Ideologia e Politica.

 

Ideologia e Politica.

 

 

La lotta delle ideologie

secondo “Thomas Piketty”.

Internazionale.it – (24 giugno 2020) – Annamaria Testa – ci dice:

(Annamaria Testa, esperta di comunicazione).

 

“L’intero modello economico deve essere ripensato, in modo più equo e sostenibile dopo la pandemia”, dice Thomas Piketty, intervistato dal Manifesto a proposito del suo nuovo, monumentale libro “Capitale e ideologia.”

(“La Nave di Teseo”, traduzione di Lorenzo Matteoli e Andrea Terranova).

“Monumentale” è la parola giusta. Sono 1.200 pagine, stampate su una carta patinata sottile e consistente, simile a quella che si usa per i dizionari.

Appoggio l’edizione di carta sulla bilancia per gli spaghetti.

Sono quasi 1.100 grammi. Il corrispondente di una (assai abbondante) spaghettata per dieci persone.

Qui non provo nemmeno a commentarvele, le 1.200 pagine: ne verrebbe fuori un consommé scipito.

Vi offro invece, su un ideale vassoio, una serie di assaggi che provo, per quanto è possibile, a impiattare connettendoli tra loro, e che vi danno conto, anche, del linguaggio limpido usato da “Piketty.

Poiché si tratta di un libro di economia, di storia e di scienze sociali, la limpidezza è un attributo tutt’altro che scontato.

 

L’incipit è folgorante. E incrocia strutture socioeconomiche, sovrastrutture ideologiche e narrazioni.

 

Ogni società umana deve giustificare le sue disuguaglianze: è necessario trovarne le ragioni, perché in caso contrario è tutto l’edificio politico e sociale che rischia di crollare.

 Ogni epoca produce, quindi, un insieme di narrative e di ideologie contraddittorie finalizzate a legittimare la disuguaglianza, quale è o quale dovrebbe essere…

Nelle società contemporanee, si tratta in particolare della narrativa proprietarista, imprenditoriale e meritocratica:

la disuguaglianza moderna è giusta, perché è la conseguenza di un processo liberamente scelto nel quale ognuno ha le stesse opportunità di accesso al mercato e alla proprietà e nel quale ciascuno gode naturalmente del vantaggio derivante dal patrimonio dei più ricchi, che sono anche i più intraprendenti, i più meritevoli e i più utili.

Ma questa narrazione è adesso diventata fragile. Una “favoletta meritocratica”. Cioè.

 

Un modo molto comodo, per i privilegiati del sistema economico attuale, di giustificare qualunque livello di disuguaglianza senza nemmeno doverlo analizzare, stigmatizzando allo stesso tempo chi soccombe per le sue mancanze: di merito, di capacità e di diligenza.

Questa ‘colpevolizzazione’ dei più poveri non esisteva o, almeno, non era così esplicita nei precedenti regimi basati sulla disuguaglianza, che sottolineavano invece la complementarità funzionale dei diversi gruppi sociali.

La disuguaglianza, insomma, non è “naturale”, e varia nel tempo e nello spazio:

 ci sono sempre state e sempre ci saranno molte alternative per regolare il sistema della proprietà, il sistema dell’istruzione e il sistema fiscale, le tre maggiori fonti della disuguaglianza.

È tutta questione di scelte, politiche e, prima ancora, ideologiche.

 In altre parole: a configurare le scelte è la struttura delle idee del mondo, della giustizia e della legittimità (appunto: l’ideologia) che ciascuna società adotta, attraverso un costante, conflittuale processo di sperimentazione storica.

Lo fa scegliendo di volta in volta (e giustificando ideologicamente) l’alternativa più favorevole a chi ha l’effettivo potere di scegliere, e scartando tutte le altre alternative possibili, in un costante, doloroso e conflittuale processo di creazione narrativa.

Il genere umano vive oggi in condizioni di salute mai godute prima nella sua storia: lo stesso vale per l’accesso all’istruzione e alla cultura.

Il reddito, nei limiti della possibilità di misurarlo, è passato da un potere d’acquisto medio (espresso in euro 2020) di 80 euro al mese per abitante del pianeta nel 1700, a circa 1000 euro al mese nel 2020.

Questi importanti incrementi quantitativi, che – è bene ricordarlo – corrispondono a ritmi di crescita annuale media di appena lo 0,8%, accumulati in più di tre secoli, rappresentano comunque dei ‘progressi’ incontestabili dello stesso ordine di grandezza di quelli che si sono verificati per la salute e per l’istruzione; e provano che forse non è indispensabile una crescita del 5% annuo per garantire il benessere sul pianeta.

Dobbiamo ricordare che tra il 1700 e il 2020 la popolazione mondiale è passata da circa 600 milioni di persone a più di sette miliardi.

Dobbiamo però anche stare attenti a non lasciarci ingannare dalla” media del pollo”.

Il progresso esiste, ma è fragile e iniquo, e in ogni momento può essere cancellato dalle derive identitarie e dalla rinnovata crescita delle disuguaglianze, che si sono enormemente accentuate a partire dagli anni ottanta.

Nei capitoli centrali del suo testo,” Piketty” interpreta, alla luce delle disuguaglianze e dei sistemi di relazioni che si sono via via prodotti per giustificarle, le strutture sociali che si sono sviluppate non solo nell’Europa cristiana, ma anche “in moltissime società extraeuropee e nella maggior parte delle religioni, in particolare nel caso dell’induismo e dell’islam sciita e sunnita”.

(Immagino che trascuri la breve ma fiorente età comunale proprio perché sta andando in cerca delle disuguaglianze maggiori, mentre – se i miei modesti ricordi di storia non mi tradiscono – la società comunale coinvolge una consistente parte della cittadinanza nel governo, nella difesa e nell’amministrazione cittadina.

È socialmente fluida e vede la nascita di un embrione di borghesia artigianale e mercantile).

 

“Piketty” si concentra, invece, sulla società tri-funzionale, o ternaria, e sul grande sforzo di “astrazione, di concettualizzazione e di formalizzazione giuridica” cha dà luogo a un sistema che lascia tracce importanti nel mondo moderno.

 È un sistema in cui due classi distinte per legittimità, funzione e organizzazione – i nobili e il clero – controllano singolarmente una quota importante delle risorse e dei beni (tra un quarto e un terzo circa per ciascun gruppo delle proprietà totali disponibili, ovvero tra metà e due terzi per i due gruppi insieme, e talvolta ancora di più, nel caso del Regno Unito), fatto che permette a queste due classi di svolgere pienamente un ruolo sociale e politico dominante.

Come tutte le ideologie basate sulla disuguaglianza, l’ideologia ternaria rappresenta un regime politico e un regime di proprietà e, al tempo stesso, una specifica realtà umana, sociale e materiale.

Per “Piketty”, la rottura definitiva con la società tri-funzionale coincide con la rivoluzione francese del 1789, che tenta di ridefinire radicalmente le relazioni di potere e di proprietà, e consolida il perimetro della proprietà privata traducendolo in un’ideologia proprietarista.

La quale abolisce i privilegi di nobiltà e clero e garantisce stabilità sociale, ma non riduce certo le disuguaglianze.

 

La concentrazione della proprietà privata è rimasta a un livello estremamente elevato tra il 1789 e il 1914.

La sacralizzazione della proprietà è in qualche modo una risposta alla fine della religione come ideologia politica esplicita.

 

L’idea di fondo è che il “vaso di Pandora” della redistribuzione della proprietà non dovrebbe mai essere aperto, e che se si comincia a parlare di redistribuzione non si sa dove si può andare a finire.

Questo timore dell’instabilità e del caos è ancora ben presente nel dibattito odierno, e sostiene regimi fiscali che hanno poca valenza redistributiva, e offrono condizioni ideali per l’accumulazione e la concentrazione della ricchezza.

 

Traiettorie analoghe, anche se differite nel tempo, si ritrovano nel Regno Unito (e guidano, per esempio, il risentimento irlandese nei confronti dei proprietari terrieri britannici assenteisti) e in Svezia, dove fino ai primi del novecento è rimasto in vigore un regime proprietarista basato sulla disuguaglianza più estrema.

Alla vigilia della prima guerra mondiale, nel Regno Unito il 10 per cento dei proprietari più ricchi possedeva il 92 per cento del patrimonio privato totale, rispetto al ‘solo’ 88 per cento in Svezia e all’85 per cento in Francia.

 Dato ancora più significativo, nel Regno Unito l’1 per cento più ricco possedeva il 70 per cento del patrimonio privato totale, rispetto al 60 per cento in Svezia e al 55 per cento in Francia (anche se a Parigi il valore era superiore al 65 per cento).

Tutto questo accade proprio nel momento in cui per lo sviluppo sociale ed economico ci sarebbe bisogno di uguaglianza nell’istruzione, e non di sacralizzazione della proprietà, così iniquamente distribuita da minacciare la stabilità sociale e da “far emergere, alla fine del diciannovesimo secolo e nella prima metà del ventesimo, prima le contro narrazioni e poi i contro regimi comunisti e socialdemocratici”.

 

A proposito di narrazioni:

“Piketty” compie poi un ampio esame delle narrazioni che giustificano la disuguaglianza estrema delle società schiaviste, la distribuzione del potere e le diverse traiettorie seguite dalle società coloniali, fino ad arrivare al Giappone dello shogunato, e alla Cina imperiale, “diseguale e gerarchizzata, percorsa da continui conflitti di élite intellettuali, proprietariste e guerriere”.

La sua conclusione è netta.

 

Tutte queste esperienze storiche hanno tuttavia un tratto comune: dimostrano come la disuguaglianza sociale non abbia mai nulla di ‘naturale’ ma sia, al contrario, sempre profondamente ideologica e politica.

Ogni società non ha altra scelta che dare un senso alle proprie disuguaglianze; e le narrazioni che vengono elaborate in merito al bene comune non possono rivelarsi efficaci, se non sono dotate di un minimo di plausibilità e se non si concretizzano in istituzioni durature.

Il ventesimo secolo cambia la struttura delle disuguaglianze, ma le riduce solo per un breve periodo, e in seguito a eventi traumatici.

Nel 1914, alla vigilia della guerra, la prosperità del sistema di proprietà privata sembrava assoluta e inalterabile, esattamente come quella del sistema coloniale.

Le potenze europee, al tempo stesso proprietariste e coloniali, sono al culmine del potere.

I proprietari britannici e francesi detengono nel resto del mondo portafogli finanziari di dimensioni a tutt’oggi ineguagliate.

Poco più di trent’anni dopo, nel 1945, la proprietà privata scompare nel sistema comunista (assurto al potere prima in Unione Sovietica e poco più tardi in Cina e nell’Europa orientale), e perde gran parte del suo potere anche in paesi che sono rimasti nominalmente capitalisti, ma che in realtà stanno diventando società socialdemocratiche, con combinazioni varie di nazionalizzazioni, sistemi pubblici d’istruzione e di assistenza sanitaria, e imposte fortemente progressive sugli alti redditi e sui grandi patrimoni.

 Gli imperi coloniali saranno di lì a poco smantellati.

 

Se osserviamo le diverse situazioni all’interno dell’Europa, scopriamo che tutti i paesi per i quali esistono dati disponibili registrano un crollo delle disuguaglianze tra il 1914 e il 1945-1950.

I grandi patrimoni vengono distrutti, espropriati, o subiscono gli effetti dell’inflazione.

Vengono attuati prelievi eccezionali e progressivi sui capitali.

 Inoltre, “per la prima volta nella storia, e quasi negli stessi anni in tutti i paesi, le aliquote applicate ai redditi più alti e alle successioni più importanti raggiunsero livelli consistenti e stabili nel tempo, nell’ordine di alcune decine di punti percentuali”.

 Ma non solo.

 

All’inizio degli anni cinquanta del secolo scorso, in Europa, gli elementi fondanti dello Stato sociale erano già in essere, con entrate totali superiori al 30% del reddito nazionale e un programma diversificato di spese sociali e per l’istruzione che assorbivano i due terzi del totale, in sostituzione delle spese sovrane che un tempo avevano la parte del leone.

Questa spettacolare evoluzione è stata possibile solo dopo un radicale mutamento dei rapporti di forza politico-ideologici negli anni 1910-1950, in un contesto nel quale guerre, crisi e rivoluzioni denunciavano in modo plateale i limiti del mercato autoregolamentato e la necessità di integrazione nel sociale dell’economia.

Lo stallo degli investimenti in materia di istruzione registrato nei paesi ricchi a partire dagli anni ottanta-novanta del secolo scorso può spiegare non solo l’aumento delle disuguaglianze, ma anche il rallentamento della crescita.

A partire dagli anni ottanta, la speranza in un mondo più giusto e i progetti di trasformazione anche radicale si sono di fatto dovuti scontrare con il triste bilancio del comunismo sovietico (e le sue disuguaglianze fondate non sul patrimonio, ma su status e conseguenti privilegi) e con il disincanto.

 

A partire dagli anni novanta, un mondo iperconnesso e legato da un’infinità di relazioni fa da riscontro a una società iper-capitalista.

 Le disuguaglianze assumono forme anche nuove: per esempio, la disparità nelle emissioni di anidride carbonica.

 Gli stati competono anche in termini di concorrenza fiscale.

I patrimoni non sono solo più concentrati, sono anche più opachi.

 

Le strutture sociali continuano ad avere una forte impostazione patriarcale, e le disuguaglianze di genere non si sono certo risolte. “L’ideologia meritocratica dell’attuale narrazione sociale si accompagna a una glorificazione di imprenditori e miliardari”, che sono “così presenti nell’immaginario contemporaneo da essere anche entrati con ruoli di spicco nel romanzo e nella finzione”.

Infine:

 le classi popolari, che in precedenza si riconoscevano nei partiti comunisti, socialisti, laburisti, socialdemocratici che componevano la sinistra elettorale, si sono ritrovate deluse dall’incapacità di quei partiti di promuovere programmi convincenti a proposito di istruzione, fisco, politiche internazionali.

Oggi “i partiti e i movimenti politici della sinistra sono diventati quelli maggiormente votati dagli elettori più istruiti e – in alcuni contesti – stanno per diventare i partiti con gli elettori più ricchi in termini di reddito e di patrimonio”.

Se il conflitto politico degli anni 1950-1980 era “classista”, ora siamo in uno spazio politico complesso, e in un sistema di “élite multiple”, distinte per istruzione, o per reddito e patrimonio.

È una trasformazione radicale, che ricorre in tutte le democrazie, e che porta a ridefinire le categorie stesse di “sinistra” e “destra”, e a trascurare il tema cruciale della redistribuzione del reddito.

“La sinistra, che era il ‘partito dei lavoratori’, si è trasformata nel ‘partito dei laureati’ (che propongo di chiamare la ‘sinistra intellettuale benestante’), senza averlo di fatto voluto e senza che nessuno l’abbia veramente deciso”.

In sostanza, sembra essere “il partito dei vincitori della globalizzazione”. E le classi popolari?

 Be’, quelle si ritirano dalla competizione politica e non vanno a votare.

 

‘Sinistra intellettuale benestante’ e ‘destra mercantile‘ incarnano valori ed esperienze in qualche modo complementari.

 E condividono anche non pochi tratti comuni, a cominciare da una certa dose di ‘conservatorismo’ di fronte all’odierna situazione di disuguaglianza.

 La sinistra crede nell’impegno e nel merito nello studio;

 la destra, nell’impegno e nel merito negli affari.

 La sinistra si prefigge l’acquisizione di titoli di studio, di sapere e di capitale umano;

 la destra, l’accumulazione di capitale monetario e finanziario.

Possono anche presentare delle divergenze su alcuni punti.

La ‘sinistra intellettuale benestante’ può volere più imposte, rispetto alla ‘destra mercantile’, per esempio al fine di finanziare i licei, le “grandes écoles” e le istituzioni culturali e artistiche a cui è legata.

Ma entrambe le parti condividono una netta adesione al sistema economico attuale e alla globalizzazione nel suo assetto attuale, che di fatto avvantaggiano sia le élite intellettuali sia quelle economiche e finanziarie.

Se alla sinistra intellettuale e alla destra pro-mercato si affiancano una sinistra più “radicale” e una destra nativista e nazionalista, ecco che abbiamo l’attuale sistema del confronto politico, che si identifica secondo le due discriminanti principali della tutela della proprietà e dei confini:

sono quattro blocchi ideologici, ciascuno dei quali è contraddistinto da una propria narrativa, a cui si aggiunge il quinto di chi non va a votare.

 

Le traiettorie di sviluppo, a partire da questa situazione instabile, sono numerose, e comprendono il possibile, ed “enormemente dannoso”

successo elettorale dei ‘nazionalisti’, soprattutto se questi riusciranno a sviluppare una forma di social-nativismo, vale a dire un’ideologia che abbina obiettivi sociali ed egualitari, ma riservati ai soli ‘nativi’, a forme violente di esclusione nei confronti dei ‘non nativi’.

Solo con la riapertura del dibattito sulla giustizia e sul modello economico conseguente si potrà fare in modo che il tema fondamentale della proprietà e della disuguaglianza prenda il sopravvento sulle questioni dei confini e dell’identità.

