Ma gli “uomini di Davos” possono distruggere il nostro mondo?

 

Ma gli “uomini di Davos” possono distruggere il nostro mondo?

 

 

 

I diktat eco-comunisti degli oligarchi

di Davos e l’ubbidienza

dell’Unione Europea.

Domus-europa.eu - Antonio de Felip – (23 GENNAIO 2023) – ci dice:

 

“Non possiederai nulla e sarai felice”. La famigerata frase, lanciata dal “World Economic Forum” di Davos del 2017 e riconfermata successivamente, anche con un video, dal consesso di super-oligarchi guidati da” Klaus Schwab”, è diventata ormai virale, citata da molti come la dimostrazione della sempre più incombente “dittatura mondialista”.

La frase non è solo una previsione, ma è soprattutto una minaccia arrogante, carica di disprezzo e di irrisione per tutti i popoli della terra, da parte delle élite tecnocratiche liberal, dei super capitalisti e dei super banchieri usurai, con lo sguaiato contorno plaudente dei guitti straricchi di Hollywood.

 Per inciso, deve far riflettere l’uso biecamente mistificatorio, da parte degli eco-mondialisti, del termine “felice”, come nella altrettanto famigerata e minacciosa espressione “decrescita felice.”

L’ideologia praticata da costoro è una sorta di eco-comunismo che implica un attacco al benessere, peraltro spesso relativo, delle classi medie, con la distruzione degli stili di vita a cui siamo abituati, la rinuncia alle comodità e al buon cibo – o semplicemente al “cibo buono” – ma soprattutto alla “proprietà delle cose”, perché come tutti sappiamo, la proprietà privata (più esattamente il diritto garantito dalla legge alla e della proprietà privata) ci rende più liberi, più indipendenti, più sicuri nel nostro guardare al futuro.

La proprietà privata è fondata direttamente sul/dal diritto naturale ed è quindi anteriore al diritto positivo, alla legge.

Nonostante qualche discutibile affermazione “socialista-pauperista di Bergoglio” che sembra limitare e sminuire il diritto primario alla proprietà, monsignor “Giampaolo Crepaldi”, vescovo di Trieste, ci ricorda che:

“la Dottrina Sociale della Chiesa ha sempre sostenuto e insegnato che quello alla proprietà privata è un diritto naturale, quindi indisponibile, originario, vero, perfetto e stabile.”

 Scrive il cardinale “Gerhard Ludwig Müller”:

“la proprietà privata recinge il nostro spazio vitale, traccia attorno a noi un confine che ci radica in un contesto che possiamo dire “nostro”.

La proprietà privata permette i legami di senso, conserva le nostre radici.”

La persona a cui viene impedito il diritto alla proprietà diventa uomo-massa, sradicato, senza storia personale e familiare, schiavizzabile, sottomesso:

esattamente l’obiettivo del “Grande Reset” voluto dal “World Economic Forum”, da “Schwab” e prima ancora dal “Club di Roma”, dalle “conferenze dell’ONU sulla Terra a partire da quella di Rio del 1992”, dalle “grandi fondazioni come quelle degli oligarchi Soros e Rockfeller”, dagli pseudo-scienziati (sono in buona parte politici) dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) e ovviamente di tutto il variegato mondo ecologista e ambientalista, ben rappresentato dagli eco-terroristi che, impuniti, vandalizzano le opere d’arte, gli edifici storici e bloccano il traffico impedendo l’esercizio del diritto alla libertà di movimento.

 L’odio per il Bello è una caratteristica degli ecologisti, come dimostra la distruzione dei nostri paesaggi mediante gli orribili “parchi” di pale eoliche (spesso investimenti mafiosi) e degli invasivi “campi” di pannelli solari che sottraggono terreni all’agricoltura.

Infatti, è l’ideologia ecologista che giustifica l’obiettivo di ridurci allo “stato di natura”, sfamati con insetti, prostrati e resi miseri da una “decrescita felice” proclamata dalla propaganda falsa e falsificante degli ambientalisti, che ci impone di credere a una presunta crisi climatica causata da una indimostrata causa antropica del “CO2”.

(Il gas CO2, essendo più pesante dell’aria, non può volare nell’alto dei cieli ed entrare nella “serra dei gas serra”! N.D.R.)

Sono migliaia gli scienziati che si ribellano all’ipotesi del “riscaldamento globale”:

 in Italia basti ricordare alla lettera aperta sottoscritta da più di duecento scienziati italiani, climatologi, geologi, geofisici, tra i quali anche nomi noti come” Franco Battaglia”, “Antonino Zichichi “e “Franco Prodi”, nella quale si affermava chiaramente che l’origine antropica del riscaldamento globale è una congettura non dimostrata, a cui ha fatto seguito una petizione internazionale di oltre 1.200 scienziati di varie discipline, inclusa ovviamente la meteorologia, tra cui Premi Nobel, titolata “There is no climate emergency.”

 Il testo, ampliato con uno studio approfondito, è stato anche pubblicato in Italia con il titolo “Non c’è alcuna emergenza climatica”.

 Riguardo al presunto “autorevole” (in realtà assai screditato), già citato “Ipcc”, emanazione dell’Onu (corrotta), ha recentemente affermato “Howard Hayden”, docente di fisica dell’Università del Connecticut:

 “Studiano il clima in modo ingenuo e hanno creato l’industria multimiliardaria della crisi climatica, della quale hanno beneficiato.”

(Gli artefici di questo “attentato distruttivo del mondo esistente” dovrebbero essere processati e condannati da un” tribunale speciale dell’umanità”, purtroppo ancora non creato!  N.D.R.)

Ed è da anni che il professor “Franco Battaglia”, docente di Chimica Fisica, con un curriculum internazionale che lo fanno essere nel suo campo una delle eccellenze italiane: va gridando:

“Diciamolo forte e chiaro in un momento come quello in cui stiamo vivendo: non esiste alcuna emergenza climatica. Non v’è nulla nel clima di oggi che sia differente dal clima di 100, 500, 1.000 o 5.000 anni fa.”

 

Il terrificante progetto dei “Signori del Mondo”, degli sciamani della montagna incantata di Davos e di tutti gli altri, che ci vogliono ridotti in miseria per dominarci meglio, in una società meticciata dalla” Grande Sostituzione”, dimentica della sua storia, della sua cultura, della sua civiltà, prende di mira oggi, e non poteva essere altrimenti, la proprietà della casa e dell’auto privata, ostacolo alla “transizione ecologica” e allo sradicamento funzionale al “dominio mondialista”.

Più in generale mette sotto attacco il nostro stile di vita e promuove una riduzione della popolazione:

nel 1974 il Club di Roma, già responsabile di catastrofiche previsioni di esaurimento delle materie prime poi dimostratesi false, aveva sfacciatamente dichiarato:

 “La terra ha un cancro e il cancro è l’uomo”.

Maurice Strong”, petroliere miliardario della” banda Rockfeller”, promotore della “crescita zero”, presidente e segretario nazionale del “Summit della Terra di Rio del 1992,” aveva minacciato:

 È chiaro che gli stili di vita e i modelli di consumo del ceto medio […] non sono sostenibili.”

E ancora prima, fin dalla conferenza di Stoccolma del 1972, Strong era stato ancora più esplicito:

 “La sola speranza per il pianeta non è forse il collasso delle civiltà industrializzate? Non è forse nostra responsabilità far sì che ciò avvenga?”

 

È inutile cercare di vedere, dietro il “Great Reset”, un “grande complotto”.

Non c’è alcun complotto.

 Tutto è stato dichiarato, preannunciato, esposto alla luce del sole, in convegni, congressi, forum e summit pubblici.

L’odio di questi finanzieri usurai per la casa in proprietà, magari di famiglia, nasce da ragioni ben chiare per chi ha un minimo di consapevolezza dei disegni di costoro:

 la casa ci assicura una dimora stabile, ben protetta da quei solidi muri tanto avversati da “Bergoglio” e invece cantata da “Ezra Pound” nel XLV dei suoi “Cantos”:

 “Con usura nessuno ha una solida casa / di pietra squadrata e liscia / per istoriarne la facciata”.

La casa, quindi, come simbolo di stabilità, di protezione dei valori familiari, di radicamento.

 La casa come antitesi e antidoto allo sradicamento, all’isterica, frenetica, patologica mobilità delle persone vista come valore contemporaneo, a una “movida esistenziale” di cui non si percepisce il lato patologico, di malattia sociale e individuale.

 

L’attacco alla casa da parte delle élite mondialiste non è solo di oggi:

già nel gennaio del 2020 vi fu un significativo, violentissimo articolo de “The Economist”, l’organo ufficioso del neo-capitalismo liberal, sradicante ed espropriante, contro la casa in proprietà.

Secondo questa “autorevole” rivista, “l’ossessione occidentale delle case in proprietà” sarebbe “un orrendo abbaglio”.

Possedere una casa “mette a rischio la crescita, l’equità e la fede pubblica nel capitalismo”.

Testuale.

Inoltre il possesso di case ha “frenato le migrazioni interne”, danneggiando il pronto reperimento di sfruttati per la produzione delocalizzata.

Già: ci vogliono tutti senza radici, mobili, “migranti interni” pronti a correre là dove il super-capitalismo finanziario degli oligarchi di Davos decide di produrre.

Inoltre, guarda caso,” The Economist” denuncia indignato che c’è una correlazione tra “il mercato immobiliare e il populismo”.

Eccoli i maledetti piccoli borghesi con casetta in proprietà che votano per i partiti populisti e di destra.

Finora l’attacco alla proprietà della casa è stato condotto con un classico strumento dei regimi socialisti:

l’iper-tassazione, l’alternativa “dolce” all’esproprio.

Il presidente di Confedilizia ha denunciato qualche tempo fa che l’aumento delle imposte sugli immobili degli ultimi anni ha fatto perdere al nostro patrimonio edilizio almeno il 30% del suo valore:

 sono almeno una quindicina le imposte visibili e occulte che gravano sulle nostre abitazioni.

Eppure il “Fondo Monetario Internazionale” (corrotto) ci chiede di tassare ancora di più il mattone, la “Commissione Europea” (corrotta) ci impone di riformare il catasto per aumentare il prelievo e l’”Ocse” (corrotta) sostiene la teoria secondo cui è meno dannoso tassare gli immobili rispetto ad altri tipi di intervento fiscale.

Ma ecco che, qualche mese fa, negli” oscuri laboratori ideologici della Commissione Europea” è stata forgiata una nuova, mostruosa arma contro la casa in proprietà:

 il cosiddetto “efficientamento energetico”, anch’esso giustificato da quella “transazione ecologica” (“sarà un bagno di sangue”, aveva predetto l’ex ministro Cingolani) impostaci per contrastare l’impostura (“la bufala del secolo” l’ha definita il premio Nobel Carlo Rubbia) della famigerata “crisi climatica di origine antropica”.

 

In sostanza, questa normativa prevede che entro il primo gennaio 2030 tutte le case rientrino nella classe energetica.

 E per poi, entro il 2033, passare obbligatoriamente alla “classe D”.

Se la norma dovesse essere approvata, ma lo sarà data la dittatura verde che domina l’UE (corrotta), sarà un salasso per il ceto medio italiano.

Infatti uno dei tanti sottaciuti aspetti positivi del nostro paese, checché ne pensi “The Economist”, è che ben il 70,8% delle famiglie italiane è proprietario della casa in cui vive e il 28% di queste è proprietario di altre case.

Si tratta spesso di case non nuove, situate in centri storici, in zone agricole o costruite prima degli anni ‘80:

la loro “sistemazione” secondo i “diktat verdi “comporterebbe lavori importanti e costosi:

cappotti termici, sostituzione di infissi e delle caldaie, installazione dei costosissimi e inefficienti pannelli solari.

Più del 60% delle abitazioni in Italia hanno una classe energetica tra la F e la G.

Questa follia comporterebbe dunque nuovi debiti per le famiglie, la pacchia di mutui usurai per le banche, la svalutazione del patrimonio immobiliare, espropri generalizzati.

 Attraverso l’alibi della “crisi climatica”, si realizzerebbe il piano degli oligarchi eco-comunisti:

l’abolizione della proprietà privata delle famiglie per concentrarla presso “società immobiliari multinazionali” che dominerebbero, in via monopolistica, il mercato degli affitti.

Purtroppo, sembra che il nuovo governo sia rassegnato (o segretamente convinto?) rispetto a questo “criminale” disegno di ingegneria sociale.

Al massimo, richiederà una tempistica più lasca e qualche modifica formale.

L’altro grande attacco del “Grande Reset” degli eco-oligarchi è quello contro l’auto privata:

 un attacco non solo contro il possesso, ma anche contro il diritto alla mobilità se non con gli inefficienti e sempre più cari mezzi pubblici.

L’Unione Europea ha ordinato che dal 2035 sarà vietata la commercializzazione delle vetture a combustione interna:

solo le costosissime auto elettriche, costose anche nella ricarica (lentissima) che è peraltro anche incerta nella sua erogazione:

 la Germania prepara per il 2024 razionamenti mirati alle colonnine per le batterie.

Oggi, quasi tutti si possono permettere almeno un’utilitaria, magari usata.

In un futuro solo i ricchi potranno possedere un’auto elettrica.

 

Anche in questo caso, dobbiamo ascoltare le “bieche minacce” di “Klaus Schwab” e del “World Economic Forum”:

“le persone non hanno il diritto di possedere la propria auto. Puoi andare a piedi o condividere”.

 E ancora: “la proprietà dell’auto privata è insostenibile e immorale nel mondo d’oggi”.

 Ecco da cosa è generato il canagliesco, anti-civile odio no-oil degli eco-terroristi imbrattatori e bloccatori del traffico.

 

In ossequio al fanatismo verde, molti comuni caduti nelle mani della sinistra (ma anche qualcuno di centro-destra) hanno da tempo iniziato una sorta di isterica persecuzione dell’auto privata, con una serie di soprusi, proibizioni, divieti, vessazioni, sanzioni economiche, molestie contro gli automobilisti, impestando le città di ZTL, zone a 30 km all’ora, pedaggi, inutili piste ciclabili che tolgono spazio al traffico, ai parcheggi e ai pedoni.

 È l’attuazione per via autoritaria a livello comunale dei diktat ecologisti fatti propri dall’Unione Europea.

Milano (che ha appena aumentato costo dei mezzi pubblici), Bologna, Olbia, e poi in Europa Londra, Parigi, Helsinki, Valencia, Bilbao, Graz e altre città hanno adottato politiche ostili alla mobilità privata.

 Eppure, in nome del luogocomunismo ecologista, sono poche e assai fioche le voci che si oppongono a questa oppressione verde.

 La giustificazione della viltà è sempre la stessa:

 “Ce lo chiede l’Europa”, frase tra l’altro mistificante, perché l’Unione Europea degli ottusi burocrati che prendono ordini da Washington e da Davos non è l’Europa che invece è storia, civiltà, cultura.

 

Peraltro, la casa e l’auto sono gli obiettivi più visibili di Bruxelles, ma non sono certo i soli:

 sono nel mirino dei signori della UE anche l’agricoltura, l’allevamento, la carne, i latticini, i riscaldamenti delle case, l’importazione di legname, cacao e caffè da paesi accusati di “disboscare”, il petrolio e il gas anche per colpire con le sciagurate sanzioni la Russia, contro i nostri interessi e su ordine di Washington.

 Contro ogni evidenza, “Klaus Schwab” ha provocatoriamente dichiarato che i combustibili fossili “sono attualmente sottovalutati”.

Come si è detto, l’obiettivo è quello di annichilire i nostri stili di vita, di ridurre la popolazione:

non dimentichiamo che questi sono gli obiettivi veri e finali degli ecologisti “per salvare il pianeta”, il che significa, semplicemente, la distruzione della nostra civiltà e il genocidio culturale (e talvolta anche fisico) di interi popoli, distruzione peraltro già in corso da decenni, se non di più.

Anche nell’edizione 2023 del Forum di Davos abbiamo visto le foto delle file di decine di jet privati parcheggiati che hanno portato i Signori dell’Economia alla loro convention annuale.

Poi ci dicono che le nostre vetturette vanno vietate perché “inquinano”. Il quotidiano” La Verità” ha anche raccontato che nelle agenzie svizzere che forniscono “escort e sex workers” c’è il tutto esaurito per il periodo del summit.

Già: come scrivevano una volta gli impiegatucci in trasferta sulle richieste di rimborso a piè di lista per giustificare questo genere di spese: “l’uomo non è di legno”.

Neanche gli eco-oligarchi.

(Antonio de Felip)

 

 

 

 

 

Greta attacca Davos:

'E' il forum di chi distrugge il pianeta.'

Ansa.it – (20 gennaio 2023) - Redazione ANSA – ci dice:

 

L'attivista: 'Assurdo ascoltare queste persone'.

A Davos si riuniscono "le persone che più stanno alimentando la distruzione del pianeta", ed è "assurdo" ascoltarle.

