I nemici dell’umanità.

 

I nemici dell’umanità.

 

 

Strage a Gaza: Meloni e Biden

Evitano Ogni Condanna di Israele.

Conoscenzealconfine.it – (5 Marzo 2024) - Augusto Grandi – ci dice:

 

Nessuna condanna, ovviamente… di “Giorgia Meloni” dopo l’ennesimo episodio di macelleria israeliana a Gaza.

Eventualmente… se proprio volesse… se “Netanyahu” trovasse il tempo… se non fosse troppo occupato a sterminare qualche altro migliaio di bambini, ecco, allora Israele potrebbe gentilmente spiegare cos’è successo a quel centinaio di palestinesi massacrati mentre aspettavano il cibo.

 Questo è il vergognoso tenore dell’intervento di Giorgia Meloni, dopo l’ennesimo episodio di macelleria israeliana a Gaza.

 Nessuna condanna, ovviamente.

D’altronde il suo capo, Biden, ha bloccato la risoluzione di condanna all’ONU per l’acciaio.

 Perché, come sempre, nella logica dei due pesi e due misure, le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici.

Dunque niente sanzioni contro il macellaio di Tel Aviv.

 Niente boicottaggio contro Israele.

E va già bene se Giorgia, l’americana, concede ai giovani e meno giovani italiani di organizzare delle proteste…

Lontano da ambasciate e consolati di Usa e Israele, lontano da sinagoghe.

La prossima volta, per sicurezza, le manifestazioni si potranno svolgere solo in aperta campagna, in qualche cava abbandonata, in un parcheggio in disuso.

Perché se anche i palestinesi si fossero accontentati di morire di fame in qualche luogo deserto, i “buoni” israeliani non avrebbero dovuto ammazzarli.

Semplice, no?

Però i politici italiani ed i giornalisti di servizio, in modo assolutamente trasversale visto che maggioranza e opposizione stanno dalla stessa parte, si indignano all’unisono per i funerali di Navalny.

 Con un migliaio di sostenitori presenti.

E tutti, maggioranza e opposizione, fingono di dimenticare i funerali negati a “Giancarlo Esposti”.

O quelli ad un ufficiale tedesco di cui è vietato anche pronunciare il nome.

Ma è l’Italia democratica e, dunque, può anche vietare i funerali ai propri avversari.

Putin, invece no.

E Putin non può neppure lamentarsi se la NATO vuole schierare le truppe in Ucraina.

 Perché, se si lamenta, vuol dire che ci sta minacciando.

Mentre la cara e dolce Ursula, tanto amica di “lady Garbatella”, è così “buona” da voler arrivare ad una guerra nucleare che eliminerà l’intera Europa.

Sicuramente lei ed i suoi amici saranno partiti per gli Stati Uniti il giorno prima.

(Augusto Grandi)

(electomagazine.it/strage-a-gaza-meloni-e-biden-evitano-ogni-condanna-di-israele/)

 

 

 

Nemici dell’umanità.

 Azionenonviolenta.it - Carlo Bellisai – (Marzo 10, 2022) – ci dice:

 

Il fatturato promette di aumentare in modo esponenziale e ciò sta già accadendo.

Perché più bombe e missili vengono consumati sul teatro di guerra, più se ne dovranno fabbricare e vendere di nuovi:

un vortice produttivo che si alimenta della guerra e che contribuisce fortemente a costruirla.

La legge 185 del 1990 che regolamenta in Italia il commercio d’armi, già faticosamente e solo parzialmente applicata fin oggi, viene completamente disattesa con l’invio di armamenti all’Ucraina, paese belligerante.

 Ora che la situazione internazionale sta degenerando, e ancor più per impedire pericolose escalation, o tragici, irreversibili incidenti, dobbiamo capire quanto l’industria e il commercio delle armi facciano parte di un sistema mondiale di predazione nei confronti dell’ecosfera, compresi tutti gli esseri viventi e noi stessi, basato sulla violenza.

L’economia armata risponde alle leggi di mercato e le alimenta.

 Se questa guerra in Europa sta deflagrando, ne sono responsabili certo innanzitutto il governo russo ed il sistema NATO, ma altrettanto le multinazionali degli armamenti e le banche che le sostengono.

Nella politica europea prevale la fedeltà all’alleanza atlantica, anche mentre le popolazioni manifestano per la pace.

Il che dimostra quanto le nostre democrazie siano diventate impermeabili alle pressioni della società.

Soprattutto vediamo che l’unica economia in crescita, oltre e assieme a quella tecnologica, è quella delle armi, sempre più autonome e letali, come i droni-killer.

Lo scoppio della guerra in Ucraina, con l’invasione russa, ha fatto schizzare le quotazioni in borsa delle multinazionali delle armi.

Il messaggio subdolo che sta passando, attraverso l’informazione, sia essa russa od europea, è che alla fine le armi servano e siano utili.  Serviranno infatti per difendere i confini della Russia accerchiati dai paesi NATO, o per difendere le democrazie europee dalle aggressioni esterne, a seconda delle narrazioni propagandistiche.

La retorica guerresca, già allenata dall’approccio militare alla pandemia, prende infatti sempre più forma.

 Le immagini che ci mostrano anche le reti televisive pubbliche e private sono quelle di eroici giovani ucraini pronti a difendere in armi la loro patria davanti ad uno degli eserciti più forti del mondo.

 È una realtà, ma una realtà parziale, che si dimentica di otto anni di guerra sporca fra separatisti e milizie ucraine, che non vede che sono i civili, quelli che la guerra non la vogliono, le prime vittime di ogni campagna armata.

Così i paesi europei iniziano già a prendere parte in questa guerra, attraverso l’informazione unilaterale, a volte distorta, attraverso gli armamenti inviati al governo di Kiev, attraverso sanzioni economiche che non colpiranno i soli oligarchi, ma anche e inevitabilmente la popolazione civile.

Si rischia che i russi vengano visti come assassini feroci solo in quanto russi e gli ucraini come vittime eroiche solo in quanto ucraini, secondo gli stereotipi delle opposte propagande belliche.

Se le bombe sono utili e servono, in barba all’ormai malconcio e bruciacchiato articolo 11 della Costituzione, è giusto produrle, dare lavoro e far risalire l’economia.

 Questo naturalmente secondo l’antica logica dell’occhio per occhio dente per dente che, rendendo il mondo cieco, come diceva Gandhi, può oggi trascinarlo in una guerra totale fra potenze nucleari.

Sarebbe un inferno sull’intero pianeta, con esiti catastrofici per le popolazioni e quasi tutte le specie animali e per l’equilibrio della vita sul nostro pianeta.

Ma com’è che si è arrivati ad un’economia armata?

Mi limiterò all’esempio che, come sardo, vivo direttamente sulla mia pelle.

L’ESEMPIO SARDEGNA.

Nel lontano 1956, in piena guerra fredda l’Italia, in ottemperanza alle richieste dell’Alleanza Atlantica, sceglie il territorio sardo per la dislocazione di tre importanti basi militari:

nascono i poligoni interforze del Salto di Quirra e di Capo Teulada e la base aereo-navale di Capo Frasca, in collegamento diretto con l’aeroporto militare di Decimomannu, quest’ultimo alle porte di Cagliari.

Dal 1972, in base ad un accordo segreto con gli Stati Uniti d’America, l’isola della Maddalena diviene una base d’appoggio per i sommergibili nucleari.

 Il parlamento non viene neppure interpellato.

La Sardegna viene scelta, non solo per la posizione strategica al centro del Mediterraneo, ma anche in virtù della scarsa densità di popolazione e dello scarso sviluppo socio-economico.

Non tratterò in quest’ambito le ripercussioni dell’esistenza delle basi militari sulle popolazioni limitrofe, sia dal punto di vista della salute (la “sindrome di Quirra” ha mietuto e continua mietere molte vittime), che dal punto di vista del limitato sviluppo economico e turistico.

Basti pensare che gli oltre 35.000 ettari di territorio militare sono pesantemente inquinati dagli esiti delle esercitazioni e, solo saltuariamente, viene annunciata qualche azione di bonifica.

Quel che voglio mettere in evidenza è quanto queste installazioni siano propedeutiche al mantenimento di una falsa pace armata che, inevitabilmente prima o poi, sfocia nello scoppiare delle guerre.

Oggi nei poligoni militari di Quirra-Perdasdefogu e di Capo Teulada vengono effettuati test su nuove armi ed esercitazioni per simulare le azioni di guerra sul campo.

Sono quindi a tutti gli effetti laboratori di preparazione della guerra. Capo Frasca, oltre ad essere utilizzato per esercitazioni aree, è anche base radio-comunicativa per il controllo del Mediterraneo centro-occidentale.

L’aeroporto di Decimomannu è ufficialmente diventato una scuola di volo per aerei militari, ma resta collegato strategicamente al poligono di Capo Frasca.

 Soltanto la base USA alla Maddalena è stata dismessa, in parte per le pressioni popolari e in parte per cambi strategici statunitensi, tra il 2006 e il 2008.

 

Sempre sul suolo sardo nel territorio delle miniere dismesse del Sulcis Iglesiente, col più alto indice italiano di disoccupazione, nel 2001 la SEI (Società Esplosivi Industriali) con sede a Ghedi si appropria della vecchia fabbrica di esplosivi per le miniere.

 Nella primavera di quello stesso anno si svolge una grande marcia pacifista e antimilitarista nonviolenta che si conclude con performance teatrali davanti allo stabilimento e con un girotondo che finisce con includere anche una parte delle forze dell’ordine.

Sembra un trionfo.

Ma subito dopo ci sarà Genova, con le grandi manifestazioni no-global, la repressione feroce, l’arretramento dei movimenti.

Nel frattempo i tempi cambiano e la globalizzazione ha il sopravvento. La svolta è nel 2010, anno in cui lo stabilimento viene prelevato dall’”azienda RWM Italia”, emanazione diretta della “Rheinmetal”, azienda multinazionale di proprietà tedesca, specializzata in armamenti bellici.

Inizia la fabbricazione di bombe, ma bisogna aspettare il 2015 perché si scopra che in Yemen una bomba col marchio di fabbrica RWM ha fatto strage fra i civili.

 Le associazioni pacifiste ed antimilitariste si ritrovano a protestare davanti al piazzale della fabbrica.

Ma le bombe, in quegli anni, vengono comunque caricate e spedite, nella notte, in silenzio e col beneplacito delle autorità portuali.

Nel 2017 si costituisce ad Iglesias il “Comitato Riconversione “RWM “per la pace, il lavoro sostenibile, la riconversione dell’industria bellica, il disarmo, la partecipazione civica a processi di cambiamento, la valorizzazione del patrimonio ambientale e sociale del SulcisIglesiente”.

Il Comitato, cui aderiscono numerose associazioni e singole persone, darà negli anni successivi un forte contributo di controinformazione e sensibilizzazione sul problema.

Nel mentre si lavora anche alla pista legale:

presentiamo denunce per la violazione della legge 185 sul commercio d’armi, esposti al TAR per gli abusi edilizi ed ambientali, perpetrati con l’allargamento della fabbrica.

 Si arriva così fino agli ultimi anni, con l’embargo sulla vendita d’armi all’ Arabia e agli Emirati, coinvolti in Yemen:

 deliberato dall’Unione Europea e poi recepito dall’Italia.

Fino ad arrivare al successo dei movimenti pacifisti e ambientalisti con la sentenza del Consiglio di Stato che ha decretato illegittime e abusive le opere di ampliamento della fabbrica, attorno all’alveo di un fiume, con rischio quindi, non solo esplosivo, ma anche idrogeologico.

 Abbiamo manifestato anche lo scorso primo marzo, perché si passi ai fatti:

l’illegalità degli ampliamenti è stata riconosciuta, occorre procedere alla demolizione.

 La lotta continua, c’è una forza d’animo che ci sostiene, anche nelle diversità, che ora più che mai non devono dividere, ma arricchire.

 LA COSTRUZIONE DEL NEMICO.

Ragionandoci su, se ancora possiamo farlo, una società che volesse davvero superare, trascendere l’orrore delle guerre, logicamente investirebbe le sue risorse per preparare una cultura di pace e di confronto fra le diversità, per formare mediatrici e mediatori di conflitti, per corpi civili e disarmati di pace, piuttosto che negli armamenti e negli apparati militari.

Questo non sembra davvero accadere.

 Ne segue inevitabilmente e non senza tristezza, che le società umane sono ancora distanti dall’essersi affrancate dalla guerra, dall’idea obbrobriosa del nemico, dalla sopraffazione come difesa e dall’offesa come annientamento dell’altro.

In tutte le guerre, viene da subito attivata una macchina propagandistica, il cui scopo è quello di mostrare le azioni crudeli della parte avversaria, mettendo in evidenza la loro violenza, il cinismo, la disumanità.

L’obiettivo è quello di creare una visione alterata dell’altro popolo, che deve essere il più possibile ignobile ed efferato, fino a creare la figura del nemico come pazzo criminale, o come belva sanguinaria e, in quanto tale, non più umano.

 Da sempre la costruzione culturale del nemico assolve al compito di renderlo talmente malefico da poterne considerare la morte come una liberazione per il mondo.

Per i soldati, come per i miliziani, sarà più facile accettare di sparare e massacrare quest’entità diabolica, piuttosto che pensare di rivolgere le armi contro i propri simili.

Costruire l’idea del nemico è fondamentale per i poteri politico-militari, anche per mettere in cattiva luce, isolare o far tacere, le voci che reclamano tregua, negoziati, pace.

Questi ultimi verranno trasformati in disfattisti e in codardi, se non in traditori della patria.

 D’altronde è quanto già accade in Russia, dove vengono arrestati in massa, ma anche in Ucraina, dove ai maschi tra i diciotto e i sessant’anni è proibito lasciare il paese.

 Al contrario, l’acciaio delle armi, la chimica esplosiva, assurgeranno a totem liberatori e, con loro, i fabbricanti e i mercanti di armi verranno innalzati al cielo come eroi.

 Proprio loro che sulla guerra fanno le loro fortune economiche, proprio loro che lucrano sull’odio e sulla prepotenza, proprio loro che non sono nemici di nessun esercito, ma universali nemici della convivenza umana.

Tutto questo non deve deprimerci, perché c’è bisogno di grande lucidità e forti sentimenti e anche del coraggio di agire da nonviolenti.

Sappiamo che la Storia ha i suoi avanzamenti, rimbalzi, arretramenti, ma qualunque sia il contesto e il tempo, siamo chiamati a dire di no a tutte le guerre e a preparare la pace fra i popoli.

Per farlo occorre eliminare la violenza (sia essa psicologica, economica, fisica) dalle relazioni fra gli esseri umani:

disertare le piccole guerre dei tempi di pace, trasformarle in laboratori di risoluzione nonviolenta dei conflitti, è il primo passo per cancellare la guerra dalla Storia.

(Carlo Bellisai)

 

 

 

Chi sono i veri nemici dell’umanità.

E perché è giusto ribellarsi

al “turbocapitalismo”.

Ilprocidano.it - Guglielmo Taliercio – (17 Settembre 2018) - Nicola Silenti - Destra.it – ci dicono:

La visione e l’orizzonte di un mondo nuovo, più giusto, da lasciare in eredità alle generazioni che verranno non può prescindere dalla consapevolezza che nessun risultato potrà essere raggiunto in questo senso senza uno scontro campale contro i “veri padroni del mondo”.

 Quei “proprietari universali”, per usare la definizione dell’economista americano premio Nobel “Paul Krugman”, che oggi siedono attorno al tavolo che controlla il mondo, un “gotha poderoso” eppure occulto composto da un pugno di persone perlopiù ignote alle masse ma veri titolari di un “potere smisurato e incontrollabile”.

Il potere di chi, con un solo clic del computer in un angolo buio e imprecisato del mondo, può decretare la vita e la morte di interi popoli e nazioni spostando nel breve volgere di un attimo capitali immensi da una parte all’altra del pianeta, depredando borse e intere economie condannando al pregio della carta straccia monete nazionali e patrimoni di stato.

Di fatto, chi oggi siede attorno a questo metaforico “tavolo” segreto controlla la finanza globale e condiziona in modo determinante l’operato delle agenzie di rating e delle banche centrali ponendo con le spalle al muro ministri dell’economia e governi, a dispetto di ogni logica democratica.

Un potere sconfinato che influenza e orienta in modo decisivo finanche la “Banca centrale europea”, spalleggiando e puntellando la supremazia mondiale del dollaro verso lo scontro finale con lo yuan cinese.

