Morire per la patria o per Woke?
Morire per la patria o per Woke?
Vi
racconto il mondo visto
dalla
più grande base
navale
americana.
Corriere.it
– (2 dicembre 2023) - Federico Rampini – ci dice:
Da
Norfolk, Virginia, uno sguardo sulla precaria egemonia degli Stati Uniti.
Vi
racconto il mondo visto dalla più grande base navale americana.
Questa
newsletter la scrivo da un osservatorio speciale.
Per
due giorni sono stato invitato dal “Dipartimento di Stato” a visitare la più
grande base navale del mondo:
a
Norfolk, Virginia, ospita la “Second Fleet” ovvero la flotta atlantica della US
Navy ed è anche l’unica base Nato sul territorio Usa.
«Alimenta»
di navi anche tutte le altre flotte Usa dispiegate nel mondo, dall’Asia al
Mediterraneo.
Ho
fatto un viaggio molto esclusivo nel cuore del dispositivo militare americano,
incontrandone i capi operativi:
dagli ammiragli fino ai sommergibilisti
(uomini e donne).
Tra le
tante «macchine della prevenzione e dissuasione» ho visitato la portaerei
nucleare “USS George Washington” che presto partirà in missione nel Pacifico,
con un dichiarato ruolo deterrente verso la Cina mentre si avvicinano le
elezioni a Taiwan.
In una
fase in cui l’America è già mobilitata su due guerre calde (Ucraina e Israele),
questa visita e i colloqui che ho avuto qui sono un’occasione per riflettere
sullo stato della potenza americana e sui suoi limiti.
Tra i
temi:
la continua latitanza degli europei che non
mantengono gli impegni di adeguamento delle spese militari e agevolano la
rimonta di Putin in Ucraina;
le
incognite sull’efficacia futura di “dinosauri” come le mega-portaerei, in
un’era in cui altri puntano su tecnologie ultraleggere come i droni, poco
costosi e in grado di infliggere danni micidiali ai pachidermi dei mari;
il
sorpasso della Cina che per numero totale di navi da guerra è ormai in testa.
Raccontandovi
il mondo di oggi visto dalla mega-base di Norfolk, vi trasmetto anche alcuni
dubbi che assediano questa America sulla tenuta della sua leadership.
Lascio sullo sfondo per ora la questione del
consenso interno sul ruolo globale degli Stati Uniti, che sarà messo alla prova
nella campagna elettorale del 2024.
Privilegio
alcuni problemi di fondo, strutturali e di lungo periodo, che riguardano il
cosiddetto “over-stretching”, il rischio di iper-dilatazione degli impegni
imperiali, un tema che in passato contribuì al declino di altre superpotenze
marittime, per esempio la Gran Bretagna.
La
massima concentrazione mondiale di portaerei.
Norfolk
in Virginia è a 312 km a Sud della capitale federale, tre ore di autostrada da
Washington;
io ci
sono arrivato in aereo (un’ora di volo) da New York.
È una
vera città, con 238.000 abitanti, ha anche una fiorente economia legata alle
attività del porto mercantile;
ma il
grosso del suo sviluppo dipende dalla base militare, porto strategico della
U.S. Navy e non solo:
è
anche una base aerea, elicotteristica, una sede “Nato” dove si alternano
militari da tutti i paesi alleati, un centro industriale di cantieristica e
manutenzione per navi e sottomarini, un polo accademico per la formazione in
tutte queste attività e altre ancora (spazio, cyber-sicurezza, intelligenza
artificiale, elettronica).
I vertici militari che ho incontrato spesso si
riferiscono a Norfolk come a un “campus”, per l’analogia con certe città
universitarie che ruotano attorno a politecnici, policlinici, con integrazione
stretta fra ricerca, innovazione, produzione.
È anche una città “operaia”, sempre per la
stessa ragione.
Quando
alle otto del mattino ho assistito all’alzabandiera sul ponte della portaerei
nucleare “USS George Washington”, ero già a bordo da un’ora e molto prima del
mio arrivo la portaerei brulicava di attività, un viavai di tecnici e
maestranze dentro il suo ventre gigantesco, quello che può trasportare fino a
un centinaio di velivoli da combattimento:
più
che una nave sembra una città o una mega-fabbrica.
Quando
parte in missione trasporta 2.700 marinai più una quota di personale tecnico a
inquadramento civile.
Ha
quindi alcune esigenze simili a una grossa nave crociera, per esempio la
necessità di trasportare in stiva scorte di cibo, medicinali;
la sua area cucina-mensa è a sua volta una
“fabbrica” di pasti a ripetizione.
Per altri versi le differenze da una
nave-crociera sono abissali.
Marinaie e marinai a bordo sono dei
professionisti che hanno firmato un contratto di carriera militare per almeno
quattro anni rinnovabili;
un
contratto nel quale “morire per la patria” è un’eventualità prevista, fa parte
delle incognite di questo tipo di viaggi.
Nella
sala mensa della “USS George Washington”, come su ogni nave militare americana,
c’è sempre un tavolo singolo apparecchiato e imbandito con la divisa e le
insegne di una militare o un militare “MIA”, “Missing In Action”:
un
omaggio permanente ai compagni scomparsi nel corso delle missioni in mare.
Tra le
altre differenze rispetto alle normali navi passeggeri c’è lo spazio in stiva
dedicato agli armamenti:
il ventre della balena, l’immenso hangar
centrale della “USS George Washington”, ha gru industriali capaci di caricare
aerei al ritmo di uno ogni due minuti (sembra incredibile, mi sono fatto
ripetere più volte questa velocità).
Altri
macchinari poderosi devono operare le “molle” o catapulte che scaraventano in
aria i cacciabombardieri.
Per
quanto a un piccolo essere umano il ponte della portaerei sembri gigantesco, in
realtà la pista è troppo corta per decolli e atterraggi, che quindi hanno
bisogno di un braccio meccanico per raggiungere la velocità e potenza di spinta
richiesta.
Infine,
ricordo il significato di “nucleare”.
A prescindere se abbia in dotazione a bordo
anche delle armi atomiche (tema sul quale vige la massima discrezione), di
sicuro è nucleare la propulsione.
Questo
significa che la “USS George Washington” come molte altre portaerei americane e
la totalità dei sommergibili Usa, ha un’autonomia di carburante illimitata; se
deve fare scalo non è mai per rifornirsi di energia.
Deterrenza
navale e «Pax Americana»: esempi concreti.
Il suo
prossimo viaggio la porterà a circumnavigare tutto il Sudamerica fino al Capo
Horn, raggiungere la “West Coast” per uno scalo al porto militare di San Diego
in California, infine da lì partire per il Giappone.
È un
viaggio molto lungo che illustra la vocazione degli Stati Uniti ad essere una
potenza del Pacifico (lo è dall’Ottocento), e le difficoltà tecniche e
logistiche che questo comporta dati gli immensi spazi da coprire.
L’ammiraglio “Daryl Caudle”, capo supremo di
tutte le flotte, mi ricorda questo dato geografico usando un’immagine semplice:
“Dalla nostra “West Coast” per arrivare solo
fino al porto militare di Pearl Harbor nelle Hawaii, c’è di mezzo l’equivalente
dell’intero Oceano Atlantico.
Poi
dalle Hawaii per arrivare fino alla nostra base navale sull’isola di Guam c’è
un altro Atlantico.
Da lì
al Giappone, un terzo Atlantico”.
La
missione della “USS George Washington” nei mari della Cina è un caso esemplare
per illustrare il ruolo storico delle portaerei americane, e delle loro flotte
di supporto e accompagnamento:
quello
che la dottrina militare Usa definisce “forward deployment” o dis”piegamento
avanzato, con funzioni di deterrenza.
La USS George Washington” si troverà nel
teatro dell’Indo-Pacifico dopo il risultato dell’elezione presidenziale a
Taiwan, in un periodo in cui la Cina potrebbe rilanciare le sue azioni
aggressive nei mari circostanti.
Le
flotte Usa, con gli armamenti di cui dispongono e in particolare i jet militari
e i missili che trasportano, hanno sempre avuto una funzione diplomatica e
geopolitica prima ancora che bellica:
segnalare una presenza statunitense a difesa
degli alleati e come deterrente per dissuadere le potenze ostili dalle
aggressioni.
Il leader politico che fu all’origine della
costruzione della potenza navale americana – successivamente destinata a
sostituire quella inglese – fu il presidente “Theodore Roosevelt” all’inizio
del Novecento, lo stesso che amava definire la politica estera degli Stati
Uniti con il motto “parlare dolcemente, impugnando un grosso bastone”.
La portaerei è il bastone per eccellenza, ha
il vantaggio di trasportare con sé un’intera base aeronavale mobile,
raggiungendo anche quelle zone del pianeta in cui l’America non ha basi
militari fisse, terrestri.
Ma
quanto è ancora efficace questo “grosso bastone”, la potenza marittima su cui
questa nazione ha costruito il suo impero globale e una controversa (o fragile)
Pax Americana?
Deterrenza
dal mare contro Hezbollah e Iran nel Mediterraneo.
L’impressione
fisica di potenza è soverchiante a Noforlk.
Visitare
una sola portaerei è già uno spettacolo, osservarle in gruppo è uno shock.
In vita mia non avevo mai visto così tante
portaerei riunite, e per forza: c’è un solo luogo sul pianeta dove questo è
possibile.
Di
americane ce ne sono undici al mondo, di queste cinque o sei sono quasi sempre
ormeggiate sui moli di Norfolk.
In
questo momento ne ho viste cinque, affiancate da una sesta consorella in
visita, una portaerei alleata che batte bandiera britannica.
Norfolk
non è una vetrina dove farsi ammirare dai visitatori (in realtà pochissimi
viste le severe restrizioni di accesso).
È un
cantiere.
La “USS
George Washington” vi ha trascorso gli ultimi sei anni della sua vita per
lavori di manutenzione e ammodernamento.
È una
portaerei che ha 37 anni di vita, il suo primo varo risale al 1986.
È stata ferma per quello che si può definire
un “tagliando” di metà esistenza:
si
prevede che dopo questa manutenzione possa servire per altri 25 anni.
Una
sosta di sei anni – che ovviamente l’ha “rivoltata come un calzino”,
adeguandola alle tecnologie di ultima generazione – dà l’idea del costo fisso
di questo pachiderma, del gigantesco investimento iniziale a cui seguono tanti
investimenti successivi.
Immaginarsi
una fabbrica, o una centrale elettrica, bloccata per sei anni: quanto costa
all’impresa che la gestisce.
Certo
il ruolo deterrente di queste macchine da guerra è una realtà.
Lo si
è visto negli ultimi due mesi, dopo l’attacco di “Hamas” del 7 ottobre, quando
l’”Amministrazione Biden” ha temuto che il conflitto potesse allargarsi su più
fronti con l’intervento di Hezbollah contro Israele, forse addirittura
dell’Iran.
Per
prevenire questo rischio la Casa Bianca e il Pentagono hanno deciso di
posizionare ben due flotte o squadroni nel Mediterraneo orientale e al largo
delle coste del Libano là dove si concentra la massima potenza di fuoco degli
Hezbollah.
Traduco
liberamente con “flotta” o “squadrone” il termine “Strike Group”, che indica un
insieme di navi militari con al suo centro una portaerei come ammiraglia.
Le due portaerei ammiraglie in questione sono
la “Dwight Eisenhower” e la “Gerald Ford”.
Da anni non si verificava un simile
dispiegamento di forze navali americane nel Mediterraneo orientale.
In
apparenza, e fino a prova contraria, la mossa sembra avere dato i suoi frutti:
per
adesso gli Hezbollah non hanno aperto un secondo fronte di guerra contro
Israele, né l’Iran ha aperto un terzo fronte.
Va
aggiunto che nel bilancio geopolitico di questo dispiegamento rientra la
pressione con cui “Biden” ha indotto “Benjamin Netanyahu” a concedere tregue
per la liberazione di ostaggi.
Anche Israele deve pagare un pedaggio al ruolo
delle flotte Usa che lo aiutano a contenere i nemici.
Questa
è la deterrenza americana, finché funziona, e la superiorità navale vi gioca un
ruolo dominante.
Da
questo punto, di vista, il mondo visto da Norfolk è ancora segnato da una
capacità d’intervento degli Stati Uniti che nessun’altra nazione riesce a
replicare, non su questa scala.
Per ora.
L’Europa
debole che aiuta Putin.
Però
l’auto-compiacimento non si addice all’America del 2023.
Le ragioni d’inquietudine abbondano. Ne elenco
alcune.
Qui a
Norfolk ho incontrato diversi generali o alti ufficiali di altri paesi della
Nato:
per la
precisione Canada, Regno Unito, Germania, Francia, Danimarca, Polonia. (Solo
per caso non c’erano italiani nelle riunioni a cui ho partecipato in quelle 48
ore, ma in una data diversa avrei potuto incontrarne).
Un fantasma si aggirava nei nostri colloqui,
evocato con imbarazzo o ignorato diplomaticamente.
È la
persistente latitanza di molti alleati Nato, che disattendono gli impegni presi
per adeguare l’alleanza alle nuove sfide imposte da potenze ostili come Russia,
Iran, Cina.
Almeno
sette nazioni della Nato non arrivano a spendere per la difesa neppure il 2%
del Pil.
Italia e Germania sono fra queste.
Quel
2% fu accettato unanimemente fin dai tempi di “Barack Obama,” molto prima
dell’invasione dell’Ucraina.
E
doveva essere un minimo, non un tetto.
Lo
shock dell’aggressione russa il 24 febbraio 2022 ha provocato una serie di
dichiarazioni promettenti, da Berlino a Roma e in altre capitali:
è
seguito poco nei fatti.
Lo
stesso si può dire in altri settori:
dal
potenziamento delle capacità industriali (ridotte ai minimi dopo la fine della
prima guerra fredda), alla omogeneizzazione e standardizzazione delle armi e
tecnologie belliche in uso nei diversi paesi europei.
Tutto
procede a rilento, o non procede affatto.
In Germania almeno il governo viene criticato
per la sua paralisi su questo terreno, in Italia è silenzio.
I
risultati si vedono, per esempio sul terreno in Ucraina.
L’Unione
europea aveva promesso dal marzo scorso un milione di munizioni da artiglieria.
Non le
ha mai fornite.
Invece ne ha già fornite altrettante la Corea
del Nord alla Russia.
Che un piccolo paese sull’orlo della carestia
come la Corea del Nord riesca a produrre più munizioni e più velocemente di un
gigante ricco come l’Unione europea, dà l’idea dello stato di disarmo in cui il
Vecchio continente si trova.
Perfino
gli Stati Uniti hanno un’industria bellica sottodimensionata e un altro dato lo
conferma:
la
Russia di Putin, con un’economia che a volte immaginiamo in bancarotta, sta
fabbricando munizioni nelle sue aziende in quantità sette volte superiori alla
produzione dell’intero Occidente.
Certo un autocrate può imporre sacrifici
sovrumani alla sua popolazione e così dirottare la massima parte delle capacità
produttive nazionali verso un’economia di guerra.
Noi
occidentali non abbiamo cambiato quasi nulla delle nostre abitudini e priorità;
stiamo
facendo finta di appoggiare l’Ucraina, purché questo significhi zero sacrifici.
A
Norfolk la schiera di ammiragli e generali che ho ascoltato ha appreso fin
troppo bene una regola sacra delle democrazie: i militari non devono fare
politica.
Di
conseguenza sono tutti dei maestri di diplomazia, se parlano delle nazioni
alleate è solo per elogiarne il contributo prezioso e decisivo, mai per
lamentarne i ritardi, le inadempienze.
La
realtà esterna, lo stato delle nostre opinioni pubbliche pacifiste, è
“l’elefante nella stanza”, di cui tutti avvertiamo la presenza ma che abbiamo
deciso di ignorare.
Perché
non sappiamo come trattarlo.
Portaerei-pachidermi
contro droni ultraleggeri.
Un
altro tema che cinge d’assedio la cittadella militare di Norfolk è l’evoluzione
tecnologica.
Anche
questo è un mezzo tabù.
Fuori da qui, nei think tank di Washington e
New York, ferve da anni il dibattito sull’obsolescenza del paradigma strategico
americano.
Le
portaerei sono il simbolo più enorme e appariscente di un problema che si
chiama “legacy”, cioè letteralmente eredità.
Il
Pentagono eredita decenni di investimenti che hanno costruito il dispositivo
militare così come lo vediamo.
Ha avuto delle evoluzioni, ha abbracciato
tante tecnologie nuove.
Però al suo centro ci sono ancora dei
pachidermi industriali come le portaerei.
Ma se
l’Iran decidesse di “andare a vedere” l’effettiva forza del Golia americano?
Se una
delle portaerei americane nel Mediterraneo orientale venisse presa d’assalto da
sciami di migliaia e migliaia di minuscoli droni? Oppure, se la Cina decidesse
di invadere Taiwan e con tecnologie nuove riuscisse ad affondare una portaerei
Usa accorsa in difesa dell’isola?
La portaerei, con i cacciabombardieri che
trasporta, con le batterie missilistiche sul ponte (possibilmente dotate anche
di testate nucleari), con le navi di scorta e i sottomarini, è ancora una
macchina formidabile. Ma è anche un magnifico bersaglio, di enorme appetibilità
per il suo valore simbolico oltre che patrimoniale.
È
invincibile?
O
siamo entrati in un’era di guerre asimmetriche dove potenze minori possono
superare il divario rispetto agli Stati Uniti puntando su armamenti leggeri,
flessibili, spesso robotizzati, infinitamente meno costosi?
In fondo la stessa mattanza di civili ebrei
lanciata da Hamas il 7 ottobre, cogliendo impreparate le forze armate
israeliane che abbiamo sempre considerato come un modello di efficienza e
modernità, ha suonato un campanello d’allarme a Washington sui rischi di
sottovalutare i “piccoli” nemici.
Poi
esiste un grande nemico come la Cina, capace di insidiare il primato americano
sia dall’alto sia dal basso.
La Cina possiede il 50% dell’industria
cantieristica mondiale, e questo l’ha aiutata in un sorpasso clamoroso: da un
paio d’anni ha più navi militari degli Stati Uniti.
(Vari
ammiragli che incontro a Norfolk trasudano fiducia sulla superiorità
tecnologica delle loro flotte, nonché del personale militare a bordo; non so
quanto siano da prendere alla lettera le loro rassicurazioni sulla “qualità”
americana contro la “quantità” cinese).
Al
tempo stesso la Cina investe in armi flessibili e leggere, cyber-guerra,
missili ipersonici, reti satellitari, e ogni sorta di arsenali asimmetrici.
La
stessa Russia rimane un avversario temibile, verso il quale l’attenzione non si
attenua neanche nel settore navale:
a
Norfolk gli ammiragli parlano della “persistente capacità russa di costruire
sottomarini di livello mondiale, con missili balistici”. Dall’Atlantico ai mari
del Nord, dal Baltico all’Artico al Pacifico, la contesa per il controllo dei
mari vede sempre i cinesi e i russi incalzare gli americani.
Modello
Musk: che cosa cambierebbe per il mondo militare.
Il
dibattito filosofico-strategico sulle tipologie di armamenti, procede in
parallelo con un altro.
È
quello sul modello economico che governa i rapporti tra lo Stato e l’industria
bellica, ovvero il complesso militar-industriale.
Tradizionalmente
il Pentagono ha curato rapporti di lungo periodo con i suoi grandi fornitori:
Lockheed-Martin,
Rtx-Raytheon, Northrop Grumman, Boeing, General Dynamics.
Il
numero di questi fornitori si è assottigliato, perché anche l’America si è
illusa di poter procedere a un disarmo dopo la fine dell’Unione sovietica.
Quelli
che sono rimasti però godono di rapporti privilegiati, fatti di contratti di
lungo periodo, situazioni di monopolio o di oligopolio, prezzi di forniture
elevati con cui lo Stato li compensa per la loro affidabilità nel lungo
termine.
Questa
è una formula stabile, non necessariamente foriera d’innovazione.
Il
ruolo di questi giganti semi-monopolisti tende ad accentuare il peso del
fattore “legacy”, a perpetuare tipologie di armamenti del passato anche quando
potrebbero essere diventate anacronistiche.
Un
modello molto diverso è ben rappresentato da un personaggio come “Elon Musk”,
che con la sua “Space-X “si è conquistato un ruolo di fornitore della Nasa per molti
programmi spaziali.
Musk ha anche un peso in alcuni teatri di
guerra come Ucraina e Israele, con la sua rete satellitare “Starlink”.