“Greta Thunberg” torna all'attacco del “Forum economico mondiale”, e manda in pezzi la logica stessa dell'organizzazione tesa a far dialogare gli 'stakeholder' fra loro.

 

Rilasciata pochi giorni fa dalla polizia tedesca per le proteste contro l'espansione delle attività estrattive di carbone a Lutzerath, la ventenne attivista svedese è asserragliata a pochi passi dai locali dove si riunisce l'élite politica, finanziaria e delle corporation di Davos.

 Un piede dentro - dentro la zona di sicurezza, perché in fondo Davos diede enorme visibilità ai “Fridays for Future” che hanno fatto la fama di Greta - e uno fuori, a rimarcare la differenza con 'loro':

 quelli che hanno come priorità "la loro ingordigia, profitti di breve periodo sopra la gente e il pianeta".

Clima, “Greta Thunberg” attacca Davos: 'Qui sono riunite le persone che distruggono il pianeta'.

 

Un appello che arriva a poche ore dal panel di discussione in cui ieri” John Kerry”, inviato Usa per il Clima, cercava di spiegare i progressi contro il cambiamento climatico di fronte a una scettica” Helena Gualinga”, attivista ecuadoregna che accompagna” Greta” nelle sue battaglie assieme a “Vanessa Nakate” e” Luisa Neubauer”.

Giusto poche ore fa, riecheggiando le accuse rivolte ieri ai gruppi energetici dall'Onu, le 4 attiviste hanno lanciato una petizione che ora supera le 900.000 firme contro i “manager di Big Oil” che "sapevano da decenni che i combustibili fossili causano catastrofici cambiamenti climatici", e ci hanno "ingannato".

Ma al Forum le attiviste trovano il dialogo con “Fatih Birol.”

 I dati dell'”Agenzia internazionale dell'Energia” da lui guidata, dicono, danno ragione ai ragazzi indignati:

 l'obiettivo di contenere il riscaldamento della terra a 1,5 gradi è perso, se non si interromperanno nuove estrazioni di gas, carbone, petrolio.

Birol” non si scompone, ma cerca di girare l'accusa in un'esortazione costruttiva:

 se gli investimenti in energia pulita saliranno da 1.500 a 4.000 miliardi di dollari, l'obiettivo degli 1,5 gradi si raggiunge e non c'è bisogno di allargare le estrazioni di combustibili.

 A Davos in fondo c'è speranza:

 i grandi capitali globali hanno capito che il riscaldamento climatico può trasformarsi in un cataclisma economico e finanziario, e ora anche gli Usa hanno scelto un maxi-piano green da 269 miliardi di dollari.

Ma che fatica parlarsi, fra la “generazione dei Fridays” e quella dei “supermanager”.

 

 

Non avrai nulla e sarai felice”:

gli slogan ingannevoli di Davos.

Decrescitafelice.it – (26 Febbraio 2023) - Team Redazionale Mdf.- Bernardo Severgnini – ci dice:

 

“Non avrai nulla e sarai felice” è uno dei più celebri slogan prodotti dal “World Economic Forum” (WEF), organizzazione finanziata dalle più grandi multinazionali del pianeta, che ogni anno raduna a Davos, in Svizzera, esponenti di primo piano della politica e dell’economia internazionale con intellettuali e giornalisti accuratamente selezionati, per discutere delle questioni più importanti che il mondo si trova ad affrontare, anche in materia di salute e di ambiente.

Lo slogan, in originale ”You’ll own nothing. And you’ll be happy” che potete vedere qui, se recepito con superficialità, può richiamare aspetti della decrescita felice, ma che in realtà, se analizzato a fondo, rappresenta un concetto ben diverso.

Da sempre, e ancor più oggi, nel mondo dell’immagine, dei “twit” e della propaganda fatta a slogan, il lessico è un’arma che il potere utilizza con disinvoltura e con malizia per affermare e conservare sé stesso, per neutralizzare il dissenso e per contrastare le pulsioni verso un reale cambiamento del sistema.

La storia è piena di esempi in questo senso:

il “termine anarchia”, che di per sé indica una forma di organizzazione che supera le forme di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, è stato nel tempo caricato di accezioni violente, è stato fatto diventare” sinonimo di disordine”, è stato snaturato del suo significato autentico.

 Oppure in tempi più recenti “sovranismo”, che di per sé indica il “diritto dei popoli a non essere etero-diretti”, principio scomodo per i progetti globalisti, è stato fatto diventare sinonimo di razzismo e xenofobia.

 

Quando la “propaganda di regime” non riesce nell’intento di distruggere un termine a lei scomodo, tende a farlo proprio, snaturandone il significato a proprio vantaggio.

È il caso ad esempio del “termine democrazia”, troppo positivo per poterlo rendere sgradevole agli occhi dell’opinione pubblica, che viene oggi usato per definire istituzioni altamente oligarchiche come l’Unione Europea.

Oppure il “termine ecologia”, usato per promuovere” operazioni commerciali di greenwashing” che ben poco hanno contribuito e contribuiranno al miglioramento delle condizioni ambientali.

Anche il “termine decrescita” ha ricevuto un trattamento particolare, lo si è caricato di significati che non gli appartengono, come se volesse perseguire la povertà o il rifiuto della modernità.

Questo è servito per allontanare l’opinione pubblica dai reali concetti e dai reali principi che la decrescita felice propone, e che se messi in pratica, rappresenterebbero un duro colpo al business di quei gruppi di potere di cui la propaganda si fa portavoce.

Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato nell’approccio del “sistema mediatico mainstream” nei confronti della “decrescita”.

Se è vero che il vocabolo in sé continua ad essere disprezzato e deriso, è anche vero che la prospettiva di una inevitabile necessità di ridurre i consumi globali nel prossimo futuro è sotto gli occhi di tutti, WEF compreso.

 Da qui l’urgenza di governare il periodo di sobrietà forzata che i signori di Davos hanno predisposto per le masse per i prossimi anni.

 Fare in modo che le masse lo accettino senza remore, e possibilmente con entusiasmo.

Ecco il senso dello slogan non avrai nulla e sarai felice, uno slogan che strizza l’occhio alla decrescita felice, pur senza nominarla.

Uno slogan che richiama troppo da vicino la decrescita felice per non rischiare di essere frainteso.

 È importante dunque che si mettano in chiaro in modo netto le differenze tra ciò che si intende con “decrescita felice” e ciò che invece intendono a Davos.

Innanzitutto, questo slogan non dice “non avremo niente”, ma dice “non avrai niente”.

Non si usa il verbo alla prima persona plurale, ma alla seconda singolare.

Scelta di parole curiosa promossa da chi partecipa al Forum di Davos volando su jet privati e consumando migliaia di volte più dei normali cittadini, personaggi che difficilmente rinunceranno ai loro privilegi.

Ecco, la decrescita felice non è nulla di tutto questo.

Non ci può essere decrescita felice senza uguaglianza sociale.

In una società della decrescita non è prevista una classe sociale di super ricchi che sta al di fuori e al di sopra.

Inoltre, l’uso dei modi e tempi verbali sembrano indicare un futuro certo e inevitabile, come se fosse già tutto scritto.

Hanno deciso così e ci vogliono informare della loro decisione, non è previsto un confronto costruttivo.

(Ma è mai possibile un “confronto costruttivo” con dei” gangster criminali “che vogliono eliminare noi, assieme alle nostre proprietà che diventeranno LORO dopo il” furto” e il crimine effettuato? N.D.R.)

I dibattiti, questi metodi novecenteschi che fanno solo perdere tempo! Anche qui, non c’è nulla di più distante dalla decrescita felice, che promuove un modello di società dove le decisioni partono dai confronti con le comunità, non certo dai CEO di qualche multinazionale.

Infine, la decrescita felice significa scegliere di rinunciare a quel superfluo che diventa dannoso.

Non significa dover rinunciare a ciò che serve, ma semmai ottimizzare, attraverso la condivisione, la fruizione di beni e servizi che saranno comunque sempre nella disponibilità di tutti.

È qualcosa di molto diverso da “non avrai nulla”.

 

Ricordiamoci sempre che la” decrescita felice “ è una società di abbondanza condivisa, una società non realizzabile singolarmente, ma solo attraverso la condivisione e la collaborazione.

Una società che non ci potrà venire imposta, ma potrà solo essere scelta attraverso processi democratici.

Per questo motivo, non si potrà realizzare senza che i suoi concetti rivoluzionari siano diffusi nella cultura popolare.

La comunicazione è dunque la nostra sfida più grande.

 Una comunicazione che sappia resistere alle trappole semantiche del potere, e che al contrario sappia rappresentare la scintilla in grado di aprire una grande stagione di lotta collettiva per la giustizia sociale e ambientale.

 

Ora anche il “World Economic Forum”

si preoccupa per l'ambiente.

Wired.it – Massimo Sandal – (17-1-2020) – ci dice:

 

In vista dell'annuale meeting di Davos, il Global Risk Report sui rischi

globali all'orizzonte lancia l'allarme ambientale e climatico. È un passo avanti, ma non basta per cambiare rotta.

Che cosa non fa dormire la notte le élite del pianeta?

Sorprenderà ma la risposta è – finalmente – l’ambiente.

All’indomani dei cinquant’anni del” World Economic Forum” (Wef) che si festeggerà all’annuale incontro di Davos questo mese, è stato appena rilasciato il rapporto “Wef 2020” sui rischi planetari, il” Global Risk Report”.

Tutti i primi cinque rischi considerati più probabili sono legati all’ambiente e al clima:

eventi meteorologici estremi, fallimento dell’azione sul clima, disastri naturali, perdita di biodiversità e disastri ambientali di origine umana.

Tre su cinque (fallimento sul clima, perdita di biodiversità ed eventi meteorologici) sono nella “top five” anche per l’impatto globale, assieme alle armi di distruzione di massa e alla crisi idrica.

Infine il fallimento sul clima e gli eventi meteorologici estremi, a loro volta, sono tra i rischi più “connessi”, ovvero che possono influire o subiscono l’influenza di altri rischi.

 La nostra incapacità di affrontare la crisi climatica è considerato il primo rischio per impatto e il secondo per probabilità di verificarsi.

Bisogna stare attenti a dare al report il giusto significato.

La valutazione del suddetto si basa principalmente su un sondaggio, condotto su circa un migliaio di partecipanti alle iniziative del Wef, su quali saranno i rischi più plausibili e più di impatto per il pianeta nei prossimi dieci anni.

Il campione è composto da leader industriali e politici, come se ne vedono agli incontri di Davos:

 dirigenti di multinazionali, capi di organizzazioni internazionali e non governative, economisti.

 Ai quali si aggiunge, per la stesura del report, la consulenza di accademici e specialisti e di compagnie di assicurazione.

Si tratta quindi, più che di una valutazione rigorosa e oggettiva di rischio, di un consenso delle opinioni da parte di stakeholders di alto livello, informato poi dalla valutazione di esperti.

È un modo di sentire il polso delle élite economiche e tecnocratiche.

Com’è logico, un pool ricco di economisti e dirigenti d’azienda mette l’accento sui costi:

già nel 2018 i danni economici legati all’azione umana sul clima sono stati valutati in 165 miliardi di dollari, e potrebbero ridurre il Pil degli Stati Uniti del 10% entro il 2100.

 Sempre secondo il report, i danni alla salute da inquinamento atmosferico sono già costati al mondo oltre 5000 miliardi di dollari. Duecento tra le più grandi aziende mondiali hanno calcolato che, se non si agisce in fretta, il cambiamento del clima potrebbe far perdere loro in totale mille miliardi di dollari.

Altri rischi economici si possono avere sul mercato dei mutui, se interi quartieri diventano inabitabili per l’innalzamento dei livelli del mare.

 Il semplice stress da caldo porterà perdite di produttività equivalenti alla perdita di 80 milioni di posti di lavoro già entro il 2030.

 

Anche la perdita di biodiversità è valutata come un rischio economico.

 Per esempio, l’impoverimento degli ecosistemi marini porta anche a ridurre la loro produttività, con un impatto significativo sulle economie basate sulla pesca.

 Secondo il report la perdita delle barriere coralline significherebbe la perdita di una industria turistica che vale 36 miliardi di dollari all’anno, e viceversa potrebbe causare perdite di 4 miliardi di dollari l’anno per la ridotta protezione da tempeste e allagamenti costieri.

Ma non c’è solo il portafogli.

Il Wef nota anche il profondo impatto sulla salute del cambiamento climatico, citando l’”Oms” che ha dichiarato la crisi climatica “la più grande minaccia alla salute globale nel 21esimo secolo”.

 Il riscaldamento globale potrebbe portare zanzare portatrici di malattie come la “dengue” a espandersi verso l’Europa e l’Africa Orientale, mettendo a rischio un miliardo di persone.

 Inoltre viene messo l’accento su come climi sempre più inabitabili e innalzamento del livello dei mari porteranno milioni di persone a migrare, creando o esacerbando conflitti e politiche nazionalistiche.

 Il declino delle risorse idriche, il mutamento delle rotte marittime, il declino dei combustibili fossili e l’apertura di nuove risorse da sfruttare nell’Artico sono occasioni nascenti di scontri e riarrangiamenti geopolitici a cui porre attenzione.

Il rischio portato dalla crisi ecologica non è uguale per tutti.

 Secondo il “Wef”, nei disastri naturali è 14 volte più facile morire per donne e bambini rispetto agli uomini adulti.

 Il peso del cambiamento climatico in termini di salute e qualità della vita sarà in gran parte sulle spalle delle classi più deboli e dei paesi più poveri.

 Le coltivazioni probabilmente diminuiranno di produttività, mettendo a rischio la possibilità di sfamare una popolazione in costante aumento già nel 2050.

La crescente incertezza economica, a cui contribuisce la crisi ecologica, può però rendere gli elettori riluttanti a supportare politiche che possano affrontare la crisi, ma che possono mettere a rischio posti di lavoro o portare ulteriori disagi a breve termine.

Il “Wef” non è ottimista sulle nostre possibilità di cavarcela.

Il collasso economico è praticamente garantito se non riduciamo le emissioni nette a metà entro questo decennio e le annulliamo entro il 2050.

Eppure, come dice, “gli impegni sono inadeguati all’urgenza della sfida e i trend correnti non sono incoraggianti”.

 La domanda energetica continua ad aumentare e a essere soddisfatta dai combustibili fossili: dal 2018 al 2019 è cresciuta del 2,3% e si proietta un aumento del 25% entro il 2040.

Un terzo dell’aumento delle emissioni nel 2018 è stato causato dalle centrali a carbone in Asia.

In tutto questo, i sussidi economici al fossile sono ancora il doppio di quelli per il rinnovabile.

 Il “Wef” è consapevole che dobbiamo agire, con un enorme e sistematico sforzo collaborativo, ma non nasconde le difficoltà.

Difficoltà che sono anche interne al sistema.

Non si può certo accusare il “Wef” di essere anticapitalista, ma non è tenero con la cultura media delle aziende.

 Quando il “Wef” ha fatto un sondaggio più ampio sui “business leaders mondiali”, ha trovato quello che chiama “una zona cieca”:

i rischi ambientali sono raramente considerati significativi, e l’industria spesso è del tutto impreparata ad affrontarli, preferendo girarsi dall’altra parte.

Al punto da trascurare perfino i trend dei consumatori:

 secondo il “Wef”, molte aziende sono state colte di sorpresa dal crescente rifiuto della plastica negli imballaggi.

 

Il “Wef” non è certo un covo di ambientalisti radical chic:

 per dire, l’anno scorso a inaugurare il meeting di Davos è stato nientemeno che il presidente brasiliano “Jair Bolsonaro”.

È forse rassicurante vedere che finalmente, anche nelle alte e conservatrici sfere del dibattito politico ed economico, viene riconosciuta l’urgenza della crisi in cui ci troviamo.

Del resto chi ha a cuore il proprio patrimonio agisce razionalmente se cerca di mantenerlo e non distruggerlo.

 E che qualcuno nella finanza si stia svegliando, sia pure molto tardi, lo dimostra anche il recente annuncio del fondo di investimento “BlackRock”, che ha deciso di abbandonare gli investimenti poco sostenibili ambientalmente, in quanto non tengono conto di un serio fattore di rischio.

 

Ma il report del “Wef” contiene, almeno apparentemente, una strana contraddizione:

da un lato è frutto delle opinioni e del dialogo tra i dirigenti di alcuni dei massimi players dello scenario economico e politico mondiale.

Dall’altro sembra parlare della possibilità di contrastare questo cambiamento come di un qualcosa di esterno, come non potessero farci nulla.

Il” Wef,” del resto, dipende dal sostanzioso supporto economico di circa un migliaio di aziende, le stesse che nel report sono dichiarate come cieche rispetto al problema.

Che il “Wef “e Davos siano un nodo di contraddizioni e ipocrisie è cosa nota.

L’anno scorso del resto si parlava già di clima, a un evento dove i partecipanti arrivano regolarmente in jet privato.

 È possibile e auspicabile che vedere quanto perderà il proprio portafoglio sul report del “Wef” renda alcuni manager più consapevoli e capaci di agire.

