Ma gli “uomini di Davos” possono distruggere il nostro mondo?
Ma gli
“uomini di Davos” possono distruggere il nostro mondo?
I
diktat eco-comunisti degli oligarchi
di
Davos e l’ubbidienza
dell’Unione
Europea.
Domus-europa.eu
- Antonio de Felip – (23 GENNAIO 2023) – ci dice:
“Non
possiederai nulla e sarai felice”. La famigerata frase, lanciata dal “World
Economic Forum” di Davos del 2017 e riconfermata successivamente, anche con un
video, dal consesso di super-oligarchi guidati da” Klaus Schwab”, è diventata
ormai virale, citata da molti come la dimostrazione della sempre più incombente
“dittatura mondialista”.
La
frase non è solo una previsione, ma è soprattutto una minaccia arrogante,
carica di disprezzo e di irrisione per tutti i popoli della terra, da parte
delle élite tecnocratiche liberal, dei super capitalisti e dei super banchieri
usurai, con lo sguaiato contorno plaudente dei guitti straricchi di Hollywood.
Per inciso, deve far riflettere l’uso
biecamente mistificatorio, da parte degli eco-mondialisti, del termine
“felice”, come nella altrettanto famigerata e minacciosa espressione
“decrescita felice.”
L’ideologia
praticata da costoro è una sorta di eco-comunismo che implica un attacco al
benessere, peraltro spesso relativo, delle classi medie, con la distruzione
degli stili di vita a cui siamo abituati, la rinuncia alle comodità e al buon
cibo – o semplicemente al “cibo buono” – ma soprattutto alla “proprietà delle
cose”, perché come tutti sappiamo, la proprietà privata (più esattamente il diritto garantito
dalla legge alla e della proprietà privata) ci rende più liberi, più
indipendenti, più sicuri nel nostro guardare al futuro.
La
proprietà privata è fondata direttamente sul/dal diritto naturale ed è quindi anteriore al diritto positivo,
alla legge.
Nonostante
qualche discutibile affermazione “socialista-pauperista di Bergoglio” che
sembra limitare e sminuire il diritto primario alla proprietà, monsignor “Giampaolo
Crepaldi”, vescovo di Trieste, ci ricorda che:
“la
Dottrina Sociale della Chiesa ha sempre sostenuto e insegnato che quello alla
proprietà privata è un diritto naturale, quindi indisponibile, originario,
vero, perfetto e stabile.”
Scrive il cardinale “Gerhard Ludwig Müller”:
“la
proprietà privata recinge il nostro spazio vitale, traccia attorno a noi un
confine che ci radica in un contesto che possiamo dire “nostro”.
La
proprietà privata permette i legami di senso, conserva le nostre radici.”
La
persona a cui viene impedito il diritto alla proprietà diventa uomo-massa,
sradicato, senza storia personale e familiare, schiavizzabile, sottomesso:
esattamente
l’obiettivo del “Grande Reset” voluto dal “World Economic Forum”, da “Schwab” e prima ancora dal
“Club di Roma”, dalle “conferenze dell’ONU sulla Terra a partire da quella di
Rio del 1992”, dalle “grandi fondazioni come quelle degli oligarchi Soros e
Rockfeller”, dagli pseudo-scienziati (sono in buona parte politici)
dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) e ovviamente di tutto il
variegato mondo ecologista e ambientalista, ben rappresentato dagli
eco-terroristi che, impuniti, vandalizzano le opere d’arte, gli edifici storici
e bloccano il traffico impedendo l’esercizio del diritto alla libertà di
movimento.
L’odio per il Bello è una caratteristica degli
ecologisti, come dimostra la distruzione dei nostri paesaggi mediante gli
orribili “parchi” di pale eoliche (spesso investimenti mafiosi) e degli
invasivi “campi” di pannelli solari che sottraggono terreni all’agricoltura.
Infatti,
è l’ideologia ecologista che giustifica l’obiettivo di ridurci allo “stato di
natura”, sfamati con insetti, prostrati e resi miseri da una “decrescita
felice” proclamata dalla propaganda falsa e falsificante degli ambientalisti, che ci impone di credere a una
presunta crisi climatica causata da una indimostrata causa antropica del “CO2”.
(Il
gas CO2, essendo più pesante dell’aria, non può volare nell’alto dei cieli ed
entrare nella “serra dei gas serra”! N.D.R.)
Sono
migliaia gli scienziati che si ribellano all’ipotesi del “riscaldamento
globale”:
in Italia basti ricordare alla lettera aperta
sottoscritta da più di duecento scienziati italiani, climatologi, geologi,
geofisici, tra i quali anche nomi noti come” Franco Battaglia”, “Antonino
Zichichi “e “Franco Prodi”, nella quale si affermava chiaramente che l’origine
antropica del riscaldamento globale è una congettura non dimostrata, a cui ha
fatto seguito una petizione internazionale di oltre 1.200 scienziati di varie
discipline, inclusa ovviamente la meteorologia, tra cui Premi Nobel, titolata
“There is no climate emergency.”
Il testo, ampliato con uno studio
approfondito, è stato anche pubblicato in Italia con il titolo “Non c’è alcuna emergenza climatica”.
Riguardo al presunto “autorevole” (in realtà
assai screditato), già citato “Ipcc”, emanazione dell’Onu (corrotta), ha
recentemente affermato “Howard Hayden”, docente di fisica dell’Università del
Connecticut:
“Studiano il clima in modo ingenuo e hanno
creato l’industria multimiliardaria della crisi climatica, della quale hanno
beneficiato.”
(Gli
artefici di questo “attentato distruttivo del mondo esistente” dovrebbero
essere processati e condannati da un” tribunale speciale dell’umanità”,
purtroppo ancora non creato! N.D.R.)
Ed è
da anni che il professor “Franco Battaglia”, docente di Chimica Fisica, con un
curriculum internazionale che lo fanno essere nel suo campo una delle
eccellenze italiane: va gridando:
“Diciamolo
forte e chiaro in un momento come quello in cui stiamo vivendo: non esiste alcuna emergenza
climatica. Non v’è nulla nel clima di oggi che sia differente dal clima di 100,
500, 1.000 o 5.000 anni fa.”
Il
terrificante progetto dei “Signori del Mondo”, degli sciamani della montagna
incantata di Davos e di tutti gli altri, che ci vogliono ridotti in miseria per
dominarci meglio, in una società meticciata dalla” Grande Sostituzione”,
dimentica della sua storia, della sua cultura, della sua civiltà, prende di
mira oggi, e non poteva essere altrimenti, la proprietà della casa e dell’auto
privata, ostacolo alla “transizione ecologica” e allo sradicamento funzionale
al “dominio mondialista”.
Più in
generale mette sotto attacco il nostro stile di vita e promuove una riduzione
della popolazione:
nel
1974 il Club di Roma, già responsabile di catastrofiche previsioni di
esaurimento delle materie prime poi dimostratesi false, aveva sfacciatamente
dichiarato:
“La terra ha un cancro e il cancro è l’uomo”.
“Maurice Strong”, petroliere
miliardario della” banda Rockfeller”, promotore della “crescita zero”,
presidente e segretario nazionale del “Summit della Terra di Rio del 1992,”
aveva minacciato:
È chiaro che gli stili di vita e i modelli di consumo
del ceto medio […] non sono sostenibili.”
E
ancora prima, fin dalla conferenza di Stoccolma del 1972, Strong era stato
ancora più esplicito:
“La sola speranza per il pianeta non è forse
il collasso delle civiltà industrializzate? Non è forse nostra responsabilità
far sì che ciò avvenga?”
È
inutile cercare di vedere, dietro il “Great Reset”, un “grande complotto”.
Non
c’è alcun complotto.
Tutto è stato dichiarato, preannunciato,
esposto alla luce del sole, in convegni, congressi, forum e summit pubblici.
L’odio
di questi finanzieri usurai per la casa in proprietà, magari di famiglia, nasce
da ragioni ben chiare per chi ha un minimo di consapevolezza dei disegni di
costoro:
la casa ci assicura una dimora stabile, ben
protetta da quei solidi muri tanto avversati da “Bergoglio” e invece cantata da
“Ezra Pound” nel XLV dei suoi “Cantos”:
“Con usura nessuno ha una solida casa / di
pietra squadrata e liscia / per istoriarne la facciata”.
La
casa, quindi, come simbolo di stabilità, di protezione dei valori familiari, di
radicamento.
La casa come antitesi e antidoto allo
sradicamento, all’isterica, frenetica, patologica mobilità delle persone vista
come valore contemporaneo, a una “movida esistenziale” di cui non si percepisce
il lato patologico, di malattia sociale e individuale.
L’attacco
alla casa da parte delle élite mondialiste non è solo di oggi:
già
nel gennaio del 2020 vi fu un significativo, violentissimo articolo de “The
Economist”, l’organo ufficioso del neo-capitalismo liberal, sradicante ed
espropriante, contro la casa in proprietà.
Secondo
questa “autorevole” rivista, “l’ossessione occidentale delle case in proprietà”
sarebbe “un orrendo abbaglio”.
Possedere
una casa “mette a rischio la crescita, l’equità e la fede pubblica nel
capitalismo”.
Testuale.
Inoltre
il possesso di case ha “frenato le migrazioni interne”, danneggiando il pronto
reperimento di sfruttati per la produzione delocalizzata.
Già:
ci vogliono tutti senza radici, mobili, “migranti interni” pronti a correre là
dove il super-capitalismo finanziario degli oligarchi di Davos decide di
produrre.
Inoltre,
guarda caso,” The Economist” denuncia indignato che c’è una correlazione tra
“il mercato immobiliare e il populismo”.
Eccoli
i maledetti piccoli borghesi con casetta in proprietà che votano per i partiti populisti
e di destra.
Finora
l’attacco alla proprietà della casa è stato condotto con un classico strumento
dei regimi socialisti:
l’iper-tassazione,
l’alternativa “dolce” all’esproprio.
Il
presidente di Confedilizia ha denunciato qualche tempo fa che l’aumento delle
imposte sugli immobili degli ultimi anni ha fatto perdere al nostro patrimonio
edilizio almeno il 30% del suo valore:
sono almeno una quindicina le imposte visibili
e occulte che gravano sulle nostre abitazioni.
Eppure
il “Fondo Monetario Internazionale” (corrotto) ci chiede di tassare ancora di
più il mattone, la “Commissione Europea” (corrotta) ci impone di riformare il
catasto per aumentare il prelievo e l’”Ocse” (corrotta) sostiene la teoria
secondo cui è meno dannoso tassare gli immobili rispetto ad altri tipi di
intervento fiscale.
Ma
ecco che, qualche mese fa, negli” oscuri laboratori ideologici della
Commissione Europea” è stata forgiata una nuova, mostruosa arma contro la casa
in proprietà:
il cosiddetto “efficientamento energetico”,
anch’esso giustificato da quella “transazione ecologica” (“sarà un bagno di
sangue”, aveva predetto l’ex ministro Cingolani) impostaci per contrastare
l’impostura (“la bufala del secolo” l’ha definita il premio Nobel Carlo Rubbia)
della famigerata “crisi climatica di origine antropica”.
In
sostanza, questa normativa prevede che entro il primo gennaio 2030 tutte le
case rientrino nella classe energetica.
E per poi, entro il 2033, passare
obbligatoriamente alla “classe D”.
Se la
norma dovesse essere approvata, ma lo sarà data la dittatura verde che domina
l’UE (corrotta), sarà un salasso per il ceto medio italiano.
Infatti
uno dei tanti sottaciuti aspetti positivi del nostro paese, checché ne pensi “The
Economist”, è che ben il 70,8% delle famiglie italiane è proprietario della
casa in cui vive e il 28% di queste è proprietario di altre case.
Si
tratta spesso di case non nuove, situate in centri storici, in zone agricole o
costruite prima degli anni ‘80:
la
loro “sistemazione” secondo i “diktat verdi “comporterebbe lavori importanti e
costosi:
cappotti
termici, sostituzione di infissi e delle caldaie, installazione dei
costosissimi e inefficienti pannelli solari.
Più
del 60% delle abitazioni in Italia hanno una classe energetica tra la F e la G.
Questa
follia comporterebbe dunque nuovi debiti per le famiglie, la pacchia di mutui
usurai per le banche, la svalutazione del patrimonio immobiliare, espropri
generalizzati.
Attraverso l’alibi della “crisi climatica”, si
realizzerebbe il piano degli oligarchi eco-comunisti:
l’abolizione
della proprietà privata delle famiglie per concentrarla presso “società
immobiliari multinazionali” che dominerebbero, in via monopolistica, il mercato
degli affitti.
Purtroppo,
sembra che il nuovo governo sia rassegnato (o segretamente convinto?) rispetto
a questo “criminale” disegno di ingegneria sociale.
Al
massimo, richiederà una tempistica più lasca e qualche modifica formale.
L’altro
grande attacco del “Grande Reset” degli eco-oligarchi è quello contro l’auto
privata:
un attacco non solo contro il possesso, ma
anche contro il diritto alla mobilità se non con gli inefficienti e sempre più
cari mezzi pubblici.
L’Unione
Europea ha ordinato che dal 2035 sarà vietata la commercializzazione delle
vetture a combustione interna:
solo
le costosissime auto elettriche, costose anche nella ricarica (lentissima) che
è peraltro anche incerta nella sua erogazione:
la Germania prepara per il 2024 razionamenti
mirati alle colonnine per le batterie.
Oggi,
quasi tutti si possono permettere almeno un’utilitaria, magari usata.
In un
futuro solo i ricchi potranno possedere un’auto elettrica.
Anche
in questo caso, dobbiamo ascoltare le “bieche minacce” di “Klaus Schwab” e del “World
Economic Forum”:
“le
persone non hanno il diritto di possedere la propria auto. Puoi andare a piedi
o condividere”.
E ancora: “la proprietà dell’auto privata è
insostenibile e immorale nel mondo d’oggi”.
Ecco da cosa è generato il canagliesco, anti-civile
odio no-oil degli eco-terroristi imbrattatori e bloccatori del traffico.
In
ossequio al fanatismo verde, molti comuni caduti nelle mani della sinistra (ma
anche qualcuno di centro-destra) hanno da tempo iniziato una sorta di isterica
persecuzione dell’auto privata, con una serie di soprusi, proibizioni, divieti,
vessazioni, sanzioni economiche, molestie contro gli automobilisti, impestando
le città di ZTL, zone a 30 km all’ora, pedaggi, inutili piste ciclabili che
tolgono spazio al traffico, ai parcheggi e ai pedoni.
È l’attuazione per via autoritaria a livello
comunale dei diktat ecologisti fatti propri dall’Unione Europea.
Milano
(che ha appena aumentato costo dei mezzi pubblici), Bologna, Olbia, e poi in
Europa Londra, Parigi, Helsinki, Valencia, Bilbao, Graz e altre città hanno
adottato politiche ostili alla mobilità privata.
Eppure, in nome del luogocomunismo ecologista,
sono poche e assai fioche le voci che si oppongono a questa oppressione verde.
La giustificazione della viltà è sempre la
stessa:
“Ce lo chiede l’Europa”, frase tra l’altro
mistificante, perché l’Unione Europea degli ottusi burocrati che prendono
ordini da Washington e da Davos non è l’Europa che invece è storia, civiltà,
cultura.
Peraltro,
la casa e l’auto sono gli obiettivi più visibili di Bruxelles, ma non sono
certo i soli:
sono nel mirino dei signori della UE anche
l’agricoltura, l’allevamento, la carne, i latticini, i riscaldamenti delle
case, l’importazione di legname, cacao e caffè da paesi accusati di
“disboscare”, il petrolio e il gas anche per colpire con le sciagurate sanzioni
la Russia, contro i nostri interessi e su ordine di Washington.
Contro ogni evidenza, “Klaus Schwab” ha
provocatoriamente dichiarato che i combustibili fossili “sono attualmente
sottovalutati”.
Come
si è detto, l’obiettivo è quello di annichilire i nostri stili di vita, di
ridurre la popolazione:
non
dimentichiamo che questi sono gli obiettivi veri e finali degli ecologisti “per
salvare il pianeta”, il che significa, semplicemente, la distruzione della
nostra civiltà e il genocidio culturale (e talvolta anche fisico) di interi
popoli, distruzione peraltro già in corso da decenni, se non di più.
Anche
nell’edizione 2023 del Forum di Davos abbiamo visto le foto delle file di
decine di jet privati parcheggiati che hanno portato i Signori dell’Economia
alla loro convention annuale.
Poi ci
dicono che le nostre vetturette vanno vietate perché “inquinano”. Il quotidiano”
La Verità” ha anche raccontato che nelle agenzie svizzere che forniscono
“escort e sex workers” c’è il tutto esaurito per il periodo del summit.
Già:
come scrivevano una volta gli impiegatucci in trasferta sulle richieste di
rimborso a piè di lista per giustificare questo genere di spese: “l’uomo non è
di legno”.
Neanche
gli eco-oligarchi.
(Antonio
de Felip)
Greta
attacca Davos:
'E' il
forum di chi distrugge il pianeta.'
Ansa.it
– (20 gennaio 2023) - Redazione ANSA – ci dice:
L'attivista:
'Assurdo ascoltare queste persone'.
A
Davos si riuniscono "le persone che più stanno alimentando la distruzione
del pianeta", ed è "assurdo" ascoltarle.
“Greta
Thunberg” torna all'attacco del “Forum economico mondiale”, e manda in pezzi la
logica stessa dell'organizzazione tesa a far dialogare gli 'stakeholder' fra
loro.
