Le armi decideranno il nostro futuro.

 

Le armi decideranno il nostro futuro.

 

 

Il futuro non è scritto,

ma tanto non lo

scriveremo noi.

Atriannaeditrice.it - Pierluigi Fagan – (15/02/2024) – ci dice:

 

A giugno ci saranno le men che inutili elezioni europee.

 Due anni fa e tra due anni, ci sono state e ci saranno altrettanto inutili elezioni nazionali.

 In realtà, l’assetto portante del nostro futuro sarà deciso dal popolo statunitense, il prossimo novembre.

Certo, ormai sappiamo tutti che quella che chiamiamo “democrazia” tale non è ammesso lo sia mai stata.

Sappiamo dell’economia, la finanza, le élite, costellazioni di poteri primi e secondi che avvolgono lo spazio politico che è ai minimi termini per quantità e qualità, in teoria ed in pratica.

Il cinquantennio neoliberale iniziato negli anni ’70 è stato una “controrivoluzione antidemocratica molto complessa e ben strutturata a molti livelli.

 Del resto, è insita nella teoria liberale più generale la preferenza ordinativa dell’economico sul politico.

Negli anni Sessanta e primi Settanta, a partire di nuovo dagli Stati Uniti, i vertici del sistema si preoccupò ed allarmò molto perché conscio dei decenni di transizione che il sistema occidentale aveva davanti e degli andamenti del mondo, non si poteva certo affrontarli con forme di politica democratica che già disordinavano culture, piazze, università, condizioni etniche, diritti politici oltreché civili, mondo del lavoro e quant’altro.

Ne nacque, negli USA, la controrivoluzione neoliberale che molti osservano per la parte economica e finanziaria, dimenticandosi l’origine politica, culturale più ampia, geopolitica poiché alla fine chi decide e chi ha potere di gestire un sistema molto più complesso che non solo banche, monete, transazioni e commerci, il potere di chi fa le regole, nazionali e soprattutto internazionali, le attua, punisce chi le trasgredisce, chi impone e gestisce il regolamento di gioco.

Così oggi siamo arrivati, qui in Italia ma ormai anche qui in Europa, francesi e tedeschi inclusi, a non poter decidere alcunché di strategico e rilevante poiché è tutto sussunto al vertice di quel potere e quel potere è a Washington.

Le elezioni americane, per gli americani, hanno notoriamente valenza interna, quasi nessuno si preoccupa davvero dei riflessi che il voto avrà come sistema occidentale, giustamente a loro interessa solo la loro porzione di realtà.

Come saprete, al momento e salvo terremoti che però sembrano improbabili, andremo al surreale scontro tra due anziani pieni di difetti anche personali, psico-fisici, con sotto due porzioni di élite (gli shareholders) ed appresso altre porzioni di élite interne ed altre esterne, gli “stakeholders”, in un Paese di sempre più densa ignoranza politica e culturale, con problemi strutturali economici, etnici e sociali,  dilaniato da questioni che non vogliono discutere e sublimano in una rissa permanente di valori civili (di cui molte vertono sulla sessualità) ed ideali di natura astratta con fughe “tecno futuriste” e messianico religiose.

Per quanto ci riguarda, la prospettiva di altri quattro anni di Biden, etichetta con sotto un sistema assai complesso che i più non conoscono affatto e si guardano bene dall’indagare, portano ad una precisa postura strategica per la quale noi europei saremo sempre più la dipendenza euroasiatica del loro impero informale.

Impero informale che ha strategia chiara:

attacco continuato e sfibrante alla Russia, indiretto ed altrettanto costante alla Cina, conflitti regionali sparsi, riarmo pesante generalizzato, alzare il muro occidentale contro la giungla globale che sempre più ci accerchia ed accerchierà, pompare ricchezza da qui a lì poiché il cuore ha la sua preminenza in ogni sistema organico.

“Stoltenberg” ogni giorno ci dice che il problema non è più solo l’Ucraina ma dobbiamo prepararci al peggio più generale, russo ma poi anche asiatico.

In fondo, che sia stile Trump o stile Biden, con le buone o le cattive, gli europei debbono comprare armi e tecnologie dagli USA e prepararsi a gestire fronti di guerre che decideranno a Washington, minacciate o agite si vedrà.

Ieri gli americani hanno cominciato il teatrino della “grande minaccia incombente” tipo “Guerra dei Mondi” con tanto di convocazione della c.d. ‘Gang of Eight’” (quella con Lancillotto e Re Artù, mitologia barbarico-anglosassone, ognuno ha la sua), gli otto leader del Congresso che ricevono informazioni di intelligence riservate.

Un repubblicano poi ha spifferato che probabilmente si tratta della minaccia di una nuova arma super-spaziale russa.

Vero o falso che sia, l’intento è anche quello di cercare di de posizionare Trump.

 La visione Trump di USA e mondo non prevede il faticoso accorpamento e gestione del sistema occidentale con Europa ed altri in forme ordinate e compatte e stacca l’interesse per la Russia ritenuta non una reale minaccia per gli interessi americani profondi (anzi partner petrolifero, conservatore e possibile zona ibrida verso la Cina), per dedicarsi al vero competitore strategico, la Cina.

Tuttavia, questa stilizzata descrizione va presa con le molle, non è così semplice.

Nei fatti, la strategia americana per i prossimi trenta anni è più o meno unica, varia l’interpretazione, più formalizzata quella “DEM”, meno formalizzata e forse più flessibile quella “REP”.

Ma non è detto che quella meno formalizzata sia più benevola, anzi tutt’altro, sarà più brusca su certe cose e forse meno su altre, soprattutto non sarà sistemica, sarà “one-to-one”.

Oltre ai riflessi pratico politici, geopolitici, economici e finanziari, le due parti proiettano due diverse egemonie sull’Europa, quella progressista neoliberale e quella conservatrice con strascichi di cinquanta sfumature di destra.

Entrambe però, con programmi convergenti nei fatti di anti-democrazia ben temperata.

Sull’impredicibilità della gestione strategica trumpiana ricordo che l’ultima volta ha passato la campagna elettorale a promettere di tagliare le gambe all’Arabia Saudita, poi, eletto, ha realizzato gli “Accordi di Abramo” che sono il preludio alla “strategia Biden della Via del Cotone” che è il sottostante la ripresa del conflitto israelo-palestinese-iraniano di rimbalzo.

 Quanto agli effetti di un ancora più pesante ostracismo economico e finanziario verso la Cina (primo partner commerciale dell’Europa) potrebbe liberare a cascata effetti di ulteriore contrazione delle nostre sempre più depresse ricchezze nazionali e relativi stili di vita.

 Ma potremo litigare di famiglia, aborti, gay, neri e migranti, che clima che fa, tradizioni e neo-autoritarismo per cause di forza maggiore ovvero gestire il disordine che ha tutte altre cause.

Guardo con triste quasi-rassegnazione al fatto che stiamo perdendo le ultime briciole di dignità politica, nessuno pare si indigna per la totale perdita di autonomia, di potersi legittimamente darsi sa sé le proprie leggi di convivenza come solo si può fare in una vera democrazia.

 Non solo nessuno pare se ne preoccupi, ma dubito che qualcuno sappia anche solo accennare una risposta al fatidico “che fare?”, per eccesso di complessità del mondo e deficienza di complessità nel pensiero che lo immagina e rappresenta.

Capitalismo, neoliberismo, europeismo, occidentalismo, tecno-autoritarismo, ormai siamo invasi e pervasi di potere eteronomo.

Nessuno pare ci si raccapezza più, a partire dal mondo della teoria. Abbondano le analisi settoriali, i critici, c’è qualche utopista, ma l’intero sfugge in diagnosi e soprattutto prognosi.

Tifiamo Trump, Biden, i cinesi, Putin, socialismo, statalismo, euro asiatismo, comunitarismo, neo-umanesimo, il non c’è più destra né sinistra, siamo sionisti o antisionisti, rimbambiti dall’aggressione tecnologica, destinati a spendere in armi e meno in servizi sociali, in Paesi con sempre meno chance produttive, con paurose falle demografiche, sempre più anziani che forse non sono mai stati davvero democratici, ma ormai sono destinati a perdere ogni residua possibilità di decidere di sé, per sé se non che badante scegliersi, ammesso la si possa scegliere.

C’è chi continua a discutere cosa decidere, ma non si rende conto che tanto non può decidere nulla. 

Ammettere con coscienza realista che siamo messi davvero male sarebbe già qualcosa, discuterne con concreta coscienza comune sarebbe il minimo da farsi, ma conformisti o critici, dobbiamo tutti vivere il giorno per giorno e impotenza intellettiva e l’ansia del nostro personale essere nel mondo, preclude ogni lucidità.

 Forse le forme stesse della nostra conoscenza, a spicchi, intrise di teorie nate in altri tempi, ce lo impedisce, ma si fa fatica ad ammetterlo.

Il problema comune è che non possiamo decidere nulla, “non è cosa decidere”.

La speranza è l’ultima a morire, ma se potesse, almeno lei dovrebbe decidere di andare volontariamente in terapia intensiva.

 

 

 

Davos: 260 paperoni chiedono

una tassa sulle grandi ricchezze.

Questione di giustizia, garanzia per il futuro.

Adista.it - Giampaolo Petrucci – (17/01/2024) – ci dice:

 

260 milionari e miliardari del mondo scrivono – ancora una volta – al “World Economic Forum” – per chiedere ai leader politici riuniti a Davos di una tassa sui grandi patrimoni:

«Saremmo orgogliosi di pagare di più», si legge nella lettera pubblicata sul sito della campagna” Proud To Pay More” (proudtopaymore.org).

Da diversi anni i “paperoni” che sostengono una tassazione dei grandi patrimoni ritengono che le principali economie del pianeta debbano «adottare misure per affrontare il drammatico aumento della disuguaglianza economica, che genera conseguenze catastrofiche per la società intera».

I super-ricchi del pianeta non intendono “darsi la zappa sui piedi” per qualche ipotetica ragione molare o ideologica.

Semplicemente riconoscono il loro ruolo centrale di attori e di beneficiari dei proventi dell’economia globale, oggi seriamente minacciata da nuove povertà e disuguaglianze in tutto il mondo:

«Siamo le persone che investono in startup, modellano i mercati azionari, fanno crescere le imprese e promuovono una crescita economica sostenibile.

Siamo anche le persone che beneficiano maggiormente dello status quo. Ma la disuguaglianza ha raggiunto un punto critico e il suo costo per la nostra stabilità economica, sociale ed ecologica è grave e cresce ogni giorno».

Occorre dunque agire rapidamente, sembrano affermare i super-ricchi, prima che il banco salti.

Una tassa sui grandi patrimoni, spiegano ancora, «non modificherà radicalmente il nostro tenore di vita, né priverà i nostri figli, né danneggerà la crescita economica delle nostre nazioni».

Ma rappresenterà una sorta di “investimento” che «trasformerà la ricchezza privata estrema e improduttiva in un investimento per il nostro futuro democratico comune».

Quello che si invoca non è uno slancio di filantropia e di beneficenza, aggiungono ancora i paperoni, ma un intervento normativo strutturale. «L’azione individuale non può correggere l’attuale colossale squilibrio. Abbiamo bisogno che i nostri governi e i nostri leader prendano in mano la situazione. E così ci rivolgiamo nuovamente a voi con la richiesta urgente di agire, unilateralmente a livello nazionale ma anche insieme sulla scena internazionale».

Ogni ritardo su questa strada «rafforza il pericoloso status quo economico», fatto di povertà, disuguaglianze, instabilità sociale e crisi climatica, minando dunque l’essenza stessa della democrazia nelle nostre società e il futuro delle future generazioni.

 Se i nostri Stati si decideranno finalmente a tassarci di più, incalzano i 260 firmatari della lettera, «saremmo orgogliosi di leader eletti che costruiscono futuri migliori».

In qualità di membri più ricchi della società, aggiungono, «saremmo orgogliosi» di «pagare di più per affrontare la disuguaglianza estrema»; «pagare di più per contribuire a ridurre il costo della vita dei lavoratori»; «pagare di più per educare meglio la prossima generazione»; «pagare di più per sistemi sanitari resilienti»; «pagare di più per infrastrutture migliori»; «pagare di più per una transizione verde».

C’è anche un problema di giustizia economica.

Con grande lucidità i paperoni smontano il mito dell’«economia a cascata», secondo il quale la produzione di ricchezza alla lunga si sarebbe dovuta ripercuotere su tutto il popolo, anche in assenza di equi sistemi di prelievo fiscale.

 E così, mentre le ricchezze di pochi crescevano, spiegano i super-ricchi, l’economia a cascata «ci ha dato salari stagnanti, infrastrutture fatiscenti, servizi pubblici inadeguati e ha destabilizzato l’istituzione stessa della democrazia.

Ha creato un sistema economico vergognoso, incapace di garantire un futuro più luminoso e sostenibile.

 Queste sfide non potranno che peggiorare se non si riesce ad affrontare l’estrema disuguaglianza di ricchezza».

«La vera misura di una società può essere trovata non solo nel modo in cui tratta i suoi membri più vulnerabili», dichiarano infine i 260 firmatari, «ma in ciò che chiede ai suoi membri più ricchi.

Il nostro futuro è caratterizzato dall’orgoglio fiscale o dalla vergogna economica.

 Questa è la scelta.

Vi chiediamo di compiere questo passo necessario e inevitabile prima che sia troppo tardi».

 

La campagna” Proud To Pay More” è promossa da “Patriotic Millionaires, Patriotic Millionaires UK”, “Taxmenow”,” Millionaires For Humanity” e “Oxfam”.

All’interno del “sito proudtopaymore.org”, oltre alla lettera dei super-ricchi e al “form online” per firmare l’appello, c’è anche la possibilità di scaricare “il rapporto Proud to Pay More Report”.

Spiega Oxfam Italia, in una nota di oggi (17 gennaio), che il sondaggio, condotto da “Survation” per conto di “Patriotic Millionaires”, ha coinvolto oltre «2.300 persone titolari di patrimoni investibili (escluse le abitazioni) superiori a un milione di dollari, membri del top-5%».

 Il 75% di loro si è detto «favorevole a un aumento delle imposte sulla ricchezza per affrontare la crisi del caro-vita e migliorare i servizi pubblici».

La stessa percentuale si è dichiarata «favorevole all'introduzione di un'imposta patrimoniale del 2% sui miliardari, come proposto dall'Osservatorio fiscale europeo nell'ottobre 2023».

Interessanti anche un altro paio di dati:

«Il 72% ritiene che la ricchezza estrema contribuisca ad acquistare influenza politica» e «il 54% ritiene che la ricchezza estrema sia una minaccia per la democrazia».

 

 

 

Le Verità Dimenticate di “Paolo

Ferraro” su “Satanismo e Massoneria”

e quelle Strane Morti di Militari.

Conoscenzealconfine.it – (7 Marzo 2024) - Cesare Sacchetti – ci dice:

 

Esistono dei luoghi segreti dove in pochi osano addentrarsi.

Sono i luoghi dove sono presenti i massimi livelli delle massonerie italiane e internazionali che da lungo tempo tengono tra le loro mani i destini delle democrazie liberali, le loro creature predilette.

Sono i luoghi laddove ci sono anche quelle società sataniche che hanno guadagnato un potere nel secolo scorso come mai lo avevano avuto soprattutto per la galoppante secolarizzazione, il cavallo di Troia che gli ha permesso di penetrare praticamente ovunque.

E in questi luoghi che si è addentrato “Paolo Ferraro”, un nome che probabilmente alcuni nostri lettori avranno già avuto modo di ascoltare negli anni passati.

“Paolo Ferraro” è un caso forse unico nel panorama italiano e internazionale di coloro che non sono sottomessi a questi poteri, e che hanno cercato di portare alla luce quelle zone oscure e raccapriccianti che “governano l’Italia e il mondo Occidentale” da molto tempo.

“Ferraro” era un magistrato della “procura di Roma” e aveva reputazione di essere un magistrato alquanto serio e impeccabile, e dotato, al tempo stesso, di una elevata preparazione giuridica.

Un giorno la sua vita cambia per sempre quando incontra una donna, “Sabrina R”., che diventerà la sua compagna e questo evento porta “Ferraro” ad essere trascinato in un’altra dimensione, che forse prima lui stesso nemmeno immaginava o quantomeno non pensava certo di trovarsi invischiato, suo malgrado, in una storia che vede intrecciarsi potenti sette sataniche e massoniche.

Il magistrato romano si trasferisce nel 2007 nella città militare della Cecchignola, a Roma, e da lì inizia la discesa nell’incubo.

Qualcosa fa scattare dei sospetti in testa a Ferraro che forse c’è qualcosa che non va nella sua compagna e tantomeno nel condominio dove va a vivere, nel quale tutti sembrano osservare ogni suo movimento quando entra ed esce dall’appartamento.

 Anche il figlio della sua compagna, un bambino 12enne, gli confessa di avere paura di quello che accade in quell’appartamento quando lui non c’è ed è così che inizia l’indagine di “Ferraro”.

Il magistrato inizia a registrare quanto avviene nella sua casa quando lui non c’è e si rende presto conto che nell’appartamento durante le sue assenze entrano degli estranei che praticano dei riti con la sua compagna, non di rado orge di gruppo.

Non si tratta di un banale, seppur scabroso, caso di infedeltà ma di molto altro.

Le intercettazioni audio rivelano che le persone presenti dentro l’appartamento utilizzano degli strani ordini in codice e ripetono delle cantilene che sembrano essere utilizzate per impartire degli ordini a coloro che vengono sottoposti a tali comandi.

“Ferraro” inizia a chiedere l’aiuto di esperti del settore, tra i quali una psicologa e un ufficiale di polizia giudiziaria, e scopre che quanto avviene nel suo appartamento è una “sorta di programmazione del pensiero”, o meglio “un lavaggio del cervello”, che viene praticato da circoli massonici e satanici da lungo tempo.

 

È il MK Ultra: ossia il Controllo Mentale di Satanismo e Massoneria.

La storia della “programmazione del pensiero” è più antica di quello che si pensi e le tecniche di manipolazione di una persona sono utilizzate da molto tempo da coloro che appartengono a questi ambienti.

Le pagine più recenti di questa storia sono quelle che si trovano nei documenti declassificati della “CIA” che rivelano come già dal secondo dopoguerra in poi, la famigerata agenzia di intelligence stesse conducendo tali esperimenti per creare degli “schiavi mentali” nell’ambito del noto “programma MK Ultra”.

Le tecniche di controllo del pensiero passavano attraverso l’inflizione alle vittime di gravissimi traumi psicologici e violenze fisiche, quali torture, stupri e somministrazioni di droghe, per poter alterare la psiche della persona e indurla così ad eseguire tutti i comandi del maestro o del programmatore.

Sono tecniche note alle varie agenzie di intelligence da molto tempo e si sono rivelate nel corso dei decenni tremendamente efficaci per costruire degli schiavi da poter utilizzare in vari ambiti, da quelli della prostituzione alle “missioni più propriamente politiche quali gli omicidi di personaggi pubblici” che in qualche modo rappresentavano e rappresentano una minaccia per i vertici di tale sistema.