Musk è un genio dell’innovazione, segnato dal
modello della Silicon Valley: all’opposto della mentalità “legacy”, ha un
approccio eversivo, dirompente e rivoluzionario alle attività industriali.
Non guarda in faccia a nessuno, licenzia
manodopera se necessario, spreme al massimo i suoi collaboratori, fa
cambiamenti improvvisi di strategie se pensa di aver sbagliato, abbraccia
flessibilità e imprevedibilità all’ennesima potenza.
“Space-X”
con i suoi vettori di lancio fa risparmiare un sacco di soldi alla Nasa.
Ma è
un partner di lungo periodo, sposato a vita, come Lockheed o Boeing?
E
quali riflessi avrebbe la vittoria del modello” Musk”, in un luogo come la
città di Norfolk?
Questa
città-campus-base militare offre ai suoi residenti un modello di vita.
Le famiglie di militari qui hanno alloggio,
scuole e università per i figli, centri commerciali dedicati al personale
militare, banche e assicurazioni specializzate in questa clientela in divisa,
ospedali per reduci e veterani.
Più le
chiese, ovviamente.
È un
universo autosufficiente, stabile, fondato su un sistema di valori e
disciplina.
Può
ricordare alcune forme di “capitalismo illuminato e progressista” che si
occupano dei bisogni dei dipendenti dal reparto maternità fino alle spese di
funerale.
Tutto
questo è agli antipodi rispetto all’America di “Musk”:
velocissima,
instabile, precaria, sempre intenta a saltare da una rivoluzione tecnologica
all’altra.
Può il
Pentagono cambiare pelle emulando la Silicon Valley, mentre ancora chiede a
tanti dei suoi dipendenti una “fedeltà a vita, e fino alla morte”?
Chi
fra noi è ancora disposto a combattere? I giovani?
Questo
conduce all’ultimo tema che voglio segnalarvi da Norfolk:
il
reclutamento di esseri umani disposti a lavorare per proteggerci da aggressioni
nemiche.
La
questione si pone all’ennesima potenza nella vecchia Europa.
Quando
discuto con un generale tedesco sui gravissimi ritardi del governo di Berlino
nell’aumentare gli investimenti per la difesa, il generale annuisce.
Riconosce che il problema è serio. Ma non c’è
solo quello.
Non è solo questione di soldi.
Anche
ammesso che i soldi alla fine arrivino, mi dice, “chi mi assicura che quei
miliardi mi forniscano anche le diecimila nuove reclute di cui ho bisogno?”
Viviamo, noi occidentali, in un mondo immerso
nella retorica pacifista. L’idea di rischiare la propria vita per difendere
un’entità astratta come “la nazione”, ha perso ogni appeal, in particolare
nelle nuove generazioni.
In fondo anche dietro i cortei pro-Hamas,
dietro l’indottrinamento sistematico che spinge i giovani a tifare per
qualsiasi nemico dell’Occidente, affiora (inconscio o consapevole) il rifiuto
di combattere.
Se la
nostra civiltà è presa d’assalto, la resa incondizionata è l’unica opzione.
Tanto
vale legittimare questo stato d’animo decidendo che le civiltà altrui sono
superiori alla nostra.
Il
problema esiste anche qui negli Stati Uniti.
Uno
dei massimi capi militari che incontro mi dice che “il nostro bacino di
reclutamento si riduce all’un per cento della popolazione nazionale”.
Per
innumerevoli motivi, demografici o sanitari, il Pentagono sa di poter andare a
pescare solo dentro quel campione minuscolo.
L’un
per cento della popolazione americana sono pur sempre tre milioni e mezzo di
persone, molto più di quanto le forze armate vogliano assumere ogni anno (la
sola U.S. Navy si accontenterebbe di assumere tra venticinquemila e trentamila
nuovi addetti all’anno).
Ma
quell’un per cento è un numero potenziale, virtuale, che dice quanti americani
sarebbero “adatti a indossare l’uniforme” sotto il profilo generazionale e
fisico; non dice affatto se siano disponibili.
Anche
in America, ammette l’ammiraglio capo, “la competizione sul mercato del lavoro
con il settore privato è dura”.
Un
giovane genio delle tecnologie digitali, esiterebbe a lungo tra un’assunzione
da Google e una dal Pentagono?
Google,
oltre a pagarlo probabilmente di più, riesce a convincerlo di essere un’azienda
“buona, etica e virtuosa, ambientalista e progressista, che vuole salvare il
pianeta”.
Le forze armate offrono allo stesso giovane di
salvare l’America e la libertà dei suoi alleati.
Nel
clima ideologico delle nuove generazioni, la seconda offerta è generalmente
disprezzata, la prima osannata.
Da
questo punto di vista, a Norfolk ho rivalutato un aspetto del “politicamente
corretto” o della “woke culture” ormai intrufolati nelle forze armate.
È
impressionante trovare ovunque dei manifesti contro le molestie sessuali, o sui
pari diritti e dignità delle minoranze etniche o Lgbtq+.
Il
Pentagono ha ormai uffici specializzati in questo genere di protezioni e
tutele.
La
destra repubblicana è molto critica.
Pensa
che questo scivolamento dei militari nel politicamente corretto li distragga
dal loro compito principale;
inoltre temono che la sterzata progressista
allontani proprio quelle reclute tradizionali e tradizionaliste, i figli e
nipoti di militari di carriera, probabilmente allevati in ambienti religiosi e
di destra.
Sono critiche da non sottovalutare.
Sicuramente
l’Esercito Popolare di Liberazione agli ordini di “Xi Jinping” non “perde
tempo” a occuparsi dei diritti dei propri soldati di origine tibetana o uigura,
tantomeno dei transgender:
addestra
a combattere per vincere e basta.
Al
tempo stesso, girando sulle portaerei, su altre navi, e in tutti gli angoli
della mega-base di Norfolk, sono colpito dal numero di donne, Black, ispanici,
asiatici.
L’America
ha “solo” 350 milioni di abitanti, la Cina ne ha esattamente il quadruplo.
Per
attenuare l’enorme disparità demografica, oltre a investire nelle tecnologie
l’America ha bisogno di allargare il bacino di reclutamento. In questo senso
l’attenzione delle forze armate verso tutte le minoranze ha una logica.
Così
come ha una logica la nuova attenzione dedicata ai problemi della salute
mentale.
Il
dovere di cronaca impone di ricordare che la base di Norfolk, e la stessa
portaerei “USS George Washington”, hanno fatto notizia anche per dei suicidi di
militari.
P.S.
Ciascuno è libero di usare questi appunti di viaggio come vuole. La robusta
corrente che si autodefinisce pacifista, forse maggioritaria in Europa e anche
tra i giovani dei campus universitari americani, tende a pensare che avere
forti eserciti faciliti la guerra, la favorisca.
Io
penso al contrario, come gli antichi romani, che se vuoi la pace devi avere
robusti mezzi di dissuasione dell’avversario.
Tanto
più che nessuno dei nostri antagonisti è permeabile al pacifismo.
A
Norfolk non ho incontrato dei guerrafondai, non ho respirato un’atmosfera
bellicosa.
Ho parlato con generali che preferiscono di
gran lunga la diplomazia al combattimento, e vorrebbero vedere tornare i loro
equipaggi intatti e salvi al 100% al termine di ogni missione.
Ho parlato con una donna ufficiale dei
sottomarini che ricorda con dolore l’assenza di ogni notizia dalla sua famiglia
durante una lunga missione in immersione nel periodo della pandemia (no, i
telefonini non funzionano là sotto).
Ho
parlato con tanti militari che hanno famiglia, fanno piani di lungo termine per
la scuola e l’università dei figli; non vorrebbero lasciare degli orfani.
"Una
teoria antiscientifica che
annulla
la natura e la
distinzione
dei sessi."
Ilgiornale.it
– (3 Dicembre 2023) - Luigi Mascheroni – ci dice:
L'autore
del saggio "Gender": "Le differenze biologiche non possono
svanire. Ma si vogliono cambiare le leggi e la mentalità con una neo-lingua
ideologica".
Giulio
Meotti, giornalista del Foglio, critico fiero e documentato della cultura woke,
ha sottotitolato il suo nuovo pamphlet - Gender (Liberilibri) –
«Il sesso degli angeli e l'oblio
dell'Occidente» perché è del sesso degli angeli che si discuteva tra i dotti di
Costantinopoli mentre la città cadeva sotto i colpi dei turchi.
Così
l'Occidente, sotto i colpi di una nuova guerra culturale, disquisisce sulla
questione assurda del sesso e del gender.
Meotti,
secondo la teoria del gender il sesso cui una persona sente di appartenere è
diverso da quello biologico.
Insomma,
non si nasce donna o uomo, ma si diventa ciò che si preferisce.
«Sì,
nel senso che una piccola teoria nata nei campus di Berkeley, West Coast
americana, accolta all'inizio con una scrollata di spalle, niente più di una
provocazione intellettuale dei ceti radical, è diventata la più grande
ideologia del nostro tempo, investendo anche l'Europa.
Il
genere sostengono è quello che si fa.
Così
si cancella la natura in nome della cultura.
E poi
si arriva a una sorta di ingegnerizzazione personale, che ti permette di
passare quando vuoi da un sesso all'altro, senza più neppure un processo medico
e psicologico: ora basta una dichiarazione all'anagrafe».
Non
capisco: dove vanno a finire i cromosomi XY maschili e XX femminili?
«Le
differenze biologiche spariscono. E la frase di Simone de Beauvoir Donna non si
nasce, lo si diventa, tolta dal suo contesto, viene realizzata in nome di
un'ideologia androgina;
è una
riscrittura dell'umano, spingendo anche un biologo come “Richard Dawkins”,
alfiere dello scientismo, a rispondere che il sesso è dannatamente binario: o
sei donna o sei uomo».
Ormai
non è neppure più vera l'affermazione che solo le donne possono partorire.
«Eh
sì: Orwell vive e lotta insieme a noi. È una rivoluzione che vuole cambiare le
leggi e la mentalità con una neo-lingua.
Ma è
un fake:
i
maschi che partoriscono sono solo donne biologiche che si definiscono uomini.
Se ci pensiamo, è un atteggiamento fortemente misogino, che umilia le donne».
Cosa
pensa del fatto che si possa consentire ai bambini di considerare la loro
identità di genere non correlata al sesso biologico?
«Finché
parliamo di Luxuria, va bene. Gli adulti in una società liberale fanno ciò che
vogliono.
Ma se si porta l'offensiva nelle scuole, nelle
cure pediatriche, dove non c'è scelta, allora è uno scandalo.
Per fortuna ci sono persone come la scrittrice
“J.K. Rowling”, coi suoi milioni di follower, che combatte tutto ciò».
A
costo della gogna.
«Infatti.
Le fanno pagare la sua eresia.
L'aver
detto Chiamatevi come volete, vestitevi come volete, andate a letto con chi
volete, ma non potete cancellare la differenza sessuale tra maschi e femmine».
Com'è
possibile che la teoria del gender, antiscientifica, stia egemonizzando la
scienza in cima a tutte le agende politiche?
«Un
po' perché gli attivisti sono fanatici, tendenzialmente fascisti, che riescono
a intimidire ambienti che non spiccano per coraggio.
Un po' per gli interessi economici che girano
attorno alla questione.
E un po' perché gli scienziati hanno
abbandonato il vero metodo scientifico che è quello di mettere in discussione
il dogma, finendo per sprofondare nel conformismo».
Della
pericolosità dell'ideologia di genere se ne avvide in tempi non sospetti “Joseph
Ratzinger.”
«È il
gaio nichilismo di cui parlava Augusto Del Noce.
Ratzinger, che non è stato solo un Papa, ma un
grandissimo pensatore del '900, intuì tutto fin da quando visse la temperie del
'68 nell'università tedesca e capì che il nichilismo sarebbe stato non il
credere al nulla, ma credere a tutto.
Ci siamo arrivati».
Lei
scrive: «La sinistra aveva promesso di cambiare la società e ha fallito; ora si
propone di cambiare l'uomo».
«È la
sinistra schizofrenica che mischia multiculturalismo, transgenderismo,
consumismo.
Come
si può tenere insieme il libertinismo radicale con la difesa del velo islamico?
È una
sinistra che ha perduto il ceto popolare e così cerca il consenso delle
minoranze e delle élite.
Un
cortocircuito destinato a saltare.
Non
puoi marciare con il mondo “Lgbtq “e nello stesso tempo sfilare sotto le
bandiere di Hamas».
"La
teoria gender è una mistificazione di bigotti e populisti"
Dura
presa di posizione dell'associazione "Io l'8 ogni giorno" sull'agenda
scolastica: "Quanta ignoranza sul tema"
LUGANO
- Pubblichiamo di seguito la presa di posizione dell'associazione "Io l'8
ogni giorno".
"Alla
vigilia della ripresa dell’anno scolastico, quasi fosse una tradizione della
destra reazionaria, impazza la (sterile) polemica sulla nuova agenda scolastica
per le scuole medie e per la quinta elementare.
La
“grande Lugano” ha annunciato che non distribuirà il diario alle classi delle
scuole comunali e per questo, 1 bambina/o su 3 che frequenterà la quinta
elementare nel Cantone Ticino, resterà senza agenda. Come conseguenza e a causa
di scelte politiche scriteriate, non potrà imparare ad usarla. Oppure, le
famiglie saranno costrette a comprarla a proprie spese. Altri comuni come
Mendrisio e Locarno sono stati meno liberticidi e hanno deciso di lasciare la
scelta alle famiglie; altri ancora, come Castel San Pietro, la
consegneranno.
Quello
che emerge è la grande ignoranza su una tematica complessa e delicata come
l’identità di genere. Purtroppo, gli ambienti cattolici e conservatori da anni
falsano gli studi di genere chiamandoli “ideologia gender” o “teoria gender”
senza mai definire esattamente a cosa ci si riferisca, quale sia la genesi di
tale pensiero e quali le fonti utilizzate per la sua definizione. In verità,
chiunque abbia un minimo di cultura generale, sa che la “teoria/ideologia
gender” non esiste! O se esiste è solo in quanto mistificazione politica usata
in ambienti bigotti e populisti, come confermano le diverse prese di posizione
di questi giorni. Chi evoca la fantomatica teoria gender lo fa allo scopo di
limitare l’inclusività e la libertà di scelta individuale, promuovendo in
questo modo la disinformazione, la discriminazione, la violenza, i discorsi di
odio e inficiando il diritto di autodeterminazione.
Eppure,
come tutti gli ambiti di studio, anche i “gender studies” sono campo di
indagine accademica da decenni e, nella maggior parte dei paesi - tra cui il
nostro -, sono un’asse di ricerca prioritaria e interdisciplinare delle
Università. Peccato che le poche voci autorevoli che si sono espresse in questa
polemica non siano state in grado di sovrastare opinioni politicizzare e da
osteria.
L’ignoranza
dilagante e inconsapevole sulla tematica parte già dall’incapacità di definire
la questione in termini corretti. Per esempio si è usato il concetto di
“diversità di genere” come sinonimo di “identità di genere”, o si è detto che
l’identità di genere è un fattore “scientifico” e “biologico” o ancora si è
parlato di orientamento sessuale come se fosse la stessa cosa del genere…
insomma una gran confusione che alimenta un dibattito che ha raggiunto i
contorni dell’affare di stato e che, come probabilmente voleva chi ha posto la
questione, distoglie l’attenzione dai veri problemi della scuola, che non
crediamo siano due paginette di un’agenda scolastica.
Nelle
due vignette (tra decine) incriminate, non vi è proprio nulla di male. In una
vi è una ragazza che si pone delle domande sulla sua identità di genere (cosa
peraltro normalissima: chi di noi all’arrivo del menarca non ha pensato che
fosse meglio essere un maschio?) e in un’altra vi è una ragazza che vuole
diventare amica di quella della vignetta precedente, che definisce “fluida”.
Incredibilmente, in questi due disegnini sono stati identificati i pericoli più
disparati: c’è chi ci vede una difesa del terzo sesso, chi un invito alle
transizioni di genere precoci, chi crede che vi sia dietro un complotto per
rendere tutti i bambini e tutte le bambine omosessuali, chi teme il rischio di
smarrimento per ragazzi e ragazze che iniziano a farsi domande sul loro
orientamento sessuale e c’è anche chi, per fortuna, ci vede un messaggio di
apertura e tolleranza.
Crediamo
che sia importante parlare di genere a scuola in modo serio, cioè con
cognizione di causa e siamo certe che vi sono docenti capaci di affrontare la
tematica in classe: questa agenda può rappresentare un primo strumento per
aprire una discussione e permettere a bambine, bambini e adolescenti di
sentirsi accolti e riconosciuti nella ricerca della loro identità. Speriamo che
questa polemica serva per capire che è necessario andare oltre.
Sarebbe
auspicabile intensificare l’offerta formativa e il supporto al corpo insegnante
fornendo a tutti e tutte gli strumenti per affrontare in classe temi delicati e
complessi come l’identità di genere. Per questo, come dimostrato dall’attuale
polemica e confusione, forse due vignette non bastano e per riuscire ad
accompagnare al meglio le ragazzine e i ragazzini che iniziano a porsi domande
sul loro orientamento sessuale o sull’identità di genere abbiamo bisogno di una
società capace di discutere apertamente e in modo costruttivo e rispettoso di
questi temi, senza inutili diatribe e preoccupanti tabù e censure".
"La
teoria gender è una
mistificazione di bigotti
e
populisti."
Ticinolibero.ch
– Redazione – (26 agosto 2023) – ci dice:
Dura
presa di posizione dell'associazione "Io l'8 ogni giorno" sull'agenda
scolastica: "Quanta ignoranza sul tema"
LUGANO
- Pubblichiamo di seguito la presa di posizione dell'associazione "Io l'8
ogni giorno".
"Alla
vigilia della ripresa dell’anno scolastico, quasi fosse una tradizione della
destra reazionaria, impazza la (sterile) polemica sulla nuova agenda scolastica
per le scuole medie e per la quinta elementare.
La
“grande Lugano” ha annunciato che non distribuirà il diario alle classi delle
scuole comunali e per questo, 1 bambina/o su 3 che frequenterà la quinta
elementare nel Cantone Ticino, resterà senza agenda.
Come conseguenza e a causa di scelte politiche
scriteriate, non potrà imparare ad usarla. Oppure, le famiglie saranno
costrette a comprarla a proprie spese.
Altri
comuni come Mendrisio e Locarno sono stati meno liberticidi e hanno deciso di
lasciare la scelta alle famiglie; altri ancora, come Castel San Pietro, la
consegneranno.
Quello
che emerge è la grande ignoranza su una tematica complessa e delicata come
l’identità di genere.
Purtroppo, gli ambienti cattolici e
conservatori da anni falsano gli studi di genere chiamandoli “ideologia gender”
o “teoria gender” senza mai definire esattamente a cosa ci si riferisca, quale
sia la genesi di tale pensiero e quali le fonti utilizzate per la sua
definizione.
In verità, chiunque abbia un minimo di cultura
generale, sa che la “teoria/ideologia gender” non esiste!
O se
esiste è solo in quanto mistificazione politica usata in ambienti bigotti e
populisti, come confermano le diverse prese di posizione di questi giorni.
Chi
evoca la fantomatica teoria gender lo fa allo scopo di limitare l’inclusività e
la libertà di scelta individuale, promuovendo in questo modo la
disinformazione, la discriminazione, la violenza, i discorsi di odio e
inficiando il diritto di autodeterminazione.
Eppure,
come tutti gli ambiti di studio, anche i “gender studies” sono campo di
indagine accademica da decenni e, nella maggior parte dei paesi - tra cui il
nostro -, sono un’asse di ricerca prioritaria e interdisciplinare delle
Università.
Peccato che le poche voci autorevoli che si
sono espresse in questa polemica non siano state in grado di sovrastare
opinioni politicizzare e da osteria.
L’ignoranza
dilagante e inconsapevole sulla tematica parte già dall’incapacità di definire
la questione in termini corretti.
Per esempio si è usato il concetto di
“diversità di genere” come sinonimo di “identità di genere”, o si è detto che
l’identità di genere è un fattore “scientifico” e “biologico” o ancora si è
parlato di orientamento sessuale come se fosse la stessa cosa del genere…
insomma una gran confusione che alimenta un dibattito che ha raggiunto i
contorni dell’affare di stato e che, come probabilmente voleva chi ha posto la
questione, distoglie l’attenzione dai veri problemi della scuola, che non
crediamo siano due paginette di un’agenda scolastica.
