendo e la Russia non sta vincendo.
Se non
siete d'accordo con noi – su qualsiasi cosa – sarete censurati per
"discorso d'odio".
Vogliamo
il “Nuovo Ordine Mondiale” – qualunque cosa voi miseri contadini pensiate – e
lo vogliamo ora.
E poi
se tutto fallisce, una “Malattia X prefabbricata” vi colpirà.
LETTERA
AI COMPAGNI
SULLA
GUERRA IMPERIALISTA.
Lantidiplomatico.it
– (19 -1-2024) – Roberto Gabriele – Forum comunisti italiani – ci dice:
È
evidente a tutti che la situazione sta superando il limite di guardia.
L'imperialismo occidentale a guida americana è in crisi, ma ha deciso, per non
arretrare, di scatenare una catena di eventi bellici e costruire capisaldi
militari da cui partire per estendere il conflitto.
Il
punto di partenza, com'è noto, è stato l'Ucraina.
Lì gli
USA e la NATO hanno iniziato a concepire una risposta globale alla Russia che
non aveva accettato la logica dell'accerchiamento strategico disegnato dagli
americani coi paesi europei e l'UE.
Già da
questa prima fase della ‘guerra a pezzi' i comunisti, quelli almeno che non si
sono fatti travolgere da posizioni neo-trotskiste basate sulla lotta tra
imperialismi, hanno dato battaglia contro tutte le ambiguità per affermare la
verità dei fatti.
In Italia questa battaglia ha avuto successo.
Nonostante
l'alleanza di fatto tra destra atlantista e PD, a sinistra ha prevalso la
consapevolezza che la responsabilità della guerra in Ucraina è da attribuire ai
neonazisti di Kiev e alla Nato.
Gli
americani speravano in un facile successo e di incrinare con l'embargo e l'uso
della quinta colonna la compattezza del governo di Putin, ma i loro calcoli
erano sbagliati e le forze ucraine si sono impantanate in una guerra di
logoramento senza sbocco.
L'attacco
di Hamas a Israele ha aperto un nuovo fronte. Anche qui le condizioni oggettive
hanno determinato la risposta palestinese al nazi-sionismo che teneva in gabbia
la popolazione di Gaza e allo stillicidio di morti nella Cisgiordania occupata.
La
sconfitta di immagine di Israele e le difficoltà sul campo sono evidenti, ma
anche qui l'imperialismo occidentale fa quadrato.
Le
forze aereo-navali angloamericane, con l'appoggio dell'UE e dell'Italia,
sostengono l'esercito nazista di Israele e allargano la guerra al Libano, alla
Siria, allo Yemen.
Il
progetto imperialista, dopo che in Ucraina e in Palestina si è scoperto il
gioco, sta diventando quello di creare una catena di intervento o deterrenza
militare su tutto quello che USA e alleati ritengono il fronte di guerra,
dall'Ucraina, al Medio Oriente, a Taiwan, alla Corea del Nord e non è escluso
che a breve si aprano altri fronti.
Se è
vero che in questi due anni, a partire dal gennaio 2022, i comunisti e gli
antimperialisti hanno dimostrato chiarezza e determinazione nella lotta contro
i responsabili delle guerre e a fianco del popolo palestinese, ora che la
situazione si sta aggravando e gli scenari prevedono non solo l'allargamento
dei conflitti, ma una possibilità di scontro frontale con paesi come “Russia”, “Cina” e “Iran” che sono
il perno della resistenza antimperialista, bisogna prepararsi al peggio e, nel
contempo, fare il possibile perché gli scenari più foschi non si
materializzino.
C'è bisogno perciò che la mobilitazione contro
il governo Meloni e i fautori delle guerre imperialiste si organizzi
stabilmente e mantenga la sua pressione con continuità.
Gli eventi possono precipitare e bisogna
prepararsi per tempo, anche contro la inevitabile repressione interna.
Unità
delle forze antimperialiste, capacità di unire chi è contro la guerra,
solidarietà col popolo palestinese, far uscire l'Italia dalle guerre.
Su questi obiettivi i comunisti devono non
solo impegnarsi, ma essere un'avanguardia politica capace di guidare lo
scontro.
(Roberto
Gabriele- Forum comunisti italiani)
L’UNICA
OPPOSIZIONE A
DRAGHI
È IL POPULISMO.
Comedonchisciotte.org
– Luca Lanzalaco - Redazione CDC – (22 Gennaio 2024) – ci dice:
Lo
abbiamo già scritto, ma conviene ripeterlo.
Tra i
pregi di Mario Draghi, pochi o molti che siano a seconda delle nostre opinioni
personali, ve ne è uno incontestabile: la chiarezza.
Draghi
non ha mai dovuto spiegare, rettificare, correggere e, men che meno,
contraddire quanto aveva detto o scritto. E, senza alcuna ironia, non è cosa da
poco.
In
mezzo a politici – perché Draghi è un politico, non un economista – che si
esprimono in modo confuso, enigmatico, incomprensibile, allusivo e, talvolta,
incoerente si tratta di una eccezione che merita attenzione. Perché Draghi,
questo è il punto, non solo si esprime in forma chiara e diretta, ma si
comporta anche in questo modo.
Ciò
che fa Mario Draghi deve essere attentamente monitorato e analizzato, perché
non è cronaca, è storia.
E,
soprattutto, perché ci dice come dobbiamo muoverci noi.
Ma
procediamo con ordine.
Il 23
settembre 2023 “Ursula von der Leyen”, durante il suo discorso sullo stato
dell’Unione europea, annuncia di aver commissionato a Mario Draghi un “Rapporto sulla competitività
dell’economia europea” di cui non vengono specificati né le finalità, né il
profilo. Draghi
accetta e si mette al lavoro.
Nel
frattempo, il 29 novembre 2023, Draghi si manifesta a Milano e annuncia in modo
sobrio e pacato che ci servono gli Stati Uniti d’Europa.
Forse è una pura coincidenza. O forse no.
Il 10
gennaio 2024 Mario Draghi incontra in una riunione riservata a Milano nella
sede della Banca d’Italia una delegazione della “European Round Table for
Industry” (ERT), la associazione che raggruppa 60 multinazionali europee nel
settore dell’industria e della tecnologia.
Draghi,
con il consueto understatement, dice ai giornalisti che è lì per ascoltare.