Ma non basta: c’è bisogno di un cambiamento radicale a livello di sistema.

La crescita economica perpetua è, almeno nei modi attuali, incompatibile con un pianeta finito.

 Il “Wef” forse non può permettersi di dirlo esplicitamente.

 

 

 

 

L'umiliazione

dell'uomo di Davos.

 Milanofinanza.it – (16 -1-2024) -Redazione - Walter Russell Mead, The Wall Street

Journal – ci dice:

 

 

Sta pregando il mondo di fidarsi di lui, ma non è una crisi di fiducia, è di competenze.

Dopo aver sbagliato con Russia, Cina, Iran e Covid, pochi elettori credono che l’élite globalista sappia affrontare sfide come l’IA e la transizione energetica.

È il momento dell'anno.

Capi d'azienda, politici, guerrieri delle Ong, giornalisti e intellettuali si sono diretti verso le Alpi svizzere per il 54° incontro annuale del World Economic Forum (Wef).

 Se i delegati sono seriamente intenzionati ad affrontare il tema di quest'anno, "Ricostruire la fiducia", ci attendono conversazioni difficili.

 

Sia all'estrema sinistra che all'estrema destra, i teorici della cospirazione vedono il” Wef” e i suoi alleati come una rete onnipotente che riesce a imporre un'agenda nefasta al resto del mondo.

 Questa lettura di Davos è profondamente sbagliata.

Il vero scandalo di Davos non è che stia conquistando il mondo.

 È che sta fallendo nei suoi obiettivi.

L'agenda di Davos, fatta di un ordine di sicurezza globale, un'economia mondiale integrata e progressi verso obiettivi quali la decarbonizzazione, l'uguaglianza di genere e l'abolizione della povertà estrema, è controversa in alcuni ambienti e su alcuni punti, ma non è né segreta né particolarmente nefasta.

 Ma lungi dall'imporre questa agenda a un mondo prigioniero, le élite di Davos si stanno mangiando le mani perché il sogno sta morendo lentamente.

L'anno scorso è stato un altro anno difficile per l'agenda di Davos.

 La guerra della Russia in Ucraina è andata avanti, con Mosca in vantaggio in quella che sembra una guerra di logoramento.

 Il Medio Oriente è esploso nel caos, con il trasporto marittimo interrotto nel Mar Rosso a causa dell'intensificarsi e dell'espandersi del conflitto. Le relazioni tra la Cina e l'Occidente hanno continuato a deteriorarsi e i risultati delle elezioni a Taiwan lasciano presagire ulteriori tensioni nel prossimo anno.

La frattura tra Cina e Occidente.

I conflitti sono negativi per il libero scambio e la rottura dell'ordine di sicurezza globale sta minando l'integrazione economica al centro dell'agenda di Davos.

La frattura tra Cina e Occidente sta portando a un disaccoppiamento economico da entrambe le parti.

Con l'introduzione da parte dell'Unione Europea e degli Stati Uniti di restrizioni sulle importazioni volte a limitare l'effetto sulle rispettive produzioni nazionali della produzione a basso costo e a bassa regolamentazione di Cina e altrove, l'obiettivo del libero scambio si allontana ogni anno di più.

Non sorprende che sia la” Banca Mondiale” che il “Fondo Monetario Internazionale” prevedano un rallentamento della crescita economica globale.

 Prevedendo che i flussi commerciali globali saranno solo il 50% della media del decennio pre-pandemia, la” Banca Mondiale” avverte che quello cominciato il 2020 potrebbe essere un decennio perduto per l'economia mondiale, con i Paesi poveri che rischiano di essere i più colpiti.

Mentre la guerra si diffonde e l'economia globale rallenta, le possibilità di fare progressi nell'agenda sociale di Davos stanno svanendo.

 Temi come la “transizione energetica” e la” giustizia di genere”, per quanto meritevoli e importanti, scendono nella lista delle priorità quando i Paesi sono in guerra o si preparano alla guerra.

 Il numero di rifugiati disperati, attualmente stimato in 114 milioni, cresce inesorabilmente.

 La violenza contro i civili accompagna la marea crescente della guerra. In queste circostanze, i gruppi per i diritti umani e altri attivisti sociali devono concentrarsi sulle crisi umanitarie piuttosto che sui problemi sociali esistenti.

In questo contesto, le colline di Davos risuonano di fallimenti.

Le conversazioni di Davos, che in passato vertevano su come trarre vantaggio dal campo di gioco globale livellato che i presidenti e gli alleati degli Stati Uniti hanno cercato di costruire dopo la Seconda guerra mondiale e il 1990, sono cambiate.

 

La questione ora è come le aziende e i Paesi possono gestire i rischi di un ordine mondiale perturbato.

 Come gestire le catene di approvvigionamento in un'epoca di rivalità tra Stati Uniti e Cina?

 Come ci si adatta all'effettiva chiusura del Mar Rosso, e forse dello Stretto di Hormuz, da parte dell'Iran e dei suoi alleati?

Come gestisce il vostro Paese la politica di sicurezza in un mondo in cui il potere degli Stati Uniti sembra diminuire e i comodi presupposti del passato non reggono più?

(Shell sospende la navigazione delle petroliere nel Mar Rosso: si temono nuovi attacchi Houthi dallo Yemen).

Qualcosa è andato storto.

Il tema dell'incontro "Ricostruire la fiducia" riconosce che qualcosa è andato storto.

 È un buon inizio, ma non è sufficiente.

 I bugiardi propagandisti russi e i tentativi cinesi di influenzare l'opinione pubblica americana sono problemi che vanno affrontati, ma le persone non stanno perdendo fiducia nei loro leader perché la disinformazione ha confuso i loro cervelli.

Stanno perdendo fiducia perché percepiscono che l'approccio dell'establishment ai principali problemi del giorno non funziona.

Non si tratta, in fondo, di una crisi di fiducia.

 È una crisi di competenze.

 Perché gli elettori dovrebbero aspettarsi che una cosiddetta "classe di esperti" che si è sbagliata così a lungo su Russia, Cina, Iran e Covid sappia come affrontare una sfida così difficile e sfaccettata come la transizione energetica?

Perché dovrebbero fidarsi dei politici europei e americani che stanno fallendo così miseramente nel gestire l'immigrazione clandestina di massa per gestire l'ascesa dell'intelligenza artificiale?

"L'imperatore è nudo!" è il grido dei populisti di tutto il mondo.

 Per rendere questo messaggio inefficace, l'uomo di Davos non ha bisogno di consulenti d'immagine e di specialisti della disinformazione.

Ha bisogno di vestirsi.

 

 

Le “persone inutili” di Yuval Harari

e la negazione del libero arbitrio.

 

Conquistedellavoro.it – (28 giugno 2022) – Raffaella Vitulano – ci dice:

Li definiscono intellettuali famosi, Yuval Noah Harari e Slavoj Zizek, anche se quest’ultimo sussulta quando viene chiamato così.

Diverse le loro specializzazioni accademiche:

storia medievale per Harari, filosofia hegeliana e psicoanalisi lacaniana per Zizek.

Al più grande festival di filosofia del mondo, “HowTheLightGetsIn”, si sono confrontati sulla questione della natura: amica o nemica?

La risposta non è sorprendentemente sfumata:

 la natura non è né nostra amica né nostra nemica.

 Stiamo per entrare in un’era post-natura e questo cambierà tutto.

 Dopo un lungo periodo di pensiero illuminista che ha visto la natura conquistata dalla ragione e domata dalla tecnologia, il suo posto nella società è tornato in grande stile, anche grazie alla pandemia di Covid e alla crisi climatica.

Per Harari e Zizek la natura non è né buona né cattiva, è semplicemente al di fuori della moralità.

L’idea che le innovazioni guidate dall’uomo e gli incidenti come i reattori nucleari, il vaccino contro il Covid-19 o persino la guerra in Ucraina siano “naturali” può suonare strano.

Ma dato che la loro esistenza non viola nessuna legge naturale e sono fatti dello stesso materiale fisico di tutto il resto, allora in un certo senso lo sono.

 Siamo sul punto di creare quelle che Harari chiama “forme di vita inorganiche”, riferendosi all’Intelligenza Artificiale avanzata.

 E vedrete se non le considereremo come naturali.

Al Festival di Filosofia si concorda: stiamo per cambiare la nostra composizione biologica, cambiando la nostra natura in modi radicali.

 Questo potrebbe eccitare alcuni transumanisti e scienziati che sono concentrati sull’uso di questi strumenti per risolvere problemi ristretti e specifici nei loro campi, ma Harari ha un tono più cupo e mette in allerta.

Questo è ciò che hanno sognato dittatori spietati.

 In passato, quando i dittatori cadevano, almeno ciò che lasciavano dietro di loro era ancora umano.

 In futuro, potrebbe non essere più così.

 Stalin, interviene Zizek, voleva fare esattamente questo:

 creare un esercito di lavoratori geneticamente modificati che potessero lavorare oltre i limiti di qualsiasi essere umano e sopravvivere con un minimo di sostentamento e provviste di base.

 Il problema non è se saremo ridotti in schiavitù dalle macchine, ma che questa schiavitù rafforzerà la divisione tra gli umani”, ha detto Zizek.

 “Alcune persone ci controlleranno e altre saranno controllate”.

Se ingegnerizziamo geneticamente gli esseri umani per essere più intelligenti, più coraggiosi, più efficienti, ciò alla fine porterà alla scomparsa di tutte le nostre altre caratteristiche, quelle che saranno ritenute meno desiderabili dagli ingegneri dell’umanità.

La selezione di alcune funzionalità significherà la scomparsa di altre.

 Se dai loro la tecnologia per iniziare a incasinare il nostro Dna, per iniziare a incasinare i nostri cervelli, multinazionali ed eserciti potrebbero amplificare alcune qualità umane di cui hanno bisogno, come la disciplina.

 Nel frattempo, potrebbero sminuire altre qualità umane come la compassione o la sensibilità artistica o la spiritualità”:

detto dal transumanista Yuval Noah Harari, “consulente chiave del World Economic Forum di Davos e di Klaus Schwab”, l’allarme suona ipocrita.

Suona allarmante invece il fatto che pensi che il libero arbitrio sia un “mito pericoloso”.

 Un punto su cui il neurochirurgo “Michael Egnor” lo contesta con forza: “La negazione del libero arbitrio è una pietra angolare del totalitarismo. Senza il libero arbitrio, siamo bestiame senza diritti”.

Lo storico Yuval Noah Harari è anche coautore con Thierry Malleret di “Covid-19: The Great Reset”.

 E in una domanda rivela tutta la sua vera ideologia:

 “Cosa fare nei prossimi decenni con tutte le persone inutili?”.

 Una classe dirigente si interrogherà con “noia” su cosa fare di loro dato che “sono fondamentalmente privi di significato, senza valore”.

Harari calpesta così le orme di “Aldous Huxley” durante la sua famigerata conferenza “Ultimate Revolution” del 1962 al Berkley College:

“La mia ipotesi migliore, al momento è una combinazione di droghe e giochi per computer come soluzione finale per la maggior parte di loro. Penso che una volta che sei superfluo, non hai potere”.

 L’apoteosi del pensiero eugenetico affiora nel ruolo della tecnologia nella creazione di una nuova classe inutile globale “post-rivoluzionaria”, per sempre sotto il dominio dell’emergente “casta alta” di élite dai colletti d’oro di Davos.

La casta alta che domina la nuova tecnologia non sfrutterà i poveri. Semplicemente non avrà bisogno di loro.

E sarà molto più difficile ribellarsi all’irrilevanza che allo sfruttamento. Yuval è elogiato da Klaus Schwab, ma anche da Barack Obama, Mark Zuckerberg e Bill Gates, che hanno recensito l'ultimo libro di Harari sulla copertina del New York Times Book Review.

Per lui la morale, proprio come Dio, il patriottismo, l’anima o la libertà, sono concetti astratti creati dall’uomo che non hanno alcuna esistenza ontologica nell’universo meccanicistico, freddo e in definitiva senza scopo in cui si presume che esistiamo.

Le relazioni umane diventano insignificanti a causa di sostituti artificiali. I poveri muoiono ma i ricchi no.

È questa la rivoluzione industriale incentrata sull’intelligenza artificiale.

Ma il prodotto questa volta non saranno tessuti, macchine, veicoli e nemmeno armi, il prodotto questa volta saranno gli stessi umani, corpi e menti, conclude Harari, precisando infine che le “persone inutili” a cui fa riferimento il consulente del Wef saranno quelle che rifiuteranno di ricevere le capacità di intelligenza artificiale nei prossimi decenni.

 Descrivendo gli esseri umani come “animali hackerabili”, Harari crede che le masse non avrebbero molte possibilità contro questi cambiamenti anche se dovessero organizzarsi.

(Raffaella Vitulano)

 

 

 

 

 

Il Papa ai potenti riuniti a Davos:

perché si muore ancora di fame?

 

Avvenire.it - Redazione Economia – (17 gennaio 2024) – ci dice:

 

Il messaggio al Forum economico mondiale: com’è possibile si venga sfruttati, si sia condannati all'analfabetismo, manchino le cure mediche di base e si rimanga senza un tetto?

Il Papa ai potenti riuniti a Davos: perché si muore ancora di fame?

  Pubblichiamo la nostra traduzione del messaggio inviato da papa Francesco al” World Economic Forum” a Davos, in Svizzera, dal 15 al 19 gennaio 2024.

Il testo nello specifico è indirizzato al presidente esecutivo del Forum, Klaus Schwab.

 

Al Presidente Esecutivo del” World Economic Forum”.

 

L’incontro annuale di quest’anno del World Economic Forum si svolge in un clima molto preoccupante di instabilità internazionale.

 Il vostro Forum, che mira a guidare e rafforzare la volontà politica e la cooperazione reciproca, offre un’importante opportunità di coinvolgimento di più soggetti interessati per esplorare modi innovativi ed efficaci per costruire un mondo migliore.

Spero che le vostre discussioni tengano conto dell’urgente necessità di promuovere la coesione sociale, la fraternità e la riconciliazione tra gruppi, comunità e stati, al fine di affrontare le sfide che abbiamo davanti.

Guardandoci attorno, purtroppo, troviamo un mondo sempre più lacerato, in cui milioni di persone – uomini, donne, padri, madri, bambini – i cui volti ci sono per lo più sconosciuti, continuano a soffrire, anche per gli effetti di conflitti prolungati e di vere e proprie guerre.

Queste sofferenze sono esacerbate dal fatto che “le guerre moderne non si svolgono più solo su campi di battaglia chiaramente definiti, né coinvolgono solo i soldati. In un contesto in cui sembra non essere più rispettata la distinzione tra obiettivi militari e civili, non c’è conflitto che non finisca per colpire in qualche modo indiscriminatamente la popolazione civile”

(Discorso ai Membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 8 gennaio 2024).

 

La pace alla quale anelano i popoli del nostro mondo non può essere altro che frutto della giustizia (cfr Is 32,17).

Di conseguenza, ciò richiede qualcosa di più che semplicemente mettere da parte gli strumenti di guerra;

 richiede di affrontare le ingiustizie che sono le cause profonde dei conflitti.

Tra i più significativi c’è la fame, che continua ad affliggere intere regioni del mondo, anche se altre sono caratterizzate da eccessivi sprechi alimentari.

 Lo sfruttamento delle risorse naturali continua ad arricchire pochi lasciando intere popolazioni, che di queste risorse sono i naturali beneficiari, in uno stato di indigenza e povertà.

Né possiamo trascurare il diffuso sfruttamento di uomini, donne e bambini costretti a lavorare per bassi salari e privati di reali prospettive di sviluppo personale e di crescita professionale.

Com’è possibile che nel mondo di oggi le persone muoiano ancora di fame, siano sfruttate, condannate all’analfabetismo, prive di assistenza medica di base e lasciate senza un tetto?

Il processo di globalizzazione, che ha ormai chiaramente dimostrato l'interdipendenza delle nazioni e dei popoli del mondo, ha quindi una dimensione fondamentalmente morale, che deve farsi sentire nelle discussioni economiche, culturali, politiche e religiose che mirano a plasmare il futuro della comunità internazionale.

In un mondo sempre più minacciato dalla violenza, dall’aggressione e dalla frammentazione, è essenziale che gli Stati e le imprese si uniscano nel promuovere modelli di globalizzazione lungimiranti ed eticamente sani, che per loro stessa natura devono implicare la subordinazione del perseguimento del potere e del guadagno individuale, sia esso politico o economico, al bene comune della nostra famiglia umana, dando priorità ai poveri, ai bisognosi e a coloro che si trovano in situazioni più vulnerabili.

Da parte sua, il mondo degli affari e della finanza opera oggi in contesti economici sempre più ampi, dove gli stati nazionali hanno una capacità limitata di governare i rapidi cambiamenti nelle relazioni economiche e finanziarie internazionali.

 Questa situazione richiede che le imprese stesse siano sempre più guidate non semplicemente dal perseguimento del giusto profitto, ma anche da elevati standard etici, soprattutto nei confronti dei Paesi meno sviluppati, che non dovrebbero essere in balia di sistemi finanziari abusivi o usurari.

