Le armi decideranno il nostro futuro.
Le armi decideranno il nostro futuro.
Il
futuro non è scritto,
ma
tanto non lo
scriveremo
noi.
Atriannaeditrice.it
- Pierluigi Fagan – (15/02/2024) – ci dice:
A giugno
ci saranno le men che inutili elezioni europee.
Due anni fa e tra due anni, ci sono state e ci
saranno altrettanto inutili elezioni nazionali.
In realtà, l’assetto portante del nostro
futuro sarà deciso dal popolo statunitense, il prossimo novembre.
Certo,
ormai sappiamo tutti che quella che chiamiamo “democrazia” tale non è ammesso
lo sia mai stata.
Sappiamo
dell’economia, la finanza, le élite, costellazioni di poteri primi e secondi
che avvolgono lo spazio politico che è ai minimi termini per quantità e
qualità, in teoria ed in pratica.
Il
cinquantennio neoliberale iniziato negli anni ’70 è stato una “controrivoluzione
antidemocratica molto complessa e ben strutturata a molti livelli.
Del resto, è insita nella teoria liberale più
generale la preferenza ordinativa dell’economico sul politico.
Negli
anni Sessanta e primi Settanta, a partire di nuovo dagli Stati Uniti, i vertici
del sistema si preoccupò ed allarmò molto perché conscio dei decenni di
transizione che il sistema occidentale aveva davanti e degli andamenti del
mondo, non si poteva certo affrontarli con forme di politica democratica che
già disordinavano culture, piazze, università, condizioni etniche, diritti
politici oltreché civili, mondo del lavoro e quant’altro.
Ne
nacque, negli USA, la controrivoluzione neoliberale che molti osservano per la
parte economica e finanziaria, dimenticandosi l’origine politica, culturale più
ampia, geopolitica poiché alla fine chi decide e chi ha potere di gestire un
sistema molto più complesso che non solo banche, monete, transazioni e
commerci, il
potere di chi fa le regole, nazionali e soprattutto internazionali, le attua,
punisce chi le trasgredisce, chi impone e gestisce il regolamento di gioco.
Così
oggi siamo arrivati, qui in Italia ma ormai anche qui in Europa, francesi e
tedeschi inclusi, a non poter decidere alcunché di strategico e rilevante
poiché è tutto
sussunto al vertice di quel potere e quel potere è a Washington.
Le
elezioni americane, per gli americani, hanno notoriamente valenza interna,
quasi nessuno si preoccupa davvero dei riflessi che il voto avrà come sistema
occidentale, giustamente a loro interessa solo la loro porzione di realtà.
Come
saprete, al momento e salvo terremoti che però sembrano improbabili, andremo al
surreale scontro tra due anziani pieni di difetti anche personali, psico-fisici,
con sotto due porzioni di élite (gli shareholders) ed appresso altre porzioni
di élite interne ed altre esterne, gli “stakeholders”, in un Paese di sempre
più densa ignoranza politica e culturale, con problemi strutturali economici,
etnici e sociali, dilaniato da questioni
che non vogliono discutere e sublimano in una rissa permanente di valori civili
(di cui molte vertono sulla sessualità) ed ideali di natura astratta con fughe “tecno
futuriste” e messianico religiose.
Per
quanto ci riguarda, la prospettiva di altri quattro anni di Biden, etichetta
con sotto un sistema assai complesso che i più non conoscono affatto e si
guardano bene dall’indagare, portano ad una precisa postura strategica per la
quale noi europei saremo sempre più la dipendenza euroasiatica del loro impero
informale.
Impero
informale che ha strategia chiara:
attacco
continuato e sfibrante alla Russia, indiretto ed altrettanto costante alla
Cina, conflitti regionali sparsi, riarmo pesante generalizzato, alzare il muro
occidentale contro la giungla globale che sempre più ci accerchia ed
accerchierà, pompare ricchezza da qui a lì poiché il cuore ha la sua preminenza
in ogni sistema organico.
“Stoltenberg”
ogni giorno ci dice che il problema non è più solo l’Ucraina ma dobbiamo
prepararci al peggio più generale, russo ma poi anche asiatico.
In
fondo, che sia stile Trump o stile Biden, con le buone o le cattive, gli
europei debbono comprare armi e tecnologie dagli USA e prepararsi a gestire
fronti di guerre che decideranno a Washington, minacciate o agite si vedrà.
Ieri
gli americani hanno cominciato il teatrino della “grande minaccia incombente”
tipo “Guerra dei Mondi” con tanto di convocazione della c.d. ‘Gang of Eight’”
(quella con Lancillotto e Re Artù, mitologia barbarico-anglosassone, ognuno ha
la sua), gli otto leader del Congresso che ricevono informazioni di
intelligence riservate.
Un
repubblicano poi ha spifferato che probabilmente si tratta della minaccia di
una nuova arma super-spaziale russa.
Vero o
falso che sia, l’intento è anche quello di cercare di de posizionare Trump.
La visione Trump di USA e mondo non prevede il
faticoso accorpamento e gestione del sistema occidentale con Europa ed altri in
forme ordinate e compatte e stacca l’interesse per la Russia ritenuta non una
reale minaccia per gli interessi americani profondi (anzi partner petrolifero,
conservatore e possibile zona ibrida verso la Cina), per dedicarsi al vero competitore
strategico, la Cina.
Tuttavia,
questa stilizzata descrizione va presa con le molle, non è così semplice.
Nei
fatti, la strategia americana per i prossimi trenta anni è più o meno unica,
varia l’interpretazione, più formalizzata quella “DEM”, meno formalizzata e
forse più flessibile quella “REP”.
Ma non
è detto che quella meno formalizzata sia più benevola, anzi tutt’altro, sarà
più brusca su certe cose e forse meno su altre, soprattutto non sarà sistemica,
sarà “one-to-one”.
Oltre
ai riflessi pratico politici, geopolitici, economici e finanziari, le due parti
proiettano due diverse egemonie sull’Europa, quella progressista neoliberale e
quella conservatrice con strascichi di cinquanta sfumature di destra.
Entrambe
però, con programmi convergenti nei fatti di anti-democrazia ben temperata.
Sull’impredicibilità
della gestione strategica trumpiana ricordo che l’ultima volta ha passato la
campagna elettorale a promettere di tagliare le gambe all’Arabia Saudita, poi,
eletto, ha realizzato gli “Accordi di Abramo” che sono il preludio alla “strategia
Biden della Via del Cotone” che è il sottostante la ripresa del conflitto
israelo-palestinese-iraniano di rimbalzo.
Quanto agli effetti di un ancora più pesante
ostracismo economico e finanziario verso la Cina (primo partner commerciale
dell’Europa) potrebbe liberare a cascata effetti di ulteriore contrazione delle
nostre sempre più depresse ricchezze nazionali e relativi stili di vita.
Ma potremo litigare di famiglia, aborti, gay,
neri e migranti, che clima che fa, tradizioni e neo-autoritarismo per cause di
forza maggiore ovvero gestire il disordine che ha tutte altre cause.
Guardo
con triste quasi-rassegnazione al fatto che stiamo perdendo le ultime briciole
di dignità politica, nessuno pare si indigna per la totale perdita di
autonomia, di potersi legittimamente darsi sa sé le proprie leggi di convivenza
come solo si può fare in una vera democrazia.
Non solo nessuno pare se ne preoccupi, ma dubito che
qualcuno sappia anche solo accennare una risposta al fatidico “che fare?”, per
eccesso di complessità del mondo e deficienza di complessità nel pensiero che
lo immagina e rappresenta.
Capitalismo,
neoliberismo, europeismo, occidentalismo, tecno-autoritarismo, ormai siamo
invasi e pervasi di potere eteronomo.
Nessuno
pare ci si raccapezza più, a partire dal mondo della teoria. Abbondano le
analisi settoriali, i critici, c’è qualche utopista, ma l’intero sfugge in
diagnosi e soprattutto prognosi.
Tifiamo
Trump, Biden, i cinesi, Putin, socialismo, statalismo, euro asiatismo,
comunitarismo, neo-umanesimo, il non c’è più destra né sinistra, siamo sionisti
o antisionisti, rimbambiti dall’aggressione tecnologica, destinati a spendere
in armi e meno in servizi sociali, in Paesi con sempre meno chance produttive,
con paurose falle demografiche, sempre più anziani che forse non sono mai stati
davvero democratici, ma ormai sono destinati a perdere ogni residua possibilità
di decidere di sé, per sé se non che badante scegliersi, ammesso la si possa
scegliere.
C’è
chi continua a discutere cosa decidere, ma non si rende conto che tanto non può
decidere nulla.
Ammettere
con coscienza realista che siamo messi davvero male sarebbe già qualcosa,
discuterne con concreta coscienza comune sarebbe il minimo da farsi, ma
conformisti o critici, dobbiamo tutti vivere il giorno per giorno e impotenza
intellettiva e l’ansia del nostro personale essere nel mondo, preclude ogni
lucidità.
Forse le forme stesse della nostra conoscenza, a
spicchi, intrise di teorie nate in altri tempi, ce lo impedisce, ma si fa
fatica ad ammetterlo.
Il
problema comune è che non possiamo decidere nulla, “non è cosa decidere”.
La
speranza è l’ultima a morire, ma se potesse, almeno lei dovrebbe decidere di
andare volontariamente in terapia intensiva.
Davos:
260
paperoni chiedono
una
tassa sulle
grandi ricchezze.
Questione
di giustizia, garanzia per il futuro.
Adista.it
- Giampaolo Petrucci – (17/01/2024) – ci dice:
260
milionari e miliardari del mondo scrivono – ancora una volta – al “World
Economic Forum” – per chiedere ai leader politici riuniti a Davos di una tassa
sui grandi patrimoni:
«Saremmo
orgogliosi di pagare di più», si legge nella lettera pubblicata sul sito della
campagna” Proud To Pay More” (proudtopaymore.org).
Da
diversi anni i “paperoni” che sostengono una tassazione dei grandi patrimoni
ritengono che le principali economie del pianeta debbano «adottare misure per affrontare il
drammatico aumento della disuguaglianza economica, che genera conseguenze
catastrofiche per la società intera».
I
super-ricchi del pianeta non intendono “darsi la zappa sui piedi” per qualche
ipotetica ragione molare o ideologica.
Semplicemente
riconoscono il loro ruolo centrale di attori e di beneficiari dei proventi
dell’economia globale, oggi seriamente minacciata da nuove povertà e
disuguaglianze in tutto il mondo:
«Siamo
le persone che investono in startup, modellano i mercati azionari, fanno
crescere le imprese e promuovono una crescita economica sostenibile.
Siamo
anche le persone che beneficiano maggiormente dello status quo. Ma la
disuguaglianza ha raggiunto un punto critico e il suo costo per la nostra
stabilità economica, sociale ed ecologica è grave e cresce ogni giorno».
Occorre
dunque agire rapidamente, sembrano affermare i super-ricchi, prima che il banco
salti.
Una
tassa sui grandi patrimoni, spiegano ancora, «non modificherà radicalmente il
nostro tenore di vita, né priverà i nostri figli, né danneggerà la crescita
economica delle nostre nazioni».
Ma
rappresenterà una sorta di “investimento” che «trasformerà la ricchezza privata
estrema e improduttiva in un investimento per il nostro futuro democratico
comune».
Quello
che si invoca non è uno slancio di filantropia e di beneficenza, aggiungono
ancora i paperoni, ma un intervento normativo strutturale. «L’azione individuale non può
correggere l’attuale colossale squilibrio. Abbiamo bisogno che i nostri governi
e i nostri leader prendano in mano la situazione. E così ci rivolgiamo
nuovamente a voi con la richiesta urgente di agire, unilateralmente a livello
nazionale ma anche insieme sulla scena internazionale».
Ogni
ritardo su questa strada «rafforza il pericoloso status quo economico», fatto
di povertà, disuguaglianze, instabilità sociale e crisi climatica, minando
dunque l’essenza stessa della democrazia nelle nostre società e il futuro delle
future generazioni.
Se i nostri Stati si decideranno finalmente a
tassarci di più, incalzano i 260 firmatari della lettera, «saremmo orgogliosi
di leader eletti che costruiscono futuri migliori».
In
qualità di membri più ricchi della società, aggiungono, «saremmo orgogliosi» di
«pagare di più per affrontare la disuguaglianza estrema»; «pagare di più per
contribuire a ridurre il costo della vita dei lavoratori»; «pagare di più per
educare meglio la prossima generazione»; «pagare di più per sistemi sanitari
resilienti»; «pagare di più per infrastrutture migliori»; «pagare di più per
una transizione verde».
C’è
anche un problema di giustizia economica.
Con
grande lucidità i paperoni smontano il mito dell’«economia a cascata», secondo
il quale la produzione di ricchezza alla lunga si sarebbe dovuta ripercuotere
su tutto il popolo, anche in assenza di equi sistemi di prelievo fiscale.
E così, mentre le ricchezze di pochi
crescevano, spiegano i super-ricchi, l’economia a cascata «ci ha dato salari
stagnanti, infrastrutture fatiscenti, servizi pubblici inadeguati e ha
destabilizzato l’istituzione stessa della democrazia.
Ha
creato un sistema economico vergognoso, incapace di garantire un futuro più
luminoso e sostenibile.
Queste sfide non potranno che peggiorare se
non si riesce ad affrontare l’estrema disuguaglianza di ricchezza».
«La
vera misura di una società può essere trovata non solo nel modo in cui tratta i
suoi membri più vulnerabili», dichiarano infine i 260 firmatari, «ma in ciò che
chiede ai suoi membri più ricchi.
Il
nostro futuro è caratterizzato dall’orgoglio fiscale o dalla vergogna
economica.
Questa è la scelta.
Vi
chiediamo di compiere questo passo necessario e inevitabile prima che sia
troppo tardi».
La
campagna” Proud To Pay More” è promossa da “Patriotic Millionaires, Patriotic
Millionaires UK”, “Taxmenow”,” Millionaires For Humanity” e “Oxfam”.
All’interno
del “sito proudtopaymore.org”, oltre alla lettera dei super-ricchi e al “form
online” per firmare l’appello, c’è anche la possibilità di scaricare “il
rapporto Proud to Pay More Report”.
Spiega
Oxfam Italia, in una nota di oggi (17 gennaio), che il sondaggio, condotto da “Survation”
per conto di “Patriotic Millionaires”, ha coinvolto oltre «2.300 persone
titolari di patrimoni investibili (escluse le abitazioni) superiori a un
milione di dollari, membri del top-5%».
Il 75% di loro si è detto «favorevole a un
aumento delle imposte sulla ricchezza per affrontare la crisi del caro-vita e
migliorare i servizi pubblici».
La
stessa percentuale si è dichiarata «favorevole all'introduzione di un'imposta
patrimoniale del 2% sui miliardari, come proposto dall'Osservatorio fiscale
europeo nell'ottobre 2023».
Interessanti
anche un altro paio di dati:
«Il
72% ritiene che la ricchezza estrema contribuisca ad acquistare influenza
politica» e «il 54% ritiene che la ricchezza estrema sia una minaccia per la
democrazia».
Le
Verità Dimenticate di “Paolo
Ferraro”
su “Satanismo e Massoneria”
e
quelle Strane Morti di Militari.
Conoscenzealconfine.it
– (7 Marzo 2024) - Cesare Sacchetti – ci dice:
Esistono
dei luoghi segreti dove in pochi osano addentrarsi.
Sono i
luoghi dove sono presenti i massimi livelli delle massonerie italiane e
internazionali che da lungo tempo tengono tra le loro mani i destini delle
democrazie liberali, le loro creature predilette.
Sono i
luoghi laddove ci sono anche quelle società sataniche che hanno guadagnato un
potere nel secolo scorso come mai lo avevano avuto soprattutto per la
galoppante secolarizzazione, il cavallo di Troia che gli ha permesso di
penetrare praticamente ovunque.
E in
questi luoghi che si è addentrato “Paolo Ferraro”, un nome che probabilmente
alcuni nostri lettori avranno già avuto modo di ascoltare negli anni passati.
“Paolo
Ferraro” è un caso forse unico nel panorama italiano e internazionale di coloro
che non sono sottomessi a questi poteri, e che hanno cercato di portare alla
luce quelle zone oscure e raccapriccianti che “governano l’Italia e il mondo
Occidentale” da molto tempo.
“Ferraro”
era un magistrato della “procura di Roma” e aveva reputazione di essere un
magistrato alquanto serio e impeccabile, e dotato, al tempo stesso, di una
elevata preparazione giuridica.
Un
giorno la sua vita cambia per sempre quando incontra una donna, “Sabrina R”.,
che diventerà la sua compagna e questo evento porta “Ferraro” ad essere
trascinato in un’altra dimensione, che forse prima lui stesso nemmeno
immaginava o quantomeno non pensava certo di trovarsi invischiato, suo
malgrado, in
una storia che vede intrecciarsi potenti sette sataniche e massoniche.
Il
magistrato romano si trasferisce nel 2007 nella città militare della
Cecchignola, a Roma, e da lì inizia la discesa nell’incubo.
Qualcosa
fa scattare dei sospetti in testa a Ferraro che forse c’è qualcosa che non va
nella sua compagna e tantomeno nel condominio dove va a vivere, nel quale tutti
sembrano osservare ogni suo movimento quando entra ed esce dall’appartamento.
Anche il figlio della sua compagna, un bambino
12enne, gli confessa di avere paura di quello che accade in quell’appartamento
quando lui non c’è ed è così che inizia l’indagine di “Ferraro”.
Il
magistrato inizia a registrare quanto avviene nella sua casa quando lui non c’è
e si rende presto conto che nell’appartamento durante le sue assenze entrano
degli estranei che praticano dei riti con la sua compagna, non di rado orge di gruppo.
Non si
tratta di un banale, seppur scabroso, caso di infedeltà ma di molto altro.
Le
intercettazioni audio rivelano che le persone presenti dentro l’appartamento
utilizzano degli strani ordini in codice e ripetono delle cantilene che
sembrano essere utilizzate per impartire degli ordini a coloro che vengono
sottoposti a tali comandi.
“Ferraro”
inizia a chiedere l’aiuto di esperti del settore, tra i quali una psicologa e
un ufficiale di polizia giudiziaria, e scopre che quanto avviene nel suo
appartamento è una “sorta di programmazione del pensiero”, o meglio “un
lavaggio del cervello”, che viene praticato da circoli massonici e satanici da
lungo tempo.
È il MK
Ultra: ossia il Controllo Mentale di Satanismo e Massoneria.
La
storia della “programmazione del pensiero” è più antica di quello che si pensi
e le tecniche di manipolazione di una persona sono utilizzate da molto tempo da
coloro che appartengono a questi ambienti.
Le
pagine più recenti di questa storia sono quelle che si trovano nei documenti
declassificati della “CIA” che rivelano come già dal secondo dopoguerra in poi,
la famigerata agenzia di intelligence stesse conducendo tali esperimenti per
creare degli “schiavi mentali” nell’ambito del noto “programma MK Ultra”.
Le
tecniche di controllo del pensiero passavano attraverso l’inflizione alle vittime di
gravissimi traumi psicologici e violenze fisiche, quali torture, stupri e
somministrazioni di droghe, per poter alterare la psiche della persona e
indurla così ad eseguire tutti i comandi del maestro o del programmatore.
Sono
tecniche note alle varie agenzie di intelligence da molto tempo e si sono
rivelate nel corso dei decenni tremendamente efficaci per costruire degli
schiavi da poter utilizzare in vari ambiti, da quelli della prostituzione alle “missioni
più propriamente politiche quali gli omicidi di personaggi pubblici” che in
qualche modo rappresentavano e rappresentano una minaccia per i vertici di tale
sistema.
