Come si fa ad opporsi al “Nuovo Ordine Mondiale”?
Come
si fa ad opporsi al “Nuovo Ordine Mondiale”?
Nuovo
Ordine Mondiale:
il
Forum di Davos annuncia la censura.
Ilnuovoarengario.it - Redazione – (Gennaio 30,
2024) – ci dice:
Dal 15 al 19 gennaio 2024 si è tenuto a Davos, la
famosa località dei Grigioni in Svizzera, il 54esimo incontro annuale del “World
Economic Forum” (WEF).
Personalità del settore pubblico e privato ed
esperti della società civile si sono riunite per discutere:
erano presenti più di 50 capi di Stato e di
governo e circa 300 ministri e altri leader politici.
Il “Center
for Family and Human Rights” (C-Fam) ha seguito da vicino gli interventi e i
dibattiti di questo incontro dei leader mondiali.
Uno dei punti emersi con chiarezza è stata la
riaffermazione dell’impegno a “lottare” contro quella che viene chiamata
“disinformazione” o “misinformazione”.
Ma è
noto che dietro queste parole si cela la volontà di sradicare l’opposizione.
In
risposta a un certo scetticismo dell’opinione pubblica nei confronti
dell’agenda globalista, il WEF ha posto la sessione del 2024 sotto il segno della
“ricostruzione della fiducia”.
Nel
corso dell’evento, diversi relatori hanno ribadito che la “disinformazione”
mina la fiducia nelle istituzioni internazionali e che i leader mondiali hanno
l’obbligo di combatterla.
Questa
preoccupazione deve essere tradotta:
dietro
il termine “disinformazione”, questa lotta pone non solo ciò che potrebbe
essere propriamente designato come tale – informazioni contrarie alla realtà –
ma anche verità o opinioni fondate che criticano o rifiutano l’aborto,
l’ideologia di genere, l’eutanasia e anche il matrimonio omosessuale.
Piccola
antologia.
“Tirana
Hassan”, direttore esecutivo di “Human Rights Watch”, ha collegato l’attuale
“clima di disinformazione” all’autoritarismo.
Ha
dichiarato che “i segnali d’allarme [dell’autoritarismo] stanno apparendo… con
concetti come la protezione dei valori della famiglia o la salvaguardia delle
nostre tradizioni” e che il pubblico dovrebbe prestare loro particolare
attenzione.
“Questi
concetti sono generalmente egoistici e manipolativi: quasi sempre danneggiano
le persone e limitano i diritti umani”, ha aggiunto.
Ha
continuato dicendo che “un altro esempio è quando i diritti delle donne vengono
attaccati. (…) I governi dicono alle donne (…) se possono essere incinte oppure
no”.
Il
Rapporto sui rischi globali del WEF 2024 cita la disinformazione e le
informazioni errate come i maggiori rischi a breve termine.
Il WEF ha lanciato un’iniziativa denominata “Disinformazione
e COVID-19” – Intelligence strategica per promuovere una narrativa dominante sulla
pandemia.
“Meredith Kopit Levien”, CEO del “New
York Times”,
ha affermato che “Google ha fatto progressi reali nel modo in cui i contenuti vengono
indicizzati”,
il che
significa che è diventato efficace nel generare e promuovere la “risposta giusta” e
allontanare “informazioni indesiderate”.
Ursula
von der Leyen, presidente
della Commissione europea, ha affermato che “per la comunità imprenditoriale
globale, la principale preoccupazione per i prossimi due anni non sarà il
conflitto o il clima: sarà la disinformazione”.
Ha
aggiunto che “i valori che apprezziamo offline devono essere protetti anche online”.
Questi
valori includono l’accesso all’aborto e la legalizzazione del matrimonio tra
persone dello stesso sesso, priorità dell’Unione Europea (UE).
Vera
Jourová, vicepresidente della Commissione
europea per i valori e la trasparenza, ha affermato che l’UE “è
concentrata sul miglioramento del sistema in modo che le persone ottengano i
fatti esatti”.
Ha
affermato che l’Europa “ha tutta la tecnologia necessaria per combattere la
disinformazione”.
Leyen
e Jourová hanno
fatto riferimento al diritto dell’UE che stabilisce norme per regolamentare le
piattaforme e i servizi online.
Questa
legge include una sezione sulla “mitigazione dei rischi come la manipolazione e
la disinformazione”.
Dal 17 febbraio 2024 la legge dovrebbe essere
vincolante per gli Stati membri che dovranno istituire dei coordinatori dei
servizi digitali.
Una
sorta di “Grande Fratello”?
Kiev, Arruolamenti
Forzati…
Conoscenzealconfine.it
– (14 Aprile 2024) - Alessandro Parente -
ci dice:
I
droni Usa sono farlocchi, difettosi, e “Zelensky” deve comprare quelli cinesi.
La “Verchovna
Rada” ha sciolto l’assemblea intorno alle 2 del mattino del 12 aprile.
Dopo 14 ore in aula erano rimasti 30 deputati.
La legge per la mobilitazione è stata approvata ed
entrerà in vigore tra un mese.
Per
far sì che l’Ucraina continui la guerra c’è bisogno di almeno 500 mila soldati
e questa volta non saranno i volontari ad andare al fronte, quelli sono già
tutti lì, ora tocca a quelli che finora hanno sperato di non andarci.
Zelensky
aveva annunciato di non voler ricorrere a una mobilitazione forzata per non
perdere popolarità e in effetti la legge ha scatenato il malcontento.
Non
solo si abbassa l’età di reclutamento a 25 anni, ma si includono delle misure
che non lasciano scampo.
Per le
nuove reclute ci saranno cinque mesi, tra i 25 e i 27 anni, e tre, per tutti
gli altri, di addestramento previo alla guerra vera e propria.
Importante
avere il libretto militare in regola, i cittadini sono invitati ad aggiornarlo
entro sei mesi, anche quelli all’estero, con possibilità di farlo online.
Tale documento, utile al governo per avere un
chiaro censimento dei candidati, potrà essere controllato praticamente da
chiunque, non solo dalle forze dell’ordine, ma probabilmente anche il datore di
lavoro avrà facoltà di farlo.
Nel
caso non lo si abbia, si verifica quella che i pacifisti ucraini denunciano
come “morte civile”.
Se sei
un ucraino all’estero perdi il diritto all’assistenza consolare.
Non ti
puoi sposare, non puoi registrare un figlio, rinnovare il passaporto, la
patente o avere un qualunque documento.
Per
chi è in Ucraina invece, c’è il congelamento dei beni, il divieto di viaggiare
o di possedere un’auto.
I
giovani ucraini in questo periodo vedono la guerra con un occhio molto diverso
da due anni fa.
Se
avevano visto i loro amici partire volontari a guadagnare bei soldi, circa
3.000 dollari in prima linea e 1.000 nelle retrovie, li hanno poi visti tornare
solo se gravemente feriti o deceduti.
Sì,
perché non essendoci una legge sulla smobilitazione, altro tema sul quale
insiste l’associazione pacifista nazionale, al fronte si rimane fino a fine
guerra.
Le
voci girano, soprattutto nei villaggi, e i ragazzi hanno capito che non ne vale
più la pena, anche perché si sospetta che non ci saranno le cifre per
remunerare tutti come si deve.
Il
comandante “Zhaluzhny” l’aveva detto: non serve la mobilitazione, servono armi
e munizioni.
Attualmente i russi sono fino a dieci volte più
numerosi, ma hanno anche lo stesso rapporto in termini di munizioni e ora esce
fuori, secondo il” Wall Street Journal”, che i droni Usa non hanno dato
risultati al fronte, bisognerà prenderli dai cinesi, i sospetti amici di Putin.
Ci
sono buchi anche nel sistema difensivo, una pioggia di missili ha letteralmente
sorpreso il paese all’alba di ieri.
Dopo
Leopoli”, “Rivne”, a “Zaporizhzhia” la più grande centrale elettrica di Kiev è
stata distrutta e a “Kharkiv “otto razzi hanno colpito le infrastrutture
energetiche e obiettivi militari.
Abbiamo
guidato nel traffico impazzito di una “Kharkiv” senza semafori, per via del
black-out, fino a raggiungere una delle centrali elettriche in via di
riparazione.
“Riparare
la struttura è dispendioso e possiamo farlo solo con l’aiuto dei nostri alleati
che spero non diminuisca – dice “Oleksandr Minkovich”, il direttore della
centrale.
Siamo
stati colpiti quattro volte in due anni, la centrale è gravemente danneggiata
ma dobbiamo essere pronti prima dell’inverno” aggiunge.
Ci
sono operai al lavoro in ogni settore, stanno ricostruendo i macchinari e
potrebbero essere sorpresi in qualunque momento da un nuovo attacco.
“Abbiamo
tutti paura qui, è come essere al fronte, in qualunque momento può cadere un
missile”, confessa Max, un operaio, mentre salda un enorme tubo.
Poi
suona la sirena antiaerea e si corre al rifugio.
(Alessandro
Parente)
(ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2024/04/12/kiev-arruolamenti-forzati-e-i-droni-usa-sono-farlocchi/7510446/)
Società
Ucraina Collegata a Hunter
Biden Utilizzata per Attacchi
Terroristici
in Russia: Indagine a Mosca.
Conoscenzealconfine.it
– (15 Aprile 2024) – Redazione – ci dice:
Sono
state avviate indagini penali contro diverse società private sul finanziamento
di attività terroristiche in Russia e all’estero, ha annunciato martedì il
comitato investigativo del Paese.
Nella
lista dei sospettati figura anche il conglomerato industriale ucraino “Burisma
Holdings”, legato a uno scandalo di corruzione che si trascina da anni attorno
alla famiglia Biden.
Lo
riporta il sito governativo russo “RT”.
L’indagine
penale nasce da una denuncia presentata da un gruppo di parlamentari e
personaggi pubblici russi in seguito all’attacco mortale al “Crocus City Hall”
fuori Mosca il mese scorso.
La
denuncia originale identificava gli Stati Uniti e i loro alleati come
responsabili di una serie di attacchi sul suolo russo.
Finora,
gli investigatori hanno “stabilito che i fondi, che fluiscono attraverso
organizzazioni commerciali, incluso il conglomerato di petrolio e gas “Burisma Holdings”,
che opera in Ucraina, sono stati utilizzati negli ultimi anni per effettuare
attacchi terroristici in Russia”, ha detto la portavoce della commissione “Svetlana
Petrenko”.
Le
attività terroristiche si sono estese anche oltre i confini del Paese, mirando
“all’eliminazione di importanti figure politiche e pubbliche, oltre a causare
danni economici”, ha aggiunto.
Gli
specialisti del comitato hanno lavorato “in collaborazione con altri servizi
di intelligence e di intelligence finanziaria”, ha osservato la “Petrenko”.
L’esame attualmente ruota attorno al “controllo delle fonti di reddito e
dell’ulteriore movimento di fondi per un importo di diversi milioni di dollari
USA” e all’esame del potenziale coinvolgimento di “individui specifici tra funzionari
governativi, persone con organizzazioni civiche e commerciali dei Paesi
occidentali”,
ha dichiarato la portavoce.
“Burisma
“è probabilmente meglio conosciuta a livello internazionale per i suoi
controversi legami con l’attuale prima famiglia negli Stati Uniti.
Nella
primavera del 2014, in seguito al colpo di stato sostenuto dagli Stati Uniti a
Kiev, l’azienda energetica ucraina ha assunto “Hunter Biden” e il suo socio in
affari “Devon Archer” nel suo consiglio di amministrazione, offrendo 1 milione
di dollari all’anno di retribuzione.
Il
padre di Biden, Joe, all’epoca era vicepresidente del presidente Barack Obama e
supervisionava la politica di Washington in Ucraina.
Come
riportato da Renovatio 21, pochi anni fa si era vantato ad una conferenza del “Council
for Foreign Relations” di aver fatto licenziare il procuratore generale ucraino
“Viktor Shokin”, minacciando di trattenere a Kiev un miliardo di dollari di
aiuti.
La
cosa accadde, per coincidenza, proprio dopo che il pubblico ministero iniziò a
indagare su “Burisma”, l’azienda che aveva assunto nel board il figlio Hunter,
ritenuto da alcuni drogato, corrotto e depravato, un uomo che non aveva nessuna
esperienza conosciuta in fatto di business energetico, mondo ucraino o di
altro.
Secondo
l’ex deputato ucraino” Andrey Derkach”, la società di “Nikolay Zlochevsky” ha
anche offerto pagamenti di protezione al governo di Kiev.
“Zlochevsky”
ha pagato circa “800 milioni di grivnie [cioè oltre 21 milioni di dollari, ndr]
per il finanziamento del terrorismo in varie giurisdizioni”, ha affermato “Derkach”
a gennaio.
“I
leader dei servizi di sicurezza ucraini non nascondono il fatto che compiono
atti terroristici e omicidi politici per denaro fuori bilancio”, ha detto
allora.
“Ancora una volta: i partner di Biden nel
business della corruzione in Ucraina finanziano atti terroristici, evitando
così la responsabilità per la corruzione in Ucraina”.
“Derkach”
ha affermato che era pratica comune per i proprietari di grandi imprese in
Ucraina “donare” allo sforzo bellico in cambio dell’immunità dai procedimenti
giudiziari.
Ha
fatto riferimento a un procedimento penale contro “Zlochevskij” relativo a una
tangente di 6 milioni di dollari in contanti che si è conclusa con il pagamento
di una multa di 1.800 dollari da parte del proprietario del “Burisma”.
Come
riportato da Renovatio 21, la scorsa estate “Viktor Medvedchuk", un politico
ucraino del partito Piattaforma di Opposizione – Per la Vita, ora in esilio in Russia dopo essere
stato arrestato dal regime Zelens’kyj e scambiato con Mosca, ha accusato Kiev di essere la
“mangiatoia” per la corruzione del clan Biden.
Dietro
il conflitto in Ucraina c’è un enorme schema di corruzione, in cui gli Stati Uniti hanno
trascinato la maggior parte della politica europea (…), “non si può non ricordare il piano di
aiuti all’Ucraina sotto il presidente Obama e il vicepresidente Joe Biden, che
è stato scoperto dall’avvocato Rudolf Giuliani.
Sotto di esso, l’80% degli aiuti è rimasto
negli Stati Uniti.
Tradotto
nel linguaggio della corruzione, si tratta di una tangente dell’80% “ha
affermato il politico ucraino.
Due
anni fa si cominciò a parlare anche del coinvolgimento di Hunter Biden nella
questione dei bio-laboratori ucraini.
Nel
marzo 2022 quotidiano britannico “Daily Mail” aveva ottenuto messaggi di posta
elettronica che confermavano, almeno in parte, accuse russe secondo cui il
figlio di Joe Biden, Hunter, è coinvolto nel finanziamento di laboratori di
armi biologiche in Ucraina.
“Le
e-mail dal laptop abbandonato di Hunter mostrano che ha contribuito a garantire
milioni di dollari di finanziamenti per” Metabiota”, un appaltatore del
Dipartimento della Difesa specializzato nella ricerca sulle malattie che causano
pandemie che potrebbero essere utilizzate come armi biologiche”, scrive il “Daily Mail”.
“Ha
anche presentato “Metabiota” a una società di gas ucraina presumibilmente corrotta, “Burisma”,
per un ‘progetto scientifico’ che coinvolge laboratori ad alto livello di
biosicurezza in Ucraina.
E
sebbene “Metabiota “sia apparentemente una società di dati medici, il suo
vicepresidente ha inviato un’e-mail a” Hunter nel 2014” descrivendo come
avrebbero potuto ‘affermare l’indipendenza culturale ed economica dell’Ucraina
dalla Russia’, un obiettivo insolito per un’azienda biotecnologica”.
Come
riportato da Renovatio 21, poco dopo lo scoppio dello scandalo, Wikipedia avrebbe
rimosso la voce per” Rosemont Seneca Partners”, la società di investimento
collegata a Hunter Biden e ai suoi presunti traffici in Ucraina.
(renovatio21.com/societa-ucraina-collegata-a-hunter-biden-utilizzata-per-attacchi-terroristici-in-russia-indagine-a-mosca/).
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Le
Campagne che Non Esistono Più…
Conoscenzealconfine.it
– (15 Aprile 2024) – Redazione – Weltanschauungitalia – ci dice:
Il
mondo delle campagne, tranne rarissime sacche di sopravvivenza, in Occidente
non esiste più.
In
generale, la meccanizzazione delle colture, l’industrializzazione
dell’allevamento e la globalizzazione economica hanno distrutto la civiltà
contadina, che si reggeva su un delicato equilibrio di economia di sussistenza,
solidarietà comunitaria e un rigido sistema sociale di stampo feudale, il tutto
all’interno di una peculiare cultura che fondeva cattolicesimo e retaggio
precristiano, senso d’identità e genuino campanilismo.
In
sostanza, le campagne oggi sono delle periferie cittadine coltivate.
Il
contadino (quando non è bracciante sfruttato a giornata, altro prodotto della
globalizzazione) è un imprenditore che non differisce culturalmente da
qualsiasi altro attore del processo economico.
Il
ritorno alle campagne dei cittadini (spesso molto facoltosi) stanchi della
città, che i media continuano a riportare come fenomeni positivi di fuga dalla
vita inumana dei centri abitati, altro non sono che il tragico tentativo di
ricostruire un orizzonte che non esiste più, il revival di chi se lo può
permettere di un mondo a cui non è più possibile restituire innocenza, perché
il tipo umano e la cultura che lo sostenevano si sono estinti divorati dal
mercato.
(Weltanschauungitalia)
– (t.me/weltanschauungitaliaofficial)
La
crisi del “Nuovo Ordine Mondiale.”
Fondazionefeltrinelli.it – (30 Maggio 2023) -
Alessandro Colombo – ci dice:
Sebbene
non sia ancora possibile prevedere i suoi esiti immediati, è certo che
l’attuale guerra in Ucraina segnerà una svolta nelle relazioni internazionali
del XXI secolo.
