Collasso ambientale.
Collasso
ambientale.
Il
Piano dell’UE Contro Orban:
il
Terrorismo Finanziario di Bruxelles.
Conoscenzealconfine.it
– (31 Gennaio 2024) - Cesare Sacchetti – lacrunadellago.net – ci dice:
Un
articolo appena uscito in prima pagina del quotidiano principe dell’anglosfera,
il “Financial Times”, firmato da tre nomi, quelli di “Henry Foy”, “Andy Bounds”
e “Martin Dunai”, rivela un piano dell’Unione europea contro l’Ungheria.
È noto
che da diversi mesi a questa parte Budapest abbia mostrato una certa riluttanza
a sostenere gli aiuti al regime nazista ucraino che ormai si trova quasi
esclusivamente dipendente da Bruxelles, visto che gli Stati Uniti ormai
sembrano essersi fatti da parte anche sotto il lato economico, dopo non aver
voluto avere alcun coinvolgimento militare attivo nella guerra contro la
Russia.
Il
venir meno della sponda europea di quella che un tempo era l’alleanza
Euro-Atlantica accelererebbe ancora di più il declino di Zelensky, che negli
ultimi mesi si trova a dover far fronte ad una crescente fronda di malcontento
interno che è penetrata anche nel cuore delle forze armate.
È
questa con ogni probabilità la motivazione che ha spinto il presidente ucraino
a rimuovere dal comando il popolare generale “Zaluzhny”, che viene descritto
come alquanto contrariato della strategia militare suicida di Kiev, che
consiste sostanzialmente nel mandare al macello il numero più alto di uomini
possibile, senza avere alcuna speranza di sovvertire le sorti del conflitto.
I
numeri sono impressionanti e si parla di perdite superiori alle 300mila unità,
senza contare tutti i mercenari dei vari Paesi Occidentali che sono stati
eliminati dalla Russia nel corso degli ultimi due anni.
Bruxelles
è l’ultima flebile spiaggia di Kiev anche se questa non è in grado di sostenere
da sola questo decadente regime, ma questo non sembra aver dissuaso qualche
irriducibile eurocrate dal voler comunque inviare aiuti finanziari all’Ucraina.
La
Guerra Finanziaria dell’UE all’Ungheria.
Ecco
dunque che nelle stanze della Commissione, rivela il “FT”, sarebbe stato
approntato un piano di attacco, visionato dal quotidiano anglosassone, qualora “Orban”
questa settimana decida di proseguire il suo ostruzionismo nei confronti del
finanziamento a Kiev.
A
quanto riferisce il “Financial Times”, il piano consisterebbe sostanzialmente
nella chiusura dei finanziamenti europei all’Ungheria, i cosiddetti fondi
strutturali, per poi passare ad una sorta di guerra valutaria che avrebbe come
scopo principale quello di provocare una svalutazione del fiorino ungherese sui
mercati per colpire la crescita dei salari e il finanziamento del debito
pubblico.
Se si
prende in considerazione uno scenario di una guerra valutaria di questo tipo
con massicci attacchi speculativi al fiorino ungherese, si potrebbe assistere a
scenari che ricordano quelli del 1992 quando il famigerato squalo della finanza
anglosassone, “George Soros”, attraverso il suo fondo di investimenti “Quantum
Fund” scommetteva pesantemente contro la lira, sostenuto dall’ineffabile e non
rimpianto governatore della banca d’Italia e presidente della Repubblica, Carlo
Azeglio Ciampi, che piuttosto che liberare l’Italia dalla morsa dello SME,
l’antenato dell’euro, si impegnava in una scellerata difesa del cambio fisso
con il marco tedesco, svuotando le riserve in valuta estera di palazzo Koch a
tutto beneficio degli speculatori come “Soros”.
Le
condizioni però allora erano alquanto diverse poiché la lira appunto era legata
ad un sistema di cambi fissi mentre il fiorino ungherese non deve difendere
alcuna parità con un’altra moneta di riferimento e il contraccolpo principale
per esso sarebbe quello di rendere più costose le importazioni, aumentando però
al tempo stesso la competitività delle merci magiare rese più economiche dal
cambio svalutato.
L’Ungheria
per le sue importazioni dipende principalmente da 5 Paesi, Germania in testa
dalla quale compra macchinari industriali ed elettrici, seguita da Austria,
Cina, Slovacchia e Russia, dalla quale Budapest compra invece gas e petrolio.
Se
Bruxelles decide dunque di scatenare una guerra economica all’Ungheria, a
pagare il conto sarebbe anche la Germania, poiché “Orban” potrebbe iniziare a
guardare altrove per comprare le merci di cui ha bisogno, soprattutto Cina e
Russia, aggravando così la già profonda crisi economica della Germania, affetta
da una galoppante deindustrializzazione dovuta anche al fatto di non riuscire
più a sfruttare i vantaggi artificiali che la moneta unica offriva a Berlino.
L’Ungheria
in questo caso potrebbe guardarsi attorno come si accennava prima e rinsaldare
ancora di più i rapporti economici con i Paesi che orbitano nell’area dei
BRICS.
Il
danno principale che deriverebbe da una simile strategia sarebbe quello della
perdita dei fondi strutturali dell’UE se si considera che solamente nel 2021
l’Ungheria ha versato a Bruxelles 1,7 miliardi di euro per riceverne in cambio
6, con un attivo per i magiari di 4,3 miliardi di euro mentre l’Italia, dal
canto suo, si trova in condizioni diametralmente opposte quando negli ultimi 20
anni si trova a dover affrontare un passivo nei confronti di Bruxelles
superiore ai 70 miliardi di euro.
Il
piano dell’UE era quello di estendere i suoi confini e per rendere più
attrattive le prospettive di un ingresso nell’Unione ai Paesi dell’Est Europa
sono stati versati ingenti fondi dai contribuenti attivi dell’UE, tra i quali
appunto c’è anche l’Italia.
Quello
che però non hanno considerato dalle parti della Commissione europea è che a
Budapest potesse esserci un primo ministro che mettesse al primo posto gli
interessi del Paese, senza affatto aderire all’agenda immigrazionista dei
confini aperti voluta dall’UE, né tantomeno rinunciare alla forte identità
cattolica dell’Ungheria per passare al modello liberale e sorosiano della
società aperta.
Anche
nel caso della politica estera, Budapest ha seguito una linea più neutrale sul
conflitto ucraino e non ha dato alcun sostegno attivo a Kiev, né ha attuato le
sanzioni economiche contro la Russia sul petrolio e sul gas.
“Orban”
ha una politica estera alquanto abile che prevede che l’Ungheria non si schieri
nettamente con il blocco Euro-Atlantico per lasciare aperta la porta ai legami
con la Russia, paese fondamentale per l’economia ungherese, soprattutto per
l’approvvigionamento di gas e petrolio.
Esiste
poi anche una chiara affinità culturale tra” Orban” e “Putin”, entrambi
accomunati dalla loro opposizione all’ingerenza di “Soros” nei rispettivi
Paesi, che hanno preso la comune decisione di mettere al bando le “ONG dello
speculatore finanziario” che ha orchestrato il numero più alto di rivoluzioni
colorate e colpi di Stato in giro per il mondo negli ultimi 30 anni.
Se
Bruxelles Va Contro Budapest fa Harakiri.
Se non
si raggiunge un’intesa sull’approvazione del bilancio UE, e se Bruxelles decide
di lanciare un simile piano, le conseguenze per l’Unione sarebbero simili a
quelle di un harakiri.
L’Unione
si trova già isolata sullo scenario internazionale e abbandonata dalla sua
tradizionale sponda atlantica di Washington che l’ha finanziata ed
etero-diretta sin dai primi anni della sua creazione negli anni ’50, quando i
presidenti americani approvavano il finanziamento della futura UE.
L’idea
era quella di creare un blocco unico europeo per consentire alla Casa Bianca di
controllare meglio il continente europeo ridotto al vassallaggio politico e
alla mercé del governo parallelo americano costituito dalla lobby sionista, dal”
Council on Foreign Relations” finanziato dai “Rockefeller “e da un’altra estesa
rete di circoli globalisti.
Se si
lancia una guerra economica all’Ungheria si preme il bottone nucleare sulla già
fragile Unione europea, poiché Budapest messa alle strette potrebbe decidere a
sua volta di preparare un piano di uscita dall’UE e iniziare a sondare il
terreno per un ingresso nei BRICS.
Ciò
scatenerebbe una reazione a catena che probabilmente coinvolgerebbe gli altri “Paesi
del blocco di Visegrad” che una volta visto l’eventuale allontanamento
dell’Ungheria da Bruxelles potrebbero decidere di seguire la stessa linea.
Non è
chiaro se si giungerà ad un accordo tra le parti. Nelle ultime ore l’Ungheria
ha fatto sapere attraverso il suo ministro degli affari europei, “János Bóka”,
che non ha alcuna intenzione di cedere al ricatto dell’eurocrazia.
Se si
arriverà al muro contro muro, e la Commissione deciderà di attuare la sua
guerra economica contro Budapest, non farebbe altro che creare le condizioni
ideali per una completa disgregazione dell’UE.
Bruxelles
in questo momento è sola e non è più in grado di lanciare la strategia del
terrorismo finanziario già attuata contro Italia e Grecia nel biennio
2011-2013.
È una
fase storica molto diversa poiché in quel frangente l’Unione era ancora
sostenuta pienamente dall’anglosfera e dall’amministrazione Obama a differenza
di quello che è adesso, considerato il vuoto governativo che c’è a Washington
con l’amministrazione Biden che ad oggi ancora non ha spostato i fondamentali
della politica estera di Trump, notoriamente ostile all’UE e alle
organizzazioni di natura globalista.
È una
situazione quella dell’UE appesa ad un filo dal momento che il mondo
multipolare che sta sorgendo si rafforza sempre di più e i Paesi europei come
la Francia perdono tutta la loro influenza coloniale ancora di più colpita
dall’uscita di “Burkina Faso”, “Mali” e “Niger” dalla “comunità economica degli
Stati dell’Africa Occidentale”.
Se i
falchi dell’eurocrazia proveranno ad attuare il terrorismo economico contro”
Orban”, il conto da pagare potrebbe non essere alto solamente per l’Ungheria,
che comunque può trovare altre soluzioni, ma soprattutto per la stessa “UE”.
Stavolta
non è il 2011 dell’Italia e della Grecia come si diceva in precedenza.
Stavolta
è il 2024 e l’Unione europea rischia di aggravare ancora di più la sua crisi e
di accelerare il declino che potrebbe portare alla sua prossima fine.
Se il
futuro appartiene al mondo multipolare e al ritorno degli Stati nazionali,
l’idea stessa alla base dell’UE della cessione di sovranità è superata.
Bruxelles
si trova nelle condizioni di un cadavere geopolitico già condannato dalla
storia.
(Cesare
Sacchetti)
(lacrunadellago.net/il-piano-economico-dellue-contro-orban-e-la-natura-terroristico-finanziaria-di-bruxelles/)
CAMBIAMENTI
CLIMATICI
E
DIRITTI UMANI.
Amnesty.it
-Redazione - Richard Burton – (20-1 -2024) – ci dice:
È
facile dare per scontato il nostro pianeta finché non vediamo il costo umano
del suo deterioramento: fame, persone sfollate, disoccupazione, malattie e
morte.
Milioni
di persone stanno già soffrendo per gli effetti catastrofici di disastri
meteorologici estremi esacerbati dai cambiamenti climatici: dalla prolungata
siccità nell’Africa subsahariana alle devastanti tempeste tropicali che si
abbattono sul sud-est asiatico, sui Caraibi e sul Pacifico.
Le
temperature torride hanno causato ondate di caldo mortali in Europa e incendi
in Corea del Sud, Algeria e Croazia.
Si sono verificate gravi inondazioni in
Pakistan, mentre una prolungata e intensa siccità in Madagascar ha lasciato un
milione di persone con un accesso molto limitato al cibo.
La
devastazione che il cambiamento climatico sta causando e continuerà a causare
indica un “codice rosso” per l’umanità.
Il
principale organismo scientifico mondiale per la valutazione dei cambiamenti
climatici – il “Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico” (IPCC) – avverte che le emissioni globali di
gas serra “raggiungeranno il picco entro il 2025 al più tardi e dovranno essere
ridotte del 43% entro il 2030 se vogliamo limitare il cambiamento climatico a
1,5°C ed evitare la catastrofe completa.”
Per
fermare tutto questo è necessaria un’azione immediata su larga scala, ma l’urgenza non deve essere una
scusa per violare i diritti umani.
I
diritti umani sono fortemente collegati ai cambiamenti climatici a causa del
loro effetto devastante, non solo sull’ambiente, ma anche sul nostro benessere.
Oltre a minacciare la nostra stessa esistenza,
i cambiamenti climatici stanno avendo effetti dannosi sui nostri diritti alla
vita, alla salute, al cibo, all’acqua, all’alloggio e ai mezzi di sussistenza.
Più i
governi aspettano ad intraprendere azioni significative e concrete, più
difficile diventa il problema da risolvere e maggiore è il rischio che le
emissioni vengano ridotte attraverso mezzi che aumentano la disuguaglianza
anziché ridurla.
Questi
sono alcuni dei modi in cui il cambiamento climatico ha un impatto e avrà un
impatto sui nostri diritti umani:
Diritto
alla vita –
Tutti abbiamo il diritto alla vita e a vivere in libertà e sicurezza, ma i
cambiamenti climatici minacciano la sicurezza di miliardi di persone su questo
pianeta.
L’esempio
più ovvio è rappresentato da eventi meteorologici estremi, come tempeste,
inondazioni e incendi.
Il tifone Yolanda nelle Filippine ha causato
la morte di quasi 10.000 persone nel 2013. Lo stress da calore è tra gli
impatti più mortali.
L’ondata
di caldo estivo in Europa nel 2003 ha provocato la morte di 35.000 persone.
Tuttavia,
ci sono molti altri modi meno visibili in cui i cambiamenti climatici
minacciano la vita.
L’Organizzazione
mondiale della sanità prevede che i cambiamenti climatici causeranno 250.000
morti all’anno tra il 2030 e il 2050, a causa di malaria, malnutrizione,
diarrea e stress da calore.
Diritto
alla salute – Tutti abbiamo il diritto di godere di un alto livello di salute fisica
e mentale.
Secondo
l’IPCC, i maggiori impatti dei cambiamenti climatici sulla salute includeranno
un maggior rischio di lesioni, malattie e morte a causa di ondate di calore e
incendi più intensi;
un
aumento del rischio di malnutrizione a causa della riduzione della produzione
alimentare nelle regioni povere;
e
l’aumento dei rischi di malattie trasmesse da cibo e acqua.
I
bambini esposti a eventi come catastrofi naturali, esacerbati dai cambiamenti
climatici, potrebbero soffrire di disturbi post traumatici da stress.
Gli
impatti dei cambiamenti climatici sulla salute richiedono una risposta urgente
perché il riscaldamento senza riserve che stiamo registrando minaccia di minare
i sistemi sanitari e gli obiettivi fondamentali della salute globale.
Diritto
all’alloggio – Tutti abbiamo diritto a un livello di vita adeguato, incluso un
alloggio.
Tuttavia,
i cambiamenti climatici minacciano il nostro diritto all’abitazione in vari
modi.
Eventi
meteorologici estremi come inondazioni e incendi stanno già distruggendo le
case delle persone.
Le siccità, le erosioni e le inondazioni
possono cambiare nel tempo l’ambiente e l’innalzamento del livello del mare
minaccia le case di milioni di persone in tutto il mondo.
Diritto
all’acqua e a servizi igienico-sanitari – Tutti abbiamo il diritto all’acqua
potabile per uso personale e domestico e a servizi igienico-sanitari che
assicurino la nostra salute.
Ma una
combinazione di fattori (come lo scioglimento della neve e del ghiaccio, la
riduzione delle precipitazioni, le temperature più elevate e l’innalzamento del
livello del mare) mostrano come i cambiamenti climatici stanno influenzando e
continueranno a influenzare la qualità e la quantità delle risorse idriche.
Già
oltre un miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile e il cambiamento
climatico peggiorerà le cose.
Eventi
meteorologici estremi – come cicloni e alluvioni – influenzano le
infrastrutture idriche e igieniche, lasciando dietro di sé acque contaminate e
contribuendo così alla diffusione di malattie trasmesse dall’acqua.
Anche i sistemi fognari, specialmente nelle
aree urbane, saranno a rischio.
Secondo
il 97% degli scienziati climatici il riscaldamento globale è in gran parte
causato dall’uomo e in particolare da tre attività:
Bruciare
combustibili fossili.
Agricoltura
e deforestazione.
Cambio
di utilizzo della terra.