Rilasciata
pochi giorni fa dalla polizia tedesca per le proteste contro l'espansione delle
attività estrattive di carbone a Lutzerath, la ventenne attivista svedese è asserragliata
a pochi passi dai locali dove si riunisce l'élite politica, finanziaria e delle
corporation di Davos.
Un piede dentro - dentro la zona di sicurezza,
perché in fondo Davos diede enorme visibilità ai “Fridays for Future” che hanno
fatto la fama di Greta - e uno fuori, a rimarcare la differenza con 'loro':
quelli che hanno come priorità "la loro
ingordigia, profitti di breve periodo sopra la gente e il pianeta".
Clima,
“Greta Thunberg” attacca Davos: 'Qui sono riunite le persone che distruggono il
pianeta'.
Un
appello che arriva a poche ore dal panel di discussione in cui ieri” John
Kerry”, inviato Usa per il Clima, cercava di spiegare i progressi contro il
cambiamento climatico di fronte a una scettica” Helena Gualinga”, attivista
ecuadoregna che accompagna” Greta” nelle sue battaglie assieme a “Vanessa
Nakate” e” Luisa Neubauer”.
Giusto
poche ore fa, riecheggiando le accuse rivolte ieri ai gruppi energetici
dall'Onu, le 4 attiviste hanno lanciato una petizione che ora supera le 900.000
firme contro i “manager di Big Oil” che "sapevano da decenni che i
combustibili fossili causano catastrofici cambiamenti climatici", e ci
hanno "ingannato".
Ma al
Forum le attiviste trovano il dialogo con “Fatih Birol.”
I dati dell'”Agenzia internazionale
dell'Energia” da lui guidata, dicono, danno ragione ai ragazzi indignati:
l'obiettivo di contenere il riscaldamento
della terra a 1,5 gradi è perso, se non si interromperanno nuove estrazioni di
gas, carbone, petrolio.
“Birol” non si scompone, ma cerca di girare
l'accusa in un'esortazione costruttiva:
se gli investimenti in energia pulita
saliranno da 1.500 a 4.000 miliardi di dollari, l'obiettivo degli 1,5 gradi si
raggiunge e non c'è bisogno di allargare le estrazioni di combustibili.
A Davos in fondo c'è speranza:
i grandi capitali globali hanno capito che il
riscaldamento climatico può trasformarsi in un cataclisma economico e
finanziario, e ora anche gli Usa hanno scelto un maxi-piano green da 269
miliardi di dollari.
Ma che
fatica parlarsi, fra la “generazione dei Fridays” e quella dei “supermanager”.
“Non avrai nulla e sarai felice”:
gli
slogan ingannevoli di Davos.
Decrescitafelice.it
– (26 Febbraio 2023) - Team Redazionale Mdf.- Bernardo Severgnini – ci dice:
“Non
avrai nulla e sarai felice” è uno dei più celebri slogan prodotti dal “World
Economic Forum” (WEF), organizzazione finanziata dalle più grandi
multinazionali del pianeta, che ogni anno raduna a Davos, in Svizzera,
esponenti di primo piano della politica e dell’economia internazionale con
intellettuali e giornalisti accuratamente selezionati, per discutere delle
questioni più importanti che il mondo si trova ad affrontare, anche in materia
di salute e di ambiente.
Lo
slogan, in originale ”You’ll own nothing. And you’ll be happy” che potete
vedere qui, se recepito con superficialità, può richiamare aspetti della
decrescita felice, ma che in realtà, se analizzato a fondo, rappresenta un
concetto ben diverso.
Da
sempre, e ancor più oggi, nel mondo dell’immagine, dei “twit” e della
propaganda fatta a slogan, il lessico è un’arma che il potere utilizza con
disinvoltura e con malizia per affermare e conservare sé stesso, per
neutralizzare il dissenso e per contrastare le pulsioni verso un reale
cambiamento del sistema.
La
storia è piena di esempi in questo senso:
il “termine
anarchia”, che di per sé indica una forma di organizzazione che supera le forme
di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, è stato nel tempo caricato di accezioni
violente, è stato fatto diventare” sinonimo di disordine”, è stato snaturato
del suo significato autentico.
Oppure in tempi più recenti “sovranismo”, che di per
sé indica il “diritto dei popoli a non essere etero-diretti”, principio scomodo
per i progetti globalisti, è stato fatto diventare sinonimo di razzismo e xenofobia.
Quando
la “propaganda di regime” non riesce nell’intento di distruggere un termine a
lei scomodo, tende a farlo proprio, snaturandone il significato a proprio
vantaggio.
È il
caso ad esempio del “termine democrazia”, troppo positivo per poterlo rendere
sgradevole agli occhi dell’opinione pubblica, che viene oggi usato per definire istituzioni altamente
oligarchiche come l’Unione Europea.
Oppure
il “termine ecologia”, usato per promuovere” operazioni commerciali di
greenwashing” che ben poco hanno contribuito e contribuiranno al miglioramento
delle condizioni ambientali.
Anche
il “termine decrescita” ha ricevuto un trattamento particolare, lo si è
caricato di significati che non gli appartengono, come se volesse perseguire la
povertà o il rifiuto della modernità.
Questo
è servito per allontanare l’opinione pubblica dai reali concetti e dai reali
principi che la decrescita felice propone, e che se messi in pratica,
rappresenterebbero un duro colpo al business di quei gruppi di potere di cui la
propaganda si fa portavoce.
Ma
negli ultimi anni qualcosa è cambiato nell’approccio del “sistema mediatico
mainstream” nei confronti della “decrescita”.
Se è
vero che il vocabolo in sé continua ad essere disprezzato e deriso, è anche
vero che la prospettiva di una inevitabile necessità di ridurre i consumi
globali nel prossimo futuro è sotto gli occhi di tutti, WEF compreso.
Da qui l’urgenza di governare il periodo di sobrietà
forzata che i signori di Davos hanno predisposto per le masse per i prossimi
anni.
Fare in modo che le masse lo accettino senza
remore, e possibilmente con entusiasmo.
Ecco
il senso dello slogan non avrai nulla e sarai felice, uno slogan che strizza
l’occhio alla decrescita felice, pur senza nominarla.
Uno
slogan che richiama troppo da vicino la decrescita felice per non rischiare di
essere frainteso.
È importante dunque che si mettano in chiaro
in modo netto le differenze tra ciò che si intende con “decrescita felice” e
ciò che invece intendono a Davos.
Innanzitutto,
questo slogan non dice “non avremo niente”, ma dice “non avrai niente”.
Non si
usa il verbo alla prima persona plurale, ma alla seconda singolare.
Scelta
di parole curiosa promossa da chi partecipa al Forum di Davos volando su jet
privati e consumando migliaia di volte più dei normali cittadini, personaggi
che difficilmente rinunceranno ai loro privilegi.
Ecco,
la decrescita felice non è nulla di tutto questo.
Non ci
può essere decrescita felice senza uguaglianza sociale.
In una
società della decrescita non è prevista una classe sociale di super ricchi che
sta al di fuori e al di sopra.
Inoltre,
l’uso dei modi e tempi verbali sembrano indicare un futuro certo e inevitabile,
come se fosse già tutto scritto.
Hanno
deciso così e ci vogliono informare della loro decisione, non è previsto un
confronto costruttivo.
(Ma è
mai possibile un “confronto costruttivo” con dei” gangster criminali “che
vogliono eliminare noi, assieme alle nostre proprietà che diventeranno LORO
dopo il” furto” e il crimine effettuato? N.D.R.)
I
dibattiti, questi metodi novecenteschi che fanno solo perdere tempo! Anche qui,
non c’è nulla di più distante dalla decrescita felice, che promuove un modello
di società dove le decisioni partono dai confronti con le comunità, non certo
dai CEO di qualche multinazionale.
Infine,
la decrescita felice significa scegliere di rinunciare a quel superfluo che
diventa dannoso.
Non
significa dover rinunciare a ciò che serve, ma semmai ottimizzare, attraverso
la condivisione, la fruizione di beni e servizi che saranno comunque sempre
nella disponibilità di tutti.
È
qualcosa di molto diverso da “non avrai nulla”.
Ricordiamoci
sempre che la” decrescita felice “ è una società di abbondanza condivisa, una
società non realizzabile singolarmente, ma solo attraverso la condivisione e la
collaborazione.
Una
società che non ci potrà venire imposta, ma potrà solo essere scelta attraverso
processi democratici.
Per
questo motivo, non si potrà realizzare senza che i suoi concetti rivoluzionari
siano diffusi nella cultura popolare.
La
comunicazione è dunque la nostra sfida più grande.
Una comunicazione che sappia resistere alle trappole
semantiche del potere, e che al contrario sappia rappresentare la scintilla in
grado di aprire una grande stagione di lotta collettiva per la giustizia
sociale e ambientale.
Ora
anche il “World Economic Forum”
si
preoccupa per l'ambiente.
Wired.it
– Massimo Sandal – (17-1-2020) – ci dice:
In
vista dell'annuale meeting di Davos, il Global Risk Report sui rischi
globali
all'orizzonte lancia l'allarme ambientale e climatico. È un passo avanti, ma
non basta per cambiare rotta.
Che
cosa non fa dormire la notte le élite del pianeta?
Sorprenderà
ma la risposta è – finalmente – l’ambiente.
All’indomani
dei cinquant’anni del” World Economic Forum” (Wef) che si festeggerà
all’annuale incontro di Davos questo mese, è stato appena rilasciato il
rapporto “Wef 2020” sui rischi planetari, il” Global Risk Report”.
Tutti
i primi cinque rischi considerati più probabili sono legati all’ambiente e al
clima:
eventi
meteorologici estremi, fallimento dell’azione sul clima, disastri naturali,
perdita di biodiversità e disastri ambientali di origine umana.
Tre su
cinque (fallimento sul clima, perdita di biodiversità ed eventi meteorologici)
sono nella “top five” anche per l’impatto globale, assieme alle armi di
distruzione di massa e alla crisi idrica.
Infine
il fallimento sul clima e gli eventi meteorologici estremi, a loro volta, sono
tra i rischi più “connessi”, ovvero che possono influire o subiscono
l’influenza di altri rischi.
La nostra incapacità di affrontare la crisi
climatica è considerato il primo rischio per impatto e il secondo per
probabilità di verificarsi.
Bisogna
stare attenti a dare al report il giusto significato.
La
valutazione del suddetto si basa principalmente su un sondaggio, condotto su
circa un migliaio di partecipanti alle iniziative del Wef, su quali saranno i
rischi più plausibili e più di impatto per il pianeta nei prossimi dieci anni.
Il
campione è composto da leader industriali e politici, come se ne vedono agli
incontri di Davos:
dirigenti di multinazionali, capi di
organizzazioni internazionali e non governative, economisti.
Ai quali si aggiunge, per la stesura del
report, la consulenza di accademici e specialisti e di compagnie di
assicurazione.
Si
tratta quindi, più che di una valutazione rigorosa e oggettiva di rischio, di
un consenso delle opinioni da parte di stakeholders di alto livello, informato
poi dalla valutazione di esperti.
È un
modo di sentire il polso delle élite economiche e tecnocratiche.
Com’è
logico, un pool ricco di economisti e dirigenti d’azienda mette l’accento sui
costi:
già
nel 2018 i danni economici legati all’azione umana sul clima sono stati
valutati in 165 miliardi di dollari, e potrebbero ridurre il Pil degli Stati
Uniti del 10% entro il 2100.
Sempre secondo il report, i danni alla salute
da inquinamento atmosferico sono già costati al mondo oltre 5000 miliardi di
dollari. Duecento tra le più grandi aziende mondiali hanno calcolato che, se
non si agisce in fretta, il cambiamento del clima potrebbe far perdere loro in
totale mille miliardi di dollari.
Altri
rischi economici si possono avere sul mercato dei mutui, se interi quartieri
diventano inabitabili per l’innalzamento dei livelli del mare.
Il semplice stress da caldo porterà perdite di
produttività equivalenti alla perdita di 80 milioni di posti di lavoro già
entro il 2030.
Anche
la perdita di biodiversità è valutata come un rischio economico.
Per esempio, l’impoverimento degli ecosistemi
marini porta anche a ridurre la loro produttività, con un impatto significativo
sulle economie basate sulla pesca.
Secondo il report la perdita delle barriere
coralline significherebbe la perdita di una industria turistica che vale 36
miliardi di dollari all’anno, e viceversa potrebbe causare perdite di 4
miliardi di dollari l’anno per la ridotta protezione da tempeste e allagamenti
costieri.
Ma non
c’è solo il portafogli.
Il Wef
nota anche il profondo impatto sulla salute del cambiamento climatico, citando
l’”Oms” che ha dichiarato la crisi climatica “la più grande minaccia alla
salute globale nel 21esimo secolo”.
Il riscaldamento globale potrebbe portare
zanzare portatrici di malattie come la “dengue” a espandersi verso l’Europa e
l’Africa Orientale, mettendo a rischio un miliardo di persone.
Inoltre viene messo l’accento su come climi
sempre più inabitabili e innalzamento del livello dei mari porteranno milioni
di persone a migrare, creando o esacerbando conflitti e politiche
nazionalistiche.
Il declino delle risorse idriche, il mutamento
delle rotte marittime, il declino dei combustibili fossili e l’apertura di
nuove risorse da sfruttare nell’Artico sono occasioni nascenti di scontri e
riarrangiamenti geopolitici a cui porre attenzione.
Il
rischio portato dalla crisi ecologica non è uguale per tutti.
Secondo il “Wef”, nei disastri naturali è 14
volte più facile morire per donne e bambini rispetto agli uomini adulti.
Il peso del cambiamento climatico in termini
di salute e qualità della vita sarà in gran parte sulle spalle delle classi più
deboli e dei paesi più poveri.
Le coltivazioni probabilmente diminuiranno di
produttività, mettendo a rischio la possibilità di sfamare una popolazione in
costante aumento già nel 2050.
La
crescente incertezza economica, a cui contribuisce la crisi ecologica, può però
rendere gli elettori riluttanti a supportare politiche che possano affrontare
la crisi, ma che possono mettere a rischio posti di lavoro o portare ulteriori
disagi a breve termine.
Il “Wef”
non è ottimista sulle nostre possibilità di cavarcela.
Il
collasso economico è praticamente garantito se non riduciamo le emissioni nette
a metà entro questo decennio e le annulliamo entro il 2050.
Eppure,
come dice, “gli impegni sono inadeguati all’urgenza della sfida e i trend
correnti non sono incoraggianti”.
La domanda energetica continua ad aumentare e
a essere soddisfatta dai combustibili fossili: dal 2018 al 2019 è cresciuta del
2,3% e si proietta un aumento del 25% entro il 2040.
Un
terzo dell’aumento delle emissioni nel 2018 è stato causato dalle centrali a
carbone in Asia.
In
tutto questo, i sussidi economici al fossile sono ancora il doppio di quelli
per il rinnovabile.
Il “Wef” è consapevole che dobbiamo agire, con
un enorme e sistematico sforzo collaborativo, ma non nasconde le difficoltà.
Difficoltà
che sono anche interne al sistema.
Non si
può certo accusare il “Wef” di essere anticapitalista, ma non è tenero con la
cultura media delle aziende.
Quando il “Wef” ha fatto un sondaggio più
ampio sui “business leaders mondiali”, ha trovato quello che chiama “una zona
cieca”:
i
rischi ambientali sono raramente considerati significativi, e l’industria
spesso è del tutto impreparata ad affrontarli, preferendo girarsi dall’altra
parte.
Al
punto da trascurare perfino i trend dei consumatori:
secondo il “Wef”, molte aziende sono state
colte di sorpresa dal crescente rifiuto della plastica negli imballaggi.
Il “Wef”
non è certo un covo di ambientalisti radical chic:
per dire, l’anno scorso a inaugurare il
meeting di Davos è stato nientemeno che il presidente brasiliano “Jair
Bolsonaro”.
È
forse rassicurante vedere che finalmente, anche nelle alte e conservatrici
sfere del dibattito politico ed economico, viene riconosciuta l’urgenza della
crisi in cui ci troviamo.
Del
resto chi ha a cuore il proprio patrimonio agisce razionalmente se cerca di
mantenerlo e non distruggerlo.
E che qualcuno nella finanza si stia
svegliando, sia pure molto tardi, lo dimostra anche il recente annuncio del
fondo di investimento “BlackRock”, che ha deciso di abbandonare gli
investimenti poco sostenibili ambientalmente, in quanto non tengono conto di un
serio fattore di rischio.
Ma il
report del “Wef” contiene, almeno apparentemente, una strana contraddizione:
da un
lato è frutto delle opinioni e del dialogo tra i dirigenti di alcuni dei
massimi players dello scenario economico e politico mondiale.
Dall’altro
sembra parlare della possibilità di contrastare questo cambiamento come di un
qualcosa di esterno, come non potessero farci nulla.
Il”
Wef,” del resto, dipende dal sostanzioso supporto economico di circa un
migliaio di aziende, le stesse che nel report sono dichiarate come cieche
rispetto al problema.
Che il
“Wef “e Davos siano un nodo di contraddizioni e ipocrisie è cosa nota.
L’anno
scorso del resto si parlava già di clima, a un evento dove i partecipanti
arrivano regolarmente in jet privato.
È possibile e auspicabile che vedere quanto
perderà il proprio portafoglio sul report del “Wef” renda alcuni manager più
consapevoli e capaci di agire.
Ma non
basta: c’è bisogno di un cambiamento radicale a livello di sistema.
