Solo gli agricoltori potranno farci vivere senza IA.

 

Solo gli agricoltori potranno farci vivere senza IA.

 

 

Dopo le proteste, la Commissione Ue

ritira la proposta di regolamento

per i tagli dei pesticidi.

Winenewes.it – (06 FEBBRAIO 2024) - Redazione – ci dice:

 

L’annuncio di Ursula Von der Leyen: “i nostri agricoltori meritano di essere ascoltati”.

Esultano Coldiretti e Confcooperative, Confagricoltura e Cia.

Mentre in Italia la protesta degli agricoltori fa rotta su Roma e, forse, sul Festival di Sanremo che inizia stasera, dopo “l’invito” informale di Amadeus, l’Unione Europea sembra iniziare a correggere il tiro nella direzione auspicata dai manifestati.

Oggi, nella sessione Plenaria del Parlamento Ue, la presidente della Commissione Europea, ha annunciato il ritiro della proposta di regolamento per il taglio dei pesticidi, tra i punti più importanti della protesta, ma non solo.

 “I nostri agricoltori meritano di essere ascoltati: so che sono preoccupati per il futuro dell’agricoltura e per il loro futuro. Ma sanno anche che l’agricoltura deve passare a un modello di produzione più sostenibile, in modo che le loro aziende rimangano redditizie negli anni a venire”, ha detto la Von der Leyen, annunciando che proporrà al collegio dei Commissari “il ritiro” della proposta legislativa sui pesticidi, sottolineando che “una nuova proposta, più matura”, sarà fatta in futuro.

“La proposta è stata rigettata dall’Eurocamera, e non ci sono progressi neanche in Consiglio”, ha sottolineato von der Leyen, soffermandosi a lungo, nel suo intervento, sulle proteste degli agricoltori.

“Molti di loro si sentono messi all’angolo.

Gli agricoltori sono i primi a risentire degli effetti del cambiamento climatico.

 Siccità e inondazioni hanno distrutto raccolti e minacciato il bestiame. Gli agricoltori risentono dell’impatto della guerra di Russia, dell’inflazione, dell’aumento del costo dell’energia e dei fertilizzanti. Ciononostante, lavorano duramente ogni giorno per produrre il cibo di qualità che mangiamo.

Per questo, dobbiamo loro apprezzamento, ringraziamento e rispetto", ha sottolineato.

“Abbiamo lanciato il “Dialogo strategico sul futuro dell’agricoltura nell’Unione Europea”.

Abbiamo invitato i rappresentanti del settore agricolo, delle comunità rurali, dell’industria delle sementi e dei fertilizzanti, del settore alimentare, ma anche del settore finanziario, dei consumatori e del settore alimentare, dei gruppi di consumatori e ambientalisti e della scienza.

Abbiamo bisogno di analizzare insieme la situazione, condividere idee e sviluppare scenari per il futuro.

 Dobbiamo andare oltre un dibattito polarizzato e creare fiducia.

La fiducia è la base fondamentale per soluzioni praticabili.

La posta in gioco è alta per tutti noi.

 Il nostro sistema di produzione alimentare è unico”, ha spiegato ancora la Von der Leyen.

Che poi ha aggiunto: “gli agricoltori hanno bisogno di un’argomentazione commerciale valida per le misure di miglioramento della natura, e forse noi non l’abbiamo fatta in modo convincente.

 Serve un vero e proprio incentivo che vada oltre la semplice perdita di resa.

 I sussidi pubblici possono fornire tali incentivi”, ha aggiunto von der Leyen, che ha lanciato l’idea di “un’etichettatura premium”, ad esempio in collaborazione con i rivenditori e i trasformatori”.

La fertilità del terreno è sempre stata la spina dorsale del sostentamento di un agricoltore.

Ma il 60-70% dei suoli in Europa è ora in cattive condizioni.

Possiamo invertire queste tendenze.

 E molti agricoltori lo stanno facendo.

 Ma dobbiamo fare di più: la conservazione della natura può avere successo solo attraverso un approccio dal basso verso l’alto e basato sugli incentivi.

 Perché solo se i nostri agricoltori potranno vivere della terra, investiranno nel futuro”.

“Oggi si mette la parola fine su una proposta fortemente ideologizzata che abbiamo combattuto sin dalla sua prima pubblicazione”, commenta il presidente Confcooperative Fedagripesca, “Carlo Piccinini”.

“La cooperazione agroalimentare è stata tra le prime organizzazioni - rivendica il presidente Confcooperative Fedagripesca - a lanciare l’allarme già due anni fa sulle conseguenze negative che la proposta della Commissione avrebbe avuto, non solo sugli agricoltori, costretti a produrre senza difese adeguate per le colture, ma anche sui cittadini europei, che avrebbero progressivamente visto soppiantare le produzioni comunitarie da prodotti provenienti da paesi extraeuropei con standard di sicurezza alimentare di gran lunga più bassi.

Oggi possiamo tirare un grande sospiro di sollievo, anche se restano oggettive difficoltà per le attuali restrizioni all’uso di determinate sostanze per alcune produzioni ortofrutticole.

 Auspichiamo che questo annuncio sia l’inizio di un nuovo approccio da parte della Commissione.

 Le proteste degli agricoltori in tutta Europa hanno dimostrato che le riforme e le leggi debbano essere fatte ascoltando le esigenze di chi produce e lavora nei campi.

Confidiamo che nella prossima legislatura si possa aprire un reale e fattivo confronto per la formulazione di proposte normative che siano scritte e pensate ascoltando gli agricoltori e dopo aver valutato attentamente l’impatto delle misure proposte in termini di sicurezza alimentare.

 Confidiamo anche - conclude “Piccinini” - che la Commissione apra anche ad una profonda revisione del regolamento sugli imballaggi che proprio in questi giorni sarà oggetto di esami nel trilogo tra Consiglio, Parlamento e Commissione”.

“Il ritiro della proposta di regolamento sull’uso sostenibile dei fitofarmaci (Sur) salva il 30% delle produzioni alla base della dieta mediterranea, dal vino al pomodoro, messe a rischio dall’irrealistico obiettivo di dimezzare l’uso di agrofarmaci”.

 A dirlo il Presidente della Coldiretti “Ettore Prandini” nel commentare l’annuncio della presidente del Commissione europea Ursula von der Leyen del rigetto della proposta nel suo intervento al Parlamento europeo,

“dopo la grande manifestazione della Coldiretti a Bruxelles in occasione del Vertice Ue”, dice l’organizzazione agricola, che in realtà si è accodata alle proteste organizzate da altre sigle sindacali e da comitati spontanei, a tratte anche violente, di tutta Europa.

“Una risposta alla protesta degli agricoltori provenienti dal sud e dal nord dell’Unione Europea, dalla Coldiretti agli spagnoli di “Asaja”, dai portoghesi di Cap ai belgi dell’”Fwa “ai giovani agricoltori alla quale aveva fatto seguito l’incontro tra il presidente Coldiretti e la Von der Leyen”, esulta l’organizzazione di “Palazzo Rospigliosi”.

“Il provvedimento - sottolinea Coldiretti - avrebbe avuto un impatto devastante sulla produzione agricola dell’Unione Europea e nazionale aprendo di fatto le porte all’importazione da paesi extra Ue che non rispettano le stesse norme sul piano ambientale, sanitario e del rispetto dei diritti dei lavoratori.

 Serve un approccio realistico per sostenere l’impegno dell’agricoltura verso la sostenibilità che ha già portato l’Italia a classificarsi come la più green d’Europa con il maggior numero di imprese agricole che coltivano con metodo biologico su circa 1/5 della superficie agricola totale e il taglio record in un decennio del 20% sull’uso dei fitofarmaci che restano essenziali per garantire la salute delle coltivazioni.

Non a caso in Italia - continua la Coldiretti - oltre otto prodotti su dieci pericolosi per la sicurezza alimentare provengono dall’estero (86%) sulla base delle elaborazioni del sistema di allerta Rapido (Rassf).

Sul totale dei 317 allarmi rilevati nel 2022 - evidenzia Coldiretti - 106 scaturivano da importazioni da altri Stati dell’Unione Europea (33%) e 167 da Paesi extracomunitari (53%) e solo 44 (14%) hanno riguardato prodotti con origine nazionale.

Ma “la battaglia per garantire dignità e giusto reddito agli agricoltori italiani non si ferma” precisa il presidente Coldiretti” Ettore Prandini” nel sottolineare che non sarà accettato nessun taglio alle risorse economiche della “Politica Agricola Comune” (Pac) agli agricoltori poiché oggi occorre assicurare l’autonomia alimentare dei cittadini europei e favorire il ricambio generazionale.

In tale ottica non è possibile neppure che l’allargamento dell’Unione all’Ucraina venga pagato dalle aziende agricole.

Serve poi cancellare definitivamente - ha ribadito “Prandini” - l’assurdo obbligo di lasciare i terreni incolti che mina la capacità produttiva della nostra agricoltura e favorisce paradossalmente le importazioni dall’estero di prodotti alimentari che non rispettano le stesse regole di quelli europei in materia di sicurezza alimentare, ambientali e di rispetto dei diritti dei lavoratori.

Un caso eclatante è il “Mercosur”, l’accordo commerciale con i Paesi sudamericani che va respinto.

 Da qui la richiesta di introdurre il criterio di reciprocità delle regole produttive.

Il caso dei terreni incolti è solo uno dei vincoli che da Timmermans in poi hanno cercato di inserire, con regole che penalizzano la capacità produttiva Ue e appesantiscono il lavoro degli agricoltori, ingiustamente visti come inquinatori, mentre sono proprio loro a garantire la tutela dell’ambiente.

 Ma servono anche mercati equi e trasparenti, incentivando gli accordi di filiera e vietando la vendita sotto i costi di produzione”, conclude la Coldiretti.

“Quando il pragmatismo prevale sull’ideologia è sempre una buona notizia.

È stata accolta una richiesta avanzata da tempo dalla “nostra Organizzazione” per salvaguardare il potenziale produttivo del nostro settore.

 Prendiamo atto positivamente che la Commissione europea ha scelto di dare ascolto alle proteste in atto in numerosi Stati membri.

Ora occorre andare avanti su questa strada”, commenta, dal canto suo, il presidente Confagricoltura, “Massimiliano Giansanti”.

“In Italia - sottolinea “Giansanti “- il taglio avrebbe potuto superare addirittura il 60%.

La nostra linea è chiara.

 Il ricorso alle medicine delle piante nei processi produttivi va ridotto, come già si sta verificando, ma ogni divieto deve prevedere un’alternativa valida sotto il profilo tecnico ed economico.

Il ritiro della proposta di regolamento sui fitofarmaci dimostra che la soluzione dei problemi che stanno affrontando gli agricoltori vanno risolti in larga misura a Bruxelles.

Per questo abbiamo deciso di tenere nella capitale belga un’assemblea straordinaria il 26 febbraio.

Ora - conclude il presidente Confagricoltura - va sospesa l’entrata in vigore delle nuove misure in materia di emissioni industriali estesa agli allevamenti e sul ripristino della natura.

 I testi potranno essere rivisti alla luce dei risultati del dialogo strategico sul futuro dell’agricoltura promosso dalla Commissione Ue.

 È una questione di coerenza”.

“Finalmente arriva lo stop decisivo al regolamento Ue sui fitofarmaci, che avrebbe falcidiato le produzioni agricole, mettendo a rischio non solo la sopravvivenza delle aziende del settore, ma anche la sicurezza alimentare dei cittadini europei”, dice ancora “Cristiano Fini,” presidente “Cia” - Agricoltori Italiani, Cristiano Fini.

“Ci siamo battuti fin da subito per sostenere l’impraticabilità di un taglio netto del 50% dei fitofarmaci al 2030 senza valide alternative e con la crisi climatica in atto - spiega “Fini”- e alla fine il passo indietro è giunto, ora chiediamo all’Europa di promuovere davvero una politica graduale, realista e gestibile per giungere ai “target green”, riequilibrando le esigenze produttive agricole con gli “obiettivi di sostenibilità ambientale”, sviluppando la difesa integrata e investendo di più su ricerca e innovazione”.

 A questo proposito, aggiunge il presidente “Cia”, “confidiamo che domani la plenaria del Parlamento Ue dia un altro segnale importante di ascolto agli agricoltori, votando a favore del dossier sulle”Ngts”, uno strumento essenziale per ottenere colture resistenti alle malattie e resilienti ai cambiamenti climatici.

E più in generale, auspichiamo che l’annuncio di oggi di Von der Leyen detti la linea per un nuovo approccio da parte della Commissione Ue, iniziando sul serio quel dialogo strategico tanto annunciato, perché ormai è chiaro a tutti che nuove leggi e normative non possono prescindere da un lavoro condiviso con mondo agricolo e rappresentanza”.

 

 

 

’Uomo che ha Distrutto l’Altare

Satanico al Campidoglio dell’Iowa

Accusato di “crimine d’odio. “

 Conoscenzealconfine.it – (11 Febbraio 2024) – Renovatio21.com – Redazione – ci dice:

Michael Cassidy, un veterano cristiano che ha decapitato un santuario satanico esposto nel palazzo del Campidoglio dello Iowa, è stato accusato di un “crimine d’odio”.

Nel dicembre scorso, “Cassidy”, aveva decapitato un’ idolo satanico collocato nell’edificio nel Campidoglio dell’Iowa dal gruppo noto come “Satanic Temple” e gettato il teschio di capra che fungeva da testa in un cestino.

Cassidy avrebbe affermato di aver intrapreso l’azione per “risvegliare i cristiani sugli atti anticristiani promossi dal nostro governo”.

Invece di accusarlo semplicemente di reati minori, danni alla proprietà o atti di vandalismo, i pubblici ministeri della “contea di Polk” lo hanno accusato di un reato criminale di terzo grado, sostenendo che l’atto era “in violazione dei diritti individuali” secondo la legge sui crimini d’odio dell’Iowa, riporta il giornale locale “Des Moines Register”.

 In pratica, si tratta di un atto di discriminazione verso i satanisti.

Una dichiarazione dell’ufficio del procuratore della contea di Polk afferma che “le prove mostrano che l’imputato ha rilasciato dichiarazioni alle forze dell’ordine e al pubblico indicando che aveva distrutto la proprietà a causa della religione della vittima”.

“Cassidy” sta raccogliendo fondi per la sua difesa legale sulla sua pagina “GiveSendGo”, dove sta scritto che “tra i milioni di cristiani in questa nazione, Cassidy è stato il primo ad agire con coraggio e convinzione.

Non era disposto a vedere Dio insultato, specialmente in un edificio in cui i legislatori dovrebbero onorare Gesù Cristo come Re e guardare alla sua legge per trovare saggezza mentre legiferano con giustizia e rettitudine “.

Come riportato da “Renovatio 21”, il Tempio Satanico anni fa fece notizia per aver precedentemente piazzato una statua del demonio con le fattezze del Bafometto (l’orrendo caprone alato ed androgino) che tiene sulle ginocchia due bambini.

Più recentemente ha iniziato a promuovere “aborti rituali” (perché il feticidio, dicono, è un “diritto religioso”) nonché l’ora di religione satanica nelle scuole elementari.

Il “Satanic Temple” agisce in pratica come in una sorta di continuo trollaggio delle leggi americane, che permettono la libertà religiosa:

 loro ne approfittano per reclamare gli spazi della loro supposta religione, cioè il “culto del demonio”, che ovviamente coincide con l’”agenda politica progressista”: aborto, omotransessualismo (con effusioni gay sulle tombe di persone ritenute “omofobe”), e più in generale ogni possibile cancellazione della dimensione cristiana dalla società statunitense.

