Come si fa ad opporsi al “Nuovo Ordine Mondiale”?

 

Come si fa ad opporsi al “Nuovo Ordine Mondiale”?

 

 

Nuovo Ordine Mondiale:

il Forum di Davos annuncia la censura.

 Ilnuovoarengario.it - Redazione – (Gennaio 30, 2024) – ci dice:

 

 Dal 15 al 19 gennaio 2024 si è tenuto a Davos, la famosa località dei Grigioni in Svizzera, il 54esimo incontro annuale del “World Economic Forum” (WEF).

 Personalità del settore pubblico e privato ed esperti della società civile si sono riunite per discutere:

 erano presenti più di 50 capi di Stato e di governo e circa 300 ministri e altri leader politici.

Il “Center for Family and Human Rights” (C-Fam) ha seguito da vicino gli interventi e i dibattiti di questo incontro dei leader mondiali.

 Uno dei punti emersi con chiarezza è stata la riaffermazione dell’impegno a “lottare” contro quella che viene chiamata “disinformazione” o “misinformazione”.

Ma è noto che dietro queste parole si cela la volontà di sradicare l’opposizione.

In risposta a un certo scetticismo dell’opinione pubblica nei confronti dell’agenda globalista, il WEF ha posto la sessione del 2024 sotto il segno della “ricostruzione della fiducia”.

Nel corso dell’evento, diversi relatori hanno ribadito che la “disinformazione” mina la fiducia nelle istituzioni internazionali e che i leader mondiali hanno l’obbligo di combatterla.

Questa preoccupazione deve essere tradotta:

dietro il termine “disinformazione”, questa lotta pone non solo ciò che potrebbe essere propriamente designato come tale – informazioni contrarie alla realtà – ma anche verità o opinioni fondate che criticano o rifiutano l’aborto, l’ideologia di genere, l’eutanasia e anche il matrimonio omosessuale.

Piccola antologia.

“Tirana Hassan”, direttore esecutivo di “Human Rights Watch”, ha collegato l’attuale “clima di disinformazione” all’autoritarismo.

Ha dichiarato che “i segnali d’allarme [dell’autoritarismo] stanno apparendo… con concetti come la protezione dei valori della famiglia o la salvaguardia delle nostre tradizioni” e che il pubblico dovrebbe prestare loro particolare attenzione.

 

“Questi concetti sono generalmente egoistici e manipolativi: quasi sempre danneggiano le persone e limitano i diritti umani”, ha aggiunto.

Ha continuato dicendo che “un altro esempio è quando i diritti delle donne vengono attaccati. (…) I governi dicono alle donne (…) se possono essere incinte oppure no”.

Il Rapporto sui rischi globali del WEF 2024 cita la disinformazione e le informazioni errate come i maggiori rischi a breve termine.

 Il WEF ha lanciato un’iniziativa denominata “Disinformazione e COVID-19” – Intelligence strategica per promuovere una narrativa dominante sulla pandemia.

 

Meredith Kopit Levien”, CEO del “New York Times”, ha affermato che “Google ha fatto progressi reali nel modo in cui i contenuti vengono indicizzati”, il che significa che è diventato efficace nel generare e promuovere la “risposta giusta” e allontanare “informazioni indesiderate”.

 

Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha affermato che “per la comunità imprenditoriale globale, la principale preoccupazione per i prossimi due anni non sarà il conflitto o il clima: sarà la disinformazione”.

Ha aggiunto che “i valori che apprezziamo offline devono essere protetti anche online”.

Questi valori includono l’accesso all’aborto e la legalizzazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso, priorità dell’Unione Europea (UE).

Vera Jourová, vicepresidente della Commissione europea per i valori e la trasparenza, ha affermato che l’UE “è concentrata sul miglioramento del sistema in modo che le persone ottengano i fatti esatti”.

Ha affermato che l’Europa “ha tutta la tecnologia necessaria per combattere la disinformazione”.

Leyen e Jourová hanno fatto riferimento al diritto dell’UE che stabilisce norme per regolamentare le piattaforme e i servizi online.

Questa legge include una sezione sulla “mitigazione dei rischi come la manipolazione e la disinformazione”.

 Dal 17 febbraio 2024 la legge dovrebbe essere vincolante per gli Stati membri che dovranno istituire dei coordinatori dei servizi digitali.

Una sorta di “Grande Fratello”?

 

 

 

Kiev, Arruolamenti

Forzati…

 

Conoscenzealconfine.it – (14 Aprile 2024) - Alessandro Parente -  ci dice:

I droni Usa sono farlocchi, difettosi, e “Zelensky” deve comprare quelli cinesi.

La “Verchovna Rada” ha sciolto l’assemblea intorno alle 2 del mattino del 12 aprile.

 Dopo 14 ore in aula erano rimasti 30 deputati.

 La legge per la mobilitazione è stata approvata ed entrerà in vigore tra un mese.

Per far sì che l’Ucraina continui la guerra c’è bisogno di almeno 500 mila soldati e questa volta non saranno i volontari ad andare al fronte, quelli sono già tutti lì, ora tocca a quelli che finora hanno sperato di non andarci.

Zelensky aveva annunciato di non voler ricorrere a una mobilitazione forzata per non perdere popolarità e in effetti la legge ha scatenato il malcontento.

Non solo si abbassa l’età di reclutamento a 25 anni, ma si includono delle misure che non lasciano scampo.

Per le nuove reclute ci saranno cinque mesi, tra i 25 e i 27 anni, e tre, per tutti gli altri, di addestramento previo alla guerra vera e propria.

Importante avere il libretto militare in regola, i cittadini sono invitati ad aggiornarlo entro sei mesi, anche quelli all’estero, con possibilità di farlo online.

 Tale documento, utile al governo per avere un chiaro censimento dei candidati, potrà essere controllato praticamente da chiunque, non solo dalle forze dell’ordine, ma probabilmente anche il datore di lavoro avrà facoltà di farlo.

Nel caso non lo si abbia, si verifica quella che i pacifisti ucraini denunciano come “morte civile”.

Se sei un ucraino all’estero perdi il diritto all’assistenza consolare.

Non ti puoi sposare, non puoi registrare un figlio, rinnovare il passaporto, la patente o avere un qualunque documento.

Per chi è in Ucraina invece, c’è il congelamento dei beni, il divieto di viaggiare o di possedere un’auto.

I giovani ucraini in questo periodo vedono la guerra con un occhio molto diverso da due anni fa.

Se avevano visto i loro amici partire volontari a guadagnare bei soldi, circa 3.000 dollari in prima linea e 1.000 nelle retrovie, li hanno poi visti tornare solo se gravemente feriti o deceduti.

Sì, perché non essendoci una legge sulla smobilitazione, altro tema sul quale insiste l’associazione pacifista nazionale, al fronte si rimane fino a fine guerra.

Le voci girano, soprattutto nei villaggi, e i ragazzi hanno capito che non ne vale più la pena, anche perché si sospetta che non ci saranno le cifre per remunerare tutti come si deve.

Il comandante “Zhaluzhny” l’aveva detto: non serve la mobilitazione, servono armi e munizioni.

 Attualmente i russi sono fino a dieci volte più numerosi, ma hanno anche lo stesso rapporto in termini di munizioni e ora esce fuori, secondo il” Wall Street Journal”, che i droni Usa non hanno dato risultati al fronte, bisognerà prenderli dai cinesi, i sospetti amici di Putin.

Ci sono buchi anche nel sistema difensivo, una pioggia di missili ha letteralmente sorpreso il paese all’alba di ieri.

Dopo Leopoli”, “Rivne”, a “Zaporizhzhia” la più grande centrale elettrica di Kiev è stata distrutta e a “Kharkiv “otto razzi hanno colpito le infrastrutture energetiche e obiettivi militari.

Abbiamo guidato nel traffico impazzito di una “Kharkiv” senza semafori, per via del black-out, fino a raggiungere una delle centrali elettriche in via di riparazione.

“Riparare la struttura è dispendioso e possiamo farlo solo con l’aiuto dei nostri alleati che spero non diminuisca – dice “Oleksandr Minkovich”, il direttore della centrale.

Siamo stati colpiti quattro volte in due anni, la centrale è gravemente danneggiata ma dobbiamo essere pronti prima dell’inverno” aggiunge.

Ci sono operai al lavoro in ogni settore, stanno ricostruendo i macchinari e potrebbero essere sorpresi in qualunque momento da un nuovo attacco.

“Abbiamo tutti paura qui, è come essere al fronte, in qualunque momento può cadere un missile”, confessa Max, un operaio, mentre salda un enorme tubo.

Poi suona la sirena antiaerea e si corre al rifugio.

(Alessandro Parente)

(ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2024/04/12/kiev-arruolamenti-forzati-e-i-droni-usa-sono-farlocchi/7510446/)

 

 

 

Società Ucraina Collegata a Hunter

 Biden Utilizzata per Attacchi

Terroristici in Russia: Indagine a Mosca.

Conoscenzealconfine.it – (15 Aprile 2024) – Redazione – ci dice:

 

Sono state avviate indagini penali contro diverse società private sul finanziamento di attività terroristiche in Russia e all’estero, ha annunciato martedì il comitato investigativo del Paese.

Nella lista dei sospettati figura anche il conglomerato industriale ucraino “Burisma Holdings”, legato a uno scandalo di corruzione che si trascina da anni attorno alla famiglia Biden.

Lo riporta il sito governativo russo “RT”.

L’indagine penale nasce da una denuncia presentata da un gruppo di parlamentari e personaggi pubblici russi in seguito all’attacco mortale al “Crocus City Hall” fuori Mosca il mese scorso.

La denuncia originale identificava gli Stati Uniti e i loro alleati come responsabili di una serie di attacchi sul suolo russo.

Finora, gli investigatori hanno “stabilito che i fondi, che fluiscono attraverso organizzazioni commerciali, incluso il conglomerato di petrolio e gas “Burisma Holdings”, che opera in Ucraina, sono stati utilizzati negli ultimi anni per effettuare attacchi terroristici in Russia”, ha detto la portavoce della commissione “Svetlana Petrenko”.

Le attività terroristiche si sono estese anche oltre i confini del Paese, mirando “all’eliminazione di importanti figure politiche e pubbliche, oltre a causare danni economici”, ha aggiunto.

Gli specialisti del comitato hanno lavorato “in collaborazione con altri servizi di intelligence e di intelligence finanziaria”, ha osservato la “Petrenko”.

 L’esame attualmente ruota attorno al “controllo delle fonti di reddito e dell’ulteriore movimento di fondi per un importo di diversi milioni di dollari USA” e all’esame del potenziale coinvolgimento di “individui specifici tra funzionari governativi, persone con organizzazioni civiche e commerciali dei Paesi occidentali”, ha dichiarato la portavoce.

“Burisma “è probabilmente meglio conosciuta a livello internazionale per i suoi controversi legami con l’attuale prima famiglia negli Stati Uniti.

Nella primavera del 2014, in seguito al colpo di stato sostenuto dagli Stati Uniti a Kiev, l’azienda energetica ucraina ha assunto “Hunter Biden” e il suo socio in affari “Devon Archer” nel suo consiglio di amministrazione, offrendo 1 milione di dollari all’anno di retribuzione.

Il padre di Biden, Joe, all’epoca era vicepresidente del presidente Barack Obama e supervisionava la politica di Washington in Ucraina.

Come riportato da Renovatio 21, pochi anni fa si era vantato ad una conferenza del “Council for Foreign Relations” di aver fatto licenziare il procuratore generale ucraino “Viktor Shokin”, minacciando di trattenere a Kiev un miliardo di dollari di aiuti.

La cosa accadde, per coincidenza, proprio dopo che il pubblico ministero iniziò a indagare su “Burisma”, l’azienda che aveva assunto nel board il figlio Hunter, ritenuto da alcuni drogato, corrotto e depravato, un uomo che non aveva nessuna esperienza conosciuta in fatto di business energetico, mondo ucraino o di altro.

Secondo l’ex deputato ucraino” Andrey Derkach”, la società di “Nikolay Zlochevsky” ha anche offerto pagamenti di protezione al governo di Kiev.

“Zlochevsky” ha pagato circa “800 milioni di grivnie [cioè oltre 21 milioni di dollari, ndr] per il finanziamento del terrorismo in varie giurisdizioni”, ha affermato “Derkach” a gennaio.

“I leader dei servizi di sicurezza ucraini non nascondono il fatto che compiono atti terroristici e omicidi politici per denaro fuori bilancio”, ha detto allora.

 “Ancora una volta: i partner di Biden nel business della corruzione in Ucraina finanziano atti terroristici, evitando così la responsabilità per la corruzione in Ucraina”.

“Derkach” ha affermato che era pratica comune per i proprietari di grandi imprese in Ucraina “donare” allo sforzo bellico in cambio dell’immunità dai procedimenti giudiziari.

Ha fatto riferimento a un procedimento penale contro “Zlochevskij” relativo a una tangente di 6 milioni di dollari in contanti che si è conclusa con il pagamento di una multa di 1.800 dollari da parte del proprietario del “Burisma”.

Come riportato da Renovatio 21, la scorsa estate “Viktor Medvedchuk", un politico ucraino del partito Piattaforma di Opposizione – Per la Vita, ora in esilio in Russia dopo essere stato arrestato dal regime Zelens’kyj e scambiato con Mosca, ha accusato Kiev di essere la “mangiatoia” per la corruzione del clan Biden.

Dietro il conflitto in Ucraina c’è un enorme schema di corruzione, in cui gli Stati Uniti hanno trascinato la maggior parte della politica europea (…), “non si può non ricordare il piano di aiuti all’Ucraina sotto il presidente Obama e il vicepresidente Joe Biden, che è stato scoperto dall’avvocato Rudolf Giuliani.

 Sotto di esso, l’80% degli aiuti è rimasto negli Stati Uniti.

Tradotto nel linguaggio della corruzione, si tratta di una tangente dell’80% “ha affermato il politico ucraino.

 

Due anni fa si cominciò a parlare anche del coinvolgimento di Hunter Biden nella questione dei bio-laboratori ucraini.

Nel marzo 2022 quotidiano britannico “Daily Mail” aveva ottenuto messaggi di posta elettronica che confermavano, almeno in parte, accuse russe secondo cui il figlio di Joe Biden, Hunter, è coinvolto nel finanziamento di laboratori di armi biologiche in Ucraina.

“Le e-mail dal laptop abbandonato di Hunter mostrano che ha contribuito a garantire milioni di dollari di finanziamenti per” Metabiota”, un appaltatore del Dipartimento della Difesa specializzato nella ricerca sulle malattie che causano pandemie che potrebbero essere utilizzate come armi biologiche”, scrive il “Daily Mail”.

“Ha anche presentato “Metabiota” a una società di gas ucraina presumibilmente corrotta, “Burisma”, per un ‘progetto scientifico’ che coinvolge laboratori ad alto livello di biosicurezza in Ucraina.

E sebbene “Metabiota “sia apparentemente una società di dati medici, il suo vicepresidente ha inviato un’e-mail a” Hunter nel 2014” descrivendo come avrebbero potuto ‘affermare l’indipendenza culturale ed economica dell’Ucraina dalla Russia’, un obiettivo insolito per un’azienda biotecnologica”.

Come riportato da Renovatio 21, poco dopo lo scoppio dello scandalo, Wikipedia avrebbe rimosso la voce per” Rosemont Seneca Partners”, la società di investimento collegata a Hunter Biden e ai suoi presunti traffici in Ucraina.

(renovatio21.com/societa-ucraina-collegata-a-hunter-biden-utilizzata-per-attacchi-terroristici-in-russia-indagine-a-mosca/).

 

 

 

 

Se cerchi un libro o un prodotto BIO, prova ad entrare nel sito di un nostro partner, Macrolibrarsi, il Giardino dei Libri, sosterrai così il nostro progetto di divulgazione. Grazie, Beatrice e Mauro

Canale Telegram

 

 

Le Campagne che Non Esistono Più…

Conoscenzealconfine.it – (15 Aprile 2024) – Redazione – Weltanschauungitalia – ci dice:

 

 

Il mondo delle campagne, tranne rarissime sacche di sopravvivenza, in Occidente non esiste più.

In generale, la meccanizzazione delle colture, l’industrializzazione dell’allevamento e la globalizzazione economica hanno distrutto la civiltà contadina, che si reggeva su un delicato equilibrio di economia di sussistenza, solidarietà comunitaria e un rigido sistema sociale di stampo feudale, il tutto all’interno di una peculiare cultura che fondeva cattolicesimo e retaggio precristiano, senso d’identità e genuino campanilismo.

In sostanza, le campagne oggi sono delle periferie cittadine coltivate.

Il contadino (quando non è bracciante sfruttato a giornata, altro prodotto della globalizzazione) è un imprenditore che non differisce culturalmente da qualsiasi altro attore del processo economico.

Il ritorno alle campagne dei cittadini (spesso molto facoltosi) stanchi della città, che i media continuano a riportare come fenomeni positivi di fuga dalla vita inumana dei centri abitati, altro non sono che il tragico tentativo di ricostruire un orizzonte che non esiste più, il revival di chi se lo può permettere di un mondo a cui non è più possibile restituire innocenza, perché il tipo umano e la cultura che lo sostenevano si sono estinti divorati dal mercato.

(Weltanschauungitalia) – (t.me/weltanschauungitaliaofficial)

 

 

 

 

 

La crisi del “Nuovo Ordine Mondiale.”

