La religione verde ha conquistato il mondo occidentale.

 

La religione verde ha conquistato il mondo occidentale.

 

 

 

Leggere la storia d’Italia dalla

 prospettiva cinese.

 Il libro di Sisci.

 Formiche.net - Francesco Sisci – (20/03/2023) – ci dice:

 

Il libro traccia una storia d’Italia come filo rosso della storia occidentale, compreso il mondo russo e musulmano.

Si sofferma sul perché la rivoluzione industriale sia avvenuta in Europa e non altrove e sul processo di sinizzazione dell’Occidente portato avanti dai gesuiti.

(Questo testo è un estratto di “Breve storia d’Italia con caratteristiche cinesi” di Francesco Sisci, tradotto in italiano per Formiche.net da Matteo Turato.)

La Cina ha sempre creduto nella storia.

Fin dall’antichità, dai tempi di Confucio e Mozi, da quando la dinastia Zhou compilò il Registro dei Riti, il Li Ji, uno degli elementi culturali più importanti, se non il più importante, è stato la storia e la sua scrittura piuttosto che i testi sacri religiosi, siano essi la Bibbia o il Corano.

 Quindi comprendere gli Stati e le civiltà significa analizzarne la storia. Mettere ordine storico sulla dinastia e sul passato era la priorità ideologica massima di ogni dinastia regnante.

Scrivere la storia era lo strumento ultimo di giustificazione ideologica e di legittimazione del potere.

Da oltre un secolo, la Cina sta attraversando un doloroso processo di modernizzazione – che in realtà è un processo di occidentalizzazione – simile ma più profondo e veloce del processo con cui la Cina ha assorbito, è stata cambiata e ha cambiato il buddismo indiano nel primo millennio dopo Cristo.

Quindi, perché i cinesi possano comprendere appieno a cosa stanno andando incontro, è fondamentale per loro conoscere la storia dell’Occidente.

 Solo avendo chiara la storia dell’Occidente, la Cina saprà dove sta andando.

Non si tratta solo di democrazia, diritti umani, internet o missili; si tratta di cambiare la storia, di cambiare la comprensione della storia propria e altrui, di cambiare i modelli e le proiezioni storiche.

Tuttavia, questo Occidente, in cui la Cina vuole in qualche modo trasformarsi, è diviso in diversi Stati con diverse storie.

 Come può allora la Cina guardare all’Occidente?

Quando inizia la storia dell’America?

Duecento anni fa? Di più? Di meno?

Quanti anni ha la Russia? Quattrocento? Di più? Quanto di più?

 

Sembra un rompicapo impossibile da risolvere.

In realtà, l’America e la Russia, ma anche molti Paesi del sud del Mediterraneo, iniziano la loro storia – o si trovano fortemente intrecciati – a quella dell’impero romano, che è durato circa duemila anni, e forse è ancora qui nella nuova incarnazione della Santa Sede, erede di molte antiche tradizioni romane.

 Infatti, se consideriamo che la storia documentata è di circa tremila anni, sia per l’Occidente che per la Cina, oltre il novanta per cento di questa storia si trova in Italia, dagli antichi greci, ai romani, al Rinascimento, ai gesuiti, che si recarono in Cina.

 La storia dell’Italia può quindi essere uno specchio eccellente, anche se parziale, attraverso il quale i cinesi possono guardare alla storia occidentale per comprendere meglio il loro attuale processo di modernizzazione, che è in gran parte occidentalizzazione.

 

Non esiste una storia aggiornata dell’Italia in Cina, e certamente non esiste nulla di specifico per il lettore cinese, e questo libro cerca di dare una prima risposta a questa esigenza.

I cinesi, del resto, sentono che c’è qualcosa di unico che li lega agli italiani, e non è semplicemente Marco Polo o Matteo Ricci:

è il sentimento profondo di provenire da antiche civiltà ininterrotte. Questa storia dell’Italia è incompleta e forse superficiale.

La storia occidentale, anche se vista dal buco della serratura della storia italiana, è troppo lunga e complessa.

 Ma qui le scelte sono state fatte pensando a un lettore cinese, per fornirgli una prima tappa completa della storia italiana, per potere spaziare in tutte le direzioni che vorrà successivamente seguire.

Almeno, la mia speranza è che i lettori cinesi possano avere una prima facile risposta alle loro tante curiosità e interessi.

La cosa può forse funzionare anche nell’altro senso.

I lettori occidentali, sicuramente più familiari con la storia italiana, potrebbero trovare in questo libro una chiave per la Cina, più facile da avvicinare attraverso la propria storia che attraverso la misteriosa storia cinese.

Ciò che i cinesi di oggi cercano, cosa cercano, cosa li incuriosisce della storia italiana, dice anche agli occidentali cosa dovrebbero cercare quando guardano alla Cina.

Nei libri scolastici di storia italiana degli anni Sessanta, quelli che usavo da bambino, una lezione standard era la critica alla posizione sull’Italia del primo ministro austriaco, il principe Klemens Wenzel Von Metternich.

 I libri spiegavano che nel 1815, al Congresso di Vienna, che riorganizzò i confini e gli Stati d’Europa dopo le guerre napoleoniche, Metternich respinse le ambizioni politiche verso uno Stato unitario e reimpose il controllo austriaco sulla penisola, accompagnandola con la frase: “L’Italia è solo un’espressione geografica”.

Dunque non poteva avere ambizioni politiche e doveva rimanere divisa in una dozzina di staterelli privi di influenza al di là delle Alpi.

L’Italia unitaria degli anni Sessanta del XIX secolo dimostrò errata questa affermazione, con le guerre napoleoniche che portarono il primo sentimento di uno Stato italiano.

 Napoleone inventò la Repubblica Cisalpina nell’Italia settentrionale alla fine del XVIII secolo, dopo la sua prima campagna contro gli Austriaci, e diede all’Italia la sua prima bandiera, che si differenziava da quella rivoluzionaria francese solo per un colore:

quella francese era (ed è) blu, bianca e rossa; quella italiana era (ed è) verde, bianca e rossa.

Anche la differenza di colore era minima, poiché il verde è un colore molto simile al blu.

 La Francia napoleonica si sentiva vicina agli italiani e il sentimento era calorosamente ricambiato.

Dopotutto la Corsica, luogo di nascita di Napoleone Bonaparte, fu venduta alla Francia da Genova nel 1764.

 All’inizio si trattò di un trattato segreto, quando il “Duca di Choiseul”, allora ministro della Marina, la acquistò a nome della corona francese.

Genova lo fece perché non era riuscita a reprimere la ribellione indipendentista guidata da “Pasquale Paoli” e voleva sbarazzarsi di quei facinorosi traendone qualche profitto.

 Nel 1755 Paoli aveva proclamato la Repubblica Corsa con una costituzione che potrebbe aver influenzato la successiva Costituzione americana.

 Paoli fondò la prima Università della Corsica (con insegnamento in italiano).

Paoli considerava i Corsi un popolo italiano.

 Anche Napoleone, nato nel 1769 da una famiglia originaria della Toscana (Bonaparte è un cognome tutto italiano, che significa “parte buona”), potrebbe essersi ispirato a Pasquale Paoli, i cui sostenitori condussero una guerra di resistenza sull’isola per molti anni dopo l’annessione alla Francia.

 

Tuttavia, prima della Repubblica Cisalpina, e soprattutto prima dell’annessione del Regno di Napoli (che governava tutta l’Italia meridionale) al Regno di Savoia (che governava parte dell’Italia settentrionale e parte dell’Italia centrale) nel 1861, non era mai esistito uno Stato italiano unitario.

 Anche al momento dell’istituzione della Repubblica, l’Italia non era unita.

L’area di Venezia passò venne annessa nel 1866, grazie all’alleanza con la potenza emergente dei prussiani contro gli austriaci in declino.

Roma e i suoi dintorni furono conquistati nel 1870 in una guerra contro lo Stato Pontificio, mentre le zone intorno alle città di Trento e Trieste furono strappate al dominio austriaco solo alla fine della Prima Guerra Mondiale, nel 1918.

 

Quindi “Metternich” aveva ragione nel 1815 a non credere in un’entità politica chiamata Italia, e i libri di storia italiana degli anni Sessanta si sbagliavano.

La questione dell’”espressione geografica” supportava la fredda e realistica affermazione del principe austriaco, modello di riferimento per frotte di diplomatici fino a Henry Kissinger.

 L’Italia era stata il centro dell’Impero Romano, ma prima, dopo e anche durante, vi abitarono molti popoli diversi, con lingue e costumi diversi.

Gli arabi semiti avevano dominato la Sicilia e i turchi dell’Asia centrale avevano conquistato le coste dell’Italia meridionale;

prima di loro c’erano stati i greci che pensavano che la penisola italiana fosse una Grecia allargata (Magna Grecia);

 i fenici vivevano tra la Sicilia e l’odierna Tunisia;

 la Gallia si estendeva su entrambi i versanti delle Alpi, la pianura padana e l’odierna Francia;

 e gli etruschi, un popolo oscuro forse originario dell’Anatolia, hanno lasciato un segno indimenticabile.

Anche i vichinghi dalla Norvegia e i principi o i pirati dalla Francia o dalla Spagna o dalla Germania erano arrivati a reclamare questo o quel pezzo della penisola.

Nessuno aveva governato l’Italia nella sua interezza, solo i Romani, ma per loro era solo il nodo di una rete molto più grande, il loro impero.

Il caleidoscopio di lingue diverse poteva far freddamente supporre che l’Italia non avesse motivo di essere trattata come un’unità.

 Anche dopo l’unificazione rimase molto divisa, con dialetti e lingue reciprocamente incomprensibili, tanto che chiunque, non solo Metternich, avrebbe potuto trovare molte ragioni per sostenere che l’unità politica della penisola fosse stata un enorme errore.

Tuttavia, c’è anche qualcosa che unisce l’Italia.

 È qualcosa di difficile da definire in modo specifico, ma c’è sicuramente. È una cultura comune:

 l’interazione di persone che si sono incontrate e combattute per millenni in un piccolo spazio che tuttavia ha esteso la sua influenza su tutto il mondo, uno spazio che è stato per secoli il centro della civiltà occidentale.

 Infatti, dei circa tre millenni di civiltà occidentale, oltre il novanta per cento si trova in Italia, tanto che la storia del mondo occidentale non può prescindere dall’Italia e la storia dell’Italia è in qualche modo una versione sintetica della storia dell’Occidente.

Anche oggi, mentre l’importanza politica ed economica dell’Italia è in declino da decenni, la penisola ospita due delle organizzazioni più potenti del mondo.

 La Chiesa cattolica, con sede a Roma, di gran lunga la più grande religione unitaria del mondo, e la mafia, forse ancora la più formidabile organizzazione criminale del pianeta.

 Con queste due realtà che assorbono le migliori menti del Paese, si potrebbe sostenere con un sorriso, cosa resta alla politica italiana?

Inoltre, nonostante le difficoltà economiche generali, l’Italia ha alcune nicchie uniche:

 la sua industria alimentare con pasta, pizza ecc. è popolare in tutto il mondo, il suo calcio è seguito da miliardi di persone in tutto il mondo, la sua moda non è seconda a nessuno e ci sono centinaia di eccellenze in quasi tutti i settori industriali.

 

Sembra un miracolo che tutto ciò avvenga nonostante la sua pessima gestione politica.

Oppure è così a causa della sua gestione politica, come sostenevano alcuni politici democristiani negli anni ’80?

 Mussolini, leader dell’Italia dal 1922 al 1943, diceva notoriamente: “cercare di governare gli italiani non è impossibile, è inutile”.

 O forse si tratta di una forma di giustizia divina:

se gli italiani trovassero un buon sistema politico per loro stessi, nessun altro Paese avrebbe alcuna possibilità di sopravvivere, come avvenne per l’impero romano.

 Eppure gli italiani per secoli hanno trovato il modo di governarsi in modo diverso.

 Soprattutto, per secoli l’influenza italiana è andata ben oltre i confini dell'”espressione geografica” e ha contribuito a plasmare l’Europa, il Mediterraneo e il mondo.

Questo libro è un piccolo assaggio di come ciò sia avvenuto, di come l’Italia sia diventata ciò che è ora e del perché la sua eredità sia così importante per tutti.

 

 

 

 

Il sostegno della mafia allo

sbarco alleato in Sicilia

80 anni fa 10 luglio 1943.

It.euronews.com - Paolo Alberto Valenti – (09/07/2023) – ci dice:

 

Il 10 luglio 1943, la più grande flotta d’invasione riunita fino ad allora raggiungeva la Sicilia.

Mezzo milione di uomini, protetti dai cannoni navali e da una flotta aerea che dominava il cielo, si apprestava a sbarcare in Europa.

A 80 anni dallo sbarco in Sicilia.

Ottanta anni fa, il 10 luglio del 1943, la prima poderosa “armada” alleata si profilava al largo della Sicilia.

Per l’Italia fascista scoccava il suo “D day”, il primo in Europa.

“Il giorno dell’invasione” è il titolo del volume appena uscito per i tipi di Mursia firmato dallo studioso” Mimmo Anfor”a che ha dedicato decenni alla ricognizione di questo come di altri eventi storici che sullo scenario bellico novecentesco hanno afflitto la storia della sua Sicilia.

“Alle prime luci del 10 luglio, davanti alle coste meridionali siciliane, uno spettacolo spaventoso e grandioso allo stesso tempo si presentava davanti agli occhi dei difensori italiani:

una sterminata flotta nemica, formata da navi da guerra, mercantili e mezzi da sbarco, copriva la superficie del mare.

 I militari della difesa costiera, dall’interno delle trincee e dei fortini, debolmente protetti da filo spinato e radi campi minati, guardavano un mare coperto da grigie imbarcazioni, impietriti, attoniti, con gli occhi sgranati e i cuori tremanti”:

 scrive Anfora nella prefazione che si addentra fin da subito nella lettura delle forze in campo:

 da una parte la 7a armata di “George Patton” insieme all’8a armata di “Bernard Law Montgomery” (agli ordini del generale statunitense “Dwight David Eisenhower”), dall’altra il Regio Esercito male equipaggiato che disponeva di un numero di pezzi d’artiglieria di gran lunga inferiore a quelli alleati e di una catena di comando costituita in prevalenza da ufficiali poco preparati e poco abili oltre a truppe solo in pochi casi pronte al combattimento davanti a un esercito di gran lunga più poderoso.

Le forze germaniche di stanza nella Sicilia dell’estate 1943, erano a mala pena la divisione di granatieri corazzati 15a «Sizilien», una divisione corazzata incompleta (la «Hermann Goering»), una brigata contraerea (la 22a Flak Brigade).

 Ai pochissimi velivoli da combattimento italiani la Luftwaffe affiancava nell’insieme del Mediterraneo circa 800 aerei di cui solo 500 efficienti. Inoltre, per quanto riguarda i tedeschi, la catena di comando giungeva fino alla cancelleria hitleriana così che la coordinazione con lo stato maggiore italiano era particolarmente difficoltosa.

La storiografia dello sbarco in Sicilia dibatte da sempre sul ruolo della mafia ed ha sviscerato la documentazione relativa al gangster “Lucky Luciano “che nel 1942 dal carcere di Dannemora (dove scontava un pena di 30 anni) venne trasferito nella prigione modello di Comstock.

 Qui iniziò a far salotto con altolocati personaggi dell’amministrazione a stelle e strisce.

Nel 1946 Luciano venne definitivamente scarcerato, ufficialmente perché aiutò a neutralizzare i sabotatori tedeschi nei porti americani in realtà (come confermato da due commissioni d’inchiesta, una statunitense e una parlamentare italiana, quest’ultima risalente agli anni Novanta) gli vennero riconosciute tre legittimazioni concesse dagli statunitensi alla mafia,

“la prima, il ricorso a capi mafiosi per la preparazione dello sbarco in Sicilia;

la seconda, l’appoggio dato al movimento separatista;

la terza la collocazione ai vertici delle amministrazioni comunali di politici sostenuti dai mafiosi o addirittura di boss mafiosi

 (Cfr. pagina 4 di “Malpaese”, Alessandro Sili, Donzelli Editore 1994, Roma).

Nel suo articolato saggio su questo specifico teatro di guerra, i primi giorni di battaglia, “Anfora “passa in rivista le opposte posizioni:

“Tra gli storici che si sono espressi a favore della tesi sull’accordo tra il governo USA e Cosa Nostra c’è il giornalista “Ezio Costanzo”, pensiero espresso nel suo saggio “Mafia & Alleati Servizi segreti americani e sbarco in Sicilia” – Da Lucky Luciano ai sindaci“uomini d’onore”, pubblicato nel 2006.

La tesi contraria è sostenuta dal Professor “Rosario Mangiameli”, storico specializzato in Storia Contemporanea e Storia della Sicilia, il quale ha affermato “la totale inconsistenza storica di una diceria molto popolare fuori da sedi scientifiche. Tesi che ha prodotto la nascita del suo saggio

"In guerra con la Storia. La mafia al cinema e altri racconti. ”

 

La rinascita della mafia dopo l'era Mori.

Resta però particolarmente difficile, e “Anfora” lo conferma a Euronews, sostenere che la rinascita della mafia nella Sicilia del dopo sbarco sia estranea al potere esercitato dagli statunitensi sull’isola.

Dopo gli anni della repressione fascista agli uomini d’onore non pareva vero di poter rialzare la testa.

Il colonnello Charles Poletti, allora ex vicegovernatore di New York, divenne il dirigente degli “Affari civili” dell’isola diventando il top manager dei rapporti con i notabili locali, mafiosi compresi.

 Fra questi spiccava Calogero Vizzini (don Calò), fu lui l’ufficiale di “collegamento” con i mafiosi chiamati a collaborare allo sbarco.

Le ragioni di questo nuovo apporto storico.

“Questo lavoro – sostiene l’autore in coda alla prefazione - ha lo scopo di narrare il giorno dell’invasione, le ventiquattro ore che decisero non solo il destino della Sicilia, ma di tutta l’Italia, e che furono l’inizio di una campagna che durò quasi due anni, mettendo a ferro e fuoco la nazione. Questi tragici fatti sono visti attraverso gli occhi degli ufficiali del Regio Esercito, ricostruiti e narrati grazie ai rapporti che essi stilarono al rientro dalla prigionia.

Pietra angolare di questo lavoro è la relazione del colonnello “Francesco Ronco”, comandante del “75° rgt fanteria” di stanza a Palazzolo Acreide, dal titolo «Note sull’invasione e sulla difesa della Sicilia – Anno 1943».

Mi onoro di aver stretto una salda amicizia con la figlia di Ronco, Maria Luigia, valida scrittrice di romanzi e di libri scolastici, la quale ha avuto la gentilezza di fornirmi un ricco materiale d’archivio redatto dal padre. Con le impressioni del colonnello Ronco, trasferito nell’isola pochi giorni prima dell’invasione, inizia questa narrazione”.

Ecco a seguire un brano tratto dal volume di” Anfora”:

Il flagello dal cielo.

