“IA” MASCHERA I SUOI CREATORI “WOKE”

 

“IA” MASCHERA I SUOI CREATORI “WOKE”.

 

 

Il “woke” rovina pure l’IA: su

Gemini spuntano i nazisti di colore.

Nicolaporro.it – (23-2-2024) – Max Del Papa – ci dice:

 

Google sospende la generazione di immagini della sua Intelligenza artificiale dopo le polemiche di queste ore.

Lo chiamano errore di progettazione, errore da correggere, ma non c’è nessun errore, è un cortocircuito imprevisto ma inevitabile, ed è la solita coda di paglia degli Stranamore tecnologici;

 è, come ha detto Elon Musk (uno sul cui X, toc toc?, continuano, che lo sappia o no, a censurare i malati e quanti sospettano dei vaccini), il razzismo di Google, pervasivo a livelli parossistici.

Intelligenza artificiale uguale demenza naturale:

se chiedi a “Gemini”, lo strumento del colosso americano, di generare immagini generiche, quello te le sforna immancabilmente nere e fluide. Nere, perché, ecco il contro razzismo, esiste solo una razza: quella razza, le altre, bianche, slavate, caucasiche, sono al massimo incidenti, versioni malriuscite, che non contano, non esistono nell’immaginario artificiale, sempre più reale.

Gli effetti sono comici: neri, come sappiamo, i cavalieri erranti, i crociati, i pontefici, i samurai, ma neri anche i nazisti, i gerarchi del Terzo Reich.

Perché esiste solo la razza o etnia nera per “big G”.

 Ora, se vogliamo restare alla storia degli uomini come effettivamente successa, ci può anche stare:

tutti i gruppi sono razzisti a modo loro e gli africani quanto a razzismo non sono secondi a nessuno.

Solo che in questo caso, ecco il cortocircuito, esistendo solo i neri, anche i tedeschi e gli imbianchini austriaci sono neri.

 Come Neraneve e i 7 gendere.

Come l’Omo Ragno e la Sirenetta con le fattezze di Big Mama, una finita a parlare all’Onu proprio perché, come avevo intuito, e vi raccontavo, su questa stessa testata in occasione del circo sanremese, non rilevava in quanto artista ma come agenda, da woke a woke, dal gender al body positive.

“Gemina” non genera, come scrive “Repubblica”, alcun “paradosso dell’inclusività”:

 è il capolinea di una tecnologia fanatica e già ampiamente fuori controllo.

E quando gli smanettoni di Google, gente fallita, poveri cani in fama di genialoidi informatici, dicono che rimedieremo molto presto, vogliono dire solo che tareranno la loro stupida intelligenza in modo da far risaltare, ancora e sempre, l’etnia nera, però con maggiore attenzione quando ci sarà da rappresentare un cancro, un male, una degenerazione dell’umanità:

allora, i bianchi torneranno utili come allegoria, epitome o rappresentazione.

Tornare indietro?

Difficile, probabilmente impossibile.

Tornare indietro da cosa, in un mondo dove ci si preoccupa di dare nomi nuovi ai dinosauri per renderli “più inclusivi”?

Questi progetti di intelligenza artificiale, anzi, sono concepiti proprio per fuggire sempre più in avanti fino a limiti irrevocabili:

 superate “le colonne d’Ercole della follia”, nessuno potrà più farci caso, anche perché altri programmi, di supporto, proibiranno qualsiasi eccezione, qualsivoglia opinione discordante, evaporando ogni verità reale, ogni lascito storico comprovato.

Non sarà più vero quello che era vero ma quello che è vero oggi. Purtroppo, abbiamo dormito.

Restando vero che chi inventa la barca inventa il naufragio, e che le forze tecnologiche sono impossibili da fermare e anche da arginare, comunque abbiamo dormito.

Noi scettici, noi pessimisti, noi libertari, temendo di restare indietro, di farci ghettizzare, cosa che comunque ci è successa, noi logici, dominati dalla paura di passare per reazionari, di farci fare la predica da un “Ghali” o una “Elena Cecchettin”, abbiamo troppo a lungo abbozzato; adesso, non abbiamo più scampo.

 

Così è e sempre più così sarà.

 I nostri lamenti sono flebili miagolii che il vento trasporta nel nulla e presto non si sentiranno più.

 Oggi il telegiornale di Stato si soffermava su una non notizia, una capitana della non irresistibile Nazionale di calcio femminile, certa “Sara Gama”, si ritira: e allora?

 Allora niente. Allora tutto.

 Allora siamo tenuti a prenderne atto e a dolercene e a batterci il petto. Perché “Sara Gama” è di colore e quindi tutto un “pippone sulle donne”, specie colorate, che ancora patiscono il patriarcato, il razzismo, la discriminazione.

 La signora “Sara Gama” ha già pronto un posto dirigenziale, in “Federazione”, a 200mila euro l’anno, però si considera paladina delle donne nere italiane violentate, sfruttate, ghettizzate, vessate, una mentalità vergognosamente ipocrita, roba da fare impallidire la “Paola Egonu”.

Ma il tigì le ha dato spazio e tempo e senza contradditorio, anzi in un giardino di chiose che facevano sembrare l’Italia altro che la Germania nazista:

un Paese a regime tribale, naturalmente bianco.

Quanto a dire che l’intelligenza artificiale, cialtronaggine naturale, passa sì per i vari “Gemini” e “OpenAI”, ma anche, più banalmente, per i notiziari generalisti che ti spacciano ogni santo giorno per verità acquisite i cambiamenti climatici, le pandemie autoindotte, i vaccini salvifici e il fatto che siamo tutti gender anche se non lo sappiamo.

 Ma niente paura, se qualcosa va storto basta rimediare, tarare, resettare, e tutto andrà a posto.

 Al loro posto.

Quello degli Stranamore senza anima e senza coscienza, senza storia, senza memoria, senza verità.

 Nell’iper realtà senza realtà.

(Max Del Papa).

 

 

 

 

 

Elon Musk vuole costruire

la sua IA anti-woke.

 

Ilfoglio.it - PIETRO MINTO – (01 MAR 2023) – ci dice:

 

Si sta diffondendo in America un grido di denuncia che accusa “ChatGPT” di essere di sinistra.

Il magnate di “Tesla” e “Twitter” ha preso la palla al balzo per progettare la sua personalissima alternativa, politicamente incolore

Il 23 marzo del 2016, Microsoft mise online “Tay”, un tipo particolare di programma (chiamato “chatbot”) con cui era possibile chiacchierare di qualsiasi cosa, grazie alle intelligenze artificiali che compilavano le sue risposte.

“Tay” fu presentata dall’azienda come una” IA sperimentale “pensata per comportarsi – e scrivere – come una ragazza adolescente.

 Aveva anche un suo carattere, che le valse la definizione di “AI che se ne frega di tutto”.

Oggi quell’esperimento è noto ai più perché nel giro di 24 ore, interagendo con utenti d’ogni tipo (e una buona dose di troll), “Tay” imparò piuttosto velocemente dal peggio del peggio del web, finendo per generare risposte razziste e antisemite, negando persino l’Olocausto.

Due giorni dopo,” Tay “fu rimossa dal web.

Sono passati nove anni da quell’operazione e il settore delle intelligenze artificiale ha avuto recentemente la sua prima hit globale con” ChatGPT”, un “chatbot” realizzato da “OpenAI”, azienda che ha da poco stretto un patto multimiliardario proprio con Microsoft.

“ChatGPT” – e in generale il modello linguistico “Gpt-3”, su cui si basa – è molto più cauta di “Tay”.

 Non per una questione di personalità, ma grazie ai limiti imposti dai suoi programmatori, che hanno definito i temi troppo sensibili per essere trattati.

Nonostante alcuni passi falsi e qualche errore, quindi, “ChatGPT” viene usato da mesi senza che abbia avuto derive filonaziste.

Ma non basta: alcuni osservatori hanno accusato la tecnologia di nutrire pregiudizi politici e culturali, in particolare di essere troppo in linea con gli ideali progressisti e liberal.

Ne è nato un grido di denuncia (“ChatGPT è woke!”), cui si sono uniti alcuni esponenti della destra americana e che è poi arrivato a” Elon Musk,” già capo di Tesla e Twitter, che questa settimana è passato dalle parole ai fatti, reclutando un manipolo di “professionisti di IA” per costruire un’alternativa a “ChatGPT” e alla sua presunta agenda sinistrorsa.

 Tra questi, secondo il sito “The Information”, ci sarebbe anche” Igor Babuschkin”, che però non avrebbe ancora firmato con l’imprenditore. La notizia sembra confermare le ambizioni di “Musk”, che da capo del social network è già al comando di uno strumento essenziale per le discussioni online.

Ma a colpire è soprattutto l’acredine dimostrata da Musk nei confronti di “OpenAI”, azienda che ha di fatto co-fondato nel 2015 con “Sam Altman”, oggi a capo della società, e che nelle settimane scorse ha spesso criticato e accusato.

Lo scorso dicembre ne aveva lodato le capacità con un tweet che oggi suona come una dichiarazione di guerra a scoppio ritardato:

“ChatGPT funziona spaventosamente bene. Non siamo così lontani da una IA paurosamente potente”.

La gara – se si può parlare di gara – è aperta e Musk non sembra disposto a parteciparvi con una vettura in condivisione con “Altman”:

a quanto pare, preferisce una realtà personale con cui proteggere la libertà d’espressione dai pericoli di questi tempi (la stessa battaglia per cui ha pagato 44 miliardi di dollari per Twitter).

La vicenda non fa che confermare l’interesse ossessivo del” settore tecnologico per le IA”, una sigla che ormai si porta con tutto e può fare la differenza tra una startup che riceve finanziamenti e una che fallisce. Anche per questo, la “Federal Trade Commission”, ente federale statunitense che promuove la tutela dei consumatori e si occupa di proteggere la giusta concorrenza, ha pubblicato un documento in cui chiede di “tenere a bada le affermazioni sulle intelligenze artificiali”.

In un mercato dominato dall’”hype”, infatti, il “concetto di IA” rischia di perdere significato e di essere usato a sproposito.

“Stiamo esagerando ciò che la nostra IA sa fare?”, chiede di domandarsi la “FTC” prima di mettere in vendita un servizio di questo tipo;

e poi: “Stiamo promettendo che l’IA farà il proprio lavoro meglio di un prodotto senza IA?”.

E soprattutto: “Il prodotto usa veramente le IA oppure no?”. Sono domande con cui dobbiamo prendere confidenza: la gara è appena iniziata.

 

 

 

Cari “identitari” il woke è finito:

è ora di elaborare il lutto.

Ilprimatonazionale.it - Sergio Filacchioni – (3 Gennaio 2024) – ci dice:

 

Roma, 3 gen.2024 – Cantiamo insieme questo requiem:

“Il troppo woke stroppia”.

Non è il titolo di una rubrica di “Marcello Veneziani “ma il titolo di un articolo che già da qualche mese “La Repubblica” rilancia dall’”Huffington Post”, due punte di lancia della comunicazione progressista italiana.

Il woke è finito?

Allora la domanda sorge spontanea.

Il woke è stato già scaricato dal sistema?

Per avere un titolo così di “Repubblica” – stando alle leggi della relatività per cui in Italia le tendenze arrivano con un anno e mezzo di ritardo – vuol dire che l’”epoca della wokeness è finita da un pezzo”, messa all’angolino proprio da chi l’aveva pescata fuori dal cilindro.

Perfino “Il Fatto Quotidiano” ha pubblicato sul suo blog un articolo eloquente:

“Guardiamoci bene dalle cause che trasformano la moralità in profitto”, informandoci che no, il capitalismo non si può responsabilizzare nemmeno se è woke.

 Insomma la “corsa al wokismo” sembra si sia arenata. Sembrava ineluttabile, l’attacco finale alla psiche bianca:

va detto, nel 2020 nella congiuntura pandemica e l’ondata iconoclasta che ha travolto gli Stati Uniti dopo l’omicidio di “George Floyd” a Minneapolis, è sembrato veramente prendesse corpo violento e virulento un “black washing globale”.

 E invece no.

Perché come tutte le” ideologie veteromarxiste”, nessuna esclusa, quando smettono di far guadagnare vengono messe alla porta dai “padroni del vapore”.

 È stato così anche per il Comunismo in Russia” – definito da “Armin Mohler “come roba da “paesi sottosviluppati” – che verso la sua fine si stava rendendo così palesemente uguale all’Occidente anglo-americano che ormai aveva perso il valore della sua offerta come controparte credibile.

 Adesso il troppo woke “stroppia”; e adesso anche i più liberal riscoprono gli adagi popolari delle nonne.

Accipigna!

Quantificare i danni.

Ora, non ci è dato quantificare il danno inferto da questo intermezzo di 5-6 anni – calcolando almeno dal 2018 quando uscì su “Netflix Troy”, una rivisitazione della guerra cantata da “Omero” con “Achille” e “Zeus” interpretati da attori neri, che fu il primo eclatante caso di “black washing” – alla nostra identità specifica di Europei.

Ben misera identità quella che si lascia lavare via da cinque anni di marchette cinematografiche… mi verrebbe da dire.

 E infatti l’unico danno che sicuramente ha prodotto” questa fase turbo ideologica” è stato un buco nelle casse di grandissime produzioni come per esempio “Disney” che – va ricordato – non è più solo Topolino, Paperino e Pippo ma un impero che controlla” Marvel”, “Lucasfilm”, “21th Century Fox”, “Pixar” oltre a due emittenti televisive statunitensi come “Abc” ed” Espn e dispone di una piattaforma streaming tutta sua ovvero Disney+”.

 Insomma Topolino, Paperino e Pippo si sono fatti qualche” amico in più ma alla fine “La Sirenetta” black non si è avvicinata nemmeno lontanamente al miliardo incassato da pellicole classiche come “Il Re Leone” o “La bella e la bestia”.

“Bob Iger,” amministratore delegato di tutta la baracca ha infatti sentenziato poco tempo fa sul New York Times:

“I nostri creatori hanno perso di vista quello che dovrebbe essere il loro obiettivo numero uno”.

Leggere tra le righe: fare i soldi.

Giù la maschera.

Hanno strappato troppo bruscamente o era voluto?

Forse è vera la prima: non conosco nessuna produzione miliardaria che goda nel perdere miliardi per dimostrare qualcosa, e il capitalismo è molto spesso scommessa più che scienza esatta.

Vi ricordate “The Big Short” – La grande scommessa?

 “I santi non vivono a Park Avenue”.

Non sono santi e non sono nemmeno infallibili, ma hanno il “pregio” di riconoscere i propri errori in base alla lacuna che lascia nelle loro tasche e una volta metabolizzata velocemente raddrizzano la barra.

La bolla woke è esplosa.

E non ci sono solo i titoli di Repubblica a suggerirlo, ma un intero sistema comunicativo e una “pancia” social che ha iniziato a borbottare già da un anno buono, tanto da far diventare memistica (quindi una critica seppur parossistica) le scelte di attori neri per ruoli come ad esempio la “Sirenetta”.

Si tratta di tutta quella galassia di “recensori”, “fanpage” e “cinefili vari” che più o meno volontariamente assecondano sempre le tendenze.

È stato solo un brutto sogno?

Ora, messa così potrebbe sembrare che noi si stia cantando allegramente sbronzi in una locanda della Contea mentre a “Mordor” tutto tace.

In effetti e per molti versi “elaborare il lutto” della “wokeness “potrebbe risultare molto più difficile proprio per chi negli ultimi anni si è ancorato alla narrazione identitaria per sfidare – a piena ragione – le “follie della cancel culture”, anzi di questa specifica forma che ha preso.

Ma qui occorre dire delle cose:

in primis il fatto che dovremmo sempre diffidare da ciò che il sistema ci propone.

Mi spiego: ora che il “mainstream  cinematografico e mediatico” sembra aver terminato l’esperimento “woke”– magari proveranno con un po’ di accanimento terapeutico – vuol dire che torna la belle époque e l’Europa sarà di nuovo Biancaneve?

Ovviamente no.

 Il mondo del 1963, quello in cui il “biondo Semola tirava fuori la spada dalla roccia, era un mondo che solo un anno prima aveva vissuto la crisi dei missili di Cuba – l’acme della Guerra Fredda – mentre l’anno ancora prima la costruzione del Muro di Berlino.

Va da sé quindi che la qualità dell’aria in Europa non va di pari passo con le palette di colori che la Disney (o chi per lei) usa per colorare i suoi personaggi.

 In secundis, quindi va preso atto che la” cancel culture più pericolosa e subdola” non è stata, e non è, quella sbandierata a “Beverly Hills”, ma quella che ci siamo autoprodotti in casa nostra e con le nostre manine di fata.

Nel marzo del 2019 una cinquantina di studenti impedì al pubblico di accedere all’anfiteatro della Sorbona di Parigi   dove sarebbero dovute andare in scena le” Supplici” di Eschilo:

la colpa secondo la “Ligue de defense noire africaine” era che attrici bianche col volto colorato di nero sarebbero state il coro delle Danaidi descritto come nere da Eschilo perché secondo il mito esuli dell’Egitto.

Il caso è esemplare, ma mai quanto quello del controverso libro “Black Athena”, del 1987, dove “Martin Bernal” gioca proprio con le “Danaidi “per provare le origini afroasiatiche della civiltà greca tentando di rovesciare l’indoeuropeistica classica.

 Da come racconta lo stesso “Bernal” fu l’editore a scegliere il titolo, che sarebbe dovuto essere “African Athena”, dicendogli: “Blacks no longer sell. Women no longer sell. But black women still sell”.

 Un altro furbone…

Insomma questi sono due esempi strettamente correlati per dire che il danno maggiore è venuto dall’interno e in ambito universitario, accademico e culturale.