Il punto essenziale consiste nell’istituire uno spazio di deliberazione e di decisione democratica che consenta di adottare a livello europeo dispositivi efficaci di giustizia fiscale, sociale e climatica.

 

Il caso di Israele offre probabilmente l’esempio più estremo di democrazia elettorale in cui il conflitto identitario ha preso il sopravvento su tutte le altre dimensioni.

Il problema delle relazioni con il popolo palestinese e con gli arabi israeliani è diventato quasi l’unica questione politica significativa.

Nel periodo 1950-1980, il partito laburista israeliano aveva un ruolo centrale nel sistema dei partiti e promuoveva la riduzione delle disuguaglianze socioeconomiche e lo sviluppo di forme cooperative originali.

Ma, non avendo saputo elaborare in tempo una soluzione politica praticabile e adatta alle comunità umane in gioco – soluzione che avrebbe implicato la creazione di uno Stato palestinese o lo sviluppo di una forma originale di Stato federale binazionale –, il partito laburista oggi è quasi scomparso dal panorama elettorale israeliano, e ha lasciato il campo a lotte senza fine tra fazioni interessate solo alle questioni securitarie.

“Piketty” sostiene che oggi la disuguaglianza estrema deprime lo sviluppo, e delinea un nuovo “socialismo partecipativo”:

 bisogna tornare a usare la leva fiscale (reddito, patrimonio o successioni) secondo una regolamentazione al livello sovranazionale.

 

Le imprese devono essere cogestite (esistono già diversi esempi europei).

Un fisco più equo deve finanziare la riconversione ecologica, un reddito universale di base e una dotazione universale di capitale, che ogni cittadino riceve al compimento dei 25 anni.

 L’accesso universale e paritario all’istruzione, che è cruciale, deve essere non solo promosso, ma garantito.

 Insomma: la proprietà privata rimane (e deve rimanere) ma il suo impatto viene mitigato dalla presenza di forti meccanismi redistributivi. E, soprattutto, non è un diritto permanente ed ereditario.

Tutto ciò sembra essere, tra l’altro, una condizione necessaria, anche se non ancora sufficiente, per poter contrastare con efficacia il cambiamento climatico.

 

Si tratta di proposte che potrebbero sembrare radicali, ma in realtà sono in linea con un’evoluzione iniziata alla fine del diciannovesimo secolo e all’inizio del ventesimo, per quanto riguarda sia la condivisione del potere nelle imprese, sia l’aumento della tassazione progressiva.

 Questa dinamica evolutiva si è interrotta negli ultimi decenni, da un lato perché la socialdemocrazia non è stata in grado di rinnovare e internazionalizzare il suo progetto;

dall’altro perché il drammatico fallimento del comunismo di stile sovietico ha inaugurato in tutto il mondo, a partire dagli anni ottanta e novanta del secolo scorso, una fase di deregolamentazione incontrollata e di rinuncia a ogni ambizione egualitaria (della quale la Russia attuale e i suoi oligarchi costituiscono senza dubbio il caso più estremo).

 

Come ci si arriva, senza che il mondo esploda?

“Piketty” non è troppo esplicito su questo punto ma, nelle conclusioni, riformula l’affermazione che “Marx ed Engels” fanno nel Manifesto (la storia di ogni società è stata fino a oggi solo la storia della lotta di classe) in questi termini:

“La storia di ogni società è stata fino a oggi solo la storia della lotta delle ideologie e della ricerca di giustizia”.

 

Ha ripetuto mille volte che molteplici traiettorie, segnate da infinite biforcazioni, sono sempre possibili.

E ora invita i mezzi d’informazione e i cittadini a formarsi un’opinione indipendente, senza dar troppo retta agli economisti.

Questa sintesi è il mio contributo per voi.

In questi tempi di somma incertezza politica, economica e sociale, speriamo solo, tutti quanti, di saper capire in tempo quali sono la traiettoria e la biforcazione giusta.

 Forse non sono esattamente quelle indicate da “Piketty”, ma vale di sicuro la pena di parlarne e di cominciare, proprio a partire da cambiamento climatico e contrasto alle disuguaglianze, a farsi qualche domanda.

 

 

 

 

Il collasso dei media statunitensi

sta accelerando la nostra crisi politica.

 Unz.com – Siepi Di Cris - /17 FEBBRAIO 2024) – ci dice:

Un terzo di tutti i giornali statunitensi ha chiuso definitivamente, il settore sta facendo un'emorragia di giornalisti e la colpa è del private equity e delle Big Tech.

Ancora un'altra ondata di licenziamenti nei media sta mettendo centinaia di giornalisti senza lavoro in alcuni dei più grandi organi di informazione negli Stati Uniti, tra cui CNN, LA Times, Vox, Business Insider, CNBC, Garnett e altri.

In un panorama mediatico già cupo, decimato da decenni di calo delle entrate, quest'ultima tornata di tagli solleva seri interrogativi su come la perdita di così tanto giornalismo avrà un impatto sulla nostra società.

I giornali hanno chiuso a un ritmo di 2,5 a settimana nel 2023, rispetto a 2 a settimana nel 2022. 3.000 dei 9.000 giornali statunitensi hanno chiuso definitivamente e dal 2005 due terzi di tutti i giornalisti hanno perso il lavoro.

La giornalista vincitrice del Pulitzer Gretchen Morgenson si unisce al Chris Hedges Report per discutere della crisi dei media, parzialmente trattata nel suo libro” These Are the Plunderers: How Private Equity Runs—and Wrecks—America” .

 

(Produzione in studio: Adam Coley, Cameron Granadino

Post-produzione: Adam Coley, Kayla Rivara)

TRASCRIZIONE.

Chris Hedges : Il panorama dei media negli Stati Uniti sta crollando poiché gli organi di giornalismo a livello nazionale, statale e locale chiudono o sventrano il personale. Un terzo dei giornali del paese ha chiuso i battenti e due terzi dei giornalisti hanno perso il lavoro dal 2005. Una media di 2,5 giornali ha chiuso ogni settimana nel 2023 rispetto a 2 a settimana nel 2022. La decimazione dei notiziari locali è addirittura pari peggio ancora, dove le pratiche si stanno chiudendo e i licenziamenti sono stati quasi costanti. Negli ultimi due decenni, quasi 3.000 dei 9.000 giornali del Paese hanno chiuso i battenti e 43.000 giornalisti hanno perso il lavoro.

 

Lo spargimento di sangue sta solo accelerando. Business Insider sta eliminando l'8% della sua forza lavoro. Il Los Angeles Times ha recentemente licenziato 120 giornalisti, più del 20% della redazione dopo aver tagliato 74 posti di lavoro lo scorso giugno. La rivista Timeah annunciato imminenti licenziamenti,il Washington Post alla fine dello scorso anno ha tagliato 240 posti di lavoro,Sports Illustrated è stato sventrato e CNN, NPR, Vice Media, Vox Media, NBC News, CNBC e altre organizzazioni hanno tutte creato uno staff enorme tagli.

 

La catena di giornali “Gannett”, proprietaria di “USA Today” e di molti giornali locali, ha tagliato centinaia di posizioni. L'ultima ondata di licenziamenti arriva sulla scia dei peggiori tagli di posti di lavoro nel settore del giornalismo dal 2020, quando la crisi COVID ha visto eliminare circa 2.700 posti di lavoro. Il consumo di notizie e intrattenimento da parte del pubblico nell'era digitale ha trasformato molte delle piattaforme mediatiche tradizionali in dinosauri. Ma man mano che scompaiono, scompare anche il nucleo del giornalismo e del giornalismo, in particolare del giornalismo investigativo. Le piattaforme digitali, con poche eccezioni, non sostengono la copertura repertoriale, certamente non a livello locale, uno dei pilastri fondamentali della democrazia.

 

I soldi spesi in pubblicità che un tempo sostenevano l'industria dei media sono migrati verso le piattaforme digitali dove gli inserzionisti sono in grado di rivolgersi con precisione ai potenziali clienti. Il monopolio che i vecchi media avevano nel collegare i venditori agli acquirenti è scomparso. I social media e i giganti della ricerca, come “Google” e “Meta”, acquisiscono gratuitamente contenuti multimediali e li diffondono.

 I media sono spesso di proprietà di società di private equity o miliardari che non investono nel giornalismo ma sfruttano e svuotano gli sbocchi per profitti a breve termine accelerando la spirale della morte.

 

Il giornalismo nella sua forma migliore rende responsabili i potenti, ma con il declino delle organizzazioni mediatiche e l'espansione dei deserti di notizie, anche la stampa, sempre più anemica, viene attaccata da demagoghi politici e siti mascherati da piattaforme di notizie, notizie false, disinformazione, voci salaci e bugie. riempire il vuoto. La società civile ne sta pagando il prezzo. Insieme a me per discutere della crisi del giornalismo c'è “Gretchen Morgenson”, una giornalista finanziaria senior dell'Unità investigativa di” NBC News”. In precedenza ha lavorato per “ Wall Street Journal” e il “New York Times£ dove ha vinto un Premio Pulitzer.

Il suo ultimo libro è “These Are the Plunderers: How Private Equity Runs and Wrecks America”.

 

Va bene, quindi cominciamo quando eravamo entrambi giovani giornalisti. Come ho detto prima, non voglio iniziare questa discussione non riconoscendo le colpe della stampa commerciale, che sono molte; Tu ed io ne usciremo.

Nel mio libro” Death of Liberal Class” cito “Sydney Schanberg”, che ha anche vinto il Pulitzer in Cambogia, la gente può vedere quella storia nel film “The Killing Fields”.

 Aveva una citazione fantastica, ha detto:

"Forse non abbiamo sempre migliorato le cose, ma abbiamo impedito che le cose peggiorassero".

E ho pensato che fosse un bel riassunto. Ma come te, sono terrorizzato da ciò che accadrà. E questa perdita di informazione, per quanto limitata possa essere stata, è assolutamente mortale per la società civile e la nostra democrazia.

Ma torniamo indietro e parliamo di cosa hanno fatto i giornali. Io ero un corrispondente estero e tu eri un giornalista d'affari. Voglio paragonarlo al vuoto che si è verificato adesso.

Parliamo e torniamo alla tua esperienza di reporter: cosa hai fatto per contribuire alla salute della nostra società aperta?

 

Gretchen Morgenson :

 Quello che ho sempre cercato di fare come giornalista economica è stato mettere in discussione il senso comune. Coprire gli affari per decenni è stato un ristagno. Era popolato da giornalisti che erano stati allontanati da altre scrivanie e che riscrivevano i comunicati stampa e si avvicinavano ai dirigenti aziendali.

 

Chris Hedges : Puoi guadagnarti bene da vivere così.

 

Gretchen Morgenson : Puoi. Puoi. Ma così sono entrato in questo business negli anni '80, quando le cose cominciavano a cambiare e gli affari diventavano sempre più un argomento centrale nelle conversazioni a tavola. Prima le persone avevano la pensione, ora devono investire i propri soldi da soli. Avevano bisogno di maggiori informazioni su come lo facciamo.

 

Chris Hedges : Questo avviene attraverso il 401(k)s.

Chris Hedges : Ma tu hai fatto anche di più, Gretchen. Si trattava di ritenere queste persone responsabili.

Gretchen Morgenson : Ritenendoli responsabili, facendo luce sugli angoli bui, facendo luce su pratiche piene di conflitti, che hanno permesso loro di trarre vantaggio dagli investitori, dai lavoratori e dare a quelle persone che generalmente non lo fanno avere una voce, una voce. Cercherò sempre di rivolgermi al singolo individuo ed evitare i dirigenti o gli amministratori delegati perché non mi diranno nulla di importante. Molte delle mie migliori fonti erano lavoratori che mi chiamavano;

Avrebbero visto succedere qualcosa nella loro azienda e me ne avrebbero parlato perché non pensavano che fosse la cosa giusta. Quindi, ancora una volta, si trattava di quel reportage dal basso, che conosci bene, e che hai fatto per decenni sul campo come corrispondente di guerra.

Otterrai quelle storie meglio dalle persone sul campo, in trincea, a fare il lavoro.

Non riceverai le storie dagli amministratori delegati.

 

Chris Hedges : Sì. Dicevo che in guerra, più sali in alto nella classifica, più falsità troverai. Perciò è meglio che tu stia con i soldati semplici e i caporali. Ma questo comporta una pressione perché hai interessi potenti a cui non piace. E dobbiamo riconoscere che hanno avuto influenza all'interno delle organizzazioni. Entrambi abbiamo lavorato per il “New York Times” e tu hai lavorato per il “Wall Street Journal” . Parliamo delle pressioni che sono in grado di esercitare all'interno di un media commerciale che ha bisogno di quei soldi pubblicitari per funzionare.

 

Gretchen Morgenson : Beh, c'è un effetto agghiacciante che cercano di esercitare quando contatti un'azienda con la storia. Sono sempre molto aperto con queste aziende di cui scrivo e con le persone di cui scrivo, su quale sia il mio argomento, cosa dico, cosa ho sentito, perché sto segnalando e perché sto contattando loro.

 Quando quelle ruote iniziano a girare e capiscono che si tratterà di uno storytelling potenzialmente critico, un aspetto del mostrare un lato della loro attività che non vogliono che venga pubblicato, allora iniziano a esercitare pressioni, inviano lettere agli avvocati, attaccano il giornalista, attaccano le informazioni che il giornalista ha raccolto dalle fonti, mettendo in discussione le fonti, eccetera.

 

Ma questo è il modo in cui funziona il mondo e devi essere in grado di affrontarlo come giornalista.

Ma, cosa ancora più importante, devi avere un editore che si batte per questo con te, ed è qui che iniziamo a vedere alcune delle linee di frattura ora.

Probabilmente c'è ancora una schiera di giornalisti che sono disposti a uscire e ottenere la storia, qualunque cosa accada. Ma hanno capi che sono disposti a sopportare il calore, la pressione e continuare lungo la strada? Questa è una domanda.

 

Chris Hedges : Beh, queste organizzazioni sono diventate più anemiche, sono diventate più caute perché non vogliono perdere i sempre più scadenti dollari pubblicitari di cui dispongono. Voglio sottolineare un punto sulle istituzioni perché entrambi abbiamo lavorato all'interno delle istituzioni e nonostante tutti i loro numerosi difetti – Il grande teologo “Paul Tillich” ha detto: "Tutte le istituzioni, inclusa la chiesa, sono intrinsecamente demoniache".

 – Ma nonostante tutti i loro tanti difetti, avevamo degli avvocati.

 C'erano 19 avvocati nello staff del “New York Times “e credo che, quando ero al giornale, non ci fosse mai stata una causa di successo.

Senza la sovrastruttura di quell'istituzione, gran parte della nostra protezione... Ad esempio, se fossi un giornalista investigativo freelance, saresti molto più vulnerabile.

 

Gretchen Morgenson: Assolutamente.

Chris Hedges: E queste istituzioni sono importanti in termini di creazione di una struttura organizzativa che ci protegga.

 

Gretchen Morgenson: Sì. SÌ. Ho trascorso buona parte della mia carriera iniziale alla rivista “Forbes”, che era una pubblicazione economica, e poi non faceva prigionieri, diceva le cose col loro nome e celebrava le buone aziende e i bravi amministratori delegati, ma ci sono voluti altri per farlo. compito.

 

Chris Hedges : E credo che tu avessi un editore, me lo hai menzionato, forse hai menzionato il suo nome, ma hai parlato dell'importanza di un editore con quel coraggio e integrità, e credo che sia stato il caso di Forbes .

 

Gretchen Morgenson : Sì. Il suo nome era “Jim Michaels”. Era un vecchio e scontroso reporter dell'UPI che anni prima aveva raccontato la storia dell'assassinio di “Gandhi” in India. Era duro. Era esigente. Era un burbero, ma sarebbe stato al tuo fianco contro la pressione esercitata dagli amministratori delegati.

Ricordo che una volta avevo scritto una storia su “Time Warner e Steve Ross”. “Herb Siegel” era l'altra persona.

Steve Ross era un amministratore delegato molto ricco e autorevole e la storia non gli piaceva e ci chiese di andarlo a trovare.

E “Jim Michaels” ha detto: no, dannazione. Verrai nel mio ufficio se vuoi parlarmi di questa storia. Quindi è quel tipo di atteggiamento e approccio che temo che non abbiamo più. Non abbiamo persone disposte ad affrontare alcune di queste persone estremamente potenti. È più facile non scrivere quelle storie, e questo è un problema.

 

Chris Hedges : Sono sempre stato sorpreso dal livello di mediocrità del “Times” , tra i migliori redattori. Tu ed io eravamo grattacapi al management, che è quello che dovrebbero essere i bravi reporter. Non farò nomi, ma li conosci bene quanto me. Ma sono sempre rimasto sbalordito. Ed è perché erano completamente ossequiosi al potere dell'istituzione e capivano cosa era buono per la loro carriera e il loro progresso, e che oltre a ciò non avevano molto.

 

Gretchen Morgenson : Beh, non dimenticare, queste sono persone che forse non erano dei bravi reporter.

Chris Hedges : Beh, questa è l'altra cosa. Hai ragione, è vero.

