Morire per la patria o per Woke?

 Morire per la patria o per Woke?

 

 

Vi racconto il mondo visto

dalla più grande base

navale americana.

Corriere.it – (2 dicembre 2023) - Federico Rampini – ci dice:

 

Da Norfolk, Virginia, uno sguardo sulla precaria egemonia degli Stati Uniti.

Vi racconto il mondo visto dalla più grande base navale americana.

Questa newsletter la scrivo da un osservatorio speciale.

Per due giorni sono stato invitato dal “Dipartimento di Stato” a visitare la più grande base navale del mondo:

a Norfolk, Virginia, ospita la “Second Fleet” ovvero la flotta atlantica della US Navy ed è anche l’unica base Nato sul territorio Usa.

«Alimenta» di navi anche tutte le altre flotte Usa dispiegate nel mondo, dall’Asia al Mediterraneo.

Ho fatto un viaggio molto esclusivo nel cuore del dispositivo militare americano, incontrandone i capi operativi:

 dagli ammiragli fino ai sommergibilisti (uomini e donne).

Tra le tante «macchine della prevenzione e dissuasione» ho visitato la portaerei nucleare “USS George Washington” che presto partirà in missione nel Pacifico, con un dichiarato ruolo deterrente verso la Cina mentre si avvicinano le elezioni a Taiwan.

In una fase in cui l’America è già mobilitata su due guerre calde (Ucraina e Israele), questa visita e i colloqui che ho avuto qui sono un’occasione per riflettere sullo stato della potenza americana e sui suoi limiti.

Tra i temi:

 la continua latitanza degli europei che non mantengono gli impegni di adeguamento delle spese militari e agevolano la rimonta di Putin in Ucraina;

le incognite sull’efficacia futura di “dinosauri” come le mega-portaerei, in un’era in cui altri puntano su tecnologie ultraleggere come i droni, poco costosi e in grado di infliggere danni micidiali ai pachidermi dei mari;

il sorpasso della Cina che per numero totale di navi da guerra è ormai in testa.

Raccontandovi il mondo di oggi visto dalla mega-base di Norfolk, vi trasmetto anche alcuni dubbi che assediano questa America sulla tenuta della sua leadership.

 Lascio sullo sfondo per ora la questione del consenso interno sul ruolo globale degli Stati Uniti, che sarà messo alla prova nella campagna elettorale del 2024.

Privilegio alcuni problemi di fondo, strutturali e di lungo periodo, che riguardano il cosiddetto “over-stretching”, il rischio di iper-dilatazione degli impegni imperiali, un tema che in passato contribuì al declino di altre superpotenze marittime, per esempio la Gran Bretagna.

La massima concentrazione mondiale di portaerei.

Norfolk in Virginia è a 312 km a Sud della capitale federale, tre ore di autostrada da Washington;

io ci sono arrivato in aereo (un’ora di volo) da New York.

È una vera città, con 238.000 abitanti, ha anche una fiorente economia legata alle attività del porto mercantile;

ma il grosso del suo sviluppo dipende dalla base militare, porto strategico della U.S. Navy e non solo:

è anche una base aerea, elicotteristica, una sede “Nato” dove si alternano militari da tutti i paesi alleati, un centro industriale di cantieristica e manutenzione per navi e sottomarini, un polo accademico per la formazione in tutte queste attività e altre ancora (spazio, cyber-sicurezza, intelligenza artificiale, elettronica).

 I vertici militari che ho incontrato spesso si riferiscono a Norfolk come a un “campus”, per l’analogia con certe città universitarie che ruotano attorno a politecnici, policlinici, con integrazione stretta fra ricerca, innovazione, produzione.

 È anche una città “operaia”, sempre per la stessa ragione.

Quando alle otto del mattino ho assistito all’alzabandiera sul ponte della portaerei nucleare “USS George Washington”, ero già a bordo da un’ora e molto prima del mio arrivo la portaerei brulicava di attività, un viavai di tecnici e maestranze dentro il suo ventre gigantesco, quello che può trasportare fino a un centinaio di velivoli da combattimento:

più che una nave sembra una città o una mega-fabbrica.

Quando parte in missione trasporta 2.700 marinai più una quota di personale tecnico a inquadramento civile.

Ha quindi alcune esigenze simili a una grossa nave crociera, per esempio la necessità di trasportare in stiva scorte di cibo, medicinali;

 la sua area cucina-mensa è a sua volta una “fabbrica” di pasti a ripetizione.

 Per altri versi le differenze da una nave-crociera sono abissali.

 Marinaie e marinai a bordo sono dei professionisti che hanno firmato un contratto di carriera militare per almeno quattro anni rinnovabili;

un contratto nel quale “morire per la patria” è un’eventualità prevista, fa parte delle incognite di questo tipo di viaggi.

Nella sala mensa della “USS George Washington”, come su ogni nave militare americana, c’è sempre un tavolo singolo apparecchiato e imbandito con la divisa e le insegne di una militare o un militare “MIA”, “Missing In Action”:

un omaggio permanente ai compagni scomparsi nel corso delle missioni in mare.

Tra le altre differenze rispetto alle normali navi passeggeri c’è lo spazio in stiva dedicato agli armamenti:

 il ventre della balena, l’immenso hangar centrale della “USS George Washington”, ha gru industriali capaci di caricare aerei al ritmo di uno ogni due minuti (sembra incredibile, mi sono fatto ripetere più volte questa velocità).

Altri macchinari poderosi devono operare le “molle” o catapulte che scaraventano in aria i cacciabombardieri.

Per quanto a un piccolo essere umano il ponte della portaerei sembri gigantesco, in realtà la pista è troppo corta per decolli e atterraggi, che quindi hanno bisogno di un braccio meccanico per raggiungere la velocità e potenza di spinta richiesta.

Infine, ricordo il significato di “nucleare”.

 A prescindere se abbia in dotazione a bordo anche delle armi atomiche (tema sul quale vige la massima discrezione), di sicuro è nucleare la propulsione.

Questo significa che la “USS George Washington” come molte altre portaerei americane e la totalità dei sommergibili Usa, ha un’autonomia di carburante illimitata; se deve fare scalo non è mai per rifornirsi di energia.

Deterrenza navale e «Pax Americana»: esempi concreti.

Il suo prossimo viaggio la porterà a circumnavigare tutto il Sudamerica fino al Capo Horn, raggiungere la “West Coast” per uno scalo al porto militare di San Diego in California, infine da lì partire per il Giappone.

È un viaggio molto lungo che illustra la vocazione degli Stati Uniti ad essere una potenza del Pacifico (lo è dall’Ottocento), e le difficoltà tecniche e logistiche che questo comporta dati gli immensi spazi da coprire.

 L’ammiraglio “Daryl Caudle”, capo supremo di tutte le flotte, mi ricorda questo dato geografico usando un’immagine semplice:

 “Dalla nostra “West Coast” per arrivare solo fino al porto militare di Pearl Harbor nelle Hawaii, c’è di mezzo l’equivalente dell’intero Oceano Atlantico.

Poi dalle Hawaii per arrivare fino alla nostra base navale sull’isola di Guam c’è un altro Atlantico.

Da lì al Giappone, un terzo Atlantico”.

 

La missione della “USS George Washington” nei mari della Cina è un caso esemplare per illustrare il ruolo storico delle portaerei americane, e delle loro flotte di supporto e accompagnamento:

quello che la dottrina militare Usa definisce “forward deployment” o dis”piegamento avanzato, con funzioni di deterrenza.

 La USS George Washington” si troverà nel teatro dell’Indo-Pacifico dopo il risultato dell’elezione presidenziale a Taiwan, in un periodo in cui la Cina potrebbe rilanciare le sue azioni aggressive nei mari circostanti.

Le flotte Usa, con gli armamenti di cui dispongono e in particolare i jet militari e i missili che trasportano, hanno sempre avuto una funzione diplomatica e geopolitica prima ancora che bellica:

 segnalare una presenza statunitense a difesa degli alleati e come deterrente per dissuadere le potenze ostili dalle aggressioni.

 Il leader politico che fu all’origine della costruzione della potenza navale americana – successivamente destinata a sostituire quella inglese – fu il presidente “Theodore Roosevelt” all’inizio del Novecento, lo stesso che amava definire la politica estera degli Stati Uniti con il motto “parlare dolcemente, impugnando un grosso bastone”.

 La portaerei è il bastone per eccellenza, ha il vantaggio di trasportare con sé un’intera base aeronavale mobile, raggiungendo anche quelle zone del pianeta in cui l’America non ha basi militari fisse, terrestri.

Ma quanto è ancora efficace questo “grosso bastone”, la potenza marittima su cui questa nazione ha costruito il suo impero globale e una controversa (o fragile) Pax Americana?

Deterrenza dal mare contro Hezbollah e Iran nel Mediterraneo.

L’impressione fisica di potenza è soverchiante a Noforlk.

Visitare una sola portaerei è già uno spettacolo, osservarle in gruppo è uno shock.

 In vita mia non avevo mai visto così tante portaerei riunite, e per forza: c’è un solo luogo sul pianeta dove questo è possibile.

Di americane ce ne sono undici al mondo, di queste cinque o sei sono quasi sempre ormeggiate sui moli di Norfolk.

In questo momento ne ho viste cinque, affiancate da una sesta consorella in visita, una portaerei alleata che batte bandiera britannica.

 

Norfolk non è una vetrina dove farsi ammirare dai visitatori (in realtà pochissimi viste le severe restrizioni di accesso).

È un cantiere.

La “USS George Washington” vi ha trascorso gli ultimi sei anni della sua vita per lavori di manutenzione e ammodernamento.

È una portaerei che ha 37 anni di vita, il suo primo varo risale al 1986.

 È stata ferma per quello che si può definire un “tagliando” di metà esistenza:

si prevede che dopo questa manutenzione possa servire per altri 25 anni.

Una sosta di sei anni – che ovviamente l’ha “rivoltata come un calzino”, adeguandola alle tecnologie di ultima generazione – dà l’idea del costo fisso di questo pachiderma, del gigantesco investimento iniziale a cui seguono tanti investimenti successivi.

Immaginarsi una fabbrica, o una centrale elettrica, bloccata per sei anni: quanto costa all’impresa che la gestisce.

 

Certo il ruolo deterrente di queste macchine da guerra è una realtà.

Lo si è visto negli ultimi due mesi, dopo l’attacco di “Hamas” del 7 ottobre, quando l’”Amministrazione Biden” ha temuto che il conflitto potesse allargarsi su più fronti con l’intervento di Hezbollah contro Israele, forse addirittura dell’Iran.

Per prevenire questo rischio la Casa Bianca e il Pentagono hanno deciso di posizionare ben due flotte o squadroni nel Mediterraneo orientale e al largo delle coste del Libano là dove si concentra la massima potenza di fuoco degli Hezbollah.

Traduco liberamente con “flotta” o “squadrone” il termine “Strike Group”, che indica un insieme di navi militari con al suo centro una portaerei come ammiraglia.

 Le due portaerei ammiraglie in questione sono la “Dwight Eisenhower” e la “Gerald Ford”.

 Da anni non si verificava un simile dispiegamento di forze navali americane nel Mediterraneo orientale.

In apparenza, e fino a prova contraria, la mossa sembra avere dato i suoi frutti:

per adesso gli Hezbollah non hanno aperto un secondo fronte di guerra contro Israele, né l’Iran ha aperto un terzo fronte.

Va aggiunto che nel bilancio geopolitico di questo dispiegamento rientra la pressione con cui “Biden” ha indotto “Benjamin Netanyahu” a concedere tregue per la liberazione di ostaggi.

 Anche Israele deve pagare un pedaggio al ruolo delle flotte Usa che lo aiutano a contenere i nemici.

Questa è la deterrenza americana, finché funziona, e la superiorità navale vi gioca un ruolo dominante.

Da questo punto, di vista, il mondo visto da Norfolk è ancora segnato da una capacità d’intervento degli Stati Uniti che nessun’altra nazione riesce a replicare, non su questa scala.

 Per ora.

 

L’Europa debole che aiuta Putin.

Però l’auto-compiacimento non si addice all’America del 2023.

 Le ragioni d’inquietudine abbondano. Ne elenco alcune.

Qui a Norfolk ho incontrato diversi generali o alti ufficiali di altri paesi della Nato:

per la precisione Canada, Regno Unito, Germania, Francia, Danimarca, Polonia. (Solo per caso non c’erano italiani nelle riunioni a cui ho partecipato in quelle 48 ore, ma in una data diversa avrei potuto incontrarne).

 Un fantasma si aggirava nei nostri colloqui, evocato con imbarazzo o ignorato diplomaticamente.

È la persistente latitanza di molti alleati Nato, che disattendono gli impegni presi per adeguare l’alleanza alle nuove sfide imposte da potenze ostili come Russia, Iran, Cina.

Almeno sette nazioni della Nato non arrivano a spendere per la difesa neppure il 2% del Pil.

 Italia e Germania sono fra queste.

Quel 2% fu accettato unanimemente fin dai tempi di “Barack Obama,” molto prima dell’invasione dell’Ucraina.

E doveva essere un minimo, non un tetto.

Lo shock dell’aggressione russa il 24 febbraio 2022 ha provocato una serie di dichiarazioni promettenti, da Berlino a Roma e in altre capitali:

è seguito poco nei fatti.

Lo stesso si può dire in altri settori:

dal potenziamento delle capacità industriali (ridotte ai minimi dopo la fine della prima guerra fredda), alla omogeneizzazione e standardizzazione delle armi e tecnologie belliche in uso nei diversi paesi europei.

Tutto procede a rilento, o non procede affatto.

 In Germania almeno il governo viene criticato per la sua paralisi su questo terreno, in Italia è silenzio.

I risultati si vedono, per esempio sul terreno in Ucraina.

L’Unione europea aveva promesso dal marzo scorso un milione di munizioni da artiglieria.

Non le ha mai fornite.

 Invece ne ha già fornite altrettante la Corea del Nord alla Russia.

 Che un piccolo paese sull’orlo della carestia come la Corea del Nord riesca a produrre più munizioni e più velocemente di un gigante ricco come l’Unione europea, dà l’idea dello stato di disarmo in cui il Vecchio continente si trova.

Perfino gli Stati Uniti hanno un’industria bellica sottodimensionata e un altro dato lo conferma:

la Russia di Putin, con un’economia che a volte immaginiamo in bancarotta, sta fabbricando munizioni nelle sue aziende in quantità sette volte superiori alla produzione dell’intero Occidente.

 Certo un autocrate può imporre sacrifici sovrumani alla sua popolazione e così dirottare la massima parte delle capacità produttive nazionali verso un’economia di guerra.

Noi occidentali non abbiamo cambiato quasi nulla delle nostre abitudini e priorità;

stiamo facendo finta di appoggiare l’Ucraina, purché questo significhi zero sacrifici.

A Norfolk la schiera di ammiragli e generali che ho ascoltato ha appreso fin troppo bene una regola sacra delle democrazie: i militari non devono fare politica.

Di conseguenza sono tutti dei maestri di diplomazia, se parlano delle nazioni alleate è solo per elogiarne il contributo prezioso e decisivo, mai per lamentarne i ritardi, le inadempienze.

La realtà esterna, lo stato delle nostre opinioni pubbliche pacifiste, è “l’elefante nella stanza”, di cui tutti avvertiamo la presenza ma che abbiamo deciso di ignorare.

Perché non sappiamo come trattarlo.

Portaerei-pachidermi contro droni ultraleggeri.

Un altro tema che cinge d’assedio la cittadella militare di Norfolk è l’evoluzione tecnologica.

Anche questo è un mezzo tabù.

 Fuori da qui, nei think tank di Washington e New York, ferve da anni il dibattito sull’obsolescenza del paradigma strategico americano.

Le portaerei sono il simbolo più enorme e appariscente di un problema che si chiama “legacy”, cioè letteralmente eredità.

Il Pentagono eredita decenni di investimenti che hanno costruito il dispositivo militare così come lo vediamo.

 Ha avuto delle evoluzioni, ha abbracciato tante tecnologie nuove.

 Però al suo centro ci sono ancora dei pachidermi industriali come le portaerei.

Ma se l’Iran decidesse di “andare a vedere” l’effettiva forza del Golia americano?

Se una delle portaerei americane nel Mediterraneo orientale venisse presa d’assalto da sciami di migliaia e migliaia di minuscoli droni? Oppure, se la Cina decidesse di invadere Taiwan e con tecnologie nuove riuscisse ad affondare una portaerei Usa accorsa in difesa dell’isola?

 La portaerei, con i cacciabombardieri che trasporta, con le batterie missilistiche sul ponte (possibilmente dotate anche di testate nucleari), con le navi di scorta e i sottomarini, è ancora una macchina formidabile. Ma è anche un magnifico bersaglio, di enorme appetibilità per il suo valore simbolico oltre che patrimoniale.

È invincibile?

O siamo entrati in un’era di guerre asimmetriche dove potenze minori possono superare il divario rispetto agli Stati Uniti puntando su armamenti leggeri, flessibili, spesso robotizzati, infinitamente meno costosi?

 In fondo la stessa mattanza di civili ebrei lanciata da Hamas il 7 ottobre, cogliendo impreparate le forze armate israeliane che abbiamo sempre considerato come un modello di efficienza e modernità, ha suonato un campanello d’allarme a Washington sui rischi di sottovalutare i “piccoli” nemici.

Poi esiste un grande nemico come la Cina, capace di insidiare il primato americano sia dall’alto sia dal basso.

 La Cina possiede il 50% dell’industria cantieristica mondiale, e questo l’ha aiutata in un sorpasso clamoroso: da un paio d’anni ha più navi militari degli Stati Uniti.

(Vari ammiragli che incontro a Norfolk trasudano fiducia sulla superiorità tecnologica delle loro flotte, nonché del personale militare a bordo; non so quanto siano da prendere alla lettera le loro rassicurazioni sulla “qualità” americana contro la “quantità” cinese).

Al tempo stesso la Cina investe in armi flessibili e leggere, cyber-guerra, missili ipersonici, reti satellitari, e ogni sorta di arsenali asimmetrici.

La stessa Russia rimane un avversario temibile, verso il quale l’attenzione non si attenua neanche nel settore navale:

a Norfolk gli ammiragli parlano della “persistente capacità russa di costruire sottomarini di livello mondiale, con missili balistici”. Dall’Atlantico ai mari del Nord, dal Baltico all’Artico al Pacifico, la contesa per il controllo dei mari vede sempre i cinesi e i russi incalzare gli americani.

Modello Musk: che cosa cambierebbe per il mondo militare.

Il dibattito filosofico-strategico sulle tipologie di armamenti, procede in parallelo con un altro.

È quello sul modello economico che governa i rapporti tra lo Stato e l’industria bellica, ovvero il complesso militar-industriale.

Tradizionalmente il Pentagono ha curato rapporti di lungo periodo con i suoi grandi fornitori:

Lockheed-Martin, Rtx-Raytheon, Northrop Grumman, Boeing, General Dynamics.

Il numero di questi fornitori si è assottigliato, perché anche l’America si è illusa di poter procedere a un disarmo dopo la fine dell’Unione sovietica.

Quelli che sono rimasti però godono di rapporti privilegiati, fatti di contratti di lungo periodo, situazioni di monopolio o di oligopolio, prezzi di forniture elevati con cui lo Stato li compensa per la loro affidabilità nel lungo termine.

Questa è una formula stabile, non necessariamente foriera d’innovazione.

Il ruolo di questi giganti semi-monopolisti tende ad accentuare il peso del fattore “legacy”, a perpetuare tipologie di armamenti del passato anche quando potrebbero essere diventate anacronistiche.

 

Un modello molto diverso è ben rappresentato da un personaggio come “Elon Musk”, che con la sua “Space-X “si è conquistato un ruolo di fornitore della Nasa per molti programmi spaziali.

 Musk ha anche un peso in alcuni teatri di guerra come Ucraina e Israele, con la sua rete satellitare “Starlink”.