Ma chi sono questi nemici dell’umanità, e come identificare i loro supporters?

 E quali e quanto estesi sono gli spazi concessi a chi gli si oppone?

Quali che siano i dati anagrafici di queste” lobbies egemoni” a volto coperto, di certo ben accomodate tra i salotti dell’alta finanza e forniti delle leve di comando del capitale, più riconoscibili sono invece i loro esegeti, alleati più o meno consapevoli di questo potere immenso e spietato.

Radical chic del globalismo ed eurocrati, paladini delle più scellerate politiche economiche della storia più o meno recente da condurre perché “ce lo chiede l’Europa”, tutti insieme appassionatamente schierati in forza in una lenta ma inarrestabile opera di inganno e offuscamento delle menti dei ceti popolari:

 un’opera in corso ormai da anni con il duplice obiettivo di dividere e incanalare il malcontento degli strati subalterni della popolazione verso obiettivi secondari soffocando progressivamente, uno per volta, i diritti di lavoratori, studenti, pensionati, piccoli e medi imprenditori, erodendo ogni giorno di più i già esigui spazi della democrazia.

Un’opera resa possibile anche grazie a quei governi di centrosinistra che hanno supportato quest’azione perversa con una stoica dedizione, fornendo un contributo forse decisivo, anche grazie all’avallo paternalista dei “banchieri di Bruxelles” e del” Fondo monetario internazionale”, alla “morte della sovranità popolare “nel nome di una fedeltà cieca alle imposizioni più bieche e inaccettabili.

 Diktat come il rispetto incondizionato dei vincoli di bilancio imposti dalla BCE e dei tagli a una spesa pubblica divenuta sempre più classista e a misura dei potenti, estorcendo spazi sempre maggiori alla sanità pubblica e alla difesa degli ultimi, erodendo al contempo il potere d’acquisto di pensionati già da tempo sull’orlo della miseria e riducendo a nuove forme di schiavitù le nuove generazioni, esposte quotidianamente allo spettro di un presente precario da vivere nel ricatto permanente del licenziamento.

 

 

 

Guerra e crisi climatica:

i grandi nemici dell’umanità

e dell’ambiente.

Innatura.info – (22 aprile 2022) – Redazione – ci dice:

 

Guerra e crisi climatica sono i grandi nemici dell’umanità.

La crisi alimentare nel Corno d’Africa è qui a ricordarcelo.

Nel Corno d’Africa, dopo la quarta stagione delle piogge scarsa, più di 16 milioni di persone – compresi molti bambini – hanno un estremo bisogno di aiuti alimentari.

 In Somalia quasi un terzo della popolazione (4,8 milioni di persone) e 3,5 milioni di persone in Kenya stanno affrontando una grave carenza di cibo, mentre circa 6,5 milioni di persone nell’Etiopia meridionale hanno bisogno di aiuto. Il prezzo del cibo – in tutta l’area la maggior parte del grano arriva dalla Russia e dall’Ucraina – è alle stelle.

E lo spettro della carestia è sempre più vicino.

Un pessimo inizio della stagione delle piogge ha aumentato le preoccupazioni per le conseguenze della peggiore siccità degli ultimi decenni.

Il costo del cibo nella regione era già in aumento a causa degli shock climatici, delle invasioni di locuste, di conflitti e delle crisi economiche causate dalla pandemia COVID-19.

L’escalation del conflitto in Ucraina ha creato onde d’urto nei mercati alimentari.

Il pane è un alimento di base in Africa orientale, il grano e i prodotti a base di grano rappresentano un terzo del consumo medio di cereali nella regione

. La domanda è soddisfatta principalmente dalle importazioni, pari all’84% del consumo.

Il 90% delle importazioni di grano proviene dalla Russia e dall’Ucraina, che rappresentano rispettivamente il 72% e il 18% del totale, con prezzi in aumento nelle ultime sette settimane.

 I due paesi in guerra, inoltre, coprono quasi tre quarti delle esportazioni globali di olio di girasole, prodotto molto utilizzato nella regione.

Inoltre la guerra in corso distoglie anche l’attenzione internazionale da una catastrofe umanitaria annunciata nell’area.

In Kenya e in Etiopia, dopo sette settimane, ci sono state solo leggere piogge.

 Le previsioni del dipartimento meteorologico del Kenya e del Centro etiope di monitoraggio e allerta per le colture parlano di una stagione con precipitazioni scarse, avvertendo che ciò potrebbe spingere molte persone in una situazione disperata.

In Somalia quasi un terzo della popolazione (4,8 milioni di persone) sta affrontando una grave carenza di cibo.

L’ONU prevede una carestia incombente nei prossimi tre mesi a causa della “Niña”, un fenomeno meteorologico che provoca siccità, nonché dell’inadeguata assistenza umanitaria e dell’aumento dei prezzi del cibo.

 Si teme che si ripeta quanto avvenuto nel 2011 quando la carestia causò la morte di 260.000 persone, la metà dei quali erano bambini sotto i cinque anni.

Secondo le stime delle Nazioni Unite, se non si affronta la situazione, 1,4 milioni di bambini potrebbero essere gravemente malnutriti entro la metà dell’anno – un aumento del 64% rispetto a due anni fa – e 330.000 gravemente malnutriti.

In Somalia, dall’inizio della stagione si sono registrate lievi precipitazioni per appena per due settimane e solo in alcune zone del paese.

Nella parte centrale e meridionale del paese milioni di pastori sono stati costretti ad abbandonare le loro case per vivere in campi profughi.

 Nello stato somalo del Puntland, il prezzo della farina di grano è balzato da 26 a 32 dollari per sacco da 50 kg, con picchi di 36 dollari nelle città di Garowe e Qardho.

 Nella capitale” Mogadiscio”, il prezzo di un contenitore da 3 litri di olio da cucina è triplicato, dai 3 dollari di gennaio ai 9 dollari nel marzo di quest’anno.

 I prezzi nelle zone rurali sono aumentati fino a 12 dollari a contenitore, per via dell’incremento dei costi di trasporto dovuti all’aumento dei prezzi del carburante.

 In Etiopia, il prezzo del sorgo e del mais è cresciuto rispettivamente del 9% e del 4% a febbraio e marzo.

Rilevanti anche gli aumenti del prezzo dell’olio di girasole.

Oltre all’accesso e alla disponibilità immediata di cibo, a preoccupare è l’impatto a lungo termine sulla produzione alimentare dell’aumento dei prezzi del carburante e dei fertilizzanti.

I casi di malnutrizione sono in aumento anche in Kenya, dove 755.000 bambini hanno bisogno di cure urgenti per far fronte alla malnutrizione acuta. 103.000 donne incinte e in allattamento sono malnutrite e hanno bisogno di cure urgenti.

Secondo il direttore nazionale di “Save the Children” in l’Etiopia, “Xavier Joubert”:

 “L’emergenza fame è destinata a peggiorare nei prossimi mesi a causa della quarta stagione delle piogge che ha registrato precipitazioni sotto la media, nonché dell’avvicinarsi della stagione di magra che va da giugno a settembre”.

Guerra e crisi climatica si confermano i grandi nemici dell’umanità e dell’ambiente.

 Due nemici che vanno affrontati contemporaneamente, prima che sia troppo tardi.

 

 

 

 

Luis Sepúlveda e "la lotta

contro i nemici dell’umanità.

 

Ottopagine.it – (16 aprile 2020) – Claudio Mazzone – il mondo storto – ci dice:  

Le sue parole vanno riscoperte, impugnate e scagliate contro un presente ingiusto.

” La lotta contro i nemici dell’umanità si combatte in tutto il mondo, non richiede né eroi, né messia, e inizia dalla difesa del più fondamentale dei diritti.

Il Diritto alla Vita.”

Lo scriveva” Luis Sepúlveda “nel suo capolavoro del 1989 “Il mondo alla fine del Mondo”.

 Parole che valgono oggi più che mai in questo presente senza difese, senza diritti e senza Vita.

In questa lotta continua e violenta è caduto, a 71 anni, ad Oviedo,” Luis Sepúlveda”, colpito a morte dal coronavirus.

Dire che era uno scrittore sarebbe riduttivo, la sua è stata una vita vasta nella quale si è fissata la storia, i sogni, le illusioni, le disillusioni e gli incubi di un secolo tutt’altro che breve.

“Sepúlveda” racchiude nel suo essere, prima ancora che nei suoi libri, quella “lotta contro i nemici dell’umanità”.

È nato in una stanza d’albergo mentre i genitori erano in fuga da una denuncia che il padre aveva avuto per motivi politici.

 Il nonno, nome di battaglia “Ricardo Blanco”, era un anarchico andaluso fuggito dalla repressione europea.

Ha respirato da sempre quella creatività libertaria che non si fa ingabbiare.

 Da ragazzino, entrato nella “Gioventù Comunista”, crede nell’Unione Sovietica e arriva a Mosca con una borsa di studio all’università Lomonosov.

Ma il giovane “Sepúlveda” dura pochissimo in quel comunismo senza libertà, e quel sogno si trasforma in breve in incubo.

Dopo pochi mesi viene, infatti, cacciato dall’URSS per “comportamenti contrari alla morale proletaria”.

“Sepúlveda” è in Bolivia con l’ “Esercito di Liberazione Nazionale”, quello del “Che”, quello della sconfitta che segna la fine di un sogno rivoluzionario, quello della teoria dei “focolai”.

È al fianco di “Salvador Allende” quando il sogno di un “Cile democratico e socialista” viene infranto dalla violenza statunitense, dal “golpe di Pinochet”, dai “Chicago Boys” e dal “neoliberismo”.

La sua è la storia di tutti noi, quella fatta di sogni strangolati sempre dalla stessa mano violenta, viscida e indecente.

I suoi libri fanno il giro del mondo, la sua voce diventa quella calda, rassicurante, profonda e viva di un Sudamerica che sogna e si ribella e di un occidente ancora capace di vedere le storture e le violenze che produce.

Oggi la sua morte è l’ennesima beffa, è l’ennesimo atto collettivo della sua storia personale, è l’ennesima battaglia in quell’estenuante e infinita “lotta contro i nemici dell’umanità”.

 Dietro c’è sempre la stessa mano, la stessa violenza, la stessa ideologia viscida.

Questa pandemia e il coronavirus stesso, sono frutto di un sistema ben organizzato che si basa su fondamenta storiche, politiche economiche e culturali ben definite.

Davanti alla morte di quei tanti che non hanno potuto avere cure, davanti al racconto di un mondo che si ripulisce dai più deboli, davanti ad un sistema globale che non ha salvaguardato il diritto alla Vita perché non era una convenienza di mercato, le parole di “Sepúlveda” vanno riscoperte, accarezzate, impugnate e scagliate contro quella mano e contro quel potere che ha strangolato i nostri sogni migliori per offrirci un presente pessimo e ingiusto.

La lotta va ripresa subito per non dare spazio ai nemici dell’umanità che ci hanno portato nel baratro.

Aveva ragione “Sepúlveda”, non c’è bisogno di eroi o di messia per difendere la “Vita”.

 

 

 

 

LA POSSIBILE TERAPIA CONTRO

UN ODIO CHE NON FINISCE MAI.

  It.gariwo.net - Gabriele Nissim – (17 -1-2024) – ci dice:

Riprendiamo di seguito la relazione tenuta da Gabriele Nissim, Presidente della Fondazione Gariwo, durante il seminario "Racconto della Shoah e linguaggi ostili. Contrastare i pregiudizi in classe", organizzato dall'Università Cattolica di Milano nella giornata di martedì 16 gennaio 2024.

 

Quanto più odio c’è nel mondo tanto più si manifesta l’antisemitismo.

Non è un caso che i regimi totalitari che hanno teorizzato nel loro paradigma la lotta contro i nemici come fonte di legittimazione abbiano, prima o poi e in modo diverso, usato la carta dell’antisemitismo nelle loro campagne politiche e ideologiche.

 I regimi comunisti, ad esempio, sono passati dalla lotta di classe ai cosiddetti nemici del popolo negli anni '30, e hanno poi presentato gli ebrei come i nemici del socialismo ed agenti del capitalismo, prima con le campagne antisioniste di Stalin negli anni cinquanta, al tempo del cosiddetto “complotto dei medici ebrei”, e poi con quelle dei suoi successori in Russia e nei paesi orientali, dal processo Slánský in Cecoslovacchia nel 1952, alla Polonia di Gomulka nel 1968, dove gli ebrei furono accusati di fare il doppio gioco e di essere dei nemici nascosti.

 

Altrettanto hanno fatto i fondamentalismi islamici che, dall’Iran all’ “Isis”, alla stessa “Hamas”, hanno costruito delle” teocrazie” che, imponendo la “Sharia” e la “dittatura religiosa contro gli infedeli”, hanno indicato negli ebrei e nei sionisti i nemici dell’umanità.

Nello stesso tempo, l’antisemitismo fa da detonatore e alimenta un odio generalizzato che colpisce e inquina tutta l’umanità.

 È stato questo il caso del nazismo, che dalla guerra agli ebrei ha portato alle macerie della Seconda guerra mondiale.

Si cade in errore quando si pensa che l’antisemitismo colpisca esclusivamente gli ebrei e che quindi si tratterebbe solo di educare la società a superare pregiudizi radicati in codici culturali che vengono da lontano.

Non è di questo parere “Yehuda Bauer”, che nella sua ultima conferenza del 2022 ha voluto sottolineare per quale ragione leggere la distorsione della memoria della Shoah e l’antisemitismo come una questione che riguarda solo gli ebrei sia assolutamente riduttivo, perché si tratta di un problema universale:

“Hitler, nel memorandum scritto di suo pugno che mandò a Göring nel 1936, scrisse che doveva preparare la guerra per combattere gli ebrei che attraverso il bolscevismo volevano dominare il mondo.

 Era questo lo scopo della guerra.

Possiamo allora dire che a causa di questo antisemitismo sono morte 35 milioni di persone.

 Certo che ci sono stati i sei milioni di ebrei, ma gli altri 29 non ebrei sono morti a causa dell’antisemitismo di Hitler.

Tutti sono stati colpiti da questo odio.

Ebrei e non ebrei”.

È lo stesso ragionamento, sia pure in modo diverso, che potrebbe valere per il Medio Oriente.

Quanti sono gli arabi e musulmani che muoiono in Medio Oriente non solo per un conflitto territoriale, ma a causa dell’antisemitismo e dell’antisionismo?

 Ecco perché è importante spiegare che l’antisemitismo colpisce tutti e che ogni forma di odio a sua volta può provocare l’antisemitismo.

Prima di tutto, cos’è l’odio e da dove nasce?

E perché l’odio di qualsiasi tipo può aprire la strada all’antisemitismo?

 L’odio è una componente della condizione umana e nasce come affermazione del proprio ego nei confronti dell’altro.

Si può scegliere di vivere in armonia e di fare della relazione con gli altri la fonte della propria ricchezza umana, oppure di guardare gli altri come un nostro nemico e per questo provare un sentimento di disprezzo nei confronti di coloro che immaginiamo siano di ostacolo alla nostra esistenza.

 C’è l’odio verso chi consideriamo di intralcio alla nostra affermazione professionale;

 c’è l’odio verso le donne che si sottraggono al potere del maschio;

 c’è l’odio etnico verso individui di altre etnie e di culture diverse che non vogliamo accettare;

 c’è l’odio per classi sociali diverse dalla nostra;

c’è l’odio di genere;

 c’è l’odio nello sport nei confronti degli avversari sportivi;

c’è l’odio nei social, dove si ha il gusto e il piacere di mettere alla gogna delle persone che neppure si conoscono;

c’è l’odio nel dibattito politico delle stesse democrazie, dove chi la pensa diversamente viene considerato non una componente della Polis, ma un vero e proprio nemico da eliminare in una guerra verbale permanente.

 E l’odio più pericoloso è quello che viene legittimato dagli stati fondamentalisti e totalitari con leggi e persecuzioni contro i cosiddetti nemici, che siano ebrei, donne, membri della comunità “lgbtq+”, ma anche contro gruppi politici differenti.

Come spiega “Hannah Arendt”, il punto comune di tutti i totalitarismi vecchi e nuovi è la negazione della pluralità umana.

Essi ritengono che sulla terra esista solo l’uomo al singolare, l’uomo fotocopia, e non, invece, che l’umanità sia composta da uomini diversi.