Uno
degli esempi più noti è quello dell’assassino di Robert Kennedy, “Sirhan Sirhan”,
che nemmeno ricorda quanto è accaduto e che dopo un’attenta analisi di uno
psichiatria forense della scuola medica di “Harvard”, “Daniel P. Brown”, è risultato non “aver agito di propria volontà e
consapevolezza e non è responsabile per azioni imposte e/o perpetrate da
altri.”
“Daniel
P. Brown” non poteva essere più chiaro nella sua relazione tanto da definire “Sirhan”
come un “candidato manciuriano” dal nome del celebre film che ha avuto due
trasposizioni cinematografiche, la prima con “Frank Sinatra”, legato a sua
volta a potenti personaggi quali “Guy de Rothschild “o “Laurance Rockefeller”,
e la seconda con “Denzel Washington”, entrambi nei panni del “maggiore Bennett
Marco”, militare
americano sottoposto ad un lavaggio del cervello per assecondare l’agenda politica
dei suoi burattinai.
E non
esistono solo gli schiavi “politici” che possono essere attivati a comando, ma
anche quelli sessuali attraverso prostitute o gigolo programmati per sollazzare
i potenti ed estorcere i loro segreti per poi ricattarli.
È una
tremenda macchina di violenza fisica, psicologica e spirituale che è presente
nelle agenzie di intelligence e che si serve di questi metodi per preservare il
loro potere ed eseguire i loro piani.
Le
Sette Sataniche e Massoniche che Controllano lo Stato.
Questo
è il mondo nel quale si ritrova precipitato un giorno il magistrato “Ferraro”
che scopre
di avere al suo fianco una donna programmata per essere una schiava sessuale e che già in passato aveva
frequentato questi ambienti per poter servire questi scopi.
Le sue
conclusioni su quanto avveniva in quella casa sono lucide e sconvolgenti allo
stesso tempo.
” Dall’
ascolto attento emergevano attività già indicate nella conferenza ma, più in
particolare, la possibilità di individuare uso di sostanze, tecniche o
procedure verbali a prima vista inquadrabili come volte al condizionamento dei
soggetti che li ricevevano.
Tutto ciò in un contesto veramente anomalo,
fatto di numerose persone di varie età, che sfruttavano una posizione di
soppesabile assoggettamento della persona che abitava nell’appartamento oggetto
di intercettazione”.
Qualcuno
forse in questi circoli aveva iniziato a studiare le mosse del togato e ha, per
così dire, apparentemente “incoraggiato” la sua frequentazione di questa donna,
forse nell’illusione di poter controllare meglio” Paolo Ferraro”.
Se
questo era il piano originario, costui o costoro devono aver fatto male i loro
calcoli poiché il magistrato invece si insospettisce e inizia a raccogliere
prove su prove di quanto avviene attorno a lui.
Le
registrazioni audio sono tante e dimostrano che ogni volta in quella casa si
consumano riti orgiastici di carattere satanico e allora “Ferraro” inizia ad
indagare sempre più a fondo.
Comprende
che esistono ad alti livelli delle forze armate, delle associazioni massoniche
che producono questi schiavi del pensiero.
E
questo, secondo il magistrato romano, aveva anche dei legami con l’assassinio
di “Melania Rea”, secondo le sentenze uccisa solamente dal marito “Salvatore
Parolisi”, nonostante alcune contraddizioni nelle testimonianze.
“Ferraro”
affermò che nella “caserma di Ascoli Piceno laddove era di stanza “Parolisi” si
praticavano riti del tutto simili, se non ancora più efferati, di quelli che
erano praticati nel suo appartamento alla Cecchignola.
Un altro magistrato, il “Gip Giovanni Cirillo”
della procura di Teramo, sembra convalidare questa ipotesi affermando che la
stessa “Rea” avrebbe potuto essere stata vittima di queste sette.
“Ferraro” va avanti, denuncia e si
mette in moto una potentissima macchina per distruggerlo con ogni mezzo.
Si
prova a farlo passare per pazzo con un” TSO” del tutto illegale e smentito
dalle successive perizie psichiatriche che attestano l’assoluta sanità mentale
del magistrato.
Lo si
sospende nel 2011 dalla magistratura sulla presunzione, falsa, che egli non era
sano di mente, ma in realtà soltanto perché questo giudice era arrivato a
toccare quelle sfere che non potevano essere toccate.
Si
cerca di isolarlo e distruggerlo in ogni modo e “Ferraro” non è riuscito nella
sua purtroppo solitaria impresa di lotta alla massoneria perché troppo solo e
troppo circondato, a nostro avviso, da lupi travestiti da agnelli che fingevano
di essere dalla sua parte e che in realtà erano stati mandati per controllare
le sue mosse, anche dopo che il suo caso esplose a livello nazionale.
Stavolta
i media mainstream non potevano fare finta di nulla e persino agenzie stampa
quali l’ “AGI “o il portavoce per antonomasia dello stato profondo italiano, Il
“Corriere della Sera”, si interessano a lui, considerata probabilmente la
carica troppo importante che” Ferraro” occupa nella Repubblica, in quanto
magistrato della procura di Roma, nota con l’appellativo di “porto delle
nebbie” per la sua solerzia nell’archiviare tutti i casi che riguardano questi
poteri.
Esiste
un’ampia letteratura in merito e forse il caso più clamoroso è l’omicidio
dell’inchiesta sui vertici segreti della massoneria che stava conducendo il “procuratore
di Palmi, “Agostino Cordova”.
A
scrivere la parola fine su quell’indagine fu la moglie di Bruno Vespa, la Gip
Augusta Iannini.
Ogni
qual volta qualcuno nel malato sistema della Repubblica dell’anglosfera nata
nel 1916-48 cerca di guarire tali infezioni e di espellere il male che
contamina le istituzioni, il sistema irrimediabilmente si attiva per
distruggere quella “minaccia”.
La
intera storia repubblicana è purtroppo ricolma di questi solitari eroi quali i
giudici ”Falcone e Borsellino”, “Aldo
Moro” ed “Enrico Mattei”, soltanto per citarne alcuni, uccisi non dalle mafie o dalle BR come racconta la falsa vulgata
liberale ma da quei poteri massonici e atlantisti che sono i veri padroni della
Repubblica voluta dagli angloamericani.
“Ferraro”
si scontrò contro tale muro di gomma e morì due anni addietro, nel gennaio del
2022, quando l’Italia attraversava uno dei periodi più bui della sua storia,
ostaggio, ancora una volta, di quei poteri denunciati dal magistrato stesso e
che hanno fatto di tutto per distruggere la millenaria cultura e storia di
questa nazione così odiata dai poteri massonici per essere la culla del
cristianesimo e del mondo latino.
Adesso
le sue denunce meritano di essere portate nuovamente alla luce anche in virtù
di alcuni recenti episodi di cronaca che riguardano omicidi commessi da
militari, che preda apparentemente di un raptus improvviso, avrebbero ucciso la
madre e la sorella della propria ex compagna, come nel caso di “Cristian Sodano”,
27enne militare della Finanza.
Oppure
per ciò che riguarda un altro caso ancora, come quello di Grosseto, quando fu
trovato lo scorso anno senza vita un militare di 41 anni, sposato con moglie e
figli.
Non si
è ancora capito cosa sia accaduto in questo caso e se la morte sia stata
veramente un suicidio o piuttosto un suicidio soltanto inscenato.
È
possibile che tali casi non siano strettamente legati a quanto dichiarato e
provato da “Paolo Ferraro” sulle sette massoniche presenti nelle forze armate,
ma le sue verità sono ancora lì, in attesa che qualcuno finalmente riesca a
portarle pienamente alla luce e liberare il Paese dalla morsa di questi poteri
oscuri.
(Cesare
Sacchetti)
(lacrunadellago.net/le-verita-dimenticate-di-paolo-ferraro-su-satanismo-e-massoneria-e-quelle-strani-morti-di-militari/)
l
motivo filosofico per cui
l'autodistruzione
nucleare
è
possibile.
Ariannaeditrice.it
- Riccardo Paccosi – (05/03/2024) – Redazione - ci dice:
Come
si spiega il fatto che i leader delle nazioni europee vogliano far precipitare
l'intero continente in una guerra devastante?
Secondo
il sociologo “Emmanuel Todd”, si tratterebbe di una sorta di automatismo
mentale generato dal nichilismo.
Il
totale fallimento dell'“ibrido istituzionale” chiamato “Unione Europea”,
secondo “Todd”, spinge oggi la classe dirigente del continente verso il
suicidio: “simul stabant, simul cadent”.
Questa
tesi finisce per innescare, però, interrogativi specifici per le diverse
nazioni.
Perché,
per esempio, i leader della Gran Bretagna - più di tutti gli altri - sembrano
disposti a farsi nuclearizzare fino a mettere in scena lo spettacolo
dell'ex-premier “Livi Strauss” che, in televisione, evoca il lancio di testate
nucleari fra lo scrosciare degli applausi?
Perché
i paesi scandinavi hanno abbandonato la loro tradizione di politica estera
neutrale, per avventurarsi in una prospettiva guerrafondaia che ne mette a
rischio la stessa esistenza?
Fino a
quando la Germania potrà continuare a mentire a sé stessa facendo finta che la
scelta angloamericana di scatenare la guerra non sia stata prima di tutto
anti-tedesca e di non aver subito, da parte degli "alleati", uno dei
più gravi attacchi terroristici della storia
(North
Stream 2)?
Sia
come sia, siamo nella fase del nichilismo reale, nella quale è stato cancellato
Dio e il cristianesimo, cancellate le “ideologie universaliste “che avevano
temporaneamente sostituito quest'ultimo, cancellata l'idea della centralità
dell'essere umano.
Se
nella coscienza si crea il vuoto, le scelte che gli uomini di potere possono
compiere a livello pratico non sono prevedibili nei termini della razionalità o
del bene comune.
La
presenza del Nulla nella coscienza, può cioè generare la nullificazione nel
mondo materiale;
può far sì che l l'autodistruzione completa,
in altre parole, venga perseguita inconsciamente oppure attraverso eventuali
giustificazioni di efficienza tecnica.
Riguardo
a quest'ultimo aspetto, infatti, sarebbe un errore madornale pensare che, dal
momento che la “Tecnica è divenuta l'epicentro dell'Essere”, allora la
razionalità strumentale e il calcolo economico possano evitare che il Nulla si
materializzi concretamente.
Il
Nulla materiale, infatti, è già oggi palpabile nel momento in cui la
digitalizzazione sussume le relazioni sociali nonché la sessualità, nel momento
in cui essa cancella la memoria storica nonché ogni idea di trascendenza.
I
tanti che, come se avessero conversato al telefono con “Putin” e “Biden”, si
dichiarano categoricamente certi del fatto che la guerra nucleare non
scoppierà, dovrebbero riflettere su queste problematiche e comprendere che non
è il momento di confondere i propri desideri con l'analisi dei processi
storici.
Medio
Oriente: il laboratorio
geopolitico
del nuovo mondo.
Ariannaeditrice.it
- Luigi Tedeschi – (04/03/2024) – ci dice:
Il
tramonto dell’egemonia globale statunitense sancisce la fine del secolo
americano.
Gli USA si trovano dinanzi ad un bivio:
ritirarsi
dall’area o provocare un conflitto di assai più vasta portata.
Il
ritorno della storia nelle vicende geopolitiche mondiali ha emesso una sentenza
inappellabile:
l’egemonia
globale è impossibile.
Il
mondo multipolare avrà per protagonisti gli Stati – Civiltà insediati in vaste
aree continentali costituite dai popoli più diversi, ma unificati da valori
identitari etico – politici comuni.
Un
dopo – Gaza indecifrabile.
Gaza è
l’epicentro di uno scontro che coinvolge l’intero assetto dell’area
mediorientale, quale teatro di un conflitto geopolitico dai riflessi mondiali.
Nel
conflitto che oppone” Israele” ad” Hamas” sono coinvolti anche attori maggiori,
quali gli USA e l’Iran, sostenuto da Cina, Russia e altre potenze minori quali
il Sudafrica.
È in
gioco il predominio sull’intero Medio Oriente.
A Gaza
dunque, è in pieno svolgimento una fase della “Guerra Grande”.
Netanyahu
è determinato a conseguire una vittoria decisiva che comporti, non solo lo
sradicamento di Hamas da Gaza, ma anche la fine della questione palestinese.
Il conflitto di Gaza rappresenta l’epilogo di
un disegno politico di Netanyahu e della destra ultraortodossa israeliana, che
consiste nel rendere impossibile la creazione di uno stato palestinese.
La
strategia di Netanyahu è stata per decenni quella di dividere i palestinesi
della Cisgiordania sotto l’amministrazione della “ANP” e di “Gaza”, in cui il
radicamento di “Hamas” è stato largamente favorito da “Israele”, nel consentire
il trasferimento dei fondi del Qatar ai palestinesi.
Non
sussistendo quindi un organismo legittimo e unitario dei palestinesi, ogni
trattativa sarebbe stata impossibile.
E
pertanto, l’unica soluzione possibile della questione palestinese sarebbe
scaturita dalla progressiva occupazione da parte dei coloni israeliani
dell’intera Cisgiordania, con relativa emigrazione in massa dei palestinesi
stessi.
L’attacco del 7 ottobre ha costituito una
insperata occasione per Netanyahu, la cui leadership era già largamente
screditata e oggetto di aspre contestazioni popolari, con accuse di corruzione
e per progetti di riforma ritenuti antidemocratici, di legittimarsi quale
premier di un governo unitario di emergenza, che ha ricompattato un paese
dilaniato da conflitti interni, in nome della sicurezza nazionale.
Certo
è la fine della guerra comporterà necessariamente anche le dimissioni di
Netanyahu, che è quindi determinato a prorogarla all’infinito, col miraggio di
una vittoria definitiva su “Hamas”.
Questo
obiettivo si sta rivelando tuttavia impossibile.
Nonostante
la guerra di sterminio messa in atto da Israele, con l’uccisione di quasi
30.000 palestinesi, l’occupazione di Gaza non ha distrutto che il 30% delle
potenzialità belliche di Hamas e riguardo ai dati sulle perdite inflitte
all’esercito israeliano vige una assoluta censura.
Aggiungasi
poi che la deportazione dei palestinesi da Gaza è altresì impossibile, data
l’indisponibilità dell’Egitto e degli altri paesi arabi ad accoglierli.
È
assai improbabile una nuova “Nakba”.
Scindere
poi la tragedia della popolazione civile dalla guerra “terroristica” di Hamas è
del tutto infondato.
La popolazione palestinese si identifica del tutto con
la causa di Hamas e dell’Asse della Resistenza.
Ciò
giustificherebbe dunque la guerra di sterminio di Israele?
Il
genocidio in atto a Gaza, unitamente al regime di apartheid imposto ai
palestinesi in Cisgiordania, incideranno profondamente sulle nuove generazioni
palestinesi:
Hamas
assurgerà a simbolo indelebile della lotta per la liberazione della Palestina.
Gaza è
un punto di non ritorno, sia per Israele che per l’Asse della Resistenza.
Quand’anche
si desse luogo ad una totale deportazione dei palestinesi dalla propria terra,
sussisterebbe sempre l’identità nazionale di un popolo senza stato nella
diaspora.
Esattamente
come fu per gli ebrei nei secoli.
Vari
piani di pace si sono succeduti negli anni senza successo.
Il
fallimento degli accordi di Oslo ha comportato la fine della prospettiva dei
due stati.
Si
ipotizzano peraltro inverosimili progetti di governo per Gaza con la
partecipazione degli stati arabi e della Turchia, fantomatiche rivitalizzazioni
dell’”ANP” (quale organismo di rappresentanza dei palestinesi riconosciuto in
sede ONU ma delegittimato dai palestinesi stessi), con l’adesione di “Hamas”.
Tutti
i progetti di pacificazione dell’area sono falliti perché sono stati concepiti
senza il consenso dei palestinesi.
Anzi,
tali accordi avrebbero confinato i palestinesi in piccole enclave prive di
qualsiasi autonomia.
L’unica
soluzione teoricamente possibile sarebbe quella della creazione di uno stato
unico multietnico sul modello sudafricano.
Ma
dato il clima di odio ulteriormente radicatosi tra ebrei e palestinesi, tale
soluzione per ora si rivela impraticabile.
Il
dopo – Gaza resta comunque indecifrabile.
La
vittoria strategica di “Hamas”.
Netanyahu
è oggetto di aspre contestazioni per l’inefficienza dimostrata
dall’intelligence e dagli alti comandi dell’esercito nel prevenire l’operazione
“Al Aqsa”, per il rilascio degli ostaggi detenuti da” Hamas”.
Ma non
si deve credere che con la sua destituzione la linea politica di Israele possa
subire rilevanti mutamenti di indirizzo.
La leadership di Netanyahu è durata (a fasi
intermittenti), per 20 anni in virtù del consenso popolare riscosso ed oggi, la
maggioranza degli israeliani, pur contestando il premier, secondo un recente
sondaggio, approva per l’80% l’azione di pulizia etnica condotta da Israele a
Gaza.
Israele
concepisce questo conflitto come una “guerra esistenziale”, che si inserisce in
un contesto assai più vasto, che coinvolge l’intero Medio Oriente.
Negli scorsi anni, gli insuccessi degli
interventi degli americani in Iraq, Siria e Afghanistan, hanno determinato una
espansione dell’area di influenza iraniana fino al Mediterraneo.
Israele, in questa nuova configurazione
geopolitica del Medio Oriente, si trova ad essere isolato, specie dopo la pace
conclusasi tra Iran e Arabia Saudita con il patrocinio della Cina e il venir
meno, nei fatti, del Patto di Abramo.
Lo Stato ebraico è esposto ad una guerra
incessante, sebbene a bassa intensità, ai confini del Libano e Siria con”
Hezbollah”, alla perenne conflittualità con la popolazione araba della “Cisgiordania”
ed è minacciato nel Mar Rosso dalle azioni degli “Houthi yemeniti”.
Alla lunga, potrebbe uscirne logorato.
Pertanto,
dopo i prossimi bombardamenti su “Rafah” ed una fase in cui Netanyahu potrebbe
mediaticamente spacciare l’operazione di Gaza per una vittoria totale su Hamas,
Israele potrebbe mirare ad un allargamento del conflitto al fine di rompere
l’accerchiamento del blocco” filo – iraniano”, che implicherebbe
necessariamente il coinvolgimento diretto degli USA.
Ma
l’egemonia americana nell’area mediorientale è ormai tramontata e gli USA non
hanno l’intensione di intraprendere nuove guerre in Medio Oriente, dopo i
ripetuti insuccessi che hanno gravemente inficiato il suo status di
superpotenza.
Questo
conflitto segna la fine del “Patto di Abramo”.
Con
tali accordi, siglati anche dagli USA, a seguito del riconoscimento dello Stato
ebraico da parte degli E.A.U., del Bahrein, del Marocco e con la possibile
adesione dell’Arabia Saudita, Israele avrebbe assunto un ruolo giuda nella
coalizione e lo status di prima potenza militare e finanziaria nell’area, nel
quadro del ripristino di una egemonia indiretta americana in Medio Oriente.
Dopo
il 7 ottobre Israele è isolato e minacciato, in un contesto di paesi ostili
sostenuti dalle potenze dei BRICS+.
Israele
pertanto ha assunto un atteggiamento vittimistico, evocando la memoria
dell’Olocausto e nell’ottica propagandistica del mainstream occidentale, il genocidio di Gaza si è tramutato
in una guerra di autodifesa esistenziale contro i palestinesi e gli stati
islamici che ne minaccerebbero l’esistenza.
