La scienza non è una religione.

 La scienza non è una religione.

 

 

La scienza è una religione?

  Losbuffo.com - Federico Lucrezi – (08/08/2017) – ci dice:

 

Mentre il relativismo culturale sfrenato imperversa, mentre omeopati, osteopati, anti-vax, e ciarlatani vari fanno proselitismo con successo, qualcuno dall’altra parte si pone una domanda.

Siamo in un gruppo Facebook frequentato da appassionati di scienza e cultura scientifica in generale.

Tra le migliaia di iscritti non ci sono solo laureati, dottori e professionisti ovviamente, ma anche studenti, curiosi e semplici interessati.

Quel che è certo è che nessuno tra gli iscritti si sognerebbe mai di ricorrere a trattamenti omeopatici o rifiuterebbe mai di far vaccinare il figlio.

È un caldo pomeriggio primaverile quando qualcuno pone un interessante spunto di riflessione al gruppo.

Da studente di fisica, non posso fare a meno di notare che nelle discussioni sulla scienza (non su argomenti scientifici, ma sulla scienza in sé) viene spesso manifestata da coloro che vi partecipano una fiducia spropositata nella suddetta disciplina.

La scienza viene vista come un’attività per liberi pensatori privi di pregiudizi, e viene spesso contrapposta alla fede, presentata come una vuota superstizione per poveri scemi che hanno paura della vita.

Gran parte di coloro che esaltano la scienza non hanno competenze in merito, e la loro fiducia in tale disciplina non è assolutamente diversa dalla fede religiosa.

 Non sto dicendo che la scienza è una religione, ma solo che per molte persone i due concetti non sono poi tanto differenti…

 L’obiezione è valida, la questione è interessante.

La fiducia nella scienza e nelle sue conquiste può coesistere con l’assenza di basi scientifiche solide?

C’è più legittimità nella scelta di vaccinare un bambino da parte di un laureato in biologia rispetto all’identica scelta di un filologo?

Una persona priva di competenze scientifiche che si affida alla chemioterapia con convinzione è sullo stesso piano di chi sceglie di curare un tumore con una dieta vegetariana avendo solo avuto più “fortuna” scegliendo di seguire ciecamente un medico anziché il blog del Beppe Grillo di turno?

Rispondere a queste domande in maniera affrettata e istintiva potrebbe portarci a credere che sì, la fede nella scienza senza una specifica laurea in tasca possa essere, appunto, fede.

Al pari degli omeopati.

La questione però è leggermente diversa.

È tutta questione di rispettare le regole del gioco.

 Quelle stesse regole che il relativismo culturale che si sta facendo sempre più spazio nella nostra società sta andando a insidiare.

Il metodo scientifico rappresenta una delle più grandi conquiste dell’uomo.

 Sviluppo di una teoria, sperimentazione rigorosa, studio dei risultati e validazione o meno della teoria.

 Non c’è spazio per idee valide solo un piano teorico.

Ma l’impostazione che Galileo ci ha regalato, le nostre regole del gioco, non è importante solo sul piano della ricerca pura, è determinante anche a livello sociale.

Il metodo scientifico.

Proprio grazie a questa impostazione oggi è possibile essere specializzati in tutt’altro campo e non doversi preoccupare di conoscere la medicina in maniera approfondita:

avere fede nella scienza non è un atto di fede gratuito, quasi religioso, al contrario è fiducia nel metodo scientifico quale grande conquista dell’uomo e, in modo traslato, nell’affidabilità di tutto ciò che è stato validato con rigorosa sperimentazione.

Questo è il motivo per cui specialisti che promuovono sedicenti cure alternative sono estremamente pericolosi nei danni che potrebbero fare a chi, giustamente ripone in loro fiducia.

Del resto relativizzare tutto questo, andare a porre sullo stesso piano procedure ampiamente validate e nuove metodologie più o meno naif è l’unico atto di fede.

Una fede decisamente mal riposta.

(Prima di obbligarci a mangiare bistecche sintetiche e farina di grilli sarebbe stato più opportuno sperimentare per anni questa “dieta strana”, ossia verificare con” metodo scientifico” gli eventuali danni arrecati dalla stessa dieta alla salute degli umani! N.D.R).

 

 

 

Via Libera ai “Nuovi Ogm”:

Sarà più Semplice “Avere”

 Cibo dal “Dna” Modificato!

 

Conoscenzealconfine.it – (13 Febbraio 2024) - Alessia Capasso – ci dice:

Con il “sì” del “Parlamento europeo” verranno semplificate le norme in materia di “Nuove Tecniche Genomiche”, per creare semi più resistenti al clima.

 I Verdi ottengono una piccola temporanea vittoria sui brevetti.

Il Parlamento europeo ha approvato la sua posizione sulle nuove tecniche per modificare il Dna delle piante.

Gli eurodeputati sono stati chiamati a votare sulla proposta relativa alle nuove tecniche genomiche (Ngt) che alterano il materiale genetico di un organismo e che potrebbe “rivoluzionare” il mondo dell’agricoltura (rivoluzioni che interessano solo gli eurocratinota di conoscenzealconfine.it).

 

La proposta, spinta da tutto l’arco della destra e da gran parte dei socialisti, era avversata dai Verdi, che alla fine sono riusciti ad ottenere a sorpresa l’approvazione di alcuni emendamenti importanti, come quello in cui si chiede il divieto di brevettare il materiale vegetale ottenuto tramite queste tecniche.

Un dettaglio da non sottovalutare in un settore dominato da poche multinazionali, che proprio dai brevetti ricavano una fetta enorme dei loro profitti.

Regole Diverse per le “Ngt” Rispetto agli Ogm.

Gli eurodeputati, chiamati ad approvare il loro mandato per i negoziati con i governi Ue, hanno adottato la posizione con 307 voti favorevoli, 263 contrari e 41 astensioni.

Attualmente per le piante ottenute con le “Ngt” valgono le stesse regole in vigore per gli organismi geneticamente modificati (Ogm).

I deputati hanno sostenuto la proposta della Commissione europea di prevedere due normative distinte, reputando differenti le due categorie.

Nella proposta le piante prodotte con modifiche genetiche di tipo 1 (tecniche di mutagenesi e cisgenesi mirate) sono considerate equivalenti alle varietà ottenute tramite tecniche convenzionali.

 Queste sarebbero esentate dalla maggior parte dei requisiti di sicurezza previsti dalla legislazione sugli Ogm, ma rispetto alla proposta di Bruxelles i deputati intendono emendare l’entità e il numero di modifiche genetiche necessarie affinché una pianta “Ngt” sia considerata equivalente a una pianta ottenuta con tecniche convenzionali.

Gli eurodeputati chiedono invece di continuare ad applicare le regole valide per gli Ogm alle piante” Ngt” di categoria 2.

In base al voto, tutte le piante” Ngt” dovrebbero continuare ad essere vietate nella produzione biologica, in quanto la loro compatibilità richiede un esame più approfondito.

Etichette sulle Confezioni.

Rispetto alla proposta della Commissione, il Parlamento ha chiesto maggiori garanzie sulla trasparenza e di mantenere l’etichettatura obbligatoria dei prodotti derivati dalle piante “Ngt.1e 2”.

 Gli eurodeputati hanno chiesto inoltre di creare un elenco pubblico online di tutte queste tipologie di piante.

 All’esecutivo Ue si chiede anche di presentare una relazione sulla percezione delle nuove tecniche da parte di consumatori e produttori sette anni dopo l’entrata in vigore della nuova normativa.

Per le piante di categoria “Ngt” di tipo 2, i deputati intendono invece mantenere la maggior parte dei requisiti della legislazione sugli “Ogm”, che rimane tra le più rigorose al mondo, prevedendo sia la procedura di autorizzazione che l’etichettatura obbligatoria dei prodotti.

Divieto di Brevetto.

A sorpresa rispetto alle posizioni iniziali, i deputati hanno chiesto di introdurre il divieto assoluto di brevettare le piante frutto delle Ngt di entrambe le categorie, il materiale vegetale, le loro parti, le informazioni genetiche e le caratteristiche dei processi in esse contenute.

 Al momento appena quattro aziende controllano tramite i brevetti oltre il 60% del mercato delle sementi a livello mondiale: “Bayer”,” Corteva”, “ChemChina”-“Syngenta” e “Basf”.

Se il divieto venisse confermato, si eviterebbero incertezze giuridiche, costi più elevati e nuove dipendenze per gli agricoltori da questi colossi del cibo.

La Reazione delle Organizzazioni Agricole.

“Il via libera alla “nuova genetica green No Ogm” permetterà di selezionare nuove varietà vegetali, con maggiore sostenibilità ambientale, minor utilizzo di input chimici, ma anche resilienza e adattamento dei cambiamenti climatici, nel rispetto della biodiversità e della distintività dell’agricoltura italiana ed europea”, ha dichiarato “Ettore Prandini”, presidente della Coldiretti, apprezzando il voto del parlamento.

“Le “Ngt” sono in grado di assicurare un fondamentale contributo per contrastare le conseguenze del cambiamento climatico, consentono di salvaguardare il potenziale produttivo, limitando allo stesso tempo la pressione sulle risorse naturali e il ricorso alla chimica”, ha scritto in una nota Confagricoltura.

 Le grandi organizzazioni agricole italiane, insieme al governo, sostengono da tempo la deregolamentazione in materia.

Delusione invece da parte dei gruppi ambientalisti come “Greenpeace”.

Piccole Vittorie a Sorpresa.

“In un momento in cui il mondo agricolo è in rivolta, chiedendo redditi dignitosi e strategie chiare per salvaguardare il futuro del settore, la maggioranza di questo Parlamento ha votato a favore di tecniche che non faranno altro che aumentare la dipendenza degli agricoltori dalle poche multinazionali che potranno investire in queste tecniche“, ha dichiarato” Benoît Biteau”, membro dei “Verdi-Efa” e primo vicepresidente della Commissione per l’agricoltura e lo sviluppo rurale del Parlamento europeo.

“Ci sono state molte pressioni a tutto campo in questi ultimi giorni”, è trapelato da una fonte dei Verdi.

Tuttavia, proprio su spinta del gruppo politico ecologista è stata ottenuta una maggioranza inaspettata a favore della tracciabilità e dell’etichettatura dei prodotti derivati dalle” Nuove tecniche genomiche”.

Questo punto si discosta dall’approccio delle altre due istituzioni, la Commissione e il Consiglio.

A breve l’Eurocamera si troverà a discutere per una versione finale del testo con i governi degli Stati membri, dove tutto sembra ancora in bilico, vista l’opposizione di Paesi a forte vocazione agricola come Austria, Germania e Polonia (ovviamente non dell’Italia… serva fino in fondo e fino all’autodistruzione! – nota di conoscenzealconfine.it).

(Alessia Capasso)

(europa.today.it/attualita/parlamento-europeo-vota-favore-ngt-ogm-dna-piante.html)

 

 

 

 

La scienza non è come la religione.

Paganini spiega perché.

Formiche.net - Pietro Paganini – (03/05/2020) - ci dice:

Non dobbiamo commettere l’errore di affidarci alla religione, che sia ideologia o scienza, ma al metodo della sperimentazione.

Perché ci consente più velocemente di considerare le condizioni che mutano e trovare soluzioni sempre migliori.

In questa fase di pandemia abbiamo trasformato la scienza in ideologia. Seguiamo religiosamente le indicazioni degli scienziati ai problemi legati al covid-19 come se fossero soluzioni definitive, dogmi.

 In nome della scienza, accettiamo che il governo promuova comportamenti che riducono la nostra Libertà di e da.

Siamo disposti a sospendere la Costituzione che fino a poco fa era - per molti - intoccabile, per preservare la salute secondo le indicazioni degli esperti (scienziati?).

Ci sorprendiamo però, che le soluzioni degli scienziati siamo spesso contrastanti.

 Così, quella verità scientifica a cui ci affidiamo traballa.

Da qui la confusione nostra e di chi governa.

E quindi la nostra frustrazione che però è facilmente spiegabile.

La scienza non è come la religione.

 Non propone soluzioni fisse.

 A problemi nuovi e complessi come il Coronavirus, può dare solo tante soluzioni non definitive che richiedono tempo per trovare mediante il controllo sperimentale un qualche impianto teorico più stabile.

Non dobbiamo commettere l’errore di affidarci alla religione, che sia ideologia o scienza, ma al metodo della sperimentazione.

Perché ci consente più velocemente di considerare le condizioni che mutano e trovare soluzioni sempre migliori.

Troppi cittadini e il nostro governo vogliono invece la soluzione definitiva.

Quella per cui si risolve tutto, in un colpo solo.

Ma non è così, e non sarà così.

 Il metodo sperimentale opera per prove ed errori.

La Scienza è un insieme di attività che si servono del metodo dello sperimentare una teoria per comprendere e risolvere problemi che riguardano l’uomo.

 L’oggetto della scienza è molto ampio perché coinvolge tutto quello che ci circonda e che ci sta dentro, ma anche le modalità con cui conviviamo tra di noi e con le cose e gli esseri viventi con cui interagiamo.

L’uomo è sempre il soggetto della scienza.

Affrontiamo problemi sempre diversi perché l’ambiente intorno a noi evolve e così anche noi.

Anche le soluzioni e la comprensione che abbiamo degli stessi problemi cambiano nel tempo, proprio perché nel tempo mutano le condizioni.

La teoria è la sistematizzazione di una serie di congetture, ipotesi, speculazioni o supposizioni che elaboriamo per spiegare un problema che osserviamo.

Le teorie non sono mai definitive perché non esistono soluzioni finite.

Ci possono sembrare tali, ma non lo sono.

 Infatti, sono un numero infinito le condizioni di diversità che possono riguardare quel problema.

Noi ne vediamo solo una parte.

Con lo scorrere del tempo ne emergeranno altre.

La scienza deve perciò promuovere la diversità.

Più prospettive ci sono e più siamo in grado di trovare soluzioni diverse che più ci avvicinano alla piena comprensione dei problemi.

Per farlo ci serviamo del metodo sperimentale.

 Di fatto, la Scienza è sperimentazione.

La sperimentazione non tende a confermare ciò che scopriamo, ma a scovare di volta in volta nuove condizioni che ci consentano di falsificare ciò che abbiamo osservato, ipotizzato e teorizzato fino ad allora.

L’ideologia e la religione si distinguono dalla scienza proprio perché negano la sperimentazione e la diversità su cui si fonda, perseguendo e proponendo soluzioni definitive sul mondo.

Il tempo, guarda caso, le smentisce.

 Infatti, le idee definitive circa un fenomeno si crepano appena le condizioni mutano.

Non sono più in grado di spiegarle.

Il Liberalismo invece, non insegue alcuna idea fissa.

Si distingue dalla religione e dalla ideologia perché si affida al metodo della sperimentazione e al tempo.

Per questo, i liberali vorrebbero che si sperimentassero soluzioni diverse e nuove alla così detta Fase 2 – della riapertura – dove le condizioni lo consentono.

La proposta è stata subito categorizzata in chiave ideologica, come volontà assoluta di riaprire tutto.

 Non potevamo aspettarci diversamente da chi ignora la sperimentazione e tende a voler definire tutto.

 È un errore, comprensibile.

La definizione che è all’origine della religione e dell’ideologia rassicura perché garantisce quella che sembra una soluzione certa.

Così è stato nella storia quando ci si affida alla religione per comprendere i fenomeni nuovi.

O all’ideologia per risolvere problemi sociali complessi.

 Si ricerca quell’idea che ci dà certezze.

 E la si affida alla burocrazia, a cui viene dato il compito di predisporre il piano, le regole, il controllo per realizzare il “mondo nuovo”.

Perciò la politica non aiuta i cittadini a realizzare idee e progetti, ma si sottomette alla burocrazia affinché concretizzi quello che la “religione della scienza ha rivelato”.

Non può essere così con il “Covid-19” (ed altre risorse mediche non sperimentate prima dell’impiego! N.D.R.)  

Dobbiamo sforzarci di riconoscere l’incertezza, rifuggire le facili definizioni, e avere il coraggio di sperimentare.

 Costa fatica e sacrifici, ma porta soluzioni migliori e rafforza le conoscenze.

 

 

 

 

Quando la scienza è una religione

la fede diventa pericolosa.

Ilfattoquotidiano.it – Ferdinando Boero – (18 ottobre 2020) – ci dice.

 

“Gli uomini di scienza sono l’incarnazione della barbarie mentale, proveniente dalla sostituzione degli schemi ai concetti, dei mucchietti di notizie all’organismo filosofico-storico”, così scriveva “Benedetto Croce” ne Il risveglio filosofico e la cultura italiana. E questo spiega la diffidenza verso la scienza che caratterizza la “cultura” italiana, visto che “Croce” disegnò i percorsi di formazione nel nostro paese.

Con queste parole in mente contestai un mio collega filosofo quando parlò di “scientismo”: l’eccessiva fiducia nella scienza.

 Eccessiva?

 e quale altro sistema abbiamo per acquisire conoscenza?

