La sfida dei globalisti super ricchi all’umanità dei poveri.
La sfida
dei globalisti super ricchi all’umanità dei poveri.
"Brusca
battuta d'arresto":
la
Casa Bianca certifica
lo
stop ai fondi per Kiev.
msn.com
– il giornale - Federico Giuliani – (12-1-2024) – ci dice:
Nonostante
le esplicite richieste di Joe Biden, che nei giorni scorsi aveva esortato il
Congresso ad approvare nuovi aiuti da destinare all'Ucraina alla luce degli
ultimi attacchi missilistici russi, alla fine gli Stati Uniti sono stati
costretti, almeno per il momento, ad interrompere le forniture di armi e
attrezzature militari a Kiev.
La decisione di Washington è stata influenzata
dalla mancanza di adeguati fondi di bilancio per adempiere tali programmi.
La
conferma definitiva è arrivata da parte del coordinatore per le comunicazioni
strategiche del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, “John
Kirby”, che nel corso di un briefing con i giornalisti ha ribadito la battuta
d’arresto degli Usa.
Il Congresso ha una settimana di tempo per
negoziare eventuali nuovi aiuti all'Ucraina.
Avrà
quindi tempo fino al prossimo 19 gennaio per finalizzare il tutto, quando
scatterebbe un primo parziale “shut down”.
La
decisione degli Usa.
"È
di fondamentale importanza che il “Congresso degli Stati Uniti” agisca in base
a questa richiesta di sicurezza nazionale per ulteriori fondi di bilancio per
l'Ucraina in modo da ricevere ulteriori finanziamenti",
ha affermato Kirby.
"L'aiuto
che abbiamo fornito è ormai giunto a una brusca battuta d'arresto", ha
sottolineato l’alto funzionario statunitense.
I
repubblicani pochi giorni fa hanno bloccato l'approvazione dei nuovi fondi,
pari a 61 miliardi di dollari, per l'Ucraina.
Avrebbero
dato il loro via libera soltanto a fronte di drastici cambiamenti in materia di
immigrazione e asilo.
E
pensare che Biden in persona aveva ricordato l'essenzialità dell'aiuto
americano e degli altri alleati per Kiev.
"Il popolo americano può essere
orgoglioso delle vite che ha aiutato a salvare e il sostegno che abbiamo dato
all'Ucraina per la difesa del proprio popolo, la sua libertà e la sua
indipendenza",
aveva spiegato il presidente.
A
quanto pare le sue richieste non sono state esaudite.
Lo
scorso 27 dicembre, gli Usa avevano annunciano l’ultimo pacchetto di armi ed
equipaggiamenti dell’anno per l’Ucraina.
"La nostra assistenza è stata fondamentale per
sostenere i nostri alleati ucraini mentre difendono il loro Paese e la loro
libertà dall’aggressione della Russia", aveva dichiarato nell'occasione il
segretario di Stato “Antony Blinken”.
Per la
cronaca, il pacchetto prevedeva fino a 250 milioni di dollari in armi e
attrezzature, comprese munizioni per la difesa aerea, altri componenti del
sistema di difesa aerea, munizioni aggiuntive per sistemi missilistici di
artiglieria ad alta mobilità, munizioni di artiglieria da 155 mm e 105 mm,
munizioni anti-corazzate e oltre 15 milioni di colpi di munizioni.
Armi
non rintracciate.
Nel
frattempo un rapporto del dipartimento della Difesa ha evidenziato come il
Pentagono non sia riuscito a rintracciare correttamente più di 1 miliardo di
dollari di armi fornite dagli Stati Uniti all'Ucraina.
Questo, ha scritto il “Financial Times”,
potrebbe alimentare le preoccupazioni sul fatto che le suddette armi possano
essere state dirottate da Kiev in un momento in cui, come detto, il Congresso non sembrerebbe essere
intenzionato ad inviare più aiuti militari al governo guidato da” Volodyyr
Zelensky”.
Secondo
i documenti, gli Usa non avrebbero monitorato una parte degli armamenti forniti
agli ucraini da quando è scoppiato il conflitto.
Le esportazioni coperte dal rapporto includono
missili a spalla come “Javelin” e “Stinger”, droni “switchblade “o “kamikaze” e
occhiali per la visione notturna.
L'attrezzatura
designata per il cosiddetto monitoraggio avanzato dell'uso finale, tra l’altro,
copre solo una piccola parte degli oltre 44 miliardi di dollari di aiuti letali
che gli Stati Uniti hanno consegnato all’Ucraina.
L’1%
dei super ricchi emette
quanto
due terzi dell’umanità.
Qualeenergia.it - Redazione QualEnergia.it – (22
Novembre 2023) – ci dice:
Un
report Oxfam mostra le disuguaglianze in termini di impatto ambientale e chiede
di tassare al 60% i redditi delle élite.
Ogni
anno, le emissioni di anidride carbonica dell’1% più ricco della popolazione
mondiale annullano il risparmio di CO2 derivante da quasi un milione di turbine
eoliche.
Nel
2019 questa minuscola élite ha prodotto una quantità di emissioni di CO2 pari a
quella di cinque miliardi di persone (ossia i due terzi dell’umanità).
Sono i
dati sulla disparità e l’ingiustizia ambientale contenuti nell’ultimo rapporto
Oxfam “Climate
equality, a planet for the 99%”, secondo il quale tra il 2020 e il 2030 queste
emissioni dell’1% più ricco causeranno 1,3 milioni di morti in eccesso legate
al caldo.
Un numero più o meno equivalente alla
popolazione di Dublino.
“I
super-ricchi stanno saccheggiando e inquinando il pianeta fino al punto di
distruggerlo, lasciando l’umanità soffocata dal caldo estremo, dalle
inondazioni e dalla siccità”,
ha affermato “Amitabh Behar”, direttore
esecutivo ad interim di “Oxfam International”.
“Per anni abbiamo combattuto per porre
fine all’era dei combustibili fossili per salvare milioni di vite e il nostro
pianeta – ha aggiunto – ma appare più chiaro che mai che ciò sarà impossibile
finché non verrà posta fine all’era della ricchezza estrema”.
L’indagine
Oxfam si basa su una ricerca dello “Stockholm Environment Institute” e valuta
le emissioni derivanti dai consumi di diversi gruppi di reddito nel 2019,
l’anno più recente per il quale sono disponibili dati.
Dal
rapporto emerge il netto divario tra la “carbon footprint” dei super-ricchi – i cui stili di vita affamati di
carbonio e gli investimenti in industrie inquinanti stanno alimentando il
riscaldamento globale – e la maggior parte delle persone in tutto il mondo.
Per
fare alcuni esempi che rendano meglio l’idea di questa sproporzione, basti
pensare che l’1% più ricco (77 milioni di persone) è stato responsabile del 16%
delle emissioni derivanti dai consumi globali nel 2019, più di tutte le
emissioni delle automobili e dei trasporti stradali.
La
metà delle emissioni complessive era in capo al 10% più ricco.
Ci
vorrebbero circa 1.500 anni – afferma lo studio – affinché qualcuno che si
trova nel 99% più povero della popolazione produca tanta CO2 quanto quello dei
miliardari più ricchi in un anno.
Un
dato che va a minare i principali obiettivi ambientali internazionali, come l’”Accordo
di Parigi”:
dagli anni ’90 l’élite ricca ha utilizzato il doppio
della CO2 che era possibile bruciare senza aumentare la temperatura globale al
di sopra del limite di sicurezza di 1,5 °C, rispetto alla metà più povera
dell’umanità.
Il rapporto rileva inoltre gli effetti di queste
disparità sulle comunità più sensibili al cambiamento climatico, in particolare
del Sud del mondo:
in quei luoghi sette volte più persone muoiono a causa
delle inondazioni.
Oxfam
chiede che le emissioni eccessive dei super-ricchi vengano prese di mira dai
governi, che possano poi investire il ricavato nei servizi pubblici:
una tassa del 60% sui redditi dell’1% più
ricco, ridurrebbe le emissioni più del totale di quelle imputabili al Regno
Unito e consentirebbe di raccogliere 6,4mila miliardi di dollari all’anno per
pagare la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili.
Il
piano dell’associazione prevede quindi la ridistribuzione globale dei redditi,
l’eliminazione dei combustibili fossili “in modo rapido ed equo”,
l’introduzione di nuove tasse sulle aziende e sui miliardari e la fine
dell’utilizzo del Pil come misura del progresso umano.
Come i
miliardari vogliono salvarsi
dalla
fine del mondo distruggendolo.
Mountinwilderness.it
– Redazione MW - Italia - Alessio Giacometti - (19 Luglio 2023) – ci dice:
Un
manipolo di ultraricchi convoca un noto futurologo in un resort di extra lusso
nel deserto.
A
ossessionarli è ciò che chiamano “l’Evento”, il collasso della civiltà cui si
preparano da tempo senza riuscire a risolvere alcune questioni dirimenti:
come
mantenere l’autorità sui propri accoliti quando il mondo precipiterà nel caos?
Cosa
offrire ai servitori in cambio di fedeltà e protezione?
Come impedire diserzioni e rivolte?
I
magnati ipotizzano collari per il controllo umano, robo-guardie, c’è chi
propone persino il sequestro delle scorte alimentari.
Riconoscono apertamente che equipaggiare il
più inaccessibile dei bunker per l’apocalisse non servirà a nulla, se non
saranno pronti anche a gestire l’imprevedibilità del comportamento altrui.
Il
futurologo rimane interdetto.
E le
risposte che dà non soddisfano il gruppo di ultraricchi.
Non
sta prendendo sufficientemente sul serio le nostre preoccupazioni, pensano
loro.
Così
com’è arrivato il futurologo se ne va, con una scoperta decisiva però:
che l’anarco-individualismo esasperato degli
ultraricchi non solo è d’ostacolo alla mitigazione della crisi climatica,
rischia anche di pregiudicare le iniziative collettive di adattamento al clima
che si scalda.
Protagonista
della vicenda descritta qui sopra è Douglas Rushkoff,” docente di media studies
al “Queens College di New York” e autore di “Solo i più ricchi”.
“ Come
i tecno-miliardari scamperanno alla catastrofe lasciandoci qui” (Luiss
University Press, 2023), che si apre appunto col racconto in prima persona del
consulto avuto con la congrega di “prepor “ miliardari. Quello dei rifugi
anti-apocalittici – in versione esclusiva e militarizzata per i più abbienti,
cooperativa e autosufficiente per le piccole comunità della classe media – è un
business in spettacolare ascesa, soprattutto nell’America borghese, cristiana,
repubblicana, che da sempre coltiva paranoia sulla” fine del mondo” o il
“tramonto dell’Occidente”.
Di
peculiare, nel survivalismo praticato dai miliardari, c’è che i loro bunker
superattrezzati non sono semplici rifugi, caverne luxury per superstiti
facoltosi:
parlano
sfacciatamente di una forma mentis che concepisce l’adattamento in maniera
competitiva, individualistica, difensiva, ostile nei confronti della vita e
disconnessa dal resto società.
Una
mentalità da” survival of the richest” che, commenta “Rushkoff”, in un mondo
trasformato dai cambiamenti climatici “ci fa immaginare un’esistenza più
simile a quella in una fortezza ben difesa che a quella in un’oasi
accogliente”.
Il
libro di “Rushkoff” è una sortita allucinata all’interno di questa specifica
mentalità degli ultraricchi di fronte alla sfida dell’adattamento, un habitus
sfrontato e prevaricante che l’autore stesso chiama “Mindset” e definisce così:
il “Mindset si basa su uno scientismo del
tutto ateo e materialista, che crede che la tecnologia possa risolvere ogni
problema, (…) ritiene i rapporti umani un fenomeno di mercato, teme la natura e
le donne, pensa che i contributi del singolo non debbano nulla al passato e
mira a “neutralizzare l’ignoto dominandolo e privandolo di anima”.
Mossi
da un simile orizzonte mentale, i super-ricchi sono convinti che la crisi
climatica non sia una loro colpa, che un sovrappiù di tecnologia basterà a
rimettere le cose a posto, che la catastrofe rappresenti una nuova opportunità
per fare affari, che in caso di collasso loro stessi meritino di salvarsi più
di chiunque altro, che avranno vita lunga nella “tecno-bolla” dei loro bunker
iper-artificiali, che un “piano B” sarà sempre possibile con una fuga nello
spazio e la fondazione di una nuova civiltà in qualche remoto esopianeta.
A
detta di “Rushkoff” e di chi scrive, è una visione della crisi climatica e dei
modi di fronteggiarla quanto mai sviante e pericolosa.
Per
lungo tempo i super-ricchi sono stati i più tenaci araldi del negazionismo
climatico, oggi non più difendibile e perciò rimpiazzato dall’altrettanto
subdolo “ritardismo”:
un atteggiamento strategico che mira a
prolungare quanto più possibile il” business as usual” ostacolando i
cambiamenti necessari o procrastinando indefinitamente le misure urgenti per la
“decarbonizzazione”.
Quando si tratta di mitigare l’impatto
ambientale, gli ultraricchi tendono a favorire interventi minimi e
conservativi, enfatizzano gli svantaggi economici delle politiche socialmente
più trasformative, oppure spingono per enormi soluzioni tecnologiche e di
mercato al riscaldamento globale che ribaltino la situazione collocandoli
nuovamente in una posizione di vantaggio competitivo.
Fatto equivoco, le soluzioni avveniristiche
che caldeggiano promettono di realizzare un salto evolutivo per il progresso
della specie e finiscono immancabilmente per concentrare nelle loro mani sempre
maggiore ricchezza.
Il “Mindset” è una strategia di
ultra-accelerazione ma senza alcuna destinazione, ha fatto notare “Malcom
Harris” in un’intervista a “Rushkoff” apparsa su “Wired”:
“è come voler costruire un auto tanto veloce
da sfuggire ai fumi del proprio scappamento”.
Oggigiorno,
come ricordato da “Andrew Hunter Murray” sul “Financial Times”, non c’è
praticamente miliardario che non abbia elaborato un proprio personalissimo
piano per salvare il pianeta.
Il più ricco tra i ricchi,” Elon Musk”, ha
lanciato una competizione con un premio da 100 milioni di dollari per lo “sviluppo
di tecnologie per il sequestro del carbonio atmosferico”.
Ancora più ambiziosamente, “Jeff Bezos” ha
sborsato 10 miliardi di dollari in programmi di “crescita verde” con il suo “Bezos
Earth Fund”.
“George
Soros”, “Bill Gates” e “Richard Branson” finanziano invece progetti di ricerca
applicata in geoingegneria, a dispetto delle perplessità sollevate da centinaia
di scienziati del settore.
Già
nel 2008, il climatologo “David Victor” etichettava come “greenfingers”,
“pollici verdi”, questi filantrocapitalisti, miliardari patriottici o
speculatori convertiti che assurgono al ruolo di salvatori del pianeta e
premono per progetti di riparazione tecnologica vasti e rischiosi, di cui
ovviamente intendono conservare la proprietà intellettuale qualora gli sviluppi
si rivelassero propizi.
Per i
super-ricchi le crisi non sono infatti che un’occasione per spremere ulteriore
profitto, come avvenuto con la campagna del “Grande Reset” avanzata da “Klaus
Schwab”, fondatore del “World Economic Forum”, per rilanciare l’economia
mondiale dopo la pandemia di COVID-19 con una nuova forma di capitalismo
“consapevole”, benevolo, più direttamente coinvolto e protagonista nella
risoluzione dei grandi problemi dell’umanità.
È così
che, piegando a proprio vantaggio le catastrofi sociali e ambientali, i
super-ricchi diventano ancora più ricchi, macinando profitti stellari:
negli
ultimi due anni, l’1% dei più ricchi al mondo si è intascato i due terzi della
nuova ricchezza prodotta a livello globale, mentre gli introiti di Apple,
Microsoft, Amazon, Alphabet e Meta sono aumentati del 20% (+1100 miliardi di
dollari) e le quote azionarie addirittura del 50%.
Stando
alla classifica stilata da “Forbes”, nell’ultimo anno il numero di persone con
un patrimonio superiore al miliardo di dollari è cresciuto del 20% e sono oggi
oltre 2.500 i miliardari a spasso per il pianeta con un una ricchezza
complessiva di 13.1 trilioni di dollari, quasi quanto il PIL annuale
dell’intera Unione Europea.
I
milionari sono invece più di 60 milioni, si concentrano come i miliardari
principalmente negli Stati Uniti, e godono di una fortuna che ammonta in totale
a oltre 150 trilioni di dollari, più del PIL mondiale.
I
super-ricchi non mancano mai di ripetere che una simile concentrazione di
capitale non è un problema per i piani di mitigazione, anzi:
solo
un’élite tecnocratica e illuminata al potere sarebbe in condizione di risolvere
le sfide dell’umanità, in primis il riscaldamento globale.
È vero
al contrario che nulla come la ricchezza si correla all’impatto ambientale:
i
miliardari hanno un’impronta di carbonio migliaia di volte superiore a quella
dei loro compatrioti e secondo le stime del “Stockholm Environment Institute” e
di “Oxfam”, tra il 1990 e il 2015, l’1% degli individui più ricchi del pianeta
ha emesso nell’atmosfera più gas serra del 50% degli individui più poveri.
Da sempre i super-ricchi distolgono
l’attenzione dalle loro scandalose emissioni colpevolizzando un unico fattore,
quello a loro più speculare: la sovrappopolazione e la crescita demografica nei
Paesi del Sud globale, per altro in forte rallentamento.
Imputano
ai consumi retrivi e inquinanti dei super-poveri la maggiore responsabilità
delle emissioni, ma è chiaro che una politica incisiva di mitigazione dovrebbe
aggredire la forbice delle diseguaglianze da entrambi i lati, contrastando i
sovra consumi dei più ricchi e al contempo il sotto consumo dei più poveri.
I
super-ricchi sono convinti che la crisi climatica non sia una loro colpa, che
un sovrappiù di tecnologia basterà a rimettere le cose a posto, che la
catastrofe rappresenti una nuova opportunità per fare affari, che in caso di
collasso loro stessi meritino di salvarsi più di chiunque altro.
Come
scrive il geografo sociale “Danny Dorling” in “Inequality and the 1%” (Verso
Books, 2019), i super-ricchi impoveriscono l’economia alle spese di tutti,
inchiodano la società in uno schema di diseguaglianze incrollabile,
compromettono gli sforzi per la mitigazione che non li vedano direttamente
nella posizione di decisori o beneficiari.
I
governi di tutto il mondo non intervengono sui loro patrimoni perché credono
che solo dal loro portfolio di investimenti possano scaturire le soluzioni
necessarie, arrendendosi così al “male minore” dell’ingiustizia sociale purché
i capitalisti mantengano la promessa del “technological fix”.
Ci si
dimentica però troppo spesso che la diseguaglianza economica non è un
sottoprodotto detestabile del capitalismo, è il suo stesso obiettivo: come
esemplifica “Rushkoff”, il mercato è un tavolo da poker in cui ogni giocatore
mira a rimanere l’ultimo, quello che con un bluff o un colpo di fortuna riesce
a sgominare gli avversari e a vincere l’intera posta in gioco.
“Le
società che sono arrivate a un tale livello di diseguaglianza economica non
sono mai riuscite a evitare il fascismo”, avverte “Rushkof”, “tantomeno una
civiltà che ha massacrato il suo ambiente è mai stata in grado di sfuggire al
collasso”.
C’è
poi un altro problema irrisolto e di lungo corso con i super-ricchi, reso
palese oltre un secolo fa da “Thorstein Veblen” nella sua celeberrima “teoria della classe agiata”:
all’origine
di ogni forma di proprietà e concentrazione di capitale pulsa l’istinto a
emulare la ricchezza altrui, e sono perciò i ricchi a dettare mode, costumi e
gusti, influenzando le aspirazioni dei più e plasmando la percezione di ciò che
è ritenuto normale, irrinunciabile o auspicabile possedere.
Una simile spinta agonistica all’emulazione
dei ricchi e al loro reciproco superamento può innescare una deriva pericolosa:
tutti
pretendono di avere sempre più privilegi, anche il ricco che rifugge dalla
massa di emuli con consumi ancora più ostentativi, lusso sfrenato, turismo
estremo, o quello che lo stesso” Veblen” chiamava “ozio vistoso”.
La rincorsa non può mai avere fine proprio
perché i ricchi spostano l’asticella dell’emulazione sempre più in alto,
contribuendo più di ogni altro fattore alla costruzione sociale dei desideri
delle classi subalterne.
Oltre
a impedire l’attuazione di piani equi per la mitigazione e a provocare il
consumismo emulativo delle masse, i miliardari promuovono una visione
dell’adattamento che dipinge l’umanità come già spacciata.
C’è un
filo conduttore che lega il ritiro in bunker anti-apocalittici alla fuga nel
metaverso e alla colonizzazione spaziale fomentate dai survivalisti miliardari,
vale a dire la certezza fallace che anche nelle peggiori circostanze planetarie
sarà in ogni caso possibile ricorrere a un’exit strategy per salvarsi la pelle
e gli affari.
Si prenda l’esplorazione spaziale:
come
ribadito dall’astrofisica “Erika Nesvold”, autrice di “Off-Earth” (2023) e
curatrice di “Reclaimed Space” (2023), sono le fantasie escapiste dei
super-ricchi ad alimentare oggi il mito della frontiera spaziale, tra nuovi
pianeti da occupare, miniere lunari da fondare e hotel di lusso da mandare in
orbita.
