I filantropi globalisti.

 

I filantropi globalisti.

 

 

 

Ricchi e buoni? Le trame

oscure del filantrocapitalismo.

Vita.it – 19 ottobre 2020 – Redazione – Nicoletta Dentico – ci dice:

 

Un documentatissimo libro-inchiesta di Nicoletta Dentico sul perché Bill Gates, Warren Buffett, Bill Clinton e Mark Zuckerberg sono i protagonisti della nuova mega filantropia.

Il ruolo ambiguo di Bill Gates sul vaccino anti-Covid19.

Perché l’élite dell’1% del pianeta, la classe più predatoria della storia umana, è anche la più socialmente impegnata a sostenere cause nobili come salute, educazione, lotta alla fame, con la scusa di cambiare il mondo?

Che cosa si nasconde dietro la rinascita della filantropia a vocazione globale? L’impegno sempre più pervasivo dei filantropi è davvero la soluzione alle sfide della contemporaneità o non è piuttosto un ambiguo e problematico effetto delle disuguaglianze strutturali che rendono la nostra epoca la più ingiusta di tutti i tempi?

E che cosa è il «filantrocapitalismo», la versione più sofisticata della filantropia che da due decenni domina la scena internazionale e che si consolida oggi nel tempo di Covid19?

Sono queste, e molte altre, le domande che la giornalista Nicoletta Dentico, esperta di salute globale e cooperazione internazionale, affronta nel suo formidabile saggio-inchiesta Ricchi e buoni?

 Le trame oscure del filantrocapitalismo (Editrice missionaria italiana, pp. 288,).

 Si tratta del primo libro in Italia dedicato al tema del filantrocapitalismo, un’abile strategia inaugurata all’inizio del nuovo millennio da una ristretta classe di vincitori sulla scena della globalizzazione economica e finanziaria.

Grazie alle donazioni erogate tramite le loro fondazioni in nome della lotta alla povertà questi imprenditori, nuovi salvatori bianchi, hanno cominciato a esercitare un’influenza sempre più incontrollata sui meccanismi di governo del mondo e sulle loro istituzioni, modificandole profondamente.

 Il tutto, in un intreccio di soldi, potere e alleanze con il settore del business che i governi non sanno più arginare né possono più controllare.

 Anzi, sono i leader del mondo politico ad accogliere i ricchi filantropi a braccia aperte, ormai, senza più fare domande.

Come è avvenuto in passato con John Rockefeller e Andrew Carnegie, la generosità di chi ha accumulato mastodontiche ricchezze rischia di non essere del tutto disinteressata.

 «Il Wealth-X and Arton Capital Philantrophy Report 2016 evidenzia come le donazioni dei super-ricchi siano incrementate del 3% nel 2015», scrive Dentico.

«Numeri alla mano, il rapporto racconta gli effetti benefici di questa arte della generosità:

gli imprenditori che hanno versato almeno un milione di dollari hanno finito per ammassare più profitti dei loro pari di classe».

 

Di questa realtà di costante accumulazione si nutre l’ottimismo” win-win” che alimenta il fenomeno filantropico, i cui valori, strumenti e metodi sono inequivocabilmente quelli della cultura di impresa, applicata al mondo dei bisogni umani disattesi.

I filantropi, per loro stessa ammissione, puntano a creare nuovi mercati per i poveri.

 «Funziona così: se i poveri diventano consumatori non saranno più emarginati. E da clienti possono riguadagnarsi la loro dignità».

Rispetto alla filantropia classica, il filantrocapitalismo ha assunto dimensioni così pervasive e sistemiche da condizionare la stessa azione degli stati:

 «Libere da ogni costrizione territoriale, le fondazioni filantrocapitaliste sono riuscite a occupare un campo d’azione sconfinato» si legge nel libro.

 «Esercitano un ruolo ingombrante nella produzione di conoscenza, nell’affermazione di modelli, nella definizione di nuove strutture della governance globale».

«Il liquido amniotico della filantropia è la disuguaglianza» sostiene Nicoletta Dentico, che nella sua poderosa inchiesta motiva accuratamente le ragioni per cui questa élite si è messa alla testa della battaglia per cambiare il mondo.