Da
questa narrazione mediatica emerge quindi una evidente mistificazione della
realtà.
Così
si esprime “Hanan Ashrāwī” a tal riguardo in una intervista da titolo “I due
stati non si faranno” pubblicata sul numero 1/2024 di “Limes”:
“Da
quando un occupante rivendica l’autodifesa contro l’occupato? Siamo al
ribaltamento dei ruoli:
la vittima è Israele che si difende dal
brutale palestinese.
Il prima non esiste più, ma è in quei 75 anni
precedenti che vanno cercate le cause del disastro.
Non mi stancherò di gridarlo:
Israele
uccide, distrugge, massacra e continua ad agire in totale impunità.
Al
massimo, non deve eccedere.
Ma qual è la soglia dell’eccesso?
Diecimila
bambini uccisi?
Due milioni di persone ridotte alla fame?
Due terzi degli edifici rasi al suolo?
Hanno
aperto il fuoco anche contro i civili che aspettavano gli aiuti umanitari.
Erano
anche loro dei terroristi?
L’odio,
la violenza non nascono dal nulla.
Sono il frutto avvelenato della cattività
imposta a due milioni di persone a Gaza e a quelle murate della Cisgiordania”.
L’”operazione
Al Aqsa del 7 ottobre” è del tutto coerente con la strategia messa in atto da “Hamas”
da decenni.
La
causa palestinese prima del 7 ottobre era stata derubricata dall’agenda
internazionale.
La
strategia di Hamas, da sempre, consiste nel provocare eventi eclatanti al fine
di far riemergere nel contesto geopolitico mondiale la causa palestinese, con
lo scopo di coinvolgere la Palestina negli interessi e nei disegni politici dei
paesi dell’area mediorientale.
Nell’ottica di Hamas dunque, l’”operazione Al
Aqsa” rappresenta un successo:
la causa palestinese è divenuta decisiva per
la riconfigurazione politica dell’area mediorientale, oltre a divenire decisiva
per l’implementazione dei nuovi equilibri geopolitici mondiali che si stanno
delineando nella “Guerra Grande”.
USA:
una egemonia globale impossibile.
L’attuale
Caoslandia deriva dalla decadenza degli USA, quale unica superpotenza garante
dell’ordine globale unilaterale.
Gli
USA sono afflitti da tempo da una crisi identitaria che ha generato profonde
contrapposizioni conflittuali nella popolazione.
Sono
venuti meno i miti fondativi che erano alla base dei valori unificanti in cui
il popolo americano si è sempre riconosciuto.
Il
mito messianico del destino manifesto atto a legittimare l’espansionismo
americano su scala globale è venuto meno.
Le
ripetute sconfitte nelle guerre preventive contro gli “stati canaglia” hanno
profondamente inciso sulla stessa identità politica e culturale degli USA.
La
fine della deterrenza armata della superpotenza americana ha generato la Guerra
Grande.
Come afferma Lucio Caracciolo nell’editoriale
“Cronache dal Lago Vittoria” del numero di “Limes” sopracitato:
“Causa
prima della Guerra Grande è la rapida decadenza dell’impero americano.
La
pretesa globale ha intaccato la nazione.
Ne mette in questione l’esistenza.
E ne
svela il fondo maniaco – depressivo.
Malattia
degli imperi, oscillanti tra delirio di onnipotenza, con relativo eccitamento
psico – motorio, e depressione catatonica, manifestata da abulia e distimia.
In
meno di trent’anni il Numero Uno è trascorso dall’unipolarismo geopolitico al
bipolarismo psichico”.
Dello stato depressivo diffuso che affligge il
popolo americano, se ne erano già avvertiti i sintomi nella guerra del Vietnam:
dissoltosi
il mito della invincibilità americana, il popolo ha iniziato a non riconoscersi
più nelle istituzioni del proprio paese.
Evidentemente,
per gli USA, la psicolabilità collettiva è un tratto distintivo della loro
identità.
Questa
patologia ha poi contagiato tutto l’Occidente.
È
tuttavia improbabile il prefigurarsi di un futuro isolazionista per gli USA.
La stessa unità nazionale degli Stati Uniti
potrebbe non sopravvivere alla fine dell’impero americano.
Per
gli USA l’espansionismo è connaturato al loro “essere nel mondo” e quindi
appare del tutto logico il loro perseverare nella strenua difesa del loro ruolo
egemonico nel mondo, rivelatosi nel tempo insostenibile.
Nel
conflitto Israele – Palestina è in gioco l’egemonia sul Medio Oriente tra due
contendenti: USA – Israele e Iran – BRICS.
Gli
USA si trovano quindi dinanzi ad un bivio:
ritirarsi
dall’area o provocare un conflitto di assai più vasta portata.
L’obiettivo
primario degli USA è il contenimento dell’influenza iraniana sul Medio Oriente.
In
caso di ritiro americano da Siria e Iraq, le conseguenze sul piano geopolitico
sarebbero per gli USA devastanti:
oltre
che all’isolamento di Israele, un ritiro americano darebbe luogo all’espansione
economica e politica nell’area della Cina e della Russia, accrescerebbe lo
status di potenza regionale della Turchia e comporterebbe la fine
dell’influenza americana sulla penisola arabica, dato che Arabia Saudita ed
E.A.U. si inserirebbero nei nuovi equilibri geopolitici mediorientali.
Inoltre,
poiché dopo l’abbandono dell’Afghanistan la credibilità della deterrenza
americana è già a livelli minimi, per Biden, una ulteriore ritirata anche dal
Medio Oriente, pregiudicherebbe in misura rilevante le possibilità di una sua
rielezione alla Casa Bianca.
Fallita
la strategia del dominio indiretto, esercitato cioè mediante il primato di
Israele nell’area, agli USA, il cui coinvolgimento diretto in un conflitto più
esteso è auspicato dallo Stato ebraico, resterebbe solo l’opzione della guerra
totale per ripristinare la propria egemonia.
Tale
scelta è per gli USA impraticabile.
L’America
infatti dovrebbe impegnarsi in una guerra con l’Iran e i suoi alleati e
contemporaneamente far fronte al contenimento della Cina nel Pacifico (che è
una sua priorità strategia), a sostenere l’Ucraina nella guerra contro la
Russia e a preservare inoltre la sua presenza in un’Africa insidiata
dall’espansione delle potenze del BRICS.
Lo
stesso sostegno incondizionato americano a Israele, oltre a suscitare una vasta
ondata di antisionismo e antiamericanismo in tutto il mondo, ha avuto l’effetto
di compromettere seriamente i rapporti degli USA con gli alleati arabi
dell’area.
Aggiungasi poi, che la potenza talassocratica
americana non più in grado nemmeno di garantire la sicurezza delle rotte di
navigazione mercantile nel mondo.
Nel
Mar Rosso è in corso la “missione Aspides”, a protezione dei mercantili in
rotta fra Hormuz, il golfo di Aden e Suez, quale scudo navale di difesa dalle
azioni ostili degli “Houthi”.
Una
tale situazione è peraltro replicabile su scala globale, in tutti gli stretti
oceanici di importanza vitale per il traffico commerciale mondiale.
E i focolai di conflitto si moltiplicano
ovunque.
La sovraesposizione americana nel mondo è
evidente:
l’insostenibilità
dello status di superpotenza globale è la causa del suo declino.
Occorre
inoltre rilevare che la strategia dei bombardamenti indiscriminati in Iraq,
Siria, Afghanistan, praticata dagli americani e rivelatasi perdente, è stata
replicata da Israele a Gaza.
Un
errore fatale è stato commesso:
“Hamas”
è stato considerato un movimento islamico radicale alla stregua dell’”ISIS”,
dei “takfiri” ecc…
Oltre
a non considerare il livello degli armamenti e dell’organizzazione dei
militanti assai più avanzato di “Hamas” rispetto a quello dell’”ISIS”, è stato
del tutto trascurato il grande consenso popolare a suo sostegno.
L’errore
capitale di Israele è l’aver ignorato che Hamas, così come Hezbollah, gli
Houthi e altri, sono entità non statuali profondamente radicate sul territorio,
dotate di classi dirigenti che oggi incarnano l’identità politica e spirituale
dei loro popoli.
L’assimilare
Hamas alle bande mercenarie tagliagole dell’ISIS, rivela l’inveterato
suprematismo razzista di cui sono affetti sia gli USA che Israele, accomunati
da un
dogmatismo teologico – veterotestamentario, che preclude loro una visione
obiettiva della realtà storica e soprattutto gli impedisce di comprendere
l’identità e le ragioni del nemico.
Inoltre
in Israele, così come negli USA, il “dominio della tecnocrazia” ha prodotto una assenza di
strategia sia militare che politica, che può condurre solo ad una debacle
geopolitica irreversibile.
Il
tramonto dell’egemonia globale statunitense è un chiaro sintomo della fine del
secolo americano.
“Alain
de Benoist” in un libro del lontano 1976 dal titolo “Il male americano”,
esponeva delle considerazioni sul destino degli USA che oggi potrebbero
rivelarsi profetiche:
“L’America di oggi è un cadavere in buona
salute.
Con la sua immensa potenza materiale, con la
sua estensione geografica, col suo gusto di “gigantic” e con la fruttificazione
del suo capitale, (proprio come l’Unione Sovietica) ha potuto creare delle
illusioni.
Ponendo
l’accento sui fattori materiali, sugli elementi quantificabili, ha imposto al
mondo l’ideale della superproduzione.
Ma
questo è sufficiente a garantirne l’eternità?
Prigionieri
del desiderio di <vivere alla svelta> (fast life), gli Stati Uniti
scompariranno brutalmente come sono sorti;
più
presto di quanto non si creda, forse.
Nella scala delle nazioni, saranno stati
quello che certi uomini sono all’ordine degli individui:
degli imbonitori chiassosi e dotati, ma che
non lasciano traccia perché la loro opera è una sbruffonata.
L’Impero
romano, dopo essere stato una realtà, fu un’idea, che conformò la vita
dell’Europa per mille anni.
L’<impero>
americano non potrà durare che nel suo presente.
Può
<essere>, ma non può <trasmettere>.
Dopo
avere consumato tutto prima che arrivasse a maturazione, non avrà niente da
lasciare in eredità”.
Gli
USA potrebbero essere considerati dagli storici del futuro un fenomeno storico
a rapida obsolescenza, alla pari dei beni di consumo del sistema capitalista,
che, oltre ad aver distrutto popoli, culture, natura e risorse, sta
distruggendo ormai, con le sue crisi progressive, anche sé stesso.
Il
ritorno della storia nelle vicende geopolitiche mondiali ha emesso una sentenza
inappellabile:
l’egemonia globale è impossibile.
Stati
– Civiltà: il ritorno dell’idea dell’Impero.
L’avvento
del mondo multipolare prefigura la resurrezione della storia sulle ceneri di un
mondo unipolare a guida USA autoreferente, configuratosi ideologicamente come
“fine della storia”, a cui sarebbe subentrato un libero mercato globale
ispirato ai vecchi dogmi ideologici liberali “fuori della storia”.
Gli
eventi succedutisi nel “MENA” negli ultimi decenni sono esplicativi di una
nuova fase storica che comporterà una profonda ridefinizione dell’ordine
geopolitico mondiale.
La
sconfitta dell’Occidente in Siria e Iraq, oltre alla fuga degli USA
dall’Afghanistan, ha sancito la fine della strategia del caos, messa in atto
con le primavere arabe, rivoluzioni colorate e con esse, la fine
dell’espansionismo globale americano.
La
sconfitta in Siria potrebbe assurgere a crocevia della storia contemporanea,
quale “Stalingrado” degli USA e dell’intero Occidente.
Dalle
guerre di liberazione mediorientali è emerso l’”Asse della Resistenza”, in cui
convergono etnie, culture, religioni diverse, ma unificate da interessi e
strategie comuni.
È in
corso una “Guerra Grande” che in Medio Oriente si configura come una “guerra
anticoloniale”, poiché Israele sussiste quale epicentro dell’egemonia coloniale
occidentale nell’area.
La
fine del colonialismo è sancita inoltre dal declino degli stati mediorientali,
che sono stati creati sulla base delle spartizioni coloniali del secolo scorso.
Non
scompariranno gli stati, ma assumeranno una configurazione del tutto diversa.
Sono
emerse nuove patrie transnazionali fondate su valori spirituali, culturali,
identitari, religiosi, che prescindono dai paradigmi etnico – linguistici dello
stato nazionale di matrice occidentale.
Dalla
comune lotta contro l’Occidente egemone sono sorte comunità non statuali che
rivendicano dignità, indipendenza, riconoscimento. Dalla lotta per la libertà e
l’indipendenza scaturiscono i valori comunitari fondativi delle patrie e le
guerre di liberazione generano una forza propulsiva determinante per
l’emancipazione e lo sviluppo dei popoli, data l’esigenza vitale di contrastare
una potenza dominante più forte, sia dal punto di vista economico, militare,
politico.
Le
singole patrie potranno ottenere riconoscimento nel contesto di organismi
sovranazionali più vasti.
Il mondo multipolare avrà per protagonisti gli
“Stati – Civiltà” insediati in vaste aree continentali costituite dai popoli
più diversi, ma unificati da valori identitari etico – politici comuni.
Il
Medio Oriente si configura come un laboratorio geopolitico in cui sta venendo
alla luce un nuovo mondo multipolare, già in gestazione con l’istituzione del”
raggruppamento dei BRICS”.
Un
modello geopolitico paradigmatico replicabile nei contesti più diversi.
Un
mondo costituito da entità sovranazionali: una riviviscenza in versione moderna
degli antichi imperi.
Ma
l’idea dell’Europa non ha la sua origine nella concezione dell’“Impero
universale” tramandatasi nei secoli e comune a tutte le civiltà che si sono
succedute?
L’emergere
degli Stati Civiltà.
Ariannaeditrice.it - Salvo Ardizzone – (04/03/2024)
– ci dice:
L’unipolarismo
americano ha determinato l’instaurazione del Globalismo, Imperialismo e
Universalismo.
Ma i
costi del mantenimento dello status quo di superpotenza crescono sempre più
rapidamente della capacità (e convenienza economica e politica) di mantenerlo.
È
prossimo l’avvento del multipolarismo, che ha per protagonisti gli
Stati-Civiltà, che dispongono di cultura capace di unire popolazioni anche
diverse, di articolare strategia espansiva su vasti territori che tendono a
“ordinare” secondo regole proprie, con peculiari gestioni delle risorse e delle
economie.
È il ripudio degli standard occidentali,
insieme all’assioma che per modernizzarsi occorra occidentalizzarsi.
Premessa.
Il
decomporsi dell’unipolarismo sta determinando una transizione egemonica, un
epocale passaggio di poteri che ci sta portando in “terra incognita”,
sbrigativamente etichettata dai più col termine “multipolarismo”, piaccia o no
ormai da almeno 80 anni assente dal mondo.
Provare
a comprendere motivi e meccanismi del fenomeno fuor da mera affermazione
politica – o del tutto assertiva in assenza di contenuto – aiuta a intuire
contorni e caratteristiche di ciò che sta emergendo.
In
precedente articolo, abbiamo trattato lungamente di come l’unipolarismo
americano abbia determinato l’instaurazione del Globalismo, Imperialismo e
Universalismo attraverso l’impiego delle tre tipologie di guerre ibride,
rispettivamente:
Global
Marketing, Guerra Economica e Guerra Cognitiva. Con la prima di esse, ha assunto il controllo dei
mercati globali esportando una visione – se così può dirsi – del mondo e
certamente uno stile sociale;
con la seconda, ha conseguito l’obiettivo di
realizzare il proprio interesse economico a scapito delle economie altrui;
con la
terza, ha
imposto un modello sociale e culturale insindacabile, unico ammesso e ritenuto
accettabile, mediante la manipolazione delle menti.
Ciò
avrebbe creato un sistema egemonico destinato a durare molto a lungo, se gli
Stati Uniti non avessero infranto le dinamiche del potere esercitandolo in modo
del tutto peculiare.
Dacché
gli imperi stanno nella Storia, essi alternano fisiologicamente fasi di
espansione che metabolizzano in successive fasi di consolidamento.
È evidente che un impero di nuova formazione,
come lo erano gli USA nel 1945, avesse un approccio dinamico quanto espansivo
che, tuttavia, per diversi anni ebbe un argine – diremmo un necessitato senso
del limite – nel duopolio con l’URSS, con cui si spartirono più o meno
consensualmente (in ogni caso specularmente) il mondo.
Il
punto è che l’implosione dell’URSS ha fatto svanire quel senso del limite,
tramutando il dinamismo americano in frenesia espansionistica, in senso
d’assoluta onnipotenza.
Trascurando,
e rifiutando, ogni fase di consolidamento e così andando incontro a over stretching
certo.
Esattamente quello che oggi gli USA stanno
subendo a causa di “endless war” (le guerre senza fine) in campo militare, economico e
culturale con un mondo ormai troppo vasto (oltre 8 miliardi di esseri umani) e
segmentato (quasi 200 stati senza contare molti e rilevanti soggetti politici
non statuali) per essere retto unidirezionalmente da unico centro di preteso
potere.
Una
deriva fortemente accelerata dal disfunzionale quanto compulsivo uso
dell’hard-power cui essi ricorrono.
Dottrina
vuole (e indagine storica conferma) che l’utilizzo di tale declinazione del
potere segni il cambio di fase geostrategica del sistema che lo impiega,
dall’espansionismo al consolidamento o viceversa.
Un
periodo temporale limitato in cui l’hard power viene esercitato per il
raggiungimento di uno scopo cui segue nuovo equilibrio di sistema, e ciò perché
esso obbedisce al principio d’efficienza, ovvero mira a un determinato
risultato a prescindere dall’onere che comporta.
Insomma, costa assai più dei guadagni e non è
dunque sostenibile nel lungo periodo perché esaurisce.
Gli USA, invece, lo stanno adoperando da tempo
per puntellare la pretesa espansionistica di un impero che s’avvita in crisi
manifesta, rifiutando postura di consolidamento.
Ovvero,
perseverando e incrementando un over stretching già rivelatosi insostenibile.
Ciò segnala fallimento – peggio, mancanza – di
geo strategia, perché infrange la sua prima legge:
essa
predica che gli obiettivi vanno comunque parametrati alle risorse, ostinarsi a
indirizzarle a 360 gradi su tutto il globo, quale esso è divenuto oggi, non
persegue uno scopo ma insegue una chimera.
Tutti
gli imperi hanno avuto e hanno criticità, per esempio in quello spagnolo era
eclatante l’incapacità di mettere a frutto le enormi risorse cui poteva
attingere che, semplicemente, dilapidava (anche in questo caso per ragioni
strutturali), dinamica che, alla lunga, ne ha causato il declino.
La
differenza sta nella rapidità del decadimento e nella capacità o meno di
opporre resistenza e resilienza nel contrastare forze contrarie, e adattarsi al
cambiamento in prolungati periodi di difficoltà.
Esempio è l’Impero Romano, che seppe mutare
molte volte pelle – e non solo – per sopravvivere attraverso i secoli.
Quello
americano dimostra di non saperlo fare e di degradare con stupefacente
rapidità.
E ciò
è legato a sua essenza, alla natura dell’impero che ha costruito e al suo modo
di indirizzarlo:
in
altre parole, alla maniera che gli USA hanno di intendere cultus, oikos e
stratos, ovvero Geoeconomia, Geo cultura, e Geo strategia. Che nella pratica significa matrice
liberale, declinata sia in versione conservatrice che liberal (Geo cultura),
prassi neoliberista (Geoeconomia) e connaturato espansionismo di una nazione
che si sente “eccezionale”, investita dal “destino manifesto” di dominare il
mondo (Geo strategia).