Ricorda infatti la Arendt, forse con la più alta sintesi del suo pensiero:

“Non l’Uomo, ma uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra”.

 Da questa concezione monolitica nasce, in varie forme, l’odio politico, che non solo può portare alle persecuzioni, ma fino alla distruzione estrema, come è avvenuto ad Auschwitz e in tutti i genocidi.

 E in questo contesto l’antisemitismo fa da collante, perché chi odia qualcuno, o uno stato che si fonda sull’odio politico, può presentare il volto nascosto dell’ebreo dietro al suo nemico.

Il motivo per certi versi è molto semplice.

Poiché gli ebrei nel pregiudizio millenario antisemita sono i nemici universali dell’umanità, diventa comodo presentare l’ebreo come quello che si nasconde dietro ad un migrante, ad un omosessuale, ad un oppositore politico, ad un nemico della nazione, ad un nemico dell’Islam.

Anche se può sembrare assurdo ed incomprensibile, il ricorso all’antisemitismo “nobilita” la missione di ogni dittatura che fa dell’ebreo la sua minaccia esistenziale.

Ci illudiamo se riteniamo che con un colpo di bacchetta magica si possa mettere fine all’odio.

 È stato questo il grande fraintendimento dopo la Seconda guerra mondiale e la scoperta sconvolgente della” Shoah” e della distruzione degli ebrei.

Si è pensato a una non ripetibilità del Male estremo.

Invece, purtroppo, le devastanti guerre in Ucraina e in Medio Oriente ci mostrano che l’odio continua ad essere terribilmente presente nella Storia umana.

Dobbiamo invece diventare consapevoli che, in ogni epoca, gli esseri umani possono scegliere tra un destino di convivenza e armonia e un percorso di odio e di conflitti.

Come ha spiegato “Baruch Spinoza”, l’essere umano si trova sempre di fronte a due strade:

Illudersi di sviluppare la propria potenza, il proprio conatus, a spese degli altri in una guerra permanente;

oppure cercare la vera forza in un rapporto reciproco con gli altri, che permetta di trovare una risposta soddisfacente alla fragilità umana.

Ciò che determina l’esito di questa scelta, come aveva forse per primo capito “Socrate” con la sua “Maieutica”, è un processo permanente di Educazione.

Può sembrare paradossale, ma gli esseri umani che possono cadere nella tentazione del “Male” devono venire guidati alla comprensione del “Bene” come la migliore convenienza per la realizzazione della loro pienezza umana.

Si tratta costantemente di risvegliare le facoltà dell’animo che apparentemente sembrano sopite, come il gusto morale, estetico ed umano e di cui spesso gli uomini smarriscono il senso.

 Ecco perché vivere con odio, diceva “Etty Hillesum”, è la peggiore malattia dell’anima che deturpa la vita delle persone e le rende infelici.

È proprio l’Educazione il senso di quella “Pedagogia dei Giusti” che “Gariwo” ha sviluppato e praticato in questi ultimi venticinque anni, con la promozione delle figure morali dei Giusti e la costruzione dei “Giardini dei Giusti”.

Il primo punto da sottolineare è che il concetto di Giusti, al di là dei riferimenti biblici, è un concetto di grande modernità, nato assieme alla parola genocidio, inventata dal giurista ebreo polacco “Raphael Lemkin”.

Se infatti il termine "Genocidio" (ibrido del greco genos e del latino cidio) indica l’intenzionalità della distruzione parziale o totale di un popolo, la parola “Giusti” indica invece coloro che si oppongono e si assumono una responsabilità nei confronti delle atrocità di massa, salvando delle persone o lottando contro l’odio in atto, prima che il “Male” si realizzi.

 Il secondo punto fondamentale è che il concetto di Giusti non indica solo una categoria di uomini che emergono nelle circostanze estreme, ma una possibilità di essere e di realizzarsi per tutti gli esseri umani.

Si tratta quindi di una modalità di esistenza, non per santi ed eroi, come si potrebbe credere erroneamente, ma una possibilità alla portata di tutti.

Ognuno nel suo piccolo può scegliere se diventare portatore di odio, comportarsi da indifferente, oppure diventare con una sua vita autentica messaggero di bene.

In questi anni c’è stata una cattiva e riduttiva interpretazione del concetto di Giusti.

Molti hanno ritenuto che, ad esempio, parlare di “Giusti nella Shoah”, di fronte alla loro esiguità numerica dinanzi ad una maggioranza indifferente o complice del “genocidio”, significasse creare una cortina fumogena attorno agli ingiusti.

In realtà, la testimonianza di un Giusto che osa sfidare leggi ingiuste e porsi contro lo spirito nefasto del proprio tempo deve venire interpretata come il più grande messaggio di scandalo.

 Il Giusto, infatti, con la sua azione controcorrente, inchioda alla sua terribile responsabilità chi è stato indifferente.

È compito quindi della narrazione spiegare il contesto in cui agisce un Giusto e il suo "rapporto eretico" contro le derive della società del suo tempo.

Ma come si può rendere attrattiva nella società l’idea di essere Giusti e creare un movimento positivo di emulazione?

 È questo il punto decisivo.

Si tratta di fare comprendere che fare il bene non è una rinuncia ed una privazione come molti lo intendono, ma un arricchimento della propria personalità che porta a quella che i classici greci chiamavano "eudemonia" (che significava il piacere della virtù).

 È forse la gioia più grande possibile nella nostra esistenza. Spesso invece le storie dei Giusti sono confuse nel nostro paese con le storie delle “Vittime”, come se la sofferenza e il martirio fossero il percorso obbligato di chi fa del Bene.

C’è un punto in comune in tante biografie di uomini giusti nella Shoah e in altri genocidi.

Leggendo le storie di “Giorgio Perlasc”a, di “Armin Wegner” e “Dimitar Peshev” vi accorgerete che la motivazione delle loro azioni non dipendeva né da un imperativo categorico di tipo kantiano, né da un senso di dovere verso gli altri e persino nemmeno da un sentimento di altruismo, ma la base di partenza era il proprio senso estetico, il volere stare bene con se stessi, come suggeriva “Hannah Arendt”.

Non tolleravano la deturpazione dell’umanità, perché altrimenti avrebbero sentito un’inquietudine ed un malessere dentro di loro.

 

Con le loro azioni, i Giusti hanno rischiato, hanno sofferto, hanno vissuto l’isolamento e l’incomprensione e alcuni hanno persino sacrificato la loro vita.

Ma il punto di partenza è sempre stato il desiderio della loro felicità e del benessere interiore che i carnefici e i violenti avevano deturpato e inquinato.

 Lo ricordava “Anton Čechov “quando parlava della "terza intelligenza" che esiste negli esseri e che non dipende né dai geni ereditati, né dalla conoscenza e dall’esercizio della logica, ma dal gusto interiore di praticare il bene per rettificare il mondo.

E lo suggeriva “Seneca” a “Lucullo” quando, in una bellissima lettera, gli spiegava che il percorso che può portare alla gioia derivava unicamente dalla realizzazione di una vita autentica.

 

Come abbiamo allora cercato di realizzare questa metodologia di lavoro sui Giusti nella società?

 Lo abbiamo chiamato il “Metodo Gariwo”, che è la sintesi teorica di 25 anni di attività:

Con la creazione dei “Giardini dei Giusti” abbiamo sollecitato i giovani e l’opinione pubblica a ricercare dal basso le storie dei Giusti e a esprimere loro gratitudine e riconoscenza.

 La valorizzazione delle loro vicende produce così un movimento di emulazione positiva.

Si stimolano le persone a riconoscersi nelle loro storie.

 La conoscenza delle storie di bene produce così una contaminazione.

Con il concorso “Adotta un Giusto” abbiamo stimolato gli studenti a diventare degli” Sherlock Holmes “di tipo nuovo che, invece di cercare gli indizi di colpevolezza dei criminali e i moventi di un delitto, svolgono una indagine per scoprire le motivazioni e i meccanismi della coscienza che hanno spinto degli esseri umani a delle azioni di solidarietà e di altruismo.

Così si crea una curiosità per scoprire il segreto dei Giusti.

Abbiamo dato vita a una rete di” 300 Giardini universali”, il cui scopo è quello di provocare le coscienze attraverso un metodo di comunicazione indiretta.

Lo definiamo come un "percorso di educazione etica antitotalitaria".

Non imponiamo a nessuno una morale o una direttiva di comportamento, ma con le storie dei Giusti trasmettiamo degli esempi morali che stimolano così le persone a porsi delle domande e a fare un esame interiore.

 Così, attraverso un meccanismo di empatia nei confronti delle storie dei Giusti, le persone sono trascinate a fare un esame di coscienza sulla propria vita e sulle proprie responsabilità.

Abbiamo istituito dei “Giardini” il cui scopo non è quello della commemorazione di eventi del passato, ma di educazione alla responsabilità nel tempo presente.

 Molto spesso la società è stata abituata a riconoscere il “Male” solo nel suo momento estremo.

Il nostro scopo, invece, è quello dell’educazione alla prevenzione, per riconoscere in anticipo le possibili stazioni del Male che possono portare alla distruzione di esseri umani.

Al Male estremo ci si arriva con la crisi della democrazia, le campagne di odio, il disprezzo della dignità dell’altro, la disumanizzazione del diverso, fino a leggi ingiuste che sono l’anticamera per la violenza politica.

Ciò che rimane ancora oggi incredibile è che i percorsi sono spesso molto simili, ma non ce ne si accorge, anche perché l’attenzione della memoria ha sempre privilegiato il momento finale della distruzione.

È il vuoto principale da rettificare.

(Gabriele Nissim)

“Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo)

 

 

 

 

 

Democrazia, libertà

e… tragedia.

  Micromega.net - Giuseppe Panissidi – (8 Giugno 2023) - ci dice:

 

Gli archetipi dei nemici della democrazia sono rintracciabili nei miti dell'antichità.

Ma oggi, nella realtà, dove possiamo individuarli?

Nella cornice scenografica delle rovine del teatro di Siracusa, in questi giorni, risplende uno straordinario frammento di antichità, la rappresentazione del “Prometeo Incatenato” di “Eschilo”.

 “Un pugno allo stomaco”, è stato definito, a chi vi accede, un monito potente sulla transitorietà delle cicliche fasi della storia umana, fino all’industrializzazione e alle leopardiane magnifiche sorti e progressive della Ginestra.

Da questa tragedia, ispirata al primo mitico benefattore dell’umanità,” Prometeo”, il dio ribelle che agli uomini ha elargito le tecniche, è giocoforza aspettarsi una radicale messa in discussione dell’idea stessa di progresso.

 In realtà, va in scena la specifica complessità dell’umano.

L’onnipotente padre degli dei, Zeus contro il dio Prometeo, accusato di “Hybris”, orgoglio spinto fino alla tracotanza.

 Che non può restare impunita.

Agli uomini è proibito il superamento dei propri limiti, la medesima colpa che “Dante” attribuisce ad” Ulisse”, quand’anche, in Dante, motivata con l’assenza della “Grazia”.

Contraddizioni comprensibili soltanto in contesti democratici, non nel mito, sebbene Prometeo le incarni, rifiuti di obbedire e tenga testa a Zeus.

 Una resistenza estranea agli eroi greci, i quali o si sopprimono, come “Aiace”, oppure si accecano, come” Edipo”.

 In Prometeo l’opposizione al potere assoluto è intransigente.

Bisognerà aspettare il” Prometeo liberato” perché si chiuda il cerchio tragico, lo “scioglimento” dell’incastro, quando Zeus incaricherà “Eracle” di uccidere l’aquila, che divorava il fegato a Prometeo, e lo libererà, ripristinando il senso dell’equazione umana possibile.

Rimane una domanda cruciale.

Perché il furto del fuoco dev’essere punito?

Perché, questa la risposta tragica, l’amore di Prometeo per gli uomini, è un atto di arroganza ribelle, una rivolta contro il potere tirannico, la sfida suprema, destinata a soccombere al cospetto della legge della necessità nella figura di Zeus, che considera il fuoco – leggi: la costellazione dei saperi, la scienza e la tecnica, quali emblemi del potere sovrano e contraltare dell’indipendenza umana – come un’energia di sua esclusiva pertinenza.

Infatti, dopo il furto del fuoco dall’Olimpo, nascosto nel cavo di una canna e donato agli uomini, i quali accettano l’inganno di Prometeo, Zeus invia sulla Terra Pandora, la prima donna, un essere affascinante e, al tempo stesso, il dono più pericoloso.

 Il fratello di Prometeo, “Epimeteo”, “colui che non sa prevedere”, se ne innamora e la sposa.

Prometeo, “colui che prevede”, e dunque sa, tenta di dissuaderlo e indurlo a diffidare di tutto quanto provenga da Zeus.

Vanamente, tuttavia, poiché il fratello, impulsivamente, non rinuncia alla splendida fanciulla.

 

Sorvoliamo sulle interpretazioni del racconto come una critica al capitalismo del consumo e della produttività, una denuncia dell’alienazione umana dovuta all’industrializzazione.

Prometeo, in realtà, è il difensore del genere umano in rivolta contro una divina volontà di annientamento.

Se non che, pur entro il potere dell’economia, in tema è il destino di quanti non si rassegnano ad essere usati come macchine o merci per la produzione.

Però Prometeo, l’intellettuale preveggente, che legge e conosce la storia, sa bene che ogni sistema di potere non è perenne, ed è destinato alla fine sotto il peso dei propri errori e della propria protervia.

Nell’ode Prometeo, “J. W. Goethe”, all’alba della rivoluzione industriale, Prometeo incarna l’eroe borghese che rivendica la sua autonomia intellettuale e artistica contro i detentori del potere economico.

Contro Zeus, il” Prometeo di Goethe”: “Me ne sto qui, plasmo uomini/ a mia immagine, /una stirpe simile a me / che mi somigli/ nel soffrire, nel piangere/ che goda e si rallegri/ e non si curi di te, /come me!”.

Erano le prime luci dell’alba, per l’appunto. 

Oltre un secolo dopo, infatti,” F. Kafka”, in un apologo del 1917/1918, scolpisce un” Prometeo sconfitto”, annichilito dal suo stesso dolore, ormai incapace di ribellarsi e privo dello slancio creativo del “Prometeo di Goethe”.

 In tale variazione sul mito, l’intelletto, l’arte e la fantasia si rivelano impotenti di fronte al degrado del lavoro seriale alla catena di montaggio, in cui rivive la roccia alla quale Prometeo è incatenato, divenendo insensibile al pari della pietra.

 E, proprio mentre la Grande Guerra volge al termine, la rivoluzione industriale compie il giro di boa verso il punto di non-ritorno, con effetti profondi sull’uomo.

 L’uomo/operaio è pura macchina, nell’indistinzione tra gli uomini e nella identificazione crescente tra merce e consumatore, entro un modello di capitale quale produzione di merci a mezzo di merci.

Carne da macello per l’industria bellica, uomini contro, idonei per progetti politici totalitari.

“Kratos “dice: “[Prometeo] impari ad amare il dominio e desista dall’arroganza in favore degli uomini, questo dio inviso a tutti gli dei”.

Questo lungo, ma necessario preambolo ci conduce al punto dolente, la domanda lancinante.

Oggi, chi sono i nemici dell’autonomia, della libertà umana e dei saperi, ai quali l’universo dei poteri oscuri nega il diritto a un’esistenza, individuale e collettiva, degna di essere vissuta?

Una considerazione, attuale e concreta, può orientare la riflessione.

Secondo la tesi prevalente, nelle elezioni presidenziali in Turchia Erdogan, concordemente esclusi i brogli, avrebbe prevalso anche in forza dell’assenza della libertà di stampa, e connessa scarsa ‘conoscenza pubblica’ dello stato miserando dei diritti e delle libertà civili.

Si sarebbe, insomma, imposto, esibendosi, ad esempio, nell’arco di una sola giornata, da sette reti televisive su dieci.

Mancanza di conoscenza?

 Un dio onnipotente in azione per conculcarla e deprivare gli uomini dei loro diritti?

Ed ecco la questione dirompere nella sua forma più scoperta. Una donna turca, un lavoratore, un giovane, uno studente, vaste frazioni di popolo in agonia civile e culturale, hanno bisogno dell’informazione, televisiva e non, per conoscere la propria condizione infelice?!

Non è sufficiente viverla, nel quotidiano, sulla propria pelle, anche da parte – il punto più dolente – della maggioranza vincente, seppur di misura?

