“Uomini contro” per salvare diritti umani.
“Uomini
contro” per salvare diritti umani.
Diritti
umani violati:
la
denuncia di Human
Rights
Watch.
Osservatoriodiritti.it
- Laura Pasotti – (12 Gennaio 2024) – ci dice:
Il
rapporto globale di Human Rights sui diritti umani violati nel mondo
mette
al centro l'Asia: in Corea del Nord e Vietnam aumenta la repressione; in Cina
sono criminalizzate le minoranze; mentre India, Pakistan, Bangladesh e
Indonesia vanno al voto nel 2024, ma le istituzioni democratiche sono
minacciate.
Diritti
umani sacrificati per aumentare il potere, indignazione selettiva verso chi
viola i diritti umani e repressione che supera i confini nazionali stanno
minacciando il sistema di tutela dei diritti umani adottato 75 anni fa con la”
Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite”.
È
quanto emerge dal 34esimo rapporto globale annuale di” Human Rights Watch” che
analizza la situazione dei diritti umani in oltre 100 Paesi e ha un focus
sull’Asia, dove la repressione crescente da parte dei governi sta mettendo a
rischio i diritti umani.
Diritti
umani violati: gli esempi di Cina, Corea, Vietnam, India, Pakistan, Indonesia e
Bangladesh.
L’ong
segnala nel rapporto che, nel 2023, il governo cinese ha continuato a
commettere crimini contro l’umanità nei confronti degli Uiguri e di altre minoranze musulmane nello
Xinjiang e ha rafforzato le politiche di abuso in tutto il Paese.
Corea
del Nord e Vietnam ha fatto registrare un’escalation della repressione.
Per
India, Pakistan, Indonesia e Bangladesh il 2024 sarà un anno di elezioni, ma in
tutti e quattro gli Stati le istituzioni democratiche e lo stato di diritto
sono sotto attacco.
«Le
minacce dei governi asiatici nei confronti dei diritti umani a livello
nazionale e internazionale richiedono nuovi e coraggiosi approcci da parte dei
governi e delle istituzioni democratiche rispettose di quei diritti. In tutta
l’Asia le persone vedono i loro diritti e le loro libertà calpestati o
ignorati.
È
necessaria una leadership più forte per proteggere e promuovere i diritti umani
nella regione, o la situazione non potrà che peggiorare»,
ha
detto “Elaine Pearson”, direttrice per l’Asia di “Human Rights Watch”.
In
Asia manca un’istituzione regionale in difesa dei diritti umani.
In
Asia manca una carta dei diritti umani o un’istituzione regionale preposta alla
salvaguardia dei diritti umani e l’associazione delle nazioni del Sud Est
Asiatico (Asean) si è ripetutamente dimostrata incapace di affrontare le crisi
regionali, in particolare quella in Myanmar, sottolinea “Human Rights Watch”.
In
Cambogia le elezioni dello scorso luglio non potrebbero nemmeno definirsi tali,
perché il governo ha impedito al principale partito di opposizione di
partecipare.
In
vista del voto del 2024 in Bangladesh, le autorità hanno intensificato gli
attacchi ai politici di opposizione e sono più di 10 mila i dissidenti
arrestati.
In
Vietnam e India le autorità hanno aumentato gli arresti arbitrari e le condanne
di chi critica il governo, compresi gli attivisti per il clima.
Nelle
Filippine, sindacalisti, giornalisti e attivisti sono bersaglio di politiche
repressive, spesso mortali.
Il
governo della Corea del Nord mantiene i suoi confini sigillati e ha quasi
tagliato fuori la sua popolazione dal resto del mondo, peggiorando la
situazione dei diritti umani nel Paese.
In
Afghanistan i talebani hanno rafforzato le già severe restrizioni, in
particolare nei confronti di bambine, ragazze e donne.
Diritti
umani violati oggi nel mondo: repressione oltre confine.
Nel
2023 diversi governi asiatici hanno portato avanti condotte repressive anche al
di fuori dei loro confini.
Nel
rapporto vengono segnalati, in particolare, due casi che hanno riguardato
l’India.
In
settembre, il governo canadese ha affermato di avere le prove che agenti del
governo indiano fossero coinvolti nell’omicidio di un attivista separatista
Sikh avvenuto in Canada, un’accusa che il governo indiano ha negato.
In
novembre, le autorità statunitensi hanno incriminato un uomo per aver
complottato con il governo indiano l’uccisione di un attivista separatista Sikh
negli Stati Uniti.
Ma
l’India non è un caso isolato.
Secondo
“Hrw”, il governo del Ruanda si è reso responsabile di una dozzina di
rapimenti, sparizioni forzate, aggressioni, minacce e uccisioni contro
cittadini ruandesi critici nei propri confronti e che vivono all’estero.
Anche
il governo cinese ha esportato la sua repressione nei confronti di cittadini
cinesi e non cinesi e istituzioni critiche nei propri confronti:
nel rapporto si parla di aggressioni,
violenza, sorveglianza e intimidazioni verso studenti e accademici in
università occidentali che hanno parlato degli abusi del governo cinese a Hong
Kong, in Tibet o nello Xinjiang.
Diritti
umani e governi asiatici: la situazione.
L’organizzazione
ricorda che nel Consiglio di sicurezza dell’Onu il Giappone è rimasto in
silenzio e ha rifiutato di imporre o rafforzare le sanzioni contro i governi
del Sud Est asiatico che violano i diritti umani, lo stesso ha fatto la Corea
del Sud.
L’Australia
è stata molto più lenta rispetto ad altri governi occidentali nell’usare
sanzioni contro i governi che violano i diritti umani, in particolare con la
Cina.
Il
governo indiano ha completamente abbandonato la pratica adottata in passato di
promuovere i diritti umani tra i suoi vicini, come Myanmar, Sri Lanka e Nepal.
L’emergere
dell’Indonesia come un Paese più rispettoso dei diritti umani non si è tradotto
in politiche di sostegno ai diritti umani al di fuori dei propri confini.
«Le
democrazie in Asia – come India, Indonesia, Giappone e Corea del Sud – hanno
fallito nel fornire una leadership per migliorare i diritti umani nella regione
o nel mondo.
Devono capire che la repressione fuori dai
propri confini ha effetti sui diritti umani a casa loro», ha detto “Pearson”.
Indignazione
selettiva: dalla guerra in Israele al caso dell’Ucraina.
Nel
rapporto “Human Rights Watch” pone l’accento sul doppio standard spesso
adottato dai governi verso chi vìola i diritti umani.
«Ci
sono governi che condannano i crimini di guerra di Israele a Gaza, ma non
dicono nulla sui crimini contro l’umanità perpetrati dalla Cina nello Xinjiang.
Altri
chiedono di perseguire a livello internazionale la Russia per i crimini di
guerra in Ucraina, ma sottovalutano la responsabilità degli Stati Uniti in
Afghanistan, indebolendo così il riconoscimento dell’universalità dei diritti
umani e la legittimità delle leggi adottate per tutelarli», scrive “Tirana Hassan”, direttrice
esecutiva dell’organizzazione.
L’indignazione
selettiva ha un costo in termini di diritti umani per tutti coloro che hanno
bisogno di protezione nel mondo:
«Manda un messaggio chiaro: alcune persone meritano
protezione, ma non tutte. Alcune vite valgono più di altre», aggiunge “Hassan”.
A
questo si aggiunge la diplomazia delle transazioni utilizzata dai governi per
ottenere vantaggi a breve termine: gli Stati Uniti mantengono alleanze con
Paesi che violano i diritti umani come Arabia Saudita, Egitto e India, ma che
sono considerati Paesi chiave nella loro agenda politica o visti come baluardi
contro la Cina;
l’Unione
Europea stringe accordi con Paesi che violano i diritti umani come Libia,
Turchia e Tunisia per impedire l’ingresso di migranti o richiedenti asilo da
Africa e Medio Oriente.
Diritti
umani violati per consolidare il potere.
Nel
2024 quasi metà della popolazione mondiale andrà a votare, ma molti leader politici
stanno facendo di tutto per eliminare chi critica le loro azioni e decisioni e
consolidare il proprio potere.
In
Perù il governo ha adottato misure per minare le altre istituzioni
democratiche, limitare la responsabilità del legislatore ed eliminare i membri
del” Comitato nazionale di giustizia”, il cui ruolo è garantire
l’indipendenza di giudici, procuratori e autorità elettorali.
In
Thailandia la Corte costituzionale ha sovvertito la volontà della popolazione
nelle elezioni del 2023, sospendendo il principale candidato a primo ministro
con accuse fasulle.
In
Europa, Stati Uniti, Australia e Vietnam i governi stanno adottando misure
repressive e sproporzionate per punire gli attivisti del movimento per il
clima.
«La
lenta distruzione di questi controlli ed equilibri vitali può avere conseguenze
allarmanti per i diritti umani e lo Stato di diritto», ha scritto “Hassan”.
La
pace impossibile
l’unica
possibile.
Perlapace.it – redazione – Comune di Padova –
(14 aprile 2023) – ci dice:
Venerdì
14 aprile 2023 alle 20.45 a Padova nella Sala Petrarca del Cinema Multisala MPX
un incontro per riflettere insieme su quale sia la pace possibile oggi per
l’Ucraina.
Un
evento pubblico contro il silenzio e la rassegnazione!
È
stato presentato in conferenza stampa a Palazzo Moroni l’evento pubblico “La
pace impossibile è l’unica possibile” organizzato dal Comune di Padova al
Multisala MPX venerdì 14 aprile alle ore 20,45 al quale partecipano il sindaco
Sergio Giordani, il vescovo Claudio Cipolla, Marco Mascia, Paolo Impagliazzo,
Flavio Lotti, Aldo Marturano, Rossella Miccio e Silvia Stilli.
Una
serata dedicata alla Pace che sarà introdotta dall’assessore alla pace e ai
diritti umani “Francesca Benciolini” e coordinata dalla giornalista” Silvia
Giralucci”.
Francesca
Benciolini assessore alla pace e ai diritti umani spiega:
“Proponiamo
una riflessione alla città su come si assicura la pace, ma anche su come si
arriva alle guerre: le cose non avvengono per caso, ci sono dei processi che le
accompagnano questi momenti della storia, e questi processi posso essere
accompagnati in una direzione o nell’altra. Verso la pace o verso la guerra.
Questa
ampia rete di associazioni e istituzioni della nostra città che si è già
incontrata in questi 14 mesi attorno al tema della pace in Ucraina, vuole porre
delle domande e chiedersi quindi quale sia la pace possibile oggi. Impariamo la
storia, anche a scuola, come un susseguirsi di guerre intervallate da brevi
momenti di pace, che paradossalmente, servono a preparare nuovi conflitti.
Ci piace credere e lavorare perché ci possano
essere anche narrazioni diverse, che le strade della storia non debbano sempre
e necessariamente andare in questa direzione.
In
questi mesi vediamo che l’unica strada percorsa è quella della guerra e ci
chiediamo, è possibile esplorare e percorrere altre strade?
Ecco perché proponiamo una riflessione su
questo, per smarcarci da una discussione che è solo “armi si armi no”, se sei
pacifista sei putiniano, se sostieni la guerra allora difendi la libertà e così
via.
Il tema è complesso e va affrontato con la
consapevolezza di questa complessità e capacità anche di essere divisivo.
Come
Comune abbiamo invitato quindi le istituzioni cittadine, la Diocesi e
l’Università e raccolto le proposte che sono arrivate dalle comunità del
territorio”.
Suor
Francesca Fiorese dell’Ufficio diocesano di Pastorale Sociale commenta:
“I
popoli non scelgono la guerra, scelgono la pace, ma hanno bisogno di
istituzioni che ci credano, perché i governi, a volte scelgono la guerra.
Noi
abbiamo la fortuna di vivere in una città che sceglie la pace nelle sue
istituzioni, fino al popolo, ci sono una miriade di realtà civili, e anche
abbiamo una Chiesa che è molto attenta alla pace e una Università che su questo
punto è molto attiva.
La quinta carovana per la pace verso l’Ucraina
è partita dalla nostra città, e non la ha scelta solo perché Prato della Valle
è una grande piazza che poteva contenere i partecipanti.
E ancora, oggi siamo qui proprio a 60 anni e
un giorno dalla pubblicazione dell’enciclica “Pacem in terris” che conteneva
già tutti i germi di pensiero che anche Papa Francesco poi ha portato e ci ha
consegnato nella sua “Fratelli tutti”: la fraternità universale”.
Marco
Mascia, presidente “Centro di Ateneo per i
Diritti Umani Antonio Papisca” sottolinea:
“La scelta del titolo è la chiave di lettura di questo
evento: dalla Pace di Westfalia in poi la pace veniva riassunta nel detto, si
vis pacem, para bellum.
Questa
era la pace possibile, ma la storia ci dimostra che questa pace possibile non
la stiamo realizzando, cioè con la guerra non si costruisce la pace, mentre la
pace impossibile che era quella degli idealisti, da Kant in poi, è quella che
ragiona sulla costruzione della pace rovesciando il detto, se vuoi la pace
prepara la pace.
È
questo è lo spirito dell’incontro di venerdì, noi riteniamo che si debba
lavorare per costruire l’edificio della pace, come ha insegnato anche Papa
Francesco.
C’è un
nodo però che va affrontato e che non è più rinviabile, quello che noi abbiamo
delle istituzioni a livello nazionale e a livello di Unione Europea che assieme
all’amministrazione americana, continuano a dire noi sosteniamo Kiev per tutto
il tempo che sarà necessario.
Cosa
significa?
Arriverà
il momento che non ci sono più armi, proiettili e fra un po’ anche uomini che
andranno a combattere.
E
quindi che cosa vuol dire per tutto il tempo necessario?
L’obiettivo
di questo evento è invece di ragionare sulla possibilità di un cessate il
fuoco, che non è una resa, si fermano le armi e proviamo da lì un negoziato,
che porti a una vera e propria trattativa per la pace”.
“Mirko
Sossai” della Comunità di Sant’Egidio riflette:
“Sottolineo
soprattutto l’importanza dei partecipanti a questa iniziativa, perché mette
assieme voci autorevolissime della società civile che in questi mesi hanno
avuto un pensiero profondo sui temi della pace, a partire soprattutto da una
storia e da una cultura di pace che ha veramente un orizzonte di decenni.
È dalla conoscenza delle persone che
adesso vivono la sofferenza della guerra che nasce questo impegno per la pace.
La nostra grande preoccupazione è che oggi
questa guerra si cristallizzi nel tempo-
Lo abbiamo visto in Afghanistan come in Siria.
Pensare alla pace è veramente pensare al
futuro dell’Ucraina, come delle altre parti del mondo dove la guerra è oramai
una condizione endemica”.
“Massimo
Mastromatteo”, “Emergency Padova” dichiara:
“Oggi
la pace è più divisiva che in passato, si discute di pace con visioni
completamente diverse.
Noi la guerra la vediamo perché abbiamo
ospedali aperti in tantissimi luoghi in ogni parte del mondo e molti di noi
sono lì per molti mesi all’anno.
La drammaticità della guerra la vediamo tutti
i giorni, non la vediamo invece sui media dove si parla solo di numeri, ed è
una cosa incredibile.
Il
Comune di Padova è molto coraggioso a proporre questo incontro che è, ripeto,
divisivo, perché parlare di pace quando si è in pace è facile, è quando si è in
guerra che è difficile, e veramente estremamente complicato.
Grazie per questa iniziativa”.
“Silvia
Giralucci”, giornalista spiega:
“L’idea
dalla quale è partito il Comune di Padova è che la pace non è solo un’assenza
di guerra ma una condizione che si costruisce.
Quindi l’idea di questo incontro è di mettere
degli attori assieme, di riunire le associazioni e le istituzioni che si
occupano di pace per dare un contributo per costruire la pace.
Sarà
una serata in cui ci si parla e si parla alla città ragionando su proposte per
costruire la pace”.
“Elena
Pietro grande”, Portavoce Area Pace, Diritti Umani e Cooperazione
Internazionale – Comune
di Padova commenta:
“Ci fa
molto piacere che questa iniziativa sia idealmente il proseguimento
dell’incontro avvenuto a Verona qualche mese fa nella speranza che poi ci siano
altre città che ricevano questo testimone e che attivino questa capacità
critica e questa capacità di dialogo soprattutto che è alla base delle nostre
associazioni soprattutto nella cooperazione internazionale.
Le
nostre associazioni infatti riescono ad operare anche in zone di guerra,
proprio per la capacità di dialogo vero che esprimono”.
Palma
Sergio, Segretaria Confederale Cgil Padova dichiara:
”Un
convegno dal titolo emblematico, incentrato sulle tematiche della pace, le
stesse che la Cgil porta avanti da anni e su cui – insieme ad altre
associazioni del territorio e a tutti i livelli:
in “Europe for Peace”, nella “Rete Italiana
Pace e Disarmo” e qui, in “Uniti per la Pace – Padova” – si impegna,
quotidianamente, promuovendo quelle che definiamo “azioni di pace”, come la
recente carovana “#StopTheWarNow” con cui sono state consegnate 20 tonnellate
di aiuti umanitari alla popolazione ucraina.
Un
impegno sia sul piano degli aiuti concreti, dunque, che su quello delle idee
come quelle che emergeranno nel corso di “La pace impossibile è l’unica
possibile” a cui porteremo il nostro contributo”.