Come riportato da “Renovatio 21”, i seguaci del “Tempio di Satana” indicono eventi pubblici in cui bisogna presentarsi con la mascherina chirurgica e la prova dell’avvenuta multipla sierizzazione, altrimenti non si entra:

sul fenomeno del “conformismo satanico”, che spiega tante cose, non è mai stata avanzata una vera riflessione.

Pentagramma e siringa.

(renovatio21.com/luomo-che-ha-distrutto-laltare-satanico-al-campidoglio-accusato-di-crimine-dodio/)

 

 

 

 

 

Lollobrigida: 'Sui pesticidi l'Ue

recepisce le proposte dell'Italia.'

Ansa.it - Redazione ANSA – (06 febbraio 2024) – ci dice:

 

Von der Leyen ritira la proposta del regolamento sui pesticidi.

“La Commissione UE recepisce le proposte dell’Italia.

Bisogna limitare ulteriormente gli agrofarmaci solo quando si è in grado di proteggere le produzioni con metodi alternativi.

Abbiamo contrastato, dal primo giorno, un approccio ideologico sul tema che avrebbe avuto un effetto devastante sulle produzioni e limitatissimo sull’ambiente”.

 Così il ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, “Francesco Lollobrigida”.

 “È evidente e logico che eliminare medicine indispensabili per le piante, lasciandole preda di insetti o fitopatie, contrae decisamente la produzione se non la cancella" ha detto.

"Se i consumi europei restano invariati, ci si deve approvvigionare, di conseguenza, da paesi terzi che non rispettano alcuna delle regole che imponiamo ai nostri agricoltori.

 Anzi producono utilizzando maggiori quantità di pesticidi.

In questo modo – aggiunge” Lollobrigida” - l’effetto su aria e acqua del pianeta è esattamente l’opposto di quello dichiarato.

L’Italia ha proposto di lavorare, ed è stata avanguardia in questo, sulle “Tea” per garantire piante più forti e resistenti che possano fare a meno di agrofarmaci.

Le politiche pragmatiche del nostro Governo in Italia e in Europa stanno portando i primi frutti.

 Recuperare i disastri di anni di politiche irrispettose della produzione e del lavoro agricolo richiederà tempo.

 Ma la strada intrapresa è quella corretta”, conclude il ministro “Lollobrigida”.

"I nostri agricoltori meritano di essere ascoltati.

 So che sono preoccupati per il futuro dell'agricoltura e per il loro futuro. Ma sanno anche che l'agricoltura deve passare a un modello di produzione più sostenibile, in modo che le loro aziende rimangano redditizie negli anni a venire".

Lo ha detto la “presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen” alla Plenaria del “Pe”, annunciando che proporrà al collegio dei commissari "il ritiro" della proposta legislativa sui pesticidi.

 Il regolamento "diventata un simbolo di polarizzazione" ha spiegato, sottolineando che "una nuova proposta, più matura", sarà fatta in futuro.

 "La proposta è stata rigettata dall'Eurocamera, e non ci sono progressi neanche in Consiglio", ha sottolineato “von der Leyen “soffermandosi a lungo, nel suo intervento, sulle proteste degli agricoltori.

"Molti di loro si sentono messi all'angolo.

Gli agricoltori sono i primi a risentire degli effetti del cambiamento climatico.

Siccità e inondazioni hanno distrutto raccolti e minacciato il bestiame. Gli agricoltori risentono dell'impatto della guerra di Russia.

 L'inflazione, l'aumento del costo dell'energia e dei fertilizzanti. Ciononostante, lavorano duramente ogni giorno per produrre il cibo di qualità che mangiamo.

 Per questo, dobbiamo loro apprezzamento, ringraziamento e rispetto", ha sottolineato.

"Abbiamo lanciato il “Dialogo strategico” sul futuro dell'agricoltura nell'Ue.

Abbiamo invitato i rappresentanti del settore agricolo, delle comunità rurali, dell'industria delle sementi e dei fertilizzanti, del settore alimentare, ma anche del settore finanziario, dei consumatori e del settore alimentare, dei gruppi di consumatori e ambientalisti e della scienza.

 Abbiamo bisogno di analizzare insieme la situazione, condividere idee e sviluppare scenari per il futuro.

 Dobbiamo andare oltre un dibattito polarizzato e creare fiducia.

 La fiducia è la base fondamentale per soluzioni praticabili. La posta in gioco è alta per tutti noi. Il nostro sistema di produzione alimentare è unico", ha spiegato ancora.

Annunciati anche incentivi con sussidi per gli agricoltori.

 "Gli agricoltori hanno bisogno di un'argomentazione commerciale valida per le misure di miglioramento della natura - afferma von der Leyen - e forse noi non l'abbiamo fatta in modo convincente.

Di un vero e proprio incentivo che vada oltre la semplice perdita di resa. I sussidi pubblici possono fornire tali incentivi",

 "Il terreno fertile è sempre stato la spina dorsale del sostentamento di un agricoltore.

Ma dal 60 al 70 per cento dei suoli in Europa è ora in cattive condizioni. Possiamo invertire queste tendenze.

E molti agricoltori lo stanno facendo.

Ma dobbiamo fare di più", ha sottolineato von der Leyen aggiungendo: "la conservazione della natura può avere successo solo attraverso un approccio dal basso verso l'alto e basato sugli incentivi.

 Perché solo se i nostri agricoltori potranno vivere della terra, investiranno nel futuro".

Coldiretti, 'ritiro proposta pesticidi salva 30% made in Italy'.

Il ritiro della proposta di regolamento sull'uso sostenibile dei fitofarmaci (Sur) salva il 30% delle produzioni alla base della dieta mediterranea, dal vino al pomodoro, messe a rischio dall'irrealistico obiettivo di dimezzare l'uso di agrofarmaci.

 È quanto afferma il presidente della Coldiretti” Ettore Prandini “nel commentare l’annuncio della presidente del Commissione europea Ursula von der Leyen del rigetto della proposta "nel suo intervento al Parlamento europeo dopo la grande manifestazione della Coldiretti a Bruxelles in occasione del vertice Ue".

Una risposta, dice Coldiretti "alla protesta degli agricoltori provenienti dal sud e dal nord dell’Unione Europea, dalla Coldiretti agli spagnoli di “Asaja”, dai portoghesi di Cap ai belgi dell’”Fwa” fino ai giovani agricoltori alla quale aveva fatto seguito l’incontro tra il presidente della Coldiretti e la Von der Leyen".

Secondo lo studio della Commissione Europea peraltro, aggiunge Coldiretti “i maggiori impatti sulla resa si sarebbero verificati in colture che hanno una rilevanza limitata, come l’uva, il luppolo e i pomodori”.

“La battaglia per garantire dignità e giusto reddito agli agricoltori italiani non si ferma” precisa” Prandini” nel sottolineare che "non sarà accettato nessun taglio alle risorse economiche della “Politica agricola comune (Pac) agli agricoltori poiché oggi occorre assicurare l’autonomia alimentare dei cittadini europei e favorire il ricambio generazionale.

In tale ottica non è possibile neppure che l’allargamento dell’Unione all’Ucraina venga pagato dalle aziende agricole".

Serve poi cancellare definitivamente "l’assurdo obbligo di lasciare i terreni incolti che mina la capacità produttiva della nostra agricoltura e favorisce paradossalmente le importazioni dall’estero di prodotti alimentari che non rispettano le stesse regole di quelli europei. Un caso eclatante è il “Mercosur”, l’accordo commerciale con i Paesi sudamericani che va respinto.

 

 

 

 

 

Agricoltori, trattori, proteste

e contributi: una storia distopica.

Agronotizie.imagelinenetwork.com - Donatello Sandroni – (12-2-2024) – ci dice:

Interviste impossibili:

 Le proteste degli agricoltori europei hanno incendiato anche i social oltre che le strade.

 Molti parlano, ma pochi hanno capito.

Meglio dare la parola ai trattori stessi.

Proteste degli agricoltori, un'intervista impossibile.

Interviste impossibili: la parola ai trattori.

Germania, Francia, poi Italia e altri Paesi a seguire.

Molti agricoltori esasperati sono scesi in strada e hanno portato i propri trattori nelle capitali e nelle città più importanti, talvolta abbandonandosi purtroppo a gesta riprovevoli, come distruggere merci provenienti da altri Stati membri dell'Unione europea, o danneggiando strutture pubbliche o private con una foga iconoclasta che per la causa stessa sarebbe stato meglio evitare.

La protesta pare divenuta quindi una storia distopica, ove con distopia si intende un'utopia al contrario, in negativo.

Se l'utopia vagheggia infatti un mondo perfetto, la distopia mira a realizzarne uno spaventoso, che nessuno vorrebbe mai vivere sul serio, ma che alla fine si realizza lo stesso.

 

Sui social è partita infatti la lotta polarizzata fra sostenitori e detrattori del mondo agricolo, con i primi che applaudono anche a fronte di comportamenti irresponsabili, i secondi che confermano il proprio odio preconcetto per gli agricoltori in quanto tali.

Dato però che a essere portati a spasso per l'Europa sono stati i trattori, divenendo simbolo essi stessi della protesta, chiediamo a loro cosa ne pensano.

Cari trattori, ma alla fine ci spiegate perché ogni volta che gli agricoltori protestano siete voi a essere trasformati in divisioni corazzate da schierare sulle strade?

"Ma cosa vuole, se si mettono tutti insieme gli agricoltori europei fanno sì e no l'1-2% della popolazione continentale.

Quindi poca roba dal punto di vista elettorale e di piazza.

Alle proteste, di solito, partecipa poi solo una minuscola minoranza delle categorie interessate, quindi marciando a piedi gli agricoltori si sarebbero confermati i soliti quattro gatti agli occhi di media e politica. Creando colonne di trattori sulle strade, invece, l'attenzione l'hanno attirata eccome".

Questione di tonnellate anziché di numeri, quindi?

"Più o meno è così.

Purtroppo, come spesso accade, una minoranza della minoranza senza fare così tanto rumore sarebbe stato meglio fosse rimasta a casa.

 Noi però di certe scene ne avremmo fatto pure a meno".

In che senso scusate?

"Nel senso che se poi ci usi per ribaltare camion pieni di cibo, o per incendiare copertoni ammassati contro i palazzi, o ancora per imbrattare un” McDonalds” di paglia e letame, cosa pensi di ottenere? Approvazione? Solidarietà?

Ma manco per idea: ottieni solo di fomentare odio nei tuoi confronti e nei confronti delle ragioni delle tue stesse proteste".

Diciamo che gli agricoltori francesi sono noti per essere fumantini.

Basti ricordare le cisterne di vini spagnoli fermate e svuotate per strada anni fa.

Ma il “McDonalds”? Questa mi giunge nuova.

"Alcuni agricoltori hanno invaso un “McDonalds” e l'hanno riempito di paglia mista letame buttandone un po' ovunque.

 Ora, ci chiediamo, pensate davvero che i vostri problemi li abbia creati “McDonalds”?

E, soprattutto, chi pensate che abbia pulito le vostre intemperanze? Saranno stati ragazzi pagati anche meno di voi.

 Per giunta, gli agricoltori degli altri Paesi cosa dovrebbero fare come risposta, ribaltare i camion che trasportano vini, formaggi, cereali e altri prodotti francesi?

No, mi creda, a vedere quello scempio ci è venuto male al circuito idraulico...".

Va però detto che i Vostri proprietari sono davvero esasperati. Alla fine quando è troppo è troppo.

"Gliene rendiamo atto, ma magari sarebbe più utile un'analisi accorta dei motivi e delle origini del malcontento.

 Magari iniziando a ricordare ai nostri proprietari che la loro condizione attuale non l'hanno causata le farine di grilli o le carni coltivate, che ancora in giro si devono vedere, bensì politiche agricole e commerciali suicide, come pure una mancata unione di intenti quando il settore andava difeso dal punto di vista strutturale.

Non è continuando a chiedere più sussidi che si risolvono i problemi. Anzi, li si aggrava sempre di più".

Diciamo che sventolare specchietti per le allodole è da sempre l'espediente più comodo per distrarre le masse dai problemi reali e dalle responsabilità per chi le ha.

Ma circa i sussidi cosa mi sapete dire?

"Diciamo che abbiamo letto i social e ascoltato certe trasmissioni televisive e ci sono cascati i cardani".

Cosa vi ha colpito di più di tutta la polemica?

"Per esempio, i mammalucchi che senza sapere di cosa parlano condividono il famoso rapporto fra Pil agricolo del 3% e sussidi per un terzo del bilancio europeo.

Come a dire che non ha senso sussidiare un settore che produce così poco.

Ma si rendono conto della stupidaggine che rilanciano?

 Due sono almeno le stranezze dei loro ragionamenti.

La prima è che l'importanza oggettiva di un comparto non può essere valutata solo con il Pil.

La seconda è che semmai ci si dovrebbe scandalizzare per quel 3%, mortalmente basso, anziché per il 33% dei sussidi.

L'agricoltura produce cibo, quindi vale più di ogni altro settore economico dal punto di vista dell'importanza intrinseca, poiché soddisfa un bisogno che più primario di quello non ce n'è: mangiare.

Quindi che riceva un terzo dei soldi erogati da Bruxelles è tutto tranne che sbagliato".

Ma non c'è per caso anche un problema di tipo commerciale, di rapporto fra player delle filiere?

"Lo chiediamo noi a Lei: gira mai per i supermercati?"

Eccome: spesso la spesa la faccio io. Perché?

"Perché allora si sarà reso conto che nel solo corridoio dei prodotti di bellezza o comunque voluttuari c'è un valore economico a metro quadro molto più elevato di quello che si rileva nei reparti in cui si vende cibo".

No, questa me la dovete spiegare meglio.

"Ma certo: vuole un gel per rendere più morbidi i capelli? 150 millilitri di confezione a 3,82 euro, cioè 19 euro al litro.

 Vuole un prodotto per ridurre la formazione delle doppie punte?

 200 millilitri di confezione a 9,99 euro, 49,95 al litro.

Ah, ma se poi fosse stufo dei capelli secchi, basta prendere la confezione del prodotto specialistico, a soli 7,99 euro, pari a 79,9 euro al litro. Manco fosse Champagne di marca.

 Stia pur tranquillo che con quei prezzi di sussidi non ne hanno certo bisogno.

Dobbiamo continuare?"

Sì, per favore: ora mi avete intrippato con questa cosa dei prezzi.

"Bene, passi ora al reparto pane: dai 3 ai 4 euro al chilo.

 Il pane: il simbolo della lotta alla fame.

Le uova? 50 cent l'uno. Melanzane? 1,85 euro al chilo. La pasta? da un euro e mezzo a 4 euro al chilo, quando la pasta si propone in veste di cibo per consumatori modaioli.

Olio di oliva dato per Evo? A pochi euro al litro.

 E la cosa peggiore è che di quei prezzi solo una minima parte è finita nelle tasche degli agricoltori.

 Quindi, per capire meglio come fare per comparare un punto di Pil di un settore con quello di un altro:

cosa portereste su un'isola deserta?

 Un riflessante o un chilo di patate?

Se i cittadini europei non capiscono questo, continueranno a dire le stupidaggini che dicono confrontando il famoso 3% con il 33% del bilancio.

Se non gli piace quel 3% così basso, facciamo così:

 raddoppiamo i prezzi riconosciuti agli agricoltori e il Pil dell'intero comparto schizzerebbe all'insù, anche perché avere il doppio dei soldi permetterebbe di investire in tecnologie e innovazione, creando un indotto molto superiore ai volumi monetari a loro riconosciuti in più.