Di
fatto, durante l’incontro, che pare essere stato richiesto dalla stessa “ERT”,
presenta una dettagliata “piattaforma Draghi” che, secondo Giuseppe Sarcina”, “potrebbe essere la base su cui
costruire la politica industriale della Ue per i prossimi cinque anni.”
Il
giorno successivo, 11 gennaio 2024, Draghi si vede a Bruxelles con una
delegazione di “Business Europe”, la confederazione di tutte le “Confindustrie”
nazionali europee.
All’incontro,
durante il quale si parla di competitività e di futuro dell’economia europea,
viene dato un risalto mediatico nettamente inferiore a quello dell’incontro del
giorno prima a Milano.
E questo fatto è significativo.
Il 12
gennaio 2024 Draghi partecipa come ospite d’onore a un “seminario segreto”
(sic!) del “Consiglio dei Commissari UE” sulla competitività.
Dopo
aver lanciato i consueti segnali di allarme sullo stato dell’economia europea
di fronte alla sfida di Cina e USA, traccia le linee della politica industriale
che si dovrebbe adottare nella prossima legislatura.
Come
interpretare tutto ciò? Quali insegnamenti trarre?
Anzitutto,
un chiarimento necessario per capire quanto successo.
La “ERT
“è una associazione tra 60 imprese multinazionali europee, nata nel 1983, che
fatturano 2.000 miliardi di euro all’anno, hanno complessivamente 5 milioni di
dipendenti e investono ogni anno 60 miliardi di euro in ricerca e sviluppo.
Il suo
scopo è promuovere la competitività e lo sviluppo in Europa e, per fare questo,
vengono redatti rapporti che vengono discussi nelle istituzioni internazionali
e globali e con i governi nazionali.
Quindi,
la “ERT” non è una associazione che
rappresenta il mondo imprenditoriale, ma una organizzazione che “svolge
attività di lobbying” per 60 multinazionali.
“Business
Europe”,
invece, è una associazione di rappresentanza, nata nel 1958, che raggruppa a
livello europeo tutte le confederazioni nazionali degli industriali che operano
nei singoli Stati.
La
differenza non è da poco.
La prima rappresenta solo sé stessa e gli
interessi di 60 imprese multinazionali.
La
seconda rappresenta circa 20 milioni di imprese di tutte le dimensioni aderenti
a 42 confederazioni nazionali con sede in 36 Paesi.
Vediamo
ora di interpretare le mosse di Mario Draghi e di trarne le dovute conseguenze.
Anzitutto,
gli incontri erano tutti “riservati”, se non addirittura “segreti”, eppure gli
uffici stampa si sono premurati di far conoscere nei dettagli l’oggetto della
discussione.
In
particolare, all’incontro con la “ERT” è stato dato grande risalto mediatico e
della “piattaforma Draghi” si conoscono molti particolari. Ciò significa due
cose.
La prima è che Mario Draghi e il “mainstream
europeo” danno molta più importanza al livello globale, rappresentato dalla “ERT”,
che a quello nazionale in cui è storicamente radicata la base associativa di “Business
Europe”.
E
tutto ciò avviene mentre sono presenti da qualche anno chiari segnali di
deglobalizzazione a livello economico e politico.
Porsi
il problema della competitività a livello globale è quanto meno anacronistico.
Il vero problema è quello esattamente opposto,
cioè come rimediare ai danni generati dalla globalizzazione.
E non
è certo aumentando la competitività, che della globalizzazione è il motore, che
ciò si può fare.
Forse sarebbe più opportuno ragionare sul
reinserimento di misure protezionistiche e su un ridimensionamento dei mercati
globali, primo fra tutti quello dei capitali.
Ma di questo, ovviamente, non si può parlare
con le imprese multinazionali.
Mario
Draghi ha illustrato e discusso con la” ERT” e, solo successivamente, con la “Commissione”
la sua “piattaforma” tracciando la tabella di marcia (roadmap) della politica
industriale nella prossima legislatura.
Peccato che le elezioni non si siano ancora
tenute e che non si conosca la composizione del futuro Parlamento europeo.
Ma,
ancora più spiacevole è il fatto che il suo “Rapporto” verrà reso ufficiale
solo dopo le elezioni europee che si terranno in giugno e che quindi non possa
essere oggetto di discussione durante la campagna elettorale.
Questi
“sfasamenti temporali” non sono casuali ma hanno un ben preciso significato.
I
cittadini – meglio sarebbe dire i sudditi – europei votino pure ciò che
vogliono, tanto il futuro dell’economia dell’Unione lo decidiamo noi, cioè il
probabile (ma non ancora nominato) presidente del Consiglio europeo e le
multinazionali, 60 individui decidono il futuro di 400 milioni di persone.
E lo
decidono in segreto, in sedi riservate, ma facendolo sapere a tutti.
Questa
“ostentata riservatezza” è il nuovo modo di comunicare delle élite.
Non
sono più necessari logge massoniche, panfili o uffici al riparo di orecchie
indiscrete.
Si sceglie una sede ufficiale – la Banca
d’Italia, quando Draghi avrebbe potuto recarsi presso la “Presidenza dell’ERT”
a Bruxelles – per discutere in modo ufficioso e informale di questioni
pubbliche.
In modo tale che sia ben chiaro all’universo
mondo chi decide e chi non decide, chi ha il potere e chi sono i senza potere,
chi fa parte delle élite e chi fa parte del popolo.
L’“ostentata
riservatezza” è una vera e propria provocazione, un oltraggio alla democrazia,
un vilipendio ai principi liberali.
Così
come lo sono stati gli incontri che “Bill Gates”, uno degli uomini più ricchi
del pianeta, ha avuto prima con il” Presidente del Consiglio” e poi con il “Presidente
della Repubblica italiani”.
Se
questo è il nuovo modus operandi delle élite politiche, un misto di sfrontata
disinvoltura e deferente ossequio al potere economico, allora l’unica risposta
sensata per chi da quei circoli esclusivi è strutturalmente ed orgogliosamente
escluso è uno solo:
l’anti elitismo o, come viene chiamato nel linguaggio
ordinario, il
populismo.
Tornerò
quanto prima sul tema, per ora mi basta sottolineare due cose.
La prima è che il populismo non è sinonimo di
destra e men che meno di fascismo.
Può essere di destra, ma può anche essere di
sinistra, pensiamo non solo alla prima stagione di Syriza con Alexis Tsipras e
Yanis Varoufakis, ma anche ad intellettuali come Ernesto Laclau, Chantal
Mouffe, Wolgang Streeck o, in Italia, Carlo Formenti.
