Il totalitarismo cinese governerà il mondo?

 

Il totalitarismo cinese governerà il mondo?

 

 

 

Il 24 marzo del 1999, esattamente

25 anni fa, la NATO riportò

la guerra in Europa. Una guerra non

provocata e criminale!

Conoscenzealconfine.it – (24 Marzo 2024) – Giuseppe Salomone – ci dice:

 

Iniziò illegalmente, visto che non c’era alcun mandato da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, un attacco aereo contro la Serbia.

Attacchi che per i 76 giorni a venire avrebbero ridotto in macerie gran parte della Serbia e condannato ad atroci sofferenze la sua popolazione.

Sofferenze che continuano ancora oggi visto che i proiettili a uranio impoverito hanno avvelenato un territorio e continuano ad affliggere di immani sofferenze la popolazione Serba, soprattutto i bambini.

 (Oltre ai militari italiani abbandonati e censurati dopo quella guerra!)

Coloro che ne portano le più grandi responsabilità dalla parte italiana sono stati Massimo D’Alema allora presidente del Consiglio e Sergio Mattarella, Vice presidente del Consiglio.

Chi dimentica è complice!

In quanto italiano chiedo scusa ancora oggi ai Serbi vittime dell’impero del male e dei suoi servi.

“I serbi non possono perdonare alla “NATO” il bombardamento della Jugoslavia perché ha ucciso bambini serbi e ora non prova alcun rimorso”.

 Lo ha dichiarato a RIA Novasti l’ex capo dell’Agenzia serba per la sicurezza e l’informazione, Alexander Kulin.

(t.me/Giuseppe Salomone).

 

 

 

 

Rischio guerra totale, i dossier

degli 007 europei: "Putin può

attaccare, investire nelle armi"

Quotidiano.net – (25-3-2024) – Redazione – ci dice:

 

L’industria bellica continentale cresce, ma è dietro al resto del mondo. Il generale “Li Gobbi”:

 "L’esercito italiano deve arruolare più giovani".

Roma, 25 marzo 2024 – Il rogo ucraino e l’aggressività russa si sono trasformate in una lezione per l’Europa, la quale sta cominciando a comprendere che la politica della difesa comune tra Paesi membri va allestita dal punto di vista dei sistemi d’arma, degli investimenti e dell’organizzazione.

 Più cooperazione e spese razionalizzate.

Ce lo suggerisce lo scenario di guerra ucraino, premono i Paesi baltici e la Polonia che si sentono esposti a imprevedibili mosse di Mosca, lo fa pensare l’atteggiamento degli Usa che in caso di vittoria di Donald Trump non è detto continuino nell’assistenza militare come oggi.

Il ministro della Difesa, “Guido Crosetto”, si è incontrato col capo di Stato maggiore della Difesa, l’ammiraglio “Giuseppe Cavo Dragone”.

Circola una preoccupazione ricorrente negli ultimi rapporti annuali dei servizi segreti dei principali Paesi Ue:

"La Russia, se avrà campo libero, non si fermerà in Ucraina.

 Si sta preparando a una guerra lunga con l’Occidente".

Sono in tensione i Baltici, Polonia, i neo-soci del club della Nato, Finlandia e Svezia.

Forse per la prima volta in alcuni documenti ufficiali a Bruxelles si parla di "prepararsi a un’emergenza militare".

Su questo aspetto è in arrivo un rapporto destinato alla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, la quale ha promesso che se sarà rieletta istituirà un commissario per la Difesa, premendo sul fatto che l’Europa deve aumentare le spese militari.

Le grandi manovre sono cominciate.

Secondo una ricerca” Ispi”

 "nell’Ue l’industria bellica ha raggiunto nel 2022 un fatturato di 135 miliardi di euro (+10%) e ha impiegato circa 516mila persone (+4%).

Tuttavia, nessuna azienda di un Paese Ue compare nella classifica delle 10 più grandi per fatturato a livello mondiale".

Anche qui, dunque, è d’obbligo una riflessione perché se servono armamenti, servono anche aziende tecnologicamente avanzate per produrli.

Troppi sistemi sono acquistati fuori dall’Ue e in ordine sparso.

L’italiana Leonardo è la prima impresa europea nell’industria della difesa e si posiziona solo all’11° posto con un fatturato 2022 di 12,9 miliardi di dollari.

 E servono armamenti comuni perché non si possono avere 3-4 tipi di mezzi blindati diversi e filosofie difensive differenti tra Paesi membri. L’intenzione è arrivare entro il 2030 a far sì che i Paesi Ue appaltino in comune il 40% dell’equipaggiamento.

E nella Difesa ognuno deve arrivare a destinare il 2% del Pil.

L’Italia dopo anni di tentennamenti ha previsto un piano di robusti investimenti interni dal 2024 al 2029.

 "Il mondo è cambiato e cambia anche il nostro modello di difesa – spiega il generale “Antonio Li Gobbi”, già direttore delle operazioni presso lo Stato Maggiore della Nato a Bruxelles – e l’Italia deve rinforzare alcuni aspetti.

Fino al 2014 si è puntato su un modulo di proiezioni rapide con forze ridotte e flessibili.

 Oggi come vediamo in Ucraina è da mettere in conto anche un possibile scontro sul terreno con forte capacità di fuoco.

È necessario arruolare più giovani, più impiegabili sul campo e con ferme brevi, anche di 9-10 anni.

 Con la garanzia di veicolare poi chi esce verso altre occupazioni.

Oggi abbiamo in servizio circa 100mila uomini.

 Il numero va aumentato".

Poi c’è il nodo degli equipaggiamenti d’arma.

Ancora” Li Gobbi”:

"Bisogna puntare sull’aumento di forze corazzate, artiglieria, difesa aerea.

 Tutto ciò senza dimenticare la tecnologia di ultima generazione come i sistemi aerei a guida remota, i sistemi di intercettazione.

 L’Italia ha già allestito anche una scuola di formazione per la guida dei droni, che oggi come si vede nei teatri bellici, sono fondamentali per la ricognizione e l’attacco".

 In Italia l’aumento della spesa militare è trainato da un bilancio del ministero della Difesa che supera per la prima volta i 29 miliardi di euro (+5,1% rispetto al 2023).

 

 

 

 

 

20 Cose che il Golpe Covid

Ha Rivelato sull’Umanità.

Conoscenzealconfine.it – (24 Marzo 2024) - Tom Woods – ci dice:

 

20 cose che ho imparato (o che mi sono state confermate) sull’umanità durante la “pandemia”.

1) La maggior parte delle persone preferisce stare con la maggioranza, piuttosto che avere ragione.

2) Almeno il 20% della popolazione ha forti tendenze autoritarie, che possono emergere nelle giuste condizioni.

3) La paura della morte è rivaleggiata solo dalla paura della disapprovazione sociale. Quest’ultima potrebbe essere più forte.

4) La propaganda è efficace ai giorni nostri come lo era 100 anni fa. L’accesso a informazioni illimitate non ha reso la persona media più saggia.

5) Ogni cosa può essere e sarà politicizzata dai media, dal governo e da coloro che si fidano di loro.

6) Molti politici e grandi aziende sacrificheranno volentieri vite umane se ciò favorisce le loro aspirazioni politiche e finanziarie.

7) La maggior parte delle persone crede che il governo agisca nell’interesse del popolo. Anche molti di coloro che criticano apertamente il governo.

8) Una volta presa una decisione, la maggior parte delle persone preferisce continuare nella stessa direzione, piuttosto che ammettere di aver sbagliato.

9) Gli esseri umani possono essere addestrati e condizionati in modo rapido e relativamente facile, modificando significativamente i loro comportamenti, in meglio o in peggio.

10)Quando è sufficientemente spaventata, la maggior parte delle persone non solo accetta l’autoritarismo, ma lo richiede.

11) Le persone che vengono liquidate come “teorici della cospirazione” sono spesso solo ben informate e in anticipo rispetto alla narrativa mainstream.

12) La maggior parte delle persone dà più valore alla sicurezza e alla protezione che alla libertà e anche se questa “sicurezza” è solo un’illusione.

13) L’adattamento edonico (processo psicologico da cui l’essere umano sperimenta un adattamento dell’intensità delle proprie emozioni) si verifica in entrambe le direzioni e, una volta che si instaura l’inerzia, è difficile riportare le persone alla “normalità”.

14) Ad una percentuale significativa di persone piace molto essere sottomesse.

15) “La Scienza” si è evoluta in una pseudo-religione secolare per milioni di persone in Occidente. Questa religione ha poco a che fare con la scienza stessa.

16) La maggior parte delle persone si preoccupa più di dare l’impressione di fare la cosa giusta, piuttosto che farla davvero.

17) La politica, i media, la scienza e l’industria sanitaria sono tutti corrotti, in varia misura. Scienziati e medici possono essere comprati con la stessa facilità dei politici.

18) Se rendete la gente abbastanza comoda, non si ribellerà. Si possono mantenere milioni di persone docili mentre si tolgono loro i diritti, dando loro denaro, cibo e intrattenimento.

19) Le persone oggi sono eccessivamente compiacenti e mancano di vigilanza quando si tratta di difendere le proprie libertà dalla prevaricazione del governo.

20) È più facile ingannare una persona che convincerla di essere stata ingannata.

(Tom Woods) - (tomwoods.com).

(toba60.com/20-cose-che-il-golpe-del-covid-rivela-sullumanita/)

 

 

 

 

Perché la Cina può essere

solo un Paese autoritario.

 Linkiesta.it - Michael Schuman – (3 novembre 2021) – ci dice:

 

(“L’impero interrotto. La storia del mondo vista dalla Cina”, di Michael Schuman, (traduzione di Luisa Agnese Dalla Fontana), Utet editore, 2021”.)

 

Nonostante la deriva verso il totalitarismo intrapresa negli ultimi anni preoccupi l’Occidente, la verità è che non esistono nella sua storia esempi liberali e democratici cui guardare.

La direzione, sembra suggerire “Michael Schuman” nel suo ultimo libro, sembra essere solo quella.

Gli imperi vanno e vengono.

 Quelli greco, romano, bizantino, spagnolo, britannico, ottomano, abbaside, persiano, mongolo, moghul e tanti altri sono tutti scomparsi.

Nelle frontiere, nel diritto, nell’architettura e nella lingua ne rimangono le vestigia, ma come entità politiche non esistono più.

Si potrebbe pensare che in Cina sia successo lo stesso:

non ha più dinastie e imperatori, e l’antico palazzo reale, la cosiddetta Città proibita, è ormai un’attrazione turistica di Pechino.

 

Ma la Cina è un impero diverso dagli altri:

in larga misura, esiste ancora.

Nella sua veste di stato nazione, è una versione delle entità politiche cinesi indipendenti che in precedenza si formarono più o meno nella stessa area geografica.

 Il sistema politico cinese, nella sostanza, si è dimostrato davvero resistente.

 L’epoca delle dinastie imperiali in Cina è durata assai a lungo, ben 2100 anni.

Noi in Occidente tendiamo a considerare la storia cinese una serie di dinastie, una di seguito all’altra, quasi fossero inquilini che si susseguivano nella Città proibita;

quando il contratto di affitto di una dinastia scadeva, subentrava un’altra coppia regale;

per noi, i nomi degli svariati imperi possono sembrare diversi, da Tang a Song a Ming, ma sono più o meno intercambiabili.

Le cose non andarono proprio così.

In certi periodi, spesso lunghi, la Cina era divisa in stati avversari o dominata da invasori stranieri.

Anche se le diverse dinastie avevano alcuni tratti simili, essendo tutte monarchie verticistiche, non erano affatto identiche:

ciascuna aveva caratteristiche proprie, adeguate alla sua epoca, e le incarnazioni successive sviluppavano le istituzioni e le ideologie create dai loro predecessori.

Tuttavia, l’aspetto più incredibile della storia politica della Cina è la frequenza con cui venne ricostituito l’impero.

La Cina avrebbe potuto facilmente seguire lo stesso percorso dell’Europa, dove un’area con origini culturali e storiche comuni a un certo punto si divise in paesi in competizione con lingue, governi e obiettivi propri.

Lì invece i pezzi venivano sempre rimessi insieme.

L’idea di una “Cina” unica, formulata prima dell’epoca di Cristo, reggeva saldamente.

Se la Cina non era unita, la sua classe politica ogni volta desiderava che tornasse a esserlo. I

l venerato romanzo cinese del Trecento Il romanzo dei tre regni inizia con questa frase: «L’impero, a lungo diviso, deve unirsi. A lungo unito, deve dividersi».

Potrebbe sembrare che la Cina di oggi neghi questa massima. L’ultimo imperatore fu cacciato dal trono nel 1912.

 Il governo di Pechino si considera comunista, la sua ideologia di fondo si basa sul marxismo-leninismo (importato da un altro filo della storia del mondo).

La Cina moderna non è un impero, o una dinastia, ma uno stato nazione costituito come quelli occidentali.

 È membro della “comunità delle nazioni”, fondata in base alle norme che in Europa regolano le relazioni internazionali.

 

Ma il regno cinese del XXI secolo somiglia assai più ai suoi predecessori imperiali di quanto non appaia a prima vista.

La struttura del governo attuale non è poi così diversa da quella delle dinastie, creata per la prima volta duemila anni fa:

 uno stato centrale, con il potere accentrato nella capitale, che controllava il paese grazie a una burocrazia capillare.

 Le province, allora come oggi, spesso godevano di un certo livello di autonomia non ufficiale, e gli alti burocrati della capitale, allora come oggi, vedevano i loro propositi vanificati di continuo da funzionari con spirito indipendente delle lontane periferie.

 Esiste un proverbio cinese più vero oggi di quanto non sia mai stato: «Il cielo è in alto e l’imperatore è lontano».

In fin dei conti, comunque, l’ordine imperiale cinese era un’autocrazia.

 Non c’erano limiti ufficiali al potere dell’imperatore, e il suo comportamento e le sue decisioni venivano tenuti a freno solo da ingiunzioni morali, precedenti di corte e talvolta consiglieri con una forte volontà.

Ma tecnicamente la parola dell’imperatore era legge.

“Kangxi”, imperatore della “dinastia Qing”, scrisse:

«Concedere la vita e dare la morte – questi sono i poteri di un imperatore».

 E non stava affatto esagerando.

 

Oggi in Cina non c’è una singola persona che da sola detenga il potere di vita e di morte:

la Repubblica popolare, costituita nel 1949, ha una costituzione, un procedimento legislativo e un sistema giudiziario.

Tale divisione dei poteri però esiste solo sulla carta, mentre nella pratica la definizione di “Kangxi” suona ancora vera.

I massimi dirigenti possono fare quello che desiderano, e quadri di partito, giudici e funzionari pubblici eseguono quanto viene ordinato.

Chi sfida lo stato viene trattato con brutalità.

Come minimo, il sistema politico cinese del XXI secolo è al limite del totalitarismo.

Nel 2018 l’attuale presidente, “Xi Jinping”, ha fatto abolire dalla costituzione del paese i limiti di tempo alla sua permanenza in carica, e questo significa che se vuole può regnare a vita come un imperatore.

 E i mandarini imperiali, spesso paranoidi, potevano solo sognare di mettere le mani sulla moderna tecnologia grazie alla quale oggi “Xi” può monitorare le telefonate, i messaggi, le mail, i movimenti, le abitudini di acquisto e le transazioni finanziarie dei cinesi.

 

L’attuale regime sta diventando più simile alle dinastie per aspetti che influenzano direttamente la sua visione del mondo e le sue azioni sulla scena mondiale.

Il partito comunista cinese è nato un secolo fa per reazione della Cina allo scontro con le potenze occidentali;

i suoi fondatori, come molti altri intellettuali all’epoca, credevano che lo stato cinese e le istituzioni su cui si basava fossero poco adatti al mondo moderno:

se la Cina non si fosse liberata delle sue antiche usanze, il popolo cinese sarebbe stato condannato alla schiavitù coloniale, alla mercé degli stati europei, più potenti.

Per buona parte della sua esistenza il partito comunista è stato impegnato a sradicare tutti gli aspetti della Cina tradizionale, le sue religioni, le sue filosofie, i valori familiari, l’istruzione, il sistema economico eccetera, eccetera.

La missione del comunismo, in fondo, è di distruggere la società esistente, corrotta, e sostituirla con un’utopia libera dallo sfruttamento.

«Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni», come recita il mantra.

 

Ma la Cina moderna, con il suo capitalismo selvaggio, i parcheggi stipati di Tesla e i lussuosi centri commerciali, non somiglia a nulla del genere, e dunque i suoi dirigenti sono impegnatissimi a far rivivere la cultura tradizionale che si sono sforzati tanto di sradicare.

Il presidente “Xi” promuove personalmente gli antichi codici etici, la letteratura e l’ideologia governativa di epoca imperiale, e il regime comunista si trasforma sempre di più in un nuovo genere di dinastia.

Per molti di noi occidentali, questa svolta verso il totalitarismo è angosciante.

Da circa centoventicinque anni in Cina desiderano più diritti democratici, un’aspirazione che è sempre rimasta irrealizzata.

L’autoritarismo però è più conforme alla storia del mondo cinese:

a differenza di noi che siamo in Occidente, i cinesi non possono ispirarsi con entusiasmo ad antiche repubbliche, e nel corso millenario dello sviluppo politico cinese l’ideale politico è stato la monarchia autoritaria. Questo non vuol dire che i cinesi desiderino o meritino di vivere sotto regimi oppressivi, ma significa che i capi cinesi per creare un governo rappresentativo di tipo occidentale dovrebbero guardare a modelli europei o americani, anziché al proprio passato.

Questo vale anche in senso più generale.

Quello che per noi in Occidente è normale, o persino fondamentale per una società moderna, risulta abbastanza nuovo per i cinesi.

Il concetto di diritti umani inalienabili, la parità tra stati nella diplomazia internazionale, il governo costituzionale, un’autorità giudiziaria indipendente, la parità di genere, sono tutti concetti nuovi per la Cina e non fanno parte della sua lunga storia. (Per la verità, sono abbastanza recenti anche in Occidente.)

Quando guardiamo il mondo, tendiamo a dimenticare che altri popoli non condividono la nostra evoluzione politica, sociale ed economica, e quindi magari non condividono nemmeno i nostri ideali e le nostre priorità.

Con questa affermazione non si intende tanto giustificare la repressione cui è soggetto oggi il popolo cinese, quanto sottolineare che la storia cinese del mondo ha prodotto esiti diversi da quella dell’Occidente.

E mentre la Cina ascende sulla scena mondiale, porta con sé il bagaglio che si è trascinata dietro nel suo lungo viaggio storico, con tutti gli onori e i disonori annessi.

(“L’impero interrotto. La storia del mondo vista dalla Cina”, di Michael Schuman, (traduzione di Luisa Agnese Dalla Fontana), Utet editore, 2021).

 

 

 

Margarita Simonyan sull’Attentato

di Mosca: “Non è l’Isis!”

Conoscenzeaconfine.it - (25 Marzo 2024) – Redazione - “Margarita Simonyan” – ci dice:  

 

“L’Ucraina e l’Occidente hanno fatto ricorso a operazioni di false flag per convincere tutti che dietro l’attacco terroristico al “Crocus City Hall”, nei pressi di Mosca, ci fosse l’ISIS”, ha dichiarato “Margarita Simonyan”, caporedattore del gruppo mediatico “Rossiya Segodnya”, che fa capo a “Sputnik”.

La direttrice del gruppo mediatico ha sottolineato che i nomi e i volti dei responsabili sono già noti alle autorità e che i terroristi hanno rivelato tutto durante gli interrogatori.

 “È apparso subito chiaro perché i media statunitensi hanno affermato all’unisono che si trattava dell’ISIS”, ha detto.

“Simonyan” ha spiegato che gli autori sono stati scelti per compiere l’attacco in modo da permettere all’Occidente di persuadere la comunità internazionale che dietro l’attacco c’è l’ “ISIS”.

“Un gioco di prestigio di base. Il livello di un ditale ferroviario”, ha aggiunto.

“Non ha nulla a che fare con l’ISIS. Sono stati gli ucraini”.

Ha aggiunto che l’entusiasmo mostrato dai media occidentali quando hanno cercato di persuadere tutti che l’“ISIS “era responsabile anche prima che venissero effettuati gli arresti, li ha traditi completamente.

