La religione verde ha conquistato il mondo occidentale.
La
religione verde ha conquistato il mondo occidentale.
Leggere
la storia d’Italia dalla
prospettiva cinese.
Il libro di Sisci.
Formiche.net - Francesco Sisci – (20/03/2023)
– ci dice:
Il
libro traccia una storia d’Italia come filo rosso della storia occidentale,
compreso il mondo russo e musulmano.
Si
sofferma sul perché la rivoluzione industriale sia avvenuta in Europa e non
altrove e sul processo di sinizzazione dell’Occidente portato avanti dai
gesuiti.
(Questo
testo è un estratto di “Breve storia d’Italia con caratteristiche cinesi” di
Francesco Sisci, tradotto in italiano per Formiche.net da Matteo Turato.)
La
Cina ha sempre creduto nella storia.
Fin
dall’antichità, dai tempi di Confucio e Mozi, da quando la dinastia Zhou
compilò il Registro dei Riti, il Li Ji, uno degli elementi culturali più
importanti, se non il più importante, è stato la storia e la sua scrittura
piuttosto che i testi sacri religiosi, siano essi la Bibbia o il Corano.
Quindi comprendere gli Stati e le civiltà
significa analizzarne la storia. Mettere ordine storico sulla dinastia e sul
passato era la priorità ideologica massima di ogni dinastia regnante.
Scrivere
la storia era lo strumento ultimo di giustificazione ideologica e di
legittimazione del potere.
Da
oltre un secolo, la Cina sta attraversando un doloroso processo di
modernizzazione – che in realtà è un processo di occidentalizzazione – simile
ma più profondo e veloce del processo con cui la Cina ha assorbito, è stata
cambiata e ha cambiato il buddismo indiano nel primo millennio dopo Cristo.
Quindi,
perché i cinesi possano comprendere appieno a cosa stanno andando incontro, è
fondamentale per loro conoscere la storia dell’Occidente.
Solo avendo chiara la storia dell’Occidente,
la Cina saprà dove sta andando.
Non si
tratta solo di democrazia, diritti umani, internet o missili; si tratta di
cambiare la storia, di cambiare la comprensione della storia propria e altrui,
di cambiare i modelli e le proiezioni storiche.
Tuttavia,
questo Occidente, in cui la Cina vuole in qualche modo trasformarsi, è diviso
in diversi Stati con diverse storie.
Come può allora la Cina guardare
all’Occidente?
Quando
inizia la storia dell’America?
Duecento
anni fa? Di più? Di meno?
Quanti
anni ha la Russia? Quattrocento? Di più? Quanto di più?
Sembra
un rompicapo impossibile da risolvere.
In
realtà, l’America e la Russia, ma anche molti Paesi del sud del Mediterraneo,
iniziano la loro storia – o si trovano fortemente intrecciati – a quella
dell’impero romano, che è durato circa duemila anni, e forse è ancora qui nella
nuova incarnazione della Santa Sede, erede di molte antiche tradizioni romane.
Infatti, se consideriamo che la storia
documentata è di circa tremila anni, sia per l’Occidente che per la Cina, oltre
il novanta per cento di questa storia si trova in Italia, dagli antichi greci,
ai romani, al Rinascimento, ai gesuiti, che si recarono in Cina.
La storia dell’Italia può quindi essere uno
specchio eccellente, anche se parziale, attraverso il quale i cinesi possono
guardare alla storia occidentale per comprendere meglio il loro attuale
processo di modernizzazione, che è in gran parte occidentalizzazione.
Non
esiste una storia aggiornata dell’Italia in Cina, e certamente non esiste nulla
di specifico per il lettore cinese, e questo libro cerca di dare una prima
risposta a questa esigenza.
I
cinesi, del resto, sentono che c’è qualcosa di unico che li lega agli italiani,
e non è semplicemente Marco Polo o Matteo Ricci:
è il
sentimento profondo di provenire da antiche civiltà ininterrotte. Questa storia
dell’Italia è incompleta e forse superficiale.
La
storia occidentale, anche se vista dal buco della serratura della storia
italiana, è troppo lunga e complessa.
Ma qui le scelte sono state fatte pensando a
un lettore cinese, per fornirgli una prima tappa completa della storia
italiana, per potere spaziare in tutte le direzioni che vorrà successivamente
seguire.
Almeno,
la mia speranza è che i lettori cinesi possano avere una prima facile risposta
alle loro tante curiosità e interessi.
La
cosa può forse funzionare anche nell’altro senso.
I
lettori occidentali, sicuramente più familiari con la storia italiana,
potrebbero trovare in questo libro una chiave per la Cina, più facile da
avvicinare attraverso la propria storia che attraverso la misteriosa storia
cinese.
Ciò
che i cinesi di oggi cercano, cosa cercano, cosa li incuriosisce della storia
italiana, dice anche agli occidentali cosa dovrebbero cercare quando guardano
alla Cina.
Nei
libri scolastici di storia italiana degli anni Sessanta, quelli che usavo da
bambino, una lezione standard era la critica alla posizione sull’Italia del
primo ministro austriaco, il principe Klemens Wenzel Von Metternich.
I libri spiegavano che nel 1815, al Congresso
di Vienna, che riorganizzò i confini e gli Stati d’Europa dopo le guerre
napoleoniche, Metternich respinse le ambizioni politiche verso uno Stato
unitario e reimpose il controllo austriaco sulla penisola, accompagnandola con
la frase: “L’Italia è solo un’espressione geografica”.
Dunque
non poteva avere ambizioni politiche e doveva rimanere divisa in una dozzina di
staterelli privi di influenza al di là delle Alpi.
L’Italia
unitaria degli anni Sessanta del XIX secolo dimostrò errata questa
affermazione, con le guerre napoleoniche che portarono il primo sentimento di
uno Stato italiano.
Napoleone inventò la Repubblica Cisalpina
nell’Italia settentrionale alla fine del XVIII secolo, dopo la sua prima
campagna contro gli Austriaci, e diede all’Italia la sua prima bandiera, che si
differenziava da quella rivoluzionaria francese solo per un colore:
quella
francese era (ed è) blu, bianca e rossa; quella italiana era (ed è) verde,
bianca e rossa.
Anche
la differenza di colore era minima, poiché il verde è un colore molto simile al
blu.
La Francia napoleonica si sentiva vicina agli
italiani e il sentimento era calorosamente ricambiato.
Dopotutto
la Corsica, luogo di nascita di Napoleone Bonaparte, fu venduta alla Francia da
Genova nel 1764.
All’inizio si trattò di un trattato segreto,
quando il “Duca di Choiseul”, allora ministro della Marina, la acquistò a nome
della corona francese.
Genova
lo fece perché non era riuscita a reprimere la ribellione indipendentista
guidata da “Pasquale Paoli” e voleva sbarazzarsi di quei facinorosi traendone
qualche profitto.
Nel 1755 Paoli aveva proclamato la Repubblica
Corsa con una costituzione che potrebbe aver influenzato la successiva
Costituzione americana.
Paoli fondò la prima Università della Corsica
(con insegnamento in italiano).
Paoli
considerava i Corsi un popolo italiano.
Anche Napoleone, nato nel 1769 da una famiglia
originaria della Toscana (Bonaparte è un cognome tutto italiano, che significa
“parte buona”), potrebbe essersi ispirato a Pasquale Paoli, i cui sostenitori
condussero una guerra di resistenza sull’isola per molti anni dopo l’annessione
alla Francia.
Tuttavia,
prima della Repubblica Cisalpina, e soprattutto prima dell’annessione del Regno
di Napoli (che governava tutta l’Italia meridionale) al Regno di Savoia (che
governava parte dell’Italia settentrionale e parte dell’Italia centrale) nel
1861, non era mai esistito uno Stato italiano unitario.
Anche al momento dell’istituzione della
Repubblica, l’Italia non era unita.
L’area
di Venezia passò venne annessa nel 1866, grazie all’alleanza con la potenza
emergente dei prussiani contro gli austriaci in declino.
Roma e
i suoi dintorni furono conquistati nel 1870 in una guerra contro lo Stato
Pontificio, mentre le zone intorno alle città di Trento e Trieste furono
strappate al dominio austriaco solo alla fine della Prima Guerra Mondiale, nel
1918.
Quindi
“Metternich” aveva ragione nel 1815 a non credere in un’entità politica
chiamata Italia, e i libri di storia italiana degli anni Sessanta si
sbagliavano.
La
questione dell’”espressione geografica” supportava la fredda e realistica
affermazione del principe austriaco, modello di riferimento per frotte di
diplomatici fino a Henry Kissinger.
L’Italia era stata il centro dell’Impero
Romano, ma prima, dopo e anche durante, vi abitarono molti popoli diversi, con
lingue e costumi diversi.
Gli
arabi semiti avevano dominato la Sicilia e i turchi dell’Asia centrale avevano
conquistato le coste dell’Italia meridionale;
prima
di loro c’erano stati i greci che pensavano che la penisola italiana fosse una
Grecia allargata (Magna Grecia);
i fenici vivevano tra la Sicilia e l’odierna
Tunisia;
la Gallia si estendeva su entrambi i versanti
delle Alpi, la pianura padana e l’odierna Francia;
e gli etruschi, un popolo oscuro forse
originario dell’Anatolia, hanno lasciato un segno indimenticabile.
Anche
i vichinghi dalla Norvegia e i principi o i pirati dalla Francia o dalla Spagna
o dalla Germania erano arrivati a reclamare questo o quel pezzo della penisola.
Nessuno
aveva governato l’Italia nella sua interezza, solo i Romani, ma per loro era
solo il nodo di una rete molto più grande, il loro impero.
Il
caleidoscopio di lingue diverse poteva far freddamente supporre che l’Italia
non avesse motivo di essere trattata come un’unità.
Anche dopo l’unificazione rimase molto divisa,
con dialetti e lingue reciprocamente incomprensibili, tanto che chiunque, non
solo Metternich, avrebbe potuto trovare molte ragioni per sostenere che l’unità
politica della penisola fosse stata un enorme errore.
Tuttavia,
c’è anche qualcosa che unisce l’Italia.
È qualcosa di difficile da definire in modo
specifico, ma c’è sicuramente. È una cultura comune:
l’interazione di persone che si sono
incontrate e combattute per millenni in un piccolo spazio che tuttavia ha
esteso la sua influenza su tutto il mondo, uno spazio che è stato per secoli il
centro della civiltà occidentale.
Infatti, dei circa tre millenni di civiltà
occidentale, oltre il novanta per cento si trova in Italia, tanto che la storia
del mondo occidentale non può prescindere dall’Italia e la storia dell’Italia è
in qualche modo una versione sintetica della storia dell’Occidente.
Anche
oggi, mentre l’importanza politica ed economica dell’Italia è in declino da
decenni, la penisola ospita due delle organizzazioni più potenti del mondo.
La Chiesa cattolica, con sede a Roma, di gran
lunga la più grande religione unitaria del mondo, e la mafia, forse ancora la
più formidabile organizzazione criminale del pianeta.
Con queste due realtà che assorbono le migliori menti
del Paese, si potrebbe sostenere con un sorriso, cosa resta alla politica
italiana?
Inoltre,
nonostante le difficoltà economiche generali, l’Italia ha alcune nicchie
uniche:
la sua industria alimentare con pasta, pizza
ecc. è popolare in tutto il mondo, il suo calcio è seguito da miliardi di
persone in tutto il mondo, la sua moda non è seconda a nessuno e ci sono
centinaia di eccellenze in quasi tutti i settori industriali.
Sembra
un miracolo che tutto ciò avvenga nonostante la sua pessima gestione politica.
Oppure
è così a causa della sua gestione politica, come sostenevano alcuni politici
democristiani negli anni ’80?
Mussolini, leader dell’Italia dal 1922 al
1943, diceva notoriamente: “cercare di governare gli italiani non è
impossibile, è inutile”.
O forse si tratta di una forma di giustizia
divina:
se gli
italiani trovassero un buon sistema politico per loro stessi, nessun altro
Paese avrebbe alcuna possibilità di sopravvivere, come avvenne per l’impero
romano.
Eppure gli italiani per secoli hanno trovato
il modo di governarsi in modo diverso.
Soprattutto, per secoli l’influenza italiana è
andata ben oltre i confini dell'”espressione geografica” e ha contribuito a
plasmare l’Europa, il Mediterraneo e il mondo.
Questo
libro è un piccolo assaggio di come ciò sia avvenuto, di come l’Italia sia
diventata ciò che è ora e del perché la sua eredità sia così importante per
tutti.
Il
sostegno della mafia allo
sbarco
alleato in Sicilia
80
anni fa 10 luglio 1943.
It.euronews.com
- Paolo Alberto Valenti – (09/07/2023) – ci dice:
Il 10
luglio 1943, la più grande flotta d’invasione riunita fino ad allora
raggiungeva la Sicilia.
Mezzo
milione di uomini, protetti dai cannoni navali e da una flotta aerea che
dominava il cielo, si apprestava a sbarcare in Europa.
A 80
anni dallo sbarco in Sicilia.
Ottanta
anni fa, il 10 luglio del 1943, la prima poderosa “armada” alleata si profilava
al largo della Sicilia.
Per
l’Italia fascista scoccava il suo “D day”, il primo in Europa.
“Il
giorno dell’invasione” è il titolo del volume appena uscito per i tipi di
Mursia firmato dallo studioso” Mimmo Anfor”a che ha dedicato decenni alla
ricognizione di questo come di altri eventi storici che sullo scenario bellico
novecentesco hanno afflitto la storia della sua Sicilia.
“Alle
prime luci del 10 luglio, davanti alle coste meridionali siciliane, uno
spettacolo spaventoso e grandioso allo stesso tempo si presentava davanti agli
occhi dei difensori italiani:
una
sterminata flotta nemica, formata da navi da guerra, mercantili e mezzi da
sbarco, copriva la superficie del mare.
I militari della difesa costiera, dall’interno
delle trincee e dei fortini, debolmente protetti da filo spinato e radi campi
minati, guardavano un mare coperto da grigie imbarcazioni, impietriti,
attoniti, con gli occhi sgranati e i cuori tremanti”:
scrive Anfora nella prefazione che si addentra
fin da subito nella lettura delle forze in campo:
da una parte la 7a armata di “George Patton”
insieme all’8a armata di “Bernard Law Montgomery” (agli ordini del generale
statunitense “Dwight David Eisenhower”), dall’altra il Regio Esercito male
equipaggiato che disponeva di un numero di pezzi d’artiglieria di gran lunga
inferiore a quelli alleati e di una catena di comando costituita in prevalenza
da ufficiali poco preparati e poco abili oltre a truppe solo in pochi casi
pronte al combattimento davanti a un esercito di gran lunga più poderoso.
Le
forze germaniche di stanza nella Sicilia dell’estate 1943, erano a mala pena la
divisione di granatieri corazzati 15a «Sizilien», una divisione corazzata
incompleta (la «Hermann Goering»), una brigata contraerea (la 22a Flak
Brigade).
Ai pochissimi velivoli da combattimento italiani la
Luftwaffe affiancava nell’insieme del Mediterraneo circa 800 aerei di cui solo
500 efficienti. Inoltre, per quanto riguarda i tedeschi, la catena di comando
giungeva fino alla cancelleria hitleriana così che la coordinazione con lo
stato maggiore italiano era particolarmente difficoltosa.
La
storiografia dello sbarco in Sicilia dibatte da sempre sul ruolo della mafia ed
ha sviscerato la documentazione relativa al gangster “Lucky Luciano “che nel
1942 dal carcere di Dannemora (dove scontava un pena di 30 anni) venne
trasferito nella prigione modello di Comstock.
Qui iniziò a far salotto con altolocati
personaggi dell’amministrazione a stelle e strisce.
Nel
1946 Luciano venne definitivamente scarcerato, ufficialmente perché aiutò a
neutralizzare i sabotatori tedeschi nei porti americani in realtà (come
confermato da due commissioni d’inchiesta, una statunitense e una parlamentare
italiana, quest’ultima risalente agli anni Novanta) gli vennero riconosciute
tre legittimazioni concesse dagli statunitensi alla mafia,
“la
prima, il ricorso a capi mafiosi per la preparazione dello sbarco in Sicilia;
la
seconda, l’appoggio dato al movimento separatista;
la
terza la collocazione ai vertici delle amministrazioni comunali di politici
sostenuti dai mafiosi o addirittura di boss mafiosi”
(Cfr. pagina 4 di “Malpaese”, Alessandro Sili,
Donzelli Editore 1994, Roma).
Nel
suo articolato saggio su questo specifico teatro di guerra, i primi giorni di
battaglia, “Anfora “passa in rivista le opposte posizioni:
“Tra
gli storici che si sono espressi a favore della tesi sull’accordo tra il
governo USA e Cosa Nostra c’è il giornalista “Ezio Costanzo”, pensiero espresso
nel suo saggio “Mafia & Alleati Servizi segreti americani e sbarco in
Sicilia” – Da Lucky Luciano ai sindaci“uomini d’onore”, pubblicato nel 2006.
La
tesi contraria è sostenuta dal Professor “Rosario Mangiameli”, storico
specializzato in Storia Contemporanea e Storia della Sicilia, il quale ha
affermato “la
totale inconsistenza storica di una diceria molto popolare fuori da sedi
scientifiche. Tesi che ha prodotto la nascita del suo saggio
"In
guerra con la Storia. La mafia al cinema e altri racconti. ”
La
rinascita della mafia dopo l'era Mori.
Resta
però particolarmente difficile, e “Anfora” lo conferma a Euronews, sostenere
che la rinascita della mafia nella Sicilia del dopo sbarco sia estranea al
potere esercitato dagli statunitensi sull’isola.
Dopo
gli anni della repressione fascista agli uomini d’onore non pareva vero di
poter rialzare la testa.
Il
colonnello Charles Poletti, allora ex vicegovernatore di New York, divenne il
dirigente degli “Affari civili” dell’isola diventando il top manager dei
rapporti con i notabili locali, mafiosi compresi.
Fra questi spiccava Calogero Vizzini (don
Calò), fu lui l’ufficiale di “collegamento” con i mafiosi chiamati a
collaborare allo sbarco.
Le
ragioni di questo nuovo apporto storico.
“Questo
lavoro – sostiene l’autore in coda alla prefazione - ha lo scopo di narrare il
giorno dell’invasione, le ventiquattro ore che decisero non solo il destino
della Sicilia, ma di tutta l’Italia, e che furono l’inizio di una campagna che
durò quasi due anni, mettendo a ferro e fuoco la nazione. Questi tragici fatti
sono visti attraverso gli occhi degli ufficiali del Regio Esercito, ricostruiti
e narrati grazie ai rapporti che essi stilarono al rientro dalla prigionia.
Pietra
angolare di questo lavoro è la relazione del colonnello “Francesco Ronco”,
comandante del “75° rgt fanteria” di stanza a Palazzolo Acreide, dal titolo «Note sull’invasione e sulla difesa
della Sicilia – Anno 1943».
Mi
onoro di aver stretto una salda amicizia con la figlia di Ronco, Maria Luigia,
valida scrittrice di romanzi e di libri scolastici, la quale ha avuto la
gentilezza di fornirmi un ricco materiale d’archivio redatto dal padre. Con le impressioni del colonnello
Ronco, trasferito nell’isola pochi giorni prima dell’invasione, inizia questa
narrazione”.
Ecco a
seguire un brano tratto dal volume di” Anfora”:
Il
flagello dal cielo.
Dopo
lo sbarco, Ronco fece una riflessione anche sull’ attività aerea nemica sul
cielo della Sicilia: con formazioni di aerei molto numerose si flagellavano
campi d’aviazione, centri logistici e vie di rifornimento, risparmiando invece
le località dove erano accantonate le truppe, allo scopo di poterle colpire di
sorpresa al momento dello sbarco, sfruttando le indicazioni dello spionaggio.