A eccitare questa nuova ondata di avventurieri
dello spazio è l’impressione che il cosmo abitabile sia potenzialmente
sterminato, svincolato dalla finitudine di un pianeta Terra ormai esausto.
E tuttavia l’immaginario eufemistico che
propugnano aziende come “SpaceX” e “Blue Origin” dimentica colpevolmente di
menzionare l’inquinamento da “space junk”, le emissioni insostenibili e
deprecabili dell’industria spaziale, l’assoluta vulnerabilità della vita
orbitale.
Più
esploriamo lo spazio più ci rendiamo conto di quanto ci rimanga precluso:
la fuga spaziale non è possibile, anche se i
miliardari continuano a fingere che lo sia.
C’è
poi un altro aspetto curioso nella fuga verso altri pianeti perorata dai
survivalisti danarosi:
lo
stesso “Rushkoff” fa notare che ai tempi della Guerra Fredda le missioni
spaziali erano sì intrise di insopportabile nazionalismo statunitense o
sovietico, ma erano vissute anche come un’entusiasmante impresa collettiva.
Ora non è più così:
la corsa allo spazio è un” business per tycoon”,
una dimostrazione di supremazia tecnologica e potere finanziario tra i “giganti
del tech”.
Altro
che grande passo per l’umanità, il successo delle “space flight companies”
segna la resa finale all’ultraliberismo:
secondo
“Rushkoff “è
la prova che viviamo in un mondo dove una persona può guadagnare abbastanza da
dare vita a un programma spaziale e mettere in atto con successo la strategia
di fuga definitiva”.
È una
visione aberrante in cui il progresso della civiltà culminerebbe quando,
assoggettata la natura terrestre per mezzo della tecnologia, un pugno di
ultraricchi si distaccherà dal resto dell’umanità per creare nuovi ambienti
entro cui continuare a crescere.
Frattanto
all’élite tecnocratica del pianeta toccherà trincerarsi in bunker pattugliati e
isolarsi quanto più possibile dai dannati della Terra.
A
giudizio di “Rushkoff “ciò che impensierisce di più i prepor miliardari è
proprio quella folla:
la folla di Washington, la folla che ha eletto
Trump e la folla che devasterà i loro rifugi.
I
ricconi che oggi salgono sul carro della tecnologia dal volto umano non si
preoccupano tanto dell’impatto delle loro piattaforme sulle persone, quanto
dell’impatto potenziale delle persone sulla loro sicurezza e sui loro
privilegi.
Temono
che si rendano conto di quel che è successo finora.
La
fobia per i futuri migranti climatici riflette quella speculare per i migranti
di oggi:
ecco
perché “Peter Thiel”, epitome dei survivalisti più spietati, oltre ad allestire
il suo personalissimo bunker in Nuova Zelanda, finanzia l’attività di gruppi “alt-right”
contro l’immigrazione clandestina negli Stati Uniti.
Allo
stesso modo, i miliardari non temono l’intelligenza artificiale in sé, che loro
stessi contribuiscono a sviluppare, ma le masse di esclusi che potrebbe
generare e bisognerà tenere a bada in un modo o nell’altro.
Il
“capitalismo della paranoia” dei rifugi anti-apocalittici risponde così a un
bisogno molto specifico dei survivalisti facoltosi, ossia evitare il dilemma
morale dell’empatia, di decidere se aiutare o meno chi è in difficoltà.
Quello
dei bunker “è un business volto a fare in modo che quando si chiuderanno le
porte non ci saranno molti bambini affamati a bussare”, sostiene “Rushkoff”:
un modo per non affrontare le conseguenze
etiche del proprio egoismo, placare il proprio senso di vergogna e tenere alla
larga l’altrui istinto di vendetta.
Per i prepor
miliardari la dimensione materiale del survivalismo è scontata e banale, ben
più complicato è trovare invece delle argomentazioni credibili per darsi uno
straccio di giustificazione morale: cosa legittima gli ultraricchi a fuggire
dalla realtà.
Che diritto hanno di lasciare indietro tutti
gli altri?
Il “Mindset” dei survivalisti danarosi è
rovinosamente imbevuto dei precetti della genetica delle popolazioni e del
liberismo di mercato, due scienze che combinate assieme hanno dominato la
modernità e condotto l’umanità alle porte del collasso dando forma al darwinismo
sociale più feroce.
In
natura e in società a sopravvivere e riprodursi sarebbe l’individuo più
egoista, competitivo, senza scrupoli, pervicace nel massimizzare i propri
interessi personali a discapito degli altri.
Forti
di questa convinzione ipocrita e sbagliata, i miliardari sono certi di essere
tali per proprio merito e promuovono un malcelato disprezzo per le masse di
sconfitti che si lasciano alle spalle.
Eppure,
sempre secondo “Oxfam”, la maggior parte delle entrate dai super-ricchi non
deriva da talenti personali, prestazioni lavorative retribuite o innegabili
capacità manageriali, ma dal rendimento per il possesso di asset che
globalmente viene tassato in media al 18%, poco più della metà dell’aliquota
massima applicata in molte nazioni ai salari dei lavoratori dipendenti.
Storicamente
la pressione fiscale è cresciuta ovunque nel mondo, per tutti, ma in
proporzione molto meno per i più ricchi – complice la teoria economica del “trickle-down”
secondo cui tagliando le tasse alle classi privilegiate queste acquisterebbero
più servizi dalle classi subalterne, favorendo così l’occupazione e il
“gocciolamento” della ricchezza verso il basso della piramide sociale. Ciò che gli indicatori delle
disuguaglianze ci dicono è che al contrario il gocciolamento avviene verso
l’alto, solo a beneficio dei più ricchi:
più
che di “trickle-down”, si potrebbe parlare di “soaking-up”, di “assorbimento”
della ricchezza da parte di una sparuta plutocrazia di “happy few”.
Nulla
di nuovo sotto il sole: è ciò che le teorie critiche del capitale contestano da
sempre.
Marx stesso parlava di “accumulazione originaria” per
identificare quel momento preciso, assieme arcano e criminale, in cui una
concentrazione critica di proprietà dei mezzi di produzione matura al punto da
rendere possibile l’instaurarsi del modo di produzione capitalistico.
Le nazioni che precorsero il capitalismo
moderno – Paesi Bassi, Gran Bretagna, Stati Uniti – non divennero ricche perché
i loro imprenditori erano più intelligenti o lavoravano più sodo, ma perché
estorsero plusvalore dai proletari e accumularono risorse da altre nazioni, a
cominciare dai combustibili fossili, senza i quali il capitalismo industriale
non sarebbe mai stato possibile. Analogamente, i miliardari della Terra hanno avuto strada
spianata nell’accumulare capitali così vasti che sembra oggi impossibile
scalfire il loro potere, con cui pretendono di mettersi al comando di
un’umanità minacciata dal collasso ambientale.
Come
provare a fermarli?
Dalla
COP27 per il clima dell’anno scorso si parla sempre più spesso di sistemi di
riparazione “loss and damage” per indennizzare, almeno in parte, le perdite
irreversibili del riscaldamento globale, ma soprattutto per rimediare al
peccato originale dell’accumulazione originaria delle corporation
dell’industria fossile e di altri settori inquinanti.
C’è chi stima che le ventuno maggiori aziende
del fossile dovrebbero decurtare dai propri profitti oltre 200 miliardi di
dollari l’anno per compensare i danni causati da emissioni e cambiamenti
climatici alle popolazioni più vulnerabili.
Secondo
un altro studio, da qui al 2050 i Paesi che hanno approfittato maggiormente del
capitalismo fossile sarebbero tenuti a versare alle nazioni meno inquinanti
circa 170 trilioni di dollari per riequilibrare le sperequazioni
nell’appropriazione del carbon budget planetario.
Anche “Nicholas Stern”, autore del celebre
report sui cambiamenti climatici, ha calcolato assieme ad altri economisti che
ai Paesi meno attrezzati servirebbero due trilioni l’anno per rendere
sostenibile il proprio sviluppo.
Perché
non cominciare con una super-tassa ai super-patrimoni?
In una
lettera inviata ai leader del Nord del mondo, oltre centocinquanta economisti
tra i quali “Yanis Varoufakis” e “Jason Hickel” hanno chiesto di introdurre
un’imposta del 2% sui capitali dei super-ricchi, sufficiente a raccogliere
oltre 2,5 miliardi di dollari con cui iniziare a finanziare un fondo di “loss
and damage” a sostegno dei paesi più esposti ai cambiamenti climatici.
Si
stima che in Regno Unito una tassa del 0,5% ai patrimoni superiori al milione
di sterline sarebbe sufficiente a coprire la quota dovuta al fondo dall’intera
nazione.
L’idea di base della giustizia climatica
riparativa è che l’atmosfera sia un common, un bene comune che ad oggi è stato
utilizzato in maniera iniqua e colonizzato a vantaggio di pochi.
Ritardisti
climatici, economisti iperliberisti e politici conservatori si oppongono ai
meccanismi internazionali di ristoro che prevedano una tassazione aggressiva
dei super-patrimoni, soprattutto negli Stati Uniti, ma come sarebbe altrimenti
possibile sostenere i programmi di mitigazione e adattamento nei Paesi meno
attrezzati?
Come
togliere il kerosene dalle stazioni di rifornimento di Lagos ed evitare che una
marea di migranti climatici si sparga in giro per il mondo?
È la
realpolitik più auto interessata e crudelmente competitiva a imporre di pensare
globale, a preoccuparsi per il carburante che il più sperduto abitante di Hanoi
versa nel serbatoio del suo catorcio, radiato da chissà quale Paese europeo
ormai avviato alla transizione.
Ci
vogliono coraggio politico e coordinazione internazionale per fare in modo che
i super-ricchi si facciano carico della responsabilità storica delle emissioni
e dell’obbligo morale della mitigazione:
sarebbe la dimostrazione che le leggi non
valgono solo per chi è povero e debole, con un ritorno enorme in termini di
consenso popolare.
Poi
c’è la sfida da far tremare i polsi di rendere eque e giuste le politiche per
l’adattamento:
“i
nostri scopi non devono essere quelli del” Mindset”, ammonisce “Rushkoff “al
termine del suo libro, “non dobbiamo mirare a traguardi individuali, a vittorie
tangibili, a fughe col malloppo, ma dobbiamo cercare invece un progresso
incrementale verso una forma collettiva di coesione”.
Non
possiamo riparare il pianeta, non esiste alcun luogo abbastanza al sicuro in
cui nascondersi, e la fuga altrove non è un’opzione.
I super-ricchi sperano ancora che una trovata
risolutoria dell’ultima ora possa garantire loro un altro secolo di progresso
senza subire le conseguenze delle proprie azioni, ma sono ormai consapevoli che
i loro affari e il loro stile di vita hanno gli anni contati.
“Sanno
che gli edifici che hanno costruito saranno spazzati via dall’oceano”, chiosa “Rushkoff”
laconico.
La
strada dell’escapismo è già finita.
(I
super ricchi sono perfino riusciti a convincere TUTTI che la causa del
riscaldamento climatico “ormai diventato
di moda” è dovuto al fatto che la “CO2” è un gas serra e per questo solo fatto
è autorizzato a volteggiare nell’atmosfera come più gli aggrada ,pur essendo più pesante della stessa aria
atmosferica! N.D.R.).
Dai
Diritti Costituzionali
alla
Dittatura Sanitaria.
Conoscenzealconfine.it
– (12 Gennaio 2024) - Carlo Freccero – ci dice:
Sta
succedendo di nuovo.
Sta
per passare un accordo internazionale di importanza fondamentale per negarci
definitivamente ogni scelta democratica futura in tema di sanità e di libertà
personale.
Non
solo.
Trattandosi
di un trattato internazionale, una volta approvato sfuggirà ad ogni successivo
tentativo di abrogazione popolare tramite Referendum.
L’”Organizzazione
Mondiale della Sanità” (OMS) ha presentato una bozza di accordo pandemico
mondiale.
Non ho
avuto tempo di esaminare direttamente il trattato, ma solo una sua sintesi.
Lo
farò sicuramente in seguito.
Ma
preso atto del ruolo rivestito dall’”OMS” nella recente pandemia, la sola
ipotesi di un potenziamento delle sue funzioni, non può che essere giudicata
inopportuna ed aberrante.
Secondo
l’”OMS “gli Stati dovrebbero rinunciare a la loro cultura, e ai diritti umani a
cui hanno già a suo tempo aderito, in nome di diritti come: “equità,
inclusività e coerenza”, che non significano nulla se non cieca obbedienza,
agli interessi dei grandi potentati economici.
Dopo
avere capovolto il concetto di pandemia e di salute, l’”OMS” capovolge i
diritti dell’uomo.
In
Tutto Ciò c’è un “Unico Elemento di Ottimismo”.
In
seguito alle “Sanzioni economiche alla Russia”, molti Stati del mondo si stanno
affrancando dal globalismo del dollaro per cercare reciproco sostegno nella
nuova realtà economica e monetaria dei “BRICS” e nella relativa moneta
nascente.
Per la
prima volta la volontà Occidentale viene ridimenzionata e si nota, quanto meno,
una fuga dallo “Stato di Colonie di fatto”, di un gran numero di paesi sino a
ieri considerati Terzo Mondo.
La Globalizzazione li ha resi paradossalmente
più forti e più liberi. Potrebbero non sottoscrivere il Trattato.
Ma per
noi che risiediamo in Europa ci sono invece motivi di pessimismo.
La
globalizzazione si sta restringendo al cosiddetto occidente, Europa e Five
Eyes.
Ed in
Europa l’Italia rappresenta proprio l’anello più debole della catena.
Siamo
strangolati da debito pubblico e da tassi di interesse crescenti ed il governo
non fa che riconfermare la sua assoluta lealtà all’atlantismo, alla Nato,
all’Europa e ai suoi feticci: Guerra e Vaccini.
Gli
Stati che aderiranno saranno vincolati ad obbedire a leggi dettate dall”’OMS”
che trasformeranno il mondo in una dittatura sanitaria, uguale o più stringente
rispetto a quella da cui solo ora, dopo tre anni di confinamento, vessazioni,
negazioni dei diritti fondamentali pensavamo di emergere.
Proprio
in questi giorni cominciavano timidamente ad essere svelati i terribili effetti
secondari dei vaccini e, contestualmente la corruzione, gli interessi delle
case farmaceutiche, l’insabbiamento sistematico della verità da parte del
governo.
Tutto
Questo Non Appartiene al Passato.
Ma
mentre cominciamo ad organizzarci per chiedere risarcimenti ed una commissione
d’inchiesta, non ci rendiamo minimamente conto che tutto questo scenario non appartiene
al passato, ma rischia di diventare il nostro futuro.
Perché
nessuno protesta?
Perché
l’opinione pubblica non è al corrente del rischio che corriamo?
Perché
l’agenda dei media è sempre fuori sincrono rispetto al presente ed è disposta a
denunciare uno scandalo solo quando il risultato voluto è stato comunque
raggiunto e non c’è più nulla da fare.
Paradossalmente,
nel silenzio assordante dei media sul problema” OMS”, qualcuno ha preso la
parola.
“Bill
Gates” ha dichiarato che siamo alla vigilia di una nuova pandemia che sarà più
virulenta dalla precedente e tutto ciò ci impone di prevenire il peggio,
studiando rigide strategie di intervento mondiali e la creazione di una “Talk
force permanente”.
In
pratica un endorsement alla bozza dell’OMS, sulla base di un’ipotesi drammatica
di imminenti nuove malattie.
Ci
Sarà una Nuova Pandemia? Potete Giurarci.
“Gates”
è il massimo finanziatore privato dell’”OMS” e decide a livello mondiale sulla
salute di tutti.
Non a caso l’”OMS” ha dedicato il decennio in
corso alla sperimentazione vaccinale.
Sanità non significa più per l’OMS lotta alla
malnutrizione, alla mancanza di condizioni igieniche minime e semplice cura
delle patologie esistenti.
Come
ha dichiarato l’OMS stessa, su richiesta del suo principale finanziatore,
l’agenda della sanità mondiale è diventata agenda vaccinale.
E per
promuovere i vaccini sono indispensabili sempre nuove pandemie. Chissà come mai
nella storia dell’umanità le pandemie sono ricordate come catastrofi epocali,
che si manifestano a distanza di secoli una dall’altra ed oggi invece non fanno
altro che manifestarsi senza soluzione di continuità e senza neanche il tempo
di registrarle:
Aviaria, Zika, Suina, Vaiolo delle scimmie,
naturalmente Covid e sue varianti.
Unico
Rimedio Lecito e Consentito dai Governi di Tutto il Mondo:
“ i
Vaccini”.
Siamo
destinati a diventare dei “puntaspilli”, dei novelli “San Sebastiano”, per
ospitare le infinite inoculazioni di cui siamo e saremo oggetto in futuro.
Ma non
si tratta solo di sanità e fede o meno nei vaccini.
Gli
obblighi vaccinali ed i confinamenti tramite lockdown, le mascherine, le
limitazioni agli spostamenti hanno distrutto tutti i principi di libertà ed i
diritti sanciti dalle moderne rivoluzioni liberali.
La
sanità è il cavallo di Troia di un sistema Totalitario Globale per controllarci
anche dall’interno ed in modo assoluto.
Mai,
anche nelle epoche più buie, il cittadino è stato vessato sino a questo punto.
O
forse solo nei campi di concentramento Nazisti.
Ed il
Codice di Norimberga era stato promulgato per impedire la replica del Nazismo
Sanitario.
Nel
passato c’era lo sfruttamento del lavoro, ma non si arrivava a penetrare i
corpi e ad usare i cittadini come cavie, inibendo loro anche gli spostamenti
essenziali.
“Burioni”
in un tweet del 23 Marzo ha invitato a non disprezzare le cavie che hanno
permesso con il loro sacrificio il progresso della scienza.
Con
queste sue considerazioni ha confessato di fatto quello che siamo oggi per il
potere e per la scienza:
cavie
sacrificabili.
Con la
sostituzione dell’economia reale con la finanza, e venuta meno l’utilità dei
popoli, dei lavoratori, dei cittadini, prima necessari rispettivamente per
produrre e consumare.
Oggi
ai cittadini di tutto il mondo viene imposto con la forza, il consumo coatto di
medicinali inutili e devastanti per il sistema immunitario, ma venduti dalle
case farmaceutiche a caro prezzo ed acquistati dai governi in segreto con la
tassazione delle stesse cavie.
Non so
se corrisponda a verità, ma circolava la leggenda che in Cina le famiglie dei
condannati a morte dovessero rifondere allo Stato la spesa del proiettile
necessario all’esecuzione.
E nelle leggende sul de popolamento, il rappresentante
di turno dell’élite dice sempre: “li depopolaremo a loro spese”.
Questa
distopia, che abbiamo sempre ritenuto una leggenda metropolitana, un delirio
del complottismo, rischia di affermarsi nei fatti in un prossimo futuro.
Ci Si
Richiede Fiducia nella Scienza, ma Quali Titoli detiene Bill Gates per
Incarnare la scienza?
È
stato un informatico senza nessuna qualifica in ingegneria informatica.
Si
proclama filantropo interessato al bene comune, ma è la Filantropia che ha
fatto di lui uno degli uomini più ricchi del mondo.
Detta
l’agenda alla Sanità mondiale, ma non ha nessuna laurea né specializzazione in
medicina.
Vorrei chiarire che se mi concentro sulla
figura di Bill Gates, non è perché lo ritenga lo stratega di tutto.
Al
contrario il piano è frutto di realtà ristrette ma collettive come il WEF di
Davos.
Ma per
realizzare la globalizzazione e il nuovo Ordine Mondiale si è scelto di
strumentalizzare la Sanità, in quanto qualsiasi restrizione che derivi dalla
sanità può essere giustificata con il bene comune.
In
questo contesto, data anche la provata fede eugenetica, sua e della sua
famiglia, “Bill Gates” rappresenta in qualche modo il testimonial perfetto
dell’operazione.
In campo sanitario Gates viene considerato infatti dal
mainstream un’autorità indiscussa.
Attualmente
come rappresentante di “GAVI” e della “Bill e Melinda Gates” decide dei destini
sanitari del Pianeta.
Ma
come è stato possibile tutto questo?
Come
siamo arrivati alla distopia che stiamo vivendo?
Riporto
qui una cronologia che ho recuperato in gran parte dagli interessantissimi
studi fatti dall’”avvocato Alessandra Devetag” al tempo della” legge Lorenzin”.
Bisognava
bloccare allora questo devastante progetto.
Ma
vediamo la sua genesi:
1.
2000.
Su
iniziativa della Fondazione Bill e Melinda Gates nasce GAVI, Alleanza Globale
per la vaccinazione, fondazione privata di diritto svizzero fondata sul
partenariato pubblico/privato.
Membri
di GAVI sono la fondazione Bill e Melinda Gates, OMS, Banca Mondiale, UNICEF.
GAVI
provvederà in seguiti all’acquisto d’ingenti partecipazioni nelle maggior case
farmaceutiche.
2.
2002.
L’Italia
aderisce a GAVI.
3.
2009.
L’OMS,
cambia la definizione di Pandemia.
Secondo
l’OMS le condizioni affinché si possa parlare di pandemia sono tre:
a)
Comparsa di un agente patogeno nuovo, verso il quale non sono conosciute cure
ufficiali.
b)
Capacità di tale agente di colpire gli esseri umani.
c)
Capacità di tale agente di diffondersi per contagio.