“Questo non è l’ISIS. Si tratta di una squadra ben coordinata di diverse altre sigle, anch’esse ampiamente conosciute”, ha concluso “Simonyan”.

La sparatoria è avvenuta venerdì sera nella sala concerti “Crocus City Hall”, alle porte di Mosca, ed è stata seguita da un incendio di vaste proporzioni che ha provocato almeno 143 vittime.

 

Nelle ore successive all’attacco, i media occidentali hanno insistito sull’”organizzazione jihadista radicale ISIS”, mentre i funzionari ucraini hanno affermato di non avere nulla a che fare con la tragedia.

Tuttavia, i sospettati sono stati arrestati nella “regione russa di Bryansk”, vicino al confine ucraino.

Secondo i dati forniti dalle forze dell’ordine, avevano una base di appoggio dall’altra parte del confine.

Inoltre, mentre Kiev si è affrettata a negare il proprio coinvolgimento nella sparatoria, si sa che i servizi segreti ucraini hanno un lungo curriculum di attacchi terroristici in territorio russo, dai bombardamenti nella regione di Belgorod, agli assassinii della politologa “Daria Dugina” e del giornalista “Vladlen Tatarsky”.

(lantidiplomatico.it/dettnews-margarita_simonyan_sullattentato_di_mosca_non__lisis/45289_53757/)

 

 

 

 

L'obiettivo della Cina è l'egemonia

globale. L'America non può

far finta di nulla.

 Ilfoglio.it – (01 GIU 2020) – Redazione – ci dice:

    

I discorsi di “Xi” indicano che Pechino vuole creare un nuovo ordine mondiale governato da princìpi autoritari.

 L’occidente deve prenderne atto, scrive “Bloomberg” (20/5).

Se cadono i giganti.

Possiamo complimentarci con il Partito comunista cinese perché fa ciò che dice e sa ciò cosa vuole?

 Questa potrebbe essere la chiave per comprendere le ambizioni strategiche di Pechino nei prossimi decenni”, scrive lo storico “Hal Brands” su “Bloomberg”:

“Un vecchio modo di dire americano sostiene che la Cina non sa cosa vuole ottenere, e i suoi leader non hanno ancora compreso quanto sia vasta la propria influenza.

 Tuttavia, molti indizi indicano che il governo cinese vuole conquistare il primato globale entro la prossima generazione, che intende capovolgere il sistema internazionale guidato dall’America e creare un nuovo ordine mondiale.

Non servono grandi abilità interpretative per arrivare a questa conclusione.

Alcuni importanti funzionari e membri dell’apparato della politica estera cinese stanno confidando questa loro ambizione.

 Il presidente “Xi Jinping” ha indicato questo obiettivo nel suo intervento al 19esimo congresso del partito nell’ottobre 2017.

Il discorso riflette il pensiero di “Xi “riguardo ai successi ottenuti dalla Cina sotto il regime comunista oltre ai propositi per il futuro.

 Il presidente ha dichiarato che la Cina ‘si è arricchita, sta diventando forte’, ed è oggi “un esempio per i paesi in via di sviluppo”.

“Xi” ha promesso che entro il 2049 il paese diventerà ‘un leader globale sia in termini di forza nazionale e influenza internazionale’ e costruirà ‘un ordine globale stabile’ attraverso il quale otterrà ‘il ringiovanimento nazionale della Cina”.

 Questo è il discorso del leader di un paese che non si accontenta di partecipare agli affari globali ma intende stabilirne i termini, a dimostrazione di due temi fondamentali della politica estera cinese.

Innanzitutto, una visione negativa dell’attuale sistema internazionale.

I leader cinesi riconoscono che il regime del commercio globale è stato indispensabile per la sua crescita economica e militare.

Tuttavia, credono che il sistema internazionale forgiato da Washington e dai suoi alleati sia minaccioso.

Per la Cina le alleanze americane non preservano la pace e la stabilità ma limitano il potenziale di Pechino e compromettono i suoi rapporti con gli altri paesi asiatici.

Secondo questo punto di vista, la promozione della democrazia e dei diritti umani non è un atto morale bensì un tentativo di delegittimare il governo cinese e rafforzare i suoi critici interni.

 Il Partito comunista cinese riconosce che l’ordine liberale internazionale ha portato dei benefici, scrive lo studioso “Nadege Rolland”, ma allo stesso tempo ‘disprezza i princìpi’ su cui si basa.

 Il secondo tema è che l’ordine internazionale dovrà cambiare molto per consentire alla Cina di diventare un paese prospero e sicuro.

 I leader cinesi sono stati comprensibilmente ambigui nel descrivere il loro mondo ideale, eppure il progetto sta diventando sempre più chiaro.

“Liza Tobin”, analista di storia e politica cinesi, sostiene che, studiando i discorsi di “Xi Jinping” e dei suoi dirigenti, emerge l’ambizione di creare ‘una rete di alleanze globali incentrate sulla Cina per sostituire il sistema a trazione americana’ e convincere il mondo che l’autoritarismo sia meglio della democrazia occidentale.

Per quanto riguarda l’ordine globale, Pechino vuole creare un sistema in cui le istituzioni internazionali difendono i regimi autoritari anziché sanzionarli.

Nel frattempo, gli strateghi e accademici cinesi parlano apertamente di costruire ‘un nuovo ordine economico globale incentrato sulla Cina’.

Tuttavia, non è chiaro se l’orizzonte strategico di Pechino sia limitato al Pacifico occidentale o all’Asia.

 I riferimenti di “Xi” a una ‘comunità con un futuro condiviso per l’umanità’ indicano l’ambizione cinese di influenzare lo scacchiere internazionale.

Non bisogna leggere tra le righe per capire che questo programma comporta lo sconvolgimento degli attuali equilibri geopolitici.

Certo, non bisogna prendere alla lettera tutto ciò di cui parlano gli uomini di governo.

 Tuttavia, i leader cinesi dicono meno di ciò che il paese sta facendo realmente.

 Che si tratti del programma di costruzioni militari che sta sfornando navi a un ritmo impressionante, del tentativo di controllare le organizzazioni internazionali esistenti e costruirne di nuove, della sfida per dominare le industrie ad alta tecnologia, degli sforzi sempre più sistematici per sostenere i regimi autoritari e indebolire le istituzioni democratiche, o della “Belt and Road initiative” che coinvolge vari continenti, alla Cina non manca un grande disegno geopolitico.

La competizione tra America e Cina ricordi per molti versi la Guerra fredda.

Durante gli anni Settanta alcuni sovietologi americani insistevano che Mosca si era accontentata del suo status globale.

Tuttavia, questa tesi ignorava tutto ciò che i leader sovietici dicevano riguardo alla distensione e alla coesistenza pacifica – che per loro era un modo per fare trionfare il socialismo senza fare la guerra – oltre ai loro sforzi per conquistare la superiorità militare nel Terzo mondo.

 I pericoli all’epoca erano evidenti, così come lo sono oggi.

 La Cina probabilmente non segue una tabella di marcia per raggiungere il primato globale, così come non lo faceva l’Unione sovietica negli anni Settanta.

 I leader cinesi non ignorano i costi e gli ostacoli dei loro progetti:

“ Xi” ribadisce periodicamente l’importanza di riunificare la nazione cinese, ma questo non significa che intende fare la guerra a Taiwan.

Pechino non ha ancora deciso se è più conveniente dominare il Pacifico occidentale ed espandersi gradualmente, oppure aggirare il ruolo dell’America nella regione aumentando il proprio potere economico e politico nel mondo.

 La Cina potrebbe fallire in entrambi gli obiettivi.

Forse il coronavirus indebolirà gli Stati Uniti e l’ordine liberale al punto che favorirà l’ascesa di Pechino.

Tuttavia, dobbiamo riconoscere che il dibattito su ciò che vuole la Cina è diventato stantio perché i leader del regime hanno già risposto a questa domanda.

Quando un rivale fiero e potente inizia a esternare le sue ambizioni globali, gli americani dovrebbero prenderlo sul serio.

 

 

 

Russia e Cina adorano

la guerra a Gaza.

 Ilfoglio.it - REDAZIONE – (22 MAR. 2024) – ci dice:

    

Mosca e Pechino bloccano una risoluzione per la tregua all’Onu e nel frattempo fanno accordi con gli “houthi”.

 

La Russia e la Cina hanno bloccato una risoluzione presentata dagli Stati Uniti all’Onu che chiedeva un cessate immediato a Gaza legato al rilascio altrettanto immediato degli ostaggi israeliani tenuti prigionieri da Hamas e dal Jihad islamico.

Il rappresentante russo presso le Nazioni Unite,” Vasili Nebenzya”, prima del voto aveva detto che gli Stati Uniti avevano bloccato ben quattro risoluzioni sul cessate il fuoco e la risoluzione americana più che una richiesta era un “imperativo”.

Finora gli Stati Uniti, e non da soli, hanno bloccato alcune risoluzioni promosse da Pechino e Mosca, perché nessuna di queste conteneva una condanna dei terroristi e del massacro del 7 ottobre.

Russia e Cina pensano all’unisono, sostengono di avere a cuore la vita dei civili palestinesi, però votano contro una risoluzione bilanciata che lega il cessate il fuoco a una richiesta impellente e necessaria di salvezza degli oltre centotrenta prigionieri israeliani che da cinque mesi sono nelle mani dei terroristi, senza cure, probabilmente nascosti in tunnel, in condizioni fisiche e mentali precarie e tra i centotrenta ci sono anche ostaggi già morti. (…)

 

 

 

 

Come definire la minaccia cinese.

Aspeniaonline.it - Nunziante Mastrolia – (15 giugno 2021) – ci dice:

L'idea che i liberi commerci avrebbero trasformato dall'interno la Cina, rendendola più simile alle liberal-democrazie occidentali, si è rivelata almeno per il momento un fallimento.

 Il vecchio dispotismo asiatico, che ha un suo degno rappresentante nel Partito comunista cinese, ha fatto dirottato il processo di transizione e usato la ricchezza prodotta dall'apertura del paese all'economia internazionale per acquisire maggiore forza da utilizzare per aumentare il proprio consenso e la propria capacità di controllo sul paese.

Così, nel tempo, le liberal-democrazie hanno preso atto di questo dato di fatto e la Cina è passata da partner a competitor, fino a divenire una minaccia.

Ed è qui che sono iniziate una serie di analisi che con l'avvento della minaccia cinese segnalano il ritorno, con un certo sollievo, delle chiare e prevedibili logiche della guerra fredda.

Ma siamo davvero sicuri che il confronto sempre più duro che si va profilando tra Stati Uniti e Cina possa essere assimilato a quello tra che ci fu tra Stati Uniti ed Unione Sovietica?

 

La minaccia sovietica era di tipo sistemico.

Mosca incarnava la possibilità dell'esistenza di un modo diverso di governare l'umana famiglia.

Era anzi l'idea che esistesse una formula di gran lunga superiore rispetto a quella occidentale in grado di assicurare maggiore prosperità, maggiore libertà e maggiore giustizia sociale.

 La concreta di questo dato di fatto la si coglie nell'esistenza di partiti politici, movimenti sindacali manifestazione, schiere di intellettuali e di media che anche nei paesi occidentali si schieravano dalla parte di Mosca e svolgevano il ruolo di persuasori permanenti per aumentare il consenso a favore degli ideali del comunismo.

In sintesi, quello che veniva da Mosca era un messaggio universale di liberazione valido per tutti i popoli sotto ogni cielo ea ogni latitudine.

 Al contrario, da Pechino non viene nulla di tutto ciò.

Per un certo periodo, la Cina ha provato a presentare l'esperimento cinese, vale a dire il tentativo di far convivere economia di mercato (con tutti i 'se' del caso) e autoritarismo, come un modello vincente da esportare nel mondo, e così lo ha presentato soprattutto ai paesi che in questi anni non sono riusciti a cogliere i frutti della globalizzazione, in particolare i paesi africani e quelli latino-americani.

Un tale messaggio ha convinto qualche regime autoritario in giro per il mondo, ma non ha scaldato di certo i cuori di milioni di persone né ha portato alla formazione di quinte colonne interne che si schierano apertamente dalla parte di Pechino e che lavorano permanentemente per aumentare il consenso a favore della causa cinese.

 

Per dirla diversamente, mentre migliaia di persone sono disposte a rischiare la vita attraversando il Mediterraneo per arrivare in Europa, o il Rio Grande per arrivare negli Stati Uniti, non mi risulta che lo stesso accada lungo i confini cinesi, o quelli russi o quelli turchi.

In questo senso, si può dire che i flussi migratori sono un modo attraverso il quale migliaia di persone votano con i piedi dimostrando la loro occasione circa i luoghi nei quali ambire a vivere, rischiando per questo la vita stessa.

E quelle persone non stanno affatto scegliendo il “modello cinese”.

C'è di più, le autorità del Partito comunista cinese sono riuscite a bloccare il processo di transizione innescato con le aperture di “Deng Xiaoping che impedisce che la goccia dell'economia potesse scalfire la pietra dell'autoritarismo politico.

 Lo hanno fatto una prima volta, nel 1989, con i carri armati in Piazza Tienanmen in maniera plateale e lo hanno continuato a fare negli anni successivi reprimendo con la forza qualsiasi voce di dissenso – come nel caso di “Liu Xiaobo”, l'autore di “ Charta 08”, un appello alla libertà ispirato alla “Charta 77” di “Václav Havel”.

 Nel 2010” Liu” è stato insignito del premio Nobel per la Pace.

 Premio che non ha mai ritirato perché dal 2008 era in carcere, dove è restato fino alla morte il 13 luglio del 2017.

 Il partito unico, dunque, è riuscito a bloccare il dissenso e qualsiasi pressione per maggiori libertà, tanto che “Liu Xiaobo” sembra oggi dimenticato da tutti.

 

Tuttavia, la vittoria nel bloccare qualsiasi movimento di dissenso ed impedire che le aperture fatte in campo economico e sociale possano avere anche implicazioni a livello politico, non garantiscono di certo la tenuta del modello cinese.

Anzi non è affatto detto che questo sistema, autoritario in politica e aperto in economia (con tutti i “se” e i “ma” del caso) possa davvero continuare a produrre ricchezza e dar vita a un sistema economico autopropulsivo.

Difficile cioè fare così della Cina non un assemblatore di giocattoli, che cresce sulla base del basso costo della propria manodopera, ma un'economia che cresce sulla base della ricerca scientifica e dell'innovazione prodotta dalle menti dei propri cittadini, lasciate libere di esplorare l 'infinito mondo del possibile.

 

Per dirla diversamente, è possibile che le autorità cinesi abbiano trovato il modo di rimanere al potere, ma è francamente impossibile che stiamo sperimentando una formula nuova che possa essere migliore del combinatore di Stato di diritto ed economia di mercato, nel produrre sviluppo economico.

 Questo significa che è veramente difficile che Pechino possa presentarsi come l'alfiere di una nuova formula, di una nuova soluzione valida per tutta l'umana famiglia, che sia in grado di produrre maggiore ricchezza, una più forte giustizia sociale e offrire a tutti i popoli una via per crescere e prosperare fuggendo dalla povertà.

In sintesi, non stiamo assistendo al ritorno di una nuova guerra fredda per più di una ragione:

perché Pechino non è Mosca;

perché l'autoritarismo cinese non è il messaggio universale di liberazione del comunismo che ha scaldato i cuori di milioni di persone in giro per il mondo;

 e perché a breve potrebbe dimostrarsi che il caso cinese non è affatto una storia di successo economico e prosperità, ma una macchina che sta in piedi con la repressione e che potrebbe essere dilaniata dalle faide interne.

 

Tra collasso e ibernazione.

La Cina, dunque, non può essere considerata una minaccia sistemica e questo perché, come si è detto, non incarna un sistema totalmente altro rispetto alle liberal-democrazie ad economia di mercato, ma è un accrocco formato da pezzi di diversi sistemi che di fatto rendono il paese schizofrenico.

Da una parte, infatti, c'è il partito unico, che vive grazie alla chiusura e al controllo;

dall'altra c'è il sistema economico che può crescere solo grazie all'apertura e alla libertà.

Se dunque non è una minaccia sistemica allora che cos'è?

Andiamo con ordine.

Quello cinese, nonostante le apparenze, è un sistema fragile e instabile, proprio perché è il risultato di una serie di assemblaggi di pezzi che funzionano l'uno in maniera diversa dall'altra (la politica cinese ha bisogno della chiusura, mentre la sua economia ha bisogno dell'apertura, per riprendere l'esempio che si diceva poc'anzi).

C'è di più, la presidenza di Xi Jinping”, accentrando il potere in una sola persona e gettando alle ortiche tutte le norme che regolavano la successione da una generazione all'altra, ha creato delle condizioni tali che la lotta tra le diverse fazioni tutte all 'interno del partito potrebbe in futuro tramutarsi in guerra civile.

Ed è proprio da questa incredibile fragilità di un paese immenso, che è ai vertici dell'economia globale, che viene la prima minaccia.

Che cosa accadrebbe in caso di una lotta politica interna che potrebbe tramutarsi in una guerra per bande tra le diverse fazioni all'interno del paese?

E ancora, che cosa accadrebbe se l'attuale sistema di potere dovesse collassare?

C'è anche un'altra ipotesi, per certi versi alternativi a quella del collasso, e si tratta dell'ibernazione.

Il partito unico per poter sopravvivere ha bisogno della chiusura e di un sistema di controllo che imbrigli il Paese e blocchi qualsiasi dissenso.

Questo non può che essere in contrasto con le esigenze dell'economia, che ha bisogno di libertà e apertura per poter crescere e innovare.

Se, come sembra, le logiche della politica dovessero avere il sopravvento sulle esigenze dell'economia, allora il paese potrebbe chiudersi sempre più, il che causerebbe un calo della crescita economica:

 la Cina vedrebbe così sfumare lentamente i propri sogni di ricchezza e prosperità.

Si tratterebbe di un ritorno al passato, come accadde, giusto per fare un esempio, a partire dagli anni Trenta del Quattrocento, quando, dopo le grandi spedizioni navali dell'ammiraglio “Zheng He”, le porte della Cina furono chiuse, tenendo fuori il resto del mondo, finché gli inglesi nel 1839 non presero a cannonate quelle porte.

Quali sarebbero le ripercussioni a livello internazionale di un'economia come quella cinese che piano piano si spegne?

Quali sarebbero le ripercussioni internazionali di un sistema politico cinese che, come già accade, darebbe la colpa dei propri affanni e delle proprie difficoltà a complotti orditi da potenze straniere?

Ci potremmo ritrovare a dover gestire una Cina chiusa, più povera, rancorosa e revanscista, che potrebbe diventare il centro da cui si propagano a livello globale ondate di instabilità politica ed economica.

 

Correre avanti per tornare indietro.

I due casi sin qui richiamati, e cioè l'ipotesi che il sistema politico cinese possa implodere o che il paese possa ibernarsi, rappresentano a livello politico ed economico un tipo di minaccia che potrebbero definire di tipo passivo.

Ma Pechino può rappresentare anche una minaccia di tipo attivo, sia a livello regionale che a livello globale.

Le questioni territoriali sono la prima fonte di attrito tra la Cina e i paesi dell'Indo-Pacifico, sia lungo i confini terrestri (India) sia, soprattutto, sul fronte marittimo.

In particolare, Mar cinese meridionale, Mar cinese orientale e soprattutto Taiwan.

Ora, se è vero che in queste controversie territoriali c'entrano (molto limitatamente, un parere di chi scrive) anche questioni di tipo economico (giacimenti petroliferi e minerari, risorse ittiche) e strategiche (l'accesso all'alto mare, oltre le due catene di isole) l'elemento che rende potenzialmente esplosiva le controversie e irrigidisce a tal punto le parti da rendere quasi impossibile una soluzione negoziale è l'aspetto simbolico, che si lega al “secolo delle umiliazioni” (il XX) e quindi al nazionalismo cinese.

 

Per dirla in breve, le leadership cinesi leggono la storia del paese dal 1921 in poi come il tentativo di riportare la Cina al centro del mondo e al vertice delle potenze mondiali, per non poter più subire le umiliazioni patite a partire dalla Prima guerra dell'Oppio.