LA
GUERRA NON SALVA NULLA
E
NESSUNO, COMBATTETE
PER LA
VITA E PER LA PACE.
Vincenzopaglia.it
– (20 aprile 2022) – Redazione – IL riformista – ci dice:
Erano
le tre del pomeriggio di un aprile di duemila anni fa, quando “si fece buio su
tutta la terra”.
Non
solo a Gerusalemme.
Era morto Gesù sulla croce.
Anche in questo aprile 2022 si è fatto buio
fitto su tutta la terra, non solo a Kiev, la” Gerusalemme” della Rus.
Ma all’alba del primo giorno dopo il sabato di
quell’aprile lontano, alcune donne che erano andate alla tomba di Gesù per
adempiere gli ultimi gesti di pietà, videro che la tomba era vuota.
All’inizio temettero che qualcuno lo avesse
trafugato.
La
realtà era diversa:
“Gesù”
era risorto; non tornato in vita, come “Lazzaro” qualche giorno prima, ma
appunto “risorto”, ossia trasformato così radicalmente da aver vinto una volta
per tutte la morte.
Era
iniziato un mondo nuovo, liberato per sempre dal potere del Male.
Il
Vangelo continua a raccontare questa straordinaria storia. Anche quest’anno.
C’è da dire che, in effetti, siamo immersi
tutti in un buio fitto per le ingiustizie e le guerre che avvolgono il mondo.
Papa Francesco ha parlato diverse volte di
“guerra mondiale a pezzi”.
Potremmo
anche dire che “il mondo è a pezzi”.
E
pericolosamente: i pezzi infatti si stanno collegando tra loro sempre più
chiaramente.
La guerra in Ucraina è in diretta planetaria:
passa direttamente dal terreno agli schermi alla gente.
Nessuno, non importa se piccolo o grande, è
preservato.
Tutti
vediamo il mondo cadere a pezzi, come bombardato.
E tutti assistiamo impotenti, rassegnati alla
ineluttabilità di quanto sta accadendo.
C’è
chi dice persino che è necessario far continuare il conflitto. Come se la
guerra fosse la più normale delle realtà.
Di qui
– appunto, dalla sua normalità e inevitabilità – tutti corrono al riarmo.
Tutti,
proprio tutti.
Anche
quelli che non ti saresti aspettato.
E, ovviamente, tutto è più che giustificato.
Stiamo
assistendo all’esatto opposto di quel che accadde dopo la seconda guerra
mondiale.
Intendiamoci,
è vero che allora nacque la Guerra fredda e con essa il Muro.
E
tante altre cose non certo lodevoli.
Ma
quantomeno crebbe un anelito di pace e ci furono accordi sul disarmo.
È stata una stagione anche piena di sogni, di
visioni.
Io stesso, nato all’inizio di quegli anni,
sono cresciuto e invecchiato in una Europa senza guerra.
O
comunque di guerra fredda, congelata.
Oggi
la guerra non si è solo scongelata, sta diventando sempre più “calda”.
Che triste risveglio in queste settimane!
E
dobbiamo assistere a una lenta assuefazione:
le
scene drammatiche della guerra iniziano a non stupirci più di tanto.
E non
pensiamo a sufficienza che gli effetti di questa guerra sono devastanti.
E
dureranno per molti anni a venire.
Chi grida di fermare la guerra non solo non è
ascoltato, ma viene anche irriso o comunque accantonato. In ogni caso è un
grido che si perde nel vuoto. Perché così si decide dalla maggioranza.
Ma
ecco l’annuncio scandaloso della Pasqua.
In
questo buio fitto che ci sta avvolgendo e accecando, ecco che irrompe
l’annuncio della “risurrezione” di Gesù.
L’angelo
mandato da Dio a quelle donne andate al mattino presto al sepolcro – ed anche a
noi oggi – dice:
“Perché cercate tra i morti colui che è
risorto?
” La
Pasqua è tutta qui: “quel Gesù che avete crocifisso ha sconfitto la morte per
sempre.
Egli
vi incontra da risorto perché tutti possiamo risorgere”.
Ecco
la Pasqua!
Un
evento per il mondo intero, per tutti gli uomini e le donne, di ogni tempo.
È un Vangelo globale.
A noi cristiani spetta il compito esaltante e
anche drammatico – non pochi cristiani hanno pagato questo annuncio con la loro
morte – di comunicare a tutti questo Vangelo:
la
vittoria del bene sul male, dell’amore sull’odio, della liberazione
sull’oppressione, della giustizia sull’ingiustizia, della vita sulla morte.
E non
con la forza delle armi.
Solo
con la forza debole dell’amore, di quell’amore che porta a dare la vita per gli
altri.
Non a toglierla.
È la
missione storica dei cristiani di sempre, e oggi in particolare. In questi
giorni.
Sarebbe
gravissimo tradirla, anche solo con la complicità alla rassegnazione alla
guerra.
Ecco
perché suona ancor più scandalosa la divisione dei cristiani in Europa
(cattolici, ortodossi, protestanti).
Sta
aiutando il conflitto.
Ne
risponderemo tutti davanti a Dio! Non dimentico quel che diceva il grande
patriarca Atenagora (quello che abbracciò Paolo VI a Gerusalemme): “Chiese
sorelle, popoli fratelli”.
E
possiamo aggiungere noi: “Chiese divise, popoli divisi”.
Gesù
accettò la crocifissione per mostrare al mondo la ragione della vita: amare gli
altri più di sé stessi.
È
questa, solo questa, la forza che unisce anche i diversi.
È
questa, solo questa, la forza che trasforma il mondo sulla via della pace.
È
questa, e solo questa, la forza che fa risorgere gli uomini dagli “inferni” di
questo mondo.
Nella
tradizione cristiano-ortodossa c’è una icona della risurrezione che mostra
Gesù, disceso agli inferi, che stende le sue braccia nel buio della morte e
trae con sé, tirandoli fuori, Adamo ed Eva.
È il
lavoro che il Risorto ha compiuto il Sabato Santo.
La
tradizione cristiana dice che “scese agli inferi”.
Sì, il
Sabato Santo Gesù scende negli innumerevoli “inferni” di questo mondo e chiede
anche a noi di scendere con lui e liberarne i prigionieri.
Non mi
piace il detto popolare: “a Natale con i tuoi e a Pasqua con chi vuoi”.
No!
Dobbiamo dire: “a Natale con i poveri” e “a Pasqua negli inferni del mondo”!
Negli
inferni vicini: penso agli anziani rinchiusi e abbandonati nella solitudine che
non possono ricevere le visite, o anche agli innumerevoli uomini e donne soli,
senza casa e senza affetto.
Ed
anche negli inferni più lontani, dove vivono milioni di uomini e donne ucraini,
dentro e fuori il Paese;
gli
innumerevoli inferni che sono in Africa, in Medio Oriente (chi ricorda più la
Siria?), i campi profughi ovunque nel mondo che sono “inferni” a cielo aperto,
o le drammatiche periferie delle megalopoli senza servizi (non riesco a
dimenticare le immagini drammatiche di Haiti).
E
quanti altri inferni!
Ecco
la Pasqua di cui il mondo intero ha bisogno: uomini e donne credenti o comunque
di buona volontà che scendono con il Risorto nel buio degli inferni di questo
mondo per stendere le loro mani e trarre in salvo tutti.
Gli inferni, dobbiamo svuotarli.
Questo significa augurare a tutti “Buona
Pasqua!”.
Pensate
se tutti, ma proprio tutti, i cristiani del mondo, siano pure divisi su tutto
il resto, ed anche gli uomini di buona volontà, il giorno di Pasqua potessero
dire a una sola voce e simultaneamente almeno questo:
la guerra non salva nulla e nessuno.
La
guerra non rinforza nessuna identità, nessuna convivenza, nessuna religione.
Non protegge nessuna civiltà, nessuna
prosperità, nessuna tradizione.
Perché la guerra avvelena tutti i pozzi, in
tutte le latitudini.
In
questa corale confessione del contagio che la guerra diffonde su tutto e tutti,
prende luce e dona forza l’annuncio coraggioso della fede.
Così
ha senso augurare a tutti “Buona Pasqua!”.
Lo
facciamo anche da “Il Riformista.” (Il Riformista)
Il
conflitto in Ucraina.
“La
pace oggi è impossibile, ecco perché”,
intervista a Lucio Caracciolo.
Ilriformista.it - Umberto De Giovannangeli —
(2 Febbraio 2023) – ci dice:
L’Europa,
l’Occidente di fronte al “bivio impossibile” della guerra in Ucraina.
Il
Riformista ne discute con Lucio Caracciolo, direttore di Limes, rivista
italiana di geopolitica.
Il suo
ultimo libro “La pace è finita” (Feltrinelli, 2022).
Lei ha
recentemente annotato:
“Quando
le forniture a Kiev non basteranno più ci scopriremo di fronte alla scelta che
abbiamo finora evitato di considerare:
fare davvero e direttamente la guerra alla
Russia oppure lasciare che la Russia prevalga.
Questo
‘bivio impossibile’ si sta avvicinando, a vantaggio di Mosca”. Siamo già a quel
“bivio”?
No, ma
se noi osserviamo lo sviluppo di questa guerra nell’anno quasi intero che ha
percorso, sembra che ci sia un piano inclinato che se non arrestato arriva a
quel punto, cioè la necessità di decidere se, detta brutalmente, lasciare
l’Ucraina al proprio destino o fare la guerra alla Russia.
Due
scelte che sono teoricamente impossibili ma che potrebbero diventare a un certo
punto addirittura necessarie.
Di
fronte a questo bivio, l’Europa è pronta a praticare la possibilità di uno
scontro diretto?
Alcuni
paesi europei potrebbero anche immaginare qualcosa del genere. Penso a quelli
che teorizzano la necessità della fine della Russia.
Mi riferisco ai paesi dalla Scandinavia alla
Polonia, alla Romania che non sostengono l’Ucraina semplicemente per l’Ucraina,
d’altronde nessuno sostiene l’Ucraina solamente per l’Ucraina, ma la sostengono
perché pensano che sia il grimaldello che può scardinare l’impero russo.
D’altro
canto, se si guarda anche alle dichiarazioni ufficiali di esponenti di quei
paesi lo sostengono esplicitamente.
L’Ucraina
serve per far fuori la Russia.
(Aerei
all’Ucraina, perché Biden frena sull’ennesima richiesta di Zelensky
Guerra
in Ucraina, Scholz si sottomette a Biden anche se i popoli vogliono la pace
Zelensky
vuole i jet dopo i carri armati, Macron apre a Kiev: “Nulla è escluso”, ma
Scholz e Biden frenano
Zelensky
rilancia, dopo i carri armati vuole jet e missili a lunga gittata: “No a tabù
nella fornitura di armi, così fermiamo terrore russo”)
Di
questo avviso è anche l’amministrazione Biden?
No,
non lo è, e infatti questo, come si vede, sta creando più di una frizione fra i
paesi che citavo in precedenza e l’amministrazione Biden, o quanto meno la sua
parte più moderata che oggi è ancora dominante, che esclude di scontrarsi con
la Russia.
Ed esclude anche che l’obiettivo americano sia
quello di far fuori la Russia a favore di una quantità di stati o staterelli
successori, qualche decina, che dovrebbero subentrare in quello spazio immenso.
Ma vale anche il discorso opposto.
Se l’Ucraina
perde viene spezzettata e magari in parte anche subappaltata a qualcuno dei
paesi che oggi la difendono e quindi è in gioco anche l’esistenza dell’Ucraina.
Ed è per questo che la pace è oggi
impossibile, e anche per il futuro che si può prevedere.
Perché
è una lotta per l’esistenza.
E sarà risolta, in un modo o nell’altro, sul
terreno militare e poi si prenderà atto della vittoria dell’uno o dell’altro
oppure di uno stallo che obbligherà entrambi a una forma di compromesso.
Basterà
l’invio di qualche decina di carri armati Abrams o Leopard2 a Kiev per cambiare
gli equilibri di forza sul campo?
Assolutamente
no.
Il
problema è che l’Ucraina ha praticamente finito le riserve di armamenti e
munizioni sovietiche ed ora è totalmente dipendente dal nostro aiuto militare.
Senza l’aiuto americano e dei paesi Nato che
vogliono contribuire allo sforzo bellico, l’Ucraina è finita.
Ha
bisogno di noi.
A noi
spetta decidere le sorti di questa guerra.
Una bella responsabilità alla quale cerchiamo
di sfuggire.
C’è il
rischio che questa guerra possa estendersi ad altre aree e coinvolgere altre
potenze, ad esempio la Cina?
È
difficile dire se il rischio c’è o non c’è.
La grande maggioranza di noi prima del 24
febbraio 2022 non immaginava che oggi potessimo trovarci in questa situazione
di guerra.
Questo
per dire che non dobbiamo ragionare sulla base di quello che era il mondo
precedente.
Siamo entrati in una fase di grande caos, di
grande incertezza, in cui i vecchi schemi interpretativi non funzionano.
Ciò
detto, siccome le cose non cambiano mai completamente, a oggi direi che la
soluzione più probabile è ancora quella di uno stallo, cioè di un
cessate-il-fuoco, di una tregua che sia più o meno sulla linea attuale del
fronte, avendo poi entrambe le parti bene in mente di riprendere la guerra
appena le condizioni saranno più favorevoli.
C’è il
rischio di una ulteriore escalation per la primavera?
L’escalation
potrebbe derivare o da un’offensiva ucraina, ma mi pare che in primavera non
abbiano ancora le forze per farlo, o da un’offensiva russa, che sarebbe
teoricamente più possibile visti i rapporti di forza complessivi.
E qui vedremo effettivamente fino a che punto
intenda spingersi Putin. Rischiare un’offensiva che dovesse finire in un flop,
avrebbe degli effetti, anche morali, piuttosto devastanti sull’opinione
pubblica russa e sulle forze in campo.
Credo
che un‘offensiva generale non sia in questo momento alle viste, anche perché la
vedremmo, nel senso che ci vorrebbe una concentrazione di forze e di mezzi che
sarebbero immediatamente visibili anche ai satelliti e alle agenzie di
intelligence.
Come ha detto di recente il ministro della
Difesa americano, Lloyd Austin, non è pensabile che nel corso di quest’anno
l’Ucraina possa recuperare tutti i territori persi, e forse nemmeno una gran
parte.
Al tempo stesso è anche difficile ritenere che
la Russia possa avvicinarsi non dico a Kiev ma molto avanti.
Allora
a quel punto un esaurimento di entrambe le parti o una difficoltà interna di
entrambe, potrebbe portare a qualche compromesso provvisorio, in stile coreano
per intenderci.
D’altro
canto, se è vero che la guerra che si combatte in Ucraina è, fra le altre,
anche una guerra tra Stati uniti e Russia, è altrettanto vero che per
Washington è importante indebolire la Russia, ma non fino al punto di
disgregarla, perché perderebbe la giustificazione principale per il
mantenimento dell’impero europeo dell’America, e inoltre, insisto su questo
punto, si aprirebbero degli scenari da incubo nell’area geopolitica russa ed ex
sovietica, dove Mosca ha ancora un arsenale di 6mila bombe nucleari, che dal
punto di vista americano potrebbero anche avvantaggiare la Cina.
Se la Russia dovesse soccombere e disgregarsi,
la Nato non avrebbe più motivo di esistere, come pure non sarebbe necessaria la
presenza americana in Europa.
La
politica ha abdicato alla “diplomazia delle armi”?
No,
ancora no.
Almeno da quello che possiamo intuire, si
tratta di contatti, intanto ovviamente informali e segreti, e poi tecnici.
Sono il Pentagono e la Difesa russa che hanno
un contatto permanente diretto per cercare di evitare di doversi sparare
addosso direttamente.
L’incidente
del missile russo caduto in Polonia e subito ribattezzato ucraino è un segnale
evidente di questa cooperazione, cioè del fatto che non vogliono arrivare alla
guerra diretta.
Ma nelle guerre dirette spesso ci si finisce
non per volontà ma per accidente, per caso, o per qualche insubordinazione ai
livelli inferiori che genera una situazione incontenibile.
In
questo scenario, come si sta comportando l’Italia?
Si è
messa saggiamente nella scia americana, un po’ trascinando i piedi e qualche
volta invece addirittura proponendo di fare cose che forse non può fare.
Ha capito, poteva farlo anche prima, che noi
dal punto di vista della difesa siamo totalmente nelle mani degli Stati Uniti.
Limes
ha dedicato molti numeri alla geopolitica del gas e del petrolio. Come valuta
il tentativo del governo Meloni di fare dell’Italia una sorta di hub
mediterraneo?
In
prospettiva mi parrebbe una buona idea.
Bisogna
vedere se abbiamo i mezzi per farlo.
Quello che mi pare evidente è che
l’approvvigionamento di gas per l’Italia e per l’Europa si sposta sempre più
dal fronte nord al fronte sud, in particolare via Turchia.
E la
geografia ci dice che questo è qualcosa che implica un ruolo centrale per
l’Italia, perché l’Italia è al centro del Mediterraneo, delle condotte
algerine, libiche da una parte e del potenziale del Mediterraneo orientale
ancora tutto da sfruttare dall’altra, oltre che dei tubi che dall’Asia, e
quindi anche dalla Russia e dall’Azerbaigian, vanno in Turchia, che dovrebbero
diventare sempre più rilevanti, passando per i Balcani o per l’Italia, anche
per l’Europa.
(Umberto
De Giovannangeli.
