I nemici dell’umanità.
I
nemici dell’umanità.
Strage
a Gaza: Meloni e Biden
Evitano
Ogni Condanna di Israele.
Conoscenzealconfine.it
– (5 Marzo 2024) - Augusto Grandi – ci dice:
Nessuna
condanna, ovviamente… di “Giorgia Meloni” dopo l’ennesimo episodio di
macelleria israeliana a Gaza.
Eventualmente…
se proprio volesse… se “Netanyahu” trovasse il tempo… se non fosse troppo
occupato a sterminare qualche altro migliaio di bambini, ecco, allora Israele
potrebbe gentilmente spiegare cos’è successo a quel centinaio di palestinesi
massacrati mentre aspettavano il cibo.
Questo è il vergognoso tenore dell’intervento
di Giorgia Meloni, dopo l’ennesimo episodio di macelleria israeliana a Gaza.
Nessuna condanna, ovviamente.
D’altronde
il suo capo, Biden, ha bloccato la risoluzione di condanna all’ONU per
l’acciaio.
Perché, come sempre, nella logica dei due pesi
e due misure, le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici.
Dunque
niente sanzioni contro il macellaio di Tel Aviv.
Niente boicottaggio contro Israele.
E va
già bene se Giorgia, l’americana, concede ai giovani e meno giovani italiani di
organizzare delle proteste…
Lontano
da ambasciate e consolati di Usa e Israele, lontano da sinagoghe.
La
prossima volta, per sicurezza, le manifestazioni si potranno svolgere solo in
aperta campagna, in qualche cava abbandonata, in un parcheggio in disuso.
Perché
se anche i palestinesi si fossero accontentati di morire di fame in qualche
luogo deserto, i “buoni” israeliani non avrebbero dovuto ammazzarli.
Semplice,
no?
Però i
politici italiani ed i giornalisti di servizio, in modo assolutamente
trasversale visto che maggioranza e opposizione stanno dalla stessa parte, si
indignano all’unisono per i funerali di Navalny.
Con un migliaio di sostenitori presenti.
E
tutti, maggioranza e opposizione, fingono di dimenticare i funerali negati a “Giancarlo
Esposti”.
O
quelli ad un ufficiale tedesco di cui è vietato anche pronunciare il nome.
Ma è
l’Italia democratica e, dunque, può anche vietare i funerali ai propri
avversari.
Putin,
invece no.
E
Putin non può neppure lamentarsi se la NATO vuole schierare le truppe in
Ucraina.
Perché, se si lamenta, vuol dire che ci sta
minacciando.
Mentre
la cara e dolce Ursula, tanto amica di “lady Garbatella”, è così “buona” da
voler arrivare ad una guerra nucleare che eliminerà l’intera Europa.
Sicuramente
lei ed i suoi amici saranno partiti per gli Stati Uniti il giorno prima.
(Augusto
Grandi)
(electomagazine.it/strage-a-gaza-meloni-e-biden-evitano-ogni-condanna-di-israele/)
Nemici
dell’umanità.
Azionenonviolenta.it - Carlo Bellisai – (Marzo
10, 2022) – ci dice:
Il
fatturato promette di aumentare in modo esponenziale e ciò sta già accadendo.
Perché
più bombe e missili vengono consumati sul teatro di guerra, più se ne dovranno
fabbricare e vendere di nuovi:
un
vortice produttivo che si alimenta della guerra e che contribuisce fortemente a
costruirla.
La
legge 185 del 1990 che regolamenta in Italia il commercio d’armi, già
faticosamente e solo parzialmente applicata fin oggi, viene completamente
disattesa con l’invio di armamenti all’Ucraina, paese belligerante.
Ora che la situazione internazionale sta
degenerando, e ancor più per impedire pericolose escalation, o tragici,
irreversibili incidenti, dobbiamo capire quanto l’industria e il commercio
delle armi facciano parte di un sistema mondiale di predazione nei confronti
dell’ecosfera, compresi tutti gli esseri viventi e noi stessi, basato sulla
violenza.
L’economia
armata risponde alle leggi di mercato e le alimenta.
Se questa guerra in Europa sta deflagrando, ne sono
responsabili certo innanzitutto il governo russo ed il sistema NATO, ma
altrettanto le multinazionali degli armamenti e le banche che le sostengono.
Nella
politica europea prevale la fedeltà all’alleanza atlantica, anche mentre le
popolazioni manifestano per la pace.
Il che
dimostra quanto le nostre democrazie siano diventate impermeabili alle
pressioni della società.
Soprattutto
vediamo che l’unica economia in crescita, oltre e assieme a quella tecnologica,
è quella delle armi, sempre più autonome e letali, come i droni-killer.
Lo
scoppio della guerra in Ucraina, con l’invasione russa, ha fatto schizzare le
quotazioni in borsa delle multinazionali delle armi.
Il
messaggio subdolo che sta passando, attraverso l’informazione, sia essa russa
od europea, è che alla fine le armi servano e siano utili. Serviranno infatti per difendere i confini della
Russia accerchiati dai paesi NATO, o per difendere le democrazie europee dalle
aggressioni esterne, a seconda delle narrazioni propagandistiche.
La
retorica guerresca, già allenata dall’approccio militare alla pandemia, prende
infatti sempre più forma.
Le immagini che ci mostrano anche le reti televisive
pubbliche e private sono quelle di eroici giovani ucraini pronti a difendere in
armi la loro patria davanti ad uno degli eserciti più forti del mondo.
È una realtà, ma una realtà parziale, che si
dimentica di otto anni di guerra sporca fra separatisti e milizie ucraine, che
non vede che sono i civili, quelli che la guerra non la vogliono, le prime
vittime di ogni campagna armata.
Così i
paesi europei iniziano già a prendere parte in questa guerra, attraverso
l’informazione unilaterale, a volte distorta, attraverso gli armamenti inviati
al governo di Kiev, attraverso sanzioni economiche che non colpiranno i soli
oligarchi, ma anche e inevitabilmente la popolazione civile.
Si
rischia che i russi vengano visti come assassini feroci solo in quanto russi e
gli ucraini come vittime eroiche solo in quanto ucraini, secondo gli stereotipi
delle opposte propagande belliche.
Se le
bombe sono utili e servono, in barba all’ormai malconcio e bruciacchiato
articolo 11 della Costituzione, è giusto produrle, dare lavoro e far risalire
l’economia.
Questo naturalmente secondo l’antica logica
dell’occhio per occhio dente per dente che, rendendo il mondo cieco, come
diceva Gandhi, può oggi trascinarlo in una guerra totale fra potenze nucleari.
Sarebbe
un inferno sull’intero pianeta, con esiti catastrofici per le popolazioni e
quasi tutte le specie animali e per l’equilibrio della vita sul nostro pianeta.
Ma
com’è che si è arrivati ad un’economia armata?
Mi
limiterò all’esempio che, come sardo, vivo direttamente sulla mia pelle.
L’ESEMPIO
SARDEGNA.
Nel
lontano 1956, in piena guerra fredda l’Italia, in ottemperanza alle richieste
dell’Alleanza Atlantica, sceglie il territorio sardo per la dislocazione di tre
importanti basi militari:
nascono
i poligoni interforze del Salto di Quirra e di Capo Teulada e la base
aereo-navale di Capo Frasca, in collegamento diretto con l’aeroporto militare
di Decimomannu, quest’ultimo alle porte di Cagliari.
Dal
1972, in base ad un accordo segreto con gli Stati Uniti d’America, l’isola
della Maddalena diviene una base d’appoggio per i sommergibili nucleari.
Il parlamento non viene neppure interpellato.
La
Sardegna viene scelta, non solo per la posizione strategica al centro del
Mediterraneo, ma anche in virtù della scarsa densità di popolazione e dello
scarso sviluppo socio-economico.
Non
tratterò in quest’ambito le ripercussioni dell’esistenza delle basi militari
sulle popolazioni limitrofe, sia dal punto di vista della salute (la “sindrome
di Quirra” ha mietuto e continua mietere molte vittime), che dal punto di vista
del limitato sviluppo economico e turistico.
Basti
pensare che gli oltre 35.000 ettari di territorio militare sono pesantemente
inquinati dagli esiti delle esercitazioni e, solo saltuariamente, viene
annunciata qualche azione di bonifica.
Quel
che voglio mettere in evidenza è quanto queste installazioni siano
propedeutiche al mantenimento di una falsa pace armata che, inevitabilmente
prima o poi, sfocia nello scoppiare delle guerre.
Oggi
nei poligoni militari di Quirra-Perdasdefogu e di Capo Teulada vengono
effettuati test su nuove armi ed esercitazioni per simulare le azioni di guerra
sul campo.
Sono
quindi a tutti gli effetti laboratori di preparazione della guerra. Capo
Frasca, oltre ad essere utilizzato per esercitazioni aree, è anche base
radio-comunicativa per il controllo del Mediterraneo centro-occidentale.
L’aeroporto
di Decimomannu è ufficialmente diventato una scuola di volo per aerei militari,
ma resta collegato strategicamente al poligono di Capo Frasca.
Soltanto la base USA alla Maddalena è stata
dismessa, in parte per le pressioni popolari e in parte per cambi strategici
statunitensi, tra il 2006 e il 2008.
Sempre
sul suolo sardo nel territorio delle miniere dismesse del Sulcis Iglesiente,
col più alto indice italiano di disoccupazione, nel 2001 la SEI (Società
Esplosivi Industriali) con sede a Ghedi si appropria della vecchia fabbrica di esplosivi
per le miniere.
Nella primavera di quello stesso anno si
svolge una grande marcia pacifista e antimilitarista nonviolenta che si
conclude con performance teatrali davanti allo stabilimento e con un girotondo
che finisce con includere anche una parte delle forze dell’ordine.
Sembra
un trionfo.
Ma
subito dopo ci sarà Genova, con le grandi manifestazioni no-global, la
repressione feroce, l’arretramento dei movimenti.
Nel
frattempo i tempi cambiano e la globalizzazione ha il sopravvento. La svolta è
nel 2010, anno in cui lo stabilimento viene prelevato dall’”azienda RWM Italia”,
emanazione diretta della “Rheinmetal”, azienda multinazionale di proprietà
tedesca, specializzata in armamenti bellici.
Inizia
la fabbricazione di bombe, ma bisogna aspettare il 2015 perché si scopra che in
Yemen una bomba col marchio di fabbrica RWM ha fatto strage fra i civili.
Le associazioni pacifiste ed antimilitariste
si ritrovano a protestare davanti al piazzale della fabbrica.
Ma le
bombe, in quegli anni, vengono comunque caricate e spedite, nella notte, in
silenzio e col beneplacito delle autorità portuali.
Nel
2017 si costituisce ad Iglesias il “Comitato Riconversione “RWM “per la pace,
il lavoro sostenibile, la riconversione dell’industria bellica, il disarmo, la
partecipazione civica a processi di cambiamento, la valorizzazione del
patrimonio ambientale e sociale del SulcisIglesiente”.
Il
Comitato, cui aderiscono numerose associazioni e singole persone, darà negli
anni successivi un forte contributo di controinformazione e sensibilizzazione
sul problema.
Nel
mentre si lavora anche alla pista legale:
presentiamo
denunce per la violazione della legge 185 sul commercio d’armi, esposti al TAR
per gli abusi edilizi ed ambientali, perpetrati con l’allargamento della
fabbrica.
Si arriva così fino agli ultimi anni, con
l’embargo sulla vendita d’armi all’ Arabia e agli Emirati, coinvolti in Yemen:
deliberato dall’Unione Europea e poi recepito
dall’Italia.
Fino
ad arrivare al successo dei movimenti pacifisti e ambientalisti con la sentenza
del Consiglio di Stato che ha decretato illegittime e abusive le opere di
ampliamento della fabbrica, attorno all’alveo di un fiume, con rischio quindi,
non solo esplosivo, ma anche idrogeologico.
Abbiamo manifestato anche lo scorso primo
marzo, perché si passi ai fatti:
l’illegalità
degli ampliamenti è stata riconosciuta, occorre procedere alla demolizione.
La lotta continua, c’è una forza d’animo che
ci sostiene, anche nelle diversità, che ora più che mai non devono dividere, ma
arricchire.
LA COSTRUZIONE DEL NEMICO.
Ragionandoci
su, se ancora possiamo farlo, una società che volesse davvero superare,
trascendere l’orrore delle guerre, logicamente investirebbe le sue risorse per
preparare una cultura di pace e di confronto fra le diversità, per formare
mediatrici e mediatori di conflitti, per corpi civili e disarmati di pace,
piuttosto che negli armamenti e negli apparati militari.
Questo
non sembra davvero accadere.
Ne segue inevitabilmente e non senza
tristezza, che le società umane sono ancora distanti dall’essersi affrancate
dalla guerra, dall’idea obbrobriosa del nemico, dalla sopraffazione come difesa
e dall’offesa come annientamento dell’altro.
In
tutte le guerre, viene da subito attivata una macchina propagandistica, il cui
scopo è quello di mostrare le azioni crudeli della parte avversaria, mettendo
in evidenza la loro violenza, il cinismo, la disumanità.
L’obiettivo
è quello di creare una visione alterata dell’altro popolo, che deve essere il
più possibile ignobile ed efferato, fino a creare la figura del nemico come
pazzo criminale, o come belva sanguinaria e, in quanto tale, non più umano.
Da sempre la costruzione culturale del nemico assolve
al compito di renderlo talmente malefico da poterne considerare la morte come
una liberazione per il mondo.
Per i
soldati, come per i miliziani, sarà più facile accettare di sparare e
massacrare quest’entità diabolica, piuttosto che pensare di rivolgere le armi
contro i propri simili.
Costruire
l’idea del nemico è fondamentale per i poteri politico-militari, anche per
mettere in cattiva luce, isolare o far tacere, le voci che reclamano tregua,
negoziati, pace.
Questi
ultimi verranno trasformati in disfattisti e in codardi, se non in traditori
della patria.
D’altronde è quanto già accade in Russia, dove vengono
arrestati in massa, ma anche in Ucraina, dove ai maschi tra i diciotto e i
sessant’anni è proibito lasciare il paese.
Al contrario, l’acciaio delle armi, la chimica
esplosiva, assurgeranno a totem liberatori e, con loro, i fabbricanti e i
mercanti di armi verranno innalzati al cielo come eroi.
Proprio loro che sulla guerra fanno le loro
fortune economiche, proprio loro che lucrano sull’odio e sulla prepotenza,
proprio loro che non sono nemici di nessun esercito, ma universali nemici della
convivenza umana.
Tutto
questo non deve deprimerci, perché c’è bisogno di grande lucidità e forti
sentimenti e anche del coraggio di agire da nonviolenti.
Sappiamo
che la Storia ha i suoi avanzamenti, rimbalzi, arretramenti, ma qualunque sia
il contesto e il tempo, siamo chiamati a dire di no a tutte le guerre e a
preparare la pace fra i popoli.
Per
farlo occorre eliminare la violenza (sia essa psicologica, economica,
fisica) dalle
relazioni fra gli esseri umani:
disertare
le piccole guerre dei tempi di pace, trasformarle in laboratori di risoluzione
nonviolenta dei conflitti, è il primo passo per cancellare la guerra dalla
Storia.
(Carlo
Bellisai)
Chi
sono i veri nemici dell’umanità.
E
perché è giusto ribellarsi
al “turbocapitalismo”.
Ilprocidano.it
- Guglielmo Taliercio – (17 Settembre 2018) - Nicola Silenti - Destra.it – ci
dicono:
La
visione e l’orizzonte di un mondo nuovo, più giusto, da lasciare in eredità
alle generazioni che verranno non può prescindere dalla consapevolezza che
nessun risultato potrà essere raggiunto in questo senso senza uno scontro
campale contro i “veri padroni del mondo”.
Quei “proprietari universali”, per usare la
definizione dell’economista americano premio Nobel “Paul Krugman”, che oggi
siedono attorno al tavolo che controlla il mondo, un “gotha poderoso” eppure
occulto composto da un pugno di persone perlopiù ignote alle masse ma veri
titolari di un “potere smisurato e incontrollabile”.
Il
potere di chi, con un solo clic del computer in un angolo buio e imprecisato
del mondo, può decretare la vita e la morte di interi popoli e nazioni
spostando nel breve volgere di un attimo capitali immensi da una parte
all’altra del pianeta, depredando borse e intere economie condannando al pregio
della carta straccia monete nazionali e patrimoni di stato.
Di
fatto, chi oggi siede attorno a questo metaforico “tavolo” segreto controlla la
finanza globale e condiziona in modo determinante l’operato delle agenzie di
rating e delle banche centrali ponendo con le spalle al muro ministri
dell’economia e governi, a dispetto di ogni logica democratica.
Un
potere sconfinato che influenza e orienta in modo decisivo finanche la “Banca
centrale europea”, spalleggiando e puntellando la supremazia mondiale del
dollaro verso lo scontro finale con lo yuan cinese.