 Fondazionefeltrinelli.it – (30 Maggio 2023) - Alessandro Colombo – ci dice:

 

Sebbene non sia ancora possibile prevedere i suoi esiti immediati, è certo che l’attuale guerra in Ucraina segnerà una svolta nelle relazioni internazionali del XXI secolo.

Intanto perché alimenterà o, meglio, accentuerà una tendenza già riconoscibile negli ultimi anni alla rimilitarizzazione dei rapporti tra gli stati, anzi la estenderà definitivamente anche ai rapporti tra le principali potenze.

Questo elemento è già sufficiente a segnare uno stacco rispetto all’epoca d’oro del dopoguerra fredda.

Per quasi trent’anni larga parte dell’opinione pubblica, dei decisori politici e degli stessi studiosi si era abituata a ritenere che la guerra, almeno nella sua forma classica e nelle sue principali manifestazioni, avesse cessato di costituire un elemento-cardine della politica internazionale e dei calcoli degli attori, per lasciare spazio a due tipi residuali e, appunto, marginali di conflitti armati:

 le guerre civili combattute al di fuori dello spazio centrale del sistema internazionale da fazioni a propria volta marginali delle rispettive società;

e il complesso delle “guerre di polizia” condotte dai paesi occidentali nelle aree periferiche, attraverso l’uso di uno strumento militare incomparabilmente superiore per capacità tecnologiche e organizzative ai propri nemici.

La guerra in Ucraina ci riporta, invece, alla più tradizionale delle guerre interstatali.

 Con l’aggravante che a questa eventualità torneranno a prepararsi anche tutti gli altri Stati, aumentando come prima cosa le rispettive spese per la difesa.

Fianco a fianco alla militarizzazione, è prevedibile che la guerra in Ucraina contribuisca alla pericolosa bipolarizzazione del sistema internazionale già implicita nella retorica dello scontro tra democrazie ed autocrazie che aveva appena sostituito la bipolarizzazione ancora più irrealistica della cosiddetta “guerra globale al terrore”.

Come quest’ultima, anche la bipolarizzazione emergente lungo l’asse democrazie/ autocrazie avrà i suoi problemi a conciliarsi con la crescente scomposizione geopolitica del sistema internazionale in insiemi regionali sempre più eterogenei tra loro.

Ma, nel frattempo, la bipolarizzazione ha un impatto ambivalente sull’Europa.

Da un lato, essa ha il vantaggio di allontanare lo spettro dell’abbandono periodicamente agitato dalla precedente amministrazione Trump, restituendo all’Europa il ruolo di interlocutore e partner privilegiato degli Stati Uniti.

Ma, dall’altro lato, il “richiamo all’ordine” dell’Europa ha il triplice svantaggio di intralciare sul nascere la flessibilità diplomatica che sembrerebbe più consona a un contesto multipolare quale quello a cui la stessa Unione Europea dichiara di ispirarsi;

di intrappolarla, al contrario, in una competizione regionale con la Russia e globale con la Cina;

 di sfumare ulteriormente le velleità già deboli di una autonomia politica e strategica dell’Unione.

A propria volta, l’approfondimento delle fratture politiche e strategiche rischia di disarticolare lo spazio economico internazionale, rovesciando anche un altro dei luoghi comuni della fase di ascesa del nuovo ordine liberale seguito alla fine della guerra fredda.

Se, ancora fino a pochi anni fa, la convinzione prevalente era che la globalizzazione economica si sarebbe portata dietro presto o tardi qualche forma di globalizzazione politica e culturale, oggi scopriamo che sono le fratture politiche a mettere a rischio la globalizzazione economica.

 

I segnali in questa direzione sono inequivocabili, a maggior ragione in quanto si sommano a quelli già prodotti dalla pandemia del Covid 19:

la spinta (politica più ancora che economica) a “riportare a casa” attività in precedenza delocalizzate, almeno in settori nuovamente dichiarati “sensibili”;

la riscoperta della promessa di “confinamento” e “messa in sicurezza” dei confini dei singoli Stati nazionali e delle stesse organizzazioni regionali (Unione Europea compresa);

più in generale, la rinnovata enfasi sulla necessità strategica dell’autonomia (a cominciare da quella energetica), che vede sempre di più la globalizzazione come un vettore di vulnerabilità invece che di mutuo arricchimento.

 

Ma l’effetto più impressionante della guerra in Ucraina è quello di portare definitivamente allo scoperto i grandi nodi irrisolti del passaggio dal XX al XXI secolo.

Il primo è il fallimento politico, e diplomatico e strategico del progetto di “Nuovo Ordine Mondiale” varato all’inizio degli anni Novanta ed entrato in crisi irreversibile dalla metà del primo decennio del nuovo secolo.

 Almeno due capitoli di questo fallimento si sono manifestati in pieno in questa crisi.

Il primo è la mancata risposta al problema capitale di tutti i grandi dopoguerra, quello di come trattare il nemico sconfitto:

lo stesso problema che aveva già costituito il contrassegno di tutti i grandi dopoguerra degli ultimi duecento anni, oltre che il primo e decisivo criterio distintivo tra di loro.

All’indomani delle guerre napoleoniche, la Francia era stata rapidamente riammessa nel concerto delle grandi potenze;

dopo la Prima guerra mondiale, la Germania era stata invece duramente punita sia sul piano politico che su quello economico che su quello cerimoniale;

dopo la Seconda guerra mondiale, la Germania era stata punita ancora più duramente attraverso la sua stessa divisione territoriale, ma le due Germanie erano state prontamente accolte nei rispettivi sistemi di alleanza.

Tra il 1990 e oggi, al contrario, alla Russia sono stati rivolti segnali ambigui, a volte clamorosamente contraddittori.

Da un lato, non è mancata soprattutto nel primo decennio del dopoguerra fredda la suggestione (mai pienamente realizzata) di coinvolgerla in un’architettura comune di sicurezza europea – proprio per evitare lo spettro già evocato allora di una “Russia weimeriana”.

Ma, dall’altro lato, i successivi allargamenti a Est della Nato, la guerra unilaterale della Nato contro la Jugoslavia nel 1999 e, negli ultimi mesi, la ripetuta allusione al possibile ingresso della stessa Ucraina nella Nato hanno spinto sempre di più la Russia ai margini di quell’architettura.

L’altro capitolo, strettamente (anzi forse troppo strettamente) legato al primo, è quello di come rilanciare l’alleanza vittoriosa, nel nostro caso la “Nato”.

Dopo il brillante adattamento del primo decennio del dopoguerra fredda, culminato nel “Concetto strategico del 1999”, la “Nato” ha arrancato per trovare un posto nell’architettura della guerra globale al terrore e ha condiviso con gli Stati Uniti il clamoroso fallimento in Afghanistan.

Il rilancio attuale dell’alleanza in funzione antirussa è il sigillo finale del fallimento del Nuovo Ordine:

a trent’anni dalla fine della guerra fredda, le relazioni tra Occidente e Russia si ritrovano paradossalmente al punto di partenza.

Il secondo nodo è la vera e propria “crisi costituente” che la società internazionale sta attraversando per effetto del riflusso contemporaneo delle due centralità sulle quali si era strutturata la convivenza internazionale moderna: la centralità dello Stato e la centralità dell’Occidente.

Nessuno dei prìncipi fondamentali della convivenza internazionale è risparmiato da questa transizione.

 L’idea che gli stati siano gli unici o i principali soggetti dell’ordinamento internazionale è controbilanciata e, almeno in parte, minata dal riconoscimento di diritti inalienabili in capo ai singoli individui.

Il principio stesso di sovranità tende a essere eroso in una direzione e riappropriato in un’altra, per effetto della diffusione dei principi di ingerenza da un lato ma, dall’altro, per la pretesa avanzata da sempre più stati di tutelare se necessario anche al di sopra delle norme restrittive della “Carta delle Nazioni Unite” i propri interessi irrinunciabili di sicurezza.

Il tradizionale principio dell’eguaglianza formale degli stati è contestato (e non da attori deboli e marginali, ma dallo stesso paese più forte) in nome di un nuovo e controverso principio di discriminazione a favore delle democrazie.

Il ricorso alla guerra continua in linea di principio a essere vietato dalla Carta delle Nazioni Unite;

ma, nei fatti, l’introduzione di una serie di eccezioni non necessariamente coerenti tra loro (l’ingerenza umanitaria, la lotta contro il terrorismo, l’estensione della legittima difesa preventiva a casi nei quali la minaccia non è ancora imminente) ha già eroso surrettiziamente il divieto.

Soprattutto, è sempre più apertamente contestata dai grandi paesi non occidentali emergenti la tradizionale pretesa dei paesi occidentali di parlare a nome dell’intera comunità internazionale, dettando la soglia di accesso alla piena appartenenza e i criteri di normalità politica, economica e culturale validi per tutti.

E proprio a ciò si collega l’ultimo nodo – più paradossale ma, con ogni probabilità, ancora più importante.

La guerra in Ucraina rimette l’Europa al centro delle tensioni e dei calcoli strategici dei principali attori;

ma lo fa in un contesto nel quale è evidente a tutti – a cominciare dai protagonisti diretti e indiretti della guerra – che il baricentro politico, economico e strategico del sistema internazionale si sta spostando altrove.

Su questo spostamento sarà bene che nessuno si faccia troppe illusioni.

Anzi, se negli ultimi decenni la guerra aperta era giunta a essere considerata come un fatto periferico, se non addirittura come il sigillo della propria perifericità, ci sarebbe da chiedersi se la spaventosa guerra in Ucraina non sia l’ultimo segno della detronizzazione dell’Europa da centro del mondo.

 

 

 

 

Nuovo ordine mondiale:

tre sfide dal Global South.

Ispilonline.it – (31 Lug. 2023) – Aldo Pigoli – Massimiliano Frenza Maxia – ci dicono:

 

Il sovvertimento dell’ordine mondiale nato a “Bretton Woods” passa per l’allargamento delle iniziative dei “BRICS”, la “de-dollarizzazione” e il “controllo di materie prime critiche”.

A che punto è la ridefinizione della governance mondiale?

La domanda se la fanno gli analisti politici di tutto il pianeta, nessuno ha una risposta chiara e definitiva ma tutti concordano sul fatto che l’idea di una governance mondiale regolata dal “Washington Consensus” è tramontata.

Il colpo di grazia all’ordine di “Bretton Woods “è venuto da una molteplicità di fattori, ultimo e forse decisivo il binomio pandemia-guerra, piaga “biblica” che si è abbattuta sul pianeta.

Le crisi, insegna la storia del Trecento europeo, non portano la fine del mondo.

 Semmai introducono un nuovo ordine, dopo una fase di necessario disordine.

Oggi siamo nella fase del disordine, tema di cui abbiamo già argomentato recentemente, un disordine che cerca una sua ricomposizione nel risolversi, in un modo o nell’altro, della dialettica in atto tra vecchio “Washington Consensus” e nuovo “Beijing Consensus”.

La realtà è più complessa.

 La Cina anela a “una translatio imperii” e su tale posizione trova più o meno allineati i “Paesi BRICS”.

 Tuttavia, l’obiettivo di “Xi Jinping” è che l’“Imperium transiti da Washington a Pechino”, un’idea che non scalda i cuori né a Mosca e né a New Delhi.

Premesso ciò, i giochi geopolitici si compiono su tempistiche diverse, e comunque su due piani:

 uno tattico, che produce alleanze anche innaturali e comunque a scadenza;

 uno strategico, di lungo periodo, che invece produce a tendere conflittualità e, potenzialmente, future guerre.

Oggi siamo nella fase tattica e il “momentum” prevede, almeno ad uso delle opinioni pubbliche e della stampa mondiale, esercizi di compattezza.

Ad esempio, un tema che mette d’accordo tutti gli azionisti dei BRICS, è la fine dell’ordine del dollaro.

La “NDB” motore del nuovo ordine multipolare.

Lo scorso maggio si è riunito il consiglio di amministrazione della “New Development Bank” (NDB), istituzione creata nel 2014 e oggi presieduta dalla ex presidente brasiliana “Dilma Rousseff”.

 La” NDB” rappresenta oggi il punto d’osservazione più interessante per chi voglia provare a dare una lettura degli intenti tattici dei BRICS.

 La banca, infatti si configura come la migliore punta di lancia in grado di veicolare l’unico vero punto di convergenza fra i soci fondatori dei BRICS, ovvero l’obiettivo di creare un nuovo ordine economico multipolare, obiettivo che fa da leitmotiv al 15° summit BRICS di fine agosto a Johannesburg in Sud Africa.

Sui BRICS, sul ruolo della NDB, nonché su quello giocato dalle banche cinesi d’investimento, si è scritto e si scrive tantissimo.

Tuttavia, la geopolitica ci insegna come, prima ancora delle parole, a parlare siano le mappe.

Accedendo al sito della piattaforma BRICS plus, è ampiamente visibile la mappa che disegna la nuova governance nell’ordine multipolare.

Esiste la nuova mappa dell’ordine multipolare.

(Fonte Brics-plus.com).

 

Un tempo, all’epoca del mondo bipolare, la linea di faglia era longitudinale sull’asse Ovest-Est.

Oggi inizia sempre più ad assomigliare a una diagonale che rischia di tagliar fuori il mondo occidentale da tutto il Sud-Est del mondo, con la sola esclusione del continente oceanico e di Giappone e Corea.

Il Sud America, l’Africa e persino il Medio Oriente, appaiono progressivamente sempre più coinvolti nella sfera d’influenza dei BRICS.

Questa diagonale ha due caratteristiche fortemente strategiche poiché è fatta dai Paesi titolari della gran parte delle risorse naturali a livello mondiale, non solo idrocarburi (si pensi al Venezuela e all’Arabia Saudita) ma anche terre rare di cui, Africa e Sud America sono ricchi.

Inoltre, i Paesi che la compongono sono quelli più popolosi e, si pensi all’Africa, con una ulteriore prospettiva di forte incremento demografico.

 

Parola d’ordine numero 1: il Sud conta.

La NDB è nata nel 2014 come alternativa all’FMI e alla World Bank, istituzioni percepite da Pechino, motore dell’iniziativa, come troppo legate agli interessi USA.

Nove anni dopo la NDB è cresciuta, ha ammesso fra i suoi membri Bangladesh (2021), Emirati Arabi (2021) ed Egitto (2023) e sta sempre di più orientando la propria proposta di valore verso il Sud del mondo, preparandosi ad accogliere nuovi membri come Argentina, Zimbabwe, Uruguay ed Etiopia, nonché uno stato chiave dal punto di vista economico ed energetico come l’Arabia Saudita.

Al di là del fatto che il Brasile – gigante sudamericano e Paese in crescita – sia uno dei soci fondatori della NDB, appare evidente come quest’ultima sia un mezzo di penetrazione cinese in regioni che, per duecento anni hanno rappresentato il cosiddetto “giardino di casa” degli USA. 

Oggi la NDB a guida brasiliana sembra essere, almeno negli intenti propagandistici, il laboratorio ideale in grado di mixare l’approccio terzo mondista cinese, di maoista memoria, con la teoria della dipendenza, elaborata in ambiti sudamericani marxisti negli anni 60-70 e frutto della rielaborazione del pensiero dell’argentino “Raúl Prebisch”, basato sulla cosiddetta teoria “centro-periferia” e sul concetto di sfruttamento:

la globalizzazione come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi ha contribuito a rafforzare la convinzione che le filiere globali del valore, guidate in larga misura dalle multinazionali occidentali, siano strumenti per drenare risorse e trasferire profitti dalla periferia al centro, attraverso la supremazia del dollaro a livello valutario e commerciale.

La presidente della NDB Rousseff ha recentemente sottolineato come gli obiettivi dell’NDB siano il finanziamento di investimenti infrastrutturali, con lo scopo di aiutare i nuovi membri del club bancario a combattere la povertà, creare posti di lavoro e promuovere uno sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale.

È chiaro l’intento di allargare ulteriormente il club a nuovi membri e come il vertice di fine agosto dei BRICS sarà probabilmente il luogo in cui verranno annunciati nuovi pesanti ingressi, l’Argentina in particolare.

Per l’ingresso dell’Argentina si sta spendendo molto il presidente brasiliano “Lula” e recentemente il ministro dell’Economia argentino, “Sergio Massa”, è stato in visita nella sede della NDB di Shanghai, in Cina.

Oltre all’Argentina, nelle mire di Lula c’è anche l’idea di un ingresso prospettico del Venezuela.

Tali mosse indicano come il Brasile veda sé stesso sempre più come il Paese destinato a guidare il Sud America nella prospettiva multipolare che va configurandosi.

Le strategie di ampliamento della NDB vanno infine lette in relazione ai progetti “BRICS Plus”, ovvero dell’allargamento progressivo a nuovi Paesi, e” BRICS Outreach”.

 Obiettivo di questa seconda iniziativa è focalizzare l’azione sul “Sud Globale” ed in particolar modo all’Africa subsahariana e australe, anche grazie al ruolo del Sud Africa.

Parola d’ordine numero 2: de-dollarizzazione.

Il 30 e 31 maggio scorso, la NDB ha tenuto la sua riunione annuale.

La neopresidente Rousseff ha colto l’occasione per ribadire che il principale obiettivo (politico) della banca è la de-dollarizzazione del sistema economico globale.

