Collasso ambientale.

 

Collasso ambientale.

 

 

Il Piano dell’UE Contro Orban:

il Terrorismo Finanziario di Bruxelles.

Conoscenzealconfine.it – (31 Gennaio 2024) - Cesare Sacchetti – lacrunadellago.net – ci dice:

 

Un articolo appena uscito in prima pagina del quotidiano principe dell’anglosfera, il “Financial Times”, firmato da tre nomi, quelli di “Henry Foy”, “Andy Bounds” e “Martin Dunai”, rivela un piano dell’Unione europea contro l’Ungheria.

È noto che da diversi mesi a questa parte Budapest abbia mostrato una certa riluttanza a sostenere gli aiuti al regime nazista ucraino che ormai si trova quasi esclusivamente dipendente da Bruxelles, visto che gli Stati Uniti ormai sembrano essersi fatti da parte anche sotto il lato economico, dopo non aver voluto avere alcun coinvolgimento militare attivo nella guerra contro la Russia.

Il venir meno della sponda europea di quella che un tempo era l’alleanza Euro-Atlantica accelererebbe ancora di più il declino di Zelensky, che negli ultimi mesi si trova a dover far fronte ad una crescente fronda di malcontento interno che è penetrata anche nel cuore delle forze armate.

È questa con ogni probabilità la motivazione che ha spinto il presidente ucraino a rimuovere dal comando il popolare generale “Zaluzhny”, che viene descritto come alquanto contrariato della strategia militare suicida di Kiev, che consiste sostanzialmente nel mandare al macello il numero più alto di uomini possibile, senza avere alcuna speranza di sovvertire le sorti del conflitto.

I numeri sono impressionanti e si parla di perdite superiori alle 300mila unità, senza contare tutti i mercenari dei vari Paesi Occidentali che sono stati eliminati dalla Russia nel corso degli ultimi due anni.

Bruxelles è l’ultima flebile spiaggia di Kiev anche se questa non è in grado di sostenere da sola questo decadente regime, ma questo non sembra aver dissuaso qualche irriducibile eurocrate dal voler comunque inviare aiuti finanziari all’Ucraina.

La Guerra Finanziaria dell’UE all’Ungheria.

Ecco dunque che nelle stanze della Commissione, rivela il “FT”, sarebbe stato approntato un piano di attacco, visionato dal quotidiano anglosassone, qualora “Orban” questa settimana decida di proseguire il suo ostruzionismo nei confronti del finanziamento a Kiev.

A quanto riferisce il “Financial Times”, il piano consisterebbe sostanzialmente nella chiusura dei finanziamenti europei all’Ungheria, i cosiddetti fondi strutturali, per poi passare ad una sorta di guerra valutaria che avrebbe come scopo principale quello di provocare una svalutazione del fiorino ungherese sui mercati per colpire la crescita dei salari e il finanziamento del debito pubblico.

Se si prende in considerazione uno scenario di una guerra valutaria di questo tipo con massicci attacchi speculativi al fiorino ungherese, si potrebbe assistere a scenari che ricordano quelli del 1992 quando il famigerato squalo della finanza anglosassone, “George Soros”, attraverso il suo fondo di investimenti “Quantum Fund” scommetteva pesantemente contro la lira, sostenuto dall’ineffabile e non rimpianto governatore della banca d’Italia e presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che piuttosto che liberare l’Italia dalla morsa dello SME, l’antenato dell’euro, si impegnava in una scellerata difesa del cambio fisso con il marco tedesco, svuotando le riserve in valuta estera di palazzo Koch a tutto beneficio degli speculatori come “Soros”.

Le condizioni però allora erano alquanto diverse poiché la lira appunto era legata ad un sistema di cambi fissi mentre il fiorino ungherese non deve difendere alcuna parità con un’altra moneta di riferimento e il contraccolpo principale per esso sarebbe quello di rendere più costose le importazioni, aumentando però al tempo stesso la competitività delle merci magiare rese più economiche dal cambio svalutato.

L’Ungheria per le sue importazioni dipende principalmente da 5 Paesi, Germania in testa dalla quale compra macchinari industriali ed elettrici, seguita da Austria, Cina, Slovacchia e Russia, dalla quale Budapest compra invece gas e petrolio.

Se Bruxelles decide dunque di scatenare una guerra economica all’Ungheria, a pagare il conto sarebbe anche la Germania, poiché “Orban” potrebbe iniziare a guardare altrove per comprare le merci di cui ha bisogno, soprattutto Cina e Russia, aggravando così la già profonda crisi economica della Germania, affetta da una galoppante deindustrializzazione dovuta anche al fatto di non riuscire più a sfruttare i vantaggi artificiali che la moneta unica offriva a Berlino.

L’Ungheria in questo caso potrebbe guardarsi attorno come si accennava prima e rinsaldare ancora di più i rapporti economici con i Paesi che orbitano nell’area dei BRICS.

Il danno principale che deriverebbe da una simile strategia sarebbe quello della perdita dei fondi strutturali dell’UE se si considera che solamente nel 2021 l’Ungheria ha versato a Bruxelles 1,7 miliardi di euro per riceverne in cambio 6, con un attivo per i magiari di 4,3 miliardi di euro mentre l’Italia, dal canto suo, si trova in condizioni diametralmente opposte quando negli ultimi 20 anni si trova a dover affrontare un passivo nei confronti di Bruxelles superiore ai 70 miliardi di euro.

Il piano dell’UE era quello di estendere i suoi confini e per rendere più attrattive le prospettive di un ingresso nell’Unione ai Paesi dell’Est Europa sono stati versati ingenti fondi dai contribuenti attivi dell’UE, tra i quali appunto c’è anche l’Italia.

 

Quello che però non hanno considerato dalle parti della Commissione europea è che a Budapest potesse esserci un primo ministro che mettesse al primo posto gli interessi del Paese, senza affatto aderire all’agenda immigrazionista dei confini aperti voluta dall’UE, né tantomeno rinunciare alla forte identità cattolica dell’Ungheria per passare al modello liberale e sorosiano della società aperta.

Anche nel caso della politica estera, Budapest ha seguito una linea più neutrale sul conflitto ucraino e non ha dato alcun sostegno attivo a Kiev, né ha attuato le sanzioni economiche contro la Russia sul petrolio e sul gas.

“Orban” ha una politica estera alquanto abile che prevede che l’Ungheria non si schieri nettamente con il blocco Euro-Atlantico per lasciare aperta la porta ai legami con la Russia, paese fondamentale per l’economia ungherese, soprattutto per l’approvvigionamento di gas e petrolio.

Esiste poi anche una chiara affinità culturale tra” Orban” e “Putin”, entrambi accomunati dalla loro opposizione all’ingerenza di “Soros” nei rispettivi Paesi, che hanno preso la comune decisione di mettere al bando le “ONG dello speculatore finanziario” che ha orchestrato il numero più alto di rivoluzioni colorate e colpi di Stato in giro per il mondo negli ultimi 30 anni.

Se Bruxelles Va Contro Budapest fa Harakiri.

Se non si raggiunge un’intesa sull’approvazione del bilancio UE, e se Bruxelles decide di lanciare un simile piano, le conseguenze per l’Unione sarebbero simili a quelle di un harakiri.

L’Unione si trova già isolata sullo scenario internazionale e abbandonata dalla sua tradizionale sponda atlantica di Washington che l’ha finanziata ed etero-diretta sin dai primi anni della sua creazione negli anni ’50, quando i presidenti americani approvavano il finanziamento della futura UE.

L’idea era quella di creare un blocco unico europeo per consentire alla Casa Bianca di controllare meglio il continente europeo ridotto al vassallaggio politico e alla mercé del governo parallelo americano costituito dalla lobby sionista, dal” Council on Foreign Relations” finanziato dai “Rockefeller “e da un’altra estesa rete di circoli globalisti.

Se si lancia una guerra economica all’Ungheria si preme il bottone nucleare sulla già fragile Unione europea, poiché Budapest messa alle strette potrebbe decidere a sua volta di preparare un piano di uscita dall’UE e iniziare a sondare il terreno per un ingresso nei BRICS.

Ciò scatenerebbe una reazione a catena che probabilmente coinvolgerebbe gli altri “Paesi del blocco di Visegrad” che una volta visto l’eventuale allontanamento dell’Ungheria da Bruxelles potrebbero decidere di seguire la stessa linea.

Non è chiaro se si giungerà ad un accordo tra le parti. Nelle ultime ore l’Ungheria ha fatto sapere attraverso il suo ministro degli affari europei, “János Bóka”, che non ha alcuna intenzione di cedere al ricatto dell’eurocrazia.

Se si arriverà al muro contro muro, e la Commissione deciderà di attuare la sua guerra economica contro Budapest, non farebbe altro che creare le condizioni ideali per una completa disgregazione dell’UE.

Bruxelles in questo momento è sola e non è più in grado di lanciare la strategia del terrorismo finanziario già attuata contro Italia e Grecia nel biennio 2011-2013.

È una fase storica molto diversa poiché in quel frangente l’Unione era ancora sostenuta pienamente dall’anglosfera e dall’amministrazione Obama a differenza di quello che è adesso, considerato il vuoto governativo che c’è a Washington con l’amministrazione Biden che ad oggi ancora non ha spostato i fondamentali della politica estera di Trump, notoriamente ostile all’UE e alle organizzazioni di natura globalista.

È una situazione quella dell’UE appesa ad un filo dal momento che il mondo multipolare che sta sorgendo si rafforza sempre di più e i Paesi europei come la Francia perdono tutta la loro influenza coloniale ancora di più colpita dall’uscita di “Burkina Faso”, “Mali” e “Niger” dalla “comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale”.

Se i falchi dell’eurocrazia proveranno ad attuare il terrorismo economico contro” Orban”, il conto da pagare potrebbe non essere alto solamente per l’Ungheria, che comunque può trovare altre soluzioni, ma soprattutto per la stessa “UE”.

Stavolta non è il 2011 dell’Italia e della Grecia come si diceva in precedenza.

Stavolta è il 2024 e l’Unione europea rischia di aggravare ancora di più la sua crisi e di accelerare il declino che potrebbe portare alla sua prossima fine.

Se il futuro appartiene al mondo multipolare e al ritorno degli Stati nazionali, l’idea stessa alla base dell’UE della cessione di sovranità è superata.

Bruxelles si trova nelle condizioni di un cadavere geopolitico già condannato dalla storia.

(Cesare Sacchetti)

(lacrunadellago.net/il-piano-economico-dellue-contro-orban-e-la-natura-terroristico-finanziaria-di-bruxelles/)

 

 

 

CAMBIAMENTI CLIMATICI

E DIRITTI UMANI.

Amnesty.it -Redazione - Richard Burton – (20-1 -2024) – ci dice:

 

È facile dare per scontato il nostro pianeta finché non vediamo il costo umano del suo deterioramento: fame, persone sfollate, disoccupazione, malattie e morte.

Milioni di persone stanno già soffrendo per gli effetti catastrofici di disastri meteorologici estremi esacerbati dai cambiamenti climatici: dalla prolungata siccità nell’Africa subsahariana alle devastanti tempeste tropicali che si abbattono sul sud-est asiatico, sui Caraibi e sul Pacifico.

Le temperature torride hanno causato ondate di caldo mortali in Europa e incendi in Corea del Sud, Algeria e Croazia.

 Si sono verificate gravi inondazioni in Pakistan, mentre una prolungata e intensa siccità in Madagascar ha lasciato un milione di persone con un accesso molto limitato al cibo.

La devastazione che il cambiamento climatico sta causando e continuerà a causare indica un “codice rosso” per l’umanità.

Il principale organismo scientifico mondiale per la valutazione dei cambiamenti climatici – il “Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico” (IPCC) – avverte che le emissioni globali di gas serra “raggiungeranno il picco entro il 2025 al più tardi e dovranno essere ridotte del 43% entro il 2030 se vogliamo limitare il cambiamento climatico a 1,5°C ed evitare la catastrofe completa.”

Per fermare tutto questo è necessaria un’azione immediata su larga scala, ma l’urgenza non deve essere una scusa per violare i diritti umani.

 

I diritti umani sono fortemente collegati ai cambiamenti climatici a causa del loro effetto devastante, non solo sull’ambiente, ma anche sul nostro benessere.

 Oltre a minacciare la nostra stessa esistenza, i cambiamenti climatici stanno avendo effetti dannosi sui nostri diritti alla vita, alla salute, al cibo, all’acqua, all’alloggio e ai mezzi di sussistenza.

Più i governi aspettano ad intraprendere azioni significative e concrete, più difficile diventa il problema da risolvere e maggiore è il rischio che le emissioni vengano ridotte attraverso mezzi che aumentano la disuguaglianza anziché ridurla.

Questi sono alcuni dei modi in cui il cambiamento climatico ha un impatto e avrà un impatto sui nostri diritti umani:

Diritto alla vita – Tutti abbiamo il diritto alla vita e a vivere in libertà e sicurezza, ma i cambiamenti climatici minacciano la sicurezza di miliardi di persone su questo pianeta.

L’esempio più ovvio è rappresentato da eventi meteorologici estremi, come tempeste, inondazioni e incendi.

 Il tifone Yolanda nelle Filippine ha causato la morte di quasi 10.000 persone nel 2013. Lo stress da calore è tra gli impatti più mortali.

L’ondata di caldo estivo in Europa nel 2003 ha provocato la morte di 35.000 persone.

Tuttavia, ci sono molti altri modi meno visibili in cui i cambiamenti climatici minacciano la vita.

L’Organizzazione mondiale della sanità prevede che i cambiamenti climatici causeranno 250.000 morti all’anno tra il 2030 e il 2050, a causa di malaria, malnutrizione, diarrea e stress da calore.

Diritto alla salute – Tutti abbiamo il diritto di godere di un alto livello di salute fisica e mentale.

Secondo l’IPCC, i maggiori impatti dei cambiamenti climatici sulla salute includeranno un maggior rischio di lesioni, malattie e morte a causa di ondate di calore e incendi più intensi;

un aumento del rischio di malnutrizione a causa della riduzione della produzione alimentare nelle regioni povere;

e l’aumento dei rischi di malattie trasmesse da cibo e acqua.

I bambini esposti a eventi come catastrofi naturali, esacerbati dai cambiamenti climatici, potrebbero soffrire di disturbi post traumatici da stress.

Gli impatti dei cambiamenti climatici sulla salute richiedono una risposta urgente perché il riscaldamento senza riserve che stiamo registrando minaccia di minare i sistemi sanitari e gli obiettivi fondamentali della salute globale.

Diritto all’alloggio – Tutti abbiamo diritto a un livello di vita adeguato, incluso un alloggio.

Tuttavia, i cambiamenti climatici minacciano il nostro diritto all’abitazione in vari modi.

Eventi meteorologici estremi come inondazioni e incendi stanno già distruggendo le case delle persone.

 Le siccità, le erosioni e le inondazioni possono cambiare nel tempo l’ambiente e l’innalzamento del livello del mare minaccia le case di milioni di persone in tutto il mondo.

Diritto all’acqua e a servizi igienico-sanitari – Tutti abbiamo il diritto all’acqua potabile per uso personale e domestico e a servizi igienico-sanitari che assicurino la nostra salute.

Ma una combinazione di fattori (come lo scioglimento della neve e del ghiaccio, la riduzione delle precipitazioni, le temperature più elevate e l’innalzamento del livello del mare) mostrano come i cambiamenti climatici stanno influenzando e continueranno a influenzare la qualità e la quantità delle risorse idriche.

Già oltre un miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile e il cambiamento climatico peggiorerà le cose.

Eventi meteorologici estremi – come cicloni e alluvioni – influenzano le infrastrutture idriche e igieniche, lasciando dietro di sé acque contaminate e contribuendo così alla diffusione di malattie trasmesse dall’acqua.

 Anche i sistemi fognari, specialmente nelle aree urbane, saranno a rischio.

 

Secondo il 97% degli scienziati climatici il riscaldamento globale è in gran parte causato dall’uomo e in particolare da tre attività:

Bruciare combustibili fossili.

Agricoltura e deforestazione.

Cambio di utilizzo della terra.