La
seconda è
che il populismo non è riducibile al reddito di cittadinanza o al salario
minimo in quanto riguarda una sfera più ampia della semplice economia.
Tutelare
i diritti degli svantaggiati, degli ultimi nella scala delle disuguaglianze
economiche e sociali, è cosa giusta, ma è riduttivo in quanto oscura la natura principalmente politica del
populismo che, nella sua essenza, è (ri)dare il potere di decidere a chi sarà
poi sottoposto a quelle decisioni.
Cioè,
l’esatto contrario della “ostentata riservatezza” esibita da Mario Draghi.
(Luca
Lanzalaco è professore ordinario di Scienza politica presso l’Università di
Macerata. Ha recentemente pubblicato, con
Giampiero Cama e Sara Rocchi, “Le banche centrali prima e dopo la crisi.”)
L’IMPERIALISMO
AMERICANO-
OCCIDENTALE
COLPISCE ANCORA!
Comedonchisciotte.org
– Nucleo comunista internazionalista -
Redazione CDC – (16 Gennaio 2024) – ci dice:
Riceviamo
e pubblichiamo le considerazioni del “Nucleo Comunista Internazionalista” al
comunicato del “Fronte della Primavera Triestina” riguardante gli attacchi
contro gli “Houthi yemeniti dei giorni scorsi.
Riceviamo
e diffondiamo il comunicato fatto dai giovani del Fronte della Primavera
Triestina sull’attacco sferrato dai soliti capibastone imperialisti contro le
postazioni degli Houthi yemeniti nella notte di giovedì 11 gennaio.
Condividiamo
e sottoscriviamo la lettera e lo spirito in esso contenuto e trasmesso.
Invitiamo
tutti coloro che, come noi, ne condividono il senso a darne la massima
diffusione possibile.
Vogliamo
solo aggiungere brevemente:
Noi
non sappiamo se questo colpo e scambio di colpi resti un episodio ancora
limitato e localizzato nella guerra in corso aperta dall’attacco del 7 ottobre
condotto dalla Resistenza palestinese e spalleggiato dai paesi e dalle forze
dell’Asse della Resistenza, oppure se da adesso si aprano per davvero le
cataratte.
Si
aprano le cataratte non solo in tutta l’area ma coinvolgendo tutti. Tutti,
inteso anche noi “spettatori” occidentali.
Ci
auguriamo non solo che “i ribelli” Houthi yemeniti, spalleggiati dalle forze
dell’Asse, siano in grado di far pagare il più salato dazio possibile alla
forza imperialista.
Non
solo questo.
Ma
anche che i complici-collaborazionisti dell’imperialismo nella regione cioè i
regimi degli Stati-“fratelli islamici” (che ad eccezione dell’Oman sembra
abbiano aperto/concesso il loro spazio aereo al dispositivo di attacco
imperialista) non la passino liscia e paghino un altrettanto salato dazio.
Su
tutti in particolare il regime saudita (neanche diciamo degli
emirati-staterelli tipo Qatar o del Regno di merda del Bahrain ecc. tutti
edificati e mandati avanti – è bene ricordarlo – dal lavoro super-sfruttato di
milioni di proletari immigrati), particolarmente empio ed ipocrita oltre ogni
limite in quanto custode delle due principali città sante dell’Islam. Ci
teniamo a sottolineare questo aspetto, da dichiarati “infedeli” e miscredenti
quali siamo, idealmente rivolti alla massa dei credenti islamici che è in larga
parte massa di oppressi.
Regime
saudita (idem gli altri), vergognoso e miserabile profanatore vivente e
ambulante dell’opera e dello spirito del Profeta.
Ciò
detto anche se tale regime trovasse utile convertire la sua montagna di sporchi
dollari ed euro in yuan o rubli e trovasse utile “passare di campo” mettendosi
in affari ed in intesa geopolitica con Mosca e Pechino.
Infine:
La
Resistenza palestinese ha giustamente affermato che la difesa e la liberazione
di “Al Aqsa” (che è uno degli obiettivi dichiarati dell’operazione del 7
ottobre) non è solo una “questione nazionale” del popolo palestinese ma è un
obiettivo per tutta la comunità arabo-islamica.
Noi affermiamo che tale difesa e liberazione
passa necessariamente per la liberazione della Mecca e di Medina dalle mani
degli empi e degli ipocriti cani da guardia dell’imperialismo che attualmente
le custodiscono.
Viva
“i ribelli” Houthi! Abbasso la real-politik degli Stati e delle cancellerie
borghesi!
(Inutile
dire che il capitalismo italiano è pienamente compartecipe del dispositivo
imperialista Nato/Occidente collettivo quindi del massacro in Gaza e
Cisgiordania, quindi dei colpi sferrati contro “i ribelli” Houthi e le forze
dell’Asse della Resistenza.
Solo è
più pavido, subdolo e vigliacco rispetto ai capi bastone USA/GB, oltreché
badogliano come da tradizione infame della borghesia italica e della gamma
variegata e multicolore dei suoi rappresentanti politici).
Nucleo
Comunista Internazionalista.
L’imperialismo
americano-occidentale colpisce ancora! Piena solidarietà al popolo yemenita!
Abbiamo
appreso che questa notte l’imperialismo ha colpito ancora.
I
recentissimi bombardamenti sullo Yemen, volti ad attaccare gli eroici Huthi,
sono l’ennesima vile manifestazione di un blocco di potere, ossia quello
dell’occidente imperialista, sempre più isterico.
Gli
yemeniti del movimento “Ansar Allah” hanno resistito per anni sotto le bombe
saudite ed emiratine (fornite dai paesi occidentali, amici e soci in affari
delle petro monarchie arabe), hanno combattuto “Al-Qaida” e “ISIS” (infiltrati
in Yemen con la complicità saudita, in funzione anti Ansar Allah) ed hanno pure
opposto resistenze alla campagna di vaccinazione COVID nei territori da loro
controllati.
Ora,
agli occhi della plutocrazia globale, essi si sono macchiati di un’altra
gravissima colpa, ossia quella di aver dato il più grande e concreto sostegno
(in base alle loro possibilità) alla causa palestinese, bloccando e sabotando
il traffico mercantile, in transito nel Mar Rosso, diretto in Israele o
comunque legato a compagnie e società israeliane.
