“Uomini contro” per salvare diritti umani.

 

“Uomini contro” per salvare diritti umani.

 

 

 

Diritti umani violati:

la denuncia di Human

Rights Watch.

Osservatoriodiritti.it - Laura Pasotti – (12 Gennaio 2024) – ci dice:

 

Il rapporto globale di Human Rights sui diritti umani violati nel mondo

mette al centro l'Asia: in Corea del Nord e Vietnam aumenta la repressione; in Cina sono criminalizzate le minoranze; mentre India, Pakistan, Bangladesh e Indonesia vanno al voto nel 2024, ma le istituzioni democratiche sono minacciate.

 

Diritti umani sacrificati per aumentare il potere, indignazione selettiva verso chi viola i diritti umani e repressione che supera i confini nazionali stanno minacciando il sistema di tutela dei diritti umani adottato 75 anni fa con la” Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite”.

È quanto emerge dal 34esimo rapporto globale annuale di” Human Rights Watch” che analizza la situazione dei diritti umani in oltre 100 Paesi e ha un focus sull’Asia, dove la repressione crescente da parte dei governi sta mettendo a rischio i diritti umani.

Diritti umani violati: gli esempi di Cina, Corea, Vietnam, India, Pakistan, Indonesia e Bangladesh.

L’ong segnala nel rapporto che, nel 2023, il governo cinese ha continuato a commettere crimini contro l’umanità nei confronti degli Uiguri e di altre minoranze musulmane nello Xinjiang e ha rafforzato le politiche di abuso in tutto il Paese.

 

Corea del Nord e Vietnam ha fatto registrare un’escalation della repressione.

 

Per India, Pakistan, Indonesia e Bangladesh il 2024 sarà un anno di elezioni, ma in tutti e quattro gli Stati le istituzioni democratiche e lo stato di diritto sono sotto attacco.

 

«Le minacce dei governi asiatici nei confronti dei diritti umani a livello nazionale e internazionale richiedono nuovi e coraggiosi approcci da parte dei governi e delle istituzioni democratiche rispettose di quei diritti. In tutta l’Asia le persone vedono i loro diritti e le loro libertà calpestati o ignorati.

È necessaria una leadership più forte per proteggere e promuovere i diritti umani nella regione, o la situazione non potrà che peggiorare»,

ha detto “Elaine Pearson”, direttrice per l’Asia di “Human Rights Watch”.

 

In Asia manca un’istituzione regionale in difesa dei diritti umani.

In Asia manca una carta dei diritti umani o un’istituzione regionale preposta alla salvaguardia dei diritti umani e l’associazione delle nazioni del Sud Est Asiatico (Asean) si è ripetutamente dimostrata incapace di affrontare le crisi regionali, in particolare quella in Myanmar, sottolinea “Human Rights Watch”.

In Cambogia le elezioni dello scorso luglio non potrebbero nemmeno definirsi tali, perché il governo ha impedito al principale partito di opposizione di partecipare.

In vista del voto del 2024 in Bangladesh, le autorità hanno intensificato gli attacchi ai politici di opposizione e sono più di 10 mila i dissidenti arrestati.

In Vietnam e India le autorità hanno aumentato gli arresti arbitrari e le condanne di chi critica il governo, compresi gli attivisti per il clima.

Nelle Filippine, sindacalisti, giornalisti e attivisti sono bersaglio di politiche repressive, spesso mortali.

 

Il governo della Corea del Nord mantiene i suoi confini sigillati e ha quasi tagliato fuori la sua popolazione dal resto del mondo, peggiorando la situazione dei diritti umani nel Paese.

In Afghanistan i talebani hanno rafforzato le già severe restrizioni, in particolare nei confronti di bambine, ragazze e donne.

Diritti umani violati oggi nel mondo: repressione oltre confine.

Nel 2023 diversi governi asiatici hanno portato avanti condotte repressive anche al di fuori dei loro confini.

Nel rapporto vengono segnalati, in particolare, due casi che hanno riguardato l’India.

In settembre, il governo canadese ha affermato di avere le prove che agenti del governo indiano fossero coinvolti nell’omicidio di un attivista separatista Sikh avvenuto in Canada, un’accusa che il governo indiano ha negato.

In novembre, le autorità statunitensi hanno incriminato un uomo per aver complottato con il governo indiano l’uccisione di un attivista separatista Sikh negli Stati Uniti.

Ma l’India non è un caso isolato.

Secondo “Hrw”, il governo del Ruanda si è reso responsabile di una dozzina di rapimenti, sparizioni forzate, aggressioni, minacce e uccisioni contro cittadini ruandesi critici nei propri confronti e che vivono all’estero.

Anche il governo cinese ha esportato la sua repressione nei confronti di cittadini cinesi e non cinesi e istituzioni critiche nei propri confronti:

 nel rapporto si parla di aggressioni, violenza, sorveglianza e intimidazioni verso studenti e accademici in università occidentali che hanno parlato degli abusi del governo cinese a Hong Kong, in Tibet o nello Xinjiang.

Diritti umani e governi asiatici: la situazione.

L’organizzazione ricorda che nel Consiglio di sicurezza dell’Onu il Giappone è rimasto in silenzio e ha rifiutato di imporre o rafforzare le sanzioni contro i governi del Sud Est asiatico che violano i diritti umani, lo stesso ha fatto la Corea del Sud.

L’Australia è stata molto più lenta rispetto ad altri governi occidentali nell’usare sanzioni contro i governi che violano i diritti umani, in particolare con la Cina.

Il governo indiano ha completamente abbandonato la pratica adottata in passato di promuovere i diritti umani tra i suoi vicini, come Myanmar, Sri Lanka e Nepal.

L’emergere dell’Indonesia come un Paese più rispettoso dei diritti umani non si è tradotto in politiche di sostegno ai diritti umani al di fuori dei propri confini.

«Le democrazie in Asia – come India, Indonesia, Giappone e Corea del Sud – hanno fallito nel fornire una leadership per migliorare i diritti umani nella regione o nel mondo.

 Devono capire che la repressione fuori dai propri confini ha effetti sui diritti umani a casa loro», ha detto “Pearson”.

Indignazione selettiva: dalla guerra in Israele al caso dell’Ucraina.

Nel rapporto “Human Rights Watch” pone l’accento sul doppio standard spesso adottato dai governi verso chi vìola i diritti umani.

«Ci sono governi che condannano i crimini di guerra di Israele a Gaza, ma non dicono nulla sui crimini contro l’umanità perpetrati dalla Cina nello Xinjiang.

Altri chiedono di perseguire a livello internazionale la Russia per i crimini di guerra in Ucraina, ma sottovalutano la responsabilità degli Stati Uniti in Afghanistan, indebolendo così il riconoscimento dell’universalità dei diritti umani e la legittimità delle leggi adottate per tutelarli», scrive “Tirana Hassan”, direttrice esecutiva dell’organizzazione.

L’indignazione selettiva ha un costo in termini di diritti umani per tutti coloro che hanno bisogno di protezione nel mondo:

 «Manda un messaggio chiaro: alcune persone meritano protezione, ma non tutte. Alcune vite valgono più di altre», aggiunge “Hassan”.

A questo si aggiunge la diplomazia delle transazioni utilizzata dai governi per ottenere vantaggi a breve termine: gli Stati Uniti mantengono alleanze con Paesi che violano i diritti umani come Arabia Saudita, Egitto e India, ma che sono considerati Paesi chiave nella loro agenda politica o visti come baluardi contro la Cina;

l’Unione Europea stringe accordi con Paesi che violano i diritti umani come Libia, Turchia e Tunisia per impedire l’ingresso di migranti o richiedenti asilo da Africa e Medio Oriente.

 

Diritti umani violati per consolidare il potere.

Nel 2024 quasi metà della popolazione mondiale andrà a votare, ma molti leader politici stanno facendo di tutto per eliminare chi critica le loro azioni e decisioni e consolidare il proprio potere.

 

In Perù il governo ha adottato misure per minare le altre istituzioni democratiche, limitare la responsabilità del legislatore ed eliminare i membri del” Comitato nazionale di giustizia”, il cui ruolo è garantire l’indipendenza di giudici, procuratori e autorità elettorali.

In Thailandia la Corte costituzionale ha sovvertito la volontà della popolazione nelle elezioni del 2023, sospendendo il principale candidato a primo ministro con accuse fasulle.

In Europa, Stati Uniti, Australia e Vietnam i governi stanno adottando misure repressive e sproporzionate per punire gli attivisti del movimento per il clima.

«La lenta distruzione di questi controlli ed equilibri vitali può avere conseguenze allarmanti per i diritti umani e lo Stato di diritto», ha scritto “Hassan”.

 

 

 

La pace impossibile

l’unica possibile.

 Perlapace.it – redazione – Comune di Padova – (14 aprile 2023) – ci dice:

Venerdì 14 aprile 2023 alle 20.45 a Padova nella Sala Petrarca del Cinema Multisala MPX un incontro per riflettere insieme su quale sia la pace possibile oggi per l’Ucraina.

Un evento pubblico contro il silenzio e la rassegnazione!

È stato presentato in conferenza stampa a Palazzo Moroni l’evento pubblico “La pace impossibile è l’unica possibile” organizzato dal Comune di Padova al Multisala MPX venerdì 14 aprile alle ore 20,45 al quale partecipano il sindaco Sergio Giordani, il vescovo Claudio Cipolla, Marco Mascia, Paolo Impagliazzo, Flavio Lotti, Aldo Marturano, Rossella Miccio e Silvia Stilli.

Una serata dedicata alla Pace che sarà introdotta dall’assessore alla pace e ai diritti umani “Francesca Benciolini” e coordinata dalla giornalista” Silvia Giralucci”.

 

Francesca Benciolini assessore alla pace e ai diritti umani spiega:

“Proponiamo una riflessione alla città su come si assicura la pace, ma anche su come si arriva alle guerre: le cose non avvengono per caso, ci sono dei processi che le accompagnano questi momenti della storia, e questi processi posso essere accompagnati in una direzione o nell’altra. Verso la pace o verso la guerra.

Questa ampia rete di associazioni e istituzioni della nostra città che si è già incontrata in questi 14 mesi attorno al tema della pace in Ucraina, vuole porre delle domande e chiedersi quindi quale sia la pace possibile oggi. Impariamo la storia, anche a scuola, come un susseguirsi di guerre intervallate da brevi momenti di pace, che paradossalmente, servono a preparare nuovi conflitti.

 Ci piace credere e lavorare perché ci possano essere anche narrazioni diverse, che le strade della storia non debbano sempre e necessariamente andare in questa direzione.

In questi mesi vediamo che l’unica strada percorsa è quella della guerra e ci chiediamo, è possibile esplorare e percorrere altre strade?

 Ecco perché proponiamo una riflessione su questo, per smarcarci da una discussione che è solo “armi si armi no”, se sei pacifista sei putiniano, se sostieni la guerra allora difendi la libertà e così via.

 Il tema è complesso e va affrontato con la consapevolezza di questa complessità e capacità anche di essere divisivo.

Come Comune abbiamo invitato quindi le istituzioni cittadine, la Diocesi e l’Università e raccolto le proposte che sono arrivate dalle comunità del territorio”.

 

Suor Francesca Fiorese dell’Ufficio diocesano di Pastorale Sociale commenta:

“I popoli non scelgono la guerra, scelgono la pace, ma hanno bisogno di istituzioni che ci credano, perché i governi, a volte scelgono la guerra.

Noi abbiamo la fortuna di vivere in una città che sceglie la pace nelle sue istituzioni, fino al popolo, ci sono una miriade di realtà civili, e anche abbiamo una Chiesa che è molto attenta alla pace e una Università che su questo punto è molto attiva.

 La quinta carovana per la pace verso l’Ucraina è partita dalla nostra città, e non la ha scelta solo perché Prato della Valle è una grande piazza che poteva contenere i partecipanti.

 E ancora, oggi siamo qui proprio a 60 anni e un giorno dalla pubblicazione dell’enciclica “Pacem in terris” che conteneva già tutti i germi di pensiero che anche Papa Francesco poi ha portato e ci ha consegnato nella sua “Fratelli tutti”: la fraternità universale”.

 

Marco Mascia, presidente “Centro di Ateneo per i Diritti Umani Antonio Papisca” sottolinea:

 “La scelta del titolo è la chiave di lettura di questo evento: dalla Pace di Westfalia in poi la pace veniva riassunta nel detto, si vis pacem, para bellum.

Questa era la pace possibile, ma la storia ci dimostra che questa pace possibile non la stiamo realizzando, cioè con la guerra non si costruisce la pace, mentre la pace impossibile che era quella degli idealisti, da Kant in poi, è quella che ragiona sulla costruzione della pace rovesciando il detto, se vuoi la pace prepara la pace.

È questo è lo spirito dell’incontro di venerdì, noi riteniamo che si debba lavorare per costruire l’edificio della pace, come ha insegnato anche Papa Francesco.

C’è un nodo però che va affrontato e che non è più rinviabile, quello che noi abbiamo delle istituzioni a livello nazionale e a livello di Unione Europea che assieme all’amministrazione americana, continuano a dire noi sosteniamo Kiev per tutto il tempo che sarà necessario.

Cosa significa?

Arriverà il momento che non ci sono più armi, proiettili e fra un po’ anche uomini che andranno a combattere.

E quindi che cosa vuol dire per tutto il tempo necessario?

L’obiettivo di questo evento è invece di ragionare sulla possibilità di un cessate il fuoco, che non è una resa, si fermano le armi e proviamo da lì un negoziato, che porti a una vera e propria trattativa per la pace”.

 

“Mirko Sossai” della Comunità di Sant’Egidio riflette:

“Sottolineo soprattutto l’importanza dei partecipanti a questa iniziativa, perché mette assieme voci autorevolissime della società civile che in questi mesi hanno avuto un pensiero profondo sui temi della pace, a partire soprattutto da una storia e da una cultura di pace che ha veramente un orizzonte di decenni.

È dalla conoscenza delle persone che adesso vivono la sofferenza della guerra che nasce questo impegno per la pace.

 La nostra grande preoccupazione è che oggi questa guerra si cristallizzi nel tempo-

 Lo abbiamo visto in Afghanistan come in Siria.

 Pensare alla pace è veramente pensare al futuro dell’Ucraina, come delle altre parti del mondo dove la guerra è oramai una condizione endemica”.

 

“Massimo Mastromatteo”, “Emergency Padova” dichiara:

“Oggi la pace è più divisiva che in passato, si discute di pace con visioni completamente diverse.

 Noi la guerra la vediamo perché abbiamo ospedali aperti in tantissimi luoghi in ogni parte del mondo e molti di noi sono lì per molti mesi all’anno.

 La drammaticità della guerra la vediamo tutti i giorni, non la vediamo invece sui media dove si parla solo di numeri, ed è una cosa incredibile.

Il Comune di Padova è molto coraggioso a proporre questo incontro che è, ripeto, divisivo, perché parlare di pace quando si è in pace è facile, è quando si è in guerra che è difficile, e veramente estremamente complicato.

 Grazie per questa iniziativa”.

 

“Silvia Giralucci”, giornalista spiega:

“L’idea dalla quale è partito il Comune di Padova è che la pace non è solo un’assenza di guerra ma una condizione che si costruisce.

 Quindi l’idea di questo incontro è di mettere degli attori assieme, di riunire le associazioni e le istituzioni che si occupano di pace per dare un contributo per costruire la pace.

Sarà una serata in cui ci si parla e si parla alla città ragionando su proposte per costruire la pace”.

 

“Elena Pietro grande”, Portavoce Area Pace, Diritti Umani e Cooperazione Internazionale Comune di Padova commenta:

“Ci fa molto piacere che questa iniziativa sia idealmente il proseguimento dell’incontro avvenuto a Verona qualche mese fa nella speranza che poi ci siano altre città che ricevano questo testimone e che attivino questa capacità critica e questa capacità di dialogo soprattutto che è alla base delle nostre associazioni soprattutto nella cooperazione internazionale.

Le nostre associazioni infatti riescono ad operare anche in zone di guerra, proprio per la capacità di dialogo vero che esprimono”.

 

Palma Sergio, Segretaria Confederale Cgil Padova dichiara:

”Un convegno dal titolo emblematico, incentrato sulle tematiche della pace, le stesse che la Cgil porta avanti da anni e su cui – insieme ad altre associazioni del territorio e a tutti i livelli:

 in “Europe for Peace”, nella “Rete Italiana Pace e Disarmo” e qui, in “Uniti per la Pace – Padova” – si impegna, quotidianamente, promuovendo quelle che definiamo “azioni di pace”, come la recente carovana “#StopTheWarNow” con cui sono state consegnate 20 tonnellate di aiuti umanitari alla popolazione ucraina.

Un impegno sia sul piano degli aiuti concreti, dunque, che su quello delle idee come quelle che emergeranno nel corso di “La pace impossibile è l’unica possibile” a cui porteremo il nostro contributo”.

