Il totalitarismo cinese governerà il mondo?
Il
totalitarismo cinese governerà il mondo?
Il 24
marzo del 1999, esattamente
25
anni fa, la NATO riportò
la
guerra in Europa. Una guerra non
provocata
e criminale!
Conoscenzealconfine.it
– (24 Marzo 2024) – Giuseppe Salomone – ci dice:
Iniziò
illegalmente, visto che non c’era alcun mandato da parte del Consiglio di
Sicurezza dell’ONU, un attacco aereo contro la Serbia.
Attacchi
che per i 76 giorni a venire avrebbero ridotto in macerie gran parte della
Serbia e condannato ad atroci sofferenze la sua popolazione.
Sofferenze
che continuano ancora oggi visto che i proiettili a uranio impoverito hanno
avvelenato un territorio e continuano ad affliggere di immani sofferenze la
popolazione Serba, soprattutto i bambini.
(Oltre ai militari italiani abbandonati e
censurati dopo quella guerra!)
Coloro
che ne portano le più grandi responsabilità dalla parte italiana sono stati
Massimo D’Alema allora presidente del Consiglio e Sergio Mattarella, Vice
presidente del Consiglio.
Chi
dimentica è complice!
In
quanto italiano chiedo scusa ancora oggi ai Serbi vittime dell’impero del male
e dei suoi servi.
“I
serbi non possono perdonare alla “NATO” il bombardamento della Jugoslavia
perché ha ucciso bambini serbi e ora non prova alcun rimorso”.
Lo ha dichiarato a RIA Novasti l’ex capo
dell’Agenzia serba per la sicurezza e l’informazione, Alexander Kulin.
(t.me/Giuseppe
Salomone).
Rischio
guerra totale, i dossier
degli
007 europei: "Putin può
attaccare,
investire nelle armi"
Quotidiano.net
– (25-3-2024) – Redazione – ci dice:
L’industria
bellica continentale cresce, ma è dietro al resto del mondo. Il generale “Li
Gobbi”:
"L’esercito italiano deve arruolare più
giovani".
Roma,
25 marzo 2024 – Il rogo ucraino e l’aggressività russa si sono trasformate in una lezione
per l’Europa, la quale sta cominciando a comprendere che la politica della
difesa comune tra Paesi membri va allestita dal punto di vista dei sistemi
d’arma, degli investimenti e dell’organizzazione.
Più cooperazione e spese razionalizzate.
Ce lo
suggerisce lo scenario di guerra ucraino, premono i Paesi baltici e la Polonia
che si sentono esposti a imprevedibili mosse di Mosca, lo fa pensare
l’atteggiamento degli Usa che in caso di vittoria di Donald Trump non è detto
continuino nell’assistenza militare come oggi.
Il
ministro della Difesa, “Guido Crosetto”, si è incontrato col capo di Stato
maggiore della Difesa, l’ammiraglio “Giuseppe Cavo Dragone”.
Circola
una preoccupazione ricorrente negli ultimi rapporti annuali dei servizi segreti
dei principali Paesi Ue:
"La
Russia, se avrà campo libero, non si fermerà in Ucraina.
Si sta preparando a una guerra lunga con
l’Occidente".
Sono
in tensione i Baltici, Polonia, i neo-soci del club della Nato, Finlandia e
Svezia.
Forse
per la prima volta in alcuni documenti ufficiali a Bruxelles si parla di
"prepararsi a un’emergenza militare".
Su
questo aspetto è in arrivo un rapporto destinato alla presidente della
Commissione Ue, Ursula von der Leyen, la quale ha promesso che se sarà rieletta
istituirà un commissario per la Difesa, premendo sul fatto che l’Europa deve
aumentare le spese militari.
Le
grandi manovre sono cominciate.
Secondo
una ricerca” Ispi”
"nell’Ue l’industria bellica ha raggiunto nel
2022 un fatturato di 135 miliardi di euro (+10%) e ha impiegato circa 516mila
persone (+4%).
Tuttavia,
nessuna azienda di un Paese Ue compare nella classifica delle 10 più grandi per
fatturato a livello mondiale".
Anche
qui, dunque, è d’obbligo una riflessione perché se servono armamenti, servono
anche aziende tecnologicamente avanzate per produrli.
Troppi
sistemi sono acquistati fuori dall’Ue e in ordine sparso.
L’italiana
Leonardo è la prima impresa europea nell’industria della difesa e si posiziona
solo all’11° posto con un fatturato 2022 di 12,9 miliardi di dollari.
E servono armamenti comuni perché non si
possono avere 3-4 tipi di mezzi blindati diversi e filosofie difensive
differenti tra Paesi membri. L’intenzione è arrivare entro il 2030 a far sì che i Paesi Ue
appaltino in comune il 40% dell’equipaggiamento.
E
nella Difesa ognuno deve arrivare a destinare il 2% del Pil.
L’Italia
dopo anni di tentennamenti ha previsto un piano di robusti investimenti interni
dal 2024 al 2029.
"Il mondo è cambiato e cambia anche il nostro
modello di difesa – spiega il generale “Antonio Li Gobbi”, già direttore delle
operazioni presso lo Stato Maggiore della Nato a Bruxelles – e l’Italia deve
rinforzare alcuni aspetti.
Fino
al 2014 si è puntato su un modulo di proiezioni rapide con forze ridotte e
flessibili.
Oggi come vediamo in Ucraina è da mettere in
conto anche un possibile scontro sul terreno con forte capacità di fuoco.
È
necessario arruolare più giovani, più impiegabili sul campo e con ferme brevi,
anche di 9-10 anni.
Con la garanzia di veicolare poi chi esce
verso altre occupazioni.
Oggi
abbiamo in servizio circa 100mila uomini.
Il numero va aumentato".
Poi
c’è il nodo degli equipaggiamenti d’arma.
Ancora”
Li Gobbi”:
"Bisogna
puntare sull’aumento di forze corazzate, artiglieria, difesa aerea.
Tutto ciò senza dimenticare la tecnologia di
ultima generazione come i sistemi aerei a guida remota, i sistemi di
intercettazione.
L’Italia ha già allestito anche una scuola di
formazione per la guida dei droni, che oggi come si vede nei teatri bellici,
sono fondamentali per la ricognizione e l’attacco".
In Italia l’aumento della spesa militare è
trainato da un bilancio del ministero della Difesa che supera per la prima
volta i 29 miliardi di euro (+5,1% rispetto al 2023).
20
Cose che il Golpe Covid
Ha
Rivelato sull’Umanità.
Conoscenzealconfine.it
– (24 Marzo 2024) - Tom Woods – ci dice:
20
cose che ho imparato (o che mi sono state confermate) sull’umanità durante la
“pandemia”.
1) La
maggior parte delle persone preferisce stare con la maggioranza, piuttosto che
avere ragione.
2)
Almeno il 20% della popolazione ha forti tendenze autoritarie, che possono
emergere nelle giuste condizioni.
3) La
paura della morte è rivaleggiata solo dalla paura della disapprovazione
sociale. Quest’ultima potrebbe essere più forte.
4) La
propaganda è efficace ai giorni nostri come lo era 100 anni fa. L’accesso a
informazioni illimitate non ha reso la persona media più saggia.
5)
Ogni cosa può essere e sarà politicizzata dai media, dal governo e da coloro
che si fidano di loro.
6)
Molti politici e grandi aziende sacrificheranno volentieri vite umane se ciò
favorisce le loro aspirazioni politiche e finanziarie.
7) La
maggior parte delle persone crede che il governo agisca nell’interesse del
popolo. Anche molti di coloro che criticano apertamente il governo.
8) Una
volta presa una decisione, la maggior parte delle persone preferisce continuare
nella stessa direzione, piuttosto che ammettere di aver sbagliato.
9) Gli
esseri umani possono essere addestrati e condizionati in modo rapido e
relativamente facile, modificando significativamente i loro comportamenti, in
meglio o in peggio.
10)Quando
è sufficientemente spaventata, la maggior parte delle persone non solo accetta
l’autoritarismo, ma lo richiede.
11) Le
persone che vengono liquidate come “teorici della cospirazione” sono spesso
solo ben informate e in anticipo rispetto alla narrativa mainstream.
12) La
maggior parte delle persone dà più valore alla sicurezza e alla protezione che
alla libertà e anche se questa “sicurezza” è solo un’illusione.
13)
L’adattamento edonico (processo psicologico da cui l’essere umano sperimenta un
adattamento dell’intensità delle proprie emozioni) si verifica in entrambe le
direzioni e, una volta che si instaura l’inerzia, è difficile riportare le
persone alla “normalità”.
14) Ad
una percentuale significativa di persone piace molto essere sottomesse.
15)
“La Scienza” si è evoluta in una pseudo-religione secolare per milioni di
persone in Occidente. Questa religione ha poco a che fare con la scienza
stessa.
16) La
maggior parte delle persone si preoccupa più di dare l’impressione di fare la
cosa giusta, piuttosto che farla davvero.
17) La
politica, i media, la scienza e l’industria sanitaria sono tutti corrotti, in
varia misura. Scienziati e medici possono essere comprati con la stessa
facilità dei politici.
18) Se
rendete la gente abbastanza comoda, non si ribellerà. Si possono mantenere
milioni di persone docili mentre si tolgono loro i diritti, dando loro denaro,
cibo e intrattenimento.
19) Le
persone oggi sono eccessivamente compiacenti e mancano di vigilanza quando si
tratta di difendere le proprie libertà dalla prevaricazione del governo.
20) È
più facile ingannare una persona che convincerla di essere stata ingannata.
(Tom
Woods) - (tomwoods.com).
(toba60.com/20-cose-che-il-golpe-del-covid-rivela-sullumanita/)
Perché
la Cina può essere
solo
un Paese autoritario.
Linkiesta.it - Michael Schuman – (3 novembre
2021) – ci dice:
(“L’impero interrotto. La storia del
mondo vista dalla Cina”, di Michael Schuman, (traduzione di Luisa Agnese Dalla
Fontana), Utet editore, 2021”.)
Nonostante
la deriva verso il totalitarismo intrapresa negli ultimi anni preoccupi
l’Occidente, la verità è che non esistono nella sua storia esempi liberali e
democratici cui guardare.
La
direzione, sembra suggerire “Michael Schuman” nel suo ultimo libro, sembra
essere solo quella.
Gli
imperi vanno e vengono.
Quelli greco, romano, bizantino, spagnolo, britannico,
ottomano, abbaside, persiano, mongolo, moghul e tanti altri sono tutti
scomparsi.
Nelle
frontiere, nel diritto, nell’architettura e nella lingua ne rimangono le
vestigia, ma come entità politiche non esistono più.
Si
potrebbe pensare che in Cina sia successo lo stesso:
non ha
più dinastie e imperatori, e l’antico palazzo reale, la cosiddetta Città
proibita, è ormai un’attrazione turistica di Pechino.
Ma la
Cina è un impero diverso dagli altri:
in
larga misura, esiste ancora.
Nella
sua veste di stato nazione, è una versione delle entità politiche cinesi indipendenti
che in precedenza si formarono più o meno nella stessa area geografica.
Il sistema politico cinese, nella sostanza, si
è dimostrato davvero resistente.
L’epoca delle dinastie imperiali in Cina è
durata assai a lungo, ben 2100 anni.
Noi in
Occidente tendiamo a considerare la storia cinese una serie di dinastie, una di
seguito all’altra, quasi fossero inquilini che si susseguivano nella Città
proibita;
quando
il contratto di affitto di una dinastia scadeva, subentrava un’altra coppia
regale;
per
noi, i nomi degli svariati imperi possono sembrare diversi, da Tang a Song a
Ming, ma sono più o meno intercambiabili.
Le
cose non andarono proprio così.
In
certi periodi, spesso lunghi, la Cina era divisa in stati avversari o dominata
da invasori stranieri.
Anche
se le diverse dinastie avevano alcuni tratti simili, essendo tutte monarchie
verticistiche, non erano affatto identiche:
ciascuna
aveva caratteristiche proprie, adeguate alla sua epoca, e le incarnazioni
successive sviluppavano le istituzioni e le ideologie create dai loro
predecessori.
Tuttavia,
l’aspetto più incredibile della storia politica della Cina è la frequenza con
cui venne ricostituito l’impero.
La
Cina avrebbe potuto facilmente seguire lo stesso percorso dell’Europa, dove
un’area con origini culturali e storiche comuni a un certo punto si divise in
paesi in competizione con lingue, governi e obiettivi propri.
Lì
invece i pezzi venivano sempre rimessi insieme.
L’idea
di una “Cina” unica, formulata prima dell’epoca di Cristo, reggeva saldamente.
Se la
Cina non era unita, la sua classe politica ogni volta desiderava che tornasse a
esserlo. I
l
venerato romanzo cinese del Trecento Il romanzo dei tre regni inizia con questa
frase: «L’impero,
a lungo diviso, deve unirsi. A lungo unito, deve dividersi».
Potrebbe
sembrare che la Cina di oggi neghi questa massima. L’ultimo imperatore fu
cacciato dal trono nel 1912.
Il governo di Pechino si considera comunista,
la sua ideologia di fondo si basa sul marxismo-leninismo (importato da un altro
filo della storia del mondo).
La
Cina moderna non è un impero, o una dinastia, ma uno stato nazione costituito
come quelli occidentali.
È membro della “comunità delle nazioni”,
fondata in base alle norme che in Europa regolano le relazioni internazionali.
Ma il
regno cinese del XXI secolo somiglia assai più ai suoi predecessori imperiali
di quanto non appaia a prima vista.
La
struttura del governo attuale non è poi così diversa da quella delle dinastie,
creata per la prima volta duemila anni fa:
uno stato centrale, con il potere accentrato
nella capitale, che controllava il paese grazie a una burocrazia capillare.
Le province, allora come oggi, spesso godevano
di un certo livello di autonomia non ufficiale, e gli alti burocrati della
capitale, allora come oggi, vedevano i loro propositi vanificati di continuo da
funzionari con spirito indipendente delle lontane periferie.
Esiste un proverbio cinese più vero oggi di
quanto non sia mai stato: «Il cielo è in alto e l’imperatore è lontano».
In fin
dei conti, comunque, l’ordine imperiale cinese era un’autocrazia.
Non c’erano limiti ufficiali al potere
dell’imperatore, e il suo comportamento e le sue decisioni venivano tenuti a
freno solo da ingiunzioni morali, precedenti di corte e talvolta consiglieri
con una forte volontà.
Ma
tecnicamente la parola dell’imperatore era legge.
“Kangxi”,
imperatore della “dinastia Qing”, scrisse:
«Concedere
la vita e dare la morte – questi sono i poteri di un imperatore».
E non stava affatto esagerando.
Oggi
in Cina non c’è una singola persona che da sola detenga il potere di vita e di
morte:
la
Repubblica popolare, costituita nel 1949, ha una costituzione, un procedimento
legislativo e un sistema giudiziario.
Tale
divisione dei poteri però esiste solo sulla carta, mentre nella pratica la
definizione di “Kangxi” suona ancora vera.
I
massimi dirigenti possono fare quello che desiderano, e quadri di partito,
giudici e funzionari pubblici eseguono quanto viene ordinato.
Chi
sfida lo stato viene trattato con brutalità.
Come
minimo, il sistema politico cinese del XXI secolo è al limite del totalitarismo.
Nel
2018 l’attuale presidente, “Xi Jinping”, ha fatto abolire dalla costituzione
del paese i limiti di tempo alla sua permanenza in carica, e questo significa
che se vuole può regnare a vita come un imperatore.
E i mandarini imperiali, spesso paranoidi, potevano
solo sognare di mettere le mani sulla moderna tecnologia grazie alla quale oggi
“Xi” può monitorare le telefonate, i messaggi, le mail, i movimenti, le
abitudini di acquisto e le transazioni finanziarie dei cinesi.
L’attuale
regime sta diventando più simile alle dinastie per aspetti che influenzano
direttamente la sua visione del mondo e le sue azioni sulla scena mondiale.
Il
partito comunista cinese è nato un secolo fa per reazione della Cina allo
scontro con le potenze occidentali;
i suoi
fondatori, come molti altri intellettuali all’epoca, credevano che lo stato
cinese e le istituzioni su cui si basava fossero poco adatti al mondo moderno:
se la
Cina non si fosse liberata delle sue antiche usanze, il popolo cinese sarebbe
stato condannato alla schiavitù coloniale, alla mercé degli stati europei, più
potenti.
Per
buona parte della sua esistenza il partito comunista è stato impegnato a
sradicare tutti gli aspetti della Cina tradizionale, le sue religioni, le sue
filosofie, i valori familiari, l’istruzione, il sistema economico eccetera,
eccetera.
La
missione del comunismo, in fondo, è di distruggere la società esistente,
corrotta, e sostituirla con un’utopia libera dallo sfruttamento.
«Da
ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni», come recita il mantra.
Ma la
Cina moderna, con il suo capitalismo selvaggio, i parcheggi stipati di Tesla e
i lussuosi centri commerciali, non somiglia a nulla del genere, e dunque i suoi
dirigenti sono impegnatissimi a far rivivere la cultura tradizionale che si
sono sforzati tanto di sradicare.
Il
presidente “Xi” promuove personalmente gli antichi codici etici, la letteratura
e l’ideologia governativa di epoca imperiale, e il regime comunista si
trasforma sempre di più in un nuovo genere di dinastia.
Per
molti di noi occidentali, questa svolta verso il totalitarismo è angosciante.
Da
circa centoventicinque anni in Cina desiderano più diritti democratici,
un’aspirazione che è sempre rimasta irrealizzata.
L’autoritarismo
però è più conforme alla storia del mondo cinese:
a
differenza di noi che siamo in Occidente, i cinesi non possono ispirarsi con
entusiasmo ad antiche repubbliche, e nel corso millenario dello sviluppo
politico cinese l’ideale politico è stato la monarchia autoritaria. Questo non vuol dire che i cinesi
desiderino o meritino di vivere sotto regimi oppressivi, ma significa che i
capi cinesi per creare un governo rappresentativo di tipo occidentale
dovrebbero guardare a modelli europei o americani, anziché al proprio passato.
Questo
vale anche in senso più generale.
Quello
che per noi in Occidente è normale, o persino fondamentale per una società
moderna, risulta abbastanza nuovo per i cinesi.
Il
concetto di diritti umani inalienabili, la parità tra stati nella diplomazia
internazionale, il governo costituzionale, un’autorità giudiziaria
indipendente, la parità di genere, sono tutti concetti nuovi per la Cina e non
fanno parte della sua lunga storia. (Per la verità, sono abbastanza recenti anche in
Occidente.)
Quando
guardiamo il mondo, tendiamo a dimenticare che altri popoli non condividono la
nostra evoluzione politica, sociale ed economica, e quindi magari non
condividono nemmeno i nostri ideali e le nostre priorità.
Con
questa affermazione non si intende tanto giustificare la repressione cui è
soggetto oggi il popolo cinese, quanto sottolineare che la storia cinese del
mondo ha prodotto esiti diversi da quella dell’Occidente.
E
mentre la Cina ascende sulla scena mondiale, porta con sé il bagaglio che si è
trascinata dietro nel suo lungo viaggio storico, con tutti gli onori e i
disonori annessi.
(“L’impero interrotto. La storia del
mondo vista dalla Cina”, di Michael Schuman, (traduzione di Luisa Agnese Dalla
Fontana), Utet editore, 2021).
Margarita
Simonyan sull’Attentato
di
Mosca: “Non è l’Isis!”
Conoscenzeaconfine.it
- (25 Marzo 2024) – Redazione - “Margarita Simonyan” – ci dice:
“L’Ucraina
e l’Occidente hanno fatto ricorso a operazioni di false flag per convincere
tutti che dietro l’attacco terroristico al “Crocus City Hall”, nei pressi di
Mosca, ci fosse l’ISIS”, ha dichiarato “Margarita Simonyan”, caporedattore del
gruppo mediatico “Rossiya Segodnya”, che fa capo a “Sputnik”.
La
direttrice del gruppo mediatico ha sottolineato che i nomi e i volti dei
responsabili sono già noti alle autorità e che i terroristi hanno rivelato
tutto durante gli interrogatori.
“È apparso subito chiaro perché i media
statunitensi hanno affermato all’unisono che si trattava dell’ISIS”, ha detto.
“Simonyan”
ha spiegato che gli autori sono stati scelti per compiere l’attacco in modo da
permettere all’Occidente di persuadere la comunità internazionale che dietro
l’attacco c’è l’ “ISIS”.
“Un
gioco di prestigio di base. Il livello di un ditale ferroviario”, ha aggiunto.
“Non
ha nulla a che fare con l’ISIS. Sono stati gli ucraini”.
Ha
aggiunto che l’entusiasmo mostrato dai media occidentali quando hanno cercato
di persuadere tutti che l’“ISIS “era responsabile anche prima che venissero
effettuati gli arresti, li ha traditi completamente.