Parte essenziale di questa enorme opera di restauro è riportare sotto la piena sovranità cinese quei territori che la retorica nazionale ritiene siano stati strappati con la forza e con l'inganno dalle potenze coloniali.

Del resto, oggi la fonte della legittimazione del partito consiste proprio in questo.

 A differenza del recente passato, quando il Partito comunista cinese si presentava come l'agente che avrebbe garantito ai cittadini cinesi ricchezze che mai avevano avuto nella loro storia, oggi esso si presenta come l'unico attore in grado di riportare indietro le lancette della storia e ricostruire il vecchio orgoglio” han”, vendicando il paese per i torti subiti.

In sintesi, l’attuale leadership cinese sta al potere perché ha promesso ai propri cittadini di lavare l’onta subita nei secoli da parte delle potenze occidentali e dal Giappone, rimarginare le antiche ferite territoriali e spezzare i bastoni che – sostiene la macchina della propaganda del partito – le potenze dominanti stanno gettando tra le ruote della Cina per fermarne l'ascesa.

Pertanto, se la Cina dovesse perdere Taiwan, vorrebbe dire che tutto quanto quello che la leadership cinese ha fatto sinora, in termini di crescita economica e di influenza politica, è stato del tutto vano;

non è servito a portare indietro le lancette della storia ed evitare che il paese venisse nuovamente umiliato.

 

Tutto ciò irrigidisce totalmente la posizione cinese e rende impossibile qualsiasi mediazione con gli altri attori dell'Asia-Pacifico.

Cedere su un solo scoglio o banco di sabbia nel Mar cinese meridionale significherebbe fare collassare come un castello di carta l'intera narrazione su cui si regge oggi il Partito comunista cinese, e significherebbe dire ai propri cittadini che tutto quanto è stato fatto negli ultimi cento anni, non è servito a nulla, visto che la Cina continua a subire il diktat delle altre grandi potenze.

Ovviamente, lo stesso discorso vale, elevata a potenza, per Taiwan.

Se dunque l'obiettivo storico della leadership cinese è quello di lavare l'onta subita durante il secolo della umiliazione e ripotare indietro le lancette della storia per ricreare quell'ordine regionale (con ambizioni euroasiatiche) di cui la Cina era il vertice, allora questo vuol dire che Taiwan ha un valore simbolico enorme, di gran lunga superiore rispetto agli scogli e banchi di sabbia del Mar cinese meridionale e orientale, o rispetto alla stessa Hong Kong che è già sotto il controllo cinese.

Per Pechino, la conquista di Taiwan significa chiudere definitivamente con una storia traumatica, significa rimarginare una ferita secolare (il Trattato di Shimonoseki del 1895) e dichiarare chiuso il doloroso capitolo degli smembramenti territoriali.

 

In sintesi, la Cina vuole Taiwan per ragioni di tipo ideologico.

Ricucire quella ferita significa concludere un ciclo della storia cinese, che ha avuto inizio con l'invasione delle potenze occidentali.

 Al contrario, perdere Taiwan significa che da allora nulla è cambiato e che la Cina è ancora in balia di potenze straniere, il che equivarrebbe a dire che il partito ha fallito nella sua missione storica e che non ha più una fonte salda di legittimazione in grado di giustificare la sua permanenza al potere.

Tutto ciò, per contro, vuol dire che non vi sono prevalenti ragioni di tipo economico né di tipo tecnologico e neppure di tipo strategico.

Le aziende taiwanesi sono presenti da decenni in Cina, garantendo sia investimenti sia quel trasferimento tecnologico che alla dirigenza cinese interessa sin dai tempi del “Movimento dell'Auto rafforzamento” negli ultimi decenni del XIX secolo, sotto la dinastia “Qing”.

Del resto per la Cina, come per qualsiasi altro paese, è molto più conveniente acquistare la tecnologia di cui ha bisogno o le aziende più promettenti, anziché scatenare una guerra regionale per poter conquistare Taiwan (ammesso e non concesso che poi le aziende non delocalizzino altrove).

D'altro canto, questo significa che l'isola non interessa a Pechino in modo particolare per la sua posizione strategica (stesso discorso vale per le isolette, gli scogli e i banchi di sabbia nel Mar cinese orientale e nel Mar cinese meridionale) o perché funzionale alla politica di rafforzamento del potere navale cinese.

La Marina militare cinese ha basi navali lungo tutta la costa orientale e la conquista di Taiwan non aggiungerebbe di molto alla capacità di proiezione che Pechino ha già acquisito con il varo delle sue due portaerei.

In quest'ottica si può dire che in ballo non ci sono fattori strettamente materiali (tecnologia, armamenti, vantaggio strategico) ma fattori prettamente immateriali e simbolici, che però si legano a qualcosa di molto concreto, vale a dire la legittimazione del Partito comunista cinese e la sua permanenza al potere.

La logica delle transizioni.

È difficile dire quale delle due diverse tipologie di minacce che la Cina pone al sistema internazionale, se quella attiva, o quella passiva, sia la più pericolosa.

Certo si può dire quale si rivelerebbe maggiormente densa di incognite, e cioè il collasso del sistema politico che attualmente governa il paese.

 Il che impone di ragionare sulle logiche che governano i processi di transizione da sistemi autoritari a partito unico alle liberal-democrazie.

Negli anni della guerra fredda riguardo ai processi di decolonizzazione era abbastanza diffusa l'idea che quanto più era travagliata la transizione verso la piena indipendenza di un paese, tanto maggiore era la possibilità che le forze filo-sovietiche prendessero il potere.

 È possibile elaborare una riflessione simile per quanto riguarda il passaggio dalle società chiuse alle società aperte?

Forse sì, ma è necessario essere molto accorti e ragionare sulla base di qualche esempio.

 

Se prendiamo il caso italiano, con il passaggio dal fascismo alla repubblica, si può fare qualche riflessione interessante.

In primo luogo, riprendendo la lezione di “Renzo De Felice”, il fascismo aspirò a essere un sistema totalitario ma incontrò dei limiti oggettivi nella Corona e nella Chiesa Cattolica, che impedirono che il fascismo fagocitasse del tutto lo Stato e la società civile.

 C'è di più, la Resistenza ebbe un carattere fondante, non solo in termini di valori, generando una fonte di legittimazione che nulla aveva a che fare con il passato regime, ma anche offrendo una classe dirigente, che poté costruire la Repubblica.

Per certi aspetti, diversi sono i casi del Giappone e della Germania.

Nel primo caso, l'imperatore, del tutto compromesso con il militarismo nipponico, non poteva essere l'istituzione fondante di un paese libero e democratico.

La funzione di transizione e di fondazione delle nuove istituzioni in quel caso viene svolta dalle forze armate americane.

 Stessa cosa accade anche in Germania, con un ruolo importante svolto dalle forze di occupazione alleate, sebbene in modo più sfumato, vista la presenza di un passato liberal-democratico al quale era possibile riconnettersi (il partito socialdemocratico e quello cattolico).

Altro caso interessante è quello spagnolo con l'uscita dal franchismo. Là è la Corona a fornire gli uomini, le istituzioni e la legittimazione necessaria per costruire la monarchia costituzionale e aprire alla Spagna le porte di una piena e libera democrazia liberale.

Ciò che emerge da questi pochi esempi sommari è interessante:

 perché una transizione possa avere successo è necessario che ci sia in primo luogo un perno istituzionale su cui far ruotare questa transizione, che questo perno poi sia estraneo alla società chiusa precedente e che goda di una propria autonoma e indipendente fonte di legittimazione, sia in termini di macchina istituzionale, sia in termini di gruppi dirigenti che quella macchina governano.

Diversi invece sono i casi nei quali il partito che fonda la società chiusa riesce a occupare ogni spazio.

E diverso ancora è un altro caso, quando cioè un tale sistema implode e non collassa sotto l'urto militare di una potenza straniera che ne occupa i territori e si fa carico della ricostruzione, come nel caso della sconfitta dei paesi dell'Asse nella seconda guerra mondiale.

In quei casi, quando collassa il partito che si è fatto Stato e ha occupato in toto la società civile, allora trascina con sé ogni cosa.

Non esistono attori istituzionali esterni a quel sistema totalitario sui cui fare leva, per poter creare le condizioni per la transizione.

Non esistono cioè uomini e istituzioni che hanno avuto il tempo di costruire una propria autonoma e indipendente legittimazione.

 Diventa allora necessario fare ricorso a pezzi dell'antico regime, intorno a cui ricostruire una nuova struttura istituzionale e che siano in grado di fornire una classe dirigente che possa ricostruire lo Stato.

In questo senso, emblematico è il caso russo, dove la fase di grandi turbolenze che ha fatto seguito al collasso dell'Unione Sovietica e del partito che ne reggeva le sorti, termina solo quando una nuova architettura istituzionale viene ricostruita intorno alle strutture e agli uomini dei vecchi servizi segreti sovietici.

Vale la pena chiedersi: che cosa accadrebbe in Cina se il Partito comunista dovesse collassare?

In Cina nel 1949, come in Russia nel 1917, è il partito che fonda lo Stato e negli anni nessun tentativo di staccare il partito dallo Stato ha prodotto risultati.

Anzi, con la presidenza di “Xi Jinping” la capacità del partito di svolgere un ruolo totalitario, di supremazia cioè Stato e sulla società civile, si è accresciuta considerevolmente.

C'è di più, negli anni della sua amministrazione, sotto lo slogan della lotta alla corruzione, “Xi Jinping” ha avviato una campagna di purificazione di proposte colossali che di fatto ha, come al tempo delle grandi purghe, provocato una completa sostituzione di gruppi dirigenti nelle forze armate, nelle aziende di Stato e nelle strutture preposte alla sicurezza interna, che godevano di una propria legittimazione e di una loro autonomia rispetto al leader incontrastato.

Per dirla diversamente, le grandi purghe di “Xi Jinping “sono servite a eliminare una classe dirigente che era stata promossa nei ruoli chiave dalle precedenti amministrazioni e a sostituirla con uomini in tutto dipendenti da “Xi” e dai suoi seguaci più fedeli.

Se così stanno le cose, diventa allora evidente che in caso di collasso, non solo sarebbe molto difficile poter individuare una istituzione esterna al regime in grado di fare da perno intorno a cui far ruotare la transizione, ma sarebbe anche molto difficile individuare un pezzo di istituzione, sebbene compromessa con l'antico regime, che possa svolgere questo ruolo e iniziare a costruire un nuovo ordine istituzionale.

Se dunque è vero che non esistono strutture istituzionali in grado di regolare la transizione e se è vero che in politica il vuoto non può esistere, chi potrebbe governare il paese nel caso di un collasso dell'attuale sistema istituzionale?

 La risposta in questo caso è abbastanza semplice.

Quando l'attuale leadership collasserà o per l'urto interno di altre fazioni o per non aver lasciato eredi, allora la lotta politica non potrà che diventare lotta militare e la forza diventerà l'unico strumento per poter decidere chi dovrà costruire la nuova Cina.

L'ordine sino centrico e il Far West globale.

 

C'è un ultimo aspetto che va preso in considerazione nel prospettare l'impatto che la minaccia cinese può avere:

riguarda le ambizioni di Pechino a livello internazionale e come queste ambizioni possono generare attriti con l'ordine esistente, vale a dire quello liberale -democratico a matrice americana, costruito insieme ai paesi alleati, dopo la Seconda guerra mondiale.

Si tratta cioè di ragionare intorno a quella teoria che ha avuto così successo da trasformarsi quasi in un luogo comune, e cioè la “Trappola di Tucidide”.

 Vale allora la pena provare a chiedersi se Pechino rappresenta una minaccia per l'ordine internazionale perché ambisce a sostituire gli Stati Uniti al vertice politico globale e diventare la potenza cardine del sistema internazionale.

 

A parere di chi scrive le cose non stanno affatto così e i fiumi di inchiostro che sono stati versati intorno al concetto di “Trappola di Tucidide”, difficilmente sono in grado di cogliere la realtà.

Conviene però, prima di procedere, ricordare che cosa si intende per “Trappola di Tucidide”.

 È l'idea, per dirla in maniera veloce, che in un sistema internazionale non vi sia spazio per due potenze che ambiscono all'egemonia di quel sistema.

 Così, quando la potenza emergente cresce troppo, la potenza egemone tende a usare la forza per bloccare le ambizioni politiche.

Come è accaduto nel caso di Sparta e Atene; almeno così argomentano i sostenitori di una tale ipotesi.

Ora, si potrebbe discutere a lungo sulle cause della guerra del Peloponneso e si scoprirebbe che le cose sono abbastanza più complesse di come le si vuole rappresentare.

Ma il punto, ai fini del discorso che qui si sta facendo, non è la storia greca.

 Il punto è che l'idea della “Trappola di Tucidide “non regge nel caso delle relazioni tra Stati Uniti e Cina per il semplice motivo che Pechino non ha ambizioni globali e la sua logica imperiale, che ne condiziona i comportamenti, le impedisce di essere il cuore di un sistema reciprocamente vantaggioso per tutti gli stati che ne fanno parte.

Per dirla diversamente, la logica imperiale cinese ambisce alla costruzione di “un ordine sino centrico” nel quale agli altri paesi spetta solo il ruolo di stati vassalli.

Come si diceva in precedenza, ragionando sulla mentalità collettiva della leadership cinese e sui principi sui quali si fonda la legittimazione del partito, la Cina corre in avanti per tornare indietro.

 In altre parole, l'obiettivo principale della leadership cinese, cosa che si è accentuata con “Xi Jinping”, è quello di acquisire dal sistema internazionale liberale e dalla globalizzazione risorse economiche e finanziarie tali da poter ricreare quell'ordine sino centrico, distrutto dalle potenzialità coloniali a partire dalla prima guerra dell'Oppio, che vedeva la Cina al centro del sistema con intorno una serie di stati vassalli e tributari.

Quanto deve essere grande questo ordine sino-centrico, o meglio fin dove arrivano le ambizioni cinesi, è difficile dirlo.

 Tuttavia, se si prende come metro la “Belt and Road Initiative” , il mega progetto di infrastruttura che deve connettere la Cina con l'Europa, allora si può dire che queste ambizioni sono molto ampie, (anche se, un parere di chi scrive, quel progetto egemonico è già morto).

Ora, il punto è che per quanto possano essere ampie queste ambizioni, si tratta comunque di un ordine regionale e Pechino non ambisce a creare un sistema internazionale di cui essere il centro.

 Per chiarire questo aspetto, vale forse la pena specificare in cosa consiste il lavoro di una potenza cardine di un sistema internazionale.

Qui non si tratta di ricevere tributi, come faceva il vecchio imperatore “Qianlong” alla fine del '700, o concedere agli stati vassalli il privilegio di utilizzare il calendario cinese e lasciarsi irradiare dalla complessità della tradizione sinica.

Il compito di uno Stato cardine di un sistema internazionale è quello di produrre dei beni di pubblica utilità internazionale che producono effetti benefici per tutti.

Andando all'osso questi beni di pubblica utilità internazionale sono essenzialmente tre:

la sicurezza (in particolare delle rotte marittime), una moneta globale e un insieme di istituzioni che elaborano delle norme di condotta valide erga omnes.

Era quello che faceva Roma con la Pax Romana.

Era quello che faceva l'Inghilterra con la Pax Britannica;

ed è quello che fanno gli Stati Uniti con la Pax Americana, fornendo la moneta internazionale (il dollaro), una forza in grado di garantire la sicurezza internazionale e delle rotte marittime (la flotta americana), un insieme di istituzioni in grado di produrre un ordine basato sulle norme e sul consenso (le grandi organizzazioni internazionali).

 

La Cina, a quanto è dato vedere oggi, non ambisce a produrre beni di pubblica utilità internazionale.

La flotta cinese, nonostante i passi in avanti fatti con la costruzione di una terza portaerei, resta fedele al principio del “sea denial” , vale a dire impedisce che la flotta americana intervenga troppo velocemente in caso di conflitto su Taiwan.

E l'idea che quella flotta possa essere in grado di controllare quanto meno le principali rotte che interessano Pechino, vale a dire quelle che legate al Golfo Persico e all'Europa, appare ancora lontana dal potersi realizzare.

Stessa cosa vale per l'internazionalizzazione dello yuan, su cui Pechino sta spingendo moltissimo, ma il cui obiettivo non è quello di sostituirsi al dollaro, ma quello di sottrarsi al ricatto del dollaro, creando un'area regionale in cui lo yuan possa essere la moneta franca dei commerci regionali.

Per dirla diversamente, Pechino sta cercando di fare dello yuan non la moneta di conto globale (o misura dei valori), non la moneta delle riserve internazionali (o riserva di valori), ma solo un mezzo di pagamento valido in un ambito regionale ben definito.

 Il che significa che delle tre caratteristiche che una moneta deve avere per poter svolgere un ruolo globale, Pechino ambisce ad averne una sola.

Infine, lo stesso discorso può farsi per il terzo punto, vale a dire la creazione di istituzioni in grado di elaborare principi e condotte condivise che strutturano un sistema internazionale basato sulle norme.

In questo senso, si può dire che l'impegno che Pechino mette nel costruire un ordine regionale intorno a delle istituzioni che non siano quelle cinesi, dominate dal Partito comunista e dal suo leader, è scarso ed è naturale che sia così.

 Un potere politico che ambisce all'assolutismo non può pensare di limitare la propria capacità di azione, condividendolo con altre decisioni e aree di intervento.

 Non a caso i vari forum di cooperazione messi in piedi da Pechino (si pensi alla” Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai”) sono quasi tutti falliti man mano che la Cina acquisiva forza.

Stesso discorso può farsi per l'“Asian International Investment Bank”, che avrebbe dovuto sfidare la “Banca mondiale” e che oggi sembra un progetto che si sta incagliano rapidamente.

Se, dunque, la Cina non ha ambizioni globali e non intende sostituirsi agli Stati Uniti, ma ambisce solo alla creazione di un ordine regionale dove conta solo la parola di Pechino e non vi è spazio per altri, nemmeno per il diritto internazionale e per la tutela dei diritti umani, allora in cosa consiste la minaccia che la Cina rappresenta per l'ordine internazionale?

Consiste proprio nella creazione di un ordine regionale, dove a livello macro, si applica il vecchio principio dell'ordine westfaliano del “cuis regio eius religio“, vale a dire il volere arbitrario della potenza egemone.

 Il che rappresenterebbe un ritorno al passato con la creazione di quei blocchi regionali, nati come aree monetarie, divenuti poi blocchi economici e trasformatisi poi in corazzate militari e politiche, dal cui attrito si sono poi generate le due guerre mondiali del secolo scorso.

Il progetto di un ordine sino-centrico, dunque, è pericoloso perché rompe l'idea di un ordine internazionale basato su norme condivise e apre la strada verso un ordine in cui ciascun egemone ha mano libera all'interno della propria area ed è libero di decidere come sia meglio agire per garantire sicurezza e prosperità.

È facile immaginare come un tale sistema potrebbe riportare in vita nel giro di pochissimo tempo i vecchi spettri del protezionismo economico, del nazionalismo politico e della guerra come strumento ordinario per la risoluzione delle controversie internazionali.

Per dirla diversamente, se un ordine basato su norme condivise, così come accade per il diritto che regola la vita dei cittadini all'interno di uno stato libero, serve a impedire che” cives ad arma veniant” , un ordine basato sul volere arbitrario delle potenze egemoni significherebbe creare le condizioni per l’anarchia globale.

Una situazione che in questo caso non corrisponderebbe alla libera cooperazione tra le nazioni su un piano di parità, ma al “Far West” dove sopravvive solo il più forte o il più veloce a sparare.

 

 

 

Top 10 Mafie del mondo:

le Organizzazioni Criminali

più ricche e potenti.

Yardies, Giamaica;

Mara Salvatrucha, USA

Naša Stvar, Serbia;

Triade, Cina;

Mafia, Italia;

Cartello di Sinaloa, Messico;

'Ndrangheta, Italia;

Camorra, Italia;

Fratellanza Solncevskaja, Russia;

Yamaguchi-gumi, Giappone;

Non esistono solo mafia, 'ndrangheta e camorra:

nel mondo ci sono molte altre organizzazioni criminali capaci di scuotere i governi nazionali e internazionali, oltre che essere molto pericolose per il resto della popolazione.