Uno degli esempi più noti è quello dell’assassino di Robert Kennedy, “Sirhan Sirhan”, che nemmeno ricorda quanto è accaduto e che dopo un’attenta analisi di uno psichiatria forense della scuola medica di “Harvard”, “Daniel P. Brown”, è risultato non aver agito di propria volontà e consapevolezza e non è responsabile per azioni imposte e/o perpetrate da altri.”

 

“Daniel P. Brown” non poteva essere più chiaro nella sua relazione tanto da definire “Sirhan” come un “candidato manciuriano” dal nome del celebre film che ha avuto due trasposizioni cinematografiche, la prima con “Frank Sinatra”, legato a sua volta a potenti personaggi quali “Guy de Rothschild “o “Laurance Rockefeller”, e la seconda con “Denzel Washington”, entrambi nei panni del “maggiore Bennett Marco”, militare americano sottoposto ad un lavaggio del cervello per assecondare l’agenda politica dei suoi burattinai.

E non esistono solo gli schiavi “politici” che possono essere attivati a comando, ma anche quelli sessuali attraverso prostitute o gigolo programmati per sollazzare i potenti ed estorcere i loro segreti per poi ricattarli.

 

È una tremenda macchina di violenza fisica, psicologica e spirituale che è presente nelle agenzie di intelligence e che si serve di questi metodi per preservare il loro potere ed eseguire i loro piani.

 

Le Sette Sataniche e Massoniche che Controllano lo Stato.

Questo è il mondo nel quale si ritrova precipitato un giorno il magistrato “Ferraro” che scopre di avere al suo fianco una donna programmata per essere una schiava sessuale e che già in passato aveva frequentato questi ambienti per poter servire questi scopi.

Le sue conclusioni su quanto avveniva in quella casa sono lucide e sconvolgenti allo stesso tempo.

” Dall’ ascolto attento emergevano attività già indicate nella conferenza ma, più in particolare, la possibilità di individuare uso di sostanze, tecniche o procedure verbali a prima vista inquadrabili come volte al condizionamento dei soggetti che li ricevevano.

 Tutto ciò in un contesto veramente anomalo, fatto di numerose persone di varie età, che sfruttavano una posizione di soppesabile assoggettamento della persona che abitava nell’appartamento oggetto di intercettazione”.

Qualcuno forse in questi circoli aveva iniziato a studiare le mosse del togato e ha, per così dire, apparentemente “incoraggiato” la sua frequentazione di questa donna, forse nell’illusione di poter controllare meglio” Paolo Ferraro”.

Se questo era il piano originario, costui o costoro devono aver fatto male i loro calcoli poiché il magistrato invece si insospettisce e inizia a raccogliere prove su prove di quanto avviene attorno a lui.

Le registrazioni audio sono tante e dimostrano che ogni volta in quella casa si consumano riti orgiastici di carattere satanico e allora “Ferraro” inizia ad indagare sempre più a fondo.

Comprende che esistono ad alti livelli delle forze armate, delle associazioni massoniche che producono questi schiavi del pensiero.

E questo, secondo il magistrato romano, aveva anche dei legami con l’assassinio di “Melania Rea”, secondo le sentenze uccisa solamente dal marito “Salvatore Parolisi”, nonostante alcune contraddizioni nelle testimonianze.

“Ferraro” affermò che nella “caserma di Ascoli Piceno laddove era di stanza “Parolisi” si praticavano riti del tutto simili, se non ancora più efferati, di quelli che erano praticati nel suo appartamento alla Cecchignola.

 Un altro magistrato, il “Gip Giovanni Cirillo” della procura di Teramo, sembra convalidare questa ipotesi affermando che la stessa “Rea” avrebbe potuto essere stata vittima di queste sette.

Ferraro” va avanti, denuncia e si mette in moto una potentissima macchina per distruggerlo con ogni mezzo.

Si prova a farlo passare per pazzo con un” TSO” del tutto illegale e smentito dalle successive perizie psichiatriche che attestano l’assoluta sanità mentale del magistrato.

Lo si sospende nel 2011 dalla magistratura sulla presunzione, falsa, che egli non era sano di mente, ma in realtà soltanto perché questo giudice era arrivato a toccare quelle sfere che non potevano essere toccate.

Si cerca di isolarlo e distruggerlo in ogni modo e “Ferraro” non è riuscito nella sua purtroppo solitaria impresa di lotta alla massoneria perché troppo solo e troppo circondato, a nostro avviso, da lupi travestiti da agnelli che fingevano di essere dalla sua parte e che in realtà erano stati mandati per controllare le sue mosse, anche dopo che il suo caso esplose a livello nazionale.

Stavolta i media mainstream non potevano fare finta di nulla e persino agenzie stampa quali l’ “AGI “o il portavoce per antonomasia dello stato profondo italiano, Il “Corriere della Sera”, si interessano a lui, considerata probabilmente la carica troppo importante che” Ferraro” occupa nella Repubblica, in quanto magistrato della procura di Roma, nota con l’appellativo di “porto delle nebbie” per la sua solerzia nell’archiviare tutti i casi che riguardano questi poteri.

Esiste un’ampia letteratura in merito e forse il caso più clamoroso è l’omicidio dell’inchiesta sui vertici segreti della massoneria che stava conducendo il “procuratore di Palmi, “Agostino Cordova”.

A scrivere la parola fine su quell’indagine fu la moglie di Bruno Vespa, la Gip Augusta Iannini.

 

Ogni qual volta qualcuno nel malato sistema della Repubblica dell’anglosfera nata nel 1916-48 cerca di guarire tali infezioni e di espellere il male che contamina le istituzioni, il sistema irrimediabilmente si attiva per distruggere quella “minaccia”.

La intera storia repubblicana è purtroppo ricolma di questi solitari eroi quali i giudici  ”Falcone e Borsellino”, “Aldo Moro” ed “Enrico Mattei”, soltanto per citarne alcuni, uccisi non dalle mafie o dalle BR come racconta la falsa vulgata liberale ma da quei poteri massonici e atlantisti che sono i veri padroni della Repubblica voluta dagli angloamericani.

“Ferraro” si scontrò contro tale muro di gomma e morì due anni addietro, nel gennaio del 2022, quando l’Italia attraversava uno dei periodi più bui della sua storia, ostaggio, ancora una volta, di quei poteri denunciati dal magistrato stesso e che hanno fatto di tutto per distruggere la millenaria cultura e storia di questa nazione così odiata dai poteri massonici per essere la culla del cristianesimo e del mondo latino.

Adesso le sue denunce meritano di essere portate nuovamente alla luce anche in virtù di alcuni recenti episodi di cronaca che riguardano omicidi commessi da militari, che preda apparentemente di un raptus improvviso, avrebbero ucciso la madre e la sorella della propria ex compagna, come nel caso di “Cristian Sodano”, 27enne militare della Finanza.

Oppure per ciò che riguarda un altro caso ancora, come quello di Grosseto, quando fu trovato lo scorso anno senza vita un militare di 41 anni, sposato con moglie e figli.

Non si è ancora capito cosa sia accaduto in questo caso e se la morte sia stata veramente un suicidio o piuttosto un suicidio soltanto inscenato.

È possibile che tali casi non siano strettamente legati a quanto dichiarato e provato da “Paolo Ferraro” sulle sette massoniche presenti nelle forze armate, ma le sue verità sono ancora lì, in attesa che qualcuno finalmente riesca a portarle pienamente alla luce e liberare il Paese dalla morsa di questi poteri oscuri.

(Cesare Sacchetti)

(lacrunadellago.net/le-verita-dimenticate-di-paolo-ferraro-su-satanismo-e-massoneria-e-quelle-strani-morti-di-militari/)

 

 

 

 

 

l motivo filosofico per cui

l'autodistruzione nucleare

è possibile.

Ariannaeditrice.it - Riccardo Paccosi – (05/03/2024) – Redazione - ci dice:

 

Come si spiega il fatto che i leader delle nazioni europee vogliano far precipitare l'intero continente in una guerra devastante?

Secondo il sociologo “Emmanuel Todd”, si tratterebbe di una sorta di automatismo mentale generato dal nichilismo.

Il totale fallimento dell'“ibrido istituzionale” chiamato “Unione Europea”, secondo “Todd”, spinge oggi la classe dirigente del continente verso il suicidio: “simul stabant, simul cadent”.

Questa tesi finisce per innescare, però, interrogativi specifici per le diverse nazioni.

Perché, per esempio, i leader della Gran Bretagna - più di tutti gli altri - sembrano disposti a farsi nuclearizzare fino a mettere in scena lo spettacolo dell'ex-premier “Livi Strauss” che, in televisione, evoca il lancio di testate nucleari fra lo scrosciare degli applausi?

Perché i paesi scandinavi hanno abbandonato la loro tradizione di politica estera neutrale, per avventurarsi in una prospettiva guerrafondaia che ne mette a rischio la stessa esistenza?

Fino a quando la Germania potrà continuare a mentire a sé stessa facendo finta che la scelta angloamericana di scatenare la guerra non sia stata prima di tutto anti-tedesca e di non aver subito, da parte degli "alleati", uno dei più gravi attacchi terroristici della storia

(North Stream 2)?

Sia come sia, siamo nella fase del nichilismo reale, nella quale è stato cancellato Dio e il cristianesimo, cancellate le “ideologie universaliste “che avevano temporaneamente sostituito quest'ultimo, cancellata l'idea della centralità dell'essere umano.

Se nella coscienza si crea il vuoto, le scelte che gli uomini di potere possono compiere a livello pratico non sono prevedibili nei termini della razionalità o del bene comune.

La presenza del Nulla nella coscienza, può cioè generare la nullificazione nel mondo materiale;

 può far sì che l l'autodistruzione completa, in altre parole, venga perseguita inconsciamente oppure attraverso eventuali giustificazioni di efficienza tecnica.

Riguardo a quest'ultimo aspetto, infatti, sarebbe un errore madornale pensare che, dal momento che la “Tecnica è divenuta l'epicentro dell'Essere”, allora la razionalità strumentale e il calcolo economico possano evitare che il Nulla si materializzi concretamente.

Il Nulla materiale, infatti, è già oggi palpabile nel momento in cui la digitalizzazione sussume le relazioni sociali nonché la sessualità, nel momento in cui essa cancella la memoria storica nonché ogni idea di trascendenza.

I tanti che, come se avessero conversato al telefono con “Putin” e “Biden”, si dichiarano categoricamente certi del fatto che la guerra nucleare non scoppierà, dovrebbero riflettere su queste problematiche e comprendere che non è il momento di confondere i propri desideri con l'analisi dei processi storici.

 

 

 

Medio Oriente: il laboratorio

geopolitico del nuovo mondo.

Ariannaeditrice.it - Luigi Tedeschi – (04/03/2024) – ci dice:

Il tramonto dell’egemonia globale statunitense sancisce la fine del secolo americano.

 Gli USA si trovano dinanzi ad un bivio:

ritirarsi dall’area o provocare un conflitto di assai più vasta portata.

Il ritorno della storia nelle vicende geopolitiche mondiali ha emesso una sentenza inappellabile:

l’egemonia globale è impossibile.

Il mondo multipolare avrà per protagonisti gli Stati – Civiltà insediati in vaste aree continentali costituite dai popoli più diversi, ma unificati da valori identitari etico – politici comuni.

Un dopo – Gaza indecifrabile.

Gaza è l’epicentro di uno scontro che coinvolge l’intero assetto dell’area mediorientale, quale teatro di un conflitto geopolitico dai riflessi mondiali.

Nel conflitto che oppone” Israele” ad” Hamas” sono coinvolti anche attori maggiori, quali gli USA e l’Iran, sostenuto da Cina, Russia e altre potenze minori quali il Sudafrica.

È in gioco il predominio sull’intero Medio Oriente.

A Gaza dunque, è in pieno svolgimento una fase della “Guerra Grande”.

 

Netanyahu è determinato a conseguire una vittoria decisiva che comporti, non solo lo sradicamento di Hamas da Gaza, ma anche la fine della questione palestinese.

 Il conflitto di Gaza rappresenta l’epilogo di un disegno politico di Netanyahu e della destra ultraortodossa israeliana, che consiste nel rendere impossibile la creazione di uno stato palestinese.

La strategia di Netanyahu è stata per decenni quella di dividere i palestinesi della Cisgiordania sotto l’amministrazione della “ANP” e di “Gaza”, in cui il radicamento di “Hamas” è stato largamente favorito da “Israele”, nel consentire il trasferimento dei fondi del Qatar ai palestinesi.

Non sussistendo quindi un organismo legittimo e unitario dei palestinesi, ogni trattativa sarebbe stata impossibile.

E pertanto, l’unica soluzione possibile della questione palestinese sarebbe scaturita dalla progressiva occupazione da parte dei coloni israeliani dell’intera Cisgiordania, con relativa emigrazione in massa dei palestinesi stessi.

 L’attacco del 7 ottobre ha costituito una insperata occasione per Netanyahu, la cui leadership era già largamente screditata e oggetto di aspre contestazioni popolari, con accuse di corruzione e per progetti di riforma ritenuti antidemocratici, di legittimarsi quale premier di un governo unitario di emergenza, che ha ricompattato un paese dilaniato da conflitti interni, in nome della sicurezza nazionale.

Certo è la fine della guerra comporterà necessariamente anche le dimissioni di Netanyahu, che è quindi determinato a prorogarla all’infinito, col miraggio di una vittoria definitiva su “Hamas”.

Questo obiettivo si sta rivelando tuttavia impossibile.

Nonostante la guerra di sterminio messa in atto da Israele, con l’uccisione di quasi 30.000 palestinesi, l’occupazione di Gaza non ha distrutto che il 30% delle potenzialità belliche di Hamas e riguardo ai dati sulle perdite inflitte all’esercito israeliano vige una assoluta censura.

Aggiungasi poi che la deportazione dei palestinesi da Gaza è altresì impossibile, data l’indisponibilità dell’Egitto e degli altri paesi arabi ad accoglierli.

È assai improbabile una nuova “Nakba”.

Scindere poi la tragedia della popolazione civile dalla guerra “terroristica” di Hamas è del tutto infondato.

 La popolazione palestinese si identifica del tutto con la causa di Hamas e dell’Asse della Resistenza.

Ciò giustificherebbe dunque la guerra di sterminio di Israele?

Il genocidio in atto a Gaza, unitamente al regime di apartheid imposto ai palestinesi in Cisgiordania, incideranno profondamente sulle nuove generazioni palestinesi:

Hamas assurgerà a simbolo indelebile della lotta per la liberazione della Palestina.

Gaza è un punto di non ritorno, sia per Israele che per l’Asse della Resistenza.

Quand’anche si desse luogo ad una totale deportazione dei palestinesi dalla propria terra, sussisterebbe sempre l’identità nazionale di un popolo senza stato nella diaspora.

Esattamente come fu per gli ebrei nei secoli.

Vari piani di pace si sono succeduti negli anni senza successo.

Il fallimento degli accordi di Oslo ha comportato la fine della prospettiva dei due stati.

Si ipotizzano peraltro inverosimili progetti di governo per Gaza con la partecipazione degli stati arabi e della Turchia, fantomatiche rivitalizzazioni dell’”ANP” (quale organismo di rappresentanza dei palestinesi riconosciuto in sede ONU ma delegittimato dai palestinesi stessi), con l’adesione di “Hamas”.

Tutti i progetti di pacificazione dell’area sono falliti perché sono stati concepiti senza il consenso dei palestinesi.

Anzi, tali accordi avrebbero confinato i palestinesi in piccole enclave prive di qualsiasi autonomia.

L’unica soluzione teoricamente possibile sarebbe quella della creazione di uno stato unico multietnico sul modello sudafricano.

Ma dato il clima di odio ulteriormente radicatosi tra ebrei e palestinesi, tale soluzione per ora si rivela impraticabile.

Il dopo – Gaza resta comunque indecifrabile.

 

La vittoria strategica di “Hamas”.

Netanyahu è oggetto di aspre contestazioni per l’inefficienza dimostrata dall’intelligence e dagli alti comandi dell’esercito nel prevenire l’operazione “Al Aqsa”, per il rilascio degli ostaggi detenuti da” Hamas”.

Ma non si deve credere che con la sua destituzione la linea politica di Israele possa subire rilevanti mutamenti di indirizzo.

 La leadership di Netanyahu è durata (a fasi intermittenti), per 20 anni in virtù del consenso popolare riscosso ed oggi, la maggioranza degli israeliani, pur contestando il premier, secondo un recente sondaggio, approva per l’80% l’azione di pulizia etnica condotta da Israele a Gaza.

Israele concepisce questo conflitto come una “guerra esistenziale”, che si inserisce in un contesto assai più vasto, che coinvolge l’intero Medio Oriente.

 Negli scorsi anni, gli insuccessi degli interventi degli americani in Iraq, Siria e Afghanistan, hanno determinato una espansione dell’area di influenza iraniana fino al Mediterraneo.

 Israele, in questa nuova configurazione geopolitica del Medio Oriente, si trova ad essere isolato, specie dopo la pace conclusasi tra Iran e Arabia Saudita con il patrocinio della Cina e il venir meno, nei fatti, del Patto di Abramo.

 Lo Stato ebraico è esposto ad una guerra incessante, sebbene a bassa intensità, ai confini del Libano e Siria con” Hezbollah”, alla perenne conflittualità con la popolazione araba della “Cisgiordania” ed è minacciato nel Mar Rosso dalle azioni degli “Houthi yemeniti”.

 Alla lunga, potrebbe uscirne logorato.

Pertanto, dopo i prossimi bombardamenti su “Rafah” ed una fase in cui Netanyahu potrebbe mediaticamente spacciare l’operazione di Gaza per una vittoria totale su Hamas, Israele potrebbe mirare ad un allargamento del conflitto al fine di rompere l’accerchiamento del blocco” filo – iraniano”, che implicherebbe necessariamente il coinvolgimento diretto degli USA.

Ma l’egemonia americana nell’area mediorientale è ormai tramontata e gli USA non hanno l’intensione di intraprendere nuove guerre in Medio Oriente, dopo i ripetuti insuccessi che hanno gravemente inficiato il suo status di superpotenza.

Questo conflitto segna la fine del “Patto di Abramo”.

Con tali accordi, siglati anche dagli USA, a seguito del riconoscimento dello Stato ebraico da parte degli E.A.U., del Bahrein, del Marocco e con la possibile adesione dell’Arabia Saudita, Israele avrebbe assunto un ruolo giuda nella coalizione e lo status di prima potenza militare e finanziaria nell’area, nel quadro del ripristino di una egemonia indiretta americana in Medio Oriente.

Dopo il 7 ottobre Israele è isolato e minacciato, in un contesto di paesi ostili sostenuti dalle potenze dei BRICS+.

Israele pertanto ha assunto un atteggiamento vittimistico, evocando la memoria dell’Olocausto e nell’ottica propagandistica del mainstream occidentale, il genocidio di Gaza si è tramutato in una guerra di autodifesa esistenziale contro i palestinesi e gli stati islamici che ne minaccerebbero l’esistenza.