Il pianeta ha sempre avuto notevoli fluttuazioni delle temperature medie. Tuttavia, questo attuale periodo di riscaldamento si sta verificando più rapidamente che mai. Le attività artificiali hanno aumentato la concentrazione di gas serra nell’atmosfera che, a loro volta, stanno facendo aumentare la temperatura media del nostro pianeta a una velocità troppo veloce per consentire agli esseri viventi di adattarsi.

La combustione di combustibili fossili come carbone, petrolio e gas è la fonte della maggior parte delle emissioni di quasi tutti i settori economici e rappresenta oltre il 70% delle emissioni globali di gas serra.

L’IPCC stima che quasi un quarto delle emissioni totali di gas a effetto serra provenga dall’agricoltura e dalla silvicoltura (23%), rendendola la seconda fonte di emissioni più alta dopo il settore energetico.

Circa il 40% di queste emissioni proviene dal naturale processo digestivo che si verifica nei ruminanti come bovini, pecore e capre.

Anche l’uso del suolo e i cambiamenti nell’uso del suolo come la deforestazione, il degrado forestale e gli incendi boschivi sono una fonte significativa di emissioni di gas a effetto serra.

Il cambiamento climatico è e continuerà a danneggiare tutti noi a meno che i governi non agiscano.

 Ma è probabile che i suoi effetti siano molto più pronunciati per alcune comunità, gruppi e individui già svantaggiati e/o soggetti a discriminazione, tra cui:

Persone nei paesi in via di sviluppo, in particolare nei paesi costieri e nei piccoli stati insulari.

Spesso sono coloro che contribuiscono meno al cambiamento climatico ad essere quelli maggiormente colpiti.

Ciò è dovuto non solo alla loro esposizione ai disastri climatici, ma anche a fattori politici e socioeconomici sottostanti che amplificano l’impatto di tali eventi.

In particolare, le conseguenze durature del colonialismo, e il suo retaggio di ineguale distribuzione delle risorse tra i paesi, hanno ridotto la capacità dei paesi a basso reddito di adattarsi agli effetti negativi del cambiamento climatico.

Comunità che subiscono il razzismo ambientale.

Gli effetti del cambiamento climatico e dell’inquinamento legato ai combustibili fossili corrono anche lungo linee etniche quando la politica ambientale discrimina le persone per il colore della pelle, per l’etnia, per la regione etc.

Donne e ragazze.

Le donne e le ragazze sono spesso confinate a ruoli e lavori che le rendono più dipendenti dalle risorse naturali.

 Poiché incontrano ostacoli nell’accesso alle risorse finanziarie o tecniche o gli viene negata la proprietà della terra, sono meno in grado di adattarsi ai cambiamenti climatici e più a rischio poiché sono meno in grado di proteggersi contro di essi.

I bambini.

I bambini e i ragazzi sono particolarmente vulnerabili.

 Ciò significa che, ad esempio, lo sfollamento forzato sperimentato dalla comunità, che ha un impatto su un’intera gamma di diritti (accesso all’acqua, ai servizi igienici, al cibo, alla salute, ecc.), rischia di essere particolarmente dannoso per i bambini e i più giovani.

 

Giunti alla 28ma edizione, quest’anno gli Stati si riuniranno dal 30 novembre al 12 dicembre a Dubai per la Conferenza delle Parti – COP28 – e cioè il vertice annuale delle Nazioni Unite sulla crisi climatica.

La COP 27 si è chiusa con alcuni risultati positivi, come la creazione del “Loss and Damage Fund” che dà speranza agli stati e alle persone maggiormente colpite dal cambiamento climatico.

 La COP28 si apre con altri due risultati positivi da cui partire: la creazione di un programma di lavoro per una transizione giusta dai combustibili fossili e il riferimento al diritto a un ambiente pulito, sano e sostenibile contenuto nella decisione politica finale.

Tuttavia, il fallimento dei governi nell’impegno preso alla COP27 di eliminare gradualmente tutti i combustibili fossili non può essere sottovalutato.

 Ciò rappresenta un’enorme abdicazione agli obblighi in materia di diritti umani e sottolinea l’urgente necessità di una difesa globale concertata.

Nonostante i danni significativi causati dai cambiamenti climatici nell’ultimo anno, gli stati sviluppati continuano, infatti, a non rispettare i propri impegni di riduzione delle emissioni.

Diversi stati continuano a finanziare pubblicamente progetti internazionali sui combustibili fossili e la maggior parte delle politiche nazionali sono inadeguate a soddisfare gli impegni assunti per ridurre le emissioni.

 Gli stati con la maggiore responsabilità storica in termini di emissioni non hanno ancora rispettato il loro impegno – preso alla COP15 nel 2009 – di fornire 100 miliardi di dollari di finanziamenti per il clima ogni anno ai paesi in via di sviluppo.

Questo obiettivo avrebbe dovuto essere raggiunto entro il 2016, ma in occasione della COP21 il termine è stato spostato al 2025.

C’è un enorme bisogno che la COP28 si traduca in impegni concreti, coraggiosi e coerenti con i diritti umani sull’eliminazione graduale dei combustibili fossili, sul fondo per le perdite e i danni e sui finanziamenti per il clima in particolare.

Sarà fondamentale anche garantire che lo spazio civico sia protetto e che il “Global Stocktak”e (il processo che valuta i progressi degli Stati verso il rispetto degli impegni dell’Accordo di Parigi) fornisca piani incentrati sui diritti umani.

Inoltre, il fatto che la Conferenza di quest’anno sarà ospitata negli Emirati Arabi Uniti solleva ulteriori preoccupazioni sui diritti umani.

 Ad agosto il governo degli Emirati Arabi Uniti si è impegnato a rendere “lo spazio disponibile affinché gli attivisti climatici possano riunirsi pacificamente e far sentire la propria voce”.

Il fatto stesso che i padroni di casa abbiano sentito il bisogno di impegnarsi in questo senso non fa che evidenziare l’ambiente normalmente restrittivo del paese.

Chiediamo che l’accordo di organizzazione e ospitalità tra gli Emirati Arabi Uniti e le Nazioni Unite venga reso immediatamente pubblico, ma non è chiaro cosa consentiranno gli Emirati Arabi Uniti in termini di protesta.

 Recenti rapporti secondo cui gli Emirati Arabi Uniti hanno definito un elenco ristretto di punti di discussione per i suoi funzionari mettono ulteriormente in luce l’approccio degli Emirati Arabi Uniti al dissenso.

Nel frattempo, Amnesty International continua a chiedere la liberazione di 60 cittadini arabi arbitrariamente detenuti a seguito del processo di massa del 2013 (la maggior parte è ora trattenuta oltre la scadenza della pena) e di altri – arabi e non arabi – anch’essi detenuti ingiustamente.

L’obiettivo principale della COP28 sarà l’adozione da parte degli Stati di impegni concreti per un’eliminazione rapida ed equa della produzione e dell’uso di tutti i combustibili fossili attraverso una transizione giusta;

 e per il risarcimento delle persone colpite attraverso il “Loss and Damage Fund”.

 

La rapida transizione da un sistema energetico basato su combustibili fossili a un’infrastruttura di energia rinnovabile è essenziale, se le emissioni di gas serra devono essere ridotte a livello globale del 43% entro il 2030 e raggiungere lo zero netto entro il 2050.

È essenziale che i governi di oggi guidino il passaggio a fonti di energia rinnovabile e tecnologie verdi collaudate con soluzioni autentiche che non sacrifichino né il pianeta né le persone imponendo legalmente alle aziende il rispetto dei diritti umani durante la transizione energetica.

Anni di pratiche industriali non regolamentate significa che, ad esempio, il lato negativo del boom delle batterie venga avvertito da comunità ricche di minerali come quelle del “Triangolo di litio” di Argentina, Cile e Bolivia e la regione mineraria di cobalto della Repubblica Democratica Repubblica del Congo (RDC).

 

Giustizia climatica è un termine utilizzato dalle organizzazioni della società civile e dai movimenti sociali per evidenziare le implicazioni sulla giustizia della crisi climatica e la necessità di elaborare risposte politiche giuste ed eque.

Gli approcci alla giustizia climatica si concentrano sulle cause profonde della crisi climatica e su come il cambiamento climatico abbia le sue basi e amplifichi le disuguaglianze tra i paesi e all’interno dei paesi. Le sue richieste si basano sull’imperativo di affrontare tali squilibri e ingiustizie, partendo dal centrare l’azione per il clima nelle prospettive, nelle conoscenze e nelle richieste dei gruppi e delle comunità più colpiti dalla crisi climatica.

Genere, classe, etnia, disabilità e giustizia intergenerazionale sono essenziali per raggiungere veramente la giustizia climatica.

 

“È urgente mettere le persone e i diritti umani al centro del dibattito sul cambiamento climatico.

Per Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani, ciò significa sollecitare l’assunzione di responsabilità da parte degli Stati affinché agiscano per fronteggiare i cambiamenti climatici, proprio come facciamo con altre violazioni dei diritti umani“.

Chiara Liguori, Policy Adviser, Amnesty International.

Il contributo e le istanze di Amnesty International nell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici hanno incluso la difesa dei diritti umani e il sostegno ai gruppi ambientalisti.

Lavoreremo con una moltitudine di gruppi diversi nei principali paesi allo scopo di esercitare una pressione contro i governi e le società che ostacolano il progresso.

Con il nostro lavoro supporteremo i giovani, ma anche i popoli nativi, i sindacati e le comunità colpite, chiedendo una rapida e giusta transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio che non lasci indietro nessuno.

Daremo il nostro supporto e sostegno ai difensori dell’ambiente per facilitare il lavoro di coloro che proteggono la terra, il cibo, le comunità dagli impatti climatici, dall’estrazione, dall’espansione dei combustibili fossili e dalla deforestazione.

La difesa dell’informazione, la partecipazione e la mobilitazione saranno fattori che contribuiranno anche a promuovere politiche climatiche più progressiste.

Le nostre richieste.

Chiediamo ai governi di:

fare tutto il possibile per fermare l’aumento della temperatura globale di oltre 1,5°C;

ridurre le emissioni di gas serra a zero entro il 2050. I paesi più ricchi dovrebbero farlo più rapidamente. Entro il 2030, le emissioni globali devono essere dimezzate rispetto al 2010;

smettere di usare combustibili fossili (carbone, petrolio e gas) il più rapidamente possibile;

assicurarsi che le future azioni per il clima siano condotte in modo da non violare i diritti umani di nessuno e ridurre piuttosto che aumentare le disuguaglianze;

assicurarsi che tutti, in particolare coloro che sono colpiti dai cambiamenti climatici o dalla transizione verso un’economia libera dai fossili, siano adeguatamente informati su ciò che sta accadendo e siano in grado di partecipare alle decisioni sul proprio futuro;

lavorare insieme per condividere equamente la responsabilità e i doveri connessi al cambiamento climatico: i paesi più ricchi devono aiutare gli altri.

 

 

 

Nuovo studio australiano.

«Così nel 2050 la civiltà umana

 collasserà per il climate change».

Ilsole24ore.com – Enrico Marro – (27 giugno 2019) – ci dice:

 

Un’allarmante analisi dei ricercatori del “National Center for Climate Restoration” australiano delinea uno scenario in cui entro il 2050 il riscaldamento globale supererà i tre gradi centigradi, innescando alterazioni fatali dell'ecosistema globale e colossali migrazioni da almeno un miliardo di persone.

Ecco cosa potrebbe avvenire anno dopo anno.

Un decennio perduto.

Tra il 2020 e il 2030 i policy-maker mondiali sottovalutano clamorosamente i rischi del “climate change”, perdendo l’ultima occasione per mobilitare tutte le risorse tecnologiche ed economiche disponibili verso un unico obiettivo:

costruire un’economia a zero emissioni cercando di abbattere i livelli di CO2, per avere una possibilità realistica di mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei due gradi.

 L’ultima occasione viene clamorosamente bruciata.

Il risultato è che nel 2030, come avevano ammonito tredici anni prima gli scienziati “Yangyang Xu” e “Veerabhadran Ramanthan” in una pubblicazione scientifica che aveva fatto discutere, le emissioni di anidride carbonica raggiungono livelli mai visti negli ultimi due milioni di anni.

Nel ventennio successivo si tenta di porre rimedio alla situazione, ma è troppo tardi:

nel 2050 il riscaldamento globale raggiunge tre gradi, di cui 2,4 legati alle emissioni e 0,6 al cosiddetto “carbon feedback”, la reazione negativa del pianeta al riscaldamento globale.

 L’anno 2050 rappresenta l’inizio della fine.

Buona parte degli ecosistemi terrestri collassano, dall’Artico all’Amazzonia alla Barriera corallina.

 Il 35% della superficie terrestre, dove vive il 55% della popolazione mondiale, viene investita per almeno 20 giorni l’anno da ondate di calore letali.

 Il 30% della superficie terrestre diventa arida:

Mediterraneo, Asia occidentale, Medio Oriente, Australia interna e sud-ovest degli Stati Uniti diventano inabitabili.

Una crisi idrica colossale investe circa due miliardi di persone, mentre l’agricoltura globale implode, con raccolti crollati del 20% e prezzi alle stelle, portando ad almeno un miliardo di “profughi climatici”.

Guerre e carestie portano a una probabile fine della civiltà umana così come la intendiamo oggi.

L’ipotesi dello studio è che esistano rischi di riscaldamento globale non calcolati dagli Accordi di Parigi e in grado di porre “rischi esistenziali” alla civiltà umana.

Le ipotesi di “climate change” delineate nel 2015 dagli Accordi di Parigi, pari a un aumento di tre gradi entro il 2100, non tengono infatti conto del meccanismo di “long term carbon feedback” con cui il pianeta tende ad amplificare i mutamenti climatici in senso negativo, quindi portando a un ulteriore aumento della temperatura.

 

Se si tiene conto anche del “carbon feedback”, secondo diverse fonti tra le quali scienziati del calibro di “Yangyang Xu” e “Veerabhadran Ramanathan”, esiste un concreto rischio di arrivare a tre gradi di riscaldamento già nel 2050, che salirebbero a cinque gradi entro il 2100. La civiltà umana non farebbe in tempo a vederli, poiché la maggior parte degli scienziati ritiene che un aumento di quattro gradi distruggerebbe l’ecosistema mondiale portando alla fine della civiltà come la conosciamo oggi.

Una china pericolosa in cui, come nota “Hans Joachim Schellnhuber” del Potsdam Institute, probabilmente «la specie umana in qualche modo sopravviverà, ma distruggeremo tutto quello che abbiamo costruito negli ultimi duemila anni».

Il vero problema, sottolinea lo studio australiano, è rappresentato da alcune “soglie di non ritorno” climatiche come la distruzione delle calotte polari e il conseguente innalzamento del livello del mare.

“Soglie di non ritorno” molto pericolose che, una volta oltrepassate, trasformerebbero il” climate change” in un evento non lineare e difficilmente prevedibile con gli strumenti oggi a disposizione della scienza.

 Dopo il superamento di quei “punti di non ritorno” il riscaldamento globale si autoalimenterebbe anche senza l'azione dell'uomo, rendendo inutile ogni tardivo tentativo di eliminare le emissioni.

 Quello della fine della civiltà umana è un rischio minimo ma non assente, sottolinea “Ramanathan”, che lo stima al 5% («e chi prenderebbe un aereo sapendo che ha il 5% di possibilità di schiantarsi?», nota lo scienziato).

È oggi che dobbiamo agire, conclude lo studio: domani potrebbe essere troppo tardi.

 

 

 

 

Emergenza climatica:

responsabilità, assicurazioni

e bilancio.

Diritto.it - Andrea Lolli – (11/10/23) – ci dice:

 

 

Indice:

1. Il rischio climatico diventa emergenza climatica.

2. Esiste una “climate change legislation”?

3. L’emergenza climatica in Italia.

4. Emergenza climatica come circostanza attuale.

5. Le conseguenze dell’emergenza climatica non rientrano più nel caso fortuito.

6. Prevedibilità statistica e “Change-Point”.

7. Conclusioni.

1. Il rischio climatico diventa emergenza climatica

L’anno 2023 è stato caratterizzato da un intensificarsi di episodi, sul territorio italiano e non solo, legati al clima e qualificabili come “anomali” o “eccezionali sulla base di valutazioni statistiche basate sulle rilevazioni statistiche relative agli anni pregressi.