 

 

 

 

LA GUERRA NON SALVA NULLA

E NESSUNO, COMBATTETE

PER LA VITA E PER LA PACE.

Vincenzopaglia.it – (20 aprile 2022) – Redazione – IL riformista – ci dice:

 

Erano le tre del pomeriggio di un aprile di duemila anni fa, quando “si fece buio su tutta la terra”.

Non solo a Gerusalemme.

 Era morto Gesù sulla croce.

 Anche in questo aprile 2022 si è fatto buio fitto su tutta la terra, non solo a Kiev, la” Gerusalemme” della Rus.

 Ma all’alba del primo giorno dopo il sabato di quell’aprile lontano, alcune donne che erano andate alla tomba di Gesù per adempiere gli ultimi gesti di pietà, videro che la tomba era vuota.

 All’inizio temettero che qualcuno lo avesse trafugato.

La realtà era diversa:

“Gesù” era risorto; non tornato in vita, come “Lazzaro” qualche giorno prima, ma appunto “risorto”, ossia trasformato così radicalmente da aver vinto una volta per tutte la morte.

Era iniziato un mondo nuovo, liberato per sempre dal potere del Male.

 

Il Vangelo continua a raccontare questa straordinaria storia. Anche quest’anno.

 C’è da dire che, in effetti, siamo immersi tutti in un buio fitto per le ingiustizie e le guerre che avvolgono il mondo.

 Papa Francesco ha parlato diverse volte di “guerra mondiale a pezzi”.

Potremmo anche dire che “il mondo è a pezzi”.

E pericolosamente: i pezzi infatti si stanno collegando tra loro sempre più chiaramente.

 La guerra in Ucraina è in diretta planetaria: passa direttamente dal terreno agli schermi alla gente.

 Nessuno, non importa se piccolo o grande, è preservato.

Tutti vediamo il mondo cadere a pezzi, come bombardato.

 E tutti assistiamo impotenti, rassegnati alla ineluttabilità di quanto sta accadendo.

C’è chi dice persino che è necessario far continuare il conflitto. Come se la guerra fosse la più normale delle realtà.

Di qui – appunto, dalla sua normalità e inevitabilità – tutti corrono al riarmo.

Tutti, proprio tutti.

Anche quelli che non ti saresti aspettato.

 E, ovviamente, tutto è più che giustificato.

Stiamo assistendo all’esatto opposto di quel che accadde dopo la seconda guerra mondiale.

Intendiamoci, è vero che allora nacque la Guerra fredda e con essa il Muro.

E tante altre cose non certo lodevoli.

Ma quantomeno crebbe un anelito di pace e ci furono accordi sul disarmo.

 È stata una stagione anche piena di sogni, di visioni.

 Io stesso, nato all’inizio di quegli anni, sono cresciuto e invecchiato in una Europa senza guerra.

O comunque di guerra fredda, congelata.

Oggi la guerra non si è solo scongelata, sta diventando sempre più “calda”.

 Che triste risveglio in queste settimane!

E dobbiamo assistere a una lenta assuefazione:

le scene drammatiche della guerra iniziano a non stupirci più di tanto.

E non pensiamo a sufficienza che gli effetti di questa guerra sono devastanti.

E dureranno per molti anni a venire.

 Chi grida di fermare la guerra non solo non è ascoltato, ma viene anche irriso o comunque accantonato. In ogni caso è un grido che si perde nel vuoto. Perché così si decide dalla maggioranza.

Ma ecco l’annuncio scandaloso della Pasqua.

In questo buio fitto che ci sta avvolgendo e accecando, ecco che irrompe l’annuncio della “risurrezione” di Gesù.

L’angelo mandato da Dio a quelle donne andate al mattino presto al sepolcro – ed anche a noi oggi – dice:

 “Perché cercate tra i morti colui che è risorto?

” La Pasqua è tutta qui: “quel Gesù che avete crocifisso ha sconfitto la morte per sempre.

Egli vi incontra da risorto perché tutti possiamo risorgere”.

Ecco la Pasqua!

Un evento per il mondo intero, per tutti gli uomini e le donne, di ogni tempo.

 È un Vangelo globale.

 A noi cristiani spetta il compito esaltante e anche drammatico – non pochi cristiani hanno pagato questo annuncio con la loro morte – di comunicare a tutti questo Vangelo:

la vittoria del bene sul male, dell’amore sull’odio, della liberazione sull’oppressione, della giustizia sull’ingiustizia, della vita sulla morte.

E non con la forza delle armi.

Solo con la forza debole dell’amore, di quell’amore che porta a dare la vita per gli altri.

 Non a toglierla.

È la missione storica dei cristiani di sempre, e oggi in particolare. In questi giorni.

Sarebbe gravissimo tradirla, anche solo con la complicità alla rassegnazione alla guerra.

Ecco perché suona ancor più scandalosa la divisione dei cristiani in Europa (cattolici, ortodossi, protestanti).

Sta aiutando il conflitto.

Ne risponderemo tutti davanti a Dio! Non dimentico quel che diceva il grande patriarca Atenagora (quello che abbracciò Paolo VI a Gerusalemme): “Chiese sorelle, popoli fratelli”.

E possiamo aggiungere noi: “Chiese divise, popoli divisi”.

 

Gesù accettò la crocifissione per mostrare al mondo la ragione della vita: amare gli altri più di sé stessi.

È questa, solo questa, la forza che unisce anche i diversi.

È questa, solo questa, la forza che trasforma il mondo sulla via della pace.

È questa, e solo questa, la forza che fa risorgere gli uomini dagli “inferni” di questo mondo.

Nella tradizione cristiano-ortodossa c’è una icona della risurrezione che mostra Gesù, disceso agli inferi, che stende le sue braccia nel buio della morte e trae con sé, tirandoli fuori, Adamo ed Eva.

È il lavoro che il Risorto ha compiuto il Sabato Santo.

La tradizione cristiana dice che “scese agli inferi”.

Sì, il Sabato Santo Gesù scende negli innumerevoli “inferni” di questo mondo e chiede anche a noi di scendere con lui e liberarne i prigionieri.

Non mi piace il detto popolare: “a Natale con i tuoi e a Pasqua con chi vuoi”.

No! Dobbiamo dire: “a Natale con i poveri” e “a Pasqua negli inferni del mondo”!

Negli inferni vicini: penso agli anziani rinchiusi e abbandonati nella solitudine che non possono ricevere le visite, o anche agli innumerevoli uomini e donne soli, senza casa e senza affetto.

Ed anche negli inferni più lontani, dove vivono milioni di uomini e donne ucraini, dentro e fuori il Paese;

gli innumerevoli inferni che sono in Africa, in Medio Oriente (chi ricorda più la Siria?), i campi profughi ovunque nel mondo che sono “inferni” a cielo aperto, o le drammatiche periferie delle megalopoli senza servizi (non riesco a dimenticare le immagini drammatiche di Haiti).

E quanti altri inferni!

 

Ecco la Pasqua di cui il mondo intero ha bisogno: uomini e donne credenti o comunque di buona volontà che scendono con il Risorto nel buio degli inferni di questo mondo per stendere le loro mani e trarre in salvo tutti.

 Gli inferni, dobbiamo svuotarli.

 Questo significa augurare a tutti “Buona Pasqua!”.

Pensate se tutti, ma proprio tutti, i cristiani del mondo, siano pure divisi su tutto il resto, ed anche gli uomini di buona volontà, il giorno di Pasqua potessero dire a una sola voce e simultaneamente almeno questo:

 la guerra non salva nulla e nessuno.

La guerra non rinforza nessuna identità, nessuna convivenza, nessuna religione.

 Non protegge nessuna civiltà, nessuna prosperità, nessuna tradizione.

 Perché la guerra avvelena tutti i pozzi, in tutte le latitudini.

In questa corale confessione del contagio che la guerra diffonde su tutto e tutti, prende luce e dona forza l’annuncio coraggioso della fede.

Così ha senso augurare a tutti “Buona Pasqua!”.

Lo facciamo anche da “Il Riformista.” (Il Riformista)

Il conflitto in Ucraina.

“La pace oggi è impossibile, ecco perché”,

 intervista a Lucio Caracciolo.

   Ilriformista.it - Umberto De Giovannangeli — (2 Febbraio 2023) – ci dice:

 

L’Europa, l’Occidente di fronte al “bivio impossibile” della guerra in Ucraina.

Il Riformista ne discute con Lucio Caracciolo, direttore di Limes, rivista italiana di geopolitica.

Il suo ultimo libro “La pace è finita” (Feltrinelli, 2022).

Lei ha recentemente annotato:

“Quando le forniture a Kiev non basteranno più ci scopriremo di fronte alla scelta che abbiamo finora evitato di considerare:

 fare davvero e direttamente la guerra alla Russia oppure lasciare che la Russia prevalga.

Questo ‘bivio impossibile’ si sta avvicinando, a vantaggio di Mosca”. Siamo già a quel “bivio”?

 

No, ma se noi osserviamo lo sviluppo di questa guerra nell’anno quasi intero che ha percorso, sembra che ci sia un piano inclinato che se non arrestato arriva a quel punto, cioè la necessità di decidere se, detta brutalmente, lasciare l’Ucraina al proprio destino o fare la guerra alla Russia.

Due scelte che sono teoricamente impossibili ma che potrebbero diventare a un certo punto addirittura necessarie.

Di fronte a questo bivio, l’Europa è pronta a praticare la possibilità di uno scontro diretto?

Alcuni paesi europei potrebbero anche immaginare qualcosa del genere. Penso a quelli che teorizzano la necessità della fine della Russia.

 Mi riferisco ai paesi dalla Scandinavia alla Polonia, alla Romania che non sostengono l’Ucraina semplicemente per l’Ucraina, d’altronde nessuno sostiene l’Ucraina solamente per l’Ucraina, ma la sostengono perché pensano che sia il grimaldello che può scardinare l’impero russo.

D’altro canto, se si guarda anche alle dichiarazioni ufficiali di esponenti di quei paesi lo sostengono esplicitamente.

L’Ucraina serve per far fuori la Russia.

 

(Aerei all’Ucraina, perché Biden frena sull’ennesima richiesta di Zelensky

Guerra in Ucraina, Scholz si sottomette a Biden anche se i popoli vogliono la pace

Zelensky vuole i jet dopo i carri armati, Macron apre a Kiev: “Nulla è escluso”, ma Scholz e Biden frenano

Zelensky rilancia, dopo i carri armati vuole jet e missili a lunga gittata: “No a tabù nella fornitura di armi, così fermiamo terrore russo)

Di questo avviso è anche l’amministrazione Biden?

No, non lo è, e infatti questo, come si vede, sta creando più di una frizione fra i paesi che citavo in precedenza e l’amministrazione Biden, o quanto meno la sua parte più moderata che oggi è ancora dominante, che esclude di scontrarsi con la Russia.

 Ed esclude anche che l’obiettivo americano sia quello di far fuori la Russia a favore di una quantità di stati o staterelli successori, qualche decina, che dovrebbero subentrare in quello spazio immenso.

 Ma vale anche il discorso opposto.

Se l’Ucraina perde viene spezzettata e magari in parte anche subappaltata a qualcuno dei paesi che oggi la difendono e quindi è in gioco anche l’esistenza dell’Ucraina.

 Ed è per questo che la pace è oggi impossibile, e anche per il futuro che si può prevedere.

Perché è una lotta per l’esistenza.

 E sarà risolta, in un modo o nell’altro, sul terreno militare e poi si prenderà atto della vittoria dell’uno o dell’altro oppure di uno stallo che obbligherà entrambi a una forma di compromesso.

 

Basterà l’invio di qualche decina di carri armati Abrams o Leopard2 a Kiev per cambiare gli equilibri di forza sul campo?

Assolutamente no.

Il problema è che l’Ucraina ha praticamente finito le riserve di armamenti e munizioni sovietiche ed ora è totalmente dipendente dal nostro aiuto militare.

 Senza l’aiuto americano e dei paesi Nato che vogliono contribuire allo sforzo bellico, l’Ucraina è finita.

Ha bisogno di noi.

A noi spetta decidere le sorti di questa guerra.

 Una bella responsabilità alla quale cerchiamo di sfuggire.

C’è il rischio che questa guerra possa estendersi ad altre aree e coinvolgere altre potenze, ad esempio la Cina?

È difficile dire se il rischio c’è o non c’è.

 La grande maggioranza di noi prima del 24 febbraio 2022 non immaginava che oggi potessimo trovarci in questa situazione di guerra.

Questo per dire che non dobbiamo ragionare sulla base di quello che era il mondo precedente.

 Siamo entrati in una fase di grande caos, di grande incertezza, in cui i vecchi schemi interpretativi non funzionano.

Ciò detto, siccome le cose non cambiano mai completamente, a oggi direi che la soluzione più probabile è ancora quella di uno stallo, cioè di un cessate-il-fuoco, di una tregua che sia più o meno sulla linea attuale del fronte, avendo poi entrambe le parti bene in mente di riprendere la guerra appena le condizioni saranno più favorevoli.

C’è il rischio di una ulteriore escalation per la primavera?

L’escalation potrebbe derivare o da un’offensiva ucraina, ma mi pare che in primavera non abbiano ancora le forze per farlo, o da un’offensiva russa, che sarebbe teoricamente più possibile visti i rapporti di forza complessivi.

 E qui vedremo effettivamente fino a che punto intenda spingersi Putin. Rischiare un’offensiva che dovesse finire in un flop, avrebbe degli effetti, anche morali, piuttosto devastanti sull’opinione pubblica russa e sulle forze in campo.

Credo che un‘offensiva generale non sia in questo momento alle viste, anche perché la vedremmo, nel senso che ci vorrebbe una concentrazione di forze e di mezzi che sarebbero immediatamente visibili anche ai satelliti e alle agenzie di intelligence.

 Come ha detto di recente il ministro della Difesa americano, Lloyd Austin, non è pensabile che nel corso di quest’anno l’Ucraina possa recuperare tutti i territori persi, e forse nemmeno una gran parte.

 Al tempo stesso è anche difficile ritenere che la Russia possa avvicinarsi non dico a Kiev ma molto avanti.

Allora a quel punto un esaurimento di entrambe le parti o una difficoltà interna di entrambe, potrebbe portare a qualche compromesso provvisorio, in stile coreano per intenderci.

D’altro canto, se è vero che la guerra che si combatte in Ucraina è, fra le altre, anche una guerra tra Stati uniti e Russia, è altrettanto vero che per Washington è importante indebolire la Russia, ma non fino al punto di disgregarla, perché perderebbe la giustificazione principale per il mantenimento dell’impero europeo dell’America, e inoltre, insisto su questo punto, si aprirebbero degli scenari da incubo nell’area geopolitica russa ed ex sovietica, dove Mosca ha ancora un arsenale di 6mila bombe nucleari, che dal punto di vista americano potrebbero anche avvantaggiare la Cina.

 Se la Russia dovesse soccombere e disgregarsi, la Nato non avrebbe più motivo di esistere, come pure non sarebbe necessaria la presenza americana in Europa.

La politica ha abdicato alla “diplomazia delle armi”?

No, ancora no.

 Almeno da quello che possiamo intuire, si tratta di contatti, intanto ovviamente informali e segreti, e poi tecnici.

 Sono il Pentagono e la Difesa russa che hanno un contatto permanente diretto per cercare di evitare di doversi sparare addosso direttamente.

L’incidente del missile russo caduto in Polonia e subito ribattezzato ucraino è un segnale evidente di questa cooperazione, cioè del fatto che non vogliono arrivare alla guerra diretta.

 Ma nelle guerre dirette spesso ci si finisce non per volontà ma per accidente, per caso, o per qualche insubordinazione ai livelli inferiori che genera una situazione incontenibile.

In questo scenario, come si sta comportando l’Italia?

Si è messa saggiamente nella scia americana, un po’ trascinando i piedi e qualche volta invece addirittura proponendo di fare cose che forse non può fare.

 Ha capito, poteva farlo anche prima, che noi dal punto di vista della difesa siamo totalmente nelle mani degli Stati Uniti.

 

Limes ha dedicato molti numeri alla geopolitica del gas e del petrolio. Come valuta il tentativo del governo Meloni di fare dell’Italia una sorta di hub mediterraneo?

In prospettiva mi parrebbe una buona idea.

Bisogna vedere se abbiamo i mezzi per farlo.

 Quello che mi pare evidente è che l’approvvigionamento di gas per l’Italia e per l’Europa si sposta sempre più dal fronte nord al fronte sud, in particolare via Turchia.

E la geografia ci dice che questo è qualcosa che implica un ruolo centrale per l’Italia, perché l’Italia è al centro del Mediterraneo, delle condotte algerine, libiche da una parte e del potenziale del Mediterraneo orientale ancora tutto da sfruttare dall’altra, oltre che dei tubi che dall’Asia, e quindi anche dalla Russia e dall’Azerbaigian, vanno in Turchia, che dovrebbero diventare sempre più rilevanti, passando per i Balcani o per l’Italia, anche per l’Europa.