La
crescita economica perpetua è, almeno nei modi attuali, incompatibile con un
pianeta finito.
Il “Wef” forse non può permettersi di dirlo
esplicitamente.
L'umiliazione
dell'uomo
di Davos.
Milanofinanza.it – (16 -1-2024) -Redazione -
Walter Russell Mead, The Wall Street
Journal – ci dice:
Sta
pregando il mondo di fidarsi di lui, ma non è una crisi di fiducia, è di
competenze.
Dopo
aver sbagliato con Russia, Cina, Iran e Covid, pochi elettori credono che
l’élite globalista sappia affrontare sfide come l’IA e la transizione
energetica.
È il
momento dell'anno.
Capi
d'azienda, politici, guerrieri delle Ong, giornalisti e intellettuali si sono
diretti verso le Alpi svizzere per il 54° incontro annuale del World Economic
Forum (Wef).
Se i delegati sono seriamente intenzionati ad
affrontare il tema di quest'anno, "Ricostruire la fiducia", ci
attendono conversazioni difficili.
Sia
all'estrema sinistra che all'estrema destra, i teorici della cospirazione
vedono il” Wef” e i suoi alleati come una rete onnipotente che riesce a imporre
un'agenda nefasta al resto del mondo.
Questa lettura di Davos è profondamente
sbagliata.
Il
vero scandalo di Davos non è che stia conquistando il mondo.
È che sta fallendo nei suoi obiettivi.
L'agenda
di Davos, fatta di un ordine di sicurezza globale, un'economia mondiale
integrata e progressi verso obiettivi quali la decarbonizzazione, l'uguaglianza
di genere e l'abolizione della povertà estrema, è controversa in alcuni
ambienti e su alcuni punti, ma non è né segreta né particolarmente nefasta.
Ma lungi dall'imporre questa agenda a un mondo
prigioniero, le élite di Davos si stanno mangiando le mani perché il sogno sta
morendo lentamente.
L'anno
scorso è stato un altro anno difficile per l'agenda di Davos.
La guerra della Russia in Ucraina è andata
avanti, con Mosca in vantaggio in quella che sembra una guerra di logoramento.
Il Medio Oriente è esploso nel caos, con il
trasporto marittimo interrotto nel Mar Rosso a causa dell'intensificarsi e
dell'espandersi del conflitto. Le relazioni tra la Cina e l'Occidente hanno
continuato a deteriorarsi e i risultati delle elezioni a Taiwan lasciano
presagire ulteriori tensioni nel prossimo anno.
La
frattura tra Cina e Occidente.
I
conflitti sono negativi per il libero scambio e la rottura dell'ordine di
sicurezza globale sta minando l'integrazione economica al centro dell'agenda di
Davos.
La
frattura tra Cina e Occidente sta portando a un disaccoppiamento economico da
entrambe le parti.
Con
l'introduzione da parte dell'Unione Europea e degli Stati Uniti di restrizioni
sulle importazioni volte a limitare l'effetto sulle rispettive produzioni
nazionali della produzione a basso costo e a bassa regolamentazione di Cina e
altrove, l'obiettivo del libero scambio si allontana ogni anno di più.
Non
sorprende che sia la” Banca Mondiale” che il “Fondo Monetario Internazionale”
prevedano un rallentamento della crescita economica globale.
Prevedendo che i flussi commerciali globali
saranno solo il 50% della media del decennio pre-pandemia, la” Banca Mondiale”
avverte che quello cominciato il 2020 potrebbe essere un decennio perduto per
l'economia mondiale, con i Paesi poveri che rischiano di essere i più colpiti.
Mentre
la guerra si diffonde e l'economia globale rallenta, le possibilità di fare
progressi nell'agenda sociale di Davos stanno svanendo.
Temi come la “transizione energetica” e la” giustizia
di genere”, per quanto meritevoli e importanti, scendono nella lista delle
priorità quando i Paesi sono in guerra o si preparano alla guerra.
Il numero di rifugiati disperati, attualmente
stimato in 114 milioni, cresce inesorabilmente.
La violenza contro i civili accompagna la
marea crescente della guerra. In queste circostanze, i gruppi per i diritti
umani e altri attivisti sociali devono concentrarsi sulle crisi umanitarie
piuttosto che sui problemi sociali esistenti.
In
questo contesto, le colline di Davos risuonano di fallimenti.
Le
conversazioni di Davos, che in passato vertevano su come trarre vantaggio dal
campo di gioco globale livellato che i presidenti e gli alleati degli Stati
Uniti hanno cercato di costruire dopo la Seconda guerra mondiale e il 1990,
sono cambiate.
La
questione ora è come le aziende e i Paesi possono gestire i rischi di un ordine
mondiale perturbato.
Come gestire le catene di approvvigionamento
in un'epoca di rivalità tra Stati Uniti e Cina?
Come ci si adatta all'effettiva chiusura del
Mar Rosso, e forse dello Stretto di Hormuz, da parte dell'Iran e dei suoi
alleati?
Come
gestisce il vostro Paese la politica di sicurezza in un mondo in cui il potere
degli Stati Uniti sembra diminuire e i comodi presupposti del passato non
reggono più?
(Shell
sospende la navigazione delle petroliere nel Mar Rosso: si temono nuovi
attacchi Houthi dallo Yemen).
Qualcosa
è andato storto.
Il
tema dell'incontro "Ricostruire la fiducia" riconosce che qualcosa è
andato storto.
È un buon inizio, ma non è sufficiente.
I bugiardi propagandisti russi e i tentativi
cinesi di influenzare l'opinione pubblica americana sono problemi che vanno
affrontati, ma le persone non stanno perdendo fiducia nei loro leader perché la
disinformazione ha confuso i loro cervelli.
Stanno
perdendo fiducia perché percepiscono che l'approccio dell'establishment ai
principali problemi del giorno non funziona.
Non si
tratta, in fondo, di una crisi di fiducia.
È una crisi di competenze.
Perché gli elettori dovrebbero aspettarsi che
una cosiddetta "classe di esperti" che si è sbagliata così a lungo su
Russia, Cina, Iran e Covid sappia come affrontare una sfida così difficile e
sfaccettata come la transizione energetica?
Perché
dovrebbero fidarsi dei politici europei e americani che stanno fallendo così
miseramente nel gestire l'immigrazione clandestina di massa per gestire l'ascesa dell'intelligenza
artificiale?
"L'imperatore
è nudo!" è il grido dei populisti di tutto il mondo.
Per rendere questo messaggio inefficace, l'uomo di
Davos non ha bisogno di consulenti d'immagine e di specialisti della
disinformazione.
Ha
bisogno di vestirsi.
Le
“persone inutili” di Yuval Harari
e la
negazione del libero arbitrio.
Conquistedellavoro.it
– (28 giugno 2022) – Raffaella Vitulano – ci dice:
Li
definiscono intellettuali famosi, Yuval Noah Harari e Slavoj Zizek, anche se
quest’ultimo sussulta quando viene chiamato così.
Diverse
le loro specializzazioni accademiche:
storia
medievale per Harari, filosofia hegeliana e psicoanalisi lacaniana per Zizek.
Al più
grande festival di filosofia del mondo, “HowTheLightGetsIn”, si sono
confrontati sulla questione della natura: amica o nemica?
La
risposta non è sorprendentemente sfumata:
la natura non è né nostra amica né nostra
nemica.
Stiamo per entrare in un’era post-natura e
questo cambierà tutto.
Dopo un lungo periodo di pensiero illuminista
che ha visto la natura conquistata dalla ragione e domata dalla tecnologia, il
suo posto nella società è tornato in grande stile, anche grazie alla pandemia
di Covid e alla crisi climatica.
Per
Harari e Zizek la natura non è né buona né cattiva, è semplicemente al di fuori
della moralità.
L’idea
che le innovazioni guidate dall’uomo e gli incidenti come i reattori nucleari,
il vaccino contro il Covid-19 o persino la guerra in Ucraina siano “naturali”
può suonare strano.
Ma
dato che la loro esistenza non viola nessuna legge naturale e sono fatti dello
stesso materiale fisico di tutto il resto, allora in un certo senso lo sono.
Siamo sul punto di creare quelle che Harari
chiama “forme di vita inorganiche”, riferendosi all’Intelligenza Artificiale
avanzata.
E vedrete se non le considereremo come
naturali.
Al
Festival di Filosofia si concorda: stiamo per cambiare la nostra composizione
biologica, cambiando la nostra natura in modi radicali.
Questo potrebbe eccitare alcuni transumanisti e
scienziati che sono concentrati sull’uso di questi strumenti per risolvere
problemi ristretti e specifici nei loro campi, ma Harari ha un tono più cupo e
mette in allerta.
Questo
è ciò che hanno sognato dittatori spietati.
In passato, quando i dittatori cadevano,
almeno ciò che lasciavano dietro di loro era ancora umano.
In futuro, potrebbe non essere più così.
Stalin, interviene Zizek, voleva fare esattamente
questo:
creare un esercito di lavoratori geneticamente
modificati che potessero lavorare oltre i limiti di qualsiasi essere umano e
sopravvivere con un minimo di sostentamento e provviste di base.
“Il problema non è se saremo ridotti in schiavitù dalle
macchine, ma che questa schiavitù rafforzerà la divisione tra gli umani”, ha
detto Zizek.
“Alcune persone ci controlleranno e altre
saranno controllate”.
Se
ingegnerizziamo geneticamente gli esseri umani per essere più intelligenti, più
coraggiosi, più efficienti, ciò alla fine porterà alla scomparsa di tutte le
nostre altre caratteristiche, quelle che saranno ritenute meno desiderabili
dagli ingegneri dell’umanità.
La
selezione di alcune funzionalità significherà la scomparsa di altre.
“Se dai loro la tecnologia per iniziare a incasinare il
nostro Dna, per iniziare a incasinare i nostri cervelli, multinazionali ed
eserciti potrebbero amplificare alcune qualità umane di cui hanno bisogno, come
la disciplina.
Nel frattempo, potrebbero sminuire altre
qualità umane come la compassione o la sensibilità artistica o la
spiritualità”:
detto
dal transumanista Yuval Noah Harari, “consulente chiave del World Economic
Forum di Davos e di Klaus Schwab”, l’allarme suona ipocrita.
Suona
allarmante invece il fatto che pensi che il libero arbitrio sia un “mito
pericoloso”.
Un punto su cui il neurochirurgo “Michael
Egnor” lo contesta con forza: “La negazione del libero arbitrio è una pietra angolare
del totalitarismo. Senza il libero arbitrio, siamo bestiame senza diritti”.
Lo
storico Yuval Noah Harari è anche coautore con Thierry Malleret di “Covid-19:
The Great Reset”.
E in una domanda rivela tutta la sua vera
ideologia:
“Cosa fare nei prossimi decenni con tutte le persone
inutili?”.
Una classe dirigente si interrogherà con “noia” su
cosa fare di loro dato che “sono fondamentalmente privi di significato, senza
valore”.
Harari
calpesta così le orme di “Aldous Huxley” durante la sua famigerata conferenza “Ultimate Revolution” del 1962 al
Berkley College:
“La
mia ipotesi migliore, al momento è una combinazione di droghe e giochi per
computer come soluzione finale per la maggior parte di loro. Penso che una
volta che sei superfluo, non hai potere”.
L’apoteosi del pensiero eugenetico affiora nel ruolo
della tecnologia nella creazione di una nuova classe inutile globale
“post-rivoluzionaria”, per sempre sotto il dominio dell’emergente “casta alta”
di élite dai colletti d’oro di Davos.
La
casta alta che domina la nuova tecnologia non sfrutterà i poveri. Semplicemente
non avrà bisogno di loro.
E sarà
molto più difficile ribellarsi all’irrilevanza che allo sfruttamento. Yuval è
elogiato da Klaus Schwab, ma anche da Barack Obama, Mark Zuckerberg e Bill
Gates, che hanno recensito l'ultimo libro di Harari sulla copertina del New
York Times Book Review.
Per
lui la morale, proprio come Dio, il patriottismo, l’anima o la libertà, sono
concetti astratti creati dall’uomo che non hanno alcuna esistenza ontologica
nell’universo meccanicistico, freddo e in definitiva senza scopo in cui si
presume che esistiamo.
Le
relazioni umane diventano insignificanti a causa di sostituti artificiali. I
poveri muoiono ma i ricchi no.
È
questa la rivoluzione industriale incentrata sull’intelligenza artificiale.
Ma il
prodotto questa volta non saranno tessuti, macchine, veicoli e nemmeno armi, il
prodotto questa volta saranno gli stessi umani, corpi e menti, conclude Harari,
precisando infine che le “persone inutili” a cui fa riferimento il consulente
del Wef saranno quelle che rifiuteranno di ricevere le capacità di intelligenza
artificiale nei prossimi decenni.
Descrivendo gli esseri umani come “animali
hackerabili”, Harari crede che le masse non avrebbero molte possibilità contro
questi cambiamenti anche se dovessero organizzarsi.
(Raffaella
Vitulano)
Il
Papa ai potenti riuniti a Davos:
perché
si muore ancora di fame?
Avvenire.it
- Redazione Economia – (17 gennaio 2024) – ci dice:
Il
messaggio al Forum economico mondiale: com’è possibile si venga sfruttati, si
sia condannati all'analfabetismo, manchino le cure mediche di base e si rimanga
senza un tetto?
Il
Papa ai potenti riuniti a Davos: perché si muore ancora di fame?
Pubblichiamo la nostra traduzione del messaggio
inviato da papa Francesco al” World Economic Forum” a Davos, in Svizzera, dal
15 al 19 gennaio 2024.
Il
testo nello specifico è indirizzato al presidente esecutivo del Forum, Klaus
Schwab.
Al
Presidente Esecutivo del” World Economic Forum”.
L’incontro
annuale di quest’anno del World Economic Forum si svolge in un clima molto
preoccupante di instabilità internazionale.
Il vostro Forum, che mira a guidare e
rafforzare la volontà politica e la cooperazione reciproca, offre un’importante
opportunità di coinvolgimento di più soggetti interessati per esplorare modi
innovativi ed efficaci per costruire un mondo migliore.
Spero
che le vostre discussioni tengano conto dell’urgente necessità di promuovere la
coesione sociale, la fraternità e la riconciliazione tra gruppi, comunità e
stati, al fine di affrontare le sfide che abbiamo davanti.
Guardandoci
attorno, purtroppo, troviamo un mondo sempre più lacerato, in cui milioni di
persone – uomini, donne, padri, madri, bambini – i cui volti ci sono per lo più
sconosciuti, continuano a soffrire, anche per gli effetti di conflitti
prolungati e di vere e proprie guerre.
Queste
sofferenze sono esacerbate dal fatto che “le guerre moderne non si svolgono più
solo su campi di battaglia chiaramente definiti, né coinvolgono solo i soldati.
In un contesto in cui sembra non essere più rispettata la distinzione tra
obiettivi militari e civili, non c’è conflitto che non finisca per colpire in
qualche modo indiscriminatamente la popolazione civile”
(Discorso
ai Membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 8 gennaio
2024).
La
pace alla quale anelano i popoli del nostro mondo non può essere altro che
frutto della giustizia (cfr Is 32,17).
Di
conseguenza, ciò richiede qualcosa di più che semplicemente mettere da parte
gli strumenti di guerra;
richiede di affrontare le ingiustizie che sono
le cause profonde dei conflitti.
Tra i
più significativi c’è la fame, che continua ad affliggere intere regioni del
mondo, anche se altre sono caratterizzate da eccessivi sprechi alimentari.
Lo sfruttamento delle risorse naturali continua ad
arricchire pochi lasciando intere popolazioni, che di queste risorse sono i
naturali beneficiari, in uno stato di indigenza e povertà.
Né
possiamo trascurare il diffuso sfruttamento di uomini, donne e bambini
costretti a lavorare per bassi salari e privati di reali prospettive di
sviluppo personale e di crescita professionale.
Com’è
possibile che nel mondo di oggi le persone muoiano ancora di fame, siano
sfruttate, condannate all’analfabetismo, prive di assistenza medica di base e
lasciate senza un tetto?
Il
processo di globalizzazione, che ha ormai chiaramente dimostrato
l'interdipendenza delle nazioni e dei popoli del mondo, ha quindi una
dimensione fondamentalmente morale, che deve farsi sentire nelle discussioni
economiche, culturali, politiche e religiose che mirano a plasmare il futuro
della comunità internazionale.
In un
mondo sempre più minacciato dalla violenza, dall’aggressione e dalla
frammentazione, è essenziale che gli Stati e le imprese si uniscano nel
promuovere modelli di globalizzazione lungimiranti ed eticamente sani, che per
loro stessa natura devono implicare la subordinazione del perseguimento del
potere e del guadagno individuale, sia esso politico o economico, al bene
comune della nostra famiglia umana, dando priorità ai poveri, ai bisognosi e a
coloro che si trovano in situazioni più vulnerabili.
Da
parte sua, il mondo degli affari e della finanza opera oggi in contesti
economici sempre più ampi, dove gli stati nazionali hanno una capacità limitata
di governare i rapidi cambiamenti nelle relazioni economiche e finanziarie
internazionali.
Questa situazione richiede che le imprese
stesse siano sempre più guidate non semplicemente dal perseguimento del giusto
profitto, ma anche da elevati standard etici, soprattutto nei confronti dei
Paesi meno sviluppati, che non dovrebbero essere in balia di sistemi finanziari
abusivi o usurari.
Un approccio lungimirante a queste questioni
si rivelerà decisivo per raggiungere l’obiettivo di uno sviluppo integrale
dell’umanità nella solidarietà.