 Invece, «se nel mondo vigesse un’equa distribuzione delle risorse non ci sarebbe tanto spazio per la filantropia», perché non ci sarebbero più i pochi plutocrati che detengono più della metà delle risorse del pianeta.

Dentico mette in luce uno degli aspetti più controversi e paradossali del fenomeno: le enormi agevolazioni fiscali di cui godono nel mondo filantropi e fondazioni, anche le più opulente:

«Che cosa legittima politicamente l’idea di un incentivo sulle tasse a questi miliardari e alle loro fondazioni?

 Quali vantaggi ne avrebbe una società, se si utilizzasse invece la tesoreria pubblica, perduta a causa degli incentivi, per produrre il bene comune?».

Il filantrocapitalismo diventa così una strana forma di legittimazione morale, «una valvola di sfogo» tramite cui investire, detassati, i profitti spesso accumulati con flagranti operazioni di elusione o evasione fiscale.

 Un esempio per tutti:

«Nel 2012, un rapporto del Senato americano calcolava in quasi 21 miliardi di dollari la quantità di denaro che Microsoft era riuscita a trafugare nei paradisi fiscali in un periodo di tre anni, grosso modo l’equivalente della metà dell’incasso netto delle vendite al dettaglio negli Stati Uniti, con un guadagno fiscale di 4,5 miliardi dollari annui».

Oggi il fondatore di Microsoft, Bill Gates, è la figura preminente e più iconica del filantrocapitalismo, con una fondazione intitolata a lui e alla moglie Melinda che al momento della nascita (2000) disponeva di 15,5 miliardi di dollari per esercitare la propria azione, focalizzata su salute e vaccinazioni, biotecnologie, incremento della produttività agricoltura in Africa (ciò che significa far largo agli Ogm), educazione, finanza.

 La Fondazione Gates mantiene un forte legame finanziario con aziende assai poco virtuose sul piano dei consumi e della salute, che però garantiscono sicure remunerazioni sull’investimento:

ad esempio, investe 466 milioni di dollari negli stabilimenti della Coca-Cola e 837 milioni di dollari in Walmart, la più grande catena di cibo, farmaceutici e alcolici degli Usa.

La Fondazione Gates spicca oggi per l’incontenibile attivismo con cui dirige le attività internazionali nella ricerca di un vaccino anti-coronavirus, con implicazioni non banali data la rilevanza pubblica di un’emergenza mondiale come quella di Covid-19:

«Nel 2015, Gates aveva capito che un virus molto contagioso sarebbe arrivato a sconquassare il mondo iper globalizzato.

Sars-CoV-2 è arrivato, alla fine, e il mondo si è fatto trovare del tutto impreparato.

L’unico pronto a un simile scenario è stato il monopolista filantropo di Seattle», spiega Dentico:

 300 milioni di dollari subito sul piatto da parte della Fondazione Gates (poi saliti addirittura a 530 milioni di dollari), ormai accreditatasi sulla scena della lotta alla pandemia alla pari di istituzioni internazionali come Oms, Banca Mondiale e Commissione europea, un pericoloso precedente nella governance di fenomeni globali – come in questo caso la lotta a una pandemia.

 Tanto più che «in tutti questi anni, Bill Gates ha molto contribuito al rafforzamento geopolitico di Big Pharma [il cartello composto dalle principali case farmaceutiche mondiali, ndr], erodendo e sottraendo terreno alla società civile in questo duro conflitto politico».

 

L’implacabile inchiesta di Nicoletta Dentico scruta anche l’azione filantropica di altre figure di imprenditori plutocrati o politici potentissimi diventati improvvisamente «benefattori» globali:

 Ted Turner, Bill e Hillary Clinton, e i nuovi arrivati sulla scena della filantropia come Mark Zuckerberg.

Unico nella sua genesi è il caso della famiglia Clinton, che ha fatto della filantropia globale – tramite la Fondazione Clinton – la via maestra per continuare a esercitare il potere dopo due mandati presidenziali, anche a costo di contraddire l’agenda diplomatica statunitense, nel momento in cui Hillary Clinton è segretaria di stato dell’amministrazione Obama.