Oggi le economie BRICS rappresentano circa un quarto del Pil mondiale, una forza tale da ambire, se coordinata, all’obiettivo di breve termine di offrire il 30% del portafoglio prestiti non più in dollari ma in valute locali.

Oggi siamo nell’intorno del 22%.

De-dollarizzare ha due obiettivi, uno politico evidente e uno strettamente finanziario, orientato a interrompere la dipendenza dal dollaro.

Come messo in evidenza da alcune teorie, per esempio quelle legate al cosiddetto “paradosso di Triffin”, de-dollarizzare può aiutare i Paesi in via di sviluppo a evitare dolorose fluttuazioni dei tassi di cambio, con ricadute sulle riserve in valuta estera (dollari) accumulate, il rischio di contrarre pesanti debiti esteri una generale mancanza di autonomia monetaria, che spesso genera forti limitazioni all’autonomia politica.

 

In questa fase in cui la FED sta aumentando progressivamente e assertivamente i tassi di interesse, tale azione sta esercitando pressioni al ribasso sulle valute di molte nazioni del Sud del mondo, rendendo più costosa l’importazione di prodotti stranieri e il pagamento del debito denominato in dollari.

 In ragione di ciò l’obiettivo della NDB è quello di sostituire al dollaro una pluralità di valute locali da utilizzare per regolare il commercio.

 

Il ruolo delle valute digitali nella de-dollarizzazione.

La NDB ha già emesso obbligazioni denominate nella valuta cinese, il renminbi, ed è chiaro che la valuta cinese si candida a giocare un ruolo di primazia nel nuovo sistema.

Tuttavia, non è interesse degli altri Paesi BRICS che al dollaro si sostituisca il renminbi, operazione che risulterebbe a somma zero non generando vantaggi per il sistema, se non per il principale azionista, Pechino.

La tendenza alla de-dollarizzazione è oramai tema di dibattito anche in Occidente.

L’economista “Zoltan Pozsar” a gennaio ha ammesso sul “Financial Times” che il privilegio esorbitante del dollaro (la definizione è di Valéry Giscard d’Estaing), è oramai minacciato e, non solo dalle spinte dei BRICS attraverso la NDB, ma anche dalla tendenza globale, anche occidentale, a lanciare le nuove valute digitali, ovvero sistemi di circolazione del denaro che possono fare a meno del sistema SWIFT.

Pozar in particolare afferma come:

“L’ordine monetario basato sul dollaro è già stato messo in discussione in diversi modi, ma due in particolare spiccano:

la diffusione degli sforzi di de-dollarizzazione e le valute digitali delle banche centrali (CBDC)”.

 

Come spiegato da” Pozsar”, al di là degli obiettivi “terzomondisti”, de-dollarizzare anche e soprattutto attraverso le CBDC, significa poter aggirare le sanzioni occidentali in chiave anti-russa che colpiscono di rimbalzo anche gli interessi degli altri BRICS.

Infatti, come affermato dall’economista americano di origine ungherese, “La rete emergente basata sulle CBDC – applicata con linee di swap valutarie bilaterali – potrebbe consentire alle banche centrali dell’Est e del Sud del mondo di fungere da intermediatori di valuta estera […] il tutto senza fare riferimento al dollaro e bypassando il sistema bancario occidentale”.

La capacità dei BRICS di affermarsi, anche in prospettiva, sotto il profilo monetario è tuttavia limitata da vari fattori, uno dei quali è legato agli strumenti a oggi presenti che dovrebbero permettere di contrastare o, almeno, cercare di insediare la leadership del dollaro e del cosiddetto Washington Consensus:

oltre alla NDB è infatti attivo il “Contingent Reserve Arrangement” (CRA), pensato quale antagonista del FMI al fine di far fronte alle pressioni di breve termine sulle riserve valutarie dei Paesi BRICS.

 Sotto questo profilo, la Cina è l’unico Paese ad avere una capacità finanziaria e valutaria tale da rendere questo strumento una reale opportunità, ma ciò necessiterebbe di una volontà e capacità di Pechino che, in questa fase, sono messe a dura prova.

Un gruppo dipendente dalle commodities.

Data la natura dei BRICS e il processo di attuale o potenziale allargamento di questo “club”, emerge in maniera evidente lo stretto legame tra i Paesi che ne fanno parte e potrebbero farne parte prossimamente, e il futuro della transizione energetica e produttiva del pianeta.

Non sfugge infatti che tutti i membri attuali dei BRICS siano grandi produttori e, come nel caso di Cina e India soprattutto, anche grandi consumatori di materie prime energetiche e minerarie.

L’ingresso di Arabia Saudita, Algeria e Indonesia, per citare alcuni dei Paesi sotto gli occhi dei riflettori, comporterebbe non solo un incremento numerico e, in parte, finanziario, dei BRICS ma soprattutto un rafforzamento del potenziale di “controllo” di asset strategici per l’evoluzione produttiva e commerciale a livello mondiale e, nello specifico, del mondo occidentale, Europa in testa.

Sotto questo profilo, l’ipotesi di sovvertimento della leadership mondiale connessa con l’ampliamento dei BRICS, riguarderebbe non solo gli aspetti monetari su cui si potrebbe basare il nuovo ordine mondiale ma le vere e proprie fondamenta della globalizzazione così come ad oggi è a noi pervenuta, con uno sbilanciamento significativo in termini di gestione delle “supply chains”, sia diretto che indiretto, in molti dei settori strategici.

Lo scenario potrebbe apparire apocalittico e condurre anche a scelte radicali da parte di quei Paesi che, sempre di più, risentono della dipendenza dall’accesso alle fonti e alle arterie dei sistemi produttivi internazionali.

Tuttavia occorre ricordare, anche in questo caso, che si sta cercando di analizzare e valutare un’ipotesi, quella di un gruppo di Paesi coeso e organizzato, i BRICS Plus, che allo stato attuale, nonostante le dichiarazioni che presentano una visione forte e missioni ben definite, mostra molti più segnali di frattura e potenziale conflittualità interna al gruppo, che fattori di integrazione strategica e operativa. (Aldo Pigoli- Massimiliano Frenza Maxia).

Il nuovo ordine mondiale di Xi:

 perché quello che è successo

a Pechino è importante.

 It.insideover.com - Federico Giuliani – (19 OTTOBRE 2023) - ci dice:

 

Due guardie cinesi impettite, nel tradizionale abito color kaki, aprono le porte dorate della “Grande Sala del Popolo” di Pechino.

Il primo a varcare la soglia della stanza è il padrone di casa, “Xi Jinping”, seguito, a pochi passi di distanza, dal presidente russo “Vladimir Putin”.

Dietro di loro, seguono decine e decine di altri leader e funzionari provenienti da svariati Paesi, pronti a prender parte al sontuoso banchetto offerto dalla Cina.

 

È iniziato così, con questo effetto altamente scenico, il “terzo Forum della Belt and Road per la Cooperazione Internazionale”, un evento diplomatico promosso dal governo cinese per celebrare il decimo anniversario della “Belt and Road Initiative” (Bri), ma anche per rilanciare il progetto e adattarlo alle nuove esigenze internazionali.

In un certo senso, gli invitati costituiscono un macrocosmo che tratteggia, a grandi linee, il nuovo ordine mondiale auspicato da Xi:

non più una comunità internazionale assoggettata all’Occidente, ma un gruppo di Stati posti sullo stesso piano e desiderosi di collaborare tra loro facendo leva sul mutuo vantaggio.

Un altro particolare da non sottovalutare: nella foto di gruppo, “Putin” era in prima fila insieme al presidente cinese, ed è stato il secondo a parlare dopo “Xi”.

 Successivamente, i due hanno avuto un incontro bilaterale di tre ore, durante il quale hanno discusso, tra gli altri dossier, di Ucraina e Medio Oriente.

 

Il messaggio di “Xi”

La” Bri”, lanciata nel 2013 da “Xi” in persona, ha visto la Cina investire circa trilioni di dollari in investimenti e progetti infrastrutturali in tutto il mondo.

 L’iniziativa è stata ampiamente lodata per aver stimolato lo sviluppo in molti Paesi, ma è stata anche criticata per aver talvolta gravato i mutuatari con montagne di debiti puntando su progetti dispendiosi.

In ogni caso, nel suo intervento “Putin” ha promesso sostegno al vasto progetto di Pechino, affermando che è “in sintonia con le idee russe”, e ha elogiato “i nostri amici cinesi” per i loro risultati.

Rivolgendosi ad una sala piena di delegati provenienti soprattutto dal cosiddetto gruppo dei “Paesi in via di sviluppo del Sud del mondo”, il capo del Cremlino ha inoltre dichiarato che “Russia e Cina e la maggior parte degli stati del mondo condividono aspirazioni” alla cooperazione e al progresso economico.

La sensazione è che “Xi” abbia sfruttato la partnership con “Putin” – e utilizzato il presidente russo nei panni di sponsor – per pubblicizzare la riproposizione della “Bri”.

 

Agli occhi degli Stati Uniti, Pechino e Mosca non starebbero nient’altro che giocando di sponda nel tentativo di costruire un blocco geopolitico ad hoc per rivaleggiare con l’Occidente, mentre il governo cinese replica sottolineando l’inclusività dell’iniziativa.

Certo è che sia la Cina che la Russia hanno denunciato più volte “l’egemonia globale” degli Usa ed invocato un mondo “multipolare” con più centri di potere.

 

Proprio per dare forma ad un disegno del genere, il Dragone ha pubblicato due libri bianchi per descrivere la” Bri” come catalizzatore, nonché fondamento, di un nuovo fantomatico ordine mondiale più “giusto e inclusivo”.

“Xi” ha inoltre presentato un piano in otto punti per portare avanti la “Bri”, che comprende la promozione di progetti più piccoli, lo “sviluppo verde” e la “costruzione dell’integrità”.

 I rappresentanti dei Paesi dell’Africa, del sud est asiatico e del sud America hanno ascoltato con attenzione.

L’ordine alternativo.

Tra i leader invitati al forum di Pechino c’erano, tra gli altri, l’ “ungherese Viktor Orban” (l’unico leader europeo), il presidente kazako “Kassym-Jomart Tokayev”, “Joko Widodo” dell’Indonesia e altri personaggi provenienti da Africa, Asia e America Latina.

Anche i “Talebani” – seppur il loro governo in Afghanistan non sia riconosciuto – hanno inviato una delegazione.

“Come dice il proverbio, quando regali rose ad altri, la fragranza rimane sulla tua mano”, ha detto “Xi”.

“In altre parole, aiutare gli altri è anche aiutare se stessi.

 Considerare lo sviluppo degli altri come una minaccia o considerare l’interdipendenza economica come un rischio non migliorerà la propria vita né accelererà il proprio sviluppo”, ha proseguito il presidente cinese.

La “Bri” è dunque uno strumento fondamentale per costruire un ordine capace di includere il Sud del mondo.

“Xi” considera ancora il programma attraente per le nazioni in via di sviluppo, che dal canto loro possono utilizzare il denaro cinese e non vedono la necessità di prendere posizione su questioni come i diritti umani e la sovranità territoriale.

Illustrando i nuovi passi del progetto, la Cina si è soffermata sul concetto di sviluppo di alta qualità, di economia digitale e sviluppo verde sostenibile.

Nel frattempo, Pechino inietterà “10 miliardi di dollari” nel “Fondo della Via della Seta”, mentre la “China Development Bank” e la “Export-Import Bank of China” istituiranno ciascuna uno strumento di finanziamento di circa “40 miliardi”.

 Basterà tutto questo per convincere il Sud del mondo a scegliere la strada cinese?

 

 

 

 

Brics, sul tavolo l’allargamento del gruppo

 e la “de-dollarizzazione degli scambi”.

Pechino ‘studia’ da leader di un nuovo ordine mondiale.

Ilfattoquotidiano.it - Eleonora Bianchini – (23 AGOSTO 2023) – ci dice:

Liberarsi dal “giogo del colonialismo “, imporsi come potenze economiche dotate di un peso tale da costituire l’alternativa all’ordine globale voluto e capitanato dagli Stati Uniti, per la costruzione di un mondo multipolare dove il dollaro venga sostituito da una moneta comune per non dipendere dalla valuta di un Paese terzo.

In questi giorni, a Johannesburg, l’orientamento del vertice dei Brics – acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – è quello di lanciare una sfida, ben più definita e aggressiva rispetto alle precedenti 14 versioni del summit, per contrastare l’Occidente e porre le basi per un nuovo ordine mondiale, con Russia e, soprattutto, Cina alla testa dei Paesi in via di sviluppo, concordi che il predominio di Stati Uniti ed Europa (e Nato) abbia finora arrecato più danni che benefici.

La leva del multipolarismo.

 Per Mosca la guerra in Ucraina è il pretesto contingente per spingere su questa direzione, e la Cina, a fronte dell’escalation di tensioni con gli Stati Uniti sulla questione Taiwan e dell’urgenza di trovare nuovi partner e mercati vista la crisi immobiliare e il rallentamento della crescita, ha anche sollecitato “un rapido ampliamento” del gruppo a nuovi Paesi, oltre agli sforzi per promuovere “una governance globale più giusta e ragionevole”.

 

Sono 23 quelli che hanno manifestato interesse a entrare (tra loro ci sono paesi come Egitto, Etiopia, Sudan, Nigeria, Tunisia, Zimbabwe, Senegal e Algeria):

in realtà, se tutti, a parole, sono d’accordo sull’allargamento del gruppo non è ancora chiaro sulla base di quali criteri verrebbero ammessi.

Come non è chiaro se un annuncio sui nuovi membri verrà preso in occasione di questo summit o rinviata ad altre riunioni.

Se Pechino è fortemente favorevole all’allargamento dei Brics – che valgono un quarto della ricchezza del mondo e contano il 42% della sua popolazione – in quanto operazione destinata ad aumentare la sua leadership globale, non sono però dello stesso avviso India e Brasile, che non vogliono trasformare l’insieme delle economie aderenti al gruppo in antagonisti dell’Occidente.

Ma se l’obiettivo a breve termine sponsorizzato dalla Cina è quello del multipolarismo, per “Steve Tsang”, direttore del “China Institute della School of Oriental and African Studies”, “Xi non sta cercando di sbaragliare l’America nell’attuale ordine internazionale liberale dominato dagli Usa – ha detto alla “Cnn” – il suo obiettivo a lungo termine è trasformare l’ordine mondiale in sino-centrico “.

Il “Washington Post” sottolinea poi che i Paesi “Non-allineati” in voga durante la Guerra Fredda tra i “Paesi del Sud Globale”, ora non possono più esistere in quanto tali, visto che l’impronta politica ed economica della Cina si è allargata nel mondo in via di sviluppo.

E secondo il “Financial Times”, che cita fonti di Pechino, l’intenzione del Dragone è di fare pressione sugli altri Brics per diventare un blocco rivale del G7.

Certamente “Xi”, nel continente dopo cinque anni di assenza, è stato accolto in” Sudafrica” con tutti gli onori ed attenderlo c’erano “strade fiancheggiate da folle esultanti che sventolavano bandiere cinesi”, scrive il “New York Times”.

 La Cina negli ultimi anni si è infatti prodigata in monumentali investimenti nei Paesi africani – specie in infrastrutture e settore militare – che ne hanno aumentato l’influenza e consentito di aprire corridoi economici privilegiati, a scapito di Stati Uniti ed Europa, che nei fatti non hanno manifestato un interesse nemmeno comparabile.

In più, il “vertice a Johannesburg” ha forti implicazioni geopolitiche per Pechino, visto che arriva dopo il “summit di venerdì scorso a Camp David” tra Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone – in un formato storico definito una “mini Nato” da Pechino – che ha sancito un rafforzamento dell’alleanza alle porte del gigante asiatico.

Pechino aspirante leader del nuovo ordine mondiale – Nel corso del vertice a Johannesburg – primo partner commerciale africano della Cina, a cui Pechino ha promesso anche la ricostruzione della rete elettrica – “Xi Jinping” ha invitato i “Paesi Brics”, che sono “una forza importante nel plasmare il panorama internazionale”, a scegliere “in modo indipendente il percorso di sviluppo”, a difendere “congiuntamente il diritto allo sviluppo” e a muoversi “insieme verso la modernizzazione, che rappresenta la direzione della società umana”, influenzando “profondamente il processo di sviluppo del mondo”.

E ha sottolineato che i Brics “dovrebbero essere compagni sulla strada dello sviluppo e della rivitalizzazione e opporsi al disaccoppiamento e alla rottura delle catene degli approvvigionamenti e alla coercizione economica “.

 Un riferimento indiretto alle restrizioni imposte negli ultimi mesi per tagliare la fornitura di tecnologia americana da parte delle aziende cinesi, inclusi i chip.

 La Cina, che cerca di diventare autonoma in questo settore, ritiene che si tratti di misure per ostacolarne lo sviluppo e a mantenere la supremazia Usa.

Ma non è stato l’unico attacco agli Usa:

“Xi” ha calcato sulla “mentalità da Guerra fredda” che “sta ancora perseguitando il nostro mondo e la situazione geopolitica sta diventando tesa”.

Per questo, ha aggiunto, “i paesi del Brics dovrebbero mantenere la direzione dello sviluppo pacifico e consolidare la loro partnership strategica”.