 Vediamo la top 10 delle mafie nel mondo: la classifica si basa sul potere offensivo.

 

10 - Yardies, Giamaica.

Potere economico 2/5;

Potere offensivo/militare 1/5;

Ramificazione nei paesi del mondo 1/5;

Indice di Pericolosità totale 2/5;

Attività criminali principali contrabbando di armi e spaccio di droga.

Gli Yardies sono gruppi criminali attivi specialmente a Londra e formati da immigrati provenienti dalla Giamaica e dai Caraibi.

L'attività principale è legata al contrabbando d'armi e allo spaccio di droga, in particolare marijuana e crack.

Numerose le operazioni attuate dalla polizia metropolitana di Londra per combattere le attività violente degli Yardies:

tra queste ricordiamo la celebre “Operazione Trident” che ha portato alla nascita di un'unità investigativa apposita.

 

9 - Mara Salvatrucha, USA.

Potere economico 1/5;

Potere offensivo/militare 2/5;

Ramificazione nei paesi del mondo 3/5;

Indice di Pericolosità totale 2/5;

Attività criminali principali spaccio di droga, sequestri, omicidi.

Organizzazione criminale nata a Los Angeles in seguito all'associazione di diverse bande e poi diffusasi in diversi Paesi, tra cui Guatemala, Honduras, El Salvador.

 

Anche in Italia, specialmente a Milano, vi sono cellule della “Mara Salvatrucha”.

 Le attività criminali riguardano spaccio di droga e armi, estorsioni, rapine, sequestri e addirittura omicidi.

 

8 - Naša Stvar, Serbia.

Potere economico 1/5;

Potere offensivo/militare 2/5;

Ramificazione nei paesi del mondo 3/5;

Indice di Pericolosità totale 2,5/5;

Attività criminali principali prostituzione e gioco d'azzardo.

Organizzazione criminale Serbia attiva anche in Belgio, Francia, Albania, Montenegro, Bosnia, Croazia.

Nata per gestire il traffico di sigarette, ha in mano un grosso giro di prostituzione e di gioco d'azzardo.

 

7 - Triade, Cina.

Potere economico 2/5;

Potere offensivo/militare 3/5;

Ramificazione nei paesi del mondo 3/5;

Indice di Pericolosità totale 3/5;

Attività criminali principali gioco d'azzardo, prostituzione.

Organizzazione criminale con sede a Hong Kong ma diffusa in tutta la Cina e in Taiwan, Macao, Nord America, Sud Africa, Australia, Nuova Zelanda.

Tra le principali attività figurano il gioco d'azzardo, la prostituzione, i furti.

La Triade compare anche in numerosi videogiochi, tra cui “GTA”.

 

6 - Mafia, Italia.

Potere economico 2/5;

Potere offensivo/militare 3/5;

Ramificazione nei paesi del mondo 3/5;

Indice di Pericolosità totale 3,5/5;

Attività criminali principali racket, appalti, spaccio di droga, omicidi.

Organizzazione criminale secolare per l'Italia, si è in seguito espansa anche all'estero, in particolare negli Stati Uniti d'America.

Anche definita “Cosa Nostra”, ha origini siciliane ed è l'organizzazione responsabile dell'uccisione di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone del 1992.

 

5 - Cartello di Sinaloa, Messico.

Potere economico 3/5;

Potere offensivo/militare 3/5;

Ramificazione nei paesi del mondo 4/5;

Indice di Pericolosità totale 3,5/5;

Attività criminali principali traffico internazionale di droga.

Organizzazione di origine messicana che gestisce importanti traffici di droga.

 Negli ultimi anni si è estesa sino ad arrivare in Europa.

Secondo la “United States Intelligence Community”, il “Cartello di Sinaloa” è l'organizzazione di droga più potente ed estesa al mondo: tocca infatti tutti e 5 i continenti.

 

4 - 'Ndrangheta, Italia.

Potere economico 3/5;

Potere offensivo/militare 4/5;

Ramificazione nei paesi del mondo 3/5;

Indice di Pericolosità totale 3,5/5;

Attività criminali principali traffico internazionale di droga, usura, traffico internazionale di armi, traffico di esseri umani.

Organizzazione nata in Calabria e attualmente attiva anche in Germania, Paesi Bassi, Sudafrica, Brasile, Messico, Venezuela. Specializzata nel traffico di droga, è nota anche per i ripetuti episodi di usura, estorsione, traffico d'armi e addirittura traffico di esseri umani.

Nel corso degli anni sono stati trovati esponenti della 'ndrangheta anche nella politica e nella magistratura.

 

 

3 - Camorra, Italia.

Potere economico 4/5;

Potere offensivo/militare 4/5;

Ramificazione nei paesi del mondo 4/5;

Indice di Pericolosità totale 4/5;

Attività criminali principali racket, appalti, spaccio di droga, omicidi, usura.

Ed eccoci alla terza organizzazione criminale italiana, la Camorra.

Originaria di Napoli, è attualmente operativa anche in Lazio, Lombardia e fuori dai confini nazionali, come Spagna, Germania, Paesi Bassi, Svizzera, Regno Unito, Marocco, Argentina, Uruguay.

Il giro d'affari delle famiglie napoletane sarebbe di circa 12 miliardi di euro l'anno.

Tra gli agguati più famosi ricordiamo la Strage del Bar Fulmine a Secondigliano del 1992, in cui morirono 5 persone.

 

2 - Fratellanza Solncevskaja, Russia.

Potere economico 4/5;

Potere offensivo/militare 4/5;

Ramificazione nei paesi del mondo 4/5;

Indice di Pericolosità totale 4/5;

Attività criminali principali prostituzione, omicidi, traffico di esseri umani, truffe internazionali.

Potente organizzazione russa nativa di Mosca e attualmente estesa in almeno 32 Paesi, tra cui numerose nazioni d'Europa, Nord America e Sud Africa.

Nata a metà degli anni '80, è colpevole di parecchi omicidi.

 Fra le varie attività in cui è coinvolta figurano il traffico di esseri umani, la prostituzione e le frodi di carte di credito.

 

1 - Yamaguchi-gumi, Giappone.

Potere economico 5/5;

Potere offensivo/militare 5/5;

Ramificazione nei paesi del mondo 4/5;

Indice di Pericolosità totale 5/5;

Attività criminali principali racket, appalti, spaccio di droga, omicidi, usura, traffico internazionale di armi, prostituzione, frodi bancarie.

Principale organizzazione criminale Giapponese, estesa anche in tutta l'Asia e negli Stati Uniti d'America.

È una delle organizzazioni mafiose più ricche, e i suoi principali introiti derivano da estorsioni, prostituzione, traffico d'armi, droga.

Pare che sia attiva anche con operazioni illecite in borsa.

(Francesco Mapelli)

 

 

 

 

Le mafie: dall'Italia

al mondo e ritorno.

Treccani.it – Enzo Ciconte – (20-10-2012) – ci dice:

 

ATLANTE GEOPOLITICO.

Le mafie costituiscono – e non da oggi – un fenomeno internazionale, innanzitutto nella misura in cui gruppi criminali organizzati ‘di stampo mafioso’ si sono sviluppati, in modo autonomo, in diversi paesi:

dalle Triadi cinesi, alla Mafiya russa, alla Yakuza giapponese, alla mafia albanese, nigeriana, turca e via dicendo.

Una seconda caratteristica del fenomeno, che contribuisce a definirne la natura internazionale, risiede nella tendenza dei clan a esportare il proprio ‘modello mafioso’ – fondato su di un uso spregiudicato della violenza, ma anche su uno specifico insieme di simboli, regole e codici – nei luoghi di emigrazione delle proprie comunità.

In tal senso, se la vicenda più nota è senza dubbio quella relativa all’espansione della mafia siciliana negli Usa, analoghi processi – basati su un’alternanza tra fasi di radicamento e fasi di espansione, anche internazionale – sono riscontrabili per tutte le forme di criminalità mafiosa.

 Come vedremo nel resto del capitolo, anche le altre maggiori mafie di origine italiana – ’ndrangheta e camorra – hanno subito processi di espansione internazionale.

Ciò vale anche per le altri grandi mafie di origine russa, cinese, giapponese e così via.

A connotare ulteriormente in senso internazionale il fenomeno mafioso vi è poi lo stretto legame che intercorre non solo tra mafie ed economia in tempi di pace, ma anche tra questi fenomeni criminosi e l’evento bellico.

 

Non è un caso, infatti, che sia proprio la Seconda guerra mondiale a sancire un momento di svolta nella storia internazionale delle mafie, così come la Guerra del Vietnam, l’Afghanistan e le Guerre balcaniche rappresenteranno altrettante tappe fondamentali del loro sviluppo.

D’altra parte, anche in tempi di pace l’interazione tra crimine e economia è assai stretta e risente inevitabilmente degli sviluppi del sistema economico internazionale.

Così, l’abbandono della ‘disciplina finanziaria’ internazionale seguita al crollo del sistema di Bretton Woods – con l’esplosione dei flussi di capitali e la conseguente creazione di ‘zone grigie’ e centri off-shore – così come la riduzione dei costi di trasporto e comunicazione, alla base dell’odierno “processo di globalizzazione”, hanno significato per le mafie enormi opportunità di profitto e di ulteriore espansione.

Quello mafioso si presenta oggi quindi come un fenomeno non solo internazionale, ma perfino globale.

 Globali sono gli interessi delle mafie e il loro raggio d’azione, globali sono le sfide che le mafie pongono a tutti gli stati, e in particolar modo a quelli caratterizzati da regimi democratici.

 Per comprendere la dimensione globale del fenomeno mafioso, tuttavia, è importante partire dall’analisi di un caso specifico, ovvero quello italiano.

Un caso forse peculiare, nel panorama europeo, ma esplicativo dei processi e delle dinamiche che hanno consentito alle diverse mafie del mondo di diventare, appunto, attori globali.

I numeri.

Oltre l’82% dei profitti del crimine organizzato proviene dal narcotraffico; il 17% dal traffico di esseri umani e lo 0,5% dal contrabbando d’armi.

Tra il 1998 e il 2009 i consumi di cocaina sono andati calando negli Stati Uniti, mentre sono raddoppiati in Europa.

 

L’eroina afghana alimenta un mercato globale del valore di circa 55 miliardi di dollari all’anno.

 Russia (13 miliardi) e Europa occidentale (20 miliardi) sono i principali mercati di sbocco.

Il numero dei comuni sciolti per infiltrazione mafiosa in Italia, diminuito dagli anni Novanta, è tornato ad aumentare tra il 2002 e il 2006, passando da 6 a 15.

MAFIE E GUERRA.

La natura internazionale dell’azione mafiosa è ulteriormente evidenziata dallo stretto legame che intercorre tra lo sviluppo delle mafie e uno dei fenomeni cruciali delle relazioni internazionali quale la guerra.

Le guerre, infatti, spesso comportano non solo il profilarsi di condizioni ‘permissive’ allo sviluppo delle attività mafiose, ma rappresentano una straordinaria opportunità di rafforzamento e affermazione delle mafie, tale da ridefinire gli equilibri tra lecito e illecito, tra potere ‘legale’ e potere ‘criminale’.

Questo avviene innanzitutto per via economica.

 Le guerre - tutte le guerre - comportano in primo luogo una vera e propria esplosione del mercato nero, soprattutto per beni ‘illeciti’ quali armi, droghe e prostituzione, rispetto ai quali il crimine organizzato detiene già il monopolio.

 Il prolungarsi delle condizioni conflittuali conduce poi a un progressivo allargamento degli affari mafiosi alla gestione di beni ‘leciti’ - soprattutto beni primari quali viveri e carburanti - ma di difficile reperimento.

Sopperendo ai fallimenti del mercato legale dettati dal conflitto, l’economia mafiosa progressivamente vi si sostituisce, allargando a dismisura la propria sfera d’azione.

Un secondo aspetto riguarda il rapporto ‘simbiotico’ che viene a instaurarsi tra il potere politico e il potere mafioso.

 In un momento di fragilità delle strutture statali, può profilarsi infatti la necessità di appaltare la gestione di intere aree o servizi a organizzazioni già radicate sul territorio e dotate degli strumenti di violenza necessari a imporsi in un contesto come quello bellico.

S’instaura quindi una cooperazione tra potere legale e organizzazioni criminali - compreso il riemergere del “mercenarismo sub specie mafiosa” - che costituisce il primo passo per l’infiltrazione delle mafie nelle strutture dello stato che emergerà dal conflitto.

 

Nel complesso, la sospensione delle garanzie democratiche (o legali, o etiche perfino) dettata dallo stato d’eccezione, associata al ruolo che la criminalità organizzata può rivestire in una ‘economia di guerra’, conduce all’espansione di una zona grigia, in cui i confini tra legale e illegale divengono sempre più sbiaditi.

La guerra permette quindi alle mafie non solo di accumulare enormi profitti e stabilire legami internazionali con altre organizzazioni criminali, ma soprattutto di gettare le basi per una presenza sempre più radicata nell’economia, nella società e nello stato, fino agli estremi costituiti dagli ‘stati prigionieri’ (captured states), ‘stati privatizzati’ (privatized states) o veri e propri ‘stati-mafia’.

 

CRIMINALITÀ ORGANIZZATA ITALIANA E TRANSNAZIONALE.

L’Italia che quest’anno compie 150 anni ha avuto, proprio a partire dall’anno della sua nascita, una criminalità molto diversa da quella di tutti gli altri paesi europei.

La criminalità non è solo quella degli omicidi o dei fatti di sangue commessi da soggetti singoli o da individui isolati;

comprende anche tutti i reati che violano le norme e le leggi, e dunque comprende sia i reati predatori (furti, scippi, rapine, ecc.) sia quelli dei colletti bianchi (corruzione, truffe, bancarotte, falso in bilancio, reati finanziari in senso lato).

 

L’Italia ha una peculiarità dovuta all’esistenza, a partire almeno dall’unità, di una criminalità che è riuscita a organizzarsi in forme stabili e a durare a lungo nel tempo, arrivando fino ai nostri giorni.

La criminalità organizzata ha innovato i modelli esistenti nei secoli precedenti, basati su violenza cieca e su fiammate delinquenziali devastanti ed episodiche.

 La novità è la creazione di strutture che prevedono vincoli di appartenenza, giuramenti, rituali, affiliazioni formali, gerarchie rigide, segretezza, omertà.

Una criminalità organizzata che in tempi recenti – a partire dal 1982, con l’approvazione della legge Rognoni-La Torre – è stata definita con maggiore precisione ‘di stampo mafioso’, introducendo nel codice penale l’articolo 416 bis.

A una criminalità organizzata tutta italiana si è andata ad aggiungere, all’incrocio dei due millenni – con il Novecento che tramontava e il nuovo millennio che s’avviava – una criminalità organizzata transnazionale.

Questa nuova definizione comprende comportamenti e azioni di uomini organizzati in gruppi etnici che agiscono in paesi stranieri.

 Si sono così moltiplicate le forme di criminalità organizzata perché – guardando solo a due tipici fenomeni degli ultimi anni come il traffico degli stupefacenti e la tratta degli esseri umani – si dà vita a reati che sono commessi in più di uno stato, oppure sono realizzati in uno stato pur essendo pianificati e diretti in un altro stato.

 I gruppi criminali sempre più spesso operano di concerto con gruppi criminali di altre nazionalità e agiscono contemporaneamente in più paesi.

La globalizzazione e la competizione economica a livello mondiale hanno inciso anche nelle dinamiche della criminalità organizzata italiana.

 È proprio della criminalità organizzata italiana che noi ci occuperemo, collocandola in uno scenario sovranazionale perché oggi per comprendere i mafiosi italiani dobbiamo dare uno sguardo a quanto accade nelle altre criminalità a livello mondiale.

 

Mercati illegali per valore.

Le mafie nel mondo.

CRIMINALITÀ ORGANIZZATA, MAFIA O MAFIE?

Sebbene i diversi termini vengano spesso usati in modo indistinto, la definizione di cosa sia mafia o crimine organizzato è oggetto di un acceso dibattito.

Per ‘criminalità organizzata’ si intende l’attività attuata da associazioni per delinquere a struttura articolata, che si avvalgono della forza di intimidazione, del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento che ne deriva per commettere delitti.

Con il termine ‘mafia’ si indica invece, innanzitutto, quello specifico complesso di organizzazioni criminali sorte in Sicilia nel 19° secolo, diffuse su base territoriale, rette dalla legge dell’omertà e strutturate gerarchicamente, così come definite dall’articolo 416 bis del codice penale italiano.

Il minimo comune denominatore tra i due concetti è dato dalla ricerca del profitto attraverso ogni mezzo, e in particolare tramite l’utilizzo della violenza, e dalla struttura organizzativa creata a tale scopo.

In entrambi i casi vi è poi la non coincidenza tra l’attore criminale e l’attività extra-legale, in quanto il perseguimento delle finalità economiche passa necessariamente, sempre di più, attraverso l’investimento dei profitti illeciti nel mercato legale.

 E tuttavia tra mafie e crimine organizzato esistono differenze significative.

 

Il termine mafia rimanda infatti allo specifico contesto sociale, politico ed economico che sta alla base della sua affermazione, e senza il quale si perderebbe una delle caratteristiche fondamentali del fenomeno mafioso.

 A distinguere quest’ultimo dalla criminalità organizzata vi è il rapporto peculiare che l’organizzazione mafiosa intrattiene con il territorio e l’autorità politica.

 L’uso della violenza è infatti strumentale anche all’instaurazione di un controllo del territorio sempre più totalizzante, fino quasi a sostituirsi allo stato nell’esercizio delle sue funzioni, quali la gestione dell’economia, il mantenimento dell’ordine, l’amministrazione della ‘giustizia’.

Questo stesso potere si traduce al contempo nel controllo di risorse politiche fondamentali – il voto – che consentono alle mafie di porsi come interlocutori della politica, affiancando (o sostituendo) alla logica della contrapposizione quella dello scambio, del ricatto, dell’infiltrazione.

Per estensione, il termine ‘mafie’ denota quindi tutte quelle realtà in cui l’attività dei gruppi criminali organizzati è finalizzata non solo alla ricerca del profitto, ma anche o soprattutto al perseguimento di una vera e propria strategia ‘politica’ di controllo del territorio – fino all’affermazione di un vero e proprio monopolio della violenza considerata ‘legittima’ – e di un rapporto di connivenza con lo stato.

 

MAFIA, CAMORRA E ’NDRANGHETA: LE ORIGINI.

Mafia, camorra e ’ndrangheta sono un originale prodotto criminale dell’Italia dell’Ottocento.

 Sin dalle origini si presentarono come una sconvolgente novità rispetto alla criminalità dei secoli precedenti perché esse si strutturarono in organizzazioni con una precisa scala gerarchica, si diedero delle regole – a cominciare dalla principale, che è quella dell’omertà – elaborarono codici di affiliazione, leggende in grado di attirare i giovani e si fornirono di un progetto criminale di lunga durata.

Per queste ragioni sono state capaci di attraversare i decenni e di arrivare sino ai nostri giorni dopo essere sopravvissute a regimi politici tra di loro molto differenti:

borbonico, liberale, fascista, repubblicano.

La camorra è la prima formazione mafiosa che s’affaccia sul proscenio criminale;

 le sue radici sono saldamente piantate nella Napoli borbonica che all’epoca era la capitale del Regno, la più grande città italiana per popolazione, seconda solo a Parigi in Europa.

 

Dopo l’unità d’Italia si affermò la mafia siciliana che dominò incontrastata il crimine organizzato per un lungo periodo di tempo, dagli albori del nuovo Regno d’Italia fino ai primi anni Novanta del Novecento.

Negli ultimi tempi, in particolare dopo le stragi di Capaci del 23 maggio 1992 e di Via d’Amelio del 19 luglio dello stesso anno, è balzata in primo piano la ’ndrangheta calabrese.

Le tre organizzazioni mafiose hanno tante cose in comune e allo stesso tempo sono diverse l’una dall’altra.