(Umberto De Giovannangeli.

Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente).

 

 

 

 

 

Se si vuole, la pace si può fare.

 Italiaoggi.it - Gianni Pardo – (27-10-2023) – ci dice:

 

La mia proposta sarà lapidata ma è la sola possibile.

Ma siccome i musulmani vogliono cancellare Israele la Striscia di Gaza va blindata.

Se si vuole, la pace si può fare.

Israele vincerà la guerra che ha mosso a Gaza?

Più esattamente: la guerra contro Gaza può essere vinta oppure è impossibile vincerla?

Infatti, come ha acutamente osservato qualcuno, è impossibile eliminare tutti i capi di Hamas, sia perché i più importanti sono all'estero, sia perché, anche ad uccidere loro, presto ne sorgerebbero altri.

 Inoltre perché, è inutile negarlo, Hamas ha il sostegno di buona parte della popolazione di Gaza.

Infine (lo abbiamo visto in questi giorni) il movimento antisemita internazionale è al massimo da quando è stata perpetrata la Shoah. Dunque Gaza riceverà ancora sostegno e incoraggiamento da destra e da manca.

 Insomma, quando Israele si ritirerà, e dopo che sarà stata effettuata una sommaria ricostruzione, tutto riprenderà come prima.

Problema insolubile?

Forse no.

A stretto rigore di logica, e con molto coraggio, una soluzione esiste. Ovviamente bisognerà affrontare l'impopolarità, ma Israele ne è oggetto già oggi e dunque poco importa se peggiorerà.

 A torto o a ragione (dal punto di vista dottrinario) moltissimi musulmani sono convinti che ci sono regioni del mondo che Dio ha riservato all'Islàm (Dar al-Islam), tanto che è sacrilegio ci siano in tali regioni Stati di infedeli.

È il caso di Israele: e questa convinzione non è priva di conseguenze. Spiega ad esempio perché, dal 1947 ad oggi, non si sia arrivati alla soluzione dei due Stati:

infatti per i palestinesi non è questione di quali concessioni Israele possa offrire (come del resto ha già tentato di fare) ma dell'intollerabilità della sua esistenza.

Gli arabi e i fanatici musulmani non vogliono che Israele sia buona e generosa, vogliono che se ne vada.

Che non esista.

Se necessario ammazzando tutti gli ebrei, come sogna Hamas:

 la quale ha anche mostrato in concreto in che modo bisognerebbe condurre l'operazione.

 Chi parla di palestinesi oppressi e di due Stati non ha capito niente.

Se sono oppressi lo sono dalla loro incapacità di creare ricchezza, e se non hanno un loro Stato è perché lo rifiutano finché c'è Israele.

Ma non c'è da stupirsene, quando si ha da fare con gli antisemiti.

Ora, se questa è la protasi, ecco subito l'apodosi.

Se c'è intollerabilità e incompatibilità di due Stati sullo stesso territorio, ne consegue che la pace si avrà quando uno dei due Stati sarà eliminato.

Purtroppo per gli arabi, la soluzione dell'eliminazione di Israele, lungamente sognata, si è rivelata impraticabile.

Rimane l'altra soluzione, l'eliminazione di Gaza.

 E non volendo attuarla col sistema indicato da Hamas (anche se moralmente Gaza la meriterebbe, trattandosi di reazione uguale e contraria) per fortuna ne esiste un'altra.

Si tratterebbe di sigillare Gaza, in modo che essa non riceva né acqua, né elettricità, né carburante, né cibo né medicinali.

 Chiudendo tutti i valichi, incluso (dall'interno della Striscia) quello di Rafah.

E somministrando agli abitanti lo stretto indispensabile per mantenerli in vita (per così dire a pane e acqua) ma prolungando a tempo indeterminato l'attuale assedio.

Ovviamente la vita diverrebbe presto intollerabile, anche in assenza di bombardamenti israeliani, ed anche in assenza di una minima invasione. Tanto che Israele potrebbe emettere il seguente proclama:

«Dal momento che la vita a Gaza è difficile, Israele si dichiara disposta a portare a sue spese i profughi verso qualunque Paese musulmano di loro scelta, purché tale Paese sia disposto ad accoglierli.

Da questo momento, se soffrono è perché non se ne vogliono andare o perché i fratelli musulmani non li accolgono».

Poi Israele dovrebbe rendere molto chiaro al mondo che, se i profughi non sono accolti dai Paesi musulmani, la colpa delle loro sofferenze è di questi Paesi, non di chi vuole la pace e può ottenerla soltanto eliminando la causa della guerra.

Ovviamente tutti mi daranno torto; ovviamente senza dimostrare in che cosa ho sbagliato:

ma a questo (quando si ha da fare con gli antisemiti) si è abituati.

 Loro finiranno comunque col concludere che è normale voler uccidere tutti gli ebrei, mentre non si può torcere un capello neppure a un terrorista se è antisemita.

 Una logica che sarebbe piaciuta a Himmler.

In realtà non si può distinguere tra Hamas e popolazione palestinese: non solo i palestinesi vorrebbero eliminare fisicamente tutti gli ebrei, ma in politica internazionale esiste la responsabilità di gruppo.

Diversamente non si spiegherebbero i bombardamenti degli Alleati durante la Seconda Guerra Mondiale.

Può darsi che la tesi qui esposta sia inattuabile, non so per quali motivi: ma una cosa è certa, non può essere esclusa perché immorale o inumana.

La nostra legge penale esclude la punibilità quando la difesa è proporzionata all'offesa ma, se ciò da un lato vuol dire che non può eccedere rispetto alla gravità dell'offesa, essa può simmetricamente salire di gravità fino alla gravità dell'offesa.

E costringere all'emigrazione è molto meno grave che mutilare, stuprare, decapitare o torturare.

Dunque Israele ha margine per fare questo ed altro.

 

 

 

Guerra Israele-Gaza: il capo dell'Onu

sollecita un'indagine sulla

tragedia del convoglio di aiuti.

Bbc.com – (29 -02- 2024) - Thomas Mackintosh – ci dice:

 

Guerra Israele-Gaza.

I Palestinesi ricevono cure mediche all'ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza.

L'ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia ha dichiarato di aver ricevuto morti e feriti dalla parte occidentale di Gaza City.

Notizie della BBC:

Diversi paesi si sono uniti alle Nazioni Unite nel chiedere un'indagine sulla morte di oltre 100 palestinesi durante una consegna di aiuti a Gaza.

Almeno 117 persone sono state uccise e più di 760 ferite giovedì mentre si affollavano intorno ai camion degli aiuti.

Il segretario generale delle Nazioni Unite “António Guterres” ha condannato l'incidente e ha affermato che "civili disperati" hanno bisogno di aiuto urgente.

Hamas ha accusato Israele di aver sparato contro i civili, ma Israele ha detto che la maggior parte è morta in una calca dopo aver sparato colpi di avvertimento.

 

Giovedì, le critiche internazionali a Israele sono aumentate con il presidente francese Emmanuel Macron che ha affermato che i civili sono stati "presi di mira dai soldati israeliani".

Il capo della politica estera dell'UE, “Josep Borell”, ha descritto l'incidente come "una carneficina totalmente inaccettabile".

Reagendo all'incidente, “Guterres” ha scritto sui social media: "Condanno l'incidente di giovedì a Gaza in cui più di 100 persone sono state uccise o ferite mentre cercavano aiuti salvavita".

"I civili disperati di Gaza hanno bisogno di aiuto urgente, compresi quelli nel nord dove le Nazioni Unite non sono state in grado di consegnare aiuti per più di una settimana".

Venerdì anche Francia, Italia e Germania hanno chiesto un'indagine indipendente sulle morti dei convogli di aiuti.

I palestinesi feriti sono stati portati all'ospedale al-Shifa di Gaza City per essere curati.

I palestinesi feriti sono stati portati all'ospedale al-Shifa di Gaza City per essere curati.

Il ministero della Sanità di Gaza, gestito da Hamas, ha definito l'incidente un "massacro".

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha programmato una riunione di emergenza a porte chiuse per discutere dell'incidente, durante la quale l'Algeria - il rappresentante arabo dell'organismo - ha presentato una bozza di dichiarazione incolpando le forze israeliane di "aver aperto il fuoco".

Mentre 14 dei 15 membri del Consiglio hanno sostenuto la mozione, gli Stati Uniti l'hanno bloccata, secondo l'agenzia di stampa AP, citando l'ambasciatore palestinese all'ONU Riyad Mansour che ha parlato con i giornalisti in seguito.

L'inviato degli Stati Uniti “Robert Wood” ha detto che i fatti dell'incidente rimangono poco chiari.

Più di 30.000 morti a Gaza, dice il ministero della Sanità di Hamas.

Verificare l'affermazione di Israele di aver ucciso 10.000 combattenti di Hamas.

L'incidente di giovedì è avvenuto poco dopo le 04:45 (02:45 GMT) alla rotonda di Nabulsi, nella periferia sud-occidentale di Gaza City.

“Ramzi Mohammed Rihan” è stato ferito nella fuga precipitosa e ha descritto alla” BBC Arabic” ciò che ha visto.

Ha detto: "Siamo stati informati che un carico di farina sarebbe arrivato attraverso “Al-Nabulsi Street” e che non ci sarebbero state sparatorie.

"Siamo andati a prendere la farina per sfamare i nostri figli. Siamo andati in via Nabulsi e prima che arrivassero i camion ci sono stati degli spari”.

"Quando i camion sono entrati, ci siamo diretti verso di loro, e mentre cercavamo di tirare fuori il primo sacco di farina dal camion, hanno iniziato a spararci contro".

Il signor “Rihan” ha detto di essere stato portato in ospedale su un carrello e che le sue radiografie sono state ritardate a causa della mancanza di elettricità.

Anche “Khaled al-Tarawish” è stato ferito e ha detto che anche il suo intervento chirurgico è stato rinviato a causa della mancanza di carburante nell'ospedale al-Awada.

"Sono andato a Nabulsi Street a prendere un sacco di farina", ha detto. "A causa della folla che ho fatto correre sotto l'auto, sono andato all'ospedale di Awda dove mi hanno detto che dovevo sottopormi a un'operazione, ma poiché non c'era gasolio, mi hanno detto che l'operazione sarebbe stata eseguita tre giorni dopo.

"Tutto quello che voglio è fornire gasolio all'ospedale in modo da potermi sottoporre all'operazione e ricevere le mie cure".

Il convoglio di 30 camion che trasportava aiuti egiziani si stava dirigendo verso nord lungo quello che le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno descritto come un "corridoio umanitario" che le sue forze stavano proteggendo.

Il Grafico realizzato mostra la posizione del convoglio di aiuti che è stato circondato da persone giovedì.

Il portavoce capo dell'IDF, il contrammiraglio “Daniel Hagari”, ha detto che i civili hanno circondato il convoglio e la gente ha iniziato a salire sui camion.

"Alcuni hanno iniziato a spingere violentemente e persino a calpestare a morte altri abitanti di Gaza, saccheggiando le forniture umanitarie", ha detto.

"Lo sfortunato incidente ha provocato decine di morti e feriti a Gaza".

I carri armati israeliani, ha detto, "hanno cercato cautamente di disperdere la folla con alcuni colpi di avvertimento" ma si sono ritirati "quando le centinaia sono diventate migliaia e le cose sono sfuggite di mano".

 

Esiste un filmato aereo rilasciato dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF), che mostra una folla di palestinesi riuniti intorno agli aiuti durante una consegna sulla strada costiera a ovest di Gaza City (29 febbraio 2024)

L'esercito israeliano ha diffuso un video aereo che mostra centinaia di palestinesi che si accalcano intorno ai camion degli aiuti.

Un altro portavoce dell'IDF, il tenente colonnello “Peter Lerner”, ha detto che alcuni civili si sono avvicinati a un posto di blocco che era a circa 70 metri di distanza e hanno ignorato i colpi di avvertimento sparati dai soldati.

Ha detto che i soldati, temendo che alcuni dei civili rappresentassero una minaccia, hanno poi aperto il fuoco su coloro che si avvicinavano in quella che ha descritto come una "risposta limitata".

Hamas ha respinto la versione dell'IDF, citando prove "innegabili" di "spari diretti contro i cittadini, compresi colpi alla testa mirati all'uccisione immediata".

L'incidente è avvenuto poche ore prima che il ministero della Salute di Gaza annunciasse che più di 30.000 persone, tra cui 21.000 bambini e donne, erano state uccise a Gaza dall'inizio dell'attuale conflitto il 7 ottobre.

Circa 7.000 persone sono scomparse e 70.450 sono rimaste ferite.

Esiste solo devastazione dopo che decine di persone sono state uccise durante il lancio di aiuti a Gaza.

Gutteres” ha aggiunto: "Sono sconvolto dal tragico bilancio umano del conflitto a Gaza: più di 30.000 persone uccise e oltre 70.000 ferite.

"Ribadisco il mio appello per un immediato cessate il fuoco umanitario e il rilascio incondizionato di tutti gli ostaggi".

La direttrice esecutiva di Medici Senza Frontiere nel Regno Unito, “Natalie Roberts”, ha detto che fornire aiuti a una popolazione affamata senza un'adeguata sicurezza rischia il disastro.

Parlando al programma Today di BBC Radio 4 ha detto:

 "Sappiamo che ci sono stati pochissimi convogli di aiuti nelle ultime settimane nel nord, la gente non è stata in grado di ottenere nulla da mangiare.

"Sappiamo dai nostri colleghi che devono mangiare cibo animale, che a volte rimangono senza cibo per giorni e giorni.

 E così la gente è completamente disperata, e nel momento in cui inizi a cercare di consegnare cibo alla regione senza alcun tipo di sicurezza per il convoglio, allora questo accadrà sempre".

L'ONU avverte di un'incombente carestia nel nord del territorio, dove si stima che circa 300.000 persone vivano con poco cibo o acqua pulita.

L'esercito israeliano ha lanciato una campagna aerea e terrestre su larga scala per distruggere Hamas – che è proscritto come organizzazione terroristica da Israele, Regno Unito e altri – dopo che i suoi uomini armati hanno ucciso circa 1.200 persone nel sud di Israele il 7 ottobre e ne hanno portate 253 a Gaza come ostaggi.

 

 

 

 

La moralità nella guerra

in Ucraina è molto incerta.

 Magazine.cisp.unipi.it – (29 Settembre 2023) - Stephen M. Walt – ci dice:

 

La guerra in corso in Ucraina viene spesso affrontata da un punto di vista morale.

In questo articolo pubblicato di recente su “Foreign Policy”, “Stephen M. Walt”, docente di Relazioni internazionali “Robert e Renée Belfer” all’Università di Harvard, fa emergere tutte le difficoltà connesse a questo approccio, facendo riflettere sui dilemmi etici sollevati dalla guerra e dalle posizioni dei diversi attori coinvolti.

Sebbene la situazione sembri chiara dal punto di vista morale, oltre che giuridico, con l’Ucraina vittima di un’aggressione illegale da parte della Russia e, come tale, meritevole di solidarietà e sostegno, l’autore suggerisce che l’effettiva valutazione etica di una situazione complessa come questa deve andare oltre i principi astratti e “calcolare” gli effetti di determinate decisioni.

Vengono così esplorate diverse prospettive, inclusi i costi potenziali, le probabilità di successo e le implicazioni a lungo termine delle diverse linee d’azione.

 In conclusione:

la moralità di una determinata politica, specialmente se prevede l’uso massiccio di armi e dunque mette in conto un elevato numero di vite umane, non può prescindere da queste considerazioni.

Si tratta anche di trarre, se possibile, insegnamenti dalla storia recente dei rapporti tra la NATO e la Federazione Russa (quella storia che ha portato allo scoppio delle ostilità armate alla fine di febbraio 2022) e di evitare azioni che possano danneggiare l’Ucraina nel lungo periodo e rendere sempre più difficile l’avvio di una trattativa per una pace equa e sostenibile nel tempo.

(Stephen M. Walt)

 

Qual è la linea d’azione moralmente preferibile in Ucraina?

A prima vista sembra ovvio.

L’Ucraina è vittima di una guerra illegale, il suo territorio è occupato da truppe straniere, i suoi cittadini hanno sofferto molto per mano dell’invasore e il suo avversario è un regime autocratico con tutta una serie di caratteristiche sgradevoli.

 A parte i calcoli strategici, la linea morale corretta è certamente quella di sostenere l’Ucraina fino in fondo.

 Come ha affermato il Presidente ucraino “Volodymyr Zelensky” alla riunione della” Yalta European Strategy” svoltasi a Kiev tra l’8 e il 9 settembre scorso:

 “Quando parliamo di questa guerra, parliamo sempre di moralità”.

Non sorprende che abbia trasmesso lo stesso messaggio durante la sua visita a Washington lo scorso 22 settembre.