Un ulteriore riferimento a “Washington” è poi arrivato in un’altra sua dichiarazione pronunciata dal “ministro cinese del Commercio” “Wang Wentao”:

“Alcuni Paesi, ossessionati dal mantenimento della propria egemonia, hanno fatto di tutto per paralizzare i mercati emergenti e i Paesi in via di sviluppo”.

L’obiettivo dell’allargamento ad altri Paesi.

 Il presidente cinese è quello che più di ogni altro leader presente al vertice sostiene un “veloce allargamento” dei Brics ad altri Paesi, con lo scopo di “espandere la cooperazione politica e di sicurezza per sostenere la pace e la tranquillità” e “offrire i nostri buoni uffici sulle questioni più scottanti, spingendo per una soluzione politica e abbassando la temperatura”.

Mantenendo ben chiaro che non è gradita alcuna interferenza, e nemmeno necessaria la condivisione di principi comuni né liberali: “Dovremmo rispettare tutti i percorsi di modernizzazione che ogni Paese sceglie da solo e opporci alla rivalità ideologica, al confronto sistemico e allo scontro di civiltà”.

Secondo “Eric Olander”, caporedattore del “sito web The China-Global South Project,” “per Xi, l’obiettivo è cercare di screditare l’Occidente e dimostrare che esiste un’alternativa.

Sta cercando di attingere a questo incredibile pozzo di risentimento e frustrazione tra molti paesi del Sud del mondo per ciò che percepiscono come questa massiccia doppiezza e ipocrisia da parte dei paesi ricchi”, ha dichiarato al “New York Times”, che sottolinea come la frustrazione su cui fa leva “Xi” in chiave anti-occidentale sia stata “alimentata negli ultimi anni dalle promesse non mantenute dei paesi sviluppati di fornire vaccini contro il Covid-19 ai paesi più poveri e dalla sensazione che non si stia facendo abbastanza per contrastare l’impennata dei prezzi di cibo ed energia”.

La “de-dollarizzazione” degli scambi.

 Se da Pechino arriva la proposta indiretta di leadership per un nuovo ordine mondiale alternativo a quello occidentale, a gettare le basi economiche per la sua costituzione è stato il “presidente brasiliano Lula”, che ha proposto di sostituire il dollaro negli scambi per essere indipendenti dalla valuta di un Paese terzo.

Un fattore che secondo Putin è il passaggio cruciale verso un mondo “multilaterale”:

per il leader del Cremlino, inoltre, la “de-dollarizzazione” è un processo che a suo parere sta già “prendendo piede” in modo “irreversibile “, come starebbe a dimostrare il fatto che negli scambi commerciali tra i cinque Paesi Brics nel corso del 2022 l’uso della moneta americana è stato pari solo al 28,7% del totale.

Il ministro delle Finanze russo “Anton Siluanov “ha però precisato che la discussione riguarda la possibilità di creare una unità di conto comune alternativa al dollaro, “in cui si può esprimere il costo della consegna delle materie prime”, ma “non si tratta di una valuta unica come in Ue “.

Di fatto, la “Nuova banca di sviluppo”, l’istituto finanziario dei paesi Brics presieduto da “Dilma Roussef”, vuole già ridurre la dipendenza dalla valuta Usa e per questo intende iniziare a concedere prestiti nella valuta sudafricana e in quella brasiliana, anche per promuovere un sistema finanziario internazionale più multipolare.

 Li eroga invece già in yuan cinesi.

Si tratta di un rischio reale per la moneta americana e gli scambi internazionali?

“Finché il dollaro rimane la valuta ufficiale della riserva del pianeta – ha dichiarato il politologo Usa “Ian Bremmer” alla “Stampa” – non credo che ci siano rischi per il biglietto verde.

 I Brics non sono preparati a creare una valuta unica alternativa al momento, ma c’è un chiaro sforzo di limitare l’uso del dollaro come arma.

 Il grande problema dei Brics è che la globalizzazione non è più così veloce come negli ultimi 50 anni.

Quei meccanismi che agevolavano la maggiore integrazione dei Brics col resto del mondo stanno diventando meno efficaci”.

 

 

 

 

A Pechino va in scena il nuovo ordine

mondiale. Il brutale Assad ospite di “Xi”.

 

Formiche.net - Emanuele Rossi – (22-9-2023) – ci dice:

La guerra di narrazioni siriana continua con il rais “Assad” che da Pechino sposa i piani globali di “Xi Jinping”.

“Damasco” è parte del nuovo ordinamento globale che la Cina propone come modello alternativo a quello occidentale.

Il leader cinese “Xi Jinping” e il rais siriano “Bashar El Assad” hanno dichiarato una “partnership strategica” durante la visita del satrapo di Damasco a Pechino.

Tra i due Paesi si apre da oggi una fase di maggiore cooperazione che potenzialmente vedrà la Cina prendere una posizione di vantaggio nella ricostruzione della Siria — un Paese devastato dalla guerra con cui Assad ha schiacciato il suo stesso popolo e retto al tentativo di rivoluzione dei gruppi ribelli.

L’annuncio è stato fatto durante la visita di “Assad”, la prima dal 2004 e il primo incontro diretto con “Xi”, avvenuta in concomitanza con la cerimonia di apertura dei “Giochi Asiatici “a cui la Siria partecipa.

Quello offerto da Pechino è un tappeto rosso nella riqualificazione siriana, e soprattutto assadista:

il capo di Stato di Damasco ha già riaperto il dialogo con le nazioni regionali — molte delle quali avevano sostenuto i ribelli anche militarmente — e la” Lega Araba” gli ha già teso la mano, dopo averlo escluso per un decennio.

Ma la visita in Cina è ancora più importante per il valore del Paese sul palcoscenico globale.

 

Le relazioni storiche tra Siria e Cina sono state segnate dalla cooperazione e dal sostegno diplomatico, con una storia che risale a diversi decenni fa.

Questi legami si sono consolidati durante l’epoca della Guerra Fredda, quando entrambe le nazioni hanno trovato un terreno comune nel sostenere principi come la non interferenza negli affari interni degli Stati sovrani.

Anche seguendo questa linea, la Cina ha sempre sostenuto la Siria nei forum internazionali, comprese le Nazioni Unite, fornendo spesso una copertura diplomatica quando Damasco ha dovuto affrontare l’isolamento dalle nazioni occidentali a causa della brutale repressione delle opposizioni — a cui Assad ha tenuto fronte grazie al supporto di Iran e Russia.

Nel corso degli ultimi anni, la relazione con la Cina è migliorata: la guerra civile in Siria è sostanzialmente finita, il regime ha vinto anche se ci sono isolati hotspot controllati dai ribelli (aiutati dalla Turchia) e la fascia settentrionale in mano ai curdi.

Il Paese è pronto ad avviare la ricostruzione.

E Pechino vuole un ruolo per le proprie aziende anche pensando alla possibilità di incunearsi e aprire un avamposto affacciato nel Mediterraneo.

 Un lavoro complicato dove la Cina dovrà trovare spazi tra Iran e Russia. Pechino vi dedica attenzione non prioritaria, ma non vuole non esserci.

Ora, con la dichiarazione di “partnership strategica nel XXI secolo”, queste relazioni storiche entrano in una nuova fase, evidenziando l’impegno della Cina a svolgere un ruolo significativo nella ricostruzione postbellica della Siria e soprattutto nella più ampia regione del Mediterraneo allargato.

 Per Damasco, la sponda cinese è molto più utile ed efficace di quella russa e iraniana: la Cina, pur con problemi economici, è una potenza globale.

 

Messaggi simbolici, significato strategico.

L’incontro è stato all’insegna del simbolismo, con ciascun leader affiancato da nove assistenti a un grande tavolo rettangolare di legno, incorniciato dalle bandiere di entrambi i Paesi e da un dipinto cinese sullo sfondo.

Xi ha sottolineato la solidità delle relazioni Cina-Siria, affermando: “La Cina sostiene la Siria nell’opporsi alle interferenze straniere, nel contrastare le prepotenze unilaterali, nel salvaguardare l’indipendenza nazionale, la sovranità e l’integrità territoriale”.

Assad, in risposta, ha espresso gratitudine per il sostegno della Cina durante le sfide affrontate dalla Siria e ha espresso ottimismo per il futuro:

“Questa visita è estremamente importante per il momento e le circostanze, perché oggi si sta formando un mondo multipolare che ripristinerà l’equilibrio e la stabilità nel mondo”.

Il significato di tutto questo è altamente simbolico.

 La Siria partecipa al piano cinese di ricostruzione dell’ordine mondiale, quello lanciato con le iniziative globali di Xi — per la sicurezza, lo sviluppo e la civilizzazione.

 La Cina vuole dimostrare che nel modello che offre c’è spazio per tutti, anche per i dittatori che hanno insanguinato il loro Paese per anni (sono circa cinquecentomila i morti della guerra civile siriana, molti di questi ribelli e civili delle zone conquistate dai ribelli).

 

Per Pechino, il peso etico e morale è relativo e del tutto trascurabile se non intacca l’interesse cinese.

 Il messaggio che esce è che chiunque può essere riqualificato dal pragmatismo con cui la Cina affronta le relazioni internazionali.

È un evidente richiamo a tutta una serie di Paesi che possono esprimere potenzialità ma con cui l’Occidente — che sta invece innalzando i temi dei diritti democratici come prioritari — ha interrotto i contatti.

 I golpisti nel Sahel e altri autoritarismi africani, l’Iran, il Venezuela, la giunta birmana, la Russia, sono alcuni esempi.

Da questo punto di vista la visita di Assad vale molto di più dei dialoghi bilaterali e delle attività cinesi nella regione.

 La Siria diventa ancora un terreno di test di dinamiche ampie, come nel caso della diffusione anti-occidentale che ha da sempre circondato il conflitto e da cui hanno preso vento azioni di “infowar” guidate innanzitutto dalla Russia e dall’Iran, e in parte minore dalla Cina.

L’ecosistema del conflitto siriano ha prodotto e diffuso alcune delle più importanti “operazioni di disinformazione” recente, rendendo il termine “fake news” mainstream.

 La guerra civile a Damasco è stata da sempre una guerra di narrazioni: ora con il passaggio di Assad a Pechino continua a mostrare le sue caratteristiche.

 

 

 

Difendi la tua casa: no

alla follia EU sulle “Case Green”

  Korazym.org - Blog dell’Editore – (30.04.2023) – Antonio Brandi – ci dice:     

 

Condividi.

 È proprio in questi giorni che gli organi dell’Unione Europea stanno portando a termine le procedure per approvare la “Direttiva sulle Case Green”, che ci costringerà a spese folli per rendere le nostre case “più ecologiche” secondo gli assurdi criteri fissati dai seguaci del fanatismo ambientalista.

Ci vogliono portare sul lastrico per inseguire un’ideologia fanatica e antiscientifica: la cosiddetta “transizione ecologica” (Green Deal).

Allucinata da questa vera e propria religione ambientalista, l’Unione Europea vuole approvare la “Direttiva sulle Case Green” per l’efficientamento energetico del patrimonio immobiliare.

Sai che significa?

Significa che saremo tutti obbligati per legge a spendere decine di migliaia di euro per ristrutturare i nostri condomini e le nostre case e renderle “più ecologiche” secondo parametri ambientalisti assurdi e ideologici fissati dall’Unione Europea.

 Ristrutturazioni costosissime che avranno un impatto ambientale assolutamente insignificante su scala mondiale, ma che intanto avranno impoverito e indebitato ancor più decine di milioni di Italiani tra ceto medio, pensionati e famiglie meno abbienti.

Devi difendere la tua casa dai fanatici ambientalisti dell’Unione Europea: firma adesso una petizione per chiedere al Governo italiano di respingere la “Direttiva sulle Case Green” che costringerà le famiglie italiane a indebitarsi e impoverirsi per compiacere l’ideologia ambientalista dell’Unione Europea.

 Le famiglie sono già gravate da una situazione economica e sociale deprimente, segnata dall’inflazione e dall’aumento dei costi dell’energia nei mesi scorsi: non possiamo tollerare altre spese folli per compiacere gli ideologi del fanatismo ambientalista che governano l’Unione Europea e sono pronti a mandare sul lastrico milioni di famiglie pur di raggiungere i loro fantomatici “obiettivi” ecologici!

Quando l’impatto dell’Unione Europea – e in particolare delle case private dei cittadini – sull’ecosistema globale è minimo e ridicolo rispetto a quello di mercati come l’India, la Cina o gli USA.

 

La “Direttiva sulle Case Green” obbligherà gli Italiani (come tutti i cittadini europei) a ristrutturare le loro case per raggiungere la classe energetica “E” entro il 2030, e la classe “D” entro il 2033.

 Per capire quanto costerà questo programma ideologico basta considerare che oggi più del 60% degli immobili residenziali in Italia non è nemmeno nella classe energetica “F”.

La “Direttiva sulle Case Green”, inoltre, comporterà l’immediata perdita di valore economico delle case degli Italiani, perché diventerebbero case “fuorilegge” e un compratore dovrebbe accollarsi il costo delle ristrutturazioni obbligatorie, abbassando così il prezzo di vendita e il guadagno per chi vende.

E per ottenere che cosa?

Una riduzione dell’impatto ambientale delle case di uno “zero virgola” su scala mondiale.

Questo è ridicolo, masochista e inaccettabile.

Unisciti adesso ad altre migliaia di cittadini:

firma la petizione per chiedere al Governo italiano di respingere la Direttiva sulle “Case Green” in sede Unione Europea ed evitare un salasso mostruoso privo di alcun serio beneficio ambientale.

Questa causa riguarda profondamente la missione di Pro Vita & Famiglia, perché l’attacco alla casa (e in generale alla proprietà privata) dei cittadini da parte dell’intolleranza ambientalista indebolisce l’autonomia economica e quindi la libertà delle famiglie, che dovranno ancor più indebitarsi e dipendere da sussidi statali e istituti finanziari.

La “Direttiva sulle Case Green” che l’Unione Europea vuole approvare porterà esattamente a questo:

milioni di famiglie dovranno aprire mutui o spendere i risparmi di una vita per ristrutturare le loro case e renderle “conformi” agli standard ambientalisti ideologici fissati dai (falsi) profeti della “transizione ecologica”.

Insieme possiamo e dobbiamo far sentire la nostra voce: aiutaci oggi firma la petizione che chiede al Governo italiano e agli Eurodeputati di fare tutto il possibile per evitare questo vero e proprio “sacrificio umano” per rendere culto al dio “ambientalismo”.

Statisticamente, questa Direttiva dell’Unione Europea impoverirà anche te o qualcuno della tua famiglia:

è nel tuo interesse sostenere questa causa e firmare la petizione, è l’unico modo concreto che hai per far sentire la tua protesta e difendere la tua proprietà.

(Antonio Brandi. Presidente Pro Vita & Famiglia Onlus).

 

 

 

 

Aborto. L’Europa senza

radici, chiede sangue.

Korazym.org-Blog dell’Editore – (12.04.2024) – Miguel Cuartero – ci dice:

Parlamento Europeo vota pro aborto.

Non si può condividere.

 Dopo la mossa (suicida) di Macron ora è l’Europa a chiedere «che l’articolo 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea sia modificato, affermando che “ognuno ha il diritto all’autonomia decisionale sul proprio corpo”».

Una decisione che lascia sgomenti.

A chiederlo è la civilissima Europa, baluardo dei valori occidentali, esempio di “primo mondo”, evoluto, saggio, maturo.

A chiederlo è un continente che ha subito per due volte in un secolo (recentissimo) due conflitti mondiali e che oggi stesso assiste (e alimenta) altri due guerre nel proprio territorio.

Da parte dei Cattolici questa notizia merita senz’altro attenzione e riflessione.

Una società che dimentica la sacralità della vita e che toglie dignità alla vita nascente, a esseri umani indesiderati, non è un luogo sicuro dove vivere e far crescere la propria famiglia.

Al di là delle stupidaggini e delle battute idiote sentite e risentite in questi anni, per cui la Chiesa sarebbe un posto pericoloso per i bambini, c’è da osservare, con amarezza, che la Chiesa è al momento l’unico luogo sicuro, in cui la vita è difesa dal “momento del suo concepimento fino alla sua morte naturale”. 

Lo ha ribadito in questi giorni con la “Dichiarazione Dignitas infinita” che, al di là delle critiche ricevute per una impostazione teorica debole, ribadisce con parole durissime che l’aborto è un delitto che “grida vendetta al cospetto di Dio”.

Di fronte a una così grave situazione, occorre più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno.

 A tale proposito risuona categorico il rimprovero del Profeta:

 “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre” (Is 5, 20).

Anche Francesco ha parlato diverse volte contro l’aborto con termini molto duri, troppo duri secondo alcuni osservatori («è come assoldare un sicario»).

 Ma è necessario chiedersi se la Chiesa ha fatto abbastanza per impedire una deriva che oggi definisce pericolosissima.

Per dieci anni la Chiesa ha predicato l’amicizia sociale, la fraternità universale, il pacifismo globale e l’ecologia integrale.

Per tutta risposta l’Europa fa il gesto dell’ombrello e chiede più aborto. Qualcosa è andato storto ed è urgente raddrizzarlo.

Va infatti osservato che in questi anni si è combattuto, anche all’interno della Chiesa stessa, contro concetti cardine come i “principi non negoziabili” e le “radici cristiane dell’Europa”.

 Quelli che erano principi e punti fermi e irremovibili, che Benedetto XVI ha più volte ribadito e sottolineato e, sono oggi considerati secondari, residui di una battaglia culturale, non persa, ma inutile e dannosa.