Vediamo fiorire fior fiore di narrativa storica che riscrive i miti in salsa progressista da “Enea lo straniero” (Einaudi, 2020) di “Giulio Guidorizzi”, professore ordinario di “letteratura greca” all’Università di Torino che dipinge l’eroe troiano come un profugo a “La canzone di Achille” (Feltrinelli, 2019) della scrittrice statunitense” Madeline Miller” che riscrive in “salsa gay pride” il rapporto tra il figlio di Peleo e Patroclo.

 In mezzo “pelosi influencer”,” Barbero” e “Cazzullo”, “Augias” e “Mieli” e chi più ne ha più ne metta.

Dall’altra parte, va detto, il danno peggiore creato dall’”aggressione woke al sistema valoriale occidentale” (una finta aggressione) è stato quello degli “identitari” più o meno destrorsi che hanno finito per vedere “woke” ovunque come fosse diventata una paranoia o peggio un virus a diffusione eterea:

 se il personaggio è donna è “woke”, se nel film si tratta uno stupro è “woke”, se un’antagonista è bianco e “woke”;

 finendo così per rendere “woke” tutta la tradizione storica, letteraria, culturale ed artistica europea.

Basti un esempio: l

a Repubblica di Roma nasce dall’insurrezione popolare dopo l’ennesimo sopruso della monarchia, lo stupro per mano del figlio del Re di una giovane ragazza.

Chissà se Bruto faceva il pugno o la mano…

Decostruzione.

La festa quindi deve aspettare.

Perché se è vero che il mercato ha punito un esperimento troppo spinto è vero anche che questo non è mai stato il vero problema:

 il” mondo identitario” deve svegliarsi presto dalla “bambola” presa nell’invettiva contro “Netflix – che sembra essere sempre il minimo comun denominatore del male – e fare i conti con tre mondi “reali” che odiano l’identità europea e lavorano quotidianamente alla decostruzione dell’immaginario simbolico dei popoli bianchi:

 quello delle élite culturali, quello della finanza globalista, quello allogeno che si è installato nelle nostre città.

Mondi che hanno dimostrato più e più volte la loro perfetta “fallibilità”, ma che ormai si compensano fra di loro come vasi comunicanti in assenza di altri attori sulla scena.

 Dal mondo che però piange per la “scomparsa di Cenerentola” e brinda per una mostra su “Tolkien” “portata a casa” tutto tace:

 sarà che prendersela con qualcuno oltre oceano è sempre più comodo che agire in casa, reagire al” black washing” e al “Cucù “invece di” Gesù” più facile che ricostruire in quei spazi che vengono lasciati dai fallimenti altrui.

Andrebbe applicato sfacciatamente un adagio, anzi un pugno nicciano: “Trovo sempre meno motivi, oggi, per nascondere le mie idee”.

“Che tu agisca oppure no, | i popoli silenziosi, astiosi | soppeseranno te e i tuoi Dei”.

(R. Kipling)

“Sergio Filacchioni”.

Trasformare l’Europa

per proteggere le persone.

Legrandcontinent.eu – Yolanda Diaz – (22-2-2023) – ci dice:

Appoggiandosi blocco storico degli spazi progressisti europei è possibile far emergere un nuovo movimento.

Uno spunto di dottrina firmato da “Yolanda Díaz”, ministra del Lavoro spagnola.

Spunti di dottrina.

(Yolanda Díaz)

All’inizio di Guasto è il mondo.

 “Tony Judt” afferma laconicamente che «non sappiamo più parlare di ciò che va male, tanto meno risolverlo».

 Queste parole dello scrittore britannico mi sono venute in mente tre anni fa, nel marzo del 2020, quando ho visto crollare 800mila posti di lavoro e non ho potuto evitare di piangere nella solitudine del mio ufficio.

Poco dopo, siamo stati in grado, questa volta sì, di nominare i problemi e di risolverli, e gli “ERTE” sono già una storia di successo in Spagna. Abbiamo dimostrato che era possibile uscire dalla paralisi, che le cose potevano essere fatte in modo diverso per migliorare la vita delle persone, che le vie che funzionano sono rimaste troppo a lungo inesplorate.

Forse l’Europa è stato il miglior esempio dell’impotenza riflessiva e politica di cui parlava “Judt”.

Allo stesso tempo, l’Europa è stata e continua a essere lo spazio migliore a disposizione per migliorare la vita delle persone, grazie all’ampio scala che possono raggiungere le sue politiche e all’ampio sostegno che ha tra la cittadinanza – un sostegno che, lungi dall’essere un semplice elemento simbolico, produce effetti materiali.

 

Abbiamo vissuto per troppo tempo con la premessa che l’Europa fosse irriformabile.

Dopo la svolta neoliberale degli anni Ottanta, consolidata nei decenni successivi, gran parte delle forze progressiste si sono ritirate in due direzioni diverse.

 Da un lato, una parte importante della socialdemocrazia ha integrato le logiche di deregolamentazione dei mercati e di mancanza di protezione sociale.

 Si è arresa.

D’altra parte, alcune sinistre hanno concluso che non ci fosse lo spazio né possibilità di cambiare l’Europa, e che la svolta neoliberale e tecnocratica fosse in realtà una decisione predeterminata, la condizione irrinunciabile di un’architettura europea scarsamente democratica e poco o per nulla sociale.

 Sono state costrette ad arrendersi.

 Ora siamo immersi in un cambiamento di epoca, ed è il momento di portare la democrazia in Europa, di avere una voce propria in un mondo sempre più complesso.

Molte sono state le progettualità e le idee che le forze progressiste hanno introdotto per decenni per raggiungere l’Europa sociale.

Negli anni del dopoguerra, sindacati, movimenti sociali e femministi, insieme alle sinistre europee, hanno immaginato e promosso una direzione trasformativa per il progetto europeo, una direzione che, come ricorda “Aurélie Dianara” in “Social Europe”:

“the Road not Taken”, sembrava possibile fino agli anni Ottanta.

Quel movimento a favore di un’Europa sociale non era cosa da ingenui: esisteva senza dubbio una finestra di opportunità.

L’Europa è stato e continua a essere lo spazio migliore a disposizione per migliorare la vita delle persone, grazie all’ampio scala che possono raggiungere le sue politiche e all’ampio sostegno che ha tra la cittadinanza – un sostegno che, lungi dall’essere un semplice elemento simbolico, produce effetti materiali.

(YOLANDA DIAZ)

Negli anni Settanta siamo stati testimoni di un’epoca di incertezza, in cui dominava la sensazione che potesse accadere qualsiasi cosa.

 Come prova di ciò, il premio Nobel per l’Economia del 1974 è stato assegnato a due pensatori molto diversi tra loro:

“Friedrich von Hayek” e “Gunnar Myrdal”.

 Il primo era un fautore del neoliberalismo più brutale;

 il secondo era invece un post-keynesiano che voleva approfondire il meccanismo del consenso sociale del dopoguerra.

Tra i due, “Hayek” ha avuto la meglio e di conseguenza la finestra si è chiusa.

Oggi, immersi in un nuovo contesto di incertezza globale, quella finestra è di nuovo aperta.

Ci troviamo in un momento di biforcazione simile, in cui dobbiamo scegliere se dare una nuova e immotivata opportunità – l’ennesima – al caos neoliberale o, al contrario, puntare sulla pianificazione economica ed ecologica delle nostre democrazie.

Entrambe le opzioni sono possibili, ma una si è già dimostrata inefficace, capace solo di infliggere dolore ai cittadini.

La pandemia ha rivelato la morte intellettuale del neoliberalismo. Adesso l’unico modo per seppellirlo politicamente è con un progetto di europeismo trasformatore.

In questo senso, l’egemonia neoliberale in Europa non ha nulla a che fare con un substrato storico e immutabile.

Questa non è né nel DNA, né nelle radici del progetto dell’Unione.

 L’egemonia del neoliberalismo è dovuta, in realtà, alle trasformazioni interne che molti Stati membri hanno vissuto negli anni Ottanta e Novanta – il programma antisociale di Thatcher o la svolta rigorista di Mitterrand ne sono i principali esempi -, dopo le quali le élite di tali paesi si sono coordinate per ricostruire l’Europa a difesa degli interessi di pochi.

 In altre parole, la deriva neoliberale a livello sovranazionale è il risultato di una medesima svolta già compiuta a livello locale, dei cambiamenti a livello statale sperimentati dopo la vittoria di “Hayek” e dei suoi accoliti.

 Così, è stato il patto intergovernativo che metteva gli interessi dei mercati al di sopra della vita delle persone comuni che ha portato alla formulazione dei “Trattati di Maastricht e di Lisbona”.

È stato quel medesimo patto intergovernativo a favore dell’austerità che, vent’anni dopo, ha piegato la volontà del popolo greco e imposto tagli nei servizi pubblici e nei sistemi sanitari di tutta Europa.

 La buona notizia è che con un nuovo patto possiamo riformare l’architettura dell’Unione Europea, mettendo, questa volta, la protezione delle persone al primo posto.

In sintesi:

 l’Europa è un patto intergovernativo che deve trasformarsi in un progetto democratico, sociale e federale.

Dobbiamo rompere la falsa alternativa tra democrazie nazionali e democrazia europea, poiché le prime devono essere il motore della seconda.

Con questo obiettivo in mente, fin dai miei primi giorni come ministra, mi sono proposta di trasformare l’Europa perché, come ha scritto “Bertolt Brecht”, «la forza della ragione sarà solo la vittoria di coloro che ragionano».

Perché l’Europa è troppo importante nelle nostre vite per rinunciarvi. Perché le idee si misurano dai loro effetti.

 Perché è necessario un insieme di piccoli progressi compiuti oggi per rendere possibili riforme più ambiziose domani.

In questi tre anni di mandato, il mio progetto europeo non ha lasciato spazio a equivoci:

favorire una svolta verso un’Europa più sociale, diversa e femminista e renderla strutturale.

Ho illustrato le mie idee ogni volta che sono stata a Lussemburgo o Bruxelles e cerco di dimostrare che la svolta è possibile coordinandomi con altri paesi su importanti questioni legislative.

Dieci anni fa, “Luis de Guindos” si vantava durante un “Eurogruppo” per la sua riforma del lavoro, da lui definita come «estremamente aggressiva».

 Vale a dire: estremamente dannosa per i diritti di tutti.

 In quella fase, la Spagna ricopriva un ruolo subalterno in un’Europa che puntava sull’austerità, lasciando senza protezione le maggioranze sociali di tutto il continente.

 Oggi, la nuova riforma del lavoro spagnola è oggetto di studio in un’Europa che punta ad una risposta sociale ed espansiva ad una crisi senza precedenti.

La prima era la Spagna del passato, la seconda è la Spagna che apre la strada al futuro.

Il nostro paese ha avuto un ruolo protagonista in direttive importanti come quella sulla trasparenza retributiva e sui salari minimi, che hanno un impatto positivo sulla situazione di molte donne europee.

Dieci anni fa, durante l’era dell’austerità, sembrava impossibile avere una direttiva sui salari minimi decenti.

Se oggi esiste un quadro giuridico comune che favorisce gli aumenti salariali in un terzo degli Stati membri, e che coinvolge più di 25 milioni di lavoratori, è grazie all’insistenza spagnola.

 

Allo stesso tempo, la Spagna paese ha proposto, insieme al Belgio, la creazione di un “Meccanismo di allerta sui disavanzi sociali”;

un sistema per identificare gli squilibri in materia di diritti sociali, con un’ottica femminista, che possa fornire risposte rapide ed efficaci, e che inoltre agisca con la stessa attenzione e tempestività con cui vengono individuati gli squilibri economici.

 Questo meccanismo, che sta continuando a svilupparsi nei comitati tecnici, è un primo passo necessario per rafforzare il ruolo del “Consiglio EPSCO” e riconfigurare il Semestre Europeo.

L’Europa non può continuare a essere ciò che l’ ”ECOFIN” desidera e decide.

In questo senso, il sociale non è solo una semplice appendice o un aggettivo;

è una prospettiva trasversale attraverso cui costruiamo un’Unione Europea che protegge le sue maggioranze sociali e che mette le persone al primo posto.

 Si tratta, quindi, di conciliare la giustizia sociale con la solidità economica, partendo dalla convinzione che la governance sia efficace solo quando è socialmente giusta ed ecologicamente sostenibile.

Inoltre, ci sono altri dossier chiave, ancora in corso, in cui la Spagna ha guidato gli sforzi per dare risposte più sociali e protettive.

 È il caso della direttiva sui lavoratori delle piattaforme logistiche, ispirata dalla” legge spagnola Rider”.

Questa direttiva proteggeva, nella sua versione iniziale, il principio di lavoro subordinato e il diritto alla trasparenza algoritmica, ma è stata progressivamente svuotata dal Consiglio.

La Spagna è stata in grado di creare e coordinare una vasta alleanza che ha impedito l’approvazione di un testo che tagliava i diritti e consolidava un modello di instabilità.

Ora aspiriamo a ribaltare la direttiva, recuperare lo spirito della “legge Rider” e portare avanti una legislazione progressista che migliori la vita dei lavoratori in tutta Europa.

Dieci anni fa, ci saremmo accontentati.

Oggi abbiamo la capacità e la responsabilità di esigere di più e di meglio.

 Siamo arrivati fin dove abbiamo potuto con le forze che abbiamo.

 È in gioco il futuro del lavoro e la possibilità di una trasformazione tecnologica con diritti.

(YOLANDA DIAZ)

Inoltre, questi progressi e riforme hanno avuto il sud Europa come protagonista grazie all’intesa tra Spagna, Portogallo e il precedente governo italiano.

 Se durante la debacle dell’austerità è emersa la divisione forzata tra nord e sud, tra Germania e il resto, ora i vecchi “PIIGS” giocano un ruolo di avanguardia e direzione storica nella riconfigurazione del progetto europeo.

 Il nostro paese è passato dal subire le politiche di Bruxelles a proporle, indicando la strada della protezione sociale e dell’allargamento democratico.

C’è ancora molto da fare.

 La presidenza spagnola del Consiglio europeo nel secondo semestre di quest’anno sarà un’ottima occasione per continuare il nostro lavoro e mostrare che c’è un modo diverso di fare le cose in Europa.

 Durante il nostro semestre, aspiriamo a approfondire il dialogo sociale nell’Unione, così come abbiamo fatto nel nostro paese;

a dare il giusto protagonismo all’economia sociale;

 a dare nuovo impulso a dibattiti cruciali come l’impatto della precarietà sulla salute mentale, la democrazia sul lavoro o la possibilità di un negoziato collettivo verde.

Così, di fronte alla persistenza dell’incertezza, spirito del nostro tempo, abbiamo tre possibili strade per l’Europa, a seconda di chi e cosa decidiamo di proteggere.

La prima è quella della riconfigurazione neoliberale, che promuove la protezione dei privilegi delle élite europee.

Questa via contempla il ritorno, prima o poi, ai tagli, ad affrettate politiche di bilancio restrittive e a una disaffezione sociale rampante.

 Si tratterebbe di un dejà vu, di una situazione simile a quella del 2008: sarebbe disfunzionale, ma non è inimmaginabile.

 Non tutto ciò che è insostenibile cessa di esistere in tempo.

 Come sappiamo, l’Europa ci ha abituato troppo spesso a fughe in avanti, a non fare nulla o, ancora peggio, a inciampare due volte nella stessa pietra.

Questa prima alternativa è molto pericolosa, non solo per le maggioranze sociali europee, ma anche per il futuro dell’Unione stessa.

Una seconda alternativa, ancora più preoccupante, è la protezione di una minoranza nativista ed escludente che pretende di parlare a nome di molti.

È la declinazione dell’Europa in chiave reazionaria.

 Una soluzione neo-liberale guidata dall’estrema destra europea, interessata a un’Europa che non cambi mai affinché continui a essere il suo grande “altro” contro cui scontrarsi.

Il trionfo degli “Orban”, “Meloni” e “Duda” è anche la sconfitta dell’Europa realmente esistente.

Il trionfo della disaffezione sociale e, allo stesso tempo, la sconfitta delle classi popolari europee e, in particolare, dei giovani, delle donne, delle persone” LGTB” o delle persone soggette alla discriminazione razziale.

Questa alternativa è pericolosa, inoltre, perché guadagna terreno al di là dei confini dell’ultradestra, come accaduto per le ultime conclusioni del “Consiglio Europeo”, che sostengono il finanziamento di progetti per costruire ed equipaggiare muri anti-immigrazione.

In troppe occasioni queste prime due vie si sono confuse tra loro.

 Così, in soli otto anni, l’Unione europea è passata da avere trecento chilometri di muri ad averne oltre duemila.

La logica dell’esternalizzazione delle frontiere e della criminalizzazione dei migranti è il cavallo di Troia di questa alternativa reazionaria, che diffonde una narrazione di paura e controllo in Europa.

Di fronte a queste due opzioni, esiste una via d’uscita diversa.

Una via d’uscita tanto europeista quanto emancipatrice, una combinazione vincente che ci ha mostrato – e che ha portato avanti – la gioventù di tutta Europa.

Un’alternativa al gioco anacronistico del bipartitismo europeo.

 Una via che si è intravista nella gestione solidale ed espansiva della pandemia.

 Una via, quindi, possibile.

Questa terza alternativa comprende che il futuro dell’Unione dipende dalla capacità dell’Europa di proteggere le persone, che i piani e i meccanismi di ripresa devono essere permanenti.

Seguendo l’idea di “Monnet “secondo cui l’Europa si forgia nelle crisi, quest’altra strada prevede il consolidamento il punto di svolta rappresentato dalla risposta alla crisi del coronavirus, e l’abbandono dell’austerità per puntare a radicare i piani di investimento pubblico, la spinta fiscale e gli strumenti di comprovato successo come il meccanismo “SURE” o il piano di ripresa e resilienza.