“Questo
non è l’ISIS. Si tratta di una squadra ben coordinata di diverse altre sigle,
anch’esse ampiamente conosciute”, ha concluso “Simonyan”.
La
sparatoria è avvenuta venerdì sera nella sala concerti “Crocus City Hall”, alle
porte di Mosca, ed è stata seguita da un incendio di vaste proporzioni che ha
provocato almeno 143 vittime.
Nelle
ore successive all’attacco, i media occidentali hanno insistito
sull’”organizzazione jihadista radicale ISIS”, mentre i funzionari ucraini
hanno affermato di non avere nulla a che fare con la tragedia.
Tuttavia,
i sospettati sono stati arrestati nella “regione russa di Bryansk”, vicino al
confine ucraino.
Secondo
i dati forniti dalle forze dell’ordine, avevano una base di appoggio dall’altra
parte del confine.
Inoltre,
mentre Kiev si è affrettata a negare il proprio coinvolgimento nella
sparatoria, si sa che i servizi segreti ucraini hanno un lungo curriculum di attacchi
terroristici in territorio russo, dai bombardamenti nella regione di Belgorod,
agli assassinii della politologa “Daria Dugina” e del giornalista “Vladlen
Tatarsky”.
(lantidiplomatico.it/dettnews-margarita_simonyan_sullattentato_di_mosca_non__lisis/45289_53757/)
L'obiettivo
della Cina è l'egemonia
globale.
L'America non può
far
finta di nulla.
Ilfoglio.it – (01 GIU 2020) – Redazione – ci
dice:
I discorsi
di “Xi” indicano che Pechino vuole creare un nuovo ordine mondiale governato da
princìpi autoritari.
L’occidente deve prenderne atto, scrive
“Bloomberg” (20/5).
Se
cadono i giganti.
Possiamo
complimentarci con il Partito comunista cinese perché fa ciò che dice e sa ciò
cosa vuole?
Questa potrebbe essere la chiave per
comprendere le ambizioni strategiche di Pechino nei prossimi decenni”, scrive
lo storico “Hal Brands” su “Bloomberg”:
“Un
vecchio modo di dire americano sostiene che la Cina non sa cosa vuole ottenere,
e i suoi leader non hanno ancora compreso quanto sia vasta la propria
influenza.
Tuttavia, molti indizi indicano che il governo cinese
vuole conquistare il primato globale entro la prossima generazione, che intende
capovolgere il sistema internazionale guidato dall’America e creare un nuovo
ordine mondiale.
Non
servono grandi abilità interpretative per arrivare a questa conclusione.
Alcuni
importanti funzionari e membri dell’apparato della politica estera cinese
stanno confidando questa loro ambizione.
Il presidente “Xi Jinping” ha indicato questo
obiettivo nel suo intervento al 19esimo congresso del partito nell’ottobre
2017.
Il
discorso riflette il pensiero di “Xi “riguardo ai successi ottenuti dalla Cina
sotto il regime comunista oltre ai propositi per il futuro.
Il presidente ha dichiarato che la Cina ‘si è
arricchita, sta diventando forte’, ed è oggi “un esempio per i paesi in via di
sviluppo”.
“Xi”
ha promesso che entro il 2049 il paese diventerà ‘un leader globale sia in termini
di forza nazionale e influenza internazionale’ e costruirà ‘un ordine globale
stabile’ attraverso il quale otterrà ‘il ringiovanimento nazionale della Cina”.
Questo è il discorso del leader di un paese
che non si accontenta di partecipare agli affari globali ma intende stabilirne
i termini, a dimostrazione di due temi fondamentali della politica estera
cinese.
Innanzitutto,
una visione negativa dell’attuale sistema internazionale.
I
leader cinesi riconoscono che il regime del commercio globale è stato
indispensabile per la sua crescita economica e militare.
Tuttavia,
credono che il sistema internazionale forgiato da Washington e dai suoi alleati
sia minaccioso.
Per la
Cina le alleanze americane non preservano la pace e la stabilità ma limitano il
potenziale di Pechino e compromettono i suoi rapporti con gli altri paesi
asiatici.
Secondo
questo punto di vista, la promozione della democrazia e dei diritti umani non è
un atto morale bensì un tentativo di delegittimare il governo cinese e
rafforzare i suoi critici interni.
Il Partito comunista cinese riconosce che
l’ordine liberale internazionale ha portato dei benefici, scrive lo studioso
“Nadege Rolland”, ma allo stesso tempo ‘disprezza i princìpi’ su cui si basa.
Il secondo tema è che l’ordine internazionale
dovrà cambiare molto per consentire alla Cina di diventare un paese prospero e
sicuro.
I leader cinesi sono stati comprensibilmente
ambigui nel descrivere il loro mondo ideale, eppure il progetto sta diventando
sempre più chiaro.
“Liza
Tobin”, analista di storia e politica cinesi, sostiene che, studiando i
discorsi di “Xi Jinping” e dei suoi dirigenti, emerge l’ambizione di creare
‘una rete di alleanze globali incentrate sulla Cina per sostituire il sistema a
trazione americana’ e convincere il mondo che l’autoritarismo sia meglio della
democrazia occidentale.
Per
quanto riguarda l’ordine globale, Pechino vuole creare un sistema in cui le
istituzioni internazionali difendono i regimi autoritari anziché sanzionarli.
Nel
frattempo, gli strateghi e accademici cinesi parlano apertamente di costruire
‘un nuovo ordine economico globale incentrato sulla Cina’.
Tuttavia,
non è chiaro se l’orizzonte strategico di Pechino sia limitato al Pacifico
occidentale o all’Asia.
I riferimenti di “Xi” a una ‘comunità con un
futuro condiviso per l’umanità’ indicano l’ambizione cinese di influenzare lo
scacchiere internazionale.
Non
bisogna leggere tra le righe per capire che questo programma comporta lo
sconvolgimento degli attuali equilibri geopolitici.
Certo,
non bisogna prendere alla lettera tutto ciò di cui parlano gli uomini di
governo.
Tuttavia, i leader cinesi dicono meno di ciò
che il paese sta facendo realmente.
Che si tratti del programma di costruzioni
militari che sta sfornando navi a un ritmo impressionante, del tentativo di
controllare le organizzazioni internazionali esistenti e costruirne di nuove,
della sfida per dominare le industrie ad alta tecnologia, degli sforzi sempre
più sistematici per sostenere i regimi autoritari e indebolire le istituzioni
democratiche, o della “Belt and Road initiative” che coinvolge vari continenti,
alla Cina non manca un grande disegno geopolitico.
La
competizione tra America e Cina ricordi per molti versi la Guerra fredda.
Durante
gli anni Settanta alcuni sovietologi americani insistevano che Mosca si era
accontentata del suo status globale.
Tuttavia,
questa tesi ignorava tutto ciò che i leader sovietici dicevano riguardo alla
distensione e alla coesistenza pacifica – che per loro era un modo per fare
trionfare il socialismo senza fare la guerra – oltre ai loro sforzi per
conquistare la superiorità militare nel Terzo mondo.
I pericoli all’epoca erano evidenti, così come
lo sono oggi.
La Cina probabilmente non segue una tabella di
marcia per raggiungere il primato globale, così come non lo faceva l’Unione
sovietica negli anni Settanta.
I leader cinesi non ignorano i costi e gli
ostacoli dei loro progetti:
“ Xi”
ribadisce periodicamente l’importanza di riunificare la nazione cinese, ma
questo non significa che intende fare la guerra a Taiwan.
Pechino
non ha ancora deciso se è più conveniente dominare il Pacifico occidentale ed
espandersi gradualmente, oppure aggirare il ruolo dell’America nella regione
aumentando il proprio potere economico e politico nel mondo.
La Cina potrebbe fallire in entrambi gli
obiettivi.
Forse
il coronavirus indebolirà gli Stati Uniti e l’ordine liberale al punto che
favorirà l’ascesa di Pechino.
Tuttavia,
dobbiamo riconoscere che il dibattito su ciò che vuole la Cina è diventato
stantio perché i leader del regime hanno già risposto a questa domanda.
Quando
un rivale fiero e potente inizia a esternare le sue ambizioni globali, gli
americani dovrebbero prenderlo sul serio.
Russia
e Cina adorano
la
guerra a Gaza.
Ilfoglio.it - REDAZIONE – (22 MAR. 2024) – ci
dice:
Mosca
e Pechino bloccano una risoluzione per la tregua all’Onu e nel frattempo fanno
accordi con gli “houthi”.
La
Russia e la Cina hanno bloccato una risoluzione presentata dagli Stati Uniti
all’Onu che chiedeva un cessate immediato a Gaza legato al rilascio altrettanto
immediato degli ostaggi israeliani tenuti prigionieri da Hamas e dal Jihad
islamico.
Il
rappresentante russo presso le Nazioni Unite,” Vasili Nebenzya”, prima del voto
aveva detto che gli Stati Uniti avevano bloccato ben quattro risoluzioni sul
cessate il fuoco e la risoluzione americana più che una richiesta era un
“imperativo”.
Finora
gli Stati Uniti, e non da soli, hanno bloccato alcune risoluzioni promosse da
Pechino e Mosca, perché nessuna di queste conteneva una condanna dei terroristi
e del massacro del 7 ottobre.
Russia
e Cina pensano all’unisono, sostengono di avere a cuore la vita dei civili
palestinesi, però votano contro una risoluzione bilanciata che lega il cessate
il fuoco a una richiesta impellente e necessaria di salvezza degli oltre
centotrenta prigionieri israeliani che da cinque mesi sono nelle mani dei
terroristi, senza cure, probabilmente nascosti in tunnel, in condizioni fisiche
e mentali precarie e tra i centotrenta ci sono anche ostaggi già morti. (…)
Come
definire la minaccia cinese.
Aspeniaonline.it
- Nunziante Mastrolia – (15 giugno 2021) – ci dice:
L'idea
che i liberi commerci avrebbero trasformato dall'interno la Cina, rendendola
più simile alle liberal-democrazie occidentali, si è rivelata almeno per il
momento un fallimento.
Il vecchio dispotismo asiatico, che ha un suo
degno rappresentante nel Partito comunista cinese, ha fatto dirottato il
processo di transizione e usato la ricchezza prodotta dall'apertura del paese
all'economia internazionale per acquisire maggiore forza da utilizzare per
aumentare il proprio consenso e la propria capacità di controllo sul paese.
Così,
nel tempo, le liberal-democrazie hanno preso atto di questo dato di fatto e la
Cina è passata da partner a competitor, fino a divenire una minaccia.
Ed è
qui che sono iniziate una serie di analisi che con l'avvento della minaccia
cinese segnalano il ritorno, con un certo sollievo, delle chiare e prevedibili
logiche della guerra fredda.
Ma
siamo davvero sicuri che il confronto sempre più duro che si va profilando tra
Stati Uniti e Cina possa essere assimilato a quello tra che ci fu tra Stati
Uniti ed Unione Sovietica?
La
minaccia sovietica era di tipo sistemico.
Mosca
incarnava la possibilità dell'esistenza di un modo diverso di governare l'umana
famiglia.
Era
anzi l'idea che esistesse una formula di gran lunga superiore rispetto a quella
occidentale in grado di assicurare maggiore prosperità, maggiore libertà e
maggiore giustizia sociale.
La concreta di questo dato di fatto la si
coglie nell'esistenza di partiti politici, movimenti sindacali manifestazione,
schiere di intellettuali e di media che anche nei paesi occidentali si
schieravano dalla parte di Mosca e svolgevano il ruolo di persuasori permanenti
per aumentare il consenso a favore degli ideali del comunismo.
In
sintesi, quello che veniva da Mosca era un messaggio universale di liberazione
valido per tutti i popoli sotto ogni cielo ea ogni latitudine.
Al contrario, da Pechino non viene nulla di
tutto ciò.
Per un
certo periodo, la Cina ha provato a presentare l'esperimento cinese, vale a
dire il tentativo di far convivere economia di mercato (con tutti i 'se' del
caso) e autoritarismo, come un modello vincente da esportare nel mondo, e così
lo ha presentato soprattutto ai paesi che in questi anni non sono riusciti a
cogliere i frutti della globalizzazione, in particolare i paesi africani e
quelli latino-americani.
Un
tale messaggio ha convinto qualche regime autoritario in giro per il mondo, ma
non ha scaldato di certo i cuori di milioni di persone né ha portato alla
formazione di quinte colonne interne che si schierano apertamente dalla parte
di Pechino e che lavorano permanentemente per aumentare il consenso a favore
della causa cinese.
Per
dirla diversamente, mentre migliaia di persone sono disposte a rischiare la
vita attraversando il Mediterraneo per arrivare in Europa, o il Rio Grande per
arrivare negli Stati Uniti, non mi risulta che lo stesso accada lungo i confini
cinesi, o quelli russi o quelli turchi.
In
questo senso, si può dire che i flussi migratori sono un modo attraverso il
quale migliaia di persone votano con i piedi dimostrando la loro occasione
circa i luoghi nei quali ambire a vivere, rischiando per questo la vita stessa.
E
quelle persone non stanno affatto scegliendo il “modello cinese”.
C'è di
più, le autorità del Partito comunista cinese sono riuscite a bloccare il
processo di transizione innescato con le aperture di “Deng Xiaoping che
impedisce che la goccia dell'economia potesse scalfire la pietra
dell'autoritarismo politico.
Lo hanno fatto una prima volta, nel 1989, con
i carri armati in Piazza Tienanmen in maniera plateale e lo hanno continuato a
fare negli anni successivi reprimendo con la forza qualsiasi voce di dissenso –
come nel caso di “Liu Xiaobo”, l'autore di “ Charta 08”, un appello alla
libertà ispirato alla “Charta 77” di “Václav Havel”.
Nel 2010” Liu” è stato insignito del premio
Nobel per la Pace.
Premio che non ha mai ritirato perché dal 2008
era in carcere, dove è restato fino alla morte il 13 luglio del 2017.
Il partito unico, dunque, è riuscito a
bloccare il dissenso e qualsiasi pressione per maggiori libertà, tanto che “Liu
Xiaobo” sembra oggi dimenticato da tutti.
Tuttavia,
la vittoria nel bloccare qualsiasi movimento di dissenso ed impedire che le
aperture fatte in campo economico e sociale possano avere anche implicazioni a
livello politico, non garantiscono di certo la tenuta del modello cinese.
Anzi
non è affatto detto che questo sistema, autoritario in politica e aperto in
economia (con tutti i “se” e i “ma” del caso) possa davvero continuare a
produrre ricchezza e dar vita a un sistema economico autopropulsivo.
Difficile
cioè fare così della Cina non un assemblatore di giocattoli, che cresce sulla
base del basso costo della propria manodopera, ma un'economia che cresce sulla
base della ricerca scientifica e dell'innovazione prodotta dalle menti dei
propri cittadini, lasciate libere di esplorare l 'infinito mondo del possibile.
Per
dirla diversamente, è possibile che le autorità cinesi abbiano trovato il modo
di rimanere al potere, ma è francamente impossibile che stiamo sperimentando
una formula nuova che possa essere migliore del combinatore di Stato di diritto
ed economia di mercato, nel produrre sviluppo economico.
Questo significa che è veramente difficile che
Pechino possa presentarsi come l'alfiere di una nuova formula, di una nuova
soluzione valida per tutta l'umana famiglia, che sia in grado di produrre
maggiore ricchezza, una più forte giustizia sociale e offrire a tutti i popoli
una via per crescere e prosperare fuggendo dalla povertà.
In
sintesi, non stiamo assistendo al ritorno di una nuova guerra fredda per più di
una ragione:
perché
Pechino non è Mosca;
perché
l'autoritarismo cinese non è il messaggio universale di liberazione del comunismo
che ha scaldato i cuori di milioni di persone in giro per il mondo;
e perché a breve potrebbe dimostrarsi che il
caso cinese non è affatto una storia di successo economico e prosperità, ma una
macchina che sta in piedi con la repressione e che potrebbe essere dilaniata
dalle faide interne.
Tra
collasso e ibernazione.
La
Cina, dunque, non può essere considerata una minaccia sistemica e questo
perché, come si è detto, non incarna un sistema totalmente altro rispetto alle liberal-democrazie
ad economia di mercato, ma è un accrocco formato da pezzi di diversi sistemi
che di fatto rendono il paese schizofrenico.
Da una
parte, infatti, c'è il partito unico, che vive grazie alla chiusura e al
controllo;
dall'altra
c'è il sistema economico che può crescere solo grazie all'apertura e alla
libertà.
Se
dunque non è una minaccia sistemica allora che cos'è?
Andiamo
con ordine.
Quello
cinese, nonostante le apparenze, è un sistema fragile e instabile, proprio
perché è il risultato di una serie di assemblaggi di pezzi che funzionano l'uno
in maniera diversa dall'altra (la politica cinese ha bisogno della chiusura,
mentre la sua economia ha bisogno dell'apertura, per riprendere l'esempio che
si diceva poc'anzi).
C'è di
più, la presidenza di Xi Jinping”, accentrando il potere in una sola persona e
gettando alle ortiche tutte le norme che regolavano la successione da una
generazione all'altra, ha creato delle condizioni tali che la lotta tra le
diverse fazioni tutte all 'interno del partito potrebbe in futuro tramutarsi in
guerra civile.
Ed è
proprio da questa incredibile fragilità di un paese immenso, che è ai vertici
dell'economia globale, che viene la prima minaccia.
Che
cosa accadrebbe in caso di una lotta politica interna che potrebbe tramutarsi
in una guerra per bande tra le diverse fazioni all'interno del paese?
E
ancora, che cosa accadrebbe se l'attuale sistema di potere dovesse collassare?
C'è
anche un'altra ipotesi, per certi versi alternativi a quella del collasso, e si
tratta dell'ibernazione.
Il
partito unico per poter sopravvivere ha bisogno della chiusura e di un sistema
di controllo che imbrigli il Paese e blocchi qualsiasi dissenso.
Questo
non può che essere in contrasto con le esigenze dell'economia, che ha bisogno
di libertà e apertura per poter crescere e innovare.
Se,
come sembra, le logiche della politica dovessero avere il sopravvento sulle
esigenze dell'economia, allora il paese potrebbe chiudersi sempre più, il che
causerebbe un calo della crescita economica:
la Cina vedrebbe così sfumare lentamente i
propri sogni di ricchezza e prosperità.
Si
tratterebbe di un ritorno al passato, come accadde, giusto per fare un esempio,
a partire dagli anni Trenta del Quattrocento, quando, dopo le grandi spedizioni
navali dell'ammiraglio “Zheng He”, le porte della Cina furono chiuse, tenendo
fuori il resto del mondo, finché gli inglesi nel 1839 non presero a cannonate
quelle porte.
Quali
sarebbero le ripercussioni a livello internazionale di un'economia come quella
cinese che piano piano si spegne?
Quali
sarebbero le ripercussioni internazionali di un sistema politico cinese che,
come già accade, darebbe la colpa dei propri affanni e delle proprie difficoltà
a complotti orditi da potenze straniere?
Ci
potremmo ritrovare a dover gestire una Cina chiusa, più povera, rancorosa e
revanscista, che potrebbe diventare il centro da cui si propagano a livello
globale ondate di instabilità politica ed economica.
Correre
avanti per tornare indietro.
I due
casi sin qui richiamati, e cioè l'ipotesi che il sistema politico cinese possa
implodere o che il paese possa ibernarsi, rappresentano a livello politico ed
economico un tipo di minaccia che potrebbero definire di tipo passivo.
Ma
Pechino può rappresentare anche una minaccia di tipo attivo, sia a livello
regionale che a livello globale.
Le
questioni territoriali sono la prima fonte di attrito tra la Cina e i paesi
dell'Indo-Pacifico, sia lungo i confini terrestri (India) sia, soprattutto, sul
fronte marittimo.
In
particolare, Mar cinese meridionale, Mar cinese orientale e soprattutto Taiwan.
Ora,
se è vero che in queste controversie territoriali c'entrano (molto
limitatamente, un parere di chi scrive) anche questioni di tipo economico
(giacimenti petroliferi e minerari, risorse ittiche) e strategiche (l'accesso
all'alto mare, oltre le due catene di isole) l'elemento che rende
potenzialmente esplosiva le controversie e irrigidisce a tal punto le parti da
rendere quasi impossibile una soluzione negoziale è l'aspetto simbolico, che si
lega al “secolo delle umiliazioni” (il XX) e quindi al nazionalismo cinese.
Per
dirla in breve, le leadership cinesi leggono la storia del paese dal 1921 in
poi come il tentativo di riportare la Cina al centro del mondo e al vertice
delle potenze mondiali, per non poter più subire le umiliazioni patite a
partire dalla Prima guerra dell'Oppio.