A
osservazione geopolitica – che si sforza di mantenersi fredda nell’indagare i
fatti e studiarne le dinamiche – queste bizzarre caratteristiche dell’impero
USA non segnalano fenomeno contingente, ma configurano strutturale
disfunzionalità del suo sistema, che tende a disconoscere limiti, a negare
dignità o la possibile esistenza dell’altro da sé (che esiste, eccome!), a
inseguire l’utile quanto più immediato.
Con ciò negandosi concettualmente visione
prospettica oltre l’oggi. Vietandosi pensiero strategico che guarda alle
conseguenze.
Al domani e anche al dopodomani, categorie del
tempo da esso escluse.
I
risultati sono del tutto evidenti:
raggiunto
l’apice del Globalismo (intersezione massima di assimilazione e liberismo), in
dottrina chiamata “Chiave di Wallerstein”, il Global Marketing più estremo diviene prevedibile da
competitor e avversari – si svela nella sua dinamica – dunque meno incisivo,
suscitando nel mondo reazioni opposte sempre più efficienti e per l’Egemone
logoranti.
Con
ciò ridisegnando la polarizzazione del dominio economico e culturale che migra
verso altri luoghi, verso altri poli d’irradiazione.
È
dinamica già in atto da anni, accelerata dalle pratiche di “reshoring” e “friendshoring” poste in atto dagli USA che, nel
tentativo di difendersi e colpire paesi considerati “revisionisti” perché
contestano la loro pretesa “supremazia a prescindere”, stanno provando a
ridisegnare le “supply chain”, ovvero le catene di approvvigionamento di prodotti e
servizi.
Con
ciò spezzando quelle esistenti con risultati eufemisticamente deludenti, che si
ritorcono su loro e chi li segue.
Nei
fatti, sull’impero americano nel suo insieme.
Allo
stesso modo, raggiunto il punto più avanzato dell’Imperialismo (punto estremo
d’intersezione fra liberismo ed espansionismo), chiamato “Chiave di Gilpin”, i costi del mantenimento dello
status quo crescono sempre più rapidamente della capacità (e convenienza
economica) di mantenerlo.
Con
ciò determinando la forzata contrazione – anche geografica – dell’impero,
obbligato a lasciare ad altri parti crescenti della sua precedente sfera
d’influenza.
A quel
punto, le stesse misure che l’impero adotta per imporre la propria economia e
rintuzzare l’ascesa di altre potenze – o punirle per la loro “ribellione” –
finiscono per ritorcersi contro di lui.
Esemplare è l’uso compulsivo delle sanzioni
che, oltre a dimostrarsi sempre meno efficace a causa dell’elevato – e
crescente – numero di soggetti sanzionati, ha reso sempre più conveniente la
de-dollarizzazione, così imprimendole forte accelerazione.
Con
ciò indebolendo il principale pilastro su cui si regge il potere americano.
Infine,
l’apice dell’azione congiunta di espansionismo e assimilazione configura l’Universalismo, massima espressione d’invasività
perché si rivolge alle menti, con l’obiettivo di plasmarle a propria
convenienza.
La “Chiave di Huntington” è il suo punto estremo, esito della
Guerra Cognitiva che in questo ambito viene combattuta, raggiunto il quale la
propaganda diffusa dall’impero – la vulgata mainstream – perde rapidamente credibilità,
scade a caricatura subendo un tracollo.
I popoli perdono interesse per la narrazione
prima dominante, volgendosi ad altre vulgate.
Basta
volgersi attorno per rendersene conto.
Chi ce
l’ha e le serba ancora tornerà alle proprie radici, o a ciò che crede tali (c’è
grande differenza su cui torneremo), in ogni caso togliendo acritico sostegno
all’impero;
dinamica
che crea fratture esterne a esso, sottraendo crescenti parti dei domini al suo
controllo e alla sua influenza mettendone in dubbio l’egemonia, e interne –
ancor più insidiose – perché spezza basi e perno del potere.
Fa venir meno la giustificazione del prezzo
che il popolo è chiamato a sostenere per il mantenimento dell’impero.
Basta
guardare alla situazione interna USA per averne dettagliato esempio.
È
dalle conseguenze dello sfiorire di Globalizzazione, Imperialismo e
Universalismo che prende il via l’emergere degli Stati-Civiltà.
Fenomeno
che rimarca ancor più nitidamente per contrapposizione alle caratteristiche
dell’impero americano.
L’avvento
degli Stati-Civiltà.
Gli
Stati-Civiltà sono potenze la cui influenza si estende assai più in là delle
proprie frontiere– talvolta del proprio ceppo etno-linguistico – modellando il
proprio estero vicino, alle volte territori di riferimento anche più distanti.
È il
ritorno del concetto d’area d’influenza, anatema per orecchio liberale che vede
l’intero pianeta propria indistinta zona d’appannaggio. Ne è conseguenza il
fatto che la parte di mondo dove liberal-democrazia governa tende a
riconoscersi nell’”Unipolarismo USA” e nel” rules based order” da essi imposto, mentre gli Stati-Civiltà intendono
l’ordine mondiale – il “Nomos della Terra”, citando Carl Schmitt – come
Multipolare, meglio, Policentrico.
Più
specificamente, gli Stati-Civiltà hanno idea di sé, del proprio “stare nel
mondo”;
dispongono
di cultura capace di unire popolazioni anche diverse, di articolare strategia
espansiva su vasti territori che tendono a “ordinare” secondo regole proprie,
con peculiari gestioni delle risorse e delle economie.
Insomma, hanno una “visione” che declinano
secondo Geo cultura, Geo strategia e Geoeconomia proprie.
Con
ciò possedendo tutti gli ingredienti di una sovranità compiuta, basati su
sostanziali valori non negoziabili desunti dalle rispettive tradizioni per come
da esse (e in esse) articolati nel corso della Storia.
Per
queste innate peculiarità ciascuno degli Stati-Civiltà ha identità distinta,
non sovrapponibile ad altre.
E in nome di tale identità, che – da sottolineare
ancora – non può essere negoziata, si pongono in naturale contrapposizione con
il preteso Universalismo occidentale, che mira a instaurare (oggi, in realtà,
tenta con crescente insuccesso di mantenere) gli stessi principi su tutto il
pianeta.
Allo
stesso modo tendono a respingere il Globalismo, rifiutando nei contenuti culturali
e mantenendo i meccanismi economici e commerciali che ritengono convenienti,
meno che mai ad accettare l’Imperialismo che rigettano del tutto, accettando
rapporti in base a propria utilità e coerenza con gli interessi nazionali.
È ripudio degli standard occidentali, insieme
all’assioma che per modernizzarsi occorra occidentalizzarsi.
Come
pure, che l’adozione di una economia di mercato implichi necessariamente
l’adesione ai meccanismi liberisti.
A
guardar bene questo snodo della Storia, rileva che la competizione avvenga fra
culture e loro emanazione.
Nel mondo liberal-democratico, ovvero durante regno
Unipolare, era l’economicismo a caratterizzare i rapporti fra i satelliti
dell’impero e una era la cultura, al singolare perché uniforme e unica per
tutti.
Preteso
metro universale cui tutti erano tenuti a omologarsi, puro strumento
dell’Egemone che tutto regolava.
A caratterizzare le relazioni fra gli
Stati-Civiltà sono invece le culture, plurali, che ne informano differenziata
visione del mondo, proiezione di sé e dei modelli di gestione della società.
Visti
in questa prospettiva, gli Stati-Civiltà possono essere paragonati ai passati
imperi che hanno retto e modellato il mondo, ma ancor di più – per l’enfasi
esiziale sulla Geo cultura che li informa – vanno accostati ai Grandi Spazi, ai Grosraum teorizzati
da Carl Schmitt:
vaste
aree su cui insistono popoli che hanno comunanza di esperienze storiche e
relazioni con i territori, sviluppando così culture contigue, assonanti.
Su queste basi primarie, formate da tradizioni
comuni, assimilabili, possono confluire in vario modo altri – molteplici –
fattori d’integrazione: etnia, posizione geografica, religione, etc.
L’insieme di tutto ciò ne definisce lo “stare
nel mondo” che caratterizza la compresenza in un Grande Spazio.
Come
avrebbe detto Heidegger il suo “dasein”.
Per
definirsi Grossraum occorre comunque stazza, primariamente culturale, poi
demografica, possibilmente economica – in fondo è la meno caratterizzante;
necessita
comunque area omogenea, che accetti e riconosca propria una derivante sintesi
politica espressa da soggetto guida che la proietti su un vasto territorio, dal
quale è esclusa per principio azione di potenza terza.
Ma
perché gli Stati-Civiltà stanno emergendo adesso, riproponendosi attori primari
della Storia quando, solo pochi decenni fa, taluni sostenevano che essa fosse
finita?
La
spiegazione sta nelle culture – più precisamente le Geo culture – che sono
riemerse quando la Geo cultura dominante ha mostrato crescenti limiti e
inadeguatezza.
Fatto è che la cultura di un popolo riveste
ruolo insostituibile per la tenuta sociale e politica della sua nazione.
Una
cultura forte e radicata è capace di interpretare la realtà che muta traducendo
stimoli ed eventi in fattori di forza, d’integrazione d’elementi altri,
“metabolizzandoli” all’interno del proprio universo valoriale e fornendo
risposte alla contemporaneità che muta coerenti a esso.
In questo senso, ancora una volta è tipico
l’esempio dell’Impero Romano, capace per lunghi secoli di utilizzare e fare
propri gli ingredienti più diversi ritenuti utili per “vivere nei tempi”, senza
nulla perdere della propria essenza.
Nelle
temperie odierne dell’Occidente, giova ricordare che la civiltà è frutto di
risorse spirituali (appunto, attinenti alla sfera culturale nella vasta
accezione) e materiali (afferenti potenza economica e militare);
la sua
capacità di affermarsi è combinata conseguenza di esse. Trasposto in più freddo
ambito geopolitico, la Geo cultura afferisce alla cosiddetta “Sfera Spirituale”
che dà orientamento e legittimazione al cosiddetto “Arco Materiale”, con ciò
intendendo la combinazione di Geo strategia e Geoeconomia.
Senza
Geo cultura capace di tenere unita una nazione e di proiettarsi fuori di essa,
trovando positiva accoglienza negli ambiti cui è rivolta, Geo strategia e
Geoeconomia risultano vane, quantomeno azzoppate. Ridotte a pura forza bruta,
dunque condannate a collasso per esaurimento.
Aprendo
parentesi necessaria, rileviamo come il rapporto col sacro sia parte essenziale
della tenuta di qualsiasi società;
l’abbandono di esso, anche solo il suo
decadimento, incide fortemente nell’espressione della cultura di un popolo,
quindi sulla possibilità che esso ha d’articolare una Geo cultura che – senza
l’elemento del sacro – è semplicemente svuotata.
E ciò
perché è esso a dare senso e coesione alla comunità;
declinato
a livello più alto, alla nazione e allo stato che l’amministra; studio della
Storia ci dice che non è sui singoli individui che un paese può reggersi ma –
appunto – sul senso di comunità.
Qui
non parliamo di una singola religione, ma del modo in cui i popoli declinano e
vivono il sacro, ovviamente ciascuno a suo modo, coerentemente a proprie
sensibilità e culture sedimentate nei secoli.
L’Occidente
ha eliminato il sacro, relegandolo al più a superficiale pratica religiosa,
tollerata quando non criticata, con ciò uccidendolo e decretando al contempo la
morte del senso di comunità.
Forse
il più rilevante dei mutamenti nella Storia della sua civiltà.
Per qualche tempo le società occidentali hanno
ovviato col succedaneo delle ideologie ma, eliminate anch’esse, non è rimasto
alcunché a dare il tono di fondo su cui articolare una cultura unificante e, da
essa, definire una Geo cultura.
Con
ciò sancendo una propria strutturale debolezza, diremmo un’estrema
vulnerabilità dinanzi a realtà terze.
Non a
caso è opposta la situazione negli Stati-Civiltà:
in
ognuno di essi è forte il senso del sacro, quanto meno la sua concreta
influenza sulla nazione.
Basta
osservare le realtà russa o turca dove la sfera religiosa è potente strumento
di coesione o proiezione, nel caso dell’Iran è addirittura elemento fondativo.
Anche
l’India, malgrado fratture interne, punta sull’induismo per darsi anima unica e
con ciò forza;
in
Cina è sul substrato culturale confuciano, sulla naturale preminenza della
comunità sull’individuo singolo, avulso da essa, che si basano le politiche
dimostratesi vincenti.
Ma
tornando alla nostra narrazione, da quanto detto sin qui consegue che l’attuale
transizione egemonica non vedrà l’affermazione di nuovo egemone globale;
ciò
sarebbe contraddizione dell’essenza degli Stati-Civiltà che si basano invece
sulle “differenze” sulle loro peculiarità.
Del
resto, tornando all’esempio dell’Impero Romano – che alle latitudini
occidentali permane esempio primo di impero – è vero che esso si dichiarava
universale, ma su quella parte di mondo che ordinava e plasmava coerentemente
al proprio orizzonte valoriale.
Come abbiamo detto in precedente occasione,
l’idea di impero è unica ma, al pari della Tradizione, trova modi e forme
diversi a seconda dei contesti in cui s’invera, ovvero, a seconda della cultura
che li caratterizza.
Per
tali ragioni, l’ordine mondiale che sta emergendo è piuttosto basato su un
Policentrismo, costituito – appunto – dai vari Stati-Civiltà, cui è sotteso un
multiforme reticolo differenziato di relazioni orizzontali e verticali: in
primis fra essi e poi fra essi e le entità politiche a loro vicine o esterne
alla loro sfera d’influenza; secondariamente, fra i soggetti che permangono al
di fuori degli Stati-Civiltà.
Un ordine regolato dal ritorno al Diritto
Internazionale, da troppo tempo sostituito/piegato dal “rules based order” a Stelle e Strisce, e da standard propri, non altrui.
Uno stato del mondo che, a occhio aduso a
egemonismo globale (e incurante della conseguente condizione
d’assoggettamento), apparirà come somma confusione foriera di paure ma che,
piaccia o no, per attori politici compiuti dotati di sovranità rappresenta
normalità che archivia il preteso Unipolarismo, esso sì anomalia dinanzi alla
Storia del mondo.
Né a
riflessione attenta appare convincente l’argomento che tale sistema porterà più
guerre, e per diverse ragioni.
L’attuale moltiplicarsi di conflitti è
generato dalla ribellione del mondo – o, quantomeno, della sua assai più vasta
parte – a un Egemone che non si rassegna a ridimensionare la sua pretesa di
dominio, perché si vede Numero Primo o nulla.
È il rifiuto di crescente parte dell’umanità di subire
regole americane e omologarsi a standard estranei a sé e ad altri convenienti a
gemmare conflitti;
sostenere
che per eliminarli si debba accettare sudditanza è idea bizzarra che
contraddice la Storia, a cominciare dal non lontano processo di
decolonizzazione, e nega la stessa sovranità delle nazioni e il principio di
auto-determinazione dei popoli.
E non è tutto.
È
stata la liberal-democrazia americana, allora rappresentata da “Woodrow Wilson”,
a reintrodurre il concetto di” bellum justum”, accadde a Versailles nel 1919.
Citando ancora una volta “Carl Schmitt”,
facciamo notare come da allora la nascente potenza americana archiviò
strumentalmente il concetto di “jus” in bello, ovvero di conflitto regolato dal
Diritto Internazionale, sostituendolo – appunto – con quello di “bellum justum”,
guerra
giusta,
che non prevede quindi uno” justus hostis”, un nemico giusto, legittimo, e che
inscindibilmente reca con sé la” justa causa”, la giustificazione per qualsiasi
cosa si faccia per tale supposto buon fine.
I
passaggi sono evidenti:
dichiarata o subita poco importa, una guerra
giusta è condotta comunque in nome del “bene”, contro un nemico che, a questo
punto, è configurato come il “male”;
distruggerlo,
annientarlo in ogni modo è lecito, anzi, è condotta “moralmente” obbligata.
Con ogni evidenza, è concetto mirante a
disumanizzare l’avversario demonizzandolo, e con ciò rendendo dovuto e
meritorio il suo annientamento qualunque sia il mezzo usato.
C’è
questo alla base del sistematico doppio standard che il mainstream mediatico
delle liberal-democrazie ha adottato per i “freedom figthers”, i suoi “combattenti per la libertà”, nelle infinite guerre che si sono
succedute.
Secondo
esso, ci sono bombe cattive, quelle del nemico, e bombe buone, necessarie,
comunque giustificate, da quelle su Nagasaki e Hiroshima a quelle che cadono su
Gaza, passando per gli infiniti morti nelle città europee rase al suolo fra il
1943 e il 1945, in Corea, Vietnam, Serbia, Afghanistan, Iraq, Palestina, Siria,
Yemen, Ucraina e via discorrendo.
A
guardar le cronache del mondo, risulta che è essenzialmente l’Egemone ad aver
mosso guerre per affermare i suoi interessi, ammantati da superiore
legittimazione morale.
Massima
proiezione di “Guerra Cognitiva” che, tuttavia, nelle temperie attuali funziona
sempre peggio.
Costretta
oggi a sovradosaggio fino al caricaturale, a pura smaccata propaganda, finendo
per essere, prima che inutile, controproducente. Che suscita rigetto virante in
crescente avversione nei paesi dove cultura propria è capace di decodificarla –
Sud Globale in generale, negli Stati-Civiltà in particolare;
manifesta
disaffezione all’interno di un Occidente che non dispone ormai di Geo cultura
propria.
Dinanzi
a narrazione mainstream i singoli stati occidentali sono divisi fra scetticismo
e disinteresse della popolazione.
Al più
consenso passivo, residualmente attivo, per carenza manifesta di una narrazione
ormai manifestamente logora, del tutto distaccata dalla realtà.
Molto
ha contribuito in questo la lunare gestione della pandemia, che in vaste fasce
sociali ha generato prima dubbi, poi sospetto, infine avversione.
È un dissenso
che tuttavia rimane in stato magmatico per incapacità di aggregarsi in solido
fronte, causa carenze di compiuta cultura condivisa e conseguenti fratture
della società.
Cultura,
visione del mondo, identità profonda e dunque non singola ma comunitaria, sono
state del tutto insterilite dopo tre generazioni d’imposta Geo cultura altrui.
Né
istintiva adesione a frammenti affioranti dal passato serve, sono semplici
riflessi di tempi tramontati, privi di radici e dunque incapaci d’interpretare
compiutamente il presente, di dare idea di sé e anima a nazioni.
Meno che mai è possibile prendere in prestito
il mondo valoriale altrui, come fanno taluni guardando ad altri Stati-Civiltà.
La Geo cultura è essenziale per unire una
nazione, per costruirvi attorno uno stato, ma è frutto autoctono che impiega
molto tempo a maturare – ammesso sia esistente – ne è vietata importazione pena
sudditanza.
In
terra d’Occidente ciò è stato sperimentato per anche troppo tempo.
Come
muta il mondo.
Da
quanto detto è chiaro chi possa ergersi a Stato-Civiltà:
Russia,
Turchia, Iran, India e Cina ne sono paradigmatici esempi, pur nella loro estrema diversità, e
non potrebbe essere diversamente.
Più e prima del loro singolo cammino e
interessante vedere come la loro ascesa stia destrutturando i pregressi
equilibri del mondo e ridisegnando ambiti e aree d’influenza, un tempo
caratterizzate dall’indiscusso potere egemonico unipolare oggi in contrazione.
Una capacità d’irradiazione che s’intreccia
variamente in funzione dei diversi interessi di cui i nuovi attori primari sono
portatori, e trova sinergie.