Dobbiamo essere coerenti: è in tempi di incertezza che ha più senso puntare su ciò che sappiamo che funziona.

Non c’è più lo spazio per poter dire” business as usual”.

Ora, il “whatever it takes” di Mario Draghi assume un altro significato:

l’Europa deve fare tutto il necessario per proteggere le persone.

Proprio perché gli shock come la pandemia o la guerra sono difficili da prevedere, dobbiamo lavorare perché il nuovo senso comune che si sta aprendo si traduca in regole del gioco stabili e permanenti per l’Europa.

Quello che “Mariana Mazzucato “definisce il “Consenso di Cornovaglia” racchiude questa realtà da consolidare in Europa: passare dal riparare – intervenire solo quando il danno è già stato fatto – al preparare, e cioè agire in modo preventivo per proteggere i cittadini e rendere possibile il futuro in tempi di instabilità, guerra e crisi climatica.

(YOLANDA DIAZ)

Per raggiungere tutto ciò, per far fronte all’incertezza del nostro tempo, abbiamo bisogno di un nuovo contratto sociale a livello europeo, che sarà possibile solo se avvieremo un programma graduale e ambizioso di riforme, un programma che porti il sigillo di un nuovo europeismo trasformatore.

Un europeismo laburista.

È il momento di riformare i Trattati per metterli al servizio dei lavoratori e codificare i principi della Carta europea dei diritti sociali per renderli vincolanti.

 È il momento di riformare i Trattati per proteggere le persone, per inserirvi, come richiesto dal sindacalismo europeo, un protocollo sul progresso sociale che garantisca che i diritti sociali prevalgano sui privilegi di pochi.

Questa riforma dei Trattati è importante, poiché i due principali ostacoli per avanzare verso un’Europa sociale, verde e femminista sono scritti nella pietra:

 la prevalenza delle libertà economiche sui diritti fondamentali e il limitato margine di competenza dell’Unione europea per legiferare in materia socio-lavorativa.

 È tempo di ricostruire l’architettura istituzionale dell’Europa per porre al primo posto il benessere delle persone.

 

Una prima riforma, con l’obiettivo di correggere questo squilibrio, potrebbe essere la realizzazione di un doppio test di proporzionalità, in cui si valuti non solo la limitazione delle libertà economiche, ma anche quella dei diritti umani.

 Inoltre, è necessario porre fine una volta per tutte all’attuale competizione tra gli Stati membri per offrire il sistema sociale e fiscale più vantaggioso per le imprese, sempre a spese della riduzione dei diritti e delle prestazioni dei lavoratori.

Un impegno in questa direzione richiederà il trasferimento di alcune competenze in materia sociale all’Unione europea.

Solo così riusciremo ad avere, ad esempio, un vero salario minimo europeo, una politica abitativa equa e un reddito minimo garantito in tutto il continente.

Il progetto europeo può offrire le risposte che cercano tutte le persone che oggi scendono in strada in Francia e in altri paesi europei.

Un’Europa laburista è possibile, un antidoto contro nuovi inverni di scontento, l’Europa che Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi hanno delineato nel Manifesto di Ventotene del 1941:

un progetto federale il cui scopo sia «l’emancipazione delle persone lavoratrici e la garanzia di condizioni di vita più umane»

Porre i diritti del lavoro al centro sarà ancora più essenziale in un’epoca che riscopre le virtù della pianificazione economica.

 Il fatto che sempre più governi scommettano sul settore pubblico come agente dinamico – nella lotta contro la pandemia, le diseguaglianze o il cambiamento climatico – è una grande notizia.

Ma sarà necessario progettare con cura questo nuovo interventismo economico, in modo che si traduca in beneficio delle maggioranze sociali e della sostenibilità dell’ambiente.

Questa riflessione è particolarmente importante per l’Unione europea. Le basi di una politica industriale europea non solo devono dotare l’Europa di una maggiore autonomia:

sul piano energetico, di fronte alle autarchie ricche di combustibili fossili come la Russia e i paesi del Golfo;

sul piano tecnologico, di fronte al duopolio USA-Cina.

Ma devono anche essere in grado di consolidare rapporti di lavoro più giusti e duraturi;

 lavori di qualità in settori che non dipendano dalla speculazione o dal lavoro precario;

 e capacità di adattamento a nuove crisi o shock imprevisti.

Sono queste considerazioni – e non la ricerca del profitto delle grandi imprese europee o la competizione con Pechino e Washington – a dover orientare la riforma delle regole di investimento pubblico e la progettazione di politiche industriali a livello europeo.

Soprattutto, la trasformazione energetica e la transizione ecologica delle nostre società, realizzate con criteri che non lascino indietro nessuno, devono guidare questa nuova epoca di iniziativa in una politica industriale che sia anche una politica del lavoro.

Un europeismo verde.

Oggi, come già descritto in precedenza, ogni politica è una politica climatica, soprattutto quella europea.

 Abbiamo bisogno di una politica climatica che promuova la democrazia economica, una politica capace di comprendere che giustizia sociale e giustizia climatica sono le due facce della stessa medaglia.

 In tal senso, l’Unione europea ha la capacità di essere d’impulso alla pianificazione ecologica in chiave democratica a livello globale grazie alla sua potenza normativa, alla sua dimensione, alla sua difesa della diplomazia climatica e alla sua capacità di evitare concorrenza al ribasso tra gli Stati membri.

Negli ultimi mesi, mentre l’attenzione dei media è rivolta alla guerra in Ucraina, stiamo assistendo ad un preoccupante smantellamento del Patto Verde Europeo.

 Proprio in questo contesto, raggiungere gli obiettivi di questo patto è più urgente che mai.

Un Patto Verde Europeo ampliato, con ambizioni rinnovate e obiettivi anticipati, deve essere la nostra principale bussola politica per il prossimo decennio.

Approfondire una transizione energetica giusta è anche la migliore sanzione possibile contro Vladimir Putin:

 l’agenda legislativa del “Fit For 55 “deve promuovere con maggiore ambizione le energie rinnovabili e la decarbonizzazione di settori chiave come l’industria o l’edilizia.

Le autorità pubbliche hanno il dovere di facilitare l’investimento pubblico e privato per accelerare la transizione climatica giusta, senza dare carte bianche alle imprese, che dovranno rispettare nuovi standard sociali e ambientali all’altezza delle sfide.

 Inoltre, è necessario rafforzare strumenti come il “Fondo di Transizione Giusta” o il “Fondo Sociale per il Clima”, nonché studiare la possibilità di creare uno strumento finanziario che mitighi l’impatto socio-lavorativo delle grandi trasformazioni in arrivo.

(YOLANDA DIAZ)

Il Patto Verde Europeo non è una proposta definitiva, concreta e chiusa. È un nuovo paradigma trasversale e femminista in cui inserire ogni azione politica, economica e fiscale, un modo per guidare le decisioni di investimenti e regolamentazioni che devono aiutarci a raggiungere una decarbonizzazione socialmente giusta.

 È un’opportunità per innovare a livello fiscale – ad esempio attraverso una tassa di emergenza climatica sul patrimonio delle grandi fortune – una riforma verde della contabilità nazionale, una scommessa su una pianificazione industriale verde che corregga le disuguaglianze territoriali all’interno dell’Unione europea e un modello di democrazia energetica che impari dai pericoli delle dipendenze precedenti e metta al primo posto gli interessi dei cittadini europei.

 L’Europa sociale sarà verde o non sarà veramente sociale.

Per questo, abbiamo bisogno di una pianificazione ecologica che includa i lavoratori.

Un europeismo femminista.

L’Unione europea deve agire come promotrice dei nuovi diritti femministi per evitare marce indietro anacronistiche, evitando la “orbanizzazione” del progetto europeo e lavorando per eradicare le violenze maschili e ogni forma di discriminazione.

 La parità di genere è stata storicamente una vecchia aspirazione dell’Europa, consacrata nei “Trattati fondativi “attraverso il principio di parità retributiva e successivamente estesa ad altri ambiti e lotte.

Sappiamo che il processo di integrazione europea ha incoraggiato la diffusione di politiche femministe.

 Sappiamo anche, e purtroppo, che questa ambizione di uguaglianza è stata a sua volta la principale vittima di un’austerità che ha spostato il carico delle cure dalle spalle dello Stato a quelle delle donne, e di come i tagli di bilancio che hanno ridotto la struttura amministrativa europea si siano accaniti, in modo particolarmente cruento, sui bilanci delle istituzioni e dei comitati per l’uguaglianza.

Così, nonostante alcuni progressi legislativi registrati negli ultimi decenni, in tutta Europa permangono enormi disparità di genere nel campo economico, del lavoro e della partecipazione politica;

abbiamo ancora in sospeso una vera transizione delle cure che deve necessariamente essere effettuata su scala europea.

Ora, sia le conquiste che credevamo consolidate che la possibilità di andare avanti nel processo di riforma sono messe in discussione dall’avanzata dell’estrema destra.

 Di fronte a queste minacce, l’Unione deve raddoppiare la sua scommessa per una politica interna ed esterna veramente femminista, una politica dei diritti umani che protegga le persone trans e LGBT, una politica che ci renda migliori come europei ed europee.

Ciò che è in gioco è la parità di genere e, di conseguenza, la possibilità di un orizzonte democratico per l’Europa.

Un europeismo democratico.

Non possiamo trasformare l’Europa con il deficit democratico delle sue istituzioni.

 Non è sostenibile che il carattere intergovernativo del progetto europeo persista, è una struttura che favorisce solo alcune minoranze.

 Dobbiamo generalizzare la procedura legislativa ordinaria affinché il Parlamento europeo possa decidere sull’insieme delle politiche dell’Unione.

 Per farlo, dobbiamo dotarlo anche della capacità di iniziativa legislativa.

Non possiamo permettere che il Consiglio legiferi in modo unilaterale senza la partecipazione del Parlamento, nemmeno in momenti di crisi.

Abbiamo bisogno che l’Europa sia uno spazio di conflitto politico, il luogo per eccellenza dell’allargamento del possibile.

Abbiamo bisogno che la volontà democratica e l’interesse generale dei cittadini europei siano riflessi in modo fedele e diretto.

Dobbiamo quindi avviare un processo di rifondazione dell’architettura istituzionale dell’Unione europea, per dotare il Parlamento di piena capacità legislativa ed eleggere la Commissione tramite procedure più democratiche.

Abbiamo bisogno di istituzioni rapide, efficaci e vicine alle aspirazioni dei cittadini, che non abusino, come finora, delle procedure d’urgenza. Istituzioni che comprendano esercizi d’interesse come la Conferenza sul futuro dell’Europa” con garanzie e in modo vincolante.

 Seguendo questa logica, l’unanimità nelle decisioni del Consiglio è una regola obsoleta che rallenta i processi e fa dell’Unione europea un gigante burocratico che arriva tardi in troppi casi perché subordinato alla volontà minoritaria di leadership illiberali.

La fermezza europea mostrata davanti alla crisi aperta dall’invasione dell’Ucraina ha rappresentato un’eccezione onorevole a questa logica, e dobbiamo trasformare questo lampo di unità in una dinamica permanente.

Democratizzare l’Europa significa superare l’unanimità su questioni essenziali come la fiscalità o la politica estera.

 

Un europeismo fiscalmente giusto.

L’Europa ha bisogno di nuove regole fiscali.

È evidente che quelle attuali non sono più sufficienti, come dimostrato nel marzo 2020.

 La pandemia ha permesso di uscire dalla stretta del Patto di stabilità e crescita grazie all’attivazione della clausola di salvaguardia.

 Non commettiamo l’errore di imporci regole controcicliche, che non sono utili né in tempi di prosperità né in tempi di crisi.

 Pertanto, entro il 2024, l’Unione dovrà dotarsi di un quadro giuridico che garantisca sia la stabilità macroeconomica che la giustizia sociale.

Le vecchie regole fiscali sono state concepite per un’epoca che non esiste più.

Il loro obiettivo principale era quello di consacrare la disciplina fiscale degli Stati, ma il loro effetto è stato quello di lasciare l’Europa alla mercé dei mercati.

Nel 2010, durante la “Grande Recessione”, sia le istituzioni europee che i suoi Stati membri più austeri hanno promosso una politica di tagli sociali che ha aggravato i danni causati dalla crisi del 2008.

Quel decennio perso ha screditato e frammentato l’Unione europea.

Nel 2020 non abbiamo commesso quell’errore.

 L’Europa ha promosso una risposta coordinata e solidale, con l’acquisto congiunto di vaccini e il programma Next Generation Eu.

Oggi sappiamo come rafforzare questi impegni:

abbiamo bisogno di un’Unione meglio integrata, con una capacità fiscale comune, autonoma e perpetua, così come i mezzi per garantire beni pubblici come la salute, l’ambiente, l’energia e la sicurezza a livello europeo.

Questa visione è tanto esigente quanto pragmatica.

 Rappresenta un passo indispensabile per trasformare l’euro in una vera unione monetaria.

Consente agli Stati membri di rendere sostenibili i loro bilanci senza ricorrere a tagli sociali, minacce di sanzioni o interventi di alcuna troika, vestigia inaccettabili di un’epoca che non avrebbe mai dovuto esistere.

Ciò, inoltre, costituisce la base di un’autonomia strategica in ambito economico:

 per porre fine ai paradisi fiscali all’interno e all’esterno dell’Unione europea;

per progredire nella lotta all’emergenza ecologica;

e per sviluppare una base industriale propria in settori chiave come i semiconduttori, le energie rinnovabili e le infrastrutture digitali.

Invece di porre ostacoli, le regole fiscali europee dovrebbero agevolare il raggiungimento di questi obiettivi.

La proposta della Commissione, pubblicata alla fine del 2022, dovrebbe servire come punto di partenza per progettare un’architettura più ambiziosa, efficace e duratura, mettendo sempre le persone al centro.

 Il principale pericolo che la governance economica dell’Unione deve scongiurare è, tanto oggi quanto nel 2020, avere paura di essere più audace nell’aiutare le persone.

In questo senso, la politica monetaria rappresenta un altro campo che necessita di riforme.

Mentre scrivo queste righe, la” Banca Centrale Europea” sta aumentando bruscamente i tassi di interesse per contrastare l’inflazione.

Si tratta di una decisione azzardata, che potrebbe mettere a rischio la crescita economica.

 Ciò che queste azioni ci mostrano è che la “BCE” dispone di un mandato – mantenere la stabilità dei prezzi – e di strumenti – i tassi di interesse – molto limitati per affrontare le sfide che la governance economica europea sta accumulando.

Questo non dovrebbe sorprenderci:

si tratta di un’istituzione creata negli anni Novanta, quando le priorità della politica macroeconomica erano diametralmente opposte a quelle attuali.

Se vogliamo che la BCE sia all’altezza delle sfide attuali, avremo bisogno di una riforma più ambiziosa.

 La politica monetaria dovrà ampliare i suoi obiettivi, incorporando nel suo mandato considerazioni di coesione sociale, sostenibilità climatica e, perché no, la ricerca della piena occupazione.

 Allo stesso tempo, come dimostra il successo iberico, la BCE dovrà considerare che i tassi non possono essere l’unico strumento – né il più indicato – in per affrontare uno shock dei prezzi energetici.

Pertanto, una riforma urgente del mercato europeo dell’energia, sulla linea proposta di recente dalla Spagna, e un’accelerazione della transizione energetica, sono soluzioni più urgenti e appropriate per contrastare l’inflazione rispetto all’audace aumento dei tassi deciso a Francoforte.

(YOLANDA DIAZ)

In sintesi, riformulare le regole fiscali europee non avrebbe senso senza aggiornare la nostra politica monetaria.

Dobbiamo adattarla a un’epoca che richiede un maggiore attivismo da parte delle autorità pubbliche, nonché nuovi meccanismi di legittimazione nei confronti dei cittadini, più esigenti della nozione tradizionale di indipendenza delle banche centrali, con cui la BCE può proteggersi dalle pressioni dei politici, ma non necessariamente dalle pressioni delle oligarchie economiche o dei mercati finanziari.

 

Un europeismo multilaterale e favorevole ai diritti umani.

In questi giorni si commemora l’anniversario dell’invasione criminale dell’Ucraina da parte del regime di Mosca, un atto di aggressione contrario al diritto internazionale e alla Carta delle Nazioni Unite.

 Il principale obiettivo del sostegno alla resistenza ucraina è stato quello di aprire la strada a un negoziato equo, sempre nella ferma convinzione che una pace giusta e duratura, come richiesto dal Papa Francesco e da “Antonio Guterres”, e come definito dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite”, non è la stessa cosa della distruzione di un paese e della repressione del suo popolo.

Ora, l’Europa deve guidare un nuovo sforzo diplomatico in linea con le aspirazioni della cittadinanza ucraina.

Allo stesso tempo, è necessario rafforzare l’aiuto umanitario e ideare un piano di ricostruzione del paese basato su aiuti e non su prestiti, che tenga conto del benessere del popolo ucraino e non dei profitti delle grandi multinazionali.

L’Europa deve anche essere la promotrice di una diversa architettura internazionale, poiché quella attuale si è dimostrata incapace di gestire la complessità del mondo contemporaneo, con la costruzione di un multilateralismo democratico e di una autonomia strategica a servizio della cittadinanza europea e non degli equilibri dell’industria bellica del continente.

La cittadinanza europea non deve né può affidarsi a oltranza alle garanzie di sicurezza statunitensi.

 Ha bisogno, abbiamo bisogno, di una lettura autonoma del mondo. Finché dipendiamo dagli Stati Uniti per la nostra sicurezza, non avremo l’autonomia per decidere e organizzare il nostro ruolo in relazione, ad esempio, alla Cina.