Nel
tardo pomeriggio del 9 luglio, poche ore prima dello sbarco, una formazione di
bombardieri bimotori americani sorvolava Palazzolo.
Si trattava di B-26 Marauder del 320th
Bombardment Group al comando del cap. Marble, scortati da Spitfire decollati da
Malta. Quattro bombardieri erano rientrati per problemi vari, ma 22 si erano
radunati sul cielo della cittadina iblea, carichi di 3 mila libbre di bombe
ciascuno.
Compito
delle spie era di segnalare gli obiettivi importanti.
Sulla
terrazza della sede del comando del 75° rgt fu steso ad “asciugare” un ampio
lenzuolo, sul quale cadde, precisa, una bomba di grande potenza che distrusse
l’edificio.
In
quel pomeriggio caldo e ventoso, stavano rientrando i contadini dalle campagne,
mentre in paese gli anziani oziavano e chiacchieravano seduti in piazza e i
bambini giocavano sulle vie, inseguendosi e gridando.
Erano
circa le 18,30, quando, improvvisamente, iniziò a tremare l’aria. La gente
volse lo sguardo verso l’alto: erano convinti che si trattasse della solita
formazione di aerei nemici che andava a bombardare Catania e Gerbini.
Non era così.
Il gen. Rosario Fiumara, comandante della
fanteria divisionale della «Napoli», alzò gli occhi verso il cielo e, sulla
perpendicolare della città, vide sotto gli apparecchi luccicare una moltitudine
di punti luminosi e capì che si trattava di bombe in caduta.
Pochi
attimi dopo Palazzolo era avvolta in un inferno di scoppi e di nubi.
Immediatamente, Fiumara uscì dal comando fanteria divisionale insieme ai suoi
ufficiali.
L’edificio,
il ginnasio di Palazzolo, era rimasto integro in mezzo a una totale
devastazione.
Davanti
agli occhi di Fiumara c’era un centro abitato completamente distrutto, mentre
la gente, impazzita dall’ orrore e dal dolore, urlava, imprecava e chiedeva
aiuto.
Nel
rapporto americano c’era scritto:
Le bombe del primo squadrone furono lanciate
al centro della città, estese ai margini dell’obiettivo; le bombe di due aerei
furono lanciate sugli incroci stradali a nord est della città.
Le bombe del secondo squadrone segnarono colpi
diretti sulle caserme nel lato orientale del bersaglio e risalirono i margini
sud-orientali e orientali della città attraverso il parco alberato.
Tra gli edifici distrutti c’era anche il
comando del 75° fanteria, ma Ronco e i suoi collaboratori si erano salvati,
perché assenti per impegni vari di servizio e di ricognizione.
Il
colonnello, avvertito del disastro, rientrò subito in sede, disponendo
l’immediato inizio dell’opera di soccorso e di estrazione di centinaia di morti
e di feriti civili e militari rimasti sotto le macerie.
La febbrile pietosa attività fu svolta tutta
la notte, in mezzo a una polvere soffocante, con un’illuminazione di fortuna e
materiale sanitario militare, poiché l’ambulatorio della città aveva esaurito
tutto.
La formazione nemica fece rotta verso
l’aeroporto di partenza, indisturbata.
Non subì attacchi né dalla contraerea né dalla
caccia italo-tedesca. La Sicilia sembrava ormai un corpo inerme e indifeso,
abbandonato alla barbarie dei bombardamenti terroristici.
Molti
materiali e autoveicoli erano rimasti sepolti, le comunicazioni e le strade
erano interrotte.
Fiumara
dispose immediatamente il riattamento delle rotabili e, in previsione di
ulteriori bombardamenti, ordinò a Ronco di trasferire fuori dalla città, verso
il bivio per Noto, le truppe e i materiali.
Restavano
nel centro abitato le squadre di soccorso e di recupero del materiale, i posti
di medicazione e i carabinieri.
Il generale inviava due motociclisti a
richiedere i soccorsi, uno al comando militare di zona, l’altro alla prefettura
di Siracusa.
Tra i
soccorritori giunse da Vizzini un plotone della 71a cp artieri del genio
divisionale.
La
comandava il tenente di complemento Pasquale Calzarano, classe 1912 di
Agrigento, dove svolgeva la professione di ingegnere. Richiamato alle armi nel
maggio 1940, era stato incorporato nel genio della «Napoli» con sede a Vizzini.
Alle
23 del 9 luglio aveva ricevuto l’ordine di portare il suo plotone a Palazzolo
Acreide per dirigere i lavori di salvataggio di alcuni militari del I btg del
75° rgt che erano rimasti sepolti vivi sotto le macerie dell’accantonamento
colpito dal bombardamento aereo.
A
notte alta Fiumara si trasferiva col suo comando all’ osservatorio di quota
697, presso il teatro greco.
Da lì
si dominava tutta la costa da Catania a Pachino, rischiarata da migliaia di
razzi illuminanti.
Qualcosa
di eccezionale e di grave stava per accadere.
Alle
ore 23, intanto, giungeva la notizia che era stato proclamato lo stato di
emergenza.
La più
grande “narco banda”
del Sudamerica si espande
in
altri continenti.
Aduc.it
– Redazione – (26 novembre 2023) – ci dice:
Il
“Primer Comando Capital “è una mafia che si diffonde in Europa e Africa.
Le
partite di calcio sono questioni tese in Brasile.
Ciò è
doppiamente vero quando hanno luogo nelle carceri.
Nell'agosto
del 1993, una partita in una prigione di San Paolo finì in modo orribile.
Otto prigionieri attaccarono i loro avversari,
uccidendone almeno due. Coperti di sangue, proclamarono la nascita di una nuova
banda: il Primer Comando Capital (PCC).
Trent’anni dopo, il PCC è la banda più grande
dell’America Latina, con circa 40.000 membri a vita e altri 60.000
“appaltatori”.
Ciò lo renderebbe uno dei più grandi gruppi criminali
al mondo.
E il 6 novembre, un rapporto trapelato dai
servizi di sicurezza portoghesi affermava che il gruppo contava 1.000 associati
a Lisbona, la capitale.
Il PCC diventa globale.
La
rete di alleati della banda è iniziata in Sud America. Dieci anni fa, il PCC ha collaborato
con alcuni dei più grandi trafficanti di cocaina del mondo.
Con sede nella città boliviana di Santa Cruz,
questa "super banda" si dedica alle joint venture di riciclaggio di
droga e denaro.
I
media locali pensavano che assomigliasse al “Mercosur”, il blocco commerciale
regionale.
Lo battezzarono “Narcosur”.
Il PCC intrattiene anche rapporti con il “Tren
de Aragua” del Venezuela, un gruppo dedito al traffico di esseri umani.
Ma
negli ultimi anni il PCC si è concentrato su legami più stretti con l’Europa.
Nel 2021 nell’Unione Europea sono state
sequestrate la cifra record di 303 tonnellate di cocaina.
Più
lontano spedisci, maggiore sarà il margine.
In precedenza, il PCC acquistava coca all’ingrosso in
Bolivia per 1.500 dollari al chilogrammo, la caricava su una nave in un porto
brasiliano e la rivendeva per 8.000 dollari al chilogrammo.
Stabilendo
una base in Europa, i membri possono vendere quel chilogrammo per più di 30.000
dollari.
Si
ritiene che vi siano membri del PCC in una mezza dozzina di paesi europei,
inclusa la Gran Bretagna.
La
banda dirige più del 50% delle esportazioni di droga del Brasile verso il
continente, afferma “Lincoln Gakiya”, procuratore della criminalità organizzata
di San Paolo.
Lavora
principalmente con la 'Ndrangheta italiana, la più grande mafia d'Europa.
Entrambi
i sindacati collaborano da anni.
Gli intermediari della 'ndrangheta vengono
regolarmente arrestati in Brasile, dove svolgono importanti affari.
A
maggio, un'indagine dell'Europol, l'agenzia di polizia dell'UE, ha rivelato che
la 'Ndrangheta spediva armi del PCC dal Pakistan.
Collabora
anche con bande di narcotrafficanti albanesi e serbe.
Altra
zona di espansione per la fascia è l’Africa occidentale, una delle principali
zone di transito per la sostanza bianca.
Secondo
un recente rapporto dell’Iniziativa globale contro la criminalità organizzata
transnazionale, un “think tank” con sede in Svizzera, il PCC è diventato uno
dei principali trafficanti nella regione.
È probabile che si tratti anche di un percorso
inverso, secondo cui la cannabis marocchina viene contrabbandata in Brasile.
Secondo
“Christian Azevedo”, della polizia federale brasiliana, in Nigeria i gangster
del PCC camminano sfacciatamente per le strade di Lagos e Abuja.
“Lì
controllano anche i quartieri, proprio come fanno a San Paolo”, dice, citando
informazioni provenienti dai suoi omologhi nigeriani.
Il legame con la Nigeria ha anche aiutato la
banda a sfondare nell'Africa meridionale.
Il Sudafrica è un punto chiave per la
spedizione di coca verso i mercati emergenti di India e Cina.
L’influenza
criminale non si limita agli amici potenti o alla portata geografica.
Importante è anche il controllo territoriale e
sociale.
In questo il PCC non è molto indietro.
"Esercitano
un tipo di controllo che nessun altro gruppo ha mai esercitato, tranne le FARC
colombiane al loro apice", afferma” Steven Dudley” di” InSight Crime”, un
organismo investigativo.
La
banda è uno stato parallelo nelle favelas del Brasile, che governa la vita di
decine di milioni di persone.
Negli anni 2000 ordinò addirittura una
riduzione della violenza urbana, trasformando San Paolo da una delle città più
pericolose del Brasile a una delle più sicure.
Tuttavia, se i suoi interessi fossero
minacciati, il gruppo ricorrerebbe alla violenza estrema, osserva Gakiya.
Nel
2019 ha ordinato il trasferimento di 22 leader del PCC nelle carceri di massima
sicurezza.
Di
conseguenza, la banda lo ha inserito nella lista nera.
Ora vive sotto la protezione della polizia.
Intervistato,
ha avvertito che la chiamata potrebbe essere interrotta:
le sue porte blindate interrompono il segnale.
L'ultima
fase della transizione verso una mafia globale è la penetrazione nella politica
e nell'economia legale.
Il PCC
sta iniziando a farlo, pensa Gakiya.
La Procura Generale dello Stato di San Paolo
ha indagato su sindaci e consiglieri.
Ha
scoperto che il PCC è coinvolto in qualsiasi cosa, dalla raccolta dei rifiuti e
dai trasporti pubblici ai progetti di costruzione e agli hotel.
(The
Economist).
Giovani
studenti e diritti consumatori.
Ma chi
dovrebbe insegnare loro,
conosce
questi diritti?
Aduc.it - Vincenzo Donvito Maxia – (24 gennaio
2024) – ci dice:
Antitrust
ha fatto un’indagine tra giovani studenti (11-18 anni) per verificare la loro
consapevolezza come consumatori.
Tutto
sommato… poteva andare peggio, visto che quasi i due terzi, per esempio, sanno
che hanno diritto alla riparazione di un oggetto in caso di acquisto non
conforme e 1 su 3 dichiara di conoscere le fondamenta del Codice del Consumo.
Non è
sufficiente, certo.
Ma
riteniamo che sia un risultato sorprendente se consideriamo cosa viene loro
insegnato a scuola in ambito educazione civica.
E
molto probabile, che essendo questi ragazzi avvezzi ad acquistare soprattutto
online, si siano fatta esperienza sufficiente da soli a farsi valere in merito.
Sottolineato
che occorrerebbero maggiori ore e maggiore impegno scolastico per l’educazione
civica, senza che questa materia continui ad essere emarginata - quando va bene
-al pari di scienze motorie e sportive…. rimane un problema gigantesco:
chi dovrebbe insegnare loro, nella scuola e
nella vita, conosce questi diritti?
Per la
scuola abbiamo già detto e non ci sembra di scorgere all’orizzonte chissà quali
iniziative in merito.
Per la
vita (società e famiglia), non possiamo che rilevare:
-
famiglia:
dipende
caso per caso, soprattutto dall’alfabetizzazione della stessa in materia e non
solo.
Ed
essendo i diritti dei consumatori recente patrimonio scolastico e culturale,
crediamo che siamo ancora in alto mare.
-
società:
quanti
commercianti si prodigano ad informare, soprattutto a soggetti presumibilmente
più deboli, al pari degli anziani, anche se i giovani sono più propensi ad
apprendere?
Dalla
nostra esperienza… siamo in un magma indefinito con spesso, soprattutto piccole
e medie imprese, incapaci o finte incapaci di rapportarsi con chiarezza di
diritti e doveri con i consumatori.
Le
conclusioni che traiamo sono che, mentre questi giovani hanno in merito un buon
livello di acculturazione, non si può dire che sia altrettanto per chi dovrebbe
loro informarli, famiglia o società che sia.
Crediamo
che i giovani siano molto più avanti della società che, invece, nel suo
complesso, avrebbe bisogno di una informazione di massa e dettagliata, al pari
di quelle che si fanno per far sì che tutti i cittadini abbiano dimestichezza
con il digitale nel suo insieme.
‘La
libera informazione non
sostituisce
la giustizia’ –
Pg
Cassazione. Ma guarda un po’...
Aduc.it
- Vincenzo Donvito Maxia – (25 gennaio
2024) – ci dice:
“La
libera informazione non sostituisce la giustizia”.
È quanto praticamente ha detto il procuratore
generale di Cassazione, “Luigi Salvato, nel corso del suo intervento
all’inaugurazione dell’anno giudiziario.
Questo
il testo preciso:
"Va
ribadito che 'verità giudiziaria' è solo quella raggiunta nell'osservanza del
giusto processo di legge celebrato da magistrati ed avvocati; pretendere di
sostituirla con improbabili indagini, abnormi plebisciti, significa distruggere
le basi dello Stato di diritto e delle nostre libertà".
(Askanews)
In
tono ovviamente riverente e rispettoso ci viene da esclamare “ma guarda un
po’”...
Cos’è
uno Stato dove uno dei suoi poteri, quello Giudiziario, si sente di dover
precisare che la libera informazione non è un potere dello Stato?
Siamo
in presenza di una deriva incontrollabile dell’informazione (social inclusi)
per cui è doveroso un simile intervento?
E allora, si facciano nomi e cognomi e, nel
caso, si perseguano i responsabili.
Se
così non è, che cos’è?
Un
messaggio a utenti e operatori dell’informazione perché tornino su una
presumibile retta via, ormai smarrita?
Siamo
in ambito “inaugurazione anno giudiziario”, non ad una pubblica manifestazione
su “giustizia e informazione”.
A noi
operatori e utenti dell’informazione (sui consumatori, nel nostro caso) ci
viene un dubbio: cosa abbiamo fatto? Dove abbiamo strabordato, andando oltre i limiti dei
codici?
Al
momento non lo sappiamo, anche perché non abbiamo procedimenti giudiziari
aperti in merito, e quindi chi sono, dove sono, cosa hanno fatto coloro che
“pretendono di sostituire (ndr. la giustizia) con improbabili indagini, abnormi
plebisciti” che distruggerebbero - secondo il nostro PG - le “basi dello Stato
di diritto e delle nostre libertà”?
A noi
sembra proprio che, quando con l’informazione si stimolano i poteri dello Stato
(potere giudiziario incluso) vuol dire che stiamo esercitando una delle libertà
tipiche di uno Stato di diritto.
Ci
preoccupa chi, a fronte di questo esercizio, ci “accusa” di minare invece sia
libertà che Stato di Diritto.
Il”
dio verde”, un nuovo idolo
della
nostra cultura?
Locicommunes.it
– Leonardo De Chirico – (13 dicembre 2021) – ci dice:
“La
religione ecologica è il nuovo oppio dell’Occidente post-cristiano”.
Con queste parole il filosofo francese “Robert
Redeker” introduce il pamphlet al vetriolo di “Giulio Meotti”, giornalista del
“Foglio”, “Il
dio verde”. “Ecolatria e ossessioni apocalittiche”, Macerata,” Liberi Libri”
2021.
Per Redeker, quella ecologica è una religione
feticista (eleva
la natura e gli animali a oggetto di culto), panteista (li considera divini) e anti-umana (l’uomo è l’ospite distruttore che va
eliminato).
Ora, a
orecchi cristiani, un conto è la cura dell’ambiente, un altro è l’ecologismo
come religione.
Se
l’ambiente diventa un assoluto, ecco che l’ecologismo assume i tratti di una
religione totalizzante.
“
Meotti” documenta la crescita e le rivendicazioni di questa religione verde,
soprattutto sul versante della cultura francese contemporanea.
In realtà si tratta di un’evoluzione del
pensiero moderno che alla Dea Ragione ha sostituito la Dea Terra visto il fallimento delle ideologie politiche
del Novecento e la loro conversione nell’”ortodossia ambientalista”.
Infatti,
il filosofo tedesco “Peter Sloterdijk” l’ha definita “l’ultima religione
occidentale”.
Citando
“Raymond Aron”, Meotti sottolinea che dalla promessa del regno dei cieli si è
passati all’aspettativa del regno dell’uomo fino ad arrivare all’attesa del
regno della natura.
La
nuova metafisica ecologica nutre il sogno della nuova “utopia ambientale”.
Il
“greenismo” centra poco con l’ecologia cristiana perché non gli interessa
rispondere in modo responsabile al mandato culturale ricevuto da Adamo ed Eva:
vuole sostituirlo con un mandato a estinguersi
per esaltare Gaia.
Gli esseri umani, semmai, sarebbero colpevoli del
“peccato originale” di consumare e l’unico rimedio sarebbe l’eliminazione del
consumo, dunque la fine della specie umana.
Il dio
verde è contro l’antropocentrismo, in tutte le sue declinazioni.
Mentre
anche la critica cristiana riconosce di aver per troppo tempo sposato una
cultura umano centrica perdendo di vista la collocazione dell’essere umano nel
creato, la religione ecologica, figlia della sedimentazione dell’evoluzionismo,
dell’anti-specismo e dell’intersezione di tutte le lotte di liberazione
immaginabili, non vuole redimere la cultura, ma soppiantarla con un’”utopia idolatrica”.
La
religione verde sta edificando un vero e proprio culto: ha i suoi giorni santi (la Giornata
della Terra), i tabù alimentari (veganesimo), i templi (le università
occidentali del pol.corr.), i sacerdoti (gli esperti che sciorinano dati
catastrofici), le vestali (Greta), la sua apocalittica (l’incubo del riscaldamento
globale).
Ha anche la sua ostia (il compost).
I suoi nemici sono l’Occidente, il
capitalismo, l’uomo bianco, il cristianesimo e tutto ciò che è ad essi
intrecciato.
“
Meotti” conclude in modo forte dicendo che: “Dio è diventato verde e in
sacrificio chiede la morte dell’Occidente. Amen!”
Il
pugno in pancia è in effetti duro e Meotti ha l’abilità giornalistica di non
smorzarlo.
È
interessante che usi nel sottotitolo la categoria teologica dell’idolatria,
anche se non la sviluppa affatto.
È più un richiamo retorico, ma non una chiave
di lettura.
Peccato.
Un altro limite del pamphlet è che, nel
criticare il “greenismo,” non è autocritico rispetto alle devianze della
cultura occidentale nelle loro varianti capitalistiche, individualistiche,
consumistiche, narcisistiche.
Per
una cultura evangelica, l’idolatria dell’ambiente (ecolatria) è speculare all’idolatria
dell’io (egolatria).