Da questa narrazione mediatica emerge quindi una evidente mistificazione della realtà.

Così si esprime “Hanan Ashrāwī” a tal riguardo in una intervista da titolo “I due stati non si faranno” pubblicata sul numero 1/2024 di “Limes”:

“Da quando un occupante rivendica l’autodifesa contro l’occupato? Siamo al ribaltamento dei ruoli:

 la vittima è Israele che si difende dal brutale palestinese.

 Il prima non esiste più, ma è in quei 75 anni precedenti che vanno cercate le cause del disastro.

 Non mi stancherò di gridarlo:

Israele uccide, distrugge, massacra e continua ad agire in totale impunità.

Al massimo, non deve eccedere.

 Ma qual è la soglia dell’eccesso?

Diecimila bambini uccisi?

 Due milioni di persone ridotte alla fame?

 Due terzi degli edifici rasi al suolo?

Hanno aperto il fuoco anche contro i civili che aspettavano gli aiuti umanitari.

Erano anche loro dei terroristi?

L’odio, la violenza non nascono dal nulla.

 Sono il frutto avvelenato della cattività imposta a due milioni di persone a Gaza e a quelle murate della Cisgiordania”.

L’”operazione Al Aqsa del 7 ottobre” è del tutto coerente con la strategia messa in atto da “Hamas” da decenni.

La causa palestinese prima del 7 ottobre era stata derubricata dall’agenda internazionale.

La strategia di Hamas, da sempre, consiste nel provocare eventi eclatanti al fine di far riemergere nel contesto geopolitico mondiale la causa palestinese, con lo scopo di coinvolgere la Palestina negli interessi e nei disegni politici dei paesi dell’area mediorientale.

 Nell’ottica di Hamas dunque, l’”operazione Al Aqsa” rappresenta un successo:

 la causa palestinese è divenuta decisiva per la riconfigurazione politica dell’area mediorientale, oltre a divenire decisiva per l’implementazione dei nuovi equilibri geopolitici mondiali che si stanno delineando nella “Guerra Grande”.

 

USA: una egemonia globale impossibile.

 

L’attuale Caoslandia deriva dalla decadenza degli USA, quale unica superpotenza garante dell’ordine globale unilaterale.

Gli USA sono afflitti da tempo da una crisi identitaria che ha generato profonde contrapposizioni conflittuali nella popolazione.

Sono venuti meno i miti fondativi che erano alla base dei valori unificanti in cui il popolo americano si è sempre riconosciuto.

Il mito messianico del destino manifesto atto a legittimare l’espansionismo americano su scala globale è venuto meno.

Le ripetute sconfitte nelle guerre preventive contro gli “stati canaglia” hanno profondamente inciso sulla stessa identità politica e culturale degli USA.

La fine della deterrenza armata della superpotenza americana ha generato la Guerra Grande.

 Come afferma Lucio Caracciolo nell’editoriale “Cronache dal Lago Vittoria” del numero di “Limes” sopracitato:

“Causa prima della Guerra Grande è la rapida decadenza dell’impero americano.

La pretesa globale ha intaccato la nazione.

 Ne mette in questione l’esistenza.

E ne svela il fondo maniaco – depressivo.

Malattia degli imperi, oscillanti tra delirio di onnipotenza, con relativo eccitamento psico – motorio, e depressione catatonica, manifestata da abulia e distimia.

In meno di trent’anni il Numero Uno è trascorso dall’unipolarismo geopolitico al bipolarismo psichico”.

 Dello stato depressivo diffuso che affligge il popolo americano, se ne erano già avvertiti i sintomi nella guerra del Vietnam:

dissoltosi il mito della invincibilità americana, il popolo ha iniziato a non riconoscersi più nelle istituzioni del proprio paese.

Evidentemente, per gli USA, la psicolabilità collettiva è un tratto distintivo della loro identità.

Questa patologia ha poi contagiato tutto l’Occidente.

È tuttavia improbabile il prefigurarsi di un futuro isolazionista per gli USA.

 La stessa unità nazionale degli Stati Uniti potrebbe non sopravvivere alla fine dell’impero americano.

Per gli USA l’espansionismo è connaturato al loro “essere nel mondo” e quindi appare del tutto logico il loro perseverare nella strenua difesa del loro ruolo egemonico nel mondo, rivelatosi nel tempo insostenibile.

Nel conflitto Israele – Palestina è in gioco l’egemonia sul Medio Oriente tra due contendenti: USA – Israele e Iran – BRICS.

Gli USA si trovano quindi dinanzi ad un bivio:

ritirarsi dall’area o provocare un conflitto di assai più vasta portata.

 

L’obiettivo primario degli USA è il contenimento dell’influenza iraniana sul Medio Oriente.

In caso di ritiro americano da Siria e Iraq, le conseguenze sul piano geopolitico sarebbero per gli USA devastanti:

oltre che all’isolamento di Israele, un ritiro americano darebbe luogo all’espansione economica e politica nell’area della Cina e della Russia, accrescerebbe lo status di potenza regionale della Turchia e comporterebbe la fine dell’influenza americana sulla penisola arabica, dato che Arabia Saudita ed E.A.U. si inserirebbero nei nuovi equilibri geopolitici mediorientali.

Inoltre, poiché dopo l’abbandono dell’Afghanistan la credibilità della deterrenza americana è già a livelli minimi, per Biden, una ulteriore ritirata anche dal Medio Oriente, pregiudicherebbe in misura rilevante le possibilità di una sua rielezione alla Casa Bianca.

Fallita la strategia del dominio indiretto, esercitato cioè mediante il primato di Israele nell’area, agli USA, il cui coinvolgimento diretto in un conflitto più esteso è auspicato dallo Stato ebraico, resterebbe solo l’opzione della guerra totale per ripristinare la propria egemonia.

Tale scelta è per gli USA impraticabile.

L’America infatti dovrebbe impegnarsi in una guerra con l’Iran e i suoi alleati e contemporaneamente far fronte al contenimento della Cina nel Pacifico (che è una sua priorità strategia), a sostenere l’Ucraina nella guerra contro la Russia e a preservare inoltre la sua presenza in un’Africa insidiata dall’espansione delle potenze del BRICS.

Lo stesso sostegno incondizionato americano a Israele, oltre a suscitare una vasta ondata di antisionismo e antiamericanismo in tutto il mondo, ha avuto l’effetto di compromettere seriamente i rapporti degli USA con gli alleati arabi dell’area.

 Aggiungasi poi, che la potenza talassocratica americana non più in grado nemmeno di garantire la sicurezza delle rotte di navigazione mercantile nel mondo.

Nel Mar Rosso è in corso la “missione Aspides”, a protezione dei mercantili in rotta fra Hormuz, il golfo di Aden e Suez, quale scudo navale di difesa dalle azioni ostili degli “Houthi”.

Una tale situazione è peraltro replicabile su scala globale, in tutti gli stretti oceanici di importanza vitale per il traffico commerciale mondiale.

 E i focolai di conflitto si moltiplicano ovunque.

 La sovraesposizione americana nel mondo è evidente:

l’insostenibilità dello status di superpotenza globale è la causa del suo declino.

Occorre inoltre rilevare che la strategia dei bombardamenti indiscriminati in Iraq, Siria, Afghanistan, praticata dagli americani e rivelatasi perdente, è stata replicata da Israele a Gaza.

Un errore fatale è stato commesso:

“Hamas” è stato considerato un movimento islamico radicale alla stregua dell’”ISIS”, dei “takfiri” ecc…

Oltre a non considerare il livello degli armamenti e dell’organizzazione dei militanti assai più avanzato di “Hamas” rispetto a quello dell’”ISIS”, è stato del tutto trascurato il grande consenso popolare a suo sostegno.

 

L’errore capitale di Israele è l’aver ignorato che Hamas, così come Hezbollah, gli Houthi e altri, sono entità non statuali profondamente radicate sul territorio, dotate di classi dirigenti che oggi incarnano l’identità politica e spirituale dei loro popoli.

L’assimilare Hamas alle bande mercenarie tagliagole dell’ISIS, rivela l’inveterato suprematismo razzista di cui sono affetti sia gli USA che Israele, accomunati da un dogmatismo teologico – veterotestamentario, che preclude loro una visione obiettiva della realtà storica e soprattutto gli impedisce di comprendere l’identità e le ragioni del nemico.

Inoltre in Israele, così come negli USA, il “dominio della tecnocrazia” ha prodotto una assenza di strategia sia militare che politica, che può condurre solo ad una debacle geopolitica irreversibile.

Il tramonto dell’egemonia globale statunitense è un chiaro sintomo della fine del secolo americano.

“Alain de Benoist” in un libro del lontano 1976 dal titolo “Il male americano”, esponeva delle considerazioni sul destino degli USA che oggi potrebbero rivelarsi profetiche:

 “L’America di oggi è un cadavere in buona salute.

 Con la sua immensa potenza materiale, con la sua estensione geografica, col suo gusto di “gigantic” e con la fruttificazione del suo capitale, (proprio come l’Unione Sovietica) ha potuto creare delle illusioni.

Ponendo l’accento sui fattori materiali, sugli elementi quantificabili, ha imposto al mondo l’ideale della superproduzione.

Ma questo è sufficiente a garantirne l’eternità?

Prigionieri del desiderio di <vivere alla svelta> (fast life), gli Stati Uniti scompariranno brutalmente come sono sorti;

più presto di quanto non si creda, forse.

 Nella scala delle nazioni, saranno stati quello che certi uomini sono all’ordine degli individui:

 degli imbonitori chiassosi e dotati, ma che non lasciano traccia perché la loro opera è una sbruffonata.

L’Impero romano, dopo essere stato una realtà, fu un’idea, che conformò la vita dell’Europa per mille anni.

L’<impero> americano non potrà durare che nel suo presente.

Può <essere>, ma non può <trasmettere>.

Dopo avere consumato tutto prima che arrivasse a maturazione, non avrà niente da lasciare in eredità”.

Gli USA potrebbero essere considerati dagli storici del futuro un fenomeno storico a rapida obsolescenza, alla pari dei beni di consumo del sistema capitalista, che, oltre ad aver distrutto popoli, culture, natura e risorse, sta distruggendo ormai, con le sue crisi progressive, anche sé stesso.

Il ritorno della storia nelle vicende geopolitiche mondiali ha emesso una sentenza inappellabile:

 l’egemonia globale è impossibile.

 

Stati – Civiltà: il ritorno dell’idea dell’Impero.

L’avvento del mondo multipolare prefigura la resurrezione della storia sulle ceneri di un mondo unipolare a guida USA autoreferente, configuratosi ideologicamente come “fine della storia”, a cui sarebbe subentrato un libero mercato globale ispirato ai vecchi dogmi ideologici liberali “fuori della storia”.

Gli eventi succedutisi nel “MENA” negli ultimi decenni sono esplicativi di una nuova fase storica che comporterà una profonda ridefinizione dell’ordine geopolitico mondiale.

La sconfitta dell’Occidente in Siria e Iraq, oltre alla fuga degli USA dall’Afghanistan, ha sancito la fine della strategia del caos, messa in atto con le primavere arabe, rivoluzioni colorate e con esse, la fine dell’espansionismo globale americano.

La sconfitta in Siria potrebbe assurgere a crocevia della storia contemporanea, quale “Stalingrado” degli USA e dell’intero Occidente.

Dalle guerre di liberazione mediorientali è emerso l’”Asse della Resistenza”, in cui convergono etnie, culture, religioni diverse, ma unificate da interessi e strategie comuni.

È in corso una “Guerra Grande” che in Medio Oriente si configura come una “guerra anticoloniale”, poiché Israele sussiste quale epicentro dell’egemonia coloniale occidentale nell’area.

La fine del colonialismo è sancita inoltre dal declino degli stati mediorientali, che sono stati creati sulla base delle spartizioni coloniali del secolo scorso.

Non scompariranno gli stati, ma assumeranno una configurazione del tutto diversa.

Sono emerse nuove patrie transnazionali fondate su valori spirituali, culturali, identitari, religiosi, che prescindono dai paradigmi etnico – linguistici dello stato nazionale di matrice occidentale.

Dalla comune lotta contro l’Occidente egemone sono sorte comunità non statuali che rivendicano dignità, indipendenza, riconoscimento. Dalla lotta per la libertà e l’indipendenza scaturiscono i valori comunitari fondativi delle patrie e le guerre di liberazione generano una forza propulsiva determinante per l’emancipazione e lo sviluppo dei popoli, data l’esigenza vitale di contrastare una potenza dominante più forte, sia dal punto di vista economico, militare, politico.

Le singole patrie potranno ottenere riconoscimento nel contesto di organismi sovranazionali più vasti.

 Il mondo multipolare avrà per protagonisti gli “Stati – Civiltà” insediati in vaste aree continentali costituite dai popoli più diversi, ma unificati da valori identitari etico – politici comuni.

 

Il Medio Oriente si configura come un laboratorio geopolitico in cui sta venendo alla luce un nuovo mondo multipolare, già in gestazione con l’istituzione del” raggruppamento dei BRICS”.

Un modello geopolitico paradigmatico replicabile nei contesti più diversi.

Un mondo costituito da entità sovranazionali: una riviviscenza in versione moderna degli antichi imperi.

Ma l’idea dell’Europa non ha la sua origine nella concezione dell’“Impero universale” tramandatasi nei secoli e comune a tutte le civiltà che si sono succedute?

 

 

 

L’emergere degli Stati Civiltà.

 Ariannaeditrice.it - Salvo Ardizzone – (04/03/2024) – ci dice:

 

L’unipolarismo americano ha determinato l’instaurazione del Globalismo, Imperialismo e Universalismo.

Ma i costi del mantenimento dello status quo di superpotenza crescono sempre più rapidamente della capacità (e convenienza economica e politica) di mantenerlo.

È prossimo l’avvento del multipolarismo, che ha per protagonisti gli Stati-Civiltà, che dispongono di cultura capace di unire popolazioni anche diverse, di articolare strategia espansiva su vasti territori che tendono a “ordinare” secondo regole proprie, con peculiari gestioni delle risorse e delle economie.

 È il ripudio degli standard occidentali, insieme all’assioma che per modernizzarsi occorra occidentalizzarsi.

Premessa.

Il decomporsi dell’unipolarismo sta determinando una transizione egemonica, un epocale passaggio di poteri che ci sta portando in “terra incognita”, sbrigativamente etichettata dai più col termine “multipolarismo”, piaccia o no ormai da almeno 80 anni assente dal mondo.

Provare a comprendere motivi e meccanismi del fenomeno fuor da mera affermazione politica – o del tutto assertiva in assenza di contenuto – aiuta a intuire contorni e caratteristiche di ciò che sta emergendo.

In precedente articolo, abbiamo trattato lungamente di come l’unipolarismo americano abbia determinato l’instaurazione del Globalismo, Imperialismo e Universalismo attraverso l’impiego delle tre tipologie di guerre ibride, rispettivamente:

Global Marketing, Guerra Economica e Guerra Cognitiva. Con la prima di esse, ha assunto il controllo dei mercati globali esportando una visione – se così può dirsi – del mondo e certamente uno stile sociale;

 con la seconda, ha conseguito l’obiettivo di realizzare il proprio interesse economico a scapito delle economie altrui;

con la terza, ha imposto un modello sociale e culturale insindacabile, unico ammesso e ritenuto accettabile, mediante la manipolazione delle menti.

Ciò avrebbe creato un sistema egemonico destinato a durare molto a lungo, se gli Stati Uniti non avessero infranto le dinamiche del potere esercitandolo in modo del tutto peculiare.

Dacché gli imperi stanno nella Storia, essi alternano fisiologicamente fasi di espansione che metabolizzano in successive fasi di consolidamento.

 È evidente che un impero di nuova formazione, come lo erano gli USA nel 1945, avesse un approccio dinamico quanto espansivo che, tuttavia, per diversi anni ebbe un argine – diremmo un necessitato senso del limite – nel duopolio con l’URSS, con cui si spartirono più o meno consensualmente (in ogni caso specularmente) il mondo.

Il punto è che l’implosione dell’URSS ha fatto svanire quel senso del limite, tramutando il dinamismo americano in frenesia espansionistica, in senso d’assoluta onnipotenza.

Trascurando, e rifiutando, ogni fase di consolidamento e così andando incontro a over stretching certo.

 Esattamente quello che oggi gli USA stanno subendo a causa di “endless war” (le guerre senza fine) in campo militare, economico e culturale con un mondo ormai troppo vasto (oltre 8 miliardi di esseri umani) e segmentato (quasi 200 stati senza contare molti e rilevanti soggetti politici non statuali) per essere retto unidirezionalmente da unico centro di preteso potere.

Una deriva fortemente accelerata dal disfunzionale quanto compulsivo uso dell’hard-power cui essi ricorrono.

Dottrina vuole (e indagine storica conferma) che l’utilizzo di tale declinazione del potere segni il cambio di fase geostrategica del sistema che lo impiega, dall’espansionismo al consolidamento o viceversa.

Un periodo temporale limitato in cui l’hard power viene esercitato per il raggiungimento di uno scopo cui segue nuovo equilibrio di sistema, e ciò perché esso obbedisce al principio d’efficienza, ovvero mira a un determinato risultato a prescindere dall’onere che comporta.

 Insomma, costa assai più dei guadagni e non è dunque sostenibile nel lungo periodo perché esaurisce.

 Gli USA, invece, lo stanno adoperando da tempo per puntellare la pretesa espansionistica di un impero che s’avvita in crisi manifesta, rifiutando postura di consolidamento.

Ovvero, perseverando e incrementando un over stretching già rivelatosi insostenibile.

 Ciò segnala fallimento – peggio, mancanza – di geo strategia, perché infrange la sua prima legge:

essa predica che gli obiettivi vanno comunque parametrati alle risorse, ostinarsi a indirizzarle a 360 gradi su tutto il globo, quale esso è divenuto oggi, non persegue uno scopo ma insegue una chimera.

Tutti gli imperi hanno avuto e hanno criticità, per esempio in quello spagnolo era eclatante l’incapacità di mettere a frutto le enormi risorse cui poteva attingere che, semplicemente, dilapidava (anche in questo caso per ragioni strutturali), dinamica che, alla lunga, ne ha causato il declino.

La differenza sta nella rapidità del decadimento e nella capacità o meno di opporre resistenza e resilienza nel contrastare forze contrarie, e adattarsi al cambiamento in prolungati periodi di difficoltà.

 Esempio è l’Impero Romano, che seppe mutare molte volte pelle – e non solo – per sopravvivere attraverso i secoli.

Quello americano dimostra di non saperlo fare e di degradare con stupefacente rapidità.

E ciò è legato a sua essenza, alla natura dell’impero che ha costruito e al suo modo di indirizzarlo:

in altre parole, alla maniera che gli USA hanno di intendere cultus, oikos e stratos, ovvero Geoeconomia, Geo cultura, e Geo strategia. Che nella pratica significa matrice liberale, declinata sia in versione conservatrice che liberal (Geo cultura), prassi neoliberista (Geoeconomia) e connaturato espansionismo di una nazione che si sente “eccezionale”, investita dal “destino manifesto” di dominare il mondo (Geo strategia).