 

Se solo il calcolo morale fosse così semplice…

Sin dall’inizio della guerra, coloro che sono favorevoli a concedere all’Ucraina “tutto ciò che serve” [whatever it takes] per tutto il tempo necessario hanno cercato di rappresentare la guerra nella modalità comune per gli Stati Uniti:

 come una semplice competizione tra il Bene e il Male.

 Dal loro punto di vista, la Russia è l’unica responsabile della guerra e la politica occidentale non ha assolutamente nulla a che fare con la tragedia che ne è derivata.

Ritraggono l’Ucraina come una democrazia in difficoltà, ma coraggiosa, che è stata brutalmente attaccata da una dittatura corrotta e imperialista.

 Considerano la posta in gioco morale quasi infinita, perché l’esito della guerra avrà presumibilmente un impatto di vasta portata sul futuro della democrazia, sul destino di Taiwan, sulla conservazione di un ordine mondiale basato su regole, e così via.

Non sorprende che siano pronti a condannare chiunque contesti questa visione come un ingenuo acquiescente, un lacchè russo o qualcuno privo di senso morale.

Nessuna di queste affermazioni dovrebbe essere accettata senza riserve. Non c’è dubbio che la Russia abbia iniziato la guerra e che meriti di essere condannata per questo, ma l’affermazione che la politica occidentale non abbia nulla a che fare con essa è risibile, come ha recentemente riconosciuto lo stesso Segretario Generale della NATO, “Jens Stoltenberg”.

 Sì, l’Ucraina è una democrazia, ma anche una democrazia che contiene ancora alcuni elementi sgradevoli, anche se la rappresentazione che ne offre il Presidente russo” Vladimir Putin” come un “regime nazista” è decisamente esagerata.

L’idea che l’esito di questo conflitto avrà un impatto profondo sul mondo è ancora meno convincente:

la guerra di Corea si è conclusa con uno stallo e un armistizio negoziato e le guerre in Vietnam, Iraq e Afghanistan sono state chiare sconfitte degli Stati Uniti, ma le conseguenze geopolitiche di questi fallimenti sono state prevalentemente locali;

 è probabile che lo stesso avvenga in Ucraina, qualunque sia l’esito finale della guerra.

Lo stesso vale anche al contrario:

 la schiacciante vittoria dell’Occidente nella prima guerra del Golfo e la sconfitta della Serbia nella guerra del Kosovo non hanno dato vita a una rinascita democratica duratura.

La democrazia è in difficoltà in molti luoghi – compresi gli Stati Uniti – ma le battute d’arresto militari all’estero non ne sono la ragione principale, così come una vittoria decisiva dell’Ucraina non riporterebbe il Partito Repubblicano statunitense alla ragione, né farebbe abbandonare i programmi politici illiberali di “Marine Le Pen” in Francia e “Viktor Orban” in Ungheria.

Tuttavia, è comprensibile il motivo per cui quasi tutti in Occidente – me compreso – pensano che il le ragioni morali in questo caso siano a favore dell’Ucraina.

Qualunque siano state le paure o le rimostranze di Mosca prima della guerra, la Russia ha iniziato una guerra preventiva illegale.

 Ciò non rende la Russia unica ad agire contro le regole (che dire dell’”Operazione Iraq Freedom del 2003”?), ma l’Ucraina è comunque la vittima in questo caso.

La Russia ha deliberatamente attaccato obiettivi civili e ha commesso altri crimini di guerra di dimensioni che superano di gran lunga le violazioni delle leggi di guerra da parte dell’Ucraina (anche se la decisione degli Stati Uniti di fornire a Kiev munizioni a grappolo rende il quadro meno netto).

È difficile vedere molte virtù morali in un regime russo che avvelena gli esiliati e rifiuta i principi fondamentali dei diritti umani e in cui gli oppositori cadono da finestre elevate o subiscono altri “incidenti” mortali con una frequenza statisticamente improbabile.

Queste e altre caratteristiche spiegano perché la maggior parte di noi prova una sincera simpatia per l’Ucraina e vorrebbe che Kiev “vincesse”.

Ciò che manca in questa visione, tuttavia, è il riconoscimento che la moralità di una determinata politica dipende anche dai costi potenziali delle diverse linee d’azione e dalle probabilità di successo di ciascuna di esse.

 Se stiamo parlando di vite umane, dobbiamo guardare oltre i principi astratti e considerare le conseguenze reali delle diverse scelte.

 Non basta proclamare che i buoni devono vincere;

 bisogna anche pensare seriamente a quanto costerà produrre quel risultato e se sarà effettivamente possibile raggiungerlo.

 Anche se non c’è modo di essere certi al 100% dei costi o delle probabilità di successo, rifiutarsi di prendere in considerazione questi aspetti significa abdicare alla propria responsabilità morale.

(Per un raro tentativo di effettuare il tipo di analisi che sto sostenendo qui, rimando alla lettura del rapporto della” RAND Corporation”).

 

La lunga guerra in Afghanistan offre un’illustrazione eloquente di questo genere di problema.

Sebbene alcuni osservatori sperassero che i Talebani avrebbero moderato le loro posizioni con il passare del tempo, quasi tutti si rendevano conto che una loro vittoria sarebbe stata una calamità morale per la maggior parte degli afghani, soprattutto per le donne.

Chi di noi era favorevole al ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan non lo faceva perché era indifferente alle sofferenze degli afghani, ma perché riteneva che una permanenza più lunga non avrebbe alterato il risultato finale in modo significativo.

Coloro che volevano mantenere la rotta continuavano a insistere sul fatto che la NATO e i suoi partner governativi afghani erano prossimi a una “svolta” e che un altro anno, due o tre avrebbero portato a una vittoria;

ma non hanno mai identificato una strategia plausibile per raggiungere questo obiettivo (e le valutazioni interne erano molto più pessimistiche rispetto al risultato finale).

Qualunque fossero le intenzioni originarie degli Stati Uniti, gli afghani morti mentre Washington era intenta a prender tempo sono morti senza scopo alcuno.

Temo che qualcosa di simile si stia verificando in Ucraina. L’argomentazione morale per perseguire la pace – anche se le prospettive sono improbabili e i risultati non sono quelli che preferiremmo – consiste nel riconoscere che la guerra sta distruggendo il paese e che più dura, più i danni saranno estesi e duraturi.

Sfortunatamente per l’Ucraina, chiunque lo faccia notare e offra un’alternativa seria rischia di essere attaccato e condannato a gran voce e, quasi sicuramente, ignorato dai leader politici di riferimento.

 

Coloro che credono che la risposta a lungo termine sia quella di inviare all’Ucraina armi più avanzate e di farla entrare nella NATO e nell’Unione Europea il più rapidamente possibile – come ha sostenuto lo scorso fine settimana l’editorialista del “New York Times” “Thomas Friedman” – comprendono la situazione esattamente il contrario.

Putin è entrato in guerra principalmente per precludere questa possibilità e continuerà la guerra sia per evitare che ciò accada sia per assicurarsi che ciò che resta dell’Ucraina sia di scarso valore.

 Ha senso dare all’Ucraina un sostegno sufficiente affinché la Russia non possa imporre la propria pace, ma tale sostegno dovrebbe essere legato a un serio sforzo per portare a termine la guerra.

 

Gli “integralisti” avanzano un’obiezione ovvia a queste argomentazioni. “L’Ucraina vuole continuare a combattere”, insistono riportando correttamente un fatto, “e quindi dovremmo darle tutto ciò di cui ha bisogno”.

La determinazione dell’Ucraina è stata straordinaria e i suoi desideri non dovrebbero essere ignorati, ma questo argomento non è decisivo.

 Se un amico vuole fare qualcosa che tu ritieni sconsiderato o pericoloso, non hai alcun obbligo morale di aiutare i suoi sforzi, a prescindere dal suo forte impegno.

 Al contrario, saresti moralmente colpevole se lo aiutassi ad agire come desidera e il risultato fosse disastroso.

Naturalmente, il peso di queste argomentazioni morali cambia in modo significativo se si crede che l’Ucraina possa vincere a un costo accettabile e che questo risultato avrà un profondo impatto positivo in tutto il mondo.

Come già detto, questo è l’argomento centrale del “partito della guerra”.

 Visti i risultati fin qui deludenti (se non disastrosi) della controffensiva estiva dell’Ucraina, tuttavia, questa posizione è sempre più difficile da difendere.

Gli integralisti sperano ora che armi più avanzate (sistemi missilistici ATACMS con gittata da 140 a 300 km, aerei F-16, fucili M-1, grandi quantità di droni e così via) facciano pendere la bilancia militare a favore dell’Ucraina, ipotizzando anche che la Russia stia esaurendo le riserve e che presto sarà in difficoltà.

Spero che abbiano ragione, ma è indicativo il fatto che questi “falchi” tacciano per lo più sulla questione delle perdite subite dall’Ucraina.

 Per essere precisi:

 quanti ucraini sono stati uccisi o feriti e per quanto tempo Kiev potrà continuare a rimpiazzarli?

Questo aspetto è fondamentale per qualsiasi tentativo di valutazione delle prospettive militari dell’Ucraina, ma è quasi impossibile ottenere informazioni affidabili al riguardo.

A oggi, nessuno di noi sa con certezza come si svolgerà il resto della guerra.

 La nostra ignoranza collettiva suggerisce che tutti i partecipanti a questi dibattiti dovrebbero mostrare un po’ più di umiltà.

È possibile che io stia sottovalutando le possibilità di Kiev e le conseguenze negative di un accordo negoziato.

Se dovessi sbagliarmi, sarò felice di ammetterlo e mi consolerò del successo dell’Ucraina.

 Ma vorrei che gli “integralisti” riconoscessero che il loro approccio intransigente alla guerra potrebbe danneggiare maggiormente l’Ucraina nel lungo periodo.

Non perché questo sia ciò che gli “integralisti” vogliono, ma perché questo è ciò che le loro raccomandazioni politiche potrebbero produrre.

Un ultimo punto da tenere a mente.

Se abbiamo ancora voglia di attribuire la responsabilità morale della guerra, la colpa non è di chi tra noi ha messo in guardia dai pericoli di un’espansione NATO senza limiti, ha avvertito i rischi di un’interferenza troppo aperta nella politica interna dell’Ucraina e ha sostenuto che gli sforzi per armare l’Ucraina avrebbero potuto avere effetti controproducenti.

Putin è responsabile dell’inizio della guerra e del modo in cui la Russia l’ha condotta, ma una parte della colpa di questa tragedia è da attribuire a coloro che in Occidente hanno rifiutato di vedere tutti gli avvertimenti precedenti, rispetto alla direzione che le loro politiche avrebbero potuto prendere.

Dato che molte di queste stesse persone sono tra le voci più forti che oggi chiedono di continuare la guerra, di alzare la posta in gioco e di aumentare il sostegno dell’Occidente, è lecito chiedersi se i loro consigli danneggeranno l’Ucraina oggi come hanno fatto in passato.

(Foreign Policy)

 

 

 

 

Guerra in Ucraina, Putin:

«La pace solo quando

avremo raggiunto obiettivi»

ilsole24ore.com – (14 dicembre 2023) - Antonella Scott – ci dice:

 

Il leader russo ha ribadito la determinazione a «denazificare e demilitarizzare» l’Ucraina.

 Su Usa e Europa: Russia sempre pronta a riprendere i contatti, un giorno le relazioni con gli Usa miglioreranno.

«Quando arriverà la pace?», chiedono.

 «Quando avremo raggiunto i nostri obiettivi, che non sono cambiati».

È attorno a queste parole - una delle prime risposte date da “Vladimir Putin” nella “linea diretta” con il pubblico organizzata insieme alla tradizionale conferenza stampa di fine anno - che ruota ogni altro tema toccato dal presidente russo, che per più di quattro ore ha parlato al Paese e ai media per fare un bilancio non soltanto dell’anno passato ma anche del precedente, dall’inizio della cosiddetta “operazione militare speciale” in Ucraina.

Un tempo che non ha minimamente incrinato la determinazione di “Putin” a «denazificare e demilitarizzare» l’Ucraina, a portarla «in uno status neutrale».

E poiché a Kiev non sono d’accordo, «siamo costretti ad adottare altre misure»:

 sono ancora queste le parole usate, è questa la determinazione da cui il presidente ripartirà per ripresentarsi per la quinta volta alle elezioni di marzo, come il solo leader in grado di assicurare il rafforzamento della sovranità della Federazione Russa.

«Senza sovranità la nostra esistenza è impossibile», ha ripetuto “Putin.”

«L’economia ha risorse sufficienti».

Per questo evento organizzato per dimostrare che ogni cosa sta decisamente andando per il verso giusto, Putin estrare da una cartellina gialla i dati con cui illustra con orgoglio la stabilità dell’economia su cui si appoggia l’impegno militare, mentre l’Ucraina «ha ora l’onore di essere diventata il Paese più povero d’Europa»:

cita una crescita stimata per quest’anno al 3,5%, la disoccupazione ai minimi, il debito pubblico in calo, la solidità del sistema bancario e finanziario, l’aumento di redditi e salari.

 «Le risorse dell’economia sono sufficienti per andare avanti», garantisce il presidente, malgrado le sanzioni.

 Solo l’inflazione non va come dovrebbe, ammette il presidente, incalzato in collegamento da Krasnodar da una pensionata che gli ricorda preoccupata l’aumento dei prezzi delle uova.

Le importeremo e questo contribuirà ad abbassare i prezzi, la rassicura.

La carica dei soldati a contratto.

Tra le domande arrivate in quantità da tutto il Paese (più di due milioni, sottolinea il moderatore “Dmitrij Peskov”) emerge una delle preoccupazioni più grandi: ci sarà una nuova ondata di mobilitazione?

Putin non parla delle centinaia di soldati russi che secondo le stime occidentali stanno morendo ogni giorno in Ucraina, e anche in questo rassicura:

al fronte, spiega, in questo momento ci sono più di 200.000 persone mobilitate «che stanno combattendo valorosamente», mentre è in corso la campagna per raccogliere “kontraktiki”, soldati volontari. I contratti firmati sono già 486.000: «Perché una mobilitazione? – si è chiesto Putin -. Adesso non è necessaria».

 In totale, rivela, in zona di guerra sono impegnati 617.000 soldati russi.

 

Alla maratona televisiva hanno preso parte anche giornalisti e inviati dalle regioni ucraine parzialmente occupate dai russi, che le hanno annesse arbitrariamente alla Federazione e ora le chiamano “nuovi territori”: Donetsk e Luhansk nel Donbass, Zaporizhzhia e Kherson nell’Ucraina meridionale.

Putin ha sminuito l’operazione con cui le forze di Kiev hanno conquistato una testa di ponte sulla riva sinistra del Dnipro:

 «Non so perché lo fanno – ha detto -, mandano la gente a morire, per loro è un viaggio senza ritorno».

Per la Russia invece la situazione sta migliorando «su tutta la linea del fronte».

Un ottimismo rafforzato dalle difficoltà che l’Ucraina sta incontrando presso gli alleati sulle forniture di armi:

 «Prendono tutto a scrocco – ha detto Putin -, ma queste consegne gratuite prima o poi verranno meno, e pare che stiano già iniziando a scarseggiare».

 

I rapporti con Europa e America.

Gli chiedono se è lecito aspettarsi una normalizzazione dei rapporti con l’Unione Europea e con l’America.

Non dipende solo da noi, chiarisce utilizzando la domanda per ripercorrere ancora una volta la propria versione dei fatti:

il confronto con l’Ucraina, a partire da quello che Putin considera un colpo di Stato avvenuto a Kiev nel febbraio 2014, è stato provocato dai leader occidentali, dagli americani incapaci di abbandonare una politica imperialista e dagli europei dipendenti dal loro “fratello maggiore”, gli Stati Uniti.

 «Non siamo stati noi a guastare questi rapporti», la Russia è sempre pronta a riprendere i contatti e un giorno le relazioni con gli Usa miglioreranno.

Putin lo ripeterà più tardi a un giornalista francese, a proposito del suo legame con il presidente “Emmanuel Macron”:

 «Se c’è interesse, siamo pronti. Altrimenti ce ne faremo una ragione».

Il destino di “Evan Gershkovich.”

La domanda dell’inviata del “New York Times” porta l’attenzione sui casi di due americani detenuti in Russia con l’accusa di spionaggio:

l’ex marine “Paul Whelan” e “Evan Gershkovich” , reporter del “Wall Street Journal”.

La risposta di Putin sembra aprire una possibilità:

«Siamo in contatto con i partner americani, è in corso un dialogo.

Non è semplice, non fornirò dettagli, ma nel complesso mi pare che stiamo parlando nella stessa lingua.

 Spero che potremo trovare una soluzione.

 Ma anche la controparte americana ci deve ascoltare e prendere decisioni che possano andarci bene.

 Bisogna partire da considerazioni umanitarie».

 

La fede nel popolo russo.

L’ultima domanda, dall’inviato di “Kommersant”, riguarda l’avvertimento e il consiglio che il “Putin” di oggi darebbe a sé stesso all’inizio degli anni 2000:

«Lo avvertirei di non fidarsi troppo dei cosiddetti partner – risponde -.