Parte
essenziale di questa enorme opera di restauro è riportare sotto la piena
sovranità cinese quei territori che la retorica nazionale ritiene siano stati
strappati con la forza e con l'inganno dalle potenze coloniali.
Del
resto, oggi la fonte della legittimazione del partito consiste proprio in
questo.
A differenza del recente passato, quando il Partito
comunista cinese si presentava come l'agente che avrebbe garantito ai cittadini
cinesi ricchezze che mai avevano avuto nella loro storia, oggi esso si presenta
come l'unico attore in grado di riportare indietro le lancette della storia e
ricostruire il vecchio orgoglio” han”, vendicando il paese per i torti subiti.
In
sintesi, l’attuale leadership cinese sta al potere perché ha promesso ai propri
cittadini di lavare l’onta subita nei secoli da parte delle potenze occidentali
e dal Giappone, rimarginare le antiche ferite territoriali e spezzare i bastoni
che – sostiene la macchina della propaganda del partito – le potenze dominanti
stanno gettando tra le ruote della Cina per fermarne l'ascesa.
Pertanto,
se la Cina dovesse perdere Taiwan, vorrebbe dire che tutto quanto quello che la
leadership cinese ha fatto sinora, in termini di crescita economica e di
influenza politica, è stato del tutto vano;
non è
servito a portare indietro le lancette della storia ed evitare che il paese
venisse nuovamente umiliato.
Tutto
ciò irrigidisce totalmente la posizione cinese e rende impossibile qualsiasi
mediazione con gli altri attori dell'Asia-Pacifico.
Cedere
su un solo scoglio o banco di sabbia nel Mar cinese meridionale significherebbe
fare collassare come un castello di carta l'intera narrazione su cui si regge
oggi il Partito comunista cinese, e significherebbe dire ai propri cittadini
che tutto quanto è stato fatto negli ultimi cento anni, non è servito a nulla,
visto che la Cina continua a subire il diktat delle altre grandi potenze.
Ovviamente,
lo stesso discorso vale, elevata a potenza, per Taiwan.
Se
dunque l'obiettivo storico della leadership cinese è quello di lavare l'onta
subita durante il secolo della umiliazione e ripotare indietro le lancette
della storia per ricreare quell'ordine regionale (con ambizioni euroasiatiche)
di cui la Cina era il vertice, allora questo vuol dire che Taiwan ha un valore
simbolico enorme, di gran lunga superiore rispetto agli scogli e banchi di
sabbia del Mar cinese meridionale e orientale, o rispetto alla stessa Hong Kong
che è già sotto il controllo cinese.
Per
Pechino, la conquista di Taiwan significa chiudere definitivamente con una
storia traumatica, significa rimarginare una ferita secolare (il Trattato di
Shimonoseki del 1895) e dichiarare chiuso il doloroso capitolo degli
smembramenti territoriali.
In
sintesi, la Cina vuole Taiwan per ragioni di tipo ideologico.
Ricucire
quella ferita significa concludere un ciclo della storia cinese, che ha avuto
inizio con l'invasione delle potenze occidentali.
Al contrario, perdere Taiwan significa che da
allora nulla è cambiato e che la Cina è ancora in balia di potenze straniere,
il che equivarrebbe a dire che il partito ha fallito nella sua missione storica
e che non ha più una fonte salda di legittimazione in grado di giustificare la
sua permanenza al potere.
Tutto
ciò, per contro, vuol dire che non vi sono prevalenti ragioni di tipo economico
né di tipo tecnologico e neppure di tipo strategico.
Le
aziende taiwanesi sono presenti da decenni in Cina, garantendo sia investimenti
sia quel trasferimento tecnologico che alla dirigenza cinese interessa sin dai
tempi del “Movimento dell'Auto rafforzamento” negli ultimi decenni del XIX
secolo, sotto la dinastia “Qing”.
Del
resto per la Cina, come per qualsiasi altro paese, è molto più conveniente
acquistare la tecnologia di cui ha bisogno o le aziende più promettenti,
anziché scatenare una guerra regionale per poter conquistare Taiwan (ammesso e non concesso che poi le
aziende non delocalizzino altrove).
D'altro
canto, questo significa che l'isola non interessa a Pechino in modo particolare
per la sua posizione strategica (stesso discorso vale per le isolette, gli
scogli e i banchi di sabbia nel Mar cinese orientale e nel Mar cinese
meridionale) o perché funzionale alla politica di rafforzamento del potere
navale cinese.
La
Marina militare cinese ha basi navali lungo tutta la costa orientale e la
conquista di Taiwan non aggiungerebbe di molto alla capacità di proiezione che
Pechino ha già acquisito con il varo delle sue due portaerei.
In
quest'ottica si può dire che in ballo non ci sono fattori strettamente
materiali (tecnologia, armamenti, vantaggio strategico) ma fattori prettamente
immateriali e simbolici, che però si legano a qualcosa di molto concreto, vale
a dire la legittimazione del Partito comunista cinese e la sua permanenza al
potere.
La
logica delle transizioni.
È
difficile dire quale delle due diverse tipologie di minacce che la Cina pone al
sistema internazionale, se quella attiva, o quella passiva, sia la più
pericolosa.
Certo
si può dire quale si rivelerebbe maggiormente densa di incognite, e cioè il
collasso del sistema politico che attualmente governa il paese.
Il che impone di ragionare sulle logiche che
governano i processi di transizione da sistemi autoritari a partito unico alle
liberal-democrazie.
Negli anni
della guerra fredda riguardo ai processi di decolonizzazione era abbastanza
diffusa l'idea che quanto più era travagliata la transizione verso la piena
indipendenza di un paese, tanto maggiore era la possibilità che le forze
filo-sovietiche prendessero il potere.
È possibile elaborare una riflessione simile
per quanto riguarda il passaggio dalle società chiuse alle società aperte?
Forse
sì, ma è necessario essere molto accorti e ragionare sulla base di qualche
esempio.
Se
prendiamo il caso italiano, con il passaggio dal fascismo alla repubblica, si
può fare qualche riflessione interessante.
In
primo luogo, riprendendo la lezione di “Renzo De Felice”, il fascismo aspirò a
essere un sistema totalitario ma incontrò dei limiti oggettivi nella Corona e
nella Chiesa Cattolica, che impedirono che il fascismo fagocitasse del tutto lo
Stato e la società civile.
C'è di più, la Resistenza ebbe un carattere fondante,
non solo in termini di valori, generando una fonte di legittimazione che nulla
aveva a che fare con il passato regime, ma anche offrendo una classe dirigente,
che poté costruire la Repubblica.
Per
certi aspetti, diversi sono i casi del Giappone e della Germania.
Nel
primo caso, l'imperatore, del tutto compromesso con il militarismo nipponico,
non poteva essere l'istituzione fondante di un paese libero e democratico.
La
funzione di transizione e di fondazione delle nuove istituzioni in quel caso
viene svolta dalle forze armate americane.
Stessa cosa accade anche in Germania, con un ruolo
importante svolto dalle forze di occupazione alleate, sebbene in modo più
sfumato, vista la presenza di un passato liberal-democratico al quale era
possibile riconnettersi (il partito socialdemocratico e quello cattolico).
Altro
caso interessante è quello spagnolo con l'uscita dal franchismo. Là è la Corona a fornire gli uomini,
le istituzioni e la legittimazione necessaria per costruire la monarchia
costituzionale e aprire alla Spagna le porte di una piena e libera democrazia
liberale.
Ciò
che emerge da questi pochi esempi sommari è interessante:
perché una transizione possa avere successo è
necessario che ci sia in primo luogo un perno istituzionale su cui far ruotare
questa transizione, che questo perno poi sia estraneo alla società chiusa
precedente e che goda di una propria autonoma e indipendente fonte di
legittimazione, sia in termini di macchina istituzionale, sia in termini di
gruppi dirigenti che quella macchina governano.
Diversi
invece sono i casi nei quali il partito che fonda la società chiusa riesce a
occupare ogni spazio.
E
diverso ancora è un altro caso, quando cioè un tale sistema implode e non
collassa sotto l'urto militare di una potenza straniera che ne occupa i
territori e si fa carico della ricostruzione, come nel caso della sconfitta dei
paesi dell'Asse nella seconda guerra mondiale.
In
quei casi, quando collassa il partito che si è fatto Stato e ha occupato in
toto la società civile, allora trascina con sé ogni cosa.
Non
esistono attori istituzionali esterni a quel sistema totalitario sui cui fare
leva, per poter creare le condizioni per la transizione.
Non
esistono cioè uomini e istituzioni che hanno avuto il tempo di costruire una
propria autonoma e indipendente legittimazione.
Diventa allora necessario fare ricorso a pezzi
dell'antico regime, intorno a cui ricostruire una nuova struttura istituzionale
e che siano in grado di fornire una classe dirigente che possa ricostruire lo
Stato.
In
questo senso, emblematico è il caso russo, dove la fase di grandi turbolenze
che ha fatto seguito al collasso dell'Unione Sovietica e del partito che ne
reggeva le sorti, termina solo quando una nuova architettura istituzionale
viene ricostruita intorno alle strutture e agli uomini dei vecchi servizi
segreti sovietici.
Vale
la pena chiedersi: che cosa accadrebbe in Cina se il Partito comunista dovesse
collassare?
In
Cina nel 1949, come in Russia nel 1917, è il partito che fonda lo Stato e negli
anni nessun tentativo di staccare il partito dallo Stato ha prodotto risultati.
Anzi,
con la presidenza di “Xi Jinping” la capacità del partito di svolgere un ruolo
totalitario, di supremazia cioè Stato e sulla società civile, si è accresciuta
considerevolmente.
C'è di
più, negli anni della sua amministrazione, sotto lo slogan della lotta alla
corruzione,
“Xi
Jinping” ha avviato una campagna di purificazione di proposte colossali che di
fatto ha, come al tempo delle grandi purghe, provocato una completa
sostituzione di gruppi dirigenti nelle forze armate, nelle aziende di Stato e
nelle strutture preposte alla sicurezza interna, che godevano di una propria
legittimazione e di una loro autonomia rispetto al leader incontrastato.
Per
dirla diversamente, le grandi purghe di “Xi Jinping “sono servite a eliminare
una classe dirigente che era stata promossa nei ruoli chiave dalle precedenti
amministrazioni e a sostituirla con uomini in tutto dipendenti da “Xi” e dai
suoi seguaci più fedeli.
Se
così stanno le cose, diventa allora evidente che in caso di collasso, non solo
sarebbe molto difficile poter individuare una istituzione esterna al regime in
grado di fare da perno intorno a cui far ruotare la transizione, ma sarebbe
anche molto difficile individuare un pezzo di istituzione, sebbene compromessa
con l'antico regime, che possa svolgere questo ruolo e iniziare a costruire un
nuovo ordine istituzionale.
Se
dunque è vero che non esistono strutture istituzionali in grado di regolare la
transizione e se è vero che in politica il vuoto non può esistere, chi potrebbe
governare il paese nel caso di un collasso dell'attuale sistema istituzionale?
La risposta in questo caso è abbastanza
semplice.
Quando
l'attuale leadership collasserà o per l'urto interno di altre fazioni o per non
aver lasciato eredi, allora la lotta politica non potrà che diventare lotta
militare e la forza diventerà l'unico strumento per poter decidere chi dovrà
costruire la nuova Cina.
L'ordine
sino centrico e il Far West globale.
C'è un
ultimo aspetto che va preso in considerazione nel prospettare l'impatto che la
minaccia cinese può avere:
riguarda
le ambizioni di Pechino a livello internazionale e come queste ambizioni
possono generare attriti con l'ordine esistente, vale a dire quello liberale
-democratico a matrice americana, costruito insieme ai paesi alleati, dopo la
Seconda guerra mondiale.
Si
tratta cioè di ragionare intorno a quella teoria che ha avuto così successo da
trasformarsi quasi in un luogo comune, e cioè la “Trappola di Tucidide”.
Vale allora la pena provare a chiedersi se
Pechino rappresenta una minaccia per l'ordine internazionale perché ambisce a
sostituire gli Stati Uniti al vertice politico globale e diventare la potenza
cardine del sistema internazionale.
A
parere di chi scrive le cose non stanno affatto così e i fiumi di inchiostro
che sono stati versati intorno al concetto di “Trappola di Tucidide”,
difficilmente sono in grado di cogliere la realtà.
Conviene
però, prima di procedere, ricordare che cosa si intende per “Trappola di
Tucidide”.
È l'idea, per dirla in maniera veloce, che in
un sistema internazionale non vi sia spazio per due potenze che ambiscono
all'egemonia di quel sistema.
Così, quando la potenza emergente cresce
troppo, la potenza egemone tende a usare la forza per bloccare le ambizioni
politiche.
Come è
accaduto nel caso di Sparta e Atene; almeno così argomentano i sostenitori di
una tale ipotesi.
Ora,
si potrebbe discutere a lungo sulle cause della guerra del Peloponneso e si
scoprirebbe che le cose sono abbastanza più complesse di come le si vuole
rappresentare.
Ma il
punto, ai fini del discorso che qui si sta facendo, non è la storia greca.
Il punto è che l'idea della “Trappola di Tucidide “non
regge nel caso delle relazioni tra Stati Uniti e Cina per il semplice motivo
che Pechino non ha ambizioni globali e la sua logica imperiale, che ne
condiziona i comportamenti, le impedisce di essere il cuore di un sistema
reciprocamente vantaggioso per tutti gli stati che ne fanno parte.
Per
dirla diversamente, la logica imperiale cinese ambisce alla costruzione di “un
ordine sino centrico” nel quale agli altri paesi spetta solo il ruolo di stati
vassalli.
Come
si diceva in precedenza, ragionando sulla mentalità collettiva della leadership
cinese e sui principi sui quali si fonda la legittimazione del partito, la Cina
corre in avanti per tornare indietro.
In altre parole, l'obiettivo principale della
leadership cinese, cosa che si è accentuata con “Xi Jinping”, è quello di
acquisire dal sistema internazionale liberale e dalla globalizzazione risorse
economiche e finanziarie tali da poter ricreare quell'ordine sino centrico,
distrutto dalle potenzialità coloniali a partire dalla prima guerra dell'Oppio,
che vedeva la Cina al centro del sistema con intorno una serie di stati
vassalli e tributari.
Quanto
deve essere grande questo ordine sino-centrico, o meglio fin dove arrivano le
ambizioni cinesi, è difficile dirlo.
Tuttavia, se si prende come metro la “Belt and
Road Initiative” , il mega progetto di infrastruttura che deve connettere la
Cina con l'Europa, allora si può dire che queste ambizioni sono molto ampie, (anche se, un parere di chi scrive,
quel progetto egemonico è già morto).
Ora,
il punto è che per quanto possano essere ampie queste ambizioni, si tratta
comunque di un ordine regionale e Pechino non ambisce a creare un sistema
internazionale di cui essere il centro.
Per chiarire questo aspetto, vale forse la
pena specificare in cosa consiste il lavoro di una potenza cardine di un
sistema internazionale.
Qui
non si tratta di ricevere tributi, come faceva il vecchio imperatore “Qianlong”
alla fine del '700, o concedere agli stati vassalli il privilegio di utilizzare
il calendario cinese e lasciarsi irradiare dalla complessità della tradizione
sinica.
Il
compito di uno Stato cardine di un sistema internazionale è quello di produrre dei
beni di pubblica utilità internazionale che producono effetti benefici per
tutti.
Andando
all'osso questi beni di pubblica utilità internazionale sono essenzialmente
tre:
la
sicurezza (in
particolare delle rotte marittime), una moneta globale e un insieme di
istituzioni che elaborano delle norme di condotta valide erga omnes.
Era
quello che faceva Roma con la Pax Romana.
Era
quello che faceva l'Inghilterra con la Pax Britannica;
ed è
quello che fanno gli Stati Uniti con la Pax Americana, fornendo la moneta
internazionale (il dollaro), una forza in grado di garantire la sicurezza
internazionale e delle rotte marittime (la flotta americana), un insieme di istituzioni in grado di
produrre un ordine basato sulle norme e sul consenso (le grandi organizzazioni
internazionali).
La
Cina, a quanto è dato vedere oggi, non ambisce a produrre beni di pubblica
utilità internazionale.
La
flotta cinese, nonostante i passi in avanti fatti con la costruzione di una
terza portaerei, resta fedele al principio del “sea denial” , vale a dire
impedisce che la flotta americana intervenga troppo velocemente in caso di
conflitto su Taiwan.
E
l'idea che quella flotta possa essere in grado di controllare quanto meno le
principali rotte che interessano Pechino, vale a dire quelle che legate al
Golfo Persico e all'Europa, appare ancora lontana dal potersi realizzare.
Stessa
cosa vale per l'internazionalizzazione dello yuan, su cui Pechino sta spingendo
moltissimo, ma il cui obiettivo non è quello di sostituirsi al dollaro, ma
quello di sottrarsi al ricatto del dollaro, creando un'area regionale in cui lo
yuan possa essere la moneta franca dei commerci regionali.
Per
dirla diversamente, Pechino sta cercando di fare dello yuan non la moneta di
conto globale (o misura dei valori), non la moneta delle riserve internazionali
(o riserva di valori), ma solo un mezzo di pagamento valido in un ambito
regionale ben definito.
Il che significa che delle tre caratteristiche
che una moneta deve avere per poter svolgere un ruolo globale, Pechino ambisce
ad averne una sola.
Infine,
lo stesso discorso può farsi per il terzo punto, vale a dire la creazione di
istituzioni in grado di elaborare principi e condotte condivise che strutturano
un sistema internazionale basato sulle norme.
In
questo senso, si può dire che l'impegno che Pechino mette nel costruire un
ordine regionale intorno a delle istituzioni che non siano quelle cinesi,
dominate dal Partito comunista e dal suo leader, è scarso ed è naturale che sia
così.
Un potere politico che ambisce all'assolutismo
non può pensare di limitare la propria capacità di azione, condividendolo con
altre decisioni e aree di intervento.
Non a caso i vari forum di cooperazione messi
in piedi da Pechino (si pensi alla” Organizzazione per la Cooperazione di
Shanghai”) sono quasi tutti falliti man mano che la Cina acquisiva forza.
Stesso
discorso può farsi per l'“Asian International Investment Bank”, che avrebbe
dovuto sfidare la “Banca mondiale” e che oggi sembra un progetto che si sta
incagliano rapidamente.
Se,
dunque, la Cina non ha ambizioni globali e non intende sostituirsi agli Stati
Uniti, ma ambisce solo alla creazione di un ordine regionale dove conta solo la
parola di Pechino e non vi è spazio per altri, nemmeno per il diritto
internazionale e per la tutela dei diritti umani, allora in cosa consiste la
minaccia che la Cina rappresenta per l'ordine internazionale?
Consiste
proprio nella creazione di un ordine regionale, dove a livello macro, si
applica il vecchio principio dell'ordine westfaliano del “cuis regio eius
religio“, vale a dire il volere arbitrario della potenza egemone.
Il che rappresenterebbe un ritorno al passato
con la creazione di quei blocchi regionali, nati come aree monetarie, divenuti
poi blocchi economici e trasformatisi poi in corazzate militari e politiche,
dal cui attrito si sono poi generate le due guerre mondiali del secolo scorso.
Il
progetto di un ordine sino-centrico, dunque, è pericoloso perché rompe l'idea
di un ordine internazionale basato su norme condivise e apre la strada verso un
ordine in cui ciascun egemone ha mano libera all'interno della propria area ed
è libero di decidere come sia meglio agire per garantire sicurezza e
prosperità.
È
facile immaginare come un tale sistema potrebbe riportare in vita nel giro di
pochissimo tempo i vecchi spettri del protezionismo economico, del nazionalismo
politico e della guerra come strumento ordinario per la risoluzione delle
controversie internazionali.
Per
dirla diversamente, se un ordine basato su norme condivise, così come accade
per il diritto che regola la vita dei cittadini all'interno di uno stato
libero, serve a impedire che” cives ad arma veniant” , un ordine basato sul
volere arbitrario delle potenze egemoni significherebbe creare le condizioni
per l’anarchia globale.
Una
situazione che in questo caso non corrisponderebbe alla libera cooperazione tra
le nazioni su un piano di parità, ma al “Far West” dove sopravvive solo il più
forte o il più veloce a sparare.
Top 10
Mafie del mondo:
le
Organizzazioni Criminali
più
ricche e potenti.
Yardies,
Giamaica;
Mara
Salvatrucha, USA
Naša
Stvar, Serbia;
Triade,
Cina;
Mafia,
Italia;
Cartello
di Sinaloa, Messico;
'Ndrangheta,
Italia;
Camorra,
Italia;
Fratellanza
Solncevskaja, Russia;
Yamaguchi-gumi,
Giappone;
Non
esistono solo mafia, 'ndrangheta e camorra:
nel
mondo ci sono molte altre organizzazioni criminali capaci di scuotere i governi
nazionali e internazionali, oltre che essere molto pericolose per il resto
della popolazione.