Il
pianeta ha sempre avuto notevoli fluttuazioni delle temperature medie.
Tuttavia, questo attuale periodo di riscaldamento si sta verificando più
rapidamente che mai. Le attività artificiali hanno aumentato la concentrazione
di gas serra nell’atmosfera che, a loro volta, stanno facendo aumentare la
temperatura media del nostro pianeta a una velocità troppo veloce per
consentire agli esseri viventi di adattarsi.
La
combustione di combustibili fossili come carbone, petrolio e gas è la fonte
della maggior parte delle emissioni di quasi tutti i settori economici e
rappresenta oltre il 70% delle emissioni globali di gas serra.
L’IPCC
stima che quasi un quarto delle emissioni totali di gas a effetto serra
provenga dall’agricoltura e dalla silvicoltura (23%), rendendola la seconda
fonte di emissioni più alta dopo il settore energetico.
Circa
il 40% di queste emissioni proviene dal naturale processo digestivo che si
verifica nei ruminanti come bovini, pecore e capre.
Anche
l’uso del suolo e i cambiamenti nell’uso del suolo come la deforestazione, il
degrado forestale e gli incendi boschivi sono una fonte significativa di
emissioni di gas a effetto serra.
Il
cambiamento climatico è e continuerà a danneggiare tutti noi a meno che i
governi non agiscano.
Ma è probabile che i suoi effetti siano molto
più pronunciati per alcune comunità, gruppi e individui già svantaggiati e/o
soggetti a discriminazione, tra cui:
Persone
nei paesi in via di sviluppo, in particolare nei paesi costieri e nei piccoli
stati insulari.
Spesso
sono coloro che contribuiscono meno al cambiamento climatico ad essere quelli
maggiormente colpiti.
Ciò è
dovuto non solo alla loro esposizione ai disastri climatici, ma anche a fattori
politici e socioeconomici sottostanti che amplificano l’impatto di tali eventi.
In
particolare, le conseguenze durature del colonialismo, e il suo retaggio di
ineguale distribuzione delle risorse tra i paesi, hanno ridotto la capacità dei
paesi a basso reddito di adattarsi agli effetti negativi del cambiamento
climatico.
Comunità
che subiscono il razzismo ambientale.
Gli
effetti del cambiamento climatico e dell’inquinamento legato ai combustibili
fossili corrono anche lungo linee etniche quando la politica ambientale
discrimina le persone per il colore della pelle, per l’etnia, per la regione
etc.
Donne
e ragazze.
Le
donne e le ragazze sono spesso confinate a ruoli e lavori che le rendono più
dipendenti dalle risorse naturali.
Poiché incontrano ostacoli nell’accesso alle
risorse finanziarie o tecniche o gli viene negata la proprietà della terra,
sono meno in grado di adattarsi ai cambiamenti climatici e più a rischio poiché
sono meno in grado di proteggersi contro di essi.
I
bambini.
I
bambini e i ragazzi sono particolarmente vulnerabili.
Ciò significa che, ad esempio, lo sfollamento
forzato sperimentato dalla comunità, che ha un impatto su un’intera gamma di
diritti (accesso all’acqua, ai servizi igienici, al cibo, alla salute, ecc.),
rischia di essere particolarmente dannoso per i bambini e i più giovani.
Giunti
alla 28ma edizione, quest’anno gli Stati si riuniranno dal 30 novembre al 12
dicembre a Dubai per la Conferenza delle Parti – COP28 – e cioè il vertice
annuale delle Nazioni Unite sulla crisi climatica.
La COP
27 si è chiusa con alcuni risultati positivi, come la creazione del “Loss and
Damage Fund” che dà speranza agli stati e alle persone maggiormente colpite dal
cambiamento climatico.
La COP28 si apre con altri due risultati
positivi da cui partire: la creazione di un programma di lavoro per una
transizione giusta dai combustibili fossili e il riferimento al diritto a un
ambiente pulito, sano e sostenibile contenuto nella decisione politica finale.
Tuttavia,
il fallimento dei governi nell’impegno preso alla COP27 di eliminare
gradualmente tutti i combustibili fossili non può essere sottovalutato.
Ciò rappresenta un’enorme abdicazione agli
obblighi in materia di diritti umani e sottolinea l’urgente necessità di una
difesa globale concertata.
Nonostante
i danni significativi causati dai cambiamenti climatici nell’ultimo anno, gli
stati sviluppati continuano, infatti, a non rispettare i propri impegni di
riduzione delle emissioni.
Diversi
stati continuano a finanziare pubblicamente progetti internazionali sui
combustibili fossili e la maggior parte delle politiche nazionali sono
inadeguate a soddisfare gli impegni assunti per ridurre le emissioni.
Gli stati con la maggiore responsabilità
storica in termini di emissioni non hanno ancora rispettato il loro impegno –
preso alla COP15 nel 2009 – di fornire 100 miliardi di dollari di finanziamenti
per il clima ogni anno ai paesi in via di sviluppo.
Questo
obiettivo avrebbe dovuto essere raggiunto entro il 2016, ma in occasione della
COP21 il termine è stato spostato al 2025.
C’è un
enorme bisogno che la COP28 si traduca in impegni concreti, coraggiosi e
coerenti con i diritti umani sull’eliminazione graduale dei combustibili
fossili, sul fondo per le perdite e i danni e sui finanziamenti per il clima in
particolare.
Sarà
fondamentale anche garantire che lo spazio civico sia protetto e che il “Global
Stocktak”e (il processo che valuta i progressi degli Stati verso il rispetto
degli impegni dell’Accordo di Parigi) fornisca piani incentrati sui diritti
umani.
Inoltre,
il fatto che la Conferenza di quest’anno sarà ospitata negli Emirati Arabi
Uniti solleva ulteriori preoccupazioni sui diritti umani.
Ad agosto il governo degli Emirati Arabi Uniti
si è impegnato a rendere “lo spazio disponibile affinché gli attivisti
climatici possano riunirsi pacificamente e far sentire la propria voce”.
Il
fatto stesso che i padroni di casa abbiano sentito il bisogno di impegnarsi in
questo senso non fa che evidenziare l’ambiente normalmente restrittivo del
paese.
Chiediamo
che l’accordo di organizzazione e ospitalità tra gli Emirati Arabi Uniti e le
Nazioni Unite venga reso immediatamente pubblico, ma non è chiaro cosa
consentiranno gli Emirati Arabi Uniti in termini di protesta.
Recenti rapporti secondo cui gli Emirati Arabi
Uniti hanno definito un elenco ristretto di punti di discussione per i suoi
funzionari mettono ulteriormente in luce l’approccio degli Emirati Arabi Uniti
al dissenso.
Nel
frattempo, Amnesty International continua a chiedere la liberazione di 60
cittadini arabi arbitrariamente detenuti a seguito del processo di massa del
2013 (la maggior parte è ora trattenuta oltre la scadenza della pena) e di
altri – arabi e non arabi – anch’essi detenuti ingiustamente.
L’obiettivo
principale della COP28 sarà l’adozione da parte degli Stati di impegni concreti
per un’eliminazione rapida ed equa della produzione e dell’uso di tutti i
combustibili fossili attraverso una transizione giusta;
e per il risarcimento delle persone colpite
attraverso il “Loss and Damage Fund”.
La
rapida transizione da un sistema energetico basato su combustibili fossili a
un’infrastruttura di energia rinnovabile è essenziale, se le emissioni di gas
serra devono essere ridotte a livello globale del 43% entro il 2030 e
raggiungere lo zero netto entro il 2050.
È
essenziale che i governi di oggi guidino il passaggio a fonti di energia
rinnovabile e tecnologie verdi collaudate con soluzioni autentiche che non
sacrifichino né il pianeta né le persone imponendo legalmente alle aziende il
rispetto dei diritti umani durante la transizione energetica.
Anni
di pratiche industriali non regolamentate significa che, ad esempio, il lato
negativo del boom delle batterie venga avvertito da comunità ricche di minerali
come quelle del “Triangolo di litio” di Argentina, Cile e Bolivia e la regione
mineraria di cobalto della Repubblica Democratica Repubblica del Congo (RDC).
Giustizia
climatica è un termine utilizzato dalle organizzazioni della società civile e
dai movimenti sociali per evidenziare le implicazioni sulla giustizia della
crisi climatica e la necessità di elaborare risposte politiche giuste ed eque.
Gli
approcci alla giustizia climatica si concentrano sulle cause profonde della
crisi climatica e su come il cambiamento climatico abbia le sue basi e
amplifichi le disuguaglianze tra i paesi e all’interno dei paesi. Le sue
richieste si basano sull’imperativo di affrontare tali squilibri e ingiustizie,
partendo dal centrare l’azione per il clima nelle prospettive, nelle conoscenze
e nelle richieste dei gruppi e delle comunità più colpiti dalla crisi
climatica.
Genere,
classe, etnia, disabilità e giustizia intergenerazionale sono essenziali per
raggiungere veramente la giustizia climatica.
“È
urgente mettere le persone e i diritti umani al centro del dibattito sul
cambiamento climatico.
Per
Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani, ciò significa
sollecitare l’assunzione di responsabilità da parte degli Stati affinché
agiscano per fronteggiare i cambiamenti climatici, proprio come facciamo con
altre violazioni dei diritti umani“.
Chiara
Liguori, Policy Adviser, Amnesty International.
Il
contributo e le istanze di Amnesty International nell’Accordo di Parigi sui
cambiamenti climatici hanno incluso la difesa dei diritti umani e il sostegno
ai gruppi ambientalisti.
Lavoreremo
con una moltitudine di gruppi diversi nei principali paesi allo scopo di
esercitare una pressione contro i governi e le società che ostacolano il
progresso.
Con il
nostro lavoro supporteremo i giovani, ma anche i popoli nativi, i sindacati e
le comunità colpite, chiedendo una rapida e giusta transizione verso
un’economia a zero emissioni di carbonio che non lasci indietro nessuno.
Daremo
il nostro supporto e sostegno ai difensori dell’ambiente per facilitare il
lavoro di coloro che proteggono la terra, il cibo, le comunità dagli impatti
climatici, dall’estrazione, dall’espansione dei combustibili fossili e dalla
deforestazione.
La
difesa dell’informazione, la partecipazione e la mobilitazione saranno fattori
che contribuiranno anche a promuovere politiche climatiche più progressiste.
Le
nostre richieste.
Chiediamo
ai governi di:
fare
tutto il possibile per fermare l’aumento della temperatura globale di oltre
1,5°C;
ridurre
le emissioni di gas serra a zero entro il 2050. I paesi più ricchi dovrebbero
farlo più rapidamente. Entro il 2030, le emissioni globali devono essere
dimezzate rispetto al 2010;
smettere
di usare combustibili fossili (carbone, petrolio e gas) il più rapidamente
possibile;
assicurarsi
che le future azioni per il clima siano condotte in modo da non violare i
diritti umani di nessuno e ridurre piuttosto che aumentare le disuguaglianze;
assicurarsi
che tutti, in particolare coloro che sono colpiti dai cambiamenti climatici o
dalla transizione verso un’economia libera dai fossili, siano adeguatamente
informati su ciò che sta accadendo e siano in grado di partecipare alle
decisioni sul proprio futuro;
lavorare
insieme per condividere equamente la responsabilità e i doveri connessi al
cambiamento climatico: i paesi più ricchi devono aiutare gli altri.
Nuovo
studio australiano.
«Così
nel 2050 la civiltà umana
collasserà per il climate change».
Ilsole24ore.com
– Enrico Marro – (27 giugno 2019) – ci dice:
Un’allarmante
analisi dei ricercatori del “National Center for Climate Restoration”
australiano delinea uno scenario in cui entro il 2050 il riscaldamento globale
supererà i tre gradi centigradi, innescando alterazioni fatali dell'ecosistema
globale e colossali migrazioni da almeno un miliardo di persone.
Ecco
cosa potrebbe avvenire anno dopo anno.
Un
decennio perduto.
Tra il
2020 e il 2030 i policy-maker mondiali sottovalutano clamorosamente i rischi
del “climate change”, perdendo l’ultima occasione per mobilitare tutte le
risorse tecnologiche ed economiche disponibili verso un unico obiettivo:
costruire
un’economia a zero emissioni cercando di abbattere i livelli di CO2, per avere
una possibilità realistica di mantenere il riscaldamento globale ben al di
sotto dei due gradi.
L’ultima occasione viene clamorosamente
bruciata.
Il
risultato è che nel 2030, come avevano ammonito tredici anni prima gli
scienziati “Yangyang Xu” e “Veerabhadran Ramanthan” in una pubblicazione
scientifica che aveva fatto discutere, le emissioni di anidride carbonica
raggiungono livelli mai visti negli ultimi due milioni di anni.
Nel
ventennio successivo si tenta di porre rimedio alla situazione, ma è troppo
tardi:
nel
2050 il riscaldamento globale raggiunge tre gradi, di cui 2,4 legati alle
emissioni e 0,6 al cosiddetto “carbon feedback”, la reazione negativa del
pianeta al riscaldamento globale.
L’anno 2050 rappresenta l’inizio della fine.
Buona
parte degli ecosistemi terrestri collassano, dall’Artico all’Amazzonia alla
Barriera corallina.
Il 35% della superficie terrestre, dove vive
il 55% della popolazione mondiale, viene investita per almeno 20 giorni l’anno
da ondate di calore letali.
Il 30% della superficie terrestre diventa
arida:
Mediterraneo,
Asia occidentale, Medio Oriente, Australia interna e sud-ovest degli Stati
Uniti diventano inabitabili.
Una
crisi idrica colossale investe circa due miliardi di persone, mentre
l’agricoltura globale implode, con raccolti crollati del 20% e prezzi alle
stelle, portando ad almeno un miliardo di “profughi climatici”.
Guerre
e carestie portano a una probabile fine della civiltà umana così come la
intendiamo oggi.
L’ipotesi
dello studio è che esistano rischi di riscaldamento globale non calcolati dagli
Accordi di Parigi e in grado di porre “rischi esistenziali” alla civiltà umana.
Le
ipotesi di “climate change” delineate nel 2015 dagli Accordi di Parigi, pari a
un aumento di tre gradi entro il 2100, non tengono infatti conto del meccanismo
di “long term carbon feedback” con cui il pianeta tende ad amplificare i
mutamenti climatici in senso negativo, quindi portando a un ulteriore aumento
della temperatura.
Se si
tiene conto anche del “carbon feedback”, secondo diverse fonti tra le quali
scienziati del calibro di “Yangyang Xu” e “Veerabhadran Ramanathan”, esiste un
concreto rischio di arrivare a tre gradi di riscaldamento già nel 2050, che
salirebbero a cinque gradi entro il 2100. La civiltà umana non farebbe in tempo
a vederli, poiché la maggior parte degli scienziati ritiene che un aumento di
quattro gradi distruggerebbe l’ecosistema mondiale portando alla fine della
civiltà come la conosciamo oggi.
Una
china pericolosa in cui, come nota “Hans Joachim Schellnhuber” del Potsdam
Institute, probabilmente «la specie umana in qualche modo sopravviverà, ma
distruggeremo tutto quello che abbiamo costruito negli ultimi duemila anni».
Il
vero problema, sottolinea lo studio australiano, è rappresentato da alcune
“soglie di non ritorno” climatiche come la distruzione delle calotte polari e
il conseguente innalzamento del livello del mare.
“Soglie
di non ritorno” molto pericolose che, una volta oltrepassate, trasformerebbero
il” climate change” in un evento non lineare e difficilmente prevedibile con
gli strumenti oggi a disposizione della scienza.
Dopo il superamento di quei “punti di non
ritorno” il riscaldamento globale si autoalimenterebbe anche senza l'azione
dell'uomo, rendendo inutile ogni tardivo tentativo di eliminare le emissioni.
Quello della fine della civiltà umana è un
rischio minimo ma non assente, sottolinea “Ramanathan”, che lo stima al 5% («e
chi prenderebbe un aereo sapendo che ha il 5% di possibilità di schiantarsi?»,
nota lo scienziato).
È oggi
che dobbiamo agire, conclude lo studio: domani potrebbe essere troppo tardi.
Emergenza
climatica:
responsabilità,
assicurazioni
e
bilancio.
Diritto.it
- Andrea Lolli – (11/10/23) – ci dice:
Indice:
1. Il
rischio climatico diventa emergenza climatica.
2.
Esiste una “climate change legislation”?
3.
L’emergenza climatica in Italia.
4.
Emergenza climatica come circostanza attuale.
5. Le
conseguenze dell’emergenza climatica non rientrano più nel caso fortuito.
6.
Prevedibilità statistica e “Change-Point”.
7.
Conclusioni.