E gli consiglierei di credere nel grande popolo russo. In questa fede è il pegno del successo della rinascita della Russia».

 

GUERRA IN UCRAINA.

Politi (Nato): “Zelensky sta

cercando il grande slam. Sarebbe

opportuno piuttosto fermare la guerra”

  Agensir.it - (31 Gennaio 2023) - Elisabetta Gramolini – ci dice:

 

Chi combatte la guerra in Ucraina o la osserva da fuori, attende il colpo grosso, ma non sa sempre con precisione cosa accadrà.

 Nel frattempo l’azzardo si impadronisce dei giocatori, così come l’odio. C’è chi, sull’eventuale pace del conflitto ucraino, evoca il ricordo della conferenza di Monaco, l’incontro che nel 1938 fu preludio della seconda guerra mondiale, e chi, come Papa Francesco chiede di riconoscere uguale dignità umana.

Al “Sir”, “Alessandro Politi”, direttore della “Nato Defense college foundation”, delinea ipotetici percorsi di pace provvisoria per due avversari messi a dura prova dalla guerra.

 

Al tavolo del poker nemmeno il più incallito giocatore è realmente lucido: è influenzato dall’avversario così quanto dalle proprie emozioni.

E pure chi assiste alla partita non può prevedere con esattezza l’esito o la prossima mossa.

Allo stesso modo, chi combatte la guerra in Ucraina o la osserva da fuori attende il colpo grosso, ma non sa sempre con precisione cosa accadrà.

Nel frattempo l’azzardo si impadronisce dei giocatori, così come l’odio. C’è chi, sull’eventuale pace del conflitto ucraino, evoca il ricordo della conferenza di Monaco, l’incontro che nel 1938 fu preludio della seconda guerra mondiale, e chi, come Papa Francesco chiede di riconoscere uguale dignità umana.

Direttore, sulla guerra in Ucraina l’unico a parlare di pace è sempre e solo Papa Francesco?

Il Papa, al contrario di chi segue la dottrina dello ‘Stato canaglia’, tratta con uguale dignità umana gli ucraini e i russi.

Questo non gli impedisce di condannare Putin o il patriarca Kirill. Francesco è lo stesso che con la” Laudato si’” ha dato un quadro strategico al futuro del mondo, tenendo fortemente presente il dato ecologico, è l’unico che ha fatto un documento politico serio sul futuro del Pianeta.

È un capo di Stato che ha la responsabilità morale su una popolazione di un miliardo e 400mila persone.

 

Siamo lontani dalla fine del conflitto?

In ogni guerra c’è sempre un momento culminante che si pensa cambi tutto.

 Il problema è che riconoscerlo non è sempre semplice.

Nemmeno i protagonisti lo capiscono o gli altri contendenti che partecipano all’attività politica o logistica.

 Gli ucraini vogliono la vittoria per motivi comprensibili, innanzitutto perché sono stati invasi e vogliono recuperare i territori occupati.

 A questa motivazione razionale si somma l’odio apertamente dichiarato da alcuni dirigenti ucraini.

L’odio però non rende lucidi, distorce la capacità di calcolo.

C’è poi l’odio di chi non combatte, ma ricorda il lungo periodo di dominazione sovietica.

Una spirale ingannevole.

La guerra tende all’assoluto, scriveva “von Clausewitz”, ed in essa c’è un culmine in cui si capisce che la guerra è a una svolta.

Gli ucraini sperano in una disfatta colossale dei russi che li costringa a venire con il capo coperto di cenere.

 Tuttavia, le vite ucraine non sono infinite, così come quelle dei russi. Queste sono le realtà a cui però non pensi quando sei seduto al tavolo della roulette della guerra.

Entrambi giocano d’azzardo?

La guerra la fa chi si difende, osservava ancora “von Clausewitz”.

Putin avrebbe voluto e potuto conquistare l’Ucraina senza colpo ferire, se gli ucraini fossero stati inerti; invece hanno resistito anche nelle zone russofone.

Zelensky adesso sta cercando il grande slam. Sarebbe opportuno piuttosto fermare la guerra, recuperare tratti di territorio vitale per l’Ucraina in contropartita ad alcune richieste russe, tutte da definire concretamente e negoziare lucidamente.

 La pace non è impossibile e non sarà una nuova Conferenza di Monaco. Ricordo che noi italiani abbiamo impiegato cento anni per riunificarci, recuperando tutto il territorio sotto dominazione straniera.

Quale pace è possibile allora?

È pericoloso illuderci che l’Ucraina riesca a riconquistare tutto, subito.

Il Paese attualmente è in un disastro demografico.

Stiamo rischiando di arrivare ad uno stallo, in cui chiedere a Putin la fascia costiera, dal Donbass alla Crimea, vitale per gli ucraini.

Dopo è ragionevole prevedere un decennio di ricostruzione del Paese, della logistica e delle forze armate ucraine, se si vuole pesare sul futuro degli equilibri regionali.

 D’altro canto, se la guerra non si ferma, per i russi è impossibile eleminare politicamente Putin, come da consolidata tradizione del Paese.

Abbiamo visto come parte della popolazione non sia appiattita completamente alla posizione di Putin.

Pensare che i russi siano tutti con Putin serve a demonizzare l’avversario, roba vecchia come la guerra.

 Sul piano della propaganda l’idea funziona perché così la gente è motivata a partire al fronte o a supportare sui social, ma è un’operazione che fa calare i veli dell’odio, non a ragionare freddamente sulle necessità politiche.

 Se alcuni governi, accecati dall’odio, non avessero sospeso unilateralmente i visti turistici per i russi con esili motivazioni, avremmo avuto molte più persone in fuga dalla Federazione russa.

Quando si dice che l’Ucraina è la prima linea di difesa della libertà europea, si fa un potente accostamento emotivo, ma purtroppo sganciato dalla realtà: la prima linea di difesa della comunità euroatlantica è la “Nato” con l’articolo 5 del suo trattato.

È sbagliato pensare che sia stato attaccato un avamposto dell’Europa?

Se così fosse, non si capirebbe perché i finnici e gli svedesi vogliano ancora entrare nella Nato: c’è già un avamposto che li difende.

Questo tragico anno non porterà ad una nuova Monaco ma, allora come ora, serve tempo per riarmare con armi di costruzione assai più complessa e lenta di prima.

Abbiamo dato armi e munizioni senza precedenti, però, come dimostrano nei fatti i nostri amici a Washington, c’è un limite da considerare:

 resta sempre da garantire un’adeguata deterrenza convenzionale e nucleare per trenta Paesi membri, precisamente per evitare un domani altri colpi di testa di Putin; cosa che i baltici temono moltissimo.

Molti parlano di terza guerra mondiale dietro l’angolo.

Potrebbe scoppiare sì, ma nel Pacifico.

È una fortuna che “Biden” e “Xi Jinping” si siano incontrati a Bali: abbiamo guadagnato due anni di tempo per la prevenzione in quell’area.

 Ma non possiamo lasciar continuare questa guerra in Ucraina che potrebbe creare delle dinamiche che sfuggono a tutti.

 L’idea che i cinesi vogliano invadere Taiwan nel 2027 è un’ipotesi.

 Di concreto però c’è che la Cina sta invecchiando e che non farà il sorpasso sugli Stati Uniti.

Certo la Cina ha una rivendicazione fortissima sull’unità nazionale, ma si rende conto che forse è meglio riunificare in un altro modo.

È un forse perché “Xi Jinping” non è eterno e non sappiamo come sarà il suo successore.

 

Il vicepresidente del consiglio di sicurezza russo “Dimitri Medvedev” ha dato dello “sciocco raro” al ministro della Difesa italiano “Guido Crosetto”.

Preferisco guardare ai silenzi di Putin che alle uscite irrilevanti di Medvedev.

Il fatto che non parli è una strategia?

È un segno chiaro che ha seri problemi da risolvere.

A Putin interessa un dialogo con gli Usa e la Nato, poi bisogna vedere con quali intenzioni e a quali condizioni; è il momento di fargli scoprire le carte.

 

Pace in Ucraina in cambio di territori

ai russi, se anche la Nato inizia a pensarci.

Lastampa.it – (18 Agosto 2023) - DOMENICO QUIRICO – ci dice:

 

«Tempo e pazienza», la strategia anti-Napoleone del generale “Kutuzov gioca contro Kiev. Zelensky ha esaurito le munizioni umane, l’ora del compromesso è sempre più vicina.

«Tempo e pazienza...vriemia i tirpienia»:

ricordate? Le parole che pronuncia il generale Kutuzov in “Guerra e pace” quando gli portano la notizia che Napoleone ha invaso la Russia e la Grande Armata ha scavalcato il Diemen.

 Tempo e pazienza:

ciò che serve spesso per vincere le guerre ma anche per costruire le tregue e la pace.

Tempo e pazienza.

 Quanto ne hanno dovuto usare e sprecare ucraini e russi, popoli generosi e appassionati, popoli drammaticamente impegnati a risolvere il proprio avvenire, per lasciarsi alle spalle guerre rivoluzioni carestie invasioni saccheggi.

Non sappiamo quando riusciranno a darsi sistemi di governo e governanti che li rappresentino degnamente nella ricchezza della loro straordinaria umanità, quando si libereranno di politicanti che dilapidano senza rimorsi le loro vite per costruire sanguinari mausolei di sé stessi.

 Quando? Tempo e pazienza…

 

Si odono, dopo quasi due anni di massacro insensato!

Segni, scricchiolii, tentazioni, rilanci, timidi inviti.

Paiono indicare come gli stralunati elogi della guerra declamati da colti parrucconi guerrafondai delle retrovie occidentali, che hanno sfrenato manigoldi intenti a riempirsi le saccocce, siano arrivati, forse, a un vicolo chiuso.

Ovvero alla aspra prova dei fatti.

Perfino un altissimo alcalde della Nato, la fumisteria mistica e ben remunerata della virtù della strage, spezza un tabù, squaglia il postulato teologale che finora l’Occidente aveva concesso a “Zelensky “senza discutere, non si parli di nulla, vittoria e basta!

 Si affida a taccuini e microfoni stupefatti invece la possibilità che i titoli di coda in Ucraina descrivano non l’annientamento dell’anticristo Putin ma un mercantile baratto tra territori e sicurezza.

Non farnetichio o lapsus.

Una prova per vedere se… una escursione dalla cabalistica guerrafondaia alla ragionevolezza del reale.

Idee fosche! Blasfemia! Gridano a Kiev.

A Bruxelles si smentisce senza esagerare.

 Le parole come la ghiaia di una strada si disperdono ma sotto, ed è quello che conta, si sente la pietra dura di una pesante affannosa inquietudine.

Nelle capitali di una non belligeranza molto partecipe ci si domanda, finalmente!

Se il dogma non sia logica perversa.

Gli animali da pulpito declinavano assunti elementari: la guerra non si tocca!

Non un centimetro di territorio al nemico! o tutti eroi o tutti ammazzati! L’ineffabile aforisma dell’immancabile trionfo dell’Occidente scudo dell’Ucraina si sfarina dopo un anno e mezzo di guerra inutile, di trincee inespugnabili, di spallate irrisolute.

In questa tragedia ci sono alcuni che non hanno né tempo né pazienza. L’Occidente l’Europa gli Stati Uniti innanzitutto:

 per quanto possono sopportare la constatazione che i loro sfrenati aiuti finanziari e militari non hanno schiuso nel Donbass il cielo della Storia e che si dovranno aiutare gli incontentabili ucraini “in saecula saeculorum”?

 Gli ucraini non sono in grado di spazzar via i russi da soli.

È da qui che bisognerà disegnare nuovi solstizi ed equinozi, e alla svelta. Scorrono tra le dita dei “Biden”, dei “Macron” e dei marabutti della vittoria, come grani del rosario in cui si ricomincia sempre da capo, le necessità pretese come “risolutive” da Kiev:

munizioni cannoni mezzi antiaerei semoventi carri armati missili a lungo raggio Effe sedici diciotto trentacinque... i raid scenografici dei droni in territorio russo, l’ossessione propagandistica per i ponti della Crimea appaiono ormai non come arguto messianismo strategico ma zibaldone distraente, sintomo di frustrazione.

Non diciamo più bugie.

 Dobbiamo cambiare non ideali, che non abbiamo mai avuto in questa vicenda, dobbiamo cambiare illusioni.

 

Il tempo scorre, incombono elezioni cruciali, il consenso che fino a ieri sembrava così automatico per questa guerra per procura, un po’ vile e un po’ furba da non richiedere nemmeno riscontro referendario, scivola verso l’”adesso basta”.

La vittoria è mutilata ancor prima di essere raggiunta.

Al nostro vaniloquio illusorio di essere l’unico sistema ardentemente invidiato, che tutti sudino dalla voglia di imitarci, in Asia in Africa in America Latina trovano invece liberatorio non esser succubi.

Non considerano peccato mortale mettere al loro tavolo il criminale Putin, visto che l’America ha fatto lo stesso con lo Scià, Chiang Kai-shek, Mobutu, Somoza, Pinochet eccetera eccetera.

Si apparecchia l’equivalente finanziario ed economico dell’attentato alle Torri Gemelle, per fortuna senza morti, la creazione di una moneta internazionale alternativa al dollaro.

 Si intravede un effetto tossico per i cromosomi dell’egemonia a stelle e strisce, ovvero le palanche.

Anche Zelensky non può permettersi di avere né tempo né pazienza.

 Il presidente ucraino è avviluppato nella sua propaganda della vittoria a tutti i costi.

Finora è riuscito con efficacia prepotente a strappare ai leader occidentali, afflitti da sensi di colpa o da ambizioni di sbarazzarsi di Putin a basso costo, tutto quanto gli serviva.

Ma se la vittoria si svela come impossibile o è rinviata a un evo escatologico, non può essere lui, il callidus Zelensky, ad amministrare la dolorosa fase della accettazione della realtà.

 Siamo in pieno contrappasso, a Ovest si risponde con sempre maggiore fastidio alle sue mosse captatorie.

Il presidente, come dimostra la tardiva caccia ai disertori ben dotati di portafoglio, ha esaurito le munizioni umane;

una generazione ucraina è stata spazzata via innalzando uno Stato militare, che pretende di riscrivere, come Putin, la storia e la letteratura. L’odio verso l’invasore russo nutre, ubriaca, lo si ingoia e lo si rumina nel profondo del ventre, si può vivere del proprio odio, certo, ma non a lungo.

 Prima o poi si insinua qualcosa di ancor più terribile che lo placa, che fa male ancor più orribilmente: ed è la constatazione della sua inutilità pratica.

Gli ucraini sono vicini al punto in cui il dolore è più forte della sensazione di esistere.

 

La pace può, e deve, avere tempo e pazienza.

 Il tempo fa il bucato agli uomini, la sporcizia non sopravvive perché il gran vento della Storia passa e purifica.

 Ci vuole coraggio.

 Non si abbia paura di ricorrere, per fermare questo conflitto, a strumenti che qualcuno spregia come minimi o volgari, compromessi, rinvii sine die di soluzioni definitive, imposizioni dolorose.

 Il risultato, tenere in vita esseri umani, li rende sublimi.

 

 

 

 

Perché è impossibile un accordo

 sul grano e perché la pace

in Ucraina resta lontana.

Fanpage.it - Riccardo Amati – (5 settembre 2023) – ci dice:

“L’accordo di un anno fa non è mai stato pienamente rispettato e non poteva durare”.

 Erdogan “dovrà proporre a Putin una nuova formula”.

La mediazione turca “continuerà”.

 E quando sarà il momento “il tavolo per la pace sarà a Istanbul”.

Chi si aspettava un passo verso la pace era un illuso: “Non c’era alcuna possibilità che la Russia rientrasse nell’accordo sul grano”, dice Kerim Has. “Sarebbe stato un vero e proprio balzo, altro che un passo, nella direzione di una soluzione diplomatica del conflitto ucraino”, ammette l’analista turco esperto delle relazioni tra Mosca e Ankara.

“Ma una parte dell’intesa siglata oltre un anno fa a Istanbul non è mai stata implementata a causa delle posizioni massimaliste della Russia e della indisponibilità dell’Occidente a ceder terreno sulle sanzioni”, spiega.

 “È necessaria una riformulazione dei termini dell’iniziativa”.

 

La Turchia, “potrebbe avere ancora un ruolo importante nelle trattative”, aggiunge “Has”.

E rimane il mediatore ideale, poi, per un cessate il fuoco e un negoziato. “Che restano però un obiettivo lontano”.

 

“Kerim Has”.

Come valuta il vertice di Sochi fra Putin ed Erdogan? Loro lo hanno definito “un successo”. Nessun comunicato congiunto alla fine, però. Dov’è il successo?

Sulla cosa più importante in discussione il risultato è pari a zero.

 Né poteva essere altrimenti.

La parte “russa” dell’accordo sul grano, quella che in teoria regola l’export di prodotti agricoli e fertilizzanti dalla Russia, non ha mai avuto la minima chance di essere applicata.