“Darwin” ha messo l’uomo dentro la natura, e” Copernico” ha messo la terra al suo posto nell’universo.

La scienza ha dato le risposte e gli scienziati sono diventati filosofi, cambiando la nostra visione del mondo e di noi stessi.

 

Ho cambiato idea, e ora per me scientismo è una parola ammissibile, anche se con qualche modifica rispetto all’accezione originale.

Vediamo perché.

Scienza, sbaglia chi non la ritiene importante: è cultura e ha una dignità. Nonostante gli Usa.

Il crescere della popolazione umana e uno stile di vita distruttivo modificano il pianeta, rendendolo inospitale per la nostra specie.

Gli scienziati che studiano gli ecosistemi e la biodiversità (ecologi, zoologi, botanici) dicono:

non possiamo crescere all’infinito e dobbiamo cambiare stile di vita, stiamo mettendo a rischio la nostra sopravvivenza.

Altri scienziati non chiedono di limitare la crescita e sviluppano nuove tecnologie, in grado di infrangere i limiti e permettere una crescita senza fine.

Non a caso la “crescita” continua ad essere il perno dei programmi di tutti i governi, anche se ora c’è maggiore consapevolezza della necessità di sostenibilità.

Le soluzioni proposte per mantenere la crescita sono più tecnologiche che scientifiche:

consistono in pratiche agricole sempre più efficienti, con organismi geneticamente modificati per crescere in fretta e resistere ai parassiti o ai veleni che usiamo per distruggere i parassiti stessi.

Queste pratiche prevedono che la biodiversità sia eradicata e che, al suo posto, crescano soltanto le specie che soddisfano i nostri bisogni immediati.

 Una minima conoscenza di come funzionano gli ecosistemi dovrebbe far capire che le cose non possono andare in questa direzione.

Infatti, nel 2015, “Papa Francesco” pubblica “Laudato Si”, un’enciclica rivoluzionaria.

La massima autorità di una delle più importanti religioni propone all’umanità intera di convertirsi alla scienza.

Anzi, a una scienza: l’ecologia.

Non era mai avvenuto prima: la religione aveva sempre guardato con diffidenza al progresso scientifico, basti pensare a “Galileo”, o a come furono accolte le idee di “Darwin”.

L’enciclica di “Francesco”, e la conversione ecologica che propone, dovrebbe essere il tema principale delle ore di religione impartite nei percorsi scolastici, e dovrebbe essere letta e commentata in tutte le funzioni religiose.

 E invece no.

 L’ecologia non è una formale materia di insegnamento, pur essendo la disciplina che ci spiega come funziona il mondo vivente e quali sono i rapporti tra le specie, inclusa la nostra.

 Le Nazioni Unite, intanto, pubblicano documenti che denunciano il rischio che un milione di specie si estingua nei prossimi 30 anni.

Nonostante questo la fiducia che la scienza possa risolvere i problemi permane in molte porzioni della popolazione.

Se consumeremo questo pianeta… poco male:

in un post precedente ho parlato degli scienziati che propongono di risolvere il problema trasferendoci su altri pianeti, dopo aver consumato questo.

Ecco, questo è scientismo.

E la scienza diventa una religione.

 

Costruire un’arca di “Noè 2.0 “e trovare un “Pianeta B”.

Un altro sogno degli astrofisici.

Non si ha fede in un essere superiore che ci salverà, ma in soluzioni che prima o poi la scienza troverà.

 Ora non ci sono ma, se investiremo risorse sufficienti, le troveremo.

Non ci piace chi propone problemi, ci piacciono le soluzioni!

Le risposte a quel post sono state rabbiose.

 Sono stato attaccato e insultato da lettori che mi hanno spiegato quanto sia grande il progresso scientifico, accusandomi di profonda ignoranza.

In effetti il mio post parlava proprio di ignoranza:

 ignoranza di come funzionino gli ecosistemi e la biodiversità nel permettere i processi che rendono possibile la nostra vita.

 Siamo all’apice di una parabola:

una posizione molto pericolosa, visto quello che viene dopo l’apice della crescita.

 Lo scientismo si è manifestato anche con il progetto genoma, quando ci promisero che tutti i problemi sanitari sarebbero stati risolti una volta decodificato il nostro patrimonio genetico.

Promessa esagerata.

Mettere in dubbio una fede è pericoloso e i miscredenti sono oggetto delle critiche più feroci.

 Ora sarò attaccato da chi mi spiegherà l’importanza della genetica, così come sono stato attaccato da chi mi ha spiegato l’importanza dell’astrofisica.

Mi spiego meglio:

non nego affatto l’importanza di ogni branca della scienza, nego che una sola branca della scienza possa farci capire “tutto”, e che la tecnologia possa risolvere “tutto”.

Ogni branca della scienza mette in luce i limiti delle altre branche.

Lo scientismo, quindi, è la fede che una scienza possa essere la chiave che risolve tutti i problemi, magari producendo una magica equazione del tutto.

Questo mi convince sempre di più che l’uomo ha estremo bisogno di una religione, e se una religione chiede la conversione alla scienza, portandoci con i piedi per terra, ecco che la scienza diventa una religione.

Dalla terra promessa siamo ora al pianeta promesso e, ovviamente, alla crescita eterna, senza limiti.

 Verso l’infinito e oltre!

(La scienza non dice che la “CO2”- pur essendo un gas serra più pesante dell’aria – non possa volare miracolosamente nell’alta atmosfera  ed entrare nella “serra dei gas serra”  che provocano il risaldamento globale della Terra organizzato- però - dal sole.

Ma le multinazionali che si “approfittano della scienza organizzata dai loro servi multimilionari” fanno credere ai popoli della scoperta della “transizione ideologica” che frutta enormi quantità di ricchezza solo alle stesse multinazionali tramite il meccanismo CBAM ossia “ Carbon Border (co2) adjustment  mechanism” !N.D.R).

 

 

Marcello Veneziani. La scienza

è ricerca, non è fede.

Raicultura.it – (17 maggio 2023) – Marcello Veneziani – ci dice:

 

Tornare ad una visione umanistica del sapere.

 Marcello Veneziani, intervistato nel corso della XII edizione della Festa di Scienza e di Filosofia-“Virtute e Canoscenza”, che si è svolta a Foligno e a Fabriano dal 20 al 23 aprile 2023, parla del tema della sua conferenza “La scienza è ricerca, non è fede”.

Chi dice di credere nella scienza, la riduce a superstizione.

 Non si crede nella scienza, perché la scienza è ricerca incessante, i suoi risultati sono sempre provvisori, mai assoluti e il suo campo di studi è il regno del come, non quello del perché, con tutte le sue incertezze, di cui si occupano invece la teologia e la teleologia, l'ontologia e la filosofia.

La scienza non sostituisce né vanifica la religione, come l'arte o il pensiero.

 Può formare o confutare giudizi ma non pre-giudizi.

Contro "la barbarie dello specialismo" (Ortega y Gasset) ogni grande ricerca scientifica si connette alla storia, al mito e al sapere umanistico.

La preoccupazione è che la scienza possa costituirsi in scientismo, ossia in una forma ideologica, quasi fideistica, che rifiuta il confronto con altri ambiti del sapere.

La conoscenza che è propria della scienza non può essere sostituita dall’idea di trasformazione del mondo, la scienza, che ha una sua dignità autonoma, non può essere subordinata completamente alla tecnica, si applica alla tecnica ma non si risolve nella tecnica.

La scienza dovrebbe studiare la natura e non tentare di superarla o addirittura di abolirla all’insegna di una seconda virtuale natura prodotta esclusivamente in laboratorio.

Se la scienza intende elevare le condizioni dell’uomo svolge un ruolo fondamentale, se invece intende porsi il problema di superare l’umanità e di dar luogo ad esperienze transumane e postumane il risultato è quello dell’alienazione integrale.

 Si intraprende così una strada che dalla scienza passa al dominio assoluto della tecnica e dalla tecnica passa all’espropriazione totale dell’umano.

Bisogna recuperare un rapporto organico della scienza con la natura e con l’umanità, tentando di rileggere la scienza alla luce di una visione umanistica della realtà, comprensiva anche dei limiti della scienza e riconoscere di non poter fare tutto quello che ci è consentito fare attraverso la tecnica.

Come nella visione dantesca la conoscenza deve essere correlata alla virtù, virtù e conoscenza insieme si limitano e si arricchiscono nello stesso tempo.

(Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. Proviene da studi filosofici. Ha fondato e diretto riviste tra cui L’Italia Settimanale e Lo Stato. Ha scritto su vari quotidiani e settimanali: dal Corriere della Sera a La Repubblica,  La Stampa, Libero, Il Messaggero, Panorama. Ha scritto a lungo su Il Giornale, chiamato da Montanelli e poi da Feltri, dove ha tenuto per anni la rubrica in prima pagina Cucù. È commentatore della Rai.

Ha scritto vari saggi tra i quali “La rivoluzione conservatrice in Italia”, “Processo all’Occidente”, “Comunitari o liberal”, Di Padre in figlio. “Elogio della Tradizione”,” La cultura della destra e La sconfitta delle idee” (editi da Laterza). I” Vinti”, Rovesciare il ’68, “Dio, Patria e Famiglia£. “Dopo il declino” (editi da Mondadori).

 

 

 

 

"Lo dice la scienza": un culto

 materialista e anti-scientifico.

Lanuovabq.it -Enzo Pennetta – (11-12-2021) – ci dice:

 

“Lo dice la scienza”: questa è una delle frasi che maggiormente è entrata nell’uso comune negli ultimi anni.

Da un punto di vista scientifico, non esiste "la scienza", esistono semmai gli scienziati.

 I quali, proprio perché adottano un metodo scientifico, sono sempre pronti a mettersi in discussione.

 Lo scienziato è umile di natura, un'affermazione è scientifica solo se un domani può essere dimostrata falsa.

Tuttavia, sin dai tempi di Bacone, esiste un'idea di scienza che si sostituisce alla religione, come spiegazione del tutto.

Ed è questa visione che prevale, sia tra i comunisti orfani del comunismo, sia tra i cristiani che si sentono "adulti".

“Lo dice la scienza”: questa è una delle frasi che maggiormente è entrata nell’uso comune negli ultimi anni e sempre più in nome della scienza vengono prese decisioni su ogni aspetto della vita sociale. Questo rende necessario chiarire cosa essa significhi veramente o se abbia realmente un senso.

Innanzitutto va detto che non esiste un soggetto denominato “la scienza”, esistono invece persone identificate come “scienziati” che pronunciano delle affermazioni che sono scientifiche proprio in quanto passibili di confutazione.

Il filosofo “Karl Popper “insegnava che un’affermazione non può essere ritenuta scientifica se non fornisce una possibilità di essere dimostrata falsa.

Impedire l’espressione di voci critiche, eventualmente con la giustificazione della non adeguatezza dell’interlocutore, è quindi una contraddizione, se ci si vuole muovere nell’ambito del metodo scientifico.

Il vero scienziato inoltre risponde a tutti, deve potersi spiegare anche con persone non competenti di media cultura, una frase attribuita ad “Einstein” afferma “Non hai veramente capito qualcosa, se non sai spiegarla a tua nonna”.

Il vero scienziato poi non è mai arrogante, questo contrasta visibilmente con l’atteggiamento spesso irridente di alcuni esponenti della scienza che vengono chiamati a confrontarsi pubblicamente riguardo temi di impatto sociale, il premio Nobel per la fisica “Richard Feynman” affermava che “Scienza è credere nell’ignoranza degli esperti”.

“Lo dice la scienza” in quanto affermazione dogmatica non solo è per ciò stesso antiscientifica, ma è una frase resa possibile solo da un lento, ma continuo, lavoro di abbassamento del livello scolastico che ha portato a trasmettere nozioni sempre meno comprese, fino a raggiungere un valore dogmatico.

Un fenomeno descritto dallo scrittore “Aldous Huxley “nel suo “Il Mondo Nuovo” quando, riguardo all’educazione scientifica impartita, fa dire ad un suo personaggio:

 “Voi non avete ricevuto una cultura scientifica e di conseguenza non potete giudicare”.

 La cultura scientifica è una cultura del dubbio ed è l’opposto della fede nella scienza.

La fede nella scienza sperimentale va contro il suo fondatore “Galileo Galilei”, grazie al quale venne superato il principio di autorità, l’ipse dixit, da quel momento nessuno avrebbe potuto più argomentare con un “è vero perché lo dico io che sono l’autorità”.

Ma negli stessi anni la scienza diventava uno strumento di potere nell’opera di “Francis Bacon” che, nella sua utopia “La Nuova Atlantide”, indicava gli scienziati come nuovi sacerdoti e guide della società.

La scienza, in Bacon, diventa una fede surrogata che può sostituire la politica e l’ideologia.

Questo è avvenuto, ad esempio, con la fine del comunismo quando un” sistema mitopoietico scientista” ha preso il posto dell’ideologia marxista.

Il carattere, necessariamente in comune, per questa sostituzione è la pretesa di offrire una salvezza:

 si passa dalla salvezza di classe del comunismo a quella fisica della scienza sperimentale, entrambe unificate nel materialismo.

La scienza diventa fede quando pretende, e soprattutto quando le viene riconosciuto, il diritto di diventare spiegazione dell’intero quadro del reale dimenticando che il limite epistemologico della scienza sperimentale è proprio posto nell’impossibilità di fare affermazioni di senso.

Accettare una scienza come spiegazione di tutto è compiere una scelta di fondo che nega il senso.

Jacques Monod” nel suo “Il caso e la necessità” poneva come base della scienza il postulato di oggettività cioè il rifiuto sistematico a considerare la possibilità di pervenire ad una conoscenza vera mediante qualsiasi interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali”,

 affidarsi alla scienza per spiegare il mondo presuppone quindi come scelta iniziale l’abbandono di una ricerca di senso.

La scienza come strumento unico o sovrano per assumere decisioni sulla vita politica e sociale di una popolazione è dunque in sé la scelta di una mancanza di senso e in definitiva la negazione di una umanità che attribuisce un valore all’etica, al trascendente e a ciò che è propriamente umano, è una delega a costruire una società su principi biofisici.

 La società scientista come surrogato della religione ha bisogno di proprie tavole della legge da venerare e rispettare, di sacerdoti e santoni con tuniche bianche, di individuare trasgressori ed eretici, di mantenere i rituali propri della società religiosa e sviluppare un linguaggio proprio fatto di termini, simboli, gesti che hanno una valenza di identificazione e riconoscimento.

Lo scientismo ha attratto gli orfani del marxismo e per questo viene fatto proprio anche oggi da chi da quella tradizione proviene.

 “Vota la scienza” è stato significativamente lo slogan di un partito in una recente campagna elettorale.

 Il rischio dell’affermarsi dello scientismo come sostitutivo riduttivo di una teoria sul mondo diventa reale quando una precedente visione entra in crisi o semplicemente si indebolisce, una frase riferita alla fine del comunismo affermava:

“Baffone ci ha lasciati nei pasticci… non ci resta altro che la prospettiva di modernizzare il Paese”.

Il rischio di uno slittamento analogo può nascondersi anche in una visione religiosa che si rivolge troppo al sociale distraendosi dal trascendente, che si fa discorso politico, una religiosità “adulta” che si occupa prevalentemente dei corpi non riconoscendo più i bisogni profondi dello spirito, che guarda al progresso pensando che la tradizione sia qualcosa di un passato da superare e forse da dimenticare.

Dopo che ‘Baffone’ ha lasciato nei pasticci il comunismo la scelta di volgersi verso lo scientismo potrebbe apparire la prospettiva anche di una religiosità delusa e ridotta a dottrina sociale, allora il sentiero percorso dagli orfani del comunismo potrebbe essere condiviso da un cristianesimo stanco, ripiegato sul sociale e troppo fiducioso in una salvezza biologica che proviene dalla scienza.

 

 

 

La scienza e la ricerca di Dio.

Focus.it -Redazione – (16 settembre 2018) – ci dice:

 

C'è parentela tra scienza e religione o vivono su pianeti diversi?

La scienza può dire la sua sull'esistenza di Dio?

 Dio esiste?

Per gli uomini di fede la domanda non si pone proprio, ma per la scienza?

Può la "scienza", così come la intendiamo oggi, indagare questo ambito - e arrivare a una risposta?

La questione non è nuova, e non è un caso che nel corso dei secoli filosofi e pensatori di ogni credo e partito abbiano versato fiumi d'inchiostro per... raccontare giusto il loro pensiero.

Quello che proponiamo qui è solamente un piccolo frammento di questa discussione infinita sui come (e sui SE) la scienza e gli scienziati (che presi uno per uno possono essere credenti o meno) possano arrivare a un'ipotesi condivisa sull'esistenza o la non-esistenza di Dio.

FISICA: “LA SCIENZA PURA”.