1. Il
rischio climatico diventa emergenza climatica
L’anno
2023 è stato caratterizzato da un intensificarsi di episodi, sul territorio
italiano e non solo, legati al clima e qualificabili come “anomali” o
“eccezionali sulla base di valutazioni statistiche basate sulle rilevazioni
statistiche relative agli anni pregressi.
Prima
un inverno di scarse precipitazioni. E poi, a partire da maggio, fenomeni
alluvionali, in particolare sull’Emilia Romagna, ma non solo.
Tempeste
e precipitazioni di una intensità anormale. Uniti a temperature estremamente
elevate se relazionate ai dati statistici degli anni precedenti.
A
livello mondiale la temperatura degli oceani che ha raggiunto il record
assoluto.
La
gravità della situazione è stata oggetto nel corso dell’estate di interventi
del Presidente della Repubblica Italiana.
Ne
l’Appello dei Presidenti di alcuni Paesi del Mediterraneo e membri del “Gruppo
Arraiolos” a sostegno dell’impegno per arrestare gli effetti della crisi
climatica si legge che
“Come
previsto, la crisi climatica è arrivata e ha raggiunto dimensioni esplosive,
tanto che si parla ormai di “stato di emergenza climatica”.
Il Segretario Generale delle Nazioni Unite
alla fine di luglio ha definito la crisi attuale uno stato di “ebollizione
globale”.
I suoi
effetti sono visibili soprattutto nella nostra regione, il Mediterraneo, che è
gravemente colpita e a rischio immediato non soltanto di scarsità di acqua ed
elettricità, ma anche di inondazioni, diffuse ondate di calore, incendi e
desertificazione.
I fenomeni naturali estremi stanno
distruggendo l’ecosistema e minacciando la nostra vita quotidiana, il nostro
stile di vita.” (Fonte Appello per il mediterraneo, Quirinale).
Dunque,
possiamo dire anche a livello politico, il massimo organo rappresentativo dello
Stato Italiano (il Presidente della Repubblica) ha affermato che la crisi
climatica non è più un accadimento futuro a cui prepararsi, ma rappresenta,
invece, una situazione in essere.
Il
concetto è ribadito all’interno della dichiarazione sopra riportata in cui si
precisa che “I fenomeni naturali estremi stanno distruggendo l’ecosistema e
minacciando la nostra vita quotidiana, il nostro stile di vita.
Preso
atto che quindi la crisi climatica è arrivata e che dunque dobbiamo – e non
solo dovremo- convivere con “scarsità di acqua ed elettricità, ma anche di
inondazioni, diffuse ondate di calore, incendi e desertificazione” viene
naturale chiedersi quali sono i provvedimenti normativi già in vigore per
affrontare questa emergenza attuale.
Il
tema è trattato in più di un lavoro che si propone di effettuare a livello
internazionale una ricognizione, anche a livello di macroaree geografiche, di
quella che può essere definita come “climate change legislation”.
Lo
scopo di questo articolo è di capire, nell’ambito del diritto (soprattutto)
commerciale, se nel nostro paese vi sia una “climate change legislation” che
tratti il cambiamento climatico ed i suoi effetti non come un possibile
accadimento futuro, ma appunto come una criticità odierna, mettendo detto
accadimento al centro di una serie di previsioni.
O se
invece il cambiamento climatico sia un fatto giuridicamente rilevante secondo i
paradigmi propri della normativa precedente all’attuale situazione, normativa
non espressamente dettata per affrontare tale situazione.
Per
capire, almeno in linea teorica quale possa essere l’approccio da assumere di
fronte al cambiamento climatico si è cercata evidenza della “climate change
legislation” nei paesi maggiormente soggetti a detto fenomeno.
Prendendo
in esame UNO degli effetti più impattanti del” climate change”, ovvero
l’innalzamento degli oceani, ho cercato dati sulla legislazione dei due
stati che vengono considerati
maggiormente esposti a tale fenomeno,
ovvero le “Maldive” e lo stato polinesiano di “Tuvalu”.
La
conformazione del territorio -sono i due stati con meno elevazione media
rispetto al livello del mare- mette infatti detti paesi nella condizione
di finire sommersi se -ma sarebbe più corretto dire
quando- il livello del mare dovesse
alzarsi.
“Sul
punto cfr. “The Pacific Islands: The
front line in the battle against climate change, By Chris Parsons, May 23,
2022”.)
Nell’ipotesi
dello stato polinesiano di “Tuvalu”, l’innalzamento del livello del mare e di
conseguenza la inondazione di alcune isole di detto stato è già in atto,
secondo quanto accertabile dalle fonti disponibili come riferito dai massimi
esponenti governativi di detto paese.
Peraltro
le stesse fonti hanno dovuto ammettere che quanto all’isola di Tuvalu – che è una delle isole di detto
stato- questa in realtà sta aumentando
la propria superficie come effetto del deposito di sabbia ed altri detriti.
Si riporta questo fatto per dare conto di
quanto sia difficile avere certezze rispetto a ciò che sta accadendo.
La
notizia di 5 atolli appartenenti alle “isole Salomone” e sommersi
dall’innalzamento delle acque è del 2016, mentre per quanto riguarda le “Maldive”,
queste, secondo quanto accertabile dalle fonti disponibili hanno in essere la
creazione di isole galleggianti per collocare la popolazione, come reazione al
fatto che il territorio viene sommerso.
Non vi
è notizia, tuttavia di una legislazione di detti stati che affronti
espressamente la probabilità/certezza della inondazione con norme di diritto
positivo.
In
conclusione.
Anche rispetto agli stati che sono a rischio
di scomparire -letteralmente- sott’acqua nel corso dei prossimi decenni, manca
un intervento legislativo chiaro, che affronti questo fatto, il cambiamento
climatico ed i suoi effetti, come un elemento da mettere senza esitazioni al
centro della legislazione.
Dunque
il cambiamento climatico non è oggetto di una legislazione ad hoc neppure negli
stati delle isole pacifico che fronteggiano letteralmente la sparizione per
inondazione del territorio.
2.
Esiste una climate change legislation?
Ci
sono paesi che affrontano il problema
attuale del cambiamento climatico in modo più deciso, pur avendo problemi meno
drammatici da fronteggiare rispetto a quegli stati che rischiano di finire
sommersi?
La
disamina dei dati messi a disposizione da “Higham C. et al. (2023) Climate
Change Law in Europe: What do new EU laws mean for the courts?( London:
Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment and Centre
for Climate Change Economics and Policy, London School of Economics and
Political Science) fornisce una risposta
incerta.
Dal
sito web che diffonde i risultati della ricerca risulta in atto uno sforzo
anche legislativo estremamente articolato al fine di prevenire il rischio
climatico e inibire i fattori che lo producono.
Invece
non risultano citate norme che affrontano gli effetti che si sono già prodotti
oggi come causa del cambiamento climatico.
Gli
effetti della siccità, dell’innalzamento delle temperature, del mutamento del
clima, piuttosto che dell’innalzamento del livello del mare.
Sicuramente
concorrono in tal senso una serie di fattori:
la difficoltà di cogliere quali elementi
considerare come già oggi causati dal cambiamento climatico, come
regolamentarli, a chi attribuirne la responsabilità e a chi farne sopportare il
costo.
Quali
parti del territorio considerare a rischio e dunque su quali parti del
territorio intervenire e come intervenire.
Certo
non fare nulla rispetto a ciò che sta accadendo non pare la scelta giusta.
Anche perché la conseguenza è quella di dover
fronteggiare i danni che sono il frutto del cambiamento climatico una volta che
si sono prodotti in forza di eventi traumatici catastrofici, senza che nulla
sia stato fatto per prevenirli.
3.
L’emergenza climatica in Italia.
L’Italia
è un paese dove esiste una emergenza climatica?
Siamo
più o meno esposti al cambiamento climatico rispetto agli altri paesi?
Un
primo termine di riferimento è dato dai
risultati di “Copernicus Climate Change Service” contenuti nel “report A
partnership to support mitigation and adaptation efforts in the Mediterranean”.
Secondo
tale report nel territorio italiano sono collocati tre siti Unesco al massimo
grado di rischio legato ad allagamenti e ad innalzamento del livello del mare.
Questi
siti sono Venezia, Ravenna e Ferrara.
E’
notizia di questi giorni -salutata nei quotidiani nazionali come una vittoria-
che Venezia, invece, non è stata inserita nella “Black List” dei siti Unesco
.
La
circostanza che l’ondata di maltempo dell’aprile del 2023 abbia creato
l’allagamento di uno di questi siti – Ravenna – non rientra, quindi,
nell’ambito delle situazioni imprevedibili ma rappresenta l’avverarsi di una
circostanza puntualmente rappresentata come prevedibile a livello di comunità
scientifica.
Rispetto
al territorio italiano, oltre al tema legato all’innalzamento del livello del
mare si pongono, tra l’altro (come segnalato dal nostro Presidente della
Repubblica nelle dichiarazioni citate al paragrafo 1 del presente lavoro) il
tema della siccità ed il tema del mutamento del tipo di clima che sta
diventando da clima mediterraneo (in senso proprio) o continentale un clima
tropicale caratterizzato da fenomeni estremi tipici di altre regioni del globo.
In,
particolare mentre il 2022 e l’inizio del 2023 sono stati caratterizzati dalla
siccità, a partire dal maggio 2023 si sono verificati fenomeni alluvionali che
hanno ripetutamente colpito non solo le zone notoriamente -da un punto di vista
scientifico- a rischio, ma più in generale il nord del paese.
Insomma
in talia l’emergenza climatica esiste come confermato dalle parole del nostro
Presidente della Repubblica.
Conseguentemente
occorre chiedersi se abbiamo una legislazione che affronta l’emergenza
climatica.
Esistono
numerose norme in materia di transizione ecologica.
Esistono numerose norme che, sulla scorta
della legislazione europea, spronano le imprese ad adottare comportamenti
proattivi volti ad evitare che il cambiamento climatico divenga una emergenza
ancora maggiore rispetto a quella attuale (il mondo SGR).
Ma – e
in questo viene confermato l’approccio internazionale all’emergenza climatica –
non c’è nessuna disposizione di legge che – per semplificare – interviene
sull’ordinamento vigente trattando il mutamento climatico come una circostanza
attuale che necessita di essere affrontata oggi con norme ad hoc espressamente
dettate.
4.
Emergenza climatica come circostanza attuale.
Per
cercare di capire cosa -ad avviso di chi scrive- manca rispetto alla
legislazione vigente proviamo a fare un parallelo rispetto ad un settore
rispetto al quale un rischio attuale di un evento futuro nefasto viene
considerato come circostanza attuale.
Il
settore è quello degli infortuni automobilistici.
Visto
che si sa con certezza statistica che un certo numero di infortuni si
verificheranno, viene disposta una assicurazione obbligatoria;
le norme di sicurezza stradale impongono al
singolo di strumenti di prevenzione quali caschi cinture di sicurezza etc.;
le vie
stradali vengono regolamentate rispetto a larghezza visibilità etc. per
renderle più sicure.
Ai mezzi inadatti non è permesso circolare.
Volendo
trasferire tale concetto nel settore dell’emergenza climatica, sarebbe
necessario, a mio avviso, valutare quali parti del territorio sono soggette a
rischio di allagamento alla luce dell’emergenza climatica e prendere una
decisione sul mantenere tali parti abitabili come le altre oppure differenziare
il regime urbanistico per esempio evitando nuovi insediamenti abitativi,
adottare misure per prevenire i periodi di siccità e così via.
Non
rientra nella competenza di chi scrive lo studio o la disamina scientifica o
giuridica dei problemi del territorio legati alla emergenza climatica.
Rientra
nella mia conoscenza di giurista la circostanza che la valutazione del
territorio in relazione a possibili rischi legati alla conformazione del
territorio è fatta dai piani di assetto idrogeologico (PAI).
Non vi
è evidenza che detti piani abbiano internalizzato l’emergenza climatica come
fatto storico cui conformare le prescrizioni normative da attuare.
Non vi
è cioè evidenza che i “PAI” abbiano valutato il cambiamento climatico come
fenomeno attuale cui conformare le proprie prescrizioni.
Non vi
è evidenza dei tempi e delle modalità di attuazione di tali piani.
Alla
luce della circostanza che i fenomeni alluvionali o comunque gli episodi di
eventi metereologici estremi sono destinati a proliferare, vanno forse
ripensati gli standard costruttivi cui conformare almeno le nuove abitazioni.
Va ripensata -e attuata- la legislazione
legata a quello che oggi chiamiamo rischio idrogeologico.
Si
prende atto che dopo l’alluvione in Emilia Romagna il ministro per la
Protezione civile” Nello Musumeci” ha annunciato un provvedimento in accordo
con altri ministeri che entro la prima metà del 2024 porterà ad interventi
mirati, dalla realizzazione di nuove dighe all’eliminazione degli sprechi di
acqua.
“L’urgenza
è dettata da una trasformazione che sembra ormai irreversibile.”
Recita
l’articolo del Sole 24 ore che riporta la notizia.
Ancora
il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha affermato nel luglio di
quest’anno (fonte Ansa) che “l’obiettivo di medio termine che il Governo si dà è quello di
superare la logica degli interventi frammentati varando un grande piano di
prevenzione idrogeologico“.
La
necessità di fare un passo avanti per creare una legislazione vigente che
prenda atto dell’emergenza climatica è un fatto affermato a livello istituzionale che comprova che allo
stato tale legislazione manca.
5. Le
conseguenze dell’emergenza climatica non rientrano più nel caso fortuito.
Prendiamo
quindi atto che, come già rilevato in un lavoro precedente pubblicato su
Diritto.it, la legislazione vigente non prende espressamente e specificamente
in considerazione l’emergenza climatica come un pericolo attuale rispetto al
quale vanno prescritte normativamente oggi delle difese e delle cautele per
evitare che si producano dei danni.
La
assenza di previsioni normative specifiche è dovuta al fatto che fino ad oggi
l’emergenza climatica e gli eventi alla stessa collegati sono stati ricompresi
nell’ambito del caso fortuito: l’evento eccezionale, imprevedibile e
inevitabile che costituisce “una fatalità”.
La
fatalità per definizione è imprevedibile ed è inevitabile e quindi
a) Non possono essere adottate cautele per
evitarla;
b) non comporta responsabilità perché appunto
nulla si può fare né per prevederla né per evitarla.
La
circostanza che gli eventi collegati alla emergenza climatica siano diventati
prevedibili fa sì che gli stessi non possano più rientrare nell’ambito di
applicazione di tale norma e che
a) possono essere adottate cautele per evitare o mitigare gli effetti di tali
eventi, che non sono più fatalità;
b) comporta responsabilità non adottare
cautele per evitarla.
Nella
situazione attuale dove gli accadimenti legati al cambiamento climatico sono
prevedibili ed in cui mancano però norme specifiche che li prendano in
considerazione per prevenirli, fermo quanto riferito nel paragrafo che precede,
l’ingresso nell’ordinamento giuridico dell’emergenza climatica avviene tramite le clausole generali che
impongono di valutare il rischio.
Nello
lavoro di maggio 2023 si è esaminato detto rischio rispetto all’applicazione
della norma aperta in materia di assetti organizzativi adeguati.
Per affermare che l’emergenza climatica è una
fattispecie di fatto che, può o deve, a seconda del tipo di attività e della
collocazione geografica della società, divenire rilevante per la adeguatezza
degli assetti organizzativi della società.
Più in
generale qualunque clausola generale o norma prenda in considerazione
eventi prevedibili potenzialmente dannosi
attrae nella propria sfera di applicazione l’emergenza climatica, divenuta
evento attuale prevedibile potenzialmente dannoso.
La
circostanza che il mutamento climatico abbia reso più probabili o addirittura
certi determinati eventi catastrofici determina la applicazione a detti eventi
delle norme deputate a trattare detti probabili eventi dannosi.
In
primo luogo quindi il tema è quello della applicazione delle disposizioni
generali in materia di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale.
La
circostanza che gli eventi legati all’emergenza climatica siano prevedibili
impone a tutti i soggetti di valutare le conseguenze delle proprie azioni, ai
sensi degli artt.2043 e 1218 c.c anche in relazione a detti eventi in quanto
rientranti nella propria sfera di azione e/o di responsabilità al fine di
escludere la propria negligenza nel non aver fatto quanto possibile per evitare
le conseguenze dannose legate al loro verificarsi.
A
cascata detta responsabilità incide sulla disciplina delle assicurazioni
rispetto alla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale:
se il
danno era prevedibile, l’assicurato è responsabile e la garanzia prestata
dall’assicurazione opera.
A
latere, ed a prescindere dal tema della responsabilità, la prevedibilità di
eventi dannosi incide sulla disciplina degli accantonamenti di bilancio: il
rischio concreto di eventi che producano una perdita è
fonte dell’obbligo di accantonare somme che
facciano fronte alle perdite procurate da detti eventi.