Intanto
perché alimenterà o, meglio, accentuerà una tendenza già riconoscibile negli
ultimi anni alla rimilitarizzazione dei rapporti tra gli stati, anzi la
estenderà definitivamente anche ai rapporti tra le principali potenze.
Questo
elemento è già sufficiente a segnare uno stacco rispetto all’epoca d’oro del
dopoguerra fredda.
Per
quasi trent’anni larga parte dell’opinione pubblica, dei decisori politici e
degli stessi studiosi si era abituata a ritenere che la guerra, almeno nella
sua forma classica e nelle sue principali manifestazioni, avesse cessato di
costituire un elemento-cardine della politica internazionale e dei calcoli
degli attori, per lasciare spazio a due tipi residuali e, appunto, marginali di
conflitti armati:
le guerre civili combattute al di fuori dello
spazio centrale del sistema internazionale da fazioni a propria volta marginali
delle rispettive società;
e il
complesso delle “guerre di polizia” condotte dai paesi occidentali nelle aree
periferiche, attraverso l’uso di uno strumento militare incomparabilmente
superiore per capacità tecnologiche e organizzative ai propri nemici.
La
guerra in Ucraina ci riporta, invece, alla più tradizionale delle guerre
interstatali.
Con l’aggravante che a questa eventualità torneranno a
prepararsi anche tutti gli altri Stati, aumentando come prima cosa le
rispettive spese per la difesa.
Fianco
a fianco alla militarizzazione, è prevedibile che la guerra in Ucraina
contribuisca alla pericolosa bipolarizzazione del sistema internazionale già
implicita nella
retorica dello scontro tra democrazie ed autocrazie che aveva appena sostituito la
bipolarizzazione ancora più irrealistica della cosiddetta “guerra globale al
terrore”.
Come
quest’ultima, anche la bipolarizzazione emergente lungo l’asse democrazie/
autocrazie avrà i suoi problemi a conciliarsi con la crescente scomposizione
geopolitica del sistema internazionale in insiemi regionali sempre più
eterogenei tra loro.
Ma,
nel frattempo, la bipolarizzazione ha un impatto ambivalente sull’Europa.
Da un
lato, essa ha il vantaggio di allontanare lo spettro dell’abbandono
periodicamente agitato dalla precedente amministrazione Trump, restituendo
all’Europa il ruolo di interlocutore e partner privilegiato degli Stati Uniti.
Ma,
dall’altro lato, il “richiamo all’ordine” dell’Europa ha il triplice svantaggio
di intralciare sul nascere la flessibilità diplomatica che sembrerebbe più
consona a un contesto multipolare quale quello a cui la stessa Unione Europea
dichiara di ispirarsi;
di
intrappolarla, al contrario, in una competizione regionale con la Russia e
globale con la Cina;
di sfumare ulteriormente le velleità già
deboli di una autonomia politica e strategica dell’Unione.
A
propria volta, l’approfondimento delle fratture politiche e strategiche rischia
di disarticolare lo spazio economico internazionale, rovesciando anche un altro
dei luoghi comuni della fase di ascesa del nuovo ordine liberale seguito alla
fine della guerra fredda.
Se,
ancora fino a pochi anni fa, la convinzione prevalente era che la
globalizzazione economica si sarebbe portata dietro presto o tardi qualche
forma di globalizzazione politica e culturale, oggi scopriamo che sono le fratture
politiche a mettere a rischio la globalizzazione economica.
I
segnali in questa direzione sono inequivocabili, a maggior ragione in quanto si
sommano a quelli già prodotti dalla pandemia del Covid 19:
la
spinta (politica più ancora che economica) a “riportare a casa” attività in
precedenza delocalizzate, almeno in settori nuovamente dichiarati “sensibili”;
la
riscoperta della promessa di “confinamento” e “messa in sicurezza” dei confini
dei singoli Stati nazionali e delle stesse organizzazioni regionali (Unione
Europea compresa);
più in
generale, la rinnovata enfasi sulla necessità strategica dell’autonomia (a
cominciare da quella energetica), che vede sempre di più la globalizzazione
come un vettore di vulnerabilità invece che di mutuo arricchimento.
Ma
l’effetto più impressionante della guerra in Ucraina è quello di portare
definitivamente allo scoperto i grandi nodi irrisolti del passaggio dal XX al
XXI secolo.
Il
primo è il fallimento politico, e diplomatico e strategico del progetto di
“Nuovo Ordine Mondiale” varato all’inizio degli anni Novanta ed entrato in
crisi irreversibile dalla metà del primo decennio del nuovo secolo.
Almeno due capitoli di questo fallimento si
sono manifestati in pieno in questa crisi.
Il
primo è la mancata risposta al problema capitale di tutti i grandi dopoguerra,
quello di come trattare il nemico sconfitto:
lo
stesso problema che aveva già costituito il contrassegno di tutti i grandi
dopoguerra degli ultimi duecento anni, oltre che il primo e decisivo criterio
distintivo tra di loro.
All’indomani
delle guerre napoleoniche, la Francia era stata rapidamente riammessa nel
concerto delle grandi potenze;
dopo
la Prima guerra mondiale, la Germania era stata invece duramente punita sia sul
piano politico che su quello economico che su quello cerimoniale;
dopo
la Seconda guerra mondiale, la Germania era stata punita ancora più duramente
attraverso la sua stessa divisione territoriale, ma le due Germanie erano state
prontamente accolte nei rispettivi sistemi di alleanza.
Tra il
1990 e oggi, al contrario, alla Russia sono stati rivolti segnali ambigui, a
volte clamorosamente contraddittori.
Da un
lato, non è mancata soprattutto nel primo decennio del dopoguerra fredda la
suggestione (mai pienamente realizzata) di coinvolgerla in un’architettura
comune di sicurezza europea – proprio per evitare lo spettro già evocato allora
di una “Russia weimeriana”.
Ma,
dall’altro lato, i successivi allargamenti a Est della Nato, la guerra
unilaterale della Nato contro la Jugoslavia nel 1999 e, negli ultimi mesi, la
ripetuta allusione al possibile ingresso della stessa Ucraina nella Nato hanno
spinto sempre di più la Russia ai margini di quell’architettura.
L’altro
capitolo, strettamente (anzi forse troppo strettamente) legato al primo, è
quello di come rilanciare l’alleanza vittoriosa, nel nostro caso la “Nato”.
Dopo
il brillante adattamento del primo decennio del dopoguerra fredda, culminato nel “Concetto
strategico del 1999”, la “Nato” ha arrancato per trovare un posto
nell’architettura della guerra globale al terrore e ha condiviso con gli Stati
Uniti il clamoroso fallimento in Afghanistan.
Il
rilancio attuale dell’alleanza in funzione antirussa è il sigillo finale del
fallimento del Nuovo Ordine:
a
trent’anni dalla fine della guerra fredda, le relazioni tra Occidente e Russia
si ritrovano paradossalmente al punto di partenza.
Il
secondo nodo è la vera e propria “crisi costituente” che la società
internazionale sta attraversando per effetto del riflusso contemporaneo delle
due centralità sulle quali si era strutturata la convivenza internazionale
moderna: la centralità dello Stato e la
centralità dell’Occidente.
Nessuno
dei prìncipi fondamentali della convivenza internazionale è risparmiato da
questa transizione.
L’idea che gli stati siano gli unici o i
principali soggetti dell’ordinamento internazionale è controbilanciata e,
almeno in parte, minata dal riconoscimento di diritti inalienabili in capo ai
singoli individui.
Il
principio stesso di sovranità tende a essere eroso in una direzione e
riappropriato in un’altra, per effetto della diffusione dei principi di
ingerenza da un lato ma, dall’altro, per la pretesa avanzata da sempre più
stati di tutelare se necessario anche al di sopra delle norme restrittive della
“Carta delle Nazioni Unite” i propri interessi irrinunciabili di sicurezza.
Il
tradizionale principio dell’eguaglianza formale degli stati è contestato (e non
da attori deboli e marginali, ma dallo stesso paese più forte) in nome di un nuovo e controverso
principio di discriminazione a favore delle democrazie.
Il
ricorso alla guerra continua in linea di principio a essere vietato dalla Carta
delle Nazioni Unite;
ma,
nei fatti, l’introduzione di una serie di eccezioni non necessariamente
coerenti tra loro (l’ingerenza umanitaria, la lotta contro il terrorismo,
l’estensione della legittima difesa preventiva a casi nei quali la minaccia non
è ancora imminente) ha già eroso surrettiziamente il divieto.
Soprattutto,
è sempre più apertamente contestata dai grandi paesi non occidentali emergenti la tradizionale pretesa dei paesi
occidentali di parlare a nome dell’intera comunità internazionale, dettando la soglia di accesso alla
piena appartenenza e i criteri di normalità politica, economica e culturale
validi per tutti.
E
proprio a ciò si collega l’ultimo nodo – più paradossale ma, con ogni
probabilità, ancora più importante.
La
guerra in Ucraina rimette l’Europa al centro delle tensioni e dei calcoli
strategici dei principali attori;
ma lo
fa in un contesto nel quale è evidente a tutti – a cominciare dai protagonisti
diretti e indiretti della guerra – che il baricentro politico, economico e
strategico del sistema internazionale si sta spostando altrove.
Su
questo spostamento sarà bene che nessuno si faccia troppe illusioni.
Anzi,
se negli ultimi decenni la guerra aperta era giunta a essere considerata come
un fatto periferico, se non addirittura come il sigillo della propria
perifericità, ci sarebbe da chiedersi se la spaventosa guerra in Ucraina non sia
l’ultimo segno della detronizzazione dell’Europa da centro del mondo.
Nuovo
ordine mondiale:
tre
sfide dal Global South.
Ispilonline.it – (31 Lug. 2023) – Aldo Pigoli –
Massimiliano Frenza Maxia – ci dicono:
Il
sovvertimento dell’ordine mondiale nato a “Bretton Woods” passa per
l’allargamento delle iniziative dei “BRICS”, la “de-dollarizzazione” e il “controllo
di materie prime critiche”.
A che
punto è la ridefinizione della governance mondiale?
La
domanda se la fanno gli analisti politici di tutto il pianeta, nessuno ha una
risposta chiara e definitiva ma tutti concordano sul fatto che l’idea di una
governance mondiale regolata dal “Washington Consensus” è tramontata.
Il
colpo di grazia all’ordine di “Bretton Woods “è venuto da una molteplicità di
fattori, ultimo e forse decisivo il binomio pandemia-guerra, piaga “biblica”
che si è abbattuta sul pianeta.
Le
crisi, insegna la storia del Trecento europeo, non portano la fine del mondo.
Semmai introducono un nuovo ordine, dopo una
fase di necessario disordine.
Oggi
siamo nella fase del disordine, tema di cui abbiamo già argomentato
recentemente, un disordine che cerca una sua ricomposizione nel risolversi, in
un modo o nell’altro, della dialettica in atto tra vecchio “Washington Consensus” e
nuovo “Beijing Consensus”.
La
realtà è più complessa.
La Cina anela a “una translatio imperii” e su
tale posizione trova più o meno allineati i “Paesi BRICS”.
Tuttavia, l’obiettivo di “Xi Jinping” è che l’“Imperium
transiti da Washington a Pechino”, un’idea che non scalda i cuori né a Mosca e né a New
Delhi.
Premesso
ciò, i giochi geopolitici si compiono su tempistiche diverse, e comunque su due
piani:
uno tattico, che produce alleanze anche
innaturali e comunque a scadenza;
uno strategico, di lungo periodo, che invece
produce a tendere conflittualità e, potenzialmente, future guerre.
Oggi
siamo nella fase tattica e il “momentum” prevede, almeno ad uso delle opinioni
pubbliche e della stampa mondiale, esercizi di compattezza.
Ad
esempio, un tema che mette d’accordo tutti gli azionisti dei BRICS, è la fine
dell’ordine del dollaro.
La “NDB”
motore del nuovo ordine multipolare.
Lo
scorso maggio si è riunito il consiglio di amministrazione della “New Development Bank” (NDB), istituzione creata nel 2014 e oggi
presieduta dalla ex presidente brasiliana “Dilma Rousseff”.
La” NDB” rappresenta oggi il punto
d’osservazione più interessante per chi voglia provare a dare una lettura degli
intenti tattici dei BRICS.
La banca, infatti si configura come la
migliore punta di lancia in grado di veicolare l’unico vero punto di
convergenza fra i soci fondatori dei BRICS, ovvero l’obiettivo di creare un nuovo
ordine economico multipolare, obiettivo che fa da leitmotiv al 15° summit BRICS
di fine agosto a Johannesburg in Sud Africa.
Sui
BRICS, sul ruolo della NDB, nonché su quello giocato dalle banche cinesi
d’investimento, si è scritto e si scrive tantissimo.
Tuttavia,
la geopolitica ci insegna come, prima ancora delle parole, a parlare siano le
mappe.
Accedendo
al sito della piattaforma BRICS plus, è ampiamente visibile la mappa che disegna
la nuova governance nell’ordine multipolare.
Esiste
la nuova mappa dell’ordine multipolare.
(Fonte Brics-plus.com).
Un
tempo, all’epoca del mondo bipolare, la linea di faglia era longitudinale
sull’asse Ovest-Est.
Oggi
inizia sempre più ad assomigliare a una diagonale che rischia di tagliar fuori
il mondo occidentale da tutto il Sud-Est del mondo, con la sola esclusione del
continente oceanico e di Giappone e Corea.
Il Sud
America, l’Africa e persino il Medio Oriente, appaiono progressivamente sempre
più coinvolti nella sfera d’influenza dei BRICS.
Questa
diagonale ha due caratteristiche fortemente strategiche poiché è fatta dai
Paesi titolari della gran parte delle risorse naturali a livello mondiale, non
solo idrocarburi (si pensi al Venezuela e all’Arabia Saudita) ma anche terre
rare di cui, Africa e Sud America sono ricchi.
Inoltre,
i Paesi che la compongono sono quelli più popolosi e, si pensi all’Africa, con
una ulteriore prospettiva di forte incremento demografico.
Parola
d’ordine numero 1: il Sud conta.
La NDB
è nata nel 2014 come alternativa all’FMI e alla World Bank, istituzioni
percepite da Pechino, motore dell’iniziativa, come troppo legate agli interessi
USA.
Nove
anni dopo la NDB è cresciuta, ha ammesso fra i suoi membri Bangladesh (2021),
Emirati Arabi (2021) ed Egitto (2023) e sta sempre di più orientando la propria
proposta di valore verso il Sud del mondo, preparandosi ad accogliere nuovi
membri come Argentina, Zimbabwe, Uruguay ed Etiopia, nonché uno stato chiave
dal punto di vista economico ed energetico come l’Arabia Saudita.
Al di
là del fatto che il Brasile – gigante sudamericano e Paese in crescita – sia
uno dei soci fondatori della NDB, appare evidente come quest’ultima sia un
mezzo di penetrazione cinese in regioni che, per duecento anni hanno
rappresentato il cosiddetto “giardino di casa” degli USA.
Oggi
la NDB a guida brasiliana sembra essere, almeno negli intenti propagandistici,
il laboratorio ideale in grado di mixare l’approccio terzo mondista cinese, di
maoista memoria, con la teoria della dipendenza, elaborata in ambiti
sudamericani marxisti negli anni 60-70 e frutto della rielaborazione del
pensiero dell’argentino “Raúl Prebisch”, basato sulla cosiddetta teoria
“centro-periferia” e sul concetto di sfruttamento:
la
globalizzazione come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi ha contribuito a
rafforzare la convinzione che le filiere globali del valore, guidate in larga
misura dalle multinazionali occidentali, siano strumenti per drenare risorse e
trasferire profitti dalla periferia al centro, attraverso la supremazia del
dollaro a livello valutario e commerciale.
La
presidente della NDB Rousseff ha recentemente sottolineato come gli obiettivi
dell’NDB siano il finanziamento di investimenti infrastrutturali, con lo scopo
di aiutare i nuovi membri del club bancario a combattere la povertà, creare
posti di lavoro e promuovere uno sviluppo sostenibile dal punto di vista
ambientale.
È
chiaro l’intento di allargare ulteriormente il club a nuovi membri e come il
vertice di fine agosto dei BRICS sarà probabilmente il luogo in cui verranno
annunciati nuovi pesanti ingressi, l’Argentina in particolare.
Per
l’ingresso dell’Argentina si sta spendendo molto il presidente brasiliano “Lula”
e recentemente il ministro dell’Economia argentino, “Sergio Massa”, è stato in
visita nella sede della NDB di Shanghai, in Cina.
Oltre
all’Argentina, nelle mire di Lula c’è anche l’idea di un ingresso prospettico
del Venezuela.
Tali
mosse indicano come il Brasile veda sé stesso sempre più come il Paese
destinato a guidare il Sud America nella prospettiva multipolare che va
configurandosi.
Le
strategie di ampliamento della NDB vanno infine lette in relazione ai progetti “BRICS
Plus”, ovvero dell’allargamento progressivo a nuovi Paesi, e” BRICS Outreach”.
Obiettivo di questa seconda iniziativa è focalizzare
l’azione sul “Sud Globale” ed in particolar modo all’Africa subsahariana e
australe, anche grazie al ruolo del Sud Africa.
Parola
d’ordine numero 2: de-dollarizzazione.
Il 30
e 31 maggio scorso, la NDB ha tenuto la sua riunione annuale.
La
neopresidente Rousseff ha colto l’occasione per ribadire che il principale
obiettivo (politico) della banca è la de-dollarizzazione del sistema economico
globale.
Oggi
le economie BRICS rappresentano circa un quarto del Pil mondiale, una forza
tale da ambire, se coordinata, all’obiettivo di breve termine di offrire il 30%
del portafoglio prestiti non più in dollari ma in valute locali.