Viene
cancellata la specifica di gravità.
Pertanto
anche virus con bassissimo indice di mortalità possono essere dichiarati
pandemia.
In
pratica un nuovo corrispettivo di raffreddore, (il raffreddore non è il prodotto di
un agente patogeno nuovo) potrebbe essere dichiarato pandemia e mettere in moto la macchina
della prevenzione mondiale.
4.
2010.
Al FORUM ECONOMICO DI DAVOS la Fondazione
Gates offre 10 miliardi di dollari a condizione che venga dichiarata la “Decade
dei Vaccini”.
5.
2012.
In data 22/26 maggio, nel corso dell’Assemblea
Generale dell’OMS a Ginevra e su richiesta di Gates, la direttrice in carica
proclama la decade dei vaccini.
6.
2014.
L’Italia viene insignita a Washington il 29
settembre dalla “Global Health Agenda” dei ruoli di Capo Fila delle strategie
mondiali.
Rappresentano
l’Italia il ministro “Lorenzin” e “Ranieri Guerra”.
7.
2016.
L’8 Luglio la” FNOMCEO” (portale della
Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici chirurgici e Odontoiatri)
pubblica il Documento sui Vaccini che pone le basi di tutta la successiva
censura in campo vaccinale per tutte le categorie professionali interessate:
a) Per
un medico sconsigliare una vaccinazione diventa infrazione deontologica.
b) La
Magistratura nelle decisioni sul rapporto sul causa/effetto tra vaccini e danni
alla salute, deve seguire il Metodo Scientifico.
Dettami che la Corte Costituzionale sembra
avere recepito nella sua recente sentenza, in cui si fa riferimento alla
Scienza anziché alla Costituzione.
c)
Ministero della Salute e autorità competenti devono impugnare qualunque
sentenza che riconosca un nesso causale vaccini/autismo.
8.
2017/18.
In
seguito al documento precedente vengono radiati diversi medici.
9.
2017.
DL di Lorenzin sull’obbligatorietà di 10 vaccini in
età pediatrica pena sanzioni ed esclusioni dalla scuola.
10.
2018.
L’11 Gennaio viene promulgata la Legge N. 3
che al capo 1 - stabilisce che gli ordini e le relative Federazioni Nazionali:
a)
Sono Enti Pubblici e non economici e agiscono quali Ordini Sussidiari dello
Stato, al fine di tutelare gli interessi pubblici, garantiti dall’Ordinamento,
connessi all’esercizio della professione.
11.
2018.
A
Dicembre il ministro Lorenzin conclude un Accordo con il” sindacato Nazionale
della Stampa”, accordo per cui la Stampa non potrà più pubblicare notizie che
non siano “scientificamente validate”.
12.
2023.
L’ultima tappa di questo percorso ideale è
costituita dal piano vaccinale 2023/25 presentato in questi giorni dal Governo
Meloni che riconferma la devozione del governo ai vaccini, in piena continuità
con la linea seguita a partire dal decreto Lorenzin.
Come
si può parlare di “Valore Etico e Sociale” delle vaccinazioni dopo la
drammatica esperienza degli effetti collaterali invalidanti e delle morte
improvvise che abbiamo vissuto e stiamo vivendo?
E cosa sarà la lotta con ogni mezzo
“all’esitazione vaccinale” se non in una guerra sistematica alla libertà di
scelta delle minoranze?
Sulla
base di tutti gli “accordi Nazionali ed Internazionali” a cui l’Italia ha
aderito, il
vaccino diventa il fulcro di ogni iniziativa.
E,
soprattutto viene censurata a priori qualsiasi obiezione, inchiesta,
informazione sui vaccini.
Questa
distorsione per cui il vaccino diventa il centro della politica Internazionale
e Nazionale è, come abbiamo visto, sancita da una serie di leggi che
imbavagliano e annullano preventivamente ogni critica.
Non ne emerge un quadro tranquillizzante.
Oggi
l’opinione pubblica è convinta dall’unanimità del pensiero a favore del
vaccino.
Se
tutti concordano, dalla Magistratura alla Stampa, ai medici, che motivo ci può
essere di dubitare?
In
quanto al pubblico che segue gli show televisivi ritengo che, se avesse avuto
accesso a tutte le informazioni che abbiamo passato in rassegna,
necessariamente dissentirebbe e cambierebbe parere.
Quella
che tutti giudicano la libera espressione della scienza, non è altro che un
copione obbligato, costruito a tavolino dalle grandi associazioni filantropiche
internazionali per ridurre la medicina a semplice espressione del vaccino.
E dietro il vaccino ci sono interessi economici
colossali che fanno pensare a macroscopici conflitti d’interessi.
Ma
soprattutto conoscere la verità pone una seria ipoteca sullo stesso concetto di
scienza.
Da due
anni sentiamo il mantra che dobbiamo obbedire in nome della scienza.
Ma, la scienza in oggetto non è libera
espressione della medicina, ma una SCIENZA di STATO come già l’abbiamo
conosciuta nei peggiori sistemi autoritari.
Altre
visioni scientifiche come l’Eugenetica sono state alla base di politiche
aberranti del Nazismo.
E gli
sperimenti medici condotti senza autorizzazione nei campi di concentramento
sono stati condannati e puniti dal” Tribunale di Norimberga.
In seguito a ciò per impedire che si potesse rinnovare
l’abiezione di cure mediche imposte contro la volontà del paziente, è stato
elaborato dal “Comitato Giuridico di Norimberga”, il “Codice di Norimberga “che
vieta qualunque intervento medico coatto tanto più se sperimentale.
Non
Sempre la Scienza è Sinonimo di Verità e Giustizia.
Ogni
volta che si vuole annullare la democrazia si ricorre a qualche principio
trascendente e, come tale, inconfutabile.
Il simulacro della scienza rappresenta
l’ultimo idolo su cui costruire un sistema antidemocratico.
La “finestra di Overton” messa in moto nel 2000 ha
reso naturali certezze che allora avremmo giudicato aberranti.
In particolare l’identificazione tra scienza, vaccini
e verità.
Ma
Perché Abbiamo Permesso che Succedesse Tutto Questo?
Perché
non abbiamo capito allora l’importanza di queste normative internazionali.
La nostra attenzione è stata concentrata dai
media mainstream solo sulla dialettica politica interna al paese, con un
continuo “infotainment” (neologismo di matrice anglosassone – nato dalla fusione
delle parole
information ed entertainment – che designa, soprattutto in ambito radio-televisivo, un
mezzo di comunicazione di massa con funzione di informazione ed
intrattenimento) che, anziché andare al cuore dei problemi reali, non faceva che
riportarci una sorta di gossip sulla biografia dei protagonisti del teatro
politico e sulla loro esternazioni.
Da
tempo le decisioni si prendono in Europa, e, prima che in Europa, nelle grandi
organizzazioni internazionali.
Ma il Parlamento europeo non è un parlamento
in grado di fare scelte politiche reali.
Queste
scelte competono alla “Commissione Europea e” la Commissione Europea, a sua
volta, è
ostaggio delle lobbies economiche globali e corrotta da un macroscopico
conflitto di interessi, come è emerso, in parte, con il” Qatargate”.
Solo a
livello interno degli Stati esisteva ed esiste una parvenza di democrazia e su
questa si sono concentrati i difensori della democrazia stessa.
Io
stesso sono stato fuorviato a guardare al locale come unico teatro esistente.
Nel
recente passato e ancora nel presente, le attenzioni di tutti erano e sono
puntate sul rispetto di una Costituzione che è, di fatto, depotenziata ed
accerchiata da un recinto invalicabile di accordi internazionali.
Ho
combattuto a suo tempo la battaglia contro la riforma costituzionale Renzi, il
cui esito positivo ha tranquillizzato gli italiani.
Ma mentre intervenivamo dall’interno per
salvare la Costituzione, venivamo giocati dall’esterno dai grandi Organismi
internazionali, con leggi di cui oggi paghiamo il prezzo.
Abbiamo
continuato a ragionare in termini di Stati Nazionali, di sovranità del popolo,
di bene comune, mentre si costituivano organismi privati come il “WEF” capaci
di imporre alle “grandi Organizzazioni internazionali e agli Stati”, gli
interessi delle multinazionali e di quelli che “Schwab” chiama portatori di
interessi.
Abbiamo
continuato a considerare le grandi organizzazioni come “ONU”, “UNESCO”, “OMS”, “FMI”
e il loro braccio armato, le “ONG, come votate al bene comune dell’umanità, mentre, più prosaicamente, si tratta
di carrozzoni costosi disposti a sostenere gli interessi di chiunque sia in
grado di finanziarli con miliardi di euro o dollari.
Ed a
livello locale ci siamo tappati gli occhi sul fatto che oggi, su modello USA,
anche la politica locale dipende dalla propaganda.
Ma la
propaganda è costosa e chi vuole essere eletto deve ricompensare in seguito i
suoi finanziatori.
Abbiamo,
almeno in parte, aperto gli occhi con l’”operazione Covid”, che sembra essere
stata niente altro che la prova generale di una successiva e definitiva
dittatura sanitaria.
Ma
abbiamo la memoria corta, e questa breve tregua sanitaria, in cui la nostra
attenzione è volta altrove, a nuovi drammatici pericoli, di cui la guerra
sembra il più urgente, ci ha forse illusi che il pericolo di dittatura
sanitaria fosse alle nostre spalle.
Il
nuovo progetto “OMS” ci dice che il “pericolo” non è superato e ci fa capire
che proprio la disattenzione dell’opinione pubblica rappresenta la forza del potere
globalista degli ultra ricchi.
In
quanto al governo Meloni che si presentava a suo tempo come sovranista, la
politica sin qui implementata sulla guerra ed il nuovo piano vaccinale non
lasciano ben sperare, dal momento che guerra e vaccini sono giudicati
indispensabili, sul piano materiale e morale.
(Carlo
Freccero)
(imolaoggi.it/2024/01/09/dai-diritti-costituzionali-alla-dittatura-sanitaria/)
Il
mondo paranoico e
classista
dei super-ricchi.
Transform-Italia.it
– (01/02/2023) - Alessandro Scassellati – ci dice:
[Premessa.
Questo
testo era stato scritto per essere incluso nel mio libro “Il suprematismo
bianco”.
(Alle
radici dell’economia, ideologia e cultura della società occidentale,
DeriveApprodi, Roma, 2023, nelle librerie entro questo febbraio). Purtroppo,
per ragioni di spazio l’ho dovuto tagliare, ma ora mi sembra utile condividere
queste riflessioni con i lettori di Transform! Italia. Buona lettura! ]
(C’è
guerra di classe, va bene, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo
la guerra, e stiamo vincendo.)
Warren
E. Buffet.
Il
populismo reazionario che da ormai un decennio investe le società occidentali è
in grado di attirare, oltre che i ceti più vulnerabili, anche gli elettori
ricchi, in quanto il pregiudizio e l’ostilità possono essere ugualmente
prevalenti tra le fasce più abbienti della popolazione.
“ Mols
e Jetten” parlano di «paradosso della ricchezza» e sostengono che le fasce più
abbienti percepiscono che i confini tra il loro gruppo e quelli socialmente
inferiori (come il ceto medio) sono permeabili, e quindi si percepiscono
insidiate dal pericolo di un declino della propria posizione.
Cercano
di rafforzare i meccanismi di legittimazione dei propri livelli di reddito e di
ricchezza che giustificano che altri stiano peggio, o perfino che restino
esclusi dall’accesso a fondamentali diritti e opportunità.
In loro cresce il timore che la propria
ricchezza si possa dissipare in un breve lasso di tempo per l’instabilità
politica o per quella economica (ad esempio, a seguito dei crolli delle azioni
in borsa o della crisi dell’impresa familiare), e accumulano risentimento
credendo di essere colpiti dalle misure di austerità implementate dai governi
più duramente degli altri gruppi.
I veri
ricchi, come ha osservato “Francis Scott Fitzgerald” nel “Il grande Gatsby”,
«sono diversi da te e me», perché la loro ricchezza li rende «cinici dove noi
siamo fiduciosi» e li fa pensare che siano «migliori di noi».
I super ricchi americani – nel 2022, tre
multimiliardari, “Elon Musk”, “Jeff Bezos” e “Bill Gates “possedevano più
ricchezza della metà inferiore della società americana, ossia di 160 milioni di
americani – sono consapevoli che nel medio e lungo termine queste dinamiche
sociali ed economiche così inique (basti pensare che i maschi americani più
ricchi vivono 15 anni in più rispetto ai maschi americani più poveri, mentre
per le donne la differenza è di 10 anni) non sono sostenibili e in molti, oltre
a fare la tradizionale beneficenza filantropica, vivono nell’ansia che il paese
possa insorgere contro di loro e che nel prossimo futuro possano scoppiare
gravi disordini, sommosse, tensioni razziali e conflitti sociali.
I
super ricchi vivono in un’atmosfera paranoica (in linea con il «paranoid style»
presente nella storia della politica americana che venne denunciato dallo
storico “Richard Hofstadter” nel 1964 ) e temono l’arrivo del collasso
ambientale, di una catastrofe (come nei casi degli uragani Katrina e Irma o di
un’esplosione nucleare o di una tempesta solare), di una pandemia (come il
coronavirus CoVid-19), di una guerra civile, di una rivoluzione, di un hacking
digitale che distrugge tutto o di un collasso del governo e delle istituzioni.
Una
situazione di crollo dell’apparato statale che viene chiamata “wrol – without
rule of law” – cioè «fine dello stato di diritto».
Per
questo si preparano a sopravvivere («survivalism») rifugiandosi in bunker
sotterranei con armi automatiche e provviste o predisponendo vie di fuga in
rifugi dorati in isole sperdute o in case di lusso in Alaska e Nuova Zelanda,
un arcipelago di oltre 600 isole che ai loro occhi offre distanza e sicurezza,
ma dove di recente, proprio per contenere il «caro-casa» e bloccare la
«invasione» dei super ricchi americani e cinesi, il governo laburista ha
bloccato la possibilità di acquistare case da parte di stranieri non residenti.
Il
loro manifesto è il libro “The sovereign individual: how to survive and thrive
during the collapse of the welfare state”, pubblicato nel 1997 da “Simon &
Schuster”, i cui co-autori sono” James Dale Davidson”, un investitore privato
specializzato nel consigliare i ricchi su come trarre profitto dalle catastrofi
economiche, e il defunto “Lord William Rees-Mogg”, a lungo direttore del “Times”
(il cui figlio, £Jacob Rees-Mogg”, è deputato e ex-Ministro ultra-conservatore
pro-Brexit britannico).
Il
libro-manifesto è un testo apocalittico e distopico che preconizza il collasso
della civiltà occidentale basata sullo Stato-nazione, rimpiazzata da deboli
confederazioni di città-Stato corporative, con la presa del potere da parte di
una «élite cognitaria» globale, una classe di individui sovrani in grado di
controllare enormi risorse (“una sorta di neo-feudalesimo oligarchico”).
Inoltre,
molte delle persone più ricche della “Silicon Valley” (come “Peter Thiel”,
oltre che co-fondatore di “PayPal”, uno dei primi investitori in Facebook e un
libertario e tecno-elitista convinto, o “Serge Faguet”) e di “Wall Street “(come
“Julian Robertson”, guru degli” hedge funds”), stanno investendo a piene mani
nel «business dell’immortalità» per migliorare chi è già in salute e costituire
una nuova élite di super uomini potenziati in grado di controllare i “propri
algoritmi biochimici”, applicando a sé stessi forme di” biohacking” (che
uniscono l’alta tecnologia dell’intelligenza artificiale, “wellness”,
interventi anti-invecchiamento) – per cui c’è chi, come gli sviluppatori
dell’intelligenza artificiale” Sam Altman e Ray Kurzweil”, che cerca di
caricare la sua mente nei supercomputer, chi dorme su materassi
elettromagnetici, fa continui esercizi fisici sotto la guida di personal
trainer, segue rigide diete alimentari, si fa fare trasfusioni di cellule
staminali e prende fino a 150 pillole «cognitive» al giorno.
Finanziano
a piene mani la ricerca nell’”ingegneria genetica” (“modifiche del DNA e dei
telomeri”) e” biomedica” (organi artificiali), “medicina rigenerativa”, “nanotecnologie”
e” interfacce cervello-intelligenza artificiale”.
Di
recente, Facebook ha comprato per circa un miliardo di dollari “Ctrl-Labs”, una
startup che sta studiando il modo di comunicare con i computer tramite segnali
cerebrali (il pensiero) con l’obiettivo di utilizzare la tecnologia a
interfaccia neurale di “Ctrl-Labs” per sviluppare un braccialetto «che dia alle
persone il controllo dei loro dispositivi come una naturale estensione del
movimento».
Inoltre,
con l’avvento delle “tecnologie della biologia sintetica” ora i geni possono
essere prodotti e modificati ripetutamente.
La capacità di progettare cose viventi che
questa “evoluzione tecnico-scientifica” fornisce rappresenta un cambiamento
fondamentale nel modo in cui gli esseri umani interagiscono con la vita del
pianeta, potenzialmente di maggiore impatto rispetto” al sorgere
dell’agricoltura o dello sfruttamento dei combustibili fossili”.
Per i “super-ricchi”,
il futuro della tecnologia riguarda solo una cosa: fuggire dal resto
dell’umanità e dall’apocalisse che loro stessi stanno producendo.
Cercano di accumulare abbastanza denaro per
isolarsi dalla realtà terrestre devastata, elevarsi al di sopra dei comuni
mortali ed approntare la” propria exit strategy”.
Secondo
un “acuto storico scenarista” come “Yuval Noah Harari”, «due processi insieme –
la bio progettazione abbinata alla crescita dell’intelligenza artificiale –
potrebbero avere come conseguenza la divisione dell’umanità in una ristretta
classe di superuomini e in una sconfinata sottoclasse di” inutili Homo Sapiens”.
A peggiorare la già nefasta situazione, con la
perdita di importanza economica e potere politico delle masse, lo Stato perderà
gran parte dei motivi per investire in salute, educazione e welfare.
È
pericoloso essere superflui.
Il
futuro delle masse dipenderà allora dalla buona volontà di un’élite. Forse ci
sarà buona volontà per alcuni decenni.
Ma in
un momento di crisi – nel caso per esempio di una catastrofe climatica – sarà
facile essere tentati di scaricare le persone superflue».
Un
mondo in cui l’umanità cercherebbe di percorrere la strada del “dottor
Frankenstein” e potrebbe finire per essere divisa non più solo in diverse
classi sociali, ma addirittura «in diverse caste biologiche o persino in
diverse specie», con una casta superiore di entità super-intelligenti che
potrebbe decidere di costruire muri o colonie spaziali su altri pianeti (Luna e
Marte) per tenere fuori le masse dei «barbari» divenuti ormai irrilevanti
perché la loro forza lavoro sarebbe sostituita da quella di fedeli e meno
costosi robot e cyborg prodotti in serie e dotati di intelligenza artificiale,
in grado di dare vita ad una «robonomics ».
Da
questo punto di vista, grazie alla combinazione di bioingegneria, interfacce
cervello-intelligenza artificiale e ingegneria sociale, sembra ormai a portata
di mano la possibile costruzione di quel «mondo nuovo» distopico preconizzato
dalle visioni fantascientifiche di grandi scrittori come Aldous Huxley, George
Orwell (memorabile la sua descrizione dello Stato di sorveglianza), Isaac
Asimov, Philip K. Dick, Anthony Burgess, James D. Ballard, Cormac McCarthy e
dei narratori cyberpunk degli anni ’80 (William Gibson, Bruce Sterling, Pat
Cadigan, Rudy Rucker e altri), oltre che di grandi registi cinematografici come
Stanley Kubrick con 2001: Odissea nello Spazio, Ridley Scott con Blade Runner,
Steven Spielberg con Minority Report, James Cameron con la saga Terminator, le
sorelle Lana e Lilly Wachowski con The Matrix e Peter Weir con The Truman Show.
Per
questo molti dei “teorici dell’intelligenza artificial”e – guidati dal filosofo
“Nick Bostrom” – sostengono che lo scenario apparentemente fantascientifico di
un’intelligenza artificiale cosciente che sfugge al controllo umano (e in
effetti la storia della programmazione informatica è piena di piccoli errori
che hanno scatenato catastrofi) e si impadronisce del mondo, rappresenta una
minaccia esistenziale per l’umanità così enorme che è ora di prendere
provvedimenti – da parte dei parlamenti, dei governi, dell’ONU e degli altri
organismi internazionali – per evitare che ciò accada.
Affidarsi alla super-intelligenza artificiale
potrebbe essere un’enorme minaccia per la sopravvivenza dell’umanità ed è
possibile che ad un certo punto la stessa comunità dell’intelligenza
artificiale possa seguire l’esempio del movimento anti-nucleare degli anni ’40
del secolo scorso quando, dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, gli
scienziati si unirono per cercare di limitare ulteriori test nucleari.
Negli
ultimi tre decenni, una parte rilevante degli ultraricchi americani – con i
fratelli “Koch,” Dick e Betsy DeVos e” Lynde e Harry Bradley” in prima fila –
ha finanziato a piene mani la filantropia di orientamento conservatore.
La loro agenda è stata quella di cambiare il
dibattito pubblico in modo che fosse più accomodante nei confronti della loro
visione del mondo neoliberista e anarcocapitalista, contraria alla
regolamentazione della finanza, al miglioramento del salario minimo, ai
controlli sulle industrie inquinanti e alla creazione di un’assistenza
sanitaria universale.