Nelle
due vignette (tra decine) incriminate, non vi è proprio nulla di male. In una
vi è una ragazza che si pone delle domande sulla sua identità di genere (cosa
peraltro normalissima:
chi di
noi all’arrivo del monarca non ha pensato che fosse meglio essere un maschio?)
e in un’altra vi è una ragazza che vuole diventare amica di quella della
vignetta precedente, che definisce “fluida”.
Incredibilmente, in questi due disegnini sono
stati identificati i pericoli più disparati:
c’è
chi ci vede una difesa del terzo sesso, chi un invito alle transizioni di
genere precoci, chi crede che vi sia dietro un complotto per rendere tutti i
bambini e tutte le bambine omosessuali, chi teme il rischio di smarrimento per
ragazzi e ragazze che iniziano a farsi domande sul loro orientamento sessuale e
c’è anche chi, per fortuna, ci vede un messaggio di apertura e tolleranza.
Crediamo
che sia importante parlare di genere a scuola in modo serio, cioè con
cognizione di causa e siamo certe che vi sono docenti capaci di affrontare la
tematica in classe:
questa agenda può rappresentare un primo
strumento per aprire una discussione e permettere a bambine, bambini e
adolescenti di sentirsi accolti e riconosciuti nella ricerca della loro
identità.
Speriamo
che questa polemica serva per capire che è necessario andare oltre.
Sarebbe
auspicabile intensificare l’offerta formativa e il supporto al corpo insegnante
fornendo a tutti e tutte gli strumenti per affrontare in classe temi delicati e
complessi come l’identità di genere.
Per
questo, come dimostrato dall’attuale polemica e confusione, forse due vignette
non bastano e per riuscire ad accompagnare al meglio le ragazzine e i ragazzini
che iniziano a porsi domande sul loro orientamento sessuale o sull’identità di
genere abbiamo bisogno di una società capace di discutere apertamente e in modo
costruttivo e rispettoso di questi temi, senza inutili diatribe e preoccupanti
tabù e censure".
Giorgia
Meloni: "L'ideologia gender
andrà
a discapito delle donne."
Today.it
– Eva E. Zuccari – (8 – 3 -2023) – ci dice:
Le
dichiarazioni della premier a ridosso della Giornata Internazionale della
Donna. La replica delle femministe: "L'ideologia gender non esiste".
Il Partito gay: "Meloni vuole cancellare
il 15% degli italiani"
"Oggi
si rivendica il diritto unilaterale di proclamarsi donna oppure uomo al di là
di qualsiasi percorso, chirurgico, farmacologico e anche amministrativo.
Maschile
e femminile sono radicati nei corpi ed è un dato incontrovertibile.
Tutto questo andrà a discapito delle donne?
Credo proprio di sì".
Lo
dice Giorgia Meloni in un'intervista rilasciata al settimanale Grazia in
occasione della Giornata Internazionale della Donna.
"Oggi
per essere donna - aggiunge la premier - si pretende che basti proclamarsi
tale, nel frattempo si lavora a cancellarne il corpo, l'essenza, la differenza.
Le
donne sono le prime vittime dell'ideologia gender. La pensano così anche molte
femministe".
"L'ideologia
gender non esiste". La replica delle femministe.
Immediata
la replica di “Non una di Meno”, associazione femminista contro la violenza di
genere.
"Noi
pensiamo che non esista l'ideologia gender", dichiarano le attiviste ad
Ansa.
"È
una invenzione. La differenza tra il genere e il sesso è ben nota, mentre la
teoria gender è un'invenzione strumentale.
In opposizione a questa invenzione, c'è una
realtà concreta di persone che hanno identità di genere di vario tipo.
Questa
cosa esiste ed è una realtà.
Una
identità di genere che va anche oltre il binarismo uomo-donna imperante.
Queste
persone si riconoscono in altri generi, si riconoscono in un genere che non
corrisponde alla propria identità sessuale e in questa scelta si
autodeterminano".
Partito
gay: "Meloni vuole cancellare il 15% degli italiani"
A
rispondere a Meloni è anche Alessandro Zan, politico Pd e attivista, promotore
dell'omonima legge contro l'omotransfobia.
"Le
donne sono vittime di Giorgia Meloni e delle sue politiche reazionarie",
replica "non di una fantomatica 'ideologia gender', fake che lei ha
inventato.
Vittime
sono le oltre 20mila esodate di opzione donna, vittima è chi non può accedere
all'aborto nelle regioni di destra.
Basta
bugie".
Polemiche
anche da parte di Fabrizio Marrazzo, portavoce del Partito Gay Lgbt+, Solidale,
Ambientalista, Liberale:
"Le
dichiarazioni del Premier Meloni, contro le donne trans, i genitori Lgbt+, ed
una presunta ideologia gender non sono accettabili.
Il
presidente del Consiglio dovrebbe rappresentare tutti gli italiani, invece lei
si ostina a rappresentare solo una parte, volendo cosi cancellare la nostra
comunità che rappresenta il 15% degli italiani.
Con questo Governo risulta ancora più
importante il lavoro che come Partito Gay Lgbt+ stiamo facendo, per tutelare la
nostra comunità e non solo. Il fatto che queste dichiarazioni siano fatte in
prossimità dell'8 marzo sono un vero e proprio schiaffo a tutte le donne, i
diritti vanno estesi e non ristretti".
“La
teoria gender è falsa.
Solo
un modo per togliere
I
bambini ai genitori.”
Laverita.info
– (18-3-2024) -Martina Pastorelli – ci dice:
Shellenberger
denuncia lo scandalo del cambio di sesso sui minori e malati mentali: “una
inchiesta per fermare i militanti trans.”
Michael
Shellenberger, il giornalista che ha scoperchiato lo scandalo dei medici
attivisti trans, avverte:
“Dobbiamo
ribellarci alla medicina di genere, che vuole prendersi i nostri figli per
compiere su di loro esperimenti grotteschi”.
Dopo
lo stop ai bloccanti della pubertà a Londra, prevede, arriverà quello negli
Usa: “questi orrori dovranno per forza avere una fine.”
(…)
l
libro che spiega perché
la
teoria gender è
anti-scientifica.
Centromachiavelli.com
– “26 ottobre 2021) - Daniele Scalea –
ci dice:
Sinistra
scientista e lysenkismo dei giorni nostri.
Tra
gli espedienti attualmente più popolari, a sinistra, per “vincere” in un
confronto verbale c’è quello d’accusare l’interlocutore di “negare la scienza”
o “non credere alla scienza”.
Non pendi dalle labbra di Greta Thunberg?
Sei un
“negazionista della scienza del cambiamento climatico”. Non provi goduria
fisica (come invece fa Tommaso Labate) nell’esibire il tuo bel passaporto
vaccinale per andare al lavoro?
Sei uno che “non crede alla scienza
virologica” (che in un momento non ben precisato, a quanto pare, ha incorporato
il diritto costituzionale come propria branca subordinata).
Poco
importa che tale espediente, studiato appositamente per evitare un confronto
argomentato, sia la negazione stessa del metodo scientifico fatto di ipotesi,
esperimenti, dimostrazioni, falsificazionismo e via dicendo.
Poco importa che quella che loro chiamano
“scienza” sia in realtà “scientismo“.
Poco
importa che il loro approccio alla scienza sia totalmente dogmatico e, dunque,
per la seconda volta anti-scientifico.
Anche qui, nulla di nuovo sotto il sole.
La
Sinistra marxista ha sempre preteso di essere “scientifica”:
di
avere in tasca una verità oggettiva, inoppugnabile, negata solo per ignoranza o
malafede dagli avversari.
In
nome del suo “materialismo scientifico”, ca va sans dire, ne ha prese parecchie
di cantonate:
come
quando l’agronomo Lysenko riportò in auge il lamarckismo in Unione Sovietica,
grazie alle persuasive argomentazioni del NKVD che mandò a morte o in carcere
gli studiosi che si ostinavano a praticare la genetica, “scienza borghese”.
La
cultura sta vivendo una seconda stagione “lysenkista”, sfortunatamente non più
confinata a un solo Stato ma che avvelena il mondo intero.
Al suo
centro c’è la pseudo-scienza della “teoria gender”, un coacervo di sciocchezze
elevate a dogmi e difese con la repressione da ogni tentativo, realmente
scientifico, di confutarle.
Chi è
Debra Soh.
Un
tentativo recente (agosto 2020) e pregevole di confutare la “pseudo-scienza
gender” è il libro “The end of gender”. “Debunking the myths about sex and
identity in our society” da parte di “Debra Soh2.
Sessuologa
e neuro-scienziata con dottorato di ricerca all’Università di Toronto, ha
un’esperienza ultradecennale come ricercatrice accademica; scrive inoltre come
giornalista scientifica trovando spazio su numerose pubblicazioni importanti
(“Globe and Mail”, “Wall Street Journal”, “Los Angeles Times”, “Playboy” ecc.).
Nel libro non mancano spunti autobiografici, in cui la “Soh” narra del clima di
terrore creatosi all’interno della comunità dei sessuologi, dove pochissimi
hanno il coraggio di parlare “contro la teoria gender” per paura d’essere
linciati mediaticamente e di perdere il posto di lavoro.
La stessa “Soh”, quando nel 2016 pubblicò un
editoriale contro la prassi del cambio di sesso nei giovanissimi, fu fatta
oggetto d’una campagna d’odio.
La
viltà e opportunismo (alcuni scienziati abbracciano l’ideologia gender
appositamente per facilitarsi la carriera) dell’accademia l’hanno spinta ad
abbandonarla per dedicarsi unicamente al giornalismo.
Cominciamo
col precisare che “Debra Soh”, oltre ad avere solide credenziali scientifiche,
è difficilmente sospettabile di simpatie per l’estrema destra.
Canadese
di nascita ma malesiana e cinese per origini, ha espresso nei suoi vari
articoli – e lo fa anche in questo libro – opinioni ben poco “conservatrici” su
temi come la sessualità e i matrimoni gay.
Il suo
profilo è quello della persona tendenzialmente “progressista” che, a un certo
punto, s’accorge che talune avanguardie del “progresso” cozzano col buonsenso e
con la realtà dei fatti.
Il suo
libro è un saggio sobrio, vivacizzato da vari aneddoti d’esperienza diretta ma
privo della smania di umiliare l’avversario o di scandalizzare il lettore. “The end of gender “vuole
essenzialmente dimostrare che i capisaldi della teoria gender sono falsi
ricorrendo alla letteratura genuinamente scientifica.
Sesso
e genere sono definiti dalla biologia.
Come
sottolinea all’inizio del libro la “dott.ssa Soh” gli “studi di genere” non
vanno in alcun modo confusi con la sessuologia:
i
primi usano metodi qualitativi, la seconda quantitativi. Per tale ragione solo
la sessuologia può essere considerata una scienza. Questa scienza ci insegna
che il sesso biologico è definito dai gameti (cellule sessuali) e che essi
possono essere di soli due tipi: sperma o uova.
Il sesso è dunque binario.
Chiarire
che esiste un “sesso biologico”, di questi tempi, è già eretico per il pensiero
unico.
Ma chi
fosse rimasto un passo indietro nella corsa all’assurdo dell’ideologia gender,
già concederà che il sesso sia biologico e oggettivo, affermando che sia invece
il genere ad essere artificiale, costruito dalla società.
“Debra
Soh” spegne subito anche questo sussulto di vetero-genderismo: pure il genere è
biologico, poiché la biologia definisce l’identità di genere e l’orientamento
sessuale.
A partire da 7 settimane dopo il concepimento
il bambino è esposto, nel grembo materno, ad ormoni differenti a seconda del
suo sesso.
Tale
“cura” ormonale è lungi dall’essere insignificante: essa modifica l’evoluzione
del cervello, facendo così corrispondere, a livello biologico, genere e sesso.
Qualcuno
obietterà tirando in ballo l’esistenza dell’ermafroditismo.
A giudizio della “Soh” questo non smentisce la
binarietà sessuale dell’essere umano:
sia
perché gli ermafroditi continuano a produrre un solo tipo di gameti, sia perché
tale condizione è estremamente rara.
Esistono persone che nascono con più o meno di
dieci dita, ma ciò non spinge nessuno a negare che l’essere umano di dita ne
abbia proprio 10.
Il
ruolo della biologia nell’espressione del genere.
the
end of gender.
Se il
genere coincide col sesso ed entrambi dipendono dalla biologia, è vero che c’è
un momento in cui a incidere è la società.
Tale
momento è quello dell’espressione del genere.
L’essere
femmina o maschio non sfocia nei medesimi comportamenti in ogni luogo e in ogni
tempo, ma questa non è una concessione alla teoria costruttivista.
Essendo il genere naturale, la biologia
continua a metterci mano anche nel modo in cui esso si esprime.
Gli ormoni cominciano ad agire, come ricordato
sopra, a poche settimane dal concepimento, lasciando tracce indelebili
nell’individuo. Più testosterone conferisce maggiori abilità visuo-spaziali e
strumentali, meno testosterone produce capacità sociali ed empatia più
sviluppate.
Il
fatto che non tutti i maschi siano uguali tra loro e non tutte le femmine fatte
con lo stampino discende dalla variabilità del livello di testosterone
nell’utero.
Ad
esempio la giovane età della madre, il suo aumento di peso, particolari
trattamenti ormonali, la genetica stessa o variazioni casuali possono tradursi
in più alti livelli di testosterone anche per i feti femminili;
da cui
discenderà un individuo di sesso e genere femminili ma con più spiccati
caratteri maschili.
Studi
dimostrano che le variazioni nei livelli ormonali in utero sono associate tanto
al “non conformismo di genere” (ossia a uomini effemminati e donne mascoline)
quanto all’omosessualità e alla disforia di genere.
Biologia
e omosessualità.
Una
teoria scientifica, quella dell’ordine di nascita fraterno, statuisce che
l’ultimo di vari fratelli abbia più probabilità d’essere omosessuale. Questo
perché la madre ha una reazione immunitaria agli antigeni del cromosoma Y
prodotti dal feto maschile.
A ciascun successivo figlio maschio questa
reazione immunitaria è sempre più forte, determinando una riduzione del
processo di mascolinizzazione.
Le
ricerche hanno osservato che l’ipotalamo dei maschi gay risulta più simile a
quello delle donne che a quello dei maschi eterosessuali. L’ipotalamo è una
parte del cervello che regola nutrizione, combattimento, fuga e, non a caso,
accoppiamento.
L’orientamento
sessuale sarebbe cioè innato e immodificabile. Per tale ragione “Debra Soh” è
assolutamente contraria alle “terapie di conversione”, che cercano (cercavano,
essendo ormai in disuso quando non illegali) di rendere eterosessuale un gay.
Esiste
tuttavia una condizione, spesso inclusa nell’omosessualità, in cui i maschi che
ne sono interessati non mostrano differenze nelle parti del cervello dimorfiche
(ossia differenti tra i due sessi): è quella dell’auto ginefilia.
In
questi casi l’uomo non è attratto dal corpo maschile, come succede per gli
omosessuali, ma prova eccitazione nell’immaginarsi donna. L’auto ginefilia è
all’origine del travestitismo e può portare a pratiche omosessuali, ma in
occasione delle quali la fonte d’eccitazione non è il corpo del partner bensì
il comportarsi come una donna.
L’auto
ginefilia è citata dalla “Soh” perché, a suo avviso, oggi molti auto ginefili
si diagnosticano da soli una disforia di genere che non hanno, avviandosi a una
transizione non necessaria.
La
“fluidità di genere” è solo una moda.
La
sessuologa canadese riconosce l’esistenza della disforia di genere, ma rifiuta
il concetto di “fluidità”.
Anche
la disforia è binaria, poiché va sempre ricondotta ai due generi naturali,
sebbene in presenza di una non corrispondenza tra corpo e cervello.
Il
vero transgender è colui che, soffrendo di disforia, compie passi sociali o
medici verso l’altro genere.
Quella dei “fluidi” e dei “non binari” è, a
giudizio della scienziata, una mera moda motivata dal desiderio di distinguersi
ed essere ammessi in una comunità che, per giunta, conferisce sostegno e
prestigio sociali.
Ma
sostenere che il genere e l’orientamento sessuale siano una scelta (o che siano
continuamente mutevoli) implicitamente significa che si potrebbe anche
scegliere di non essere gay e, dunque, legittimerebbe le terapie di
conversione.
Molti
sedicenti “non binari”, a giudizio dell’Autrice, sono solo dei giovani che si
sentono a disagio col loro sesso o genere. In omaggio all’ideologia imperante,
però, nessuno dice più loro che possono essere semplicemente un tipo di uomo o
di donna differente dallo standard. Quello che molti oggigiorno chiamano
“genere” è semplicemente la personalità di un individuo.
La
disforia di genere dovrebbe continuare ad essere considerata un disordine
mentale, al fine di garantire cure psicologiche a chi ne soffre. Le statistiche riportate nel libro
raccontano che nel 50% dei casi la disforia dipende da altri disordini
psichiatrici.
I
bambini vittime dell’ideologia gender.
Purtroppo,
sottolinea “Debra Soh,” gli “esperti” chiamati a sovrintendere alla cura della
disforia di genere sono sempre più accecati dall’ideologia.
L’approccio
terapeutico – quello scientificamente più valido e che prevede di capire cosa
induca la disforia nel paziente – è ormai condannato dagli “esperti” come
“transfobico”.
A loro
avviso non bisogna porsi nessuna domanda che possa mettere in dubbio la reale
volontà del paziente di cambiare sesso, nemmeno se tale paziente è un bambino,
ma bisogna cominciare il prima possibile la transizione.
Le
analisi psicologiche e psichiatriche sono perciò saltate a pie’ pari: in molti
casi già alla prima o seconda visita vengono prescritte terapie ormonali a
pazienti giovanissimi per bloccarne la pubertà ed avviarli al percorso di
“riassegnazione” (prima “di genere” e poi anche di sesso).
Ciò
malgrado le statistiche dicano che tra il 60% e il 90% dei bambini disforici
cessino di esserlo nel corso della pubertà.
È il
fenomeno della cosiddetta desistenza, che dipende dal fatto che l’identità di
genere si stabilizza col tempo.
I
fautori della transizione prematura cercano di sostenere le proprie ragioni con
alcuni studi, attualmente in corso, che la “Soh “giudica però del tutto fallaci
metodologicamente: non viene infatti previsto un gruppo di controllo perché è
giudicato non etico negare a un bambino disforico la transizione.
Spesso,
per vincere le resistenze dei genitori, sono usate anche statistiche non
corrette sul tasso di suicidi tra bambini transgender.
Eppure
non si conoscono gli effetti a lungo termine degli inibitori della pubertà (che
furono inventati per bloccare quella precoce, non per interromperla del tutto).
Certe funzioni fisiche potrebbero non essere mai recuperabili, eppure gli
inibitori sono popolari (e approvati anche in Italia dall’AIFA) perché
diminuiscono la desistenza, fenomeno incompatibile con l’ideologia dei “medici
curanti”.
Bloccando la pubertà si blocca il processo
che, il più delle volte, risolve la disforia senza bisogno di transizioni.
Si
preferisce invece un percorso che sfocia nella chirurgia, l’invasività ed
indelebilità dei cui effetti è evidente a tutti.
L’educazione
“gender neutral” è una boiata.
“Debra
Soh” non lo dice proprio in questi termini, ma la sostanza è quella:
l’educazione
“gender neutral”, oggi tanto in voga tra i genitori “progressisti”, è una
boiata.
Il
genere dipende dalla biologia, non è qualcosa che si possa apprendere:
un bambino non cambierà genere perché la mamma
lo veste di rosa e gli regala solo bambole.
I ricercatori hanno riscontrato preferenze
legate al sesso perfino nei neonati.
Quando
hanno provato a dare giocattoli infantili alle scimmie – di sicuro non
influenzate dalla società – hanno osservato i maschi preferire i ninnoli per
bambini e le femmine scegliere i balocchi per bambine.
Come
già riferito, i cervelli maschile e femminile sono differenti: l’uno più
sistematico, l’altro più empatico.
Nessuna
educazione può modificare caratteri strutturali. Fino ai sette anni circa, i
piccoli non riescono nemmeno a ben distinguere tra aspetto ed essenza: per loro
un bambino che va in giro con un vestitino rosa è semplicemente una bambina,
non un maschietto vestito differentemente.
Purtroppo,
l’ideologia acceca certi genitori. Essi capiscono benissimo il ruolo della
biologia quando, di fronte a un maschietto effemminato o una femmina mascolina,
dicono che “quella è la sua natura e non si può modificare”.
Ma davanti a un maschietto o femminuccia che
si comporta come tale, decidono che dev’essere per forza “colpa” della società.