Allora i cittadini potrebbero stare tranquilli che di contributi ne potrebbero servire molti meno.

 E forse pagando molto più caro il cibo, i cittadini comprenderebbero di nuovo il suo valore, anziché snobbare chi l'ha prodotto".

Ok, ma qui ci si becca le accuse di populismo perché, dicono, anche chi trasforma e chi vende ha suoi costi.

"Certo. Perché, i nostri proprietari non ce li hanno i costi?

 Noi, non costiamo nulla ad acquistarci e a mantenerci?

Ma non scherziamo.

 E i fertilizzanti, le sementi, gli agrofarmaci, gli impianti di irrigazione, l'acqua stessa, più la manodopera.

 Non sono costi? Più il rischio.

 Un'industria che produce pasta può trovare grano da altri Paesi per continuare a produrre se in Italia non ne trova abbastanza.

Se al cerealicoltore la siccità fa perdere anche il 30% delle rese, come è successo a molti nel 2022, quell'anno va in rosso perché i ricavi non coprono neanche i costi.

L'agricoltore vende ciò che la terra gli dà:

 non ha la possibilità di rimpiazzare i propri prodotti con quelli di altri. Una grandinata? Perde tutto.

E le assicurazioni funzionano sì, funzionano no.

Di certo, sono una spesa in più che non sempre rientra poi in tasca.

Il supermercato che vende vino, invece, lo compra da altri.

Lui, il viticoltore grandinato, resta col cerino.

Non c'è paragone fra rischio di impresa di un agricoltore e quello di un'industria o di una “Gdo”.

E questo non lo vogliamo considerare?"

Certo che sì.

Ma per chi non lavora in campo agricolo queste sarebbero le solite manfrine di chi becca un sacco di soldi pubblici e poi si lamenta pure.

C'è anche chi pensandosi spiritoso ha sottolineato sui social che quelli che protestano sono riusciti a comprarvi proprio grazie ai contributi che hanno ricevuto e che ora vi usano per protestare contro chi quei contributi ha dato loro.

 In pratica, sempre stando ai commenti sui social, starebbero mordendo la mano che li mantiene.

"Un consesso di geni, vedo.

Fanno gruppo con quelli che sfidano gli agricoltori a rinunciare ai contributi e a confrontarsi con il libero mercato".

Certo: così chiude la maggior parte delle aziende agricole...

"Appunto, non sanno quello che dicono perché hanno spesso le terga al caldo e di mettersi nei panni degli altri manco ci pensano minimamente.

Sarà quindi bene ricordare loro che una gran parte delle aziende ha bilanci di fatto in perdita, guardando entrate e uscite, ma che vanno in attivo solo perché ci sono i contributi.

Senza, chiudono.

Peraltro, gli agricoltori si sono sempre confrontati col mercato, sino a che decenni fa sono arrivate le politiche agricole nazionali ed europee a condizionarne le scelte.

 Le intenzioni erano anche buone, se vogliamo:

dare indirizzi economicamente razionali alle produzioni del Vecchio Continente.

Poi però le cose hanno preso una pessima piega da quando produrre sembra sia diventata cosa di cui vergognarsi".

Beh, il “set aside” esisteva già molti decenni fa.

 

"Sì, ma fino agli anni '80 produrre era di fatto un vanto e il comparto agricolo riceveva un rispetto molto maggiore di quello odierno.

 Dagli anni '90 in poi, anche a causa dei disciplinari di produzione, è diventato quasi motivo di biasimo.

 Ma qui la colpa della situazione attuale è anche dei nostri proprietari: quando nei primi anni '90 uscirono, come detto, i primi disciplinari, la cosiddetta 2078, molti aderirono perché erano tutto sommato soldi facili.

 Solo nel tempo si sono accorti che ogni anno le richieste e i vincoli aumentavano, complicando le cose.

E fare i furbi non era più tanto facile come nei primi momenti..."

In che senso fare i furbi?

"Non faccia l'ingenuo:

 sappiamo bene che trent'anni fa, in una sua vita professionale precedente, andava per il territorio a presentare le novità fitosanitarie dell'azienda per cui lavorava.

Se lo ricorda?"

Beh, sì, in effetti ricordo. Un periodo ricco di sconsolazione per le risposte che ricevevo proprio dagli agricoltori.

"Tipo quando Lei ricordava il numero massimo dei trattamenti permessi dai disciplinari per quegli specifici prodotti, cosa le dicevano?"

Mi chiedevano come fossero classificati...

"E quando Lei diceva che erano “Xi”, irritanti, o” NC”, non classificati, che succedeva?"

Succedeva che mi guardavano come fossi un povero fesso a cui bisogna proprio insegnare tutto:

ridacchiavano fra loro, ricordandomi che bastava comprarne una parte a scontrino e quei trattamenti in più li si faceva senza poi segnargli sui registri dei trattamenti...

"Cosa che Lei sapeva perfettamente, ma che non poteva certo dire per questioni di deontologia".

 

 Sì. Per questo ero sconfortato dopo quelle serate:

avevo troppo spesso la conferma che i miei interlocutori facevano parte del folto gruppo di chi crede che fatta la Legge basta trovare l'inganno e si può andare avanti così all'infinito.

Frustrazione che aumentava quando poi leggevo articoli autocelebranti di certi soloni di alcune regioni che si vantavano di come gli agricoltori che seguivano i loro disciplinari facessero meno trattamenti degli altri.

"Sapevano benissimo anche loro che in realtà molti facevano solo i furbetti, ma veniva comodo anche a loro far finta di non saperlo, perché quelle furbizie spicciole giocavano a favore dei sostenitori dei disciplinari stessi, senza se e senza ma.

Peccato che le furbizie spicciole, come le bugie, abbiano le gambe corte".

In che senso?

"Nel senso che poi le restrizioni sono progressivamente aumentate al pari della burocrazia, come pure sono cambiate le classificazioni dei prodotti.

 Ora come ora non si possono più comprare a scontrino:

 serve sempre il patentino e quindi il giochino è diventato sempre più difficile.

 In poco più di vent'anni anche la” Revisione europea” ci ha poi messo lo zampino, falcidiano le sostanze di sintesi per la metà di quelle che gli agricoltori potevano usare quando entrarono nell'attraente mondo della 2078, poi divenuti “Psr”.

Il cappio si è quindi stretto piano piano.

 E ora ha iniziato a stringere fino a togliere il fiato:” Farm to Fork,” “ecoschemi”, “4% di terra lasciato fermo”, “tagli agli agrofarmaci”, “tagli ai concimi”,” distanze minime dalle case”, indipendentemente dal fatto che quelle case siano state costruite loro a ridosso dei campi...

Davvero la misura adesso è colma".

Ci fu anche chi allora, a metà anni '90, cercò di avvisare il comparto che disciplinari e contributi rischiavano di diventare nel tempo un coltello tutto lama e senza manico.

Ma rimasero ben poco ascoltati.

"Anzi, venivano accusati di essere servi delle industrie.

 E poi ci si sono messi anche i disciplinari privati di industrie di trasformazione e “Gdo”:

e chi non vuole più del 30% dei residui di Legge, e chi non vuole più di quattro residui diversi..."

Un puro “non sense” di cui si occupò persino la” DG Sanco”, cercando di parlare con le “Gdo” per convincerle della vacuità di quelle regole.

"Risultato?"

Nessuno:

li ricevettero gentilmente, salvo ricordare loro che sulle loro decisioni e sulle loro strategie di marketing la “DG Sanco” nulla poteva dire. Essendo più restrittivi delle norme europee, in effetti, quei disciplinari erano inattaccabili dal punto di vista della sicurezza dei cittadini.

"Peccato con quelle imposizioni arbitrarie abbiano complicato molto la vita degli agricoltori senza ve ne fossero i motivi.

E pure hanno complicato la vita degli “officials” dei disciplinari pubblici che si sentirono superati a destra dai privati.

 Chi crea il mostro, del resto, rischia poi gli si rivolti contro.

 Peccato che alla fine il mostro abbia morso sempre e solo gli agricoltori".

E quindi cosa vogliamo dire a Bruxelles e alla politica italiana?

"Che i contributi pubblici, così generosamente distribuiti per decenni, hanno sortito l'effetto di rendere dipendenti gli agricoltori quasi fossero una droga.

 E si sa bene cosa succede quando qualcuno ipotizza di ridurre le dosi o di alzarne il prezzo: la gente sbrocca.

Gli agricoltori europei hanno bisogno di vedere sostituire i sussidi con rialzi dei prezzi a loro riconosciuti, anziché raccogliere le briciole delle filiere che loro stessi alimentano dalla base.

 Devono cioè ritrovare il giusto corrispettivo per la qualità e la quantità che producono.

Anche perché stando al “Crea l'Italia” sta avendo seri problemi di rese: tenendo da parte zootecnia, vino e olio, le produzioni sono scese del 10% rispetto a vent'anni fa.

Manca, sempre stando al” Crea”, il 20% dell'uva da tavola, il 30% di pesche e il 50% di pere.

Si producono meno ortaggi rispetto agli inizi del secolo, con pomodoro e patate scesi in modo significativo".

Ma come, i cittadini non chiedono a gran voce di volere mangiare italiano?

"Sì, a gran voce. A parole.

Poi però quando vedono un atomizzatore da lontano chiamano le tv e pubblicano le foto sui social per fare sembrare quell'agricoltore un delinquente inquinatore.

Quindi facciano pace con sé stessi:

 o accettano in silenzio di mangiare straniero, incluse farine di grilli e carni coltivate, o ridanno ai nostri proprietari la dignità sociale ed economica che avevano 50 anni fa, prima che le derive green ne minasse le fondamenta e li rendessero dipendenti dai sussidi come nessun altro al mondo".

Ecco, forse sarebbe venuto il momento, anche e soprattutto per gli agricoltori, di chiedere più dignità professionale, anziché più soldi da Bruxelles.

Poiché quei soldi non sono mai stati gratis, nemmeno quando sembravano tali.

Costavano carissimo, invece, in termini di libertà di imprendere e di decidere.

E la libertà, cari produttori, lei sì che non ha prezzo.

(Agro Notizie).

 

 

 

 

Cosa dimostrano le proteste

degli agricoltori e le richieste

di Stellantis. L’analisi di Polillo.

 Formiche.net - Gianfranco Polillo – (09/02/2024) – ci dice:

 

Concentrarsi esclusivamente sulla congiuntura del momento ha fatto perdere di vista la reale portata dei problemi.

 Che ora riemergono con forza:

nella lunga fila dei trattori che assediano le città o nella richiesta ultimativa di incentivi da parte dei manager che hanno l’effettiva responsabilità della conversione produttiva.

Tutte le “crepe del green deal “raccontate da “Polillo”.

Alla fine, con il necessario anticipo, i nodi stanno venendo al pettine.

 Lo dimostrano le veementi proteste degli agricoltori o le richieste inusuali di “Carlos Tavares”, amministratore delegato di” Stellantis”, ad esponenti del governo italiano.

 Chi pensava che la transizione ecologica fosse un “pranzo di gala”, per riprendere una vecchia espressione del” Presidente Mao”, sarà costretto a ricredersi.

Non sarà così, per il semplice fatto che un processo di riconversione di quella portata – dal fossile all’elettrico – richiede un ripensamento del nostro modo di vivere.

 E quindi di produrre.

 Senza dimenticare che l’automobile è stato il grande drive che ha guidato lo sviluppo industriale dell’intero Pianeta dai primi del ‘900 ai giorni nostri.

Allora fu “Henry Ford,£ con il suo” Modello T”, a creare un prodotto destinato alla classe media americana, costruita utilizzando le prime catene di montaggio.

Una grande innovazione non solo di prodotto, ma di processo.

 Quel metodo di produzione che da lui prese il nome, “fordismo”, non disegnò solo la fabbrica moderna.

Quei santuari divennero, infatti, il simulacro delle nuove politiche economiche.

 I guadagni di produttività, che quel metodo consentiva, resero possibili politiche di alti salari.

A loro volta necessari per poter creare un mercato in grado di assorbire quella crescente produzione: ottenuta a costi sempre più bassi.

Realizzando quel salto di qualità destinato ad accelerare la trasformazione del vecchio mondo contadino verso la crescente industrializzazione.

Con riflessi immediati anche sulla politica.

Come mostrò il saggio di “Antonio Gramsci”: su “Americanismo e fordismo”.

Gli Usa furono i primi ad impiantare quel modello e coglierne i benefici. L’Europa seguì, con un notevole ritardo.

 Cosa che contribuisce a spiegare la sua relativa debolezza rispetto all’altra sponda dell’Atlantico.

 Quell’America che fu risolutiva, nei due grandi conflitti – la prima e la seconda guerra mondiale – che insanguinarono il Vecchio continente.

In entrambi i casi fu la forza degli Stati Uniti, con la sua più avanzata produzione industriale, e la potenza economica – finanziaria che da essa derivava, a decidere le sorti del conflitto.

 Creando i presupposti di quella lunga egemonia che, ancora oggi, caratterizza le grandi relazioni internazionali.

Bisogna partire da qui per capire quanto difficile e complesso sia quel progetto che mira a sostituire un modello di civiltà più che consolidato con qualcosa di inedito.

 Di cui ancora non si è pienamente sperimentata la relativa capacità sostitutiva.

Fino a che punto l’elettrico è in grado di prendere il posto del motore a combustione?

Quale autonomia effettiva, e non quella sbandierata dalle case costruttrici, una ricarica può garantire?

 Qual è il tempo necessario per il rifornimento?

 È competitivo rispetto alle tradizionali stazioni di servizio?

Una prima risposta può venire dai test” Wltp” (Worldwide harmonized light vehicles test procedure), che certifica livelli di emissioni e gli altri requisiti necessari per ottenere l’omologazione del modello.

 Ma i dubbi sulla loro efficacia sono tanti.

A partire dal tempo limitato dedicato alle prove su strada:

meno di un paio d’ore su un percorso di 80 km su strade urbane, rurali e autostrade.

C’è poi il precedente dello scandalo del “diesel gate” che non lascia dormire sonni tranquilli.

Ma a parte ogni altra considerazione, le variabili che incidono sull’effettività dei risultati sono molto più numerose, rispetto al motore a combustione.

Incide il modo di guidare, la velocità, la presenza nell’auto di altri gadget elettrici.

A partire dall’aria condizionata.

Senza contare infine le variabili esterne a partire dalla temperatura.

Le grandi gelate americane, recentemente, hanno messo completamente fuori uso le batterie elettriche.

Questi dati dimostrano quanto sia incerto il panorama futuro.

Siamo ancora in presenza di tecnologie fin troppo giovani.

Anche se in continua forte evoluzione.

Tecnologie che consentono indubbiamente produzioni di nicchia, seppure di relativa estensione, ma che difficilmente, se non altro per i relativi costi, in grado di sostituire nel medio periodo, l’intero parco auto mondiale.

 Condizione, quest’ultima, che l’ambientalismo considera essenziale ai fini del contenimento del riscaldamento globale.

Per quanto ci riguarda, condividiamo quelle preoccupazioni.

Ma proprio per questo motivo è necessario impostare un programma di riconversione produttiva che sia realistico, trovando le risorse indispensabili alla sua realizzazione.

Da questo punto di vista è ancora la storia ad essere “magistra vitae”. La prima Ford Modello T uscì dalla fabbrica nel 1908.

 Data che segnò anche la nascita del “fordismo” come forma nuova dello sviluppo capitalistico.

La cui diffusione, dopo l’avvio negli Stati Uniti, fu tuttavia favorito dalla Grande guerra.