Dopo lo sbarco, Ronco fece una riflessione anche sull’ attività aerea nemica sul cielo della Sicilia: con formazioni di aerei molto numerose si flagellavano campi d’aviazione, centri logistici e vie di rifornimento, risparmiando invece le località dove erano accantonate le truppe, allo scopo di poterle colpire di sorpresa al momento dello sbarco, sfruttando le indicazioni dello spionaggio.

Nel tardo pomeriggio del 9 luglio, poche ore prima dello sbarco, una formazione di bombardieri bimotori americani sorvolava Palazzolo.

 Si trattava di B-26 Marauder del 320th Bombardment Group al comando del cap. Marble, scortati da Spitfire decollati da Malta. Quattro bombardieri erano rientrati per problemi vari, ma 22 si erano radunati sul cielo della cittadina iblea, carichi di 3 mila libbre di bombe ciascuno.

Compito delle spie era di segnalare gli obiettivi importanti.

Sulla terrazza della sede del comando del 75° rgt fu steso ad “asciugare” un ampio lenzuolo, sul quale cadde, precisa, una bomba di grande potenza che distrusse l’edificio.

In quel pomeriggio caldo e ventoso, stavano rientrando i contadini dalle campagne, mentre in paese gli anziani oziavano e chiacchieravano seduti in piazza e i bambini giocavano sulle vie, inseguendosi e gridando.

Erano circa le 18,30, quando, improvvisamente, iniziò a tremare l’aria. La gente volse lo sguardo verso l’alto: erano convinti che si trattasse della solita formazione di aerei nemici che andava a bombardare Catania e Gerbini.

 Non era così.

 Il gen. Rosario Fiumara, comandante della fanteria divisionale della «Napoli», alzò gli occhi verso il cielo e, sulla perpendicolare della città, vide sotto gli apparecchi luccicare una moltitudine di punti luminosi e capì che si trattava di bombe in caduta.

Pochi attimi dopo Palazzolo era avvolta in un inferno di scoppi e di nubi. Immediatamente, Fiumara uscì dal comando fanteria divisionale insieme ai suoi ufficiali.

L’edificio, il ginnasio di Palazzolo, era rimasto integro in mezzo a una totale devastazione.

Davanti agli occhi di Fiumara c’era un centro abitato completamente distrutto, mentre la gente, impazzita dall’ orrore e dal dolore, urlava, imprecava e chiedeva aiuto.

Nel rapporto americano c’era scritto:

 Le bombe del primo squadrone furono lanciate al centro della città, estese ai margini dell’obiettivo; le bombe di due aerei furono lanciate sugli incroci stradali a nord est della città.

 Le bombe del secondo squadrone segnarono colpi diretti sulle caserme nel lato orientale del bersaglio e risalirono i margini sud-orientali e orientali della città attraverso il parco alberato.

 Tra gli edifici distrutti c’era anche il comando del 75° fanteria, ma Ronco e i suoi collaboratori si erano salvati, perché assenti per impegni vari di servizio e di ricognizione.

Il colonnello, avvertito del disastro, rientrò subito in sede, disponendo l’immediato inizio dell’opera di soccorso e di estrazione di centinaia di morti e di feriti civili e militari rimasti sotto le macerie.

 La febbrile pietosa attività fu svolta tutta la notte, in mezzo a una polvere soffocante, con un’illuminazione di fortuna e materiale sanitario militare, poiché l’ambulatorio della città aveva esaurito tutto.

 La formazione nemica fece rotta verso l’aeroporto di partenza, indisturbata.

 Non subì attacchi né dalla contraerea né dalla caccia italo-tedesca. La Sicilia sembrava ormai un corpo inerme e indifeso, abbandonato alla barbarie dei bombardamenti terroristici.

Molti materiali e autoveicoli erano rimasti sepolti, le comunicazioni e le strade erano interrotte.

Fiumara dispose immediatamente il riattamento delle rotabili e, in previsione di ulteriori bombardamenti, ordinò a Ronco di trasferire fuori dalla città, verso il bivio per Noto, le truppe e i materiali.

Restavano nel centro abitato le squadre di soccorso e di recupero del materiale, i posti di medicazione e i carabinieri.

 Il generale inviava due motociclisti a richiedere i soccorsi, uno al comando militare di zona, l’altro alla prefettura di Siracusa.

Tra i soccorritori giunse da Vizzini un plotone della 71a cp artieri del genio divisionale.

La comandava il tenente di complemento Pasquale Calzarano, classe 1912 di Agrigento, dove svolgeva la professione di ingegnere. Richiamato alle armi nel maggio 1940, era stato incorporato nel genio della «Napoli» con sede a Vizzini.

Alle 23 del 9 luglio aveva ricevuto l’ordine di portare il suo plotone a Palazzolo Acreide per dirigere i lavori di salvataggio di alcuni militari del I btg del 75° rgt che erano rimasti sepolti vivi sotto le macerie dell’accantonamento colpito dal bombardamento aereo.

A notte alta Fiumara si trasferiva col suo comando all’ osservatorio di quota 697, presso il teatro greco.

Da lì si dominava tutta la costa da Catania a Pachino, rischiarata da migliaia di razzi illuminanti.

Qualcosa di eccezionale e di grave stava per accadere.

Alle ore 23, intanto, giungeva la notizia che era stato proclamato lo stato di emergenza.

 

 

 

 

La più grande “narco banda”

 del Sudamerica si espande

in altri continenti.

Aduc.it – Redazione – (26 novembre 2023) – ci dice:

 

Il “Primer Comando Capital “è una mafia che si diffonde in Europa e Africa.

Le partite di calcio sono questioni tese in Brasile.

Ciò è doppiamente vero quando hanno luogo nelle carceri.

Nell'agosto del 1993, una partita in una prigione di San Paolo finì in modo orribile.

 Otto prigionieri attaccarono i loro avversari, uccidendone almeno due. Coperti di sangue, proclamarono la nascita di una nuova banda: il Primer Comando Capital (PCC).

 Trent’anni dopo, il PCC è la banda più grande dell’America Latina, con circa 40.000 membri a vita e altri 60.000 “appaltatori”.

 Ciò lo renderebbe uno dei più grandi gruppi criminali al mondo.

 E il 6 novembre, un rapporto trapelato dai servizi di sicurezza portoghesi affermava che il gruppo contava 1.000 associati a Lisbona, la capitale.

 Il PCC diventa globale.

La rete di alleati della banda è iniziata in Sud America. Dieci anni fa, il PCC ha collaborato con alcuni dei più grandi trafficanti di cocaina del mondo.

 Con sede nella città boliviana di Santa Cruz, questa "super banda" si dedica alle joint venture di riciclaggio di droga e denaro.

I media locali pensavano che assomigliasse al “Mercosur”, il blocco commerciale regionale.

 Lo battezzarono “Narcosur”.

 Il PCC intrattiene anche rapporti con il “Tren de Aragua” del Venezuela, un gruppo dedito al traffico di esseri umani.

Ma negli ultimi anni il PCC si è concentrato su legami più stretti con l’Europa.

 Nel 2021 nell’Unione Europea sono state sequestrate la cifra record di 303 tonnellate di cocaina.

Più lontano spedisci, maggiore sarà il margine.

 In precedenza, il PCC acquistava coca all’ingrosso in Bolivia per 1.500 dollari al chilogrammo, la caricava su una nave in un porto brasiliano e la rivendeva per 8.000 dollari al chilogrammo.

Stabilendo una base in Europa, i membri possono vendere quel chilogrammo per più di 30.000 dollari.

Si ritiene che vi siano membri del PCC in una mezza dozzina di paesi europei, inclusa la Gran Bretagna.

La banda dirige più del 50% delle esportazioni di droga del Brasile verso il continente, afferma “Lincoln Gakiya”, procuratore della criminalità organizzata di San Paolo.

Lavora principalmente con la 'Ndrangheta italiana, la più grande mafia d'Europa.

Entrambi i sindacati collaborano da anni.

 Gli intermediari della 'ndrangheta vengono regolarmente arrestati in Brasile, dove svolgono importanti affari.

A maggio, un'indagine dell'Europol, l'agenzia di polizia dell'UE, ha rivelato che la 'Ndrangheta spediva armi del PCC dal Pakistan.

Collabora anche con bande di narcotrafficanti albanesi e serbe.

Altra zona di espansione per la fascia è l’Africa occidentale, una delle principali zone di transito per la sostanza bianca.

Secondo un recente rapporto dell’Iniziativa globale contro la criminalità organizzata transnazionale, un “think tank” con sede in Svizzera, il PCC è diventato uno dei principali trafficanti nella regione.

 È probabile che si tratti anche di un percorso inverso, secondo cui la cannabis marocchina viene contrabbandata in Brasile.

Secondo “Christian Azevedo”, della polizia federale brasiliana, in Nigeria i gangster del PCC camminano sfacciatamente per le strade di Lagos e Abuja.

“Lì controllano anche i quartieri, proprio come fanno a San Paolo”, dice, citando informazioni provenienti dai suoi omologhi nigeriani.

 Il legame con la Nigeria ha anche aiutato la banda a sfondare nell'Africa meridionale.

 Il Sudafrica è un punto chiave per la spedizione di coca verso i mercati emergenti di India e Cina.

L’influenza criminale non si limita agli amici potenti o alla portata geografica.

 Importante è anche il controllo territoriale e sociale.

 In questo il PCC non è molto indietro.

"Esercitano un tipo di controllo che nessun altro gruppo ha mai esercitato, tranne le FARC colombiane al loro apice", afferma” Steven Dudley” di” InSight Crime”, un organismo investigativo.

La banda è uno stato parallelo nelle favelas del Brasile, che governa la vita di decine di milioni di persone.

 Negli anni 2000 ordinò addirittura una riduzione della violenza urbana, trasformando San Paolo da una delle città più pericolose del Brasile a una delle più sicure.

 Tuttavia, se i suoi interessi fossero minacciati, il gruppo ricorrerebbe alla violenza estrema, osserva Gakiya.

Nel 2019 ha ordinato il trasferimento di 22 leader del PCC nelle carceri di massima sicurezza.

Di conseguenza, la banda lo ha inserito nella lista nera.

 Ora vive sotto la protezione della polizia.

Intervistato, ha avvertito che la chiamata potrebbe essere interrotta:

 le sue porte blindate interrompono il segnale.

L'ultima fase della transizione verso una mafia globale è la penetrazione nella politica e nell'economia legale.

Il PCC sta iniziando a farlo, pensa Gakiya.

 La Procura Generale dello Stato di San Paolo ha indagato su sindaci e consiglieri.

Ha scoperto che il PCC è coinvolto in qualsiasi cosa, dalla raccolta dei rifiuti e dai trasporti pubblici ai progetti di costruzione e agli hotel.

(The Economist).

 

 

 

Giovani studenti e diritti consumatori.

Ma chi dovrebbe insegnare loro,

conosce questi diritti?

 Aduc.it - Vincenzo Donvito Maxia – (24 gennaio 2024) – ci dice:

 

Antitrust ha fatto un’indagine tra giovani studenti (11-18 anni) per verificare la loro consapevolezza come consumatori.

Tutto sommato… poteva andare peggio, visto che quasi i due terzi, per esempio, sanno che hanno diritto alla riparazione di un oggetto in caso di acquisto non conforme e 1 su 3 dichiara di conoscere le fondamenta del Codice del Consumo.

Non è sufficiente, certo.

Ma riteniamo che sia un risultato sorprendente se consideriamo cosa viene loro insegnato a scuola in ambito educazione civica.

E molto probabile, che essendo questi ragazzi avvezzi ad acquistare soprattutto online, si siano fatta esperienza sufficiente da soli a farsi valere in merito.

Sottolineato che occorrerebbero maggiori ore e maggiore impegno scolastico per l’educazione civica, senza che questa materia continui ad essere emarginata - quando va bene -al pari di scienze motorie e sportive…. rimane un problema gigantesco:

 chi dovrebbe insegnare loro, nella scuola e nella vita, conosce questi diritti?

Per la scuola abbiamo già detto e non ci sembra di scorgere all’orizzonte chissà quali iniziative in merito.

Per la vita (società e famiglia), non possiamo che rilevare:

- famiglia:

dipende caso per caso, soprattutto dall’alfabetizzazione della stessa in materia e non solo.

Ed essendo i diritti dei consumatori recente patrimonio scolastico e culturale, crediamo che siamo ancora in alto mare.

- società:

quanti commercianti si prodigano ad informare, soprattutto a soggetti presumibilmente più deboli, al pari degli anziani, anche se i giovani sono più propensi ad apprendere?

Dalla nostra esperienza… siamo in un magma indefinito con spesso, soprattutto piccole e medie imprese, incapaci o finte incapaci di rapportarsi con chiarezza di diritti e doveri con i consumatori.

Le conclusioni che traiamo sono che, mentre questi giovani hanno in merito un buon livello di acculturazione, non si può dire che sia altrettanto per chi dovrebbe loro informarli, famiglia o società che sia.

Crediamo che i giovani siano molto più avanti della società che, invece, nel suo complesso, avrebbe bisogno di una informazione di massa e dettagliata, al pari di quelle che si fanno per far sì che tutti i cittadini abbiano dimestichezza con il digitale nel suo insieme.

 

 

‘La libera informazione non

sostituisce la giustizia’ –

Pg Cassazione. Ma guarda un po’...

Aduc.it -  Vincenzo Donvito Maxia – (25 gennaio 2024) – ci dice:

 

“La libera informazione non sostituisce la giustizia”.

 È quanto praticamente ha detto il procuratore generale di Cassazione, “Luigi Salvato, nel corso del suo intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario.

Questo il testo preciso:

"Va ribadito che 'verità giudiziaria' è solo quella raggiunta nell'osservanza del giusto processo di legge celebrato da magistrati ed avvocati; pretendere di sostituirla con improbabili indagini, abnormi plebisciti, significa distruggere le basi dello Stato di diritto e delle nostre libertà".

 (Askanews)

In tono ovviamente riverente e rispettoso ci viene da esclamare “ma guarda un po’”...

 

Cos’è uno Stato dove uno dei suoi poteri, quello Giudiziario, si sente di dover precisare che la libera informazione non è un potere dello Stato?

Siamo in presenza di una deriva incontrollabile dell’informazione (social inclusi) per cui è doveroso un simile intervento?

 E allora, si facciano nomi e cognomi e, nel caso, si perseguano i responsabili.

Se così non è, che cos’è?

Un messaggio a utenti e operatori dell’informazione perché tornino su una presumibile retta via, ormai smarrita?

Siamo in ambito “inaugurazione anno giudiziario”, non ad una pubblica manifestazione su “giustizia e informazione”.

A noi operatori e utenti dell’informazione (sui consumatori, nel nostro caso) ci viene un dubbio: cosa abbiamo fatto? Dove abbiamo strabordato, andando oltre i limiti dei codici?

Al momento non lo sappiamo, anche perché non abbiamo procedimenti giudiziari aperti in merito, e quindi chi sono, dove sono, cosa hanno fatto coloro che “pretendono di sostituire (ndr. la giustizia) con improbabili indagini, abnormi plebisciti” che distruggerebbero - secondo il nostro PG - le “basi dello Stato di diritto e delle nostre libertà”?

A noi sembra proprio che, quando con l’informazione si stimolano i poteri dello Stato (potere giudiziario incluso) vuol dire che stiamo esercitando una delle libertà tipiche di uno Stato di diritto.

Ci preoccupa chi, a fronte di questo esercizio, ci “accusa” di minare invece sia libertà che Stato di Diritto.

 

 

 

Il” dio verde”, un nuovo idolo

della nostra cultura?

Locicommunes.it – Leonardo De Chirico – (13 dicembre 2021) – ci dice:

 

“La religione ecologica è il nuovo oppio dell’Occidente post-cristiano”.

 Con queste parole il filosofo francese “Robert Redeker” introduce il pamphlet al vetriolo di “Giulio Meotti”, giornalista del “Foglio”, “Il dio verde”. “Ecolatria e ossessioni apocalittiche”, Macerata,” Liberi Libri” 2021.

 Per Redeker, quella ecologica è una religione feticista (eleva la natura e gli animali a oggetto di culto), panteista (li considera divini) e anti-umana (l’uomo è l’ospite distruttore che va eliminato).

 

Ora, a orecchi cristiani, un conto è la cura dell’ambiente, un altro è l’ecologismo come religione.

Se l’ambiente diventa un assoluto, ecco che l’ecologismo assume i tratti di una religione totalizzante.

“ Meotti” documenta la crescita e le rivendicazioni di questa religione verde, soprattutto sul versante della cultura francese contemporanea.

 In realtà si tratta di un’evoluzione del pensiero moderno che alla Dea Ragione ha sostituito la Dea Terra  visto il fallimento delle ideologie politiche del Novecento e la loro conversione nell’”ortodossia ambientalista”.

Infatti, il filosofo tedesco “Peter Sloterdijk” l’ha definita “l’ultima religione occidentale”. 

Citando “Raymond Aron”, Meotti sottolinea che dalla promessa del regno dei cieli si è passati all’aspettativa del regno dell’uomo fino ad arrivare all’attesa del regno della natura.

La nuova metafisica ecologica nutre il sogno della nuova “utopia ambientale”.

Il “greenismo” centra poco con l’ecologia cristiana perché non gli interessa rispondere in modo responsabile al mandato culturale ricevuto da Adamo ed Eva:

 vuole sostituirlo con un mandato a estinguersi per esaltare Gaia.

 Gli esseri umani, semmai, sarebbero colpevoli del “peccato originale” di consumare e l’unico rimedio sarebbe l’eliminazione del consumo, dunque la fine della specie umana.

Il dio verde è contro l’antropocentrismo, in tutte le sue declinazioni.

Mentre anche la critica cristiana riconosce di aver per troppo tempo sposato una cultura umano centrica perdendo di vista la collocazione dell’essere umano nel creato, la religione ecologica, figlia della sedimentazione dell’evoluzionismo, dell’anti-specismo e dell’intersezione di tutte le lotte di liberazione immaginabili, non vuole redimere la cultura, ma soppiantarla con un’”utopia idolatrica”.

 

La religione verde sta edificando un vero e proprio culto: ha i suoi giorni santi (la Giornata della Terra), i tabù alimentari (veganesimo), i templi (le università occidentali del pol.corr.), i sacerdoti (gli esperti che sciorinano dati catastrofici), le vestali (Greta), la sua apocalittica (l’incubo del riscaldamento globale).

 Ha anche la sua ostia (il compost).

 I suoi nemici sono l’Occidente, il capitalismo, l’uomo bianco, il cristianesimo e tutto ciò che è ad essi intrecciato.

“ Meotti” conclude in modo forte dicendo che: “Dio è diventato verde e in sacrificio chiede la morte dell’Occidente. Amen!” 

 

Il pugno in pancia è in effetti duro e Meotti ha l’abilità giornalistica di non smorzarlo.

È interessante che usi nel sottotitolo la categoria teologica dell’idolatria, anche se non la sviluppa affatto.

 È più un richiamo retorico, ma non una chiave di lettura.

Peccato.

 Un altro limite del pamphlet è che, nel criticare il “greenismo,” non è autocritico rispetto alle devianze della cultura occidentale nelle loro varianti capitalistiche, individualistiche, consumistiche, narcisistiche.