In comune hanno sicuramente l’origine geografica, perché nascono tutte nel Meridione, il medesimo periodo storico – che si può collocare nei decenni che precedettero e seguirono l’unità d’Italia – e soprattutto gli stessi fini, che possono essere riassunti nella ricerca della ricchezza e del potere da ottenere con qualsiasi mezzo, a cominciare da un uso spregiudicato, spesso selvaggio e belluino, della violenza, che può vantare al suo attivo una quantità infinita di omicidi e numerose stragi.

 

La ricerca del denaro è stata, e lo è ancora oggi, un’attività costante, che non ha subito interruzioni; avveniva in ogni tempo e dappertutto, particolarmente nei luoghi dove era possibile esercitare un’intermediazione parassitaria delle attività economiche all’epoca considerate più lucrose.

 In pieno Ottocento, per esempio, la “Conca d’Oro di Palermo” era ricca di agrumi:

arance profumate, mandarini e limoni dai colori luminosi erano le merci pregiate che raggiungevano lontani mercati dopo essere state imbarcate su navi.

Allo stesso modo viaggiavano le merci, anch’esse pregiate, dell’agricoltura calabrese che avevano una significativa presenza nella piana di Gioia Tauro, dove accanto agli agrumi c’erano secolari piante d’ulivo che producevano notevoli quantità di olio e di olive.

 I mafiosi imponevano ai produttori la loro tassa su ogni merce trasportata, oppure pretendevano la ‘camorra’ – a quei tempi così si definiva il pizzo – sulle attività di gioco, in particolare a Napoli: una tassa sul vizio.

 Era la fase aurorale della loro presenza nel campo economico, quella caratterizzata dal parassitismo;

 i mafiosi prelevavano una quota del profitto altrui, della ricchezza generata dal lavoro nelle campagne e dai commerci.

Per svariati decenni vissero in questo modo nelle regioni d’origine sfruttando le risorse dell’agricoltura, esercitando la guardiania sulle terre dei proprietari terrieri, imponendo il pizzo, rubando e vendendo animali, a volte vivi, altre volte dopo averli uccisi e macellati.

Per un lungo periodo dopo l’unità, le mafie si preoccuparono prevalentemente di estendere e consolidare il loro potere controllando il territorio e inserendosi nei gangli dell’economia locale.

 Erano mafie regionali che operavano esclusivamente nei luoghi d’origine con una struttura flessibile e articolata;

erano ancora stanziali perché non avevano bisogno di uscire dal loro territorio, né tanto meno di abbandonare la regione di provenienza.

 

DALLA PENISOLA AL MONDO: L’ESPANSIONE DELLA CRIMINALITÀ ITALIANA.

I primi spostamenti non tardarono ad arrivare e cominciarono a essere segnalati sin dagli ultimi decenni dell’Ottocento per proseguire con maggiore intensità nei primi decenni del Novecento.

È in questo periodo che si realizzarono imponenti flussi migratori che spinsero enormi masse di meridionali ad abbandonare le loro terre per cercare fortuna altrove.

È il periodo iniziale della grande emigrazione europea e transoceanica.

Sono innumerevoli le località dove si recarono i lavoratori italiani, non solo quelli meridionali, a conferma del fatto che gli italiani possono essere definiti a giusta ragione un popolo di emigrati, anche se questa caratteristica, che è durata fino a pochi decenni fa, tende ad essere dimenticata negli ultimi anni con l’arrivo degli immigrati extraeuropei.

L’emigrazione di un numero davvero notevole di meridionali cambiò il volto delle campagne e dei paesi del sud d’Italia e diventò per tante comunità una vera e propria dimensione di vita, perché in questi luoghi una fitta rete di relazioni e di contatti, soprattutto epistolari, legava coloro che erano rimasti in paese ai parenti che erano partiti verso destinazioni lontane, dai nomi sconosciuti; spesso senza che per questi parenti partiti ci fosse alcuna possibilità, o volontà, di farvi ritorno.

 

Anche i mafiosi emigrarono – non tutti, naturalmente – e nelle nuove sedi, a stretto contatto con i corregionali, ebbero l’opportunità di costruire strutture mafiose che in determinati periodi ebbero una certa rilevanza sociale, politica e storica, come negli Stati Uniti.

 

Le altre mafie nel mondo.

Piero Innocenti.

‘La Cosa nostra’ (Lcn) continua a essere la più potente, diffusa e temibile organizzazione criminale negli Usa, al primo posto per fatturato nella classifica mondiale delle mafie.

Ha collegamenti stabili con altre organizzazioni criminali e con Cosa nostra siciliana, di cui conserva la struttura:

un boss, il suo vice, il gruppo di consiglieri, le truppe.

 È insediata in almeno 19 stati della Confederazione con le famiglie storiche dei Gambino, Colombo, Bonanno, Genovese, Lucchese, e le più recenti De Cavalcante, Patriarca e Scarfo.

 I suoi interessi primari sono narcotraffico e riciclaggio, ma anche estorsione, gioco d’azzardo, frodi, usura. Condiziona inoltre i settori economici del trasporto su gomma, delle costruzioni, della raccolta dei rifiuti (tossici, in particolare), ristoranti, distribuzione alimentare, carburanti, abbigliamento, corse dei cavalli, pompe funebri.

Controlla diversi sindacati dei lavoratori delle costruzioni, del porto e degli aeroporti di New York.

In Messico le mafie dei narcotrafficanti (11 organizzazioni nel 2011, tra cui il cartello del Golfo, di Sinaloa, della Famiglia Michoacana, dei Los Zetas, di Juárez, dei Los Arellano, dei Beltran Leyva) hanno diversificato i ‘servizi’ offerti:

 non più solo commercio di droghe, ma sequestri di persona, estorsioni, protezioni ai commercianti, omicidi su commissione, tratta dei migranti.

Con strutture dinamiche e mutevoli, disinvolte nelle strategie e nelle alleanze, così come nell’esercizio di una violenza efferata (oltre 34.000 omicidi tra il 2006 e il 2010), questi gruppi esercitano un penetrante condizionamento sulle istituzioni locali e nazionali, mettendo a serio rischio la democrazia, tanto da far parlare di narco-stato.

 

Il modello messicano ricorda i ben noti cartelli colombiani di Medellín, di Cali, di Pereira, della Costa e di Norte del Valle, oggi frantumati in decine di strutture di piccole-medie dimensioni (cartelitos) e in diverse formazioni paramilitari:

 Los Rastrojos, Los Macacos, la Oficina de Envigado, Los Paisas, Los Urabeños, Los Cuchillos e altre, specializzate soprattutto nel commercio delle droghe.

Robuste le collusioni mafia-politica: dal 2008 al 2010 sono stati ben 77 i parlamentari incriminati perché collusi con narcos e paramilitari.

Negli stessi anni, sono stati sequestrati ben 72 submarinos, i semisommergibili costruiti nella giungla per navigare lungo la costa del Pacifico e trasportare la cocaina negli Usa con l’intermediazione delle mafie messicane.

 

La mafia cinese, con le Triadi (i tre elementi originari confuciani: il cielo, la terra e l’uomo), ha quasi monopolizzato (oltre 4 milioni di membri), in importanti aree mondiali, la tratta delle persone, oltre a narcotraffico, sfruttamento della prostituzione, gioco d’azzardo, estorsione, contraffazione di marchi, riciclaggio. In passato, in Italia era stata definita una mafia ‘Wuton Wutei’ (draghi senza testa e senza coda), per il basso profilo criminale.

 Ha struttura stratificata, con a capo il “Grande fratello” (Testa del Dragone) affiancato da un comitato ristretto.

Per questa organizzazione – a differenza della mafia italiana – l’uso della forza per il controllo territoriale continua ad essere solo una conseguenza della ricerca del profitto nelle attività commerciali.

 

La mafia nigeriana, anch’essa considerata tra le meno violente, è tuttavia una delle più potenti ed estese, con varie comunità sparse nel mondo, grazie alla sua struttura reticolare, favorita da vincoli tribali e omertosi.

Spesso usa come copertura ‘innocue’ associazioni culturali di immigrati o confraternite universitarie, note come ‘gruppi cultisti’, di etnia Bini o Igbo, organizzate dai giovani dell’élite dirigenziale nigeriana, responsabili di omicidi e reati predatori.

A partire dal suo radicamento nel paese d’origine, afflitto dagli scontri tra gruppi integralisti islamici e cristiani, tra militari e criminali nella regione petrolifera del Delta, la mafia nigeriana costituisce un’ulteriore minaccia per l’intera regione africana.

 

In Albania, la ‘Mafia delle Aquile’ domina l’immigrazione clandestina, lo sfruttamento della prostituzione e il traffico degli stupefacenti, utilizzando basi consolidate in Montenegro, Croazia, Slovenia, Serbia e Kosovo.

Ha rapporti con omologhi sodalizi attivi nei paesi europei più ricchi. L’appartenenza dei componenti allo stesso nucleo familiare e territoriale, con un unico capo supremo, regole rigide e il ricorso all’omicidio a scopo punitivo, la rendono simile alla ’ndrangheta.

 

La mafia turca controlla gran parte del traffico di eroina (e di persone) che giunge in Europa dall’Afghanistan.

Si tratta di una miriade di gruppi relativamente ridotti e autonomi, non verticistici, per lo più con membri appartenenti a un’unica struttura familiare.

 Infatti, si parla di ‘famiglie’ (o ‘clan’), alcune delle quali sono curde e, a volte, perseguono finalità terroristiche.

 

Leader nel traffico internazionale di cocaina, la mafia serba, talvolta associata a quella montenegrina, ha ‘agenzie’ negli Usa, in Sudafrica e nell’Europa occidentale.

Si contano una trentina di gruppi nati dalla ‘frantumazione’ dei due nuclei originari guidati dai capi storici “Surcin “e “Zemun”.

 I serbi, grazie all’alleanza consolidata con i colombiani, sono diventati i principali fornitori della cocaina in Italia, Germania, Austria, Spagna e Regno Unito.

Si dedicano anche al traffico di armi, di clandestini, di sigarette e alla falsificazione di denaro.

Ciascun gruppo (una decina di persone) ha una rigida gerarchia ed è capace di spostarsi rapidamente, alla bisogna, in altre città o paesi.

 

Particolarmente violenta, la mafia rumena, in contatto con italiani, albanesi, ucraini e moldavi, si occupa di tratta di esseri umani, sfruttamento della prostituzione, traffico di stupefacenti, rapine e furti, in particolare con clonazione di carte elettroniche.

 

In Russia, tra i diversi gruppi mafiosi, dominano quelli di:

Solntsevskaja Bratva, alla periferia di Mosca (traffico di droghe, estorsioni, riciclaggio, contrabbando);

 Tambovskaja-Malysevkaja, a San Pietroburgo (droghe, riciclaggio e frode);

Izmajlovskaja-Dolgoprudnenskaja, presente anche a New York, Los Angeles, Miami, San Francisco (riciclaggio, estorsioni, furti, traffico di droga e omicidi su commissione);

Uralmashkaja, attiva anche in Italia, Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Cina (materie prime, metalli preziosi, droghe e armi).

 Il gruppo Tambovskaja è quello più influente nella regione nord-occidentale, dispone di una propria rete bancaria, di industrie legali e istituti di vigilanza privata;

 controlla l’industria dei combustibili e dell’energia, la produzione alimentare, il mercato immobiliare e dell’intrattenimento.

Merita un cenno anche la mafia caucasica, strutturata in gruppi su base etnico-religiosa, tra cui spiccano i ceceni.

 Questi, a Mosca, nei primi anni Novanta, si dedicavano al traffico di autovetture rubate, poi hanno esteso la loro influenza nelle principali città russe, soprattutto nel settore finanziario.

Ogni gruppo ha le sue ‘specializzazioni’:

i georgiani, sequestri di persona e furti con scasso;

gli azeri, il mercato nero dell’ortofrutta;

 i daghestani e gli armeni, il racket sui piccoli commercianti;

 gli osseti, rapine e violenze sessuali.

 

La mafia giapponese ha nella Yakuza (dal punteggio perdente 8-9-3 = ya-ku-za nel gioco di carte dell’Hanafuda), la massima espressione criminale.

È riconducibile sostanzialmente a due modelli:

 lo Yamaguchi-gumi (a struttura piramidale con l’oyabun – ‘padre’ – capo assoluto) e il Sumiyoshi-rengo (federazione di famiglie con l’oyabun primus inter pares).

 

Ha stretto carattere etnico, in quanto riservata soltanto ai giapponesi, e tipico legame di fedeltà e obbedienza degli affiliati al capo.

Da ultimo è nata, per scissione interna, anche una terza organizzazione criminale, chiamata Ichiwa-kai.

È presente anche negli Usa, Australia, Filippine, America del Sud;

 opera soprattutto nel traffico di amfetamine, sfruttamento della prostituzione e della pornografia, gioco d’azzardo, usura, estorsione e traffico di persone; controlla interi comparti dell’edilizia, della speculazione immobiliare e finanziaria, dello smaltimento dei rifiuti.

 

Emigrazione italiana per regione

SIGARETTE E DROGA: LA SVOLTA.

I primi anni Cinquanta sono molto importanti perché rappresentano un vero e proprio tornante nella storia delle mafie.

 È in questi anni che esse entrano a vele spiegate nel grande traffico dei ‘tabacchi lavorati esteri’, secondo la definizione che le autorità di polizia diedero alle sigarette offerte in circuiti illegali a prezzi molto inferiori rispetto a quello delle sigarette italiane vendute in regime di monopolio statale nelle tabaccherie.

 Il contrabbando di sigarette estere iniziò durante l’occupazione militare alleata.

Furono uomini appartenenti alle truppe alleate che diedero il via a questa lucrosa attività criminale.

Un ruolo significativo lo rivestì il porto di Napoli.

 Lì riprese vigore un’attività contrabbandiera che in seguito sarebbe diventata camorrista, favorita da Vito Genovese – un singolare personaggio mafioso italoamericano d’origini campane e dalla vita criminale molto movimentata e spericolata.

La sua è una storia davvero avventurosa:

uscito di prigione a inizio secolo, dov’era stato condannato a un anno per possesso di arma illegale, conobbe Lucky Luciano, di cui diventò amico inseparabile per quarant’anni.

Lucky Luciano, nuovo boss della Famiglia dopo la guerra castellammarese, nominò Genovese suo vice:

così, a soli 34 anni, il giovane diventò uno dei più potenti mafiosi di New York.

 Con lo sbarco alleato ritroviamo Genovese in Italia al seguito del colonnello statunitense Charles Poletti, di cui era l’interprete ufficiale.

Genovese, però, non era uno dei tanti interpreti che lavorava con Poletti;

era prima di tutto un mafioso con grandi capacità organizzative, che mise in mostra curando i suoi affari nel mercato nero e nel contrabbando.

Si deve infatti a lui la creazione di una vasta organizzazione di mercato nero che, partendo dalla Sicilia, si estese a tutto il Mezzogiorno.

Con il suo benestare cominciarono a essere scaricate dalle navi alleate casse di sigarette che erano state imbarcate nel porto franco di Tangeri. Aveva inizio, in grande stile, il contrabbando di sigarette estere che proseguirà successivamente.

 In quegli stessi anni si stabilì a Napoli anche Lucky Luciano, il quale aveva una visione strategica degli affari criminali di portata globale.

In particolare, aveva intuito il ruolo che avrebbero potuto giocare il porto di Napoli, e più in generale tutta l’area circostante, nei traffici internazionali di sigarette e di narcotici, che tutto lasciava intendere sarebbero stati di sicuro fiorenti ed economicamente vantaggiosi.

Quando le truppe alleate diminuirono la presenza nell’area, le navi contrabbandiere dovettero trovare altre soluzioni; una di queste comportò la scelta di rifornirsi direttamente nei porti di Marsiglia, Tangeri e Gibilterra.

In parallelo con il contrabbando di sigarette s’avviò il traffico di stupefacenti, seppure ancora in modo artigianale e molto timidamente.

Un solo esempio dà l’idea di quello che stava accadendo.

Nella primavera del 1952 ad Alcamo furono sequestrati sei chilogrammi di eroina che avrebbero dovuto raggiungere il porto di Palermo per essere imbarcati su un piroscafo diretto negli Stati Uniti.

 

Il carico di droga era partito da Anzio, da un’abitazione che era di proprietà di Frank Coppola, mafioso di rango rientrato dagli Stati Uniti nel 1946.

Era andato ad abitare a Pomezia, sul litorale laziale, ma la base per i suoi affari continuava a rimanere a migliaia di chilometri di distanza, a Partinico, da dove esportava il ‘famoso brodo vegetale di Partinico’, come si leggeva sulle etichette delle scatole che nascondevano eroina.

 Il traffico, data l’epoca, era sicuramente di notevoli proporzioni e interessava diverse località: Milano, Pomezia, Palermo, Alcamo, Stati Uniti.

Un anno prima aveva cominciato a muovere i primi passi nel traffico degli stupefacenti un giovane mafioso che avrebbe ricoperto in futuro ruoli molto importanti in Cosa nostra: Gaetano Badalamenti, il noto don Tano originario di Cinisi.

Altri personaggi importanti di questo periodo aurorale furono Tommaso Buscetta, Angelo La Barbera e Salvatore Greco ‘l’ingegnere’.

 

All’inizio sia il contrabbando di sigarette sia il traffico di stupefacenti furono sottovalutati.

Non si comprese la portata distruttiva e devastante sui giovani e sulle famiglie, non si previdero i morti che si sarebbero contati a migliaia, né furono intuite, se non in parte, le grandi potenzialità economiche che traffici di quella natura, soprattutto quello dei narcotici, era in grado di generare e di alimentare.

Il contrabbando di ‘bionde’ – così erano chiamate in gergo le sigarette – fu subito circondato da un notevole consenso popolare perché vendere sigarette non era considerato disdicevole e si potevano acquistare a un prezzo di gran lunga molto più favorevole di quello praticato dal tabaccaio.

A Napoli c’erano molti giovani o giovanissimi venditori guardati con una certa benevolenza, perché si riteneva che fosse meglio vendere le bionde al minuto negli innumerevoli banchetti che invadevano le vie della città invece che commettere altri reati come omicidi, furti, rapine, scippi.

La stessa logica si affermava anche nel nord Italia, come racconterà il genovese Luigi Dapueto:

un curioso personaggio di contrabbandiere gentiluomo, una figura d’altri tempi, che non considerava immorale vendere sigarette di contrabbando;

anzi, era persino orgoglioso del suo passato di contrabbandiere di sigarette.

 Ne parlava magnificando quella professione dove erano richiesti coraggio, astuzia, un certo spirito intraprendente, conoscenza dei luoghi e degli uomini;

 per di più lui era convinto che non ci fosse nulla di particolarmente riprovevole nel frodare il fisco.

Il periodo d’oro del contrabbando fu quello degli anni Cinquanta.

 Fu allora che si costruirono le basi per i traffici del futuro e si realizzarono le condizioni per creare una rete di rapporti tra mafiosi siciliani, criminali campani e mafiosi calabresi.

Le mafie decisero di unire le forze per condurre in porto affari che oramai era necessario, oltre che più conveniente, gestire insieme e per condividere il più possibile la rete di relazioni che ognuna di loro possedeva autonomamente.

In questa fase era ancora solido il rapporto con i francesi.

Il formarsi di un mercato illecito nel bacino del Mediterraneo e su scala ancora più vasta coinvolse criminalità di diverse città.

Napoli e Marsiglia ne furono uno degli esempi più significativi.

Non di rado c’erano triangolazioni tra siciliani, napoletani e francesi.

 La merce partiva da Nizza e arrivava al largo delle coste italiane, dove squadre contrabbandiere erano pronte a scaricare le casse di sigarette su pescherecci italiani che le portavano sulle coste siciliane, campane o calabresi, a seconda delle possibilità di trovare coste libere da controlli della Guardia di finanza.

I porti hanno sempre giocato un ruolo strategico, dal momento che emergeva e si rafforzava sempre di più la componente mercantile delle mafie italiane.

 Uno dei porti principali da cui partiva gran parte delle casse era Tangeri, ma dopo l’abolizione della zona franca avvenuta all’inizio degli anni Sessanta venne progressivamente sostituito con Gibilterra e con altri approdi.

 

Anche per la droga ci fu un’iniziale sottovalutazione.

Il campanello d’allarme prese a suonare forsennatamente solo quando l’eroina cominciò a colpire i ragazzi della tranquilla classe media americana, distruggendo la vita di molti giovani.