Ma chi
sono questi nemici dell’umanità, e come identificare i loro supporters?
E quali e quanto estesi sono gli spazi
concessi a chi gli si oppone?
Quali
che siano i dati anagrafici di queste” lobbies egemoni” a volto coperto, di
certo ben accomodate tra i salotti dell’alta finanza e forniti delle leve di
comando del capitale, più riconoscibili sono invece i loro esegeti, alleati più
o meno consapevoli di questo potere immenso e spietato.
Radical
chic del globalismo ed eurocrati, paladini delle più scellerate politiche
economiche della storia più o meno recente da condurre perché “ce lo chiede
l’Europa”, tutti insieme appassionatamente schierati in forza in una lenta ma
inarrestabile opera di inganno e offuscamento delle menti dei ceti popolari:
un’opera in corso ormai da anni con il duplice
obiettivo di dividere e incanalare il malcontento degli strati subalterni della
popolazione verso obiettivi secondari soffocando progressivamente, uno per
volta, i diritti di lavoratori, studenti, pensionati, piccoli e medi
imprenditori, erodendo ogni giorno di più i già esigui spazi della democrazia.
Un’opera
resa possibile anche grazie a quei governi di centrosinistra che hanno
supportato quest’azione perversa con una stoica dedizione, fornendo un
contributo forse decisivo, anche grazie all’avallo paternalista dei “banchieri
di Bruxelles” e del” Fondo monetario internazionale”, alla “morte della
sovranità popolare “nel nome di una fedeltà cieca alle imposizioni più bieche e
inaccettabili.
Diktat come il rispetto incondizionato dei
vincoli di bilancio imposti dalla BCE e dei tagli a una spesa pubblica divenuta
sempre più classista e a misura dei potenti, estorcendo spazi sempre maggiori
alla sanità pubblica e alla difesa degli ultimi, erodendo al contempo il potere
d’acquisto di pensionati già da tempo sull’orlo della miseria e riducendo a nuove forme di schiavitù
le nuove generazioni, esposte quotidianamente allo spettro di un presente
precario da vivere nel ricatto permanente del licenziamento.
Guerra
e crisi climatica:
i
grandi nemici dell’umanità
e
dell’ambiente.
Innatura.info
– (22 aprile 2022) – Redazione – ci dice:
Guerra
e crisi climatica sono i grandi nemici dell’umanità.
La
crisi alimentare nel Corno d’Africa è qui a ricordarcelo.
Nel
Corno d’Africa, dopo la quarta stagione delle piogge scarsa, più di 16 milioni
di persone – compresi molti bambini – hanno un estremo bisogno di aiuti
alimentari.
In Somalia quasi un terzo della popolazione
(4,8 milioni di persone) e 3,5 milioni di persone in Kenya stanno affrontando
una grave carenza di cibo, mentre circa 6,5 milioni di persone nell’Etiopia
meridionale hanno bisogno di aiuto. Il prezzo del cibo – in tutta l’area la
maggior parte del grano arriva dalla Russia e dall’Ucraina – è alle stelle.
E lo
spettro della carestia è sempre più vicino.
Un
pessimo inizio della stagione delle piogge ha aumentato le preoccupazioni per
le conseguenze della peggiore siccità degli ultimi decenni.
Il
costo del cibo nella regione era già in aumento a causa degli shock climatici,
delle invasioni di locuste, di conflitti e delle crisi economiche causate dalla
pandemia COVID-19.
L’escalation
del conflitto in Ucraina ha creato onde d’urto nei mercati alimentari.
Il
pane è un alimento di base in Africa orientale, il grano e i prodotti a base di
grano rappresentano un terzo del consumo medio di cereali nella regione
. La
domanda è soddisfatta principalmente dalle importazioni, pari all’84% del
consumo.
Il 90%
delle importazioni di grano proviene dalla Russia e dall’Ucraina, che
rappresentano rispettivamente il 72% e il 18% del totale, con prezzi in aumento
nelle ultime sette settimane.
I due paesi in guerra, inoltre, coprono quasi
tre quarti delle esportazioni globali di olio di girasole, prodotto molto
utilizzato nella regione.
Inoltre
la guerra in corso distoglie anche l’attenzione internazionale da una
catastrofe umanitaria annunciata nell’area.
In
Kenya e in Etiopia, dopo sette settimane, ci sono state solo leggere piogge.
Le previsioni del dipartimento meteorologico
del Kenya e del Centro etiope di monitoraggio e allerta per le colture parlano
di una stagione con precipitazioni scarse, avvertendo che ciò potrebbe spingere
molte persone in una situazione disperata.
In
Somalia quasi un terzo della popolazione (4,8 milioni di persone) sta
affrontando una grave carenza di cibo.
L’ONU
prevede una carestia incombente nei prossimi tre mesi a causa della “Niña”, un
fenomeno meteorologico che provoca siccità, nonché dell’inadeguata assistenza
umanitaria e dell’aumento dei prezzi del cibo.
Si teme che si ripeta quanto avvenuto nel 2011
quando la carestia causò la morte di 260.000 persone, la metà dei quali erano
bambini sotto i cinque anni.
Secondo
le stime delle Nazioni Unite, se non si affronta la situazione, 1,4 milioni di
bambini potrebbero essere gravemente malnutriti entro la metà dell’anno – un
aumento del 64% rispetto a due anni fa – e 330.000 gravemente malnutriti.
In
Somalia, dall’inizio della stagione si sono registrate lievi precipitazioni per
appena per due settimane e solo in alcune zone del paese.
Nella
parte centrale e meridionale del paese milioni di pastori sono stati costretti
ad abbandonare le loro case per vivere in campi profughi.
Nello stato somalo del Puntland, il prezzo
della farina di grano è balzato da 26 a 32 dollari per sacco da 50 kg, con
picchi di 36 dollari nelle città di Garowe e Qardho.
Nella capitale” Mogadiscio”, il prezzo di un
contenitore da 3 litri di olio da cucina è triplicato, dai 3 dollari di gennaio
ai 9 dollari nel marzo di quest’anno.
I prezzi nelle zone rurali sono aumentati fino
a 12 dollari a contenitore, per via dell’incremento dei costi di trasporto
dovuti all’aumento dei prezzi del carburante.
In Etiopia, il prezzo del sorgo e del mais è
cresciuto rispettivamente del 9% e del 4% a febbraio e marzo.
Rilevanti
anche gli aumenti del prezzo dell’olio di girasole.
Oltre
all’accesso e alla disponibilità immediata di cibo, a preoccupare è l’impatto a
lungo termine sulla produzione alimentare dell’aumento dei prezzi del
carburante e dei fertilizzanti.
I casi
di malnutrizione sono in aumento anche in Kenya, dove 755.000 bambini hanno
bisogno di cure urgenti per far fronte alla malnutrizione acuta. 103.000 donne
incinte e in allattamento sono malnutrite e hanno bisogno di cure urgenti.
Secondo
il direttore nazionale di “Save the Children” in l’Etiopia, “Xavier Joubert”:
“L’emergenza fame è destinata a peggiorare nei
prossimi mesi a causa della quarta stagione delle piogge che ha registrato
precipitazioni sotto la media, nonché dell’avvicinarsi della stagione di magra
che va da giugno a settembre”.
Guerra
e crisi climatica si confermano i grandi nemici dell’umanità e dell’ambiente.
Due nemici che vanno affrontati
contemporaneamente, prima che sia troppo tardi.
Luis
Sepúlveda e "la lotta
contro
i nemici dell’umanità.
Ottopagine.it
– (16 aprile 2020) – Claudio Mazzone – il mondo storto – ci dice:
Le sue
parole vanno riscoperte, impugnate e scagliate contro un presente ingiusto.
” La
lotta contro i nemici dell’umanità si combatte in tutto il mondo, non richiede
né eroi, né messia, e inizia dalla difesa del più fondamentale dei diritti.
Il
Diritto alla Vita.”
Lo
scriveva” Luis Sepúlveda “nel suo capolavoro del 1989 “Il mondo alla fine del
Mondo”.
Parole che valgono oggi più che mai in questo
presente senza difese, senza diritti e senza Vita.
In
questa lotta continua e violenta è caduto, a 71 anni, ad Oviedo,” Luis
Sepúlveda”, colpito a morte dal coronavirus.
Dire
che era uno scrittore sarebbe riduttivo, la sua è stata una vita vasta nella
quale si è fissata la storia, i sogni, le illusioni, le disillusioni e gli
incubi di un secolo tutt’altro che breve.
“Sepúlveda”
racchiude nel suo essere, prima ancora che nei suoi libri, quella “lotta contro
i nemici dell’umanità”.
È nato
in una stanza d’albergo mentre i genitori erano in fuga da una denuncia che il
padre aveva avuto per motivi politici.
Il nonno, nome di battaglia “Ricardo Blanco”,
era un anarchico andaluso fuggito dalla repressione europea.
Ha
respirato da sempre quella creatività libertaria che non si fa ingabbiare.
Da ragazzino, entrato nella “Gioventù
Comunista”, crede nell’Unione Sovietica e arriva a Mosca con una borsa di
studio all’università Lomonosov.
Ma il
giovane “Sepúlveda” dura pochissimo in quel comunismo senza libertà, e quel
sogno si trasforma in breve in incubo.
Dopo
pochi mesi viene, infatti, cacciato dall’URSS per “comportamenti contrari alla
morale proletaria”.
“Sepúlveda”
è in Bolivia con l’ “Esercito di Liberazione Nazionale”, quello del “Che”,
quello della sconfitta che segna la fine di un sogno rivoluzionario, quello
della teoria dei “focolai”.
È al
fianco di “Salvador Allende” quando il sogno di un “Cile democratico e
socialista” viene infranto dalla violenza statunitense, dal “golpe di Pinochet”,
dai “Chicago Boys” e dal “neoliberismo”.
La sua
è la storia di tutti noi, quella fatta di sogni strangolati sempre dalla stessa
mano violenta, viscida e indecente.
I suoi
libri fanno il giro del mondo, la sua voce diventa quella calda, rassicurante,
profonda e viva di un Sudamerica che sogna e si ribella e di un occidente
ancora capace di vedere le storture e le violenze che produce.
Oggi
la sua morte è l’ennesima beffa, è l’ennesimo atto collettivo della sua storia
personale, è l’ennesima battaglia in quell’estenuante e infinita “lotta contro
i nemici dell’umanità”.
Dietro c’è sempre la stessa mano, la stessa
violenza, la stessa ideologia viscida.
Questa
pandemia e il coronavirus stesso, sono frutto di un sistema ben organizzato che
si basa su fondamenta storiche, politiche economiche e culturali ben definite.
Davanti
alla morte di quei tanti che non hanno potuto avere cure, davanti al racconto
di un mondo che si ripulisce dai più deboli, davanti ad un sistema globale che
non ha salvaguardato il diritto alla Vita perché non era una convenienza di
mercato, le parole di “Sepúlveda” vanno riscoperte, accarezzate, impugnate e
scagliate contro quella mano e contro quel potere che ha strangolato i nostri
sogni migliori per offrirci un presente pessimo e ingiusto.
La
lotta va ripresa subito per non dare spazio ai nemici dell’umanità che ci hanno
portato nel baratro.
Aveva
ragione “Sepúlveda”, non c’è bisogno di eroi o di messia per difendere la “Vita”.
LA
POSSIBILE TERAPIA CONTRO
UN
ODIO CHE NON FINISCE MAI.
It.gariwo.net - Gabriele Nissim – (17
-1-2024) – ci dice:
Riprendiamo
di seguito la relazione tenuta da Gabriele Nissim, Presidente della Fondazione
Gariwo, durante il seminario "Racconto della Shoah e linguaggi ostili.
Contrastare i pregiudizi in classe", organizzato dall'Università Cattolica
di Milano nella giornata di martedì 16 gennaio 2024.
Quanto
più odio c’è nel mondo tanto più si manifesta l’antisemitismo.
Non è
un caso che i regimi totalitari che hanno teorizzato nel loro paradigma la
lotta contro i nemici come fonte di legittimazione abbiano, prima o poi e in
modo diverso, usato la carta dell’antisemitismo nelle loro campagne politiche e
ideologiche.
I regimi comunisti, ad esempio, sono passati dalla
lotta di classe ai cosiddetti nemici del popolo negli anni '30, e hanno poi
presentato gli ebrei come i nemici del socialismo ed agenti del capitalismo,
prima con le campagne antisioniste di Stalin negli anni cinquanta, al tempo del
cosiddetto “complotto dei medici ebrei”, e poi con quelle dei suoi successori
in Russia e nei paesi orientali, dal processo Slánský in Cecoslovacchia nel
1952, alla Polonia di Gomulka nel 1968, dove gli ebrei furono accusati di
fare il doppio gioco e di essere dei nemici nascosti.
Altrettanto
hanno fatto i fondamentalismi islamici che, dall’Iran all’ “Isis”, alla stessa “Hamas”,
hanno costruito delle” teocrazie” che, imponendo la “Sharia” e la “dittatura
religiosa contro gli infedeli”, hanno indicato negli ebrei e nei sionisti i
nemici dell’umanità.
Nello
stesso tempo, l’antisemitismo fa da detonatore e alimenta un odio generalizzato
che colpisce e inquina tutta l’umanità.
È stato questo il caso del nazismo, che dalla
guerra agli ebrei ha portato alle macerie della Seconda guerra mondiale.
Si
cade in errore quando si pensa che l’antisemitismo colpisca esclusivamente gli
ebrei e che quindi si tratterebbe solo di educare la società a superare
pregiudizi radicati in codici culturali che vengono da lontano.
Non è
di questo parere “Yehuda Bauer”, che nella sua ultima conferenza del 2022 ha voluto
sottolineare per quale ragione leggere la distorsione della memoria della Shoah
e l’antisemitismo come una questione che riguarda solo gli ebrei sia
assolutamente riduttivo, perché si tratta di un problema universale:
“Hitler,
nel memorandum scritto di suo pugno che mandò a Göring nel 1936, scrisse che
doveva preparare la guerra per combattere gli ebrei che attraverso il
bolscevismo volevano dominare il mondo.
Era questo lo scopo della guerra.
Possiamo
allora dire che a causa di questo antisemitismo sono morte 35 milioni di
persone.
Certo che ci sono stati i sei milioni di
ebrei, ma gli altri 29 non ebrei sono morti a causa dell’antisemitismo di
Hitler.
Tutti
sono stati colpiti da questo odio.
Ebrei
e non ebrei”.
È lo
stesso ragionamento, sia pure in modo diverso, che potrebbe valere per il Medio
Oriente.
Quanti
sono gli arabi e musulmani che muoiono in Medio Oriente non solo per un
conflitto territoriale, ma a causa dell’antisemitismo e dell’antisionismo?
Ecco perché è importante spiegare che
l’antisemitismo colpisce tutti e che ogni forma di odio a sua volta può
provocare l’antisemitismo.
Prima
di tutto, cos’è l’odio e da dove nasce?
E
perché l’odio di qualsiasi tipo può aprire la strada all’antisemitismo?
L’odio è una componente della condizione umana
e nasce come affermazione del proprio ego nei confronti dell’altro.
Si può
scegliere di vivere in armonia e di fare della relazione con gli altri la fonte
della propria ricchezza umana, oppure di guardare gli altri come un nostro
nemico e per questo provare un sentimento di disprezzo nei confronti di coloro
che immaginiamo siano di ostacolo alla nostra esistenza.
C’è l’odio verso chi consideriamo di intralcio
alla nostra affermazione professionale;
c’è l’odio verso le donne che si sottraggono
al potere del maschio;
c’è l’odio etnico verso individui di altre
etnie e di culture diverse che non vogliamo accettare;
c’è l’odio per classi sociali diverse dalla
nostra;
c’è
l’odio di genere;
c’è l’odio nello sport nei confronti degli
avversari sportivi;
c’è
l’odio nei social, dove si ha il gusto e il piacere di mettere alla gogna delle
persone che neppure si conoscono;
c’è
l’odio nel dibattito politico delle stesse democrazie, dove chi la pensa
diversamente viene considerato non una componente della Polis, ma un vero e
proprio nemico da eliminare in una guerra verbale permanente.
E l’odio più pericoloso è quello che viene
legittimato dagli stati fondamentalisti e totalitari con leggi e persecuzioni
contro i cosiddetti nemici, che siano ebrei, donne, membri della comunità “lgbtq+”,
ma anche contro gruppi politici differenti.
Come
spiega “Hannah Arendt”, il punto comune di tutti i totalitarismi vecchi e nuovi
è la negazione della pluralità umana.
Essi
ritengono che sulla terra esista solo l’uomo al singolare, l’uomo fotocopia, e
non, invece, che l’umanità sia composta da uomini diversi.
Ricorda
infatti la Arendt, forse con la più alta sintesi del suo pensiero:
“Non
l’Uomo, ma uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della
terra”.