Gretchen Morgenson : Forse non erano così bravi a riferire. E quindi quale era la loro opzione? Ebbene, la loro opzione era quella di scalare il palo della cuccagna, se potevano. Quando sei un reporter eccezionale e hai una storia fantastica, vuoi continuare su quella strada. Vuoi ottenere il prossimo, e il successivo, e il successivo. Ma se non sei un grande reporter, quali sono le tue opzioni? Beh, potresti diventare un editore.

 

Chris Hedges : Giusto. Ecco qua. Quindi una volta ho avuto un professore ad “Harvard” che chiamava un assistente preside "un topo che si addestra per diventare un topo".

 

Gretchen Morgenson : Esilarante. È una battuta fantastica, wow.

Chris Hedges : Riassume la gerarchia dei giornali. Queste sono istituzioni che fanno soldi. Vieni promosso all'interno di quelle istituzioni se sanno che, alla fine, servirai in gran parte l'istituzione. Ci sono alcune eccezioni, ma il vostro servizio, alla fine, non è rivolto al giornalista, bensì al benessere e al sostentamento dell'istituzione, che è definito in termini di prezzo delle azioni. Questa è una fredda realtà. E lavori entro questi limiti.

 

Gretchen Morgenson : Giusto. Giusto. Giusto.

 

Chris Hedges : Sono stato all'estero per 20 anni. Se stavo raccontando un conflitto, ad esempio, la guerra nell'ex Jugoslavia, dove non c'era un interesse diretto degli Stati Uniti, a differenza di quando scrivevo in El Salvador o Nicaragua, o quando scrivevo in Israele, avevo molta più libertà.

Potrei scrivere cose su” Slobodan Milosevic”; Potrei praticamente definirlo un assassino genocida e nessuno al” New York Times” batterebbe ciglio.

 Ma se fossi arrivato a Gaza e avessi cominciato a scrivere con la stessa ferocia contro Israele, oh, non avrei potuto. Quindi mi interessa, come giornalista economico, se c'erano alcune aree del genere in cui potevi andare e altre aree in cui era più limitato.

Gretchen Morgenson : Non mi è mai capitata una situazione in cui mi è stato detto di non scrivere di qualcosa o in cui una storia che avevo già iniziato a indiana sarebbe stata inchiodata. Non ho mai avuto una situazione del genere, quindi sono molto grato per questo. Il “business reporting” è un po' diverso dal “reporting delle zone di guerra” perché la posta in gioco nella zona di guerra è molto più grande, molto più alta. E tu sei coinvolto. C'è la politica molto, molto coinvolta in queste situazioni. “Washington”, questo è un tutt'uno –

 

Chris Hedges : Beh, avevi studi legali aziendali.

Gretchen Morgenson : – Non è questione di vita o di morte quanto il giornalismo di guerra. Semplicemente non lo è, reporting aziendale. Non lo so. Non ho mai avuto qualcuno che mi dicesse, no, non puoi scrivere quella storia. Forse sono insolito in questo senso, ma sono stato assunto per portare un livello di competenza nella copertura di “Wall Street al Times” .

Non è che non avessero i pezzi necessari a posto, ma anch'io ero stato a “Wall Street”, avevo visto alcune pratiche e sapevo dove erano sepolti i corpi, e avevo fatto dei resoconti piuttosto seri a “Forbes” .

A questo punto, Il “Times” voleva avere una certa importanza sulla copertura di “Wall Street”, quindi forse questo è il motivo per cui non è stato messo in discussione.

 

Chris Hedges : Anche se alla fine ti hanno chiesto del cambiamento.

 

Gretchen Morgenson : Beh, alla fine è arrivato un nuovo redattore economico...

Chris Hedges : Questo è il tuo punto. Questo è il punto che hai sottolineato.

 

Gretchen Morgenson : – E ha detto cose poco entusiaste riguardo ad alcuni dei miei –

Chris Hedges : Oh, no, devi citare quello che ha detto, non ha prezzo. Andare avanti. Voglio dire che probabilmente avevi la rubrica economica più rispettata del paese. Anche io lo sapevo e non leggo nemmeno gli affari. Quindi cominciamo da lì. Ma qual è stata la risposta del redattore? Non dobbiamo nominarla, ma cosa ha detto?

Gretchen Morgenson : – Ha detto che le piaceva il mio lavoro.

 

Chris Hedges : È una brutta cosa... Sai che sei nei guai quando è così... [cavalcare]

 

Gretchen Morgenson : Mi è piaciuto il mio articolo, ma la rubrica era di sinistra e supponente.

Chris Hedges : Era un articolo riportato.

 

Gretchen Morgenson : Era un articolo di cronaca. Non era un'opinione. Era così scioccante per me che questa sarebbe stata la percezione che non avevo risposto in quel momento. Ero tipo, ok, interessante. Ma poi ho deciso che non avrei lavorato per questa persona perché chiunque avesse fatto quel commento sul lavoro che avevo fatto per 20 anni al “Times”, non avrei lavorato per quella persona.

 

Chris Hedges : Giusto. Beh, comunque emettono la condanna a morte.

Gretchen Morgenson : Sì.

 

Chris Hedges : La prossima cosa che sai è che stai riscrivendo di notte.

Gretchen Morgenson : Sì. O guadagni. Devo fare i rendiconti del New York Times ogni trimestre.

 

Chris Hedges : Giusto. Parliamo di un paio delle storie di cui sei più orgoglioso e poi spieghiamo perché.

Gretchen Morgenson : Va bene. Ebbene, uno è accaduto durante la grande crisi finanziaria del 2008, qualcosa che sembrava uscito dal campo di sinistra per molte persone ma che stava costruendo, costruendo, costruendo come fanno queste cose, da diversi anni.

Questa era la crisi dei mutui. Si basava su troppi soldi che rincorrevano le case, sulla gente che impazziva e sulla macchina di “Wall Street” che raggruppava i mutui e li vendeva alla gente anche se erano cattivi mutui.

Ad ogni modo, c'era molto di cui parlare, ed è stato un momento fruttuoso per un giornalista finanziario perché stai spiegando perché questa cosa è accaduta, come è accaduta e che impatto ha avuto sulle persone.

E questa era una situazione in cui c'erano esseri umani che, poiché non potevano pagare i loro mutui perché i tassi di interesse erano saliti alle stelle dopo un certo periodo di tempo.

 

Chris Hedges : Beh, dovremmo essere chiari. Quei “mutui subprime” sono stati venduti da entità che sapevano che non sarebbero state in grado di pagarli. E poi li hanno scaricati il più velocemente possibile.

Giusto.

 

Gretchen Morgenson : – Giusto, giusto. Quindi le persone bloccate in quei mutui avevano letteralmente i loro mobili sul marciapiede. Sono stati cacciati dalle loro case e i loro figli non hanno più potuto frequentare le scuole dove si trovavano. E queste erano vere e proprie tragedie. Quindi scriverne è stato importante per me. E la risposta del governo è stata troppo scarsa e troppo tardiva. Stavano cercando forse di aiutare le persone a rinegoziare i loro mutui. Non ha funzionato davvero. Comunque, sai come è successo, sai cosa è successo in quella situazione.

 

Ma c'è stata una storia accaduta dopo il fallimento di “Lehman” dopo che “Bear Stearns” è stata acquistata da “JP Morgan” a marzo.

“Lehman” poi fallì, e poi” AIG” fallì e dovette essere salvata.” AIG” era una compagnia assicurativa, quindi era un po' diverso. Non era una banca, non era una società di intermediazione, non era una società di Wall Street che si era lasciata alle spalle i mutui, ma era comunque la più grande compagnia di assicurazioni del mondo.

 E quindi, il suo fallimento sarebbe stato un grosso problema.

 

Chris Hedges: E aveva assicurato i mutui subprime che non andavano bene.

Gretchen Morgenson : Aveva qualche assicurazione, sì, di aver scritto questi “derivati”. Avevano scommesso che i mutui erano una buona moneta e non erano una buona moneta, e quindi erano stati attaccati per questo.

Ma volevo capire questo piano di salvataggio. Perché il governo stava salvando una compagnia assicurativa?

Era insolito e costava un sacco di soldi. Erano circa 180 miliardi di dollari o qualcosa del genere.

 Così ho approfondito la questione e ho scoperto che lo scopo del piano di salvataggio era il “salvataggio di Goldman Sachs”, che sarebbe stata nei guai e si sarebbe trovata ad affrontare un buco di 5 miliardi di dollari nel suo bilancio se “AIG” fosse stata autorizzata a fallire, la scogliera.

Quindi questo salvataggio di una compagnia assicurativa era un salvataggio di “Goldman Sachs”.

E durante quel periodo, il segretario al Tesoro era un ex dirigente della Goldman Sachs. Goldman Sachs.

 

Chris Hedges : Questo è Rubin?

Gretchen Morgenson : – Questo era... Oh, cavolo, mi metterai in imbarazzo.

Chris Hedges : No, va bene.

 

Gretchen Morgenson : Comunque, “Goldman Sachs” aveva un termine, erano conosciuti come “Government Sachs” perché erano così potenti nel governo. “Hank Paulson” era il suo nome.

 

Chris Hedges : Esatto, Paulson.

Gretchen Morgenson : Quindi era degno di nota il fatto che il governo stesse salvando una compagnia di assicurazioni, ma salvando la “Government Sachs”, la Goldman Sachs.

E così questa storia è apparsa sulla prima pagina del “New York Times”.

 Sono trascorse letteralmente un paio di settimane dal piano di salvataggio, quindi questa è la spiegazione in tempo reale di questa situazione dietro le quinte. Quella domenica ricevetti una telefonata. Era una domenica, apparve in prima pagina. E ho ricevuto una telefonata da “Timothy Geithner,” che era il capo della “Fed di New York”, che poi è diventato segretario del Tesoro sotto Obama.

E mi chiamò per raccontarmi quella storia, che avevo ingannato i miei lettori scrivendo quella storia, che “Goldman Sachs” non era stata affatto messa in pericolo dal fallimento dell'”AIG”, e che questo era molto negativo per” Goldman”.

 Li stavo facendo sembrare cattivi.

 

E io gli dissi: come fai a sapere che “Goldman Sachs” non era in pericolo per questo? E lui disse, beh, erano coperti, la loro posizione era coperta. Ora, ciò che questo significa nel” mumbo jumbo finanziario “è che avevano un qualche tipo di investimento che avrebbe annullato il problema che avrebbero dovuto affrontare se “AIG” fosse fallita. Questa è una copertura contro qualsiasi cosa. Comunque, ho detto, interessante. Ho detto che se la più grande compagnia assicurativa del mondo fosse precipitata da un precipizio, non sono sicuro che quelle coperture proteggessero correttamente.

 Avete esaminato chi erano le loro controparti? Chi erano le persone dall'altra parte di quegli investimenti, le coperture? Beh, no, non li ho esaminati, ma “Goldman” mi ha detto che erano coperti.

 

Quindi stava dicendo che la tesi del mio articolo era sbagliata, che non stavano affrontando un buco di “5 miliardi di dollari” e che non si trattava di un salvataggio di Goldman Sachs.

 E stava criticando la storia e si è rivolto al mio capo, e sono sicuro che sia il capo del mio capo. Si scopre che un'indagine del “Congresso” su Goldman Sachs era in realtà bloccata per 5 miliardi di dollari e il piano di salvataggio riguardava proprio quello. Ma l'idea che mi avrebbe telefonato il capo della Fed di New York, poi diventato segretario del Tesoro, per dirmi che avevo ingannato i miei lettori, è stato un momento interessante. In seguito seppi che il direttore finanziario della Goldman Sachs lo aveva spinto a farlo e aveva chiesto a “Timothy Geithner” di chiamarmi e di leggermi il “Riot Act” e di cercare di disperdere il rapporto.

 

Chris Hedges: La cosa interessante è che quello che stanno cercando di fare è screditare il tuo lavoro e, soprattutto, se continui a fare quel tipo di lavoro, spingerti fuori. Ho visto quel tipo di pressione esercitata sui bravi reporter che riportavano informazioni basate sui fatti e vengono espulsi e solo dopo apprendiamo che avevano ragione.

È un fenomeno che accade. L'ho visto diverse volte. Quindi questo fa parte della pressione. E se giochi, se riscrivi quei comunicati stampa, andrai a cena con “Geithner” o “Hank Paulson” o chiunque altro.

Quelli sono i "giornalisti" che siedono alle scrivanie proprio accanto a noi in redazione.

Quindi parliamo del declino e di dove siamo arrivati con tutti i peccati della vecchia industria dell'informazione. Non siamo in un posto migliore. Quindi hai visto “Craigslist”, il 40% delle entrate dei giornali proveniva da annunci economici. Non c'è più. Quindi è stato un successo del 40% proprio lì.

 Poi l'ascesa dei media digitali dove tutti hanno il nostro profilo, possono prenderci di mira direttamente, non ha bisogno di una testata giornalistica che ci prenda di mira.

 Gli annunci stampa sono in calo.

 Il “New York Times” è riuscito a sopravvivere, anche se non guadagna più i soldi di prima.

 Penso che abbiano 10 milioni o qualcosa del genere di abbonati digitali.

Ciò non sta accadendo con altri giornali, compreso il “Washington Post” . Ma cominciamo con le notizie locali perché le notizie locali sono vitali, e sono quasi crollate.

 

Gretchen Morgenson : Assolutamente.

 

Chris Hedges : E parliamo del ruolo che i giornali locali... Queste sono piccole comunità, forse servono tre o quattro comunità, ma coprono il consiglio scolastico, coprono... E sono completamente spariti. Cominciamo da qui prima di parlare della stampa nazionale.

 

Gretchen Morgenson : Lo sventramento dei media locali è una situazione terribile, terribile. C'era un giornale del “West Virginia” che era in prima linea, per esempio, nel coprire la crisi degli oppioidi, e ha vinto un “premio Pulitzer” per questo servizio. Sono usciti e hanno trovato queste fabbriche di pillole e hanno scoperto che queste persone stavano prescrivendo l'equivalente di...

 

Chris Hedges : Lascia che ti spieghi come funziona un mulino per pillole;

Un medico entra in una città – ne scrivo in “Giorni di distruzione, Giorni di rivolta “– E si siede dietro una scrivania. Vedevo le linee in West Virginia. Fuori c'è una fila gigantesca, entri, dai loro 50 dollari in contanti e ti scrivono una ricetta per l'”Oxy Contin”, da cui molte persone erano dipendenti. È un mulino per pillole. E quel dottore se ne va con migliaia di dollari per aver scritto prescrizioni tutto il giorno.

 

Gretchen Morgenson : – Quindi questo giornale ha esaminato il numero di pillole che venivano prescritte in queste città del West Virginia ed era qualcosa di astronomico, come 8.000 a persona al giorno o qualcosa del genere.

Quindi è stato un ottimo lavoro, questo è il tipo di lavoro che non vedremo.

E questi sono vuoti, questi buchi di cui non puoi nemmeno sapere quanto siano gravi perché significa che sai che ci sono persone che fanno del male nel palazzo statale o nel consiglio scolastico o nel consiglio comunale, e non vengono osservati, e non vengono tenuti a risponderne. È una ricetta per il disastro e non so come si risolverà.

 

Chris Hedges : È interessante, stavo leggendo dei “caucus dell'Iowa”. Tradizionalmente, i candidati trascorrevano molto tempo con i giornali locali dell'Iowa e sarebbero in grado di sollevare questioni di interesse per la comunità. Ma ora che quei giornali sono morti, o hanno perso sensibilmente la circolazione, leggo che i candidati non se ne preoccupano nemmeno. È molto più vantaggioso per la loro campagna finire su “Fox” o “CNN “o altro. Non si preoccupano nemmeno della stampa locale.

 

Gretchen Morgenson : Interessante. Bene, allora questo significa che non verranno a conoscenza dei problemi che questa comunità ha bisogno che affrontino. Quindi questo è un enorme buco nel... Se è un politico che vuole fare la cosa giusta, allora non saprà cosa deve fare.

 

Chris Hedges : Quindi, quando i giornali caddero in declino, tagliarono drasticamente gli aspetti più costosi del giornalismo; Quello era giornalismo estero, sventrato.

Così era, quando ho iniziato negli anni '80, grandi giornali regionali come IL “Boston Glob” e, “The Philadelphia Inquirer” e persino il “Baltimore Sun”, non avevano solo sezioni straniere, ma avevano anche corrispondenza estera.

Non tanti quanto il “Times” , ma li avevano. Penso che IL “Inquire”r ne abbia avuti sei, lo stesso per “The Globe” . E' finito. E l'altro è il giornalismo investigativo. E tu ed io abbiamo realizzato reportage investigativi;

 Non è una capacità che si acquisisce velocemente e che mi preoccupa tremendamente perché vogliono un giornalista che sforni tre o quattro storie al giorno per riempire il... Allora parliamo di giornalismo investigativo, del ruolo che gioca nella nostra società, la sua importanza e le conseguenze della sua perdita.