Per combattere ogni idolatria, non basta
difendere l’Occidente e le sue acquisizioni:
va
confessato l’unico e vero Dio, il Creatore dei cieli e della terra, e in Gesù
Cristo, il Salvatore del mondo, e re-imparare a vivere di conseguenza.
Il
compito profetico di denunciare gli idoli deve essere accompagnato dal compito
regale di re-impostare la vita non difendendo lo status quo, ma entrando nel
regno di Dio e da lì proseguire.
(Leonardo
De Chirico)
I
(dis)valori dell’Occidente
hanno conquistato il mondo:
i
Brics non fanno eccezione.
Agendadigitale.eu
- Lelio Demichelis – (7 set. 2023) – ci dice:
Anche
se i valori (religiosi, politici, esistenziali) del resto del mondo sembrano
divergere da quelli dell’Occidente (o viceversa), in realtà non esistono valori
diversi e divergenti da quelli dell’Occidente.
Ormai diventati la forma di vita del mondo
intero.
Anche
nei paesi BRICS, che pure sembrano andare in senso opposto.
“Western
values are steadily diverging from the rest of the world’s”, ha scritto
recentemente “The Economist”.
Ma è davvero così?
E non
stiamo forse tornando a uno dei tanti momenti in cui certi paesi del mondo
decidono di non allinearsi e di provare a costruire un mondo multipolare/policentrico,
o almeno non solo bipolare/bi-imperiale – come dimostrerebbe la recente
riunione dei Brics, poi allargati, dal 2014 ad altri paesi come Arabia Saudita,
Emirati Arabi, Egitto, Argentina, Etiopia (Brics+)?
BRICS
is expanding, but can it rebalance the world order?
|
Counting the Cost.
A
parte gli Stati Uniti, contrari a questa ricerca di policentrismo – in quanto
capo-filiera dell’impero d’Occidente, con 800 basi militari in 80 paesi del
mondo e non certo per esportare la democrazia e difendere i valori
dell’Occidente liberale e democratico (vedi Iraq e Afghanistan e, giusto 50
anni fa, il golpe statunitense-fascista di Pinochet in Cile usato poi per testare sulla pelle viva dei cileni, che
non potevano protestare, il neoliberismo per poi imporlo a tutto il mondo), e
con l’Europa che ne è l’appendice obbediente e omologata – avere un mondo
policentrico, plurale e pluralistico non dovrebbe essere un’aspirazione di
tutti, anche degli occidentali e soprattutto degli europei, che si dicono (ma
non lo sono mai stati davvero) eredi anche di Immanuel Kant e quindi della sua
idea di pace perpetua e di un ordine cosmopolitico, una federazione di popoli
nella quale ogni stato sia tutelato?
Quindi
perché non orizzontalizzare il potere e farlo policentrico anche in termini di
valori diversi, estendendo il principio liberale di bilanciamento dei poteri e
di controllo e contenimento reciproco?
Ma
poi, e soprattutto, quali sono i valori dell’Occidente:
il liberalismo o la religione del capitalismo
(Benjamin) o del tecno-capitalismo (che poi sono la stessa cosa), ieri il cristianesimo nelle sue
diverse forme, l’illuminismo, oppure il benessere e la ricerca della felicità,
o i diritti dell’uomo;
oppure
il sovranismo/nazionalismo, il neofascismo e il suprematismo bianco – oppure
ancora l’I have a dream di Martin Luther King, oggi sulle labbra soprattutto
dei migranti?
Dai
Non-Allineati ai Brics+
I
Non-Allineati nascono nel 1961 con l’egiziano Nasser, lo Jugoslavo Tito e
l’indiano Nehru tra i fondatori, ma hanno un antecedente con la Conferenza di
Bandug del 1955, promossa dal governo indonesiano di allora, riunendo 29 paesi
africani e asiatici, molti dei quali da poco usciti dalla colonizzazione
occidentale.
Nel “Manifesto
programmatico”, approvato a conclusione della “Conferenza di Bandung”, i paesi
coinvolti condannarono tutte le forme di oppressione coloniale e, come non
allineati si proposero come nuovo soggetto della politica internazionale,
distinti e autonomi dai due blocchi riuniti negli imperi di Usa e Urss.
Nella “Dichiarazione
di costituzione del movimento” si affermava poi che la “la soggezione dei
popoli al giogo straniero, la dominazione e lo sfruttamento […] sono in
contraddizione con la carta delle Nazioni Unite e sono di ostacolo allo
sviluppo della pace e della cooperazione mondiale […], dichiarando il proprio
appoggio alla causa della libertà e dell’indipendenza di tutti i popoli”.
E
ancora: “Tutte
le nazioni dovrebbero avere il diritto di scegliere liberamente i loro sistemi
politici ed economici e il loro modo di vita […] e dovrebbero praticare la
tolleranza e vivere insieme in pace e da buoni vicini e sviluppare una
cooperazione amichevole […]”, rigettando “ogni interferenza e intervento negli
affari interni di altri paesi”, insieme ribadendo che “la cooperazione nel
campo economico, sociale e culturale contribuirebbe a creare una comune
prosperità e il benessere di tutti”.
Principi
che potrebbero/dovrebbero essere validi ancora oggi ma che, da allora, non si
sono mai realizzati e il mondo sembra anzi oggi procedere speditamente e
irresponsabilmente – ma molto vantaggiosamente in termini di business, armi
comprese, cioè di capitalismo – verso una nuova disruption violenta e
disordinata dell’ordine geopolitico mondiale, tra imperi in decadenza (gli Usa)
e nuovi imperi (la Cina) in cerca di legittimazione e di riconoscimento.
Da
allora (1955) molte cose sono cambiate e ne ricordiamo solo alcune.
Allora
si era ancora nelle seconda rivoluzione industriale e stava iniziando la terza,
quella dell’informatica e oggi siamo nella quarta, già ansiosamente aspettando
la quinta (in
realtà, al di là delle apparenze, è sempre una unica rivoluzione industriale,
sempre uguale nella sua legge ferrea fatta di divisione del lavoro e della vita
dell’uomo per la successiva integrazione delle parti in qualcosa di maggiore
della loro semplice somma, cioè è sempre lavoro industriale, anche nel
digitale, e sfruttamento tecno-capitalista di uomo e biosfera, e a cambiare è
solo il mezzo di connessione e integrazione delle parti, uomini e macchine
precedentemente suddivise:
ieri
la catena di montaggio meccanica-taylorismo, oggi la catena di
montaggio-piattaforme digitali e il taylorismo anch’esso digitale).
È
continuato lo sfruttamento colonialista delle materie prime di Africa, Asia e
America Latina da parte del capitalismo occidentale, ieri per il petrolio e
oggi per litio e terre rare (e non solo) e per queste materie prime si sono
fatte e si fanno ancora guerre ovunque sia necessario per il profitto del
capitale (ma la si chiama innovazione tecnologica…) oltre che del complesso
militare-industriale.
L’ingerenza
negli affari interni dei paesi si fa ancora con la guerra militare (ultima, in Ucraina, ma molte sono le
guerre per frammenti, come ricorda Papa Francesco, dentro a una terza guerra
mondiale tra potenze geopolitiche/geoeconomiche), ma soprattutto con il “Wto” e le “riforme
strutturali” (tutte filo capitalistiche) imposte dal “Fondo monetario” e dal “Washington
Consensus” a tutti i paesi del mondo e in Europa dall’”ordoliberalismo di
matrice tedesca” e poi assurto a” ideologia dell’Unione europea”.
L’idea
di una cooperazione internazionale è stata sostituita dalla continuazione della
guerra economica di tutti contro tutti e da forme di neocolonialismo – ma
neocoloniali sono soprattutto i giganti hi-tech che hanno trasformato,
uniformato e omologato il mondo intero secondo i valori e i voleri
dell’Occidente tecno-capitalista e sublimati nella Silicon Valley (altro che
diritto di “scegliere liberamente il proprio modo di vita”, altro che “valori
divergenti dal resto del mondo”), creando un totalitarismo antropologico
digitalizzato e neoliberale con la sostituzione del mercato alla polis,
dell’homo oeconomicus/technicus all’homo politicus (si legga in proposito
l’ultimo libro di Wendy Brown). E si potrebbe continuare…
Ma
arriviamo ai Brics (36% del Pil mondiale e 47% della popolazione globale).
Sono
la nuova forma del Non-Allineamento?
Il modo in cui – soprattutto da parte di Cina,
India e Brasile – si cerca di costruire ancora una volta un mondo multipolare?
Sarebbe
una prospettiva interessante – tra i valori occidentali non vi è appunto quello
del riconoscimento della pluralità, della diversità, della tolleranza, della
libertà?
Ma i
valori dei Brics sono davvero diversi da quelli tecno-capitalistici
dell’Occidente?
Politicamente vogliono una diversa
cooperazione economica, vogliono uscire dal pre-dominio del dollaro creando una
nuova moneta di scambio, ma vogliono anche continuare a sfruttare il vecchio
petrolio, come i nuovi litio e terre rare.
E quindi, non agiscono usando e applicando gli
stessi (dis)valori dell’Occidente, fatti di sfruttamento della biosfera, di
industrializzazione della vita dell’uomo, di ecocidio pianificato?
E non stanno quindi anche i Brics+
contribuendo a realizzare la profezia (che si auto-avvera ogni giorno che
passa) per cui è più facile immaginare la fine della Terra che la fine del
capitalismo?
La
tesi dell’Economist è sbagliata, perché i (dis)valori veri dell’Occidente sono
da tempo i (dis)valori del mondo intero e non stanno certo divergendo nella
sostanza (l’apparenza
e una cosa diversa – e l’Occidente continua a raccontare di voler estendere la
democrazia e la libertà, contraddicendosi poi sempre nei fatti) da quelli del resto del mondo – e
viceversa, i (dis)valori dei Brics+/resto del mondo sono gli stessi di quelli
dell’Occidente.
La loro è solo una diversa forma di capitalismo
estrattivo e della sorveglianza, non certo un diverso paradigma antropologico,
economico, tecnologico.
E
anche nei Brics+ vi sono democrazie, democrature, dittature, populismi,
sovranismi, trumpismi, putinismi, fascismi proprio come nell’Occidente.
Perché per il capitalismo e il neoliberalismo è sempre
preferibile anche una dittatura purché favorevole al mercato, che una
democrazia contraria al mercato (lo diceva il neoliberale von Hayek, esprimendo come
meglio non si potrebbe il cinismo valoriale dell’Occidente).
E
infatti, in Occidente come altrove, qualcuno si oppone forse al capitalismo e
alla sua tecnologia (al tecno-capitalismo), intrinsecamente (per sua essenza)
illiberale e anti-democratico?
Non
sono forse i mercati e l’hi-tech a dettare l’agenda anche alle democrazie?
E non
vale forse ancora di più oggi la definizione di “Max Weber” – di cento e più
anni fa – del capitalismo come gabbia d’acciaio, quel capitalismo che è
“potente ordinamento economico moderno, legato ai presupposti tecnici ed
economici della produzione meccanica [ora digitale], che oggi determina con
strapotente costrizione, e forse continuerà a determinare finché non sia stato
consumato l’ultimo quintale di carbon fossile [oggi di litio e terre rare], lo
stile della vita di ogni individuo, che nasce in questo ingranaggio, e non
soltanto di chi prende parte all’attività puramente economica”?
E non
è la stessa gabbia capitalistica che troviamo in Cina, in India, in Brasile, in
Russia?
Nessuna
divergenza, dunque, semmai perfetta convergenza, sovrapposizione, identità di
(dis)valori tecno-capitalistici – i (dis)valori dell’Occidente che hanno ormai
colonizzato l’intero globo.
I
dis-valori dell’Occidente.
E
dunque, di nuovo:
quali
sono i veri valori dell’Occidente? Libertà, democrazia, individualismo, stato
di diritto, uguaglianza, fraternità?
Teoricamente
sì, ma questo è appunto solo il velo ideologico che copre e nasconde il vero e
unico valore dell’Occidente:
tecno-capitalismo,
tecno-capitalismo e ancora tecno-capitalismo, cioè profitto, profitto e ancora
profitto (privato).
E
quindi, non è in contraddizione con la libertà di espressione proclamata a
parole – un altro dei grandi valori dell’Occidente – l’accanimento persecutorio
degli Usa contro Julian Assange?
Sì, certo che lo è – come in contraddizione
con i valori a parole dell’Occidente sono state la macelleria sociale e le
torture della Polizia a Genova nel 2001 e oggi le stragi di migranti nel
Mediterraneo, e molto altro ancora.
Torniamo
allora a “Marx ed Engels” – che su certe cose hanno ancora molto da dirci – che
nel 1848 scrivevano (ma è anche il mondo di oggi):
La
borghesia – ma noi dobbiamo dire: il tecno-capitale – “non ha lasciato tra uomo
e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato pagamento in contanti.
[…].
La borghesia [il tecno-capitalismo e oggi la
sua incessante disruption] non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli
strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto
l’insieme dei rapporti sociali. […]
Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha
reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. […]
Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i
quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere
soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani”.
E
ancora:
“Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i
suoi prodotti [è appunto la logica compulsiva-accrescitiva del tecno-capitale],
spinge la borghesia [il tecno-capitale] per tutto il globo terrestre.
Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto
stabilirsi, dappertutto stringere relazioni. […]
Essa
costringe tutte le nazioni a adottare le forme della produzione borghese
[tecno-capitalistica] se non vogliono perire;
le
costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi
borghesi [cioè tecno-capitalisti].
In una parola, essa crea un mondo a propria immagine e
somiglianza.
[…]”.
E sono
appunti questi i veri (dis)valori dell’Occidente – come appunto dimostra tutta
la sua storia, anche quella digitale/virtuale di oggi.
E anche Brasile, Cina (l’altro grande
inquinatore, con gli Usa) e India stanno cercando di non risolvere davvero la crisi
climatica, ma di farci adattare ad essa (si chiama resilienza, parola magica
che ci sta ammaliando, rendendoci impotenti davanti al tecno-capitale che la
pronuncia), importante è non uscire mai dalla gabbia weberiana.
In
realtà tutto il mondo è governato e predeterminato e legittimato, prima che
dalla politica, dal capitale e dalla tecnologia da quella che definiamo
razionalità strumentale/calcolante-industriale e che è la premessa (il
mega-(dis)valore) di capitalismo e tecnica, per cui vale solo ciò che è
strumentale alla massimizzazione del profitto e all’accrescimento del mercato e
dei sistemi tecnici integrati e alla automatizzazione della società e dei
comportamenti;
che è
misurabile e calcolabile e quindi standardizzabile, omologabile, replicabile,
automatizzabile, pianificabile e oggi algoritmizzabile;
e che quindi è industrializzabile, vita umana
compresa e da cui estrarre sempre maggiore plus lavoro, produttività e quindi
plusvalore/profitto privato, in quella che definiamo essere diventata da tempo
– ma ancora di più grazie al digitale – una società-fabbrica, di cui noi
siamo solo e sempre forza-lavoro per il profitto del tecno-capitale e mai per
soddisfare i nostri bisogni e tutelare quelli delle future generazioni.
Conclusioni.
Se
dunque i valori (religiosi, politici, esistenziali) del resto del mondo
sembrano divergere da quelli dell’Occidente (o viceversa), in realtà non
esistono valori diversi e divergenti da quelli dell’Occidente.
Ormai
diventati la forma di vita del mondo intero.
Che
poi molti paesi (ancora i Brics+) cerchino di ritagliarsi uno spazio proprio
all’interno di questa occidentalissima (ir)razionalità
strumentale/calcolante-industriale – e che sia irrazionale lo dimostra con tutta
l’evidenza dei fatti la crisi climatica, per non dire della continua e
crescente crisi sociale e della stessa democrazia – questa è solo la
continuazione della (ir)razionalità strumentale/calcolante-industriale, con
altri mezzi.
La
vita e le idee di “Rodney Stark”,
il sociologo che difendeva l’Occidente.
Formiche.net
- Gennaro Malgieri – (19/08/2022)
Stark,
in particolare nel magistrale saggio “La vittoria dell’Occidente”, ha offerto
lunghe e dettagliate descrizioni di ciò che è stato l’Occidente nel corso dei
secoli, senza celarne le cadute che spesso lo hanno prostrato.
Ma ha
sempre saputo rialzarsi.
Sono
pochi oggi a rivendicare orgogliosamente l’appartenenza a un mondo che,
comunque lo si voglia considerare, ha “inventato” un sistema di diritti e
un’armonizzazione delle diversità.
Rodney
Stark se n’è andato. Aveva 88 anni .
Era
nato a Jamestown nel 1934, si è spento a Woody il 21 luglio scorso. La notizia,
è stata data soltanto qualche giorno fa.
È
stato un grande apologeta della Chiesa nella storia dell’Occidente a cui ha
dedicato i suoi libri più importanti, tra i quali “Dio è tornato” (Piemme,
2003); “La scoperta di Dio “(Lindau, 2008); “Un unico vero Dio” (Lindau, 2009);”
A gloria di Dio” (Lindau, 2010); “La vittoria dell’Occidente” (Lindau, 2014)
che probabilmente è il suo saggio di maggiore impatto sull’interpretazione
della decadenza dell’Occidente e sulla indispensabile difesa.
Per
lungo tempo ha diretto l’istituto di studi sulla religione, nell’ateneo
cristiano battista del Texas, la” Baylor University” e si è stato apprezzare
per aver sostenuto come l’Occidente abbia smesso di credere in sé stesso.
È diventato, infatti, nell’immaginario dei
più, una pura espressione geografica.
La sua storia, la sua cultura, i suoi valori
sembrano evaporati.
Lo si cita soltanto in contrapposizione
all’altro emisfero del quale si assume peraltro soltanto una parte, quella che
correntemente viene identificata con il “mondo musulmano”.
Si può
dire che sia afflitto da un patologico complesso di colpa che lo porta a
scusarsi per il solo fatto di esistere.
Il suo
“tramonto” storico-culturale, ampiamente descritto da “Oswald Spengler” a
ridosso della prima guerra mondiale, si è trasformato nel corso di quasi un
secolo in una sorta di abdicazione al suo ruolo.
Gli
occidentali sono, nella migliore delle ipotesi, sulla difensiva.
Tutto
ciò che li riguarda è da essi stessi messo in discussione a favore di popoli,
culture e civiltà che gli imputano le peggiori nefandezze.
Nessuno
più rivendica orgogliosamente la sua appartenenza ad un mondo che, comunque lo
si voglia considerare, ha “inventato” un sistema di diritti che, per quanto
disordinato e suscettibile di critiche, è pur sempre un “recinto” nel quale la
modernità, intesa come conquiste di libertà nel quadro di regole fondate sul
diritto naturale (benché messo in discussione dal materialismo deterministico e dal
razionalismo totalitario che sono poi i fondamenti stessi
dell’anti-occidentalismo) ha esplicato la sua ragionevole convivenza civile che quando
è stata minata da endogene crisi di
rigetto, ha saputo riaffermarsi e ricondursi sulla via di una accettabile
armonizzazione delle diversità.
Certo,
l’Occidente non è l’Eden che qualcuno è portato ad immaginare, ma le sue
corruzioni interne fanno parte della fisiologia della decadenza che in ogni
tempo l’ha attraversata, ma è anche stata superata come dimostra la “vittoria”
che giustamente viene evidenziata anche nell’èra del tramonto.
Oltre
quarant’anni fa, negli Stati Uniti la materia più importante che veniva
insegnata era “Western Civilization”, adesso è sparita dai programmi di studio.
Chi ha
provato a reintrodurla è stato bollato come “politicamente scorretto”.
L’Occidente non soltanto deve vergognarsi di sé stesso
secondo molti intellettuali occidentali, ma non deve neanche esistere perché
responsabile di tutte le nefandezze con cui oggi siamo alle prese.