Esperto
di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera
italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente).
Se si
vuole, la pace si può fare.
Italiaoggi.it - Gianni Pardo – (27-10-2023) –
ci dice:
La mia
proposta sarà lapidata ma è la sola possibile.
Ma
siccome i musulmani vogliono cancellare Israele la Striscia di Gaza va blindata.
Se si
vuole, la pace si può fare.
Israele
vincerà la guerra che ha mosso a Gaza?
Più
esattamente: la guerra contro Gaza può essere vinta oppure è impossibile
vincerla?
Infatti,
come ha acutamente osservato qualcuno, è impossibile eliminare tutti i capi di
Hamas, sia perché i più importanti sono all'estero, sia perché, anche ad
uccidere loro, presto ne sorgerebbero altri.
Inoltre perché, è inutile negarlo, Hamas ha il
sostegno di buona parte della popolazione di Gaza.
Infine
(lo abbiamo visto in questi giorni) il movimento antisemita internazionale è al
massimo da quando è stata perpetrata la Shoah. Dunque Gaza riceverà ancora
sostegno e incoraggiamento da destra e da manca.
Insomma, quando Israele si ritirerà, e dopo
che sarà stata effettuata una sommaria ricostruzione, tutto riprenderà come
prima.
Problema
insolubile?
Forse
no.
A
stretto rigore di logica, e con molto coraggio, una soluzione esiste.
Ovviamente bisognerà affrontare l'impopolarità, ma Israele ne è oggetto già
oggi e dunque poco importa se peggiorerà.
A torto o a ragione (dal punto di vista
dottrinario) moltissimi musulmani sono convinti che ci sono regioni del mondo
che Dio ha riservato all'Islàm (Dar al-Islam), tanto che è sacrilegio ci siano
in tali regioni Stati di infedeli.
È il
caso di Israele: e questa convinzione non è priva di conseguenze. Spiega ad
esempio perché, dal 1947 ad oggi, non si sia arrivati alla soluzione dei due
Stati:
infatti
per i palestinesi non è questione di quali concessioni Israele possa offrire
(come del resto ha già tentato di fare) ma dell'intollerabilità della sua
esistenza.
Gli
arabi e i fanatici musulmani non vogliono che Israele sia buona e generosa,
vogliono che se ne vada.
Che
non esista.
Se
necessario ammazzando tutti gli ebrei, come sogna Hamas:
la quale ha anche mostrato in concreto in che
modo bisognerebbe condurre l'operazione.
Chi parla di palestinesi oppressi e di due
Stati non ha capito niente.
Se
sono oppressi lo sono dalla loro incapacità di creare ricchezza, e se non hanno
un loro Stato è perché lo rifiutano finché c'è Israele.
Ma non
c'è da stupirsene, quando si ha da fare con gli antisemiti.
Ora,
se questa è la protasi, ecco subito l'apodosi.
Se c'è
intollerabilità e incompatibilità di due Stati sullo stesso territorio, ne
consegue che la pace si avrà quando uno dei due Stati sarà eliminato.
Purtroppo
per gli arabi, la soluzione dell'eliminazione di Israele, lungamente sognata,
si è rivelata impraticabile.
Rimane
l'altra soluzione, l'eliminazione di Gaza.
E non volendo attuarla col sistema indicato da
Hamas (anche se moralmente Gaza la meriterebbe, trattandosi di reazione uguale
e contraria) per fortuna ne esiste un'altra.
Si
tratterebbe di sigillare Gaza, in modo che essa non riceva né acqua, né
elettricità, né carburante, né cibo né medicinali.
Chiudendo tutti i valichi, incluso
(dall'interno della Striscia) quello di Rafah.
E
somministrando agli abitanti lo stretto indispensabile per mantenerli in vita
(per così dire a pane e acqua) ma prolungando a tempo indeterminato l'attuale
assedio.
Ovviamente
la vita diverrebbe presto intollerabile, anche in assenza di bombardamenti
israeliani, ed anche in assenza di una minima invasione. Tanto che Israele
potrebbe emettere il seguente proclama:
«Dal
momento che la vita a Gaza è difficile, Israele si dichiara disposta a portare
a sue spese i profughi verso qualunque Paese musulmano di loro scelta, purché
tale Paese sia disposto ad accoglierli.
Da
questo momento, se soffrono è perché non se ne vogliono andare o perché i
fratelli musulmani non li accolgono».
Poi
Israele dovrebbe rendere molto chiaro al mondo che, se i profughi non sono
accolti dai Paesi musulmani, la colpa delle loro sofferenze è di questi Paesi,
non di chi vuole la pace e può ottenerla soltanto eliminando la causa della
guerra.
Ovviamente
tutti mi daranno torto; ovviamente senza dimostrare in che cosa ho sbagliato:
ma a
questo (quando si ha da fare con gli antisemiti) si è abituati.
Loro finiranno comunque col concludere che è
normale voler uccidere tutti gli ebrei, mentre non si può torcere un capello
neppure a un terrorista se è antisemita.
Una logica che sarebbe piaciuta a Himmler.
In
realtà non si può distinguere tra Hamas e popolazione palestinese: non solo i
palestinesi vorrebbero eliminare fisicamente tutti gli ebrei, ma in politica
internazionale esiste la responsabilità di gruppo.
Diversamente
non si spiegherebbero i bombardamenti degli Alleati durante la Seconda Guerra
Mondiale.
Può
darsi che la tesi qui esposta sia inattuabile, non so per quali motivi: ma una
cosa è certa, non può essere esclusa perché immorale o inumana.
La
nostra legge penale esclude la punibilità quando la difesa è proporzionata
all'offesa ma, se ciò da un lato vuol dire che non può eccedere rispetto alla
gravità dell'offesa, essa può simmetricamente salire di gravità fino alla
gravità dell'offesa.
E
costringere all'emigrazione è molto meno grave che mutilare, stuprare,
decapitare o torturare.
Dunque
Israele ha margine per fare questo ed altro.
Guerra
Israele-Gaza: il capo dell'Onu
sollecita
un'indagine sulla
tragedia
del convoglio di aiuti.
Bbc.com
– (29 -02- 2024) - Thomas Mackintosh – ci dice:
Guerra
Israele-Gaza.
I
Palestinesi ricevono cure mediche all'ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia, nel
nord della Striscia di Gaza.
L'ospedale
Kamal Adwan di Beit Lahia ha dichiarato di aver ricevuto morti e feriti dalla
parte occidentale di Gaza City.
Notizie
della BBC:
Diversi
paesi si sono uniti alle Nazioni Unite nel chiedere un'indagine sulla morte di
oltre 100 palestinesi durante una consegna di aiuti a Gaza.
Almeno
117 persone sono state uccise e più di 760 ferite giovedì mentre si affollavano
intorno ai camion degli aiuti.
Il
segretario generale delle Nazioni Unite “António Guterres” ha condannato
l'incidente e ha affermato che "civili disperati" hanno bisogno di
aiuto urgente.
Hamas
ha accusato Israele di aver sparato contro i civili, ma Israele ha detto che la
maggior parte è morta in una calca dopo aver sparato colpi di avvertimento.
Giovedì,
le critiche internazionali a Israele sono aumentate con il presidente francese
Emmanuel Macron che ha affermato che i civili sono stati "presi di mira
dai soldati israeliani".
Il
capo della politica estera dell'UE, “Josep Borell”, ha descritto l'incidente
come "una carneficina totalmente inaccettabile".
Reagendo
all'incidente, “Guterres” ha scritto sui social media: "Condanno l'incidente di giovedì
a Gaza in cui più di 100 persone sono state uccise o ferite mentre cercavano
aiuti salvavita".
"I
civili disperati di Gaza hanno bisogno di aiuto urgente, compresi quelli nel
nord dove le Nazioni Unite non sono state in grado di consegnare aiuti per più
di una settimana".
Venerdì
anche Francia, Italia e Germania hanno chiesto un'indagine indipendente sulle
morti dei convogli di aiuti.
I
palestinesi feriti sono stati portati all'ospedale al-Shifa di Gaza City per
essere curati.
I
palestinesi feriti sono stati portati all'ospedale al-Shifa di Gaza City per
essere curati.
Il
ministero della Sanità di Gaza, gestito da Hamas, ha definito l'incidente un
"massacro".
Il
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha programmato una riunione di
emergenza a porte chiuse per discutere dell'incidente, durante la quale
l'Algeria - il rappresentante arabo dell'organismo - ha presentato una bozza di
dichiarazione incolpando le forze israeliane di "aver aperto il
fuoco".
Mentre
14 dei 15 membri del Consiglio hanno sostenuto la mozione, gli Stati Uniti
l'hanno bloccata, secondo l'agenzia di stampa AP, citando l'ambasciatore
palestinese all'ONU Riyad Mansour che ha parlato con i giornalisti in seguito.
L'inviato
degli Stati Uniti “Robert Wood” ha detto che i fatti dell'incidente rimangono
poco chiari.
Più di
30.000 morti a Gaza, dice il ministero della Sanità di Hamas.
Verificare
l'affermazione di Israele di aver ucciso 10.000 combattenti di Hamas.
L'incidente
di giovedì è avvenuto poco dopo le 04:45 (02:45 GMT) alla rotonda di Nabulsi,
nella periferia sud-occidentale di Gaza City.
“Ramzi
Mohammed Rihan” è stato ferito nella fuga precipitosa e ha descritto alla” BBC
Arabic” ciò che ha visto.
Ha
detto: "Siamo
stati informati che un carico di farina sarebbe arrivato attraverso “Al-Nabulsi
Street” e che non ci sarebbero state sparatorie.
"Siamo
andati a prendere la farina per sfamare i nostri figli. Siamo andati in via
Nabulsi e prima che arrivassero i camion ci sono stati degli spari”.
"Quando
i camion sono entrati, ci siamo diretti verso di loro, e mentre cercavamo di
tirare fuori il primo sacco di farina dal camion, hanno iniziato a spararci
contro".
Il
signor “Rihan” ha detto di essere stato portato in ospedale su un carrello e
che le sue radiografie sono state ritardate a causa della mancanza di
elettricità.
Anche “Khaled
al-Tarawish” è stato ferito e ha detto che anche il suo intervento chirurgico è
stato rinviato a causa della mancanza di carburante nell'ospedale al-Awada.
"Sono
andato a Nabulsi Street a prendere un sacco di farina", ha detto. "A
causa della folla che ho fatto correre sotto l'auto, sono andato all'ospedale
di Awda dove mi hanno detto che dovevo sottopormi a un'operazione, ma poiché
non c'era gasolio, mi hanno detto che l'operazione sarebbe stata eseguita tre
giorni dopo.
"Tutto
quello che voglio è fornire gasolio all'ospedale in modo da potermi sottoporre
all'operazione e ricevere le mie cure".
Il
convoglio di 30 camion che trasportava aiuti egiziani si stava dirigendo verso
nord lungo quello che le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno descritto come
un "corridoio umanitario" che le sue forze stavano proteggendo.
Il Grafico
realizzato mostra la posizione del convoglio di aiuti che è stato circondato da
persone giovedì.
Il
portavoce capo dell'IDF, il contrammiraglio “Daniel Hagari”, ha detto che i
civili hanno circondato il convoglio e la gente ha iniziato a salire sui
camion.
"Alcuni
hanno iniziato a spingere violentemente e persino a calpestare a morte altri
abitanti di Gaza, saccheggiando le forniture umanitarie", ha detto.
"Lo
sfortunato incidente ha provocato decine di morti e feriti a Gaza".
I
carri armati israeliani, ha detto, "hanno cercato cautamente di disperdere
la folla con alcuni colpi di avvertimento" ma si sono ritirati
"quando le centinaia sono diventate migliaia e le cose sono sfuggite di
mano".
Esiste
un filmato aereo rilasciato dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF), che mostra
una folla di palestinesi riuniti intorno agli aiuti durante una consegna sulla
strada costiera a ovest di Gaza City (29 febbraio 2024)
L'esercito
israeliano ha diffuso un video aereo che mostra centinaia di palestinesi che si
accalcano intorno ai camion degli aiuti.
Un
altro portavoce dell'IDF, il tenente colonnello “Peter Lerner”, ha detto che
alcuni civili si sono avvicinati a un posto di blocco che era a circa 70 metri
di distanza e hanno ignorato i colpi di avvertimento sparati dai soldati.
Ha
detto che i soldati, temendo che alcuni dei civili rappresentassero una
minaccia, hanno poi aperto il fuoco su coloro che si avvicinavano in quella che
ha descritto come una "risposta limitata".
Hamas
ha respinto la versione dell'IDF, citando prove "innegabili" di
"spari diretti contro i cittadini, compresi colpi alla testa mirati
all'uccisione immediata".
L'incidente
è avvenuto poche ore prima che il ministero della Salute di Gaza annunciasse
che più di 30.000 persone, tra cui 21.000 bambini e donne, erano state uccise a
Gaza dall'inizio dell'attuale conflitto il 7 ottobre.
Circa
7.000 persone sono scomparse e 70.450 sono rimaste ferite.
Esiste
solo devastazione dopo che decine di persone sono state uccise durante il
lancio di aiuti a Gaza.
“
Gutteres”
ha aggiunto: "Sono sconvolto dal tragico bilancio umano del conflitto a
Gaza: più di 30.000 persone uccise e oltre 70.000 ferite.
"Ribadisco
il mio appello per un immediato cessate il fuoco umanitario e il rilascio
incondizionato di tutti gli ostaggi".
La
direttrice esecutiva di Medici Senza Frontiere nel Regno Unito, “Natalie
Roberts”, ha detto che fornire aiuti a una popolazione affamata senza
un'adeguata sicurezza rischia il disastro.
Parlando
al programma Today di BBC Radio 4 ha detto:
"Sappiamo che ci sono stati pochissimi
convogli di aiuti nelle ultime settimane nel nord, la gente non è stata in
grado di ottenere nulla da mangiare.
"Sappiamo
dai nostri colleghi che devono mangiare cibo animale, che a volte rimangono
senza cibo per giorni e giorni.
E così la gente è completamente disperata, e
nel momento in cui inizi a cercare di consegnare cibo alla regione senza alcun
tipo di sicurezza per il convoglio, allora questo accadrà sempre".
L'ONU
avverte di un'incombente carestia nel nord del territorio, dove si stima che
circa 300.000 persone vivano con poco cibo o acqua pulita.
L'esercito
israeliano ha lanciato una campagna aerea e terrestre su larga scala per
distruggere Hamas – che è proscritto come organizzazione terroristica da
Israele, Regno Unito e altri – dopo che i suoi uomini armati hanno ucciso circa
1.200 persone nel sud di Israele il 7 ottobre e ne hanno portate 253 a Gaza
come ostaggi.
La
moralità nella guerra
in
Ucraina è molto incerta.
Magazine.cisp.unipi.it – (29 Settembre 2023) -
Stephen M. Walt – ci dice:
La
guerra in corso in Ucraina viene spesso affrontata da un punto di vista morale.
In
questo articolo pubblicato di recente su “Foreign Policy”, “Stephen M. Walt”,
docente di Relazioni internazionali “Robert e Renée Belfer” all’Università di
Harvard, fa emergere tutte le difficoltà connesse a questo approccio, facendo
riflettere sui dilemmi etici sollevati dalla guerra e dalle posizioni dei
diversi attori coinvolti.
Sebbene
la situazione sembri chiara dal punto di vista morale, oltre che giuridico, con
l’Ucraina vittima di un’aggressione illegale da parte della Russia e, come
tale, meritevole di solidarietà e sostegno, l’autore suggerisce che l’effettiva
valutazione etica di una situazione complessa come questa deve andare oltre i
principi astratti e “calcolare” gli effetti di determinate decisioni.
Vengono
così esplorate diverse prospettive, inclusi i costi potenziali, le probabilità
di successo e le implicazioni a lungo termine delle diverse linee d’azione.
In conclusione:
la
moralità di una determinata politica, specialmente se prevede l’uso massiccio
di armi e dunque mette in conto un elevato numero di vite umane, non può
prescindere da queste considerazioni.
Si
tratta anche di trarre, se possibile, insegnamenti dalla storia recente dei
rapporti tra la NATO e la Federazione Russa (quella storia che ha portato allo
scoppio delle ostilità armate alla fine di febbraio 2022) e di evitare azioni
che possano danneggiare l’Ucraina nel lungo periodo e rendere sempre più
difficile l’avvio di una trattativa per una pace equa e sostenibile nel tempo.
(Stephen
M. Walt)
Qual è
la linea d’azione moralmente preferibile in Ucraina?
A
prima vista sembra ovvio.
L’Ucraina
è vittima di una guerra illegale, il suo territorio è occupato da truppe
straniere, i suoi cittadini hanno sofferto molto per mano dell’invasore e il
suo avversario è un regime autocratico con tutta una serie di caratteristiche
sgradevoli.
A parte i calcoli strategici, la linea morale
corretta è certamente quella di sostenere l’Ucraina fino in fondo.
Come ha affermato il Presidente ucraino “Volodymyr
Zelensky” alla riunione della” Yalta European Strategy” svoltasi a Kiev tra l’8
e il 9 settembre scorso:
“Quando parliamo di questa guerra, parliamo
sempre di moralità”.
Non
sorprende che abbia trasmesso lo stesso messaggio durante la sua visita a
Washington lo scorso 22 settembre.