Molto eloquente a questo riguardo il caso del potentissimo uomo d’affari “Frank Giustra” che entra nel giro delle estrazioni minerarie in Kazakhstan grazie ai buoni uffici della “Fondazione Clinton” nel paese centro-asiatico, che gli Stati Uniti hanno stigmatizzato per le sistematiche violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali della persona.

Come scrive “Bandana Shiva” nella prefazione, «il libro di Nicoletta Dentico arriva al momento giusto, ed è necessario.

 Sarà una bussola importante per difendere le nostre esistenze e libertà dalle forme della ricolonizzazione variamente avallate dal filantrocapitalismo».

 

(Nicoletta Dentico, giornalista, è esperta di cooperazione internazionale e salute globale. Dopo una lunga esperienza con Mani Tese, ha coordinato in Italia la Campagna per la messa al bando delle mine vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 1997, e diretto in Italia Medici Senza Frontiere (MSF) – premio Nobel per la Pace nel 1999 – con un ruolo di primo piano nel lancio e promozione della Campagna internazionale per l’Accesso ai Farmaci Essenziali. Co-fondatrice dell’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale (Oisg), ha lavorato a Ginevra per Drugs for Neglected Diseases Initiative (DNDi) e poi per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). Più di recente è stata per alcuni anni responsabile della sezione internazionale della Fondazione Lelio Basso. Dal 2013 al 2019 è stata consigliera di amministrazione di Banca Popolare Etica e vicepresidente della Fondazione Finanza Etica. Dalla fine del 2019 dirige il programma di salute -globale di Society for International Development -SID).

 

 

 

 

 

 

La 77ma Assemblea dell’OMS

Approva il Nuovo Testo del

Regolamento Sanitario Internazionale.

Conoscenzealconfine.it – (4 Giugno 2024) - Alessandro Fusillo – ci dice:

 

Come previsto, dopo il fallimento del Trattato Pandemico, l’OMS è passata al “piano B” in preparazione da tempo, cioè le modifiche del Regolamento Sanitario Internazionale (RSI, in inglese IHR – International Health Regulations) che sono state approvate all’ultimo momento utile, il 1° giugno.

Il nuovo testo del RSI prevede una gestione centralizzata delle emergenze sanitarie e della produzione, distribuzione e approvvigionamento dei farmaci, con particolare riferimento ai vaccini.

 Il testo del nuovo regolamento è complesso, ma si possono sin d’ora mettere in evidenza alcuni passaggi fondamentali.

Mentre il vecchio testo (art. 3) prevedeva il “pieno rispetto della dignità, dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo” il nuovo art. 3 aggiunge l’obbligo di promuovere “equità e solidarietà”.

L’aggiunta è in grado di scardinare il pur esile schermo del rispetto dei diritti fondamentali che, come abbiamo visto dal 2020 in poi, sono stati completamente annullati in considerazione di una presunta emergenza.

La nuova definizione di “emergenza pandemica” è la seguente:

 “un’emergenza di salute pubblica di interesse internazionale causata da una malattia contagiosa che abbia le seguenti caratteristiche:

(i) ha, o ha un alto rischio di avere una diffusione geografica ampia e di estendersi a più stati,

 (ii) eccede o ha un alto rischio di eccedere le capacità dei sistemi sanitari degli stati di rispondere all’emergenza,

 (iii) sta causando o ha un alto rischio di causare gravi perturbazioni sociali e/o economiche, compresa la perturbazione del traffico internazionale e del commercio

 (iv) richiede un’azione internazionale coordinata rapida, equa e rafforzata con un approccio esteso a tutti i governi e a tutte le società“.

La decisione circa l’esistenza o meno di una emergenza pandemica di interesse internazionale (PHEIC – Public Health Emergency of International Concern) spetta al solo direttore generale dell’OMS.

In tal caso l’OMS potrà coordinare l’approvvigionamento e la distribuzione di tutti i prodotti rilevanti per la salute, compresi ovviamente gli onnipresenti vaccini, i test diagnostici, i cosiddetti dispositivi di protezione individuale.