Lo
sviluppo autentico deve essere globale, condiviso da tutte le nazioni e in ogni
parte del mondo, altrimenti regredirà anche nelle aree finora segnate da un
progresso costante.
Allo
stesso tempo, è evidente la necessità di un’azione politica internazionale che,
attraverso l’adozione di misure coordinate, possa perseguire efficacemente gli
obiettivi di pace globale e di autentico sviluppo.
In
particolare, è importante che le strutture intergovernative riescano a
esercitare efficacemente le loro funzioni di controllo e di indirizzo nel
settore economico, poiché il raggiungimento del bene comune è un obiettivo che
va oltre la portata dei singoli Stati, anche di quelli dominanti in termini di
potere, ricchezza e forza politica.
Anche
le organizzazioni internazionali sono chiamate a garantire il raggiungimento di
quell'uguaglianza che è alla base del diritto di tutti a partecipare al
processo di pieno sviluppo, nel dovuto rispetto delle legittime differenze.
La mia
speranza, quindi, che i partecipanti al Forum di quest’anno siano consapevoli
della responsabilità morale che ciascuno di noi ha nella lotta contro la
povertà, nella realizzazione di uno sviluppo integrale per tutti i nostri
fratelli e sorelle, e nella ricerca di una convivenza pacifica tra i popoli.
Questa è la grande sfida che il tempo presente
ci pone davanti.
E se, nel perseguimento di questi obiettivi,
“i nostri giorni sembrano mostrare segni di una certa regressione”, resta vero
che “ogni nuova generazione deve fare proprie le lotte e le conquiste delle
generazioni passate, puntando al contempo ancora più in alto”. … La bontà,
insieme all’amore, alla giustizia e alla solidarietà, non si realizzano una
volta per tutte; devono realizzarsi ogni giorno» (Esortazione apostolica Laudate Deum,
34).
Con
questi sentimenti, porgo i miei fervidi auguri per i lavori del Forum, e su
tutti i partecipanti invoco volentieri l'abbondanza delle benedizioni divine.
Davos
2024, Lagarde (Bce):
"Elezioni
Usa? L'Ue sia
pronta
a ogni scenario."
Tg24sky.it
– (19 gen. 2024) – Redazione Economica – ci dice:
La
presidente della Bce è intervenuta al panel di chiusura del World Economic
Forum: "Dobbiamo avere un mercato unico forte. Nel 2024 continuerà la
ripresa dei consumi".
Ai microfoni di Sky TG24 ha parlato il
vicepresidente della Commissione europea “Dombrovskis”:
"Stiamo
monitorando la situazione nel Mar Rosso e l'impatto sull'economia.
Ratifica del Mes? Speriamo ci siano passi in avanti.
Sui conti pubblici l'Italia si allinei alle
raccomandazioni dell'Ue"
Quinta
e ultima giornata del World Economic Forum di Davos, in Svizzera.
Al
panel di chiusura dell'edizione numero 54 è intervenuta Christine Lagarde,
presidente della Banca centrale europea.
"Elezioni in Usa? L'Ue deve essere
pronta" a ogni scenario, ha affermato, sottolineando la necessità di un
"mercato unico forte".
A margine dell'evento, il vicepresidente della
Commissione “Ue” Valdis Dombrovskis ha parlato ai microfoni di Sky TG24:
"Stiamo
monitorando la situazione nel Mar Rosso e l'impatto sull'economia. Ratifica del
Mes? Speriamo ci siano passi in avanti. Sui conti pubblici l'Italia si allinei
alle raccomandazioni Ue".
Lagarde
(Bce): "Elezioni Usa? Dobbiamo prepararci."
Qualunque
sarà l'esito delle elezioni negli Stati Uniti, e qualunque siano i rischi che
questo comporterà, la miglior cosa che può fare l'Unione europea è essere
preparata a ogni scenario.
È questo il pensiero di Lagarde, intervenuta
al panel di chiusura del World Economic Forum dedicato alle prospettive globali
dell'economia.
"La
miglior difesa è l'attacco", ha detto la presidente della Bce rispondendo
a una domanda sui rischi che potrebbero derivare dalla vittoria di Trump.
"Dobbiamo
prepararci, essere forti a casa nostra, e per farlo dobbiamo avere un mercato
unico forte", ha aggiunto.
Bce,
Lagarde: “Tassi interesse hanno raggiunto loro picco.”
Lagarde
(Bce): "Nel 2024 continuerà la ripresa dei consumi."
Verso
la fine del 2023 c'è stato "l'inizio del periodo di normalizzazione
dell'economia, che però andrà verso qualcosa che non è la normalità", ha
affermato Lagarde.
Tale
processo, ha spiegato, è in corso nel commercio, nell'inflazione e nel mercato del lavoro.
"A fine 2023 abbiamo visto una qualche
ripresa dei consumi e un ritorno alla normalità dei risparmi da una condizione
di risparmi eccessivi, mercati del lavoro meno rigidi e una riduzione
dell'inflazione, sia nominale che di fondo.
Quindi
questo è quanto possiamo attenderci per il 2024: una prosecuzione di questi
trend", ha concluso.
A
margine del Forum, il vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis ha
detto al programma Start di Sky TG24 che le istituzioni europee stanno
"controllando e monitorando da vicino la situazione" nel Mar Rosso,
dove proseguono gli attacchi degli Houthi dello Yemen, e si sta "misurando
l'impatto" che tale situazione potrebbe avere sull'economia.
L'organo
dell'Ue "presenterà un report a fine febbraio" sulla questione, ha
aggiunto Dombrovskis
.
"Le discussioni" sulla ratifica della riforma del Mes
"continuano con l'Italia - ha continuato -. Ovviamente spetta al
parlamento italiano decidere quali sono i prossimi passi in avanti. Speriamo di
poterli vedere quanto prima".
E poi
ha sottolineato:
"Non
ricopro la posizione giusta per poter parlare sull'Italia e di cosa deciderà il
parlamento, ma sarò in contatto" con il governo "e discuteremo dei
prossimi passi insieme".
Dombrovskis
a Sky TG24: "Sui conti pubblici Italia non in linea con le raccomandazioni
Ue."
Valdis
Dombrovskis ha evidenziato a Sky TG24 che "poco tempo fa è stata fatta la
valutazione della Commissione Ue" sui piani di bilancio 2024 dei Paesi
membri e "anche sul budget italiano, che non sembra essere in linea con le
raccomandazioni del Consiglio Ue.
Questo vale anche per altri Paesi.
E
abbiamo chiesto all'Italia di intraprendere deviazioni e di rimettere in
linea" i conti pubblici "con le nostre raccomandazioni".
La
Commissione Ue aveva "già annunciato che nella primavera del 2024 avremmo
avuto l'intenzione di lanciare delle procedure" per deficit eccessivo
"sulla base dei dati raccolti nell'autunno 2023 - ha continuato a Sky TG24
-.
Abbiamo ripetutamente raccomandato ai Paesi
membri di spostarsi verso posizioni fiscali più prudenti, considerando i
livelli di deficit e di debito".
Sul nuovo Patto di stabilità e crescita
"la cosa importante è arrivare all'accordo finale e definitivo
velocemente, prima del periodo di fermo dei lavori per le elezioni. Serve molta
chiarezza per i prossimi anni sulle nuove regole fiscali ed economiche. È il
momento giusto per continuare a collaborare", ha detto.
Paesi
Baltici: "Sistemi di difesa ai confini con la Russia."
Dombrovskis
a Sky TG24: "Se la Russia vince, possibili altre guerre"
"In
caso di successo, la Russia potrebbe desiderare di andare avanti continuando
con altre guerre e altre aggressioni.
Sembra quasi che una modalità imperialistica
sia tornata di moda in Russia - ha detto Dombrovskis a Sky TG24 -.
Putin
con uno slogan sta dicendo che i confini russi non hanno frontiere, non hanno
fine" e questo rappresenta "una minaccia per gli Stati vicini,
compresi i Baltici.
Quindi
l'aggressione russa riguarda non solo l'Ucraina ma tutta l'architettura di
sicurezza europea".
Il vicepresidente della Commissione Ue ha
quindi sottolineato l'importanza di "fornire tutto il supporto necessario
all'Ucraina", aggiungendo che "è fondamentale che a livello Ue si
possa continuare a rafforzare le capacità di difesa congiunte".
"L'Europa
è stata solidale dopo il Covid, creando il “Next generation Eu” e il fondo “Sure”.
Ma da
lì in avanti è tornata la vecchia Europa, ogni Stato per conto suo. Questo
significa non cogliere l'urgenza", ha detto il presidente di Confindustria
Carlo Bonomi, che si trova a Davos.
Bonomi
parla di "sfida per la competitività lanciata da Stati Uniti e Cina",
con l'Europa che "vuole dettare degli standard, per esempio sulla
transizione ecologica, ma ha grandi fragilità".
Bonomi
sostiene che "dopo le elezioni europee sarà fondamentale un “Industrial
Act”, altrimenti avremo grossi problemi di produzione e occupazione, e questo
darà altro spazio ai movimenti antieuropeisti".
Inoltre,
spiega, "se l'Europa decide di diventare campione mondiale della
sostenibilità deve prevedere una finanza adeguata a investimenti che sono
enormi.
In Europa negli ultimi 24 mesi sono crollati,
in Italia sono sottozero.
Non basta la deroga agli aiuti di Stato,
servono risorse e strumenti europei.
Come
quelli introdotti dagli Usa".
E poi
conclude: "Vedo una politica che rimanda e non impara.
Abbiamo
avuto la crisi del gas russo, e ora siamo dipendenti dall'Algeria, mentre
l'installazione di rinnovabili è rallentata.
Abbiamo
avuto la crisi delle materie prime due anni fa, e ora è esplosa la crisi del
Mar Rosso".
Su Ilva, l'acciaio di Stato "l'abbiamo
già avuto ed è fallito".
Maduro
(Venezuela): "Milei a Davos ha fatto una figuraccia."
A
proposito della partecipazione del presidente argentino Javier Milei a Davos,
il suo omologo venezuelano Nicolás Maduro ha parlato di "figuraccia".
"Il
popolo argentino deve essere triste, vergognarsi, indignarsi per la figuraccia
commessa da Javier Milei al vertice di Davos.
Una
vergogna, un'espressione della sua ideologia nazista, il maccartismo.
È una
bugia che sia liberista, liberale, libertario," ha dichiarato Maduro,
secondo il quale "gli uomini d'affari capitalisti del mondo e i governi
dell'Occidente sono rimasti sbalorditi quando Milei ha accusato l'Occidente di
essere comunista, di essere socialista".
"Chi
non la pensa come lui è comunista e deve essere sterminato dalla faccia della
terra. Questo è il pensiero nazista che voleva sterminare comunisti,
socialisti, ebrei e zingari", ha sostenuto il leader chavista.
(Davos
2024, Milei: "Occidente in pericolo a causa del socialismo.")
La
giornata di ieri.
Nella
giornata di ieri, il presidente israeliano Isaac Herzog ha parlato del
conflitto in corso a Gaza.
"Guardando in prospettiva, dobbiamo
certamente lavorare per trovare nuovi modi per avere un dialogo con i nostri
vicini.
Ma la
domanda fondamentale dopo il 7 ottobre è quali garanzie di sicurezza ci saranno
per i cittadini israeliani", ha affermato.
Mostrando
una foto del piccolo “Kfir Bibas” - il bambino dai capelli rossi prigioniero di
Hamas da tre mesi - il presidente israeliano ha sottolineato che lo Stato
ebraico sta combattendo "una guerra per la libertà del mondo".
E poi ha detto: "Israele vuole vivere in
pace. C'è un forte desiderio di coabitazione sia tra gli israeliani che tra i
palestinesi, ma bisogna eliminare il terrorismo".
Il
tema di quest'anno.
L'edizione
2024 del Forum economico mondiale si è concentrata soprattutto sulla
geopolitica e sulle guerre in corso, tanto che oltre a Herzog è intervenuto nei
giorni scorsi anche il presidente ucraino “Volodymyr Zelensky”.
Nel
clima di forte incertezza che domina lo scenario globale, il tema di quest'anno
è stato "Rebuilding Trust", ossia "Ricostruire la fiducia",
che viene ritenuta dagli organizzatori l'elemento necessario alla base di ogni
sviluppo.
Tutte
le follie della rivoluzione verde
voluta dall'Ue, c’è pure il siero
che rispetta il pianeta.
Veitaeaffari.it
– (13 sett. 2022) – Riccardo Pelliccetti – ci dice:
Ci
sono Paesi che hanno messo in frigorifero il “green deal”, come la Gran
Bretagna, e altri che hanno fatto retromarcia riaprendo le centrali.
Tutte
le follie della rivoluzione verde voluta dall'Ue, c’è pure il siero che
rispetta il pianeta.
Cosa
non va della rivoluzione verde.
Ci
sono Paesi che hanno messo in frigorifero il green deal, come la Gran Bretagna,
e altri che, dopo aver aderito entusiasticamente all’accordo Cop 26 di Glasgow
sull’abbandono del carbone come fonte energetica, hanno fatto retromarcia
riaprendo le centrali.
La
rivoluzione verde, tanto amata dalla sinistra europea e dai burocrati di
Bruxelles, si è rivelata una follia.
Non
perché sia sbagliato in assoluto il principio, ma perché i profeti del futuro
verde e sostenibile non hanno tenuto conto di troppe variabili:
la
guerra che ha scatenato la crisi energetica, la siccità che ha penalizzato
l’idroelettrico, la mancanza di vento nel mare del Nord che ha limitato
l’eolico e, dulcis in fundo, la carenza di materie prime che ha fatto salire
alle stelle il costo di installazioni di fotovoltaico.
La
transizione ecologica.
La
transizione ecologica, lo sanno anche i bambini, necessita di tempi lunghi.
In un mondo che va avanti e produce grazie a
gas, petrolio e anche carbone (Cina docet!) non si può decidere di staccare la
spina in una data prefissata senza deroghe, chiudendo gli occhi davanti alle
congiunture che cambiano o agli stravolgimenti geopolitici.
Perché gli effetti sono sotto gli occhi di
tutti e negarlo sarebbe non solo sciocco ma anche una menzogna
Eppure l’Unione europea non vuole prendere in
considerazione l’emergenza attuale per modificare o prorogare la marcia verde
che si è prefissata.
La crisi del gas si affronta e si risolve,
secondo la Commissione guidata da “Ursula von der Leyen”, con altri strumenti
come il razionamento dei consumi o l’estensione del meccanismo “Ets”.
E rallentare
la corsa verde?
Non se ne parla neppure, anzi, se ne parla
solo per continuare a sostenerla affermando che tutte le misure anti crisi non
debbano ledere in alcun modo il cammino tracciato per il “green deal”.
E via alla neutralità carbonica nel 2050,
senza se e senza ma, con l’obiettivo intermedio di ridurre il Co2 del 55% entro
il 2030, e poi stop a tutte le auto diesel e a benzina entro il 2035.
Le
misure per la rivoluzione verde.
Ma
come ci arriveremo a quei traguardi?
Come saranno ridotte le nostre industrie?
Quante recessioni dovremo vivere e quanta
povertà affrontare se continuiamo a camminare con il paraocchi?
Pandemia, guerra, siccità sono solo alcuni degli
ostacoli che ci si sono parati davanti.
E chissà quanti altri ne potremo incontrare…
La scorsa estate, quando la Commissione europea presentò gongolante il suo
piano “Fit for 55”, cioè le dodici misure necessarie per la rivoluzione verde,
tutti erano consapevoli che avrebbero fatto aumentare i prezzi del
riscaldamento, dei trasporti, dei carburanti eccetera.
Il
Financial Times scriveva che Bruxelles ne era consapevole, ammettendo che
l’”estensione del sistema Ets “«avrà un impatto sulle famiglie povere».
Secondo
gli studi, infatti «potrebbe esserci uno shock iniziale sulla bolletta».
Shock
al quale se ne è aggiunto un altro, con la crisi energetica e la guerra in
Ucraina.
«Machissenefrega»
ripetono i profeti del green deal.
E continuano a fare proseliti tanto che ora arrivano
anche i vaccini green, come quello antinfluenzale della Sanofi.
«Le confezioni sono studiate con un packaging
che rispetta il pianeta – informa l’azienda francese -. Riducono l’impatto in
termini di emissioni di Co2».
Il
mondo verde si autoelogia, come la “Follia” di Erasmo da Rotterdam.
Intelligenza
artificiale, 7 italiani
su 10
preoccupati per lo stipendio.
Veritaeaffari.it
– Roberto Re – Redazione Verità & Affari – (16-2-2024) – ci dice:
Gli
italiani hanno paura dell'intelligenza artificiale e di un progresso troppo
veloce che non rispetta i tempi di assimilazione psicologica.
In
un’epoca segnata da repentini cambiamenti, il 60,1% degli italiani soffre da
anni di uno o più disturbi psicologici come quelli del sonno (32%), varie forme
d’ansia (31,9%), stati di apatia (15%), attacchi di panico (12,3%) e
depressione (11,5%).
Ma non
solo.
Gli italiani hanno paura anche
dell’intelligenza artificiale e di un progresso troppo veloce che non rispetta
i tempi di assimilazione psicologica e sociale.
E in
effetti, stando a un altro studio eseguito da” IPSOS” e commissionato da”
Kelly,” società internazionale di “head hunting”, il 53% degli intervistati si
è detto preoccupato che l’IA possa influire negativamente sulla retribuzione e
il 68% del campione ritiene che l’IA ridurrà il personale nelle aziende.