Del resto, la conoscenza soffre un micidiale conflitto d’interessi anche con le (asserite) ragioni superiori delle nazioni europee, i cui leader si sono congratulati con Erdogan, rilanciando progetti comuni di grande spessore geopolitico strategico.

 Con la mente e il cuore rivolti al popolo turco, come non pensare a “F. Guicciardini”:

Pregate Dio, pregate Dio di farvi trovare sempre dalla parte dove si vince”?

Io sono duca, replicava Totò a Mike Bongiorno, a volte sono i conti che non tornano.

Anche qui, purtroppo, i conti non tornano.

Se, poi, proviamo a estendere la riflessione, domande non meno inquietanti riguardano altri mondi, come anche il nostro, evidentemente “Anche chez nous” manca la conoscenza pubblica e diffusa, a causa dell’odio… degli dei?

Forse una possibile risposta, tragica, per restare in tema, si può individuare nella reazione di un cittadino, “quivis de populo”, quand’anche allineato, intervistato su” Dell’Utri”:

“Anche se viene condannato per mafia, per noi non cambia nulla…”.

Non sembra mancasse la conoscenza a quel, si presume, patriota.

Invero, per quell’individuo la conoscenza non è… maledizione, per far menzione di una tradizione di pensiero novecentesco, inaugurata da “F. Nietzsche in ambito filosofico”, e proseguita con” T. Mann”, nel giudizio autocritico sulla letteratura.

E tuttavia, sotto un diverso profilo, questo patriota si pone fuori dal paradigma tragico, visto che non potrebbe mai sentirsi solo al pari dell’eroe tragico dell’“Io solitario penso”.

 Ché, anzi e purtroppo, si trova in ottima e abbondante compagnia.

Tanto vero che tal “Schifani” può gioiosamente e autorevolmente celebrarlo:

“Se non ci fosse Cuffaro, bisognerebbe inventarlo”. Inventare, ossia, un valente poliglotta, ancor prima che politico, capace di scambiare la nobiltà del “dream” di “Martin Luther King” con il “drink” del bar sport.

Occorre scomodare la psicologia del profondo per comprendere questa intrigante gaffe?

Sullo sfondo di quella Sicilia/laboratorio, come si suol definire, nella quale tante cose mancano, da troppo tempo, di certo non la … conoscenza!

Fuori dalla metafora speculativa e letteraria e dall’ordine dei mitologemi, lo stato dell’arte attuale segnala forti criticità.

Se un nuovo Prometeo, vedi caso nella figura del nostro capo dello Stato, ha l’ardire di ricordare, Costituzione alla mano, di cui è notoriamente il garante, che quel che conta è l’essere umano, la persona, non già l’”etnia”, un foglio della destra – non importa quale, vista la sua impressionante somiglianza con i suoi omologhi – reagisce in termini militari, qualificando Sergio Mattarella come “oppositore”.

Un attacco all’arma bianca contro chi assolve scrupolosamente il proprio dovere, istituzionale e democratico, di richiamare la Costituzione, sollecitarne la conoscenza e sbarrare la strada a qualsiasi torsione cognitiva, in specie pseudopolitica e faziosa!

In tal senso, e solo in tal senso, il capo dello Stato, non solo può, ma deve tenere alto e saldo il vessillo costituzionale, opponendosi, appunto, quando e se necessario.

Inoltre, è del tutto evidente che la sua sottolineatura non sottendesse o significasse l’idea di una scissura tra l’essere umano e l’etnia correttamente intesa, in rigorosa accezione antropologico-culturale, quale comunità di uomini storicamente costituita entro prospettive e traiettorie dinamiche e progressive.

 Non mai un dato originario e definitivo, inerte nell’invarianza, bensì sempre un “costrutto in progress”.

“Leonardo Sciascia” osservava amaramente che ciascuno viene creduto e giudicato “per ciò che dice di sé stesso”, non per ciò che è o fa!

 Cosicché, “…un Marcel diventa / ogne villan che parteggiando viene”, s’indigna Dante.

 Sotto questo profilo il Belpaese è il migliore dei mondi possibili. “Candide” è vivo e lotta insieme a noi.

“Prometeo”, alla fine, torna in libertà, però soltanto previa accettazione della volontà del dio-padre.

Nel mito tragico eschileo, dove la storia si snoda religiosamente e fatalisticamente “dentro il tempio”, questo epilogo appare come l’unica composizione possibile della contraddizione.

 E nei nostri sofferenti contesti di democrazia?

In un’altra, più antica versione del mito di Pandora, dopo che tutti mali si sono riversati nel mondo, per ultimo prende il volo un essere piccolo e fragile: la speranza.

Un male anch’essa, certamente, che sembra tuttavia buono, perché induce ad attendere qualcosa di meglio.

Ad attendere, direbbe Euripide, che, infine, un dio trovi la via.

Nel mondo secolarizzato, “gli dei se ne vanno”.

“Spes” ultima dea.

 

 

 

Cancellare l’ANTICHITÀ significa

cancellare la CIVILTÀ.

 Cronacanumismatica.com –(12 Aprile 2021) – Redazione – Roberto Ganganelli - ci dice:

 

Rilanciamo l’appello pubblicato da” Le Figaro” sulla difesa dello studio dell’Antichità:

dimenticare Atene e Roma quali effetti avrebbe sul nostro futuro?

 È stato pubblicato sulle colonne del quotidiano francese “Le Figaro” il 22 marzo 2021 e rilanciato in Italia, fra gli altri, da “Il Foglio Quotidiano” il 5 aprile, con traduzione a cura di Mauro Zanon, un appello firmato da 45 professori universitari francesi, belgi e italiani (latinisti, ellenisti, storici e filosofi) esponenti di atenei di primo livello e di lunghissima tradizione.

Già il titolo dice tutto, Cancellare l’antichità dalla nostra cultura significa rinnegare l’umanesimo.

 Ma vale la pena leggere il testo per renderci conto di quanto un simile manifesto tocchi anche coloro che, per studio o passione, per carriera accademica o per sensibilità culturale, si occupano di numismatica, primaria fra le discipline ausiliarie della storia e dell’archeologia e che, proprio nell’Antichità, affonda dunque le sue radici.

Può lo studio dell’Antichità essere “pericoloso”?

“Lo studio dell’Antichità è nocivo.

 È quanto affermano oggi alcuni professori di storia antica, di latino e di greco in varie università americane.

Un movimento partito da Stanford mette in discussione l’esistenza di queste discipline (gli ‘studi classici’) nei campus universitari, sostenendo che imporrebbero nell’istruzione un ‘suprematismo bianco di ispirazione neocoloniale’ (come ha scritto” Raphaël Doan” sul “Figaro” Vox lo scorso 11 marzo).

A tutto ciò, in Francia, si è aggiunto un dibattito sull’abbandono da parte dei musei nazionali dei numeri romani in alcuni cartelli espositivi, perché il pubblico non saprebbe più leggerli.

 Invece di imparare i numeri romani, cancelliamoli!

Gli autori greci e latini, schiavisti e ostili ai barbari, erano dunque razzisti, conservatori, guerrieri, imperialisti e misogini?

Non è totalmente falso, ma sono lungi dall’essere gli unici nella storia, e ciò non giustifica assolutamente la loro cancellazione senza uno sforzo di contestualizzazione e di analisi delle loro posizioni nel quadro della epoca in cui vissero, e non nel nostro.

Conoscere per contestualizzare.

In Omero, Achille è un sanguinario, ma il poeta gli mette in bocca una riflessione toccante sul senso della vita.

Anche Ettore trucida allegramente i suoi nemici, ma sembra più umano perché è una vittima.

 Se l’imperatore Augusto è un autocrate, Cicerone è morto per avergli rimproverato, quando ancora si chiamava soltanto Ottaviano, la sua complicità con Antonio.

Sant’Agostino non ha messo sotto accusa la schiavitù, ma ha contribuito alla nostra concezione di umanesimo moderno, e lo ha fatto in un’epoca in cui la” ricchissima cristiana Melania la giovane” affrancava in massa i suoi schiavi”.

Dovremmo dunque considerare, ad esempio, anche le monete che ricordano le conquiste romane della Giudea o della Dacia solo dei simboli di prevaricazione e il ricordo di stragi, sopraffazioni e assolutismi sanguinari, quasi delle “scorie tossiche” da seppellire di nuovo dopo aver tanto lottato per studiarle, svelarne i messaggi, collocarle correttamente nel mosaico dell’Antichità?

O magari dovremmo mettere all’indice le coniazioni che ci mostrano le fatiche d’Ercole perché il “brutale” eroe mitologico, con rara violenza, sopprima l’”Idra di Lerna”, se la prende con il “leone di Nemea” o “maltratta”, per catturarla, la “cerva di Cerina”?

 

Amnesia del passato e negazione del futuro

“Cancellare Atene e Roma dalla storia degli uomini – prosegue l’appello -, significa ostracizzare la Ragione (il logos greco) e mettere al bando la Legge (i codici giuridici romani).

Significa uccidere Platone e calpestare la nozione di equità, inventata da Roma.

Per ora teniamo da parte la questione della fede (Gerusalemme), se è possibile farlo, cosa di cui dubitiamo.

Ciò che ci sembra più importante è che la martellatura dell’Antichità, cancellata dalle memorie come l’effigie dei proscritti a Roma, sia un tragico embargo sulla memoria e un rifiuto della speranza, una negazione pura e semplice del futuro.

 L’adoperarsi con ogni mezzo per organizzare l’amnesia del passato elimina qualsiasi speranza per il domani.

Virgilio racconta nell’Eneide il modo in cui Enea è fuggito da Troia in fiamme, portando il suo anziano padre sulle spalle.

 Disegnando questa immagine in alcuni versi magnifici, il poeta non parla solo di Enea, di Anchise, di Troia e di Roma, ma anche di noi, oggi.

Ecco il verso più bello nel racconto dello stesso Enea, che riporta le condizioni della sua fuga:

“Cessi, et sublato montes genitore petivi” (“Mi rassegnai e sollevato il padre mi diressi sui monti”, II, 804).

 C’è tutto in queste parole:

 il passato e la sconfitta (Troia abbandonata), il peso della tradizione (il genitore che la pietas filiale impone di salvare), il futuro che si intravede in lontananza, così difficile da descrivere (i monti all’orizzonte).

“André Gide,” commentando questo verso straordinario, che chiude lo splendido “Canto II dell’Eneide”, notava laconicamente, ma con giustezza:

 ‘Spettacolo dell’umanità’.

Gli iconoclasti contemporanei dell’Antichità rifiutano di assistere allo spettacolo della nostra imperfetta umanità, sia per odio di sé, sia per volontà mortifera di autodistruzione o di convenienza politica, sia per paura.

Si allontanano da loro stessi, si tradiscono e tradiscono l’umanesimo che – non ne sono nemmeno consapevoli – trascende la loro piccola persona così come l’umanità trascende il destino di Enea.

Non lasciamoci andare al decadentismo ad ogni costo, mille ragioni ci trattengono dal farlo.

Ma come si può non pensare a” Cioran” quando scriveva che una ‘civiltà marcescente scende a patti con il suo male?’.

Una società malata, aggiungeva, ‘ama il virus che la consuma, non si rispetta più’.

Essa non osa più affrontare la sua immagine autentica nello specchio della letteratura, bensì indietreggia dinanzi all’oscurità della sua anima come la storia la rivela.

Dovrebbe invece farne il suo studio preferito, per capire meglio sé stessa ed esorcizzare i suoi peggiori demoni […]

Per lo storico, cancellare il passato equivale a un’epurazione; non serve a nulla cancellarlo, e conoscerlo meglio è un’ardente pratica di consapevolezza”.

La provocazione americana, la risposta europea.

Che il movimento per l’ostracizzazione dell’Antichità sia partito dalla California, da Stanford, non stupisce in fondo più di tanto.

 In un paese dalla storia “giovane” come sono gli Stati Uniti, infatti, e nel quale si mescolano echi di puritanesimo antichi e ondate di propaganda all’insegna del più becero politically correct, prima o poi anche gli antichi imperatori e tiranni (nell’originario senso greco del termine), Roma e Atene dovevano finire sotto l’occhio miope del censore.

 

Peccato che in questo caso la “vibrante protesta” non sia venuta da una congregazione di mormoni dell’America profonda o da un contesto tradizionalmente rigido o arretrato, ma abbia avuto origine in uno degli atenei più rinomati del Nord America;

 per fortuna che dalle università della “vecchia Europa”, erede per tanta parte di quella Grecia e di quella Roma che si vorrebbero cancellare, si è levata una risposta.

Un’altra risposta possiamo darla noi numismatici, nel piccolo, proseguendo i nostri studi e la divulgazione, diffondendo grazie alle monete dell’Antichità il racconto del mondo che è stato, anche nelle sue contraddizioni e nell’evidenza degli errori e degli orrori.

Notando che, sì, sebbene non perfetti, anche grazie a quelle memorie siamo un po’ diversi e migliori e che, se lo vorremo, potremo crescere ancora.

 

Che cos'è la “cancel culture”?

Una pratica tra censura,

giustizia e disparità di genere.

Lavialibera.it - Beatrice Lasala - Monica Ianiro – (26 -luglio-2022) – ci dicono:

 

L'espressione “cancel culture”, coniata negli Stati Uniti, si riferisce alla pratica di "cancellare" chi si è reso protagonista di comportamenti giudicati sbagliati.

Secondo alcuni, è una tutela per le minoranze.

Per altri, a causa della “cancel culture” rischiamo di perdere addirittura “la libertà di parola”.

Ma è davvero così?

 Che cos'è veramente la” cancel culture” e come si è diffusa nella società di oggi?

 

Secondo il vocabolario Treccani, la “cancel culture” è un “atteggiamento di colpevolizzazione, di solito espresso tramite i social media, nei confronti di personaggi pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualche cosa di offensivo o “politicamente scorretto” e ai quali vengono pertanto tolti sostegno e gradimento”.

Dunque, un principio di causa-effetto ragionevole.

Ma se si tratta soltanto di questo, cosa c’è di male?

Alla domanda fornisce qualche risposta la lettera pubblicata sulla rivista americana “Harper’s” il 7 luglio 2020 intitolata

A letter on justice and open debate”, ovvero “Una lettera sulla giustizia e sul dibattito aperto”.

 Si tratta di un appello “contro la cancel culture” firmato da 150 tra scrittori, artisti, giornalisti e intellettuali, schierati a difesa della libertà di parola, a loro dire minacciata da questa pratica della cancellazione.

Nella lettera si legge:

 “Il libero scambio di informazioni e di idee, linfa vitale di una società liberale sta diventando ogni giorno più limitato (...) la censura si sta diffondendo in modo più ampio nella nostra cultura”.

E ancora: “Questa atmosfera soffocante finirà per danneggiare le cause più vitali del nostro tempo (...) la limitazione del dibattito, sia da parte di un governo repressivo che da una società intollerante, danneggia invariabilmente chi non ha potere e rende tutti meno capaci di partecipare alla democrazia. (...) Come scrittori abbiamo bisogno di una cultura che ci lasci spazio per la sperimentazione, l'assunzione di rischi e persino per gli errori”.

 

Scrittori, artisti, giornalisti e intellettuali hanno firmato un appello a difesa della libertà di parola, a loro dire minacciata dalla pratica di cancellazione.

La lettera ha suscitato critiche e prese di posizione a livello internazionale.

 I firmatari sono stati accusati di non fornire alcun riferimento a episodi di censura e dati che giustifichino il loro allarme, e di non prendere abbastanza in considerazione le voci realmente marginalizzate dal giornalismo mainstream, che sarebbero invece tutelate dalla reazione sociale della” cancel culture”.

 Una critica sostenuta in particolare da “socialisti democratici” come “Alexandria Ocasio-Cortez”.

 L’accusa più grave rivolta agli autori dell’iniziativa è di avere enfatizzato la portata della “cancel culture”, parlando "umiliazioni pubbliche" e “intolleranza” per sottrarsi, in realtà, a qualsiasi forma di critica.

"Lavoro contro l'odio. Salvini protetto speciale":

 intervista esclusiva a una moderatrice di Facebook.

La” cancel culture” non è un’invenzione contemporanea.

Anche se oggi il refrain è “non si può più dire e fare nulla”, la pratica ha origini lontane nel tempo.

Nell’antica civiltà dei greci l’istituzione giuridica ateniese dell'ostracismo consentiva di condannare all’esilio per dieci anni un cittadino giudicato pericoloso dall’assemblea popolare, chiamata a votare su cocci di terracotta, chiamati appunto òstraka.