Malgrado
aderiscano anche a format partoriti dall’ordine americano (vedi G20, BMI, FMI)
gli Stati-Civiltà preferiscono aggregarsi in organismi alternativi (vedi BRICS,
SCO, AIIB, etc.), in quanto essi rigettano il concetto di ascrizione a blocco
ma, piuttosto, concepiscono i forum cui danno vita come spazi d’interazione per
realizzare convergenze d’interessi, strumenti di collettiva affermazione.
Nei
fatti, consorzi costituiti da portatori d’istanze differenziate – alle volte
anche contrapposte – che ambiscono a coltivare in autonomia, rifiutando pretese
egemoniche altrui, comunque articolate.
Allo
stesso modo, essi contestano gli attuali assetti che regolano il Diritto
Internazionale e l’ONU, ancora oggi cristallizzati su regole di 80 anni fa,
pensate per un mondo che non esiste più da tempo, che continuano ad assegnare
spropositato vantaggio a taluni soggetti (vedi il permanere del diritto di veto
e i seggi permanenti al Consiglio di Sicurezza assegnati a potenze come Francia
e Gran Bretagna oggi marginali).
Non ci
soffermeremo ulteriormente su questi temi, già in parte trattati in altre
occasioni e che comunque necessiterebbero di vasto approfondimento, preferiamo
piuttosto tratteggiare i peculiari indirizzi di fondo che stanno emergendo.
Due
sono ormai le dinamiche primarie che spiccano consolidate:
la prima è lo spostamento del baricentro del
mondo dall’area atlantica a quella pacifica, oggi, più estesamente,
indo-pacifica.
Ciò
segna la fine dell’epoca colombiana e di ciò che ha comportato per secoli:
un
mondo incentrato sui traffici fra le due sponde dell’Atlantico, prima per
assicurare risorse e sfogo demografico all’Europa, poi – con la migrazione a
Occidente del potere talassocratico – per instaurare il nuovo impero americano
cui l’Europa è stata inscritta.
Così costituendo un blocco di potere che in
fase primaria ha gestito il mondo in condominio con l’URSS e successivamente –
dopo implosione della rivale – espandendo il suo dominio su scala globale.
Dinamica che abbiamo già lungamente descritto.
Il
punto è che, parafrasando “Halford Mackinder”, negli ultimi decenni – e sempre più velocemente –
il cuore da cui si comanda il mondo è migrato nel Mar Cinese e nelle sue
appendici, quadrante divenuto rapidamente il più dinamico e ricco del pianeta.
Dall’Indonesia al Giappone, dall’India
all’isola-continente Australia, passando per Corea del Sud, Taiwan, Vietnam,
Malaysia e Singapore, una moltitudine di paesi già in ascesa e proiettati verso
future affermazioni contornano quelle acque – e rotte – oggi di gran lunga le
più cruciali per ciò che vi è ai margini e vi passa sopra.
Molto
ci sarebbe da dire sulle diverse dinamiche che hanno determinato questo
radicale mutamento, per brevità diciamo solo che quegli attori hanno utilizzato
al meglio gli strumenti della Globalizzazione, seppur in maniera differenziata.
Taluni
riconoscendosi in essi per convenienze varie, seppur con distinguo (Giappone e
Sud Corea), altri per convinzione e contiguità (Australia), altri ancora
rigettando l’implicito messaggio geoculturale ma sfruttando appieno i
meccanismi economici e finanziari.
Fatto è che su tutti è stata ed è la Cina a emergere
per stazza, risultati ottenuti e prospettive.
Un’ascesa
percepita dall’Egemone come doppiamente pericolosa perché avvenuta nel
quadrante di mondo divenuto cruciale.
Per
gli USA il Pacifico – anzi, ormai dilatato a Indo-Pacifico – è la partita della
vita, contenere la Cina è per essi percepito obiettivo irrinunciabile, pena
abdicare alla pretesa d’essere Egemone eterno, iattura considerata maggiore
delle conseguenze economiche disastrose di una frontale contrapposizione.
Ma
risorse e attenzione latitano a Washington, assorbite e distratte dai tanti
conflitti e dalle molteplici crisi che continuano a gemmare nel mondo, per
questo non si stancano di stringere patti e avviare iniziative fra gli attori
dell’area, perché siano essi a opporsi a Pechino:
l’”AUKUS”,
il “QUAD” e le tante altre intraprese nel Pacifico tendono a questo.
Ma ci
sono tanti ma.
Il
peso economico e commerciale di Pechino, accompagnato dalla sua estroversione
politica, suscitano reazioni bipolari nei suoi vicini.
Essi non possono fare a meno del potenziale
del Sistema Cina e tuttavia ne temono stazza e postura che intende adeguare
alle dimensioni raggiunte.
Per loro ideale sarebbe mantenere lo status
quo, di arruolarsi senza se e ma sotto le bandiere americane (come gli europei
contro la Russia) non se ne parla:
hanno
troppo da perdere – loro se ne rendono conto – e non si fidano degli USA.
Con
ciò mostrando assai più discernimento dell’Europa.
Per
cui nessuno si mostra pronto a scendere in guerra per l’egemonia americana,
meno che mai dopo la fuga dello Zio Sam dall’Afghanistan, il sostanziale
abbandono dell’Ucraina e la plateale sfida alla talassocrazia americana
(essenza dichiarata del potere americano) lanciata nel Mar Rosso non da potenza
primaria, come la Cina, ma dallo Yemen.
Tutti invece vorrebbero che le cose
continuassero come in passato, esatto opposto di ciò che vuole Washington
perché quella è dinamica che la vede perdente.
Ed
evolve verso crescente affermazione cinese.
Per
questo diversi “decisori” USA cominciano a pensare a una guerra, da scatenare
prima che il progressivo rafforzamento cinese la renda impossibile.
Del
resto, “Geopolitica” vuole che le transizioni egemoniche portino allo scoppio
di un conflitto, dopo che l’intensificazione massima delle Guerre Ibride
(Global Marketing, Guerra Economica e Guerra Cognitiva) si dimostra incapace
d’assegnare all’Egemone che le muove una vittoria netta.
Il più
delle volte è attacco preventivo di soggetto dominante verso quello emergente,
oppure conflitto scatenato da potenza in ascesa per ridisegnare l’ordine
esistente.
Storia afferma che delle ultime 16 transizioni
di potere, 14 siano sfociate in una guerra.
Tuttavia, pur rimanendo sinistra prospettiva
sullo sfondo, dubitiamo di un’immediata evoluzione del confronto sino-americano
in conflitto aperto, causa accertata debolezza di Washington – di cui persino
essa è per una volta consapevole – e per tradizionale pazienza strategica di
Pechino.
Prima
di passare oltre, è obbligo soffermarci – sia pur brevemente – sulle
trasformazioni in atto in Medio Oriente, frutto di paradigmatica azione di
Stato-Civiltà: l’Iran.
Facendo
leva su “Geo cultura” indirizzata da sapiente “Geo strategia” articolate nel
tempo e nello spazio, esso sta portando a collasso irreversibile il sistema
d’assoggettamento posto dall’Egemone sull’intera regione.
A ben vedere, l’azione di Teheran non
configura proiezione egemonica sul quadrante, bensì l’esportazione di una
visione del mondo, di un canone valoriale tradotto in prassi politica
differenziata in funzione degli ambiti in cui attecchisce e si sviluppa.
Con ciò configurando un nitido esempio di “Grossraum”
che sta sorgendo dalla destrutturazione di precedenti sistemi d’assoggettamento
funzionali a interessi esterni all’area, e gestiti in loco da governi del tutto
ancillari a essi.
Un’operazione
che, malgrado ogni tipo d’ostacolo frapposto, nel lungo periodo sta producendo
l’implosione dell’ultima entità coloniale presente nel mondo – Israele – e, più in generale, della prassi
colonialista condotta sotto varie vesti dall’Occidente nella regione.
Rileva
che il degrado dell’egemonismo nell’area è tale da indurre soggetti già
inscritti a pieno titolo nel sistema di dominio americano a riposizionarsi per
trovare convivenza con la realtà emergente (vedi Arabia Saudita, Emirati,
etc.).
Ciò
detto, la seconda dinamica primaria che emerge come consolidata nell’attuale
transizione egemonica è la ripartizione delle materie prime e il loro utilizzo, che
qui, causa vastità del tema, ci limiteremo solo a segnalare.
Prassi
neocolonialista propria del periodo unipolare voleva che le risorse globali
venissero rastrellate dall’Occidente e sue appendici per alimentare le loro
economie, dove veniva accumulato un crescente valore aggiunto lasciando
briciole al resto del mondo.
La situazione attuale evolve a esatto opposto:
facendo
perno sugli “Stati-Civiltà”, non più disposti ad assoggettarsi a pratiche
derivanti da interessi terzi, i paesi del “Sud Globale” stanno ridisegnando “Geoeconomia”
e flussi delle commodities.
In tal senso esemplare è l’azione dell’ “OPEC”,
evoluto armai da anni a “OPEC+”, che adotta politiche proprie, non più
espressione degli interessi occidentali.
Altrettanto
emblematica è l’evoluzione che sta avvenendo in Africa, continente simbolo del
colonialismo e poi del neocolonialismo.
L’Occidente
l’ha considerato territorio da cui prendere risorse a discrezione senza nulla
lasciare, con risultati devastanti sotto gli occhi di tutti, a questo
aggiungendo la pretesa d’imporre standard culturali e politici estranei alle
popolazioni.
In pratica facendolo oggetto di “spietate
Guerre Ibride “per depredarlo e controllarlo con gli strumenti di Globalizzazione, Imperialismo e
Universalismo.
Ciò ha
generato un rigetto dell’Occidente e delle élite locali che ne erano sua
emanazione, un diffuso sentimento che sta dietro alla catena di colpi di stato
che negli ultimi anni ha fatto crollare tanti regimi funzionali agli interessi
occidentali, e alla vasta approvazione popolare che li ha accolti.
E motiva l’ampio consenso alle iniziative di
Cina e Russia, quest’ultima perché nettamente percepita come anti-Occidente.
La
Cina, in
particolare, negli anni ha investito in Africa oltre 400 miliardi di dollari,
certo importando materie prime ed esportando prodotti finiti, ma anche
costruendo infrastrutture prima inesistenti e ora impianti di trasformazione
delle risorse locali, con ciò determinando la crescita di quei territori.
Un
percorso non privo di criticità (vedi la “trappola del debito”) ma che vengono ora mitigate da
percorsi negoziali senza sparare un colpo di fucile né pretesa d’imporre
standard politici e culturali di sorta.
Con ciò l’Africa (e le sue enormi risorse) è
destinata a essere integrata in un percorso di crescita esterno all’Occidente,
su cui – semmai – rovescerà le sue produzioni.
Esempi
di tal fatta nel mondo ne potremmo portare tanti altri ancora ma non serve, il
punto è che l’Occidente – specie l’Europa – verrà tagliato fuori dalle materie
prime del Sud Globale (il processo è già in corso), quantomeno costretto a
pagarle assai più, e a subirne futura concorrenza con ciò sancendo nel tempo
sua definitiva deindustrializzazione e collasso dell’economia.
Né in
alcun modo suonano convincenti le iniziative messe in cantiere dagli USA per
porre rimedio alla situazione:
quello
americano è sistema già largamente deindustrializzato da molti decenni e la “Rusty Belt” è lì a dimostralo.
Per le sue condizioni strutturali, sarà assai
difficile – meglio, proibitivo – ridisegnare l’economia degli Stati Uniti,
reintegrandovi stabilmente produzioni a medio-basso valore aggiunto:
chi vorrà ridimensionare così drasticamente la
redditività degli investimenti nella patria del liberismo?
E
l’Italia?
Dal
punto di vista “geopolitico”, difficilmente esiste paese la cui via è più
nettamente segnata dalla posizione geografica dell’Italia.
Ma se ciò è chiaro a fredda osservazione, non
lo è affatto a un” Sistema-Paese” che è “attore mutevole” per eccellenza:
incline ad accodarsi a decisioni che altri prendono in sua vece, ad adattarsi a
nicchia che gli è assegnata;
in definitiva, a seguire interessi di terzi
ignorando quali siano i propri.
In
tale contesto la strategia è assente, meglio, oggetto sconosciuto da un
establishment incapace d’articolare pensiero proprio perché aduso ad assumere
quello altrui per sudditanza.
A
prescindere da giudizi di merito – e sarebbero tanti! – fatto è che i punti di
riferimento dell’Italia siano tutti in crisi e ciò che la circonda muti, anzi,
è già mutato e muterà ancora.
Ciò
implica rischio certo di divenire preda o teorica opportunità di conseguire
(finalmente) i suoi interessi.
Nel mare che la circonda e da cui rifugge come
fosse minaccia, nel suo estero vicino (pensiamo all’Africa, che percepisce solo
come problema causa migranti, o ai Balcani),
nel
vasto mondo di cui un’economia manifatturiera ha bisogno per importare risorse
ed esportare prodotti.
Fatto
è invece che malgrado l’Italia si consideri assai poco, disporrebbe – ad
applicarvisi e volerla mettere a frutto – di potenziale Geo cultura dirompente,
proporzionalmente assai maggiore a sua stazza.
Sommando
un
Identitarismo, che terzi sono assai disposti a riconoscerle, a Mercantilismo, potrebbe svolgere un “Global
Marketing di successo” (assai diverso da quello americano, come visto basato su
liberismo e assimilazione) che, in termini geopolitici, sfocerebbe in “Patriottismo Economico”, speculare opposto di Globalizzazione.
Ad avere capacità di pensiero e volontà che – ahimé –
mancano del tutto.
Realtà
dice invece che l’Italia da oltre trent’anni, e più che mai negli ultimi, ha
fatto sistematiche scelte di campo contrarie ai suoi interessi più elementari,
legandosi alle sorti di un Egemone in manifesto affanno invece che ritagliarsi
autonomia, con ciò vietandosi di cogliere le opportunità del momento e
inimicandosi le realtà emergenti.
In pratica, per abituale” prassi servilista e incapacità
d’autonomo pensiero”, si sta addossando costi e conseguenze di conflitti su cui
non ha alcuna voce in capitolo, e che gli arrecano sommo danno.
Che dire?
Se non ci vivessimo anche noi solo: “Auguri!”.
La
deriva nichilistica dell’Occidente.
Ariannaeditrice.it
- Gennaro Scala – (04/03/2024) – ci dice:
(Recensione
del libro di Emmanuel Todd, “La défaite de l’Occident”, Gallimard 2024).
Gli
USA vivono in una fase di nichilismo avanzato, prodotto dalla scomparsa del
protestantesimo che è stata la religione che ha dato vita al capitalismo
moderno.
Secondo “Todd”, vi è una prima fase in cui la
religione viene osservata ed è determinante nel formare la mentalità
collettiva.
Seguita da una seconda, la fase “zombie”, che
vede venir meno l’influenza morale della religione e il ruolo della formazione
di una mentalità collettiva viene coperto dalle ideologie politiche.
Vi è
infine un grado zero della religione che corrisponde a quello attuale in cui la
scomparsa dei valori è totale.
Il
libro in oggetto che è uscito in Francia lo scorso gennaio, fornisce al mondo
occidentale forse la descrizione più completa della sua reale condizione.
Il libro parte dal conflitto tra Ucraina e
Russia, che, naturalmente, “Todd” descrive quale esso è, cioè un confronto tra
l’Occidente e la Russia, ma poi il discorso si allarga a un’ampia analisi della
condizione reale degli Usa e dell’Occidente di carattere economico, sociale,
antropologico, e anche filosofico, visto il ruolo centrale che ha nel libro il concetto
di nichilismo.
Vi
sono state varie analisi critiche della politica occidentale, ma il pregio del
libro, unico nel panorama attuale, è quello di fornire un quadro generale delle
condizioni reali dell’Occidente che sono agli occhi di “Todd” disastrose.
Per
questo non esito a dire che si tratta di un libro fondamentale, e mi auguro che
il libro scritto da un intellettuale del livello di “Todd” possa cambiare il
dibattito in corso, e riportarlo a termini più realistici, poiché i grossolani
errori di valutazione nel caso di un conflitto con una potenza nucleare come la
Russia possono essere molto pericolosi, ma non c’è molto da sperare, dato lo
stato pietoso del mondo politico, mediatico e culturale occidentale.
Non a
caso nell’Introduzione vi è un sentito omaggio a “John Mearsheimer”, a cui si
riconosce di aver coraggiosamente denunciato la follia del comportamento degli
Usa, veri responsabili della guerra, ma secondo “Todd” è necessario andare
oltre e capire proprio le ragioni di tale irrazionalità.
Per
dare una spiegazione delle ragioni “profonde” di alcuni comportamenti
irrazionali sia degli Usa, sia per quanto riguarda l’Ucraina che l’Europa, il
libro avanza talvolta delle ipotesi piuttosto ardite.
Ma
l’attenzione alla totalità delle società occidentali, e l’attitudine ad
avanzare ipotesi e voler spiegare, diversamente da quanti propongono piatte
analisi, presunte obiettive, fatte dal punto di vista di un “osservatore”
distaccato dai fatti, sono i pregi di questo libro che fonda le basi per una
diversa autocoscienza occidentale, lo dico senza timore di esagerare, e che può
e dovrebbe essere di stimolo per ulteriori analisi, che partano dalla stessa
consapevolezza di un sostanziale declino o meglio, disfacimento del sistema
occidentale.
Ma comunque queste analisi che l’autore stesso
definisce “speculative” sono corredate da robuste analisi di carattere
socio-economico e antropologico che fanno di questo libro un testo unico nel
panorama delle pubblicazioni sulle questioni di attualità, dove spesso si nota
un appiattimento sul dato immediato, senza rischiare ipotesi teoriche che
guardino più in là.
Nell’Introduzione
sono elencate le “dieci sorprese” di questa guerra, che sono il portato di
tutte le guerre che regolarmente si rivelano “sorprendenti” nelle loro
dinamiche ed esiti.
Non sto a riportarle tutte, ma tra le sorprese più
sorprendenti vi è l’accanita resistenza opposta da una “nazione fallita” come
l’Ucraina, e la sua spiegazione sarà l’oggetto di un apposito capitolo.
Che
voglio riportare in sintesi.
Secondo
“Todd”, effettivamente l’Ucraina, che si è costituita come nazione in seguito
alla dichiarazione di indipendenza del 1991, ha mostrato di non avere una
cultura autonoma (in senso antropologico), soltanto che non è riuscita a
costituirsi come Stato, non è riuscita a diventare stato-nazione, soprattutto
per la carenza di una classe media concentrata nelle città, che, insieme al
forte declino demografico ed economico, l’hanno trasformata in uno “Stato
fallito”.
Di fronte ad una Russia interessata
soprattutto alla Crimea e alle regioni in cui è concentrata la popolazione di
fatto russa, che poi sono anche le zone più industrializzate dell’Ucraina, la
guerra è stata un modo per restare, in negativo, nella ex-sfera sovietica, e il
modo in cui questo “stato fallito” ha trovato una ragion d’essere.
Sarebbe stato il momento migliore per
l’Ucraina per diventare un effettivo stato-nazione, con il consenso e
l’appoggio della stessa Russia che richiedeva solo neutralità, ma non essendovi
riuscita, per ragioni di composizione sociale interna, la guerra e il farsi
strumento dell’Occidente, è stato un modo per ovviare a questo fallimento, ma
preparandone uno catastrofico.
Un’altra
sorpresa è stata la stabilità della Russia, ma questa non avrebbe dovuto
esserlo per chi avesse letto ad es. un testo come quello di “David Teurtrie”, “Russie”.