Oggi
siamo nell’intorno del 22%.
De-dollarizzare
ha due obiettivi, uno politico evidente e uno strettamente finanziario,
orientato a interrompere la dipendenza dal dollaro.
Come
messo in evidenza da alcune teorie, per esempio quelle legate al cosiddetto “paradosso di Triffin”, de-dollarizzare può aiutare i Paesi
in via di sviluppo a evitare dolorose fluttuazioni dei tassi di cambio, con
ricadute sulle riserve in valuta estera (dollari) accumulate, il rischio di
contrarre pesanti debiti esteri una generale mancanza di autonomia monetaria,
che spesso genera forti limitazioni all’autonomia politica.
In
questa fase in cui la FED sta aumentando progressivamente e assertivamente i
tassi di interesse, tale azione sta esercitando pressioni al ribasso sulle
valute di molte nazioni del Sud del mondo, rendendo più costosa l’importazione
di prodotti stranieri e il pagamento del debito denominato in dollari.
In ragione di ciò l’obiettivo della NDB è
quello di sostituire al dollaro una pluralità di valute locali da utilizzare
per regolare il commercio.
Il
ruolo delle valute digitali nella de-dollarizzazione.
La NDB
ha già emesso obbligazioni denominate nella valuta cinese, il renminbi, ed è
chiaro che la valuta cinese si candida a giocare un ruolo di primazia nel nuovo
sistema.
Tuttavia,
non è interesse degli altri Paesi BRICS che al dollaro si sostituisca il
renminbi, operazione che risulterebbe a somma zero non generando vantaggi per
il sistema, se non per il principale azionista, Pechino.
La
tendenza alla de-dollarizzazione è oramai tema di dibattito anche in Occidente.
L’economista
“Zoltan Pozsar” a gennaio ha ammesso sul “Financial Times” che il privilegio
esorbitante del dollaro (la definizione è di Valéry Giscard d’Estaing), è
oramai minacciato e, non solo dalle spinte dei BRICS attraverso la NDB, ma
anche dalla tendenza globale, anche occidentale, a lanciare le nuove valute
digitali, ovvero sistemi di circolazione del denaro che possono fare a meno del
sistema SWIFT.
Pozar
in particolare afferma come:
“L’ordine
monetario basato sul dollaro è già stato messo in discussione in diversi modi,
ma due in particolare spiccano:
la
diffusione degli sforzi di de-dollarizzazione e le valute digitali delle banche
centrali (CBDC)”.
Come
spiegato da” Pozsar”, al di là degli obiettivi “terzomondisti”, de-dollarizzare
anche e soprattutto attraverso le CBDC, significa poter aggirare le sanzioni
occidentali in chiave anti-russa che colpiscono di rimbalzo anche gli interessi
degli altri BRICS.
Infatti,
come affermato dall’economista americano di origine ungherese, “La rete emergente basata sulle CBDC –
applicata con linee di swap valutarie bilaterali – potrebbe consentire alle
banche centrali dell’Est e del Sud del mondo di fungere da intermediatori di
valuta estera […] il tutto senza fare riferimento al dollaro e bypassando il
sistema bancario occidentale”.
La
capacità dei BRICS di affermarsi, anche in prospettiva, sotto il profilo
monetario è tuttavia limitata da vari fattori, uno dei quali è legato agli
strumenti a oggi presenti che dovrebbero permettere di contrastare o, almeno,
cercare di insediare la leadership del dollaro e del cosiddetto Washington
Consensus:
oltre
alla NDB è infatti attivo il “Contingent Reserve Arrangement” (CRA), pensato
quale antagonista del FMI al fine di far fronte alle pressioni di breve termine
sulle riserve valutarie dei Paesi BRICS.
Sotto questo profilo, la Cina è l’unico Paese
ad avere una capacità finanziaria e valutaria tale da rendere questo strumento
una reale opportunità, ma ciò necessiterebbe di una volontà e capacità di
Pechino che, in questa fase, sono messe a dura prova.
Un
gruppo dipendente dalle commodities.
Data
la natura dei BRICS e il processo di attuale o potenziale allargamento di
questo “club”, emerge in maniera evidente lo stretto legame tra i Paesi che ne
fanno parte e potrebbero farne parte prossimamente, e il futuro della
transizione energetica e produttiva del pianeta.
Non
sfugge infatti che tutti i membri attuali dei BRICS siano grandi produttori e,
come nel caso di Cina e India soprattutto, anche grandi consumatori di materie
prime energetiche e minerarie.
L’ingresso
di Arabia Saudita, Algeria e Indonesia, per citare alcuni dei Paesi sotto gli
occhi dei riflettori, comporterebbe non solo un incremento numerico e, in
parte, finanziario, dei BRICS ma soprattutto un rafforzamento del potenziale di
“controllo” di asset strategici per l’evoluzione produttiva e commerciale a
livello mondiale e, nello specifico, del mondo occidentale, Europa in testa.
Sotto
questo profilo, l’ipotesi di sovvertimento della leadership mondiale connessa
con l’ampliamento dei BRICS, riguarderebbe non solo gli aspetti monetari su cui
si potrebbe basare il nuovo ordine mondiale ma le vere e proprie fondamenta
della globalizzazione così come ad oggi è a noi pervenuta, con uno
sbilanciamento significativo in termini di gestione delle “supply chains”, sia
diretto che indiretto, in molti dei settori strategici.
Lo
scenario potrebbe apparire apocalittico e condurre anche a scelte radicali da
parte di quei Paesi che, sempre di più, risentono della dipendenza dall’accesso
alle fonti e alle arterie dei sistemi produttivi internazionali.
Tuttavia
occorre ricordare, anche in questo caso, che si sta cercando di analizzare e
valutare un’ipotesi, quella di un gruppo di Paesi coeso e organizzato, i BRICS
Plus, che allo stato attuale, nonostante le dichiarazioni che presentano una
visione forte e missioni ben definite, mostra molti più segnali di frattura e
potenziale conflittualità interna al gruppo, che fattori di integrazione
strategica e operativa. (Aldo Pigoli- Massimiliano Frenza Maxia).
Il
nuovo ordine mondiale di Xi:
perché quello che è successo
a
Pechino è importante.
It.insideover.com - Federico Giuliani – (19
OTTOBRE 2023) - ci dice:
Due
guardie cinesi impettite, nel tradizionale abito color kaki, aprono le porte
dorate della “Grande Sala del Popolo” di Pechino.
Il
primo a varcare la soglia della stanza è il padrone di casa, “Xi Jinping”,
seguito, a pochi passi di distanza, dal presidente russo “Vladimir Putin”.
Dietro
di loro, seguono decine e decine di altri leader e funzionari provenienti da
svariati Paesi, pronti a prender parte al sontuoso banchetto offerto dalla
Cina.
È
iniziato così, con questo effetto altamente scenico, il “terzo Forum della Belt
and Road per la Cooperazione Internazionale”, un evento diplomatico promosso
dal governo cinese per celebrare il decimo anniversario della “Belt and Road
Initiative” (Bri), ma anche per rilanciare il progetto e adattarlo alle nuove
esigenze internazionali.
In un
certo senso, gli invitati costituiscono un macrocosmo che tratteggia, a grandi
linee, il nuovo ordine mondiale auspicato da Xi:
non
più una comunità internazionale assoggettata all’Occidente, ma un gruppo di
Stati posti sullo stesso piano e desiderosi di collaborare tra loro facendo
leva sul mutuo vantaggio.
Un
altro particolare da non sottovalutare: nella foto di gruppo, “Putin” era in
prima fila insieme al presidente cinese, ed è stato il secondo a parlare dopo
“Xi”.
Successivamente, i due hanno avuto un incontro
bilaterale di tre ore, durante il quale hanno discusso, tra gli altri dossier,
di Ucraina e Medio Oriente.
Il
messaggio di “Xi”
La”
Bri”, lanciata nel 2013 da “Xi” in persona, ha visto la Cina investire circa
trilioni di dollari in investimenti e progetti infrastrutturali in tutto il
mondo.
L’iniziativa è stata ampiamente lodata per
aver stimolato lo sviluppo in molti Paesi, ma è stata anche criticata per aver
talvolta gravato i mutuatari con montagne di debiti puntando su progetti
dispendiosi.
In
ogni caso, nel suo intervento “Putin” ha promesso sostegno al vasto progetto di
Pechino, affermando che è “in sintonia con le idee russe”, e ha elogiato “i
nostri amici cinesi” per i loro risultati.
Rivolgendosi
ad una sala piena di delegati provenienti soprattutto dal cosiddetto gruppo dei
“Paesi in via di sviluppo del Sud del mondo”, il capo del Cremlino ha inoltre
dichiarato che “Russia e Cina e la maggior parte degli stati del mondo condividono
aspirazioni” alla cooperazione e al progresso economico.
La
sensazione è che “Xi” abbia sfruttato la partnership con “Putin” – e utilizzato
il presidente russo nei panni di sponsor – per pubblicizzare la riproposizione
della “Bri”.
Agli
occhi degli Stati Uniti, Pechino e Mosca non starebbero nient’altro che
giocando di sponda nel tentativo di costruire un blocco geopolitico ad hoc per
rivaleggiare con l’Occidente, mentre il governo cinese replica sottolineando
l’inclusività dell’iniziativa.
Certo
è che sia la Cina che la Russia hanno denunciato più volte “l’egemonia globale”
degli Usa ed invocato un mondo “multipolare” con più centri di potere.
Proprio
per dare forma ad un disegno del genere, il Dragone ha pubblicato due libri
bianchi per descrivere la” Bri” come catalizzatore, nonché fondamento, di un
nuovo fantomatico ordine mondiale più “giusto e inclusivo”.
“Xi”
ha inoltre presentato un piano in otto punti per portare avanti la “Bri”, che
comprende la promozione di progetti più piccoli, lo “sviluppo verde” e la
“costruzione dell’integrità”.
I rappresentanti dei Paesi dell’Africa, del
sud est asiatico e del sud America hanno ascoltato con attenzione.
L’ordine
alternativo.
Tra i
leader invitati al forum di Pechino c’erano, tra gli altri, l’ “ungherese
Viktor Orban” (l’unico leader europeo), il presidente kazako “Kassym-Jomart
Tokayev”, “Joko Widodo” dell’Indonesia e altri personaggi provenienti da
Africa, Asia e America Latina.
Anche
i “Talebani” – seppur il loro governo in Afghanistan non sia riconosciuto –
hanno inviato una delegazione.
“Come
dice il proverbio, quando regali rose ad altri, la fragranza rimane sulla tua
mano”, ha detto “Xi”.
“In
altre parole, aiutare gli altri è anche aiutare se stessi.
Considerare lo sviluppo degli altri come una
minaccia o considerare l’interdipendenza economica come un rischio non
migliorerà la propria vita né accelererà il proprio sviluppo”, ha proseguito il
presidente cinese.
La “Bri”
è dunque uno strumento fondamentale per costruire un ordine capace di includere
il Sud del mondo.
“Xi”
considera ancora il programma attraente per le nazioni in via di sviluppo, che
dal canto loro possono utilizzare il denaro cinese e non vedono la necessità di
prendere posizione su questioni come i diritti umani e la sovranità
territoriale.
Illustrando
i nuovi passi del progetto, la Cina si è soffermata sul concetto di sviluppo di
alta qualità, di economia digitale e sviluppo verde sostenibile.
Nel
frattempo, Pechino inietterà “10 miliardi di dollari” nel “Fondo della Via
della Seta”, mentre la “China Development Bank” e la “Export-Import Bank of
China” istituiranno ciascuna uno strumento di finanziamento di circa “40
miliardi”.
Basterà tutto questo per convincere il Sud del
mondo a scegliere la strada cinese?
Brics,
sul tavolo l’allargamento del gruppo
e la “de-dollarizzazione degli scambi”.
Pechino
‘studia’ da leader di un nuovo ordine mondiale.
Ilfattoquotidiano.it
- Eleonora Bianchini – (23 AGOSTO 2023) – ci dice:
Liberarsi
dal “giogo del colonialismo “, imporsi come potenze economiche dotate di un peso tale da
costituire l’alternativa all’ordine globale voluto e capitanato dagli Stati
Uniti, per la costruzione di un mondo multipolare dove il dollaro venga
sostituito da una moneta comune per non dipendere dalla valuta di un Paese
terzo.
In
questi giorni, a Johannesburg, l’orientamento del vertice dei Brics – acronimo
di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – è quello di lanciare una sfida,
ben più definita e aggressiva rispetto alle precedenti 14 versioni del summit,
per contrastare l’Occidente e porre le basi per un nuovo ordine mondiale, con
Russia e, soprattutto, Cina alla testa dei Paesi in via di sviluppo, concordi
che il predominio di Stati Uniti ed Europa (e Nato) abbia finora arrecato più
danni che benefici.
La
leva del multipolarismo.
Per Mosca la guerra in Ucraina è il pretesto
contingente per spingere su questa direzione, e la Cina, a fronte
dell’escalation di tensioni con gli Stati Uniti sulla questione Taiwan e
dell’urgenza di trovare nuovi partner e mercati vista la crisi immobiliare e il
rallentamento della crescita, ha anche sollecitato “un rapido ampliamento” del gruppo a
nuovi Paesi, oltre agli sforzi per promuovere “una governance globale più
giusta e ragionevole”.
Sono
23 quelli che hanno manifestato interesse a entrare (tra loro ci sono paesi
come Egitto, Etiopia, Sudan, Nigeria, Tunisia, Zimbabwe, Senegal e Algeria):
in
realtà, se tutti, a parole, sono d’accordo sull’allargamento del gruppo non è
ancora chiaro sulla base di quali criteri verrebbero ammessi.
Come
non è chiaro se un annuncio sui nuovi membri verrà preso in occasione di questo
summit o rinviata ad altre riunioni.
Se
Pechino è fortemente favorevole all’allargamento dei Brics – che valgono un
quarto della ricchezza del mondo e contano il 42% della sua popolazione – in
quanto operazione destinata ad aumentare la sua leadership globale, non sono
però dello stesso avviso India e Brasile, che non vogliono trasformare
l’insieme delle economie aderenti al gruppo in antagonisti dell’Occidente.
Ma se
l’obiettivo a breve termine sponsorizzato dalla Cina è quello del
multipolarismo, per “Steve Tsang”, direttore del “China Institute della School
of Oriental and African Studies”, “Xi non sta cercando di sbaragliare l’America
nell’attuale ordine internazionale liberale dominato dagli Usa – ha detto alla “Cnn”
– il suo obiettivo a lungo termine è trasformare l’ordine mondiale in sino-centrico
“.
Il “Washington
Post” sottolinea poi che i Paesi “Non-allineati” in voga durante la Guerra
Fredda tra i “Paesi del Sud Globale”, ora non possono più esistere in quanto
tali, visto che l’impronta politica ed economica della Cina si è allargata nel
mondo in via di sviluppo.
E
secondo il “Financial Times”, che cita fonti di Pechino, l’intenzione del
Dragone è di fare pressione sugli altri Brics per diventare un blocco rivale
del G7.
Certamente
“Xi”, nel continente dopo cinque anni di assenza, è stato accolto in” Sudafrica”
con tutti gli onori ed attenderlo c’erano “strade fiancheggiate da folle
esultanti che sventolavano bandiere cinesi”, scrive il “New York Times”.
La Cina negli ultimi anni si è infatti prodigata in
monumentali investimenti nei Paesi africani – specie in infrastrutture e
settore militare – che ne hanno aumentato l’influenza e consentito di aprire
corridoi economici privilegiati, a scapito di Stati Uniti ed Europa, che nei
fatti non hanno manifestato un interesse nemmeno comparabile.
In
più, il “vertice a Johannesburg” ha forti implicazioni geopolitiche per
Pechino, visto che arriva dopo il “summit di venerdì scorso a Camp David” tra
Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone – in un formato storico definito una
“mini Nato” da Pechino – che ha sancito un rafforzamento dell’alleanza alle
porte del gigante asiatico.
Pechino
aspirante leader del nuovo ordine mondiale – Nel corso del vertice a
Johannesburg – primo partner commerciale africano della Cina, a cui Pechino ha
promesso anche la ricostruzione della rete elettrica – “Xi Jinping” ha invitato
i “Paesi Brics”, che sono “una forza importante nel plasmare il panorama
internazionale”, a scegliere “in modo indipendente il percorso di sviluppo”, a
difendere “congiuntamente il diritto allo sviluppo” e a muoversi “insieme verso
la modernizzazione, che rappresenta la direzione della società umana”,
influenzando “profondamente il processo di sviluppo del mondo”.
E ha
sottolineato che i Brics “dovrebbero essere compagni sulla strada dello
sviluppo e della rivitalizzazione e opporsi al disaccoppiamento e alla rottura
delle catene degli approvvigionamenti e alla coercizione economica “.
Un riferimento indiretto alle restrizioni
imposte negli ultimi mesi per tagliare la fornitura di tecnologia americana da
parte delle aziende cinesi, inclusi i chip.
La Cina, che cerca di diventare autonoma in
questo settore, ritiene che si tratti di misure per ostacolarne lo sviluppo e a
mantenere la supremazia Usa.
Ma non
è stato l’unico attacco agli Usa:
“Xi”
ha calcato sulla “mentalità da Guerra fredda” che “sta ancora perseguitando il
nostro mondo e la situazione geopolitica sta diventando tesa”.
Per
questo, ha aggiunto, “i paesi del Brics dovrebbero mantenere la direzione dello
sviluppo pacifico e consolidare la loro partnership strategica”.
Un
ulteriore riferimento a “Washington” è poi arrivato in un’altra sua
dichiarazione pronunciata dal “ministro cinese del Commercio” “Wang Wentao”:
“Alcuni
Paesi, ossessionati dal mantenimento della propria egemonia, hanno fatto di
tutto per paralizzare i mercati emergenti e i Paesi in via di sviluppo”.