 

Gretchen Morgenson : Non credo che si possano sopravvalutare le conseguenze della sua perdita. Si tratta di illuminare gli angoli bui e far luce sui cattivi comportamenti. Riguarda tutte queste cose che le persone devono capire e che influenzano le loro vite ogni giorno, ma non lo sanno.

 E quindi tu come reporter, tu come giornalista, è tuo compito dire loro cosa sta succedendo, mostrare loro l'impatto che ha su di loro, mostrare loro come le attività dei politici disonesti ti stanno danneggiando e aumentando i tuoi costi o sventrando la scuola dove va tuo figlio o qualunque cosa sia.

Questo è così importante per le persone capire quali sono le pressioni sulle loro vite.

Questo è ciò che il giornalismo investigativo può aiutarti a vedere. E se non ce l'abbiamo, non capiranno il mondo in cui vivono.

 

Chris Hedges : Mi chiedo fino a questo punto, e lo sollevi nel tuo libro, “The Plunderers” , che le persone sappiano che qualcosa non va. Queste non sono società di “private equity”, stanno saccheggiando il paese. Le persone sanno che c'è qualcosa che non va ma non sanno bene cosa sia e questo aggrava la situazione. E in che misura ciò dà foraggio a una figura come “Trump”?

 

Gretchen Morgenson : Ciò eleva assolutamente una figura come Trump, perché può attingere a quell'incertezza. Può attingere a questo, non so perché sono arrabbiato, ma sono arrabbiato. C'è una ragione per cui è così. Ebbene, il motivo è perché non puoi mettere il cibo in tavola o la tua pensione è stata sviscerata o le tue spese sanitarie sono alle stelle. Queste sono tutte cose che mettono pressione sulla vita quotidiana delle persone e se non capisci queste pressioni, da dove provengono e chi le esercita su di te, allora avrai questa nebulosa preoccupazione, preoccupazione, e disagio per la tua vita.

Ed ecco che arriva un demagogo che dice che ti migliorerò le cose. Sistemerò tutto.

Queste élite qui vi stanno causando problemi. Li farò andare via. Me ne sbarazzerò. Sarà in grado di riempire un vuoto perché dirà che questo è ciò che ti affligge e che io lo sistemerò.

 

Chris Hedges : Ma alimenta anche “le teorie del complotto! perché c'è qualcosa che non va, ma è dietro il muro. Non capisci i macchinari. Sai solo che c'è qualcosa che non va.

Gretchen Morgenson: Questo è circolare perché spesso c'è qualcosa che non va e spesso è qualcosa che non va all'interno di un governo, per esempio. Ma questo alimenta questa nozione dello “stato profondo” secondo cui il governo vuole prendere tutti, che il governo non può fare il lavoro e che un'industria privata sarà maggiormente in grado di fare il... È una cosa circolare. Sicuramente alimenta questa nozione.

 

Chris Hedges : Quindi una delle cose che sono successe nel settore dell'informazione da quando tu ed io abbiamo iniziato è l'ascesa dei pettegolezzi sulle celebrità come notizie. Ricordo che quando la principessa” Di “morì a Parigi, al direttore del Times, “Joe Lelyveld”, fu chiesto perché la copertura fosse così minima. È lui che ha preso... Il direttore precedente ha messo i televisori in redazione, li ha tolti tutti. E così ha detto, oh, non troppo minimale. Penso che abbiamo fatto troppo. Questo è certamente cambiato. E l'ho trovato molto corrosivo, quella fusione di intrattenimento e notizie, e mi chiedevo se potessi parlarne.

 

Gretchen Morgenson : Beh, sono una giornalista economica, e quindi vedo che arriva la celebrazione dei” CEO”. E gli amministratori delegati sono le celebrità nel mondo degli affari.

Chris Hedges : E' come “Bezos e queste figure.” Sì, sì, è vero.

 

Gretchen Morgenson : – Segnalazione. Quindi considerare queste persone come dei geni e non metterle in discussione è molto corrosivo. Hai assolutamente ragione. Non mi occupo del mondo dello spettacolo quindi non ci presto attenzione. Ma vedo che la stessa cosa accade nell'idea che queste siano persone da lodare e venerare invece che interrogare e tenere conto di ciò che fanno.

È quasi come se il fatto che siano arrivati a questa posizione di potere e tutto il denaro che ne deriva li isolasse da qualsiasi tipo di indagine, da qualsiasi tipo di domanda o scetticismo. E ci sono molti giornalisti che credono in questo. Beh, sono un amministratore delegato. Perché dovrei mettere in dubbio quello che stanno facendo?

 

Chris Hedges: Vogliono accedervi.

Gretchen Morgenson : Vogliono accedervi. Vogliono essere invitati alla festa. Non voglio essere invitato alla festa.

Chris Hedges : No, nemmeno io. Ma lo fanno. E lo vedevo a Washington.

 

Gretchen Morgenson : Washington è a un altro livello in quel gioco.

 

Chris Hedges : È una palude di tutto, compreso il giornalismo.

Gretchen Morgenson : Sono così felice. Ogni giorno conto le mie stelle fortunate. Non sono un giornalista politico.

 

Chris Hedges : Quando vai alla Casa Bianca non devi prendere appunti perché ogni parola pronunciata dal presidente viene stampata e ti viene data. È un lavoro orribile. Sei solo uno stenografo e puoi viaggiare su un grande aereo e puoi presentare tua madre al presidente o qualcosa del genere. Non sono mai stato del tutto disorientato da qualcuno che volesse farlo. Ma penso che sia tutto;

C'è un elemento all'interno della stampa che ha sempre voluto appartenere a quella cerchia di potere, a quella cerchia di celebrità, e che ha sempre distorto i resoconti di Washington per decenni e decenni.

 

Gretchen Morgenson : E ora forse ne hai di più perché hai meno dell'altro;

Hai meno investimenti nel giornalismo investigativo e quindi l'equilibrio sembra ora sbilanciato verso quello.

Quali sono le conseguenze del crollo della stampa nazionale?

 E dovremmo essere chiari, questi giornali, come se 20-30 anni fa avessi comprato il” Sunday Philadelphia Inquirer” , stai parlando di un giornale da cinque sterline.

Stiamo parlando di 750 giornalisti ed editori. Queste erano le principali imprese giornalistiche. Non c'è più. Questi documenti sono l'ombra di quello che erano. Il personale è stato sventrato. Parliamo delle conseguenze a livello nazionale.

 

Gretchen Morgenson : Beh, pensaci in termini di Washington. La sovrastruttura a Washington, ci sono le agenzie di regolamentazione, il Dipartimento della Difesa e i servizi sanitari e umani. Queste sono entità gigantesche che necessitano di essere coperte e comprese.

Stanno influenzando la vita di tutti in tutta la nazione. E se non hai persone sofisticate, competenti e aggressive nel coprirli, allora saranno lasciati fare quello che vogliono e ciò avrà un impatto enorme sulle persone.

 Avrà un impatto sulla loro salute, sulle loro pensioni, sul loro futuro, sulla vita dei loro figli.

È trasversale. E se non ci sono giornalisti che si chiedono cosa sta succedendo in queste enormi agenzie e alla Casa Bianca, allora oh mio Dio, spaventoso.

Chris Hedges: Diciamo che ti occupi del Pentagono o del Dipartimento dell'Energia. Hai bisogno di un insieme di conoscenze. Non puoi semplicemente arrivare e farlo;

Ci vogliono anni per capire davvero e riferire bene. Stiamo perdendo quel senso di competenza, soprattutto con i tagli al personale, perché quando le testate giornalistiche effettuano acquisizioni, comprano quelli con maggiore esperienza.

 

Gretchen Morgenson : Giusto. Quelli con più esperienza sono i più costosi e quindi sono i primi ad andarsene. Mi dispiace davvero per i giovani reporter che stanno iniziando perché impari da persone che sono state in giro.

Chris Hedges: L'ho fatto.

 

Gretchen Morgenson : Tutti commetteranno degli errori, non c'è dubbio, ma è molto utile avere l'esperienza di un reporter sofisticato in una redazione. Vai a dire, ehi, cosa ne pensi di questo? Potete aiutarmi con una fonte qui? È una collaborazione, ma imparando a fare quel lavoro, non so come lo faranno con molte di queste persone che sono capaci ed esperte se non ci sono più.

 

Chris Hedges : Fino a che punto ciò consente essenzialmente alle cosiddette “fake news” e alle “teorie del complotto” di rimanere libere nel panorama dei media?

 

Gretchen Morgenson : Apre le porte a un enorme aumento di questo tipo di storie. Ma fa anche parte di questa derisione dei veri media, che è molto dannosa e molto pericolosa, dove il presidente degli Stati Uniti dice che i media sono nemici del popolo. Questo è da far rizzare i capelli, é spaventoso.

 

Chris Hedges : Pensi che entrambi, come “Matt Taibbi” e “Glenn Greenwald”, per esempio, diano la colpa ai media? C'è un po' di merito nella loro argomentazione in termini di come le cose sono diventate più terribili all'interno del settore, siamo diventati meno aggressivi. Penso che sia vero, ma fino a che punto i media sono colpevoli di quell'animus da parte del pubblico?

 

Gretchen Morgenson : Accidenti, penso che sia una cosa condivisa. Non so se è 50-50, non so se è 75-25, ma i media commettono errori. Parte del lavoro è difficile da sopportare. Ad esempio, se c'è una tragedia, ci sono giornalisti che attaccano microfoni in faccia alla gente e dicono: "Dimmi come ci si sente a vedere tuo figlio morire, o qualsiasi altra cosa". Ci sono aspetti brutti nel business della raccolta di notizie che certamente possono allontanare le persone. Ma è importante conoscere i fatti e...

 

Chris Hedges : Anch'io mi chiedo, con il tipo di compartimenti stagni dei media che c'era una volta, che queste grandi organizzazioni mediatiche cercavano di raggiungere un vasto pubblico. È finita. “Matt Taibbi” ha scritto un bel libro sull'argomento intitolato “Hate Inc.”

Ad esempio, c'è stato il “New York Times£ , il cui servizio “ digitale è stato decollato durante il “Russia gate”. I suoi lettori odiavano” Trump”, alimentava la narrativa del “Russia gate “– e tutti dovrebbero leggere la brillante inchiesta di 20.000 parole di” Jeff Gerth” sulla storia del Russia gate sulla “Columbia Journalism Review”– Ma c'era un incentivo economico a continuare ad alimentarla perché era quello che voleva quella fascia demografica che si abbonava al “New York Times “.

 

Avevo ascoltato il loro podcast intitolato “Il Califfato”. Avendo trascorso sette anni in Medio Oriente, ho sentito l'odore di un topo dopo circa cinque minuti.

Come farebbe chiunque abbia trascorso molto tempo in Medio Oriente. Fino a che punto questo ha corroso la credibilità? “MSNBC” è stata anche peggio del “Times” , in un certo senso, a causa del “nuovo modello economico” e poiché hanno subito tali colpi, queste organizzazioni mediatiche sono troppo disposte a soddisfare ciò che i loro lettori o spettatori vogliono.

 

Gretchen Morgenson : – E' un problema enorme ed è molto difficile misurarne l'impatto perché si pensa ai vecchi tempi in cui si leggeva un giornale di interesse generale e si otteneva un ampio spettro.

 

Chris Hedges : Beh, questa è l'altra cosa. Giusto. Diventeresti diverso.

 

Gretchen Morgenson : – Avresti punti di vista diversi, informazioni diverse e forse non leggeresti l'intera storia, ma vedresti il titolo e ti faresti un'idea di cosa si tratta. Verresti informato su qualcosa che non rientra nelle tue possibilità, normalmente non ciò che ti interessa, eccetera, ma amplierebbe la tua comprensione del mondo e del modo in cui funziona. È importante. Non c'è più. Se stai parlando di persone che vanno al mercato "Odio Donald Trump" e continuano a...

 

Chris Hedges : – oppure "Adoro Donald Trump".

 

Gretchen Morgenson : – Oppure "Amo Donald Trump" e continuando a nutrirlo, non stai espandendo le loro menti, giusto? Non stai accrescendo la loro comprensione del mondo. Ma è molto difficile misurare quale sia questa perdita. È una perdita che non si riesce a quantificare, ma è enorme ed è importante.

 

Chris Hedges : Dove stiamo andando? Cosa sta succedendo in termini di giornalismo?

Gretchen Morgenson : Accidenti, non ho la sfera di cristallo su questo. Penso che la situazione peggiori. Ci sono persone di tutti i tipi che parlano di cosa si può fare, il governo dovrebbe intervenire? Penso che sia una cattiva idea. Forse diventano entità più piccole che servono un pubblico che è disposto a pagare di più per...

Chris Hedges : Ma poi un problema è un paywall. “Barbara Ehrenreich” diceva: "Se vuoi fare il giornalista, allora devi accettare di essere povero". Eravamo privilegiati nel senso che nessuno di noi dovuto guadagnava molti soldi, ma certamente guadagnavamo un reddito da classe media con una pensione e prestazioni sanitarie. Non vedo come i veri giornalisti, le persone che vogliono fare il giornalismo possono essere in grado di replicarlo.

 

Gretchen Morgenson : – Temo che potrebbero entrare in una nuova era oscura in cui si torna indietro perché non si è illuminati dai media.

 

Chris Hedges : Beh, penso che sia vero. Ma non è solo il collasso del giornalismo, è il collasso dell'istruzione. Scrivi di società di “private equity “che gestiscono queste “scuole charter”, che si basano sulla memorizzazione meccanica e su una sufficiente alfabetizzazione finanziaria nei quartieri poveri per lavorare in un “fast food”. Sì, penso che sia giusto. Purtroppo devo essere d'accordo con lei.

 

Gretchen Morgenson : Se stiamo andando indietro, è una cosa molto brutta. Spero che ci sia un punto in cui si fermi e che qualcuno trovi un modo per far luce di nuovo su di esso e riportarci in un luogo e in un tempo in cui stiamo educando noi stessi, imparando, capendo e illuminando.

 

Chris Hedges: Quella era la giornalista vincitrice del Premio Pulitzer, “Gretchen Morgenson”, autrice di “These Are the Plunderers: How Private Equity Runs and Wrecks America” . Voglio ringraziare “The Real News Network” e il suo team di produzione; “Cameron Granadino”, “Adam Coley”, “David Hebden “e “Kayla Rivara”.

(chrishedges.substack.com.)

 

 

 

 

Israele sta lavorando per

espellere i palestinesi,

ma verso dove?

Unz.com - ERIC ATTACCANTE – (15 FEBBRAIO 2024) – ci dice:

 

1,4 milioni di donne e bambini disperati che vivono in tende come rifugiati a Rafah vengono uccisi indiscriminatamente dall'esercito ebraico mentre scriviamo.

L'esercito israeliano ha fallito contro “Hamas” a “Gaza” e il “governo Netanyahu ha respinto la proposta palestinese di fermare il fuoco. La loro mossa finale sembra essere quella di eliminare l'esistenza del popolo palestinese dai territori occupati da Israele.

Molti commentatori musulmani e di sinistra hanno risposto al piano di Israele di "distruggere Hamas", come nell'organizzazione politica, affermando che sarebbe inutile.

I movimenti di liberazione palestinese dal 1948 hanno assunto la patina del marxismo-leninismo, del nazionalismo laico e ora di un'ideologia incentrata sull'Islam, ma alla fine, il desiderio di una patria garantisce che la resistenza sarà eterna finché esisterà il popolo palestinese, indipendentemente dal fatto che” Hamas” sopravviva alla guerra o meno.

 

Questo punto di vista è corretto e, in circostanze normali, un accordo negoziato avrebbe già risolto il problema. Ciò che questi critici non vedono, tuttavia, è che mentre molti credono che le espulsioni razziali di massa dei nativi siano impossibili nel 21° secolo a causa di presunte norme liberali illuminate e leggi umanitarie, Israele e le nazioni con élite etnicamente ebraiche stanno lavorando per dimostrare che questa ipotesi è sbagliata.

 

La campagna ebraica per distruggere l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione (UNRWA) che aiuta i palestinesi è il primo passo di questa campagna di pulizia etnica. Questo è stato a lungo un punto all'ordine del giorno per lo Stato israeliano, che si è opposto all'”UNRWA” sin dalla sua fondazione nel 1949. Questa entità esiste per servire i palestinesi espulsi dalle forze ebraiche durante la Nakba ei successivi assalti.

 

L'ostilità dello Stato israeliano nei confronti dell'”UNRWA” è incentrata sulla protezione legale di cui godono i palestinesi in quanto rifugiati, in primo luogo la promessa del diritto al ritorno.

Questa è stata dipinta dai sionisti come una richiesta estremista e antisemita, ma è un diritto di cui godono tutti i rifugiati. I rifugiati protetti dalle Nazioni Unite hanno un alto tasso di successo quando tornano nei loro paesi d'origine, come si è visto di recente con il caso di agfani, somali e altri precedentemente costretti a lasciare i loro paesi d'origine.

 

La seconda lamentela degli israeliani è che i servizi medici, alimentari ed educativi forniti ai palestinesi all'interno e intorno ai territori occupati israeliani li incoraggiano dall'emigrare e stabilizzarsi altrove.