Eloquente che proprio in questi giorni sia uscito un libro intitolato Il mito delle radici cristiane dell’Europa (Einaudi).

L’autore (Sante Lesti) considera le radici cristiane dell’Europa «un mito storico-identitario», caro a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI e a chi «pretende di dirci non soltanto da dove veniamo, ma anche chi siamo e, soprattutto, non possiamo non essere».

Il Corriere, entusiasta, gli dedica due pagine e inserisce nel titolo papa Francesco (il picconatore).

«Il tramonto di un mito.

 La visione di papa Francesco sulle “radici cristiane”» titola con orgoglio Paolo Mieli.

 

Intervistato da “Il Manifesto”, l’autore ha affermato qualcosa che suona allarmante:

«È in corso un ripensamento. Senza dubbio, sono cambiate le priorità e la battaglia per i principi non negoziabili non è più la stella polare. Trovano invece molto più spazio nei discorsi del papa sull’Europa l’accoglienza dei migranti, la solidarietà sociale e la difesa dell’ambiente».

Allarmante per due motivi:

il primo è perché così oggi viene percepita la Chiesa e l’attuale pontificato, in senso di rottura con un passato identitario e intollerante e in un nuovo atteggiamento di apertura e di ascolto, se non di accettazione, delle istanze, delle scelte, delle priorità e delle mode della società contemporanea.

Secondo motivo per cui queste parole sono allarmanti è perché non sono lontane dalla verità.

Nella Chiesa “sono cambiate le proprietà”.

Lo dimostrano le dichiarazioni dei vescovi, le (non) prese di posizioni della Santa Sede, ma anche i silenzi e il “laisser faire” con cui si vuole dimostrare un volto più umano, più amabile e x-friendly.

Lo dimostra la revisione voluta alla bozza di “Dignitas” infinita che ha ripristinato l’ordine e la varietà delle priorità (cfr. DI, Presentazione.)

Tornano oggi di estrema attualità le parole di Sant’Agostino citate da Benedetto XVI al Parlamento Federale tedesco nel 2011:

«Togli il diritto e allora che cosa distingue lo stato da una grossa banda di briganti?» (De Civitate Dei).

Scriveva Ratzinger nel lontano 1987: «Il riconoscimento della sacralità della vita umana e della sua inviolabilità senza eccezioni non è dunque un piccolo problema o una questione che possa essere considerata relativa, in ordine al pluralismo delle opinioni presente nella società moderna».

La rivendicazione di tanti diritti a detrimento della vita di un essere umano innocente rende «ciechi di fronte al diritto alla vita di un altro», perciò «ogni legalizzazione dell’aborto implica perciò l’idea che è la forza che fonda il diritto». 

Così «vengono minate le basi stesse di un’autentica democrazia fondata sull’ordine della giustizia».

 In realtà, prosegue Ratzinger,

 «la morale vive sempre in scritta in un più ampio orizzonte religioso (…) fuori da questo ambito essa diventa asfittica e formale, si indebolisce e muore».

“Per questo un’Europa che ha rinnegato le radici cristiane è un’Europa senza radici e senza futuro”.

(Questo articolo è stato pubblicato dall’autore sul suo blog “Testa del Serpente”.)

 

 

 

 

Europa 2024, guai stare nel mezzo.

Cespiti.it - Marco Bentivogli - co-fondatore di BASE ITALIA – (10-1-2024) – ci dice:

Verso una nuova fase dell'Unione europea.

Ci avviciniamo rapidamente al rinnovo del Parlamento Europeo.

Nel 2019 la divisione marcata tra forze apertamente nazional populiste e anti-europeiste che spingevano per l’uscita dall’Euro e forze dichiaratamente europeiste è stata, paradossalmente, una chiave positiva per dare vivacità, partecipazione e slancio al dibattito sull’Europa.

Lo scenario è cambiato.

Lo scontro commerciale e politico tra Usa e Cina, l’invasione russa dell’Ucraina, il determinarsi di nuovi equilibri orientati a un disordine multipolare piuttosto che a un ordine multilaterale, richiedono un ruolo sempre più forte dell’Unione europea.

Eppure l’Europa è più divisa oggi che nel 2019.

Il fronte sovranista si è ridefinito e riarticolato e ora, per la prossima Commissione, si profila un accordo tra conservatori e popolari.

Troppe le incertezze e le timidezze che hanno indebolito il fronte anti-sovranista a cominciare dall’Italia dove a fronte di legami strutturali sempre più stretti con i partners europei – i paesi dell’Unione continuano a rimanere di gran lunga lo sbocco principale per le imprese italiane – le ultime elezioni hanno consegnato per la prima volta il Paese alla guida di forze dichiaratamente euroscettiche e orgogliosamente sovraniste.

Peraltro occorre riconoscere come il burocratismo, l’inefficacia decisionale, la scarsa legittimazione popolare, eterogeneità delle condizioni nelle diverse regioni restano il terreno su cui i sovranisti giocano la partita contro le istituzioni di Bruxelles.

In realtà, gran parte di questi fallimenti sono dovuti al ruolo preminente degli Stati nazionali e ad una scarsa cessione di sovranità alle istituzioni comunitarie:

questo processo si è realizzato solo in ambito di politica monetaria con la nascita della BCE, mentre le politiche fiscali e industriali, rimaste in mano ai governi nazionali, sono scarsamente efficaci senza capacità di investimento sovranazionale.

 È come non far arrivare l’acqua all’orto e arrabbiarsi se le piante si seccano.

(Oppure i comandanti in capo della UE fanno strage di becchime per i polli, in gran segreto! N.D.R.)

Alle elezioni europee del 2024 il progetto europeo arriva quindi ammaccato.

Ma l’Europa unita è e resta la soluzione, non il problema, serve un’inversione di rotta.

Oggi parlare di “ever closer Union” ovvero di Unione sempre più coesa, senza che le persone abbiano chiare le ricadute pratiche sulla loro vita, serve solo a dare ulteriore carburante ai populisti-sovranisti che stanno agitando il clima pre-elettorale in vista delle prossime elezioni europee del 2024.

Anche di fronte a quanto sta avvenendo tra Russia e Ucraina occorre riconoscere che l’argomento dell’Unione europea come spazio privo di conflitti e costruttore di pace, ha molta presa sulle generazioni che hanno vissuto le guerre mondiali e il loro portato di morte e distruzione ma per le nuove generazioni che hanno sempre vissuto nella pace e conoscono la guerra dalle tv “all-news” l’argomento non è altrettanto forte.

Per questo non si può stare nel mezzo, bisogna impugnare la causa dell’unità europea e motivare le proprie convinzioni tra le persone.

Completare il disegno europeo significa ridurre le disuguaglianze tra le regioni, integrare i sistemi formativi, assumere il pieno controllo delle politiche economiche e fiscali, avere un sistema di difesa comune, eleggere direttamente il Presidente degli Stati Uniti d’Europa.

Tutto questo va compiuto avendo consapevolezza di quanto sia cambiata la società europea – si pensi alle nuove tendenze demografiche – e quindi quanto e come debba essere riformato il mondo della produzione.

Ripensare i lavori fuori dai paradigmi e dalle convenzioni giuridiche del ‘900 può liberare energie impensabili così come ridefinire il welfare per ritrovare il consenso e l’adesione delle grandi masse al progetto comune.

Finora l’Unione non si è mai direttamente occupata di questo ma proprio l’orizzonte di un welfare comune potrebbe essere quella nuova frontiera capace di dare nuova linfa e spinta propulsiva al sogno europeo.

Brexit, a Ovest, Erdogan a Est sono due esempi che dimostrano quanto il sovranismo nella pratica sia nocivo e contrario agli interessi dei lavoratori.

Siamo alle porte del secondo balzo in avanti dell’umanità in termini scientifico tecnologici.

 La ricerca sta già offrendo e offrirà sempre di più una capacità di abitare in modo più intelligente il pianeta per chi saprà cogliere la sfida su campo aperto.

Progettare lavori, opere, ecosistemi a #umanità aumentata rilancia un’impresa e la rende non solo più forte ma il luogo di costruzione condivisa del futuro.

Il nostro continente può essere lo spazio di realizzazione di queste nuove architetture sociali, economiche, industriali. L’Unione europea può diventare la piattaforma di impulso di un mondo aperto libero, sostenibile e solidale, le alternative a questi valori sono dall’altra parte.

 Bisogna scegliere.

Se di sovranità bisogna parlare, allora parliamo di quella industriale e tecnologica.

Dobbiamo riconquistare una sovranità europea autonoma ma non equidistante, tra Cina e Stati Uniti.

 Intelligenza Artificiale, reti cloud, robotica, ricerca di base e applicata, etc. meritano una capacità europea che non si fermi a costruire buoni regolamenti (vedi Gdpr) ma a elaborare nuovi standard (come avvenne per il Gsmnelle tlc), come dovrebbe avvenire per le reti cloud (con Gaia X).

Su questo, si può ricostruire una leadership globale, centrale e di orientamento degli stessi G2, Stati Uniti e Cina, capace di aggregare campioni europei in tutti i settori.

Altrimenti, senza la capacità di revisione dei trattati (a partire dalla concorrenza), e quella di revisione del patto di stabilità, molti Governi che hanno promesso cose irrealizzabili, alla vigilia delle elezioni europee, tra un anno torneranno a dare la colpa all’Europa, quando invece la mancanza di risultati è figlia proprio dell’incoerenza e inaffidabilità delle leadership sovraniste innanzitutto nei confronti dei loro elettori, quindi del proprio Paese e infine dell’Europa stessa.

 Per questo non deve essere lasciato solo alle istituzioni e ai gruppi parlamentari il rilancio del sogno europeo ma deve essere portato al centro del discorso pubblico e della società civile europea.

Ma servono gruppi dirigenti, élite in ogni ambito con queste visioni e capacità.

(Elite possibilmente non corrotte! N.D.R.)

 Storicamente hanno portato avanti il progetto europeo, leadership centrali agli schieramenti politici, come Adenauer, Schuman, De Gasperi, poi Kohl e Prodi. 

Tutti e 5 cattolici, i primi tre, uomini di frontiera, perseguitati dalle dittature nazifasciste.

Chi ha a cuore il destino dell’Unione non può prescindere da questa eredità, da queste biografie.

Per la sinistra e tutti gli europeisti c’è un bivio, non irrilevante, inseguire i populisti (come fece Corbyn) nei loro progetti più miopi o abbandonare, tutta la retorica dell’“Europa si, ma” e dare tutte le proprie energie migliori al completamento del sogno europeo.

Non vi sono solo ragioni “ideali” per seguire con determinazione la seconda strada:

tornare a lavorare seriamente per il sogno europeo è conveniente ed urgente.

In questa fase, le sfumature, gli atteggiamenti rinunciatari sono più pericolosi della demagogia.

 

 

 

 

 

L’Europa in stallo e la

mancanza di un governo

ilsole24ore.com – Sergio Fabbrini – (15 – 1 - 2024) – ci dice:

A volte è un piccolo fatto che mette in luce l’esistenza di un grande problema.

Il piccolo fatto è il seguente.

 Il presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel, ha da poco comunicato che si presenterà alle elezioni per il Parlamento europeo del prossimo giugno 2024, anticipando così la fine del suo mandato (novembre 2024).

Il grande problema è che l’Unione europea (Ue) non dispone di un potere esecutivo unitario, efficace e responsabile.

Tra il fatto e il problema c’è un legame.

Se avrete pazienza, spiegherò perché.

Cominciamo da “Michel”.

Il presidente del Consiglio europeo è eletto dai 27 capi di Governo nazionali, che costituiscono quest’ultimo, per 2,5 anni rinnovabili per altri 2,5 anni, ogni 5 anni dopo le elezioni per il Parlamento europeo. Non potendo essere riconfermato, Michel ha deciso di presentarsi alle elezioni di quest’ultimo che si terranno nel giugno 2024.

 

Con “Michel” che lascia la presidenza del Consiglio europeo e con la presidenza della Commissione europea che verrà assegnata attraverso le negoziazioni successive alle elezioni del prossimo giugno 2024, la presidenza dell’Ue verrà esercitata dal capo di governo del Paese che, a rotazione semestrale, ha la presidenza del Consiglio dei ministri nazionali, il premier belga Alexander De Croo (prima delle elezioni) e quindi il premier ungherese Viktor Orbán (dopo le elezioni).

 Così, durante la transizione post-elettorale, l’Ue verrà presieduta dal suo più acerrimo rivale che potrà decidere l’agenda dei problemi e le condizioni per affrontarli.

È come dare le chiavi della propria casa al ladro che vuole svaligiarla. Come è stato possibile?

 È stato possibile perché l’Ue è stata fatta a pezzi e bocconi, secondo un approccio funzionalista preoccupato di risolvere un problema ma mai di valutare le conseguenze sistemiche della soluzione individuata.

La presidenza semestrale dell’Ue è un esempio di questo modo di procedere.

Sin dall’inizio, fu introdotta per coordinare le attività di ministri e capi di Governo nazionali con lo scopo di far sentire ogni Stato membro partecipe della nuova “costruzione comunitaria”.

In contemporanea, a partire dal 1974, i capi di Governo nazionali cominciarono a vedersi informalmente per affrontare le questioni più divisive, così da sciogliere i nodi che potevano ostacolare il processo decisionale comunitario.

Le cose, però, cambiarono con l’affermazione elettorale di leader nazionali euroscettici e, quindi, con gli allargamenti che si sono succeduti dal 1973 e che hanno accentuato l’eterogeneità delle leadership nazionali.

 Molti nuovi Stati membri non disponevano delle capacità organizzative per coordinare il lavoro degli Stati membri, in molti casi non disponevano neppure della cultura amministrativa necessaria per rendere possibile quel coordinamento.

 Per di più, il passaggio da una presidenza semestrale all’altra aveva introdotto inevitabili discontinuità nell’azione dell’Ue, avendo ogni Paese una sua agenda o un suo interesse da promuovere.

Nondimeno, la presidenza semestrale è rimasta nei trattati, con l’argomento che essa avrebbe favorito la socializzazione dei nuovi membri alle pratiche europee, senza mai pensare che sarebbe potuto avvenire il contrario.

 A Bruxelles, non si toglie ma si aggiunge.

Infatti, il Trattato di Lisbona (entrato in vigore il 1° dicembre 2009) avviò la pratica della “presidenza trio” del Consiglio dei ministri (costituita dal Paese in carica, da quello che lo ha preceduto e da quello che seguirà), così da dare una coerenza di almeno 18 mesi all’agenda europea.

 E formalizzò il Consiglio europeo (dei capi di Governi nazionali), separandolo dal Consiglio dei ministri (coordinato dalla presidenza semestrale), dotandolo di un presidente quasi permanente, così da trasformarlo in un esecutivo collegiale dell’Ue, soprattutto per quanto riguarda la gestione delle politiche che sono di competenza dei Governi nazionali da deliberare all’unanimità.

Nel frattempo, la Commissione europea, con la sua presidenza collegata alle elezioni quinquennali del Parlamento europeo, ha continuato ad agire come l’esecutivo comunitario per le politiche del Mercato unico.

Siamo così giunti al problema. Chi “governa” l’Ue?

Ci sono tre presidenti (del Consiglio europeo, della Commissione europea, del Consiglio dei ministri), di cui non sono chiare le gerarchie né la rispettiva legittimità a parlare a nome dell’Ue.

Viktor Orbán può parlare a nome della maggioranza dei 9,71 milioni di ungheresi, non già dei 447 milioni di persone che hanno il passaporto dell’Ue.

 Ma anche la rappresentanza dell’Ue, da parte degli altri due presidenti, non è chiara.

Il sofà di Ankara è ancora lì a ricordarci che l’Ue è senza una voce unitaria e legittima a livello internazionale.

 Come se non bastasse, funzioni esecutive sono esercitate, nei loro rispettivi campi, anche dal presidente permanente (per 5 anni) del Consiglio dei ministri economici e finanziari dell’Eurozona (Eurogruppo) e dal presidente permanente (per 5 anni) del Consiglio degli affari esteri (l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza).

Una panoplia di cariche presidenziali sotto cui si nasconde (appunto) la debolezza decisionale dell’Ue.

 

Eppure, a Bruxelles, le decisioni da prendere non mancano, con due guerre ai nostri confini, flussi migratori da regolare, una politica industriale europea da inventare (come ha spiegato Mario Draghi ai commissari europei l’altro ieri), un mercato interno da rafforzare (come ha proposto Enrico Letta), “una transizione ambientale e tecnologica da gestire anche per i suoi alti costi sociali”.

 Chi guiderà l’autobus europeo per raggiungere quelle mete?

 

 

 

Meloni non chiude a una sua

candidatura alle europee mentre

ribadisce il no a qualsiasi

alleanza con la sinistra in UE.

 Euractiv.it - Simone Cantarini - EURACTIV Italia – (4 gen. 2024) – ci dice:

 

“Non c'è nulla oltre alla linea politica che un governo vota in Aula, e rappresenta all'estero, che dimostri la compattezza di una maggioranza”, ha affermato Meloni nelle repliche delle comunicazioni al Senato sul Consiglio europeo, rispondendo alle critiche sulla posizione di Salvini e della maggioranza riguardo alla Russia. [Palazzo Chigi].