 Un approccio lungimirante a queste questioni si rivelerà decisivo per raggiungere l’obiettivo di uno sviluppo integrale dell’umanità nella solidarietà.

Lo sviluppo autentico deve essere globale, condiviso da tutte le nazioni e in ogni parte del mondo, altrimenti regredirà anche nelle aree finora segnate da un progresso costante.

Allo stesso tempo, è evidente la necessità di un’azione politica internazionale che, attraverso l’adozione di misure coordinate, possa perseguire efficacemente gli obiettivi di pace globale e di autentico sviluppo.

In particolare, è importante che le strutture intergovernative riescano a esercitare efficacemente le loro funzioni di controllo e di indirizzo nel settore economico, poiché il raggiungimento del bene comune è un obiettivo che va oltre la portata dei singoli Stati, anche di quelli dominanti in termini di potere, ricchezza e forza politica.

Anche le organizzazioni internazionali sono chiamate a garantire il raggiungimento di quell'uguaglianza che è alla base del diritto di tutti a partecipare al processo di pieno sviluppo, nel dovuto rispetto delle legittime differenze.

 

La mia speranza, quindi, che i partecipanti al Forum di quest’anno siano consapevoli della responsabilità morale che ciascuno di noi ha nella lotta contro la povertà, nella realizzazione di uno sviluppo integrale per tutti i nostri fratelli e sorelle, e nella ricerca di una convivenza pacifica tra i popoli.

 Questa è la grande sfida che il tempo presente ci pone davanti.

 E se, nel perseguimento di questi obiettivi, “i nostri giorni sembrano mostrare segni di una certa regressione”, resta vero che “ogni nuova generazione deve fare proprie le lotte e le conquiste delle generazioni passate, puntando al contempo ancora più in alto”. … La bontà, insieme all’amore, alla giustizia e alla solidarietà, non si realizzano una volta per tutte; devono realizzarsi ogni giorno» (Esortazione apostolica Laudate Deum, 34).

Con questi sentimenti, porgo i miei fervidi auguri per i lavori del Forum, e su tutti i partecipanti invoco volentieri l'abbondanza delle benedizioni divine.

 

 

 

 

Davos 2024, Lagarde (Bce):

"Elezioni Usa? L'Ue sia

pronta a ogni scenario."

Tg24sky.it – (19 gen. 2024) – Redazione Economica – ci dice:

 

La presidente della Bce è intervenuta al panel di chiusura del World Economic Forum: "Dobbiamo avere un mercato unico forte. Nel 2024 continuerà la ripresa dei consumi".

 Ai microfoni di Sky TG24 ha parlato il vicepresidente della Commissione europea “Dombrovskis”:

"Stiamo monitorando la situazione nel Mar Rosso e l'impatto sull'economia.

 Ratifica del Mes? Speriamo ci siano passi in avanti.

 Sui conti pubblici l'Italia si allinei alle raccomandazioni dell'Ue"

Quinta e ultima giornata del World Economic Forum di Davos, in Svizzera.

Al panel di chiusura dell'edizione numero 54 è intervenuta Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea.

 "Elezioni in Usa? L'Ue deve essere pronta" a ogni scenario, ha affermato, sottolineando la necessità di un "mercato unico forte".

 A margine dell'evento, il vicepresidente della Commissione “Ue” Valdis Dombrovskis ha parlato ai microfoni di Sky TG24:

"Stiamo monitorando la situazione nel Mar Rosso e l'impatto sull'economia. Ratifica del Mes? Speriamo ci siano passi in avanti. Sui conti pubblici l'Italia si allinei alle raccomandazioni Ue".

 

Lagarde (Bce): "Elezioni Usa? Dobbiamo prepararci."

Qualunque sarà l'esito delle elezioni negli Stati Uniti, e qualunque siano i rischi che questo comporterà, la miglior cosa che può fare l'Unione europea è essere preparata a ogni scenario.

 È questo il pensiero di Lagarde, intervenuta al panel di chiusura del World Economic Forum dedicato alle prospettive globali dell'economia.

"La miglior difesa è l'attacco", ha detto la presidente della Bce rispondendo a una domanda sui rischi che potrebbero derivare dalla vittoria di Trump.

"Dobbiamo prepararci, essere forti a casa nostra, e per farlo dobbiamo avere un mercato unico forte", ha aggiunto.

Bce, Lagarde: “Tassi interesse hanno raggiunto loro picco.”

Lagarde (Bce): "Nel 2024 continuerà la ripresa dei consumi."

Verso la fine del 2023 c'è stato "l'inizio del periodo di normalizzazione dell'economia, che però andrà verso qualcosa che non è la normalità", ha affermato Lagarde.

Tale processo, ha spiegato, è in corso nel commercio, nell'inflazione e nel mercato del lavoro.

 "A fine 2023 abbiamo visto una qualche ripresa dei consumi e un ritorno alla normalità dei risparmi da una condizione di risparmi eccessivi, mercati del lavoro meno rigidi e una riduzione dell'inflazione, sia nominale che di fondo.

Quindi questo è quanto possiamo attenderci per il 2024: una prosecuzione di questi trend", ha concluso.

A margine del Forum, il vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis ha detto al programma Start di Sky TG24 che le istituzioni europee stanno "controllando e monitorando da vicino la situazione" nel Mar Rosso, dove proseguono gli attacchi degli Houthi dello Yemen, e si sta "misurando l'impatto" che tale situazione potrebbe avere sull'economia.

L'organo dell'Ue "presenterà un report a fine febbraio" sulla questione, ha aggiunto Dombrovskis

. "Le discussioni" sulla ratifica della riforma del Mes "continuano con l'Italia - ha continuato -. Ovviamente spetta al parlamento italiano decidere quali sono i prossimi passi in avanti. Speriamo di poterli vedere quanto prima".

E poi ha sottolineato:

"Non ricopro la posizione giusta per poter parlare sull'Italia e di cosa deciderà il parlamento, ma sarò in contatto" con il governo "e discuteremo dei prossimi passi insieme".

Dombrovskis a Sky TG24: "Sui conti pubblici Italia non in linea con le raccomandazioni Ue."

Valdis Dombrovskis ha evidenziato a Sky TG24 che "poco tempo fa è stata fatta la valutazione della Commissione Ue" sui piani di bilancio 2024 dei Paesi membri e "anche sul budget italiano, che non sembra essere in linea con le raccomandazioni del Consiglio Ue.

 Questo vale anche per altri Paesi.

E abbiamo chiesto all'Italia di intraprendere deviazioni e di rimettere in linea" i conti pubblici "con le nostre raccomandazioni".

La Commissione Ue aveva "già annunciato che nella primavera del 2024 avremmo avuto l'intenzione di lanciare delle procedure" per deficit eccessivo "sulla base dei dati raccolti nell'autunno 2023 - ha continuato a Sky TG24 -.

 Abbiamo ripetutamente raccomandato ai Paesi membri di spostarsi verso posizioni fiscali più prudenti, considerando i livelli di deficit e di debito".

 Sul nuovo Patto di stabilità e crescita "la cosa importante è arrivare all'accordo finale e definitivo velocemente, prima del periodo di fermo dei lavori per le elezioni. Serve molta chiarezza per i prossimi anni sulle nuove regole fiscali ed economiche. È il momento giusto per continuare a collaborare", ha detto.

 

Paesi Baltici: "Sistemi di difesa ai confini con la Russia."

Dombrovskis a Sky TG24: "Se la Russia vince, possibili altre guerre"

"In caso di successo, la Russia potrebbe desiderare di andare avanti continuando con altre guerre e altre aggressioni.

 Sembra quasi che una modalità imperialistica sia tornata di moda in Russia - ha detto Dombrovskis a Sky TG24 -.

Putin con uno slogan sta dicendo che i confini russi non hanno frontiere, non hanno fine" e questo rappresenta "una minaccia per gli Stati vicini, compresi i Baltici.

Quindi l'aggressione russa riguarda non solo l'Ucraina ma tutta l'architettura di sicurezza europea".

 Il vicepresidente della Commissione Ue ha quindi sottolineato l'importanza di "fornire tutto il supporto necessario all'Ucraina", aggiungendo che "è fondamentale che a livello Ue si possa continuare a rafforzare le capacità di difesa congiunte".

"L'Europa è stata solidale dopo il Covid, creando il “Next generation Eu” e il fondo “Sure”.

Ma da lì in avanti è tornata la vecchia Europa, ogni Stato per conto suo. Questo significa non cogliere l'urgenza", ha detto il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, che si trova a Davos.

Bonomi parla di "sfida per la competitività lanciata da Stati Uniti e Cina", con l'Europa che "vuole dettare degli standard, per esempio sulla transizione ecologica, ma ha grandi fragilità".

Bonomi sostiene che "dopo le elezioni europee sarà fondamentale un “Industrial Act”, altrimenti avremo grossi problemi di produzione e occupazione, e questo darà altro spazio ai movimenti antieuropeisti".

Inoltre, spiega, "se l'Europa decide di diventare campione mondiale della sostenibilità deve prevedere una finanza adeguata a investimenti che sono enormi.

 In Europa negli ultimi 24 mesi sono crollati, in Italia sono sottozero.

 Non basta la deroga agli aiuti di Stato, servono risorse e strumenti europei.

Come quelli introdotti dagli Usa".

E poi conclude: "Vedo una politica che rimanda e non impara.

Abbiamo avuto la crisi del gas russo, e ora siamo dipendenti dall'Algeria, mentre l'installazione di rinnovabili è rallentata.

Abbiamo avuto la crisi delle materie prime due anni fa, e ora è esplosa la crisi del Mar Rosso".

 Su Ilva, l'acciaio di Stato "l'abbiamo già avuto ed è fallito".

 

Maduro (Venezuela): "Milei a Davos ha fatto una figuraccia."

A proposito della partecipazione del presidente argentino Javier Milei a Davos, il suo omologo venezuelano Nicolás Maduro ha parlato di "figuraccia".

"Il popolo argentino deve essere triste, vergognarsi, indignarsi per la figuraccia commessa da Javier Milei al vertice di Davos.

Una vergogna, un'espressione della sua ideologia nazista, il maccartismo.

È una bugia che sia liberista, liberale, libertario," ha dichiarato Maduro, secondo il quale "gli uomini d'affari capitalisti del mondo e i governi dell'Occidente sono rimasti sbalorditi quando Milei ha accusato l'Occidente di essere comunista, di essere socialista".

"Chi non la pensa come lui è comunista e deve essere sterminato dalla faccia della terra. Questo è il pensiero nazista che voleva sterminare comunisti, socialisti, ebrei e zingari", ha sostenuto il leader chavista.

(Davos 2024, Milei: "Occidente in pericolo a causa del socialismo.")

 

La giornata di ieri.

Nella giornata di ieri, il presidente israeliano Isaac Herzog ha parlato del conflitto in corso a Gaza.

 "Guardando in prospettiva, dobbiamo certamente lavorare per trovare nuovi modi per avere un dialogo con i nostri vicini.

Ma la domanda fondamentale dopo il 7 ottobre è quali garanzie di sicurezza ci saranno per i cittadini israeliani", ha affermato.

Mostrando una foto del piccolo “Kfir Bibas” - il bambino dai capelli rossi prigioniero di Hamas da tre mesi - il presidente israeliano ha sottolineato che lo Stato ebraico sta combattendo "una guerra per la libertà del mondo".

 E poi ha detto: "Israele vuole vivere in pace. C'è un forte desiderio di coabitazione sia tra gli israeliani che tra i palestinesi, ma bisogna eliminare il terrorismo".

Il tema di quest'anno.

L'edizione 2024 del Forum economico mondiale si è concentrata soprattutto sulla geopolitica e sulle guerre in corso, tanto che oltre a Herzog è intervenuto nei giorni scorsi anche il presidente ucraino “Volodymyr Zelensky”.

Nel clima di forte incertezza che domina lo scenario globale, il tema di quest'anno è stato "Rebuilding Trust", ossia "Ricostruire la fiducia", che viene ritenuta dagli organizzatori l'elemento necessario alla base di ogni sviluppo.

 

 

 

Tutte le follie della rivoluzione verde

 voluta dall'Ue, c’è pure il siero

 che rispetta il pianeta.

Veitaeaffari.it – (13 sett. 2022) – Riccardo Pelliccetti – ci dice:

 

Ci sono Paesi che hanno messo in frigorifero il “green deal”, come la Gran Bretagna, e altri che hanno fatto retromarcia riaprendo le centrali.

Tutte le follie della rivoluzione verde voluta dall'Ue, c’è pure il siero che rispetta il pianeta.

Cosa non va della rivoluzione verde.

Ci sono Paesi che hanno messo in frigorifero il green deal, come la Gran Bretagna, e altri che, dopo aver aderito entusiasticamente all’accordo Cop 26 di Glasgow sull’abbandono del carbone come fonte energetica, hanno fatto retromarcia riaprendo le centrali.

La rivoluzione verde, tanto amata dalla sinistra europea e dai burocrati di Bruxelles, si è rivelata una follia.

Non perché sia sbagliato in assoluto il principio, ma perché i profeti del futuro verde e sostenibile non hanno tenuto conto di troppe variabili:

la guerra che ha scatenato la crisi energetica, la siccità che ha penalizzato l’idroelettrico, la mancanza di vento nel mare del Nord che ha limitato l’eolico e, dulcis in fundo, la carenza di materie prime che ha fatto salire alle stelle il costo di installazioni di fotovoltaico.

La transizione ecologica.

La transizione ecologica, lo sanno anche i bambini, necessita di tempi lunghi.

 In un mondo che va avanti e produce grazie a gas, petrolio e anche carbone (Cina docet!) non si può decidere di staccare la spina in una data prefissata senza deroghe, chiudendo gli occhi davanti alle congiunture che cambiano o agli stravolgimenti geopolitici.

 Perché gli effetti sono sotto gli occhi di tutti e negarlo sarebbe non solo sciocco ma anche una menzogna

 Eppure l’Unione europea non vuole prendere in considerazione l’emergenza attuale per modificare o prorogare la marcia verde che si è prefissata.

 La crisi del gas si affronta e si risolve, secondo la Commissione guidata da “Ursula von der Leyen”, con altri strumenti come il razionamento dei consumi o l’estensione del meccanismo “Ets”.

E rallentare la corsa verde?

 Non se ne parla neppure, anzi, se ne parla solo per continuare a sostenerla affermando che tutte le misure anti crisi non debbano ledere in alcun modo il cammino tracciato per il “green deal”.

 E via alla neutralità carbonica nel 2050, senza se e senza ma, con l’obiettivo intermedio di ridurre il Co2 del 55% entro il 2030, e poi stop a tutte le auto diesel e a benzina entro il 2035.

Le misure per la rivoluzione verde.

Ma come ci arriveremo a quei traguardi?

 Come saranno ridotte le nostre industrie?

 Quante recessioni dovremo vivere e quanta povertà affrontare se continuiamo a camminare con il paraocchi?

 Pandemia, guerra, siccità sono solo alcuni degli ostacoli che ci si sono parati davanti.

 E chissà quanti altri ne potremo incontrare… La scorsa estate, quando la Commissione europea presentò gongolante il suo piano “Fit for 55”, cioè le dodici misure necessarie per la rivoluzione verde, tutti erano consapevoli che avrebbero fatto aumentare i prezzi del riscaldamento, dei trasporti, dei carburanti eccetera.

Il Financial Times scriveva che Bruxelles ne era consapevole, ammettendo che l’”estensione del sistema Ets “«avrà un impatto sulle famiglie povere».

Secondo gli studi, infatti «potrebbe esserci uno shock iniziale sulla bolletta».

Shock al quale se ne è aggiunto un altro, con la crisi energetica e la guerra in Ucraina.

«Machissenefrega» ripetono i profeti del green deal.

 E continuano a fare proseliti tanto che ora arrivano anche i vaccini green, come quello antinfluenzale della Sanofi.

 «Le confezioni sono studiate con un packaging che rispetta il pianeta – informa l’azienda francese -. Riducono l’impatto in termini di emissioni di Co2».

Il mondo verde si autoelogia, come la “Follia” di Erasmo da Rotterdam.

 

Intelligenza artificiale, 7 italiani

su 10 preoccupati per lo stipendio.

Veritaeaffari.it – Roberto Re – Redazione Verità & Affari – (16-2-2024) – ci dice:

 

Gli italiani hanno paura dell'intelligenza artificiale e di un progresso troppo veloce che non rispetta i tempi di assimilazione psicologica.

In un’epoca segnata da repentini cambiamenti, il 60,1% degli italiani soffre da anni di uno o più disturbi psicologici come quelli del sonno (32%), varie forme d’ansia (31,9%), stati di apatia (15%), attacchi di panico (12,3%) e depressione (11,5%).

Ma non solo.

 Gli italiani hanno paura anche dell’intelligenza artificiale e di un progresso troppo veloce che non rispetta i tempi di assimilazione psicologica e sociale.