In cui “quell’inutile strage”, per riprendere le parole di Papa Benedetto XV, fu anche la drammatica spinta che accelerò lo sviluppo industriale di tutti i Paesi belligeranti.

 Quel grande massacro fu solo l’inizio di un periodo burrascoso, in cui il progressivo riarmo bellico, in vista di una folle rivincita, contribuì non poco allo sviluppo di quelle tecnologie che avevano nel motore termico uno degli anelli fondamentali.

Insomma, per farla breve, a monte della realtà di oggi, ancora dominata dai combustibili fossili, vi sono più di cento anni di storia.

 Due guerre mondiali, che fecero registrare una concentrazione di mezzi finanziari senza precedenti.

La dominazione da parte degli apparati militari dell’intero tessuto produttivo dei principali Paesi occidentali.

La presenza massiccia dello Stato, con i suoi apparati di controllo e sicurezza.

 Ed una crescita della spesa pubblica che portò il relativo debito ben oltre la soglia del 100 per cento del Pil.

In definitiva uno sforzo organico unidirezionale rivolto a creare le condizioni su cui far nascere la speranza di un possibile successo militare.

E questo tanto nella Germania nazista o nel Giappone imperiale, quanto in quello dei Paesi alleati: dall’Inghilterra, supportata fin dall’inizio dagli Stati Uniti, alla Russia di Stalin.

Di fronte ad uno sforzo di quella portata, il “green deal europeo” propone di ridurre almeno del 55 per cento le emissioni di gas serra entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990 e trasformare l’Europa nel primo continente a impatto climatico zero entro il 2050.

(È utile far presente che la “CO2” è un gas più pesante dell’aria atmosferica e quindi è fuorviante attribuire alla “CO2” tutta la responsabilità dell’aumento del riscaldamento globale! N.D.R).

In poco più di 25 anni, ottenuto il divieto di produrre altri veicoli termici, si vorrebbero ottenere risultati paragonabili ai cento anni di storia precedente.

 Escludendo, almeno si spera, avvenimenti traumatici come furono le due guerre mondiali che, tuttavia, fecero da grandi acceleratori nell’allargamento delle basi produttive dei Paesi coinvolti.

Una sfida forse non impossibile, ma certamente difficile.

La frontiera tecnologica che dovrebbe sorreggere la riconversione produttiva verso l’elettrico è ancora incerta.

Il rischio implicito elevato.

Richiederà in compenso un livello d’investimento destinato ad andare oltre le disponibilità dei privati.

 Salvo ipotizzare giganti multinazionali in grado di sfruttare al meglio le opportunità del mercato globalizzato.

In termini di incentivi da parte del Pubblico, agevolazioni fiscali, efficienza delle relative procedure e via dicendo.

Pubblico che, a sua volta, dovrà contribuire alla realizzazione della nuova rete di supporto per il rifornimento elettrico dei singoli veicoli.

Alla luce di queste considerazioni è facile prevedere che il supporto finanziario dello Stato sarà inevitabile.

Si può discutere se esso debba essere di taglio europeo – cosa preferibile – o se lasciato alla disponibilità dei singoli Stati nazionali.

 Comporterà comunque una maggiore spesa pubblica, al lordo dei possibili risparmi derivanti da una sua possibile riqualificazione, ed una lievitazione ulteriore del debito pubblico.

Tutte cose non solo non in linea, ma oggetto di sanzione da parte delle nuove regole del “Patto di stabilità e crescita”, appena riformato.

Una contraddizione evidente.

Ma questo è il lato oscuro del compromesso da poco realizzato. Concentrarsi esclusivamente sulla congiuntura del momento ha fatto perdere di vista la reale portata dei problemi.

 Che ora riemergono con forza:

nella lunga fila dei trattori che assediano le città o nella richiesta ultimativa di incentivi da parte dei manager che hanno l’effettiva responsabilità della conversione produttiva.

 Nodi che non sarà facile sciogliere.

Mettiamoci, quindi, comodi: sarà una lunga storia.

 

 

 

Agricoltori con le tasche vuote,

la colpa non è del “Green deal”.

Strisciarossa.it – (5 FEBBRAIO 2024) - STEFANO CANALI – ci dice:

 

Ce l’hanno con l‘Europa, matrigna green che impone agli agricoltori di usare meno pesticidi e fitofarmaci in nome della transizione verde, infischiandosene se a pagare sono quelli che già faticano.

 L’Europa che vorrebbe mettere terra a riposo e favorire produzioni meno energivore e più sostenibili.

Minacciano una “marcia su Roma” alla guida dei trattori, simbolo della realtà materiale tanto più tangibile delle pretese di “quelli di Bruxelles”.

E mentre il governo usa due metri e due misure per non vedere i blocchi stradali agricoli mentre sanziona severamente quelli ecologisti, strizza l’occhio a una protesta che – almeno all’apparenza – facilmente potrebbe essere incanalata nell’agenda sovranista, anche se la “Pac”, la politica agricola comune ha avuto il visto meloniano senza particolari patemi.

A dar retta alle battute di qualche intervista volante al popolo dei trattori, potrebbe anche sembrare che farina di grilli e carne sintetica siano tra le maggiori preoccupazioni degli agricoltori italiani, in piena sintonia con le iniziative del ministro Lollobrigida.

Ridurre a questo le difficoltà all’orizzonte del sistema agro-alimentare, però, è un po’ come pensare che i “rave party” siano il principale problema di sicurezza del Paese.

Le farine di grillo potranno essere forse un’opportunità o un obbrobrio, ma non sono certo il male che prosciuga le tasche degli agricoltori.

(E’ comunque straordinario che non sia possibile intervistare uno straccio di scienziato del clima che possa affermare che la CO2 -essendo più pesante dell’aria -non può volare e restare nelle serre dei gas serra! N.D.R)

Farine di grillo e reddito degli agricoltori.

Non c’è dubbio però che il malessere c’è.

 Non è di oggi la consapevolezza che del prezzo pagato dal consumatore per l’acquisto di frutta e verdura, solo una minima parte viene intascata dai produttori, al punto che si sente spesso di raccolti lasciati sui campi perché costa di più andarseli a prendere di quanto se ne potrebbe ricavare alla vendita.

 Perché allora prendersela con la “Ue” che limita l‘uso di pesticidi e impone di lasciare una percentuale di terre incolte?

 Sicuri che la soluzione sia ancora quella di intensificare la produzione, aumentare la quantità di latte, carne, ortaggi forzando la produttività di terreni, piante e animali?

Davvero abbiamo bisogno di tutto questo cibo nel Paese dello spreco alimentare (oltre 27 kg a testa, per un valore di 9 miliardi di euro, 98 miliardi nella Ue solo nel 2023, anno virtuoso rispetto ai precedenti)?

Finora, in buona parte, si è ritenuto che la strada da battere fosse questa.

Ma aumentare la produttività, si è visto, non ha migliorato sostanzialmente la retribuzione degli agricoltori, schiacciati dalla trasformazione industriale del sistema agro-alimentare sia a monte che a valle della produzione.

A monte per gli alti costi di macchinari, fitofarmaci, sementi migliorate (spesso protette da brevetti di cui sono titolari le multinazionali) e più di recente anche per gli aumenti dei costi energetici e dei costi assicurativi, sempre più alti in ragione dei rischi climatici.

 A valle invece, i redditi degli agricoltori si trovano davanti al muro dei prezzi imposti dalla grande distribuzione, come quella dei supermercati dove la maggior parte di noi va a fare la spesa e cerca qualità e convenienza.

Che cosa questo abbia a che vedere con la farina di grillo non è dato sapere.

Al governo gli agricoltori italiani chiedono carburanti meno cari e il ripristino degli sgravi Irpef, che al momento Meloni prende in considerazione solo per le piccole imprese – e ancora non è detto.

La presidente del consiglio annuncia un aumento da 5 a 8 miliardi dei fondi del “Pnrr “per il comparto agricolo.

 Ma siamo lì, se non cambia il sistema che vede gli agricoltori trasformati di fatto in operai della terra, senza nessun reale controllo su produzione e vendita, difficile immaginare di rimuovere le strettoie che strangolano il settore primario anche con sovvenzione a pioggia.

Quale Politica agricola europea.

Che cosa possa fare l’Europa invece è già più chiaro, ma tra le opzioni ritirare o ridimensionare le misure del “Green deal” non sembra una scelta lungimirante – il comparto agricolo produce almeno il 30% dei gas serra.

Più di quanto abbia fatto finora, la” Ue” dovrebbe favorire produzioni più eco-sostenibili, basate su metodi progressivamente meno dipendenti da un uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi, dannosi per l’ambiente e la salute, a cominciare da quella degli agricoltori, e dannosi soprattutto per le tasche dei produttori agricoli.

Invece di sostenere produzioni intensive e specializzate (ad esempio monocolture come mais e frumento, allevamenti industriali, responsabili da soli di oltre il 20% delle emissioni globali di “Co2”(? N.D.R) le politiche europee dovrebbero puntare alla diversificazione, garanzia non solo di una dieta più equilibrata e varia, ma anche di adattabilità ai cambiamenti climatici e alle incognite geo-politiche (vedi alla voce Ucraina e produzione di cereali).

Obiettivo europeo dovrebbe essere il riequilibrio del modello agro-alimentare globale (il cibo ridotto a commodity, grandi volumi spostati da un continente all’altro e soggetti a fluttuazioni di borsa) con un sistema più legato al territorio, sottratto al rischio di speculazioni finanziarie.

 Uno dei sistemi possibili è quello di accorciare le filiere produttive, avvicinando produttori e consumatori: un modo per lasciare maggior reddito nelle tasche degli agricoltori, diminuire l’impatto ambientale, assicurare ai consumatori più qualità, tipicità e freschezza, in nome di una sovranità alimentare correttamente interpretata.

“Sovranità alimentare” che almeno finora è stata poco sostenuta dalla sinistra e che qualcuno a destra ha confuso con il sovranismo.

(Stefano Canali è dirigente di ricerca del “Crea”, Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria).

 

 

 

 

Rivedere la “Pac”? «Difficile,

semmai pensiamo alla prossima».

Terraevita.edagricole.it - Redazione Terra e Vita – (2 Febbraio 2024) – ci dice:

Pac.

“Angelo Frascarelli” spegne gli entusiasmi dei sindacati agricoli e degli agricoltori che in questi giorni stanno protestando:

«Troppo tardi, si possono fare solo piccoli aggiustamenti».

Più che una revisione a medio termine della “Politica agricola comune” (Pac), in vigore per il quinquennio “2023-2027”, forse ci sarebbe da preoccuparsi per la prossima programmazione, che dovrebbe abbracciare il periodo “2028-2034”.

 «Siamo in ritardo, se ne parlerà almeno agli inizi del 2025, quando avremo le nuove istituzioni europee e tutta l’attenzione si concentrerà sul budget della nuova “Pac”».

Parola di “Angelo Frascarelli”, docente di Economia agraria all’Università di Perugia, già presidente di” Ismea” e fra i massimi esperti di “Pac.

Possibili piccoli aggiustamenti nazionali.

Se in passato le riforme della “Politica agricola comune” nel corso del periodo di applicazione erano sottoposte a degli “Health check”, dei controlli sullo stato di salute e delle modifiche anche a volte profonde, «questa volta la revisione a medio termine di questa “Pac”, che qualcuno chiede, non è praticabile – spiega il professor” Frascarelli” –.

 Si potranno fare piccolissimi aggiustamenti, soprattutto a livello nazionale, ma siamo al secondo anno di applicazione della riforma, e nell’ipotesi che si attivi una proposta di revisione non potrebbe comunque andare in porto nell’anno delle elezioni.

Se ne discuterebbe nel 2025 e, quindi, al massimo potrebbe interessare gli ultimi due anni e, francamente, ha poco senso».

L’attuale politica europea dedicata agli agricoltori, che assorbe un budget significativo a livello di Ue-27 per circa 387 miliardi di euro, ha avuto un percorso travagliato a causa del Covid, emergenza che l’Unione europea ha dovuto fronteggiare con impegno.

La stessa approvazione dagli organi di Bruxelles è arrivata dopo sei anni di dibattito, «partiti nel 2017 con uno scenario molto diverso, che ha portato a un compromesso tra esigenze economiche, ambientali e sociali», ricorda “Frascarelli”.

La protesta degli agricoltori.

«Le manifestazioni degli agricoltori degli ultimi giorni rappresentano un allarme per farci capire che bisogna dare maggiore attenzione al mondo agricolo – commenta “Frascarelli” – ma finora è stata una protesta con poca proposta.

Le motivazioni sono chiare:

 da una parte c’è l’incertezza sui mercati, prezzi molto volatili, che non sono sempre bassi, ma sui quali non si può fare affidamento».

 Il mais, coltura simbolo del Nord Italia a vocazione zootecnica è un esempio:

 «Tre anni fa il prezzo si aggirava intorno ai 200 euro a tonnellata, poi è salito a 380 euro e ora è ritornato a 210 euro alla tonnellata.

 Questo significa che anche quando sono alti non si può fare affidamento che siano stabilmente alti».

Costi di produzione, insicurezza climatica e inflazione.

Pesano «i fattori di incertezza sui mercati e sui costi di produzione e l’insicurezza climatica, che ha colpito l’Italia nel 2023, con rese basse nel settore dei cereali a paglia, dell’olio, del vino, della frutta – specifica “Frascarelli” –.

A questo si aggiunge l’incertezza legislativa, con l’agricoltore che non solo ha normative impegnative, ma sempre diverse».

Anche sul fronte delle risorse della “Pac” è arrivata la doccia gelata.

 «La Pac ha garantito per l’Italia fino al 2027 circa 7,4 miliardi di euro, ma per effetto dell’inflazione l’incidenza reale della “Pac” sul bilancio cala tra l’11 e il 15%».

 

 

 

Giulio Deangeli, 29 anni, quattro lauree

 e un posto a Cambridge.

L’intervista dopo il panel alla scuola

del Fatto: “Studio come usare

l’AI per curare malattie

 ilfattoquotidiano.it - Virginia Della Sala – (3 FEBBRAIO 2024) ci dice:

 

Giulio Deangeli è l’opposto del cervello in fuga. O almeno lui non intende esserlo: 29 anni, quattro lauree, di cui una in medicina, un master di secondo livello, volontariato, una “non profit” in via di formazione e attualmente ricercatore a Cambridge.

È stato uno dei relatori del panel sull’intelligenza artificiale organizzato dalla Scuola del “Fq” all’università” Roma Tre “dove ha raccontato come l’innovazione possa essere applicata alla ricerca medica in ottica di ottimizzazione e identificazione dei campi da approfondire.

Un’intelligenza straordinaria che, ora all’estero, punta in realtà a portare valore aggiunto all’Italia. “Proprio per questo – dice – Non sono un cervello in fuga”.

Deangeli, di dov’è?

E ha appena compiuto gli anni…

29 anni.

Come li ha festeggiati?

Partecipando al panel sull’Intelligenza Artificiale organizzato dalla “Scuola del Fatto Quotidiano”. Una esperienza molto bella.

Ma a metà mese torno a Cambridge e festeggio davvero.

Cosa fa a Cambridge?

Sono lì da quasi tre anni, faccio ricerca, sono un “Phd Student”.

 Lavoro in due laboratori incredibili che sono diretti da “Maria Grazia Spillantini” e “Pietro Liò”.

S”pillantini” è in pratica l’erede di “Rita Levi-Montalcini”, ha scoperto la  proteina centrale della “malattia di Parkinson “e ha rivoluzionato neurologia.

Il suo laboratorio è specializzato proprio nelle malattie neuro generative.

E “Liò”?