In una conferenza stampa durata oltre tre ore, la “presidente del Consiglio Giorgia Meloni “ha tracciato un bilancio del lavoro condotto fino ad oggi dal governo, rigettando le critiche sull’isolamento in Europa e sottolineando il 2024 come un grande test per l’esecutivo con le europee di giugno, con l’Italia che punta ad avere un “ruolo di peso” nella futura Commissione europea.

Sottolineando che le priorità del governo sono al momento la riforma della burocrazia e della giustizia, nella tradizionale conferenza che, da fine anno, per indisposizione della premier, è stata spostata a inizio 2024, Meloni ha sottolineato che al momento risulta prematuro parlare di candidature, ma non ha nascosto la volontà di valutare la candidatura come candidato capolista alle europee del 6-9 giugno.

“Non ho ancora preso questa decisione”, ha affermato Meloni rispondendo a una domanda sulla sua eventuale candidatura come capolista alle europee.

 “Io sono una persona per la quale niente conta di più che sapere di avere il consenso dei cittadini”, ha aggiunto la leader di Fratelli d’Italia (gruppo dei Conservatori e riformisti europei), ritenendo “cosa utile e necessaria” confrontarsi con il consenso dei cittadini.

Interesse nazionale o interesse elettorale?

Giorgia Meloni ama ripetere di perseguire solo l’interesse nazionale.

Ma l’interesse elettorale sembra essere la sua vera bussola.

Le elezioni europee si svolgono con un sistema proporzionale e le preferenze, e ogni forza politica cerca di differenziarsi dalle altre e di …

“Non sono d’accordo con chi dice che sia una presa in giro”, ha proseguito Meloni facendo riferimento al fatto che una sua eventuale candidatura alle europee sarebbe comunque simbolica dato il suo ruolo di capo del governo.

 “I cittadini lo sanno, e anche questa è democrazia. Una mia eventuale candidatura potrebbe portare anche altri leader a fare la scelta, penso all’opposizione, potrebbe essere una cosa interessante”, ha sottolineato la presidente del Consiglio, precisando tuttavia di voler valutare la mossa e le sue implicazioni sul lavoro come capo di governo. “Penso che vada presa insieme ad altri leader della maggioranza”, ha affermato.

Meloni ha inoltre ribadito di stare lavorando per “costruire una maggioranza alternativa” al Parlamento europeo con il centrodestra rappresentato dal Partito popolare europeo (PPE).

“Se questo non fosse possibile, io non sono mai stata disponibile a fare un’alleanza parlamentare con la sinistra.

Non lo farei in Italia, non lo rifarei in Europa”, ha affermato Meloni.

Tuttavia, come precisato dalla premier, diversa la situazione a livello di nomina della Commissione UE, dove “quando si fa un accordo” e “ciascuno nomina un commissario poi i partiti di governo” tendono a votare a favore dell’accordo.

La premier ha fatto riferimento al” polacco partito Diritto e Giustizia” (PiS), parte della famiglia dei “Conservatori e riformisti europei”, che nel 2019 sostenne la commissione guidata da Ursula von der Leyen, pur non facendo parte della sua maggioranza.

“Marine Le Pen “rivendica una "vittoria ideologica" dopo l'approvazione della contestata legge sull'immigrazione.

I deputati francesi hanno approvato martedì una legge sull’immigrazione molto contestata, con entrambe le camere del parlamento che hanno dato il via libera a una revisione legislativa molto più dura del testo iniziale del governo.

L’inasprimento delle norme riflette il crescente …

 

Con “AfD” differenze insormontabili.

Nella conferenza stampa i giornalisti sono tornati più volte sul tema delle elezioni europee e delle possibili alleanze a livello di partiti della destra.

 In base all’ultimo sondaggio condotto da “Europe Elects”, il gruppo Identità e Democrazia (ID) – che comprende la Lega, gli estremisti di destra tedeschi di Alternativa per la Germania (AfD) e Rassemblement National – è il terzo gruppo più numeroso e ha superato ECR, attestandosi a 93 seggi al Parlamento europeo, il numero più alto di sempre.

 In base all’ultimo sondaggio del 30 dicembre 2023, ECR si attesta a 81 seggi.

Rispondendo a una domanda sui componenti del “gruppo ID”, di cui fa parte la Lega, “Meloni “ha sottolineato che con il gruppo di estrema destra tedesco “AfD” restano “distanze insormontabili”, a partire dal tema del rapporto con la Russia.

Su questo stesso tema, secondo Meloni vi è maggiore vicinanza di vedute con il “Rassemblement National” della “Le Pen”.

La presidente del Consiglio ha inoltre escluso eventuali candidature di ministri di Fratelli d’Italia, sottolineando di non stare lavorando a un rimpasto di governo.

“Non mi sto occupando delle candidature di Fratelli d’Italia”, ha affermato Meloni, sottolineando di non lavorare per un rimpasto dei ministri del governo.

“Noi avevamo pensato di candidare i tre leader dei partiti della maggioranza, che è corretto fare insieme. Io non lavoro per ottenere un rimpasto”, ha affermato Meloni.

Per Draghi se l'UE vuole sopravvivere deve divenire "un'unione più profonda" sul piano politico.

La sopravvivenza a lungo termine del progetto europeo dipende da un’urgente integrazione politica.

È quanto sostiene l’ex presidente della Banca centrale europea (BCE) e presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, parlando alla” Global Boardroom” del” Financial Times”.

Nell’intervista, Draghi – che …

 

Inutile parlare di chi guiderà la Commissione UE.

A chi le ha chiesto la necessità di una svolta di centro con l’eventuale sostegno di una nomina di Mario Draghi alla guida della Commissione europea, Meloni ha chiarito che alla luce del funzionamento della formazione dell’esecutivo europeo “oggi parlare del toto nomi della presidenza della Commissione europea così come dei commissari è inutile”.

 Meloni ha ricordato che “Mario Draghi ha già dichiarato di non essere disponibile” a ricoprire un tale ruolo.

 La presidente del Consiglio ha sottolinea di essere stata “una fiera oppositrice di Mario Draghi” quando era al governo, appoggiando però “la sua politica estera” e precisando l’ottimo passaggio di consegne.

“Sono contenta che Mario Draghi collabori con la Commissione UE sul dossier della competitività europea”.

“Noi – ha affermato Meloni – dobbiamo parlare di cosa dovrà fare la prossima Commissione”, ha aggiunto Meloni.

 “Io lavoro per avere domani una Commissione e una politica UE che possa essere più forte negli scenari di crisi, più determinata nell’agenda strategica, più efficace nella lotta all’immigrazione, più capace di armonizzare il tema della sostenibilità ambientale con la sostenibilità sociale”, ha aggiunto Meloni.

Infine, sempre in vista della campagna per le europee, Meloni si è detta aperta a un confronto televisivo con la segretaria del Partito democratico (PD/Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici) Elly Schlein.

Cosa significa davvero la mancata ratifica italiana della riforma del MES.

Il dibattito italiano sul Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) negli anni, così come quello sulla sua riforma e ora sulla nostra mancata ratifica di quella riforma è sempre stato ideologico, privo di ancoraggi con la realtà. Cerchiamo di fare chiarezza.

Quando …

Sul MES non c’è mai stata maggioranza in parlamento.

Sempre in tema europeo, la conferenza stampa ha visto domande anche sulla mancata ratifica da parte del Parlamento della riforma del Meccanismo europeo di stabilità (MES), sul Patto di stabilità e crescita e sulla Legge di bilancio.

Sul MES, Meloni ha rigettato la tesi secondo cui l’Italia sarà isolata a livello europeo considerato che è l’unico Paese dell’eurozona a non aver ancora ratificato la riforma del trattato, ma anche la relazione con il Patto di stabilità e crescita su cui si è raggiunto un faticoso accordo a livello di Consiglio UE a dicembre.

“Non credo che il tema della mancata ratifica del MES vada letto in relazione ai risultati del Patto di stabilità”, ha affermato Meloni, dicendosi comunque soddisfatta dell’accordo fatto dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti.

 “Chiaramente non è quello che avrei voluto io, quello che emerge è che in Europa non c’è questo superiore interesse comune, ci sono nazioni che valutano quello che è meglio per il loro interesse”, ha fatto notare la premier.

“Di fronte a questa idea che emerge sarebbe stato difficile impormi sul parlamento, io mi sono rimessa all’aula e il MES è stato bocciato.

Perché?

 Perché non c’è mai stata la maggioranza in parlamento per ratificare la modifica del Trattato”, ha affermato Meloni che è ritornata alla querelle con l’ex premier e attuale leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, accusato da Meloni di aver sottoscritto una riforma del trattato consapevole “che non c’era una maggioranza in parlamento per ratificarlo”.                                                                     Per la premier, “il MES esiste da tempo ed è secondo me obsoleto” e “forse, questa mancata ratifica può diventare un’occasione per trasformare il MES in uno strumento più efficace”.

Sull’isolamento dell’Italia a livello UE dopo questa bocciatura, Meloni ha fatto notare che il Paese “non ha minori diritti di quelli di altre nazioni” e in merito ha citato la decisione presa nel 2005 dall’allora presidente francese Jacques Chirac di indire il referendum sulla Costituzione europea che fu bocciato dai cittadini francesi.

 “Nessuno disse a Chirac che gliela avrebbero fatta pagare”, ha affermato Meloni.

“Forse dobbiamo anche noi essere più consapevoli del ruolo che abbiamo, perché non abbiamo minori diritti delle altre nazioni”.

L'UE raggiunge un accordo storico sulla riforma del sistema di asilo e migrazione.

Il Consiglio e il Parlamento europeo hanno raggiunto mercoledì (20 dicembre) un accordo storico sulla riforma del sistema di asilo e migrazione dell’Unione europea.

 L’intesa è stata raggiunta dopo lunghi negoziati durati tutta la notte.

La presidenza spagnola del Consiglio e …

 

Risultati sul fronte della lotta all’immigrazione insoddisfacenti.

Sul fronte della lotta all’immigrazione, uno dei temi più gettonati da Fd’I quando si trovava all’opposizione, Meloni ha ammesso i risultati insoddisfacenti in questo anno di governo, ma non è entrata nel merito dello stallo sull’accordo con l’Albania, la cui ratifica è stata sospesa lo scorso dicembre dalla Corte costituzionale albanese, né dei problemi relativi all’intesa raggiunta con la Tunisia.

“Non ritengo soddisfacenti i risultati sull’immigrazione, soprattutto in rapporto alla mole di lavoro che ho dedicato a questa materia”, ha fatto notare. “So che ci si aspettava di più, sono pronta ad assumermene la responsabilità”, ha aggiunto.

La premier ha comunque ricordato che “la materia con cui ci confrontiamo è una sfida epocale”, osservando di voler affrontare il fenomeno a livello strutturale, lavoro che richiede anzitutto un coinvolgimento internazionale e soluzioni strutturali di lungo periodo.

Meloni ha comunque ribadito il suo obiettivo: lavorare in Africa, fermare le partenze dal continente africano, valutare la possibilità di aprire hotspot nei Paesi africani, lavorando parallelamente sull’immigrazione legale, mentre si combatte quella illegale.

Secondo la premier, l’Italia nell’ultimo anno ha portato sulla migrazione “un approccio serio che non ha avuto problemi a farsi ascoltare” a livello europeo.

La premier ha affermato di aver sostenuto il nuovo Patto UE Migrazione e asilo perché stabilisce delle regole “migliori delle precedenti, ma non troveremo mai una soluzione che metta tutti i Paesi d’accordo”.

Secondo Meloni, l’unico modo per risolvere il problema è lavorare a monte, ma l’Italia non può farlo da sola.

 “L’Europa deve tornare a concentrare la sua attenzione sull’Africa”, ha osservato Meloni, costruendo “rapporti di cooperazione seri, strategici, da pari a pari e non predatori”.

Sul Piano Mattei ci sono già progetti specifici.

Il tema della cooperazione con l’Africa porta l’attenzione sul tanto citato Piano Mattei, annunciato una prima volta il 25 ottobre del 2022 in occasione della fiducia al governo e a cui l’esecutivo ha cominciato a dare forma delineandone per ora solo la governance con il decreto-legge n°161 del 15 novembre, ma senza presentare ancora ufficialmente i suoi contenuti o dettagli.

 

Parlando in conferenza stampa, Meloni ha assicurato che sarà presentato in occasione della Conferenza Italia-Africa che si terrà dal 28 al 29 gennaio.

Meloni ha sottolineato che la presidenza italiana del G7 lavorerà molto sull’Africa, osservando che l’Unione europea deve concentrare la sua attenzione sul continente ricco di materie prime critiche su cui sono in atto destabilizzazioni spesso volute.

 

Per la premier con l’Africa è necessario “costruire rapporti seri, strategici, da pari a pari non predatori”, difendendo anzitutto il diritto “a non emigrare”.

Secondo Meloni il Piano Mattei “costruisce questa idea”. “Il mio obiettivo – ha affermato – è che diventi un modello anche per altri Paesi UE che oggi lavorano in ordine sparso e che si possa fare un lavoro serio di strategia. Ci sarà la conferenza Italia-Africa, dove noi presenteremo il Piano”.

Meloni ha rivelato che l’Italia sta lavorando su “diversi filoni” per quanto riguarda i contenuti del piano, precisando di voler fare un lavoro che individui una serie di priorità, immaginando alcuni Paesi partner e la stesura embrionale del Piano.

Ci sono dei progetti specifici, ma non posso raccontarlo prima di lanciare il piano”, ha affermato Meloni a chi gli chiedeva maggiori dettagli in merito.

Il rapporto con la Cina dopo l’uscita dall’Iniziativa della Nuova via della seta.

Durante la lunga conferenza stampa, Meloni ha risposto anche alle domande sull’uscita dell’Italia dall’iniziativa cinese della Nuova via della seta.

Il memorandum con l’Italia – unico Paese del G7 ad aderire – era stato firmato dal primo governo Conte nel 2019 e aveva la durata di cinque anni.

“Io ho preso la decisione sul tema della Via della seta anzitutto per coerenza di quello che ho sempre pensato.

A maggior ragione sono convinta delle mie decisioni sulla base dei risultati che sono arrivati con la Via della seta”, ha affermato Meloni, ricordando che l’intesa non ha portato all’auspicato equilibrio della bilancia commerciale, ma anzi ha portato a un saldo ulteriormente sfavorevole passato dai -18 miliardi di euro del 2019 agli attuali -41,44 miliardi.

“L’adesione non è servita a riequilibrare, ma a fare entrare molti più prodotti cinesi”.

“Mi ha colpito che nazioni dell’UE che non hanno mai aderito alla via della seta abbiamo un volume di cooperazione con Cina molto superiore al nostro”, ha fatto notare Meloni, che ha sottolineato la volontà di rilanciare le relazioni con la Cina, onorando l’impegno di recarsi in visita a Pechino su invito del presidente Xi Jinping.

 “Ritengo che si possano fare altri accordi per rafforzare la nostra cooperazione”, ha sottolineato.

 

 

 

Il gioco “sporco” delle banche

centrali sui cambiamenti climatici.

Valori.it – (6-12-2021) - Andrea Barolini – ci dice:

 

Le banche centrali chiedono a quelle private di rispettare standard di sostenibilità e trasparenza, ma non sempre li adottano quando investono.

I dirigenti delle banche centrali investono grandi quantità di capitali, con pochi controlli.

Le banche centrali, che dovrebbero vigilare sulla stabilità dei mercati finanziari e sul loro buon funzionamento, sono anche importanti investitori. Gestiscono portafogli gonfi di denaro e possiedono asset di vario genere.

Troppi pochi occhi puntati sugli investimenti delle banche centrali.

Eppure, mentre gli occhi degli stessi istituti centrali – in qualità di organismi di controllo – sono puntati sulle banche private, alle quali viene chiesto (pur con grandi difficoltà e con risultati molto lontani da ciò che sarebbe necessario) di investire via via in modo più sostenibile, molta meno attenzione è rivolta alle scelte di BCE & co.

 

Il presidente della Federal Reserve americana è Jerome Powell.

Un rapporto di “Reclaim Finance” ha rivelato di recente che le banche centrali del G20 e dell’Eurosistema «non prendono in considerazione l’impatto climatico dei loro investimenti. È come se dicessero alle banche private: “Fate ciò che diciamo, non ciò che facciamo”».

Eppure, secondo il “Network For Greening the Financial System” delle stesse banche centrali, «l’adozione di pratiche d’investimento sostenibili e responsabili (ISR) può contribuire a diffondere l’approccio ad altri investitori».

«Solo un quarto delle banche centrali del G20 adotta pratiche sostenibili».

BCE, Federal Reserve, Bankitalia, Bundesbank e le altre potrebbero dunque porsi come apripista e dare l’esempio.

Al contrario, precisa” Reclaim Finance”, «solo un quarto delle banche centrali del G20, tutte europee, si è impegnato ad investire in tal modo. Ma nello stesso Eurosistema, otto banche centrali non hanno ancora adottato politiche d’ISR».

 

«Inoltre, soltanto un istituto, la “Banque de France, ha indicato tra gli obiettivi quello di allineare la propria strategia ad una traiettoria compatibile con l’”Accordo di Parigi”.

Ovvero con la limitazione del riscaldamento climatico ad 1,5 gradi centigradi, nel 2100, rispetto ai livelli pre-industriali». Il rapporto indica inoltre che soltanto quattro banche centrali – Francia, Slovenia, Germania e Svizzera – hanno adottato restrizioni agli investimenti nelle fonti fossili.