Tempo fa l'idea che la scienza sia in grado di dare una risposta alla questione ha ripreso vigore, complice, forse, “la scoperta del bosone di Higgs”, la cosiddetta particella di Dio ("cosiddetta male", perché è un'espressione giornalistica decisamente sgradita agli scienziati), che dimostra piuttosto l'esistenza del “campo di Higgs “(appunto), il quale permea l'intero Universo e con il quale tutte le particelle interagiscono e, così facendo, acquisiscono la loro massa.

Al di là della fisica, è una scoperta intrigante, che alla lontana e in qualche modo, giustifica il nome, particella di Dio, evitato come la peste dagli scienziati ma non dagli "uomini", perennemente alla ricerca di qualcosa che li trascenda.

Fino a che punto la scienza può spingersi nel dimostrare l'esistenza o l'inesistenza di Dio?

UN'INVENZIONE UMANA.

La questione si potrebbe forse risolvere con la logica, ma la cosiddetta prova regina nessuno l'ha ancora trovata.

La scienza e la ricerca di Dio.

Ogni minuto nel mondo muoiono almeno 100 persone:

 ogni anno se ne vanno 55,3 milioni di terrestri, principalmente per ictus e ischemie.

Fino al 2011 avevano vissuto sulla Terra, e dunque erano morte, 108 miliardi di persone:

i viventi sarebbero quindi "solo" il 6,8% dell'umanità intera.

Di che cosa si muore?

“Un esempio.

“Emily Thomas” (filosofa, università di Durham, UK) scriveva che la vastità dello Spazio è la dimostrazione lampante che

 «Dio non esiste: l'Universo ha oltre 13 miliardi di anni, la Terra circa quattro miliardi di anni e gli umani si sono evoluti circa 200.000 anni fa... l'equivalente di un battito di ciglia rispetto ai tempi dell'Universo.» Eppure il dio delle religioni è sempre "antropocentrico", concentrato sugli esseri viventi.

«Come possiamo spiegarlo?

 La risposta più semplice è che Dio non esista».

Si può dunque, scientificamente, essere certi che quella di Dio sia una costruzione umana?

 

CREDENZE E RELIGIONI.

Per i credenti l'esistenza di Dio non ha bisogno di prove né di giustificazioni: è un atto di fede, e la sua esistenza si riconosce nel creato.

L'essere divino, inoltre, si rivela solo a chi è predisposto ad accoglierlo.

Anche in questo caso, riflettono alcuni scienziati, qualche considerazione di carattere storico può (forse) aiutare.

Religioni dell'antropocene: venerare un'intelligenza artificiale.

Noi oggi sappiamo con certezza da quando gli uomini hanno iniziato a farsi delle domande su misteri, spiriti e divinità.

 Reperti del paleolitico (il primo periodo della preistoria: corrisponde al Pleistocene, ossia da 2,5 milioni a 10.000 anni fa) suggeriscono che i nostri lontani parenti adoravano varie entità.

Si ritiene che l'idea di "grandi divinità" - ossia singolari esseri in grado di punire o premiare, specialmente nell'aldilà - iniziò a farsi strada appunto 2,5 milioni di anni fa, con lo scopo di spiegare, ma anche di rafforzare, unire, spaventare e via dicendo.

L'idea di un premio, un "paradiso", aiuta infatti gli individui a essere più cooperativi e le comunità a prosperare.

Tuttavia, storicizzare la nascita delle religioni non basta a dimostrare che Dio sia un'invenzione umana.

 

La scienza e la ricerca di Dio.

Prima dell'invenzione dello stetoscopio, la sepoltura anzitempo era un problema frequente, come appare dalle disposizioni testamentarie lasciate da molti nella seconda metà del Seicento:

 si chiedeva che il cadavere fosse tenuto in osservazione per tre giorni. Nell'Europa del XIX secolo esistevano ancora gli "ospedali per i morti", dove gli infermieri controllavano i corpi in attesa di segni di putrefazione.

L'ALDILÀ E I MIRACOLI.

Allo stesso modo, non conferma la tesi opposta chi sostiene di aver avuto esperienze di pre-morte e di aver conosciuto per brevi istanti un aldilà di luce e serenità.

A dispetto di ciò che raccontano romanzi e film, questa condizione ai confini della morte è indagata dalla scienza perché decretare una morte è spesso più complesso di quanto si pensi, e gli studi contemplano l'uso di sostanze allucinogene - che pare inducano esperienze analoghe agli stati clinici di pre-morte.

Romanzi e film ci giocano parecchio, ma la verità è che nessuna di queste ricerche si è mai sognata di indagare un ipotetico aldilà, né di dare una risposta alla fatidica domanda con la quale abbiamo iniziato.

Nessuno scienziato ha mai neppure potuto confermare un miracolo: storicamente, la maggior parte di ciò che veniva definito "miracolo" è stato col tempo spiegato alla luce di nuove conoscenze (e ciò che ancora non è spiegabile potrebbe esserlo in futuro).

E quindi?

Quindi niente, siamo esattamente al punto di partenza.

 Stai a vedere che dobbiamo pure dare ragione a “Friedrich Nietzsche”, che un secolo fa scriveva:

"In realtà fra la religione e la vera scienza non ci sono parentele, né amicizia e neanche inimicizia: vivono semplicemente su pianeti diversi".

 

 

 

 

La vecchia religione è morta,

sostituita dalla nuova:

“la scienza”.

Ilpiacenza.it – Redazione – (29 maggio 2023) – ci dice:

 

Il “verbo” oggi è la scienza, anzi la “gnosi scientifica”.

Una illuminazione della mente che spiega il significato delle cose, attraverso procedimenti conoscitivi mentali, anche di natura misterica.

 Il risultato è che per significare una verità, oggi bisogna scomodare l’aggettivo scientifico.

 Infatti di questo termine tutti ne abusano.

Così dicendo, bisogna allora scomodare il concetto di verità.

 Vietato infatti non sapere cosa essa sia.

 È questa una dimensione della mente diventata terrena che ha sconfitto quella rivelata.

Considerata non più moderna e soprattutto non più degna di una fede soprannaturale.

Infatti ogni cosa si è secolarizzata, perché tutto è immanente nei luoghi in cui viviamo.

Tutto questo per intendere in una sola parola la terra.

Ma attenzione nel mondo esiste l’uomo e questo rappresenta un problema.

È pur vero che attraverso la scienza propone di spiegare le cose, ma è altrettanto vero che la scienza spesso non sembra ubbidire alle aspettative legate alle nuove esigenze, che del passato religioso non intendono curarsi.

In quanto la religione viene considerata estranea alla mente, diventata secondo la visione scientifica, la parte secolarizzata di quello che un tempo si chiamava anima.

Se dunque la scienza è tutto, non si spiega la contraddizione che l’ha colta specie nelle due tragedie recenti che ci hanno riguardato.

 Ed intendo parlare in successione della pandemia da covid e dell’attuale inondazione dell’Emilia Romagna.

 In entrambi i casi la scienza con la sua presupponenza, per rimanere in terra romagnola, ha fatto acqua.

 Sul problema del covid le opinioni scientifiche si sono prodotte in quantità.

Tuttavia con esiti alquanto discutibili.

 La prova della sua insufficienza ha riguardato sia la eziologia della malattia che la cura.

Ogni giorno in tv, uno scienziato diverso con la sicumera della sua presunta preparazione virologica, proponeva soluzioni proprie che poi venivano contraddette da altri in corso d’opera o meglio in corso di pandemia.

Non solo.

Ma i pareri erano tali e quali che invece di rasserenare l’ambiente e tranquillizzare i pazienti, suscitavano continui episodi di disaffezioni o di rifiuto.

Il meglio infatti dopo una proposta di cura con” tachipirina e vigile attesa”, che fortunatamente non è stata disattesa da medici coscienziosi, sì è espresso sulle vaccinazioni.

Di cui ancora adesso si dubita, sia sul tipo di vaccino, sia sul numero.  Tutto questo per non parlare delle complicanze vaccinali che per quanto sottaciute, alla fine sono diventate di dominio pubblico, giustificando, per questo motivo, la nascita degli scettici.

In particolari delle persone definite no-vax, in quanto non favorevoli a dover dare il braccio al vaccino.

 Ebbene cosa è successo?

Che la scienza diventata religione non poteva accettare di essere messa in discussione.

Infatti ogni vertà o meglio ogni dogma non si discute.

 Si accettano al massimo le complicanze se ritenute eccezionali, ma appunto perché tali queste non possono mettere in discussione la loro paternità. 

Chi lo fa, si assume non solo le sue responsabilità personali, ma anche quelle pubbliche, in quanto non conforme e rispettose della verità scientifica.

 Ecco allora che il contestatore diventa il discriminato, l’untore di manzoniana memoria.

 Un individuo insomma pericoloso che non può vivere in comunità col rischio di far ammalare gli altri.

Ed anche se questo evento del contagio non solo non è mai stato dimostrato, ma perfino negato, il reietto è sempre da considerarsi un colpevole a prescindere.

In quanto col suo comportamento ostacola” il progresso”.

Costituito dalla “gnosi scientifica” che per quanto possa subire qualche iniziale tentennamento in fatto di risultati non sempre favorevoli, in prospettiva non può fallire, assicurando a tutti benessere e longevità.

Fino ad ora ho parlato del covid, ma adesso è giunto il momento di entrare nell’attualità e mi riferisco all’inondazione dell’Emilia Romagna.

Fra i due tragici eventi qualche differenza esiste.

Nel primo caso la scienza ha vacillato, ma alla fine nonostante alcuni processi intentati contro di essa, non ha compromesso la sua natura di certezza assoluta e quindi religiosa.

Nel caso invece dell’inondazione, la scienza, per non dimostrare incertezze e dubbi, ha assunto la maschera della politica.

 E questa ha offerto ogni spiegazione, naturalmente scientifica sull’accaduto.

Quale infatti la causa dell’evento?

Un dissesto idro geologico dovuto ad una modificazione climatica a sua volta determinata dall’aumento della temperatura del globo a causa dell’attività dell’uomo.

Un essere questo che violenta la natura con i suoi prodotti di rifiuto. Rappresentati dall’immissione in circolo di “Co2” per l’uso di motori termici e di caldaie inquinanti.

 Per non parlare di deforestazioni e di sostituzioni di terre agricole con insediamenti industriali o di abitazioni costruite in terre un tempo alluvionali.  

Quindi cementificazioni indiscriminate al posto del verde.

 Insomma quello che un tempo era un eden o per dirla in chiave religiosa il paradiso terrestre di Adamo ed Eva, ora si è ridotto ad un luogo di distruzione e di prevaricazione umana che in futuro evolverà verso una temuta Apocalisse, secondo il parere degli ecologisti che ambiscono al trionfo di una natura incontaminata.

Giungendo addirittura a sostenere la teoria dell’economista “Thomas Malthus”, riguardo alla possibilità della riduzione della componente umana sulla terra, perché responsabile di ogni delitto dell’ambiente naturale idealizzato.

Tutto questo, politicamente sostenuto da verdi e sinistra, lo sta a dimostrare la scienza.

Tanto che, secondo loro, è perfettamente inutile riportare analoghi episodi del genere subentrati nei decenni scorsi.

 Quando dell’inquinamento e del riscaldamento climatico nessuno ne parlava.

Altra mentalità quella di allora.

La scienza non era ancora preparata ad intendere gli eventi secondo l’attuale e giustificativa visione politica ed ora li intende offrendo la certezza di una causa in cui scienza e politica si appoggiano a vicenda.

Infatti, questo è il tema, la secolarizzazione riguarda ogni aspetto del vivere.

 Ed allora se la scienza mostra qualche incertezza, ci pensa la politica ad indirizzarla verso quel “pensiero unico” che piace un po’ a tutti.

 In quanto la paura del contradditorio diventa più indigesta di una tesi unica accettata a maggioranza.

Dunque inutile insistere mettendo in discussione questa strana surrettizia alleanza in fatto di principi e cause.

Perché come è già stato detto a proposito del Covid, chi lo fa è un essere asociale, un pericoloso negazionista, un individuo malato di protagonismo, quindi di una forma psichica, di una più o meno latente forma di pazzia.

Per questo se uno scienziato dice il vero politico e mi riferisco per fare un esempio, al fisico “Giorgio Parisi” a proposito delle “modificazioni climatiche”, non conta niente il parere opposto di “Franco Prodi”, meteorologico di fama, che invece ritiene l’uomo, per le ragioni esposte, la causa del disastro ambientale indipendentemente dal riscaldamento climatico che per lui c’entra poco o niente.

 Chi sarebbe allora costui? 

Direbbe un certo “don Abbondio” a proposito di un certo “Carneade”.

E mi riferisco a “Franco Prodi” da parte dei seguaci della nuova fede, che o non lo conoscono o non lo considerano degno di attenzione per aver osato mettersi di traverso contro il nuovo verbo.

Ho parlato di scienza come religione.

Ma ancora non è finita.

Infatti succede per chi osasse metterla in dubbio, che la religione scientifica diventa politeista causa una seconda divinità.

Trattasi della “Madre terra deificata” e per questa ragione vendicativa nei confronti dell’uomo che si è dimostrato nei suoi confronti egoista e malvagio.

Ebbene in chiusura, un cenno deve essere rivolto della vecchia religione per domandarci quale è stata la sua fine.

 La risposta è secca.

La secolarizzazione è stata la causa del suo triste destino.

 Perché in questo modo ha permesso di eleggere, a pari merito in materia di fede, la scienza.

Che manifesta il vantaggio di poterla vivere e addirittura toccare con mano attraverso soddisfazioni terrene, senza il bisogno di ipotizzare il cielo.

Attraverso una visione ultraterrena che da semplice ipotesi, ha la necessità per diventare certezza, del sostegno di una fede, ostacolata oggi dalla secolarizzazione.

Che significa in pratica la comodità del vivere.

In sintesi chiediamoci se sia da considerarsi plausibile quanto ho detto.

E cioè che esiste solo un’unica verità, quella scientifica?

Ammesso che sì, poiché non mi piace “il pensiero unico”, cito a mio vantaggio “Benedetto Croce” a proposito di scienza e verità.

Questo il suo pensiero che trascrivo:

la scienza non può essere la verità, in quanto è solo una organizzazione e catalogazione di eventi empirici”.

Vi basta aver inserito il dubbio?

A me sì.

 

 

 

Paura della scienza,

dalla religione ai no-vax.

Scienzainrete.it - Renata Tinini – (12/10/2022) – ci dice:

SALUTE.

Non stupisce che gli evangelici siano contro la scienza.

L’interpretazione letterale delle Sacre Scritture rappresenta un forte legame identitario nei gruppi cristiani che si sentono minacciati dalla laicizzazione della cultura.

Nella “Bible Belt”, che va dal “Kansas alla Louisiana”, l’evoluzionismo è una teoria al pari di quella creazionista e, per salvare il racconto della Bibbia, si può insegnare che l’universo sia stato creato 6.000 anni fa, che le leggi della fisica non siano costanti nel tempo e che i dinosauri continuassero a circolare fino al Medioevo, come d’altra parte dimostrerebbero le pitture che raffigurano “San Giorgio e il drago”.

Paura della scienza.

 L’era della sfiducia dal creazionismo all’intelligenza artificiale (Treccani, 2022), di “Enrico Pedemonte”, è un viaggio “nei luoghi dove si annida la paura nella scienza”, un viaggio fatto di persone e di incontri, di battaglie vinte e perse, di riflessioni su soggetti e oggetti dell’impresa scientifica.

La recensione è di “Renata Tinini”.

Conoscendo le leggi spietate del profitto, possiamo capire che gli industriali siano stati spesso contro la scienza.

 Il marketing delle aziende è riuscito, nel corso dell’ultimo secolo, a vendere soluzioni radioattive per curare l’artrite e il diabete, a reclamizzare i raggi X contro la depressione e dentifrici al radio per denti più bianchi, nonostante i danni delle radiazioni fossero già ampiamente noti.

 Le strategie utilizzate dall’industria, pur nelle diverse declinazioni, condividono una tecnica: disinformare.

Lo fa l’industria del tabacco che semina dubbi sull’effettiva dannosità del fumo con investimenti milionari in progetti destinati a creare incertezze e scetticismo tra il pubblico, lo fa l’industria degli aerosol che difende i CFC erigendosi a paladina del capitalismo e del libero mercato contro gli scienziati bolscevichi che, a detta degli stessi industriali, vorrebbero minare l’”American way of life”.

E lo sta facendo ancora per ammorbidire la necessaria transizione climatica.

Che anche gli ambientalisti siano stati a più riprese contro la scienza è una conseguenza della polarizzazione emotiva che si è creata relativamente al rapporto uomo-natura e al nostro diritto di manipolare il vivente.

 Possiamo brevettare esseri viventi?

Il “Golden Rice” salverà veramente la vita di milioni di bambini o le aziende biotech ci stanno ricattando per conquistare nuovi mercati?

Possiamo fidarci della “Monsanto” che durante la guerra del Vietnam produceva il defoliante usato dalle truppe americane contro i vietcong?

I no-vax hanno ovviamente sfiducia nella scienza.