E in effetti, stando a un altro studio eseguito da” IPSOS” e commissionato da” Kelly,” società internazionale di “head hunting”, il 53% degli intervistati si è detto preoccupato che l’IA possa influire negativamente sulla retribuzione e il 68% del campione ritiene che l’IA ridurrà il personale nelle aziende.

Una fotografia allarmante che chiede una risposta immediata.

 ‘L’era del Disagio’, così sono stati ribattezzati i nostri tempi, da un recente sondaggio realizzato dall’”Inc. Non Profit Lab” (il laboratorio di Inc. – Pr Agency Content First dedicato al terzo settore).

“Con l’avanzare della tecnologia, c’è una paura diffusa di essere lasciati indietro o diventare obsoleti, temere di non essere al passo con le nuove competenze richieste o di non sapersi adattare ai cambiamenti”,

 spiega “Roberto Re”, il primo e più importante formatore italiano, che proprio in questi giorni sta attraversando l’Italia con un tour ‘Leader di te stesso 2.0′.

“Se mi guardo intorno, vedo che le persone si sentono ‘isolate in un mondo connesso’, incapaci di formare relazioni significative.

Nell’era dell’iper-produttività, si vive con l’ansia costante di dover sempre fare di più, essere più efficienti senza potersi mai fermarsi.

Le persone, oggi, si sentono sopraffatte da tutti questi cambiamenti.

 In una realtà dove l’intelligenza artificiale sta ridefinendo i nostri lavori e le questioni dei temi sociali stanno trasformando il nostro modo di interagire, le persone si sentono inevitabilmente smarrite”.

Secondo Roberto Re, nessuno fermerà questo mutamento.

“Non ci sono scuse, possiamo solo adattarci. È un mondo in cui i vecchi metodi non bastano più, dove la rapidità del cambiamento richiede un’enorme capacità di Leadership.

Oggi è essenziale mostrare non solo intraprendenza e gestione di sé e delle proprie risorse, ma anche una comprensione approfondita delle tecnologie emergenti e delle dinamiche sociali in continua evoluzione. Stiamo vivendo una situazione che richiede un ‘upgrade’ della stessa leadership, siamo chiamati a essere leader di noi stessi 2.0”.

Un tour che vuole dare risposte, strategie e soluzioni concrete,13 tappe, dopo Milano, Firenze, Bologna e Roma, oggi sarà a Napoli e proseguirà per Bari, Lecce, Torino, Verona, Treviso, Civitanova Marche.

Ultima data il 29, nuovamente a Milano.

Gli incontri nascono inoltre dalla volontà di celebrare l’anniversario di un libro “Leader di te stesso”, scritto da Re venti anni fa per la Mondadori e che, con 500 mila copie vendute, affronta tematiche oggi più attuali che mai.

“La cosa più incredibile – dice Roberto Re – è che il volume continua a spopolare sul mercato, segno che le persone hanno ancora bisogno di essere guidate”.

Ma non sarà una lezione cattedratica ma nemmeno uno spettacolo teatrale.

“Saranno, come da 30 anni a questa parte, tre ore nel corso delle quali spiegherò come oggi è possibile lavorare sulla propria intelligenza emozionale che aiuta a diventare consapevoli e padroni di sé stessi”.

Un obiettivo che si raggiunge osservando cinque regole:

 avere piena gestione delle emozioni,

mantenere il giusto equilibrio fra corpo e mente,

utilizzare la mentalità del risultato per massimizzare l’efficienza e bilanciare lavoro e tempo libero,

creare e coltivare relazioni positive,

costruire i presupposti per una comunicazione chiara ed efficace.

“Solo così – sottolinea Re – si riesce a controllare, se non abbattere, lo stress che limita la vita di molte persone e che spesso porta a commettere errori sia sul posto di lavoro e sia in casa.

 Provo a trasmettere, nel corso dei seminari programmati, come riconoscere le nostre insicurezze e come trasformare le difficoltà in opportunità. Io sono il responsabile della mia vita perché dipende tutto da me”.

Il target di riferimento va dai 30 ai 50 anni e, per l’80%, è rappresentato da liberi professionisti:

“Sono tutte persone – evidenzia Re – che hanno una visione diversa dalla nostra e da quella dei nostri padri.

 Il lavoro non viene visto più come unico motivo di vita ma si cerca, sempre più, di renderlo compatibile con il privato.

Provo, nei miei seminari, ad aiutare le persone a occuparsi di ciò che vale la pena fare per ottenere questo obiettivo, a sapersi organizzare per trovare il tempo di fare ciò che si desidera.

Lasciare spazio a sé stessi non significa limitare il lavoro.

 Anzi, chi riesce a mettere in equilibrio la propria vita è decisamente più produttivo.

 Più produttivo e finalmente leader”.

 Insomma il cambiamento, ora, passa per la capitale.

 (Teleborsa).

 

 

 

 

L'impatto delle elezioni Usa

sulla politica monetaria, quali scenari?

Verita&affari.it – (16-2-2024) – redazione Verità & Affari – ci dice:

 

Uno degli eventi dell'anno sono senza dubbio le elezioni Usa con un interrogativo che serpeggia: quali impatti sulla politica monetaria?

L'impatto delle elezioni Usa sulla politica monetaria, quali scenari?

 

Uno degli eventi dell’anno sono senza dubbio le elezioni Usa di novembre con un interrogativo che serpeggia:

quali impatti avranno sulla politica monetaria?

“Xiao Cui”, Senior Economist di “Pictet Wealth Management” spiega che sono due le percezioni più comuni da parte degli investitori:

 la Fed cercherà di anticipare i tagli dei tassi per evitare un cambio di politica monetaria troppo a ridosso delle elezioni di novembre, che potrebbe apparire politico:

 la Fed è orientata ad allentare la politica monetaria più del solito quest’anno per aiutare il presidente in carica.

Nessuna delle due affermazioni – sottolinea l’esperto – “è infondata e la Fed è già finita nel mirino della politica in passato.

 Tuttavia, le elezioni presidenziali del 2024 non modificano le nostre aspettative di politica monetaria basate sui fondamentali economici.

Prevediamo che la Fed inizierà a ridurre i tassi a giugno e in seguito ad ogni riunione di quest’anno”.

 

“Cui” sottolinea infatti che la “Fed”

“ha sia inasprito che allentato la politica in prossimità delle elezioni di novembre, e non troviamo alcuna tendenza all’allentamento.

Se i dati sono sufficientemente forti da impedire alla Fed di tagliare i tassi fino a novembre, la banca centrale americana potrebbe prendere in considerazione l’idea di astenersi dal fare la sua prima mossa politica nella riunione di novembre (due giorni dopo le elezioni) per non dare un segnale di grande urgenza”.

 

Ovviamente, le elezioni sono importanti, a causa dell’incertezza economica che generano e dei potenziali cambiamenti politici.

 Le proposte politiche dei principali candidati presidenziali sono entrambe espansive dal punto di vista fiscale.

Politiche commerciali e di immigrazione più restrittive sotto Trump potrebbero essere percepite come più inflazionistiche”.

 

Elezioni che – spiega ancora l’esperto – “possono avere un impatto sulla politica monetaria anche attraverso la nomina del presidente della Fed.

 Il rischio di un candidato non ortodosso, la cui politica potrebbe essere influenzata direttamente dal presidente, esiste.

Ma il Senato ha l’ultima parola nella nomina del presidente e c’è un’intesa comune tra i senatori sul fatto che l’indipendenza della “Fed” debba sempre essere preservata”.

 (Teleborsa)

 

 

 

 

L'Europa tra recessione e crescita

e il duro confronto con il resto del mondo.

Vertitaeaffari.it – Redazione Verità & Affari – (16-2-2024) – ci dice:

 

L'UE ha rivisto la stima sul PIL della zona euro allo 0,5% nel 2023 dallo 0,6% previsto in autunno ed allo 0,8% nel 2024 dall'1,2%.

L'Europa tra recessione e crescita e il duro confronto con il resto del mondo.

Dal Giappone al Regno Unito ad inizio 2024 si torna a parlare di recessione in un contesto sempre più difficile da gestire, con diverse guerre alle porte ed un’inflazione che resta troppo elevata per dormire sonni tranquilli.

Ma salta anche all’occhio una situazione estremamente diversificata e dipendente dalle differenti politiche, più o meno appropriate, approntate dalle banche centrali.

Il Giappone e della politica ultra-accomodante della “BoJ.”

Nel quarto trimestre 2023, il PIL giapponese è sceso dello 0,1% rispetto al trimestre precedente dello 0,4% rispetto all’anno precedente. L’economia del Sol Levante è entrata così “tecnicamente” in recessione dopo aver registrato un decremento dello 0,8% nel trimestre precedente.

Una doccia fredda per il mercato che attendeva un piccolo aumento dello 0,2%.

Un dato che sconta soprattutto l’aumento dell’inflazione, poiché in termini reali, il PIL avrebbe accelerato all’1,9% dalal’1% del 2022.

Il PIL nominale 2023 del Giappone si è così attestato a 4.200 miliardi di dollari, facendo scivolare il Giappone al quarto posto nella classifica mondiale, dopo USA e Cina, e dopo la Germania, che ha strappato il terzo posto con un PIL a 4.500 miliardi di dollari.

C’è da dire che la “Bank of Japan” non ha mai alzato i tassi come le banche centrali occidentali, mantenendoli in territorio negativo pur con un’inflazione in accelerazione.

Una politica volta a dare ossigeno ai consumi, tramite un aumento dei salari nominali, che pero pone oggi la “Bank of Japan” in controtendenza rispetto alle altre banche centrali d’Occidente, a dover annunciare “fuori tempo” un ritiro della politica ultra accomodante (probabilmente da aprile) mentre Fed e BCE già si preparano a tagliate i tassi.

 

Anche UK in recessione.

Assieme al Giappone anche l’economia del Regno Unito è finita in recessione, riportando nel quarto trimestre 2023 un PIL in contrazione dello 0,3% rispetto al trimestre precedente, quando era sceso dello 0,1%.

Anche il Regno unito è entrato “tecnicamente” in recessione, avendo registrato due trimestri consecutivi di PIL negativo, ma l’anno 2023 si salva con un +0,1% rispetto al 2022.

L’idea degli analisti in questo secondo caso è che l’economia del Regno Unito abbia toccato il fondo e sia pronta per un rimbalzo, che arriverà nel 2024.

Per questo appare oggi più probabile un taglio anticipato dei tassi di interesse da parte della Banca d’Inghilterra.

 

Germania diventa la cenerentola d’Europa.

L’economia tedesca non si è salvata da questa ondata di rallentamento ed è entrata in recessione nel 2023, registrando un calo del PIL dello 0,3% a causa della crisi che ha colpito il settore industriale per effetto degli alti costi dell’energia e delle difficoltà di esportare in risposta alla crisi economica mondiale.

Fattori che si sono uniti alla debolezza dei consumi interni, penalizzando la locomotiva d’Europa.

In questo caso, il boccino è in mano alla “BCE”, vicina a porre fine alla politica restrittiva messa a punto per combattere l’inflazione, anche se i tempi non sono ancora maturi e si potrà attendere sino alla fine del primo semestre di quest’anno.

Le nuove previsioni della Commissione europea.

Le previsioni della Commissione europea annunciate ieri confermano invece che l‘UE ha dribblato la recessione.

“L’economia europea rallenta.

 Ha evitato la recessione, ma ha avuto una crescita molto bassa e continuerà ad averla anche quest’anno”, ha ammesso il Commissario “Paolo Gentiloni”, aggiungendo “siamo fiduciosi che nel 2025 l’attività economica possa riprendere l’attività e questo vale anche per l’Italia”.

L’UE ha rivisto la stima sul PIL della zona euro allo 0,5% nel 2023 dallo 0,6% previsto in autunno ed allo 0,8% nel 2024 dall’1,2% precedente.

 Nel 2025 ci si aspetta un ritorno alla crescita (+1,5%).

Stesso discorso vale per l’Italia che nel 2023 e nel 2024 crescerà solo dello 0,7% (in precedenza si stimava nel 2023 un aumento dello 0,9%), mentre resta inoltre invariata la previsione per il 2025 all’1,2%.

La classifica vede fra i peggiori in UE:

Svezia (+0,2%), Germania (+0,3%), Paesi Bassi (+0,4%), Finlandia (+0,6%), Austria (+0,6%), Estonia (+0,6%) e Italia (+0,7%).

 

 

 

TRANSIZIONE ECOLOGICA.

Alessandro Panza: "Le politiche green

dell’Unione europea non funzionano."

Primadituttomilano.it – (25 settembre 2023) – Alessandro Panza – ci dice:

 

(L’intervento dell’eurodeputato del Gruppo Lega - Identità e Democrazia).

Panza: "Le politiche green dell’Unione europea non funzionano"

“Nel nome di una transizione verde accelerata rispetto al resto del mondo industrializzato, la Commissione europea vorrebbe imporre ai suoi cittadini sacrifici economici enormi, insistendo nel non voler tenere conto delle nuove evidenti criticità poste dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina”.

Questo il giudizio di Alessandro Panza, europarlamentare del Gruppo Lega - Identità e Democrazia, sulle politiche green varate dall’Unione europea.

L’inquinamento va affrontato a livello globale.

Mentre la nostra economia sta faticosamente cercando di ripartire, l’Unione europea esige una” conversione green radicale in tempi brevissimi “– spiega Panza -.

L’”European Green Deal”, infatti, tanto voluto dalla Commissione europea allo scopo di raggiungere la neutralità climatica nel 2050, è un più che nobile e condivisibile obiettivo, ma totalmente utopico e irrealizzabile:

è un programma per raggiungere uno sviluppo sostenibile nella sola Europa unita.

 L’errore è già qui:

 il problema dell’inquinamento, la transizione energetica, vanno affrontati a livello globale o così sono destinati a fallire.

 Ci sono Nazioni che non si preoccupano minimamente di causare danni all’ambiente e giocando senza regole possono vendere i loro prodotti a prezzi più bassi, facendo concorrenza alle nostre industrie, che stanno perdendo sempre più terreno a causa delle regole imposte da Bruxelles.

È notizia di questi giorni la chiusura dello stabilimento di una storica azienda che produce componenti per motori tradizionali, la “Magneti Marelli”, che ha annunciato la chiusura definitiva della sua divisione di Crevalcore per un totale di 230 lavoratori licenziati a causa delle iniziative ecologiche della Ue legate alle auto elettriche.

Non può che essere il primo di una lunga serie”.

Serve una transizione ecologica equa e accessibile.

“Invece di perdere tempo inseguendo utopie irrealizzabili – prosegue l’eurodeputato -, l’Unione europea si dovrebbe concentrare su un processo di allontanamento dalla dipendenza cinese e soprattutto rivedere gli step fissati dal piano 'Fit for 55' che si prefigge di ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030.

L’Europa attualmente incide per circa il 9% delle emissioni mondiali…

È fondamentale cercare soluzioni globali e graduali per una transizione equa e accessibile, evitando di forzare le economie locali a fermarsi, mentre nel frattempo continuiamo a favorire quelle dei Paesi ad alto impatto ambientale.

Dobbiamo riconoscere che tutti condividiamo lo stesso pianeta e l’aria che respiriamo, e agire di conseguenza.

 La transizione verso l’ecosostenibilità è un obiettivo giustificato e imprescindibile, ma qui si tratta di smantellare uno dei sistemi industriali più avanzati del mondo, quando è totalmente irrealistico considerare l’Europa come l'unico attore responsabile di questo cambiamento.

 Il fallimento delle politiche green è ormai evidente persino in quei settori che dovrebbero essere da traino, che si stanno inceppando.

Il “Green Deal sull’eolico”, per esempio, si è completamente sgonfiato a causa di investimenti in ritardo, turbine sempre più costose e aziende in crisi che rinunciano allo sviluppo dei progetti, minati dall’aumento dei costi di gestione e di produzione”.

 

Elezioni europee del 2024 e politiche ambientali dell’Ue.

“Il 2024 sarà anche l’anno in cui le elezioni per il Parlamento europeo avranno un impatto significativo sul futuro delle politiche ambientali dell’Unione – conclude Panza -.

Il tema della transizione energetica, che va dall’auto elettrica alle case ecologiche, al ruolo del gas e del nucleare, saranno senza dubbio al centro delle elezioni europee, cui dovremmo tutti partecipare con maggiore attenzione perché andranno a impattare in maniera diretta e immediata sul nostro futuro, esattamente come ci insegnano le vicende recentemente assurte alla cronaca del blocco dei veicoli Euro 5 o della Casa Green, la proposta di normativa europea sull’edilizia.

Su quest’ultima ho personalmente indetto una raccolta firme per presentare una petizione al Parlamento europeo affinché venga applicata solo sugli edifici di nuova costruzione, per chiedere che si sospenda la sua introduzione per gli edifici già esistenti e che entri in vigore solo dopo aver ben specificato gli importi e le fonti di finanziamento.

È possibile firmare la petizione sul sito “giulemanidallacasa.it”.