L’obiettivo
dell’allargamento ad altri Paesi.
Il presidente cinese è quello che più di ogni altro
leader presente al vertice sostiene un “veloce allargamento” dei Brics ad altri
Paesi, con lo scopo di “espandere la cooperazione politica e di sicurezza per
sostenere la pace e la tranquillità” e “offrire i nostri buoni uffici sulle
questioni più scottanti, spingendo per una soluzione politica e abbassando la
temperatura”.
Mantenendo
ben chiaro che non è gradita alcuna interferenza, e nemmeno necessaria la
condivisione di principi comuni né liberali: “Dovremmo rispettare tutti i
percorsi di modernizzazione che ogni Paese sceglie da solo e opporci alla
rivalità ideologica, al confronto sistemico e allo scontro di civiltà”.
Secondo
“Eric Olander”, caporedattore del “sito web The China-Global South Project,”
“per Xi, l’obiettivo è cercare di screditare l’Occidente e dimostrare che
esiste un’alternativa.
Sta
cercando di attingere a questo incredibile pozzo di risentimento e frustrazione
tra molti paesi del Sud del mondo per ciò che percepiscono come questa
massiccia doppiezza e ipocrisia da parte dei paesi ricchi”, ha dichiarato al “New
York Times”, che sottolinea come la frustrazione su cui fa leva “Xi” in chiave
anti-occidentale sia stata “alimentata negli ultimi anni dalle promesse non
mantenute dei paesi sviluppati di fornire vaccini contro il Covid-19 ai paesi
più poveri e dalla sensazione che non si stia facendo abbastanza per
contrastare l’impennata dei prezzi di cibo ed energia”.
La
“de-dollarizzazione” degli scambi.
Se da Pechino arriva la proposta indiretta di
leadership per un nuovo ordine mondiale alternativo a quello occidentale, a
gettare le basi economiche per la sua costituzione è stato il “presidente
brasiliano Lula”, che ha proposto di sostituire il dollaro negli scambi per
essere indipendenti dalla valuta di un Paese terzo.
Un
fattore che secondo Putin è il passaggio cruciale verso un mondo
“multilaterale”:
per il
leader del Cremlino, inoltre, la “de-dollarizzazione” è un processo che a suo
parere sta già “prendendo piede” in modo “irreversibile “, come starebbe a
dimostrare il fatto che negli scambi commerciali tra i cinque Paesi Brics nel
corso del 2022 l’uso della moneta americana è stato pari solo al 28,7% del
totale.
Il
ministro delle Finanze russo “Anton Siluanov “ha però precisato che la
discussione riguarda la possibilità di creare una unità di conto comune
alternativa al dollaro, “in cui si può esprimere il costo della consegna delle
materie prime”, ma “non si tratta di una valuta unica come in Ue “.
Di
fatto, la “Nuova banca di sviluppo”, l’istituto finanziario dei paesi Brics
presieduto da “Dilma Roussef”, vuole già ridurre la dipendenza dalla valuta Usa
e per questo intende iniziare a concedere prestiti nella valuta sudafricana e
in quella brasiliana, anche per promuovere un sistema finanziario
internazionale più multipolare.
Li eroga invece già in yuan cinesi.
Si
tratta di un rischio reale per la moneta americana e gli scambi internazionali?
“Finché
il dollaro rimane la valuta ufficiale della riserva del pianeta – ha dichiarato
il politologo Usa “Ian Bremmer” alla “Stampa” – non credo che ci siano rischi
per il biglietto verde.
I Brics non sono preparati a creare una valuta
unica alternativa al momento, ma c’è un chiaro sforzo di limitare l’uso del
dollaro come arma.
Il grande problema dei Brics è che la
globalizzazione non è più così veloce come negli ultimi 50 anni.
Quei
meccanismi che agevolavano la maggiore integrazione dei Brics col resto del
mondo stanno diventando meno efficaci”.
A
Pechino va in scena il nuovo ordine
mondiale.
Il brutale Assad ospite di “Xi”.
Formiche.net
- Emanuele Rossi – (22-9-2023) – ci dice:
La
guerra di narrazioni siriana continua con il rais “Assad” che da Pechino sposa
i piani globali di “Xi Jinping”.
“Damasco”
è parte del nuovo ordinamento globale che la Cina propone come modello
alternativo a quello occidentale.
Il
leader cinese “Xi Jinping” e il rais siriano “Bashar El Assad” hanno dichiarato
una “partnership strategica” durante la visita del satrapo di Damasco a
Pechino.
Tra i
due Paesi si apre da oggi una fase di maggiore cooperazione che potenzialmente
vedrà la Cina prendere una posizione di vantaggio nella ricostruzione della
Siria — un Paese devastato dalla guerra con cui Assad ha schiacciato il suo
stesso popolo e retto al tentativo di rivoluzione dei gruppi ribelli.
L’annuncio
è stato fatto durante la visita di “Assad”, la prima dal 2004 e il primo
incontro diretto con “Xi”, avvenuta in concomitanza con la cerimonia di
apertura dei “Giochi Asiatici “a cui la Siria partecipa.
Quello
offerto da Pechino è un tappeto rosso nella riqualificazione siriana, e
soprattutto assadista:
il
capo di Stato di Damasco ha già riaperto il dialogo con le nazioni regionali —
molte delle quali avevano sostenuto i ribelli anche militarmente — e la” Lega
Araba” gli ha già teso la mano, dopo averlo escluso per un decennio.
Ma la
visita in Cina è ancora più importante per il valore del Paese sul palcoscenico
globale.
Le
relazioni storiche tra Siria e Cina sono state segnate dalla cooperazione e dal
sostegno diplomatico, con una storia che risale a diversi decenni fa.
Questi
legami si sono consolidati durante l’epoca della Guerra Fredda, quando entrambe
le nazioni hanno trovato un terreno comune nel sostenere principi come la non
interferenza negli affari interni degli Stati sovrani.
Anche
seguendo questa linea, la Cina ha sempre sostenuto la Siria nei forum
internazionali, comprese le Nazioni Unite, fornendo spesso una copertura
diplomatica quando Damasco ha dovuto affrontare l’isolamento dalle nazioni
occidentali a causa della brutale repressione delle opposizioni — a cui Assad
ha tenuto fronte grazie al supporto di Iran e Russia.
Nel
corso degli ultimi anni, la relazione con la Cina è migliorata: la guerra
civile in Siria è sostanzialmente finita, il regime ha vinto anche se ci sono
isolati hotspot controllati dai ribelli (aiutati dalla Turchia) e la fascia
settentrionale in mano ai curdi.
Il
Paese è pronto ad avviare la ricostruzione.
E
Pechino vuole un ruolo per le proprie aziende anche pensando alla possibilità
di incunearsi e aprire un avamposto affacciato nel Mediterraneo.
Un lavoro complicato dove la Cina dovrà
trovare spazi tra Iran e Russia. Pechino vi dedica attenzione non prioritaria,
ma non vuole non esserci.
Ora,
con la dichiarazione di “partnership strategica nel XXI secolo”, queste
relazioni storiche entrano in una nuova fase, evidenziando l’impegno della Cina
a svolgere un ruolo significativo nella ricostruzione postbellica della Siria e
soprattutto nella più ampia regione del Mediterraneo allargato.
Per Damasco, la sponda cinese è molto più
utile ed efficace di quella russa e iraniana: la Cina, pur con problemi
economici, è una potenza globale.
Messaggi
simbolici, significato strategico.
L’incontro
è stato all’insegna del simbolismo, con ciascun leader affiancato da nove
assistenti a un grande tavolo rettangolare di legno, incorniciato dalle
bandiere di entrambi i Paesi e da un dipinto cinese sullo sfondo.
Xi ha
sottolineato la solidità delle relazioni Cina-Siria, affermando: “La Cina sostiene la Siria
nell’opporsi alle interferenze straniere, nel contrastare le prepotenze
unilaterali, nel salvaguardare l’indipendenza nazionale, la sovranità e
l’integrità territoriale”.
Assad,
in risposta, ha espresso gratitudine per il sostegno della Cina durante le
sfide affrontate dalla Siria e ha espresso ottimismo per il futuro:
“Questa
visita è estremamente importante per il momento e le circostanze, perché oggi
si sta formando un mondo multipolare che ripristinerà l’equilibrio e la
stabilità nel mondo”.
Il
significato di tutto questo è altamente simbolico.
La Siria partecipa al piano cinese di ricostruzione
dell’ordine mondiale, quello lanciato con le iniziative globali di Xi — per la
sicurezza, lo sviluppo e la civilizzazione.
La Cina vuole dimostrare che nel modello che
offre c’è spazio per tutti, anche per i dittatori che hanno insanguinato il
loro Paese per anni (sono circa cinquecentomila i morti della guerra civile
siriana, molti di questi ribelli e civili delle zone conquistate dai ribelli).
Per
Pechino, il peso etico e morale è relativo e del tutto trascurabile se non
intacca l’interesse cinese.
Il messaggio che esce è che chiunque può
essere riqualificato dal pragmatismo con cui la Cina affronta le relazioni
internazionali.
È un
evidente richiamo a tutta una serie di Paesi che possono esprimere potenzialità
ma con cui l’Occidente — che sta invece innalzando i temi dei diritti
democratici come prioritari — ha interrotto i contatti.
I golpisti nel Sahel e altri autoritarismi
africani, l’Iran, il Venezuela, la giunta birmana, la Russia, sono alcuni
esempi.
Da
questo punto di vista la visita di Assad vale molto di più dei dialoghi
bilaterali e delle attività cinesi nella regione.
La Siria diventa ancora un terreno di test di
dinamiche ampie, come nel caso della diffusione anti-occidentale che ha da
sempre circondato il conflitto e da cui hanno preso vento azioni di “infowar”
guidate innanzitutto dalla Russia e dall’Iran, e in parte minore dalla Cina.
L’ecosistema
del conflitto siriano ha prodotto e diffuso alcune delle più importanti “operazioni
di disinformazione” recente, rendendo il termine “fake news” mainstream.
La guerra civile a Damasco è stata da sempre
una guerra di narrazioni: ora con il passaggio di Assad a Pechino continua a
mostrare le sue caratteristiche.
Difendi
la tua casa: no
alla
follia EU sulle “Case Green”
Korazym.org - Blog dell’Editore – (30.04.2023)
– Antonio Brandi – ci dice:
Condividi.
È proprio in questi giorni che gli organi
dell’Unione Europea stanno portando a termine le procedure per approvare la “Direttiva sulle Case Green”, che ci costringerà a spese folli
per rendere le nostre case “più ecologiche” secondo gli assurdi criteri fissati
dai seguaci del fanatismo ambientalista.
Ci
vogliono portare sul lastrico per inseguire un’ideologia fanatica e
antiscientifica: la cosiddetta “transizione ecologica” (Green Deal).
Allucinata
da questa vera e propria religione ambientalista, l’Unione Europea vuole
approvare la “Direttiva sulle Case Green” per l’efficientamento energetico del patrimonio
immobiliare.
Sai
che significa?
Significa
che saremo tutti obbligati per legge a spendere decine di migliaia di euro per
ristrutturare i nostri condomini e le nostre case e renderle “più ecologiche”
secondo parametri ambientalisti assurdi e ideologici fissati dall’Unione
Europea.
Ristrutturazioni costosissime che avranno un
impatto ambientale assolutamente insignificante su scala mondiale, ma che
intanto avranno impoverito e indebitato ancor più decine di milioni di Italiani
tra ceto medio, pensionati e famiglie meno abbienti.
Devi
difendere la tua casa dai fanatici ambientalisti dell’Unione Europea: firma
adesso una petizione per chiedere al Governo italiano di respingere la
“Direttiva sulle Case Green” che costringerà le famiglie italiane a indebitarsi
e impoverirsi per compiacere l’ideologia ambientalista dell’Unione Europea.
Le famiglie sono già gravate da una situazione
economica e sociale deprimente, segnata dall’inflazione e dall’aumento dei
costi dell’energia nei mesi scorsi: non possiamo tollerare altre spese folli
per compiacere gli ideologi del fanatismo ambientalista che governano l’Unione
Europea e sono pronti a mandare sul lastrico milioni di famiglie pur di
raggiungere i loro fantomatici “obiettivi” ecologici!
Quando
l’impatto dell’Unione Europea – e in particolare delle case private dei
cittadini – sull’ecosistema globale è minimo e ridicolo rispetto a quello di
mercati come l’India, la Cina o gli USA.
La
“Direttiva sulle Case Green” obbligherà gli Italiani (come tutti i cittadini
europei) a ristrutturare le loro case per raggiungere la classe energetica “E”
entro il 2030, e la classe “D” entro il 2033.
Per capire quanto costerà questo programma
ideologico basta considerare che oggi più del 60% degli immobili residenziali
in Italia non è nemmeno nella classe energetica “F”.
La
“Direttiva sulle Case Green”, inoltre, comporterà l’immediata perdita di valore
economico delle case degli Italiani, perché diventerebbero case “fuorilegge” e
un compratore dovrebbe accollarsi il costo delle ristrutturazioni obbligatorie,
abbassando così il prezzo di vendita e il guadagno per chi vende.
E per
ottenere che cosa?
Una
riduzione dell’impatto ambientale delle case di uno “zero virgola” su scala
mondiale.
Questo
è ridicolo, masochista e inaccettabile.
Unisciti
adesso ad altre migliaia di cittadini:
firma
la petizione per chiedere al Governo italiano di respingere la Direttiva sulle
“Case Green” in sede Unione Europea ed evitare un salasso mostruoso privo di
alcun serio beneficio ambientale.
Questa
causa riguarda profondamente la missione di Pro Vita & Famiglia, perché l’attacco alla casa (e in generale
alla proprietà privata) dei cittadini da parte dell’intolleranza ambientalista
indebolisce l’autonomia economica e quindi la libertà delle famiglie, che
dovranno ancor più indebitarsi e dipendere da sussidi statali e istituti
finanziari.
La
“Direttiva sulle Case Green” che l’Unione Europea vuole approvare porterà
esattamente a questo:
milioni
di famiglie dovranno aprire mutui o spendere i risparmi di una vita per
ristrutturare le loro case e renderle “conformi” agli standard ambientalisti ideologici
fissati dai (falsi) profeti della “transizione ecologica”.
Insieme
possiamo e dobbiamo far sentire la nostra voce: aiutaci oggi firma la petizione
che chiede al Governo italiano e agli Eurodeputati di fare tutto il possibile
per evitare questo vero e proprio “sacrificio umano” per rendere culto al dio
“ambientalismo”.
Statisticamente,
questa Direttiva dell’Unione Europea impoverirà anche te o qualcuno della tua
famiglia:
è nel
tuo interesse sostenere questa causa e firmare la petizione, è l’unico modo
concreto che hai per far sentire la tua protesta e difendere la tua proprietà.
(Antonio
Brandi. Presidente Pro Vita & Famiglia Onlus).
Aborto.
L’Europa senza
radici,
chiede sangue.
Korazym.org-Blog
dell’Editore – (12.04.2024) – Miguel Cuartero – ci dice:
Parlamento
Europeo vota pro aborto.
Non si
può condividere.
Dopo la mossa (suicida) di Macron ora è
l’Europa a chiedere «che l’articolo 3 della Carta dei Diritti Fondamentali
dell’Unione Europea sia modificato, affermando che “ognuno ha il diritto
all’autonomia decisionale sul proprio corpo”».
Una
decisione che lascia sgomenti.
A
chiederlo è la civilissima Europa, baluardo dei valori occidentali, esempio di
“primo mondo”, evoluto, saggio, maturo.
A
chiederlo è un continente che ha subito per due volte in un secolo
(recentissimo) due conflitti mondiali e che oggi stesso assiste (e alimenta)
altri due guerre nel proprio territorio.
Da
parte dei Cattolici questa notizia merita senz’altro attenzione e riflessione.
Una
società che dimentica la sacralità della vita e che toglie dignità alla vita
nascente, a esseri umani indesiderati, non è un luogo sicuro dove vivere e far
crescere la propria famiglia.
Al di
là delle stupidaggini e delle battute idiote sentite e risentite in questi
anni, per cui la Chiesa sarebbe un posto pericoloso per i bambini, c’è da
osservare, con amarezza, che la Chiesa è al momento l’unico luogo sicuro, in
cui la vita è difesa dal “momento del suo concepimento fino alla sua morte
naturale”.
Lo ha
ribadito in questi giorni con la “Dichiarazione Dignitas infinita” che, al di
là delle critiche ricevute per una impostazione teorica debole, ribadisce con
parole durissime che l’aborto è un delitto che “grida vendetta al cospetto di
Dio”.
Di
fronte a una così grave situazione, occorre più che mai il coraggio di guardare
in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a
compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno.
A tale proposito risuona categorico il rimprovero del
Profeta:
“Guai a coloro che chiamano bene il male e
male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre” (Is 5, 20).
Anche
Francesco ha parlato diverse volte contro l’aborto con termini molto duri,
troppo duri secondo alcuni osservatori («è come assoldare un sicario»).
Ma è necessario chiedersi se la Chiesa ha fatto
abbastanza per impedire una deriva che oggi definisce pericolosissima.
Per
dieci anni la Chiesa ha predicato l’amicizia sociale, la fraternità universale,
il pacifismo globale e l’ecologia integrale.
Per
tutta risposta l’Europa fa il gesto dell’ombrello e chiede più aborto. Qualcosa
è andato storto ed è urgente raddrizzarlo.
Va
infatti osservato che in questi anni si è combattuto, anche all’interno della
Chiesa stessa, contro concetti cardine come i “principi non negoziabili” e le “radici
cristiane dell’Europa”.
Quelli che erano principi e punti fermi e
irremovibili, che Benedetto XVI ha più volte ribadito e sottolineato e, sono
oggi considerati secondari, residui di una battaglia culturale, non persa, ma
inutile e dannosa.