Per una cultura evangelica, l’idolatria dell’ambiente (ecolatria) è speculare all’idolatria dell’io (egolatria).

 Per combattere ogni idolatria, non basta difendere l’Occidente e le sue acquisizioni:

va confessato l’unico e vero Dio, il Creatore dei cieli e della terra, e in Gesù Cristo, il Salvatore del mondo, e re-imparare a vivere di conseguenza.

Il compito profetico di denunciare gli idoli deve essere accompagnato dal compito regale di re-impostare la vita non difendendo lo status quo, ma entrando nel regno di Dio e da lì proseguire.

(Leonardo De Chirico)

 

 

 

 

I (dis)valori dell’Occidente

 hanno conquistato il mondo:

i Brics non fanno eccezione.

Agendadigitale.eu - Lelio Demichelis – (7 set. 2023) – ci dice:

 

Anche se i valori (religiosi, politici, esistenziali) del resto del mondo sembrano divergere da quelli dell’Occidente (o viceversa), in realtà non esistono valori diversi e divergenti da quelli dell’Occidente.

 Ormai diventati la forma di vita del mondo intero.

Anche nei paesi BRICS, che pure sembrano andare in senso opposto.

 

“Western values are steadily diverging from the rest of the world’s”, ha scritto recentemente “The Economist”.

 Ma è davvero così?

E non stiamo forse tornando a uno dei tanti momenti in cui certi paesi del mondo decidono di non allinearsi e di provare a costruire un mondo multipolare/policentrico, o almeno non solo bipolare/bi-imperiale – come dimostrerebbe la recente riunione dei Brics, poi allargati, dal 2014 ad altri paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto, Argentina, Etiopia (Brics+)?

 

BRICS is expanding, but can it rebalance the world order?

| Counting the Cost.

A parte gli Stati Uniti, contrari a questa ricerca di policentrismo – in quanto capo-filiera dell’impero d’Occidente, con 800 basi militari in 80 paesi del mondo e non certo per esportare la democrazia e difendere i valori dell’Occidente liberale e democratico (vedi Iraq e Afghanistan e, giusto 50 anni fa, il golpe statunitense-fascista di Pinochet in Cile usato poi  per testare sulla pelle viva dei cileni, che non potevano protestare, il neoliberismo per poi imporlo a tutto il mondo), e con l’Europa che ne è l’appendice obbediente e omologata – avere un mondo policentrico, plurale e pluralistico non dovrebbe essere un’aspirazione di tutti, anche degli occidentali e soprattutto degli europei, che si dicono (ma non lo sono mai stati davvero) eredi anche di Immanuel Kant e quindi della sua idea di pace perpetua e di un ordine cosmopolitico, una federazione di popoli nella quale ogni stato sia tutelato?

Quindi perché non orizzontalizzare il potere e farlo policentrico anche in termini di valori diversi, estendendo il principio liberale di bilanciamento dei poteri e di controllo e contenimento reciproco?

Ma poi, e soprattutto, quali sono i valori dell’Occidente:

 il liberalismo o la religione del capitalismo (Benjamin) o del tecno-capitalismo (che poi sono la stessa cosa), ieri il cristianesimo nelle sue diverse forme, l’illuminismo, oppure il benessere e la ricerca della felicità, o i diritti dell’uomo;

oppure il sovranismo/nazionalismo, il neofascismo e il suprematismo bianco – oppure ancora l’I have a dream di Martin Luther King, oggi sulle labbra soprattutto dei migranti?

 

Dai Non-Allineati ai Brics+

I Non-Allineati nascono nel 1961 con l’egiziano Nasser, lo Jugoslavo Tito e l’indiano Nehru tra i fondatori, ma hanno un antecedente con la Conferenza di Bandug del 1955, promossa dal governo indonesiano di allora, riunendo 29 paesi africani e asiatici, molti dei quali da poco usciti dalla colonizzazione occidentale.

Nel “Manifesto programmatico”, approvato a conclusione della “Conferenza di Bandung”, i paesi coinvolti condannarono tutte le forme di oppressione coloniale e, come non allineati si proposero come nuovo soggetto della politica internazionale, distinti e autonomi dai due blocchi riuniti negli imperi di Usa e Urss.

Nella “Dichiarazione di costituzione del movimento” si affermava poi che la “la soggezione dei popoli al giogo straniero, la dominazione e lo sfruttamento […] sono in contraddizione con la carta delle Nazioni Unite e sono di ostacolo allo sviluppo della pace e della cooperazione mondiale […], dichiarando il proprio appoggio alla causa della libertà e dell’indipendenza di tutti i popoli”.

E ancora: “Tutte le nazioni dovrebbero avere il diritto di scegliere liberamente i loro sistemi politici ed economici e il loro modo di vita […] e dovrebbero praticare la tolleranza e vivere insieme in pace e da buoni vicini e sviluppare una cooperazione amichevole […]”, rigettando “ogni interferenza e intervento negli affari interni di altri paesi”, insieme ribadendo che “la cooperazione nel campo economico, sociale e culturale contribuirebbe a creare una comune prosperità e il benessere di tutti”.

Principi che potrebbero/dovrebbero essere validi ancora oggi ma che, da allora, non si sono mai realizzati e il mondo sembra anzi oggi procedere speditamente e irresponsabilmente – ma molto vantaggiosamente in termini di business, armi comprese, cioè di capitalismo – verso una nuova disruption violenta e disordinata dell’ordine geopolitico mondiale, tra imperi in decadenza (gli Usa) e nuovi imperi (la Cina) in cerca di legittimazione e di riconoscimento.

 

Da allora (1955) molte cose sono cambiate e ne ricordiamo solo alcune.

Allora si era ancora nelle seconda rivoluzione industriale e stava iniziando la terza, quella dell’informatica e oggi siamo nella quarta, già ansiosamente aspettando la quinta (in realtà, al di là delle apparenze, è sempre una unica rivoluzione industriale, sempre uguale nella sua legge ferrea fatta di divisione del lavoro e della vita dell’uomo per la successiva integrazione delle parti in qualcosa di maggiore della loro semplice somma, cioè è sempre lavoro industriale, anche nel digitale, e sfruttamento tecno-capitalista di uomo e biosfera, e a cambiare è solo il mezzo di connessione e integrazione delle parti, uomini e macchine precedentemente suddivise:

ieri la catena di montaggio meccanica-taylorismo, oggi la catena di montaggio-piattaforme digitali e il taylorismo anch’esso digitale).

È continuato lo sfruttamento colonialista delle materie prime di Africa, Asia e America Latina da parte del capitalismo occidentale, ieri per il petrolio e oggi per litio e terre rare (e non solo) e per queste materie prime si sono fatte e si fanno ancora guerre ovunque sia necessario per il profitto del capitale (ma la si chiama innovazione tecnologica…) oltre che del complesso militare-industriale.

L’ingerenza negli affari interni dei paesi si fa ancora con la guerra militare (ultima, in Ucraina, ma molte sono le guerre per frammenti, come ricorda Papa Francesco, dentro a una terza guerra mondiale tra potenze geopolitiche/geoeconomiche), ma soprattutto con il “Wto” e le “riforme strutturali” (tutte filo capitalistiche) imposte dal “Fondo monetario” e dal “Washington Consensus” a tutti i paesi del mondo e in Europa dall’”ordoliberalismo di matrice tedesca” e poi assurto a” ideologia dell’Unione europea”.

L’idea di una cooperazione internazionale è stata sostituita dalla continuazione della guerra economica di tutti contro tutti e da forme di neocolonialismo – ma neocoloniali sono soprattutto i giganti hi-tech che hanno trasformato, uniformato e omologato il mondo intero secondo i valori e i voleri dell’Occidente tecno-capitalista e sublimati nella Silicon Valley (altro che diritto di “scegliere liberamente il proprio modo di vita”, altro che “valori divergenti dal resto del mondo”), creando un totalitarismo antropologico digitalizzato e neoliberale con la sostituzione del mercato alla polis, dell’homo oeconomicus/technicus all’homo politicus (si legga in proposito l’ultimo libro di Wendy Brown). E si potrebbe continuare…

Ma arriviamo ai Brics (36% del Pil mondiale e 47% della popolazione globale).

Sono la nuova forma del Non-Allineamento?

 Il modo in cui – soprattutto da parte di Cina, India e Brasile – si cerca di costruire ancora una volta un mondo multipolare?

Sarebbe una prospettiva interessante – tra i valori occidentali non vi è appunto quello del riconoscimento della pluralità, della diversità, della tolleranza, della libertà?

Ma i valori dei Brics sono davvero diversi da quelli tecno-capitalistici dell’Occidente?

 Politicamente vogliono una diversa cooperazione economica, vogliono uscire dal pre-dominio del dollaro creando una nuova moneta di scambio, ma vogliono anche continuare a sfruttare il vecchio petrolio, come i nuovi litio e terre rare.

 E quindi, non agiscono usando e applicando gli stessi (dis)valori dell’Occidente, fatti di sfruttamento della biosfera, di industrializzazione della vita dell’uomo, di ecocidio pianificato?

 E non stanno quindi anche i Brics+ contribuendo a realizzare la profezia (che si auto-avvera ogni giorno che passa) per cui è più facile immaginare la fine della Terra che la fine del capitalismo?

La tesi dell’Economist è sbagliata, perché i (dis)valori veri dell’Occidente sono da tempo i (dis)valori del mondo intero e non stanno certo divergendo nella sostanza (l’apparenza e una cosa diversa – e l’Occidente continua a raccontare di voler estendere la democrazia e la libertà, contraddicendosi poi sempre nei fatti) da quelli del resto del mondo – e viceversa, i (dis)valori dei Brics+/resto del mondo sono gli stessi di quelli dell’Occidente.

 La loro è solo una diversa forma di capitalismo estrattivo e della sorveglianza, non certo un diverso paradigma antropologico, economico, tecnologico.

E anche nei Brics+ vi sono democrazie, democrature, dittature, populismi, sovranismi, trumpismi, putinismi, fascismi proprio come nell’Occidente.

 Perché per il capitalismo e il neoliberalismo è sempre preferibile anche una dittatura purché favorevole al mercato, che una democrazia contraria al mercato (lo diceva il neoliberale von Hayek, esprimendo come meglio non si potrebbe il cinismo valoriale dell’Occidente).

 

E infatti, in Occidente come altrove, qualcuno si oppone forse al capitalismo e alla sua tecnologia (al tecno-capitalismo), intrinsecamente (per sua essenza) illiberale e anti-democratico?

Non sono forse i mercati e l’hi-tech a dettare l’agenda anche alle democrazie?

E non vale forse ancora di più oggi la definizione di “Max Weber” – di cento e più anni fa – del capitalismo come gabbia d’acciaio, quel capitalismo che è “potente ordinamento economico moderno, legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica [ora digitale], che oggi determina con strapotente costrizione, e forse continuerà a determinare finché non sia stato consumato l’ultimo quintale di carbon fossile [oggi di litio e terre rare], lo stile della vita di ogni individuo, che nasce in questo ingranaggio, e non soltanto di chi prende parte all’attività puramente economica”?

E non è la stessa gabbia capitalistica che troviamo in Cina, in India, in Brasile, in Russia?

Nessuna divergenza, dunque, semmai perfetta convergenza, sovrapposizione, identità di (dis)valori tecno-capitalistici – i (dis)valori dell’Occidente che hanno ormai colonizzato l’intero globo.

 

I dis-valori dell’Occidente.

E dunque, di nuovo:

quali sono i veri valori dell’Occidente? Libertà, democrazia, individualismo, stato di diritto, uguaglianza, fraternità?

Teoricamente sì, ma questo è appunto solo il velo ideologico che copre e nasconde il vero e unico valore dell’Occidente:

tecno-capitalismo, tecno-capitalismo e ancora tecno-capitalismo, cioè profitto, profitto e ancora profitto (privato).

E quindi, non è in contraddizione con la libertà di espressione proclamata a parole – un altro dei grandi valori dell’Occidente – l’accanimento persecutorio degli Usa contro Julian Assange?

 Sì, certo che lo è – come in contraddizione con i valori a parole dell’Occidente sono state la macelleria sociale e le torture della Polizia a Genova nel 2001 e oggi le stragi di migranti nel Mediterraneo, e molto altro ancora.

Torniamo allora a “Marx ed Engels” – che su certe cose hanno ancora molto da dirci – che nel 1848 scrivevano (ma è anche il mondo di oggi):

La borghesia – ma noi dobbiamo dire: il tecno-capitale – “non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato pagamento in contanti. […].

 La borghesia [il tecno-capitalismo e oggi la sua incessante disruption] non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. […]

 Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. […]

 Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani”.

E ancora:

 “Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti [è appunto la logica compulsiva-accrescitiva del tecno-capitale], spinge la borghesia [il tecno-capitale] per tutto il globo terrestre.

 Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni. […]

Essa costringe tutte le nazioni a adottare le forme della produzione borghese [tecno-capitalistica] se non vogliono perire;

le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi borghesi [cioè tecno-capitalisti].

 In una parola, essa crea un mondo a propria immagine e somiglianza. […]”.

E sono appunti questi i veri (dis)valori dell’Occidente – come appunto dimostra tutta la sua storia, anche quella digitale/virtuale di oggi.

 E anche Brasile, Cina (l’altro grande inquinatore, con gli Usa) e India stanno cercando di non risolvere davvero la crisi climatica, ma di farci adattare ad essa (si chiama resilienza, parola magica che ci sta ammaliando, rendendoci impotenti davanti al tecno-capitale che la pronuncia), importante è non uscire mai dalla gabbia weberiana.

In realtà tutto il mondo è governato e predeterminato e legittimato, prima che dalla politica, dal capitale e dalla tecnologia da quella che definiamo razionalità strumentale/calcolante-industriale e che è la premessa (il mega-(dis)valore) di capitalismo e tecnica, per cui vale solo ciò che è strumentale alla massimizzazione del profitto e all’accrescimento del mercato e dei sistemi tecnici integrati e alla automatizzazione della società e dei comportamenti;

che è misurabile e calcolabile e quindi standardizzabile, omologabile, replicabile, automatizzabile, pianificabile e oggi algoritmizzabile;

 e che quindi è industrializzabile, vita umana compresa e da cui estrarre sempre maggiore plus lavoro, produttività e quindi plusvalore/profitto privato, in quella che definiamo essere diventata da tempo – ma ancora di più grazie al digitale – una società-fabbrica, di cui noi siamo solo e sempre forza-lavoro per il profitto del tecno-capitale e mai per soddisfare i nostri bisogni e tutelare quelli delle future generazioni.

Conclusioni.

Se dunque i valori (religiosi, politici, esistenziali) del resto del mondo sembrano divergere da quelli dell’Occidente (o viceversa), in realtà non esistono valori diversi e divergenti da quelli dell’Occidente.

Ormai diventati la forma di vita del mondo intero.

Che poi molti paesi (ancora i Brics+) cerchino di ritagliarsi uno spazio proprio all’interno di questa occidentalissima (ir)razionalità strumentale/calcolante-industriale – e che sia irrazionale lo dimostra con tutta l’evidenza dei fatti la crisi climatica, per non dire della continua e crescente crisi sociale e della stessa democrazia – questa è solo la continuazione della (ir)razionalità strumentale/calcolante-industriale, con altri mezzi.

 

 

 

La vita e le idee di “Rodney Stark”,

 il sociologo che difendeva l’Occidente.

Formiche.net - Gennaro Malgieri – (19/08/2022)

Stark, in particolare nel magistrale saggio “La vittoria dell’Occidente”, ha offerto lunghe e dettagliate descrizioni di ciò che è stato l’Occidente nel corso dei secoli, senza celarne le cadute che spesso lo hanno prostrato.

Ma ha sempre saputo rialzarsi.

Sono pochi oggi a rivendicare orgogliosamente l’appartenenza a un mondo che, comunque lo si voglia considerare, ha “inventato” un sistema di diritti e un’armonizzazione delle diversità.

Rodney Stark se n’è andato. Aveva 88 anni .

Era nato a Jamestown nel 1934, si è spento a Woody il 21 luglio scorso. La notizia, è stata data soltanto qualche giorno fa.

È stato un grande apologeta della Chiesa nella storia dell’Occidente a cui ha dedicato i suoi libri più importanti, tra i quali “Dio è tornato” (Piemme, 2003); “La scoperta di Dio “(Lindau, 2008); “Un unico vero Dio” (Lindau, 2009);” A gloria di Dio” (Lindau, 2010); “La vittoria dell’Occidente” (Lindau, 2014) che probabilmente è il suo saggio di maggiore impatto sull’interpretazione della decadenza dell’Occidente e sulla indispensabile difesa.

Per lungo tempo ha diretto l’istituto di studi sulla religione, nell’ateneo cristiano battista del Texas, la” Baylor University” e si è stato apprezzare per aver sostenuto come l’Occidente abbia smesso di credere in sé stesso.

 È diventato, infatti, nell’immaginario dei più, una pura espressione geografica.

 La sua storia, la sua cultura, i suoi valori sembrano evaporati.

 Lo si cita soltanto in contrapposizione all’altro emisfero del quale si assume peraltro soltanto una parte, quella che correntemente viene identificata con il “mondo musulmano”.

Si può dire che sia afflitto da un patologico complesso di colpa che lo porta a scusarsi per il solo fatto di esistere.

Il suo “tramonto” storico-culturale, ampiamente descritto da “Oswald Spengler” a ridosso della prima guerra mondiale, si è trasformato nel corso di quasi un secolo in una sorta di abdicazione al suo ruolo.

Gli occidentali sono, nella migliore delle ipotesi, sulla difensiva.

Tutto ciò che li riguarda è da essi stessi messo in discussione a favore di popoli, culture e civiltà che gli imputano le peggiori nefandezze.

Nessuno più rivendica orgogliosamente la sua appartenenza ad un mondo che, comunque lo si voglia considerare, ha “inventato” un sistema di diritti che, per quanto disordinato e suscettibile di critiche, è pur sempre un “recinto” nel quale la modernità, intesa come conquiste di libertà nel quadro di regole fondate sul diritto naturale (benché messo in discussione dal materialismo deterministico e dal razionalismo totalitario che sono poi i fondamenti stessi dell’anti-occidentalismo) ha esplicato la sua ragionevole convivenza civile che quando è stata minata da endogene  crisi di rigetto, ha saputo riaffermarsi e ricondursi sulla via di una accettabile armonizzazione delle diversità.

Certo, l’Occidente non è l’Eden che qualcuno è portato ad immaginare, ma le sue corruzioni interne fanno parte della fisiologia della decadenza che in ogni tempo l’ha attraversata, ma è anche stata superata come dimostra la “vittoria” che giustamente viene evidenziata anche nell’èra del tramonto.

 

Oltre quarant’anni fa, negli Stati Uniti la materia più importante che veniva insegnata era “Western Civilization”, adesso è sparita dai programmi di studio.

Chi ha provato a reintrodurla è stato bollato come “politicamente scorretto”.

 L’Occidente non soltanto deve vergognarsi di sé stesso secondo molti intellettuali occidentali, ma non deve neanche esistere perché responsabile di tutte le nefandezze con cui oggi siamo alle prese.