Se
solo il calcolo morale fosse così semplice…
Sin
dall’inizio della guerra, coloro che sono favorevoli a concedere all’Ucraina
“tutto ciò che serve” [whatever it takes] per tutto il tempo necessario hanno
cercato di rappresentare la guerra nella modalità comune per gli Stati Uniti:
come una semplice competizione tra il Bene e il Male.
Dal loro punto di vista, la Russia è l’unica
responsabile della guerra e la politica occidentale non ha assolutamente nulla
a che fare con la tragedia che ne è derivata.
Ritraggono
l’Ucraina come una democrazia in difficoltà, ma coraggiosa, che è stata
brutalmente attaccata da una dittatura corrotta e imperialista.
Considerano la posta in gioco morale quasi
infinita, perché l’esito della guerra avrà presumibilmente un impatto di vasta
portata sul futuro della democrazia, sul destino di Taiwan, sulla conservazione
di un ordine mondiale basato su regole, e così via.
Non
sorprende che siano pronti a condannare chiunque contesti questa visione come
un ingenuo acquiescente, un lacchè russo o qualcuno privo di senso morale.
Nessuna
di queste affermazioni dovrebbe essere accettata senza riserve. Non c’è dubbio
che la Russia abbia iniziato la guerra e che meriti di essere condannata per
questo, ma l’affermazione che la politica occidentale non abbia nulla a che
fare con essa è risibile, come ha recentemente riconosciuto lo stesso
Segretario Generale della NATO, “Jens Stoltenberg”.
Sì, l’Ucraina è una democrazia, ma anche una
democrazia che contiene ancora alcuni elementi sgradevoli, anche se la
rappresentazione che ne offre il Presidente russo” Vladimir Putin” come un
“regime nazista” è decisamente esagerata.
L’idea
che l’esito di questo conflitto avrà un impatto profondo sul mondo è ancora
meno convincente:
la
guerra di Corea si è conclusa con uno stallo e un armistizio negoziato e le
guerre in Vietnam, Iraq e Afghanistan sono state chiare sconfitte degli Stati
Uniti, ma le conseguenze geopolitiche di questi fallimenti sono state
prevalentemente locali;
è probabile che lo stesso avvenga in Ucraina,
qualunque sia l’esito finale della guerra.
Lo
stesso vale anche al contrario:
la schiacciante vittoria dell’Occidente nella
prima guerra del Golfo e la sconfitta della Serbia nella guerra del Kosovo non
hanno dato vita a una rinascita democratica duratura.
La
democrazia è in difficoltà in molti luoghi – compresi gli Stati Uniti – ma le
battute d’arresto militari all’estero non ne sono la ragione principale, così
come una vittoria decisiva dell’Ucraina non riporterebbe il Partito
Repubblicano statunitense alla ragione, né farebbe abbandonare i programmi
politici illiberali di “Marine Le Pen” in Francia e “Viktor Orban” in Ungheria.
Tuttavia,
è comprensibile il motivo per cui quasi tutti in Occidente – me compreso –
pensano che il le ragioni morali in questo caso siano a favore dell’Ucraina.
Qualunque
siano state le paure o le rimostranze di Mosca prima della guerra, la Russia ha
iniziato una guerra preventiva illegale.
Ciò non rende la Russia unica ad agire contro
le regole (che dire dell’”Operazione Iraq Freedom del 2003”?), ma l’Ucraina è
comunque la vittima in questo caso.
La
Russia ha deliberatamente attaccato obiettivi civili e ha commesso altri
crimini di guerra di dimensioni che superano di gran lunga le violazioni delle
leggi di guerra da parte dell’Ucraina (anche se la decisione degli Stati Uniti
di fornire a Kiev munizioni a grappolo rende il quadro meno netto).
È
difficile vedere molte virtù morali in un regime russo che avvelena gli
esiliati e rifiuta i principi fondamentali dei diritti umani e in cui gli
oppositori cadono da finestre elevate o subiscono altri “incidenti” mortali con
una frequenza statisticamente improbabile.
Queste
e altre caratteristiche spiegano perché la maggior parte di noi prova una
sincera simpatia per l’Ucraina e vorrebbe che Kiev “vincesse”.
Ciò
che manca in questa visione, tuttavia, è il riconoscimento che la moralità di
una determinata politica dipende anche dai costi potenziali delle diverse linee
d’azione e dalle probabilità di successo di ciascuna di esse.
Se stiamo parlando di vite umane, dobbiamo
guardare oltre i principi astratti e considerare le conseguenze reali delle
diverse scelte.
Non basta proclamare che i buoni devono
vincere;
bisogna anche pensare seriamente a quanto
costerà produrre quel risultato e se sarà effettivamente possibile
raggiungerlo.
Anche se non c’è modo di essere certi al 100%
dei costi o delle probabilità di successo, rifiutarsi di prendere in
considerazione questi aspetti significa abdicare alla propria responsabilità
morale.
(Per
un raro tentativo di effettuare il tipo di analisi che sto sostenendo qui,
rimando alla lettura del rapporto della” RAND Corporation”).
La
lunga guerra in Afghanistan offre un’illustrazione eloquente di questo genere
di problema.
Sebbene
alcuni osservatori sperassero che i Talebani avrebbero moderato le loro
posizioni con il passare del tempo, quasi tutti si rendevano conto che una loro
vittoria sarebbe stata una calamità morale per la maggior parte degli afghani,
soprattutto per le donne.
Chi di
noi era favorevole al ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan non lo faceva
perché era indifferente alle sofferenze degli afghani, ma perché riteneva che
una permanenza più lunga non avrebbe alterato il risultato finale in modo
significativo.
Coloro
che volevano mantenere la rotta continuavano a insistere sul fatto che la NATO
e i suoi partner governativi afghani erano prossimi a una “svolta” e che un
altro anno, due o tre avrebbero portato a una vittoria;
ma non
hanno mai identificato una strategia plausibile per raggiungere questo
obiettivo (e le valutazioni interne erano molto più pessimistiche rispetto al
risultato finale).
Qualunque
fossero le intenzioni originarie degli Stati Uniti, gli afghani morti mentre
Washington era intenta a prender tempo sono morti senza scopo alcuno.
Temo
che qualcosa di simile si stia verificando in Ucraina. L’argomentazione morale
per perseguire la pace – anche se le prospettive sono improbabili e i risultati
non sono quelli che preferiremmo – consiste nel riconoscere che la guerra sta
distruggendo il paese e che più dura, più i danni saranno estesi e duraturi.
Sfortunatamente
per l’Ucraina, chiunque lo faccia notare e offra un’alternativa seria rischia
di essere attaccato e condannato a gran voce e, quasi sicuramente, ignorato dai
leader politici di riferimento.
Coloro
che credono che la risposta a lungo termine sia quella di inviare all’Ucraina
armi più avanzate e di farla entrare nella NATO e nell’Unione Europea il più
rapidamente possibile – come ha sostenuto lo scorso fine settimana
l’editorialista del “New York Times” “Thomas Friedman” – comprendono la
situazione esattamente il contrario.
Putin
è entrato in guerra principalmente per precludere questa possibilità e
continuerà la guerra sia per evitare che ciò accada sia per assicurarsi che ciò
che resta dell’Ucraina sia di scarso valore.
Ha senso dare all’Ucraina un sostegno
sufficiente affinché la Russia non possa imporre la propria pace, ma tale
sostegno dovrebbe essere legato a un serio sforzo per portare a termine la
guerra.
Gli
“integralisti” avanzano un’obiezione ovvia a queste argomentazioni. “L’Ucraina
vuole continuare a combattere”, insistono riportando correttamente un fatto, “e
quindi dovremmo darle tutto ciò di cui ha bisogno”.
La
determinazione dell’Ucraina è stata straordinaria e i suoi desideri non
dovrebbero essere ignorati, ma questo argomento non è decisivo.
Se un amico vuole fare qualcosa che tu ritieni
sconsiderato o pericoloso, non hai alcun obbligo morale di aiutare i suoi
sforzi, a prescindere dal suo forte impegno.
Al contrario, saresti moralmente colpevole se
lo aiutassi ad agire come desidera e il risultato fosse disastroso.
Naturalmente,
il peso di queste argomentazioni morali cambia in modo significativo se si
crede che l’Ucraina possa vincere a un costo accettabile e che questo risultato
avrà un profondo impatto positivo in tutto il mondo.
Come
già detto, questo è l’argomento centrale del “partito della guerra”.
Visti i risultati fin qui deludenti (se non
disastrosi) della controffensiva estiva dell’Ucraina, tuttavia, questa
posizione è sempre più difficile da difendere.
Gli
integralisti sperano ora che armi più avanzate (sistemi missilistici ATACMS con
gittata da 140 a 300 km, aerei F-16, fucili M-1, grandi quantità di droni e
così via) facciano pendere la bilancia militare a favore dell’Ucraina,
ipotizzando anche che la Russia stia esaurendo le riserve e che presto sarà in
difficoltà.
Spero
che abbiano ragione, ma è indicativo il fatto che questi “falchi” tacciano per
lo più sulla questione delle perdite subite dall’Ucraina.
Per essere precisi:
quanti ucraini sono stati uccisi o feriti e
per quanto tempo Kiev potrà continuare a rimpiazzarli?
Questo
aspetto è fondamentale per qualsiasi tentativo di valutazione delle prospettive
militari dell’Ucraina, ma è quasi impossibile ottenere informazioni affidabili
al riguardo.
A
oggi, nessuno di noi sa con certezza come si svolgerà il resto della guerra.
La nostra ignoranza collettiva suggerisce che
tutti i partecipanti a questi dibattiti dovrebbero mostrare un po’ più di
umiltà.
È
possibile che io stia sottovalutando le possibilità di Kiev e le conseguenze
negative di un accordo negoziato.
Se
dovessi sbagliarmi, sarò felice di ammetterlo e mi consolerò del successo
dell’Ucraina.
Ma vorrei che gli “integralisti”
riconoscessero che il loro approccio intransigente alla guerra potrebbe
danneggiare maggiormente l’Ucraina nel lungo periodo.
Non
perché questo sia ciò che gli “integralisti” vogliono, ma perché questo è ciò
che le loro raccomandazioni politiche potrebbero produrre.
Un
ultimo punto da tenere a mente.
Se
abbiamo ancora voglia di attribuire la responsabilità morale della guerra, la
colpa non è di chi tra noi ha messo in guardia dai pericoli di un’espansione
NATO senza limiti, ha avvertito i rischi di un’interferenza troppo aperta nella
politica interna dell’Ucraina e ha sostenuto che gli sforzi per armare
l’Ucraina avrebbero potuto avere effetti controproducenti.
Putin
è responsabile dell’inizio della guerra e del modo in cui la Russia l’ha
condotta, ma una parte della colpa di questa tragedia è da attribuire a coloro
che in Occidente hanno rifiutato di vedere tutti gli avvertimenti precedenti,
rispetto alla direzione che le loro politiche avrebbero potuto prendere.
Dato
che molte di queste stesse persone sono tra le voci più forti che oggi chiedono
di continuare la guerra, di alzare la posta in gioco e di aumentare il sostegno
dell’Occidente, è lecito chiedersi se i loro consigli danneggeranno l’Ucraina
oggi come hanno fatto in passato.
(Foreign
Policy)
Guerra
in Ucraina, Putin:
«La
pace solo quando
avremo
raggiunto obiettivi»
ilsole24ore.com
– (14 dicembre 2023) - Antonella Scott – ci dice:
Il
leader russo ha ribadito la determinazione a «denazificare e demilitarizzare»
l’Ucraina.
Su Usa e Europa: Russia sempre pronta a
riprendere i contatti, un giorno le relazioni con gli Usa miglioreranno.
«Quando
arriverà la pace?», chiedono.
«Quando avremo raggiunto i nostri obiettivi,
che non sono cambiati».
È
attorno a queste parole - una delle prime risposte date da “Vladimir Putin”
nella “linea diretta” con il pubblico organizzata insieme alla tradizionale
conferenza stampa di fine anno - che ruota ogni altro tema toccato dal
presidente russo, che per più di quattro ore ha parlato al Paese e ai media per
fare un bilancio non soltanto dell’anno passato ma anche del precedente,
dall’inizio della cosiddetta “operazione militare speciale” in Ucraina.
Un
tempo che non ha minimamente incrinato la determinazione di “Putin” a
«denazificare e demilitarizzare» l’Ucraina, a portarla «in uno status
neutrale».
E
poiché a Kiev non sono d’accordo, «siamo costretti ad adottare altre misure»:
sono ancora queste le parole usate, è questa
la determinazione da cui il presidente ripartirà per ripresentarsi per la
quinta volta alle elezioni di marzo, come il solo leader in grado di assicurare
il rafforzamento della sovranità della Federazione Russa.
«Senza
sovranità la nostra esistenza è impossibile», ha ripetuto “Putin.”
«L’economia
ha risorse sufficienti».
Per
questo evento organizzato per dimostrare che ogni cosa sta decisamente andando
per il verso giusto, Putin estrare da una cartellina gialla i dati con cui
illustra con orgoglio la stabilità dell’economia su cui si appoggia l’impegno
militare, mentre l’Ucraina «ha ora l’onore di essere diventata il Paese più
povero d’Europa»:
cita
una crescita stimata per quest’anno al 3,5%, la disoccupazione ai minimi, il
debito pubblico in calo, la solidità del sistema bancario e finanziario,
l’aumento di redditi e salari.
«Le risorse dell’economia sono sufficienti per
andare avanti», garantisce il presidente, malgrado le sanzioni.
Solo l’inflazione non va come dovrebbe,
ammette il presidente, incalzato in collegamento da Krasnodar da una pensionata
che gli ricorda preoccupata l’aumento dei prezzi delle uova.
Le
importeremo e questo contribuirà ad abbassare i prezzi, la rassicura.
La
carica dei soldati a contratto.
Tra le
domande arrivate in quantità da tutto il Paese (più di due milioni, sottolinea
il moderatore “Dmitrij Peskov”) emerge una delle preoccupazioni più grandi: ci
sarà una nuova ondata di mobilitazione?
Putin
non parla delle centinaia di soldati russi che secondo le stime occidentali
stanno morendo ogni giorno in Ucraina, e anche in questo rassicura:
al
fronte, spiega, in questo momento ci sono più di 200.000 persone mobilitate
«che stanno combattendo valorosamente», mentre è in corso la campagna per
raccogliere “kontraktiki”, soldati volontari. I contratti firmati sono già
486.000: «Perché una mobilitazione? – si è chiesto Putin -. Adesso non è
necessaria».
In totale, rivela, in zona di guerra sono
impegnati 617.000 soldati russi.
Alla
maratona televisiva hanno preso parte anche giornalisti e inviati dalle regioni
ucraine parzialmente occupate dai russi, che le hanno annesse arbitrariamente
alla Federazione e ora le chiamano “nuovi territori”: Donetsk e Luhansk nel
Donbass, Zaporizhzhia e Kherson nell’Ucraina meridionale.
Putin
ha sminuito l’operazione con cui le forze di Kiev hanno conquistato una testa
di ponte sulla riva sinistra del Dnipro:
«Non so perché lo fanno – ha detto -, mandano
la gente a morire, per loro è un viaggio senza ritorno».
Per la
Russia invece la situazione sta migliorando «su tutta la linea del fronte».
Un
ottimismo rafforzato dalle difficoltà che l’Ucraina sta incontrando presso gli
alleati sulle forniture di armi:
«Prendono tutto a scrocco – ha detto Putin -,
ma queste consegne gratuite prima o poi verranno meno, e pare che stiano già
iniziando a scarseggiare».
I
rapporti con Europa e America.
Gli
chiedono se è lecito aspettarsi una normalizzazione dei rapporti con l’Unione
Europea e con l’America.
Non
dipende solo da noi, chiarisce utilizzando la domanda per ripercorrere ancora
una volta la propria versione dei fatti:
il
confronto con l’Ucraina, a partire da quello che Putin considera un colpo di
Stato avvenuto a Kiev nel febbraio 2014, è stato provocato dai leader
occidentali, dagli americani incapaci di abbandonare una politica imperialista
e dagli europei dipendenti dal loro “fratello maggiore”, gli Stati Uniti.
«Non siamo stati noi a guastare questi
rapporti», la Russia è sempre pronta a riprendere i contatti e un giorno le
relazioni con gli Usa miglioreranno.
Putin
lo ripeterà più tardi a un giornalista francese, a proposito del suo legame con
il presidente “Emmanuel Macron”:
«Se c’è interesse, siamo pronti. Altrimenti ce
ne faremo una ragione».
Il
destino di “Evan Gershkovich.”
La
domanda dell’inviata del “New York Times” porta l’attenzione sui casi di due
americani detenuti in Russia con l’accusa di spionaggio:
l’ex
marine “Paul Whelan” e “Evan Gershkovich” , reporter del “Wall Street Journal”.
La
risposta di Putin sembra aprire una possibilità:
«Siamo
in contatto con i partner americani, è in corso un dialogo.
Non è
semplice, non fornirò dettagli, ma nel complesso mi pare che stiamo parlando
nella stessa lingua.
Spero che potremo trovare una soluzione.
Ma anche la controparte americana ci deve
ascoltare e prendere decisioni che possano andarci bene.
Bisogna partire da considerazioni umanitarie».
La
fede nel popolo russo.
L’ultima
domanda, dall’inviato di “Kommersant”, riguarda l’avvertimento e il consiglio
che il “Putin” di oggi darebbe a sé stesso all’inizio degli anni 2000:
«Lo
avvertirei di non fidarsi troppo dei cosiddetti partner – risponde -.