Eloquente
che proprio in questi giorni sia uscito un libro intitolato Il mito delle
radici cristiane dell’Europa (Einaudi).
L’autore
(Sante Lesti) considera le radici cristiane dell’Europa «un mito
storico-identitario», caro a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI e a chi
«pretende di dirci non soltanto da dove veniamo, ma anche chi siamo e,
soprattutto, non possiamo non essere».
Il
Corriere, entusiasta, gli dedica due pagine e inserisce nel titolo papa
Francesco (il picconatore).
«Il
tramonto di un mito.
La visione di papa Francesco sulle “radici
cristiane”» titola con orgoglio Paolo Mieli.
Intervistato
da “Il Manifesto”, l’autore ha affermato qualcosa che suona allarmante:
«È in
corso un ripensamento. Senza dubbio, sono cambiate le priorità e la battaglia
per i principi non negoziabili non è più la stella polare. Trovano invece molto
più spazio nei discorsi del papa sull’Europa l’accoglienza dei migranti, la
solidarietà sociale e la difesa dell’ambiente».
Allarmante
per due motivi:
il
primo è perché così oggi viene percepita la Chiesa e l’attuale pontificato, in
senso di rottura con un passato identitario e intollerante e in un nuovo
atteggiamento di apertura e di ascolto, se non di accettazione, delle istanze,
delle scelte, delle priorità e delle mode della società contemporanea.
Secondo
motivo per cui queste parole sono allarmanti è perché non sono lontane dalla
verità.
Nella
Chiesa “sono cambiate le proprietà”.
Lo
dimostrano le dichiarazioni dei vescovi, le (non) prese di posizioni della
Santa Sede, ma anche i silenzi e il “laisser faire” con cui si vuole dimostrare
un volto più umano, più amabile e x-friendly.
Lo
dimostra la revisione voluta alla bozza di “Dignitas” infinita che ha
ripristinato l’ordine e la varietà delle priorità (cfr. DI, Presentazione.)
Tornano
oggi di estrema attualità le parole di Sant’Agostino citate da Benedetto XVI al
Parlamento Federale tedesco nel 2011:
«Togli
il diritto e allora che cosa distingue lo stato da una grossa banda di
briganti?» (De
Civitate Dei).
Scriveva
Ratzinger nel lontano 1987: «Il riconoscimento della sacralità della vita umana e della
sua inviolabilità senza eccezioni non è dunque un piccolo problema o una
questione che possa essere considerata relativa, in ordine al pluralismo delle
opinioni presente nella società moderna».
La
rivendicazione di tanti diritti a detrimento della vita di un essere umano
innocente rende «ciechi di fronte al diritto alla vita di un altro», perciò
«ogni legalizzazione dell’aborto implica perciò l’idea che è la forza che fonda
il diritto».
Così
«vengono minate le basi stesse di un’autentica democrazia fondata sull’ordine
della giustizia».
In realtà, prosegue Ratzinger,
«la morale vive sempre in scritta in un più ampio
orizzonte religioso (…) fuori da questo ambito essa diventa asfittica e
formale, si indebolisce e muore».
“Per
questo un’Europa che ha rinnegato le radici cristiane è un’Europa senza radici
e senza futuro”.
(Questo
articolo è stato pubblicato dall’autore sul suo blog “Testa del Serpente”.)
Europa
2024, guai stare nel mezzo.
Cespiti.it
- Marco Bentivogli - co-fondatore di BASE ITALIA – (10-1-2024) – ci dice:
Verso
una nuova fase dell'Unione europea.
Ci
avviciniamo rapidamente al rinnovo del Parlamento Europeo.
Nel
2019 la divisione marcata tra forze apertamente nazional populiste e
anti-europeiste che spingevano per l’uscita dall’Euro e forze dichiaratamente
europeiste è stata, paradossalmente, una chiave positiva per dare vivacità,
partecipazione e slancio al dibattito sull’Europa.
Lo
scenario è cambiato.
Lo
scontro commerciale e politico tra Usa e Cina, l’invasione russa dell’Ucraina,
il determinarsi di nuovi equilibri orientati a un disordine multipolare
piuttosto che a un ordine multilaterale, richiedono un ruolo sempre più forte
dell’Unione europea.
Eppure
l’Europa è più divisa oggi che nel 2019.
Il
fronte sovranista si è ridefinito e riarticolato e ora, per la prossima
Commissione, si profila un accordo tra conservatori e popolari.
Troppe
le incertezze e le timidezze che hanno indebolito il fronte anti-sovranista a
cominciare dall’Italia dove a fronte di legami strutturali sempre più stretti
con i partners europei – i paesi dell’Unione continuano a rimanere di gran
lunga lo sbocco principale per le imprese italiane – le ultime elezioni hanno
consegnato per la prima volta il Paese alla guida di forze dichiaratamente
euroscettiche e orgogliosamente sovraniste.
Peraltro
occorre riconoscere come il burocratismo, l’inefficacia decisionale, la scarsa
legittimazione popolare, eterogeneità delle condizioni nelle diverse regioni
restano il terreno su cui i sovranisti giocano la partita contro le istituzioni
di Bruxelles.
In
realtà, gran parte di questi fallimenti sono dovuti al ruolo preminente degli
Stati nazionali e ad una scarsa cessione di sovranità alle istituzioni
comunitarie:
questo
processo si è realizzato solo in ambito di politica monetaria con la nascita
della BCE, mentre le politiche fiscali e industriali, rimaste in mano ai
governi nazionali, sono scarsamente efficaci senza capacità di investimento
sovranazionale.
È come non far arrivare l’acqua all’orto e
arrabbiarsi se le piante si seccano.
(Oppure
i comandanti in capo della UE fanno strage di becchime per i polli, in gran
segreto! N.D.R.)
Alle
elezioni europee del 2024 il progetto europeo arriva quindi ammaccato.
Ma
l’Europa unita è e resta la soluzione, non il problema, serve un’inversione di
rotta.
Oggi
parlare di “ever closer Union” ovvero di Unione sempre più coesa, senza che le
persone abbiano chiare le ricadute pratiche sulla loro vita, serve solo a dare
ulteriore carburante ai populisti-sovranisti che stanno agitando il clima
pre-elettorale in vista delle prossime elezioni europee del 2024.
Anche
di fronte a quanto sta avvenendo tra Russia e Ucraina occorre riconoscere che l’argomento dell’Unione europea come
spazio privo di conflitti e costruttore di pace, ha molta presa sulle generazioni
che hanno vissuto le guerre mondiali e il loro portato di morte e distruzione
ma per le nuove generazioni che hanno sempre vissuto nella pace e conoscono la
guerra dalle tv “all-news” l’argomento non è altrettanto forte.
Per
questo non si può stare nel mezzo, bisogna impugnare la causa dell’unità
europea e motivare le proprie convinzioni tra le persone.
Completare
il disegno europeo significa ridurre le disuguaglianze tra le regioni,
integrare i sistemi formativi, assumere il pieno controllo delle politiche
economiche e fiscali, avere un sistema di difesa comune, eleggere direttamente
il Presidente degli Stati Uniti d’Europa.
Tutto
questo va compiuto avendo consapevolezza di quanto sia cambiata la società
europea – si pensi alle nuove tendenze demografiche – e quindi quanto e come
debba essere riformato il mondo della produzione.
Ripensare
i lavori fuori dai paradigmi e dalle convenzioni giuridiche del ‘900 può
liberare energie impensabili così come ridefinire il welfare per ritrovare il
consenso e l’adesione delle grandi masse al progetto comune.
Finora
l’Unione non si è mai direttamente occupata di questo ma proprio l’orizzonte di
un welfare comune potrebbe essere quella nuova frontiera capace di dare nuova
linfa e spinta propulsiva al sogno europeo.
Brexit,
a Ovest, Erdogan a Est sono due esempi che dimostrano quanto il sovranismo
nella pratica sia nocivo e contrario agli interessi dei lavoratori.
Siamo
alle porte del secondo balzo in avanti dell’umanità in termini scientifico
tecnologici.
La ricerca sta già offrendo e offrirà sempre di più
una capacità di abitare in modo più intelligente il pianeta per chi saprà
cogliere la sfida su campo aperto.
Progettare
lavori, opere, ecosistemi a #umanità aumentata rilancia un’impresa e la rende
non solo più forte ma il luogo di costruzione condivisa del futuro.
Il
nostro continente può essere lo spazio di realizzazione di queste nuove
architetture sociali, economiche, industriali. L’Unione europea può diventare la
piattaforma di impulso di un mondo aperto libero, sostenibile e solidale, le
alternative a questi valori sono dall’altra parte.
Bisogna scegliere.
Se di
sovranità bisogna parlare, allora parliamo di quella industriale e tecnologica.
Dobbiamo
riconquistare una sovranità europea autonoma ma non equidistante, tra Cina e
Stati Uniti.
Intelligenza Artificiale, reti cloud,
robotica, ricerca di base e applicata, etc. meritano una capacità europea che
non si fermi a costruire buoni regolamenti (vedi Gdpr) ma a elaborare nuovi
standard (come avvenne per il Gsmnelle tlc), come dovrebbe avvenire per le reti
cloud (con Gaia X).
Su
questo, si può ricostruire una leadership globale, centrale e di orientamento
degli stessi G2, Stati Uniti e Cina, capace di aggregare campioni europei in
tutti i settori.
Altrimenti,
senza la capacità di revisione dei trattati (a partire dalla concorrenza), e
quella di revisione del patto di stabilità, molti Governi che hanno promesso
cose irrealizzabili, alla vigilia delle elezioni europee, tra un anno
torneranno a dare la colpa all’Europa, quando invece la mancanza di risultati è
figlia proprio dell’incoerenza e inaffidabilità delle leadership sovraniste
innanzitutto nei confronti dei loro elettori, quindi del proprio Paese e infine
dell’Europa stessa.
Per questo non deve essere lasciato solo alle
istituzioni e ai gruppi parlamentari il rilancio del sogno europeo ma deve
essere portato al centro del discorso pubblico e della società civile europea.
Ma
servono gruppi dirigenti, élite in ogni ambito con queste visioni e capacità.
(Elite
possibilmente non corrotte! N.D.R.)
Storicamente hanno portato avanti il progetto europeo,
leadership centrali agli schieramenti politici, come Adenauer, Schuman, De
Gasperi, poi Kohl e Prodi.
Tutti
e 5 cattolici, i primi tre, uomini di frontiera, perseguitati dalle dittature
nazifasciste.
Chi ha
a cuore il destino dell’Unione non può prescindere da questa eredità, da queste
biografie.
Per la
sinistra e tutti gli europeisti c’è un bivio, non irrilevante, inseguire i
populisti (come fece Corbyn) nei loro progetti più miopi o abbandonare, tutta
la retorica dell’“Europa si, ma” e dare tutte le proprie energie migliori al
completamento del sogno europeo.
Non vi
sono solo ragioni “ideali” per seguire con determinazione la seconda strada:
tornare
a lavorare seriamente per il sogno europeo è conveniente ed urgente.
In
questa fase, le sfumature, gli atteggiamenti rinunciatari sono più pericolosi
della demagogia.
L’Europa
in stallo e la
mancanza
di un governo
ilsole24ore.com
– Sergio Fabbrini – (15 – 1 - 2024) – ci dice:
A
volte è un piccolo fatto che mette in luce l’esistenza di un grande problema.
Il
piccolo fatto è il seguente.
Il presidente del Consiglio europeo, il belga
Charles Michel, ha da poco comunicato che si presenterà alle elezioni per il
Parlamento europeo del prossimo giugno 2024, anticipando così la fine del suo
mandato (novembre 2024).
Il
grande problema è che l’Unione europea (Ue) non dispone di un potere esecutivo
unitario, efficace e responsabile.
Tra il
fatto e il problema c’è un legame.
Se
avrete pazienza, spiegherò perché.
Cominciamo
da “Michel”.
Il
presidente del Consiglio europeo è eletto dai 27 capi di Governo nazionali, che
costituiscono quest’ultimo, per 2,5 anni rinnovabili per altri 2,5 anni, ogni 5
anni dopo le elezioni per il Parlamento europeo. Non potendo essere
riconfermato, Michel ha deciso di presentarsi alle elezioni di quest’ultimo che
si terranno nel giugno 2024.
Con
“Michel” che lascia la presidenza del Consiglio europeo e con la presidenza
della Commissione europea che verrà assegnata attraverso le negoziazioni
successive alle elezioni del prossimo giugno 2024, la presidenza dell’Ue verrà
esercitata dal capo di governo del Paese che, a rotazione semestrale, ha la
presidenza del Consiglio dei ministri nazionali, il premier belga Alexander De
Croo (prima delle elezioni) e quindi il premier ungherese Viktor Orbán (dopo le
elezioni).
Così, durante la transizione post-elettorale, l’Ue
verrà presieduta dal suo più acerrimo rivale che potrà decidere l’agenda dei
problemi e le condizioni per affrontarli.
È come
dare le chiavi della propria casa al ladro che vuole svaligiarla. Come è stato
possibile?
È stato possibile perché l’Ue è stata fatta a pezzi e
bocconi, secondo un approccio funzionalista preoccupato di risolvere un
problema ma mai di valutare le conseguenze sistemiche della soluzione
individuata.
La
presidenza semestrale dell’Ue è un esempio di questo modo di procedere.
Sin
dall’inizio, fu introdotta per coordinare le attività di ministri e capi di
Governo nazionali con lo scopo di far sentire ogni Stato membro partecipe della
nuova “costruzione comunitaria”.
In
contemporanea, a partire dal 1974, i capi di Governo nazionali cominciarono a
vedersi informalmente per affrontare le questioni più divisive, così da
sciogliere i nodi che potevano ostacolare il processo decisionale comunitario.
Le
cose, però, cambiarono con l’affermazione elettorale di leader nazionali
euroscettici e, quindi, con gli allargamenti che si sono succeduti dal 1973 e
che hanno accentuato l’eterogeneità delle leadership nazionali.
Molti nuovi Stati membri non disponevano delle
capacità organizzative per coordinare il lavoro degli Stati membri, in molti
casi non disponevano neppure della cultura amministrativa necessaria per
rendere possibile quel coordinamento.
Per di più, il passaggio da una presidenza
semestrale all’altra aveva introdotto inevitabili discontinuità nell’azione
dell’Ue, avendo ogni Paese una sua agenda o un suo interesse da promuovere.
Nondimeno,
la presidenza semestrale è rimasta nei trattati, con l’argomento che essa
avrebbe favorito la socializzazione dei nuovi membri alle pratiche europee,
senza mai pensare che sarebbe potuto avvenire il contrario.
A Bruxelles, non si toglie ma si aggiunge.
Infatti,
il Trattato di Lisbona (entrato in vigore il 1° dicembre 2009) avviò la pratica
della “presidenza trio” del Consiglio dei ministri (costituita dal Paese in
carica, da quello che lo ha preceduto e da quello che seguirà), così da dare
una coerenza di almeno 18 mesi all’agenda europea.
E formalizzò il Consiglio europeo (dei capi di Governi
nazionali), separandolo dal Consiglio dei ministri (coordinato dalla presidenza
semestrale), dotandolo di un presidente quasi permanente, così da trasformarlo
in un esecutivo collegiale dell’Ue, soprattutto per quanto riguarda la gestione
delle politiche che sono di competenza dei Governi nazionali da deliberare
all’unanimità.
Nel
frattempo, la Commissione europea, con la sua presidenza collegata alle
elezioni quinquennali del Parlamento europeo, ha continuato ad agire come
l’esecutivo comunitario per le politiche del Mercato unico.
Siamo
così giunti al problema. Chi “governa” l’Ue?
Ci
sono tre presidenti (del Consiglio europeo, della Commissione europea, del
Consiglio dei ministri), di cui non sono chiare le gerarchie né la rispettiva
legittimità a parlare a nome dell’Ue.
Viktor
Orbán può parlare a nome della maggioranza dei 9,71 milioni di ungheresi, non
già dei 447 milioni di persone che hanno il passaporto dell’Ue.
Ma anche la rappresentanza dell’Ue, da parte
degli altri due presidenti, non è chiara.
Il
sofà di Ankara è ancora lì a ricordarci che l’Ue è senza una voce unitaria e
legittima a livello internazionale.
Come se non bastasse, funzioni esecutive sono
esercitate, nei loro rispettivi campi, anche dal presidente permanente (per 5
anni) del Consiglio dei ministri economici e finanziari dell’Eurozona
(Eurogruppo) e dal presidente permanente (per 5 anni) del Consiglio degli
affari esteri (l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza).
Una
panoplia di cariche presidenziali sotto cui si nasconde (appunto) la debolezza
decisionale dell’Ue.
Eppure,
a Bruxelles, le decisioni da prendere non mancano, con due guerre ai nostri
confini, flussi migratori da regolare, una politica industriale europea da
inventare (come
ha spiegato Mario Draghi ai commissari europei l’altro ieri), un mercato interno da rafforzare (come ha proposto Enrico Letta), “una transizione ambientale e
tecnologica da gestire anche per i suoi alti costi sociali”.
Chi guiderà l’autobus europeo per raggiungere
quelle mete?
Meloni
non chiude a una sua
candidatura
alle europee mentre
ribadisce
il no a qualsiasi
alleanza
con la sinistra in UE.
Euractiv.it - Simone Cantarini - EURACTIV
Italia – (4 gen. 2024) – ci dice:
“Non
c'è nulla oltre alla linea politica che un governo vota in Aula, e rappresenta
all'estero, che dimostri la compattezza di una maggioranza”, ha affermato
Meloni nelle repliche delle comunicazioni al Senato sul Consiglio europeo,
rispondendo alle critiche sulla posizione di Salvini e della maggioranza
riguardo alla Russia. [Palazzo Chigi].