Il
tema è a mio avviso parzialmente nuovo:
gli
accantonamenti a bilancio non sono normalmente legati ad eventi macroeconomici
o a fattori climatici ma a circostanze microeconomiche che riguardano
specificamente la singola società.
Comunque
la rilevanza di elementi macroeconomici sul bilancio è tema parzialmente
conosciuto:
basti pensare
alla necessità di valutare il rischio paese nella quantificazione a bilancio
del valore dei crediti.
La
circostanza che una serie di accadimenti non possono più essere definiti come
eccezionali o improbabili ma debbono essere affrontate come probabili,
interviene sulle norme sopra citate per imporre di tenere in considerazione gli
effetti di detti eventi.
Riteniamo
che possa essere di aiuto, al fine di relazionarsi al tema in oggetto,
richiamare l’orientamento della Cassazione in materia di precipitazioni
atmosferiche.
Perché
le precipitazioni atmosferiche possano integrare l’ipotesi del caso fortuito,
assumendo rilievo causale esclusivo, occorre che esse rivestano i caratteri
dell’imprevedibilità e dell’eccezionalità:
Come
statuito dalla cassazione Cass. civ., Sez. III, ord., 11.02.2022, n. 4588
– “Le precipitazioni atmosferiche
integrano l’ipotesi di caso fortuito, ai sensi dell’art. 2051 c.c. quando
assumono i caratteri dell’imprevedibilità oggettiva e dell’eccezionalità, da
accertarsi – sulla base delle prove offerte dalla parte onerata (cioè, il
custode) – con indagine orientata essenzialmente da dati scientifici di tipo
statistico (i cc.dd. dati pluviometrici) di lungo periodo, riferiti al contesto
specifico di localizzazione della “res” oggetto di custodia.
Quindi
la giurisprudenza sembra tracciare il percorso legato alla definizione di un
evento come prevedibile o imprevedibile -e quindi in questo secondo caso come
caso fortuito- legato al dato statistico di lungo termine.
6.
Prevedibilità statistica e “Change-Point”
La
rilevanza dei dati pregressi a dimostrare se un evento è probabile oppure no è
legata ad una rilevazione statistica di dati comparabili.
L’assunto
di questo lavoro è che i dati pregressi non siano comparabili a quelli recenti
perché l’emergenza climatica è arrivata oggi come fenomeno che ha mutato il
contesto di riferimento, intervenendo quindi come” Change-Point” rispetto al
quadro di riferimento.
Se
questo assunto è corretto, la rilevanza dei dati riferiti al periodo storico
precedente è nulla, o comunque i dati precedenti il” Change-Point” non sono
collocabili sul medesimo piano dei dati successivi a detto “Change-Point”.
Dunque
la prevedibilità di un evento legata alla sua rilevabilità sulla base di dati
statistici non dovrebbe essere legata ad una disamina lineare di tutti i dati,
ma dovrebbe prendere in considerazione in modo differenziato i dati degli
ultimi anni.
Il
rimando che la giurisprudenza di cassazione fa, nella sentenza sopra citata,
ai “dati scientifici di tipo statistico”
è corretto ma dovrebbe mentre ad a nostro avviso valutato se sia corretto far
riferimento ai dati di lungo periodo o
se invece non sia proprio la statistica ad imporre una non rilevanza dei dati
risalenti alla luce del diverso contesto in cui sono stati rilevati.
7.
Conclusioni.
Il
pianeta Terra – in ragione della emergenza climatica – è diventato per l’uomo
un luogo meno sicuro e più pericoloso.
Ci
sono dunque una serie di eventi che già si sono verificati ed altri che possono
verificarsi con alto grado di probabilità e di cui le attività umane devono
tenere conto.
Non si
può più parlare di “disgrazia” e “catastrofe” rispetto ad eventi atmosferici
particolarmente distruttivi, perché tali episodi hanno ormai una frequenza tale
da appartenere al nostro nuovo quotidiano.
La
fuoriuscita di tali eventi dal caso fortuito e il loro rientrare nel rischio
prevedibile impatta sulla attività di impresa in modo negativo, ma inevitabile.
Le
imprese sono soggette ad un maggior rischio di eventi dannosi .
Le
imprese debbono attrezzarsi, sostenendo maggiori spese, per affrontare tale
nuovo contesto, che non può venire ignorato.
Il
primo impatto che tale cambiamento del clima ha sulle attività imprenditoriali
è quello legato agli eventi climatici violenti che sono divenuti frequenti:
eventi che producono danni che devono essere
valutati come probabili e che quindi dovranno essere assicurati e prevenuti
perché conoscibili, nei limiti del possibile
Da un
punto di vista giuridico si tratterà di capire, se tali danni comunque si
producono, su chi ricade la responsabilità per non averli prevenuti e dunque
evitati – ove possibile – o per tenere conto di tali danni, dove non
sia possibile prevenirli.
Che un
cambiamento epocale come quello che stiamo affrontato in ragione dell’emergenza
climatica possa venire adeguatamente affrontato solo sulla base nella normativa
generale precedente tale cambiamento e sulla base dell’ambito dell’applicazione
delle clausole generali sembra quantomeno dubbio.
Le
norme sopra citate che fanno riferimento l’ambito della responsabilità e ad
espetti giuridici correlati avrebbero bisogno di un solido punto d’appoggio in
una disciplina che tracciasse i limiti ed i confini di ciò di cui occorre
tenere conto per operare in modo diligente alla luce del nuovo contesto.
La
mancanza di una disciplina che prenda in considerazione, in modo diretto, gli
effetti del cambiamento climatico lascia un’ alea di incertezza, rispetto
all’applicazione alla disciplina giuridica da applicare, sicuramente troppo
ampia e non compatibile con il principio della certezza del diritto.
Svendita
Italia.
Conoscenzealconfine.it
– (1 Febbraio 2024) - Weltanschauung Italia – ci dice:
In
questi mesi abbiamo assistito, con un governo autodefinito “sovranista”, al
proseguimento di quelle politiche iniziate nei primi anni novanta.
Mentre
all’ormai tradizionale summit prostitutivo politico economico di Davos discute
di una “nuova fiducia”, nello stivale italico proseguono la svendita (d’altronde
siamo in periodo di saldi) e lo smantellamento delle eccellenze nostrane.
In
questi mesi abbiamo assistito, con un governo autodefinito “sovranista”, al
proseguimento di quelle politiche iniziate nei primi anni novanta.
C’è
stata una innegabile accelerazione in questa direzione, mancano pochi anni al
compimento delle agende globali e quindi il treno, partito tanto tempo fa,
prosegue la sua corsa per arrivare alla stazione 2030.
Ma
entriamo nel dettaglio degli ultimi tempi:
il
settore industriale è ormai in mano ai colossi della delocalizzazione, il
settore delle telecomunicazioni è stato svenduto a fondi di investimento (KKR),
il settore energetico ceduto in percentuale (moderno piano Mattei per sanare il
debito pubblico con la vendita del 4% di Eni), il settore agricolo subisce
incentivi alla non coltivazione e/o vendita dei terreni (addirittura con
eventuale esproprio) per il foto/agrovoltaico, oltre allo stop alle monoculture
per tutto il 2024 e abbiamo anche il settore nazionale delle poste sulla stessa
via dei già citati.
Che
dire inoltre del settore ittico?
Sono anni che lo si vede in difficoltà con le
strambe politiche dei cravattari di Bruxelles.
Dopo
aver lasciato proliferare il granchio blu che dalla Puglia è risalito in tutto
l’adriatico facendo tabula rasa di gran parte dei molluschi (e non solo) che
tutto il mondo ci invidia senza fare assolutamente nulla, il ministro del
settore competente ha messo altra carne al fuoco:
1)-
l’inserimento del granchio blu nelle specie ittiche commercializzabili in
Italia per aiutare gli operatori di settore a fronteggiare l’invasione di
questa specie, tutto sotto il nome di sostenibilità economica per i pescatori
(della serie: non abbiamo intenzione di risolvere il problema, cambiate
prodotto se volete lavorare).
2)- Dopo
che per anni la Ue ha imposto limitazioni di ogni sorta (vedi le giornate di
pesca decise fuori confine), gli esecutori stanziano 74 milioni di soldi
pubblici per la demolizione dei pescherecci datati sotto il nome “protezione
ambientale”.
Per un
paese bagnato per quasi 8000 km di coste, con relative flotte di pescherecci,
compiere una manovra del genere è davvero indicativo.
Detto
questo…
i
problemi in Italia rimangono il ritorno al fascismo, l’omotransfobia,
l’antisemitismo, il razzismo, la poca vaccinazione, il patriarcato e il pandoro
della Ferragni… ce lo dice l’Europa!
(Weltanschauung
Italia)
(weltanschauung.info/2024/01/svendita-italia.html)
(Rapporto
Ipcc).
Clima,
entro il 2030 mondo
più caldo di 1,5 gradi.
La
conferma di” Jim Skea”, Ipcc.
Ilsole24ore
– (28 luglio 2023) - Elena Comelli – ci dice:
“Jim Skea”,
neopresidente dell'I”ntergovernmental Panel on Climate Change”:
non
possiamo più evitare di sforare la soglia più ambiziosa dell'accordo di Parigi:
già nel 2030 temperature più alte di 1,5 gradi.
Clima,
Guterres: "E' arrivata l'era dell'ebollizione globale".
I
punti chiave:
«Governi
poco attivi. E quindi il mondo sarà più pericoloso».
Dai
disastri di questi giorni primo segnale, ma senza intervenire la situazione
peggiorerà.
Cosa
deve fare la politica.
Prima
azione necessaria: taglio netto del metano.
Seconda: blocco della deforestazione.
Terza: più spazio alla natura.
Quarta: cambiare le logiche
dell'alimentazione e dell'agricoltura.
Sfruttare
al massimo le rinnovabili.
Stop
definitivo al carbone, mettere il clima al centro delle decisioni.
È
ormai certo, in base ai dati a disposizione, che toccheremo un aumento di 1,5°C
delle temperature globali rispetto ai livelli pre-industriali, attorno al 2030.
L'ha detto “Jim Skea”, il fisico scozzese
appena eletto alla presidenza dell'”Intergovernmental Panel on Climate Change”,
braccio scientifico delle Nazioni Unite sull'emergenza climatica.
Il
nuovo presidente, che sostituisce l'economista coreano Hoesung Lee alla testa
del massimo organismo scientifico in materia di clima per il settimo ciclo di
studi, insegna energia sostenibile all'Imperial College di Londra ed è anche a
capo della commissione scozzese per la Just Transition.
Skea
si definisce «geneticamente ottimista», ma è convinto che non possiamo più
evitare di sforare la soglia più ambiziosa dell'accordo di Parigi.
«I colleghi che lavorano al” Working Group 1”
sulla scienza fisica dei cambiamenti climatici sono molto chiari sul fatto che
raggiungeremo un aumento delle temperature globali di 1,5 gradi attorno al
2030, o nella prima parte degli anni ‘30»,
, è
stata una delle sue prime dichiarazioni in collegamento da Nairobi, dove si è
svolta la votazione che lo ha visto prevalere contro la candidata brasiliana
Thelma Krug.
Cionondimeno,
ha aggiunto, «nello scenario migliore potremo iniziare ad abbassare di nuovo la
temperatura globale sotto quella soglia», se i governi applicheranno
rapidamente le politiche giuste.
«Governi
poco attivi. E quindi il mondo sarà più pericoloso»
Cosa
non ha funzionato?
I
governi “non hanno messo in atto politiche abbastanza ambiziose da consentire
il raggiungimento degli obiettivi dell’accordo di Parigi. Questo è
assolutamente certo», ha detto lo scienziato scozzese.
E ha
aggiunto: “Il mondo non finirà se diventerà più caldo di 1,5 gradi. Tuttavia,
sarà un mondo più pericoloso.
I
Paesi dovranno lottare con enormi problemi e ci saranno molte tensioni
sociali».
D'altra
parte, non bisogna disperare, perché l'umanità avrà sempre il potere d'influire
sulla traiettoria futura dell'emergenza climatica.
“
Skea” ha precisato:
«Possiamo
ancora intraprendere azioni per evitare alcune delle peggiori conseguenze del
cambiamento climatico, questo dev'essere chiaro.
La sensazione di essere paralizzati di fronte
a una minaccia letale non ci aiuterà, è importante passare rapidamente
all'azione».
Dai
disastri di questi giorni primo segnale, ma senza intervenire la situazione
peggiorerà.
Le
ondate di calore e le tempeste di questi giorni, per “Skea”, sono un primo
segnale di come sarà il mondo di domani.
«Il
fatto che queste emergenze stiano accadendo, in un certo senso. non è
sorprendente», ha commentato.
«La velocità con cui la crisi ci è arrivata
addosso, invece, lo è e la situazione è destinata a peggiorare rapidamente, a
meno che non s'intraprendano ulteriori azioni per ridurre le emissioni»,
ha
sostenuto” Skea”, aggiungendo che personalmente non soffre di «ansia climatica
esistenziale» perché è molto concentrato sulle soluzioni.
Cosa
deve fare la politica.
Nella
recente sintesi del suo “Sesto Rapporto di Valutazione” (AR6), pubblicata a
fine marzo, l”'Ipcc” ha evidenziato alcune misure chiave che i governi devono
adottare immediatamente se vogliamo evitare il collasso del clima.
Uscito dopo sette anni di lavoro, questo
gigantesco rapporto comprende l'intera gamma di conoscenze umane sul sistema
climatico, raccolte da centinaia di scienziati in migliaia di articoli
accademici e pubblicato in quattro parti, nell'agosto 2021, febbraio e aprile
2022 e marzo 2023.
Nell'ultima
parte, a cui ha contribuito anche “Skea”, si elencano le soluzioni più efficaci
che si possono applicare subito, senza necessità di ulteriori progressi
tecnologici.
Prima
azione necessaria: taglio netto del metano.
La
prima misura è un taglio netto agli inquinanti climatici di breve durata, a partire
dal metano, che potrebbe ridurre di oltre mezzo grado il surriscaldamento
globale.
Prodotto dall'estrazione e dal trasporto di
petrolio e di gas, dalle miniere di carbone e dall'allevamento (soprattutto di
bovini), il metano è un gas serra circa 80 volte più potente dell'anidride
carbonica, ma resta in atmosfera solo una ventina d'anni prima di degradarsi in
CO2.
Bloccare le fughe di metano è considerata
dall'”Ipcc” la misura più urgente.
Seconda: blocco della deforestazione.
La
seconda misura è bloccare la deforestazione.
L'abbattimento delle foreste pluviali
distrugge alcuni dei più grandi serbatoi di assorbimento del carbonio e rischia
di portarci a un "punto di svolta" in cui vaste foreste come
l'Amazzonia e il Congo diventano fonti nette di anidride carbonica
nell'atmosfera invece di assorbirla.
C'è
speranza che i recenti tassi disastrosi di deforestazione osservati in Brasile
diminuiscano con il ritorno del presidente Lula, ma sarà un'impresa difficile.
Anche
il Congo è ancora gravemente minacciato e in Malesia e Indonesia continua la
distruzione delle foreste per produrre olio di palma.
Terza: più spazio alla natura.
Il
terzo punto citato dall'”Ipcc” è restituire i territori alla natura.
Le
foreste sono importanti, ma molti altri ecosistemi naturali, come le zone umide
che vengono prosciugate per l'agricoltura, sono altrettanto importanti serbatoi
di assorbimento del carbonio.
Anche gli oceani e le loro coste, con le
paludi di mangrovie e le praterie di alghe, che assorbono carbonio e riducono
l'impatto dell'innalzamento del mare, devono essere protetti.
Quarta: cambiare le logiche
dell'alimentazione e dell'agricoltura.
Il
quarto punto è cambiare l'alimentazione e l'agricoltura.
Nutrire
la futura popolazione mondiale utilizzando gli attuali sistemi alimentari sarà
impossibile, mentre il passaggio a una dieta più sostenibile, ricca di verdure
e povera di carne e latticini, potrebbe contribuire moltissimo al rallentamento
della crisi climatica.
Sfruttare
al massimo le rinnovabili.
Poi ci
sono le fonti pulite.
L'energia
rinnovabile, sotto forma di energia eolica e solare, è ora più economica dei
combustibili fossili nella maggior parte del mondo e l'”Ipcc” indica che lo
sfruttamento al massimo delle potenzialità solari ed eoliche, insieme allo stop
al consumo di suolo per l'agricoltura, sono le tre misure più efficaci per
ridurre le emissioni a effetto serra dei territori.
L'efficienza
energetica nei consumi domestici, nell'industria e nei trasporti è un'altra
misura chiave:
i megawatt sono la migliore energia possibile.