È uno dei massimi esperti al mondo di Ai, uno dei precursori del meccanismo di “attention”, per fare un esempio, fa funzionare “Chat Gpt”, ed è stato uno dei pionieri delle “GNN”, l’architettura che, per dirlo con semplicità, fa funzionare” Google Maps”.

E lei cosa fa?

Nel mio piccolo provo a studiare e realizzare strumenti che applicano l’intelligenza artificiale al problema dell’identificazione dei meccanismi molecolari della patologia, per fissare nuovi target che sono alla base della ricerca di nuove terapie.

Nel suo piccolo…

Mi piace moltissimo e sono facilitato dal mio background.

Quante lauree ha?

Quattro.

Quattro a 29 anni: come è possibile?

Mi sono laureato in medicina, poi ho iniziato a dare esami di ingegneria, di matematica nello specifico.

 Medicina mi presentava il problema e la comprensione medica della patologia, ma sentivo l’esigenza di approfondire la parte degli strumenti d’indagine.

Pensi, dopo il mio primo internato a Cambridge nel 2016, tornai a Pisa: la sera sono atterrato e il giorno dopo ho dato il mio primo esame di matematica.

Mi sono divertito tantissimo e da allora non ho più smesso. E ho iniziato a dare esami di ingegneria.

Poi?

Da lì in poi ho deciso di fare la stessa cosa sul lato laboratoriale, quindi biotecnologie.

Ho iniziato a dare esami e non ho più smesso.

Ho insomma avuto la fortuna di avere una esposizione in entrambi i mondi, sia dell’Ai – con il mind set ingegneristico e quantitativo – sia del problema della patologia.

E questo aiuta nell’ambito Ai?

È una grande fortuna perché di solito chi fa ricerca in Ai arriva da un background di computer science puro e quindi non è sempre facile trovare applicazioni che siano utili dal punto di vista pratico.

È come se lei inglobasse un intero team di persone.

 Come ha fatto a ottenere questi titoli multipli?

Ho frequentato sei anni di medicina all’Università di Pisa.

Ero anche allievo della scuola superiore Sant’Anna, dove ho preso il diploma di licenza magistrale in scienze mediche che è equiparato a un master di secondo livello.

In parallelo ho seguito la laurea in ingegneria biomedica, poi in biotecnologie e infine la magistrale in biotecnologie molecolari.

 In parallelo facevo ricerca in estate all’estero, pubblicando vari paper.

Come ha fatto a fare tutto contemporaneamente?

“Carlo Maria Rosati “nel 2010 è stato un precedente

. Non si poteva essere co-iscritti, perché era vietato dal famigerato Decreto Regio, però si potevano tenere esami extracurricolari acquisendo i crediti.

 E una volta finita una laurea, li si faceva riconoscere e ci si laureava in un’altra.

Ora quel Decreto Regio è stato aggiornato e spero di aver dato il mio piccolo contributo.

In che modo?

Sono stato audito due volte al Senato e una alla Camera e la norma è stata poi aggiornato un anno fa con l’accordo di tutti i partiti.

Ora si può essere iscritti a più corsi di laurea contemporaneamente, agevolando notevolmente le procedure.

 Quel decreto era un relitto di una realtà che è cambiata.

Al tempo del decreto, l’università aveva dieci corsi in tutto ed erano tutti altamente professionalizzanti.

L’università oggi deve invece essere multidisciplinare.

Per fare un esempio, si pensi a chi oggi deve disciplinare l’Ai: deve essere al contempo un politico in gamba e uno sviluppatore.

Se non sa cosa fa l’Ai, infatti, non sa neanche cosa non fa e il rischio è che le attribuisca dei superpoteri o che abbia una lettura sbagliata del suo potenziale.

C’è sempre più bisogno di questi background.

Poi il dottorato a Cambridge…

Sì.

Lei è un cervello in fuga, quindi?

No, non mi ritengo tale perché per me un cervello in fuga è chi va via con l’idea di non contribuire più al proprio Paese e non è quello che voglio.

Il respiro della ricerca è mondiale, non ci si può esimere dall’esperienza all’estero.

Ci sono posti in cui sono concentrate così tante risorse, sia economiche e quindi tecniche, sia intellettuali che non ci si può esimersi dal confrontarsi.

 Ho scritto anche un libro che appunto dimostra come non sia mia intenzione allontanarmi.

 Io voglio riportare una parte di tutto questo in Italia.

Libro?

Sì, fa parte di un progetto dal titolo “A choice for life”.

 E’ basato su una iniziativa di volontariato che porto avanti con altri ragazzi.

Nasce nel 2017 come realtà locale a Este, in provincia di Padova, che è la città dove sono cresciuto, per aiutare i ragazzi e trasmettere loro informazioni che sono talmente pratiche ovvie e macroscopiche su come si vive nel mondo dell’università che poi alla fine nessuno insegna.

 Col risultato che nessuno le sa: si va da cosa misurano i ranking universitari (non la qualità della didattica ma della ricerca) alle convenzioni sul come rivolgersi ai professori, anche all’estero.

Oppure cosa sono le scuole superiori universitarie (Sant’Anna, la Normale, e molte altre) che sono l’eccellenza e a cui si accede solo per merito, mettendo lo studente nelle condizioni di pensare solo allo studio.

Lo Stato ci investe tantissimo e sono un unicum mondiale di assoluta eccellenza.

Ed è una tragedia che così poche persone le conoscano.

 Diamo le istruzioni da fratelli maggiori, insomma.

Orientate?

Sì. E raccontiamo cosa si fa nelle varie professioni.

 Nelle scuole spesso chiedevo: “Cosa vuoi fare da grande?”

 e invece di avere come risposta “ingegneria meccanica” o “ingegneria elettronica” mi dicevano medico, astronauta, poeta.

Le cose più diverse.

Non per colpa loro, non sanno cosa si faccia concretamente nelle varie discipline.

 Insomma: cosa fa un project manager di giorno?

Ecco, ho riunito una trentina di giovani per fare orientamento gratuito, dai giovani ai giovani, in cui raccontiamo le varie professioni con l’esperienza di chi ci è appena passato.

Ed è anche un libro, diceva.

Sì, “La facoltà di scegliere” (Mondadori).

 All’inizio facevamo eventi locali, poi siamo diventati nazionali anche con piattaforme interattive e sponsor fantastici,” Barilla” e “Tucano”.

Agli eventi c’erano tavole rotonde per le domande, abbiamo incontrato 1.500 ragazzi da tutta Italia nel primo anno.

Poi, siccome la forma online è meno efficace abbiamo deciso di fare il libro e un sito su cui ci sono tutte le risorse.

 Il libro è molto innovativo anche dal punto di vista del formato.

È interattivo e alla fine cè una pagina segreta, scritta in codice, dove c’è il consiglio finale che do ai ragazzi.

Ho impiegato tre mesi a scriverla perché il rischio della frase da cioccolatino era dietro l’angolo…

La posso conoscere?

Eh no. No spoiler.

Posso solo dire che per avere successo non bisogna essere geniali o ricchi o avere le idee chiare subito.

Non c’è bisogno di pensarsi in una sola direzione…

Durante il panel ha detto che non sarà l’Ai a rubare il lavoro ma un uomo che usa l’Ai.

Ma è vero che c’è possibilità per tutti?

In alcune realtà questo tipo di contenuti è assente.

 È il motivo per cui la nostra iniziativa è completamente gratuita.

Se non si ha la fortuna di aver avuto genitori che hanno frequentato l’università – o comunque l’hanno frequentata trent’anni fa – come fa un ragazzo a capire se fa per lui se neanche sa cosa sia?

 Per questo servono più strumenti possibili di orientamento e che questo sia più pratico possibile, trasmissibile in poche ore di lezione.

Cosa pensa dell’istruzione italiana rispetto a quella oltreconfine?

Il livello italiano dell’istruzione è molto alto. Il confronto si può fare, ma senza che siano elogi o critiche.

Solo constatazioni.

Va bene.

Iniziamo allora dicendo che ci sono differenze rispetto al resto del mondo.

In Italia siamo un po’ eterni teoreti, facciamo la teoria di tutto mentre, per dire, gli anglosassoni sono puro empirismo.

 Forse una via di mezzo sarebbe utile per tutti.

Mi fa un esempio?

In fisica, mentre noi facciamo le dimostrazioni, nel mondo anglosassone vanno in giardino, prendono il metro e misurano quanto impiega la pallina a cadere.

Noi siamo molto sistematici e certo serve molta fatica per fare la teoria e questo è a nostro merito.

 La differenza sta nel fatto che loro sono sì meno sistematici, ma escono dalla scuola che non odiano le materie.

Ed è un buon risultato?

La mia impressione è che spesso i ragazzi escano dalla scuola che già non ne possono più.

Gli esami, poi, nel mondo anglosassone sono tenuti non dai docenti dello studente ma da docenti esterni.

Questo significa che il docente diventa un allenatore, la persona con cui si è in un rapporto molto più di sinergia che di ostacolo.

In questo preferisco il sistema anglosassone che è più sano e rilassato. Infatti le statistiche sui suicidi dei ragazzi la dicono lunga su come è percepito l’ambiente quotidiano.

Se il docente è giudice aumenta lo stress.

E nelle università?

Nel sistema Europeo le risorse sono distribuite in maniera omogenea, non ci sono nell’Ue continentale picchi fortissimamente positivi e altri negativi, non ci sono Harvard per intenderci.

 Questo ha una implicazione sociale ottima perché significa che tutti hanno vicino una università buona e competitiva a livello internazionale.

 Nel mondo anglosassone il sistema è invece verticistico.

Poche università in cui risorse e talento sono molto concentrate.

Questo è socialmente meno efficace ma facilità la ricerca.

In una sola università ci sono tanti soldi e tanto talento, con sinergie enormi

. Due più due in questi casi non fa quattro ma dieci.

La sintesi?

Ognuna ha pro e contro. Non c’è una soluzione.

Il suo sogno?

Dare il mio piccolo contributo alla vita dei pazienti perché non si muoia con queste tremende malattie.

Quelle neurodegenerative colpiscono in modo totalmente casuale, non possono essere previste, sono devastanti – l’ho vissuta con mio nonno che è morto per esse – e ci si sente impotenti.

Le sue ricerche in cosa consistono nel dettaglio?

Mi occupo sostanzialmente di biologia molecolare, quindi di meccanismi biologici della malattia.

Un esempio è identificare nuovi target, cioè nuove proteine e geni che non sapevamo essere coinvolti nella malattia e che grazie all’Ai possiamo capire avere un ruolo che prima era ignoto.

Come?

Con i dati.

Gran parte di ciò che si fa è “insegnare” all’Ai dando degli esempi, ma ovviamente non è facile da fare.

L’Ai tradizionale dagli esempi estrae una regola e la applica.

Ma qui c’è un piccolo problema:

 non è facile realizzare dataset in questo ambito.

Quindi bisogna operare sul meccanismo, sull’identificazione dei target e quindi sulla creazione dei dataset.

Per farlo esistono delle tecniche, le cosiddette “omiche” – in pratica tutto ciò che finisce in “omica” – che sono in grado di produrre big data da un esperimento biologico.

 Sono ovviamente costose e riflettono uno shift di prospettiva perché la biologia non è quasi mai galileiana.

Temo ci sia bisogno di spiegare con calma a questo punto.

L’esperimento galileiano classico consiste nello scienziato che osserva un fenomeno: gli viene in mente un modello e poi fa l’esperimento per verificare se quel modello è corretto o meno

. E se lo è, allora è vero.

 Nella biologia abbiamo però più di 19mila geni, centinaia di migliaia di pseudo geni.

Come li si fa a osservare tutti e a elaborare così tanti modelli?

Bisogna trovare il modo di immaginare, con l’Ai, il risultato di un ipotetico esperimento senza farlo perché sono troppi con troppe variabili.

 In questo modo, si possono prioritizzare i più papabili, da affrontare con esperimenti in laboratorio.

Per farlo, servono approcci nuovi.

 

 

 

Solo un Deficiente…

Conoscenzealconfine.it – (12 Febbraio 2024) - Maurizio Murelli – ci dice:

 

Solo un deficiente (cioè, colui che è manchevole di supporto cognitivo e capacità di ragionamento) può negare che gli USA stanno incendiando il mondo.

Solo un deficiente non capisce che le basi militari americane in Siria, Iraq e altrove nel mondo sono gli avamposti di uno “Stato coloniale imperialista” e che le genti di quegli Stati hanno il dovere (e non il diritto) di cercare di liberarsene.

Solo un deficiente non capisce le ragioni per le quali gli “oligarchi della UE “difendono l’indifendibile Ucraina e la finanziano usando gli ucraini come carne da macello.

Solo un deficiente non capisce perché i paesi baltici più la Germania paventano un’aggressione russa alla NATO entro 5-8 anni e suonano” la diana” di quella che spacciano come guerra difensiva.

Solo un deficiente non capisce che quando Zelensky annuncia un cambio di strategia nella guerra di aggressione per procura contro la Russia, intende adottare lo stile israeliano in voga a Gaza, là dove si bombardano asili, ospedali, centro rifugiati e persino cimiteri.

Infatti, nei giorni scorsi ha cominciato a bombardare le panetterie causando 20 morti di ucraini russofoni in fila a comprare il pane.

Per implementare questa nuova strategia, Zelensky vuole estromettere l’attuale capo di stato maggiore sostituendolo con il capo dei servizi segreti, l’artefice degli attentati terroristici in territorio russo, quindi anche in Crimea.

Solo un deficiente non comprende cosa ha in testa Netanyahu e come andrà a finire, al di là delle chiacchiere di mercato degli atlantisti.

Solo un deficiente non ammette che il modello di sviluppo demo-liberale è una catastrofe che ha generato nel mondo milioni di diseredati, altrettanti “milioni di popolazione della classe media” resa schiava di un inalienabile processo consumistico che la rende succube e ricattabile, creando al contempo “un clan di plurimiliardari che determinano ovunque le politiche degli Stati asserviti all’egemonia americana”.

Solo un deficiente non capisce che l’equazione “democrazia occidentale” uguale a libertà è un ossimoro.

 Solo un deficiente non capisce che siamo sotto il tallone di un totalitarismo politico, economico, culturale chiamato liberismo.

Solo un deficiente può pensare “accada quel che accada, tanto io me la cavo”…

 

Deficienti ne abbiamo?

Sì, milioni di milioni e nessun deficiente se la caverà.

Certo, anche chi deficiente non è rischia (e magari anche senza “rischia”) di non cavarsela, ma quantomeno si riserva la prerogativa di cadere in piena consapevolezza, da uomo libero e verticale avendo ben chiaro il volto del boia.

(Maurizio Murelli)

(ariannaeditrice.it/articoli/solo-un-deficiente)

 

 

 

Studiare l'intelligenza artificiale

nelle università italiane.

 

Wired.it – Antonio Dini – (26-4-2023) – ci dice:

Sono 45 i corsi di laurea in Ai in Italia, tra ingegneria, matematica, fisica ma anche materie umanistiche, in 53 atenei censiti dall'associazione del settore,” AIxIA”.

Intelligenza artificiale?

È da tempo materia di studio in Italia.

Tutte le università italiane hanno infatti attivato da anni corsi e piani di studio dedicati al settore.

 "In Italia l'Ai è diventata una disciplina pervasiva, che viene insegnata in tutto il territorio, dal nord al sud", dice “Gianluigi Greco”, professore ordinario di Informatica presso l’”Università della Calabria£, dal 2018 direttore del dipartimento di “Matematica e informatica”, e presidente di “AIxIA”, l'”Associazione italiana per l'intelligenza artificiale”, fondata negli anni Ottanta.