Durante la Guerra in Vietnam, in particolare tra il 1965 e il 1972, i soldati americani (che nel 1969 avevano raggiunto la cifra di 550.000 unità) fecero ampio uso di droghe e ciò determinò l’aumento in grandi proporzioni del numero dei tossicomani presenti negli Stati Uniti.

Da quel momento non fu solo un fatto americano, ma diventò un problema mondiale.

La paura per i rischi che si correvano si estese dappertutto.

In Europa, per esempio in Italia e anche nella vicina Francia, per molti anni non si era considerato il problema della droga come una questione prioritaria.

Proprio in Francia nel 1969 fu accertato il primo morto ufficiale per overdose. In Italia il primo morto per droga sarà registrato solo nel 1974.

Il traffico internazionale di droga: la cocaina.

Antonio Maria Costa.

Come premessa occorre chiarire che cosa si intende per ciascuno dei termini che fanno parte del titolo, seguendo l’ordine in senso inverso.

 In primo luogo, questo approfondimento tratta solamente delle ‘droghe’ illecite, o per meglio dire di quelle poste sotto controllo in seguito ad accordi internazionali (le Convenzioni delle Nazioni Unite) (Un), poi recepiti dalle legislazioni nazionali.

In secondo luogo, questo testo si concentra sul traffico, appunto per esaminare un solo segmento del mercato della droga: la parte commerciale, diciamo, che si inserisce operativamente tra la produzione (offerta) e il consumo (domanda) di droga.

Da ultimo, trattiamo altresì di traffico internazionale, cioè quello che valica confini di stato;

lasciamo quindi da parte le situazioni (importanti per le droghe sintetiche, come si vedrà) in cui produzione e consumo coincidono geograficamente.

 Il nostro approccio consiste inoltre nel separare i flussi della droga, e i relativi mercati, in base al tipo di sostanza.

In questo primo approfondimento ci concentreremo dunque su una droga botanica: la cocaina.

 

La cocaina proviene da tre paesi della regione andina:

Colombia, Perù e Bolivia.

In un primo tempo, ovvero nel secondo dopoguerra, quasi tutta la produzione di cocaina era diretta a nord, verso il mercato statunitense.

Ma a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso la domanda negli Usa è scesa, fino a calare drasticamente di recente, soprattutto a partire dal 2003.

Al contempo il consumo di cocaina in Europa ha iniziato a crescere, aumentando rapidamente nell’ultimo decennio:

nel 2010 il traffico di cocaina dai paesi andini si è diviso in parti quasi uguali (rispettivamente, circa il 40%) tra i mercati dell’America del Nord e dell’Europa, con il restante 20% commerciato altrove - e, in maniera crescente, in Africa occidentale.

 

1. Dal Sud al Nordamerica.

 

Le modalità attraverso le quali la cocaina veniva trafficata dal Sud al Nordamerica sono variate nel tempo, in parte in risposta alle operazioni delle forze dell’ordine e in parte a causa dei cambiamenti avvenuti nei gruppi criminali.

Oggi la cocaina è per lo più trasportata dalla Colombia al Messico o all’America centrale via mare (solitamente dai colombiani), per poi proseguire via terra verso gli Stati Uniti e il Canada (solitamente attraverso i messicani).

Le autorità statunitensi stimano che circa il 90% della cocaina entra nel paese attraversando il confine territoriale tra gli Stati Uniti e il Messico, mentre circa il 70% della cocaina lascia la Colombia via Oceano Pacifico, il 20% attraverso l’Atlantico e il 10% attraverso il Venezuela e i Caraibi.

 

Dopo lo smantellamento del cartello di Medellín e di Cali nei primi anni Novanta, i gruppi criminali organizzati colombiani sono diventati più piccoli e i livelli di violenza sono diminuiti.

Al contempo i gruppi messicani sono cresciuti in dimensione e forza, e sono ora responsabili della maggior parte delle violenze perpetrate in Messico.

 Una delle ragioni della recrudescenza della violenza legata alla droga in Messico sta nel fatto che, essendo il mercato nordamericano in calo, le organizzazioni criminali combattono tra di loro per mantenere una presenza, a spese della concorrenza.

 Negli ultimi dieci anni circa, 30.000 persone hanno subito morte violenta in Messico in fatti di sangue legati al commercio di droga:

il governo messicano stima che oltre il 90% di tali decessi coinvolga i trafficanti stessi.

Per far fronte alla domanda di cocaina statunitense sono necessarie circa 196 tonnellate, un flusso che nel 2008 è stato stimato nell’ordine dei 38 miliardi di dollari.

Questo ricavato non è però distribuito equamente.

Ai coltivatori di coca nei tre paesi andini è stato attribuito un introito di circa 1,1 miliardi di dollari.

 Gli importi generati dalle attività di lavorazione e dal traffico all’interno dei paesi andini per la cocaina destinata all’America settentrionale sono pari a circa 400 milioni di dollari.

I profitti totali lordi derivanti dall’importazione di cocaina in Messico possono essere stimati intorno ai 2,4 miliardi di dollari (escludendo i costi di trasporto), mentre sempre nel 2008 i cartelli messicani che trasportano la cocaina attraverso il confine Usa hanno totalizzato un guadagno di 2,9 miliardi di dollari.

Tuttavia, i profitti più alti vengono generati negli stessi Stati Uniti, dove la vendita all’ingrosso e quella al dettaglio producono circa 29,5 miliardi di dollari.

Di questi profitti lordi la maggior parte viene realizzata attraverso lo spaccio tra rivenditori di medio livello e consumatori, per un giro d’affari che supera i 24 miliardi di dollari, ovvero il 70% del valore totale della cocaina sul mercato statunitense.

 

2. Dalla regione andina all’Europa.

Nel corso dell’ultimo decennio il numero dei consumatori di cocaina in Europa è raddoppiato - da circa due milioni a 4,1 milioni.

Sebbene il consumo di cocaina in Europa, stando alla media continentale, sia ancora inferiore al livello dell’America del Nord, tre paesi dell’Unione Europea (Spagna, Regno Unito e Italia) hanno ora un tasso annuale di diffusione più alto rispetto agli Usa.

Il mercato europeo di cocaina è conseguentemente cresciuto di valore: dai 14 miliardi di dollari del 2001 ai 34 miliardi di dollari di oggi, circa la stessa dimensione del mercato statunitense.

I dati preliminari suggeriscono però che la rapida crescita del mercato europeo della cocaina stia cominciando a stabilizzarsi, seguendo il profilo logico (passaggio ad altri tipi di sostanze psicoattive) e cronologico (esaurimento della spinta commerciale) d’oltreoceano.

 

La maggior parte del traffico di cocaina diretta in Europa avviene via mare, attraverso i due maggiori scali regionali:

nel sud, in Spagna e Portogallo;

 a nord, nei Paesi Bassi e in Belgio.

 La Colombia rimane la principale fonte della cocaina rinvenuta in Europa, ma le spedizioni provenienti dal Perù e dalla Bolivia sono di gran lunga più comuni che nei mercati statunitensi.

 

Nell’ultimo decennio si è assistito a un cambiamento delle rotte utilizzate per il traffico verso l’Europa.

Tra il 2004 e il 2007 sono emersi nell’Africa occidentale almeno due distinti snodi di commerci illeciti:

uno in Guinea-Bissau e Guinea, e l’altro nel Golfo del Benin, che si estende dal Ghana alla Nigeria.

Più recentemente si è però notata un’inversione di tendenza.

 Le rotte attraverso l’Africa occidentale hanno infatti perso peso a seguito di una molteplicità di fattori:

i tumulti politici nei paesi arabi del Nord Africa, attraverso i quali la droga arrivava in Europa;

il successo delle misure d’interdizione nella stessa Europa;

il forte pattugliamento delle aree attraversate dai flussi di droga, a seguito del crescente coinvolgimento di gruppi terroristici panarabi (legati a volte alla rete di al-Qaida) in questo tipo di commercio.

Ciò sembra avere indebolito i flussi su questa via di transito, anche se potrebbe verificarsi una veloce ripresa, essendo i governi dell’Africa occidentale pressoché inattivi nell’opera di contrasto ai traffici illeciti, quando non c’è un coinvolgimento delle autorità stesse.

Dall’altra sponda dell’oceano, si riscontra che i flussi di cocaina in Africa occidentale provengono in misura decrescente dalla Colombia.

Il Brasile e il Venezuela sono invece emersi come paesi chiave per il transito di carichi diretti all’Europa, in particolare per le spedizioni marittime di grandi entità.

In fatto di volumi si stima che in Europa siano distribuite circa 124 tonnellate di cocaina del valore di 34 miliardi di dollari.

Meno dell’1% del valore della cocaina venduta in Europa andrebbe ai coltivatori andini di coca, mentre l’1% sarebbe destinato ai trafficanti nelle regioni andine.

I trafficanti internazionali che gestiscono la cocaina dalle regioni andine ai principali punti di entrata (specialmente la Spagna) otterrebbero il 25% del valore finale delle vendite.

Un ulteriore 17% sarebbe generato dal trasporto attraverso l’Europa: dai punti d’ingresso ai grossisti dei paesi di destinazione.

Oltre la metà degli introiti (circa il 56%) viene generata negli stessi paesi di destinazione, e deriva dal commercio spicciolo tra spacciatori al dettaglio e consumatori diretti.

 Poiché in Europa il numero di spacciatori a livello nazionale è più elevato, il loro reddito pro capite è più basso rispetto a quello degli spacciatori che fanno parte del piccolo gruppo di trafficanti che gestisce il flusso internazionale.

 

Il traffico internazionale di droga: l'eroina.

Antonio Maria Costa

In questo secondo approfondimento dedicato al traffico internazionale di droga ci occuperemo di un’altra droga botanica:

gli oppiacei, ovvero oppio ed eroina.

La maggior parte della produzione dell’eroina a livello mondiale è concentrata in una manciata di province del tormentato Afghanistan, specificatamente zone rurali coinvolte nel conflitto.

 L’eroina afgana alimenta un mercato globale del valore di circa 55 miliardi di dollari all’anno.

Le rotte balcaniche e nordiche sono i corridoi principali del traffico di eroina che collega l’Afghanistan all’enorme mercato della Russia (per un valore di 13 miliardi di dollari) e dell’Europa occidentale (20 miliardi di dollari).

 La maggior parte dei profitti finisce ai gruppi criminali organizzati durante il tragitto, ma una parte importante degli introiti finanzia gli insorti talebani in Afghanistan.

 

1. Dall’Afghanistan alla Federazione Russa.

 

Per oltre un decennio, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si è assistito a una rapida crescita del flusso e del consumo di eroina in Russia, crescita che ha iniziato a stabilizzarsi intorno al 2000.

 Oggi si stima che in Russia ci siano oltre due milioni di eroinomani, un numero che la rende il più grande paese consumatore di narcotici al mondo.

 Il trasporto via terra è la modalità più utilizzata nella rotta dall’Afghanistan verso il nord.

Vent’anni fa tutti gli stati a nord dell’Afghanistan facevano parte dell’Urss, quindi non erano separati da frontiere.

Dopo il collasso del comunismo questi stati, pur essendo divenuti paesi indipendenti, continuano ad avere controlli assai ridotti ai loro confini, che sono tecnicamente e operativamente sottosviluppati.

 Inoltre questi nuovi stati sono in prevalenza poveri (specialmente il Tagikistan, che confina direttamente con il nord dell’Afghanistan), alcuni hanno assistito a insurrezioni politiche (Kirghizistan e Uzbekistan) e tutti sono notoriamente corrotti (tutti i paesi dell’area): di conseguenza il contrasto al traffico di eroina non è mai stato, e spesso non ha potuto divenire, una priorità.

Oggi le misure di polizia intraprese hanno consentito sequestri di svariate tonnellate di eroina all’anno; ciononostante, circa 70 tonnellate di eroina riescono a transitare, per soddisfare la domanda nella Russia.

 

Per fornire ai tossicodipendenti russi queste 70 tonnellate, circa 95 tonnellate (o il 25% di tutta l’eroina afgana esportata) transitano dall’Afghanistan all’Asia centrale, dove il Tagikistan gestisce la maggior parte del volume del traffico.

Sia grandi gruppi ben organizzati che piccoli imprenditori sono coinvolti, e la droga passa così da diverse mani prima di raggiungere il consumatore finale. Legami familiari ed etnici transfrontalieri appaiono come importanti elementi nel facilitare il flusso.

Le 70 tonnellate commercializzate in Russia sono vendute per circa 13 miliardi di dollari sul mercato locale, un volume senz’altro in aumento nell’ultimo decennio.

 

2. Dall’Afghanistan all’Europa.

 

La rotta dei Balcani prosegue via terra, dall’Iran (o dal Pakistan all’Iran) passando dalla Turchia e attraverso l’Europa sud-orientale. Per ottenere le 87 tonnellate di eroina che soddisfano il consumo europeo, circa 140 tonnellate di eroina partono dall’Afghanistan, dato l’elevato volume di sequestri in Iran e in Turchia. La maggior parte dell’eroina che giunge in Europa è consumata soprattutto in quattro paesi: il Regno Unito, l’Italia, la Francia e la Germania.

I gruppi criminali organizzati coinvolti nel traffico internazionale sulle rotte dei Balcani sono spesso composti da cittadini dei paesi d’origine o di transito.

Ma molti dei trafficanti coinvolti nei diversi stadi del tragitto sono veri e propri trasportatori professionali, assunti per svolgere tale lavoro, senza necessariamente appartenere al gruppo che possiede la droga e senza appartenere formalmente a gruppi criminali di stampo mafioso.

 Gli oppiacei destinati all’Europa occidentale sono trafficati fuori dall’Afghanistan dalle reti di trafficanti di etnia Beluci e Pashtun, che operano nelle regioni di confine tra l’Afghanistan, il Pakistan e l’Iran.

Gruppi beluci in particolare sono stati attivi nel commercio della droga, in parte per finanziare attività ribelli al confine tra il Pakistan e l’Iran, in parte per arricchimento personale.

 In questo caso i Beluci scaricano le loro spedizioni di eroina (in Iran) ad altri gruppi con maggiori legami regionali e internazionali, come gli Azeri, gli Arabi e soprattutto i Curdi, che spesso hanno legami familiari con compatrioti emigrati in Europa, specialmente in Germania.

 Una volta che l’oppio ha cambiato di mano, questi gruppi divengono i principali responsabili del trasporto della droga dai confini orientali ai confini occidentali dell’Iran, fino in Turchia, dove le grandi spedizioni sono suddivise in partite più piccole per la distribuzione in Europa.

 

Nei Balcani il fatto che solamente una parte relativamente piccola venga sequestrata suggerisce che tale rotta sia estremamente ben organizzata e facilitata dalla corruzione.

 Se i gruppi balcanici svolgono un ruolo preponderante in tale area, essi tuttavia non sembrano detenere il controllo dei mercati di destinazione. In molti paesi europei sono infatti i nazionali a gestire il mercato locale, inclusa l’Italia.

Dopo la Turchia, i Paesi Bassi sono il maggiore centro di redistribuzione per l’Europa occidentale, soprattutto nel nord dell’Unione Europea.

 

Il traffico internazionale di droga: cannabinoidi e droghe sintetiche.

Antonio Maria Costa.

In questo ultimo approfondimento sul mercato internazionale degli stupefacenti ci concentriamo su una terza droga botanica, i cannabinoidi, per poi trattare separatamente anche le droghe sintetiche.

La ricerca statistico-economica sul mercato dei cannabinoidi è più difficile che per le altre droghe.

Primo, la cannabis è la droga più consumata al mondo, con circa 160 milioni di persone (4% della popolazione mondiale) che hanno dichiarato di averne fatto uso almeno una volta nell’arco dell’anno precedente.

 Secondo, il consumo è assai diffuso nei mercati stessi di produzione, quindi esistono delle rotte di traffico usate dalle mafie internazionali, ma sono più limitate per dimensione e distanza coperta.

 Terzo, il mercato è diviso nei due grandi comparti della foglia di cannabis (marijuana) e della resina (hashish) che non permettono aggregazione, se non a fini contabili.

 

 

Pur se i cannabinoidi sono coltivati e consumati pressoché ovunque nel mondo, i due maggiori mercati sono gli Usa, dove la domanda (foglia) è in maggioranza soddisfatta da produzione locale, e l’Europa, dove il consumo (resina) è soprattutto di droga importata.

 Il singolo maggiore produttore ed esportatore è il Marocco (soprattutto resina), dove le coltivazioni sono state dimezzate negli ultimi dieci anni. Altro grande paese produttore è il Messico (soprattutto foglia), che soddisfa oltre un terzo della domanda statunitense.

Il mercato globale della foglia di cannabis è stimato a 130 miliardi di dollari, oltre la metà negli Usa.

 I dati sui sequestri di marijuana sono indicativi: d

elle 6000 tonnellate intercettate a livello globale quasi la metà è stata scovata in Messico, e un quarto negli Usa stessi.

Le vendite al dettaglio in Europa eccedono i 25 miliardi di dollari, circa un quinto del volume d’affari globale:

si noti tuttavia che l’Europa sequestra meno dell’1% del volume mondiale.

Il resto dei consumi (e dei sequestri) è frammentato tra Africa, Australia e America Latina.

 Diversa è la tipologia di consumo della resina, che trova il suo mercato principale proprio in Europa:

 oltre tre quarti del fatturato globale, che sfiora i 30 miliardi di dollari. La Spagna detiene il primato nei sequestri di resina con oltre la metà delle 1300 tonnellate intercettate al mondo.

Il resto del mercato mondiale è fratturato in percentuali modeste (5-10%) negli altri continenti.

 

Le cifre riportate sopra sono il risultato di una triangolazione delle informazioni disponibili, che includono stime sulla coltivazione (via osservazioni satellitari e ispezioni sul campo), sul consumo (attraverso il numero dei tossicodipendenti, ritarato in base al volume di uso) e sui sequestri (grazie ai dati delle forze dell’ordine).

Questi ultimi, i sequestri, forniscono i dati più robusti statisticamente parlando, e offrono una chiave di lettura per mediare informazioni a volte assai divergenti tra i volumi di offerta e di domanda, oltre che una mappa generale circa i traffici internazionali.

 

I dati sui sequestri indicano che le rotte della marijuana sono interregionali e valicano poche frontiere.

 Il perno di tale smercio sono gli Usa e il traffico avviene lungo il loro perimetro esterno, attraverso soprattutto i confini con il Messico e con il Canada.

 Le rotte dell’hashish tendono, al contrario, ad essere intercontinentali, concentrate attraverso il Mediterraneo e lungo le coste orientali dell’Atlantico.

Importanti sforzi sono da tempo in corso ai due estremi del mercato: alla fonte (Marocco) e lungo il perimetro iberico, dove i sequestri sono aumentati negli ultimi tre anni, anche se rimangono inferiori alle 750 tonnellate intercettate nel 2003-04.

 

Per ciò che concerne le droghe sintetiche, invece, il loro consumo continua a eccedere, in termini del numero di tossicodipendenti, quello delle droghe botaniche come cocaina e oppiacei.

 Il mercato mondiale, da tempo stabilizzato a circa 34 milioni di consumatori, mostra maturazione nei paesi industriali e una lenta ma continua crescita nel Terzo mondo.

La produzione globale si aggira sulle 500 tonnellate l’anno, apparentemente stabile da un decennio, con un giro di affari al dettaglio pari a circa 60-70 miliardi di dollari.

I traffici internazionali degli stimolanti sintetici sono diversi da quelli delle droghe botaniche, per una ragione semplice:

la produzione, fattibile ovunque, è frammentata e localizzata in prossimità dei grandi centri di consumo.

Questo rende le operazioni di contrasto assai difficili, e riduce i costi del prodotto finito sul mercato.

Di conseguenza, la lenta decentralizzazione dell’uso dal Nord al Sud del mondo determina una modifica dei luoghi di manifattura e quindi dei percorsi del traffico.

 

Data la grande dimensione del mercato delle droghe sintetiche, il coinvolgimento delle organizzazioni criminali mondiali è in continuo aumento:

 tuttavia, la frammentazione del mercato, e la sua natura regionale, costringono la mafia internazionale a collaborare - assai più che per altre droghe - piuttosto che a competere con gruppi locali.