E gli
consiglierei di credere nel grande popolo russo. In questa fede è il pegno del
successo della rinascita della Russia».
GUERRA
IN UCRAINA.
Politi
(Nato): “Zelensky sta
cercando
il grande slam. Sarebbe
opportuno
piuttosto fermare la guerra”
Agensir.it - (31 Gennaio 2023) - Elisabetta
Gramolini – ci dice:
Chi
combatte la guerra in Ucraina o la osserva da fuori, attende il colpo grosso,
ma non sa sempre con precisione cosa accadrà.
Nel frattempo l’azzardo si impadronisce dei
giocatori, così come l’odio. C’è chi, sull’eventuale pace del conflitto
ucraino, evoca il ricordo della conferenza di Monaco, l’incontro che nel 1938
fu preludio della seconda guerra mondiale, e chi, come Papa Francesco chiede di
riconoscere uguale dignità umana.
Al
“Sir”, “Alessandro Politi”, direttore della “Nato Defense college foundation”,
delinea ipotetici percorsi di pace provvisoria per due avversari messi a dura
prova dalla guerra.
Al
tavolo del poker nemmeno il più incallito giocatore è realmente lucido: è
influenzato dall’avversario così quanto dalle proprie emozioni.
E pure
chi assiste alla partita non può prevedere con esattezza l’esito o la prossima
mossa.
Allo
stesso modo, chi combatte la guerra in Ucraina o la osserva da fuori attende il
colpo grosso, ma non sa sempre con precisione cosa accadrà.
Nel
frattempo l’azzardo si impadronisce dei giocatori, così come l’odio. C’è chi,
sull’eventuale pace del conflitto ucraino, evoca il ricordo della conferenza di
Monaco, l’incontro che nel 1938 fu preludio della seconda guerra mondiale, e
chi, come Papa Francesco chiede di riconoscere uguale dignità umana.
Direttore,
sulla guerra in Ucraina l’unico a parlare di pace è sempre e solo Papa
Francesco?
Il
Papa, al contrario di chi segue la dottrina dello ‘Stato canaglia’, tratta con
uguale dignità umana gli ucraini e i russi.
Questo
non gli impedisce di condannare Putin o il patriarca Kirill. Francesco è lo
stesso che con la” Laudato si’” ha dato un quadro strategico al futuro del
mondo, tenendo fortemente presente il dato ecologico, è l’unico che ha fatto un
documento politico serio sul futuro del Pianeta.
È un
capo di Stato che ha la responsabilità morale su una popolazione di un miliardo
e 400mila persone.
Siamo
lontani dalla fine del conflitto?
In
ogni guerra c’è sempre un momento culminante che si pensa cambi tutto.
Il problema è che riconoscerlo non è sempre
semplice.
Nemmeno
i protagonisti lo capiscono o gli altri contendenti che partecipano
all’attività politica o logistica.
Gli ucraini vogliono la vittoria per motivi
comprensibili, innanzitutto perché sono stati invasi e vogliono recuperare i
territori occupati.
A questa motivazione razionale si somma l’odio
apertamente dichiarato da alcuni dirigenti ucraini.
L’odio
però non rende lucidi, distorce la capacità di calcolo.
C’è
poi l’odio di chi non combatte, ma ricorda il lungo periodo di dominazione
sovietica.
Una
spirale ingannevole.
La
guerra tende all’assoluto, scriveva “von Clausewitz”, ed in essa c’è un culmine
in cui si capisce che la guerra è a una svolta.
Gli
ucraini sperano in una disfatta colossale dei russi che li costringa a venire
con il capo coperto di cenere.
Tuttavia, le vite ucraine non sono infinite,
così come quelle dei russi. Queste sono le realtà a cui però non pensi quando
sei seduto al tavolo della roulette della guerra.
Entrambi
giocano d’azzardo?
La
guerra la fa chi si difende, osservava ancora “von Clausewitz”.
Putin
avrebbe voluto e potuto conquistare l’Ucraina senza colpo ferire, se gli
ucraini fossero stati inerti; invece hanno resistito anche nelle zone
russofone.
Zelensky
adesso sta cercando il grande slam. Sarebbe opportuno piuttosto fermare la
guerra, recuperare tratti di territorio vitale per l’Ucraina in contropartita
ad alcune richieste russe, tutte da definire concretamente e negoziare
lucidamente.
La pace non è impossibile e non sarà una nuova
Conferenza di Monaco. Ricordo che noi italiani abbiamo impiegato cento anni per
riunificarci, recuperando tutto il territorio sotto dominazione straniera.
Quale
pace è possibile allora?
È
pericoloso illuderci che l’Ucraina riesca a riconquistare tutto, subito.
Il
Paese attualmente è in un disastro demografico.
Stiamo
rischiando di arrivare ad uno stallo, in cui chiedere a Putin la fascia
costiera, dal Donbass alla Crimea, vitale per gli ucraini.
Dopo è
ragionevole prevedere un decennio di ricostruzione del Paese, della logistica e
delle forze armate ucraine, se si vuole pesare sul futuro degli equilibri
regionali.
D’altro canto, se la guerra non si ferma, per
i russi è impossibile eleminare politicamente Putin, come da consolidata
tradizione del Paese.
Abbiamo
visto come parte della popolazione non sia appiattita completamente alla
posizione di Putin.
Pensare
che i russi siano tutti con Putin serve a demonizzare l’avversario, roba
vecchia come la guerra.
Sul piano della propaganda l’idea funziona
perché così la gente è motivata a partire al fronte o a supportare sui social,
ma è un’operazione che fa calare i veli dell’odio, non a ragionare freddamente
sulle necessità politiche.
Se alcuni governi, accecati dall’odio, non
avessero sospeso unilateralmente i visti turistici per i russi con esili
motivazioni, avremmo avuto molte più persone in fuga dalla Federazione russa.
Quando
si dice che l’Ucraina è la prima linea di difesa della libertà europea, si fa
un potente accostamento emotivo, ma purtroppo sganciato dalla realtà: la prima
linea di difesa della comunità euroatlantica è la “Nato” con l’articolo 5 del
suo trattato.
È
sbagliato pensare che sia stato attaccato un avamposto dell’Europa?
Se
così fosse, non si capirebbe perché i finnici e gli svedesi vogliano ancora
entrare nella Nato: c’è già un avamposto che li difende.
Questo
tragico anno non porterà ad una nuova Monaco ma, allora come ora, serve tempo
per riarmare con armi di costruzione assai più complessa e lenta di prima.
Abbiamo
dato armi e munizioni senza precedenti, però, come dimostrano nei fatti i
nostri amici a Washington, c’è un limite da considerare:
resta sempre da garantire un’adeguata
deterrenza convenzionale e nucleare per trenta Paesi membri, precisamente per
evitare un domani altri colpi di testa di Putin; cosa che i baltici temono
moltissimo.
Molti
parlano di terza guerra mondiale dietro l’angolo.
Potrebbe
scoppiare sì, ma nel Pacifico.
È una
fortuna che “Biden” e “Xi Jinping” si siano incontrati a Bali: abbiamo
guadagnato due anni di tempo per la prevenzione in quell’area.
Ma non possiamo lasciar continuare questa
guerra in Ucraina che potrebbe creare delle dinamiche che sfuggono a tutti.
L’idea che i cinesi vogliano invadere Taiwan
nel 2027 è un’ipotesi.
Di concreto però c’è che la Cina sta
invecchiando e che non farà il sorpasso sugli Stati Uniti.
Certo
la Cina ha una rivendicazione fortissima sull’unità nazionale, ma si rende
conto che forse è meglio riunificare in un altro modo.
È un
forse perché “Xi Jinping” non è eterno e non sappiamo come sarà il suo
successore.
Il
vicepresidente del consiglio di sicurezza russo “Dimitri Medvedev” ha dato
dello “sciocco raro” al ministro della Difesa italiano “Guido Crosetto”.
Preferisco
guardare ai silenzi di Putin che alle uscite irrilevanti di Medvedev.
Il
fatto che non parli è una strategia?
È un
segno chiaro che ha seri problemi da risolvere.
A
Putin interessa un dialogo con gli Usa e la Nato, poi bisogna vedere con quali intenzioni
e a quali condizioni; è il momento di fargli scoprire le carte.
Pace
in Ucraina in
cambio di territori
ai
russi, se anche la Nato inizia a pensarci.
Lastampa.it
– (18 Agosto 2023) - DOMENICO QUIRICO – ci dice:
«Tempo
e pazienza», la strategia anti-Napoleone del generale “Kutuzov gioca contro
Kiev. Zelensky ha esaurito le munizioni umane, l’ora del compromesso è sempre
più vicina.
«Tempo
e pazienza...vriemia i tirpienia»:
ricordate?
Le parole che pronuncia il generale Kutuzov in “Guerra e pace” quando gli
portano la notizia che Napoleone ha invaso la Russia e la Grande Armata ha
scavalcato il Diemen.
Tempo e pazienza:
ciò
che serve spesso per vincere le guerre ma anche per costruire le tregue e la
pace.
Tempo
e pazienza.
Quanto ne hanno dovuto usare e sprecare
ucraini e russi, popoli generosi e appassionati, popoli drammaticamente
impegnati a risolvere il proprio avvenire, per lasciarsi alle spalle guerre
rivoluzioni carestie invasioni saccheggi.
Non
sappiamo quando riusciranno a darsi sistemi di governo e governanti che li
rappresentino degnamente nella ricchezza della loro straordinaria umanità,
quando si libereranno di politicanti che dilapidano senza rimorsi le loro vite
per costruire sanguinari mausolei di sé stessi.
Quando? Tempo e pazienza…
Si
odono, dopo quasi due anni di massacro insensato!
Segni,
scricchiolii, tentazioni, rilanci, timidi inviti.
Paiono
indicare come gli stralunati elogi della guerra declamati da colti parrucconi
guerrafondai delle retrovie occidentali, che hanno sfrenato manigoldi intenti a
riempirsi le saccocce, siano arrivati, forse, a un vicolo chiuso.
Ovvero
alla aspra prova dei fatti.
Perfino
un altissimo alcalde della Nato, la fumisteria mistica e ben remunerata della
virtù della strage, spezza un tabù, squaglia il postulato teologale che finora
l’Occidente aveva concesso a “Zelensky “senza discutere, non si parli di nulla,
vittoria e basta!
Si affida a taccuini e microfoni stupefatti
invece la possibilità che i titoli di coda in Ucraina descrivano non
l’annientamento dell’anticristo Putin ma un mercantile baratto tra territori e
sicurezza.
Non
farnetichio o lapsus.
Una
prova per vedere se… una escursione dalla cabalistica guerrafondaia alla
ragionevolezza del reale.
Idee
fosche! Blasfemia! Gridano a Kiev.
A
Bruxelles si smentisce senza esagerare.
Le parole come la ghiaia di una strada si
disperdono ma sotto, ed è quello che conta, si sente la pietra dura di una
pesante affannosa inquietudine.
Nelle
capitali di una non belligeranza molto partecipe ci si domanda, finalmente!
Se il
dogma non sia logica perversa.
Gli
animali da pulpito declinavano assunti elementari: la guerra non si tocca!
Non un
centimetro di territorio al nemico! o tutti eroi o tutti ammazzati!
L’ineffabile aforisma dell’immancabile trionfo dell’Occidente scudo
dell’Ucraina si sfarina dopo un anno e mezzo di guerra inutile, di trincee
inespugnabili, di spallate irrisolute.
In
questa tragedia ci sono alcuni che non hanno né tempo né pazienza. L’Occidente
l’Europa gli Stati Uniti innanzitutto:
per quanto possono sopportare la constatazione
che i loro sfrenati aiuti finanziari e militari non hanno schiuso nel Donbass
il cielo della Storia e che si dovranno aiutare gli incontentabili ucraini “in
saecula saeculorum”?
Gli ucraini non sono in grado di spazzar via i
russi da soli.
È da
qui che bisognerà disegnare nuovi solstizi ed equinozi, e alla svelta. Scorrono
tra le dita dei “Biden”, dei “Macron” e dei marabutti della vittoria, come
grani del rosario in cui si ricomincia sempre da capo, le necessità pretese
come “risolutive” da Kiev:
munizioni
cannoni mezzi antiaerei semoventi carri armati missili a lungo raggio Effe
sedici diciotto trentacinque... i raid scenografici dei droni in territorio
russo, l’ossessione propagandistica per i ponti della Crimea appaiono ormai non
come arguto messianismo strategico ma zibaldone distraente, sintomo di
frustrazione.
Non
diciamo più bugie.
Dobbiamo cambiare non ideali, che non abbiamo
mai avuto in questa vicenda, dobbiamo cambiare illusioni.
Il
tempo scorre, incombono elezioni cruciali, il consenso che fino a ieri sembrava
così automatico per questa guerra per procura, un po’ vile e un po’ furba da
non richiedere nemmeno riscontro referendario, scivola verso l’”adesso basta”.
La
vittoria è mutilata ancor prima di essere raggiunta.
Al
nostro vaniloquio illusorio di essere l’unico sistema ardentemente invidiato,
che tutti sudino dalla voglia di imitarci, in Asia in Africa in America Latina
trovano invece liberatorio non esser succubi.
Non
considerano peccato mortale mettere al loro tavolo il criminale Putin, visto
che l’America ha fatto lo stesso con lo Scià, Chiang Kai-shek, Mobutu, Somoza,
Pinochet eccetera eccetera.
Si
apparecchia l’equivalente finanziario ed economico dell’attentato alle Torri
Gemelle, per fortuna senza morti, la creazione di una moneta internazionale
alternativa al dollaro.
Si intravede un effetto tossico per i
cromosomi dell’egemonia a stelle e strisce, ovvero le palanche.
Anche
Zelensky non può permettersi di avere né tempo né pazienza.
Il presidente ucraino è avviluppato nella sua
propaganda della vittoria a tutti i costi.
Finora
è riuscito con efficacia prepotente a strappare ai leader occidentali, afflitti
da sensi di colpa o da ambizioni di sbarazzarsi di Putin a basso costo, tutto
quanto gli serviva.
Ma se
la vittoria si svela come impossibile o è rinviata a un evo escatologico, non
può essere lui, il callidus Zelensky, ad amministrare la dolorosa fase della
accettazione della realtà.
Siamo in pieno contrappasso, a Ovest si
risponde con sempre maggiore fastidio alle sue mosse captatorie.
Il
presidente, come dimostra la tardiva caccia ai disertori ben dotati di
portafoglio, ha esaurito le munizioni umane;
una
generazione ucraina è stata spazzata via innalzando uno Stato militare, che
pretende di riscrivere, come Putin, la storia e la letteratura. L’odio verso
l’invasore russo nutre, ubriaca, lo si ingoia e lo si rumina nel profondo del
ventre, si può vivere del proprio odio, certo, ma non a lungo.
Prima o poi si insinua qualcosa di ancor più
terribile che lo placa, che fa male ancor più orribilmente: ed è la
constatazione della sua inutilità pratica.
Gli
ucraini sono vicini al punto in cui il dolore è più forte della sensazione di
esistere.
La
pace può, e deve, avere tempo e pazienza.
Il tempo fa il bucato agli uomini, la
sporcizia non sopravvive perché il gran vento della Storia passa e purifica.
Ci vuole coraggio.
Non si abbia paura di ricorrere, per fermare
questo conflitto, a strumenti che qualcuno spregia come minimi o volgari,
compromessi, rinvii sine die di soluzioni definitive, imposizioni dolorose.
Il risultato, tenere in vita esseri umani, li
rende sublimi.
Perché
è impossibile un accordo
sul grano e perché la pace
in
Ucraina resta lontana.
Fanpage.it
- Riccardo Amati – (5 settembre 2023) – ci dice:
“L’accordo
di un anno fa non è mai stato pienamente rispettato e non poteva durare”.
Erdogan “dovrà proporre a Putin una nuova
formula”.
La
mediazione turca “continuerà”.
E quando sarà il momento “il tavolo per la
pace sarà a Istanbul”.
Chi si
aspettava un passo verso la pace era un illuso: “Non c’era alcuna possibilità
che la Russia rientrasse nell’accordo sul grano”, dice Kerim Has. “Sarebbe
stato un vero e proprio balzo, altro che un passo, nella direzione di una
soluzione diplomatica del conflitto ucraino”, ammette l’analista turco esperto
delle relazioni tra Mosca e Ankara.
“Ma
una parte dell’intesa siglata oltre un anno fa a Istanbul non è mai stata
implementata a causa delle posizioni massimaliste della Russia e della
indisponibilità dell’Occidente a ceder terreno sulle sanzioni”, spiega.
“È necessaria una riformulazione dei termini
dell’iniziativa”.
La
Turchia, “potrebbe avere ancora un ruolo importante nelle trattative”, aggiunge
“Has”.
E
rimane il mediatore ideale, poi, per un cessate il fuoco e un negoziato. “Che
restano però un obiettivo lontano”.
“Kerim
Has”.
Come
valuta il vertice di Sochi fra Putin ed Erdogan? Loro lo hanno definito “un
successo”. Nessun comunicato congiunto alla fine, però. Dov’è il successo?
Sulla
cosa più importante in discussione il risultato è pari a zero.
Né poteva essere altrimenti.