Prima un inverno di scarse precipitazioni. E poi, a partire da maggio, fenomeni alluvionali, in particolare sull’Emilia Romagna, ma non solo.

Tempeste e precipitazioni di una intensità anormale. Uniti a temperature estremamente elevate se relazionate ai dati statistici degli anni precedenti.

A livello mondiale la temperatura degli oceani che ha raggiunto il record assoluto.

La gravità della situazione è stata oggetto nel corso dell’estate di interventi del Presidente della Repubblica Italiana.

Ne l’Appello dei Presidenti di alcuni Paesi del Mediterraneo e membri del “Gruppo Arraiolos” a sostegno dell’impegno per arrestare gli effetti della crisi climatica si legge che

“Come previsto, la crisi climatica è arrivata e ha raggiunto dimensioni esplosive, tanto che si parla ormai di “stato di emergenza climatica”.

 Il Segretario Generale delle Nazioni Unite alla fine di luglio ha definito la crisi attuale uno stato di “ebollizione globale”.

I suoi effetti sono visibili soprattutto nella nostra regione, il Mediterraneo, che è gravemente colpita e a rischio immediato non soltanto di scarsità di acqua ed elettricità, ma anche di inondazioni, diffuse ondate di calore, incendi e desertificazione.

 I fenomeni naturali estremi stanno distruggendo l’ecosistema e minacciando la nostra vita quotidiana, il nostro stile di vita.” (Fonte Appello per il mediterraneo, Quirinale).

Dunque, possiamo dire anche a livello politico, il massimo organo rappresentativo dello Stato Italiano (il Presidente della Repubblica) ha affermato che la crisi climatica non è più un accadimento futuro a cui prepararsi, ma rappresenta, invece, una situazione in essere. 

Il concetto è ribadito all’interno della dichiarazione sopra riportata in cui si precisa che “I fenomeni naturali estremi stanno distruggendo l’ecosistema e minacciando la nostra vita quotidiana, il nostro stile di vita.

Preso atto che quindi la crisi climatica è arrivata e che dunque dobbiamo – e non solo dovremo- convivere con “scarsità di acqua ed elettricità, ma anche di inondazioni, diffuse ondate di calore, incendi e desertificazione” viene naturale chiedersi quali sono i provvedimenti normativi già in vigore per affrontare questa emergenza attuale.

Il tema è trattato in più di un lavoro che si propone di effettuare a livello internazionale una ricognizione, anche a livello di macroaree geografiche, di quella che può essere definita come “climate change legislation”.

Lo scopo di questo articolo è di capire, nell’ambito del diritto (soprattutto) commerciale, se nel nostro paese vi sia una “climate change legislation” che tratti il cambiamento climatico ed i suoi effetti non come un possibile accadimento futuro, ma appunto come una criticità odierna, mettendo detto accadimento al centro di una serie di previsioni.

O se invece il cambiamento climatico sia un fatto giuridicamente rilevante secondo i paradigmi propri della normativa precedente all’attuale situazione, normativa non espressamente dettata per affrontare tale situazione.

Per capire, almeno in linea teorica quale possa essere l’approccio da assumere di fronte al cambiamento climatico si è cercata evidenza della “climate change legislation” nei paesi maggiormente soggetti a detto fenomeno.

Prendendo in esame UNO degli effetti più impattanti del” climate change”, ovvero l’innalzamento degli oceani, ho cercato dati sulla legislazione dei due stati  che vengono considerati maggiormente esposti a  tale fenomeno, ovvero le “Maldive” e lo stato polinesiano di “Tuvalu”.

La conformazione del territorio -sono i due stati con meno elevazione media rispetto al livello del mare- mette infatti detti paesi nella condizione di  finire  sommersi se -ma sarebbe più corretto dire quando-  il livello del mare dovesse alzarsi.

“Sul punto cfr.  “The Pacific Islands: The front line in the battle against climate change, By Chris Parsons, May 23, 2022”.)

Nell’ipotesi dello stato polinesiano di “Tuvalu”, l’innalzamento del livello del mare e di conseguenza la inondazione di alcune isole di detto stato è già in atto, secondo quanto accertabile dalle fonti disponibili come riferito dai massimi esponenti governativi di detto paese.

Peraltro le stesse fonti hanno dovuto ammettere che quanto all’isola  di Tuvalu – che è una delle isole di detto stato-  questa in realtà sta aumentando la propria superficie come effetto del deposito di sabbia ed altri detriti.

 Si riporta questo fatto per dare conto di quanto sia difficile avere certezze rispetto a ciò che sta accadendo.

La notizia di 5 atolli appartenenti alle “isole Salomone” e sommersi dall’innalzamento delle acque è del 2016, mentre per quanto riguarda le “Maldive”, queste, secondo quanto accertabile dalle fonti disponibili hanno in essere la creazione di isole galleggianti per collocare la popolazione, come reazione al fatto che il territorio viene sommerso.

Non vi è notizia, tuttavia di una legislazione di detti stati che affronti espressamente la probabilità/certezza della inondazione con norme di diritto positivo.

In conclusione.

 Anche rispetto agli stati che sono a rischio di scomparire -letteralmente- sott’acqua nel corso dei prossimi decenni, manca un intervento legislativo chiaro, che affronti questo fatto, il cambiamento climatico ed i suoi effetti, come un elemento da mettere senza esitazioni al centro della legislazione.

Dunque il cambiamento climatico non è oggetto di una legislazione ad hoc neppure negli stati delle isole pacifico che fronteggiano letteralmente la sparizione per inondazione del territorio.

2. Esiste una climate change legislation?

Ci sono paesi che  affrontano il problema attuale del cambiamento climatico in modo più deciso, pur avendo problemi meno drammatici da fronteggiare rispetto a quegli stati che rischiano di finire sommersi?

La disamina dei dati messi a disposizione da “Higham C. et al. (2023) Climate Change Law in Europe: What do new EU laws mean for the courts?( London: Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment and Centre for Climate Change Economics and Policy, London School of Economics and Political Science)  fornisce una risposta incerta.

Dal sito web che diffonde i risultati della ricerca risulta in atto uno sforzo anche legislativo estremamente articolato al fine di prevenire il rischio climatico e inibire i fattori che lo producono.

Invece non risultano citate norme che affrontano gli effetti che si sono già prodotti oggi come causa del cambiamento climatico.

Gli effetti della siccità, dell’innalzamento delle temperature, del mutamento del clima, piuttosto che dell’innalzamento del livello del mare.

Sicuramente concorrono in tal senso una serie di fattori:

 la difficoltà di cogliere quali elementi considerare come già oggi causati dal cambiamento climatico, come regolamentarli, a chi attribuirne la responsabilità e a chi farne sopportare il costo.

Quali parti del territorio considerare a rischio e dunque su quali parti del territorio intervenire e come intervenire.

Certo non fare nulla rispetto a ciò che sta accadendo non pare la scelta giusta.

 Anche perché la conseguenza è quella di dover fronteggiare i danni che sono il frutto del cambiamento climatico una volta che si sono prodotti in forza di eventi traumatici catastrofici, senza che nulla sia stato fatto per prevenirli.

3. L’emergenza climatica in Italia.

L’Italia è un paese dove esiste una emergenza climatica?

Siamo più o meno esposti al cambiamento climatico rispetto agli altri paesi?

Un primo termine di riferimento è dato  dai risultati di “Copernicus Climate Change Service” contenuti nel “report A partnership to support mitigation and adaptation efforts in the Mediterranean”.

Secondo tale report nel territorio italiano sono collocati tre siti Unesco al massimo grado di rischio legato ad allagamenti e ad innalzamento del livello del mare.

Questi siti sono Venezia, Ravenna e Ferrara.

E’ notizia di questi giorni -salutata nei quotidiani nazionali come una vittoria- che Venezia, invece, non è stata inserita nella “Black List” dei siti Unesco . 

La circostanza che l’ondata di maltempo dell’aprile del 2023 abbia creato l’allagamento di uno di questi siti – Ravenna – non rientra, quindi, nell’ambito delle situazioni imprevedibili ma rappresenta l’avverarsi di una circostanza puntualmente rappresentata come prevedibile a livello di comunità scientifica.

Rispetto al territorio italiano, oltre al tema legato all’innalzamento del livello del mare si pongono, tra l’altro (come segnalato dal nostro Presidente della Repubblica nelle dichiarazioni citate al paragrafo 1 del presente lavoro) il tema della siccità ed il tema del mutamento del tipo di clima che sta diventando da clima mediterraneo (in senso proprio) o continentale un clima tropicale caratterizzato da fenomeni estremi tipici di altre regioni del globo.

In, particolare mentre il 2022 e l’inizio del 2023 sono stati caratterizzati dalla siccità, a partire dal maggio 2023 si sono verificati fenomeni alluvionali che hanno ripetutamente colpito non solo le zone notoriamente -da un punto di vista scientifico- a rischio, ma più in generale il nord del paese.

Insomma in talia l’emergenza climatica esiste come confermato dalle parole del nostro Presidente della Repubblica.

Conseguentemente occorre chiedersi se abbiamo una legislazione che affronta l’emergenza climatica.

Esistono numerose norme in materia di transizione ecologica.

 Esistono numerose norme che, sulla scorta della legislazione europea, spronano le imprese ad adottare comportamenti proattivi volti ad evitare che il cambiamento climatico divenga una emergenza ancora maggiore rispetto a quella attuale (il mondo SGR).

Ma – e in questo viene confermato l’approccio internazionale all’emergenza climatica – non c’è nessuna disposizione di legge che – per semplificare – interviene sull’ordinamento vigente trattando il mutamento climatico come una circostanza attuale che necessita di essere affrontata oggi con norme ad hoc espressamente dettate.

4. Emergenza climatica come circostanza attuale.

Per cercare di capire cosa -ad avviso di chi scrive- manca rispetto alla legislazione vigente proviamo a fare un parallelo rispetto ad un settore rispetto al quale un rischio attuale di un evento futuro nefasto viene considerato come circostanza attuale.

Il settore è quello degli infortuni automobilistici.

Visto che si sa con certezza statistica che un certo numero di infortuni si verificheranno, viene disposta una assicurazione obbligatoria;

 le norme di sicurezza stradale impongono al singolo di strumenti di prevenzione quali caschi cinture di sicurezza etc.;

le vie stradali vengono regolamentate rispetto a larghezza visibilità etc. per renderle più sicure.

 Ai mezzi inadatti non è permesso circolare.

Volendo trasferire tale concetto nel settore dell’emergenza climatica, sarebbe necessario, a mio avviso, valutare quali parti del territorio sono soggette a rischio di allagamento alla luce dell’emergenza climatica e prendere una decisione sul mantenere tali parti abitabili come le altre oppure differenziare il regime urbanistico per esempio evitando nuovi insediamenti abitativi, adottare misure per prevenire i periodi di siccità e così via.

Non rientra nella competenza di chi scrive lo studio o la disamina scientifica o giuridica dei problemi del territorio legati alla emergenza climatica.

Rientra nella mia conoscenza di giurista la circostanza che la valutazione del territorio in relazione a possibili rischi legati alla conformazione del territorio è fatta dai piani di assetto idrogeologico (PAI).

Non vi è evidenza che detti piani abbiano internalizzato l’emergenza climatica come fatto storico cui conformare le prescrizioni normative da attuare.

Non vi è cioè evidenza che i “PAI” abbiano valutato il cambiamento climatico come fenomeno attuale cui conformare le proprie prescrizioni.

Non vi è evidenza dei tempi e delle modalità di attuazione di tali piani.

Alla luce della circostanza che i fenomeni alluvionali o comunque gli episodi di eventi metereologici estremi sono destinati a proliferare, vanno forse ripensati gli standard costruttivi cui conformare almeno le nuove abitazioni.

 Va ripensata -e attuata- la legislazione legata a quello che oggi chiamiamo rischio idrogeologico.

Si prende atto che dopo l’alluvione in Emilia Romagna il ministro per la Protezione civile” Nello Musumeci” ha annunciato un provvedimento in accordo con altri ministeri che entro la prima metà del 2024 porterà ad interventi mirati, dalla realizzazione di nuove dighe all’eliminazione degli sprechi di acqua.

“L’urgenza è dettata da una trasformazione che sembra ormai irreversibile.”

Recita l’articolo del Sole 24 ore che riporta la notizia.

Ancora il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha affermato nel luglio di quest’anno (fonte Ansa) che “l’obiettivo di medio termine che il Governo si dà è quello di superare la logica degli interventi frammentati varando un grande piano di prevenzione idrogeologico“.

La necessità di fare un passo avanti per creare una legislazione vigente che prenda atto dell’emergenza climatica è un fatto affermato  a livello istituzionale che comprova che allo stato tale legislazione manca.

5. Le conseguenze dell’emergenza climatica non rientrano più nel caso fortuito.

Prendiamo quindi atto che, come già rilevato in un lavoro precedente pubblicato su Diritto.it, la legislazione vigente non prende espressamente e specificamente in considerazione l’emergenza climatica come un pericolo attuale rispetto al quale vanno prescritte normativamente oggi delle difese e delle cautele per evitare che si producano dei danni.

La assenza di previsioni normative specifiche è dovuta al fatto che fino ad oggi l’emergenza climatica e gli eventi alla stessa collegati sono stati ricompresi nell’ambito del caso fortuito: l’evento eccezionale, imprevedibile e inevitabile che costituisce “una fatalità”.

La fatalità per definizione è imprevedibile ed è inevitabile e quindi

a)     Non possono essere adottate cautele per evitarla;

b)    non comporta responsabilità perché appunto nulla si può fare né per prevederla né per evitarla.

La circostanza che gli eventi collegati alla emergenza climatica siano diventati prevedibili fa sì che gli stessi non possano più rientrare nell’ambito di applicazione di tale norma e che

a)     possono essere adottate cautele  per evitare o mitigare gli effetti di tali eventi, che non sono più fatalità;

b)    comporta responsabilità non adottare cautele per evitarla.

Nella situazione attuale dove gli accadimenti legati al cambiamento climatico sono prevedibili ed in cui mancano però norme specifiche che li prendano in considerazione per prevenirli, fermo quanto riferito nel paragrafo che precede, l’ingresso nell’ordinamento giuridico dell’emergenza climatica   avviene tramite le clausole generali che impongono di valutare il rischio.

Nello lavoro di maggio 2023 si è esaminato detto rischio rispetto all’applicazione della norma aperta in materia di assetti organizzativi adeguati.

 Per affermare che l’emergenza climatica è una fattispecie di fatto che, può o deve, a seconda del tipo di attività e della collocazione geografica della società, divenire rilevante per la adeguatezza degli assetti organizzativi della società.

Più in generale qualunque clausola generale o norma prenda in considerazione

 eventi prevedibili potenzialmente dannosi attrae nella propria sfera di applicazione l’emergenza climatica, divenuta evento attuale prevedibile potenzialmente dannoso.

La circostanza che il mutamento climatico abbia reso più probabili o addirittura certi determinati eventi catastrofici determina la applicazione a detti eventi delle norme deputate a trattare detti probabili eventi dannosi.

In primo luogo quindi il tema è quello della applicazione delle disposizioni generali in materia di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale.

La circostanza che gli eventi legati all’emergenza climatica siano prevedibili impone a tutti i soggetti di valutare le conseguenze delle proprie azioni, ai sensi degli artt.2043 e 1218 c.c anche in relazione a detti eventi in quanto rientranti nella propria sfera di azione e/o di responsabilità al fine di escludere la propria negligenza nel non aver fatto quanto possibile per evitare le conseguenze dannose legate al loro verificarsi.

A cascata detta responsabilità incide sulla disciplina delle assicurazioni rispetto alla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale:

se il danno era prevedibile, l’assicurato è responsabile e la garanzia prestata dall’assicurazione opera.

A latere, ed a prescindere dal tema della responsabilità, la prevedibilità di eventi dannosi incide sulla disciplina degli accantonamenti di bilancio: il rischio concreto di eventi che producano una perdita è

  fonte dell’obbligo di accantonare somme che facciano fronte alle perdite procurate da detti eventi.

Il tema è a mio avviso parzialmente nuovo:

gli accantonamenti a bilancio non sono normalmente legati ad eventi macroeconomici o a fattori climatici ma a circostanze microeconomiche che riguardano specificamente la singola società.