Finanziano
accademici che negano il cambiamento climatico o propugnano un «nazionalismo
climatico» (ponendo l’accento sul pericolo che il cambiamento climatico pone
agli interessi nazionali), sostengono “think-tanks” del libero mercato,
stringono alleanze con gruppi religiosi conservatori, finanziano stazioni
televisive e radio populiste e creano «istituti aziendali» all’interno delle
università, che consentono loro, non ai consigli universitari, di selezionare
gli accademici.
Allo
stesso tempo, c’è anche un altro crescente segmento «illuminato» di ultraricchi
americani – guidato da “Bill e Melinda Gates e da George Soros” – che promuove
l’idea di cambiamento sociale e che aspira a guidarlo.
Vogliono essere adulati, si aspettano di
essere elogiati come eroici creatori di posti di lavoro e come esempi di uomini
d’affari innovativi e moralmente integri e responsabili che non hanno
beneficiato di un «sistema truccato».
La maggior parte dei miliardari, ha affermato “Zuckerberg”,
sono semplicemente «persone che fanno cose veramente buone e che aiutano un
sacco di altre persone; e per questo sono ben ricompensati».
Molti
di questi ultraricchi si ritengono altruisti e sostengono finanziariamente
movimenti sociali iniziati da altri che cercano di cambiare aspetti specifici
della società.
Più
spesso, avviano nuove iniziative autonome gestite non in modo democratico, e
che non riflettono realmente la ricerca di soluzioni collettive o universali,
ma piuttosto privilegiano l’uso del settore privato e delle sue appendici
universitarie, di comunicazione e istituzionali/fondazionali filantropiche,
nate principalmente per eludere le tasse e mantenere il controllo delle
corporations che accumulano ricchezza.
Sostengono
che la soluzione ai problemi del mondo attuale – prevenire il riscaldamento
globale, promuovere la diversità e l’inclusione, eliminare la povertà,
prepararsi alle nuove pandemie – debba essere trovata nel mercato privato,
nelle tecnologie sviluppate dalle imprese e nell’azione volontaria gestita in
modo imprenditoriale, non nella vita politica pubblica, nella democrazia
partecipativa, nell’azione di governanti eletti e responsabili nei confronti di
cittadini/elettori, nella legge, nell’intervento redistributivo e regolativo
statale.
Il
magnate del computer” Michael Dell”, la 39esima persona più ricca al mondo, ad
esempio, a Davos 2019 ha affermato che: «Mi sento molto più a mio agio con la
nostra capacità […] di allocare quei fondi rispetto che a darli al governo».
Sono
convinti che la tassazione tolga la libertà di scegliere di essere dei
benefattori virtuosi e che gli strumenti, le mentalità e i valori che li hanno
aiutati ad essere dei vincenti, siano il segreto per rimediare alle ingiustizie
sociali.
Per cui, paradossalmente, coloro che con
metodi predatori e spesso monopolistici (o semplicemente per avere ereditato
giganteschi patrimoni finanziari dai loro padri o nonni) sono tra i maggiori
beneficiari dell’attuale sistema economico, ma anche tra i maggiori
responsabili delle crescenti disuguaglianze sociali, si mobilitano per
difendere le loro rendite di posizione, mentre pretendono di presentarsi come
salvatori dell’umanità da un’epoca di disuguaglianze e catastrofe ambientale.
Dei riformatori che vogliono «cambiare il
mondo per renderlo un posto migliore».
Ma,
nel migliore dei casi, questi paladini del «filantrocapitalismo» cercano di
curare i sintomi, non di affrontare le cause profonde del disagio sociale.
La filantropia è la disposizione dell’animo a
iniziative umanitarie che si traduce in attività dirette a realizzarle, mentre
il filantropo è senza dubbio una persona generosa che aiuta il prossimo, ma è
altresì una persona molto ricca che usa una parte del suo cospicuo patrimonio
per iniziative caritatevoli.
Sentimento
e carità, non diritti.
Attraverso
la filantropia gli ultraricchi migliorano la propria immagine pubblica e
condizionano il dibattito pubblico, spostando l’attenzione da soluzioni
politicamente più radicali che potrebbero risolvere i problemi per tutti, ma
metterebbero in discussione le basi e la legittimità della loro enorme
ricchezza.
Finanziano progetti per nutrire gli affamati,
creare posti di lavoro per «soggetti deboli», costruire alloggi di “housing
sociale” e migliorare i servizi, ma tutto questo lavoro a fin di bene può
essere spazzato via da tagli alla spesa pubblica, prestiti predatori o bassi
livelli di retribuzione.
Essendo
le persone che più hanno da perdere da un vero cambiamento sociale, di fatto,
per loro la società dovrebbe essere cambiata secondo modalità che non cambiano
il sistema economico sottostante che ha permesso loro di essere dei vincitori
ma, allo stesso tempo, ha favorito l’acuirsi di molti problemi sociali,
economici ed ambientali che essi ora vorrebbero cercare di risolvere con la
beneficenza.
Un’operazione
«gattopardesca», una sorta di «smokescreen», di cortina fumogena di autodifesa
conservatrice in linea con l’affermazione «se vogliamo che tutto rimanga come
è, bisogna che tutto cambi» dell’aristocratico “Tancredi Falconeri “nel romanzo
di “Giuseppe Tomasi di Lampedusa”.
Così ci sono i finanzieri di Goldman Sachs e
BlackRock che cercano di cambiare il mondo attraverso iniziative «win-win»
(soluzioni vantaggiose per tutti) come i «green bonds», l’investimento” ESG”
(ossia attento alle politiche aziendali in campo ambientale, sociale e della
governance), l’«impact investing» nei «purpose-driven brands» (portafogli
basati su attività che curano l’ambiente e portano benefici per la società), il
«social venture capital» e il miglioramento della qualità della governance.
Oppure, aziende tecnologiche come “Uber” e “Airbnb”
che si dipingono come strumenti che danno potere ai poveri, consentendo loro di
fare gli autisti o di affittare stanze delle loro case ai turisti, ma operano
per deregolamentare i settori dei taxi e dell’accoglienza turistica, erodere i
diritti dei lavoratori e aumentare il controllo delle corporations su privacy e
dati delle persone.
O finanzieri che cercano di convincere il
mondo dell’associazionismo sociale che la ricerca di una maggiore uguaglianza
debba essere perseguita accettando posti nei consigli di amministrazione e
posizioni di leadership.
Ancora, “grandi corporations” costruite e
gestite in modi discutibili che si dichiarano impegnate nel perseguire la
responsabilità sociale d’impresa e lo «stakeholder capitalism», tenendo conto
del benessere dei consumatori, dei dipendenti, dei fornitori, della comunità in
cui opera l’impresa.
D’altra parte, sappiamo che i consumatori
tendono a premiare le imprese che appaiono eticamente responsabili, oppure
possono causare danni seri attraverso i boicottaggi, coordinati sui social
media, a quelle che violano apertamente i princìpi di equità e correttezza.
Ma,
qualunque sia il bene che questi ultraricchi e le” global corporations” che
essi controllano potrebbero fare, l’instancabile spinta verso l’efficienza, la
sistematica distruzione del potere dei sindacati, la massimizzazione del valore
per gli azionisti, l’avvelenamento dell’ambiente naturale e l’evasione o
elusione delle tasse (non pagano la loro giusta quota anche grazie agli
incentivi fiscali per le donazioni filantropiche) minano la qualità e le basi
stesse dello Stato democratico, privando necessariamente la maggior parte delle
persone della loro dignità, del loro potere sociale e politico, della loro
voce, dei loro diritti e della possibilità di incidere sullo stato reale delle
cose, migliorando l’istruzione e l’assistenza sanitaria universale e riducendo
la povertà e i disagio abitativo.
Il
presidente “Theodore Roosevelt” dava un duro giudizio dei ricchi filantropi
come “John D. Rockefeller”, esponente di spicco della generazione dei “robber
barons “cinici costruttori dei grandi imperi monopolistici del capitalismo
americano convertitosi alla filantropia industriale, sostenendo che «nessuna
quantità di beneficenza nello spendere tali fortune può in alcun modo
compensare la cattiva condotta nell’acquisirle».
La risposta di “Roosevelt” ai “robber barons”
era di applicare delle norme antitrust e di tassare la ricchezza.
Un’imposta
federale sui redditi venne introdotta nel 1913, la tassa di successione fu
emanata nel 1916 e l’imposta sulle plusvalenze nel 1922.
“Thomas
Paine” (1737–1809), un rivoluzionario, politico intellettuale, filosofo
illuminista e studioso britannico, estensore de “I diritti dell’uomo” (1791) e
dell’”opuscolo di 47 pagine “Common Sense” contro i «ruffiani incoronati» che
divenne virale nelle colonie americane quando fu pubblicato nel “gennaio 1776”,
viene considerato uno dei «padri fondatori» degli Stati Uniti d’America e
riteneva che la ricchezza estrema dovesse essere tassata perché mina
l’uguaglianza essenziale per il funzionamento del governo repubblicano.
Il
giovane storico olandese “Rutger Bregman” ha suscitato scandalo per aver detto
al “meeting di Davos 2019 “che «il re è nudo», che la volontà degli ultraricchi
del «club dei globalisti» di impiegare parte delle loro ricchezze nelle
fondazioni filantropiche, piuttosto che vederla spesa da uno “Stato legittimo”,
è una forma di anarchismo e una «cazzata»:
«sento
persone che parlano il linguaggio della partecipazione, della giustizia,
dell’uguaglianza e della trasparenza, ma nessuno solleva il vero problema
dell’elusione fiscale e dei ricchi che semplicemente non pagano la loro giusta
quota».
Se nel mondo vigesse un’equa distribuzione
delle risorse non ci sarebbe tanto spazio per la filantropia, perché non ci
sarebbero più i pochi plutocrati o oligarchi che detengono più della metà delle
risorse del pianeta.
D’altra
parte, negli Stati Uniti, il paese dove le statistiche mostrano che la
filantropia è più diffusa e massiccia, appena un quinto del denaro donato dai
grandi donatori va ai poveri.
Molto va alle arti, alle squadre sportive e ad
altre attività culturali, e la metà va all’istruzione e all’assistenza
sanitaria.
Le donazioni più grandi nel settore
dell’istruzione nel 2019, però, sono andate alle università e alle scuole
d’élite frequentate dagli stessi ricchi.
Gli
ultra ricchi filantropi dicono di volere una società più giusta, ma non sono
disponibili a discutere su quali debbano essere gli strumenti realmente
necessari, come se ad una conferenza dei vigili del fuoco «nessuno avesse il
permesso di parlare dell’acqua», ha affermato “Bregman”.
“Apple”,
“Googl”e, “Amazon” e tante altre aziende come loro e anche i loro azionisti
pretendono di essere considerati dei soggetti socialmente responsabili, ma il
primo elemento della responsabilità sociale dovrebbe essere quello di pagare
una giusta quota di tasse.
“Amazon”
ha realizzato un profitto di 11,2 miliardi di dollari nel 2018, ma non ha
pagato alcuna imposta federale per il secondo anno consecutivo, a causa di vari
«crediti d’imposta» non specificati e il tax break per le stock options dei
suoi amministratori.
Lo
stesso è successo per “Netflix” (un profitto di 845 milioni e zero tasse
federali o statali pagate).
Il numero di aziende che hanno pagato zero
imposte societarie è raddoppiato nel 2018 per effetto della riforma fiscale di
Trump del 2017 e tra queste c’erano, oltre “Amazon” e “Netflix”, anche altre
delle più redditizie corporations (60 delle Fortune 500):
Delta Airlines, Chevron, General Motors, EOG
Resources, Duke Energy, Occidental Petroleum, Dominion Energy, Honeywell, Deere
& Co, American Electric Power, Hulliburton, IBM, Saleforce.
Zero
tasse per un totale di utili pari a 79 miliardi di dollari nel 2018.
“Amazon”
ha anche costretto” Seattle”, la sua città natale, a” fare marcia indietro su
un piano volto a tassare le grandi corporations per finanziare un programma di
edilizia popolare per i senzatetto” e per una popolazione in crescita che non
può permettersi gli altissimi affitti causati in parte dalla stessa “Amazon”.
Se
tutti evitassero e evadessero le tasse come queste società – che, grazie alle
catene del valore e all’esercizio dei diritti di proprietà intellettuale hanno
di fatto reso inapplicabile il sistema del cosiddetto “transfer pricing” basato
sul principio che le tasse si pagano dove si svolge un’attività economica – la
società e lo Stato non potrebbero funzionare, né tanto meno fare quegli
investimenti pubblici che hanno portato a “Internet”, da cui le stesse “Google,”
Apple”, “Facebook”, “Amazon” e “Microsoft” dipendono.
(Alessandro
Scassellati).
Una
discussione sulla società
globale
del rischio.
Juragentium.org
- Ulrich Beck, Danilo Zolo – (20-5-2020) – ci dice:
1.
Verso una nuova modernità.
D.Z.
C'è a mio parere una profonda continuità teorica fra i tuoi libri precedenti --
in particolare Risikogesellschaft e Gegengifte -- e l'ultimo tuo libro, Was ist
Globalisierung?, che sta per uscire in edizione italiana presso l'editore
romano Carocci.
U.B. È
vero. Nel mio libro “Società del rischi”o, che è apparso in Germania nel 1986,
avevo proposto la distinzione fra una prima e una seconda modernità.
Avevo
caratterizzato la prima modernità nei seguenti termini: una società statale e
nazionale, strutture collettive, pieno impiego, rapida industrializzazione, uno
sfruttamento della natura non 'visibile'.
Il modello della prima modernità -- che
potremmo anche chiamare semplice o industriale -- ha profonde radici storiche.
Si è
affermato nella società europea, attraverso varie rivoluzioni politiche ed
industriali, a partire dal Settecento. Oggi, alla fine del millennio, ci
troviamo di fronte a ciò che io chiamo 'modernizzazione della modernizzazione'
o 'seconda modernità' od anche 'modernità riflessiva'.
Si
tratta di un processo nel quale vengono poste in questione e divengono oggetto
di 'riflessione' le fondamentali assunzioni, le insufficienze e le antinomie
della prima modernità.
E a
tutto ciò sono collegati problemi cruciali della politica moderna. La modernità
illuministica deve affrontare la sfida di cinque processi: la globalizzazione,
l'individualizzazione, la disoccupazione, la sottoccupazione, la rivoluzione
dei generi e, “last but not least,” i rischi globali della crisi ecologica e
della turbolenza dei mercati finanziari.
Penso
che si stiano affermando un nuovo tipo di capitalismo e un nuovo stile di vita,
molto diversi dalle fasi precedenti dello sviluppo sociale.
Ed è per queste ragioni che abbiamo urgente
bisogno di nuovi quadri di riferimento sia sul piano sociologico che su quello
politico.
D.Z.
Nelle tue pagine l'analisi dei dilemmi e dei rischi della globalizzazione mi
sembra condotta con molta lucidità e vigore critico.
È questo secondo me l'aspetto più stimolante
del tuo libro, che del resto è, in generale, tematicamente molto ricco,
brillante e tutt'altro che apologetico nei confronti della presente situazione
internazionale e dei potentati politici ed economici che la governano.
Nello stesso tempo, però, tu continui a
suggerire un atteggiamento sostanzialmente ottimistico, anche se si tratta, per
così dire, di un 'ottimismo drammatico'.
U.B.
No, non parlerei di ottimismo ...
Come si può essere ottimisti di fronte
all'attuale situazione del mondo?
Ma
d'altra parte, come si fa ad essere soltanto pessimisti? Il mondo che ci sta di
fronte è carico di paradossi che non possono non renderci perplessi.
Dobbiamo liberarci da alcune certezze
antropologiche del passato e nello stesso tempo tentare di costruire, in mezzo
ad una quantità di contraddizioni e di rotture, linee di coerenza e di
continuità.
Speranza
e disperazione non possono non intrecciarsi nella nostra esperienza. Guardiamo
ad esempio all'Europa.
Un secolo buio, nel quale abbiamo avuto due
sanguinose guerre mondiali, l'Olocausto, il fascismo e l'imperialismo comunista
è finalmente al tramonto e sta lasciando il posto alla prospettiva di un'Europa
democratica da costruire nei prossimi anni.
Non
sono queste ragioni sufficienti per essere ottimisti e pessimisti nello stesso
tempo?
D.Z. E
tuttavia l'intento ultimo del tuo libro, attraverso un'interpretazione che tu
stesso chiami 'dialettica', è di presentare la globalizzazione come foriera di
una nuova modernità.
La 'società del rischio' -- a livello
nazionale come a livello globale -- non comporta, tu sostieni, un congedo dalla
tradizione illuministica, come vogliono invece le tendenze irrazionalistiche
del 'post-moderno'.
Al
contrario, tu ti sforzi di delineare una teoria sociale che nella scia di “Weber”
rintracci nel presente il profilo di una nuova modernità.
Come
nel secolo diciannovesimo la modernizzazione industriale ha dissolto e superato
il sistema corporativo della società rurale, così la modernità globale è
destinata, secondo te, a superare le attuali forme della politica
'nazional-statale' e dell'economia tardocapitalistica.
È così?
U.B.
Si, è vero, ma nello stesso tempo cambiano, come ho detto, le assunzioni
fondamentali, l'antropologia e il paradigma stesso della modernità.
Certo,
il termine 'modernità' ha sempre significato anche crisi in atto, discontinuità
e incertezze.
Ma ciò
che distingue la 'modernità riflessiva' e la rende problematica è il fatto che
dobbiamo trovare risposte radicali alle sfide e ai rischi globali prodotti
dalla modernità stessa.
Le sfide potranno essere vinte se riusciremo a
produrre più e migliore tecnologia, più e migliore sviluppo economico, più e
migliore differenziazione funzionale.
E queste sono le condizioni per battere la
disoccupazione, la distruzione dell'ambiente naturale, l'egoismo sociale e così
via.
2. Un
dialogo globale fra le culture.
D.Z.
Permettimi una obiezione:
che
cosa può significare esattamente 'nuova modernità' se, come tu fai, ci si
riferisce non soltanto al mondo europeo ed occidentale, ma a tutte le culture
del globo?
Non
c'è qui il rischio di adottare una prospettiva eurocentrica, di finire
involontariamente in forme di 'imperialismo' antropologico e culturale, come
fanno secondo me i più noti “Western globalists”, a cominciare da “David Held”,
“Richard Falk” e, in qualche misura, anche “Jürgen Habermas”?
Le riflessioni di “Samuel Huntington” sul
conflitto fra le civiltà non contengono, nonostante la loro evidente debolezza
teorico-politica, almeno un'avvertenza cautelativa da accogliere?
E cioè
che i valori occidentali, per quanto preziosi, non sono affatto universali e
non possono essere 'esportati' con la forza, la pressione economica o la
propaganda.
U.B.
Personalmente non condivido l'immagine del mondo contemporaneo che “Samuel
Huntington” ha dipinto.
La mia
impressione è che quando Huntington parla di 'scontro fra civiltà' in realtà ha
presente l'esperienza di un maschio bianco e protestante minacciato dalla
rapida emergenza di un'America del Nord ormai divenuta multiculturale e sempre
più influenzata da tradizioni culturali di origine non europea.
La mia teoria della 'seconda modernità' è un
serio tentativo di superare ogni tipo di 'imperialismo occidentale' ed ogni
concezione unidirezionale della modernità. Io mi propongo di superare il
pregiudizio evoluzionistico che affligge larga parte della scienza sociale
occidentale.
È un
pregiudizio che relega le società non occidentali contemporanee nella categoria
del 'tradizionale' e del 'premoderno' e in questo modo, anziché definirle dal
loro proprio punto di vista, le concepisce in termini di opposizione alla
modernità o di non modernizzazione.
Molti
pensano persino che lo studio delle società occidentali premoderne possa
aiutarci a capire le caratteristiche che i paesi non occidentali presentano
oggi. 'Seconda modernità' significa al contrario che dobbiamo collocare con
fermezza il mondo non occidentale nell'ambito della 'modernizzazione della
modernizzazione' e cioè entro un pluralismo di modernità.
In
questa prospettiva c'è spazio per concettualizzare la possibilità di
traiettorie divergenti della modernità.
D.Z.
Condivido il senso di questo tuo tentativo, anche se conservo qualche dubbio
sulla possibilità di universalizzare la categoria di 'modernità'.
Ma, a
questo proposito, che cosa pensi di autori giapponesi, malesi e cinesi, come “Shintaro
Ishihara”, “Mahathir Mohammed”, “Son Qiang” e “Zhang Xiaobo”, che rifiutano i
valori politici e culturali della modernità occidentale pur accettando
l'industrialismo e l'economia di mercato?
Il rifiuto, come è noto, riguarda in
particolare la tradizione liberaldemocratica e la dottrina dei diritti
dell'uomo.
C'è fra di loro chi rivendica contro
l'occidente l'universalità dei 'valori asiatici'. “Lee Kuan Yew”, il celebre
re-filosofo di Singapore, ha sostenuto ad esempio che la tradizione confuciana,
con la sua concezione paternalistica del potere e la sua idea organica della
società e della famiglia, offre il quadro ideologico più adatto per contenere
gli effetti 'anarchici' dell'economia di mercato e per attenuare le spinte
disgregatrici dell'individualismo e del liberalismo occidentale.