Perché l’Occidente vuole minimizzare i possibili introiti russi e il Cremlino è inflessibile nel pretendere un semplice ritiro delle sanzioni nel settore. Per esempio vorrebbe che le sue navi commerciali potessero attraccare nei porti occidentali.

 Significherebbe un annullamento di fatto del regime sanzionatorio. Implicherebbe una completa revisione della politica dei Paesi che sostengono l’Ucraina.

È una richiesta massimalista e irrealistica.

 

Ma se l’'Iniziativa del Mar Nero sul grano “, nome ufficiale dell’accordo del luglio 2022, conteneva articoli che aprivano a interpretazioni inconciliabili, cosa fu firmata a fare?

Per Russia e Ucraina, ma anche per Turchia e Onu (firmatari dei due trattati speculari della “iniziativa”: uno con Mosca e l’altro con Kyiv, ndr.) era importante, un anno fa raggiungere un accordo.

Per questioni di immagine, per non essere additati come responsabili di una crisi alimentare globale.

 Per ragioni che in sostanza potremmo definire propagandistiche, hanno preferito chiudere gli occhi di fronte all’impraticabilità di quanto convenuto.

E però Erdogan ci ha provato, a ricucire. Si vede che non gli sembrava così impossibile, no?

Una semplice, immediata “resurrezione” del patto era impossibile. Erdogan ha però voluto in ogni modo rilanciare il suo ruolo di mediatore.

 Per il futuro.

 Perché l’unica possibilità di assicurare un accordo per una piena ripresa dei flussi commerciali agricoli attraverso il Mar Nero è una rimodulazione di quanto sottoscritto un anno fa.

Una rimodulazione che consenta a Vladimir Putin di partecipare a un accordo senza perdere la faccia.

Putin ha detto di esser pronto a rientrare se saranno eliminate le restrizioni all’export russo. Basterebbe?

 

I nodi da sciogliere sono molti.

 Naturalmente, concessioni sul commercio di fertilizzanti piacerebbero al Cremlino.

 Così come l’esenzione dalle sanzioni sulle navi commerciali e sulla banca che fa capo al” gruppo petrolifero Rosneft”, cruciale per questo commercio.

 E poi Mosca vuole lo stop alle azioni militari ucraine contro la flotta russa del Mar Nero.

 Ma è dimostrato che non si tratta di strade davvero percorribili. Non finché c’è in corso una guerra.

 

La Turchia continuerà a mediare per l’accordo sul grano?

Erdogan nel corso del vertice di Sochi ha cercato di far accettare a Putin una lista di proposte per far tornare in vita l’intesa.

Ma queste non comprendevano ancora i passi concreti necessari e le garanzie sufficienti, soprattutto riguardo alle sanzioni indirette che la Russia vorrebbe non subire per la sua agricoltura e i suoi fertilizzanti.

Il processo continuerà.

Non credo però che nel breve e medio termine Mosca accetterà di tornare a far parte dell’accordo di un anno fa.

 

Intanto Putin cerca comunque di non passare per quello che alimenta la fame nel mondo.

Sì, col cosiddetto “accordo alternativo sul grano”, che riguarda solo un milione di tonnellate di cereali rispetto ai 33 milioni dell’accordo originale (è il totale dei prodotti alimentari trasportati dai porti ucraini a 45 Paesi durante un anno, ndr) ed è garantito da Turchia e Qatar.

 Il milione di tonnellate andrà ai Paesi poveri.

In realtà è, anche questa, un’operazione propagandistica che serve a Putin a crearsi una migliore immagine

 Ma non soddisfa certo la domanda mondiale, tantomeno quella dei Paesi poveri.

 

È sempre un bel regalo.

Non è un regalo.

La Russia donerà circa trecentomila tonnellate di grano a sei Paesi, tra cui Repubblica Centroafricana, Mali e Burkina Faso, particolarmente vicini politicamente a Mosca.

Ma il milione di tonnellate dell’”accordo alternativo” di cui parlavo saranno esportate dalla Russia, processate da aziende private in Turchia e vendute in Africa e Medio Oriente attraverso il Qatar.

 

E il Qatar sosterrà finanziariamente l’operazione, se abbiamo ben capito…

Niente regali, però, in questo caso.

Resta un’operazione con cui Mosca cerca di guadagnarsi una sempre maggiore influenza in quella parte del mondo.

 Un’operazione propagandistica, come dicevamo, e al tempo stesso un sostegno alla politica estera russa in Africa e Medio Oriente.

 Ed è anche un modo per aggirare le sanzioni.

 

In che senso la Russia aggirerebbe così le sanzioni?

Nell’ultimo anno e mezzo sono nate in Turchia oltre duemila aziende i cui proprietari sono russi.

 I cereali dell’'accordo alternativo' saranno processati soprattutto da queste aziende, in joint venture con società turche.

 La Turchia non è sottoposta a sanzioni.

Ne consegue che queste aziende potranno immettere sul mercato prodotti agricoli e fertilizzanti di origine russa, cosa al momento quasi impossibile al di fuori di un simile meccanismo.

Una politica win-win per Putin.

Ne esce vincente su tutti i fronti.

In molti ritengono che passi avanti sulle forniture di grano corrisponderebbero a passi verso la pace in Ucraina.

 Almeno in prospettiva qualche passetto lo si è fatto, in questo vertice tra Putin ed Erdogan?

No.

Non si è fatto alcun passo verso la pace.

L’unico passo in quella direzione sarebbe stato il ritorno della Russia

all’ accordo di Istanbul di un anno fa.

 Anzi sarebbe stato molto più di un passo. Ma le dinamiche sono diverse. E non è avvenuto.

 

Però le relazioni russo-turche sembrano uscirne rafforzate. E la Turchia è un Paese Nato. Come descriverebbe la strana alleanza tra il sultano e lo zar?

 

È una relazione fondata sulla cooperazione su materie specifiche. Cooperazione che convive con la competizione e lo scontro su altri fronti.

Ma si tratta di conflitti gestibili.

Fatto sta che per alcuni obiettivi della sua politica estera la Russia non ha partner migliore della Turchia.

E viceversa.

La cosa, poi, vale soprattutto per l’economia.

Gli interessi comuni sono forti nel settore energetico e nel commercio. Per non parlare del turismo:

sono milioni i russi che vanno in vacanza in Turchia, che è sia europea che asiatica.

Ideale ora che viaggiare in Europa è più complicato.

 

Ma sulle maggiori crisi la Turchia si schiera con l’Occidente, non con la Russia

 

In Siria, in Libia, nel Nagorno Karabakh e in Ucraina è così. E anche sulla questione curdo-siriana a mio avviso la Turchia non è poi così lontana dalle posizioni di Washington, paradossalmente (gli Usa sono alleati dei curdi nella lotta contro l’Isis in Siria, e la Turchia considera terroristi i militanti curdi del Pkk, ndr).

 

Questo doppio ruolo della Turchia la rende il mediatore ideale per una pace tra Russia e Ucraina?

Ritengo che la pace tra Russia e Ucraina resti una cosa lontana.

 Non irraggiungibile, ma lontana nel tempo.

Ci vorrà almeno un anno. Se va bene.

Certo, l’unica volta che si è arrivati vicini a un cessate il fuoco è stata quando russi e ucraini erano seduti a un tavolo a Istanbul, alla fine del marzo 2022 (l’accordo saltò all’ultimo momento per colpa di Kyiv e dell’Occidente, dice Mosca; Kyiv ritiene sia avvenuto il contrario, ndr).

 

E quindi?

Quindi la risposta alla sua domanda è sì:

la Turchia può mediare e rimane il luogo ideale per un tavolo di negoziati.

 È un Paese Nato, e l’Occidente, insieme a Kyiv, preferirebbe la Turchia come luogo dove trattare piuttosto che, per esempio, un Paese dell’Asia Centrale.

D’altra parte, le relazioni tra Russia e Turchia si sono molto rafforzate a causa proprio della guerra in Ucraina:

Mosca ha sempre più bisogno di Ankara, anche se il rapporto resta asimmetrico a favore del Cremlino.

Non è solo perché la Turchia non ha sanzionato la Russia.

È soprattutto perché è diventata una finestra sul mondo per gli affari russi.

E un territorio di passaggio per far arrivare in Russia merci coperte da sanzioni.

È un Paese che offre a Mosca spazio di manovra.

 D’altro canto, l’Occidente preferisce veder crescere le relazioni russo-turche invece che quelle russo-cinesi.

 E avere in Erdogan un mezzo per interloquire con Putin.

Sì, credo che al momento opportuno i passi verso una pace in Ucraina potranno essere muovere da Istanbul.

(fanpage.it/esteri/perche-e-impossibile-un-accordo-sul-grano-e-perche-la-pace-in-ucraina-resta-lontana/).

(fanpage.it/).

 

 

 

 

 

Entriamo in guerra?

Mai dire mai.

Ilmanifesto.it – Tommaso Di Francesco –(29 -2 – 2024) – ci dice:

 

RUSSIA/UCRAINA. Stavolta non è stata la disinformazia del regime di Putin sempre attiva, a lasciare esterefatti sono invece le parole del presidente francese Macron che alla conferenza stampa conclusiva del “suo”

vertice sull’Ucraina – quasi una ripicca di leadership su quello del G7 di investitura di Meloni a Kiev – che serenamente affermato:

«Non si può escludere l’invio di truppe occidentali in Ucraina», rendendo noto che di quello, in un dibattito «acceso» si è discusso a Parigi tra i governi europei, con divisioni e accenti diversi – la punta di diamante sono i Paesi baltici favorevoli oltre a Kiev che plaude:

«Siamo sulla strada giusta».

Era ora che qualcuno strappasse il velo di omertà che circonda la risposta atlantista e bellica dell’Unione europea sulla guerra in Ucraina.

Qualcuno come Macron che così facendo reitera la storia e il ruolo francese, forte della “force de frappe” ma dimentico del disastro libico provocato solo 13 anni fa con tutte le ripercussioni africane che sta subendo.

Parole di lucida follia suicida, di vero «senso del futuro», non solo per la risposta immediata di Mosca:

ai leader europei «non conviene», il conflitto tra Russia e Nato sarà «inevitabile»;

ma peggio ancora per la precisazione che Macron ha voluto fare, una vera chiamata di correo per non essere nel «ritardo sovente di 6-12 mesi»:

«Molti che oggi dicono mai, mai, sono gli stessi che dicevano mai tank, mai aerei, mai missili a lunga gittata due anni fa”.

 

Come a dire: portiamoci avanti, per due anni abbiamo inviato le armi più sofisticate, miliardi e miliardi di fondi, operazioni d’intelligence – che dire delle 12 basi della Cia presenti sulla frontiera russo-ucraina dal 2014 rivela il “New York Times” -, addestramento, in arrivo nuovi fiammanti cacciabombardieri e quant’altro e dopo offensive e controffensive fallite, l’unica soluzione che resta ormai è l’intervento diretto, mettere gli scarponi a terra.

A questo esito prevedibile ha portato la “strategia” dell’invio di armi che ha provocato più vittime e più odio: alla co-belligeranza contro la Russia.

Ed è proprio così, i re della guerra sono nudi.

Sorprendono le reazioni a questa che non è una boutade ma un cambio di passo – sul baratro – proposto all’intero schieramento occidentale.

 Le prime prese di posizioni infatti, com’era prevedibile, hanno insistito tutte a rasserenarci perché ogni governo occidentale di corsa, con una fretta sospetta, ha respinto almeno formalmente al mittente la proposta rivelatrice.

Così hanno fatto Cameron, Scholz, l’Italia, la stessa Nato e dall’altra parte dell’Atlantico subito la Casa bianca:

 «Non ci saranno truppe occidentali in Ucraina, su questo c’è una grande unanimità».

Sotteso però c’è il «per ora», come si evince dal comunicato di Stoltenberg:

«Questa eventualità sarà presa in considerazione solo quando l’Ucraina sarà membro della Nato».

E qui siamo al paradosso che mentre Stoltenberg, von der Leyen e Meloni insistono perché l’Ucraina entri nella Nato, Biden, che trova difficoltà nel Congresso ad inviare nuove armi, ha più volte risposto: «No, perché vuol dire entrare in guerra con la Russia».

A chiarire il seguito vero che hanno le parole di Macron ecco quelle di ieri di “Ursula von der Leyen” all’Europarlamento:

una guerra in Europa «non è impossibile», gli Stati devono capire che «la pace non è permanente» e per questo l’Ue deve investire maggiormente in armi nei prossimi cinque anni, «dando priorità agli appalti congiunti nel settore della Difesa. Proprio come abbiamo fatto con vaccini o con il gas naturale».

 

Dunque riconvertiamo le spese sociali, già scarse, e prepariamoci alla epidemia benefica e «non impossibile» della guerra generale.

 Magari green e sostenibile?

Così quel che ci ostiniamo a chiamare per il conflitto ucraino il «limite ignoto», ahimè diventa sempre più noto:

siamo sul fronte di una non impossibile deflagrazione atomica, visto il nemico.

 Restando impronunciabile la parola trattativa per un cessate il fuoco, con una sospensione della guerra per trovare aperture su Donbass, Crimea, neutralità ucraina, com’è stato per 8 anni -con gli accordi di Minsk, e permanendo la depressione di ogni intervento di pace – non solo da parte di Putin, si pensi allo sfottò delle cancellerie occidentali per i tentativi dell’inviato del papa “Zuppi” e del segretario Onu “Guterres”, per non dire dei pacifisti.

Ora l’Europa, non inconsapevolmente, sembra fare lo stesso gioco guerrafondaio dell’aggressione di Putin:

à le guerre come à le guerre.

Del resto questa è la tendenza anche per il Medio Oriente dove gloriosamente parte una missione navale europea a guida italiana contro gli “Houthi” senza vedere che questa nuova crisi deriva direttamente dal massacro in corso a Gaza che gli Usa con il loro veto non vogliono fermare.

 

Eppure basterebbe capire che il conflitto ucraino non dà dividendi, con la maggior parte dell’opinione pubblica europea contraria all’impegno in ogni modo nel conflitto – e quella dell’est in rivolta, vedi le sorti del grano ucraino -, con la stanchezza degli stessi combattenti ucraini mandati al macello con quelli russi;

basterebbe guardare quel che accade negli Stati uniti, con Biden che rischia per l’«effetto Gaza» di perdere il consenso democratico per le presidenziali.

Basterebbe guardare in faccia la verità sotto i nostri occhi, che le prossime elezioni europee, se ci arriveremo, avranno questo tema decisivo all’ordine del giorno.

 E sarà così esplosivo da scompaginare ogni schieramento, in primo luogo la destra ma anche ogni sedicente sinistra.

 

 

 

 

I guerrafondai, i sonnambuli

e i movimenti per la pace.

Trasform-italia.it – ( 05/02/2024) – Alfonso Gianni – ci dice:

 

Anticipiamo questo articolo di Alfonso Gianni che farà parte della “news letter” dell’“Osservatorio Unione Europea” di prossima pubblicazione.

Non era mai successo nulla di simile:

“un impero (la Gran Bretagna) promette una terra non sua

a un popolo che non ci vive senza chiedere il permesso a chi ci abita “. (Gideon Levy).

 

Cessate il fuoco! Ora!

Questo grido, rivolto in particolare alle due più sanguinose guerre in corso -tra le 60 attualmente in atto nel mondo-, in Ucraina e in Palestina, ha attraversato le piazze e le strade delle principali città del Sud e del Nord del globo terrestre.

Il popolo della pace, variegato e multiforme, è tornato a farsi, sentire, ad imporsi all’opinione pubblica, malgrado i tentativi di nasconderne o sminuirne la forza e l’estensione da parte dei mass media mainstream.

Non siamo di fronte a quella dimostrazione di grande forza e compattezza, pur nell’articolazione geografica, che contraddistinse le celebri manifestazioni del 15 febbraio del 2003 e che fecero scrivere al “New York Times” che aveva preso corpo una seconda potenza mondiale.

Neppure quella straordinaria prova di forza fermò la guerra, ovvero l’aggressione degli Usa e dei paesi volenterosi all’Iraq.

Ma essa entrò nella storia, sedimentò una diffusa coscienza civile, trasformò il pacifismo da una opzione morale e individuale in un obiettivo politico condiviso da milioni di persone disposte ad attivarsi per il suo conseguimento.

Le manifestazioni che si sono susseguite in centinaia di città lo scorso 13 gennaio e che continueranno a riproporsi e ci auguriamo a crescere, non sarebbero potute avvenire senza poggiare sull’humus fertilizzato da quella storica giornata di inizio di secolo.

 E a farlo in condizioni assai più difficili di allora.

 Nel 2003 l’obiettivo era chiaro:

impedire agli Usa di fare quello che poi hanno fatto in Iraq, sconvolgendo quel territorio e l’insieme del Medio Oriente, con conseguenze che proprio ora mostrano i loro devastanti effetti.