La
parte “russa” dell’accordo sul grano, quella che in teoria regola l’export di
prodotti agricoli e fertilizzanti dalla Russia, non ha mai avuto la minima
chance di essere applicata.
Perché
l’Occidente vuole minimizzare i possibili introiti russi e il Cremlino è
inflessibile nel pretendere un semplice ritiro delle sanzioni nel settore. Per
esempio vorrebbe che le sue navi commerciali potessero attraccare nei porti
occidentali.
Significherebbe un annullamento di fatto del
regime sanzionatorio. Implicherebbe una completa revisione della politica dei
Paesi che sostengono l’Ucraina.
È una
richiesta massimalista e irrealistica.
Ma se
l’'Iniziativa del Mar Nero sul grano “, nome ufficiale dell’accordo del luglio
2022, conteneva articoli che aprivano a interpretazioni inconciliabili, cosa fu
firmata a fare?
Per
Russia e Ucraina, ma anche per Turchia e Onu (firmatari dei due trattati speculari
della “iniziativa”: uno con Mosca e l’altro con Kyiv, ndr.) era importante, un anno fa
raggiungere un accordo.
Per
questioni di immagine, per non essere additati come responsabili di una crisi
alimentare globale.
Per ragioni che in sostanza potremmo definire
propagandistiche, hanno preferito chiudere gli occhi di fronte
all’impraticabilità di quanto convenuto.
E però
Erdogan ci ha provato, a ricucire. Si vede che non gli sembrava così
impossibile, no?
Una
semplice, immediata “resurrezione” del patto era impossibile. Erdogan ha però
voluto in ogni modo rilanciare il suo ruolo di mediatore.
Per il futuro.
Perché l’unica possibilità di assicurare un accordo
per una piena ripresa dei flussi commerciali agricoli attraverso il Mar Nero è
una rimodulazione di quanto sottoscritto un anno fa.
Una
rimodulazione che consenta a Vladimir Putin di partecipare a un accordo senza
perdere la faccia.
Putin
ha detto di esser pronto a rientrare se saranno eliminate le restrizioni
all’export russo. Basterebbe?
I nodi
da sciogliere sono molti.
Naturalmente, concessioni sul commercio di
fertilizzanti piacerebbero al Cremlino.
Così come l’esenzione dalle sanzioni sulle
navi commerciali e sulla banca che fa capo al” gruppo petrolifero Rosneft”,
cruciale per questo commercio.
E poi Mosca vuole lo stop alle azioni militari
ucraine contro la flotta russa del Mar Nero.
Ma è dimostrato che non si tratta di strade
davvero percorribili. Non finché c’è in corso una guerra.
La
Turchia continuerà a mediare per l’accordo sul grano?
Erdogan
nel corso del vertice di Sochi ha cercato di far accettare a Putin una lista di
proposte per far tornare in vita l’intesa.
Ma
queste non comprendevano ancora i passi concreti necessari e le garanzie
sufficienti, soprattutto riguardo alle sanzioni indirette che la Russia
vorrebbe non subire per la sua agricoltura e i suoi fertilizzanti.
Il
processo continuerà.
Non
credo però che nel breve e medio termine Mosca accetterà di tornare a far parte
dell’accordo di un anno fa.
Intanto
Putin cerca comunque di non passare per quello che alimenta la fame nel mondo.
Sì,
col cosiddetto “accordo alternativo sul grano”, che riguarda solo un milione di
tonnellate di cereali rispetto ai 33 milioni dell’accordo originale (è il totale dei prodotti alimentari
trasportati dai porti ucraini a 45 Paesi durante un anno, ndr) ed è garantito da Turchia e Qatar.
Il milione di tonnellate andrà ai Paesi
poveri.
In
realtà è, anche questa, un’operazione propagandistica che serve a Putin a
crearsi una migliore immagine
Ma non soddisfa certo la domanda mondiale,
tantomeno quella dei Paesi poveri.
È
sempre un bel regalo.
Non è
un regalo.
La
Russia donerà circa trecentomila tonnellate di grano a sei Paesi, tra cui
Repubblica Centroafricana, Mali e Burkina Faso, particolarmente vicini
politicamente a Mosca.
Ma il
milione di tonnellate dell’”accordo alternativo” di cui parlavo saranno
esportate dalla Russia, processate da aziende private in Turchia e vendute in
Africa e Medio Oriente attraverso il Qatar.
E il
Qatar sosterrà finanziariamente l’operazione, se abbiamo ben capito…
Niente
regali, però, in questo caso.
Resta
un’operazione con cui Mosca cerca di guadagnarsi una sempre maggiore influenza
in quella parte del mondo.
Un’operazione propagandistica, come dicevamo,
e al tempo stesso un sostegno alla politica estera russa in Africa e Medio
Oriente.
Ed è anche un modo per aggirare le sanzioni.
In che
senso la Russia aggirerebbe così le sanzioni?
Nell’ultimo
anno e mezzo sono nate in Turchia oltre duemila aziende i cui proprietari sono russi.
I cereali dell’'accordo alternativo' saranno
processati soprattutto da queste aziende, in joint venture con società turche.
La Turchia non è sottoposta a sanzioni.
Ne
consegue che queste aziende potranno immettere sul mercato prodotti agricoli e
fertilizzanti di origine russa, cosa al momento quasi impossibile al di fuori
di un simile meccanismo.
Una
politica win-win per Putin.
Ne
esce vincente su tutti i fronti.
In
molti ritengono che passi avanti sulle forniture di grano corrisponderebbero a
passi verso la pace in Ucraina.
Almeno in prospettiva qualche passetto lo si è
fatto, in questo vertice tra Putin ed Erdogan?
No.
Non si
è fatto alcun passo verso la pace.
L’unico
passo in quella direzione sarebbe stato il ritorno della Russia
all’
accordo di Istanbul di un anno fa.
Anzi sarebbe stato molto più di un passo. Ma
le dinamiche sono diverse. E non è avvenuto.
Però
le relazioni russo-turche sembrano uscirne rafforzate. E la Turchia è un Paese
Nato. Come descriverebbe la strana alleanza tra il sultano e lo zar?
È una
relazione fondata sulla cooperazione su materie specifiche. Cooperazione che
convive con la competizione e lo scontro su altri fronti.
Ma si
tratta di conflitti gestibili.
Fatto
sta che per alcuni obiettivi della sua politica estera la Russia non ha partner
migliore della Turchia.
E
viceversa.
La
cosa, poi, vale soprattutto per l’economia.
Gli
interessi comuni sono forti nel settore energetico e nel commercio. Per non
parlare del turismo:
sono
milioni i russi che vanno in vacanza in Turchia, che è sia europea che
asiatica.
Ideale
ora che viaggiare in Europa è più complicato.
Ma
sulle maggiori crisi la Turchia si schiera con l’Occidente, non con la Russia
In
Siria, in Libia, nel Nagorno Karabakh e in Ucraina è così. E anche sulla
questione curdo-siriana a mio avviso la Turchia non è poi così lontana dalle
posizioni di Washington, paradossalmente (gli Usa sono alleati dei curdi nella
lotta contro l’Isis in Siria, e la Turchia considera terroristi i militanti
curdi del Pkk, ndr).
Questo
doppio ruolo della Turchia la rende il mediatore ideale per una pace tra Russia
e Ucraina?
Ritengo
che la pace tra Russia e Ucraina resti una cosa lontana.
Non irraggiungibile, ma lontana nel tempo.
Ci
vorrà almeno un anno. Se va bene.
Certo,
l’unica volta che si è arrivati vicini a un cessate il fuoco è stata quando
russi e ucraini erano seduti a un tavolo a Istanbul, alla fine del marzo 2022
(l’accordo saltò all’ultimo momento per colpa di Kyiv e dell’Occidente, dice
Mosca; Kyiv ritiene sia avvenuto il contrario, ndr).
E
quindi?
Quindi
la risposta alla sua domanda è sì:
la
Turchia può mediare e rimane il luogo ideale per un tavolo di negoziati.
È un Paese Nato, e l’Occidente, insieme a
Kyiv, preferirebbe la Turchia come luogo dove trattare piuttosto che, per
esempio, un Paese dell’Asia Centrale.
D’altra
parte, le relazioni tra Russia e Turchia si sono molto rafforzate a causa
proprio della guerra in Ucraina:
Mosca
ha sempre più bisogno di Ankara, anche se il rapporto resta asimmetrico a
favore del Cremlino.
Non è
solo perché la Turchia non ha sanzionato la Russia.
È
soprattutto perché è diventata una finestra sul mondo per gli affari russi.
E un
territorio di passaggio per far arrivare in Russia merci coperte da sanzioni.
È un
Paese che offre a Mosca spazio di manovra.
D’altro canto, l’Occidente preferisce veder
crescere le relazioni russo-turche invece che quelle russo-cinesi.
E avere in Erdogan un mezzo per interloquire
con Putin.
Sì,
credo che al momento opportuno i passi verso una pace in Ucraina potranno
essere muovere da Istanbul.
(fanpage.it/esteri/perche-e-impossibile-un-accordo-sul-grano-e-perche-la-pace-in-ucraina-resta-lontana/).
(fanpage.it/).
Entriamo
in guerra?
Mai
dire mai.
Ilmanifesto.it
– Tommaso Di Francesco –(29 -2 – 2024) – ci dice:
RUSSIA/UCRAINA.
Stavolta non è stata la disinformazia del regime di Putin sempre attiva, a
lasciare esterefatti sono invece le parole del presidente francese Macron che
alla conferenza stampa conclusiva del “suo”
vertice
sull’Ucraina – quasi una ripicca di leadership su quello del G7 di investitura
di Meloni a Kiev – che serenamente affermato:
«Non
si può escludere l’invio di truppe occidentali in Ucraina», rendendo noto che
di quello, in un dibattito «acceso» si è discusso a Parigi tra i governi
europei, con divisioni e accenti diversi – la punta di diamante sono i Paesi
baltici favorevoli oltre a Kiev che plaude:
«Siamo
sulla strada giusta».
Era
ora che qualcuno strappasse il velo di omertà che circonda la risposta
atlantista e bellica dell’Unione europea sulla guerra in Ucraina.
Qualcuno
come Macron che così facendo reitera la storia e il ruolo francese, forte della
“force de frappe” ma dimentico del disastro libico provocato solo 13 anni fa
con tutte le ripercussioni africane che sta subendo.
Parole
di lucida follia suicida, di vero «senso del futuro», non solo per la risposta
immediata di Mosca:
ai
leader europei «non conviene», il conflitto tra Russia e Nato sarà
«inevitabile»;
ma
peggio ancora per la precisazione che Macron ha voluto fare, una vera chiamata
di correo per non essere nel «ritardo sovente di 6-12 mesi»:
«Molti
che oggi dicono mai, mai, sono gli stessi che dicevano mai tank, mai aerei, mai
missili a lunga gittata due anni fa”.
Come a
dire: portiamoci avanti, per due anni abbiamo inviato le armi più sofisticate,
miliardi e miliardi di fondi, operazioni d’intelligence – che dire delle 12
basi della Cia presenti sulla frontiera russo-ucraina dal 2014 rivela il “New
York Times” -, addestramento, in arrivo nuovi fiammanti cacciabombardieri e
quant’altro e dopo offensive e controffensive fallite, l’unica soluzione che
resta ormai è l’intervento diretto, mettere gli scarponi a terra.
A
questo esito prevedibile ha portato la “strategia” dell’invio di armi che ha
provocato più vittime e più odio: alla co-belligeranza contro la Russia.
Ed è
proprio così, i re della guerra sono nudi.
Sorprendono
le reazioni a questa che non è una boutade ma un cambio di passo – sul baratro
– proposto all’intero schieramento occidentale.
Le prime prese di posizioni infatti, com’era
prevedibile, hanno insistito tutte a rasserenarci perché ogni governo
occidentale di corsa, con una fretta sospetta, ha respinto almeno formalmente
al mittente la proposta rivelatrice.
Così
hanno fatto Cameron, Scholz, l’Italia, la stessa Nato e dall’altra parte
dell’Atlantico subito la Casa bianca:
«Non ci saranno truppe occidentali in Ucraina,
su questo c’è una grande unanimità».
Sotteso
però c’è il «per ora», come si evince dal comunicato di Stoltenberg:
«Questa
eventualità sarà presa in considerazione solo quando l’Ucraina sarà membro
della Nato».
E qui
siamo al paradosso che mentre Stoltenberg, von der Leyen e Meloni insistono
perché l’Ucraina entri nella Nato, Biden, che trova difficoltà nel Congresso ad
inviare nuove armi, ha più volte risposto: «No, perché vuol dire entrare in
guerra con la Russia».
A
chiarire il seguito vero che hanno le parole di Macron ecco quelle di ieri di
“Ursula von der Leyen” all’Europarlamento:
una
guerra in Europa «non è impossibile», gli Stati devono capire che «la pace non
è permanente» e per questo l’Ue deve investire maggiormente in armi nei
prossimi cinque anni, «dando priorità agli appalti congiunti nel settore della
Difesa. Proprio come abbiamo fatto con vaccini o con il gas naturale».
Dunque
riconvertiamo le spese sociali, già scarse, e prepariamoci alla epidemia
benefica e «non impossibile» della guerra generale.
Magari green e sostenibile?
Così
quel che ci ostiniamo a chiamare per il conflitto ucraino il «limite ignoto»,
ahimè diventa sempre più noto:
siamo
sul fronte di una non impossibile deflagrazione atomica, visto il nemico.
Restando impronunciabile la parola trattativa
per un cessate il fuoco, con una sospensione della guerra per trovare aperture
su Donbass, Crimea, neutralità ucraina, com’è stato per 8 anni -con gli accordi
di Minsk, e permanendo la depressione di ogni intervento di pace – non solo da
parte di Putin, si pensi allo sfottò delle cancellerie occidentali per i
tentativi dell’inviato del papa “Zuppi” e del segretario Onu “Guterres”, per
non dire dei pacifisti.
Ora
l’Europa, non inconsapevolmente, sembra fare lo stesso gioco guerrafondaio
dell’aggressione di Putin:
à le
guerre come à le guerre.
Del
resto questa è la tendenza anche per il Medio Oriente dove gloriosamente parte
una missione navale europea a guida italiana contro gli “Houthi” senza vedere
che questa nuova crisi deriva direttamente dal massacro in corso a Gaza che gli
Usa con il loro veto non vogliono fermare.
Eppure
basterebbe capire che il conflitto ucraino non dà dividendi, con la maggior
parte dell’opinione pubblica europea contraria all’impegno in ogni modo nel
conflitto – e quella dell’est in rivolta, vedi le sorti del grano ucraino -,
con la stanchezza degli stessi combattenti ucraini mandati al macello con
quelli russi;
basterebbe
guardare quel che accade negli Stati uniti, con Biden che rischia per
l’«effetto Gaza» di perdere il consenso democratico per le presidenziali.
Basterebbe
guardare in faccia la verità sotto i nostri occhi, che le prossime elezioni
europee, se ci arriveremo, avranno questo tema decisivo all’ordine del giorno.
E sarà così esplosivo da scompaginare ogni
schieramento, in primo luogo la destra ma anche ogni sedicente sinistra.
I
guerrafondai, i sonnambuli
e i
movimenti per la pace.
Trasform-italia.it
– ( 05/02/2024) – Alfonso Gianni – ci dice:
Anticipiamo
questo articolo di Alfonso Gianni che farà parte della “news letter” dell’“Osservatorio
Unione Europea” di prossima pubblicazione.
Non
era mai successo nulla di simile:
“un
impero (la Gran Bretagna) promette una terra non sua
a un
popolo che non ci vive senza chiedere il permesso a chi ci abita “. (Gideon Levy).
Cessate
il fuoco! Ora!
Questo
grido, rivolto in particolare alle due più sanguinose guerre in corso -tra le
60 attualmente in atto nel mondo-, in Ucraina e in Palestina, ha attraversato
le piazze e le strade delle principali città del Sud e del Nord del globo
terrestre.
Il
popolo della pace, variegato e multiforme, è tornato a farsi, sentire, ad
imporsi all’opinione pubblica, malgrado i tentativi di nasconderne o sminuirne
la forza e l’estensione da parte dei mass media mainstream.
Non
siamo di fronte a quella dimostrazione di grande forza e compattezza, pur
nell’articolazione geografica, che contraddistinse le celebri manifestazioni
del 15 febbraio del 2003 e che fecero scrivere al “New York Times” che aveva
preso corpo una seconda potenza mondiale.
Neppure
quella straordinaria prova di forza fermò la guerra, ovvero l’aggressione degli
Usa e dei paesi volenterosi all’Iraq.
Ma
essa entrò nella storia, sedimentò una diffusa coscienza civile, trasformò il
pacifismo da una opzione morale e individuale in un obiettivo politico
condiviso da milioni di persone disposte ad attivarsi per il suo conseguimento.
Le
manifestazioni che si sono susseguite in centinaia di città lo scorso 13
gennaio e che continueranno a riproporsi e ci auguriamo a crescere, non
sarebbero potute avvenire senza poggiare sull’humus fertilizzato da quella
storica giornata di inizio di secolo.
E a farlo in condizioni assai più difficili di
allora.
Nel 2003 l’obiettivo era chiaro:
impedire
agli Usa di fare quello che poi hanno fatto in Iraq, sconvolgendo quel
territorio e l’insieme del Medio Oriente, con conseguenze che proprio ora
mostrano i loro devastanti effetti.