 

D'altra parte, la contro-argomentazione all'interno della comunità ebraica sull'”UNRWA” era che l'Europa e l'America finanziavano efficacemente l'occupazione israeliana dei palestinesi. Offrendo assistenza umanitaria, alcuni israeliani credevano che questo avrebbe riempito un vuoto che altrimenti sarebbe stato colmato dai servizi forniti da gruppi come Hamas o nazioni come l'Iran.

Secondo i termini dell'accordo con l'”UNRWA”, Israele è stato autorizzato a ispezionare tutto senza condizioni ea supervisionare l'uso di risorse come il cemento. C'era anche un deliberato punto di vista di "denazificazione" nel lavoro dell'”UNRWA”, in quanto gli ebrei transnazionali erano persino in grado di micro gestire i libri di testo che i bambini palestinesi nei campi profughi potevano leggere, spesso minacciando di de-finanziare se venivano insegnati messaggi critici nei confronti degli ebrei e del sionismo.

 

Ma ciò non è bastato a distruggere la volontà di resistenza del popolo palestinese. Il 4 gennaio, l'esperta politica israeliana Noga Arbell – frustrata dalla mancanza di successo militare nella lotta contro Hamas – ha proposto alla Knesset che avrebbero potuto "eliminare i terroristi" solo distruggendo "l'idea " di uno Stato palestinese, un'idea che secondo lei era stata coltivata. dell'”UNRWA”.

 

Settimane dopo, gli Stati Uniti e i suoi sudditi Canada, Australia, Gran Bretagna, Germania, Italia, Paesi Bassi, Svizzera, Finlandia, Estonia, Giappone, Austria e Romania hanno annunciato senza preavviso che avrebbero tagliato i finanziamenti all'”UNRWA”, facendo vacillare improvvisamente l'organizzazione sull'orlo del collasso finanziario. La leadership araba, dell'Unione Europea e delle Nazioni Unite ha condannato la decisione come "punizione collettiva", ma Washington ha ignorato queste denunce.

 

La scusa addotta per tagliare i fondi all'”UNRWA” nel bel mezzo di una delle guerre più brutali della storia contro la popolazione civile è stata la diffusione dell'intelligence israeliana che affermava che una dozzina di operatori umanitari (oltre 100 che sono stati uccisi nella guerra finora) erano agenti segreti di “Hamas”.

 

Questa informazione sembra essere unabufala infondata. Il capo americano dell'”UNRWA”, “William Deere”, ha dichiarato che ogni singolo dipendente dell'organizzazione è sottoposto a un controllo dei precedenti e controllato dallo stesso stato israeliano.

Al governo israeliano è stato a lungo dato il diritto di ordinare il licenziamento dei lavoratori dell'”UNRWA” a suo piacimento, come si è visto con la dozzina di dipendenti accusati di essere simpatizzanti di Hamas che sono stati licenziati (o uccisi) nonostante la mancanza di dimostrare un sostegno delle accuse contro di loro. I leader occidentali hanno mantenuto il massimo riserbo nel dichiarare fiducia nell'intelligence israeliana in questione. Recentemente, il ministro degli Esteri Penny Wong ha detto di non conoscere nemmeno il vero motivo per cui ha votato per porre fine al sostegno dell'Australia all'”UNRWA”.

 

Come una disperata proposta di genocidio, viaggi dal parlamento israeliano per diventare il consenso in tutte le principali capitali dell'Occidente in meno di un mese, rimane un mistero tra coloro che non hanno familiarità di come il potere viene realmente mediato nelle plutocrazie liberali guidate da Washington.

 

L'espulsione di massa di tutti gli arabi è l'obiettivo finale.

 

Il principio fondamentale del sionismo è sempre stato quello di espellere gli arabi nativi. Nel 1940, il leader del “Fondo Nazionale Ebraico” “Yosef Weitz “complottò privatamente la successiva pulizia etnica di 750.000 palestinesi nel 1948.

 

"L'unica soluzione è una Terra di Israele priva di arabi. Qui non c'è spazio per il compromesso. Devono essere spostati tutti. Non può rimanere un solo villaggio e nemmeno una tribù. Solo attraverso questo trasferimento degli arabi che vivono in Terra d'Israele arriverà la redenzione".

 

Dopo l'incursione del 7 ottobre, l' “Istituto Misgav per la Sicurezza Nazionale e la Strategia Sionista” ha pubblicato un libro bianco.

“Netanyahu” trattiene commenti su questo argomento in pubblico, ma i media israeliani hanno riferito che alla fine di dicembre, il primo ministro ha detto ai membri del partito “Likud”  della loro strategia.

 

Nello stesso incontro, “Netanyahu” ha promesso che il suo popolo stava lavorando privatamente per convincere altre nazioni ad accettare milioni di palestinesi sfollati. La destinazione più ovvia sembra essere l'Egitto, dato che si trova nelle vicinanze, ma non dobbiamo scartare la prospettiva dell'Europa come destinazione finale.

 

Alla fine di ottobre, Il “Financial Times” ha riferito che il governo israeliano stava usando l' “Unione Europea “per fare pressione sull'Egitto affinché accogliesse i palestinesi espulsi. L'Egitto ha continuato a insistere che non prenderà parte a questo accordo, non perché sia contro i rifugiati (il paese ospita già milioni di rifugiati dalla Siria e altrove), ma perché il mondo arabo li percepirà come collaboratori nella distruzione finale del paese. Popolo palestinese.

 

Nonostante le prime notizie secondo cui l'Egitto stava prendendo in considerazione un'azione militare dopo gli sfrontati attacchi israeliani a Rafah, si prevede che Fattah al-Sisi cederà. Per una sorprendente coincidenza, il Fondo monetario internazionale (FMI) – che in precedenza aveva cessato di prestare denaro all'Egitto – ha recentemente "riconsiderato" l'offerta, citando genericamente la guerra di Gaza come motivo. L'organizzazione finanziaria globale deve ancora prendere una decisione definitiva sull'opportunità di disperdere i fondi promessi.

 

I media arabi non stanno risparmiando questo sviluppo. I giornalisti mediorientali sono giunti alla conclusione che la finanza mondiale ebraica sta offrendo privatamente fino a 12 miliardi di dollari in condono di prestiti da parte di banche americane ed europee in cambio dell'accoglienza da parte dell'Egitto dei palestinesi che Israele sta spingendo nel Sinai. Una volta che al-Sisi accetterà di seguire il piano, il credito fluirà.

 

Se in questo scenario l'Egitto accettasse il "denaro" piuttosto che il "piombo", ci sarebbero probabilmente delle conseguenze per l'Europa. Prima del conflitto, il governo israeliano stava collaborando con il consolato turco per consentire ai palestinesi di recarsi nell'Europa sudorientale, dove entro la metà del 2023 sarebbero diventati la principale popolazione richiedente asilo in Grecia. Israele usa strategicamente la sua burocrazia per garantire che, una volta che un palestinese abbia accettato, lasciare il territorio israeliano, è molto difficile, se non impossibile, che ritornino.

L'UE si è offerta di corrompere il regime egiziano fin dall'inizio delle ostilità tra Israele e Palestina. L'UE ha fatto di tutto per mantenere sul tavolo i potenziali rifugiati palestinesi in Europa durante questi negoziati segreti, anche se paga i leader arabi altrove per tenere lontani alcuni immigrati.

Il “Financial Times “ha riferito di questa evidente omissione, affermando che l'accordo "non collegherà specificatamente il denaro dell'UE all'impegno dell'Egitto di prevenire qualsiasi ulteriore migrazione verso l'Europa o un possibile afflusso di palestinesi".

La leadership egiziana ha mostrato esasperazione nei confronti di Bruxelles, dichiarando addirittura che manderebbe un milione di palestinesi in Europa se le pressioni aggressive continuano.

 

Il governo israeliano non va così per il sottile. “Danny Danon”, la figura di spicco che lavora a stretto contatto con Netanyahu sul piano di espulsione da Gaza, si è rivolto al Wall Street Journal a novembre per dichiarare: "L'Occidente dovrebbe accogliere i rifugiati di Gaza".

 

“Breitbart" Noi [l'America] dobbiamo dare ai civili di Gaza è un rifugio temporaneo durante la guerra, purché non siano una minaccia, e incoraggiare gli stati arabi regionali a fare lo stesso".

Anche il falco sionista” Nikki Haley “ha accennato al sostegno di questa idea.

In altre parole, le persone ritenute troppo pericolose per vivere nelle proprie case vengono accolte dagli stessi sionisti in Occidente.

Ma i palestinesi non vogliono andarsene. Stanno combattendo fino all'ultimo uomo per restare nella loro terra.

In definitiva, l'unico freno che potrebbe impedire che questa catastrofe di rifugiati si svolga secondo il piano sionista è una vittoria dell'”Asse della Resistenza”.

(Substack)

 

La Morte di Navalny.

Conoscenzealconfine.it – (18 Febbraio 2024) - Davide Malacaria – ci dice:

Il decesso di “Navalny” nel carcere siberiano arriva a pochi giorni dall’intervista di “Tucker Carlson” a “Putin”, oscurandola. Nuovo ossigeno per la propaganda anti-russa e per la guerra ucraina.

La morte di “Alexei Navalny” ha fatto il giro del mondo. Incarcerato dopo il suo ritorno in Russia a seguito di un asserito avvelenamento per il quale era stato trasferito in Germania (con il consenso di Mosca), è morto oggi in un carcere siberiano.

La Morte di Navalny, l’Intervista di Putin e la Guerra Ucraina.

La sua morte giunge come una manna per la propaganda anti-russa che negli ultimi tempi stava arrancando.

L’intervista di “Tucker Carlson” a “Putin”, “probabilmente l’evento di informazione più visto della storia”, come scriveva “Ron Paul”, aveva rilanciato l’immagine dello zar nel mondo.

La morte di Navalny avrà l’effetto di oscurare quell’intervista, se non di sommergerla con effetto tombale.

E chiunque si azzarderà a parlarne in termini elogiativi o a rilanciarla sarà bollato come lacchè del dittatore che ha fatto morire un dissidente in un “gulag” (sempre che vada bene).

 

Il decesso non avrà solo conseguenze sulla propaganda, ma anche pratico.

I sostenitori della guerra infinita ucraina non riescono infatti a vincere le resistenze dei repubblicani della Camera degli Stati Uniti, ostinati nel loro rifiuto di votare nuovi finanziamenti per Kiev.

Un nuovo pacchetto di aiuti – collegato ad altri diretti a Israele e Taiwan – è ora all’esame della Camera.

La morte di Navalny sarà usata come una clava contro i repubblicani contrari, i quali verranno bollati come quinta colonna del dittatore russo.

 Se cederanno, la guerra, al momento destinata, in prospettiva, a chiudersi per mancanza di fondi, verrà rilanciata.

 E la morte di un uomo sarà foriera di morte per tanti altri (da considerare peraltro che, finché non si chiude, il rischio di un ampliamento del conflitto resta).

Inoltre, il decesso del detenuto coprirà la “ritirata ucraina da Adviika”, prossima a cadere.

Più che della disfatta della folle strategia ucraino-Nato, si parlerà della triste sconfitta inflitta alle valorose forze ucraine (inutile dire che sono state mandate al macello…).

E sarà brandita per denunciare con maggior veemenza l’allarme per la minaccia russa, che attenterebbe alla fulgida libertà dell’Europa e del mondo intero.

 Ancora più armi a Kiev…

Navalny e Assange, Narrative opposte.

Insomma, Navalny, che dei “neocon” era al servizio, servirà la loro causa anche da defunto, laddove il decesso dovrebbe lasciare posto alla pietà umana, che non si dovrebbe negare a nessuno.

Quanto all’asserito” dittatore” dell’Impero d’Oriente che ha relegato in prigione il dissidente, è facile il parallelo con la sorte di “Julian Assange”, il “dissidente” che l’Impero d’Occidente sta facendo morire in un “gulag” di altro segno e colore nel silenzio più assoluto dei media ufficiali.

Potrebbe essere di qualche interesse notare che i media che hanno vigilato sull’osservanza del silenzio sulla” sorte di Assange” sono i primi a piangere per la triste” sorte di Navalny” e a indignarsi contro l’oppressore, ma è inutile sottolineare l’ovvio.

Da ultimo, questa notizia “coprirà gli orrori di Gaza” per alcuni giorni (o almeno si spera in una tempistica limitata), così che la macelleria possa proseguire con minor disturbo per il conducente.

Si può scommettere che scorrerà più inchiostro per la “morte di Navalny” che non per la morte delle” migliaia di bambini di Gaza”.

È il meccanismo, deve essere così, scriveva “Aldo Moro” nel suo memoriale.

Probabile che lo” zar” sia addirittura accusato di aver eliminato il dissidente, esercizio facile per certi ambiti propagandistici più o meno estremi.

Sul punto si può solo notare che “Navalny”, dal carcere, non recava alcun disturbo.

La sua morte, invece, sarà riecheggiata come un colpo di frusta tra le mura del Cremlino, che solo alcuni giorni prima aveva ospitato “Carlson”.

Inutile aggiungere che il decesso raffredderà ancor più i rapporti Est – Ovest, già degradati ai minimi livelli.

Tempi da” Guerra Fredda 2.0,” nella quale, però, i rischi sono ben altri di allora, quando l’Occidente era ancora guidato da una leadership Politica, con la P maiuscola, e non da omini alla mercé dell’apparato militare industriale Usa e dalla Tecno-Finanza collegata.

(Davide Malacaria)

(piccolenote.it/mondo/la-morte-di-navalny)

 

 

 

La politica estera americana sembra

non avere un posto dove andare.

Unz.com – Filippo Giraldi – (15 FEBBRAIO 2024) – ci dice:

Proprio come i palestinesi rinchiusi in gabbia.

Nel corso degli ultimi quattro mesi, ho effettuato la mia scansione mattutina quotidiana dei principali siti web di notizie online, sempre più preoccupato per ciò che avrei visto, data la riluttanza dei media mainstream a riferire onestamente e la persistente gestione da parte delle fabbriche di propaganda governativa di ciò che è trapelato ai giornalisti.

 

 Le notizie su ciò che sta accadendo con Russia-Ucraina hanno sofferto inizialmente quando la guerra ha virato bruscamente a favore di Mosca alla fine dello scorso anno, tanto che il probabile esito viene contestato solo su siti dominati dai “neoconservatori come l'”American Enterprise Institute”, la “Fondazione per la Difesa delle Democrazie” e la “Rivista Nazionale.

 Il presidente Joe Biden e il suo team stanno ora lottando solo per raccogliere 61 miliardi di dollari per” Volodymyr Zelensky” per prolungare il conflitto fino alle elezioni statunitensi di quest'anno, in modo che Biden possa apparire come un forte presidente "in tempo di guerra" che combatte duramente per difendere gli Stati Uniti dalle minacciose Orde Rosse.

Che il denaro cadrà essenzialmente nel buco della corruzione ucraina sembra non preoccuparsi nessuno alla Casa Bianca, ma il gioco continua con Biden che dice:

 "Questo disegno di legge bipartisan invia un chiaro messaggio agli ucraini e ai nostri partner e ai nostri alleati in tutto il mondo:

ci si può fidare dell'America, si può fare affidamento sull'America, e l'America si batte per la libertà.

 Siamo forti per i nostri alleati.

Non ci inchiniamo mai a nessuno, e certamente non a “Vladimir Putin”.

 Allora, andiamo avanti con questo... Ci schiereremo con il terrore e la tirannia?

 Schiereremo con l'Ucraina o con Putin?

 Staremo con l'America o con “Trump”?

" Il presidente sta anche pompando la linea che sta in qualche modo salvando o proteggendo la "democrazia".

Il fatto che l'”Ucraina”, mettendo al bando i partiti politici e persino i gruppi religiosi e la lingua russa, non sia una democrazia non sembra avere un impatto sulla narrazione.

E non dimenticate come il “governo Zelenskyj” ha recentemente assassinato il giornalista americano “Gonzalo Lira” per aver esercitato la libertà di stampa!

“Biden” sostiene che stare al fianco degli "alleati" dell'America, anche quando non sono veri alleati, è essenziale per mantenere la fiducia negli Stati Uniti e nella loro missione di leadership di creare un "ordine internazionale basato sulle regole" e quindi salvare il mondo.

 Al di là dell'Ucraina, c'è, naturalmente, il "migliore amico" e "più grande alleato" dell'America,” Israele”, che non è una democrazia in quanto i cittadini palestinesi hanno diritti limitati, con coloro che vivono nella “Cisgiordania” occupata dall'esercito israeliano che non effettivamente hanno alcuna protezione dall'essere arrestati arbitrariamente o addirittura colpiti a vista da soldati e coloni infuriati, che non temono conseguenze per l'uccisione e la rapina degli arabi perché non ci sono conseguenze.

Il bombardamento di Gaza fino all'età della pietra continua con pochissima copertura nei media mainstream, come se fosse un'atrocità che scomparirà dalla coscienza collettiva se nessuno vi farà riferimento, nonostante le file di donne e bambini morti.