 

A osservazione geopolitica – che si sforza di mantenersi fredda nell’indagare i fatti e studiarne le dinamiche – queste bizzarre caratteristiche dell’impero USA non segnalano fenomeno contingente, ma configurano strutturale disfunzionalità del suo sistema, che tende a disconoscere limiti, a negare dignità o la possibile esistenza dell’altro da sé (che esiste, eccome!), a inseguire l’utile quanto più immediato.

 Con ciò negandosi concettualmente visione prospettica oltre l’oggi. Vietandosi pensiero strategico che guarda alle conseguenze.

 Al domani e anche al dopodomani, categorie del tempo da esso escluse.

I risultati sono del tutto evidenti:

raggiunto l’apice del Globalismo (intersezione massima di assimilazione e liberismo), in dottrina chiamata “Chiave di Wallerstein”, il Global Marketing più estremo diviene prevedibile da competitor e avversari – si svela nella sua dinamica – dunque meno incisivo, suscitando nel mondo reazioni opposte sempre più efficienti e per l’Egemone logoranti.

Con ciò ridisegnando la polarizzazione del dominio economico e culturale che migra verso altri luoghi, verso altri poli d’irradiazione.

È dinamica già in atto da anni, accelerata dalle pratiche di “reshoring” e “friendshoring” poste in atto dagli USA che, nel tentativo di difendersi e colpire paesi considerati “revisionisti” perché contestano la loro pretesa “supremazia a prescindere”, stanno provando a ridisegnare le “supply chain”, ovvero le catene di approvvigionamento di prodotti e servizi.

Con ciò spezzando quelle esistenti con risultati eufemisticamente deludenti, che si ritorcono su loro e chi li segue.

Nei fatti, sull’impero americano nel suo insieme.

Allo stesso modo, raggiunto il punto più avanzato dell’Imperialismo (punto estremo d’intersezione fra liberismo ed espansionismo), chiamato “Chiave di Gilpin”, i costi del mantenimento dello status quo crescono sempre più rapidamente della capacità (e convenienza economica) di mantenerlo.

Con ciò determinando la forzata contrazione – anche geografica – dell’impero, obbligato a lasciare ad altri parti crescenti della sua precedente sfera d’influenza.

A quel punto, le stesse misure che l’impero adotta per imporre la propria economia e rintuzzare l’ascesa di altre potenze – o punirle per la loro “ribellione” – finiscono per ritorcersi contro di lui.

 Esemplare è l’uso compulsivo delle sanzioni che, oltre a dimostrarsi sempre meno efficace a causa dell’elevato – e crescente – numero di soggetti sanzionati, ha reso sempre più conveniente la de-dollarizzazione, così imprimendole forte accelerazione.

Con ciò indebolendo il principale pilastro su cui si regge il potere americano.

Infine, l’apice dell’azione congiunta di espansionismo e assimilazione configura l’Universalismo, massima espressione d’invasività perché si rivolge alle menti, con l’obiettivo di plasmarle a propria convenienza.

 La “Chiave di Huntington” è il suo punto estremo, esito della Guerra Cognitiva che in questo ambito viene combattuta, raggiunto il quale la propaganda diffusa dall’impero – la vulgata mainstream – perde rapidamente credibilità, scade a caricatura subendo un tracollo.

 I popoli perdono interesse per la narrazione prima dominante, volgendosi ad altre vulgate.

Basta volgersi attorno per rendersene conto.

Chi ce l’ha e le serba ancora tornerà alle proprie radici, o a ciò che crede tali (c’è grande differenza su cui torneremo), in ogni caso togliendo acritico sostegno all’impero;

dinamica che crea fratture esterne a esso, sottraendo crescenti parti dei domini al suo controllo e alla sua influenza mettendone in dubbio l’egemonia, e interne – ancor più insidiose – perché spezza basi e perno del potere.

 Fa venir meno la giustificazione del prezzo che il popolo è chiamato a sostenere per il mantenimento dell’impero.

Basta guardare alla situazione interna USA per averne dettagliato esempio.

È dalle conseguenze dello sfiorire di Globalizzazione, Imperialismo e Universalismo che prende il via l’emergere degli Stati-Civiltà.

Fenomeno che rimarca ancor più nitidamente per contrapposizione alle caratteristiche dell’impero americano.

 

L’avvento degli Stati-Civiltà.

 

Gli Stati-Civiltà sono potenze la cui influenza si estende assai più in là delle proprie frontiere– talvolta del proprio ceppo etno-linguistico – modellando il proprio estero vicino, alle volte territori di riferimento anche più distanti.

È il ritorno del concetto d’area d’influenza, anatema per orecchio liberale che vede l’intero pianeta propria indistinta zona d’appannaggio. Ne è conseguenza il fatto che la parte di mondo dove liberal-democrazia governa tende a riconoscersi nell’”Unipolarismo USA” e nel” rules based order” da essi imposto, mentre gli Stati-Civiltà intendono l’ordine mondiale – il “Nomos della Terra”, citando Carl Schmitt – come Multipolare, meglio, Policentrico.

Più specificamente, gli Stati-Civiltà hanno idea di sé, del proprio “stare nel mondo”;

dispongono di cultura capace di unire popolazioni anche diverse, di articolare strategia espansiva su vasti territori che tendono a “ordinare” secondo regole proprie, con peculiari gestioni delle risorse e delle economie.

 Insomma, hanno una “visione” che declinano secondo Geo cultura, Geo strategia e Geoeconomia proprie.

Con ciò possedendo tutti gli ingredienti di una sovranità compiuta, basati su sostanziali valori non negoziabili desunti dalle rispettive tradizioni per come da esse (e in esse) articolati nel corso della Storia.

 

Per queste innate peculiarità ciascuno degli Stati-Civiltà ha identità distinta, non sovrapponibile ad altre.

 E in nome di tale identità, che – da sottolineare ancora – non può essere negoziata, si pongono in naturale contrapposizione con il preteso Universalismo occidentale, che mira a instaurare (oggi, in realtà, tenta con crescente insuccesso di mantenere) gli stessi principi su tutto il pianeta.

Allo stesso modo tendono a respingere il Globalismo, rifiutando nei contenuti culturali e mantenendo i meccanismi economici e commerciali che ritengono convenienti, meno che mai ad accettare l’Imperialismo che rigettano del tutto, accettando rapporti in base a propria utilità e coerenza con gli interessi nazionali.

 È ripudio degli standard occidentali, insieme all’assioma che per modernizzarsi occorra occidentalizzarsi.

Come pure, che l’adozione di una economia di mercato implichi necessariamente l’adesione ai meccanismi liberisti.

 

A guardar bene questo snodo della Storia, rileva che la competizione avvenga fra culture e loro emanazione.

 Nel mondo liberal-democratico, ovvero durante regno Unipolare, era l’economicismo a caratterizzare i rapporti fra i satelliti dell’impero e una era la cultura, al singolare perché uniforme e unica per tutti.

Preteso metro universale cui tutti erano tenuti a omologarsi, puro strumento dell’Egemone che tutto regolava.

 A caratterizzare le relazioni fra gli Stati-Civiltà sono invece le culture, plurali, che ne informano differenziata visione del mondo, proiezione di sé e dei modelli di gestione della società.

 

Visti in questa prospettiva, gli Stati-Civiltà possono essere paragonati ai passati imperi che hanno retto e modellato il mondo, ma ancor di più – per l’enfasi esiziale sulla Geo cultura che li informa – vanno accostati ai Grandi Spazi, ai Grosraum teorizzati da Carl Schmitt:

vaste aree su cui insistono popoli che hanno comunanza di esperienze storiche e relazioni con i territori, sviluppando così culture contigue, assonanti.

 Su queste basi primarie, formate da tradizioni comuni, assimilabili, possono confluire in vario modo altri – molteplici – fattori d’integrazione: etnia, posizione geografica, religione, etc.

 L’insieme di tutto ciò ne definisce lo “stare nel mondo” che caratterizza la compresenza in un Grande Spazio.

Come avrebbe detto Heidegger il suo “dasein”.

Per definirsi Grossraum occorre comunque stazza, primariamente culturale, poi demografica, possibilmente economica – in fondo è la meno caratterizzante;

necessita comunque area omogenea, che accetti e riconosca propria una derivante sintesi politica espressa da soggetto guida che la proietti su un vasto territorio, dal quale è esclusa per principio azione di potenza terza.

 

Ma perché gli Stati-Civiltà stanno emergendo adesso, riproponendosi attori primari della Storia quando, solo pochi decenni fa, taluni sostenevano che essa fosse finita?

La spiegazione sta nelle culture – più precisamente le Geo culture – che sono riemerse quando la Geo cultura dominante ha mostrato crescenti limiti e inadeguatezza.

 Fatto è che la cultura di un popolo riveste ruolo insostituibile per la tenuta sociale e politica della sua nazione.

Una cultura forte e radicata è capace di interpretare la realtà che muta traducendo stimoli ed eventi in fattori di forza, d’integrazione d’elementi altri, “metabolizzandoli” all’interno del proprio universo valoriale e fornendo risposte alla contemporaneità che muta coerenti a esso.

 In questo senso, ancora una volta è tipico l’esempio dell’Impero Romano, capace per lunghi secoli di utilizzare e fare propri gli ingredienti più diversi ritenuti utili per “vivere nei tempi”, senza nulla perdere della propria essenza.

Nelle temperie odierne dell’Occidente, giova ricordare che la civiltà è frutto di risorse spirituali (appunto, attinenti alla sfera culturale nella vasta accezione) e materiali (afferenti potenza economica e militare);

la sua capacità di affermarsi è combinata conseguenza di esse. Trasposto in più freddo ambito geopolitico, la Geo cultura afferisce alla cosiddetta “Sfera Spirituale” che dà orientamento e legittimazione al cosiddetto “Arco Materiale”, con ciò intendendo la combinazione di Geo strategia e Geoeconomia.

Senza Geo cultura capace di tenere unita una nazione e di proiettarsi fuori di essa, trovando positiva accoglienza negli ambiti cui è rivolta, Geo strategia e Geoeconomia risultano vane, quantomeno azzoppate. Ridotte a pura forza bruta, dunque condannate a collasso per esaurimento.

Aprendo parentesi necessaria, rileviamo come il rapporto col sacro sia parte essenziale della tenuta di qualsiasi società;

 l’abbandono di esso, anche solo il suo decadimento, incide fortemente nell’espressione della cultura di un popolo, quindi sulla possibilità che esso ha d’articolare una Geo cultura che – senza l’elemento del sacro – è semplicemente svuotata.

E ciò perché è esso a dare senso e coesione alla comunità;

declinato a livello più alto, alla nazione e allo stato che l’amministra; studio della Storia ci dice che non è sui singoli individui che un paese può reggersi ma – appunto – sul senso di comunità.

Qui non parliamo di una singola religione, ma del modo in cui i popoli declinano e vivono il sacro, ovviamente ciascuno a suo modo, coerentemente a proprie sensibilità e culture sedimentate nei secoli.

L’Occidente ha eliminato il sacro, relegandolo al più a superficiale pratica religiosa, tollerata quando non criticata, con ciò uccidendolo e decretando al contempo la morte del senso di comunità.

Forse il più rilevante dei mutamenti nella Storia della sua civiltà.

 Per qualche tempo le società occidentali hanno ovviato col succedaneo delle ideologie ma, eliminate anch’esse, non è rimasto alcunché a dare il tono di fondo su cui articolare una cultura unificante e, da essa, definire una Geo cultura.

Con ciò sancendo una propria strutturale debolezza, diremmo un’estrema vulnerabilità dinanzi a realtà terze.

Non a caso è opposta la situazione negli Stati-Civiltà:

in ognuno di essi è forte il senso del sacro, quanto meno la sua concreta influenza sulla nazione.

Basta osservare le realtà russa o turca dove la sfera religiosa è potente strumento di coesione o proiezione, nel caso dell’Iran è addirittura elemento fondativo.

Anche l’India, malgrado fratture interne, punta sull’induismo per darsi anima unica e con ciò forza;

in Cina è sul substrato culturale confuciano, sulla naturale preminenza della comunità sull’individuo singolo, avulso da essa, che si basano le politiche dimostratesi vincenti.

Ma tornando alla nostra narrazione, da quanto detto sin qui consegue che l’attuale transizione egemonica non vedrà l’affermazione di nuovo egemone globale;

ciò sarebbe contraddizione dell’essenza degli Stati-Civiltà che si basano invece sulle “differenze” sulle loro peculiarità.

Del resto, tornando all’esempio dell’Impero Romano – che alle latitudini occidentali permane esempio primo di impero – è vero che esso si dichiarava universale, ma su quella parte di mondo che ordinava e plasmava coerentemente al proprio orizzonte valoriale.

 Come abbiamo detto in precedente occasione, l’idea di impero è unica ma, al pari della Tradizione, trova modi e forme diversi a seconda dei contesti in cui s’invera, ovvero, a seconda della cultura che li caratterizza.

Per tali ragioni, l’ordine mondiale che sta emergendo è piuttosto basato su un Policentrismo, costituito – appunto – dai vari Stati-Civiltà, cui è sotteso un multiforme reticolo differenziato di relazioni orizzontali e verticali: in primis fra essi e poi fra essi e le entità politiche a loro vicine o esterne alla loro sfera d’influenza; secondariamente, fra i soggetti che permangono al di fuori degli Stati-Civiltà.

 Un ordine regolato dal ritorno al Diritto Internazionale, da troppo tempo sostituito/piegato dal “rules based order” a Stelle e Strisce, e da standard propri, non altrui.

 Uno stato del mondo che, a occhio aduso a egemonismo globale (e incurante della conseguente condizione d’assoggettamento), apparirà come somma confusione foriera di paure ma che, piaccia o no, per attori politici compiuti dotati di sovranità rappresenta normalità che archivia il preteso Unipolarismo, esso sì anomalia dinanzi alla Storia del mondo.

Né a riflessione attenta appare convincente l’argomento che tale sistema porterà più guerre, e per diverse ragioni.

 L’attuale moltiplicarsi di conflitti è generato dalla ribellione del mondo – o, quantomeno, della sua assai più vasta parte – a un Egemone che non si rassegna a ridimensionare la sua pretesa di dominio, perché si vede Numero Primo o nulla.

 È il rifiuto di crescente parte dell’umanità di subire regole americane e omologarsi a standard estranei a sé e ad altri convenienti a gemmare conflitti;

sostenere che per eliminarli si debba accettare sudditanza è idea bizzarra che contraddice la Storia, a cominciare dal non lontano processo di decolonizzazione, e nega la stessa sovranità delle nazioni e il principio di auto-determinazione dei popoli.

 E non è tutto.

È stata la liberal-democrazia americana, allora rappresentata da “Woodrow Wilson”, a reintrodurre il concetto di” bellum justum”, accadde a Versailles nel 1919.

 Citando ancora una volta “Carl Schmitt”, facciamo notare come da allora la nascente potenza americana archiviò strumentalmente il concetto di “jus” in bello, ovvero di conflitto regolato dal Diritto Internazionale, sostituendolo – appunto – con quello di “bellum justum”, guerra giusta, che non prevede quindi uno” justus hostis”, un nemico giusto, legittimo, e che inscindibilmente reca con sé la” justa causa”, la giustificazione per qualsiasi cosa si faccia per tale supposto buon fine.

 

I passaggi sono evidenti:

 dichiarata o subita poco importa, una guerra giusta è condotta comunque in nome del “bene”, contro un nemico che, a questo punto, è configurato come il “male”;

distruggerlo, annientarlo in ogni modo è lecito, anzi, è condotta “moralmente” obbligata.

 Con ogni evidenza, è concetto mirante a disumanizzare l’avversario demonizzandolo, e con ciò rendendo dovuto e meritorio il suo annientamento qualunque sia il mezzo usato.

C’è questo alla base del sistematico doppio standard che il mainstream mediatico delle liberal-democrazie ha adottato per i “freedom figthers”, i suoi “combattenti per la libertà”, nelle infinite guerre che si sono succedute.

Secondo esso, ci sono bombe cattive, quelle del nemico, e bombe buone, necessarie, comunque giustificate, da quelle su Nagasaki e Hiroshima a quelle che cadono su Gaza, passando per gli infiniti morti nelle città europee rase al suolo fra il 1943 e il 1945, in Corea, Vietnam, Serbia, Afghanistan, Iraq, Palestina, Siria, Yemen, Ucraina e via discorrendo.

A guardar le cronache del mondo, risulta che è essenzialmente l’Egemone ad aver mosso guerre per affermare i suoi interessi, ammantati da superiore legittimazione morale.

Massima proiezione di “Guerra Cognitiva” che, tuttavia, nelle temperie attuali funziona sempre peggio.

Costretta oggi a sovradosaggio fino al caricaturale, a pura smaccata propaganda, finendo per essere, prima che inutile, controproducente. Che suscita rigetto virante in crescente avversione nei paesi dove cultura propria è capace di decodificarla – Sud Globale in generale, negli Stati-Civiltà in particolare;

manifesta disaffezione all’interno di un Occidente che non dispone ormai di Geo cultura propria.

Dinanzi a narrazione mainstream i singoli stati occidentali sono divisi fra scetticismo e disinteresse della popolazione.

Al più consenso passivo, residualmente attivo, per carenza manifesta di una narrazione ormai manifestamente logora, del tutto distaccata dalla realtà.

Molto ha contribuito in questo la lunare gestione della pandemia, che in vaste fasce sociali ha generato prima dubbi, poi sospetto, infine avversione.

È un dissenso che tuttavia rimane in stato magmatico per incapacità di aggregarsi in solido fronte, causa carenze di compiuta cultura condivisa e conseguenti fratture della società.

Cultura, visione del mondo, identità profonda e dunque non singola ma comunitaria, sono state del tutto insterilite dopo tre generazioni d’imposta Geo cultura altrui.

Né istintiva adesione a frammenti affioranti dal passato serve, sono semplici riflessi di tempi tramontati, privi di radici e dunque incapaci d’interpretare compiutamente il presente, di dare idea di sé e anima a nazioni.

 Meno che mai è possibile prendere in prestito il mondo valoriale altrui, come fanno taluni guardando ad altri Stati-Civiltà.

 La Geo cultura è essenziale per unire una nazione, per costruirvi attorno uno stato, ma è frutto autoctono che impiega molto tempo a maturare – ammesso sia esistente – ne è vietata importazione pena sudditanza.

In terra d’Occidente ciò è stato sperimentato per anche troppo tempo.

 

Come muta il mondo.

Da quanto detto è chiaro chi possa ergersi a Stato-Civiltà:

Russia, Turchia, Iran, India e Cina ne sono paradigmatici esempi, pur nella loro estrema diversità, e non potrebbe essere diversamente.

 Più e prima del loro singolo cammino e interessante vedere come la loro ascesa stia destrutturando i pregressi equilibri del mondo e ridisegnando ambiti e aree d’influenza, un tempo caratterizzate dall’indiscusso potere egemonico unipolare oggi in contrazione.

 Una capacità d’irradiazione che s’intreccia variamente in funzione dei diversi interessi di cui i nuovi attori primari sono portatori, e trova sinergie.