Vediamo la top 10 delle mafie nel mondo: la classifica si basa sul potere
offensivo.
10 -
Yardies, Giamaica.
Potere
economico 2/5;
Potere
offensivo/militare 1/5;
Ramificazione
nei paesi del mondo 1/5;
Indice
di Pericolosità totale 2/5;
Attività
criminali principali contrabbando di armi e spaccio di droga.
Gli
Yardies sono gruppi criminali attivi specialmente a Londra e formati da
immigrati provenienti dalla Giamaica e dai Caraibi.
L'attività
principale è legata al contrabbando d'armi e allo spaccio di droga, in
particolare marijuana e crack.
Numerose
le operazioni attuate dalla polizia metropolitana di Londra per combattere le
attività violente degli Yardies:
tra
queste ricordiamo la celebre “Operazione Trident” che ha portato alla nascita
di un'unità investigativa apposita.
9 -
Mara Salvatrucha, USA.
Potere
economico 1/5;
Potere
offensivo/militare 2/5;
Ramificazione
nei paesi del mondo 3/5;
Indice
di Pericolosità totale 2/5;
Attività
criminali principali spaccio di droga, sequestri, omicidi.
Organizzazione
criminale nata a Los Angeles in seguito all'associazione di diverse bande e poi
diffusasi in diversi Paesi, tra cui Guatemala, Honduras, El Salvador.
Anche
in Italia, specialmente a Milano, vi sono cellule della “Mara Salvatrucha”.
Le attività criminali riguardano spaccio di
droga e armi, estorsioni, rapine, sequestri e addirittura omicidi.
8 -
Naša Stvar, Serbia.
Potere
economico 1/5;
Potere
offensivo/militare 2/5;
Ramificazione
nei paesi del mondo 3/5;
Indice
di Pericolosità totale 2,5/5;
Attività
criminali principali prostituzione e gioco d'azzardo.
Organizzazione
criminale Serbia attiva anche in Belgio, Francia, Albania, Montenegro, Bosnia,
Croazia.
Nata
per gestire il traffico di sigarette, ha in mano un grosso giro di
prostituzione e di gioco d'azzardo.
7 - Triade,
Cina.
Potere
economico 2/5;
Potere
offensivo/militare 3/5;
Ramificazione
nei paesi del mondo 3/5;
Indice
di Pericolosità totale 3/5;
Attività
criminali principali gioco d'azzardo, prostituzione.
Organizzazione
criminale con sede a Hong Kong ma diffusa in tutta la Cina e in Taiwan, Macao,
Nord America, Sud Africa, Australia, Nuova Zelanda.
Tra le
principali attività figurano il gioco d'azzardo, la prostituzione, i furti.
La
Triade compare anche in numerosi videogiochi, tra cui “GTA”.
6 -
Mafia, Italia.
Potere
economico 2/5;
Potere
offensivo/militare 3/5;
Ramificazione
nei paesi del mondo 3/5;
Indice
di Pericolosità totale 3,5/5;
Attività
criminali principali racket, appalti, spaccio di droga, omicidi.
Organizzazione
criminale secolare per l'Italia, si è in seguito espansa anche all'estero, in
particolare negli Stati Uniti d'America.
Anche
definita “Cosa Nostra”, ha origini siciliane ed è l'organizzazione responsabile
dell'uccisione di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone del 1992.
5 -
Cartello di Sinaloa, Messico.
Potere
economico 3/5;
Potere
offensivo/militare 3/5;
Ramificazione
nei paesi del mondo 4/5;
Indice
di Pericolosità totale 3,5/5;
Attività
criminali principali traffico internazionale di droga.
Organizzazione
di origine messicana che gestisce importanti traffici di droga.
Negli ultimi anni si è estesa sino ad arrivare
in Europa.
Secondo
la “United States Intelligence Community”, il “Cartello di Sinaloa” è
l'organizzazione di droga più potente ed estesa al mondo: tocca infatti tutti e
5 i continenti.
4 -
'Ndrangheta, Italia.
Potere
economico 3/5;
Potere
offensivo/militare 4/5;
Ramificazione
nei paesi del mondo 3/5;
Indice
di Pericolosità totale 3,5/5;
Attività
criminali principali traffico internazionale di droga, usura, traffico
internazionale di armi, traffico di esseri umani.
Organizzazione
nata in Calabria e attualmente attiva anche in Germania, Paesi Bassi,
Sudafrica, Brasile, Messico, Venezuela. Specializzata nel traffico di droga,
è nota anche per i ripetuti episodi di usura, estorsione, traffico d'armi e
addirittura traffico di esseri umani.
Nel
corso degli anni sono stati trovati esponenti della 'ndrangheta anche nella
politica e nella magistratura.
3 -
Camorra, Italia.
Potere
economico 4/5;
Potere
offensivo/militare 4/5;
Ramificazione
nei paesi del mondo 4/5;
Indice
di Pericolosità totale 4/5;
Attività
criminali principali racket, appalti, spaccio di droga, omicidi, usura.
Ed
eccoci alla terza organizzazione criminale italiana, la Camorra.
Originaria
di Napoli, è attualmente operativa anche in Lazio, Lombardia e fuori dai
confini nazionali, come Spagna, Germania, Paesi Bassi, Svizzera, Regno Unito,
Marocco, Argentina, Uruguay.
Il
giro d'affari delle famiglie napoletane sarebbe di circa 12 miliardi di euro
l'anno.
Tra
gli agguati più famosi ricordiamo la Strage del Bar Fulmine a Secondigliano del
1992, in cui morirono 5 persone.
2 -
Fratellanza Solncevskaja, Russia.
Potere
economico 4/5;
Potere
offensivo/militare 4/5;
Ramificazione
nei paesi del mondo 4/5;
Indice
di Pericolosità totale 4/5;
Attività
criminali principali prostituzione, omicidi, traffico di esseri umani, truffe
internazionali.
Potente
organizzazione russa nativa di Mosca e attualmente estesa in almeno 32 Paesi,
tra cui numerose nazioni d'Europa, Nord America e Sud Africa.
Nata a
metà degli anni '80, è colpevole di parecchi omicidi.
Fra le varie attività in cui è coinvolta
figurano il traffico di esseri umani, la prostituzione e le frodi di carte di
credito.
1 -
Yamaguchi-gumi, Giappone.
Potere
economico 5/5;
Potere
offensivo/militare 5/5;
Ramificazione
nei paesi del mondo 4/5;
Indice
di Pericolosità totale 5/5;
Attività
criminali principali racket, appalti, spaccio di droga, omicidi, usura,
traffico internazionale di armi, prostituzione, frodi bancarie.
Principale
organizzazione criminale Giapponese, estesa anche in tutta l'Asia e negli Stati
Uniti d'America.
È una
delle organizzazioni mafiose più ricche, e i suoi principali introiti derivano
da estorsioni, prostituzione, traffico d'armi, droga.
Pare
che sia attiva anche con operazioni illecite in borsa.
(Francesco
Mapelli)
Le
mafie: dall'Italia
al
mondo e ritorno.
Treccani.it
– Enzo Ciconte – (20-10-2012) – ci dice:
ATLANTE
GEOPOLITICO.
Le
mafie costituiscono – e non da oggi – un fenomeno internazionale, innanzitutto
nella misura in cui gruppi criminali organizzati ‘di stampo mafioso’ si sono
sviluppati, in modo autonomo, in diversi paesi:
dalle
Triadi cinesi, alla Mafiya russa, alla Yakuza giapponese, alla mafia albanese,
nigeriana, turca e via dicendo.
Una
seconda caratteristica del fenomeno, che contribuisce a definirne la natura
internazionale, risiede nella tendenza dei clan a esportare il proprio ‘modello
mafioso’ – fondato su di un uso spregiudicato della violenza, ma anche su uno
specifico insieme di simboli, regole e codici – nei luoghi di emigrazione delle
proprie comunità.
In tal
senso, se la vicenda più nota è senza dubbio quella relativa all’espansione
della mafia siciliana negli Usa, analoghi processi – basati su un’alternanza
tra fasi di radicamento e fasi di espansione, anche internazionale – sono
riscontrabili per tutte le forme di criminalità mafiosa.
Come vedremo nel resto del capitolo, anche le
altre maggiori mafie di origine italiana – ’ndrangheta e camorra – hanno subito
processi di espansione internazionale.
Ciò
vale anche per le altri grandi mafie di origine russa, cinese, giapponese e
così via.
A
connotare ulteriormente in senso internazionale il fenomeno mafioso vi è poi lo
stretto legame che intercorre non solo tra mafie ed economia in tempi di pace,
ma anche tra questi fenomeni criminosi e l’evento bellico.
Non è
un caso, infatti, che sia proprio la Seconda guerra mondiale a sancire un
momento di svolta nella storia internazionale delle mafie, così come la Guerra
del Vietnam, l’Afghanistan e le Guerre balcaniche rappresenteranno altrettante
tappe fondamentali del loro sviluppo.
D’altra
parte, anche in tempi di pace l’interazione tra crimine e economia è assai
stretta e risente inevitabilmente degli sviluppi del sistema economico
internazionale.
Così,
l’abbandono della ‘disciplina finanziaria’ internazionale seguita al crollo del
sistema di Bretton Woods – con l’esplosione dei flussi di capitali e la
conseguente creazione di ‘zone grigie’ e centri off-shore – così come la
riduzione dei costi di trasporto e comunicazione, alla base dell’odierno “processo di
globalizzazione”, hanno significato per le mafie enormi opportunità di profitto
e di ulteriore espansione.
Quello
mafioso si presenta oggi quindi come un fenomeno non solo internazionale, ma
perfino globale.
Globali sono gli interessi delle mafie e il loro
raggio d’azione, globali sono le sfide che le mafie pongono a tutti gli stati,
e in particolar modo a quelli caratterizzati da regimi democratici.
Per comprendere la dimensione globale del
fenomeno mafioso, tuttavia, è importante partire dall’analisi di un caso
specifico, ovvero quello italiano.
Un
caso forse peculiare, nel panorama europeo, ma esplicativo dei processi e delle
dinamiche che hanno consentito alle diverse mafie del mondo di diventare,
appunto, attori globali.
I
numeri.
Oltre
l’82% dei profitti del crimine organizzato proviene dal narcotraffico; il 17%
dal traffico di esseri umani e lo 0,5% dal contrabbando d’armi.
Tra il
1998 e il 2009 i consumi di cocaina sono andati calando negli Stati Uniti,
mentre sono raddoppiati in Europa.
L’eroina
afghana alimenta un mercato globale del valore di circa 55 miliardi di dollari
all’anno.
Russia (13 miliardi) e Europa occidentale (20
miliardi) sono i principali mercati di sbocco.
Il
numero dei comuni sciolti per infiltrazione mafiosa in Italia, diminuito dagli
anni Novanta, è tornato ad aumentare tra il 2002 e il 2006, passando da 6 a 15.
MAFIE
E GUERRA.
La
natura internazionale dell’azione mafiosa è ulteriormente evidenziata dallo
stretto legame che intercorre tra lo sviluppo delle mafie e uno dei fenomeni
cruciali delle relazioni internazionali quale la guerra.
Le
guerre, infatti, spesso comportano non solo il profilarsi di condizioni
‘permissive’ allo sviluppo delle attività mafiose, ma rappresentano una
straordinaria opportunità di rafforzamento e affermazione delle mafie, tale da
ridefinire gli equilibri tra lecito e illecito, tra potere ‘legale’ e potere
‘criminale’.
Questo
avviene innanzitutto per via economica.
Le guerre - tutte le guerre - comportano in primo
luogo una vera e propria esplosione del mercato nero, soprattutto per beni
‘illeciti’ quali armi, droghe e prostituzione, rispetto ai quali il crimine
organizzato detiene già il monopolio.
Il prolungarsi delle condizioni conflittuali
conduce poi a un progressivo allargamento degli affari mafiosi alla gestione di
beni ‘leciti’ - soprattutto beni primari quali viveri e carburanti - ma di
difficile reperimento.
Sopperendo
ai fallimenti del mercato legale dettati dal conflitto, l’economia mafiosa
progressivamente vi si sostituisce, allargando a dismisura la propria sfera
d’azione.
Un
secondo aspetto riguarda il rapporto ‘simbiotico’ che viene a instaurarsi tra
il potere politico e il potere mafioso.
In un momento di fragilità delle strutture statali,
può profilarsi infatti la necessità di appaltare la gestione di intere aree o
servizi a organizzazioni già radicate sul territorio e dotate degli strumenti
di violenza necessari a imporsi in un contesto come quello bellico.
S’instaura
quindi una cooperazione tra potere legale e organizzazioni criminali - compreso
il riemergere del “mercenarismo sub specie mafiosa” - che costituisce il primo passo per
l’infiltrazione delle mafie nelle strutture dello stato che emergerà dal
conflitto.
Nel
complesso, la sospensione delle garanzie democratiche (o legali, o etiche
perfino) dettata dallo stato d’eccezione, associata al ruolo che la criminalità
organizzata può rivestire in una ‘economia di guerra’, conduce all’espansione
di una zona grigia, in cui i confini tra legale e illegale divengono sempre più
sbiaditi.
La
guerra permette quindi alle mafie non solo di accumulare enormi profitti e
stabilire legami internazionali con altre organizzazioni criminali, ma
soprattutto di gettare le basi per una presenza sempre più radicata
nell’economia, nella società e nello stato, fino agli estremi costituiti dagli
‘stati prigionieri’ (captured states), ‘stati privatizzati’ (privatized states)
o veri e propri ‘stati-mafia’.
CRIMINALITÀ
ORGANIZZATA ITALIANA E TRANSNAZIONALE.
L’Italia
che quest’anno compie 150 anni ha avuto, proprio a partire dall’anno della sua
nascita, una criminalità molto diversa da quella di tutti gli altri paesi
europei.
La
criminalità non è solo quella degli omicidi o dei fatti di sangue commessi da
soggetti singoli o da individui isolati;
comprende
anche tutti i reati che violano le norme e le leggi, e dunque comprende sia i
reati predatori (furti, scippi, rapine, ecc.) sia quelli dei colletti bianchi
(corruzione, truffe, bancarotte, falso in bilancio, reati finanziari in senso
lato).
L’Italia
ha una peculiarità dovuta all’esistenza, a partire almeno dall’unità, di una
criminalità che è riuscita a organizzarsi in forme stabili e a durare a lungo
nel tempo, arrivando fino ai nostri giorni.
La
criminalità organizzata ha innovato i modelli esistenti nei secoli precedenti,
basati su violenza cieca e su fiammate delinquenziali devastanti ed episodiche.
La novità è la creazione di strutture che
prevedono vincoli di appartenenza, giuramenti, rituali, affiliazioni formali,
gerarchie rigide, segretezza, omertà.
Una
criminalità organizzata che in tempi recenti – a partire dal 1982, con
l’approvazione della legge Rognoni-La Torre – è stata definita con maggiore
precisione ‘di stampo mafioso’, introducendo nel codice penale l’articolo 416
bis.
A una
criminalità organizzata tutta italiana si è andata ad aggiungere, all’incrocio
dei due millenni – con il Novecento che tramontava e il nuovo millennio che
s’avviava – una criminalità organizzata transnazionale.
Questa
nuova definizione comprende comportamenti e azioni di uomini organizzati in
gruppi etnici che agiscono in paesi stranieri.
Si sono così moltiplicate le forme di
criminalità organizzata perché – guardando solo a due tipici fenomeni degli
ultimi anni come il traffico degli stupefacenti e la tratta degli esseri umani
– si dà vita a reati che sono commessi in più di uno stato, oppure sono
realizzati in uno stato pur essendo pianificati e diretti in un altro stato.
I gruppi criminali sempre più spesso operano
di concerto con gruppi criminali di altre nazionalità e agiscono
contemporaneamente in più paesi.
La
globalizzazione e la competizione economica a livello mondiale hanno inciso
anche nelle dinamiche della criminalità organizzata italiana.
È proprio della criminalità organizzata
italiana che noi ci occuperemo, collocandola in uno scenario sovranazionale perché oggi per comprendere i mafiosi
italiani dobbiamo dare uno sguardo a quanto accade nelle altre criminalità a
livello mondiale.
Mercati
illegali per valore.
Le
mafie nel mondo.
CRIMINALITÀ
ORGANIZZATA, MAFIA O MAFIE?
Sebbene
i diversi termini vengano spesso usati in modo indistinto, la definizione di
cosa sia mafia o crimine organizzato è oggetto di un acceso dibattito.
Per
‘criminalità organizzata’ si intende l’attività attuata da associazioni per
delinquere a struttura articolata, che si avvalgono della forza di
intimidazione, del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento
che ne deriva per commettere delitti.
Con il
termine ‘mafia’ si indica invece, innanzitutto, quello specifico complesso di
organizzazioni criminali sorte in Sicilia nel 19° secolo, diffuse su base
territoriale, rette dalla legge dell’omertà e strutturate gerarchicamente, così
come definite dall’articolo 416 bis del codice penale italiano.
Il
minimo comune denominatore tra i due concetti è dato dalla ricerca del profitto
attraverso ogni mezzo, e in particolare tramite l’utilizzo della violenza, e
dalla struttura organizzativa creata a tale scopo.
In
entrambi i casi vi è poi la non coincidenza tra l’attore criminale e l’attività
extra-legale, in quanto il perseguimento delle finalità economiche passa
necessariamente, sempre di più, attraverso l’investimento dei profitti illeciti
nel mercato legale.
E tuttavia tra mafie e crimine organizzato
esistono differenze significative.
Il
termine mafia rimanda infatti allo specifico contesto sociale, politico ed
economico che sta alla base della sua affermazione, e senza il quale si
perderebbe una delle caratteristiche fondamentali del fenomeno mafioso.
A distinguere quest’ultimo dalla criminalità
organizzata vi è il rapporto peculiare che l’organizzazione mafiosa intrattiene
con il territorio e l’autorità politica.
L’uso della violenza è infatti strumentale
anche all’instaurazione di un controllo del territorio sempre più totalizzante,
fino quasi a sostituirsi allo stato nell’esercizio delle sue funzioni, quali la
gestione dell’economia, il mantenimento dell’ordine, l’amministrazione della
‘giustizia’.
Questo
stesso potere si traduce al contempo nel controllo di risorse politiche
fondamentali – il voto – che consentono alle mafie di porsi come interlocutori
della politica, affiancando (o sostituendo) alla logica della contrapposizione
quella dello scambio, del ricatto, dell’infiltrazione.
Per
estensione, il termine ‘mafie’ denota quindi tutte quelle realtà in cui
l’attività dei gruppi criminali organizzati è finalizzata non solo alla ricerca
del profitto, ma anche o soprattutto al perseguimento di una vera e propria
strategia ‘politica’ di controllo del territorio – fino all’affermazione di un
vero e proprio monopolio della violenza considerata ‘legittima’ – e di un
rapporto di connivenza con lo stato.
MAFIA,
CAMORRA E ’NDRANGHETA: LE ORIGINI.
Mafia,
camorra e ’ndrangheta sono un originale prodotto criminale dell’Italia
dell’Ottocento.
Sin dalle origini si presentarono come una
sconvolgente novità rispetto alla criminalità dei secoli precedenti perché esse
si strutturarono in organizzazioni con una precisa scala gerarchica, si diedero
delle regole – a cominciare dalla principale, che è quella dell’omertà –
elaborarono codici di affiliazione, leggende in grado di attirare i giovani e
si fornirono di un progetto criminale di lunga durata.
Per
queste ragioni sono state capaci di attraversare i decenni e di arrivare sino
ai nostri giorni dopo essere sopravvissute a regimi politici tra di loro molto
differenti:
borbonico,
liberale, fascista, repubblicano.
La
camorra è la prima formazione mafiosa che s’affaccia sul proscenio criminale;
le sue radici sono saldamente piantate nella
Napoli borbonica che all’epoca era la capitale del Regno, la più grande città
italiana per popolazione, seconda solo a Parigi in Europa.
Dopo
l’unità d’Italia si affermò la mafia siciliana che dominò incontrastata il
crimine organizzato per un lungo periodo di tempo, dagli albori del nuovo Regno
d’Italia fino ai primi anni Novanta del Novecento.
Negli
ultimi tempi, in particolare dopo le stragi di Capaci del 23 maggio 1992 e di
Via d’Amelio del 19 luglio dello stesso anno, è balzata in primo piano la
’ndrangheta calabrese.
Le tre
organizzazioni mafiose hanno tante cose in comune e allo stesso tempo sono
diverse l’una dall’altra.