Da questa concezione monolitica nasce, in
varie forme, l’odio politico, che non solo può portare alle persecuzioni, ma
fino alla distruzione estrema, come è avvenuto ad Auschwitz e in tutti i
genocidi.
E in questo contesto l’antisemitismo fa da
collante, perché chi odia qualcuno, o uno stato che si fonda sull’odio
politico, può presentare il volto nascosto dell’ebreo dietro al suo nemico.
Il
motivo per certi versi è molto semplice.
Poiché
gli ebrei nel pregiudizio millenario antisemita sono i nemici universali
dell’umanità, diventa comodo presentare l’ebreo come quello che si nasconde
dietro ad un migrante, ad un omosessuale, ad un oppositore politico, ad un
nemico della nazione, ad un nemico dell’Islam.
Anche
se può sembrare assurdo ed incomprensibile, il ricorso all’antisemitismo
“nobilita” la missione di ogni dittatura che fa dell’ebreo la sua minaccia
esistenziale.
Ci
illudiamo se riteniamo che con un colpo di bacchetta magica si possa mettere
fine all’odio.
È stato questo il grande fraintendimento dopo
la Seconda guerra mondiale e la scoperta sconvolgente della” Shoah” e della
distruzione degli ebrei.
Si è
pensato a una non ripetibilità del Male estremo.
Invece,
purtroppo, le devastanti guerre in Ucraina e in Medio Oriente ci mostrano che
l’odio continua ad essere terribilmente presente nella Storia umana.
Dobbiamo
invece diventare consapevoli che, in ogni epoca, gli esseri umani possono
scegliere tra un destino di convivenza e armonia e un percorso di odio e di
conflitti.
Come
ha spiegato “Baruch Spinoza”, l’essere umano si trova sempre di fronte a due
strade:
Illudersi
di sviluppare la propria potenza, il proprio conatus, a spese degli altri in una
guerra permanente;
oppure
cercare la vera forza in un rapporto reciproco con gli altri, che permetta di trovare una
risposta soddisfacente alla fragilità umana.
Ciò
che determina l’esito di questa scelta, come aveva forse per primo capito “Socrate”
con la sua “Maieutica”, è un processo permanente di Educazione.
Può
sembrare paradossale, ma gli esseri umani che possono cadere nella tentazione
del “Male” devono venire guidati alla comprensione del “Bene” come la migliore
convenienza per la realizzazione della loro pienezza umana.
Si
tratta costantemente di risvegliare le facoltà dell’animo che apparentemente
sembrano sopite, come il gusto morale, estetico ed umano e di cui spesso gli
uomini smarriscono il senso.
Ecco perché vivere con odio, diceva “Etty Hillesum”, è
la peggiore malattia dell’anima che deturpa la vita delle persone e le rende
infelici.
È
proprio l’Educazione il senso di quella “Pedagogia dei Giusti” che “Gariwo” ha
sviluppato e praticato in questi ultimi venticinque anni, con la promozione
delle figure morali dei Giusti e la costruzione dei “Giardini dei Giusti”.
Il
primo punto da sottolineare è che il concetto di Giusti, al di là dei
riferimenti biblici, è un concetto di grande modernità, nato assieme alla
parola genocidio, inventata dal giurista ebreo polacco “Raphael Lemkin”.
Se
infatti il termine "Genocidio" (ibrido del greco genos e del latino
cidio) indica l’intenzionalità della distruzione parziale o totale di un
popolo, la parola “Giusti” indica invece coloro che si oppongono e si assumono
una responsabilità nei confronti delle atrocità di massa, salvando delle
persone o lottando contro l’odio in atto, prima che il “Male” si realizzi.
Il secondo punto fondamentale è che il
concetto di Giusti non indica solo una categoria di uomini che emergono nelle
circostanze estreme, ma una possibilità di essere e di realizzarsi per tutti
gli esseri umani.
Si
tratta quindi di una modalità di esistenza, non per santi ed eroi, come si
potrebbe credere erroneamente, ma una possibilità alla portata di tutti.
Ognuno
nel suo piccolo può scegliere se diventare portatore di odio, comportarsi da
indifferente, oppure diventare con una sua vita autentica messaggero di bene.
In
questi anni c’è stata una cattiva e riduttiva interpretazione del concetto di
Giusti.
Molti
hanno ritenuto che, ad esempio, parlare di “Giusti nella Shoah”, di fronte alla
loro esiguità numerica dinanzi ad una maggioranza indifferente o complice del “genocidio”,
significasse creare una cortina fumogena attorno agli ingiusti.
In
realtà, la testimonianza di un Giusto che osa sfidare leggi ingiuste e porsi
contro lo spirito nefasto del proprio tempo deve venire interpretata come il
più grande messaggio di scandalo.
Il Giusto, infatti, con la sua azione
controcorrente, inchioda alla sua terribile responsabilità chi è stato
indifferente.
È
compito quindi della narrazione spiegare il contesto in cui agisce un Giusto e
il suo "rapporto eretico" contro le derive della società del suo
tempo.
Ma
come si può rendere attrattiva nella società l’idea di essere Giusti e creare
un movimento positivo di emulazione?
È questo il punto decisivo.
Si
tratta di fare comprendere che fare il bene non è una rinuncia ed una
privazione come molti lo intendono, ma un arricchimento della propria
personalità che porta a quella che i classici greci chiamavano
"eudemonia" (che significava il piacere della virtù).
È forse la gioia più grande possibile nella
nostra esistenza. Spesso invece le storie dei Giusti sono confuse nel nostro
paese con le storie delle “Vittime”, come se la sofferenza e il martirio
fossero il percorso obbligato di chi fa del Bene.
C’è un
punto in comune in tante biografie di uomini giusti nella Shoah e in altri
genocidi.
Leggendo
le storie di “Giorgio Perlasc”a, di “Armin Wegner” e “Dimitar Peshev” vi
accorgerete che la motivazione delle loro azioni non dipendeva né da un
imperativo categorico di tipo kantiano, né da un senso di dovere verso gli
altri e persino nemmeno da un sentimento di altruismo, ma la base di partenza
era il proprio senso estetico, il volere stare bene con se stessi, come
suggeriva “Hannah Arendt”.
Non
tolleravano la deturpazione dell’umanità, perché altrimenti avrebbero sentito
un’inquietudine ed un malessere dentro di loro.
Con le
loro azioni, i Giusti hanno rischiato, hanno sofferto, hanno vissuto
l’isolamento e l’incomprensione e alcuni hanno persino sacrificato la loro
vita.
Ma il
punto di partenza è sempre stato il desiderio della loro felicità e del
benessere interiore che i carnefici e i violenti avevano deturpato e inquinato.
Lo ricordava “Anton Čechov “quando parlava
della "terza intelligenza" che esiste negli esseri e che non dipende
né dai geni ereditati, né dalla conoscenza e dall’esercizio della logica, ma dal gusto interiore di praticare
il bene per rettificare il mondo.
E lo
suggeriva “Seneca” a “Lucullo” quando, in una bellissima lettera, gli spiegava
che il
percorso che può portare alla gioia derivava unicamente dalla realizzazione di
una vita autentica.
Come
abbiamo allora cercato di realizzare questa metodologia di lavoro sui Giusti
nella società?
Lo abbiamo chiamato il “Metodo Gariwo”, che è
la sintesi teorica di 25 anni di attività:
Con la
creazione dei “Giardini dei Giusti” abbiamo sollecitato i giovani e l’opinione
pubblica a ricercare dal basso le storie dei Giusti e a esprimere loro
gratitudine e riconoscenza.
La valorizzazione delle loro vicende produce
così un movimento di emulazione positiva.
Si
stimolano le persone a riconoscersi nelle loro storie.
La conoscenza delle storie di bene produce
così una contaminazione.
Con il
concorso “Adotta un Giusto” abbiamo stimolato gli studenti a diventare degli”
Sherlock Holmes “di tipo nuovo che, invece di cercare gli indizi di
colpevolezza dei criminali e i moventi di un delitto, svolgono una indagine per scoprire
le motivazioni e i meccanismi della coscienza che hanno spinto degli esseri
umani a delle azioni di solidarietà e di altruismo.
Così
si crea una curiosità per scoprire il segreto dei Giusti.
Abbiamo
dato vita a una rete di” 300 Giardini universali”, il cui scopo è quello di
provocare le coscienze attraverso un metodo di comunicazione indiretta.
Lo
definiamo come un "percorso di educazione etica antitotalitaria".
Non
imponiamo a nessuno una morale o una direttiva di comportamento, ma con le
storie dei Giusti trasmettiamo degli esempi morali che stimolano così le
persone a porsi delle domande e a fare un esame interiore.
Così, attraverso un meccanismo di empatia nei
confronti delle storie dei Giusti, le persone sono trascinate a fare un esame
di coscienza sulla propria vita e sulle proprie responsabilità.
Abbiamo
istituito dei “Giardini” il cui scopo non è quello della commemorazione di
eventi del passato, ma di educazione alla responsabilità nel tempo presente.
Molto spesso la società è stata abituata a
riconoscere il “Male” solo nel suo momento estremo.
Il
nostro scopo, invece, è quello dell’educazione alla prevenzione, per
riconoscere in anticipo le possibili stazioni del Male che possono portare alla
distruzione di esseri umani.
Al
Male estremo ci si arriva con la crisi della democrazia, le campagne di odio,
il disprezzo della dignità dell’altro, la disumanizzazione del diverso, fino a
leggi ingiuste che sono l’anticamera per la violenza politica.
Ciò
che rimane ancora oggi incredibile è che i percorsi sono spesso molto simili,
ma non ce ne si accorge, anche perché l’attenzione della memoria ha sempre
privilegiato il momento finale della distruzione.
È il
vuoto principale da rettificare.
(Gabriele
Nissim)
“Analisi
di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo)
Democrazia,
libertà
e…
tragedia.
Micromega.net - Giuseppe Panissidi – (8
Giugno 2023) - ci dice:
Gli
archetipi dei nemici della democrazia sono rintracciabili nei miti
dell'antichità.
Ma
oggi, nella realtà, dove possiamo individuarli?
Nella
cornice scenografica delle rovine del teatro di Siracusa, in questi giorni,
risplende uno straordinario frammento di antichità, la rappresentazione del “Prometeo
Incatenato” di “Eschilo”.
“Un pugno allo stomaco”, è stato definito, a
chi vi accede, un monito potente sulla transitorietà delle cicliche fasi della
storia umana, fino all’industrializzazione e alle leopardiane magnifiche sorti e
progressive della Ginestra.
Da
questa tragedia, ispirata al primo mitico benefattore dell’umanità,” Prometeo”,
il dio ribelle che agli uomini ha elargito le tecniche, è giocoforza aspettarsi una radicale
messa in discussione dell’idea stessa di progresso.
In realtà, va in scena la specifica
complessità dell’umano.
L’onnipotente
padre degli dei, Zeus contro il dio Prometeo, accusato di “Hybris”, orgoglio
spinto fino alla tracotanza.
Che non può restare impunita.
Agli
uomini è proibito il superamento dei propri limiti, la medesima colpa che “Dante”
attribuisce ad” Ulisse”, quand’anche, in Dante, motivata con l’assenza della “Grazia”.
Contraddizioni
comprensibili soltanto in contesti democratici, non nel mito, sebbene Prometeo
le incarni, rifiuti di obbedire e tenga testa a Zeus.
Una resistenza estranea agli eroi greci, i
quali o si sopprimono, come “Aiace”, oppure si accecano, come” Edipo”.
In Prometeo l’opposizione al potere assoluto è
intransigente.
Bisognerà
aspettare il” Prometeo liberato” perché si chiuda il cerchio tragico, lo
“scioglimento” dell’incastro, quando Zeus incaricherà “Eracle” di uccidere
l’aquila, che divorava il fegato a Prometeo, e lo libererà, ripristinando il
senso dell’equazione umana possibile.
Rimane
una domanda cruciale.
Perché
il furto del fuoco dev’essere punito?
Perché,
questa la risposta tragica, l’amore di Prometeo per gli uomini, è un atto di arroganza
ribelle, una rivolta contro il potere tirannico, la sfida suprema, destinata a soccombere al cospetto
della legge della necessità nella figura di Zeus, che considera il fuoco –
leggi: la costellazione dei saperi, la scienza e la tecnica, quali emblemi del
potere sovrano e contraltare dell’indipendenza umana – come un’energia di sua
esclusiva pertinenza.
Infatti,
dopo il furto del fuoco dall’Olimpo, nascosto nel cavo di una canna e donato
agli uomini, i quali accettano l’inganno di Prometeo, Zeus invia sulla Terra Pandora,
la prima donna, un essere affascinante e, al tempo stesso, il dono più
pericoloso.
Il fratello di Prometeo, “Epimeteo”, “colui
che non sa prevedere”, se ne innamora e la sposa.
Prometeo,
“colui che prevede”, e dunque sa, tenta di dissuaderlo e indurlo a diffidare di
tutto quanto provenga da Zeus.
Vanamente,
tuttavia, poiché il fratello, impulsivamente, non rinuncia alla splendida
fanciulla.
Sorvoliamo
sulle interpretazioni del racconto come una critica al capitalismo del consumo
e della produttività, una denuncia dell’alienazione umana dovuta
all’industrializzazione.
Prometeo,
in realtà, è il difensore del genere umano in rivolta contro una divina volontà
di annientamento.
Se non
che, pur entro il potere dell’economia, in tema è il destino di quanti non si
rassegnano ad essere usati come macchine o merci per la produzione.
Però
Prometeo, l’intellettuale preveggente, che legge e conosce la storia, sa bene
che ogni sistema di potere non è perenne, ed è destinato alla fine sotto il
peso dei propri errori e della propria protervia.
Nell’ode
Prometeo, “J. W. Goethe”, all’alba della rivoluzione industriale, Prometeo
incarna l’eroe borghese che rivendica la sua autonomia intellettuale e
artistica contro i detentori del potere economico.
Contro
Zeus, il” Prometeo di Goethe”: “Me ne sto qui, plasmo uomini/ a mia immagine,
/una stirpe simile a me / che mi somigli/ nel soffrire, nel piangere/ che goda
e si rallegri/ e non si curi di te, /come me!”.
Erano
le prime luci dell’alba, per l’appunto.
Oltre
un secolo dopo, infatti,” F. Kafka”, in un apologo del 1917/1918, scolpisce un”
Prometeo sconfitto”, annichilito dal suo stesso dolore, ormai incapace di
ribellarsi e privo dello slancio creativo del “Prometeo di Goethe”.
In tale variazione sul mito, l’intelletto,
l’arte e la fantasia si rivelano impotenti di fronte al degrado del lavoro
seriale alla catena di montaggio, in cui rivive la roccia alla quale Prometeo è
incatenato, divenendo insensibile al pari della pietra.
E, proprio mentre la Grande Guerra volge al
termine, la rivoluzione industriale compie il giro di boa verso il punto di
non-ritorno, con effetti profondi sull’uomo.
L’uomo/operaio è pura macchina,
nell’indistinzione tra gli uomini e nella identificazione crescente tra merce e
consumatore, entro un modello di capitale quale produzione di merci a mezzo di
merci.
Carne
da macello per l’industria bellica, uomini contro, idonei per progetti politici
totalitari.
“Kratos
“dice: “[Prometeo] impari ad amare il dominio e desista dall’arroganza in
favore degli uomini, questo dio inviso a tutti gli dei”.
Questo
lungo, ma necessario preambolo ci conduce al punto dolente, la domanda
lancinante.
Oggi,
chi sono i nemici dell’autonomia, della libertà umana e dei saperi, ai quali
l’universo dei poteri oscuri nega il diritto a un’esistenza, individuale e
collettiva, degna di essere vissuta?
Una
considerazione, attuale e concreta, può orientare la riflessione.
Secondo
la tesi prevalente, nelle elezioni presidenziali in Turchia Erdogan,
concordemente esclusi i brogli, avrebbe prevalso anche in forza dell’assenza
della libertà di stampa, e connessa scarsa ‘conoscenza pubblica’ dello stato
miserando dei diritti e delle libertà civili.
Si
sarebbe, insomma, imposto, esibendosi, ad esempio, nell’arco di una sola
giornata, da sette reti televisive su dieci.
Mancanza
di conoscenza?
Un dio onnipotente in azione per conculcarla e
deprivare gli uomini dei loro diritti?
Ed
ecco la questione dirompere nella sua forma più scoperta. Una donna turca, un lavoratore, un
giovane, uno studente, vaste frazioni di popolo in agonia civile e culturale,
hanno bisogno dell’informazione, televisiva e non, per conoscere la propria
condizione infelice?!
Non è
sufficiente viverla, nel quotidiano, sulla propria pelle, anche da parte – il
punto più dolente – della maggioranza vincente, seppur di misura?
Del
resto, la conoscenza soffre un micidiale conflitto d’interessi anche con le
(asserite) ragioni superiori delle nazioni europee, i cui leader si sono
congratulati con Erdogan, rilanciando progetti comuni di grande spessore
geopolitico strategico.