L’ideologia
della negazione dell’Occidente ha fatto breccia nelle più autorevoli
istituzioni laddove, al contrario, dovrebbe prevalere la considerazione che,
comunque si guardi alla storia dell’umanità, l’Occidente ha registrato vittorie
che non possono essere messe in discussione.
Ce lo ricorda, appunto “Rodney Stark” nel denso e
suggestivo saggio (non esente da superficiali valutazioni, comunque, come
quella inerente la funzione civile, politica e culturale dell’impero romano la
cui decadenza per l’autore sarebbe stata addirittura “benefica”) pubblicato da Lindau,
“La
vittoria dell’Occidente”, che a rileggerlo alcuni anni dopo la pubblicazione in
Italia ha il sapore di una profezia.
Si
tratta di un saggio ponderoso, frutto di una vastissima cultura il cui
specifico intento, è la rivendicazione del primato occidentale fin dagli albori
della sua manifestazione o, per meglio dire, della sua naturale ed
inconsapevole nascita, che situa, ragionevolmente, in Grecia dove le comunità
erano organizzate in centinaia di piccole città-stato indipendenti.
È lì, sostiene Stark, che “ebbe inizio la
civiltà occidentale” che ha conservato nel corso dei millenni il suo retaggio
spirituale al quale si deve soprattutto il trionfo della razionalità coniugata
con la fede grazie all’irruzione del cristianesimo che ha forgiato l’Occidente
così come lo abbiamo conosciuto.
Secondo”
Stark” quanto più la tesi della subordinazione dell’Occidente ad altre culture
prevarrà, sia negli Stati Uniti che in Europa, tanto più la sua rovinosa caduta
si accentuerà.
Una caduta connessa all’ignoranza degli
occidentali circa la formazione del mondo moderno.
Noi,
in sostanza, rischieremo di essere fuorviati dalle falsificazioni, che non
potranno non avere risvolti politici, che inquineranno le nostre esistenze come
hanno già inquinato buona parte delle istituzioni scientifiche e culturali
occidentali.
Tra le
tante:
che i
greci hanno copiato la loro cultura dagli egiziani, che la scienza europea è di
derivazione islamica (pur riconoscendo l’apporto del mondo arabo – che non vuol
dire necessariamente musulmano – al progresso scientifico), che la ricchezza
dell’Occidente è dovuta alla spoliazione di aree del Pianeta grazie
all’aggressione colonialista, che la modernità occidentale è iniziata in Cina e
via seguitando.
Osserva Stark:
“la
verità è che, sebbene l’Occidente abbia saggiamente adottato pezzi e bocconi di
tecnologia arrivati dall’Asia, la modernità è interamente il frutto della
civiltà occidentale”.
Sarà
bene intendersi sul termine “modernità”.
Stark
precisa, a scanso di equivoci:
“Uso il termine modernità per indicare quella
miniera di conoscenze e procedure scientifiche, di efficaci tecnologie, di
successi artistici, di libertà politiche, di meccanismi economici, di libertà
politiche, di meccanismi economici, di sensibilità morali e di miglioramento
delle condizioni di vita che caratterizzano le nazioni occidentali e ora stanno
rivoluzionando la vita nel resto del mondo.
Perché
c’è un’altra verità:
quanto
più le altre culture non sono state in grado di adottare almeno gli elementi
principali della cultura occidentale, tanto più sono rimaste arretrate e
povere”.
Fedele
a questa impostazione, “Stark” dimostra come i “secoli bui” non siano mai stati
tali;
come
le crociate abbiano esplicato una missione civilizzatrice;
come
la “rivoluzione scientifica” non sia avvenuta nel XVII secolo, ma al culmine di
una lenta e costante evoluzione;
come
la “Riforma” non abbia apportato alcun progresso, ma abbia accentuato vecchie
pratiche repressive;
come
il colonialismo non sia stato la causa del depauperamento di aree ricche, ma di
incivilimento delle stesse.
Insomma, una rivendicazione piena delle
vittorie dell’Occidente in tutti campi.
Questo
non vuol dire che l’Occidente sia immune dal dover essere “processato”.
Ma sul
banco degli imputati ci finisce proprio per aver tradito, quando li ha traditi,
quei valori che comunque, dai greci ai razionalisti del XVIII secolo, quando
questi presero, il sopravvento, lo hanno connotato e che ancora oggi, se li
sanno riconoscere, costituiscono l’anima di un’umanità che per quanto
accerchiata e psicologicamente incline alla depressione ha ancora in sé le
potenzialità per risollevarsi.
Del
resto, non si può non essere consapevoli, come scrive “Stark” che “anche se la
modernità̀ si è diffusa da un capo all’altro del pianeta, in molti posti non
si è trattato di modernità̀ occidentale.
Semmai,
aspetti tecnologici della modernità̀ sono stati trapiantati in sistemi
culturali non occidentali, ancora privi dei fondamentali aspetti morali e
politici della civiltà occidentale.
Come osservava con grande accortezza” Samuel P.
Huntington”, molti osservatori hanno erroneamente visto la popolarità̀ a
livello mondiale di beni di consumo occidentali, dalla Coca-Cola ai jeans
Levi’s, come il riflesso dello sviluppo di una “civiltà̀ universale”.
Questo
però “banalizza
la cultura occidentale”.
È vero
che nel mondo arabo in molti possiedono telefoni cellulari e guidano
l’automobile, anche se in Arabia Saudita per le donne è ancora un reato, e gli
eserciti posseggono armi sofisticate in abbondanza.
Ma,
sostiene “Stark”, “nella misura in cui tutto questo rispecchia la modernità̀,
si tratta di modernità̀ di acquisto e importazione”.
E neppure, dice, “realizzare una società̀
industrializzata equivale a diventare moderni nel senso occidentale, come
dimostra il caso della Cina.
Per
usare la famosa frase coniata da “Karl Wittfogel” oltre mezzo secolo fa, la
Cina moderna resta un ‘dispotismo orientale’.
Un
sostanziale grado di libertà è inseparabile dalla modernità occidentale, e
questo ancora manca in gran parte del mondo non occidentale”.
Lo
studioso americano non si nascondeva i
“difetti” e le incongruenze che segnano l’Occidente:
“Non
c’è dubbio – osservava – che la modernità̀ occidentale abbia i suoi limiti e i
suoi malcontenti.
Eppure,
è di gran lunga migliore delle alternative di cui siamo a conoscenza, non
solo, o persino soprattutto, a causa della sua tecnologia d’avanguardia, ma
anche del suo fondamentale impegno per promuovere la libertà, la ragione e la dignità
umana”
Confutando
le tesi che hanno preso a circolare dall’Illuminismo in poi, “Stark” offre in
questo suo magistrale saggio lunghe e dettagliate descrizioni di ciò che è
stato l’Occidente nel corso dei secoli, senza celarne le cadute dovute a guerre
intestine, non soltanto militari, che spesso lo hanno prostrato.
Ma ha
sempre saputo rialzarsi, come quando respinse, non solo con le armi ma
soprattutto con la fede i tentativi di conquista dell’impero Ottomano portatore
di un’altra civiltà, giustificata dalla religione.
Allora
come ora.
Nel 1520, quattro anni dopo che Carlo V era
diventato re di Spagna e tre anni dopo che Martin Lutero aveva affisso le sue
Novantacinque tesi, Solimano, poi detto il Magnifico, divenne il decimo sultano
dell’Impero Ottomano.
Il suo sogno coltivato fin dalla più tenera
età, prese corpo e a ventisei anni cominciò ad organizzare più grande attacco
alla Cristianità ed all’Occidente.
Riportò,
come sappiamo qualche vittoria, ma la vecchia Europa infranse il sogno di un
Mediterraneo islamico e di un Continente inglobato nell’universo musulmano.
Con la tecnica, certo, ma soprattutto con la
fede.
L’incontro
tra mondo occidentale
e mondo islamico: scontro
di civiltà? di Saida Hamouyehy.
Lamacchinasognante.com
– (22 agosto 2022) - Saida Hamouyehy – ci dice:
Articolo
pubblicato sul Blog dell’Associazione Culturale “Luigi Battei”, nel contenitore
Oriente Occidente.
(battei.it/2022/06/22/lincontro-tra-mondo-occidentale-e-mondo-islamico-scontro-di-civilta/)
Oggi
possiamo parlare di scontro di civiltà tra mondo occidentale e mondo islamico?
Partiamo
innanzitutto dalla definizione di civiltà: “[dal lat. civilĭtas –atis, der. di
civilis «civile»].
1. La forma particolare con cui si
manifesta la vita materiale, sociale e spirituale d’un popolo– sia in tutta la
durata della sua esistenza sia in un particolare periodo della sua evoluzione
storica – o anche la vita di un’età, di un’epoca.
Sotto
l’aspetto storico e etnologico, il termine è riferito non soltanto ai popoli
socialmente più evoluti della storia lontana o recente ma anche ai popoli
primitivi o meno evoluti.
2.
Nell’uso comune e più tradizionale, è spesso sinonimo di progresso, in
opposizione a barbarie, per indicare da un lato l’insieme delle conquiste
dell’uomo sulla natura, dall’altro un certo grado di perfezione
nell’ordinamento sociale, nelle istituzioni, in tutto ciò che, nella vita di un
popolo o di una società, è suscettibile di miglioramento.”
Secondo
la definizione di “civiltà” data da Samuel P. Huntington: “Differences among
civilizations are not only real; they are basic. Civilizations are
differentiated from each other by history, language, culture, tradition and,
most important, religion.”
Per cui, secondo Huntington la religione è un fattore
divisivo rilevante quando si tratta di definire le varie civiltà.
Le
relazioni tra mondo occidentale e mondo islamico sono caratterizzate da
incontri culturali lungo millequattrocento anni di storia e le due realtà hanno
costruito la propria identità in opposizione all’altra parte: secondo lo
storico belga “Henri Pirenne”, l’Europa si sarebbe pensata come “Europa
cristiana” in funzione del suo confronto col mondo islamico;
e dall’altra parte anche i paesi a maggioranza
islamica negli ultimi decenni avrebbero costituito la propria identità in
ragione dell’opposizione all’Occidente.
L’Occidente,
dal Quattrocento in poi, è andato costruendosi una propria cultura occidentale,
coincidente in linea di massima con la cultura dei paesi dell’Europa
dell’Ovest, basata sulla tradizione ellenica.
Spesso però l’Occidente dimentica che questa
eredità classica gli è giunta attraverso le traduzioni in arabo e ai continui
scambi culturali tra Oriente e Occidente.
La
cultura islamica è stata dunque un ponte tra Oriente ed Occidente, ma anche tra
antichità e modernità.
A
partire dagli albori dell’Islam fino al XV Secolo, il mondo occidentale e il
mondo arabo-islamico hanno avuto la prima fase di confronti diretti e indiretti
attraverso relazioni diplomatiche, alleanze, scambi commerciali, ma anche
scontri militari, conquiste da parte dei musulmani di territori europei,
crociate per riconquistare Gerusalemme, e poi la Riconquista spagnola della
penisola iberica nel 1492 e la cacciata dei musulmani spagnoli.
Tuttavia,
non sono stati pochi gli incontri positivi nella storia:
alcuni
esempi sono l’elefante bianco inviato dal califfo di Baghdad “Harun ar-Rachid”
a “Carlo Magno” e l’islamofilia di” Federico II”, re di Sicilia e imperatore del Sacro
Romano Impero.
Tra il
XIV e XVIII Secolo i rapporti tra i due mondi si spostarono a favore della
nuova egemonia ottomano-islamica a discapito delle dinastie arabe.
In questi secoli l’Europa era lacerata dalle
guerre di religione tra cattolici e protestanti e spostava il proprio interesse
verso il “Nuovo Mondo da conquistare”, ponendo poco interesse nei rapporti con
i paesi islamici.
Con la
caduta e la conquista di Costantinopoli nel 1453 da parte dell’Impero ottomano
e la fine dell’Impero Romano d’Oriente, il “Papa Nicola V”, dopo aver tentato
di lanciare una nuova crociata per scongiurare che il nemico ottomano potesse
conquistare l’Europa, e non trovando consensi, adottò una nuova strategia, non
più militare ma accademica:
promosse
una nuova traduzione del Corano e di altre opere islamiche per permettere una
migliore conoscenza dell’Islam da parte di teologi e missionari al fine di
contraddire il credo e promuovere le conversioni al Cattolicesimo.
Lo
choc culturale arrivò tra il XIX e il XX Secolo, quando cominciò la
colonizzazione dei paesi a maggioranza islamica, del Nord Africa e del
Medioriente, e successivamente dopo la Prima Guerra Mondiale e il crollo
dell’Impero ottomano, spartito tra le potenze occidentali, ossia tra
Inghilterra, Francia, Olanda, Spagna e Italia, e le successive lotte per
l’indipendenza, con il mescolamento delle popolazioni occidentali con quelle a
maggioranza islamica.
Se nel
1914 si stimava che nella Francia metropolitana la presenza di algerini fosse
tra 4.000 e 5.000 unità, con la Grande Guerra cominciò a crescere il numero dei
musulmani con la mobilitazione di soldati dalle colonie francesi:
170
mila algerini e 135 mila marocchini;
altri 130 mila musulmani furono reclutati come
lavoratori per sostituire i francesi partiti per la guerra.
L’attuale
presenza islamica in Europa è legata principalmente all’immigrazione che ha
investito il continente dal Secondo dopoguerra per quanto riguarda i paesi del
Centro-Nord Europa, mentre il fenomeno si è diffuso nei paesi dell’Europa
meridionale solo negli ultimi decenni del XX Secolo.
Nella cornice della globalizzazione il fenomeno
migratorio è cambiato e ha portato nuove sfide a cui i paesi occidentali non
erano affatto preparati e di conseguenza hanno dovuto reinventare nuove
politiche sociali di coesione tra le diverse etnie nella propria società.
Negli
anni Sessanta, attraverso la stipula di accordi bilaterali, cominciarono i
grandi flussi dal Marocco, dalla Turchia e successivamente dall’Africa
sub-sahariana, in quanto l’emigrazione dall’Europa del Sud non copriva più il
fabbisogno di manodopera dell’Europa settentrionale.
Così i
paesi europei cominciarono ad aprire le proprie frontiere all’immigrazione dai
paesi a maggioranza islamica, senza preoccuparsi delle conseguenze future.
Se nel
passato coloniale i rapporti tra mondo occidentale e mondo islamico erano
intrecciati ma ben divisi, oggi queste due realtà sono inglobate negli stessi
processi comuni portati dalla globalizzazione: troviamo quindi in Europa molti
cittadini, a tutti gli effetti europei o immigrati da tanti anni che sono in
fase di acquisizione della cittadinanza, che sono musulmani e vivono
all’interno della società occidentale.
Gli
eventi storici che hanno sconvolto i fragili rapporti tra mondo occidentale e
mondo islamico, in particolare gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001
alle “Twin Towers” e al “Pentagono”, la guerra in Afghanistan e in Iraq, e gli
attacchi dell’Isis, costrinsero le due realtà a riconsiderare le relazioni
reciproche.
Dopo l’11 settembre, e gli eventi successivi,
ciò che era una sfida ostica, ossia un’auspicabile convivenza tra mondo
occidentale e mondo islamico, si è trasformato nell’immaginario collettivo in
una forte minaccia all’identità europea e in generale occidentale, basata sulla
cultura giudaico-cristiana che trae le sue fondamenta dalla tradizione greca.
Questa
particolare data segna un momento di spartiacque nella storia mondiale e
acuisce paure e violenza, aprendo di conseguenza una discussione senza fine
sulla “impossibilità” di dialogo tra Islam e mondo occidentale.
La
domanda che ci si è posti in seguito è se l’Islam fosse o meno compatibile con
i valori delle società occidentali.
A
seguito degli attacchi terroristici che hanno inaugurato il XXI secolo, il
termine “fondamentalismo” ha assunto per antonomasia il significato di
“estremismo/terrorismo islamico”, facendo di conseguenza pensare a priori a
massacri e a sanguinari kamikaze di fede islamica.
L’immagine
monolitica che l’Occidente ha dell’Islam è frutto della proiezione di un
approccio orientalistico che in passato lo studio di questa religione ha
adottato.
Troppo
spesso si mette a confronto le due entità prese in considerazione, Islam e
Occidente, come due blocchi che non possono entrare in dialogo ma che sarebbero
alternativi.
Tuttavia,
oggi l’Islam non è più un mondo a sé lontano dall’Occidente, esso si trova al
suo interno come un’entità locale che assume proprie caratteristiche nella
cornice europea:
“La frontiera tra i due mondi si è spostata:
anzi, non c’è più.
Non si
può più parlare solo di rapporti tra islam e Occidente: l’islam è in Occidente.
È storia di oggi.”
Il
processo di insediamento dell’Islam in Occidente nasce migrante e si stabilizza
in una situazione di minoranza, che tuttavia è estremamente attiva nella
società, grazie alla presenza di opportunità culturali in crescita e di realtà
di associazionismo locale.
La
modernità contemporanea, veicolata attraverso la tecnologia e i sistemi
economici e politici, ha assunto diverse connotazioni nel mondo occidentale e
in quello orientale.
La modernità ha investito anche il mondo
islamico, non più estraneo alla modernizzazione occidentale, e a seconda della
società il rapporto con la modernità prende connotazioni differenziate.
La
secolarizzazione in Occidente ha relegato l’esperienza religiosa nella sfera
del privato, ma a seguito dei flussi migratori nel continente europeo e della
globalizzazione, la stabilizzazione della presenza delle famiglie ricongiunte
che si identificano nella tradizione islamica, e la loro crescente visibilità
negli spazi pubblici, dalle scuole, al mondo del lavoro e della politica, ha
costretto la coscienza collettiva a prendere atto di questo fenomeno, che negli
anni ha portato diverse problematiche sociologiche e culturali.
È
importante studiare e analizzare l’Islam in Europa perché attualmente nel
Vecchio Continente vivono più di 25 milioni di musulmani e in diversi Stati
europei esso rappresenta la seconda religione del paese per numero di credenti.
Di conseguenza, urge riflettere sulla questione
fondamentale della compatibilità o incompatibilità dell’Islam con i valori
delle società occidentali.
Il
fenomeno migratorio ha evidenziato l’impreparazione dell’Europa, e in
particolare dell’Italia, di fronte a questo fenomeno:
l’Italia, che fino a pochi decenni fa era
paese di forte emigrazione, ha conosciuto un aumento esponenziale
dell’immigrazione che ha causato uno choc culturale nei cittadini italiani,
ritrovatisi improvvisamente a vivere la quotidianità a fianco del “diverso”,
sia a livello etnico e culturale che religioso.
La
realtà dell’Islam europeo è molto varia dal punto di vista etnico e culturale,
religioso e linguistico.
Oggi si parla di Islam “Francese”, “Inglese”,
“Italiano”, ecc., poiché, in base al paese in cui si stabilisce la comunità
islamica, essa acquista caratteristiche culturali e relazionali con le
istituzioni locali differenti.
Secondo
uno studio del 2007 promosso dal “Dipartimento tematico delle Politiche
strutturali e di coesione del Parlamento Europeo”, “L’Islam nell’Unione
Europea: che cosa ci riserva il futuro?”, a cura di “Felice Dassetto”, i
musulmani europei aspirano ad ottenere lo stesso status giuridico concesso alle
altre religioni riconosciute dagli stati, ma in molti casi sono costretti ad
affrontare un maggiore disagio dovuto alla paura per la radicalizzazione
dell’Islam europeo.