Adesso la situazione – basti pensare in
particolare alla guerra in Ucraina – appare più complessa, meno immediata è
l’individuazione delle cause e degli agenti che sono entrati in gioco.
La
guerra non è più solo una guerra mondiale a pezzetti – secondo la famosa e
preziosa definizione di papa Francesco – e non ancora una guerra mondiale a
tutti gli effetti, ovvero con il coinvolgimento diretto delle maggiori potenze
mondiali.
Ma è
una guerra che si è fatta mondo, che ha già in tutto e per tutto dimensioni e
implicazioni mondiali, che determina le scelte politiche dei vari Stati, delle
Unioni sovrannazionali, delle Organizzazioni internazionali, che sovra ordina
l’andamento dell’economia, impone svolte ed accelerazioni alle risposte e
svolte date e da dare a quel processo di globalizzazione che già era entrato in
crisi nel 2008 e durante la pandemia.
Per
questo il “cessate il fuoco” assume una valenza generale, pur nelle necessarie
specificità delle sue possibili applicazioni.
Va da
sé che non basta a guarire un mondo guasto – per usare l’espressione di “Tony
Judt” - una misura emergenziale come “cessare il fuoco”.
Va da
sé che tanto per quanto riguarda la situazione della guerra russo-ucraina
quanto per quella israelo-palestinese è necessario fin d’ora delineare, almeno
per l’essenziale, le linee che conducono ad una pace duratura.
Ma è
ancora più evidente che bisogna da subito interrompere l’inutile massacro in
corso;
senza
questo stop è semplicemente impossibile porre in atto quelle condizioni che
possano spingere verso la pace.
Il
fronte russo-ucraino.
Lo
scontro bellico in Ucraina si è attestato su una situazione di stallo.
La
controffensiva promessa e minacciata a più riprese da Zelensky si è fermata
sulla soglia degli annunci.
I russi più che ad avanzare pensano a
solidificare le loro posizioni sul campo.
Così
ambedue gli schieramenti paiono volere passare il rigido inverno – o parte di
esso – minando i campi e costruendo opere di protezione.
Il che
non elimina bombardamenti, uccisioni di militari e soprattutto di civili,
distruzioni del territorio, delle abitazioni e delle infrastrutture fisiche.
Zelensky
avverte l’indebolimento del sostegno occidentale, anche perché il dramma di
Gaza sta catalizzando l’attenzione mondiale, ed è corso a Davos per promuovere
incontri a latere del tradizionale Forum economico mondiale, giunto alla sua
54° edizione, ove erano presenti oltre 60 capi di Stato e 2800 invitati.
L’intenzione del presidente ucraino è di
presentare un piano di pace interamente fondato sul punto di vista di Kiev.
In
assenza però della Russia.
Il che è stato immediatamente rilevato dal
portavoce del Cremlino “Dimitry Peskov” con una ruvida dichiarazione che ha
bollato le conversazioni a Davos di Zelensky come inutili poiché non porteranno “ad alcun risultato senza di
noi”.
Nel
frattempo il portavoce americano “John Kirby” aveva reso noto che l’assistenza
americana all’Ucraina doveva considerarsi conclusa e appare meno probabile che
possa essere ripresa prima della fine della campagna elettorale presidenziale.
Come affermano alcuni attenti osservatori in
campo militare, ormai l’Europa ha sorpassato, per la quantità di aiuti, il
sostegno statunitense.
Il che
non dispiace affatto agli americani, che vedono di buon occhio
un’europeizzazione del conflitto.
Ma
l’aiuto europeo è soprattutto in denaro, non in armamenti sofisticati di
qualità che servirebbero agli ucraini per sostenere lo scontro contro gli
armamenti di cui dispongono i russi.
Quello che l’Europa ha non lo cede facilmente,
se si eccettua la recente disponibilità dichiarata dal cancelliere tedesco “Olaf
Scholz” a introdurre per l’Ucraina i suoi sistemi di difesa più moderni.
L’accordo siglato tra Gran Bretagna e Ucraina.
Fuori
dalla Ue, ma in Europa e soprattutto nella Nato, c’è però chi si muove con
molta solerzia e su più fronti, come quello ucraino e quello mediorientale.
Si tratta, ovviamente, della Gran Bretagna, il
cui Primo ministro, “Rishi Sunak” ha siglato un accordo con Kiev il 12 gennaio
i cui contenuti sono peggio che inquietanti.
Per
dirla in breve l’accordo prevede che in caso di un nuovo attacco russo
all’Ucraina, i due paesi contraenti si consulteranno entro 24 ore prevedendo
l’intervento del Regno Unito a sostegno di Kiev e viceversa, ossia nel caso di una aggressione della Russia alla Gran Bretagna spetterebbe all’Ucraina correre in suo
soccorso.
Il tutto al di fuori della Nato, che nel patto
non viene neppure menzionata, ed evidentemente contro ogni eventuale ruolo
mediatore della Ue, qualora volesse assumerlo.
Intanto
si aggiungono e si rafforzano altri venti di guerra, che mettono in forse la
prosecuzione per l’intera stagione invernale della situazione di stallo sul
fronte russo ucraino.
L’ “Institute
for the Study of War” (Isw) sostiene che
i russi non aspetterebbero la fine dell’inverno per riprendere l’offensiva, ma
che la potrebbero riavviare già dai primi di febbraio, quando il terreno sarà
congelato e quindi in grado di permettere l’avanzamento dei carri armati, cosa
che nel fango non sarebbe possibile.
Mentre
il tedesco” Bild” lascia trapelare che il “Ministero della Difesa della
Germania” ritiene più che possibile uno scontro militare diretto tra Nato e
Russia lungo lo stretto passaggio terrestre polacco-lituano tra Bielorussia e
Kaliningrad.
Naturalmente
Il Ministero tedesco con conferma ma nemmeno smentisce, cosa che invece fa
Mosca, ma tutto questo è indice del clima bellicista che invade stampa e
cancellerie d’Occidente, mentre ben diverso è l’atteggiamento dei Brics e in
generale dei paesi del Sud del mondo.
La notizia portata da “Bild” ha comunque
elevato le preoccupazioni già ampiamente presenti sulla possibilità che si vada
verso una terribile terza guerra mondiale.
Basta
leggere l’incipit di una nota a cura della Redazione dell’agenzia giornalistica
Ansa:
“Uno
scenario da Terza guerra mondiale delineato in tempi e movimenti, con tanto di
cifre di mobilitazione militare, azioni di “guerra ibrida” e sviluppo sul
terreno mese dopo mese.
Fino a culminare nel dispiegamento di
centinaia di migliaia di soldati della Nato e nello scoppio del conflitto tra
Russia e Alleanza atlantica nell’estate del 2025.
E’ la
distopia contenuta in un “documento segreto” del ministero della Difesa tedesco
svelato da Bild che delinea nel dettaglio un possibile ‘percorso verso il
conflitto’ tra Vladimir Putin e la Nato.”
Comunque sia, la Nato non ha perso tempo ed ha
subito annunciato l’avvio della più imponente esercitazione dai tempi della
guerra fredda, la “Steadfast Defender 2024”, che coinvolge ben 90mila uomini.
La
situazione interna a Ucraina e Russia.
Intanto
la situazione interna ai due paesi ha subito diversi scossoni che ne hanno
minato l’immagine di compattezza che ognuno dei belligeranti vuole dare di sé.
Se la vicenda, mai del tutto chiarita quanto a
obiettivi e modalità, della “divergenza”, se non vogliamo chiamarla ribellione,
di “Evgenij Prigozin” si è risolta assai sbrigativamente con l’eliminazione
fisica di quest’ ultimo, più complesso appare il quadro interno ucraino.
Si sta
aprendo una crepa sempre più crescente tra Zelensky e i vertici militari,
diversi dei quali non vedrebbero di cattivo occhio l’aprirsi di un negoziato
con i russi, per ora vietato per legge.
Né
hanno accettato volentieri l’ampliamento della chiamata alla leva fino a 27
anni.
In particolare sono cresciuti i gradimenti –
un recente sondaggio lo dimostrerebbe – nei confronti del comandante “Zaluzhnyi”
fino a superare nettamente quelli nei confronti del presidente ucraino, che
appare vistosamente in discesa.
Stando
alle rilevazioni sondaggistiche – il cui valore, è bene sottolinearlo, in tempo
di guerra è più che mai relativo – ben più solida appare la posizione di Putin
rispetto al suo elettorato.
Ma la situazione di stallo non può durare a
lungo, come abbiamo già visto.
O
fornisce l’occasione per aprire varchi a un negoziato di pace, o può preludere
ad una ripresa ancora più massiccia e distruttiva della guerra.
Il
dibattito nel Parlamento italiano sull’invio di armi all’Ucraina.
Non si
può dire che nel quadro italiano si sia scelta la prima delle due alternative.
Nel dibattito parlamentare alla ripresa dei lavori dopo le festività, il “Ministro
della Difesa Crosetto” ha assemblato dichiarazioni in apparente contraddizione
fra loro.
Da un lato ha rivelato che esisterebbero le
condizioni per una “incisiva azione diplomatica perché si rilevano una serie di
segnali importanti che giungono da entrambi le parti in causa” e più
precisamente che “le dichiarazioni di diversi interlocutori russi evidenziano
una lenta e progressiva maturazione di una disponibilità al dialogo per porre
fine alla guerra.
In
Ucraina il fronte interno appare meno compatto che nel passato nel sostenere la
politica del presidente Zelensky”.
Dall’altro lato ha ribadito con forza il
sostegno inalterato all’Ucraina – il nostro paese a dicembre ha inviato
l’ottavo pacchetto di aiuti in “armi di difesa” a Kiev – considerando un errore
strategico fermarsi ora.
Ci si
sarebbe aspettati dall’opposizione parlamentare e dalla sua maggiore
formazione, il “Pd”, la capacità di introdursi in questa contraddizione della
posizione del ministro per allargarla a favore di un cambiamento di linea che
puntasse non al rifocillamento armato, ma a una svolta trattativista.
Non è
accaduto. Anzi.
Il “Pd
“ha votato la sua mozione, astenendosi su quella del governo, su cui in passato
aveva votato a favore.
Nessuna svolta, perché anche la mozione del “Pd”
prevedeva la continuazione dell’invio di armi.
Il che
non lo ha salvato da una defezione nel voto da parte di una pattuglia di
parlamentari corsi in sostegno al governo e alle destre, guidata dall’ex
ministro della difesa “Lorenzo Guerini” che ha rivendicato coerenza con la sua
passata attività di ministro.
Come dire: la pezza peggio del buco.
La
sola ex segretaria generale della Cgil, “Susanna Camusso”, al Senato si è
astenuta sui punti della mozione del “Pd” che prevedevano l’invio di armi.
Non
contenti di ciò, esponenti della segreteria hanno assicurato che per tutto il
2024 il “decreto governativo di prolungamento degli aiuti “riceverà il voto
favorevole del “Pd”.
Difficile
immaginare una distanza maggiore da quel popolo della pace che si sta
rimettendo in cammino.
Il
conflitto in Medioriente si allarga.
In
Medio Oriente non solo tutte le richieste di cessare il fuoco e perfino di
tregua umanitaria vengono respinte con grande spregio anche per chi le avanza,
ma, come era facilmente prevedibile, la guerra si estende e si allarga.
Ormai
la dimensione regionale dello scontro è stata raggiunta.
Lo Yemen e il Mar Rosso sono pienamente
entrati a fare parte del teatro di guerra.
I bombardamenti statunitensi, cui si sono
aggiunti quelli inglesi si susseguono con sempre maggiore continuità ed
insistenza.
Non
c’è da stupirsi.
Guerra chiama guerra.
La stampa internazionale parla di risposta
agli attacchi alle navi che transitano in quel tratto di mare da parte dei
ribelli “Houthi”.
Una foglia di fico per ridare una parvenza di
dignità ad azioni di guerra mosse da ragioni economiche e geopolitiche.
Difficile
infatti definire “ribelli” gli “Houthi “che ormai governano “Sana’a”, la
capitale – ove decine e decine di migliaia di abitanti (le immagini sono
davvero impressionanti) reagiscono ai bombardamenti manifestando contro gli Usa
e Israele -, controllano il 70% del territorio yemenita e l’esercito.
Il
loro legame con l’Iran è esplicito.
La
guerra contro lo Yemen è quindi un’ulteriore tappa di avvicinamento ad uno
scontro diretto con l’Iran, che per il momento nessuno è in grado di
sopportare, ma verso il quale, bomba dopo bomba, si sta rotolando.
D’altro
canto, quando entrano in gioco nell’immediato enormi interessi economici, le
potenze occidentali non si risparmiano rischi per l’intero pianeta.
La navigazione dallo” stretto di Bab el Mandeb
“fino a Suez non è più solo minacciata, ma è praticamente impedita.
Questo
costringe molte compagnie a scegliere la strada più lunga, la circumnavigazione
dell’Africa, con un aggravio di costi considerevole.
Lo “stretto di Bab el Mandeb” è infatti la
principale porta di ingresso delle merci europee dirette verso l’Asia, e
viceversa;
si
stima che un terzo delle navi container di tutto il mondo passi da lì.
Il
prezzo del petrolio è cominciato subito a salire o meglio a essere sottoposto a
frequenti e improvvise oscillazioni.
Il
Brent ha superato gli 80 dollari a barile.
Il
costo di un container in partenza dalla Cina per l’Europa è di giorno in giorno
in ascesa.
Le
connessioni prodotte dalla globalizzazione, già strappate e messe a dura prova
dalla crisi economico-finanziaria di quindici anni fa e dalla recente pandemia,
subiscono una ulteriore lacerazione dalla guerra in corso.
E
certamente non è l’attacco anglo-americano allo Yemen che può pretendere di
ricucire quegli strappi nel tessuto del commercio internazionale, malgrado che
l’obiettivo esplicitamente dichiarato sia quello.
Piuttosto
ottengono l’effetto di una ulteriore radicalizzazione delle posizioni yemenite,
i cui rappresentanti – come il “Consiglio politico dello Yemen” – hanno subito
dichiarato di considerare tutti gli interessi anglo-americani come obiettivi
legittimi su cui scaricare la risposta alle aggressioni subite.
La
situazione allarma, e pour cause, anche l’Arabia Saudita, che però, come al
solito, si limita a chiedere agli Usa moderazione.
Gli
attacchi statunitensi allo Yemen sono diventati anche oggetto della lunghissima
campagna elettorale che si concluderà il 5 novembre negli Usa, poiché i
bombardamenti sono stati effettuati senza la minima discussione e tantomeno
l’approvazione di Capitol Hill.
Non
sono solo i repubblicani, per evidenti ragioni strumentali, ad accusare Biden
di avere scavalcato la Costituzione, ma anche esponenti progressiste quali “
Rashida Tlaib” e “Cori Bush”, e liberal , come “Ro Khanna”, che ha scritto su “X”
che “Il presidente deve presentarsi al Congresso prima di lanciare un attacco e
coinvolgerci in un altro conflitto in Medio Oriente.
Questo
è l’articolo I della Costituzione.
Lo
difenderemo, indipendentemente dal fatto che alla Casa bianca ci sia un
democratico o un repubblicano”.
Cosa
intenda fare l’Unione europea rispetto alla situazione nel Mar Rosso non è
ancora del tutto chiaro.
All’operazione
Usa “Property Guardian”, che ha attaccato lo Yemen nella notte tra l’11 e il 12
gennaio, ha partecipato anche l’Olanda limitatamente ad un appoggio logistico.
Si sa
che Danimarca e Grecia spingono per un intervento europeo, più prudenti restano
gli altri.
L’Italia ha due fregate nel Mar Rosso, nel
quadro dell’operazione “Atalanta” contro la pirateria nel Corno d’Africa.
Per ora “Crosetto” s’iscrive tra i prudenti,
non volendo aprire un nuovo fronte di guerra “in questo momento”.
Ma si prevedono riunioni a livello europeo che
potrebbero inclinare verso una linea interventista diretta, in questo caso
trascinandosi appresso anche il nostro paese.
Il
confine con il Libano diventa sempre più caldo.
La situazione sempre meno sotto controllo.
Finora Hezbollah si è limitato ad alzare la
voce contro le provocazioni tutt’altro che solo verbali degli israeliani.
Ma è chiaro che se questi ultimi, nella loro
insana bulimia bellica, insistono nelle loro azioni la situazione non potrà
restare a lungo in equilibrio su questo scivoloso crinale.
Un’altra
strada per cui la guerra ci porta verso l’Iran.
Le
manifestazioni pacifiste negli Usa.
Intanto
cresce anche negli Usa, e non solo nelle università, un movimento che chiede il
cessate il fuoco e l’avvio di negoziati e percorsi che portino alla pace.
In
sostanza una politica che affronti e componga le controversie internazionali
escludendo in partenza il ricorso alla guerra.
Su questa base si sviluppa una critica delle
posizioni dell’amministrazione democratica americana e anche i comizi di Biden
sono sempre più oggetto di una contestazione che muove da posizioni pacifiste e
di sinistra.
Particolarmente
significativa è stata la mobilitazione del 7 gennaio a New York, che ha
bloccato tutte le strade di accesso a Manhattan per più di un’ora, grazie alla
capacità di qualche centinaio di militanti di incatenarsi ai parapetti dei
principali ponti, costringendo la polizia ad intervenire in forze per liberarli
e naturalmente arrestarli.