Stop
definitivo al carbone, mettere il clima al centro delle decisioni
Tra le
misure più urgenti c'è anche smettere completamente di bruciare carbone.
L'ottavo
punto, “last but not least”, è mettere il
clima al centro di tutti i processi decisionali.
Solo
integrando l'azione per il clima nelle decisioni di tutti gli enti pubblici e
privati, chiede l'”Ipcc”, possiamo sperare di salvare il clima.
(La”
IPCC” è la più grande organizzazione “corrotta” per salvare il clima! N.D.R.)
Il
cambiamento climatico sta
spingendo il pianeta verso
un
punto di non ritorno.
Nationalgeographic.it
– (09-12-2019) - STEPHEN LEAHY – ci dice:
Secondo
gli scienziati, non ci rendiamo conto del poco tempo a nostra disposizione per
fermare i cambiamenti cui vanno incontro il clima e gli ecosistemi terrestri.
Ma c’è
ancora speranza!
(nationalgeographic.com/content/dam/science/2019/11/27/climate-tipping-points/climate-tipping-points.jpg)
Gli
oceani e i coralli che li popolano affrontano le dure conseguenze dei
cambiamenti climatici. E subiscono danni tali che potrebbero non riuscire più a
riprendersi.
I
sistemi climatici del pianeta stanno andando incontro a cambiamenti
irreversibili, avvertono i climatologi:
siamo
in una condizione di emergenza planetaria.
Superare
una serie di punti di non ritorno potrebbe portare a un punto critico su scala
globale, dove diversi sistemi terrestri raggiungeranno livelli di criticità
ormai irreversibile.
Questa
possibilità è una “minaccia esistenziale per la civiltà”, scrivono “Tim Lenton”
e i colleghi su “Nature”.
Un
collasso di questo genere per i sistemi terrestri potrebbe trasformare il
pianeta in una sorta di serra, con un aumento di 5°C nelle temperature, di 6-9
metri del livello del mare, la perdita delle barriere coralline e della foresta
amazzonica.
Grandi
porzioni della Terra sarebbero del tutto inabitabili.
Per
limitare il riscaldamento a 1,5°C è necessaria una risposta d’emergenza su
scala globale, avvertono gli scienziati.
“La stabilità e la resilienza del nostro
pianeta sono in pericolo.
È un grave shock scoprire che punti di non
ritorno che pensavamo di superare in un lontano futuro siano molto vicini”, ha
spiegato “Lenton,” climatologo della “University of Exeter,” nell’Inghilterra
Sud-occidentale, in un’intervista.
Il
lento collasso della banchisa nell’Antartico occidentale, ad esempio, è già in
corso, e gli ultimi dati mostrano che potrebbe essere lo stesso per alcune zone
in quello orientale.
Se si sciogliessero entrambe, il livello del
mare potrebbe aumentare di 7 metri nel corso di pochi secoli.
“Exeter,
dove mi trovo, è stata fondata dai Romani 1.900 anni fa. Tra 1.500
probabilmente sarà sott’acqua. Non dovremmo dare per scontata l’eredità che
lasceremo alle future generazioni, non importa quanto lontane.”
La
situazione delle banchise dell’Antartico occidentale e orientale rappresenta
due dei nove punti di non ritorno - giganti del sistema climatico – che ci
mostrano chiaramente di essere vicini al momento critico.
Un
tempo teoria, ora realtà.
L’idea
dei punti di non ritorno è stata introdotta 20 anni fa dal “Gruppo
intergovernativo sul cambiamento climatico” (IPCC).
La perdita della banchisa nell’Antartico
occidentale e della foresta amazzonica, o il disgelo estensivo del permafrost -
come altre componenti chiave del sistema climatico - sono considerati tali
perché possono arrivare a dei limiti estremi e poi cambiare, in modo
irreversibile e improvviso.
Esattamente come un albero di 200 anni che
resiste a 20 colpi d’ascia: il 21esimo potrebbe essere quello che lo abbatte.
In
passato si pensava che questi punti critici sarebbero stati scatenati solo una
volta che l’aumento della temperatura fosse arrivato ai +5°C. Ma secondo gli
ultimi rapporti” IPCC” potrebbero iniziare tra i +1° e i +2°C.
Ogni
piccolo aumento nella temperatura aumenta il rischio si verifichi uno dei 30
punti di non ritorno.
Con il
+1°C del riscaldamento attuale, si pensa che 9 dei 30 siano già in corso.
E
proprio come per quel metaforico albero di 200 anni, nessuno sa se sarà il
prossimo colpo d’ascia a fare la differenza.
Anche
se i vari paesi si impegneranno a rispettare gli accordi presi a Parigi per
ridurre le emissioni, l’aumento potrebbe superare i 3°C. Secondo un rapporto
delle “Nazioni Unite” pubblicato il 26 novembre le emissioni globali, in
continuo aumento, dovrebbero diminuire del 7,6% ogni anno da ora al 2030 per
tenere il riscaldamento intorno a 1,5°C.
Il
clima terrestre e i sistemi ecologici sono profondamente correlati.
Alimentati dal calore solare l’atmosfera, gli oceani,
i ghiacci, il suolo e organismi viventi come le foreste influiscono tutti -
alcuni più, altri meno - sul movimento di quel calore intorno alla superficie
del pianeta.
L’interazione
tra gli elementi del nostro sistema climatico globale comporterà un cambiamento
importante nel modo in cui questi si influenzano reciprocamente.
Quando quell’albero secolare cadrà, al 21esimo
colpo d’ascia, potrebbe cadere su altri alberi e provocare un effetto domino.
Il
riscaldamento nell’Artico ci riguarda tutti.
Gli
scienziati avvertono che diversi punti critici iniziano, lentamente, a
scontrarsi. La perdita di banchisa artica durante le estati degli ultimi 40
anni, ad esempio, ha portato a una maggior quantità di acque che assorbono
calore e a una diminuzione del 40% del ghiaccio in grado di rifletterlo. Questo
amplifica il riscaldamento a livello regionale nell’Artico e porta a
un’ulteriore perdita di permafrost, con conseguente rilascio di anidride
carbonica e metano in atmosfera, contribuendo al riscaldamento globale.
Un
Artico più caldo ha già avuto conseguenze sulla presenza di insetti su larga
scala e sull’aumento degli incendi nelle foreste boreali del Nord America.
Ora, è
possibile che quelle foreste stiano rilasciando più carbonio di quanto ne
assorbono.
Sistemi
profondamente interconnessi possono avere impatti su scala globale.
Il riscaldamento dell’Artico che, insieme allo
scioglimento dei ghiacci della Groenlandia, sta portando acqua dolce
nell’Atlantico del Nord potrebbe aver contribuito al recente rallentamento
(circa il 15%) del capovolgimento meridionale della circolazione atlantica
(AMOC).
Queste
correnti spostano il calore dai tropici e giocano un ruolo importante nelle
temperature dell’emisfero settentrionale.
Molti
dei punti di non ritorno climatici non si verificheranno rapidamente; il
collasso della banchisa antartica proseguirà per centinaia o forse migliaia di
anni, dice Glen Peters, direttore della ricerca al Center for International
Climate in Norvegia, non coinvolto nella pubblicazione di Nature. Ma “non è
chiaro quando arriveremo ad averne diversi in corso nello stesso momento.
È il
momento di dichiarare l’emergenza climatica planetaria.
È
importante ricordare che le temperature globali non sono influenzate solo dalle
nostre emissioni di carbonio, sottolinea in un’intervista Katherine Richardson,
co-autrice del rapporto e professoressa di oceanografia biologica alla
University of Copenhagen. Anche i sistemi naturali della Terra come foreste,
regioni polari e oceani giocano un ruolo cruciale. “Dobbiamo prestarvi
attenzione”.
È già
troppo tardi per scongiurare il verificarsi di alcuni di questi punti di non
ritorno; le evidenze mostrano che almeno nove sono stati superati, dice
Richardson. Il rischio che si riversino in un punto di non ritorno globale, con
impatti tremendi per la civilizzazione umana, rende cruciale una dichiarazione
di emergenza climatica planetaria.
Minimizzare
il rischio significa mantenere il riscaldamento il più vicino possibile a
1,5°C, riducendo a zero le emissioni. Serviranno almeno 30 anni per raggiungere
la neutralità, dice Richardson. “Ed è la stima più ottimistica.”
“Non
credo che le persone si rendano conto di quanto poco tempo ci resti”, aggiunge
in un’intervista “Owen Gaffney”, analista che si occupa di sostenibilità
globale allo “Stockholm Resilience Center” della “Stockholm University”,
co-autore della pubblicazione.
“Raggiungeremo
l’aumento di 1,5°C in 10 o 20 anni e, con 30 anni a disposizione per la decarbonizzazione,
è chiaramente una situazione di emergenza.
Se non agiamo trattandola come tale, è
probabile che i nostri figli erediteranno un pianeta pericolosamente
instabile”.
In
questi giorni si sta tenendo a Madrid la Conferenza sui cambiamenti climatici
organizzata dalle Nazioni Unite.
Tra le
tante figure autorevoli che hanno chiesto un’azione immediata, c’è anche la
giovane attivista svedese “Greta Thunberg” che ha lanciato un messaggio
chiaro:
"Stiamo
scioperando da un anno ma non è successo ancora nulla.
Si sta
ignorando la crisi climatica e finora non c'è una soluzione sostenibile. Non
possiamo continuare così, vogliamo azione e subito perché la gente sta
soffrendo e morendo per questa emergenza climatica, non possiamo aspettare
ancora”.
Le
economie hanno la meglio.
Un
recente rapporto delle Nazioni Unite mostra che Stati Uniti, Cina, Russia,
Arabia Saudita, India, Canada, Australia e altri paesi pianificano di aumentare
la produzione di combustibili fossili del 120% entro il 2030.
Sono
gli stessi governi che hanno acconsentito a mantenere il riscaldamento globale
entro l’aumento di 1,5°C durante gli accordi di Parigi, ma sembrano più
preoccupati della crescita economica.
Eppure nessuna analisi economica
costi-benefici ci aiuterà ora che ci troviamo di fronte a una minaccia per la
civiltà, scrivono “Gaffney e i co-autori”.
I
governi si affidano all’opinione degli economisti, ma - con poche eccezioni -
questa professione ha fatto all’umanità un grave disservizio ignorando i
cambiamenti climatici nella ricerca e nell’accademia, dice “Gaffney”.
Solo
una piccola parte di articoli e paper nelle riviste di economia discute di
cambiamenti climatici, aggiunge l’esperto.
I
rischi legati ai punti di non ritorno non sono inclusi in alcuna analisi
economica per politiche climatiche, fa notare via mail “Geoffrey Heal”,
economista della “Columbia Business School” di New York City.
“Se
fossero inclusi, farebbe una grossa differenza… suggerirebbero di rinforzare
queste politiche in modo davvero impattante.”
“Superare
i punti di non ritorno comporta un rischio enorme per le attività finanziarie,
per la stabilità economica e per la vita come la conosciamo oggi”, dice”
Stephanie Pfeifer”, CEO di” Institutional Investors Group on Climate Change”
(IIGCC), un gruppo di investimento che gestisce oltre 30 trilioni di dollari in
attività finanziarie.
È
molto meno dispendioso prevenire un ulteriore riscaldamento rispetto
all’affrontarne le conseguenze, dice “Pfeifer”via mail.
“Servono
azioni ben più concrete e urgenti per gestire i cambiamenti climatici.”
C'è
ancora speranza.
La
decarbonizzazione globale, che è aumentata dal 2010, potrebbe essere sulla
rotta del tenere il riscaldamento globale a 2°C, sostiene un rapporto
pubblicato su “Environmental Research Letters” il 2 dicembre. Le emissioni sono
aumentate ma la decarbonizzazione, che ha tenuto a bada questo aumento, è in
procinto di riuscire a farlo diminuire.
I
maggiori passi in avanti derivano dall’efficienza energetica, dalle fonti di
calore rinnovabili e dall’energia solare ed eolica.
Questi
elementi renderanno possibile il raggiungimento dell’obiettivo proposto a
Parigi “se prendiamo iniziative estreme attraverso ogni settore economico”,
precisa in un comunicato stampa” Daniel Kammen”, co-autore dello studio e
professore di scienze energetiche alla “University of California”, Berkeley.
Esistono
anche dei punti di non ritorno sociali, aggiunge “Gaffney”, incluso quello
economico perché il costo delle energie rinnovabili sta scendendo al di sotto
di quello dei combustibili fossili, mercato dopo mercato.
“I prezzi per le energie rinnovabili
continuano a diminuire mentre le performance migliorano. È una combinazione
imbattibile.”
Sempre
più paesi, come il Regno Unito, hanno raggiunto il punto critico dal punto di
vista politico degli obiettivi di decarbonizzazione totale al 2050.
“Ora è considerato un traguardo raggiungibile
ed economicamente ragionevole”.
Negli
Stati Uniti, i candidati per le elezioni presidenziali del 2020 stanno mettendo
sul tavolo piani ambiziosi per la lotta ai cambiamenti climatici.
Negli
ultimi 12 mesi è stato raggiunto un altro punto critico di consapevolezza
sociale - l’effetto “Greta Thunberg” - con milioni di giovani studenti in
sciopero e tanti altri che richiedono azioni urgenti per contrastare i
cambiamenti climatici, prosegue “Gaffney”. Al contempo sempre più società
finanziarie, aziende e città si pongono obiettivi climatici ambiziosi.
“La convergenza di questi punti di non
ritorno potrebbe rendere il decennio del 2020 la transizione economica più
veloce della storia”, conclude “Gaffney.”
Effetti
del cambiamento climatico-ONU Italia.
Unric.org
– Redazione – (30-12-2023) – ci dice:
Le
temperature più calde registrate negli ultimi anni stanno cambiando i modelli
meteorologici e sconvolgendo gli equilibri naturali, il che comporta molti
rischi per gli esseri umani e per tutte le altre forme di vita sulla Terra.
Temperature
più elevate.
Aumentando
la concentrazione di gas serra, aumenta anche la temperatura superficiale
globale.
A partire dagli anni Ottanta ogni decennio ha
visto un incremento delle temperature fino al periodo 2011-2020, il più caldo
mai registrato.
Le
temperature nell’Artico sono aumentate con una velocità più che doppia rispetto
alla media globale.
In quasi tutte le aree del pianeta assistiamo
a giorni più afosi e ondate di calore.
Le temperature più alte favoriscono
l’insorgenza di patologie da calore e rendono più difficile lavorare
all’aperto, mentre gli incendi si verificano più facilmente e si propagano più
rapidamente.
Tempeste
più violente.
Le
tempeste sono diventate più intense e frequenti in molte aree geografiche.
Con l’aumento delle temperature si rileva una
maggiore umidità che accentua le precipitazioni estreme e le inondazioni,
causando temporali sempre più devastanti.
Anche
la frequenza e l’estensione delle tempeste tropicali, cicloni, uragani e
tifoni, sono influenzate dal riscaldamento delle acque superficiali oceaniche.
Si
tratta di tempeste capaci di distruggere intere comunità, causando enormi
perdite umane ed economiche.
Aumento
della siccità.
Il
cambiamento climatico interessa anche la disponibilità di risorse idriche
sempre più scarsa in numerose aree geografiche soprattutto in quelle regioni
già afflitte da stress idrico e con un ecosistema molto vulnerabile.
La siccità può anche causare devastanti
tempeste di sabbia capaci di spostare miliardi di tonnellate di polveri da un
continente all’altro.
Alle
conseguenze legate al settore agricolo si affiancano così anche quelle legate
all’avanzamento della desertificazione.
Riscaldamento
e Innalzamento degli oceani.
Le
acque oceaniche assorbono la maggior parte del calore derivante dal
riscaldamento atmosferico globale.
Il
ritmo del loro riscaldamento è fortemente aumentato negli ultimi due decenni,
un fenomeno riscontrato a tutte le profondità.
Aumentando il calore aumenta anche il volume
delle acque con conseguente innalzamento dei livelli che, accompagnati dal
progressivo scioglimento delle calotte glaciali, determinano una reale minaccia
per le comunità costiere e insulari.
Ad
aggravare la situazione concorre anche l’assorbimento della anidride carbonica
sottratta all’atmosfera da parte delle acque oceaniche con conseguente
acidificazione delle stesse e reale pericolo per la vita marina e le barriere
coralline.
Perdita
di specie.
Il
cambiamento climatico e l’aumento delle temperature mette a rischio la
sopravvivenza delle specie sulla terraferma e negli oceani.
Nel mondo si stanno perdendo specie a un ritmo
1000 volte superiore di qualsiasi altro momento registrato nel corso della
storia dell’uomo.