Poiché
l’Islam si sta trasformando, all’interno del Vecchio Continente, da religione
di immigrazione a parte integrante della realtà europea, è necessario, secondo
gli autori del suddetto studio, che questo processo di trasformazione sia
accompagnato da un iter giuridico appropriato che consenta alle comunità
islamiche di integrarsi pienamente nel modello europeo del rapporto
Stato-religioni, altrimenti, in mancanza di organizzazioni rappresentative
delle comunità islamiche, si rischia di relegarle ai margini delle relazioni
tra lo Stato e le singole confessioni.
Qualche
studioso si azzarda a parlare di “conflitto di culture” per esprimere il
disagio a livello socio-antropologico che una convivenza forzata può comportare
negli attori coinvolti.
Addirittura, si arriva a presagire uno “scontro di
civiltà”, riprendendo l’opera di” Samuel P. Huntington”, tra il mondo
occidentale e quello islamico, che arriverebbe a coalizzarsi con la civiltà
confuciana, ossia con la Cina, per far fronte comune contro l’Occidente.
I
sociologi che studiano queste realtà fanno notare che la mancanza di un
percorso inclusivo e la marginalizzazione della fascia di popolazione musulmana
nel futuro potrebbe comportare vari problemi sociali.
La scuola costituisce un importante luogo di
inclusione dei ragazzi con background migratorio;
oltre
all’ostacolo linguistico, la differenza culturale e la percezione che
l’Occidente ha dell’Islam possono portare alcune criticità e comportare
conflitti sociali.
Un approccio educativo di successo potrebbe aiutare i
giovani musulmani a realizzare un’inedita sintesi tra la loro cultura di
origine e quella della società di residenza.
Le
generazioni nate dall’immigrazione nel contesto europeo costituiscono una sfida
per la coesione sociale ma anche un fattore che porta trasformazione nella
società di accoglienza.
Infatti,
una componente importante della presenza dell’Islam in Europa è la categoria
delle cosiddette “nuove generazioni”:
giovani
di origine straniera a cui è stata trasmessa la fede islamica dai loro
genitori, che costituiscono la prima generazione.
È necessario tenere presente che in alcune società
europee la componente islamica ha raggiunto la seconda e in alcuni casi anche
la quarta o quinta generazione.
Ancora
oggi troppo spesso vengono inseriti nella categoria degli “immigrati”, quando
in molti casi sono ragazzi nati e/o cresciuti in Europa che non conoscono il
paese di origine dei loro genitori.
Secondo
il sociologo “Stefano Allievi”, parlare di “giovani musulmani d’Europa” ha
senso in quanto l’Islam dei figli si differenzia fortemente da quello dei
genitori:
se la
prima generazione intraprende il viaggio migratorio con intenti provvisori e
persevera a vivere nel “mito del ritorno” nella madrepatria, le generazioni
successive vivono e socializzano in un contesto non islamico, che pur tuttavia
diventa il loro sistema di significati di riferimento.
Per i giovani musulmani vivere in un contesto
non islamico è una sfida importante e la loro riscoperta della pratica
religiosa in alcuni casi si declina come una ridefinizione individuale e
collettiva dell’esperienza religiosa, a differenza dei loro genitori che spesso
occultano ogni riferimento alla religione islamica per mimetismo e spirito di
laicità.
I
giovani musulmani che nascono e crescono in Europa devono affrontare maggiori
sfide rispetto ai loro coetanei che seguono altre religioni, considerate più
occidentali o più occidentalizzabili rispetto all’Islam.
E questo fatto porta i giovani musulmani a
vedere la propria immagine, perpetuata nei luoghi educativi, nei mass media e
nella politica, come una realtà distorta di sé.
Sfide
importanti e difficili sono vissute anche dalle coppie miste nei Paesi europei,
dove i tassi di mixité culturale e religiosa sono in aumento.
Il matrimonio misto che vede da una parte un
coniuge musulmano e dall’altra un occidentale suscita un’attenzione quasi
morbosa della stampa e delle realtà religiose, che mettono in guardia da tale
fenomeno.
Vi è una percezione in negativo sia da parte
islamica che dal polo occidentale, e tale fattore tradisce una paura di fondo
in ambo le realtà, spiegabile soprattutto con i pregiudizi e la paura di
contaminare il proprio patrimonio religioso.
Tuttavia,
quando questi matrimoni hanno successo, si assiste alla valorizzazione della
bi-religiosità e bi-etnicità all’interno della coppia, che sono spesso il
risultato di compromessi nella vita quotidiana.
In
conclusione, la compatibilità o incompatibilità dell’Islam con i valori delle
società occidentali dipende dalla capacità delle comunità islamiche di
integrarsi e sentirsi parte di esse, ma anche dalle risposte sociali e
politiche che le società occidentali riusciranno a sviluppare per valorizzare
la propria componente islamica.
In particolare, il futuro dell’Islam europeo
dipende soprattutto dalle nuove generazioni di cittadini europei di fede
islamica, che dovranno imparare a creare la propria identità distaccandosi
dalle declinazioni culturali importate dalle prime generazioni di immigrati dai
paesi di origine.
Cercasi
ambientalismo laico.
A
ragion veduta.
Blog.uaar.it
– Redazione- Raffaele Carcano – (19 -2-2023) – ci dice:
Il mondo
osservato dall’Uaar.
Il
cambiamento climatico è ormai un tema ricorrente sui media e persino nella
propaganda religiosa.
Tutti dicono di voler rispettare la natura e
salvare il pianeta, ma spesso senza prendere in considerazione la laicità, la
scienza e il buon uso della ragione.
Finendo quindi per operare in un modo che
talvolta può essere controproducente.
(Affronta
il tema Raffaele Carcano sul numero 1/2023 della rivista “Nessun Dogma”).
Nel
suo primo mezzo secolo di vita l’”ambientalismo politico” ha attraversato diversi alti e
bassi, tornando periodicamente in auge grazie al traino di alcune “breaking
news”.
È
rimasto un fenomeno esclusivamente occidentale e in nessun Paese è mai riuscito
a raggiungere la maggioranza relativa dei votanti.
Nella maggior parte dei casi le percentuali
ottenute si sono fermate a una sola cifra, non di rado insufficienti per
entrare in parlamento.
I
verdi hanno spesso affrontato i temi non-verdi nella maniera sbagliata.
Accade
persino ora che il “cambiamento climatico” è diventato un tema ricorrente sui mezzi
d’informazione e in cui la “natura” viene evocata in quasi tutte le campagne di
comunicazione, anche quella di aziende non particolarmente attente all’ambiente – un comportamento così diffuso da
essere definito con un neologismo, “greenwashing”.
I
motivi dello stallo possono essere diversi, ma quello decisivo è
sostanzialmente uno solo:
fare
politica significa non occuparsi soltanto di ecologia, e i verdi hanno spesso
affrontato i temi non-verdi nella maniera sbagliata.
Quelli
di nostro interesse non fanno eccezione.
Sia
chiaro:
non
hanno mai adottato strategie risolutamente clericali, e bisogna riconoscere
che, sulla maggioranza delle istanze, mantengono posizioni più avanzate della
media (che del resto è drammaticamente bassa).
È tuttavia indubbio che, qualche decennio fa,
la vocazione laica dei verdi italiani era ben più robusta.
Nel 2002 il senatore “Turroni” fu uno dei
firmatari di un progetto di legge costituzionale per il superamento del regime
concordatario.
L’anno dopo, sempre al senato, il capogruppo Cortiana
presentò un disegno di legge per l’abolizione dei decreti fascisti che
imponevano il crocifisso negli edifici pubblici.
Poi
qualcosa è cambiato.
Forse a partire dalla nomina a portavoce di “Grazia
Francescato”, la cui accesa devozione per l’”arcangelo Michele” è sfociata in
un libro e in un film
O forse perché anche le religioni hanno cominciato a
fare professione di ecologia.
Sta di fatto che, con Bergoglio, i verdi si
sono contraddistinti come i più papisti della repubblica.
Sul
sito della Federazione si può leggere un articolo dal titolo emblematico: Papa Francesco si conferma il vero
leader dell’ambientalismo mondiale.
Bergoglio
ha in effetti scritto un’enciclica, la “Laudato si’”, molto pubblicizzata come
“verde”, ma i cui contenuti ambientalisti concreti non sono però numerosi:
le tante dichiarazioni a effetto rientrano più
nel “greenwashing” che in una svolta della dottrina, che continua a ritenere
che il “creato” sia a disposizione degli umani.
Per il portavoce “Bonelli” rappresenta invece
un testo addirittura «epocale», al punto da unirsi alla giornata mondiale di
preghiera indetta per la cura del “creato” il primo settembre 2022.
Scontato, a quel punto, anche l’inserimento di
una citazione del pontefice nel programma elettorale.
Ma
all’estero va forse persino peggio.
Soprattutto nel mondo francofono, dove i
politici ecologisti hanno fatto essi stessi un “greenwashing”, ma di altro
tipo:
una
sorta di alleanza strutturale con l’islam, il cui colore è a sua volta il
verde.
In
Svizzera hanno fatto eleggere consigliere comunale” Lucia Dahlab”, musulmana
convertita, che ha portato le sue battaglie per il velo fino alla Corte europea
dei diritti dell’uomo.
Al parlamento di Bruxelles, alcuni ecologisti
hanno votato per continuare a consentire la macellazione rituale (islamica ed
ebraica) in deroga alla legge, nonostante procuri una sofferenza inutile
all’animale.
In
Francia, pochi anni fa, i verdi sembravano avere il vento in poppa: grande
crescita alle europee del 2019, seguita nel 2020 dalla conquista di diverse
grandi città.
Alla
guida delle quali hanno però preso decisioni controverse, in alcuni casi molto
controverse.
Come il via libera all’uso del “burqini” nelle
piscine pubbliche di Grenoble, o il finanziamento a Strasburgo della più grande
moschea d’Europa:
2,5
milioni di euro destinati a un progetto dell’associazione turca” Milli Görüs”,
legatissima a “Erdogan”.
Il
flop alle elezioni del 2022 è stata una doccia scozzese dovuta anche a questa
accondiscendenza.
La
fiducia nella scienza è purtroppo in calo ovunque.
C’è
tuttavia un terzo fronte su cui i politici ecologisti hanno avuto atteggiamenti
discutibili.
La
fiducia nella scienza è purtroppo in calo ovunque, ma è particolarmente
accentuata negli “ambienti green” e impatta su numerosi ambiti.
Un
caso eclatante è il sostegno all’agricoltura biodinamica, di origine esoterica.
Ma per capire l’impostazione generale basta
leggersi un altro articolo sul sito dei Verdi, Omeopatia e medicine non
convenzionali un impegno dei verdi, scritto dall’ex deputato Galletti.
Vi si
afferma che «la medicina, prima di essere scienza, è un’arte».
Se la
premessa è che tutto ciò che è (mal) inteso come “naturale” è invariabilmente
anche buono, i danni possono essere veramente tanti.
La
Federazione dei Verdi, da un anno a questa parte, è diventata “Europa Verde” e,
seguendo l’esempio francescano, preferisce lasciare gli estremismi sullo sfondo
di dichiarazioni molto più vaghe.
Le consonanze con il papa sono cospicue:
non
troverete molto impegno contro la sovrappopolazione del pianeta o contro
l’inquinamento acustico delle campane.
Non
troverete nemmeno critiche contro la recente prodezza anti-ecologica di
Bergoglio, che per festeggiare i 90 anni di una cugina si è recato
nell’astigiano… in elicottero.
Seicento
km di volo privato ma pagato dai contribuenti, visto che il mezzo è stato messo
a disposizione dell’Aeronautica militare.
La
presa della religione è tuttavia tale che c’è chi segue anche la strada
opposta: la
sacralizzazione della natura.
È capitato per esempio in Nuova Zelanda, dove il fiume
“Whanganui” ha ottenuto, primo al mondo, la personalità giuridica.
Bene
per la sua tutela, male per le motivazioni:
per
arrivarci si è dovuto riconoscere che il corso d’acqua, sacro ai maori, è una
«entità spirituale».
Le
forme con cui il mondo ambientalista si approccia positivamente alla sfera
spirituale sono dunque molteplici, ma quasi sempre (inevitabilmente) a
discapito di quella razionale.
Servirà?
I
risultati sono finora decisamente modesti:
il fallimento della Cop27 è lì a dimostrarlo.
E dire che i non credenti avrebbero migliori
credenziali dei credenti.
Lo si
nota bene in una ricerca realizzata dal “Pew Research Center” lo scorso
novembre:
gli statunitensi più religiosi sono di gran
lunga meno impensieriti dal cambiamento climatico.
Del resto, sono anche quelli più persuasi
dell’imminenza della fine del mondo e del controllo che Dio avrebbe sul
pianeta.
E se
nutri queste convinzioni, perché darti pena per il futuro?
I più
preoccupati per quanto sta accadendo e i più impegnati a fronteggiarne le
conseguenze risultano invece i non credenti.
Prendere atto delle evidenze non è soltanto un
principio laico: è la strada più efficace per salvare la Terra.
L’unica, probabilmente.
Riusciremo – finalmente - ad avere un
ambientalismo illuminista?
(Raffaele
Carcano)
Il
Limite dei 30 all’Ora e l’Impossibile
Certezza
di Evitare la Morte.
Conoscenzealconfine.it
– (28 Gennaio 2024) - Rodolfo Casadei – ci dice:
Commento
filosofico-psicanalitico al nuovo limite di velocità introdotto dal sindaco di
Bologna “Matteo Lepore”, perfetta conseguenza politica dello spirito moderno.
Chiamato
a giustificare in tivù la decisione di imporre il limite di velocità di 30 km/h
nella maggior parte della rete stradale comunale, il sindaco di Bologna “Matteo
Lepore” ha evocato alcuni recenti casi di incidenti in cui pedoni avevano perso
la vita sulle stesse strade dove ora viene imposto il nuovo obbligo.
Col
recente provvedimento l’amministrazione bolognese intende ridurre il numero e
la gravità degli incidenti stradali con conseguenze mortali o altamente
invalidanti, ed è sicura di ottenere tale risultato, perché le statistiche dei
luoghi del mondo dove la limitazione ai 30 kmh per i veicoli è già in vigore da
tempo, mostrano una flessione nel numero dei decessi da incidente stradale.
Sui
social i favorevoli al provvedimento portano l’argomentazione all’estremo:
anche se dovesse salvare una sola vita umana, il
divieto dei 30 km/h è giustificato, perché una singola vita umana vale più di
qualunque altra cosa.
Ne
discende che chi è contrario al provvedimento e non permette che sia introdotto
nella città dove vive, è moralmente responsabile della morte a venire di pedoni
e ciclisti.
Ne discende anche che chi è contrario deve
sentirsi in colpa, perché antepone la propria libertà di viaggiare ai 50 km/h
in città alla sicurezza di anziani, bambini, mamme, ciclisti, ecc.
30 km
all’Ora? Non Basta… Tutti a Piedi!
Così
però l’argomentazione non è portata abbastanza all’estremo. Proviamo a farlo
noi:
se
proibissimo alle auto e ai camion di viaggiare in città, e affidassimo tutti
gli spostamenti di persone e merci a mezzi pubblici sotterranei o di superficie
lentissimi, non avremmo nemmeno un pedone o un ciclista morto per incidente
stradale;
se
portassimo il limite di velocità a 50 km/h sulle autostrade, ridurremmo al
minimo gli incidenti mortali o con gravi conseguenze per i viaggiatori;
se abolissimo le gare di velocità di auto e
moto, se proibissimo gli sport estremi come il deltaplano o l’ultraleggero, il
rafting o il paracadutismo, se vietassimo le scalate dell’Himalaya, se
contingentassimo le escursioni sull’arco alpino, se impedissimo ai bagnanti di
immergersi nelle acque dove sono presenti gli squali, risparmieremmo certamente
vite umane.
E se
proibissimo l’alcol, i cibi grassi e gli zuccheri, e ovviamente il fumo, quanti
anni di vita sana in più garantiremmo agli esseri umani!
Se
svuotassimo osterie e pub, se trasformassimo in parche mense le tavolate di
allegri mangioni, quante vite umane allungheremmo!
Milioni di minuti di vita strappati alla
morte.
Che
andrebbero d’altra parte consumati nei viaggi ai 30 all’ora…
Fino a
che Punto è Giusto Limitare la Libertà?
La
discussione era già sorta al tempo delle proibizioni legate al Covid:
fino a
che punto è giusto spingersi nella limitazione delle libertà dei cittadini per
tutelare gli stessi dall’ipotetica morte in conseguenza di “contagio”?
Giorgio Agamben aveva criticato l’eccesso di
limitazioni che le autorità stavano imponendo, eccependo che così si riduceva
l’esistenza umana alla “nuda vita”, “cioè una vita che non è né propriamente
animale né veramente umana”.
Lo
psicanalista Mario Binasco aveva messo in guardia rispetto al fondo patologico
delle richieste di garanzia contro la morte:
“Il
fatto che l’esito mortale della malattia sia poco probabile se calcolato
sull’insieme di tutta la popolazione, lascia intatta la sua possibilità per
ciascun individuo, che deve perciò soggettivamente fare i conti con questa
possibilità.
Ma questa possibilità è impossibile da
eliminare, come quella di ogni pericolo connesso con la vita, specialmente
quella sociale.
La ‘sicurezza’, perciò, è impossibile se la si cerca o
la si aspetta dal lato della realtà, perché nella realtà non cessa di esserci
pericolo.
E se
qualcuno volesse questa ‘sicurezza’ come condizione per poter poi agire e
vivere, non agirebbe né vivrebbe mai:
‘farebbe il morto’ per evitare di andare
incontro al pericolo di morte. Questa è la stessa posizione soggettiva di chi
ha sintomi e comportamenti che chiamiamo ossessivi ed evitanti:
solo
che di solito chi soffre di questi sintomi li sente come un disturbo della
propria vita e può chiedere ad uno psicoanalista o altro terapeuta di aiutarlo
ad uscire da questo tipo di paralisi o di vicoli ciechi”.
L’Impossibile
Sicurezza di Evitare la Morte.
Nel
caso delle limitazioni legate al Covid come ora nel caso del divieto di
velocità superiori ai 30 km/h, a perseguire la impossibile sicurezza di evitare
la morte non sono masse di cittadini nevrotici, ma le autorità pubbliche.
Se si
tenesse un referendum sull’introduzione dei 30 all’ora in tutte le città
d’Italia, oppure nella sola Bologna per confermare o abrogare il provvedimento
appena introdotto, quasi certamente prevarrebbero i contrari.
Prevarrebbe
cioè la posizione di chi pensa che per vivere davvero occorre mettere in gioco
la vita (propria e altrui, indubbiamente) rispetto a chi pensa che desideri e
libertà meritano di essere repressi per garantire il persistere della vita.
La
cosa non deve stupire:
è una conseguenza politica dello spirito
moderno.
Lo
spirito moderno, la cui prima manifestazione letteraria “Alain Finkielkraut”
individua nel quattrocentesco Aratore di Boemia di “Johannes von Tepl”,
consiste nella ribellione alla morte, vista non più come la porta d’ingresso
nell’Eternità (“Io non muoio, entro invece nella Vita”, potrà ancora dire quasi
cinque secoli più tardi “Teresa di Lisieux”), ma come ciò che distrugge tutto
ciò che di bello e amabile offre la vita (nel caso del contadino boemo: la sua
diletta moglie).
La
medicina e lo Stato moderno nascono da questa “criminalizzazione” della morte:
l’assolutismo di “Thomas Hobbes” così come il “welfare
State”, la dissezione dei cadaveri così come la dichiarazione di morte
cerebrale in vista del trapianto, innovazioni che hanno segnato una rottura con
la visione religiosa della politica e del corpo umano propria delle epoche che
le hanno precedute, sono la risposta alla protesta per la morte inescusabile di
“Margaretha”, la giovane moglie del contadino che dibatte con la Morte e che
chiama a giudice della disputa Dio in persona.