Alcuni perché credono ancora nella validità dello studio di “Andrew Wakefield” sulla correlazione tra vaccini e autismo, nonostante sia stato ampiamente e più volte smentito.

Altri perché vedono nei vaccini, soprattutto in quelli recenti contro Covid-19, “armi biologiche”, o addirittura “armi di distruzione di massa”, in un cortocircuito tra posizioni anti potere e anti scienza che dilaga grazie alla pervasività dei social.

Talvolta le posizioni si mescolano:

 gli evangelici sono no-vax perché i vaccini sarebbero sviluppati con feti abortiti, chi diffida del capitalismo guarda con sospetto alla velocità con cui sono stati creati i vaccini.

I filosofi spesso si sono distinti per la pratica del sospetto. In questo esercizio del dubbio metodico, talvolta l’esito non sono le cartesiane idee chiare e distinte ma un attacco al potere che userebbe la scienza per instaurare uno stato d’eccezione, arrivando a paragonare il “Green Pass” alle leggi razziali, come recentemente sostenuto da “Giorgio Agamben”.

La scienza è la nuova religione da abbattere, strumento subdolo del totalitarismo che controlla attraverso la medicina il corpo vivente di noi umani.

Siamo lontani anni-luce dall’esaltazione illuministica della scienza, grimaldello contro la superstizione e viatico kantiano per “l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità”.

La lettura sociologica derubrica il discorso scientifico a narrazione, a costruzione intersoggettiva socialmente condivisa.

“Bruno Latour” - appena mancato - ha contribuito a seppellire le pretese di verità e oggettività.

 La post-verità non aiuta la scienza.

Ma il vero affondo di “Enrico Pedemonte” al lettore di “Paura della scienza”.

L’era della sfiducia dal creazionismo all’intelligenza artificiale (Treccani, 2022) arriva al sesto capitolo, dove ci viene detto che anche gli scienziati sono contro la scienza.

 L’ossimoro non vuole seminare sconcerto ma riportare lo scienziato alla sua umanità, che in questo caso va intesa come fallibilità.

Gli scienziati sbagliano, mentono, truffano, manipolano.

Non tutti, anzi pochissimi, ma ne basta uno per incrinare il santino.

 Gli scienziati devono pubblicare tanto e in fretta, le “peer review “non sono sempre attendibili, la crescente privatizzazione della ricerca scientifica fa sì che la si associ al potere e non al bene pubblico.

Sono i finanziamenti privati a decidere i progetti di ricerca e si stanno erodendo i quattro pilastri su cui secondo il sociologo “Robert Merton” si regge la fiducia nella scienza:

 universalismo, comunitarismo, disinteresse e scetticismo organizzato.

Il direttore di “The Lancet”,” Richard Horton” - lo stesso che aveva pubblicato il “discusso articolo di Wakefield” sulla correlazione tra vaccino e autismo - auspica un “giuramento di Ippocrate” per gli scienziati, tema già espresso da “Bertolt Brecht” nel suo “Vita di Galileo”, dove lo scienziato pisano così si rivolge ad “Andrea Sarti”:

Se io avessi resistito, i fisici avrebbero potuto sviluppare qualcosa di simile al “giuramento d’Ippocrate”:

 il voto solenne di far uso della scienza ad esclusivo vantaggio dell’umanità. (…)

Ho tradito la mia professione; e quando un uomo ha fatto ciò che ho fatto io, la sua presenza non può essere tollerata nei ranghi della scienza.

Il viaggio di “Pedemonte “nei luoghi dove si annida la paura nella scienza è fatto di persone e di incontri, di battaglie vinte e perse, di riflessioni su soggetti e oggetti dell’impresa scientifica, visti con il rigore dello scienziato e la curiosità del giornalista (ma anche con la curiosità dello scienziato e il rigore del giornalista sul campo).

Laureato in fisica, “Enrico Pedemonte” è stato a lungo temuto e venerato caposervizio scienza de L'Espresso, quando L'Espresso era L'Espresso.

Verso la fine il libro compie un’apparente deviazione e si avventura nel campo forse più affascinante e inquietante dell’impresa scientifica: “la cosiddetta intelligenza artificiale”.

Tra progetti antropologici che mirano a una simbiosi tra vita fisiologica e intelligenza artificiale, visioni di “soluzionismo tecnologico” in cui i dati sono il nuovo petrolio, applicazioni di riconoscimento facciale utilizzate dai governi, algoritmi che stravincono a scacchi e a Go, database open source di strutture proteiche, il lettore non sa se esultare o preoccuparsi.

Verso la fine del libro si tirano le fila di quello che, ormai è chiaro, più che un excursus nella scienza è stato una riflessione sul potere e sull’uso della scienza che il potere ha fatto e sta facendo.

 La rete è un grande esperimento di anarchia o è il luogo dove i poteri (politici, economici) si esercitano attraverso la propaganda e la manipolazione?

Il flusso ininterrotto di informazioni vere e false aiuta la democrazia o è un modo per annegarla nell’indistinto?

Se è ancora valido il motto di “Francis Bacon ““sapere è potere”, chi detiene oggi la conoscenza?

E quindi il potere?

 

 

 

 

La medicina come religione.

 

Quodlibet.it - (2-5-2020) – Giorgio Agamben – ci dice:

 

Che la scienza sia diventata la religione del nostro tempo, ciò in cui gli uomini credono di credere, è ormai da tempo evidente.

 Nell’Occidente moderno hanno convissuto e, in certa misura, ancora convivono tre grandi sistemi di credenze: il cristianesimo, il capitalismo e la scienza.

Nella storia della modernità, queste tre «religioni» si sono più volte necessariamente incrociate, entrando di volta in volta in conflitto e poi in vario modo riconciliandosi, fino a raggiungere progressivamente una sorta di pacifica, articolata convivenza, se non una vera e propria collaborazione in nome del comune interesse.

Il fatto nuovo è che fra la scienza e le altre due religioni si è riacceso senza che ce ne accorgessimo un conflitto sotterraneo e implacabile, i cui esiti vittoriosi per la scienza sono oggi sotto i nostri occhi e determinano in maniera inaudita tutti gli aspetti della nostra esistenza.

Questo conflitto non concerne, come avveniva in passato, la teoria e i principi generali, ma, per così dire, la prassi cultuale.

Anche la scienza, infatti, come ogni religione, conosce forme e livelli diversi attraverso i quali organizza e ordina la propria struttura: all’elaborazione di una dogmatica sottile e rigorosa corrisponde nella prassi una sfera cultuale estremamente ampia e capillare che coincide con ciò che chiamiamo tecnologia.

Non sorprende che protagonista di questa nuova guerra di religione sia quella parte della scienza dove la dommatica è meno rigorosa e più forte l’aspetto pragmatico:

la medicina, il cui oggetto immediato è il corpo vivente degli esseri umani.

Proviamo a fissare i caratteri essenziali di questa fede vittoriosa con la quale dovremo fare i conti in misura crescente.

1)- Il primo carattere è che la medicina, come il capitalismo, non ha bisogno di una dogmatica speciale, ma si limita a prendere in prestito dalla biologia i suoi concetti fondamentali.

A differenza della biologia, tuttavia, essa articola questi concetti in senso gnostico-manicheo, cioè secondo una esasperata opposizione dualistica.

Vi è un dio o un principio maligno, la malattia, appunto, i cui agenti specifici sono i batteri e i virus, e un dio o un principio benefico, che non è la salute, ma la guarigione, i cui agenti cultuali sono i medici e la terapia.

Come in ogni fede gnostica, i due principi sono chiaramente separati, ma nella prassi possono contaminarsi e il principio benefico e il medico che lo rappresenta possono sbagliare e collaborare inconsapevolmente con il loro nemico, senza che questo invalidi in alcun modo la realtà del dualismo e la necessità del culto attraverso cui il principio benefico combatte la sua battaglia.

Ed è significativo che i teologi che devono fissarne la strategia siano i rappresentanti di una scienza, la virologia, che non ha un luogo proprio, ma si situa al confine fra la biologia e la medicina.

2) -Se questa pratica cultuale era finora, come ogni liturgia, episodica e limitata nel tempo, il fenomeno inaspettato a cui stiamo assistendo è che essa è diventata permanente e onnipervasiva.

Non si tratta più di assumere delle medicine o di sottoporsi quando è necessario a una visita medica o a un intervento chirurgico:

 la vita intera degli esseri umani deve diventare in ogni istante il luogo di una ininterrotta celebrazione cultuale.

Il nemico, il virus, è sempre presente e deve essere combattuto incessantemente e senza possibile tregua.

Anche la religione cristiana conosceva simili tendenze totalitarie, ma esse riguardavano solo alcuni individui – in particolare i monaci – che sceglievano di porre la loro intera esistenza sotto l’insegna «pregate incessantemente».

 La medicina come religione raccoglie questo precetto paolino e, insieme, lo rovescia:

dove i monaci si riunivano in conventi per pregare insieme, ora il culto deve essere praticato altrettanto assiduamente, ma mantenendosi separati e a distanza.

3)- La pratica cultuale non è più libera e volontaria, esposta solo a sanzioni di ordine spirituale, ma deve essere resa normativamente obbligatoria.

La collusione fra religione e potere profano non è certo un fatto nuovo; del tutto nuovo è, però, che essa non riguardi più, come avveniva per le eresie, la professione dei dogmi, ma esclusivamente la celebrazione del culto.

Il potere profano deve vegliare a che la liturgia della religione medica, che coincide ormai con l’intera vita, sia puntualmente osservata nei fatti.

Che si tratti qui di una pratica cultuale e non di un’esigenza scientifica razionale è immediatamente evidente.

La causa di mortalità di gran lunga più frequente nel nostro paese sono le malattie cardio-vascolari ed è noto che queste potrebbero diminuire se si praticasse una forma di vita più sana e se ci si attenesse a una alimentazione particolare.

 Ma a nessun medico era mai venuto in mente che questa forma di vita e di alimentazione, che essi consigliavano ai pazienti, diventasse oggetto di una normativa giuridica, che decretasse ex lege che cosa si deve mangiare e come si deve vivere, trasformando l’intera esistenza in un obbligo sanitario.

Proprio questo è stato fatto e, almeno per ora, la gente ha accettato come se fosse ovvio di rinunciare alla propria libertà di movimento, al lavoro, alle amicizie, agli amori, alle relazioni sociali, alle proprie convinzioni religiose e politiche.

Si misura qui come le due altre religioni dell’Occidente, la religione di Cristo e la religione del denaro, abbiano ceduto il primato, apparentemente senza combattere, alla medicina e alla scienza.

La Chiesa ha rinnegato puramente e semplicemente i suoi principi, dimenticando che il santo di cui l’attuale pontefice ha preso il nome abbracciava i lebbrosi, che una delle opere della misericordia era visitare gli ammalati, che i sacramenti si possono amministrare solo in presenza.

Il capitalismo per parte sua, pur con qualche protesta, ha accettato perdite di produttività che non aveva mai osato mettere in conto, probabilmente sperando di trovare più tardi un accordo con la nuova religione, che su questo punto sembra disposta a transigere.

4) La religione medica ha raccolto senza riserve dal cristianesimo l’istanza escatologica che quello aveva lasciato cadere.

Già il capitalismo, secolarizzando il paradigma teologico della salvezza, aveva eliminato l’idea di una fine dei tempi, sostituendola con uno stato di crisi permanente, senza redenzione né fine.

“Krisis” è in origine un concetto medico, che designava nel corpus ippocratico il momento in cui il medico decideva se il paziente sarebbe sopravvissuto alla malattia.

I teologi hanno ripreso il termine per indicare il “Giudizio finale” che ha luogo nell’ultimo giorno.

Se si osserva lo stato di eccezione che stiamo vivendo, si direbbe che la religione medica coniughi insieme la crisi perpetua del capitalismo con l’idea cristiana di un tempo ultimo, di un “eschaton” in cui la decisione estrema è sempre in corso e la fine viene insieme precipitata e dilazionata, nel tentativo incessante di poterla governare, senza però mai risolverla una volta per tutte.

È la religione di un mondo che si sente alla fine e tuttavia non è in grado, come il medico ippocratico, di decidere se sopravviverà o morirà.

5) -Come il capitalismo e a differenza del cristianesimo, la religione medica non offre prospettive di salvezza e di redenzione.

Al contrario, la guarigione cui mira non può essere che provvisoria, dal momento che il Dio malvagio, il virus, non può essere eliminato una volta per tutte, anzi muta continuamente e assume sempre nuove forme, presumibilmente più rischiose.

L’epidemia, come l’etimologia del termine suggerisce (demos è in greco il popolo come corpo politico e “polemos epidemios” è in Omero il nome della guerra civile) è innanzi tutto un concetto politico, che si appresta a diventare il nuovo terreno della politica – o della non-politica – mondiale.

È possibile, anzi, che l’epidemia che stiamo vivendo sia la realizzazione della guerra civile mondiale che secondo i politologi più attenti ha preso il posto delle guerre mondiali tradizionali.

Tutte le nazioni e tutti i popoli sono ora durevolmente in guerra con sé stessi, perché il nemico invisibile e inafferrabile con cui sono in lotta è dentro di noi.

Com’è avvenuto più volte nel corso della storia, i filosofi dovranno nuovamente entrare in conflitto con la religione, che non è più il cristianesimo, ma la scienza o quella parte di essa che ha assunto la forma di una religione.

Non so se torneranno ad accendersi i roghi e dei libri verranno messi all’indice, ma certo il pensiero di coloro che continuano a cercare la verità e rifiutano la menzogna dominante sarà, come già sta accadendo sotto i nostri occhi, escluso e accusato di diffondere notizie (notizie, non idee, poiché la notizia è più importante della realtà!) false.

 Come in tutti i momenti di emergenza, vera o simulata, si vedranno nuovamente gli ignoranti calunniare i filosofi e le canaglie cercare di trarre profitto dalle sciagure che esse stesse hanno provocato.

Tutto questo è già avvenuto e continuerà a avvenire, ma coloro che testimoniano per la verità non cesseranno di farlo, perché nessuno può testimoniare per il testimone.

(Giorgio Agamben - 2 maggio 2020).

 

 

 

 

 

L'agricoltura europea è in crisi,

ma non è colpa del Green Deal.

Lespresso.it – (2-2-2024) - Federica Ferrario, Greenpeace Italia – ci dice: 

 

Nel Vecchio Continente molti piccoli produttori sono in difficoltà e alcune forze politiche cercano di calcare la protesta indirizzandola verso le nuove regole sull'ambiente che non sono mai state applicate.

Ma a essere sbagliato è il sistema dei sussidi che premia le ricche multinazionali e ignora i problemi reali.

Recentemente, al Teatro Regio di Torino, “Coldiretti” ha organizzato un convegno dal titolo “Gli allevamenti e la qualità dell’aria”.

Fra i relatori molti ospiti illustri, compreso il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica “Gilberto Pichetto Fratin”.

I vari interventi, tenuti a ritmo serrato, andavano tutti nella stessa direzione, ovvero quella di affermare che in realtà gli allevamenti intensivi non sono un vero problema per la qualità dell’aria e per le emissioni di gas climalteranti.

In realtà, la specifica “intensivi” è una libera aggiunta di chi scrive, dal momento che al convegno il termine non è praticamente mai stato menzionato, come se non esistessero differenze fra i metodi di allevamento intensivo e quelli di più piccola scala e meno impattanti.

Cosa alquanto anacronistica dato che è ormai notorio che il sistema degli allevamenti intensivi ha impatti importanti sia dal punto di vista ambientale che sanitario.

Parlando di qualità dell’aria, le elaborazioni dell’Ispra ci dicono chiaramente che in Italia gli allevamenti intensivi sono la seconda causa di formazione delle polveri sottili (PM2,5) – quasi il 17% se sommiamo particolato primario e secondario – e che dal 1990 al 2018 il loro contributo è via via cresciuto.

 Polveri fini che ogni anno provocano circa 50 mila morti premature soltanto in Italia.

Più in generale, l’attuale modello di produzione agricola intensiva è responsabile da solo del 93% delle emissioni di ammoniaca e del 54% di quelle di metano legate all’attività antropica in Europa, e la maggior parte di queste emissioni proviene proprio dagli allevamenti intensivi.

La produzione zootecnica è inoltre responsabile del 73% dell’inquinamento idrico derivante dalle attività agricole dell'Ue.

Sono numeri importanti, e fare finta di non vederli non aiuta.

Non aiuta le persone che vivono in zone con forte concentrazione di allevamenti intensivi come la “Pianura Padana”, ma nemmeno gli allevatori che si trovano spesso schiacciati in un ingranaggio che li costringe a produrre sempre di più, con margini di guadagno risicati al minimo e che, in prima linea, devono affrontare anche le conseguenze dei cambiamenti climatici.

 Mentre questo modello di produzione intensiva e di mercato resta fallimentare e arricchisce le tasche di altri, speculatori compresi.

Paradossalmente, però, una gran quantità di soldi pubblici continua a foraggiare il sistema coordinato dalle multinazionali del clima.