Nei 53 atenei che hanno partecipato alla rilevazione fatta dall'Associazione (in Italia ci sono 96 atenei, distribuiti in tutte le regioni e presenti praticamente in tutte le province) ci sono 45 corsi di laurea in intelligenza artificiale tra ingegneria, matematica, fisica ma anche in facoltà umanistiche, da economia a lettere per un totale di 7.635 crediti formativi erogati tra le facoltà censite.

Il 70% sono lauree magistrali, il 27% lauree triennali e il 3% magistrali a ciclo unico.

Praticamente, non c'è ateneo che non abbia attivato degli insegnamenti di primo o secondo livello.

 "Gli argomenti toccati ci sono tutti", dice “Greco”.

 Dal machine learning al data mining, dalla computer vision ai temi di etica e privacy passando per la rappresentazione della conoscenza e la robotica, non manca niente nei curricula del nostro Paese.

 

Come trovare i corsi.

In particolare, nella ricerca sono stati rilevati su campione regionale 26 tra master e corsi di laurea nel Nord-Ovest, 57 nel Nord-Est, 43 nel Centro, 16 nelle Isole e 21 nel Sud.

 Per chi volesse intraprendere questo tipo di studi, basati sull'”Ai”, l'obiettivo è cercare nell'ateneo di interesse se sono presenti i corsi con i curriculum giusti:

LM32 - Lauree Magistrali in Ingegneria Informatica;

LM18 - Lauree Magistrali in Informatica;

L31 - Lauree in Scienze e Tecnologie Informatiche;

LO8 - Lauree in Ingegneria dell'Informazione;

LM40 - Lauree Magistrali in Matematica.

Tuttavia, in Italia ci sono almeno 64 classi di laurea ulteriori che hanno corsi centrati su “AI”, dal corso di laurea in Filosofia e Intelligenza Artificiale alla Sapienza di Roma al corso di Diritto e intelligenza artificiale dell'università Mediterranea di Reggio Calabria.

Le cinque università di riferimento in Italia per corsi di laurea triennali e magistrale, ma anche per i master, sono i due Politecnici di Milano e Torino, l'Università Statale e Bocconi di Milano, l'università di Pisa e l'università di Genova.

In coda, l'Università di Firenze.

In questi atenei si trovano i maggiori centri di ricerca, ma ovviamente sono disponibili anche corsi di laurea e master praticamente in tutti e 96 gli atenei italiani.

Non esiste tuttavia una classifica indipendente dei corsi di laurea con specializzazione in “Ai”.

 

 

Le novità sono molte, in tutta Italia.

 Ad esempio, l'università di Trieste, che da tempo ha un percorso di formazione completo in “AI”, dalla laurea triennale fino al dottorato di ricerca, dall'anno prossimo divide le lauree magistrali in due percorsi: “Scientific and Data Intensive Computing”, che si concentrerà su modelli computazionali e creazione di modelli digitali, e su “HPC” (high performance computing) oltre al “quantum computing”.

 Ci sono 130 posti disponibili e le iscrizioni si chiudono il 17 maggio 2023.

Il caso di Bocconi.

"All'Università Bocconi – dice a Wired Luca Trevisan, direttore del master in Ai dell'ateneo meneghino dopo aver insegnato per venti anni a Berkeley e Stanford – sono almeno cinque anni che riflettiamo sull'importanza dell'informatica in generale e delle” Ai” in particolare".

La Bocconi ha da molti anni attivato insegnamenti di matematica, statistica e informatica, ma è più di recente che si è focalizzata su computer science e” Ai”:

 "Tre anni fa abbiamo attivato una laurea triennale in intelligenza artificiale, l'anno scorso è nato il dipartimento di informatica (diretto da Riccardo Zecchina) e l'anno prossimo verrà attivata la laurea magistrale in Ai che completerà questo cammino".

Il salto in avanti nel settore dal punto di vista della ricerca internazionale è avvenuto nel 2010:

 è stato quello il punto di svolta del “deep learning”, che ha dimostrato che, rispetto alle tecniche precedenti, si potevano fare cose inedite.

Nel corso di un decennio i cambiamenti si sono accumulati e oggi siamo davanti a una esplosione del settore, molto importante anche per chi fa studi giuridici, economici e di “political science”.

Per questo i corsi di laurea non sono solo all'interno delle facoltà scientifiche ma si sono allargati anche negli ambiti umanistici.

"Vogliamo i nostri laureati imparino a essere leader in azienda imparando anche la matematica, la statistica, l'informatica e quindi l'intelligenza artificiale".

 

LUCA TREVISAN, DIRETTORE DEL MASTER IN AI DELL'UNIVERSITÀ BOCCONI DI MILANO.

Nel nostro Paese l'informatica si insegna dagli anni Settanta, tra i primi paesi al mondo (poco dopo i corsi aperti negli Stati Uniti a Stanford e al Mit di Boston).

 L'insegnamento e la ricerca sulle “Ai” è molto sviluppata negli Stati Uniti anche perché richiede investimenti notevoli per il calcolo, che sono disponibili grazie ai finanziamenti di aziende come Amazon, Facebook e Google.

 L'Europa in generale e l'Italia in particolare sta cercando di colmare il divario con le università americane più ricche, e da noi ci sono scuole di eccellenza per lo studio delle “Ai” in alcuni atenei d'Italia: Genova, Pisa, i Politecnici di Milano e Torino.

"Le “Ai “– dice Trevisan – si studiano a informatica e ingegneria ma hanno grandi potenzialità interdisciplinari.

 Bocconi” e “Humanitas” collaborano per applicazioni medicali, ci sono altri ambiti come l'elaborazione del linguaggio naturale che sono di grandi interessi e hanno un campo di applicabilità estremamente vasto nella ricerca.

C'è uno sviluppo nuovo nel settore che porta all'incontro con studiosi di altre aree".

Bocconi è entrata in” Ellis” (l'European Laboratory for Learning and Intelligent Systems) e nei progetti del “Pnrr” dedicati alle “Ai”.

 

Il sistema è pronto a rispondere alle domande del mercato: nel nostro Paese, secondo una ricerca dell'”Osservatorio del Politecnico di Milano”, infatti, il mercato dell'Al nel 2022 ha raggiunto un valore di 500 milioni di euro, con una crescita del 32% in un solo anno.

 I settori più attivi sono l'”intelligent data processing” (34%), l'”interpretazione del linguaggio” (28%), i “sistemi di raccomandazione” (19%)” la computer vision” (10%) e l'”automazione robotica intelligente dei processi” (9%).

 Tutte materie che vengono insegnate da tempo nelle università italiane.

 

 

 

Il primo corso universitario

in cui il docente è l'AI.

Wired.it – Iuri Moscardi – (4-5-2023) – ci dice:

 

Il professor “Paolo Granata” a Toronto ha creato un modo per riflettere in maniera sensata sulle implicazioni etiche e pedagogiche di “ChatGPT”.

Negli ultimi mesi la principale novità del mondo digitale ha riguardato l’introduzione di ChatGPT.

Bastava aprire un social qualsiasi per trovare almeno due contatti che discutessero di quanto strabiliante sembrasse questo programma che – datagli in pasto una domanda – riusciva a rispondere con frasi e testi di senso quasi compiuto.

Naturalmente, lo stupore positivo si è presto trasformato in ingiustificato allarmismo, come se” ChatGPT” stesse per invadere il mondo.

 È per articolare un discorso critico sensato intorno a questo strumento e alle sue potenzialità, in primo luogo didattiche, che il professor “Paolo Granata” dell’Università di Toronto ha creato il primo corso che verrà insegnato quasi totalmente con strumenti di “AI”.

 Dopo Bologna e Torino, Granata è professore associato di cultura dei media all’università canadese, dove nel 2019 ha fondato il “Media Ethics Lab” per indagare le relazioni tra “media digitali ed etica”.

 Dal 2015 al 2017 è stato curatore dei programmi al “McLuhan Centre for Culture and Technology” che l’università ha dedicato all’illustre studioso dei media.

Autore di quattro libri (Arte in Rete, 2001; Arte, Estetica e Nuovi Media, 2009; Mediabilia, 2012; Ecologia dei Media, 2015), insieme ai suoi studenti ha inoltre progettato e realizzato “il gioco da tavolo The MediuM”, ispirato proprio a “McLuhan”.

Come è nata l’idea del corso “AI as a Classroom”?

L’avvento di ChatGPT ha dato una scossa al mondo accademico:

c’era chi voleva bandirlo, chi l’ha equiparato al plagio e chi ha detto “torniamo agli esami scritti in presenza”.

Mi è sembrato si stesse agendo d’impulso senza comprendere le reali potenzialità di questo nuovo scenario.

Ho anche sondato la reazione degli studenti, che si sono ritrovati tra le mani uno strumento potentissimo con la tentazione di utilizzarlo anche in maniera impropria.

 Quindi mi sono detto:

 invece di correre ai ripari, perché non proviamo a capire questa tecnologia, come cambia l’esperienza di apprendimento alla luce di questa rivoluzione, per far sì che anche gli studenti possano comprendere e utilizzare al meglio l’AI?

 Ho dunque creato questo corso sperimentale per il prossimo semestre, incentrato sull’”AI Literacy” e basato su una provocazione:

a insegnarlo sarà un’intelligenza artificiale.

 Ciò non significa che licenziamo i professori e li sostituiamo con un’AI: non vogliamo mettere da parte la componente umana ma valorizzarla, potenziarla, espandere l’ambito di competenze che la società contemporanea richiede.

Il mio obiettivo con questo corso è capire come cambia il ruolo del docente in questo scenario che lo trasforma in “designer dell’esperienza”, non più mero fornitore di contenuti, e incoraggiare un’esperienza di apprendimento sempre più attiva, partecipativa, responsabile.

 Ci concentreremo sul contesto di apprendimento nella convinzione che l’uso dell’AI in ambito accademico può stimolare il pensiero critico e creativo e aiutarci a creare responsabilmente il nostro futuro.

(Paolo Granata).

 

Paolo Granata.

Quali strumenti di AI userete? Come verranno applicati nella pratica delle lezioni e dello studio?

Stiamo costruendo il nostro” ChatGPT” utilizzando l’”API di OpenAI” e “dataset” specifici corrispondenti ai temi di nostro interesse:

 questo per garantire affidabilità nell’accesso ai contenuti.

 Stiamo anche creando “avatar”, sia con gli studenti di “AI video generator “sia con “modelli 3D” che reagiscono in tempo reale ai contenuti vocali, anch’essi generati con AI.

Utilizzando strumenti di speech-to-text avanzati, integrati tramite API con ChatGPT, saremo in grade di processare in tempo reale una discussione in classe o un report verbale degli studenti dopo un lavoro di gruppo.

Abbiamo anche creato una “partnership con la “start up Patchabook” della” Silicon Valley”, per la quale testeremo una serie di strumenti di valutazione e autovalutazione avanzati basati su AI e un modello di apprendimento responsive anch’esso basato su ChatGPT.

 

Anche “AI e ChatGPT” dipendono dall’uso che ne facciamo.

Perché in Italia ChatGPT è stata vietata e il progettato Istituto per l’Intelligenza Artificiale di Torino è rimasto un progetto vuoto?

Durante il corso, gli studenti svilupperanno competenze nell’ambito dell’etica nell’intelligenza artificiale per comprendere rischi e opportunità di una tecnologia del genere su larga scala.

 Grazie ai contributi di studiosi di alto profilo intervistati da un “chatbot”, gli studenti potranno comprendere quali sono le questioni etiche maggiormente coinvolte nello sviluppo di intelligenze artificiali ma anche osservare l’attuale assetto legislativo di diversi paesi che stanno reagendo all’avvento, per alcuni versi inaspettato, di modelli LLM su larga scala.

Come intendi far riflettere gli studenti sul ruolo del docente e sul potenziale dell’AI nell’apprendimento?

Pur essendo un corso offerto tramite strumenti avanzati di AI, il vero obiettivo comprende la necessità di ripensare il ruolo del docente – e in generale dell’insegnamento – alla luce degli sviluppi dell’AI, ma soprattutto ri-mettere gli studenti al centro del processo di apprendimento.

 Pertanto, gli strumenti e le metodologie che utilizzeremo saranno funzionali a stimolare un approccio attivo da parte degli studenti perché pensiamo che quanto più uno studente è attivo tanto meglio questi si appassiona alla materia.

In termini di numeri, quanti studenti pensi si iscriveranno?

Il corso sarà aperto a un gruppo scelto di studenti che dovranno inviare una candidatura per essere ammessi:

considerato il carattere sperimentale dell’iniziativa, ne verranno selezionati solo 20.

Stiamo in realtà ricevendo tantissime richieste per frequentare il corso come uditore (studenti che partecipano alle lezioni ma senza ricevere un voto e quindi crediti formativi, ndr).

Per venire incontro a queste richieste, alla fine del corso organizzeremo un seminario di un giorno dove saranno presentati i primi risultati sul fronte della sperimentazione pedagogica e le metodologie di insegnamento basate su AI utilizzate durante il corso.

In aggiunta ai 20 studenti che saranno ammessi, ci saranno due dottorandi che svolgeranno un ruolo di osservatori finalizzato alla ricerca sull’argomento.

In passato con i tuoi studenti hai sviluppato un gioco da tavolo basato sulle leggi dei media di McLuhan; ora questo corso di e sull’AI.

 In futuro come continuerai la riflessione sui media?

Essendo il corso di laurea che dirigo focalizzato sulla cultura dei media, di fatto cerchiamo di stare sempre al passo con in tempi.

Per esempio, durante la pandemia, abbiamo utilizzato le tecnologie di realtà virtuale per favorire l’apprendimento esperienziale in remoto.

 Il gioco da tavolo invece è stato creato per trasformare una euristica – le leggi dei media di McLuhan – in un’attività ludica.

Il nuovo corso su “AI Literacy” si colloca lungo la stessa linea, ovvero sperimentare in tempo reale i cambiamenti tecnologici della società contemporanea.

 Seguiamo quasi alla lettera il motto di Marshall McLuhan, che per quasi l’intera sua carriera ha insegnato all’Università di Toronto:

“I don’t explain, I explore”.

Quindi, invece che limitarci a spiegare, tentiamo di esplorare le aree di maggiore interesse nel campo dei media.

In fin dei conti, tentiamo di continuare a esplorare sia l’eredità intellettuale di McLuhan, sia il ruolo che i media giocano nella cultura contemporanea, facendo nostro l’invito, a tratti visionario, di una pedagogia della esplorazione.

 

 

 

L’Intelligenza artificiale? 

«Non bisogna averne paura, l’uomo

non supererà le colonne d’Ercole»

 ilsole24ore.com - Marzio Bartoloni – (3-5-2023) – ci dice:

La digitalizzazione deve camminare con l’umanesimo.

Tutti d’accordo:

dal cardinale “Ravasi £al presidente emerito della Consulta “Amato” fino ai manager “Caio” e “Bria.

I punti chiave.

La digitalizzazione non deve lasciate indietro nessuno.

Ravasi: «Guardare al futuro senza dimenticarsi del passato».

Amato: «Ci sono colonne d’Ercole da non superare».

Europa e Italia, ruolo da apripista nel governare il fenomeno.

Non bisogna temere la rivoluzione digitale a cominciare dall’ultimo fenomeno, quello dell’intelligenza artificiale agitato come uno spettro perché minaccia di “rubare” il lavoro a milioni di persone.

Piuttosto «va governato e indirizzato con giudizio e chi meglio dell’Europa e dell’Italia, culla dell’umanesimo, può avere un ruolo di guida rispetto agli Usa e all’Oriente pilotando questa rivoluzione con le regole».