Un
milione di specie è a rischio di estinzione nei prossimi decenni. Incendi
boschivi, condizioni meteo estreme, parassiti infestanti e malattie sono tra le
molte minacce legate al cambiamento climatico. Alcune specie riusciranno a
spostarsi e sopravvivere, altre no.
Mancanza
di cibo.
I
cambiamenti climatici e gli eventi meteorologici estremi sempre più frequenti
sono tra le cause dell’aumento della fame e della malnutrizione nel mondo.
La pesca, la produzione agricola e
l’allevamento del bestiame potrebbero sparire o divenire meno produttivi.
A causa della acidificazione delle acque
oceaniche le risorse marine che nutrono miliardi di persone sono a rischio
La raccolta di alimenti proveniente dalla
pastorizia, la caccia e la pesca è diminuita grazie alla riduzione della
calotta polare delle regioni artiche e antartiche.
Inoltre, così come lo stress da calore,
riducendo le disponibilità idriche si può impattare negativamente l’attività
legata all’agricoltura, al pascolo e alla zootecnia.
Maggiori
rischi per la salute.
Il
cambiamento climatico costituisce la più grande minaccia per la salute
dell’umanità.
Gli
impatti del clima sono già evidenti: inquinamento dell’aria, malattie, eventi
meteorologici estremi, migrazioni forzate e problemi di salute mentale, nonché
aumento della fame e della cattiva alimentazione in luoghi dove le persone non
possono coltivare o trovare cibo a sufficienza.
Ogni
anno, i fattori ambientali causano la morte di circa 13 milioni di persone.
Gli
stessi sistemi sanitari si trovano a dover gestire tra molte difficoltà la
diffusione delle malattie, e l’aumento dei decessi, evidenti conseguenze di
eventi metereologici estremi.
Povertà
e migrazioni.
Il
cambiamento climatico aggrava i fattori che determinano lo stato di povertà.
Le
inondazioni possono spazzare via interi quartieri delle città, solitamente i
più poveri, distruggendo case e beni.
Il calore può rendere difficile il lavoro
all’aperto e la scarsità d’acqua può colpire pascoli e colture.
Nel
corso dell’ultimo decennio (2010-2019), si stima che gli eventi legati al clima
abbiano causato la migrazione di circa 23,1 milioni di persone in media ogni
anno, lasciandone molte altre in condizioni di povertà.
La
maggior parte dei rifugiati proviene da paesi più vulnerabili e meno preparati
ad adattarsi all’impatto che il cambiamento climatico viene progressivamente determinando.
AMBIENTE.
Gli
slogan dei politici che
rallentano
la transizione ecologica.
Pagellapolitica.it
- LAURA LOGUERCIO – (07 MARZO 2022) – ci dice:
Il
negazionismo climatico è quasi scomparso, ma partiti e governo rischiano di
rimandare gli interventi contro l’aumento delle temperature con argomentazioni
più sottili.
Oggi
chi sostiene che il riscaldamento globale non esiste o non è causato dagli
esseri umani è ormai quasi sparito dal dibattito politico italiano.
In compenso, sulla politica pesano sempre di
più argomentazioni che, prestandosi a facili slogan, rischiano di
ridimensionare le conseguenze dell’emergenza climatica in corso e di rallentare
la transizione ecologica.
È la
retorica del “climate delay”, come l’hanno chiamata alcuni ricercatori:
sebbene
sia più sottile rispetto al “negazionismo climatico”, questa è altrettanto
pericolosa e fuorviante.
Ed è sempre più rintracciabile nelle
affermazioni di alcuni membri del governo e del Parlamento.
Il
nuovo negazionismo?
La
teoria del “climate delay” è stata presentata a giugno 2020 in uno studio,
intitolato “Discourses of climate delay” e pubblicato sulla rivista
scientifica” Global Sustainability”, edita dall’”Università di Cambridge”, nel
Regno Unito.
Lo
studio è stato condotto da un gruppo di dieci esperti, tra cui c’è anche
l’italiano “Giulio Mattioli”, ricercatore nel dipartimento per la
pianificazione dei trasporti dell’”Università tecnica” di Dortmund, in
Germania.
«Il rapporto è nato dalla sensazione di alcuni
di noi che fosse in atto uno spostamento dal negazionismo classico verso un
altro tipo di discorso, che riconosce l’emergenza ma trova scuse per non
agire», ha detto “Mattioli” a Pagella Politica.
Sulla
base di alcune dichiarazioni di politici europei, i ricercatori hanno
individuato – in modo «non sistematico», ha specificato “Mattioli” – quattro
tipi di argomentazioni che ricorrono spesso nel dibattito sull’emergenza
climatica e che sono utilizzate per giustificare la necessità di posticipare le
decisioni più difficili:
reindirizzare le responsabilità, spingere per
soluzioni non trasformative, enfatizzare gli svantaggi delle misure proposte,
e, infine, arrendersi a una disfatta ormai inevitabile.
L’attenzione
si è così spostata dal piano scientifico a quello normativo: «Il “climate delay
“non attacca la “scienza del cambiamento climatico”, ma le leggi che si tenta
di fare per contrastarlo, ha spiegato a Pagella Politica “William Lamb”,
ricercatore al “Mercator Research Institute on “Global Commons and Climate
Change “di Berlino e co-autore dello studio.
Secondo”
Massimo Taboni”, direttore dell’”Istituto europeo per l’economia e l’ambiente”
(Eiee) e docente di “Economia ambientale” al Politecnico di Milano, i discorsi
di “climate delay “non sono comunque una novità nel panorama italiano.
«Sono argomenti standard che ci sono sempre
stati – ha sottolineato “Taboni “a Pagella Politica – ma oggi diventano più
vigorosi perché l’impatto umano sul clima è ormai dato per scontato», e quindi
«è più difficile negare tutto».
Con il
“climate delay” si cerca di ritardare l’azione, ma «per riuscire a recuperare
il tempo perso bisogna poi accelerare, e questo a sua volta viene usato come
ulteriore scusa per non fare nulla», ha spiegato Taboni a Pagella Politica.
«È un
argomento fastidioso e fazioso, ma è la strategia che stiamo vedendo in Italia
in questo momento».
D’altra
parte, secondo “Stella Levantesi”, giornalista e autrice del libro” I bugiardi
del clima” (Laterza 2021), la discussione sul clima si è evoluta nel tempo, ma
il negazionismo non è mai scomparso del tutto.
«Nel periodo della “Cop 26”, la conferenza sul clima
di Glasgow tenuta a novembre scorso, in Italia sono riaffiorati tantissimi
interventi negazionisti», ha detto Levantesi, aggiungendo che «non è un caso,
ma si tratta di un pattern storico:
quando l’azione climatica è al centro del
dibattito la macchina negazionista si riattiva».
Non
sono io, sei tu.
La
prima categoria di affermazioni tipiche del “climate delay” punta il dito
altrove, addossando le responsabilità del cambiamento climatico su attori
distanti da noi.
Qui i
responsabili chiamati in causa sono le nazioni che inquinano di più, i singoli
consumatori, oppure i cosiddetti” free rider,” ossia i Paesi che si
approfitterebbero di chi sta agendo più velocemente per contrastare l’aumento
delle temperature.
Un
classico esempio di questa prima categoria del “climate delay” consiste
nell’indicare altri Paesi, per esempio la Cina o l’India, come i reali
responsabili dell’emergenza climatica e quindi coloro che per primi dovrebbero
cambiare rotta.
L’argomentazione
è stata più volte ripetuta dal leader della Lega Matteo Salvini, che a maggio
2020 twittava:
«Si chiede agli imprenditori italiani di
rispettare norme sul tema dell’ambiente e della sostenibilità.
In Cina non viene rispettato nulla di tutto
ciò», e che già nel 2014 aveva affermato:
«In
Italia regole per imprese su lavoro, qualità e ambiente, in Cina e India no:
per competere occorre mettere dazi!».
Anche
la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha utilizzato spesso questa
argomentazione.
Lo scorso anno, nell’ambito della discussione
sulla “plastic tax “– un’imposta sugli imballaggi in plastica approvata dal
governo Conte II nel 2019 ma la cui applicazione è per ora stata rinviata al
2023 – Meloni ha affermato che la Cina e l’India contribuiscono per «l’80 per
cento» allo sversamento di plastica in mare, percentuale nettamente superiore
rispetto ai Paesi europei (un’affermazione comunque fattualmente corretta).
Un
altro esempio sono gli slogan che provano a spostare la responsabilità del
riscaldamento globale dalle decisioni dei governi o delle autorità
sovranazionali alle azioni dei singoli individui.
Ne ha
dato esempio l’attuale ministro per” la Transizione ecologica”, il tecnico”
Roberto Cingolani”, che lo scorso dicembre ha sostenuto che il «comparto
digitale» produce il «4 per cento» delle emissioni di anidride carbonica a
livello globale, di cui «una buona metà» deriva «dall’utilizzo smodato dei
social».
L’affermazione
tende quindi a sottolineare come i cittadini comuni, utilizzando i social
network, contribuiscano in maniera non indifferente a inquinare l’ambiente in
cui vivono.
In realtà, questa stima si basa su uno studio
non particolarmente solido dal punto di vista scientifico, che per di più
considera tutte le tecnologie digitali e non menziona l’impatto dei social
network presi singolarmente.
In
un’intervista con “La Stampa” dell’ottobre 2021 “Cingolani” ha anche citato il
ruolo delle auto con tecnologie ormai obsolete, evidenziando l’impatto dei
singoli automobilisti sull’inquinamento complessivo: «Abbiamo 13 milioni di
automobili euro zero e euro 1, la gente se le tiene perché non ha i soldi, se
noi li portassimo sugli euro 6 l’impatto sarebbe enorme», ha detto” il ministro
della Transizione ecologica”.
Il dato citato da “Cingolani,” tra l’altro, è
sbagliato:
nel 2020 in Italia le auto euro 0 ed euro 1
erano 4,5 milioni, un numero quasi tre volte più piccolo di quello indicato dal
ministro.
Come
ha spiegato” Levantesi” a “Pagella Politica”, «questa narrazione è nata negli
anni Settanta attraverso delle strategie di comunicazione ben precise, per
esempio tramite campagne pubblicitarie che veicolano questo messaggio:
il responsabile del riscaldamento globale è
l’individuo, e sarà lui a dover trovare le soluzioni».
Ancora
oggi questa tesi rimane una delle narrazioni portanti nella lotta al
cambiamento climatico, ma è fondamentale ricordare che «il problema è
sistemico, non individuale».
Qualcosa
ci salverà.
La
seconda classe di affermazioni tipiche del “climate delay” propone soluzioni
alternative per mitigare il cambiamento climatico.
Visti
da questa prospettiva le misure restrittive dettate dai governi o dalle
autorità vengono sostituite da più miti incoraggiamenti ad agire su base
volontaria, utilizzando se necessario anche i combustibili fossili e sperando
che, un giorno, una nuova tecnologia ancora da inventare possa liberarci dai
problemi.
Il
tutto accompagnato da discorsi ricchi di forma ma poveri di sostanza.
L’«ottimismo
tecnologico», come definito dallo studio, è particolarmente popolare nella
politica italiana.
Nel
novembre 2021, per esempio, il “presidente del Consiglio Mario Draghi” ha
sostenuto che, quando si parla di “transizione ecologica”, dobbiamo essere
«aperti a tutto, immaginare che quel che è oggi impossibile diventi possibile domani:
il panorama delle innovazioni mondiali che
vanno a compimento in ogni momento nel mondo è straordinario, non ci sono
confini alle nostre capacità di affrontare questa sfida».
Fiducioso
nell’arrivo di qualche salvifica innovazione tecnologica è anche il “ministro
Cingolani”, che lo scorso dicembre ha affermato:
«Sono
assolutamente certo, ci metterei la firma, che la fusione nucleare sarà la
soluzione di tutto.
Il concetto è: nel 2050-2070, non so quando
riusciremo, avere una piccola stella in miniatura […] che in una grande città
produce energia per tutti e non fa scorie radioattive».
Come sottolineato anche dall’”Agenzia
internazionale per l’energia atomica”, la fusione nucleare è un processo
estremamente complesso, che gli scienziati non sono ancora in grado di gestire.
L’attenzione
per l’energia nucleare ha interessato anche altri esponenti politici, tra cui “Matteo
Salvini” e il vicepresidente di Forza Italia “Antonio Tajani”, secondo cui
«bisogna credere nell’idrogeno e riprendere la ricerca sul nucleare di ultima
generazione, che è sicuro e pulito».
Il
nucleare di “quarta generazione”, quindi estremamente avanzato a livello
tecnologico, è ancora in fase di studio e ci vorranno anni prima che sia
brevettato un reattore pienamente funzionante.
Tra
gli altri, ha puntato sull’ottimismo tecnologico anche l’ex presidente del
Consiglio “Romano Prodi”, che in un articolo pubblicato sul “Messaggero “a
settembre 2021 ha affermato che la transizione energetica «non può fondarsi
solo sulle energie alternative oggi conosciute, ma anche su radicali
innovazioni nella scienza, nella tecnologia e nelle collaborazioni
internazionali».
Altro
elemento classico che ricade nell’insieme delle soluzioni non trasformative è
la tendenza a fare grandi discorsi per sottolineare l’importanza della
transizione ecologica ed elogiare gli impegni presi in questo senso, senza però
portare risultati concreti.
Molte forze politiche italiane sono cadute in
questa trappola, a partire dal “Partito democratico”.
Il 21
gennaio, per esempio, il segretario “Enrico Letta” ha scritto su Facebook:
«La riqualificazione energetica delle case
abbatte sprechi e consumi eccessivi e riduce le bollette delle famiglie.
Bisogna continuare a incentivarla.
Le
industrie inquinanti devono cedere il passo alle nuove attività ecosostenibili.
I
lavoratori vanno protetti e accompagnati nella transizione verso un’economia a
zero emissioni».
Nel post non sono però presenti riferimenti a
decisioni effettive che permettano di andare in questa direzione.
Diversi
partiti, dal “Movimento 5 stelle” a “Forza Italia “e “Fratelli d’Italia”, hanno
inoltre festeggiato la decisione, approvata l’8 febbraio scorso, di inserire in
Costituzione la «tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi».
Un passo importante che però, se non
accompagnato da azioni reali, rischia di rimanere sulla carta.
Una
terza argomentazione ricorrente è quella che punta sui combustibili fossili,
affermando che le modalità di utilizzo stanno diventando sempre più efficienti
e rappresentano quindi una buona soluzione in attesa che le fonti rinnovabili
vengano perfezionate (o eventualmente inventate).
Negli
ultimi mesi diversi esponenti politici hanno infatti sostenuto la necessità di
rafforzare le attività di estrazione di gas naturale in Italia.
Per
esempio, il 18 gennaio scorso il “ministro Cingolani”, durante un’audizione
davanti a “due Commissioni di Camera e Senato”, ha indicato (min. 21:00) la
«valorizzazione della produzione di gas da giacimenti nazionali esistenti» come
una misura che potrebbe «contribuire alla mitigazione del costo» dell’energia.
Nei
programmi del Ministero questo non porterebbe ad aumentare la quota totale di
gas utilizzato in Italia, ma valorizzerebbe la produzione sul territorio
nazionale in modo da ridurre le importazioni.
Anche
il “Partito democratico” il 9 febbraio ha pubblicato sui propri account social
un post con quattro proposte per ridurre il corso delle bollette, tra cui anche
«aumentare la produzione nazionale di gas», mentre a inizio gennaio il
vicepresidente di Forza Italia “Antonio Tajani “ha affermato che serve far
ricorso a «gas e nucleare pulito», unendo così due tesi di “climate delay” –
quelle sull’utilità dei combustibili fossili e sull’ottimismo tecnologico – in
poche parole.
Il gas
naturale, lo ricordiamo, rilascia meno anidride carbonica rispetto ad altri
combustibili fossili come il carbone o il petrolio, ma emette nell’atmosfera
importanti quantità di “gas metano”, che trattiene il calore ed è considerato
uno dei principali responsabili dell’effetto serra.
L’11
febbraio il “governo Draghi” ha approvato il Piano per la transizione
energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai), che tra le altre cose
stabilisce le aree in cui sarà possibile richiedere nuovi permessi esplorativi
volti alla produzione di idrocarburi sul territorio nazionale.
Nel
2020 sono stati prodotti in Italia 4 miliardi di metri cubi di gas naturale, a
fronte di un consumo complessivo da quasi 70 miliardi di metri cubi.
Il
gioco (non) vale la candela.
La
terza categoria di argomentazioni tipiche del “climate delay” tende a
enfatizzare i lati negativi della lotta al cambiamento climatico:
politiche troppo stringenti abbasserebbero
eccessivamente la nostra qualità della vita, le loro conseguenze ricadrebbero
sulle fasce della popolazione già oggi svantaggiate, e infine piuttosto che
approvare leggi imperfette è meglio lasciare tutto com’è ora e non cambiare
nulla.