Meno
Libertà in Cambio del Rinvio della Morte.
Per
quanto riguarda lo Stato e la politica, l’abbandono della visione classica e
cristiana della vita e della morte è graduale, e passa attraverso la
secolarizzazione delle idee di sacrificio e di redenzione:
la patria e il socialismo richiedono ancora al
singolo cittadino o lavoratore proletario di offrire la propria vita fino al
sacrificio supremo, nella lotta contro il nemico o contro il capitale, per il
bene rispettivamente di chi continua a vivere e di chi vivrà.
Occorre
immolarsi per le terre irredente della nazione o perché i pronipoti possano
godere della perfetta giustizia sociale, nella terra dove a ciascuno sarà dato
secondo le sue necessità e sarà chiesto secondo i suoi mezzi (non a caso Marx ha ripreso la
formula dagli atti degli Apostoli).
Ma una
volta che la morte è stata ridotta a ciò che immediatamente appare, cioè
consumazione e annullamento, cioè avvento del nulla, del privo di senso, per
contrappunto la vita diventa tutto ciò che può e deve essere affermato e
preservato.
Se con la morte finisce tutto, ha ragione “John
Lennon”:
nel mondo ideale non deve esserci spazio per
niente per cui valga la pena uccidere o essere uccisi,” nothing to kill or die
for”…
Quindi
meglio rossi che morti, meglio islamizzati che morti, meglio confinati in casa
che morti, meglio i 30 km/h che morti.
Lo
Stato, il potere politico, fanno fino in fondo quello per cui il cittadino ha
accettato di consegnare loro la sua libertà, in grado ogni giorno crescente.
Sempre
meno libertà in cambio di una vita sempre più lunga, in cambio di un rinvio
dell’ineluttabile evento della morte.
Sperando
che un giorno la medicina posso recare la sensazionale notizia…
Non
Vivere per Paura di Morire Provoca Psicosi.
Ma c’è
un problema.
La
rinuncia al desiderio provoca depressione.
Non
vivere per paura di morire o di causare sofferenza ad altri, porta a ogni
genere di nevrosi, in qualche caso psicosi:
l’alto
tasso di disturbi mentali e di suicidi fra gli adolescenti che sono passati
attraverso i confinamenti del Covid in tutti i paesi occidentali, è un indizio
molto serio.
Anche
in questo caso ci illumina Binasco.
Quel
che scrive a proposito dei confinamenti legati alla paura del contagio da Covid
si può applicare a tutta la proliferazione di provvedimenti restrittivi delle
autorità “a tutela della vita”:
“(…) Il reale sul quale qualcuno prima o poi
aprirà gli occhi svegliandosi dall’ipnosi, sarà il conto che ci presenteranno
tutte le esigenze, i desideri e gli interessi realmente vitali sui quali
abbiamo ceduto, che non abbiamo potuto/voluto far entrare in gioco, che abbiamo
sacrificato all’imperativo dell’Unica Grande esigenza – ahimè solo negativa –
quella di evitare a tutti i costi il contagio.
Sono
proprio tutti questi costi che, direbbe “Lacan”, ‘rigettati dal simbolico’,
cioè non presi in conto, ‘ritorneranno nel reale’. (…)
Possibile che non ci siano effetti del senso
di colpa che sempre accompagna la rinuncia al desiderio?
E che
oltre agli effetti inconsci depressivi o melanconici, non vi siano reazioni
rabbiose al senso di colpa consapevole per aver accettato di fare questa
rinuncia?
Infatti, per quanto le persone possano
pensare, anche giustamente, di essere state costrette da altri a questa
rinuncia, il soggetto ‘sa’ sempre di avere quanto meno collaborato
all’imposizione, di “esserci stato” ad essa, proprio per devozione
all’autorità”.
Chi ci
salverà dalla tenaglia del duplice senso di colpa, quello per aver messo in
pericolo la vita altrui col nostro egoistico rifiuto dei 30 km/h e quello
opposto di aver permesso alle autorità di imporci i divieti che hanno spento in
noi il desiderio?
Solo chi ci guarda senza moralismi. Solo chi
abbraccia il nostro limite.
(Rodolfo
Casadei)
(tempi.it/bologna-30-km-h-certezza-evitare-morte/)
L'ultimo
boss di Kings Cross:
su Sky
e NOW la vera storia
di un gangster
australiano.
Gamesurf.it
– Redazione – Chiara Poli – (25 luglio 2023) – ci dice:
“John
Ibrahim” ha raccontato la sua storia in un best-seller, diventato una serie TV
in cui recita anche il grande “Tim Roth”.
Ispirata
a fatti realmente accaduti, L’”ultimo boss di Kings Cross” è la storia vera del
gangster “John Ibrahim”, immigrato libanese che nell’Australia degli anni ’90
raggiunge i vertici della criminalità organizzata del celebre quartiere di “Sidney”
dedicato alla vita notturna e controllato dalla malavita.
La
serie, tratta dal best-seller autobiografico di Ibrahim - che firma anche la
sceneggiatura - è la classica gangster-story.
Ci racconta in modo lineare, nei 10 episodi
della prima stagione, mentre la seconda è già stata confermata ufficialmente,
l’ascesa di un giovane nella criminalità locale.
A
essere originale è l’ambientazione:
l’Australia
di fine anni ’80-primi anni ’90.
Inedita, almeno in TV, come set per la storia
di un gangster.
E no, non è la storia di Tim Roth.
Lui è
già arrivato, è già il boss:
Ezra
Shipman, l’uomo a capo di tutte le attività della “Strip”, la principale via
della vita notturna - fra spaccio di droga e locali a luci rosse - di Kings
Cross.
Il
“nostro” gangster sa che “Ezra” è al comando fin da quando è un ragazzino, ma
quando cresce capisce che non è più come pensava.
La realtà è diversa dalle fantasie di un
adolescente, e “John” lo capisce perché è intelligente. Tanto da volere sempre
di più e lavorare per guadagnarselo.
La
trama di L'”ultimo boss di Kings Cross”.
Una
gangster-story in piena regola.
I
tempi cambiano: chi sarà l'ultimo boss di Kings Cross?
Libano,
1978.
Due bambini girano in mezzo alle macerie, in
piena guerra civile, raccogliendo proiettili calibro 50 e scarpe da tennis dai
cadaveri.
Australia,
1993.
Quei
due ex bambini sono in lutto per la morte del padre.
Un uomo con un bel vestito va ad abbracciare
il più giovane, porgendogli le sue condoglianze.
Due
anni dopo il ragazzo siede sul banco dei testimoni in un tribunale, accusato di
controllare il commercio di droga a Kings Cross insieme a tutte le altre
attività illegali.
Con un
salto indietro nel tempo, allontanandoci dal futuro che ci aspetta, torniamo
nella Sidney del 1987.
Sulla
Strip, la “mecca del peccato dove la polizia finge di non vedere sesso, droga,
rock ’n roll e gioco d’azzardo”, come la chiama il nostro narratore, tutto
viene controllato da un ristretto gruppo di uomini.
Fra
questi ci sono Sam Ibrahim (Claude Jabbour, Eden), il “picchiatore” più famoso
e temuto della Strip, e Big Tony (Matt Nable, Arrow), il braccio destro del
boss Ezra Shipman (il sempre eccezionale Tim Roth).
Quando
il fratellino adolescente di Sam, Johnny, si ficca nei guai per vendicare un
amico, la situazione precipita e rischia di perdere la vita.
Ma
supera le difficoltà e si allena tutti i giorni, per anni.
Ora
Johnny è cresciuto, picchia forte e inizia a lavorare per Ezra al fianco del
fratello Sam.
Ma
presto, come Big Tony ha già intuito, sarà Sam a lavorare per lui. John Ibrahim (Lincoln Younes, Grand
Hotel) è un astro in ascesa e presto inizia a far carriera nell’organizzazione
criminale di Ezra…
La
storia di John Ibrahim, raccontata dalla sua stessa voce, segue tutte le tappe
classiche della ganster-story.
Dai
primi guai ai primi lavoretti per il boss locale, si fa presto a passare alla
prima rissa e al primo omicidio.
Tutti
quelli che lavorano sulla Strip, al servizio di Ezra - che vive nella sua
mega-villa con piscina insieme alla moglie - hanno seguito le stesse tappe.
Ma
Johnny ha qualcosa di diverso.
Coltiva
un proprio senso della giustizia, in un mondo in cui le regole le detta una
sola persona, Ezra.
In
base al proprio senso morale, vendica i torti subiti dalle persone a cui vuole
bene e cerca un futuro migliore per sé e per la propria famiglia.
Non
vuole più passarci, mai più.
I tempi in cui accompagna la madre - che non
parla inglese, ma solo libanese - a chiedere i sussidi statali, che vengono
concessi solo dopo rigidi controlli e con tanto di foto per identificare i
“bisognosi”, devono finire.
Johnny
vuole provvedere alla madre, ai fratelli, a sé stesso.
Vuole
un futuro agiato, vuole dimenticare il suo passato di immigrato povero e senza
mezzi per fare fortuna.
Dalla
sua parte ha un grande vantaggio:
è in grado di percepire quali siano i passaggi
per ottenere ciò che vuole. Perché ne L”’ultimo boss di Kings Cross”, la
percezione è fondamentale. Indipendentemente dal fatto che si muovano sul
territorio di Kings Cross o nelle altre zone di Sidney, tutti gli uomini e le donne che
popolano la serie si basano sulla percezione.
La
mafia asiatica che vuole sfidare l’inglese al comando, percepisce che il ricco
mercato di Kings Cross lascia uno spazio di manovra, se sfruttato in modo
intelligente.
E lo
stesso Johnny, pronto a predisporre il proprio futuro in base alla percezione
di ciò che lo circonda, si concentra sul cercare di capire il potere che lo
circonda e quanto sia forte.
O meno
forte.
Vuole
essere indipendente, vuole che lui e suo fratello Sam, e la sua intera
famiglia, non siano legati a nessuno.
Non
vuole favori da ricambiare, debiti da pagare, niente:
vuole aprirsi la propria strada in un mondo
che sembra non lasciargliene l’opportunità.
E
allora, Johnny pensa di ritagliarsela, quella opportunità.
Ma suo
fratello sa bene che, così facendo, rischia grosso.
Johnny
non sa cosa sia la paura.
L’incoscienza
dell’adolescenza, di quando è entrato per la prima volta in quel mondo, ha
lasciato il posto alla furbizia.
Johnny
Ibrahim è furbo.
Sa come muoversi, ma sa anche che basta una
sola mossa sbagliata e tutto salta per aria. Lui incluso.
Johnny
conosce le regole del gioco, ma è anche impulsivo.
Ha un senso tutto suo della giustizia, come
dicevamo, che finisce per essere in contrasto con le regole di quel gioco, che
non detta lui.
Non è
lui a sceglierle.
Non è
la polizia. Non è la legge.
A
dettare legge è sempre e soltanto Ezra.
Johnny
Ibrahim è un personaggio carismatico.
Aiutato dal bell’aspetto e dalla sua faccia
pulita, cerca di muoversi più in fretta degli altri e in modo più astuto, ma i
pericoli sono ovunque.
Quando
è pronto per fare la sua mossa, Johnny contatta uno degli intermediari di Ezra,
Nasa (Wadih Dona, Underbelly).
L’uomo
che gli aveva offerto la prima opportunità nell’organizzazione di Ezra.
Anche
Nasa è un immigrato libanese, parla la lingua di Johnny ed è legato anche a
Sam.
Johnny
ha un piano per tutti, ma si sa: nella vita reale come in quella raccontata da
una storia (fondamentalmente vera), i piani non vanno mai come previsto.
Gli
ostacoli sono tanti, assumono forme diverse e sembianze insospettabili.
La
storia de L’ultimo boss di Kings Cross ci sfida a indovinare se - e come -
Johnny Ibrahim riuscirà a raggiungere il vertice dell’organizzazione criminale
locale mentre Sidney, l’Australia e il mondo intero stanno cambiando.
I
detective sul libro paga di Ezra, che chiudono uno, anzi entrambi gli occhi di
fronte ai crimini a cui assistono e che si prodigano per cavare d’impaccio
chiunque Ezra dica loro di proteggere, iniziano a subire pressioni.
Il
cambiamento, ve ne parlavo nell’analisi di FROM, è uno dei punti fondamentali
in una storia.
E quando le cose, a Kings Cross iniziano a
cambiare perché i tempi cambiano, e con essi ciò che è consentito, il sistema
rischia di crollare.
A quel
punto toccherà a Johnny fare la sua mossa, guardarsi sempre le spalle e capire
fino a che livello potrà arrivare mentre gli anni passano, Ezra invecchia e le
vecchie alleanze finiscono per diventare dei pesi.
L’ultimo
boss di Kings Cross ci racconta la storia di un gruppo di uomini, di
un’organizzazione criminale ma anche di una società che si evolve, e non sempre
nella direzione che noi - o i protagonisti di questa storia - avremmo voluto.
Il
cambiamento è inevitabile, e questa è una delle cose più dure da accettare
nella vita.
L’introduzione
di nuovi personaggi - quando le forze dell’ordine decidono di cambiare
atteggiamento nei confronti della malavita locale - si accompagna all’arrivo di
nuovi interessi, nuove opportunità di guadagno, nuovi investimenti.
C’è
qualcosa che salta all’occhio, negli episodi de L’”ultimo boss di Kings Cross”.
Qualcosa che è stato studiato per accompagnarci nell’evoluzione dei personaggi,
dei tempi, della società.
All’inizio
il colore dominante nella serie è il rosso. Il rosso del sangue, della
violenza, della rabbia cieca.
Non
certo il colore dell’amore e della passione: queste sono cose che esistono, nel
mondo di Kings Cross, ma di certo non sono al centro degli interessi dei suoi
protagonisti.
Il
rosso - come dimostra la sigla della serie - finisce per contagiare tutto.
L’atmosfera è volutamente squallida, i luoghi volutamente poveri: veniamo
immersi in una sorta di succursale della periferia americana, sebbene ci
troviamo in un Paese molto lontano.
La Strip sembra la periferia squallida di
Detroit, non certo una zona di Sidney. Anche questo, naturalmente, è voluto.
Man
mano che gli anni passano, al pari della crescita di Johnny, cambia anche il
mondo che lo circonda.
I
locali diventano più raffinati. Gli abiti sempre più eleganti e di buon gusto.
Gli
spazi sempre più puliti e curati. Un episodio dopo l’altro.
Dall’alto
della sua villa, Ezra continua a tenersi lontano dalla Strip, sempre di più
ogni giorno che passa, senza rendersi conto che ne sta perdendo il controllo.
Non
per l’ascesa di qualcun altro, che si svolge su binari per ora paralleli a
quelli della sua strada, bensì per la creazione di una task force con lo scopo
di riportare l’ordine in città.
E
quando quella squadra arriva, con un’agente federale dagli occhi azzurri a
rappresentarla, ecco che i colori iniziano a cambiare.
Arrivano
l’azzurro, il bianco, il blu.
I due
schieramenti, i buoni e i cattivi, vengono contraddistinti per la
contrapposizione dei colori principali che li circondano.
Anche
la luce ha un ruolo importante:
gli
incontri di Ezra con i suoi luogotenenti e i club notturni in cui Johnny impara
il mestiere sono bui, illuminati da lampade rosse come la luce dei locali di
spogliarelli.
La
legge si muove alla luce del sole, nell’azzurro delle camicie e nel bianco
delle sedie, in pieno contrasto per ricordarci quale sia la parte giusta.
Perché
il personaggio di Johnny è talmente diverso dagli altri, talmente affascinante
per il pubblico, che come spesso accade nelle gangster-story potremmo finire
per dimenticare che sia lui il cattivo, mentre i buoni stanno dalla parte
opposta.
In tv
come nella realtà.
Il
sistema finanziario cinese:
sviluppi
e implicazioni internazionali.
Ispionline.it
– Alessia Amighini – Redazione – (10-2-2023) – ci dice:
Da
quando, nel 1978, all’inizio delle riforme economiche il paese aveva una sola
istituzione finanziaria, la “People’s Bank of China” (Pboc), che serviva sia
come banca centrale sia come banca commerciale e gestiva il 93% delle attività
finanziarie totali del paese, il settore finanziario cinese ha sperimentato una
lunga serie di riforme.
Oggi
le cosiddette “quattro grandi” banche cinesi (Industrial & Commercial Bank
of China, China Construction Bank, Bank of China e Agricultural Bank of China)
sono attualmente le quattro più grandi del mondo per asset totali (oltre 19.000
miliardi di dollari complessivamente) e tra le prime quindici per
capitalizzazione di mercato.
Negli
ultimi anni i mercati azionari e obbligazionari cinesi sono anche entrati nei
primi posti a livello globale.
Il
renminbi (Rmb) fa parte del paniere dei diritti speciali di prelievo (Dsp) del
Fondo monetario internazionale (Fmi), insieme a dollaro, euro, sterlina
britannica e yen giapponese.
Come
testimoniano i dati “Swift” riportati nel “Triennial Central Bank Survey 2022”
della” Banca dei regolamenti internazionali”, Rmb è la quinta valuta più
utilizzata al mondo, sebbene a grande distanza rispetto alle grandi valute
internazionali.
Eppure,
il sistema finanziario è ancora arretrato rispetto al resto del mondo.
L’elemento
di gran lunga più innovativo di tutte le riforme è stata l’introduzione,
annunciata nel 14° piano quinquennale, di una propria valuta sovrana digitale,
già introdotta parzialmente nel 2020.
Negli ultimi anni la Banca centrale cinese ha
sviluppato e testato un Rmb digitale (e-Rmb) emesso dal governo, noto come
“Dcep “(abbreviazione di “Digital Currency Electronic Payment”).
Anche
se l’introduzione diffusa di una valuta digitale della Banca centrale nella
nazione più popolosa del mondo sarà graduale, la nascita di un “Rmb digitale”
potrebbe portare benefici significativi per la rapida digitalizzazione
dell’economia cinese e facilitare i pagamenti transfrontalieri in “Rmb” e
l’internazionalizzazione della valuta.
Si
ribadisce inoltre che, oltre al” Rmb digitale”, la Cina promuoverà anche
l’innovazione finanziaria, a condizione che sia perseguita in modo ordinato e
soggetta a supervisione prudenziale in modo da prevenire i rischi sistemici:
il
punto fermo di ogni misura introdotta negli ultimi quarant’anni nel processo di
riforma del settore finanziario.
Le
riforme del settore finanziario.
Le
riforme del settore finanziario della Cina durante gli ultimi quattro decenni
sono state numerose, ma poco efficaci in termini qualitativi.
La
Cina ha enormi volumi di attività finanziarie gestite da un gran numero di
istituzioni finanziarie e le autorità cinesi mantengono serie ed estese
restrizioni sui mercati finanziari, compresi i tassi di interesse, i tassi di
cambio e l’allocazione dei fondi.
Pur continuando a regolamentare i tassi di
deposito e di prestito, a partire dalla fine degli anni ’90 le autorità hanno
iniziato a introdurre gradualmente un meccanismo di mercato per liberalizzare i
tassi di interesse nei mercati monetari e obbligazionari.
I
tassi di deposito sono rimasti regolamentati, mentre il tasso di prestito è
stato gradualmente allentato.
Basandosi
sul set di dati dell”’Economic Freedom of the World”, “Huang e Wang” (2018)
hanno costruito un indice cross-country della repressione finanziaria.