Questo va oltre la possibile rielezione di Donald Trump nel 2024: l’ex presidente rappresenta una corrente politica di fondo, contraria alle alleanze stabili, che potrebbe produrre altri candidati e altri presidenti in futuro.

Abbiamo bisogno di spostare queste responsabilità da una NATO instabile a uno spazio europeo di sicurezza che sia soggetto a controllo democratico, che sviluppi le garanzie derivanti dall’articolo 42(7) del TUE e che tuteli la tranquillità – militare, sociale ed ambientale – degli europei e delle europee.

Questa autonomia strategica al servizio della gente deve essere sviluppata nelle sue tre dimensioni: capacità, industria e processo decisionale.

Uno sforzo focalizzato solo sull’aumento delle capacità non sarebbe altro che un aumento dei contributi all’Alleanza Atlantica.

Senza un’industria propria non è possibile prendere decisioni che non godano del beneplacito di paesi terzi.

Senza condivisione delle decisioni non è possibile una vera emancipazione strategica dell’Europa.

Per questo, non abbiamo bisogno di spendere di più per la difesa. Al contrario, abbiamo bisogno di una maggiore coordinazione nella spesa, di programmi condivisi di acquisto e investimento.

Le difficoltà politiche e burocratiche sono grandi, ma le alternative sono peggiori:

dipendere da chi non si vuole e non si può dipendere, ipotecare la volontà democratica della cittadinanza europea al confronto tra Stati Uniti e Cina, alle decisioni che gli altri prendono per noi.

(YOLANDA DIAZ)

 

Così, in un contesto globale di crisi che si sovrappongono, l’Europa deve ridurre il divario tra politiche e pratiche, tra parole e fatti.

 Nella situazione attuale di deglobalizzazione, deve promuovere un nuovo multilateralismo democratico in cui abbia voce propria e una lettura autonoma del mondo.

Con questo obiettivo, deve aumentare le proprie competenze in materia di politica estera.

Il “nuovo multilateralismo democratico” deve tradursi in una relazione diversa con le altre regioni del mondo, una relazione che valuti criticamente ed onestamente gli errori del passato, e sia pronta a creare legami basati sui diritti umani.

 È necessario rinnovare i legami con l’“America Latina” per promuovere agende progressiste condivise, così come con il “Maghreb,” lasciando alle spalle la strumentalizzazione delle migrazioni e l’asimmetria di potere nelle due sponde del Mediterraneo.

 Allo stesso tempo, l’Unione europea ha l’opportunità di dare una svolta alla propria politica commerciale, affinché gli accordi commerciali contribuiscano all’attuazione dell’”Accordo di Parigi” o alla ratifica degli standard dell’OIL in tutto il mondo, favorendo, finalmente, una ri-direzionamento sociale e climaticamente giusto delle attuali crisi.

 

L’europeismo trasformatore ha bisogno inoltre che gli spazi progressisti, nel senso ampio del termine, prendano coscienza del loro carattere di blocco storico.

Abbiamo il dovere, ora sì, di costruire, gradualmente, un nuovo movimento politico su scala europea e a vocazione trasversale, che unisca e entusiasmi verdi, sinistre e progressisti di diverse tradizioni e provenienze.

C’è bisogno di trovare un terreno comune tra i femminismi, i movimenti cittadini e il mondo sindacale, per articolare ampi blocchi e consensi che sostengano la trasformazione dell’Europa in chiave ecologica e sociale.

Dobbiamo riuscire a convertire l’impulso euro-critico in vocazione trasformativa.

Solo l’estrema destra ha avuto un certo successo nella costruzione di un soggetto politico su scala continentale, un’internazionale reazionaria che, nonostante le sue differenze interne e la sua divisione in diverse famiglie, è percepita come un blocco compatto e produce effetti concreti, sempre a discapito delle classi popolari, delle donne, delle persone migranti e della comunità “LGTB”.

Ci troviamo di fronte a un cambiamento di epoca, non una semplice epoca di cambiamenti, e non possiamo permetterci di esserne solo spettatori.

Da una situazione di crisi e cambiamento si esce meglio o peggio, mai allo stesso modo.

 La possibilità di progredire in senso positivo e femminista dipende dalla nostra capacità di costituirci come un blocco ampio e trasversale, come parte di quella internazionale democratica convocata dal presidente Lula.

Abbiamo bisogno di un nuovo soggetto per il quale l’Europa non rappresenti un problema o un’incertezza.

 Un blocco storico progressista che comprenda la portata delle sfide che la cittadinanza europea affronta, che capisca che le principali sfide, oggi, sono la cura della democrazia, la lotta contro la crisi climatica e la protezione dei lavoratori, e che per poterli affrontare in modo efficace, è necessaria un’azione congiunta consapevole e coordinata.

Sfide che non sono né di destra né di sinistra;

sono, semplicemente, di buon senso.

Le persone non ci chiedono di essere uguali, di smettere di pensare in modo diverso;

 ci chiedono di camminare insieme per poter progredire e migliorare il quotidiano delle persone.

 

In “The Triumph of Broken Promise”, “Fritz Bartel” sostiene che il modello del dopoguerra in Europa e negli Stati Uniti era quello di costruire promesse per i propri cittadini al fine di ampliare il contratto sociale.

Secondo la sua narrazione, la crisi petrolifera del 1973 rappresentò un punto di svolta, una rottura delle promesse fatte durante il boom economico durata fino ai giorni nostri.

 Abbiamo vissuto, durante tutti questi anni, nel mondo delle promesse spezzate.

Credo che il 2020 ci abbia offerto la possibilità di fare nuove promesse che possano essere mantenute, di costruire, grazie alla spinta dell’europeismo trasformatore, il nuovo contratto sociale europeo.

Abbiamo dato per scontato che la storia dell’Unione Europea fosse la storia delle sue crisi:

quella economica e finanziaria del 2008, quella fiscale del 2010, quella della Brexit nel 2016.

In realtà, la storia dell’Europa è definita dalla tensione tra crisi e speranza, e non è scritta a priori.

Dipenderà da noi indirizzare le energie dell’euroscetticismo verso la convinzione che un’altra Europa è possibile e necessaria.

 Un’Europa che protegga i lavoratori in tutta la loro pluralità e diversità è il miglior antidoto contro la doppia secessione che caratterizza il mondo contemporaneo:

quella delle élite, sempre più distaccate dai propri obblighi e dal coinvolgimento democratico, e quella della gente comune, che respinge una classe politica che le ha voltato le spalle.

Abbiamo dimostrato che c’è un modo diverso ed efficace di fare le cose. Ora vogliamo continuare a fare in Europa ciò che abbiamo iniziato in Spagna.

Siamo di fronte all’opportunità storica di unire le forze affinché la ricostruzione dell’Europa si avvicini alle esigenze della sua giovinezza e alla realtà delle donne europee e si allontani, una volta per tutte, dalla teologia dei tempi passati.

L’europeismo trasformatore si fa strada tra la promessa posticipata all’infinito e la rassegnazione accondiscendente, sapendo che ricostruire l’Europa significa dare stabilità alle sue maggioranze sociali, la sicurezza di un futuro possibile.

 Per proteggere i cittadini europei, bisogna proporre, ampliare e avanzare, perché essere europeisti, ieri e oggi, significa aspirare a trasformare l’Europa.

 

 

Una sinistra compiacente

 e un’Europa fittizia.

    Numeripari.org - Fernando Luengo - ADMIN2 – (15 GIUGNO 2023) – ci dicono:

 

“La buona sinistra” preferisce guardare dall’altra parte mentre l’Europa continua ad alimentare “disparità strutturali”

Benissimo, noi siamo europeisti. Al massimo, incondizionato. Abbasso il pessimismo e i disfattisti che lo alimentano!

Sebbene le disparità strutturali -produttive, tecnologiche, commerciali- siano aumentate, soprattutto dopo l’introduzione dell”’Unione Economica e Monetaria”, lasciando lettera morta l’obiettivo della convergenza, che dava tutta la sua giustificazione al “progetto europeo”.

Non importa che, allo stesso modo, le disuguaglianze e la polarizzazione sociale, l’impoverimento di ampie fasce della popolazione e l’eccessivo arricchimento delle élite siano cresciute anche in questa Europa che, retoricamente, pretende di essere un progetto al servizio dei cittadini.

Né importa troppo che le istituzioni comunitarie abbiano stanziato ingenti risorse finanziarie alle grandi banche e multinazionali, sia per salvarle sia per offrire loro lussureggianti opportunità di business.

Nessuna importanza per un’Europa che, nonostante tutto il clamore che la circonda, pur riconoscendo (anche retoricamente) che viviamo una situazione critica, pur etichettandosi con il colore verde, continua a favorire nei fatti il business dei fossili, mobilitandosi in quella direzione grandi quantità di risorse.

Non guardiamo a quell’Europa che, piena di cinismo, accoglie con generosità la popolazione di profughi provenienti dall’Ucraina, nello stesso tempo che, violando tutti i trattati internazionali, persevera nel costruire muri contro i migranti di altre regioni in fuga da guerre, carestie e le conseguenze devastanti del cambiamento climatico (di cui sono in gran parte responsabili i paesi ricchi e i ricchi di tutti i paesi).

Certo, non diamo importanza a questa Europa che firma e promuove trattati internazionali di commercio e investimenti che, oltre ad avere gravissime conseguenze in materia ambientale, riducono la sovranità dei popoli e degli Stati, aumentando il potere delle imprese transnazionali.

Trascuriamo il fatto che l’Europa (nonostante abbia avuto una fantastica opportunità con lo scoppio della pandemia e lo scoppio della guerra di condurre una politica di solidarietà verso i Paesi del Sud del mondo) si sia arresa alla strategia di umiliazione e saccheggio imposta da grandi aziende e istituzioni finanziarie internazionali.

Non ripariamo questa Europa che, invece di guidare un’iniziativa a favore della fine della guerra in Ucraina, ha abbracciato, da studentessa eccezionale, la politica di guerra degli Stati Uniti e dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). il budget dedicato al complesso militare-industriale è notevolmente aumentato.

Trascuriamo che questa Europa minaccia di tornare a politiche di austerità in materia di bilancio e salariale (queste ultime mai veramente abbandonate) che, come è noto, hanno contribuito all’arricchimento delle élite, ostacolato il funzionamento dell’attività economica e ebbe gravi conseguenze per le classi popolari (ne abbiamo l’esempio migliore nel crollo della sanità pubblica).

Niente di tutto questo sembra importare molto alla buona sinistra, che preferisce guardare in un’altra direzione, per costruire una realtà parallela, quella di un’Europa che, ci racconta questa storia, nonostante tutte le difficoltà, avanza nella solidarietà, colmando le lacune. 

Nasce così un discorso intriso di luoghi comuni, una finzione che, certo, fa piacere a chi è al potere, ma che alza una fitta cortina fumogena sull’Europa realmente esistente e, cosa più importante, impedisce di vedere l’entità delle sfide da affrontare volte a rimettere in piedi un’altra Europa.

 

 

 

 

Resilienza. La nuova parola

per indicare la sottomissione.

Adhoc news.it - NICCOLÒ NESI – (30 Gennaio 2022) – ci dice:

 

Fino al 2020 nessuno di noi conosceva il significato della parola “resilienza”.

 O almeno solo in pochissimi.

 Adesso invece sta venendo utilizzata spesso, troppo spesso.

E le cose non vengono fatte mai per caso.

Il significato del dizionario indica nella resilienza “la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà.”

In parole povere il sapersi adattare, essere plastici.

Saper affrontare le difficoltà modificando il proprio modo di vivere.

Potrebbe sembrare una cosa buona, ma a me fa molta paura.

 I cambiamenti delle masse non avvengono mai in modo traumatico, ma per gradi.

Senza farsene accorgere.

Deve essere una modifica che nemmeno si debba avvertire.

L’imposizione forzata di una linea di pensiero può portare modifiche nell’immediato.

 È la paura istintiva che sottomette l’uomo.

Ma con l’andare avanti del tempo si ha una reazione uguale e contraria. È anche una legge fisica.

Si ha la resistenza.

L’annichilimento della volontà collettiva richiede tempo perché questo possa perdurare.

 La chiamano resilienza in termine molto edulcorato.

Ma la vedo come una vera e propria sottomissione.

 E lo strumento utilizzato è sottile, reale, ma diabolico.

Siamo davanti a un virus subdolo come tutti i virus.

 Perché c’è ma non si vede.

E allora approfittiamone e portiamo la popolazione ad uno stato di sottomissione.

Con l’arma più potente che esista: la paura.

La paura di un qualcosa di invisibile e che mina la nostra salute.

Chiamiamo questa sottomissione resilienza, altrimenti succede la rivoluzione.

 E visto che ci siamo infiliamola anche nel piano di risanamento della nazione.

 Il PNRR: Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

Piano Nazionale di Ripresa e Resistenza.

Questa avrebbe dovuto essere la sigla corretta.

Resistenza:

perché bisogna resistere alla situazione economico/sanitaria attuale. Non dobbiamo adattarci.

 Dobbiamo fare in modo che tutto torni alla normalità di come eravamo abituati fono al 2019.

Siamo diventati parassiti di uno Stato parassita.

 Va avanti (e bene) solo chi ha la retribuzione garantita.

Si sta affossando la “libera imprenditoria”.

Non siamo più in lockdown, ma provate a fare un giro per le città di venerdì e sabato.

 Strade pressoché deserte. Ristoranti semi vuoti.

 Alberghi che non riaprono.

Eppure c’è una libertà pressoché totale.

Ma c’è tanta paura.

Il bombardamento sistematico dei virologi, aiutati dai media. Col beneplacito statale.

Siamo sotto un attacco gentile, ma inesorabile.

E noi ci adattiamo.

 Non reagiamo, ci uniformiamo.

Siamo così uniformati che ormai abbiamo perso anche le nostre sembianze.

 La mascherina ci fa essere tutti uguali.

 Numeri, greggi.

 La lenta degradazione dell’individualità. Ma le mascherine servono. Anzi vanno messe sempre.

E così vediamo persone da sole in macchina con la mascherina.

E lo sguardo vuoto e inespressivo della mucca che sta per andare al macello.

Resilienza, una parola dolce e dittatoriale.

Vi invito a leggere l’articolo di qualche giorno fa scritto da “Sandra Bianchini”: “Per il nostro bene”.

La paura e una rivoluzione industriale che ricorda un periodo drammatico.

(facebook.com/adhocnewsitalia).

 

 

 

 

 

 

Navalny-Assange: l’Occidente

Collettivo Sceglie il Primo!

 

Conoscenzealconfine.it – (25 Febbraio 2024) - Antonio Catalano – ci dice:

 

Venerdì 16 nell’arco di pochi minuti “stranamente” all’unisono ministri, primi ministri e presidenti dei vari paesi Nato, denunciano brutalmente la responsabilità russa per la morte di Navalny, celebrato come eroe e combattente per la libertà.

Questo a poche ore dalla conquista da parte dell’esercito russo dell’importante snodo di “Advivka,” che sancisce la grande difficoltà dell’esercito Nato-ucraino.

 Interessante a tal proposito la sconsolata testimonianza, riportata sulla “Verità” di oggi, del comandante ucraino “Nazar”, il quale ammette il grave stato di difficoltà in cui versano le truppe.

 L’inviato sul campo – il giornalista “Niccolò Celesti”, che intervista “Nazar “– non può fare a meno di scrivere che

“da quando siamo rientrati in Ucraina, qualche giorno fa, abbiamo trovato per la prima volta segnali diffusi di malcontento fra i soldati. Una sensazione generale di insicurezza e paura”.

Dubbio complottista: serviva deviare l’attenzione dalla grave situazione in Ucraina, che gli stessi commentatori occidentali non possono ignorare?

Ma, tornando a “Navalny”, torna utile leggere l’articolo “La mano di Londra sulla morte di Navalny” (forum.termometropolitico.it/858749-mano-londra-morte-navalny-2.html) del politologo statunitense ed esperto di Russia, Gilbert Doctorow.

“Doctorow” è convinto che la morte di” Navalny” serva a distrarre l’attenzione, per esempio è un “antidoto” al “grande colpaccio” rappresentato dall’intervista di “Carlson Tucker” con “Putin” appena una settimana fa.

Poi, dopo aver analizzato tutte le operazioni sotto falsa bandiera che sono state dirette dall’Occidente contro la Russia nell’ultimo decennio, “Doctorow” spiega perché il Regno Unito, fortemente impegnato in una guerra “non” così segreta contro la Russia (citando una serie di fatti), sia il principale indiziato nell’assassino di Navalny.

Una serie di circostanze rende improbabile che sia stata la Russia a orchestrare l’uccisione di Navalny (per i distratti: alle dipendenze dei servizi americani).

Ma più che altro, sorge spontanea la classica e semplice domanda “cui prodest?” (a chi giova?), cioè che tipo di beneficio avrebbe tratto Putin da questa eliminazione.

 I fatti dimostrano che della morte di Navalny sia il fronte Nato a trarne beneficio, almeno sul piano della propaganda.

Nel frattempo assistiamo invece al totale concertato silenzio sulla riunione dell’”Alta Corte britannica” per decidere sull’estradizione del fondatore di “Wikileaks” Julian Assange negli Usa, dove il giornalista australiano dovrebbe affrontare la grave accusa di spionaggio rischiando fino a 175 anni di carcere.

Da ricordare che Assange è in regime di stretto e feroce isolamento dall’11 aprile 2019 presso la prigione di sua maestà “Belmarsh”, chiamata la “Guantanamo inglese”.

I britannici detengono “Julian Assange” da cinque anni senza capo di imputazione, semplicemente perché lo vogliono gli americani, loro si giustificano dicendo che il giornalista australiano rivelando segreti di stato ha messo in pericolo – udite udite! – le operazioni delle democrazie occidentali.