 Musk è un genio dell’innovazione, segnato dal modello della Silicon Valley: all’opposto della mentalità “legacy”, ha un approccio eversivo, dirompente e rivoluzionario alle attività industriali.

 Non guarda in faccia a nessuno, licenzia manodopera se necessario, spreme al massimo i suoi collaboratori, fa cambiamenti improvvisi di strategie se pensa di aver sbagliato, abbraccia flessibilità e imprevedibilità all’ennesima potenza.

“Space-X” con i suoi vettori di lancio fa risparmiare un sacco di soldi alla Nasa.

Ma è un partner di lungo periodo, sposato a vita, come Lockheed o Boeing?

E quali riflessi avrebbe la vittoria del modello” Musk”, in un luogo come la città di Norfolk?

Questa città-campus-base militare offre ai suoi residenti un modello di vita.

 Le famiglie di militari qui hanno alloggio, scuole e università per i figli, centri commerciali dedicati al personale militare, banche e assicurazioni specializzate in questa clientela in divisa, ospedali per reduci e veterani.

Più le chiese, ovviamente.

È un universo autosufficiente, stabile, fondato su un sistema di valori e disciplina.

Può ricordare alcune forme di “capitalismo illuminato e progressista” che si occupano dei bisogni dei dipendenti dal reparto maternità fino alle spese di funerale.

Tutto questo è agli antipodi rispetto all’America di “Musk”:

velocissima, instabile, precaria, sempre intenta a saltare da una rivoluzione tecnologica all’altra.

Può il Pentagono cambiare pelle emulando la Silicon Valley, mentre ancora chiede a tanti dei suoi dipendenti una “fedeltà a vita, e fino alla morte”?

Chi fra noi è ancora disposto a combattere? I giovani?

Questo conduce all’ultimo tema che voglio segnalarvi da Norfolk:

il reclutamento di esseri umani disposti a lavorare per proteggerci da aggressioni nemiche.

La questione si pone all’ennesima potenza nella vecchia Europa.

Quando discuto con un generale tedesco sui gravissimi ritardi del governo di Berlino nell’aumentare gli investimenti per la difesa, il generale annuisce.

 Riconosce che il problema è serio. Ma non c’è solo quello.

 Non è solo questione di soldi.

Anche ammesso che i soldi alla fine arrivino, mi dice, “chi mi assicura che quei miliardi mi forniscano anche le diecimila nuove reclute di cui ho bisogno?”

 Viviamo, noi occidentali, in un mondo immerso nella retorica pacifista. L’idea di rischiare la propria vita per difendere un’entità astratta come “la nazione”, ha perso ogni appeal, in particolare nelle nuove generazioni.

 In fondo anche dietro i cortei pro-Hamas, dietro l’indottrinamento sistematico che spinge i giovani a tifare per qualsiasi nemico dell’Occidente, affiora (inconscio o consapevole) il rifiuto di combattere.

Se la nostra civiltà è presa d’assalto, la resa incondizionata è l’unica opzione.

Tanto vale legittimare questo stato d’animo decidendo che le civiltà altrui sono superiori alla nostra.

Il problema esiste anche qui negli Stati Uniti.

Uno dei massimi capi militari che incontro mi dice che “il nostro bacino di reclutamento si riduce all’un per cento della popolazione nazionale”.

Per innumerevoli motivi, demografici o sanitari, il Pentagono sa di poter andare a pescare solo dentro quel campione minuscolo.

L’un per cento della popolazione americana sono pur sempre tre milioni e mezzo di persone, molto più di quanto le forze armate vogliano assumere ogni anno (la sola U.S. Navy si accontenterebbe di assumere tra venticinquemila e trentamila nuovi addetti all’anno).

Ma quell’un per cento è un numero potenziale, virtuale, che dice quanti americani sarebbero “adatti a indossare l’uniforme” sotto il profilo generazionale e fisico; non dice affatto se siano disponibili.

Anche in America, ammette l’ammiraglio capo, “la competizione sul mercato del lavoro con il settore privato è dura”.

Un giovane genio delle tecnologie digitali, esiterebbe a lungo tra un’assunzione da Google e una dal Pentagono?

Google, oltre a pagarlo probabilmente di più, riesce a convincerlo di essere un’azienda “buona, etica e virtuosa, ambientalista e progressista, che vuole salvare il pianeta”.

 Le forze armate offrono allo stesso giovane di salvare l’America e la libertà dei suoi alleati.

Nel clima ideologico delle nuove generazioni, la seconda offerta è generalmente disprezzata, la prima osannata.

Da questo punto di vista, a Norfolk ho rivalutato un aspetto del “politicamente corretto” o della “woke culture” ormai intrufolati nelle forze armate.

È impressionante trovare ovunque dei manifesti contro le molestie sessuali, o sui pari diritti e dignità delle minoranze etniche o Lgbtq+.

Il Pentagono ha ormai uffici specializzati in questo genere di protezioni e tutele.

La destra repubblicana è molto critica.

Pensa che questo scivolamento dei militari nel politicamente corretto li distragga dal loro compito principale;

 inoltre temono che la sterzata progressista allontani proprio quelle reclute tradizionali e tradizionaliste, i figli e nipoti di militari di carriera, probabilmente allevati in ambienti religiosi e di destra.

 Sono critiche da non sottovalutare.

Sicuramente l’Esercito Popolare di Liberazione agli ordini di “Xi Jinping” non “perde tempo” a occuparsi dei diritti dei propri soldati di origine tibetana o uigura, tantomeno dei transgender:

addestra a combattere per vincere e basta.

 

Al tempo stesso, girando sulle portaerei, su altre navi, e in tutti gli angoli della mega-base di Norfolk, sono colpito dal numero di donne, Black, ispanici, asiatici.

L’America ha “solo” 350 milioni di abitanti, la Cina ne ha esattamente il quadruplo.

Per attenuare l’enorme disparità demografica, oltre a investire nelle tecnologie l’America ha bisogno di allargare il bacino di reclutamento. In questo senso l’attenzione delle forze armate verso tutte le minoranze ha una logica.

Così come ha una logica la nuova attenzione dedicata ai problemi della salute mentale.

Il dovere di cronaca impone di ricordare che la base di Norfolk, e la stessa portaerei “USS George Washington”, hanno fatto notizia anche per dei suicidi di militari.

P.S. Ciascuno è libero di usare questi appunti di viaggio come vuole. La robusta corrente che si autodefinisce pacifista, forse maggioritaria in Europa e anche tra i giovani dei campus universitari americani, tende a pensare che avere forti eserciti faciliti la guerra, la favorisca.

Io penso al contrario, come gli antichi romani, che se vuoi la pace devi avere robusti mezzi di dissuasione dell’avversario.

Tanto più che nessuno dei nostri antagonisti è permeabile al pacifismo.

A Norfolk non ho incontrato dei guerrafondai, non ho respirato un’atmosfera bellicosa.

 Ho parlato con generali che preferiscono di gran lunga la diplomazia al combattimento, e vorrebbero vedere tornare i loro equipaggi intatti e salvi al 100% al termine di ogni missione.

 Ho parlato con una donna ufficiale dei sottomarini che ricorda con dolore l’assenza di ogni notizia dalla sua famiglia durante una lunga missione in immersione nel periodo della pandemia (no, i telefonini non funzionano là sotto).

Ho parlato con tanti militari che hanno famiglia, fanno piani di lungo termine per la scuola e l’università dei figli; non vorrebbero lasciare degli orfani.

 

 

 

"Una teoria antiscientifica che

annulla la natura e la

distinzione dei sessi."

 

Ilgiornale.it – (3 Dicembre 2023) - Luigi Mascheroni – ci dice:

L'autore del saggio "Gender": "Le differenze biologiche non possono svanire. Ma si vogliono cambiare le leggi e la mentalità con una neo-lingua ideologica".

Giulio Meotti, giornalista del Foglio, critico fiero e documentato della cultura woke, ha sottotitolato il suo nuovo pamphlet - Gender (Liberilibri) –

 «Il sesso degli angeli e l'oblio dell'Occidente» perché è del sesso degli angeli che si discuteva tra i dotti di Costantinopoli mentre la città cadeva sotto i colpi dei turchi.

Così l'Occidente, sotto i colpi di una nuova guerra culturale, disquisisce sulla questione assurda del sesso e del gender.

Meotti, secondo la teoria del gender il sesso cui una persona sente di appartenere è diverso da quello biologico.

Insomma, non si nasce donna o uomo, ma si diventa ciò che si preferisce.

«Sì, nel senso che una piccola teoria nata nei campus di Berkeley, West Coast americana, accolta all'inizio con una scrollata di spalle, niente più di una provocazione intellettuale dei ceti radical, è diventata la più grande ideologia del nostro tempo, investendo anche l'Europa.

Il genere sostengono è quello che si fa.

Così si cancella la natura in nome della cultura.

E poi si arriva a una sorta di ingegnerizzazione personale, che ti permette di passare quando vuoi da un sesso all'altro, senza più neppure un processo medico e psicologico: ora basta una dichiarazione all'anagrafe».

Non capisco: dove vanno a finire i cromosomi XY maschili e XX femminili?

«Le differenze biologiche spariscono. E la frase di Simone de Beauvoir Donna non si nasce, lo si diventa, tolta dal suo contesto, viene realizzata in nome di un'ideologia androgina;

è una riscrittura dell'umano, spingendo anche un biologo come “Richard Dawkins”, alfiere dello scientismo, a rispondere che il sesso è dannatamente binario: o sei donna o sei uomo».

Ormai non è neppure più vera l'affermazione che solo le donne possono partorire.

«Eh sì: Orwell vive e lotta insieme a noi. È una rivoluzione che vuole cambiare le leggi e la mentalità con una neo-lingua.

Ma è un fake:

i maschi che partoriscono sono solo donne biologiche che si definiscono uomini. Se ci pensiamo, è un atteggiamento fortemente misogino, che umilia le donne».

Cosa pensa del fatto che si possa consentire ai bambini di considerare la loro identità di genere non correlata al sesso biologico?

«Finché parliamo di Luxuria, va bene. Gli adulti in una società liberale fanno ciò che vogliono.

 Ma se si porta l'offensiva nelle scuole, nelle cure pediatriche, dove non c'è scelta, allora è uno scandalo.

 Per fortuna ci sono persone come la scrittrice “J.K. Rowling”, coi suoi milioni di follower, che combatte tutto ciò».

A costo della gogna.

«Infatti. Le fanno pagare la sua eresia.

L'aver detto Chiamatevi come volete, vestitevi come volete, andate a letto con chi volete, ma non potete cancellare la differenza sessuale tra maschi e femmine».

Com'è possibile che la teoria del gender, antiscientifica, stia egemonizzando la scienza in cima a tutte le agende politiche?

«Un po' perché gli attivisti sono fanatici, tendenzialmente fascisti, che riescono a intimidire ambienti che non spiccano per coraggio.

 Un po' per gli interessi economici che girano attorno alla questione.

 E un po' perché gli scienziati hanno abbandonato il vero metodo scientifico che è quello di mettere in discussione il dogma, finendo per sprofondare nel conformismo».

Della pericolosità dell'ideologia di genere se ne avvide in tempi non sospetti “Joseph Ratzinger.”

 

«È il gaio nichilismo di cui parlava Augusto Del Noce.

 Ratzinger, che non è stato solo un Papa, ma un grandissimo pensatore del '900, intuì tutto fin da quando visse la temperie del '68 nell'università tedesca e capì che il nichilismo sarebbe stato non il credere al nulla, ma credere a tutto.

 Ci siamo arrivati».

Lei scrive: «La sinistra aveva promesso di cambiare la società e ha fallito; ora si propone di cambiare l'uomo».

«È la sinistra schizofrenica che mischia multiculturalismo, transgenderismo, consumismo.

Come si può tenere insieme il libertinismo radicale con la difesa del velo islamico?

È una sinistra che ha perduto il ceto popolare e così cerca il consenso delle minoranze e delle élite.

Un cortocircuito destinato a saltare.

Non puoi marciare con il mondo “Lgbtq “e nello stesso tempo sfilare sotto le bandiere di Hamas».

 

 

"La teoria gender è una mistificazione di bigotti e populisti"

Dura presa di posizione dell'associazione "Io l'8 ogni giorno" sull'agenda scolastica: "Quanta ignoranza sul tema"

LUGANO - Pubblichiamo di seguito la presa di posizione dell'associazione "Io l'8 ogni giorno".

 

"Alla vigilia della ripresa dell’anno scolastico, quasi fosse una tradizione della destra reazionaria, impazza la (sterile) polemica sulla nuova agenda scolastica per le scuole medie e per la quinta elementare.

 

La “grande Lugano” ha annunciato che non distribuirà il diario alle classi delle scuole comunali e per questo, 1 bambina/o su 3 che frequenterà la quinta elementare nel Cantone Ticino, resterà senza agenda. Come conseguenza e a causa di scelte politiche scriteriate, non potrà imparare ad usarla. Oppure, le famiglie saranno costrette a comprarla a proprie spese. Altri comuni come Mendrisio e Locarno sono stati meno liberticidi e hanno deciso di lasciare la scelta alle famiglie; altri ancora, come Castel San Pietro, la consegneranno.  

 

Quello che emerge è la grande ignoranza su una tematica complessa e delicata come l’identità di genere. Purtroppo, gli ambienti cattolici e conservatori da anni falsano gli studi di genere chiamandoli “ideologia gender” o “teoria gender” senza mai definire esattamente a cosa ci si riferisca, quale sia la genesi di tale pensiero e quali le fonti utilizzate per la sua definizione. In verità, chiunque abbia un minimo di cultura generale, sa che la “teoria/ideologia gender” non esiste! O se esiste è solo in quanto mistificazione politica usata in ambienti bigotti e populisti, come confermano le diverse prese di posizione di questi giorni. Chi evoca la fantomatica teoria gender lo fa allo scopo di limitare l’inclusività e la libertà di scelta individuale, promuovendo in questo modo la disinformazione, la discriminazione, la violenza, i discorsi di odio e inficiando il diritto di autodeterminazione.

 

 

Eppure, come tutti gli ambiti di studio, anche i “gender studies” sono campo di indagine accademica da decenni e, nella maggior parte dei paesi - tra cui il nostro -, sono un’asse di ricerca prioritaria e interdisciplinare delle Università. Peccato che le poche voci autorevoli che si sono espresse in questa polemica non siano state in grado di sovrastare opinioni politicizzare e da osteria.

 

L’ignoranza dilagante e inconsapevole sulla tematica parte già dall’incapacità di definire la questione in termini corretti. Per esempio si è usato il concetto di “diversità di genere” come sinonimo di “identità di genere”, o si è detto che l’identità di genere è un fattore “scientifico” e “biologico” o ancora si è parlato di orientamento sessuale come se fosse la stessa cosa del genere… insomma una gran confusione che alimenta un dibattito che ha raggiunto i contorni dell’affare di stato e che, come probabilmente voleva chi ha posto la questione, distoglie l’attenzione dai veri problemi della scuola, che non crediamo siano due paginette di un’agenda scolastica.

 

Nelle due vignette (tra decine) incriminate, non vi è proprio nulla di male. In una vi è una ragazza che si pone delle domande sulla sua identità di genere (cosa peraltro normalissima: chi di noi all’arrivo del menarca non ha pensato che fosse meglio essere un maschio?) e in un’altra vi è una ragazza che vuole diventare amica di quella della vignetta precedente, che definisce “fluida”. Incredibilmente, in questi due disegnini sono stati identificati i pericoli più disparati: c’è chi ci vede una difesa del terzo sesso, chi un invito alle transizioni di genere precoci, chi crede che vi sia dietro un complotto per rendere tutti i bambini e tutte le bambine omosessuali, chi teme il rischio di smarrimento per ragazzi e ragazze che iniziano a farsi domande sul loro orientamento sessuale e c’è anche chi, per fortuna, ci vede un messaggio di apertura e tolleranza.

 

 

Crediamo che sia importante parlare di genere a scuola in modo serio, cioè con cognizione di causa e siamo certe che vi sono docenti capaci di affrontare la tematica in classe: questa agenda può rappresentare un primo strumento per aprire una discussione e permettere a bambine, bambini e adolescenti di sentirsi accolti e riconosciuti nella ricerca della loro identità. Speriamo che questa polemica serva per capire che è necessario andare oltre.

 

Sarebbe auspicabile intensificare l’offerta formativa e il supporto al corpo insegnante fornendo a tutti e tutte gli strumenti per affrontare in classe temi delicati e complessi come l’identità di genere. Per questo, come dimostrato dall’attuale polemica e confusione, forse due vignette non bastano e per riuscire ad accompagnare al meglio le ragazzine e i ragazzini che iniziano a porsi domande sul loro orientamento sessuale o sull’identità di genere abbiamo bisogno di una società capace di discutere apertamente e in modo costruttivo e rispettoso di questi temi, senza inutili diatribe e preoccupanti tabù e censure".

 

 

 

"La teoria gender è una

 mistificazione di bigotti

e populisti."

Ticinolibero.ch – Redazione – (26 agosto 2023) – ci dice:

Dura presa di posizione dell'associazione "Io l'8 ogni giorno" sull'agenda scolastica: "Quanta ignoranza sul tema"

LUGANO - Pubblichiamo di seguito la presa di posizione dell'associazione "Io l'8 ogni giorno".

"Alla vigilia della ripresa dell’anno scolastico, quasi fosse una tradizione della destra reazionaria, impazza la (sterile) polemica sulla nuova agenda scolastica per le scuole medie e per la quinta elementare.

 

La “grande Lugano” ha annunciato che non distribuirà il diario alle classi delle scuole comunali e per questo, 1 bambina/o su 3 che frequenterà la quinta elementare nel Cantone Ticino, resterà senza agenda.

 Come conseguenza e a causa di scelte politiche scriteriate, non potrà imparare ad usarla. Oppure, le famiglie saranno costrette a comprarla a proprie spese.

Altri comuni come Mendrisio e Locarno sono stati meno liberticidi e hanno deciso di lasciare la scelta alle famiglie; altri ancora, come Castel San Pietro, la consegneranno.  

 

Quello che emerge è la grande ignoranza su una tematica complessa e delicata come l’identità di genere.

 Purtroppo, gli ambienti cattolici e conservatori da anni falsano gli studi di genere chiamandoli “ideologia gender” o “teoria gender” senza mai definire esattamente a cosa ci si riferisca, quale sia la genesi di tale pensiero e quali le fonti utilizzate per la sua definizione.

 In verità, chiunque abbia un minimo di cultura generale, sa che la “teoria/ideologia gender” non esiste!

O se esiste è solo in quanto mistificazione politica usata in ambienti bigotti e populisti, come confermano le diverse prese di posizione di questi giorni.

Chi evoca la fantomatica teoria gender lo fa allo scopo di limitare l’inclusività e la libertà di scelta individuale, promuovendo in questo modo la disinformazione, la discriminazione, la violenza, i discorsi di odio e inficiando il diritto di autodeterminazione.

Eppure, come tutti gli ambiti di studio, anche i “gender studies” sono campo di indagine accademica da decenni e, nella maggior parte dei paesi - tra cui il nostro -, sono un’asse di ricerca prioritaria e interdisciplinare delle Università.

 Peccato che le poche voci autorevoli che si sono espresse in questa polemica non siano state in grado di sovrastare opinioni politicizzare e da osteria.

L’ignoranza dilagante e inconsapevole sulla tematica parte già dall’incapacità di definire la questione in termini corretti.

 Per esempio si è usato il concetto di “diversità di genere” come sinonimo di “identità di genere”, o si è detto che l’identità di genere è un fattore “scientifico” e “biologico” o ancora si è parlato di orientamento sessuale come se fosse la stessa cosa del genere… insomma una gran confusione che alimenta un dibattito che ha raggiunto i contorni dell’affare di stato e che, come probabilmente voleva chi ha posto la questione, distoglie l’attenzione dai veri problemi della scuola, che non crediamo siano due paginette di un’agenda scolastica.