In una
conferenza stampa durata oltre tre ore, la “presidente del Consiglio Giorgia
Meloni “ha tracciato un bilancio del lavoro condotto fino ad oggi dal governo,
rigettando le critiche sull’isolamento in Europa e sottolineando il 2024 come
un grande test per l’esecutivo con le europee di giugno, con l’Italia che punta ad avere un
“ruolo di peso” nella futura Commissione europea.
Sottolineando
che le priorità del governo sono al momento la riforma della burocrazia e della
giustizia, nella tradizionale conferenza che, da fine anno, per indisposizione
della premier, è stata spostata a inizio 2024, Meloni ha sottolineato che al
momento risulta prematuro parlare di candidature, ma non ha nascosto la volontà
di valutare la candidatura come candidato capolista alle europee del 6-9
giugno.
“Non
ho ancora preso questa decisione”, ha affermato Meloni rispondendo a una
domanda sulla sua eventuale candidatura come capolista alle europee.
“Io sono una persona per la quale niente conta
di più che sapere di avere il consenso dei cittadini”, ha aggiunto la leader di
Fratelli d’Italia (gruppo dei Conservatori e riformisti europei), ritenendo
“cosa utile e necessaria” confrontarsi con il consenso dei cittadini.
Interesse
nazionale o interesse elettorale?
Giorgia
Meloni ama ripetere di perseguire solo l’interesse nazionale.
Ma
l’interesse elettorale sembra essere la sua vera bussola.
Le
elezioni europee si svolgono con un sistema proporzionale e le preferenze, e
ogni forza politica cerca di differenziarsi dalle altre e di …
“Non
sono d’accordo con chi dice che sia una presa in giro”, ha proseguito Meloni
facendo riferimento al fatto che una sua eventuale candidatura alle europee
sarebbe comunque simbolica dato il suo ruolo di capo del governo.
“I cittadini lo sanno, e anche questa è democrazia.
Una mia eventuale candidatura potrebbe portare anche altri leader a fare la
scelta, penso all’opposizione, potrebbe essere una cosa interessante”, ha
sottolineato la presidente del Consiglio, precisando tuttavia di voler valutare
la mossa e le sue implicazioni sul lavoro come capo di governo. “Penso che vada
presa insieme ad altri leader della maggioranza”, ha affermato.
Meloni
ha inoltre ribadito di stare lavorando per “costruire una maggioranza
alternativa” al Parlamento europeo con il centrodestra rappresentato dal
Partito popolare europeo (PPE).
“Se
questo non fosse possibile, io non sono mai stata disponibile a fare
un’alleanza parlamentare con la sinistra.
Non lo
farei in Italia, non lo rifarei in Europa”, ha affermato Meloni.
Tuttavia,
come precisato dalla premier, diversa la situazione a livello di nomina della
Commissione UE, dove “quando si fa un accordo” e “ciascuno nomina un
commissario poi i partiti di governo” tendono a votare a favore dell’accordo.
La
premier ha fatto riferimento al” polacco partito Diritto e Giustizia” (PiS),
parte della famiglia dei “Conservatori e riformisti europei”, che nel 2019
sostenne la commissione guidata da Ursula von der Leyen, pur non facendo parte
della sua maggioranza.
“Marine
Le Pen “rivendica una "vittoria ideologica" dopo l'approvazione della
contestata legge sull'immigrazione.
I
deputati francesi hanno approvato martedì una legge sull’immigrazione molto
contestata, con entrambe le camere del parlamento che hanno dato il via libera
a una revisione legislativa molto più dura del testo iniziale del governo.
L’inasprimento
delle norme riflette il crescente …
Con “AfD”
differenze insormontabili.
Nella
conferenza stampa i giornalisti sono tornati più volte sul tema delle elezioni
europee e delle possibili alleanze a livello di partiti della destra.
In base all’ultimo sondaggio condotto da
“Europe Elects”, il gruppo Identità e Democrazia (ID) – che comprende la Lega,
gli estremisti di destra tedeschi di Alternativa per la Germania (AfD) e
Rassemblement National – è il terzo gruppo più numeroso e ha superato ECR,
attestandosi a 93 seggi al Parlamento europeo, il numero più alto di sempre.
In base all’ultimo sondaggio del 30 dicembre
2023, ECR si attesta a 81 seggi.
Rispondendo
a una domanda sui componenti del “gruppo ID”, di cui fa parte la Lega, “Meloni “ha
sottolineato che con il gruppo di estrema destra tedesco “AfD” restano
“distanze insormontabili”, a partire dal tema del rapporto con la Russia.
Su
questo stesso tema, secondo Meloni vi è maggiore vicinanza di vedute con il “Rassemblement
National” della “Le Pen”.
La
presidente del Consiglio ha inoltre escluso eventuali candidature di ministri
di Fratelli d’Italia, sottolineando di non stare lavorando a un rimpasto di
governo.
“Non
mi sto occupando delle candidature di Fratelli d’Italia”, ha affermato Meloni,
sottolineando di non lavorare per un rimpasto dei ministri del governo.
“Noi
avevamo pensato di candidare i tre leader dei partiti della maggioranza, che è
corretto fare insieme. Io non lavoro per ottenere un rimpasto”, ha affermato
Meloni.
Per
Draghi se l'UE vuole sopravvivere deve divenire "un'unione più
profonda" sul piano politico.
La
sopravvivenza a lungo termine del progetto europeo dipende da un’urgente
integrazione politica.
È
quanto sostiene l’ex presidente della Banca centrale europea (BCE) e presidente
del Consiglio italiano Mario Draghi, parlando alla” Global Boardroom” del”
Financial Times”.
Nell’intervista,
Draghi – che …
Inutile
parlare di chi guiderà la Commissione UE.
A chi
le ha chiesto la necessità di una svolta di centro con l’eventuale sostegno di
una nomina di Mario Draghi alla guida della Commissione europea, Meloni ha
chiarito che alla luce del funzionamento della formazione dell’esecutivo
europeo “oggi parlare del toto nomi della presidenza della Commissione europea
così come dei commissari è inutile”.
Meloni ha ricordato che “Mario Draghi ha già
dichiarato di non essere disponibile” a ricoprire un tale ruolo.
La presidente del Consiglio ha sottolinea di essere
stata “una fiera oppositrice di Mario Draghi” quando era al governo,
appoggiando però “la sua politica estera” e precisando l’ottimo passaggio di
consegne.
“Sono
contenta che Mario Draghi collabori con la Commissione UE sul dossier della
competitività europea”.
“Noi –
ha affermato Meloni – dobbiamo parlare di cosa dovrà fare la prossima
Commissione”, ha aggiunto Meloni.
“Io lavoro per avere domani una Commissione e
una politica UE che possa essere più forte negli scenari di crisi, più
determinata nell’agenda strategica, più efficace nella lotta all’immigrazione,
più capace di armonizzare il tema della sostenibilità ambientale con la
sostenibilità sociale”, ha aggiunto Meloni.
Infine,
sempre in vista della campagna per le europee, Meloni si è detta aperta a un
confronto televisivo con la segretaria del Partito democratico (PD/Alleanza
progressista dei socialisti e dei democratici) Elly Schlein.
Cosa
significa davvero la mancata ratifica italiana della riforma del MES.
Il
dibattito italiano sul Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) negli anni, così
come quello sulla sua riforma e ora sulla nostra mancata ratifica di quella
riforma è sempre stato ideologico, privo di ancoraggi con la realtà. Cerchiamo
di fare chiarezza.
Quando
…
Sul
MES non c’è mai stata maggioranza in parlamento.
Sempre
in tema europeo, la conferenza stampa ha visto domande anche sulla mancata
ratifica da parte del Parlamento della riforma del Meccanismo europeo di
stabilità (MES), sul Patto di stabilità e crescita e sulla Legge di bilancio.
Sul
MES, Meloni ha rigettato la tesi secondo cui l’Italia sarà isolata a livello
europeo considerato che è l’unico Paese dell’eurozona a non aver ancora
ratificato la riforma del trattato, ma anche la relazione con il Patto di
stabilità e crescita su cui si è raggiunto un faticoso accordo a livello di
Consiglio UE a dicembre.
“Non
credo che il tema della mancata ratifica del MES vada letto in relazione ai
risultati del Patto di stabilità”, ha affermato Meloni, dicendosi comunque
soddisfatta dell’accordo fatto dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti.
“Chiaramente non è quello che avrei voluto io,
quello che emerge è che in Europa non c’è questo superiore interesse comune, ci
sono nazioni che valutano quello che è meglio per il loro interesse”, ha fatto
notare la premier.
“Di
fronte a questa idea che emerge sarebbe stato difficile impormi sul parlamento,
io mi sono rimessa all’aula e il MES è stato bocciato.
Perché?
Perché non c’è mai stata la maggioranza in
parlamento per ratificare la modifica del Trattato”, ha affermato Meloni che è
ritornata alla querelle con l’ex premier e attuale leader del Movimento 5
Stelle Giuseppe Conte, accusato da Meloni di aver sottoscritto una riforma del
trattato consapevole “che non c’era una maggioranza in parlamento per
ratificarlo”.
Per
la premier, “il MES esiste da tempo ed è secondo me obsoleto” e “forse, questa
mancata ratifica può diventare un’occasione per trasformare il MES in uno
strumento più efficace”.
Sull’isolamento
dell’Italia a livello UE dopo questa bocciatura, Meloni ha fatto notare che il
Paese “non ha minori diritti di quelli di altre nazioni” e in merito ha citato
la decisione presa nel 2005 dall’allora presidente francese Jacques Chirac di
indire il referendum sulla Costituzione europea che fu bocciato dai cittadini
francesi.
“Nessuno disse a Chirac che gliela avrebbero
fatta pagare”, ha affermato Meloni.
“Forse
dobbiamo anche noi essere più consapevoli del ruolo che abbiamo, perché non
abbiamo minori diritti delle altre nazioni”.
L'UE
raggiunge un accordo storico sulla riforma del sistema di asilo e migrazione.
Il
Consiglio e il Parlamento europeo hanno raggiunto mercoledì (20 dicembre) un
accordo storico sulla riforma del sistema di asilo e migrazione dell’Unione
europea.
L’intesa è stata raggiunta dopo lunghi
negoziati durati tutta la notte.
La
presidenza spagnola del Consiglio e …
Risultati
sul fronte della lotta all’immigrazione insoddisfacenti.
Sul
fronte della lotta all’immigrazione, uno dei temi più gettonati da Fd’I quando
si trovava all’opposizione, Meloni ha ammesso i risultati insoddisfacenti in
questo anno di governo, ma non è entrata nel merito dello stallo sull’accordo
con l’Albania, la cui ratifica è stata sospesa lo scorso dicembre dalla Corte
costituzionale albanese, né dei problemi relativi all’intesa raggiunta con la
Tunisia.
“Non
ritengo soddisfacenti i risultati sull’immigrazione, soprattutto in rapporto
alla mole di lavoro che ho dedicato a questa materia”, ha fatto notare. “So che
ci si aspettava di più, sono pronta ad assumermene la responsabilità”, ha
aggiunto.
La
premier ha comunque ricordato che “la materia con cui ci confrontiamo è una
sfida epocale”, osservando di voler affrontare il fenomeno a livello
strutturale, lavoro che richiede anzitutto un coinvolgimento internazionale e
soluzioni strutturali di lungo periodo.
Meloni
ha comunque ribadito il suo obiettivo: lavorare in Africa, fermare le partenze
dal continente africano, valutare la possibilità di aprire hotspot nei Paesi
africani, lavorando parallelamente sull’immigrazione legale, mentre si combatte
quella illegale.
Secondo
la premier, l’Italia nell’ultimo anno ha portato sulla migrazione “un approccio
serio che non ha avuto problemi a farsi ascoltare” a livello europeo.
La
premier ha affermato di aver sostenuto il nuovo Patto UE Migrazione e asilo
perché stabilisce delle regole “migliori delle precedenti, ma non troveremo mai
una soluzione che metta tutti i Paesi d’accordo”.
Secondo
Meloni, l’unico modo per risolvere il problema è lavorare a monte, ma l’Italia
non può farlo da sola.
“L’Europa deve tornare a concentrare la sua
attenzione sull’Africa”, ha osservato Meloni, costruendo “rapporti di
cooperazione seri, strategici, da pari a pari e non predatori”.
Sul
Piano Mattei ci sono già progetti specifici.
Il
tema della cooperazione con l’Africa porta l’attenzione sul tanto citato Piano
Mattei, annunciato una prima volta il 25 ottobre del 2022 in occasione della
fiducia al governo e a cui l’esecutivo ha cominciato a dare forma delineandone
per ora solo la governance con il decreto-legge n°161 del 15 novembre, ma senza
presentare ancora ufficialmente i suoi contenuti o dettagli.
Parlando
in conferenza stampa, Meloni ha assicurato che sarà presentato in occasione
della Conferenza Italia-Africa che si terrà dal 28 al 29 gennaio.
Meloni
ha sottolineato che la presidenza italiana del G7 lavorerà molto sull’Africa,
osservando che l’Unione europea deve concentrare la sua attenzione sul
continente ricco di materie prime critiche su cui sono in atto
destabilizzazioni spesso volute.
Per la
premier con l’Africa è necessario “costruire rapporti seri, strategici, da pari
a pari non predatori”, difendendo anzitutto il diritto “a non emigrare”.
Secondo
Meloni il Piano Mattei “costruisce questa idea”. “Il mio obiettivo – ha
affermato – è che diventi un modello anche per altri Paesi UE che oggi lavorano
in ordine sparso e che si possa fare un lavoro serio di strategia. Ci sarà la
conferenza Italia-Africa, dove noi presenteremo il Piano”.
Meloni
ha rivelato che l’Italia sta lavorando su “diversi filoni” per quanto riguarda
i contenuti del piano, precisando di voler fare un lavoro che individui una
serie di priorità, immaginando alcuni Paesi partner e la stesura embrionale del
Piano.
“Ci sono dei progetti specifici, ma
non posso raccontarlo prima di lanciare il piano”, ha affermato Meloni a chi
gli chiedeva maggiori dettagli in merito.
Il
rapporto con la Cina dopo l’uscita dall’Iniziativa della Nuova via della seta.
Durante
la lunga conferenza stampa, Meloni ha risposto anche alle domande sull’uscita
dell’Italia dall’iniziativa cinese della Nuova via della seta.
Il
memorandum con l’Italia – unico Paese del G7 ad aderire – era stato firmato dal
primo governo Conte nel 2019 e aveva la durata di cinque anni.
“Io ho
preso la decisione sul tema della Via della seta anzitutto per coerenza di
quello che ho sempre pensato.
A
maggior ragione sono convinta delle mie decisioni sulla base dei risultati che
sono arrivati con la Via della seta”, ha affermato Meloni, ricordando che
l’intesa non ha portato all’auspicato equilibrio della bilancia commerciale, ma
anzi ha portato a un saldo ulteriormente sfavorevole passato dai -18 miliardi
di euro del 2019 agli attuali -41,44 miliardi.
“L’adesione
non è servita a riequilibrare, ma a fare entrare molti più prodotti cinesi”.
“Mi ha
colpito che nazioni dell’UE che non hanno mai aderito alla via della seta
abbiamo un volume di cooperazione con Cina molto superiore al nostro”, ha fatto
notare Meloni, che ha sottolineato la volontà di rilanciare le relazioni con la
Cina, onorando l’impegno di recarsi in visita a Pechino su invito del
presidente Xi Jinping.
“Ritengo che si possano fare altri accordi per
rafforzare la nostra cooperazione”, ha sottolineato.
Il
gioco “sporco” delle banche
centrali
sui cambiamenti climatici.
Valori.it
– (6-12-2021) - Andrea Barolini – ci dice:
Le
banche centrali chiedono a quelle private di rispettare standard di
sostenibilità e trasparenza, ma non sempre li adottano quando investono.
I
dirigenti delle banche centrali investono grandi quantità di capitali, con
pochi controlli.
Le
banche centrali, che dovrebbero vigilare sulla stabilità dei mercati finanziari
e sul loro buon funzionamento, sono anche importanti investitori. Gestiscono
portafogli gonfi di denaro e possiedono asset di vario genere.
Troppi
pochi occhi puntati sugli investimenti delle banche centrali.
Eppure,
mentre gli occhi degli stessi istituti centrali – in qualità di organismi di
controllo – sono puntati sulle banche private, alle quali viene chiesto (pur
con grandi difficoltà e con risultati molto lontani da ciò che sarebbe
necessario) di investire via via in modo più sostenibile, molta meno attenzione
è rivolta alle scelte di BCE & co.
Il
presidente della Federal Reserve americana è Jerome Powell.
Un
rapporto di “Reclaim Finance” ha rivelato di recente che le banche centrali del
G20 e dell’Eurosistema «non prendono in considerazione l’impatto climatico dei loro
investimenti. È come se dicessero alle banche private: “Fate ciò che diciamo,
non ciò che facciamo”».
Eppure,
secondo il “Network For Greening the Financial System” delle stesse banche
centrali, «l’adozione di pratiche d’investimento
sostenibili e responsabili (ISR) può contribuire a diffondere l’approccio ad
altri investitori».
«Solo
un quarto delle banche centrali del G20 adotta pratiche sostenibili».
BCE,
Federal Reserve, Bankitalia, Bundesbank e le altre potrebbero dunque porsi come
apripista e dare l’esempio.
Al
contrario, precisa” Reclaim Finance”, «solo un quarto delle banche centrali
del G20, tutte europee, si è impegnato ad investire in tal modo. Ma nello
stesso Eurosistema, otto banche centrali non hanno ancora adottato politiche
d’ISR».
«Inoltre,
soltanto un istituto, la “Banque de France, ha indicato tra gli obiettivi
quello di allineare la propria strategia ad una traiettoria compatibile con l’”Accordo
di Parigi”.