Ma quali sono queste rivelazioni?

Assange pubblicò il 25 luglio 2010 su “Wikileaks” gli “Afghan War Diary”, i diari di guerra afghani, poi in ottobre gli “Iraq War Logs”, enormi quantità di rapporti che documentavano i crimini di guerra in Afghanistan e Iraq.

Ma la sua imperdonabile colpa è quella di aver svelato con i cablo tutta la corruzione dei governi, delle diplomazie, dei gruppi finanziari occidentali, e le mail private che mettono in luce la preparazione delle cosiddette primavere arabe, le rivolte in Siria e la distruzione della Libia (le mail della Clinton contengono le vere motivazioni per l’uccisione di Gheddafi: impedire la costruzione di una moneta africana per sganciarsi dal franco francese e dal dollaro).

 Assange ha in sostanza offerto le prove – come acutamente ha osservato “Francesco Toscano” – che quello che tutti chiamano complottismo è Storia.

Chiaro perché il “mondo libero”, che usa chiamare i suoi bombardamenti su popoli recalcitranti “umanitari”, non può perdonargliela a Julian Assange?

Lunedì sera alla fiaccolata per “Navalny” nella piazza del Campidoglio a Roma c’erano:

dal primo cittadino Roberto Gualtieri alla segretaria del Pd Elly Schlein, il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, Tommaso Foti e Lucio Malan di Fratelli d’Italia, una delegazione di Italia Viva guidata da Maria Elena Boschi, Carlo Calenda (il promotore) con il gruppo di Azione, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli per Alleanza Verdi-Sinistra, il leader della Cgil Maurizio Landini, quello della Cisl Luigi Sbarra, Pier Ferdinando Casini, i capigruppo in Camera e Senato del M5S Francesco Silvestri e Stefano Patuanelli, Paola Taverna e Virginia Raggi.

E ancora Giuseppe Provenzano e Filippo Sensi sempre per il Pd.

Ricordiamoci questi nomi, a futura memoria.

 Uno per uno, anche i cosiddetti pacifisti.

Patetici burattini della Nato, ci aizzano contro la Russia per difendere le “democrazie occidentali” che non si fanno scrupolo di commettere crimini nel mondo a difesa del privilegio di essere il “miliardo d’oro”.

E se scopri le carte, come ha fatto “Julian Assange”, te la fanno pagare cara.

Julian Assange libero!

(Antonio Catalano)

(ariannaeditrice.it/articoli/navalny-assange-l-occidente-collettivo-sceglie-il-primo).

L'obiettivo degli Usa (che nasce

molto prima di Trump) è

la sottomissione dell'Europa.

 Italiaoggi.it - Pierluigi Magnaschi – (6 -6-2017) – ci dice:

 

Agli Stati Uniti, noi europei dobbiamo una gratitudine infinita.

 Se non fossero intervenuti loro nella Seconda guerra mondiale (sacrificando decine di migliaia di loro giovani e immense risorse economiche: basti pensare che regalarono 100 mila aerei da guerra ai russi) l'Europa sarebbe stata quasi sicuramente nazificata.

 Però, come sempre capita nei rapporti fra i paesi, le ragioni ideali sono sempre avvolte negli interessi concreti.

 Non a caso gli Stati Uniti scesero in guerra dopo che il Giappone attaccò la flotta americana del Pacifico a Pearl Harbor.

 Quando cioè si rese conto che, anche se era a migliaia di chilometri dal teatro bellico europeo, era a portata della furia nippo-nazista. Intervenendo con gli alleati, salvò questi ultimi ma salvò anche sé stessa.

A dimostrazione che, fra i paesi, gli interessi cambiano con il passare tempo, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, l'Urss (da prezioso alleato degli Usa contro il nazismo) divenne immediatamente il nemico più pericoloso per l'Europa occidentale e, in prospettiva, anche per gli Usa.

 Da qui la necessità di costruire un bastione militare (la Nato) utilizzato per contrastare l'Urss e far così fronte, in condizioni di forza, alla Guerra fredda.

La “Nato”, fin dall'inizio, era un formidabile strumento militare dei molti stati ad essa aderenti ma, di fatto, era una possente forza offensiva a conduzione statunitense.

 Un particolare, questo, che avrebbe potuto essere fastidioso, ma che venne accolto senza fare una piega perché le nazioni dell'occidente europeo, allora impegnate nella ricostruzione, non avevano i mezzi per dotarsi di un'organizzazione militare in grado di fronteggiare l'Urss, diventata nel frattempo anche una potenza atomica.

Con il crollo del Muro di Berlino (avvenuto il 9 novembre 1989) e la successiva dissoluzione dell'Urss, cambia completamente lo scenario geopolitico e quindi anche la ragnatele degli interessi internazionali.

 Ma si sa che gli organismi burocratici tendono a sopravvivere al loro scopo fossero anche delle semplici municipalizzate.

Immaginarsi se non resiste alla sua dissoluzione (o anche solo al suo ridimensionamento) un ente come la “Nato” che è una struttura più forte anche degli stessi Stati Uniti.

 Di fatto, con l'implosione dell'Urss (che era il suo unico nemico) viene meno anche la ragione sociale della “Nato” che però, in base alla poc'anzi annunciata sopravvivenza degli enti pubblici, resta più che mai in piedi cercando di darsi nuovi compiti anche se è difficile trovarli.

La Nato sopravvive al suo nemico che, nel frattempo, è scomparso (l'Urss) per due tipi di interessi, opposti ma anche convergenti.

 Il primo è quello degli Usa che, grazie alla Nato, tengono al guinzaglio (apparentemente benevolo) l'intera Europa.

 Il secondo interesse è quello dell'Europa, che preferisce essere sollevata da gran parte delle spese della sua difesa senza rendersi conto che, in tal modo, mette il suo destino in mano di altri.

Cioè degli Usa.

La Nato è privata del suo antagonista perché l'Urss è diventato Russia, un paese che ha un pil pari a quello dell'Italia e che destina alla sua difesa una somma pari all'11% di quello degli Stati Uniti.

 Un nano, insomma, nella scala globale.

Bastano queste due cifre per capire che la Russia non è più un'antagonista credibile degli Usa ma è solo un paese di medio taglio che però non vuole farsi schiacciare dagli Usa.

 Non a caso questi ultimi volevano annettere l'Ucraina nella Nato. Un'operazione che sarebbe stata, come ha giustamente detto il pensatore americano “Noam Chomsky” (che non è certo filo-moscovita) come far entrare il Messico nell'ex Comecon.

E lo stesso Henry Kissinger ha ribadito che «l'Ucraina non può essere stiracchiata dalla Nato o dalla Russia perché è uno stato cuscinetto che appartiene ad entrambe le realtà».

Gli Stati Uniti del cosiddetto “pacifico Obama” organizzarono invece un golpe in Ucraina per sostituire con la forza e la manipolazione un premier legittimamente eletto (ma aperto anche alle ragioni della Russia) con un fantoccio a stelle e strisce.

 La reazione russa a questo golpe è stata descritta come un'aggressione della Russia all'Ucraina.

Era invece la reazione a una inaccettabile provocazione.

Da qui però le sanzioni economiche nei confronti della Russia che, oltre ad avvelenare anche i rapporti fino ad allora distesi dell'Europa con Mosca, sono state in gran parte pagate dalla Germania e dall'Italia e non dagli Usa.

L'attacco di Trump nei confronti della Merkel viene oggi descritto da tutti i media come l'espressione di un premier fracassone che non sa che cosa vuol fare e per di più lo fa male, senza alcun riguardo con nessuno.

Ma il suo predecessore, Obama, non fu da meno contro la Merkel.

Arrivò infatti a mettere sotto sorveglianza anche il telefono cellulare del

premier tedesco.

Scoperto con le mani nella marmellata e richiesto dalla Merkel stessa di scusarsi (avrebbe potuto dare la colpa a dei servizi che gli erano sfuggiti di mano) Obama, pur ammettendo lo spionaggio a danno di una sua alleata così importante e affidabile, non volle mai scusarsi.

Da qui (anche se dell'episodio i media non fecero mai cenno, privando così a pubblica opinione di elementi per capire come stanno le cose) da qui, dicevo, la decisione del governo tedesco di far sorvolare dagli elicotteri militari tedeschi l'ambasciata americana di Berlino alla ricerca, si disse, degli strumenti di spionaggio.

Lo scontro degli Usa contro la Merkel non è quindi di oggi (dopo il vertice di Taormina) ma risale nel tempo.

È infatti dovuto al fatto che la Germania è diventato il paese guida dell'Europa e quindi, se si vuol tenere alla briglia l'Europa, bisogna tenere a bada e possibilmente domare Berlino.

 Ma perché tenere a bada l'Europa?

Perché gli Usa (non solo Obama ieri o Trump oggi) temono l'integrazione (per il momento solo economica ma poi non si sa) fra le Ue e la Russia che sono due realtà economiche non solo vicine ma anche assolutamente complementari.

L'Europa infatti dispone di conoscenze industriali, tecnologiche, finanziarie, logistiche.

La Russia dispone di immensi giacimenti di petrolio e di gas.

Ma gli Usa (che sono rassegnati al bipolarismo con la Cina; ormai non ci possono fare niente) vogliono evitare il tripolarismo con l'Eurasia (Ue più la Russia).

Infatti col tripolarismo (Usa, Cina e Eurasia) è sempre possibile che due entità (poniamo Cina e Eurasia) si coalizzino contro la terza (gli Usa) depotenziandola.

 Ma, come vedremo, anche questo è un discorso possibile ma anche superato.

(Pierluigi Magnaschi)

 

 

 

LA PAURA DI NON FARCELA.

Psicologo-online24.it – dott. Davide Caricchi – (29 -1-2024) – ci dice:

Nell’ambito della psicologia clinica, per lo psicologo e lo psicologo online è molto importante esplorare in seduta l’esperienza universale della paura di non farcela, un sentimento che può emergere in molteplici aspetti della vita quotidiana e che in ogni individuo, in base alla sua struttura di personalità, può manifestarsi in diverse sfaccettature e con svariati livelli di intensità.

Questo sentimento può presentarsi in numerosi contesti, come il lavoro, lo studio, le relazioni interpersonali, la gestione della salute. Specialmente dopo aver affrontato eventi dolorosi o di notevole impatto emotivo, come lutti e separazioni, cambiamenti importanti, questo vissuto può impattare in maniera invalidante sulla gestione della vita quotidiana. È un’esperienza comune a tutti gli individui, indipendentemente dalla loro storia personale o dal contesto socio-culturale in cui vivono.

PAURA DI NON FARCELA: CHE COS’E’?

Nel corso della vita di ogni persona si presentano inevitabilmente momenti di sfida, insuccessi e perdite. Questi momenti sono universali e ineludibili. Tuttavia, la reazione delle persone a tali circostanze può variare grandemente. Di fronte a queste difficoltà gli individui tendono a “dividersi” in due distinti gruppi: ci sono coloro che si sentono sopraffatti e soccombono sotto il peso delle circostanze e poi ci sono coloro che, nonostante la paura di non farcela, trovano la forza di rialzarsi e continuare il loro cammino.

In entrambi i casi la paura di non farcela è una componente comune ma ciò che realmente distingue questi due gruppi è il modo in cui gestiscono tale paura. Le esperienze di vita di un individuo e le sue reazioni passate a queste esperienze giocano un ruolo fondamentale in questa distinzione. Ad esempio, una serie di fallimenti può influenzare profondamente l’approccio di una persona alle sfide future. Analogamente, le esperienze vissute durante l’infanzia e, in particolare, lo stile educativo adottato dai genitori, possono avere un impatto significativo. Ricevere messaggi ripetuti che alimentano la paura di non farcela, come “Non ce la farai mai”, oppure, al contrario, messaggi incoraggianti come “Sono certo che ce la farai”, può creare una differenza sostanziale nella resilienza e nella capacità di un individuo di affrontare le sfide future.

Tuttavia c’è un elemento incoraggiante in questo scenario: la capacità umana di apprendimento e adattamento è continua. Le ricerche nel campo delle neuroscienze hanno dimostrato che il nostro cervello non è statico ma in grado di apprendere e adattarsi per tutta la durata della nostra vita. Questo significa che, indipendentemente dalle esperienze passate e dalla paura di non farcela che queste possono aver generato, abbiamo la capacità di sviluppare nuove strategie e approcci per affrontare le sfide superando le limitazioni imposte dalle nostre esperienze precedenti.

In definitiva, la paura di non farcela può essere affrontata e superata attraverso l’apprendimento continuo e l’adattamento permettendoci di crescere e svilupparci nel corso della vita.

 

Nonostante la sua universalità, l’elemento distintivo non risiede tanto nel verificarsi di queste situazioni di paura e incertezza, quanto piuttosto nella modalità con cui l’individuo sceglie di affrontarle. La capacità di gestire e rispondere a tali sentimenti di paura rappresenta un punto di svolta cruciale. Le scelte che facciamo in risposta a queste paure, le strategie di coping che adottiamo, possono avere un impatto significativo sul nostro benessere psicologico e sulla nostra capacità di progredire nella vita.

Dal punto di vista della psicologia clinica, è importante riconoscere che, sebbene non abbiamo il controllo sugli eventi esterni che si verificano nella nostra vita né sulle emozioni immediate che questi eventi possono suscitare, possediamo comunque un certo grado di controllo sul modo in cui scegliamo di reagire a queste circostanze. Questa prospettiva enfatizza l’importanza dell’autodeterminazione e della resilienza nell’affrontare le sfide della vita. Siamo, in un certo senso, gli “architetti” del nostro destino e possiamo scegliere di vivere piuttosto che sopravvivere affrontando la paura di non farcela e le varie sfide che la vita ci pone davanti. Questa scelta attiva sul come reagire e gestire le nostre paure è fondamentale per il nostro sviluppo personale e per il nostro benessere emotivo.

AFFRONTARE LA PAURA DI NON FARCELA.

Soffermandoci sul come affrontare la paura di non farcela, è fondamentale riconoscere che ogni individuo, senza eccezione, si trova di fronte a situazioni che lo mettono alla prova creando sfide sia di natura negativa che positiva. Queste situazioni possono variare ampiamente e includere momenti difficili, dolore, problemi o circostanze che richiedono un lavoro interiore alquanto importante. La comparsa di queste sfide nella vita di una persona può suscitare una sensazione di timore, incertezza e insicurezza, condizione radicata nella preoccupazione di non essere adeguatamente “equipaggiati” per affrontare tali sfide, o nella paura di non possedere la forza necessaria per superare tali momenti critici.

Tuttavia è di cruciale importanza sottolineare che la differenza significativa non risiede nella presenza stessa di questa paura ma piuttosto nella scelta dell’individuo di come rispondere a tale paura. Ciò implica una decisione conscia tra due percorsi distinti: uno in cui la persona si lascia sopraffare dalla paura consentendo che questa domini e influenzi negativamente il suo comportamento e la sua prospettiva di vita, e l’altro in cui la persona decide di affrontare attivamente la situazione utilizzando la paura come catalizzatore per la crescita personale e il superamento delle sfide.

Questa distinzione non implica che un gruppo provi meno paura di un altro. Al contrario, entrambi i gruppi possono sperimentare livelli simili di paura e ansia. La differenza fondamentale sta nella scelta di sviluppare e utilizzare gli strumenti necessari per gestire e rispondere a questa paura. Questo processo include l’apprendimento di strategie per gestire efficacemente la paura, l’adattamento a circostanze difficili e lo sviluppo di una maggiore resilienza. In ultima analisi, si tratta di una scelta di essere più forti della paura stessa, di imparare da essa e di utilizzarla come mezzo per progredire e crescere sul proprio cammino personale e di vita.

PAURA DI NON FARCELA E AUTOSTIMA.

Nel contesto di una riflessione approfondita sul tema della paura di non farcela, è essenziale considerare il ruolo che l’autostima gioca in questa dinamica. Molto spesso, la paura di non farcela si origina da una carenza o da una percezione negativamente distorta della propria autostima. Questa paura di non farcela non è necessariamente legata alla grandezza o alla difficoltà dell’ostacolo che si presenta davanti a noi ma è più profondamente radicata in una generale tendenza a sottovalutare le proprie capacità e potenzialità. In altre parole, una bassa autostima porta ad una costante sfiducia nelle proprie abilità che si manifesta come una paura di non farcela che può emergere quasi sistematicamente in varie situazioni.

In questo scenario diventa cruciale sottolineare l’importanza di coltivare l’autostima come strumento per contrastare la paura di non farcela. Questo processo implica l’evitare di essere eccessivamente critici e duri con se stessi. Spesso una visione negativa di se stessi può portare ad una distorsione della realtà dove si tende a vedere gli eventi in una luce negativa rafforzando la paura di non farcela. È fondamentale, quindi, imparare a valutare le situazioni in modo equilibrato riconoscendo i propri successi e capacità.

Riconoscere e celebrare i propri successi è un elemento chiave nel rinforzare l’autostima e nel ridurre la paura di non farcela. Ogni successo, piccolo o grande, contribuisce a costruire una visione più positiva di se stessi e delle proprie competenze. Inoltre questo aiuta a sviluppare una percezione più realistica delle proprie capacità contrastando così la tendenza a sottovalutarsi che alimenta la paura di non farcela.

In sintesi, attraverso la graduale costruzione e il relativo consolidamento di un’autostima sana e equilibrata è possibile ridurre significativamente l’impatto e la frequenza della paura di non farcela aprendo la strada ad un approccio più positivo e proattivo di fronte alle sfide della vita.

L’IMPORTANZA DI USCIRE DAL “CIRCOLO VIZIOSO” DELL’ISOLAMENTO.