L’ideologia della negazione dell’Occidente ha fatto breccia nelle più autorevoli istituzioni laddove, al contrario, dovrebbe prevalere la considerazione che, comunque si guardi alla storia dell’umanità, l’Occidente ha registrato vittorie che non possono essere messe in discussione.

 Ce lo ricorda, appunto “Rodney Stark” nel denso e suggestivo saggio (non esente da superficiali valutazioni, comunque, come quella inerente la funzione civile, politica e culturale dell’impero romano la cui decadenza per l’autore sarebbe stata addirittura “benefica”) pubblicato da Lindau,  La vittoria dell’Occidente”, che a rileggerlo alcuni anni dopo la pubblicazione in Italia ha il sapore di una profezia.

 

Si tratta di un saggio ponderoso, frutto di una vastissima cultura il cui specifico intento, è la rivendicazione del primato occidentale fin dagli albori della sua manifestazione o, per meglio dire, della sua naturale ed inconsapevole nascita, che situa, ragionevolmente, in Grecia dove le comunità erano organizzate in centinaia di piccole città-stato indipendenti.

 È lì, sostiene Stark, che “ebbe inizio la civiltà occidentale” che ha conservato nel corso dei millenni il suo retaggio spirituale al quale si deve soprattutto il trionfo della razionalità coniugata con la fede grazie all’irruzione del cristianesimo che ha forgiato l’Occidente così come lo abbiamo conosciuto.

 

Secondo” Stark” quanto più la tesi della subordinazione dell’Occidente ad altre culture prevarrà, sia negli Stati Uniti che in Europa, tanto più la sua rovinosa caduta si accentuerà.

 Una caduta connessa all’ignoranza degli occidentali circa la formazione del mondo moderno.

Noi, in sostanza, rischieremo di essere fuorviati dalle falsificazioni, che non potranno non avere risvolti politici, che inquineranno le nostre esistenze come hanno già inquinato buona parte delle istituzioni scientifiche e culturali occidentali.

Tra le tante:

che i greci hanno copiato la loro cultura dagli egiziani, che la scienza europea è di derivazione islamica (pur riconoscendo l’apporto del mondo arabo – che non vuol dire necessariamente musulmano – al progresso scientifico), che la ricchezza dell’Occidente è dovuta alla spoliazione di aree del Pianeta grazie all’aggressione colonialista, che la modernità occidentale è iniziata in Cina e via seguitando.

Osserva Stark:

“la verità è che, sebbene l’Occidente abbia saggiamente adottato pezzi e bocconi di tecnologia arrivati dall’Asia, la modernità è interamente il frutto della civiltà occidentale”.

Sarà bene intendersi sul termine “modernità”.

Stark precisa, a scanso di equivoci:

 “Uso il termine modernità per indicare quella miniera di conoscenze e procedure scientifiche, di efficaci tecnologie, di successi artistici, di libertà politiche, di meccanismi economici, di libertà politiche, di meccanismi economici, di sensibilità morali e di miglioramento delle condizioni di vita che caratterizzano le nazioni occidentali e ora stanno rivoluzionando la vita nel resto del mondo.

Perché c’è un’altra verità:

quanto più le altre culture non sono state in grado di adottare almeno gli elementi principali della cultura occidentale, tanto più sono rimaste arretrate e povere”.

Fedele a questa impostazione, “Stark” dimostra come i “secoli bui” non siano mai stati tali;

come le crociate abbiano esplicato una missione civilizzatrice;

come la “rivoluzione scientifica” non sia avvenuta nel XVII secolo, ma al culmine di una lenta e costante evoluzione;

come la “Riforma” non abbia apportato alcun progresso, ma abbia accentuato vecchie pratiche repressive;

come il colonialismo non sia stato la causa del depauperamento di aree ricche, ma di incivilimento delle stesse.

 Insomma, una rivendicazione piena delle vittorie dell’Occidente in tutti campi.

Questo non vuol dire che l’Occidente sia immune dal dover essere “processato”.

Ma sul banco degli imputati ci finisce proprio per aver tradito, quando li ha traditi, quei valori che comunque, dai greci ai razionalisti del XVIII secolo, quando questi presero, il sopravvento, lo hanno connotato e che ancora oggi, se li sanno riconoscere, costituiscono l’anima di un’umanità che per quanto accerchiata e psicologicamente incline alla depressione ha ancora in sé le potenzialità per risollevarsi.

Del resto, non si può non essere consapevoli, come scrive “Stark” che “anche se la modernità̀ si è diffusa da un capo all’altro del pianeta, in molti posti non si è trattato di modernità̀ occidentale.

Semmai, aspetti tecnologici della modernità̀ sono stati trapiantati in sistemi culturali non occidentali, ancora privi dei fondamentali aspetti morali e politici della civiltà occidentale.

 Come osservava con grande accortezza” Samuel P. Huntington”, molti osservatori hanno erroneamente visto la popolarità̀ a livello mondiale di beni di consumo occidentali, dalla Coca-Cola ai jeans Levi’s, come il riflesso dello sviluppo di una “civiltà̀ universale”.

Questo però “banalizza la cultura occidentale”.

 

È vero che nel mondo arabo in molti possiedono telefoni cellulari e guidano l’automobile, anche se in Arabia Saudita per le donne è ancora un reato, e gli eserciti posseggono armi sofisticate in abbondanza.

Ma, sostiene “Stark”, “nella misura in cui tutto questo rispecchia la modernità̀, si tratta di modernità̀ di acquisto e importazione”.

 E neppure, dice, “realizzare una società̀ industrializzata equivale a diventare moderni nel senso occidentale, come dimostra il caso della Cina.

Per usare la famosa frase coniata da “Karl Wittfogel” oltre mezzo secolo fa, la Cina moderna resta un ‘dispotismo orientale’.

Un sostanziale grado di libertà è inseparabile dalla modernità occidentale, e questo ancora manca in gran parte del mondo non occidentale”.

Lo studioso americano non si nascondeva  i “difetti” e le incongruenze che segnano l’Occidente:

“Non c’è dubbio – osservava – che la modernità̀ occidentale abbia i suoi limiti e i suoi malcontenti.

Eppure, è di gran lunga migliore delle alternative di cui siamo a conoscenza, non solo, o persino soprattutto, a causa della sua tecnologia d’avanguardia, ma anche del suo fondamentale impegno per promuovere la libertà, la ragione e la dignità umana”

Confutando le tesi che hanno preso a circolare dall’Illuminismo in poi, “Stark” offre in questo suo magistrale saggio lunghe e dettagliate descrizioni di ciò che è stato l’Occidente nel corso dei secoli, senza celarne le cadute dovute a guerre intestine, non soltanto militari, che spesso lo hanno prostrato.

Ma ha sempre saputo rialzarsi, come quando respinse, non solo con le armi ma soprattutto con la fede i tentativi di conquista dell’impero Ottomano portatore di un’altra civiltà, giustificata dalla religione.

Allora come ora.

 Nel 1520, quattro anni dopo che Carlo V era diventato re di Spagna e tre anni dopo che Martin Lutero aveva affisso le sue Novantacinque tesi, Solimano, poi detto il Magnifico, divenne il decimo sultano dell’Impero Ottomano.

 Il suo sogno coltivato fin dalla più tenera età, prese corpo e a ventisei anni cominciò ad organizzare più grande attacco alla Cristianità ed all’Occidente.

Riportò, come sappiamo qualche vittoria, ma la vecchia Europa infranse il sogno di un Mediterraneo islamico e di un Continente inglobato nell’universo musulmano.

 Con la tecnica, certo, ma soprattutto con la fede.

 

 

 

 

L’incontro tra mondo occidentale

 e mondo islamico: scontro

 di civiltà? di Saida Hamouyehy.

Lamacchinasognante.com – (22 agosto 2022) - Saida Hamouyehy – ci dice:

 

Articolo pubblicato sul Blog dell’Associazione Culturale “Luigi Battei”, nel contenitore Oriente Occidente.

(battei.it/2022/06/22/lincontro-tra-mondo-occidentale-e-mondo-islamico-scontro-di-civilta/)

Oggi possiamo parlare di scontro di civiltà tra mondo occidentale e mondo islamico?

Partiamo innanzitutto dalla definizione di civiltà: “[dal lat. civilĭtas –atis, der. di civilis «civile»].

1. La forma particolare con cui si manifesta la vita materiale, sociale e spirituale d’un popolo– sia in tutta la durata della sua esistenza sia in un particolare periodo della sua evoluzione storica – o anche la vita di un’età, di un’epoca.

Sotto l’aspetto storico e etnologico, il termine è riferito non soltanto ai popoli socialmente più evoluti della storia lontana o recente ma anche ai popoli primitivi o meno evoluti.

2. Nell’uso comune e più tradizionale, è spesso sinonimo di progresso, in opposizione a barbarie, per indicare da un lato l’insieme delle conquiste dell’uomo sulla natura, dall’altro un certo grado di perfezione nell’ordinamento sociale, nelle istituzioni, in tutto ciò che, nella vita di un popolo o di una società, è suscettibile di miglioramento.”

Secondo la definizione di “civiltà” data da Samuel P. Huntington: “Differences among civilizations are not only real; they are basic. Civilizations are differentiated from each other by history, language, culture, tradition and, most important, religion.”

 Per cui, secondo Huntington la religione è un fattore divisivo rilevante quando si tratta di definire le varie civiltà.

 

Le relazioni tra mondo occidentale e mondo islamico sono caratterizzate da incontri culturali lungo millequattrocento anni di storia e le due realtà hanno costruito la propria identità in opposizione all’altra parte: secondo lo storico belga “Henri Pirenne”, l’Europa si sarebbe pensata come “Europa cristiana” in funzione del suo confronto col mondo islamico;

 e dall’altra parte anche i paesi a maggioranza islamica negli ultimi decenni avrebbero costituito la propria identità in ragione dell’opposizione all’Occidente.

 

L’Occidente, dal Quattrocento in poi, è andato costruendosi una propria cultura occidentale, coincidente in linea di massima con la cultura dei paesi dell’Europa dell’Ovest, basata sulla tradizione ellenica.

 Spesso però l’Occidente dimentica che questa eredità classica gli è giunta attraverso le traduzioni in arabo e ai continui scambi culturali tra Oriente e Occidente.

La cultura islamica è stata dunque un ponte tra Oriente ed Occidente, ma anche tra antichità e modernità.

A partire dagli albori dell’Islam fino al XV Secolo, il mondo occidentale e il mondo arabo-islamico hanno avuto la prima fase di confronti diretti e indiretti attraverso relazioni diplomatiche, alleanze, scambi commerciali, ma anche scontri militari, conquiste da parte dei musulmani di territori europei, crociate per riconquistare Gerusalemme, e poi la Riconquista spagnola della penisola iberica nel 1492 e la cacciata dei musulmani spagnoli.

Tuttavia, non sono stati pochi gli incontri positivi nella storia:

alcuni esempi sono l’elefante bianco inviato dal califfo di Baghdad “Harun ar-Rachid” a “Carlo Magno” e l’islamofilia di” Federico II”, re di Sicilia e imperatore del Sacro Romano Impero.

Tra il XIV e XVIII Secolo i rapporti tra i due mondi si spostarono a favore della nuova egemonia ottomano-islamica a discapito delle dinastie arabe.

 In questi secoli l’Europa era lacerata dalle guerre di religione tra cattolici e protestanti e spostava il proprio interesse verso il “Nuovo Mondo da conquistare”, ponendo poco interesse nei rapporti con i paesi islamici.

Con la caduta e la conquista di Costantinopoli nel 1453 da parte dell’Impero ottomano e la fine dell’Impero Romano d’Oriente, il “Papa Nicola V”, dopo aver tentato di lanciare una nuova crociata per scongiurare che il nemico ottomano potesse conquistare l’Europa, e non trovando consensi, adottò una nuova strategia, non più militare ma accademica:

promosse una nuova traduzione del Corano e di altre opere islamiche per permettere una migliore conoscenza dell’Islam da parte di teologi e missionari al fine di contraddire il credo e promuovere le conversioni al Cattolicesimo.

Lo choc culturale arrivò tra il XIX e il XX Secolo, quando cominciò la colonizzazione dei paesi a maggioranza islamica, del Nord Africa e del Medioriente, e successivamente dopo la Prima Guerra Mondiale e il crollo dell’Impero ottomano, spartito tra le potenze occidentali, ossia tra Inghilterra, Francia, Olanda, Spagna e Italia, e le successive lotte per l’indipendenza, con il mescolamento delle popolazioni occidentali con quelle a maggioranza islamica.

Se nel 1914 si stimava che nella Francia metropolitana la presenza di algerini fosse tra 4.000 e 5.000 unità, con la Grande Guerra cominciò a crescere il numero dei musulmani con la mobilitazione di soldati dalle colonie francesi:

170 mila algerini e 135 mila marocchini;

 altri 130 mila musulmani furono reclutati come lavoratori per sostituire i francesi partiti per la guerra.

L’attuale presenza islamica in Europa è legata principalmente all’immigrazione che ha investito il continente dal Secondo dopoguerra per quanto riguarda i paesi del Centro-Nord Europa, mentre il fenomeno si è diffuso nei paesi dell’Europa meridionale solo negli ultimi decenni del XX Secolo.

 Nella cornice della globalizzazione il fenomeno migratorio è cambiato e ha portato nuove sfide a cui i paesi occidentali non erano affatto preparati e di conseguenza hanno dovuto reinventare nuove politiche sociali di coesione tra le diverse etnie nella propria società.

Negli anni Sessanta, attraverso la stipula di accordi bilaterali, cominciarono i grandi flussi dal Marocco, dalla Turchia e successivamente dall’Africa sub-sahariana, in quanto l’emigrazione dall’Europa del Sud non copriva più il fabbisogno di manodopera dell’Europa settentrionale.

Così i paesi europei cominciarono ad aprire le proprie frontiere all’immigrazione dai paesi a maggioranza islamica, senza preoccuparsi delle conseguenze future.

Se nel passato coloniale i rapporti tra mondo occidentale e mondo islamico erano intrecciati ma ben divisi, oggi queste due realtà sono inglobate negli stessi processi comuni portati dalla globalizzazione: troviamo quindi in Europa molti cittadini, a tutti gli effetti europei o immigrati da tanti anni che sono in fase di acquisizione della cittadinanza, che sono musulmani e vivono all’interno della società occidentale.

Gli eventi storici che hanno sconvolto i fragili rapporti tra mondo occidentale e mondo islamico, in particolare gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 alle “Twin Towers” e al “Pentagono”, la guerra in Afghanistan e in Iraq, e gli attacchi dell’Isis, costrinsero le due realtà a riconsiderare le relazioni reciproche.

 Dopo l’11 settembre, e gli eventi successivi, ciò che era una sfida ostica, ossia un’auspicabile convivenza tra mondo occidentale e mondo islamico, si è trasformato nell’immaginario collettivo in una forte minaccia all’identità europea e in generale occidentale, basata sulla cultura giudaico-cristiana che trae le sue fondamenta dalla tradizione greca.

Questa particolare data segna un momento di spartiacque nella storia mondiale e acuisce paure e violenza, aprendo di conseguenza una discussione senza fine sulla “impossibilità” di dialogo tra Islam e mondo occidentale.

La domanda che ci si è posti in seguito è se l’Islam fosse o meno compatibile con i valori delle società occidentali.

A seguito degli attacchi terroristici che hanno inaugurato il XXI secolo, il termine “fondamentalismo” ha assunto per antonomasia il significato di “estremismo/terrorismo islamico”, facendo di conseguenza pensare a priori a massacri e a sanguinari kamikaze di fede islamica.

L’immagine monolitica che l’Occidente ha dell’Islam è frutto della proiezione di un approccio orientalistico che in passato lo studio di questa religione ha adottato.

Troppo spesso si mette a confronto le due entità prese in considerazione, Islam e Occidente, come due blocchi che non possono entrare in dialogo ma che sarebbero alternativi.

 

Tuttavia, oggi l’Islam non è più un mondo a sé lontano dall’Occidente, esso si trova al suo interno come un’entità locale che assume proprie caratteristiche nella cornice europea:

 “La frontiera tra i due mondi si è spostata: anzi, non c’è più.

Non si può più parlare solo di rapporti tra islam e Occidente: l’islam è in Occidente.

 È storia di oggi.”

 

Il processo di insediamento dell’Islam in Occidente nasce migrante e si stabilizza in una situazione di minoranza, che tuttavia è estremamente attiva nella società, grazie alla presenza di opportunità culturali in crescita e di realtà di associazionismo locale.

La modernità contemporanea, veicolata attraverso la tecnologia e i sistemi economici e politici, ha assunto diverse connotazioni nel mondo occidentale e in quello orientale.

 La modernità ha investito anche il mondo islamico, non più estraneo alla modernizzazione occidentale, e a seconda della società il rapporto con la modernità prende connotazioni differenziate.

La secolarizzazione in Occidente ha relegato l’esperienza religiosa nella sfera del privato, ma a seguito dei flussi migratori nel continente europeo e della globalizzazione, la stabilizzazione della presenza delle famiglie ricongiunte che si identificano nella tradizione islamica, e la loro crescente visibilità negli spazi pubblici, dalle scuole, al mondo del lavoro e della politica, ha costretto la coscienza collettiva a prendere atto di questo fenomeno, che negli anni ha portato diverse problematiche sociologiche e culturali.

È importante studiare e analizzare l’Islam in Europa perché attualmente nel Vecchio Continente vivono più di 25 milioni di musulmani e in diversi Stati europei esso rappresenta la seconda religione del paese per numero di credenti.

 Di conseguenza, urge riflettere sulla questione fondamentale della compatibilità o incompatibilità dell’Islam con i valori delle società occidentali.

Il fenomeno migratorio ha evidenziato l’impreparazione dell’Europa, e in particolare dell’Italia, di fronte a questo fenomeno:

 l’Italia, che fino a pochi decenni fa era paese di forte emigrazione, ha conosciuto un aumento esponenziale dell’immigrazione che ha causato uno choc culturale nei cittadini italiani, ritrovatisi improvvisamente a vivere la quotidianità a fianco del “diverso”, sia a livello etnico e culturale che religioso.

La realtà dell’Islam europeo è molto varia dal punto di vista etnico e culturale, religioso e linguistico.

 Oggi si parla di Islam “Francese”, “Inglese”, “Italiano”, ecc., poiché, in base al paese in cui si stabilisce la comunità islamica, essa acquista caratteristiche culturali e relazionali con le istituzioni locali differenti.

Secondo uno studio del 2007 promosso dal “Dipartimento tematico delle Politiche strutturali e di coesione del Parlamento Europeo”, “L’Islam nell’Unione Europea: che cosa ci riserva il futuro?”, a cura di “Felice Dassetto”, i musulmani europei aspirano ad ottenere lo stesso status giuridico concesso alle altre religioni riconosciute dagli stati, ma in molti casi sono costretti ad affrontare un maggiore disagio dovuto alla paura per la radicalizzazione dell’Islam europeo.