In
comune hanno sicuramente l’origine geografica, perché nascono tutte nel
Meridione, il medesimo periodo storico – che si può collocare nei decenni che
precedettero e seguirono l’unità d’Italia – e soprattutto gli stessi fini, che
possono essere riassunti nella ricerca della ricchezza e del potere da ottenere
con qualsiasi mezzo, a cominciare da un uso spregiudicato, spesso selvaggio e
belluino, della violenza, che può vantare al suo attivo una quantità infinita
di omicidi e numerose stragi.
La
ricerca del denaro è stata, e lo è ancora oggi, un’attività costante, che non
ha subito interruzioni; avveniva in ogni tempo e dappertutto, particolarmente
nei luoghi dove era possibile esercitare un’intermediazione parassitaria delle
attività economiche all’epoca considerate più lucrose.
In pieno Ottocento, per esempio, la “Conca
d’Oro di Palermo” era ricca di agrumi:
arance
profumate, mandarini e limoni dai colori luminosi erano le merci pregiate che
raggiungevano lontani mercati dopo essere state imbarcate su navi.
Allo
stesso modo viaggiavano le merci, anch’esse pregiate, dell’agricoltura
calabrese che avevano una significativa presenza nella piana di Gioia Tauro,
dove accanto agli agrumi c’erano secolari piante d’ulivo che producevano
notevoli quantità di olio e di olive.
I mafiosi imponevano ai produttori la loro
tassa su ogni merce trasportata, oppure pretendevano la ‘camorra’ – a quei
tempi così si definiva il pizzo – sulle attività di gioco, in particolare a
Napoli: una tassa sul vizio.
Era la fase aurorale della loro presenza nel
campo economico, quella caratterizzata dal parassitismo;
i mafiosi prelevavano una quota del profitto altrui,
della ricchezza generata dal lavoro nelle campagne e dai commerci.
Per
svariati decenni vissero in questo modo nelle regioni d’origine sfruttando le
risorse dell’agricoltura, esercitando la guardiania sulle terre dei proprietari
terrieri, imponendo il pizzo, rubando e vendendo animali, a volte vivi, altre
volte dopo averli uccisi e macellati.
Per un
lungo periodo dopo l’unità, le mafie si preoccuparono prevalentemente di
estendere e consolidare il loro potere controllando il territorio e inserendosi
nei gangli dell’economia locale.
Erano mafie regionali che operavano
esclusivamente nei luoghi d’origine con una struttura flessibile e articolata;
erano
ancora stanziali perché non avevano bisogno di uscire dal loro territorio, né
tanto meno di abbandonare la regione di provenienza.
DALLA
PENISOLA AL MONDO: L’ESPANSIONE DELLA CRIMINALITÀ ITALIANA.
I
primi spostamenti non tardarono ad arrivare e cominciarono a essere segnalati
sin dagli ultimi decenni dell’Ottocento per proseguire con maggiore intensità
nei primi decenni del Novecento.
È in
questo periodo che si realizzarono imponenti flussi migratori che spinsero
enormi masse di meridionali ad abbandonare le loro terre per cercare fortuna
altrove.
È il
periodo iniziale della grande emigrazione europea e transoceanica.
Sono
innumerevoli le località dove si recarono i lavoratori italiani, non solo
quelli meridionali, a conferma del fatto che gli italiani possono essere
definiti a giusta ragione un popolo di emigrati, anche se questa caratteristica, che
è durata fino a pochi decenni fa, tende ad essere dimenticata negli ultimi anni
con l’arrivo degli immigrati extraeuropei.
L’emigrazione
di un numero davvero notevole di meridionali cambiò il volto delle campagne e
dei paesi del sud d’Italia e diventò per tante comunità una vera e propria
dimensione di vita, perché in questi luoghi una fitta rete di relazioni e di
contatti, soprattutto epistolari, legava coloro che erano rimasti in paese ai
parenti che erano partiti verso destinazioni lontane, dai nomi sconosciuti;
spesso senza che per questi parenti partiti ci fosse alcuna possibilità, o
volontà, di farvi ritorno.
Anche
i mafiosi emigrarono – non tutti, naturalmente – e nelle nuove sedi, a stretto
contatto con i corregionali, ebbero l’opportunità di costruire strutture
mafiose che in determinati periodi ebbero una certa rilevanza sociale, politica
e storica, come negli Stati Uniti.
Le
altre mafie nel mondo.
Piero
Innocenti.
‘La
Cosa nostra’ (Lcn) continua a essere la più potente, diffusa e temibile
organizzazione criminale negli Usa, al primo posto per fatturato nella
classifica mondiale delle mafie.
Ha
collegamenti stabili con altre organizzazioni criminali e con Cosa nostra
siciliana, di cui conserva la struttura:
un
boss, il suo vice, il gruppo di consiglieri, le truppe.
È insediata in almeno 19 stati della
Confederazione con le famiglie storiche dei Gambino, Colombo, Bonanno,
Genovese, Lucchese, e le più recenti De Cavalcante, Patriarca e Scarfo.
I suoi interessi primari sono narcotraffico e
riciclaggio, ma anche estorsione, gioco d’azzardo, frodi, usura. Condiziona inoltre i settori
economici del trasporto su gomma, delle costruzioni, della raccolta dei rifiuti
(tossici, in particolare), ristoranti, distribuzione alimentare, carburanti,
abbigliamento, corse dei cavalli, pompe funebri.
Controlla
diversi sindacati dei lavoratori delle costruzioni, del porto e degli aeroporti
di New York.
In
Messico le mafie dei narcotrafficanti (11 organizzazioni nel 2011, tra cui il
cartello del Golfo, di Sinaloa, della Famiglia Michoacana, dei Los Zetas, di
Juárez, dei Los Arellano, dei Beltran Leyva) hanno diversificato i ‘servizi’
offerti:
non più solo commercio di droghe, ma sequestri di
persona, estorsioni, protezioni ai commercianti, omicidi su commissione, tratta
dei migranti.
Con
strutture dinamiche e mutevoli, disinvolte nelle strategie e nelle alleanze,
così come nell’esercizio di una violenza efferata (oltre 34.000 omicidi tra il
2006 e il 2010), questi gruppi esercitano un penetrante condizionamento sulle istituzioni
locali e nazionali, mettendo a serio rischio la democrazia, tanto da far
parlare di narco-stato.
Il
modello messicano ricorda i ben noti cartelli colombiani di Medellín, di Cali,
di Pereira, della Costa e di Norte del Valle, oggi frantumati in decine di
strutture di piccole-medie dimensioni (cartelitos) e in diverse formazioni paramilitari:
Los Rastrojos, Los Macacos, la Oficina de
Envigado, Los Paisas, Los Urabeños, Los Cuchillos e altre, specializzate
soprattutto nel commercio delle droghe.
Robuste
le collusioni mafia-politica: dal 2008 al 2010 sono stati ben 77 i parlamentari
incriminati perché collusi con narcos e paramilitari.
Negli
stessi anni, sono stati sequestrati ben 72 submarinos, i semisommergibili
costruiti nella giungla per navigare lungo la costa del Pacifico e trasportare
la cocaina negli Usa con l’intermediazione delle mafie messicane.
La
mafia cinese, con le Triadi (i tre elementi originari confuciani: il cielo, la
terra e l’uomo), ha quasi monopolizzato (oltre 4 milioni di membri), in
importanti aree mondiali, la tratta delle persone, oltre a narcotraffico,
sfruttamento della prostituzione, gioco d’azzardo, estorsione, contraffazione
di marchi, riciclaggio. In passato, in Italia era stata definita una mafia
‘Wuton Wutei’ (draghi senza testa e senza coda), per il basso profilo criminale.
Ha struttura stratificata, con a capo il “Grande
fratello” (Testa del Dragone) affiancato da un comitato ristretto.
Per
questa organizzazione – a differenza della mafia italiana – l’uso della forza
per il controllo territoriale continua ad essere solo una conseguenza della
ricerca del profitto nelle attività commerciali.
La
mafia nigeriana, anch’essa considerata tra le meno violente, è tuttavia una delle più
potenti ed estese, con varie comunità sparse nel mondo, grazie alla sua
struttura reticolare, favorita da vincoli tribali e omertosi.
Spesso
usa come copertura ‘innocue’ associazioni culturali di immigrati o
confraternite universitarie, note come ‘gruppi cultisti’, di etnia Bini o Igbo,
organizzate dai giovani dell’élite dirigenziale nigeriana, responsabili di
omicidi e reati predatori.
A
partire dal suo radicamento nel paese d’origine, afflitto dagli scontri tra
gruppi integralisti islamici e cristiani, tra militari e criminali nella
regione petrolifera del Delta, la mafia nigeriana costituisce un’ulteriore
minaccia per l’intera regione africana.
In
Albania, la ‘Mafia delle Aquile’ domina l’immigrazione clandestina, lo
sfruttamento della prostituzione e il traffico degli stupefacenti, utilizzando
basi consolidate in Montenegro, Croazia, Slovenia, Serbia e Kosovo.
Ha
rapporti con omologhi sodalizi attivi nei paesi europei più ricchi. L’appartenenza dei componenti allo
stesso nucleo familiare e territoriale, con un unico capo supremo, regole
rigide e il ricorso all’omicidio a scopo punitivo, la rendono simile alla
’ndrangheta.
La
mafia turca controlla gran parte del traffico di eroina (e di persone) che
giunge in Europa dall’Afghanistan.
Si
tratta di una miriade di gruppi relativamente ridotti e autonomi, non
verticistici, per lo più con membri appartenenti a un’unica struttura
familiare.
Infatti, si parla di ‘famiglie’ (o ‘clan’),
alcune delle quali sono curde e, a volte, perseguono finalità terroristiche.
Leader
nel traffico internazionale di cocaina, la mafia serba, talvolta associata a quella
montenegrina, ha ‘agenzie’ negli Usa, in Sudafrica e nell’Europa occidentale.
Si
contano una trentina di gruppi nati dalla ‘frantumazione’ dei due nuclei
originari guidati dai capi storici “Surcin “e “Zemun”.
I serbi, grazie all’alleanza consolidata con i
colombiani, sono diventati i principali fornitori della cocaina in Italia,
Germania, Austria, Spagna e Regno Unito.
Si
dedicano anche al traffico di armi, di clandestini, di sigarette e alla
falsificazione di denaro.
Ciascun
gruppo (una decina di persone) ha una rigida gerarchia ed è capace di spostarsi
rapidamente, alla bisogna, in altre città o paesi.
Particolarmente
violenta, la mafia rumena, in contatto con italiani, albanesi, ucraini e
moldavi, si occupa di tratta di esseri umani, sfruttamento della prostituzione,
traffico di stupefacenti, rapine e furti, in particolare con clonazione di
carte elettroniche.
In
Russia, tra i diversi gruppi mafiosi, dominano quelli di:
Solntsevskaja
Bratva, alla periferia di Mosca (traffico di droghe, estorsioni, riciclaggio,
contrabbando);
Tambovskaja-Malysevkaja, a San Pietroburgo (droghe, riciclaggio e frode);
Izmajlovskaja-Dolgoprudnenskaja,
presente anche a New York, Los Angeles, Miami, San Francisco (riciclaggio, estorsioni, furti,
traffico di droga e omicidi su commissione);
Uralmashkaja,
attiva
anche in Italia, Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Cina (materie prime,
metalli preziosi, droghe e armi).
Il gruppo Tambovskaja è quello più influente nella regione
nord-occidentale, dispone di una propria rete bancaria, di industrie legali e
istituti di vigilanza privata;
controlla l’industria dei combustibili e
dell’energia, la produzione alimentare, il mercato immobiliare e
dell’intrattenimento.
Merita
un cenno anche la mafia caucasica, strutturata in gruppi su base
etnico-religiosa, tra cui spiccano i ceceni.
Questi, a Mosca, nei primi anni Novanta, si dedicavano
al traffico di autovetture rubate, poi hanno esteso la loro influenza nelle
principali città russe, soprattutto nel settore finanziario.
Ogni
gruppo ha le sue ‘specializzazioni’:
i
georgiani, sequestri di persona e furti con scasso;
gli
azeri, il mercato nero dell’ortofrutta;
i daghestani e gli armeni, il racket sui
piccoli commercianti;
gli osseti, rapine e violenze sessuali.
La
mafia giapponese ha nella Yakuza (dal punteggio perdente 8-9-3 = ya-ku-za nel gioco di
carte dell’Hanafuda), la massima espressione criminale.
È
riconducibile sostanzialmente a due modelli:
lo Yamaguchi-gumi (a struttura piramidale con l’oyabun
– ‘padre’ – capo assoluto) e il Sumiyoshi-rengo (federazione di famiglie con l’oyabun
primus inter pares).
Ha
stretto carattere etnico, in quanto riservata soltanto ai giapponesi, e tipico
legame di fedeltà e obbedienza degli affiliati al capo.
Da
ultimo è nata, per scissione interna, anche una terza organizzazione criminale,
chiamata Ichiwa-kai.
È
presente anche negli Usa, Australia, Filippine, America del Sud;
opera soprattutto nel traffico di amfetamine,
sfruttamento della prostituzione e della pornografia, gioco d’azzardo, usura,
estorsione e traffico di persone; controlla interi comparti dell’edilizia,
della speculazione immobiliare e finanziaria, dello smaltimento dei rifiuti.
Emigrazione
italiana per regione
SIGARETTE
E DROGA: LA SVOLTA.
I
primi anni Cinquanta sono molto importanti perché rappresentano un vero e
proprio tornante nella storia delle mafie.
È in questi anni che esse entrano a vele
spiegate nel grande traffico dei ‘tabacchi lavorati esteri’, secondo la
definizione che le autorità di polizia diedero alle sigarette offerte in
circuiti illegali a prezzi molto inferiori rispetto a quello delle sigarette
italiane vendute in regime di monopolio statale nelle tabaccherie.
Il contrabbando di sigarette estere iniziò
durante l’occupazione militare alleata.
Furono
uomini appartenenti alle truppe alleate che diedero il via a questa lucrosa
attività criminale.
Un
ruolo significativo lo rivestì il porto di Napoli.
Lì riprese vigore un’attività contrabbandiera
che in seguito sarebbe diventata camorrista, favorita da Vito Genovese – un singolare personaggio mafioso
italoamericano d’origini campane e dalla vita criminale molto movimentata e
spericolata.
La sua
è una storia davvero avventurosa:
uscito
di prigione a inizio secolo, dov’era stato condannato a un anno per possesso di
arma illegale, conobbe Lucky Luciano, di cui diventò amico inseparabile per quarant’anni.
Lucky
Luciano,
nuovo boss della Famiglia dopo la guerra castellammarese, nominò Genovese suo vice:
così,
a soli 34 anni, il giovane diventò uno dei più potenti mafiosi di New York.
Con lo sbarco alleato ritroviamo Genovese in
Italia al seguito del colonnello statunitense Charles Poletti, di cui era l’interprete ufficiale.
Genovese,
però, non era uno dei tanti interpreti che lavorava con Poletti;
era
prima di tutto un mafioso con grandi capacità organizzative, che mise in mostra
curando i suoi affari nel mercato nero e nel contrabbando.
Si
deve infatti a lui la creazione di una vasta organizzazione di mercato nero
che, partendo dalla Sicilia, si estese a tutto il Mezzogiorno.
Con il
suo benestare cominciarono a essere scaricate dalle navi alleate casse di
sigarette che erano state imbarcate nel porto franco di Tangeri. Aveva inizio,
in grande stile, il contrabbando di sigarette estere che proseguirà
successivamente.
In quegli stessi anni si stabilì a Napoli
anche Lucky
Luciano,
il quale aveva una visione strategica degli affari criminali di portata
globale.
In
particolare, aveva intuito il ruolo che avrebbero potuto giocare il porto di
Napoli, e più in generale tutta l’area circostante, nei traffici internazionali
di sigarette e di narcotici, che tutto lasciava intendere sarebbero stati di
sicuro fiorenti ed economicamente vantaggiosi.
Quando
le truppe alleate diminuirono la presenza nell’area, le navi contrabbandiere
dovettero trovare altre soluzioni; una di queste comportò la scelta di rifornirsi
direttamente nei porti di Marsiglia, Tangeri e Gibilterra.
In
parallelo con il contrabbando di sigarette s’avviò il traffico di stupefacenti,
seppure ancora in modo artigianale e molto timidamente.
Un
solo esempio dà l’idea di quello che stava accadendo.
Nella
primavera del 1952 ad Alcamo furono sequestrati sei chilogrammi di eroina che
avrebbero dovuto raggiungere il porto di Palermo per essere imbarcati su un
piroscafo diretto negli Stati Uniti.
Il
carico di droga era partito da Anzio, da un’abitazione che era di proprietà di Frank Coppola, mafioso di rango rientrato dagli
Stati Uniti nel 1946.
Era
andato ad abitare a Pomezia, sul litorale laziale, ma la base per i suoi affari
continuava a rimanere a migliaia di chilometri di distanza, a Partinico, da dove esportava il ‘famoso brodo vegetale di Partinico’, come si leggeva sulle etichette delle
scatole che nascondevano eroina.
Il traffico, data l’epoca, era sicuramente di
notevoli proporzioni e interessava diverse località: Milano, Pomezia, Palermo,
Alcamo, Stati Uniti.
Un
anno prima aveva cominciato a muovere i primi passi nel traffico degli
stupefacenti un giovane mafioso che avrebbe ricoperto in futuro ruoli molto
importanti in Cosa nostra: Gaetano Badalamenti, il noto don Tano originario di Cinisi.
Altri
personaggi importanti di questo periodo aurorale furono Tommaso Buscetta, Angelo La Barbera e
Salvatore Greco ‘l’ingegnere’.
All’inizio
sia il contrabbando di sigarette sia il traffico di stupefacenti furono
sottovalutati.
Non si
comprese la portata distruttiva e devastante sui giovani e sulle famiglie, non
si previdero i morti che si sarebbero contati a migliaia, né furono intuite, se
non in parte, le grandi potenzialità economiche che traffici di quella natura,
soprattutto quello dei narcotici, era in grado di generare e di alimentare.
Il
contrabbando di ‘bionde’ – così erano chiamate in gergo le sigarette – fu
subito circondato da un notevole consenso popolare perché vendere sigarette non
era considerato disdicevole e si potevano acquistare a un prezzo di gran lunga
molto più favorevole di quello praticato dal tabaccaio.
A
Napoli c’erano molti giovani o giovanissimi venditori guardati con una certa
benevolenza, perché si riteneva che fosse meglio vendere le bionde al minuto
negli innumerevoli banchetti che invadevano le vie della città invece che
commettere altri reati come omicidi, furti, rapine, scippi.
La
stessa logica si affermava anche nel nord Italia, come racconterà il genovese Luigi Dapueto:
un
curioso personaggio di contrabbandiere gentiluomo, una figura d’altri tempi,
che non considerava immorale vendere sigarette di contrabbando;
anzi,
era persino orgoglioso del suo passato di contrabbandiere di sigarette.
Ne parlava magnificando quella professione
dove erano richiesti coraggio, astuzia, un certo spirito intraprendente,
conoscenza dei luoghi e degli uomini;
per di più lui era convinto che non ci fosse
nulla di particolarmente riprovevole nel frodare il fisco.
Il
periodo d’oro del contrabbando fu quello degli anni Cinquanta.
Fu allora che si costruirono le basi per i
traffici del futuro e si realizzarono le condizioni per creare una rete di
rapporti tra mafiosi siciliani, criminali campani e mafiosi calabresi.
Le
mafie decisero di unire le forze per condurre in porto affari che oramai era
necessario, oltre che più conveniente, gestire insieme e per condividere il più
possibile la rete di relazioni che ognuna di loro possedeva autonomamente.
In
questa fase era ancora solido il rapporto con i francesi.
Il
formarsi di un mercato illecito nel bacino del Mediterraneo e su scala ancora
più vasta coinvolse criminalità di diverse città.
Napoli
e Marsiglia ne furono uno degli esempi più significativi.
Non di
rado c’erano triangolazioni tra siciliani, napoletani e francesi.
La merce partiva da Nizza e arrivava al largo
delle coste italiane, dove squadre contrabbandiere erano pronte a scaricare le
casse di sigarette su pescherecci italiani che le portavano sulle coste
siciliane, campane o calabresi, a seconda delle possibilità di trovare coste
libere da controlli della Guardia di finanza.
I
porti hanno sempre giocato un ruolo strategico, dal momento che emergeva e si
rafforzava sempre di più la componente mercantile delle mafie italiane.
Uno dei porti principali da cui partiva gran
parte delle casse era Tangeri, ma dopo l’abolizione della zona franca avvenuta
all’inizio degli anni Sessanta venne progressivamente sostituito con Gibilterra
e con altri approdi.
Anche
per la droga ci fu un’iniziale sottovalutazione.
Il
campanello d’allarme prese a suonare forsennatamente solo quando l’eroina
cominciò a colpire i ragazzi della tranquilla classe media americana,
distruggendo la vita di molti giovani.