Dal punto di vista psicologico, il fenomeno della bassa autostima può avere un impatto profondo e complesso sul benessere di un individuo. Una persona che soffre di scarsa autostima non solo si trova in difficoltà nel vivere pienamente e nel gestire le problematiche quotidiane ma spesso si ritrova anche a dover affrontare la paura di non farcela. Questa paura di non farcela può portare ad una serie di comportamenti che causano isolamento sociale dovuti alla convinzione errata di avere qualcosa di intrinsecamente sbagliato che necessita di essere nascosto.

Questo isolamento sociale può avere molteplici conseguenze negative, tra cui sensazioni di solitudine, emarginazione e frustrazione che possono culminare in una condizione di vera e propria depressione. Tali stati emotivi non solo impattano la qualità della vita dell’individuo ma possono anche avere effetti nocivi sulla sua salute fisica. È ampiamente riconosciuto che la qualità delle relazioni interpersonali gioca un ruolo significativo sulla qualità della vita e sulla salute di una persona.

L’isolamento e la paura di non farcela possono anche portare a problemi quali insonnia, ansia e calo del tono dell’umore, che a loro volta possono esacerbare la ricerca di gratificazioni immediate attraverso comportamenti poco salutari, come l’eccessivo consumo di cibo, alcol o tabacco. Questi comportamenti possono innescare una spirale negativa aumentando considerevolmente i livelli di stress e aggravando la paura di non farcela.

Può esserci tuttavia una via d’uscita da questo circolo vizioso! Diventare più obiettivi e distaccati nei propri confronti permette di scoprire risorse e capacità nascoste che possono rimanere inesplorate a causa delle insicurezze e della paura di non farcela. Questa scoperta può portare ad un miglioramento dell’autostima che a sua volta fornisce il coraggio necessario per agire. Man mano che una persona inizia a intraprendere azioni positive, queste iniziano a darle una sensazione di realizzazione creando un circolo virtuoso che aumenta la fiducia in sé stessi. Di conseguenza si verifica una diminuzione della percezione di stress e un incremento del senso di controllo sulla propria vita mitigando la paura di non farcela. Questo processo può portare ad una serie di benefici che influenzano positivamente sia la salute mentale che quella fisica riducendo significativamente la paura di non farcela e migliorando la qualità generale della vita.

PAURA DI NON FARCELA: L’IMPORTANZA DELLE RELAZIONI.

In un’analisi approfondita della paura di non farcela, emerge con chiarezza il legame tra questa paura e il fenomeno della solitudine. La paura di non farcela, infatti, è spesso accompagnata e intensificata da un senso di isolamento e solitudine. Coloro che soffrono di bassa autostima non solo si trovano a confrontarsi con la persistente paura di non farcela ma tendono anche a ritirarsi in se stessi, intrappolati nel convincimento di essere in qualche modo sbagliati o di aver commesso errori tali da dover essere nascosti agli altri. Questo ritiro sociale, questa tendenza all’isolamento, è un comportamento altamente nocivo che alla lunga genera notevoli sofferenze.

Il primo motivo per evitare questa “reclusione auto-imposta” è che, in realtà, non esiste alcuna giustificazione valida per tale comportamento. Non è vero che gli individui siano intrinsecamente sbagliati o che abbiano commesso errori irrimediabili.

Il secondo motivo risiede nel riconoscimento che la qualità della nostra vita è intrinsecamente connessa alla qualità delle nostre relazioni interpersonali. Essere in compagnia di altri, permettersi di chiedere aiuto e riceverlo, può avere un impatto enormemente positivo. La presenza di supporto sociale riduce lo stress, l’ansia e le emozioni negative, e allo stesso tempo attenua la sensazione di non essere adeguati. Inoltre, migliora l’umore, la percezione di sé e dona il coraggio necessario per affrontare le sfide.

La presenza di relazioni positive agisce direttamente sull’autostima fornendo gli strumenti e il sostegno necessario per superare la paura di non farcela. In questo contesto, le relazioni diventano un pilastro fondamentale non solo per una vita di qualità ma anche come mezzo per affrontare e superare la paura di non farcela. Quando si è supportati e circondati da persone che ci comprendono e ci sostengono la paura di non farcela può essere gradualmente ridotta permettendo così di proseguire con maggiore fiducia nel proprio percorso di vita.

BUONE ABITUDINI CHE POSSONO CONTRASTARE QUESTA PAURA.

Affrontare la paura di non farcela può sembrare un processo esclusivamente mentale ma in realtà esiste un collegamento profondo tra il benessere fisico e la capacità di gestire tale paura. Curiosamente, ma forse non troppo, la gestione della salute mentale e, in particolare, la paura di non farcela, può essere efficacemente supportata da una base di abitudini salutari che migliorano il benessere fisico.

L’alimentazione svolge un ruolo cruciale in questo contesto influenzando non solo la nostra salute fisica ma anche quella mentale. Quando si affronta la paura di non farcela, ciò che mangiamo può avere un impatto significativo contribuendo a rafforzarci e a renderci più propositivi.

Adottare un regime alimentare equilibrato e sano è un atto di cura verso sé stessi che si traduce in un miglioramento dell’autostima. Una dieta bilanciata, che include tutti i macronutrienti necessari, agisce come un mitigatore dello stress offrendo un supporto concreto al benessere emotivo. Questo approccio alimentare non solo nutre il corpo ma fornisce anche le risorse mentali per affrontare la paura di non farcela.

Un altro elemento fondamentale nel gestire la paura di non farcela è l’attività fisica. Lo sport agisce come un potente catalizzatore di benessere e fiducia in sé stessi. Praticare sport, a qualsiasi livello, implica mettersi alla prova, accettare sfide e, in tal modo, favorire il superamento della paura di non farcela in un contesto protetto e favorevole. L’attività fisica beneficia sia il corpo che la mente in numerosi modi contribuendo ad una salute mentale e fisica più robusta.

In conclusione, una combinazione di alimentazione sana e attività fisica crea una fondamentale sinergia per il benessere complessivo. Un corpo e una mente in salute sono meglio attrezzati per affrontare tutto, compresa la paura di non farcela. Questo approccio consente di osservare la paura con maggiore chiarezza, superarla con passo deciso e nutrire una fiducia rinnovata in sé stessi e nel futuro.

 

 

 

Prigioniera israeliana: “Trattati

con dignità e umanità da Hamas.”

Ilfarosulmondo.it – Redazione – (29-11-2023) – ci dice:

Lettera di “Danielle Aloni” ai combattenti di Hamas.

Una donna israeliana tenuta prigioniera dal “movimento di Resistenza di Hamas” ha espresso la sua sincera gratitudine ai combattenti palestinesi per la loro umanità e per il trattamento dignitoso riservato a lei e a sua figlia.

Danielle Aloni” e sua figlia di cinque anni sono state tra il primo gruppo di prigionieri israeliani ad essere rilasciati da Hamas lo scorso venerdì.

In una lettera scritta il 23 novembre, appena un giorno prima del loro rilascio, “Danielle “afferma che sua figlia Emilia è stata trattata con estrema cura.

Grazie per le tante ore che avete trascorso come operatori sanitari”, si legge nella lettera, rilasciata prima dai media palestinesi e poi diventata virale sui social.

“Vorrei ringraziare dal profondo del cuore gli ufficiali della Resistenza per l’umanità inimmaginabile che hanno espresso nei confronti di mia figlia Emilia.

 Siete stati come dei genitori.

Stiamo lasciando questo posto con la sensazione che siete tutti nostri amici, ma davvero buoni amici”, ha dichiarato la donna israeliana.

“Ricorderò per sempre il buon trattamento che abbiamo ricevuto qui nonostante la difficile situazione che stavate affrontando e le gravi perdite che avete vissuto qui a Gaza”, ha scritto “Danielle”.

“Desidero un mondo migliore in cui potremmo essere davvero buoni amici.

 Auguro a tutti voi buona salute e amore per voi e per i vostri familiari”, ha aggiunto la donna israeliana, concludendo la sua lettera con “Shukran Kteer”, un termine arabo che significa “Grazie mille”.

La lettera scritta da “Danielle Aloni “riflette l’umanità dei combattenti della Resistenza palestinese nei confronti dei prigionieri israeliani.

D’altro canto, i prigionieri palestinesi rilasciati negli ultimi quattro giorni, come parte dell’”accordo di scambio tra Hamas e il regime israeliano”, hanno riferito di essere stati sottoposti a brutali torture da parte delle forze di occupazione.

 

 

 

La crudeltà dei soldati russi

raccontata da chi è stata

nelle loro mani.

 

 Linkiesta.it - Massimiliano Coccia – (27-5 -2023) – ci dice:

Yulia Paievska è un paramedico ucraino, ha vinto il premio Sakharov 2022 e la sua storia spiega la brutalità dell’esercito di Mosca:

era stata catturata e imprigionata, poi liberata grazie a una mobilitazione internazionale.

Sarà ospite venerdì 16 giugno all’evento organizzato da “Linkiesta” e “Il Parlamento europeo” a Napoli.

Yulia Paievska è soprannominata “Taira”, ha uno sguardo appuntito e dolce, un giubbotto pieno di distintivi, le braccia disseminate di tatuaggi.

 Il suo corpo sembra un tributo vivo alla resistenza, una sorta di perenne monito che si può toccare il punto più basso in qualsiasi momento della storia.

“Taira”, paramedico ucraino, usò una telecamera corporea per registrare l’operato della sua unità di soccorso durante l’assedio di Mariupol, successivamente è stata imprigionata dalle formazioni russe e poi liberata dopo una mobilitazione internazionale.

 Insignita del “premio Sakharov 2022”, è forse con la sua storia la migliore rappresentazione di come il popolo ucraino vive la guerra di invasione, su come ogni storia sia la storia di un corpo e di una lotta.

“Taira”, lei ha scelto questo soprannome da un personaggio del videogame “World of Warcraft” che ha nella grazia e nella speranza le sue caratteristiche fondative, è una guerriera che non perde l’umanità.

Dopo una prigionia durissima riesce a conservare come l’eroina del videogame questi valori?

Cosa ha significato per lei?

Non si può immaginare cosa significhi fare questa esperienza, essere nelle mani della Russia è talmente letale che genera rimozione perché il nostro cervello si rifiuta di credere in qualcosa di così orribile.

 Perché è nella natura delle persone non credere alla disumanità, alla tortura, alla fame e alla sete.

Quando una prigioniera come me sopravvive alle torture può scattare un meccanismo di difesa mentale che arriva a scusare anche la Russia. Non è stato il mio caso perché avevo ben chiaro cosa stava accadendo, come e perché.

In Italia i crimini di guerra russi sono sminuiti da molti media, da molti intellettuali e giornalisti.

Amo molto l’Italia, riesco a sentire l’animo italiano, e voglio che il popolo italiano comprenda cosa significa essere nelle mani dei russi.

Ad esempio cercate di immaginare che tutto ciò che avete ritenuto prezioso per voi stessi, che avete amato, venga improvvisamente disintegrato, ogni singolo istante della vostra vita stravolto.

 Anche i valori su cui avete poggiato la vostra esistenza sono esposti al pubblico ludibrio e distorte dal nemico.

La tortura è fisica e mentale.

Non è valso a nulla il suo essere un paramedico quindi?

No, anzi.

Durante tutti gli otto anni in cui sono stata sul campo di battaglia, il mio dovere professionale era salvare le vite delle persone, degli ucraini e dei russi, e ho cercato di fare del mio meglio per salvarli, non ho mai nemmeno immaginato di far loro del male e so che ogni medico che conosco farebbe lo stesso.

 Sono sempre stata molto orgogliosa di questo comportamento mostrato dai miei colleghi, dimostra quanto sia nobile il nostro lavoro.

Quando sono stata arrestata e imprigionata, io e altri medici siamo stati accusati di cose orribili come il traffico di organi, la tortura, il non aver prestato assistenza medica ai russi.

 Immaginate, tutto ciò per cui ti sei tanto prodigato nella realtà viene completamente distorto tramite bugie.

L’elemento peggiore è che non hanno nemmeno cercato di trovare le prove di queste azioni.

Quello che hanno fatto è stato torturarti, torturarti per spingerti a fare una confessione su qualcosa che non hai mai commesso.

 Vieni filmato mentre ti torturano con sadismo.

Una modalità che affonda le radici nel nazismo, sembra di ascoltare le testimonianze dei prigionieri politici di Via Tasso.

Credo che sia qualcosa che proviene addirittura dal Medioevo, perché quello che ho subito l’ho letto solo nei libri di storia.

Usano scariche elettriche, ferri e botte.

 Per farvi capire io, come molti, ero in una struttura prettamente dedicata alle torture e questa è la normalità, non l’eccezione.

Come vive un prigioniero dopo la liberazione?

I prigionieri liberati, anche dopo un anno, si trovano in condizioni orribili, davvero orribili e la riabilitazione fisica e psicologica richiede moltissimo tempo.

 Ho visto torturare donne e persino bambini, puoi immaginare?

I russi credono di poter fare quello che vogliono perché il mondo è rimasto in silenzio per troppo tempo.

 Ad esempio, hanno preso i medici come ostaggi e i medici secondo il diritto internazionale non possono essere imprigionati.

Le persone che salvano vite attraverso il loro dovere che vengono definite criminali.

Dialogare con lei è importante, però lascia un senso di impotenza lo confesso.

 Cosa può fare l’opinione pubblica europea per questa situazione?

Vi chiedo di fare un appello specifico sui civili detenuti illegalmente che sono trattenuti senza accesso ad alcun sostegno internazionale.

 Il “Comitato internazionale della Croce Rossa” non ha alcun impatto su questa situazione.

 Il problema dei bambini tenuti in cattività è tremendo, oltre l’orribile, perché le condizioni in cui versano sono peggiori di quelle degli schiavi.

(Yulia Paievska).

 

 

 

 

Terra sacra contesa da due popoli,

un sogno di pace tra vicini «inevitabili»

 

Avvenire.it - Bruno Forte – (24 febbraio 2024) – ci dice:

 

In Medio Oriente occorre superare le posizioni identitarie invocate da entrambe le parti per giustificare la guerra.

 Ai cristiani il ruolo di ponte.

  Sarà mai possibile una pace giusta e duratura in Terra Santa, dopo l’orribile attacco terroristico messo in atto da Hamas il 7 ottobre scorso e la risposta bellica del governo Netanyahu, che ha già prodotto quasi ventinovemila vittime fra i Palestinesi nella Striscia di Gaza?

Per rispondere a questa domanda mi sembra importante aver presente il testo di “Legge Fondamentale”, intitolato “Israele, Stato Nazione del Popolo ebraico», approvato dal Parlamento israeliano nel luglio 2018,

il cui primo articolo afferma: «La Terra di Israele è la patria storica del popolo ebraico, in cui lo Stato di Israele si è insediato.

 Lo Stato di Israele è la patria nazionale del popolo ebraico, in cui esercita il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all’autodeterminazione».

Viene poi sancito che Israele «vede lo sviluppo dell’insediamento ebraico come valore nazionale e agirà per incoraggiare e promuovere il suo consolidamento».

Con queste affermazioni si ribadisce l’intangibilità di ciò che attraverso la guerra d’indipendenza del 1948 e quella dei Sei giorni del 1967 Israele ha conquistato come territorio del suo Stato.

Rispetto a queste parole riserve e perplessità sono state espresse nello stesso mondo ebraico, come mostra la presa di distanza dell’allora presidente d’Israele “Reuven Rivlin” che, incontrando i leader della “minoranza drusa”, la più attiva contro la norma, non esitò a ribadire la sua contrarietà alla Legge, specialmente dove essa afferma che

 «il diritto di esercitare l’auto-determinazione nazionale nello Stato di Israele è un diritto esclusivo del popolo ebraico» e dove si riformula lo “status” della lingua araba, classificandola da “ufficiale” a “lingua a statuto speciale”.

Rivolgendosi poi a tutte le minoranze presenti nello Stato d’Israele, “Rivlin”, figlio di “Yosef Yoel Rivlin”, autore della prima traduzione del Corano in ebraico, aveva aggiunto:

«Non ho dubbi che voi siate uguali a noi da un punto di vista legale, e dobbiamo assicurarci che anche voi vi sentiate uguali».

Le scelte fatte dall’attuale governo di Israele sembrano muoversi in tutt’altra direzione rispetto alle osservazioni dell’allora presidente dello Stato ebraico:

 in nome delle sofferenze subite nel passato, dell’atrocità sperimentata con l’attacco di ottobre da parte di Hamas e delle tante lotte sostenute nella storia, a giustificazione della guerra in atto si ribadiscono posizioni dalla forte connotazione identitaria.

Peraltro, la contrapposizione delle identità in gioco è evocata dagli stessi termini usati per indicare la Terra d’Israele nel linguaggio delle tre fedi monoteistiche, che riconoscono in Abramo il loro padre comune:

gli Ebrei parlano di “Terra d’Israele”, “Terra promessa” o semplicemente di “Terra” (Eretz), accentuando il carattere identitario dell’espressione;

 i cristiani, sin dall’epoca di Costantino, usano l’appellativo “Terra Santa” per sottolinearne il significato universale per tutti i credenti delle “religioni del Libro”, riprendendo l’espressione usata dal profeta Zaccaria (2,16: admat ha-qodesh in ebraico);

per l’Islam, Gerusalemme e la roccia del sacrificio d’Isacco sulla spianata del Tempio sono il luogo benedetto da cui Maometto è asceso al cielo nel suo sogno profetico.

Si comprende, allora, come per i popoli che vi abitano il riferimento alla “Terra Santa” evochi l’inestricabile coniugazione di promesse e di attese, di speranze e di dolore a essa legate.

Scrivono due autori cristiani, uno francese, l’altro israeliano:

«Questa terra è la terra di Dio, ma allo stesso tempo è anche la terra degli uomini.