Le
azioni delle forze Huthi-yemenite hanno minato interessi capitalistici
internazionali e messo in evidenza l’ipocrisia e la bassezza tanto della
comunità internazionale, immobile e dunque complice del massacro in corso a
Gaza, quanto di molti paesi arabi che, oltre a retoriche dichiarazioni di
facciata, non stanno facendo nulla di concreto per sostenere la resistenza e la
martoriata popolazione palestinese.
Addirittura
pare che alcuni di questi stessi Stati arabi, che peraltro ospitano sul loro
territorio basi americane, abbiano aperto i loro spazi aerei agli
angloamericani (sostenuti da una coalizione che comprende Australia, Canada e
Paesi Bassi) per i loro raid sullo Yemen.
Noi
non possiamo che esprimere la nostra più piena solidarietà ai grandi e
coraggiosi yemeniti, che con grande coerenza e tenacia sono stati disposti a
mettersi contro le canaglie imperialiste pur di essere coerenti e solidali con
il resistente popolo di Palestina.
Non
possiamo che ammirare la loro prodezza, la loro audacia e la loro esemplare
combattività.
Siamo
sicuri che, così come non si sono fatti piegare dalle aggressioni saudite ed
emiratine, i fratelli Huthi non si faranno vincere dai vigliacchi attacchi
occidentali.
Al
crescere della nostra stima per gli yemeniti cresce proporzionalmente il nostro
disgusto per la vile comunità internazionale, per l’operato dell’ONU, per gli
Stati dell’Occidente imperialista e, soprattutto, per quei governi arabi
complici che, mentre i fratelli palestinesi muoiono sotto le bombe sioniste,
stanno a guardare e a fare accordi (e affari) con l’entità sionista ed i suoi
alleati.
Onore
alla resistenza palestinese! Onore agli Huthi! Onore all’asse della resistenza!
Vergogna agli infami USA, Regno Unito, Unione Europea, NATO e ai loro governi
arabi amici, complici del massacro sionista!
SOLIDARIETÀ
ALLO YEMEN! SOLIDARIETÀ ALLA PALESTINA!
(primaveratriestina.org/limperialismo-americano-occidentale-colpisce-ancora-piena-solidarieta-al-popolo-yemenita/)
Il
muta forma "finale di partita"
di Netanyahu non è uno
stratagemma,
ma un ritorno
alla
precedente strategia sionista.
Unz.com
- ALASTAIR CROOKE – (22 GENNAIO 2024) – ci dice:
Il
defunto Ariel Sharon, un leader militare e politico israeliano di lunga data,
una volta confidò al suo caro amico Uri Dan che "gli arabi non avevano mai
ricevuto sinceramente la presenza di Israele... E così, una soluzione a due
Stati non era possibile, e nemmeno auspicabile".
Nella
mente di questi due – così come per la maggior parte degli israeliani di oggi –
c'è il "nodo
gordiano" che si trova al centro del sionismo: come mantenere i diritti
differenziati su un terreno fisico che include una grande popolazione
palestinese.
I
leader israeliani credevano che nell'approccio non convenzionale di Sharon di "ambiguità spaziale", Israele fosse vicino a
sviluppare una soluzione all'enigma della gestione dei diritti differenziati
all'interno di uno stato a maggioranza sionista, che include minoranze
sostanziali.
I palestinesi, molti israeliani credevano (fino a
poco tempo fa), venivano contenuti con successo in uno spazio politico e fisico
striato – e venivano persino "scomparsi" dal significato – solo perché Hamas, il 7 ottobre,
facesse saltare in aria l'intero paradigma elaborato.
Questo
evento ha innescato una paura diffusa ed esistenziale che il progetto sionista possa implodere, se le sue fondamenta eccezionaliste
sioniste venissero respinte da un'ampia resistenza pronta a portare la
questione in guerra.
Il
recente articolo del giornalista statunitense “Steve Inskeep” – La mancanza di strategia di Israele è
la strategia – mette a fuoco l'apparente paradosso:
mentre
Netanyahu è molto chiaro su ciò che non vuole, allo stesso tempo rimane
ostinatamente opaco su ciò che vuole come futuro per i palestinesi che vivono
su un terreno condiviso.
Per
coloro che pensano che la pace in Medio Oriente potrebbe (o dovrebbe) essere
l'obiettivo di Netanyahu, questa opacità appare come un grave
"difetto" per risolvere la crisi di Gaza.
Tuttavia,
se Netanyahu (sostenuto dal suo gabinetto e dalla maggioranza degli israeliani)
non offre alcuna strategia per la pace con i palestinesi, allora forse la sua
omissione non è "un difetto", ma è la sua caratteristica.
Per
capire l'ossimoro sottostante, bisogna capire perché “Ariel Sharon” e “Uri Dan”
"hanno detto quello che hanno detto", e capire come l'esperienza
militare di Sharon nella guerra del 1973 abbia effettivamente plasmato l'intero
paradigma palestinese.
Nel
2011 scrissi un articolo su “Foreign Policy” in cui postulavo che la nozione di
“Sharon” di Ambiguità Permanente Palestinese era – ed è stata – la principale risposta dei sionisti a
come aggirare il paradosso insito nel sionismo.
Trent'anni
dopo, è ancora in agguato in tutte le recenti dichiarazioni di Netanyahu (e dei leader israeliani di tutto lo
spettro politico).
Già
nel 2008, il ministro degli Esteri (e avvocato), “Tzipi Livni” , spiegava
perché "l'unica
risposta di Israele (alla questione di come mantenere il sionismo) era quella
di mantenere indefiniti i confini dello Stato – pur mantenendo le scarse
risorse idriche e terrestri – lasciando i palestinesi in uno stato di
incertezza permanente, dipendente dalla buona volontà israeliana ".
E ho
notato in un pezzo separato:
"Livni
diceva che voleva che Israele fosse uno stato sionista, basato sulla Legge del
Ritorno e aperto a qualsiasi ebreo.
Tuttavia,
per garantire un tale stato in un paese con un territorio molto limitato –
significa che la terra e l'acqua devono essere mantenute sotto il controllo
ebraico, con diritti differenziati per ebrei e non ebrei – diritti che
riguardano tutto, dall'alloggio e l'accesso alla terra, al lavoro, sussidi,
matrimoni e migrazioni".
Una
soluzione a due stati, quindi, non ha risolto il problema di come mantenere il
sionismo;
Piuttosto,
l'ha aggravata.
L'inevitabile richiesta di piena uguaglianza dei
diritti per i palestinesi porterebbe alla fine dei "diritti speciali"
ebraici e del sionismo stesso, sosteneva Livni – una minaccia con cui la
maggior parte dei sionisti è d'accordo.