In tutta Europa molti agricoltori sono in difficoltà e in tanti chiudono i battenti.

 Proprio in questi giorni alcune forze politiche stanno provando a sfruttare la situazione per fomentare l’opposizione al Green Deal e alle norme di tutela ambientale:

ma quali sono le vere cause della crisi del comparto e quali sono gli interessi realmente tutelati da questi politici?

Guardando i numeri vediamo che attualmente l’80% dei fondi europei per l’agricoltura italiana finisce nelle casse del 20% dei beneficiari.

 Un sistema che penalizza le piccole aziende e favorisce quelle più grandi.

 Secondo dati Eurostat, in poco più di dieci anni (tra il 2004 e il 2016) l’Italia ha perso oltre 320 mila aziende.

 Abbiamo assistito a un calo del 38% delle aziende “piccole”, mentre sono aumentate del 21% le aziende “molto grandi” e del 23% di quelle grandi.

In soli 15 anni, l’Ue ha perso quasi il 40% dei suoi agricoltori, che hanno cessato l’attività o sono stati acquisiti da concorrenti sempre più grandi.

La crisi esiste, ma ciò che sta mettendo fuori mercato le aziende agricole è il fatto che i sussidi, le regole e il mercato sono tutti orientati a beneficio degli attori più grandi.

Le maggiori catene della grande distribuzione e le grandi aziende alimentari e di trasformazione possono imporre prezzi bassi agli agricoltori.

 Ciò spinge letteralmente i produttori più piccoli fuori dal mercato, allevamenti compresi, poiché solo quelli intensivi possono vendere a prezzi così stracciati.

Il sistema di sussidi della politica agricola comune (PAC) dell'Ue premia in particolare i più grandi proprietari terrieri e le aziende agricole più industrializzate.

Il denaro pubblico non premia invece gli agricoltori che producono cibo di alta qualità in modo sostenibile.

 

 Come se non bastasse, gli agricoltori di tutta Europa si trovano ad affrontare gli effetti della crisi climatica:

 siccità, ondate di calore, incendi, inondazioni e fenomeni meteorologici estremi sempre più numerosi.

Una crisi che spinge ulteriormente con le spalle al muro le piccole aziende agricole che già lottano per restare a galla.

 Dare la colpa della crisi climatica alle norme di tutela dell’ambiente è dire una falsità:

 così facendo, si mente in primis agli agricoltori che sono allo stremo, mentre si continua a foraggiare un sistema che funziona solo per una piccolissima percentuale di grandi attori del mercato.

Ma quali regole green avrebbero fatto sparire così tante aziende agricole?

Gli obiettivi proposti dall'Ue di ridurre l'uso dei pesticidi del 50% al 2030 e di rinnovare il regolamento sul loro utilizzo “sostenibile” (SUR) sono stati nella pratica accantonati.

La legge europea sul ripristino della natura non prevede alcun requisito di peso per le aree agricole in Europa.

La strategia per costruire un “sistema alimentare sostenibile” è stata abbandonata prima ancora che diventasse una bozza di proposta ufficiale dell’Ue, così come il promesso aggiornamento delle norme sul benessere degli animali.

 L’uso del glifosato – l’erbicida catalogato dallo “Iarc “come “probabilmente cancerogeno” – è stato nuovamente autorizzato in Europa per altri 10 anni.

Tornando ad allevamenti intensivi e qualità dell’aria:

 la riforma della direttiva Ue sulle emissioni industriali inquinanti ha escluso completamente gli allevamenti di bovini, i più grandi e intensivi, dal campo di applicazione della direttiva, mentre nella pratica sono state allentate le regole applicabili ai più grandi allevamenti di suini e pollame.

Le lobby del settore zootecnico, insieme ai deputati liberali, conservatori e di destra, sono riusciti a bloccare qualsiasi ampliamento del campo di applicazione della “Direttiva sull’inquinamento industriale”, sostenendo che le revisioni proposte avrebbero colpito negativamente i piccoli e medi allevamenti bovini europei.

Dichiarazioni non supportate dai dati, dal momento che le proposte sul tavolo dei negoziati riguardavano appena l’1% di tutti gli allevamenti di bovini in Europa, solo quelli più grandi e più inquinanti.

Le aziende agricole di piccole e medie dimensioni hanno quindi tutto il diritto di protestare, perché siamo di fronte a un insieme di regole di mercato, sussidi e norme che funzionano a favore degli attori più grandi e industrializzati, difesi dalle organizzazioni di categoria.

 In un contesto di crisi geopolitica ed ecologica, che vede l’aumento dei prezzi delle materie prime e il calo del potere d’acquisto dei cittadini, le aziende agricole e gli allevamenti di piccole dimensioni sono tra le categorie che pagano il prezzo più alto.

Chi continua a sostenere il modello attuale, che avvantaggia una piccola percentuale di aziende più grandi e intensive a scapito di tutte le altre, dipinge la crisi attuale come uno scontro di agricoltori contro l’ambiente.

Non è così.

Gli agricoltori possono essere i migliori alleati dell’ambiente, a patto che le regole, i mercati e i sussidi non li costringano a una scelta disperata tra la produzione industriale o la bancarotta.

Negare un problema non lo fa scomparire, analogamente alle emissioni inquinanti.

Serve invece lavorare insieme e investire in una reale e sempre più urgente transizione ecologica, in modo da salvaguardare l’ambiente, il clima e con essi le nostre aziende agricole.

(Federica Ferrario è responsabile Agricoltura di Greenpeace Italia)

 

 

 

 

L’Europa ha bisogno di una politica verde:

la guerra non sia un diversivo

per sostenere le multinazionali

 

Slowfood.it – (16/03/2022) – Redazione – comunicato stampa - ci dice:

La sicurezza alimentare in Europa e in Italia si difende puntando sulla transizione ecologica dell’agricoltura non indebolendo le norme della nuova Pac post 2022 e le Strategie UE “Farm to Fork” e “Biodiversità”

«Indebolire le Strategie Ue Farm to Fork e Biodiversità 2030 dell’Unione europea e rivedere le norme ambientali della nuova Pac post 2022 sarebbe un grave errore e non risolverebbe i problemi collegati all’aumento dei prezzi e disponibilità di materie prime, problemi ulteriormente aggravati dalla guerra in Ucraina che stanno mettendo in grave difficoltà le aziende agroalimentari europee e nazionali.

Serve, invece, accelerare la transizione ecologica della nostra agricoltura rivedendo i modelli di produzione e consumo del cibo».

È quanto sostengono 17 associazioni ambientaliste, dei consumatori e dei produttori biologici, in una lettera inviata al Presidente del Consiglio, Mario Draghi, e ai Ministri Patuanelli e Cingolani.

 Le Associazioni rispondono agli argomenti con cui le lobby dell’agricoltura industriale sostengono la necessità di rivedere gli obiettivi del Green Deal per affrontare la crisi dei prezzi e delle materie prime causata, solo in parte, dalla guerra in Ucraina.

 Le Strategie europee che le lobby contestano puntano a tutelare la biodiversità e a ridurre l’impatto che le pratiche agricole intensive determinano su clima e ambiente, con obiettivi al 2030 che riguardano la riduzione dell’utilizzo di pesticidi e sostanze chimiche nei campi e nelle stalle e il mantenimento di uno spazio per la biodiversità nel paesaggio agrario.

Le 17 Associazioni, nella loro lettera, stigmatizzano la strumentalità e l’inadeguatezza di un dibattito che utilizza la drammatica contingenza della guerra in Ucraina per attribuire alla transizione ecologica la responsabilità delle crisi in corso in Europa.

Nel quadro di drammatica incertezza che affligge l’agricoltura occorre invece concentrarsi proprio su interventi che garantiscano un futuro sostenibile per il settore agricolo, anche dal punto di vista economico.

È surreale che invece si sposti la discussione sulle strategie della transizione ecologica che si proiettano su scadenze di medio e lungo periodo.

La nuova Pac infatti entrerà in vigore dal 2023 e sarà pienamente operativa dal 2025, mentre per molte aziende agricole la sopravvivenza è questione di giorni o settimane.

 È pertanto urgente intervenire a sostegno delle aziende in grave difficoltà per l’aumento dei prezzi delle materie prime con interventi tempestivi e mirati, tenendo anche conto delle speculazioni finanziarie in atto.

Allo stesso tempo, però, è necessario accelerare le risposte alle grandi sfide della sostenibilità ambientale e climatica dell’agricoltura, a partire dall’attuazione delle Strategie “Farm to Fork” e “Biodiversità 2030” e della nuova Pac post 2022, proprio per rendere i sistemi agroalimentari meno vulnerabili a questi shock.

Senza provvedimenti adeguati ed efficaci per la soluzione di questi problemi globali i rischi di nuove crisi saranno sempre maggiori in futuro.

«La guerra in Ucraina sta evidenziando la vulnerabilità dell’Europa nella dipendenza da importazioni di materie prime e di energia.

Ma il conflitto è l’ultimo di una serie di eventi, iniziati con la pandemia di Covid e proseguiti con la siccità in Nord America che ha dimezzato i raccolti, innescando dinamiche speculative e una pericolosa ascesa dei prezzi.

In un mondo sempre più esposto a shock globali e a conflitti, abbiamo bisogno di una radicale riforma dei nostri sistemi agroalimentari, per promuovere modelli produttivi e di consumo più resilienti e sostenibili» sottolineano le 17 associazioni.

«I timidi passi verso una transizione agro ecologica attesi con la riforma della Pac non possono essere vanificati dalla conservazione degli stessi sistemi produttivi e modelli di consumo che ci hanno condotto in questa situazione.

Non è aumentando la produzione attraverso un ulteriore degrado dell’ambiente naturale o aumentando la dipendenza da energie fossili che si risolveranno i problemi.

Occorrono politiche che favoriscano la sicurezza alimentare, sostengano pratiche estensive e rispettose del benessere degli animali, valorizzino il ruolo degli agricoltori e promuovano diete più sane, con una riduzione e una qualificazione del consumo di prodotti di origine animale».

 

Evidenze scientifiche supportano queste posizioni, come il recente rapporto “Ipcc” secondo cui «mentre lo sviluppo agricolo contribuisce alla sicurezza alimentare, l’espansione agricola insostenibile, guidata in parte da diete squilibrate, aumenta la vulnerabilità dell’ecosistema e la vulnerabilità umana e porta alla competizione per la terra e/o le risorse idriche».

L’Ismea, nell’analizzare i problemi attuali di disponibilità del mais in Italia, evidenzia come sia divenuta «ormai strutturale la dipendenza degli allevamenti dal prodotto di provenienza estera»:

si tratta di un grosso segmento della nostra produzione agroalimentare che si dichiara “Made in Italy” ma si basa su importazioni di mangimi, spesso prodotti in Paesi che hanno norme, ad esempio in materia di Ogm e pesticidi, molto meno rigorose di quelle europee.

 

Agricoltura europea

Gran parte dell’insicurezza dei sistemi agroalimentari dipende dalla espansione della zootecnia intensiva, se si considera che il 70% dei terreni agricoli europei è destinato all’alimentazione animale, e a questi si sommano le terre coltivate al di fuori della Ue da cui importiamo mangimi per alimentare un settore produttivo divenuto ipertrofico e inquinante, oltre che non rispettoso del benessere animale.

Per le 17 Associazioni «la risposta in grado di garantire una maggiore sicurezza ai sistemi agroalimentari in Europa passa pertanto dalla riduzione del numero degli animali allevati, che richiede una contemporanea riduzione dei consumi di carne e prodotti di origine animale e consentirebbe di liberare terreni per colture alimentari, capaci di soddisfare meglio diete diversificate e a basso impatto sul clima, garantire il diritto di accesso al cibo a prezzi sostenibili».

Arare più terreni, trasformando i prati-pascoli e le aree naturali in seminativi, come si sta proponendo di fare per incrementare superfici agricole destinate a produrre mangimi, usando ancora più pesticidi e fertilizzanti, aumenterebbe pericolosamente il rischio di collassi degli ecosistemi, riducendo la capacità dell’agricoltura di reagire agli shock esterni.

Una revisione al ribasso degli obiettivi della nuova Pac e delle Strategie Ue “Farm to Fork” e “Biodiversità 2030” cancellerebbe ogni residua prospettiva di transizione ecologica della nostra agricoltura, che invece può sganciarsi dalle dinamiche speculative dei mercati globali, come ha già saputo fare, in gran parte, il settore dell’agricoltura biologica, e puntare su qualità e sostenibilità.

(Le 17 Associazioni ambientaliste, dell’agricoltura biologica e dei consumatori che inviano questo comunicato condividono la visione di una transizione ecologica dell’agricoltura italiana ed europea, che tuteli tutti gli agricoltori, i cittadini e l’ambiente.

Associazione Consumatori ACU, AIDA, AIAB, AIAPP, Animal Equality, Associazione Italiana Biodinamica, Associazione TERRA, CIWF Italia Onlus, FederBio, Greenpeace Italia, ISDE Medici per l’Ambiente, Legambiente, Lipu-BirdLife, Pro Natura, Rete Semi Rurali, Slow Food Italia, WWF Italia.)

 

 

 

 

Le multinazionali riescono a

prosperare in tempi difficili.

Ansa.it – (6 aprile 2023) – Editore Advisor – ci dice:

(Responsabilità editoriale di Advisor)

 

È cruciale per le aziende di Stati Uniti, Europa e Giappone che siano determinate a rimanere rilevanti o a espandersi in mercati emergenti anche se è più grave che questi sono paesi dinamici.

Sono molti questi paesi tra cui Cina, India, Brasile ecc.

Quanto deve preoccupare l'impatto della deglobalizzazione?

 I rischi sono evidenti:

escalation delle tensioni tra Stati Uniti e Cina, guerra in Ucraina, aumento delle barriere commerciali, interruzione delle catene di approvvigionamento, un dolente mercato ribassista e il rallentamento dell'economia globale.

In questo scenario turbolento, le società multinazionali non sono le più vulnerabili?

Per “Jody Jonsson”, gestore di portafoglio azionario di “Capital Group” si potrebbe dire il contrario.

“In parole semplici, le multinazionali godono in molti versi di un miglior posizionamento per navigare in un contesto incerto e sviluppare soluzioni efficaci per affrontare i cambiamenti destabilizzanti” sottolinea l’esperta che indica quattro motivi che avvalorano la sua tesi.

Le multinazionali sono in grado di adattarsi alle tensioni tra Stati Uniti e Cina.

Le due principali economie mondiali si sono colpite a vicenda con dazi onerosi e altre restrizioni commerciali.

Ma tralasciando i problemi attuali, passerà ancora parecchio tempo prima che gli Stati Uniti e la Cina possano risolvere controversie più radicate in materia di furto di proprietà intellettuale e ingenti sussidi alle imprese statali cinesi.

 Per risolvere questi problemi spinosi – se mai si riuscirà – potrebbero volerci anni o addirittura decenni.

Nel frattempo, le aziende che operano in tutto il mondo stanno facendo quello che sanno fare meglio:

trovare nuovi modi per adattarsi e avere successo a prescindere dai crescenti ostacoli.

Team di gestione esperti sanno gestire le sfide.

Non è un caso se le multinazionali sono arrivate a dominare l'economia e i mercati finanziari globali.

 Nella maggior parte dei casi, queste realtà sono gestite da manager brillanti, resilienti ed esperti.

Hanno operato in qualsiasi tipo di contesto commerciale, dai più favorevoli ai più ostili.

Alcune società potrebbero beneficiare della rilocalizzazione delle catene di approvvigionamento.

Molte società globali stanno operando con successo sui mercati locali, anziché lasciarsi intimidire delle barriere commerciali.

Sta diventando sempre più importante per le multinazionali che luogo di produzione e vendita coincidano.

 Per poter avere successo, devono muoversi velocemente e reagire in maniera efficace alla concorrenza locale.

Le società che hanno superato con successo la crisi del COVID sono riuscite a espandere rapidamente le proprie offerte online, localizzare le fonti di approvvigionamento, produrre più vicino a dove vendono e attingere a più fornitori in tutto il mondo.

Questo contesto imprevedibile ha contribuito a rafforzare le multinazionali che disponevano delle competenze, delle risorse e della liquidità necessari ad adattarsi con la massima velocità.

I campioni globali prosperano nei mercati emergenti.

Sotto molti aspetti, questa strategia multi-locale è cruciale per le aziende di Stati Uniti, Europa e Giappone che siano determinate a rimanere rilevanti o a espandersi in mercati emergenti più dinamici.

Molti di questi paesi – Cina, India, Brasile ecc. – stanno nutrendo i propri colossi multinazionali ma anche concorrenti di minori dimensioni concentrati su singoli paesi, lasciando indietro i protagonisti globali del passato.

I consumatori dei mercati emergenti ricercano marchi di cui potersi fidare e aziende che conoscano la realtà locale.

 Pertanto, le grandi multinazionali in grado di scomporsi, pensare localmente, muoversi agilmente e lanciare prodotti velocemente dovrebbero avere maggiori chance di successo nel lungo termine.