Comunque la rilevanza di elementi macroeconomici sul bilancio è tema parzialmente conosciuto: 

basti pensare alla necessità di valutare il rischio paese nella quantificazione a bilancio del valore dei crediti.

La circostanza che una serie di accadimenti non possono più essere definiti come eccezionali o improbabili ma debbono essere affrontate come probabili, interviene sulle norme sopra citate per imporre di tenere in considerazione gli effetti di detti eventi.

Riteniamo che possa essere di aiuto, al fine di relazionarsi al tema in oggetto, richiamare l’orientamento della Cassazione in materia di precipitazioni atmosferiche.

Perché le precipitazioni atmosferiche possano integrare l’ipotesi del caso fortuito, assumendo rilievo causale esclusivo, occorre che esse rivestano i caratteri dell’imprevedibilità e dell’eccezionalità:

Come statuito dalla cassazione Cass. civ., Sez. III, ord., 11.02.2022, n. 4588 –  “Le precipitazioni atmosferiche integrano l’ipotesi di caso fortuito, ai sensi dell’art. 2051 c.c. quando assumono i caratteri dell’imprevedibilità oggettiva e dell’eccezionalità, da accertarsi – sulla base delle prove offerte dalla parte onerata (cioè, il custode) – con indagine orientata essenzialmente da dati scientifici di tipo statistico (i cc.dd. dati pluviometrici) di lungo periodo, riferiti al contesto specifico di localizzazione della “res” oggetto di custodia.

Quindi la giurisprudenza sembra tracciare il percorso legato alla definizione di un evento come prevedibile o imprevedibile -e quindi in questo secondo caso come caso fortuito- legato al dato statistico di lungo termine.

 

6. Prevedibilità statistica e “Change-Point”

La rilevanza dei dati pregressi a dimostrare se un evento è probabile oppure no è legata ad una rilevazione statistica di dati comparabili.

L’assunto di questo lavoro è che i dati pregressi non siano comparabili a quelli recenti perché l’emergenza climatica è arrivata oggi come fenomeno che ha mutato il contesto di riferimento, intervenendo quindi come” Change-Point” rispetto al quadro di riferimento.

Se questo assunto è corretto, la rilevanza dei dati riferiti al periodo storico precedente è nulla, o comunque i dati precedenti il” Change-Point” non sono collocabili sul medesimo piano dei dati successivi a detto “Change-Point”.

Dunque la prevedibilità di un evento legata alla sua rilevabilità sulla base di dati statistici non dovrebbe essere legata ad una disamina lineare di tutti i dati, ma dovrebbe prendere in considerazione in modo differenziato i dati degli ultimi anni.

Il rimando che la giurisprudenza di cassazione fa, nella sentenza sopra citata, ai  “dati scientifici di tipo statistico” è corretto ma dovrebbe mentre ad a nostro avviso valutato se sia corretto far riferimento ai  dati di lungo periodo o se invece non sia proprio la statistica ad imporre una non rilevanza dei dati risalenti alla luce del diverso contesto in cui sono stati rilevati.

 

7. Conclusioni.

Il pianeta Terra – in ragione della emergenza climatica – è diventato per l’uomo un luogo meno sicuro e più pericoloso.

Ci sono dunque una serie di eventi che già si sono verificati ed altri che possono verificarsi con alto grado di probabilità e di cui le attività umane devono tenere conto.

Non si può più parlare di “disgrazia” e “catastrofe” rispetto ad eventi atmosferici particolarmente distruttivi, perché tali episodi hanno ormai una frequenza tale da appartenere al nostro nuovo quotidiano.

La fuoriuscita di tali eventi dal caso fortuito e il loro rientrare nel rischio prevedibile impatta sulla attività di impresa in modo negativo, ma inevitabile.

Le imprese sono soggette ad un maggior rischio di eventi dannosi .

Le imprese debbono attrezzarsi, sostenendo maggiori spese, per affrontare tale nuovo contesto, che non può venire ignorato.

Il primo impatto che tale cambiamento del clima ha sulle attività imprenditoriali è quello legato agli eventi climatici violenti che sono divenuti frequenti:

 eventi che producono danni che devono essere valutati come probabili e che quindi dovranno essere assicurati e prevenuti perché conoscibili, nei limiti del possibile

Da un punto di vista giuridico si tratterà di capire, se tali danni comunque si producono, su chi ricade la responsabilità per non averli prevenuti e dunque evitati  – ove possibile –  o per tenere conto di tali danni, dove non sia possibile prevenirli.

Che un cambiamento epocale come quello che stiamo affrontato in ragione dell’emergenza climatica possa venire adeguatamente affrontato solo sulla base nella normativa generale precedente tale cambiamento e sulla base dell’ambito dell’applicazione delle clausole generali sembra quantomeno dubbio.

Le norme sopra citate che fanno riferimento l’ambito della responsabilità e ad espetti giuridici correlati avrebbero bisogno di un solido punto d’appoggio in una disciplina che tracciasse i limiti ed i confini di ciò di cui occorre tenere conto per operare in modo diligente alla luce del nuovo contesto.

La mancanza di una disciplina che prenda in considerazione, in modo diretto, gli effetti del cambiamento climatico lascia un’ alea di incertezza, rispetto all’applicazione alla disciplina giuridica da applicare, sicuramente troppo ampia e non compatibile con il principio della certezza del diritto.

 

Svendita Italia.

Conoscenzealconfine.it – (1 Febbraio 2024) - Weltanschauung Italia – ci dice:

 

In questi mesi abbiamo assistito, con un governo autodefinito “sovranista”, al proseguimento di quelle politiche iniziate nei primi anni novanta.

Mentre all’ormai tradizionale summit prostitutivo politico economico di Davos discute di una “nuova fiducia”, nello stivale italico proseguono la svendita (d’altronde siamo in periodo di saldi) e lo smantellamento delle eccellenze nostrane.

In questi mesi abbiamo assistito, con un governo autodefinito “sovranista”, al proseguimento di quelle politiche iniziate nei primi anni novanta.

C’è stata una innegabile accelerazione in questa direzione, mancano pochi anni al compimento delle agende globali e quindi il treno, partito tanto tempo fa, prosegue la sua corsa per arrivare alla stazione 2030.

Ma entriamo nel dettaglio degli ultimi tempi:

il settore industriale è ormai in mano ai colossi della delocalizzazione, il settore delle telecomunicazioni è stato svenduto a fondi di investimento (KKR), il settore energetico ceduto in percentuale (moderno piano Mattei per sanare il debito pubblico con la vendita del 4% di Eni), il settore agricolo subisce incentivi alla non coltivazione e/o vendita dei terreni (addirittura con eventuale esproprio) per il foto/agrovoltaico, oltre allo stop alle monoculture per tutto il 2024 e abbiamo anche il settore nazionale delle poste sulla stessa via dei già citati.

Che dire inoltre del settore ittico?

 Sono anni che lo si vede in difficoltà con le strambe politiche dei cravattari di Bruxelles.

Dopo aver lasciato proliferare il granchio blu che dalla Puglia è risalito in tutto l’adriatico facendo tabula rasa di gran parte dei molluschi (e non solo) che tutto il mondo ci invidia senza fare assolutamente nulla, il ministro del settore competente ha messo altra carne al fuoco:

1)- l’inserimento del granchio blu nelle specie ittiche commercializzabili in Italia per aiutare gli operatori di settore a fronteggiare l’invasione di questa specie, tutto sotto il nome di sostenibilità economica per i pescatori (della serie: non abbiamo intenzione di risolvere il problema, cambiate prodotto se volete lavorare).

2)- Dopo che per anni la Ue ha imposto limitazioni di ogni sorta (vedi le giornate di pesca decise fuori confine), gli esecutori stanziano 74 milioni di soldi pubblici per la demolizione dei pescherecci datati sotto il nome “protezione ambientale”.

Per un paese bagnato per quasi 8000 km di coste, con relative flotte di pescherecci, compiere una manovra del genere è davvero indicativo.

Detto questo…

i problemi in Italia rimangono il ritorno al fascismo, l’omotransfobia, l’antisemitismo, il razzismo, la poca vaccinazione, il patriarcato e il pandoro della Ferragni… ce lo dice l’Europa!

(Weltanschauung Italia)

(weltanschauung.info/2024/01/svendita-italia.html)

 

 

 

 

(Rapporto Ipcc).

Clima, entro il 2030 mondo

 più caldo di 1,5 gradi.

La conferma di” Jim Skea”, Ipcc.

Ilsole24ore – (28 luglio 2023) - Elena Comelli – ci dice:

 

“Jim Skea”, neopresidente dell'I”ntergovernmental Panel on Climate Change”:

non possiamo più evitare di sforare la soglia più ambiziosa dell'accordo di Parigi:

 già nel 2030 temperature più alte di 1,5 gradi.

 

Clima, Guterres: "E' arrivata l'era dell'ebollizione globale".

I punti chiave:

«Governi poco attivi. E quindi il mondo sarà più pericoloso».

Dai disastri di questi giorni primo segnale, ma senza intervenire la situazione peggiorerà.

Cosa deve fare la politica.

Prima azione necessaria: taglio netto del metano.

Seconda: blocco della deforestazione.

Terza: più spazio alla natura.

Quarta: cambiare le logiche dell'alimentazione e dell'agricoltura.

Sfruttare al massimo le rinnovabili.

Stop definitivo al carbone, mettere il clima al centro delle decisioni.

È ormai certo, in base ai dati a disposizione, che toccheremo un aumento di 1,5°C delle temperature globali rispetto ai livelli pre-industriali, attorno al 2030.

 L'ha detto “Jim Skea”, il fisico scozzese appena eletto alla presidenza dell'”Intergovernmental Panel on Climate Change”, braccio scientifico delle Nazioni Unite sull'emergenza climatica.

Il nuovo presidente, che sostituisce l'economista coreano Hoesung Lee alla testa del massimo organismo scientifico in materia di clima per il settimo ciclo di studi, insegna energia sostenibile all'Imperial College di Londra ed è anche a capo della commissione scozzese per la Just Transition.

Skea si definisce «geneticamente ottimista», ma è convinto che non possiamo più evitare di sforare la soglia più ambiziosa dell'accordo di Parigi.

 «I colleghi che lavorano al” Working Group 1” sulla scienza fisica dei cambiamenti climatici sono molto chiari sul fatto che raggiungeremo un aumento delle temperature globali di 1,5 gradi attorno al 2030, o nella prima parte degli anni ‘30»,

, è stata una delle sue prime dichiarazioni in collegamento da Nairobi, dove si è svolta la votazione che lo ha visto prevalere contro la candidata brasiliana Thelma Krug.

Cionondimeno, ha aggiunto, «nello scenario migliore potremo iniziare ad abbassare di nuovo la temperatura globale sotto quella soglia», se i governi applicheranno rapidamente le politiche giuste.

«Governi poco attivi. E quindi il mondo sarà più pericoloso»

Cosa non ha funzionato?

I governi “non hanno messo in atto politiche abbastanza ambiziose da consentire il raggiungimento degli obiettivi dell’accordo di Parigi. Questo è assolutamente certo», ha detto lo scienziato scozzese.

E ha aggiunto: “Il mondo non finirà se diventerà più caldo di 1,5 gradi. Tuttavia, sarà un mondo più pericoloso.

I Paesi dovranno lottare con enormi problemi e ci saranno molte tensioni sociali».

D'altra parte, non bisogna disperare, perché l'umanità avrà sempre il potere d'influire sulla traiettoria futura dell'emergenza climatica.

“ Skea” ha precisato:

«Possiamo ancora intraprendere azioni per evitare alcune delle peggiori conseguenze del cambiamento climatico, questo dev'essere chiaro.

 La sensazione di essere paralizzati di fronte a una minaccia letale non ci aiuterà, è importante passare rapidamente all'azione».

Dai disastri di questi giorni primo segnale, ma senza intervenire la situazione peggiorerà.

Le ondate di calore e le tempeste di questi giorni, per “Skea”, sono un primo segnale di come sarà il mondo di domani.

«Il fatto che queste emergenze stiano accadendo, in un certo senso. non è sorprendente», ha commentato.

 «La velocità con cui la crisi ci è arrivata addosso, invece, lo è e la situazione è destinata a peggiorare rapidamente, a meno che non s'intraprendano ulteriori azioni per ridurre le emissioni»,

ha sostenuto” Skea”, aggiungendo che personalmente non soffre di «ansia climatica esistenziale» perché è molto concentrato sulle soluzioni.

Cosa deve fare la politica.

Nella recente sintesi del suo “Sesto Rapporto di Valutazione” (AR6), pubblicata a fine marzo, l”'Ipcc” ha evidenziato alcune misure chiave che i governi devono adottare immediatamente se vogliamo evitare il collasso del clima.

 Uscito dopo sette anni di lavoro, questo gigantesco rapporto comprende l'intera gamma di conoscenze umane sul sistema climatico, raccolte da centinaia di scienziati in migliaia di articoli accademici e pubblicato in quattro parti, nell'agosto 2021, febbraio e aprile 2022 e marzo 2023.

Nell'ultima parte, a cui ha contribuito anche “Skea”, si elencano le soluzioni più efficaci che si possono applicare subito, senza necessità di ulteriori progressi tecnologici.

Prima azione necessaria: taglio netto del metano.

La prima misura è un taglio netto agli inquinanti climatici di breve durata, a partire dal metano, che potrebbe ridurre di oltre mezzo grado il surriscaldamento globale.

 Prodotto dall'estrazione e dal trasporto di petrolio e di gas, dalle miniere di carbone e dall'allevamento (soprattutto di bovini), il metano è un gas serra circa 80 volte più potente dell'anidride carbonica, ma resta in atmosfera solo una ventina d'anni prima di degradarsi in CO2.

 Bloccare le fughe di metano è considerata dall'”Ipcc” la misura più urgente.

 

Seconda: blocco della deforestazione.

La seconda misura è bloccare la deforestazione.

 L'abbattimento delle foreste pluviali distrugge alcuni dei più grandi serbatoi di assorbimento del carbonio e rischia di portarci a un "punto di svolta" in cui vaste foreste come l'Amazzonia e il Congo diventano fonti nette di anidride carbonica nell'atmosfera invece di assorbirla.

C'è speranza che i recenti tassi disastrosi di deforestazione osservati in Brasile diminuiscano con il ritorno del presidente Lula, ma sarà un'impresa difficile.

Anche il Congo è ancora gravemente minacciato e in Malesia e Indonesia continua la distruzione delle foreste per produrre olio di palma.

Terza: più spazio alla natura.

Il terzo punto citato dall'”Ipcc” è restituire i territori alla natura.

Le foreste sono importanti, ma molti altri ecosistemi naturali, come le zone umide che vengono prosciugate per l'agricoltura, sono altrettanto importanti serbatoi di assorbimento del carbonio.

 Anche gli oceani e le loro coste, con le paludi di mangrovie e le praterie di alghe, che assorbono carbonio e riducono l'impatto dell'innalzamento del mare, devono essere protetti.

 

Quarta: cambiare le logiche dell'alimentazione e dell'agricoltura.

Il quarto punto è cambiare l'alimentazione e l'agricoltura.

Nutrire la futura popolazione mondiale utilizzando gli attuali sistemi alimentari sarà impossibile, mentre il passaggio a una dieta più sostenibile, ricca di verdure e povera di carne e latticini, potrebbe contribuire moltissimo al rallentamento della crisi climatica.

Sfruttare al massimo le rinnovabili.

Poi ci sono le fonti pulite.

L'energia rinnovabile, sotto forma di energia eolica e solare, è ora più economica dei combustibili fossili nella maggior parte del mondo e l'”Ipcc” indica che lo sfruttamento al massimo delle potenzialità solari ed eoliche, insieme allo stop al consumo di suolo per l'agricoltura, sono le tre misure più efficaci per ridurre le emissioni a effetto serra dei territori.

L'efficienza energetica nei consumi domestici, nell'industria e nei trasporti è un'altra misura chiave:

 i megawatt sono la migliore energia possibile.

Stop definitivo al carbone, mettere il clima al centro delle decisioni

Tra le misure più urgenti c'è anche smettere completamente di bruciare carbone.