Con la mente e il cuore rivolti al popolo
turco, come non pensare a “F. Guicciardini”:
“Pregate Dio, pregate Dio di farvi
trovare sempre dalla parte dove si vince”?
Io
sono duca, replicava Totò a Mike Bongiorno, a volte sono i conti che non
tornano.
Anche
qui, purtroppo, i conti non tornano.
Se,
poi, proviamo a estendere la riflessione, domande non meno inquietanti
riguardano altri mondi, come anche il nostro, evidentemente “Anche chez nous” manca la conoscenza pubblica e
diffusa, a causa dell’odio… degli dei?
Forse
una possibile risposta, tragica, per restare in tema, si può individuare nella
reazione di un cittadino, “quivis de populo”, quand’anche allineato,
intervistato su” Dell’Utri”:
“Anche
se viene condannato per mafia, per noi non cambia nulla…”.
Non
sembra mancasse la conoscenza a quel, si presume, patriota.
Invero,
per quell’individuo la conoscenza non è… maledizione, per far menzione di una
tradizione di pensiero novecentesco, inaugurata da “F. Nietzsche in ambito
filosofico”, e proseguita con” T. Mann”, nel giudizio autocritico sulla
letteratura.
E
tuttavia, sotto un diverso profilo, questo patriota si pone fuori dal paradigma
tragico, visto che non potrebbe mai sentirsi solo al pari dell’eroe tragico
dell’“Io solitario penso”.
Ché, anzi e purtroppo, si trova in ottima e
abbondante compagnia.
Tanto
vero che tal “Schifani” può gioiosamente e autorevolmente celebrarlo:
“Se
non ci fosse Cuffaro, bisognerebbe inventarlo”. Inventare, ossia, un valente
poliglotta, ancor prima che politico, capace di scambiare la nobiltà del
“dream” di “Martin Luther King” con il “drink” del bar sport.
Occorre
scomodare la psicologia del profondo per comprendere questa intrigante gaffe?
Sullo
sfondo di quella Sicilia/laboratorio, come si suol definire, nella quale tante
cose mancano, da troppo tempo, di certo non la … conoscenza!
Fuori
dalla metafora speculativa e letteraria e dall’ordine dei mitologemi, lo stato
dell’arte attuale segnala forti criticità.
Se un
nuovo Prometeo, vedi caso nella figura del nostro capo dello Stato, ha l’ardire di
ricordare, Costituzione alla mano, di cui è notoriamente il garante, che quel che conta è l’essere umano,
la persona, non già l’”etnia”, un foglio della destra – non importa quale, vista la
sua impressionante somiglianza con i suoi omologhi – reagisce in termini
militari, qualificando Sergio Mattarella come “oppositore”.
Un
attacco all’arma bianca contro chi assolve scrupolosamente il proprio dovere,
istituzionale e democratico, di richiamare la Costituzione, sollecitarne la
conoscenza e sbarrare la strada a qualsiasi torsione cognitiva, in specie
pseudopolitica e faziosa!
In tal
senso, e solo in tal senso, il capo dello Stato, non solo può, ma deve tenere
alto e saldo il vessillo costituzionale, opponendosi, appunto, quando e se
necessario.
Inoltre,
è del tutto evidente che la sua sottolineatura non sottendesse o significasse
l’idea di una scissura tra l’essere umano e l’etnia correttamente intesa, in
rigorosa accezione antropologico-culturale, quale comunità di uomini
storicamente costituita entro prospettive e traiettorie dinamiche e
progressive.
Non mai un dato originario e definitivo, inerte
nell’invarianza, bensì sempre un “costrutto in progress”.
“Leonardo
Sciascia” osservava amaramente che ciascuno viene creduto e giudicato “per ciò
che dice di sé stesso”, non per ciò che è o fa!
Cosicché, “…un Marcel diventa / ogne villan che
parteggiando viene”, s’indigna Dante.
Sotto questo profilo il Belpaese è il migliore
dei mondi possibili. “Candide” è vivo e lotta insieme a noi.
“Prometeo”,
alla fine, torna in libertà, però soltanto previa accettazione della volontà
del dio-padre.
Nel
mito tragico eschileo, dove la storia si snoda religiosamente e
fatalisticamente “dentro il tempio”, questo epilogo appare come l’unica
composizione possibile della contraddizione.
E nei nostri sofferenti contesti di democrazia?
In
un’altra, più antica versione del mito di Pandora, dopo che tutti mali si sono
riversati nel mondo, per ultimo prende il volo un essere piccolo e fragile: la
speranza.
Un
male anch’essa, certamente, che sembra tuttavia buono, perché induce ad
attendere qualcosa di meglio.
Ad
attendere, direbbe Euripide, che, infine, un dio trovi la via.
Nel
mondo secolarizzato, “gli dei se ne vanno”.
“Spes”
ultima dea.
Cancellare
l’ANTICHITÀ significa
cancellare
la CIVILTÀ.
Cronacanumismatica.com –(12 Aprile 2021) –
Redazione – Roberto Ganganelli - ci dice:
Rilanciamo
l’appello pubblicato da” Le Figaro” sulla difesa dello studio dell’Antichità:
dimenticare
Atene e Roma quali effetti avrebbe sul nostro futuro?
È stato pubblicato sulle colonne del
quotidiano francese “Le Figaro” il 22 marzo 2021 e rilanciato in Italia, fra
gli altri, da “Il Foglio Quotidiano” il 5 aprile, con traduzione a cura di
Mauro Zanon, un appello firmato da 45 professori universitari francesi, belgi e
italiani (latinisti, ellenisti, storici e filosofi) esponenti di atenei di
primo livello e di lunghissima tradizione.
Già il
titolo dice tutto, Cancellare l’antichità dalla nostra cultura significa
rinnegare l’umanesimo.
Ma vale la pena leggere il testo per renderci
conto di quanto un simile manifesto tocchi anche coloro che, per studio o
passione, per carriera accademica o per sensibilità culturale, si occupano di
numismatica, primaria fra le discipline ausiliarie della storia e
dell’archeologia e che, proprio nell’Antichità, affonda dunque le sue radici.
Può lo
studio dell’Antichità essere “pericoloso”?
“Lo
studio dell’Antichità è nocivo.
È quanto affermano oggi alcuni professori di
storia antica, di latino e di greco in varie università americane.
Un
movimento partito da Stanford mette in discussione l’esistenza di queste
discipline (gli ‘studi classici’) nei campus universitari, sostenendo che
imporrebbero nell’istruzione un ‘suprematismo bianco di ispirazione
neocoloniale’ (come ha scritto” Raphaël Doan” sul “Figaro” Vox lo scorso 11 marzo).
A
tutto ciò, in Francia, si è aggiunto un dibattito sull’abbandono da parte dei
musei nazionali dei numeri romani in alcuni cartelli espositivi, perché il
pubblico non saprebbe più leggerli.
Invece di imparare i numeri romani,
cancelliamoli!
Gli
autori greci e latini, schiavisti e ostili ai barbari, erano dunque razzisti,
conservatori, guerrieri, imperialisti e misogini?
Non è
totalmente falso, ma sono lungi dall’essere gli unici nella storia, e ciò non
giustifica assolutamente la loro cancellazione senza uno sforzo di
contestualizzazione e di analisi delle loro posizioni nel quadro della epoca in
cui vissero, e non nel nostro.
Conoscere
per contestualizzare.
In
Omero, Achille è un sanguinario, ma il poeta gli mette in bocca una riflessione
toccante sul senso della vita.
Anche
Ettore trucida allegramente i suoi nemici, ma sembra più umano perché è una
vittima.
Se l’imperatore Augusto è un autocrate,
Cicerone è morto per avergli rimproverato, quando ancora si chiamava soltanto
Ottaviano, la sua complicità con Antonio.
Sant’Agostino
non ha messo sotto accusa la schiavitù, ma ha contribuito alla nostra
concezione di umanesimo moderno, e lo ha fatto in un’epoca in cui la” ricchissima cristiana Melania la
giovane” affrancava in massa i suoi schiavi”.
Dovremmo
dunque considerare, ad esempio, anche le monete che ricordano le conquiste
romane della Giudea o della Dacia solo dei simboli di prevaricazione e il
ricordo di stragi, sopraffazioni e assolutismi sanguinari, quasi delle “scorie
tossiche” da seppellire di nuovo dopo aver tanto lottato per studiarle,
svelarne i messaggi, collocarle correttamente nel mosaico dell’Antichità?
O
magari dovremmo mettere all’indice le coniazioni che ci mostrano le fatiche
d’Ercole perché il “brutale” eroe mitologico, con rara violenza, sopprima l’”Idra
di Lerna”, se la prende con il “leone di Nemea” o “maltratta”, per catturarla,
la “cerva di Cerina”?
Amnesia
del passato e negazione del futuro
“Cancellare
Atene e Roma dalla storia degli uomini – prosegue l’appello -, significa
ostracizzare la Ragione (il logos greco) e mettere al bando la Legge (i codici
giuridici romani).
Significa
uccidere Platone e calpestare la nozione di equità, inventata da Roma.
Per
ora teniamo da parte la questione della fede (Gerusalemme), se è possibile
farlo, cosa di cui dubitiamo.
Ciò
che ci sembra più importante è che la martellatura dell’Antichità, cancellata
dalle memorie come l’effigie dei proscritti a Roma, sia un tragico embargo
sulla memoria e un rifiuto della speranza, una negazione pura e semplice del
futuro.
L’adoperarsi con ogni mezzo per organizzare
l’amnesia del passato elimina qualsiasi speranza per il domani.
Virgilio
racconta nell’Eneide il modo in cui Enea è fuggito da Troia in fiamme, portando
il suo anziano padre sulle spalle.
Disegnando questa immagine in alcuni versi
magnifici, il poeta non parla solo di Enea, di Anchise, di Troia e di Roma, ma
anche di noi, oggi.
Ecco
il verso più bello nel racconto dello stesso Enea, che riporta le condizioni
della sua fuga:
“Cessi,
et sublato montes genitore petivi” (“Mi rassegnai e sollevato il padre mi diressi sui
monti”, II, 804).
C’è tutto in queste parole:
il passato e la sconfitta (Troia abbandonata),
il peso della tradizione (il genitore che la pietas filiale impone di salvare),
il futuro che si intravede in lontananza, così difficile da descrivere (i monti
all’orizzonte).
“André
Gide,” commentando questo verso straordinario, che chiude lo splendido “Canto
II dell’Eneide”, notava laconicamente, ma con giustezza:
‘Spettacolo dell’umanità’.
Gli
iconoclasti contemporanei dell’Antichità rifiutano di assistere allo spettacolo
della nostra imperfetta umanità, sia per odio di sé, sia per volontà mortifera
di autodistruzione o di convenienza politica, sia per paura.
Si
allontanano da loro stessi, si tradiscono e tradiscono l’umanesimo che – non ne
sono nemmeno consapevoli – trascende la loro piccola persona così come
l’umanità trascende il destino di Enea.
Non
lasciamoci andare al decadentismo ad ogni costo, mille ragioni ci trattengono
dal farlo.
Ma
come si può non pensare a” Cioran” quando scriveva che una ‘civiltà marcescente
scende a patti con il suo male?’.
Una
società malata, aggiungeva, ‘ama il virus che la consuma, non si rispetta più’.
Essa
non osa più affrontare la sua immagine autentica nello specchio della
letteratura, bensì indietreggia dinanzi all’oscurità della sua anima come la
storia la rivela.
Dovrebbe
invece farne il suo studio preferito, per capire meglio sé stessa ed
esorcizzare i suoi peggiori demoni […]
Per lo
storico, cancellare il passato equivale a un’epurazione; non serve a nulla
cancellarlo, e conoscerlo meglio è un’ardente pratica di consapevolezza”.
La
provocazione americana, la risposta europea.
Che il
movimento per l’ostracizzazione dell’Antichità sia partito dalla California, da
Stanford, non stupisce in fondo più di tanto.
In un paese dalla storia “giovane” come sono
gli Stati Uniti, infatti, e nel quale si mescolano echi di puritanesimo antichi e ondate di propaganda
all’insegna del più becero politically correct, prima o poi anche gli antichi
imperatori e tiranni (nell’originario senso greco del termine), Roma e Atene
dovevano finire sotto l’occhio miope del censore.
Peccato
che in questo caso la “vibrante protesta” non sia venuta da una congregazione
di mormoni dell’America profonda o da un contesto tradizionalmente rigido o
arretrato, ma abbia avuto origine in uno degli atenei più rinomati del Nord
America;
per fortuna che dalle università della
“vecchia Europa”, erede per tanta parte di quella Grecia e di quella Roma che
si vorrebbero cancellare, si è levata una risposta.
Un’altra
risposta possiamo darla noi numismatici, nel piccolo, proseguendo i nostri
studi e la divulgazione, diffondendo grazie alle monete dell’Antichità il
racconto del mondo che è stato, anche nelle sue contraddizioni e nell’evidenza
degli errori e degli orrori.
Notando
che, sì, sebbene non perfetti, anche grazie a quelle memorie siamo un po’
diversi e migliori e che, se lo vorremo, potremo crescere ancora.
Che
cos'è la “cancel culture”?
Una
pratica tra censura,
giustizia
e disparità di genere.
Lavialibera.it
- Beatrice Lasala - Monica Ianiro – (26 -luglio-2022) – ci dicono:
L'espressione
“cancel culture”, coniata negli Stati Uniti, si riferisce alla pratica di
"cancellare" chi si è reso protagonista di comportamenti giudicati
sbagliati.
Secondo
alcuni, è una tutela per le minoranze.
Per
altri, a causa della “cancel culture” rischiamo di perdere addirittura “la
libertà di parola”.
Ma è
davvero così?
Che cos'è veramente la” cancel culture” e come
si è diffusa nella società di oggi?
Secondo
il vocabolario Treccani, la “cancel culture” è un “atteggiamento di
colpevolizzazione, di solito espresso tramite i social media, nei confronti di
personaggi pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualche cosa di
offensivo o “politicamente scorretto” e ai quali vengono pertanto tolti
sostegno e gradimento”.
Dunque,
un principio di causa-effetto ragionevole.
Ma se
si tratta soltanto di questo, cosa c’è di male?
Alla
domanda fornisce qualche risposta la lettera pubblicata sulla rivista americana
“Harper’s” il 7 luglio 2020 intitolata
“A letter on justice and open debate”,
ovvero “Una lettera sulla giustizia e sul
dibattito aperto”.
Si tratta di un appello “contro la cancel culture”
firmato da 150 tra scrittori, artisti, giornalisti e intellettuali, schierati a
difesa della libertà di parola, a loro dire minacciata da questa pratica della
cancellazione.
Nella
lettera si legge:
“Il libero scambio di informazioni e di idee, linfa
vitale di una società liberale sta diventando ogni giorno più limitato (...) la censura si sta diffondendo in modo
più ampio nella nostra cultura”.
E
ancora: “Questa
atmosfera soffocante finirà per danneggiare le cause più vitali del nostro
tempo (...)
la limitazione del dibattito, sia da parte di un governo repressivo che da una
società intollerante, danneggia invariabilmente chi non ha potere e rende tutti
meno capaci di partecipare alla democrazia. (...) Come scrittori abbiamo bisogno di una
cultura che ci lasci spazio per la sperimentazione, l'assunzione di rischi e
persino per gli errori”.
Scrittori,
artisti, giornalisti e intellettuali hanno firmato un appello a difesa della
libertà di parola, a loro dire minacciata dalla pratica di cancellazione.
La
lettera ha suscitato critiche e prese di posizione a livello internazionale.
I firmatari sono stati accusati di non fornire
alcun riferimento a episodi di censura e dati che giustifichino il loro
allarme, e di non prendere abbastanza in considerazione le voci realmente
marginalizzate dal giornalismo mainstream, che sarebbero invece tutelate dalla
reazione sociale della” cancel culture”.
Una critica sostenuta in particolare da “socialisti democratici”
come “Alexandria Ocasio-Cortez”.
L’accusa più grave rivolta agli autori dell’iniziativa
è di avere enfatizzato la portata della “cancel culture”, parlando
"umiliazioni pubbliche" e “intolleranza” per sottrarsi, in realtà, a
qualsiasi forma di critica.
"Lavoro
contro l'odio. Salvini protetto speciale":
intervista esclusiva a una moderatrice di
Facebook.
La”
cancel culture” non è un’invenzione contemporanea.
Anche
se oggi il refrain è “non si può più dire e fare nulla”, la pratica ha origini
lontane nel tempo.
Nell’antica
civiltà dei greci l’istituzione giuridica ateniese dell'ostracismo consentiva
di condannare all’esilio per dieci anni un cittadino giudicato pericoloso
dall’assemblea popolare, chiamata a votare su cocci di terracotta, chiamati
appunto òstraka.
Anche i romani applicavano la “cultura della
cancellazione”, tramite la “damnatio memoriae”: una pena molto severa, che
consisteva nell’eliminazione di ogni testimonianza dell’esistenza di un
individuo o addirittura di un intero popolo.