Ma la cosa più importante, oltre al fatto che
sono sufficienti poche decine di persone, se determinate e ben organizzate, a
bloccare una intera metropoli, è che questa, come altre iniziative analoghe,
hanno visto assieme, come organizzatori e protagonisti fisici, militanti del “Movimento
giovanile palestinese” e del “Jewish Voice for Peace”.
Una efficace critica in positivo alla campagna
sull’antisemitismo scatenata, come un riflesso pavloviano in uno stile di
stampo neomaccartista, dalla stampa americana, con l’altrettanto sollecito e
servile appoggio di buona parte della
stampa europea e italiana in particolare.
L’accusa
è quella di antisemitismo nei confronti di chiunque si mostri anche solo
compassionevole verso i palestinesi.
Non è una novità si potrebbe dire.
Ma
questa volta vi è qualcosa di nuovo, non una semplice accentuazione, che
andrebbe colto e su cui varrebbe la pena di ragionare.
Da un
lato imperversano le dichiarazioni
profuse a piene mani dai governanti civili e
militari di Israele secondo i quali il popolo palestinese non esiste –
per cui ci si può appropriare impunemente anche dei pezzetti di terra sui quali
attualmente risiede o risiedeva – e dall’altro, e conseguentemente, viene sostenuto che criticare e opporsi ad Israele – considerato
unico soggetto dotato di identità storica in quella regione mediorientale e che
ha prodotto una “legge fondamentale” che definisce Israele quale” Stato
nazionale del popolo ebraico” – significherebbe semplicemente volere cancellare
l’identità ebraica in quanto tale.
La matrice etnico-religiosa viene così
asservita ad uno spirito genocidiario.
L’accusa
di genocidio avanzata dal Sudafrica a Israele.
Per
questo assume un’importanza storica il passo compiuto dal Sudafrica che ha
trascinato Israele davanti alla “Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja “con
l’accusa di genocidio nei confronti del popolo palestinese.
Ciò
che resta del diritto internazionale, strappato e violato in tutti modi in
questi ultimi decenni, può rinascere, se rinasce, dagli esiti di questo di
questo processo.
Non è
solo in gioco la causa palestinese, ma la civiltà umana.
Certamente un giudizio di merito del Tribunale
richiederà molto tempo, forse anni.
Ora lo
scontro legale si sviluppa attorno alla plausibilità del caso sollevato dal
Sudafrica, cioè se si ritiene possibile che ci si trovi di fronte a un caso di
genocidio, oppure no.
Da
questo primo pronunciamento potrebbero derivare ingiunzioni che limitano
provvisoriamente l’azione di Israele.
Autorevoli
commentatori hanno avvertito di non cadere in ottimismi infondati sull’esito
della contesa.
I giudici sono 15 di nomina dei singoli paesi,
fra cui i cinque membri permanenti del “Consiglio di Sicurezza dell’Onu”.
È difficile immaginare – ha osservato
giustamente “Francesco Strazzari” – Cina e Russia, accusate di atti genocidiari
nello Xinjiang contro gli uiguri e in Ucraina, volere aprire il vaso di Pandora
della convenzione sul genocidio.”
Fra i rappresentanti degli altri Stati vi sono
quelli della Germania, dell’Australia, dell’Uganda che sono favorevoli a
Israele.
Più
imprevedibile può essere la decisione di chi rappresenta l’India, la Francia,
la Giamaica e il Giappone.
Vicini alla causa palestinese sono invece i
giudici nominati dal Brasile, dal Marocco, dalla Somalia e dal Libano.
Ma non è insensato sperare che ci sia “un
giudice all’Aja”.
Perché in ogni caso le varie fasi del
dibattimento possono aiutare ed essere a loro volta aiutate dalla crescita di
un movimento internazionale a favore del cessate il fuoco e della pace in Medio
Oriente.
Intanto
il Sud del mondo è tornato a prendere parola.
Lo ha fatto in una sede internazionale
autorevole, per merito di un paese che, per la sua storia, ha i numeri per
rappresentare tutti i popoli del Sud del mondo.
Non è
un caso che esponenti del governo israeliano si siano accaniti con particolare
volgarità nei confronti del governo sudafricano, considerato letteralmente uno
strumento in mano ai terroristi.
La estrema sensibilità dei protagonisti della
lunga lotta antiapartheid nel Sudafrica verso la causa palestinese è nota da
tempo.
“Nelson Mandela” considerava la questione
palestinese come la questione morale del XXI secolo e ribadiva che “La nostra
libertà resterà incompleta senza che siano liberati anche loro”, mentre nessuno
ha dimenticato i legami esistenti fra Israele e il Sudafrica bianco e razzista,
diventati ancora più stretti dopo la guerra arabo-israeliana del 1973.
Fino
all’ultimo Israele, anche attraverso la vendita di armi, sostenne il governo
suprematista di Pretoria, mentre il resto del continente africano ne prendeva
le distanze, anche imponendo sanzioni ai fini di facilitare il suo crollo.
Il
Sudafrica ha scelto, come giudice ad hoc chiamato ad affiancare i 15 togati che
compongono la” Corte Internazionale di Giustizia”, un giurista di fama
internazionale, “Dikgang Moseneke”, la cui vita, fin dalla gioventù, si è
incrociata con quella di “Mandela”.
Era
con lui in carcere, a soli 15 anni, nel 1962 a Robben Island e condivise con
Madiba un decennio di reclusione.
Netanyahu dal canto suo ha cercato la “captatio
benevolentiae” dell’opinione pubblica internazionale, facendosi rappresentare
all’Aja da “Aharon Barak”, un giurista anziano di fama internazionale,
sopravvissuto alla” Shoah”, che era stato uno dei più decisi oppositori alla
controriforma della giustizia voluta dal governo di Tel Aviv.
Il che dimostra due cose.
In primo luogo quanto il leader israeliano
tema il confronto dell’Aja.
In secondo luogo che purtroppo la lotta in
difesa della giustizia contro la prevaricazione del governo, che ha visto
riempirsi le piazze delle città di Israele per diverse settimane, non si è
legata con quella della pacificazione con il popolo palestinese, alla quale
peraltro l’azione di “Hamas” del 7 ottobre non ha minimamente giovato.
Cessare
il fuoco, condizione indispensabile per i passi successivi.
I due
teatri di guerra, quello ucraino e quello palestinese, presentano ovviamente
caratteri troppo diversi e richiedono soluzione specifiche. Ma per entrambi i
casi non si può che partire dal cessare il fuoco.
Non
solo perché è impensabile attivare qualunque seria e fattiva trattativa sotto
il fuoco delle armi – anche se qualche avvicinamento e progetto di dialogo può
essere avviato da subito – ma soprattutto perché la guerra se non viene fermata
tende ad estendersi, come è chiarissimo nel caso mediorientale, o a
moltiplicare la sua forza distruttrice, come potrebbe avvenire tra qualche
settimana sul fronte russo-ucraino.
L’idea che si possa intensificare gli
armamenti e il loro mortifero utilizzo e nello stesso tempo mandare avanti la
diplomazia – che è la giustificazione che assume il governo italiano dopo ogni
invio di un nuovo pacchetto di aiuti militari – contraddice i fatti oltre che
il senso comune.
La diplomazia non marcia sui campi di
battaglia.
Quindi
il “cessate il fuoco” è la condizione indispensabile, come suol dirsi la “condicio
sine qua non”, per avviare negoziati di pace.
Nello
stesso tempo è difficile giungere a un cessate il fuoco senza che maturi l’idea
del percorso successivo, per quanto non ancora avviabile.
Per il
quadro russo-ucraino è possibile immaginare una soluzione nella quale ciascuno
dei contendenti rinunci ad una parte dei propri progetti.
Ad
esempio prevedendo la Crimea all’interno della Federazione russa e prospettando
per le regioni del Donbass una condizione di autonomia, pur all’interno
dell’Ucraina, con garanzie da parte di un’autorità internazionale, come l’Onu,
per la salvaguardia delle minoranze di ogni tipo, linguistiche, etniche,
religiose.
In
questo caso l’Ucraina dovrebbe rinunciare alla richiesta di ingresso nella
Nato, lasciando impregiudicata la possibilità di un ingresso nella Ue.
Sul
versante mediorientale il cessate il fuoco dovrebbe escludere in partenza la
possibilità per Israele di una rioccupazione della striscia di Gaza.
Esattamente
quello che vorrebbe fare Netanyahu.
Al
contrario, se si vuole da un lato garantire la sicurezza di Israele e
dall’altro consentire il ritorno della popolazione palestinese e l’avvio della
ricostruzione di Gaza, bisogna puntare a un “Mandato affidato all’Onu”, che si
occupi della liberazione degli ostaggi, se ancora in stato di sequestro,
consentendo ad Hamas di svolgere attività politica assieme ad altri soggetti,
cessando ogni iniziativa militare.
Affidare
la striscia di Gaza al governo di un esangue “Autorità nazionale palestinese “è
meno che poco credibile, visto il crollo di consensi che questa ha maturato tra
la popolazione.
L’eliminazione dalla faccia della terra di”
Hamas”, obiettivo perseguito dal “gabinetto di guerra” israeliano, è
impossibile non solo perché odio genera odio, e quindi per ogni combattente
abbattuto se ne crea un altro tra le giovanissime generazioni, ma perché “Hama”s
non ha solo una dimensione militare, ma anche politica, come del resto
dimostrano i consensi conquistati tra la popolazione attraverso gli anni e la sua capacità di
promuovere iniziative sul terreno sociale.
L’amministrazione da parte dell’Onu dovrebbe
promuovere una sostanziale autonomia e autoamministrazione della Striscia di
Gaza.
Al
contempo vanno fermate le violenze dei
coloni israeliani in Cisgiordania.
In questa prospettiva è importante che il
nostro paese, e non solo, riconosca quanto prima lo Stato di Palestina.
Quale
assetto futuro per la Palestina?
Questa
non sarebbe altro che una soluzione ponte verso assetti più definiti che
richiedono il maturare di nuove condizioni, fra cui la possibilità che i
dirigenti della resistenza palestinese si possano confrontare ed esprimere
liberamente.
Solo
così si potrebbe sviluppare una seria discussione se la prospettiva contenuta
nella formula “due popoli due Stati” è ancora sostenibile – ma lungo il tempo
ha perduto di forza e credibilità – o se invece non sia meglio puntare alla
soluzione di una “Confederazione fra due Stati” o addirittura ad uno “Stato
federale”, entro cui possano convivere religioni diverse e popoli che finora si
sono combattuti.
Sarebbe indispensabile, per fare solo un
esempio ma di grande rilievo, che venga liberato dalle prigioni israeliane,
alle quali è condannato a vita “Marwan Bargouthi”, un dirigente dell’”Organizzazione
per la liberazione della Palestina” che gode di una grande credibilità
presso il suo popolo e da molti viene
indicato come il “Mandela palestinese”.
Peraltro
la sua liberazione sarebbe un atto di distensione e di intelligenza politica da
parte delle autorità israeliane, che troverebbe un’eco favorevole nell’opinione
pubblica internazionale e presso i governi del Sud del mondo e non solo.
Come è
evidente che un simile percorso di pacificazione richiederebbe la fine della
esiziale avventura politica di Netanyahu e dei suoi governi.
Conosco
le obiezioni.
Come
al solito si dirà: “vaste programme”!.
Sì, ma
in questo caso il programma massimo è lo sviluppo di quello minimo, o meglio
non ce ne è un altro che possa avere l’ambizione anche solo di avviare a
soluzione la contesa, senza il massacro della popolazione palestinese e un
nuovo esilio – non si sa dove – di quella restante nonché di evitare che la
guerra già a dimensione regionale assuma le dimensioni di un nuovo conflitto
mondiale, per di più con l’impiego di armi nucleari.
Ci
troviamo quindi a pensare e agire nel campo delle utopie possibili e
realizzabili.
Non si
tratta di un semplice omaggio alla figura retorica dell’ossimoro, ormai parte
integrante della cultura e della fraseologia della sinistra, dopo il famoso
scritto di diversi anni fa del “subcomandante Marcos”.
Si tratta di restituire alla politica il suo
vero significato, che più che l’arte del possibile è quello del cambiamento
dell’ordine delle cose presenti.
Se
qualcuno vi vede un’analogia con una famosa frase di Marx, vede bene e non si
tratta di un caso.
I
sonnambuli.
Nel
mezzo di questo cruento disordine mondiale, l’Unione europea ha dimostrato
tutta la propria inerzia politica adagiata su un atlantismo d’antan.
Chi si
aspettava qualcosa dalla discussione nel parlamento di Strasburgo su una
risoluzione, per quanto in ogni caso non vincolante, che partiva apparentemente
con l’intenzione di chiedere un “cessate il fuoco permanente” a Gaza, ha subito
un’altra cocente delusione.
È
bastato un emendamento del “Ppe”, votato dalle destre e anche da diversi
“progressisti”, che chiedeva il rilascio immediato e incondizionato degli
ostaggi e lo “smantellamento dell’organizzazione terroristica Hamas”, per
rovesciare il senso politico dell’operazione.
Il capogruppo del “Pd” “Brando Bonifei” ha
giustamente scritto in un comunicato che “il cessate il fuoco non può essere
condizionato al raggiungimento di questi obiettivi”;
“Manon
Aubry”, copresidente del” Gue”, ha parlato di “mano libera lasciata a
Netanyahu” e l’eurodeputato “Massimiliano Smeriglio”, eletto nelle liste del “Pd”,
ha spiegato il suo voto contrario dicendo che si è scritta “una pagina nera per
l’Europa”.
C’è da
augurarsi almeno che a questa si contrapponga una reazione positiva da parte
dell’elettorato in occasione del “rinnovo del Parlamento europeo” nel prossimo
giugno.
Intanto
la guerra continua e con essa l’incremento delle spese belliche – che
verrebbero espunte dai lacci previsti dal “nuovo Patto di stabilità europeo”
– e così i profitti per le imprese che
producono armamenti.
L’Istituto
internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri) stima che la spesa
globale per fini militari è aumentata tra il 2022 e il 2023 per l’ottavo anno
consecutivo, portandosi al livello più alto degli ultimi trent’anni, quindi
dalla fine della guerra fredda:
parliamo di 2.055 miliardi di euro, ovvero il
2,2 del Pil mondiale.
L’Italia
compare in questa pessima classifica con “Leonardo” tra le prime 15 industrie
militari.
Tecnologia,
informatica, intelligenza artificiale trovano terreno di sviluppo e campi di
applicazione sempre più ampi sul piano militare.
Emendamenti
proposti dalle destre nel parlamento italiano mirano apertamente ad eliminare
ogni informazione utile a capire quali istituti di credito sono operativi nel
settore import/export di armi.
L’opacità
e lo smantellamento di ogni regolazione diventano la regola, quando si tratta
di armamenti, affossando di fatto le norme innovative contenute nella legge 185
del 1990.
Come
ogni anno le ricerche del “Censis”, grazie al loro linguaggio immaginifico,
oltre che per la qualità del contenuto, lasciano il segno, spesso racchiuso in
una parola o in un’espressione che diventano rapidamente un “tormentone” cui
nessuno, o quasi, riesce a sottrarsi.
In questo caso il termine usato centra in
pieno l’atteggiamento con cui grande parte dei decisori politici e delle
popolazioni si stanno avviando verso quello che potrebbe essere un disastro
senza ritorno.
La parola in questione è “sonnambulismo”,
coloro che ne sono affetti sono i “sonnambuli”.
Come è
noto così si intitola la trilogia di “Hermann Broch”, scritta tra il 1931 e il
1932, anni cruciali per la storia europea del Novecento.
Il teatro in cui si svolge la trama dei tre
romanzi è quello della “Germania guglielmina”, prima nel 1888, poi nel 1903
infine nel 1918.
Per
l’autore la Germania, lungo quei trent’anni e in quei tre anni in particolare,
viene vista come un ambito percorso e scosso da una domanda cruciale:
che
cosa è l’uomo di fronte a un mondo che si scopre in preda a un processo di
disgregazione dei valori?
Diversi
decenni dopo, lo storico australiano “Christopher Clark” si impossessa dello
stesso titolo per una sua importante ricerca sulle condizioni e le cause che
portarono alla Prima guerra mondiale.
Nelle
pagine conclusive del suo libro Clark scrive: “… gli uomini del 1914 sono
nostri contemporanei … il primo ministro britannico “Herbert Asquith “scrisse
nella quarta settimana di luglio dell’approssimarsi dell’”Armageddon”, la
battaglia finale.
I generali francesi e russi parlarono di una
‘guerra di sterminio’ e della ‘estinzione della civiltà’.
Lo
sapevano, ma lo percepivano veramente?”.
“Clark”
vede qui la differenza tra gli anni precedenti al 1914 e quelli successivi al
1945:
“Negli anni Cinquanta e Sessanta, gli uomini
al potere e la stessa opinione pubblica coglievano in modo istintivo il
significato di una guerra nucleare:
le immagini del fungo atomico sopra Hiroshima
e Nagasaki erano entrate a fare parte anche degli incubi delle persone comuni.
Di conseguenza, il più grande riarmo della
storia umana non culminò mai in una guerra nucleare fra le superpotenze”.
Ecco,
possiamo noi ora nutrire lo stesso velato ottimismo che traspare da queste
ultime parole?
Il dubbio è più che lecito.
E si
tratta di un dubbio carico di orrore.
(Alfonso
Gianni)
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