Spesso
nella politica italiana queste tre argomentazioni vengono usate per criticare
le decisioni imposte da partiti avversari o enti sovranazionali, come l’Unione
europea.
A lungo infatti “Salvini” ha criticato la “plastic
tax “sostenendo per esempio che questa «non aiuta davvero l’ambiente, non è
decisiva per l’erario e danneggia un settore strategico in cui l’Italia è
leader» (febbraio 2021), che mette a rischio «almeno 20mila posti di lavoro»
(giugno 2021), o che raddoppierà il prezzo dell’acqua minerale (ottobre 2019).
Salvini
ha spesso criticato l’imposizione di imposte che porterebbero beneficio
all’ambiente, ricadendo però sui lavoratori.
Nel
2019, per esempio, ha twittato: «Se penso che qualcuno vorrebbe sostenere l’ambiente
aumentando le accise su carburanti per agricoltori e pescatori… è una cosa da
Tso, ricovero immediato».
Di
idee simili anche la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, che sempre nel
2019 ha criticato il decreto “Clima” approvato dal secondo governo Conte,
sostenendo che questo strumentalizzi la «tutela dell’ambiente per massacrare di
tasse [gli] italiani!».
In
un’intervista alla” Stampa “del luglio 2021, il “ministro Cingolani” aveva
dichiarato che la transizione ecologica potrebbe essere «un bagno di sangue»,
perché «per cambiare il nostro sistema e ridurre il suo impatto ambientale
bisogna fare cambiamenti radicali che hanno un prezzo».
Insomma, a meno che una decisione a favore
dell’ambiente non porti beneficio anche a tutte le altre parti in causa, non
può essere approvata perché sarebbe controproducente.
Arrendersi,
o forse no.
Infine,
l’ultima categoria di affermazioni identificate come tipiche del “climate delay
“sta nella tendenza ad arrendersi a un declino ormai irreversibile, in cui
nulla rimane da fare per cercare di salvare la situazione.
Questa
tesi sembra non essersi ancora diffusa particolarmente nel discorso politico
italiano, dove prevale un atteggiamento di speranza verso il futuro (o una
tendenza a far finta di non vedere i problemi).
«Si
tratta di un’esagerazione: se non c’è più niente da fare, allora tanto vale non
fare nulla», ha detto a “Pagella Politica”” Stefano Caserini”, docente in “Mitigazione
dei cambiamenti climatici” al Politecnico di Milano. «Questo discorso sta
iniziando a emergere anche in Italia, ed è pericoloso».
Secondo
“Caserini”, infatti, siamo ancora in tempo per cambiare le cose: «Non potremo evitare tutti i danni
dei cambiamenti climatici, ma un mondo in cui la temperatura sale di 2°
centigradi è diverso da un mondo in cui sale di 4° centigradi».
Bologna
laboratorio del WEF.
Luogocomune.net
- Riccardo Pizzirani (Sertes) – (30 Gennaio 2024) – ci dice:
Ricordate
il Beppe Grillo degli albori?
Quello
che ci spiegava che è il cittadino, avendo eletto un suo rappresentante, che
aveva l'onere di controllare il suo operato?
Quello
che voleva portare le telecamere nelle stanze del potere?
Sì, quello che come provocazione proponeva
pure il “Politometro”, uno strumento per verificare lo stato patrimoniale di un
politico sia prima che dopo il suo mandato, per verificare che non si fosse
arricchito mentre doveva invece servire il popolo.
Convinceva.
Gli
argomenti, quantomeno, erano convincenti.
Poi, invece, con le azioni andò in
"leggera controtendenza", come piaceva dire a lui:
anno dopo anno il M5S si è trasformato nella
peggiore stampella dei poteri sovranazionali, firmando le norme più restrittive
mai avute nel dopoguerra, avvallando censura e discriminazione, proibizione di
manifestare, e scelte così libere che se sceglievi diversamente da come non
pareva a loro, ti veniva proibito pure di lavorare!
E il
bel concetto dei "cittadini che controllano il potere" è stato
rovesciato nel modo più completo.
L'esperienza
di Bologna.
Nel
nostro piccolo, a Bologna, abbiamo avuto gli stessi esempi e gli stessi
percorsi:
il
nostro pentastellato più celebre, “Bugani”, ha partecipato da protagonista in
questo ribaltamento di ideologia, abbracciando viceversa i concetti più
classici del controllo top-down del “sistema di credito sociale cinese”, in cui
il governo locale si arroga il diritto di controllare pedissequamente la
cittadinanza, e ti premia se fai bene, o ti punisce per quei comportamenti che
decide siano sconvenienti.
Ovvio
che non puoi partire col bastone; prima si tenta la carota:
"il
portafoglio del cittadino virtuoso" l'hanno chiamato.
Come
riporta il “Corriere di Bologna” , “Bugani” ci spiega che l'idea è simile al
meccanismo di «una raccolta punti del supermercato: il cittadino avrà un
riconoscimento se differenzia i rifiuti, se usa i mezzi pubblici, se gestisce
bene l'energia, se non prende sanzioni dalla municipale, se risulta attivo con
la Card cultura».
Comportamenti virtuosi che corrisponderanno ad
un punteggio che i bolognesi potranno poi «spendere» in premi in via di
definizione: «Scontistiche Tper, Hera, attività culturali e così via».
Anche così, l'iniziativa non deve aver dato
grandi frutti, visto che non è nemmeno decollata.
Fallisce la carota, avanti col bastone.
Nessun
problema, allora si fa il passo avanti: Bologna Città 30.
La
scusa tirata fuori per applicare le nuove restrizioni è che a Bologna ci sono
troppi incidenti.
Fosse
davvero quello il problema, cosa farebbe un amministratore interessato a
risolvere?
Trascinare
i vigili urbani fuori dagli uffici, per controllare chi guida in modo
pericoloso o chi guida con il cellulare, colpendo chi realmente sbaglia e
diventa un pericolo per tutti?
No!
La
strategia è quella tanto cara alle dittature del secolo scorso: la punizione
collettiva.
Bravi
o meno bravi, la velocità in città viene ridotta da 50 a 30km/h per tutti.
Si
poteva pure pensare di chiedere alle aziende impiegatizie di fare 3 giorni al
lavoro e 2 in “smart working”:
dopotutto sono tantissime le attività
commerciali che possono fare efficacemente “smart working”, e dopo il periodo
covid anche il gap tecnologico è stato già colmato e abbiamo già tutti gli
strumenti per lavorare da remoto.
Con meno auto in giro, si avrebbero molti meno
incidenti.
Nemmeno
questo.
E
quando la decisione è calata dall'alto, saltano anche tanti altri altarini:
ad
esempio il tormentone green, che è proprio l'opposto che obbligare la
cittadinanza ad inquinare più a lungo, su lenti torpedoni a 30km/h in pressoché
tutto il territorio cittadino.
La
strategia di riduzione del danno.
Le
critiche, c'era da aspettarselo, sono piovute da tutte le direzioni. Tardive,
quando la gente ha avuto esperienza diretta della questione perché la nuova
norma era già partita... ma quantomeno sono arrivate.
E se
la cittadinanza generica è irritata, i più ostili sono ovviamente quelli che
per strada ci lavorano: autisti di autobus, autoblu, tassisti. Il sindaco aveva
già pronta la carta da giocarsi: stimarsi della consultazione avvenuta sul sito
del Comune, che come ha ricordato, ha avuto ben 20.000 partecipanti!
Peccato che dicendo così si contano come
supporter anche quelli che, come me, che hanno partecipato pur di criticare
l'utilità questa iniziativa, mentre il sindaco porta il numero totale come se
fossero tutti quelli a favore.
La
strategia avrebbe avuto comunque le gambe corte, ma è crollata ancor peggio in
quanto una comune studentessa ha aperto un sondaggio parallelo su “Change.org”
per chiedere che queste norme, che impattano così pesantemente sulla
quotidianità dei cittadini, vengano quantomeno sottoposte a referendum.
E questa non ha 20.000 partecipanti, ha 53.000
firmatari a favore:
un
risultato eclatante per una consultazione locale, con numeri che basterebbero
per proporre un referendum vero e proprio anche a livello nazionale.
I
falsi amici.
Allora
si corre ulteriormente ai ripari:
il bacio della morte delle opposizioni.
Visto
il primo weekend è già prevista in piazza maggiore una manifestazione dei
tassisti, si buttano sul manifesto i simboli dei partiti storicamente più
invisi alla cittadinanza bolognese:
Forza
Italia, Fratelli d'Italia, Lega.
E la
manifestazione va deserta.
Passato
e futuro.
Diciamo
innanzitutto che chi è causa del suo mal, pianga sé stesso:
il progetto di ridurre la velocità urbana a
30km/h, e di lasciare 10-12 strade in tutto a 50km/h era già presente nel
programma politico del PD, a pagina 22.
Mi
riferisco ovviamente ai miei concittadini che pensano ancora di votare PCI, e
adesso si stanno lamentando.
Però
mal comune, mezzo gaudio:
la
strategia fa parte di un progetto ben più ampio, che nel disinteresse generale
verrà replicata anche in ogni altra città, come già preannunciato.
Come spiega “AdnKronos,” ci sarà l' «Inversione
della regola attuale: nelle città diventa la normalità, i 50 km/h l’eccezione.
Un
anno di tempo a tutti i comuni per adeguarsi».
Da cui
si rinnova il detto: tu puoi anche non occuparti di politica, ma la politica si
occupa di te.
Inoltre
c'è anche un'altra sponda di tipo governativo:
esiste
una proposta di legge attualmente al vaglio del parlamento, l'articolo 142
comma 8, che riguarda le sanzioni per chi viola il codice della strada, e il
combinato con le regole di Bologna 30 è letteralmente incredibile , come
riporta Il “Resto del Carlino”:
«Recita
il testo:
Si incrementa la sanzione amministrativa
pecuniaria (ora prevista fra 173 a 694 euro) ad euro fra 271 e 1084 e si
introduce la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente
di guida da 15 a 30 giorni, ma esclusivamente nei casi in cui la violazione dei
limiti di velocità (inquadrata dai 10 ai 40 kmh, ndr) avvenga all'interno del
centro abitato per almeno due volte nell'arco di un anno.
Tradotto: in una Bologna a 30 all'ora, quando
scatteranno le sanzioni (da gennaio), basta essere sorpresi a superare il
limite di 10 chilometri orari - per due volte in un anno - per vedere sospesa
la propria patente.»
Date tempo ai nostri legislatori, e ne vedremo
delle belle.
Il
progetto che arriva da lontano.
Tutti
questi progetti ricalcano curiosamente gli obiettivi dell”'Agenda 2030”,
specificati dal WEF già nel maggio 2021 : «
perché
non iniziamo a pensare alla velocità come ad un problema, piuttosto che ad una
soluzione?»
L'articolo si chiama proprio «schiavi della
velocità: perché avremmo tutti dei benefici dalle 'città lente'» e sottolinea
tutti gli ipotetici vantaggi di una città più lenta usando come esempio il
singolo caso delle zero morti per incidente della città spagnola di “Pontevedra”,
dove la normativa ha imposto limiti di velocità tra 30 ai 10 km/h.
E il
documento, molto candidamente, ammette di poter servire come guida per politici
progressisti per aiutarli a mettere fine alla dannosa cultura della velocità
nelle città.
Tutto già delineato, da gente che di sicuro
non risponde agli elettori né alle elezioni.
E dove
andremo a parare?
Non serve improvvisarsi indovini, visto che
anche il dettaglio è scritto tutto nero su bianco:
prendiamo il documento "Arup C40 The
Future of Urban Consumption in a 1.5C World" che spiega il progetto delle élite
per le città del 2030.
Pagina
86, capitolo 6.6.1: le emissioni delle auto private sono un problema.
Ci
sono due tipi di obiettivi per il 2030: l'obiettivo raggiungibile e progressivo
è di ridurre le auto di proprietà a 190 su 1000 abitanti.
Un modo carino per dire che potrà possedere
un'auto
solo 1
cittadino su 5.
Spoiler: non stanno comunque parlando di me o
di voi; noi siamo "gli altri 4".
Ma ancor meglio è l'obiettivo definito
ambizioso: 0 veicoli privati.
Zero.
(Ma tutto il documento è interessante:
preferite viaggiare? Capitolo 6.7.1, pagina 90.
Obiettivo
progressivo, consentire solo 1 volo andata e ritorno breve (meno di 1500 km)
per persona ogni 2 anni.
Obiettivo
ambizioso? 1 solo volo ogni 3 anni.
Pensa
che caso, dei jet privati si sono dimenticati.
Vestiti?
Capitolo 6.5.1, pagina 82.
Obiettivo
progressivo 8 nuovi capi per persona per anno.
Obiettivo ambizioso? 3 nuovi vestiti per
persona per anno.)
Conclusioni.
Quindi
come si concilia l'”obiettivo green di Agenda 2030” con il far restare nelle
strade le auto il doppio del tempo, a 30km/h?
Semplice,
si vuole disincentivare così tanto il traffico urbano che la gente non usa più
l'auto.
Anzi,
in prospettiva, nemmeno se la compera.
E come
faranno le aziende automobilistiche a supportare questo colpo? Semplice:
le auto se le compra il comune per fare
mobilità pubblica.
Così
le auto le pagheremo lo stesso, con le tasse, e le chiavi dei nostri
spostamenti le avrà comunque in mano il sindaco.
Bene,
questo conclude i fatti ed i progetti già messi in campo.
Se siete già sazi, potete fermarvi anche qua.
Complottisti!
Per
quelli che sono malfidati come me, concediamoci un minuto per provare a fare
anche gli indovini:
abbiamo già verificato dal vivo un paio d'anni
fa l'ingerenza dei governi nel controllo della popolazione, nella censura delle
notizie scomode, e nella repressione delle proteste.
In
particolare in Canada, per impedire le proteste contro i lockdown del Covid, il
primo ministro "ex WEF" era arrivato a bloccare i conti correnti
bancari sia dei manifestanti che di chi li trasportava nelle piazze delle
proteste.
Cosa
potranno fare i nostri governanti dal 2030 in poi, se tutte le auto saranno
pubbliche e gestite con l’informatica dal sistema centralizzato?
Auguroni, e buona camminata... per chi è
vicino.
Chi è
lontano non ci pensi nemmeno ad andare a protestare sotto i palazzi del potere
o al porto tanto cruciale.
Questa
ultima parte è ovviamente solo un'ipotesi pessimista.
Qualcuno
ha detto 'città da 15 minuti'?
Ma no,
quella è solo una teoria di complotto.
In
realtà stanno introducendo tutte queste operazioni solo per salvare delle
vite... che da sempre è la priorità dei potenti.
(luogocomune.net/17-politica-italiana/6433-bologna-laboratorio-del-wef).
Come
Israele usa un programma
di genocidio dell'IA
per cancellare Gaza.
unz.com - JONATHAN COOK – (DICEMBRE 5, 2023) - ci dice:
Secondo
gli informatori, il sistema di intelligenza artificiale israeliano sta
generando obiettivi così velocemente, sulla base di input così ampi, che tutti
a Gaza sono nel mirino.
Avrebbe
dovuto essere già evidente dalla portata della morte e della distruzione
inflitte a Gaza nelle ultime otto settimane che Israele stava attuando una
politica di pulizia etnica e genocidio contro i palestinesi nell'enclave
assediata.
Ora
gli informatori israeliani hanno fornito dettagli su come questi crimini contro
l'umanità vengono commessi e su come vengono razionalizzati internamente
all'interno dei ranghi militari e politici di Israele.
Una
straordinaria serie di testimonianze pubblicate congiuntamente dalle
pubblicazioni israeliane 972 e Local Call la scorsa settimana ha stabilito che
l'enorme numero di morti civili palestinesi è, in realtà, parte integrante
degli obiettivi di guerra di Israele, non uno sfortunato effetto collaterale.
I
morti conosciuti finora sono stimati in quasi 16.000, con altri 6.000 dispersi,
presumibilmente schiacciati sotto le macerie.
Due terzi delle persone uccise da Israele sono
donne e bambini.
Due
anni fa, durante un precedente attacco a Gaza, i funzionari militari israeliani
ammisero per la prima volta che un computer stava fornendo loro potenziali
obiettivi.
L'intenzione
sembra essere stata quella di aggirare le restrizioni imposte dalle valutazioni
umane delle probabili vittime, esternalizzando le uccisioni a una macchina.
Gli
informatori confermano che, dati nuovi e generosi parametri su chi e cosa può
essere attaccato, il sistema di intelligenza artificiale, chiamato
"Gospel", sta generando liste di obiettivi così rapidamente che i
militari non riescono a tenere il passo.