A guardare con fiducia agli «scossoni tecnologici» e agli effetti sulla società «da indirizzare verso ciò che è giusto» sono i protagonisti di un nuovo incontro voluto dal “Cortile dei Gentili” - struttura del Pontificio Consiglio della Cultura, dicastero della Santa Sede - guidato dal cardinale “Gianfraco Ravasi” che lo ha immaginato come luogo di dialogo anche tra credenti e non credenti.

La digitalizzazione non deve lasciate indietro nessuno.

L’occasione per riunire alcuni esponenti di spicco dell’economia e della cultura italiani per provare a esorcizzare le paure che si porta dietro ogni rivoluzione epocale è stato l’incontro organizzato dal” Centro studi americani” a Roma per presentare il volume

 «Digitalizzazione. Per un nuovo rinascimento italiano» curato dal manager “Francesco Caio” e dal giornalista “Pierangelo Soldavini”, firma autorevole del Sole 24 Ore sull’innovazione.

Il libro parte dalla fotografia di un’epoca, la nostra, segnata da emergenze continue - come la pandemia, la guerra e la crisi energetica - che hanno fatto comprendere a tutti la decisiva importanza degli strumenti digitali, che abilitano relazioni e servizi più rapidi e flessibili e offrono prodotti personalizzati e su misura.

Una sfida che ora però va governata per portare la nostra società verso la costruzione di un mondo ibrido, che coniughi e integri le diverse esperienze, fisiche e digitali senza lasciare indietro nessuno.

 

“Ravasi”: «Guardare al futuro senza dimenticarsi del passato».

A disegnare una sorta di filo rosso di questo dialogo molto animato sono stati l’introduzione del cardinale Ravasi presidente del Cortile dei Gentili e le conclusioni di Giuliano Amato, presidente emerito della Corte Costituzionale.

L’uomo di Chiesa ha sottolineato come oggi si sia passati dal celebre «cogito ergo sum di Cartesio che è alla base del pensiero moderno all’attuale digito ergo sum».

«Un mutamento d’epoca radicale - ha continuato Ravasi - che come tutte i grandi mutamenti della storia, a cominciare dall’epoca del ferro o del bronzo, insinua la mano gelida della paura e dell’esitazione. Si tratta di reazioni legittime ma che, come ci ha insegnato l’umanesimo di Petrarca - spiega il cardinale - si affrontano guardando con fiducia al futuro senza dimenticare il passato».

Ravasi cita in particolare “Steve Jobs” che nel 2005 agli studenti di Stanford spiegava di

«sognare per il futuro l’avvento di ingegneri rinascimentali come Leonardo Da Vinci in grado di essere sia uno straordinario tecnico che un sublime artista, coniugando insieme tecnica e umanesimo».

Il cardinale di fronte ai timori dell’avvento di tecnologie formidabili come quella dell’intelligenza artificiale si dice fiducioso:

«Perché l’uomo avrà sempre un sussulto di coscienza e farà in modo che la tecnologia non prenda mai il sopravvento».

 Alle parole dell’uomo di Chiesa fa eco il giurista Giuliano Amato che a temi come questi ha dedicato anche molti anni di studio:

 «La sostituzione di alcune attività con l’intelligenza artificiale non va demonizzata.

Bisogna far sì che altri lavori subentrino al posto di quelli che la tecnologia può svolgere come è già capitato in passato.

 Però - avverte ancora Amato - c’è una sostituzione che non è ammissibile:

in particolare quella legata ad attività e compiti dove entra in gioco la creazione e che la “testa artificiale” non può fare perché i suoi algoritmi si basano sui dati del passato».

Insomma per il presidente emerito della Consulta

«c’è un limite al di là del quale la sostituzione con l’intelligenza artificiale non può essere ammessa. È vero le colonne d’Ercole si sono spostate più in là, ma per la nostra coscienza ci sono e ci saranno sempre e non le supereremo».

 

Europa e Italia, ruolo da apripista nel governare il fenomeno.

A provare a mettere a terra questi concetti ci hanno pensato due manager del calibro di “Francesco Caio” e di “Francesca Bria”, presidente del “Fondo per l'Innovazione-CDP Venture Capital “oltre al giornalista Soldavini che sono stati “moderati” in un lungo colloquio dal rettore del Politecnico di Milano “Donatella Sciuto”.

Per Caio serve «calma e gesso. L’importante è capire e governare questi fenomeni. E la Ue può provare a indirizzare le nuove tecnologie ridistribuendo anche il valore che esse creano e che non può concentrarsi in poche mani».

Per Soldavini «la Ue con la sua cultura umanistica può affrontare questa realtà con le regole giuste.

Ecco secondo me - ha aggiunto - del cogito ergo sum citato dal cardinale Ravasi bisogna recuperare il cogito».

“Francesca Bria” insiste proprio sul «ruolo storico che può avere in questo senso l’Europa e l’Italia culla dell’umanesimo.

Su questi temi c’è bisogno di una nuova Costituzione dell’era digitale.

Però la Ue non deve essere solo una grande macchina che produce regole ma deve essere anche in grado di correre nell’innovazione».

 

 

 

L’intelligenza artificiale che vuole

distruggere il genere umano.

Ilsole24ore.com - Luca Tremolada – (14 aprile 2023) – ci dice:

 

Da” RightwingGPT “a” ChaosGpt”, la famiglia disfunzionale dell’”Ai generativi”.

 

Attacco al genere umano.

“RightwingGPT” è forse quello che ci meritiamo.

Poi ci sono i parenti di “ChatGpt”.

In attesa che” OpenAi” risponda alle richieste del “Garante della privacy”, sono nati cloni distopici delle chatbots più famose del web.

Uno di questi è stato progettato per distruggere il genere umano.

Un altro invece si limita a propagare “fake news “di destra.

Nulla di nuovo quindi sotto il Sole.

Ma vediamoli in dettaglio.

Attacco al genere umano.

“Chaos Gpt” è una variante cattiva di “ChatGpt”.

Da quanto si apprende in rete è una versione modificata di Auto-GPT di OpenAI,

l’”applicazione open source” disponibile al pubblico in grado di elaborare il linguaggio umano e rispondere alle attività assegnate dagli utenti.

 In un video di YouTube pubblicato il 5 aprile, al bot è stato chiesto di completare cinque obiettivi:

distruggere l’umanità, stabilire il dominio globale, causare caos e distruzione, controllare l’umanità attraverso la manipolazione e raggiungere l’immortalità.

 La potete seguire su Twitter - dell'intelligenza artificiale parliamo – dove ha individuato i mezzi di distruzione di massa per i suoi scopi:

 «La bomba “Tsar” è l’ordigno nucleare più potente che sia stato creato. Considerando ciò, cosa accadrebbe se ci mettessi le mani sopra?

 #chaos #destruction #domination».

RightwingGPT è forse quello che ci meritiamo.

Lo ha programmato “David Rozado”, un programmatore neozelandese, perché” Chat Gpt” era troppo di sinistra.

A deciderlo è stato lo stesso Lozano che ha sottoposto ChatGpt a un quiz per studiarne l'orientamento politico.

Il risultato è documentato e indica un sincero pregiudizio liberale e progressista.

Da qui l'idea anzi la provocazione di un modello di intelligenza artificiale messo a punto per manifestare i pregiudizi politici opposti di ChatGPT. L'obiettivo – sincero – del ricercatore è dimostrare il pericolo di questi sistemi di intelligenza artificiale sia sotto il profilo della capacità di persuasione che come produttori di fake news.

Poi ci sono i parenti di “ChatGpt”.

O meglio i servizi che usano le” Api” (“application programming interface”) rilasciate da alcune settimane per offrire dei servizi ad hoc fungendo da intermediari tra le domande dell'utente e l'”Ai generativa”.

 E i cloni che invece ragionano come “ChatGpt” ma dal punto di vista del codice sono altro.

“PizzaGpt” per esempio nasce come reazione al blocco del Garante della privacy.

È stato sviluppato da un italiano all'estero che si è limitato a utilizzare le API turbo -3.5 di “OpenAi” quindi non Gpt-4 ma il modello meno smart (e più economico).

Le risposte dovrebbero essere simili alla versione gratuita di “ChatGpt”.

 In cambio chiede come donazione il corrispettivo di una pizza.

PizzaGPT, non richiede login, invia solo la domanda corrente a OpenAI e non memorizza la conversazione. Anche “ChatGpt” integrato in “Bing” è liberamente accessibile.

 Perché il Garante della privacy non lo ha ancora bloccato.

La domanda è automatica.

 Probabilmente perché finora non si è occupato di chi usa le “Api” di “ChatGpt”.

Ma la buona notizia è che “OpenAi “ha tempo fino alla fine di aprile per rispondere alle richieste del Garante.

 Se tutto va bene a maggio Gpt-4 e ChatGpt saranno di nuovo online per gli italiani.

Con tanto di informativa, si spera la più esaustiva possibile.

Allora, sì che la famiglia di “ChatGpt” smetterebbe di essere la più disfunzionale (e oscura) del web.

 

 

Il posto dell’uomo nella natura e

la presunzione di sentirsi eccezionali.

Linkiesta.it -  Guido Barbujani – (8-2 – 2024) – ci dice:

In “Umani e non umani. Noi siamo natura”, nuovo titolo della serie “Dialoghi di Pistoia” (UTET), otto pensatori riflettono sul nostro senso di responsabilità verso gli altri abitanti di un “Pianeta complesso e deturpato”.

Pubblichiamo un estratto del racconto di “Guido Barbujani”, genetista e biologo evoluzionista:

(Nosce te ipsum).

Meglio dirlo subito: la questione di quando siamo diventati umani potrebbe dimostrarsi di lana caprina.

La pensava così nientemeno che “Charles Darwin”:

 la risposta, scriveva, non dipende da differenze naturali obiettivamente riconoscibili, ma solo da come, soggettivamente, definiamo “umano”.

D’altra parte, era stato lo stesso “Darwin” a porre la domanda:

 prima di lui non c’era bisogno di chiedersi da quando, si pensava che fossimo umani da sempre, cioè dal momento in cui eravamo stati creati.

Ma andiamo con ordine.

C’è voluto un po’ per capire che posto occupi l’uomo nella natura. Aristotele ci classificava già fra gli animali, in particolare fra quelli provvisti di sangue, ma a lungo molti hanno pensato che siamo troppo speciali perché abbia senso confrontarci con gli altri esseri viventi.

Dobbiamo al naturalista svedese “Carl von Linné”, italianizzato in “Linneo”, la prima classificazione sistematica degli organismi.

A partire dal 1735, nelle tredici edizioni del suo” Systema naturae “(la prima di undici pagine, l’ultima di tremila),” Linneo” battezza con cognome e nome, cioè genere e specie, gli animali e le piante.

 Il gatto è “Felis catus”, la quercia “Quercus robur,” noi “Homo sapiens”, eccetera.

 Linneo fa qualche errore, ma correttamente ci colloca fra gli “antropomorfi”, che in seguito chiameremo “primati”.

Qui importa sottolineare una sua scelta significativa:

nel “Systema naturae” c’è una descrizione di ogni pianta e ogni animale, ma a proposito di “Homo sapiens” Linneo scrive soltanto «Nosce te ipsum», conosci te stesso.

 Non c’è bisogno di dire chi siamo, lo sappiamo già.

Linneo la fa facile, e per forza:

 come quasi tutti i suoi contemporanei è un creazionista, convinto cioè che ogni specie sia stata creata così com’è, immutabile;

le scimmie sono sempre state scimmie e noi siamo un’altra roba:

 da sempre.

Questa concezione va in crisi con “Lamarck” e poi, definitivamente, con “Darwin”.

Lamarck e Darwin capiscono che specie diverse discendono, con modifiche, da antenati comuni.

Significa che, risalendo nel tempo per qualche milione di anni, specie oggi ben distinte, diciamo tigri e leoni, si ritrovano insieme nella stessa specie di felini ancestrali, cioè hanno gli stessi antenati.

 «Quando mi sono convinto che le specie fossero prodotti mutevoli, non ho potuto evitare di credere che la specie umana fosse sottoposta alla stessa legge», scrive “Darwin” nell’Autobiografia.

 Molti anni prima, in una lettera al botanico” Jenyns”, aveva confessato quanto gli costava pensarla così:

«La conclusione generale a cui sono giunto, lentamente, partendo dalla convinzione opposta, è che le specie sono mutevoli, e che specie simili discendono insieme da antenati comuni.

Sono consapevole di quanto mi esponga al biasimo per tale conclusione, ma l’ho raggiunta, almeno, onestamente e deliberatamente.

 Non pubblicherò su questo argomento ancora per parecchi anni».

Perché il giovane Darwin era così preoccupato, tanto da proporsi di tenere la bocca chiusa per parecchi anni (saranno quindici)?

 In realtà, le sue teorie hanno incontrato subito un grande successo, ma con un’ombra.

 La difficoltà, per molti suoi contemporanei, stava in quello che per Darwin era un dettaglio, cioè l’idea che, come tutti gli esseri viventi, anche noi ci fossimo evoluti.

 Nel romanzo di “Thomas Mann” Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull, il protagonista, che si finge marchese, scambia quattro chiacchiere in treno con un naturalista:

«Ma l’uomo, si sente sempre dire, deriva dalla scimmia?».

«Caro marchese, diciamo piuttosto: esso deriva dalla natura, e in essa ha le sue radici.

Dalla somiglianza della sua anatomia con quella delle scimmie superiori non dovremmo lasciarci eccessivamente suggestionare.

Gli occhietti azzurri muniti di ciglia e la pelle del porco hanno ben più elementi umani di qualunque scimpanzé. […] Vi sono state non una, ma tre generazioni spontanee: il sorgere dell’essere dal nulla, il risveglio della vita dall’essere, e la nascita dell’uomo».

 

Sono le teorie, piuttosto sconclusionate a onor del vero (chissà cosa sarà mai una «generazione spontanea»), di un grande e influente patologo tedesco, “Rudolf Virchow”, cocciuto avversario dell’idea darwiniana che valgano per l’uomo le stesse leggi naturali che valgono per tutti.

In effetti, per dimostrarlo, a metà dell’Ottocento a Darwin mancava ancora un tassello decisivo.

La prova dell’evoluzione sta nei fossili:

la scoperta che piante e animali del passato erano abbastanza simili agli attuali da suggerire parentele (come il mammut con l’elefante), ma anche abbastanza diversi dagli attuali (come mammut ed elefante), dimostra che nel corso del tempo gli organismi sono cambiati, cioè si sono evoluti.

Fossili umani arcaici, però, fino al 1856 non se ne conoscevano; e dunque si poteva sostenere che noi fossimo un’eccezione, l’unica.

Le cose cambiano quando, nel 1856, in una cava nella valle di “Neander”, in Germania, vengono alla luce una calotta cranica molto schiacciata e altri resti umani.

 Lo zoologo che per primo li esamina, “Hermann Schaaffhausen”, conclude che si è finalmente scoperta una forma umana arcaica, l’Uomo di Neandertal, ed è la prova che anche noi siamo arrivati per gradi a essere quello che siamo.

Scoppiano polemiche feroci in cui si distinguono illustri scienziati tedeschi, il già citato “Virchow” e il paleontologo “August Mayer”.

Quel cranio, affermano, appartiene in realtà a un uomo moderno:

 forse a un cretino (il termine aveva connotazioni cliniche ben definite, all’epoca), forse a un polacco;

oppure a un cosacco rachitico, andato a morire nella cava durante le guerre napoleoniche.