Nelle due vignette (tra decine) incriminate, non vi è proprio nulla di male. In una vi è una ragazza che si pone delle domande sulla sua identità di genere (cosa peraltro normalissima:

chi di noi all’arrivo del monarca non ha pensato che fosse meglio essere un maschio?) e in un’altra vi è una ragazza che vuole diventare amica di quella della vignetta precedente, che definisce “fluida”.

 Incredibilmente, in questi due disegnini sono stati identificati i pericoli più disparati:

c’è chi ci vede una difesa del terzo sesso, chi un invito alle transizioni di genere precoci, chi crede che vi sia dietro un complotto per rendere tutti i bambini e tutte le bambine omosessuali, chi teme il rischio di smarrimento per ragazzi e ragazze che iniziano a farsi domande sul loro orientamento sessuale e c’è anche chi, per fortuna, ci vede un messaggio di apertura e tolleranza.

Crediamo che sia importante parlare di genere a scuola in modo serio, cioè con cognizione di causa e siamo certe che vi sono docenti capaci di affrontare la tematica in classe:

 questa agenda può rappresentare un primo strumento per aprire una discussione e permettere a bambine, bambini e adolescenti di sentirsi accolti e riconosciuti nella ricerca della loro identità.

Speriamo che questa polemica serva per capire che è necessario andare oltre.

Sarebbe auspicabile intensificare l’offerta formativa e il supporto al corpo insegnante fornendo a tutti e tutte gli strumenti per affrontare in classe temi delicati e complessi come l’identità di genere.

Per questo, come dimostrato dall’attuale polemica e confusione, forse due vignette non bastano e per riuscire ad accompagnare al meglio le ragazzine e i ragazzini che iniziano a porsi domande sul loro orientamento sessuale o sull’identità di genere abbiamo bisogno di una società capace di discutere apertamente e in modo costruttivo e rispettoso di questi temi, senza inutili diatribe e preoccupanti tabù e censure".

 

 

Giorgia Meloni: "L'ideologia gender

andrà a discapito delle donne."

Today.it – Eva E. Zuccari – (8 – 3 -2023) – ci dice:

 

Le dichiarazioni della premier a ridosso della Giornata Internazionale della Donna. La replica delle femministe: "L'ideologia gender non esiste".

 Il Partito gay: "Meloni vuole cancellare il 15% degli italiani"

"Oggi si rivendica il diritto unilaterale di proclamarsi donna oppure uomo al di là di qualsiasi percorso, chirurgico, farmacologico e anche amministrativo.

Maschile e femminile sono radicati nei corpi ed è un dato incontrovertibile.

 Tutto questo andrà a discapito delle donne? Credo proprio di sì".

Lo dice Giorgia Meloni in un'intervista rilasciata al settimanale Grazia in occasione della Giornata Internazionale della Donna.

"Oggi per essere donna - aggiunge la premier - si pretende che basti proclamarsi tale, nel frattempo si lavora a cancellarne il corpo, l'essenza, la differenza.

Le donne sono le prime vittime dell'ideologia gender. La pensano così anche molte femministe".

"L'ideologia gender non esiste". La replica delle femministe.

Immediata la replica di “Non una di Meno”, associazione femminista contro la violenza di genere.

"Noi pensiamo che non esista l'ideologia gender", dichiarano le attiviste ad Ansa.

"È una invenzione. La differenza tra il genere e il sesso è ben nota, mentre la teoria gender è un'invenzione strumentale.

 In opposizione a questa invenzione, c'è una realtà concreta di persone che hanno identità di genere di vario tipo.

Questa cosa esiste ed è una realtà.

Una identità di genere che va anche oltre il binarismo uomo-donna imperante.

Queste persone si riconoscono in altri generi, si riconoscono in un genere che non corrisponde alla propria identità sessuale e in questa scelta si autodeterminano".

Partito gay: "Meloni vuole cancellare il 15% degli italiani"

A rispondere a Meloni è anche Alessandro Zan, politico Pd e attivista, promotore dell'omonima legge contro l'omotransfobia.

"Le donne sono vittime di Giorgia Meloni e delle sue politiche reazionarie", replica "non di una fantomatica 'ideologia gender', fake che lei ha inventato.

Vittime sono le oltre 20mila esodate di opzione donna, vittima è chi non può accedere all'aborto nelle regioni di destra.

Basta bugie".

Polemiche anche da parte di Fabrizio Marrazzo, portavoce del Partito Gay Lgbt+, Solidale, Ambientalista, Liberale:

"Le dichiarazioni del Premier Meloni, contro le donne trans, i genitori Lgbt+, ed una presunta ideologia gender non sono accettabili.

Il presidente del Consiglio dovrebbe rappresentare tutti gli italiani, invece lei si ostina a rappresentare solo una parte, volendo cosi cancellare la nostra comunità che rappresenta il 15% degli italiani.

 Con questo Governo risulta ancora più importante il lavoro che come Partito Gay Lgbt+ stiamo facendo, per tutelare la nostra comunità e non solo. Il fatto che queste dichiarazioni siano fatte in prossimità dell'8 marzo sono un vero e proprio schiaffo a tutte le donne, i diritti vanno estesi e non ristretti".

 

 

“La teoria gender è falsa.

Solo un modo per togliere

I bambini ai genitori.”

Laverita.info – (18-3-2024) -Martina Pastorelli – ci dice:

 

Shellenberger denuncia lo scandalo del cambio di sesso sui minori e malati mentali: “una inchiesta per fermare i militanti trans.”

Michael Shellenberger, il giornalista che ha scoperchiato lo scandalo dei medici attivisti trans, avverte:

“Dobbiamo ribellarci alla medicina di genere, che vuole prendersi i nostri figli per compiere su di loro esperimenti grotteschi”.

Dopo lo stop ai bloccanti della pubertà a Londra, prevede, arriverà quello negli Usa: “questi orrori dovranno per forza avere una fine.”

(…)

 

 

 

 

 

l libro che spiega perché

la teoria gender è

anti-scientifica.

Centromachiavelli.com – “26 ottobre 2021)  - Daniele Scalea – ci dice:

 

Sinistra scientista e lysenkismo dei giorni nostri.

Tra gli espedienti attualmente più popolari, a sinistra, per “vincere” in un confronto verbale c’è quello d’accusare l’interlocutore di “negare la scienza” o “non credere alla scienza”.

 Non pendi dalle labbra di Greta Thunberg?

Sei un “negazionista della scienza del cambiamento climatico”. Non provi goduria fisica (come invece fa Tommaso Labate) nell’esibire il tuo bel passaporto vaccinale per andare al lavoro?

 Sei uno che “non crede alla scienza virologica” (che in un momento non ben precisato, a quanto pare, ha incorporato il diritto costituzionale come propria branca subordinata).

 

Poco importa che tale espediente, studiato appositamente per evitare un confronto argomentato, sia la negazione stessa del metodo scientifico fatto di ipotesi, esperimenti, dimostrazioni, falsificazionismo e via dicendo.

 Poco importa che quella che loro chiamano “scienza” sia in realtà “scientismo“.

Poco importa che il loro approccio alla scienza sia totalmente dogmatico e, dunque, per la seconda volta anti-scientifico.

 Anche qui, nulla di nuovo sotto il sole.

 

La Sinistra marxista ha sempre preteso di essere “scientifica”:

di avere in tasca una verità oggettiva, inoppugnabile, negata solo per ignoranza o malafede dagli avversari.

In nome del suo “materialismo scientifico”, ca va sans dire, ne ha prese parecchie di cantonate:

come quando l’agronomo Lysenko riportò in auge il lamarckismo in Unione Sovietica, grazie alle persuasive argomentazioni del NKVD che mandò a morte o in carcere gli studiosi che si ostinavano a praticare la genetica, “scienza borghese”.

La cultura sta vivendo una seconda stagione “lysenkista”, sfortunatamente non più confinata a un solo Stato ma che avvelena il mondo intero.

Al suo centro c’è la pseudo-scienza della “teoria gender”, un coacervo di sciocchezze elevate a dogmi e difese con la repressione da ogni tentativo, realmente scientifico, di confutarle.

Chi è Debra Soh.

Un tentativo recente (agosto 2020) e pregevole di confutare la “pseudo-scienza gender” è il libro “The end of gender”. “Debunking the myths about sex and identity in our society” da parte di “Debra Soh2.

 

Sessuologa e neuro-scienziata con dottorato di ricerca all’Università di Toronto, ha un’esperienza ultradecennale come ricercatrice accademica; scrive inoltre come giornalista scientifica trovando spazio su numerose pubblicazioni importanti (“Globe and Mail”, “Wall Street Journal”, “Los Angeles Times”, “Playboy” ecc.). Nel libro non mancano spunti autobiografici, in cui la “Soh” narra del clima di terrore creatosi all’interno della comunità dei sessuologi, dove pochissimi hanno il coraggio di parlare “contro la teoria gender” per paura d’essere linciati mediaticamente e di perdere il posto di lavoro.

 La stessa “Soh”, quando nel 2016 pubblicò un editoriale contro la prassi del cambio di sesso nei giovanissimi, fu fatta oggetto d’una campagna d’odio.

La viltà e opportunismo (alcuni scienziati abbracciano l’ideologia gender appositamente per facilitarsi la carriera) dell’accademia l’hanno spinta ad abbandonarla per dedicarsi unicamente al giornalismo.

Cominciamo col precisare che “Debra Soh”, oltre ad avere solide credenziali scientifiche, è difficilmente sospettabile di simpatie per l’estrema destra.

Canadese di nascita ma malesiana e cinese per origini, ha espresso nei suoi vari articoli – e lo fa anche in questo libro – opinioni ben poco “conservatrici” su temi come la sessualità e i matrimoni gay.

Il suo profilo è quello della persona tendenzialmente “progressista” che, a un certo punto, s’accorge che talune avanguardie del “progresso” cozzano col buonsenso e con la realtà dei fatti.

Il suo libro è un saggio sobrio, vivacizzato da vari aneddoti d’esperienza diretta ma privo della smania di umiliare l’avversario o di scandalizzare il lettore. “The end of gender “vuole essenzialmente dimostrare che i capisaldi della teoria gender sono falsi ricorrendo alla letteratura genuinamente scientifica.

 

Sesso e genere sono definiti dalla biologia.

Come sottolinea all’inizio del libro la “dott.ssa Soh” gli “studi di genere” non vanno in alcun modo confusi con la sessuologia:

i primi usano metodi qualitativi, la seconda quantitativi. Per tale ragione solo la sessuologia può essere considerata una scienza. Questa scienza ci insegna che il sesso biologico è definito dai gameti (cellule sessuali) e che essi possono essere di soli due tipi: sperma o uova.

 Il sesso è dunque binario.

 

Chiarire che esiste un “sesso biologico”, di questi tempi, è già eretico per il pensiero unico.

Ma chi fosse rimasto un passo indietro nella corsa all’assurdo dell’ideologia gender, già concederà che il sesso sia biologico e oggettivo, affermando che sia invece il genere ad essere artificiale, costruito dalla società.

“Debra Soh” spegne subito anche questo sussulto di vetero-genderismo: pure il genere è biologico, poiché la biologia definisce l’identità di genere e l’orientamento sessuale.

 A partire da 7 settimane dopo il concepimento il bambino è esposto, nel grembo materno, ad ormoni differenti a seconda del suo sesso.

Tale “cura” ormonale è lungi dall’essere insignificante: essa modifica l’evoluzione del cervello, facendo così corrispondere, a livello biologico, genere e sesso.

Qualcuno obietterà tirando in ballo l’esistenza dell’ermafroditismo.

 A giudizio della “Soh” questo non smentisce la binarietà sessuale dell’essere umano:

sia perché gli ermafroditi continuano a produrre un solo tipo di gameti, sia perché tale condizione è estremamente rara.

 Esistono persone che nascono con più o meno di dieci dita, ma ciò non spinge nessuno a negare che l’essere umano di dita ne abbia proprio 10.

 

Il ruolo della biologia nell’espressione del genere.

the end of gender.

Se il genere coincide col sesso ed entrambi dipendono dalla biologia, è vero che c’è un momento in cui a incidere è la società.

Tale momento è quello dell’espressione del genere.

L’essere femmina o maschio non sfocia nei medesimi comportamenti in ogni luogo e in ogni tempo, ma questa non è una concessione alla teoria costruttivista.

 Essendo il genere naturale, la biologia continua a metterci mano anche nel modo in cui esso si esprime.

 Gli ormoni cominciano ad agire, come ricordato sopra, a poche settimane dal concepimento, lasciando tracce indelebili nell’individuo. Più testosterone conferisce maggiori abilità visuo-spaziali e strumentali, meno testosterone produce capacità sociali ed empatia più sviluppate.

 

Il fatto che non tutti i maschi siano uguali tra loro e non tutte le femmine fatte con lo stampino discende dalla variabilità del livello di testosterone nell’utero.

Ad esempio la giovane età della madre, il suo aumento di peso, particolari trattamenti ormonali, la genetica stessa o variazioni casuali possono tradursi in più alti livelli di testosterone anche per i feti femminili;

da cui discenderà un individuo di sesso e genere femminili ma con più spiccati caratteri maschili.

 

Studi dimostrano che le variazioni nei livelli ormonali in utero sono associate tanto al “non conformismo di genere” (ossia a uomini effemminati e donne mascoline) quanto all’omosessualità e alla disforia di genere.

 

Biologia e omosessualità.

Una teoria scientifica, quella dell’ordine di nascita fraterno, statuisce che l’ultimo di vari fratelli abbia più probabilità d’essere omosessuale. Questo perché la madre ha una reazione immunitaria agli antigeni del cromosoma Y prodotti dal feto maschile.

 A ciascun successivo figlio maschio questa reazione immunitaria è sempre più forte, determinando una riduzione del processo di mascolinizzazione.

Le ricerche hanno osservato che l’ipotalamo dei maschi gay risulta più simile a quello delle donne che a quello dei maschi eterosessuali. L’ipotalamo è una parte del cervello che regola nutrizione, combattimento, fuga e, non a caso, accoppiamento.

 

L’orientamento sessuale sarebbe cioè innato e immodificabile. Per tale ragione “Debra Soh” è assolutamente contraria alle “terapie di conversione”, che cercano (cercavano, essendo ormai in disuso quando non illegali) di rendere eterosessuale un gay.

 

Esiste tuttavia una condizione, spesso inclusa nell’omosessualità, in cui i maschi che ne sono interessati non mostrano differenze nelle parti del cervello dimorfiche (ossia differenti tra i due sessi): è quella dell’auto ginefilia.

In questi casi l’uomo non è attratto dal corpo maschile, come succede per gli omosessuali, ma prova eccitazione nell’immaginarsi donna. L’auto ginefilia è all’origine del travestitismo e può portare a pratiche omosessuali, ma in occasione delle quali la fonte d’eccitazione non è il corpo del partner bensì il comportarsi come una donna.

L’auto ginefilia è citata dalla “Soh” perché, a suo avviso, oggi molti auto ginefili si diagnosticano da soli una disforia di genere che non hanno, avviandosi a una transizione non necessaria.

La “fluidità di genere” è solo una moda.

La sessuologa canadese riconosce l’esistenza della disforia di genere, ma rifiuta il concetto di “fluidità”.

Anche la disforia è binaria, poiché va sempre ricondotta ai due generi naturali, sebbene in presenza di una non corrispondenza tra corpo e cervello.

Il vero transgender è colui che, soffrendo di disforia, compie passi sociali o medici verso l’altro genere.

 Quella dei “fluidi” e dei “non binari” è, a giudizio della scienziata, una mera moda motivata dal desiderio di distinguersi ed essere ammessi in una comunità che, per giunta, conferisce sostegno e prestigio sociali.

Ma sostenere che il genere e l’orientamento sessuale siano una scelta (o che siano continuamente mutevoli) implicitamente significa che si potrebbe anche scegliere di non essere gay e, dunque, legittimerebbe le terapie di conversione.

 

Molti sedicenti “non binari”, a giudizio dell’Autrice, sono solo dei giovani che si sentono a disagio col loro sesso o genere. In omaggio all’ideologia imperante, però, nessuno dice più loro che possono essere semplicemente un tipo di uomo o di donna differente dallo standard. Quello che molti oggigiorno chiamano “genere” è semplicemente la personalità di un individuo.

 

La disforia di genere dovrebbe continuare ad essere considerata un disordine mentale, al fine di garantire cure psicologiche a chi ne soffre. Le statistiche riportate nel libro raccontano che nel 50% dei casi la disforia dipende da altri disordini psichiatrici.

 

I bambini vittime dell’ideologia gender.

Purtroppo, sottolinea “Debra Soh,” gli “esperti” chiamati a sovrintendere alla cura della disforia di genere sono sempre più accecati dall’ideologia.

L’approccio terapeutico – quello scientificamente più valido e che prevede di capire cosa induca la disforia nel paziente – è ormai condannato dagli “esperti” come “transfobico”.

A loro avviso non bisogna porsi nessuna domanda che possa mettere in dubbio la reale volontà del paziente di cambiare sesso, nemmeno se tale paziente è un bambino, ma bisogna cominciare il prima possibile la transizione.

Le analisi psicologiche e psichiatriche sono perciò saltate a pie’ pari: in molti casi già alla prima o seconda visita vengono prescritte terapie ormonali a pazienti giovanissimi per bloccarne la pubertà ed avviarli al percorso di “riassegnazione” (prima “di genere” e poi anche di sesso).

Ciò malgrado le statistiche dicano che tra il 60% e il 90% dei bambini disforici cessino di esserlo nel corso della pubertà.

È il fenomeno della cosiddetta desistenza, che dipende dal fatto che l’identità di genere si stabilizza col tempo.

 

I fautori della transizione prematura cercano di sostenere le proprie ragioni con alcuni studi, attualmente in corso, che la “Soh “giudica però del tutto fallaci metodologicamente: non viene infatti previsto un gruppo di controllo perché è giudicato non etico negare a un bambino disforico la transizione.

Spesso, per vincere le resistenze dei genitori, sono usate anche statistiche non corrette sul tasso di suicidi tra bambini transgender.

 

Eppure non si conoscono gli effetti a lungo termine degli inibitori della pubertà (che furono inventati per bloccare quella precoce, non per interromperla del tutto). Certe funzioni fisiche potrebbero non essere mai recuperabili, eppure gli inibitori sono popolari (e approvati anche in Italia dall’AIFA) perché diminuiscono la desistenza, fenomeno incompatibile con l’ideologia dei “medici curanti”.

 Bloccando la pubertà si blocca il processo che, il più delle volte, risolve la disforia senza bisogno di transizioni.

Si preferisce invece un percorso che sfocia nella chirurgia, l’invasività ed indelebilità dei cui effetti è evidente a tutti.

 

L’educazione “gender neutral” è una boiata.

“Debra Soh” non lo dice proprio in questi termini, ma la sostanza è quella:

l’educazione “gender neutral”, oggi tanto in voga tra i genitori “progressisti”, è una boiata.

Il genere dipende dalla biologia, non è qualcosa che si possa apprendere:

 un bambino non cambierà genere perché la mamma lo veste di rosa e gli regala solo bambole.

 I ricercatori hanno riscontrato preferenze legate al sesso perfino nei neonati.

Quando hanno provato a dare giocattoli infantili alle scimmie – di sicuro non influenzate dalla società – hanno osservato i maschi preferire i ninnoli per bambini e le femmine scegliere i balocchi per bambine.

Come già riferito, i cervelli maschile e femminile sono differenti: l’uno più sistematico, l’altro più empatico.

Nessuna educazione può modificare caratteri strutturali. Fino ai sette anni circa, i piccoli non riescono nemmeno a ben distinguere tra aspetto ed essenza: per loro un bambino che va in giro con un vestitino rosa è semplicemente una bambina, non un maschietto vestito differentemente.

Purtroppo, l’ideologia acceca certi genitori. Essi capiscono benissimo il ruolo della biologia quando, di fronte a un maschietto effemminato o una femmina mascolina, dicono che “quella è la sua natura e non si può modificare”.

 Ma davanti a un maschietto o femminuccia che si comporta come tale, decidono che dev’essere per forza “colpa” della società.