I media statunitensi ed europei, nel frattempo, riportano allegramente ogni nuova "atrocità di Hamas" promossa dall'”esercito israeliano” (IDF) che mente abitualmente come se fosse la verità, mentre “Biden” sta facendo di tutto per” fornire il denaro (14 miliardi di dollari)  e le armi” per consentire all'IDF di uccidere più palestinesi mentre allo stesso tempo fingono di piangere il massacro degli innocenti che sta avvenendo.

L'orribile bilancio delle vittime è il risultato diretto della mancanza di qualsiasi azione da parte di” Joe “per costringere gli israeliani a cambiare rotta, cosa che ha a che fare con una telefonata a” Benjamin Netanyahu” che minaccia di tagliare il denaro, le armi e il sostegno politico.

 Ma l'amministrazione ha chiarito che non ha intenzione di fare nulla del genere.

Ma nonostante tutta quell'eccitazione della scorsa settimana, c'è una storia che risalta, il video dell'ex Segretario di Stato e direttore della CIA Mike Pompeo in Israele che sorride e balla con i soldati israeliani in festa, che presumibilmente sono appena tornati da Gaza dopo aver avuto il piacere di far saltare in aria qualche decina di civili in più, tra cui una grande percentuale di bambini.

 L'ultima trovata dell'esercito israeliano è posizionare cecchini e carri armati attorno all'ultima grande struttura medica funzionante nel distretto di “Rafah”, nel sud di Gaza, l'”ospedale Nasser a Khan Younis”.

Ai palestinesi che cercavano di sopravvivere a Gaza era stato precedentemente ordinato da Israele di andare a” Rafah” dove sarebbero stati "al sicuro", ma era una menzogna egoistica e i militari hanno poi continuato a bombardare e sparare ai civili, anche quando stavano cercando di arrendersi.

e anche distruggendo infrastrutture come ospedali e scuole per rendere l'area inabitabile.

I cecchini dell'esercito di Gaza si sono ora uniti al divertimento sparando a medici e pazienti all'interno dell'edificio e sul terreno per costringere l'ospedale Nasser a evacuare e chiudere.

Dopo il poligono di tiro hanno fatto irruzione nell' ospedale, presumibilmente alla ricerca di "ostaggi".

Fa tutto parte di ciò che si sta sviluppando quando “Netanyahu” ha annunciato che presto inizierà l'invasione di terra di Rafah, anche se i palestinesi intrappolati, che stanno già morendo di fame a causa del blocco israeliano degli aiuti umanitari, non hanno nessun posto dove andare e molte altre migliaia moriranno. in un modo o nell'altro.

In corsa per l'orribile racconto della settimana c'era anche un pezzo in cui si sosteneva che il primo passo positivo compiuto con un voto a maggioranza alla Camera dei Rappresentanti avrebbe portato all'impeachment ampiamente meritato dell'orribile segretario del” Dipartimento per la Sicurezza Interna”, Alejandro Mayorkas”, giovedì, ed è stato il risultato di una "teoria “del complotto antisemita" perché è un "ebreo sefardita", non a causa della sua incompetenza che ha dimostrato regolarmente negli ultimi tre anni.

 Il profondo buco di depressione in cui mi sono insinuato mentre guardavo il “grasso idiota Pompeo” saltellare mentre il “nano Mayorkas” pubblicizzava le sue credenziali ebraiche mi ha spinto a riconsiderare l'intera questione della politica estera e di sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

 Sono giunto alla conclusione che i protagonisti sono caricature e che non dovrebbero essere prese sul serio e dovrebbero invece essere considerate come una commedia di routine, qualcosa come “Monty Python” ma terribilmente letale e senza l'intelligenza e l'arguzia di “John Cleese”, “Eric Idle”, “Michael Palin” e “Graham Chapmann”.

 

A dire il vero si può sempre contare sull'amministrazione”Biden” per suscitare una risata, in particolare quando coinvolge i pagliacci di nome “Anthony Blinken”, “Victoria Nuland”, “Karine Jean-Pierre” e “Jake Sullivan”.

Ci sono state molte cose divertenti ultimamente, in particolare le chiacchiere su una soluzione al genocidio palestinese, anche se “Biden” sembra abbastanza a suo agio nel lasciare che gli israeliani finiscano la pulizia etnica di Gaza prima che qualcuno cerchi un posto disposto ad acquisire altri due milioni di apolidi e palestinesi senza casa.

L'ex aspirante presidente e governatore fantoccio sionista della Florida, “Ron DeSantis”, ha già dichiarato che nessun palestinese dovrebbe essere ammesso negli Stati Uniti come rifugiato poiché è "antisemita".

Ciononostante, “Bide”n e il “Dipartimento di Stato di Blinken” vogliono trovare una sorta di formula, se non altro perché la reazione mondiale dovuta al fermo sostegno della Casa Bianca alla brutalità israeliana ha cominciato ad avere conseguenze in quanto costituisce complicità in crimini contro l'umanità.

Si prevede una sorta di “sovranità limitata”, sicuramente disarmata, concessa alla “Palestina”, ma Netanyahu e i suoi alleati politici, a lungo contrari a una soluzione a due Stati, hanno recentemente ripetutamente respinto le proposte per qualsiasi entità sovrana palestinese.

Anche adesso Israele sta usando la sua “formidabile lobby” e il controllo internazionale sulla stampa e sulla narrativa per lavorare assiduamente contro qualsiasi riconoscimento diplomatico di uno” Stato palestinese” da parte di singoli paesi o come membro a pieno titolo delle Nazioni Unite.

Non sorprende che lo sforzo maggiore per mantenere le cose sulla buona strada sia diretto contro le voci che si sono levate a sostegno della “Palestina” negli Stati Uniti.

“ Biden” ascolta per essere sicuro e sta chiedendo a” Blinken” e al consigliere per la sicurezza nazionale “Jake Sullivan” di coordinare attentamente ogni passo intrapreso dall'amministrazione con il ministro israeliano per gli affari strategici ed ex ambasciatore a Washington “Ron Dermer”.

Anche se” Israele e Netanyahu” tengono sicuramente il comando, il presidente si guarda comunque inevitabilmente alle spalle e teme di alienarsi gli elettori con le elezioni nazionali imminenti se la carneficina a Gaza continua.

 Non è la prima volta che la farsa infinita della politica interna degli Stati Uniti probabilmente influenzerà almeno in qualche modo ciò che alla fine avverrà in paesi a seimila miglia di distanza.

E data la propensione di Biden a evitare di fare la cosa giusta, si può essere abbastanza sicuri che il risultato non sarà carino!

(Philip M. Giraldi, Ph.D., è direttore esecutivo del Council for the National Interest, una fondazione educativa deducibile dalle tasse 501(c)3 (numero ID federale n. 52-1739023) che persegue una politica estera statunitense più basata sugli interessi nel Medio Oriente.)

 

 

 

 

La complicità di Biden a Gaza

sta rendendo più probabile

la vittoria del fascista Trump.

-Unz.com - SALOMONE NORMANNO • (15 FEBBRAIO 2024) – ci dice:

 

La base elettorale di cui Biden avrà bisogno per la rielezione è fortemente contraria al suo sostegno alla guerra di Israele contro Gaza.

Non c'è modo di nascondersi da questo fatto.

Per più di quattro mesi, il presidente Biden è stato il principale facilitatore dell'omicidio di massa del popolo palestinese a Gaza da parte di Israele.

Ogni giorno, centinaia di civili vengono uccisi dalle armi statunitensi e, sempre più spesso, dalla fame e dalle malattie. La crudeltà e la grandezza del massacro sono ripugnanti per chiunque non sia in qualche modo insensibile all'agonia umana.

Tale intorpidimento è molto diffuso negli Stati Uniti.

Alcuni fattori includono pregiudizi etnocentrici, razziali e religiosi contro arabi e musulmani.

La forte inclinazione pro-israeliana dei mezzi di informazione corre parallela all'inclinazione dei funzionari del governo degli Stati Uniti, con un linguaggio che abitualmente trasmette un rispetto molto inferiore per le vite palestinesi rispetto a quelle israeliane.

 

E mentre la credibilità del governo israeliano è crollata, le braccia muscolose della lobby israeliana – in particolare l'”AIPA”C e la “Maggioranza Democratica” per Israele – esercitano ancora un'enorme influenza sulla stragrande maggioranza del Congresso.

 Pochi legislatori sono disposti a votare contro i massicci aiuti militari che rendono possibile la carneficina a Gaza.

Un esempio agghiacciante è il senatore “Chris Van Hollen” del “Maryland”.

 Lunedì sera, è salito sul pavimento del Senato e ha condannato Israele senza mezzi termini.

"I bambini di Gaza stanno morendo a causa della deliberata negazione del cibo", ha detto.

"Oltre all'orrore di quella notizia, un'altra cosa è vera. Questo è un crimine di guerra.

 È un crimine di guerra da manuale. E questo rende criminali di guerra coloro che lo orchestrano".

Guardando il video dell'appassionato discorso di “Van Hollen”, si potrebbe supporre che voterebbe contro l'invio di 14 miliardi di dollari in ulteriori aiuti militari a quei "criminali di guerra". Ma ore dopo, ha fatto esattamente l'opposto.

Come ha osservato il giornalista “Ryan Grim”, "il discorso del senatore pulsava di chiarezza morale, fino a quando non si è esaurito in una logica incerta per il suo imminente voto a favore".

Al contrario, tre senatori del “caucus democratico – “Jeff Merkley”, “Peter Welch” e “Bernie Sanders” – hanno votato no .

“Sanders” ha pronunciato un discorso potente chiedendo decenza invece di un ulteriore collasso morale da parte dei vertici del governo degli Stati Uniti.

 

Mentre il Senato deliberava, la Casa Bianca ha chiarito ancora una volta che non era seriamente intenzionata a intralciare l'assalto pianificato da Israele alla città di Rafah.

 È lì che la maggior parte dei 2,2 milioni di residenti sopravvissuti di Gaza si sono rifugiati in modo pericoloso dalle Forze di Difesa Israeliane dal nome orwelliano.

Uno scambio di battute in una conferenza stampa alla Casa Bianca lunedì ha sottolineato che “Biden” è determinato a continuare a consentire i continui crimini di guerra di Israele a Gaza.

 

Giornalista: "Il presidente ha mai minacciato di privare Israele dell'assistenza militare se dovesse portare avanti un'operazione a “Rafah” che non tenga conto di ciò che accade ai civili?"

 

Il portavoce John Kirby: "Continueremo a sostenere Israele. Hanno il diritto di difendersi da “Hamas” e continueremo ad assicurarci che abbiano gli strumenti e le capacità per farlo".

 "L'amministrazione “Biden “non ha intenzione di punire Israele se lancia una campagna militare a “Rafah” senza garantire la sicurezza dei civili".

Citando intervistando con tre funzionari statunitensi, l'articolo riportava che "non sono in corso piani di rimprovero, il che significa che le forze israeliane potrebbero entrare in città e danneggiare i civili senza affrontare le conseguenze americane".

“Biden” continua ad essere complice mentre pronuncia banalità di preoccupazione per la vita dei civili a Gaza.

 Mese dopo mese, ha fatto tutto il possibile per rifornire al massimo l'esercito israeliano.

Sotto un titolo appropriato: " Biden è arrabbiato con Netanyahu? Risparmiami. "

 Jack Mirkinson, caporedattore di “The Natio”n, ha scritto questa settimana:

"Nel mondo reale, “Biden” e i suoi partner legislativi hanno continuato ad armare Israele;

la” leadership democratica al Senato “ha effettivamente portato la gente a votare la domenica del “Super Bowl” su un disegno di legge che, insieme al riarmo dell'Ucraina, invierebbe a Israele altri 14,1 miliardi di dollari per quella che viene eufemisticamente definita "assistenza alla sicurezza".

Da ottobre, proteste e attivismo stimolanti negli Stati Uniti hanno messo in discussione il sostegno americano all'assalto militare israeliano a Gaza.

Tuttavia, alimentate dalla repulsione per le atrocità commesse da “Hama”s contro i civili israeliani il 7 ottobre, le consuete motivazioni a sostegno della violenza di Israele contro i palestinesi si sono rivelate efficaci.

In quest'anno elettorale, un ulteriore fattore incombe importante.

A soli otto mesi dall'inizio delle votazioni che potrebbero riportare “Donald Trump alla presidenza”, la prospettiva del suo ritorno al potere è fin troppo reale.

E con “Biden” destinato a essere il “candidato del Partito Democratico”, innumerevoli individui e gruppi stanno attenti a evitare di dire molto che sia critico nei confronti del presidente che vogliono vedere rieletto.

Invece del candore, le scelte di routine sono state eufemismi e silenzio.

 Ma, moralmente e politicamente, questo è un grosso errore.

La base elettorale di cui “Biden” avrà bisogno per la rielezione è fortemente contraria al suo sostegno alla guerra di Israele a Gaza.

 I sondaggi mostrano che soprattutto i giovani nella stragrande maggioranza contrari.

La maggior parte ha capito la sottile patina delle sue deboli suppliche affinché Israele non uccida così tanti civili.

Nessuna quantità di evasioni, silenzi o ambiguità può rendere moralmente accettabili le politiche di “Biden.

Ma, mentre l'amministrazione combina le sue strette di mano con la fornitura di armi militari, gli apologeti di “Biden “vanno avanti con l'evasione e la ginnastica verbale per difendere l'indifendibile.

Una linea d'azione di gran lunga migliore sarebbe quella di essere sinceri nei confronti delle realtà attuali:

 il collasso morale di “Joe Biden” sta permettendo al governo israeliano di continuare, impunemente, il suo massacro su larga scala del popolo palestinese.

Nel processo,” Biden” sta aumentando le possibilità che il “Partito Repubblicano”, guidato dal fascista Donald Trump, ottiene il controllo della Casa Bianca a gennaio.

 (Common Dreamscon)

 

 

 

È giunto il momento per

Washington di rinsavire.

 

Unz.com - PAUL CRAIG ROBERTS – (16 FEBBRAIO 2024) – ci dice:

Sembra che i pigmei di Washington abbiano scelto il paese sbagliato per il ruolo di nemico preferito, se c'è del vero nelle notizie di ieri secondo cui la Russia ha dispiegato o ha in fase di sviluppo una piattaforma nucleare orbitale che può sganciare testate nucleari fuori dall'orbita senza riscaldamento e senza possibilità di intercettazione.

Recentemente ho riferito sul nuovo libro di “Steven Starr “che una, a causa o tre esplosioni ad alta quota, a seconda dell'altitudine, è tutto ciò che serve per far collassare gli Stati Uniti e lasciarli nel caos totale senza dover fare alcun danno al suolo.

(paulcraigroberts.org/2024/02/07/the-united-states-has-zero-national-security/)

Il rapporto di “Brighteon” dice che il sistema orbitale è attivo:

Secondo le fonti, la Russia ha appena messo in funzione una piattaforma nucleare orbitale che può far cadere testate nucleari fuori dall'orbita in qualsiasi momento, esplodendo su città chiave e basi militari degli Stati Uniti senza preavviso e con zero possibilità di essere intercettate.

 “Capitol Hill” è in preda al panico, descrivendo la nuova tecnologia russa come "destabilizzante" e chiedendo un'azione urgente per contrastare in qualche modo il vantaggio militare della Russia.

L'esercito degli Stati Uniti, nel frattempo, è troppo occupato ad essere "svegliato" per costruire una nuova tecnologia.

 La Russia ha armi nucleari orbitali, ma la Marina degli Stati Uniti ha “drag queen “e “trans” al comando.

Non c'è da chiedersi come va a finire...

Altre fonti raccolte da “Simplicius “trattano la piattaforma orbitale come una minaccia in corso:

(simplicius76.substack.com/p/planetary-scare-russian-doomsday?utm_source=post-email-title&publication_id=1351274&post_id=141657380&utm_campaign=email-post-title&isFreemail=true&r=dx5km&utm_medium=email)

 

È troppo presto per sapere la veridicità di questi rapporti o se si tratta solo di un'altra storia spaventosa, come "Le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein" e "Terroristi musulmani", per aumentare le nuove spese militari per una "minaccia" " sostitutiva ora che la Russia ha vinto la guerra in Ucraina.

Ciò che mostra è la stupidità di una “Torre di Babele disfunzionale come gli Stati Uniti” che combattono con una società altamente funzionale e unificata come la Russia.

 Gli interventisti liberali americani, sostituiti dai neoconservatori egemonici, hanno creato un pericoloso nemico per gli Stati Uniti che Washington non ha alcuna possibilità di sconfiggere.

 La Russia, già con “ICBM ipersonici dispiegati” che alterano casualmente la traiettoria in volo, a quanto pare sta aggiungendo al suo dominio armi sparate dallo spazio.

Se Washington non riesce a infastidire Israele espellendo i neoconservatori dalla loro presa sulla politica estera degli Stati Uniti, l'Occidente idiota ha fatto il suo corso.

(PaulCraigRoberts.org)

 

 

 

 

 

LE IDEOLOGIE SONO MORTE

MA GLI IDEALI NO.

È LA POLITICA CHE PER INTERESSE

NON LI RAPPRESENTA PIÙ.