 

L'ottavo punto, “last but not least”, è mettere il clima al centro di tutti i processi decisionali.

Solo integrando l'azione per il clima nelle decisioni di tutti gli enti pubblici e privati, chiede l'”Ipcc”, possiamo sperare di salvare il clima.

(La” IPCC” è la più grande organizzazione “corrotta” per salvare il clima! N.D.R.)

 

 

 

Il cambiamento climatico sta

 spingendo il pianeta verso

un punto di non ritorno.

Nationalgeographic.it – (09-12-2019) - STEPHEN LEAHY – ci dice:

Secondo gli scienziati, non ci rendiamo conto del poco tempo a nostra disposizione per fermare i cambiamenti cui vanno incontro il clima e gli ecosistemi terrestri.

Ma c’è ancora speranza!

(nationalgeographic.com/content/dam/science/2019/11/27/climate-tipping-points/climate-tipping-points.jpg)

Gli oceani e i coralli che li popolano affrontano le dure conseguenze dei cambiamenti climatici. E subiscono danni tali che potrebbero non riuscire più a riprendersi.

I sistemi climatici del pianeta stanno andando incontro a cambiamenti irreversibili, avvertono i climatologi:

siamo in una condizione di emergenza planetaria.

Superare una serie di punti di non ritorno potrebbe portare a un punto critico su scala globale, dove diversi sistemi terrestri raggiungeranno livelli di criticità ormai irreversibile.

Questa possibilità è una “minaccia esistenziale per la civiltà”, scrivono “Tim Lenton” e i colleghi su “Nature”.

Un collasso di questo genere per i sistemi terrestri potrebbe trasformare il pianeta in una sorta di serra, con un aumento di 5°C nelle temperature, di 6-9 metri del livello del mare, la perdita delle barriere coralline e della foresta amazzonica.

Grandi porzioni della Terra sarebbero del tutto inabitabili.

Per limitare il riscaldamento a 1,5°C è necessaria una risposta d’emergenza su scala globale, avvertono gli scienziati.

 “La stabilità e la resilienza del nostro pianeta sono in pericolo.

 È un grave shock scoprire che punti di non ritorno che pensavamo di superare in un lontano futuro siano molto vicini”, ha spiegato “Lenton,” climatologo della “University of Exeter,” nell’Inghilterra Sud-occidentale, in un’intervista.

Il lento collasso della banchisa nell’Antartico occidentale, ad esempio, è già in corso, e gli ultimi dati mostrano che potrebbe essere lo stesso per alcune zone in quello orientale.

 Se si sciogliessero entrambe, il livello del mare potrebbe aumentare di 7 metri nel corso di pochi secoli.

“Exeter, dove mi trovo, è stata fondata dai Romani 1.900 anni fa. Tra 1.500 probabilmente sarà sott’acqua. Non dovremmo dare per scontata l’eredità che lasceremo alle future generazioni, non importa quanto lontane.”

La situazione delle banchise dell’Antartico occidentale e orientale rappresenta due dei nove punti di non ritorno - giganti del sistema climatico – che ci mostrano chiaramente di essere vicini al momento critico.

Un tempo teoria, ora realtà.

L’idea dei punti di non ritorno è stata introdotta 20 anni fa dal “Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico” (IPCC).

 La perdita della banchisa nell’Antartico occidentale e della foresta amazzonica, o il disgelo estensivo del permafrost - come altre componenti chiave del sistema climatico - sono considerati tali perché possono arrivare a dei limiti estremi e poi cambiare, in modo irreversibile e improvviso.

 Esattamente come un albero di 200 anni che resiste a 20 colpi d’ascia: il 21esimo potrebbe essere quello che lo abbatte.

In passato si pensava che questi punti critici sarebbero stati scatenati solo una volta che l’aumento della temperatura fosse arrivato ai +5°C. Ma secondo gli ultimi rapporti” IPCC” potrebbero iniziare tra i +1° e i +2°C.

Ogni piccolo aumento nella temperatura aumenta il rischio si verifichi uno dei 30 punti di non ritorno.

Con il +1°C del riscaldamento attuale, si pensa che 9 dei 30 siano già in corso.

E proprio come per quel metaforico albero di 200 anni, nessuno sa se sarà il prossimo colpo d’ascia a fare la differenza.

Anche se i vari paesi si impegneranno a rispettare gli accordi presi a Parigi per ridurre le emissioni, l’aumento potrebbe superare i 3°C. Secondo un rapporto delle “Nazioni Unite” pubblicato il 26 novembre le emissioni globali, in continuo aumento, dovrebbero diminuire del 7,6% ogni anno da ora al 2030 per tenere il riscaldamento intorno a 1,5°C.

 

Il clima terrestre e i sistemi ecologici sono profondamente correlati.

 Alimentati dal calore solare l’atmosfera, gli oceani, i ghiacci, il suolo e organismi viventi come le foreste influiscono tutti - alcuni più, altri meno - sul movimento di quel calore intorno alla superficie del pianeta.

L’interazione tra gli elementi del nostro sistema climatico globale comporterà un cambiamento importante nel modo in cui questi si influenzano reciprocamente.

 Quando quell’albero secolare cadrà, al 21esimo colpo d’ascia, potrebbe cadere su altri alberi e provocare un effetto domino.

Il riscaldamento nell’Artico ci riguarda tutti.

Gli scienziati avvertono che diversi punti critici iniziano, lentamente, a scontrarsi. La perdita di banchisa artica durante le estati degli ultimi 40 anni, ad esempio, ha portato a una maggior quantità di acque che assorbono calore e a una diminuzione del 40% del ghiaccio in grado di rifletterlo. Questo amplifica il riscaldamento a livello regionale nell’Artico e porta a un’ulteriore perdita di permafrost, con conseguente rilascio di anidride carbonica e metano in atmosfera, contribuendo al riscaldamento globale.

 

Un Artico più caldo ha già avuto conseguenze sulla presenza di insetti su larga scala e sull’aumento degli incendi nelle foreste boreali del Nord America.

Ora, è possibile che quelle foreste stiano rilasciando più carbonio di quanto ne assorbono.

Sistemi profondamente interconnessi possono avere impatti su scala globale.

 Il riscaldamento dell’Artico che, insieme allo scioglimento dei ghiacci della Groenlandia, sta portando acqua dolce nell’Atlantico del Nord potrebbe aver contribuito al recente rallentamento (circa il 15%) del capovolgimento meridionale della circolazione atlantica (AMOC).

Queste correnti spostano il calore dai tropici e giocano un ruolo importante nelle temperature dell’emisfero settentrionale.

Molti dei punti di non ritorno climatici non si verificheranno rapidamente; il collasso della banchisa antartica proseguirà per centinaia o forse migliaia di anni, dice Glen Peters, direttore della ricerca al Center for International Climate in Norvegia, non coinvolto nella pubblicazione di Nature. Ma “non è chiaro quando arriveremo ad averne diversi in corso nello stesso momento.

 

È il momento di dichiarare l’emergenza climatica planetaria.

È importante ricordare che le temperature globali non sono influenzate solo dalle nostre emissioni di carbonio, sottolinea in un’intervista Katherine Richardson, co-autrice del rapporto e professoressa di oceanografia biologica alla University of Copenhagen. Anche i sistemi naturali della Terra come foreste, regioni polari e oceani giocano un ruolo cruciale. “Dobbiamo prestarvi attenzione”.

 

È già troppo tardi per scongiurare il verificarsi di alcuni di questi punti di non ritorno; le evidenze mostrano che almeno nove sono stati superati, dice Richardson. Il rischio che si riversino in un punto di non ritorno globale, con impatti tremendi per la civilizzazione umana, rende cruciale una dichiarazione di emergenza climatica planetaria.

Minimizzare il rischio significa mantenere il riscaldamento il più vicino possibile a 1,5°C, riducendo a zero le emissioni. Serviranno almeno 30 anni per raggiungere la neutralità, dice Richardson. “Ed è la stima più ottimistica.”

 

“Non credo che le persone si rendano conto di quanto poco tempo ci resti”, aggiunge in un’intervista “Owen Gaffney”, analista che si occupa di sostenibilità globale allo “Stockholm Resilience Center” della “Stockholm University”, co-autore della pubblicazione.

“Raggiungeremo l’aumento di 1,5°C in 10 o 20 anni e, con 30 anni a disposizione per la decarbonizzazione, è chiaramente una situazione di emergenza.

 Se non agiamo trattandola come tale, è probabile che i nostri figli erediteranno un pianeta pericolosamente instabile”.

In questi giorni si sta tenendo a Madrid la Conferenza sui cambiamenti climatici organizzata dalle Nazioni Unite.

Tra le tante figure autorevoli che hanno chiesto un’azione immediata, c’è anche la giovane attivista svedese “Greta Thunberg” che ha lanciato un messaggio chiaro: 

"Stiamo scioperando da un anno ma non è successo ancora nulla.

Si sta ignorando la crisi climatica e finora non c'è una soluzione sostenibile. Non possiamo continuare così, vogliamo azione e subito perché la gente sta soffrendo e morendo per questa emergenza climatica, non possiamo aspettare ancora”.

Le economie hanno la meglio.

Un recente rapporto delle Nazioni Unite mostra che Stati Uniti, Cina, Russia, Arabia Saudita, India, Canada, Australia e altri paesi pianificano di aumentare la produzione di combustibili fossili del 120% entro il 2030.

Sono gli stessi governi che hanno acconsentito a mantenere il riscaldamento globale entro l’aumento di 1,5°C durante gli accordi di Parigi, ma sembrano più preoccupati della crescita economica.

 Eppure nessuna analisi economica costi-benefici ci aiuterà ora che ci troviamo di fronte a una minaccia per la civiltà, scrivono “Gaffney e i co-autori”.

I governi si affidano all’opinione degli economisti, ma - con poche eccezioni - questa professione ha fatto all’umanità un grave disservizio ignorando i cambiamenti climatici nella ricerca e nell’accademia, dice “Gaffney”.

Solo una piccola parte di articoli e paper nelle riviste di economia discute di cambiamenti climatici, aggiunge l’esperto.

I rischi legati ai punti di non ritorno non sono inclusi in alcuna analisi economica per politiche climatiche, fa notare via mail “Geoffrey Heal”, economista della “Columbia Business School” di New York City.

“Se fossero inclusi, farebbe una grossa differenza… suggerirebbero di rinforzare queste politiche in modo davvero impattante.”

“Superare i punti di non ritorno comporta un rischio enorme per le attività finanziarie, per la stabilità economica e per la vita come la conosciamo oggi”, dice” Stephanie Pfeifer”, CEO di” Institutional Investors Group on Climate Change” (IIGCC), un gruppo di investimento che gestisce oltre 30 trilioni di dollari in attività finanziarie.

È molto meno dispendioso prevenire un ulteriore riscaldamento rispetto all’affrontarne le conseguenze, dice “Pfeifer”via mail.

“Servono azioni ben più concrete e urgenti per gestire i cambiamenti climatici.”

C'è ancora speranza.

La decarbonizzazione globale, che è aumentata dal 2010, potrebbe essere sulla rotta del tenere il riscaldamento globale a 2°C, sostiene un rapporto pubblicato su “Environmental Research Letters” il 2 dicembre. Le emissioni sono aumentate ma la decarbonizzazione, che ha tenuto a bada questo aumento, è in procinto di riuscire a farlo diminuire.

I maggiori passi in avanti derivano dall’efficienza energetica, dalle fonti di calore rinnovabili e dall’energia solare ed eolica.

Questi elementi renderanno possibile il raggiungimento dell’obiettivo proposto a Parigi “se prendiamo iniziative estreme attraverso ogni settore economico”, precisa in un comunicato stampa” Daniel Kammen”, co-autore dello studio e professore di scienze energetiche alla “University of California”, Berkeley.

Esistono anche dei punti di non ritorno sociali, aggiunge “Gaffney”, incluso quello economico perché il costo delle energie rinnovabili sta scendendo al di sotto di quello dei combustibili fossili, mercato dopo mercato.

 “I prezzi per le energie rinnovabili continuano a diminuire mentre le performance migliorano. È una combinazione imbattibile.”

Sempre più paesi, come il Regno Unito, hanno raggiunto il punto critico dal punto di vista politico degli obiettivi di decarbonizzazione totale al 2050.

 “Ora è considerato un traguardo raggiungibile ed economicamente ragionevole”.

 

Negli Stati Uniti, i candidati per le elezioni presidenziali del 2020 stanno mettendo sul tavolo piani ambiziosi per la lotta ai cambiamenti climatici.

Negli ultimi 12 mesi è stato raggiunto un altro punto critico di consapevolezza sociale - l’effetto “Greta Thunberg” - con milioni di giovani studenti in sciopero e tanti altri che richiedono azioni urgenti per contrastare i cambiamenti climatici, prosegue “Gaffney”. Al contempo sempre più società finanziarie, aziende e città si pongono obiettivi climatici ambiziosi.

 

La convergenza di questi punti di non ritorno potrebbe rendere il decennio del 2020 la transizione economica più veloce della storia”, conclude “Gaffney.”

 

 

 

Effetti del cambiamento climatico-ONU Italia.

Unric.org – Redazione – (30-12-2023) – ci dice:

 

Le temperature più calde registrate negli ultimi anni stanno cambiando i modelli meteorologici e sconvolgendo gli equilibri naturali, il che comporta molti rischi per gli esseri umani e per tutte le altre forme di vita sulla Terra.

 

Temperature più elevate.

 

Aumentando la concentrazione di gas serra, aumenta anche la temperatura superficiale globale.

 A partire dagli anni Ottanta ogni decennio ha visto un incremento delle temperature fino al periodo 2011-2020, il più caldo mai registrato.

Le temperature nell’Artico sono aumentate con una velocità più che doppia rispetto alla media globale.

 In quasi tutte le aree del pianeta assistiamo a giorni più afosi e ondate di calore.

 Le temperature più alte favoriscono l’insorgenza di patologie da calore e rendono più difficile lavorare all’aperto, mentre gli incendi si verificano più facilmente e si propagano più rapidamente.

 

Tempeste più violente.

Le tempeste sono diventate più intense e frequenti in molte aree geografiche.

 Con l’aumento delle temperature si rileva una maggiore umidità che accentua le precipitazioni estreme e le inondazioni, causando temporali sempre più devastanti.

Anche la frequenza e l’estensione delle tempeste tropicali, cicloni, uragani e tifoni, sono influenzate dal riscaldamento delle acque superficiali oceaniche.

Si tratta di tempeste capaci di distruggere intere comunità, causando enormi perdite umane ed economiche.

 

Aumento della siccità.

Il cambiamento climatico interessa anche la disponibilità di risorse idriche sempre più scarsa in numerose aree geografiche soprattutto in quelle regioni già afflitte da stress idrico e con un ecosistema molto vulnerabile.

 La siccità può anche causare devastanti tempeste di sabbia capaci di spostare miliardi di tonnellate di polveri da un continente all’altro.

Alle conseguenze legate al settore agricolo si affiancano così anche quelle legate all’avanzamento della desertificazione.

 

Riscaldamento e Innalzamento degli oceani.

Le acque oceaniche assorbono la maggior parte del calore derivante dal riscaldamento atmosferico globale.

Il ritmo del loro riscaldamento è fortemente aumentato negli ultimi due decenni, un fenomeno riscontrato a tutte le profondità.

 Aumentando il calore aumenta anche il volume delle acque con conseguente innalzamento dei livelli che, accompagnati dal progressivo scioglimento delle calotte glaciali, determinano una reale minaccia per le comunità costiere e insulari.

Ad aggravare la situazione concorre anche l’assorbimento della anidride carbonica sottratta all’atmosfera da parte delle acque oceaniche con conseguente acidificazione delle stesse e reale pericolo per la vita marina e le barriere coralline.

 

Perdita di specie.

Il cambiamento climatico e l’aumento delle temperature mette a rischio la sopravvivenza delle specie sulla terraferma e negli oceani.

 Nel mondo si stanno perdendo specie a un ritmo 1000 volte superiore di qualsiasi altro momento registrato nel corso della storia dell’uomo.

Un milione di specie è a rischio di estinzione nei prossimi decenni. Incendi boschivi, condizioni meteo estreme, parassiti infestanti e malattie sono tra le molte minacce legate al cambiamento climatico. Alcune specie riusciranno a spostarsi e sopravvivere, altre no.