In realtà ciò che vogliono sono figli di genere “non conforme”. Se non sono tali, cercano di farceli diventare con la violenza psicologica (questa definizione è del recensore, non dell’Autrice, ma ritengo sia la sola inferibile dall’angosciante lettura delle sue pagine).

La particolare vulnerabilità delle adolescenti.

Negli ultimi anni si è osservato un fenomeno inedito, definito dagli scienziati (prima d’essere “scomunicati”) come “rapid-onset gender dysphoria”.

Fino a un decennio fa la disforia emergeva sempre prima della pubertà: i soli casi rilevanti in cui lo faceva durante la pubertà erano quelli di adolescenti maschi interessati da auto ginefilia.

 Nell’ultimo decennio, tuttavia, si è assistito a un’esplosione del numero di adolescenti femmine che, senza aver mai mostrato prima segnali di disforia, desiderano diventare maschi.

Gli studiosi stanno indagando questo fenomeno e per ora hanno scoperto che il 60% di queste adolescenti “transgender” ha almeno un altro disordine mentale:

quelle con autismo sono le più vulnerabili, poiché inclini a fissarsi maniacalmente sull’idea.

Il 40% di loro ha inoltre almeno un amico transgender. Il desiderio di transizione emerge di norma dopo la fruizione di contenuti e messaggi che la fanno apparire glamour.

Lo status di transgender è così desiderabile perché conferisce approvazione sociale e maggiore protezione dal bullismo. È inoltre relativamente frequente il caso di ragazze che, dopo aver subito molestie sessuali, desiderano diventare maschi, come per difendersi da tale tipo d’abusi.

Di solito l’evento scatenante è un’amicizia o un qualche evento scolastico. La transizione sociale – ossia farsi chiamare con nome e pronomi dell’altro sesso – comincia proprio a scuola, per iniziativa degli insegnanti e senza consultare i genitori. Quando questi lo scoprono il percorso è già avanzato: gli viene prospettato un alto rischio di suicidio se non lo assecondano.

Alcuni, secondo la dott.ssa Soh, lo accettano per inconscia “omofobia”: meglio un figlio che diventa dell’altro sesso, ma etero, che averne uno gay.

Eppure, molti transgender si pentono, dopo aver effettuato la transizione, e decidono di tornare indietro (come “Keira Bell”): è la cosiddetta “detransizione”.

La maggioranza delle detransizioni riguarda soggetti femminili.

Secondo la “Soh” il loro numero è pure sottostimato, perché di solito avviene in forma privata e i ricercatori non sono troppo incoraggiati a studiare il fenomeno per non subire ripercussioni sulla carriera.

 I medici che, per paura o ideologia, seguono le direttive dei militanti, non aiutano i pazienti durante la de transizione: non esiste nemmeno un protocollo in merito.

Le donne come vittime dell’ideologia gender.

Le donne pagano lo scotto dell’ideologia gender non solo in termini di “rapid-onset gender dysphoria”. I

n Paesi come la Gran Bretagna i carcerati maschi che si dichiarano donne sono trattati come tali: già oggi il 2% si dichiara “transgenere”. Le recluse donne debbono così dividere i propri spazi con carcerati uomini.

A livello sportivo il “CIO” ha deciso che atleti biologicamente maschi possono partecipare alle competizioni femminili anche se il loro livello di testosterone è sei volte quello di una donna media.

E in ogni caso sopprimere il testosterone non riduce la forza muscolare e gli altri effetti “organizzativi” che gli ormoni hanno avuto in passato (quello che volgarmente chiamiamo “sviluppo”, durante il quale i maschi superano le femmine per prestanza fisica).

Molte lesbiche che si rifiutano di andare con soggetti trans (ossia uomini che si auto-identificano come femmine lesbiche ma rimangono anatomicamente maschi) sono per ciò tacciate di “transfobia”:

si pretende che l’orientamento sessuale sia in realtà di genere (“se ti piacciono le donne, devono piacerti anche quelle che hanno corpi maschili”).

La bellezza è oggettiva.

I teorici del gender appartengono alla più ampia famiglia “costruttivista”:

per loro non esistono realtà naturali ed oggettive ma tutto è costruzione sociale.

Ecco perché pretendono che una donna o un uomo debbano essere attratti da un’altra persona basandosi sul modo in cui quest’ultima si auto-identifica e non su ciò che appare a loro.

Un maschio etero che rifiuta a prescindere di andare con una “donna transgender” (vale a dire un uomo che dice di essere una donna) è “transfobico”.

Il che si riconnette al più ampio filone sul presunto carattere “artificiale” della bellezza, per cui sarebbe sbagliato considerare oggettivamente più bello un corpo atletico e ben formato rispetto a uno flaccido e deforme.

Come spiega “Debra Soh” nel suo libro, i sistemi sessuali originano dall’evoluzione e differiscono tra maschi e femmine.

 Per intenderci, siccome il sesso è un investimento molto maggiore per la donna (che potrebbe rimanere incinta) che per l’uomo, la prima ha comportamenti più selettivi e il secondo più competitivi.

Gli studi dimostrano pure che tale selezione si fa più stringente durante il periodo di fertilità del ciclo femminile, quando le donne mostrano più inibizioni.

Tali comportamenti sono naturali, non dettati dal perfido “patriarcato” che le femministe intravvedono in ogni dove.

L’ormai fantomatico “patriarcato” non è responsabile nemmeno degli standard di bellezza femminile.

Essi non sono una costruzione sociale ma un prodotto dell’evoluzione:

gli uomini cercano nella partner segni esteriori di salute e capacità riproduttiva.

Ad esempio, nella vita più stretta rispetto ai fianchi e al seno, un tratto comunemente apprezzato dai maschi nell’estetica femminile, essi intravedono indizi che la donna non sia incinta né abbia già avuto molti figli.

La cupa notte della scienza.

Purtroppo, come si diceva all’inizio, siamo entrati in una nuova fase “lysenkista” che interessa l’intera cultura occidentale:

 l’ideologia “progressista” ha preso il sopravvento sulla scienza.

 Oggi spopolano settori di studio o pseudo-scienze che fin nel nome demarcano la propria natura “militante” e ideologica:

“femminista”, “queer” ecc. sono definizioni che riscontriamo frequentemente.

Ma come ammonisce la dott.ssa Soh, “la scienza attivista, non importa quanto appassionata o ben intenzionata, non è scienza”.

 

Gli scienziati autentici, tuttavia, si stanno auto-censurando per paura di incappare in linciaggi mediatici che gli costino la carriera.

 I più spregiudicati abbracciano persino gli slogan anti-scientifici dei militanti pur di godere di buona stampa e buone spintarelle.

I bambini sono sottoposti a un’incessante propaganda nelle aule di scuola; ai genitori la stessa viene propinata nelle librerie con testi pseudo-scientifici.

 Non andrebbe mai dimenticata l’influenza della televisione.

 

La buona scienza si vede sempre meno in giro:

si moltiplicano i casi di studi scientifici censurati, ritirati o ritrattati perché invisi agli attivisti LGBT (o a quelli anti-razzisti, come abbiamo raccontato qui).

Intere aree di indagine sono evitate pur di non correre rischi.

 L’ultimo capitolo di “The End of Gender si intitola, cupamente, “La fine della libertà accademica”.

Qui chiudo col racconto del pensiero di “Debra Soh “e aggiungo la mia brevissima chiosa finale.

Il nemico ha espugnato quasi tutti i fortini del sapere. Tocca a noi difendere quelli che ancora resistono e riconquistare gli altri con ogni mezzo:

dobbiamo farlo, se vogliamo lasciare ai nostri figli un barlume di civiltà e non un distopico esperimento d’ingegneria sociale condotto da svitati e depravati.

(Daniele Scalea)

 

 

 

 

 

Mezzo Paese Non Vota più e

Rifiuta il Regime dei Partiti!

 

Conoscenzealconfine.it – (18 Marzo 2024) - Megas Alexandros (alias Fabio Bonciani) – ci dice:

Dopo le amministrative in Sardegna, anche in Abruzzo l’astensionismo sfiora il 50%.

 L’onda lunga di chi non crede più a questi politici, originata dal terremoto degli anni 90′, oggi è un vero e proprio tsunami di gente che non si reca più alle urne.

Se tre indizi fanno una prova, qui di prove ne abbiamo già abbastanza. Le ultime elezioni politiche del 2022 che hanno visto astenersi il 37% per cento degli italiani e le recentissime amministrative svoltesi in Sardegna ed Abruzzo, dove la percentuale di chi non si è recato alle urne, è salita addirittura al 48% – sono solo tre indizi di quello che invece è ormai un fenomeno di democrazia diretta ben definito che si sta manifestando nel paese.

Gli aventi diritto al voto che ormai rinunciano ad esercitare tale diritto, stanno raggiungendo la maggioranza nel paese ed ora attendiamo solo di aggiornare il dato tendenziale con le prossime elezioni europee alle porte.

Un grafico mostra chiaramente da quando è cominciata questa disaffezione verso la partecipazione al voto, un fenomeno che negli anni è cresciuto in modo esponenziale nei confronti del Sistema politico che guida il nostro paese, che di democratico pare ormai non avere più niente.

È negli eventi degli anni ’80/’90, iniziati con le stragi e la consegna di aziende e monopoli pubblici in mani private fino a privarci del bene più prezioso per uno Stato sovrano, ovvero la propria moneta, con l’entrata nell’euro – ognuno di essi funzionali a saccheggiare il paese e ridurlo a pezzi, con la nostra classe politica complice – che vanno ricercate le cause del fenomeno comunemente chiamato astensionismo.

Al contrario di quello che intenderebbe far passare la vulgata propagandistica, chi non si reca alle urne non è un desaparecidos della politica o peggio ancora un anti-democratico, bensì un elettore che non solo ha perso completamente la fiducia nel nostro sistema politico, ma anche ogni speranza di poterlo cambiare attraverso l’espressione democratica per eccellenza, ossia il voto.

È bene essere chiari fin da subito, la speranza e di conseguenza il potere che ogni elettore in quanto cittadino di una nazione, ha di poter cambiare chi gestisce la cosa pubblica per suo conto, è il pane di cui si nutre la democrazia.

 Se questa speranza e questo potere vengono meno, la struttura istituzionale di un paese non può più dirsi democratica.

Vado oltre, il diritto di astenersi, ovvero di esprimere il sentimento di non essere rappresentato da nessuna delle compagini partitiche presenti in una nazione, dovrebbe essere addirittura previsto sulla scheda elettorale, se volessimo onorare la democrazia fino in fondo.

Introdurre per legge la possibilità di astenersi direttamente sulla scheda elettorale dovrebbe essere una battaglia che ogni cittadino dovrebbe combattere.

 Immaginate solo per un istante, se tutto questo fosse effettivo, oggi la coalizione degli astenuti sarebbe di gran lunga il primo partito in Italia.

Ed invece chi si astiene oltre allo sbeffeggio da parte dei soliti sciocchi e degli asserviti, al massimo si deve accontentare, come risultato per la propria manifestazione di democrazia, di un numero statistico che oggi, stante le sue dimensioni, anche i mezzi di informazione più vicini al regime non possono più nascondere.

La democrazia, questa bellissima parola di cui ogni politico si riempie la bocca, etimologicamente ha un significato ben preciso, ovvero: governo del popolo – e trae la sua origine dall’abbinamento di due parole provenienti dal greco antico: démos, “popolo” e κράτος, krátos, “potere”.

È da essa che viene alla luce la tanto desiderata forma di governo e di valori sociali in cui la sovranità è esercitata, direttamente o indirettamente dal popolo, che generalmente è identificato come l’insieme dei cittadini che ricorrono in senso lato a strumenti di consultazione popolare (es. votazione, deliberazioni ecc.).

Se a questa forma di governo così come definita, viene a mancare il così detto demos (il popolo), ripeto elemento indispensabile per definire tale forma una democrazia, è chiaro che non siamo più in presenza di essa, ma sono stati varcati i confini verso tutt’altre forme di governo di fatto.

Che possono andare dalla monarchia alle varie forme di oligarchie più o meno marcate, fino ad arrivare alle dittature più o meno dichiarate.

Di questo i nostri politici e chi li ordina, ne sono ben consapevoli. Soprattutto, la presenza e la partecipazione del popolo, è una necessità non negoziabile per il sistema di potere occidentale, che, a differenza dei paesi dove esistono dittature più o meno palesate, fondano la loro legittimazione sull’illusione del popolo di vivere in democrazia.

È per questo che il mondo occidentale, quello che ad arte viene rappresentato dal nostro “main stream” dei buoni e giusti, non può nel modo più assoluto, rinunciare al popolo per mantenere intatto il proprio castello del Potere.

Una astensione sopra il 50%, farebbe apparire immediatamente ogni governo una vera e propria dittatura dichiarata, esattamente come in quei paesi tipo la Bulgaria, tanto per dirne uno, dove si legittimano governi con la sola partecipazione al voto del 30/35 percento degli aventi diritto al voto.

Anche se questo punto di approdo, ossia varcare la soglia della maggioranza di chi si astiene, realisticamente non rappresenterebbe la fine della battaglia, ma bensì l’inizio per provare a defenestrare questo sistema di potere che si è impossessato delle nostre istituzioni, un risultato concreto sarebbe raggiunto.

Ossia, verrebbe reso chiaro a tutti che anche i “poteri profondi” che guidano i governi del mondo occidentale, operano esattamente dentro i medesimi sistemi dittatoriali, con cui la nostra stampa ogni giorno non perde occasione di sciacquarsi la bocca, quando intende mostrarci quello che accade nei paesi oggi considerati nemici, come la Russia ad esempio.

Dove, secondo le notizie dell’ultim’ora, nelle presidenziali in corso, la partecipazione al voto pare addirittura superare quella delle ultime elezioni politiche che hanno portato al governo attuale nel nostro paese.

È chiaro che il nostro sistema dei partiti, quello che secondo i dettami della Costituzione dovrebbe garantire la partecipazione democratica, oggi è totalmente fuori da questo principio.

I partiti sono oggi il principale strumento di cui i “poteri profondi” si servono per impossessarsi delle istituzioni e portate il paese fuori dalla forma di governo democratica che la Costituzione stessa sancisce.

I partiti e gli uomini che li compongono, sono i principali attori di questo perenne ed infinito colpo di stato in atto da decadi, poiché non rispondono più ai loro elettori, ovvero al popolo, ma alle loro fratellanze.

E di questo, mezzo paese se ne è già accorto!

Megas Alexandros (alias Fabio Bonciani).

(megasalexandros.it/mezzo-paese-non-vota-piu-e-rifiuta-il-regime-dei-partiti/)

 

 

 

 

Il trionfo dell’élite

Manageriale.

Kriticaeconomica.com – Luca Gritti – (3-2-2023) – ci dice:

(trionfo élite manageriale – libro di Alessandro Casiccia – Bollati Boringhieri)

(Editing: Alessandro Bonelli)

 

"Il Novecento è stato il secolo dell'affermazione dei manager. In seguito, con il pieno trionfo delle élite dirigenziali, si è resa però visibile anche la loro deludente risposta alle attese della società".

C’è un aspetto centrale nella storia del capitalismo moderno, di cui forse non cogliamo appieno l’importanza nel senso comune. È il passaggio di testimone, al vertice delle grandi aziende mondiali, dalla vecchia figura dell’imprenditore a quella del manager.

Lo abbiamo studiato in un testo di Alessandro Casiccia, già professore di sociologia all’Università di Torino: Il trionfo dell’élite manageriale. Oligarchia e democrazia nelle imprese.

È un libro dei primi anni Duemila, quando il tessuto industriale italiano iniziava a esplodere ingloriosamente per scandali finanziari abnormi (la Parmalat, la Cirio, la Fiat sull’orlo del fallimento).

Sembra una vita fa, ma forse le cose non sono cambiate in modo così clamoroso da allora.

La transizione fra imprenditori e manager studiata da Casiccia è in realtà un fenomeno antico, analizzato già a partire dal primo Novecento, quando i manager erano chiamati “tecnici”.

Molta critica sociale, in particolare di matrice marxista, ha guardato con diffidenza a questi studi.

Il manager e l’industriale non sarebbero troppo diversi:

entrambi nemici di classe.

 Tuttavia, quello che propone Casiccia non è un giudizio di valore sulla preferibilità politica di manager o imprenditori.

 L’autore, piuttosto, registra analiticamente un cambio oggettivo di élite, che ha determinato in seno al capitalismo una mutazione sostanziale nello stile, nell’ideologia, nella gestione.

Le origini.

Casiccia parte nella sua analisi dagli studi di “Thorstein Veblen”, sociologo ed economista statunitense.

Già nei primi decenni del Novecento,” Veblen” rilevò il passaggio dalla guida dell’imprenditore a quella del tecnico qualificato, un organizzatore dei processi produttivi di formazione ingegneristica.

Thorstein Veblen (1857-1929).

Erano gli anni in cui si affermava il taylorismo, e il capitalismo si ammantava di una razionalità algida, perfetta e calvinista, come quella analizzata da “Max Weber”.

Il vecchio capitalismo dell’imprenditore era troppo istintivo, troppo affidato all’azione del momento, troppo sentimentale, poco pianificato. Insomma, troppo poco scientifico.

“Taylor” aveva spiegato che la massimizzazione del profitto derivava da un’organizzazione scientifica del lavoro.

 Quindi, bastava affidarsi ad un tecnico che la sapesse organizzare, e il profitto al massimo grado era assicurato.

Per quanto questa visione possa richiamare alla nostra immaginazione lo stakanovismo coatto imposto ai lavoratori di “Amazon”, “Veblen” vedeva in questa organizzazione tecnocratica del lavoro un orizzonte perfino emancipatorio per gli operai.

Lavorando meglio si sarebbe lavorato meno, liberando tempi nuovi di vita, socialità, creatività.

 In certi testi scriveva perfino del “soviet dei tecnici”.

 

Questa visione ottimistica dell’avvento di un’élite tecnocratica ai vertici delle aziende non ha tardato molto tempo ad essere smentita dalla realtà, anche se, in alcuni circoscritti casi, l’utopia vaticinata da “Veblen” è stata quantomeno sperimentata.

D’altra parte, è curioso notare come, nello stesso periodo di “Veblen”, due altri importanti economisti, “Joseph Schumpeter “e “Werner Sombart”, svolgessero analisi di segno completamente opposto.

Di fronte all’avvento della tecnocrazia organizzata, “Schumpeter” rimpiangeva la figura dell’imprenditore, dotato di creatività, propensione al rischio, leadership e attitudine alla decisione non calcolata.

 La figura dell’imprenditore nei testi di “Schumpeter “diventa quasi un archetipo, come l’ “Operaio” in quelli di “Ernst Junger” - un misto di carisma weberiano e superomismo nicciano, l’eroe della nostra epoca privata di epica.

Joseph Schumpeter (1883-1950).

Crediti: Volkswirtschaftliches Institut, Università di Friburgo in Brisgovia.

In “Sombart”, invece, vediamo una critica della piega presa dal razionalismo del capitalismo moderno.

A suo giudizio, nella sua versione originaria ed embrionale, il capitalismo aveva un anelito alla libertà, all’emancipazione da vecchie regole, all’individualismo totalmente istintivo e perciò irrazionale, persino ancestrale.

“Sombart “avrebbe poi rintracciato il ritorno della vitalità del capitalismo nelle origini nel nazismo, concludendo così la sua carriera in modo infausto e attestandosi su scritti senili retorici e mediocri.

In America il dibattito su questi temi era infuocato al punto che negli anni Trenta comparve un movimento di avanguardia intellettuale, chiamato “Technocracy”, che salutava nell’avvento degli ingegneri una classe elitaria di lavoratori.

Essi avrebbero dovuto appropriarsi della gestione delle aziende, strappandole a imprenditori sempre più anacronistici e parassitari, per restituire la piena organizzazione ai lavoratori nella loro totalità, in una perfetta coincidenza di apogeo tecnico-organizzativo e emancipazione sociale.

 Il bersaglio polemico di questo movimento era la vecchia classe di imprenditori, affarista e corrotta, e i politici loro conniventi.