La
risposta di “Sharon” a Questo Paradosso Finale, Tuttavia, è Stata Diversa:
Sharon
aveva un piano alternativo per gestire un vasto "gruppo esterno" non
ebraico, fisicamente presente all'interno di uno Stato sionista con diritti
differenziati.
L'alternativa di Sharon equivaleva a frustrare
una soluzione a due Stati entro confini fissi.
Ciò ha
suggerito un pensiero molto diverso, in contrasto con ciò che è stato a lungo
presunto dal consenso internazionale:
che
una soluzione a due Stati alla fine emergerebbe – qualunque cosa accada –
perché era nell'interesse demografico finale di Israele che ciò accadesse.
Le
radici dell'"alternativa" di Sharon affondano nel suo pensiero
militare radicalmente non ortodosso su come difendere il Sinai allora occupato
dall'esercito egiziano durante la guerra con l'Egitto nel 1973.
L'esito
della guerra arabo-israeliana del 1973 confermò pienamente la “dottrina di
Sharon” di una rete di difesa basata su una matrice di punti di forza elevati
sparsi per tutta la profondità del Sinai – una struttura che agiva come una
"trappola" spaziale estesa fornendo agli israeliani un alto livello
di mobilità, paralizzando al contempo il nemico intrappolato nella sua matrice
di punti forti interconnessi.
(Se il
lettore nota la somiglianza di approccio con i loci strategici israeliani dei
"punti forti" degli insediamenti sparsi oggi in Cisgiordania, non è
una coincidenza!).
Nel
1982, Sharon elaborò la sua.
Il
successo di questa strategia l'ha quindi trasposta dall'essere una struttura
difensiva essenzialmente militare (per paralizzare i palestinesi all'interno di una
matrice di punti di forza dell'IDF) a diventare successivamente la base
per la gestione dei palestinesi in modo più ampio.
Nel corso degli anni sarebbe diventata più
repressiva, più iniqua e risentita.
E alla fine, ha seminato la soluzione dei due
stati dell'apartheid.
Quando
“Ariel Sharon” ha "trascinato" i bordi della linea di confine di
Israele e li ha "calati" su entrambi i lati della Cisgiordania, in
effetti stava dicendo che i coloni della Cisgiordania sono la linea di
frontiera spazialmente estesa del territorio pre-1967, tanto quanto aveva
allungato la frontiera di Israele attraverso le matrici dei punti forti nel
Sinai.
Questo
era esattamente il punto della sua visione:
non
importa se Israele è la terra pre-1967 o quella post-1967:
tutti i confini erano fluidi e mutevoli, a suo
avviso.
La "frontiera" estesa, elastica,
permeabile e a matrice di Sharon ha così dato inizio al processo – nella sfera
militare – di confondere le distinzioni tra un interno e un esterno politico.
Questa, insieme al concetto di Sharon di
spazio "mancato di rispetto", divenne la dottrina militare israeliana
consolidata.
"Vogliamo affrontare lo spazio striato
della pratica militare tradizionale e vecchio stile con una fluidità che consenta il
movimento attraverso lo spazio e che attraversi qualsiasi confine e barriera
senza impedimenti.
Piuttosto
che contenere e organizzare le nostre forze secondo i confini esistenti,
vogliamo attraversarli", ha osservato nel 2006 un alto ufficiale israeliano.
Fondamentalmente,
la confusione tra spazio stabilito e delimitato si è gradualmente diffusa dal
mondo militare alla sfera politica israeliana. Inoltre, il principio di confondere
ciò che è interno con ciò che è esterno è stato esteso allo spazio politico e
giuridico dei Territori palestinesi occupati.
Ha
permesso la creazione di uno spazio a due livelli, sottoponendo gli ebrei israeliani e
gli arabi palestinesi ciascuno a diverse matrici di mobilità e trattamento
amministrativo.
Lo
spazio giuridico e amministrativo differenziato consolidò così anche il
principio politico sionista dei diritti politici differenziali.
Questo
sistema a due livelli prevede l'esclusione politica dei palestinesi, ma mantiene la dipendenza e
l'inclusione legale dei palestinesi sotto l'apparato di controllo israeliano.
Si
tratta essenzialmente di un sistema di eccezione sovrana di cui si sono occupati filosofi come
“Carl Schmitt” e “Giorgio Agamben”.
Avanti
veloce fino ad oggi:
una
volta reso esplicito che l'obiettivo primario è quello di mantenere il
sionismo, tutto ciò che Netanyahu sta facendo allora avrà senso.
Il
nocciolo del problema è immutato:
la contraddizione intrinseca di uno stato
sionista eccezionalista che incorpora un sostanziale gruppo esterno non ebraico
senza diritti – sia esso detenuto nel ghetto recintato di Gaza, o in una
"matrice roccaforte dei coloni" della Cisgiordania – è diventato
insostenibile.
Allo
stesso modo, anche le risposte politiche dell'Occidente dovranno essere
riviste.
Le
banalità ben intenzionate sulla "soluzione" dei due Stati sono
arrivate troppo tardi con anni.
Troppa
acqua è passata sotto i ponti.
Piuttosto, l'Occidente potrebbe iniziare a
considerare le implicazioni della sconfitta per coloro che hanno abbracciato
una parte di questo conflitto.
Non è
solo Israele a Gaza ad essere sul banco degli imputati dell'Aia, anche molto
altro lo è (dal
punto di vista del Sud del mondo).
Questa
"inclusione escludente" israeliana avrebbe potuto davvero persistere?
Dopotutto,
il sistema politico tecno-spaziale sharonita, malgrado la sua pretesa di
legittimità filosofica, non è altro che un'evoluzione del paradigma associato a
uno stratega sionista chiave,
“Vladimir
Jabotinsky”:
cioè un modo diverso di rendere e vedere i
palestinesi ' scomparire'.
E se
l'out-group palestinese non può essere fatto "scomparire" da
costrutti tecno-spaziali, non sarebbe sorprendente se la logica della
situazione riportasse Netanyahu e il suo governo alla strategia originale di
Sharon di radicale mancanza di rispetto per lo spazio militare e politico dei
confini – per sorprendere e creare una trappola spaziale estesa per i
palestinesi (proprio come fece Sharon con l'esercito egiziano).
"Israele
è lo Stato del popolo ebraico", sottolineava la “Livni” nel 2008 –
sottolineando il 'confine' sionista – "e vorrei sottolineare il
significato di "il suo popolo" è il popolo ebraico, con Gerusalemme
la capitale unita e indivisa di Israele e del popolo ebraico per 3007
anni".