La mancanza di trasparenza nelle strategie d’investimento.

Ma non è tutto.

Nell’analisi vengono smascherati anche cinque “strumenti” utilizzati per farsi passare come investitori responsabili.

Continuando invece a sfruttare il “business as usual”.

Il primo è la mancanza di trasparenza.

 Quindi sono citati l’uso di green bond, il nascondersi dietro la bandiera dei Principi di investimento responsabile (PRI), il concentrarsi sull’approccio best in class (rapportarsi al migliore del settore, anche qualora questo non sia per nulla virtuoso). E infine l’accontentarsi di imporre norme internazionali poco stringenti.

«È scioccante constatare – si legge nel documento – che su 14 banche centrali dell’Eurosistema che hanno adottato politiche d’ISR, nove sono particolarmente opache, e sei non divulgano alcuna informazione credibile per giustificare le loro dichiarazioni in merito».

Di qui le richieste dell’associazione:

adottare un impegno generale sugli 1,5 gradi, bloccare ogni investimento in nuovi progetti legati alle fonti fossili, avviare una politica di uscita dal carbone, e impegni specifici su petrolio e gas non convenzionale.

 

 

 

Nuovo ordine mondiale: perché il Sud

del mondo è così decisivo e cosa può fare l'Europa.

It.euronews.com - Michela Morsa – (04/04/2023) – ci dice:

La guerra in Ucraina ha fatto emergere le enormi differenze tra il sistema valoriale del mondo occidentale e quello orientale.

 Il Sud del mondo sta nel mezzo.

"Siamo troppo arroganti, troppo paternalisti e troppo moralisti".

 L'Occidente, dice “Alexander Stubb”, ex primo ministro finlandese e direttore dell'Istituto universitario europeo, deve rendersi conto di non essere (più) il centro del mondo.

L'Europa e gli Stati Uniti sono in una sorta di bolla, convinti che l'invasione su larga scala dell'Ucraina sia una guerra mondiale.

Eppure, due terzi della popolazione mondiale vivono in Paesi che non hanno condannato attivamente la Russia.

Anzi, i Paesi del Sud del mondo sono più propensi a sostenere la Russia che l'Ucraina.

Stubb, lo definisce un "campanello d'allarme":

40 Paesi hanno imposto sanzioni a Mosca, "zero Paesi dell'Africa. Zero Paesi dell'America Latina. E solo due o tre dall'Asia".

La guerra in Ucraina è anche una guerra tra due sistemi di valori fondamentali totalmente differenti.

 Come sostenitore dell'Ucraina, l'Occidente rappresenta un ordine mondiale liberale, mentre la Russia e anche la Cina, non proprio neutrale, rappresentano un ordine mondiale autocratico in cui l'economia e lo sviluppo corrono slegati dalla libertà e dalla democrazia.

In questa contrapposizione, il Sud del mondo fa da ago della bilancia. I politici occidentali lo hanno capito e da tempo viaggiano nell'emisfero meridionale per conquistarli come partner. Ma i leader orientali fanno altrettanto. 

La scorsa settimana, Mosca ha delineato la sua politica estera, identificando la Cina e l'India come partner chiave e annunciando piani per espandere i legami con l'Africa e l'America Latina.

A questo punto, l'esito della guerra potrebbe determinare più che il futuro della sola Ucraina.

In quanto sostenitori del Paese invaso, gli Stati Uniti e l'Europa cosa stanno rischiando?

Una sconfitta sul campo di battaglia o la sostituzione del loro sistema liberale e normativo?

Insomma, un nuovo ordine mondiale?

Qual è la posizione del Sud globale sulla guerra in Ucraina?

I Paesi dell'America Latina stanno dicendo "no, questa non è la nostra guerra", spiega “Christopher Sabatini”, Senior fellow per l'America Latina di “Chatham House”.

Le speranze dell'Occidente che i Paesi latinoamericani inviassero armi all'Ucraina sono state rapidamente respinte all'inizio della guerra. Allo stesso tempo, l'alleanza tra Russia e Cina si sta rafforzando, anche grazie al viaggio del presidente cinese Xi Jinping a Mosca, che ha mostrato una volta per tutte che la Cina non mantiene una posizione neutrale nella guerra.

Ma è anche una questione di emozioni, legata alla storia di molti Paesi del Sud del mondo, spiega “Alexander Stubb”.

"Fondamentalmente puntano il dito contro l'Europa e gli Stati Uniti e dicono: 'Non venite a farci la predica sull'integrità territoriale e la sovranità'.

 Guardate cosa avete fatto durante il colonialismo. Oppure, guardate cosa è successo in Iraq".

Perché gran parte del Sud del mondo sostiene la Russia e non l'Ucraina?

Il potere è nel Sud globale.

Gli esperti ritengono improbabile che i Paesi del Sud del mondo si uniscano all'Occidente o all'Oriente.

Secondo “Stubb”, il Sud globale in questo momento è il "decisore", ma non vuole scegliere.

"Oscillerà come un pendolo tra i due. Hanno l'economia, le risorse e il potere di determinare la direzione che prenderà il mondo", dice “Stubb”.

Sabatini” spiega che i Paesi del Sud del mondo stanno sfruttando la situazione come un'opportunità per affermare la propria indipendenza di fronte al declino del potere degli Stati Uniti a livello globale e all'interno dell'emisfero occidentale. "Molti di loro ritengono che gli Stati Uniti e l'Europa occidentale abbiano ignorato le loro preoccupazioni per molto tempo", dice il ricercatore.

Ma la domanda è:

la Cina potrebbe riuscire a mantenere relazioni strategiche con il Sud del mondo in modo da creare un nuovo ordine mondiale guidato da Pechino?

In che modo la Cina sta corteggiando il Sud globale?

La Cina lo offre da decenni, soprattutto sotto forma di investimenti e prestiti, flessibili rispetto a quelli della Banca mondiale e non soggetti a "vincoli e condizioni".

La Cina, spiega “Sabatini”, è anche "un mercato molto attraente per le materie prime latinoamericane, e offre anche qualcosa che manca in molti Paesi latinoamericani, ovvero gli investimenti nelle infrastrutture". E Paesi come il Brasile e l'Argentina ne hanno un disperato bisogno.

Ma allo stesso tempo, i valori dei Paesi dell'America Latina divergono ampiamente da quelli di chi vuole rimodellare l'ordine mondiale liberale.

Ad esempio, sottolinea “Sabatini”, in America Latina la tutela dei diritti umani in generale, dei diritti delle donne, dei diritti degli indigeni o della comunità “LGBTQI+”, è diventata estremamente importante negli ultimi anni.

"I governi latinoamericani devono essere consapevoli dei reali vantaggi dell'ordine mondiale liberale, che non sempre ha servito i loro interessi, ma è stato una piattaforma efficace per il rinforzamento dello Stato di diritto o la protezione dei diritti umani attraverso il diritto internazionale".

Cosa ha da offrire l'Occidente al Sud globale?

Se l'Occidente vuole vincere questa situazione, ha bisogno di "una politica estera più dignitosa", avverte “Stubb”.

 Ciò comporterebbe "limitare gli alti standard morali" e cercare di "impegnarsi nel dare al Sud del mondo una certa capacità di azione".

In effetti, il Sud America, l'Africa, gran parte dell'Asia e il Medio Oriente sono a malapena rappresentati in importanti organismi globali come il “Fondo monetario internazionale” o la “Banca mondiale”, anche se costituiscono i due terzi della popolazione mondiale.

Nessun Paese del Sud del mondo è membro permanente del “Consiglio di sicurezza dell'Onu”.

E anche il commercio con questi Paesi, sottolinea “Stubb”, andrebbe ampliato.

Il futuro dell'ordine geopolitico mondiale dipende quindi dal Sud del mondo e dall'importanza che l'Occidente è disposto a dargli, ma anche dalla sua politica nei confronti della Cina.

"Le nostre relazioni con la Cina sono tra le più complicate e importanti al mondo", ha riassunto “Ursula von der Leyen” nel suo primo discorso interamente dedicato alla Cina.

 

"Se l'Occidente vuole mantenere l'ordine liberale e normativo, dovrà andare al tavolo dei negoziati", dice “Stubb”. "I cinesi non vogliono un ordine liberale, ma magari alcuni elementi di un ordine mondiale normale e basato su regole sì.

È questo l'equilibrio che dobbiamo trovare".

 

 

 

 

L’EUROPA ALLA PROVA NEL

NUOVO ORDINE MONDIALE E

LA SFIDA DEL DISIMPEGNO AMERICANO.

 

 Iari.site.it - Lorenza Paolini – (23 Ottobre 2023) – ci dice:

 

L’Europa deve misurarsi con un nuovo ordine mondiale, non più costituito dalle regole dettate dagli Stati Uniti.

Ma la sfida più grande per il vecchio continente arriva con il disimpegno degli Stati Uniti oggi assediati su tre diversi fronti.

La discussione sulla sicurezza europea non può più essere rimandata.

Fronti americani.

Nel contesto internazionale attuale, l’attore chiave per la sicurezza europea è in forte crisi.

 Gli Stati Uniti sono in difficoltà assediati su tre diversi fronti: interno, asiatico ed europeo non riuscendo a trovare in nessuno di questi una priorità assoluta che giustifichi il disimpegno verso gli altri due.

Sul fronte interno in particolare, lo spirito imperiale americano si sta progressivamente ritirando, convincendo gli americani a preferire un atteggiamento non interventista e più cauto, interessato a sanare una situazione interna molto complessa.

L’impressione è quella di essersi concentrati troppo e per troppo tempo in realtà rivelatesi alla fine fallimentari, avendo così tralasciato esigenze interne di un paese che oggi non si riconosce più come punto di riferimento per il mondo.

 Questo atteggiamento, recepito chiaramente dall’establishment americana comporta un serio problema di azione che impedisce al governo di operare con il pieno appoggio dell’opinione pubblica costringendolo inoltre, a una rivalutazione delle risorse spendibili per fronteggiare le sfide americane, prima tra tutte quella con la Cina.

Il fronte asiatico simboleggia la nuova emergenza americana e in generale apre a una sfida globale.

La posta in gioco è l’ordine mondiale costituito secondo le regole americane post ’89 stabilite con la sconfitta del nemico per eccellenza: l’ex Urss.

Ma oggi gli Stati Uniti sono consapevoli di affrontare un nemico diverso che richiede un’attenzione prolungata e una strategia mirata al suo contenimento, se è questo quello che Washinton vuole.

 Ma l’impegno americano, una volta distribuito su più fronti contemporaneamente non è più una realtà ripetibile.

Per impedire una confermata ascesa cinese, gli americani dovranno concentrarsi quanto più possibile sulla sfida nell’Indo-Pacifico con la conseguenza di un già preannunciato disimpegno sul terzo fronte, quello europeo.

Il fronte europeo e le richieste americane.

La presenza americana in Europa ha permesso la creazione dell’Unione Europea necessaria tanto alla stabilità dei paesi del continente quanto a quella degli Stati Uniti.

Ma dopo la fine della Guerra fredda la necessità di controllare L’Europa è andata scemando con il crescente impegno degli Stati Uniti su altri fronti.

Prima della guerra in Ucraina e con più forza anche ora, la richiesta degli Stati Uniti verso gli alleati europei è quella di un maggiore e concreto impegno verso la supervisione del continente, con la speranza di trovare un margine entro cui assicurare la stabilità europea e contemporaneamente concentrarsi sul fronte caldo in Asia.

 A ragione di ciò in ambito Nato, gli Stati Uniti chiedono ai paesi europei di investire di più sul riarmo stabilendo una soglia minima del 2% del PIL per ciascun paese ed assicurare così un maggior impegno comune alla sicurezza collettiva.

Ma lo scoppio della guerra in Ucraina ha infranto queste speranze. Il conflitto infatti ha costretto tanto gli Stati Uniti quanto l’Europa a riconsiderare le loro posizioni.

Per gli Stati Uniti, la volontà di disimpegnarsi dal vecchio continente è stata frenata è resa difficile dalla riemersione dell’imperialismo Russo.  Il conflitto ancora in corso impedisce agli Stati Uniti di distogliere attenzione e risorse da un continente troppo importante e ancora instabile.

Per l’Europa, la guerra ha segnato un vero e proprio sparti acque con la conseguenza di aver ampliato la falla nel continente spaccato in due diversi fronti oltre ad aver sollevato la discussione sull’appalto della difesa europea.

 

Un’idea di difesa tra vecchia e nuova Europa.

La risposta europea alla guerra in Ucraina e la condanna nei confronti alla Russia si è mostrata inconfutabilmente unitaria. Ma dopo questa inziale slancio, l’Europa affronta ora una divisione sul futuro delle azioni da intraprendere.

La vecchia Europa cui fanno capo i paesi come Italia, Francia e Germania hanno condannato la Russia per il suo attacco all’Ucraina senza però mai spingersi verso un inasprimento o una rottura irreversibile con questo paese.

 I motivi sono i rapporti che legano questi paesi alla Russia tramite una dipendenza economica ed energetica, oggi in parte superata. Questo ha spinto l’antico blocco europeo a dosare le reazioni.

La nuova Europa composta dai paesi dell’Est come: Polonia, Estonia, Lituania, Lettonia, ma anche Finlandia e Svezia, ha da subito adottato un atteggiamento duro e poco permissivo nei confronti della Russia chiedendo ai paesi europei un’azione più dura possibile.

La diversa postura dei due schieramenti oggi presenti in Europa è frutto di componenti geopolitiche diverse.

Per i paesi dell’Est, naturalmente esposti verso una vicinanza pericolosa alla Russia, l’aggressione in Ucraina è un campanello di allarme di future ambizioni imperialiste.

 Per questo la reazione richiedeva una risposta ferma al fine di escludere una qualsiasi futura azione da parte russa che possa ledere l’indipendenza o la sicurezza dei paesi dell’Est.

Di senso opposto è la percezione dei paesi del fronte Ovest che non percepiscono la minaccia russa come reale e imminente.

Questo spinge i paesi europei a optare per due diverse soluzioni sulla sicurezza europea da sempre affidata al blocco atlantico tramite il trattato che istituisce la “Nato”.

Questa organizzazione con a capo gli Stati Uniti è il perno su cui poggia la sicurezza dell’Europa che nel suo atto costitutivo come Unione Europea manca di prevedere, non a caso, una propria difesa finanziata e gestita direttamente dai paesi europei.

Per questo, i due fronti oggi discutono sull’appalto della sicurezza del continente contesa tra una maggiore presenza della “Nato” e quindi dell’America e una nuova difesa europea da questa autonoma.

A spingere per una maggiore integrazione alla “Nato” sono i paesi della nuova Europa, convinti che solo l’appoggio e la protezione degli Stati Uniti possa giocare come un deterrente per la Russia.

 In questo caso la Polonia si erige a leader dello schieramento incarnando in pieno la volontà americana che è sì, quella di voler subappaltare la sicurezza europea ma ad una condizione: che sia sotto l’ombrello della” Nato” e non sotto una guida autonoma europea.

Nonostante la Polonia si dimostri la più ferma sostenitrice di un ampliamento della “Nato” e della presenza americana in Europa, la sua candidatura come “vice” degli Stati Uniti non riuscirà a diventare realtà, sia per le difficoltà interne del paese, sia per un mancato appoggio unitario per ora negato dal resto d’Europa.

In linea opposta, i paesi della vecchia Europa anche loro membri della “Nato”, discutono sulla possibilità di una “strategia europea autonoma”, slegata dall’alleanza o che almeno non ne sia esclusivamente dipendente.

 Le implicazioni di tale possibilità sono moltissime non per ultima una seria cessione di sovranità da parte degli stati membri all’Unione Europa, vero ostacolo del progetto.

Nel blocco della nuova Europa la più convinta sostenitrice della soluzione autonoma è la Francia che cerca spazio nel vecchio continente con l’obiettivo di sganciarsi dalla protezione americana e proporsi come leader a guida della nuova difesa europea.

 Ma l’ambizione francese di candidarsi come potenza nucleare a protezione del continente resta però priva di sostegno da parte del resto d’Europa, spaventata da una guida francese e da un’Unione Europea più forte e centralizzata. 

In questo, la vecchia Europa si mostra meno compatta della nuova anche a causa dell’antica ostilità franco-tedesca e dell’indecisione di Italia e Germania.

Al momento, nessuno dei paesi europei della Vecchia e della nuova Europa sono in grado di erigersi a leader ma gli sviluppi attuali richiedono una veloce valutazione del caso.

 

Lo scenario europeo è incerto.

Lo scenario odierno in Europa si presenta incerto. 

Il rischio di un’Europa priva di una guida americana è quello di un disgregarsi dei paesi europei non tenuti più insieme dalla spinta di un attore capace di unirli.

 L’unità mostrata dall’Unione Europea negli ultimi anni resta infatti insufficiente a garantire una stabilità duratura e il suo raggio d’azione resta delimitato e non include la soluzione al problema della sicurezza del continente.

 Privi di un intermediario esterno che coordini scopi e interessi comuni, i due fronti europei rischiano di provocare una spaccatura ancora più profonda nelle loro posizioni.