 

 

 

Multinazionali sempre più ricche.

A loro un terzo del Pil mondiale.

Valori.it – Pietro Pizzinato – (08.11.2021) – ci dice:

 

Nell'ultimo rapporto del “Centro Nuovo Modello di Sviluppo” si nota la fotografia di un mondo economico sempre più fagocitato dalle multinazionali.

Nonostante le crisi, le multinazionali sono sempre più ricche e potenti.

“Eat the rich”, mangia i ricchi, è il titolo dell’ultimo dossier del “Centro Nuovo Modello di Sviluppo! (CNMS), istituto di ricerca toscano, sulle 200 più grandi multinazionali al mondo.

Un po’ ironico, se si pensa che a banchettare sono proprio i “ricchi” oggetto dello studio.

 Entità enormi e tentacolari, con uffici sparsi e guadagni ben conservati in tutti gli angoli del mondo.

Le multinazionali controllano l’80% del commercio mondiale.

Negli ultimi quindici anni, i ricavi delle multinazionali non hanno mai smesso di crescere.

Il dossier indica che ben l’80% del commercio globale è controllato dai grandi gruppi internazionali, che si accaparrano un terzo del Prodotto interno lordo dell’intero Pianeta.

 I numeri di alcune società sono così mastodontici da far impallidire le economie di interi Stati.

Tanto per fare un esempio, “Walmart”, il colosso americano della grande distribuzione organizzata, ogni anno fattura, da solo, oltre 500 miliardi di dollari.

 Una montagna di soldi: equivalente al Pil di nazioni come Svezia e Belgio.

Sono concentrazioni e oligopoli. E un pugno di colossi controlla l’economia mondiale.

E perfino tra i ricchi ci sono disuguaglianze.

 Lo studio del CNMS accende i riflettori sulle 200 principali multinazionali, ovvero un infinitesimale 0,06% che nel 2020 controllava il 14% del totale intascato da questo tipo di società.

Soldi e potere sono ben saldi nelle mani di pochissimi.

Soltanto un evento eccezionale come la crisi pandemica ha, seppur di poco, frenato una crescita esponenziale.

 Nel 2020 il fatturato delle 200 multinazionali top è calato del 5% rispetto all’anno prima.

 Il Covid è stata una batosta ma, a parte questa parentesi, dal 2005 ricavi e profitti hanno segnato crescite rispettivamente del 60 e 30%.

Un esercito di 40 milioni di dipendenti in quindici anni è cresciuto del 40%.

Quali sono le multinazionali più ricche e potenti del mondo ?

Se è vero che oltre la metà delle multinazionali ha sede in Europa, per trovare quelle che contano di più bisogna guardare a Pechino e negli Stati Uniti.

 Delle top 200, due terzi sono aziende americane o cinesi.

Il 2020 è l’anno che ha visto diventare la Cina il Paese più rappresentato in questa ristrettissima cerchia di società miliardarie, grazie a giganti del mercato energetico e petrolifero come “State Grid”, “China National Petroleum” e “Sinopec Group”.

Nella top 10, comunque, la supremazia è ancora degli Stati Uniti.

Non solo “Walmart”, già al primo posto nel 2010, ma anche “Amazon”, “Apple”, “CVS” e” United Health Group “sono cresciute negli ultimi dieci anni, scalando la classifica.

(Le prime 10 multinazionali per fatturato nel 2020 indicate nel Centro

Nuovo modello di sviluppo.)

Per quanto riguarda l’Italia, nelle prime 200 troviamo “Assicurazioni Generali”, con i suoi 97 miliardi di fatturato e quasi 2 di profitti, ed “Enel” (74 e 3).

I settori più proficui per le multinazionali sono quelli di sempre:

 petrolio, trasporti, elettronica, computer e finanza.

Le automobili, invece – ci racconta il rapporto – hanno perso posizioni.

L’impennata dei profitti delle case farmaceutiche.

Il Covid ha mietuto vittime perfino tra i miliardari, ma c’è anche chi non ha sofferto affatto gli effetti della pandemia.

 La grande corsa al vaccino ha permesso alle case farmaceutiche di beneficiare dei contributi governativi di mezzo mondo e di realizzare guadagni stellari.

 Gli Stati Uniti hanno finanziato con ben 18 miliardi di dollari la ricerca privata.

Mentre l’Unione Europea, di suo, ne ha messi sul piatto 3.

La sola vendita di vaccini rappresenta oggi il 50% dei ricavi delle aziende del settore, con una crescita mai vista prima, se pensiamo che, fino al 2019, arrivava a coprire soltanto il 15%.

Se guardiamo nelle casse di “Moderna”, per esempio, in un anno il fatturato è cresciuto dell’8.300%.

Per quanto riguarda i profitti, la multinazionale americana è riuscita a passare da un negativo di 240 milioni di dollari dei primi sei mesi del 2020 ai quattro miliardi di profitti registrati a giugno 2021.

 

Dove finiscono tutti questi soldi?

Il frutto di questi enormi guadagni resta nelle casse societarie.

Secondo uno studio di Tax Justice Network, organizzazione di advocacy inglese, ogni anno le multinazionali evitano di pagare 250 miliardi di dollari di tasse sfruttando i paradisi fiscali.

 Con pratiche illecite di base” erosion” e “profit shifting” le multinazionali “nascondono” i propri guadagni registrandoli in Paesi nei quali le imposte sono significativamente più basse.

Per combattere queste enormi differenze di trattamento da parte dei sistemi fiscali, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) dopo più di dieci anni di discussioni ha finalmente trovato un accordo su “una global minimum tax”.

 L’obiettivo dei governi è cominciare a introdurre dal 2023 una tassa globale del 15% sui profitti delle multinazionali.

 Così facendo, ci si augura di recuperare 150 miliardi di dollari e incoraggiare le aziende a rimpatriare i propri capitali.

 

 

 

 

La federalizzazione dei governi centrali

può risolvere…il federalismo?

Scienceandfreedm.org – (2-2-2024) – Redazione – Prof. Paul Frijters - Prof. Gigi Foster- Michele Fornaio – ci dicono:

 

Società e diritto.

Nel formulare un governo che deve essere amministrato da uomini su uomini, la grande difficoltà sta in questo: bisogna prima consentire al governo di controllare i governati; e poi obbligarlo a controllarsi.

L'avvertimento implicito in queste parole del Documenti federalisti, scritto da “James Madison” nel febbraio 1788, è rimasto spettacolarmente inascoltato.

Gli Stati Uniti, l’Australia e l’UE sono nati ciascuno con idee federaliste con stati costituenti estremamente indipendenti e con costituzioni che rendevano illegale e impossibile la nascita di un grande governo centrale.

Eppure, in tutti e tre i luoghi, il progetto federalista è fallito ed è sorta una gigantesca burocrazia centrale che sta strangolando la vita sia degli stati che dei paesi, come abbiamo fatto noi, pur opinato in precedenza.

 

Come è avvenuta questa presa di potere ostile e come possiamo creare un nuovo federalismo che resista a diventare di nuovo un mostro?

 

Caso di studio 1: Il fallimento del federalismo statunitense.

Gli Stati Uniti iniziarono con una Costituzione e un quadro pratico radicalmente federalisti.

Gli stati indipendenti erano responsabili di quasi tutto, e il ruolo del governo centrale era principalmente quello di intraprendere la guerra contro gli stranieri e gestire questioni come gli standard commerciali.

Un grande cambiamento avvenne con la prima guerra mondiale, quando l'interpretazione alla moda della Costituzione cambiò da madisoniana a wilsoniana, sostituendo il sospetto e l'esortazione di “Madison” nei confronti del potere centralizzato con la convinzione di “Wilson” nei vantaggi della concentrazione del potere nel governo centrale.

Il risultato di questo cambiamento dottrinale portò alla creazione da parte di “Woodrow Wilson” di un stato amministrativo in cui il potere dell’esecutivo centrale si è espanso enormemente, e con esso la quota di risorse economiche dirottate dall’apparato governativo e amministrativo di Washington.

 

La percentuale del PIL spesa dal governo federale è cresciuta dal 2% intorno al 1900 al 25% di oggi, con picchi durante guerre, salvataggi e blocchi.

 Dopo ogni picco causato da qualche crisi, la dimensione della burocrazia (o almeno l’importo speso dalla burocrazia) si è leggermente ridotta, ma è rimasta più alta rispetto a prima della crisi.

Come esempio particolarmente eclatante di questa espansione del governo federale, l’industria della difesa è diventata oscenamente grande.

 Il budget del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti è di 842 miliardi di dollari nel 2024, oltre ai quali la Casa Bianca ha richiesto altri 50 miliardi di dollari per aiutare l'Ucraina a ritardare la sua sconfitta per mano della Russia sacrificando al contempo più vite ucraine, sostenere Israele nella sua guerra contro “Hamas” e perseguire altre attività che convogliano denaro verso le industrie nazionali legate al settore militare.

 

Gli Stati Uniti spendono per la difesa più dei successivi 10 paesi messi insieme, più del doppio della Cina e sette volte più della Russia, tenendo conto anche dell’attuale aumento del budget militare russo dovuto alla sconfitta dello stato cliente anti-russo dell’America.

Il sistema sanitario statunitense, in gran parte inefficace e parassitario come abbiamo sostenuto nel post precedente nell’ottobre 2023, è un altro brillante esempio di una struttura centrale gonfia e legata a strutture private gonfiate.

 

Come è avvenuto questo gonfiore incontrollato?

 In breve, missione instabile e corruzione.

Le grandi aziende volevano più regolamentazione per contribuire a rendere la vita più difficile per coloro che entrano nei loro settori.

Le professioni legali e di amministrazione carceraria volevano e trovavano più clienti (detenuti).

 L’industria sanitaria voleva e trovava più clienti (malati).

L’industria della difesa voleva e trovò più nemici stranieri.

Quindi ciascuno di questi gruppi in vari modi ha stimolato e spintonato il governo federale ad aiutare l’espansione dei propri interessi privati.

Nel corso del tempo, man mano che il governo è diventato più centralizzato e potente, ha anche creato nuove agenzie per regolamentare le organizzazioni, come le istituzioni finanziarie, gli inquinatori e le società di telecomunicazioni.

Le grandi aziende di questi settori, come quelle dei settori della difesa e della sanità prima di loro, alla fine catturarono i loro regolatori, mettendoli contro i concorrenti regolamentando le imprese più piccole e facendoli scomparire e contro i consumatori riducendo la concorrenza in generale.

 L’accresciuto potere del centro di appropriarsi e controllare le risorse fu utilizzato per creare un Leviatano burocratico che si rivelò terreno fertile per la formazione un’élite occidentale globalista parassitaria che parla dall'alto verso coloro che preda, come vediamo con il “Manie ESG” e “DEI”.

 

I singoli Stati hanno resistito?

Sicuramente, e a giudicare dalle azioni recenti di alcuni funzionari governativi della Florida, stanno ancora resistendo.

Tuttavia, nel lungo cammino verso l’espansione centrale, gli stati furono sopraffatti perché il governo federale fu in grado di accedere a risorse molto maggiori aumentando le tasse nazionali esistenti e creandone di nuove.

 Un flusso costante di scuse per l’espansione era disponibile perché le aziende e gli individui sfruttavano le lacune nelle normative esistenti e perché c’erano emergenze reali e immaginarie che potevano essere facilmente imbrigliate sul carro dell’espansione.

 Gli Stati Uniti, un tempo apice del federalismo, ora hanno un centro politico completamente fascista:

un’unificazione dei poteri giudiziari, commerciali, legislativi, esecutivi e potere religioso.

 

Caso di studio 2: La discesa dell'Australia.

L’Australia iniziò come federazione nel 1901, modellata vagamente sulla federazione tedesca, ma con un generoso aiuto di elementi innovativi progettati per impedire al centro di acquisire troppo potere.

 Sei colonie autonome hanno preceduto la federazione, e solo nell'ultima parte degli anni 19th secolo ha fatto crescere il sostegno per una nazione unificata.

Anche allora, l’idea era che l’autorità centrale avrebbe gestito un numero molto limitato di attività in cui l’inefficienza si era manifestata (principalmente difesa, commercio e immigrazione).

 Al centro, formalmente conosciuto come “Commonwealth”, non furono conferiti poteri al di fuori delle emergenze.

Gli stati avrebbero dovuto organizzare tutto, comprese l’istruzione e la sanità.

L'Australia introdusse addirittura nel 1918 un'assicurazione obbligatoria con sistema di voto preferenziale, in cui gli elettori indicano non solo il candidato di prima scelta, ma anche il secondo, il terzo, il quarto preferito e così via.

 Questo sistema rende più facile che nuovi partiti emergano davanti agli occhi del pubblico votante rispetto a un semplice sistema maggioritario, poiché se gli elettori possono votare per un solo partito, saranno più riluttanti a schierarsi per un partito creato outsider per paura di sprecare i propri voti.

Se viene richiesta una classifica delle preferenze, tuttavia, possono selezionare un candidato di un partito marginale in cima pur dando un cenno ai partiti principali, in ordine di preferenza, lungo l’intera lista di candidati.

Se il partito preferito di un elettore viene eliminato una volta conteggiate le prime preferenze, le sue preferenze sussidiarie (e quelle degli altri elettori) continueranno a essere conteggiate finché un candidato non avrà più del 50% dei voti.

In questo modo, un nuovo partito ha molte più possibilità di emergere e crescere rapidamente.

 Un ulteriore baluardo contro il potere centralizzato fu attuato per quanto riguarda la tassazione:

un comitato permanente supervisionò la divisione dei fondi fiscali federali tra gli Stati.

Allora come ha funzionato tutto questo?

Come negli Stati Uniti, oggi il bilancio della difesa australiano è in forte espansione, superando per la prima volta quest’anno i 50 miliardi di dollari australiani.

 Il “Commonwealth” si è insinuato attraverso la regolamentazione del welfare, della sanità e dell’istruzione, e ora domina la riscossione delle tasse.

Nel complesso, spende circa il 27% del Pil, rispetto a praticamente zero prima della prima guerra mondiale e a circa il 10% nel 1960.

 

I singoli Stati detengono ancora un potere significativo, di cui hanno abusato spietatamente durante i lockdown, ma sia i governi statali che quelli centrali sono diventati Leviatani infestati da lobby e promotori di sciocchezze.

Un problema particolare è che ovunque – e questo nonostante il sistema di voto preferenziale che avrebbe dovuto contribuire a diluire il potere – sono gli stessi due partiti politici a condurre lo spettacolo, entrambi tenuti a galla quando necessario attraverso coalizioni con partiti gregari (il partito laburista ha il potere dei Verdi e il partito liberale ha i Nazionali).

I due partiti dominanti australiani hanno scoperto che con questo assetto possono tenere fuori dalla scena i partiti minori attraverso il “gerrymandering”.

In un caso particolarmente eclatante, un comitato composto in gran parte da membri di questi partiti ha diviso il collegio elettorale di un politico ribelle di nome “Rob Pyne” tanto che non viveva nemmeno più nella circoscrizione elettorale che lo aveva votato al Parlamento del Queensland.

Attraverso il “gerrymandering” e altri mezzi, la classe politica australiana mantiene due gruppi mafiosi dominanti che diffondono corruzione e cattive abitudini, il tutto con il sostegno delle principali società internazionali.

Leggi il nostro “2022” libro “rigged” per saperne di più sui raccapriccianti "giochi tra amici" che si svolgevano in Australia.

 

Caso di studio 3: Come l'Unione europea ha fagocitato l'autorità degli Stati membri.

Le fondamenta dell’UE iniziarono in piccolo, quando, nell’ambito del piano Schuman nel 1951, sei paesi accettarono di integrare le loro industrie del carbone e dell’acciaio sotto un’unica gestione.

 Una più stretta integrazione economica negli anni successivi portò alla formazione della Comunità economica europea (o CEE, successivamente semplificata in CE) nel 1957 e infine all’Unione europea (UE) nel 1993. L’UE è attualmente una federazione di 28 paesi.

 

Inizialmente, la struttura della CE era quasi l’apice del federalismo:

non esisteva un vero e proprio governo centrale (poiché, dopotutto, gli stati indipendenti erano sovrani e nazioni!) e la leadership della CE ruotava tra i paesi ogni sei mesi.

 Le riunioni della CE coinvolgevano i leader nazionali e i ministri erano indirizzati verso questioni economiche collaborative come il finanziamento della politica agricola comune.

 Gli interessi personali dei paesi membri hanno prevalso sui sogni sovranazionali.

 Esisteva un cosiddetto parlamento, ma con solo 78 membri e nessuna autorità legislativa.

 I parlamentari non sono stati eletti direttamente, ma piuttosto scelti tra i rappresentanti eletti dei parlamenti dei paesi membri.

 

Eppure, proprio come la pioggia, il numero di istituzioni, agenzie e burocrati crebbe nel tempo man mano che la missione cominciava a farsi sentire.