Thevision.com - DANIELE FULVI – (1° FEBBRAIO 2021) – ci dice:

 

Nel dibattito politico degli ultimi anni, viene dedicata un’attenzione sempre più grande a posizioni cosiddette “post-ideologiche”, che mirano al superamento delle contrapposizioni concettuali destra/sinistra, fascisti/comunisti e così via, in nome di una politica più pragmatica e votata agli interessi reali dei cittadini:

quello che oggi è il mio peggior avversario politico, domani potrebbe essere il mio alleato di governo.

 In questo scenario, un ruolo sempre più centrale viene giocato dai leader dei vari partiti.

La loro vita sembra dipendere più dal volere dei loro capi – e dagli scranni che occupano – piuttosto che dalla reale condivisione di ideali o di una determinata visione del futuro.

A partire dall’epoca del primo Berlusconi, il leader di un determinato partito o schieramento ha rappresentato un elemento sempre più determinante ai fini del voto:

da una trentina d’anni a questa parte, non si vota più per appartenenza ideologica, ma in base al carisma del candidato a guida di questa o quella lista.

Su queste basi Beppe Grillo già nel 2010 prendeva nettamente le distanze dagli schieramenti tradizionali di destra e sinistra, definiti come “comitati d’affari”;

e a distanza di tre anni ribadiva il concetto sostenendo che il M5S fosse un movimento di natura post-ideologica, lanciando il famoso mantra del “né di destra né di sinistra”;

 infine, nel 2018 il comico genovese si è spinto ancora oltre, arrivando a sostenere che il movimento da lui fondato fosse “la più grande forza post-ideologica d’Europa”.

Visto il successo in termini di consenso, anche i partiti storicamente schierati a destra, ovvero la” Lega” e “Fratelli d’Italia”, hanno deciso di seguire l’esempio della propaganda grillina.

“Salvini”, ad esempio, nel 2015 definì l’antifascismo come “una roba da libri di storia”, dal momento che l’ideologia fascista e quella comunista appartengono al passato e non sono in grado di rappresentare le categorie politiche odierne.

 Anche “Giorgia Meloni” non è da meno: da sempre, infatti, la leader di “FdI” è impegnata nell’opera di normalizzazione e istituzionalizzazione del fascismo, in nome proprio di quella politica post-ideologica che vorrebbe superare posizioni faziose e “da tifoseria”.

Perfino il successo elettorale di Trump nel 2016 è in parte dovuto al fatto che sia stato presentato come un leader post-ideologico di un movimento che “trascende le vecchie ideologie”.

Infine, la recente crisi di governo nel nostro Paese, dettata più dagli interessi individuali di singoli politici piuttosto che dalla genuina passione per principi etici e politici, sembra essere un’ulteriore conferma della validità delle posizioni post-ideologiche.

Infatti, l’agenda politica dei vari leader di partito sembra basarsi sempre più sugli interessi di potere dei singoli, anziché su una visione economica e sociale di ampio respiro per il futuro.

 

Le ideologie politiche che hanno caratterizzato il Novecento, dunque, sembrano essersi eclissate in maniera definitiva, rimpiazzate dal trasformismo e dall’individualismo.

Eppure, il fatto che queste ideologie siano morte non significa che lo siano anche gli ideali, soprattutto fra le nuove generazioni.

Mai come oggi si ha da un lato l’impressione che la politica non segua più alcun ideale, ma muti in base all’occorrenza e alla convenienza, dall’altro, però, al di fuori delle stanze del potere, si stanno costruendo e stanno crescendo sempre più delle comunità fondate su ideali molto forti.

E nuovi ideali danno vita a nuove ideologie che si adattano ai problemi del nostro tempo, nel tentativo di affrontarli e trovare una soluzione, sulla base di un’etica e una visione del mondo condivise.

Proprio in virtù di questa natura dinamica, non si può affermare che le ideologie siano morte e che siano state definitivamente soppiantate da una sorta di nichilismo etico e di cinico opportunismo.

Nel dibattito politico quotidiano il concetto stesso di “ideologia” viene interpretato in maniera superficiale e arbitraria:

 infatti, quando si accusa qualcuno di avere una posizione ideologica, si intende dire che le sue idee e i suoi discorsi sono astratti, teorici e fondati su pregiudizi.

In realtà, però, l’ideologia è tutt’altra cosa:

lungi dall’essere un insieme di nozioni fumose e valide solo in ambito teorico, essa consiste precisamente in un sistema di valori e coordinate concrete in base a cui gli esseri umani orientano le proprie azioni nel mondo.

L’ideologia è quanto di più tangibile e pragmatico esista, dato che rappresenta una sorta di prontuario a cui tutti noi ci atteniamo più o meno fedelmente – e più o meno consapevolmente.

Per dirla con il filosofo francese “Althusser”, l’ideologia è “un sistema di idee solo in quanto è un sistema di rapporti sociali” e in quanto tale costituisce la linfa vitale di ogni società.

 

Louis Althusser.

Perciò, parlare di epoca post-ideologica significa da un lato avallare un luogo comune che produce solamente cattiva politica (e cattivi politici), e dall’altro utilizzare un metro di giudizio inadeguato a comprendere i tempi in cui viviamo.

Non è vero che siccome le ideologie sono morte, allora c’è bisogno di politici post-ideologici e spregiudicati;

al contrario, è vero che siccome la classe dirigente italiana non è in grado di rispondere alle esigenze e ai problemi reali del Paese, poiché non ne comprende gli ideali, allora politici, giornalisti e opinionisti vari – in mancanza di argomenti migliori – giustificano tale atteggiamento sulla base di una presunta morte delle vecchie ideologie.

Ma sposare un’ideologia non significa necessariamente adottare dei pregiudizi o accontentarsi di una visione pigra o utopica della realtà.

Al contrario, spesso è proprio chi è animato da ideali sinceri e da convinzioni etiche solide a realizzare i cambiamenti più significativi in ambito politico e sociale.

La retorica della morte delle ideologie ha come effetto ultimo quello di allontanare i cittadini dalle istituzioni e dai processi decisionali, di fatto accentrando il potere nelle mani dei leader più in voga.

Perciò, risulta chiaro come “trascendere le ideologie” o “affermarne la fine “non significa altro che annientare il senso critico della popolazione prevenendo la reale necessità di un cambiamento dei rapporti sociali.

 In pratica, se si convincono tutti i cittadini che le ideologie sono dei paraocchi che impediscono di vedere le cose in maniera oggettiva, se non addirittura dei pesi morti di cui liberarsi, si ottiene come risultato sia la creazione di una classe dirigente elitista e incapace di rapportarsi ai cittadini, sia la subordinazione acritica del popolo a quella stessa classe dirigente.

Facendo un parallelo con “il pensiero di Gramsci”, possiamo dire che è esattamente in questo modo che le classi dominanti costruiscono la “loro egemonia”.

Come ci spiega in maniera chiara ed efficace” Alessandro Barbero”, una classe diventa dominante quando riesce a far sì che anche le altre classi accettino la sua ideologia, ovvero il suo pensiero e la sua visione del mondo.

 Perciò, nel caso della situazione odierna, l’ideologia dominante è quella superficiale e propagandistica secondo cui le ideologie sono morte e sepolte, rimpiazzate dallo sprezzante pragmatismo dei politici contemporanei.

Tuttavia, è altrettanto vero che quando l’ideologia dominante non corrisponde alla realtà, si apre una frattura tra governanti e governati che diventa sempre più insanabile e porta a inevitabili cambi di rotta nei rapporti sociali.

 

Alessandro Barbero.

Gli attuali movimenti politici per le questioni di genere, razziali e ambientali, infatti, non fanno altro che dimostrare quanto questa frattura sia profonda ed evidente, e che continuare a ignorarla in nome della presunta morte degli ideali politici novecenteschi non fa che allontanare ancora di più la politica dalla realtà dei fatti.

 Non solo tali movimenti mostrano come la narrazione diffusa dell’estinzione delle ideologie sia un semplice strumento propagandistico e ingannevole, ma anche che la costruzione di una società più giusta passi necessariamente per l’istituzione di una nuova ideologia che stravolga i rapporti sociali esistenti, sostituendoli con un nuovo ordine politico ed economico basato su equità, inclusività e sostenibilità.

Ad essere scomparsa dai radar, dunque, non è l’impostazione dell’azione politica sulla base di valori etici, ma la buona politica che di tali valori si dovrebbe nutrire.

Soprattutto nelle nuove generazioni, è molto forte l’urgenza di implementare una visione del mondo che si contrapponga a quella del capitalismo neoliberista, ormai in profonda crisi.

Infatti, sebbene anche leader politici di primissimo piano come “Macron” abbiano riconosciuto che il modello capitalista non funziona più, in Italia sembra mancare quasi del tutto una riflessione lucida e realista sulla possibilità di liberarsi dalla propaganda post-ideologica e di creare un modello economico-sociale in grado di dare un futuro alle nuove generazioni e al pianeta.

Tale atteggiamento, però, non fa che allontanare la politica e le istituzioni dai cittadini, creando malcontento e aumentando il rischio di derive nazionaliste e neofasciste.

Emmanuel Macron.

La soluzione, dunque, consiste nell’abbandonare una volta per tutte l’impostazione post-ideologica, che non risponde ad alcuna esigenza reale delle persone e non fa che allargare la forbice tra la piazza e il Palazzo.

 Per questo, bisogna ridare la giusta importanza alla politica ispirata a sani ideali e valori non negoziabili, smettendola di conferire un valore esclusivamente negativo al concetto di ideologia.

 Senza ideali fondati su solide basi etiche, infatti, non saremmo neanche in grado di dare un senso al mondo, né di avere una prospettiva per il futuro.

(Daniele su “The Vision”)

 

 

 

 

 

La vita è un’ideologia

fondata sul lavoro.

Iltascabile.com – Fabio Ciancone – (18-9-2023) – ci dice:

Una riflessione a partire da “After Work”, il documentario di “Erik Gandini “che affronta il rapporto tra vita e lavoro.

(Fabio Ciancone studia il rapporto tra letteratura contemporanea, critica letteraria e politica. Ha pubblicato una ricerca sull'impegno politico di “Claudio Magris” sulla rivista “Il Portolano”. Ha scritto di letteratura e di cinema per “Nido”, “Nazione Indiana” e “Il lavoro culturale.)

Le dita di un impiegato pigiano ripetutamente i due tasti di un mouse. L’inquadratura, strettissima, si allarga a immortalare lo sguardo di un uomo sui sessant’anni, che fissa vacuo lo schermo di un computer.

“Mi sveglio ogni mattina alle 6.

Mi faccio una doccia, vado al lavoro alle 7, resto in ufficio fino alle 23. Torno a casa, ceno, vado a dormire a mezzanotte.

 Faccio questa cosa ogni giorno”, dice la sua voce fuori campo.

Con un piano sequenza la telecamera immortala, alla sua destra, sua figlia, a braccia conserte, a fissarlo con un misto di compassione e riprovazione:

 “Non voglio per me questa vita, mio padre dice che ha fatto tutti i suoi sacrifici per noi, noi siamo il premio per i suoi sacrifici, dice.

 Non sono d’accordo”.

 

Si apre così “After Work”, l’ultimo documentario di “Erik Gandini” (regista italo-svedese autore fra gli altri di “Videocracy”, sull’era berlusconiana):

una scena piuttosto didascalica che focalizza l’attenzione dello spettatore su un aspetto secondario – quello generazionale – di una questione cruciale della nostra epoca: il rapporto tra tempo e lavoro.

“Gandini” si chiede se sia possibile immaginare come impiegheremo il nostro tempo quando il lavoro umano, per come l’abbiamo finora concepito, sarà reso superfluo dalla tecnologia.

Se lo chiede, sì, anche se sembra non volere o non essere in grado di dare una risposta, tanto che il film si conclude con i primi piani di alcuni intervistati che, alla domanda se sia possibile smettere di lavorare, fissano la telecamera senza dire nulla.

 L’impasse del dibattito è forse il fulcro di questa analisi.

“Gandini” si chiede se sia possibile immaginare come impiegheremo il nostro tempo quando il lavoro umano, per come l’abbiamo finora concepito, sarà reso superfluo dalla tecnologia.

“Gandini” intervista persone di estrazione sociale differente (working poors, impiegati statali, imprenditori, ricchi ereditieri), provenienti da diverse parti del mondo – Stati Uniti, Italia, Kuwait e Corea del Sud, vale a dire, per metonimia, Nord America, Europa, Medio ed Estremo Oriente.

L’operazione è un po’ azzardata:

contesti geopolitici molto specifici sembrano eletti a universali, chiamati a mappare idealmente l’intero mondo industrializzato sotto l’egida culturale e economica capitalista.

 Come è azzardata l’idea di poter utilizzare l’operaia” Astrid”, il manager “Pa Sinian”, l’imprenditore “John”, e poi ancora “Armando”, “Meqdaq”, “Fatima”, “Rory”, “Ferdinando”, “Boseong” – tutti significativamente evocati senza i cognomi – non come individui, ma quali, di nuovo, metonimie della classe sociale a cui appartengono.

 

 Alle interviste del regista si aggiungono, inoltre, fonti secondarie, materiali d’archivio, brevi interventi di intellettuali e personalità di spicco come “Noam Chomsky”, “Yuval Noah Harari”, “Yanis Varoufakis”, “Elon Musk”, le cui parole aiutano a orientare lo spettatore attraverso un tentativo di affresco contemporaneo.

 

Il documentario procede per giustapposizione di testimonianze, ma è impossibile capire in che modo “Gandini” si stia servendo delle parole degli intervistati.

 Infatti allarga quanto più possibile il campo della questione, pur partendo da casi singoli chiamati per nome e solo per nome, astrae il problema dai particolarismi di una vita o di una classe sociale specifica.

Ad esempio, alle interviste a due ex ministri del lavoro sudcoreani sulle politiche contro la cultura del superlavoro nel loro Paese, “Gandini” accosta la testimonianza di un imprenditore americano, simbolo della “middle class affamata di successo”, uno yuppie rampante che ride sguaiato all’idea che in Europa sia socialmente accettato prendersi sei settimane di ferie all’anno.

Alle lamentele concitate del manager di una grande azienda, che preoccupato spiega come l’85% dei lavoratori globali svolga mal volentieri le proprie mansioni, affianca la voce emozionata della dipendente di “Amazon” che definisce il proprio compito di consegna dei pacchi un piccolo gesto rivoluzionario, che migliora la vita delle persone, una missione a cui dedicarsi completamente.

Poi conosciamo “Rory” e “Ferdinando”, una coppia:

 lei ricca ereditiera la cui unica occupazione sono i suoi svariati e esotici hobby;

lui ricco imprenditore contrario al reddito di cittadinanza il cui hobby è il lavoro.

 All’estetica dell’uomo super-impegnato, sexy e stimabile proprio perché oberato di lavoro (“I’m so busy” è il mantra remixato che si ripete in modo martellante), sono poi affiancati i “NEET”, “Not in Employment, Education or Training” (anche questa frase è remixata e fa da ulteriore colonna sonora al documentario), persone giovani che scelgono “volontariamente” di non lavorare né di formarsi al livello scolastico o professionale.

 

Man mano che compara contesti anche molto diversi – e mescola opinioni diversissime senza tirare le fila – ha il potere di rendere la stessa questione del lavoro, in qualche modo, metafisica.

 Per chiedersi se sia possibile immaginare una società post-lavorista (forse non dissimile da quella immaginata da “Srníče”k e “Williams” in “Inventare il futuro”, saggio cardine del pensiero accelerazionista di sinistra), “Gandini” assume un punto di vista filosofico, più che economico o sociale, ponendosi una domanda molto più radicale di quella che formulerebbe la mente di un economista.

E in fondo l’aspetto cruciale del film sembra sia chiederci se possiamo accettare culturalmente (tutti, in tutto il mondo) che la nostra vita smetta di assumere valore in relazione a ciò che produciamo: sarà accettabile, in futuro, l’idea che si possano ricevere soldi senza produrre merci?

 

L’operazione è un po’ azzardata: contesti geopolitici molto specifici sembrano eletti a universali, chiamati a mappare idealmente l’intero mondo industrializzato sotto l’egida culturale e economica capitalista.

In conseguenza di questa tensione filosofica, il film non indaga la sostenibilità materiale di un reddito universale o di un mondo del lavoro quasi interamente robotizzato, ma, più per dir così più poeticamente, riflette sul nostro rapporto con il tempo e con la vita.

Forse, a ben vedere, la risposta a queste questioni è ancora più profonda, e riguarda il nostro rapporto con la morte:

 per superare la società del lavoro dobbiamo riuscire a concepire una vita che sia degna di essere vissuta senza produrre nulla, senza lasciare traccia.

Tutte le filosofie occidentali apparentate con l’etica capitalista, che prevedano una dimensione teologica o siano totalmente materialiste, si fondano sull’assunto ineludibile del possesso, individuale o collettivizzato che sia.