In
realtà ciò che vogliono sono figli di genere “non conforme”. Se non sono tali,
cercano di farceli diventare con la violenza psicologica (questa definizione è
del recensore, non dell’Autrice, ma ritengo sia la sola inferibile
dall’angosciante lettura delle sue pagine).
La
particolare vulnerabilità delle adolescenti.
Negli
ultimi anni si è osservato un fenomeno inedito, definito dagli scienziati
(prima d’essere “scomunicati”) come “rapid-onset gender dysphoria”.
Fino a
un decennio fa la disforia emergeva sempre prima della pubertà: i soli casi
rilevanti in cui lo faceva durante la pubertà erano quelli di adolescenti
maschi interessati da auto ginefilia.
Nell’ultimo decennio, tuttavia, si è assistito
a un’esplosione del numero di adolescenti femmine che, senza aver mai mostrato
prima segnali di disforia, desiderano diventare maschi.
Gli
studiosi stanno indagando questo fenomeno e per ora hanno scoperto che il 60%
di queste adolescenti “transgender” ha almeno un altro disordine mentale:
quelle
con autismo sono le più vulnerabili, poiché inclini a fissarsi maniacalmente
sull’idea.
Il 40%
di loro ha inoltre almeno un amico transgender. Il desiderio di transizione
emerge di norma dopo la fruizione di contenuti e messaggi che la fanno apparire
glamour.
Lo
status di transgender è così desiderabile perché conferisce approvazione
sociale e maggiore protezione dal bullismo. È inoltre relativamente frequente
il caso di ragazze che, dopo aver subito molestie sessuali, desiderano
diventare maschi, come per difendersi da tale tipo d’abusi.
Di
solito l’evento scatenante è un’amicizia o un qualche evento scolastico. La
transizione sociale – ossia farsi chiamare con nome e pronomi dell’altro sesso
– comincia proprio a scuola, per iniziativa degli insegnanti e senza consultare
i genitori. Quando questi lo scoprono il percorso è già avanzato: gli viene
prospettato un alto rischio di suicidio se non lo assecondano.
Alcuni,
secondo la dott.ssa Soh, lo accettano per inconscia “omofobia”: meglio un
figlio che diventa dell’altro sesso, ma etero, che averne uno gay.
Eppure,
molti transgender si pentono, dopo aver effettuato la transizione, e decidono
di tornare indietro (come “Keira Bell”): è la cosiddetta “detransizione”.
La
maggioranza delle detransizioni riguarda soggetti femminili.
Secondo
la “Soh” il loro numero è pure sottostimato, perché di solito avviene in forma
privata e i ricercatori non sono troppo incoraggiati a studiare il fenomeno per
non subire ripercussioni sulla carriera.
I medici che, per paura o ideologia, seguono
le direttive dei militanti, non aiutano i pazienti durante la de transizione:
non esiste nemmeno un protocollo in merito.
Le
donne come vittime dell’ideologia gender.
Le
donne pagano lo scotto dell’ideologia gender non solo in termini di “rapid-onset
gender dysphoria”. I
n
Paesi come la Gran Bretagna i carcerati maschi che si dichiarano donne sono
trattati come tali: già oggi il 2% si dichiara “transgenere”. Le recluse donne
debbono così dividere i propri spazi con carcerati uomini.
A
livello sportivo il “CIO” ha deciso che atleti biologicamente maschi possono
partecipare alle competizioni femminili anche se il loro livello di
testosterone è sei volte quello di una donna media.
E in
ogni caso sopprimere il testosterone non riduce la forza muscolare e gli altri
effetti “organizzativi” che gli ormoni hanno avuto in passato (quello che
volgarmente chiamiamo “sviluppo”, durante il quale i maschi superano le femmine
per prestanza fisica).
Molte
lesbiche che si rifiutano di andare con soggetti trans (ossia uomini che si
auto-identificano come femmine lesbiche ma rimangono anatomicamente maschi)
sono per ciò tacciate di “transfobia”:
si
pretende che l’orientamento sessuale sia in realtà di genere (“se ti piacciono
le donne, devono piacerti anche quelle che hanno corpi maschili”).
La
bellezza è oggettiva.
I
teorici del gender appartengono alla più ampia famiglia “costruttivista”:
per
loro non esistono realtà naturali ed oggettive ma tutto è costruzione sociale.
Ecco
perché pretendono che una donna o un uomo debbano essere attratti da un’altra
persona basandosi sul modo in cui quest’ultima si auto-identifica e non su ciò
che appare a loro.
Un
maschio etero che rifiuta a prescindere di andare con una “donna transgender”
(vale a dire un uomo che dice di essere una donna) è “transfobico”.
Il che
si riconnette al più ampio filone sul presunto carattere “artificiale” della
bellezza, per cui sarebbe sbagliato considerare oggettivamente più bello un
corpo atletico e ben formato rispetto a uno flaccido e deforme.
Come
spiega “Debra Soh” nel suo libro, i sistemi sessuali originano dall’evoluzione
e differiscono tra maschi e femmine.
Per intenderci, siccome il sesso è un
investimento molto maggiore per la donna (che potrebbe rimanere incinta) che
per l’uomo, la prima ha comportamenti più selettivi e il secondo più
competitivi.
Gli
studi dimostrano pure che tale selezione si fa più stringente durante il
periodo di fertilità del ciclo femminile, quando le donne mostrano più
inibizioni.
Tali
comportamenti sono naturali, non dettati dal perfido “patriarcato” che le
femministe intravvedono in ogni dove.
L’ormai
fantomatico “patriarcato” non è responsabile nemmeno degli standard di bellezza
femminile.
Essi
non sono una costruzione sociale ma un prodotto dell’evoluzione:
gli
uomini cercano nella partner segni esteriori di salute e capacità riproduttiva.
Ad
esempio, nella vita più stretta rispetto ai fianchi e al seno, un tratto
comunemente apprezzato dai maschi nell’estetica femminile, essi intravedono
indizi che la donna non sia incinta né abbia già avuto molti figli.
La
cupa notte della scienza.
Purtroppo,
come si diceva all’inizio, siamo entrati in una nuova fase “lysenkista” che
interessa l’intera cultura occidentale:
l’ideologia “progressista” ha preso il
sopravvento sulla scienza.
Oggi spopolano settori di studio o
pseudo-scienze che fin nel nome demarcano la propria natura “militante” e
ideologica:
“femminista”,
“queer” ecc. sono definizioni che riscontriamo frequentemente.
Ma
come ammonisce la dott.ssa Soh, “la scienza attivista, non importa quanto appassionata
o ben intenzionata, non è scienza”.
Gli
scienziati autentici, tuttavia, si stanno auto-censurando per paura di
incappare in linciaggi mediatici che gli costino la carriera.
I più spregiudicati abbracciano persino gli
slogan anti-scientifici dei militanti pur di godere di buona stampa e buone
spintarelle.
I
bambini sono sottoposti a un’incessante propaganda nelle aule di scuola; ai
genitori la stessa viene propinata nelle librerie con testi pseudo-scientifici.
Non andrebbe mai dimenticata l’influenza della
televisione.
La
buona scienza si vede sempre meno in giro:
si
moltiplicano i casi di studi scientifici censurati, ritirati o ritrattati
perché invisi agli attivisti LGBT (o a quelli anti-razzisti, come abbiamo
raccontato qui).
Intere
aree di indagine sono evitate pur di non correre rischi.
L’ultimo capitolo di “The End of Gender si
intitola, cupamente, “La fine della libertà accademica”.
Qui
chiudo col racconto del pensiero di “Debra Soh “e aggiungo la mia brevissima
chiosa finale.
Il
nemico ha espugnato quasi tutti i fortini del sapere. Tocca a noi difendere
quelli che ancora resistono e riconquistare gli altri con ogni mezzo:
dobbiamo
farlo, se vogliamo lasciare ai nostri figli un barlume di civiltà e non un
distopico esperimento d’ingegneria sociale condotto da svitati e depravati.
(Daniele
Scalea)
Mezzo
Paese Non Vota più e
Rifiuta
il Regime dei Partiti!
Conoscenzealconfine.it
– (18 Marzo 2024) - Megas Alexandros (alias Fabio Bonciani) – ci dice:
Dopo
le amministrative in Sardegna, anche in Abruzzo l’astensionismo sfiora il 50%.
L’onda lunga di chi non crede più a questi
politici, originata dal terremoto degli anni 90′, oggi è un vero e proprio
tsunami di gente che non si reca più alle urne.
Se tre
indizi fanno una prova, qui di prove ne abbiamo già abbastanza. Le ultime
elezioni politiche del 2022 che hanno visto astenersi il 37% per cento degli
italiani e le recentissime amministrative svoltesi in Sardegna ed Abruzzo, dove
la percentuale di chi non si è recato alle urne, è salita addirittura al 48% –
sono solo tre indizi di quello che invece è ormai un fenomeno di democrazia
diretta ben definito che si sta manifestando nel paese.
Gli
aventi diritto al voto che ormai rinunciano ad esercitare tale diritto, stanno
raggiungendo la maggioranza nel paese ed ora attendiamo solo di aggiornare il
dato tendenziale con le prossime elezioni europee alle porte.
Un
grafico mostra chiaramente da quando è cominciata questa disaffezione verso la
partecipazione al voto, un fenomeno che negli anni è cresciuto in modo
esponenziale nei confronti del Sistema politico che guida il nostro paese, che
di democratico pare ormai non avere più niente.
È
negli eventi degli anni ’80/’90, iniziati con le stragi e la consegna di
aziende e monopoli pubblici in mani private fino a privarci del bene più
prezioso per uno Stato sovrano, ovvero la propria moneta, con l’entrata
nell’euro – ognuno di essi funzionali a saccheggiare il paese e ridurlo a
pezzi, con la nostra classe politica complice – che vanno ricercate le cause
del fenomeno comunemente chiamato astensionismo.
Al
contrario di quello che intenderebbe far passare la vulgata propagandistica,
chi non si reca alle urne non è un desaparecidos della politica o peggio ancora
un anti-democratico, bensì un elettore che non solo ha perso completamente la
fiducia nel nostro sistema politico, ma anche ogni speranza di poterlo cambiare
attraverso l’espressione democratica per eccellenza, ossia il voto.
È bene
essere chiari fin da subito, la speranza e di conseguenza il potere che ogni
elettore in quanto cittadino di una nazione, ha di poter cambiare chi gestisce
la cosa pubblica per suo conto, è il pane di cui si nutre la democrazia.
Se questa speranza e questo potere vengono
meno, la struttura istituzionale di un paese non può più dirsi democratica.
Vado
oltre, il diritto di astenersi, ovvero di esprimere il sentimento di non essere
rappresentato da nessuna delle compagini partitiche presenti in una nazione,
dovrebbe essere addirittura previsto sulla scheda elettorale, se volessimo
onorare la democrazia fino in fondo.
Introdurre
per legge la possibilità di astenersi direttamente sulla scheda elettorale
dovrebbe essere una battaglia che ogni cittadino dovrebbe combattere.
Immaginate solo per un istante, se tutto
questo fosse effettivo, oggi la coalizione degli astenuti sarebbe di gran lunga
il primo partito in Italia.
Ed
invece chi si astiene oltre allo sbeffeggio da parte dei soliti sciocchi e
degli asserviti, al massimo si deve accontentare, come risultato per la propria
manifestazione di democrazia, di un numero statistico che oggi, stante le sue
dimensioni, anche i mezzi di informazione più vicini al regime non possono più
nascondere.
La
democrazia, questa bellissima parola di cui ogni politico si riempie la bocca,
etimologicamente ha un significato ben preciso, ovvero: governo del popolo – e
trae la sua origine dall’abbinamento di due parole provenienti dal greco
antico: démos, “popolo” e κράτος, krátos, “potere”.
È da
essa che viene alla luce la tanto desiderata forma di governo e di valori
sociali in cui la sovranità è esercitata, direttamente o indirettamente dal
popolo, che generalmente è identificato come l’insieme dei cittadini che
ricorrono in senso lato a strumenti di consultazione popolare (es. votazione,
deliberazioni ecc.).
Se a
questa forma di governo così come definita, viene a mancare il così detto demos
(il popolo), ripeto elemento indispensabile per definire tale forma una
democrazia, è chiaro che non siamo più in presenza di essa, ma sono stati
varcati i confini verso tutt’altre forme di governo di fatto.
Che
possono andare dalla monarchia alle varie forme di oligarchie più o meno
marcate, fino ad arrivare alle dittature più o meno dichiarate.
Di
questo i nostri politici e chi li ordina, ne sono ben consapevoli. Soprattutto,
la presenza e la partecipazione del popolo, è una necessità non negoziabile per
il sistema di potere occidentale, che, a differenza dei paesi dove esistono
dittature più o meno palesate, fondano la loro legittimazione sull’illusione
del popolo di vivere in democrazia.
È per
questo che il mondo occidentale, quello che ad arte viene rappresentato dal
nostro “main stream” dei buoni e giusti, non può nel modo più assoluto,
rinunciare al popolo per mantenere intatto il proprio castello del Potere.
Una
astensione sopra il 50%, farebbe apparire immediatamente ogni governo una vera
e propria dittatura dichiarata, esattamente come in quei paesi tipo la
Bulgaria, tanto per dirne uno, dove si legittimano governi con la sola
partecipazione al voto del 30/35 percento degli aventi diritto al voto.
Anche
se questo punto di approdo, ossia varcare la soglia della maggioranza di chi si
astiene, realisticamente non rappresenterebbe la fine della battaglia, ma bensì
l’inizio per provare a defenestrare questo sistema di potere che si è
impossessato delle nostre istituzioni, un risultato concreto sarebbe raggiunto.
Ossia,
verrebbe reso chiaro a tutti che anche i “poteri profondi” che guidano i
governi del mondo occidentale, operano esattamente dentro i medesimi sistemi
dittatoriali, con cui la nostra stampa ogni giorno non perde occasione di
sciacquarsi la bocca, quando intende mostrarci quello che accade nei paesi oggi
considerati nemici, come la Russia ad esempio.
Dove,
secondo le notizie dell’ultim’ora, nelle presidenziali in corso, la
partecipazione al voto pare addirittura superare quella delle ultime elezioni
politiche che hanno portato al governo attuale nel nostro paese.
È
chiaro che il nostro sistema dei partiti, quello che secondo i dettami della
Costituzione dovrebbe garantire la partecipazione democratica, oggi è
totalmente fuori da questo principio.
I
partiti sono oggi il principale strumento di cui i “poteri profondi” si servono
per impossessarsi delle istituzioni e portate il paese fuori dalla forma di
governo democratica che la Costituzione stessa sancisce.
I
partiti e gli uomini che li compongono, sono i principali attori di questo
perenne ed infinito colpo di stato in atto da decadi, poiché non rispondono più
ai loro elettori, ovvero al popolo, ma alle loro fratellanze.
E di
questo, mezzo paese se ne è già accorto!
Megas
Alexandros (alias Fabio Bonciani).
(megasalexandros.it/mezzo-paese-non-vota-piu-e-rifiuta-il-regime-dei-partiti/)
Il
trionfo dell’élite
Manageriale.
Kriticaeconomica.com
– Luca Gritti – (3-2-2023) – ci dice:
(trionfo
élite manageriale – libro di Alessandro Casiccia – Bollati Boringhieri)
(Editing:
Alessandro Bonelli)
"Il
Novecento è stato il secolo dell'affermazione dei manager. In seguito, con il
pieno trionfo delle élite dirigenziali, si è resa però visibile anche la loro
deludente risposta alle attese della società".
C’è un
aspetto centrale nella storia del capitalismo moderno, di cui forse non
cogliamo appieno l’importanza nel senso comune. È il passaggio di testimone, al
vertice delle grandi aziende mondiali, dalla vecchia figura dell’imprenditore a
quella del manager.
Lo
abbiamo studiato in un testo di Alessandro Casiccia, già professore di
sociologia all’Università di Torino: Il trionfo dell’élite manageriale. Oligarchia e democrazia nelle imprese.
È un
libro dei primi anni Duemila, quando il tessuto industriale italiano iniziava a
esplodere ingloriosamente per scandali finanziari abnormi (la Parmalat, la
Cirio, la Fiat sull’orlo del fallimento).
Sembra
una vita fa, ma forse le cose non sono cambiate in modo così clamoroso da
allora.
La
transizione fra imprenditori e manager studiata da Casiccia è in realtà un
fenomeno antico, analizzato già a partire dal primo Novecento, quando i manager
erano chiamati “tecnici”.
Molta
critica sociale, in particolare di matrice marxista, ha guardato con diffidenza
a questi studi.
Il
manager e l’industriale non sarebbero troppo diversi:
entrambi
nemici di classe.
Tuttavia, quello che propone Casiccia non è un
giudizio di valore sulla preferibilità politica di manager o imprenditori.
L’autore, piuttosto, registra analiticamente
un cambio oggettivo di élite, che ha determinato in seno al capitalismo una
mutazione sostanziale nello stile, nell’ideologia, nella gestione.
Le
origini.
Casiccia
parte nella sua analisi dagli studi di “Thorstein Veblen”, sociologo ed
economista statunitense.
Già
nei primi decenni del Novecento,” Veblen” rilevò il passaggio dalla guida
dell’imprenditore a quella del tecnico qualificato, un organizzatore dei
processi produttivi di formazione ingegneristica.
Thorstein
Veblen (1857-1929).
Erano
gli anni in cui si affermava il taylorismo, e il capitalismo si ammantava di
una razionalità algida, perfetta e calvinista, come quella analizzata da “Max
Weber”.
Il
vecchio capitalismo dell’imprenditore era troppo istintivo, troppo affidato
all’azione del momento, troppo sentimentale, poco pianificato. Insomma, troppo
poco scientifico.
“Taylor”
aveva spiegato che la massimizzazione del profitto derivava da
un’organizzazione scientifica del lavoro.
Quindi, bastava affidarsi ad un tecnico che la
sapesse organizzare, e il profitto al massimo grado era assicurato.
Per
quanto questa visione possa richiamare alla nostra immaginazione lo
stakanovismo coatto imposto ai lavoratori di “Amazon”, “Veblen” vedeva in
questa organizzazione tecnocratica del lavoro un orizzonte perfino
emancipatorio per gli operai.
Lavorando
meglio si sarebbe lavorato meno, liberando tempi nuovi di vita, socialità,
creatività.
In certi testi scriveva perfino del “soviet
dei tecnici”.
Questa
visione ottimistica dell’avvento di un’élite tecnocratica ai vertici delle
aziende non ha tardato molto tempo ad essere smentita dalla realtà, anche se,
in alcuni circoscritti casi, l’utopia vaticinata da “Veblen” è stata quantomeno
sperimentata.
D’altra
parte, è curioso notare come, nello stesso periodo di “Veblen”, due altri
importanti economisti, “Joseph Schumpeter “e “Werner Sombart”, svolgessero
analisi di segno completamente opposto.
Di
fronte all’avvento della tecnocrazia organizzata, “Schumpeter” rimpiangeva la
figura dell’imprenditore, dotato di creatività, propensione al rischio,
leadership e attitudine alla decisione non calcolata.
La figura dell’imprenditore nei testi di “Schumpeter
“diventa quasi un archetipo, come l’ “Operaio” in quelli di “Ernst Junger” - un
misto di carisma weberiano e superomismo nicciano, l’eroe della nostra epoca
privata di epica.
Joseph
Schumpeter (1883-1950).
Crediti:
Volkswirtschaftliches Institut, Università di Friburgo in Brisgovia.
In “Sombart”,
invece, vediamo una critica della piega presa dal razionalismo del capitalismo
moderno.
A suo
giudizio, nella sua versione originaria ed embrionale, il capitalismo aveva un
anelito alla libertà, all’emancipazione da vecchie regole, all’individualismo
totalmente istintivo e perciò irrazionale, persino ancestrale.
“Sombart
“avrebbe poi rintracciato il ritorno della vitalità del capitalismo nelle
origini nel nazismo, concludendo così la sua carriera in modo infausto e
attestandosi su scritti senili retorici e mediocri.
In
America il dibattito su questi temi era infuocato al punto che negli anni
Trenta comparve un movimento di avanguardia intellettuale, chiamato “Technocracy”,
che salutava nell’avvento degli ingegneri una classe elitaria di lavoratori.
Essi
avrebbero dovuto appropriarsi della gestione delle aziende, strappandole a
imprenditori sempre più anacronistici e parassitari, per restituire la piena
organizzazione ai lavoratori nella loro totalità, in una perfetta coincidenza
di apogeo tecnico-organizzativo e emancipazione sociale.