Ovvero
con la limitazione del riscaldamento climatico ad 1,5 gradi centigradi, nel
2100, rispetto ai livelli pre-industriali». Il rapporto indica inoltre che
soltanto quattro banche centrali – Francia, Slovenia, Germania e Svizzera –
hanno adottato restrizioni agli investimenti nelle fonti fossili.
La
mancanza di trasparenza nelle strategie d’investimento.
Ma non
è tutto.
Nell’analisi
vengono smascherati anche cinque “strumenti” utilizzati per farsi passare come
investitori responsabili.
Continuando
invece a sfruttare il “business as usual”.
Il
primo è la mancanza di trasparenza.
Quindi sono citati l’uso di green bond, il nascondersi
dietro la bandiera dei Principi di investimento responsabile (PRI), il
concentrarsi sull’approccio best in class (rapportarsi al migliore del settore,
anche qualora questo non sia per nulla virtuoso). E infine l’accontentarsi di
imporre norme internazionali poco stringenti.
«È
scioccante constatare – si legge nel documento – che su 14 banche centrali
dell’Eurosistema che hanno adottato politiche d’ISR, nove sono particolarmente
opache, e sei non divulgano alcuna informazione credibile per giustificare le
loro dichiarazioni in merito».
Di qui
le richieste dell’associazione:
adottare
un impegno generale sugli 1,5 gradi, bloccare ogni investimento in nuovi
progetti legati alle fonti fossili, avviare una politica di uscita dal carbone,
e impegni specifici su petrolio e gas non convenzionale.
Nuovo
ordine mondiale: perché il Sud
del
mondo è così decisivo e cosa può fare l'Europa.
It.euronews.com
- Michela Morsa – (04/04/2023) – ci dice:
La
guerra in Ucraina ha fatto emergere le enormi differenze tra il sistema
valoriale del mondo occidentale e quello orientale.
Il Sud del mondo sta nel mezzo.
"Siamo
troppo arroganti, troppo paternalisti e troppo moralisti".
L'Occidente, dice “Alexander Stubb”, ex primo
ministro finlandese e direttore dell'Istituto universitario europeo, deve
rendersi conto di non essere (più) il centro del mondo.
L'Europa
e gli Stati Uniti sono in una sorta di bolla, convinti che l'invasione su larga
scala dell'Ucraina sia una guerra mondiale.
Eppure,
due terzi della popolazione mondiale vivono in Paesi che non hanno condannato
attivamente la Russia.
Anzi,
i Paesi del Sud del mondo sono più propensi a sostenere la Russia che
l'Ucraina.
Stubb,
lo definisce un "campanello d'allarme":
40
Paesi hanno imposto sanzioni a Mosca, "zero Paesi dell'Africa. Zero Paesi
dell'America Latina. E solo due o tre dall'Asia".
La
guerra in Ucraina è anche una guerra tra due sistemi di valori fondamentali
totalmente differenti.
Come sostenitore dell'Ucraina, l'Occidente
rappresenta un ordine mondiale liberale, mentre la Russia e anche la Cina, non
proprio neutrale, rappresentano un ordine mondiale autocratico in cui
l'economia e lo sviluppo corrono slegati dalla libertà e dalla democrazia.
In
questa contrapposizione, il Sud del mondo fa da ago della bilancia. I politici
occidentali lo hanno capito e da tempo viaggiano nell'emisfero meridionale per
conquistarli come partner. Ma i leader orientali fanno altrettanto.
La
scorsa settimana, Mosca ha delineato la sua politica estera, identificando la
Cina e l'India come partner chiave e annunciando piani per espandere i legami
con l'Africa e l'America Latina.
A
questo punto, l'esito della guerra potrebbe determinare più che il futuro della
sola Ucraina.
In
quanto sostenitori del Paese invaso, gli Stati Uniti e l'Europa cosa stanno
rischiando?
Una
sconfitta sul campo di battaglia o la sostituzione del loro sistema liberale e
normativo?
Insomma,
un nuovo ordine mondiale?
Qual è
la posizione del Sud globale sulla guerra in Ucraina?
I
Paesi dell'America Latina stanno dicendo "no, questa non è la nostra
guerra", spiega “Christopher Sabatini”, Senior fellow per l'America Latina
di “Chatham House”.
Le
speranze dell'Occidente che i Paesi latinoamericani inviassero armi all'Ucraina
sono state rapidamente respinte all'inizio della guerra. Allo stesso tempo, l'alleanza tra
Russia e Cina si sta rafforzando, anche grazie al viaggio del presidente cinese
Xi Jinping a Mosca, che ha mostrato una volta per tutte che la Cina non
mantiene una posizione neutrale nella guerra.
Ma è
anche una questione di emozioni, legata alla storia di molti Paesi del Sud del
mondo, spiega “Alexander Stubb”.
"Fondamentalmente
puntano il dito contro l'Europa e gli Stati Uniti e dicono: 'Non venite a farci
la predica sull'integrità territoriale e la sovranità'.
Guardate cosa avete fatto durante il
colonialismo. Oppure, guardate cosa è successo in Iraq".
Perché
gran parte del Sud del mondo sostiene la Russia e non l'Ucraina?
Il
potere è nel Sud globale.
Gli
esperti ritengono improbabile che i Paesi del Sud del mondo si uniscano
all'Occidente o all'Oriente.
Secondo
“Stubb”, il Sud globale in questo momento è il "decisore", ma non
vuole scegliere.
"Oscillerà
come un pendolo tra i due. Hanno l'economia, le risorse e il potere di
determinare la direzione che prenderà il mondo", dice “Stubb”.
“Sabatini” spiega che i Paesi del Sud
del mondo stanno sfruttando la situazione come un'opportunità per affermare la
propria indipendenza di fronte al declino del potere degli Stati Uniti a
livello globale e all'interno dell'emisfero occidentale. "Molti di loro
ritengono che gli Stati Uniti e l'Europa occidentale abbiano ignorato le loro
preoccupazioni per molto tempo", dice il ricercatore.
Ma la
domanda è:
la
Cina potrebbe riuscire a mantenere relazioni strategiche con il Sud del mondo
in modo da creare un nuovo ordine mondiale guidato da Pechino?
In che
modo la Cina sta corteggiando il Sud globale?
La
Cina lo offre da decenni, soprattutto sotto forma di investimenti e prestiti,
flessibili rispetto a quelli della Banca mondiale e non soggetti a
"vincoli e condizioni".
La
Cina, spiega “Sabatini”, è anche "un mercato molto attraente per le
materie prime latinoamericane, e offre anche qualcosa che manca in molti Paesi
latinoamericani, ovvero gli investimenti nelle infrastrutture". E Paesi
come il Brasile e l'Argentina ne hanno un disperato bisogno.
Ma
allo stesso tempo, i valori dei Paesi dell'America Latina divergono ampiamente
da quelli di chi vuole rimodellare l'ordine mondiale liberale.
Ad
esempio, sottolinea “Sabatini”, in America Latina la tutela dei diritti umani
in generale, dei diritti delle donne, dei diritti degli indigeni o della
comunità “LGBTQI+”, è diventata estremamente importante negli ultimi anni.
"I
governi latinoamericani devono essere consapevoli dei reali vantaggi
dell'ordine mondiale liberale, che non sempre ha servito i loro interessi, ma è
stato una piattaforma efficace per il rinforzamento dello Stato di diritto o la
protezione dei diritti umani attraverso il diritto internazionale".
Cosa
ha da offrire l'Occidente al Sud globale?
Se
l'Occidente vuole vincere questa situazione, ha bisogno di "una politica
estera più dignitosa", avverte “Stubb”.
Ciò comporterebbe "limitare gli alti
standard morali" e cercare di "impegnarsi nel dare al Sud del mondo
una certa capacità di azione".
In
effetti, il Sud America, l'Africa, gran parte dell'Asia e il Medio Oriente sono
a malapena rappresentati in importanti organismi globali come il “Fondo
monetario internazionale” o la “Banca mondiale”, anche se costituiscono i due
terzi della popolazione mondiale.
Nessun
Paese del Sud del mondo è membro permanente del “Consiglio di sicurezza
dell'Onu”.
E
anche il commercio con questi Paesi, sottolinea “Stubb”, andrebbe ampliato.
Il
futuro dell'ordine geopolitico mondiale dipende quindi dal Sud del mondo e
dall'importanza che l'Occidente è disposto a dargli, ma anche dalla sua
politica nei confronti della Cina.
"Le
nostre relazioni con la Cina sono tra le più complicate e importanti al
mondo", ha riassunto “Ursula von der Leyen” nel suo primo discorso
interamente dedicato alla Cina.
"Se
l'Occidente vuole mantenere l'ordine liberale e normativo, dovrà andare al
tavolo dei negoziati", dice “Stubb”. "I cinesi non vogliono un ordine
liberale, ma magari alcuni elementi di un ordine mondiale normale e basato su
regole sì.
È
questo l'equilibrio che dobbiamo trovare".
L’EUROPA
ALLA PROVA NEL
NUOVO
ORDINE MONDIALE E
LA
SFIDA DEL DISIMPEGNO AMERICANO.
Iari.site.it - Lorenza Paolini – (23 Ottobre
2023) – ci dice:
L’Europa
deve misurarsi con un nuovo ordine mondiale, non più costituito dalle regole
dettate dagli Stati Uniti.
Ma la
sfida più grande per il vecchio continente arriva con il disimpegno degli Stati
Uniti oggi assediati su tre diversi fronti.
La
discussione sulla sicurezza europea non può più essere rimandata.
Fronti
americani.
Nel
contesto internazionale attuale, l’attore chiave per la sicurezza europea è in
forte crisi.
Gli Stati Uniti sono in difficoltà assediati
su tre diversi fronti: interno, asiatico ed europeo non riuscendo a trovare in
nessuno di questi una priorità assoluta che giustifichi il disimpegno verso gli
altri due.
Sul
fronte interno in particolare, lo spirito imperiale americano si sta
progressivamente ritirando, convincendo gli americani a preferire un
atteggiamento non interventista e più cauto, interessato a sanare una
situazione interna molto complessa.
L’impressione
è quella di essersi concentrati troppo e per troppo tempo in realtà rivelatesi
alla fine fallimentari, avendo così tralasciato esigenze interne di un paese
che oggi non si riconosce più come punto di riferimento per il mondo.
Questo atteggiamento, recepito chiaramente
dall’establishment americana comporta un serio problema di azione che impedisce
al governo di operare con il pieno appoggio dell’opinione pubblica
costringendolo inoltre, a una rivalutazione delle risorse spendibili per
fronteggiare le sfide americane, prima tra tutte quella con la Cina.
Il
fronte asiatico simboleggia la nuova emergenza americana e in generale apre a
una sfida globale.
La
posta in gioco è l’ordine mondiale costituito secondo le regole americane post
’89 stabilite con la sconfitta del nemico per eccellenza: l’ex Urss.
Ma
oggi gli Stati Uniti sono consapevoli di affrontare un nemico diverso che
richiede un’attenzione prolungata e una strategia mirata al suo contenimento,
se è questo quello che Washinton vuole.
Ma l’impegno americano, una volta distribuito
su più fronti contemporaneamente non è più una realtà ripetibile.
Per
impedire una confermata ascesa cinese, gli americani dovranno concentrarsi
quanto più possibile sulla sfida nell’Indo-Pacifico con la conseguenza di un
già preannunciato disimpegno sul terzo fronte, quello europeo.
Il
fronte europeo e le richieste americane.
La
presenza americana in Europa ha permesso la creazione dell’Unione Europea
necessaria tanto alla stabilità dei paesi del continente quanto a quella degli
Stati Uniti.
Ma
dopo la fine della Guerra fredda la necessità di controllare L’Europa è andata
scemando con il crescente impegno degli Stati Uniti su altri fronti.
Prima
della guerra in Ucraina e con più forza anche ora, la richiesta degli Stati
Uniti verso gli alleati europei è quella di un maggiore e concreto impegno
verso la supervisione del continente, con la speranza di trovare un margine
entro cui assicurare la stabilità europea e contemporaneamente concentrarsi sul
fronte caldo in Asia.
A ragione di ciò in ambito Nato, gli Stati
Uniti chiedono ai paesi europei di investire di più sul riarmo stabilendo una
soglia minima del 2% del PIL per ciascun paese ed assicurare così un maggior
impegno comune alla sicurezza collettiva.
Ma lo
scoppio della guerra in Ucraina ha infranto queste speranze. Il conflitto
infatti ha costretto tanto gli Stati Uniti quanto l’Europa a riconsiderare le
loro posizioni.
Per
gli Stati Uniti, la volontà di disimpegnarsi dal vecchio continente è stata
frenata è resa difficile dalla riemersione dell’imperialismo Russo. Il conflitto ancora in corso impedisce agli
Stati Uniti di distogliere attenzione e risorse da un continente troppo
importante e ancora instabile.
Per
l’Europa, la guerra ha segnato un vero e proprio sparti acque con la
conseguenza di aver ampliato la falla nel continente spaccato in due diversi
fronti oltre ad aver sollevato la discussione sull’appalto della difesa
europea.
Un’idea
di difesa tra vecchia e nuova Europa.
La
risposta europea alla guerra in Ucraina e la condanna nei confronti alla Russia
si è mostrata inconfutabilmente unitaria. Ma dopo questa inziale slancio,
l’Europa affronta ora una divisione sul futuro delle azioni da intraprendere.
La
vecchia Europa cui fanno capo i paesi come Italia, Francia e Germania hanno
condannato la Russia per il suo attacco all’Ucraina senza però mai spingersi
verso un inasprimento o una rottura irreversibile con questo paese.
I motivi sono i rapporti che legano questi
paesi alla Russia tramite una dipendenza economica ed energetica, oggi in parte
superata. Questo ha spinto l’antico blocco europeo a dosare le reazioni.
La
nuova Europa composta dai paesi dell’Est come: Polonia, Estonia, Lituania,
Lettonia, ma anche Finlandia e Svezia, ha da subito adottato un
atteggiamento duro e poco permissivo nei confronti della Russia chiedendo ai
paesi europei un’azione più dura possibile.
La
diversa postura dei due schieramenti oggi presenti in Europa è frutto di
componenti geopolitiche diverse.
Per i
paesi dell’Est, naturalmente esposti verso una vicinanza pericolosa alla
Russia, l’aggressione in Ucraina è un campanello di allarme di future ambizioni
imperialiste.
Per questo la reazione richiedeva una risposta
ferma al fine di escludere una qualsiasi futura azione da parte russa che possa
ledere l’indipendenza o la sicurezza dei paesi dell’Est.
Di
senso opposto è la percezione dei paesi del fronte Ovest che non percepiscono
la minaccia russa come reale e imminente.
Questo
spinge i paesi europei a optare per due diverse soluzioni sulla sicurezza
europea da sempre affidata al blocco atlantico tramite il trattato che
istituisce la “Nato”.
Questa
organizzazione con a capo gli Stati Uniti è il perno su cui poggia la sicurezza
dell’Europa che nel suo atto costitutivo come Unione Europea manca di
prevedere, non a caso, una propria difesa finanziata e gestita direttamente dai
paesi europei.
Per
questo, i due fronti oggi discutono sull’appalto della sicurezza del continente
contesa tra una maggiore presenza della “Nato” e quindi dell’America e una
nuova difesa europea da questa autonoma.
A
spingere per una maggiore integrazione alla “Nato” sono i paesi della nuova
Europa, convinti che solo l’appoggio e la protezione degli Stati Uniti possa
giocare come un deterrente per la Russia.
In questo caso la Polonia si erige a leader
dello schieramento incarnando in pieno la volontà americana che è sì, quella di
voler subappaltare la sicurezza europea ma ad una condizione: che sia sotto
l’ombrello della” Nato” e non sotto una guida autonoma europea.
Nonostante
la Polonia si dimostri la più ferma sostenitrice di un ampliamento della “Nato”
e della presenza americana in Europa, la sua candidatura come “vice” degli
Stati Uniti non riuscirà a diventare realtà, sia per le difficoltà interne del
paese, sia per un mancato appoggio unitario per ora negato dal resto d’Europa.
In
linea opposta, i paesi della vecchia Europa anche loro membri della “Nato”,
discutono sulla possibilità di una “strategia europea autonoma”, slegata
dall’alleanza o che almeno non ne sia esclusivamente dipendente.
Le implicazioni di tale possibilità sono
moltissime non per ultima una seria cessione di sovranità da parte degli stati
membri all’Unione Europa, vero ostacolo del progetto.
Nel
blocco della nuova Europa la più convinta sostenitrice della soluzione autonoma
è la Francia che cerca spazio nel vecchio continente con l’obiettivo di
sganciarsi dalla protezione americana e proporsi come leader a guida della
nuova difesa europea.
Ma l’ambizione francese di candidarsi come potenza
nucleare a protezione del continente resta però priva di sostegno da parte del
resto d’Europa, spaventata da una guida francese e da un’Unione Europea più
forte e centralizzata.
In
questo, la vecchia Europa si mostra meno compatta della nuova anche a causa
dell’antica ostilità franco-tedesca e dell’indecisione di Italia e Germania.
Al
momento, nessuno dei paesi europei della Vecchia e della nuova Europa sono in
grado di erigersi a leader ma gli sviluppi attuali richiedono una veloce
valutazione del caso.
Lo
scenario europeo è incerto.
Lo
scenario odierno in Europa si presenta incerto.
Il
rischio di un’Europa priva di una guida americana è quello di un disgregarsi
dei paesi europei non tenuti più insieme dalla spinta di un attore capace di
unirli.
L’unità mostrata dall’Unione Europea negli
ultimi anni resta infatti insufficiente a garantire una stabilità duratura e il
suo raggio d’azione resta delimitato e non include la soluzione al problema
della sicurezza del continente.
Privi di un intermediario esterno che coordini
scopi e interessi comuni, i due fronti europei rischiano di provocare una
spaccatura ancora più profonda nelle loro posizioni.