Poiché l’Islam si sta trasformando, all’interno del Vecchio Continente, da religione di immigrazione a parte integrante della realtà europea, è necessario, secondo gli autori del suddetto studio, che questo processo di trasformazione sia accompagnato da un iter giuridico appropriato che consenta alle comunità islamiche di integrarsi pienamente nel modello europeo del rapporto Stato-religioni, altrimenti, in mancanza di organizzazioni rappresentative delle comunità islamiche, si rischia di relegarle ai margini delle relazioni tra lo Stato e le singole confessioni.

Qualche studioso si azzarda a parlare di “conflitto di culture” per esprimere il disagio a livello socio-antropologico che una convivenza forzata può comportare negli attori coinvolti.

 Addirittura, si arriva a presagire uno “scontro di civiltà”, riprendendo l’opera di” Samuel P. Huntington”, tra il mondo occidentale e quello islamico, che arriverebbe a coalizzarsi con la civiltà confuciana, ossia con la Cina, per far fronte comune contro l’Occidente.

I sociologi che studiano queste realtà fanno notare che la mancanza di un percorso inclusivo e la marginalizzazione della fascia di popolazione musulmana nel futuro potrebbe comportare vari problemi sociali.

 La scuola costituisce un importante luogo di inclusione dei ragazzi con background migratorio;

oltre all’ostacolo linguistico, la differenza culturale e la percezione che l’Occidente ha dell’Islam possono portare alcune criticità e comportare conflitti sociali.

 Un approccio educativo di successo potrebbe aiutare i giovani musulmani a realizzare un’inedita sintesi tra la loro cultura di origine e quella della società di residenza.

Le generazioni nate dall’immigrazione nel contesto europeo costituiscono una sfida per la coesione sociale ma anche un fattore che porta trasformazione nella società di accoglienza.

Infatti, una componente importante della presenza dell’Islam in Europa è la categoria delle cosiddette “nuove generazioni”:

giovani di origine straniera a cui è stata trasmessa la fede islamica dai loro genitori, che costituiscono la prima generazione.

 È necessario tenere presente che in alcune società europee la componente islamica ha raggiunto la seconda e in alcuni casi anche la quarta o quinta generazione.

Ancora oggi troppo spesso vengono inseriti nella categoria degli “immigrati”, quando in molti casi sono ragazzi nati e/o cresciuti in Europa che non conoscono il paese di origine dei loro genitori.

Secondo il sociologo “Stefano Allievi”, parlare di “giovani musulmani d’Europa” ha senso in quanto l’Islam dei figli si differenzia fortemente da quello dei genitori:

se la prima generazione intraprende il viaggio migratorio con intenti provvisori e persevera a vivere nel “mito del ritorno” nella madrepatria, le generazioni successive vivono e socializzano in un contesto non islamico, che pur tuttavia diventa il loro sistema di significati di riferimento.

 Per i giovani musulmani vivere in un contesto non islamico è una sfida importante e la loro riscoperta della pratica religiosa in alcuni casi si declina come una ridefinizione individuale e collettiva dell’esperienza religiosa, a differenza dei loro genitori che spesso occultano ogni riferimento alla religione islamica per mimetismo e spirito di laicità.

I giovani musulmani che nascono e crescono in Europa devono affrontare maggiori sfide rispetto ai loro coetanei che seguono altre religioni, considerate più occidentali o più occidentalizzabili rispetto all’Islam.

 E questo fatto porta i giovani musulmani a vedere la propria immagine, perpetuata nei luoghi educativi, nei mass media e nella politica, come una realtà distorta di sé.

Sfide importanti e difficili sono vissute anche dalle coppie miste nei Paesi europei, dove i tassi di mixité culturale e religiosa sono in aumento.

 Il matrimonio misto che vede da una parte un coniuge musulmano e dall’altra un occidentale suscita un’attenzione quasi morbosa della stampa e delle realtà religiose, che mettono in guardia da tale fenomeno.

 Vi è una percezione in negativo sia da parte islamica che dal polo occidentale, e tale fattore tradisce una paura di fondo in ambo le realtà, spiegabile soprattutto con i pregiudizi e la paura di contaminare il proprio patrimonio religioso.

 

Tuttavia, quando questi matrimoni hanno successo, si assiste alla valorizzazione della bi-religiosità e bi-etnicità all’interno della coppia, che sono spesso il risultato di compromessi nella vita quotidiana.

In conclusione, la compatibilità o incompatibilità dell’Islam con i valori delle società occidentali dipende dalla capacità delle comunità islamiche di integrarsi e sentirsi parte di esse, ma anche dalle risposte sociali e politiche che le società occidentali riusciranno a sviluppare per valorizzare la propria componente islamica.

 In particolare, il futuro dell’Islam europeo dipende soprattutto dalle nuove generazioni di cittadini europei di fede islamica, che dovranno imparare a creare la propria identità distaccandosi dalle declinazioni culturali importate dalle prime generazioni di immigrati dai paesi di origine.

 

 

 

Cercasi ambientalismo laico.

A ragion veduta.

Blog.uaar.it – Redazione- Raffaele Carcano – (19 -2-2023) – ci dice:

 

Il mondo osservato dall’Uaar.

Il cambiamento climatico è ormai un tema ricorrente sui media e persino nella propaganda religiosa.

 Tutti dicono di voler rispettare la natura e salvare il pianeta, ma spesso senza prendere in considerazione la laicità, la scienza e il buon uso della ragione.

 Finendo quindi per operare in un modo che talvolta può essere controproducente.

(Affronta il tema Raffaele Carcano sul numero 1/2023 della rivista “Nessun Dogma”).

Nel suo primo mezzo secolo di vita l’”ambientalismo politico” ha attraversato diversi alti e bassi, tornando periodicamente in auge grazie al traino di alcune “breaking news”.

È rimasto un fenomeno esclusivamente occidentale e in nessun Paese è mai riuscito a raggiungere la maggioranza relativa dei votanti.

 Nella maggior parte dei casi le percentuali ottenute si sono fermate a una sola cifra, non di rado insufficienti per entrare in parlamento.

I verdi hanno spesso affrontato i temi non-verdi nella maniera sbagliata.

Accade persino ora che il “cambiamento climatico” è diventato un tema ricorrente sui mezzi d’informazione e in cui la “natura” viene evocata in quasi tutte le campagne di comunicazione, anche quella di aziende non particolarmente attente all’ambiente un comportamento così diffuso da essere definito con un neologismo, “greenwashing”.

I motivi dello stallo possono essere diversi, ma quello decisivo è sostanzialmente uno solo:

fare politica significa non occuparsi soltanto di ecologia, e i verdi hanno spesso affrontato i temi non-verdi nella maniera sbagliata.

Quelli di nostro interesse non fanno eccezione.

Sia chiaro:

non hanno mai adottato strategie risolutamente clericali, e bisogna riconoscere che, sulla maggioranza delle istanze, mantengono posizioni più avanzate della media (che del resto è drammaticamente bassa).

 È tuttavia indubbio che, qualche decennio fa, la vocazione laica dei verdi italiani era ben più robusta.

 Nel 2002 il senatore “Turroni” fu uno dei firmatari di un progetto di legge costituzionale per il superamento del regime concordatario.

 L’anno dopo, sempre al senato, il capogruppo Cortiana presentò un disegno di legge per l’abolizione dei decreti fascisti che imponevano il crocifisso negli edifici pubblici.

Poi qualcosa è cambiato.

 Forse a partire dalla nomina a portavoce di “Grazia Francescato”, la cui accesa devozione per l’”arcangelo Michele” è sfociata in un libro e in un film

 O forse perché anche le religioni hanno cominciato a fare professione di ecologia.

 Sta di fatto che, con Bergoglio, i verdi si sono contraddistinti come i più papisti della repubblica.

Sul sito della Federazione si può leggere un articolo dal titolo emblematico: Papa Francesco si conferma il vero leader dell’ambientalismo mondiale.

Bergoglio ha in effetti scritto un’enciclica, la “Laudato si’”, molto pubblicizzata come “verde”, ma i cui contenuti ambientalisti concreti non sono però numerosi:

 le tante dichiarazioni a effetto rientrano più nel “greenwashing” che in una svolta della dottrina, che continua a ritenere che il “creato” sia a disposizione degli umani.

 Per il portavoce “Bonelli” rappresenta invece un testo addirittura «epocale», al punto da unirsi alla giornata mondiale di preghiera indetta per la cura del “creato” il primo settembre 2022.

 Scontato, a quel punto, anche l’inserimento di una citazione del pontefice nel programma elettorale.

Ma all’estero va forse persino peggio.

 Soprattutto nel mondo francofono, dove i politici ecologisti hanno fatto essi stessi un “greenwashing”, ma di altro tipo:

una sorta di alleanza strutturale con l’islam, il cui colore è a sua volta il verde.

In Svizzera hanno fatto eleggere consigliere comunale” Lucia Dahlab”, musulmana convertita, che ha portato le sue battaglie per il velo fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

 Al parlamento di Bruxelles, alcuni ecologisti hanno votato per continuare a consentire la macellazione rituale (islamica ed ebraica) in deroga alla legge, nonostante procuri una sofferenza inutile all’animale.

 

In Francia, pochi anni fa, i verdi sembravano avere il vento in poppa: grande crescita alle europee del 2019, seguita nel 2020 dalla conquista di diverse grandi città.

Alla guida delle quali hanno però preso decisioni controverse, in alcuni casi molto controverse.

 Come il via libera all’uso del “burqini” nelle piscine pubbliche di Grenoble, o il finanziamento a Strasburgo della più grande moschea d’Europa:

2,5 milioni di euro destinati a un progetto dell’associazione turca” Milli Görüs”, legatissima a “Erdogan”.

Il flop alle elezioni del 2022 è stata una doccia scozzese dovuta anche a questa accondiscendenza.

La fiducia nella scienza è purtroppo in calo ovunque.

C’è tuttavia un terzo fronte su cui i politici ecologisti hanno avuto atteggiamenti discutibili.

La fiducia nella scienza è purtroppo in calo ovunque, ma è particolarmente accentuata negli “ambienti green” e impatta su numerosi ambiti.

Un caso eclatante è il sostegno all’agricoltura biodinamica, di origine esoterica.

 Ma per capire l’impostazione generale basta leggersi un altro articolo sul sito dei Verdi, Omeopatia e medicine non convenzionali un impegno dei verdi, scritto dall’ex deputato Galletti.

Vi si afferma che «la medicina, prima di essere scienza, è un’arte».

Se la premessa è che tutto ciò che è (mal) inteso come “naturale” è invariabilmente anche buono, i danni possono essere veramente tanti.

La Federazione dei Verdi, da un anno a questa parte, è diventata “Europa Verde” e, seguendo l’esempio francescano, preferisce lasciare gli estremismi sullo sfondo di dichiarazioni molto più vaghe.

 Le consonanze con il papa sono cospicue:

non troverete molto impegno contro la sovrappopolazione del pianeta o contro l’inquinamento acustico delle campane.

Non troverete nemmeno critiche contro la recente prodezza anti-ecologica di Bergoglio, che per festeggiare i 90 anni di una cugina si è recato nell’astigiano… in elicottero.

Seicento km di volo privato ma pagato dai contribuenti, visto che il mezzo è stato messo a disposizione dell’Aeronautica militare.

La presa della religione è tuttavia tale che c’è chi segue anche la strada opposta: la sacralizzazione della natura.

 È capitato per esempio in Nuova Zelanda, dove il fiume “Whanganui” ha ottenuto, primo al mondo, la personalità giuridica.

Bene per la sua tutela, male per le motivazioni:

per arrivarci si è dovuto riconoscere che il corso d’acqua, sacro ai maori, è una «entità spirituale».

Le forme con cui il mondo ambientalista si approccia positivamente alla sfera spirituale sono dunque molteplici, ma quasi sempre (inevitabilmente) a discapito di quella razionale.

Servirà?

I risultati sono finora decisamente modesti:

 il fallimento della Cop27 è lì a dimostrarlo.

 E dire che i non credenti avrebbero migliori credenziali dei credenti.

Lo si nota bene in una ricerca realizzata dal “Pew Research Center” lo scorso novembre:

 gli statunitensi più religiosi sono di gran lunga meno impensieriti dal cambiamento climatico.

 Del resto, sono anche quelli più persuasi dell’imminenza della fine del mondo e del controllo che Dio avrebbe sul pianeta.

E se nutri queste convinzioni, perché darti pena per il futuro?

I più preoccupati per quanto sta accadendo e i più impegnati a fronteggiarne le conseguenze risultano invece i non credenti.

 Prendere atto delle evidenze non è soltanto un principio laico: è la strada più efficace per salvare la Terra.

 L’unica, probabilmente.

 Riusciremo – finalmente - ad avere un ambientalismo illuminista?

(Raffaele Carcano)

 

 

Il Limite dei 30 all’Ora e l’Impossibile

Certezza di Evitare la Morte.

Conoscenzealconfine.it – (28 Gennaio 2024) - Rodolfo Casadei – ci dice:

 

Commento filosofico-psicanalitico al nuovo limite di velocità introdotto dal sindaco di Bologna “Matteo Lepore”, perfetta conseguenza politica dello spirito moderno.

Chiamato a giustificare in tivù la decisione di imporre il limite di velocità di 30 km/h nella maggior parte della rete stradale comunale, il sindaco di Bologna “Matteo Lepore” ha evocato alcuni recenti casi di incidenti in cui pedoni avevano perso la vita sulle stesse strade dove ora viene imposto il nuovo obbligo.

Col recente provvedimento l’amministrazione bolognese intende ridurre il numero e la gravità degli incidenti stradali con conseguenze mortali o altamente invalidanti, ed è sicura di ottenere tale risultato, perché le statistiche dei luoghi del mondo dove la limitazione ai 30 kmh per i veicoli è già in vigore da tempo, mostrano una flessione nel numero dei decessi da incidente stradale.

Sui social i favorevoli al provvedimento portano l’argomentazione all’estremo:

 anche se dovesse salvare una sola vita umana, il divieto dei 30 km/h è giustificato, perché una singola vita umana vale più di qualunque altra cosa.

Ne discende che chi è contrario al provvedimento e non permette che sia introdotto nella città dove vive, è moralmente responsabile della morte a venire di pedoni e ciclisti.

 Ne discende anche che chi è contrario deve sentirsi in colpa, perché antepone la propria libertà di viaggiare ai 50 km/h in città alla sicurezza di anziani, bambini, mamme, ciclisti, ecc.

30 km all’Ora? Non Basta… Tutti a Piedi!

Così però l’argomentazione non è portata abbastanza all’estremo. Proviamo a farlo noi:

se proibissimo alle auto e ai camion di viaggiare in città, e affidassimo tutti gli spostamenti di persone e merci a mezzi pubblici sotterranei o di superficie lentissimi, non avremmo nemmeno un pedone o un ciclista morto per incidente stradale;

se portassimo il limite di velocità a 50 km/h sulle autostrade, ridurremmo al minimo gli incidenti mortali o con gravi conseguenze per i viaggiatori;

 se abolissimo le gare di velocità di auto e moto, se proibissimo gli sport estremi come il deltaplano o l’ultraleggero, il rafting o il paracadutismo, se vietassimo le scalate dell’Himalaya, se contingentassimo le escursioni sull’arco alpino, se impedissimo ai bagnanti di immergersi nelle acque dove sono presenti gli squali, risparmieremmo certamente vite umane.

E se proibissimo l’alcol, i cibi grassi e gli zuccheri, e ovviamente il fumo, quanti anni di vita sana in più garantiremmo agli esseri umani!

Se svuotassimo osterie e pub, se trasformassimo in parche mense le tavolate di allegri mangioni, quante vite umane allungheremmo!

 Milioni di minuti di vita strappati alla morte.

Che andrebbero d’altra parte consumati nei viaggi ai 30 all’ora…

Fino a che Punto è Giusto Limitare la Libertà?

La discussione era già sorta al tempo delle proibizioni legate al Covid:

fino a che punto è giusto spingersi nella limitazione delle libertà dei cittadini per tutelare gli stessi dall’ipotetica morte in conseguenza di “contagio”?

 Giorgio Agamben aveva criticato l’eccesso di limitazioni che le autorità stavano imponendo, eccependo che così si riduceva l’esistenza umana alla “nuda vita”, “cioè una vita che non è né propriamente animale né veramente umana”.

Lo psicanalista Mario Binasco aveva messo in guardia rispetto al fondo patologico delle richieste di garanzia contro la morte:

“Il fatto che l’esito mortale della malattia sia poco probabile se calcolato sull’insieme di tutta la popolazione, lascia intatta la sua possibilità per ciascun individuo, che deve perciò soggettivamente fare i conti con questa possibilità.

 Ma questa possibilità è impossibile da eliminare, come quella di ogni pericolo connesso con la vita, specialmente quella sociale.

 La ‘sicurezza’, perciò, è impossibile se la si cerca o la si aspetta dal lato della realtà, perché nella realtà non cessa di esserci pericolo.

E se qualcuno volesse questa ‘sicurezza’ come condizione per poter poi agire e vivere, non agirebbe né vivrebbe mai:

 ‘farebbe il morto’ per evitare di andare incontro al pericolo di morte. Questa è la stessa posizione soggettiva di chi ha sintomi e comportamenti che chiamiamo ossessivi ed evitanti:

solo che di solito chi soffre di questi sintomi li sente come un disturbo della propria vita e può chiedere ad uno psicoanalista o altro terapeuta di aiutarlo ad uscire da questo tipo di paralisi o di vicoli ciechi”.

L’Impossibile Sicurezza di Evitare la Morte.

Nel caso delle limitazioni legate al Covid come ora nel caso del divieto di velocità superiori ai 30 km/h, a perseguire la impossibile sicurezza di evitare la morte non sono masse di cittadini nevrotici, ma le autorità pubbliche.

Se si tenesse un referendum sull’introduzione dei 30 all’ora in tutte le città d’Italia, oppure nella sola Bologna per confermare o abrogare il provvedimento appena introdotto, quasi certamente prevarrebbero i contrari.

Prevarrebbe cioè la posizione di chi pensa che per vivere davvero occorre mettere in gioco la vita (propria e altrui, indubbiamente) rispetto a chi pensa che desideri e libertà meritano di essere repressi per garantire il persistere della vita.

La cosa non deve stupire:

 è una conseguenza politica dello spirito moderno.

Lo spirito moderno, la cui prima manifestazione letteraria “Alain Finkielkraut” individua nel quattrocentesco Aratore di Boemia di “Johannes von Tepl”, consiste nella ribellione alla morte, vista non più come la porta d’ingresso nell’Eternità (“Io non muoio, entro invece nella Vita”, potrà ancora dire quasi cinque secoli più tardi “Teresa di Lisieux”), ma come ciò che distrugge tutto ciò che di bello e amabile offre la vita (nel caso del contadino boemo: la sua diletta moglie).

La medicina e lo Stato moderno nascono da questa “criminalizzazione” della morte:

 l’assolutismo di “Thomas Hobbes” così come il “welfare State”, la dissezione dei cadaveri così come la dichiarazione di morte cerebrale in vista del trapianto, innovazioni che hanno segnato una rottura con la visione religiosa della politica e del corpo umano propria delle epoche che le hanno precedute, sono la risposta alla protesta per la morte inescusabile di “Margaretha”, la giovane moglie del contadino che dibatte con la Morte e che chiama a giudice della disputa Dio in persona.