Il bersaglio polemico di questo movimento era
la vecchia classe di imprenditori, affarista e corrotta, e i politici loro
conniventi.
“Casiccia”
nota che, nello stesso periodo, nacque in ambito agricolo un altro movimento
antipolitico, di segno opposto, in cui la stessa critica alla politica corrotta
e affarista si declinava però in un “elogio della vecchia America rurale,
contadina e pretecnologica”.
A chi
scrive pare che questa contrapposizione tra due Americhe, irriducibili ma con
in comune solo l’avversione per la politica istituzionale, racconti molto bene
anche gli Stati Uniti di oggi.
La
partecipazione come risposta.
Anche
in Europa gli anni Trenta furono un formidabile laboratorio di indagine su
proposte sociali radicali.
Schiacciati
tra l’incubo del dirigismo sovietico e quello del capitalismo statunitense, che
sembrava destinato a collassare dopo il ’29, i paesi europei formulano ipotesi
di ricerca su nuove forme di organizzazione operaia, su un nuovo interventismo
dello stato in economia (sulla scorta delle politiche keynesiane) e sulla
partecipazione diretta degli operai nelle aziende.
Karl
Polanyi (1886-1964).
Su
tutte, quelle che troneggiano sono probabilmente le riflessioni di “Karl
Polanyi” sulla “democrazia industriale”:
un
piano in cui i dirigenti d’azienda fossero votati dagli stessi operai, dopo
discussioni libere sulle loro proposte di organizzazione industriale, gestione
del lavoro e progetti di ricerca e sviluppo.
Queste
proposte sono accomunate da una specificità preziosa, che poi si perderà nelle
battaglie operaie del Dopoguerra.
Le
questioni sollevate da questi studiosi non erano (come saranno quelle dagli
anni Cinquanta in poi) finalizzate a battaglie di resistenza (migliori
condizioni di lavoro, contributi pensionistici, tetto del monte-ore, tutele
sociali e assistenziali), bensì a battaglie di partecipazione.
Quello
che si rivendicava era una partecipazione al controllo della fabbrica da parte
degli operai.
Questa
è forse l’eredità più importante di quella stagione, quella che oggi andrebbe
di nuovo indagata, battuta, esplorata.
Purtroppo, molte suggestioni interessanti
furono perdute.
Anche
perché di alcune di esse si appropriarono i totalitarismi, deviandole poi verso
la soppressione della dialettica sindacale e l’assoluta sudditanza operaia al
potere politico e industriale (come nel corporativismo fascista).
Riprendere quel discorso nel dopoguerra, così,
divenne ancora più complicato.
La
prospettiva dell’autonomia.
In
ogni caso,” Casiccia” solleva un punto fondamentale quando fa notare che le
battaglie degli anni Trenta sono ispiratrici perché, anziché imbastire un
atteggiamento di resistenza, ne promossero uno di riconfigurazione industriale
in senso non capitalistico.
Ai marxisti più puri questo potrebbe certo
apparire come un cedimento al riformismo più tiepido e un tradimento
dell’ideale rivoluzionario.
A chi
scrive, però, pare una prospettiva più entusiasmante ed intrigante.
Per
tutti gli anni del Dopoguerra le battaglie operaie svolte nel nome del
comunismo contennero questo paradosso:
si
rivendicavano migliori condizioni sociali all’interno dell’ambito del
capitalismo stesso, aspettando una rivoluzione che era come Godot, ogni anno
più improbabile e, in fondo, indesiderata.
Era l’escatologia, il messianismo applicato
alla politica, il differimento costante come orizzonte della lotta.
A un
certo punto, quando l’idea di rivoluzione sbiadì, le forze della sinistra si
adeguarono al capitalismo, e dagli anni Ottanta arretrarono in tutto il mondo
occidentale nelle conquiste degli anni precedenti.
Tutto ciò che si fermava ad accarezzare l’idea
della rivoluzione fu dato per sorpassato, Berlinguer e i sindacati furono
spazzati via dalla marcia dei quarantamila.
Oggi,
però, si può tornare a tessere la tela interrotta, evitando di bloccarsi in una
strategia di mera resistenza.
Pretendere una cogestione degli operai agli
affari della fabbrica implicherebbe un’evoluzione del capitalismo in qualcosa
d’altro, senza dover attendere passaggi storici messianici.
Un
passo del genere potrebbe dare il là col tempo a cambiamenti più durevoli,
radicali e profondi.
Non c’è bisogno di cesure enfatiche.
È una
rivoluzione quotidiana che deve partire dalla situazione concreta.
L’escatologia comunista (come la degenerazione del cristianesimo criticata da
Nietzsche) aveva caricato tutto l’orizzonte di cambiamento nel futuro svuotando
il presente di ogni possibilità riformista sostanziale.
L’idea
di democrazia industriale, invece, restituisce alle battaglie operaie il qui ed
ora.
Le due
anime del capitalismo.
Proseguendo
la sua disamina storica sulle forme di gestione aziendale, “Casiccia” osserva
che dalla metà del Novecento in avanti i due modelli di capitalismo (quello
imprenditoriale e quello tecnocratico-dirigista) non hanno avuto una netta
prevalenza l’uno sull’altro.
Al
contrario, convivono e si ibridano in una forma meticcia.
La
giungla da una parte e la “burocratizzazione del mondo” dall’altra.
Da una
parte, con gli anni Ottanta e la nuova ondata di liberismo, ritornano il
laissez-faire, la mitologia dell’imprenditore e del mercato che si autoregola,
l’utopia di un liberismo che rasenta il darwinismo sociale.
Dall’altra
sopravvive, anche in questo mondo, un’anima dirigista, tecnocratica e con
pretese regolatorie dettate da leggi scientifiche.
Una
tendenza che vorrebbe irregimentare la mano invisibile e programmare
l’evoluzione dell’economia evitando gli imprevisti, i sussulti e le sorprese
anche scioccanti congenite alla natura stessa del capitalismo.
Margaret
Thatcher e Ronald Reagan.
Queste
due tendenze del capitalismo globale non solo si meticciano, ma si incardinano
anche in élite economiche distinte.
Due
aree che collaborano e si influenzano per ciò che serve, ma che si guardano
storto e si dibattono in fragorose battaglie sotterranee sul futuro
dell’economia mondiale.
Questo
basta a chiarire che le cose sono un po’ più complesse di quanto pretendono di
far credere tanti teorici del complotto:
una élite mondiale esiste, ma non è omogenea,
unidirezionale e unanime.
In seno ad essa esistono diverse correnti, e
in questo tempo come in ogni epoca storica è questa guerra tra aristocrazie
(tra visioni dell’uomo, del mondo e della vita) che determina gli sviluppi
storici in un senso o nell’altro.
L’orizzonte
della lotta.
In
questo processo, “Casiccia” sottolinea almeno tre cambiamenti strutturali
dell’economia mondiale, che hanno implicato modifiche fondamentali
all’orizzonte.
Innanzitutto,
in questi decenni l’economia si è terziarizzata.
I
mercati preponderanti non sono più quelli di beni manifatturieri, ma di dati,
di strumenti finanziari, di servizi.
Ancora,
il capitalismo moderno si è deterritorializzato.
Non
solo le grandi aziende trascendono le giurisdizioni dei singoli stati, ma anche
le singole sedi non sono più localizzate in un posto fisico circoscritto - la
fabbrica.
Dovunque
ci sono esternalizzazioni, diversificazioni, appoggio ad altre strutture.
Come
fare una battaglia se questa coinvolge la multinazionale produttrice, quella a
cui essa si appoggia per la comunicazione, quella a cui si appoggia per la
logistica?
Qual
è, insomma, l’interlocutore della battaglia sindacale?
Una
soluzione accennata da” Casiccia” in questo caso è di tornare alla nozione di “Alfred
Marshall” dei dipartimenti industriali, che tanta importanza ha avuto anche
nella tradizione degli economisti italiani.
Infine,
e forse è questa la questione più importante, la terziarizzazione ha
frammentato non solo la gestione, ma anche il lavoro.
Il
lavoro è disseminato, frammentato, disarticolato.
Ad una
stessa azienda contribuiscono autonomi, lavoratori esterni, lavoratori a
contratto, collaboratori sporadici, con scarso senso di appartenenza ad una
classe o ad una categoria.
Il proletariato, come unità storica e sociale,
è in via d’estinzione.
Qual è,
allora, il soggetto della battaglia sindacale?
Chi
sta nella stanza dei bottoni?
Infine,
il libro contiene una riflessione notevole sul comando delle aziende nel
contesto del capitalismo globale.
Da una parte, “Casiccia” ritiene che,
realisticamente, anche una democrazia industriale dovrebbe tenere a mente la
necessità del concetto di gerarchia decisionale.
Le questioni odierne sono di una tale
complessità che non si può pensare di mettere tutto a voto.
Tuttavia,
l’autore è inflessibile nella sua critica ai grandi manager.
Non a
caso, il libro fu pubblicato in anni disseminati di crac finanziari, causati
spesso dalle operazioni spregiudicate dei dirigenti.
È come se alla fine i tecnici, lungi
dall’introdurre la perfetta razionalità in economia, avessero portato con sé il
peggio di ciò che attribuivano agli imprenditori storici: la volubilità, la
scarsa premeditazione, l’istinto nella sua accezione deteriore, la decisione
improvvisa e incosciente.
Ma “Casiccia”
è ancora più sottile, e ammette che la complessità del capitalismo finanziario
lascia un velo di indeterminatezza sulla reale responsabilità del singolo
individuo.
Il
punto, in sostanza, è che il capitalismo finanziario non ha nulla di razionale.
I casi
dei manager citati da Casiccia sono di conclamata incompetenza e immoralità.
Ma,
per assurdo, anche un manager integerrimo e perfettamente razionale (ammesso
poi possa esistere) potrebbe incorrere in un errore di valutazione investendo
su qualcosa che è reputato sicuro e che invece, per ragioni imperscrutabili e
irrazionali, produce un’enorme perdita, che si riversa a cascata anche sugli
incolpevoli dipendenti.
Al di
là dell’avventatezza dei singoli manager, alla radice del fallimento del
capitalismo manageriale c’è la sua fallacia teorica iniziale, il suo assunto
dogmatico di base:
che si
possa calcolare con l’esattezza di un meccanismo razionale perfetto il mercato,
che in quanto luogo abitato da uomini è determinato anche da sentimenti,
passioni, mode, paure, invaghimenti, scelte d’istinto e dinamiche di psicologia
collettiva che non hanno nulla di razionale.
Il
fallimento del capitalismo manageriale è il fallimento dell’utopia del
razionalismo weberiano.
Il mondo non sarà mai burocratico e
perfettamente regolato, le passioni umane produrranno sempre qualcosa di
eccedente rispetto a questo meccanismo.
Con un
esito solo apparentemente paradossale, “Casiccia” arriva a dire che un grande
manager allora non è un esperto di pianificazione e organizzazione scientifica,
ma al contrario chi sa prendere decisioni nuove di fronte a situazioni
impreviste, stocastiche.
Dio non gioca a dadi, ma il capitalismo
probabilmente sì.
Proposte
concrete.
“Casiccia”
alla fine individua tre soluzioni praticabili di partecipazione degli operai
alla gestione in seno all’industria.
La
prima è quella, già molto diffusa, dell’acquisto da parte dei dipendenti di
azioni dell’azienda.
In
realtà, questa soluzione è abbastanza debole:
se la gestione dell’azienda continua ad essere
verticistica, in caso di perdite in quel caso il dipendente paga due volte:
come dipendente e come azionista…
La
seconda è una integrale gestione dell’impresa da parte dei dipendenti, come nel
caso delle aziende cooperative nella loro vocazione originaria.
La terza è quella dell’esperienza dell’”employee
buy-out, la soluzione per cui un’azienda viene rilevata dagli operai dopo il
proprio fallimento.
Evidentemente,
nessuna di queste soluzioni è sufficiente.
Ogni
studioso che abbia detto qualcosa in questo senso va riletto, meditato,
analizzato.
E queste nuove forme di organizzazione
industriale, per avere una validità, dovrebbero anche rintracciare una cornice
istituzionale, che quindi si integrerebbe con un nuovo protagonismo dello Stato
nella gestione dell’economia.
I
confini per ipotizzare una riforma - forse la più decisiva della nostra epoca -
sono stretti e tortuosi.
Ma i modelli del passato ci confermano che si tratta
di una strada possibile.
D’altra parte, questa è la sfida politica del
nostro tempo:
conferire un carattere sostanziale alla
democrazia o vederla soccombere.
Per
difendere le democrazie
sotto
attacco bisogna
migliorarne
la qualità.
Asvis.it
– Flavia Belladonna- (13 ottobre 2023) – ci dice:
Un
viaggio tra i regimi del mondo, per seguire l’evoluzione e le minacce a questa
forma di governo che va protetta e nutrita, anche in Italia.
La partecipazione politica va curata, se si
vogliono scelte coraggiose dai governanti.
La
guerra lanciata sabato scorso da “Hamas” e appoggiata dall'Iran è il richiamo
più forte e drammatico agli Stati Uniti e all'Europa:
gli attacchi alle democrazie e alla democrazia
si moltiplicano, non è più tempo di incertezze e divisioni.
Con
queste parole “Danilo Taino”, sul Corriere della Sera, affronta il tema della
libertà sotto attacco nel disordine globale.
Il conflitto a Gaza tra palestinesi e
israeliani, riacceso pochi giorni fa dal colpo inedito sferrato da Hamas che ha
portato da una parte e dall’altra a migliaia di vittime civili, fa seguito alla
guerra in Ucraina.
Come
sottolinea il giornalista, stiamo vedendo gli effetti dell’aggressione russa,
che “ha esaltato despoti e terroristi in sonno e ha aperto loro la strada per
cercare di imporre con la forza equilibri a loro favorevoli”.
Così
il mondo si sgretola:
in Africa subsahariana crollano molte
democrazie sotto i colpi di jihadisti e milizie filorusse, la Cina strizza
l’occhio a nuovi dittatori, in Corea del Nord si alza il livello delle
provocazioni, l’Iran trova nuovo vigore dopo le repressioni delle donne, in
Europa crescono le tensioni tra Serbia e Kosovo e in America Latina Venezuela e
Cuba continuano l’appoggio a Russia e Cina.
Insomma,
l’ordine internazionale uscito dalla Seconda guerra mondiale, fondato su
regole, libertà di espressione e di movimento, commerci aperti e Stato di
diritto, rischia di crollare e deve mettere in allarme ognuno di noi.
Difendere il modello democratico vuol dire
scegliere la risoluzione pacifica delle controversie, maggiori libertà e
diritti, partecipazione civile.
A
volte rischiamo di darla per scontata, ma la democrazia va protetta e nutrita
per garantirne la qualità.
Ma
quand’è che una democrazia è realmente tale?
Quale
l’evoluzione delle forme di governo nel mondo e in Europa?
E
soprattutto, come possiamo garantire in Italia una democrazia di qualità?
Proviamo a esaminare le questioni partendo da
alcuni dati, in particolare dal fatto che il nostro non è un Paese considerato
pienamente democratico.
Secondo
l’Economist, l’Italia non è una “full democracy” ma una “flawed democracy”,
ovvero una democrazia imperfetta.
Nel
Democracy index 2022, la classifica annuale del settimanale politico-economico
sullo stato di democrazia di 167 Paesi del mondo, le nazioni sono valutate come
democrazie piene, democrazie imperfette, regimi ibridi o autoritarismi in base
a cinque parametri:
processo
elettorale e pluralismo, funzionamento del governo, partecipazione politica,
cultura politica e democratica e libertà civili.
Il migliore governo del mondo è quello della
Norvegia, seguita da Nuova Zelanda e Islanda, in cima alle 24 democrazie piene.
Tra i 48 Paesi a democrazia imperfetta
troviamo l’Italia, che occupa la 34esima posizione globale con un punteggio di
7,69, soprattutto grazie al processo elettorale e al pluralismo (9,58), ma in
calo di tre posti rispetto al 2021, risultando meno adeguata dal punto di vista
del funzionamento di governo (6,79) e negli altri parametri.
Seguono 36 regimi ibridi e 59 autoritarismi,
con l’Afghanistan che chiude la classifica.
Dall’indice
emerge a che punto sono oggi le democrazie nel mondo, ma è interessante cercare
di capire anche dove stanno andando.
Secondo “Freedom House”, la lotta per la
democrazia nel mondo è molto vicina a un punto di svolta.
Come spieghiamo in questa notizia, infatti, il
deterioramento della libertà nel mondo è avvenuto per il 17esimo anno
consecutivo, con il numero dei Paesi dove le libertà democratiche sono in
declino che ha sempre superato il numero di Paesi che invece migliorano il loro
tasso di democraticità, ma nel 2022 lo scarto tra un gruppo e l’altro si è
assottigliato.
Le
cose potrebbero dunque finalmente cambiare, anche perché sebbene nel mondo il
processo di democratizzazione abbia subìto battute d’arresto, la gente comune
continua a difendere i propri diritti contro l’autoritarismo.
La lotta in Iran, soprattutto delle donne, ne
è un esempio.
Ma non
si tratta solo di vedere quante democrazie ci sono nel mondo, che certamente è
importante, ma anche la loro qualità.
In un libro di “Martin Conway” in uscita
proprio oggi, dal titolo “L'età della democrazia. L'Europa occidentale dopo il
1945” (raccontato sul Corriere della Sera), l’autore evidenzia che il modello
di democrazia emerso nell'Europa occidentale dopo il 1945 era figlio di
quell'epoca, e come tale non basta “aggiornarlo” per rappresentare
adeguatamente le società del 21esimo secolo:
dovremmo
forse interpretare ciò che sta accadendo oggi e che accadrà nei prossimi anni
non come la fine della democrazia, “ma come la transizione da un modello
democratico a un altro”.
Di
fronte all’incertezza, all’evoluzione delle tecnologie, alla crescente
polarizzazione e alle esigenze delle attuali società, è importante dunque
rifondare un dibattito sulla democrazia per evolvere verso una “democrazia 2.0”
in grado di rispondere alle nuove sfide.
L’Unione
europea si sta già mobilitando per difendere una democrazia di qualità.
Di
fronte all’impennata di restrizioni alla democrazia, allo spazio civico e allo
Stato di diritto in tutta l’Ue degli ultimi anni, “Civil society Europe”,
importante rete europea di organizzazioni della società civile, ha pubblicato
un “Rapporto con sei raccomandazioni” per un’Unione più democratica su temi che
vanno dai diritti alla libertà di movimento, ma anche a politiche sociali e di
sicurezza, clima e digitalizzazione.
Inoltre, fin dal 2020 la Commissione europea
ha adottato il” Piano d’azione europeo per la democrazia 2020-2024 “e
recentemente un gruppo di esperte ed esperti in Germania e Francia ha avanzato
una proposta di riforma dell'Ue, da attuare contestualmente all'allargamento a
nuovi Paesi (Ucraina e non solo), che propone regole più severe sullo Stato di
diritto, nuove procedure di voto al Consiglio europeo e un bilancio dell'Ue più
ampio.
E
l’Italia?
La
parola democrazia deriva dal greco, “demos” e “crato”, e vuol dire che il
comando è in mano al popolo.
Abbiamo
visto che, se secondo l’Economist la nostra democrazia è molto valida su
processo elettorale e pluralismo, è sul funzionamento del governo,
partecipazione politica, cultura politica e democratica e libertà civili che
dobbiamo lavorare per garantire questo effettivo comando del popolo italiano.
Nell’analisi
sullo stato di diritto del nostro Paese, l’Ue ha evidenziato alcune criticità,
tra cui che:
i tre
decreti su migrazione e condotta delle organizzazioni della società civile
introdotti tra ottobre 2022 e gennaio 2023 potrebbero avere, o hanno già,
ripercussioni negative sull'operato delle organizzazioni della società civile e
potrebbero limitare la libertà di associazione e la protezione dello spazio
della società civile;
sono aumentati gli attacchi retorici contro le
organizzazioni della società civile, in particolare quelle umanitarie, che si
occupano di questioni migratorie, comprese campagne denigratorie contro il loro
lavoro;
destano
preoccupazione gli attacchi, le minacce e altre forme di intimidazione nei
confronti dei giornalisti (nei primi tre mesi del 2023 censiti 28 episodi
intimidatori);
il disegno di legge sull’ “abrogazione
dell’abuso d'ufficio” rischia di depenalizzare importanti forme di corruzione e
potrebbe influire sull'efficacia dell'individuazione e del contrasto della
corruzione.