I
quattro cavalieri
dell'Apocalisse
di Gaza.
Unz.com – Cris Hedges - SIEPI DI CHRIS - (21 GENNAIO 2024) – ci dice:
Joe
Biden si affida a consiglieri che vedono il mondo attraverso il prisma della
missione civilizzatrice dell'Occidente nei confronti delle "razze
minori" della terra per formulare le sue politiche nei confronti di
Israele e del Medio Oriente.
La
cerchia ristretta di strateghi per il Medio Oriente di “Joe Biden” – “Antony
Blinken”, “Jake Sullivan” e “Brett McGurk” – ha poca comprensione del mondo
musulmano e una profonda animosità nei confronti dei movimenti di resistenza
islamica.
Vedono
l'Europa, gli Stati Uniti e Israele come coinvolti in uno scontro di civiltà
tra l'Occidente illuminato e un Medio Oriente barbarico.
Credono che la violenza possa piegare i palestinesi e
gli altri arabi alla loro volontà.
Sostengono
la schiacciante potenza di fuoco delle forze armate statunitensi e israeliane
come chiave per la stabilità regionale – un'illusione che alimenta le fiamme
della guerra regionale e perpetua il genocidio a Gaza.
In
breve, questi quattro uomini sono gravemente incompetenti.
Si
uniscono al club di altri leader incapaci, come quelli che si lanciarono nel
massacro suicida della Prima Guerra Mondiale, si tuffarono nel pantano del
Vietnam o che orchestrarono la serie di recenti disfatte militari in Iraq,
Libia, Siria e Ucraina.
Sono
dotati del potere presunto conferito al ramo esecutivo di aggirare il
Congresso, fornire armi a Israele ed effettuare attacchi militari nello Yemen e
in Iraq.
Questa
“cerchia ristretta di veri credenti” respinge i consigli più sfumati e
informati del” Dipartimento di Stato” e delle “comunità di intelligence”, che
considerano sconsiderato e pericoloso il rifiuto dell'amministrazione Biden di
fare pressione su Israele per fermare il genocidio in corso.
Biden
è sempre stato un ardente militarista:
invocava
la guerra con l'Iraq cinque anni prima dell'invasione degli Stati Uniti.
Ha
costruito la sua carriera politica soddisfacendo il disgusto della classe media
bianca per i movimenti popolari, compresi i movimenti contro la guerra e per i
diritti civili, che sconvolsero il paese negli anni '60 e '70.
È un
repubblicano mascherato da democratico.
Si unì
ai segregazionisti del sud per opporsi all'ingresso degli studenti neri nelle
scuole per soli bianchi.
Si è
opposto ai finanziamenti federali per gli aborti e ha sostenuto un emendamento
costituzionale che consente agli stati di limitare gli aborti.
Nel 1989 attaccò il presidente George HW Bush
per essere stato troppo morbido nella "guerra alla droga".
È
stato uno degli artefici della legge sulla criminalità del 1994e di una serie
di altre leggi draconiane che hanno più che raddoppiato la popolazione
carceraria degli Stati Uniti, militarizzato la polizia e promosso leggi sulla
droga che prevedevano l'incarcerazione a vita senza condizionale.
Sostenne l'”Accordo di libero scambio
nordamericano”, il più grande tradimento della classe operaia dai tempi della
legge “Taft-Hartley del 1947”.
È
sempre stato uno strenuo difensore di Israele, vantandosi di aver raccolto più
fondi per l'AIPAC
(American Israel Public Affairs Committee) di qualsiasi altro senatore.
Pur
ripudiando Donald Trump e la sua amministrazione, Biden non ha annullato
l'abrogazione da parte di Trump dell'accordo sul nucleare iraniano negoziato da
Barack Obama, né le sanzioni di Trump contro l'Iran.
Ha abbracciato gli stretti legami di Trump con
l'Arabia Saudita, inclusa la riabilitazione del principe ereditario e primo
ministro “Mohammed bin Salman”, in seguito all'assassinio del giornalista
saudita “Jamal Khashoggi” nel 2017 nel consolato dell'Arabia Saudita a
Istanbul.
Non è intervenuto per frenare gli attacchi
israeliani contro i palestinesi e l'espansione degli insediamenti in
Cisgiordania.
Non ha
annullato lo spostamento dell'ambasciata americana a Gerusalemme da parte di
Trump, sebbene l'ambasciata includa terre che Israele ha colonizzato
illegalmente dopo aver invaso la Cisgiordania e Gaza nel 1967.
Come
senatore del Delaware per sette mandati, Biden ha ricevuto più sostegno
finanziario da donatori filo-israeliani rispetto a qualsiasi altro senatore,
dal 1990.
Biden
conserva questo record nonostante il fatto che la sua carriera senatoriale sia
terminata nel 2009, quando è diventato vicepresidente di Obama.
Biden
spiega il suo impegno nei confronti di Israele come "personale" e
"politico".
Ha
ripetuto a pappagallo la propaganda israeliana – comprese le invenzioni sui
bambini decapitati e gli stupri diffusi di donne israeliane da parte dei
combattenti di Hamas – e ha chiesto al Congresso di fornire 14 miliardi di
dollari in aiuti aggiuntivi a Israele dopo l'attacco del 7 ottobre.
Ha
aggirato due volte il Congresso per fornire a Israele migliaia di bombe e
munizioni, comprese almeno 100 bombe da 2.000 libbre, utilizzate nella campagna
della terra bruciata a Gaza.
E
tutto potrebbe finire se gli Stati Uniti scegliessero di intervenire.
"Tutti i nostri missili, le munizioni,
le bombe a guida di precisione, tutti gli aeroplani e le bombe, provengono
tutti dagli Stati Uniti", ha detto al “Jewish News Syndicate” il maggiore
generale israeliano in pensione “Yitzhak Brick”.
"Nel momento in cui chiudono il
rubinetto, non puoi continuare a combattere.
Non
hai alcuna capacità... Tutti capiscono che non possiamo combattere questa
guerra senza gli Stati Uniti. In questo Periodo."
“Blinken”
era il principale consigliere di politica estera di “Biden” quando Biden era il
democratico in classifica nel comitato per le relazioni estere.
Lui, insieme a Biden, ha fatto pressioni per
l'invasione dell'Iraq.