Durante
la Guerra in Vietnam, in particolare tra il 1965 e il 1972, i soldati americani
(che nel 1969 avevano raggiunto la cifra di 550.000 unità) fecero ampio uso di
droghe e ciò determinò l’aumento in grandi proporzioni del numero dei
tossicomani presenti negli Stati Uniti.
Da
quel momento non fu solo un fatto americano, ma diventò un problema mondiale.
La
paura per i rischi che si correvano si estese dappertutto.
In
Europa, per esempio in Italia e anche nella vicina Francia, per molti anni non
si era considerato il problema della droga come una questione prioritaria.
Proprio
in Francia nel 1969 fu accertato il primo morto ufficiale per overdose. In
Italia il primo morto per droga sarà registrato solo nel 1974.
Il
traffico internazionale di droga: la cocaina.
Antonio
Maria Costa.
Come
premessa occorre chiarire che cosa si intende per ciascuno dei termini che
fanno parte del titolo, seguendo l’ordine in senso inverso.
In primo luogo, questo approfondimento tratta
solamente delle ‘droghe’ illecite, o per meglio dire di quelle poste sotto
controllo in seguito ad accordi internazionali (le Convenzioni delle Nazioni
Unite) (Un), poi recepiti dalle legislazioni nazionali.
In
secondo luogo, questo testo si concentra sul traffico, appunto per esaminare un
solo segmento del mercato della droga: la parte commerciale, diciamo, che si
inserisce operativamente tra la produzione (offerta) e il consumo (domanda) di
droga.
Da
ultimo, trattiamo altresì di traffico internazionale, cioè quello che valica
confini di stato;
lasciamo
quindi da parte le situazioni (importanti per le droghe sintetiche, come si
vedrà) in cui produzione e consumo coincidono geograficamente.
Il nostro approccio consiste inoltre nel
separare i flussi della droga, e i relativi mercati, in base al tipo di
sostanza.
In
questo primo approfondimento ci concentreremo dunque su una droga botanica: la cocaina.
La
cocaina proviene da tre paesi della regione andina:
Colombia,
Perù e Bolivia.
In un
primo tempo, ovvero nel secondo dopoguerra, quasi tutta la produzione di
cocaina era diretta a nord, verso il mercato statunitense.
Ma a
partire dagli anni Ottanta del secolo scorso la domanda negli Usa è scesa, fino
a calare drasticamente di recente, soprattutto a partire dal 2003.
Al
contempo il consumo di cocaina in Europa ha iniziato a crescere, aumentando
rapidamente nell’ultimo decennio:
nel
2010 il traffico di cocaina dai paesi andini si è diviso in parti quasi uguali
(rispettivamente, circa il 40%) tra i mercati dell’America del Nord e
dell’Europa, con il restante 20% commerciato altrove - e, in maniera crescente,
in Africa occidentale.
1. Dal
Sud al Nordamerica.
Le
modalità attraverso le quali la cocaina veniva trafficata dal Sud al
Nordamerica sono variate nel tempo, in parte in risposta alle operazioni delle
forze dell’ordine e in parte a causa dei cambiamenti avvenuti nei gruppi
criminali.
Oggi
la cocaina è per lo più trasportata dalla Colombia al Messico o all’America
centrale via mare (solitamente dai colombiani), per poi proseguire via terra
verso gli Stati Uniti e il Canada (solitamente attraverso i messicani).
Le
autorità statunitensi stimano che circa il 90% della cocaina entra nel paese
attraversando il confine territoriale tra gli Stati Uniti e il Messico, mentre
circa il 70% della cocaina lascia la Colombia via Oceano Pacifico, il 20%
attraverso l’Atlantico e il 10% attraverso il Venezuela e i Caraibi.
Dopo
lo smantellamento del cartello di Medellín e di Cali nei primi anni Novanta, i
gruppi criminali organizzati colombiani sono diventati più piccoli e i livelli
di violenza sono diminuiti.
Al
contempo i gruppi messicani sono cresciuti in dimensione e forza, e sono ora
responsabili della maggior parte delle violenze perpetrate in Messico.
Una delle ragioni della recrudescenza della
violenza legata alla droga in Messico sta nel fatto che, essendo il mercato
nordamericano in calo, le organizzazioni criminali combattono tra di loro per
mantenere una presenza, a spese della concorrenza.
Negli ultimi dieci anni circa, 30.000 persone
hanno subito morte violenta in Messico in fatti di sangue legati al commercio
di droga:
il
governo messicano stima che oltre il 90% di tali decessi coinvolga i
trafficanti stessi.
Per
far fronte alla domanda di cocaina statunitense sono necessarie circa 196
tonnellate, un flusso che nel 2008 è stato stimato nell’ordine dei 38 miliardi
di dollari.
Questo
ricavato non è però distribuito equamente.
Ai
coltivatori di coca nei tre paesi andini è stato attribuito un introito di
circa 1,1 miliardi di dollari.
Gli importi generati dalle attività di
lavorazione e dal traffico all’interno dei paesi andini per la cocaina
destinata all’America settentrionale sono pari a circa 400 milioni di dollari.
I
profitti totali lordi derivanti dall’importazione di cocaina in Messico possono
essere stimati intorno ai 2,4 miliardi di dollari (escludendo i costi di
trasporto), mentre sempre nel 2008 i cartelli messicani che trasportano la
cocaina attraverso il confine Usa hanno totalizzato un guadagno di 2,9 miliardi
di dollari.
Tuttavia,
i profitti più alti vengono generati negli stessi Stati Uniti, dove la vendita
all’ingrosso e quella al dettaglio producono circa 29,5 miliardi di dollari.
Di
questi profitti lordi la maggior parte viene realizzata attraverso lo spaccio
tra rivenditori di medio livello e consumatori, per un giro d’affari che supera
i 24 miliardi di dollari, ovvero il 70% del valore totale della cocaina sul
mercato statunitense.
2.
Dalla regione andina all’Europa.
Nel
corso dell’ultimo decennio il numero dei consumatori di cocaina in Europa è
raddoppiato - da circa due milioni a 4,1 milioni.
Sebbene
il consumo di cocaina in Europa, stando alla media continentale, sia ancora
inferiore al livello dell’America del Nord, tre paesi dell’Unione Europea
(Spagna, Regno Unito e Italia) hanno ora un tasso annuale di diffusione più
alto rispetto agli Usa.
Il
mercato europeo di cocaina è conseguentemente cresciuto di valore: dai 14
miliardi di dollari del 2001 ai 34 miliardi di dollari di oggi, circa la stessa
dimensione del mercato statunitense.
I dati
preliminari suggeriscono però che la rapida crescita del mercato europeo della
cocaina stia cominciando a stabilizzarsi, seguendo il profilo logico (passaggio
ad altri tipi di sostanze psicoattive) e cronologico (esaurimento della spinta
commerciale) d’oltreoceano.
La
maggior parte del traffico di cocaina diretta in Europa avviene via mare,
attraverso i due maggiori scali regionali:
nel
sud, in Spagna e Portogallo;
a nord, nei Paesi Bassi e in Belgio.
La Colombia rimane la principale fonte della cocaina
rinvenuta in Europa, ma le spedizioni provenienti dal Perù e dalla Bolivia sono
di gran lunga più comuni che nei mercati statunitensi.
Nell’ultimo
decennio si è assistito a un cambiamento delle rotte utilizzate per il traffico
verso l’Europa.
Tra il
2004 e il 2007 sono emersi nell’Africa occidentale almeno due distinti snodi di
commerci illeciti:
uno in
Guinea-Bissau e Guinea, e l’altro nel Golfo del Benin, che si estende dal Ghana
alla Nigeria.
Più
recentemente si è però notata un’inversione di tendenza.
Le rotte attraverso l’Africa occidentale hanno
infatti perso peso a seguito di una molteplicità di fattori:
i
tumulti politici nei paesi arabi del Nord Africa, attraverso i quali la droga
arrivava in Europa;
il
successo delle misure d’interdizione nella stessa Europa;
il
forte pattugliamento delle aree attraversate dai flussi di droga, a seguito del
crescente coinvolgimento di gruppi terroristici panarabi (legati a volte alla
rete di al-Qaida) in questo tipo di commercio.
Ciò
sembra avere indebolito i flussi su questa via di transito, anche se potrebbe
verificarsi una veloce ripresa, essendo i governi dell’Africa occidentale
pressoché inattivi nell’opera di contrasto ai traffici illeciti, quando non c’è
un coinvolgimento delle autorità stesse.
Dall’altra
sponda dell’oceano, si riscontra che i flussi di cocaina in Africa occidentale
provengono in misura decrescente dalla Colombia.
Il
Brasile e il Venezuela sono invece emersi come paesi chiave per il transito di
carichi diretti all’Europa, in particolare per le spedizioni marittime di
grandi entità.
In
fatto di volumi si stima che in Europa siano distribuite circa 124 tonnellate
di cocaina del valore di 34 miliardi di dollari.
Meno
dell’1% del valore della cocaina venduta in Europa andrebbe ai coltivatori
andini di coca, mentre l’1% sarebbe destinato ai trafficanti nelle regioni
andine.
I
trafficanti internazionali che gestiscono la cocaina dalle regioni andine ai
principali punti di entrata (specialmente la Spagna) otterrebbero il 25% del
valore finale delle vendite.
Un
ulteriore 17% sarebbe generato dal trasporto attraverso l’Europa: dai punti
d’ingresso ai grossisti dei paesi di destinazione.
Oltre
la metà degli introiti (circa il 56%) viene generata negli stessi paesi di
destinazione, e deriva dal commercio spicciolo tra spacciatori al dettaglio e
consumatori diretti.
Poiché in Europa il numero di spacciatori a
livello nazionale è più elevato, il loro reddito pro capite è più basso
rispetto a quello degli spacciatori che fanno parte del piccolo gruppo di
trafficanti che gestisce il flusso internazionale.
Il
traffico internazionale di droga: l'eroina.
Antonio
Maria Costa
In
questo secondo approfondimento dedicato al traffico internazionale di droga ci
occuperemo di un’altra droga botanica:
gli
oppiacei, ovvero oppio ed eroina.
La
maggior parte della produzione dell’eroina a livello mondiale è concentrata in
una manciata di province del tormentato Afghanistan, specificatamente zone
rurali coinvolte nel conflitto.
L’eroina afgana alimenta un mercato globale
del valore di circa 55 miliardi di dollari all’anno.
Le
rotte balcaniche e nordiche sono i corridoi principali del traffico di eroina
che collega l’Afghanistan all’enorme mercato della Russia (per un valore di 13
miliardi di dollari) e dell’Europa occidentale (20 miliardi di dollari).
La maggior parte dei profitti finisce ai gruppi
criminali organizzati durante il tragitto, ma una parte importante degli
introiti finanzia gli insorti talebani in Afghanistan.
1.
Dall’Afghanistan alla Federazione Russa.
Per
oltre un decennio, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si è assistito a una
rapida crescita del flusso e del consumo di eroina in Russia, crescita che ha
iniziato a stabilizzarsi intorno al 2000.
Oggi si stima che in Russia ci siano oltre due milioni
di eroinomani, un numero che la rende il più grande paese consumatore di
narcotici al mondo.
Il trasporto via terra è la modalità più
utilizzata nella rotta dall’Afghanistan verso il nord.
Vent’anni
fa tutti gli stati a nord dell’Afghanistan facevano parte dell’Urss, quindi non
erano separati da frontiere.
Dopo
il collasso del comunismo questi stati, pur essendo divenuti paesi
indipendenti, continuano ad avere controlli assai ridotti ai loro confini, che
sono tecnicamente e operativamente sottosviluppati.
Inoltre questi nuovi stati sono in prevalenza
poveri (specialmente il Tagikistan, che confina direttamente con il nord
dell’Afghanistan), alcuni hanno assistito a insurrezioni politiche
(Kirghizistan e Uzbekistan) e tutti sono notoriamente corrotti (tutti i paesi
dell’area): di conseguenza il contrasto al traffico di eroina non è mai stato,
e spesso non ha potuto divenire, una priorità.
Oggi
le misure di polizia intraprese hanno consentito sequestri di svariate
tonnellate di eroina all’anno; ciononostante, circa 70 tonnellate di eroina
riescono a transitare, per soddisfare la domanda nella Russia.
Per
fornire ai tossicodipendenti russi queste 70 tonnellate, circa 95 tonnellate (o
il 25% di tutta l’eroina afgana esportata) transitano dall’Afghanistan all’Asia
centrale, dove il Tagikistan gestisce la maggior parte del volume del traffico.
Sia
grandi gruppi ben organizzati che piccoli imprenditori sono coinvolti, e la
droga passa così da diverse mani prima di raggiungere il consumatore finale.
Legami familiari ed etnici transfrontalieri appaiono come importanti elementi
nel facilitare il flusso.
Le 70
tonnellate commercializzate in Russia sono vendute per circa 13 miliardi di
dollari sul mercato locale, un volume senz’altro in aumento nell’ultimo
decennio.
2.
Dall’Afghanistan all’Europa.
La
rotta dei Balcani prosegue via terra, dall’Iran (o dal Pakistan all’Iran)
passando dalla Turchia e attraverso l’Europa sud-orientale. Per ottenere le 87
tonnellate di eroina che soddisfano il consumo europeo, circa 140 tonnellate di
eroina partono dall’Afghanistan, dato l’elevato volume di sequestri in Iran e
in Turchia. La maggior parte dell’eroina che giunge in Europa è consumata
soprattutto in quattro paesi: il Regno Unito, l’Italia, la Francia e la
Germania.
I
gruppi criminali organizzati coinvolti nel traffico internazionale sulle rotte
dei Balcani sono spesso composti da cittadini dei paesi d’origine o di
transito.
Ma
molti dei trafficanti coinvolti nei diversi stadi del tragitto sono veri e
propri trasportatori professionali, assunti per svolgere tale lavoro, senza
necessariamente appartenere al gruppo che possiede la droga e senza appartenere
formalmente a gruppi criminali di stampo mafioso.
Gli oppiacei destinati all’Europa occidentale
sono trafficati fuori dall’Afghanistan dalle reti di trafficanti di etnia
Beluci e Pashtun, che operano nelle regioni di confine tra l’Afghanistan, il
Pakistan e l’Iran.
Gruppi
beluci in particolare sono stati attivi nel commercio della droga, in parte per
finanziare attività ribelli al confine tra il Pakistan e l’Iran, in parte per
arricchimento personale.
In questo caso i Beluci scaricano le loro
spedizioni di eroina (in Iran) ad altri gruppi con maggiori legami regionali e
internazionali, come gli Azeri, gli Arabi e soprattutto i Curdi, che spesso
hanno legami familiari con compatrioti emigrati in Europa, specialmente in
Germania.
Una volta che l’oppio ha cambiato di mano,
questi gruppi divengono i principali responsabili del trasporto della droga dai
confini orientali ai confini occidentali dell’Iran, fino in Turchia, dove le
grandi spedizioni sono suddivise in partite più piccole per la distribuzione in
Europa.
Nei
Balcani il fatto che solamente una parte relativamente piccola venga
sequestrata suggerisce che tale rotta sia estremamente ben organizzata e
facilitata dalla corruzione.
Se i gruppi balcanici svolgono un ruolo
preponderante in tale area, essi tuttavia non sembrano detenere il controllo
dei mercati di destinazione. In molti paesi europei sono infatti i nazionali a
gestire il mercato locale, inclusa l’Italia.
Dopo
la Turchia, i Paesi Bassi sono il maggiore centro di redistribuzione per
l’Europa occidentale, soprattutto nel nord dell’Unione Europea.
Il
traffico internazionale di droga: cannabinoidi e droghe sintetiche.
Antonio
Maria Costa.
In
questo ultimo approfondimento sul mercato internazionale degli stupefacenti ci
concentriamo su una terza droga botanica, i cannabinoidi, per poi trattare
separatamente anche le droghe sintetiche.
La
ricerca statistico-economica sul mercato dei cannabinoidi è più difficile che
per le altre droghe.
Primo,
la cannabis è la droga più consumata al mondo, con circa 160 milioni di persone
(4% della popolazione mondiale) che hanno dichiarato di averne fatto uso almeno
una volta nell’arco dell’anno precedente.
Secondo, il consumo è assai diffuso nei
mercati stessi di produzione, quindi esistono delle rotte di traffico usate
dalle mafie internazionali, ma sono più limitate per dimensione e distanza
coperta.
Terzo, il mercato è diviso nei due grandi
comparti della foglia di cannabis (marijuana) e della resina (hashish) che non
permettono aggregazione, se non a fini contabili.
Pur se
i cannabinoidi sono coltivati e consumati pressoché ovunque nel mondo, i due
maggiori mercati sono gli Usa, dove la domanda (foglia) è in maggioranza
soddisfatta da produzione locale, e l’Europa, dove il consumo (resina) è
soprattutto di droga importata.
Il singolo maggiore produttore ed esportatore
è il Marocco (soprattutto resina), dove le coltivazioni sono state dimezzate
negli ultimi dieci anni. Altro grande paese produttore è il Messico (soprattutto
foglia), che soddisfa oltre un terzo della domanda statunitense.
Il
mercato globale della foglia di cannabis è stimato a 130 miliardi di dollari,
oltre la metà negli Usa.
I dati sui sequestri di marijuana sono
indicativi: d
elle
6000 tonnellate intercettate a livello globale quasi la metà è stata scovata in
Messico, e un quarto negli Usa stessi.
Le
vendite al dettaglio in Europa eccedono i 25 miliardi di dollari, circa un
quinto del volume d’affari globale:
si
noti tuttavia che l’Europa sequestra meno dell’1% del volume mondiale.
Il
resto dei consumi (e dei sequestri) è frammentato tra Africa, Australia e
America Latina.
Diversa è la tipologia di consumo della
resina, che trova il suo mercato principale proprio in Europa:
oltre tre quarti del fatturato globale, che
sfiora i 30 miliardi di dollari. La Spagna detiene il primato nei sequestri di
resina con oltre la metà delle 1300 tonnellate intercettate al mondo.
Il
resto del mercato mondiale è fratturato in percentuali modeste (5-10%) negli
altri continenti.
Le
cifre riportate sopra sono il risultato di una triangolazione delle
informazioni disponibili, che includono stime sulla coltivazione (via
osservazioni satellitari e ispezioni sul campo), sul consumo (attraverso il
numero dei tossicodipendenti, ritarato in base al volume di uso) e sui
sequestri (grazie ai dati delle forze dell’ordine).
Questi
ultimi, i sequestri, forniscono i dati più robusti statisticamente parlando, e
offrono una chiave di lettura per mediare informazioni a volte assai divergenti
tra i volumi di offerta e di domanda, oltre che una mappa generale circa i
traffici internazionali.
I dati
sui sequestri indicano che le rotte della marijuana sono interregionali e
valicano poche frontiere.
Il perno di tale smercio sono gli Usa e il
traffico avviene lungo il loro perimetro esterno, attraverso soprattutto i
confini con il Messico e con il Canada.
Le rotte dell’hashish tendono, al contrario,
ad essere intercontinentali, concentrate attraverso il Mediterraneo e lungo le
coste orientali dell’Atlantico.
Importanti
sforzi sono da tempo in corso ai due estremi del mercato: alla fonte (Marocco)
e lungo il perimetro iberico, dove i sequestri sono aumentati negli ultimi tre
anni, anche se rimangono inferiori alle 750 tonnellate intercettate nel
2003-04.
Per
ciò che concerne le droghe sintetiche, invece, il loro consumo continua a
eccedere, in termini del numero di tossicodipendenti, quello delle droghe
botaniche come cocaina e oppiacei.
Il mercato mondiale, da tempo stabilizzato a
circa 34 milioni di consumatori, mostra maturazione nei paesi industriali e una
lenta ma continua crescita nel Terzo mondo.
La
produzione globale si aggira sulle 500 tonnellate l’anno, apparentemente
stabile da un decennio, con un giro di affari al dettaglio pari a circa 60-70
miliardi di dollari.
I
traffici internazionali degli stimolanti sintetici sono diversi da quelli delle
droghe botaniche, per una ragione semplice:
la
produzione, fattibile ovunque, è frammentata e localizzata in prossimità dei
grandi centri di consumo.
Questo
rende le operazioni di contrasto assai difficili, e riduce i costi del prodotto
finito sul mercato.
Di
conseguenza, la lenta decentralizzazione dell’uso dal Nord al Sud del mondo
determina una modifica dei luoghi di manifattura e quindi dei percorsi del
traffico.
Data
la grande dimensione del mercato delle droghe sintetiche, il coinvolgimento
delle organizzazioni criminali mondiali è in continuo aumento:
tuttavia, la frammentazione del mercato, e la
sua natura regionale, costringono la mafia internazionale a collaborare - assai
più che per altre droghe - piuttosto che a competere con gruppi locali.