Una
fotografia allarmante che chiede una risposta immediata.
‘L’era del Disagio’, così sono stati ribattezzati i
nostri tempi, da un recente sondaggio realizzato dall’”Inc. Non Profit Lab” (il laboratorio di Inc. – Pr Agency
Content First dedicato al terzo settore).
“Con
l’avanzare della tecnologia, c’è una paura diffusa di essere lasciati indietro
o diventare obsoleti, temere di non essere al passo con le nuove competenze
richieste o di non sapersi adattare ai cambiamenti”,
spiega “Roberto Re”, il primo e più importante
formatore italiano, che proprio in questi giorni sta attraversando l’Italia con
un tour ‘Leader di te stesso 2.0′.
“Se mi
guardo intorno, vedo che le persone si sentono ‘isolate in un mondo connesso’,
incapaci di formare relazioni significative.
Nell’era
dell’iper-produttività, si vive con l’ansia costante di dover sempre fare di
più, essere più efficienti senza potersi mai fermarsi.
Le
persone, oggi, si sentono sopraffatte da tutti questi cambiamenti.
In una realtà dove l’intelligenza artificiale
sta ridefinendo i nostri lavori e le questioni dei temi sociali stanno
trasformando il nostro modo di interagire, le persone si sentono
inevitabilmente smarrite”.
Secondo
Roberto Re, nessuno fermerà questo mutamento.
“Non
ci sono scuse, possiamo solo adattarci. È un mondo in cui i vecchi metodi non
bastano più, dove la rapidità del cambiamento richiede un’enorme capacità di
Leadership.
Oggi è
essenziale mostrare non solo intraprendenza e gestione di sé e delle proprie
risorse, ma anche una comprensione approfondita delle tecnologie emergenti e
delle dinamiche sociali in continua evoluzione. Stiamo vivendo una situazione
che richiede un ‘upgrade’ della stessa leadership, siamo chiamati a essere
leader di noi stessi 2.0”.
Un
tour che vuole dare risposte, strategie e soluzioni concrete,13 tappe, dopo
Milano, Firenze, Bologna e Roma, oggi sarà a Napoli e proseguirà per Bari,
Lecce, Torino, Verona, Treviso, Civitanova Marche.
Ultima
data il 29, nuovamente a Milano.
Gli
incontri nascono inoltre dalla volontà di celebrare l’anniversario di un libro
“Leader di te stesso”, scritto da Re venti anni fa per la Mondadori e che, con
500 mila copie vendute, affronta tematiche oggi più attuali che mai.
“La
cosa più incredibile – dice Roberto Re – è che il volume continua a spopolare
sul mercato, segno che le persone hanno ancora bisogno di essere guidate”.
Ma non
sarà una lezione cattedratica ma nemmeno uno spettacolo teatrale.
“Saranno,
come da 30 anni a questa parte, tre ore nel corso delle quali spiegherò come
oggi è possibile lavorare sulla propria intelligenza emozionale che aiuta a
diventare consapevoli e padroni di sé stessi”.
Un
obiettivo che si raggiunge osservando cinque regole:
avere piena gestione delle emozioni,
mantenere
il giusto equilibrio fra corpo e mente,
utilizzare
la mentalità del risultato per massimizzare l’efficienza e bilanciare lavoro e
tempo libero,
creare
e coltivare relazioni positive,
costruire
i presupposti per una comunicazione chiara ed efficace.
“Solo
così – sottolinea Re – si riesce a controllare, se non abbattere, lo stress che
limita la vita di molte persone e che spesso porta a commettere errori sia sul
posto di lavoro e sia in casa.
Provo a trasmettere, nel corso dei seminari
programmati, come riconoscere le nostre insicurezze e come trasformare le
difficoltà in opportunità. Io sono il responsabile della mia vita perché
dipende tutto da me”.
Il
target di riferimento va dai 30 ai 50 anni e, per l’80%, è rappresentato da
liberi professionisti:
“Sono
tutte persone – evidenzia Re – che hanno una visione diversa dalla nostra e da
quella dei nostri padri.
Il lavoro non viene visto più come unico
motivo di vita ma si cerca, sempre più, di renderlo compatibile con il privato.
Provo,
nei miei seminari, ad aiutare le persone a occuparsi di ciò che vale la pena
fare per ottenere questo obiettivo, a sapersi organizzare per trovare il tempo
di fare ciò che si desidera.
Lasciare
spazio a sé stessi non significa limitare il lavoro.
Anzi, chi riesce a mettere in equilibrio la
propria vita è decisamente più produttivo.
Più produttivo e finalmente leader”.
Insomma il cambiamento, ora, passa per la
capitale.
(Teleborsa).
L'impatto
delle elezioni
Usa
sulla politica
monetaria, quali scenari?
Verita&affari.it
– (16-2-2024) – redazione Verità & Affari – ci dice:
Uno
degli eventi dell'anno sono senza dubbio le elezioni Usa con un interrogativo
che serpeggia: quali impatti sulla politica monetaria?
L'impatto
delle elezioni Usa sulla politica monetaria, quali scenari?
Uno
degli eventi dell’anno sono senza dubbio le elezioni Usa di novembre con un
interrogativo che serpeggia:
quali
impatti avranno sulla politica monetaria?
“Xiao
Cui”, Senior Economist di “Pictet Wealth Management” spiega che sono due le
percezioni più comuni da parte degli investitori:
la Fed cercherà di anticipare i tagli dei tassi per
evitare un cambio di politica monetaria troppo a ridosso delle elezioni di
novembre, che potrebbe apparire politico:
la Fed è orientata ad allentare la politica
monetaria più del solito quest’anno per aiutare il presidente in carica.
Nessuna
delle due affermazioni – sottolinea l’esperto – “è infondata e la Fed è già
finita nel mirino della politica in passato.
Tuttavia, le elezioni presidenziali del 2024
non modificano le nostre aspettative di politica monetaria basate sui
fondamentali economici.
Prevediamo
che la Fed inizierà a ridurre i tassi a giugno e in seguito ad ogni riunione di
quest’anno”.
“Cui”
sottolinea infatti che la “Fed”
“ha
sia inasprito che allentato la politica in prossimità delle elezioni di
novembre, e non troviamo alcuna tendenza all’allentamento.
Se i
dati sono sufficientemente forti da impedire alla Fed di tagliare i tassi fino
a novembre, la banca centrale americana potrebbe prendere in considerazione l’idea di
astenersi dal fare la sua prima mossa politica nella riunione di novembre (due
giorni dopo le elezioni) per non dare un segnale di grande urgenza”.
Ovviamente,
“le elezioni sono importanti, a causa
dell’incertezza economica che generano e dei potenziali cambiamenti politici.
Le proposte politiche dei principali candidati
presidenziali sono entrambe espansive dal punto di vista fiscale.
Politiche
commerciali e di immigrazione più restrittive sotto Trump potrebbero essere
percepite come più inflazionistiche”.
Elezioni
che – spiega ancora l’esperto – “possono avere un impatto sulla politica monetaria
anche attraverso la nomina del presidente della Fed.
Il rischio di un candidato non ortodosso, la
cui politica potrebbe essere influenzata direttamente dal presidente, esiste.
Ma il
Senato ha l’ultima parola nella nomina del presidente e c’è un’intesa comune
tra i senatori sul fatto che l’indipendenza della “Fed” debba sempre essere
preservata”.
(Teleborsa)
L'Europa
tra recessione
e crescita
e il
duro confronto con il resto del mondo.
Vertitaeaffari.it
– Redazione Verità & Affari – (16-2-2024) – ci dice:
L'UE
ha rivisto la stima sul PIL della zona euro allo 0,5% nel 2023 dallo 0,6%
previsto in autunno ed allo 0,8% nel 2024 dall'1,2%.
L'Europa
tra recessione e crescita e il duro confronto con il resto del mondo.
Dal
Giappone al Regno Unito ad inizio 2024 si torna a parlare di recessione in un
contesto sempre più difficile da gestire, con diverse guerre alle porte ed
un’inflazione che resta troppo elevata per dormire sonni tranquilli.
Ma
salta anche all’occhio una situazione estremamente diversificata e dipendente
dalle differenti politiche, più o meno appropriate, approntate dalle banche
centrali.
Il
Giappone e della politica ultra-accomodante della “BoJ.”
Nel
quarto trimestre 2023, il PIL giapponese è sceso dello 0,1% rispetto al
trimestre precedente dello 0,4% rispetto all’anno precedente. L’economia del
Sol Levante è entrata così “tecnicamente” in recessione dopo aver registrato un
decremento dello 0,8% nel trimestre precedente.
Una
doccia fredda per il mercato che attendeva un piccolo aumento dello 0,2%.
Un
dato che sconta soprattutto l’aumento dell’inflazione, poiché in termini reali,
il PIL avrebbe accelerato all’1,9% dalal’1% del 2022.
Il PIL
nominale 2023 del Giappone si è così attestato a 4.200 miliardi di dollari,
facendo scivolare il Giappone al quarto posto nella classifica mondiale, dopo
USA e Cina, e dopo la Germania, che ha strappato il terzo posto con un PIL a
4.500 miliardi di dollari.
C’è da
dire che la “Bank of Japan” non ha mai alzato i tassi come le banche centrali
occidentali, mantenendoli in territorio negativo pur con un’inflazione in
accelerazione.
Una
politica volta a dare ossigeno ai consumi, tramite un aumento dei salari
nominali, che pero pone oggi la “Bank of Japan” in controtendenza rispetto alle
altre banche centrali d’Occidente, a dover annunciare “fuori tempo” un ritiro
della politica ultra accomodante (probabilmente da aprile) mentre Fed e BCE già
si preparano a tagliate i tassi.
Anche
UK in recessione.
Assieme
al Giappone anche l’economia del Regno Unito è finita in recessione, riportando
nel quarto trimestre 2023 un PIL in contrazione dello 0,3% rispetto al
trimestre precedente, quando era sceso dello 0,1%.
Anche
il Regno unito è entrato “tecnicamente” in recessione, avendo registrato due
trimestri consecutivi di PIL negativo, ma l’anno 2023 si salva con un +0,1%
rispetto al 2022.
L’idea
degli analisti in questo secondo caso è che l’economia del Regno Unito abbia
toccato il fondo e sia pronta per un rimbalzo, che arriverà nel 2024.
Per
questo appare oggi più probabile un taglio anticipato dei tassi di interesse da
parte della Banca d’Inghilterra.
Germania
diventa la cenerentola d’Europa.
L’economia
tedesca non si è salvata da questa ondata di rallentamento ed è entrata in
recessione nel 2023, registrando un calo del PIL dello 0,3% a causa della crisi
che ha colpito il settore industriale per effetto degli alti costi dell’energia
e delle difficoltà di esportare in risposta alla crisi economica mondiale.
Fattori
che si sono uniti alla debolezza dei consumi interni, penalizzando la locomotiva d’Europa.
In
questo caso, il boccino è in mano alla “BCE”, vicina a porre fine alla politica
restrittiva messa a punto per combattere l’inflazione, anche se i tempi non
sono ancora maturi e si potrà attendere sino alla fine del primo semestre di
quest’anno.
Le
nuove previsioni della Commissione europea.
Le
previsioni della Commissione europea annunciate ieri confermano invece che l‘UE
ha dribblato la recessione.
“L’economia
europea rallenta.
Ha evitato la recessione, ma ha avuto una crescita
molto bassa e continuerà ad averla anche quest’anno”, ha ammesso il Commissario
“Paolo Gentiloni”, aggiungendo “siamo fiduciosi che nel 2025 l’attività
economica possa riprendere l’attività e questo vale anche per l’Italia”.
L’UE
ha rivisto la stima sul PIL della zona euro allo 0,5% nel 2023 dallo 0,6%
previsto in autunno ed allo 0,8% nel 2024 dall’1,2% precedente.
Nel 2025 ci si aspetta un ritorno alla
crescita (+1,5%).
Stesso
discorso vale per l’Italia che nel 2023 e nel 2024 crescerà solo dello 0,7% (in
precedenza si stimava nel 2023 un aumento dello 0,9%), mentre resta inoltre
invariata la previsione per il 2025 all’1,2%.
La
classifica vede fra i peggiori in UE:
Svezia
(+0,2%), Germania (+0,3%), Paesi Bassi (+0,4%), Finlandia (+0,6%), Austria
(+0,6%), Estonia (+0,6%) e Italia (+0,7%).
TRANSIZIONE
ECOLOGICA.
Alessandro
Panza: "Le politiche green
dell’Unione
europea non funzionano."
Primadituttomilano.it
– (25 settembre 2023) – Alessandro Panza – ci dice:
(L’intervento
dell’eurodeputato del Gruppo Lega - Identità e Democrazia).
Panza:
"Le politiche green dell’Unione europea non funzionano"
“Nel
nome di una transizione verde accelerata rispetto al resto del mondo
industrializzato, la Commissione europea vorrebbe imporre ai suoi cittadini
sacrifici economici enormi, insistendo nel non voler tenere conto delle nuove evidenti
criticità poste dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina”.
Questo
il giudizio di Alessandro Panza, europarlamentare del Gruppo Lega - Identità e
Democrazia, sulle politiche green varate dall’Unione europea.
L’inquinamento
va affrontato a livello globale.
“Mentre la nostra economia sta
faticosamente cercando di ripartire, l’Unione europea esige una” conversione
green radicale in tempi brevissimi “– spiega Panza -.
L’”European
Green Deal”, infatti, tanto voluto dalla Commissione europea allo scopo di
raggiungere la neutralità climatica nel 2050, è un più che nobile e
condivisibile obiettivo, ma totalmente utopico e irrealizzabile:
è un
programma per raggiungere uno sviluppo sostenibile nella sola Europa unita.
L’errore è già qui:
il problema dell’inquinamento, la transizione
energetica, vanno affrontati a livello globale o così sono destinati a fallire.
Ci sono Nazioni che non si preoccupano
minimamente di causare danni all’ambiente e giocando senza regole possono
vendere i loro prodotti a prezzi più bassi, facendo concorrenza alle nostre
industrie, che stanno perdendo sempre più terreno a causa delle regole imposte
da Bruxelles.
È
notizia di questi giorni la chiusura dello stabilimento di una storica azienda
che produce componenti per motori tradizionali, la “Magneti Marelli”, che ha
annunciato la chiusura definitiva della sua divisione di Crevalcore per un
totale di 230 lavoratori licenziati a causa delle iniziative ecologiche della
Ue legate alle auto elettriche.
Non
può che essere il primo di una lunga serie”.
Serve
una transizione ecologica equa e accessibile.
“Invece
di perdere tempo inseguendo utopie irrealizzabili – prosegue l’eurodeputato -,
l’Unione europea si dovrebbe concentrare su un processo di allontanamento dalla
dipendenza cinese e soprattutto rivedere gli step fissati dal piano 'Fit for
55' che si prefigge di ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra di
almeno il 55% entro il 2030.
L’Europa
attualmente incide per circa il 9% delle emissioni mondiali…
È
fondamentale cercare soluzioni globali e graduali per una transizione equa e
accessibile, evitando di forzare le economie locali a fermarsi, mentre nel
frattempo continuiamo a favorire quelle dei Paesi ad alto impatto ambientale.
Dobbiamo
riconoscere che tutti condividiamo lo stesso pianeta e l’aria che respiriamo, e
agire di conseguenza.
La transizione verso l’ecosostenibilità è un
obiettivo giustificato e imprescindibile, ma qui si tratta di smantellare uno
dei sistemi industriali più avanzati del mondo, quando è totalmente
irrealistico considerare l’Europa come l'unico attore responsabile di questo
cambiamento.
Il fallimento delle politiche green è ormai evidente
persino in quei settori che dovrebbero essere da traino, che si stanno
inceppando.
Il “Green
Deal sull’eolico”, per esempio, si è completamente sgonfiato a causa di
investimenti in ritardo, turbine sempre più costose e aziende in crisi che
rinunciano allo sviluppo dei progetti, minati dall’aumento dei costi di
gestione e di produzione”.
Elezioni
europee del 2024 e politiche ambientali dell’Ue.
“Il
2024 sarà anche l’anno in cui le elezioni per il Parlamento europeo avranno un
impatto significativo sul futuro delle politiche ambientali dell’Unione –
conclude Panza -.
Il
tema della transizione energetica, che va dall’auto elettrica alle case
ecologiche, al ruolo del gas e del nucleare, saranno senza dubbio al centro
delle elezioni europee, cui dovremmo tutti partecipare con maggiore attenzione
perché andranno a impattare in maniera diretta e immediata sul nostro futuro,
esattamente come ci insegnano le vicende recentemente assurte alla cronaca del
blocco dei veicoli Euro 5 o della Casa Green, la proposta di normativa europea
sull’edilizia.
Su
quest’ultima ho personalmente indetto una raccolta firme per presentare una
petizione al Parlamento europeo affinché venga applicata solo sugli edifici di
nuova costruzione, per chiedere che si sospenda la sua introduzione per gli
edifici già esistenti e che entri in vigore solo dopo aver ben specificato gli
importi e le fonti di finanziamento.
È
possibile firmare la petizione sul sito “giulemanidallacasa.it”.
Sussidiare
i redditi, non il diesel,
per
gestire bene la transizione.
Avvenire.it
- Leonardo Becchetti – (3 febbraio 2024) - ci dice:
La
protesta con i trattori degli agricoltori a Bruxelles ci ricorda ancora una
volta, come diceva “Alexander Langer,” che la transizione ecologica per avere
successo deve essere socialmente sostenibile.