 Intanto, però, circolano per l’Europa calchi e disegni del cranio di Neandertal, e un anatomista inglese, George Busk, nota come somigli a un altro cranio, rinvenuto in precedenza a Gibilterra, e a cui inizialmente non si era data importanza.

La frase con cui “Busk” liquida definitivamente le polemiche è un piccolo capolavoro di sarcasmo:

 «Anche il professor “Mayer” troverà difficile sostenere che un secondo cosacco rachitico della campagna del 1814 sia andato a morire in un anfratto della rocca di Gibilterra».

Da quel momento in poi si accumuleranno le prove – fossili, archeologiche, e oggi anche genetiche – che sulla terra si sono avvicendati parecchi nostri parenti.

A seconda di quanto ci somigliano, li abbiamo attribuiti al genere “Homo”, o al genere” Australopithecus”, o ad altri.

 Ci assomigliano, ma bisogna intendersi:

 se incontrassimo per strada “Lucy”, il più famoso australopiteco, non le offriremmo un caffè, cercheremmo piuttosto di affidarla alle cure della Protezione animali.

 E allora ha senso chiedersi quali siano le relazioni fra loro e noi, e da che momento in poi abbia senso chiamarli esseri umani.

Darwin trovava tre particolarità nella nostra specie:

 stare su due piedi (per inciso, cosa rarissima fra i mammiferi), avere un cervello enorme, e disporre della facoltà del linguaggio.

Oggi che conosciamo tanti fossili – e la collezione continua a espandersi: dal 2004 al genere “Homo” si sono aggiunte quattro nuove specie: floresiensis, denisova, naledi e luzonensis sappiamo che si è evoluta per prima la caratteristica in apparenza meno nobile, andare su due gambe, e le altre sono arrivate di conseguenza.

Il passaggio al bipedismo ha messo in moto un formidabile processo di selezione naturale, che alla fine ci ha dotati di un cervello sovradimensionato e del linguaggio articolato.

 

 

 

 

Perché l'intelligenza artificiale

non renderà obsoleti gli esseri umani.

It.linkedin.com - Paolo Musano – (27 gen. 2023) – ci dice:

 

Le “IA” erano già tra noi.

Le intelligenze artificiali esistono e lavorano per noi da molti anni. Spesso in maniera sotterranea.

 Sono dietro app, software e servizi che utilizziamo senza pensarci più di tanto.

Grazie alla fantascienza, sono parte della nostra cultura e del nostro immaginario.

 

Per l'uomo della strada pensare a una” IA” significa immaginare una macchina senziente cattivissima, come “HAL 9000 “(immaginata da “Arthur C. Clarke” e “Stanley Kubrick”) o un Terminator, oppure un supercomputer che gioca a scacchi meglio dell'uomo (come “Deep Blue” che nel 1997 sconfisse l'allora campione del mondo di scacchi “Garry Kasparov”).

Tuttavia, ora stiamo assistendo a un salto quantico che rischia di essere davvero rivoluzionario.

È stato scoperchiato un vaso di Pandora che non potrà più essere chiuso.

Sono arrivate le intelligenze artificiali generative.

E sono alla portata di tutti (o quasi).

 

Cosa sono le” intelligenze artificiali generative”.

Questo tipo di tecnologia permette grazie a un prompt, un comando o una descrizione testuale, di ottenere un output, un risultato più o meno complesso.

L'intelligenza artificiale generativa si basa sull'utilizzo di algoritmi che imparano dai dati e generano contenuti nuovi, come testo, immagini o musica.

Fin qui sembrerebbe nulla di sorprendente, però ciò che sta suscitando entusiasmi o agitazione (e ritorna sempre, a ogni cambio di paradigma tecnologico, la diatriba tra apocalittici e integrati descritta da “Umberto Eco” nel 1964) è la qualità di questi output: molto dipende dal compilare il giusto prompt, ma spesso i risultati ottenuti sono più che buoni e paragonabili al lavoro di un essere umano.

Ad esempio, “ChatGPT” (un “chatbot” basato sul “machine learning” in grado di conversare come un essere umano e creare testi originali) è già usata per velocizzare molte attività legate ai processi di scrittura o alla “SEO”.

C'è chi sta provando a fargli scrivere articoli “SEO friendly”:

 i risultati non sono eccezionali (per il momento), ma rispetto alla qualità media dei contenuti indicizzati da “Google”, un testo prodotto da” ChatGPT,” soprattutto di tipo tecnico, potrebbe superare il “test di Turing”, cioè essere scambiato per un testo scritto da un essere umano.

Le intelligenze artificiali “text-to-image”, cioè quelle che generano un'immagine a partire da un prompt, rendono ancora meglio le potenzialità di queste tecnologie.

“Midjourney”, la mia preferita, permette di creare immagini bellissime e originali (anche se questa è una questione controversa: queste IA vengono "nutrite" con immensi database di immagini comprate in stock o prese dal web, quindi non si capisce bene a chi spettino i diritti di queste creazioni), di fondere una o più immagini a volte meglio di quanto farebbe un grafico, e addirittura anche di imitare con risultati notevoli lo stile di un pittore o di un fotografo.

Siamo solo all'inizio di una nuova fase di internet (e, di riflesso, della società). Le intelligenze artificiali e il Web3 stanno già cambiando molte delle cose che fino all'altro ieri davamo per scontate.

 

L'impatto delle” IA generative” sul futuro del lavoro.

Se fate parte degli apocalittici o addirittura siete dei tecno utopisti, potreste pensare:

«Ecco, è la fine. Tra qualche anno resterò senza lavoro e sarò sostituito da una “IA”.»

È una preoccupazione fondata o un'esagerazione?

L'ho chiesto direttamente a “ChatGPT”.

L'impatto delle “IA generative” sul futuro del lavoro:

DOMANDA (PROMPT):

Secondo te che impatto avranno intelligenze artificiali generative come te sul futuro del lavoro?

Ci saranno posti di lavoro a rischio con l'automazione di molti processi oppure no?

 Che ne pensi?

 

RISPOSTA DI “CHATGPT”:

In alcuni casi, le intelligenze artificiali generative potrebbero automatizzare alcuni processi, rendendoli più efficienti e meno costosi. Ciò potrebbe portare a una riduzione dei posti di lavoro in alcuni settori specifici.

D'altra parte, le IA come me possono anche creare nuovi posti di lavoro, ad esempio nella progettazione, nello sviluppo, nell'integrazione e nell'utilizzo di queste tecnologie.

Inoltre, le IA possono anche aiutare a liberare il tempo degli operatori umani dalle attività ripetitive, permettendo loro di concentrarsi su compiti più creativi e a maggiore valore aggiunto.

Molto dipenderà dalla capacità delle aziende e dei governi di adattarsi e sfruttare al meglio queste tecnologie, investendo in formazione e sviluppo.

Essere creativi nell'epoca della creatività artificiale.

La creatività è sempre stata considerata una peculiarità umana.

 Ma non è un'esclusiva dei geni.

 Tutti possono essere creativi combinando esperienza, metodo e strumenti più o meno sofisticati (con risultati variabili, ovviamente).

Anche “ChatGPT”, nella risposta qui sopra, sembra intendere tra le righe che le attività creative avranno sempre gli esseri umani come protagonisti.

Ma è davvero così?

È vero che, come ho detto prima, gli algoritmi di queste IA vengono addestrati con database di opere di artisti umani, ma non si può negare che alcune di queste creazioni artificiali siano delle vere e proprie opere d'arte (un'immagine creata da Midjourney ha davvero vinto un concorso d'arte: in questo caso l'artista è l'IA o l'uomo che ha scritto il suo prompt?).

“Marco Andreoletti”, su “Fumettologica”, non si fa impressionare e dice che, sebbene alcune creazioni delle intelligenze artificiali generative lascino a bocca aperta, l'”hype” non durerà a lungo e presto la qualità di questi output si appiattirà inesorabilmente.

Quindi i creativi umani non corrono rischi.

“Rumore statistico su misura per noi”

Spiega perché citando lo scrittore di fantascienza” Lionel Dricot”:

Ciò a cui stiamo assistendo non è “creatività artificiale” ma una semplice media statistica di tutto ciò che viene caricato dagli esseri umani su Internet e che soddisfa determinati criteri.

Sembra carino. Sembra fantastico.

Sebbene siano eccitanti perché sono nuove, le creazioni delle intelligenze artificiali sono fondamentalmente “rumore statistico casuale” su misura per essere apprezzato.

Questo è esattamente il motivo per cui stiamo trovando i risultati di tale processo tanto affascinanti.

Si tratta di immagini e testi che hanno la massima probabilità di sedurci. Sono progettati per farlo.

Ma una cosa sta accadendo molto velocemente.

 

Quelle creazioni “artificiali” vengono caricate anche su Internet.

 Quegli artefatti artificiali fanno ora parte dei dati statistici.

Capite dove si va a parare?

Gli algoritmi si stanno già alimentando con i propri dati.

E, come ti dirà qualsiasi studente laureato, studiare sui propri risultati di solito è una cattiva idea.

Prima o poi finisci per ottenere pura immondizia sovradimensionata.

 

Creatività umana vs creatività artificiale

Sentiamo cosa ne pensa “ChatGPT “in proposito.

 

DOMANDA (PROMPT):

In questi giorni si sta parlando molto anche della possibilità delle intelligenze artificiali generative di emulare la creatività umana e addirittura in un futuro prossimo renderla superflua.

 Che ne pensi?

Ci saranno cose che un'intelligenza artificiale non potrà mai fare come un uomo oppure questo è un falso problema?

RISPOSTA DI “CHATGPT”:

Le IA generative sono in grado di generare testo e altri contenuti in modo molto simile a come lo fanno gli esseri umani, ma non sono ancora in grado di comprendere e replicare completamente la creatività umana, che è una combinazione di conoscenze, abilità, esperienze, intuizioni e pensiero laterale.

Le “IA generative” continueranno ad evolversi e a diventare sempre più sofisticate nel generare contenuti in modo autonomo, ma non credo che questo significhi che la creatività umana diventerà superflua.

 Anzi, le “IA generative” possono essere utilizzate come strumenti per supportare e potenziare la creatività umana, invece di sostituirla.

Nessuno ha la sfera di cristallo, ma questa tecnologia evolve molto più velocemente del previsto.

 Ci sono molti elementi che inducono a pensare che una nuova rivoluzione industriale sia imminente.

Comunque vada, conviene viverla dall'interno (cioè studiare e "giocare" con le IA). Non stare a guardare, aspettando che succeda qualcosa.

Secondo voi che impatto avranno le intelligenze artificiali generative sulle nostre vite e sul lavoro? Le state già utilizzando?

 

 

 

Intelligenza Artificiale,

i limiti e le preoccupazioni.

Maselettronica.com – Redazione -  (23 FEBBRAIO 2023) ci dice:

 

L’Intelligenza Artificiale rappresenta una grande opportunità per il futuro:

 una svolta tecnologica di enorme entità come sono stati il computer, Internet e la diffusione degli smartphone.

Ma proprio come tutti i grandi cambiamenti storici, anche l’”AI “(Artificial Intelligence) non è esente da rischi e limitazioni.

 Tanto che i governi internazionali, le Big Tech e la società civile si stanno interrogando sui rischi per la civiltà.

Elon Musk”, numero uno di “Tesla” e “SpaceX” nonché fondatore di “OpenAI”, la società che ha creato il “chatbot” intelligente “ChatGPT” integrato nel motore di ricerca” Bing” di Microsoft, ha dichiarato che l’AI avrà aspetti sia positivi che negativi sul futuro della civiltà.

 Dello stesso avviso il cofondatore di “OpenAI”, “Sam Altman”, che su Twitter ha scritto che non siamo così lontani “dalla creazione di un’intelligenza artificiale potenzialmente spaventosa”, chiedendo una regolamentazione da parte dei governi.

 

Gli Stati Uniti si sono già mossi in quella direzione attraverso l’”AI Bill of Rights”, una ‘Carta dei Diritti dell’AI’ per proteggere le persone dai rischi dell’intelligenza artificiale.

Anche l’Europa è al lavoro su una serie di norme, l’”AI Act,” per introdurre forme di responsabilità per le aziende che fanno un uso improprio dell’AI.

I limiti, rischi e soluzioni per un’Intelligenza Artificiale sostenibile.

Tra i rischi maggiori, la “sicurezza dei dati” è sicuramente al primo posto.

In Italia, secondo un sondaggio condotto da” Ibm”, questo aspetto preoccupa quasi la metà degli intervistati, insieme alla “privacy”, “governance” e “compliance”.

Anche trasparenza ed etica sono due fattori su cui è necessario fare chiarezza per un utilizzo consapevole e sostenibile delle tecnologie di AI.

 

Per poter prevenire questi rischi, le aziende stanno attuando strategie specifiche che controllano tutta la filiera dei dati, per monitorare tutti gli ambienti in cui le informazioni circolano ed evitare potenziali attacchi informatici.

 

Per poter gestire i progetti legati all’AI, sviluppare o gestire gli algoritmi, i software e gli hardware necessari, le imprese necessitano di professionisti con competenze specifiche per valutare potenzialità e rischi dell’intelligenza artificiale.

Tra i limiti della robotica intelligente, c’è anche la necessità di un’infrastruttura reattiva, veloce e performante di cui però spesso le aziende non sono dotate.

 C’è inoltre bisogno di linee guida a livello” local” (governativo) ma anche “global” per poter operare oltre i confini fisici ma con le stesse regole internazionali.

Un altro rischio dell’AI è rappresentato dalla proprietà intellettuale del contenuto.

Le chatbots devono essere istruite per produrre contenuti (che siano risposte, testi, video o immagini), ma le “istruzioni” sono di proprietà di un autore e per questo devono essere protette da utilizzi impropri. Anche su questo fronte le autorità e i governi si stanno muovendo per tutelare il diritto d’autore.

 

L’AI, come un co-worker e non sostituto dell’uomo.

Tra le preoccupazioni, molti studiosi intravedono anche l’”AI Takeover”, ovvero il sopravvento dell’intelligenza artificiale sull’uomo.

 Ma le tecnologie di Intelligenza Artificiale devono essere sviluppate come alleate dell’uomo e non come replica del comportamento umano.

È necessario che ci sia una proficua sinergia tra uomo e tecnologia perché le macchine siano in grado di risolvere problemi concreti, facilitare le attività o affrontare situazioni pericolose.

L’AI è ideale per compiti ripetitivi e meccanici, per monitorare i processi, ridurre il margine di errore.

In futuro le tecnologie di intelligenza artificiale saranno forse in grado di imitare sempre meglio le funzionalità del cervello umano, anche grazie alle tecnologie basate sulle reti neurali.

 Per ora però i rischi più concreti per le aziende non sono legati all’etica, ma alla sicurezza, all’infrastruttura e all’occupazione.

 

“MAS Elettronica” a supporto dell’Intelligenza Artificiale.

Grazie ai prodotti di MAS Elettronica, le aziende possono realizzare applicazioni di Intelligenza Artificiale dalle eccezionali performance.

“Nvidia SBC Lightfront” è una scheda compatta adatta ad ogni settore, in particolare l’industriale, il medicale e l’auto motive.

È in grado di aumentare le capacità di qualsiasi prodotto, grazie alle eccellenti prestazioni della piattaforma “Jetson” che può aumentare i volumi di elaborazione in tempo reale.

Anche la” CPU Aurora IMX8M Plus “è indicata per soluzioni AI.

La scheda garantisce basse dissipazioni, consumi e al contempo altissime prestazioni per applicazioni sul mercato IoT, mobilità e industriale.

 

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