Questo
partenariato di convenienza ha generato due risultati:
una
più grande dimensione e sofisticazione nella produzione rispetto a quando
quest’ultima era fondamentalmente nelle mani di gruppi familiari locali, con
capacità produttive limitate a pochi kg la settimana.
Inoltre
è ora apparsa una dimensione etnico-geografica legata ai traffici:
i
precursori chimici usati come materia prima provengono dal sud-est asiatico; i
trafficanti dall’Africa occidentale e dall’Asia; gli esperti chimici sono
solitamente europei; e i colletti bianchi (banchieri, avvocati, notai e contabili)
che ne riciclano i proventi sono nordeuropei e americani.
Negli
ultimi anni il mercato delle anfetamine, modificatosi come detto sopra dal tipo
casereccio e familiare a un formato più simile ai grandi mercati dell’eroina e
cocaina, ha visto il coinvolgimento delle grandi reti mafiose per una seconda
ragione:
raccordare
la provenienza dei precursori (spesso localizzati in altri continenti) con la
manifattura locale e lo smistamento del prodotto finito sulle aree limitrofe.
A differenza di eroina e cocaina, questi
flussi sono altamente instabili: possono essere e sono modificati non appena il
profilo di rischio o il potenziale di reddito cambiano.
In Europa, per esempio, la produzione un tempo
localizzata nel Regno Unito si è spostata in Spagna, a causa dell’inasprimento
delle sanzioni decisa da Londra, e d’altra parte per la forte crescita del
turismo (e quindi della domanda) nella penisola iberica.
Il
mercato - produzione quanto consumo - dell’ecstasy rimane un fenomeno quasi
unicamente europeo.
In origine in mano esclusiva a produttori e
trafficanti olandesi, esso si è oggi diversificato con manifattori
delocalizzati nell’Est europeo - Polonia, Ucraina, Bulgaria e Russia
occidentale.
L’altro
elemento che deforma i traffici delle droghe sintetiche rispetto a quelle
botaniche è la diversificazione delle ragioni di consumo.
Notoriamente,
esse vengono usate dai consumatori europei e nordamericani per scopo
soprattutto ludico.
In
Asia l’uso è soprattutto legato al lavoro - sia esso legale (catene di
montaggio, servizio taxi, costruzioni ed edilizia) o illegale (prostituzione
minorile, sfruttamento sessuale, tratta delle donne).
In tutti questi ambienti, le sostanze chimiche di tipo
anfetaminico vengono usate per dare all’organismo maggiore resistenza a fatica,
pena e sofferenza.
Lo
sviluppo più significativo degli ultimi anni è anche quello più sorprendente:
il rapido diffondersi del consumo di
stimolanti nei paesi del Golfo, soprattutto l’Arabia Saudita.
Le
cifre sono tanto sbalorditive quanto poco note.
Gli
ultimi dati confermano che Riyad ha sequestrato nel 2008-09 oltre un quarto di
tutti gli stimolanti al mondo:
circa
15 tonnellate, contro 6 in Cina e 5 negli Usa.
Il
prodotto finito, che si chiama localmente captagone (un’anfetamina modificata), è
manifatturato soprattutto in Bulgaria.
Attraversa
poi il Mediterraneo, per venire re-imballato in Siria prima di raggiungere i
paesi del Golfo.
Si
sospetta che gruppi paramilitari locali, con affiliazione religiosa ostile al
governo dell’Arabia Saudita, siano coinvolti:
gli
stessi gruppi hanno anche ripreso da qualche tempo la coltivazione dei
cannabinoidi nella Valle della Bekaa, al confine tra la Siria e il Libano, per
l’esportazione in Europa.
Mercati
illegali di sigarette.
Primi
per consumatori di oppiacei.
Andamento
dei consumi di cocaina.
Primi
per consumatori di cocaina.
GLI
ANNI SETTANTA: LA DEFINIZIONE DI UNA NUOVA GEOGRAFIA DELLE MAFIE CONTEMPORANEE.
Gli
anni Sessanta e Settanta sono il periodo ‘magico’ delle mafie italiane che si
sprovincializzarono e si mossero in tutti i continenti alla ricerca di nuovi
affari.
È possibile datare a quegli anni la nascita di una
nuova geografia delle mafie contemporanee.
Esse
non sarebbero più rimaste rinchiuse negli angusti territori d’origine, negli
anfratti di società rurali, ma avrebbero fatto la scelta di spaziare al di là
dei confini regionali e nazionali.
I mutamenti furono rilevanti e imprevisti;
arrivarono come un tornado ed ebbero l’effetto
di sconvolgere assetti ed equilibri interni a ogni singola associazione
mafiosa.
L’‘onorata
società’ non sarebbe stata più quella di un tempo;
si
sarebbe trasformata profondamente pur rimanendo ancorata ai codici e alle
regole del passato.
Non
perse le sue caratteristiche mafiose, ma le adattò ai tempi moderni. Il vecchio
mondo mafioso per molti versi era al tramonto e s’apriva una nuova epoca
caratterizzata dalla velocità degli scambi nello scacchiere internazionale,
dalla facilità e dalla rapidità di accumulare denaro.
Tanti
soldi, come mai era successo in passato.
Nella
lunga storia del crimine organizzato non c’è mai stato un business lontanamente
paragonabile a quello della droga.
In
nessun comparto dell’economia criminale c’è una resa economica degli
investimenti effettuati pari a quella che è possibile ricavare con la vendita
della droga.
Per
questi motivi, anche i vecchi capi mafiosi che non avevano visto di buon occhio
l’idea di partecipare a quell’avventura dovettero cedere il passo a giovani più
intraprendenti e spregiudicati; coloro che non s’adattarono finirono ammazzati.
Non fu rispettato nessuno di quelli che
s’opposero, né ci fu chi potesse frenare questi nuovi virgulti mafiosi, che
videro spalancarsi davanti ai loro occhi la concreta prospettiva di diventare
ricchi in tempi rapidissimi, ricchi in proporzioni gigantesche, inimmaginabili
fino ad allora, come non era mai capitato di intravedere neanche nei sogni più
arditi.
I
traffici delle sigarette e poi quelli della droga incisero in profondità negli
assetti, nelle abitudini, nei rapporti con gli altri mafiosi, che diventarono
più frequenti.
Chiuso
il porto di Tangeri, i contrabbandieri crearono nuovi depositi sulle coste
della Iugoslavia e dell’Albania, e nel frattempo ingaggiarono navi greche per
il trasporto dei tabacchi.
Le
navi contrabbandiere operarono nel medio e basso Adriatico, lungo le coste
ioniche, in Sicilia, Calabria, Campania raggiungendo, quand’era necessario, le
coste laziali.
C’erano
anche ragioni economiche che consigliavano di rafforzare le relazioni tra le
varie mafie.
Una
nave contrabbandiera a pieno carico trasportava da 1500 a 4000 casse di
sigarette, e all’epoca nessuna organizzazione locale, neanche la mafia
siciliana, aveva la potenzialità economica per anticipare il 40% o il 50% del
carico prima della partenza, così come era regola consolidata nell’ambiente
contrabbandiero.
La nave scaricava durante il viaggio le varie
partite lungo le coste delle tre regioni.
Erano,
dunque, indispensabili continui contatti e accordi tra le varie organizzazioni.
I contatti ci furono ed erano visibili perché,
non infrequentemente, furono trovati esponenti mafiosi siciliani, campani o
calabresi su navi contrabbandiere catturate nelle acque prospicienti le coste
meridionali.
L’allora
colonnello dei carabinieri “Carlo Alberto Dalla Chiesa” riferì anche che nel
corso del 1972, presso un importante albergo di Napoli, si era svolta una
riunione alla quale avevano preso parte il mafioso Giuseppe Savoca, il camorrista
Giuseppe Di Carluccio e gli ’ndranghetisti Paolo De Stefano e Pasquale
Condello.
In
quegli anni i mafiosi impararono le lingue, realizzarono rapporti con altri
criminali stranieri, scoprirono nuove rotte e nuovi paesi, allargarono i loro
orizzonti mentali e culturali.
In
questo quadro si infittirono le reti criminali fra delinquenti di diverse
nazionalità.
S’intrecciarono relazioni, conoscenze,
amicizie non solo con contrabbandieri e trafficanti, ma anche con quanti,
collocati nei presidi delle diverse frontiere, erano disposti a chiudere un
occhio in cambio di denaro; la corruzione oliava i passaggi e facilitava il
transito delle merci da un paese a un altro.
I
mafiosi si inserivano anche in un mondo fino ad allora precluso e sconosciuto:
quello dei colletti bianchi, dei riciclatori
di professione, nazionali e internazionali, di uomini in grado di muovere
ingenti quantitativi di denaro da una parte all’altra senza lasciare traccia
alcuna dei vari passaggi.
Sono conoscenze fondamentali per chi voglia
nascondere le proprie ricchezze, sono persone che rimangono nell’ombra, al
riparo dai riflettori e sconosciuti alla magistratura.
Molti
contrabbandieri e trafficanti furono arrestati, ma il flusso di denaro non si
interruppe perché coloro che gestivano i soldi erano poche persone, non note
alla massa dei mafiosi e conosciute solo da chi, entro le varie famiglie, aveva
il compito di gestire e di occultare il denaro.
A
partire da quel periodo le mafie italiane entrarono in una fase di profonda
trasformazione.
I loro traffici valicarono i confini delle
loro regioni d’origine e anche delle nuove aree di residenza.
La
logica di un mercato illegale come quello degli stupefacenti, che si svolgeva
su scala sovranazionale, le indusse a muoversi con speditezza in tutto lo
scacchiere internazionale per reperire le merci da importare e smerciare in
Italia e in giro per il mondo.
Non ci
sono più confini in grado di reggere quest’urto.
Si va da una parte all’altra del mondo alla
ricerca prima di tabacchi di contrabbando e poi di eroina;
infine, in epoca più recente, è arrivato il
tempo della cocaina e di altre droghe sintetiche.
I
percorsi e le strade sono gli stessi, perché sin dall’inizio sigarette e droga
seguivano le stesse rotte, gli stessi canali, varcavano le stesse frontiere e
solcavano gli stessi mari.
Dal
quadro tracciato è quindi evidente che l’espansione postbellica delle mafie su
territori stranieri non si sarebbe più fermata, anzi con il trascorrere del
tempo avrebbe conquistato nuovi territori e nuovi stati.
Cosa
nostra, come s’è visto, era già presente negli Stati Uniti e con Cosa nostra
americana c’era un vero e proprio cordone ombelicale; la ’ndrangheta aveva
presenze di tutto rispetto in Canada e in Australia.
Poi la
’ndrangheta diventò l’organizzazione che fu in grado di allargare le sue basi
operative fino a diventare progressivamente attiva in molti paesi stranieri.
Oggi
la ’ndrangheta ha proprie colonie in paesi europei ed extraeuropei come
Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Regno Unito, Portogallo, Spagna,
Svizzera, i Balcani, Canada, Australia, Stati Uniti, Argentina, Brasile, Cile,
Colombia, Venezuela, Messico, Ecuador, Bolivia, Santo Domingo, Costa Rica,
Marocco, Turchia.
COSA
NOSTRA NEGLI STATI UNITI.
L’organizzazione
più famosa è senz’altro Cosa nostra americana, che fu formata quasi esclusivamente
da mafiosi siciliani emigrati nella seconda metà dell’Ottocento.
Le
prime organizzazioni criminali italo-americane agivano nei quartieri dove
predominanti erano gli immigrati italiani - le Little Italy - perché lì era più
facile incontrare connazionali e con il loro aiuto mimetizzarsi e agire.
Il
periodo del proibizionismo, durato dal 1920 per poco più di un decennio, fu
molto importante per lo sviluppo di bande di gangster e della mafia perché i
cittadini americani non consideravano illegittimo il consumo di alcolici.
Gli abitanti degli slums guardavano con ammirazione i
gangster ed erano convinti che svolgessero una funzione importante nella
società.
Al
Capone coglieva
questo stato d’animo ed era solito dire: «Tutto quello che faccio è rispondere
alla domanda del pubblico».
Dopo
la fase iniziale, Cosa nostra accolse anche quelli che non erano siciliani, e
allora vi parteciparono anche mafiosi di origine campana e in particolare di
origine calabrese.
Calabresi
erano infatti Francesco Castiglia, meglio noto come Frank Costello, e Albert Anastasia,
che all’anagrafe di Tropea, suo paese d’origine, risultava essere iscritto con il nome
più prosaico di Alberto Anastasio.
Entrambi ebbero un peso eccezionale e una
parte di rilievo nelle vicende della mafia italoamericana e furono tra coloro
che spinsero per la creazione di nuclei mafiosi calabresi in Australia e in
Canada, che presero forma e consistenza tra gli anni Trenta e gli anni
Cinquanta del Novecento.
Mentre
la presenza mafiosa negli Stati Uniti è cosa nota e ampiamente studiata, quella
che si radicò in Australia e in Canada è ancora tutta da studiare con
attenzione, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con le ’ndrine calabresi
– che sono la struttura di base a carattere familiare – della zona ionica della
provincia di Reggio Calabria.
Nel
corso degli anni Trenta scoppiò in America la ‘guerra castellammarese’, così
chiamata perché i protagonisti erano originari di Castellammare del Golfo;
questa
fu conclusa dal leggendario Lucky Luciano, nato a Lercara Friddi con il nome di
Salvatore Lucania, che ordinò l’omicidio di Joe Masseria e Salvatore Maranzano,
i due mafiosi più potenti dell’epoca.
Cosa
nostra americana accolse di buon grado al suo interno i mafiosi siciliani
emigrati, che
durante la repressione del prefetto fascista Cesare Mori avevano abbandonato
l’isola per non essere arrestati.
I
mafiosi italoamericani ebbero un ruolo importante durante il secondo conflitto
mondiale, collaborando con le autorità e assicurando la tranquillità del porto
di New York dagli attentati tedeschi.
Luciano, in cambio di quella collaborazione,
ebbe la liberazione dal carcere, mascherata con l’espulsione dagli Usa.
Alcuni sostengono che Luciano abbia avuto un
ruolo nello sbarco in Sicilia degli alleati, ma non ci sono prove storiche
sufficienti a suffragare questa ipotesi.
Nel
1964, davanti a una commissione d’inchiesta del Senato americano depose Joseph Valachi, ammettendo per la prima volta di far
parte di Cosa
nostra,
nome fino ad allora sconosciuto.
La
storia di Cosa
nostra americana s’è intrecciata più volte anche nel secondo dopoguerra con Cosa nostra siciliana.
I legami tra le due organizzazioni sono stati
sempre molto stretti fino a tempi recenti; per esempio, agli inizi degli anni
Ottanta gli americani accolsero gli ‘scappati’,
ossia
i perdenti della guerra di mafia siciliana vinta dai Corleonesi di Totò Riina e
Bernardo Provenzano.
Nel
corso dei decenni le famiglie mafiose americane che si affermarono nel panorama
criminale furono cinque e i loro cognomi sono noti oramai da decenni: Bonanno, Colombo, Gambino, Genovese,
Lucchese.
LE
MAFIE IN ITALIA.
Nello
stesso periodo in cui si svilupparono questi traffici internazionali si
avviarono altri mutamenti, determinati dall’intervento straordinario dello
stato nel Mezzogiorno, che erano destinati a segnare in modo permanente la
storia dei decenni successivi.
L’erogazione dei fondi pubblici è stata
certamente rilevante ed era stata ideata inizialmente come una misura per
sviluppare le regioni del sud d’Italia.
Fatto
è, però, che la concreta gestione delle risorse pubbliche ha avuto effetti
paradossali perché, sfuggita dalle mani dello stato, ha determinato un vero e
proprio governo mafioso dell’economia, che si è concentrato in alcune aree
delle tre regioni meridionali.
Una
quota rilevante di questa spesa pubblica fu intercettata dalle mafie.
La
concreta gestione del potere da parte delle classi dirigenti meridionali ha
permesso che ciò potesse avvenire e dunque esse hanno la responsabilità
principale di quanto è accaduto negli ultimi decenni.
Una
notevole parte di quel personale politico, legato ai partiti allora al governo,
ha gestito la cosa pubblica con la pratica diffusa del clientelismo,
dell’affarismo, della corruzione, del familismo.
Queste
vie della politica si sono ben presto incrociate e intrecciate con quelle delle
mafie, che andavano sempre di più accentuando la loro caratteristica di
organizzazioni territoriali capaci di esercitare potere economico e potere
politico.
Lo
stretto controllo del territorio significava controllo sopra le persone e
dunque sui voti che queste esprimevano.
I mafiosi votarono per uomini politici
disposti, in cambio dei voti di lista e di preferenza, a concedere benefici e
favori alle famiglie mafiose.
Con il
trascorrere del tempo questi rapporti di delega mutarono e le mafie scelsero la
via di candidare propri rappresentanti diretti (propri affiliati) dentro le
istituzioni, dal più piccolo comune al Parlamento.
I dati
dei comuni sciolti per mafia nell’ultimo ventennio – alcuni addirittura più di
una volta – sono molto eloquenti e ci danno l’idea del condizionamento mafioso
esercitato sulle comunità locali.
Per
quanto concerne l’economia delle mafie sul territorio italiano, una delle
attività principali era senza dubbio costituita dalla re-immissione di denaro
sporco nel mercato legale attraverso il riciclaggio, attività che modificava il
rapporto tra le mafie e l’economia.
La
’ndrangheta è l’unica organizzazione mafiosa che riuscì a raccogliere denaro
con i sequestri di persona, che funzionarono quasi come una sorta di
accumulazione primitiva del capitale mafioso.
I
proventi dei riscatti seguirono due vie.
La prima fu quella di investire in modo massiccio
nell’edilizia:
con i
soldi gli ’ndranghetisti acquistarono autocarri, camion, ruspe, betoniere, pale
meccaniche, crearono imprese per poter partecipare ai subappalti pubblici,
piccoli o grandi che fossero, a cominciare dai lavori per la costruzione del
quinto centro siderurgico a Gioia Tauro.
La seconda fu quella di investire parte dei
soldi ricavati dai riscatti per acquistare droga, alimentando in tal modo un
colossale traffico che vide le ’ndrine calabresi muoversi con sempre maggiore
capacità ed efficienza in tutto lo scacchiere nazionale e internazionale.
Nel
frattempo accadeva che imprese mafiose, o a capitale mafioso, entrassero nel
mercato legale agendo come fossero imprese legali.
In questo caso le mafie in alcune realtà,
comprese quelle del nord d’Italia, cominciarono a sostituire via via gli
operatori economici, entrarono nelle società finanziarie, comparteciparono o
addirittura diedero vita ad aziende formalmente pulite, acquistarono immobili
in notevole quantità al sud come al nord, spesso anche di pregio.
La
mafia, e poi via via la ’ndrangheta e la camorra, fuoriuscivano così dai loro
antichi territori d’origine e di insediamento e ne occupavano di nuovi.
Esse seppero volgere a proprio vantaggio
l’imponente fenomeno sociale che portò in tutta Italia uno sviluppo impetuoso,
e spesso incontrollabile, delle città.
Lo
sviluppo oramai si spostava nei centri abitati.
In Sicilia questo processo trovò una mafia che
era ben acquartierata in molte zone cittadine, anche se per molti decenni era
stata sottostimata, anzi si può arrivare a dire oscurata dal peso sociale e
politico della mafia del latifondo.
Cosa
nostra era da antica data collocata entro le borgate periferiche. Nel giro di pochi anni il centro e le
zone immediatamente adiacenti sarebbero stati travolti da una speculazione
edilizia tanto violenta e distruttiva da meritarsi la definizione di ‘sacco di
Palermo’.
Quegli anni sono passati alla storia con
questa definizione, che coglie a pieno quanto era successo.
I nomi di Lima, Ciancimino, Gioia, del costruttore
Francesco Vassallo sono indissolubilmente legati a quella stagione di
speculazione edilizia.
Cosa
nostra, amministrazione pubblica e costruttori sembravano tutt’uno.
A ciò
si devono aggiungere i consistenti crediti senza garanzie erogati dalle banche,
che giocarono un ruolo di assoluto primo piano.
Senza
i finanziamenti delle banche molti costruttori, compresi quelli mafiosi, non
avrebbero potuto diventare potenti e ricchi.
Fu
all’opera e fu molto attivo una sorta di modello criminale che avrebbe fatto
scuola e che venne seguito anche da ’ndrangheta e camorra, le quali compresero
l’importanza delle relazioni esterne alle mafie, soprattutto i collegamenti con
il mondo della politica.
Fu sicuramente il periodo d’oro della grande,
sfrenata, spregiudicata speculazione edilizia che impastò cemento:
professionisti
vari – ingegneri, architetti, avvocati, notai e altri ancora – mafie locali e
uomini politici d’assalto che facevano affari utilizzando le leve pubbliche.
Lo
sviluppo dell’edilizia non riguardava solo Palermo o la Sicilia.