Le”
retour de la puissance”, oppure avesse tenuto presente alcuni dati come il
raddoppio della produzione agricola in Russia, che è diventata esportare netto,
mentre gli Usa, che una volta “nutrivano il mondo”, sono sulla strada di
diventare un importatore di prodotti agricoli.
L’ottava
sorpresa riguarda gli Stati Uniti che si sono dimostrati incapaci
industrialmente di fornire all’Ucraina l’armamento necessario, e questo rimanda
ad una discussione successiva sull’effettiva potenza degli Usa e allo
“sgonfiamento” del Pil statunitense, che” Todd” traduce da “PIB” (l’acronimo
francese per il Prodotto Interno Lordo) a “PIR” (Prodotto Interno Reale)
sfrondandolo di molte voci nei servizi che non sono indice di produzione reale.
L’analisi
di “Todd “volta a definire la reale condizione delle società occidentali non
esita a ricorrere a concetti “vetero” come quello di imperialismo, si richiama
ad “Hobson” il quale parlava di una super alleanza tra paesi capitalisti volti
a sfruttare tutto il mondo.
Addirittura
riprende alcune osservazioni di “Lenin” sull’“aristocrazia operaia”, ovvero il
fatto che i superprofitti dovuti all’imperialismo consentivano di distribuire
alcune briciole agli strati superiori della classe operaia che in tal modo
perdeva il suo carattere rivoluzionario.
A “Todd” interessa mostrare come le delocalizzazioni,
e il drenaggio di ricchezza da tutto il mondo grazie alla supremazia
finanziaria e del dollaro, abbiano creato negli Usa e nell’Occidente una plebe
che vive della produzione che ormai avviene principalmente in Cina e in Asia.
Egli
riprende quanto scriveva “Hobson” (uno dei principali punti di riferimento di “Lenin”
per quanto riguarda la teoria dell’imperialismo) secondo cui la situazione in
prospettiva poteva venire a somigliare a quello del basso impero romano, dove
ad una classe dominante proveniente da tutto il Mediterraneo si associava una
plebe romana che viveva delle derrate alimentari provenienti dall’Africa.
E
avrebbe potuto citare a sostegno anche “Sismondi”:
“il proletariato romano viveva a spese
della società, mentre, la società moderna vive a spese del proletariato” (citato a sua volta da Marx ne “Il
18 brumaio di Luigi Bonaparte”).
Ma non
siamo ai tempi di Marx, siamo entrati in un contesto da basso Impero, il
proletariato laborioso occidentale del dopoguerra, sopravvissuto fino agli anni
’80, si è trasformato in una plebe che vive alle spalle del lavoro di tutto di
tutto il mondo, e in particolare di quello asiatico, anzi vivacchia nel
terziario e di sussidi, ma rosa dalla mancanza di prospettive, dalla
depressione tanto in senso economico che psicologico, dall’atomizzazione
sociale e dal vuoto morale, è divenuta una plebe obesa e violenta contro se
stessa e contro gli altri.
Mentre
per quanto riguarda le classi istruite si sono spostate dagli studi in
ingegneria a quelle in ambito economico e legislativo che servono solo a
predare la ricchezza collettiva.
Motivo
per cui la Russia, con una popolazione che è la metà di quella statunitense ha
un numero maggiore di ingegneri, necessari all’industria militare.
Non
sorprende quindi che gli Usa siano rimasti indietro riguardo allo sviluppo dei
missili ipersonici, e non siano capaci di fornire agli Ucraini il
munizionamento necessario.
“Todd”
quindi procede alla “sgonfiamento dell’economia americana”.
Se è
vero che gli Usa sono egemoni nel settore informatico con i” GAFA” (Google,
Apple, Facebook, Amazon) e che hanno ripreso la produzione di petrolio, vero è
altresì che questi due settori si situano ai due spettri opposti, l’informatica
in quello dell’astrazione, e il petrolio nelle materie prime, ciò che manca è il settore della
produzione in senso tradizionale, per questo non sono capaci di produrre obici
da 155 e missili da fornire agli ucraini.
La
guerra, grande rivelatrice delle realtà, ha mostrato questa deficienza
dell’industria americana.
La globalizzazione orchestrata dagli stessi
Usa ha
minato la loro supremazia economica, nel 1928 la produzione americana
rappresentava il 44% di quella del mondo, nel 2018 è caduta al 16%.
Il
declino americano nel campo dei beni tangibili è netto anche nell’agricoltura,
mentre la produzione agricola russa passava da 37 milioni di tonnellate di
grano nel 2012 a 80 nel 2022 quella statunitense cadeva da 65 milioni nel 1980
a 47 nel 2022.
Il Pil americano è composto, in maggioranza, da
servizi alla persona di cui non si capisce l’utilità, con medici che talvolta
uccidono come nel caso degli oppioidi, avvocati e finanzieri predatori.
Nel
2020 il Pil comprendeva gli stipendi dei numerosi e remuneratissimi economisti
che sono dei “funzionari della menzogna”.
Gli
Stati Uniti sono dipendenti dalle merci importate, e questo mette in
discussione il loro essere “isola del mondo” inattaccabile come afferma “Todd”,
una convinzione generalmente condivisa in ambito geopolitico.
Gli
Usa vivono soprattutto di importazioni non coperte dalle esportazioni ma
dall’emissione di dollari.
Nella
misura in cui procede la dedollarizzazione è a rischio la loro stessa
indipendenza.
Per
arrivare alle radici del disfacimento occidentale “Todd” introduce un concetto
squisitamente filosofico: il nichilismo.
Egli scrive soprattutto del nichilismo
prodotto dalla scomparsa del protestantesimo che è stata la religione che ha
dato vita al capitalismo moderno, soprattutto quello di marca anglosassone,
secondo la classica analisi di “Max Weber”.
Ma è
chiaro che l’analisi si applica all’intero cristianesimo che è stato la base
della civiltà occidentale.
L’analisi è fatta in termini generalissimi e
secondo il metodo della “longue dureè”, ovvero un’analisi che guarda alle
dinamiche secolari ma ritengo sia la parte più significativa dell’intero libro.
Tre
sono le fasi principali.
Vi è
una prima fase in cui la religione viene osservata ed è determinante nel formare la
mentalità collettiva.
La
seconda è la fase “zombie” che vede venir meno l’influenza morale della religione, non
si frequentano le chiese ma ancora se ne osserva il rito in occasione di
nascite, matrimoni e morti.
Il
ruolo della formazione di una mentalità collettiva viene coperto in questa fase
dalle ideologie politiche in generale.
Mentre
negli Usa la fase zombie della scomparsa del protestantesimo ha avuto un esito
positivo con il rosveltismo e con il New Deal, nella Germania ha avuto un esito
negativo con il nazismo.
“Todd”
non indica una ideologia specifica, ma certo possiamo includere “il comunismo”
tra queste ideologie vicarie della religione.
Potrebbe
coadiuvare Todd “Costanzo Preve”, il quale nel “Convitato di pietra, Saggio su
marxismo e nichilismo” portava alla luce il sottofondo nichilista del marxismo,
nel suo carattere pseudo – religioso, che comportava un mito dell’origine e un
mito del fine, l’avvento della società senza conflitti, il comunismo.
Ma
incapace di dare una risposta alla finitudine dell’essere umano, alla morte, un
problema angoscioso e insolubile per l’essere umano che lo spinge ad unirsi con
gli esseri umani, religione deriva appunto da “religio”, tenere insieme.
Potrebbe
coadiuvare l’analisi di “” l’osservazione di” Schmitt” secondo cui tutte le
categorie politiche moderne sono una secolarizzazione di categorie religiose.
Vi è
infine un grado zero della religione che corrisponde a quello attuale in cui la
scomparsa dei valori è totale.
Esso
corrisponde all’azzeramento anche delle ideologie, scompare ogni forza capace
di dare forma ad una moralità collettiva e compare il vuoto, che comporta anche
l’incapacità di azione collettiva.
Tale questione schiettamente religiosa e
filosofica, ha dei risvolti “tormentosi”, (termine usato da Todd) molto reali e
pratici.
Si
pensi alla questione dell’elevato utilizzo degli psicofarmaci, degli oppioidi,
al problema dell’obesità, all’elevato tasso di suicidi, alla frequenza delle
stragi di massa.
Cito
da un articolo di “Emanuel Pietrobon”:
“Nel complesso, tra il 1999 e il 2022, la “Great
Depression”, intesa come l’epidemia di suicidi e overdosi letali da
antidolorifici e antidepressivi, ha cagionato la morte di poco più di due
milioni di persone – tre volte la popolazione dell’Alaska.
Numeri
che parlano di una società in fase di zombificazione, diretta, a meno di una
radicale inversione di tendenza, verso la piena liquefazione.”
Tutto
ciò configura un enorme problema morale che secondo Todd è dovuto a questo
grado zero della religione e quindi dell’ethos, della moralità collettiva.
Il
segnale più evidente della ormai completa assenza di influenza della religione
sulla moralità collettiva è il “matrimonio per tutti”.
L’autore precisa che egli non intende dare
giudizi di valore e di essere a favore della libertà sessuale, tuttavia bisogna
guardare al fatto oggettivo che il protestantesimo era una religione che
incarnava un determinato modello di famiglia, è un suo aspetto basilare, che
possa piacere o meno, e il matrimonio per tutti significa la sua fine come
religione che orienta la moralità collettiva.
Ritengo che la stessa cosa valga per il
cattolicesimo, che l’autore non menziona.
Mi viene da pensare inoltre al “Pci “quando
era ancora un vero partito di massa negli anni ’50 e ’60, e a come la sua
morale fosse simile a quella cattolica nell’ambito dei rapporti sessuali, come
esempio di quella che “Todd” chiama” fase zombie della religione”, che viene sostituita dalle ideologie
per quanto riguarda la formazione della mentalità collettiva.
Secondo
“Todd” può sembrare ingiusto definire gli “Usa nazione nichilista”, poiché ciò
richiama alla mente il nazismo, visto che il nazismo lo hanno combattuto,” l’antisemitismo è assente negli Usa e
ammira ciò che gli Usa hanno rappresentato nel passato, cioè una cultura
effettivamente democratica”.
Tuttavia
non si può non parlare di nichilismo.
Egli si richiama al testo “Hermann Rauschning”,
“La rivoluzione del nichilismo”, relativo alla Germania nazista.
In
entrambi i casi, la politica funziona senza valori, e ciò porta alla violenza
ed appunto in questo modo “Rauschining” caratterizzava il nichilismo.
L’ossessione esclusiva attuale degli Usa sono
la potenza e il denaro, e questo denota un’assenza di valori.
Non
conosco il testo di Rauschining ma è chiara l’influenza nicciana.
La
morte di Dio (grado zero della religione) e fine di tutti i valori.
Per
fare un esempio di “nichilismo applicato”, egli riporta l’esempio della “questione
sanitaria”, osservando come, in realtà, gli Usa spendono più delle altre
nazioni per quanto riguarda la sanità, ma ciononostante hanno visto un abbassamento
importante dell’età media di vita che è 76,3 anni, molto più bassa rispetto a
quella europea che è superiore agli 80 (tra l’altro anche guardando a questo
indice Todd aveva previsto il crollo dell’Unione Sovietica).
Ancora peggiore è il tasso di mortalità
infantile (5,4 per 1000), più alto di quello della Russia (4,4), altro indice
importante,
“annunciatore
dell’avvenire” che denota secondo “Todd” lo stato complessivo di una società.
Questi
elevati tassi di mortalità sono in stridente contraddizione con il fatto che vi
è la più elevata spesa sanitaria nel mondo in rapporto al Pil, e questo è
dovuto al fatto che una parte importante della spesa sanitaria è “consacrata
alla distruzione della popolazione” (e in merito cita lo studio “Anne Case” e “Angus
Deaton”,
“Morti per disperazione e il futuro del capitalismo”).
E qui
basta rammentare il caso degli oppioidi.
Ebbene,
nel 2016 le “lobbies globaliste” hanno fatto votare un” Atto che interdice alle
autorità sanitarie di impedire l’utilizzo degli oppioidi.”
Come non parlare di nichilismo?
Anche
il modo in cui viene trattata la questione sessuale denota il nichilismo, poiché una questione è il diritto
degli omosessuali a non essere discriminati, anche se molti a ragione trovano
errato centrare i problemi politici sulle questioni sessuali, un’altra questione è l’ideologia
transgender, secondo cui un uomo può diventare donna e viceversa.
Questa è una negazione della realtà, che è lo
stadio più alto del nichilismo.
Possiamo aggiungere a quanto scrive “Todd “il
fatto che oggi
ai transgender maschi viene consentito di gareggiare nei tornei femminili,
vincendo a man bassa.
Negazione
grottesca della realtà.
Per
quanto riguarda l’Europa l’ipotesi di “Todd “è che l’Europa voglia “suicidarsi”
ovvero sia spinta dall’inconscia volontà di porre fine al “progetto europeo”
che ormai apertamente fallito, va avanti per sola inerzia.
Questa
sarebbe la ragione profonda del fatto che ha seguito così pedissequamente gli
Usa, mentre durante la guerra contro l’Iraq c’era stata una decisione
opposizione delle nazioni europee in particolare della Germania, seguita della
Francia.
Ancora una tesi “speculativa”, ma il
comportamento autodistruttivo dell’Europa non si può ignorare e va spiegato.
Per
quanto il libro sia molto pessimistico e definisca come irreversibile lo stato
di declino e decadenza degli Usa e insieme ad esso del cosiddetto occidente
allargato, secondo me il libro contiene una sorta di apertura di credito nei
confronti della Germania.
Per
quanto sia stata “sorprendente” la mancanza di reazione della Germania nei
confronti della distruzione di “Nord stream”, secondo “Todd” il comportamento
della Germania è “attendistico” e la conclusione della guerra, che secondo la sua
previsione vedrà una vittoria della Russia, comporterà il ripristino delle
relazioni tra Russia e Germania.
“Todd “non
fa previsioni a lungo termine, preferisce occuparsi di “ciò che è imminente”.
Ma chi
scrive è convinto che se si creasse davvero un frattura tra gli Usa e una delle
principali nazioni europee, essa potrebbe essere seguita da altre nazioni come
la Francia, potrà rinascere una diversa politica nelle nazioni europee, che
metta fine al mostro Ue, e rifondi su nuove basi una politica europea che potrà
sorgere solo da una rinnovata sovranità nazionale, sulle cui basi progettare
una nuova alleanza tra le nazioni europee che possa invertire un destino di
declino e disfacimento sociale qualora continuasse la cieca obbedienza alla
folle politica statunitense.
In una
delle tante interviste rilasciate dopo la pubblicazione del libro, “Todd” non
nascondeva di essere seriamente “preoccupato per figli e nipoti” dato che il
declino, anzi il vero e proprio disfacimento occidentale, appare ai suoi occhi
irreversibile.
Inoltre, se il problema di fondo è la
scomparsa della religione, visto che una nuova religione “non si crea in 4-5
anni e nemmeno in 20-30”, il problema appare in tutta la sua radicalità.
Ma
guardando alla religione “Todd” non faceva che osservare da un’angolazione
particolare la crisi di civiltà dell’Occidente.
Ma se
davvero siamo arrivati al capolinea, la fine di questa civiltà non è la fine di
ogni civiltà, e anche nel passaggio di una civiltà ad un’altra si continua a
vivere.
Udo
Bullmann: "L'AfD prospera
su declino e abbandono.
Se non
recuperiamo chi resta
indietro
rischiamo grosso"
huffingonpost.it - Angela Mauro – (26 -1-2024) – ci
dice:
L'europarlamentare
della Spd al Parlamento europeo a Huffpost dopo le manifestazioni in Germania
contro l'ultradestra:
"I cittadini comuni si sono ribellati ai
piani di re-migrazione, è un vocabolario nazista.
Stiamo
attenti, stiamo vivendo la stessa situazione del pre-Brexit, sospinta da Putin
e Trump.
Negare
i fondi pubblici? Sono estremisti, ma deciderà la Consulta"
La
crescita dell’estrema destra in Germania è il risultato di un mix di “declino
economico e abbandono”, ci spiega “Udo Bullmann” in questa intervista
rilasciata a seguito delle massicce manifestazioni di protesta contro l’”AfD”,
partito estremista di destra in testa ai sondaggi in diversi Länder tedeschi.
L'eurodeputato della “Spd” al “Parlamento
europeo”, presidente della sotto-commissione Diritti umani, non assegna
particolari responsabilità al governo federale guidato dal cancelliere
socialista “Olaf Scholz”, ma riconosce che la perdita di consensi è iniziata
quando la
legge sul riscaldamento è stata presentata al Bundestag.
“La
gente ha cominciato a chiedersi come pagare la ristrutturazione energetica”, dice “Bullmann”.
Interrogativi che “hanno rafforzato enormemente la
destra estrema e hanno creato un clima di sfiducia intorno al governo”. Ora le manifestazioni di protesta
contro “la
propaganda nazista” avranno "un impatto sullo stato della cultura politica in
Germania”,
è sicuro l’europarlamentare socialista tedesco, “c’è stata una reazione vitale della
società civile”.
Ma in
vista delle Europee “dobbiamo affrontare coloro che sono frustrati, che si
sentono incapaci di sopportare le sfide della modernizzazione quotidiana, che
si sentono impotenti nelle loro case”.
“Bullmann”
ammette che anche l’“Ue” poteva fare di più, soprattutto per contrastare la crescita della destra
in Italia che, dice, “sull’immigrazione è stata lasciata sola”.
Quanto
all’idea di privare l’ “AfD” dei finanziamenti pubblici, come è stato deciso
per un’altra formazione di ultradestra “Heimat” con sentenza della Corte
costituzionale, “Bullmann” pensa sia un’opzione: “Ci sono indicazioni che il partito è
estremista di destra per definizione. In Germania i partiti che si oppongono al
libero ordine democratico di base, possono – giustamente – perdere i loro
finanziamenti pubblici. Quindi dobbiamo ancora vedere cosa decideranno i nostri
tribunali”.
L’estrema
destra continua a crescere nei sondaggi anche in Germania. Pensa che le
massicce proteste del weekend possano servire a invertire questo trend?
Sicuramente
avranno un impatto sullo stato della cultura politica in Germania.
Questo per me è sicuro perché sono i cittadini
comuni che si sono ribellati alla destra quando sono emerse le notizie
sull’incontro di Potsdam in cui l’ala estremista della destra, tra cui anche
esponenti della “Cdu,” hanno parlato del loro progetto di deportazione degli
immigrati dalla Germania.
È un vocabolario nazista.
La
società civile si rende conto che nel secolo scorso quello fu l'inizio della
persecuzione degli ebrei e di altri gruppi nella Germania nazista. Per questo
c’è stata una reazione molto vitale della società civile alla minaccia
proveniente dalla destra.
Come
la spiega la crescita della destra in Germania? Cosa ha fatto di sbagliato il
governo? E quali sono le responsabilità del cancelliere Scholz, se ce ne sono?
Non
penso che il cancelliere abbia particolari responsabilità.
In
genere parlo della situazione in Germania, ed è sempre la stessa storia.
Nella crescita di tutti i populismi, ovunque
in Europa e nel mondo, c’è sempre un elemento di declino e uno legato
all’abbandono.
C’è la
dimensione economica del declino che fa crescere le destre.
Lo abbiamo visto con Trump negli Stati Uniti,
con la Brexit, fenomeni peraltro legati.
“Steve
Bannon” ha organizzato le campagne per la Brexit nelle aree della classe
operaia della Gran Bretagna.
E poi c’è il livello culturale, l’abbandono.
Se le
persone non si sentono onorate e rispettate, allora pensano che il sistema non
li rappresenta, non tiene conto delle loro biografie, dei loro interessi, del
loro futuro.