Sussidiare i redditi, non il diesel,

per gestire bene la transizione.

Avvenire.it - Leonardo Becchetti – (3 febbraio 2024) - ci dice:

 

La protesta con i trattori degli agricoltori a Bruxelles ci ricorda ancora una volta, come diceva “Alexander Langer,” che la transizione ecologica per avere successo deve essere socialmente sostenibile.

(Trattori sulle strade. La protesta degli agricoltori).

 La protesta con i trattori degli agricoltori a Bruxelles ci ricorda ancora una volta, come diceva “Alexander Langer”, che la transizione ecologica per avere successo deve essere socialmente sostenibile.

 E se non è socialmente sostenibile non è neanche politicamente sostenibile.

Le cose non sono semplici.

Si fa presto a dire che è uno scandalo che esistano sussidi ambientalmente dannosi e che dobbiamo cancellarli con un tratto di penna, ma non si considera il fatto che cancellarli ci fa andare incontro a situazioni simili a quelle che stiamo vivendo in questi giorni.

I sussidi ambientalmente dannosi sono aiuti a categorie che non navigano certo nell’oro, come agricoltori, autotrasportatori, pescatori, tassisti.

Se non ci domandiamo come è possibile sterilizzare gli effetti negativi di queste decisioni sul reddito di tali categorie la specifica politica di transizione ecologica non è socialmente sostenibile, e di conseguenza non è nemmeno politicamente sostenibile.

Siamo dunque costretti alla paralisi che ci porta dritti nel burrone del disastro ecologico?

Niente affatto perché le soluzioni ci sono se superiamo le contrapposizioni di questi giorni e ragioniamo più in profondità.

 Gli agricoltori vogliono pagare meno il gasolio (incentivo ambientalmente dannoso perché rende meno cara la fonte fossile) o evitare di avere una perdita di reddito alla fine del mese?

 La seconda senza dubbio, particolarmente importante in un settore dove chi è alla base della filiera partecipa molto meno della distribuzione o della trasformazione ai guadagni derivanti dalla vendita dei prodotti finali.

La soluzione dunque è disaccoppiare i due effetti.

È possibile infatti evitare sia di dare un segnale sbagliato verso le fonti fossili, rendendole meno care allontanando il traguardo della transizione, e allo stesso tempo evitare la perdita di reddito degli agricoltori.

Come si insegna agli studenti di economia del primo anno (equazione di Slusky) ogni variazione di prezzi (in questo caso l’aumento dei prezzi del gasolio) si traduce in una variazione della spesa e del potere d’acquisto.

La risposta a questa variazione di prezzo (degli agricoltori) dipende dunque da un effetto sostituzione (cerco di economizzare se posso il bene che ora costa di più) e da un effetto reddito (se mantengo costante il livello dei consumi del bene che ora costa di più ho una perdita di reddito e sono diventato più povero).

Per risolvere il problema bisogna separare i due effetti.

Il prezzo del gasolio deve salire per dare il segnale corretto dell’effetto ambientale negativo derivante dalla scelta di quel carburante (favorendo così comportamenti orientati al risparmio e non allo spreco di gasolio e, ove possibile, alla sostituzione con carburanti meno inquinanti).

La perdita di reddito conseguente può essere interamente compensata dallo stato restituendo sotto forma di sussidio al reddito quanto perduto.

Nel lavoro realizzato nella commissione al ministero dell’Ambiente (così definito per semplicità visto che il nome cambia ad ogni governo) che ha studiato il problema dei sussidi ambientalmente dannosi abbiamo spiegato che esiste una vasta gamma di possibili scelte in questa direzione.

 Un governo rimuovendo i sussidi ambientalmente dannosi può parallelamente decidere per quanti anni offrire la compensazione di reddito alle categorie colpite e, ove possibile, trasformarla in incentivo alla sostituzione della vecchia tecnologia con una meno inquinante.

 È il caso dei tassisti che hanno la possibilità di scegliere tra auto a benzina e auto elettrica, dove ormai la seconda sta diventando più conveniente sulla gamma alta e presto anche sulla gamma bassa.

La differenza infatti non si calcola solo sul prezzo d’acquisto (peraltro ormai più basso sulla gamma alta) ma anche sui costi di rifornimento (molto più bassi nell’elettrico che con la benzina) e di manutenzione (che con le auto elettriche scende praticamente a zero).

 

La sostituzione delle tecnologie è senz’altro più difficile per le altre categorie (almeno per il momento).

 Pertanto la risposta sarà nel sussidio al reddito finanziabile in parte con le entrate fiscali sullo stesso bene a cui sommare ad esempio le entrate dai certificati verdi.

Una parte della soluzione resta a carico dello Stato che però può valutare quanto l’intervento sia importante per ridurre un danno sociale ed ambientale significativo.

 Gli effetti economici negativi del ritardo della transizione ecologica cominciano infatti ad essere evidenti sotto forma di contributo all’inflazione, aumento dei prezzi dei beni alimentari e dell’energia, conseguenze degli eventi climatici estremi nelle zone in cui si verificano.

La questione degli agricoltori sul versante politico e sociale assomiglia per certi versi a quella del “superbonus “dove un tetto annuo di spesa per il governo e limiti alla “liquidità” del credito d’imposta possono risolvere il problema della quadra tra esigenze di bilancio, stimolo all’economia e incentivo alla riduzione delle emissioni.

 Ma in questo, come nel caso degli agricoltori, lo scontro ideologico fa tanto colore e fa comodo ai media e ai partiti che attraverso questi conflitti si posizionano per catturare le preferenze dei loro elettori ed aumentare il consenso dicendo sì o no.

Finita questa prima fase di conflitto speriamo vivamente entrino in campo riflessioni più serie e soluzioni.

Perché quello che è certo è che nessuno vuole tra pochi anni arrivare ad una situazione climatica di non ritorno ed è possibile evitare il problema senza mettere sul lastrico gli agricoltori e tutti coloro che possono perdere dalla transizione.

 

 

 

La transizione ecologica dell'UE

deve fondarsi su una forte

accettabilità sociale e non lasciare indietro

nessun cittadino, territorio o impresa. 

Cor.europa.eu – (30-6-2022) – Redazione – ci dice:

 

Su richiesta del Consiglio dell'Unione europea, l'Assemblea delle città e delle regioni dell'UE ha elaborato un parere sugli imperativi ambientali e l'accettabilità sociale della transizione ecologica.

 Il Comitato europeo delle regioni ha accolto i suggerimenti della relatrice “Hanna Zdanowska” (PL/PPE),” sindaca di Łódź”, che propone una serie di misure economiche e sociali volte a garantire che il “Green Deal europeo” — la strategia di crescita sostenibile dell'UE per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 — si fondi su una forte accettabilità sociale e non lasci indietro nessun cittadino, territorio o impresa.

“Hanna Zdanowska ​“(PL/PPE), sindaca di Łódź e ambasciatrice polacca del “Patto dei sindaci”, ha dichiarato che

"il successo della trasformazione ecologica dipende dalla rapida creazione, a livello europeo e nazionale, delle giuste condizioni per l'attuazione delle azioni verdi da parte degli enti locali e regionali.

 Chiediamo all'UE di finanziare direttamente le città e le regioni per dare concreta attuazione al “Green Deal a livello locale”, compiere passi avanti nella diversificazione delle fonti energetiche e conseguire l'indipendenza dai combustibili fossili importati dalla Russia.

In tale contesto, dobbiamo promuovere l'efficienza energetica nell'ambito dell'ondata di ristrutturazioni e accelerare la diffusione delle energie da fonti rinnovabili nelle nostre città e nelle nostre regioni.

La trasformazione ecologica dell'UE deve fondarsi su una forte accettabilità sociale e non deve lasciare indietro nessun cittadino, territorio o impresa.

Proponiamo pertanto di organizzare dialoghi locali permanenti e vertici locali sul clima per assicurare il successo della transizione ecologica".

Il Comitato denuncia l'eccessiva centralizzazione dei fondi dell'UE e chiede una revisione delle regole in materia di accesso alle risorse:

 i membri, infatti, sottolineano che i fondi in questione - compresi quelli della politica di coesione, del dispositivo per la ripresa e la resilienza, del “Fondo per una transizione giusta” e del “Fondo per la modernizzazione”, e persino “i fondi direttamente destinati ai livelli locale e regionale”, come “LIFE “e il “meccanismo per collegare l'Europa” - sono programmati a livello nazionale.

Per accelerare la transizione verde e l'ondata di ristrutturazioni, il “CdR” invita la “Commissione europea” a erogare dei finanziamenti direttamente agli enti locali e regionali per l'attuazione dei progetti del “Green Deal”.

Chiede inoltre agli Stati membri di riorientare le risorse inutilizzate del dispositivo per la ripresa e la resilienza al fine di sostenere la pianificazione della sicurezza energetica a livello locale e gli investimenti nelle fonti di energia rinnovabili e nell'efficienza energetica.

 Il Comitato invita la Commissione a rivedere le norme per il finanziamento dei servizi comunali, a ridurre gli oneri finanziari delle misure in materia di efficienza energetica ed energie rinnovabili e a ridurre e semplificare gli ostacoli normativi alle nuove tecnologie e ai nuovi modelli imprenditoriali.

Per promuovere l'”accettazione sociale”, il Comitato propone diverse misure, tra cui un maggiore ricorso alla “governance partecipativa” — ad esempio attraverso “bilanci partecipativi “e” dialoghi locali” — e un sostegno finanziario a meccanismi di consultazione permanenti come i vertici locali sul clima.

 Il Comitato propone inoltre di intensificare le attività delle reti esistenti, come quelle degli ambasciatori del “Patto dei sindaci” e del “Patto per il clima”, e invita la” Commissione europea” e gli “Stati membri” a finanziare campagne di sensibilizzazione dell'opinione pubblica per promuovere il risparmio energetico.

Il Comitato chiede che il” Fondo sociale per il clima “sia istituito nell'ambito di un “sistema di gestione concorrente” che rispetti i principi di “partenariato” e di “governance multilivello”.

Per promuovere la replicazione dell'azione per il clima in tutta l'UE, è di cruciale importanza la cooperazione tra città.

Il Comitato invita la Commissione a considerare la possibilità di creare dei "poli per il clima" quali punti di informazione e strumenti ad hoc per l'assistenza tecnica e lo scambio di informazioni a livello locale, comprese “le visite di studio”.

I leader locali e regionali invitano la Commissione europea e gli Stati membri a ridurre gli ostacoli alla “creazione di comunità locali di energie rinnovabili”, poiché si tratta di una misura fondamentale per “affermare la sovranità energetica dell'UE” e liberarsi dalla “dipendenza dai combustibili fossili russi”.

Le città e le regioni chiedono inoltre nuove misure per “sviluppare l'economia sociale”, tra cui un” regime fiscale adeguato” e norme specifiche in materia di” appalti pubblici e aiuti di Stato”.

 

I “leader locali” chiedono che la “produzione sostenibile” sia stimolata attraverso un regime di responsabilità estesa del produttore per un numero sempre maggiore di prodotti, e sono favorevoli all'aggiornamento sostanziale della “direttiva sulle emissioni industriali”.

I membri concordano sulla necessità di sviluppare un maggior numero di progetti e infrastrutture per l'energia sostenibile a livello transfrontaliero.

 Il” CdR “invoca una normativa supplementare che estenda” i principi dell'economia circolare” a tutti i prodotti e beni presenti sul mercato dell'UE.

 

Il Comitato difende l'approccio "One Health", riconoscendo la necessità di proteggere la natura e ripristinare la biodiversità, gli habitat e gli ecosistemi per tutelare la salute dei cittadini.

Tale approccio è un pilastro fondamentale della piattaforma delle parti interessate sull'inquinamento zero nell'UE.

Contesto:Gli enti locali e regionali come attori chiave nella transizione verde.

Il Comitato ricorda che gli enti locali e regionali attuano il 70 % di tutta la legislazione dell'UE, il 70 % delle misure di mitigazione dei cambiamenti climatici, il 90 % delle strategie di adattamento a tali cambiamenti e il 65 % degli obiettivi di sviluppo sostenibile, oltre a effettuare un terzo della spesa pubblica e i due terzi degli investimenti pubblici.

Attraverso il” Green Deal a livello locale”, il “CdR” si impegna a sostenere le città e le regioni nell'attuazione del “Green Deal europeo”.

Gli enti locali e regionali sono invitati a fornire un riscontro sulla loro esperienza di attuazione del “Green Deal” in “un sondaggio online” e a condividere qui i loro impegni in materia di azione per il clima.

(David Crous – contatto stampa)

 

 

 

 

Rappresentante Cinese

presso l’ONU: “la NATO

Dovrebbe Smettere di Invocare la Guerra.”

 

Conoscenzealconfine.it – (16 Febbraio 2024) – Global Time- Luciano  Lago – ci dice:

 Il Rappresentante permanente della Cina presso l’ONU ha affermato che la “NATO” dovrebbe svegliarsi dal “mito del potere” e smettere di invocare la guerra.

Il rappresentante permanente della Cina presso le Nazioni Unite, “Zhang Jun”, ha invitato l’Occidente a risolvere le differenze che emergono nel mondo attraverso il dialogo e la consultazione, nonché ad aderire a un percorso comune volto a una soluzione politica.

Il diplomatico cinese ha sottolineato l’inammissibilità di metodi basati su pressioni, calunnie o sanzioni unilaterali, per non parlare dell’uso della forza, e ha anche osservato che è tempo che la NATO si svegli dal mito della forza e smetta di esagerare le minacce e di invocare la guerra.

In precedenza, il Ministero degli Esteri cinese aveva dichiarato che l’imposizione di sanzioni da parte dell’Occidente contro le aziende cinesi a causa della cooperazione con la Russia è inaccettabile.

Un rappresentante del Ministero degli Esteri cinese, commentando i piani della UE di imporre restrizioni a un certo numero di aziende, anche cinesi, per la cooperazione con la Federazione Russa, ha osservato che le imprese russe e cinesi continuano ad effettuare scambi e collaborazioni regolari.

Allo stesso tempo, l’interazione esistente tra i paesi non è rivolta ad altri paesi e non dovrebbe essere soggetta ad alcuna interferenza o influenza da parte di terzi.

 Il Ministero degli Esteri cinese ha inoltre sottolineato che Pechino adotterà le misure necessarie volte a proteggere con risolutezza i diritti e gli interessi legittimi delle imprese cinesi.

Ha aggiunto che gli interessi di sicurezza di tutti i paesi sono uguali e che le legittime e ragionevoli preoccupazioni di sicurezza di qualsiasi paese dovrebbero essere prese sul serio e affrontate adeguatamente.

Solo risolvendo pacificamente le differenze attraverso il dialogo e la consultazione e promuovendo la costruzione di un’architettura di sicurezza equilibrata, efficace e sostenibile si potrà raggiungere la sicurezza universale.

“Zhang “ha chiesto di persistere nella risoluzione delle controversie attraverso il dialogo e la consultazione e di aderire alla direzione della soluzione politica, piuttosto che impegnarsi in pressioni, diffamazioni, sanzioni unilaterali e uso sfrenato della forza.

Nota:

Saggie parole da parte del rappresentante della Repubblica Popolare Cinese che però non trovano riscontro a Washington, nella potenza (che si crede) egemone e che affida tutta la sua politica estera alle minacce, alle sanzioni, nell’occupazione arbitraria in altri paesi, nella diffusione del caos e dei bombardamenti sui paesi che non si piegano al suo dominio.

(Global Times - Luciano lago)

(controinformazione.info/rappresentante-permanente-della-cina-presso-lonu-la-nato-dovrebbe-svegliarsi-dal-mito-del-potere-e-smettere-di-invocare-la-guerra/)

 

 

 

Fallimento iniziale e “nuova direzione”:

la “politica estera europea” nel

Conflitto israelo-palestinese.

 Mondointernazionale.org - ALESSANDRO ALLORO – (24 NOVEMBRE 2023) – ci dice:

 

All’indomani dell’attacco terroristico delle forze di “Hamas contro “Israele” del 7 ottobre scorso, e dell’escalation che questo ha comportato al conflitto arabo-israeliano, l’”Unione Europea” ha risposto condannando fermamente il gesto ribadendo il sostegno a Israele, ma sottolineando al contempo l’importanza di rispettare il diritto internazionale nella risposta che lo Stato ebraico ha messo in atto a Gaza.

Di fatti, a seguito del vertice europeo straordinario del 17 ottobre il Presidente del Consiglio Europeo “Charles Michel” ha dichiarato:

 "Quando si tagliano le infrastrutture di base, l'accesso all'acqua, all'elettricità e non si permette la consegna di cibo, non si agisce in linea con il diritto internazionale".

Anche la “Presidente della Commissione Europea”, “Ursula Von der Leyen”, ha affermato che la guerra è contro l'organizzazione terroristica di “Hamas “e che quindi il “popolo palestinese” non deve pagarne le conseguenze.