In tutte le regioni dove erano presenti
famiglie mafiose si verificarono fenomeni analoghi, seppure con intensità
diversa, e comunque era un aspetto particolare di un fenomeno più generale che
fu chiamato miracolo economico italiano.
Il
diffuso e intenso processo di urbanizzazione portò al ridimensionamento delle
campagne che videro ridotto il loro peso sociale e il loro peso politico;
nel
breve volgere di pochi anni si spopolarono.
Cosa
nostra, però, non abbandonò le campagne, né le abbandonò la ’ndrangheta.
Negli
anni del boom economico, caratterizzati da profondi mutamenti nei mercati
criminali e illegali, si aprirono conflitti interni alle varie organizzazioni
ed esplosero guerre sanguinosissime nella mafia, nella ’ndrangheta e nella
camorra.
Era
una ristrutturazione armata del potere interno alle singole famiglie mafiose.
Un lago di sangue fu versato per determinare
nuovi equilibri e nuovi assetti di comando.
Sangue
mafioso, ma anche sangue di chi s’era opposto alla mafia o di chi con la mafia
non aveva nulla da spartire.
Un
lungo elenco, dove è possibile imbattersi in magistrati, carabinieri,
poliziotti, uomini politici e delle istituzioni, giornalisti, commercianti,
uomini e donne semplici, persino bambini.
Il
periodo più cruento si concluse nei primi anni Novanta con le stragi di Capaci
e di Via d’Amelio in Sicilia e con quelle di Roma, Firenze e Milano.
Le
mafie non solo si erano insediate nelle città, ma avevano valicato i confini
regionali e cominciavano a trovare punti d’appoggio in tutte le regioni del
centro e del nord Italia.
Durante
gli anni del boom economico, infatti, masse imponenti di meridionali emigrarono
nelle regioni del centro e del nord del paese.
Il
triangolo industriale del Piemonte, della Lombardia e della Liguria funzionò
come un gigantesco polo d’attrazione.
Insieme
ai lavoratori meridionali erano arrivati molti mafiosi, sia perché anche loro
in quel periodo avevano bisogno di trovare lavoro e sia perché per molti era
meglio tentare l’avventura al nord che tirare a campare in paese senza avere
alcuna prospettiva di poter crescere come criminale perché lì c’era già chi
comandava e non era facile scalzarlo, a meno che non si volesse scatenare una
guerra sanguinosa e dagli esiti incerti.
Il
territorio mafioso si prolungò, dal sud arrivò al centro-nord e interessò non
solo luoghi fisici, ma anche ‘immateriali’ come quelli legati al mondo
economico, finanziario e bancario.
Al
nord era necessario attrezzarsi per assicurare reti di distribuzione degli
stupefacenti e avere la sicurezza che il denaro potesse essere riciclato senza
che ci fosse, per quanto possibile, l’intervento degli inquirenti.
Il
riciclaggio aveva fruttato parecchio.
I dati
sui beni confiscati ai mafiosi danno un quadro significativo delle proprietà
immobiliari e aziendali di cui si erano impossessati.
I dati
ufficiali sono solo una parte dei possedimenti effettivi perché numerosi sono i
beni, in numero imprecisato e difficilmente calcolabile, che sono ancora in
mano mafiosa e che la magistratura al momento non è stata in grado di
individuare e confiscare.
Come è possibile osservare, i dati riguardano
tutte le regioni italiane, a conferma del fatto che la presenza mafiosa è
estesa a tutta l’Italia.
Con il
passare del tempo l’insediamento al nord, pur avendo inizialmente la stessa
matrice, avrebbe messo in evidenza differenze sostanziali tra le diverse
organizzazioni.
Gli
‘ndranghetisti, contrariamente agli altri mafiosi, mostravano la tendenza a
insediarsi stabilmente e per questo spostavano pezzi della famiglia con un
progetto migratorio di lunga durata, anzi spesso permanente.
La
tendenza, a un certo punto, si trasformò in una vera e propria scelta o,
meglio, in una tecnica di penetrazione.
Questa
è una delle ragioni che hanno permesso alla ’ndrangheta di diventare col tempo
l’organizzazione territorialmente più ramificata al centro-nord e all’estero.
L’altra ragione risiede nella struttura
familiare della ’ndrangheta.
Mercati
per valore di beni contraffatti.
Comuni
sciolti per infiltrazione mafiosa.
LE
MAFIE NELLE CAMPAGNE.
La
presenza nelle campagne delle mafie non rispondeva solo all’esigenza di
mantenere vivo il rapporto con il proprio passato, ma anche a quella di non
perdere le opportunità di guadagno fornite dalle moderne convenienze
economiche.
Infatti
alcuni settori delle nostre campagne, come quelle dove ci sono coltivazioni
fiorenti, rimangono ancora sotto il tallone del controllo mafioso, che continua
a esercitare la sua intermediazione.
Si è
parlato molto poco dell’accumulazione mafiosa che avviene nell’agricoltura e si
pensa, sbagliando, che i soldi che si ricavano sono inessenziali nella
formazione complessiva del capitale mafioso e della sua ricca economia.
L’imponenza del traffico della droga e i suoi
enormi guadagni hanno abbagliato gli analisti economici che non hanno saputo
guardare più a fondo, scavando in una realtà complessa, varia e cangiante.
Per esempio, nelle campagne calabresi ci sono
molte truffe che interessano i settori dell’agrumicoltura e dell’olivicoltura.
Sono
truffe ingegnose che sono presenti in modo massiccio anche in Campania, Sicilia
e altrove.
Per
portarle a termine c’è stato bisogno di fare ricorso a professionisti del
crimine che avevano preparazione, perfetta conoscenza dei meccanismi
comunitari, adeguate complicità nella regione, a livello nazionale ed europeo.
Si prenda l’esempio dell’olivicoltura
calabrese: questa è uno di quei settori dove si sono prodotti particolari
azioni di monopolio, dal momento che i frantoi si sono concentrati, nel corso
del tempo, in poche mani perché gli antichi conduttori hanno forzatamente
abbandonato il settore e si sono occupati d’altro.
Contrariamente
a quanto si crede, proprio nelle campagne meridionali è in attività una
criminalità mafiosa di tipo professionale che non tralascia né i vecchi né i
nuovi settori del mondo agricolo.
Il
controllo del territorio si manifesta anche così.
Negli
ultimi anni in Sicilia la mafia è particolarmente attiva nella filiera del
vino, che ha avuto uno sviluppo davvero sorprendente ed eccezionale.
LA
STRUTTURA FAMILIARE DELLA ’NDRANGHETA.
La
struttura familiare della ’ndrangheta poggia in gran parte sulla famiglia
naturale del capobastone da cui prende il nome.
Per
designare una famiglia mafiosa in Sicilia si usa il nome del comune o del
quartiere, in Calabria, invece, non a caso si fa riferimento al cognome del
capobastone, seguito dal comune su cui signoreggia.
Il
cuore della ’ndrina è costituito dai parenti più stretti del capobastone:
figli, fratelli, nipoti, zii, cugini.
È opinione comune che tutti costoro facciano
parte integrante della ’ndrina, ma tale opinione non è condivisibile,
altrimenti il numero complessivo dei mafiosi sarebbe molto più elevato di
quello ufficialmente riconosciuto.
Di
solito la famiglia di sangue del capobastone si allarga facendo ricorso ai
matrimoni incrociati delle donne delle ’ndrine - figlie, sorelle, cugine,
nipoti - con uomini d’onore che fanno parte di altre cosche.
Questa
modalità porta a rafforzare la cosca principale e determina un complesso
mosaico di parentele, caratterizzato da un intricato intreccio familiare;
questo è tanto più solido e visibile nei medi e nei piccoli comuni, dove è
avvenuto un frequente ricambio generazionale che ha portato all’aggregazione di
nuove famiglie che si sono unite e saldate con vincoli familiari al ceppo
originario.
Le
parentele mafiose sono così estese ed hanno un peso notevole, anche sul piano
numerico, da determinare un condizionamento sull’intera comunità, un ossessivo
e opprimente controllo del territorio e delle principali attività economiche,
nonché un asfissiante tentativo di condizionare la politica.
Molti
erano convinti che una struttura organizzativa basata sui rapporti familiari
fosse troppo elementare e rudimentale, niente affatto funzionale a una moderna
organizzazione mafiosa, oppure che fosse un residuo folklorico di una lontana
storia che non voleva decidersi a passare.
Un tale giudizio s’è rivelato errato come ha
dimostrato la vicenda dei collaboratori di giustizia, le cui dichiarazioni
hanno colpito mafia, camorra e Sacra corona unita (la mafia pugliese), ma non
certo la ’ndrangheta che è stata protetta proprio dalla struttura familiare,
che inibiva a un collaboratore di poter parlare dei suoi stretti familiari
indicando costoro come mafiosi e autori di reati efferati.
Solo
negli ultimi mesi del 2010 a Reggio Calabria pare si sia cominciato a invertire
questa tendenza perché sono comparsi alcuni collaboratori di giustizia, anche
se è presto per dire se sia un’avvisaglia d’un sommovimento nell’arcipelago
‘ndranghetista, oppure se si tratti solo di episodi limitati e circoscritti.
L’espansione
territoriale nazionale e internazionale di questi ultimi decenni conferma la
bontà delle scelte organizzative e mostra come la ’ndrangheta sia riuscita,
proprio con il meccanismo delle colonie familiari, ad assicurarsi insediamenti
stabili in Italia e in paesi stranieri molto distanti dai comuni calabresi dai
quali era originariamente partita.
LE
MAFIE DOPO LA FINE DELLA GUERRA FREDDA.
Nella
fase del trapasso da un millennio all’altro, l’Italia s’è scoperta un paese di
destinazione di flussi migratori di persone provenienti da diverse parti del
mondo.
Nel
nostro paese ci sono due porte spalancate – una a sud e una a nord, la prima
marittima e la seconda terrestre – ed esse sono state ripetutamente
attraversate.
Sono tanti coloro che sono venuti in Italia in
cerca di lavoro, di un lavoro qualsiasi che consentisse di poter sopravvivere;
altri sono scappati da paesi in guerra.
Il
Novecento ha consegnato al nuovo millennio la riemersione del fenomeno della
riduzione in schiavitù di un numero enorme, ancorché difficilmente
quantificabile, di uomini e di donne, di fanciulle e di bambine, quest’ultime
costrette con la violenza a prostituirsi nelle strade delle nostre città.
Ci
piaccia o no, gli schiavi sono tra di noi, vivono in mezzo a noi, popolano le
nostre città e le nostre campagne.
Non li chiamiamo schiavi, ma lo sono; usiamo
altre parole per indicarli – prostitute, accattoni, lavavetri, stagionali – ma
la sostanza non cambia. Sono forme nuove di schiavitù che a volte non si sa
come definire.
Quando si parla di sesso a pagamento, per esempio, si è soliti adoperare un
termine, quello di prostituzione, che è vecchio come è vecchio l’uomo, che è
inadeguato e ambiguo perché copre una molteplicità di comportamenti.
Le donne che stanno in strada o quelle
rinchiuse in appartamenti non sempre hanno fatto quel mestiere per libera
scelta.
Sono
schiave, ma si continua a chiamarle prostitute.
Negli
ultimi due decenni si sono introdotti mutamenti rilevanti, anzi si può dire
epocali.
Il
crollo degli stati che facevano da corona all’Urss e la frantumazione di quel
blocco ha creato un enorme mercato criminale che per molti anni è rimasto
pressoché fuori dal controllo delle autorità statali locali.
Uno
degli effetti prodotti è stato il mercato delle armi.
Nessuno
si è preoccupato di controllare dove potessero finire le armi, comprese quelle
nucleari, che erano nei depositi dell’Urss e delle altre nazioni con essa
alleate.
Armi
di tale provenienza hanno fatto il giro del mondo e sono state trovate nei
posti più disparati.
In
questo periodo la ’ndrangheta cresceva e, tra le altre cose, aveva l’abitudine
di acquistare armi oltre che droga.
A
volte si sono ritrovati depositi di armi nella disponibilità della ’ndrangheta
in quantità notevoli e apparentemente senza una ragione specifica o immediata,
dal momento che non ci sono conflitti armati tra le ’ndrine né, a quanto è
possibile comprendere, le dinamiche interne porteranno a conflitti armati.
Infatti, neanche dopo la strage di Duisburg,
in Germania – che ha visto acuirsi la faida di San Luca – ci sono state
ritorsioni di tipo militare.
Era stata una faida sanguinaria originata il
giorno di carnevale del 1991, quando un gruppo di ragazzi dei Nirta e degli
Strangio lanciarono uova contro un circolo ricreativo gestito da Domenico Pelle
detto Gambazza.
Dallo
scherzo si arrivò alla tragedia perché quel giorno persero la vita due ragazzi
di 19 e di 20 anni.
La faida ebbe fasi alterne e diversi morti; un
momento cruciale fu la morte di Maria Strangio, uccisa per sbaglio la notte di
Natale del 2006 al posto del marito Giovanni Nirta, il vero obiettivo
dell’agguato.
Il 15
agosto del 2007, l’atto più devastante:
6
persone trucidate nella lontana Duisburg.
Eppure,
nonostante questa catena di morti ammazzati, nel giro di poche settimane s’è
fatta la pace tra le ’ndrine belligeranti.
Non è
chiaro quali siano stati i termini dell’accordo, ma il fatto certo è che la
pace ancora non è stata violata.
Tra
l’altro, le indagini dell’estate 2010 che hanno portato all’arresto di oltre
300 uomini di ’ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria, hanno mostrato come sia
stato deciso di dare vita a un vertice stabile della ’ndrangheta, a un organo
collegiale, definito ‘Provincia’ o anche ‘Crimine’, in grado di dirimere i
contrasti e prevenire conflitti armati.
Allora
perché la ’ndrangheta ha depositi di armi di notevoli dimensioni?
È
probabile che il possesso delle armi sia finalizzato ad altri scopi. Per cercare di comprendere quali
siano occorre dare uno sguardo al proscenio internazionale, tenendo conto che
anche gli stupefacenti provengono, oppure attraversano, zone o paesi in guerra.
La
droga è una merce particolare che si compra in contanti e, a volte, è
reperibile nei crocevia più delicati.
Una
parte di essa arriva dall’Afghanistan, in quantità più rilevante rispetto al
periodo precedente all’abbattimento del regime talebano; un’altra parte arriva
da alcuni paesi del Medio Oriente o da paesi ancora più lontani come quelli
latinoamericani, a cominciare dalla Colombia.
In questi luoghi non è raro che guerriglieri o
terroristi controllino fette consistenti del mercato di droga.
La
storia di questi paesi ha mostrato come il possesso della droga sia funzionale
al controllo di una merce di scambio molto ambita e richiesta, in quanto serve
per ottenere armi.
Ci sono infatti mercanti di droga che la
cedono in cambio di soldi, mentre altri mercanti cedono droga in cambio di armi
e di esplosivi.
Le
transazioni avvengono un po’ dappertutto, all’estero come in Italia.
In
territorio italiano c’è oramai un affollamento di mafie.
A
quelle nostrane si sono affiancate nell’ultimo decennio anche mafie straniere
di varia provenienza, alcune oramai divenute stanziali, altre invece vanno e
vengono; queste ultime sono solo di passaggio.
Produzione
e traffici di droga.
Il
giro d'affari della 'ndrangheta.
Nazionalità
dei trafficanti di eroina arrestati in Italia.
MAFIE
CHE VENGONO E VANNO, MAFIE CHE RESTANO.
Negli
ultimi due decenni il mondo della criminalità italiana, già particolarmente
ricco e vivace, s’è arricchito di presenze e di figure nuove.
Ai mafiosi italiani, incontrastati dominatori
dei mercati illegali e criminali del nostro paese, abituati a valicare i
confini nazionali per muoversi in paesi stranieri, si sono aggiunti vari
soggetti provenienti da ogni parte del mondo.
Alcuni
di questi vanno e vengono dal nostro paese, altri oramai vi si sono impiantati
stabilmente e si può dire che facciano parte del panorama criminale nostrano.
Accanto
alle mafie italiane ci sono le mafie straniere che agiscono nella tratta degli
esseri umani e nel traffico di stupefacenti.
Alcune
sono stanziali, altre sono di passaggio.
La
globalizzazione è anche questo, e genera di continuo effetti non desiderati nel
cortile di casa.
Ci
sono gruppi criminali o mafiosi che provengono dall’Albania, dalla Cina e dalla
Nigeria, i quali si sono stabilmente insediati in alcune regioni del nostro
paese, in prevalenza nelle regioni del centro e del nord, meno nel Mezzogiorno
d’Italia e meno ancora in Sicilia, Calabria e Campania.
Alcuni
sostengono che le difficoltà economiche esistenti nelle regioni meridionali
abbiano sconsigliato una loro presenza significativa, altri sono convinti che
ciò sia dipeso dalla presenza mafiosa locale che ha impedito l’occupazione di
un territorio già ampiamente presidiato.
L’elemento
che le caratterizza è la loro stanzialità.
Ciò
vuol dire che, oltre alle tradizionali mafie italiane, si sono stabilmente
insediate alcune mafie di origine straniera e provenienti da varie parti del
mondo.
In
Italia sono attive anche altre mafie o raggruppamenti criminali che hanno
caratteristiche diverse, prima fra tutte quella di non avere in Italia degli
insediamenti permanenti e stabili.
Questi
raggruppamenti non sono però tutti uguali tra di loro.
Alcuni
di essi, come gli algerini, i marocchini, i tunisini sono ben presenti nello
spaccio di strada dell’eroina e hanno una posizione servente rispetto ad altri
soggetti criminali più potenti e più strutturati.
Sono
l’ultimo anello, il più debole, quello che viene a diretto contatto con il
tossicodipendente.
Ultimamente
si sono aggiunti gruppi di criminali slavi che agiscono in vari settori
illegali.
Gli
esponenti della mafia turca e di quella colombiana sono personaggi di diversa
caratura criminale, hanno collegamenti diretti con la madrepatria e in Italia
vengono - oramai da molti decenni - solo per vendere droga, per lo più eroina i
primi, cocaina i secondi.
Infine, ci sono i rappresentanti della mafia
russa, che sembrano più interessati a riciclare il denaro sporco frutto dei
crimini commessi in Russia.
Gli
esponenti di queste tre mafie - turca, colombiana e russa - almeno per il
momento non sembrano essere intenzionati a stabilizzarsi in Italia.
Sono
rappresentanti mafiosi di passaggio, sono in transito, sono pochi e si fermano
il tempo necessario a concludere l’affare, poi rientrano nel loro paese.
I turchi negli ultimi anni si sono inseriti
nel traffico degli esseri umani, ma non in quello della tratta, che presuppone
una gestione delle donne ridotte in schiavitù in territorio italiano, creando
proprie strutture.
Nel
nostro paese ci sono organizzazioni criminali e mafiose simili le une alle
altre e allo stesso tempo molto diverse le une dalle altre.
Anche loro hanno contribuito - e molto - ad
alimentare nel corso del tempo i vari mercati criminali.
LA
’NDRANGHETA È LA MAFIA PIÙ FORTE.
La
’ndrangheta, con i collegamenti transnazionali intessuti nel corso dei decenni
passati, ha funzionato come un’enorme calamita, attirando con la sua
affidabilità criminale sia droga, sia armi, sia esplosivi.
È probabile che abbia scambiato droga con armi
e viceversa, a seconda delle convenienze del momento.
Quello
delle armi è il mercato più esclusivo che ci sia perché coinvolge molti
interessi sensibili:
quelli
degli stati belligeranti, quelli degli stati di transito delle merci illegali,
quelli dei servizi segreti di più paesi, quelli dei terroristi o dei
guerriglieri.
La storia di questi ultimi cinquant’anni ci
dice inoltre che è più facile intercettare un carico di droga che un carico di
armi.
Oggi
il crimine organizzato italiano è dominato dalla ’ndrangheta che è la ‘regina’
degli stupefacenti che si muovono in Europa, ha gli insediamenti più stabili e
di più antica data in Italia e all’estero, ha forti collegamenti con il mondo
della politica calabrese e nazionale, ha intrecci equivoci con la borghesia
mafiosa, con pezzi e segmenti dei servizi segreti e della massoneria deviata,
ha rapporti di lavoro con criminali stranieri che operano nel nostro paese.
È
forte, non c’è dubbio.
Finalmente,
molti che prima l’avevano sottovalutata cominciano oggi a rendersi conto della
pericolosità della ’ndrangheta e della necessità di comprendere meglio le
ragioni del suo radicamento territoriale e della forza politica per poterla
adeguatamente contrastare e battere definitivamente perché tutte le mafie
possono essere sconfitte, a condizione di comprenderne la natura e di avere la
volontà di chiudere una volta per tutte questo lungo capitolo della storia
italiana.
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