 

Mancanza di cibo.

I cambiamenti climatici e gli eventi meteorologici estremi sempre più frequenti sono tra le cause dell’aumento della fame e della malnutrizione nel mondo.

 La pesca, la produzione agricola e l’allevamento del bestiame potrebbero sparire o divenire meno produttivi.

 A causa della acidificazione delle acque oceaniche le risorse marine che nutrono miliardi di persone sono a rischio

 La raccolta di alimenti proveniente dalla pastorizia, la caccia e la pesca è diminuita grazie alla riduzione della calotta polare delle regioni artiche e antartiche.

 Inoltre, così come lo stress da calore, riducendo le disponibilità idriche si può impattare negativamente l’attività legata all’agricoltura, al pascolo e alla zootecnia.

Maggiori rischi per la salute.

Il cambiamento climatico costituisce la più grande minaccia per la salute dell’umanità.

Gli impatti del clima sono già evidenti: inquinamento dell’aria, malattie, eventi meteorologici estremi, migrazioni forzate e problemi di salute mentale, nonché aumento della fame e della cattiva alimentazione in luoghi dove le persone non possono coltivare o trovare cibo a sufficienza.

Ogni anno, i fattori ambientali causano la morte di circa 13 milioni di persone.

Gli stessi sistemi sanitari si trovano a dover gestire tra molte difficoltà la diffusione delle malattie, e l’aumento dei decessi, evidenti conseguenze di eventi metereologici estremi.

Povertà e migrazioni.

Il cambiamento climatico aggrava i fattori che determinano lo stato di povertà.

Le inondazioni possono spazzare via interi quartieri delle città, solitamente i più poveri, distruggendo case e beni.

 Il calore può rendere difficile il lavoro all’aperto e la scarsità d’acqua può colpire pascoli e colture.

Nel corso dell’ultimo decennio (2010-2019), si stima che gli eventi legati al clima abbiano causato la migrazione di circa 23,1 milioni di persone in media ogni anno, lasciandone molte altre in condizioni di povertà.

La maggior parte dei rifugiati proviene da paesi più vulnerabili e meno preparati ad adattarsi all’impatto che il cambiamento climatico viene progressivamente determinando.

 

AMBIENTE.

Gli slogan dei politici che

rallentano la transizione ecologica.

Pagellapolitica.it - LAURA LOGUERCIO – (07 MARZO 2022) – ci dice:

 

Il negazionismo climatico è quasi scomparso, ma partiti e governo rischiano di rimandare gli interventi contro l’aumento delle temperature con argomentazioni più sottili.

Oggi chi sostiene che il riscaldamento globale non esiste o non è causato dagli esseri umani è ormai quasi sparito dal dibattito politico italiano.

 In compenso, sulla politica pesano sempre di più argomentazioni che, prestandosi a facili slogan, rischiano di ridimensionare le conseguenze dell’emergenza climatica in corso e di rallentare la transizione ecologica.

È la retorica del “climate delay”, come l’hanno chiamata alcuni ricercatori:

sebbene sia più sottile rispetto al “negazionismo climatico”, questa è altrettanto pericolosa e fuorviante.

 Ed è sempre più rintracciabile nelle affermazioni di alcuni membri del governo e del Parlamento.

Il nuovo negazionismo?

La teoria del “climate delay” è stata presentata a giugno 2020 in uno studio, intitolato “Discourses of climate delay” e pubblicato sulla rivista scientifica” Global Sustainability”, edita dall’”Università di Cambridge”, nel Regno Unito.

Lo studio è stato condotto da un gruppo di dieci esperti, tra cui c’è anche l’italiano “Giulio Mattioli”, ricercatore nel dipartimento per la pianificazione dei trasporti dell’”Università tecnica” di Dortmund, in Germania.

 «Il rapporto è nato dalla sensazione di alcuni di noi che fosse in atto uno spostamento dal negazionismo classico verso un altro tipo di discorso, che riconosce l’emergenza ma trova scuse per non agire», ha detto “Mattioli” a Pagella Politica.

Sulla base di alcune dichiarazioni di politici europei, i ricercatori hanno individuato – in modo «non sistematico», ha specificato “Mattioli” – quattro tipi di argomentazioni che ricorrono spesso nel dibattito sull’emergenza climatica e che sono utilizzate per giustificare la necessità di posticipare le decisioni più difficili:

 reindirizzare le responsabilità, spingere per soluzioni non trasformative, enfatizzare gli svantaggi delle misure proposte, e, infine, arrendersi a una disfatta ormai inevitabile.

L’attenzione si è così spostata dal piano scientifico a quello normativo: «Il “climate delay “non attacca la “scienza del cambiamento climatico”, ma le leggi che si tenta di fare per contrastarlo, ha spiegato a Pagella Politica “William Lamb”, ricercatore al “Mercator Research Institute on “Global Commons and Climate Change “di Berlino e co-autore dello studio.

 

Secondo” Massimo Taboni”, direttore dell’”Istituto europeo per l’economia e l’ambiente” (Eiee) e docente di “Economia ambientale” al Politecnico di Milano, i discorsi di “climate delay “non sono comunque una novità nel panorama italiano.

 «Sono argomenti standard che ci sono sempre stati – ha sottolineato “Taboni “a Pagella Politica – ma oggi diventano più vigorosi perché l’impatto umano sul clima è ormai dato per scontato», e quindi «è più difficile negare tutto».

Con il “climate delay” si cerca di ritardare l’azione, ma «per riuscire a recuperare il tempo perso bisogna poi accelerare, e questo a sua volta viene usato come ulteriore scusa per non fare nulla», ha spiegato Taboni a Pagella Politica.

«È un argomento fastidioso e fazioso, ma è la strategia che stiamo vedendo in Italia in questo momento».

 

D’altra parte, secondo “Stella Levantesi”, giornalista e autrice del libro” I bugiardi del clima” (Laterza 2021), la discussione sul clima si è evoluta nel tempo, ma il negazionismo non è mai scomparso del tutto.

 «Nel periodo della “Cop 26”, la conferenza sul clima di Glasgow tenuta a novembre scorso, in Italia sono riaffiorati tantissimi interventi negazionisti», ha detto Levantesi, aggiungendo che «non è un caso, ma si tratta di un pattern storico:

 quando l’azione climatica è al centro del dibattito la macchina negazionista si riattiva».

Non sono io, sei tu.

La prima categoria di affermazioni tipiche del “climate delay” punta il dito altrove, addossando le responsabilità del cambiamento climatico su attori distanti da noi.

Qui i responsabili chiamati in causa sono le nazioni che inquinano di più, i singoli consumatori, oppure i cosiddetti” free rider,” ossia i Paesi che si approfitterebbero di chi sta agendo più velocemente per contrastare l’aumento delle temperature.

Un classico esempio di questa prima categoria del “climate delay” consiste nell’indicare altri Paesi, per esempio la Cina o l’India, come i reali responsabili dell’emergenza climatica e quindi coloro che per primi dovrebbero cambiare rotta.

L’argomentazione è stata più volte ripetuta dal leader della Lega Matteo Salvini, che a maggio 2020 twittava:

 «​​Si chiede agli imprenditori italiani di rispettare norme sul tema dell’ambiente e della sostenibilità.

 In Cina non viene rispettato nulla di tutto ciò», e che già nel 2014 aveva affermato:

«​​In Italia regole per imprese su lavoro, qualità e ambiente, in Cina e India no: per competere occorre mettere dazi!».

 

Anche la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha utilizzato spesso questa argomentazione.

 Lo scorso anno, nell’ambito della discussione sulla “plastic tax “– un’imposta sugli imballaggi in plastica approvata dal governo Conte II nel 2019 ma la cui applicazione è per ora stata rinviata al 2023 – Meloni ha affermato che la Cina e l’India contribuiscono per «l’80 per cento» allo sversamento di plastica in mare, percentuale nettamente superiore rispetto ai Paesi europei (un’affermazione comunque fattualmente corretta).

Un altro esempio sono gli slogan che provano a spostare la responsabilità del riscaldamento globale dalle decisioni dei governi o delle autorità sovranazionali alle azioni dei singoli individui.

Ne ha dato esempio l’attuale ministro per” la Transizione ecologica”, il tecnico” Roberto Cingolani”, che lo scorso dicembre ha sostenuto che il «comparto digitale» produce il «4 per cento» delle emissioni di anidride carbonica a livello globale, di cui «una buona metà» deriva «dall’utilizzo smodato dei social».

L’affermazione tende quindi a sottolineare come i cittadini comuni, utilizzando i social network, contribuiscano in maniera non indifferente a inquinare l’ambiente in cui vivono.

 In realtà, questa stima si basa su uno studio non particolarmente solido dal punto di vista scientifico, che per di più considera tutte le tecnologie digitali e non menziona l’impatto dei social network presi singolarmente.

In un’intervista con “La Stampa” dell’ottobre 2021 “Cingolani” ha anche citato il ruolo delle auto con tecnologie ormai obsolete, evidenziando l’impatto dei singoli automobilisti sull’inquinamento complessivo: «Abbiamo 13 milioni di automobili euro zero e euro 1, la gente se le tiene perché non ha i soldi, se noi li portassimo sugli euro 6 l’impatto sarebbe enorme», ha detto” il ministro della Transizione ecologica”.

 Il dato citato da “Cingolani,” tra l’altro, è sbagliato:

 nel 2020 in Italia le auto euro 0 ed euro 1 erano 4,5 milioni, un numero quasi tre volte più piccolo di quello indicato dal ministro.

Come ha spiegato” Levantesi” a “Pagella Politica”, «questa narrazione è nata negli anni Settanta attraverso delle strategie di comunicazione ben precise, per esempio tramite campagne pubblicitarie che veicolano questo messaggio:

 il responsabile del riscaldamento globale è l’individuo, e sarà lui a dover trovare le soluzioni».

Ancora oggi questa tesi rimane una delle narrazioni portanti nella lotta al cambiamento climatico, ma è fondamentale ricordare che «il problema è sistemico, non individuale».

Qualcosa ci salverà.

La seconda classe di affermazioni tipiche del “climate delay” propone soluzioni alternative per mitigare il cambiamento climatico.

Visti da questa prospettiva le misure restrittive dettate dai governi o dalle autorità vengono sostituite da più miti incoraggiamenti ad agire su base volontaria, utilizzando se necessario anche i combustibili fossili e sperando che, un giorno, una nuova tecnologia ancora da inventare possa liberarci dai problemi.

Il tutto accompagnato da discorsi ricchi di forma ma poveri di sostanza.

L’«ottimismo tecnologico», come definito dallo studio, è particolarmente popolare nella politica italiana.

Nel novembre 2021, per esempio, il “presidente del Consiglio Mario Draghi” ha sostenuto che, quando si parla di “transizione ecologica”, dobbiamo essere «aperti a tutto, immaginare che quel che è oggi impossibile diventi possibile domani:

 il panorama delle innovazioni mondiali che vanno a compimento in ogni momento nel mondo è straordinario, non ci sono confini alle nostre capacità di affrontare questa sfida».

Fiducioso nell’arrivo di qualche salvifica innovazione tecnologica è anche il “ministro Cingolani”, che lo scorso dicembre ha affermato:

«Sono assolutamente certo, ci metterei la firma, che la fusione nucleare sarà la soluzione di tutto.

 Il concetto è: nel 2050-2070, non so quando riusciremo, avere una piccola stella in miniatura […] che in una grande città produce energia per tutti e non fa scorie radioattive».

 Come sottolineato anche dall’”Agenzia internazionale per l’energia atomica”, la fusione nucleare è un processo estremamente complesso, che gli scienziati non sono ancora in grado di gestire.

L’attenzione per l’energia nucleare ha interessato anche altri esponenti politici, tra cui “Matteo Salvini” e il vicepresidente di Forza Italia “Antonio Tajani”, secondo cui «bisogna credere nell’idrogeno e riprendere la ricerca sul nucleare di ultima generazione, che è sicuro e pulito».

Il nucleare di “quarta generazione”, quindi estremamente avanzato a livello tecnologico, è ancora in fase di studio e ci vorranno anni prima che sia brevettato un reattore pienamente funzionante.

Tra gli altri, ha puntato sull’ottimismo tecnologico anche l’ex presidente del Consiglio “Romano Prodi”, che in un articolo pubblicato sul “Messaggero “a settembre 2021 ha affermato che la transizione energetica «non può fondarsi solo sulle energie alternative oggi conosciute, ma anche su radicali innovazioni nella scienza, nella tecnologia e nelle collaborazioni internazionali».

Altro elemento classico che ricade nell’insieme delle soluzioni non trasformative è la tendenza a fare grandi discorsi per sottolineare l’importanza della transizione ecologica ed elogiare gli impegni presi in questo senso, senza però portare risultati concreti.

 Molte forze politiche italiane sono cadute in questa trappola, a partire dal “Partito democratico”.

Il 21 gennaio, per esempio, il segretario “Enrico Letta” ha scritto su Facebook:

 «La riqualificazione energetica delle case abbatte sprechi e consumi eccessivi e riduce le bollette delle famiglie.

 Bisogna continuare a incentivarla.

Le industrie inquinanti devono cedere il passo alle nuove attività ecosostenibili.

I lavoratori vanno protetti e accompagnati nella transizione verso un’economia a zero emissioni».

 Nel post non sono però presenti riferimenti a decisioni effettive che permettano di andare in questa direzione.

Diversi partiti, dal “Movimento 5 stelle” a “Forza Italia “e “Fratelli d’Italia”, hanno inoltre festeggiato la decisione, approvata l’8 febbraio scorso, di inserire in Costituzione la «tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi».

 Un passo importante che però, se non accompagnato da azioni reali, rischia di rimanere sulla carta.

Una terza argomentazione ricorrente è quella che punta sui combustibili fossili, affermando che le modalità di utilizzo stanno diventando sempre più efficienti e rappresentano quindi una buona soluzione in attesa che le fonti rinnovabili vengano perfezionate (o eventualmente inventate).

Negli ultimi mesi diversi esponenti politici hanno infatti sostenuto la necessità di rafforzare le attività di estrazione di gas naturale in Italia.

Per esempio, il 18 gennaio scorso il “ministro Cingolani”, durante un’audizione davanti a “due Commissioni di Camera e Senato”, ha indicato (min. 21:00) la «valorizzazione della produzione di gas da giacimenti nazionali esistenti» come una misura che potrebbe «contribuire alla mitigazione del costo» dell’energia.

Nei programmi del Ministero questo non porterebbe ad aumentare la quota totale di gas utilizzato in Italia, ma valorizzerebbe la produzione sul territorio nazionale in modo da ridurre le importazioni.

Anche il “Partito democratico” il 9 febbraio ha pubblicato sui propri account social un post con quattro proposte per ridurre il corso delle bollette, tra cui anche «aumentare la produzione nazionale di gas», mentre a inizio gennaio il vicepresidente di Forza Italia “Antonio Tajani “ha affermato che serve far ricorso a «gas e nucleare pulito», unendo così due tesi di “climate delay” – quelle sull’utilità dei combustibili fossili e sull’ottimismo tecnologico – in poche parole.

Il gas naturale, lo ricordiamo, rilascia meno anidride carbonica rispetto ad altri combustibili fossili come il carbone o il petrolio, ma emette nell’atmosfera importanti quantità di “gas metano”, che trattiene il calore ed è considerato uno dei principali responsabili dell’effetto serra.

L’11 febbraio il “governo Draghi” ha approvato il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai), che tra le altre cose stabilisce le aree in cui sarà possibile richiedere nuovi permessi esplorativi volti alla produzione di idrocarburi sul territorio nazionale.

Nel 2020 sono stati prodotti in Italia 4 miliardi di metri cubi di gas naturale, a fronte di un consumo complessivo da quasi 70 miliardi di metri cubi.

Il gioco (non) vale la candela.

La terza categoria di argomentazioni tipiche del “climate delay” tende a enfatizzare i lati negativi della lotta al cambiamento climatico:

 politiche troppo stringenti abbasserebbero eccessivamente la nostra qualità della vita, le loro conseguenze ricadrebbero sulle fasce della popolazione già oggi svantaggiate, e infine piuttosto che approvare leggi imperfette è meglio lasciare tutto com’è ora e non cambiare nulla.