Per questo “Gandini” mette al centro del proprio documentario l’etica del lavoro:

fa risalire la nascita del dissidio tra tempo occupato e tempo libero al modo di vita dei puritani, che nel 1600, in piena Riforma Protestante, terrorizzati dall’idea che la salvezza si ottenesse non tramite il pentimento e la sincera adesione ai dettami del Vangelo, ma per mezzo delle proprie azioni in vita, fondarono una società interamente imperniata sul lavoro, sul guadagno e – come estrema conseguenza in tempi recenti – sul consumo.

Sono le teorie espresse più di un secolo fa da “Max Weber” nel suo famoso saggio sull’”etica protestante”, ma possiamo risalire fino alla parabola dei talenti contenuta nel Vangelo:

 “Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha.

 E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.

“Non esiste il non far niente, il non far niente è solo la morte”, dice in “After Work” Armando – ovvero “Armando Pizzoni Ardemani” –, che è presentato come giardiniere dei “Giardini Barbarigo a Valsanzibio”.

Allo spettatore non è rivelata la sua origine, io l’ho scoperta solo casualmente tramite una ricerca su Google.

“Armando Pizzoni Ardemani “è conte, figlio di nobili e proprietario dell’intera tenuta nella quale viene immortalato al lavoro.

I suoi giardini sono pieni di rimandi simbolici all’elevazione spirituale e alla purezza, raggiungibili, nella simbologia del luogo, attraverso un percorso che conduce il visitatore all’ascesi per mezzo del superamento delle insidie materiali, come il labirinto all’interno del quale” Armando” è immortalato mentre lavora senza sosta alle siepi.

Chissà che a volte non abbia avuto anche lui difficoltà a uscire dalla trappola di cui è inconsapevolmente prigioniero.

E in fondo l’aspetto cruciale del film sembra sia chiederci se possiamo accettare culturalmente (tutti, in tutto il mondo) che la nostra vita smetta di assumere valore in relazione a ciò che produciamo.

Negli stessi giardini la telecamera di “Gandini” immortala una “statua di Crono”, divinità greca del tempo:

Il tempo vola, il tempo è inesorabile”, dice “Armando”.

Il nostro rapporto con il tempo modella il modo in cui concepiamo la nostra vita e la nostra utilità mentre siamo vivi.

 Il tempo è valore materiale, tanto che il tempo si può perdere e guadagnare e, per uno strano paradosso culturale, secondo molte persone smettere di lavorare e comunque ricevere soldi significherebbe essere più poveri, perdere tempo invece di guadagnarlo.

Possiamo sentirci definiti dal nostro lavoro?

Possiamo identificarci con esso? Esistono veri e propri “workaholic”, persone affette da” stacanovismo performativo”, una dipendenza dal lavoro – che non possono fare a meno di definire una malattia anche in casi non patologici.

È proprio la performatività l’elemento più disturbante di un sistema lavorativo che tenta di nascondere le proprie storture dietro il mito della dedizione alla grande macchina produttiva sociale.

 Sarebbe anche nobile lavorare molto, se non fosse che è ritenuto ignobile non fare niente.

 Ed è proprio l’etica del lavoro, ci dice il documentario di “Gandini”, che porta alla conseguenza del consumismo sfrenato:

 spendiamo perché lavoriamo, lavoriamo per spendere e per dimostrare – a noi stessi e agli altri – di poterlo fare.

È così che in Corea del Sud il governo ha deciso di mettere in pratica uno “shut down forzato “di tutti i sistemi informatici pubblici alla stessa ora, per costringere le persone a smettere di lavorare.

 Quella della iper performatività, spiegano gli esperti sudcoreani nel film, è una tendenza figlia del processo di trasformazione economica che ha portato il Paese a diventare una potenza globale del tech e ha trasformato una popolazione mediamente molto povera in un gruppo di persone benestanti.

L’etica del lavoro, la religiosa dedizione alla crescita, impedisce a queste persone di godersi, in pieno riposo, i frutti storici del cambiamento.

Performance è anche messinscena, è anche fingere di lavorare e fingere che sia necessario farlo in qualunque circostanza, come nel caso del “Kuwait”, dove lo Stato assume mediamente venti persone per fare il lavoro di una e i lavori di cura sono delegati esclusivamente agli immigrati, con conseguenze dannose per la salute mentale delle persone.

 D’altronde, ricevere la stessa quantità di soldi dallo Stato senza fare almeno finta di lavorare genererebbe nelle persone, dicono gli intervistati di” After Work”, una sorta di crollo della fiducia negli stessi fondamenti della società di appartenenza.

 È un dato di fatto che molti lavori siano pagati poco, male o per niente. Possiamo affezionarci a un sistema che ci rende schiavi?

 Eppure, continuiamo a ritenere che una società sana sia fondata sul sacrificio.

Così anche i lavoratori diventano sacrificabili.

 Se continuiamo a racchiudere nel lavoro il senso della nostra esistenza, non ci libereremo mai dalla schiavitù.

Possiamo affezionarci a un sistema che ci rende schiavi? Eppure, continuiamo a ritenere che una società sana sia fondata sul sacrificio.

“Gandini” tenta di condurre lo spettatore, una questione alla volta, nei meandri del dibattito sul futuro del lavoro umano.

 Lo fa forse con eccessiva leggerezza argomentativa, con scarsa profondità di analisi, cercando di fotografare un’istantanea sul dibattito più che di scavare a fondo nella questione o provando a inventare il futuro, per l’appunto.

Il regista mette una accanto all’altra le immagini di una sorta di polittico sul lavoro di oggi, con l’obiettivo di registrare quanti più “tipi” umani esistenti.

Il film assume tinte più cupe solo nel finale, quando prova a inquadrare il fenomeno delle malattie psichiche derivanti dal lavoro:

stress, ansia, depressione, burnout.

Eppure, la testimonianza a questo proposito è quella di un solo ragazzo e nessuno degli intervistati riesce ad ammettere a voce alta la possibilità che si possa modificare il nostro rapporto con il lavoro.

Forse, ci dice “Gandini”, e in questo avrebbe un merito, dobbiamo scendere a patti con la consapevolezza che per l’uomo immaginare un futuro senza lavoro è ancora impossibile.

Ci illudiamo che la contemporaneità sia segnata dal crollo di tutte le ideologie forti, di ogni pensiero assoluto che porta a credere nell’esistenza di un principio unificante, motore e generatore di realtà.

Ci illudiamo di esserci liberati di Dio e delle ideologie.

Ciò di cui ancora non possiamo fare a meno, però, sono le strutture profonde di pensiero che legano la nostra esistenza all’idea che la nostra morte debba essere giustificata.

Per superare l’etica del lavoro è necessario, forse, fondare una nuova religione che ci autorizzi a morire serenamente, come i protagonisti del “Decameron di Boccaccio”, che scelgono di passare i loro ultimi giorni a raccontarsi storie a voce senza trascriverle, in un tempo rigidamente scandito e allo stesso tempo sospeso, per poi tornare a Firenze, dove moriranno certamente di peste.

Ridere e lietamente morire, possibilmente senza lasciare tracce.

 

 

 

 

La fastidiosa ingerenza della

“cultura woke” nei film e nelle serie tv.

Linkiesta.it - Riccardo Manzotti – (3 aprile 2021) – ci dice:

Sceneggiatori, registi, attrici e attori cadono sempre di più nella tentazione di impartire lezioncine moraleggianti invece di intrattenere e stupire.

Una forzatura che non ha riscosso successo tra il pubblico, nonostante il settore dell’immaginario è dove si conquista il mondo reale e si rovescia il pensiero delle persone

Uno spettro si aggira per il mondo e non è il comunismo, ma una ideologia che viene imposta dall’alto attraverso l’uso strumentale del mondo dell’immaginario, abusando dei nostri beneamati eroi ed eroine per trasformarli in venditori e insegnanti infallibili dei valori di questa ideologia.

Dà fastidio? A molti.

A me personalmente lo dà molto perché, concedetemelo, sono refrattario a chi cerca di cambiarmi sfruttando in modo subdolo il mondo della fantasia.

Ma è proprio così?

Diceva “Agatha Christie “che una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze fanno un indizio, ma tre coincidenze fanno una prova.

 E in questo caso non abbiamo solo tre coincidenze, ne abbiamo decine e decine.

Di che parlo?

Di una serie ininterrotta e patetica di vittime (per fortuna solo letterarie): da “Star Trek” a “Star Wars”, dal “Doctor Who” a “Ghost buster”, da “Super girl” a “Bat girl”.

 Ma chi è il responsabile?

Si tratta di una cultura che, nel mondo anglofono, è stata chiamata (prima positivamente e poi negativamente) cultura woke.

Della influenza della cultura woke sul mondo dell’immaginario con effetti spesso disastrosi e controproducenti si sta discutendo molto nel mondo e, forse, ancora poco in Italia.

 Si tratta di un atteggiamento ideologico che ha contagiato sceneggiatori e produzioni americane e inglesi e, per molti, è una vera e propria guerra culturale.

Il problema non è l’insieme di valori sociali di questo movimento:

sono perfettamente legittimi e in gran parte condivisibili.

Il problema è come vengono imposti e il fatto che, questa strategia di propaganda, per i suoi metodi finisce con il tradire molti dei valori stessi.

 

Torniamo al caso concreto, i valori woke sono stati adottati da parti importanti del “partito democratico americano “e da sezioni molto influenti della “classe colta anglosassone “(soprattutto il mondo universitario).

 E questo non è un problema.

Ognuno è libero di credere in quello che vuole.

 Anzi, è un segno di progresso anche perché molti di questi valori vanno a risolvere ingiustizie che affliggevano il mondo anglosassone (e in gran parte anche il nostro).

Tuttavia, anche le idee migliori devono vincere per forza di convincimento e non per imposizione coatta e per propaganda.

 È sempre stato il problema dei buoni: non puoi vincere con i metodi dei cattivi.

Ora, per una serie di meccanismi politici, è capitato che il mondo del fantastico sia stato invaso da persone che, a volte ingenuamente e a volte opportunisticamente, si sono identificate con questa cultura e hanno deciso di usare il loro potere per educare il mondo.

 È questo che non va bene.

Abbiamo rifiutato i film di propaganda, non vedo perché dovremmo accettare i film “woke”?

Vediamo qualche caso concreto.

La vittima più illustre e forse la perdita più dolorosa è il “Doctor Who”.

Qui da noi non è mai stato popolarissimo (troppo inglese, figuriamoci un alieno che viaggia nel tempo dentro una cabina telefonica della polizia inglese! Intraducibile!).

Nel Regno Unito, però, è una vera e icona.

Anche in numeri assoluti è impressionante:

il Doctor Who è la serie televisiva più longeva al mondo (57 anni di programmazione) ed è entrata nel “Guinness World Records” battendo campioni come” I Soprano”, “Beautiful” e persino il nostrano “Un posto al sole”!

Semplificando un po’, il “Doctor Who” sta alla cultura pop inglese come l’”ispettore Montalbano” sta alla nostra.

Per sopravvivere agli anni, uno dei trucchi narrativi è la possibilità di reincarnare («rigenerare») il protagonista principale, di fatto cambiando l’attore protagonista ogni lustro.

Con alti e bassi la serie aveva attraversato epoche diversissime fino all’ultima generazione quando è stato preso prigioniero di “Chris Chibnall”, il nuovo sceneggiatore di “chiara fede woke”, che ha snaturato la serie trasformando il “Time Lord” in una “Time Lady” (scritturando per il ruolo “Jodie Whittaker”).

Il punto, ovviamente, non è il cambio di sesso (che peraltro il pubblico aveva accolto con grande entusiasmo), quanto il fatto che la serie è diventata una serie di lezioni sui valori woke impartiti al pubblico.

Anche il cambio di genere del personaggio non è stato il problema (nelle serie precedenti si erano già viste combinazioni a piaceri di generi e gusti sessuali).

Il problema è che il pubblico sente che la trama è subordinata alla lezione morale che “Chibnall” ci vuole ammansire.

Il risultato?

 Crollo degli ascolti che sono scesi al livello più basso (circa 5 milioni di spettatori contro i circa 10 dei momenti migliori).

Volete un altro esempio?

Ghostbusters di “Paul Feig” del 2016, remake dell’omonimo campione di incassi del 1984 di “Ivan Reitman”.

Il nuovo film è stato realizzato sostituendo i quattro protagonisti maschili con quattro protagoniste femminili e cambiando la divertente e ironica segretaria dell’originale con un imbranato e infelice segretario interpretato dal sempre carino “Chris Hemsworth”.

 Il film è, per usare un’espressione sintetica, un “abominio volgare” privo di humor dove la trama si trascina per impartire una serie di lezioni woke.

Risultato?

 Un flop che lascia un buco di 70 milioni di dollari nelle casse della “Columbia Pictures”.

Ma prendiamo un altro caso di cui ho già parlato anche in questa sede: “Star Wars”.

Qui, il megadirettore galattico (©Fantozzi), ovvero “Kathleen Kennedy”, ha la responsabilità artistica di una trilogia che ruota intorno a un personaggio femminile, “Rey” (Daisy Ridley), che moltissimi giudicano una “Marie Sue”, ovvero un cartonato senza spessore il cui unico scopo è impartire lezioni morali insieme ad altri personaggi della trilogia, come l’antipaticissima ammiragli(a) “Amilyn Holdo” (non si è mai vista un’acconciatura più brutta e di un colore più improbabile), o persino la principessa “Leia” e il soldato “Rosie Tico”.

 

Fino ad arrivare al nuovo progetto di “casa Lucas” (non più del padre fondatore, il buon “George Luca”s, spesso reputato troppo maschilista e troppo vicino al patriarcato), cioè “The High Republic”, dove i personaggi vengono introdotti sulla base di una specie di “codice Cencelli” della “inclusività di genere” (un trans, un afro, una roccia …).

Potrei andare avanti all’infinito con altri infausti e maldestri tentativi di imporre una prospettiva ideologica al mondo del fantastico.

 È chiaro che una parte consistente del pubblico si è ribellata e infastidita a questa vocazione moraleggiante dei media.

 E infatti si è coniato il detto “Go woke, get broke “che si potrebbe tradurre come «l’ideologia porta alla rovina».

Uno dei sintomi rivelatori di questa” deriva ideologic”a è la tentazione dei protagonisti di “accusare il pubblico di inadeguata coscienza civile.

Se al pubblico non piace “The Last Jedi “non sarà perché il regista, “Ryan Johnson”, ha scelto una trama debole e piena di buchi, ma perché il pubblico è arretrato e incapace di apprezzare personaggi femminili forti.

Davvero?

Peccato che personaggi come Ripley (Alien), Katniss Evergreen (The Hunger Games), Wonder Woman, Valkyrie (Thor), Imperator Furiosa (Mad Max: Fury Road), Sarah Connor (Terminator) siano sempre stati amatissimi da tutti i” nerd del mondo” indipendentemente dal loro genere.

 

Il problema è sempre solo uno:

 l’inversione tra qualità artistica (anche in senso commerciale) e il valore ideologico.

Raccontare storie edificanti non è mai stato particolarmente divertente.

Si dirà, si è sempre fatto!

Anche l’”Eneide”,” I Promessi Sposi” o “Via col vento” erano animati dai valori dell’epoca e dall’ideologia.

Certo, ma non li ricordiamo e li amiamo per questo.

Anzi!

In fondo, si tratta di un piccolo numero di casi in cui il guinzaglio dell’ideologia non ha frenato la creatività dell’autore.

 Della lunga schiera degli autori amati da chi possiede, gestisce e distribuisce potere e ricchezza, non ricordiamo quasi nessuno.

E non si deve dimenticare un fatto fondamentale, nella nostra epoca dovremmo essere noi a scegliere personaggi e storie, non i padroni delle industrie mediatiche sempre vicini al potere politico ed economico.

La deriva ideologia dell’immaginario rischia poi di tracimare nella vita reale.

Lo stimato politologo canadese “Eric Kaufman” (Birkbeck College, University of London) ha appena pubblicato una indagine (dal titolo significativo di “Crisi della libertà accademica”:

punizioni, discriminazioni e auto-censura) dove si vede come l’”ideologia woke” sta diventando un credo al quale non ci si può sottrarre per il timore di essere esclusi da una serie di possibilità sociali (tipo vincere una cattedra).

Il controllo dell’immaginario non è una questione da poco: è il campo di battaglia dove si conquista il mondo reale perché è il luogo dove si scelgono i valori in base ai quali si premiano o si puniscono le persone.

 È l’inversione del rapporto tra arte e morale: pensare che qualcosa sia bello perché è giusto.

Abbiamo combattuto per anni per uscire da questa visione medievale.

Non sarebbe auspicabile ricaderci ora.

Ci vogliono cambiare, non tutti vogliono esserlo.

 Si può cambiare idea, ma alla pari, da essere umano a essere umano, non da imbonitore a passivo credente.

I predicatori non sono mai piaciuti.

Fa tristezza vedere il mondo della fantasia e della creatività contrabbandare in modo subdolo una ideologia, giusta o sbagliata che sia.

 Nessuna azione o idea è meritevole se imposta.

 È questo il vizio dell’ideologia e della propaganda, imporre quello che dovrebbe essere una scelta libera.

“Kathleen Kennedy”, “Chris Chibnall”, predicatori wokegiù le mani dai nostri eroi!

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