Pertanto, non vi è alcuna contraddizione nell’essere solidali con Israele e fornire nello stesso tempo i bisogni umanitari fondamentali ai palestinesi.

Questa dichiarazione avviene in seguito al dibattito in merito a una possibile sospensione degli aiuti umanitari europei verso i territori palestinesi annunciata dal “Commissario europeo” per l’allargamento e la politica di vicinato” Oliver Várhely”, poi smentita dal portavoce capo dell’esecutivo comunitario “Eric Mamer”.

 Saranno invece non solo mantenuti, bensì triplicati, da 25 a 75 milioni di euro.

Queste asserzioni avvengono dopo un’iniziale e apparente caos nella politica estera dell’Unione in merito al conflitto in Medio Oriente;

 infatti, il vertice europeo in cui si è discusso dell'escalation in seguito agli attentati del 7 ottobre si è tenuto soltanto successivamente a una visita della “Presidente della Commissione europea in Israele”.

Visita a cui sono seguite diverse critiche, in quanto sembra aver trasmesso, secondo molti, il messaggio che l’UE avrebbe supportato senza alcuna condizione le strategie messe in essere dal “governo Netanyahu”, che sappiamo non essere esente da parecchie critiche sia sul piano interno che in correlazione alla gestione del conflitto con la Palestina.

Inoltre, nel corso del “Consiglio Europeo straordinario” anziché di invocare il cessate il fuoco richiesto anche dall’ONU, ci si è appellati ad una semplice pausa umanitaria.

Alla luce di quanto si è detto, la politica estera europea si è dimostrata ancora una volta incapace di rispondere alle maggiori crisi internazionali dei nostri tempi.

 Questo non si riflette soltanto attraverso le azioni e le dichiarazioni dei principali esponenti delle istituzioni europee, ma anche attraverso atti concreti dei Paesi Membri dell’Unione.

Di fatti, nonostante la posizione univoca assunta dai 27 capi di Stato e di governo nel corso del “Consiglio europeo straordinario del 17 ottobre”, il 26 ottobre, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite quattro paesi dell’Unione (Austria, Croazia, Repubblica Ceca e Ungheria) hanno votato contro una risoluzione sul cessate il fuoco a Gaza, otto hanno votato a favore (Belgio, Francia, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Portogallo, Slovenia e Spagna), mentre 15 si sono astenuti (Bulgaria Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Polonia, Slovacchia, Svezia e Romania).

L’unico punto su cui sembra che tutti gli Stati Membri siano in comune accordo è la prospettiva della creazione di due Stati coesistenti, uno arabo palestinese e uno ebraico israeliano, come soluzione al conflitto in Medio Oriente, in linea con quanto proposto dalla Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del novembre 1947.

Storicamente, infatti, l’Unione Europea ha da sempre sostenuto la soluzione a due Stati avallata dall’ONU, non mancando di promuovere la nascita di uno stato palestinese indipendente accanto a Israele in numerose occasioni svolgendo attivamente non soltanto un ruolo diplomatico attraverso processi di pace e l’incoraggiamento al dialogo tra i due popoli, ma anche ricorrendo al sostegno finanziario di progetti umanitari all’interno del territorio dell’Autorità Palestinese.

Secondo quanto dichiarato dall’ex diplomatico francese “Pierre Vimont” in merito al conflitto arabo-israeliano:

"L'Ue può ancora avere un ruolo, ma ora deve fare i conti con una sorta di handicap nei confronti dei Paesi arabi, e più in generale con molti partner del Sud globale che hanno perso un po' la fiducia nella diplomazia dell'Ue".

Un” prima svolta” che ha portato a far sentire il peso diplomatico dell’UE nel conflitto arriva tuttavia dopo un mese, tra il 16 e il 17 novembre scorso, con la visita dell’”Alto Rappresentata per gli Affari esteri e la politica di sicurezza”,” Josep Borrell”, in Palestina, visita che risana marginalmente i tentavi di una politica etera europea fallimentare e le parecchie divisioni tra i leader dei 27.

Borrell “ha difatti ammesso una mea culpa da parte dell’Unione Europea nella gestione del conflitto in Medio Oriente, sottolineando la necessità di una soluzione politica per porre fine al ciclo di violenza, non mancando di condannare anche l’aumento del terrorismo dei coloni israeliani in Cisgiordania.

 L’Alto Rappresentante ha difatti esortato Israele a confrontarsi con la questione dell'occupazione illegale di questo territorio che rischia di portare a una crescente ostilità del conflitto, estendendolo appunto anche alla Cisgiordania.

Al margine dell’incontro con il primo ministro palestinese, “Mohammad Shtayyeh”, Borrell ha presentato un piano europeo che prevede sei condizioni, tra cui tre affermative e tre negative, al conflitto israelo-palestinese.

Tra le negazioni, si evidenzia l'opposizione a un'espulsione forzata dei palestinesi, alla riduzione del territorio di Gaza e alla rioccupazione permanente da parte di Israele, sottolineando l'integrazione della questione dei bombardamenti a Gaza con il problema palestinese complessivo.

Le affermazioni includono il ritorno di un'autorità palestinese a Gaza, con esplicito riferimento all'Autorità Nazionale Palestinese a Ramallah, il coinvolgimento finanziario e politico degli Stati arabi, e un maggiore impegno dell'UE nella costruzione dello Stato palestinese.

Ciononostante, Borrell ha sottolineato come la soluzione dovrà essere “appoggiata con un forte coinvolgimento degli Stati arabi” sia a livello finanziario che politico, e di come servirà un "maggiore coinvolgimento dell’UE nella regione, in particolare nella costruzione dello Stato palestinese”.

Il piano ha incassato il sostegno dal governo palestinese, riportando in qualche modo l’Unione Europea al suo ruolo di intermediario nel conflitto mediorientale.

(Mondo Internazionale APS)

 

 

 

 

 

LA MANCANZA DI UNA POLITICA

COMUNE E SICUREZZA INTERNAZIONALE

EFFETTIVA: UN'ANALISI CRITICA

DELL'UNIONE EUROPEA.

Mondointernazionale.org – Redazione - FOCUS – ALLEGATI -  (09 GENNAIO 2024) – ci dice:

 

La “Politica di Sicurezza e Difesa Comune” (PSDC) è un elemento fondamentale della” Politica Estera e di Sicurezza Comune” (PECS) dell’Unione Europea (“UE”).

La “PSDC” costituisce il principale quadro politico attraverso il quale gli stati membri possono sviluppare una” cultura strategica europea della sicurezza e della difesa”.

Il suo obiettivo è affrontare congiuntamente conflitto e crisi, proteggere l’Unione e i suoi cittadini, nonché rafforzare la pace e la sicurezza a livello internazionale.

 (Consiglio Europeo,2023).

 

Negli ultimi dieci anni, la” PSDC” ha subito significativi cambiamenti a causa del contesto geopolitico caratterizzato da tensioni.

 La guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, a partire dal 24 febbraio 2022, ha segnato un nuovo inizio geopolitico per l’Europa. Questo evento ha anche fornito un ulteriore impulso verso l’obiettivo di creare un’Unione della difesa nell’UE.

Cronache di insuccessi:

Dal 1948 ad oggi, i fallimenti di una mancanza di politica comune e di difesa internazionale.

L’”Unione Europea” nasce come tentativo di creare un sistema ordinato che eviti la guerra e conflitti sanguinosi.

Alla base c’è l’idea di garantire la pace e la stabilità nei rapporti tra gli stati.

Nel 1648 la Pace di Vestfalia mise fine ad una lunga serie di guerre di religione combattute in Europa dal 1618 al 1648 e che ha visto coinvolti tutti i paesi europei in un sistema di alleanze, portando alla distruzione di tutto il territorio europeo, soprattutto dell’area centrale:

 Germania, Repubblica Ceca, parte della Francia e Italia.

Fin dal “1600” grandi teorici della politica iniziano a ragionare su come creare un sistema ordinato che non sia più dominato dall’anarchia.

Nel “1700” si inizia a parlare di questa idea di Europa, tutti ragionano sulla creazione di un meccanismo che eviti l’avvento di scontri violenti ma che invece garantisca la convivenza civile ed equilibrata tra gli stati.

 Nel corso della seconda metà del XVIII secolo, “Immanuel Kant” delineò la sua visione per una “Pace Perpetua”, concependo l’idea di un’Europa che potesse instaurare un sistema organizzato di stati europei, garantendo la pace in modo duraturo.

 

“Kant” suggerì che, dato il carattere anarchico del sistema internazionale, la creazione di una confederazione di stati europei potesse evitare conflitti futuri.

 L’autonomia degli stati avrebbe inevitabilmente portato a conflitti, mentre una struttura sovranazionale avrebbe invece legato gli stati europei, prevenendo così la guerra reciproca.

L’Europa, sin dai tempi post- bellici della” Seconda Guerra Mondiale”, è stata connessa all’obiettivo di costruire un ordine europeo.

 La decisione di istituire la “Comunità Europea” fu guidata dalla volontà di creare un sistema ordinato e di prevenire la guerra attraverso l’integrazione tra gli stati europei.

Dal 1945”, i principali paesi europei evitarono di entrare in conflitto aperto tra di loro.

Il “Manifesto di Ventotene del 1941”, redatto da antifascisti al confino, promuove l’idea di una comunità europea basata sul rifiuto di nazionalismo e dittature, in particolare nazismo e fascismo.

 Gli autori, tra cui “Altiero Spinelli”, “Ernesto Rossi “e Eugenio Colorni”, si ispirano al liberal socialismo.

Il manifesto identifica gli stati nazione come avversari dell’integrazione europea, in quanto esacerbano/inaspriscono il nazionalismo.

L’”obiettivo dell’Unione Europea” è prevenire guerre e conflitti sanguinosi attraverso la “creazione degli Stati Uniti d’Europa”, un modello federale in cui gli stati membri cedono parte della sovranità per un esercito comune europeo.

Tuttavia, la realizzazione pratica di queste idee si è dimostrata complessa.

 Gli Stati non erano tutti disposti a cedere la propria sovranità, e la mancanza di fiducia reciproca tra le nazioni europee, appena uscite dalla guerra, ostacolava la creazione di una federazione immediata.

La fiducia reciproca era fondamentale, ma difficile da raggiungere dopo anni di conflitti.

Pertanto, il percorso verso l’integrazione dove gli stati cedono gradualmente la sovranità è stato considerato il modello più realistico per avanzare.

Ancora oggi, l’UE procede per gradi, cedendo sovranità gradualmente, secondo l’idea inziale del “Manifesto di Ventotene”.

Il processo di integrazione europea è stato caratterizzato da una successione di iniziative, ciascuna volta più ambiziosa, che hanno trasformato l’Europa da una regione di conflitto a una di cooperazione e integrazione.

Ogni fase ha contribuito a rafforzare le fondamenta dell’UE e a creare un’entità politica ed economica più unità.

 (Giuliana Laschi, “Storia dell’integrazione europea, 2016)

 

L’UNIONE EUROPEA PUÒ VANTARE DI POSSEDERE UNA POLITICA E UNA SICUREZZA INTERNAZIONALE COMUNI E SOLIDE?

 

In materia di politica comune e difesa, alla fine della Seconda guerra mondiale, si riproponevano in Europa due problemi dalla cui soluzione dipendeva il ristabilimento di un equilibrio europeo e mondiale:

la questione tedesca e quella della sicurezza della Francia.

Nel 1948 fu firmato il “Trattato di Bruxelles “che prevedeva una coalizione di stati europei che si unirono per garantire la reciproca difesa in caso di aggressione esterna.

L’obiettivo principale era quello di creare una solida alleanza militare tra i suoi membri, con l’idea di rispondere congiuntamente a minacce alla sicurezza e alla stabilità della regione.

Si trattò di un impegno di mutua assistenza in caso di attacco armato contro uno degli Stati firmatari.

Questo trattato fu il precursore dell’”Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord” (NATO), fondata nel 1949.

 La NATO estese e sviluppò ulteriormente gli impegni di difesa reciproca, coinvolgendo anche gli Stati Uniti e il Canada nella garanzia di sicurezza per i paesi membri.

La NATO è fondata sul principio di difesa collettiva, sancito nell’articolo 5 del suo Trattato.

 Questo articolo afferma che un attacco contro uno o più membri viene considerato un attacco contro tutti, impegnando gli stati membri a rispondere con forza militare collettiva.

Gli stati membri si impegnano a condurre consultazioni regolari sulla politica di sicurezza e gli sviluppi internazionali.

Ciò promuove la condivisione di informazioni e la formulazione di una risposta coordinata alle sfide globali.

Essa ha condotto diverse operazioni militari, sia all’interno del suo territorio che al di fuori, al fine di preservare la pace e la stabilità. (Parlamento Europeo, 2023).

In seguito al Trattato di Parigi del 1952 è stata proposta e firmata, da 6 paesi fondatori della “CECA”, la creazione della “CED” ovvero della “Comunità Europea di Difesa”.

La “CED” aveva l’obiettivo di integrare le forze armate dei paesi membri per formare una difesa comune europea.

 L’idea era di superare la concezione di sicurezza basata su alleanze nazionali e creare una struttura di difesa europea unificata.

 La” CED “avrebbe dovuto garantire la sicurezza collettiva, prevenire conflitti tra i paesi membri e contribuire a stabilizzare la situazione geopolitica dell’Europa occidentale.

 Dopo la devastazione della Seconda Guerra Mondiale, gli stati europei cercavano modi innovativi per prevenire futuri conflitti e garantire la pace.

La “Comunità Europea di Difesa” avrebbe coinvolto la Germania occidentale nel sistema di sicurezza europeo, consentendo agli altri paesi di avere un certo controllo sulle forze armate e prevenendo il riemergere di una Germania militarizzata.

La “CED” era considerata un elemento chiave nella creazione di una forza militare europea integrata che avrebbe contribuito alla “NATO”, l’”organizzazione di protezione atlantica”.

La “CED” rappresentò il primo esempio fallimentare di un progetto in materia di politica e difesa comune in quanto, rappresentava un tentativo ambizioso di creare una tutela comune tra i paesi membri della Comunità Europea.

 Tuttavia, il progetto si scontrò con diverse difficoltà e, alla fine, non fu ratificato.

Alcune tra le ragioni che fecero fallire la “CED” furono la opposizione nazionale soprattutto in Francia dove si temeva che la “CED” avrebbe minato la sovranità nazionale, trasferendo il controllo delle forze armate a un’autorità sovranazionale europea.

 A questo si aggiunse una forte diffidenza nei confronti della Germania e una notevole preoccupazione all’idea di integrare le forze armate tedesche in una struttura di difesa comune.

 La proposta di creare una difesa comune sollevò domande cruciali sulla sovranità nazionale.

I paesi membri erano riluttanti a cedere il controllo totale delle loro forze armate a un’autorità centrale europea, evidenziando le difficoltà nel bilanciare l’integrazione con il mantenimento della sovranità.

 A causa di tutta una serie di sfide, la ratifica della “CED” si rivelò impossibile, con il Parlamento francese che respinse il “Trattato nel 1954”.

Il fallimento della “CED “non fermò l’integrazione europea, ma indicò che il cammino verso una difesa comune sarebbe stato complesso e richiedeva una più ampia accettazione e fiducia tra i paesi membri.

Inserita sotto il titolo V del “Trattato di Maastricht del 1992” come il “secondo pilastro” dell’Unione Europea, la” Politica Estera e di Sicurezza Comune “(PESC) è attualmente regolamentata dagli articoli 23-41, in seguito alle disposizioni generali sull’azione esterna dell’UE presenti negli articoli 21 e 22, dopo la revisione operata dal “Trattato di Lisbona del 2007”.

Secondo l’articolo 23, la “PESC” condivide gli stessi principi e può perseguire gli stessi obiettivi generali dell’azione esterna dell’Unione Europea, che riguarda, come indicato dall’Articolo 24, “tutti i settori della politica estera e tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione, compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune.”

 Quest’ultima potrebbe portare a una difesa comune dell’UE, conosciuta come la” Politica di Sicurezza e Difesa Comune” dell’Unione Europea.

(Parlamento Europeo,2023).

Le decisioni relative agli interventi nell’ambito della “Politica Estera e di Sicurezza Comune” (PESC) sono vincolanti per gli Stati membri dell’Unione Europea, i quali sono altresì tenuti ad allineare le proprie politiche nazionali alle posizioni adottate dall’Unione.

Gli Stati membri devono condurre consultazioni all’interno del “Consiglio europeo” e del” Consiglio dell’Unione “su tutte le questioni di politica estera e sicurezza di interesse generale.

In particolare, prima di assumere qualsiasi impegno internazionale che possa pregiudicare gli interessi dell’UE, devono consultarsi, come indicato nell’articolo 32.

 

Gli Stati membri coordinano le proprie azioni nelle organizzazioni internazionali e durante conferenze diplomatiche, difendendo le posizioni dell’UE.

Questo coordinamento si estende anche agli Stati membri dell’UE che fanno parte del “Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”.