Per
questo, la discussione sulla sicurezza europea resta un argomento che non può
essere più rimandato soprattutto alla luce dell’ordine mondiale messo in crisi
dalla minaccia cinese, dalla caldissima situazione in Medio Oriente e dei
vertiginosi sviluppi geopolitici.
La
sfida del disimpegno americano è realtà già da tempo, nonostante questo la
volontà americana non è quella di voltare le spalle al vecchio continente né lo
sarà mai.
Questo
non deve però illudere gli alleati europei in una continua assistenza
americana, deve invece spingerli a diventare un partner alla pari, capace di
sostenere da solo l’onore della sua difesa e collaborare per il suo
mantenimento senza però più delegarla.
Verso
un nuovo ordine
monetario
internazionale?
Iari-site.it
- Andrea Gandini – (17 Maggio, 2022) – ci dice:
Donbass
e Est Ucraina sono ricche di materie prime, gas (il più grande giacimento dopo quello
norvegese), terre rare, grano, etc. Inoltre credo ci sia un interesse
geopolitico di Putin nel creare una continuità con la Crimea, chiudendo lo
sbocco a mare all’Ucraina.
Non
sono esperto di geopolitica ma credo che Putin voglia disporre di quest’area
non solo per fini espansionistici.
Le grandi potenze si muovono per interessi
concreti e credo che dietro questa invasione ci sia “molto di più”, non credo
come occupazione di altri Stati, ma un nuovo ordine mondiale basato su una nuova
competizione monetaria.
Gli
Stati Uniti fecero guerra all’Iraq non per le armi batteriologiche di Saddam
(che proprio gli Usa gli avevano dato contro i curdi ma che erano finite) ma
per disporre del petrolio di cui avevano una assoluta necessità in quegli anni,
come ebbe a dire Alan Greenspan (L’età della turbolenza, 2007, pag.520),
chairman della Federal Reserve dal 1987 al 2006 e principale consigliere
economico della Casa Bianca dal 1974 al 1977 e dal 1977 al 1987 membro del CdA
della Mobil (una delle maggiori corporation petrolifere al mondo):
“Nonostante
abbiano sbandierato ai quattro venti la paura delle “armi di distruzione di
massa” (irachene), le autorità statunitensi (…) erano mosse soprattutto dal
timore di veder precipitare nella violenza una regione nella quale si trova una
ragione indispensabile al funzionamento dell’economia mondiale.
Mi
rincresce che sia così “politicamente scorretto” affermare una verità che tutti
conoscono: la guerra in Iraq è stata soprattutto una guerra per il petrolio”.
Anche
oggi c’è forse qualcosa di analogo in ballo con un’aggiunta: l’idea di creare un nuovo sistema
monetario mondiale imperniato sullo Yuan cinese.
Prima
della guerra il cambio dollaro/rublo era 1:80, poi il rublo con l’invasione si
è svalutato fino a 1:160 rubli, ma ora (5 aprile) è ritornato ai livelli
pre-guerra (1 dollaro: 83 rubli), la borsa di Mosca è salita del 6%, il titolo
Gazprom del 12% ed è salito pure il prezzo del gas (127 euro per MegaWattora).
Secondo
gli analisti l’Europa continuerebbe a pagare in euro Gazprom che con la sua
banca acquista con euro rubli per conto del cliente europeo e li trasferisce su
un secondo conto in rubli.
Un’operazione che consentirebbe di rivalutare
il rublo…il quale però, senza che tutto ciò sia avvenuto, si è già rivalutato
del 100%.
Significa
dunque che ci sono aspettative negli operatori mondiali che vanno al di là del
pagamento in rubli del gas.
Un
primo indizio è che dal 28 marzo la banca centrale russa ha dichiarato che il
rublo è stato agganciato all’oro (5mila rubli per un grammo fino al 30 giugno).
E ciò
ha indebolito il dollaro perché oggi conviene acquistare l’oro in rubli anziché
in dollari (che
è la causa della sua rivalutazione).
Ma c’è
molto altro.
In ottobre 2020 Russia, Armenia, Kazikistan,
Kirghizistan hanno stipulato un accordo con la Cina al fine di creare non solo
una zona di libero scambio (EAEU), ma un abbozzo di potenziale nuovo sistema
monetario euroasiatico, il cui valore fosse fondato su un paniere di monete (le
loro) e di materie prime (di cui Cina e Russia sono leader a livello mondiale).
Una
vecchia idea di “Keynes” a Bretton Woods (affossata poi dagli Usa) che voleva
ancorare la moneta internazionale al valore di alcune monete e soprattutto a
quello delle materie prime (il Bancor).
E nel
2009 il governatore della Banca popolare cinese “Zhou Xiaochuan” elogiò questa
idea di “Keynes” ed auspicò la sua creazione con una de-dollarizzazione.
Ebbe
l’appoggio della Russia, dell’India e del Brasile (i famosi BRICs). Anche “Tommaso
Padoa Schioppa”, ministro del governo Prodi nel 2010 parlò con interesse del “Bancor”
e disse “l’orientazione monetaria globale era fissata o fortemente influenzata
dalla Federal Reserve Usa, esclusivamente in base a considerazioni nazionali”.
Come
si vede ci sono anche altri sovranismi, oltre a quelli turchi o ungheresi…
Può
essere che finita un’epoca in cui forse era possibile una collaborazione
dell’Europa con la Russia, Putin abbia deciso di invadere l’Ucraina e di
accelerare questo progetto, guidato dalla Cina.
Non mi stupirei se diventasse reale tra
qualche mese.
Lo pensa anche “Barry Eichengreen” (univ. di
Berkeley) che ha scritto sul “Financial Times” che “la guerra in Ucraina sta
erodendo le basi dell’egemonia monetaria Usa”.
Inoltre il “Wall Street Journal “conferma le
trattative tra Cina ed Arabia Saudita per pagare in yuan il petrolio, che
sarebbe un duro colpo all’egemonia monetaria Usa.
Lavrov si è recato in India recentemente.
Chi ha
seguito la vicenda dei petrodollari degli anni ’70 sa bene quanto essi siano
stati alla base dell’addio del Gold Standard (1944) e del fatto che nel 1971
venne sospesa unilateralmente la convertibilità del dollaro all’oro da parte di
Nixon.
Con
due guerre non vinte (Vietnam e Corea) e la minaccia di molti paesi di chiedere
oro in cambio di dollari, del quale si stavano esaurendo le scorte, gli Usa
decidono la fine della convertibilità.
Del
resto il contro valore di una moneta, con lo sviluppo dei commerci e delle
tecnologie diventa sempre meno una materia prima rara come l’oro.
Il
vero contro valore di una moneta passa sempre più dall’oro a qualcosa di
invisibile che è la forza economica di una nazione (il suo potenziale di
crescita), il suo potere (militare) di farsi rispettare nel mondo e soprattutto
(a partire dagli anni ’90) la liquidità enorme della finanza che crescerà in un
rapporto di 3 a 1 rispetto al Pil.
Si
spiega in questo modo perché Clinton nel 1999, su pressione dei senatori
repubblicani, abolisce lo “Steagall Act” che aveva introdotto il suo amico di
partito democratico “Roosvelt” per dividere le banche d’affari (che speculano)
da quelle tradizionali che fanno il buon mestiere di prestare denaro a imprese
e famiglie.
Quando
questa misura viene presa pochi si rendono conto che siamo in presenza di un
gigantesco cambiamento che avrà il maggior effetto sull’economia nel mondo, in
quanto sarà sempre più la finanza e non la manifattura a trainare l’economia e
a dare una fortissima accentuazione alle disuguaglianze.
In
quegli anni il valore del dollaro sarebbe caduto se non ci fosse stato
l’accordo di “Nixon e Kissinger” coi paesi arabi e l’ “OPEC” che avrebbero
sempre venduto il petrolio in dollari (da cui l’espressione petrodollari).
Era un
modo perché dietro il dollaro ci fosse come contro valore, oltre all’economia
Usa, una materia prima allora fondamentale per tutti i paesi: il petrolio.
In cambio gli Usa avrebbero difeso
militarmente i Paesi Opec.
“William
Engdahl” sostiene che negli accordi ci sarebbe stato un forte aumento del
prezzo del petrolio (da cui nacque la crisi degli anni ’70) e in effetti il
prezzo quadruplicò in presenza di una guerra Mediorientale nel 1974.
Questo
accordo rimase in vigore fino al 2000 quando “Saddam Hussein” lo infranse
vendendo il petrolio iracheno in euro, seguito da Gheddafi. Non dobbiamo
dimenticare che l’euro ha avuto un mercato obbligazionario dei bond, grazie
alla forza della sua economia analogo a quello americano nei primi 7 anni della
sua creazione, ma dopo la crisi del 2009 (che si origina dai subprime Usa ma
che determina una crisi del debito sovrano in Europa) non esiste più l’euro
come mercato mondiale: esiste il bond tedesco, quello italiano…proprio con
prezzi diversi per timore del fallimento dei singoli Stati e dell’Europa. Una
grande occasione mancata per l’Europa.
Quali sono i vantaggi di una moneta forte?
Contrarre
prestiti più a buon mercato.
Non
c’è dubbio che l’euro abbia fatto paura al dollaro nei primi 7 anni e può
essere un caso, ma è significativo, che entrambi questi presidenti (Gheddafi e
Saddam) furono assassinati e i loro paesi distrutti dalla guerra.
Molti
studi confermano questa ipotesi e il ricercatore americano-canadese” Matthew
Erhet” osserva:
“non
dobbiamo dimenticare che l’alleanza Sudan-Libia-Egitto sotto la leadership
combinata di Mubarak, Gheddafi, Bashir, si era mossa per stabilire un nuovo
sistema finanziario sostenuto dall’oro e al di fuori del FMI/Banca mondiale per
finanziare lo sviluppo in Africa.
Programma che è stato condotto al fallimento
dalla distruzione della Libia nel 2011, guidata dalla “Nato” (ma di fatto dagli
Usa col sostegno militare di UK e Francia) e con la base logistica dell’Italia
che ha usato la base “Nato “di Poggiorenatico (Fe) per guidare l’ultimo assalto
a Gheddafi tramite un complesso sistema di sorveglianza satellitare.
La Libia era un paese, guidato da un dittatore
come “Gheddafi”, ma che aveva garantito ai suoi cittadini una forte prosperità
e pace tra tutte le tribù, usando anche i forti proventi del petrolio (dava
10mila euro all’anno ad ogni famiglia) e tutti gli indicatori della Libia
mostravano una crescita costante negli ultimi 30 anni.
La Libia era a capo di un progetto di federazione del
Nord Africa, simile a quello dell’Europa e la Libia era considerata una sorta
di Svizzera” africana.
Tutti
possiamo valutare quale sia lo stato attuale della Libia dopo 11 anni di
“esportazione della democrazia” e quali giganteschi danni ne siano venuti in
particolare all’Italia con la perdita di petrolio, di scambi commerciali e di
immigrazione illegale, per non dire delle indicibili sofferenze in cui è stato
gettato un paese di 20 milioni di abitanti.
È
probabile che senza la guerra assurda contro Gheddafi sarebbe sorto in Nord
Africa un’area regionale che avrebbe potuto commerciare con l’Europa, al di
fuori dell’influenza degli Usa e della sua finanza.
Il
ruolo che avrebbe assunto l’Europa e l’Italia in particolare col Nord Africa è
stato assunto così dalla Cina (e in parte dalla Russia e Turchia) che, a mio
avviso, si guarderanno bene dal sottostare alla finanza anglosassone.
L’idea
di costruire un nuovo sistema finanziario guidato dalla Cina, ma che vede
coinvolti altri paesi (a cominciare dalla Russia) credo si sia avviato in
quegli anni e in particolare dopo la crisi dei subprime del 2008, quando la
Cina ha capito che non sarebbe stata sufficiente la sua potenza economica in
ascesa, ma che essa andava supportata anche da un sistema monetario, del quale,
a mio avviso, vedremo presto la nascita.
Il
cinese “QjaoLIang” nel 2015 ha scritto “L’arco dell’Impero con la Cina e gli
Stati Uniti alle estremità” (ed. LEG), dove analizza il processo di distacco del dollaro dall’oro
per agganciarsi ad altri contro valori. Un libro profetico, ma che altri
avevano già previsto.
Della
svolta del “Dollar Standard”, non più agganciato al dollaro, gli Usa erano
consapevoli come disse brutalmente il segretario del Tesoro “John Connally”: “il dollaro è la nostra valuta, ma un
vostro problema”, inaugurando l’era del “Dollar Standard nel 1978 sganciato
dall’oro”.
Oggi la fiducia al dollaro sui mercati è
ancora forte e non si basa sull’oro, ma sulla forza dell’economia Usa, del suo
potere militare e della ampiezza e liquidità dei mercati finanziari.
“Krugman”
dice che si basa anche sul livello di democrazia (da cui la stabilità), ma
sarei un po’ cauto su questa affermazione del premio Nobel.
Credo
che una moneta concorrente, fondata anche sulla solidità delle materie prime
(che oggi servono non solo per cibo ed energia ma per tutte le tecnologie
avanzate) avrebbe probabilmente un vantaggio competitivo sul dollaro,
soprattutto in un contesto dove il potere economico americano declina mentre
quello cinese cresce e al posto della liquidità finanziaria anglosassone, ci
sono materie prime alimentari ed energetiche di Cina/Russia e dei loro
potenziali alleati (Africa, Medio Oriente, Asia dei paesi amici della Russia).
Non
sarei così sicuro come “Krugman” che cittadini (specie di Paesi poveri come per
esempio il Pakistan) siano disposti a dare più credito ad una moneta come il
dollaro, cioè di una democrazia che riduce le condizioni di vita dei propri
abitanti e che non è in grado di vendere materie prime a basso costo ai Paesi
poveri, rispetto ad una moneta come lo yuan cinese che garantisce il gas e
materie prime a basso costo di cui hanno bisogno per mangiare e scaldarsi
d’inverno i Paesi poveri (anche se non è una democrazia)…
Difficile
amare le rose se non c’è il pane.
Del
resto che non sia una democrazia la Cina non interessa a nessuno a cominciare
dagli Usa, visto che era un requisito per far parte del “WTO, ma per i ricchi “business as usual” è più forte della democrazia e
perché non dovrebbe esserlo anche per i poveri?
La
Cina è un prestatore verso oltre 70 paesi nel mondo per circa 850 miliardi (tra
cui la Russia con 125 miliardi di dollari, pari al 15%).
Anche l’Ucraina ha ricevuto 7 miliardi.
La
Cina non dà informazioni né al “FMI” né alla “Banca mondiale” e persegue una
propria rete di relazione almeno da 10 anni.
Quando
un paese è in difficoltà in genere fa sconti in cambio di contratti e acquisti
delle loro materie prime nel lungo periodo.
Pechino
è da tempo un “esattore globale” e lo ha fatto anche con la Russia chiedendo a “Rosneft”
consegne di petrolio a lungo termine attraverso l’oleodotto Russia-Cina.
La
Cina ha con la Russia molti contenziosi specie nella” Siberia” e persegue il
proverbio che “fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio” (anche con la Russia).
I
debiti bancari sull’estero della Cina si sono deteriorati ma non bisogna
dimenticare che la Cina detiene anche 1.110 miliardi del debito Usa (che ammonta a 22mila miliardi, cioè
il 5,5%).
La
Cina persegue questo “sganciamento” dal dollaro da almeno 12 anni. È dunque
possibile che si creerà una moneta rivale al dollaro che avrà ben più dell’8%
di circolazione che hanno oggi yuan-rublo.
Ciò avrà rilevantissime conseguenze in termini
di potere e arricchimento di quei paesi che la emettono (in opposizione agli
Usa) e a cui guardano con interesse immensi paesi come India, Pakistan, Africa,
Brasile, Medio Oriente…quella “minoranza” che si è astenuta all’ “Onu” sulla
condanna alla Russia e che rappresenta il 55% degli abitanti nel mondo.
Chi
rimarrebbe più spiazzato se dovesse decollare un tale disegno bi-polare è
l’Europa che aveva avuto con la nascita dell’Euro nel 2001 un’immensa
“prateria” potendo diventare nei primi 7 anni in cui era in ascesa ( e non a
caso alcuni Paesi arabi si facevano pagare in euro) un polo mondiale (amico
degli Usa) ma dialogante con la Russia, sviluppando la pace nel mondo e
armonizzando le unilateralità di Usa e Cina.
Ancora
una volta tornano in mente le parole del “maestro” “Alan Greenspan” che aveva
tuonato contro la malsana idea di Clinton di abolire nel 1999 lo Steagall Act, dando libera uscita alla speculazione
mondiale di tutte le banche e dimenticando la lezione di “Roosvelt” che solo
una sana finanza poteva rilanciare l’economia reale e non quella virtuale dei
ricchi.
Nel
nuovo ordine monetario l’Italia sarebbe (con l’Europa) la più penalizzata
avendo puntato (negli ultimi 30 anni) le sue carte sul solo “amico” americano,
senza accorgersi che un altro mondo stava nascendo e dal quale (senza rompere
con gli Usa, a cui siamo legati da una storia secolare) avremmo potuto trarre
enormi benefici anche se non ne condividevamo certo lo stile dispotico di
governo.
Gli
interessi dell’Europa (e dell’Italia) infatti non coincidono sempre con quelli
degli Stati Uniti e su molte cose l’Europa dovrà avere una sua autonomia al
fine di difendere non solo e tanto gli “interessi” materiali dei propri
cittadini ma di creare un altro tipo di società, più tipicamente europea, con
una forte connotazione sociale, di uguaglianza, libertà e fratellanza (e anche
spirituale, in base alle nostre radici e valori) che promana non solo dalla
rivoluzione francese, ma dal Rinascimento, dalla democrazia dei comuni italiani
e da quella (non meno importante) delle tribù germaniche e che non è nel solco
né del consumismo americano né dell’orda (gruppale) cinese.
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