Quando era vice consigliere per la sicurezza
nazionale di Obama, ha sostenuto il rovesciamento di” Muammar Gheddafi in Libia
nel 2011”.
Si è
opposto al ritiro delle forze americane dalla Siria.
Ha
lavorato al “disastroso Piano Biden “per spartire l'Iraq secondo” linee etniche”.
"All'interno
della Casa Bianca di Obama, “Blinken” ha svolto un ruolo influente
nell'imposizione di sanzioni contro la Russia per l'invasione della Crimea e
dell'Ucraina orientale nel 2014, e successivamente ha lanciato appelli, alla
fine infruttuosi, agli Stati Uniti per armare l'Ucraina", secondo “Il Consiglio Atlantico, il
comitato della NATO”, ossia il” think
tank” non ufficiale.
Quando”
Blinken” sbarcò in Israele in seguito agli” attacchi di Hamas e altri gruppi di
resistenza” il 7 ottobre, annunciò in una conferenza stampa con il primo
ministro “Benjamin Netanyahu”:
"Sono
qui davanti a voi non solo come Segretario di Stato degli Stati Uniti, ma anche
come Ebreo".
Ha
tentato, per conto di Israele, di fare pressione sui leader arabi affinché
accettassero i 2,3 milioni di profughi palestinesi che Israele intende
effettuare la pulizia etnica da Gaza, una richiesta che ha suscitato
indignazione tra i leader arabi.
“Sullivan”,
il consigliere per la sicurezza nazionale di “Biden”, e “Mc Gurk”, sono
consumati opportunisti, burocrati machiavellici che si rivolgono ai centri di
potere regnanti, inclusa la” lobby israeliana”.
“Sullivan”
è stato il principale artefice del “perno asiatico di Hillary Clinton.
Ha
sostenuto l'accordo di partenariato transpacifico sui diritti delle imprese e
degli investitori, che è stato venduto come un aiuto agli Stati Uniti per
contenere la Cina.
Trump alla fine ha ucciso l'accordo
commerciale di fronte all'opposizione di massa da parte dell'opinione pubblica
americana.
Il suo obiettivo è contrastare la crescita
della Cina, anche attraverso l'espansione delle forze armate statunitensi.
Anche
se non si concentra sul Medio Oriente, “Sullivan” è un falco della politica
estera che abbraccia istintivamente la forza per modellare il mondo secondo le
richieste degli Stati Uniti.
Abbraccia il keynesismo militare, sostenendo
che la massiccia spesa pubblica nell'industria degli armamenti avvantaggia
l'economia nazionale.
In un
saggio di 7.000 parole per la rivista “Foreign Affairs” pubblicato cinque
giorni prima degli attacchi del 7 ottobre, che provocarono la morte di circa
1.200 israeliani, Sullivan rivelò la sua mancanza di comprensione delle
dinamiche del Medio Oriente.
"Sebbene
il Medio Oriente rimanga irto di sfide perenni", scrive nella versione
originale del saggio, "la regione è più tranquilla di quanto lo sia stata
per decenni", aggiungendo che, a fronte di "gravi" attriti,
"abbiamo “de escalation” della crisi a Gaza".
“Sullivan” ignora le aspirazioni
palestinesi e il sostegno retorico di Washington alla soluzione dei due Stati
nell'articolo, frettolosamente riscritto nella versione online dopo gli
attacchi del 7 ottobre.
Scrive
nel suo pezzo originale:
In un
incontro a Jeda, in Arabia Saudita, lo scorso anno, il presidente ha esposto la
sua politica per il Medio Oriente in un discorso ai leader dei membri del
Consiglio di cooperazione del Golfo, Egitto, Iraq e Giordania. Il suo approccio
restituisce disciplina alla politica statunitense.
L'accento è posto sulla deterrenza delle
aggressioni, sulla riduzione dei conflitti e sull'integrazione della regione
attraverso progetti infrastrutturali congiunti e nuove partnership, anche tra
Israele e i suoi vicini arabi.
“Mc Gurk”,
vice assistente del presidente Biden e coordinatore per il Medio Oriente e il
Nord Africa presso il “Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca”, è
stato uno dei principali artefici dell'"impennata" di Bush in Iraq,
che ha accelerato lo spargimento di sangue.
Ha
lavorato come consulente legale per l'”Autorità Provvisoria della Coalizione” e
per l'ambasciatore degli Stati Uniti a Baghdad.
Poi è
diventato lo zar anti-Isis di Trump.
Non
parla arabo – nessuno dei quattro uomini lo parla – ed è arrivato in Iraq senza
conoscere la sua storia, i suoi popoli o la sua cultura.
Ciononostante, ha contribuito a redigere la
costituzione provvisoria dell'Iraq e ha supervisionato la transizione legale
dall'Autorità provvisoria della coalizione a un governo iracheno ad interim
guidato dal primo ministro “Ayad Allawi”.
“Mc Gurk”
è stato uno dei primi sostenitori di “Nouri al-Maliki”, che è stato primo
ministro iracheno tra il 2006 e il 2014.
“Al-Maliki”
costruì uno stato settario controllato dagli sciiti che alienò profondamente
gli arabi sunniti e i curdi.
Nel 2005, Mc Gurk si è trasferito al Consiglio
di Sicurezza Nazionale (NSC), dove ha servito come direttore per l'Iraq, e
successivamente come assistente speciale del presidente e direttore senior per
l'Iraq e l'Afghanistan.
Dal
2005 al 2009 ha fatto parte dello staff dell'NSC.
Nel
2015 è stato nominato inviato dalla Presidenza Speciale di Obama alla
Coalizione Globale Contro l'ISIS.
È stato trattato da Trump fino alle sue
dimissioni nel dicembre 2018.
Un
articolo dell'aprile 2021 intitolato "Brett Mc Gurk: A Hero of Our Times
", pubblicato sulla rivista “New Lines “dall'ex corrispondente estero
della “BBC” “Paul Wood”, dipinge un ritratto feroce di McGurk. “Legno” scrive:
Un
alto diplomatico occidentale che ha prestato servizio a Baghdad mi ha detto che
Mc Gurk è stato un vero disastro per l'Iraq.
"È un esperto operatore a Washington, ma
non ho visto alcun segno che fosse interessato agli iracheni o all'Iraq come
luogo pieno di persone vere.
Per
lui era semplicemente una sfida burocratica e politica".
Un
critico che era a Baghdad con Mc Gurk lo definì Machiavelli reincarnato.