Nei
secoli questo atteggiamento è stato ripreso più volte fino all'attuale “cancel
culture”, espressione coniata negli Stati Uniti, dove l’atto “to cancel someone” è definito sul
Cambridge dictionary come “to completely reject and stop supporting someone,
especially because they have said something that offends you”, vale a dire
“rifiutare e smettere completamente di supportare qualcuno, soprattutto perché
ha detto qualcosa che ti ha offeso”.
Nell'antica
Grecia gli ateniesi esiliavano i cittadini giudicati pericolosi dall’assemblea
popolare, mentre i romani con la damnatio memoria eliminavano ogni
testimonianza dell’esistenza di un individuo o di un intero popolo.
Il
concetto è entrato prepotentemente in scena nel dibattito pubblico e sui social
all’alba delle prime accuse di molestie sessuali dirette al famoso e potente
produttore cinematografico “Harvey Weinstein”.
Un processo lungo, partito dagli anni Novanta
e culminato nel 2017. Con quell’evento è nato il “Me Too” – un movimento femminista
contro le molestie sessuali e la violenza sulle donne – e tutte le sue varianti.
Si è
diffusa, inoltre, l’idea di una “cultura della cancellazione troppo soffocante”,
invisa soprattutto ai refrattari e ai paladini degli innocenti fino a prova
contraria.
Con la
nascita dei” social media”, la “cancel culture” è diventata una forma di
ostracismo difficile da monitorare:
ogni
utente ha il potere di cancellare chiunque per i più disparati motivi. Ad
esempio, nel 2018 l’attore comico “Kevin Hart” ha rinunciato a condurre gli
Oscar in seguito alle proteste dovute ad alcuni tweet omofobi pubblicati nel
2009;
Hart si era scusato più volte, rinnegando
quanto scritto in passato.
È giusto che alcuni commenti risalenti a quasi un
decennio prima finiscano per rovinare un’intera carriera?
In
Italia, durante la scorsa edizione del “Salone internazionale del libro di
Torino”, lo scrittore “Nicola Lagioia” è stato duramente criticato per i
violenti insulti sessisti rivolti in passato alla scrittrice “Melissa Panarello”,
nel frattempo divenuta sua amica.
Quanto è desiderabile ridurre la personalità
di chiunque a un solo deprecabile gesto?
E quando è invece iniquo perdonare solo perché la
persona in questione gode di uno status sociale "alto", il più delle
volte di gran lunga superiore a quello delle vittime?
Non è
una novità che le conseguenze delle azioni personali possano avere un peso
diverso in base al frangente e al soggetto che le compie. La “cancel culture” difende i più
deboli?
“Hate
speech”, quello che nessuno dice sull'odio online.
“Cancel
culture” tra statue e TikTok.
La
cultura della cancellazione ha coinvolto nel tempo anche statue e monumenti che
sono stati rimossi, vandalizzati o addirittura distrutti per ristabilire una
narrazione dei fatti che si ritiene più rispettosa della verità o delle
sensibilità contemporanee.
Pensiamo,
ad esempio, alle statue di Cristoforo Colombo abbattute a Minneapolis
(Minnesota) e a Richmond (Virginia), e imbrattate a Miami e Boston.
Azioni
volte a sottolineare le conseguenze nefaste dell’arrivo dell’esploratore
genovese sull’isola di San Salvador, situata nell’arcipelago delle Bahamas.
Un atto che, a prescindere dalla volontà di Colombo,
diede inizio alla conquista sanguinaria delle Americhe.
Le
implicazioni della questione sono molte, ma non tutte toccano la stessa
profondità.
La
pratica della “cancel culture” si è diffusa a macchia d’olio anche sulla
piattaforma di Tiktok (social che permette di realizzare video brevi di qualsiasi
tipo, solitamente inserendo canzoni o voci da doppiare), dove è sufficiente
pronunciare determinate parole per essere eliminati.
Un
esempio è la parola “negro”, ribattezzata n-word (letteralmente “parola che comincia
con la lettera n”), utilizzata dai colonizzatori bianchi americani per chiamare
gli schiavi africani.
Il
termine ha poi assunto un tono dispregiativo, fino a diventare un vero e
proprio insulto razzista.
Su
social come Tiktok la parola “negro” può essere utilizzata solo dalla black
community.
Se la
pronunciano i bianchi è considerata un insulto razzista e si rischia
l'eliminazione
Di fatto
oggi la” n-word” può essere utilizzata solo dalla black community, che dopo
decenni la rivendica come propria, perché derivante da una storia tristemente
condivisa.
Da tempo su Tiktok questa parola ha aperto
diverse questioni:
molti utenti bianchi sono stati cancellati,
nonostante le innumerevoli scuse, perché cantando hanno pronunciato la n-word.
Spesso i video considerati offensivi sono
datati, filmati da giovanissimi che non conoscono il significato del termine
(talvolta perché è in un’altra lingua).
Eppure
questo non basta per giustificarli: ormai sono stati cancellati.
Quel
bacio di troppo.
Anche
la produzione
Disney è
stata oggetto di tentativi di cancellazione: alcuni film hanno ricevuto pesanti
critiche e sono stati ritenuti offensivi perché trasmettono stereotipi e
messaggi obsoleti e razzisti.
Tra le opere in questione anche grandi
classici come Le avventure di Peter Pan, Il libro della giungla, Lilli e il
vagabondo, Gli Aristogatti, Dumbo e Biancaneve e i sette nani.
“Fabio
Cantelli Anibaldi”: "Siamo infestati da opinioni, chiacchiere e presunte
competenze".
Il
film del 1970 de “Gli Aristogatti”, ad esempio, è stato segnalato per il
personaggio del gatto siamese Shun Gon perché considerato una caricatura
razzista delle popolazioni dell'Asia orientale.
Il
gatto presenta tratti stereotipati abnormi, come gli occhi a mandorla e gli
incisivi sporgenti.
Inoltre,
canta in inglese con un marcato accento pseudo asiatico (tra l’altro doppiato
da un attore bianco) e suona il pianoforte con le bacchette.
Lilli
e il vagabondo, del 1955, ha ricevuto un'ammonizione simile per i personaggi dei gatti siamesi Si e Am e per i
personaggi canini secondari, rappresentati anch'essi con stereotipi etnici.
Peter
Pan, uscito nel 1953, è stato etichettato per la sua rappresentazione
stereotipata dei nativi e per il termine offensivo "pellerossa",
pronunciato più volte dal protagonista.
Similmente, Il libro della giungla, del 1967, segnalato per il personaggio di King Louie, una scimmia che canta il jazz, da
tempo considerata una caricatura offensiva e razzista per gli afroamericani.
Dumbo,
del 1941, è
ritenuto offensivo per i corvi e il numero musicale, omaggio ai” minstrel show
razzisti”, in cui gli artisti bianchi con facce annerite e vestiti a brandelli
imitavano e ridicolizzavano gli africani schiavizzati nelle piantagioni del
Sud.
Infine Biancaneve e i sette nani, al cinema
nel 1937,
criticato per la scena finale, ritenuta tutt'altro che romantica:
il
principe dà un bacio a Biancaneve senza il suo consenso, mentre lei sta
dormendo.
Secondo
il quotidiano “San Francisco Gate” “non può essere vero amore se solo una
persona è consapevole di quello che sta accadendo”.
In
seguito alle critiche, la Disney ha deciso di non rimuovere i film considerati
offensivi ma di inserire comunque delle avvertenze iniziali. Nella spiegazione
dei nuovi avvisi, sul “sito web Disney”, stories matter (ovvero "Disney,
le storie contano”) l’azienda scrive:
"Questi
stereotipi erano sbagliati allora e sono sbagliati oggi. Piuttosto che
rimuovere i contenuti, vogliamo riconoscerne l'impatto dannoso, imparare da
essi e avviare una conversazione per creare insieme un futuro più
inclusivo".
“Cancel
culture” e cinema.
La
cancel culture è diventata tema di dibattiti accesi soprattutto nel mondo del
cinema, dove è stata duramente criticata come attacco alla libertà individuale.
Richiamata
anche per commentare le conseguenze, ritenute ingiuste da una parte, delle
accuse rivolte a personaggi di spicco del mondo dello spettacolo.
Ne è
divenuto un emblema il caso dell’attore “Johnny Depp” e dell’ex-moglie “Amber
Heard”, tornato alla ribalta nei mesi scorsi con il processo per diffamazione
tra i due ex coniugi.
Nel
2016, quando sono arrivate le prime accuse contro il pirata più famoso dei
Caraibi, i social si sono riempiti di post di fan incredule, convinte che si
trattasse di un complotto orchestrato per colpire “Depp”.
E come
spesso succede quando una delle parti è donna, non sono mancati gli insulti a
sfondo sessuale, le minacce di stupro e di morte nei confronti di “Amber Heard”.
Solo pochi si sono preoccupati della carriera
della donna, anche lei attrice, mentre il nome di Depp è stato prepotentemente
associato al tema della cancel culture, tanto che l’attore, considerato una
vittima di cancellazione, ne è diventato una sorta di testimonial.
A
sentire i fan più incalliti, per colpa delle accuse lanciata da Heard, Depp
avrebbe perso il suo prestigio a Hollywood.
Preoccupazioni
che non sembrano provate dai fatti, per quanto addebiti del genere non giovano
all’immagine pubblica.
Dal
2016, oltre ad Animali Fantastici, Depp è stato protagonista di ben quattordici
progetti.
È vero
che è stato allontanato (non senza compenso) dalla “Warner” Bros, ma ciò è
avvenuto solo a fine 2020, quando la star ha perso la causa intentata contro il”
quotidiano inglese Sun,” che lo aveva definito wife beater ovvero
"picchiatore di moglie".
Anche
la cancel culture non giudica tutti allo stesso modo:
nella
querelle tra Johnny Depp e l'ex moglie Amber Heard, i fan si sono schierati
dalla parte dell'attore, mentre la donna è stata insultata e minacciata.
Ha
quindi senso parlare di “cancel culture” in questo caso?
Chi è
che viene realmente cancellato da questa pratica?
Prendiamo ad esempio l’attore “Kevin Spacey”
che, pur essendo sotto processo perché accusato di molestie, è stato scelto per
il nuovo film di “Franco Nero” e lo si è visto tranquillamente girare per le
strade di Torino, acclamato dai fan.
La “cancel
culture” è una pratica che non colpisce chiunque allo stesso modo.
C’è
chi riesce a proteggersi e continua a conseguire ruoli, fama e successo,
quantomeno fino a che non intervengano provvedimenti severi, e c’è invece chi
sembra attirare fin da subito insulti e chiusure, perde ruoli anche importanti
e, una volta passata la tempesta, deve impiegare anni per ripulire la propria
reputazione.
A
inizio articolo si è detto che la “cancel culture” è una conseguenza, una
reazione a determinate azioni o parole da parte di una maggioranza di persone
che oggi hanno gli strumenti – social essenzialmente – per colpire direttamente
chi si ritiene in errore.
Questo
è il motivo per cui case di produzione, case editrici e chi ha potere
decisionale preferisce allontanare, anche solo temporaneamente, un personaggio
che in un dato momento potrebbe risultare scomodo, o poco redditizio sul piano
commerciale.
Il
problema più grande della “cancel culture” resta però un altro ed è
l’impossibilità di redimersi, di commettere errori e imparare da essi per
crescere.
È richiesta la perfezione e si può solo
sperare di non sbagliare.
Il
cambiamento climatico può
provocare
il collasso di una civiltà?
Lararicci.blog.ilsole24ore.com
– (9 Febbraio 2023) - Lara Ricci – ci dice:
Condizioni
climatiche estreme possono spingere le popolazioni al di là dei limiti oltre i
quali riescono ad adattarsi?
Sfondare
la cintura di protezione formata da pratiche sviluppate nel corso dei secoli
per compensare ed attenuare tali avversità?
Una
grave siccità durata tre anni potrebbe essere all’origine della scomparsa dell’”impero
Ittita”, e potrebbe addirittura avere innescato alcuni degli eventi che hanno
portato al termine l’età del Bronzo nell’Asia occidentale, una fine repentina
che da tempo interroga e affascina gli studiosi.
È l’interessante ipotesi avanzata da uno studio di “Sturt
Manning “della “Cornell University” (Ithaca, NY) e di altri colleghi americani
e ciprioti pubblicato su “Nature”, studio che ha preso in considerazione
elementi paleoclimatici e archeologici, e in particolare antichissimi tronchi
d’albero ritrovati nel “tumulo funerario di re Mida” che si trova nel sito
archeologico di “Gordio”, nel centro dell’odierna Turchia.
È
proprio nel tumulo di re Mida nel “sito archeologico di Gordio” che sono stati
trovati i campioni di legno.
Nel
1300 a.C., infatti, il Mediterraneo orientale era dominato dai prosperi imperi
e regni degli Ittiti, degli Assiri, degli Egizi e dei Micenei. Solo 130 anni
dopo, nel 1170, gli stessi Stati erano in decadenza:
i sistemi
politici ittiti e micenei si erano dissolti, e l’impero Assiro e Egizio erano
ridotti alle loro regioni centrali.
Finiva
così l’età del bronzo (3000-1180 a.C.) e aveva inizio quella del ferro
(1180-330 a.C.).
Le cause di questo cambio di passo sono state
molto dibattute e comprendono cambiamenti nelle tecniche di lavorazione dei
metalli e belliche, grandi migrazioni, invasioni di una misteriosa alleanza
marittima di popoli navigatori, guerre interne, cambiamenti climatici, carestie
ed epidemie.
Ma restano molte domande sull’elemento
scatenante:
è
stato il cambiamento climatico a causare la carestia e di conseguenza le
guerre?
È
stata la carestia e la siccità a favorire le epidemie e le migrazioni?
O forse sono state le migrazioni a innescare
le epidemie?
La
ricerca pubblicata su “Nature” è andata a analizzare i ginepri coevi all’impero
Ittita – che per cinque secoli prosperò, resistendo a minacce di carattere
sociopolitico, economico o ambientale.
Tronchi
d’alberi che, come l’impero Ittita, si sono sviluppati nella semi-arida
Anatolia centrale.
Esiste
un campione di legno proveniente dal sito di Gordio nell’Anatolia centrale. Indica
gli anelli di accrescimento relativi al periodo di carestia.
Sono
stati esaminati gli anelli di accrescimento e l’aridità del clima è stata
valutata anche attraverso l’analisi di alcuni isotopi, mostrando così un lungo
e continuativo periodo di forte siccità aggravatasi ulteriormente tra 1198 e il
1196 a.C.
(Già
una decina di anni fa, del resto, ricercatori israeliani, studiando i sedimenti
del mare della Galilea avevano concluso che una siccità lunga circa 150 anni
aveva colpito la zona tra il 1250 e il 1100 a.C.).
È in
questo periodo che gli archivi reali si interrompono, e Hattusha”, centro
politico e religioso di questa civiltà, viene abbandonata.
Secondo
gli autori dello studio l’inedita aridità provocò una duratura carestia, poiché
i territori centrali dell’impero non avevano sbocco sul mare e dipendevano
dalla produzione regionale di grano e dall’allevamento, che sono
particolarmente vulnerabili alla siccità.
Serve
riflettere sulla” cancel culture”
per
recuperare il senso della memoria.
Avvenire.it
- Guido Bosticco – (30 marzo 2023) – ci dice:
I
luoghi fisici sono legati alla conoscenza di ciò che siamo stati e che val la
pena di riscoprire.
«La
geografia non è altro che la storia nello spazio, così come la storia è la
geografia nel tempo».
Questo
scriveva “Élisée Reclus”, geografo sovversivo francese di metà Ottocento, dalle
grandi intuizioni epistemologiche, più volte esiliato per le sue idee
anarchiche.
Significa che il paesaggio intorno a noi ci
dice molto, se non tutto, di ciò che è avvenuto nella storia in quell’area
geografica;
gli
elementi fisici sono strettamente legati a quelli sociali e antropologici.
In
fondo, i luoghi sono la risultante di chi li ha vissuti e di chi li vive.
Un
deserto racconta di popolazioni nomadi che non hanno costruito abitazioni nella
regione, una città isolata probabilmente testimonia di scambi commerciali,
linguistici e culturali;
la
posizione di un luogo di culto rispetto al palazzo del governo, del mercato
rispetto alle abitazioni sono indizi per leggere come una civiltà concepisce sé
stessa e il ruolo della popolazione rispetto alle istituzioni.
Se oggi arrivasse sulla terra un marziano,
potrebbe farsi un’idea delle economie e delle società attraversando Paesi e
continenti, semplicemente guardandosi attorno.
Ma non è solo una questione di tracce del
passato.
“Immanuel
Kant” sosteneva addirittura che «è la geografia a fondare la storia», perché la
nostra conoscenza si basa sull’esperienza percettiva, fisica, della natura e
della Terra, la cui descrizione, che è compito della geografia, sta quindi alla
base della nostra conoscenza del mondo.