Malgrado aderiscano anche a format partoriti dall’ordine americano (vedi G20, BMI, FMI) gli Stati-Civiltà preferiscono aggregarsi in organismi alternativi (vedi BRICS, SCO, AIIB, etc.), in quanto essi rigettano il concetto di ascrizione a blocco ma, piuttosto, concepiscono i forum cui danno vita come spazi d’interazione per realizzare convergenze d’interessi, strumenti di collettiva affermazione.

Nei fatti, consorzi costituiti da portatori d’istanze differenziate – alle volte anche contrapposte – che ambiscono a coltivare in autonomia, rifiutando pretese egemoniche altrui, comunque articolate.

Allo stesso modo, essi contestano gli attuali assetti che regolano il Diritto Internazionale e l’ONU, ancora oggi cristallizzati su regole di 80 anni fa, pensate per un mondo che non esiste più da tempo, che continuano ad assegnare spropositato vantaggio a taluni soggetti (vedi il permanere del diritto di veto e i seggi permanenti al Consiglio di Sicurezza assegnati a potenze come Francia e Gran Bretagna oggi marginali).

Non ci soffermeremo ulteriormente su questi temi, già in parte trattati in altre occasioni e che comunque necessiterebbero di vasto approfondimento, preferiamo piuttosto tratteggiare i peculiari indirizzi di fondo che stanno emergendo.

 

Due sono ormai le dinamiche primarie che spiccano consolidate:

 la prima è lo spostamento del baricentro del mondo dall’area atlantica a quella pacifica, oggi, più estesamente, indo-pacifica.

Ciò segna la fine dell’epoca colombiana e di ciò che ha comportato per secoli:

un mondo incentrato sui traffici fra le due sponde dell’Atlantico, prima per assicurare risorse e sfogo demografico all’Europa, poi – con la migrazione a Occidente del potere talassocratico – per instaurare il nuovo impero americano cui l’Europa è stata inscritta.

 Così costituendo un blocco di potere che in fase primaria ha gestito il mondo in condominio con l’URSS e successivamente – dopo implosione della rivale – espandendo il suo dominio su scala globale.

 Dinamica che abbiamo già lungamente descritto.

Il punto è che, parafrasando “Halford Mackinder”, negli ultimi decenni – e sempre più velocemente – il cuore da cui si comanda il mondo è migrato nel Mar Cinese e nelle sue appendici, quadrante divenuto rapidamente il più dinamico e ricco del pianeta.

 Dall’Indonesia al Giappone, dall’India all’isola-continente Australia, passando per Corea del Sud, Taiwan, Vietnam, Malaysia e Singapore, una moltitudine di paesi già in ascesa e proiettati verso future affermazioni contornano quelle acque – e rotte – oggi di gran lunga le più cruciali per ciò che vi è ai margini e vi passa sopra.

 

Molto ci sarebbe da dire sulle diverse dinamiche che hanno determinato questo radicale mutamento, per brevità diciamo solo che quegli attori hanno utilizzato al meglio gli strumenti della Globalizzazione, seppur in maniera differenziata.

Taluni riconoscendosi in essi per convenienze varie, seppur con distinguo (Giappone e Sud Corea), altri per convinzione e contiguità (Australia), altri ancora rigettando l’implicito messaggio geoculturale ma sfruttando appieno i meccanismi economici e finanziari.

 Fatto è che su tutti è stata ed è la Cina a emergere per stazza, risultati ottenuti e prospettive.

Un’ascesa percepita dall’Egemone come doppiamente pericolosa perché avvenuta nel quadrante di mondo divenuto cruciale.

Per gli USA il Pacifico – anzi, ormai dilatato a Indo-Pacifico – è la partita della vita, contenere la Cina è per essi percepito obiettivo irrinunciabile, pena abdicare alla pretesa d’essere Egemone eterno, iattura considerata maggiore delle conseguenze economiche disastrose di una frontale contrapposizione.

Ma risorse e attenzione latitano a Washington, assorbite e distratte dai tanti conflitti e dalle molteplici crisi che continuano a gemmare nel mondo, per questo non si stancano di stringere patti e avviare iniziative fra gli attori dell’area, perché siano essi a opporsi a Pechino:

l’”AUKUS”, il “QUAD” e le tante altre intraprese nel Pacifico tendono a questo.

Ma ci sono tanti ma.

Il peso economico e commerciale di Pechino, accompagnato dalla sua estroversione politica, suscitano reazioni bipolari nei suoi vicini.

 Essi non possono fare a meno del potenziale del Sistema Cina e tuttavia ne temono stazza e postura che intende adeguare alle dimensioni raggiunte.

 Per loro ideale sarebbe mantenere lo status quo, di arruolarsi senza se e ma sotto le bandiere americane (come gli europei contro la Russia) non se ne parla:

hanno troppo da perdere – loro se ne rendono conto – e non si fidano degli USA.

Con ciò mostrando assai più discernimento dell’Europa.

Per cui nessuno si mostra pronto a scendere in guerra per l’egemonia americana, meno che mai dopo la fuga dello Zio Sam dall’Afghanistan, il sostanziale abbandono dell’Ucraina e la plateale sfida alla talassocrazia americana (essenza dichiarata del potere americano) lanciata nel Mar Rosso non da potenza primaria, come la Cina, ma dallo Yemen.

 Tutti invece vorrebbero che le cose continuassero come in passato, esatto opposto di ciò che vuole Washington perché quella è dinamica che la vede perdente.

Ed evolve verso crescente affermazione cinese.

Per questo diversi “decisori” USA cominciano a pensare a una guerra, da scatenare prima che il progressivo rafforzamento cinese la renda impossibile.

Del resto, “Geopolitica” vuole che le transizioni egemoniche portino allo scoppio di un conflitto, dopo che l’intensificazione massima delle Guerre Ibride (Global Marketing, Guerra Economica e Guerra Cognitiva) si dimostra incapace d’assegnare all’Egemone che le muove una vittoria netta.

Il più delle volte è attacco preventivo di soggetto dominante verso quello emergente, oppure conflitto scatenato da potenza in ascesa per ridisegnare l’ordine esistente.

 Storia afferma che delle ultime 16 transizioni di potere, 14 siano sfociate in una guerra.

 Tuttavia, pur rimanendo sinistra prospettiva sullo sfondo, dubitiamo di un’immediata evoluzione del confronto sino-americano in conflitto aperto, causa accertata debolezza di Washington – di cui persino essa è per una volta consapevole – e per tradizionale pazienza strategica di Pechino.

Prima di passare oltre, è obbligo soffermarci – sia pur brevemente – sulle trasformazioni in atto in Medio Oriente, frutto di paradigmatica azione di Stato-Civiltà: l’Iran.

Facendo leva su “Geo cultura” indirizzata da sapiente “Geo strategia” articolate nel tempo e nello spazio, esso sta portando a collasso irreversibile il sistema d’assoggettamento posto dall’Egemone sull’intera regione.

 A ben vedere, l’azione di Teheran non configura proiezione egemonica sul quadrante, bensì l’esportazione di una visione del mondo, di un canone valoriale tradotto in prassi politica differenziata in funzione degli ambiti in cui attecchisce e si sviluppa.

 Con ciò configurando un nitido esempio di “Grossraum” che sta sorgendo dalla destrutturazione di precedenti sistemi d’assoggettamento funzionali a interessi esterni all’area, e gestiti in loco da governi del tutto ancillari a essi.

 

Un’operazione che, malgrado ogni tipo d’ostacolo frapposto, nel lungo periodo sta producendo l’implosione dell’ultima entità coloniale presente nel mondo – Israele – e, più in generale, della prassi colonialista condotta sotto varie vesti dall’Occidente nella regione.

Rileva che il degrado dell’egemonismo nell’area è tale da indurre soggetti già inscritti a pieno titolo nel sistema di dominio americano a riposizionarsi per trovare convivenza con la realtà emergente (vedi Arabia Saudita, Emirati, etc.).

Ciò detto, la seconda dinamica primaria che emerge come consolidata nell’attuale transizione egemonica è la ripartizione delle materie prime e il loro utilizzo, che qui, causa vastità del tema, ci limiteremo solo a segnalare.

Prassi neocolonialista propria del periodo unipolare voleva che le risorse globali venissero rastrellate dall’Occidente e sue appendici per alimentare le loro economie, dove veniva accumulato un crescente valore aggiunto lasciando briciole al resto del mondo.

 La situazione attuale evolve a esatto opposto:

facendo perno sugli “Stati-Civiltà”, non più disposti ad assoggettarsi a pratiche derivanti da interessi terzi, i paesi del “Sud Globale” stanno ridisegnando “Geoeconomia” e flussi delle commodities.

 In tal senso esemplare è l’azione dell’ “OPEC”, evoluto armai da anni a “OPEC+”, che adotta politiche proprie, non più espressione degli interessi occidentali.

 

Altrettanto emblematica è l’evoluzione che sta avvenendo in Africa, continente simbolo del colonialismo e poi del neocolonialismo.

L’Occidente l’ha considerato territorio da cui prendere risorse a discrezione senza nulla lasciare, con risultati devastanti sotto gli occhi di tutti, a questo aggiungendo la pretesa d’imporre standard culturali e politici estranei alle popolazioni.

 In pratica facendolo oggetto di “spietate Guerre Ibride “per depredarlo e controllarlo con gli strumenti di Globalizzazione, Imperialismo e Universalismo.

Ciò ha generato un rigetto dell’Occidente e delle élite locali che ne erano sua emanazione, un diffuso sentimento che sta dietro alla catena di colpi di stato che negli ultimi anni ha fatto crollare tanti regimi funzionali agli interessi occidentali, e alla vasta approvazione popolare che li ha accolti.

 E motiva l’ampio consenso alle iniziative di Cina e Russia, quest’ultima perché nettamente percepita come anti-Occidente.

La Cina, in particolare, negli anni ha investito in Africa oltre 400 miliardi di dollari, certo importando materie prime ed esportando prodotti finiti, ma anche costruendo infrastrutture prima inesistenti e ora impianti di trasformazione delle risorse locali, con ciò determinando la crescita di quei territori.

Un percorso non privo di criticità (vedi la “trappola del debito”) ma che vengono ora mitigate da percorsi negoziali senza sparare un colpo di fucile né pretesa d’imporre standard politici e culturali di sorta.

 Con ciò l’Africa (e le sue enormi risorse) è destinata a essere integrata in un percorso di crescita esterno all’Occidente, su cui – semmai – rovescerà le sue produzioni.

 

Esempi di tal fatta nel mondo ne potremmo portare tanti altri ancora ma non serve, il punto è che l’Occidente – specie l’Europa – verrà tagliato fuori dalle materie prime del Sud Globale (il processo è già in corso), quantomeno costretto a pagarle assai più, e a subirne futura concorrenza con ciò sancendo nel tempo sua definitiva deindustrializzazione e collasso dell’economia.

Né in alcun modo suonano convincenti le iniziative messe in cantiere dagli USA per porre rimedio alla situazione:

quello americano è sistema già largamente deindustrializzato da molti decenni e la “Rusty Belt” è lì a dimostralo.

 Per le sue condizioni strutturali, sarà assai difficile – meglio, proibitivo – ridisegnare l’economia degli Stati Uniti, reintegrandovi stabilmente produzioni a medio-basso valore aggiunto:

 chi vorrà ridimensionare così drasticamente la redditività degli investimenti nella patria del liberismo?

 

E l’Italia?

Dal punto di vista “geopolitico”, difficilmente esiste paese la cui via è più nettamente segnata dalla posizione geografica dell’Italia.

 Ma se ciò è chiaro a fredda osservazione, non lo è affatto a un” Sistema-Paese” che è “attore mutevole” per eccellenza: incline ad accodarsi a decisioni che altri prendono in sua vece, ad adattarsi a nicchia che gli è assegnata;

 in definitiva, a seguire interessi di terzi ignorando quali siano i propri.

In tale contesto la strategia è assente, meglio, oggetto sconosciuto da un establishment incapace d’articolare pensiero proprio perché aduso ad assumere quello altrui per sudditanza.

 

A prescindere da giudizi di merito – e sarebbero tanti! – fatto è che i punti di riferimento dell’Italia siano tutti in crisi e ciò che la circonda muti, anzi, è già mutato e muterà ancora.

Ciò implica rischio certo di divenire preda o teorica opportunità di conseguire (finalmente) i suoi interessi.

 Nel mare che la circonda e da cui rifugge come fosse minaccia, nel suo estero vicino (pensiamo all’Africa, che percepisce solo come problema causa migranti, o ai Balcani),

nel vasto mondo di cui un’economia manifatturiera ha bisogno per importare risorse ed esportare prodotti.

Fatto è invece che malgrado l’Italia si consideri assai poco, disporrebbe – ad applicarvisi e volerla mettere a frutto – di potenziale Geo cultura dirompente, proporzionalmente assai maggiore a sua stazza.

Sommando un Identitarismo, che terzi sono assai disposti a riconoscerle, a Mercantilismo, potrebbe svolgere un “Global Marketing di successo” (assai diverso da quello americano, come visto basato su liberismo e assimilazione) che, in termini geopolitici, sfocerebbe in “Patriottismo Economico”, speculare opposto di Globalizzazione.

 Ad avere capacità di pensiero e volontà che – ahimé – mancano del tutto.

Realtà dice invece che l’Italia da oltre trent’anni, e più che mai negli ultimi, ha fatto sistematiche scelte di campo contrarie ai suoi interessi più elementari, legandosi alle sorti di un Egemone in manifesto affanno invece che ritagliarsi autonomia, con ciò vietandosi di cogliere le opportunità del momento e inimicandosi le realtà emergenti.

 In pratica, per abituale” prassi servilista e incapacità d’autonomo pensiero”, si sta addossando costi e conseguenze di conflitti su cui non ha alcuna voce in capitolo, e che gli arrecano sommo danno.

 Che dire?

 Se non ci vivessimo anche noi solo: “Auguri!”.

 

 

La deriva nichilistica dell’Occidente.

Ariannaeditrice.it - Gennaro Scala – (04/03/2024) – ci dice:

 

(Recensione del libro di Emmanuel Todd, “La défaite de l’Occident”, Gallimard 2024).

 

Gli USA vivono in una fase di nichilismo avanzato, prodotto dalla scomparsa del protestantesimo che è stata la religione che ha dato vita al capitalismo moderno.

 Secondo “Todd”, vi è una prima fase in cui la religione viene osservata ed è determinante nel formare la mentalità collettiva.

 Seguita da una seconda, la fase “zombie”, che vede venir meno l’influenza morale della religione e il ruolo della formazione di una mentalità collettiva viene coperto dalle ideologie politiche.

Vi è infine un grado zero della religione che corrisponde a quello attuale in cui la scomparsa dei valori è totale.

Il libro in oggetto che è uscito in Francia lo scorso gennaio, fornisce al mondo occidentale forse la descrizione più completa della sua reale condizione.

 Il libro parte dal conflitto tra Ucraina e Russia, che, naturalmente, “Todd” descrive quale esso è, cioè un confronto tra l’Occidente e la Russia, ma poi il discorso si allarga a un’ampia analisi della condizione reale degli Usa e dell’Occidente di carattere economico, sociale, antropologico, e anche filosofico, visto il ruolo centrale che ha nel libro il concetto di nichilismo.

 

Vi sono state varie analisi critiche della politica occidentale, ma il pregio del libro, unico nel panorama attuale, è quello di fornire un quadro generale delle condizioni reali dell’Occidente che sono agli occhi di “Todd” disastrose.

Per questo non esito a dire che si tratta di un libro fondamentale, e mi auguro che il libro scritto da un intellettuale del livello di “Todd” possa cambiare il dibattito in corso, e riportarlo a termini più realistici, poiché i grossolani errori di valutazione nel caso di un conflitto con una potenza nucleare come la Russia possono essere molto pericolosi, ma non c’è molto da sperare, dato lo stato pietoso del mondo politico, mediatico e culturale occidentale.

Non a caso nell’Introduzione vi è un sentito omaggio a “John Mearsheimer”, a cui si riconosce di aver coraggiosamente denunciato la follia del comportamento degli Usa, veri responsabili della guerra, ma secondo “Todd” è necessario andare oltre e capire proprio le ragioni di tale irrazionalità.

Per dare una spiegazione delle ragioni “profonde” di alcuni comportamenti irrazionali sia degli Usa, sia per quanto riguarda l’Ucraina che l’Europa, il libro avanza talvolta delle ipotesi piuttosto ardite.

Ma l’attenzione alla totalità delle società occidentali, e l’attitudine ad avanzare ipotesi e voler spiegare, diversamente da quanti propongono piatte analisi, presunte obiettive, fatte dal punto di vista di un “osservatore” distaccato dai fatti, sono i pregi di questo libro che fonda le basi per una diversa autocoscienza occidentale, lo dico senza timore di esagerare, e che può e dovrebbe essere di stimolo per ulteriori analisi, che partano dalla stessa consapevolezza di un sostanziale declino o meglio, disfacimento del sistema occidentale.

 Ma comunque queste analisi che l’autore stesso definisce “speculative” sono corredate da robuste analisi di carattere socio-economico e antropologico che fanno di questo libro un testo unico nel panorama delle pubblicazioni sulle questioni di attualità, dove spesso si nota un appiattimento sul dato immediato, senza rischiare ipotesi teoriche che guardino più in là.

 

Nell’Introduzione sono elencate le “dieci sorprese” di questa guerra, che sono il portato di tutte le guerre che regolarmente si rivelano “sorprendenti” nelle loro dinamiche ed esiti.

 Non sto a riportarle tutte, ma tra le sorprese più sorprendenti vi è l’accanita resistenza opposta da una “nazione fallita” come l’Ucraina, e la sua spiegazione sarà l’oggetto di un apposito capitolo.

Che voglio riportare in sintesi.

Secondo “Todd”, effettivamente l’Ucraina, che si è costituita come nazione in seguito alla dichiarazione di indipendenza del 1991, ha mostrato di non avere una cultura autonoma (in senso antropologico), soltanto che non è riuscita a costituirsi come Stato, non è riuscita a diventare stato-nazione, soprattutto per la carenza di una classe media concentrata nelle città, che, insieme al forte declino demografico ed economico, l’hanno trasformata in uno “Stato fallito”.

 Di fronte ad una Russia interessata soprattutto alla Crimea e alle regioni in cui è concentrata la popolazione di fatto russa, che poi sono anche le zone più industrializzate dell’Ucraina, la guerra è stata un modo per restare, in negativo, nella ex-sfera sovietica, e il modo in cui questo “stato fallito” ha trovato una ragion d’essere.

 Sarebbe stato il momento migliore per l’Ucraina per diventare un effettivo stato-nazione, con il consenso e l’appoggio della stessa Russia che richiedeva solo neutralità, ma non essendovi riuscita, per ragioni di composizione sociale interna, la guerra e il farsi strumento dell’Occidente, è stato un modo per ovviare a questo fallimento, ma preparandone uno catastrofico.

Un’altra sorpresa è stata la stabilità della Russia, ma questa non avrebbe dovuto esserlo per chi avesse letto ad es. un testo come quello di “David Teurtrie”, “Russie”.