U.B.
Si tratta di un dibattito molto importante e stimolante.
Anzitutto noi occidentali dobbiamo prendere
atto del fatto che sono in corso ampie discussioni -- in Asia, in Africa, in
Cina, nell'America del Sud -- che hanno per oggetto il tema delle 'modernità
divergenti'.
Nel
mio libro “Was ist Globalisierung”?
ho tentato di contribuire a questo dialogo
globale distinguendo il 'contestualismo universale o relativismo', che è un
atteggiamento post-moderno, dall''universalismo contestuale', che supera
l'alternativa rigida fra l'affermazione di un (unico) universalismo e la
negazione di ogni possibile universalismo.
In questa prospettiva possono convivere sia il
mio che il tuo universalismo e cioè una pluralità di universalismi diversi.
Su
questo punto dobbiamo essere molto precisi.
Nella “società
globale del rischio” le società non occidentali hanno in comune con le società
occidentali non solo lo stesso spazio e lo stesso tempo ma anche alcune delle
sfide fondamentali della seconda modernità, anche se percepite entro ambiti
culturali diversi e secondo prospettive divergenti.
Questi aspetti di analogia fra situazioni
diverse sono stati illustrati da un recente dibattito, 'Korea:
A Risk
Society', che è apparso sul Korea Journal (30, 1998, 1).
I saggi presentati in questo volume sono un
ottimo esempio di come l'identica situazione di rischio prodotta da una
modernizzazione troppo rapida può dar vita a prospettive culturali divergenti e
proprio per questo molto interessanti sia dal punto di vista teorico che da
quello politico.
3.
Globalismo economico e fondamentalismo mercantile.
D.Z.
Apprezzo il tuo accenno alla necessità di un 'dialogo globale' fra le culture e
tuttavia questo dialogo mi sembra, per quanto riguarda l'occidente, ancora
molto lontano dall'essere non dico avviato, ma neppure concepito.
Ma
ritorno ad un tema centrale della tua elaborazione teorica.
La
società del rischio -- avevi sostenuto in “Risikogesellschaft” -- è una società
che, nonostante tutto, ha a disposizione nuove possibilità di trasformazione e
di sviluppo razionale della condizione umana: maggiore uguaglianza, maggiore
libertà individuale e capacità di autoformazione.
L'imperativo che allora formulavi era la
necessità che la prospettiva di una nuova 'ecologia politica' riuscisse a
prevalere sugli schemi della logica puramente economica della produzione, del
consumo e del profitto.
Analogamente
oggi sostieni che i rischi che minacciano la società globalizzata possono
mobilitare -- soprattutto nel mondo occidentale -- nuove energie sociali e
politiche.
Ti
domando: che cosa ti induce a pensare che una politica transnazionale possa
riuscire a prevalere sugli schemi del 'globalismo economico' e che un senso
collettivo di responsabilità per le sorti del mondo possa contrastare l'apatia
e il disincanto politico -- si è recentemente parlato di neo-edonismo e di
neo-cinismo delle nuove generazioni -- che oggi dilagano in occidente?
U.B.
Quando ho scritto il mio libro sulla globalizzazione, e cioè un anno e mezzo
fa, la critica del globalismo neoliberale sembrava assolutamente 'idealistica',
nella vecchia accezione tedesca del termine.
Ma noi viviamo davvero in un mondo ove tutto è
fortemente accelerato e difficilmente controllabile.
In questo breve periodo di tempo l'attenzione
pubblica mondiale si è concentrata sulla questione di come controllare il
mercato finanziario globale e i suoi rischi globali.
Ci si
chiede come dovrebbe o potrebbe essere una globalizzazione responsabile e come
possa diventare una realtà concreta.
Il
fondamentalismo mercantile, naturalmente, assume che i mercati finanziari siano
dei sistemi capaci di autoregolazione e che tendano costantemente
all'equilibrio.
Nel
suo ultimo libro “George Soros” usa la nozione di 'riflessività' (anche”
Anthony Giddens” la usa e la uso anch'io) per proporre un punto di vista più
realistico.
Egli
sostiene che a causa del carattere riflessivo dei mezzi di informazione i
mercati finanziari tendono all'instabilità.
Possono
divenire caotici, essere influenzati da effetti di” bandwaggon”, da
comportamenti di massa irrazionali e da fenomeni di panico.
Per
queste ragioni i mercati finanziari globali appartengono alla categoria della
società mondiale del rischio.
La principale conseguenza di tutto questo è
che l'era dell'ideologia del libero mercato è ormai una vaga reminiscenza.
Si sta verificando esattamente il contrario:
la politicizzazione del mercato globale. In Asia sta accadendo qualcosa che si
potrebbe chiamare una “Chernobil economica”:
il
carattere 'socialmente esplosivo' del rischio finanziario globale sta
diventando una realtà.
E ciò dà vita ad una dinamica di
trasformazione culturale e politica che indebolisce le burocrazie, contesta
l'egemonia dell'economia classica, sfida il neoliberismo e ridisegna i confini
e le arene della politica contemporanea.
Si affacciano nuove opzioni politiche: il
protezionismo nazionale e regionale, il ricorso a meccanismi di regolazione e a
istituzioni sovranazionali e, infine, la questione della loro
democratizzazione.
D.Z. E
dunque, secondo te, tutto questo può aprire nuove prospettive e far emergere
forze politiche transnazionali.
È una possibilità, lo ammetto, anche se in
questo momento non mi sembra di scorgere molti indizi in questo senso.
Riconosco
comunque che in questo libro ti sei sforzato di analizzare i vari aspetti del
processo di globalizzazione al di fuori degli schemi tradizionali che
contrappongono i fautori della globalizzazione come sviluppo coerente della
modernità occidentale ai suoi detrattori.
Questi
ultimi vedono nella globalizzazione essenzialmente un fattore di turbolenza e,
nello stesso tempo, un'inarrestabile deriva verso la concentrazione del potere
internazionale, l'aumento del divario fra paesi ricchi e paesi poveri e
l'appiattimento delle diversità culturali.
Ti chiedo: quali argomenti opponi a chi sostiene
che i processi di globalizzazione tendono a gerarchizzare ulteriormente i
rapporti internazionali ponendo al vertice del potere e della ricchezza un
direttorio di potenze industriali, anzitutto gli Stati Uniti, l'Unione Europea ,
il Giappone e la Cina.
U.B.
C'è una forte tendenza a porre il segno di equazione fra globalizzazione e
americanizzazione o persino fra globalizzazione e nuovo imperialismo.
Ma questa non è tutta la verità.
Ci sono prove evidenti che la globalizzazione
diviene sempre più un fenomeno decentrato, non controllato e non controllabile
da un singolo paese o da un gruppo di paesi.
In realtà le conseguenze della globalizzazione
colpiscono o possono colpire gli Stati Uniti come la Francia, l'Italia, la
Germania o i paesi asiatici.
Questo è vero per lo meno per i rischi
finanziari, per i mezzi di comunicazione e per gli squilibri ecologici (il
riscaldamento dell'atmosfera, ad esempio).
Lo Stato nazionale è sottoposto a sfide in
modo eguale nell'America del Sud come in Asia, in Europa o nell'America
settentrionale.
Ci sono persino fenomeni di 'colonizzazione
inversa'.
Accade cioè che dei paesi non occidentali
modellino forme di sviluppo in occidente.
Si
pensi alla 'latinizzazione' di alcune grandi città statunitensi, all'emergenza
in India e in Malesia di un settore di alta tecnologia senza radici
territoriali e orientato al mercato globale, oppure all'acquisto da parte del
Portogallo di una grande quantità di prodotti musicali e televisivi del
Brasile.
Ma,
naturalmente, ci sono dei vincitori e dei perdenti nel gioco della
globalizzazione.
Una
minoranza diventa sempre più ricca e una maggioranza crescente diviene sempre
più povera.
La quota della ricchezza globale che è andata
al 5% più povero della popolazione mondiale è passata negli ultimi dieci anni
dal 2,3% all'1,4%.
Nello
stesso periodo la quota accaparrata dal 5% più ricco della popolazione mondiale
è cresciuta dal 70% all'85%.
Come
ha scritto recentemente un autore inglese, piuttosto che di 'villaggio globale'
(global village) è il caso di parlare di 'saccheggio globale' (global pillage).
D.Z. E
non ti sembra dunque che la concentrazione del potere internazionale abbia come
conseguenza una crescente inclinazione delle grandi potenze a violare o
aggirare il diritto internazionale?
Come
giudichi, a questo proposito, la tendenza degli Stati Uniti ad erigersi a
gendarme del mondo attraverso un uso strumentale anche del Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite?
Non ti
pare che questo sia recentemente avvenuto in quella che è stata chiamata la
'terza guerra' del Golfo Persico?
Non c'è il rischio che questo alimenti -- e
agli occhi di molti finisca per giustificare -- il terrorismo internazionale?
U.B.
Si, come ho detto, viviamo in una società mondiale del rischio.
Il mondo sta diventando caotico.
Non mi
è difficile immaginare la possibilità di un gran numero di disastri.
'Seconda modernità' non significa che ogni
cosa debba andare per il suo verso. Sarebbe una profonda incomprensione del mio
punto di vista.
Ci
sono dietro l'angolo nuove minacce che nessuno è preparato ad affrontare. Io
stesso sto lavorando da qualche anno ad un nuovo libro sul 'cattivo cittadino':
è il cittadino che usa le sue libertà per
contrastare le incertezze sociali che si trova dinanzi e nelle quali è immerso.
Ma questo atteggiamento non è sufficiente.
Sarebbe
intellettualmente troppo facile.
Molto
più difficile è tentare di ricostruire e di sviluppare le nuove opzioni, i
nuovi orizzonti sociali e politici che stanno emergendo.
Insomma
è troppo facile essere oggi unilateralmente pessimisti. Io sono simultaneamente
ottimista e pessimista.
Il mio interesse è scoprire ciò che è nuovo.
Le
idee fondamentali della mia teoria della società del rischio vanno oltre
l'ottimismo e il pessimismo.
D.Z.
Sono d'accordo con te, anche se con la mia domanda non intendevo sollecitarti
ad una dichiarazione di pessimismo ma a un giudizio specifico sul processo di
gerarchizzazione del potere internazionale -- a mio parere oggi in atto -- e
sulla funzione che in questo quadro svolgono le istituzioni internazionali e
gli Stati Uniti.
Condivido
comunque il tuo rifiuto del fatalismo.
4.
Verso una 'McDonaldizzazione' della società globale?
D.Z.
Nel tuo ultimo libro hai scritto alcune pagine, che io trovo molto
interessanti, per criticare il fatalismo di chi giura nella inevitabile
omologazione culturale del pianeta.
La tesi di “George Ritzer “della “McDonaldization
of society”, sostieni, è sbagliata. Ed è esagerato pensare che la
globalizzazione culturale sia un rullo compressore che produce
l''occidentalizzazione del mondo'.
Questa
tesi è sostenuta, come è noto, da “Serge Latouch”. Ma anche altri sociologi
della globalizzazione – “Mike Featherstone” e “Bryan Turner”, ad esempio --
pensano che siamo in presenza di fenomeni di 'creolizzazione' delle culture
indigene.
Si
tratterebbe di una estesa contaminazione di culture deboli da parte dei modelli
di consumo e degli stili di vita che i grandi mezzi di comunicazione di massa
-- quasi sempre radicati in occidente -- diffondono nel mondo, in particolare
attraverso la comunicazione pubblicitaria.
È un fenomeno, essi sostengono, di distruzione
della diversità, della complessità e della bellezza del mondo.
U.B.
Per me questo è uno degli aspetti più affascinanti del dibattito sulla
globalizzazione culturale che impegna in particolare scrittori anglosassoni --
antropologi e teorici della cultura -- come Appadurai, Robertson, Featherstone,
Lash, Urry, Albrow, Eade e molti altri.
C'è un
nuovo significato della dimensione locale che emerge nell'era della
globalizzazione.
L'intera letteratura che se ne occupa offre
una pittoresca e convincente controprova del semplicistico stereotipo della
'McDonaldizzazione del mondo'.
Ciò
che è chiaro è che in questo orizzonte transnazionale si formano, spesso
illegalmente, degli amalgami sociali che minacciano seriamente l'aspirazione
degli Stati nazionali ad esercitare un controllo territoriale e a garantire
l'ordine.
Gli spazi della vita privata e del lavoro che
ne derivano sono 'impuri'.
Per
analizzare questi fenomeni la sociologia deve abbandonare schemi di interpretazione
troppo rigidi ed ammettere la possibilità di coesistenza di forme di vita
diverse.
D.Z.
Ma pensi davvero che ci siano culture e civiltà capaci di resistere
all'imponente deriva che diffonde nel mondo la scienza, la tecnologia, la
burocrazia, l'industrialismo e l'individualismo occidentale?
E che
cosa può ridurre, non dico arrestare, il fenomeno della migrazione di massa dai
paesi poveri ai paesi industrializzati, con tutte le conseguenze che questo
comporta in termini di diseguaglianza sociale, di sfruttamento del lavoro e di
distruzione delle identità culturali?
I processi di globalizzazione possono favorire
-- o invece al contrario soffocare -- le spinte verso l'autonomia etnica o
l'indipendenza nazionale?
Penso ad esempio, fra i moltissimi altri, ai
tamil, ai palestinesi, ai curdi, ai baschi, ai corsi.
U.B.
Ci sono secondo me due modi di concepire e di concettualizzare la
globalizzazione: due modi che devono essere tenuti nettamente distinti.
Uno corrisponde all'idea di una
globalizzazione semplice e lineare, l'altro corrisponde al concetto di
'globalizzazione riflessiva'.
La
versione semplice rinvia alla teoria che potremmo definire del 'contenitore
sociale':
il
contenitore è la società statale e nazionale, fondata su un'identità collettiva
più o meno omogenea.
La
globalizzazione da questo punto di vista è qualcosa che si aggiunge, che
proviene dall'esterno e che perciò ci minaccia e persino ci aggredisce nella
nostra comune identità.
Nella
prospettiva della concezione riflessiva della globalizzazione la stessa
definizione di società e di comunità cambia radicalmente.
Vivere
assieme non ha più il significato di risiedere in luoghi geograficamente
contigui. Può anche significare vivere assieme scavalcando i confini statali e
anche quelli continentali.
E questo vale non soltanto per gli 'attori
globali' e per i managers del capitalismo globale, ma anche, ad esempio, per il
tassista indiano che lavori a Londra o per dei messicani che vivano a New York
o nel Messico e che decidano a cavallo delle frontiere su affari comuni da
realizzarsi in città messicane. Questi sono solo alcuni esempi, ma la
letteratura è vastissima.
Ne
deriva che l'insediamento territoriale non è più, com'era al tempo dello Stato
nazionale, un imperativo per la vita sociale e per il realizzarsi di una
comunità. Bisogna aggiungere che le relazioni e i legami sociali e politici di
natura non territoriale che si sviluppano nella società cosmopolitica non sono
stati ancora scoperti, affermati e incoraggiati. Insomma, io rispondo alla tua
domanda dicendo: si, io credo che lo sviluppo della modernità non sia lineare e
che possa spezzarsi in qualsiasi momento per ragioni endogene. La 'gabbia
d'acciaio' della modernità di cui parlava Weber si sta aprendo, sollecitata da
una pluralità di modernizzazioni divergenti.
D.Z.
La globalizzazione, sostieni nel tuo libro, è una realtà irreversibile -- a
livello economico, ecologico, tecnico-comunicativo, civile, dell'organizzazione
del lavoro, etc. -- che nessun protezionismo, vecchio o nuovo, può arrestare o
condizionare: né il protezionismo 'nero' dei nazionalisti, ormai obsoleto; né
il protezionismo 'verde' degli ecologisti radicali che oggi riscoprono lo Stato
nazionale come un 'biotipo' in estinzione e si affannano a proteggerlo; né,
infine, il protezionismo 'rosso' che rilancia anacronisticamente a livello
mondiale la parola d'ordine della lotta di classe.
U.B.
Si, è così. C'è un 'riflesso protezionistico' presente in tutti i paesi e che è
sostenuto da tutti i partiti politici.
Naturalmente
se ne possono capire le ragioni. Nessuno è preparato per le grandi
trasformazioni in corso.
Tutti sperano che la globalizzazione distrugga
i presupposti in base ai quali i propri vicini hanno costruito la loro casa e
organizzato la loro vita.
Accade così che la globalizzazione produca
qualcosa che si potrebbe chiamare 'effetto chiocciola'.
Ma
ritirarsi nella propria tana non sarà molto utile. Rifiutarsi di prendere atto
di ciò che sta accadendo oltre l'uscio di casa e non accettare di esporsi al
rischio del nuovo non può essere un modo efficace di prepararsi al futuro.
5. La
funzione degli Stati nazionali.
D.Z.
Ma non pensi che ci siano aspetti della globalizzazione che i paesi della
'periferia' del mondo dovrebbero tentare di contrastare, anche con mezzi
politici, per resistere alla forza omologatrice del mercato e dei suoi
correlati ideologici?
L'idea
di nazione e di Stato nazionale può essere davvero considerata come un
oscurantistico relitto del passato?
Non è
forse vero che l'intera tradizione della democrazia rappresentativa, del” rule
of law” e della stessa dottrina dei diritti dell'uomo sono indissociabili dalla
vicenda storica dello Stato nazionale sovrano?
U.B.
Lo Stato nazionale si sta trasformando, certo, non si può dire che sia avviato
all'estinzione.
Può persino rinforzarsi, come ho sostenuto nel
mio libro, divenendo uno Stato cooperativo, uno Stato transnazionale o
cosmopolitico.
Ma non
sarà più, comunque, uno Stato nazionale nel vecchio senso.
Per
realizzare il suo 'interesse nazionale' lo Stato della seconda modernità deve
attivarsi simultaneamente a vari livelli locali e transnazionali ed entro
istituzioni molto lontane dai suoi confini.
Uno
Stato, ad esempio, può persino usare l'Europa come un pretesto per non prendere
decisioni locali o per dare attuazione a livello europeo a decisioni per le
quali il governo nazionale non disporrebbe del sostegno della maggioranza
interna.
Attori
globali come le imprese multinazionali dispongono di un grande potere
nell'ambito degli affari di uno Stato nazionale poiché possono aumentare o
ridurre l'offerta di posti di lavoro.
Ma un
nuovo protezionismo regionale potrebbe ciononostante rivelarsi efficace. Nel
mio libro ho proposto un esperimento mentale:
proviamo
ad immaginare un mondo nel quale i costi dell'informazione e del trasporto
oltre le frontiere nazionali aumentino in misura significativa.
Le economie regionali ed i mercati regionali
-- quelli dell'Unione europea, ad esempio -- ne avrebbero certamente dei
vantaggi.
D.Z.
Sono d'accordo con te.
Aggiungerei
soltanto che l'enfasi globalista sottovaluta il fatto che lo Stato nazionale
sembra destinato non solo a conservare a lungo molte delle sue funzioni
tradizionali, ma anche ad assumere funzioni nuove che non potranno essere
assorbite da strutture di aggregazione regionale o globale.
Solo uno Stato nazionale democratico sembra in
grado di garantire un buon rapporto fra estensione geopolitica e lealtà dei
cittadini e già per questo svolge secondo me una funzione non facilmente
surrogabile, anche nei confronti degli eccessi delle rivendicazioni etniche.
E forse non andrebbe dimenticato, come ha
sottolineato “Paul Hirst”, che le persone sono molto meno mobili del denaro,
delle merci e delle idee, per non dire dei contenuti della comunicazione
elettronica:
le
persone sono molto più 'nazionalizzate' e sarà comunque al loro radicamento
nazionale e territoriale che si dovrà fare appello anche in futuro per dare
legittimità alle istituzioni sovranazionali.
U.B.
Attorno a questo punto si è sviluppata la più importante controversia
nell'ambito della teoria politica contemporanea:
è
possibile una democrazia oltre l'ambito dello Stato nazionale?
Oppure lo Stato nazionale va considerato come
il solo ambito istituzionale entro il quale può realizzarsi lo Stato di diritto
e quindi la tutela dei diritti dell'uomo?
Ci può essere una legittimazione democratica
ottenuta attraverso procedure transnazionali?
Secondo me, almeno per quanto riguarda
l'ambito europeo, questa discussione ha un valore puramente teorico.
È una
pura illusione pensare che sia possibile riportare indietro l'orologio della
storia e tornare in Europa ai tempi della democrazia nazionale.
Non ci
sarà democrazia in Europa se non sarà una democrazia rafforzata sul piano
transnazionale.
La
democrazia è stata inventata oltre mille anni fa in ambito locale.
Poi,
nel corso della prima modernità, ha assunto una dimensione nazionale.
Ora e
nel prossimo futuro la democrazia deve essere reinventata a livello
transnazionale.
È
questo il senso del progetto democratico per l'Europa.
D.Z.
D'accordo, ma il problema si pone soprattutto fuori dall'Europa, dove la
dimensione transnazionale è ben più problematica.
Tu
scrivi nel tuo libro che ormai viviamo in una società mondiale ove qualsiasi
rappresentazione di 'spazi chiusi' non può che essere fittizia.
E lo Stato stesso è ormai pensabile soltanto
come uno 'Stato trans nazionale', la cui 'società civile' è attraversata da una
moltitudine di agenzie e istituzioni transnazionali come le grandi imprese
economiche, i mercati finanziari, le tecnologie dell'informazione e della
comunicazione, l'industria culturale e così via.