Insomma, i luoghi fisici sono legati alla
conoscenza, alla comprensione e alla memoria.
Vediamo,
annusiamo e tocchiamo il mondo, lo descriviamo, cioè lo rappresentiamo, e sulla
base di ciò comprendiamo tutto il resto, correlando e contestualizzando le
nostre conoscenze pregresse.
Ne
consegue che ciò che c’è nel mondo (gli elementi del paesaggio attorno a noi)
influenza il nostro modo di pensare e di comportarci.
Per cui agire sull’estetica dei luoghi è un
atto politico.
Non è
difficile trovare esempi di questa teoria.
Il 19
febbraio del 1937, l’esercito fascista compì una strage di civili ad Addis
Abeba, in Etiopia.
Si
trattava di una rappresaglia per l’attentato al viceré “Rodolfo Graziani”,
avvenuto durante una manifestazione pubblica.
La vendetta fu tremenda: ventimila civili
uccisi.
In Etiopia quel massacro viene commemorato
ogni anno e un obelisco, in una piazza che porta il nome di quella data in
etiope,” Yekatit 12”, lo ricorda.
Viceversa,
in Italia questo evento non è certamente noto a tutti e la brutalità del
passato coloniale del nostro Paese è ben poco presente nella coscienza
collettiva.
Se è
vero che non vi sono più monumenti o luoghi intitolati a Mussolini o a gerarchi
del partito, è altrettanto vero che l’Italia pullula di vie e piazze con nomi
esotici quali “Amaba Aradan”, “Massaua”, “Adua”, “Tripoli”, che non sono un
tributo alla bellezza dell’Africa, bensì le tracce celebrative del colonialismo
fascista, create proprio negli anni in cui nasceva l’Impero, e sopravvissute
fino a noi.
Lo
scorso autunno il Consiglio comunale di Roma ha approvato una mozione che,
oltre a istituire una giornata della memoria delle vittime del colonialismo
italiano, stabilisce di aggiungere, sotto i cartelli dei nomi di vie e piazze
legati a quel periodo, una brevissima spiegazione, che permetta a tutti di
contestualizzarli.
Oltre
a Roma, anche Milano, Bologna e Torino hanno presentato mozioni simili, per
apporre targhe o “QR code” che spieghino e inquadrino quelle scelte
odonomastiche, storicamente definite.
Invece
di cancellare i nomi, sostituendoli con altri simboli, oggi accettabili, si
sceglie di lasciarli e di spiegarne la genesi.
In
altri casi, storicamente si è preferito togliere dalla vista pubblica i simboli
di un passato che non risultava più ammissibile o che si voleva narrare in modo
nuovo, o ancora che si voleva condannare all’oblio.
Dalla
profanazione delle tombe, con la sparizione delle salme di faraoni come “Akhenaton”,
alla deturpazione di statue dei defunti, come “Sargon” in Mesopotamia, dalla
sostituzione dei nomi di sovrani sul “Codice di Hammurabi”, alla “damnatio
memoriae del diritto romano, in cui non solo le effigi, ma anche le opere del
condannato venivano distrutte, passando per l’iconoclastia cristiana prima e
musulmana poi, fino al processo di destalinizzazione voluto da “Chrušcëv”:
per
motivi e in modi assai diversi la «cancellazione» è un’arma politica.
Non
c’è da stupirsi quindi che oggi si parli di “cancel culture” in tutte le
occasioni, soprattutto polemiche.
È
un’etichetta orecchiabile, che però viene sistematicamente travisata e
sfruttata ai fini del dibattito politico di alto e basso livello, per difese
ideologiche spesso intransigenti.
In
realtà, non tutto è “cancel culture” ciò che viene definito così, dal momento
che filologicamente si tratta di un movimento sorto attorno al 2008 da gruppi
di protesta organizzati sui social network, in una comunità chiamata “Black
Twitter”, attiva sui temi del razzismo e della discriminazione delle minoranze.
Dunque qualcosa di molto specifico, con un intento culturale, politico e
sociale.
Ma la
memoria c’entra comunque, in quanto elemento cardine della cultura condivisa.
La memoria si costituisce di elementi
individuali e collettivi, interiori ed esteriori, connessioni di immagini,
parole e luoghi; essa è in grado di influenzare la cultura di un gruppo sociale
e l’identità individuale che ognuno di noi percepisce dentro di sé. La cosa
curiosa è che la memoria risiede, in larga misura, anche fuori da noi, cioè
nelle cose, nei luoghi, che diventano attivatori di pensieri, simboli, idee e
visioni del mondo.
Noi trasmettiamo la memoria attraverso racconti che
trovano spazio in luoghi fisici e in forme estetiche:
una stele, una colonna, un palazzo, un tempio,
un affresco, un monumento, una piazza.
Luoghi
che diventano “sacri”, poiché diventano l’oggetto stesso della memoria, anzi
della commemorazione.
Lì
colpisce la nemesi della “cancel culture”:
i
luoghi, le parole, i simboli, le interpretazioni. E prima di derubricarla ad
atto di ignoranza, faremmo bene a riflettere su di essa.
SALVATORE
BRAVO – IL MITO DEL PROGRESSO E PASOLINI.
IL SIMULACRO (CAPITALISMO) NON NASCONDE LA
VERITÀ
, MA
NON HA VERITÀ E TEME DI SVELARE IL NULLA CHE È.
Blog.petiteplaisance.it
– (12 Gennaio 2020) – Salvatore Bravo – Pier Paolo Pasolini – ci dicono:
Il
mito del progresso e Pasolini.
Pier
Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975) nei suoi scritti letterari analizza
la metamorfosi storica che sta coinvolgendo e travolgendo la società a lui
coeva.
I suoi
scritti attraversano il tempo, poiché il suo sguardo intelligente ha pensato e
vissuto la radicalità delle mutazioni antropologiche e culturali avvenute in
Italia nel secondo dopoguerra.
Si può
accostare Pasolini a Costanzo Preve, a Gramsci, in quanto ha vissuto come loro
l’esperienza della solitudine.
Non si è omologato all’opinione ricorrente, ma
ha avuto il coraggio della verità, della resistenza civile e della coerenza.
Pasolini
ha letto – dietro il postulato del progresso – la distruzione della cultura del
molteplice, delle espressioni vitali e linguistiche in nome dell’omologazione
del consumo.
Costanzo
Preve la definirà “irrilevanza”.
In Gramsci il “cretinismo specialistico” è la
concretizzazione della morte della verità e del pensiero plurale e polivoco.
Pasolini
nei suoi scritti diviene cantore della verità contro la superstizione del
progresso ad ogni costo, contro il semplicismo in base al quale il domani è
sempre migliore dell’oggi e del passato.
Non si
tratta di passatismo, ma di analisi critica e consapevole della complessità
ideologica del mito del progresso.
Il mito serve a passivizzare i popoli, ad
inibire la domanda e la partecipazione collettiva.
Dietro
la bandiera progresso non vi sono i popoli che si emancipano, che rompono le
catene che li imprigionano nella caverna, ma interessi lobbistici e di classe.
Lo
stupro dell’ambiente e delle culture popolari in nome della felicità che verrà,
in nome del consumo, ha la sua verità nei potentati capitalistici i quali hanno
l’obiettivo di mutare non solo una cultura, ma la natura umana, la quale deve
specializzarsi nel consumo.
A
“scuola” di consumo.
Il
nichilismo è la verità del capitalismo, delle folle addestrate a desiderare con
il consumo la morte di dio e di ogni idea del sacro e di socialità.
Il potere non vive racchiuso nella sua “turris
eburnea”, ma circola, è veicolo di trasformazione, entra nel corpo vissuto per
reificarlo.
La
diffusione della cultura del consumo non può che avvenire attraverso le
istituzioni ed i mezzi di comunicazione.
Pasolini si spinge fino alla provocazione
estrema:
abolire la scuola dell’obbligo e la
televisione, perché esse non sono al servizio del cittadino, ma al servizio del
capitale.
Nella
scuola il genocidio culturale delle masse si realizza in modo compiuto e
subdolo.
La
scuola, che dovrebbe formare l’uomo ed il cittadino, in realtà forma il
funzionario del mercato, l’uomo dei soli fatti e consumi.
La scuola è il luogo dove le catene
dell’infelicità vengono forgiate mediante la negazione delle identità popolari
e dei soggetti.
In essa si educa a frammentare la comunità ed
il soggetto per renderlo suddito del capitale.
Il
vero nemico non è il fascismo, non è il mondo clericale, ma il capitalismo
nelle sue forme assolute.
L’infelicità
generale causa dipendenze compensatorie utili al sistema capitale.
Sudditi
infelici sono facilmente governabili e manipolabili.
Nel
regno della monocultura feudale.
L’analisi
di Pasolini sulla scuola ci riporta alla verità della monocultura contemporanea
anglofona e mercantile, nella quale gli alunni imparano che essere precari e
sradicati è una forma di progresso.
Si può
ipotizzare che la pubblica avversione verso il latino celi il desiderio di
occultare la verità che diventa palese nell’etimologia delle parole.
La
parola precario deriva dal latino prex-precis “preghiera”.
Nelle scuole
si insegna il neofeudalesimo, si impara ad essere precari, a dipendere dal
favore e dal capriccio del capitale.
Il nuovo signore e padrone ha la forma del
capitale che rende servo chiunque dipenda dal suo potere.
Ci si rimette al suo capriccio, alle leggi
della finanza come un tempo ci si rimetteva nelle mani di Dio ed alla
provvidenza.
Per sopravvivere le scelte devono essere a
misura di capitale/capitalista mondialista.
Ogni
cultura identitaria e collettiva è spazzata via, non resta che il narcisismo di
massa con i miti superstiziosi del consumo.
Pasolini
intravide nella scuola un luogo di allevamento e non di educazione.
La televisione in tale contesto è il mezzo che
con le sue immagini patinate, con i suoi modelli sociali entra in ogni salotto,
accomuna nella separazione degli individui.
La
scuola ed i mezzi mediatici, oggi plurali, agiscono in una comunione di
obiettivi che rende saldo il potere del capitale, ogni essenza generica
“Gattungswessen” è negata per produrre consumatori con la forma mentis del solo
calcolo personale e dell’utile.
Lo
scandalo che muove i suoi scritti è un’invocazione alla resistenza civile, ad
uscire dal semplicismo del dogmatismo superstizioso con i suoi automatismi che
si trasforma in violenza, in delinquenza relazionale, poiché i modelli proposti
sono fonte di frustrazione, in quanto irraggiungibili, e specialmente minano
l’equilibrio delle nuove generazioni.
L’illimitato consumo e narcisismo proposto da
televisione e scuola ha l’effetto di destabilizzare la psiche, il carattere ed
i talenti delle nuove generazioni.
L’alienazione
(Entfremdung) e la violenza che ne consegue è così resa normale prassi del
quotidiano:
«Si
lamenta in Italia la mancanza di una moderna efficienza poliziesca contro la
delinquenza.
Cioè
che io soprattutto lamenterei è la mancanza di una coscienza informata di tutto
questo, e la sopravvivenza di una retorica progressista che non ha più nulla a
che fare con la realtà.
Bisogna oggi essere progressisti in un altro
mondo;
inventare
una nuova maniera di essere liberi, soprattutto nel giudicare, appunto, che ha
scelto la fine della pietà.
Bisogna ammettere una volta per sempre il
fallimento della tolleranza. Che è stata, s’intende, una falsa tolleranza, ed è
stata una delle cause più rilevanti nella degenerazione delle masse dei
giovani.
Bisogna insomma comportarsi, nel giudicare, di
conseguenza e non a priori (l’a priori progressista valido fino a una decina
d’anni fa).
Quali
sono le mie due modeste proposte per eliminare la criminalità? Sono due
proposte Swift, come la loro definizione umoristica non si cura minimamente di
nascondere.
1)
Abolire immediatamente la scuola media dell’obbligo.
2)
Abolire immediatamente la televisione.
Quanto
agli insegnanti e agli impiegati della televisione possono anche non essere
mangiati, come suggerirebbe “Swift”:
ma
semplicemente possono essere messi sotto cassa integrazione.
La
scuola d’obbligo è una scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo
borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche,
anche nei casi migliori (cioè quando si invita adulatoriamente ad applicare la
falsa democraticità dell’autogestione, del decentramento ecc.: tutto un
imbroglio).
Inoltre
una nozione è dinamica solo se include la propria espansione e approfondimento:
imparare
un po’ di storia ha senso solo se si proietta nel futuro la possibilità di una
reale cultura storica.
Altrimenti,
le nozioni marciscono:
nascono morte, non avendo futuro, e la loro
funzione dunque altro non è che creare, col loro insieme, un piccolo borghese
schiavo al posto di un proletario o di un sottoproletario libero (cioè
appartenente a un’altra cultura, che lo lascia vergine a capire eventualmente
nuove cose reali, mentre è ben chiaro che chi ha fatto la scuola d’obbligo è
prigioniero del proprio infimo cerchio di sapere, e si scandalizza di fronte ad
ogni novità).
Una buona quinta elementare basta oggi in
Italia a un operaio e a suo figlio.
Illuderlo di un avanzamento che è una
degradazione è delittuoso: perché lo rende:
primo,
presuntuoso (a causa di quelle due miserabili cose che ha imparato);
secondo
(e spesso contemporaneamente), angosciosamente frustrato, perché quelle due
cose che ha imparato altro non gli procurano che la coscienza della propria
ignoranza.
Certo
arrivare fino all’ottava classe anziché alla quinta, o meglio, arrivare alla
quindicesima classe, sarebbe, per me, come per tutti, l’optimum, suppongo.
Ma
poiché oggi in Italia la scuola d’obbligo è esattamente come io l’ho descritta
(e mi angoscia letteralmente l’idea che vi venga aggiunta una “educazione
sessuale”, magari così come la intende lo stesso “Paese Sera”), è meglio
abolirla in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo. (È questo il
nodo della questione).
Quanto
alla televisione non voglio spendere ulteriori parole:
cioè
che ho detto a proposito della scuola d’obbligo va moltiplicato all’infinito,
dato che si tratta non di un insegnamento, ma di un “esempio”:
i
“modelli” cioè, attraverso la televisione, non vengono parlati, ma
rappresentati.
E se i modelli son quelli, come si può
pretendere che la gioventù più esposta e indifesa non sia criminaloide o
criminale?
È
stata la televisione che ha, praticamente (essa non è che un mezzo), concluso
l’era della pietà, e iniziato l’era dell’edone.
Era in
cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e
insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla
televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla
delinquenza o passivi fino alla infelicità (che non è una colpa minore).
Ora,
ogni apertura a sinistra sia della scuola che della televisione non è servita a
nulla:
la
scuola e il video sono autoritari perché statali, e lo Stato è la nuova
produzione (produzione di umanità).
Se dunque i progressisti hanno veramente a
cuore la condizione antropologica di un popolo, si uniscano intrepidamente a
pretendere l’immediata cessazione delle lezioni alla scuola d’obbligo e delle
trasmissioni televisive.
Non sarebbe nulla, ma sarebbe anche molto:
un Quarticciolo senza abominevoli scuolette e
abbandonato alle sue sere e alle sue notti, forse sarebbe aiutato a ritrovare
un proprio modello di vita.
Posteriore a quello di una volta, e anteriore
rispetto a quello presente. Altrimenti tutto ciò che si dice sul decentramento
è scioccamente aprioristico o in pura malafede.
Quanto ai collegamenti informativi del
Quarticciolo – come di qualsiasi altro “luogo culturale” – col resto del mondo,
sarebbero sufficienti a garantirgli i giornali murali e “l’Unità”:
e soprattutto il lavoro, che, in un simile
contesto, assumerebbe naturalmente un altro senso, tenendo a unificare una
buona volta, e per autodecisione, il tenore di vita con la vita».
Genocidio culturale.
Si
concretizza nelle scuole e nei mezzi di comunicazione ad un nuovo tipo di
genocidio:
non si
eliminano gli esseri umani, ma la loro diversità, la storia stratificata di
generazioni veicolata mediante linguaggi, gestualità e parametri valoriali
differenti.
Dinanzi
al quotidiano genocidio delle identità collettive e individuali, Pasolini non
ha arretrato, ne ha denunciato le storture e le complicità consapevoli ed
inconsapevoli constatando che la violenza è divenuta la legge della società a
dimensione capitale e che i delitti devono essere letti in modo concreto,
riportandoli al contesto strutturale e sovrastrutturale in cui accadono,
altrimenti si cade in astrazioni irrazionali:
«Ma se
la seconda rivoluzione industriale – attraverso le nuove immense possibilità
che si è data – producesse da ora in poi dei “rapporti sociali “immodificabili?
Questa
è la grande e forse tragica domanda che oggi va posta.
E
questo è in definitiva il senso della borghesizzazione totale che si sta
verificando in tutti i paesi: definitivamente nei grandi paesi capitalistici,
drammaticamente in Italia.