La
combinazione di questi due elementi, il declino e l'abbandono, è terreno
fertile per le destre, per i nazisti e gli ideologi di destra.
La
crescita dell’“AfD tedesca” fa particolarmente impressione perché sembra sia
caduto lo storico tabù che finora ha retto in Germania.
Della
serie: mai più un partito a destra della” Cdu”, come diceva “Konrad Adenauer “dopo
la Seconda guerra mondiale.
C’è
una peculiarità tedesca in tutto questo?
O il
fenomeno è lo stesso di altri Stati dell’Ue?
La
base è la stessa ed è socioeconomica.
Non sono nella posizione di analizzare la
situazione italiana, ma mi stupirei se la forza della destra in Italia non
c'entrasse niente con il fatto che il resto d'Europa ha lasciato l'Italia sola
a gestire i flussi migratori, mentre l’Italia chiedeva aiuto.
Suppongo
che gli italiani, che sono sempre stati molto europeisti e con una società
civica estremamente forte, hanno sofferto anche di una mancanza di solidarietà
in Europa sulla questione dell'immigrazione.
Questa
è la mia ipotesi.
Non ne
ho le prove, ma il mio istinto mi dice che in Francia, dunque in un contesto
socioeconomico simile, ci sono stati diversi elementi che hanno dato inizio al
successo della destra.
In Francia c’è stata la protesta dei gilet
gialli perché il divario tra le aree rurali e le élite urbane in Francia è
significativo.
Macron
e la sua maggioranza si è rivolto di più alle élite urbane e agli
intellettuali.
Chi si
dedica al lavoro rurale, all'agricoltura, chi si sente vicino ad una sorta di
conservatorismo culturale non si sente rappresentato.
Inoltre i costi della transizione ecologica
pesano in modo diseguale sulle fasce sociali, se al tempo stesso le tutele
sociali vengono messe in discussione.
Le
disuguaglianze aumentano. I
n
Germania i socialisti hanno perso consensi quando la cosiddetta “legge sul
riscaldamento “(che tra le alte cose abolisce le caldaie a gas, ndr.) è stata
portata al Bundestag.
Se si
guardano le curve dei sondaggi, è evidente.
La gente ha cominciato a chiedersi come pagare
la ristrutturazione energetica, pur comprendendo la necessità di contrastare i
cambiamenti climatici.
La
gente si chiedeva se una piccola pensione o un piccolo stipendio sarebbero
stati sufficienti per finanziare tutte le misure di modernizzazione richieste
per essere in linea con i requisiti, dal tetto nuovo al pannello solare e i
nuovi infissi.
Tutti questi interrogativi hanno rafforzato
enormemente la destra estrema e hanno creato un clima di sfiducia intorno al
governo.
L’Ue
poteva fare di più?
Ovviamente.
Stiamo
vivendo la stessa situazione che ha preceduto le Europee 2019. Allora, il
nostro gruppo dei Socialisti e Democratici sosteneva che c’erano due minacce:
Putin
e la sua manipolazione delle elezioni in Europa, e Trump alla Casa Bianca, con
il suo ‘agente’ Steve Bannon, il suo miglior soldato, determinati a distruggere
l’Unione Europea per paura della concorrenza da parte di un attore basato sui
valori nel campo globale.
Per
loro, Brexit è stata una necessità arrogante per dividere l’Europa e per
portare via una delle sue parti più importanti e vitali, la Gran Bretagna, con
la sua capacità intellettuale, l'esperienza negli affari esteri, la capacità
del mercato finanziario della City ecc.
Questa
era la situazione 5 anni fa.
Gli
Stati membri, i partiti progressisti, hanno accettato con riluttanza la
provocazione di Putin e Trump.
Oggi
dovremo fare meglio e con urgenza perché dobbiamo far capire alla maggior parte
della società qual è il pericolo.
Dobbiamo
affrontare direttamente gli antieuropei, gli antidemocratici. Dobbiamo identificarli come coloro
che distruggono le nostre società, coloro che distruggono la nostra solidarietà
e la nostra capacità di plasmare il futuro. Questo è ciò che accade ora in
Germania con milioni di persone che scendono in piazza, il che è estremamente
utile per la cultura politica, come ho già detto.
E i
nostri partiti devono fare eco a questo nella prossima campagna. Sono assolutamente convinto che
abbiamo bisogno di mandare questo messaggio chiaro alle nostre società per dire
loro esattamente qual è il pericolo e chi sono coloro che stanno minando il
nostro futuro.
Quindi, detto questo, non dobbiamo solo stare
attenti agli ideologi che cercano di mettersi al passo con la propaganda
nazista.
Ciò che dobbiamo fare è affrontare coloro che
sono frustrati, coloro che si sentono incapaci di sopportare le sfide della
modernizzazione quotidiana, che si sentono impotenti nelle loro case, sul posto
di lavoro, coloro che si sentono messi da parte da processi che non
comprendono, perché queste sono le nostre persone.
E se non stiamo imparando di nuovo a parlare
con loro, se non stiamo mostrando come possiamo fare meglio per riconoscergli
un ruolo, allora significa che non abbiamo imparato la lezione.
Pensa
che negare i finanziamenti pubblici all’ “AfD”, come è successo per l’altra
formazione di estrema destra “Heimat “per decisione della Corte Costituzionale,
sia un’opzione utile?
La
decisione della Corte costituzionale di negare il finanziamento pubblico di “Heimat”
non significa automaticamente che lo stesso accadrà all' “AfD”.
Ma ci
sarà una verifica sul fatto che l' “AfD” stia agendo incostituzionalmente.
Ci
sono indicazioni che il partito è estremista di destra per definizione.
In
Germania, i partiti che si oppongono al libero ordine democratico di base,
possono – giustamente – perdere i loro finanziamenti pubblici. Quindi dobbiamo ancora vedere cosa
decideranno i nostri tribunali.
L’ “AfD”
propone un referendum per uscire dall’Ue, modello Brexit. Pensa possa avere
successo in Germania?
È
un'idea populista molto subdola, che cerca di agitare un problema offrendo una
‘soluzione’ rapida e facile da capire.
Tuttavia, l'adesione della Germania all'Ue è
uno dei principali pilastri della nostra prosperità, lasciare l'Ue scuoterebbe
le fondamenta del nostro modello economico.
Non
solo costerebbe milioni di posti di lavoro e trascinerebbe la Germania in una
crisi economica, ma indebolirebbe anche il nostro peso a livello globale.
Basta uno sguardo alla situazione del Regno
Unito dalla Brexit per vedere gli effetti orrendi.
Quindi no, non credo che i cittadini tedeschi
si lasceranno accecare da questa idea.
Secondo
uno studio di “Ecfr”, l'ondata di destra è molto forte nella maggior parte
degli stati europei e questa volta le europee di giugno renderanno davvero
possibile una maggioranza di destra al Parlamento europeo.
Quali
sono le tue previsioni?
La
prognosi è una cosa. Il campo di battaglia dove si svolge la partita è una cosa
diversa. Quindi il mio messaggio ai miei compagni è di scendere sul campo di
battaglia e combattere come si deve per fare in modo che questa previsione non
si avveri.
La
Germania ha una grande responsabilità per il futuro dell’Europa.
Tutti
ce l’hanno.
La
Germania sente questa responsabilità. La sente la società civile e il governo,
in particolare il mio partito.
All’Onu
primo no
ai
“Killer robot.”
Sbilanciamoci.info – Redazione – (2 Novembre
2023) – ci dice:
Con
164 sì e 8 astensioni l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato la
sua prima risoluzione – la L56 – presentata dall’Austria e sostenuta
dall’Italia, sul contrasto alle armi autonome guidate dall’AI, un successo per
la decennale campagna “Stop Killer Robots”.
“Vignarca”:
“Ora un trattato internazionale”.
Il 1°
novembre 2023 la prima commissione (quella dedicata al Disarmo) dell’”Assemblea
Generale delle Nazioni Unite” ha adottato la prima risoluzione in assoluto mai
discussa sulle armi autonome (i cosiddetti “killer robots” o LAWS)
sottolineando la “necessità urgente per la comunità internazionale di affrontare le sfide
e le preoccupazioni sollevate dai sistemi di armi autonome”. Dopo 10 anni di discussioni
internazionali, in un contesto di rapidi sviluppi tecnologici, questo voto
rappresenta un passo avanti fondamentale.
Ed
apre la strada alla negoziazione di una nuova norma internazionale sulle armi
autonome.
Il
mese scorso il “segretario generale delle Nazioni Unite” (UNSG) e il presidente
del “Comitato internazionale della Croce Rossa “(ICRC) avevano lanciato un
appello storico “per stabilire urgentemente nuove regole internazionali sui sistemi di
armi autonome, al fine di proteggere l’umanità” entro il 2026.
Pur
non spingendosi fino alla richiesta di negoziati, questa risoluzione rafforza
la fiducia in un percorso normativo internazionale e segnala la necessità di intraprendere
un’azione politica urgente per salvaguardare i gravi rischi posti dai sistemi
di armi autonome.
La
Risoluzione L56 è stata presentata dall’Austria e sostenuta da un gruppo
eterogeneo di Stati interregionali, tra cui l’Italia che l’ha sostenuta come
co-sponsor.
Il
testo riconosce “il rapido sviluppo di tecnologie nuove ed emergenti” e fa riferimento alle “serie sfide e preoccupazioni che le
nuove applicazioni tecnologiche in ambito militare, comprese quelle relative
all’intelligenza artificiale e all’autonomia nei sistemi d’arma, sollevano
anche da prospettive umanitarie, legali, di sicurezza, tecnologiche ed etiche”.
Esprime
inoltre preoccupazione per “le possibili conseguenze negative e l’impatto dei sistemi
d’arma autonomi sulla sicurezza globale e sulla stabilità regionale e
internazionale, compreso il rischio di una corsa agli armamenti, l’abbassamento
della soglia di conflitto e la proliferazione, anche verso attori non statali”.
La
risoluzione chiede inoltre al “segretario Generale delle Nazioni Unite” di
preparare un “Rapporto che rifletta le opinioni degli Stati membri “e degli
osservatori sui sistemi di armi autonome e sui modi per affrontare le relative
sfide e preoccupazioni che essi sollevano da prospettive umanitarie, legali, di
sicurezza, tecnologiche ed etiche e sul ruolo degli esseri umani nell’uso della
forza.
Il
Rapporto includerà anche le opinioni di altre parti interessate, tra cui le
organizzazioni internazionali e regionali, il Comitato internazionale della
Croce Rossa, la società civile, la comunità scientifica e l’industria.
La
risoluzione decide inoltre che l’ordine del giorno provvisorio dell’Assemblea
generale delle Nazioni Unite del prossimo anno includa un punto all’ordine del
giorno intitolato “Sistemi di armi autonome letali”, fornendo un’ulteriore piattaforma
all’interno dei forum delle Nazioni Unite per gli Stati che intendono
intraprendere azioni per affrontare questo problema.
Nel
corso della seduta della Prima Commissione del 1° novembre ben 164 Stati hanno
votato a favore della risoluzione L56, solo 5 contro mentre sono state 8 le
astensioni.
La risoluzione porterà ora alla creazione di
un processo che consentirà a tutti gli Stati di presentare le proprie opinioni
sulle armi autonome e dovrebbe stabilire una chiara tabella di marcia per la
negoziazione di un nuovo trattato sull’autonomia delle armi.
Le discussioni per l’adozione di uno strumento
giuridico sull’autonomia delle armi sono state precedentemente bloccate da una
minoranza di Stati militarizzati.
All’Assemblea
generale delle Nazioni Unite questi Stati non hanno il potere di veto.
Le
armi autonome suscitano profonde sfide legali, etiche, umanitarie e di
sicurezza che devono essere affrontate con urgenza, dato che le armi con alcune
funzioni autonome vengono già utilizzate nei conflitti.
La
disumanizzazione e l’uccisione di persone da parte delle tecnologie con”
Intelligenza Artificiale” in contesti militari è inaccettabile e avrà
conseguenze terribili nelle attività di polizia, nel controllo delle frontiere
e nella società in generale.
Migliaia
di esperti e scienziati di tecnologia e IA, la campagna “Stop Killer Robot di
cui anche “Rete Pace Disarmo” fa parte, “Amnesty International”, “Human Rights
Watch”, il “Comitato internazionale della Croce Rossa”, 26 premi Nobel e la
società civile in generale hanno sempre chiesto di negoziare con urgenza un
nuovo strumento legale internazionale che affronti la questione dell’autonomia
dei sistemi d’arma e garantisca un controllo umano significativo sull’uso della
forza.
“I 164
voti a favore della risoluzione contro le armi autonome all’Assemblea Generale
ONU sono un risultato clamoroso – sottolinea “Francesco Vignarca”, coordinatore
campagne della “Rete Pace Disarmo” –
Questa
Risoluzione è un passo significativo verso la negoziazione di una nuova norma
internazionale.
Lo
slancio politico è chiaro ed esortiamo ora gli Stati a fare un passo in più per
impedire la delega di decisioni di vita e di morte alle macchine.
Siamo
poi particolarmente soddisfatti della posizione presa dall’Italia, sia nel voto
finale sia con la decisione di sostenere la Risoluzione L56 presentata
dall’Austria.
È tempo di un nuovo Trattato internazionale
vincolante che garantisca un significativo controllo umano sull’uso della
forza: questo voto è un chiaro passo nella giusta direzione.”
L’illusione
bellica dell’Occidente.
Sbilanciamoci.info - Francesco Strazzari –
(18-2-2024) – ci dice:
Nella
sostanziale afasia sulla guerra contro Gaza, sono le armi a tenere banco.
Con o
senza la Nato, con o senza le destre al comando dopo il voto europeo si dà per
scontato che l’Ue darà ancora più slancio alla spesa per la difesa.
Con
più commesse per l’industria Usa.
Ecco
l’annunciato “Zeitenwende” – il passaggio al tempo nuovo.
Il cancelliere tedesco “Scholz” e il ministro
della Difesa “Pistorius”, in eleganti cappotti neri, raggiunti dalla premier
danese “Frederiksen” affondano le vanghe nella nuda terra e inaugurano la nuova
fabbrica “Rheinmetall” di munizioni d’artiglieria.
L’obiettivo
che fu annunciato, il milione di pezzi in mano agli ucraini entro marzo, è un
miraggio:
dopo
decine di migliaia di morti, cade “Adviivka” e si combatte con sempre meno
risorse.
Mine e
droni russi hanno congelato l’iniziativa di Kyiv, circoscrivendola alla
battaglia sul Mar Nero.
Nel
frattempo “Rheinmetall ha ottenuto commesse per 10 miliardi:
da
quando i carri armati russi hanno invaso l’Ucraina il valore delle azioni è più
che raddoppiato.
Il segretario Nato “Stoltenberg” punta il dito
contro i ritardi del Congresso Usa.
E
annuncia un milione di droni e nuove mine per le difese ucraine.
Ma il candidato Donald Trump è sempre più
ansioso di rimettersi a smantellare l’Alleanza, mentre “Tucker Carlson” loda “Putin”
e la dolce vita moscovita, e nell’Artico le carceri russe restituiscono morto il
capo-oppositore Navalny.
In Occidente Germania, Regno Unito e Giappone
entrano in recessione.
La
Conferenza sulla Sicurezza di Monaco si è aperta con sondaggi che vedono un 87%
dei cittadini Ue favorevoli a una difesa europea.
Proprio
a Monaco, nel 2007, Putin esplicitò le basi del revisionismo russo.
Oggi,
la standing ovation per Zelensky, che arriva con in tasca un accordo bilaterale
con Londra, ed è passato a firmare a Parigi e Berlino (non a Roma).
Nella
sostanziale afasia sulla guerra contro Gaza, mentre Israele bombarda i
palestinesi nella barriera fra la Striscia e il Sinai egiziano – nefasto
annuncio della” nuova Nakba” -, la Germania parla con la Francia di
condivisione dell’ombrello nucleare, e porta la Turchia – finora esclusa per
via del flirt con gli S-400 russi – ad aderire all’iniziativa di scudo
missilistico continentale:
17 paesi, fra cui le neutrali Austria e
Svizzera.
La
Francia è critica, perché il sistema non sarà interamente made in Europe, ma
includerà gli americani Patriot e gli israeliani Arrow.
I
paesi europei spendono oggi per la difesa 380 miliardi di dollari:
erano
230 del 2014, anno dell’invasione della Crimea.
Ursula
von der Leyen dichiara che l’Unione europea darà slancio alla propria industria
di difesa, come già fece con vaccini e gas: spenderà più in commesse europee,
invece che comprare da paesi terzi, come gli Usa.
Si
prevedono resistenze da alcune capitali, ma la traccia è data per segnata.
Lo
stesso Draghi, del resto, si è detto fiducioso in caso di vittoria delle destre
al voto europeo:
arrivate
al governo, non potranno negare che l’europeizzazione della difesa è imperativa
e conveniente.
Eppure
lo stesso “Stoltenberg”, lo scorso 31 gennaio, sottolineava candidamente alla “Heritage
Foundation” che più Nato significa più mercato per l’industria militare Usa:
prova
ne sia che gli alleati atlantici negli ultimi due anni si sono impegnati ad
acquistare armi Usa per 120 miliardi.
Missili
per Regno Unito, Finlandia e Lituania, carri armati per Polonia e Romania, e
F-35 per tutti gli altri:
dunque «la Nato è un buon affare per gli Stati
Uniti».
A
Monaco la vice-presidente Usa, “Kamala Harris”, ha denunciato le ideologie
fallite dell’isolazionismo e dell’autoritarismo che stanno destabilizzando il
mondo.
Ha
rivendicato l’importanza della leadership di Washington, mettendo al centro la
Nato, allertando contro il rischio di un futuro presidente Usa che abbandona
gli alleati per blandire le dittature.
Da
tempo gli Usa dispongono di una “space force”, e guardano con sospetto i test
anti-satellite condotti da altre potenze con lancio di missili balistici.
Bandita
da ogni trattato, la militarizzazione dello spazio è uno scenario realistico,
quale che sia il peso delle speculazioni accesesi a Washington attorno al
presunto progetto di arma atomica russa nello spazio.
Se una
deflagrazione nucleare fuori atmosfera avrebbe effetti indiscriminati, che mal
si acconciano al calcolo strategico, resta il fatto che costi e vantaggi della
proiezione di tecnologia nello spazio cambiano rapidamente, mentre dipendiamo
sempre di più da reti satellitari vulnerabili – dalle infrastrutture civili ai
sistemi di allerta missilistica nucleare.
Nelle
loro interconnessioni con dati e comunicazione, i satelliti hanno un ruolo
dirimente anche in guerra, come mostra l’impero di “Elon Musk”. Dalla
geopolitica all’astro politica il passo è ormai breve, soprattutto se saltano i
trattati per il controllo degli armamenti.
Una
parte crescente di politici ed esperti si mobilita ad arginare la paura
perorando l’ulteriore aumento delle spese militari, in nome del” si vis pacem
para bellum”.
Uno scenario che è quasi una professione di
fede, in cui la democrazia viene difesa da forze di progresso che votano
indiscriminatamente i crediti di guerra, le destre nazionaliste governano e
sono ammansite dalla necessità di difesa del blocco occidentale, mentre le
tante contraddizioni sociali, economiche e politiche che emergono sarebbero col
tempo riassorbite dal giusto corso della Storia.
Un
argomento che si consegna a una visione puramente geopolitica ed essenzialista
dell’Occidente, smarrendo capacità di visione delle trasformazioni globali,
delle dinamiche di disumanizzazione che ci attraversano e dell’orizzonte della
sostenibilità.