(Trattori
sulle strade. La protesta degli agricoltori).
La protesta con i trattori degli agricoltori a
Bruxelles ci ricorda ancora una volta, come diceva “Alexander Langer”, che la
transizione ecologica per avere successo deve essere socialmente sostenibile.
E se non è socialmente sostenibile non è neanche
politicamente sostenibile.
Le
cose non sono semplici.
Si fa
presto a dire che è uno scandalo che esistano sussidi ambientalmente dannosi e
che dobbiamo cancellarli con un tratto di penna, ma non si considera il fatto
che cancellarli ci fa andare incontro a situazioni simili a quelle che stiamo
vivendo in questi giorni.
I
sussidi ambientalmente dannosi sono aiuti a categorie che non navigano certo
nell’oro, come agricoltori, autotrasportatori, pescatori, tassisti.
Se non
ci domandiamo come è possibile sterilizzare gli effetti negativi di queste
decisioni sul reddito di tali categorie la specifica politica di transizione
ecologica non è socialmente sostenibile, e di conseguenza non è nemmeno
politicamente sostenibile.
Siamo
dunque costretti alla paralisi che ci porta dritti nel burrone del disastro
ecologico?
Niente
affatto perché le soluzioni ci sono se superiamo le contrapposizioni di questi
giorni e ragioniamo più in profondità.
Gli agricoltori vogliono pagare meno il gasolio (incentivo ambientalmente dannoso
perché rende meno cara la fonte fossile) o evitare di avere una perdita di
reddito alla fine del mese?
La seconda senza dubbio, particolarmente
importante in un settore dove chi è alla base della filiera partecipa molto
meno della distribuzione o della trasformazione ai guadagni derivanti dalla
vendita dei prodotti finali.
La
soluzione dunque è disaccoppiare i due effetti.
È
possibile infatti evitare sia di dare un segnale sbagliato verso le fonti
fossili, rendendole meno care allontanando il traguardo della transizione, e
allo stesso tempo evitare la perdita di reddito degli agricoltori.
Come
si insegna agli studenti di economia del primo anno (equazione di Slusky) ogni
variazione di prezzi (in questo caso l’aumento dei prezzi del gasolio) si
traduce in una variazione della spesa e del potere d’acquisto.
La
risposta a questa variazione di prezzo (degli agricoltori) dipende dunque da un
effetto sostituzione (cerco di economizzare se posso il bene che ora costa di
più) e da un effetto reddito (se mantengo costante il livello dei consumi del
bene che ora costa di più ho una perdita di reddito e sono diventato più
povero).
Per
risolvere il problema bisogna separare i due effetti.
Il
prezzo del gasolio deve salire per dare il segnale corretto dell’effetto
ambientale negativo derivante dalla scelta di quel carburante (favorendo così
comportamenti orientati al risparmio e non allo spreco di gasolio e, ove
possibile, alla sostituzione con carburanti meno inquinanti).
La
perdita di reddito conseguente può essere interamente compensata dallo stato
restituendo sotto forma di sussidio al reddito quanto perduto.
Nel
lavoro realizzato nella commissione al ministero dell’Ambiente (così definito
per semplicità visto che il nome cambia ad ogni governo) che ha studiato il
problema dei sussidi ambientalmente dannosi abbiamo spiegato che esiste una
vasta gamma di possibili scelte in questa direzione.
Un governo rimuovendo i sussidi ambientalmente
dannosi può parallelamente decidere per quanti anni offrire la compensazione di
reddito alle categorie colpite e, ove possibile, trasformarla in incentivo alla
sostituzione della vecchia tecnologia con una meno inquinante.
È il caso dei tassisti che hanno la possibilità di
scegliere tra auto a benzina e auto elettrica, dove ormai la seconda sta
diventando più conveniente sulla gamma alta e presto anche sulla gamma bassa.
La
differenza infatti non si calcola solo sul prezzo d’acquisto (peraltro ormai
più basso sulla gamma alta) ma anche sui costi di rifornimento (molto più bassi
nell’elettrico che con la benzina) e di manutenzione (che con le auto
elettriche scende praticamente a zero).
La
sostituzione delle tecnologie è senz’altro più difficile per le altre categorie
(almeno per il momento).
Pertanto la risposta sarà nel sussidio al
reddito finanziabile in parte con le entrate fiscali sullo stesso bene a cui
sommare ad esempio le entrate dai certificati verdi.
Una
parte della soluzione resta a carico dello Stato che però può valutare quanto
l’intervento sia importante per ridurre un danno sociale ed ambientale
significativo.
Gli effetti economici negativi del ritardo
della transizione ecologica cominciano infatti ad essere evidenti sotto forma
di contributo all’inflazione, aumento dei prezzi dei beni alimentari e
dell’energia, conseguenze degli eventi climatici estremi nelle zone in cui si
verificano.
La
questione degli agricoltori sul versante politico e sociale assomiglia per
certi versi a quella del “superbonus “dove un tetto annuo di spesa per il
governo e limiti alla “liquidità” del credito d’imposta possono risolvere il
problema della quadra tra esigenze di bilancio, stimolo all’economia e
incentivo alla riduzione delle emissioni.
Ma in questo, come nel caso degli agricoltori, lo
scontro ideologico fa tanto colore e fa comodo ai media e ai partiti che
attraverso questi conflitti si posizionano per catturare le preferenze dei loro
elettori ed aumentare il consenso dicendo sì o no.
Finita
questa prima fase di conflitto speriamo vivamente entrino in campo riflessioni
più serie e soluzioni.
Perché
quello che è certo è che nessuno vuole tra pochi anni arrivare ad una
situazione climatica di non ritorno ed è possibile evitare il problema senza
mettere sul lastrico gli agricoltori e tutti coloro che possono perdere dalla
transizione.
La transizione ecologica dell'UE
deve
fondarsi su
una forte
accettabilità
sociale e
non lasciare indietro
nessun
cittadino, territorio o impresa.
Cor.europa.eu – (30-6-2022) –
Redazione – ci dice:
Su
richiesta del Consiglio dell'Unione europea, l'Assemblea delle città e delle
regioni dell'UE ha elaborato un parere sugli imperativi ambientali e
l'accettabilità sociale della transizione ecologica.
Il Comitato europeo delle regioni ha accolto i
suggerimenti della relatrice “Hanna Zdanowska” (PL/PPE),” sindaca di Łódź”, che
propone una serie di misure economiche e sociali volte a garantire che il “Green
Deal europeo” — la strategia di crescita sostenibile dell'UE per raggiungere la
neutralità climatica entro il 2050 — si fondi su una forte accettabilità
sociale e non lasci indietro nessun cittadino, territorio o impresa.
“Hanna
Zdanowska “(PL/PPE), sindaca di Łódź e ambasciatrice polacca del “Patto dei
sindaci”, ha dichiarato che
"il
successo della trasformazione ecologica dipende dalla rapida creazione, a
livello europeo e nazionale, delle giuste condizioni per l'attuazione delle
azioni verdi da parte degli enti locali e regionali.
Chiediamo all'UE di finanziare direttamente le
città e le regioni per dare concreta attuazione al “Green Deal a livello locale”,
compiere passi avanti nella diversificazione delle fonti energetiche e
conseguire l'indipendenza dai combustibili fossili importati dalla Russia.
In
tale contesto, dobbiamo promuovere l'efficienza energetica nell'ambito
dell'ondata di ristrutturazioni e accelerare la diffusione delle energie da
fonti rinnovabili nelle nostre città e nelle nostre regioni.
La
trasformazione ecologica dell'UE deve fondarsi su una forte accettabilità
sociale e non deve lasciare indietro nessun cittadino, territorio o impresa.
Proponiamo
pertanto di organizzare dialoghi locali permanenti e vertici locali sul clima
per assicurare il successo della transizione ecologica".
Il
Comitato denuncia l'eccessiva centralizzazione dei fondi dell'UE e chiede una
revisione delle regole in materia di accesso alle risorse:
i membri, infatti, sottolineano che i fondi in
questione - compresi quelli della politica di coesione, del dispositivo per la
ripresa e la resilienza, del “Fondo per una transizione giusta” e del “Fondo
per la modernizzazione”, e persino “i fondi direttamente destinati ai livelli
locale e regionale”, come “LIFE “e il “meccanismo per collegare l'Europa” -
sono programmati a livello nazionale.
Per
accelerare la transizione verde e l'ondata di ristrutturazioni, il “CdR” invita
la “Commissione europea” a erogare dei finanziamenti direttamente agli enti
locali e regionali per l'attuazione dei progetti del “Green Deal”.
Chiede
inoltre agli Stati membri di riorientare le risorse inutilizzate del
dispositivo per la ripresa e la resilienza al fine di sostenere la
pianificazione della sicurezza energetica a livello locale e gli investimenti
nelle fonti di energia rinnovabili e nell'efficienza energetica.
Il Comitato invita la Commissione a rivedere
le norme per il finanziamento dei servizi comunali, a ridurre gli oneri
finanziari delle misure in materia di efficienza energetica ed energie
rinnovabili e a ridurre e semplificare gli ostacoli normativi alle nuove
tecnologie e ai nuovi modelli imprenditoriali.
Per
promuovere l'”accettazione sociale”, il Comitato propone diverse misure, tra
cui un maggiore ricorso alla “governance partecipativa” — ad esempio attraverso
“bilanci partecipativi “e” dialoghi locali” — e un sostegno finanziario a
meccanismi di consultazione permanenti come i vertici locali sul clima.
Il Comitato propone inoltre di intensificare
le attività delle reti esistenti, come quelle degli ambasciatori del “Patto dei
sindaci” e del “Patto per il clima”, e invita la” Commissione europea” e gli “Stati
membri” a finanziare campagne di sensibilizzazione dell'opinione pubblica per
promuovere il risparmio energetico.
Il
Comitato chiede che il” Fondo sociale per il clima “sia istituito nell'ambito
di un “sistema di gestione concorrente” che rispetti i principi di “partenariato”
e di “governance multilivello”.
Per
promuovere la replicazione dell'azione per il clima in tutta l'UE, è di
cruciale importanza la cooperazione tra città.
Il
Comitato invita la Commissione a considerare la possibilità di creare dei
"poli per il clima" quali punti di informazione e strumenti ad hoc
per l'assistenza tecnica e lo scambio di informazioni a livello locale,
comprese “le visite di studio”.
I
leader locali e regionali invitano la Commissione europea e gli Stati membri a
ridurre gli ostacoli alla “creazione di comunità locali di energie rinnovabili”,
poiché si tratta di una misura fondamentale per “affermare la sovranità
energetica dell'UE” e liberarsi dalla “dipendenza dai combustibili fossili
russi”.
Le
città e le regioni chiedono inoltre nuove misure per “sviluppare l'economia
sociale”, tra cui un” regime fiscale adeguato” e norme specifiche in materia di”
appalti pubblici e aiuti di Stato”.
I “leader
locali” chiedono che la “produzione sostenibile” sia stimolata attraverso un
regime di responsabilità estesa del produttore per un numero sempre maggiore di
prodotti, e sono favorevoli all'aggiornamento sostanziale della “direttiva
sulle emissioni industriali”.
I
membri concordano sulla necessità di sviluppare un maggior numero di progetti e
infrastrutture per l'energia sostenibile a livello transfrontaliero.
Il” CdR “invoca una normativa supplementare
che estenda” i principi dell'economia circolare” a tutti i prodotti e beni
presenti sul mercato dell'UE.
Il
Comitato difende l'approccio "One Health", riconoscendo la necessità
di proteggere la natura e ripristinare la biodiversità, gli habitat e gli
ecosistemi per tutelare la salute dei cittadini.
Tale
approccio è un pilastro fondamentale della piattaforma delle parti interessate
sull'inquinamento zero nell'UE.
Contesto:Gli enti locali e regionali come
attori chiave nella transizione verde.
Il
Comitato ricorda che gli enti locali e regionali attuano il 70 % di tutta la
legislazione dell'UE, il 70 % delle misure di mitigazione dei cambiamenti
climatici, il 90 % delle strategie di adattamento a tali cambiamenti e il 65 %
degli obiettivi di sviluppo sostenibile, oltre a effettuare un terzo della
spesa pubblica e i due terzi degli investimenti pubblici.
Attraverso
il” Green Deal a livello locale”, il “CdR” si impegna a sostenere le città e le
regioni nell'attuazione del “Green Deal europeo”.
Gli
enti locali e regionali sono invitati a fornire un riscontro sulla loro
esperienza di attuazione del “Green Deal” in “un sondaggio online” e a
condividere qui i loro impegni in materia di azione per il clima.
(David
Crous – contatto stampa)
Rappresentante
Cinese
presso
l’ONU: “la NATO
Dovrebbe
Smettere di Invocare la Guerra.”
Conoscenzealconfine.it
– (16 Febbraio 2024) – Global Time- Luciano
Lago – ci dice:
Il Rappresentante permanente della Cina presso
l’ONU ha affermato che la “NATO” dovrebbe svegliarsi dal “mito del potere” e
smettere di invocare la guerra.
Il
rappresentante permanente della Cina presso le Nazioni Unite, “Zhang Jun”, ha
invitato l’Occidente
a risolvere le differenze che emergono nel mondo attraverso il dialogo e la
consultazione, nonché ad aderire a un percorso comune volto a una soluzione
politica.
Il diplomatico
cinese ha sottolineato l’inammissibilità di metodi basati su pressioni,
calunnie o sanzioni unilaterali, per non parlare dell’uso della forza, e ha
anche osservato che è tempo che la NATO si svegli dal mito della forza e smetta
di esagerare le minacce e di invocare la guerra.
In
precedenza, il Ministero degli Esteri cinese aveva dichiarato che l’imposizione
di sanzioni da parte dell’Occidente contro le aziende cinesi a causa della
cooperazione con la Russia è inaccettabile.
Un
rappresentante del Ministero degli Esteri cinese, commentando i piani della UE
di imporre restrizioni a un certo numero di aziende, anche cinesi, per la
cooperazione con la Federazione Russa, ha osservato che le imprese russe e
cinesi continuano ad effettuare scambi e collaborazioni regolari.
Allo
stesso tempo, l’interazione esistente tra i paesi non è rivolta ad altri paesi
e non dovrebbe essere soggetta ad alcuna interferenza o influenza da parte di
terzi.
Il Ministero degli Esteri cinese ha inoltre
sottolineato che Pechino adotterà le misure necessarie volte a proteggere con
risolutezza i diritti e gli interessi legittimi delle imprese cinesi.
Ha
aggiunto che gli interessi di sicurezza di tutti i paesi sono uguali e che le
legittime e ragionevoli preoccupazioni di sicurezza di qualsiasi paese
dovrebbero essere prese sul serio e affrontate adeguatamente.
Solo
risolvendo pacificamente le differenze attraverso il dialogo e la consultazione
e promuovendo la costruzione di un’architettura di sicurezza equilibrata,
efficace e sostenibile si potrà raggiungere la sicurezza universale.
“Zhang
“ha chiesto di persistere nella risoluzione delle controversie attraverso il
dialogo e la consultazione e di aderire alla direzione della soluzione
politica, piuttosto che impegnarsi in pressioni, diffamazioni, sanzioni
unilaterali e uso sfrenato della forza.
Nota:
Saggie
parole da parte del rappresentante della Repubblica Popolare Cinese che però
non trovano riscontro a Washington, nella potenza (che si crede) egemone e che
affida tutta la sua politica estera alle minacce, alle sanzioni,
nell’occupazione arbitraria in altri paesi, nella diffusione del caos e dei
bombardamenti sui paesi che non si piegano al suo dominio.
(Global
Times - Luciano lago)
(controinformazione.info/rappresentante-permanente-della-cina-presso-lonu-la-nato-dovrebbe-svegliarsi-dal-mito-del-potere-e-smettere-di-invocare-la-guerra/)
Fallimento
iniziale e “nuova direzione”:
la “politica
estera europea” nel
Conflitto
israelo-palestinese.
Mondointernazionale.org - ALESSANDRO ALLORO –
(24 NOVEMBRE 2023) – ci dice:
All’indomani
dell’attacco terroristico delle forze di “Hamas contro “Israele” del 7 ottobre
scorso, e dell’escalation che questo ha comportato al conflitto
arabo-israeliano, l’”Unione Europea” ha risposto condannando fermamente il
gesto ribadendo il sostegno a Israele, ma sottolineando al contempo
l’importanza di rispettare il diritto internazionale nella risposta che lo
Stato ebraico ha messo in atto a Gaza.
Di
fatti, a seguito del vertice europeo straordinario del 17 ottobre il Presidente
del Consiglio Europeo “Charles Michel” ha dichiarato:
"Quando si tagliano le infrastrutture di
base, l'accesso all'acqua, all'elettricità e non si permette la consegna di
cibo, non si agisce in linea con il diritto internazionale".
Anche
la “Presidente della Commissione Europea”, “Ursula Von der Leyen”, ha affermato
che la guerra è contro l'organizzazione terroristica di “Hamas “e che quindi il
“popolo palestinese” non deve pagarne le conseguenze.
Pertanto,
non vi è alcuna contraddizione nell’essere solidali con Israele e fornire nello
stesso tempo i bisogni umanitari fondamentali ai palestinesi.
Questa
dichiarazione avviene in seguito al dibattito in merito a una possibile
sospensione degli aiuti umanitari europei verso i territori palestinesi
annunciata dal “Commissario europeo” per l’allargamento e la politica di
vicinato” Oliver Várhely”, poi smentita dal portavoce capo dell’esecutivo
comunitario “Eric Mamer”.