Spesso nella politica italiana queste tre argomentazioni vengono usate per criticare le decisioni imposte da partiti avversari o enti sovranazionali, come l’Unione europea.

 A lungo infatti “Salvini” ha criticato la “plastic tax “sostenendo per esempio che questa «non aiuta davvero l’ambiente, non è decisiva per l’erario e danneggia un settore strategico in cui l’Italia è leader» (febbraio 2021), che mette a rischio «almeno 20mila posti di lavoro» (giugno 2021), o che raddoppierà il prezzo dell’acqua minerale (ottobre 2019).

Salvini ha spesso criticato l’imposizione di imposte che porterebbero beneficio all’ambiente, ricadendo però sui lavoratori.

Nel 2019, per esempio, ha twittato: «Se penso che qualcuno vorrebbe sostenere l’ambiente aumentando le accise su carburanti per agricoltori e pescatori… è una cosa da Tso, ricovero immediato».

Di idee simili anche la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, che sempre nel 2019 ha criticato il decreto “Clima” approvato dal secondo governo Conte, sostenendo che questo strumentalizzi la «tutela dell’ambiente per massacrare di tasse [gli] italiani!».

In un’intervista alla” Stampa “del luglio 2021, il “ministro Cingolani” aveva dichiarato che la transizione ecologica potrebbe essere «un bagno di sangue», perché «per cambiare il nostro sistema e ridurre il suo impatto ambientale bisogna fare cambiamenti radicali che hanno un prezzo».

 Insomma, a meno che una decisione a favore dell’ambiente non porti beneficio anche a tutte le altre parti in causa, non può essere approvata perché sarebbe controproducente.

Arrendersi, o forse no.

Infine, l’ultima categoria di affermazioni identificate come tipiche del “climate delay “sta nella tendenza ad arrendersi a un declino ormai irreversibile, in cui nulla rimane da fare per cercare di salvare la situazione.

Questa tesi sembra non essersi ancora diffusa particolarmente nel discorso politico italiano, dove prevale un atteggiamento di speranza verso il futuro (o una tendenza a far finta di non vedere i problemi).

«Si tratta di un’esagerazione: se non c’è più niente da fare, allora tanto vale non fare nulla», ha detto a “Pagella Politica”” Stefano Caserini”, docente in “Mitigazione dei cambiamenti climatici” al Politecnico di Milano. «Questo discorso sta iniziando a emergere anche in Italia, ed è pericoloso».

Secondo “Caserini”, infatti, siamo ancora in tempo per cambiare le cose: «Non potremo evitare tutti i danni dei cambiamenti climatici, ma un mondo in cui la temperatura sale di 2° centigradi è diverso da un mondo in cui sale di 4° centigradi».

 

 

 

Bologna laboratorio del WEF.

Luogocomune.net - Riccardo Pizzirani (Sertes) – (30 Gennaio 2024) – ci dice:

 

Ricordate il Beppe Grillo degli albori?

Quello che ci spiegava che è il cittadino, avendo eletto un suo rappresentante, che aveva l'onere di controllare il suo operato?

Quello che voleva portare le telecamere nelle stanze del potere?

 Sì, quello che come provocazione proponeva pure il “Politometro”, uno strumento per verificare lo stato patrimoniale di un politico sia prima che dopo il suo mandato, per verificare che non si fosse arricchito mentre doveva invece servire il popolo.

Convinceva.

Gli argomenti, quantomeno, erano convincenti.

 Poi, invece, con le azioni andò in "leggera controtendenza", come piaceva dire a lui:

 anno dopo anno il M5S si è trasformato nella peggiore stampella dei poteri sovranazionali, firmando le norme più restrittive mai avute nel dopoguerra, avvallando censura e discriminazione, proibizione di manifestare, e scelte così libere che se sceglievi diversamente da come non pareva a loro, ti veniva proibito pure di lavorare!

E il bel concetto dei "cittadini che controllano il potere" è stato rovesciato nel modo più completo.

 

L'esperienza di Bologna.

 

Nel nostro piccolo, a Bologna, abbiamo avuto gli stessi esempi e gli stessi percorsi:

il nostro pentastellato più celebre, “Bugani”, ha partecipato da protagonista in questo ribaltamento di ideologia, abbracciando viceversa i concetti più classici del controllo top-down del “sistema di credito sociale cinese”, in cui il governo locale si arroga il diritto di controllare pedissequamente la cittadinanza, e ti premia se fai bene, o ti punisce per quei comportamenti che decide siano sconvenienti.

Ovvio che non puoi partire col bastone; prima si tenta la carota:

"il portafoglio del cittadino virtuoso" l'hanno chiamato.

Come riporta il “Corriere di Bologna” , “Bugani” ci spiega che l'idea è simile al meccanismo di «una raccolta punti del supermercato: il cittadino avrà un riconoscimento se differenzia i rifiuti, se usa i mezzi pubblici, se gestisce bene l'energia, se non prende sanzioni dalla municipale, se risulta attivo con la Card cultura».

 Comportamenti virtuosi che corrisponderanno ad un punteggio che i bolognesi potranno poi «spendere» in premi in via di definizione: «Scontistiche Tper, Hera, attività culturali e così via».

 Anche così, l'iniziativa non deve aver dato grandi frutti, visto che non è nemmeno decollata.

 Fallisce la carota, avanti col bastone.

Nessun problema, allora si fa il passo avanti: Bologna Città 30.

La scusa tirata fuori per applicare le nuove restrizioni è che a Bologna ci sono troppi incidenti.

Fosse davvero quello il problema, cosa farebbe un amministratore interessato a risolvere?

Trascinare i vigili urbani fuori dagli uffici, per controllare chi guida in modo pericoloso o chi guida con il cellulare, colpendo chi realmente sbaglia e diventa un pericolo per tutti?

 No!

La strategia è quella tanto cara alle dittature del secolo scorso: la punizione collettiva.

Bravi o meno bravi, la velocità in città viene ridotta da 50 a 30km/h per tutti.

Si poteva pure pensare di chiedere alle aziende impiegatizie di fare 3 giorni al lavoro e 2 in “smart working”:

 dopotutto sono tantissime le attività commerciali che possono fare efficacemente “smart working”, e dopo il periodo covid anche il gap tecnologico è stato già colmato e abbiamo già tutti gli strumenti per lavorare da remoto.

 Con meno auto in giro, si avrebbero molti meno incidenti.

Nemmeno questo.

E quando la decisione è calata dall'alto, saltano anche tanti altri altarini:

ad esempio il tormentone green, che è proprio l'opposto che obbligare la cittadinanza ad inquinare più a lungo, su lenti torpedoni a 30km/h in pressoché tutto il territorio cittadino.

La strategia di riduzione del danno.

Le critiche, c'era da aspettarselo, sono piovute da tutte le direzioni. Tardive, quando la gente ha avuto esperienza diretta della questione perché la nuova norma era già partita... ma quantomeno sono arrivate.

E se la cittadinanza generica è irritata, i più ostili sono ovviamente quelli che per strada ci lavorano: autisti di autobus, autoblu, tassisti. Il sindaco aveva già pronta la carta da giocarsi: stimarsi della consultazione avvenuta sul sito del Comune, che come ha ricordato, ha avuto ben 20.000 partecipanti!

 Peccato che dicendo così si contano come supporter anche quelli che, come me, che hanno partecipato pur di criticare l'utilità questa iniziativa, mentre il sindaco porta il numero totale come se fossero tutti quelli a favore.

La strategia avrebbe avuto comunque le gambe corte, ma è crollata ancor peggio in quanto una comune studentessa ha aperto un sondaggio parallelo su “Change.org” per chiedere che queste norme, che impattano così pesantemente sulla quotidianità dei cittadini, vengano quantomeno sottoposte a referendum.

 E questa non ha 20.000 partecipanti, ha 53.000 firmatari a favore:

un risultato eclatante per una consultazione locale, con numeri che basterebbero per proporre un referendum vero e proprio anche a livello nazionale.

I falsi amici.

Allora si corre ulteriormente ai ripari:

 il bacio della morte delle opposizioni.

Visto il primo weekend è già prevista in piazza maggiore una manifestazione dei tassisti, si buttano sul manifesto i simboli dei partiti storicamente più invisi alla cittadinanza bolognese:

Forza Italia, Fratelli d'Italia, Lega.

E la manifestazione va deserta.

 

Passato e futuro.

Diciamo innanzitutto che chi è causa del suo mal, pianga sé stesso:

 il progetto di ridurre la velocità urbana a 30km/h, e di lasciare 10-12 strade in tutto a 50km/h era già presente nel programma politico del PD, a pagina 22.

Mi riferisco ovviamente ai miei concittadini che pensano ancora di votare PCI, e adesso si stanno lamentando.

Però mal comune, mezzo gaudio:

la strategia fa parte di un progetto ben più ampio, che nel disinteresse generale verrà replicata anche in ogni altra città, come già preannunciato.

 Come spiega “AdnKronos,” ci sarà l' «Inversione della regola attuale: nelle città diventa la normalità, i 50 km/h l’eccezione.

Un anno di tempo a tutti i comuni per adeguarsi».

Da cui si rinnova il detto: tu puoi anche non occuparti di politica, ma la politica si occupa di te.

Inoltre c'è anche un'altra sponda di tipo governativo:

esiste una proposta di legge attualmente al vaglio del parlamento, l'articolo 142 comma 8, che riguarda le sanzioni per chi viola il codice della strada, e il combinato con le regole di Bologna 30 è letteralmente incredibile , come riporta Il “Resto del Carlino”:

«Recita il testo:

 Si incrementa la sanzione amministrativa pecuniaria (ora prevista fra 173 a 694 euro) ad euro fra 271 e 1084 e si introduce la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da 15 a 30 giorni, ma esclusivamente nei casi in cui la violazione dei limiti di velocità (inquadrata dai 10 ai 40 kmh, ndr) avvenga all'interno del centro abitato per almeno due volte nell'arco di un anno.

 Tradotto: in una Bologna a 30 all'ora, quando scatteranno le sanzioni (da gennaio), basta essere sorpresi a superare il limite di 10 chilometri orari - per due volte in un anno - per vedere sospesa

 la propria patente.»

 Date tempo ai nostri legislatori, e ne vedremo delle belle.

Il progetto che arriva da lontano.

Tutti questi progetti ricalcano curiosamente gli obiettivi dell”'Agenda 2030”, specificati dal WEF già nel maggio 2021 : «

perché non iniziamo a pensare alla velocità come ad un problema, piuttosto che ad una soluzione?»

 L'articolo si chiama proprio «schiavi della velocità: perché avremmo tutti dei benefici dalle 'città lente'» e sottolinea tutti gli ipotetici vantaggi di una città più lenta usando come esempio il singolo caso delle zero morti per incidente della città spagnola di “Pontevedra”, dove la normativa ha imposto limiti di velocità tra 30 ai 10 km/h.

E il documento, molto candidamente, ammette di poter servire come guida per politici progressisti per aiutarli a mettere fine alla dannosa cultura della velocità nelle città.

 Tutto già delineato, da gente che di sicuro non risponde agli elettori né alle elezioni.

E dove andremo a parare?

 Non serve improvvisarsi indovini, visto che anche il dettaglio è scritto tutto nero su bianco:

 prendiamo il documento "Arup C40 The Future of Urban Consumption in a 1.5C World" che spiega il progetto delle élite per le città del 2030.

Pagina 86, capitolo 6.6.1: le emissioni delle auto private sono un problema.

Ci sono due tipi di obiettivi per il 2030: l'obiettivo raggiungibile e progressivo è di ridurre le auto di proprietà a 190 su 1000 abitanti.

 Un modo carino per dire che potrà possedere un'auto

solo 1 cittadino su 5.

 Spoiler: non stanno comunque parlando di me o di voi; noi siamo "gli altri 4".

 Ma ancor meglio è l'obiettivo definito ambizioso: 0 veicoli privati.

Zero.

(Ma tutto il documento è interessante: preferite viaggiare? Capitolo 6.7.1, pagina 90.

Obiettivo progressivo, consentire solo 1 volo andata e ritorno breve (meno di 1500 km) per persona ogni 2 anni.

Obiettivo ambizioso? 1 solo volo ogni 3 anni.

Pensa che caso, dei jet privati si sono dimenticati.

Vestiti? Capitolo 6.5.1, pagina 82.

Obiettivo progressivo 8 nuovi capi per persona per anno.

 Obiettivo ambizioso? 3 nuovi vestiti per persona per anno.)

Conclusioni.

Quindi come si concilia l'”obiettivo green di Agenda 2030” con il far restare nelle strade le auto il doppio del tempo, a 30km/h?

Semplice, si vuole disincentivare così tanto il traffico urbano che la gente non usa più l'auto.

Anzi, in prospettiva, nemmeno se la compera.

E come faranno le aziende automobilistiche a supportare questo colpo? Semplice:

 le auto se le compra il comune per fare mobilità pubblica.

Così le auto le pagheremo lo stesso, con le tasse, e le chiavi dei nostri spostamenti le avrà comunque in mano il sindaco.

Bene, questo conclude i fatti ed i progetti già messi in campo.

 Se siete già sazi, potete fermarvi anche qua.

Complottisti!

Per quelli che sono malfidati come me, concediamoci un minuto per provare a fare anche gli indovini:

 abbiamo già verificato dal vivo un paio d'anni fa l'ingerenza dei governi nel controllo della popolazione, nella censura delle notizie scomode, e nella repressione delle proteste.

In particolare in Canada, per impedire le proteste contro i lockdown del Covid, il primo ministro "ex WEF" era arrivato a bloccare i conti correnti bancari sia dei manifestanti che di chi li trasportava nelle piazze delle proteste.

Cosa potranno fare i nostri governanti dal 2030 in poi, se tutte le auto saranno pubbliche e gestite con l’informatica dal sistema centralizzato?

 Auguroni, e buona camminata... per chi è vicino.

Chi è lontano non ci pensi nemmeno ad andare a protestare sotto i palazzi del potere o al porto tanto cruciale.

Questa ultima parte è ovviamente solo un'ipotesi pessimista.

Qualcuno ha detto 'città da 15 minuti'?

Ma no, quella è solo una teoria di complotto.

In realtà stanno introducendo tutte queste operazioni solo per salvare delle vite... che da sempre è la priorità dei potenti.

(luogocomune.net/17-politica-italiana/6433-bologna-laboratorio-del-wef).

 

 

 

Come Israele usa un programma

 di genocidio dell'IA

 per cancellare Gaza.

  unz.com - JONATHAN COOK – (DICEMBRE 5, 2023)  - ci dice:

Secondo gli informatori, il sistema di intelligenza artificiale israeliano sta generando obiettivi così velocemente, sulla base di input così ampi, che tutti a Gaza sono nel mirino.

Avrebbe dovuto essere già evidente dalla portata della morte e della distruzione inflitte a Gaza nelle ultime otto settimane che Israele stava attuando una politica di pulizia etnica e genocidio contro i palestinesi nell'enclave assediata.

Ora gli informatori israeliani hanno fornito dettagli su come questi crimini contro l'umanità vengono commessi e su come vengono razionalizzati internamente all'interno dei ranghi militari e politici di Israele.

Una straordinaria serie di testimonianze pubblicate congiuntamente dalle pubblicazioni israeliane 972 e Local Call la scorsa settimana ha stabilito che l'enorme numero di morti civili palestinesi è, in realtà, parte integrante degli obiettivi di guerra di Israele, non uno sfortunato effetto collaterale.

I morti conosciuti finora sono stimati in quasi 16.000, con altri 6.000 dispersi, presumibilmente schiacciati sotto le macerie.

 Due terzi delle persone uccise da Israele sono donne e bambini.

Due anni fa, durante un precedente attacco a Gaza, i funzionari militari israeliani ammisero per la prima volta che un computer stava fornendo loro potenziali obiettivi.

L'intenzione sembra essere stata quella di aggirare le restrizioni imposte dalle valutazioni umane delle probabili vittime, esternalizzando le uccisioni a una macchina.

Gli informatori confermano che, dati nuovi e generosi parametri su chi e cosa può essere attaccato, il sistema di intelligenza artificiale, chiamato "Gospel", sta generando liste di obiettivi così rapidamente che i militari non riescono a tenere il passo.