Per questo, la discussione sulla sicurezza europea resta un argomento che non può essere più rimandato soprattutto alla luce dell’ordine mondiale messo in crisi dalla minaccia cinese, dalla caldissima situazione in Medio Oriente e dei vertiginosi sviluppi geopolitici.

La sfida del disimpegno americano è realtà già da tempo, nonostante questo la volontà americana non è quella di voltare le spalle al vecchio continente né lo sarà mai.

Questo non deve però illudere gli alleati europei in una continua assistenza americana, deve invece spingerli a diventare un partner alla pari, capace di sostenere da solo l’onore della sua difesa e collaborare per il suo mantenimento senza però più delegarla.

 

 

 

 

Verso un nuovo ordine

monetario internazionale?

Iari-site.it - Andrea Gandini – (17 Maggio, 2022) – ci dice:

 

Donbass e Est Ucraina sono ricche di materie prime, gas (il più grande giacimento dopo quello norvegese), terre rare, grano, etc. Inoltre credo ci sia un interesse geopolitico di Putin nel creare una continuità con la Crimea, chiudendo lo sbocco a mare all’Ucraina.

Non sono esperto di geopolitica ma credo che Putin voglia disporre di quest’area non solo per fini espansionistici.

 Le grandi potenze si muovono per interessi concreti e credo che dietro questa invasione ci sia “molto di più”, non credo come occupazione di altri Stati, ma un nuovo ordine mondiale basato su una nuova competizione monetaria.

Gli Stati Uniti fecero guerra all’Iraq non per le armi batteriologiche di Saddam (che proprio gli Usa gli avevano dato contro i curdi ma che erano finite) ma per disporre del petrolio di cui avevano una assoluta necessità in quegli anni, come ebbe a dire Alan Greenspan (L’età della turbolenza, 2007, pag.520), chairman della Federal Reserve dal 1987 al 2006 e principale consigliere economico della Casa Bianca dal 1974 al 1977 e dal 1977 al 1987 membro del CdA della Mobil (una delle maggiori corporation petrolifere al mondo):

“Nonostante abbiano sbandierato ai quattro venti la paura delle “armi di distruzione di massa” (irachene), le autorità statunitensi (…) erano mosse soprattutto dal timore di veder precipitare nella violenza una regione nella quale si trova una ragione indispensabile al funzionamento dell’economia mondiale.

Mi rincresce che sia così “politicamente scorretto” affermare una verità che tutti conoscono: la guerra in Iraq è stata soprattutto una guerra per il petrolio”.

Anche oggi c’è forse qualcosa di analogo in ballo con un’aggiunta: l’idea di creare un nuovo sistema monetario mondiale imperniato sullo Yuan cinese.

Prima della guerra il cambio dollaro/rublo era 1:80, poi il rublo con l’invasione si è svalutato fino a 1:160 rubli, ma ora (5 aprile) è ritornato ai livelli pre-guerra (1 dollaro: 83 rubli), la borsa di Mosca è salita del 6%, il titolo Gazprom del 12% ed è salito pure il prezzo del gas (127 euro per MegaWattora).

Secondo gli analisti l’Europa continuerebbe a pagare in euro Gazprom che con la sua banca acquista con euro rubli per conto del cliente europeo e li trasferisce su un secondo conto in rubli.

 Un’operazione che consentirebbe di rivalutare il rublo…il quale però, senza che tutto ciò sia avvenuto, si è già rivalutato del 100%.

 

Significa dunque che ci sono aspettative negli operatori mondiali che vanno al di là del pagamento in rubli del gas.

Un primo indizio è che dal 28 marzo la banca centrale russa ha dichiarato che il rublo è stato agganciato all’oro (5mila rubli per un grammo fino al 30 giugno).

E ciò ha indebolito il dollaro perché oggi conviene acquistare l’oro in rubli anziché in dollari (che è la causa della sua rivalutazione).

Ma c’è molto altro.

 In ottobre 2020 Russia, Armenia, Kazikistan, Kirghizistan hanno stipulato un accordo con la Cina al fine di creare non solo una zona di libero scambio (EAEU), ma un abbozzo di potenziale nuovo sistema monetario euroasiatico, il cui valore fosse fondato su un paniere di monete (le loro) e di materie prime (di cui Cina e Russia sono leader a livello mondiale).

Una vecchia idea di “Keynes” a Bretton Woods (affossata poi dagli Usa) che voleva ancorare la moneta internazionale al valore di alcune monete e soprattutto a quello delle materie prime (il Bancor).

E nel 2009 il governatore della Banca popolare cinese “Zhou Xiaochuan” elogiò questa idea di “Keynes” ed auspicò la sua creazione con una de-dollarizzazione.

Ebbe l’appoggio della Russia, dell’India e del Brasile (i famosi BRICs). Anche “Tommaso Padoa Schioppa”, ministro del governo Prodi nel 2010 parlò con interesse del “Bancor” e disse “l’orientazione monetaria globale era fissata o fortemente influenzata dalla Federal Reserve Usa, esclusivamente in base a considerazioni nazionali”.

Come si vede ci sono anche altri sovranismi, oltre a quelli turchi o ungheresi…

 

Può essere che finita un’epoca in cui forse era possibile una collaborazione dell’Europa con la Russia, Putin abbia deciso di invadere l’Ucraina e di accelerare questo progetto, guidato dalla Cina.

 Non mi stupirei se diventasse reale tra qualche mese.

 Lo pensa anche “Barry Eichengreen” (univ. di Berkeley) che ha scritto sul “Financial Times” che “la guerra in Ucraina sta erodendo le basi dell’egemonia monetaria Usa”.

 Inoltre il “Wall Street Journal “conferma le trattative tra Cina ed Arabia Saudita per pagare in yuan il petrolio, che sarebbe un duro colpo all’egemonia monetaria Usa.

 Lavrov si è recato in India recentemente.

 

Chi ha seguito la vicenda dei petrodollari degli anni ’70 sa bene quanto essi siano stati alla base dell’addio del Gold Standard (1944) e del fatto che nel 1971 venne sospesa unilateralmente la convertibilità del dollaro all’oro da parte di Nixon.

Con due guerre non vinte (Vietnam e Corea) e la minaccia di molti paesi di chiedere oro in cambio di dollari, del quale si stavano esaurendo le scorte, gli Usa decidono la fine della convertibilità.

Del resto il contro valore di una moneta, con lo sviluppo dei commerci e delle tecnologie diventa sempre meno una materia prima rara come l’oro.

Il vero contro valore di una moneta passa sempre più dall’oro a qualcosa di invisibile che è la forza economica di una nazione (il suo potenziale di crescita), il suo potere (militare) di farsi rispettare nel mondo e soprattutto (a partire dagli anni ’90) la liquidità enorme della finanza che crescerà in un rapporto di 3 a 1 rispetto al Pil.

 

Si spiega in questo modo perché Clinton nel 1999, su pressione dei senatori repubblicani, abolisce lo “Steagall Act” che aveva introdotto il suo amico di partito democratico “Roosvelt” per dividere le banche d’affari (che speculano) da quelle tradizionali che fanno il buon mestiere di prestare denaro a imprese e famiglie.

Quando questa misura viene presa pochi si rendono conto che siamo in presenza di un gigantesco cambiamento che avrà il maggior effetto sull’economia nel mondo, in quanto sarà sempre più la finanza e non la manifattura a trainare l’economia e a dare una fortissima accentuazione alle disuguaglianze.

In quegli anni il valore del dollaro sarebbe caduto se non ci fosse stato l’accordo di “Nixon e Kissinger” coi paesi arabi e l’ “OPEC” che avrebbero sempre venduto il petrolio in dollari (da cui l’espressione petrodollari).

Era un modo perché dietro il dollaro ci fosse come contro valore, oltre all’economia Usa, una materia prima allora fondamentale per tutti i paesi: il petrolio.

 In cambio gli Usa avrebbero difeso militarmente i Paesi Opec.

 

“William Engdahl” sostiene che negli accordi ci sarebbe stato un forte aumento del prezzo del petrolio (da cui nacque la crisi degli anni ’70) e in effetti il prezzo quadruplicò in presenza di una guerra Mediorientale nel 1974.

Questo accordo rimase in vigore fino al 2000 quando “Saddam Hussein” lo infranse vendendo il petrolio iracheno in euro, seguito da Gheddafi. Non dobbiamo dimenticare che l’euro ha avuto un mercato obbligazionario dei bond, grazie alla forza della sua economia analogo a quello americano nei primi 7 anni della sua creazione, ma dopo la crisi del 2009 (che si origina dai subprime Usa ma che determina una crisi del debito sovrano in Europa) non esiste più l’euro come mercato mondiale: esiste il bond tedesco, quello italiano…proprio con prezzi diversi per timore del fallimento dei singoli Stati e dell’Europa. Una grande occasione mancata per l’Europa.

 Quali sono i vantaggi di una moneta forte?

Contrarre prestiti più a buon mercato.

 

Non c’è dubbio che l’euro abbia fatto paura al dollaro nei primi 7 anni e può essere un caso, ma è significativo, che entrambi questi presidenti (Gheddafi e Saddam) furono assassinati e i loro paesi distrutti dalla guerra.

Molti studi confermano questa ipotesi e il ricercatore americano-canadese” Matthew Erhet” osserva:

“non dobbiamo dimenticare che l’alleanza Sudan-Libia-Egitto sotto la leadership combinata di Mubarak, Gheddafi, Bashir, si era mossa per stabilire un nuovo sistema finanziario sostenuto dall’oro e al di fuori del FMI/Banca mondiale per finanziare lo sviluppo in Africa.

 Programma che è stato condotto al fallimento dalla distruzione della Libia nel 2011, guidata dalla “Nato” (ma di fatto dagli Usa col sostegno militare di UK e Francia) e con la base logistica dell’Italia che ha usato la base “Nato “di Poggiorenatico (Fe) per guidare l’ultimo assalto a Gheddafi tramite un complesso sistema di sorveglianza satellitare.

 La Libia era un paese, guidato da un dittatore come “Gheddafi”, ma che aveva garantito ai suoi cittadini una forte prosperità e pace tra tutte le tribù, usando anche i forti proventi del petrolio (dava 10mila euro all’anno ad ogni famiglia) e tutti gli indicatori della Libia mostravano una crescita costante negli ultimi 30 anni.

 La Libia era a capo di un progetto di federazione del Nord Africa, simile a quello dell’Europa e la Libia era considerata una sorta di Svizzera” africana.

Tutti possiamo valutare quale sia lo stato attuale della Libia dopo 11 anni di “esportazione della democrazia” e quali giganteschi danni ne siano venuti in particolare all’Italia con la perdita di petrolio, di scambi commerciali e di immigrazione illegale, per non dire delle indicibili sofferenze in cui è stato gettato un paese di 20 milioni di abitanti.

È probabile che senza la guerra assurda contro Gheddafi sarebbe sorto in Nord Africa un’area regionale che avrebbe potuto commerciare con l’Europa, al di fuori dell’influenza degli Usa e della sua finanza.

 

Il ruolo che avrebbe assunto l’Europa e l’Italia in particolare col Nord Africa è stato assunto così dalla Cina (e in parte dalla Russia e Turchia) che, a mio avviso, si guarderanno bene dal sottostare alla finanza anglosassone.

L’idea di costruire un nuovo sistema finanziario guidato dalla Cina, ma che vede coinvolti altri paesi (a cominciare dalla Russia) credo si sia avviato in quegli anni e in particolare dopo la crisi dei subprime del 2008, quando la Cina ha capito che non sarebbe stata sufficiente la sua potenza economica in ascesa, ma che essa andava supportata anche da un sistema monetario, del quale, a mio avviso, vedremo presto la nascita.

Il cinese “QjaoLIang” nel 2015 ha scritto “L’arco dell’Impero con la Cina e gli Stati Uniti alle estremità” (ed. LEG), dove analizza il processo di distacco del dollaro dall’oro per agganciarsi ad altri contro valori. Un libro profetico, ma che altri avevano già previsto.

 

Della svolta del “Dollar Standard”, non più agganciato al dollaro, gli Usa erano consapevoli come disse brutalmente il segretario del Tesoro “John Connally”: “il dollaro è la nostra valuta, ma un vostro problema”, inaugurando l’era del “Dollar Standard nel 1978 sganciato dall’oro”.

 Oggi la fiducia al dollaro sui mercati è ancora forte e non si basa sull’oro, ma sulla forza dell’economia Usa, del suo potere militare e della ampiezza e liquidità dei mercati finanziari. 

“Krugman” dice che si basa anche sul livello di democrazia (da cui la stabilità), ma sarei un po’ cauto su questa affermazione del premio Nobel.

Credo che una moneta concorrente, fondata anche sulla solidità delle materie prime (che oggi servono non solo per cibo ed energia ma per tutte le tecnologie avanzate) avrebbe probabilmente un vantaggio competitivo sul dollaro, soprattutto in un contesto dove il potere economico americano declina mentre quello cinese cresce e al posto della liquidità finanziaria anglosassone, ci sono materie prime alimentari ed energetiche di Cina/Russia e dei loro potenziali alleati (Africa, Medio Oriente, Asia dei paesi amici della Russia).

 

Non sarei così sicuro come “Krugman” che cittadini (specie di Paesi poveri come per esempio il Pakistan) siano disposti a dare più credito ad una moneta come il dollaro, cioè di una democrazia che riduce le condizioni di vita dei propri abitanti e che non è in grado di vendere materie prime a basso costo ai Paesi poveri, rispetto ad una moneta come lo yuan cinese che garantisce il gas e materie prime a basso costo di cui hanno bisogno per mangiare e scaldarsi d’inverno i Paesi poveri (anche se non è una democrazia)…

Difficile amare le rose se non c’è il pane.

Del resto che non sia una democrazia la Cina non interessa a nessuno a cominciare dagli Usa, visto che era un requisito per far parte del “WTO, ma per i ricchi “business as usual” è più forte della democrazia e perché non dovrebbe esserlo anche per i poveri?

La Cina è un prestatore verso oltre 70 paesi nel mondo per circa 850 miliardi (tra cui la Russia con 125 miliardi di dollari, pari al 15%).

 Anche l’Ucraina ha ricevuto 7 miliardi.

La Cina non dà informazioni né al “FMI” né alla “Banca mondiale” e persegue una propria rete di relazione almeno da 10 anni.

Quando un paese è in difficoltà in genere fa sconti in cambio di contratti e acquisti delle loro materie prime nel lungo periodo.

Pechino è da tempo un “esattore globale” e lo ha fatto anche con la Russia chiedendo a “Rosneft” consegne di petrolio a lungo termine attraverso l’oleodotto Russia-Cina.

La Cina ha con la Russia molti contenziosi specie nella” Siberia” e persegue il proverbio che “fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio” (anche con la Russia).

I debiti bancari sull’estero della Cina si sono deteriorati ma non bisogna dimenticare che la Cina detiene anche 1.110 miliardi del debito Usa (che ammonta a 22mila miliardi, cioè il 5,5%).

 

La Cina persegue questo “sganciamento” dal dollaro da almeno 12 anni. È dunque possibile che si creerà una moneta rivale al dollaro che avrà ben più dell’8% di circolazione che hanno oggi yuan-rublo.

 Ciò avrà rilevantissime conseguenze in termini di potere e arricchimento di quei paesi che la emettono (in opposizione agli Usa) e a cui guardano con interesse immensi paesi come India, Pakistan, Africa, Brasile, Medio Oriente…quella “minoranza” che si è astenuta all’ “Onu” sulla condanna alla Russia e che rappresenta il 55% degli abitanti nel mondo.

Chi rimarrebbe più spiazzato se dovesse decollare un tale disegno bi-polare è l’Europa che aveva avuto con la nascita dell’Euro nel 2001 un’immensa “prateria” potendo diventare nei primi 7 anni in cui era in ascesa ( e non a caso alcuni Paesi arabi si facevano pagare in euro) un polo mondiale (amico degli Usa) ma dialogante con la Russia, sviluppando la pace nel mondo e armonizzando le unilateralità di Usa e Cina.

Ancora una volta tornano in mente le parole del “maestro” “Alan Greenspan” che aveva tuonato contro la malsana idea di Clinton di abolire nel 1999 lo Steagall Act, dando libera uscita alla speculazione mondiale di tutte le banche e dimenticando la lezione di “Roosvelt” che solo una sana finanza poteva rilanciare l’economia reale e non quella virtuale dei ricchi.

Nel nuovo ordine monetario l’Italia sarebbe (con l’Europa) la più penalizzata avendo puntato (negli ultimi 30 anni) le sue carte sul solo “amico” americano, senza accorgersi che un altro mondo stava nascendo e dal quale (senza rompere con gli Usa, a cui siamo legati da una storia secolare) avremmo potuto trarre enormi benefici anche se non ne condividevamo certo lo stile dispotico di governo.

Gli interessi dell’Europa (e dell’Italia) infatti non coincidono sempre con quelli degli Stati Uniti e su molte cose l’Europa dovrà avere una sua autonomia al fine di difendere non solo e tanto gli “interessi” materiali dei propri cittadini ma di creare un altro tipo di società, più tipicamente europea, con una forte connotazione sociale, di uguaglianza, libertà e fratellanza (e anche spirituale, in base alle nostre radici e valori) che promana non solo dalla rivoluzione francese, ma dal Rinascimento, dalla democrazia dei comuni italiani e da quella (non meno importante) delle tribù germaniche e che non è nel solco né del consumismo americano né dell’orda (gruppale) cinese.

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.