Le” retour de la puissance”, oppure avesse tenuto presente alcuni dati come il raddoppio della produzione agricola in Russia, che è diventata esportare netto, mentre gli Usa, che una volta “nutrivano il mondo”, sono sulla strada di diventare un importatore di prodotti agricoli.

L’ottava sorpresa riguarda gli Stati Uniti che si sono dimostrati incapaci industrialmente di fornire all’Ucraina l’armamento necessario, e questo rimanda ad una discussione successiva sull’effettiva potenza degli Usa e allo “sgonfiamento” del Pil statunitense, che” Todd” traduce da “PIB” (l’acronimo francese per il Prodotto Interno Lordo) a “PIR” (Prodotto Interno Reale) sfrondandolo di molte voci nei servizi che non sono indice di produzione reale.

 

L’analisi di “Todd “volta a definire la reale condizione delle società occidentali non esita a ricorrere a concetti “vetero” come quello di imperialismo, si richiama ad “Hobson” il quale parlava di una super alleanza tra paesi capitalisti volti a sfruttare tutto il mondo.

Addirittura riprende alcune osservazioni di “Lenin” sull’“aristocrazia operaia”, ovvero il fatto che i superprofitti dovuti all’imperialismo consentivano di distribuire alcune briciole agli strati superiori della classe operaia che in tal modo perdeva il suo carattere rivoluzionario.

 A “Todd” interessa mostrare come le delocalizzazioni, e il drenaggio di ricchezza da tutto il mondo grazie alla supremazia finanziaria e del dollaro, abbiano creato negli Usa e nell’Occidente una plebe che vive della produzione che ormai avviene principalmente in Cina e in Asia.

Egli riprende quanto scriveva “Hobson” (uno dei principali punti di riferimento di “Lenin” per quanto riguarda la teoria dell’imperialismo) secondo cui la situazione in prospettiva poteva venire a somigliare a quello del basso impero romano, dove ad una classe dominante proveniente da tutto il Mediterraneo si associava una plebe romana che viveva delle derrate alimentari provenienti dall’Africa.

E avrebbe potuto citare a sostegno anche “Sismondi”:

il proletariato romano viveva a spese della società, mentre, la società moderna vive a spese del proletariato” (citato a sua volta da Marx ne “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”).

Ma non siamo ai tempi di Marx, siamo entrati in un contesto da basso Impero, il proletariato laborioso occidentale del dopoguerra, sopravvissuto fino agli anni ’80, si è trasformato in una plebe che vive alle spalle del lavoro di tutto di tutto il mondo, e in particolare di quello asiatico, anzi vivacchia nel terziario e di sussidi, ma rosa dalla mancanza di prospettive, dalla depressione tanto in senso economico che psicologico, dall’atomizzazione sociale e dal vuoto morale, è divenuta una plebe obesa e violenta contro se stessa e contro gli altri.

 

Mentre per quanto riguarda le classi istruite si sono spostate dagli studi in ingegneria a quelle in ambito economico e legislativo che servono solo a predare la ricchezza collettiva.

Motivo per cui la Russia, con una popolazione che è la metà di quella statunitense ha un numero maggiore di ingegneri, necessari all’industria militare.

Non sorprende quindi che gli Usa siano rimasti indietro riguardo allo sviluppo dei missili ipersonici, e non siano capaci di fornire agli Ucraini il munizionamento necessario.

“Todd” quindi procede alla “sgonfiamento dell’economia americana”.

Se è vero che gli Usa sono egemoni nel settore informatico con i” GAFA” (Google, Apple, Facebook, Amazon) e che hanno ripreso la produzione di petrolio, vero è altresì che questi due settori si situano ai due spettri opposti, l’informatica in quello dell’astrazione, e il petrolio nelle materie prime, ciò che manca è il settore della produzione in senso tradizionale, per questo non sono capaci di produrre obici da 155 e missili da fornire agli ucraini.

La guerra, grande rivelatrice delle realtà, ha mostrato questa deficienza dell’industria americana.

 La globalizzazione orchestrata dagli stessi Usa ha minato la loro supremazia economica, nel 1928 la produzione americana rappresentava il 44% di quella del mondo, nel 2018 è caduta al 16%.

Il declino americano nel campo dei beni tangibili è netto anche nell’agricoltura, mentre la produzione agricola russa passava da 37 milioni di tonnellate di grano nel 2012 a 80 nel 2022 quella statunitense cadeva da 65 milioni nel 1980 a 47 nel 2022.

 Il Pil americano è composto, in maggioranza, da servizi alla persona di cui non si capisce l’utilità, con medici che talvolta uccidono come nel caso degli oppioidi, avvocati e finanzieri predatori.

Nel 2020 il Pil comprendeva gli stipendi dei numerosi e remuneratissimi economisti che sono dei “funzionari della menzogna”.

Gli Stati Uniti sono dipendenti dalle merci importate, e questo mette in discussione il loro essere “isola del mondo” inattaccabile come afferma “Todd”, una convinzione generalmente condivisa in ambito geopolitico.

Gli Usa vivono soprattutto di importazioni non coperte dalle esportazioni ma dall’emissione di dollari.

Nella misura in cui procede la dedollarizzazione è a rischio la loro stessa indipendenza.

Per arrivare alle radici del disfacimento occidentale “Todd” introduce un concetto squisitamente filosofico: il nichilismo.

 Egli scrive soprattutto del nichilismo prodotto dalla scomparsa del protestantesimo che è stata la religione che ha dato vita al capitalismo moderno, soprattutto quello di marca anglosassone, secondo la classica analisi di “Max Weber”.

Ma è chiaro che l’analisi si applica all’intero cristianesimo che è stato la base della civiltà occidentale.

 L’analisi è fatta in termini generalissimi e secondo il metodo della “longue dureè”, ovvero un’analisi che guarda alle dinamiche secolari ma ritengo sia la parte più significativa dell’intero libro.

 

Tre sono le fasi principali.

Vi è una prima fase in cui la religione viene osservata ed è determinante nel formare la mentalità collettiva.

La seconda è la fase “zombie” che vede venir meno l’influenza morale della religione, non si frequentano le chiese ma ancora se ne osserva il rito in occasione di nascite, matrimoni e morti.

Il ruolo della formazione di una mentalità collettiva viene coperto in questa fase dalle ideologie politiche in generale.

Mentre negli Usa la fase zombie della scomparsa del protestantesimo ha avuto un esito positivo con il rosveltismo e con il New Deal, nella Germania ha avuto un esito negativo con il nazismo.

“Todd” non indica una ideologia specifica, ma certo possiamo includere “il comunismo” tra queste ideologie vicarie della religione.

Potrebbe coadiuvare Todd “Costanzo Preve”, il quale nel “Convitato di pietra, Saggio su marxismo e nichilismo” portava alla luce il sottofondo nichilista del marxismo, nel suo carattere pseudo – religioso, che comportava un mito dell’origine e un mito del fine, l’avvento della società senza conflitti, il comunismo.

Ma incapace di dare una risposta alla finitudine dell’essere umano, alla morte, un problema angoscioso e insolubile per l’essere umano che lo spinge ad unirsi con gli esseri umani, religione deriva appunto da “religio”, tenere insieme.

Potrebbe coadiuvare l’analisi di “” l’osservazione di” Schmitt” secondo cui tutte le categorie politiche moderne sono una secolarizzazione di categorie religiose.

Vi è infine un grado zero della religione che corrisponde a quello attuale in cui la scomparsa dei valori è totale.

Esso corrisponde all’azzeramento anche delle ideologie, scompare ogni forza capace di dare forma ad una moralità collettiva e compare il vuoto, che comporta anche l’incapacità di azione collettiva.

 Tale questione schiettamente religiosa e filosofica, ha dei risvolti “tormentosi”, (termine usato da Todd) molto reali e pratici.

Si pensi alla questione dell’elevato utilizzo degli psicofarmaci, degli oppioidi, al problema dell’obesità, all’elevato tasso di suicidi, alla frequenza delle stragi di massa.

Cito da un articolo di “Emanuel Pietrobon”:

 “Nel complesso, tra il 1999 e il 2022, la “Great Depression”, intesa come l’epidemia di suicidi e overdosi letali da antidolorifici e antidepressivi, ha cagionato la morte di poco più di due milioni di persone – tre volte la popolazione dell’Alaska.

Numeri che parlano di una società in fase di zombificazione, diretta, a meno di una radicale inversione di tendenza, verso la piena liquefazione.”

Tutto ciò configura un enorme problema morale che secondo Todd è dovuto a questo grado zero della religione e quindi dell’ethos, della moralità collettiva.

Il segnale più evidente della ormai completa assenza di influenza della religione sulla moralità collettiva è il “matrimonio per tutti”.

 L’autore precisa che egli non intende dare giudizi di valore e di essere a favore della libertà sessuale, tuttavia bisogna guardare al fatto oggettivo che il protestantesimo era una religione che incarnava un determinato modello di famiglia, è un suo aspetto basilare, che possa piacere o meno, e il matrimonio per tutti significa la sua fine come religione che orienta la moralità collettiva.

 Ritengo che la stessa cosa valga per il cattolicesimo, che l’autore non menziona.

 Mi viene da pensare inoltre al “Pci “quando era ancora un vero partito di massa negli anni ’50 e ’60, e a come la sua morale fosse simile a quella cattolica nell’ambito dei rapporti sessuali, come esempio di quella che “Todd” chiama” fase zombie della religione”, che viene sostituita dalle ideologie per quanto riguarda la formazione della mentalità collettiva.

Secondo “Todd” può sembrare ingiusto definire gli “Usa nazione nichilista”, poiché ciò richiama alla mente il nazismo, visto che il nazismo lo hanno combattuto,” l’antisemitismo è assente negli Usa e ammira ciò che gli Usa hanno rappresentato nel passato, cioè una cultura effettivamente democratica”.

Tuttavia non si può non parlare di nichilismo.

 Egli si richiama al testo “Hermann Rauschning”, “La rivoluzione del nichilismo”, relativo alla Germania nazista.

In entrambi i casi, la politica funziona senza valori, e ciò porta alla violenza ed appunto in questo modo “Rauschining” caratterizzava il nichilismo.

 L’ossessione esclusiva attuale degli Usa sono la potenza e il denaro, e questo denota un’assenza di valori.

Non conosco il testo di Rauschining ma è chiara l’influenza nicciana.

La morte di Dio (grado zero della religione) e fine di tutti i valori.

Per fare un esempio di “nichilismo applicato”, egli riporta l’esempio della “questione sanitaria”, osservando come, in realtà, gli Usa spendono più delle altre nazioni per quanto riguarda la sanità, ma ciononostante hanno visto un abbassamento importante dell’età media di vita che è 76,3 anni, molto più bassa rispetto a quella europea che è superiore agli 80 (tra l’altro anche guardando a questo indice Todd aveva previsto il crollo dell’Unione Sovietica).

 Ancora peggiore è il tasso di mortalità infantile (5,4 per 1000), più alto di quello della Russia (4,4), altro indice importante,

“annunciatore dell’avvenire” che denota secondo “Todd” lo stato complessivo di una società.

Questi elevati tassi di mortalità sono in stridente contraddizione con il fatto che vi è la più elevata spesa sanitaria nel mondo in rapporto al Pil, e questo è dovuto al fatto che una parte importante della spesa sanitaria è “consacrata alla distruzione della popolazione” (e in merito cita lo studio “Anne Case” e “Angus Deaton”, “Morti per disperazione e il futuro del capitalismo”).

E qui basta rammentare il caso degli oppioidi.

Ebbene, nel 2016 le “lobbies globaliste” hanno fatto votare un” Atto che interdice alle autorità sanitarie di impedire l’utilizzo degli oppioidi.”

 Come non parlare di nichilismo?

Anche il modo in cui viene trattata la questione sessuale denota il nichilismo, poiché una questione è il diritto degli omosessuali a non essere discriminati, anche se molti a ragione trovano errato centrare i problemi politici sulle questioni sessuali, un’altra questione è l’ideologia transgender, secondo cui un uomo può diventare donna e viceversa.

 Questa è una negazione della realtà, che è lo stadio più alto del nichilismo.

 Possiamo aggiungere a quanto scrive “Todd “il fatto che oggi ai transgender maschi viene consentito di gareggiare nei tornei femminili, vincendo a man bassa.

Negazione grottesca della realtà.

Per quanto riguarda l’Europa l’ipotesi di “Todd “è che l’Europa voglia “suicidarsi” ovvero sia spinta dall’inconscia volontà di porre fine al “progetto europeo” che ormai apertamente fallito, va avanti per sola inerzia.

Questa sarebbe la ragione profonda del fatto che ha seguito così pedissequamente gli Usa, mentre durante la guerra contro l’Iraq c’era stata una decisione opposizione delle nazioni europee in particolare della Germania, seguita della Francia.

 Ancora una tesi “speculativa”, ma il comportamento autodistruttivo dell’Europa non si può ignorare e va spiegato.

Per quanto il libro sia molto pessimistico e definisca come irreversibile lo stato di declino e decadenza degli Usa e insieme ad esso del cosiddetto occidente allargato, secondo me il libro contiene una sorta di apertura di credito nei confronti della Germania.

Per quanto sia stata “sorprendente” la mancanza di reazione della Germania nei confronti della distruzione di “Nord stream”, secondo “Todd” il comportamento della Germania è “attendistico” e la conclusione della guerra, che secondo la sua previsione vedrà una vittoria della Russia, comporterà il ripristino delle relazioni tra Russia e Germania.

 

“Todd “non fa previsioni a lungo termine, preferisce occuparsi di “ciò che è imminente”.

Ma chi scrive è convinto che se si creasse davvero un frattura tra gli Usa e una delle principali nazioni europee, essa potrebbe essere seguita da altre nazioni come la Francia, potrà rinascere una diversa politica nelle nazioni europee, che metta fine al mostro Ue, e rifondi su nuove basi una politica europea che potrà sorgere solo da una rinnovata sovranità nazionale, sulle cui basi progettare una nuova alleanza tra le nazioni europee che possa invertire un destino di declino e disfacimento sociale qualora continuasse la cieca obbedienza alla folle politica statunitense.

 

In una delle tante interviste rilasciate dopo la pubblicazione del libro, “Todd” non nascondeva di essere seriamente “preoccupato per figli e nipoti” dato che il declino, anzi il vero e proprio disfacimento occidentale, appare ai suoi occhi irreversibile.

 Inoltre, se il problema di fondo è la scomparsa della religione, visto che una nuova religione “non si crea in 4-5 anni e nemmeno in 20-30”, il problema appare in tutta la sua radicalità.

Ma guardando alla religione “Todd” non faceva che osservare da un’angolazione particolare la crisi di civiltà dell’Occidente.

Ma se davvero siamo arrivati al capolinea, la fine di questa civiltà non è la fine di ogni civiltà, e anche nel passaggio di una civiltà ad un’altra si continua a vivere.

 

 

 

Udo Bullmann: "L'AfD prospera

 su declino e abbandono.

Se non recuperiamo chi resta

indietro rischiamo grosso"

huffingonpost.it - Angela Mauro – (26 -1-2024) – ci dice:

 

L'europarlamentare della Spd al Parlamento europeo a Huffpost dopo le manifestazioni in Germania contro l'ultradestra:

 "I cittadini comuni si sono ribellati ai piani di re-migrazione, è un vocabolario nazista.

Stiamo attenti, stiamo vivendo la stessa situazione del pre-Brexit, sospinta da Putin e Trump.

Negare i fondi pubblici? Sono estremisti, ma deciderà la Consulta"

La crescita dell’estrema destra in Germania è il risultato di un mix di “declino economico e abbandono”, ci spiega “Udo Bullmann” in questa intervista rilasciata a seguito delle massicce manifestazioni di protesta contro l’”AfD”, partito estremista di destra in testa ai sondaggi in diversi Länder tedeschi.

 L'eurodeputato della “Spd” al “Parlamento europeo”, presidente della sotto-commissione Diritti umani, non assegna particolari responsabilità al governo federale guidato dal cancelliere socialista “Olaf Scholz”, ma riconosce che la perdita di consensi è iniziata quando la legge sul riscaldamento è stata presentata al Bundestag.

“La gente ha cominciato a chiedersi come pagare la ristrutturazione energetica”, dice “Bullmann”.

 Interrogativi che “hanno rafforzato enormemente la destra estrema e hanno creato un clima di sfiducia intorno al governo”. Ora le manifestazioni di protesta contro “la propaganda nazista” avranno "un impatto sullo stato della cultura politica in Germania”, è sicuro l’europarlamentare socialista tedesco, “c’è stata una reazione vitale della società civile”.

Ma in vista delle Europee “dobbiamo affrontare coloro che sono frustrati, che si sentono incapaci di sopportare le sfide della modernizzazione quotidiana, che si sentono impotenti nelle loro case”.

“Bullmann” ammette che anche l’“Ue” poteva fare di più, soprattutto per contrastare la crescita della destra in Italia che, dice, “sull’immigrazione è stata lasciata sola”.

Quanto all’idea di privare l’ “AfD” dei finanziamenti pubblici, come è stato deciso per un’altra formazione di ultradestra “Heimat” con sentenza della Corte costituzionale, “Bullmann” pensa sia un’opzione: “Ci sono indicazioni che il partito è estremista di destra per definizione. In Germania i partiti che si oppongono al libero ordine democratico di base, possono – giustamente – perdere i loro finanziamenti pubblici. Quindi dobbiamo ancora vedere cosa decideranno i nostri tribunali”.

L’estrema destra continua a crescere nei sondaggi anche in Germania. Pensa che le massicce proteste del weekend possano servire a invertire questo trend?

Sicuramente avranno un impatto sullo stato della cultura politica in Germania.

 Questo per me è sicuro perché sono i cittadini comuni che si sono ribellati alla destra quando sono emerse le notizie sull’incontro di Potsdam in cui l’ala estremista della destra, tra cui anche esponenti della “Cdu,” hanno parlato del loro progetto di deportazione degli immigrati dalla Germania.

 È un vocabolario nazista.

La società civile si rende conto che nel secolo scorso quello fu l'inizio della persecuzione degli ebrei e di altri gruppi nella Germania nazista. Per questo c’è stata una reazione molto vitale della società civile alla minaccia proveniente dalla destra.

Come la spiega la crescita della destra in Germania? Cosa ha fatto di sbagliato il governo? E quali sono le responsabilità del cancelliere Scholz, se ce ne sono?

Non penso che il cancelliere abbia particolari responsabilità.

In genere parlo della situazione in Germania, ed è sempre la stessa storia.

 Nella crescita di tutti i populismi, ovunque in Europa e nel mondo, c’è sempre un elemento di declino e uno legato all’abbandono.

C’è la dimensione economica del declino che fa crescere le destre.

 Lo abbiamo visto con Trump negli Stati Uniti, con la Brexit, fenomeni peraltro legati.

“Steve Bannon” ha organizzato le campagne per la Brexit nelle aree della classe operaia della Gran Bretagna.

 E poi c’è il livello culturale, l’abbandono.