Saranno invece non solo mantenuti, bensì triplicati,
da 25 a 75 milioni di euro.
Queste
asserzioni avvengono dopo un’iniziale e apparente caos nella politica estera
dell’Unione in merito al conflitto in Medio Oriente;
infatti, il vertice europeo in cui si è
discusso dell'escalation in seguito agli attentati del 7 ottobre si è tenuto
soltanto successivamente a una visita della “Presidente della Commissione
europea in Israele”.
Visita
a cui sono seguite diverse critiche, in quanto sembra aver trasmesso, secondo
molti, il
messaggio che l’UE avrebbe supportato senza alcuna condizione le strategie
messe in essere dal “governo Netanyahu”, che sappiamo non essere esente da
parecchie critiche sia sul piano interno che in correlazione alla gestione del
conflitto con la Palestina.
Inoltre,
nel corso
del “Consiglio Europeo straordinario” anziché di invocare il cessate il fuoco
richiesto anche dall’ONU, ci si è appellati ad una semplice pausa umanitaria.
Alla
luce di quanto si è detto, la politica estera europea si è dimostrata ancora
una volta incapace di rispondere alle maggiori crisi internazionali dei nostri
tempi.
Questo non si riflette soltanto attraverso le
azioni e le dichiarazioni dei principali esponenti delle istituzioni europee,
ma anche attraverso atti concreti dei Paesi Membri dell’Unione.
Di
fatti, nonostante la posizione univoca assunta dai 27 capi di Stato e di
governo nel corso del “Consiglio europeo straordinario del 17 ottobre”, il 26 ottobre, all’Assemblea generale
delle Nazioni Unite quattro paesi dell’Unione (Austria, Croazia, Repubblica Ceca e
Ungheria) hanno
votato contro una risoluzione sul cessate il fuoco a Gaza, otto hanno votato a
favore (Belgio,
Francia, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Portogallo, Slovenia e Spagna), mentre 15 si sono astenuti (Bulgaria Cipro, Danimarca, Estonia,
Finlandia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Polonia,
Slovacchia, Svezia e Romania).
L’unico
punto su cui sembra che tutti gli Stati Membri siano in comune accordo è la
prospettiva della creazione di due Stati coesistenti, uno arabo palestinese e
uno ebraico israeliano, come soluzione al conflitto in Medio Oriente, in linea
con quanto proposto dalla Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni
Unite del novembre 1947.
Storicamente,
infatti, l’Unione Europea ha da sempre sostenuto la soluzione a due Stati
avallata dall’ONU, non mancando di promuovere la nascita di uno stato
palestinese indipendente accanto a Israele in numerose occasioni svolgendo
attivamente non soltanto un ruolo diplomatico attraverso processi di pace e
l’incoraggiamento al dialogo tra i due popoli, ma anche ricorrendo al sostegno
finanziario di progetti umanitari all’interno del territorio dell’Autorità
Palestinese.
Secondo
quanto dichiarato dall’ex diplomatico francese “Pierre Vimont” in merito al
conflitto arabo-israeliano:
"L'Ue
può ancora avere un ruolo, ma ora deve fare i conti con una sorta di handicap
nei confronti dei Paesi arabi, e più in generale con molti partner del Sud
globale che hanno perso un po' la fiducia nella diplomazia dell'Ue".
Un”
prima svolta” che ha portato a far sentire il peso diplomatico dell’UE nel
conflitto arriva tuttavia dopo un mese, tra il 16 e il 17 novembre scorso, con
la visita dell’”Alto Rappresentata per gli Affari esteri e la politica di
sicurezza”,” Josep Borrell”, in Palestina, visita che risana marginalmente i
tentavi di una politica etera europea fallimentare e le parecchie divisioni tra
i leader dei 27.
“Borrell “ha difatti ammesso una mea
culpa da parte dell’Unione Europea nella gestione del conflitto in Medio
Oriente, sottolineando la necessità di una soluzione politica per porre fine al
ciclo di violenza, non mancando di condannare anche l’aumento del terrorismo
dei coloni israeliani in Cisgiordania.
L’Alto Rappresentante ha difatti esortato
Israele a confrontarsi con la questione dell'occupazione illegale di questo
territorio che rischia di portare a una crescente ostilità del conflitto,
estendendolo appunto anche alla Cisgiordania.
Al
margine dell’incontro con il primo ministro palestinese, “Mohammad Shtayyeh”,
Borrell ha presentato un piano europeo che prevede sei condizioni, tra cui tre
affermative e tre negative, al conflitto israelo-palestinese.
Tra le
negazioni, si evidenzia l'opposizione a un'espulsione forzata dei palestinesi,
alla riduzione del territorio di Gaza e alla rioccupazione permanente da parte
di Israele, sottolineando l'integrazione della questione dei bombardamenti a
Gaza con il problema palestinese complessivo.
Le
affermazioni includono il ritorno di un'autorità palestinese a Gaza, con
esplicito riferimento all'Autorità Nazionale Palestinese a Ramallah, il
coinvolgimento finanziario e politico degli Stati arabi, e un maggiore impegno
dell'UE nella costruzione dello Stato palestinese.
Ciononostante,
Borrell ha sottolineato come la soluzione dovrà essere “appoggiata con un forte
coinvolgimento degli Stati arabi” sia a livello finanziario che politico, e di
come servirà un "maggiore coinvolgimento dell’UE nella regione, in
particolare nella costruzione dello Stato palestinese”.
Il
piano ha incassato il sostegno dal governo palestinese, riportando in qualche
modo l’Unione Europea al suo ruolo di intermediario nel conflitto
mediorientale.
(Mondo
Internazionale APS)
LA
MANCANZA DI UNA POLITICA
COMUNE
E SICUREZZA INTERNAZIONALE
EFFETTIVA:
UN'ANALISI CRITICA
DELL'UNIONE
EUROPEA.
Mondointernazionale.org
– Redazione - FOCUS – ALLEGATI - (09
GENNAIO 2024) – ci dice:
La “Politica
di Sicurezza e Difesa Comune” (PSDC) è un elemento fondamentale della” Politica
Estera e di Sicurezza Comune” (PECS) dell’Unione Europea (“UE”).
La “PSDC”
costituisce il principale quadro politico attraverso il quale gli stati membri
possono sviluppare una” cultura strategica europea della sicurezza e della
difesa”.
Il suo
obiettivo è affrontare congiuntamente conflitto e crisi, proteggere l’Unione e
i suoi cittadini, nonché rafforzare la pace e la sicurezza a livello
internazionale.
(Consiglio Europeo,2023).
Negli
ultimi dieci anni, la” PSDC” ha subito significativi cambiamenti a causa del
contesto geopolitico caratterizzato da tensioni.
La guerra di aggressione della Russia contro
l’Ucraina, a partire dal 24 febbraio 2022, ha segnato un nuovo inizio
geopolitico per l’Europa. Questo evento ha anche fornito un ulteriore impulso
verso l’obiettivo di creare un’Unione della difesa nell’UE.
Cronache
di insuccessi:
Dal
1948 ad oggi, i fallimenti di una mancanza di politica comune e di difesa
internazionale.
L’”Unione
Europea” nasce come tentativo di creare un sistema ordinato che eviti la guerra
e conflitti sanguinosi.
Alla
base c’è l’idea di garantire la pace e la stabilità nei rapporti tra gli stati.
Nel
1648 la Pace di Vestfalia mise fine ad una lunga serie di guerre di religione
combattute in Europa dal 1618 al 1648 e che ha visto coinvolti tutti i paesi
europei in un sistema di alleanze, portando alla distruzione di tutto il
territorio europeo, soprattutto dell’area centrale:
Germania, Repubblica Ceca, parte della Francia
e Italia.
Fin
dal “1600” grandi teorici della politica iniziano a ragionare su come creare un
sistema ordinato che non sia più dominato dall’anarchia.
Nel “1700”
si inizia a parlare di questa idea di Europa, tutti ragionano sulla creazione
di un meccanismo che eviti l’avvento di scontri violenti ma che invece
garantisca la convivenza civile ed equilibrata tra gli stati.
Nel corso della seconda metà del XVIII secolo,
“Immanuel Kant” delineò la sua visione per una “Pace Perpetua”, concependo l’idea di un’Europa che potesse
instaurare un sistema organizzato di stati europei, garantendo la pace in modo
duraturo.
“Kant”
suggerì che, dato il carattere anarchico del sistema internazionale, la
creazione di una confederazione di stati europei potesse evitare conflitti
futuri.
L’autonomia degli stati avrebbe
inevitabilmente portato a conflitti, mentre una struttura sovranazionale
avrebbe invece legato gli stati europei, prevenendo così la guerra reciproca.
L’Europa,
sin dai tempi post- bellici della” Seconda Guerra Mondiale”, è stata connessa
all’obiettivo di costruire un ordine europeo.
La decisione di istituire la “Comunità
Europea” fu guidata dalla volontà di creare un sistema ordinato e di prevenire
la guerra attraverso l’integrazione tra gli stati europei.
Dal
1945”, i principali paesi europei evitarono di entrare in conflitto aperto tra
di loro.
Il
“Manifesto di Ventotene del 1941”, redatto da antifascisti al confino, promuove
l’idea di una comunità europea basata sul rifiuto di nazionalismo e dittature,
in particolare nazismo e fascismo.
Gli autori, tra cui “Altiero Spinelli”,
“Ernesto Rossi “e Eugenio Colorni”, si ispirano al liberal socialismo.
Il
manifesto identifica gli stati nazione come avversari dell’integrazione
europea, in quanto esacerbano/inaspriscono il nazionalismo.
L’”obiettivo
dell’Unione Europea” è prevenire guerre e conflitti sanguinosi attraverso la “creazione
degli Stati Uniti d’Europa”, un modello federale in cui gli stati membri cedono
parte della sovranità per un esercito comune europeo.
Tuttavia,
la realizzazione pratica di queste idee si è dimostrata complessa.
Gli Stati non erano tutti disposti a cedere la
propria sovranità, e la mancanza di fiducia reciproca tra le nazioni europee,
appena uscite dalla guerra, ostacolava la creazione di una federazione
immediata.
La
fiducia reciproca era fondamentale, ma difficile da raggiungere dopo anni di
conflitti.
Pertanto,
il percorso verso l’integrazione dove gli stati cedono gradualmente la
sovranità è stato considerato il modello più realistico per avanzare.
Ancora
oggi, l’UE procede per gradi, cedendo sovranità gradualmente, secondo l’idea
inziale del “Manifesto di Ventotene”.
Il
processo di integrazione europea è stato caratterizzato da una successione di
iniziative, ciascuna volta più ambiziosa, che hanno trasformato l’Europa da una
regione di conflitto a una di cooperazione e integrazione.
Ogni
fase ha contribuito a rafforzare le fondamenta dell’UE e a creare un’entità
politica ed economica più unità.
(Giuliana Laschi, “Storia dell’integrazione europea,
2016)
L’UNIONE
EUROPEA PUÒ VANTARE DI POSSEDERE UNA POLITICA E UNA SICUREZZA INTERNAZIONALE
COMUNI E SOLIDE?
In
materia di politica comune e difesa, alla fine della Seconda guerra mondiale,
si riproponevano in Europa due problemi dalla cui soluzione dipendeva il
ristabilimento di un equilibrio europeo e mondiale:
la
questione tedesca e quella della sicurezza della Francia.
Nel
1948 fu firmato il “Trattato di Bruxelles “che prevedeva una coalizione di
stati europei che si unirono per garantire la reciproca difesa in caso di
aggressione esterna.
L’obiettivo
principale era quello di creare una solida alleanza militare tra i suoi membri,
con l’idea di rispondere congiuntamente a minacce alla sicurezza e alla
stabilità della regione.
Si
trattò di un impegno di mutua assistenza in caso di attacco armato contro uno
degli Stati firmatari.
Questo
trattato fu il precursore dell’”Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del
Nord” (NATO), fondata nel 1949.
La NATO estese e sviluppò ulteriormente gli
impegni di difesa reciproca, coinvolgendo anche gli Stati Uniti e il Canada
nella garanzia di sicurezza per i paesi membri.
La
NATO è fondata sul principio di difesa collettiva, sancito nell’articolo 5 del
suo Trattato.
Questo articolo afferma che un attacco contro
uno o più membri viene considerato un attacco contro tutti, impegnando gli
stati membri a rispondere con forza militare collettiva.
Gli
stati membri si impegnano a condurre consultazioni regolari sulla politica di
sicurezza e gli sviluppi internazionali.
Ciò
promuove la condivisione di informazioni e la formulazione di una risposta
coordinata alle sfide globali.
Essa
ha condotto diverse operazioni militari, sia all’interno del suo territorio che
al di fuori, al fine di preservare la pace e la stabilità. (Parlamento Europeo, 2023).
In
seguito al Trattato di Parigi del 1952 è stata proposta e firmata, da 6 paesi
fondatori della “CECA”, la creazione della “CED” ovvero della “Comunità Europea
di Difesa”.
La “CED”
aveva l’obiettivo di integrare le forze armate dei paesi membri per formare una
difesa comune europea.
L’idea era di superare la concezione di
sicurezza basata su alleanze nazionali e creare una struttura di difesa europea
unificata.
La” CED “avrebbe dovuto garantire la sicurezza
collettiva, prevenire conflitti tra i paesi membri e contribuire a stabilizzare
la situazione geopolitica dell’Europa occidentale.
Dopo la devastazione della Seconda Guerra
Mondiale, gli stati europei cercavano modi innovativi per prevenire futuri
conflitti e garantire la pace.
La “Comunità
Europea di Difesa” avrebbe coinvolto la Germania occidentale nel sistema di
sicurezza europeo, consentendo agli altri paesi di avere un certo controllo
sulle forze armate e prevenendo il riemergere di una Germania militarizzata.
La “CED”
era considerata un elemento chiave nella creazione di una forza militare
europea integrata che avrebbe contribuito alla “NATO”, l’”organizzazione di
protezione atlantica”.
La “CED”
rappresentò il primo esempio fallimentare di un progetto in materia di politica
e difesa comune in quanto, rappresentava un tentativo ambizioso di creare una
tutela comune tra i paesi membri della Comunità Europea.
Tuttavia, il progetto si scontrò con diverse
difficoltà e, alla fine, non fu ratificato.
Alcune
tra le ragioni che fecero fallire la “CED” furono la opposizione nazionale
soprattutto in Francia dove si temeva che la “CED” avrebbe minato la sovranità
nazionale, trasferendo il controllo delle forze armate a un’autorità
sovranazionale europea.
A questo si aggiunse una forte diffidenza nei
confronti della Germania e una notevole preoccupazione all’idea di integrare le
forze armate tedesche in una struttura di difesa comune.
La proposta di creare una difesa comune
sollevò domande cruciali sulla sovranità nazionale.
I
paesi membri erano riluttanti a cedere il controllo totale delle loro forze
armate a un’autorità centrale europea, evidenziando le difficoltà nel
bilanciare l’integrazione con il mantenimento della sovranità.
A causa di tutta una serie di sfide, la
ratifica della “CED” si rivelò impossibile, con il Parlamento francese che
respinse il “Trattato nel 1954”.
Il
fallimento della “CED “non fermò l’integrazione europea, ma indicò che il
cammino verso una difesa comune sarebbe stato complesso e richiedeva una più
ampia accettazione e fiducia tra i paesi membri.
Inserita
sotto il titolo V del “Trattato di Maastricht del 1992” come il “secondo
pilastro” dell’Unione Europea, la” Politica Estera e di Sicurezza Comune “(PESC)
è attualmente regolamentata dagli articoli 23-41, in seguito alle disposizioni
generali sull’azione esterna dell’UE presenti negli articoli 21 e 22, dopo la
revisione operata dal “Trattato di Lisbona del 2007”.
Secondo
l’articolo 23, la “PESC” condivide gli stessi principi e può perseguire gli stessi obiettivi
generali dell’azione esterna dell’Unione Europea, che riguarda, come indicato
dall’Articolo 24, “tutti i settori della politica estera e tutte le questioni
relative alla sicurezza dell’Unione, compresa la definizione progressiva di una
politica di difesa comune.”
Quest’ultima potrebbe portare a una difesa
comune dell’UE, conosciuta come la” Politica di Sicurezza e Difesa Comune”
dell’Unione Europea.
(Parlamento
Europeo,2023).
Le
decisioni relative agli interventi nell’ambito della “Politica Estera e di
Sicurezza Comune” (PESC) sono vincolanti per gli Stati membri dell’Unione
Europea, i quali sono altresì tenuti ad allineare le proprie politiche
nazionali alle posizioni adottate dall’Unione.
Gli
Stati membri devono condurre consultazioni all’interno del “Consiglio europeo”
e del” Consiglio dell’Unione “su tutte le questioni di politica estera e
sicurezza di interesse generale.
In
particolare, prima di assumere qualsiasi impegno internazionale che possa
pregiudicare gli interessi dell’UE, devono consultarsi, come indicato
nell’articolo 32.
Gli
Stati membri coordinano le proprie azioni nelle organizzazioni internazionali e
durante conferenze diplomatiche, difendendo le posizioni dell’UE.
Questo
coordinamento si estende anche agli Stati membri dell’UE che fanno parte del “Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite”.
Tuttavia,
è importante notare che tali azioni devono essere conformi alle” responsabilità
degli Stati membri” previste dalla “Carta delle Nazioni Unite”, come
specificato nell’articolo 34.