 Adesso la situazione – basti pensare in particolare alla guerra in Ucraina – appare più complessa, meno immediata è l’individuazione delle cause e degli agenti che sono entrati in gioco.

La guerra non è più solo una guerra mondiale a pezzetti – secondo la famosa e preziosa definizione di papa Francesco – e non ancora una guerra mondiale a tutti gli effetti, ovvero con il coinvolgimento diretto delle maggiori potenze mondiali.

Ma è una guerra che si è fatta mondo, che ha già in tutto e per tutto dimensioni e implicazioni mondiali, che determina le scelte politiche dei vari Stati, delle Unioni sovrannazionali, delle Organizzazioni internazionali, che sovra ordina l’andamento dell’economia, impone svolte ed accelerazioni alle risposte e svolte date e da dare a quel processo di globalizzazione che già era entrato in crisi nel 2008 e durante la pandemia.

Per questo il “cessate il fuoco” assume una valenza generale, pur nelle necessarie specificità delle sue possibili applicazioni.

Va da sé che non basta a guarire un mondo guasto – per usare l’espressione di “Tony Judt” - una misura emergenziale come “cessare il fuoco”.

Va da sé che tanto per quanto riguarda la situazione della guerra russo-ucraina quanto per quella israelo-palestinese è necessario fin d’ora delineare, almeno per l’essenziale, le linee che conducono ad una pace duratura.

Ma è ancora più evidente che bisogna da subito interrompere l’inutile massacro in corso; 

senza questo stop è semplicemente impossibile porre in atto quelle condizioni che possano spingere verso la pace.

Il fronte russo-ucraino.

Lo scontro bellico in Ucraina si è attestato su una situazione di stallo.

La controffensiva promessa e minacciata a più riprese da Zelensky si è fermata sulla soglia degli annunci.

 I russi più che ad avanzare pensano a solidificare le loro posizioni sul campo.

Così ambedue gli schieramenti paiono volere passare il rigido inverno – o parte di esso – minando i campi e costruendo opere di protezione.

Il che non elimina bombardamenti, uccisioni di militari e soprattutto di civili, distruzioni del territorio, delle abitazioni e delle infrastrutture fisiche.

Zelensky avverte l’indebolimento del sostegno occidentale, anche perché il dramma di Gaza sta catalizzando l’attenzione mondiale, ed è corso a Davos per promuovere incontri a latere del tradizionale Forum economico mondiale, giunto alla sua 54° edizione, ove erano presenti oltre 60 capi di Stato e 2800 invitati.

 L’intenzione del presidente ucraino è di presentare un piano di pace interamente fondato sul punto di vista di Kiev.

In assenza però della Russia.

 Il che è stato immediatamente rilevato dal portavoce del Cremlino “Dimitry Peskov” con una ruvida dichiarazione che ha bollato le conversazioni a Davos di Zelensky come inutili poiché  non porteranno “ad alcun risultato senza di noi”.

 

Nel frattempo il portavoce americano “John Kirby” aveva reso noto che l’assistenza americana all’Ucraina doveva considerarsi conclusa e appare meno probabile che possa essere ripresa prima della fine della campagna elettorale presidenziale.

 Come affermano alcuni attenti osservatori in campo militare, ormai l’Europa ha sorpassato, per la quantità di aiuti, il sostegno statunitense.

Il che non dispiace affatto agli americani, che vedono di buon occhio un’europeizzazione del conflitto.

Ma l’aiuto europeo è soprattutto in denaro, non in armamenti sofisticati di qualità che servirebbero agli ucraini per sostenere lo scontro contro gli armamenti di cui dispongono i russi.

 Quello che l’Europa ha non lo cede facilmente, se si eccettua la recente disponibilità dichiarata dal cancelliere tedesco “Olaf Scholz” a introdurre per l’Ucraina i suoi sistemi di difesa più moderni.

 

 L’accordo siglato tra Gran Bretagna e Ucraina.

Fuori dalla Ue, ma in Europa e soprattutto nella Nato, c’è però chi si muove con molta solerzia e su più fronti, come quello ucraino e quello mediorientale.

 Si tratta, ovviamente, della Gran Bretagna, il cui Primo ministro, “Rishi Sunak” ha siglato un accordo con Kiev il 12 gennaio i cui contenuti sono peggio che inquietanti.

Per dirla in breve l’accordo prevede che in caso di un nuovo attacco russo all’Ucraina, i due paesi contraenti si consulteranno entro 24 ore prevedendo l’intervento del Regno Unito a sostegno di Kiev   e viceversa, ossia nel caso di una aggressione  della Russia alla Gran Bretagna  spetterebbe all’Ucraina correre in suo soccorso.

 Il tutto al di fuori della Nato, che nel patto non viene neppure menzionata, ed evidentemente contro ogni eventuale ruolo mediatore della Ue, qualora volesse assumerlo.

 

Intanto si aggiungono e si rafforzano altri venti di guerra, che mettono in forse la prosecuzione per l’intera stagione invernale della situazione di stallo sul fronte russo ucraino.

L’ “Institute for the Study of War” (Isw)  sostiene che i russi non aspetterebbero la fine dell’inverno per riprendere l’offensiva, ma che la potrebbero riavviare già dai primi di febbraio, quando il terreno sarà congelato e quindi in grado di permettere l’avanzamento dei carri armati, cosa che nel fango non sarebbe possibile.

Mentre il tedesco” Bild” lascia trapelare che il “Ministero della Difesa della Germania” ritiene più che possibile uno scontro militare diretto tra Nato e Russia lungo lo stretto passaggio terrestre polacco-lituano tra Bielorussia e Kaliningrad.

Naturalmente Il Ministero tedesco con conferma ma nemmeno smentisce, cosa che invece fa Mosca, ma tutto questo è indice del clima bellicista che invade stampa e cancellerie d’Occidente, mentre ben diverso è l’atteggiamento dei Brics e in generale dei paesi del Sud del mondo.

 La notizia portata da “Bild” ha comunque elevato le preoccupazioni già ampiamente presenti sulla possibilità che si vada verso una terribile terza guerra mondiale.

Basta leggere l’incipit di una nota a cura della Redazione dell’agenzia giornalistica Ansa:

“Uno scenario da Terza guerra mondiale delineato in tempi e movimenti, con tanto di cifre di mobilitazione militare, azioni di “guerra ibrida” e sviluppo sul terreno mese dopo mese.

 Fino a culminare nel dispiegamento di centinaia di migliaia di soldati della Nato e nello scoppio del conflitto tra Russia e Alleanza atlantica nell’estate del 2025.

E’ la distopia contenuta in un “documento segreto” del ministero della Difesa tedesco svelato da Bild che delinea nel dettaglio un possibile ‘percorso verso il conflitto’ tra Vladimir Putin e la Nato.”

 Comunque sia, la Nato non ha perso tempo ed ha subito annunciato l’avvio della più imponente esercitazione dai tempi della guerra fredda, la “Steadfast Defender 2024”, che coinvolge ben 90mila uomini.

La situazione interna a Ucraina e Russia.

Intanto la situazione interna ai due paesi ha subito diversi scossoni che ne hanno minato l’immagine di compattezza che ognuno dei belligeranti vuole dare di sé.

 Se la vicenda, mai del tutto chiarita quanto a obiettivi e modalità, della “divergenza”, se non vogliamo chiamarla ribellione, di “Evgenij Prigozin” si è risolta assai sbrigativamente con l’eliminazione fisica di quest’ ultimo, più complesso appare il quadro interno ucraino.

Si sta aprendo una crepa sempre più crescente tra Zelensky e i vertici militari, diversi dei quali non vedrebbero di cattivo occhio l’aprirsi di un negoziato con i russi, per ora vietato per legge.

Né hanno accettato volentieri l’ampliamento della chiamata alla leva fino a 27 anni.

 In particolare sono cresciuti i gradimenti – un recente sondaggio lo dimostrerebbe – nei confronti del comandante “Zaluzhnyi” fino a superare nettamente quelli nei confronti del presidente ucraino, che appare vistosamente in discesa.

Stando alle rilevazioni sondaggistiche – il cui valore, è bene sottolinearlo, in tempo di guerra è più che mai relativo – ben più solida appare la posizione di Putin rispetto al suo elettorato.

 Ma la situazione di stallo non può durare a lungo, come abbiamo già visto.

O fornisce l’occasione per aprire varchi a un negoziato di pace, o può preludere ad una ripresa ancora più massiccia e distruttiva della guerra.

Il dibattito nel Parlamento italiano sull’invio di armi all’Ucraina.

Non si può dire che nel quadro italiano si sia scelta la prima delle due alternative. Nel dibattito parlamentare alla ripresa dei lavori dopo le festività, il “Ministro della Difesa Crosetto” ha assemblato dichiarazioni in apparente contraddizione fra loro.

 Da un lato ha rivelato che esisterebbero le condizioni per una “incisiva azione diplomatica perché si rilevano una serie di segnali importanti che giungono da entrambi le parti in causa” e più precisamente che “le dichiarazioni di diversi interlocutori russi evidenziano una lenta e progressiva maturazione di una disponibilità al dialogo per porre fine alla guerra.

In Ucraina il fronte interno appare meno compatto che nel passato nel sostenere la politica del presidente Zelensky”.

 Dall’altro lato ha ribadito con forza il sostegno inalterato all’Ucraina – il nostro paese a dicembre ha inviato l’ottavo pacchetto di aiuti in “armi di difesa” a Kiev – considerando un errore strategico fermarsi ora.

Ci si sarebbe aspettati dall’opposizione parlamentare e dalla sua maggiore formazione, il “Pd”, la capacità di introdursi in questa contraddizione della posizione del ministro per allargarla a favore di un cambiamento di linea che puntasse non al rifocillamento armato, ma a una svolta trattativista.

Non è accaduto. Anzi.

Il “Pd “ha votato la sua mozione, astenendosi su quella del governo, su cui in passato aveva votato a favore.

 Nessuna svolta, perché anche la mozione del “Pd” prevedeva la continuazione dell’invio di armi.

Il che non lo ha salvato da una defezione nel voto da parte di una pattuglia di parlamentari corsi in sostegno al governo e alle destre, guidata dall’ex ministro della difesa “Lorenzo Guerini” che ha rivendicato coerenza con la sua passata attività di ministro.

 Come dire: la pezza peggio del buco.

La sola ex segretaria generale della Cgil, “Susanna Camusso”, al Senato si è astenuta sui punti della mozione del “Pd” che prevedevano l’invio di armi.

Non contenti di ciò, esponenti della segreteria hanno assicurato che per tutto il 2024 il “decreto governativo di prolungamento degli aiuti “riceverà il voto favorevole del “Pd”.

Difficile immaginare una distanza maggiore da quel popolo della pace che si sta rimettendo in cammino.

 

Il conflitto in Medioriente si allarga.

In Medio Oriente non solo tutte le richieste di cessare il fuoco e perfino di tregua umanitaria vengono respinte con grande spregio anche per chi le avanza, ma, come era facilmente prevedibile, la guerra si estende e si allarga.

Ormai la dimensione regionale dello scontro è stata raggiunta.

 Lo Yemen e il Mar Rosso sono pienamente entrati a fare parte del teatro di guerra.

 I bombardamenti statunitensi, cui si sono aggiunti quelli inglesi si susseguono con sempre maggiore continuità ed insistenza.

Non c’è da stupirsi.

 Guerra chiama guerra.

 La stampa internazionale parla di risposta agli attacchi alle navi che transitano in quel tratto di mare da parte dei ribelli “Houthi”.

 Una foglia di fico per ridare una parvenza di dignità ad azioni di guerra mosse da ragioni economiche e geopolitiche.

Difficile infatti definire “ribelli” gli “Houthi “che ormai governano “Sana’a”, la capitale – ove decine e decine di migliaia di abitanti (le immagini sono davvero impressionanti) reagiscono ai bombardamenti manifestando contro gli Usa e Israele -, controllano il 70% del territorio yemenita e l’esercito.

Il loro legame con l’Iran è esplicito.

La guerra contro lo Yemen è quindi un’ulteriore tappa di avvicinamento ad uno scontro diretto con l’Iran, che per il momento nessuno è in grado di sopportare, ma verso il quale, bomba dopo bomba, si sta rotolando.

D’altro canto, quando entrano in gioco nell’immediato enormi interessi economici, le potenze occidentali non si risparmiano rischi per l’intero pianeta.

 La navigazione dallo” stretto di Bab el Mandeb “fino a Suez non è più solo minacciata, ma è praticamente impedita.

Questo costringe molte compagnie a scegliere la strada più lunga, la circumnavigazione dell’Africa, con un aggravio di costi considerevole.

 Lo “stretto di Bab el Mandeb” è infatti la principale porta di ingresso delle merci europee dirette verso l’Asia, e viceversa;

si stima che un terzo delle navi container di tutto il mondo passi da lì.

Il prezzo del petrolio è cominciato subito a salire o meglio a essere sottoposto a frequenti e improvvise oscillazioni.

Il Brent ha superato gli 80 dollari a barile.

Il costo di un container in partenza dalla Cina per l’Europa è di giorno in giorno in ascesa.

Le connessioni prodotte dalla globalizzazione, già strappate e messe a dura prova dalla crisi economico-finanziaria di quindici anni fa e dalla recente pandemia, subiscono una ulteriore lacerazione dalla guerra in corso.

 

E certamente non è l’attacco anglo-americano allo Yemen che può pretendere di ricucire quegli strappi nel tessuto del commercio internazionale, malgrado che l’obiettivo esplicitamente dichiarato sia quello.

Piuttosto ottengono l’effetto di una ulteriore radicalizzazione delle posizioni yemenite, i cui rappresentanti – come il “Consiglio politico dello Yemen” – hanno subito dichiarato di considerare tutti gli interessi anglo-americani come obiettivi legittimi su cui scaricare la risposta alle aggressioni subite.

La situazione allarma, e pour cause, anche l’Arabia Saudita, che però, come al solito, si limita a chiedere agli Usa moderazione.

Gli attacchi statunitensi allo Yemen sono diventati anche oggetto della lunghissima campagna elettorale che si concluderà il 5 novembre negli Usa, poiché i bombardamenti sono stati effettuati senza la minima discussione e tantomeno l’approvazione di Capitol Hill.

Non sono solo i repubblicani, per evidenti ragioni strumentali, ad accusare Biden di avere scavalcato la Costituzione, ma anche esponenti progressiste quali “ Rashida Tlaib” e “Cori Bush”, e liberal , come “Ro Khanna”, che ha scritto su “X” che “Il presidente deve presentarsi al Congresso prima di lanciare un attacco e coinvolgerci in un altro conflitto in Medio Oriente.

Questo è l’articolo I della Costituzione.

Lo difenderemo, indipendentemente dal fatto che alla Casa bianca ci sia un democratico o un repubblicano”.

 

Cosa intenda fare l’Unione europea rispetto alla situazione nel Mar Rosso non è ancora del tutto chiaro.

All’operazione Usa “Property Guardian”, che ha attaccato lo Yemen nella notte tra l’11 e il 12 gennaio, ha partecipato anche l’Olanda limitatamente ad un appoggio logistico.

Si sa che Danimarca e Grecia spingono per un intervento europeo, più prudenti restano gli altri.

 L’Italia ha due fregate nel Mar Rosso, nel quadro dell’operazione “Atalanta” contro la pirateria nel Corno d’Africa.

 Per ora “Crosetto” s’iscrive tra i prudenti, non volendo aprire un nuovo fronte di guerra “in questo momento”.

 Ma si prevedono riunioni a livello europeo che potrebbero inclinare verso una linea interventista diretta, in questo caso trascinandosi appresso anche il nostro paese.

Il confine con il Libano diventa sempre più caldo.

 La situazione sempre meno sotto controllo.

 Finora Hezbollah si è limitato ad alzare la voce contro le provocazioni tutt’altro che solo verbali degli israeliani.

 Ma è chiaro che se questi ultimi, nella loro insana bulimia bellica, insistono nelle loro azioni la situazione non potrà restare a lungo in equilibrio su questo scivoloso crinale.

Un’altra strada per cui la guerra ci porta verso l’Iran.

 

Le manifestazioni pacifiste negli Usa.

 

Intanto cresce anche negli Usa, e non solo nelle università, un movimento che chiede il cessate il fuoco e l’avvio di negoziati e percorsi che portino alla pace.

In sostanza una politica che affronti e componga le controversie internazionali escludendo in partenza il ricorso alla guerra.

 Su questa base si sviluppa una critica delle posizioni dell’amministrazione democratica americana e anche i comizi di Biden sono sempre più oggetto di una contestazione che muove da posizioni pacifiste e di sinistra.

Particolarmente significativa è stata la mobilitazione del 7 gennaio a New York, che ha bloccato tutte le strade di accesso a Manhattan per più di un’ora, grazie alla capacità di qualche centinaio di militanti di incatenarsi ai parapetti dei principali ponti, costringendo la polizia ad intervenire in forze per liberarli e naturalmente arrestarli.