Tuttavia, è importante notare che tali azioni devono essere conformi alle” responsabilità degli Stati membri” previste dalla “Carta delle Nazioni Unite”, come specificato nell’articolo 34.

 

La politica di sicurezza e difesa dell’Unione Europea è influenzata sia dalla Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) che dalla Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC), oltre a essere supportata da diverse strategie e strumenti complementari.

 Tra questi figurano:

Diplomazia che svolge un ruolo centrale nella definizione e nella gestione delle relazioni internazionali, contribuendo a promuovere la pace e la stabilità;

Aiuti umanitari in quanto fornire assistenza umanitaria è un elemento chiave della politica di sicurezza e difesa, affrontando crisi umanitarie e contribuendo alla stabilità nelle regioni colpite.

La cooperazione allo sviluppo:

è un mezzo per affrontare le radici dei conflitti.

Promovendo lo sviluppo sostenibile e la crescita economica.

Azione per il clima.

Diritti umani:

  la promozione e la difesa dei diritti umani sono parte integrante della politica di sicurezza e difesa, riflettendo l’impegno per valori fondamentali e il rispetto della dignità umana.

Sostegno economico

Politica commerciale considerata come un mezzo per promuovere la stabilità economica, la cooperazione e il progresso nelle relazioni internazionali.

L’integrazione di queste diverse dimensioni e strumenti riflette l’approccio olistico dell’UE alla sicurezza e alla difesa, mirando ad affrontare le sfide in modo completo e multidimensionale.

Tra gli anni ’90 e 2000 si verificarono una serie di episodi che evidenziano la mancanza di una politica e sicurezza comune e dove invece vennero fuori le differenze nazionali dovute alle visioni internazionali di ogni paese e alle loro dinamiche interne.

Occorre ricordare il “bombardamento della Serbia” e l’”intervento in Kosovo” e il lungo e “tortuoso processo di disgregazione della Jugoslavia”.

 

In entrambi i casi sono sempre gli Stati Uniti a dettare la linea di intervento e gli europei che si trovavano a dover scegliere se andare dalla loro parte o seguire i propri interessi nazionali.

In Kosovo gli europei non riuscirono a trovare una opzione all’intervento degli Stati Uniti e quindi decidono di sostenerli.

 L’intervento americano non avvenne sotto la bandiera ONU perché la Russia pose il veto ma il bombardamento della Serbia avvenne per mano della NATO.

 Questo dimostra quanto gli Stati Uniti hanno il controllo totale sulla politica internazionale.

Per quanto riguarda la dissoluzione della Jugoslavia, inizialmente i paesi europei erano d’accordo sull’evitare la dissoluzione e cercare di mantenere unita la Jugoslavia ma in poco tempo ciascun paese europeo seguì i propri interessi nazionali, in particolar modo, l’Italia continuò a sostenere la Jugoslavia unita in quanto voleva mantenere il rapporto economico privilegiato che aveva instaurato negli anni, mentre la Germania era favorevole alla dissoluzione siccome le avrebbe permesso di addentrarsi nel Balcani.

 Anche questo episodio culminò con l’intervento degli Stati Uniti che nel 1995 con gli accordi di “Dayton” decretarono la dissoluzione definitiva della Jugoslavia e la nascita di nuovi stati indipendenti.

Con gli attentati dell’11 settembre 2001 l’Unione Europea va a ruota degli Stati Uniti, ma in questo caso la visione era condivisa e non ci sono forme di contestazione.

Anche Russia e Cina offrono il loro supporto agli americani.

Gran parte degli europei, esclusa la Gran Bretagna, si pongono come portatori di una cultura di pace.

Appoggiano l’attacco ma non partecipano.

Gli europei iniziano a sviluppare una politica estera diversa da quella degli Stati Uniti, non vogliono esportare la democrazia con le armi ma l’Unione Europea è una potenza pacifica e culturale e si ritaglia l’immagine di potenza alternativa agli USA senza l’uso delle armi.

La rottura definitiva nel campo della politica estera europea è avvenuta con l’attacco all’Iraq nel 2003:

 l’Iraq di Saddam Hussein era una delle potenze che gli americani avevano elencato nella “lista del male” e dove volevano intervenire per eliminare il regime autoritario al governo e introdurne uno democratico.

Questo attacco però provocò una rottura netta dentro l’Europa e dentro la NATO in quanto il ministro degli esteri francese dichiara che la Francia è totalmente contraria all’intervento e minaccia di porre un veto all’ONU e la Germania segue la Francia.

Siccome però gli Stati Uniti rappresentano una potenza unipolare e hanno alcuni paesi che li seguono, l’attacco all’Iraq avviene lo stesso. (ISPI,2023)

In conclusione si può affermare che tra gli anni ‘90 e gli anni 2000 la forte debolezza politica dell’UE in politica estera è evidente, l’integrazione europea non si è avverata e i motivi sono tutti gli insuccessi registrati negli ultimi anni.

Con la “dichiarazione di Laeken” del 2001 si arriva alla realizzazione della “costituzione europea” che voleva essere un passaggio verso l’integrazione politica, ma viene bocciata da Olanda e Francia.

Nel novembre 2016 venne adottata dal Consiglio dell’UE la strategia globale dell’Unione Europea in materia di politica estera e di sicurezza che mira a migliorare l’efficacia in questo settore, anche attraverso la cooperazione rafforzata tra le forze armate degli Stati membri e una migliore gestione delle crisi.

La strategia si concentra sullo sviluppo della resilienza, sull’adozione di un approccio integrato ai conflitti e alle crisi e sul rafforzamento dell’autonomia strategica.

È integrata dal piano di attuazione in materia di sicurezza e difesa approvato dal” Consiglio europeo nel dicembre 2016” e che si concentra su 3 priorità strategiche:

la reazione alle crisi e ai conflitti esterni,

lo sviluppo delle capacità dei partner e

 la protezione dell’UE e dei suoi cittadini.

Tra le azioni concrete per conseguire questi obiettivi figurano la “revisione coordinata annuale sulla difesa” (CARD), la cooperazione strutturata permanente (PESCO), una capacità militare di pianificazione e condotta (MPCC) e gli strumenti di risposta rapida dell’UE. (Parlamento Europeo, 2023)

La mancanza di una politica comune e di sicurezza internazionale europea si riflette in modo evidente nei conflitti in Ucraina e Israele, dove le divergenze tra gli Stati membri dell'Unione Europea (UE) hanno complicato la risposta e hanno reso difficile la costruzione di una posizione comune.

Il conflitto tra Russia e Ucraina rappresenta una complessa situazione geopolitica, con profonde implicazioni sulla politica comune e la sicurezza internazionale.

 Il conflitto ha evidenziato delle sfide nella creazione di una politica e sicurezza internazionale comune tra i paesi europei.

Gli stati membri dell’Unione Europea e di altre organizzazioni internazionali spesso hanno interessi geopolitici divergenti o priorità di politica estera che rendono difficile la formulazione di una posizione comune.

Alcuni paesi possono avere relazioni bilaterali più complesse con la Russia, mentre altri possono avere un maggiore interesse nell’appoggiare l’Ucraina.

Le organizzazioni internazionali spesso richiedono l’unanimità tra i loro membri per adottare posizioni o azioni significative.

Questo può diventare un ostacolo quando alcuni membri sono riluttanti o non sono disposti a condannare o affrontare la Russia in modo deciso.

La Russia, come membro permanente del “Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”, ha il potere di veto su risoluzioni che potrebbero condannare o imporre sanzioni contro di essa.

Ciò ha impedito l’adozione di misure significative a livello globale.

 

Il conflitto russo-ucraino è complesso, coinvolgendo questioni di sovranità, etnicità e geopolitica.

Inoltre, l’Ucraina si trova in una regione di particolare importanza strategica per la Russia, che ha portato ad approcci più cauti da parte di alcuni attori internazionali.

Sebbene siano state imposte alcune sanzioni economiche contro la Russia, queste misure spesso non sono riuscite a produrre cambiamenti significativi nel comportamento russo.

 Inoltre, alcuni paesi hanno mantenuto relazioni economiche importanti con la Russia, riducendo l’efficacia delle sanzioni.

L’UE non ha una forza militare comune, e gli stati membri possono decidere autonomamente il loro coinvolgimento.

Ciò ha impedito una risposta militare coesa all’aggressione russa in Ucraina.

 L’UE non ha una posizione comune sulla soluzione del conflitto, il che rende difficile per essa agire come mediatore efficace.

 (Save the Children, 2023).

 

Il conflitto inizia nel 2014 con l’annessione della Crimea da parte della Russia e il sostegno a gruppi separatisti nell’est dell’Ucraina.

Queste azioni sono state considerate violazioni della sovranità nazionale ucraina e hanno sollevato domande sulla sicurezza delle frontiere europee, portando a una reazione variegata nella comunità internazionale.

 In risposta all’annessione della Crimea e al sostegno ai ribelli, molti paesi, guidati dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti, hanno adottato sanzioni economiche contro la Russia.

Queste misure hanno rafforzato l’importanza della politica comune europea nei confronti della sicurezza e hanno evidenziato le divergenze di opinione all’interno dell’UE.

Organizzazioni come l’”ONU “e l’”OSCE” hanno cercato di mediare e monitorare la situazione.

 Tuttavia, la mancanza di consenso internazionale ha impedito l’adozione di misure più decise, e il “Consiglio di Sicurezza dell’ONU “ha visto il veto russo su varie iniziative.

Il conflitto ha rafforzato le tensioni tra la Russia e altri paesi dell’Europa orientale, spingendo alcuni di essi a cercare una maggiore cooperazione e protezione attraverso alleanze come la NATO.

Ciò ha avuto un impatto sulla percezione della sicurezza nella regione e ha alimentato la necessità di una politica comune.

 La dipendenza dell’Europa da fonti energetiche russe ha complicato la risposta dell’UE al conflitto.

La politica energetica e la sicurezza sono fortemente intrecciate, e la diversificazione delle fonti energetiche è diventata parte della discussione sulla sicurezza.

Nonostante le sfide, ci sono stati sforzi di mediazione e dialogo, con incontri e trattative a vari livelli.

Tuttavia, la mancanza di progressi significativi ha sollevato domande sulla capacità della comunità internazionale di influenzare positivamente la situazione.

Riassumendo, il conflitto russo-ucraino ha dimostrato le complessità e le sfide nel cercare una politica comune e una sicurezza internazionale efficace.

La diversità di interessi, i vincoli economici e le tensioni regionali hanno ostacolato la creazione di un approccio unificato alla risoluzione del conflitto e ha reso difficile per la comunità internazionale adottare una risposta unificata e incisiva.

In ultima analisi per quanto riguarda il conflitto tra Israele e Palestina, si tratta di una disputa storica e politica centrata sul controllo del territorio.

 Le radici risalgono alla creazione di Israele nel 1948, che ha portato alla perdita di territori arabi e allo spostamento di popolazioni.

 Oggi, la tensione persiste a causa di questioni irrisolte come i confini, lo status di Gerusalemme, i diritti dei rifugiati palestinesi e la sicurezza di Israele.

 Ciclici episodi di violenza e la mancanza di un accordo di pace perpetuano il conflitto.

 Dal punto di vista della “politica comune” e della “sicurezza internazionale”, presenta molteplici sfide che rendono difficile un approccio unificato a livello globale.

La comunità internazionale, inclusa l’Unione Europea, le Nazioni Unite e altri attori globali, ha mostrato una mancanza di coesione nell’affrontare il conflitto.

 Mentre alcuni paesi hanno sostenuto fermamente Israele, altri hanno condannato le azioni israeliane e sostenuto la causa palestinese.

 Queste divergenze impediscono la creazione di una politica comune. (Geopop, 2023)

 

Gli Stati Uniti sono un alleato chiave di Israele e spesso hanno adottato una posizione di sostegno nei confronti dello Stato ebraico.

Questa posizione ha influito sulla politica internazionale e ha ostacolato gli sforzi di creare una posizione comune globale.

Gli Stati Uniti, infatti, hanno utilizzato il loro diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per bloccare risoluzioni critiche nei confronti di Israele.

Gli sforzi per negoziare una soluzione pacifica al conflitto, come il “processo di pace di Oslo”, hanno spesso subito interruzioni e non hanno portato a una soluzione definitiva.

L’assenza di progressi tangibili ha reso difficile per la comunità internazionale sostenere un approccio unificato.

 Gli episodi di violenza nel conflitto, specialmente quelli che coinvolgono la striscia di Gaza, hanno sollevato gravi preoccupazioni per le violazioni dei diritti umani e le sfide umanitarie.

 Questi problemi hanno portato a richieste di intervento internazionale, ma le divergenze di opinioni hanno ostacolato una risposta unitaria.

 

Alcune organizzazioni regionali, come la “Lega Araba”, hanno svolto un ruolo nei tentativi di risolvere il conflitto.

Tuttavia, anche in questo caso, gli interessi divergenti e le priorità degli Stati membri hanno limitato l’efficacia di un approccio comune.

In sintesi, il conflitto tra Israele e Palestina continua a essere caratterizzato dalla mancanza di una politica comune e di sicurezza internazionale, principalmente a causa delle divergenze di opinione, degli interessi nazionali e delle difficoltà nell’implementare e mantenere soluzioni pacifiche e sostenibili. (Corriere della Sera, 2023)

La mancata politica comune e di sicurezza internazionale nel conflitto Israele e Palestina è il risultato di una serie di fattori complessi e intricati.

 La comunità internazionale, inclusi gli attori chiave come gli Stati Uniti, l’Unione Europea e le Nazioni Unite, non ha raggiunto un consenso su quale dovrebbe essere la soluzione del conflitto.

Diverse proposte, come la soluzione a due stati, una Palestina indipendente accanto a Israele, hanno incontrato resistenze e disaccordi.

 Il conflitto ha un impatto su una regione con dinamiche geopolitiche complesse.

Gli attori regionali, ciascuno con i propri interessi, spesso svolgono un ruolo nel complicare gli sforzi per una politica comune.

Ad esempio, l’Iran sostiene i gruppi palestinesi, mentre alcuni stati arabi possono avere relazioni più calde o fredde con Israele.

Gli Stati Uniti hanno tradizionalmente avuto una posizione di forte sostegno ad Israele, compresi sostegni militari e diplomatici.

Questo ha influenzato la capacità della comunità internazionale di adottare una politica comune e ha causato percezioni di parzialità.

Le preoccupazioni legate alla sicurezza sono cruciali per entrambe le parti.

Gli attacchi terroristici, le minacce alla sicurezza di Israele e le azioni militari a Gaza hanno portato ad approcci divergenti sulla gestione della sicurezza, complicando gli sforzi per una politica comune.

Gli sforzi per la pace sono stati costantemente ostacolati da interruzioni delle trattative, attacchi terroristici, nuove colonie e altri eventi che hanno minacciato la fiducia tra le parti.

Questa mancanza di progressi ha reso difficile per la comunità internazionale sostenere una politica comune.

La complessità religiosa e culturale del conflitto aggiunge un ulteriore livello di difficoltà.

Gerusalemme, ad esempio, è un luogo sacro per ebrei, cristiani e musulmani, creando tensioni aggiuntive e suscitando preoccupazioni internazionali.

 

In definitiva, la mancata politica comune e di sicurezza internazionale riflette la complessità del conflitto Israele- Palestina, con interessi divergenti, approcci strategici differenti e la mancanza di un consenso su soluzioni praticabili.

In conclusione, la carenza di una difesa comune e di sicurezza internazionale efficace nell’Unione Europea emerge come una sfida critica che richiede un’attenzione immediata.

 Il contesto geopolitico instabile sottolinea l’urgenza di un rafforzamento delle capacità di difesa collettiva dell’UE.

Gli Stati membri dell’UE devono aumentare gli investimenti nelle capacità di difesa e sicurezza, al fine di sviluppare una forza congiunta in grado di rispondere alle sfide emergenti.

È opportuno rafforzare la coordinazione tra gli stati membri per garantire una risposta uniforme e armonizzata in situazioni di crisi.

Questo include la standardizzazione delle procedure operative e la condivisione delle risorse militari.

 Al tempo stesso potenziare la “PSDC “per renderla un quadro più efficace e operativo, facilitando la pianificazione strategica e l’implementazione di missioni di sicurezza comuni;

 intensificare la cooperazione con organizzazioni internazionali come la “NATO” e le “Nazioni Unite” per affrontare le minacce globali in modo sinergico.

 Inoltre, investire in tecnologie avanzate, inclusa la sicurezza cibernetica e l’intelligenza artificiale per migliorare la preparazione e la capacità di risposta alle minacce emergenti e per ultimo coinvolgere attivamente i cittadini europei nell’importanza della difesa comune e della sicurezza internazionale, promuovendo una consapevolezza pubblica che sostenga gli sforzi per rafforzare queste capacità.

Solo attraverso un impegno congiunto e una cooperazione più stretta sarà possibile affrontare le sfide più attuali e quelle future.

Un’Unione Europea sicura e resiliente necessita di un approccio integrato e di investimenti sostenuti per garantire la pace, la sicurezza e la stabilità nel continente.

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