Meno Libertà in Cambio del Rinvio della Morte.

Per quanto riguarda lo Stato e la politica, l’abbandono della visione classica e cristiana della vita e della morte è graduale, e passa attraverso la secolarizzazione delle idee di sacrificio e di redenzione:

 la patria e il socialismo richiedono ancora al singolo cittadino o lavoratore proletario di offrire la propria vita fino al sacrificio supremo, nella lotta contro il nemico o contro il capitale, per il bene rispettivamente di chi continua a vivere e di chi vivrà.

Occorre immolarsi per le terre irredente della nazione o perché i pronipoti possano godere della perfetta giustizia sociale, nella terra dove a ciascuno sarà dato secondo le sue necessità e sarà chiesto secondo i suoi mezzi (non a caso Marx ha ripreso la formula dagli atti degli Apostoli).

Ma una volta che la morte è stata ridotta a ciò che immediatamente appare, cioè consumazione e annullamento, cioè avvento del nulla, del privo di senso, per contrappunto la vita diventa tutto ciò che può e deve essere affermato e preservato.

 Se con la morte finisce tutto, ha ragione “John Lennon”:

 nel mondo ideale non deve esserci spazio per niente per cui valga la pena uccidere o essere uccisi,” nothing to kill or die for”…

Quindi meglio rossi che morti, meglio islamizzati che morti, meglio confinati in casa che morti, meglio i 30 km/h che morti.

Lo Stato, il potere politico, fanno fino in fondo quello per cui il cittadino ha accettato di consegnare loro la sua libertà, in grado ogni giorno crescente.

Sempre meno libertà in cambio di una vita sempre più lunga, in cambio di un rinvio dell’ineluttabile evento della morte.

Sperando che un giorno la medicina posso recare la sensazionale notizia…

Non Vivere per Paura di Morire Provoca Psicosi.

Ma c’è un problema.

La rinuncia al desiderio provoca depressione.

Non vivere per paura di morire o di causare sofferenza ad altri, porta a ogni genere di nevrosi, in qualche caso psicosi:

l’alto tasso di disturbi mentali e di suicidi fra gli adolescenti che sono passati attraverso i confinamenti del Covid in tutti i paesi occidentali, è un indizio molto serio.

Anche in questo caso ci illumina Binasco.

Quel che scrive a proposito dei confinamenti legati alla paura del contagio da Covid si può applicare a tutta la proliferazione di provvedimenti restrittivi delle autorità “a tutela della vita”:

 “(…) Il reale sul quale qualcuno prima o poi aprirà gli occhi svegliandosi dall’ipnosi, sarà il conto che ci presenteranno tutte le esigenze, i desideri e gli interessi realmente vitali sui quali abbiamo ceduto, che non abbiamo potuto/voluto far entrare in gioco, che abbiamo sacrificato all’imperativo dell’Unica Grande esigenza – ahimè solo negativa – quella di evitare a tutti i costi il contagio.

Sono proprio tutti questi costi che, direbbe “Lacan”, ‘rigettati dal simbolico’, cioè non presi in conto, ‘ritorneranno nel reale’. (…)

 Possibile che non ci siano effetti del senso di colpa che sempre accompagna la rinuncia al desiderio?

E che oltre agli effetti inconsci depressivi o melanconici, non vi siano reazioni rabbiose al senso di colpa consapevole per aver accettato di fare questa rinuncia?

 Infatti, per quanto le persone possano pensare, anche giustamente, di essere state costrette da altri a questa rinuncia, il soggetto ‘sa’ sempre di avere quanto meno collaborato all’imposizione, di “esserci stato” ad essa, proprio per devozione all’autorità”.

Chi ci salverà dalla tenaglia del duplice senso di colpa, quello per aver messo in pericolo la vita altrui col nostro egoistico rifiuto dei 30 km/h e quello opposto di aver permesso alle autorità di imporci i divieti che hanno spento in noi il desiderio?

 Solo chi ci guarda senza moralismi. Solo chi abbraccia il nostro limite.

(Rodolfo Casadei)

(tempi.it/bologna-30-km-h-certezza-evitare-morte/)

 

 

 

L'ultimo boss di Kings Cross:

su Sky e NOW la vera storia

di un gangster australiano.

Gamesurf.it – Redazione – Chiara Poli – (25 luglio 2023) – ci dice:

 

“John Ibrahim” ha raccontato la sua storia in un best-seller, diventato una serie TV in cui recita anche il grande “Tim Roth”.

Ispirata a fatti realmente accaduti, L’”ultimo boss di Kings Cross” è la storia vera del gangster “John Ibrahim”, immigrato libanese che nell’Australia degli anni ’90 raggiunge i vertici della criminalità organizzata del celebre quartiere di “Sidney” dedicato alla vita notturna e controllato dalla malavita.

La serie, tratta dal best-seller autobiografico di Ibrahim - che firma anche la sceneggiatura - è la classica gangster-story.

 Ci racconta in modo lineare, nei 10 episodi della prima stagione, mentre la seconda è già stata confermata ufficialmente, l’ascesa di un giovane nella criminalità locale.

A essere originale è l’ambientazione:

l’Australia di fine anni ’80-primi anni ’90.

 Inedita, almeno in TV, come set per la storia di un gangster.

 E no, non è la storia di Tim Roth.

Lui è già arrivato, è già il boss:

Ezra Shipman, l’uomo a capo di tutte le attività della “Strip”, la principale via della vita notturna - fra spaccio di droga e locali a luci rosse - di Kings Cross.

 

Il “nostro” gangster sa che “Ezra” è al comando fin da quando è un ragazzino, ma quando cresce capisce che non è più come pensava.

 La realtà è diversa dalle fantasie di un adolescente, e “John” lo capisce perché è intelligente. Tanto da volere sempre di più e lavorare per guadagnarselo.

La trama di L'”ultimo boss di Kings Cross”.

Una gangster-story in piena regola.

I tempi cambiano: chi sarà l'ultimo boss di Kings Cross?

 

Libano, 1978.

 Due bambini girano in mezzo alle macerie, in piena guerra civile, raccogliendo proiettili calibro 50 e scarpe da tennis dai cadaveri.

Australia, 1993.

Quei due ex bambini sono in lutto per la morte del padre.

 Un uomo con un bel vestito va ad abbracciare il più giovane, porgendogli le sue condoglianze.

Due anni dopo il ragazzo siede sul banco dei testimoni in un tribunale, accusato di controllare il commercio di droga a Kings Cross insieme a tutte le altre attività illegali.

 

Con un salto indietro nel tempo, allontanandoci dal futuro che ci aspetta, torniamo nella Sidney del 1987.

Sulla Strip, la “mecca del peccato dove la polizia finge di non vedere sesso, droga, rock ’n roll e gioco d’azzardo”, come la chiama il nostro narratore, tutto viene controllato da un ristretto gruppo di uomini.

Fra questi ci sono Sam Ibrahim (Claude Jabbour, Eden), il “picchiatore” più famoso e temuto della Strip, e Big Tony (Matt Nable, Arrow), il braccio destro del boss Ezra Shipman (il sempre eccezionale Tim Roth).

Quando il fratellino adolescente di Sam, Johnny, si ficca nei guai per vendicare un amico, la situazione precipita e rischia di perdere la vita.

Ma supera le difficoltà e si allena tutti i giorni, per anni.

Ora Johnny è cresciuto, picchia forte e inizia a lavorare per Ezra al fianco del fratello Sam.

Ma presto, come Big Tony ha già intuito, sarà Sam a lavorare per lui. John Ibrahim (Lincoln Younes, Grand Hotel) è un astro in ascesa e presto inizia a far carriera nell’organizzazione criminale di Ezra…

La storia di John Ibrahim, raccontata dalla sua stessa voce, segue tutte le tappe classiche della ganster-story.

Dai primi guai ai primi lavoretti per il boss locale, si fa presto a passare alla prima rissa e al primo omicidio.

Tutti quelli che lavorano sulla Strip, al servizio di Ezra - che vive nella sua mega-villa con piscina insieme alla moglie - hanno seguito le stesse tappe.

Ma Johnny ha qualcosa di diverso.

Coltiva un proprio senso della giustizia, in un mondo in cui le regole le detta una sola persona, Ezra.

In base al proprio senso morale, vendica i torti subiti dalle persone a cui vuole bene e cerca un futuro migliore per sé e per la propria famiglia.

Non vuole più passarci, mai più.

 I tempi in cui accompagna la madre - che non parla inglese, ma solo libanese - a chiedere i sussidi statali, che vengono concessi solo dopo rigidi controlli e con tanto di foto per identificare i “bisognosi”, devono finire.

Johnny vuole provvedere alla madre, ai fratelli, a sé stesso.

Vuole un futuro agiato, vuole dimenticare il suo passato di immigrato povero e senza mezzi per fare fortuna.

Dalla sua parte ha un grande vantaggio:

 è in grado di percepire quali siano i passaggi per ottenere ciò che vuole. Perché ne L”’ultimo boss di Kings Cross”, la percezione è fondamentale. Indipendentemente dal fatto che si muovano sul territorio di Kings Cross o nelle altre zone di Sidney, tutti gli uomini e le donne che popolano la serie si basano sulla percezione.

La mafia asiatica che vuole sfidare l’inglese al comando, percepisce che il ricco mercato di Kings Cross lascia uno spazio di manovra, se sfruttato in modo intelligente.

E lo stesso Johnny, pronto a predisporre il proprio futuro in base alla percezione di ciò che lo circonda, si concentra sul cercare di capire il potere che lo circonda e quanto sia forte.

O meno forte.

Vuole essere indipendente, vuole che lui e suo fratello Sam, e la sua intera famiglia, non siano legati a nessuno.

Non vuole favori da ricambiare, debiti da pagare, niente:

 vuole aprirsi la propria strada in un mondo che sembra non lasciargliene l’opportunità.

E allora, Johnny pensa di ritagliarsela, quella opportunità.

Ma suo fratello sa bene che, così facendo, rischia grosso.

Johnny non sa cosa sia la paura.

L’incoscienza dell’adolescenza, di quando è entrato per la prima volta in quel mondo, ha lasciato il posto alla furbizia.

Johnny Ibrahim è furbo.

 Sa come muoversi, ma sa anche che basta una sola mossa sbagliata e tutto salta per aria. Lui incluso.

Johnny conosce le regole del gioco, ma è anche impulsivo.

 Ha un senso tutto suo della giustizia, come dicevamo, che finisce per essere in contrasto con le regole di quel gioco, che non detta lui.

Non è lui a sceglierle.

Non è la polizia. Non è la legge.

A dettare legge è sempre e soltanto Ezra.

Johnny Ibrahim è un personaggio carismatico.

 Aiutato dal bell’aspetto e dalla sua faccia pulita, cerca di muoversi più in fretta degli altri e in modo più astuto, ma i pericoli sono ovunque.

Quando è pronto per fare la sua mossa, Johnny contatta uno degli intermediari di Ezra, Nasa (Wadih Dona, Underbelly).

L’uomo che gli aveva offerto la prima opportunità nell’organizzazione di Ezra.

Anche Nasa è un immigrato libanese, parla la lingua di Johnny ed è legato anche a Sam.

Johnny ha un piano per tutti, ma si sa: nella vita reale come in quella raccontata da una storia (fondamentalmente vera), i piani non vanno mai come previsto.

Gli ostacoli sono tanti, assumono forme diverse e sembianze insospettabili.

La storia de L’ultimo boss di Kings Cross ci sfida a indovinare se - e come - Johnny Ibrahim riuscirà a raggiungere il vertice dell’organizzazione criminale locale mentre Sidney, l’Australia e il mondo intero stanno cambiando.

I detective sul libro paga di Ezra, che chiudono uno, anzi entrambi gli occhi di fronte ai crimini a cui assistono e che si prodigano per cavare d’impaccio chiunque Ezra dica loro di proteggere, iniziano a subire pressioni.

Il cambiamento, ve ne parlavo nell’analisi di FROM, è uno dei punti fondamentali in una storia.

 E quando le cose, a Kings Cross iniziano a cambiare perché i tempi cambiano, e con essi ciò che è consentito, il sistema rischia di crollare.

A quel punto toccherà a Johnny fare la sua mossa, guardarsi sempre le spalle e capire fino a che livello potrà arrivare mentre gli anni passano, Ezra invecchia e le vecchie alleanze finiscono per diventare dei pesi.

L’ultimo boss di Kings Cross ci racconta la storia di un gruppo di uomini, di un’organizzazione criminale ma anche di una società che si evolve, e non sempre nella direzione che noi - o i protagonisti di questa storia - avremmo voluto.

Il cambiamento è inevitabile, e questa è una delle cose più dure da accettare nella vita.

L’introduzione di nuovi personaggi - quando le forze dell’ordine decidono di cambiare atteggiamento nei confronti della malavita locale - si accompagna all’arrivo di nuovi interessi, nuove opportunità di guadagno, nuovi investimenti.

C’è qualcosa che salta all’occhio, negli episodi de L’”ultimo boss di Kings Cross”. Qualcosa che è stato studiato per accompagnarci nell’evoluzione dei personaggi, dei tempi, della società.

All’inizio il colore dominante nella serie è il rosso. Il rosso del sangue, della violenza, della rabbia cieca.

Non certo il colore dell’amore e della passione: queste sono cose che esistono, nel mondo di Kings Cross, ma di certo non sono al centro degli interessi dei suoi protagonisti.

Il rosso - come dimostra la sigla della serie - finisce per contagiare tutto. L’atmosfera è volutamente squallida, i luoghi volutamente poveri: veniamo immersi in una sorta di succursale della periferia americana, sebbene ci troviamo in un Paese molto lontano.

 La Strip sembra la periferia squallida di Detroit, non certo una zona di Sidney. Anche questo, naturalmente, è voluto.

Man mano che gli anni passano, al pari della crescita di Johnny, cambia anche il mondo che lo circonda.

I locali diventano più raffinati. Gli abiti sempre più eleganti e di buon gusto.

Gli spazi sempre più puliti e curati. Un episodio dopo l’altro.

Dall’alto della sua villa, Ezra continua a tenersi lontano dalla Strip, sempre di più ogni giorno che passa, senza rendersi conto che ne sta perdendo il controllo.

Non per l’ascesa di qualcun altro, che si svolge su binari per ora paralleli a quelli della sua strada, bensì per la creazione di una task force con lo scopo di riportare l’ordine in città.

E quando quella squadra arriva, con un’agente federale dagli occhi azzurri a rappresentarla, ecco che i colori iniziano a cambiare.

Arrivano l’azzurro, il bianco, il blu.

I due schieramenti, i buoni e i cattivi, vengono contraddistinti per la contrapposizione dei colori principali che li circondano.

Anche la luce ha un ruolo importante:

gli incontri di Ezra con i suoi luogotenenti e i club notturni in cui Johnny impara il mestiere sono bui, illuminati da lampade rosse come la luce dei locali di spogliarelli.

La legge si muove alla luce del sole, nell’azzurro delle camicie e nel bianco delle sedie, in pieno contrasto per ricordarci quale sia la parte giusta.

Perché il personaggio di Johnny è talmente diverso dagli altri, talmente affascinante per il pubblico, che come spesso accade nelle gangster-story potremmo finire per dimenticare che sia lui il cattivo, mentre i buoni stanno dalla parte opposta.

In tv come nella realtà.

 

 

 

Il sistema finanziario cinese:

sviluppi e implicazioni internazionali.

Ispionline.it – Alessia Amighini – Redazione – (10-2-2023) – ci dice:

Da quando, nel 1978, all’inizio delle riforme economiche il paese aveva una sola istituzione finanziaria, la “People’s Bank of China” (Pboc), che serviva sia come banca centrale sia come banca commerciale e gestiva il 93% delle attività finanziarie totali del paese, il settore finanziario cinese ha sperimentato una lunga serie di riforme.

Oggi le cosiddette “quattro grandi” banche cinesi (Industrial & Commercial Bank of China, China Construction Bank, Bank of China e Agricultural Bank of China) sono attualmente le quattro più grandi del mondo per asset totali (oltre 19.000 miliardi di dollari complessivamente) e tra le prime quindici per capitalizzazione di mercato.

Negli ultimi anni i mercati azionari e obbligazionari cinesi sono anche entrati nei primi posti a livello globale.

Il renminbi (Rmb) fa parte del paniere dei diritti speciali di prelievo (Dsp) del Fondo monetario internazionale (Fmi), insieme a dollaro, euro, sterlina britannica e yen giapponese.

Come testimoniano i dati “Swift” riportati nel “Triennial Central Bank Survey 2022” della” Banca dei regolamenti internazionali”, Rmb è la quinta valuta più utilizzata al mondo, sebbene a grande distanza rispetto alle grandi valute internazionali.

Eppure, il sistema finanziario è ancora arretrato rispetto al resto del mondo.

L’elemento di gran lunga più innovativo di tutte le riforme è stata l’introduzione, annunciata nel 14° piano quinquennale, di una propria valuta sovrana digitale, già introdotta parzialmente nel 2020.

 Negli ultimi anni la Banca centrale cinese ha sviluppato e testato un Rmb digitale (e-Rmb) emesso dal governo, noto come “Dcep “(abbreviazione di “Digital Currency Electronic Payment”).

Anche se l’introduzione diffusa di una valuta digitale della Banca centrale nella nazione più popolosa del mondo sarà graduale, la nascita di un “Rmb digitale” potrebbe portare benefici significativi per la rapida digitalizzazione dell’economia cinese e facilitare i pagamenti transfrontalieri in “Rmb” e l’internazionalizzazione della valuta.

Si ribadisce inoltre che, oltre al” Rmb digitale”, la Cina promuoverà anche l’innovazione finanziaria, a condizione che sia perseguita in modo ordinato e soggetta a supervisione prudenziale in modo da prevenire i rischi sistemici:

il punto fermo di ogni misura introdotta negli ultimi quarant’anni nel processo di riforma del settore finanziario.

Le riforme del settore finanziario.

Le riforme del settore finanziario della Cina durante gli ultimi quattro decenni sono state numerose, ma poco efficaci in termini qualitativi.

La Cina ha enormi volumi di attività finanziarie gestite da un gran numero di istituzioni finanziarie e le autorità cinesi mantengono serie ed estese restrizioni sui mercati finanziari, compresi i tassi di interesse, i tassi di cambio e l’allocazione dei fondi.

 Pur continuando a regolamentare i tassi di deposito e di prestito, a partire dalla fine degli anni ’90 le autorità hanno iniziato a introdurre gradualmente un meccanismo di mercato per liberalizzare i tassi di interesse nei mercati monetari e obbligazionari.

I tassi di deposito sono rimasti regolamentati, mentre il tasso di prestito è stato gradualmente allentato.

Basandosi sul set di dati dell”’Economic Freedom of the World”, “Huang e Wang” (2018) hanno costruito un indice cross-country della repressione finanziaria.