“Casiccia” nota che, nello stesso periodo, nacque in ambito agricolo un altro movimento antipolitico, di segno opposto, in cui la stessa critica alla politica corrotta e affarista si declinava però in un “elogio della vecchia America rurale, contadina e pretecnologica”.

A chi scrive pare che questa contrapposizione tra due Americhe, irriducibili ma con in comune solo l’avversione per la politica istituzionale, racconti molto bene anche gli Stati Uniti di oggi.

 

La partecipazione come risposta.

 

Anche in Europa gli anni Trenta furono un formidabile laboratorio di indagine su proposte sociali radicali.

Schiacciati tra l’incubo del dirigismo sovietico e quello del capitalismo statunitense, che sembrava destinato a collassare dopo il ’29, i paesi europei formulano ipotesi di ricerca su nuove forme di organizzazione operaia, su un nuovo interventismo dello stato in economia (sulla scorta delle politiche keynesiane) e sulla partecipazione diretta degli operai nelle aziende.

Karl Polanyi (1886-1964).

Su tutte, quelle che troneggiano sono probabilmente le riflessioni di “Karl Polanyi” sulla “democrazia industriale”:

un piano in cui i dirigenti d’azienda fossero votati dagli stessi operai, dopo discussioni libere sulle loro proposte di organizzazione industriale, gestione del lavoro e progetti di ricerca e sviluppo.

Queste proposte sono accomunate da una specificità preziosa, che poi si perderà nelle battaglie operaie del Dopoguerra.

Le questioni sollevate da questi studiosi non erano (come saranno quelle dagli anni Cinquanta in poi) finalizzate a battaglie di resistenza (migliori condizioni di lavoro, contributi pensionistici, tetto del monte-ore, tutele sociali e assistenziali), bensì a battaglie di partecipazione.

Quello che si rivendicava era una partecipazione al controllo della fabbrica da parte degli operai.

Questa è forse l’eredità più importante di quella stagione, quella che oggi andrebbe di nuovo indagata, battuta, esplorata.

 Purtroppo, molte suggestioni interessanti furono perdute.

Anche perché di alcune di esse si appropriarono i totalitarismi, deviandole poi verso la soppressione della dialettica sindacale e l’assoluta sudditanza operaia al potere politico e industriale (come nel corporativismo fascista).

 Riprendere quel discorso nel dopoguerra, così, divenne ancora più complicato.

 

La prospettiva dell’autonomia.

 

In ogni caso,” Casiccia” solleva un punto fondamentale quando fa notare che le battaglie degli anni Trenta sono ispiratrici perché, anziché imbastire un atteggiamento di resistenza, ne promossero uno di riconfigurazione industriale in senso non capitalistico.

 Ai marxisti più puri questo potrebbe certo apparire come un cedimento al riformismo più tiepido e un tradimento dell’ideale rivoluzionario.

A chi scrive, però, pare una prospettiva più entusiasmante ed intrigante.

Per tutti gli anni del Dopoguerra le battaglie operaie svolte nel nome del comunismo contennero questo paradosso:

si rivendicavano migliori condizioni sociali all’interno dell’ambito del capitalismo stesso, aspettando una rivoluzione che era come Godot, ogni anno più improbabile e, in fondo, indesiderata.

 Era l’escatologia, il messianismo applicato alla politica, il differimento costante come orizzonte della lotta.

A un certo punto, quando l’idea di rivoluzione sbiadì, le forze della sinistra si adeguarono al capitalismo, e dagli anni Ottanta arretrarono in tutto il mondo occidentale nelle conquiste degli anni precedenti.

 Tutto ciò che si fermava ad accarezzare l’idea della rivoluzione fu dato per sorpassato, Berlinguer e i sindacati furono spazzati via dalla marcia dei quarantamila.

Oggi, però, si può tornare a tessere la tela interrotta, evitando di bloccarsi in una strategia di mera resistenza.

 Pretendere una cogestione degli operai agli affari della fabbrica implicherebbe un’evoluzione del capitalismo in qualcosa d’altro, senza dover attendere passaggi storici messianici.

Un passo del genere potrebbe dare il là col tempo a cambiamenti più durevoli, radicali e profondi.

 Non c’è bisogno di cesure enfatiche.

È una rivoluzione quotidiana che deve partire dalla situazione concreta. L’escatologia comunista (come la degenerazione del cristianesimo criticata da Nietzsche) aveva caricato tutto l’orizzonte di cambiamento nel futuro svuotando il presente di ogni possibilità riformista sostanziale.

L’idea di democrazia industriale, invece, restituisce alle battaglie operaie il qui ed ora.

 

Le due anime del capitalismo.

 

Proseguendo la sua disamina storica sulle forme di gestione aziendale, “Casiccia” osserva che dalla metà del Novecento in avanti i due modelli di capitalismo (quello imprenditoriale e quello tecnocratico-dirigista) non hanno avuto una netta prevalenza l’uno sull’altro.

Al contrario, convivono e si ibridano in una forma meticcia.

La giungla da una parte e la “burocratizzazione del mondo” dall’altra.

Da una parte, con gli anni Ottanta e la nuova ondata di liberismo, ritornano il laissez-faire, la mitologia dell’imprenditore e del mercato che si autoregola, l’utopia di un liberismo che rasenta il darwinismo sociale.

Dall’altra sopravvive, anche in questo mondo, un’anima dirigista, tecnocratica e con pretese regolatorie dettate da leggi scientifiche.

Una tendenza che vorrebbe irregimentare la mano invisibile e programmare l’evoluzione dell’economia evitando gli imprevisti, i sussulti e le sorprese anche scioccanti congenite alla natura stessa del capitalismo.

 

Margaret Thatcher e Ronald Reagan.

Queste due tendenze del capitalismo globale non solo si meticciano, ma si incardinano anche in élite economiche distinte.

Due aree che collaborano e si influenzano per ciò che serve, ma che si guardano storto e si dibattono in fragorose battaglie sotterranee sul futuro dell’economia mondiale.

Questo basta a chiarire che le cose sono un po’ più complesse di quanto pretendono di far credere tanti teorici del complotto:

 una élite mondiale esiste, ma non è omogenea, unidirezionale e unanime.

 In seno ad essa esistono diverse correnti, e in questo tempo come in ogni epoca storica è questa guerra tra aristocrazie (tra visioni dell’uomo, del mondo e della vita) che determina gli sviluppi storici in un senso o nell’altro.

 

L’orizzonte della lotta.

In questo processo, “Casiccia” sottolinea almeno tre cambiamenti strutturali dell’economia mondiale, che hanno implicato modifiche fondamentali all’orizzonte.

Innanzitutto, in questi decenni l’economia si è terziarizzata.

I mercati preponderanti non sono più quelli di beni manifatturieri, ma di dati, di strumenti finanziari, di servizi.

 

Ancora, il capitalismo moderno si è deterritorializzato.

Non solo le grandi aziende trascendono le giurisdizioni dei singoli stati, ma anche le singole sedi non sono più localizzate in un posto fisico circoscritto - la fabbrica.

Dovunque ci sono esternalizzazioni, diversificazioni, appoggio ad altre strutture.

Come fare una battaglia se questa coinvolge la multinazionale produttrice, quella a cui essa si appoggia per la comunicazione, quella a cui si appoggia per la logistica?

Qual è, insomma, l’interlocutore della battaglia sindacale?

Una soluzione accennata da” Casiccia” in questo caso è di tornare alla nozione di “Alfred Marshall” dei dipartimenti industriali, che tanta importanza ha avuto anche nella tradizione degli economisti italiani.

 

Infine, e forse è questa la questione più importante, la terziarizzazione ha frammentato non solo la gestione, ma anche il lavoro.

Il lavoro è disseminato, frammentato, disarticolato.

Ad una stessa azienda contribuiscono autonomi, lavoratori esterni, lavoratori a contratto, collaboratori sporadici, con scarso senso di appartenenza ad una classe o ad una categoria.

 Il proletariato, come unità storica e sociale, è in via d’estinzione.

Qual è, allora, il soggetto della battaglia sindacale?

Chi sta nella stanza dei bottoni?

Infine, il libro contiene una riflessione notevole sul comando delle aziende nel contesto del capitalismo globale.

 Da una parte, “Casiccia” ritiene che, realisticamente, anche una democrazia industriale dovrebbe tenere a mente la necessità del concetto di gerarchia decisionale.

 Le questioni odierne sono di una tale complessità che non si può pensare di mettere tutto a voto.

Tuttavia, l’autore è inflessibile nella sua critica ai grandi manager.

Non a caso, il libro fu pubblicato in anni disseminati di crac finanziari, causati spesso dalle operazioni spregiudicate dei dirigenti.

 È come se alla fine i tecnici, lungi dall’introdurre la perfetta razionalità in economia, avessero portato con sé il peggio di ciò che attribuivano agli imprenditori storici: la volubilità, la scarsa premeditazione, l’istinto nella sua accezione deteriore, la decisione improvvisa e incosciente.

 

Ma “Casiccia” è ancora più sottile, e ammette che la complessità del capitalismo finanziario lascia un velo di indeterminatezza sulla reale responsabilità del singolo individuo.

Il punto, in sostanza, è che il capitalismo finanziario non ha nulla di razionale.

I casi dei manager citati da Casiccia sono di conclamata incompetenza e immoralità.

Ma, per assurdo, anche un manager integerrimo e perfettamente razionale (ammesso poi possa esistere) potrebbe incorrere in un errore di valutazione investendo su qualcosa che è reputato sicuro e che invece, per ragioni imperscrutabili e irrazionali, produce un’enorme perdita, che si riversa a cascata anche sugli incolpevoli dipendenti.

Al di là dell’avventatezza dei singoli manager, alla radice del fallimento del capitalismo manageriale c’è la sua fallacia teorica iniziale, il suo assunto dogmatico di base:

che si possa calcolare con l’esattezza di un meccanismo razionale perfetto il mercato, che in quanto luogo abitato da uomini è determinato anche da sentimenti, passioni, mode, paure, invaghimenti, scelte d’istinto e dinamiche di psicologia collettiva che non hanno nulla di razionale.

Il fallimento del capitalismo manageriale è il fallimento dell’utopia del razionalismo weberiano.

 Il mondo non sarà mai burocratico e perfettamente regolato, le passioni umane produrranno sempre qualcosa di eccedente rispetto a questo meccanismo.

Con un esito solo apparentemente paradossale, “Casiccia” arriva a dire che un grande manager allora non è un esperto di pianificazione e organizzazione scientifica, ma al contrario chi sa prendere decisioni nuove di fronte a situazioni impreviste, stocastiche.

 Dio non gioca a dadi, ma il capitalismo probabilmente sì.

 

Proposte concrete.

“Casiccia” alla fine individua tre soluzioni praticabili di partecipazione degli operai alla gestione in seno all’industria.

La prima è quella, già molto diffusa, dell’acquisto da parte dei dipendenti di azioni dell’azienda.

In realtà, questa soluzione è abbastanza debole:

 se la gestione dell’azienda continua ad essere verticistica, in caso di perdite in quel caso il dipendente paga due volte: come dipendente e come azionista…

La seconda è una integrale gestione dell’impresa da parte dei dipendenti, come nel caso delle aziende cooperative nella loro vocazione originaria.

 La terza è quella dell’esperienza dell’”employee buy-out, la soluzione per cui un’azienda viene rilevata dagli operai dopo il proprio fallimento.

Evidentemente, nessuna di queste soluzioni è sufficiente.

Ogni studioso che abbia detto qualcosa in questo senso va riletto, meditato, analizzato.

 E queste nuove forme di organizzazione industriale, per avere una validità, dovrebbero anche rintracciare una cornice istituzionale, che quindi si integrerebbe con un nuovo protagonismo dello Stato nella gestione dell’economia.

I confini per ipotizzare una riforma - forse la più decisiva della nostra epoca - sono stretti e tortuosi.

 Ma i modelli del passato ci confermano che si tratta di una strada possibile.

 D’altra parte, questa è la sfida politica del nostro tempo:

 conferire un carattere sostanziale alla democrazia o vederla soccombere.

 

 

 

Per difendere le democrazie

sotto attacco bisogna

migliorarne la qualità.

Asvis.it – Flavia Belladonna- (13 ottobre 2023) – ci dice:

 

Un viaggio tra i regimi del mondo, per seguire l’evoluzione e le minacce a questa forma di governo che va protetta e nutrita, anche in Italia.

 La partecipazione politica va curata, se si vogliono scelte coraggiose dai governanti.

La guerra lanciata sabato scorso da “Hamas” e appoggiata dall'Iran è il richiamo più forte e drammatico agli Stati Uniti e all'Europa:

 gli attacchi alle democrazie e alla democrazia si moltiplicano, non è più tempo di incertezze e divisioni.

 

Con queste parole “Danilo Taino”, sul Corriere della Sera, affronta il tema della libertà sotto attacco nel disordine globale.

 Il conflitto a Gaza tra palestinesi e israeliani, riacceso pochi giorni fa dal colpo inedito sferrato da Hamas che ha portato da una parte e dall’altra a migliaia di vittime civili, fa seguito alla guerra in Ucraina.

Come sottolinea il giornalista, stiamo vedendo gli effetti dell’aggressione russa, che “ha esaltato despoti e terroristi in sonno e ha aperto loro la strada per cercare di imporre con la forza equilibri a loro favorevoli”.

Così il mondo si sgretola:

 in Africa subsahariana crollano molte democrazie sotto i colpi di jihadisti e milizie filorusse, la Cina strizza l’occhio a nuovi dittatori, in Corea del Nord si alza il livello delle provocazioni, l’Iran trova nuovo vigore dopo le repressioni delle donne, in Europa crescono le tensioni tra Serbia e Kosovo e in America Latina Venezuela e Cuba continuano l’appoggio a Russia e Cina.

Insomma, l’ordine internazionale uscito dalla Seconda guerra mondiale, fondato su regole, libertà di espressione e di movimento, commerci aperti e Stato di diritto, rischia di crollare e deve mettere in allarme ognuno di noi.

 Difendere il modello democratico vuol dire scegliere la risoluzione pacifica delle controversie, maggiori libertà e diritti, partecipazione civile.

A volte rischiamo di darla per scontata, ma la democrazia va protetta e nutrita per garantirne la qualità.

 

Ma quand’è che una democrazia è realmente tale?

Quale l’evoluzione delle forme di governo nel mondo e in Europa?

E soprattutto, come possiamo garantire in Italia una democrazia di qualità?

 Proviamo a esaminare le questioni partendo da alcuni dati, in particolare dal fatto che il nostro non è un Paese considerato pienamente democratico.

Secondo l’Economist, l’Italia non è una “full democracy” ma una “flawed democracy”, ovvero una democrazia imperfetta.

Nel Democracy index 2022, la classifica annuale del settimanale politico-economico sullo stato di democrazia di 167 Paesi del mondo, le nazioni sono valutate come democrazie piene, democrazie imperfette, regimi ibridi o autoritarismi in base a cinque parametri:

processo elettorale e pluralismo, funzionamento del governo, partecipazione politica, cultura politica e democratica e libertà civili.

 Il migliore governo del mondo è quello della Norvegia, seguita da Nuova Zelanda e Islanda, in cima alle 24 democrazie piene.

 Tra i 48 Paesi a democrazia imperfetta troviamo l’Italia, che occupa la 34esima posizione globale con un punteggio di 7,69, soprattutto grazie al processo elettorale e al pluralismo (9,58), ma in calo di tre posti rispetto al 2021, risultando meno adeguata dal punto di vista del funzionamento di governo (6,79) e negli altri parametri.

 Seguono 36 regimi ibridi e 59 autoritarismi, con l’Afghanistan che chiude la classifica.

 

Dall’indice emerge a che punto sono oggi le democrazie nel mondo, ma è interessante cercare di capire anche dove stanno andando.

 Secondo “Freedom House”, la lotta per la democrazia nel mondo è molto vicina a un punto di svolta.

 Come spieghiamo in questa notizia, infatti, il deterioramento della libertà nel mondo è avvenuto per il 17esimo anno consecutivo, con il numero dei Paesi dove le libertà democratiche sono in declino che ha sempre superato il numero di Paesi che invece migliorano il loro tasso di democraticità, ma nel 2022 lo scarto tra un gruppo e l’altro si è assottigliato.

Le cose potrebbero dunque finalmente cambiare, anche perché sebbene nel mondo il processo di democratizzazione abbia subìto battute d’arresto, la gente comune continua a difendere i propri diritti contro l’autoritarismo.

 La lotta in Iran, soprattutto delle donne, ne è un esempio.

 

Ma non si tratta solo di vedere quante democrazie ci sono nel mondo, che certamente è importante, ma anche la loro qualità.

 In un libro di “Martin Conway” in uscita proprio oggi, dal titolo “L'età della democrazia. L'Europa occidentale dopo il 1945” (raccontato sul Corriere della Sera), l’autore evidenzia che il modello di democrazia emerso nell'Europa occidentale dopo il 1945 era figlio di quell'epoca, e come tale non basta “aggiornarlo” per rappresentare adeguatamente le società del 21esimo secolo:

dovremmo forse interpretare ciò che sta accadendo oggi e che accadrà nei prossimi anni non come la fine della democrazia, “ma come la transizione da un modello democratico a un altro”.

Di fronte all’incertezza, all’evoluzione delle tecnologie, alla crescente polarizzazione e alle esigenze delle attuali società, è importante dunque rifondare un dibattito sulla democrazia per evolvere verso una “democrazia 2.0” in grado di rispondere alle nuove sfide.

 

L’Unione europea si sta già mobilitando per difendere una democrazia di qualità.

Di fronte all’impennata di restrizioni alla democrazia, allo spazio civico e allo Stato di diritto in tutta l’Ue degli ultimi anni, “Civil society Europe”, importante rete europea di organizzazioni della società civile, ha pubblicato un “Rapporto con sei raccomandazioni” per un’Unione più democratica su temi che vanno dai diritti alla libertà di movimento, ma anche a politiche sociali e di sicurezza, clima e digitalizzazione.

  Inoltre, fin dal 2020 la Commissione europea ha adottato il” Piano d’azione europeo per la democrazia 2020-2024 “e recentemente un gruppo di esperte ed esperti in Germania e Francia ha avanzato una proposta di riforma dell'Ue, da attuare contestualmente all'allargamento a nuovi Paesi (Ucraina e non solo), che propone regole più severe sullo Stato di diritto, nuove procedure di voto al Consiglio europeo e un bilancio dell'Ue più ampio.

 

E l’Italia?

La parola democrazia deriva dal greco, “demos” e “crato”, e vuol dire che il comando è in mano al popolo.

Abbiamo visto che, se secondo l’Economist la nostra democrazia è molto valida su processo elettorale e pluralismo, è sul funzionamento del governo, partecipazione politica, cultura politica e democratica e libertà civili che dobbiamo lavorare per garantire questo effettivo comando del popolo italiano.

Nell’analisi sullo stato di diritto del nostro Paese, l’Ue ha evidenziato alcune criticità, tra cui che:

i tre decreti su migrazione e condotta delle organizzazioni della società civile introdotti tra ottobre 2022 e gennaio 2023 potrebbero avere, o hanno già, ripercussioni negative sull'operato delle organizzazioni della società civile e potrebbero limitare la libertà di associazione e la protezione dello spazio della società civile;

 sono aumentati gli attacchi retorici contro le organizzazioni della società civile, in particolare quelle umanitarie, che si occupano di questioni migratorie, comprese campagne denigratorie contro il loro lavoro;

destano preoccupazione gli attacchi, le minacce e altre forme di intimidazione nei confronti dei giornalisti (nei primi tre mesi del 2023 censiti 28 episodi intimidatori);

 il disegno di legge sull’ “abrogazione dell’abuso d'ufficio” rischia di depenalizzare importanti forme di corruzione e potrebbe influire sull'efficacia dell'individuazione e del contrasto della corruzione.

 

I valori democratici possono essere minati da possibili decisioni sbagliate dall’alto, ma anche a causa di decisioni assenti o disinformate dal basso.