 Anche i romani applicavano la “cultura della cancellazione”, tramite la “damnatio memoriae”: una pena molto severa, che consisteva nell’eliminazione di ogni testimonianza dell’esistenza di un individuo o addirittura di un intero popolo.

Nei secoli questo atteggiamento è stato ripreso più volte fino all'attuale “cancel culture”, espressione coniata negli Stati Uniti, dove l’atto “to cancel someone” è definito sul Cambridge dictionary come “to completely reject and stop supporting someone, especially because they have said something that offends you”, vale a dire “rifiutare e smettere completamente di supportare qualcuno, soprattutto perché ha detto qualcosa che ti ha offeso”.

 

Nell'antica Grecia gli ateniesi esiliavano i cittadini giudicati pericolosi dall’assemblea popolare, mentre i romani con la damnatio memoria eliminavano ogni testimonianza dell’esistenza di un individuo o di un intero popolo.

Il concetto è entrato prepotentemente in scena nel dibattito pubblico e sui social all’alba delle prime accuse di molestie sessuali dirette al famoso e potente produttore cinematografico “Harvey Weinstein”.

 Un processo lungo, partito dagli anni Novanta e culminato nel 2017. Con quell’evento è nato il “Me Too” – un movimento femminista contro le molestie sessuali e la violenza sulle donne – e tutte le sue varianti.

Si è diffusa, inoltre, l’idea di una “cultura della cancellazione troppo soffocante”, invisa soprattutto ai refrattari e ai paladini degli innocenti fino a prova contraria.

 

Con la nascita dei” social media”, la “cancel culture” è diventata una forma di ostracismo difficile da monitorare:

ogni utente ha il potere di cancellare chiunque per i più disparati motivi. Ad esempio, nel 2018 l’attore comico “Kevin Hart” ha rinunciato a condurre gli Oscar in seguito alle proteste dovute ad alcuni tweet omofobi pubblicati nel 2009;

 Hart si era scusato più volte, rinnegando quanto scritto in passato.

 È giusto che alcuni commenti risalenti a quasi un decennio prima finiscano per rovinare un’intera carriera?

In Italia, durante la scorsa edizione del “Salone internazionale del libro di Torino”, lo scrittore “Nicola Lagioia” è stato duramente criticato per i violenti insulti sessisti rivolti in passato alla scrittrice “Melissa Panarello”, nel frattempo divenuta sua amica.

 Quanto è desiderabile ridurre la personalità di chiunque a un solo deprecabile gesto?

 E quando è invece iniquo perdonare solo perché la persona in questione gode di uno status sociale "alto", il più delle volte di gran lunga superiore a quello delle vittime?

Non è una novità che le conseguenze delle azioni personali possano avere un peso diverso in base al frangente e al soggetto che le compie. La “cancel culture” difende i più deboli?

“Hate speech”, quello che nessuno dice sull'odio online.

“Cancel culture” tra statue e TikTok.

La cultura della cancellazione ha coinvolto nel tempo anche statue e monumenti che sono stati rimossi, vandalizzati o addirittura distrutti per ristabilire una narrazione dei fatti che si ritiene più rispettosa della verità o delle sensibilità contemporanee.

Pensiamo, ad esempio, alle statue di Cristoforo Colombo abbattute a Minneapolis (Minnesota) e a Richmond (Virginia), e imbrattate a Miami e Boston.

Azioni volte a sottolineare le conseguenze nefaste dell’arrivo dell’esploratore genovese sull’isola di San Salvador, situata nell’arcipelago delle Bahamas.

 Un atto che, a prescindere dalla volontà di Colombo, diede inizio alla conquista sanguinaria delle Americhe.

Le implicazioni della questione sono molte, ma non tutte toccano la stessa profondità.

La pratica della “cancel culture” si è diffusa a macchia d’olio anche sulla piattaforma di Tiktok (social che permette di realizzare video brevi di qualsiasi tipo, solitamente inserendo canzoni o voci da doppiare), dove è sufficiente pronunciare determinate parole per essere eliminati.

Un esempio è la parola “negro”, ribattezzata n-word (letteralmente “parola che comincia con la lettera n”), utilizzata dai colonizzatori bianchi americani per chiamare gli schiavi africani.

Il termine ha poi assunto un tono dispregiativo, fino a diventare un vero e proprio insulto razzista.

Su social come Tiktok la parola “negro” può essere utilizzata solo dalla black community.

Se la pronunciano i bianchi è considerata un insulto razzista e si rischia l'eliminazione

Di fatto oggi la” n-word” può essere utilizzata solo dalla black community, che dopo decenni la rivendica come propria, perché derivante da una storia tristemente condivisa.

 Da tempo su Tiktok questa parola ha aperto diverse questioni:

 molti utenti bianchi sono stati cancellati, nonostante le innumerevoli scuse, perché cantando hanno pronunciato la n-word.

 Spesso i video considerati offensivi sono datati, filmati da giovanissimi che non conoscono il significato del termine (talvolta perché è in un’altra lingua).

Eppure questo non basta per giustificarli: ormai sono stati cancellati.

Quel bacio di troppo.

Anche la produzione Disney è stata oggetto di tentativi di cancellazione: alcuni film hanno ricevuto pesanti critiche e sono stati ritenuti offensivi perché trasmettono stereotipi e messaggi obsoleti e razzisti.

 Tra le opere in questione anche grandi classici come Le avventure di Peter Pan, Il libro della giungla, Lilli e il vagabondo, Gli Aristogatti, Dumbo e Biancaneve e i sette nani.

“Fabio Cantelli Anibaldi”: "Siamo infestati da opinioni, chiacchiere e presunte competenze".

 

Il film del 1970 de “Gli Aristogatti”, ad esempio, è stato segnalato per il personaggio del gatto siamese Shun Gon perché considerato una caricatura razzista delle popolazioni dell'Asia orientale.

Il gatto presenta tratti stereotipati abnormi, come gli occhi a mandorla e gli incisivi sporgenti.

Inoltre, canta in inglese con un marcato accento pseudo asiatico (tra l’altro doppiato da un attore bianco) e suona il pianoforte con le bacchette.

Lilli e il vagabondo, del 1955, ha ricevuto un'ammonizione simile per i personaggi dei gatti siamesi Si e Am e per i personaggi canini secondari, rappresentati anch'essi con stereotipi etnici.

Peter Pan, uscito nel 1953, è stato etichettato per la sua rappresentazione stereotipata dei nativi e per il termine offensivo "pellerossa", pronunciato più volte dal protagonista.

 Similmente, Il libro della giungla, del 1967, segnalato per il personaggio di King Louie, una scimmia che canta il jazz, da tempo considerata una caricatura offensiva e razzista per gli afroamericani.

Dumbo, del 1941, è ritenuto offensivo per i corvi e il numero musicale, omaggio ai” minstrel show razzisti”, in cui gli artisti bianchi con facce annerite e vestiti a brandelli imitavano e ridicolizzavano gli africani schiavizzati nelle piantagioni del Sud.

 Infine Biancaneve e i sette nani, al cinema nel 1937, criticato per la scena finale, ritenuta tutt'altro che romantica:

il principe dà un bacio a Biancaneve senza il suo consenso, mentre lei sta dormendo.

Secondo il quotidiano “San Francisco Gate” “non può essere vero amore se solo una persona è consapevole di quello che sta accadendo”.

In seguito alle critiche, la Disney ha deciso di non rimuovere i film considerati offensivi ma di inserire comunque delle avvertenze iniziali. Nella spiegazione dei nuovi avvisi, sul “sito web Disney”, stories matter (ovvero "Disney, le storie contano”) l’azienda scrive:

"Questi stereotipi erano sbagliati allora e sono sbagliati oggi. Piuttosto che rimuovere i contenuti, vogliamo riconoscerne l'impatto dannoso, imparare da essi e avviare una conversazione per creare insieme un futuro più inclusivo".

“Cancel culture” e cinema.

La cancel culture è diventata tema di dibattiti accesi soprattutto nel mondo del cinema, dove è stata duramente criticata come attacco alla libertà individuale.

Richiamata anche per commentare le conseguenze, ritenute ingiuste da una parte, delle accuse rivolte a personaggi di spicco del mondo dello spettacolo.

Ne è divenuto un emblema il caso dell’attore “Johnny Depp” e dell’ex-moglie “Amber Heard”, tornato alla ribalta nei mesi scorsi con il processo per diffamazione tra i due ex coniugi.

Nel 2016, quando sono arrivate le prime accuse contro il pirata più famoso dei Caraibi, i social si sono riempiti di post di fan incredule, convinte che si trattasse di un complotto orchestrato per colpire “Depp”.

 

E come spesso succede quando una delle parti è donna, non sono mancati gli insulti a sfondo sessuale, le minacce di stupro e di morte nei confronti di “Amber Heard”.

 Solo pochi si sono preoccupati della carriera della donna, anche lei attrice, mentre il nome di Depp è stato prepotentemente associato al tema della cancel culture, tanto che l’attore, considerato una vittima di cancellazione, ne è diventato una sorta di testimonial.

A sentire i fan più incalliti, per colpa delle accuse lanciata da Heard, Depp avrebbe perso il suo prestigio a Hollywood.

Preoccupazioni che non sembrano provate dai fatti, per quanto addebiti del genere non giovano all’immagine pubblica.

Dal 2016, oltre ad Animali Fantastici, Depp è stato protagonista di ben quattordici progetti.

È vero che è stato allontanato (non senza compenso) dalla “Warner” Bros, ma ciò è avvenuto solo a fine 2020, quando la star ha perso la causa intentata contro il” quotidiano inglese Sun,” che lo aveva definito wife beater ovvero "picchiatore di moglie".

Anche la cancel culture non giudica tutti allo stesso modo:

nella querelle tra Johnny Depp e l'ex moglie Amber Heard, i fan si sono schierati dalla parte dell'attore, mentre la donna è stata insultata e minacciata.

Ha quindi senso parlare di “cancel culture” in questo caso?

Chi è che viene realmente cancellato da questa pratica?

 Prendiamo ad esempio l’attore “Kevin Spacey” che, pur essendo sotto processo perché accusato di molestie, è stato scelto per il nuovo film di “Franco Nero” e lo si è visto tranquillamente girare per le strade di Torino, acclamato dai fan.

La “cancel culture” è una pratica che non colpisce chiunque allo stesso modo.

C’è chi riesce a proteggersi e continua a conseguire ruoli, fama e successo, quantomeno fino a che non intervengano provvedimenti severi, e c’è invece chi sembra attirare fin da subito insulti e chiusure, perde ruoli anche importanti e, una volta passata la tempesta, deve impiegare anni per ripulire la propria reputazione.

A inizio articolo si è detto che la “cancel culture” è una conseguenza, una reazione a determinate azioni o parole da parte di una maggioranza di persone che oggi hanno gli strumenti – social essenzialmente – per colpire direttamente chi si ritiene in errore.

Questo è il motivo per cui case di produzione, case editrici e chi ha potere decisionale preferisce allontanare, anche solo temporaneamente, un personaggio che in un dato momento potrebbe risultare scomodo, o poco redditizio sul piano commerciale.

Il problema più grande della “cancel culture” resta però un altro ed è l’impossibilità di redimersi, di commettere errori e imparare da essi per crescere.

 È richiesta la perfezione e si può solo sperare di non sbagliare.

 

 

 

Il cambiamento climatico può

provocare il collasso di una civiltà?

Lararicci.blog.ilsole24ore.com – (9 Febbraio 2023) - Lara Ricci – ci dice: 

 

Condizioni climatiche estreme possono spingere le popolazioni al di là dei limiti oltre i quali riescono ad adattarsi?

Sfondare la cintura di protezione formata da pratiche sviluppate nel corso dei secoli per compensare ed attenuare tali avversità?

Una grave siccità durata tre anni potrebbe essere all’origine della scomparsa dell’”impero Ittita”, e potrebbe addirittura avere innescato alcuni degli eventi che hanno portato al termine l’età del Bronzo nell’Asia occidentale, una fine repentina che da tempo interroga e affascina gli studiosi.

 È l’interessante ipotesi avanzata da uno studio di “Sturt Manning “della “Cornell University” (Ithaca, NY) e di altri colleghi americani e ciprioti pubblicato su “Nature”, studio che ha preso in considerazione elementi paleoclimatici e archeologici, e in particolare antichissimi tronchi d’albero ritrovati nel “tumulo funerario di re Mida” che si trova nel sito archeologico di “Gordio”, nel centro dell’odierna Turchia.

 

È proprio nel tumulo di re Mida nel “sito archeologico di Gordio” che sono stati trovati i campioni di legno.

Nel 1300 a.C., infatti, il Mediterraneo orientale era dominato dai prosperi imperi e regni degli Ittiti, degli Assiri, degli Egizi e dei Micenei. Solo 130 anni dopo, nel 1170, gli stessi Stati erano in decadenza:

i sistemi politici ittiti e micenei si erano dissolti, e l’impero Assiro e Egizio erano ridotti alle loro regioni centrali.

Finiva così l’età del bronzo (3000-1180 a.C.) e aveva inizio quella del ferro (1180-330 a.C.).

 Le cause di questo cambio di passo sono state molto dibattute e comprendono cambiamenti nelle tecniche di lavorazione dei metalli e belliche, grandi migrazioni, invasioni di una misteriosa alleanza marittima di popoli navigatori, guerre interne, cambiamenti climatici, carestie ed epidemie.

 Ma restano molte domande sull’elemento scatenante:

è stato il cambiamento climatico a causare la carestia e di conseguenza le guerre?

È stata la carestia e la siccità a favorire le epidemie e le migrazioni?

 O forse sono state le migrazioni a innescare le epidemie?

La ricerca pubblicata su “Nature” è andata a analizzare i ginepri coevi all’impero Ittita – che per cinque secoli prosperò, resistendo a minacce di carattere sociopolitico, economico o ambientale.

Tronchi d’alberi che, come l’impero Ittita, si sono sviluppati nella semi-arida Anatolia centrale.

 

Esiste un campione di legno proveniente dal sito di Gordio nell’Anatolia centrale. Indica gli anelli di accrescimento relativi al periodo di carestia.

Sono stati esaminati gli anelli di accrescimento e l’aridità del clima è stata valutata anche attraverso l’analisi di alcuni isotopi, mostrando così un lungo e continuativo periodo di forte siccità aggravatasi ulteriormente tra 1198 e il 1196 a.C.

 

(Già una decina di anni fa, del resto, ricercatori israeliani, studiando i sedimenti del mare della Galilea avevano concluso che una siccità lunga circa 150 anni aveva colpito la zona tra il 1250 e il 1100 a.C.).

È in questo periodo che gli archivi reali si interrompono, e Hattusha”, centro politico e religioso di questa civiltà, viene abbandonata. 

Secondo gli autori dello studio l’inedita aridità provocò una duratura carestia, poiché i territori centrali dell’impero non avevano sbocco sul mare e dipendevano dalla produzione regionale di grano e dall’allevamento, che sono particolarmente vulnerabili alla siccità.

 

 

 

 

Serve riflettere sulla” cancel culture”

per recuperare il senso della memoria.

 

Avvenire.it - Guido Bosticco – (30 marzo 2023) – ci dice:

I luoghi fisici sono legati alla conoscenza di ciò che siamo stati e che val la pena di riscoprire.

«La geografia non è altro che la storia nello spazio, così come la storia è la geografia nel tempo».

Questo scriveva “Élisée Reclus”, geografo sovversivo francese di metà Ottocento, dalle grandi intuizioni epistemologiche, più volte esiliato per le sue idee anarchiche.

 Significa che il paesaggio intorno a noi ci dice molto, se non tutto, di ciò che è avvenuto nella storia in quell’area geografica;

gli elementi fisici sono strettamente legati a quelli sociali e antropologici.

 

In fondo, i luoghi sono la risultante di chi li ha vissuti e di chi li vive.

Un deserto racconta di popolazioni nomadi che non hanno costruito abitazioni nella regione, una città isolata probabilmente testimonia di scambi commerciali, linguistici e culturali;

la posizione di un luogo di culto rispetto al palazzo del governo, del mercato rispetto alle abitazioni sono indizi per leggere come una civiltà concepisce sé stessa e il ruolo della popolazione rispetto alle istituzioni.

 Se oggi arrivasse sulla terra un marziano, potrebbe farsi un’idea delle economie e delle società attraversando Paesi e continenti, semplicemente guardandosi attorno.