Gli input di Israele sono ora così ampi che consentono il bombardamento senza preavviso di grattacieli, a patto che si possa affermare che una persona che risiede lì si ritiene abbia un legame con “Hamas”.

Poiché “Hamas” non solo ha un'ala militare, ma gestisce il governo dell'enclave, la nuova politica allarga potenzialmente la cerchia degli obiettivi per includere funzionari pubblici, polizia, operatori sanitari, educatori, giornalisti e operatori umanitari.

Questo aiuta a spiegare come, secondo i dati delle Nazioni Unite, circa 100.000 case a Gaza siano state rase al suolo o rese inabitabili e almeno 1,7 milioni di palestinesi sfollati, circa tre quarti della popolazione dell'enclave.

Sopravvivenza di base.

Le rivelazioni smentiscono definitivamente le affermazioni di politici occidentali, come il presidente degli Stati Uniti” Joe Biden”, il primo ministro britannico” Rishi Sunak “e il leader dell'opposizione laburista “Keir Starmer”, secondo cui Israele si sta semplicemente difendendo e cercando di evitare vittime civili.

In un articolo di venerdì scorso, il “Guardian” ha confermato la dipendenza di Israele dal sistema informatico del Vangelo.

Il giornale ha citato un ex funzionario della Casa Bianca che ha familiarità con lo sviluppo di sistemi offensivi autonomi da parte del Pentagono, affermando che la guerra senza esclusione di colpi di Israele contro Gaza è stata un "momento importante".

Il funzionario ha aggiunto: "Altri stati stanno a guardare e impareranno".

Forse la più significativa delle rivelazioni da parte di attuali ed ex funzionari israeliani che hanno parlato con il “972” e “Local Call” è il fatto che Israele è consapevole che le sue molte migliaia di attacchi aerei sulle aree residenziali di Gaza stanno avendo un impatto minimo sul braccio armato di “Hamas”.

Ciò contrasta con le dichiarazioni pubbliche secondo cui Israele sta cercando di sradicare il gruppo.

Anche secondo le affermazioni dell'esercito israeliano, probabilmente basate sulla nuova definizione molto più ampia di chi conta come obiettivo di” Hamas”, Israele ha ucciso tra i 1.000 e i 3.000 "operativi" – il che significa che, anche secondo la valutazione di Israele, i civili comprendono tra l'85 e il 95 per cento dei morti delle sue campagne di bombardamenti.

Questo non è casuale, secondo le fonti.

Israele sta portando avanti politiche militari di lunga data nei confronti di Gaza – principalmente la cosiddetta “dottrina Dahiya”, a volte nota come "falciare il prato" – ma ha cambiato l'obiettivo per consentire uno spargimento di sangue molto maggiore tra i civili.

La dottrina, che ha guidato i ripetuti attacchi israeliani a Gaza negli ultimi 15 anni, prende il nome dalla distruzione di un intero quartiere di Beirut nella guerra di Israele contro il Libano nel 2006.

La dottrina ha due premesse chiave:

che devastare un'area nemica costringerà la popolazione a concentrarsi sulla sopravvivenza di base piuttosto che sulla resistenza;

E a lungo termine incoraggerà la gente comune a ribellarsi contro i propri governanti.

Tradizionalmente, la “dottrina Dahiya” riguardava principalmente la distruzione delle infrastrutture.

Almeno ufficialmente, date le restrizioni del diritto internazionale, Israele ha affermato di aver emesso avvertimenti preventivi.

 Questo avrebbe dovuto dare ai civili nell'area presa di mira il tempo di evacuare.

Secondo i funzionari militari, questo periodo di preavviso è in gran parte terminato, mettendo i civili direttamente nel mirino di Israele.

"Non chirurgico".

Una fonte ha spiegato gli effetti della nuova politica al “972”:

"I numeri sono aumentati da dozzine di morti civili [permesse] come danni collaterali come parte di un attacco contro un alto funzionario [di Hamas] in operazioni precedenti, a centinaia di morti civili come danni collaterali".

 

Un ex funzionario dell'intelligence militare ha detto che la politica è stata progettata per rendere la maggior parte delle infrastrutture di Gaza obiettivi legittimi:

 "Hamas è ovunque a Gaza; non c'è edificio che non contenga qualcosa di “Hamas”, quindi se vuoi trovare un modo per trasformare un grattacielo in un bersaglio, sarai in grado di farlo".

Secondo queste fonti, dato che l'ala armata di “Hamas” è sotterranea nei tunnel, Israele ha faticato a identificare gli obiettivi primari, come i siti di armi, le cellule armate e il quartier generale.

Invece, si è concentrata su quelli che chiama "obiettivi di potere" – o più precisamente, obiettivi simbolici – come grattacieli e torri residenziali nelle aree urbane, così come edifici pubblici come università, banche, uffici governativi, ospedali e moschee.

Questi attacchi, dicono le fonti, sono visti come un "mezzo che permette di danneggiare la società civile", indebolendo la capacità della società di organizzarsi e funzionare, e delle famiglie di sopravvivere.

 Secondo “972”, gli ex funzionari israeliani con cui ha parlato "hanno capito, alcuni esplicitamente e altri implicitamente, che il danno ai civili è il vero scopo di questi attacchi".

Riferendosi all'alto numero di vittime tra i civili, un'altra fonte ha dichiarato: "Tutto è intenzionale. Sappiamo esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa".

Cinque diverse fonti hanno detto a “972” che Israele ha compilato file su decine di migliaia di case e appartamenti privati a Gaza dove vivono membri di “Hamas” di basso livello.

Le case, così come tutti coloro che ci vivono, sono state viste come un obiettivo legittimo non appena una persona legata ad Hamas è entrata nell'edificio.

Uno di loro ha osservato: "I membri di Hamas che non contano nulla vivono in case in tutta Gaza. Così segnano la casa, bombardano la casa e uccidono tutti quelli che ci sono".

Un'altra fonte ha osservato a proposito di questa pratica che il suo equivalente sarebbe che “Hamas” bombardasse "tutte le residenze private delle nostre famiglie quando [i soldati israeliani] tornano a dormire a casa nel fine settimana".

Un funzionario che aveva supervisionato i precedenti attacchi a Gaza ha detto che Israele avrebbe affermato che un piano di un grattacielo serviva come ufficio di un portavoce di “Hamas” o della “Jihad islamica” per giustificare il livellamento dell'edificio.

"Ho capito che il pavimento è una scusa che permette all'esercito di causare molta distruzione a Gaza".

Se si conoscesse la verità su ciò che Israele sta facendo, ha aggiunto la fonte, "questo sarebbe visto come terrorismo. Quindi non lo dicono".

Un altro ha affermato che l'obiettivo di Israele era quello di infliggere il massimo danno piuttosto che colpire la parte dell'edificio associata ad Hamas.

"Era anche possibile colpire quel bersaglio specifico con armi più precise. La linea di fondo è che hanno buttato giù un grattacielo per il gusto di buttare giù un grattacielo".

Alti funzionari israeliani hanno reso esplicito questo obiettivo nelle ultime settimane.

“Omer Tishler”, il capo dell'aviazione israeliana, ha detto ai giornalisti militari che interi quartieri sono stati attaccati "su larga scala e non in modo chirurgico".

Una fonte ha detto che l'obiettivo a lungo termine di Israele è "dare ai cittadini di Gaza la sensazione che “Hamas” non abbia il controllo della situazione".

Guerra santa.

Nei precedenti attacchi a Gaza, Israele ha adottato una strategia che ha inflitto distruzione indiscriminata alle infrastrutture e ha portato all'uccisione di un gran numero di palestinesi.

 Ma secondo le fonti citate da “972” e “Local Call”, tutte le restrizioni sono state rimosse, aumentando drammaticamente le ricadute per i civili.

“Tishler”, il capo dell'aeronautica, ha confermato che, in molti casi, prima di bombardare un edificio, Israele non fornisce più un attacco di avvertimento con un piccolo proiettile, noto come "colpo al tetto".

La pratica, ha detto, era "rilevante per i round [di combattimento] e non per la guerra".

 

Il rischio che questo rappresenta per i civili è stato evidenziato dalla rivelazione che l'esercito israeliano sta ora utilizzando un sistema di intelligenza artificiale, “Habsora” o” Gospel”, per identificare gli obiettivi.

Il nome stesso, con la sua connotazione biblica, conferma le pericolose influenze del fondamentalismo religioso ora in gioco nell'esercito israeliano e la crescente supposizione che Israele sia impegnato in una guerra santa contro i palestinesi.

Il primo ministro israeliano “Benjamin Netanyahu”, tradizionalmente considerato una figura laica, ha adottato il linguaggio della destra dei coloni estremisti nel definire l'attacco israeliano a Gaza una guerra contro "Amalek" – un nemico biblico di cui gli israeliti hanno comandato di sterminare uomini, donne e bambini.

Parlando della nuova dipendenza dell'esercito dal Vangelo, “Aviv Kochavi”, l'ex capo dell'esercito israeliano, ha detto al sito” web israeliano Ynet” all'inizio di quest'anno:

"In passato, producevamo 50 obiettivi a Gaza all'anno. Ora, questa macchina produce 100 bersagli in un solo giorno, con il 50% di essi che viene attaccato".

L'obiettivo, ha osservato, era quello di affrontare un "problema" nelle precedenti campagne di bombardamenti contro Gaza che l'esercito israeliano ha rapidamente esaurito gli obiettivi di “Hamas” e della “Jihad islamica” che il suo staff umano poteva identificare.

Un ex ufficiale dell'intelligence ha detto a “972” che la “Divisione Amministrativa Targets” che gestisce “Gospel “è stata trasformata in una "fabbrica di omicidi di massa".

Decine di migliaia di persone erano state elencate come "giovani operativi di Hamas" e sono state quindi trattate come bersagli. L'ufficiale ha aggiunto che "l'enfasi è sulla quantità e non sulla qualità".

Una fonte che ha lavorato nella divisione ha aggiunto che la maggior parte delle raccomandazioni di “Gospel” sono state approvate senza un esame significativo:

 "Lavoriamo rapidamente e non c'è tempo per approfondire l'obiettivo. L'idea è che veniamo giudicati in base al numero di obiettivi che riusciamo a generare".

Piano di pulizia etnica.

Il significato di queste rivelazioni – e ciò che rivelano sugli "obiettivi di guerra" di Israele – non dovrebbe essere sottovalutato.

In precedenza, l'assedio permanente di Gaza e le furie intermittenti di Israele basate sulla “dottrina Dahiya” erano usati come strumenti per gestire l'enclave.

Sono serviti a ricordare costantemente ad Hamas chi comanda. L'obiettivo era quello di mantenere il gruppo concentrato sui doveri amministrativi piuttosto che sulla resistenza armata:

riparare la distruzione, escogitare modi per aggirare l'assedio e ripristinare la legittimità politica di Hamas con un pubblico più ampio stanco della battaglia.

 

Ora, l'obiettivo di Israele appare molto più completo – e definitivo. Secondo un rapporto del “Financial Times” della scorsa settimana, Israele è ancora nelle prime fasi di una campagna che potrebbe durare fino a un anno.

Nonostante la distruzione di vaste aree del nord di Gaza e l'attuale e intensificata furia israeliana nel sud, un funzionario che ha familiarità con i piani di guerra di Israele ha detto al giornale che Israele ha ancora molta strada da fare.

"Questa sarà una guerra molto lunga... Al momento non siamo vicini alla metà del raggiungimento dei nostri obiettivi".

La maggior parte della popolazione di Gaza è ammassata nell'area di “Rafah”, schiacciata contro il breve confine con l'Egitto.

Come è stato spiegato in precedenza su queste pagine, Israele ha avuto un piano di pulizia etnica a lungo termine, cercando di fare pressione sul Cairo affinché rialloggiasse la popolazione di Gaza nel Sinai.

La rapida insorgenza di malattie e fame nell'enclave a causa dell'intensificarsi dell'assedio israeliano, che nega alla popolazione cibo, acqua ed elettricità, è fermamente mirata a forzare la mano all'Egitto.

 

'Assottigliare' la popolazione.

Secondo “Israel Hayom”, un giornale israeliano con legami storicamente stretti con il partito di governo “Likud”, i funzionari di Washington hanno ricevuto un piano per indebolire ulteriormente l'opposizione egiziana.

Gli Stati Uniti offrirebbero aiuti ad altri stati vicini a condizione che accettino rifugiati da Gaza, sollevando così parte del peso dall'Egitto.

Inoltre, l'edizione ebraica del giornale fa riferimento a un piano redatto su richiesta di “Netanyahu” da “Ron Dermer”, uno dei suoi ministri più anziani, per "assottigliare la popolazione di Gaza al minimo indispensabile possibile" attraverso le espulsioni.

 Il giornale si riferisce a questo come a un "obiettivo strategico" per Netanyahu.

Si dice che Netanyahu creda che, dopo che il mondo ha accettato milioni di rifugiati sfollati dall'Iraq, dalla Siria e dall'Ucraina, perché Gaza dovrebbe essere diversa?

Il piano prevede che i palestinesi lascino Gaza attraverso il confine con l'Egitto o fuggano in barca verso l'Europa e l'Africa.

La distruzione genocida di Gaza da parte di Israele, rendendola inabitabile, è del tutto coerente sia con gli obiettivi dichiarati dei suoi leader di trattare i palestinesi come "animali umani" sia con le rivelazioni degli informatori.

Eppure i politici e i media occidentali continuano a sostenere la finzione che gli obiettivi di Israele si limitino a "eliminare" Hamas e che l'unica domanda legittima sia se Israele stia agendo "in modo proporzionato".

 

Questa totale incapacità di vedere la foresta per gli alberi non è casuale. È la prova che le élite occidentali sono totalmente complici dell'espulsione dei palestinesi da Gaza da parte di Israele.

Per quanto forti siano le prove, anche quando gli addetti ai lavori rivelano le politiche israeliane di genocidio e pulizia etnica di massa, l'Occidente è determinato a chiudere un occhio.

 

 

 

 

Mons. Carlo Maria Viganò:

Solidarietà agli Agricoltori,

agli Allevatori, ai Pescatori, ai Camionisti.

Conoscenzealconfine.it – (2 Febbraio 2024) - Carlo Maria Viganò – ci dice:

 

Il piano criminale globalista vuole distruggere l’agricoltura, l’allevamento e la pesca tradizionali, per costringere i popoli a nutrirsi di cibi artificiali prodotti dalle multinazionali.

 

 

E sono i grandi “fondi di investimento” e il” Word Economic Forum “che fanno attività di lobbying nei parlamenti per imporre una “transizione” devastante e inumana.

Esprimo tutta la mia solidarietà e il mio incoraggiamento agli agricoltori, agli allevatori, ai pescatori, ai camionisti e a tutti coloro che li appoggiano.

Questa non è una protesta qualsiasi:

 questa è forse l’ultima chance che hanno i popoli di ripristinare il diritto e liberarsi dalla tirannide di una minoranza di miliardari criminali che nessuno ha eletto e che pretendono di decidere cosa dobbiamo pensare, comprare, mangiare, imparare, con quali farmaci dobbiamo essere curati, come e se possiamo viaggiare.

E tutto questo sulla base di menzogne e ricatti:

non c’è nessuna emergenza climatica, sanitaria o energetica.

L’unica vera emergenza è il tradimento dei governanti – e degli stessi vertici della Chiesa Cattolica – in danno di tutto il genere umano.

 

Il servilismo dell’intera classe politica, la censura dei media, il silenzio della magistratura e la complicità delle forze dell’ordine e delle forze armate dinanzi a questo golpe sono scandalosi.

È giunto il momento che i popoli rivendichino con coraggio e fermezza i loro diritti naturali e inalienabili messi in pericolo dal colpo di stato globale del WEF.

Occorre ottenere le dimissioni di chi ci governa per conto di un’élite eversiva e contro i cittadini.

Accompagniamo con la preghiera chi sta lottando contro il Nuovo Ordine Mondiale.

 La corona del Rosario sia la catena spirituale che ci unisce.

Il Signore accompagni, protegga e benedica quanti si stanno svegliando prima che sia troppo tardi.

(Carlo Maria Viganò)

(t.me/databaseitalia).

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