Per contrastare il fenomeno delle urne vuote è necessario realizzare un forte lavoro di educazione alla partecipazione politica, a partire dalle scuole, per sensibilizzare sull’importanza del voto, contrastare la disaffezione dei cittadini, incoraggiare ad approfondire i programmi elettorali e informarsi attraverso dati concreti e attendibili.

Occorre poi lavorare seriamente per ricostruire la fiducia dei cittadini nella politica restituendogli credibilità, al fine di contrastare la rinuncia al voto generata da una frustrazione generale verso il sistema politico e dalla convinzione che il proprio voto non conti nulla o che in ogni caso andrà a una casta privilegiata e corrotta.

Secondo un recente rapporto di “Actionaid” sulla qualità della democrazia, che racconta i modi in cui la società civile prende parte ai processi decisionali e politici del Paese, bisogna ragionare sulla democrazia non come una sequenza di momenti elettorali, ma piuttosto come processo continuo e dinamico;

dobbiamo dunque riflettere sulla reale qualità del potere che i cittadini possono o meno esercitare nell’esprimere le rappresentanze, per sfidarle e stimolarne il potenziale.

 

Lavorare dal basso per avere buone risposte dall’alto è importante, perché senza una forte partecipazione popolare i leader politici difficilmente riusciranno a compiere le scelte coraggiose necessarie per garantire un pieno rispetto dei diritti e per realizzare una transizione giusta.

 Per questo, nei prossimi mesi, l’ “ASviS” pubblicherà un documento proprio sul ruolo chiave della partecipazione politica ed elettorale e sulla partecipazione giovanile alla vita civile democratica.

 

C’è infine il tema delle tecnologie.

 In un’era in cui le cittadine e i cittadini sono abituati a esprimere continuamente la loro opinione attraverso i “social”, il modello democratico tradizionale rischia di risultare obsoleto e di far sentire le persone non ascoltate.

 Esistono delle criticità per questa modalità, come il fatto che le decisioni degli eletti vengono messe in discussione in rete con la possibilità di condizionare i comportamenti alla ricerca di popolarità.

Sarebbe importante approfondire e regolamentare gli strumenti innovativi di partecipazione democratica digitale per rispondere alle nuove esigenze della società, tutelandola al tempo stesso dal rischio di manipolazioni.

Con le giuste modalità, e prestando attenzione a non esacerbare il divario digitale, la tecnologia potrebbe rigenerare la democrazia.

 

Insomma, sono tanti i nodi da affrontare per camminare verso una democrazia sempre più piena, ma è da essa che dipenderanno il rispetto dei nostri diritti, le libertà, la pace, le opportunità e anche quindi la qualità della vita.

 Come afferma “Alessandro Magnoli Bocchi”, autore del libro “Quale futuro per la democrazia?” uscito a settembre in libreria,

 

Il processo di evoluzione della democrazia – lungi dall’essere concluso – deve poter continuare.

 L’odierna democrazia liberale ha impiegato millenni per emergere e affermarsi come forma di governo cui aspirare, e richiede un continuo sforzo di promozione e consolidamento.

Basandosi sul consenso, richiede legittimità.

Specie se diretta, esige elettori preparati e governanti competenti.

Per decenni, ha garantito prosperità e libertà, ma oggi è fragile.

 Va rafforzata con scelte coraggiose.

Il momento è cruciale, ma è in tali momenti che si determina il futuro.

 È ora di creare società migliori, funzionanti.

Se non ora quando?

 

 

 

 

In Brasile un attacco

alla democrazia.

Lavoce.info - ANTONELLA MORI – (16/01/2023) – ci dice:

(IN GIUSTIZIA, INTERNAZIONALE)

 

L’assalto a Brasilia è stata un’azione di destabilizzazione, che sembra rientrare in una strategia per creare instabilità politica e indebolire il programma di governo di “Lula”.

Sono a rischio anche gli obiettivi ambientali e di riduzione della povertà.

 

L’attacco dell’8 gennaio.

 

L’8 gennaio, una folla di sostenitori di estrema destra dell’ex presidente brasiliano “Jair Bolzonaro “ha preso d’assalto le principali istituzioni dello stato a Brasilia, il Congresso, il Tribunale supremo federale e il Palazzo presidenziale.

Le istituzioni democratiche hanno reagito in modo compatto e deciso all’attacco, che però ha messo in evidenza le spaccature nel paese.

Il neoeletto presidente di sinistra “Luiz Inácio “Lula” da Silva” ha iniziato il suo mandato con un’agenda ambiziosa per quanto riguarda la riduzione della povertà e della disuguaglianza e la protezione dell’Amazzonia, ma forse l’obiettivo più difficile da perseguire sarà quello di riunificare un paese così polarizzato.

 

Per mesi, anzi anni, prima delle elezioni presidenziali brasiliane del 2022, “Bolzonaro” aveva gettato discredito sulla democrazia e sulle autorità elettorali.

 Secondo l’ex presidente il sistema di votazione elettronico non era affidabile, anche se non ci sono mai state prove che sostenessero l’accusa, e solo con brogli elettorali avrebbe perso le elezioni.

 Quindi, dopo la vittoria di “Lula” al ballottaggio dello scorso ottobre, i sostenitori di “Bolzonaro” hanno iniziato a contestare il risultato elettorale e a chiedere un intervento militare per deporre “Lula”.

 Le contestazioni sono state incoraggiate da “Bolzonaro”, che non ha riconosciuto la vittoria di Lula e ha lasciato il paese per non dover assistere alla cerimonia dell’insediamento. Le accuse di brogli elettorali dei fedeli all’ex-presidente sono state favorite dal piccolo margine di vantaggio di Lula (2 milioni di preferenze su circa 120 milioni di voti).

 

Così, domenica 8 gennaio migliaia di estremisti bolsonarismi, che da alcune settimane erano accampati fuori dal quartier generale dell’esercito a Brasilia, hanno raggiunto in corteo le sedi istituzionali del potere e alcune centinaia di manifestanti sono entrati nei palazzi deserti, danneggiandoli e saccheggiandoli. Le forze dell’ordine presenti non hanno opposto resistenza e vi sono indagini in corso per stabilire se vi sia stata solo incapacità di fronteggiare l’assedio, oppure complicità, se non addirittura esplicito appoggio agli assalitori.

 Sono dubbi legittimi perché all’interno dell’esercito il supporto per Bolzonaro, ex-militare, è sempre stato molto ampio.

Nelle ore successive, la polizia ha arrestato circa 1.500 manifestanti e smantellato il loro accampamento.

Era prevedibile che i sostenitori più estremisti di Bolzonaro avrebbero continuato a manifestare contro il nuovo governo.

Tuttavia, l’insediamento di “Lula” il 1° gennaio si era svolto senza alcun incidente e molti si erano illusi che un attacco simile a quello di due anni fa a Capitol Hill (Washington) non sarebbe più successo.

 

L’assalto a Brasilia è stata un’azione di destabilizzazione, che sembra rientrare in una strategia per creare instabilità politica e indebolire la governabilità di” Lula”. Anche nei giorni successivi vi sono state proteste e mobilitazioni di bolsonarismi in varie città brasiliane.

Le istituzioni democratiche e giudiziarie del Brasile hanno risposto rapidamente e in modo fermo all’attacco.

Sono state aperte numerose indagini per stabilire responsabilità dirette e indirette a tutti i livelli.

 

A rischio l’agenda di “Lula”.

 

Le istituzioni democratiche brasiliane sembrano quindi aver reagito bene all’attacco, rafforzate anche da un forte sostegno internazionale. Anche se qualche elettore più moderato di Bolzonaro potrebbe decidere di cambiare campo, il paese rimane molto polarizzato e i bolsonarismi più estremisti sono numerosi e ben organizzati. Secondo un sondaggio condotto da “Atlante” l’8 e 9 gennaio, tre brasiliani su quattro non erano d’accordo con l’assalto alle istituzioni a Brasilia, ma il 18,4 per cento ha dichiarato di essere d’accordo (gli altri erano indecisi).

 Dal sondaggio emerge, inoltre, che circa il 40 per cento dei brasiliani pensa che” Lula” non abbia vinto le elezioni.

 

Durante l’insediamento, il presidente “Lula” ha dichiarato che governerà per tutti i brasiliani e che vuole riunificare il paese.

 Dopo solo una settimana al governo l’obbiettivo sembra molto più difficile da realizzare.

 In più l’emergenza sulla sicurezza nazionale, che ora dovrà affrontare, ritarderà l’attuazione del resto del suo programma di governo.

“Lula” si è impegnato a ridurre a zero la deforestazione dell’Amazzonia entro il 2030, obiettivo che va contro gli interessi di molti sostenitori di Bolzonaro, legati all’attività dell’agribusiness e dell’estrazione mineraria.

L’instabilità interna rallenterà gli interventi per la protezione ambientale, come probabilmente molti bolsonarismi si augurano.

Se tutta l’agenda del governo” Lula” verrà ostacolata, sarà grave non solo per la sostenibilità ambientale e per la lotta ai cambiamenti climatici, ma anche per la possibilità di ridurre la povertà e la disuguaglianza in Brasile attraverso migliori politiche sociali ed economiche.

 

 

 

L'allargamento normativo

della nozione di «sicurezza»,

la solidarietà istituzionalizzata

e l'attacco neoliberista.

 Cosmopolionline.it - Laura Pennacchi – (10-3-2022) – ci dice:

 

Nell'evoluzione dallo Stato assoluto allo Stato democratico moderno si produce una riattualizzazione del programma che si affermò agli albori dell'assolutismo e che configurò anche l'originario diritto alla tutela dalla violenza fisica come pretesa dei cittadini a un intervento difensivo dello Stato:

 disarmare la nobiltà, che mediante gli eserciti privati aveva monopolizzato la sicurezza, e redistribuire la sicurezza dai nobili agli uomini e alle donne comuni.

 Con ciò lo Stato si rivela “strumento di libertà”, di rimedio all'anarchia e di contrasto dell'ingiustizia e dell’oppressione che ne deriva, di neutralizzazione dei monopoli e di limitazione del potere privato, il quale è minaccia per la sicurezza – come già aveva compreso” Adam Smith” – alla stessa stregua del potere pubblico.

E con ciò si spiega perché la traiettoria semantica della parola “sicurezza” si allarghi dai diritti civili classici (come l’ “habeas corpus”, “la tutela dall’arresto” e dalla “detenzione arbitraria” ecc.) ai diritti sociali moderni – tra cui la gratuità del patrocinio legale per i poveri, la creazione di un'edilizia abitativa pubblica, l'istituzione di sussidi per il pagamento dell'affitto, l'istruzione elementare obbligatoria – e ad alcuni diritti economici rivolti in particolare a tutelare gli individui dai capricci educativi delle famiglie e dalle fluttuazioni del mercato.

L'osservazione della funzione istitutiva della stessa libertà svolta dallo Stato e dalla sfera pubblica consente di vedere quanto sia spesso fuori luogo la denunzia del paternalismo dello Stato fatta in nome dell'autonomia dei cittadini, in particolare contro le istituzioni e le politiche del welfare state.

A tal proposito si può ricordare che:

a) gli stessi liberali classici hanno sempre accettato un certo grado di paternalismo, se esso promuove «l'autonomia delle persone», rafforza la libertà individuale ed è «espressione dell'auto governo collettivo»;

 b) l'autonomia non esiste in quanto tale ma in quanto «organizzata», vale a dire nelle società democratiche moderne l'autonomia «presuppone sempre dipendenza e cooperazione sociale, tecniche indirette e strategie istituzionali».

Poiché nel vuoto giuridico e politico non si dà autonomia, occorre riconoscere le precondizioni e le risorse da cui l'autonomia dipende, le quali per molti aspetti sono fornite dallo Stato

 Succede per i beni sociali quello che era già accaduto con la “pace” per la fuoriuscita dallo hobbesiano stato di natura:

l'obiettivo, desiderato da tutti ma non perseguito da nessuno in assenza di un impegno collettivo a cooperare per raggiungerlo, richiede un intervento del governo, giustificato, secondo “Holme”s, «non solo dal fatto che esso protegge le vittime involontarie, ma anche, e soprattutto dal fatto che esso consente ai cittadini di fare insieme ciò che tutti desideriamo fare ma non siamo in grado di fare singolarmente. In altre parole [...] l'intervento dello Stato nello stesso tempo promuove la libertà dei cittadini e la limita».

L'applicazione delle norme di equità rafforza l'auto direzione individuale, anche per la motivazione universalistica e i modi con cui la triade libertà-eguaglianza-fraternità è perseguita nell'ambito di sistemi pubblici di cittadinanza e di protezione sociale e di dilatazione della sfera pubblica.

Se in luogo di una motivazione universalistica prevalesse una motivazione di appartenenza comunitaria, si potrebbe arrivare a considerare trascurabili le conseguenze “disumane o incivili” dell'istinto di gruppo o dell'attaccamento alla propria fazione, senza vedere che, «a dispetto della sua natura disinteressata e del suo carattere comunitario», esso può minare «ogni possibilità di cooperazione reciproca estesa all'intera comunità di appartenenza».

Invece, il riferimento alla sfera pubblica e al “welfare state” ci consente di mettere a fuoco una forma “più rara” di disinteresse ma più pregiata, che è quella che caratterizza i sistemi nazionali pubblici di protezione sociale.

Questi, infatti, rappresentano modi di strutturare una solidarietà istituzionalizzata, in cui il credito dell'individuo nei confronti della società (il diritto a qualcosa) è strettamente saldato al debito (al dovere così contratto).

Nel modello sociale europeo i contributi obbligatori – imposte e contributi sociali – sono l'analogo strutturale del dovere di solidarietà, ma, mentre la solidarietà tradizionale si manifesta nel quadro di legami personali, la solidarietà moderna si esercita grazie alla mediazione di organismi anonimi, lo Stato erogatore di servizi, le agenzie di pubblico interesse, le istituzioni della previdenza sociale e così via.

Questo tipo di solidarietà permette di estrinsecare un rapporto di obbligazione collettiva non strutturato su un legame familiare o comunitario.

 Le istituzioni basate su tale accezione del principio di solidarietà hanno la caratteristica di esercitare una titolarità congiunta su un credito contributivo e su un debito di prestazione corrispondente.

Tale doppia titolarità si manifesta in un fondo comune in cui si compensano versamenti e prelievi, dotato di un'elevata capacità di mobilitazione di risorse e di neutralizzazione dei rischi.

Il legame personale tra creditore e debitore sparisce e la solidarietà si estende a un paese intero attraverso servizi e prestazioni pubbliche che erogano – in condizioni di parità di accesso – salute, energia, trasporti, abitazioni, istruzione, formazione, previdenza.

È di grande rilievo che la “Carta europea” di Nizza dei diritti fondamentali, con l'ispirazione di rafforzare il modello sociale europeo, abbia dato nuova estensione al principio di solidarietà, riferendola ai diritti sociali ma anche a nuovi diritti e nuovi principi, quali il diritto del lavoratore all'informazione, il diritto di negoziazione e di azione collettiva, il diritto di accesso ai servizi pubblici.

Si confermano due assi centrali del rapporto tra espansione della sfera pubblica e democratizzazione.

Primo: eguaglianza e solidarietà non sono concepite soltanto come modi per tutelare dai rischi ma come strumenti concreti per esercitare libertà.

Secondo: la solidarietà costituisce l'humus da cui può essere generato un freno all'incalzante mercificazione degli uomini e delle cose e alla relativa crescente tendenza all'elusione delle responsabilità.

Si ripropone qui – sul terreno dell'incrocio tra dinamiche di democratizzazione, sviluppo della sfera pubblica, evoluzione del welfare state – il difficile destino della nozione di responsabilità, nell'oscillazione tra responsabilità oggettiva e responsabilità soggettiva e tra responsabilità individuale e responsabilità collettiva.

 La nozione di responsabilità oggettiva (responsabilità per rischio e non per colpa), codificata con le prime leggi sugli infortuni sul lavoro della fine dell'Ottocento, è cruciale:

essa è all'origine della nascita dei sistemi di protezione collettiva odierni, dove la responsabilità è assunta da un centro di imputazione collettiva.

Ma come fare quando si diffondono reti prive di centro, almeno all'apparenza, o trame di connessione autoregolate da cui sembra sparire il soggetto e nessuno è più chiamato a rispondere di nulla?

Dire che tutti noi che viviamo in società siamo tenuti ad assumere responsabilità per altri, e che nessuno può essere esonerato da questa aspettativa, non è esattamente lo stesso che dire che non esistono diritti individuali senza responsabilità individuali.

L'ultimo assunto in molte circostanze semplicemente non è vero: ad esempio, se ho mancato di curarmi dei miei figli non per questo verrò privato del diritto a un equo processo o della libertà di parola.

Il primo assunto (siamo tenuti ad assumere responsabilità per altri) fa riferimento primariamente non a impegni legali ma ad aspettative morali.

Che nessuno sia discriminato in base al genere, l'etnia, le preferenze sessuali, la religione, la disabilità, o che per tutti siano soddisfatte le necessità elementari della vita, sono impegni che possono essere assunti solo da istituzioni espressione di entità collettive superiori e impersonali, in grado di mediare nella sfera pubblica democratica diverse istanze, problemi mutevoli, bisogni variegati e di far sì che a responsabilità da parte di tutti corrisponda il reciproco di responsabilità nei confronti di tutti. Infatti, la responsabilità individuale ha bisogno di un contesto siffatto per esercitarsi: in sua assenza si verifica la “resa silenziosa della responsabilità pubblica” e la stessa responsabilità individuale declina o si stravolge.

Qui, nell'abbandono della “responsabilità collettiva”, troviamo uno degli aspetti più inquietanti delle spoglie con cui il neoliberismo oggi si riproduce sotto forma di neo populismo con forti venature decisioniste, autoritarie, protezioniste.

Il decisionismo odierno, infatti, ha una curvatura hobbesianamente orientata all'affermazione della potenza, dell'interesse, della proprietà del più forte:

l'opposto della riproposizione di un intervento pubblico finalizzato al potenziamento della sfera pubblica, al rafforzamento della democrazia, all'esercizio della “responsabilità collettiva” in ordine alla realizzazione del “bene comune”.

Decisionismo significa privatismo, individualismo proprietario, negazione del fondamento della “responsabilità collettiva”, Stato coercitivo premoderno e non Stato di diritto (che ha a cuore la giustizia sociale e la redistribuzione della ricchezza).

Decisionismo significa affermazione di interessi privati che si preselezionano senza ricorso ad alcuna mediazione istituzionale, repulsa del dibattito pubblico che si esprime nelle sedi istituzionali e nelle aule parlamentari, spoliazione della dimensione pubblica della politica e privatizzazione delle stesse funzioni di governo, esaltazione dell'immediatezza della società civile che si autorappresenta, inneggiamento alla libertà «contro» le solidarietà trasversali e lo stato sociale («non contro lo Stato gendarme») come «sola forte libertà che le destre liberiste-comunitariste esaltano e vogliono proteggere».

Non a caso una posizione come quella di “Giulio Tremonti” non può essere affatto scambiata con una posizione in favore di un nuovo intervento pubblico mirante a esercitare “responsabilità collettiva”.

Nella sua combinazione neo- colbertiana di neoliberismo, decisionismo, protezionismo c'è molto interventismo ma poco intervento pubblico finalizzato al “bene comune”, e in ciò – nel privilegiare l'interesse privato e nell'oscurare la dimensione pubblica – si rintraccia la continuità, tra il presente del centro-destra italiano e il suo recente passato (segnato dall'abolizione dell'imposta di successione e donazione sui grandi patrimoni, la soppressione del reato di falso in bilancio, lo scudo fiscale per i capitali portati illegalmente all'estero, la miriade di condoni, la mancata risoluzione del conflitto di interessi ecc.).

In tale combinazione convivono i seguenti aspetti controversi:

– l'enfasi sul «terzo settore» si propone come pendant del decisionismo e si articola all'interno della riproposizione del mito dell'immediatezza, dell'autosufficienza, dell'autenticità della società civile.