All'inizio, la maggior parte del crescente gruppo di burocrati trascorreva le giornate lavorando piacevolmente su cose come gli standard per lo spessore delle condutture idriche e dei treni e calibri.

Nel corso del tempo, la Comunità si è organizzata in modo tale da assumere ruoli sempre più autorevoli in questioni che andavano oltre il suo mandato originario, come la politica estera e la politica monetaria, quest’ultima formalizzata con l’istituzione della” Banca Centrale Europea” a Francoforte nel 1998.

 

Oggi l’UE è diventata un mostro sputafuoco.

Attraverso normative sanitarie, standard di settore insensati come rendere obbligatoria la rendicontazione “ESG” per le grandi aziende, una valuta centrale utilizzata per ottenere il controllo della tassazione e del debito, standard educativi e così via, l’UE è un organo esecutivo e legislativo che esercita i poteri che era non avrei mai dovuto avere.

 Il suo budget formale non è così ampio, ma il budget che dirige è enorme.

 

In base ad un accordo pluriennale tra gli Stati membri, dispone di un budget di 1.8 trilioni di euro da spendere nel periodo 2021-27 (dall’1% al 2% del PIL).

Questo è per l’amministrazione centrale e i programmi dell’UE, quindi in qualche modo equivalente a ciò che Washington spende per sé stessa.

Non include il controllo sulla spesa pubblica dei singoli paesi membri, che ammonta a circa 50% del PIL dell'UE.

 La burocrazia dell’UE controlla gran parte di quella spesa tramite spese sanitarie obbligatorie (compresi i contratti nascosti con Pfizer), propaganda obbligatoria, mandato regole di segnalazione, e così via.

 

In modo istruttivo, l’UE ha ottenuto molti dei suoi attuali poteri non attraverso il voto democratico, ma piuttosto attraverso una riorganizzazione:

 ha accumulato potere sollevando gli oneri dai singoli leader dei paesi membri che non potevano essere disturbati da ingombranti percorsi democratici.

 La Commissione europea ha preso l’iniziativa in cose come” Brexit”, “migrazione” e “vaccini anti-Covid”, lungo il percorso usurpando i precedenti poteri nazionali sulla “diplomazia estera” e sui “bilanci sanitari”.

I governi degli Stati membri hanno deciso “lascia che accada”.

Allo stesso modo, la macchina della propaganda dell’UE è iniziata in piccolo come un insieme di direttive che i media e le grandi tecnologie dovevano seguire, ma si è trasformata in un vero e proprio e palese ministero della propaganda che mette fuori legge il dissenso dalla burocrazia.

Ancora una volta il” fascismo nascosto”, ancora una volta “acclamato dalle “grandi multinazionali” e dalle” élite globaliste”.

I singoli paesi europei hanno ancora molto potere – più degli Stati Uniti e dell’Australia, perché almeno gli eserciti europei sono ancora nazionali – ma la discesa verso un’espansione centralizzata e tirannica in Europa è stata sconcertante.

Come risolvere il federalismo?

Gli ultimi decenni hanno dimostrato che in regioni disparate, con punti di partenza disparati, piccole burocrazie centrali hanno stretto alleanze con grandi aziende e individui facoltosi, usurpato sempre più potere e risucchiato la vita dalle federazioni che avrebbero dovuto servire.

Tutti i tipi di pesi e contrappesi istituzionali sono falliti, dagli uffici di controllo ai poteri di veto alla rotazione delle leadership.

La bestia continuava a crescere nonostante tutto, attraverso l'arroganza, l'astuzia, la furtività e la corruzione.

 

Il federalismo è sotto attacco, ma il vecchio ronzio è ancora vivo.

In tutti e tre gli esempi sopra riportati, gli stati costituenti hanno ancora una democrazia in qualche modo funzionante, media indipendenti in piena espansione e una crescente consapevolezza da parte dei cittadini di avere a che fare con qualcosa che sta attivamente lavorando contro i loro interessi.

 Fatta eccezione per coloro che si trovano al centro stesso, c’è il desiderio che un maggiore processo decisionale avvenga in modo non centrale.

 

Le popolazioni stanno votando con i piedi per i luoghi che sbagliano (come Florida, Svizzera, Madrid e Polonia (pre-2024)) e fuggono dai luoghi che sbagliano (come Londra, California e Melbourne).

I Leviatani centrali stanno ancora aumentando il loro controllo, ma ora devono gridare più stridulamente per ottenere ciò che vogliono e fingere che ogni piccolo problema sia una minaccia esistenziale che richiede maggiore controllo.

 Un vaiolo (delle scimmie) sulle loro case!

 

Pensiamo che il futuro sia federalista e vogliamo guardare avanti e riflettere su come evitare che il problema attuale si ripresenti.

 Come si può costruire un tipo di federalismo che funga da robusto baluardo contro le forze fasciste oggi così dominanti?

Il dilemma principale che vediamo è che qualsiasi federazione moderna probabilmente non può evitare di avere una burocrazia “condivisa” di dimensioni modeste.

Molti dalla parte del “Team Sanity” durante gli anni del “Covid” sognano di avere pochissima burocrazia comune, ma per quanto la odiamo, pensiamo che una burocrazia condivisa non solo sia inevitabile ma possa anche servire a uno scopo.

 

Abbiamo bisogno di una burocrazia di dimensioni ragionevoli per gestire un grande esercito perché ogni stato occidentale moderno ha nemici con grandi eserciti.

 Ne abbiamo bisogno anche per fornire una forza di controbilanciamento alle grandi multinazionali che ci calpesteranno tutti se non ci sarà una resistenza organizzata.

 Per quanto possa sembrare sognante, 18th Il liberalismo del secolo scorso è semplicemente troppo individualista e ingenuo, a nostro avviso, riguardo alle realtà moderne del mondo del potere “cane mangia cane”.

Le grandi aziende e i paesi con cattive intenzioni creano bestie spaventose che ci costringono ad avere la nostra bestia feroce per difenderci.

 

Ma come possiamo avere la nostra bestia feroce e non esserne mangiati anche noi?

 

Un ovvio punto di partenza è smantellare l’attuale burocrazia antisociale e istituire un processo di giustizia per denunciare e punire i crimini del governo centrale.

Tutto ciò è positivo e positivo, ma dobbiamo anche pensare al giorno successivo alle punizioni.

Come sistemeremo allora le cose per i nostri figli e i loro figli?

 

Un elemento importante da abbinare al futuro federalismo è una cittadinanza molto più attiva e consapevole.

 Abbiamo già delineato due innovazioni cruciali che potrebbero contribuire a creare tutto ciò:

la nomina di ogni leader burocratico con autorità di bilancio o di regolamentazione da parte di giurie cittadine, accompagnato dal dovere dei cittadini mediatici nel riconoscimento delle notizie come un importante bene pubblico che deve essere fornito dalla cittadinanza stessa.

 Queste due innovazioni dovrebbero contribuire a generare una cittadinanza auto-informante che sia regolarmente coinvolta nella scelta dei leader e nella tutela dagli abusi burocratici.

 

Può la “Quarta Potenza” combattere la corruzione da sola?

Il cuore di queste due proposte era l’istituzione all’interno del governo centrale e di ogni sottocomponente della federazione (ad esempio, stato o paese) di un “quarto potere” il cui compito è quello di mantenere i cittadini auto informati e di forzare gli altri tre poteri a del governo (legislativo, esecutivo e giudiziario) a lavorare per le loro popolazioni invece di allearsi contro di loro.

 

 Le nomine basate su giurie di cittadini organizzate da questo quarto potere sostituirebbero le nomine politiche ai vertici di qualsiasi istituzione dipendente dal denaro del governo e di qualsiasi istituzione che assume un ruolo simile a quello del governo – compresi gli enti di beneficenza, molti dei quali attualmente hanno caratteristiche usato dai ricchi per eludere le forze democratiche (si pensi alla Fondazione Gates).

Il braccio mediatico della quarta potenza potrebbe anche estendersi alla fornitura di informazioni al pubblico dall'interno del governo stesso, ad esempio sul funzionamento e sulle scoperte degli uffici di audit.

Le iniziative statunitensi in questa direzione sono ben avviate.

 

Eppure, anche se i massimi burocrati di un nuovo sistema federale dovessero essere nominati in modo indipendente da giurie cittadine, le pressioni commerciali per corrompere questi incaricati sarebbero immediate e formidabili:

le potenti multinazionali nazionali e internazionali sono intrinsecamente avide e non andranno da nessuna parte.

Queste aziende si alleeranno anche con i migliori consulenti la cui linfa vitale scaturisce dall’assisterle nel sovvertire gli interessi delle loro stesse popolazioni.

 

Con tutti gli obiettivi vicini in un luogo fisico come Washington, DC, Canberra o Bruxelles, “Big Money” può facilmente circondare i massimi burocrati con tentazioni e con il proprio apparato mediatico propagandistico, incoraggiandoli a vedere il resto di noi come subumani e bisogno di sentirsi dire cosa fare in ogni minuto della giornata, proprio come succede adesso.

Si può contare sul fatto che le élite economiche e politiche saboteranno gli sforzi anti-corruzione della quarta potenza on-site.

I sistemi costruiti dal “quarto potere” per ottenere il controllo dei cittadini su ciò che accade al centro verrebbero gradualmente clonati dalle burocrazie ombra, istituite da Big Money, che consigliano e “aiutano” direttamente i politici di vertice “in modo efficiente” con questo o quel problema.

Il centro inizierebbe ad aggirare le strutture sostenute dai cittadini e a fare propaganda contro i leader scelti dalle giurie dei cittadini, con la classe parassitaria emergente che renderebbe i leader - veramente indipendenti - dei falliti.

 

Attraverso questi e molti altri meccanismi nefasti ci aspettiamo che “Big Money” scopra come sottomettere e corrompere il” quarto potere”.

Una classe parassitaria riemergerebbe e fiorirebbe, assistita in modo cruciale dalla co-ubicazione di molti ruoli chiave.

Questo esperimento mentale distopico ci porta a concludere che un “quarto potere” direttamente democratico non può fare tutto da solo:

per mantenere la separazione dei poteri di governo è necessario che vi sia Fisicamente anche la separazione dei poteri del governo.

 La burocrazia centrale deve mettersi in viaggio.

 

La burocrazia itinerante.

Immaginate un sistema in cui invece di una co-ubicazione permanente in una particolare sede geografica, ogni area funzionale di una burocrazia centrale fosse posizionata in un posto diverso all’interno della federazione e, inoltre, sradicata e ricollocata altrove ogni due decenni, secondo un programma scaglionato con i periodici ricollocamenti delle altre aree funzionali.

Ciascuna area funzionale verrebbe collocata all'interno della burocrazia di un membro scelto a caso del livello di governo successivo più basso – ovvero il livello statale negli Stati Uniti e in Australia, il livello provinciale in Canada o il livello nazionale nell'UE – e poi ruotato nella burocrazia di un altro membro selezionato casualmente dopo un periodo di tempo designato.

 

Così, ad esempio, il “Dipartimento di Stato americano” potrebbe far parte dell’apparato di “governo della Florida” per un periodo di 20 anni, dopodiché verrebbe inviato in “Texas” o nel “Montana”.

Allo stesso modo, la “Federal Reserve” americana potrebbe far parte della “Federal Reserve dell’Ohio “per 20 anni, per poi trasferirsi nel “Missouri”.

Il governo federale fisserebbe comunque la politica, la portata delle responsabilità e i budget per queste entità, ma la gestione quotidiana delle loro attività e tutte le questioni relative al personale verrebbero decise a livello locale, con un direttore al timone nominato da una giuria cittadina formata dai cittadini di quello Stato membro locale.

 

Come funzionerebbe nell’UE, composta da 28 paesi?

La burocrazia centrale dell’UE sarebbe organizzata, diciamo, in circa 24 aree funzionali di dimensioni più o meno uguali.

 Queste 24 aree funzionali ruoterebbero attorno all’UE, con una o due funzioni che si trasferiscono in un altro paese ogni anno, e non ci sarebbero mai due aree co-localizzate nello stesso paese membro.

 Il capo di ciascuna area funzionale, come il massimo funzionario pubblico nel settore dell’istruzione, sarebbe nominato da una giuria cittadina locale e quindi legato alla popolazione locale.

Circa due anni prima dello sradicamento e del trasferimento programmati, il nuovo paese ospitante verrebbe scelto casualmente e si attrezzerebbe per fare spazio alla nuova funzione centrale.

Dato che il nuovo paese ospitante avrebbe potere su tutte le questioni relative al personale, durante il periodo transitorio avrebbe la possibilità di pianificare eventuali riduzioni o riallocazioni di personale all'interno della burocrazia entrante.

 

Specifiche di progettazione dettagliate: rotazioni, potatura, modularità e controlli di finanziamento.

Lo scopo di avere meno aree funzionali rispetto ai membri della federazione è quello di creare un forte incentivo politico per mantenere la rotazione in corso:

 i membri senza tale responsabilità tra un anno chiederanno che qualcuno venga da loro, rendendo difficile fermare la rotazione.

Lo scopo della rotazione stessa è quello di incorporare un momento automatico di distruzione creativa e rinnovamento in ciascuna area:

 un punto in cui ciò che è ancora veramente efficiente e utile sarà valutato dagli occhi freschi e critici di un nuovo ospite disposto e in grado di eliminare ciò che non ha più senso.

Mantenendo la stessa funzionalità centrale per l’intera federazione ma con meno risorse, l’ospite locale sarebbe in grado di spendere parte del surplus per i propri cittadini, attraverso più posizioni lavorative in altre aree della sua burocrazia locale più direttamente interessate alle questioni locali.

Sia le unità funzionali che i dipendenti pubblici che le compongono dovrebbero apparire utili al nuovo ospite, ad esempio attraverso un “track record” dimostrato, se vogliono che la loro area e i loro posti di lavoro sopravvivano alla rotazione.

 Un momento di potatura automatica come questo manca nel sistema attuale, dove gli incentivi per la burocrazia centrale sono destinati a crescere sempre di più, lasciando che il legno morto intralci i lavori.

Distruzione creativa è riconosciuto come una componente cruciale per garantire la continua vitalità del settore privato.

Anche se comporta sofferenze e inefficienza a breve termine, abbiamo bisogno di regolari riorganizzazioni anche nel settore pubblico se vogliamo evitare il riemergere dei peggiori problemi a lungo termine visti oggi.

 

Mantenere la burocrazia in qualche modo modulare e quindi limitante l’integrazione tra unità funzionali, è allo stesso modo una funzionalità, non un” bug”.

Le unità modulari sono più facili da ottimizzare e più facili da mantenere onesti.

 Il coordinamento tra le unità sarebbe più difficile con un progetto modulare, ma questi problemi di coordinamento verrebbero poi risolti attraverso il riconoscimento esplicito dei problemi condivisi.

 

Il dibattito aperto e le iniziative aperte sostituirebbero gli Invogliamenti del nodo gordiano che abbiamo in questo momento che rendono la corruzione così difficile da identificare e annullare.

 La federalizzazione del sistema centrale stesso, attraverso la suddivisione e la rotazione delle aree funzionali attorno alle sedi degli Stati membri, costringe a deliberare apertamente le soluzioni ai problemi di coordinamento a livello centrale.

 Costringerebbe sia il servizio pubblico che i cittadini a essere più maturi riguardo alle vere difficoltà della burocrazia, premiando coloro che portano meno slogan accattivanti e più pragmatismo e tolleranza. Promuoverebbe il valore dei generalisti interni rispetto a quelli dei media.

 

Questo sistema avrebbe anche bisogno di un meccanismo integrato per impedire al governo centrale di ottenere il controllo diretto sulle risorse al di fuori della frammentata burocrazia centrale – ad esempio sui fondi di guerra degli enti di beneficenza o sui finanziamenti dei gruppi di ricerca universitari.

 La nostra proposta è che tutte le aree funzionali abbiano il potere di esigere il controllo su tutti i fondi extra- governativi che i politici centrali riescono a usurpare e dirigere, anche se tale usurpazione viene ottenuta tramite organizzazioni private create dai donatori.

 

Per renderlo operativo sarebbe necessario un tribunale amministrativo che giudichi quale delle aree funzionali riceve i fondi identificati.

Ci auguriamo che questa capacità di avventarsi sul denaro extra-governativo possa creare un forte incentivo per le numerose aree funzionali a tenere sotto controllo le risorse controllate direttamente o indirettamente dai politici centrali.

 Per funzionare, sarebbe importante non consentire eccezioni alla regola secondo cui non possono esserci fondi segreti o speciali, soprattutto non per ragioni di “sicurezza nazionale” o di “emergenza”, perché altrimenti tutta la corruzione verrebbe incanalata attraverso scuse come è successo con il “Covid”.

 

Le nostre specifiche progettuali escludono la necessità di una grande capitale:

non esisterebbe alcun luogo fisico in cui i principali ministeri abbiano tutti le loro sedi centrali, concentrando potere e lobbisti.