Se le persone non si sentono onorate e rispettate, allora pensano che il sistema non li rappresenta, non tiene conto delle loro biografie, dei loro interessi, del loro futuro.

La combinazione di questi due elementi, il declino e l'abbandono, è terreno fertile per le destre, per i nazisti e gli ideologi di destra.

La crescita dell’“AfD tedesca” fa particolarmente impressione perché sembra sia caduto lo storico tabù che finora ha retto in Germania.

Della serie: mai più un partito a destra della” Cdu”, come diceva “Konrad Adenauer “dopo la Seconda guerra mondiale.

C’è una peculiarità tedesca in tutto questo?

O il fenomeno è lo stesso di altri Stati dell’Ue?

 

La base è la stessa ed è socioeconomica.

 Non sono nella posizione di analizzare la situazione italiana, ma mi stupirei se la forza della destra in Italia non c'entrasse niente con il fatto che il resto d'Europa ha lasciato l'Italia sola a gestire i flussi migratori, mentre l’Italia chiedeva aiuto.

Suppongo che gli italiani, che sono sempre stati molto europeisti e con una società civica estremamente forte, hanno sofferto anche di una mancanza di solidarietà in Europa sulla questione dell'immigrazione.

Questa è la mia ipotesi.

Non ne ho le prove, ma il mio istinto mi dice che in Francia, dunque in un contesto socioeconomico simile, ci sono stati diversi elementi che hanno dato inizio al successo della destra.

 In Francia c’è stata la protesta dei gilet gialli perché il divario tra le aree rurali e le élite urbane in Francia è significativo.

Macron e la sua maggioranza si è rivolto di più alle élite urbane e agli intellettuali.

Chi si dedica al lavoro rurale, all'agricoltura, chi si sente vicino ad una sorta di conservatorismo culturale non si sente rappresentato.

 Inoltre i costi della transizione ecologica pesano in modo diseguale sulle fasce sociali, se al tempo stesso le tutele sociali vengono messe in discussione.

Le disuguaglianze aumentano. I

n Germania i socialisti hanno perso consensi quando la cosiddetta “legge sul riscaldamento “(che tra le alte cose abolisce le caldaie a gas, ndr.) è stata portata al Bundestag.

Se si guardano le curve dei sondaggi, è evidente.

 La gente ha cominciato a chiedersi come pagare la ristrutturazione energetica, pur comprendendo la necessità di contrastare i cambiamenti climatici.

La gente si chiedeva se una piccola pensione o un piccolo stipendio sarebbero stati sufficienti per finanziare tutte le misure di modernizzazione richieste per essere in linea con i requisiti, dal tetto nuovo al pannello solare e i nuovi infissi.

 Tutti questi interrogativi hanno rafforzato enormemente la destra estrema e hanno creato un clima di sfiducia intorno al governo.

 

L’Ue poteva fare di più?

 

Ovviamente.

Stiamo vivendo la stessa situazione che ha preceduto le Europee 2019. Allora, il nostro gruppo dei Socialisti e Democratici sosteneva che c’erano due minacce:

Putin e la sua manipolazione delle elezioni in Europa, e Trump alla Casa Bianca, con il suo ‘agente’ Steve Bannon, il suo miglior soldato, determinati a distruggere l’Unione Europea per paura della concorrenza da parte di un attore basato sui valori nel campo globale.

Per loro, Brexit è stata una necessità arrogante per dividere l’Europa e per portare via una delle sue parti più importanti e vitali, la Gran Bretagna, con la sua capacità intellettuale, l'esperienza negli affari esteri, la capacità del mercato finanziario della City ecc.

Questa era la situazione 5 anni fa.

Gli Stati membri, i partiti progressisti, hanno accettato con riluttanza la provocazione di Putin e Trump.

Oggi dovremo fare meglio e con urgenza perché dobbiamo far capire alla maggior parte della società qual è il pericolo.

Dobbiamo affrontare direttamente gli antieuropei, gli antidemocratici. Dobbiamo identificarli come coloro che distruggono le nostre società, coloro che distruggono la nostra solidarietà e la nostra capacità di plasmare il futuro. Questo è ciò che accade ora in Germania con milioni di persone che scendono in piazza, il che è estremamente utile per la cultura politica, come ho già detto.

E i nostri partiti devono fare eco a questo nella prossima campagna. Sono assolutamente convinto che abbiamo bisogno di mandare questo messaggio chiaro alle nostre società per dire loro esattamente qual è il pericolo e chi sono coloro che stanno minando il nostro futuro.

 Quindi, detto questo, non dobbiamo solo stare attenti agli ideologi che cercano di mettersi al passo con la propaganda nazista.

 Ciò che dobbiamo fare è affrontare coloro che sono frustrati, coloro che si sentono incapaci di sopportare le sfide della modernizzazione quotidiana, che si sentono impotenti nelle loro case, sul posto di lavoro, coloro che si sentono messi da parte da processi che non comprendono, perché queste sono le nostre persone.

 E se non stiamo imparando di nuovo a parlare con loro, se non stiamo mostrando come possiamo fare meglio per riconoscergli un ruolo, allora significa che non abbiamo imparato la lezione.

Pensa che negare i finanziamenti pubblici all’ “AfD”, come è successo per l’altra formazione di estrema destra “Heimat “per decisione della Corte Costituzionale, sia un’opzione utile?

La decisione della Corte costituzionale di negare il finanziamento pubblico di “Heimat” non significa automaticamente che lo stesso accadrà all' “AfD”.

Ma ci sarà una verifica sul fatto che l' “AfD” stia agendo incostituzionalmente.

Ci sono indicazioni che il partito è estremista di destra per definizione.

In Germania, i partiti che si oppongono al libero ordine democratico di base, possono – giustamente – perdere i loro finanziamenti pubblici. Quindi dobbiamo ancora vedere cosa decideranno i nostri tribunali.

 

L’ “AfD” propone un referendum per uscire dall’Ue, modello Brexit. Pensa possa avere successo in Germania?

È un'idea populista molto subdola, che cerca di agitare un problema offrendo una ‘soluzione’ rapida e facile da capire.

 Tuttavia, l'adesione della Germania all'Ue è uno dei principali pilastri della nostra prosperità, lasciare l'Ue scuoterebbe le fondamenta del nostro modello economico.

Non solo costerebbe milioni di posti di lavoro e trascinerebbe la Germania in una crisi economica, ma indebolirebbe anche il nostro peso a livello globale.

 Basta uno sguardo alla situazione del Regno Unito dalla Brexit per vedere gli effetti orrendi.

 Quindi no, non credo che i cittadini tedeschi si lasceranno accecare da questa idea.

Secondo uno studio di “Ecfr”, l'ondata di destra è molto forte nella maggior parte degli stati europei e questa volta le europee di giugno renderanno davvero possibile una maggioranza di destra al Parlamento europeo.

Quali sono le tue previsioni?

La prognosi è una cosa. Il campo di battaglia dove si svolge la partita è una cosa diversa. Quindi il mio messaggio ai miei compagni è di scendere sul campo di battaglia e combattere come si deve per fare in modo che questa previsione non si avveri.

La Germania ha una grande responsabilità per il futuro dell’Europa.

Tutti ce l’hanno.

La Germania sente questa responsabilità. La sente la società civile e il governo, in particolare il mio partito.

 

 

 

 

All’Onu primo no

ai “Killer robot.”

 

 Sbilanciamoci.info – Redazione – (2 Novembre 2023) – ci dice:

 

Con 164 sì e 8 astensioni l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato la sua prima risoluzione – la L56 – presentata dall’Austria e sostenuta dall’Italia, sul contrasto alle armi autonome guidate dall’AI, un successo per la decennale campagna “Stop Killer Robots”.

“Vignarca”: “Ora un trattato internazionale”.

Il 1° novembre 2023 la prima commissione (quella dedicata al Disarmo) dell’”Assemblea Generale delle Nazioni Unite” ha adottato la prima risoluzione in assoluto mai discussa sulle armi autonome (i cosiddetti “killer robots” o LAWS) sottolineando la “necessità urgente per la comunità internazionale di affrontare le sfide e le preoccupazioni sollevate dai sistemi di armi autonome”. Dopo 10 anni di discussioni internazionali, in un contesto di rapidi sviluppi tecnologici, questo voto rappresenta un passo avanti fondamentale.

Ed apre la strada alla negoziazione di una nuova norma internazionale sulle armi autonome.

Il mese scorso il “segretario generale delle Nazioni Unite” (UNSG) e il presidente del “Comitato internazionale della Croce Rossa “(ICRC) avevano lanciato un appello storico “per stabilire urgentemente nuove regole internazionali sui sistemi di armi autonome, al fine di proteggere l’umanità” entro il 2026.

Pur non spingendosi fino alla richiesta di negoziati, questa risoluzione rafforza la fiducia in un percorso normativo internazionale e segnala la necessità di intraprendere un’azione politica urgente per salvaguardare i gravi rischi posti dai sistemi di armi autonome.

 

La Risoluzione L56 è stata presentata dall’Austria e sostenuta da un gruppo eterogeneo di Stati interregionali, tra cui l’Italia che l’ha sostenuta come co-sponsor.

Il testo riconosce “il rapido sviluppo di tecnologie nuove ed emergenti” e fa riferimento alle “serie sfide e preoccupazioni che le nuove applicazioni tecnologiche in ambito militare, comprese quelle relative all’intelligenza artificiale e all’autonomia nei sistemi d’arma, sollevano anche da prospettive umanitarie, legali, di sicurezza, tecnologiche ed etiche”.

Esprime inoltre preoccupazione per “le possibili conseguenze negative e l’impatto dei sistemi d’arma autonomi sulla sicurezza globale e sulla stabilità regionale e internazionale, compreso il rischio di una corsa agli armamenti, l’abbassamento della soglia di conflitto e la proliferazione, anche verso attori non statali”.

La risoluzione chiede inoltre al “segretario Generale delle Nazioni Unite” di preparare un “Rapporto che rifletta le opinioni degli Stati membri “e degli osservatori sui sistemi di armi autonome e sui modi per affrontare le relative sfide e preoccupazioni che essi sollevano da prospettive umanitarie, legali, di sicurezza, tecnologiche ed etiche e sul ruolo degli esseri umani nell’uso della forza.

Il Rapporto includerà anche le opinioni di altre parti interessate, tra cui le organizzazioni internazionali e regionali, il Comitato internazionale della Croce Rossa, la società civile, la comunità scientifica e l’industria.

La risoluzione decide inoltre che l’ordine del giorno provvisorio dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del prossimo anno includa un punto all’ordine del giorno intitolato “Sistemi di armi autonome letali”, fornendo un’ulteriore piattaforma all’interno dei forum delle Nazioni Unite per gli Stati che intendono intraprendere azioni per affrontare questo problema.

Nel corso della seduta della Prima Commissione del 1° novembre ben 164 Stati hanno votato a favore della risoluzione L56, solo 5 contro mentre sono state 8 le astensioni.

 La risoluzione porterà ora alla creazione di un processo che consentirà a tutti gli Stati di presentare le proprie opinioni sulle armi autonome e dovrebbe stabilire una chiara tabella di marcia per la negoziazione di un nuovo trattato sull’autonomia delle armi.

 Le discussioni per l’adozione di uno strumento giuridico sull’autonomia delle armi sono state precedentemente bloccate da una minoranza di Stati militarizzati.

All’Assemblea generale delle Nazioni Unite questi Stati non hanno il potere di veto.

Le armi autonome suscitano profonde sfide legali, etiche, umanitarie e di sicurezza che devono essere affrontate con urgenza, dato che le armi con alcune funzioni autonome vengono già utilizzate nei conflitti.

La disumanizzazione e l’uccisione di persone da parte delle tecnologie con” Intelligenza Artificiale” in contesti militari è inaccettabile e avrà conseguenze terribili nelle attività di polizia, nel controllo delle frontiere e nella società in generale.

Migliaia di esperti e scienziati di tecnologia e IA, la campagna “Stop Killer Robot di cui anche “Rete Pace Disarmo” fa parte, “Amnesty International”, “Human Rights Watch”, il “Comitato internazionale della Croce Rossa”, 26 premi Nobel e la società civile in generale hanno sempre chiesto di negoziare con urgenza un nuovo strumento legale internazionale che affronti la questione dell’autonomia dei sistemi d’arma e garantisca un controllo umano significativo sull’uso della forza.

“I 164 voti a favore della risoluzione contro le armi autonome all’Assemblea Generale ONU sono un risultato clamoroso – sottolinea “Francesco Vignarca”, coordinatore campagne della “Rete Pace Disarmo” –

Questa Risoluzione è un passo significativo verso la negoziazione di una nuova norma internazionale.

Lo slancio politico è chiaro ed esortiamo ora gli Stati a fare un passo in più per impedire la delega di decisioni di vita e di morte alle macchine.

Siamo poi particolarmente soddisfatti della posizione presa dall’Italia, sia nel voto finale sia con la decisione di sostenere la Risoluzione L56 presentata dall’Austria.

 È tempo di un nuovo Trattato internazionale vincolante che garantisca un significativo controllo umano sull’uso della forza: questo voto è un chiaro passo nella giusta direzione.”

 

 

 

L’illusione bellica dell’Occidente.

  Sbilanciamoci.info - Francesco Strazzari – (18-2-2024) – ci dice:

Nella sostanziale afasia sulla guerra contro Gaza, sono le armi a tenere banco.

Con o senza la Nato, con o senza le destre al comando dopo il voto europeo si dà per scontato che l’Ue darà ancora più slancio alla spesa per la difesa.

Con più commesse per l’industria Usa.

Ecco l’annunciato “Zeitenwende” – il passaggio al tempo nuovo.

 Il cancelliere tedesco “Scholz” e il ministro della Difesa “Pistorius”, in eleganti cappotti neri, raggiunti dalla premier danese “Frederiksen” affondano le vanghe nella nuda terra e inaugurano la nuova fabbrica “Rheinmetall” di munizioni d’artiglieria.

 

L’obiettivo che fu annunciato, il milione di pezzi in mano agli ucraini entro marzo, è un miraggio:

dopo decine di migliaia di morti, cade “Adviivka” e si combatte con sempre meno risorse.

Mine e droni russi hanno congelato l’iniziativa di Kyiv, circoscrivendola alla battaglia sul Mar Nero.

 

Nel frattempo “Rheinmetall ha ottenuto commesse per 10 miliardi:

da quando i carri armati russi hanno invaso l’Ucraina il valore delle azioni è più che raddoppiato.

 Il segretario Nato “Stoltenberg” punta il dito contro i ritardi del Congresso Usa.

E annuncia un milione di droni e nuove mine per le difese ucraine.

 Ma il candidato Donald Trump è sempre più ansioso di rimettersi a smantellare l’Alleanza, mentre “Tucker Carlson” loda “Putin” e la dolce vita moscovita, e nell’Artico le carceri russe restituiscono morto il capo-oppositore Navalny.

 In Occidente Germania, Regno Unito e Giappone entrano in recessione.

La Conferenza sulla Sicurezza di Monaco si è aperta con sondaggi che vedono un 87% dei cittadini Ue favorevoli a una difesa europea.

Proprio a Monaco, nel 2007, Putin esplicitò le basi del revisionismo russo.

Oggi, la standing ovation per Zelensky, che arriva con in tasca un accordo bilaterale con Londra, ed è passato a firmare a Parigi e Berlino (non a Roma).

Nella sostanziale afasia sulla guerra contro Gaza, mentre Israele bombarda i palestinesi nella barriera fra la Striscia e il Sinai egiziano – nefasto annuncio della” nuova Nakba” -, la Germania parla con la Francia di condivisione dell’ombrello nucleare, e porta la Turchia – finora esclusa per via del flirt con gli S-400 russi – ad aderire all’iniziativa di scudo missilistico continentale:

 17 paesi, fra cui le neutrali Austria e Svizzera.

La Francia è critica, perché il sistema non sarà interamente made in Europe, ma includerà gli americani Patriot e gli israeliani Arrow.

I paesi europei spendono oggi per la difesa 380 miliardi di dollari:

erano 230 del 2014, anno dell’invasione della Crimea.

Ursula von der Leyen dichiara che l’Unione europea darà slancio alla propria industria di difesa, come già fece con vaccini e gas: spenderà più in commesse europee, invece che comprare da paesi terzi, come gli Usa.

Si prevedono resistenze da alcune capitali, ma la traccia è data per segnata.

Lo stesso Draghi, del resto, si è detto fiducioso in caso di vittoria delle destre al voto europeo:

arrivate al governo, non potranno negare che l’europeizzazione della difesa è imperativa e conveniente.

Eppure lo stesso “Stoltenberg”, lo scorso 31 gennaio, sottolineava candidamente alla “Heritage Foundation” che più Nato significa più mercato per l’industria militare Usa:

prova ne sia che gli alleati atlantici negli ultimi due anni si sono impegnati ad acquistare armi Usa per 120 miliardi.

Missili per Regno Unito, Finlandia e Lituania, carri armati per Polonia e Romania, e F-35 per tutti gli altri:

 dunque «la Nato è un buon affare per gli Stati Uniti».

A Monaco la vice-presidente Usa, “Kamala Harris”, ha denunciato le ideologie fallite dell’isolazionismo e dell’autoritarismo che stanno destabilizzando il mondo.

Ha rivendicato l’importanza della leadership di Washington, mettendo al centro la Nato, allertando contro il rischio di un futuro presidente Usa che abbandona gli alleati per blandire le dittature.

Da tempo gli Usa dispongono di una “space force”, e guardano con sospetto i test anti-satellite condotti da altre potenze con lancio di missili balistici.

Bandita da ogni trattato, la militarizzazione dello spazio è uno scenario realistico, quale che sia il peso delle speculazioni accesesi a Washington attorno al presunto progetto di arma atomica russa nello spazio.

Se una deflagrazione nucleare fuori atmosfera avrebbe effetti indiscriminati, che mal si acconciano al calcolo strategico, resta il fatto che costi e vantaggi della proiezione di tecnologia nello spazio cambiano rapidamente, mentre dipendiamo sempre di più da reti satellitari vulnerabili – dalle infrastrutture civili ai sistemi di allerta missilistica nucleare.

Nelle loro interconnessioni con dati e comunicazione, i satelliti hanno un ruolo dirimente anche in guerra, come mostra l’impero di “Elon Musk”. Dalla geopolitica all’astro politica il passo è ormai breve, soprattutto se saltano i trattati per il controllo degli armamenti.

Una parte crescente di politici ed esperti si mobilita ad arginare la paura perorando l’ulteriore aumento delle spese militari, in nome del” si vis pacem para bellum”.

 Uno scenario che è quasi una professione di fede, in cui la democrazia viene difesa da forze di progresso che votano indiscriminatamente i crediti di guerra, le destre nazionaliste governano e sono ammansite dalla necessità di difesa del blocco occidentale, mentre le tante contraddizioni sociali, economiche e politiche che emergono sarebbero col tempo riassorbite dal giusto corso della Storia.

Un argomento che si consegna a una visione puramente geopolitica ed essenzialista dell’Occidente, smarrendo capacità di visione delle trasformazioni globali, delle dinamiche di disumanizzazione che ci attraversano e dell’orizzonte della sostenibilità.