La politica
di sicurezza e difesa dell’Unione Europea è influenzata sia dalla Politica
Estera e di Sicurezza Comune (PESC) che dalla Politica di Sicurezza e Difesa
Comune (PSDC), oltre a essere supportata da diverse strategie e strumenti
complementari.
Tra questi figurano:
Diplomazia
che svolge un ruolo centrale nella definizione e nella gestione delle relazioni
internazionali, contribuendo a promuovere la pace e la stabilità;
Aiuti
umanitari in quanto fornire assistenza umanitaria è un elemento chiave della
politica di sicurezza e difesa, affrontando crisi umanitarie e contribuendo
alla stabilità nelle regioni colpite.
La
cooperazione allo sviluppo:
è un
mezzo per affrontare le radici dei conflitti.
Promovendo
lo sviluppo sostenibile e la crescita economica.
Azione
per il clima.
Diritti
umani:
la promozione e la difesa dei diritti
umani sono parte integrante della politica di sicurezza e difesa, riflettendo
l’impegno per valori fondamentali e il rispetto della dignità umana.
Sostegno
economico
Politica
commerciale considerata come un mezzo per promuovere la stabilità economica, la
cooperazione e il progresso nelle relazioni internazionali.
L’integrazione
di queste diverse dimensioni e strumenti riflette l’approccio olistico dell’UE
alla sicurezza e alla difesa, mirando ad affrontare le sfide in modo completo e
multidimensionale.
Tra
gli anni ’90 e 2000 si verificarono una serie di episodi che evidenziano la
mancanza di una politica e sicurezza comune e dove invece vennero fuori le
differenze nazionali dovute alle visioni internazionali di ogni paese e alle
loro dinamiche interne.
Occorre
ricordare il “bombardamento della Serbia” e l’”intervento in Kosovo” e il lungo
e “tortuoso processo di disgregazione della Jugoslavia”.
In
entrambi i casi sono sempre gli Stati Uniti a dettare la linea di intervento e
gli europei che si trovavano a dover scegliere se andare dalla loro parte o
seguire i propri interessi nazionali.
In
Kosovo gli europei non riuscirono a trovare una opzione all’intervento degli
Stati Uniti e quindi decidono di sostenerli.
L’intervento americano non avvenne sotto la
bandiera ONU perché la Russia pose il veto ma il bombardamento della Serbia
avvenne per mano della NATO.
Questo dimostra quanto gli Stati Uniti hanno
il controllo totale sulla politica internazionale.
Per
quanto riguarda la dissoluzione della Jugoslavia, inizialmente i paesi europei erano d’accordo sull’evitare
la dissoluzione e cercare di mantenere unita la Jugoslavia ma in poco tempo
ciascun paese europeo seguì i propri interessi nazionali, in particolar modo,
l’Italia continuò a sostenere la Jugoslavia unita in quanto voleva mantenere il
rapporto economico privilegiato che aveva instaurato negli anni, mentre la
Germania era favorevole alla dissoluzione siccome le avrebbe permesso di
addentrarsi nel Balcani.
Anche questo episodio culminò con l’intervento
degli Stati Uniti che nel 1995 con gli accordi di “Dayton” decretarono la
dissoluzione definitiva della Jugoslavia e la nascita di nuovi stati indipendenti.
Con
gli attentati dell’11 settembre 2001 l’Unione Europea va a ruota degli Stati
Uniti, ma in questo caso la visione era condivisa e non ci sono forme di
contestazione.
Anche
Russia e Cina offrono il loro supporto agli americani.
Gran
parte degli europei, esclusa la Gran Bretagna, si pongono come portatori di una
cultura di pace.
Appoggiano
l’attacco ma non partecipano.
Gli
europei iniziano a sviluppare una politica estera diversa da quella degli Stati
Uniti, non vogliono esportare la democrazia con le armi ma l’Unione Europea è
una potenza pacifica e culturale e si ritaglia l’immagine di potenza
alternativa agli USA senza l’uso delle armi.
La
rottura definitiva nel campo della politica estera europea è avvenuta con
l’attacco all’Iraq nel 2003:
l’Iraq di Saddam Hussein era una delle potenze
che gli americani avevano elencato nella “lista del male” e dove volevano
intervenire per eliminare il regime autoritario al governo e introdurne uno
democratico.
Questo
attacco però provocò una rottura netta dentro l’Europa e dentro la NATO in
quanto il ministro degli esteri francese dichiara che la Francia è totalmente
contraria all’intervento e minaccia di porre un veto all’ONU e la Germania
segue la Francia.
Siccome
però gli Stati Uniti rappresentano una potenza unipolare e hanno alcuni paesi
che li seguono, l’attacco all’Iraq avviene lo stesso. (ISPI,2023)
In
conclusione si può affermare che tra gli anni ‘90 e gli anni 2000 la forte
debolezza politica dell’UE in politica estera è evidente, l’integrazione
europea non si è avverata e i motivi sono tutti gli insuccessi registrati negli
ultimi anni.
Con la
“dichiarazione di Laeken” del 2001 si arriva alla realizzazione della
“costituzione europea” che voleva essere un passaggio verso l’integrazione
politica, ma viene bocciata da Olanda e Francia.
Nel
novembre 2016 venne adottata dal Consiglio dell’UE la strategia globale
dell’Unione Europea in materia di politica estera e di sicurezza che mira a
migliorare l’efficacia in questo settore, anche attraverso la cooperazione
rafforzata tra le forze armate degli Stati membri e una migliore gestione delle
crisi.
La
strategia si concentra sullo sviluppo della resilienza, sull’adozione di un
approccio integrato ai conflitti e alle crisi e sul rafforzamento
dell’autonomia strategica.
È
integrata dal piano di attuazione in materia di sicurezza e difesa approvato
dal” Consiglio europeo nel dicembre 2016” e che si concentra su 3 priorità
strategiche:
la
reazione alle crisi e ai conflitti esterni,
lo
sviluppo delle capacità dei partner e
la protezione dell’UE e dei suoi cittadini.
Tra le
azioni concrete per conseguire questi obiettivi figurano la “revisione
coordinata annuale sulla difesa” (CARD), la cooperazione strutturata permanente
(PESCO), una capacità militare di pianificazione e condotta (MPCC) e gli
strumenti di risposta rapida dell’UE. (Parlamento Europeo, 2023)
La
mancanza di una politica comune e di sicurezza internazionale europea si
riflette in modo evidente nei conflitti in Ucraina e Israele, dove le
divergenze tra gli Stati membri dell'Unione Europea (UE) hanno complicato la
risposta e hanno reso difficile la costruzione di una posizione comune.
Il
conflitto tra Russia e Ucraina rappresenta una complessa situazione
geopolitica, con profonde implicazioni sulla politica comune e la sicurezza
internazionale.
Il conflitto ha evidenziato delle sfide nella
creazione di una politica e sicurezza internazionale comune tra i paesi
europei.
Gli
stati membri dell’Unione Europea e di altre organizzazioni internazionali
spesso hanno interessi geopolitici divergenti o priorità di politica estera che
rendono difficile la formulazione di una posizione comune.
Alcuni
paesi possono avere relazioni bilaterali più complesse con la Russia, mentre
altri possono avere un maggiore interesse nell’appoggiare l’Ucraina.
Le
organizzazioni internazionali spesso richiedono l’unanimità tra i loro membri
per adottare posizioni o azioni significative.
Questo
può diventare un ostacolo quando alcuni membri sono riluttanti o non sono
disposti a condannare o affrontare la Russia in modo deciso.
La
Russia, come membro permanente del “Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”,
ha il potere di veto su risoluzioni che potrebbero condannare o imporre
sanzioni contro di essa.
Ciò ha
impedito l’adozione di misure significative a livello globale.
Il
conflitto russo-ucraino è complesso, coinvolgendo questioni di sovranità,
etnicità e geopolitica.
Inoltre,
l’Ucraina si trova in una regione di particolare importanza strategica per la
Russia, che ha portato ad approcci più cauti da parte di alcuni attori
internazionali.
Sebbene
siano state imposte alcune sanzioni economiche contro la Russia, queste misure
spesso non sono riuscite a produrre cambiamenti significativi nel comportamento
russo.
Inoltre, alcuni paesi hanno mantenuto
relazioni economiche importanti con la Russia, riducendo l’efficacia delle
sanzioni.
L’UE
non ha una forza militare comune, e gli stati membri possono decidere
autonomamente il loro coinvolgimento.
Ciò ha
impedito una risposta militare coesa all’aggressione russa in Ucraina.
L’UE non ha una posizione comune sulla
soluzione del conflitto, il che rende difficile per essa agire come mediatore
efficace.
(Save the Children, 2023).
Il
conflitto inizia nel 2014 con l’annessione della Crimea da parte della Russia e
il sostegno a gruppi separatisti nell’est dell’Ucraina.
Queste
azioni sono state considerate violazioni della sovranità nazionale ucraina e
hanno sollevato domande sulla sicurezza delle frontiere europee, portando a una
reazione variegata nella comunità internazionale.
In risposta all’annessione della Crimea e al
sostegno ai ribelli, molti paesi, guidati dall’Unione Europea e dagli Stati
Uniti, hanno adottato sanzioni economiche contro la Russia.
Queste
misure hanno rafforzato l’importanza della politica comune europea nei
confronti della sicurezza e hanno evidenziato le divergenze di opinione
all’interno dell’UE.
Organizzazioni
come l’”ONU “e l’”OSCE” hanno cercato di mediare e monitorare la situazione.
Tuttavia, la mancanza di consenso
internazionale ha impedito l’adozione di misure più decise, e il “Consiglio di
Sicurezza dell’ONU “ha visto il veto russo su varie iniziative.
Il
conflitto ha rafforzato le tensioni tra la Russia e altri paesi dell’Europa
orientale, spingendo alcuni di essi a cercare una maggiore cooperazione e
protezione attraverso alleanze come la NATO.
Ciò ha
avuto un impatto sulla percezione della sicurezza nella regione e ha alimentato
la necessità di una politica comune.
La dipendenza dell’Europa da fonti energetiche
russe ha complicato la risposta dell’UE al conflitto.
La
politica energetica e la sicurezza sono fortemente intrecciate, e la
diversificazione delle fonti energetiche è diventata parte della discussione
sulla sicurezza.
Nonostante
le sfide, ci sono stati sforzi di mediazione e dialogo, con incontri e
trattative a vari livelli.
Tuttavia,
la mancanza di progressi significativi ha sollevato domande sulla capacità
della comunità internazionale di influenzare positivamente la situazione.
Riassumendo,
il conflitto russo-ucraino ha dimostrato le complessità e le sfide nel cercare
una politica comune e una sicurezza internazionale efficace.
La
diversità di interessi, i vincoli economici e le tensioni regionali hanno
ostacolato la creazione di un approccio unificato alla risoluzione del
conflitto e ha reso difficile per la comunità internazionale adottare una
risposta unificata e incisiva.
In
ultima analisi per quanto riguarda il conflitto tra Israele e Palestina, si
tratta di una disputa storica e politica centrata sul controllo del territorio.
Le radici risalgono alla creazione di Israele
nel 1948, che ha portato alla perdita di territori arabi e allo spostamento di
popolazioni.
Oggi, la tensione persiste a causa di
questioni irrisolte come i confini, lo status di Gerusalemme, i diritti dei
rifugiati palestinesi e la sicurezza di Israele.
Ciclici episodi di violenza e la mancanza di
un accordo di pace perpetuano il conflitto.
Dal punto di vista della “politica comune” e
della “sicurezza internazionale”, presenta molteplici sfide che rendono
difficile un approccio unificato a livello globale.
La
comunità internazionale, inclusa l’Unione Europea, le Nazioni Unite e altri
attori globali, ha mostrato una mancanza di coesione nell’affrontare il
conflitto.
Mentre alcuni paesi hanno sostenuto fermamente
Israele, altri hanno condannato le azioni israeliane e sostenuto la causa
palestinese.
Queste divergenze impediscono la creazione di una
politica comune. (Geopop, 2023)
Gli
Stati Uniti sono un alleato chiave di Israele e spesso hanno adottato una
posizione di sostegno nei confronti dello Stato ebraico.
Questa
posizione ha influito sulla politica internazionale e ha ostacolato gli sforzi
di creare una posizione comune globale.
Gli
Stati Uniti, infatti, hanno utilizzato il loro diritto di veto al Consiglio di
Sicurezza dell’ONU per bloccare risoluzioni critiche nei confronti di Israele.
Gli
sforzi per negoziare una soluzione pacifica al conflitto, come il “processo di
pace di Oslo”, hanno spesso subito interruzioni e non hanno portato a una
soluzione definitiva.
L’assenza
di progressi tangibili ha reso difficile per la comunità internazionale
sostenere un approccio unificato.
Gli episodi di violenza nel conflitto,
specialmente quelli che coinvolgono la striscia di Gaza, hanno sollevato gravi
preoccupazioni per le violazioni dei diritti umani e le sfide umanitarie.
Questi problemi hanno portato a richieste di
intervento internazionale, ma le divergenze di opinioni hanno ostacolato una
risposta unitaria.
Alcune
organizzazioni regionali, come la “Lega Araba”, hanno svolto un ruolo nei
tentativi di risolvere il conflitto.
Tuttavia,
anche in questo caso, gli interessi divergenti e le priorità degli Stati membri
hanno limitato l’efficacia di un approccio comune.
In
sintesi, il conflitto tra Israele e Palestina continua a essere caratterizzato
dalla mancanza di una politica comune e di sicurezza internazionale,
principalmente a causa delle divergenze di opinione, degli interessi nazionali
e delle difficoltà nell’implementare e mantenere soluzioni pacifiche e
sostenibili.
(Corriere della Sera, 2023)
La
mancata politica comune e di sicurezza internazionale nel conflitto Israele e
Palestina è il risultato di una serie di fattori complessi e intricati.
La comunità internazionale, inclusi gli attori
chiave come gli Stati Uniti, l’Unione Europea e le Nazioni Unite, non ha
raggiunto un consenso su quale dovrebbe essere la soluzione del conflitto.
Diverse
proposte, come la soluzione a due stati, una Palestina indipendente accanto a
Israele, hanno incontrato resistenze e disaccordi.
Il conflitto ha un impatto su una regione con
dinamiche geopolitiche complesse.
Gli
attori regionali, ciascuno con i propri interessi, spesso svolgono un ruolo nel
complicare gli sforzi per una politica comune.
Ad
esempio, l’Iran sostiene i gruppi palestinesi, mentre alcuni stati arabi
possono avere relazioni più calde o fredde con Israele.
Gli
Stati Uniti hanno tradizionalmente avuto una posizione di forte sostegno ad
Israele, compresi sostegni militari e diplomatici.
Questo
ha influenzato la capacità della comunità internazionale di adottare una
politica comune e ha causato percezioni di parzialità.
Le
preoccupazioni legate alla sicurezza sono cruciali per entrambe le parti.
Gli
attacchi terroristici, le minacce alla sicurezza di Israele e le azioni
militari a Gaza hanno portato ad approcci divergenti sulla gestione della
sicurezza, complicando gli sforzi per una politica comune.
Gli
sforzi per la pace sono stati costantemente ostacolati da interruzioni delle
trattative, attacchi terroristici, nuove colonie e altri eventi che hanno
minacciato la fiducia tra le parti.
Questa
mancanza di progressi ha reso difficile per la comunità internazionale
sostenere una politica comune.
La
complessità religiosa e culturale del conflitto aggiunge un ulteriore livello
di difficoltà.
Gerusalemme,
ad esempio, è un luogo sacro per ebrei, cristiani e musulmani, creando tensioni
aggiuntive e suscitando preoccupazioni internazionali.
In
definitiva, la mancata politica comune e di sicurezza internazionale riflette
la complessità del conflitto Israele- Palestina, con interessi divergenti,
approcci strategici differenti e la mancanza di un consenso su soluzioni
praticabili.
In
conclusione, la carenza di una difesa comune e di sicurezza internazionale
efficace nell’Unione Europea emerge come una sfida critica che richiede
un’attenzione immediata.
Il contesto geopolitico instabile sottolinea
l’urgenza di un rafforzamento delle capacità di difesa collettiva dell’UE.
Gli
Stati membri dell’UE devono aumentare gli investimenti nelle capacità di difesa
e sicurezza, al fine di sviluppare una forza congiunta in grado di rispondere
alle sfide emergenti.
È
opportuno rafforzare la coordinazione tra gli stati membri per garantire una
risposta uniforme e armonizzata in situazioni di crisi.
Questo
include la standardizzazione delle procedure operative e la condivisione delle
risorse militari.
Al tempo stesso potenziare la “PSDC “per
renderla un quadro più efficace e operativo, facilitando la pianificazione
strategica e l’implementazione di missioni di sicurezza comuni;
intensificare la cooperazione con
organizzazioni internazionali come la “NATO” e le “Nazioni Unite” per
affrontare le minacce globali in modo sinergico.
Inoltre, investire in tecnologie avanzate, inclusa la sicurezza cibernetica e
l’intelligenza artificiale per migliorare la preparazione e la capacità di risposta alle
minacce emergenti e per ultimo coinvolgere attivamente i cittadini europei
nell’importanza della difesa comune e della sicurezza internazionale,
promuovendo una consapevolezza pubblica che sostenga gli sforzi per rafforzare
queste capacità.
Solo
attraverso un impegno congiunto e una cooperazione più stretta sarà possibile
affrontare le sfide più attuali e quelle future.
Un’Unione
Europea sicura e resiliente necessita di un approccio integrato e di
investimenti sostenuti per garantire la pace, la sicurezza e la stabilità nel
continente.
Commenti
Posta un commento