Da
questo punto di vista le prospettive del Capitale appaiono rosee.
I
bisogni indotti dal vecchio capitalismo erano in fondo molto simili ai bisogni
primari.
I
bisogni invece che il nuovo capitalismo può indurre sono totalmente e
perfettamente inutili e artificiali.
Ecco
perché, attraverso essi, il nuovo capitalismo non si limiterebbe a cambiare
storicamente un tipo d’uomo: ma l’umanità stessa.
Va
aggiunto che il consumismo può creare dei “rapporti sociali” immodificabili,
sia creando, nel caso peggiore, al posto del vecchio clerico-fascismo un nuovo
tecno-fascismo (che potrebbe comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi
anti-fascismo), sia, com’è ormai più probabile, creando come contesto alla
propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso
laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili.
In
ambedue i casi lo spazio per una reale alterità rivoluzionaria verrebbe
ristretto all’utopia o al ricordo: riducendo quindi la funzione dei partiti
marxisti ad una funzione socialdemocratica, sia pure, dal punto di vista
storico, completamente nuova».
Il
senso del “politico.”
Pasolini
ci insegna ad avere la chiarezza sul nemico.
La
lotta è possibile quando si ha la chiarezza del nemico, che non è più il mondo
clerico-fascista, ma il capitalismo assoluto dei nostri giorni.
Senza
la chiarezza sul nemico non vi può essere alternativa, ma solo complicità
inconsapevole con le strutture di potere.
L’impegno
primario dev’essere, così, svelare il volto del nemico:
in tal modo si reintroduce nel reale storico e
sociale il principio di realtà, senza il quale è impossibile organizzare ogni
resistenza individuale e collettiva.
L’articolo
pubblicato da “Il Corriere della Sera “è stato scritto poche settimane prima
del suo omicidio, è il suo testamento spirituale, e specialmente indica il
percorso da intraprendere per uscire dalla caverna scuola-televisione.
Il suo messaggio oggi è più vero che mai.
La
scuola azienda attuale ha rinunciato a leggere il presente per diventare parte
del sistema mediatico, cellula della germinazione del capitalismo, della
seduzione e della menzogna.
Il
politico deve svelare che il simulacro (capitalismo mondialista) come si
afferma nel “Qoelet” non nasconde la verità, ma non ha verità, è nichilismo
ideologico che teme di svelare il nulla che è.
“Salvatore
Bravo “
EMANUELE
SEVERINO E LA TECNICA:
ALCUNE
RIFLESSIONI DAL PUNTO
DI
VISTA DELLA TEORIA ECONOMICA.
Eticaeconomia.it
– Gianluigi Coppola – (15 LUGLIO 2020) – ci dice:
Gianluigi
Coppola indica un legame tra il pensiero di Emanuele Severino sulla tecnica e
la teoria economica mainstream. Per Severino oggi viviamo nel mondo della
tecnica, che ha accresciuto il proprio peso nel corso della storia
trasformandosi da mezzo a fine.
Secondo
Coppola un cambiamento simile si riscontra nella teoria della crescita
economica che, nella versione mainstream dipende dal progresso tecnico ed è
concepita non come un mezzo per il raggiungimento di un maggiore benessere
sociale ma come un fine in sé stessa.
Nel
corso del Novecento molti filosofi hanno riflettuto sulla tecnica;
i più noti sono, probabilmente, Husserl,
Horkheimer e Adorno della Scuola di Francoforte e Heidegger.
Tra di
essi deve essere certamente annoverato il filosofo italiano Emanuele Severino, scomparso lo scorso gennaio, che ha
riservato alla tecnica un ruolo centrale nel suo pensiero attraverso molti
interventi e numerose pubblicazioni, tra le quali, Téchne, le radici della violenza (1979 ed edizioni successive) e Il Destino della Tecnica (1998).
In
questa breve nota si vuole proporre un parallelismo tra il pensiero di Saverino
e la teoria economica del ‘900, con particolare riferimento al pensiero
neoclassico.
Il
Pensiero di Emanuele Severino.
Sono
due gli aspetti essenziali nel pensiero di Severino.
Il
primo è che la tecnica da mezzo dell’agire umano per raggiungere risultati e
per ottenere scopi si è trasformata essa stessa in fine.
Il
secondo aspetto, che è forse quello più interessante dal punto di vista della
teoria economica, è che in una società in cui la tecnica diventa fine, essa si
pone in conflitto con la giustizia, e con qualsiasi altra dimensione che ne
contrasti la crescente potenza.
Per “Severino”
“la
tecnica sta all’inizio della nostra civiltà ma il suo dominio è andato sempre
più crescendo ed oggi noi viviamo nel dominio della tecnica e ogni aspetto
della nostra vita dipende dal modo in cui la tecnica ha organizzato l’esistenza
dell’uomo sulla terra” (Storia del Pensiero Occidentale, a cura di E. Severino,
Vol. 1, Mondadori 2019).
In
altri termini, secondo il filosofo, la tecnica non solo ha accresciuto il
proprio peso nel corso della storia, ma soprattutto ha cambiato ruolo:
la
tecnica da mezzo o strumento, è diventata fine.
Ed è
proprio tale mutamento qualitativo ad essere fondamentale per la nostra
società, tanto che oggi si può parlare di dominio della tecnica.
Come
si è avuto tale cambiamento?
Secondo “Severino” le forze della tradizione
occidentale, ovvero il sapere filosofico, il cristianesimo, l’illuminismo, il
capitalismo, la democrazia, il comunismo, inizialmente hanno concepito la
tecnica come uno strumento, come un mezzo, guidato dalla concettualità della
scienza moderna [E. Severino, Il Destino della Tecnica, BUR Rizzoli, 1998].
Tuttavia, tali forze, in conflitto tra loro,
si combattono usando proprio la potenza tecnologica come mezzo.
Ad esempio, sono in conflitto tra loro il
capitalismo e la democrazia poiché lo scopo del capitalismo è l’incremento
indefinito del profitto privato, mentre quello della democrazia è far sì che la
società sia guidata dalla libertà e dalla eguaglianza e non dalla
diseguaglianza provocata dall’incremento del profitto privato [E. Severino, DIKE, Adelphi 2015].
Utilizzando come mezzo proprio la potenza tecnologica sono portate ad
incrementarla all’infinito per aumentare ciò che dà loro potere, per
sconfiggere le forze antagonistiche.
In tal
modo la tecnica, da mezzo è diventata fine.
Tale
cambiamento di ruolo della tecnica, da mezzo a fine, incide profondamente sul
rapporto tra la tecnica stessa e la giustizia.
Al
fine di aumentare indefinitamente la propria potenza, la tecnica non deve
incontrare ostacoli, né deve trovare davanti a sé alcuna forza limitante che
può costringerla a non andare oltre certi limiti.
Per “Severino”
la forza per antonomasia che può limitare la tecnica è la verità, ovvero il
sapere epistemico, e la spiegazione che dà è la seguente.
Se il
sottosuolo filosofico del nostro tempo – che il filosofo individua in Leopardi,
Nietzsche, Gentile – mostra l’impossibilità dell’esistenza di un eterno, perché
l’eterno blocca la potenza, allora esso mostra anche l’impossibilità di un
concetto assolutistico di giustizia.
Quindi,
anche la giustizia appartiene a quel passato di cui la tecnica si libera.
Si va
tendenzialmente verso un concetto di giustizia dove l’individuo ha il dovere e
il compito, ma è anche sottoposto alla necessità, di favorire l’incremento
della potenza.
In
tale contesto Giustizia significa, quindi, non ostacolare tale incremento.
L’uomo della tecnica autentica sarà costretto
ad assecondare il potenziamento indefinito della tecnica e in ciò consisterà la
giustizia della tecnica, ovvero nella “adeguazione di ogni forma di agire allo
scopo supremo e fondamentale della tecnica: l’incremento indefinito della
capacità di realizzare scopi” [E. Severino, DIKE cit.].
Tuttavia,
per Severino il dominio della tecnica non può considerarsi un sistema stabile,
proprio per il fatto che la tecnica, dovendo rinunciare alla verità per essere potente, non sarà in grado di fornire una
risposta definitiva sulla giustizia che è fondata sulla verità.
Pertanto, rivelandosi la tecnica stessa una
contraddizione – un paradiso che si rileva inferno – anche il concetto di
giustizia che essa propone, non può essere considerato definitivo e sarà esso
stesso destinato a tramontare.
La
Teoria Economica.
Dopo
aver descritto, in modo molto sintetico, il pensiero di Severino secondo il
quale nella società della tecnica in cui viviamo, la tecnica è il fine, e in
quanto priorità assoluta, relega la giustizia ad un ruolo strumentale rispetto
ad essa, ci si chiede qual è la posizione della teoria economica mainstream al
riguardo.
È bene
avvertire subito che è difficile dare una risposta netta e definitiva al
quesito posto, sia in senso affermativo che negativo.
Tuttavia,
si ritiene utile porre il problema ed offrire una seppur breve riflessione su
tali temi.
In un
sistema economico il rapporto tra il progresso tecnico e la giustizia è
complesso.
Esso è
altresì mediato dal reddito poiché il progresso tecnico contribuisce a generare
il reddito e dalla distribuzione del reddito dipende il grado di giustizia di
una società.
Si
ricorda, per inciso, che nel libro V dell’Etica Nicomachea, Aristotele, dopo
aver introdotto la distinzione tra la giustizia intesa come rispetto della
legge e la giustizia intesa come equità, suddivide quest’ultima in due specie:
la giustizia distributiva, che concerne ciò che si può
ripartire (onori e ricchezze) tra i membri di una comunità e la giustizia
correttiva.
Nel
pensiero neoclassico la crescita economica si basa essenzialmente sulla
accumulazione del capitale e sulla tecnologia.
Il
principale risultato del modello di R. M. Solow (“A Contribution to the Theory
of Economic Growth”, The Quarterly Journal of Economics 1956) è che la crescita
economica in condizione di stato stazionario (steady state) è pari al progresso
tecnico.
È infatti il progresso tecnico, grandezza
assunta come esogena, a garantire l’aumento del reddito pro capite, cosicché
quest’ultimo può essere considerato una misura del progresso tecnico.
Anche
la distribuzione del reddito, tra lavoro e capitale, è assunta come esogena.
Si viene così a stabilire un rapporto
strettissimo tra progresso tecnico e benessere materiale.
La
corrispondenza tra reddito pro capite e progresso tecnico può essere
addirittura considerata un giudizio di valore:
la crescita del reddito pro capite assume un valore
positivo perché essa stessa può essere considerata una misura del progresso
tecnico.
Proprio
l’esogeneità del progresso tecnico è uno dei motivi di insoddisfazione verso
questo approccio che sta alla base della nascita e dello sviluppo della teoria
della crescita endogena, iniziata da Romer nel 1986 ma nella quale si può
includere anche il contributo di J.K. Arrow (“The Economic Implications of
Learning by Doing”, The Review of Economic Studies, 1962) il cui principale
obiettivo è individuare i meccanismi che rendono endogeno il progresso tecnico.
Anche
la teoria della crescita endogena si concentra sui fattori che rendono
controllabile la crescita economica, preoccupandosi poco degli effetti sulla
distribuzione del reddito.
La
distinzione tra efficienza ed equità è evidente nella teoria dell’economia del
benessere.
Il
primo teorema del benessere stabilisce che il mercato può garantire
l’allocazione efficiente delle risorse ma che esso da solo può non trovare una
soluzione accettabile al problema distributivo della società.
Il
secondo teorema sancisce la necessità di un intervento di tipo politico, che
risolva il problema dell’equità sociale attraverso una ridistribuzione delle
dotazioni.
I due teoremi dell’economia del benessere
stabiliscono un ordine lessicografico tra il raggiungimento dell’efficienza e
la distribuzione del reddito, subordinando quest’ultima alla prima. Ma è
proprio il dover ricorrere ad un intervento di tipo ridistributivo, che
potrebbe risultare in contrasto, qualora incida sugli incentivi individuali
alla produzione, con l’efficienza e con la tecnica, perché limitante del potere
di quest’ultima.
In
conclusione.
Oggigiorno
la crescita economica, misurata attraverso la crescita del Pil pro capite, è il
principale metro di valutazione dell’azione di un Governo.
Come è
stato argomentato prima, essa è correlata con il progresso tecnico tanto che,
secondo il “modello di Solow,” in condizione di stato stazionario, coincide con
il progresso tecnico.
Il
punto dirimente è capire se la crescita economica è un mezzo per l’ottenimento
di altri fini, quali, ad esempio, il benessere sociale, la riduzione della
povertà, una più equa distribuzione del reddito, il miglioramento delle
condizioni di salute della popolazione e della qualità della vita, la tutela e
la salvaguardia dell’ambiente oppure è fine a se stessa e può essere
considerata alla stregua di uno stabilizzatore sociale.
Adam
Smith, nella “Ricchezza delle Nazioni” (1776), sostiene che l’aumento del
reddito, determinato dall’arte, dalla destrezza e dall’intelligenza con cui si
esercita il lavoro, è il mezzo per fare in modo che tutte le persone, anche
coloro che non lavorano, risultino abbondantemente provvisti del prodotto
complessivo del lavoro sociale.
Nella
Introduzione alla “Ricchezza delle nazioni” Smith scrive che le nazioni che “vivono in una povertà
così orribile che soltanto per bisogno si trovano spesso ridotte, o almeno
credono di esserlo, alla necessità di eliminare bambini, vecchi e ammalati
inguaribili…” mentre …”nelle nazioni civili e floride, all’opposto…”la parte di
necessità e comodità della vita di cui può godere un operaio frugale e
industrioso anche del più umile dei ceti poveri, sarà sempre maggiore di quella
che può ottenere un selvaggio”.
In
altri termini, le nazioni ricche non si trovano nella condizione di non poter
curare la parte debole della popolazione, ovvero bambini, vecchi ed ammalati
inguaribili
Al
contrario, se la crescita economica si risolve meramente in uno spostamento in
avanti dei vincoli di scarsità e in un aumento generalizzato dei livelli di
consumo, senza tradursi in un miglioramento delle condizioni di vita
soprattutto della parte della popolazione più debole, come bambini ed anziani,
se negli Stati Uniti i ceti più ricchi preferiscono attraversare una pandemia
piuttosto che contemplare la possibilità di una società più equa (J. Stiglitz,
Intervista alla trasmissione televisiva “Report”, 13 aprile 2020), se ci si
“accontenta di affermare che il reddito nazionale è aumentato di una certa
percentuale, e a trarne all’occasione motivo di compiacimento, anche se nel
contempo Venezia affonda con i suoi tesori architettonici ed artistici” (F. Caffè,
Lezioni di Politica Economica, Bollati Boringhieri, 1978), allora è lecito
pensare che la crescita economica sia fine a se stessa, e che sia una proxy del
progresso tecnico piuttosto che uno strumento per il raggiungimento di altri
fini, quali, ad esempio, un accettabile livello di giustizia sociale.
In tal caso le tesi di Emanuele Severino, sintetizzate
in questo articolo, troverebbero una triste conferma.
(GIANLUIGI
COPPOLA)
Accordo
Italia-Ucraina:
Sinagra
e Trabucco
Smascherano
il Governo.
Conoscenzealconfine.it
– (6 Marzo 2024) - i Augusto Sinagra e Daniele Trabucco – ci dicono:
“Sinagra”
e “Trabucco” smascherano il governo Meloni: sull’accordo tra Italia ed Ucraina
è necessaria la legge di autorizzazione alla ratifica del Parlamento.
In
occasione dell’ultimo G7 è stato stipulato, in data 24 febbraio 2024, un
accordo di cooperazione tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Ucraina
nel quale si prevede, per un periodo di tempo pari a dieci anni, che il nostro
Paese continui a fornire assistenza a Kiev nell’ambito della difesa militare.
L’obiettivo è quello di ripristinare
l’integrità territoriale dell’Ucraina e scoraggiare futuri attacchi,
specialmente da parte della Federazione Russa.
L’accordo
contiene, inoltre, alcuni principi in materia di industria di difesa, di
formazione ed istruzione, di riforma del sistema di sicurezza e difesa
dell’Ucraina, di intelligence e sicurezza informatica.
Il Ministro per gli Affari esteri e la
Cooperazione internazionale, nonché Vice-Presidente del Consiglio dei Ministri,
Antonio Tajani (Forza Italia), davanti alle Commissioni parlamentari permanenti
riunite Esteri della Camera dei Deputati ed Esteri e Difesa del Senato della
Repubblica ha precisato che l’accordo, al pari di quelli stipulati dalla
Germania, dalla Francia e dal Regno Unito, non essendo giuridicamente
vincolante e non prevedendo garanzie automatiche di sostegno politico e
militare, non richiede la legge di autorizzazione alla ratifica.
Sul punto, le considerazioni
dell’esponente forzista non paiono particolarmente convincenti.
L’art.