"Ci vogliono l'intelletto, l'ambizione e
l'assoluta spietatezza per crescere, a qualunque costo."
[....]
Un
diplomatico americano che si trovava nell'ambasciata quando “Mc Gurk” arrivò,
trovò sorprendente la sua costante avanzata.
"Brett
incontra solo persone che parlano inglese. ... Ci sono circa quattro persone
nel governo che parlano inglese.
E in
qualche modo ora è lui la persona che dovrebbe decidere il destino dell'Iraq?
Come è
potuto succedere?"
Anche
coloro a cui non piaceva “Mc Gurk” dovettero ammettere che aveva un intelletto
formidabile ed era un gran lavoratore.
Era
anche uno scrittore di talento, non a caso dato che aveva lavorato per il “presidente
della Corte Suprema” “William Rehnquist”.
La sua ascesa rispecchiava quella di un
politico iracheno di nome “Nouri al-Maliki”, un carrierista che aiutava
l'altro.
Questa è la tragedia di McGurk – e dell'Iraq.
[....]
I
critici di “Mc Gurk” dicono che la sua mancanza di arabo gli ha fatto perdere
le sfumature feroci e settarie di ciò che “al-Maliki “stava dicendo nelle
riunioni fin dall'inizio.
I
traduttori censuravano o non riuscivano a tenere il passo.
Come molti americani in Iraq, “Mc Gurk” era
sordo a ciò che stava accadendo intorno a lui.
“Al-Maliki”
è stato la conseguenza di due errori degli Stati Uniti.
Quanto” Mc Gurk” ha avuto a che fare con loro
rimanendo controverso.
Il
primo errore è stato la "soluzione dell'80 per cento" per governare
l'Iraq.
Gli
arabi sunniti stavano organizzando una sanguinosa insurrezione, ma erano solo
il 20% della popolazione.
La teoria era che si poteva governare l'Iraq con i
curdi e gli sciiti.
Il
secondo errore è stato quello di identificare gli sciiti con i partiti
religiosi sostenuti dall'Iran.
“
Al-Maliki”, membro del partito religioso “Da'wa”, ne è stato il beneficiario.
In un articolo
pubblicato su “Huff Post” nel maggio 2022 da “Akbar Shahid Ahmed”, intitolato
"Il
principale consigliere di Biden per il Medio Oriente ha dato fuoco alla casa e
si è presentato con una manichetta antincendio",
Mc Gurk
è descritto da un collega, che ha chiesto di restare anonimo, come "il burocrate più talentuoso che
abbiano mai visto, con il peggior giudizio sulla politica estera che abbiano
mai visto.
“Mc Gurk”,
come altri nell'amministrazione” Biden”, è stranamente concentrato su ciò che
verrà dopo la campagna genocida di Israele, piuttosto che cercare di fermarla.
Mc Gurk
ha proposto di negare gli aiuti umanitari e di rifiutarsi di attuare una pausa
nei combattimenti a Gaza finché tutti gli ostaggi israeliani non fossero stati
liberati.
Biden
e i suoi tre più stretti consiglieri politici hanno chiesto all'Autorità
Palestinese – un regime fantoccio israeliano disprezzato dalla maggior parte
dei palestinesi – di prendere il controllo di Gaza una volta che Israele avrà
finito di livellarla.
Hanno
invitato Israele – dal 7 ottobre – a compiere passi verso una soluzione a due
Stati, un piano respinto in un umiliante rimprovero pubblico alla Casa Bianca
di Biden da parte di Netanyahu.
La “Casa
Bianca “di Biden passa più tempo a parlare con israeliani e sauditi, che
subiscono pressioni per normalizzare le relazioni con Israele e aiutare a
ricostruire Gaza, che con i palestinesi, che nella migliore delle ipotesi sono
un ripensamento.
Ritiene che la chiave per porre fine alla resistenza
palestinese si trovi a “Riyadh”, riassunta in un documento top-secret diffuso
da “Mc Gurk chiamato "Patto Gerusalemme-Jedda", ha l'”Huff Post”.
Non è
in grado o non vuole frenare la sete di sangue di Israele, che comprendeva
attacchi missilistici in un quartiere residenziale di Damasco, in Siria, che
sabato ucciso cinque consiglieri militari del Corpo delle Guardie
rivoluzionarie islamiche iraniane, e un nel sud del Libano domenica, che ha
ucciso due persone. Tutti membri anziani di Hezbollah.
Queste
provocazioni israeliane non rimarranno senza risposta, come dimostrano i
missili balistici e i razzi domenica dai militanti nell'Iraq occidentale che
hanno preso di mira il personale americano di stanza nella base aerea di
al-Assad.
L'idea
di Alice nel Paese delle Meraviglie che, una volta terminato il massacro di
Gaza, un patto diplomatico tra Israele e Arabia Saudita sarà la chiave per la
stabilità regionale è stupefacente.
Le
politiche abbracciate dall'amministrazione Biden non solo ignorano allegramente
la realtà del mondo arabo, ma anche la realtà di uno stato israeliano
estremista che, con il Congresso comprato e pagato dalla lobby israeliana, non
potrebbe fregarsene di meno di ciò che sogna la Casa Bianca di Biden su tutto.
Israele non ha intenzione di creare uno Stato
palestinese vitale.
Il suo
obiettivo è la pulizia etnica dei 2,3 milioni di palestinesi di Gaza e
l'annessione di Gaza da parte di Israele.
E
quando Israele avrà finito con Gaza, si rivolgerà alla Cisgiordania, dove i
raid israeliani ora avvengono quasi di notte e dove migliaia sono stati
arrestati e detenuti senza accusa dal 7 ottobre.
Coloro
che gestiscono lo spettacolo alla Casa Bianca di Biden stanno inseguendo gli
arcobaleni.
La marcia della follia guidata da questi
quattro topi ciechi perpetua la sofferenza catastrofica dei palestinesi,
alimenta una guerra regionale e presagisce un altro capitolo tragico e
autodistruttivo nei due decenni di fiaschi militari statunitensi in Medio
Oriente.
(Chris
Hedges è un giornalista vincitore del Premio Pulitzer che è stato
corrispondente estero per quindici anni per il New York Times, dove ha
ricoperto il ruolo di capo dell'ufficio per il Medio Oriente e capo
dell'ufficio per i Balcani per il giornale. In precedenza ha lavorato
all'estero per IL Dallas Morning News, The Christian Science Monitor e NPR. È
il conduttore dello spettacolo The Chris Hedges Report.)
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