 Ma non è solo una questione di tracce del passato.

“Immanuel Kant” sosteneva addirittura che «è la geografia a fondare la storia», perché la nostra conoscenza si basa sull’esperienza percettiva, fisica, della natura e della Terra, la cui descrizione, che è compito della geografia, sta quindi alla base della nostra conoscenza del mondo.

 Insomma, i luoghi fisici sono legati alla conoscenza, alla comprensione e alla memoria.

Vediamo, annusiamo e tocchiamo il mondo, lo descriviamo, cioè lo rappresentiamo, e sulla base di ciò comprendiamo tutto il resto, correlando e contestualizzando le nostre conoscenze pregresse.

Ne consegue che ciò che c’è nel mondo (gli elementi del paesaggio attorno a noi) influenza il nostro modo di pensare e di comportarci.

 Per cui agire sull’estetica dei luoghi è un atto politico.

Non è difficile trovare esempi di questa teoria.

Il 19 febbraio del 1937, l’esercito fascista compì una strage di civili ad Addis Abeba, in Etiopia.

Si trattava di una rappresaglia per l’attentato al viceré “Rodolfo Graziani”, avvenuto durante una manifestazione pubblica.

 La vendetta fu tremenda: ventimila civili uccisi.

 In Etiopia quel massacro viene commemorato ogni anno e un obelisco, in una piazza che porta il nome di quella data in etiope,” Yekatit 12”, lo ricorda.

Viceversa, in Italia questo evento non è certamente noto a tutti e la brutalità del passato coloniale del nostro Paese è ben poco presente nella coscienza collettiva.

Se è vero che non vi sono più monumenti o luoghi intitolati a Mussolini o a gerarchi del partito, è altrettanto vero che l’Italia pullula di vie e piazze con nomi esotici quali “Amaba Aradan”, “Massaua”, “Adua”, “Tripoli”, che non sono un tributo alla bellezza dell’Africa, bensì le tracce celebrative del colonialismo fascista, create proprio negli anni in cui nasceva l’Impero, e sopravvissute fino a noi.

Lo scorso autunno il Consiglio comunale di Roma ha approvato una mozione che, oltre a istituire una giornata della memoria delle vittime del colonialismo italiano, stabilisce di aggiungere, sotto i cartelli dei nomi di vie e piazze legati a quel periodo, una brevissima spiegazione, che permetta a tutti di contestualizzarli.

Oltre a Roma, anche Milano, Bologna e Torino hanno presentato mozioni simili, per apporre targhe o “QR code” che spieghino e inquadrino quelle scelte odonomastiche, storicamente definite.

Invece di cancellare i nomi, sostituendoli con altri simboli, oggi accettabili, si sceglie di lasciarli e di spiegarne la genesi.

In altri casi, storicamente si è preferito togliere dalla vista pubblica i simboli di un passato che non risultava più ammissibile o che si voleva narrare in modo nuovo, o ancora che si voleva condannare all’oblio.

Dalla profanazione delle tombe, con la sparizione delle salme di faraoni come “Akhenaton”, alla deturpazione di statue dei defunti, come “Sargon” in Mesopotamia, dalla sostituzione dei nomi di sovrani sul “Codice di Hammurabi”, alla “damnatio memoriae del diritto romano, in cui non solo le effigi, ma anche le opere del condannato venivano distrutte, passando per l’iconoclastia cristiana prima e musulmana poi, fino al processo di destalinizzazione voluto da “Chrušcëv”:

per motivi e in modi assai diversi la «cancellazione» è un’arma politica.

Non c’è da stupirsi quindi che oggi si parli di “cancel culture” in tutte le occasioni, soprattutto polemiche.

È un’etichetta orecchiabile, che però viene sistematicamente travisata e sfruttata ai fini del dibattito politico di alto e basso livello, per difese ideologiche spesso intransigenti.

In realtà, non tutto è “cancel culture” ciò che viene definito così, dal momento che filologicamente si tratta di un movimento sorto attorno al 2008 da gruppi di protesta organizzati sui social network, in una comunità chiamata “Black Twitter”, attiva sui temi del razzismo e della discriminazione delle minoranze. Dunque qualcosa di molto specifico, con un intento culturale, politico e sociale.

Ma la memoria c’entra comunque, in quanto elemento cardine della cultura condivisa.

 La memoria si costituisce di elementi individuali e collettivi, interiori ed esteriori, connessioni di immagini, parole e luoghi; essa è in grado di influenzare la cultura di un gruppo sociale e l’identità individuale che ognuno di noi percepisce dentro di sé. La cosa curiosa è che la memoria risiede, in larga misura, anche fuori da noi, cioè nelle cose, nei luoghi, che diventano attivatori di pensieri, simboli, idee e visioni del mondo.

 Noi trasmettiamo la memoria attraverso racconti che trovano spazio in luoghi fisici e in forme estetiche:

 una stele, una colonna, un palazzo, un tempio, un affresco, un monumento, una piazza.

Luoghi che diventano “sacri”, poiché diventano l’oggetto stesso della memoria, anzi della commemorazione.

Lì colpisce la nemesi della “cancel culture”:

i luoghi, le parole, i simboli, le interpretazioni. E prima di derubricarla ad atto di ignoranza, faremmo bene a riflettere su di essa.  

 

 

 

SALVATORE BRAVO – IL MITO DEL PROGRESSO E PASOLINI.

 IL SIMULACRO (CAPITALISMO) NON NASCONDE LA VERITÀ

, MA NON HA VERITÀ E TEME DI SVELARE IL NULLA CHE È.

 

Blog.petiteplaisance.it – (12 Gennaio 2020) – Salvatore Bravo – Pier Paolo Pasolini – ci dicono:

Il mito del progresso e Pasolini.

 

Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975) nei suoi scritti letterari analizza la metamorfosi storica che sta coinvolgendo e travolgendo la società a lui coeva.

I suoi scritti attraversano il tempo, poiché il suo sguardo intelligente ha pensato e vissuto la radicalità delle mutazioni antropologiche e culturali avvenute in Italia nel secondo dopoguerra.

Si può accostare Pasolini a Costanzo Preve, a Gramsci, in quanto ha vissuto come loro l’esperienza della solitudine.

 

 Non si è omologato all’opinione ricorrente, ma ha avuto il coraggio della verità, della resistenza civile e della coerenza.

Pasolini ha letto – dietro il postulato del progresso – la distruzione della cultura del molteplice, delle espressioni vitali e linguistiche in nome dell’omologazione del consumo.

Costanzo Preve la definirà “irrilevanza”.

 In Gramsci il “cretinismo specialistico” è la concretizzazione della morte della verità e del pensiero plurale e polivoco.

Pasolini nei suoi scritti diviene cantore della verità contro la superstizione del progresso ad ogni costo, contro il semplicismo in base al quale il domani è sempre migliore dell’oggi e del passato.

Non si tratta di passatismo, ma di analisi critica e consapevole della complessità ideologica del mito del progresso.

 Il mito serve a passivizzare i popoli, ad inibire la domanda e la partecipazione collettiva.

Dietro la bandiera progresso non vi sono i popoli che si emancipano, che rompono le catene che li imprigionano nella caverna, ma interessi lobbistici e di classe.

Lo stupro dell’ambiente e delle culture popolari in nome della felicità che verrà, in nome del consumo, ha la sua verità nei potentati capitalistici i quali hanno l’obiettivo di mutare non solo una cultura, ma la natura umana, la quale deve specializzarsi nel consumo.

A “scuola” di consumo.

Il nichilismo è la verità del capitalismo, delle folle addestrate a desiderare con il consumo la morte di dio e di ogni idea del sacro e di socialità.

 Il potere non vive racchiuso nella sua “turris eburnea”, ma circola, è veicolo di trasformazione, entra nel corpo vissuto per reificarlo.

La diffusione della cultura del consumo non può che avvenire attraverso le istituzioni ed i mezzi di comunicazione.

 Pasolini si spinge fino alla provocazione estrema:

 abolire la scuola dell’obbligo e la televisione, perché esse non sono al servizio del cittadino, ma al servizio del capitale.

Nella scuola il genocidio culturale delle masse si realizza in modo compiuto e subdolo.

La scuola, che dovrebbe formare l’uomo ed il cittadino, in realtà forma il funzionario del mercato, l’uomo dei soli fatti e consumi.

 La scuola è il luogo dove le catene dell’infelicità vengono forgiate mediante la negazione delle identità popolari e dei soggetti.

 In essa si educa a frammentare la comunità ed il soggetto per renderlo suddito del capitale.

Il vero nemico non è il fascismo, non è il mondo clericale, ma il capitalismo nelle sue forme assolute.

L’infelicità generale causa dipendenze compensatorie utili al sistema capitale.

Sudditi infelici sono facilmente governabili e manipolabili.

Nel regno della monocultura feudale.

L’analisi di Pasolini sulla scuola ci riporta alla verità della monocultura contemporanea anglofona e mercantile, nella quale gli alunni imparano che essere precari e sradicati è una forma di progresso.

Si può ipotizzare che la pubblica avversione verso il latino celi il desiderio di occultare la verità che diventa palese nell’etimologia delle parole.

La parola precario deriva dal latino prex-precis “preghiera”.

Nelle scuole si insegna il neofeudalesimo, si impara ad essere precari, a dipendere dal favore e dal capriccio del capitale.

 Il nuovo signore e padrone ha la forma del capitale che rende servo chiunque dipenda dal suo potere.

 Ci si rimette al suo capriccio, alle leggi della finanza come un tempo ci si rimetteva nelle mani di Dio ed alla provvidenza.

 Per sopravvivere le scelte devono essere a misura di capitale/capitalista mondialista.

Ogni cultura identitaria e collettiva è spazzata via, non resta che il narcisismo di massa con i miti superstiziosi del consumo.

Pasolini intravide nella scuola un luogo di allevamento e non di educazione.

 La televisione in tale contesto è il mezzo che con le sue immagini patinate, con i suoi modelli sociali entra in ogni salotto, accomuna nella separazione degli individui.

La scuola ed i mezzi mediatici, oggi plurali, agiscono in una comunione di obiettivi che rende saldo il potere del capitale, ogni essenza generica “Gattungswessen” è negata per produrre consumatori con la forma mentis del solo calcolo personale e dell’utile.

Lo scandalo che muove i suoi scritti è un’invocazione alla resistenza civile, ad uscire dal semplicismo del dogmatismo superstizioso con i suoi automatismi che si trasforma in violenza, in delinquenza relazionale, poiché i modelli proposti sono fonte di frustrazione, in quanto irraggiungibili, e specialmente minano l’equilibrio delle nuove generazioni.

 L’illimitato consumo e narcisismo proposto da televisione e scuola ha l’effetto di destabilizzare la psiche, il carattere ed i talenti delle nuove generazioni.

L’alienazione (Entfremdung) e la violenza che ne consegue è così resa normale prassi del quotidiano:

 

«Si lamenta in Italia la mancanza di una moderna efficienza poliziesca contro la delinquenza.

Cioè che io soprattutto lamenterei è la mancanza di una coscienza informata di tutto questo, e la sopravvivenza di una retorica progressista che non ha più nulla a che fare con la realtà.

 Bisogna oggi essere progressisti in un altro mondo;

inventare una nuova maniera di essere liberi, soprattutto nel giudicare, appunto, che ha scelto la fine della pietà.

 Bisogna ammettere una volta per sempre il fallimento della tolleranza. Che è stata, s’intende, una falsa tolleranza, ed è stata una delle cause più rilevanti nella degenerazione delle masse dei giovani.

 Bisogna insomma comportarsi, nel giudicare, di conseguenza e non a priori (l’a priori progressista valido fino a una decina d’anni fa).

Quali sono le mie due modeste proposte per eliminare la criminalità? Sono due proposte Swift, come la loro definizione umoristica non si cura minimamente di nascondere.

1) Abolire immediatamente la scuola media dell’obbligo.

2) Abolire immediatamente la televisione.

Quanto agli insegnanti e agli impiegati della televisione possono anche non essere mangiati, come suggerirebbe “Swift”:

ma semplicemente possono essere messi sotto cassa integrazione.

La scuola d’obbligo è una scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori (cioè quando si invita adulatoriamente ad applicare la falsa democraticità dell’autogestione, del decentramento ecc.: tutto un imbroglio).

Inoltre una nozione è dinamica solo se include la propria espansione e approfondimento:

imparare un po’ di storia ha senso solo se si proietta nel futuro la possibilità di una reale cultura storica.

Altrimenti, le nozioni marciscono:

 nascono morte, non avendo futuro, e la loro funzione dunque altro non è che creare, col loro insieme, un piccolo borghese schiavo al posto di un proletario o di un sottoproletario libero (cioè appartenente a un’altra cultura, che lo lascia vergine a capire eventualmente nuove cose reali, mentre è ben chiaro che chi ha fatto la scuola d’obbligo è prigioniero del proprio infimo cerchio di sapere, e si scandalizza di fronte ad ogni novità).

 Una buona quinta elementare basta oggi in Italia a un operaio e a suo figlio.

 Illuderlo di un avanzamento che è una degradazione è delittuoso: perché lo rende:

primo, presuntuoso (a causa di quelle due miserabili cose che ha imparato);

secondo (e spesso contemporaneamente), angosciosamente frustrato, perché quelle due cose che ha imparato altro non gli procurano che la coscienza della propria ignoranza.

Certo arrivare fino all’ottava classe anziché alla quinta, o meglio, arrivare alla quindicesima classe, sarebbe, per me, come per tutti, l’optimum, suppongo.

Ma poiché oggi in Italia la scuola d’obbligo è esattamente come io l’ho descritta (e mi angoscia letteralmente l’idea che vi venga aggiunta una “educazione sessuale”, magari così come la intende lo stesso “Paese Sera”), è meglio abolirla in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo. (È questo il nodo della questione).

Quanto alla televisione non voglio spendere ulteriori parole:

cioè che ho detto a proposito della scuola d’obbligo va moltiplicato all’infinito, dato che si tratta non di un insegnamento, ma di un “esempio”:

i “modelli” cioè, attraverso la televisione, non vengono parlati, ma rappresentati.

 E se i modelli son quelli, come si può pretendere che la gioventù più esposta e indifesa non sia criminaloide o criminale?

È stata la televisione che ha, praticamente (essa non è che un mezzo), concluso l’era della pietà, e iniziato l’era dell’edone.

Era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino alla infelicità (che non è una colpa minore).

Ora, ogni apertura a sinistra sia della scuola che della televisione non è servita a nulla:

la scuola e il video sono autoritari perché statali, e lo Stato è la nuova produzione (produzione di umanità).

 Se dunque i progressisti hanno veramente a cuore la condizione antropologica di un popolo, si uniscano intrepidamente a pretendere l’immediata cessazione delle lezioni alla scuola d’obbligo e delle trasmissioni televisive.

 Non sarebbe nulla, ma sarebbe anche molto:

 un Quarticciolo senza abominevoli scuolette e abbandonato alle sue sere e alle sue notti, forse sarebbe aiutato a ritrovare un proprio modello di vita.

 Posteriore a quello di una volta, e anteriore rispetto a quello presente. Altrimenti tutto ciò che si dice sul decentramento è scioccamente aprioristico o in pura malafede.

 Quanto ai collegamenti informativi del Quarticciolo – come di qualsiasi altro “luogo culturale” – col resto del mondo, sarebbero sufficienti a garantirgli i giornali murali e “l’Unità”:

 e soprattutto il lavoro, che, in un simile contesto, assumerebbe naturalmente un altro senso, tenendo a unificare una buona volta, e per autodecisione, il tenore di vita con la vita».

 

 Genocidio culturale.

Si concretizza nelle scuole e nei mezzi di comunicazione ad un nuovo tipo di genocidio:

non si eliminano gli esseri umani, ma la loro diversità, la storia stratificata di generazioni veicolata mediante linguaggi, gestualità e parametri valoriali differenti.

Dinanzi al quotidiano genocidio delle identità collettive e individuali, Pasolini non ha arretrato, ne ha denunciato le storture e le complicità consapevoli ed inconsapevoli constatando che la violenza è divenuta la legge della società a dimensione capitale e che i delitti devono essere letti in modo concreto, riportandoli al contesto strutturale e sovrastrutturale in cui accadono, altrimenti si cade in astrazioni irrazionali:

«Ma se la seconda rivoluzione industriale – attraverso le nuove immense possibilità che si è data – producesse da ora in poi dei “rapporti sociali “immodificabili?