Questo partenariato di convenienza ha generato due risultati:

una più grande dimensione e sofisticazione nella produzione rispetto a quando quest’ultima era fondamentalmente nelle mani di gruppi familiari locali, con capacità produttive limitate a pochi kg la settimana.

 

Inoltre è ora apparsa una dimensione etnico-geografica legata ai traffici:

i precursori chimici usati come materia prima provengono dal sud-est asiatico; i trafficanti dall’Africa occidentale e dall’Asia; gli esperti chimici sono solitamente europei; e i colletti bianchi (banchieri, avvocati, notai e contabili) che ne riciclano i proventi sono nordeuropei e americani.

Negli ultimi anni il mercato delle anfetamine, modificatosi come detto sopra dal tipo casereccio e familiare a un formato più simile ai grandi mercati dell’eroina e cocaina, ha visto il coinvolgimento delle grandi reti mafiose per una seconda ragione:

raccordare la provenienza dei precursori (spesso localizzati in altri continenti) con la manifattura locale e lo smistamento del prodotto finito sulle aree limitrofe.

 A differenza di eroina e cocaina, questi flussi sono altamente instabili: possono essere e sono modificati non appena il profilo di rischio o il potenziale di reddito cambiano.

 In Europa, per esempio, la produzione un tempo localizzata nel Regno Unito si è spostata in Spagna, a causa dell’inasprimento delle sanzioni decisa da Londra, e d’altra parte per la forte crescita del turismo (e quindi della domanda) nella penisola iberica.

Il mercato - produzione quanto consumo - dell’ecstasy rimane un fenomeno quasi unicamente europeo.

 In origine in mano esclusiva a produttori e trafficanti olandesi, esso si è oggi diversificato con manifattori delocalizzati nell’Est europeo - Polonia, Ucraina, Bulgaria e Russia occidentale.

 

L’altro elemento che deforma i traffici delle droghe sintetiche rispetto a quelle botaniche è la diversificazione delle ragioni di consumo.

Notoriamente, esse vengono usate dai consumatori europei e nordamericani per scopo soprattutto ludico.

In Asia l’uso è soprattutto legato al lavoro - sia esso legale (catene di montaggio, servizio taxi, costruzioni ed edilizia) o illegale (prostituzione minorile, sfruttamento sessuale, tratta delle donne).

 In tutti questi ambienti, le sostanze chimiche di tipo anfetaminico vengono usate per dare all’organismo maggiore resistenza a fatica, pena e sofferenza.

Lo sviluppo più significativo degli ultimi anni è anche quello più sorprendente:

 il rapido diffondersi del consumo di stimolanti nei paesi del Golfo, soprattutto l’Arabia Saudita.

Le cifre sono tanto sbalorditive quanto poco note.

Gli ultimi dati confermano che Riyad ha sequestrato nel 2008-09 oltre un quarto di tutti gli stimolanti al mondo:

circa 15 tonnellate, contro 6 in Cina e 5 negli Usa.

 

Il prodotto finito, che si chiama localmente captagone (un’anfetamina modificata), è manifatturato soprattutto in Bulgaria.

Attraversa poi il Mediterraneo, per venire re-imballato in Siria prima di raggiungere i paesi del Golfo.

Si sospetta che gruppi paramilitari locali, con affiliazione religiosa ostile al governo dell’Arabia Saudita, siano coinvolti:

gli stessi gruppi hanno anche ripreso da qualche tempo la coltivazione dei cannabinoidi nella Valle della Bekaa, al confine tra la Siria e il Libano, per l’esportazione in Europa.

 

Mercati illegali di sigarette.

Primi per consumatori di oppiacei.

Andamento dei consumi di cocaina.

Primi per consumatori di cocaina.

GLI ANNI SETTANTA: LA DEFINIZIONE DI UNA NUOVA GEOGRAFIA DELLE MAFIE CONTEMPORANEE.

Gli anni Sessanta e Settanta sono il periodo ‘magico’ delle mafie italiane che si sprovincializzarono e si mossero in tutti i continenti alla ricerca di nuovi affari.

 È possibile datare a quegli anni la nascita di una nuova geografia delle mafie contemporanee.

Esse non sarebbero più rimaste rinchiuse negli angusti territori d’origine, negli anfratti di società rurali, ma avrebbero fatto la scelta di spaziare al di là dei confini regionali e nazionali.

 I mutamenti furono rilevanti e imprevisti;

 arrivarono come un tornado ed ebbero l’effetto di sconvolgere assetti ed equilibri interni a ogni singola associazione mafiosa.

L’‘onorata società’ non sarebbe stata più quella di un tempo;

si sarebbe trasformata profondamente pur rimanendo ancorata ai codici e alle regole del passato.

Non perse le sue caratteristiche mafiose, ma le adattò ai tempi moderni. Il vecchio mondo mafioso per molti versi era al tramonto e s’apriva una nuova epoca caratterizzata dalla velocità degli scambi nello scacchiere internazionale, dalla facilità e dalla rapidità di accumulare denaro.

Tanti soldi, come mai era successo in passato.

 

Nella lunga storia del crimine organizzato non c’è mai stato un business lontanamente paragonabile a quello della droga.

In nessun comparto dell’economia criminale c’è una resa economica degli investimenti effettuati pari a quella che è possibile ricavare con la vendita della droga.

Per questi motivi, anche i vecchi capi mafiosi che non avevano visto di buon occhio l’idea di partecipare a quell’avventura dovettero cedere il passo a giovani più intraprendenti e spregiudicati; coloro che non s’adattarono finirono ammazzati.

 Non fu rispettato nessuno di quelli che s’opposero, né ci fu chi potesse frenare questi nuovi virgulti mafiosi, che videro spalancarsi davanti ai loro occhi la concreta prospettiva di diventare ricchi in tempi rapidissimi, ricchi in proporzioni gigantesche, inimmaginabili fino ad allora, come non era mai capitato di intravedere neanche nei sogni più arditi.

I traffici delle sigarette e poi quelli della droga incisero in profondità negli assetti, nelle abitudini, nei rapporti con gli altri mafiosi, che diventarono più frequenti.

Chiuso il porto di Tangeri, i contrabbandieri crearono nuovi depositi sulle coste della Iugoslavia e dell’Albania, e nel frattempo ingaggiarono navi greche per il trasporto dei tabacchi.

Le navi contrabbandiere operarono nel medio e basso Adriatico, lungo le coste ioniche, in Sicilia, Calabria, Campania raggiungendo, quand’era necessario, le coste laziali.

C’erano anche ragioni economiche che consigliavano di rafforzare le relazioni tra le varie mafie.

Una nave contrabbandiera a pieno carico trasportava da 1500 a 4000 casse di sigarette, e all’epoca nessuna organizzazione locale, neanche la mafia siciliana, aveva la potenzialità economica per anticipare il 40% o il 50% del carico prima della partenza, così come era regola consolidata nell’ambiente contrabbandiero.

 La nave scaricava durante il viaggio le varie partite lungo le coste delle tre regioni.

Erano, dunque, indispensabili continui contatti e accordi tra le varie organizzazioni.

 I contatti ci furono ed erano visibili perché, non infrequentemente, furono trovati esponenti mafiosi siciliani, campani o calabresi su navi contrabbandiere catturate nelle acque prospicienti le coste meridionali.

L’allora colonnello dei carabinieri “Carlo Alberto Dalla Chiesa” riferì anche che nel corso del 1972, presso un importante albergo di Napoli, si era svolta una riunione alla quale avevano preso parte il mafioso Giuseppe Savoca, il camorrista Giuseppe Di Carluccio e gli ’ndranghetisti Paolo De Stefano e Pasquale Condello.

 

In quegli anni i mafiosi impararono le lingue, realizzarono rapporti con altri criminali stranieri, scoprirono nuove rotte e nuovi paesi, allargarono i loro orizzonti mentali e culturali.

In questo quadro si infittirono le reti criminali fra delinquenti di diverse nazionalità.

 S’intrecciarono relazioni, conoscenze, amicizie non solo con contrabbandieri e trafficanti, ma anche con quanti, collocati nei presidi delle diverse frontiere, erano disposti a chiudere un occhio in cambio di denaro; la corruzione oliava i passaggi e facilitava il transito delle merci da un paese a un altro.

 

I mafiosi si inserivano anche in un mondo fino ad allora precluso e sconosciuto:

 quello dei colletti bianchi, dei riciclatori di professione, nazionali e internazionali, di uomini in grado di muovere ingenti quantitativi di denaro da una parte all’altra senza lasciare traccia alcuna dei vari passaggi.

 Sono conoscenze fondamentali per chi voglia nascondere le proprie ricchezze, sono persone che rimangono nell’ombra, al riparo dai riflettori e sconosciuti alla magistratura.

Molti contrabbandieri e trafficanti furono arrestati, ma il flusso di denaro non si interruppe perché coloro che gestivano i soldi erano poche persone, non note alla massa dei mafiosi e conosciute solo da chi, entro le varie famiglie, aveva il compito di gestire e di occultare il denaro.

A partire da quel periodo le mafie italiane entrarono in una fase di profonda trasformazione.

 I loro traffici valicarono i confini delle loro regioni d’origine e anche delle nuove aree di residenza.

La logica di un mercato illegale come quello degli stupefacenti, che si svolgeva su scala sovranazionale, le indusse a muoversi con speditezza in tutto lo scacchiere internazionale per reperire le merci da importare e smerciare in Italia e in giro per il mondo.

Non ci sono più confini in grado di reggere quest’urto.

 Si va da una parte all’altra del mondo alla ricerca prima di tabacchi di contrabbando e poi di eroina;

 infine, in epoca più recente, è arrivato il tempo della cocaina e di altre droghe sintetiche.

I percorsi e le strade sono gli stessi, perché sin dall’inizio sigarette e droga seguivano le stesse rotte, gli stessi canali, varcavano le stesse frontiere e solcavano gli stessi mari.

Dal quadro tracciato è quindi evidente che l’espansione postbellica delle mafie su territori stranieri non si sarebbe più fermata, anzi con il trascorrere del tempo avrebbe conquistato nuovi territori e nuovi stati.

Cosa nostra, come s’è visto, era già presente negli Stati Uniti e con Cosa nostra americana c’era un vero e proprio cordone ombelicale; la ’ndrangheta aveva presenze di tutto rispetto in Canada e in Australia.

Poi la ’ndrangheta diventò l’organizzazione che fu in grado di allargare le sue basi operative fino a diventare progressivamente attiva in molti paesi stranieri.

Oggi la ’ndrangheta ha proprie colonie in paesi europei ed extraeuropei come Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Regno Unito, Portogallo, Spagna, Svizzera, i Balcani, Canada, Australia, Stati Uniti, Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Venezuela, Messico, Ecuador, Bolivia, Santo Domingo, Costa Rica, Marocco, Turchia.

 

COSA NOSTRA NEGLI STATI UNITI.

L’organizzazione più famosa è senz’altro Cosa nostra americana, che fu formata quasi esclusivamente da mafiosi siciliani emigrati nella seconda metà dell’Ottocento.

Le prime organizzazioni criminali italo-americane agivano nei quartieri dove predominanti erano gli immigrati italiani - le Little Italy - perché lì era più facile incontrare connazionali e con il loro aiuto mimetizzarsi e agire.

Il periodo del proibizionismo, durato dal 1920 per poco più di un decennio, fu molto importante per lo sviluppo di bande di gangster e della mafia perché i cittadini americani non consideravano illegittimo il consumo di alcolici.

 Gli abitanti degli slums guardavano con ammirazione i gangster ed erano convinti che svolgessero una funzione importante nella società.

Al Capone coglieva questo stato d’animo ed era solito dire: «Tutto quello che faccio è rispondere alla domanda del pubblico».

 

Dopo la fase iniziale, Cosa nostra accolse anche quelli che non erano siciliani, e allora vi parteciparono anche mafiosi di origine campana e in particolare di origine calabrese.

Calabresi erano infatti Francesco Castiglia, meglio noto come Frank Costello, e Albert Anastasia, che all’anagrafe di Tropea, suo paese d’origine, risultava essere iscritto con il nome più prosaico di Alberto Anastasio.

 Entrambi ebbero un peso eccezionale e una parte di rilievo nelle vicende della mafia italoamericana e furono tra coloro che spinsero per la creazione di nuclei mafiosi calabresi in Australia e in Canada, che presero forma e consistenza tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del Novecento.

Mentre la presenza mafiosa negli Stati Uniti è cosa nota e ampiamente studiata, quella che si radicò in Australia e in Canada è ancora tutta da studiare con attenzione, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con le ’ndrine calabresi – che sono la struttura di base a carattere familiare – della zona ionica della provincia di Reggio Calabria.

Nel corso degli anni Trenta scoppiò in America la ‘guerra castellammarese’, così chiamata perché i protagonisti erano originari di Castellammare del Golfo;

questa fu conclusa dal leggendario Lucky Luciano, nato a Lercara Friddi con il nome di Salvatore Lucania, che ordinò l’omicidio di Joe Masseria e Salvatore Maranzano, i due mafiosi più potenti dell’epoca.

 

Cosa nostra americana accolse di buon grado al suo interno i mafiosi siciliani emigrati, che durante la repressione del prefetto fascista Cesare Mori avevano abbandonato l’isola per non essere arrestati.

I mafiosi italoamericani ebbero un ruolo importante durante il secondo conflitto mondiale, collaborando con le autorità e assicurando la tranquillità del porto di New York dagli attentati tedeschi.

 Luciano, in cambio di quella collaborazione, ebbe la liberazione dal carcere, mascherata con l’espulsione dagli Usa.

 Alcuni sostengono che Luciano abbia avuto un ruolo nello sbarco in Sicilia degli alleati, ma non ci sono prove storiche sufficienti a suffragare questa ipotesi.

Nel 1964, davanti a una commissione d’inchiesta del Senato americano depose Joseph Valachi, ammettendo per la prima volta di far parte di Cosa nostra, nome fino ad allora sconosciuto.

 

La storia di Cosa nostra americana s’è intrecciata più volte anche nel secondo dopoguerra con Cosa nostra siciliana.

 I legami tra le due organizzazioni sono stati sempre molto stretti fino a tempi recenti; per esempio, agli inizi degli anni Ottanta gli americani accolsero gli ‘scappati’,

ossia i perdenti della guerra di mafia siciliana vinta dai Corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano.

Nel corso dei decenni le famiglie mafiose americane che si affermarono nel panorama criminale furono cinque e i loro cognomi sono noti oramai da decenni: Bonanno, Colombo, Gambino, Genovese, Lucchese.

 

LE MAFIE IN ITALIA.

Nello stesso periodo in cui si svilupparono questi traffici internazionali si avviarono altri mutamenti, determinati dall’intervento straordinario dello stato nel Mezzogiorno, che erano destinati a segnare in modo permanente la storia dei decenni successivi.

 L’erogazione dei fondi pubblici è stata certamente rilevante ed era stata ideata inizialmente come una misura per sviluppare le regioni del sud d’Italia.

Fatto è, però, che la concreta gestione delle risorse pubbliche ha avuto effetti paradossali perché, sfuggita dalle mani dello stato, ha determinato un vero e proprio governo mafioso dell’economia, che si è concentrato in alcune aree delle tre regioni meridionali.

 

Una quota rilevante di questa spesa pubblica fu intercettata dalle mafie.

La concreta gestione del potere da parte delle classi dirigenti meridionali ha permesso che ciò potesse avvenire e dunque esse hanno la responsabilità principale di quanto è accaduto negli ultimi decenni.

Una notevole parte di quel personale politico, legato ai partiti allora al governo, ha gestito la cosa pubblica con la pratica diffusa del clientelismo, dell’affarismo, della corruzione, del familismo.

Queste vie della politica si sono ben presto incrociate e intrecciate con quelle delle mafie, che andavano sempre di più accentuando la loro caratteristica di organizzazioni territoriali capaci di esercitare potere economico e potere politico.

Lo stretto controllo del territorio significava controllo sopra le persone e dunque sui voti che queste esprimevano.

 I mafiosi votarono per uomini politici disposti, in cambio dei voti di lista e di preferenza, a concedere benefici e favori alle famiglie mafiose.

Con il trascorrere del tempo questi rapporti di delega mutarono e le mafie scelsero la via di candidare propri rappresentanti diretti (propri affiliati) dentro le istituzioni, dal più piccolo comune al Parlamento.

 

I dati dei comuni sciolti per mafia nell’ultimo ventennio – alcuni addirittura più di una volta – sono molto eloquenti e ci danno l’idea del condizionamento mafioso esercitato sulle comunità locali.

Per quanto concerne l’economia delle mafie sul territorio italiano, una delle attività principali era senza dubbio costituita dalla re-immissione di denaro sporco nel mercato legale attraverso il riciclaggio, attività che modificava il rapporto tra le mafie e l’economia.

La ’ndrangheta è l’unica organizzazione mafiosa che riuscì a raccogliere denaro con i sequestri di persona, che funzionarono quasi come una sorta di accumulazione primitiva del capitale mafioso.

I proventi dei riscatti seguirono due vie.

 La prima fu quella di investire in modo massiccio nell’edilizia:

con i soldi gli ’ndranghetisti acquistarono autocarri, camion, ruspe, betoniere, pale meccaniche, crearono imprese per poter partecipare ai subappalti pubblici, piccoli o grandi che fossero, a cominciare dai lavori per la costruzione del quinto centro siderurgico a Gioia Tauro.

 La seconda fu quella di investire parte dei soldi ricavati dai riscatti per acquistare droga, alimentando in tal modo un colossale traffico che vide le ’ndrine calabresi muoversi con sempre maggiore capacità ed efficienza in tutto lo scacchiere nazionale e internazionale.

 

Nel frattempo accadeva che imprese mafiose, o a capitale mafioso, entrassero nel mercato legale agendo come fossero imprese legali.

 In questo caso le mafie in alcune realtà, comprese quelle del nord d’Italia, cominciarono a sostituire via via gli operatori economici, entrarono nelle società finanziarie, comparteciparono o addirittura diedero vita ad aziende formalmente pulite, acquistarono immobili in notevole quantità al sud come al nord, spesso anche di pregio.

La mafia, e poi via via la ’ndrangheta e la camorra, fuoriuscivano così dai loro antichi territori d’origine e di insediamento e ne occupavano di nuovi.

 Esse seppero volgere a proprio vantaggio l’imponente fenomeno sociale che portò in tutta Italia uno sviluppo impetuoso, e spesso incontrollabile, delle città.

Lo sviluppo oramai si spostava nei centri abitati.

 In Sicilia questo processo trovò una mafia che era ben acquartierata in molte zone cittadine, anche se per molti decenni era stata sottostimata, anzi si può arrivare a dire oscurata dal peso sociale e politico della mafia del latifondo.

Cosa nostra era da antica data collocata entro le borgate periferiche. Nel giro di pochi anni il centro e le zone immediatamente adiacenti sarebbero stati travolti da una speculazione edilizia tanto violenta e distruttiva da meritarsi la definizione di ‘sacco di Palermo’.

 Quegli anni sono passati alla storia con questa definizione, che coglie a pieno quanto era successo.

 I nomi di Lima, Ciancimino, Gioia, del costruttore Francesco Vassallo sono indissolubilmente legati a quella stagione di speculazione edilizia.

 

Cosa nostra, amministrazione pubblica e costruttori sembravano tutt’uno.

A ciò si devono aggiungere i consistenti crediti senza garanzie erogati dalle banche, che giocarono un ruolo di assoluto primo piano.

Senza i finanziamenti delle banche molti costruttori, compresi quelli mafiosi, non avrebbero potuto diventare potenti e ricchi.

Fu all’opera e fu molto attivo una sorta di modello criminale che avrebbe fatto scuola e che venne seguito anche da ’ndrangheta e camorra, le quali compresero l’importanza delle relazioni esterne alle mafie, soprattutto i collegamenti con il mondo della politica.

 Fu sicuramente il periodo d’oro della grande, sfrenata, spregiudicata speculazione edilizia che impastò cemento:

professionisti vari – ingegneri, architetti, avvocati, notai e altri ancora – mafie locali e uomini politici d’assalto che facevano affari utilizzando le leve pubbliche.

 

Lo sviluppo dell’edilizia non riguardava solo Palermo o la Sicilia.