I risultati mostrano che, nonostante la
graduale liberalizzazione dei mercati finanziari, la” RPC” presenta un grado di
repressione finanziaria più elevato rispetto alla media delle economie mondiali
ad alto e medio reddito.
La “RPC” si è classificata al 24° posto per
repressione finanziaria tra i 145 Paesi per i quali erano disponibili dati nel
2018.
Il punteggio medio dell’indice per la RPC nel
periodo 2000-2018 è stato pari a 0,63, ovvero 30 punti percentuali in più
rispetto alla media dei Paesi a reddito elevato e 19 punti percentuali in più
rispetto alla media delle economie a reddito medio-alto.
Questo
modello di riforma finanziaria inizialmente ha funzionato abbastanza bene, in
presenza di una forte crescita economica, ma ora crea dei rischi.
Le
analisi empiriche hanno confermato che negli anni Ottanta e Novanta la
limitazione finanziaria ha avuto un effetto positivo sulla crescita (dal momento che la mancanza di
varietà di prodotti finanziari ha lasciato il risparmio allocato
prevalentemente agli investimenti produttivi), mentre negli anni 2000 ha avuto un
effetto negativo.
Le politiche finanziarie repressive hanno
anche aiutato a mantenere la stabilità finanziaria, in quanto la fiducia degli
investitori, anche se con conseguenze crescenti di rischio morale nel tempo (gli investimenti rischiosi si sono
accumulati nel tempo, come nell’immobiliare, nella convinzione che in caso di
crisi e fallimenti le autorità cinesi sarebbero intervenute per prevenire
conseguenze sistemiche).
La
combinazione di una grande offerta di denaro – dal sistema finanziario dominato
dalle banche e dalla politica di garanzia implicita del governo – e il limitato
pool di attività finanziarie ha ampliato i rischi finanziari.
La
logica sottostante la riforma del settore finanziario è sempre stata
strettamente connessa all’evoluzione del settore delle imprese di stato
(State-owned enterprises, “Soe”).
Infatti,
i problemi bancari alla fine degli anni Novanta erano la conseguenza diretta
della necessità di proseguire a sostenere le grandi imprese pubbliche, che
continuavano a operare in mercati sempre più aperti e competitivi, ma essendo
relativamente meno efficienti di quelle private, avevano pertanto bisogno di un
sostegno speciale per sopravvivere.
Poiché le entrate fiscali sono diminuite rapidamente
rispetto al Pil per tutti gli anni Ottanta, era chiaro che il governo non
avrebbe avuto fondi per sostenere le aziende di stato.
Un’alternativa
era continuare ad assegnare grandi volumi di credito alle aziende di stato, a
prezzi relativamente bassi, cosicché le “Soe” potessero sopravvivere anche se
la loro performance continuava a deteriorarsi.
Il
renminbi: una valuta “incompiuta”?
È
opinione condivisa nella vasta letteratura sul processo di apertura e di
riforma dell’economia cinese che il tassello mancante resti a tutt’oggi quello
finanziario.
Ancora oggi le autorità cinesi non vogliono
rinunciare neppure a una minima parte del grande potere che hanno sulla
politica monetaria e valutaria del paese:
esse controllano i flussi di capitale della
Cina con il resto del mondo, il valore del tasso di cambio del renminbi e
l’enorme massa di liquidità in circolazione all’interno dei confini nazionali.
Il renminbi è una valuta non convertibile
(cioè non si può scambiare liberamente con le altre valute del mondo) e la sua
circolazione internazionale a tutt’oggi è ristretta per volere delle autorità
monetarie cinesi al solo ammontare che serve per regolare le transazioni
commerciali, e non aperta ai capitali finanziari (se non in minima misura).
Perciò
l’uso del renminbi come mezzo di scambio, unità di conto e riserva di valore è
alquanto limitato.
Anche
l’inclusione nel paniere dei “Diritti Speciali di Prelievo” (Dsp) del “Fmi” non
ha cambiato radicalmente la situazione.
La
quota del dollaro nel paniere (43,38%) è approssimativamente quattro volte più
grande di quella del renminbi (12,28%), come conseguenza del fatto che la
moneta cinese non è ancora una vera e propria valuta accettata
internazionalmente.
Diversa
è invece la valenza simbolica e politica dell’inserimento del” Rmb nel paniere
Dsp”, che le autorità cinesi hanno interpretato come una sorta di approvazione
ufficiale della strategia di internazionalizzazione del renminbi adottata a
partire dal 2009.
Tale
strategia non prevede una liberalizzazione incondizionata dei movimenti di
capitale e del tasso di cambio, che ben pochi tra gli attenti osservatori delle
politiche economiche cinesi si sono mai davvero aspettati, ma un articolato
sistema di “vasi comunicanti” di cui la Cina mantiene un attento controllo.
Il
disegno cinese per giungere a una vasta circolazione internazionale del
renminbi è complesso, frutto di una visione di lungo periodo e di una
combinazione articolata di tasselli che presi singolarmente non hanno una
valenza particolarmente dirompente, ma nel loro insieme costituiscono un piano
ingegnoso.
La
Cina è da sempre molto ambiziosa nella scelta delle sue strategie di sviluppo e
da tempo allenata a gestire le complesse politiche monetarie e valutarie
necessarie a sostenere tali scelte.
Innanzitutto, per preservare la stabilità
finanziaria del paese il conto capitale della “Rpc” è ancora oggi quasi
totalmente chiuso, sebbene dal 2012 si registri una minima apertura.
Secondo l’indice di apertura del conto capitale
calcolato dal “Fmi” (un indice i cui valori sono compresi tra 0 in caso di
massima apertura e 1 in caso di massima chiusura), la media mondiale si attesta
intorno a 0,4 ed è variata di pochissimo tra il 2012 e il 2017.
Raggruppando
i paesi del mondo per livello di reddito pro capite, si nota come il grado di
apertura sia significativamente inferiore per i paesi più ricchi.
I
paesi ad alto reddito sono passati da 0,18 nel 2012 a 0,21 nel 2017; quelli a
medio reddito sono rimasti intorno a 0,5 e quelli a basso reddito in un valore
tra 0,7 e 0,66.
Nel
2017 la Cina aveva un indice pari a 0,85, sceso solo leggermente rispetto al
valore di 1 nel 2012.
Mantenere
un controllo sui capitali e un tasso di cambio a fluttuazione controllata
comporta per un grande paese esportatore, quale è la Cina da almeno tre
decenni, la necessità di una complessa gestione monetaria e valutaria.
Infatti, l’elevato avanzo commerciale che la
Cina registra sin dagli anni Ottanta del secolo scorso costringe, da un lato la
“Pboc” ad accumulare ingenti riserve in dollari, dall’altro a immettere
continuamente in circolazione una mole di valuta domestica.
Al contempo, la Cina mantiene il suo tasso di
cambio in un regime di fluttuazione controllata, a un livello adeguato a
preservare la grande competitività di prezzo che ha permesso alle sue merci di
conquistare i mercati del mondo.
Per un
grande paese esportatore, che riceve quotidianamente una mole elevata di
introiti dall’estero, avere una valuta non convertibile significa dover gestire
una massa di liquidità in dollari che le imprese esportatrici devono scambiare
con renminbi – in passato, completamente, oggi in larga misura (dal momento che è possibile tenere
parte dei ricavi dalle esportazioni in dollari per effettuare pagamenti
all’estero).
Gli
introiti dalle esportazioni generano quindi, al tempo stesso, grandi riserve di
valuta per la Banca centrale e grande liquidità in renminbi.
Per
evitare che un aumento continuo della moneta in circolazione generi inflazione
in casa, le autorità monetarie cinesi sono costrette a compensare continuamente
l’aumento di liquidità derivante dalle esportazioni attraverso emissioni di
titoli obbligazionari di stato in renminbi, con i quali assorbono l’eccessiva
moneta in circolazione (un’operazione che prende il nome di sterilizzazione della
base monetaria).
A
causa della sua inconvertibilità il renminbi è considerato una valuta
incompiuta o immatura, cioè sfornita delle funzioni principali che una moneta
nazionale dovrebbe avere per poter regolare le transazioni internazionali.
Tali funzioni sono:
essere un’unità di conto con la quale
esprimere il prezzo delle esportazioni nazionali ed essere un mezzo di scambio
con il quale regolare operativamente le transazioni (le valute mature assolvono entrambe
queste funzioni).
Non
avere una valuta convertibile segna dunque per la Cina una duplice dipendenza
dal dollaro: finanziaria e politica.
Da un
lato, l’accumulo di ingenti riserve in dollari, considerato da molti
osservatori soltanto una fonte di potere nei confronti del paese emittente,
cioè gli Stati Uniti, è in realtà anche una causa di debolezza ovvero di
dipendenza dalla politica di quel paese, dal momento che influenza il tasso di
interesse e il tasso di cambio del dollaro, a cui il renminbi è ancorato.
Inoltre, di tutta la massa di dollari in
circolazione nel mondo, che agli Stati Uniti fruttano un signoraggio, la parte
che la Cina tiene sotto forma di riserve ufficiali oscilla in valore in base
alle quotazioni del dollaro;
per
esempio, dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008-09, l’indebolimento
del dollaro ha comportato forti rischi per il valore delle riserve estere della
Cina:
secondo
le stime della Banca per i regolamenti internazionali, in una misura che può
arrivare a toccare i 1.800 miliardi (su un totale di 2.700 miliardi di riserve)
nel caso di un apprezzamento del renminbi del 10%.
Ma la
dipendenza dal dollaro per la Cina è anche una dipendenza politica:
essere
legati al sistema di pagamento in dollari espone pericolosamente il paese al
rischio concreto di essere tagliato fuori da tale sistema, in caso di ulteriori
crescenti tensioni con gli Stati Uniti, e costringe la Cina a trovare modi per
ridurre la sua dipendenza dal dollaro, che oggi rappresenta più una passività
che un’attività.
Per
ridurre tale dipendenza dal 2009 le autorità cinesi hanno iniziato a progettare
un sistema che permetta un aumento progressivo della circolazione
internazionale del renminbi, senza renderlo convertibile.
Ciò non ha nulla a che vedere con una generica
internazionalizzazione della valuta cinese, intesa come liberalizzazione dei
movimenti di capitale e del tasso di cambio.
Al contrario, l’obiettivo delle autorità
cinesi è di incanalare il renminbi nei portafogli degli investitori
internazionali e di coloro che lo usano per pagamenti internazionali, creando
dei centri offshore per la valuta.
In tal
modo, supponendo che la domanda per il renminbi aumenti, le autorità monetarie
cinesi potranno rispondere alle esigenze di tale domanda e incrementarla, senza
mettere a rischio la stabilità finanziaria del paese attraverso un’apertura
incondizionata dei flussi finanziari e dei movimenti di capitale.
Oggi
il completamento della “Belt and Road Initiative” (Bri) rappresenta
un’opportunità grandiosa per procedere lungo la strada di questa particolare
strategia di “internazionalizzazione” del renminbi, cioè un aumento della sua
circolazione internazionale, senza però al contempo lasciare che il suo valore
venga determinato liberamente dal mercato valutario.
Il buon funzionamento della” Bri “richiede
come elemento necessario di poter prezzare e regolare i contratti di fornitura
delle materie in renminbi, di poter erogare prestiti in renminbi per il
finanziamento dei progetti di costruzione di infrastrutture all’estero, di
poter concludere contratti di e-commerce con l’estero in renminbi:
tutti
elementi che favoriscono l’aumento della domanda estera di renminbi e pertanto
promuovono una sua maggiore circolazione internazionale.
L’aumento
dell’utilizzo internazionale del renminbi.
Non è
possibile individuare una data precisa a partire dalla quale Pechino si è
orientata per la prima volta verso l’obiettivo dell’internazionalizzazione
della sua valuta.
Le
discussioni sono iniziate già nel 2002, ma bisogna aspettare il 2006 per una
svolta significativa, arrivata con la pubblicazione del rapporto “The Timing”, “Path,
and Strategies of RMB Internationalization” da parte di un gruppo di studio
istituito dalla Pboc.
Esso concludeva che fosse finalmente giunto il
momento di promuovere l’internazionalizzazione del renminbi per migliorare lo
status internazionale e la competitività della Cina, nonché la sua influenza e
potere nell’economia internazionale.
È però
solo in occasione della crisi finanziaria globale del 2008 che si assiste a un
netto cambiamento di atteggiamento da parte delle autorità cinesi, ormai
consapevoli che le vaste riserve di dollari rendevano il paese vulnerabile a un
improvviso cambiamento dei tassi di cambio.
Fino
al momento della pubblicazione di quel rapporto la Cina aveva avuto una delle
valute più strettamente controllate al mondo, protetta da ogni sorta di
restrizioni valutarie e controlli sui flussi internazionali di capitale.
Ma
come promuovere l’uso internazionale del renminbi se la moneta non è e non
sarà, almeno ancora per molto, facilmente convertibile?
Le
esperienze passate di valute diventate internazionali, come il marco tedesco,
lo yen e l’euro, mostrano come in nessun caso sia stato pianificato un percorso
da parte delle autorità emittenti.
L’internazionalizzazione
è stata determinata esclusivamente dalle preferenze sul lato della domanda del
mercato, condizione indispensabile affinché una moneta nazionale possa essere
accettata e iniziare a circolare anche al di fuori del paese emittente.
Perciò,
in mancanza di un modello per la creazione di una valuta internazionale, che
non mettesse a rischio la stabilità finanziaria del paese, la leadership cinese
ha seguito un approccio notevolmente cauto, caratterizzato da un’estrema
gradualità.
Forse mai come nel caso della politica
valutaria e della gestione del conto capitale della bilancia dei pagamenti, la
Cina ha seguito più alla lettera lo slogan lanciato da Deng Xiaoping negli
Ottanta del Novecento, che suggeriva di “attraversare il fiume sentendo le
pietre”, cioè di avanzare così lentamente che i piedi, ben ancorati a terra,
potessero percepire l’effetto di ogni singolo passo.
Dopo
lunghe esitazioni, oggi Pechino ha fatto dell’internazionalizzazione del
renminbi, che in mandarino significa letteralmente “moneta del popolo”, un
obiettivo politico ufficiale e sta ora attuando una strategia concertata con
questa ambizione.
Il
governo cinese sembra determinato infatti a utilizzare tutte le sue capacità
per promuovere il ruolo del renminbi come valuta internazionale.
L’atteggiamento dirigista e pianificatore di
Pechino pare far intendere una grande fiducia nella possibilità di progettare
una moneta internazionale pianificando dal lato dell’offerta un processo di
internazionalizzazione “gestita”.
Secondo
“Benjamin Cohen”, “lo yuan ha intrapreso una Lunga Marcia verso uno status
globale, che ricorda la Lunga Marcia che è stata fondamentale per la vittoria
del Partito Comunista nella guerra civile cinese.
Si
tratta chiaramente di un atto intenzionale, un tentativo deliberato di
influenzare la situazione.
Le
risorse del potere vengono impiegate in modo strumentale per ampliare l’uso del
renminbi all’estero;
un uso
più ampio del renminbi, a sua volta, dovrebbe aumentare l’influenza e il
prestigio della Cina”.
Sebbene
sia indubbio che il paese abbia i mezzi necessari per tradurre le proprie
capacità in azioni efficaci, anche in un’impresa titanica come creare una
valuta internazionale, portare una valuta come il renminbi, una delle più
controllate del mondo, al rango dell’euro e dello yen, per non dire del
dollaro, è un obiettivo molto diverso da quelli che la Cina ha perseguito
finora.
La differenza sostanziale risiede nel fatto
che tale obiettivo, a differenza di altri, non può essere raggiunto
intervenendo solo internamente al paese, ma richiede un’evoluzione delle
relazioni finanziarie della Cina con entità e soggetti esteri;
e tali relazioni, a differenza di quelle tra
le autorità cinesi e i cittadini residenti, non possono essere gestite
d’imperio.
Non basta aspirare a uno status globale per la
propria valuta, né tanto meno dichiarare di volerne promuovere l’uso oltre
confine, perché gli stranieri inizino automaticamente a usarla.
Un certo grado di coercizione potrebbe essere
possibile solo a Hong Kong, formalmente soggetta alla sovranità della Cina
continentale, e forse anche in alcuni stati come la Corea del Nord, nel qual
caso il renminbi potrebbe essere in grado di funzionare in modo simile a quello
che “Susan Strange” intendeva con l’espressione “master currency”.
Infatti,
affinché il renminbi diventi una vera e propria valuta internazionale (e non solo sia accettata come moneta
di fatturazione e/o pagamento dei contratti di import/export con la Cina) è necessario che nasca una domanda
estera di renminbi e che le autorità cinesi siano poi disposte a soddisfare
questa domanda con un’adeguata offerta di moneta.
Al
momento nessuna delle due condizioni è minimamente soddisfatta né si vede
all’orizzonte.
Una delle condizioni essenziali perché emerga
una domanda internazionale di renminbi è l’esistenza, oltre alla convenienza
economica, anche di un certo grado di fiducia nel paese emittente;
non si tratta di fiducia nella stabilità
politica, nella potenza economica, ma della fiducia dei singoli investitori e
dei mercati finanziari.
Due
sono le strade lungo le quali Pechino sta cercando di favorire l’ascesa del
renminbi allo status di valuta internazionale.
Da un lato, le autorità cinesi utilizzano la leva
della dimensione e potenza dell’economia cinese per incoraggiarne l’uso nelle
transazioni bilaterali con l’estero, sulla base di una sua presupposta
convenienza rispetto a qualunque valuta di paesi terzi, in particolare del
dollaro.
Dall’altro
lato, l’uso internazionale del renminbi è perseguito per effetto coercitivo,
sebbene indiretto, derivante dalla grande influenza economica della Cina sulle
economie di molti paesi del mondo, che si traduce in potere politico di
persuasione.
In un
modo o nell’altro, il renminbi deve essere reso più attrattivo per i potenziali
utenti.
In
breve, deve essere reso competitivo.
Al
momento, di tutti i fattori che concorrono a far emergere una domanda
internazionale di renminbi (diversa da quella motivata dalla necessità di
regolare il commercio bilaterale con la Cina) è la dimensione economica a
spiccare come asso nella manica.
L’economia
cinese è già un gigante – la seconda più grande del mondo – e in un altro
decennio potrebbe superare gli Stati Uniti.
Il
paese è ora anche il leader mondiale delle esportazioni e il secondo più grande
mercato per le importazioni, creando un notevole potenziale per le esternalità
di rete.
Più di cento paesi contano oggi la Cina come
il loro più grande partner commerciale.
Sono
invece quasi totalmente assenti tutti gli altri fattori, tra cui spicca uno
sviluppo insufficiente del mercato finanziario interno.
Il
governo cinese da qualche anno sta cercando di realizzare
un’internazionalizzazione gestita del renminbi facendo leva sulla convenienza e
sulla persuasione, in due ambiti: il commercio estero e la finanza.
Nel
commercio estero sono stati avviati accordi di “currency swap” con banche
centrali estere per facilitare l’uso del renminbi come mezzo di pagamento.
A una lettura superficiale, l’obiettivo
contingente degli accordi di swap è quello di assicurare contro il tipo di
rischi che potrebbero derivare da un’altra crisi finanziaria globale.
La disponibilità di finanziamenti in renminbi
in caso di emergenza offrirebbe ai partner commerciali cinesi un’utile
copertura contro qualsiasi futura crisi di liquidità.
Ma le
strutture sono anche progettate per fornire renminbi, quando lo si desideri, da
utilizzare nel commercio bilaterale su base più regolare, per fornire un
incoraggiamento indiretto all’uso commerciale della valuta cinese.