Questa è la grande e forse tragica domanda che oggi va posta.

E questo è in definitiva il senso della borghesizzazione totale che si sta verificando in tutti i paesi: definitivamente nei grandi paesi capitalistici, drammaticamente in Italia.

Da questo punto di vista le prospettive del Capitale appaiono rosee.

I bisogni indotti dal vecchio capitalismo erano in fondo molto simili ai bisogni primari.

I bisogni invece che il nuovo capitalismo può indurre sono totalmente e perfettamente inutili e artificiali.

Ecco perché, attraverso essi, il nuovo capitalismo non si limiterebbe a cambiare storicamente un tipo d’uomo: ma l’umanità stessa.

Va aggiunto che il consumismo può creare dei “rapporti sociali” immodificabili, sia creando, nel caso peggiore, al posto del vecchio clerico-fascismo un nuovo tecno-fascismo (che potrebbe comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi anti-fascismo), sia, com’è ormai più probabile, creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili.

In ambedue i casi lo spazio per una reale alterità rivoluzionaria verrebbe ristretto all’utopia o al ricordo: riducendo quindi la funzione dei partiti marxisti ad una funzione socialdemocratica, sia pure, dal punto di vista storico, completamente nuova».

 

Il senso del “politico.”

Pasolini ci insegna ad avere la chiarezza sul nemico.

La lotta è possibile quando si ha la chiarezza del nemico, che non è più il mondo clerico-fascista, ma il capitalismo assoluto dei nostri giorni.

Senza la chiarezza sul nemico non vi può essere alternativa, ma solo complicità inconsapevole con le strutture di potere.

L’impegno primario dev’essere, così, svelare il volto del nemico:

 in tal modo si reintroduce nel reale storico e sociale il principio di realtà, senza il quale è impossibile organizzare ogni resistenza individuale e collettiva.

L’articolo pubblicato da “Il Corriere della Sera “è stato scritto poche settimane prima del suo omicidio, è il suo testamento spirituale, e specialmente indica il percorso da intraprendere per uscire dalla caverna scuola-televisione.

 Il suo messaggio oggi è più vero che mai.

La scuola azienda attuale ha rinunciato a leggere il presente per diventare parte del sistema mediatico, cellula della germinazione del capitalismo, della seduzione e della menzogna.

Il politico deve svelare che il simulacro (capitalismo mondialista) come si afferma nel “Qoelet” non nasconde la verità, ma non ha verità, è nichilismo ideologico che teme di svelare il nulla che è.

“Salvatore Bravo “

 

 

 

 

 

EMANUELE SEVERINO E LA TECNICA:

ALCUNE RIFLESSIONI DAL PUNTO

DI VISTA DELLA TEORIA ECONOMICA.

Eticaeconomia.it – Gianluigi Coppola – (15 LUGLIO 2020) – ci dice:

 

Gianluigi Coppola indica un legame tra il pensiero di Emanuele Severino sulla tecnica e la teoria economica mainstream. Per Severino oggi viviamo nel mondo della tecnica, che ha accresciuto il proprio peso nel corso della storia trasformandosi da mezzo a fine.

Secondo Coppola un cambiamento simile si riscontra nella teoria della crescita economica che, nella versione mainstream dipende dal progresso tecnico ed è concepita non come un mezzo per il raggiungimento di un maggiore benessere sociale ma come un fine in sé stessa.

Nel corso del Novecento molti filosofi hanno riflettuto sulla tecnica;

 i più noti sono, probabilmente, Husserl, Horkheimer e Adorno della Scuola di Francoforte e Heidegger.

Tra di essi deve essere certamente annoverato il filosofo italiano Emanuele Severino, scomparso lo scorso gennaio, che ha riservato alla tecnica un ruolo centrale nel suo pensiero attraverso molti interventi e numerose pubblicazioni, tra le quali, Téchne, le radici della violenza (1979 ed edizioni successive) e Il Destino della Tecnica (1998).

 

In questa breve nota si vuole proporre un parallelismo tra il pensiero di Saverino e la teoria economica del ‘900, con particolare riferimento al pensiero neoclassico.

 

Il Pensiero di Emanuele Severino.

Sono due gli aspetti essenziali nel pensiero di Severino.

Il primo è che la tecnica da mezzo dell’agire umano per raggiungere risultati e per ottenere scopi si è trasformata essa stessa in fine.

Il secondo aspetto, che è forse quello più interessante dal punto di vista della teoria economica, è che in una società in cui la tecnica diventa fine, essa si pone in conflitto con la giustizia, e con qualsiasi altra dimensione che ne contrasti la crescente potenza.

Per “Severino” “la tecnica sta all’inizio della nostra civiltà ma il suo dominio è andato sempre più crescendo ed oggi noi viviamo nel dominio della tecnica e ogni aspetto della nostra vita dipende dal modo in cui la tecnica ha organizzato l’esistenza dell’uomo sulla terra” (Storia del Pensiero Occidentale, a cura di E. Severino, Vol. 1, Mondadori 2019).

 

In altri termini, secondo il filosofo, la tecnica non solo ha accresciuto il proprio peso nel corso della storia, ma soprattutto ha cambiato ruolo:

la tecnica da mezzo o strumento, è diventata fine.

Ed è proprio tale mutamento qualitativo ad essere fondamentale per la nostra società, tanto che oggi si può parlare di dominio della tecnica.

Come si è avuto tale cambiamento?

 Secondo “Severino” le forze della tradizione occidentale, ovvero il sapere filosofico, il cristianesimo, l’illuminismo, il capitalismo, la democrazia, il comunismo, inizialmente hanno concepito la tecnica come uno strumento, come un mezzo, guidato dalla concettualità della scienza moderna [E. Severino, Il Destino della Tecnica, BUR Rizzoli, 1998].

 Tuttavia, tali forze, in conflitto tra loro, si combattono usando proprio la potenza tecnologica come mezzo.

 Ad esempio, sono in conflitto tra loro il capitalismo e la democrazia poiché lo scopo del capitalismo è l’incremento indefinito del profitto privato, mentre quello della democrazia è far sì che la società sia guidata dalla libertà e dalla eguaglianza e non dalla diseguaglianza provocata dall’incremento del profitto privato [E. Severino, DIKE, Adelphi 2015]. Utilizzando come mezzo proprio la potenza tecnologica sono portate ad incrementarla all’infinito per aumentare ciò che dà loro potere, per sconfiggere le forze antagonistiche.

In tal modo la tecnica, da mezzo è diventata fine.

Tale cambiamento di ruolo della tecnica, da mezzo a fine, incide profondamente sul rapporto tra la tecnica stessa e la giustizia.

Al fine di aumentare indefinitamente la propria potenza, la tecnica non deve incontrare ostacoli, né deve trovare davanti a sé alcuna forza limitante che può costringerla a non andare oltre certi limiti.

Per “Severino” la forza per antonomasia che può limitare la tecnica è la verità, ovvero il sapere epistemico, e la spiegazione che dà è la seguente.

Se il sottosuolo filosofico del nostro tempo – che il filosofo individua in Leopardi, Nietzsche, Gentile – mostra l’impossibilità dell’esistenza di un eterno, perché l’eterno blocca la potenza, allora esso mostra anche l’impossibilità di un concetto assolutistico di giustizia.

Quindi, anche la giustizia appartiene a quel passato di cui la tecnica si libera.

Si va tendenzialmente verso un concetto di giustizia dove l’individuo ha il dovere e il compito, ma è anche sottoposto alla necessità, di favorire l’incremento della potenza.

In tale contesto Giustizia significa, quindi, non ostacolare tale incremento.

 L’uomo della tecnica autentica sarà costretto ad assecondare il potenziamento indefinito della tecnica e in ciò consisterà la giustizia della tecnica, ovvero nella “adeguazione di ogni forma di agire allo scopo supremo e fondamentale della tecnica: l’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi” [E. Severino, DIKE cit.].

Tuttavia, per Severino il dominio della tecnica non può considerarsi un sistema stabile, proprio per il fatto che la tecnica, dovendo rinunciare alla verità per essere potente, non sarà in grado di fornire una risposta definitiva sulla giustizia che è fondata sulla verità.

 Pertanto, rivelandosi la tecnica stessa una contraddizione – un paradiso che si rileva inferno – anche il concetto di giustizia che essa propone, non può essere considerato definitivo e sarà esso stesso destinato a tramontare.

 

La Teoria Economica.

Dopo aver descritto, in modo molto sintetico, il pensiero di Severino secondo il quale nella società della tecnica in cui viviamo, la tecnica è il fine, e in quanto priorità assoluta, relega la giustizia ad un ruolo strumentale rispetto ad essa, ci si chiede qual è la posizione della teoria economica mainstream al riguardo.

È bene avvertire subito che è difficile dare una risposta netta e definitiva al quesito posto, sia in senso affermativo che negativo.

Tuttavia, si ritiene utile porre il problema ed offrire una seppur breve riflessione su tali temi.

In un sistema economico il rapporto tra il progresso tecnico e la giustizia è complesso.

Esso è altresì mediato dal reddito poiché il progresso tecnico contribuisce a generare il reddito e dalla distribuzione del reddito dipende il grado di giustizia di una società.

Si ricorda, per inciso, che nel libro V dell’Etica Nicomachea, Aristotele, dopo aver introdotto la distinzione tra la giustizia intesa come rispetto della legge e la giustizia intesa come equità, suddivide quest’ultima in due specie:

 la giustizia distributiva, che concerne ciò che si può ripartire (onori e ricchezze) tra i membri di una comunità e la giustizia correttiva.

Nel pensiero neoclassico la crescita economica si basa essenzialmente sulla accumulazione del capitale e sulla tecnologia.

Il principale risultato del modello di R. M. Solow (“A Contribution to the Theory of Economic Growth”, The Quarterly Journal of Economics 1956) è che la crescita economica in condizione di stato stazionario (steady state) è pari al progresso tecnico.

 È infatti il progresso tecnico, grandezza assunta come esogena, a garantire l’aumento del reddito pro capite, cosicché quest’ultimo può essere considerato una misura del progresso tecnico.

Anche la distribuzione del reddito, tra lavoro e capitale, è assunta come esogena.

 Si viene così a stabilire un rapporto strettissimo tra progresso tecnico e benessere materiale.

La corrispondenza tra reddito pro capite e progresso tecnico può essere addirittura considerata un giudizio di valore:

 la crescita del reddito pro capite assume un valore positivo perché essa stessa può essere considerata una misura del progresso tecnico.

Proprio l’esogeneità del progresso tecnico è uno dei motivi di insoddisfazione verso questo approccio che sta alla base della nascita e dello sviluppo della teoria della crescita endogena, iniziata da Romer nel 1986 ma nella quale si può includere anche il contributo di J.K. Arrow (“The Economic Implications of Learning by Doing”, The Review of Economic Studies, 1962) il cui principale obiettivo è individuare i meccanismi che rendono endogeno il progresso tecnico.

Anche la teoria della crescita endogena si concentra sui fattori che rendono controllabile la crescita economica, preoccupandosi poco degli effetti sulla distribuzione del reddito.

La distinzione tra efficienza ed equità è evidente nella teoria dell’economia del benessere.

Il primo teorema del benessere stabilisce che il mercato può garantire l’allocazione efficiente delle risorse ma che esso da solo può non trovare una soluzione accettabile al problema distributivo della società.

Il secondo teorema sancisce la necessità di un intervento di tipo politico, che risolva il problema dell’equità sociale attraverso una ridistribuzione delle dotazioni.

 I due teoremi dell’economia del benessere stabiliscono un ordine lessicografico tra il raggiungimento dell’efficienza e la distribuzione del reddito, subordinando quest’ultima alla prima. Ma è proprio il dover ricorrere ad un intervento di tipo ridistributivo, che potrebbe risultare in contrasto, qualora incida sugli incentivi individuali alla produzione, con l’efficienza e con la tecnica, perché limitante del potere di quest’ultima.

In conclusione.

Oggigiorno la crescita economica, misurata attraverso la crescita del Pil pro capite, è il principale metro di valutazione dell’azione di un Governo.

Come è stato argomentato prima, essa è correlata con il progresso tecnico tanto che, secondo il “modello di Solow,” in condizione di stato stazionario, coincide con il progresso tecnico.

Il punto dirimente è capire se la crescita economica è un mezzo per l’ottenimento di altri fini, quali, ad esempio, il benessere sociale, la riduzione della povertà, una più equa distribuzione del reddito, il miglioramento delle condizioni di salute della popolazione e della qualità della vita, la tutela e la salvaguardia dell’ambiente oppure è fine a se stessa e può essere considerata alla stregua di uno stabilizzatore sociale.

Adam Smith, nella “Ricchezza delle Nazioni” (1776), sostiene che l’aumento del reddito, determinato dall’arte, dalla destrezza e dall’intelligenza con cui si esercita il lavoro, è il mezzo per fare in modo che tutte le persone, anche coloro che non lavorano, risultino abbondantemente provvisti del prodotto complessivo del lavoro sociale.

Nella Introduzione alla “Ricchezza delle nazioni” Smith scrive che le nazioni che “vivono in una povertà così orribile che soltanto per bisogno si trovano spesso ridotte, o almeno credono di esserlo, alla necessità di eliminare bambini, vecchi e ammalati inguaribili…” mentre …”nelle nazioni civili e floride, all’opposto…”la parte di necessità e comodità della vita di cui può godere un operaio frugale e industrioso anche del più umile dei ceti poveri, sarà sempre maggiore di quella che può ottenere un selvaggio”.

In altri termini, le nazioni ricche non si trovano nella condizione di non poter curare la parte debole della popolazione, ovvero bambini, vecchi ed ammalati inguaribili

Al contrario, se la crescita economica si risolve meramente in uno spostamento in avanti dei vincoli di scarsità e in un aumento generalizzato dei livelli di consumo, senza tradursi in un miglioramento delle condizioni di vita soprattutto della parte della popolazione più debole, come bambini ed anziani, se negli Stati Uniti i ceti più ricchi preferiscono attraversare una pandemia piuttosto che contemplare la possibilità di una società più equa (J. Stiglitz, Intervista alla trasmissione televisiva “Report”, 13 aprile 2020), se ci si “accontenta di affermare che il reddito nazionale è aumentato di una certa percentuale, e a trarne all’occasione motivo di compiacimento, anche se nel contempo Venezia affonda con i suoi tesori architettonici ed artistici” (F. Caffè, Lezioni di Politica Economica, Bollati Boringhieri, 1978), allora è lecito pensare che la crescita economica sia fine a se stessa, e che sia una proxy del progresso tecnico piuttosto che uno strumento per il raggiungimento di altri fini, quali, ad esempio, un accettabile livello di giustizia sociale.

 In tal caso le tesi di Emanuele Severino, sintetizzate in questo articolo, troverebbero una triste conferma.

(GIANLUIGI COPPOLA)

 

 

 

 

Accordo Italia-Ucraina:

Sinagra e Trabucco

Smascherano il Governo.

Conoscenzealconfine.it – (6 Marzo 2024) - i Augusto Sinagra e Daniele Trabucco – ci dicono:

 

“Sinagra” e “Trabucco” smascherano il governo Meloni: sull’accordo tra Italia ed Ucraina è necessaria la legge di autorizzazione alla ratifica del Parlamento.

In occasione dell’ultimo G7 è stato stipulato, in data 24 febbraio 2024, un accordo di cooperazione tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Ucraina nel quale si prevede, per un periodo di tempo pari a dieci anni, che il nostro Paese continui a fornire assistenza a Kiev nell’ambito della difesa militare.

 L’obiettivo è quello di ripristinare l’integrità territoriale dell’Ucraina e scoraggiare futuri attacchi, specialmente da parte della Federazione Russa.

L’accordo contiene, inoltre, alcuni principi in materia di industria di difesa, di formazione ed istruzione, di riforma del sistema di sicurezza e difesa dell’Ucraina, di intelligence e sicurezza informatica.

 Il Ministro per gli Affari esteri e la Cooperazione internazionale, nonché Vice-Presidente del Consiglio dei Ministri, Antonio Tajani (Forza Italia), davanti alle Commissioni parlamentari permanenti riunite Esteri della Camera dei Deputati ed Esteri e Difesa del Senato della Repubblica ha precisato che l’accordo, al pari di quelli stipulati dalla Germania, dalla Francia e dal Regno Unito, non essendo giuridicamente vincolante e non prevedendo garanzie automatiche di sostegno politico e militare, non richiede la legge di autorizzazione alla ratifica.