Detto
in poche parole, tu pensi che la specificità della globalizzazione stia
nell'estensione, nella densità e nella stabilità della rete di interdipendenze
fra globale e locale (la così detta 'glocalizzazione') di cui l'umanità intera
sta prendendo coscienza attraverso la comunicazione massmediale.
La globalità, sostieni, è ormai l'orizzonte
cognitivo al quale nessuno può sottrarsi. Ma forse ti si potrebbe obiettare che
ci sono interi continenti -- penso ad esempio all'Africa -- e ampie fasce di
nuovi poveri e di nuovi analfabeti all'interno persino dei paesi più ricchi che
restano esclusi dall'orizzonte cognitivo della globalità (e dall'uso dei mezzi
elettronici che ne diffondono la consapevolezza riflessiva).
U.B.
Ti rispondo raccontando una storia.
Alcuni
anni fa un'antropologa, specializzata nello studio della Cambogia rurale,
arrivò in un piccolo villaggio cambogiano, dove intendeva svolgere la sua
ricerca sul campo.
La sera venne invitata in una casa privata per
un intrattenimento. L'antropologa si aspettava di scoprire qualcosa sui
passatempi tradizionali sopravvissuti in quello sperduto villaggio asiatico.
Invece la serata fu dedicata ad assistere alla
trasmissione televisiva del film “Basic Instinct”.
In
quel momento il film non era stato ancora proiettato nei cinema di Londra.
Dunque, la globalizzazione in questo senso non può in alcun modo essere
arrestata.
Gli antropologi non fanno che ripetere la
sostanza di questa storia:
le culture locali del globo oggi non possono
essere studiate e capite senza tener conto dei 'flussi globali', come ha
sostenuto fra gli altri “Appadurai”.
Ma,
certo, questo non esclude che le diseguaglianze sociali siano in aumento.
6.
Verso un capitalismo senza lavoro e senza vincoli fiscali?
D.Z. “Zygmunt
Bauman” ha parlato di una nuova stratificazione della popolazione mondiale in
ricchi globalizzati e poveri localizzati.
E tu stesso ricordi che i paesi dell'Unione
Europea, negli ultimi vent’anni, sono diventati più ricchi in una proporzione
che si aggira fra il cinquanta e il settanta per cento.
Nonostante
ciò in Europa abbiamo oggi venti milioni di disoccupati, cinquanta milioni di
poveri e cinque milioni di senza tetto.
Non è
questo l'indice di nuove, più profonde diversità in potere e ricchezza fra gli
abitanti del pianeta?
Non
potrebbe essere questo l'inizio della 'brasilizzazione' del mondo?
U.B.
Ho appena finito di scrivere un libro –" Die schöne neue Arbeitswelt” (Il
bel nuovo mondo del lavoro) -- nel quale respingo la tesi della 'brasilizzazione'
dell'occidente.
Rovesciando
un giudizio di Marx, si potrebbe infatti sostenere che molte aree del 'Terzo
mondo' mostrano all'Europa l'immagine del suo futuro.
Per un
verso -- ed è l'aspetto positivo -- si potrebbero indicare elementi come lo
sviluppo di società multireligiose, multietniche e multiculturali, stili di
vita intra culturali e una moltiplicazione delle sovranità.
Per un
altro verso -- e questo è l'aspetto negativo -- dovremmo segnalare il
diffondersi di aree di informalità, la flessibilità del lavoro, la deregulation
di ampi settori dell'economia e delle relazioni di lavoro, l'aumento della
disoccupazione e della sotto-occupazione (lavoro a part-time, lavori a termine
e a cottimo, lavoratori domestici ed altre categorie che non è facile designare
con le terminologie tradizionali).
A tutto ciò bisogna aggiungere, come tu hai
detto, la radicalizzazione delle diseguaglianze e un alto tasso di violenza e
di criminalità.
D.Z.
Il 'globalismo economico' è, nel tuo lessico teorico, cosa ben diversa dalla
globalizzazione.
È
l'ideologia ultra-libertaria -- tu parli addirittura di 'metafisica del mercato
globale' -- che cerca di nascondere i rischi che in particolare i processi di
globalizzazione economico-finanziaria comportano.
Il
pericolo di gran lunga più grave, tu sostieni, viene dai settori più forti
dell'economia globalizzata:
viene
cioè dalla capacità che le grandi imprese industriali e finanziarie hanno di
sottrarsi ai vincoli della solidarietà nazionale, in particolare
all'imposizione fiscale. La struttura delle” grandi corporations” è tale che
esse possono scegliere a piacere e cambiare velocemente le sedi geografiche o
funzionali dei propri fattori di produzione, ottenendone grandi vantaggi e
sottraendosi alle regole poste dagli organi statali.
Quali contromisure sono secondo te possibili,
al di fuori dell'idea del 'governo mondiale' e dello 'Stato mondiale' che anche
tu mi pare consideri come una prospettiva non realizzabile?
U.B.
Non dobbiamo illuderci:
un capitalismo che fosse concentrato
esclusivamente sulla proprietà e sul profitto, che voltasse le spalle ai
lavoratori, al “Welfare State” e alla “democrazia” finirebbe alla lunga per
autodistruggersi.
Perciò oggi non c'è soltanto il rischio che
milioni di persone restino senza lavoro.
E non
è a repentaglio soltanto il “Welfare State”.
La libertà politica e la democrazia sono a
rischio!
Dobbiamo domandarci: qual è il contributo che
l'economia globale e le “corporations multinazionali” offrono per sostenere la
democrazia a livello nazionale o cosmopolitico?
Noi dobbiamo fare in modo che l'economia si
faccia responsabile del futuro della democrazia rinforzando, ad esempio, la
politica transnazionale in Europa.
Ma dobbiamo anche tentare di rinforzare le
organizzazioni transnazionali dei consumatori e, in generale, la cosiddetta “global
civil society”.
D.Z.
Lo sviluppo delle tecnologie elettroniche -- automazione, informatica,
telematica -- aumenta la produttività delle imprese multinazionali che tendono
a disfarsi sempre più della forza-lavoro che non sia altamente qualificata.
Sta affermandosi un capitalismo globale che è
in grado di sottrarsi in larga parte ai costi del lavoro e in prospettiva al
lavoro stesso.
È questa la tenaglia che anche nei paesi
industriali sta stritolando le nuove generazioni, sempre più colpite dalla
inoccupazione e dalla disoccupazione.
Ma ad essere minacciati più in generale sono
tutti i cittadini che non appartengano alla minoranza di coloro che sono in
grado di svolgere mansioni tecnologicamente sofisticate.
La maggioranza dei cittadini, anche quando
trovano lavoro, sono costretti dalla logica della 'flessibilità' ad accettare
occupazioni precarie e poco retribuite e che spesso da sole non bastano a
garantire loro una sussistenza dignitosa.
U.B.
Questo è assolutamente vero.
Dobbiamo
riconoscere che persino nei cosiddetti paesi del pieno impiego come gli Stati
Uniti e l'Inghilterra fra un terzo e la metà delle persone che lavorano sono
oggi 'lavoratori flessibili', secondo i molti e molto ambigui significati del
termine.
Accade
qualcosa di simile a ciò che è accaduto a proposito del cosiddetto 'modello
familiare normale'.
Ciò
che un tempo era tipico sta diventando un fenomeno minoritario.
Ed è per questo che dobbiamo ripensare e
riformare il “Welfare State” sulla base di questa mutazione morfologica del
lavoro e della vita privata.
D.Z.
Ma è davvero possibile riformare il “Welfare State”?
Siamo
ancora in tempo per farlo?
Nel tuo libro sottolinei il fatto che mentre
crescono i profitti delle grandi imprese stanno esaurendosi nei paesi
occidentali le risorse finanziarie tradizionalmente destinate alle pensioni, ai
servizi sociali e all'assistenza degli anziani.
Si esauriscono perché le grandi imprese sono
in grado di sottrarsi non soltanto ai costi del lavoro ma anche ai vincoli
dell'imposizione fiscale.
Ciò provoca naturalmente una crisi dei bilanci
statali che possono far conto sempre meno delle entrate fiscali legate alle
attività produttive.
Non è dunque soltanto il lavoro che viene a
mancare: vengono a mancare le risorse pubbliche.
Non
c'è allora il rischio che ogni forma di “Welfare State” sia ormai destinata
all'estinzione e che i difensori dei diritti sociali nei paesi occidentali si
stiano battendo per una causa ormai persa per sempre?
U.B.
No, io non lo penso.
In
Europa oggi abbiamo, in modo inaspettato, una larga maggioranza di governi
orientati a sinistra, incluse l'Italia, la Germania, la Gran Bretagna e la
Francia.
Il
dibattito attorno alla 'Terza via' riguarda sostanzialmente la riforma del
Welfare State nell'era della globalizzazione.
Nel suo libro, “The Third Way”, “Antony
Giddens” traccia le linee di una società di positive welfare e di strategie di
investimento.
Questo
è l'inizio della discussione sulle strutture di un'Europa sociale e democratica
che si continuerà sicuramente nei prossimi anni.
D.Z.
Tu ritieni dunque, assieme a “Giddens” e ai socialdemocratici europei, che ci
siano delle risposte politiche capaci di neutralizzare i rischi più gravi della
globalizzazione economica e di rilanciare il progetto di una nuova modernità.
È questo, secondo me, l'aspetto più
suggestivo, ma forse anche il più problematico, del tuo libro.
Tu enfatizzi le possibilità correttive di una
serie di interventi che sottopongano a regole politiche e a logiche cooperative
le forze anarchiche dei mercati globali.
Fra questi interventi tu segnali in
particolare l'incremento della cooperazione internazionale, l'affermazione di
una concezione 'inclusiva' della sovranità degli Stati, il ricorso a meccanismi
di partecipazione dei lavoratori ai profitti delle imprese, “policies” di
grande impegno nel settore della formazione, il sostegno delle attività
professionali autonome (nei settori delle nuove tecnologie, delle culture
sperimentali, dei mercati di nicchia e delle imprese pubbliche).
U.B.
Si, è così.
Ma
sono consapevole delle resistenze politiche e delle critiche avanzate da parte
di ambienti intellettuali.
Il “Zeitgeist
postmoderno” induce a credere fortemente nella fine della politica e della
razionalità sociale.
Io
intravedo al contrario l'emergere di una grande stagione politica.
Ma, lo ammetto, nel quadro di una 'modernità
riflessiva' l'autodefinizione soggettiva di una situazione si identifica con la
situazione stessa.
Questa è una delle ragioni che mi portano ad
essere così nettamente contrario al pensiero postmoderno: potrebbe rivelarsi
una profezia autoadempientesi.
E sarebbe per di più una profezia molto noiosa
e pericolosa.
D.Z.
Mettiamo pure da parte il pessimismo intellettuale dei postmoderni ed
ipotizziamo che la tua profezia politica sia capace di autoadempiersi
virtuosamente.
Resta
il problema dei nuovi spazi e dei nuovi soggetti di una politica
transnazionale.
Le tue
indicazioni vanno nel senso di un recupero della politica a livello globale,
dopo che la politica degli Stati nazionali ed entro gli Stati nazionali sembra
sempre meno efficace e sempre più lontana dal modello rappresentativo.
Ma
quali sono, secondo te, le arene transnazionali ove si possono realizzare gli
obbiettivi che tu indichi?
E dove
sono le forze politiche ed economiche potenzialmente interessate a questo tipo
di interventi correttivi?
O pensi ad una rivoluzione negli stili di vita
dei cittadini occidentali che li allontani dai valori del mercato e li renda
immuni dalla sua potente e intrusiva ideologia acquisitiva?
U.B.
Si certo, hai ragione, sono necessari dei nuovi soggetti politici:
dei
partiti cosmopolitici capaci di operare in termini di rappresentanza
transnazionale degli interessi, ma che lo facciano entro le arene politiche
degli Stati nazionali.
Questi soggetti possono perciò affermarsi, sul
piano programmatico ed organizzativo, soltanto in forme plurali:
e cioè come movimenti nazionali e globali
nello stesso tempo, come partiti locali in rappresentanza di 'cittadini
globali'.
I
partiti cosmopolitici dovrebbero porsi in competizione con i partiti nazionali
entro competizioni politiche (apparentemente) nazionali.
Essi
sarebbero i primi attori in grado di sperimentare sul piano politico le
strategie già da tempo adottate delle corporazioni industriali e di liberarsi
dalla gabbia territoriale dello Stato nazionale.
E dovrebbero essere attivi a vari livelli e
porre gli interessi degli Stati nazionali in concorrenza fra loro.
Ma, ci si può chiedere, dove sono gli elettori
disposti a farsi rappresentare da questo tipo di partiti cosmopolitici?
Secondo
me è nelle grandi metropoli, nelle 'città globali' che possono emergere una
comprensione postnazionale della politica e una corrispondente concezione
postnazionale dello Stato, della giustizia, dell'arte, della scienza e delle
relazioni pubbliche.
Ma non
voglio dire certo con questo che sia sufficiente essere collegati con la rete
di Internet per divenire cittadini globali.
7.
Quale ordine politico mondiale?
D.Z.
Resta tuttavia aperto, secondo me, il tema delle forme e delle istituzioni
della politica transnazionale:
un
tema che nel tuo libro non affronti in modo esplicito, salvo l'assunzione del
processo di integrazione europea come un importante punto di riferimento
pratico e teorico.
Ma i
fenomeni di integrazione regionale oggi in atto in alcune delle aree più ricche
del pianeta sembrano difficilmente esportabili a livello globale.
Possono anzi essere visti come un
rafforzamento della logica particolaristica della sovranità statale, anziché
come un passo innanzi verso l'auspicato traguardo di una governance democratica
del mondo.
La
formazione di un 'super-Stato europeo', e cioè di una entità
politico-economico-militare dotata di poteri eccezionalmente elevati, è una
prospettiva rassicurante ai fini di una attenuazione dei rischi della
globalizzazione economica?
U.B.
Non credo in un superstato europeo.
Anche
questo sarebbe un modello di modernizzazione di carattere lineare, anziché
riflessivo.
L'Europa è un eldorado di differenze e
personalmente penso che dovrebbe restare tale anche nell'era della
globalizzazione.
Ma nello stesso tempo l'Europa è il
laboratorio dove sperimentare una società ed una politica cosmopolitica.
L'adozione della moneta unica ci spinge in
questa direzione.
Quanto
più l'Euro avrà successo tanto più urgentemente l'Europa avrà bisogno di
un'anima democratica.
Una
volta realizzata l'unione monetaria l'Europa deve irrobustirsi grazie a nuove
idee politiche e a dibattiti, istituzioni e associazioni civili che
travalichino le frontiere degli Stati membri.
Soltanto un'Europa intellettualmente vitale è
in grado di rielaborare la vecchia idea europea di democrazia per la nuova era
globale.
D.Z.
Consentimi in conclusione qualche domanda relativa alle funzioni che secondo te
il diritto internazionale può svolgere per contenere le spinte eversive della
globalizzazione economica e per garantire un nuovo ordine mondiale.
Nel
tuo libro citi” Zum ewigen Frieden” di Kant e a tratti sembri simpatizzare con
l'ideale di un 'diritto cosmopolitico' e di un 'pacifismo giuridico'.
Ti chiedo: pensi, assieme a “Kelsen” e ai suoi
epigoni, che il diritto e le istituzioni internazionali siano lo strumento
principale per garantire l'ordine mondiale e in particolare una pace stabile ed
universale?
Condividi,
in altre parole, “le tesi kelseniane” di “Peace trough Law”?
U.B.
Le condivido senz'altro.
All'alba
della seconda modernità dobbiamo chiederci:
chi
sono, sul piano intellettuale, i padri fondatori della società globale
cosmopolitica?
Per
me, fra gli altri, sono di grande attualità “Kant” e “Kelsen” ma anche, per
esempio, “Nietzsche”, “Hannah Arendt” e “Montaigne”.
D.Z. E
qual è secondo te il probabile destino delle Nazioni Unite?
La
globalizzazione ne favorisce, o ne richiede, un rafforzamento o è destinata a
travolgerle?
Sono
in grado non solo di garantire la pace fra gli Stati, ma di contrastare la
diffusione della produzione delle armi da guerra e di vincere la sfida delle
grandi organizzazioni criminali -- commercio delle armi, delle droghe, delle
donne e degli emigranti -- che ormai hanno assunto dimensioni globali?
U.B.
La democrazia transnazionale dovrà tenere conto di alcuni fondamentali
cambiamenti intervenuti nell'organizzazione transnazionale del crimine e della
violenza.
Le distinzioni classiche fra 'guerra' e
'pace', 'interno' ed 'esterno', 'società civile' e 'barbarie' -- distinzioni
associate all'autonomia dello Stato nazionale -- sono ormai superate.
Nello stesso tempo è possibile identificare
nuove tendenze civili che potrebbero fornire le basi per una pace stabile.
Le Nazioni Unite devono sicuramente essere
rafforzate.
Ma il fenomeno della globalizzazione del
crimine e della violenza richiede anche una risposta da parte di una struttura
di cooperazione di tipo statale.
D.Z.
C'è chi ha parlato recentemente di una “global expasion of judicial power”. Che
cosa pensi in particolare a proposito dei “nuovi Tribunali penali
internazionali”:
quelli
già operanti per la ex-Jugoslavia e per il Ruanda e quello, permanente e
universale, il cui statuto è stato approvato a Roma nel giugno scorso?
Ritieni che possano offrire un contributo
significativo al mantenimento della pace e alla tutela dei diritti dell'uomo?
Pensi
anche tu, come “Jürgen Habermas”, che l'obbiettivo ultimo debba essere una
giurisdizione penale universale e, al suo servizio, una forza di polizia
sovranazionale?
U.B.
Naturalmente, una corte internazionale sarebbe, nel lungo periodo, una grande
conquista a favore di un ordine cosmopolitico.
Si
tratta di un progetto totalmente irrealizzabile? Io penso di no.
È un
progetto altrettanto irrealistico quanto lo fu la richiesta di democrazia 150
anni fa nella chiesa di San Paolo a Francoforte (durante la rivoluzione
tedesca).
Ma io
spero che in questo caso si faccia più in fretta.
La
frattura tra ragione e realtà.
Il Grande Spauracchio:
il nucleare bellico.
Fondazionehume.it
– Paolo Musso – (16 Novembre 2023) – ci dice:
Società.
Con
questo articolo comincio a discutere alcuni temi cruciali per il nostro futuro
rispetto ai quali la frattura tra le idee comunemente accettate e la realtà dei
fatti è particolarmente grave.
Il primo tema che ho scelto era quasi
obbligato, perché, tra le tante idee sbagliate in circolazione, ben poche
battono quelle che riguardano l’energia nucleare, sia nel suo uso bellico che
in quello pacifico.
Ma, soprattutto, non esiste nessun altro
argomento a proposito del quale così tante assurdità siano condivise da un
numero così grande di persone e riguardino non solo alcuni aspetti, ma
praticamente tutto ciò che si sente dire al proposito.
In questo articolo mi occuperò delle armi
nucleari, mentre in uno successivo parlerò dell’energia nucleare per uso
civile.
Hiroshima,
Nagasaki e dintorni.
La
guerra in Ucraina ha drammaticamente riportato all’attenzione del grande
pubblico il tema dell’energia nucleare, sia nel suo uso bellico che in quello
civile, il che di per sé è un bene.
Purtroppo, però, ha anche ridato fiato alle
tante assurdità che da sempre circolano al riguardo, il che è invece un gran
male.
Cerchiamo
quindi di fare un po’ di chiarezza.
E
anzitutto chiediamoci: perché l’energia nucleare è diventata il Grande
Spauracchio del nostro tempo?
La risposta più ovvia è: perché essa è apparsa sulla
scena del mondo nella forma delle due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki.
Questo
è certamente vero, ma è altrettanto vero che fin da allora la leggenda ha
cominciato a sovrapporsi alla realtà.
In parte ciò dipese dal fatto che questa forza
titanica sembrò apparire dal nulla, cogliendo tutti di sorpresa:
gli
studi in merito erano infatti segretissimi e venivano condotti esclusivamente
in Germania e negli Stati Uniti (e in Italia, almeno finché le sciagurate leggi
razziali non costrinsero Enrico Fermi, uno dei più grandi scienziati di ogni
tempo, a rifugiarsi negli Stati Uniti, essendo sposato con un’ebrea).
Ma non
si tratta solo di questo.
Come
ha spiegato uno dei massimi esperti al mondo di armi nucleari, lo storico della
scienza” Alex Wellerstein” della “Harvard University”, in un articolo
pubblicato il 4 agosto 2020 sull’autorevole” Bullettin of the Atomic Scientists”
contenente
un’approfondita discussione di tutti gli studi sul tema (thebulletin.org/2020/08/counting-the-dead-at-hiroshima-and-nagasaki/),
nessuno
saprà mai quante persone morirono esattamente a Hiroshima e Nagasaki.
Moltissimi
corpi, infatti, non vennero mai recuperati, perché disintegrati dall’esplosione
o carbonizzati dai successivi incendi.
Ciò rende inevitabile basarsi su stime, le
quali però sono pesantemente influenzate dalla valutazione del numero di
persone presenti in città al momento dell’esplosione, che per vari fattori è
estremamente incerto.