 In tutte le regioni dove erano presenti famiglie mafiose si verificarono fenomeni analoghi, seppure con intensità diversa, e comunque era un aspetto particolare di un fenomeno più generale che fu chiamato miracolo economico italiano.

Il diffuso e intenso processo di urbanizzazione portò al ridimensionamento delle campagne che videro ridotto il loro peso sociale e il loro peso politico;

nel breve volgere di pochi anni si spopolarono.

Cosa nostra, però, non abbandonò le campagne, né le abbandonò la ’ndrangheta.

 

Negli anni del boom economico, caratterizzati da profondi mutamenti nei mercati criminali e illegali, si aprirono conflitti interni alle varie organizzazioni ed esplosero guerre sanguinosissime nella mafia, nella ’ndrangheta e nella camorra.

Era una ristrutturazione armata del potere interno alle singole famiglie mafiose.

 Un lago di sangue fu versato per determinare nuovi equilibri e nuovi assetti di comando.

 

Sangue mafioso, ma anche sangue di chi s’era opposto alla mafia o di chi con la mafia non aveva nulla da spartire.

Un lungo elenco, dove è possibile imbattersi in magistrati, carabinieri, poliziotti, uomini politici e delle istituzioni, giornalisti, commercianti, uomini e donne semplici, persino bambini.

Il periodo più cruento si concluse nei primi anni Novanta con le stragi di Capaci e di Via d’Amelio in Sicilia e con quelle di Roma, Firenze e Milano.

Le mafie non solo si erano insediate nelle città, ma avevano valicato i confini regionali e cominciavano a trovare punti d’appoggio in tutte le regioni del centro e del nord Italia.

Durante gli anni del boom economico, infatti, masse imponenti di meridionali emigrarono nelle regioni del centro e del nord del paese.

Il triangolo industriale del Piemonte, della Lombardia e della Liguria funzionò come un gigantesco polo d’attrazione.

Insieme ai lavoratori meridionali erano arrivati molti mafiosi, sia perché anche loro in quel periodo avevano bisogno di trovare lavoro e sia perché per molti era meglio tentare l’avventura al nord che tirare a campare in paese senza avere alcuna prospettiva di poter crescere come criminale perché lì c’era già chi comandava e non era facile scalzarlo, a meno che non si volesse scatenare una guerra sanguinosa e dagli esiti incerti.

 

Il territorio mafioso si prolungò, dal sud arrivò al centro-nord e interessò non solo luoghi fisici, ma anche ‘immateriali’ come quelli legati al mondo economico, finanziario e bancario.

 

Al nord era necessario attrezzarsi per assicurare reti di distribuzione degli stupefacenti e avere la sicurezza che il denaro potesse essere riciclato senza che ci fosse, per quanto possibile, l’intervento degli inquirenti.

Il riciclaggio aveva fruttato parecchio.

I dati sui beni confiscati ai mafiosi danno un quadro significativo delle proprietà immobiliari e aziendali di cui si erano impossessati.

I dati ufficiali sono solo una parte dei possedimenti effettivi perché numerosi sono i beni, in numero imprecisato e difficilmente calcolabile, che sono ancora in mano mafiosa e che la magistratura al momento non è stata in grado di individuare e confiscare.

 Come è possibile osservare, i dati riguardano tutte le regioni italiane, a conferma del fatto che la presenza mafiosa è estesa a tutta l’Italia.

Con il passare del tempo l’insediamento al nord, pur avendo inizialmente la stessa matrice, avrebbe messo in evidenza differenze sostanziali tra le diverse organizzazioni.

Gli ‘ndranghetisti, contrariamente agli altri mafiosi, mostravano la tendenza a insediarsi stabilmente e per questo spostavano pezzi della famiglia con un progetto migratorio di lunga durata, anzi spesso permanente.

La tendenza, a un certo punto, si trasformò in una vera e propria scelta o, meglio, in una tecnica di penetrazione.

Questa è una delle ragioni che hanno permesso alla ’ndrangheta di diventare col tempo l’organizzazione territorialmente più ramificata al centro-nord e all’estero.

 L’altra ragione risiede nella struttura familiare della ’ndrangheta.

 

Mercati per valore di beni contraffatti.

Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa.

LE MAFIE NELLE CAMPAGNE.

La presenza nelle campagne delle mafie non rispondeva solo all’esigenza di mantenere vivo il rapporto con il proprio passato, ma anche a quella di non perdere le opportunità di guadagno fornite dalle moderne convenienze economiche.

Infatti alcuni settori delle nostre campagne, come quelle dove ci sono coltivazioni fiorenti, rimangono ancora sotto il tallone del controllo mafioso, che continua a esercitare la sua intermediazione.

Si è parlato molto poco dell’accumulazione mafiosa che avviene nell’agricoltura e si pensa, sbagliando, che i soldi che si ricavano sono inessenziali nella formazione complessiva del capitale mafioso e della sua ricca economia.

 L’imponenza del traffico della droga e i suoi enormi guadagni hanno abbagliato gli analisti economici che non hanno saputo guardare più a fondo, scavando in una realtà complessa, varia e cangiante.

 Per esempio, nelle campagne calabresi ci sono molte truffe che interessano i settori dell’agrumicoltura e dell’olivicoltura.

Sono truffe ingegnose che sono presenti in modo massiccio anche in Campania, Sicilia e altrove.

Per portarle a termine c’è stato bisogno di fare ricorso a professionisti del crimine che avevano preparazione, perfetta conoscenza dei meccanismi comunitari, adeguate complicità nella regione, a livello nazionale ed europeo.

 Si prenda l’esempio dell’olivicoltura calabrese: questa è uno di quei settori dove si sono prodotti particolari azioni di monopolio, dal momento che i frantoi si sono concentrati, nel corso del tempo, in poche mani perché gli antichi conduttori hanno forzatamente abbandonato il settore e si sono occupati d’altro.

 

Contrariamente a quanto si crede, proprio nelle campagne meridionali è in attività una criminalità mafiosa di tipo professionale che non tralascia né i vecchi né i nuovi settori del mondo agricolo.

Il controllo del territorio si manifesta anche così.

Negli ultimi anni in Sicilia la mafia è particolarmente attiva nella filiera del vino, che ha avuto uno sviluppo davvero sorprendente ed eccezionale.

 

LA STRUTTURA FAMILIARE DELLA ’NDRANGHETA.

La struttura familiare della ’ndrangheta poggia in gran parte sulla famiglia naturale del capobastone da cui prende il nome.

Per designare una famiglia mafiosa in Sicilia si usa il nome del comune o del quartiere, in Calabria, invece, non a caso si fa riferimento al cognome del capobastone, seguito dal comune su cui signoreggia.

 

Il cuore della ’ndrina è costituito dai parenti più stretti del capobastone: figli, fratelli, nipoti, zii, cugini.

 È opinione comune che tutti costoro facciano parte integrante della ’ndrina, ma tale opinione non è condivisibile, altrimenti il numero complessivo dei mafiosi sarebbe molto più elevato di quello ufficialmente riconosciuto.

Di solito la famiglia di sangue del capobastone si allarga facendo ricorso ai matrimoni incrociati delle donne delle ’ndrine - figlie, sorelle, cugine, nipoti - con uomini d’onore che fanno parte di altre cosche.

Questa modalità porta a rafforzare la cosca principale e determina un complesso mosaico di parentele, caratterizzato da un intricato intreccio familiare; questo è tanto più solido e visibile nei medi e nei piccoli comuni, dove è avvenuto un frequente ricambio generazionale che ha portato all’aggregazione di nuove famiglie che si sono unite e saldate con vincoli familiari al ceppo originario.

 

Le parentele mafiose sono così estese ed hanno un peso notevole, anche sul piano numerico, da determinare un condizionamento sull’intera comunità, un ossessivo e opprimente controllo del territorio e delle principali attività economiche, nonché un asfissiante tentativo di condizionare la politica.

Molti erano convinti che una struttura organizzativa basata sui rapporti familiari fosse troppo elementare e rudimentale, niente affatto funzionale a una moderna organizzazione mafiosa, oppure che fosse un residuo folklorico di una lontana storia che non voleva decidersi a passare.

 Un tale giudizio s’è rivelato errato come ha dimostrato la vicenda dei collaboratori di giustizia, le cui dichiarazioni hanno colpito mafia, camorra e Sacra corona unita (la mafia pugliese), ma non certo la ’ndrangheta che è stata protetta proprio dalla struttura familiare, che inibiva a un collaboratore di poter parlare dei suoi stretti familiari indicando costoro come mafiosi e autori di reati efferati.

Solo negli ultimi mesi del 2010 a Reggio Calabria pare si sia cominciato a invertire questa tendenza perché sono comparsi alcuni collaboratori di giustizia, anche se è presto per dire se sia un’avvisaglia d’un sommovimento nell’arcipelago ‘ndranghetista, oppure se si tratti solo di episodi limitati e circoscritti.

 

L’espansione territoriale nazionale e internazionale di questi ultimi decenni conferma la bontà delle scelte organizzative e mostra come la ’ndrangheta sia riuscita, proprio con il meccanismo delle colonie familiari, ad assicurarsi insediamenti stabili in Italia e in paesi stranieri molto distanti dai comuni calabresi dai quali era originariamente partita.

 

LE MAFIE DOPO LA FINE DELLA GUERRA FREDDA.

Nella fase del trapasso da un millennio all’altro, l’Italia s’è scoperta un paese di destinazione di flussi migratori di persone provenienti da diverse parti del mondo.

Nel nostro paese ci sono due porte spalancate – una a sud e una a nord, la prima marittima e la seconda terrestre – ed esse sono state ripetutamente attraversate.

 Sono tanti coloro che sono venuti in Italia in cerca di lavoro, di un lavoro qualsiasi che consentisse di poter sopravvivere; altri sono scappati da paesi in guerra.

Il Novecento ha consegnato al nuovo millennio la riemersione del fenomeno della riduzione in schiavitù di un numero enorme, ancorché difficilmente quantificabile, di uomini e di donne, di fanciulle e di bambine, quest’ultime costrette con la violenza a prostituirsi nelle strade delle nostre città.

Ci piaccia o no, gli schiavi sono tra di noi, vivono in mezzo a noi, popolano le nostre città e le nostre campagne.

 Non li chiamiamo schiavi, ma lo sono; usiamo altre parole per indicarli – prostitute, accattoni, lavavetri, stagionali – ma la sostanza non cambia. Sono forme nuove di schiavitù che a volte non si sa come definire. Quando si parla di sesso a pagamento, per esempio, si è soliti adoperare un termine, quello di prostituzione, che è vecchio come è vecchio l’uomo, che è inadeguato e ambiguo perché copre una molteplicità di comportamenti.

 Le donne che stanno in strada o quelle rinchiuse in appartamenti non sempre hanno fatto quel mestiere per libera scelta.

Sono schiave, ma si continua a chiamarle prostitute.

 

Negli ultimi due decenni si sono introdotti mutamenti rilevanti, anzi si può dire epocali.

Il crollo degli stati che facevano da corona all’Urss e la frantumazione di quel blocco ha creato un enorme mercato criminale che per molti anni è rimasto pressoché fuori dal controllo delle autorità statali locali.

Uno degli effetti prodotti è stato il mercato delle armi.

Nessuno si è preoccupato di controllare dove potessero finire le armi, comprese quelle nucleari, che erano nei depositi dell’Urss e delle altre nazioni con essa alleate.

Armi di tale provenienza hanno fatto il giro del mondo e sono state trovate nei posti più disparati.

In questo periodo la ’ndrangheta cresceva e, tra le altre cose, aveva l’abitudine di acquistare armi oltre che droga.

A volte si sono ritrovati depositi di armi nella disponibilità della ’ndrangheta in quantità notevoli e apparentemente senza una ragione specifica o immediata, dal momento che non ci sono conflitti armati tra le ’ndrine né, a quanto è possibile comprendere, le dinamiche interne porteranno a conflitti armati.

 Infatti, neanche dopo la strage di Duisburg, in Germania – che ha visto acuirsi la faida di San Luca – ci sono state ritorsioni di tipo militare.

 Era stata una faida sanguinaria originata il giorno di carnevale del 1991, quando un gruppo di ragazzi dei Nirta e degli Strangio lanciarono uova contro un circolo ricreativo gestito da Domenico Pelle detto Gambazza.

Dallo scherzo si arrivò alla tragedia perché quel giorno persero la vita due ragazzi di 19 e di 20 anni.

 La faida ebbe fasi alterne e diversi morti; un momento cruciale fu la morte di Maria Strangio, uccisa per sbaglio la notte di Natale del 2006 al posto del marito Giovanni Nirta, il vero obiettivo dell’agguato.

Il 15 agosto del 2007, l’atto più devastante:

6 persone trucidate nella lontana Duisburg.

Eppure, nonostante questa catena di morti ammazzati, nel giro di poche settimane s’è fatta la pace tra le ’ndrine belligeranti.

Non è chiaro quali siano stati i termini dell’accordo, ma il fatto certo è che la pace ancora non è stata violata.

Tra l’altro, le indagini dell’estate 2010 che hanno portato all’arresto di oltre 300 uomini di ’ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria, hanno mostrato come sia stato deciso di dare vita a un vertice stabile della ’ndrangheta, a un organo collegiale, definito ‘Provincia’ o anche ‘Crimine’, in grado di dirimere i contrasti e prevenire conflitti armati.

 

Allora perché la ’ndrangheta ha depositi di armi di notevoli dimensioni?

È probabile che il possesso delle armi sia finalizzato ad altri scopi. Per cercare di comprendere quali siano occorre dare uno sguardo al proscenio internazionale, tenendo conto che anche gli stupefacenti provengono, oppure attraversano, zone o paesi in guerra.

La droga è una merce particolare che si compra in contanti e, a volte, è reperibile nei crocevia più delicati.

Una parte di essa arriva dall’Afghanistan, in quantità più rilevante rispetto al periodo precedente all’abbattimento del regime talebano; un’altra parte arriva da alcuni paesi del Medio Oriente o da paesi ancora più lontani come quelli latinoamericani, a cominciare dalla Colombia.

 In questi luoghi non è raro che guerriglieri o terroristi controllino fette consistenti del mercato di droga.

La storia di questi paesi ha mostrato come il possesso della droga sia funzionale al controllo di una merce di scambio molto ambita e richiesta, in quanto serve per ottenere armi.

 Ci sono infatti mercanti di droga che la cedono in cambio di soldi, mentre altri mercanti cedono droga in cambio di armi e di esplosivi.

Le transazioni avvengono un po’ dappertutto, all’estero come in Italia.

In territorio italiano c’è oramai un affollamento di mafie.

A quelle nostrane si sono affiancate nell’ultimo decennio anche mafie straniere di varia provenienza, alcune oramai divenute stanziali, altre invece vanno e vengono; queste ultime sono solo di passaggio.

 

Produzione e traffici di droga.

Il giro d'affari della 'ndrangheta.

Nazionalità dei trafficanti di eroina arrestati in Italia.

MAFIE CHE VENGONO E VANNO, MAFIE CHE RESTANO.

Negli ultimi due decenni il mondo della criminalità italiana, già particolarmente ricco e vivace, s’è arricchito di presenze e di figure nuove.

 Ai mafiosi italiani, incontrastati dominatori dei mercati illegali e criminali del nostro paese, abituati a valicare i confini nazionali per muoversi in paesi stranieri, si sono aggiunti vari soggetti provenienti da ogni parte del mondo.

Alcuni di questi vanno e vengono dal nostro paese, altri oramai vi si sono impiantati stabilmente e si può dire che facciano parte del panorama criminale nostrano.

Accanto alle mafie italiane ci sono le mafie straniere che agiscono nella tratta degli esseri umani e nel traffico di stupefacenti.

Alcune sono stanziali, altre sono di passaggio.

La globalizzazione è anche questo, e genera di continuo effetti non desiderati nel cortile di casa.

Ci sono gruppi criminali o mafiosi che provengono dall’Albania, dalla Cina e dalla Nigeria, i quali si sono stabilmente insediati in alcune regioni del nostro paese, in prevalenza nelle regioni del centro e del nord, meno nel Mezzogiorno d’Italia e meno ancora in Sicilia, Calabria e Campania.

Alcuni sostengono che le difficoltà economiche esistenti nelle regioni meridionali abbiano sconsigliato una loro presenza significativa, altri sono convinti che ciò sia dipeso dalla presenza mafiosa locale che ha impedito l’occupazione di un territorio già ampiamente presidiato.

L’elemento che le caratterizza è la loro stanzialità.

Ciò vuol dire che, oltre alle tradizionali mafie italiane, si sono stabilmente insediate alcune mafie di origine straniera e provenienti da varie parti del mondo.

In Italia sono attive anche altre mafie o raggruppamenti criminali che hanno caratteristiche diverse, prima fra tutte quella di non avere in Italia degli insediamenti permanenti e stabili.

Questi raggruppamenti non sono però tutti uguali tra di loro.

Alcuni di essi, come gli algerini, i marocchini, i tunisini sono ben presenti nello spaccio di strada dell’eroina e hanno una posizione servente rispetto ad altri soggetti criminali più potenti e più strutturati.

Sono l’ultimo anello, il più debole, quello che viene a diretto contatto con il tossicodipendente.

Ultimamente si sono aggiunti gruppi di criminali slavi che agiscono in vari settori illegali.

 

Gli esponenti della mafia turca e di quella colombiana sono personaggi di diversa caratura criminale, hanno collegamenti diretti con la madrepatria e in Italia vengono - oramai da molti decenni - solo per vendere droga, per lo più eroina i primi, cocaina i secondi.

 Infine, ci sono i rappresentanti della mafia russa, che sembrano più interessati a riciclare il denaro sporco frutto dei crimini commessi in Russia.

Gli esponenti di queste tre mafie - turca, colombiana e russa - almeno per il momento non sembrano essere intenzionati a stabilizzarsi in Italia.

Sono rappresentanti mafiosi di passaggio, sono in transito, sono pochi e si fermano il tempo necessario a concludere l’affare, poi rientrano nel loro paese.

 I turchi negli ultimi anni si sono inseriti nel traffico degli esseri umani, ma non in quello della tratta, che presuppone una gestione delle donne ridotte in schiavitù in territorio italiano, creando proprie strutture.

Nel nostro paese ci sono organizzazioni criminali e mafiose simili le une alle altre e allo stesso tempo molto diverse le une dalle altre.

 Anche loro hanno contribuito - e molto - ad alimentare nel corso del tempo i vari mercati criminali.

 

LA ’NDRANGHETA È LA MAFIA PIÙ FORTE.

La ’ndrangheta, con i collegamenti transnazionali intessuti nel corso dei decenni passati, ha funzionato come un’enorme calamita, attirando con la sua affidabilità criminale sia droga, sia armi, sia esplosivi.

 È probabile che abbia scambiato droga con armi e viceversa, a seconda delle convenienze del momento.

Quello delle armi è il mercato più esclusivo che ci sia perché coinvolge molti interessi sensibili:

quelli degli stati belligeranti, quelli degli stati di transito delle merci illegali, quelli dei servizi segreti di più paesi, quelli dei terroristi o dei guerriglieri.

 La storia di questi ultimi cinquant’anni ci dice inoltre che è più facile intercettare un carico di droga che un carico di armi.

Oggi il crimine organizzato italiano è dominato dalla ’ndrangheta che è la ‘regina’ degli stupefacenti che si muovono in Europa, ha gli insediamenti più stabili e di più antica data in Italia e all’estero, ha forti collegamenti con il mondo della politica calabrese e nazionale, ha intrecci equivoci con la borghesia mafiosa, con pezzi e segmenti dei servizi segreti e della massoneria deviata, ha rapporti di lavoro con criminali stranieri che operano nel nostro paese.

È forte, non c’è dubbio.

Finalmente, molti che prima l’avevano sottovalutata cominciano oggi a rendersi conto della pericolosità della ’ndrangheta e della necessità di comprendere meglio le ragioni del suo radicamento territoriale e della forza politica per poterla adeguatamente contrastare e battere definitivamente perché tutte le mafie possono essere sconfitte, a condizione di comprenderne la natura e di avere la volontà di chiudere una volta per tutte questo lungo capitolo della storia italiana.

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