Non si discuta quale modello di difesa.

Si ignorino i fondamenti empirici su cui è stata storicamente costruita la pace (si pensi alla fine della Guerra Fredda), che non sono da rintracciare nella pura competizione al riarmo e nell’ancor più elusiva «vittoria» nello scontro militare, indiretto o diretto, ma semmai nella capacità di gestire trasformazioni contraddittorie, produrre consenso e opportunità per i molti.

Se vuoi la pace prepara la pace.

 

 

 

 

L’agricoltura e l’ambiente

hanno perso la partita.

Sbilanciamoci.info - Vincenzo Comito – (13 Febbraio 2024) – ci dice:

 

I trattori contro l’Europa, mentre il settore è a fine corsa, fagocitato dall’agrobusiness da una parte, dalla grande distribuzione dall’altra, e anche dai bassi prezzi esteri.

 Ma la protesta, su cui soffia l’estrema destra, viene incanalata contro i vincoli ambientali e climatici.

Aspetti generali.

Per comprendere meglio la crisi attuale del settore agricolo in Europa e la falsa soluzione che avanza in queste settimane a Bruxelles e in diversi paesi europei, può essere opportuno ricordare alcune delle trasformazioni che vi hanno luogo da tempo.

Nell’articolo facciamo in particolare riferimento alla situazione francese, paese con una grande tradizione agricola e che appare quello più ricco di elementi di analisi;

utilizziamo poi per la redazione del testo diversi pezzi apparsi in particolare sulla stampa di quel paese e specialmente sul quotidiano Le Monde. 

Si è assistito nella sostanza nel dopoguerra ad un declino veloce di una civiltà contadina millenaria, autarchica e familiare, con l’apparizione invece della figura nuova dell’agricoltore, integrata in un sistema di cui non è ormai più che il primo anello di una lunga catena di fabbriche agroalimentari che riforniscono a loro volta la grande distribuzione.

 In questo percorso c’è stato l’inserimento brutale del mondo della terra in un modello produttivistico di cui oggi appaiono drammaticamente tutti i limiti (Bezat, 2022).

Detto in altro modo, oggi l’impresa contadina rischia ad ogni momento di essere schiacciata dal lato degli sbocchi dalla grande industria e dalla distribuzione oligopolistica (in Francia ad esempio esistono ormai solo quattro grandi centrali di acquisto dei prodotti agricoli, che stanno oltretutto diventando tre), seguendo una logica che tende a massimizzare i profitti di fronte ad un contraente debole.

Mentre d’altro canto la stessa piccola impresa agricola deve anch’essa acquisire gli input produttivi (macchinari agricoli, sementi, fertilizzanti, disinfestanti, imballaggi, ecc.) da grandi complessi industriali che dettano i prezzi (Comito, 2023).

Tutto questo nell’ambito di un settore, quello agricolo, che negli scorsi decenni ha anch’esso partecipato ai processi di globalizzazione e che deve inseguire la crescita della popolazione mondiale e i rapidi mutamenti del gusto.

Sul primo fronte, il settore ha certo i mezzi tecnici per nutrire adeguatamente tutti gli abitanti del pianeta, ma sono gli indirizzi politici e sociali dei vari paesi che creano la penuria e la fame.

Tra l’altro, su di un altro piano, sino a non molti decenni fa i paesi ricchi apparivano dominanti nel settore, mentre più di recente assistiamo, come del resto in tutta l’economia, ad un’accelerazione nell’attività dei paesi nuovi.

 Così, ad esempio, negli allevamenti oggi paesi come il Brasile e la Cina, la fanno da padroni, almeno in alcuni comparti, mentre l’India è diventato il più importante produttore di latte del mondo e mentre nel segmento dei cereali abbiamo di recente assistito alla forte crescita, favorita dai cambiamenti climatici, delle produzioni e delle esportazioni russe (Comito, 2023).

Il mondo agricolo è nella sostanza molto eterogeneo e comprende al suo interno delle unità di piccole dimensioni da una parte, ma dall’altra anche delle imprese sempre più grandi e i due settori presentano aspetti e problemi molto differenziati:

 tra l’altro le seconde continuano a divorare le prime. 

È in effetti in atto da tempo un processo di concentrazione nel settore produttivo, con la crescita di poche grandi imprese globali o comunque ad ampio intervento territoriale, che si orientano verso un modello agroindustriale;

tra l’altro, più del 50% delle terre è oggi occupata da unità produttive dalle dimensioni di più di 500 ettari, mentre quelle inferiori ai due ettari, il 87% del totale, occupano soltanto il 12% della superficie agraria (Bezat, 2022).

 Vi si registra anche una concentrazione dei profitti.

Va segnalato che il 77% delle unità agricole di piccole dimensioni a livello globale si trovano in regioni dove l’acqua è scarsa. 

Tra le conseguenze del cattivo modello di sviluppo agroindustriale si può rilevare un grande livello di inquinamento sotto forma di emissione di gas serra e fertilizzanti chimici, e ancora scarsità d’acqua, degradazione dei suoli, spreco del cibo.

 L’agricoltura fornisce un grande contributo al cambiamento climatico in relazione alle emissioni inquinanti provocate dalla deforestazione, dai prodotti chimici utilizzati nel settore, dagli incendi dei residui agricoli, dalla gestione degli allevamenti.

 Si stima che almeno il 30% delle emissioni inquinanti complessive nel mondo abbia origine nel settore (Ahuja, 2019), in particolare in quello dell’allevamento bovino, mentre per produrre un chilo di carne bisogna tra l’altro impiegare 15.000 litri di acqua. Più in generale il settore agroindustriale assorbe oggi il 70% del consumo di acqua dolce nel mondo.

Il quadro europeo

Un gruppo di ricercatori francesi (Allaire e altri, 2022) ha analizzato il paradosso di un’Europa diventata una vera e propria colonia agricola.

Bruxelles sovvenziona in maniera massiccia una produzione di grandi colture cereali e oleaginose destinate in gran parte all’alimentazione animale.

Per produrre si utilizzano prodotti chimici e meccanici, petrolio, sementi, software, provenienti per la gran parte dai paesi extraeuropei.

La fetta più importante delle aziende agricole è meccanizzata ed impiega pochi addetti, mentre le produzioni ottenute sono per la gran parte a debole valore aggiunto e lasciano poi qua e là una falda freatica inquinata e dei suoli super sfruttati;

una parte crescente delle produzioni è poi esportata verso paesi come la Cina, mentre la stessa Europa acquista dal paese asiatico in maniera crescente produzioni industriali a rivelante valore aggiunto.

Si rovescia la situazione: per la prima volta l’Europa mantiene in piedi uno scambio ineguale a lei sfavorevole.

Per quanto riguarda la “Politica Agricola Comune” dell’UE (PAC), che assorbe una parte molto rilevante del bilancio di Bruxelles, circa un terzo del totale, essa favorisce soprattutto i grandi complessi.

Gli stanziamenti al fondo nel piano 2021-2027 si aggirano in totale sui 387 miliardi di euro, meno di quelli del piano precedente.

 Dopo un forte scontro sulla questione degli schemi ambientali, la soluzione trovata al momento del varo dello schema è stata quella di destinare il 30% delle risorse all’ambiente, quando la richiesta della società civile era invece del 50% e quella del Parlamento europeo del 35%.

 I vari membri dell’Unione poi decideranno a casa loro, da soli, come spendere il denaro. E lo fanno spesso eludendo in qualche modo i vincoli.

 

Il movimento nelle campagne.

In pochi anni problemi economici e flagelli metereologici si sono abbattuti sulle campagne.

Si sono registrati: l’aumento dei tassi di interesse, dei costi dell’energia, degli input produttivi dei campi e di quelli per l’alimentazione animale, la pressione degli industriali e della grande distribuzione, la concorrenza da parte dei paesi con regole sanitarie meno dure, le epizootie, le fluttuazioni dei corsi mondiali, la siccità e il razionamento dell’acqua, l’inflazione delle norme che ostacolano l’attività agricola, l’aumento della burocrazia (Bezat, 2024).

Per altro verso, in una grande paese agricolo come la Francia si contavano 1,6 milioni di imprese agricole nel 1970, mentre ora esse sono soltanto 380.000 e continuano a diminuire (Bezat, 2024).

Nell’intera Unione Europea tra il 2005 e il 2020 sono scomparse 5,3 milioni di imprese agricole.

E l’emorragia continua.

 I prezzi dei beni e servizi usati in agricoltura sono aumentati del 25% nel solo 2022.

Per altro verso, per ogni euro speso dai consumatori in prodotti alimentari, solo 15 centesimi vanno agli agricoltori (Amato, 2024).

Il mondo politico europeo non ha percepito in alcun modo questi cambiamenti (Lorenzen, 2024).

 

La professione agricola è vittima delle politiche liberiste e produttivistiche sostenute dalla grande industria, che obbligano anche i piccoli agricoltori a ingrandirsi e a indebitarsi.

 Il risultato è una remunerazione miserevole, che distrugge nel frattempo il resto del mondo vivente e la biodiversità, l’acqua, i suoli e le condizioni di vita degli animali (Sigaux, 2024).

Incredibilmente, ormai, in Francia in due terzi dei redditi nelle famiglie di piccoli agricoltori provengono da attività diverse da quelle agricole (sostegno del congiunto, secondo lavoro, ecc.).

Nel 2019 il 18% delle famiglie di agricoltori vivevano sotto la soglia della povertà (Bertrand, Billiard, 2024).

Più in generale è vero che il reddito medio annuo degli agricoltori ha raggiunto i 56.014 euro nel 2022, prima delle imposte e dei contributi sociali, ma va rilevata, d’altro canto, la grande diseguaglianza nella distribuzione dei redditi che ne fanno la professione più diseguale della Francia.

 Così il 25% degli agricoltori supera i 90.000 euro e il 10% i 150.000, ma il 10% di essi guadagna meno di 15.000 euro.

Si osservano poi forti differenze tra le varie sottocategorie, che vanno ad esempio dai 19.819 euro degli allevatori bovini e caprini ai 124.409 degli allevatori di maiali.

Di fronte a questo quadro si può osservare come le soluzioni globali per il settore non abbiano molto senso (Piketty, 2024). 

Certamente, poi, la situazione dei lavoratori del settore agroindustriale non è tra le più rosee, anzi si può parlare in questa area in generale di “povertà del lavoro”;

 vi si registra spesso un quadro molto degradato, come l’impiego molto esteso e perverso dei contratti di outsourcing, in particolare in una filiera come quella della carne (Campanella, 2023). 

La collera cresce da molto tempo contro “quelli in alto”, contro la politica, contro il governo, contro l’UE. Molti agricoltori non ce la fanno più di fronte al sovraccarico di lavoro, all’aumento dei costi, alla precarietà dei redditi, alla dipendenza delle sovvenzioni alle nuove regole di Bruxelles.

L’esasperazione è in gran parte giustificata, ma rischia di dirigersi verso la destra, anche la più oltranzista.

Intanto in Francia si registra nel settore in media un suicidio ogni due giorni.

I fatti di Francia.

Tutto cominciò in Olanda.

 Nel mese di settembre del 2021 le autorità olandesi hanno proposto un piano drastico per ridurre l’inquinamento dei loro corsi d’acqua a causa dei nitrati.

 Si è deciso di ridurre di un terzo il numero dei capi di bestiame del paese, anche attraverso l’acquisto da parte dello Stato, con successivo smantellamento dei grandi allevamenti intensivi.

Tale misura ha però suscitato una rivolta nel paese e contribuito persino a mutare gli equilibri politici.

Più di recente le proteste sono ripartite toccando molti altri paesi europei, dalla Francia, all’Italia, alla Germania, alla Spagna, al Belgio.

Basta leggere i titoli di un giorno del quotidiano Le Monde (28-29 gennaio 2024) per avere un quadro della situazione:

“In Germania, un rifiuto netto delle misure per il clima”, “il governo svedese si esonera dai suoi obiettivi climatici”, “In Grecia la moltiplicazione dei parchi eolici si scontra con vive resistenze locali”, “In Francia misure di semplificazione a detrimento dell’ambiente”.

 

Concentriamo la nostra attenzione sulle proteste francesi, forse le più importanti e quelle che toccano più questioni.

Gli agricoltori transalpini sono scesi in strada con un numero quasi infinito di richieste;

alcune riguardano il governo nazionale, altre Bruxelles.

Chiedono, tra l’altro, la riduzione del prezzo dei carburanti agricoli, il blocco delle trattative con il Mercosur, un accordo che i contadini accusano di potenziale concorrenza sleale perché i produttori dei paesi dell’America Latina non sono soggetti agli stessi vincoli ambientali di quelli europei, poi anche l’abolizione dell’accordo in atto da tempo che ha annullato i dazi sui prodotti agricoli ucraini, minori vincoli alla messa in opera di bacini per l’irrigazione, l’abolizione dell’obbligo di mantenere incolta una percentuale del terreno del 4%, interventi contro la pressione sui prezzi e il comportamento sleale della grande distribuzione, la riduzione degli adempimenti burocratici nazionali ed europei per l’ottenimento dei contributi e di altri favori, il blocco alla riduzione dei limiti all’utilizzo dei fertilizzanti e pesticidi, la messa in discussione del vincolo del 30% delle risorse della PAC da destinare  all’ecologia.

Non mancano anche le contestazioni verso i produttori degli altri paesi europei, sullo sfondo di una marcata spinta nazionalista.

Gli strali si rivolgono in particolare contro la Spagna, il più importante esportatore di derrate agricole in Francia e al coro patriottico si unisce a sinistra anche una personalità come “Ségolène Royal”.

 

Sorvoliamo sul pietoso svolgimento dei fatti del settore nel nostro paese che ha, come al solito, trovato i partiti e i media in stato confusionale.

Così, mentre la Commissione Europea si apprestava a proporre dei nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 entro il 2040, progetto che dovrebbe permettere all’UE di rispettare gli accordi di Parigi per limitare le conseguenze del riscaldamento climatico, le proposte già varate a Bruxelles all’orizzonte 2030 ricevono contestazioni crescenti da parte di agricoltori, industriali, opinioni pubbliche, governi, partiti politici (Malingre, 2024).

Cosa fare.

Il governo francese e Bruxelles, di fronte alle contestazioni, stanno mollando su tutti i fronti (al contrario che, per quanto riguarda il paese transalpino nel caso della riforma delle pensioni, che pure registrava qualche tempo fa proteste ben più importanti come dimensione) e alla fine è l’ecologia che perde, come intitolava il quotidiano “Libération” dopo la sostanziale fine delle agitazioni.

 Si può aggiungere che intanto si investe sempre di più nelle armi.

 Per altro verso vincono i grandi proprietari, i grandi produttori di cereali e dell’agrobusiness.

Perde invece, oltre all’ambiente, un nuovo possibile modello agricolo, su uno sfondo volgarmente patriottico-protezionistico.

Il governo di Parigi alla fine, con il primo ministro “Gabriel Attal”, designa i difensori del clima come nemici degli agricoltori;

le sue proposte sono un inganno e non permettono di cambiare di modello (Belaich, Tondelier, 2024).

Va ricordato che, al di là di questo caso, bisogna decidere chi deve pagare i necessari costi della transizione energetica:

 l’agricoltura, i consumatori, le imprese del settore, lo Stato.

Sulla questione, dietro le quinte, hanno soffiato sul fuoco i nemici dell’ambiente, a partire dalle grandi imprese dell’energia, mentre le destra lo ha fatto apertamente contestando più in generale tutte le misure che tendono a ridimensionare la crisi climatica.

Alla fin fine sono tutti uniti nella loro difesa del modello produttivistico: lo Stato francese, il più grande sindacato agricolo – la” FNSEA”, che si attiva da anni per frenare l’evoluzione del modello agricolo francese e che ha trascinato gli agricoltori nella trappola infernale dell’industrializzazione ad oltranza (Sigaux, 2024) -, l’Europa con la PAC (l’80% delle sue risorse vanno alle grandi imprese e ai piccoli restano solo le briciole).

Si tratta di un modello bloccato;

l’agricoltura è in uno stato catastrofico dal punto di vista economico, sociale, ecologico, un settore alla fine della corsa e una professione, quella dell’agricoltore, in piena crisi esistenziale (Bertrand, Billard, 2024).

È poi la “FNSEA” che ha fatto votare la PAC a Bruxelles mentre oggi dice che i problemi sono colpa di Bruxelles.

Non c’è da sperare che i governi degli altri paesi dell’UE decidano più saggiamente di quelli francesi.

Perché gli agricoltori possano far fronte al caos climatico e alla fluttuazione dei prezzi bisognerebbe riorientare la “PAC” e le politiche nazionali, combattere più in generale per un’agricoltura socialmente giusta, rispettosa dell’ambiente e del clima.

Il valore aggiunto deve andare di più agli agricoltori e non all’industria alimentare e alla grande distribuzione.

Ma bisogna anche garantire lo sviluppo di un’agroecologia che permetta di garantire suoli fertili e il rispetto delle risorse in acqua investendo adeguatamente nel settore (Belaich, Tondelier, 2024).

Certo, non si salverà il clima senza gli agricoltori e l’agricoltura finirà per essere impossibile senza misure ecologiste (Sigaux, 2024).

(Le misure ecologiste - ora promosse - si basano su alcune considerazioni errate. Infatti viene ritenuto che il gas CO2, pur essendo più pesante dell’aria, possa volare tra i gas serra nell’atmosfera e quindi essere causa determinante del risaldamento globale ritenuto colpevole dei disastri ecologici! N.D.R.)

Sullo sfondo, peraltro, si profilerebbe la necessità di cambiare non solo i modi di produzione, ma anche quelli di consumo e i regimi alimentari (Bertrand, Billard, 2024).

Un compito molto impegnativo.

Conclusioni.

Le decisioni provvisorie prese sul problema agricolo dai governi in Francia e altrove, sotto la minaccia dei trattori, rispondono parzialmente alle richieste immediate degli agricoltori.

 Il movimento è peraltro diviso al suo interno tra gli interessi delle grandi imprese e quelli delle piccole unità produttive, e propone più questioni di quelle che si pretende di risolvere.

Resta totalmente in piedi il grande tema della messa a punto di un nuovo modello di sviluppo più rispettoso delle necessità di fondo del settore e della società tutta, mentre si configura un grave arretramento sul fronte della lotta ai mutamenti climatici.

Le turbolenze di queste settimane mostrano, ancora una volta, la grave inadeguatezza delle classi dirigenti politiche europee, del tutto incapaci di individuare strategie di crescita sostenibile per i loro paesi e per il pianeta e prese sempre alla sprovvista dagli avvenimenti.

Purtroppo le soluzioni adottate da queste stesse classi dirigenti inadeguate vanno incontro a una parte molto consistente delle opinioni pubbliche dei vari paesi dell’Unione, complici anche i media, che vedono come troppo onerosi oltre i costi del cambiamento verso un nuovo modello e si mostrano nella sostanza, poco sensibili ai temi ambientali, sul fronte agricolo come su quello delle auto, o ancora su quello delle emissioni inquinanti degli edifici.

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