 Ma la cosa più importante, oltre al fatto che sono sufficienti poche decine di persone, se determinate e ben organizzate, a bloccare una intera metropoli, è che questa, come altre iniziative analoghe, hanno visto assieme, come organizzatori e protagonisti fisici, militanti del “Movimento giovanile palestinese” e del “Jewish Voice for Peace”.

 Una efficace critica in positivo alla campagna sull’antisemitismo scatenata, come un riflesso pavloviano in uno stile di stampo neomaccartista, dalla stampa americana, con l’altrettanto sollecito e servile appoggio di buona parte della  stampa europea e italiana in particolare.

 

L’accusa è quella di antisemitismo nei confronti di chiunque si mostri anche solo compassionevole verso i palestinesi.

 Non è una novità si potrebbe dire.

Ma questa volta vi è qualcosa di nuovo, non una semplice accentuazione, che andrebbe colto e su cui varrebbe la pena di ragionare.

Da un lato imperversano  le dichiarazioni profuse a piene mani dai governanti civili e  militari di Israele secondo i quali il popolo palestinese non esiste – per cui ci si può appropriare impunemente anche dei pezzetti di terra sui quali attualmente risiede o risiedeva – e dall’altro, e conseguentemente,  viene sostenuto che  criticare e opporsi ad Israele – considerato unico soggetto dotato di identità storica in quella regione mediorientale e che ha prodotto una “legge fondamentale” che definisce Israele quale” Stato nazionale del popolo ebraico” – significherebbe semplicemente volere cancellare l’identità ebraica in quanto tale.

 La matrice etnico-religiosa viene così asservita ad uno spirito genocidiario.

L’accusa di genocidio avanzata dal Sudafrica a Israele.

 

Per questo assume un’importanza storica il passo compiuto dal Sudafrica che ha trascinato Israele davanti alla “Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja “con l’accusa di genocidio nei confronti del popolo palestinese.

Ciò che resta del diritto internazionale, strappato e violato in tutti modi in questi ultimi decenni, può rinascere, se rinasce, dagli esiti di questo di questo processo.

Non è solo in gioco la causa palestinese, ma la civiltà umana.

 Certamente un giudizio di merito del Tribunale richiederà molto tempo, forse anni.

Ora lo scontro legale si sviluppa attorno alla plausibilità del caso sollevato dal Sudafrica, cioè se si ritiene possibile che ci si trovi di fronte a un caso di genocidio, oppure no.

Da questo primo pronunciamento potrebbero derivare ingiunzioni che limitano provvisoriamente l’azione di Israele.

Autorevoli commentatori hanno avvertito di non cadere in ottimismi infondati sull’esito della contesa.

 I giudici sono 15 di nomina dei singoli paesi, fra cui i cinque membri permanenti del “Consiglio di Sicurezza dell’Onu”.

 È difficile immaginare – ha osservato giustamente “Francesco Strazzari” – Cina e Russia, accusate di atti genocidiari nello Xinjiang contro gli uiguri e in Ucraina, volere aprire il vaso di Pandora della convenzione sul genocidio.”

 Fra i rappresentanti degli altri Stati vi sono quelli della Germania, dell’Australia, dell’Uganda che sono favorevoli a Israele.

Più imprevedibile può essere la decisione di chi rappresenta l’India, la Francia, la Giamaica e il Giappone.

 Vicini alla causa palestinese sono invece i giudici nominati dal Brasile, dal Marocco, dalla Somalia e dal Libano.

 Ma non è insensato sperare che ci sia “un giudice all’Aja”.

 Perché in ogni caso le varie fasi del dibattimento possono aiutare ed essere a loro volta aiutate dalla crescita di un movimento internazionale a favore del cessate il fuoco e della pace in Medio Oriente.

 

Intanto il Sud del mondo è tornato a prendere parola.

 Lo ha fatto in una sede internazionale autorevole, per merito di un paese che, per la sua storia, ha i numeri per rappresentare tutti i popoli del Sud del mondo.

Non è un caso che esponenti del governo israeliano si siano accaniti con particolare volgarità nei confronti del governo sudafricano, considerato letteralmente uno strumento in mano ai terroristi.

 La estrema sensibilità dei protagonisti della lunga lotta antiapartheid nel Sudafrica verso la causa palestinese è nota da tempo.

 “Nelson Mandela” considerava la questione palestinese come la questione morale del XXI secolo e ribadiva che “La nostra libertà resterà incompleta senza che siano liberati anche loro”, mentre nessuno ha dimenticato i legami esistenti fra Israele e il Sudafrica bianco e razzista, diventati ancora più stretti dopo la guerra arabo-israeliana del 1973.

Fino all’ultimo Israele, anche attraverso la vendita di armi, sostenne il governo suprematista di Pretoria, mentre il resto del continente africano ne prendeva le distanze, anche imponendo sanzioni ai fini di facilitare il suo crollo.

 

Il Sudafrica ha scelto, come giudice ad hoc chiamato ad affiancare i 15 togati che compongono la” Corte Internazionale di Giustizia”, un giurista di fama internazionale, “Dikgang Moseneke”, la cui vita, fin dalla gioventù, si è incrociata con quella di “Mandela”.

Era con lui in carcere, a soli 15 anni, nel 1962 a Robben Island e condivise con Madiba un decennio di reclusione.

 Netanyahu dal canto suo ha cercato la “captatio benevolentiae” dell’opinione pubblica internazionale, facendosi rappresentare all’Aja da “Aharon Barak”, un giurista anziano di fama internazionale, sopravvissuto alla” Shoah”, che era stato uno dei più decisi oppositori alla controriforma della giustizia voluta dal governo di Tel Aviv.

 Il che dimostra due cose.

 In primo luogo quanto il leader israeliano tema il confronto dell’Aja.

 In secondo luogo che purtroppo la lotta in difesa della giustizia contro la prevaricazione del governo, che ha visto riempirsi le piazze delle città di Israele per diverse settimane, non si è legata con quella della pacificazione con il popolo palestinese, alla quale peraltro l’azione di “Hamas” del 7 ottobre non ha minimamente giovato.

 

Cessare il fuoco, condizione indispensabile per i passi successivi.

 

I due teatri di guerra, quello ucraino e quello palestinese, presentano ovviamente caratteri troppo diversi e richiedono soluzione specifiche. Ma per entrambi i casi non si può che partire dal cessare il fuoco.

Non solo perché è impensabile attivare qualunque seria e fattiva trattativa sotto il fuoco delle armi – anche se qualche avvicinamento e progetto di dialogo può essere avviato da subito – ma soprattutto perché la guerra se non viene fermata tende ad estendersi, come è chiarissimo nel caso mediorientale, o a moltiplicare la sua forza distruttrice, come potrebbe avvenire tra qualche settimana sul fronte russo-ucraino.

 L’idea che si possa intensificare gli armamenti e il loro mortifero utilizzo e nello stesso tempo mandare avanti la diplomazia – che è la giustificazione che assume il governo italiano dopo ogni invio di un nuovo pacchetto di aiuti militari – contraddice i fatti oltre che il senso comune.

 La diplomazia non marcia sui campi di battaglia.

Quindi il “cessate il fuoco” è la condizione indispensabile, come suol dirsi la “condicio sine qua non”, per avviare negoziati di pace.

Nello stesso tempo è difficile giungere a un cessate il fuoco senza che maturi l’idea del percorso successivo, per quanto non ancora avviabile.

Per il quadro russo-ucraino è possibile immaginare una soluzione nella quale ciascuno dei contendenti rinunci ad una parte dei propri progetti.

Ad esempio prevedendo la Crimea all’interno della Federazione russa e prospettando per le regioni del Donbass una condizione di autonomia, pur all’interno dell’Ucraina, con garanzie da parte di un’autorità internazionale, come l’Onu, per la salvaguardia delle minoranze di ogni tipo, linguistiche, etniche, religiose.

In questo caso l’Ucraina dovrebbe rinunciare alla richiesta di ingresso nella Nato, lasciando impregiudicata la possibilità di un ingresso nella Ue.

Sul versante mediorientale il cessate il fuoco dovrebbe escludere in partenza la possibilità per Israele di una rioccupazione della striscia di Gaza.

Esattamente quello che vorrebbe fare Netanyahu.

Al contrario, se si vuole da un lato garantire la sicurezza di Israele e dall’altro consentire il ritorno della popolazione palestinese e l’avvio della ricostruzione di Gaza, bisogna puntare a un “Mandato affidato all’Onu”, che si occupi della liberazione degli ostaggi, se ancora in stato di sequestro, consentendo ad Hamas di svolgere attività politica assieme ad altri soggetti, cessando ogni iniziativa militare.

Affidare la striscia di Gaza al governo di un esangue “Autorità nazionale palestinese “è meno che poco credibile, visto il crollo di consensi che questa ha maturato tra la popolazione.

 L’eliminazione dalla faccia della terra di” Hamas”, obiettivo perseguito dal “gabinetto di guerra” israeliano, è impossibile non solo perché odio genera odio, e quindi per ogni combattente abbattuto se ne crea un altro tra le giovanissime generazioni, ma perché “Hama”s non ha solo una dimensione militare, ma anche politica, come del resto dimostrano i consensi conquistati tra la popolazione  attraverso gli anni e la sua capacità di promuovere iniziative sul terreno sociale.

  L’amministrazione da parte dell’Onu dovrebbe promuovere una sostanziale autonomia e autoamministrazione della Striscia di Gaza.

Al contempo    vanno fermate le violenze dei coloni israeliani in Cisgiordania.

 In questa prospettiva è importante che il nostro paese, e non solo, riconosca quanto prima lo Stato di Palestina.

Quale assetto futuro per la Palestina?

Questa non sarebbe altro che una soluzione ponte verso assetti più definiti che richiedono il maturare di nuove condizioni, fra cui la possibilità che i dirigenti della resistenza palestinese si possano confrontare ed esprimere liberamente.

Solo così si potrebbe sviluppare una seria discussione se la prospettiva contenuta nella formula “due popoli due Stati” è ancora sostenibile – ma lungo il tempo ha perduto di forza e credibilità – o se invece non sia meglio puntare alla soluzione di una “Confederazione fra due Stati” o addirittura ad uno “Stato federale”, entro cui possano convivere religioni diverse e popoli che finora si sono combattuti.

 Sarebbe indispensabile, per fare solo un esempio ma di grande rilievo, che venga liberato dalle prigioni israeliane, alle quali è condannato a vita “Marwan Bargouthi”, un dirigente dell’”Organizzazione per la liberazione della Palestina” che gode di una grande credibilità presso  il suo popolo e da molti viene indicato come il “Mandela palestinese”.

Peraltro la sua liberazione sarebbe un atto di distensione e di intelligenza politica da parte delle autorità israeliane, che troverebbe un’eco favorevole nell’opinione pubblica internazionale e presso i governi del Sud del mondo e non solo.

Come è evidente che un simile percorso di pacificazione richiederebbe la fine della esiziale avventura politica di Netanyahu e dei suoi governi.

Conosco le obiezioni.

Come al solito si dirà: “vaste programme”!.

Sì, ma in questo caso il programma massimo è lo sviluppo di quello minimo, o meglio non ce ne è un altro che possa avere l’ambizione anche solo di avviare a soluzione la contesa, senza il massacro della popolazione palestinese e un nuovo esilio – non si sa dove – di quella restante nonché di evitare che la guerra già a dimensione regionale assuma le dimensioni di un nuovo conflitto mondiale, per di più con l’impiego di armi nucleari.

Ci troviamo quindi a pensare e agire nel campo delle utopie possibili e realizzabili.

Non si tratta di un semplice omaggio alla figura retorica dell’ossimoro, ormai parte integrante della cultura e della fraseologia della sinistra, dopo il famoso scritto di diversi anni fa del “subcomandante Marcos”.

 Si tratta di restituire alla politica il suo vero significato, che più che l’arte del possibile è quello del cambiamento dell’ordine delle cose presenti.

Se qualcuno vi vede un’analogia con una famosa frase di Marx, vede bene e non si tratta di un caso.

 

I sonnambuli.

Nel mezzo di questo cruento disordine mondiale, l’Unione europea ha dimostrato tutta la propria inerzia politica adagiata su un atlantismo d’antan.

Chi si aspettava qualcosa dalla discussione nel parlamento di Strasburgo su una risoluzione, per quanto in ogni caso non vincolante, che partiva apparentemente con l’intenzione di chiedere un “cessate il fuoco permanente” a Gaza, ha subito un’altra cocente delusione.

È bastato un emendamento del “Ppe”, votato dalle destre e anche da diversi “progressisti”, che chiedeva il rilascio immediato e incondizionato degli ostaggi e lo “smantellamento dell’organizzazione terroristica Hamas”, per rovesciare il senso politico dell’operazione.

 Il capogruppo del “Pd” “Brando Bonifei” ha giustamente scritto in un comunicato che “il cessate il fuoco non può essere condizionato al raggiungimento di questi obiettivi”;

“Manon Aubry”, copresidente del” Gue”, ha parlato di “mano libera lasciata a Netanyahu” e l’eurodeputato “Massimiliano Smeriglio”, eletto nelle liste del “Pd”, ha spiegato il suo voto contrario dicendo che si è scritta “una pagina nera per l’Europa”.

C’è da augurarsi almeno che a questa si contrapponga una reazione positiva da parte dell’elettorato in occasione del “rinnovo del Parlamento europeo” nel prossimo giugno.

Intanto la guerra continua e con essa l’incremento delle spese belliche – che verrebbero espunte dai lacci previsti dal “nuovo Patto di stabilità europeo” –  e così i profitti per le imprese che producono armamenti.

L’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri) stima che la spesa globale per fini militari è aumentata tra il 2022 e il 2023 per l’ottavo anno consecutivo, portandosi al livello più alto degli ultimi trent’anni, quindi dalla fine della guerra fredda:

 parliamo di 2.055 miliardi di euro, ovvero il 2,2 del Pil mondiale.

L’Italia compare in questa pessima classifica con “Leonardo” tra le prime 15 industrie militari.

Tecnologia, informatica, intelligenza artificiale trovano terreno di sviluppo e campi di applicazione sempre più ampi sul piano militare.

Emendamenti proposti dalle destre nel parlamento italiano mirano apertamente ad eliminare ogni informazione utile a capire quali istituti di credito sono operativi nel settore import/export di armi.

L’opacità e lo smantellamento di ogni regolazione diventano la regola, quando si tratta di armamenti, affossando di fatto le norme innovative contenute nella legge 185 del 1990.

Come ogni anno le ricerche del “Censis”, grazie al loro linguaggio immaginifico, oltre che per la qualità del contenuto, lasciano il segno, spesso racchiuso in una parola o in un’espressione che diventano rapidamente un “tormentone” cui nessuno, o quasi, riesce a sottrarsi.

 In questo caso il termine usato centra in pieno l’atteggiamento con cui grande parte dei decisori politici e delle popolazioni si stanno avviando verso quello che potrebbe essere un disastro senza ritorno.

 La parola in questione è “sonnambulismo”, coloro che ne sono affetti sono i “sonnambuli”.

Come è noto così si intitola la trilogia di “Hermann Broch”, scritta tra il 1931 e il 1932, anni cruciali per la storia europea del Novecento.

 Il teatro in cui si svolge la trama dei tre romanzi è quello della “Germania guglielmina”, prima nel 1888, poi nel 1903 infine nel 1918.

Per l’autore la Germania, lungo quei trent’anni e in quei tre anni in particolare, viene vista come un ambito percorso e scosso da una domanda cruciale:

che cosa è l’uomo di fronte a un mondo che si scopre in preda a un processo di disgregazione dei valori?

 

Diversi decenni dopo, lo storico australiano “Christopher Clark” si impossessa dello stesso titolo per una sua importante ricerca sulle condizioni e le cause che portarono alla Prima guerra mondiale.

Nelle pagine conclusive del suo libro Clark scrive: “… gli uomini del 1914 sono nostri contemporanei … il primo ministro britannico “Herbert Asquith “scrisse nella quarta settimana di luglio dell’approssimarsi dell’”Armageddon”, la battaglia finale.

 I generali francesi e russi parlarono di una ‘guerra di sterminio’ e della ‘estinzione della civiltà’.

Lo sapevano, ma lo percepivano veramente?”.

“Clark” vede qui la differenza tra gli anni precedenti al 1914 e quelli successivi al 1945:

 “Negli anni Cinquanta e Sessanta, gli uomini al potere e la stessa opinione pubblica coglievano in modo istintivo il significato di una guerra nucleare:

 le immagini del fungo atomico sopra Hiroshima e Nagasaki erano entrate a fare parte anche degli incubi delle persone comuni.

 Di conseguenza, il più grande riarmo della storia umana non culminò mai in una guerra nucleare fra le superpotenze”.

Ecco, possiamo noi ora nutrire lo stesso velato ottimismo che traspare da queste ultime parole?

 Il dubbio è più che lecito.

E si tratta di un dubbio carico di orrore.

(Alfonso Gianni)

 

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