I
valori democratici possono essere minati da possibili decisioni sbagliate
dall’alto, ma anche a causa di decisioni assenti o disinformate dal basso.
Per
contrastare il fenomeno delle urne vuote è necessario realizzare un forte
lavoro di educazione alla partecipazione politica, a partire dalle scuole, per
sensibilizzare sull’importanza del voto, contrastare la disaffezione dei
cittadini, incoraggiare ad approfondire i programmi elettorali e informarsi
attraverso dati concreti e attendibili.
Occorre
poi lavorare seriamente per ricostruire la fiducia dei cittadini nella politica
restituendogli credibilità, al fine di contrastare la rinuncia al voto generata
da una frustrazione generale verso il sistema politico e dalla convinzione che
il proprio voto non conti nulla o che in ogni caso andrà a una casta
privilegiata e corrotta.
Secondo
un recente rapporto di “Actionaid” sulla qualità della democrazia, che racconta
i modi in cui la società civile prende parte ai processi decisionali e politici
del Paese, bisogna ragionare sulla democrazia non come una sequenza di momenti
elettorali, ma piuttosto come processo continuo e dinamico;
dobbiamo
dunque riflettere sulla reale qualità del potere che i cittadini possono o meno
esercitare nell’esprimere le rappresentanze, per sfidarle e stimolarne il
potenziale.
Lavorare
dal basso per avere buone risposte dall’alto è importante, perché senza una
forte partecipazione popolare i leader politici difficilmente riusciranno a
compiere le scelte coraggiose necessarie per garantire un pieno rispetto dei
diritti e per realizzare una transizione giusta.
Per questo, nei prossimi mesi, l’ “ASviS”
pubblicherà un documento proprio sul ruolo chiave della partecipazione politica
ed elettorale e sulla partecipazione giovanile alla vita civile democratica.
C’è
infine il tema delle tecnologie.
In un’era in cui le cittadine e i cittadini
sono abituati a esprimere continuamente la loro opinione attraverso i “social”,
il modello democratico tradizionale rischia di risultare obsoleto e di far
sentire le persone non ascoltate.
Esistono delle criticità per questa modalità,
come il fatto che le decisioni degli eletti vengono messe in discussione in
rete con la possibilità di condizionare i comportamenti alla ricerca di
popolarità.
Sarebbe
importante approfondire e regolamentare gli strumenti innovativi di
partecipazione democratica digitale per rispondere alle nuove esigenze della
società, tutelandola al tempo stesso dal rischio di manipolazioni.
Con le
giuste modalità, e prestando attenzione a non esacerbare il divario digitale,
la tecnologia potrebbe rigenerare la democrazia.
Insomma,
sono tanti i nodi da affrontare per camminare verso una democrazia sempre più
piena, ma è da essa che dipenderanno il rispetto dei nostri diritti, le
libertà, la pace, le opportunità e anche quindi la qualità della vita.
Come afferma “Alessandro Magnoli Bocchi”,
autore del libro “Quale futuro per la democrazia?” uscito a settembre in
libreria,
Il
processo di evoluzione della democrazia – lungi dall’essere concluso – deve
poter continuare.
L’odierna democrazia liberale ha impiegato
millenni per emergere e affermarsi come forma di governo cui aspirare, e
richiede un continuo sforzo di promozione e consolidamento.
Basandosi
sul consenso, richiede legittimità.
Specie
se diretta, esige elettori preparati e governanti competenti.
Per
decenni, ha garantito prosperità e libertà, ma oggi è fragile.
Va rafforzata con scelte coraggiose.
Il
momento è cruciale, ma è in tali momenti che si determina il futuro.
È ora di creare società migliori, funzionanti.
Se non
ora quando?
In
Brasile un attacco
alla
democrazia.
Lavoce.info
- ANTONELLA MORI – (16/01/2023) – ci dice:
(IN
GIUSTIZIA, INTERNAZIONALE)
L’assalto
a Brasilia è stata un’azione di destabilizzazione, che sembra rientrare in una
strategia per creare instabilità politica e indebolire il programma di governo
di “Lula”.
Sono a
rischio anche gli obiettivi ambientali e di riduzione della povertà.
L’attacco
dell’8 gennaio.
L’8
gennaio, una folla di sostenitori di estrema destra dell’ex presidente
brasiliano “Jair Bolzonaro “ha preso d’assalto le principali istituzioni dello
stato a Brasilia, il Congresso, il Tribunale supremo federale e il Palazzo
presidenziale.
Le
istituzioni democratiche hanno reagito in modo compatto e deciso all’attacco,
che però ha messo in evidenza le spaccature nel paese.
Il
neoeletto presidente di sinistra “Luiz Inácio “Lula” da Silva” ha iniziato il
suo mandato con un’agenda ambiziosa per quanto riguarda la riduzione della
povertà e della disuguaglianza e la protezione dell’Amazzonia, ma forse
l’obiettivo più difficile da perseguire sarà quello di riunificare un paese
così polarizzato.
Per
mesi, anzi anni, prima delle elezioni presidenziali brasiliane del 2022, “Bolzonaro”
aveva gettato discredito sulla democrazia e sulle autorità elettorali.
Secondo l’ex presidente il sistema di
votazione elettronico non era affidabile, anche se non ci sono mai state prove
che sostenessero l’accusa, e solo con brogli elettorali avrebbe perso le
elezioni.
Quindi, dopo la vittoria di “Lula” al
ballottaggio dello scorso ottobre, i sostenitori di “Bolzonaro” hanno iniziato
a contestare il risultato elettorale e a chiedere un intervento militare per
deporre “Lula”.
Le contestazioni sono state incoraggiate da “Bolzonaro”,
che non ha riconosciuto la vittoria di Lula e ha lasciato il paese per non
dover assistere alla cerimonia dell’insediamento. Le accuse di brogli
elettorali dei fedeli all’ex-presidente sono state favorite dal piccolo margine
di vantaggio di Lula (2 milioni di preferenze su circa 120 milioni di voti).
Così,
domenica 8 gennaio migliaia di estremisti bolsonarismi, che da alcune settimane
erano accampati fuori dal quartier generale dell’esercito a Brasilia, hanno
raggiunto in corteo le sedi istituzionali del potere e alcune centinaia di
manifestanti sono entrati nei palazzi deserti, danneggiandoli e
saccheggiandoli. Le forze dell’ordine presenti non hanno opposto resistenza e
vi sono indagini in corso per stabilire se vi sia stata solo incapacità di
fronteggiare l’assedio, oppure complicità, se non addirittura esplicito
appoggio agli assalitori.
Sono dubbi legittimi perché all’interno
dell’esercito il supporto per Bolzonaro, ex-militare, è sempre stato molto
ampio.
Nelle
ore successive, la polizia ha arrestato circa 1.500 manifestanti e smantellato
il loro accampamento.
Era
prevedibile che i sostenitori più estremisti di Bolzonaro avrebbero continuato
a manifestare contro il nuovo governo.
Tuttavia,
l’insediamento di “Lula” il 1° gennaio si era svolto senza alcun incidente e
molti si erano illusi che un attacco simile a quello di due anni fa a Capitol
Hill (Washington) non sarebbe più successo.
L’assalto
a Brasilia è stata un’azione di destabilizzazione, che sembra rientrare in una
strategia per creare instabilità politica e indebolire la governabilità di”
Lula”. Anche nei giorni successivi vi sono state proteste e mobilitazioni di
bolsonarismi in varie città brasiliane.
Le
istituzioni democratiche e giudiziarie del Brasile hanno risposto rapidamente e
in modo fermo all’attacco.
Sono
state aperte numerose indagini per stabilire responsabilità dirette e indirette
a tutti i livelli.
A
rischio l’agenda di “Lula”.
Le
istituzioni democratiche brasiliane sembrano quindi aver reagito bene
all’attacco, rafforzate anche da un forte sostegno internazionale. Anche se
qualche elettore più moderato di Bolzonaro potrebbe decidere di cambiare campo,
il paese rimane molto polarizzato e i bolsonarismi più estremisti sono numerosi
e ben organizzati. Secondo un sondaggio condotto da “Atlante” l’8 e 9 gennaio,
tre brasiliani su quattro non erano d’accordo con l’assalto alle istituzioni a
Brasilia, ma il 18,4 per cento ha dichiarato di essere d’accordo (gli altri
erano indecisi).
Dal sondaggio emerge, inoltre, che circa il 40
per cento dei brasiliani pensa che” Lula” non abbia vinto le elezioni.
Durante
l’insediamento, il presidente “Lula” ha dichiarato che governerà per tutti i
brasiliani e che vuole riunificare il paese.
Dopo solo una settimana al governo
l’obbiettivo sembra molto più difficile da realizzare.
In più l’emergenza sulla sicurezza nazionale,
che ora dovrà affrontare, ritarderà l’attuazione del resto del suo programma di
governo.
“Lula”
si è impegnato a ridurre a zero la deforestazione dell’Amazzonia entro il 2030,
obiettivo che va contro gli interessi di molti sostenitori di Bolzonaro, legati
all’attività dell’agribusiness e dell’estrazione mineraria.
L’instabilità
interna rallenterà gli interventi per la protezione ambientale, come
probabilmente molti bolsonarismi si augurano.
Se
tutta l’agenda del governo” Lula” verrà ostacolata, sarà grave non solo per la
sostenibilità ambientale e per la lotta ai cambiamenti climatici, ma anche per
la possibilità di ridurre la povertà e la disuguaglianza in Brasile attraverso
migliori politiche sociali ed economiche.
L'allargamento
normativo
della
nozione di «sicurezza»,
la
solidarietà istituzionalizzata
e
l'attacco neoliberista.
Cosmopolionline.it - Laura Pennacchi –
(10-3-2022) – ci dice:
Nell'evoluzione
dallo Stato assoluto allo Stato democratico moderno si produce una
riattualizzazione del programma che si affermò agli albori dell'assolutismo e
che configurò anche l'originario diritto alla tutela dalla violenza fisica come
pretesa dei cittadini a un intervento difensivo dello Stato:
disarmare la nobiltà, che mediante gli
eserciti privati aveva monopolizzato la sicurezza, e redistribuire la sicurezza
dai nobili agli uomini e alle donne comuni.
Con ciò lo Stato si rivela “strumento di
libertà”, di rimedio all'anarchia e di contrasto dell'ingiustizia e
dell’oppressione che ne deriva, di neutralizzazione dei monopoli e di
limitazione del potere privato, il quale è minaccia per la sicurezza – come già
aveva compreso” Adam Smith” – alla stessa stregua del potere pubblico.
E con
ciò si spiega perché la traiettoria semantica della parola “sicurezza” si
allarghi dai diritti civili classici (come l’ “habeas corpus”, “la tutela
dall’arresto” e dalla “detenzione arbitraria” ecc.) ai diritti sociali moderni
– tra cui la gratuità del patrocinio legale per i poveri, la creazione di
un'edilizia abitativa pubblica, l'istituzione di sussidi per il pagamento
dell'affitto, l'istruzione elementare obbligatoria – e ad alcuni diritti
economici rivolti in particolare a tutelare gli individui dai capricci
educativi delle famiglie e dalle fluttuazioni del mercato.
L'osservazione
della funzione istitutiva della stessa libertà svolta dallo Stato e dalla sfera
pubblica consente di vedere quanto sia spesso fuori luogo la denunzia del
paternalismo dello Stato fatta in nome dell'autonomia dei cittadini, in
particolare contro le istituzioni e le politiche del welfare state.
A tal
proposito si può ricordare che:
a) gli
stessi liberali classici hanno sempre accettato un certo grado di paternalismo,
se esso promuove «l'autonomia delle persone», rafforza la libertà individuale
ed è «espressione dell'auto governo collettivo»;
b) l'autonomia non esiste in quanto tale ma in
quanto «organizzata», vale a dire nelle società democratiche moderne
l'autonomia «presuppone sempre dipendenza e cooperazione sociale, tecniche
indirette e strategie istituzionali».
Poiché
nel vuoto giuridico e politico non si dà autonomia, occorre riconoscere le
precondizioni e le risorse da cui l'autonomia dipende, le quali per molti
aspetti sono fornite dallo Stato
Succede per i beni sociali quello che era già
accaduto con la “pace” per la fuoriuscita dallo hobbesiano stato di natura:
l'obiettivo,
desiderato da tutti ma non perseguito da nessuno in assenza di un impegno
collettivo a cooperare per raggiungerlo, richiede un intervento del governo,
giustificato, secondo “Holme”s, «non solo dal fatto che esso protegge le
vittime involontarie, ma anche, e soprattutto dal fatto che esso consente ai
cittadini di fare insieme ciò che tutti desideriamo fare ma non siamo in grado
di fare singolarmente. In altre parole [...] l'intervento dello Stato nello
stesso tempo promuove la libertà dei cittadini e la limita».
L'applicazione
delle norme di equità rafforza l'auto direzione individuale, anche per la
motivazione universalistica e i modi con cui la triade
libertà-eguaglianza-fraternità è perseguita nell'ambito di sistemi pubblici di
cittadinanza e di protezione sociale e di dilatazione della sfera pubblica.
Se in
luogo di una motivazione universalistica prevalesse una motivazione di
appartenenza comunitaria, si potrebbe arrivare a considerare trascurabili le
conseguenze “disumane o incivili” dell'istinto di gruppo o dell'attaccamento
alla propria fazione, senza vedere che, «a dispetto della sua natura
disinteressata e del suo carattere comunitario», esso può minare «ogni
possibilità di cooperazione reciproca estesa all'intera comunità di
appartenenza».
Invece,
il riferimento alla sfera pubblica e al “welfare state” ci consente di mettere
a fuoco una forma “più rara” di disinteresse ma più pregiata, che è quella che
caratterizza i sistemi nazionali pubblici di protezione sociale.
Questi,
infatti, rappresentano modi di strutturare una solidarietà istituzionalizzata,
in cui il credito dell'individuo nei confronti della società (il diritto a
qualcosa) è strettamente saldato al debito (al dovere così contratto).
Nel
modello sociale europeo i contributi obbligatori – imposte e contributi sociali
– sono l'analogo strutturale del dovere di solidarietà, ma, mentre la
solidarietà tradizionale si manifesta nel quadro di legami personali, la
solidarietà moderna si esercita grazie alla mediazione di organismi anonimi, lo
Stato erogatore di servizi, le agenzie di pubblico interesse, le istituzioni
della previdenza sociale e così via.
Questo
tipo di solidarietà permette di estrinsecare un rapporto di obbligazione
collettiva non strutturato su un legame familiare o comunitario.
Le istituzioni basate su tale accezione del
principio di solidarietà hanno la caratteristica di esercitare una titolarità
congiunta su un credito contributivo e su un debito di prestazione
corrispondente.
Tale
doppia titolarità si manifesta in un fondo comune in cui si compensano
versamenti e prelievi, dotato di un'elevata capacità di mobilitazione di
risorse e di neutralizzazione dei rischi.
Il
legame personale tra creditore e debitore sparisce e la solidarietà si estende
a un paese intero attraverso servizi e prestazioni pubbliche che erogano – in
condizioni di parità di accesso – salute, energia, trasporti, abitazioni,
istruzione, formazione, previdenza.
È di
grande rilievo che la “Carta europea” di Nizza dei diritti fondamentali, con
l'ispirazione di rafforzare il modello sociale europeo, abbia dato nuova
estensione al principio di solidarietà, riferendola ai diritti sociali ma anche
a nuovi diritti e nuovi principi, quali il diritto del lavoratore
all'informazione, il diritto di negoziazione e di azione collettiva, il diritto
di accesso ai servizi pubblici.
Si
confermano due assi centrali del rapporto tra espansione della sfera pubblica e
democratizzazione.
Primo: eguaglianza e solidarietà non sono
concepite soltanto come modi per tutelare dai rischi ma come strumenti concreti
per esercitare libertà.
Secondo: la solidarietà costituisce l'humus
da cui può essere generato un freno all'incalzante mercificazione degli uomini
e delle cose e alla relativa crescente tendenza all'elusione delle
responsabilità.
Si
ripropone qui – sul terreno dell'incrocio tra dinamiche di democratizzazione,
sviluppo della sfera pubblica, evoluzione del welfare state – il difficile
destino della nozione di responsabilità, nell'oscillazione tra responsabilità
oggettiva e responsabilità soggettiva e tra responsabilità individuale e
responsabilità collettiva.
La nozione di responsabilità oggettiva
(responsabilità per rischio e non per colpa), codificata con le prime leggi
sugli infortuni sul lavoro della fine dell'Ottocento, è cruciale:
essa è
all'origine della nascita dei sistemi di protezione collettiva odierni, dove la
responsabilità è assunta da un centro di imputazione collettiva.
Ma
come fare quando si diffondono reti prive di centro, almeno all'apparenza, o
trame di connessione autoregolate da cui sembra sparire il soggetto e nessuno è
più chiamato a rispondere di nulla?
Dire
che tutti noi che viviamo in società siamo tenuti ad assumere responsabilità
per altri, e che nessuno può essere esonerato da questa aspettativa, non è
esattamente lo stesso che dire che non esistono diritti individuali senza
responsabilità individuali.
L'ultimo
assunto in molte circostanze semplicemente non è vero: ad esempio, se ho
mancato di curarmi dei miei figli non per questo verrò privato del diritto a un
equo processo o della libertà di parola.
Il
primo assunto (siamo tenuti ad assumere responsabilità per altri) fa
riferimento primariamente non a impegni legali ma ad aspettative morali.
Che
nessuno sia discriminato in base al genere, l'etnia, le preferenze sessuali, la
religione, la disabilità, o che per tutti siano soddisfatte le necessità
elementari della vita, sono impegni che possono essere assunti solo da
istituzioni espressione di entità collettive superiori e impersonali, in grado
di mediare nella sfera pubblica democratica diverse istanze, problemi mutevoli,
bisogni variegati e di far sì che a responsabilità da parte di tutti
corrisponda il reciproco di responsabilità nei confronti di tutti. Infatti, la
responsabilità individuale ha bisogno di un contesto siffatto per esercitarsi:
in sua assenza si verifica la “resa silenziosa della responsabilità pubblica” e
la stessa responsabilità individuale declina o si stravolge.
Qui,
nell'abbandono della “responsabilità collettiva”, troviamo uno degli aspetti
più inquietanti delle spoglie con cui il neoliberismo oggi si riproduce sotto
forma di neo populismo con forti venature decisioniste, autoritarie,
protezioniste.
Il
decisionismo odierno, infatti, ha una curvatura hobbesianamente orientata
all'affermazione della potenza, dell'interesse, della proprietà del più forte:
l'opposto
della riproposizione di un intervento pubblico finalizzato al potenziamento
della sfera pubblica, al rafforzamento della democrazia, all'esercizio della
“responsabilità collettiva” in ordine alla realizzazione del “bene comune”.
Decisionismo
significa privatismo, individualismo proprietario, negazione del fondamento
della “responsabilità collettiva”, Stato coercitivo premoderno e non Stato di
diritto (che ha a cuore la giustizia sociale e la redistribuzione della
ricchezza).
Decisionismo
significa affermazione di interessi privati che si preselezionano senza ricorso
ad alcuna mediazione istituzionale, repulsa del dibattito pubblico che si
esprime nelle sedi istituzionali e nelle aule parlamentari, spoliazione della
dimensione pubblica della politica e privatizzazione delle stesse funzioni di
governo, esaltazione dell'immediatezza della società civile che si
autorappresenta, inneggiamento alla libertà «contro» le solidarietà trasversali
e lo stato sociale («non contro lo Stato gendarme») come «sola forte libertà
che le destre liberiste-comunitariste esaltano e vogliono proteggere».
Non a
caso una posizione come quella di “Giulio Tremonti” non può essere affatto
scambiata con una posizione in favore di un nuovo intervento pubblico mirante a
esercitare “responsabilità collettiva”.
Nella
sua combinazione neo- colbertiana di neoliberismo, decisionismo, protezionismo
c'è molto interventismo ma poco intervento pubblico finalizzato al “bene
comune”, e in ciò – nel privilegiare l'interesse privato e nell'oscurare la
dimensione pubblica – si rintraccia la continuità, tra il presente del
centro-destra italiano e il suo recente passato (segnato dall'abolizione
dell'imposta di successione e donazione sui grandi patrimoni, la soppressione
del reato di falso in bilancio, lo scudo fiscale per i capitali portati
illegalmente all'estero, la miriade di condoni, la mancata risoluzione del
conflitto di interessi ecc.).