Non si
discuta quale modello di difesa.
Si
ignorino i fondamenti empirici su cui è stata storicamente costruita la pace
(si pensi alla fine della Guerra Fredda), che non sono da rintracciare nella
pura competizione al riarmo e nell’ancor più elusiva «vittoria» nello scontro
militare, indiretto o diretto, ma semmai nella capacità di gestire
trasformazioni contraddittorie, produrre consenso e opportunità per i molti.
Se
vuoi la pace prepara la pace.
L’agricoltura
e l’ambiente
hanno
perso la partita.
Sbilanciamoci.info
- Vincenzo Comito – (13 Febbraio 2024) – ci dice:
I
trattori contro l’Europa, mentre il settore è a fine corsa, fagocitato
dall’agrobusiness da una parte, dalla grande distribuzione dall’altra, e anche
dai bassi prezzi esteri.
Ma la protesta, su cui soffia l’estrema
destra, viene incanalata contro i vincoli ambientali e climatici.
Aspetti
generali.
Per
comprendere meglio la crisi attuale del settore agricolo in Europa e la falsa
soluzione che avanza in queste settimane a Bruxelles e in diversi paesi
europei, può essere opportuno ricordare alcune delle trasformazioni che vi
hanno luogo da tempo.
Nell’articolo
facciamo in particolare riferimento alla situazione francese, paese con una
grande tradizione agricola e che appare quello più ricco di elementi di
analisi;
utilizziamo
poi per la redazione del testo diversi pezzi apparsi in particolare sulla
stampa di quel paese e specialmente sul quotidiano Le Monde.
Si è
assistito nella sostanza nel dopoguerra ad un declino veloce di una civiltà
contadina millenaria, autarchica e familiare, con l’apparizione invece della
figura nuova dell’agricoltore, integrata in un sistema di cui non è ormai più
che il primo anello di una lunga catena di fabbriche agroalimentari che
riforniscono a loro volta la grande distribuzione.
In questo percorso c’è stato l’inserimento brutale del
mondo della terra in un modello produttivistico di cui oggi appaiono
drammaticamente tutti i limiti (Bezat, 2022).
Detto
in altro modo, oggi l’impresa contadina rischia ad ogni momento di essere
schiacciata dal lato degli sbocchi dalla grande industria e dalla distribuzione
oligopolistica (in Francia ad esempio esistono ormai solo quattro grandi centrali di
acquisto dei prodotti agricoli, che stanno oltretutto diventando tre), seguendo una logica che tende a
massimizzare i profitti di fronte ad un contraente debole.
Mentre
d’altro canto la stessa piccola impresa agricola deve anch’essa acquisire gli
input produttivi (macchinari agricoli, sementi, fertilizzanti, disinfestanti, imballaggi,
ecc.) da
grandi complessi industriali che dettano i prezzi (Comito, 2023).
Tutto
questo nell’ambito di un settore, quello agricolo, che negli scorsi decenni ha
anch’esso partecipato ai processi di globalizzazione e che deve inseguire la
crescita della popolazione mondiale e i rapidi mutamenti del gusto.
Sul
primo fronte, il settore ha certo i mezzi tecnici per nutrire adeguatamente
tutti gli abitanti del pianeta, ma sono gli indirizzi politici e sociali dei vari
paesi che creano la penuria e la fame.
Tra
l’altro, su di un altro piano, sino a non molti decenni fa i paesi ricchi
apparivano dominanti nel settore, mentre più di recente assistiamo, come del
resto in tutta l’economia, ad un’accelerazione nell’attività dei paesi nuovi.
Così, ad esempio, negli allevamenti oggi paesi
come il Brasile e la Cina, la fanno da padroni, almeno in alcuni comparti,
mentre l’India è diventato il più importante produttore di latte del mondo e
mentre nel segmento dei cereali abbiamo di recente assistito alla forte
crescita, favorita dai cambiamenti climatici, delle produzioni e delle
esportazioni russe (Comito, 2023).
Il
mondo agricolo è nella sostanza molto eterogeneo e comprende al suo interno
delle unità di piccole dimensioni da una parte, ma dall’altra anche delle
imprese sempre più grandi e i due settori presentano aspetti e problemi molto
differenziati:
tra l’altro le seconde continuano a divorare
le prime.
È in
effetti in atto da tempo un processo di concentrazione nel settore produttivo,
con la crescita di poche grandi imprese globali o comunque ad ampio intervento
territoriale, che si orientano verso un modello agroindustriale;
tra
l’altro, più del 50% delle terre è oggi occupata da unità produttive dalle
dimensioni di più di 500 ettari, mentre quelle inferiori ai due ettari, il 87%
del totale, occupano soltanto il 12% della superficie agraria (Bezat, 2022).
Vi si registra anche una concentrazione dei
profitti.
Va
segnalato che il 77% delle unità agricole di piccole dimensioni a livello
globale si trovano in regioni dove l’acqua è scarsa.
Tra le
conseguenze del cattivo modello di sviluppo agroindustriale si può rilevare un
grande livello di inquinamento sotto forma di emissione di gas serra e
fertilizzanti chimici, e ancora scarsità d’acqua, degradazione dei suoli,
spreco del cibo.
L’agricoltura fornisce un grande contributo al
cambiamento climatico in relazione alle emissioni inquinanti provocate dalla
deforestazione, dai prodotti chimici utilizzati nel settore, dagli incendi dei
residui agricoli, dalla gestione degli allevamenti.
Si stima che almeno il 30% delle emissioni
inquinanti complessive nel mondo abbia origine nel settore (Ahuja, 2019), in particolare in quello
dell’allevamento bovino, mentre per produrre un chilo di carne bisogna tra
l’altro impiegare 15.000 litri di acqua. Più in generale il settore
agroindustriale assorbe oggi il 70% del consumo di acqua dolce nel mondo.
Il
quadro europeo
Un
gruppo di ricercatori francesi (Allaire e altri, 2022) ha analizzato il
paradosso di un’Europa diventata una vera e propria colonia agricola.
Bruxelles
sovvenziona in maniera massiccia una produzione di grandi colture cereali e
oleaginose destinate in gran parte all’alimentazione animale.
Per
produrre si utilizzano prodotti chimici e meccanici, petrolio, sementi,
software, provenienti per la gran parte dai paesi extraeuropei.
La
fetta più importante delle aziende agricole è meccanizzata ed impiega pochi
addetti, mentre le produzioni ottenute sono per la gran parte a debole valore
aggiunto e lasciano poi qua e là una falda freatica inquinata e dei suoli super
sfruttati;
una
parte crescente delle produzioni è poi esportata verso paesi come la Cina,
mentre la stessa Europa acquista dal paese asiatico in maniera crescente
produzioni industriali a rivelante valore aggiunto.
Si
rovescia la situazione: per la prima volta l’Europa mantiene in piedi uno
scambio ineguale a lei sfavorevole.
Per
quanto riguarda la “Politica Agricola Comune” dell’UE (PAC), che assorbe una
parte molto rilevante del bilancio di Bruxelles, circa un terzo del totale,
essa favorisce soprattutto i grandi complessi.
Gli
stanziamenti al fondo nel piano 2021-2027 si aggirano in totale sui 387
miliardi di euro, meno di quelli del piano precedente.
Dopo un forte scontro sulla questione degli
schemi ambientali, la soluzione trovata al momento del varo dello schema è
stata quella di destinare il 30% delle risorse all’ambiente, quando la
richiesta della società civile era invece del 50% e quella del Parlamento
europeo del 35%.
I vari membri dell’Unione poi decideranno a
casa loro, da soli, come spendere il denaro. E lo fanno spesso eludendo in
qualche modo i vincoli.
Il
movimento nelle campagne.
In
pochi anni problemi economici e flagelli metereologici si sono abbattuti sulle
campagne.
Si
sono registrati: l’aumento dei tassi di interesse, dei costi dell’energia,
degli input produttivi dei campi e di quelli per l’alimentazione animale, la
pressione degli industriali e della grande distribuzione, la concorrenza da
parte dei paesi con regole sanitarie meno dure, le epizootie, le fluttuazioni
dei corsi mondiali, la siccità e il razionamento dell’acqua, l’inflazione delle
norme che ostacolano l’attività agricola, l’aumento della burocrazia (Bezat,
2024).
Per
altro verso, in una grande paese agricolo come la Francia si contavano 1,6
milioni di imprese agricole nel 1970, mentre ora esse sono soltanto 380.000 e
continuano a diminuire (Bezat, 2024).
Nell’intera
Unione Europea tra il 2005 e il 2020 sono scomparse 5,3 milioni di imprese
agricole.
E
l’emorragia continua.
I prezzi dei beni e servizi usati in
agricoltura sono aumentati del 25% nel solo 2022.
Per
altro verso, per ogni euro speso dai consumatori in prodotti alimentari, solo
15 centesimi vanno agli agricoltori (Amato, 2024).
Il
mondo politico europeo non ha percepito in alcun modo questi cambiamenti
(Lorenzen, 2024).
La
professione agricola è vittima delle politiche liberiste e produttivistiche
sostenute dalla grande industria, che obbligano anche i piccoli agricoltori a
ingrandirsi e a indebitarsi.
Il risultato è una remunerazione miserevole,
che distrugge nel frattempo il resto del mondo vivente e la biodiversità,
l’acqua, i suoli e le condizioni di vita degli animali (Sigaux, 2024).
Incredibilmente,
ormai, in Francia in due terzi dei redditi nelle famiglie di piccoli
agricoltori provengono da attività diverse da quelle agricole (sostegno del
congiunto, secondo lavoro, ecc.).
Nel
2019 il 18% delle famiglie di agricoltori vivevano sotto la soglia della
povertà (Bertrand, Billiard, 2024).
Più in
generale è vero che il reddito medio annuo degli agricoltori ha raggiunto i
56.014 euro nel 2022, prima delle imposte e dei contributi sociali, ma va
rilevata, d’altro canto, la grande diseguaglianza nella distribuzione dei
redditi che ne fanno la professione più diseguale della Francia.
Così il 25% degli agricoltori supera i 90.000
euro e il 10% i 150.000, ma il 10% di essi guadagna meno di 15.000 euro.
Si
osservano poi forti differenze tra le varie sottocategorie, che vanno ad
esempio dai 19.819 euro degli allevatori bovini e caprini ai 124.409 degli
allevatori di maiali.
Di
fronte a questo quadro si può osservare come le soluzioni globali per il
settore non abbiano molto senso (Piketty, 2024).
Certamente,
poi, la situazione dei lavoratori del settore agroindustriale non è tra le più
rosee, anzi si può parlare in questa area in generale di “povertà del lavoro”;
vi si registra spesso un quadro molto
degradato, come l’impiego molto esteso e perverso dei contratti di outsourcing,
in particolare in una filiera come quella della carne (Campanella, 2023).
La
collera cresce da molto tempo contro “quelli in alto”, contro la politica,
contro il governo, contro l’UE. Molti agricoltori non ce la fanno più di fronte al
sovraccarico di lavoro, all’aumento dei costi, alla precarietà dei redditi,
alla dipendenza delle sovvenzioni alle nuove regole di Bruxelles.
L’esasperazione
è in gran parte giustificata, ma rischia di dirigersi verso la destra, anche la
più oltranzista.
Intanto
in Francia si registra nel settore in media un suicidio ogni due giorni.
I
fatti di Francia.
Tutto
cominciò in Olanda.
Nel mese di settembre del 2021 le autorità
olandesi hanno proposto un piano drastico per ridurre l’inquinamento dei loro
corsi d’acqua a causa dei nitrati.
Si è deciso di ridurre di un terzo il numero
dei capi di bestiame del paese, anche attraverso l’acquisto da parte dello
Stato, con successivo smantellamento dei grandi allevamenti intensivi.
Tale
misura ha però suscitato una rivolta nel paese e contribuito persino a mutare
gli equilibri politici.
Più di
recente le proteste sono ripartite toccando molti altri paesi europei, dalla
Francia, all’Italia, alla Germania, alla Spagna, al Belgio.
Basta
leggere i titoli di un giorno del quotidiano Le Monde (28-29 gennaio 2024) per
avere un quadro della situazione:
“In
Germania, un rifiuto netto delle misure per il clima”, “il governo svedese si
esonera dai suoi obiettivi climatici”, “In Grecia la moltiplicazione dei parchi
eolici si scontra con vive resistenze locali”, “In Francia misure di
semplificazione a detrimento dell’ambiente”.
Concentriamo
la nostra attenzione sulle proteste francesi, forse le più importanti e quelle
che toccano più questioni.
Gli
agricoltori transalpini sono scesi in strada con un numero quasi infinito di
richieste;
alcune
riguardano il governo nazionale, altre Bruxelles.
Chiedono,
tra l’altro, la riduzione del prezzo dei carburanti agricoli, il blocco delle
trattative con il Mercosur, un accordo che i contadini accusano di potenziale
concorrenza sleale perché i produttori dei paesi dell’America Latina non sono
soggetti agli stessi vincoli ambientali di quelli europei, poi anche
l’abolizione dell’accordo in atto da tempo che ha annullato i dazi sui prodotti
agricoli ucraini, minori vincoli alla messa in opera di bacini per
l’irrigazione, l’abolizione dell’obbligo di mantenere incolta una percentuale
del terreno del 4%, interventi contro la pressione sui prezzi e il
comportamento sleale della grande distribuzione, la riduzione degli adempimenti
burocratici nazionali ed europei per l’ottenimento dei contributi e di altri
favori, il blocco alla riduzione dei limiti all’utilizzo dei fertilizzanti e
pesticidi, la messa in discussione del vincolo del 30% delle risorse della PAC
da destinare all’ecologia.
Non
mancano anche le contestazioni verso i produttori degli altri paesi europei,
sullo sfondo di una marcata spinta nazionalista.
Gli
strali si rivolgono in particolare contro la Spagna, il più importante
esportatore di derrate agricole in Francia e al coro patriottico si unisce a
sinistra anche una personalità come “Ségolène Royal”.
Sorvoliamo
sul pietoso svolgimento dei fatti del settore nel nostro paese che ha, come al
solito, trovato i partiti e i media in stato confusionale.
Così,
mentre la Commissione Europea si apprestava a proporre dei nuovi obiettivi di
riduzione delle emissioni di CO2 entro il 2040, progetto che dovrebbe permettere
all’UE di rispettare gli accordi di Parigi per limitare le conseguenze del
riscaldamento climatico, le proposte già varate a Bruxelles all’orizzonte 2030
ricevono contestazioni crescenti da parte di agricoltori, industriali, opinioni
pubbliche, governi, partiti politici (Malingre, 2024).
Cosa
fare.
Il
governo francese e Bruxelles, di fronte alle contestazioni, stanno mollando su
tutti i fronti (al contrario che, per quanto riguarda il paese transalpino nel
caso della riforma delle pensioni, che pure registrava qualche tempo fa
proteste ben più importanti come dimensione) e alla fine è l’ecologia che
perde, come intitolava il quotidiano “Libération” dopo la sostanziale fine
delle agitazioni.
Si può aggiungere che intanto si investe sempre di più
nelle armi.
Per altro verso vincono i grandi proprietari,
i grandi produttori di cereali e dell’agrobusiness.
Perde
invece, oltre all’ambiente, un nuovo possibile modello agricolo, su uno sfondo
volgarmente patriottico-protezionistico.
Il
governo di Parigi alla fine, con il primo ministro “Gabriel Attal”, designa i
difensori del clima come nemici degli agricoltori;
le sue
proposte sono un inganno e non permettono di cambiare di modello (Belaich,
Tondelier, 2024).
Va
ricordato che, al di là di questo caso, bisogna decidere chi deve pagare i
necessari costi della transizione energetica:
l’agricoltura, i consumatori, le imprese del
settore, lo Stato.
Sulla
questione, dietro le quinte, hanno soffiato sul fuoco i nemici dell’ambiente, a
partire dalle grandi imprese dell’energia, mentre le destra lo ha fatto
apertamente contestando più in generale tutte le misure che tendono a
ridimensionare la crisi climatica.
Alla
fin fine sono tutti uniti nella loro difesa del modello produttivistico: lo
Stato francese, il più grande sindacato agricolo – la” FNSEA”, che si attiva da
anni per frenare l’evoluzione del modello agricolo francese e che ha trascinato
gli agricoltori nella trappola infernale dell’industrializzazione ad oltranza
(Sigaux, 2024) -, l’Europa con la PAC (l’80% delle sue risorse vanno alle grandi
imprese e ai piccoli restano solo le briciole).
Si
tratta di un modello bloccato;
l’agricoltura
è in uno stato catastrofico dal punto di vista economico, sociale, ecologico,
un settore alla fine della corsa e una professione, quella dell’agricoltore, in
piena crisi esistenziale (Bertrand, Billard, 2024).
È poi
la “FNSEA” che ha fatto votare la PAC a Bruxelles mentre oggi dice che i
problemi sono colpa di Bruxelles.
Non
c’è da sperare che i governi degli altri paesi dell’UE decidano più saggiamente
di quelli francesi.
Perché
gli agricoltori possano far fronte al caos climatico e alla fluttuazione dei
prezzi bisognerebbe riorientare la “PAC” e le politiche nazionali, combattere
più in generale per un’agricoltura socialmente giusta, rispettosa dell’ambiente
e del clima.
Il
valore aggiunto deve andare di più agli agricoltori e non all’industria
alimentare e alla grande distribuzione.
Ma
bisogna anche garantire lo sviluppo di un’agroecologia che permetta di
garantire suoli fertili e il rispetto delle risorse in acqua investendo
adeguatamente nel settore (Belaich, Tondelier, 2024).
Certo,
non si salverà il clima senza gli agricoltori e l’agricoltura finirà per essere
impossibile senza misure ecologiste (Sigaux, 2024).
(Le
misure ecologiste - ora promosse - si basano su alcune considerazioni errate.
Infatti viene ritenuto che il gas CO2, pur essendo più pesante dell’aria, possa
volare tra i gas serra nell’atmosfera e quindi essere causa determinante del
risaldamento globale ritenuto colpevole dei disastri ecologici! N.D.R.)
Sullo
sfondo, peraltro, si profilerebbe la necessità di cambiare non solo i modi di
produzione, ma anche quelli di consumo e i regimi alimentari (Bertrand,
Billard, 2024).
Un
compito molto impegnativo.
Conclusioni.
Le
decisioni provvisorie prese sul problema agricolo dai governi in Francia e
altrove, sotto la minaccia dei trattori, rispondono parzialmente alle richieste
immediate degli agricoltori.
Il movimento è peraltro diviso al suo interno
tra gli interessi delle grandi imprese e quelli delle piccole unità produttive,
e propone più questioni di quelle che si pretende di risolvere.
Resta
totalmente in piedi il grande tema della messa a punto di un nuovo modello di sviluppo più
rispettoso delle necessità di fondo del settore e della società tutta, mentre
si configura un grave arretramento sul fronte della lotta ai mutamenti
climatici.
Le
turbolenze di queste settimane mostrano, ancora una volta, la grave
inadeguatezza delle classi dirigenti politiche europee, del tutto incapaci di
individuare strategie di crescita sostenibile per i loro paesi e per il pianeta
e prese sempre alla sprovvista dagli avvenimenti.
Purtroppo
le soluzioni adottate da queste stesse classi dirigenti inadeguate vanno
incontro a una parte molto consistente delle opinioni pubbliche dei vari paesi
dell’Unione, complici anche i media, che vedono come troppo onerosi oltre
i costi del cambiamento verso un nuovo modello e si mostrano nella sostanza, poco
sensibili ai temi ambientali, sul fronte agricolo come su quello delle auto, o ancora su
quello delle emissioni inquinanti degli edifici.
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