Tuttavia, in uno o forse due posti potrebbero esistere parlamenti e uffici esecutivi del governo centrale pieni di politici eletti e in grado di ospitare diplomatici in visita all’estero.

Ma la dimostrazione di autorità centrale a Washington DC e nelle sue città analoghe in tutto l’Occidente si trasformerebbe in qualcosa di molto più modesto di quanto non sia adesso.

Tutto il supporto di “back-office” e gli strumenti integrati nei vari dipartimenti dello “Stato profondo” sarebbero localizzati altrove.

Immagina cosa potresti fare con quella proprietà immobiliare in “Independence Avenue”.

Anche la sicurezza e le macchinette del caffè che circondano gli uffici del governo esecutivo verrebbero organizzati e decisi da uno dei ministeri, situato in uno degli Stati membri lontano dalla sede parlamentare centrale, con forti incentivi a mantenerlo efficiente e piccolo.

I politici centrali continuerebbero ad avere un grande potere, in particolare sul bilancio e sulle leggi che riguardano tutti i cittadini della federazione, semplicemente perché la popolazione ha bisogno che queste decisioni siano decise dai rappresentanti.

Tuttavia, i cittadini e gli Stati membri avrebbero un controllo molto più diretto su tutti gli strumenti che i politici avrebbero a loro disposizione.

 

La “gente del posto” potrebbe diventare “un ladro”?

Ci si potrebbe preoccupare che in un sistema del genere, i politici e i burocrati locali possano saccheggiare e indirizzare male le risorse che il centro invia loro da spendere.

Riteniamo che questo rischio sia inferiore a quanto potrebbe sembrare, per i seguenti motivi.

 

Nel nostro sistema a rotazione, ogni Stato membro amministrerebbe le spese centrali dell’intera federazione per quanto riguarda un solo settore, come l’istruzione, mentre gli altri singoli Stati membri amministrerebbero altri importanti settori centrali pertinenti all’insieme, come la difesa, la sanità, la standard di sicurezza alimentare, tassazione e parchi nazionali.

Finché ha senso essere in federazione insieme agli altri Stati membri, esiste un incentivo economico e politico affinché ogni Stato sia ragionevole nell’erogazione dei fondi.

 Inoltre il bilancio resterebbe soggetto al controllo centrale e quindi indirettamente al controllo dell’intera popolazione.

Se uno Stato membro si comporta male, la popolazione nel suo insieme può reagire, modificando i budget.

Un’altra preoccupazione è che i dipendenti pubblici che lavorano per un’area centrale, ma fisicamente posizionati in un particolare Stato membro e che lavorano direttamente sotto i cittadini fedeli a quello Stato, avrebbero essi stessi delle lealtà divise.

 Il denaro e lo scopo del loro lavoro sono servire il tutto, mentre gli incentivi del loro capo e l’etica nella loro posizione fisica sono servire lo stato locale.

Consideriamo ancora una volta questo come una caratteristica, non un bug, poiché è proprio questa tensione che renderebbe difficile l'emergere di un nuovo Leviatano centrale.

 

Per funzionare bene, l’intero sistema necessita e genera fiducia tra gli Stati costituenti, una fiducia nata e mantenuta da interessi comuni.

 Col tempo, la rotazione e la dipendenza reciproca insita in questo sistema dovrebbero promuovere una cultura di cooperazione efficiente. Funzionerebbe un po’ come una comunità di famiglie, in cui ciascuna famiglia, a rotazione, si assumerebbe compiti particolari vantaggiosi per l’insieme.

 

Naturalmente sorgerebbero alcune difficoltà, compresi casi di capi locali che abusano del loro potere, ma quei capi sono in ultima analisi responsabili nei confronti delle popolazioni locali che hanno un incentivo a mantenere buone relazioni con i cittadini dell'intera federazione.

 Solo se le popolazioni locali non vedessero più l’utilità di far parte del tutto, questo crollerebbe, ed è giusto che sia così:

 un’altra caratteristica, non un bug.

 Questa tensione mantiene il sistema in tensione, costringendo ad una pratica di cooperazione tra gli Stati membri e ad una continua ricerca di interessi comuni.

 

Se davvero non ci fosse più un interesse comune a rimanere una federazione, allora la federazione andrebbe e dovrebbe crollare in un grande esempio di distruzione creativa, per far posto all’emergere di una struttura organizzativa sovrastatale più adatta.

La rottura sarebbe comunque dolorosa, perché all’improvviso ogni Stato che volesse separarsi dovrebbe fare tutto ciò che gli altri Stati fanno per lui, sostenendo un costo immediato elevato. Un'altra caratteristica, e una con l'altra analogia con le famiglie.

Verso un nuovo federalismo per l’era digitale.

La nostra nuova proposta di federalismo è particolarmente adatta all’era moderna.

 Nei secoli precedenti, prima di Internet e della comunicazione video istantanea, di alta qualità e a lunga distanza, sarebbe stato impossibile federare la burocrazia centrale in questo modo.

 La condivisione delle informazioni, la discussione, la risoluzione dei problemi e il coordinamento tra le unità burocratiche centrali e tra queste e i politici centrali sarebbero stati quasi impossibili.

Ci sarebbero volute settimane perché un politico o un funzionario pubblico facesse un giro di tutte le aree funzionali di tutti gli Stati membri.

 L’enorme quantità di coordinamento necessaria per gestire una grande burocrazia avrebbe impedito l’abbandono della co-ubicazione.

L’opportunità che stiamo delineando di poli-centralizzare il livello più alto di governo è resa possibile grazie alla nuova tecnologia attraverso la quale il coordinamento tra molte unità profondamente collegate e situate in luoghi diversi è diventato molto più semplice, e persino comune.

 

Anche il controllo da parte di politici e aziende sui flussi di informazione, reso possibile su scala estrema dalla moderna tecnologia delle comunicazioni e dalle società mediatiche monolitiche che essa genera, è un aspetto direttamente affrontato nella nostra proposta.

 Dopo un periodo di adattamento ai requisiti democratici diretti del nuovo sistema, il frequente coinvolgimento dei cittadini nella gestione dei media, degli Stati membri e della federazione diventerebbe normale, il che nel tempo creerebbe una cittadinanza più attiva e informata.

 I cittadini sarebbero mobilitati per difendere i propri interessi in misura molto maggiore e in modo più efficiente di quanto lo siano attualmente.

 

Per quanto la nostra proposta rappresenti un cambiamento, alcuni aspetti di ciò che accade oggi continuerebbero.

La divisione delle responsabilità tra il governo centrale e i governi dei singoli Stati membri rimarrebbe soggetta alla “politica normale”.

Entrambi cercherebbero perennemente più risorse sotto il loro controllo, competendo tra loro e con i cittadini.

I fattori che spingono contro queste spinte espansionistiche sarebbero però molto più potenti di quanto lo siano ora, attraverso le attività del “quarto potere” e attraverso l’architettura e la logistica del sistema policentrico.

 

Il perfezionamento e l’adattamento di questo sistema di federalismo policentrico necessitano di strutture proprie, che richiedono un’attenta analisi dei sistemi policentrici esistenti, come in Svizzera, che ha mantenuto il suo federalismo sostanzialmente intatto.

Alcune domande di progettazione eccezionali includono quanto segue:

 

La dimensione dell'area funzionale centrale assunta da un dato Stato membro dovrebbe corrispondere all'incirca alla dimensione stessa di quello Stato, se non altro perché Stati molto piccoli potrebbero non avere la capacità amministrativa di farsi carico di porzioni molto grandi della burocrazia?

Ciò potrebbe essere ottenuto attraverso la stratificazione basata sulle dimensioni del meccanismo di assegnazione randomizzata.

(Aspetti negativi:

il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti probabilmente non avrebbe mai sede in Idaho.

Aspetti positivi:

 la competizione tra la burocrazia locale di uno stato membro e quella dell’area centrale che ospita in un dato anno sarebbe più paritaria.)

I capi di ciascuna area funzionale centrale dovrebbero essere autorizzati a recarsi alla sede parlamentare centrale?

 (Aspetti negativi:

 sarebbero più facilmente in grado di colludere con i politici eletti e” Big Money” contro gli interessi della gente.

 Aspetti positivi:

le attività congiunte tra i politici e la burocrazia centrale sarebbero più efficienti.)

Sei un pragmatico politico veramente interessato a trasformare il Titanic delle moderne strutture di potere parassitarie occidentali e a contribuire a progettare una versione più robusta, snella e reattiva del federalismo per prendere il loro posto nel futuro?

Se è così, vorremmo che ti impegnassi con le tue idee, organizzare conferenze riguardo questo argomento, e provare le cose a livello locale.

Quando le nostre società saranno veramente pronte per le riforme, il movimento per la restaurazione non potrà permettersi di tenere in mano una cartella vuota di progetti.

 Il momento per pensare seriamente al design è adesso.

(Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta dal Brownstone Institute)

 

 

 

Il nostro vincitore dell'Anno e dell'Ordine dell'Australia avrebbe dovuto essere esaminato su questo testo prima di essere lasciato avvicinare a un registro degli ordini pandemici.

Scienceandfreedom.org – (5 – 2 -2024) – Redazione - J. Scott Armstrong e Kesten C. Green –                                                                                ci dicono:

 

Il metodo scientifico: una guida per trovare conoscenze utili.

J. Scott Armstrong e Kesten C. Green sono coautori di un libro che dovrebbe essere una lettura obbligatoria per tutti i "Chief Health Officer" statali e federali, quei funzionari burocratici che non avrebbero mai dovuto essere spinti a sbattere le palpebre davanti alle telecamere per fare il lavoro sporco.

È un lavoro da “Premier e Primi Ministri” incapaci.

 

Con l'aiuto di una serie di semplici liste di controllo descritte e spiegate nel libro, sarebbero stati in grado di dire che il consiglio di evitare di toccare il pallone se viene calciato in tribuna era qualcosa che solo un pazzo certificato avrebbe potuto suggerire;

 invece, Nicola Spurrier, responsabile della sanità pubblica del South Australia, ha ripetuto quel “consiglio”.

Intendiamoci, anche lei ha consigliato a Babbo Natale di essere quadruplicato.

Ricopre ancora questo incarico. Chi è il pazzo?

Lettura del “Il metodo scientifico”:

una guida per trovare conoscenze utili' è come guardare i replay di un collasso in battuta, gemendo per gli errori basilari mentre la palla naviga tra la mazza e il pad - che qualsiasi allenatore junior di cricket ti dirà che dovresti essere vicini - per colpire il moncone centrale ancora e ancora.

 Gli esempi forniti in questo lavoro esaustivo sui modi in cui gli studi scientifici e le riviste sono vittime di errori e pregiudizi evitabili continuano ad arrivare, rendendo la lettura che fa riflettere.

In quanti modi diversi la “scienza” può andare storta?

 Circa tanti modi quanti ci sono per essere licenziati nel cricket, e poi alcuni.

Il libro è stato pubblicato per la prima volta nel 2022.

 Dato l’ambiente ricco di obiettivi che ha rappresentato la totale calamità dell’era Covid, gli autori hanno mostrato notevole moderazione nella scelta degli esempi di fallimento nel seguire “il metodo scientifico”.

Non sono riuscito a trovare un solo esempio che faceva riferimento alle assurdità e alle atrocità che ci furono subite in quel periodo, apparentemente sostenute dalla "scienza".

Sai, la "scienza" che dice che 6 piedi di distanza sono ok;

che alzarsi per bere va bene ma sedersi no;

che a un autista principiante dovrebbe essere impedito di esercitarsi e a un genitore morente dovrebbe essere negato conforto;

 che il coprifuoco alle 8: XNUMX aveva senso.

 Probabilmente è meglio così, altrimenti il ​​lavoro potrebbe essere considerato un lavoro polemico, gli autori denigrati come teorici della cospirazione, e molte informazioni preziose in tal modo andranno perdute per le future generazioni di aspiranti scienziati e per coloro che hanno bisogno di agire o ignorare, i loro risultati.

Avendo evitato questa trappola, l’opera si pone al di sopra dell’idiozia e dell’incoscienza delle persone al potere in quel periodo e si posiziona come una guida senza tempo sul modo in cui le cose dovrebbero essere fatte.

I principi enunciati così chiaramente nel libro meritano di essere memorizzati da coloro che hanno il compito di governare e da coloro il cui compito è sfidare i governatori.

 Gli autori riassumono:

Abbiamo concluso che gli elementi chiave del metodo scientifico – così come derivano dalle parole di scienziati famosi e pionieristici – potrebbero essere riassunti da otto criteri:

Studia problemi importanti.

Basarsi sulle conoscenze precedenti.

Fornire un'informativa completa.

Utilizza disegni oggettivi

Utilizzare dati validi e affidabili.

Utilizzare metodi semplici e validi.

Utilizzare prove sperimentali.

Trarre conclusioni logiche.

Con le ricadute della risposta Covid che ancora piovono sulle nostre orecchie, pochi paragrafi dopo gli autori notano:

Riteniamo che il supporto di meta-analisi di studi oggettivi che siano collettivamente conformi tutti gli otto criteri per la scienza sono necessari per una politica razionale.

Il requisito è particolarmente importante per le leggi e i regolamenti governativi, perché implicano la costrizione piuttosto che le transazioni volontarie.

Nel caso dell'esperienza di “Victoria”, sarebbe stato bello, e convenzionale, se il piano pandemico preesistente fosse stato la base per osservare il criterio numero 2, "costruire sulla conoscenza precedente".

Invece, esercitando allegramente il potere della “coercizione”, l’allora “Chief Health Officer” annunciò una misura dopo l’altra che sfidava ogni spiegazione razionale.

 Ha persino ignorato la "conoscenza pregressa" sotto forma di un articolo di cui lui stesso è stato coautore.

Questo articolo, pubblicato nel 2001, “Gli anestesisti devono indossare mascherine chirurgiche in sala operatoria”?

Una revisione della letteratura con raccomandazioni basate sull’evidenza, include la dichiarazione "Le prove a favore dell'interruzione dell'uso delle mascherine chirurgiche sembrerebbero essere più forti delle prove disponibili a sostegno del loro uso continuato".

 Per qualche ragione, 20 e passa anni dopo, lo stesso uomo, ora mascherato da “CHO”, emanò ordini pandemici secondo cui i vittoriani che camminavano su una spiaggia spazzata dal vento in una tempesta di 30 nodi avrebbero infranto la legge se non lo avessero fatto.

Avere uno straccio sporco legato al viso.

 Se solo avesse letto questo libro.

Lo scopo del libro comprende i problemi della "scienza della difesa", le recensioni delle riviste, il coinvolgimento del governo, la regolamentazione, come decidere se una carriera scientifica fa per te, come orientarsi in un programma di dottorato e come diffondere i risultati con successo.

 Questa è una guida pratica, che spiega come strutturare un documento e come preparare un discorso.

 Se dovessi scrivere un articolo, vorrei questo libro al mio fianco.

Immaginiamo che tutti gli orrori della risposta al Covid siano alle nostre spalle.

 Questo libro è una guida preziosa per quegli scienziati che sono genuini nei loro sforzi per dare un contributo reale alla condizione umana.

Fornisce consigli razionali e saggezza basata sull’esperienza agli scienziati in erba che cercano di farsi pubblicare, pur mantenendo una posizione etica.

Fornisce una guida pratica per gli studenti che valutano se hanno l'attitudine per una carriera scientifica.

Sarebbe un potente trucchetto per un politico che cerca di evitare di essere indotto ad accettare politiche che si rivelano disastrose.

 Lungo il percorso educa tutti i lettori sui modi in cui la vera scienza può essere corrotta e su come evitare quelle trappole e gli errori di base.

Immaginate se ai bambini della scuola primaria venissero introdotti i criteri per una buona scienza.

 Immagina se l'uomo e la donna comune della strada avessero familiarità con i principi della buona scienza spiegati in questo libro.

Immaginate se i reporter dei quotidiani e delle TV venissero assunti solo se potessero dimostrare padronanza di queste idee.

 Immaginate inoltre, un ultimo salto di fantasia, che i giornalisti fossero disposti a sottoporre le dichiarazioni politiche dei parlamentari a un interrogatorio sul grado in cui le politiche erano basate su ricerche conformi ai principi.

Immaginate che gli editori pubblicassero, anziché censurare, la presa in giro del pubblico nelle pagine delle lettere del giorno successivo.

 Penso che avremmo una classe dirigente molto meno disposta a rischiare la mano con stronzate arroganti, sapendo che il mattino dopo sarebbe stata uno zimbello.

 

Questo libro potrebbe facilmente costituire la base di un corso universitario di un semestre sul metodo scientifico.

Per lo meno, attorno a questo libro come testo si potrebbe facilmente costruire una serie di seminari per studenti delle scuole superiori che aspirano a una carriera scientifica.

Forse è da lì che dovremmo cominciare.

Gioca a lungo. Insegna ai bambini.

Insegnare i principi, le basi.

Come tenere la mazza vicino agli assorbenti.

(Questo articolo è apparso per la prima volta su Richard's Substack

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