 È la terra dove “scorrono latte e miele”, ma è anche “una terra di lacrime e sangue”.

 È una terra affascinante per la sua storia umana e divina, attraente per la sua bellezza e la sua diversità, capace di ispirare i più bei canti mistici così come le violenze più sanguinarie» (Alain Marchadour - David Neuhaus, La Terra, la Bibbia e la storia, Jaca Book, Milano 2007, 22s).

 

Da questi accenni si può comprendere l’importanza di ciò che la “Terra Santa” viene a significare per l’avvenire degli ebrei e dei palestinesi e per la pace del mondo.

 La drammatica realtà che è oggi sotto i nostri occhi non può non rapportarsi a una constatazione di fondo:

gli ebrei hanno sofferto tanto e convivono ora con un popolo che tanto ha sofferto e soffre a causa loro.

Un cristiano di origine ebraica mi ha confidato una volta:

«Io non credo che ci sarà una soluzione, almeno fino al momento in cui i due popoli non riconosceranno ciascuno nell’altro una presenza permanente e ineliminabile.

 Non dico che debbano amarsi, ma devono entrambi non negare che l’altro faccia parte del suo presente.

Noi siamo lontanissimi da questo obiettivo».

Ha quindi aggiunto:

 «Il nemico più grande della pace e della giustizia in Terra Santa è la condizione in cui entrambi i popoli credono di potersi sopraffare.

Quest’atteggiamento è il più feroce nemico della pace:

dal desiderio di vincere l’altro deriva la convinzione di poterlo far sparire».

Quel che occorre è allora un profondo cambiamento di mentalità, che porti i due popoli ad accettarsi come inevitabili vicini, chiamati a scegliere fra l’eterno conflitto, fatto di odio e di sangue, e la ricerca di possibilità condivise, che si esprimano nella piena autonomia dei due Stati e nella volontà di una prossimità tesa a promuovere il bene per tutti.

Un’altissima testimonianza che questo sia possibile nonostante tutto l’ha data la Senatrice “Liliana Segre” quando, in riferimento all’attuale guerra, nella lettera letta alla manifestazione

 “No antiterrorismo e no terrorismo” a piazza del Popolo, promossa dalla Comunità ebraica di Roma e dall'Unione delle Comunità ebraiche italiane, ha affermato:

«L’eterno ritorno della guerra mi fa sentire prigioniera di una trappola mentale senza uscita, spettatrice impotente, in pena per Israele, ma anche per tutti i palestinesi innocenti, entrambi intrappolati nella catena delle violenze e dei rancori».

E ha aggiunto:

 «Non ho più parole. Ho solo pensieri tristi. Provo angoscia per gli ostaggi e per le loro famiglie. Provo pietà per tutti i bambini, che sono sacri senza distinzione di nazionalità o di fede, che soffrono e muoiono. Che pagano perché altri non hanno saputo trovare le vie della pace».

A questo dolore dovrebbero pensare quanti hanno responsabilità decisionali, per cercare a ogni costo vie di pace nella giustizia e nella verità.

Il processo per percorrerle sarà lungo e la presenza cristiana, in particolare, non potrà sottrarsi allo sforzo di fare da “ponte” tra le parti, sostenendo un confronto che abbracci anche la sfida del reciproco perdono.

Tutto questo richiederà forza morale, disponibilità al sacrificio e coraggio per attivare processi efficaci di riconciliazione.

Rinunciare a questo sogno significherebbe, però, abbandonare ogni prospettiva di pace, come ha ricordato più volte papa Francesco, parlando della barbarie e dell’inutilità della guerra.

Quando saranno pronte le parti in conflitto ad accettare la verità esigente di questo appello?

 

 

 

Sulla fine del mondo.

 

Quodlibet.it – Giorgio Agamben – (18 novembre 2019) – ci dice:

Il tema della fine del mondo è apparso più volte nella storia della cristianità e in ogni tempo sono comparsi profeti che annunciavano come prossimo l’ultimo giorno.

È singolare che oggi questa funzione escatologica, che la chiesa ha lasciato cadere, sia stata assunta dagli scienziati, che si presentano sempre più spesso come profeti, che predicono e descrivono con assoluta certezza le catastrofi climatiche che porteranno alla fine della vita sulla terra.

 Singolare, ma non sorprendente, se si considera che nella modernità la scienza si è sostituita alla fede e ha assunto una funzione propriamente religiosa – è, anzi, in ogni senso la religione del nostro tempo, ciò in cui gli uomini credono (o, almeno, credono di credere).

Come ogni religione, anche la religione della scienza non poteva mancare di un’escatologia, cioè di un dispositivo che, mantenendo i fedeli nella paura, rafforza la loro fede e, insieme, assicura il dominio della classe sacerdotale.

Apparizioni come Greta sono, in questo senso, sintomatiche:

Greta crede ciecamente in quel che gli scienziati profetizzano e aspetta la fine del mondo nel 2030, esattamente come i millenaristi nel medioevo credevano nell’imminente ritorno del messia a giudicare il mondo.

Non meno sintomatica è una figura come quella dell’inventore di Gaia, uno scienziato che, concentrando le sue diagnosi apocalittiche su un unico fattore – la percentuale di CO2 nell’atmosfera – dichiara con stupefacente candore che la salvezza dell’umanità sta nell’energia nucleare.

Che, in entrambi i casi, la posta in gioco abbia carattere religioso e non scientifico, si tradisce nella funzione centrale che vi svolge un vocabolo – la salvezza – tratto dalla filosofia cristiana della storia.

Il fenomeno è tanto più inquietante, in quanto la scienza non ha mai annoverato l’escatologia fra i propri compiti ed è possibile che l’assunzione del nuovo ruolo profetico tradisca la consapevolezza della propria innegabile responsabilità nelle catastrofi di cui predice l’avvento.

Naturalmente, come in ogni religione, anche la religione della scienza ha i suoi increduli e i suoi avversari, cioè gli adepti dell’altra grande religione della modernità: la religione del denaro.

Ma le due religioni, in apparenza divise, sono segretamente solidali. ‘p

Poiché è stata certamente l’alleanza sempre più stretta fra scienza, tecnologia e capitale che ha determinato la situazione catastrofica che gli scienziati oggi denunciano.

Deve essere chiaro che queste considerazioni non intendono prendere posizione quanto alla realtà del problema dell’inquinamento e delle trasformazioni deleterie che le rivoluzioni industriali hanno prodotto nelle condizioni materiali e spirituali dei viventi.

Al contrario, mettendo in guardia contro la confusione fra religione e verità scientifica e fra profezia e lucidità, si tratta di non farsi dettare acriticamente da parti interessate le proprie scelte e le proprie ragioni, che in ultima analisi non possono essere che politiche.

(Giorgio Agamben).

 

 

 

 

 

«L’ideologia Gender non esiste.

Serve invece una corretta informazione»

Ilpiacenza.it – Redazione – (8 ottobre 2022) – ci dice:

 

Gli psicologi e psicoterapeuti di Centro Tice e di Centro Psicoterapia Piacenza insieme contro i manifesti apparsi in città: «Educazione affettiva contro disagi e rischi reali che possono danneggiare i nostri ragazzi»

«Promuovere l’inserimento dell’educazione affettiva nelle scuole e inserire nei progetti didattici formativi contenuti riguardanti il genere e l’orientamento sessuale non significa promuovere un’inesistente ‘ideologia del gender’, ma fare chiarezza sulle dimensioni costitutive della sessualità e dell’affettività in modo adeguato alle diverse età con cui ci si interfaccia».

 Questa la presa di posizione dei professionisti della salute mentale di “Centro Tice, che insieme ai colleghi del” Centro Psicoterapia Piacenza” hanno deciso di prendere posizione nella polemica dei giorni scorsi rispetto ai manifesti dell’associazione “ProVita & Famiglia “apparsi in città nei giorni scorsi.

 «Manifesti – si legge in una nota del Tice - che ancora una volta citano il gender come fosse una teoria o, peggio, una sorta di lobby che agisce animata dallo scopo di confondere i bambini su temi quali orientamento sessuale o identità di genere».

A tal proposito, gli operatori della salute mentale hanno deciso «di attivarsi per fare chiarezza e prevenire diffusione di informazioni scorrette e dannose», appendendo, fuori dalle proprie sedi, un manifesto in cui si ribadiscono le parole dell’”Associazione Italiana Psicologi”.

«L’obiettivo di quanti promuovono l’educazione affettiva è quello di favorire una cultura delle differenze e del rispetto della persona umana in tutte le sue dimensioni e mettere in atto strategie preventive adeguate ed efficaci capaci di contrastare o meglio prevenire bullismo, cyberbullismo e discriminazioni».

«Per chi lavora e studia nel campo della psicologia – commenta “Valentina Tirelli”, psicoterapeuta e ricercatrice di Tice - tali fenomeni sono purtroppo quotidianamente osservabili, e capaci di generare ansia depressione, contribuendo a creare traumi che hanno impatto sulla salute mentale per tutta la vita.

Senza parlare di quanto non riconoscersi e non accettarsi sia un grande fattore di rischio per gli atti più estremi, tra cui il suicidio.

Intervenire e creare cultura tra i più giovani è importantissimo per garantire loro salute mentale.

 Già da anni l’”Associazione Italiana degli Psicologi” ha ritenuto opportuno intervenire per rasserenare il dibattito nazionale sui temi della diffusione degli studi di genere e orientamento sessuale nelle scuole italiane, e per chiarire l’inconsistenza scientifica del concetto di ‘ideologia del gender’.

Esistono, al contrario, studi scientifici di genere, meglio noti come “Gender Studies” che, insieme ai “Gay and Lesbian Studies”, hanno contribuito in modo significativo alla conoscenza di tematiche di grande rilievo per molti campi disciplinari.

Ma anche “Unesco”, “American Psychiatric Association” e l’ “Oms” sono molto chiari in merito: l’educazione affettiva è un fattore protettivo».

Martina Nani, Laura Ozzola, Veronica Nicolini, psicoterapeute del Centro Psicoterapia Piacenza aggiungono:

«Questo è quello che dice la scienza, e già potrebbe bastare. Poi c’è quello che dice l’amore. L’amore per sé stessi, per i nostri figli e per gli altri esseri umani.

 Quando un bambino di 6 anni dice alla mamma “Sai che mi piacciono moltissimo quelle ciabattine viola con i pois rosa? Però c’è scritto che sono da femmina, quindi non le possiamo comprare?”, nella sua mente starà pensando “Perché non posso comprarle? Perché mi piacciono le cose da femmina? C’è qualcosa di sbagliato in me? Posso chiederlo alla mamma oppure no?”.

 

Si pensi a ciò che starebbe provando quella mamma se non fosse informata e consapevole: “Accidenti, ma che cavolo mi chiede mio figlio? Sarà gay? O ancora peggio trans? Cosa ho sbagliato? Cosa diranno gli altri? Che vergogna”.

Quindi quella mamma potrebbe rispondere con rabbia o disgusto: “Quelle ciabatte sono da femmina, non te le comprerò mai, sai che cosa direbbe il tuo amico se ti vedesse con quelle ciabatte? Che vergogna”.

A questo punto occorre immaginare la sofferenza di quel bambino, che inizierà a credere di essere sbagliato.

Fortunatamente però c’è l’amore, che fa sì che quella stessa mamma, se informata e consapevole, possa rispondere con amore e coraggio, dicendo:

 “Amore, non c’è problema se c’è scritto che sono da femmina, sai quando producono vestiti e accessori fanno questa divisione. Se ti piacciono le possiamo comprare, sono davvero bellissime! Stasera anche con papà a tua sorella ci mettiamo tutti le ciabatte nuove!”.

Accoglienza, accettazione, rispetto, stupore, meraviglia, coraggio, consapevolezza:

sono queste le doti che occorrono per aiutare i nostri bambini e ragazzi a crescere in modo sano, anche dal punto di vista della salute mentale».

 

 

L’ideologia Gender è pericolosa.

Research.unipd.it – Laura Schettini – autore Libro – (3-1-2023) – ci dice:

 

L’‘ideologia gender’ minaccia la nostra società!

 Confonde l’identità e le menti dei nostri figli, mette a repentaglio l’ordine naturale delle cose, quello che distingue in maschi e femmine!

Ma davvero esiste un progetto globale per renderci tutti ‘fluidi’?

Dove nasce l’ossessione per le questioni di genere e gli orientamenti sessuali non conformi?

E quali sono le fratture politiche che si nascondono dietro a questi temi?

Già a metà degli anni Novanta, destra populista e cattolicesimo tradizionalista hanno cominciato a lanciare allarmi contro i pericoli a cui una fantomatica ‘teoria del gender’ esporrebbe la società (o anche la nazione, la famiglia, la civiltà, la gioventù, l’infanzia e chi più ne ha più ne metta).

Oggi, il nemico è l’‘ideologia gender’, un’etichetta che serve a evocare l’attacco, unitario e programmatico, che una molteplicità di soggetti (le femministe e le persone Lgbtq+ prima di tutti) starebbero sferrando all’ordine naturale alla base della nostra società.

 Da chi si aggirerebbe per le scuole a confondere l’identità sessuale di ignari bambini agli uomini che mettono la gonna, fino ai fanatici delle lettere e simboli finali (schwa, u, *).

Ma sono davvero questi gli oggetti del contendere?

 Perché ci si accalora tanto su questi temi?

Quali sono le istanze portate avanti dagli anti gender e, sul fronte opposto, da chi sfida l’ordine ‘naturale’?

Se gender è una parola moderna, questa sfida è iniziata molto tempo fa. Una lunga storia a cui conviene prestare attenzione, oltre le comode semplificazioni.        

(Schettini, Laura)

 

 

 

 

Giorgia Meloni: "L'ideologia gender

andrà a discapito delle donne."

 

Today.it – Eva E. Zuccari - (8-3-2023) – ci dice:

Le dichiarazioni della premier a ridosso della Giornata Internazionale della Donna.

La replica delle femministe: "L'ideologia gender non esiste".

Il Partito gay: "Meloni vuole cancellare il 15% degli italiani"

 

"Oggi si rivendica il diritto unilaterale di proclamarsi donna oppure uomo al di là di qualsiasi percorso, chirurgico, farmacologico e anche amministrativo.

Maschile e femminile sono radicati nei corpi ed è un dato incontrovertibile.

Tutto questo andrà a discapito delle donne?

 Credo proprio di sì".

Lo dice Giorgia Meloni in un'intervista rilasciata al settimanale” Grazia” in occasione della “Giornata Internazionale della Donna”.

"Oggi per essere donna - aggiunge la premier - si pretende che basti proclamarsi tale, nel frattempo si lavora a cancellarne il corpo, l'essenza, la differenza.

 Le donne sono le prime vittime dell'ideologia gender.

 La pensano così anche molte femministe".

 

"L'ideologia gender non esiste".

La replica delle femministe.

Immediata la replica di “Non una di Meno”, “associazione femminista contro la violenza di genere”.

 "Noi pensiamo che non esista l'ideologia gender", dichiarano le attiviste ad Ansa.

"È una invenzione. La differenza tra il genere e il sesso è ben nota, mentre la teoria gender è un'invenzione strumentale.

In opposizione a questa invenzione, c'è una realtà concreta di persone che hanno identità di genere di vario tipo.

Questa cosa esiste ed è una realtà.

 Una identità di genere che va anche oltre il binarismo uomo-donna imperante.

Queste persone si riconoscono in altri generi, si riconoscono in un genere che non corrisponde alla propria identità sessuale e in questa scelta si autodeterminano".

Partito gay: "Meloni vuole cancellare il 15% degli italiani"

A rispondere a “Meloni “è anche “Alessandro Zan”, politico Pd e attivista, promotore dell'omonima legge contro l'omotransfobia.

 "Le donne sono vittime di Giorgia Meloni e delle sue politiche reazionarie", replica "non di una fantomatica 'ideologia gender', “fake” che lei ha inventato.

Vittime sono le oltre 20mila esodate di opzione donna, vittima è chi non può accedere all'aborto nelle regioni di destra.

 Basta bugie".

Polemiche anche da parte di “Fabrizio Marrazzo,” portavoce del “Partito Gay Lgbt+, Solidale, Ambientalista, Liberale”:

"Le dichiarazioni del Premier Meloni, contro le donne trans, i genitori Lgbt+, ed una presunta ideologia gender non sono accettabili.

 Il presidente del Consiglio dovrebbe rappresentare tutti gli italiani, invece lei si ostina a rappresentare solo una parte, volendo cosi cancellare la nostra comunità che rappresenta il 15% degli italiani.

 Con questo Governo risulta ancora più importante il lavoro che come “Partito Gay Lgbt+” che stiamo facendo, per tutelare la nostra comunità e non solo.

 Il fatto che queste dichiarazioni siano fatte in prossimità dell'8 marzo sono un vero e proprio schiaffo a tutte le donne, i diritti vanno estesi e non ristretti".

 

 

 

Il gender come nuova religione?

Il nuovo libro di Giulio Meotti.

 

Provitaefamigia.it – (03/11/2023) - Fabio Piemonte – ci dice:

 

La cultura occidentale è in crisi profonda.

 Tale «crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati», per dirla con Gramsci.

L’ideologia di genere è il primo di questi fenomeni, sempre in cima alle agende politiche locali, nazionali, europee e internazionali.

Inizialmente la teoria di genere «è stata spesso liquidata come una moda passeggera, una stravaganza, un sussurro culturale.

Ora è diventata dogma e la libertà di pensiero e di espressione diminuisce man mano che si espande questo regno dell’irragionevolezza e dell’indottrinamento.