80 della Costituzione repubblicana vigente, stabilisce che le Camere:
“autorizzano con la legge la ratifica dei trattati
internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti
giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o
modificazioni di leggi”.
Questo
significa, diversamente da quanto sostenuto dal Ministro per gli Affari esteri
e la Cooperazione internazionale in audizione, che l’obbligo della legge di
autorizzazione alla ratifica non dipende dalla vincolatività o meno delle
disposizioni contenute nei venti articoli dell’accordo di cooperazione, bensì dalla natura del trattato.
È
indubbio che, in ragione degli ambiti coinvolti, lo stesso abbia una chiara
connotazione politica e, pertanto, ricada nella previsione costituzionale
dell’art. 80.
Si
potrebbe obiettare, sul punto, che la locuzione “natura politica” costituisca
un tipico esempio di concetto indeterminato, la cui valutazione è lasciata in
larga misura al Governo della Repubblica, cui spetta la responsabilità della
decisione se iniziare o meno un procedimento legislativo di autorizzazione alla
ratifica.
Se questo da una parte è vero, dall’altra non
si può pervenire a ritenere la elasticità del concetto dipendente sempre e
comunque da una scelta dell’Esecutivo, il quale potrebbe servirsi della
indeterminatezza della nozione ogniqualvolta intenda evitare un dibattito
parlamentare su temi complessi e delicati.
Può
essere d’ausilio, in questo senso, la considerazione che, nel dettare l’art. 80
del Testo fondamentale, il Costituente ha inteso prevedere una sorta di
“clausola di chiusura”, imponendo la legge di autorizzazione alla ratifica di
tutti quei trattati o accordi che, pur non rientrando nelle altre e più precise
categorie, presentino
un importante rilievo politico.
Indipendentemente,
dunque, dall’automatismo o meno di quanto previsto nell’accordo di cooperazione
con l’Ucraina, si può escludere che lo stesso, il quale tocca uno dei fronti
più importanti della attuale politica estera e di difesa italiana, non assuma una
rilevanza politica di primaria importanza con inevitabili ricadute anche sul
piano internazionale?
A
rafforzare questa lettura si pone anche la circolare del 19 aprile 1995, n. 5
dell’allora Ministro per gli Affari esteri del Governo Dini, Susanna Agnelli
(1922-2009), in base alla quale l’espressione “natura politica”, utilizzata
nell’art. 80 della Costituzione, non può riferirsi che ai trattati che
comportano scelte fondamentali di politica estera (N.B. la circolare del 1995 è stata
sostituita da quella del 03 marzo 2008, n. 4 che, però, in relazione
all’aspetto di cui in esame, non ha portato alcuna innovazione).
Alla
luce di queste brevi considerazioni, riteniamo che l’accordo di cooperazione
tra Italia ed Ucraina non possa essere concluso in forma semplificata, ossia
senza il passaggio parlamentare, incidendo fortemente sull’indirizzo stesso che
ha assunto la nostra politica estera e di difesa.
Il
Parlamento, dunque, (anche se difficilmente agirà in questa direzione), potrebbe presentare, nei suoi due
rami, delle mozioni per invitare il Governo Meloni a presentare il disegno di
legge di autorizzazione alla ratifica e, in ipotesi di scuola, a sollevare pure
il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato davanti alla Corte
costituzionale per comportamento omissivo (l’ordinanza n. 163/2018 del giudice
delle leggi esclude la legittimazione per i singoli parlamentari, ma non per
l’Assemblea), ma davanti alla “ragion di Stato”…
(Prof.
Augusto Sinagra e Avv. Daniele Trabucco).
(imolaoggi.it/2024/03/02/accordo-italia-ucraina-sinagra-e-trabucco-smascherano-il-governo/)
Non
chiamarlo destino:
la profezia
che si autoavvera.
Psicoadvisor.com - Anna De Simone – (13
Ottobre 2022) – ci dice:
(Anna
De Simone Dott.ssa in biologia e psicologia. Esperta in genetica del
comportamento e neurobiologia. Scrittrice e founder di Psicoadvisor)
«Lo
sapevo che andava così», «io te l’avevo detto!».
Quante
volte ti capita di usare queste frasi?
Sappi
che ogni volta che le pronunci, una piccola profezia ha preso forma ma non si
tratta di destino.
Nei nostri discorsi aneddotici, ci capita di
usare affermazioni come «oggi è una giornataccia, tutto mi rema contro!» oppure
«quel tipo deve essere proprio sfortunato» o, ancora, «era destino!».
Attribuiamo al caso un potere misterioso e
incontrastato.
Certo,
le fatalità esistono, il caso ci mette il suo zampino, ma molto, nella nostra
vita, dipende dal nostro orientamento cognitivo.
Insomma, dal nostro approccio.
Se hai
difficoltà a perseguire i tuoi obiettivi, non sei pigro o sciatto, non ti
mancano le capacità, probabilmente ti stai solo muovendo guidato dal timore di
non farcela ed è questo a creare la tua profezia.
Se
incontri solo partner sbagliati, non sei una calamita per disastri
sentimentali, probabilmente le tue scelte amorose sono orientate dalla paura di
rimanere solo (paura dell’abbandono) e/o dall’infondata credenza che sei
indegno d’amore.
Quella
della «profezia che si autoavvera» non è solo una teoria ma è qualcosa di più
tangibile, dimostrato anche sperimentalmente più e più volte.
Cerchiamo
di capire bene di cosa stiamo parlando.
Esempi
pratici di profezie che si autoavverano.
Le
scelte che compiamo, quando non siamo risolti, si fanno guidare dalle nostre
paure e dalle mancanze che abbiamo patito nel passato.
Chi a
lungo si è sentito immeritevole e indegno, farà del fallimento la sua profezia
che si autoavvera.
Fallirà
nella dieta, nell’intento di terminare un progetto, fallirà ogni qual volta che
sentirà il bisogno di chiudere un cerchio.
La
“nike fobia”, cioè la paura irrazionale di vincere, interessa tutte le persone
che temono di raggiungere obiettivi importanti e conseguire risultati positivi.
Questo
timore diviene una condanna all’insuccesso.
Una
persona spaventata dalla solitudine che vive con l’inconsapevole aspettativa di
essere abbandonata, tradita e ferita, inevitabilmente, purtroppo, lo sarà
davvero.
Con la
sua estenuante ricerca di conferme, con la sua brama di rassicurazioni, finirà
per allontanare chi per lei è importante, finirà per coltivare distacco
affettivo, finirà per sentirsi costantemente sola.
Il
timore della solitudine si trasforma in una tragica aspettativa e diviene come
una profezia destinata ad avverarsi.
Quell’aspettativa, orienterà la persona a
compiere decisioni sbagliate a partire dalla scelta del partner.
Siamo
più inclini ad attivare una profezia che si autoavvera quando:
non
siamo propriamente consapevoli delle ferite che ci portiamo dentro;
ci
facciamo guidare dalle nostre paure;
ci
rifiutiamo di accettare i nostri limiti;
pretendiamo
la perfezione;
non ci
stimiamo;
nutriamo
per noi un amore condizionato dai risultati che otteniamo.
Quando
siamo più consapevoli del nostro mondo interiore, lavoriamo sulle nostre
ferite, accettiamo la nostra natura umana e ci facciamo guidare dalla nostra
ambizione e non dalla nostra paura, ecco che diventiamo padroni del nostro
destino.
Ecco che riusciamo a perseguire i nostri
obiettivi creando delle meravigliose profezie.
Con la consapevolezza di sé, improvvisamente,
il destino ci diventerà favorevole!
È
stato provato sperimentalmente: è scienza.
Non si
tratta di un mero pensiero positivo ma di come la nostra aspettativa sulla
realtà, riesca a modificare la realtà stessa.
Si chiama «profezia che si autoavvera» o
«effetto Rosenthal» ed è un fenomeno provato sperimentalmente.
È
scienza e ci dice che:
Il
modo in cui approcciamo alle persone ne condiziona inevitabilmente il
comportamento.
Le
modalità in cui approcciamo agli eventi, ne condiziona inevitabilmente il
decorso.
Ho
voluto sottolineare più volte che si tratta di un’evidenza sperimentale perché
sicuramente molte persone sono restie ad accettare una verità come questa
.
Accettare questa verità significa assumersi la responsabilità del proprio
benessere e non tutti sono disposti a farlo.
Certo,
è molto più comodo incolpare qualcuno per le proprie frustrazioni ma ascolta,
non sarebbe ancora meglio non averne di frustrazioni?
Non
sarebbe ancora meglio guardarsi dentro con onestà e iniziare a scrivere da solo
il proprio cammino?
Le
aspettative che abbiamo sulla realtà, il nostro orientamento cognitivo e
comportamentale, cioè il modo in cui noi leggiamo gli eventi, il modo in cui
noi li interpretiamo e reagiamo a essi, influenza il nostro destino e lo fa
prepotentemente.
Questo
è un fatto inconfutabile.
Quanto
scritto finora, non nega l’influenza o l’esistenza della “casualità” o delle
“fatalità” della vita ma sottolinea solo un evidente fattore “causa-effetto”
tra il nostro orientamento cognitivo e gli eventi.
Come
si creano le nostre profezie?
Il
modo in cui orientiamo pensiero e azione, è frutto di numerosi apprendimenti
impliciti.
Ci
orientiamo nel mondo utilizzando determinati schemi di pensiero appresi
inconsapevolmente durante l’infanzia.
Questi
schemi possono essere descritti come una bussola cognitiva che orienta sia la
direzione del nostro pensiero, sia quella del nostro comportamento.
Questi
modelli ci forniscono tutte le informazioni sull’immagine del mondo che abbiamo
costruito nel tempo.
In
altre parole, per quanto il mondo o le cose che ci capitano possano rinnovarsi,
noi continuiamo a guardarli allo stesso modo.
L’idea
che abbiamo del mondo, degli altri e di noi stessi è il riflesso delle
informazioni che abbiamo ricevuto, fin dall’infanzia, dalle persone che si sono
occupate di noi.
In termini concreti: chi fin da piccolo ha
subito trascuratezza, e mancanze, penserà di non meritare il meglio e si
orienterà nella vita con questa aspettativa.
Forgerà così le sue profezie.
Come
uscirne?
La
scoperta più importante che possiamo fare è noi siamo degni di stima, siamo
capaci e possiamo perdonarci ogni errore.
Abbiamo
bisogno di capire che i legami si possono stringere, le promesse si possono
mantenere e non ci sarà inevitabilmente una fine. Possiamo essere notati,
stimati e amati.
A
nostra volta possiamo stimare, amare e fidarci.
Possiamo
soddisfare i nostri bisogni di unione, condivisione e attaccamento maturo.
Le cose possono mettersi bene anche per noi e
dobbiamo crederci per farlo accadere.
Come
iniziare a crederci?
La
consapevolezza!
Se
diventi consapevole della matassa emotiva che ti porti dentro, allora il tuo
destino seguirà vie diverse, ricche e luminose!
Iniziando ad aprire gli occhi sulle
aspettative che guidano le tue profezie, potrai correggere i tuoi schemi di
pensiero, potrai fare inedite scoperte conquistando un nuovo modo di esistere.
Apri i
tuoi bellissimi occhi e inizia a guardarti dentro.
Per
riflettere insieme.
Ricordi
le frasi iniziali?
Ogni volta che pensi «sapevo che sarebbe
andata così» prova a interrogarti su come sarebbe potuta andare diversamente.
Prova a chiedere «quanto» quel risultato
ottenuto, riflette le paure che albergano nel tuo mondo interiore.
Si è
trattato del caso o di una profezia autoavverata?
Il
tema della profezia che si autoavvera è così affascinante che nel mio libro
«Riscrivi le Pagine della Tua Vita», ho dedicato tutto il secondo capito su
come riconoscerle e disinnescarle lavorando sui modelli appresi.
In
ogni pagina ti spiego come analizzare il tuo passato per scrivere al meglio il
tuo presente, svincolandoti dai copioni che gli altri hanno scritto per te
(schemi) e comprendere finalmente la matassa emotiva che ti porti dentro.
«Il
Moscone», la Rubrica del Direttore.
Noi
siamo liberi e non abbiamo Padroni
Wordnews.it
- Paolo De Chiara – (Oct. 27, 2023) – ci dice:
(LA
CHIAREZZA. Da quasi tre anni stiamo lavorando con questo giornale indipendente
(senza editori, senza padroni e senza pubblicità). WordNews.it ha ospitato il
grido di tante persone, abbiamo raccontato e portato alla luce dei fatti che,
qualcuno, vorrebbe far rimanere nel dimenticatoio. Nel nostro piccolo abbiamo
toccato dei nervi scoperti. E lo continueremo a fare. Nonostante tutto,
nonostante tutti.)
Noi
siamo nati liberi e (possibilmente il più tardi possibile) moriremo liberi.
Sin dall'inizio abbiamo scelto di non avere
Padroni.
A noi
non piace l'orticaria.
Abbiamo
scelto di fare questo bellissimo mestieraccio perché lo amiamo e perché il
nostro obiettivo è quello di dare voce a chi non ha voce.
Ci
siamo posizionati, sin dall'inizio, dalla parte degli ultimi.
Anche
i potenti ci fanno venire l'orticaria.
E a
noi non piace grattarci.
Preferiamo
cercare le notizie, studiare le carte, ascoltare le persone, approfondire e
informare - senza alcun filtro - i nostri lettori.
Da
quasi tre anni stiamo lavorando con questo giornale indipendente (senza
editori, senza padroni e senza pubblicità).
WordNews.it
ha ospitato il grido di tante persone, abbiamo raccontato e portato alla luce
dei fatti che, qualcuno, vorrebbe far rimanere nel dimenticatoio.
Nel nostro piccolo abbiamo toccato dei nervi
scoperti.
E lo
continueremo a fare. Nonostante tutto, nonostante tutti.
Nonostante
le pressioni di qualche soggetto che pensa di disporre dell'informazione a suo
uso e consumo.
Sicuramente non dobbiamo piacere a tutti.
Noi
non vogliamo piacere a tutti.
Le persone che hanno fatto parte delle
Istituzioni e hanno degli scheletri da nascondere non ci sono affatto
simpatiche.
Non solo proviamo antipatia, ribrezzo e
ripugnanza nei confronti di coloro che non hanno fatto (e non fanno) il proprio
dovere.
Ma, in
tutti i modi, cerchiamo di far trasparire la nostra faziosità: ci sono persone
che non ci piacciono e la nostra più grande preoccupazione è farglielo sapere.
Facciamo
nostro un convincimento di un maestro di giornalismo di questo Paese: Enzo
Biagi.
Con i
nostri pochi mezzi possiamo solo continuare a fare quello che cerchiamo di fare
nel miglior modo possibile.
Il nostro dovere, sino in fondo e con la
schiena dritta.
Hanno
tentato di rallentare la nostra azione, hanno tentato di farlo anche attraverso
delle minacce esplicite e meno evidenti.
Non ci fermerete facilmente.
Dovete
abbatterle le persone perbene.
Non
serve insistere per la pubblicazione di una intervista o di una ipotetica e
assurda richiesta di rispondere ad articoli o interviste datate.
Noi
scegliamo la nostra linea, noi scegliamo se dedicare 30/40 articoli ad un fatto
(ad esempio al caso Manca, una vergogna di Stato).
E
nessuno deve venire a farci i conti in tasca.
I diritti (sacrosanti) si esercitano nelle
sedi opportune e nei tempi stabiliti dalla legge.
Scriviamo
cazzate?
Contestate
il nostro lavoro con documenti alla mano.
Avete
la verità in tasca?
Dimostratelo
con i fatti e non con le parole.
Vi
dedichiamo un testo, il “Cyrano” di Guccini.
Con la
speranza che sia di vostro gradimento (e di facile comprensione):
Venite
pure avanti, voi con il naso corto, signori imbellettati, io più non vi
sopporto,
infilerò
la penna ben dentro al vostro orgoglio perché con questa spada vi uccido quando
voglio.
Venite
pure avanti poeti sgangherati, inutili cantanti di giorni sciagurati,
buffoni
che campate di versi senza forza avrete soldi e gloria, ma non avete scorza;
godetevi
il successo, godete finché dura, che il pubblico è ammaestrato e non vi fa
paura,
e
andate chissà dove per non pagar le tasse col ghigno e l'ignoranza dei primi
della classe.
Facciamola
finita, venite tutti avanti nuovi protagonisti, politici rampanti,
venite
portaborse, ruffiani e mezze calze, feroci conduttori di trasmissioni false,
che
avete spesso fatto del qualunquismo un’arte, coraggio liberisti, buttate giù le
carte,
tanto
ci sarà sempre chi pagherà le spese in questo benedetto, assurdo bel paese.
Non me
ne frega niente se anch' io sono sbagliato, spiacere è il mio piacere, io amo
essere odiato;
coi
furbi e i prepotenti da sempre mi balocco e al fin della licenza io non perdono
e tocco!
Ad
maiora.
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