Gli
input di Israele sono ora così ampi che consentono il bombardamento senza
preavviso di grattacieli, a patto che si possa affermare che una persona che
risiede lì si ritiene abbia un legame con “Hamas”.
Poiché
“Hamas” non solo ha un'ala militare, ma gestisce il governo dell'enclave, la
nuova politica allarga potenzialmente la cerchia degli obiettivi per includere
funzionari pubblici, polizia, operatori sanitari, educatori, giornalisti e
operatori umanitari.
Questo
aiuta a spiegare come, secondo i dati delle Nazioni Unite, circa 100.000 case a
Gaza siano state rase al suolo o rese inabitabili e almeno 1,7 milioni di
palestinesi sfollati, circa tre quarti della popolazione dell'enclave.
Sopravvivenza
di base.
Le
rivelazioni smentiscono definitivamente le affermazioni di politici
occidentali, come il presidente degli Stati Uniti” Joe Biden”, il primo
ministro britannico” Rishi Sunak “e il leader dell'opposizione laburista “Keir
Starmer”, secondo cui Israele si sta semplicemente difendendo e cercando di
evitare vittime civili.
In un
articolo di venerdì scorso, il “Guardian” ha confermato la dipendenza di
Israele dal sistema informatico del Vangelo.
Il
giornale ha citato un ex funzionario della Casa Bianca che ha familiarità con
lo sviluppo di sistemi offensivi autonomi da parte del Pentagono, affermando
che la guerra senza esclusione di colpi di Israele contro Gaza è stata un
"momento importante".
Il
funzionario ha aggiunto: "Altri stati stanno a guardare e impareranno".
Forse
la più significativa delle rivelazioni da parte di attuali ed ex funzionari
israeliani che hanno parlato con il “972” e “Local Call” è il fatto che Israele
è consapevole che le sue molte migliaia di attacchi aerei sulle aree
residenziali di Gaza stanno avendo un impatto minimo sul braccio armato di
“Hamas”.
Ciò
contrasta con le dichiarazioni pubbliche secondo cui Israele sta cercando di
sradicare il gruppo.
Anche
secondo le affermazioni dell'esercito israeliano, probabilmente basate sulla
nuova definizione molto più ampia di chi conta come obiettivo di” Hamas”,
Israele ha ucciso tra i 1.000 e i 3.000 "operativi" – il che
significa che, anche secondo la valutazione di Israele, i civili comprendono
tra l'85 e il 95 per cento dei morti delle sue campagne di bombardamenti.
Questo
non è casuale, secondo le fonti.
Israele
sta portando avanti politiche militari di lunga data nei confronti di Gaza –
principalmente la cosiddetta “dottrina Dahiya”, a volte nota come
"falciare il prato" – ma ha cambiato l'obiettivo per consentire uno
spargimento di sangue molto maggiore tra i civili.
La
dottrina, che ha guidato i ripetuti attacchi israeliani a Gaza negli ultimi 15
anni, prende il nome dalla distruzione di un intero quartiere di Beirut nella
guerra di Israele contro il Libano nel 2006.
La
dottrina ha due premesse chiave:
che
devastare un'area nemica costringerà la popolazione a concentrarsi sulla
sopravvivenza di base piuttosto che sulla resistenza;
E a
lungo termine incoraggerà la gente comune a ribellarsi contro i propri
governanti.
Tradizionalmente,
la “dottrina Dahiya” riguardava principalmente la distruzione delle
infrastrutture.
Almeno
ufficialmente, date le restrizioni del diritto internazionale, Israele ha
affermato di aver emesso avvertimenti preventivi.
Questo avrebbe dovuto dare ai civili nell'area
presa di mira il tempo di evacuare.
Secondo
i funzionari militari, questo periodo di preavviso è in gran parte terminato,
mettendo i civili direttamente nel mirino di Israele.
"Non
chirurgico".
Una
fonte ha spiegato gli effetti della nuova politica al “972”:
"I
numeri sono aumentati da dozzine di morti civili [permesse] come danni
collaterali come parte di un attacco contro un alto funzionario [di Hamas] in
operazioni precedenti, a centinaia di morti civili come danni
collaterali".
Un ex
funzionario dell'intelligence militare ha detto che la politica è stata
progettata per rendere la maggior parte delle infrastrutture di Gaza obiettivi
legittimi:
"Hamas è ovunque a Gaza; non c'è edificio
che non contenga qualcosa di “Hamas”, quindi se vuoi trovare un modo per
trasformare un grattacielo in un bersaglio, sarai in grado di farlo".
Secondo
queste fonti, dato che l'ala armata di “Hamas” è sotterranea nei tunnel,
Israele ha faticato a identificare gli obiettivi primari, come i siti di armi,
le cellule armate e il quartier generale.
Invece,
si è concentrata su quelli che chiama "obiettivi di potere" – o più
precisamente, obiettivi simbolici – come grattacieli e torri residenziali nelle
aree urbane, così come edifici pubblici come università, banche, uffici
governativi, ospedali e moschee.
Questi
attacchi, dicono le fonti, sono visti come un "mezzo che permette di
danneggiare la società civile", indebolendo la capacità della società di
organizzarsi e funzionare, e delle famiglie di sopravvivere.
Secondo “972”, gli ex funzionari israeliani
con cui ha parlato "hanno capito, alcuni esplicitamente e altri
implicitamente, che il danno ai civili è il vero scopo di questi
attacchi".
Riferendosi
all'alto numero di vittime tra i civili, un'altra fonte ha dichiarato: "Tutto è intenzionale. Sappiamo
esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa".
Cinque
diverse fonti hanno detto a “972” che Israele ha compilato file su decine di
migliaia di case e appartamenti privati a Gaza dove vivono membri di “Hamas” di
basso livello.
Le
case, così come tutti coloro che ci vivono, sono state viste come un obiettivo
legittimo non appena una persona legata ad Hamas è entrata nell'edificio.
Uno di
loro ha osservato: "I membri di Hamas che non contano nulla vivono in case
in tutta Gaza. Così segnano la casa, bombardano la casa e uccidono tutti quelli
che ci sono".
Un'altra
fonte ha osservato a proposito di questa pratica che il suo equivalente sarebbe
che “Hamas” bombardasse "tutte le residenze private delle nostre famiglie quando
[i soldati israeliani] tornano a dormire a casa nel fine settimana".
Un
funzionario che aveva supervisionato i precedenti attacchi a Gaza ha detto che
Israele avrebbe affermato che un piano di un grattacielo serviva come ufficio
di un portavoce di “Hamas” o della “Jihad islamica” per giustificare il
livellamento dell'edificio.
"Ho
capito che il pavimento è una scusa che permette all'esercito di causare molta
distruzione a Gaza".
Se si
conoscesse la verità su ciò che Israele sta facendo, ha aggiunto la fonte,
"questo sarebbe visto come terrorismo. Quindi non lo dicono".
Un
altro ha affermato che l'obiettivo di Israele era quello di infliggere il
massimo danno piuttosto che colpire la parte dell'edificio associata ad Hamas.
"Era
anche possibile colpire quel bersaglio specifico con armi più precise. La linea
di fondo è che hanno buttato giù un grattacielo per il gusto di buttare giù un
grattacielo".
Alti
funzionari israeliani hanno reso esplicito questo obiettivo nelle ultime
settimane.
“Omer
Tishler”, il capo dell'aviazione israeliana, ha detto ai giornalisti militari
che interi quartieri sono stati attaccati "su larga scala e non in modo
chirurgico".
Una
fonte ha detto che l'obiettivo a lungo termine di Israele è "dare ai
cittadini di Gaza la sensazione che “Hamas” non abbia il controllo della
situazione".
Guerra
santa.
Nei
precedenti attacchi a Gaza, Israele ha adottato una strategia che ha inflitto
distruzione indiscriminata alle infrastrutture e ha portato all'uccisione di un
gran numero di palestinesi.
Ma secondo le fonti citate da “972” e “Local
Call”, tutte le restrizioni sono state rimosse, aumentando drammaticamente le
ricadute per i civili.
“Tishler”,
il capo dell'aeronautica, ha confermato che, in molti casi, prima di bombardare
un edificio, Israele non fornisce più un attacco di avvertimento con un piccolo
proiettile, noto come "colpo al tetto".
La
pratica, ha detto, era "rilevante per i round [di combattimento] e non per
la guerra".
Il
rischio che questo rappresenta per i civili è stato evidenziato dalla
rivelazione che l'esercito israeliano sta ora utilizzando un sistema di
intelligenza artificiale, “Habsora” o” Gospel”, per identificare gli obiettivi.
Il
nome stesso, con la sua connotazione biblica, conferma le pericolose influenze
del fondamentalismo religioso ora in gioco nell'esercito israeliano e la crescente
supposizione che Israele sia impegnato in una guerra santa contro i
palestinesi.
Il
primo ministro israeliano “Benjamin Netanyahu”, tradizionalmente considerato
una figura laica, ha adottato il linguaggio della destra dei coloni estremisti
nel definire l'attacco israeliano a Gaza una guerra contro "Amalek" –
un nemico biblico di cui gli israeliti hanno comandato di sterminare uomini,
donne e bambini.
Parlando
della nuova dipendenza dell'esercito dal Vangelo, “Aviv Kochavi”, l'ex capo
dell'esercito israeliano, ha detto al sito” web israeliano Ynet” all'inizio di
quest'anno:
"In
passato, producevamo 50 obiettivi a Gaza all'anno. Ora, questa macchina produce
100 bersagli in un solo giorno, con il 50% di essi che viene attaccato".
L'obiettivo,
ha osservato, era quello di affrontare un "problema" nelle precedenti
campagne di bombardamenti contro Gaza che l'esercito israeliano ha rapidamente
esaurito gli obiettivi di “Hamas” e della “Jihad islamica” che il suo staff
umano poteva identificare.
Un ex
ufficiale dell'intelligence ha detto a “972” che la “Divisione Amministrativa
Targets” che gestisce “Gospel “è stata trasformata in una "fabbrica di
omicidi di massa".
Decine
di migliaia di persone erano state elencate come "giovani operativi di
Hamas" e sono state quindi trattate come bersagli. L'ufficiale ha aggiunto
che "l'enfasi è sulla quantità e non sulla qualità".
Una
fonte che ha lavorato nella divisione ha aggiunto che la maggior parte delle
raccomandazioni di “Gospel” sono state approvate senza un esame significativo:
"Lavoriamo rapidamente e non c'è tempo per
approfondire l'obiettivo. L'idea è che veniamo giudicati in base al numero di
obiettivi che riusciamo a generare".
Piano
di pulizia etnica.
Il
significato di queste rivelazioni – e ciò che rivelano sugli "obiettivi di
guerra" di Israele – non dovrebbe essere sottovalutato.
In
precedenza, l'assedio permanente di Gaza e le furie intermittenti di Israele
basate sulla “dottrina Dahiya” erano usati come strumenti per gestire
l'enclave.
Sono
serviti a ricordare costantemente ad Hamas chi comanda. L'obiettivo era quello
di mantenere il gruppo concentrato sui doveri amministrativi piuttosto che
sulla resistenza armata:
riparare
la distruzione, escogitare modi per aggirare l'assedio e ripristinare la
legittimità politica di Hamas con un pubblico più ampio stanco della battaglia.
Ora,
l'obiettivo di Israele appare molto più completo – e definitivo. Secondo un
rapporto del “Financial Times” della scorsa settimana, Israele è ancora nelle
prime fasi di una campagna che potrebbe durare fino a un anno.
Nonostante
la distruzione di vaste aree del nord di Gaza e l'attuale e intensificata furia
israeliana nel sud, un funzionario che ha familiarità con i piani di guerra di
Israele ha detto al giornale che Israele ha ancora molta strada da fare.
"Questa
sarà una guerra molto lunga... Al momento non siamo vicini alla metà del
raggiungimento dei nostri obiettivi".
La
maggior parte della popolazione di Gaza è ammassata nell'area di “Rafah”,
schiacciata contro il breve confine con l'Egitto.
Come è
stato spiegato in precedenza su queste pagine, Israele ha avuto un piano di
pulizia etnica a lungo termine, cercando di fare pressione sul Cairo affinché
rialloggiasse la popolazione di Gaza nel Sinai.
La
rapida insorgenza di malattie e fame nell'enclave a causa dell'intensificarsi
dell'assedio israeliano, che nega alla popolazione cibo, acqua ed elettricità,
è fermamente mirata a forzare la mano all'Egitto.
'Assottigliare'
la popolazione.
Secondo
“Israel Hayom”, un giornale israeliano con legami storicamente stretti con il
partito di governo “Likud”, i funzionari di Washington hanno ricevuto un piano
per indebolire ulteriormente l'opposizione egiziana.
Gli
Stati Uniti offrirebbero aiuti ad altri stati vicini a condizione che accettino
rifugiati da Gaza, sollevando così parte del peso dall'Egitto.
Inoltre,
l'edizione ebraica del giornale fa riferimento a un piano redatto su richiesta
di “Netanyahu” da “Ron Dermer”, uno dei suoi ministri più anziani, per
"assottigliare la popolazione di Gaza al minimo indispensabile
possibile" attraverso le espulsioni.
Il giornale si riferisce a questo come a un
"obiettivo strategico" per Netanyahu.
Si
dice che Netanyahu creda che, dopo che il mondo ha accettato milioni di
rifugiati sfollati dall'Iraq, dalla Siria e dall'Ucraina, perché Gaza dovrebbe
essere diversa?
Il
piano prevede che i palestinesi lascino Gaza attraverso il confine con l'Egitto
o fuggano in barca verso l'Europa e l'Africa.
La
distruzione genocida di Gaza da parte di Israele, rendendola inabitabile, è del
tutto coerente sia con gli obiettivi dichiarati dei suoi leader di trattare i
palestinesi come "animali umani" sia con le rivelazioni degli
informatori.
Eppure
i politici e i media occidentali continuano a sostenere la finzione che gli
obiettivi di Israele si limitino a "eliminare" Hamas e che l'unica
domanda legittima sia se Israele stia agendo "in modo proporzionato".
Questa
totale incapacità di vedere la foresta per gli alberi non è casuale. È la prova che le élite occidentali
sono totalmente complici dell'espulsione dei palestinesi da Gaza da parte di
Israele.
Per
quanto forti siano le prove, anche quando gli addetti ai lavori rivelano le
politiche israeliane di genocidio e pulizia etnica di massa, l'Occidente è
determinato a chiudere un occhio.
Mons.
Carlo Maria Viganò:
Solidarietà
agli Agricoltori,
agli
Allevatori, ai Pescatori, ai Camionisti.
Conoscenzealconfine.it
– (2 Febbraio 2024) - Carlo Maria Viganò – ci dice:
Il
piano criminale globalista vuole distruggere l’agricoltura, l’allevamento e la
pesca tradizionali, per costringere i popoli a nutrirsi di cibi artificiali
prodotti dalle multinazionali.
E sono
i grandi “fondi di investimento” e il” Word Economic Forum “che fanno attività
di lobbying nei parlamenti per imporre una “transizione” devastante e inumana.
Esprimo
tutta la mia solidarietà e il mio incoraggiamento agli agricoltori, agli
allevatori, ai pescatori, ai camionisti e a tutti coloro che li appoggiano.
Questa
non è una protesta qualsiasi:
questa è forse l’ultima chance che hanno i
popoli di ripristinare il diritto e liberarsi dalla tirannide di una minoranza
di miliardari criminali che nessuno ha eletto e che pretendono di decidere cosa
dobbiamo pensare, comprare, mangiare, imparare, con quali farmaci dobbiamo
essere curati, come e se possiamo viaggiare.
E
tutto questo sulla base di menzogne e ricatti:
non
c’è nessuna emergenza climatica, sanitaria o energetica.
L’unica
vera emergenza è il tradimento dei governanti – e degli stessi vertici della
Chiesa Cattolica – in danno di tutto il genere umano.
Il
servilismo dell’intera classe politica, la censura dei media, il silenzio della
magistratura e la complicità delle forze dell’ordine e delle forze armate
dinanzi a questo golpe sono scandalosi.
È
giunto il momento che i popoli rivendichino con coraggio e fermezza i loro
diritti naturali e inalienabili messi in pericolo dal colpo di stato globale
del WEF.
Occorre
ottenere le dimissioni di chi ci governa per conto di un’élite eversiva e
contro i cittadini.
Accompagniamo
con la preghiera chi sta lottando contro il Nuovo Ordine Mondiale.
La corona del Rosario sia la catena spirituale
che ci unisce.
Il
Signore accompagni, protegga e benedica quanti si stanno svegliando prima che
sia troppo tardi.
(Carlo
Maria Viganò)
(t.me/databaseitalia).
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