 I risultati mostrano che, nonostante la graduale liberalizzazione dei mercati finanziari, la” RPC” presenta un grado di repressione finanziaria più elevato rispetto alla media delle economie mondiali ad alto e medio reddito.

 La “RPC” si è classificata al 24° posto per repressione finanziaria tra i 145 Paesi per i quali erano disponibili dati nel 2018.

 Il punteggio medio dell’indice per la RPC nel periodo 2000-2018 è stato pari a 0,63, ovvero 30 punti percentuali in più rispetto alla media dei Paesi a reddito elevato e 19 punti percentuali in più rispetto alla media delle economie a reddito medio-alto.

Questo modello di riforma finanziaria inizialmente ha funzionato abbastanza bene, in presenza di una forte crescita economica, ma ora crea dei rischi.

Le analisi empiriche hanno confermato che negli anni Ottanta e Novanta la limitazione finanziaria ha avuto un effetto positivo sulla crescita (dal momento che la mancanza di varietà di prodotti finanziari ha lasciato il risparmio allocato prevalentemente agli investimenti produttivi), mentre negli anni 2000 ha avuto un effetto negativo.

 Le politiche finanziarie repressive hanno anche aiutato a mantenere la stabilità finanziaria, in quanto la fiducia degli investitori, anche se con conseguenze crescenti di rischio morale nel tempo (gli investimenti rischiosi si sono accumulati nel tempo, come nell’immobiliare, nella convinzione che in caso di crisi e fallimenti le autorità cinesi sarebbero intervenute per prevenire conseguenze sistemiche).

La combinazione di una grande offerta di denaro – dal sistema finanziario dominato dalle banche e dalla politica di garanzia implicita del governo – e il limitato pool di attività finanziarie ha ampliato i rischi finanziari.

 

La logica sottostante la riforma del settore finanziario è sempre stata strettamente connessa all’evoluzione del settore delle imprese di stato (State-owned enterprises, “Soe”).

Infatti, i problemi bancari alla fine degli anni Novanta erano la conseguenza diretta della necessità di proseguire a sostenere le grandi imprese pubbliche, che continuavano a operare in mercati sempre più aperti e competitivi, ma essendo relativamente meno efficienti di quelle private, avevano pertanto bisogno di un sostegno speciale per sopravvivere.

 Poiché le entrate fiscali sono diminuite rapidamente rispetto al Pil per tutti gli anni Ottanta, era chiaro che il governo non avrebbe avuto fondi per sostenere le aziende di stato.

Un’alternativa era continuare ad assegnare grandi volumi di credito alle aziende di stato, a prezzi relativamente bassi, cosicché le “Soe” potessero sopravvivere anche se la loro performance continuava a deteriorarsi.

Il renminbi: una valuta “incompiuta”?

È opinione condivisa nella vasta letteratura sul processo di apertura e di riforma dell’economia cinese che il tassello mancante resti a tutt’oggi quello finanziario.

 Ancora oggi le autorità cinesi non vogliono rinunciare neppure a una minima parte del grande potere che hanno sulla politica monetaria e valutaria del paese:

 esse controllano i flussi di capitale della Cina con il resto del mondo, il valore del tasso di cambio del renminbi e l’enorme massa di liquidità in circolazione all’interno dei confini nazionali.

 Il renminbi è una valuta non convertibile (cioè non si può scambiare liberamente con le altre valute del mondo) e la sua circolazione internazionale a tutt’oggi è ristretta per volere delle autorità monetarie cinesi al solo ammontare che serve per regolare le transazioni commerciali, e non aperta ai capitali finanziari (se non in minima misura).

Perciò l’uso del renminbi come mezzo di scambio, unità di conto e riserva di valore è alquanto limitato.

Anche l’inclusione nel paniere dei “Diritti Speciali di Prelievo” (Dsp) del “Fmi” non ha cambiato radicalmente la situazione.

La quota del dollaro nel paniere (43,38%) è approssimativamente quattro volte più grande di quella del renminbi (12,28%), come conseguenza del fatto che la moneta cinese non è ancora una vera e propria valuta accettata internazionalmente.

Diversa è invece la valenza simbolica e politica dell’inserimento del” Rmb nel paniere Dsp”, che le autorità cinesi hanno interpretato come una sorta di approvazione ufficiale della strategia di internazionalizzazione del renminbi adottata a partire dal 2009.

Tale strategia non prevede una liberalizzazione incondizionata dei movimenti di capitale e del tasso di cambio, che ben pochi tra gli attenti osservatori delle politiche economiche cinesi si sono mai davvero aspettati, ma un articolato sistema di “vasi comunicanti” di cui la Cina mantiene un attento controllo.

Il disegno cinese per giungere a una vasta circolazione internazionale del renminbi è complesso, frutto di una visione di lungo periodo e di una combinazione articolata di tasselli che presi singolarmente non hanno una valenza particolarmente dirompente, ma nel loro insieme costituiscono un piano ingegnoso.

La Cina è da sempre molto ambiziosa nella scelta delle sue strategie di sviluppo e da tempo allenata a gestire le complesse politiche monetarie e valutarie necessarie a sostenere tali scelte.

 Innanzitutto, per preservare la stabilità finanziaria del paese il conto capitale della “Rpc” è ancora oggi quasi totalmente chiuso, sebbene dal 2012 si registri una minima apertura.

 Secondo l’indice di apertura del conto capitale calcolato dal “Fmi” (un indice i cui valori sono compresi tra 0 in caso di massima apertura e 1 in caso di massima chiusura), la media mondiale si attesta intorno a 0,4 ed è variata di pochissimo tra il 2012 e il 2017.

Raggruppando i paesi del mondo per livello di reddito pro capite, si nota come il grado di apertura sia significativamente inferiore per i paesi più ricchi.

I paesi ad alto reddito sono passati da 0,18 nel 2012 a 0,21 nel 2017; quelli a medio reddito sono rimasti intorno a 0,5 e quelli a basso reddito in un valore tra 0,7 e 0,66.

Nel 2017 la Cina aveva un indice pari a 0,85, sceso solo leggermente rispetto al valore di 1 nel 2012.

Mantenere un controllo sui capitali e un tasso di cambio a fluttuazione controllata comporta per un grande paese esportatore, quale è la Cina da almeno tre decenni, la necessità di una complessa gestione monetaria e valutaria.

 Infatti, l’elevato avanzo commerciale che la Cina registra sin dagli anni Ottanta del secolo scorso costringe, da un lato la “Pboc” ad accumulare ingenti riserve in dollari, dall’altro a immettere continuamente in circolazione una mole di valuta domestica.

 Al contempo, la Cina mantiene il suo tasso di cambio in un regime di fluttuazione controllata, a un livello adeguato a preservare la grande competitività di prezzo che ha permesso alle sue merci di conquistare i mercati del mondo.

 

Per un grande paese esportatore, che riceve quotidianamente una mole elevata di introiti dall’estero, avere una valuta non convertibile significa dover gestire una massa di liquidità in dollari che le imprese esportatrici devono scambiare con renminbi – in passato, completamente, oggi in larga misura (dal momento che è possibile tenere parte dei ricavi dalle esportazioni in dollari per effettuare pagamenti all’estero).

Gli introiti dalle esportazioni generano quindi, al tempo stesso, grandi riserve di valuta per la Banca centrale e grande liquidità in renminbi.

Per evitare che un aumento continuo della moneta in circolazione generi inflazione in casa, le autorità monetarie cinesi sono costrette a compensare continuamente l’aumento di liquidità derivante dalle esportazioni attraverso emissioni di titoli obbligazionari di stato in renminbi, con i quali assorbono l’eccessiva moneta in circolazione (un’operazione che prende il nome di sterilizzazione della base monetaria).

A causa della sua inconvertibilità il renminbi è considerato una valuta incompiuta o immatura, cioè sfornita delle funzioni principali che una moneta nazionale dovrebbe avere per poter regolare le transazioni internazionali.

 Tali funzioni sono:

 essere un’unità di conto con la quale esprimere il prezzo delle esportazioni nazionali ed essere un mezzo di scambio con il quale regolare operativamente le transazioni (le valute mature assolvono entrambe queste funzioni).

Non avere una valuta convertibile segna dunque per la Cina una duplice dipendenza dal dollaro: finanziaria e politica.

Da un lato, l’accumulo di ingenti riserve in dollari, considerato da molti osservatori soltanto una fonte di potere nei confronti del paese emittente, cioè gli Stati Uniti, è in realtà anche una causa di debolezza ovvero di dipendenza dalla politica di quel paese, dal momento che influenza il tasso di interesse e il tasso di cambio del dollaro, a cui il renminbi è ancorato.

 Inoltre, di tutta la massa di dollari in circolazione nel mondo, che agli Stati Uniti fruttano un signoraggio, la parte che la Cina tiene sotto forma di riserve ufficiali oscilla in valore in base alle quotazioni del dollaro;

per esempio, dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008-09, l’indebolimento del dollaro ha comportato forti rischi per il valore delle riserve estere della Cina:

secondo le stime della Banca per i regolamenti internazionali, in una misura che può arrivare a toccare i 1.800 miliardi (su un totale di 2.700 miliardi di riserve) nel caso di un apprezzamento del renminbi del 10%.

Ma la dipendenza dal dollaro per la Cina è anche una dipendenza politica:

essere legati al sistema di pagamento in dollari espone pericolosamente il paese al rischio concreto di essere tagliato fuori da tale sistema, in caso di ulteriori crescenti tensioni con gli Stati Uniti, e costringe la Cina a trovare modi per ridurre la sua dipendenza dal dollaro, che oggi rappresenta più una passività che un’attività.

Per ridurre tale dipendenza dal 2009 le autorità cinesi hanno iniziato a progettare un sistema che permetta un aumento progressivo della circolazione internazionale del renminbi, senza renderlo convertibile.

 Ciò non ha nulla a che vedere con una generica internazionalizzazione della valuta cinese, intesa come liberalizzazione dei movimenti di capitale e del tasso di cambio.

 Al contrario, l’obiettivo delle autorità cinesi è di incanalare il renminbi nei portafogli degli investitori internazionali e di coloro che lo usano per pagamenti internazionali, creando dei centri offshore per la valuta.

In tal modo, supponendo che la domanda per il renminbi aumenti, le autorità monetarie cinesi potranno rispondere alle esigenze di tale domanda e incrementarla, senza mettere a rischio la stabilità finanziaria del paese attraverso un’apertura incondizionata dei flussi finanziari e dei movimenti di capitale.

Oggi il completamento della “Belt and Road Initiative” (Bri) rappresenta un’opportunità grandiosa per procedere lungo la strada di questa particolare strategia di “internazionalizzazione” del renminbi, cioè un aumento della sua circolazione internazionale, senza però al contempo lasciare che il suo valore venga determinato liberamente dal mercato valutario.

 Il buon funzionamento della” Bri “richiede come elemento necessario di poter prezzare e regolare i contratti di fornitura delle materie in renminbi, di poter erogare prestiti in renminbi per il finanziamento dei progetti di costruzione di infrastrutture all’estero, di poter concludere contratti di e-commerce con l’estero in renminbi:

tutti elementi che favoriscono l’aumento della domanda estera di renminbi e pertanto promuovono una sua maggiore circolazione internazionale.

L’aumento dell’utilizzo internazionale del renminbi.

Non è possibile individuare una data precisa a partire dalla quale Pechino si è orientata per la prima volta verso l’obiettivo dell’internazionalizzazione della sua valuta.

Le discussioni sono iniziate già nel 2002, ma bisogna aspettare il 2006 per una svolta significativa, arrivata con la pubblicazione del rapporto “The Timing”, “Path, and Strategies of RMB Internationalization” da parte di un gruppo di studio istituito dalla Pboc.

 Esso concludeva che fosse finalmente giunto il momento di promuovere l’internazionalizzazione del renminbi per migliorare lo status internazionale e la competitività della Cina, nonché la sua influenza e potere nell’economia internazionale.

È però solo in occasione della crisi finanziaria globale del 2008 che si assiste a un netto cambiamento di atteggiamento da parte delle autorità cinesi, ormai consapevoli che le vaste riserve di dollari rendevano il paese vulnerabile a un improvviso cambiamento dei tassi di cambio.

Fino al momento della pubblicazione di quel rapporto la Cina aveva avuto una delle valute più strettamente controllate al mondo, protetta da ogni sorta di restrizioni valutarie e controlli sui flussi internazionali di capitale.

Ma come promuovere l’uso internazionale del renminbi se la moneta non è e non sarà, almeno ancora per molto, facilmente convertibile?

Le esperienze passate di valute diventate internazionali, come il marco tedesco, lo yen e l’euro, mostrano come in nessun caso sia stato pianificato un percorso da parte delle autorità emittenti.

L’internazionalizzazione è stata determinata esclusivamente dalle preferenze sul lato della domanda del mercato, condizione indispensabile affinché una moneta nazionale possa essere accettata e iniziare a circolare anche al di fuori del paese emittente.

Perciò, in mancanza di un modello per la creazione di una valuta internazionale, che non mettesse a rischio la stabilità finanziaria del paese, la leadership cinese ha seguito un approccio notevolmente cauto, caratterizzato da un’estrema gradualità.

 Forse mai come nel caso della politica valutaria e della gestione del conto capitale della bilancia dei pagamenti, la Cina ha seguito più alla lettera lo slogan lanciato da Deng Xiaoping negli Ottanta del Novecento, che suggeriva di “attraversare il fiume sentendo le pietre”, cioè di avanzare così lentamente che i piedi, ben ancorati a terra, potessero percepire l’effetto di ogni singolo passo.

Dopo lunghe esitazioni, oggi Pechino ha fatto dell’internazionalizzazione del renminbi, che in mandarino significa letteralmente “moneta del popolo”, un obiettivo politico ufficiale e sta ora attuando una strategia concertata con questa ambizione.

Il governo cinese sembra determinato infatti a utilizzare tutte le sue capacità per promuovere il ruolo del renminbi come valuta internazionale.

 L’atteggiamento dirigista e pianificatore di Pechino pare far intendere una grande fiducia nella possibilità di progettare una moneta internazionale pianificando dal lato dell’offerta un processo di internazionalizzazione “gestita”.

Secondo “Benjamin Cohen”, “lo yuan ha intrapreso una Lunga Marcia verso uno status globale, che ricorda la Lunga Marcia che è stata fondamentale per la vittoria del Partito Comunista nella guerra civile cinese.

Si tratta chiaramente di un atto intenzionale, un tentativo deliberato di influenzare la situazione.

Le risorse del potere vengono impiegate in modo strumentale per ampliare l’uso del renminbi all’estero;

un uso più ampio del renminbi, a sua volta, dovrebbe aumentare l’influenza e il prestigio della Cina”.

Sebbene sia indubbio che il paese abbia i mezzi necessari per tradurre le proprie capacità in azioni efficaci, anche in un’impresa titanica come creare una valuta internazionale, portare una valuta come il renminbi, una delle più controllate del mondo, al rango dell’euro e dello yen, per non dire del dollaro, è un obiettivo molto diverso da quelli che la Cina ha perseguito finora.

 La differenza sostanziale risiede nel fatto che tale obiettivo, a differenza di altri, non può essere raggiunto intervenendo solo internamente al paese, ma richiede un’evoluzione delle relazioni finanziarie della Cina con entità e soggetti esteri;

 e tali relazioni, a differenza di quelle tra le autorità cinesi e i cittadini residenti, non possono essere gestite d’imperio.

 Non basta aspirare a uno status globale per la propria valuta, né tanto meno dichiarare di volerne promuovere l’uso oltre confine, perché gli stranieri inizino automaticamente a usarla.

 Un certo grado di coercizione potrebbe essere possibile solo a Hong Kong, formalmente soggetta alla sovranità della Cina continentale, e forse anche in alcuni stati come la Corea del Nord, nel qual caso il renminbi potrebbe essere in grado di funzionare in modo simile a quello che “Susan Strange” intendeva con l’espressione “master currency”.

Infatti, affinché il renminbi diventi una vera e propria valuta internazionale (e non solo sia accettata come moneta di fatturazione e/o pagamento dei contratti di import/export con la Cina) è necessario che nasca una domanda estera di renminbi e che le autorità cinesi siano poi disposte a soddisfare questa domanda con un’adeguata offerta di moneta.

Al momento nessuna delle due condizioni è minimamente soddisfatta né si vede all’orizzonte.

 Una delle condizioni essenziali perché emerga una domanda internazionale di renminbi è l’esistenza, oltre alla convenienza economica, anche di un certo grado di fiducia nel paese emittente;

 non si tratta di fiducia nella stabilità politica, nella potenza economica, ma della fiducia dei singoli investitori e dei mercati finanziari.

Due sono le strade lungo le quali Pechino sta cercando di favorire l’ascesa del renminbi allo status di valuta internazionale.

 Da un lato, le autorità cinesi utilizzano la leva della dimensione e potenza dell’economia cinese per incoraggiarne l’uso nelle transazioni bilaterali con l’estero, sulla base di una sua presupposta convenienza rispetto a qualunque valuta di paesi terzi, in particolare del dollaro.

Dall’altro lato, l’uso internazionale del renminbi è perseguito per effetto coercitivo, sebbene indiretto, derivante dalla grande influenza economica della Cina sulle economie di molti paesi del mondo, che si traduce in potere politico di persuasione.

In un modo o nell’altro, il renminbi deve essere reso più attrattivo per i potenziali utenti.

In breve, deve essere reso competitivo.

Al momento, di tutti i fattori che concorrono a far emergere una domanda internazionale di renminbi (diversa da quella motivata dalla necessità di regolare il commercio bilaterale con la Cina) è la dimensione economica a spiccare come asso nella manica.

L’economia cinese è già un gigante – la seconda più grande del mondo – e in un altro decennio potrebbe superare gli Stati Uniti.

Il paese è ora anche il leader mondiale delle esportazioni e il secondo più grande mercato per le importazioni, creando un notevole potenziale per le esternalità di rete.

 Più di cento paesi contano oggi la Cina come il loro più grande partner commerciale.

Sono invece quasi totalmente assenti tutti gli altri fattori, tra cui spicca uno sviluppo insufficiente del mercato finanziario interno.

Il governo cinese da qualche anno sta cercando di realizzare un’internazionalizzazione gestita del renminbi facendo leva sulla convenienza e sulla persuasione, in due ambiti: il commercio estero e la finanza.

Nel commercio estero sono stati avviati accordi di “currency swap” con banche centrali estere per facilitare l’uso del renminbi come mezzo di pagamento.

 A una lettura superficiale, l’obiettivo contingente degli accordi di swap è quello di assicurare contro il tipo di rischi che potrebbero derivare da un’altra crisi finanziaria globale.

 La disponibilità di finanziamenti in renminbi in caso di emergenza offrirebbe ai partner commerciali cinesi un’utile copertura contro qualsiasi futura crisi di liquidità.

Ma le strutture sono anche progettate per fornire renminbi, quando lo si desideri, da utilizzare nel commercio bilaterale su base più regolare, per fornire un incoraggiamento indiretto all’uso commerciale della valuta cinese.

A livello privato, infatti, le normative sono state gradualmente alleggerite per consentire la fatturazione e il pagamento di un maggior numero di transazioni commerciali in renminbi, evitando le tradizionali valute di fatturazione come il dollaro.