L’intervallo
va dalla più bassa, fatta dalla” Joint Commission formata dagli Alleati e dal
Giappone poco dopo la fine della guerra, per cui i morti sarebbero stati
rispettivamente 64.000 e 39.000, a quella più alta, fatta da una commissione
giapponese in collaborazione con le Nazioni Unite nel 1975, la cui stima è
stata di 140.000 e 70.000, per un totale che va quindi da 103.000 a 210.000.
È
importante notare che secondo “Wellerstein” la differenza dipende solo dai
diversi metodi adottati e non da malafede o trascuratezza: «There is no evidence that either of
these estimates was made inaccurately or dishonestly, but they come from
different sources and eras».
Qualunque
valore si accetti, comunque, dal punto di vista strettamente militare non vi
furono molte differenze rispetto a quanto si poteva ottenere con armi
convenzionali.
Per
esempio, soltanto i bombardamenti su Tokyo avevano causato oltre 200.000 morti,
di cui 72.000 in un’unica notte, quella fra il 3 e il 4 febbraio 1945: una cifra più alta della più alta
stima fatta per Nagasaki.
L’impatto
delle atomiche fu quindi soprattutto psicologico e fu dovuto principalmente a
due fattori:
anzitutto,
ovviamente, il fatto che per causare tutta questa distruzione fosse bastata una
sola bomba e poi le radiazioni, che facevano (e fanno ancor oggi) paura
soprattutto perché invisibili.
Gli
effetti delle atomiche sugli esseri umani, infatti, per quanto terribili, non
sono poi tanto peggiori di quelli causati dalle bombe convenzionali,
specialmente da quelle incendiarie.
Ma, si
sa, da sempre ciò che non si vede fa più paura di ciò che si vede, perché ci fa
sentire totalmente indifesi.
Tuttavia,
almeno a quel tempo, l’uso dell’atomica implicava anche notevoli difficoltà.
Il processo di produzione era infatti lungo e
costoso e la bomba, molto pesante e ingombrante, veniva lanciata da un normale
bombardiere, per cui se quest’ultimo fosse stato abbattuto l’intero attacco
sarebbe stato azzerato, insieme a mesi e mesi di costose fatiche.
Ciò
invece non accadeva con un bombardamento convenzionale, dove si potevano
perdere molti aerei senza compromettere più di tanto la potenza di fuoco
complessiva.
Proprio
questa fu una delle principali ragioni (anche se ve ne furono delle altre, a
cominciare dalla debolezza del Presidente Eisenhower, gravemente malato) per
cui gli Stati Uniti, pur avendone allora il monopolio, una volta sconfitto
Hitler non tentarono nemmeno di usare l’atomica per piegare l’Unione Sovietica,
preferendo la pace di Yalta, che non era certo una buona soluzione, tanto che
ancora oggi stiamo subendo le sue perniciose conseguenze.
E la situazione non cambiò nemmeno quando
l’URSS rovesciò a suo favore l’equilibrio, costruendo le prime bombe
all’idrogeno, molto più potenti delle atomiche:
il
problema di come portarle a destinazione a così grande distanza le rendeva
infatti praticamente inutilizzabili.
L’equilibrio
del terrore.
Solo
quando vennero costruiti i primi missili intercontinentali affidabili le armi
nucleari divennero una minaccia davvero seria.
Ma a
quel punto subentrò un altro fattore a impedirne l’uso:
USA e URSS ne avevano ormai così tante che erano in
grado di distruggersi a vicenda, il che rendeva impossibile vincere e, di
conseguenza, insensato usarle.
Nacque
così la cosiddetta “MAD” (Mutual Assured Destruction), dottrina che, per quanto
apparentemente folle (“mad” in inglese significa “pazzo” e l’acronimo non è
certo stato scelto a caso), ha finora funzionato benissimo, non solo per
prevenire le guerre nucleari, ma anche per prevenire le guerre convenzionali tra
paesi dotati di armi nucleari (a parte alcuni scontri di frontiera tra India e Pakistan,
che però non si sono mai tradotti in guerra aperta, come sarebbe quasi
certamente accaduto in un contesto convenzionale).
La MAD
non è stata violata neanche dall’invasione dell’Ucraina, come alcuni sostengono.
Quest’ultima,
infatti, non è dotata di armi atomiche né è alleata formalmente (benché lo sia
di fatto) con paesi che le possiedono.
È per
questo che l’idea prevalente (e a mio avviso corretta) su come reagire a un
eventuale uso di armi atomiche da parte di Putin è che la risposta sarebbe sì
durissima, ma di natura convenzionale.
Con
ciò non voglio dire che l’attuale “equilibrio del terrore” sia la situazione
ideale.
È
chiaro che l’esistenza di migliaia di bombe nucleari costantemente armate e
pronte all’uso è già di per sé molto pericolosa e tale resterebbe anche quando
una parte sostanziale di esse non fosse più controllata da uno psicopatico
genocida come l’attuale dittatore russo.
Ma
anche qui la leggenda offusca costantemente la realtà, rischiando di farci
compiere scelte drammaticamente sbagliate.
Potenza
e distruttività.
Innanzitutto
dobbiamo chiarire qual è la vera capacità distruttiva delle armi nucleari, che
è estremamente variabile e, per quanto tremenda, è fortunatamente inferiore a
ciò che si crede.
Inoltre,
contrariamente a quanto pensano quasi tutti, essa risiede assai più nella forza
meccanica dell’esplosione che nella radioattività.
Cominciamo
dal primo aspetto.
La potenza di un’esplosione di grande portata
(sia nucleare che convenzionale o prodotta da cause naturali) si calcola
usualmente in kiloton, misura che indica una potenza equivalente a quella di
mille tonnellate di tritolo, o in megaton, corrispondente a un milione di
tonnellate di tritolo, cioè a mille kiloton.
Ora,
la potenza delle armi nucleari va da qualche frazione di kiloton (cioè qualche
centinaio di tonnellate di tritolo) per le bombe-zaino, trasportabili a mano
sul bersaglio da squadre di incursori, fino ai 50.000 kiloton (50 megaton)
della bomba
Tsar, la
più potente mai costruita, testata dall’URSS sull’isola di Novaja Zemlja, a nord della
Siberia, il 30 ottobre 1961 (paradossalmente progettata da “Andrej Sacharov”, che
diventerà poi il più noto oppositore del regime sovietico).
Si
tratta di una differenza di ben 5 ordini di grandezza, ovvero di una potenza
che può variare di centomila volte in più o in meno.
Già da questo, quindi, si capisce che parlare
genericamente di “armi nucleari” come se fossero tutte la stessa cosa
semplicemente non ha senso.
Inoltre,
la distinzione principale che va fatta non è quella tra armi tattiche e
strategiche (che oggi tiene banco, ma, come vedremo più oltre, non è chiaramente
definibile), bensì quella tra armi atomiche, che utilizzano la fissione, e armi
termonucleari, che utilizzano la fusione.
Le
prime hanno un limite di potenza intrinseco, non chiaramente definibile, perché
dipende da vari fattori tecnici, ma comunque dell’ordine di qualche centinaio
di kiloton.
Ciò è dovuto al fatto che quando l’uranio supera una
certa massa critica esplode, per cui non se ne può mettere più di tanto
all’interno di una stessa bomba, neanche suddividendolo in più parti, perché
queste non possono essere molto numerose, altrimenti diventa impossibile
gestirle.
Le
armi termonucleari, familiarmente chiamate “bombe H “perché utilizzano
l’idrogeno, non hanno invece un limite teorico, perché di idrogeno se ne può
ammassare quanto se ne vuole, ma hanno comunque un limite pratico.
Infatti,
il rapporto tra la potenza di una bomba e la sua distruttività non è costante,
ma diminuisce sempre più rapidamente con il crescere della potenza stessa.
Il
motivo è che qualsiasi esplosione produce un’onda d’urto di forma sferica che
si espande in tre dimensioni.
Ora, finché la potenza della bomba è
relativamente piccola, il suo raggio d’azione sarà dello stesso ordine di
grandezza delle dimensioni dei suoi bersagli, cioè di poche decine o al massimo
centinaia di metri (che è l’altezza dei più grandi grattacieli), sicché tutta o
quasi tutta l’energia sprigionata verrà utilizzata per distruggere l’obiettivo.
Più il
raggio d’azione diventa grande, però, più il bersaglio apparirà sostanzialmente
bidimensionale rispetto alle dimensioni dell’onda d’urto, per cui tutta o quasi
tutta la potenza sviluppata lungo la dimensione verticale andrà sprecata.
Di conseguenza, se usata in modo tradizionale, una
bomba atomica 1000 volte più potente sarà solo 100 volte più distruttiva, con
uno spreco di energia di ben il 90%.
Anzi, in realtà anche di più.
Anzitutto,
infatti, la componente orizzontale non è mai perfettamente tale, perché viene
deviata verso l’alto dall’impatto dell’onda d’urto contro i bersagli.
Inoltre, la superficie della Terra è curva, il
che fa sì che man mano che ci si allontana dall’epicentro una parte sempre
maggiore dei bersagli resti al di sotto dell’onda d’urto, finché si arriva
all’orizzonte, che li nasconde completamente.
È per
questo che le bombe nucleari non vengono fatte detonare a terra, ma al di sopra
del bersaglio, in modo da utilizzare tutta la semisfera inferiore dell’onda
d’urto:
quanto più in alto ci si trova, infatti, tanto
più lontano è l’orizzonte, mentre l’effetto di deviazione viene minimizzato.
Tuttavia,
anche così almeno la metà dell’energia prodotta (quella della semisfera
superiore) va sprecata.
Inoltre, più in alto esplode la bomba, più
strada dovrà fare l’onda d’urto, sicché quando raggiungerà il terreno si sarà
proporzionalmente indebolita, effetto che si accentua sempre più quanto più ci
si allontana dalla verticale.
Quindi,
in sintesi, se la bomba esplode troppo in basso l’onda d’urto non avrà il tempo
di espandersi in tutta la sua ampiezza prima di arrivare a terra, mentre se
esplode troppo in alto giungerà sul bersaglio troppo indebolita.
Va
quindi trovato il giusto compromesso, che dipende essenzialmente dalla potenza
della bomba.
Quanto
più la bomba è potente, tanto più in alto potrà e dovrà esser fatta esplodere:
quella di Hiroshima, infatti, esplose a 600 metri dal
suolo, la
Tsar invece a 4.000.
Tuttavia,
l’esplosione non può avvenire a una quota dove l’atmosfera è troppo rarefatta o
addirittura al di fuori di essa, perché ciò ridurrebbe, fino ad annullarlo del
tutto, l’effetto meccanico dello spostamento d’aria, che è il principale
fattore di distruttività, soprattutto nel caso delle bombe più potenti, come
vedremo meglio fra poco.
Tutto
ciò implica quindi che, pur non esistendo un limite di principio alla potenza
delle bombe H, esiste però un limite pratico, giacché, una volta che esso sia
stato raggiunto, aumentare ulteriormente la potenza lascia sostanzialmente
invariata la distruttività.
Approssimativamente,
tale limite è rappresentato proprio dalla potenza della bomba Tsar, che non a caso non è più stata
superata, nonostante sia stata costruita 62 anni fa.
Sempre
non a caso, questa è anche la massima potenza che si può scegliere nelle
simulazioni del sito “Nukemap” (nuclearsecrecy.com/nukemap/), anch’esso opera di “Wellerstein”,
sul quale mi sono basato per gran parte della mia analisi.
Ciò
chiarito in termini generali, passiamo a esaminare più in dettaglio gli effetti
delle armi nucleari per alcuni valori particolarmente significativi.
Prendiamo
come punto di partenza una bomba da 1 kiloton, che rappresenta l’ordine di
grandezza di quella che può essere contenuta in uno zaino atomico portatile ed
equivale a un cinquantamillesimo della Tsar (il limite reale, come detto, è un
po’ più basso, ma per semplicità facciamo cifra tonda).
Il suo raggio d’azione è di circa 1 km, ragion
per cui viene fatta esplodere al suolo o molto vicino ad esso, in modo
abbastanza simile a una bomba tradizionale, distruggendo un’area di poco più di
4 km2.
Tuttavia,
decuplicandone ripetutamente la potenza le dimensioni dell’area distrutta
crescono sempre più lentamente, dando rispettivamente i seguenti valori:
20 km2 (solo il 50% dei 40 attesi se la
distruttività fosse proporzionale alla potenza), 94 (23% dei 400 attesi), 435
(11% dei 4.000 attesi), 2.580 (6,5% dei 40.000 attesi), fino agli 8.300 (appena
il 4,2% dei 200.000 attesi) nel caso della Tsar, che è quindi 50.000 volte più
potente, ma solo 2.000 volte più distruttiva (ho leggermente arrotondato i numeri
per renderne più facile la lettura; chi volesse quelli esatti e/o cercarne
degli altri può fare le simulazioni che gli interessano sul sopracitato “Nukemap”,
che inoltre permette di visualizzare gli effetti di qualsiasi bomba in
qualsiasi località del mondo).
Come
si vede, dunque, costruire bombe troppo potenti è un inutile spreco di risorse:
si
ottiene infatti molta più energia utile (cioè indirizzata sul bersaglio) usando
una data quantità di uranio per costruire diverse bombe piccole che una sola
grande.
E infatti la potenza media delle testate
nucleari oggi esistenti è di poco superiore al megaton, che, non a caso,
coincide quasi esattamente con il miglior equilibrio costi-benefici, con una
percentuale di energia utile del 25% e un’area di distruzione intorno ai 500
km2.
In
realtà la maggior parte delle testate sono o un po’ più grandi (qualche
megaton, in modo che possano distruggere anche le più grandi città del mondo) o
un po’ più piccole (da qualche decina a qualche centinaio di kiloton) rispetto
a tale valore medio, ma la sostanza del discorso non cambia.
Onda
d’urto e radiazioni.
Lo
stesso vale, in misura perfino maggiore, per le radiazioni.
Infatti
l’area entro la quale esse risultano letali è sensibilmente inferiore a quella
distrutta dall’onda d’urto e, soprattutto, cresce molto più lentamente sia
rispetto ad essa che alla “fireball”, la palla di fuoco che si produce al
centro dell’esplosione e che vaporizza all’istante tutto ciò che tocca.
Questo
fenomeno si accentua ulteriormente con le “bombe H”, giacché la fusione
nucleare produce una quantità di radiazioni di gran lunga inferiore rispetto
alla fissione.
Pertanto,
la radioattività cresce notevolmente con l’aumentare della potenza nelle bombe
atomiche, ma molto meno nelle bombe H, dove è causata principalmente dalla
bomba atomica che innesca il processo di fusione dell’idrogeno, la quale non ha
neanche bisogno di essere particolarmente potente, dato che la fusione una
volta innescata si alimenta da sola.
Così,
se per una bomba da un kiloton il raggio dell’area colpita da radiazioni letali
è di 0,5 km per una superficie di 0,8 km2, per una da 10 kiloton è di 4,9 km2,
con una crescita più o meno in linea con l’aumento di quella colpita dall’onda
d’urto.
Ma già
per una da 100 kiloton l’area irradiata è di soli 10,5 km2, cioè poco più del
doppio della precedente, mentre l’onda d’urto distrugge un’area quasi 5 volte
maggiore.
Ancor
più significativo è il calo con il passaggio ai megaton, cioè alle “bombe H”:
con
una potenza da 1 megaton, infatti, l’area irradiata è di meno di 20 km2, mentre
per una da 10 megaton non arriva neanche a 36 km2.
Infine,
per i 50 megaton della Tsar si ha un raggio di 5 km corrispondente a un’area di
80 km2:
appena
100 volte maggiore di quella di una bomba-zaino da un kiloton, mentre l’onda
d’urto, come abbiamo visto, colpisce un’area oltre 2.000 volte superiore.
Dunque,
anche in un’esplosione nucleare la maggior parte delle vittime muore in realtà
per cause “classiche”, mentre i morti da radiazioni sono una minoranza.
Inoltre, paradossalmente, a produrne il
maggior numero sono le armi nucleari più piccole, perché con l’aumento della
potenza una parte sempre maggiore dell’area colpita da radiazioni letali viene
assorbita dalla “fireball”, dove la morte è istantanea.
Alla
potenza di 13,5 megaton l’area della “fireball” arriva a 39,75 km2, eguagliando
quella delle radiazioni letali, che da lì in poi viene quindi completamente
assorbita dalla prima.
Perciò,
paradossalmente, le “bombe H più potenti” non causerebbero neanche un morto da
radiazioni.
Il
fallout radioattivo.
Magra
consolazione, si dirà. Ed è vero, per quanto riguarda le vittime. Ma queste considerazioni sono
importanti per capire le conseguenze che l’uso di armi nucleari potrebbe avere
al di fuori del teatro di guerra.
E sono
tanto più importanti se consideriamo che in questo periodo tutti stanno facendo
a gara ad esasperare la minaccia al di là di ogni limite ragionevole (anche se oggi un po’ meno rispetto
all’inizio della guerra: è proprio vero che ci si abitua a tutto…).
Certo,
l’area interessata dal “fallout”, cioè dalla ricaduta di polveri radioattive,
può essere assai più ampia di quella colpita dalle radiazioni prodotte al
momento dell’esplosione (ciò dipende da molti fattori, anzitutto atmosferici,
ma anche geografici).
Ed è
proprio questo che ci fa più paura, anche per il rischio che le polveri in
questione possano essere trasportate lontano dal teatro di guerra, fino ad
arrivarci in casa.
Il
rischio indubbiamente esiste, ma, ancora una volta, è assai minore di quel che
si pensa.
Come
riferisce ancora “Wellerstein” nell’articolo precedentemente citato, a “Hiroshima
e Nagasaki” il 70% delle vittime si ebbe durante il primo giorno, mentre il
resto morì entro pochi mesi a causa delle lesioni riportate (non tutte, peraltro, dovute alle
radiazioni).
Inoltre, molto significativamente, tale stima
è condivisa sia dal gruppo di ricerca americano che da quello giapponese, che
pure, come abbiamo visto, hanno seguito metodi e ottenuto risultati
completamente diversi quanto al numero delle vittime.
Negli
anni successivi l’aumento della mortalità per cancro nelle due zone colpite fu
irrisorio, tanto che potrebbe perfino essere interamente dovuto a mere
fluttuazioni statistiche.
Anche
volendo attribuirlo tutto agli effetti della radioattività (il che, va ribadito, è sicuramente
esagerato e probabilmente anche di molto), non si supererebbero comunque le
3000 vittime, distribuite nell’arco di vari decenni.
Naturalmente,
con bombe più potenti anche le polveri radioattive avrebbero una letalità
maggiore, ma solo nelle vicinanze dell’epicentro.
È vero infatti che potrebbero essere
trasportate dall’aria e dall’acqua in giro per il mondo anche a grandi
distanze, ma difficilmente potrebbero causare conseguenze gravi, giacché la
loro concentrazione diminuisce proporzionalmente al crescere dell’area su cui
si diffondono.
Si può
quindi avere una concentrazione pericolosa solo in zone relativamente limitate,
perché se le polveri si disperdono su aree molto vaste diventano rapidamente
innocue.
Solo nel caso di una guerra nucleare globale
le cose si farebbero davvero pericolose.
Ma
anche qui non bisogna esagerare.
Si
stima che oggi nel mondo vi siano circa 13.000 testate nucleari, ciascuna delle
quali contiene al massimo qualche chilo di uranio:
stiamo
quindi parlando in totale di qualche decina o al massimo qualche centinaio di
tonnellate.
Ora,
giusto per dare un termine di paragone, soltanto negli oceani del mondo sono
disciolte quasi 5 miliardi di tonnellate di uranio, cioè una quantità da 10 a
100 milioni di volte maggiore.
All’uranio
marittimo va poi aggiunto quello contenuto nelle rocce, il cui ammontare totale
è più difficile da stimare perché è distribuito in modo meno uniforme, ma come
ordine di grandezza non può essere molto diverso, considerato che le terre
emerse coprono il 30% del pianeta.
Infine,
nelle rocce e nei mari vi sono altri minerali radioattivi oltre all’uranio,
anche se il loro contributo è inferiore.
Eppure, il fondo naturale di radioattività
della Terra è così basso da farci assorbire appena 2,4 millisievert (mSv)
all’anno.
Per
avere un termine di riferimento, una singola “TAC “può farcene assorbire una
quantità anche 6 volte superiore in pochi minuti, eppure non è certo
pericolosa.
Si comincia a correre qualche rischio per la
salute solo intorno ai 100 mSv, mentre la dose letale è di 5000 mSv.
Anche
utilizzando l’intero arsenale nucleare terrestre, quindi, non si vede come si
potrebbe innalzare il livello globale di radioattività a un punto tale da
renderlo pericoloso ovunque.
Certo,
concentrazioni letali di polveri radioattive potrebbero crearsi in alcune zone,
anche di considerevole ampiezza, ma sembra difficile che ciò possa accadere in
tutto il pianeta.
A
conferma di ciò, dobbiamo ricordare che dal 1945 a oggi sono stati eseguiti
oltre 2.000 test nucleari, quasi tutti concentrati in soli 42 anni, dal 1951 al
1992.
Nel
1958 ce ne sono stati 102, nel 1961 addirittura 140 e per tutti gli anni
Sessanta si è rimasti vicini ai 100 all’anno.
La
maggior parte di essi sono avvenuti sottoterra o all’interno di atolli come “Bikini”
o “Mururoa”, ma circa un terzo, per un totale di oltre 400 megaton, si è svolto
direttamente nell’atmosfera.