In
tale combinazione convivono i seguenti aspetti controversi:
–
l'enfasi sul «terzo settore» si propone come pendant del decisionismo e si
articola all'interno della riproposizione del mito dell'immediatezza,
dell'autosufficienza, dell'autenticità della società civile.
– Il
decisionismo è intriso di autoritarismo e di immagini di gerarchizzazione della
società (di cui è esemplificazione il giudizio, tanto negativo quanto sommario,
sul Sessantotto), di conservatorismo valoriale e di tradizionalismo religioso.
– La
distinzione destra/sinistra viene deliberatamente attutita nella sua rilevanza
attraverso un compiaciuto ricorso all'ambivalenza e all'ambiguità.
–
Viene proposta una naturalizzazione della globalizzazione di cui si chiede un
rallentamento e perfino un arresto, non un rovesciamento di qualità e di segno.
I
processi sono naturalizzati e questo inibisce la domanda su “quale
globalizzazione”.
Allo stesso modo non è pensabile per l'Europa
una funzione di promozione di una globalizzazione “equa”.
Ciò che si può e si deve configurare è solo
una “fortezza Europa”, armata di un forte protezionismo, chiusa entro un
Occidente guerrescamente visto come un monolite, ben diverso dall'“Occidente
diviso” di cui parla “Habermas”, che individua nel modello sociale europeo uno
dei tratti distintivi della specificità civilizzatrice dell'Europa.
Dunque,
sono molti i motivi che spingono a riflettere su che cosa è stato e che cosa è
il neoliberismo, nonché sull'impasto anche categoriale che lo costituisce.
“I diritti sotto attacco”.
Introduzione
di Egle Pilla
Palermo, 29 settembre 2023.
Giustiziainsieme.it
– Egle Pilla – (29 settembre 2023) ci dice:
sommario:
1. premessa - 2 -Il tema delle riforme costituzionali - 3. Il lavoro - 4. La
libertà di stampa - 5. L’immigrazione-6. I diritti. - 6.1 La famiglia -6.2. Il
Carcere - 6.3. Il fine vita- 6.4 La violenza sulle donne.
1.Premessa.
Vorrei
solo offrire qualche riflessione quanto alle ragioni che ci hanno spinto ad
organizzare la Tavola rotonda “I diritti sotto attacco.”
Come
avrete avuto modo di verificare dalla lettura del programma, quello di oggi
pomeriggio è l’unico panel congressuale, al quale seguirà - sin da oggi e nei
giorni a seguire - il dibattito libero che darà voce ai colleghi ed amici che
vorranno intervenire e ad autorevoli esponenti della politica, dell’avvocatura,
dell’accademia, dell’associazionismo, del giornalismo.
Questo
momento preliminare di confronto tra esperti, dunque, rappresenta nelle nostre
intenzioni, un’ideale linea di partenza per il percorso a seguire, un luogo per
ragionare insieme dello stato di salute della nostra democrazia e dunque dei
diritti fondanti lo stato democratico.
Li
abbiamo definiti “diritti sotto attacco”, operando già in tal modo una scelta
di campo, manifestando preoccupazione e nutrendo timore per la salvaguardia
degli stessi.
Ma quali diritti? Quale attacco?
C’è un
filo rosso che lega indissolubilmente i diritti di cui oggi discuteremo, che li
annoda con forza e li rafforza: è la nostra Costituzione.
La
Costituzione nel suo nucleo fondante e quindi nei valori tradotti in principi
si anima quando, ponendosi a contatto con i casi della vita, ci aiuta a
risolverli.
La
Costituzione è sopra di noi, oltre le diverse sensibilità e non può cedere ad
interessi particolari;
il momento attuale, tuttavia, è un momento di
grande incertezza e di fragilità e quando la Costituzione da luogo di concordia
diventa terreno di controversia;
quando
la Costituzione non è più difesa, ma ritenuta non adeguata e dunque da
modificare, occorre interrogarsi se e in che modo quei diritti in essa
consacrati, valori fondativi di una identità democratica siano in pericolo.
Partendo
da questa premessa, e non dimenticando la cornice più ampia che ha dato titolo
al nostro congresso (Il ruolo della giurisdizione al tempo del maggioritario),
abbiamo affidato a ciascuno dei nostri ospiti un tema che, nell’attuale
contesto sociopolitico, rappresenta in maniera, più o meno dichiarata, il
bersaglio di questi attacchi.
2. Il
tema delle riforme costituzionali.
Uno
dei punti più evocati nell’agenda di governo è sicuramente quello delle riforme
istituzionali e del progetto di riforma costituzionale relativo al sistema di
governo nelle forme del presidenzialismo o del premierato.
È
atteso il testo di un disegno di legge, che ha visto una previa consultazione
formale con i gruppi parlamentari delle opposizioni, cui ha lavorato il”
Ministero per le riforme istituzionali”, per una svolta presidenzialista o
molto più verosimilmente di premierato forte da intendersi quale elezione
diretta del capo del Governo con potere di nomina e revoca dei ministri.
Il
progetto di riforma segue parallelamente quello dell’autonomia differenziate
delle Regioni.
Il
rischio di torsione del sistema costituzionale e di squilibrio tra i poteri
dello Stato è forte quanto all’alterazione dei rapporti di forza tra Capo del
Governo e Presidente della Repubblica, quest’ultimo visibilmente colpito nel
suo ruolo di garante rispetto alla forza politica di un premier con un mandato
diretto degli elettori.
Senza
contare le ricadute in tema di delegittimazione dei partiti politici e di
esautoramento del ruolo e delle funzioni del Parlamento quale luogo
privilegiato di esercizio della vita democratica di un Paese.
Abbiamo pensato che sul punto l’“avv. Anna
Falcone”, giurista ed esperta sugli specifici temi potesse rappresentarci
criticità e scenari, fornendo spunti interessanti per il nostro successivo
dibattito.
3. Il tema della riforma dell’ordinamento
giudiziario.
Il 9
settembre 2023, esattamente venti giorni fa, il Comitato Direttivo Centrale
dell’Associazione Nazionale Magistrati ha deliberato un documento con il quale
ha espresso grande preoccupazione per i disegni di legge in discussione dinanzi
alla Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati laddove, nel
riprodurre fedelmente la proposta di iniziativa popolare presentata dalle
Camere Penali nella XVII legislatura si propone:
- di
cambiare la composizione dei Consigli Superiori della Magistratura, sia
giudicante che requirente, aumentando i membri di nomina politica sino alla
metà;
- di
consentire la scelta per sorteggio dei componenti togati; di vietare ai
Consigli superiori della magistratura di aprire pratiche a tutela
dell’indipendenza dei singoli magistrati e di esprimere pareri sulle riforme in
tema di giustizia;
- di abolire l’art. 107 Cost. comma terzo
della Costituzione secondo il quale i magistrati si distinguono fra loro solo
per diversità di funzioni;
- di
ridurre il principio di obbligatorietà dell’azione penale, limitandolo ai soli
casi e modi previsti dalla legge, modificando l’art.112 Cost.
L’intervento
sulla Carta costituzionale è duplice: quanto alla separazione delle carriere e
quanto ai casi e ai modi per l’esercizio dell’azione penale.
Quanto alla separazione delle carriere,
considerata dal primo firmatario della proposta quale “riforma fondamentale per
avere finalmente una giustizia efficiente giusta e trasparente”, in questa sede non penso sia il caso di
sottrarre tempo alla discussione se non per evidenziare le altre
preoccupanti indicazioni contenute nel
disegno di legge relative ad un doppio consiglio della magistratura in cui i membri di nomina politica
aumenteranno sino alla metà e all’interno del quale sarà vietato aprire pratiche
a tutela della indipendenza dei magistrati e interloquire sulle riforme in tema di giustizia.
Due gli organi di autogoverno, due le
magistrature con un evidente assoggettamento al controllo politico:
i contrappesi e le garanzie del sistema
costituzionale volte proprio ad assicurare l’indipendenza e l’autonomia della
magistratura sono poste fortemente in crisi da una modifica di siffatta
portata.
E quel principio di obbligatorietà
dell’azione penale, custodito e difeso dall’art.112 della Costituzione, a
garanzia non solo della indipendenza del PM, ma anche dell’eguaglianza dei
cittadini di fronte alla legge, è fortemente fiaccato allorquando una legge
ordinaria può, per ragioni legate alle contingenze politiche più varie,
stabilire chi e cosa perseguire.
Abbiamo pensato di parlarne con il” Prof.
Enrico Grosso”, avvocato e ordinario di Diritto Costituzionale presso
l’università di Torino.
3. Il
lavoro.
Abbiamo avvertito la necessità di
confrontarci con il tema del diritto al lavoro nella sua duplice declinazione:
-Quello
che ci indica la Costituzione e che non merita ulteriori commenti o
aggettivazioni: diritto ad un’equa e giusta retribuzione che assicuri una
esistenza libera e dignitosa;
-Il
diritto ad un lavoro svolto in condizioni di sicurezza.
Il presidente Mattarella in occasione delle
recenti tagiche morti dei cinque operai a Brandizzo ci ha detto che:
“Morire sul lavoro è un oltraggio ai valori
della convivenza civile; Il luogo di lavoro deve essere il posto da cui si
ritorna. Sempre.”
Non si
tratta solo di discutere dei singoli provvedimenti legislativi ed in
particolare del “DL Lavoro” che hanno acceso il dibattito su alcuni temi
controversi:
la fine della stagione del reddito di
cittadinanza, soppiantato dall’assegno di inclusione e dal supporto per la
formazione e lavoro, la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato e la
estensione dei voucher.
Si
tratta di analizzare la complessità del mondo del lavoro attuale,
confrontandosi con l’assoluta esigenza di ridurre il tasso di disoccupazione in
particolar modo quello giovanile, contrastando il lavoro sommerso e irregolare,
e allo stesso tempo tutelare con un adeguato salario quelle categorie di
lavoratori, per lo più in possesso di istruzione medio bassa, che appaiono i
più fragili.
A fronte della capacità di individuare misure
condivise per tutelare i lavoratori meno abbienti, come ad esempio quella del
taglio del cuneo fiscale che sembra ormai accettato non solo dalle forze
politiche, ma da tutte le organizzazioni datoriali e sindacali, vuoti di tutela
e frizioni permangono nell’ adozione di misure di politiche attive che
consentano per le categorie più deboli della nostra società l’ingresso nel
mondo del lavoro.
Abbiano scelto quale nostro interlocutore l’”onorevole
Giuseppe Provenzano”, deputato del Partito democratico di cui è stato
vicesegretario sino al marzo scorso, nonché ex ministro per il Sud e della
coesione.
4. Libertà di stampa.
Conosciamo
tutti il portato dell’art. 21 Costituzione e del diritto ad una informazione
libera che trova il suo limite nella sussistenza di un interesse pubblico alla
conoscenza, nel rispetto dell’altrui reputazione.
C’è un
rapporto diretto tra il grado di democraticità di un sistema politico e la
quantità di informazioni rilevanti che circolano al suo interno.
La sfida è proprio quella di garantire la
massima tutela per il mondo giornalistico, cooperando per il raggiungimento di
un pluralismo di opinioni e di una piena libertà di espressione svincolata da
censure e da condizionamenti politici ed economici che possa garantire ai
cittadini una reale conoscenza dei fatti e un libero accesso alle informazioni.
È
chiaro che queste considerazioni così limpide e condivisibili- come si potrebbe
affermare il contrario – devono fare i conti con il clima politico e con le
censure più o meno esplicite che raggiungono i giornalisti.
È
sotto gli occhi di tutti lo spoil system del “servizio pubblico” televisivo.
Una
tempesta perfetta che ha privato la società civile d'ogni partecipazione
diretta effettiva nella programmazione delle risorse al fine di evitare un
regime di “monopolio informativo”.
Occorre
essere sempre molto attenti a quanto accade al mondo della stampa e della
informazione e ai segnali che da quel mondo ci arrivano.
Ne parleremo con il giornalista “Giuseppe
Salvaggiulo” che ha cortesemente accettato il nostro invito, sempre attento al
tema delle libertà e dei diritti.
5.
L’immigrazione
È il
tema del dibattito politico odierno;
l’ossimoro
emergenza strutturale lo definisce, svelandone tutta la sua drammaticità.
Nessuno
di noi si può chiamare fuori.
Fra
qualche giorno saranno trascorsi 10 anni da quel tragico 3 ottobre 2013 che
vide morire nel Mar Mediterraneo 368 persone.
È del 14 giugno 2023 il nostro comunicato che
nel richiamare l’art. 10 comma 3 della Costituzione italiana e l’articolo 18
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sul diritto di asilo,
dopo l’ennesima strage in mare sollecitava l’Europa e l’Italia quanto alle
responsabilità nell’ostacolo agli accessi legali.
Aumentano gli sbarchi:
dal primo gennaio ad oggi sono sbarcate in
Italia 133.000 persone. Di gran lunga inferiori i rimpatri forzati: 2770.
Gli
ormai tristemente famosi “CPR” (Centri di permanenza per i rimpatri) attorno ai
quali l’attuale governo ha costruito la politica per l’immigrazione sono luoghi
terrificanti in cui, oltre alle condizioni di degrado, la mancata conoscenza
della lingua e l’assenza di mediatori culturali impediscono anche l’esercizio
dei diritti dei richiedenti asilo per l’accesso alle procedure di protezione
internazionale.
Il
ruolo della magistratura è stato decisivo rispetto alle pronunzie di
incostituzionalità dei “Decreti sicurezza” nel tentativo di fornire risposte
alle molteplici istanze che l’hanno investita rispetto ad un sistema di tutela
multilivello del diritto alla protezione dello straniero.
Richiamo
solo il decreto ministeriale del 14 settembre pubblicato nella G.U del 21
settembre 2023 che prevede la richiesta di una cauzione pari a 4.938 euro quale
alternativa al trattenimento nel “Centro di permanenza per il reimpatrio”.
Ne parleremo con “Marco Tarquinio”,
giornalista e direttore dell’Avvenire sino alla primavera scorsa, profondo
conoscitore dei molteplici temi richiamati.
6. I Diritti.
La tutela dei diritti civili è nel patrimonio
genetico della “magistratura progressista” ed è il fondamento di tante
riflessioni. Guardando all’attualità, introduco il tema che sarà ripreso nella
tavola rotonda.
6.1 La famiglia.
A
marzo 2023 una circolare del ministero dell’Interno si è rivolta ai Comuni
italiani per interrompere il riconoscimento e le registrazioni all’anagrafe dei
figli di coppie omogenitoriali, richiamando una sentenza pronunciata nel 2019
dalla Corte di Cassazione secondo cui le anagrafi italiane non possono
trascrivere gli atti stranieri di bambini nati attraverso la gestazione per
altri.
L’Eurocamera
ha successivamente condannato l’Italia rispetto allo stop imposto dal Governo
per le registrazioni delle adozioni delle coppie omogenitoriali.
Nello
stesso mese di marzo la commissione Politiche europee del Senato ha bocciato
l’adozione di un certificato europeo di filiazione, un documento unico in grado
di provare la filiazione dei minori e garantire ai genitori residenti in Unione
europea il diritto ad essere riconosciuti come madri e padri dei propri figli
in tutti gli Stati membri.
Il
tema delle trascrizioni è legato a quello della gestazione per altri (GPA) che
come sappiamo in Italia è una pratica vietata:
coloro che desiderano avere un figlio
ricorrendo a questa procedura si recano all’estero.
Il 31
maggio 2023 la Commissione Giustizia della Camera ha concluso il voto degli
emendamenti alla proposta di legge che dichiara la gestazione per altro reato
universale, ossia perseguibile anche se commesso all’estero (modifica legge
40/2004).
6.2 Il
carcere
Da magistrati e da magistrati di “Area
democratica per la giustizia” a fronte
dei decessi di due detenuti in sciopero della fame nel carcere di
Augusta o in occasioni dei suicidi abbiamo richiamato ancora una volta
l’attenzione sul condizione di crescente disagio manifestato dalle persone
detenute, sulla carenza ormai cronica di risorse umane e materiali per potervi
dare adeguata risposta e sulla stessa difficoltà di comunicazione e relazione
con l’esterno, tanto da vedere sempre più persone utilizzare il proprio corpo
per rivendicare condizioni detentive migliori o ascolto.
La
pena non perda mai la propria finalità rieducativa e non si traduca in pura
afflizione.
6.3 Il
fine vita.
Attendiamo dopo la sentenza 242/19 della Corte
Costituzionale legata alla morte assistita di “DJ Fabo” che ha fissato le
condizioni in presenza delle quali l’aiuto al suicidio non è punibile, una
legge sulla eutanasia.
6.4 La violenza sulle donne.
Abbiamo
detto il 25 novembre scorso che occorre che “maturi la piena consapevolezza che
ogni forma di violenza contro le donne è in realtà una violazione dei diritti
umani, non lede solo il corpo e la psiche di chi ne è bersaglio, ma impoverisce
la collettività e mina lo stesso fondamento della dignità di ogni essere
umano”.
Accanto alla produzione normativa quanto mai
feconda in tema di contrasto alla violenza di genere e in attuazione delle
direttive comunitarie, occorre una visione più complessiva che crei una rete di
competenze qualificate e condivise, anelli di un’unica catena che agiscano sin
dalla formazione nelle scuole, per proseguire attraverso i servizi sociali e strutture sul territorio che aiutino a
crescere rifiutando ogni forma di
violenza psicologica e fisica nei
confronti di chi è diverso da noi.
Rojava
sotto attacco.
Jacobinitalia.it
- Johann Spies - Maria Cortez – (15 Marzo 2024) – ci dice:
Curdi.
L'autodifesa
comunitaria e la ricerca di una soluzione democratica dei curdi indicano che il
confederalismo democratico potrebbe stabilire una coesistenza e una
cooperazione pacifica tra i popoli del Medio Oriente.
Nel
cuore del Medio Oriente, una rivoluzione sta evolvendo silenziosamente dal
2011, ma le sue radici risalgono a secoli di resistenza curda.
Nel caos della Primavera araba, la popolazione
curda del Rojava ha colto l’opportunità di liberarsi dall’oppressione.
Questa non è solo una storia di cambiamenti
geopolitici, ma anche una storia di studenti, giovani e donne che formano
comunità per ridefinire la governance.
Tuttavia,
gli innumerevoli eroi di questa rivoluzione sono sotto l’attacco incessante
dell’Isis e dello Stato turco.
Approfondendo la complessa vicenda della”
lotta in Rojava”, scopriamo una storia di resilienza ideologica, di autodifesa
comunitaria e di ricerca di un rinascimento democratico che si irradia ben
oltre i confini della regione.
Le
radici della rivoluzione in Rojava.
Dal
2011, la rivoluzione in “Rojava” ha dato nuova forma al Medio Oriente.
Quando
la cosiddetta” Primavera araba” ha gettato la Siria nel caos, la popolazione
curda, da sempre senza documenti, diritti di cittadinanza, e bersaglio di
oppressione e sfruttamento, ha colto l’opportunità storica di liberarsi del
regime siriano.
Questo
aveva, per decenni, sfruttato la regione del nord-est, a maggioranza curda
(«Occidente», in curdo «Rojava»).
La storia del popolo curdo, ricca di
resistenza contro la secolare occupazione e assimilazione, insieme alle sue
terre, di importanza geografica e strategica ai confini di imperi e potenze
mutevoli, ha portato a ripetuti tentativi di usare o sottomettere il popolo
curdo.
Numerose
rivolte curde sono state represse, spesso con un enorme spargimento di sangue.
Dalla fine della Prima guerra mondiale e dal
Trattato di Losanna, il Kurdistan («terra dei curdi») è stato diviso in quattro
parti, tra gli Stati nazionali di Turchia, Iraq, Iran e Siria.
Nel
2011, in molte città a maggioranza curda il regime è stato spodestato senza che
venisse sparato un solo colpo.
I rivoluzionari e le rivoluzionarie, per la
maggior parte studenti, giovani e donne, hanno immediatamente iniziato a
fondare comuni per stabilire una nuova forma di autogoverno.
Nel “Confederalismo
Democratico”, le comuni sono le più piccole unità di organizzazione politica,
in cui la società discute e prende decisioni sulla propria vita.
Esse
sono il nucleo di una democrazia dal basso e radicale.
Mentre
la rivoluzione in “Rojava”, in particolare l’eroica lotta contro l’ “Isis”, ha
attirato l’attenzione internazionale, le radici del movimento rivoluzionario e
la sua ideologia rimangono per lo più sconosciute all’esterno.
Un’alternativa
agli Stati nazionali.
Il
movimento che ha posto le basi per il processo rivoluzionario in “Rojava” è
iniziato con un gruppo di studenti e giovani, tra i quali “Abdullah Ocalan”.