Più direttamente, a partire dal 2009, Pechino ha gradualmente ampliato la gamma delle transazioni commerciali che possono essere regolate in renminbi, promuovendo ulteriormente l’uso della valuta da parte dei non residenti.

 

L’altro ambito è la finanza internazionale.

L’accento è stato posto sullo sviluppo di mercati attivi per i depositi in renminbi e sulle obbligazioni denominate in renminbi, principalmente “offshore” a Hong Kong, l’ex colonia della corona britannica che dal 1997 è una “regione amministrativa speciale” della Cina.

Hong Kong è un ingrediente fondamentale della strategia valutaria e finanziaria della “Rpc “che ha servito finora come firewall finanziario, permettendo a Pechino di restare efficacemente isolata dall’instabilità della finanza internazionale, pur dovendo movimentare quotidianamente un’immensa mole di dollari derivanti dai pagamenti del commercio con l’estero.

 Lo sviluppo di un mercato offshore per le obbligazioni denominate in renminbi è iniziato nel 2007, quando a determinate banche del continente era stato permesso per la prima volta di raccogliere fondi emettendo obbligazioni in renminbi a Hong Kong.

 Il primo cosiddetto “dim sum bond” (espressione gergale tratta da uno stile di cucina popolare, per designare appunto un’obbligazione in renminbi emessa fuori dalla Cina) è stato emesso dalla” China Development Bank nel luglio di quell’anno”.

 I progressi sul mercato sono stati tuttavia lenti, come accennato, fino al 2010, quando l’autorizzazione è stata estesa prima alle imprese non finanziarie cinesi e poi alle multinazionali straniere che fanno affari in Cina.

Tra le prime aziende non cinesi a entrare, nel giugno 2010, ci sono state la “Hong Kong & Shanghai Banking Corporation” (Hsbc) e “la Bank of East Asia”, seguite poi da grandi nomi come McDonald’s, Caterpillar, Volkswagen e Unilever.

Nei tre anni successivi il mercato è più che triplicato, con un valore delle nuove emissioni in crescita rispetto ai soli 40 miliardi di renminbi (6,3 miliardi di dollari) del 2010 e un totale cumulativo di soli 22 miliardi di renminbi (3,3 miliardi di dollari) in precedenza.

 In totale, a fine 2013, erano state emesse più di 360 obbligazioni “dim sum”.

All’inizio del 2014 l’”International Finance Corporation”, una filiale della “Banca Mondiale”, ha venduto a Londra un’obbligazione di un miliardo di renminbi (163 milioni di dollari), la prima emissione di “dim sum” fuori da Hong Kong.

Il volume netto in circolazione (nuove emissioni meno rimborsi) è aumentato di nove volte in cinque anni, fino a circa 580 miliardi di renminbi (92 miliardi di dollari) nel 2015, per poi attestarsi intorno ai 400 miliardi di renminbi nel 2018 (dati Bloomberg).

Parallelamente al mercato” dim sum”, è stato coltivato con cautela anche un nascente “mercato onshor”e per le obbligazioni denominate in renminbi, incentrato a Shanghai.

Il processo è iniziato nel 2005, quando le vendite di debito da parte di emittenti non cinesi – note come obbligazioni “panda” – sono state autorizzate per la prima volta all’interno della Cina.

 Qui, tuttavia, i progressi sono stati particolarmente lenti, anche dopo l’impegno ben pubblicizzato del Consiglio di stato cinese nel 2009 di trasformare Shanghai in un centro finanziario internazionale entro il 2020.

Inizialmente limitato solo alle istituzioni multilaterali di sviluppo “idonee”, l’accesso al mercato dei “panda bond” è stato ampliato nel 2009 per includere le filiali di multinazionali straniere costituite localmente.

Ma le nuove emissioni sono rimaste poche e di gran lunga inferiori di valore, soprattutto per le istituzioni finanziarie statali come l’”Asian Development Bank, la “Japan Bank for International Cooperation” e l’”International Finance Corporation”.

Il 2010 ha visto la prima vendita da parte di un istituto bancario privato, Tokyo-Mitsubishi UFJ (Cina) Ltd; e nel marzo 2014 la casa automobilistica tedesca Daimler AG è stata la prima società non finanziaria straniera a vendere un panda bond, per circa 500 milioni di renminbi (81 milioni di dollari).

Ma questi numeri sono ancora minuscoli per gli standard internazionali. Shanghai ha dunque ancora molta strada da fare per adempiere all’impegno del Consiglio di Stato.

A oggi la pista del commercio ha visto molti più progressi rispetto a quella della finanza.

La Lunga Marcia del renminbi è iniziata alla fine del 2008, quando la “Pboc” ha cominciato a negoziare una serie di accordi di “swap di valuta locale” per fornire, quando necessario, finanziamenti in renminbi ad altre banche centrali da utilizzare negli scambi con la Cina.

Sei anni dopo erano stati firmati patti con oltre venti economie, tra cui importanti attori come Argentina, Australia, Brasile, Corea del Sud, Gran Bretagna, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Russia, Singapore e Svizzera.

 Le dimensioni dei singoli swap variano notevolmente, da appena 700 milioni di renminbi (circa 110 milioni di dollari) per l’Uzbekistan e due miliardi di renminbi (322 milioni di dollari) per l’Albania a 360 miliardi di renminbi (58 miliardi di dollari) per la Corea del Sud e 400 miliardi di renminbi (65 miliardi di dollari) per Hong Kong.

Il totale sottoscritto in questi accordi tra il 2009 e il 2020 ammonta a circa 3,5 trilioni di renminbi (554 miliardi di dollari).

 

Finora l’uso è stato prevalentemente locale.

 Ben l’80% degli scambi commerciali stabiliti in renminbi si è svolto tra la Cina continentale e Hong Kong.

Ma la fatturazione in renminbi si sta gradualmente diffondendo e si prevede un ulteriore sostanziale aumento dell’utilizzo della valuta a fini commerciali negli anni a venire.

I risultati sul fronte finanziario, invece, seppur non trascurabili, sono stati meno impressionanti.

 Per la maggior parte Pechino ha proceduto con cautela, contando molto sullo status speciale di Hong Kong come regione amministrativa speciale.

 Con la propria valuta e i propri mercati finanziari, Hong Kong offre un utile laboratorio offshore per sperimentare innovazioni che la leadership non è ancora pronta a introdurre “onshore” sulla terraferma.

 Il modello è a dir poco inusuale.

Mai prima d’ora nessun governo ha cercato deliberatamente di sviluppare un mercato offshore per la propria valuta, pur mantenendo un rigoroso controllo finanziario in patria.

Uno dei fattori cruciali su cui la Cina fa leva per aumentare lo status internazionale del renminbi è l’inclusione dello stesso, il 1° ottobre del 2016, come quinta valuta (dopo il dollaro americano, l’euro, lo yen giapponese e la sterlina inglese) nel paniere dei “Dsp del Fmi”.

Il Consiglio del Fmi ha anche deciso che il peso di ciascuna valuta sarebbe stato rispettivamente del 41,73% per il dollaro statunitense, del 30,93% per l’euro, del 10,92% per il renminbi cinese, dell’8,33% per lo yen giapponese e dell’8,09% per la sterlina inglese.

Al lancio della nuova composizione Christine Lagarde, l’allora direttore del Fmi, disse che l’espansione del paniere dei Dsp avrebbe rappresentato un momento storico per il Fondo, per la Cina e per l’intero sistema monetario internazionale:

un cambiamento significativo per il Fmi, perché è la prima volta dall’adozione dell’euro che una valuta è stata aggiunta al paniere.

 Il Consiglio del Fmi ha giustificato la decisione affermando che l’inclusione del renminbi rifletteva i progressi compiuti nella riforma del sistema monetario, valutario e finanziario cinese, e riconoscendo i progressi, seppur limitati, compiuti nella liberalizzazione e nel miglioramento delle infrastrutture dei mercati finanziari.

 Il proseguimento e l’approfondimento di questi sforzi, con le opportune salvaguardie, porterà a un sistema monetario e finanziario internazionale più robusto, che a sua volta sosterrà la crescita e la stabilità della Cina e dell’economia globale.

A posteriori la decisione del Fmi non è stata una scelta di poco conto né tanto meno senza eccessive conseguenze sul sistema monetario internazionale.

 Innanzitutto, con un peso che lo scorso maggio è stato alzato a 12,28% rispetto al paniere totale, l’inclusione del renminbi ha il potenziale di rendere più volatile il valore del dollaro Usa nel paniere.

Inoltre, come analizzato in uno studio del Fmi stesso, storicamente, il renminbi è stato sempre ancorato al dollaro, quindi, aggiungerlo al paniere può essere visto come un effetto simile all’aumento del peso del dollaro, ma se la Cina continua il proprio percorso verso un regime di cambio più flessibile, questo rapporto muterà gradualmente.

 Ma le conseguenze più insidiose sono probabilmente quelle politiche: l’inclusione del renminbi ha sdoganato la strategia valutaria di Pechino, e con essa forse tutta la sua strategia finanziaria, che punta a rendere il renminbi una valuta con un’ampia circolazione internazionale, ma senza essere completamente convertibile.

Prospettive di diffusione dello yuan digitale.

La Cina oggi è il pioniere nell’introduzione di una moneta sovrana digitale.

Ha sperimentato l’uso del suo yuan digitale, chiamato anche” Dcep” (moneta digitale, pagamento elettronico) in Cina e Cbdc (moneta digitale della banca centrale) a livello globale, in alcune regioni e contesti nazionali.

Secondo Xie Ping, un funzionario della Banca centrale diventato professore dell’Università Tsinghua, la moneta digitale della Banca centrale è poco utilizzata e incontra notevoli ostacoli strutturali.

 Il professor Xie Ping ha dichiarato che il numero cumulativo di transazioni nelle aree pilota (per lo yuan digitale) di 15 province e municipalità a livello nazionale è stato di 360 milioni.

 L’importo coinvolto è stato di 100,4 miliardi di yuan, secondo i dati pubblicati dall’Istituto di ricerca sulle valute digitali della Banca popolare cinese al 31 agosto 2022.

 

Il rapporto della” Pboc s”ul sistema dei pagamenti per il secondo trimestre del 2022 mostra che circa 1 miliardo di persone in Cina utilizza attualmente piattaforme di pagamento di terze parti e il volume delle attività di pagamento in rete (piattaforme di pagamento di terze parti) da parte di istituti di pagamento non bancari ha raggiunto più di 200 miliardi di transazioni al giorno e 1,31 trilioni di yuan al giorno.

Attualmente in Cina ci sono 9,3 miliardi di carte bancarie e il loro volume di transazioni giornaliere è di circa 500 miliardi di yuan.

Il confronto mostra che pochissime persone utilizzano lo yuan digitale per le spese e l’adozione è molto limitata.

Il professor Xie Ping ha analizzato l’impopolarità dello yuan digitale sia dal punto di vista dei consumatori sia delle caratteristiche della moneta digitale.

Dal punto di vista dei consumatori, i contanti, le carte bancarie e le piattaforme di pagamento di terze parti hanno formato un modello di mercato di pagamento tridimensionale, che è più che sufficiente per le esigenze di pagamento quotidiane delle persone, ed è difficile cambiare le abitudini di pagamento da un giorno all’altro.

Attualmente, l’utilizzo dello yuan digitale in diversi scenari di pagamento richiede l’apertura di diversi portafogli digitali e piattaforme commerciali, uno svantaggio rispetto alle piattaforme di terze parti esistenti.

In questo senso, l’ecosistema dello yuan digitale non è stato costruito. Ciò contribuisce a una scarsa conoscenza dello yuan digitale e a una mancanza di motivazione.

L’elevato costo della promozione dello yuan digitale è un problema pratico che deve essere affrontato.

 L’emissione di contante fisico e lo yuan digitale sono due cose completamente diverse.

Per emettere contante fisico, è necessario disporre di una stamperia con macchinari e attrezzature fisse.

L’emissione di moneta digitale è completamente diversa.

 Il processo di emissione e gestione dello yuan digitale della Banca centrale è simile a quello dei prodotti delle aziende tecnologiche, che richiedono una manutenzione e un funzionamento costante in background, innovazione e adattamento a vari scenari – tutti molto costosi. 

Inoltre, l’aumento dell’utilizzo della moneta digitale dovrà fare affidamento non solo sulla promozione offline delle filiali della banca centrale a tutti i livelli, ma anche sulla trasformazione tecnica degli scenari in cui la moneta digitale viene utilizzata.

Considerando gli enormi costi sostenuti dalle piattaforme di pagamento di terze parti nei primi giorni di promozione offline delle loro applicazioni, la Banca centrale, in quanto organizzazione senza scopo di lucro, ha alcuni limiti nelle risorse umane e finanziarie per la promozione offline.

 Se l’uso della moneta digitale non raggiungerà una scala notevole nel lungo periodo, l’incapacità di formare economie di scala causerà seri problemi.

Allo stesso tempo, gli incentivi delle banche non sono sufficienti a stimolare l’utilizzo.

 Attualmente, la moneta digitale non porta alle banche né sinergie né vantaggi commerciali, il che fornisce loro pochi incentivi, per non parlare del rapporto competitivo della moneta digitale con le piattaforme di pagamento di terzi.

Le sinergie derivanti dalla raccolta, dall’applicazione e dal profitto dei dati delle transazioni sono significative nelle società di pagamento di terze parti e nelle relative piattaforme online, come quelle tra “Alipay”, “Taobao” ed” Ele.me” (una piattaforma per il cibo da asporto), creando economie di scala e producendo rendimenti in eccesso.

Tale incentivo finanziario spinge le società di pagamento terze ad aumentare gli investimenti in tecnologia e a creare continui miglioramenti tecnologici, ampliando così gli scenari di applicazione e migliorando i servizi offerti.

Poiché la Banca centrale non può utilizzare incentivi commerciali come le società Internet, il vantaggio non tariffario è trascurabile.

Oltre alla spesa, le piattaforme di pagamento di terze parti possono incorporare altre funzioni finanziarie, come l’acquisto di prodotti di gestione patrimoniale, fondi e assicurazioni, nonché l’accensione di prestiti al consumo, ecc.

Questo offre molte comodità alla vita quotidiana delle persone, mentre la moneta digitale ha poco da offrire.

Per migliorare la situazione attuale e realizzare al più presto un ciclo virtuoso di applicazione dello yuan digitale, il professor Xie Ping suggerisce che, in primo luogo, l’espansione dei settori in cui lo yuan digitale può essere utilizzato può essere una soluzione, considerando che l’uso attuale dello yuan digitale è limitato alla base monetaria (aggregato M0) come sostituto del contante e solo per la spesa al consumo.

 In secondo luogo, è necessario consentire ai singoli di utilizzare l’”E-Cny” per acquistare prodotti finanziari.

Inoltre, è necessario espandere il più presto possibile il progetto pilota e la promozione, in modo che lo yuan digitale possa essere integrato in un maggior numero di contesti di pagamento, raggiungere quanto prima l’utilizzo a livello nazionale.

In terzo luogo, la cooperazione con le piattaforme di pagamento di terze parti dovrebbe essere rafforzata per formare una sinergia.

 92 piattaforme commerciali sono state integrate nell’ultima app per lo yuan digitale a partire dal dicembre 2022, e l’unica piattaforma di pagamento di terzi supportata nella sezione “Piattaforma di pagamento” dell’app è “Alipay”.

“ Taobao” ha aperto il suo portale di pagamento in yuan digitali alla maggior parte degli utenti.

Rispetto a JD.com e Meituan (due app cinesi molto popolari per le spese dei consumatori), che richiedono ulteriori passaggi, l’utilizzo dello yuan digitale su” Taobao” (parte di Alibaba) è più semplice.

La corsa del renminbi a Mosca e a Riyadh.

La promozione dell’internazionalizzazione del renminbi ha subito un’accelerata a seguito dello scoppio della guerra in Ucraina.

L’imposizione da parte dell’Occidente, Stati Uniti in testa, di sanzioni senza precedenti contro la Russia ha infatti agitato diversi Paesi emergenti, preoccupati dalla loro dipendenza dal dollaro a livello commerciale e finanziario.

 La ricerca di alternative valide alla moneta americana dà una grande occasione al renminbi, che non ha lo status di valuta forte.

Il suo utilizzo per lo meno come mezzo di pagamento potrebbe avere ulteriori margini di crescita.

Gli sviluppi recenti in Arabia Saudita e soprattutto in Russia, di cui la Cina è primo partner commerciale, rappresentano due esempi chiari.

 Lo scorso dicembre la visita di Xi Jinping alla corte del principe “Mohammed bin Salman” ha mandato un messaggio più che simbolico a Washington.

Pechino e Riyadh hanno siglato un’ampia partnership strategica e il leader cinese ha suggerito che i paesi del “Consiglio di cooperazione del Golfo” dovrebbero regolare le transazioni bilaterali di” commodities energetiche” in yuan sullo “Shanghai Petroleum and Natural Gas Exchange”.

 A gennaio il ministro delle Finanze saudita “Mohammed Al-Jadaan” si è detto aperto all’ipotesi di accettare pagamenti in valute diverse dal dollaro per le forniture di petrolio.

Se ciò si tradurrà nella creazione di un sistema parallelo di “petroyuan”, è tutto da vedere, ma Pechino persegue tale obiettivo con determinazione.

Ben più grande e concreta è la forza del renminbi in Russia, “laboratorio” interessante per testare le ambizioni globali della moneta cinese.

Il 19 gennaio è stato firmato un nuovo” currency swap bilateral”e tra Russia e Cina.

È solo l’ultimo esempio del processo di “renminbizzazione” dalle parti di Mosca.

Primo, a settembre Gazprom aveva annunciato di aver siglato un accordo con la “China National Petroleum Corporation” per iniziare ad effettuare i pagamenti relativi alle forniture di gas per un 50% in rubli e l’altro 50% in yuan, anche se non sono state rivelate le tempistiche.

Secondo, la Russia risulta al 6° posto come mercato per pagamenti in yuan offshore (dati Swift).

Alla fine del 2021 il paese non figurava nemmeno nelle prime 15 posizioni.

Terzo, secondo dati “Moe”x, per effetto delle sanzioni alla Russia, la quota del renminbi nel mercato valutario russo è balzata nel 2022 da meno dell’1% al 40-45%, mentre quella del dollaro si è contratta dall’80% al 40% nello stesso periodo.

Quarto, il ministero delle Finanze ha deciso di raddoppiare al 60% la quota potenziale riservata al renminbi nel suo fondo sovrano (National Wealth Fund) da 186,5 miliardi di dollari, azzerando invece le quote per la sterlina e lo yen.

Quinto, i grandi gruppi industriali russi, Rosneft su tutti, hanno trovato nelle obbligazioni denominate in yuan, quotate per la prima volta a livello locale, un valido strumento di debito per solleticare l’appetito degli investitori domestici e soprattutto asiatici.

Ora anche Sberbank e lo stesso Cremlino starebbero vagliando una tale opzione per finanziarsi nei prossimi mesi. 

 

 

 

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.