Sul punto, le considerazioni dell’esponente forzista non paiono particolarmente convincenti.

L’art. 80 della Costituzione repubblicana vigente, stabilisce che le Camere:

 “autorizzano con la legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi”.

Questo significa, diversamente da quanto sostenuto dal Ministro per gli Affari esteri e la Cooperazione internazionale in audizione, che l’obbligo della legge di autorizzazione alla ratifica non dipende dalla vincolatività o meno delle disposizioni contenute nei venti articoli dell’accordo di cooperazione, bensì dalla natura del trattato.

È indubbio che, in ragione degli ambiti coinvolti, lo stesso abbia una chiara connotazione politica e, pertanto, ricada nella previsione costituzionale dell’art. 80.

Si potrebbe obiettare, sul punto, che la locuzione “natura politica” costituisca un tipico esempio di concetto indeterminato, la cui valutazione è lasciata in larga misura al Governo della Repubblica, cui spetta la responsabilità della decisione se iniziare o meno un procedimento legislativo di autorizzazione alla ratifica.

 Se questo da una parte è vero, dall’altra non si può pervenire a ritenere la elasticità del concetto dipendente sempre e comunque da una scelta dell’Esecutivo, il quale potrebbe servirsi della indeterminatezza della nozione ogniqualvolta intenda evitare un dibattito parlamentare su temi complessi e delicati.

Può essere d’ausilio, in questo senso, la considerazione che, nel dettare l’art. 80 del Testo fondamentale, il Costituente ha inteso prevedere una sorta di “clausola di chiusura”, imponendo la legge di autorizzazione alla ratifica di tutti quei trattati o accordi che, pur non rientrando nelle altre e più precise categorie, presentino un importante rilievo politico.

Indipendentemente, dunque, dall’automatismo o meno di quanto previsto nell’accordo di cooperazione con l’Ucraina, si può escludere che lo stesso, il quale tocca uno dei fronti più importanti della attuale politica estera e di difesa italiana, non assuma una rilevanza politica di primaria importanza con inevitabili ricadute anche sul piano internazionale?

A rafforzare questa lettura si pone anche la circolare del 19 aprile 1995, n. 5 dell’allora Ministro per gli Affari esteri del Governo Dini, Susanna Agnelli (1922-2009), in base alla quale l’espressione “natura politica”, utilizzata nell’art. 80 della Costituzione, non può riferirsi che ai trattati che comportano scelte fondamentali di politica estera (N.B. la circolare del 1995 è stata sostituita da quella del 03 marzo 2008, n. 4 che, però, in relazione all’aspetto di cui in esame, non ha portato alcuna innovazione).

Alla luce di queste brevi considerazioni, riteniamo che l’accordo di cooperazione tra Italia ed Ucraina non possa essere concluso in forma semplificata, ossia senza il passaggio parlamentare, incidendo fortemente sull’indirizzo stesso che ha assunto la nostra politica estera e di difesa.

Il Parlamento, dunque, (anche se difficilmente agirà in questa direzione), potrebbe presentare, nei suoi due rami, delle mozioni per invitare il Governo Meloni a presentare il disegno di legge di autorizzazione alla ratifica e, in ipotesi di scuola, a sollevare pure il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato davanti alla Corte costituzionale per comportamento omissivo (l’ordinanza n. 163/2018 del giudice delle leggi esclude la legittimazione per i singoli parlamentari, ma non per l’Assemblea), ma davanti alla “ragion di Stato”…

(Prof. Augusto Sinagra e Avv. Daniele Trabucco).

(imolaoggi.it/2024/03/02/accordo-italia-ucraina-sinagra-e-trabucco-smascherano-il-governo/)

 

 

Non chiamarlo destino:

la profezia che si autoavvera.

  Psicoadvisor.com - Anna De Simone – (13 Ottobre 2022) – ci dice:

 

(Anna De Simone Dott.ssa in biologia e psicologia. Esperta in genetica del comportamento e neurobiologia. Scrittrice e founder di Psicoadvisor)

«Lo sapevo che andava così», «io te l’avevo detto!».

Quante volte ti capita di usare queste frasi?

Sappi che ogni volta che le pronunci, una piccola profezia ha preso forma ma non si tratta di destino.

 Nei nostri discorsi aneddotici, ci capita di usare affermazioni come «oggi è una giornataccia, tutto mi rema contro!» oppure «quel tipo deve essere proprio sfortunato» o, ancora, «era destino!».

 Attribuiamo al caso un potere misterioso e incontrastato.

Certo, le fatalità esistono, il caso ci mette il suo zampino, ma molto, nella nostra vita, dipende dal nostro orientamento cognitivo.

 Insomma, dal nostro approccio.

Se hai difficoltà a perseguire i tuoi obiettivi, non sei pigro o sciatto, non ti mancano le capacità, probabilmente ti stai solo muovendo guidato dal timore di non farcela ed è questo a creare la tua profezia.

Se incontri solo partner sbagliati, non sei una calamita per disastri sentimentali, probabilmente le tue scelte amorose sono orientate dalla paura di rimanere solo (paura dell’abbandono) e/o dall’infondata credenza che sei indegno d’amore.

Quella della «profezia che si autoavvera» non è solo una teoria ma è qualcosa di più tangibile, dimostrato anche sperimentalmente più e più volte.

Cerchiamo di capire bene di cosa stiamo parlando.

Esempi pratici di profezie che si autoavverano.

Le scelte che compiamo, quando non siamo risolti, si fanno guidare dalle nostre paure e dalle mancanze che abbiamo patito nel passato.

Chi a lungo si è sentito immeritevole e indegno, farà del fallimento la sua profezia che si autoavvera.

Fallirà nella dieta, nell’intento di terminare un progetto, fallirà ogni qual volta che sentirà il bisogno di chiudere un cerchio.

La “nike fobia”, cioè la paura irrazionale di vincere, interessa tutte le persone che temono di raggiungere obiettivi importanti e conseguire risultati positivi.

Questo timore diviene una condanna all’insuccesso.

Una persona spaventata dalla solitudine che vive con l’inconsapevole aspettativa di essere abbandonata, tradita e ferita, inevitabilmente, purtroppo, lo sarà davvero.

Con la sua estenuante ricerca di conferme, con la sua brama di rassicurazioni, finirà per allontanare chi per lei è importante, finirà per coltivare distacco affettivo, finirà per sentirsi costantemente sola.

Il timore della solitudine si trasforma in una tragica aspettativa e diviene come una profezia destinata ad avverarsi.

 Quell’aspettativa, orienterà la persona a compiere decisioni sbagliate a partire dalla scelta del partner.

Siamo più inclini ad attivare una profezia che si autoavvera quando:

non siamo propriamente consapevoli delle ferite che ci portiamo dentro;

ci facciamo guidare dalle nostre paure;

ci rifiutiamo di accettare i nostri limiti;

pretendiamo la perfezione;

non ci stimiamo;

nutriamo per noi un amore condizionato dai risultati che otteniamo.

Quando siamo più consapevoli del nostro mondo interiore, lavoriamo sulle nostre ferite, accettiamo la nostra natura umana e ci facciamo guidare dalla nostra ambizione e non dalla nostra paura, ecco che diventiamo padroni del nostro destino.

 Ecco che riusciamo a perseguire i nostri obiettivi creando delle meravigliose profezie.

 Con la consapevolezza di sé, improvvisamente, il destino ci diventerà favorevole!

È stato provato sperimentalmente: è scienza.

Non si tratta di un mero pensiero positivo ma di come la nostra aspettativa sulla realtà, riesca a modificare la realtà stessa.

 Si chiama «profezia che si autoavvera» o «effetto Rosenthal» ed è un fenomeno provato sperimentalmente.

È scienza e ci dice che:

Il modo in cui approcciamo alle persone ne condiziona inevitabilmente il comportamento.

Le modalità in cui approcciamo agli eventi, ne condiziona inevitabilmente il decorso.

Ho voluto sottolineare più volte che si tratta di un’evidenza sperimentale perché sicuramente molte persone sono restie ad accettare una verità come questa

. Accettare questa verità significa assumersi la responsabilità del proprio benessere e non tutti sono disposti a farlo.

Certo, è molto più comodo incolpare qualcuno per le proprie frustrazioni ma ascolta, non sarebbe ancora meglio non averne di frustrazioni?

Non sarebbe ancora meglio guardarsi dentro con onestà e iniziare a scrivere da solo il proprio cammino?

Le aspettative che abbiamo sulla realtà, il nostro orientamento cognitivo e comportamentale, cioè il modo in cui noi leggiamo gli eventi, il modo in cui noi li interpretiamo e reagiamo a essi, influenza il nostro destino e lo fa prepotentemente.

Questo è un fatto inconfutabile.

Quanto scritto finora, non nega l’influenza o l’esistenza della “casualità” o delle “fatalità” della vita ma sottolinea solo un evidente fattore “causa-effetto” tra il nostro orientamento cognitivo e gli eventi.

Come si creano le nostre profezie?

Il modo in cui orientiamo pensiero e azione, è frutto di numerosi apprendimenti impliciti.

Ci orientiamo nel mondo utilizzando determinati schemi di pensiero appresi inconsapevolmente durante l’infanzia.

Questi schemi possono essere descritti come una bussola cognitiva che orienta sia la direzione del nostro pensiero, sia quella del nostro comportamento.

Questi modelli ci forniscono tutte le informazioni sull’immagine del mondo che abbiamo costruito nel tempo.

In altre parole, per quanto il mondo o le cose che ci capitano possano rinnovarsi, noi continuiamo a guardarli allo stesso modo.

L’idea che abbiamo del mondo, degli altri e di noi stessi è il riflesso delle informazioni che abbiamo ricevuto, fin dall’infanzia, dalle persone che si sono occupate di noi.

 In termini concreti: chi fin da piccolo ha subito trascuratezza, e mancanze, penserà di non meritare il meglio e si orienterà nella vita con questa aspettativa.

 Forgerà così le sue profezie.

Come uscirne?

La scoperta più importante che possiamo fare è noi siamo degni di stima, siamo capaci e possiamo perdonarci ogni errore.

Abbiamo bisogno di capire che i legami si possono stringere, le promesse si possono mantenere e non ci sarà inevitabilmente una fine. Possiamo essere notati, stimati e amati.

A nostra volta possiamo stimare, amare e fidarci.

Possiamo soddisfare i nostri bisogni di unione, condivisione e attaccamento maturo.

 Le cose possono mettersi bene anche per noi e dobbiamo crederci per farlo accadere.

Come iniziare a crederci?

La consapevolezza!

Se diventi consapevole della matassa emotiva che ti porti dentro, allora il tuo destino seguirà vie diverse, ricche e luminose!

 Iniziando ad aprire gli occhi sulle aspettative che guidano le tue profezie, potrai correggere i tuoi schemi di pensiero, potrai fare inedite scoperte conquistando un nuovo modo di esistere.

Apri i tuoi bellissimi occhi e inizia a guardarti dentro.

Per riflettere insieme.

Ricordi le frasi iniziali?

 Ogni volta che pensi «sapevo che sarebbe andata così» prova a interrogarti su come sarebbe potuta andare diversamente.

 Prova a chiedere «quanto» quel risultato ottenuto, riflette le paure che albergano nel tuo mondo interiore.

Si è trattato del caso o di una profezia autoavverata?

Il tema della profezia che si autoavvera è così affascinante che nel mio libro «Riscrivi le Pagine della Tua Vita», ho dedicato tutto il secondo capito su come riconoscerle e disinnescarle lavorando sui modelli appresi.

In ogni pagina ti spiego come analizzare il tuo passato per scrivere al meglio il tuo presente, svincolandoti dai copioni che gli altri hanno scritto per te (schemi) e comprendere finalmente la matassa emotiva che ti porti dentro.

 

 

 

«Il Moscone», la Rubrica del Direttore.

Noi siamo liberi e non abbiamo Padroni

Wordnews.it - Paolo De Chiara – (Oct. 27, 2023) – ci dice:

 

(LA CHIAREZZA. Da quasi tre anni stiamo lavorando con questo giornale indipendente (senza editori, senza padroni e senza pubblicità). WordNews.it ha ospitato il grido di tante persone, abbiamo raccontato e portato alla luce dei fatti che, qualcuno, vorrebbe far rimanere nel dimenticatoio. Nel nostro piccolo abbiamo toccato dei nervi scoperti. E lo continueremo a fare. Nonostante tutto, nonostante tutti.)

Noi siamo nati liberi e (possibilmente il più tardi possibile) moriremo liberi.

 Sin dall'inizio abbiamo scelto di non avere Padroni.

A noi non piace l'orticaria.

Abbiamo scelto di fare questo bellissimo mestieraccio perché lo amiamo e perché il nostro obiettivo è quello di dare voce a chi non ha voce.

Ci siamo posizionati, sin dall'inizio, dalla parte degli ultimi.

Anche i potenti ci fanno venire l'orticaria.

E a noi non piace grattarci.

Preferiamo cercare le notizie, studiare le carte, ascoltare le persone, approfondire e informare - senza alcun filtro - i nostri lettori.

Da quasi tre anni stiamo lavorando con questo giornale indipendente (senza editori, senza padroni e senza pubblicità).

WordNews.it ha ospitato il grido di tante persone, abbiamo raccontato e portato alla luce dei fatti che, qualcuno, vorrebbe far rimanere nel dimenticatoio.

 Nel nostro piccolo abbiamo toccato dei nervi scoperti.

E lo continueremo a fare. Nonostante tutto, nonostante tutti.

Nonostante le pressioni di qualche soggetto che pensa di disporre dell'informazione a suo uso e consumo.

 Sicuramente non dobbiamo piacere a tutti.

Noi non vogliamo piacere a tutti.

 Le persone che hanno fatto parte delle Istituzioni e hanno degli scheletri da nascondere non ci sono affatto simpatiche.

 Non solo proviamo antipatia, ribrezzo e ripugnanza nei confronti di coloro che non hanno fatto (e non fanno) il proprio dovere.

Ma, in tutti i modi, cerchiamo di far trasparire la nostra faziosità: ci sono persone che non ci piacciono e la nostra più grande preoccupazione è farglielo sapere.

Facciamo nostro un convincimento di un maestro di giornalismo di questo Paese: Enzo Biagi.

Con i nostri pochi mezzi possiamo solo continuare a fare quello che cerchiamo di fare nel miglior modo possibile.

 Il nostro dovere, sino in fondo e con la schiena dritta.

Hanno tentato di rallentare la nostra azione, hanno tentato di farlo anche attraverso delle minacce esplicite e meno evidenti.

 Non ci fermerete facilmente.

Dovete abbatterle le persone perbene.

Non serve insistere per la pubblicazione di una intervista o di una ipotetica e assurda richiesta di rispondere ad articoli o interviste datate.

Noi scegliamo la nostra linea, noi scegliamo se dedicare 30/40 articoli ad un fatto (ad esempio al caso Manca, una vergogna di Stato).

E nessuno deve venire a farci i conti in tasca.

 I diritti (sacrosanti) si esercitano nelle sedi opportune e nei tempi stabiliti dalla legge.

Scriviamo cazzate?

Contestate il nostro lavoro con documenti alla mano.

Avete la verità in tasca?

Dimostratelo con i fatti e non con le parole.

Vi dedichiamo un testo, il “Cyrano” di Guccini.

Con la speranza che sia di vostro gradimento (e di facile comprensione):

 

Venite pure avanti, voi con il naso corto, signori imbellettati, io più non vi sopporto,

infilerò la penna ben dentro al vostro orgoglio perché con questa spada vi uccido quando voglio.

Venite pure avanti poeti sgangherati, inutili cantanti di giorni sciagurati,

buffoni che campate di versi senza forza avrete soldi e gloria, ma non avete scorza;

godetevi il successo, godete finché dura, che il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura,

e andate chissà dove per non pagar le tasse col ghigno e l'ignoranza dei primi della classe.

Facciamola finita, venite tutti avanti nuovi protagonisti, politici rampanti,

venite portaborse, ruffiani e mezze calze, feroci conduttori di trasmissioni false,

che avete spesso fatto del qualunquismo un’arte, coraggio liberisti, buttate giù le carte,

tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese in questo benedetto, assurdo bel paese.

Non me ne frega niente se anch' io sono sbagliato, spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato;

coi furbi e i prepotenti da sempre mi balocco e al fin della licenza io non perdono e tocco!

Ad maiora.   

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