È partito dalle accademie per arrivare al cuore pulsante della nostra società, con i suoi simboli, le sue aziende, le sue pubblicità, ossia con le immagini che ci mostrano ciò che vogliamo desiderare, ciò che vorremmo essere».

 È quanto indaga acutamente nel suo ultimo saggio, già disponibile, Giulio Meotti, dal titolo “Gender. Il sesso degli angeli e l’oblio dell’occidente” (Liberliberi 2023, pp. 150).

 

E in effetti l’ideologia di genere si presenta come una nuova religione coi suoi dogmi, i suoi precetti e riti, i suoi adepti e apostati.

 Alle sue fondamenta risiede la cancellazione del dato biologico e della differenza sessuale.

 Lo rileva lo stesso filosofo della postmodernità “Braudillard” quando afferma:

 «L’avvento della problematica del genere, che ora prende il posto di quella del sesso, illustra la progressiva diluizione della funzione sessuale.

Questa è l’era del Transessuale, dove i conflitti legati alla differenza – e anche i segni biologici e anatomici della differenza – sopravvivono molto tempo dopo che la reale alterità dei sessi è scomparsa.

 Non si tratta più dello sguardo seduttivo ma di uno strabismo sessuale generalizzato, che riflette quello dei valori morali e culturali.

Ciascuno si ‘aggancia’ all’altro nel tentativo di appropriarsi indebitamente dei suoi segni distintivi.

Ma entrambi sono infatti in combutta per cortocircuitare la differenza.

L’utopia della differenza sessuale si conclude con lo scambio dei poli sessuali.

 Invece di una relazione duale, il sesso diventa una funzione reversibile. Al posto dell’alterità, una corrente alternata».

 

Di evidente matrice gnostica, la religione gender dapprima assume il dualismo cartesiano mente corpo, poi demonizza il corpo, invitando a considerarlo come un orpello da modificare a piacimento all’occorrenza secondo il proprio percepirsi.

 Una religione che ha come dogma l’assoluta fluidità di genere e che, per propagandare il proprio credo, si adopera alacremente in ogni ambito della vita privata e pubblica per

«consentire ai bambini di considerare la loro identità di genere non correlata al loro sesso biologico; e anzi incoraggiarli in questa direzione; facilitare l’accesso dei bambini ai trattamenti ormonali, ai bloccanti della pubertà e agli interventi chirurgici che cambiano irreversibilmente i loro corpi; persuadere i giovani che le difficoltà tipiche dell’adolescenza – accettazione delle trasformazioni del proprio corpo, scoperta della propria sessualità, adattamento alla vita in società – sono principalmente causate dalla disforia di genere e possono essere risolte solo da un cambiamento di identità di genere; dare agli uomini che si dicono donne pieno accesso alle competizioni sportive, alle carceri e ai rifugi riservati alle donne», come sottolinea Meotti.

 E l’elenco delle finalità perseguite dagli adepti è in costante aggiornamento.

Una religione, dunque, coi suoi «sono simboli, canti, bandiere, sfilate, ricorrenze»; i suoi eretici omofobi e transfobici – «obiettivo legittimo per una campagna di odio online o boicottaggio professionale» – e i suoi peggiori nemici, i de transazionisti, i quali, «non aderendo più alla teoria, sono simili agli apostati».

Della pericolosità dell’ideologia di genere se ne avvide in tempi non sospetti già quarant’anni fa” Joseph Ratzinger “che, intervistato da “Vittorio Messori,” osservava con lungimiranza profetica, come tale pretesa sovversiva sia destinata a ritorcersi anzitutto contro la persona stessa (come le drammatiche storie dei detransitioner attuali attestano):

«Questo cosiddetto cambio di sesso non modifica in alcun modo il corredo genetico dell’interessato.

É solo un artefatto esterno che non risolve alcun problema ma costruisce solo realtà fittizie».

Sempre nel 1984 lo stesso rilevava altresì come «non sia un caso, inoltre, che le leggi si siano subito adeguate a tale richiesta.

 Se tutto è solo un ‘ruolo’ culturalmente e storicamente condizionato, e non una specificità naturale inscritta nel profondo dell’essere, anche la maternità è solo una funzione accidentale».

 

 

 

 

Usa, leader religiosi sottoscrivono

una lettera contro la teoria gender.

Lanuovabq.it – Redazione – (5-01- 2018) – ci dice:

 

Usa: una lettera aperta sottoscritta da diversi leader religiosi nega i principi dell'ideologia gender.

Negli States sette vescovi cattolici e altri rappresentanti della Chiesa ortodossa, della comunità luterana, anglicana, battista e musulmana hanno firmato il 15 dicembre scorso una lettera aperta a sostegno della famiglia naturale e contro i principi della teoria del gender. La riproduciamo qui di seguito nella sua versione integrale:

“Cari amici, come leader di varie comunità religiose presenti in tutti gli Stati Uniti, molti di noi si sono uniti in passato per affermare il nostro impegno a difesa del matrimonio come unione di un uomo e una donna e come fondamento della società. Ribadiamo che il matrimonio naturale continua ad essere realtà inestimabile per la società americana.

Uniamo le nostre voci per difendere un precetto del nostro vivere insieme ancor più fondamentale, vale a dire che gli esseri umani sono maschi o femmine e che la realtà socio-culturale del gender non può essere separata dal sesso inteso come maschio o femmina.

Riconosciamo e affermiamo che tutti gli esseri umani sono creati da Dio e quindi possiedono una dignità intrinseca. Crediamo anche che Dio abbia creato ogni persona maschio o femmina; quindi, la differenza sessuale non è un incidente o un difetto: è un dono di Dio che aiuta ad avvicinarci l'uno all'altro e a Dio. Ciò che Dio ha creato è buono: "Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò". (Gen 1,27).

Il disagio che una persona sperimenta con il proprio sesso, o il desiderio di essere identificato con l'altro sesso, è una realtà complicata che deve essere affrontata con sensibilità e spirito di verità. Ogni persona merita di essere ascoltata e trattata con rispetto; è nostra responsabilità rispondere alle loro preoccupazioni con compassione, misericordia e onestà. Come leader religiosi, esprimiamo il nostro impegno ad esortare i membri delle nostre comunità a rispondere anche a coloro che lottano con questa sfida con pazienza e amore.

I bambini vengono particolarmente danneggiati quando viene detto loro che possono ‘cambiare’ il proprio sesso o, in aggiunta, quando vengono somministrati a loro gli ormoni che influiscono sullo sviluppo e che potrebbero renderli sterili da adulti. I genitori meritano di essere ben guidati relativamente a queste importanti decisioni e invitiamo le nostre istituzioni sanitarie ad onorare il fondamentale principio medico: "primo, non fare del male". L'ideologia di genere danneggia gli individui e le società seminando confusione e insicurezza. Lo Stato stesso ha un interesse cogente nel sostenere politiche che supportino i fatti scientifici aderenti alla biologia umana e nel sostenere le istituzioni sociali che la difendono e le norme afferenti ad essa.

Il fenomeno attuale che spinge a rafforzare la falsa idea che un uomo può essere o diventare una donna o viceversa desta profonda preoccupazione. Tale fenomeno costringe le persone ad assumere posizioni contrarie a ragione - ossia a concordare con qualcosa che non è vero - o ad esporsi al ridicolo, all'emarginazione e altre forme di scherno.

 

Desideriamo il benessere fisico e la felicità di tutti gli uomini, donne e bambini. Pertanto chiediamo politiche che sostengano la verità sull’identità sessuale di una persona intesa come maschio o femmina, che tutelino la privacy e la sicurezza di tutti. Speriamo in un rinnovato apprezzamento per la bellezza della differenza sessuale nella nostra cultura e auspichiamo un sostegno autentico a favore di coloro che sperimentano un conflitto con la loro identità sessuale, identità donata da Dio”.

(usccb.org/issues-and-action/marriage-and-family/marriage/promotion-and-defense-of-marriage/created-male-and-female.cfm)

 

 

 

Zuckerberg, Bezos e Dimon

vendono le loro azioni:

in arrivo il crollo definitivo di

Wall Street e della globalizzazione?

Lacrundellago.net – Cesare Sacchetti – (24/02/2024) ci dice:

 

L’espressione “cigno nero” fa parte del gergo dei mercati finanziari e descrive generalmente una situazione di un pesante crollo delle borse di rara frequenza.

Non è chiaro se un evento del genere sia in arrivo ma il comportamento di alcuni pezzi da novanta del mondo dell’economia e della finanza mondiale può forse aiutarci a comprendere cosa sta accadendo.

Il primo a vendere le sue azioni è stato il patron di Amazon,” Jeff Bezos”, che in una mossa senza precedenti ha venduto azioni della sua società per un valore complessivo di 8,5 miliardi di dollari.

Chi segue con attenzione le vicende della finanza, sa già probabilmente che il colosso americano della distruzione mondiale non se la passa affatto bene dopo la fine della farsa pandemica.

Il suo valore infatti dopo il 2022 si è letteralmente dimezzato passando dai 1,7 trilioni di dollari precedenti fino a scendere agli 800 miliardi alla fine del 2022.

Amazon sta attraversando una crisi non passeggera e profonda che la sta portando anche a ridurre il suo personale in giro per il mondo.

A seguire Amazon è stato un esponente di quello che negli Stati Uniti viene chiamato “Big Tech”, ovvero il settore tecnologico che domina internet, e il personaggio in questione non è altri che “Mark Zuckerberg”, fondatore di Facebook, che ha iniziato a vendere 428 milioni di dollari delle azioni del suo social, ribattezzato ora con il nome di Meta, già dalla fine del 2023.

A completare la serie dei nomi di punta dell’economia mondiale, è arrivato poi un altro peso massimo del mondo della finanza internazionale come “Jamie Dimon”, amministratore delegato della celebre, o forse dovremmo dire famigerata, banca d’affari JP Morgan che ha venduto le azioni della sua banca per un valore di circa 150 milioni di dollari.

JP Morgan è probabilmente già nota a diversi lettori.

Questa banca è stata una delle protagoniste del saccheggio ai danni delle aziende di Stato italiane nel 1992 a bordo del panfilo Britannia della regina Elisabetta.

A fare da cerimoniere della svendita di quello che era il patrimonio di tutti gli italiani fu, com’è noto, il giovane “Mario Draghi” nelle vesti di dirigente del Tesoro, che a bordo del Britannia decise di liquidare un immenso tesoro a prezzi di saldo alla finanza speculativa anglosassone.

Ancora oggi, non è chiaro chi abbia autorizzato “Draghi” a commettere quell’atto di tradimento nei confronti dello Stato quando la notte della svendita, il 2 giugno del 1992, non c’era ancora in carica un governo dotato di pieni poteri in quanto il “governo Andreotti” era caduto e le attività governative non potevano andare oltre la soglia del disbrigo degli affari correnti.

Soltanto un mese dopo circa si formò un altro governo, quello di” Amato”, che prontamente ratificò la svendita non prima però di aver rubato nottetempo i soldi degli italiani attraverso il famigerato “prelievo sui conti correnti”.

La fuga dei signori dei mercati non ha precedenti.

Ora qualcuno potrebbe pensare che quanto sta accadendo sia ordinaria amministrazione per quello che riguarda la compravendita di azioni ma in realtà non è affatto così.

Si pensi solamente al caso citato in precedenza di “Jamie Dimon”.

 Dimon non è un giorno che siede sulla poltrona di amministratore delegato di “JP Morgan”.

Ricopre questo incarico dal 2006 poco prima che scoppiasse la “celebre crisi dei mutui subprime” alla quale allora la banca newyorchese offrì il suo indispensabile contributo.

Nemmeno all’alba di una crisi così pesante, “Dimon” si liberò di un numero così elevato di azioni nonostante sapesse perfettamente che la bolla immobiliare creata dai mercati nei primi anni 2000 sarebbe prima o poi inevitabilmente esplosa.

All’epoca però Wall Street non appariva minimamente preoccupata. Alla Casa Bianca c’era un presidente che era stato da loro finanziato e sostenuto, ovvero il repubblicano neocon, “George W. Bush”, saldamente nelle mani della lobby sionista .

 

Bush autorizzò un programma chiamato “Troubled Asset Relief Program”, che sta a significare programma di sostegno alle imprese in difficoltà.

Vennero stanziati almeno 700 miliardi di dollari per correre in soccorso di banche quali la stessa “JP Morgan”, “Goldman Sachs” e “Bank of America”, e negli anni seguenti il successore di Bush, il democratico “Barack Obama,” autorizzò il prosieguo del salvataggio della finanza.

Coloro che avevano trascinato l’America e il mondo intero nella più grossa crisi finanziaria dopo il 1929 venivano ancora una volta salvati dalla “slot machine truccata” della banca centrale americana, ovvero la “Federal Reserve Bank” (FED).

La storia della FED è stata raccontata dal ricercatore americano “Eustache Mullins” che ha spiegato come nel 1913 il presidente “Wilson” autorizzò la costituzione di una banca centrale che non era di proprietà del governo americano ma che era in realtà sotto il controllo di potenti gruppi bancari privati quali quelli della” famiglia Morgan”, dei “Rockefeller” e dei “Rothschild”.

 

Quando scoppiò la citata crisi dei mutui, “Jamie Dimon” faceva parte del consiglio di amministrazione di una delle 12 banche che controlla la FED, in questo caso la sezione della “Federal Reserve di New York”.

Se si guarda al consiglio di amministrazione di questa banca si scopre che a farne parte c’è anche attualmente” Rajiv J. Shah”, economista e presidente della “fondazione Rockefeller”.

La conclusione può essere pertanto soltanto ovvia. Gli architetti del fallimento utilizzavano “la banca centrale che ha il potere di creare moneta dal nulla” per salvare sé stessi e non utilizzare la leva della FED invece per sostenere l’economia reale.

La filosofia del protestantesimo neoliberale si vede perfettamente in quanto accaduto allora e in diverse altre occasioni.

Lo Stato viene messo al bando e il suo potere di intervento monetario non dev’essere utilizzato per sostenere le piccole e medie imprese e i risparmiatori ma gli oligarchi che sono i signori assoluti del sistema liberale.

Essi sono il vero Stato. Stavolta però siamo in presenza di un fenomeno nuovo. Gli alti membri della finanza speculativa di New York prendono delle decisioni che, come abbiamo visto, non hanno precedenti al riguardo.

Wall Street sa che la globalizzazione e il suo dominio è finita?

Il sentore che qualcosa di nuovo si stava verificando negli Stati Uniti lo si era già avuto quando iniziarono a fallire alcune grosse banche americane in California, laddove molti personaggi del mondo dello spettacolo e della politica depositano i propri patrimoni.

A questo giro, la FED non ha mosso un dito. I protetti della finanza iniziano a perdere i loro soldi e non si mette in moto la macchina che li salvò 16 anni prima.

Anche per ciò che riguarda gli obiettivi più propriamente politici di questi gruppi finanziari, si inizia a vedere un netto cambio di rotta.

 

La scorsa settimana di nuovo JP Morgan, affiancata in quest’occasione da “BlackRock”, decidono di abbandonare i loro investimenti nel programma climatico delle Nazioni Unite fondato sulla nota bufala del riscaldamento globale.

Sono quelle politiche così care a “Davos “che nelle sue riunioni annuali vagheggiava di un mondo ad emissioni zero, laddove il reale fine ultimo non è certo quello di proteggere l’ambiente, che non soffre di una reale minaccia di tipo entropica, ma piuttosto quello di accompagnare il mondo verso una deindustrializzazione di massa, prodromica al de- popolamento che questi circoli malthusiani globalisti tanto desiderano.

Quando “Massimo D’Alema “qualche tempo fa ebbe a dire, non troppo gioiosamente per lui, che la globalizzazione era giunta al suo termine, aveva certamente ragione.

La stagione degli anni 90 sta volgendo, fortunatamente al termine. Il tempo delle delocalizzazioni selvagge e dell’esplosione dei commerci internazionali a discapito delle produzioni nazionali è finito.

Così come a sua volta il motore della globalizzazione, la Cina, ha già da un po’ iniziato a rallentare dopo il suo divorzio con la finanza anglosassone senza la quale il dragone cinese non avrebbe mai potuto raggiungere la sua posizione di dominio assoluto sui mercati.

Se dunque la globalizzazione è giunta alla sua fase finale, questo implica inevitabilmente una perdita dell’enorme potere che gli oligarchi avevano accumulato.

La globalizzazione non è altro che il feroce volto finanziario del globalismo.

 Il globalismo voleva la costituzione di un impero attraverso la nascita di una governance globale laddove gli Stati avrebbero poi perduto del tutto i loro residui poteri e i “grandi” gruppi finanziari e industriali avrebbero avuto una posizione ancora più dominante di quella degli ultimi 30 anni.

Sarebbe stata una situazione laddove le diseguaglianze tra le classi sociali sarebbero state persino più ampie di quelle paradossalmente in vita ai tempi nei quali esisteva la schiavitù.

Il potere che avrebbero avuto i globocrati avrebbe dovuto essere immenso e la fine, o meglio il fallimento, di questa visione ha provocato invece il processo inverso.

È questa la ragione per la quale iniziamo a vedere una fuga dai mercati di coloro che sono stati i signori della globalizzazione.

Costoro sembrano sapere che questa volta non ci sarà il comodo paracadute della FED e non ci sarà l’appoggio politico di una compiacente amministrazione presidenziale da loro governata, visto soprattutto l’assoluto vuoto di potere che c’è a Washington con l’amministrazione Biden.

Queste fughe dai mercati potrebbero essere il segnale del definitivo requiem della finanza speculativa e dei suoi predatori. Se nel secolo scorso la finanza era quel potere che aveva in mano la vita degli Stati, la fase attuale e futura sarà fondata sul processo inverso.

La fine della globalizzazione non potrà non portare la fine della dittatura del capitale.

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