– Il decisionismo è intriso di autoritarismo e di immagini di gerarchizzazione della società (di cui è esemplificazione il giudizio, tanto negativo quanto sommario, sul Sessantotto), di conservatorismo valoriale e di tradizionalismo religioso.

– La distinzione destra/sinistra viene deliberatamente attutita nella sua rilevanza attraverso un compiaciuto ricorso all'ambivalenza e all'ambiguità.

– Viene proposta una naturalizzazione della globalizzazione di cui si chiede un rallentamento e perfino un arresto, non un rovesciamento di qualità e di segno.

I processi sono naturalizzati e questo inibisce la domanda su “quale globalizzazione”.

 Allo stesso modo non è pensabile per l'Europa una funzione di promozione di una globalizzazione “equa”.

 Ciò che si può e si deve configurare è solo una “fortezza Europa”, armata di un forte protezionismo, chiusa entro un Occidente guerrescamente visto come un monolite, ben diverso dall'“Occidente diviso” di cui parla “Habermas”, che individua nel modello sociale europeo uno dei tratti distintivi della specificità civilizzatrice dell'Europa.

Dunque, sono molti i motivi che spingono a riflettere su che cosa è stato e che cosa è il neoliberismo, nonché sull'impasto anche categoriale che lo costituisce.

 

 

 

 

“I diritti sotto attacco”.

Introduzione di Egle Pilla

 Palermo, 29 settembre 2023.

Giustiziainsieme.it – Egle Pilla – (29 settembre 2023) ci dice:

 

sommario: 1. premessa - 2 -Il tema delle riforme costituzionali - 3. Il lavoro - 4. La libertà di stampa - 5. L’immigrazione-6. I diritti. - 6.1 La famiglia -6.2. Il Carcere - 6.3. Il fine vita- 6.4 La violenza sulle donne.

 

1.Premessa.

Vorrei solo offrire qualche riflessione quanto alle ragioni che ci hanno spinto ad organizzare la Tavola rotonda “I diritti sotto attacco.”

Come avrete avuto modo di verificare dalla lettura del programma, quello di oggi pomeriggio è l’unico panel congressuale, al quale seguirà - sin da oggi e nei giorni a seguire - il dibattito libero che darà voce ai colleghi ed amici che vorranno intervenire e ad autorevoli esponenti della politica, dell’avvocatura, dell’accademia, dell’associazionismo, del giornalismo.

Questo momento preliminare di confronto tra esperti, dunque, rappresenta nelle nostre intenzioni, un’ideale linea di partenza per il percorso a seguire, un luogo per ragionare insieme dello stato di salute della nostra democrazia e dunque dei diritti fondanti lo stato democratico.

Li abbiamo definiti “diritti sotto attacco”, operando già in tal modo una scelta di campo, manifestando preoccupazione e nutrendo timore per la salvaguardia degli stessi.

  Ma quali diritti? Quale attacco?

C’è un filo rosso che lega indissolubilmente i diritti di cui oggi discuteremo, che li annoda con forza e li rafforza: è la nostra Costituzione.

La Costituzione nel suo nucleo fondante e quindi nei valori tradotti in principi si anima quando, ponendosi a contatto con i casi della vita, ci aiuta a risolverli.

La Costituzione è sopra di noi, oltre le diverse sensibilità e non può cedere ad interessi particolari;

 il momento attuale, tuttavia, è un momento di grande incertezza e di fragilità e quando la Costituzione da luogo di concordia diventa terreno di controversia;

quando la Costituzione non è più difesa, ma ritenuta non adeguata e dunque da modificare, occorre interrogarsi se e in che modo quei diritti in essa consacrati, valori fondativi di una identità democratica siano in pericolo.        

Partendo da questa premessa, e non dimenticando la cornice più ampia che ha dato titolo al nostro congresso (Il ruolo della giurisdizione al tempo del maggioritario), abbiamo affidato a ciascuno dei nostri ospiti un tema che, nell’attuale contesto sociopolitico, rappresenta in maniera, più o meno dichiarata, il bersaglio di questi attacchi.    

2. Il tema delle riforme costituzionali.

Uno dei punti più evocati nell’agenda di governo è sicuramente quello delle riforme istituzionali e del progetto di riforma costituzionale relativo al sistema di governo nelle forme del presidenzialismo o del premierato.

È atteso il testo di un disegno di legge, che ha visto una previa consultazione formale con i gruppi parlamentari delle opposizioni, cui ha lavorato il” Ministero per le riforme istituzionali”, per una svolta presidenzialista o molto più verosimilmente di premierato forte da intendersi quale elezione diretta del capo del Governo con potere di nomina e revoca dei ministri. 

Il progetto di riforma segue parallelamente quello dell’autonomia differenziate delle Regioni.

Il rischio di torsione del sistema costituzionale e di squilibrio tra i poteri dello Stato è forte quanto all’alterazione dei rapporti di forza tra Capo del Governo e Presidente della Repubblica, quest’ultimo visibilmente colpito nel suo ruolo di garante rispetto alla forza politica di un premier con un mandato diretto degli elettori.

Senza contare le ricadute in tema di delegittimazione dei partiti politici e di esautoramento del ruolo e delle funzioni del Parlamento quale luogo privilegiato di esercizio della vita democratica di un Paese.

   Abbiamo pensato che sul punto l’“avv. Anna Falcone”, giurista ed esperta sugli specifici temi potesse rappresentarci criticità e scenari, fornendo spunti interessanti per il nostro successivo dibattito.    

 

3.   Il tema della riforma dell’ordinamento giudiziario.

Il 9 settembre 2023, esattamente venti giorni fa, il Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati ha deliberato un documento con il quale ha espresso grande preoccupazione per i disegni di legge in discussione dinanzi alla Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati laddove, nel riprodurre fedelmente la proposta di iniziativa popolare presentata dalle Camere Penali nella XVII legislatura si propone:

- di cambiare la composizione dei Consigli Superiori della Magistratura, sia giudicante che requirente, aumentando i membri di nomina politica sino alla metà;

- di consentire la scelta per sorteggio dei componenti togati; di vietare ai Consigli superiori della magistratura di aprire pratiche a tutela dell’indipendenza dei singoli magistrati e di esprimere pareri sulle riforme in tema di giustizia;

 - di abolire l’art. 107 Cost. comma terzo della Costituzione secondo il quale i magistrati si distinguono fra loro solo per diversità di funzioni;

- di ridurre il principio di obbligatorietà dell’azione penale, limitandolo ai soli casi e modi previsti dalla legge, modificando l’art.112 Cost.

L’intervento sulla Carta costituzionale è duplice: quanto alla separazione delle carriere e quanto ai casi e ai modi per l’esercizio dell’azione penale.

 Quanto alla separazione delle carriere, considerata dal primo firmatario della proposta quale “riforma fondamentale per avere finalmente una giustizia efficiente giusta e trasparente”,  in questa sede non penso sia il caso di sottrarre tempo alla discussione se non per evidenziare le altre preoccupanti  indicazioni contenute nel disegno di legge relative ad un doppio consiglio della magistratura  in cui i membri di nomina politica aumenteranno sino alla metà e all’interno del quale sarà vietato aprire pratiche a tutela della indipendenza dei magistrati e interloquire  sulle riforme in tema di giustizia.

   Due gli organi di autogoverno, due le magistrature con un evidente assoggettamento al controllo politico:

 i contrappesi e le garanzie del sistema costituzionale volte proprio ad assicurare l’indipendenza e l’autonomia della magistratura sono poste fortemente in crisi da una modifica di siffatta portata.

    E quel principio di obbligatorietà dell’azione penale, custodito e difeso dall’art.112 della Costituzione, a garanzia non solo della indipendenza del PM, ma anche dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, è fortemente fiaccato allorquando una legge ordinaria può, per ragioni legate alle contingenze politiche più varie, stabilire chi e cosa perseguire.  

 

 Abbiamo pensato di parlarne con il” Prof. Enrico Grosso”, avvocato e ordinario di Diritto Costituzionale presso l’università di Torino.

 

3. Il lavoro.

  Abbiamo avvertito la necessità di confrontarci con il tema del diritto al lavoro nella sua duplice declinazione:

-Quello che ci indica la Costituzione e che non merita ulteriori commenti o aggettivazioni: diritto ad un’equa e giusta retribuzione che assicuri una esistenza libera e dignitosa;

-Il diritto ad un lavoro svolto in condizioni di sicurezza.

 Il presidente Mattarella in occasione delle recenti tagiche morti dei cinque operai a Brandizzo ci ha detto che:

 “Morire sul lavoro è un oltraggio ai valori della convivenza civile; Il luogo di lavoro deve essere il posto da cui si ritorna. Sempre.” 

 

Non si tratta solo di discutere dei singoli provvedimenti legislativi ed in particolare del “DL Lavoro” che hanno acceso il dibattito su alcuni temi controversi:

 la fine della stagione del reddito di cittadinanza, soppiantato dall’assegno di inclusione e dal supporto per la formazione e lavoro, la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato e la estensione dei voucher.

Si tratta di analizzare la complessità del mondo del lavoro attuale, confrontandosi con l’assoluta esigenza di ridurre il tasso di disoccupazione in particolar modo quello giovanile, contrastando il lavoro sommerso e irregolare, e allo stesso tempo tutelare con un adeguato salario quelle categorie di lavoratori, per lo più in possesso di istruzione medio bassa, che appaiono i più fragili.

 

  A fronte della capacità di individuare misure condivise per tutelare i lavoratori meno abbienti, come ad esempio quella del taglio del cuneo fiscale che sembra ormai accettato non solo dalle forze politiche, ma da tutte le organizzazioni datoriali e sindacali, vuoti di tutela e frizioni permangono nell’ adozione di misure di politiche attive che consentano per le categorie più deboli della nostra società l’ingresso nel mondo del lavoro.

 Abbiano scelto quale nostro interlocutore l’”onorevole Giuseppe Provenzano”, deputato del Partito democratico di cui è stato vicesegretario sino al marzo scorso, nonché ex ministro per il Sud e della coesione.

 

4.  Libertà di stampa.

 

Conosciamo tutti il portato dell’art. 21 Costituzione e del diritto ad una informazione libera che trova il suo limite nella sussistenza di un interesse pubblico alla conoscenza, nel rispetto dell’altrui reputazione.

C’è un rapporto diretto tra il grado di democraticità di un sistema politico e la quantità di informazioni rilevanti che circolano al suo interno.

 La sfida è proprio quella di garantire la massima tutela per il mondo giornalistico, cooperando per il raggiungimento di un pluralismo di opinioni e di una piena libertà di espressione svincolata da censure e da condizionamenti politici ed economici che possa garantire ai cittadini una reale conoscenza dei fatti e un libero accesso alle informazioni.

È chiaro che queste considerazioni così limpide e condivisibili- come si potrebbe affermare il contrario – devono fare i conti con il clima politico e con le censure più o meno esplicite che raggiungono i giornalisti.

 

È sotto gli occhi di tutti lo spoil system del “servizio pubblico” televisivo.

Una tempesta perfetta che ha privato la società civile d'ogni partecipazione diretta effettiva nella programmazione delle risorse al fine di evitare un regime di “monopolio informativo”.

Occorre essere sempre molto attenti a quanto accade al mondo della stampa e della informazione e ai segnali che da quel mondo ci arrivano.

  Ne parleremo con il giornalista “Giuseppe Salvaggiulo” che ha cortesemente accettato il nostro invito, sempre attento al tema delle libertà e dei diritti.

 

5. L’immigrazione

 

È il tema del dibattito politico odierno;

l’ossimoro emergenza strutturale lo definisce, svelandone tutta la sua drammaticità.

Nessuno di noi si può chiamare fuori.

Fra qualche giorno saranno trascorsi 10 anni da quel tragico 3 ottobre 2013 che vide morire nel Mar Mediterraneo 368 persone.

 

 È del 14 giugno 2023 il nostro comunicato che nel richiamare l’art. 10 comma 3 della Costituzione italiana e l’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sul diritto di asilo, dopo l’ennesima strage in mare sollecitava l’Europa e l’Italia quanto alle responsabilità nell’ostacolo agli accessi legali.

 Aumentano gli sbarchi:

 dal primo gennaio ad oggi sono sbarcate in Italia 133.000 persone. Di gran lunga inferiori i rimpatri forzati: 2770.

 

Gli ormai tristemente famosi “CPR” (Centri di permanenza per i rimpatri) attorno ai quali l’attuale governo ha costruito la politica per l’immigrazione sono luoghi terrificanti in cui, oltre alle condizioni di degrado, la mancata conoscenza della lingua e l’assenza di mediatori culturali impediscono anche l’esercizio dei diritti dei richiedenti asilo per l’accesso alle procedure di protezione internazionale.

Il ruolo della magistratura è stato decisivo rispetto alle pronunzie di incostituzionalità dei “Decreti sicurezza” nel tentativo di fornire risposte alle molteplici istanze che l’hanno investita rispetto ad un sistema di tutela multilivello del diritto alla protezione dello straniero.

Richiamo solo il decreto ministeriale del 14 settembre pubblicato nella G.U del 21 settembre 2023 che prevede la richiesta di una cauzione pari a 4.938 euro quale alternativa al trattenimento nel “Centro di permanenza per il reimpatrio”.

 

 Ne parleremo con “Marco Tarquinio”, giornalista e direttore dell’Avvenire sino alla primavera scorsa, profondo conoscitore dei molteplici temi richiamati. 

 

 6. I Diritti.

  La tutela dei diritti civili è nel patrimonio genetico della “magistratura progressista” ed è il fondamento di tante riflessioni. Guardando all’attualità, introduco il tema che sarà ripreso nella tavola rotonda.   

 

 6.1 La famiglia.

A marzo 2023 una circolare del ministero dell’Interno si è rivolta ai Comuni italiani per interrompere il riconoscimento e le registrazioni all’anagrafe dei figli di coppie omogenitoriali, richiamando una sentenza pronunciata nel 2019 dalla Corte di Cassazione secondo cui le anagrafi italiane non possono trascrivere gli atti stranieri di bambini nati attraverso la gestazione per altri.

L’Eurocamera ha successivamente condannato l’Italia rispetto allo stop imposto dal Governo per le registrazioni delle adozioni delle coppie omogenitoriali.

Nello stesso mese di marzo la commissione Politiche europee del Senato ha bocciato l’adozione di un certificato europeo di filiazione, un documento unico in grado di provare la filiazione dei minori e garantire ai genitori residenti in Unione europea il diritto ad essere riconosciuti come madri e padri dei propri figli in tutti gli Stati membri.

Il tema delle trascrizioni è legato a quello della gestazione per altri (GPA) che come sappiamo in Italia è una pratica vietata:

 coloro che desiderano avere un figlio ricorrendo a questa procedura si recano all’estero.

Il 31 maggio 2023 la Commissione Giustizia della Camera ha concluso il voto degli emendamenti alla proposta di legge che dichiara la gestazione per altro reato universale, ossia perseguibile anche se commesso all’estero (modifica legge 40/2004).

 

6.2 Il carcere

 Da magistrati e da magistrati di “Area democratica per la giustizia” a fronte  dei decessi di due detenuti in sciopero della fame nel carcere di Augusta o in occasioni dei suicidi abbiamo richiamato ancora una volta l’attenzione sul condizione di crescente disagio manifestato dalle persone detenute, sulla carenza ormai cronica di risorse umane e materiali per potervi dare adeguata risposta e sulla stessa difficoltà di comunicazione e relazione con l’esterno, tanto da vedere sempre più persone utilizzare il proprio corpo per rivendicare condizioni detentive migliori o ascolto.

 

La pena non perda mai la propria finalità rieducativa e non si traduca in pura afflizione.

 

6.3 Il fine vita.

 Attendiamo dopo la sentenza 242/19 della Corte Costituzionale legata alla morte assistita di “DJ Fabo” che ha fissato le condizioni in presenza delle quali l’aiuto al suicidio non è punibile, una legge sulla eutanasia.

 

 6.4 La violenza sulle donne.

Abbiamo detto il 25 novembre scorso che occorre che “maturi la piena consapevolezza che ogni forma di violenza contro le donne è in realtà una violazione dei diritti umani, non lede solo il corpo e la psiche di chi ne è bersaglio, ma impoverisce la collettività e mina lo stesso fondamento della dignità di ogni essere umano”.

 Accanto alla produzione normativa quanto mai feconda in tema di contrasto alla violenza di genere e in attuazione delle direttive comunitarie, occorre una visione più complessiva che crei una rete di competenze qualificate e condivise, anelli di un’unica catena che agiscano sin dalla formazione nelle scuole, per proseguire attraverso i servizi sociali  e strutture sul territorio che aiutino a crescere   rifiutando ogni forma di violenza psicologica e fisica  nei confronti di chi è diverso da noi.

Rojava sotto attacco.

Jacobinitalia.it - Johann Spies - Maria Cortez – (15 Marzo 2024) – ci dice:

 

Curdi.

L'autodifesa comunitaria e la ricerca di una soluzione democratica dei curdi indicano che il confederalismo democratico potrebbe stabilire una coesistenza e una cooperazione pacifica tra i popoli del Medio Oriente.

Nel cuore del Medio Oriente, una rivoluzione sta evolvendo silenziosamente dal 2011, ma le sue radici risalgono a secoli di resistenza curda.

 Nel caos della Primavera araba, la popolazione curda del Rojava ha colto l’opportunità di liberarsi dall’oppressione.

 Questa non è solo una storia di cambiamenti geopolitici, ma anche una storia di studenti, giovani e donne che formano comunità per ridefinire la governance.

Tuttavia, gli innumerevoli eroi di questa rivoluzione sono sotto l’attacco incessante dell’Isis e dello Stato turco.

 Approfondendo la complessa vicenda della” lotta in Rojava”, scopriamo una storia di resilienza ideologica, di autodifesa comunitaria e di ricerca di un rinascimento democratico che si irradia ben oltre i confini della regione.

Le radici della rivoluzione in Rojava.

Dal 2011, la rivoluzione in “Rojava” ha dato nuova forma al Medio Oriente.

Quando la cosiddetta” Primavera araba” ha gettato la Siria nel caos, la popolazione curda, da sempre senza documenti, diritti di cittadinanza, e bersaglio di oppressione e sfruttamento, ha colto l’opportunità storica di liberarsi del regime siriano.

Questo aveva, per decenni, sfruttato la regione del nord-est, a maggioranza curda («Occidente», in curdo «Rojava»).

 La storia del popolo curdo, ricca di resistenza contro la secolare occupazione e assimilazione, insieme alle sue terre, di importanza geografica e strategica ai confini di imperi e potenze mutevoli, ha portato a ripetuti tentativi di usare o sottomettere il popolo curdo.

Numerose rivolte curde sono state represse, spesso con un enorme spargimento di sangue.

 Dalla fine della Prima guerra mondiale e dal Trattato di Losanna, il Kurdistan («terra dei curdi») è stato diviso in quattro parti, tra gli Stati nazionali di Turchia, Iraq, Iran e Siria.

 

Nel 2011, in molte città a maggioranza curda il regime è stato spodestato senza che venisse sparato un solo colpo.

 I rivoluzionari e le rivoluzionarie, per la maggior parte studenti, giovani e donne, hanno immediatamente iniziato a fondare comuni per stabilire una nuova forma di autogoverno.

Nel “Confederalismo Democratico”, le comuni sono le più piccole unità di organizzazione politica, in cui la società discute e prende decisioni sulla propria vita.

Esse sono il nucleo di una democrazia dal basso e radicale.

Mentre la rivoluzione in “Rojava”, in particolare l’eroica lotta contro l’ “Isis”, ha attirato l’attenzione internazionale, le radici del movimento rivoluzionario e la sua ideologia rimangono per lo più sconosciute all’esterno.

 

Un’alternativa agli Stati nazionali.

Il movimento che ha posto le basi per il processo rivoluzionario in “Rojava” è iniziato con un gruppo di studenti e giovani, tra i quali “Abdullah Ocalan”.