A
livello privato, infatti, le normative sono state gradualmente alleggerite per
consentire la fatturazione e il pagamento di un maggior numero di transazioni
commerciali in renminbi, evitando le tradizionali valute di fatturazione come
il dollaro.
Più
direttamente, a partire dal 2009, Pechino ha gradualmente ampliato la gamma
delle transazioni commerciali che possono essere regolate in renminbi,
promuovendo ulteriormente l’uso della valuta da parte dei non residenti.
L’altro
ambito è la finanza internazionale.
L’accento
è stato posto sullo sviluppo di mercati attivi per i depositi in renminbi e
sulle obbligazioni denominate in renminbi, principalmente “offshore” a Hong
Kong, l’ex colonia della corona britannica che dal 1997 è una “regione
amministrativa speciale” della Cina.
Hong
Kong è un ingrediente fondamentale della strategia valutaria e finanziaria
della “Rpc “che ha servito finora come firewall finanziario, permettendo a
Pechino di restare efficacemente isolata dall’instabilità della finanza
internazionale, pur dovendo movimentare quotidianamente un’immensa mole di
dollari derivanti dai pagamenti del commercio con l’estero.
Lo sviluppo di un mercato offshore per le
obbligazioni denominate in renminbi è iniziato nel 2007, quando a determinate
banche del continente era stato permesso per la prima volta di raccogliere
fondi emettendo obbligazioni in renminbi a Hong Kong.
Il primo cosiddetto “dim sum bond”
(espressione gergale tratta da uno stile di cucina popolare, per designare
appunto un’obbligazione in renminbi emessa fuori dalla Cina) è stato emesso
dalla” China Development Bank nel luglio di quell’anno”.
I progressi sul mercato sono stati tuttavia
lenti, come accennato, fino al 2010, quando l’autorizzazione è stata estesa
prima alle imprese non finanziarie cinesi e poi alle multinazionali straniere
che fanno affari in Cina.
Tra le
prime aziende non cinesi a entrare, nel giugno 2010, ci sono state la “Hong
Kong & Shanghai Banking Corporation” (Hsbc) e “la Bank of East Asia”,
seguite poi da grandi nomi come McDonald’s, Caterpillar, Volkswagen e Unilever.
Nei
tre anni successivi il mercato è più che triplicato, con un valore delle nuove
emissioni in crescita rispetto ai soli 40 miliardi di renminbi (6,3 miliardi di
dollari) del 2010 e un totale cumulativo di soli 22 miliardi di renminbi (3,3
miliardi di dollari) in precedenza.
In totale, a fine 2013, erano state emesse più
di 360 obbligazioni “dim sum”.
All’inizio
del 2014 l’”International Finance Corporation”, una filiale della “Banca
Mondiale”, ha venduto a Londra un’obbligazione di un miliardo di renminbi (163
milioni di dollari), la prima emissione di “dim sum” fuori da Hong Kong.
Il
volume netto in circolazione (nuove emissioni meno rimborsi) è aumentato di
nove volte in cinque anni, fino a circa 580 miliardi di renminbi (92 miliardi
di dollari) nel 2015, per poi attestarsi intorno ai 400 miliardi di renminbi
nel 2018 (dati Bloomberg).
Parallelamente
al mercato” dim sum”, è stato coltivato con cautela anche un nascente “mercato
onshor”e per le obbligazioni denominate in renminbi, incentrato a Shanghai.
Il
processo è iniziato nel 2005, quando le vendite di debito da parte di emittenti
non cinesi – note come obbligazioni “panda” – sono state autorizzate per la
prima volta all’interno della Cina.
Qui, tuttavia, i progressi sono stati
particolarmente lenti, anche dopo l’impegno ben pubblicizzato del Consiglio di
stato cinese nel 2009 di trasformare Shanghai in un centro finanziario
internazionale entro il 2020.
Inizialmente
limitato solo alle istituzioni multilaterali di sviluppo “idonee”, l’accesso al
mercato dei “panda bond” è stato ampliato nel 2009 per includere le filiali di
multinazionali straniere costituite localmente.
Ma le
nuove emissioni sono rimaste poche e di gran lunga inferiori di valore,
soprattutto per le istituzioni finanziarie statali come l’”Asian Development
Bank, la “Japan Bank for International Cooperation” e l’”International Finance
Corporation”.
Il
2010 ha visto la prima vendita da parte di un istituto bancario privato,
Tokyo-Mitsubishi UFJ (Cina) Ltd; e nel marzo 2014 la casa automobilistica
tedesca Daimler AG è stata la prima società non finanziaria straniera a vendere
un panda bond, per circa 500 milioni di renminbi (81 milioni di dollari).
Ma
questi numeri sono ancora minuscoli per gli standard internazionali. Shanghai
ha dunque ancora molta strada da fare per adempiere all’impegno del Consiglio
di Stato.
A oggi
la pista del commercio ha visto molti più progressi rispetto a quella della
finanza.
La
Lunga Marcia del renminbi è iniziata alla fine del 2008, quando la “Pboc” ha
cominciato a negoziare una serie di accordi di “swap di valuta locale” per
fornire, quando necessario, finanziamenti in renminbi ad altre banche centrali
da utilizzare negli scambi con la Cina.
Sei
anni dopo erano stati firmati patti con oltre venti economie, tra cui
importanti attori come Argentina, Australia, Brasile, Corea del Sud, Gran
Bretagna, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Russia, Singapore e Svizzera.
Le dimensioni dei singoli swap variano
notevolmente, da appena 700 milioni di renminbi (circa 110 milioni di dollari)
per l’Uzbekistan e due miliardi di renminbi (322 milioni di dollari) per
l’Albania a 360 miliardi di renminbi (58 miliardi di dollari) per la Corea del
Sud e 400 miliardi di renminbi (65 miliardi di dollari) per Hong Kong.
Il
totale sottoscritto in questi accordi tra il 2009 e il 2020 ammonta a circa 3,5
trilioni di renminbi (554 miliardi di dollari).
Finora
l’uso è stato prevalentemente locale.
Ben l’80% degli scambi commerciali stabiliti
in renminbi si è svolto tra la Cina continentale e Hong Kong.
Ma la
fatturazione in renminbi si sta gradualmente diffondendo e si prevede un
ulteriore sostanziale aumento dell’utilizzo della valuta a fini commerciali
negli anni a venire.
I
risultati sul fronte finanziario, invece, seppur non trascurabili, sono stati
meno impressionanti.
Per la maggior parte Pechino ha proceduto con
cautela, contando molto sullo status speciale di Hong Kong come regione
amministrativa speciale.
Con la propria valuta e i propri mercati
finanziari, Hong Kong offre un utile laboratorio offshore per sperimentare
innovazioni che la leadership non è ancora pronta a introdurre “onshore” sulla
terraferma.
Il modello è a dir poco inusuale.
Mai
prima d’ora nessun governo ha cercato deliberatamente di sviluppare un mercato
offshore per la propria valuta, pur mantenendo un rigoroso controllo
finanziario in patria.
Uno
dei fattori cruciali su cui la Cina fa leva per aumentare lo status
internazionale del renminbi è l’inclusione dello stesso, il 1° ottobre del
2016, come quinta valuta (dopo il dollaro americano, l’euro, lo yen giapponese
e la sterlina inglese) nel paniere dei “Dsp del Fmi”.
Il
Consiglio del Fmi ha anche deciso che il peso di ciascuna valuta sarebbe stato
rispettivamente del 41,73% per il dollaro statunitense, del 30,93% per l’euro,
del 10,92% per il renminbi cinese, dell’8,33% per lo yen giapponese e
dell’8,09% per la sterlina inglese.
Al
lancio della nuova composizione Christine Lagarde, l’allora direttore del Fmi,
disse che l’espansione del paniere dei Dsp avrebbe rappresentato un momento
storico per il Fondo, per la Cina e per l’intero sistema monetario
internazionale:
un
cambiamento significativo per il Fmi, perché è la prima volta dall’adozione
dell’euro che una valuta è stata aggiunta al paniere.
Il Consiglio del Fmi ha giustificato la
decisione affermando che l’inclusione del renminbi rifletteva i progressi
compiuti nella riforma del sistema monetario, valutario e finanziario cinese, e
riconoscendo i progressi, seppur limitati, compiuti nella liberalizzazione e
nel miglioramento delle infrastrutture dei mercati finanziari.
Il proseguimento e l’approfondimento di questi
sforzi, con le opportune salvaguardie, porterà a un sistema monetario e
finanziario internazionale più robusto, che a sua volta sosterrà la crescita e
la stabilità della Cina e dell’economia globale.
A
posteriori la decisione del Fmi non è stata una scelta di poco conto né tanto
meno senza eccessive conseguenze sul sistema monetario internazionale.
Innanzitutto, con un peso che lo scorso maggio
è stato alzato a 12,28% rispetto al paniere totale, l’inclusione del renminbi
ha il potenziale di rendere più volatile il valore del dollaro Usa nel paniere.
Inoltre,
come analizzato in uno studio del Fmi stesso, storicamente, il renminbi è stato
sempre ancorato al dollaro, quindi, aggiungerlo al paniere può essere visto
come un effetto simile all’aumento del peso del dollaro, ma se la Cina continua
il proprio percorso verso un regime di cambio più flessibile, questo rapporto
muterà gradualmente.
Ma le conseguenze più insidiose sono
probabilmente quelle politiche: l’inclusione del renminbi ha sdoganato la
strategia valutaria di Pechino, e con essa forse tutta la sua strategia
finanziaria, che punta a rendere il renminbi una valuta con un’ampia
circolazione internazionale, ma senza essere completamente convertibile.
Prospettive
di diffusione dello yuan digitale.
La
Cina oggi è il pioniere nell’introduzione di una moneta sovrana digitale.
Ha
sperimentato l’uso del suo yuan digitale, chiamato anche” Dcep” (moneta
digitale, pagamento elettronico) in Cina e Cbdc (moneta digitale della banca
centrale) a livello globale, in alcune regioni e contesti nazionali.
Secondo
Xie Ping, un funzionario della Banca centrale diventato professore
dell’Università Tsinghua, la moneta digitale della Banca centrale è poco
utilizzata e incontra notevoli ostacoli strutturali.
Il professor Xie Ping ha dichiarato che il numero
cumulativo di transazioni nelle aree pilota (per lo yuan digitale) di 15
province e municipalità a livello nazionale è stato di 360 milioni.
L’importo coinvolto è stato di 100,4 miliardi
di yuan, secondo i dati pubblicati dall’Istituto di ricerca sulle valute
digitali della Banca popolare cinese al 31 agosto 2022.
Il
rapporto della” Pboc s”ul sistema dei pagamenti per il secondo trimestre del
2022 mostra che circa 1 miliardo di persone in Cina utilizza attualmente
piattaforme di pagamento di terze parti e il volume delle attività di pagamento
in rete (piattaforme di pagamento di terze parti) da parte di istituti di
pagamento non bancari ha raggiunto più di 200 miliardi di transazioni al giorno
e 1,31 trilioni di yuan al giorno.
Attualmente
in Cina ci sono 9,3 miliardi di carte bancarie e il loro volume di transazioni
giornaliere è di circa 500 miliardi di yuan.
Il
confronto mostra che pochissime persone utilizzano lo yuan digitale per le
spese e l’adozione è molto limitata.
Il
professor Xie Ping ha analizzato l’impopolarità dello yuan digitale sia dal
punto di vista dei consumatori sia delle caratteristiche della moneta digitale.
Dal
punto di vista dei consumatori, i contanti, le carte bancarie e le piattaforme
di pagamento di terze parti hanno formato un modello di mercato di pagamento
tridimensionale, che è più che sufficiente per le esigenze di pagamento
quotidiane delle persone, ed è difficile cambiare le abitudini di pagamento da
un giorno all’altro.
Attualmente,
l’utilizzo dello yuan digitale in diversi scenari di pagamento richiede
l’apertura di diversi portafogli digitali e piattaforme commerciali, uno
svantaggio rispetto alle piattaforme di terze parti esistenti.
In
questo senso, l’ecosistema dello yuan digitale non è stato costruito. Ciò
contribuisce a una scarsa conoscenza dello yuan digitale e a una mancanza di
motivazione.
L’elevato
costo della promozione dello yuan digitale è un problema pratico che deve
essere affrontato.
L’emissione di contante fisico e lo yuan
digitale sono due cose completamente diverse.
Per
emettere contante fisico, è necessario disporre di una stamperia con macchinari
e attrezzature fisse.
L’emissione
di moneta digitale è completamente diversa.
Il processo di emissione e gestione dello yuan
digitale della Banca centrale è simile a quello dei prodotti delle aziende
tecnologiche, che richiedono una manutenzione e un funzionamento costante in
background, innovazione e adattamento a vari scenari – tutti molto
costosi.
Inoltre,
l’aumento dell’utilizzo della moneta digitale dovrà fare affidamento non solo
sulla promozione offline delle filiali della banca centrale a tutti i livelli,
ma anche sulla trasformazione tecnica degli scenari in cui la moneta digitale
viene utilizzata.
Considerando
gli enormi costi sostenuti dalle piattaforme di pagamento di terze parti nei
primi giorni di promozione offline delle loro applicazioni, la Banca centrale,
in quanto organizzazione senza scopo di lucro, ha alcuni limiti nelle risorse
umane e finanziarie per la promozione offline.
Se l’uso della moneta digitale non raggiungerà
una scala notevole nel lungo periodo, l’incapacità di formare economie di scala
causerà seri problemi.
Allo
stesso tempo, gli incentivi delle banche non sono sufficienti a stimolare
l’utilizzo.
Attualmente, la moneta digitale non porta alle
banche né sinergie né vantaggi commerciali, il che fornisce loro pochi
incentivi, per non parlare del rapporto competitivo della moneta digitale con
le piattaforme di pagamento di terzi.
Le
sinergie derivanti dalla raccolta, dall’applicazione e dal profitto dei dati
delle transazioni sono significative nelle società di pagamento di terze parti
e nelle relative piattaforme online, come quelle tra “Alipay”, “Taobao” ed”
Ele.me” (una piattaforma per il cibo da asporto), creando economie di scala e
producendo rendimenti in eccesso.
Tale
incentivo finanziario spinge le società di pagamento terze ad aumentare gli
investimenti in tecnologia e a creare continui miglioramenti tecnologici,
ampliando così gli scenari di applicazione e migliorando i servizi offerti.
Poiché
la Banca centrale non può utilizzare incentivi commerciali come le società
Internet, il vantaggio non tariffario è trascurabile.
Oltre
alla spesa, le piattaforme di pagamento di terze parti possono incorporare
altre funzioni finanziarie, come l’acquisto di prodotti di gestione
patrimoniale, fondi e assicurazioni, nonché l’accensione di prestiti al
consumo, ecc.
Questo
offre molte comodità alla vita quotidiana delle persone, mentre la moneta
digitale ha poco da offrire.
Per
migliorare la situazione attuale e realizzare al più presto un ciclo virtuoso
di applicazione dello yuan digitale, il professor Xie Ping suggerisce che, in
primo luogo, l’espansione dei settori in cui lo yuan digitale può essere
utilizzato può essere una soluzione, considerando che l’uso attuale dello yuan
digitale è limitato alla base monetaria (aggregato M0) come sostituto del
contante e solo per la spesa al consumo.
In secondo luogo, è necessario consentire ai
singoli di utilizzare l’”E-Cny” per acquistare prodotti finanziari.
Inoltre,
è necessario espandere il più presto possibile il progetto pilota e la
promozione, in modo che lo yuan digitale possa essere integrato in un maggior
numero di contesti di pagamento, raggiungere quanto prima l’utilizzo a livello
nazionale.
In
terzo luogo, la cooperazione con le piattaforme di pagamento di terze parti
dovrebbe essere rafforzata per formare una sinergia.
92 piattaforme commerciali sono state
integrate nell’ultima app per lo yuan digitale a partire dal dicembre 2022, e
l’unica piattaforma di pagamento di terzi supportata nella sezione “Piattaforma
di pagamento” dell’app è “Alipay”.
“
Taobao” ha aperto il suo portale di pagamento in yuan digitali alla maggior
parte degli utenti.
Rispetto
a JD.com e Meituan (due app cinesi molto popolari per le spese dei
consumatori), che richiedono ulteriori passaggi, l’utilizzo dello yuan digitale
su” Taobao” (parte di Alibaba) è più semplice.
La
corsa del renminbi a Mosca e a Riyadh.
La
promozione dell’internazionalizzazione del renminbi ha subito un’accelerata a
seguito dello scoppio della guerra in Ucraina.
L’imposizione
da parte dell’Occidente, Stati Uniti in testa, di sanzioni senza precedenti
contro la Russia ha infatti agitato diversi Paesi emergenti, preoccupati dalla
loro dipendenza dal dollaro a livello commerciale e finanziario.
La ricerca di alternative valide alla moneta
americana dà una grande occasione al renminbi, che non ha lo status di valuta
forte.
Il suo
utilizzo per lo meno come mezzo di pagamento potrebbe avere ulteriori margini
di crescita.
Gli
sviluppi recenti in Arabia Saudita e soprattutto in Russia, di cui la Cina è
primo partner commerciale, rappresentano due esempi chiari.
Lo scorso dicembre la visita di Xi Jinping
alla corte del principe “Mohammed bin Salman” ha mandato un messaggio più che
simbolico a Washington.
Pechino
e Riyadh hanno siglato un’ampia partnership strategica e il leader cinese ha
suggerito che i paesi del “Consiglio di cooperazione del Golfo” dovrebbero
regolare le transazioni bilaterali di” commodities energetiche” in yuan sullo “Shanghai
Petroleum and Natural Gas Exchange”.
A gennaio il ministro delle Finanze saudita “Mohammed
Al-Jadaan” si è detto aperto all’ipotesi di accettare pagamenti in valute
diverse dal dollaro per le forniture di petrolio.
Se ciò
si tradurrà nella creazione di un sistema parallelo di “petroyuan”, è tutto da
vedere, ma Pechino persegue tale obiettivo con determinazione.
Ben
più grande e concreta è la forza del renminbi in Russia, “laboratorio”
interessante per testare le ambizioni globali della moneta cinese.
Il 19
gennaio è stato firmato un nuovo” currency swap bilateral”e tra Russia e Cina.
È solo
l’ultimo esempio del processo di “renminbizzazione” dalle parti di Mosca.
Primo,
a settembre Gazprom aveva annunciato di aver siglato un accordo con la “China
National Petroleum Corporation” per iniziare ad effettuare i pagamenti relativi
alle forniture di gas per un 50% in rubli e l’altro 50% in yuan, anche se non
sono state rivelate le tempistiche.
Secondo,
la Russia risulta al 6° posto come mercato per pagamenti in yuan offshore (dati
Swift).
Alla
fine del 2021 il paese non figurava nemmeno nelle prime 15 posizioni.
Terzo,
secondo dati “Moe”x, per effetto delle sanzioni alla Russia, la quota del
renminbi nel mercato valutario russo è balzata nel 2022 da meno dell’1% al
40-45%, mentre quella del dollaro si è contratta dall’80% al 40% nello stesso
periodo.
Quarto,
il ministero delle Finanze ha deciso di raddoppiare al 60% la quota potenziale
riservata al renminbi nel suo fondo sovrano (National Wealth Fund) da 186,5
miliardi di dollari, azzerando invece le quote per la sterlina e lo yen.
Quinto,
i grandi gruppi industriali russi, Rosneft su tutti, hanno trovato nelle
obbligazioni denominate in yuan, quotate per la prima volta a livello locale,
un valido strumento di debito per solleticare l’appetito degli investitori
domestici e soprattutto asiatici.
Ora
anche Sberbank e lo stesso Cremlino starebbero vagliando una tale opzione per
finanziarsi nei prossimi mesi.
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