Ebbene,
a parte un leggero aumento dei casi di tumore in alcune delle popolazioni più
vicine alle zone dei test, nell’insieme tutto ciò non ha avuto conseguenze
rilevanti sulla salute della gente.
Eppure, stiamo parlando di una potenza
equivalente a circa un quarantesimo dell’intero arsenale nucleare terrestre
odierno, stimato intorno ai 15.000 megaton.
Rischi
autentici e rischi immaginari.
A
questo punto siamo in grado di valutare realisticamente i rischi che corriamo.
E a tal fine sarà utile cominciare da quelli
che non corriamo, ma di cui, ciononostante, abbiamo paura, visto quanto spesso
se ne parla.
Anzitutto,
non corriamo il rischio di distruggere la Terra, timore molto diffuso, ma
semplicemente ridicolo.
Per
rendere l’idea saranno utili due termini di paragone.
Il
primo è il terremoto del 26 dicembre 2004, il più violento degli ultimi 50 anni
e il terzo in assoluto da quando siamo in grado di misurarli, che provocò il
famoso “Tsunami
di Santo Stefano” nell’Oceano Indiano.
Sviluppò
un’energia pari a 52.000 megaton, equivalente a mille “bombe Tsar” o, se si
preferisce, a tre volte e mezza l’intero arsenale nucleare terrestre.
Eppure,
ciò si limitò a generare alcune onde alte una ventina di metri, che per noi
sono enormi, ma per il pianeta rappresentano un’increspatura pari ad appena un
seicento millesimo del suo diametro: come se i capelli di un uomo alto un metro
e ottanta subissero un ondeggiamento di 3 millesimi di millimetro.
Il
secondo è la caduta dell’asteroide che sterminò i dinosauri, il più violento
evento terrestre conosciuto.
Sprigionò
un’energia di almeno 100 milioni di megaton, pari ad oltre 6.600 volte quella
dell’intero arsenale nucleare terrestre, creando un cratere di 180 km di
diametro e 20 km di profondità e causando catastrofi inimmaginabili in tutto il
globo, rispetto alle quali anche le peggiori a cui l’umanità ha assistito in
tutta la sua storia sono roba da ridere.
Eppure, al pianeta fece appena il solletico.
Nemmeno
siamo in grado di distruggere la vita sulla Terra, cosa che non riuscì neppure
all’asteroide suddetto. Anzi, quella catastrofe sbloccò la situazione di stallo in
cui si trovava da tempo l’evoluzione, dominata da oltre 160 milioni di anni dai
dinosauri, aprendo così la strada a una nuova fase che alla fine condusse alla
comparsa della prima (e per ora unica) forma di vita intelligente conosciuta:
noi.
D’altronde,
sappiamo che nella storia dell’evoluzione si sono verificate diverse estinzioni
di massa e sempre, dopo ognuna di esse, la vita non solo è ripartita, ma è anzi
progredita verso un più alto livello di complessità. Anche se noi dovessimo
sparire, quindi, la vita di sicuro continuerà.
Ma
anche l’estinzione della razza umana è un’eventualità molto remota. Certamente,
una guerra nucleare fra Russia e Stati Uniti porterebbe alla fine della nostra
civiltà in tutte le zone colpite e avrebbe gravi ripercussioni anche sulle
altre, perché farebbe saltare in aria il sistema economico che abbiamo creato
negli ultimi decenni (il che di per sé sarebbe positivo, dato che il sistema
suddetto è completamente folle, ma sul breve periodo avrebbe conseguenze
pesantissime).
Alla lunga, tuttavia, in queste zone si
creerebbe un nuovo ordine, magari perfino migliore di quello attuale, e
l’umanità andrebbe comunque avanti.
Solo
se le due superpotenze dovessero scagliarsi reciprocamente addosso tutto ciò
che hanno o, peggio ancora, colpire indiscriminatamente ogni parte del pianeta
la sopravvivenza dell’umanità sarebbe davvero a rischio.
Questo non tanto per le distruzioni in sé stesse o per
le radiazioni, che, come già si è detto, da sole non basterebbero a ucciderci
tutti, ma piuttosto perché il collasso delle infrastrutture tecnologiche ci
costringerebbe a ricorrere, per sopravvivere, a tecniche molto primitive di
agricoltura e allevamento, cosa che ben pochi ormai saprebbero fare, perfino
nelle zone in cui si vive ancora a più stretto contatto con la natura.
Tuttavia,
una guerra nucleare totale è un’eventualità così estrema che appare molto
improbabile, anche perché per scatenarla occorre la collaborazione di molte
persone e sembra davvero difficile che di fronte all’Apocalisse nessuno si
ribelli.
Quello
che appare invece più verosimile è un uso limitato di armi nucleari tattiche su
uno specifico campo di battaglia, come appunto si teme possa accadere in
Ucraina.
Ma
fino a che punto questo rischio è reale?
Armi tattiche
e strategiche.
Anzitutto
va detto che, come già si accennava prima, la distinzione tra armi strategiche
e tattiche non è per nulla facile da definire.
In
genere con il primo termine si intende un’arma di distruzione di massa, mentre col secondo si intende
una bomba di potenza e gittata relativamente limitate.
In realtà, però, questa è una condizione
necessaria, ma non sufficiente, perché conta anche l’uso che se ne fa:
solo
se usata esclusivamente contro obiettivi militari sul campo di battaglia,
infatti, un’arma nucleare tattica può essere considerata realmente tale.
La
bomba di Hiroshima, per esempio, era di soli 15 kiloton, ma nessuno sarebbe
disposto a considerarla un esempio di arma tattica, essendo stata usata per
colpire il nemico sul proprio territorio e in maniera indiscriminata.
Perfino
un’atomica portatile da mezzo kiloton, se piazzata in una città, potrebbe
raderne al suolo una porzione considerevole, pari all’intero centro di Milano:
e in tal caso neanch’essa potrebbe essere considerata un’arma tattica.
D’altra
parte, le bombe all’idrogeno e le atomiche più potenti, dell’ordine delle
centinaia o migliaia di kiloton, non potrebbero in nessun caso essere
considerate tattiche, neppure se usate solo a scopi militari, non solo a causa
delle distruzioni su vasta scala che provocherebbero, ma soprattutto per il
significato che avrebbero, dimostrando che il paese che le ha lanciate non
intende porsi alcun limite.
E
neanche potrebbero essere considerate tattiche bombe di potenza limitata se
venissero usate in gran numero, in modo tale che l’effetto cumulativo fosse analogo a
quello delle bombe più potenti.
In
definitiva, quindi, possiamo dire che le armi nucleari tattiche sono tali solo
se rispettano contemporaneamente limiti riguardo alla potenza, all’utilizzo e
al numero.
Una tale definizione rende però molto
difficile il loro impiego nel mondo reale.
Anzitutto,
come ci ha mostrato l’analisi precedente, il vero punto di forza delle armi
nucleari non è tanto la grandezza dell’area che sono in grado di colpire (che, soprattutto nel caso delle armi
tattiche, è assai inferiore a ciò che comunemente si crede), bensì la potenza con cui la
colpiscono.
In
altre parole, esse si caratterizzano principalmente per avere una grande
potenza molto concentrata e, di conseguenza, hanno la massima efficacia contro
obiettivi anch’essi molto concentrati.
Purtroppo,
però, sul campo di battaglia i punti in cui le truppe nemiche sono più
concentrate sono in genere gli stessi in cui sono più concentrate anche le
proprie truppe, per cui è molto difficile colpire le prime senza colpire anche
le seconde.
E la
situazione è ancor peggiore quando il fronte si trova all’interno del proprio
territorio o di quello che si intende conquistare, come sta appunto accadendo
attualmente in Donbass.
In tal
caso, infatti, oltre alle proprie truppe si finirebbe inevitabilmente per
colpire anche la propria popolazione.
E
anche se si riuscisse a evitarlo facendola evacuare (cosa molto complicata, con una guerra
in corso),
le
radiazioni contaminerebbero comunque tutta la zona, rendendola inabitabile per
decenni.
Inoltre,
come abbiamo visto prima, con una potenza limitata a qualche kiloton si può
colpire un’area di non più di 15-20 km2, che sono tantissimi in una zona
urbana, ma sono invece pochissimi in un campo di battaglia moderno, che può
avere un’area di migliaia di km2.
Pertanto, anche volendo ignorare i problemi
precedenti, sarebbe in ogni caso molto difficile rovesciare le sorti di una
guerra con le sole armi nucleari tattiche, a meno di usarle in così gran numero
da cambiarne di fatto la natura.
Non
che si tratti di considerazioni particolarmente originali.
È noto
che gli americani avevano esaminato la possibilità di usare armi nucleari
tattiche in Vietnam, ma l’avevano scartata perché erano giunti alla conclusione
che non avrebbero prodotto cambiamenti significativi nell’andamento del
conflitto.
Eppure,
vi sono molti, anche tra gli esperti, che ancora non sembrano averlo chiaro.
Di
esempi in tal senso ne abbiamo avuti a iosa, per cui mi limiterò a citare il
più clamoroso, quando nelle prime settimane del conflitto “Andrea Margelletti”,
che pure di cose militari se ne intende, aveva mostrato quello che secondo lui
sarebbe stato l’effetto di una singola atomica tattica usata dai russi sul
fronte sudorientale dirigendosi verso la cartina appesa al muro dello studio di
Porta a porta e togliendone, senza dire una parola, tutte le figurine che
rappresentavano l’esercito ucraino.
L’effetto
teatrale è stato ottimo, quello comunicativo, invece, pessimo: per fare
scomparire l’intero esercito ucraino da un’area vasta quanto un quarto del
paese, ovvero quanto l’intera Pianura Padana, ci vorrebbero infatti almeno una
decina di bombe Tsar, pari a circa un quindicesimo della potenza dell’intero
arsenale nucleare russo, altro che un’atomica tattica!
Inoltre,
un attacco del genere in quella zona causerebbe un enorme fallout radioattivo,
che, oltre all’Ucraina, devasterebbe l’intero Donbass, nonché tutte le regioni
russe poste in prossimità del confine e forse perfino la stessa Mosca.
Ebbene,
questo modo irresponsabile di parlare del pericolo nucleare (che certo esiste e non dev’essere
sottovalutato, ma nemmeno esasperato) è un esempio perfetto di ciò che
intendevo prima quando ho detto che un errore su questo punto ci può portare a
prendere decisioni sbagliate.
Putin,
infatti, come ho scritto in un precedente articolo (fondazionehume.it/politica/la-prevedibile-caporetto-di-putin-e-quella-inquietante-degli-esperti/), un po’ scherzando ma anche no, è certamente pazzo, ma non del tutto:
diciamo all’87% o giù di lì.
Ora,
quel 13% di razionalità che gli resta è stato fin qui (fortunatamente)
sufficiente a fargli capire che l’atomica gli può essere molto più utile se non
la usa davvero, ma si limita ad agitarla come spauracchio per spaventarci,
sperando di ottenere delle condizioni di pace abbastanza favorevoli da
permettergli di proclamarsi vincitore, salvando così il potere e, con esso, la
pelle.
E se non abbiamo ben chiara la situazione
rischiamo di cascarci.
La
pericolosa utopia del mondo denuclearizzato.
Ma non
si tratta solo di Putin.
Con la
Bomba, infatti, dovremo purtroppo abituarci a convivere per sempre, perché un
mondo completamente denuclearizzato non solo è un’utopia, ma è un’utopia
pericolosa.
C’è
infatti un ultimo punto fondamentale da capire:
qualsiasi tecnologia, una volta inventata, può
sì essere distrutta, ma non può più essere “disinventata”.
Di
conseguenza, un mondo denuclearizzato lo sarebbe solo in apparenza, mentre in
realtà sarebbe continuamente esposto al rischio che qualche paese riuscisse a
costruirsi di nascosto un proprio arsenale nucleare, anche piccolo.
Diventando
l’unico a possederlo, infatti, gli basterebbero poche decine di missili
intercontinentali con testate di media potenza per essere in grado di
distruggere tutte le principali città del mondo senza rischiare nessuna
rappresaglia.
Di
conseguenza, chi ci riuscisse potrebbe imporre a tutti la propria egemonia
molto più efficacemente di quanto possano fare oggi le maggiori potenze, che di
testate ne possiedono migliaia, ma devono fare i conti con la certezza di
subire, se le usano, un danno identico a quello che sarebbero in grado di
causare.
Forse
qualcuno obietterà che costruire di nascosto decine di bombe nucleari partendo
da zero è molto difficile.
Ed è vero.
Ma difficile non vuol dire impossibile. E le conseguenze sarebbero così gravi
che non possiamo permetterci di rischiare.
Inoltre,
va tenuto presente che per i paesi più forti non sarebbe necessario mantenere
il segreto fino al momento in cui le armi fossero operative, ma solo fino a
quando la loro produzione fosse giunta a un punto tale da garantire un
vantaggio incolmabile sul resto del mondo.
A quel
punto, infatti, per fermarla sarebbe necessaria una guerra condotta con armi
convenzionali, che potrebbe forse avere successo in tempi sufficientemente
brevi contro un piccolo “Stato canaglia”, ma non contro una grande potenza.
Ma non
basta.
C’è anche un altro motivo per cui questa
sarebbe una pessima idea.
Le
armi nucleari, infatti, potrebbero essere l’unica nostra possibilità di
salvezza dall’estinzione che provocherebbe un impatto cosmico con un asteroide
o una cometa.
È uno
scenario che abbiamo già visto in molti film di genere apocalittico, ma, per
una volta, non si tratta di fantasia e neanche di una mera ipotesi, ma di un
dato di fatto.
Come
suol dirsi, la domanda non è “se”, ma “quando”:
sappiamo
che accadrà perché è già accaduto, non solo coi dinosauri, ma molte altre
volte.
E non
è neanche una possibilità tanto remota:
per
metterci a rischio di estinzione basterebbe un oggetto molto più piccolo
dell’asteroide dei dinosauri, diciamo intorno a un chilometro di diametro, che
ha una probabilità su 100.000 di cadere durante il prossimo anno.
Può
sembrare poco, ma in realtà è un rischio appena 5 volte inferiore a quello che
ciascuno di noi corre di morire in un incidente d’auto nello stesso periodo di
tempo.
Ci
sembra che non sia così solo perché le morti da automobile le vediamo
continuamente, essendo un “rischio distribuito” su un lungo arco di tempo,
mentre quelle da asteroide no, essendo un “rischio concentrato” che si verifica
tutto in una volta.
Ma la percezione
della gravità di un rischio non ha nulla a che fare con la sua gravità
effettiva.
È per
questo che ormai da decenni i corpi potenzialmente pericolosi vengono
attentamente monitorati, in modo da poter intervenire con largo anticipo per
deviarli con metodi “soft”.
Ma se
qualcuno ci sfuggisse e dovessimo accorgercene solo all’ultimo momento
(eventualità che non si può assolutamente escludere), allora non resterebbe che
usare i missili nucleari.
E
poiché l’idea di tenerne un certo numero solo per questo scopo sotto controllo
internazionale è pura utopia, data la totale inaffidabilità delle istituzioni
che dovrebbero occuparsene, a cominciare dall’ONU, l’unico modo di averli
pronti al momento del bisogno (dato che non ci sarebbe il tempo di costruirli
da zero) è che le potenze atomiche conservino almeno una parte di quelli che
oggi possiedono.
Non
credo che questo argomento convincerà molte persone:
la guerra atomica ci fa molta più paura degli
asteroidi e raramente la paura si vince coi ragionamenti, soprattutto in un
tempo come il nostro, che ha eretto l’emotività a valore supremo.
Eppure,
i fatti dicono che lo scoppio di una guerra atomica è solo una possibilità
(neanche tanto probabile), mentre l’essere colpiti prima o poi da un corpo
celeste capace di ucciderci tutti è una certezza.
Anche
da questo punto di vista, quindi, un mondo completamente denuclearizzato
sarebbe in realtà un mondo più pericoloso.
Una
soluzione realistica: “MAD depotenziata” e mondo multipolare.
Così
stando le cose, dobbiamo rassegnarci alla situazione attuale o c’è qualcosa che
possiamo fare?
Per quel che vale, la mia opinione è che il
problema delle armi nucleari non può essere risolto una volta per tutte, ma
potrebbe essere gestito in modo tale da minimizzarne i rischi, creando una
sorta di “MAD depotenziata”, dove la “D” finale non stia più per “destruction”,
ma per “debilitation” o qualcosa di simile.
A tal
fine bisognerebbe ridurre considerevolmente il numero di testate in
circolazione, in modo che nessuno ne abbia a disposizione più di qualche
decina.
In
questo modo, infatti, nessuna potenza atomica sarebbe più in grado di scatenare
una guerra globale che minacci la sopravvivenza dell’intera umanità, anche se
ognuna manterrebbe la capacità di rispondere a un attacco nucleare infliggendo
al nemico danni abbastanza devastanti da scoraggiare chiunque dal provarci,
perfino se riuscisse a produrre di nascosto un numero di testate maggiore di
quello pattuito.
Inoltre,
bisognerebbe limitare la tendenza, fisiologica ma non per questo meno
preoccupante, all’aumento del numero dei paesi dotati di armi nucleari, per
minimizzare il rischio che in qualcuno di essi vada al potere un dittatore
pazzo al 100% (e non solo all’87%), che decida di usarle senza curarsi delle
conseguenze.
A tal
fine è necessario che i paesi che già le possiedono si facciano garanti,
attraverso opportune alleanze regionali analoghe alla NATO, della sicurezza di
quelli che non le possiedono.
In fondo è la stessa strategia suggerita da “Huntington”
nel suo celeberrimo” Lo scontro delle civiltà”, che in realtà era un tentativo
di evitare tale scontro (che lui – giustamente – vedeva avvicinarsi) attraverso la creazione di un nuovo
ordine mondiale più pluralista e multipolare e, soprattutto, che rifletta gli
attuali rapporti di forza e non quelli del 1945 su cui si basa ancora l’ONU,
che infatti non funziona.
Inoltre,
è molto importante che la guerra in corso sia vinta dall’Ucraina, unico paese
al mondo, finora, ad avere accettato un accordo del genere dopo avere
rinunciato spontaneamente alle proprie armi nucleari (come il Sudafrica, che però ne
possedeva appena 6).
Al momento della dissoluzione dell’URSS, infatti,
l’Ucraina aveva ben 1300 testate, che restituì alla Russia nel 1994 con la
firma del Memorandum di Budapest in cambio della solenne promessa che
quest’ultima ne avrebbe in futuro garantito e protetto la sovranità e
l’indipendenza.
Abbiamo
visto tutti com’è finita…
Già di
per sé il tradimento di questo accordo da parte della Russia spingerà di sicuro
molti paesi che non possiedono ancora armi nucleari a volersene dotare, ma è
chiaro che, se l’Ucraina dovesse perdere, questa tendenza verrebbe
ulteriormente rinforzata, mentre una sua vittoria dimostrerebbe che dopotutto è
possibile difendere la propria indipendenza anche contro una superpotenza
nucleare facendo unicamente uso di armi convenzionali.
Dimenticare
l’Apocalisse per evitarla.
Resta
però un ultimo problema.
Una
soluzione come quella che ho suggerito può essere attuata solo attraverso una
serie di complessi accordi internazionali, che presuppongono sì un certo grado
di ostilità tra le principali potenze (altrimenti il problema non si porrebbe),
ma anche un certo grado di collaborazione, di cui oggi purtroppo non vi è
traccia.
Cosa dovremmo fare, allora, mentre aspettiamo
che le cose cambino, di fronte a potenze nucleari che sembrano animate da una
volontà malefica, più ottusamente violenta nel caso della Russia, più fredda e
calcolatrice ma ugualmente spietata nel caso della Cina?
Ebbene,
la risposta è l’esatto contrario di quello che in genere i commentatori dicono
della Russia quando vogliono apparire particolarmente intelligenti e pensosi:
«Non
dimentichiamoci che abbiamo a che fare con una potenza nucleare».
Ecco, invece dovremmo proprio dimenticarcene.
Dato
infatti che con questa minaccia dovremo conviverci per sempre, far vedere che
siamo disposti a cedere di fronte a chiunque disponga di armi atomiche sarebbe
il modo migliore per incoraggiare tutti i dittatori, i pazzi e i criminali di
questo mondo a dotarsene e, per chi le ha già, a considerare seriamente la
possibilità di usarle.
Certo, anche resistere è rischioso (la vita è
un rischio…), però meno. Anche perché i prepotenti in genere sono vigliacchi e si
fanno forti solo con i deboli, mentre davanti a un’opposizione risoluta
abbaiano molto, ma mordono poco.
In
questo periodo si è citata spesso (e spesso a sproposito) la crisi dei missili
sovietici a Cuba, cioè il solo momento, finora, in cui il mondo si è trovato
davvero a un passo dalla guerra nucleare.
Ma se
questa alla fine non ci fu, lo si deve al fatto che Kennedy dimostrò ai
sovietici di non aver paura di farla (anche se, ovviamente, ce l’aveva). Poi,
certo, dopo che ebbero fatto marcia indietro fece loro anche alcune
concessioni.
Ma dopo.
Se
gliele avesse fatte prima, dimostrando di temerli, li avrebbe solo incoraggiati
ad andare avanti con il loro folle piano.
E
probabilmente noi oggi non saremmo qui a parlarne.
(Paolo
Musso)
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