 Influenzato dalla sinistra turca e dalla Rivoluzione del 1968, “Ocalan” sviluppò una prospettiva di lotta di liberazione curda.

In una situazione in cui il popolo curdo affrontava il genocidio culturale, i rivoluzionari e le rivoluzionarie del Kurdistan, attorno a “Ocalan”, riuscirono a creare un movimento di massa nella società curda, precedentemente priva di speranza.

 Dopo aver formato un gruppo di base e aver sviluppato una linea e una pratica politica, fondarono il “Partito dei Lavoratori del Kurdistan” (Pkk).

La linea del partito, basata sul marxismo-leninismo, fu costantemente dibattuta e messa in discussione, soprattutto durante la caduta dell’Unione Sovietica.

 Ocalan sviluppò una critica radicale dello Stato, introducendo un nuovo paradigma chiamato “Confederalismo Democratico”, enfatizzando la democrazia radicale e dal basso, la liberazione delle donne, l’ecologia e la pluralità.

L’analisi di “Ocalan )sulle radici dello Stato, del potere e della violenza, con lo Stato come risultato della cospirazione degli uomini contro la millenaria società matriarcale, spiega l’attenzione alla” liberazione delle donne” come elemento essenziale per lo sviluppo di una società libera.

 

“Abdullah Ocalan” è stato rapito dallo Stato turco nel 1999 nell’ambito di una “cospirazione internazionale”, con il coinvolgimento diretto e indiretto di Stati uniti, Israele e vari Stati europei.

 Il suo impegno in “Kurdistan” e i suoi scritti, dopo l’incarcerazione in totale isolamento come unico detenuto nell’isola-prigione di “Imrali”, hanno gettato le basi per la sua idea di rivoluzione per il XXI secolo.

 

Dall’inizio degli anni Ottanta, il movimento non ha mai smesso di organizzare la società in “Rojava”.

L’organizzazione, inizialmente clandestina, composta soprattutto da studenti, è diventata poi la forza d’avanguardia nella fase iniziale della rivoluzione in “Rojava”.

Parlare con i giovani coinvolti fin dall’inizio dà un’idea dello slancio e dello spirito che, dall’interno dell’organizzazione, si è poi diffuso nel resto della società.

Mentre le prime proteste nel 2011 hanno attirato solo decine di persone, nel giro di poche settimane le manifestazioni sono cresciute fino a raggiungere masse di migliaia di persone.

Da allora, la rivoluzione e i popoli del “Rojava” hanno costantemente affrontato gli attacchi dell’Isis e dello Stato turco.

Nel frattempo, il “sistema del confederalismo democratico” è stato implementato in tutti gli ambiti della vita

. Sono state create comuni e cooperative economiche, e le donne hanno guidato verso un sistema di copresidenza nelle istituzioni.

Sebbene i rappresentanti dell’amministrazione autonoma ammettano che solo una piccola parte dei risultati desiderati è stata realizzata, gli sviluppi sono già impressionanti e offrono un’alternativa al capitalismo e agli Stati nazionali.

Oltre ai continui attacchi, che spesso prendono di mira specificamente coloro che lavorano per costruire il sistema alternativo, organizzando le comunità, creando cooperative e l’educazione scolastica, l’ostacolo principale è una mentalità plasmata da decenni di dominio statale.

 Il principale campo di lotta è il superamento di questa mentalità, e l’educazione della società, creando una società politica e morale capace di autogestirsi senza uno Stato.

 

Quest’anno è stato redatto un nuovo contratto sociale per la Siria nordorientale, che dimostra l’ambizione di cambiare radicalmente l’approccio in tutti gli aspetti della vita sociale, recuperando la società secondo principi umani universali.

Il raggiungimento di questo obiettivo richiede tempo, convinzione ed educazione.

Gli ostacoli più significativi allo sviluppo sono le costanti minacce e gli attacchi della Turchia.

 

Guerra ad alta e bassa intensità.

La Turchia ha già minacciato i mezzi di sostentamento di milioni di persone con massicci bombardamenti nell’ottobre e nel dicembre 2023, e lo scorso 13 gennaio lo Stato turco ha iniziato una nuova serie di attacchi aerei sul “Rojava/Daanes” (Amministrazione autonoma democratica della Siria settentrionale e orientale), dimostrando un nuovo livello di distruzione.

In quattro giorni lo Stato turco ha preso di mira oltre cinquanta località in tutto il “Rojava”.

Gli obiettivi attaccati sono di importanza cruciale per la regione e la sua popolazione

. Sono state prese di mira le infrastrutture elettriche e petrolifere, i posti di blocco “Asayish” (forze di sicurezza interne), fabbriche, silos di grano, depositi di cibo, strutture mediche, scuole e abitazioni civili.

Distruggendo le infrastrutture, lo Stato turco sta deliberatamente creando una catastrofe umanitaria.

Questi più recenti attacchi hanno anche causato il ferimento di sei civili, tra cui due bambini.

Dal 2019, lo Stato turco sta conducendo parallelamente contro il “Rojava “una guerra a bassa e alta intensità, con continue escalation con brutali attacchi aerei.

 Campagne di bombardamento su larga scala, come i recenti attacchi, mirano a distruggere i mezzi di sussistenza della popolazione, minando la possibilità di soddisfare i bisogni primari, come l’acqua e l’elettricità (riscaldamento, cucina).

 Inoltre, i possibili effetti psicologici che questa guerra può e potrà avere sulla popolazione sono di grande importanza.

 L’obiettivo è che la gente viva in costante paura e insicurezza.

Creando situazioni così dure e difficili per la popolazione, lo Stato turco cerca di costringere la popolazione ad abbandonare le proprie case.

L’obiettivo finale è destabilizzare l’intera regione e indebolire l’amministrazione autonoma e la rivoluzione in corso in “Rojava”.

Molti sono i motivi per cui lo Stato turco porta avanti questi continui attacchi.

Gli interessi economici nelle ricche risorse della regione (petrolio) sono un elemento trainante, tanto quanto la sua pretesa nazionalistica di dominare sul popolo curdo (e la sua lotta di liberazione).

 

I popoli del Rojava resistono.

Nonostante i recenti attacchi e le difficili circostanze che ne derivano, i popoli del Rojava si stanno organizzando, difendono le proprie terre e la rivoluzione

. L’autodifesa è una parte essenziale della società in Rojava, e delle sue fondamenta strutturali.

 Autodifesa non solo in senso militare, ma come pratica quotidiana di costruzione e rafforzamento della relazione della società con la politica, l’istruzione e la cultura.

La costruzione di comunità forti, che si organizzano e lavorano insieme, è intesa anche come autodifesa contro gli attacchi sia ideologici che militari.

 Una delle tante risposte alle sfide create dagli attacchi dello Stato turco è la creazione di un maggior numero di comuni e cooperative.

 Un esempio di come le persone si organizzano insieme per trovare soluzioni collettive è la formazione di nuove comuni.

Nella situazione attuale, per far fronte alla mancanza di elettricità e altri problemi causati dalla distruzione delle centrali elettriche, queste hanno l’obiettivo di organizzare collettivamente l’utilizzo di generatori o l’acquisto di pannelli solari.

La popolazione del “Rojava”, ben consapevole del piano dello Stato turco, organizza la propria resistenza di conseguenza.

Per proteggere una centrale elettrica (Suwaydiyah, la principale fonte di energia in nord-est Siria) appena fuori dalla città di “Derik”, centinaia di persone si sono radunate per giorni sul posto, organizzando manifestazioni e un’assemblea molto partecipate.

Le persone hanno cantato slogan, protestato, ballato, proteggendo allo stesso tempo la centrale elettrica con i propri corpi e le proprie vite.

Questo tipo di protesta è un impressionante esempio di autodifesa, e dello spirito di resistenza di una società rivoluzionaria.

Se osserviamo lo stato delle cosiddette democrazie a livello globale, nonostante la diffusa comprensione della distruttività del capitalismo le persone non sembrano avere alternative reali.

La partecipazione alle elezioni parlamentari è ai minimi storici e le alternative rappresentate dai partiti politici sono spesso la ragione stessa della situazione in cui ci troviamo oggi.

La sinistra radicale, soprattutto in Europa, si definisce per lo più contro i partiti e le correnti neofasciste, o contro la distruzione ecologica, senza però offrire un vero programma alternativo.

Gli sviluppi globali, il livello di distruzione ecologica, i femminicidi, il declino delle libertà, le guerre, le migrazioni di massa, lo sfruttamento, la degenerazione culturale e molti altri problemi sociali richiedono risposte olistiche e radicali, nel senso di risolvere i problemi alla radice.

Allargando lo sguardo al Medio Oriente in generale, il confederalismo democratico è una proposta politica che potrebbe stabilire una coesistenza e una cooperazione pacifica tra i popoli della regione.

 Il genocidio di Israele in Palestina ha recentemente dimostrato quanto la regione abbia bisogno di una soluzione reale.

Gli approcci attuali, da parte dello Stato israeliano e di Hamas, non porteranno a una situazione di pace e sicurezza, né per la popolazione ebraica né per quella araba.

In un’epoca in cui la sopravvivenza dell’umanità dipende da un cambiamento radicale, non solo nel sistema economico e politico, ma anche nella mentalità degli individui, la rivoluzione in “Rojava” può essere l’inizio di una rinascita democratica non solo per il Medio Oriente, ma per l’umanità in generale.

(Maria Cortez e Johann Spies fanno parte della Comune Internazionalista del Rojava, sono attivi in progetti ecologici, come riforestazione, progetti con giovani e donne, come le cooperative agricole. I membri della Comune seguono anche il lavoro di informazione ed educazione.)

 

 

 

 

LO STATO DELLA DEMOCRAZIA INDIANA.

 

Iari.Site.it - Simone Frusciante – (27 Giugno 2023)

(foreignaffairs.com/articles/india/2021-03-18/decay-indian-democracy)

Negli ultimi decenni, l’India è stata sempre più spesso soprannominata “la più grande democrazia del mondo”.

Ma è davvero così?

I dodici mesi del 2023 saranno cruciali per l’immagine internazionale dell’India, che quest’anno detiene la presidenza del G20, l’organismo che riunisce le 20 maggiori economie del mondo.

Proprio in vista di quest’importante appuntamento, la leadership politica indiana, incluso lo stesso Primo Ministro “Narendra Modi”, ha ormai da tempo avviato una campagna basata su una retorica tesa a rafforzare lo status democratico del paese, tanto a livello interno quanto all’estero, arrivando a definire l’India come “la madre delle democrazie”.

 

In realtà, un meeting in materia di turismo organizzato proprio in occasione della presidenza del G20 sembra aver esposto la debolezza di questa narrativa.

L’evento, svoltosi a “Srinagar”, capitale dello stato del “Jammu e Kashmir,” è diventato oggetto di una controversia internazionale, con la Cina e altri paesi che hanno boicottato la riunione, giudicando inadeguata la scelta di tenere un incontro internazionale in un territorio oggetto di disputa.

La regione del Kashmir, infatti, sin dal 1947 è contesa tra India, Pakistan e (in parte) Cina.

 

Ad attrarre l’attenzione sono state anche le pesanti misure di sicurezza adottate dal governo indiano, il quale è stato accusato di aver condotto una dura repressione del dissenso.

 Dopo il provvedimento con cui il 5 agosto 2019 l’amministrazione Modi ha revocato l’autonomia dello Jammu e Kashmir, Stato a maggioranza musulmana, ponendola sotto il proprio diretto controllo, i critici hanno ritenuto il governo responsabile dell’introduzione di ingenti restrizioni alla libertà di stampa e di espressione, nonché al diritto di informarsi e manifestare, attraverso una rigida censura dei media, l’imposizione di ricorrenti interruzioni della connessione a internet e l’arresto di esponenti politici dell’opposizione, giornalisti e attivisti per i diritti umani.

 

La minaccia alla libertà di stampa sembra riguardare l’intero paese, come dimostrato dalla posizione dell’India nella classifica stilata da “Reporters Without Borders”, in cui si colloca attualmente al 161° posto su 180.

 Si nota un netto peggioramento rispetto allo scorso anno, quando il paese occupava il 150° posto (il dato è in costante diminuzione dal 2014, quando Narendra Modi fu eletto per la prima volta);

desta anche particolare impressione se si considera che Nuova Delhi ha ottenuto un risultato peggiore di paesi quali Pakistan, Afghanistan (sotto il regime talebano), Bielorussia, Nicaragua e Venezuela, tutti paesi considerati regimi fortemente autoritari.

 

A sua volta, il “deterioramento della libertà di stampa” è un sintomo di un più ampio indebolimento della democrazia indiana, come segnalato dall’organizzazione “Freedom House”, che dal 2021 ha definito l’India uno Stato “parzialmente libero”.

 Nel report del 2023, in cui il paese ha ottenuto un punteggio di 66 su 100, tra i principali punti critici sollevati sono stati evidenziati:

 la scarsa libertà e indipendenza dei media;

l’impossibilità per le minoranze religiose di professare liberamente il proprio culto;

 il mancato riconoscimento di diritti civili a determinate fasce della popolazione;

la presenza di un diffuso grado di indottrinamento politico nel sistema educativo;

crescenti limiti all’autonomia della magistratura. 

 

In merito al primo punto, la succitata censura alla libertà di stampa si esplica anche attraverso le pressioni esercitate sui media del paese che, ormai, sono considerati dai critici una cassa di risonanza della propaganda governativa.

Negli ultimi anni, inoltre, sono emersi legami di esponenti del governo con uomini di affari, personalità del mondo dei media o proprietari dei media stessi.

 La presenza di tali legami mina la credibilità dei media agli occhi dei cittadini, che trovano difficile avere accesso a fonti di informazione affidabili e imparziali.

Si moltiplicano, infine, i procedimenti giudiziari e gli attacchi fisici nei confronti dei giornalisti.

 

Uno dei punti più sensibili riguarda i limiti alla libertà di culto che colpiscono le minoranze religiose, in particolar modo i musulmani, ma anche cristiani e sikh.

Ciò rientra nella politica di “suprematismo indù “portata avanti dal governo di “Narendra Modi” sin dal suo insediamento, basata sull’ideologia dell’ “Hindutva”, il cui scopo è garantire maggiori diritti alla maggioranza indù rispetto alle confessioni religiose minoritarie.

 Gli attacchi contro i musulmani, spinti anche dalla retorica di molti media e organizzazioni nazionaliste come il “RSS”, sono aumentati notevolmente negli ultimi anni, soprattutto in relazione al consumo di carne bovina, severamente proibito dall’induismo, o ad altre pratiche vietate da quest’ultimo.

 Inoltre, il governo si è battuto contro le “conversioni forzate”, accusando molti musulmani di costringere persone appartenenti ad altre fedi a convertirsi all’Islam.

 

Venendo al terzo punto sollevato, sebbene la costituzione indiana bandisca formalmente qualsiasi discriminazione basata sulla casta, questo fenomeno è ancora molto diffuso.

Persone appartenenti alle classi sociali più vulnerabili subiscono ripetuti attacchi, con il sistema giudiziario che non riesce a far rispettare la giustizia in modo adeguato.

Si registra anche un’insufficiente risposta nei confronti delle violazioni dei diritti delle donne e della comunità LGBTQ+.

Risulta difficile, infine, la condizione di determinate categorie di immigrati, resa tale dall’emanazione nel 2019 del controverso “Citizenship Amendment Act” (CAA), che permette solo agli immigrati non musulmani provenienti dai paesi vicini all’India di ottenere la cittadinanza più velocemente.

Tale misura, che ha suscitato forti proteste, viene considerata un’ennesima discriminazione nei confronti dei musulmani.

 

Anche nel sistema educativo indiano si è affermato negli ultimi anni un crescente indottrinamento politico, evidente nei programmi scolastici e universitari approvati dal governo indiano, che cercano di cancellare qualsiasi traccia storica che non sia conveniente per l’attuale amministrazione.

 L’azione revisionista ha riguardato in special modo la cancellazione del periodo di dominazione islamica dell’ “Impero Mughal” sull’India, che appare contrario al proposito del governo Modi di descrivere l’India come uno Stato da sempre puramente indù.

Nelle università, inoltre, si afferma la presenza di organizzazioni nazionaliste come il “RSS”, con ripetute minacce e attacchi contro studenti e docenti di orientamento politico differente.

 

Un altro punto che desta particolare preoccupazione è la crescente dipendenza della magistratura, che dovrebbe essere formalmente indipendente, dalla politica.

Negli ultimi anni, numerose sentenze, fino ai livelli più alti della Corte Suprema, sono state favorevoli al partito di Modi, il BJP, anche nei casi più controversi, come quello riguardante la costruzione di un tempio indù ad “Ayodhya”, nel sito sul quale sorgeva una moschea distrutta nel 1992 dalle forze nazionaliste di destra.

 La magistratura, sulla cui selezione il governo sembra avere un peso eccessivo, appare esageratamente politicizzata e, a detta dei critici, viene utilizzata dal governo per colpire gli oppositori.

 

L’ultimo esempio è rappresentato dalla sentenza emessa da una corte dello stato del Gujarat (di cui è originario Modi), che ha condannato “Rahul Gandhi”, volto di punta del partito del Congresso, il principale partito di opposizione, a due anni di reclusione con l’accusa di diffamazione nei confronti del Primo Ministro, proprio il periodo di tempo sufficiente, secondo la legge indiana, a provocare la sua espulsione dal Parlamento e, potenzialmente, ad escluderlo dalle prossime elezioni politiche.

 Mentre il “BJP “ha celebrato questa sentenza come un trionfo della giustizia, il Congresso, gli altri partiti di opposizione e parte dell’opinione pubblica hanno invece denunciato l’accaduto come l’ennesimo tentativo dell’attuale amministrazione di mettere da parte gli avversari, servendosi della magistratura per i propri scopi politici.

 

Lo scontro tra il “BJP” e il “Congresso” in merito alla sentenza evidenzia un altro problema che attanaglia la politica indiana, ossia la crescente polarizzazione tra la maggioranza di governo e l’opposizione.

Un altro round del suddetto scontro si è svolto lo scorso 28 maggio, in occasione dell’inaugurazione, da parte di Modi, dell’edificio che ospita il nuovo Parlamento .

 L’evento è stato boicottato da 19 partiti dell’opposizione, incluso il Congresso, i quali hanno accusato il Primo Ministro di aver emarginato e scavalcato la “Presidente Droupadi Murmu”, che, in quanto supremo rappresentante della “Costituzione indiana”, avrebbe dovuto presiedere.

Secondo l’opposizione, invece, scegliendo di presiedervi egli stesso, “Modi” ha realizzato la propria cerimonia di “incoronazione” piuttosto che l’inaugurazione del simbolo della democrazia indiana.

 

Lo scontro, invero, ha coinvolto la scelta stessa di realizzare un nuovo Parlamento.

La costruzione dell’edificio, iniziata nel 2020, è proseguita anche durante le fasi più dure della pandemia di Covid-19 in India, provocando le risolute proteste dell’opposizione, che ha sempre giudicato l’edificio uno spreco di denaro pubblico e la dimostrazione della vanità del Primo Ministro Modi.

 Quest’ultimo, dal canto suo, ha al contrario ritenuto il nuovo Parlamento indispensabile allo scopo di simboleggiare concretamente la nuova posizione di forza dell’India sullo scenario internazionale.

Il “BJP” ha bollato il boicottaggio dell’inaugurazione da parte dell’opposizione come una “mancanza di rispetto per la democrazia”.

 

Nell’attuale scenario, si prevede che la polarizzazione politica proseguirà nei mesi a venire, in cui Nuova Delhi sarà sotto i riflettori mondiali in quanto presidente di turno del G20, possibilmente aumentando di intensità.

Tutto questo alla vigilia delle elezioni politiche previste per il prossimo anno, alle quali “Modi” punta a ottenere il suo terzo mandato consecutivo, mentre il “Congresso”, che sta cercando di creare un fronte anti-BJP con gli altri partiti di opposizione, mira a ritornare al potere dopo un decennio.

C’è la possibilità che le elezioni del 2024 diventino un vero e proprio referendum sul futuro della democrazia in India

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