Influenzato dalla sinistra turca e dalla
Rivoluzione del 1968, “Ocalan” sviluppò una prospettiva di lotta di liberazione
curda.
In una
situazione in cui il popolo curdo affrontava il genocidio culturale, i
rivoluzionari e le rivoluzionarie del Kurdistan, attorno a “Ocalan”, riuscirono
a creare un movimento di massa nella società curda, precedentemente priva di
speranza.
Dopo aver formato un gruppo di base e aver
sviluppato una linea e una pratica politica, fondarono il “Partito dei
Lavoratori del Kurdistan” (Pkk).
La
linea del partito, basata sul marxismo-leninismo, fu costantemente dibattuta e
messa in discussione, soprattutto durante la caduta dell’Unione Sovietica.
Ocalan sviluppò una critica radicale dello
Stato, introducendo un nuovo paradigma chiamato “Confederalismo Democratico”,
enfatizzando la democrazia radicale e dal basso, la liberazione delle donne,
l’ecologia e la pluralità.
L’analisi
di “Ocalan )sulle radici dello Stato, del potere e della violenza, con lo Stato
come risultato della cospirazione degli uomini contro la millenaria società
matriarcale, spiega l’attenzione alla” liberazione delle donne” come elemento
essenziale per lo sviluppo di una società libera.
“Abdullah
Ocalan” è stato rapito dallo Stato turco nel 1999 nell’ambito di una “cospirazione
internazionale”, con il coinvolgimento diretto e indiretto di Stati uniti,
Israele e vari Stati europei.
Il suo impegno in “Kurdistan” e i suoi
scritti, dopo l’incarcerazione in totale isolamento come unico detenuto
nell’isola-prigione di “Imrali”, hanno gettato le basi per la sua idea di
rivoluzione per il XXI secolo.
Dall’inizio
degli anni Ottanta, il movimento non ha mai smesso di organizzare la società in
“Rojava”.
L’organizzazione,
inizialmente clandestina, composta soprattutto da studenti, è diventata poi la
forza d’avanguardia nella fase iniziale della rivoluzione in “Rojava”.
Parlare
con i giovani coinvolti fin dall’inizio dà un’idea dello slancio e dello
spirito che, dall’interno dell’organizzazione, si è poi diffuso nel resto della
società.
Mentre
le prime proteste nel 2011 hanno attirato solo decine di persone, nel giro di
poche settimane le manifestazioni sono cresciute fino a raggiungere masse di
migliaia di persone.
Da
allora, la rivoluzione e i popoli del “Rojava” hanno costantemente affrontato
gli attacchi dell’Isis e dello Stato turco.
Nel
frattempo, il “sistema del confederalismo democratico” è stato implementato in
tutti gli ambiti della vita
. Sono
state create comuni e cooperative economiche, e le donne hanno guidato verso un
sistema di copresidenza nelle istituzioni.
Sebbene
i rappresentanti dell’amministrazione autonoma ammettano che solo una piccola
parte dei risultati desiderati è stata realizzata, gli sviluppi sono già
impressionanti e offrono un’alternativa al capitalismo e agli Stati nazionali.
Oltre
ai continui attacchi, che spesso prendono di mira specificamente coloro che
lavorano per costruire il sistema alternativo, organizzando le comunità,
creando cooperative e l’educazione scolastica, l’ostacolo principale è una
mentalità plasmata da decenni di dominio statale.
Il principale campo di lotta è il superamento
di questa mentalità, e l’educazione della società, creando una società politica
e morale capace di autogestirsi senza uno Stato.
Quest’anno
è stato redatto un nuovo contratto sociale per la Siria nordorientale, che
dimostra l’ambizione di cambiare radicalmente l’approccio in tutti gli aspetti
della vita sociale, recuperando la società secondo principi umani universali.
Il
raggiungimento di questo obiettivo richiede tempo, convinzione ed educazione.
Gli
ostacoli più significativi allo sviluppo sono le costanti minacce e gli
attacchi della Turchia.
Guerra
ad alta e bassa intensità.
La
Turchia ha già minacciato i mezzi di sostentamento di milioni di persone con
massicci bombardamenti nell’ottobre e nel dicembre 2023, e lo scorso 13 gennaio
lo Stato turco ha iniziato una nuova serie di attacchi aerei sul “Rojava/Daanes”
(Amministrazione autonoma democratica della Siria settentrionale e orientale),
dimostrando un nuovo livello di distruzione.
In
quattro giorni lo Stato turco ha preso di mira oltre cinquanta località in
tutto il “Rojava”.
Gli
obiettivi attaccati sono di importanza cruciale per la regione e la sua
popolazione
. Sono
state prese di mira le infrastrutture elettriche e petrolifere, i posti di
blocco “Asayish” (forze di sicurezza interne), fabbriche, silos di grano,
depositi di cibo, strutture mediche, scuole e abitazioni civili.
Distruggendo
le infrastrutture, lo Stato turco sta deliberatamente creando una catastrofe
umanitaria.
Questi
più recenti attacchi hanno anche causato il ferimento di sei civili, tra cui
due bambini.
Dal
2019, lo Stato turco sta conducendo parallelamente contro il “Rojava “una
guerra a bassa e alta intensità, con continue escalation con brutali attacchi
aerei.
Campagne di bombardamento su larga scala, come
i recenti attacchi, mirano a distruggere i mezzi di sussistenza della
popolazione, minando la possibilità di soddisfare i bisogni primari, come
l’acqua e l’elettricità (riscaldamento, cucina).
Inoltre, i possibili effetti psicologici che
questa guerra può e potrà avere sulla popolazione sono di grande importanza.
L’obiettivo è che la gente viva in costante
paura e insicurezza.
Creando
situazioni così dure e difficili per la popolazione, lo Stato turco cerca di
costringere la popolazione ad abbandonare le proprie case.
L’obiettivo
finale è destabilizzare l’intera regione e indebolire l’amministrazione
autonoma e la rivoluzione in corso in “Rojava”.
Molti
sono i motivi per cui lo Stato turco porta avanti questi continui attacchi.
Gli
interessi economici nelle ricche risorse della regione (petrolio) sono un
elemento trainante, tanto quanto la sua pretesa nazionalistica di dominare sul
popolo curdo (e la sua lotta di liberazione).
I
popoli del Rojava resistono.
Nonostante
i recenti attacchi e le difficili circostanze che ne derivano, i popoli del
Rojava si stanno organizzando, difendono le proprie terre e la rivoluzione
.
L’autodifesa è una parte essenziale della società in Rojava, e delle sue
fondamenta strutturali.
Autodifesa non solo in senso militare, ma come
pratica quotidiana di costruzione e rafforzamento della relazione della società
con la politica, l’istruzione e la cultura.
La
costruzione di comunità forti, che si organizzano e lavorano insieme, è intesa
anche come autodifesa contro gli attacchi sia ideologici che militari.
Una delle tante risposte alle sfide create
dagli attacchi dello Stato turco è la creazione di un maggior numero di comuni
e cooperative.
Un esempio di come le persone si organizzano
insieme per trovare soluzioni collettive è la formazione di nuove comuni.
Nella
situazione attuale, per far fronte alla mancanza di elettricità e altri
problemi causati dalla distruzione delle centrali elettriche, queste hanno
l’obiettivo di organizzare collettivamente l’utilizzo di generatori o
l’acquisto di pannelli solari.
La
popolazione del “Rojava”, ben consapevole del piano dello Stato turco,
organizza la propria resistenza di conseguenza.
Per
proteggere una centrale elettrica (Suwaydiyah, la principale fonte di energia
in nord-est Siria) appena fuori dalla città di “Derik”, centinaia di persone si
sono radunate per giorni sul posto, organizzando manifestazioni e un’assemblea
molto partecipate.
Le
persone hanno cantato slogan, protestato, ballato, proteggendo allo stesso
tempo la centrale elettrica con i propri corpi e le proprie vite.
Questo
tipo di protesta è un impressionante esempio di autodifesa, e dello spirito di
resistenza di una società rivoluzionaria.
Se
osserviamo lo stato delle cosiddette democrazie a livello globale, nonostante
la diffusa comprensione della distruttività del capitalismo le persone non
sembrano avere alternative reali.
La
partecipazione alle elezioni parlamentari è ai minimi storici e le alternative
rappresentate dai partiti politici sono spesso la ragione stessa della
situazione in cui ci troviamo oggi.
La
sinistra radicale, soprattutto in Europa, si definisce per lo più contro i
partiti e le correnti neofasciste, o contro la distruzione ecologica, senza
però offrire un vero programma alternativo.
Gli
sviluppi globali, il livello di distruzione ecologica, i femminicidi, il
declino delle libertà, le guerre, le migrazioni di massa, lo sfruttamento, la
degenerazione culturale e molti altri problemi sociali richiedono risposte
olistiche e radicali, nel senso di risolvere i problemi alla radice.
Allargando
lo sguardo al Medio Oriente in generale, il confederalismo democratico è una
proposta politica che potrebbe stabilire una coesistenza e una cooperazione
pacifica tra i popoli della regione.
Il genocidio di Israele in Palestina ha
recentemente dimostrato quanto la regione abbia bisogno di una soluzione reale.
Gli
approcci attuali, da parte dello Stato israeliano e di Hamas, non porteranno a
una situazione di pace e sicurezza, né per la popolazione ebraica né per quella
araba.
In
un’epoca in cui la sopravvivenza dell’umanità dipende da un cambiamento
radicale, non solo nel sistema economico e politico, ma anche nella mentalità
degli individui, la rivoluzione in “Rojava” può essere l’inizio di una
rinascita democratica non solo per il Medio Oriente, ma per l’umanità in
generale.
(Maria Cortez e Johann Spies fanno parte della Comune
Internazionalista del Rojava, sono attivi in progetti ecologici, come
riforestazione, progetti con giovani e donne, come le cooperative agricole. I
membri della Comune seguono anche il lavoro di informazione ed educazione.)
LO
STATO DELLA DEMOCRAZIA INDIANA.
Iari.Site.it
- Simone Frusciante – (27 Giugno 2023)
(foreignaffairs.com/articles/india/2021-03-18/decay-indian-democracy)
Negli
ultimi decenni, l’India è stata sempre più spesso soprannominata “la più grande
democrazia del mondo”.
Ma è
davvero così?
I
dodici mesi del 2023 saranno cruciali per l’immagine internazionale dell’India,
che quest’anno detiene la presidenza del G20, l’organismo che riunisce le 20
maggiori economie del mondo.
Proprio
in vista di quest’importante appuntamento, la leadership politica indiana,
incluso lo stesso Primo Ministro “Narendra Modi”, ha ormai da tempo avviato una
campagna basata su una retorica tesa a rafforzare lo status democratico del
paese, tanto a livello interno quanto all’estero, arrivando a definire l’India
come “la
madre delle democrazie”.
In
realtà, un meeting in materia di turismo organizzato proprio in occasione della
presidenza del G20 sembra aver esposto la debolezza di questa narrativa.
L’evento,
svoltosi a “Srinagar”, capitale dello stato del “Jammu e Kashmir,” è diventato
oggetto di una controversia internazionale, con la Cina e altri paesi che hanno
boicottato la riunione, giudicando inadeguata la scelta di tenere un incontro
internazionale in un territorio oggetto di disputa.
La
regione del Kashmir, infatti, sin dal 1947 è contesa tra India, Pakistan e (in
parte) Cina.
Ad
attrarre l’attenzione sono state anche le pesanti misure di sicurezza adottate
dal governo indiano, il quale è stato accusato di aver condotto una dura
repressione del dissenso.
Dopo il provvedimento con cui il 5 agosto 2019
l’amministrazione Modi ha revocato l’autonomia dello Jammu e Kashmir, Stato a
maggioranza musulmana, ponendola sotto il proprio diretto controllo, i critici
hanno ritenuto il governo responsabile dell’introduzione di ingenti restrizioni
alla libertà di stampa e di espressione, nonché al diritto di informarsi e
manifestare, attraverso una rigida censura dei media, l’imposizione di
ricorrenti interruzioni della connessione a internet e l’arresto di esponenti
politici dell’opposizione, giornalisti e attivisti per i diritti umani.
La
minaccia alla libertà di stampa sembra riguardare l’intero paese, come
dimostrato dalla posizione dell’India nella classifica stilata da “Reporters
Without Borders”, in cui si colloca attualmente al 161° posto su 180.
Si nota un netto peggioramento rispetto allo
scorso anno, quando il paese occupava il 150° posto (il dato è in costante
diminuzione dal 2014, quando Narendra Modi fu eletto per la prima volta);
desta
anche particolare impressione se si considera che Nuova Delhi ha ottenuto un
risultato peggiore di paesi quali Pakistan, Afghanistan (sotto il regime
talebano), Bielorussia, Nicaragua e Venezuela, tutti paesi considerati regimi
fortemente autoritari.
A sua
volta, il “deterioramento della libertà di stampa” è un sintomo di un più ampio
indebolimento della democrazia indiana, come segnalato dall’organizzazione “Freedom
House”, che dal 2021 ha definito l’India uno Stato “parzialmente libero”.
Nel report del 2023, in cui il paese ha
ottenuto un punteggio di 66 su 100, tra i principali punti critici sollevati
sono stati evidenziati:
la scarsa libertà e indipendenza dei media;
l’impossibilità
per le minoranze religiose di professare liberamente il proprio culto;
il mancato riconoscimento di diritti civili a
determinate fasce della popolazione;
la
presenza di un diffuso grado di indottrinamento politico nel sistema educativo;
crescenti
limiti all’autonomia della magistratura.
In
merito al primo punto, la succitata censura alla libertà di stampa si esplica
anche attraverso le pressioni esercitate sui media del paese che, ormai, sono
considerati dai critici una cassa di risonanza della propaganda governativa.
Negli
ultimi anni, inoltre, sono emersi legami di esponenti del governo con uomini di
affari, personalità del mondo dei media o proprietari dei media stessi.
La presenza di tali legami mina la credibilità
dei media agli occhi dei cittadini, che trovano difficile avere accesso a fonti
di informazione affidabili e imparziali.
Si
moltiplicano, infine, i procedimenti giudiziari e gli attacchi fisici nei
confronti dei giornalisti.
Uno
dei punti più sensibili riguarda i limiti alla libertà di culto che colpiscono
le minoranze religiose, in particolar modo i musulmani, ma anche cristiani e
sikh.
Ciò
rientra nella politica di “suprematismo indù “portata avanti dal governo di “Narendra
Modi” sin dal suo insediamento, basata sull’ideologia dell’ “Hindutva”, il cui
scopo è garantire maggiori diritti alla maggioranza indù rispetto alle
confessioni religiose minoritarie.
Gli attacchi contro i musulmani, spinti anche
dalla retorica di molti media e organizzazioni nazionaliste come il “RSS”, sono
aumentati notevolmente negli ultimi anni, soprattutto in relazione al consumo
di carne bovina, severamente proibito dall’induismo, o ad altre pratiche
vietate da quest’ultimo.
Inoltre, il governo si è battuto contro le
“conversioni forzate”, accusando molti musulmani di costringere persone
appartenenti ad altre fedi a convertirsi all’Islam.
Venendo
al terzo punto sollevato, sebbene la costituzione indiana bandisca formalmente
qualsiasi discriminazione basata sulla casta, questo fenomeno è ancora molto
diffuso.
Persone
appartenenti alle classi sociali più vulnerabili subiscono ripetuti attacchi,
con il sistema giudiziario che non riesce a far rispettare la giustizia in modo
adeguato.
Si
registra anche un’insufficiente risposta nei confronti delle violazioni dei
diritti delle donne e della comunità LGBTQ+.
Risulta
difficile, infine, la condizione di determinate categorie di immigrati, resa
tale dall’emanazione nel 2019 del controverso “Citizenship Amendment Act”
(CAA), che permette solo agli immigrati non musulmani provenienti dai paesi
vicini all’India di ottenere la cittadinanza più velocemente.
Tale
misura, che ha suscitato forti proteste, viene considerata un’ennesima
discriminazione nei confronti dei musulmani.
Anche
nel sistema educativo indiano si è affermato negli ultimi anni un crescente
indottrinamento politico, evidente nei programmi scolastici e universitari
approvati dal governo indiano, che cercano di cancellare qualsiasi traccia
storica che non sia conveniente per l’attuale amministrazione.
L’azione revisionista ha riguardato in special
modo la cancellazione del periodo di dominazione islamica dell’ “Impero Mughal”
sull’India, che appare contrario al proposito del governo Modi di descrivere
l’India come uno Stato da sempre puramente indù.
Nelle
università, inoltre, si afferma la presenza di organizzazioni nazionaliste come
il “RSS”, con ripetute minacce e attacchi contro studenti e docenti di
orientamento politico differente.
Un
altro punto che desta particolare preoccupazione è la crescente dipendenza
della magistratura, che dovrebbe essere formalmente indipendente, dalla
politica.
Negli
ultimi anni, numerose sentenze, fino ai livelli più alti della Corte Suprema,
sono state favorevoli al partito di Modi, il BJP, anche nei casi più
controversi, come quello riguardante la costruzione di un tempio indù ad “Ayodhya”,
nel sito sul quale sorgeva una moschea distrutta nel 1992 dalle forze
nazionaliste di destra.
La magistratura, sulla cui selezione il
governo sembra avere un peso eccessivo, appare esageratamente politicizzata e,
a detta dei critici, viene utilizzata dal governo per colpire gli oppositori.
L’ultimo
esempio è rappresentato dalla sentenza emessa da una corte dello stato del
Gujarat (di cui è originario Modi), che ha condannato “Rahul Gandhi”, volto di
punta del partito del Congresso, il principale partito di opposizione, a due
anni di reclusione con l’accusa di diffamazione nei confronti del Primo
Ministro, proprio il periodo di tempo sufficiente, secondo la legge indiana, a
provocare la sua espulsione dal Parlamento e, potenzialmente, ad escluderlo
dalle prossime elezioni politiche.
Mentre il “BJP “ha celebrato questa sentenza
come un trionfo della giustizia, il Congresso, gli altri partiti di opposizione
e parte dell’opinione pubblica hanno invece denunciato l’accaduto come
l’ennesimo tentativo dell’attuale amministrazione di mettere da parte gli avversari,
servendosi della magistratura per i propri scopi politici.
Lo
scontro tra il “BJP” e il “Congresso” in merito alla sentenza evidenzia un
altro problema che attanaglia la politica indiana, ossia la crescente
polarizzazione tra la maggioranza di governo e l’opposizione.
Un
altro round del suddetto scontro si è svolto lo scorso 28 maggio, in occasione
dell’inaugurazione, da parte di Modi, dell’edificio che ospita il nuovo
Parlamento .
L’evento è stato boicottato da 19 partiti
dell’opposizione, incluso il Congresso, i quali hanno accusato il Primo
Ministro di aver emarginato e scavalcato la “Presidente Droupadi Murmu”, che,
in quanto supremo rappresentante della “Costituzione indiana”, avrebbe dovuto
presiedere.
Secondo
l’opposizione, invece, scegliendo di presiedervi egli stesso, “Modi” ha
realizzato la propria cerimonia di “incoronazione” piuttosto che
l’inaugurazione del simbolo della democrazia indiana.
Lo
scontro, invero, ha coinvolto la scelta stessa di realizzare un nuovo
Parlamento.
La
costruzione dell’edificio, iniziata nel 2020, è proseguita anche durante le
fasi più dure della pandemia di Covid-19 in India, provocando le risolute
proteste dell’opposizione, che ha sempre giudicato l’edificio uno spreco di
denaro pubblico e la dimostrazione della vanità del Primo Ministro Modi.
Quest’ultimo, dal canto suo, ha al contrario
ritenuto il nuovo Parlamento indispensabile allo scopo di simboleggiare
concretamente la nuova posizione di forza dell’India sullo scenario
internazionale.
Il “BJP”
ha bollato il boicottaggio dell’inaugurazione da parte dell’opposizione come
una “mancanza di rispetto per la democrazia”.
Nell’attuale
scenario, si prevede che la polarizzazione politica proseguirà nei mesi a
venire, in cui Nuova Delhi sarà sotto i riflettori mondiali in quanto
presidente di turno del G20, possibilmente aumentando di intensità.
Tutto
questo alla vigilia delle elezioni politiche previste per il prossimo anno,
alle quali “Modi” punta a ottenere il suo terzo mandato consecutivo, mentre il “Congresso”,
che sta cercando di creare un fronte anti-BJP con gli altri partiti di
opposizione, mira a ritornare al potere dopo un decennio.
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