Sebbene le disposizioni dell’OMS continuino ad essere descritte come “raccomandazioni” appare evidente che il nuovo testo del RSI istituisce il direttore generale dell’OMS come una sorta di dittatore sanitario globale.

Lo Statuto OMS e lo stesso RSI prevedono un’entrata in vigore automatica delle nuove norme se non ci sono opposizioni o riserve da parte degli stati membri entro 10 mesi dall’approvazione del nuovo testo.

Questa disposizione è incostituzionale.

 Infatti, l’art. 80 della costituzione italiana prevede la necessità di una legge di ratifica dei trattati internazionali.

Ora più che mai è necessario rendersi conto che tutto ciò che proviene dalla politica è dannoso per i cittadini e che nei vari palazzi, nazionali e internazionali, siedono i nostri nemici.

Occorre opporsi ai loro piani distopici con l’unico vero mezzo a nostra disposizione, la disobbedienza civile.

Dopo quattro anni, siamo in tanti ad aver capito il gioco sporco che viene fatto sulla pelle delle persone.

La strada è dire di no, rifiutarsi di credere alle menzogne, uscire completamente dal sistema marcio e corrotto della sanità gestita dagli stati e dalle organizzazioni internazionali tutte corrotte.

 

Disobbedire, resistere boicottare.

Il giochetto era sicuramente questo: sapendo che il Trattato non sarebbe passato (ci volevano i tre quarti dei voti per farlo passare) hanno spostato tutto sull’RSI che necessita solo della maggioranza semplice per essere approvato.

 (nota di conoscenze al confine)

(Testo completo del nuovo RSI: “apps.who.int/gb/ebwha/pdf_files/WHA77/A77_ACONF14-en.pdf”)

(Alessandro Fusillo)

(t.me/difendersiora)

 

 

 

La Nato – corrotta – ci porta alla Catastrofe.

Fermiamola Subito!

Conoscenzealconfine.it – (3 Giugno 2024) - Fabio Marcelli – ci dice:

 

Non passa giorno senza un ulteriore slittamento verso la Terza Guerra mondiale.

Ora il Segretario generale della Nato “Jens Stoltenberg” ha fatto un’altra bella pensata o più probabilmente gli è stata insufflata da qualche membro dell’entourage di “Biden”, un’idea brillante che potrebbe conficcare l’ennesimo e forse decisivo chiodo sulla bara della pace, mettendo a rischio la civiltà europea e quella mondiale.

Si tratta dell’autorizzazione all’Ucraina a colpire il territorio russo cogli armamenti forniti dai Paesi Nato.

È cosa che avviene da tempo, ma la dichiarazione di “Stoltenberg” assume carattere di evidente ostilità e rende i Paesi Nato cobelligeranti a tutti gli effetti, spalancando le porte alla guerra mondiale.

È certo che in tal modo “Stoltenberg “ha travalicato ogni competenza attribuitagli dal “Trattato istitutivo della Nato”, rendendosi colpevole di un’usurpazione di potere tale da valergli, in un normale contesto istituzionale, accuse di alto tradimento e attentato alla Costituzione.

Di fronte a un evento di tale catastrofica potenzialità, appaiono tutto sommato blande le reazioni del mondo politico italiano, nonostante l’effetto del clima pre-elettorale che porta perfino Salvini a dichiararsi pacifista e contrario alle folli esternazioni dello Stranamore norvegese.

Si è persino dissociata, sia pure blandamente, Giorgia Meloni che occupa, per i suoi indiscussi meriti di fedeltà atlantista e per disgrazia nostra e delle generazioni future, il massimo cadreghino della provincia imperiale a sovranità estremamente limitata che ancora siamo soliti chiamare Italia.

Speriamo davvero che la letale Giorgia non nutra nel suo cuoricino l’ambizione malsana di emulare e magari anche superare Benito Mussolini, il quale trascinò il nostro Paese in una guerra disastrosa, molto meno peraltro di quello che sarebbe una combattuta oggi.

Fatto sta che, fra le stomachevoli ipocrisie di “Tajani” e “Crosetto” e l’insopportabile atlantismo di “Guerini” e “Della Vedova”, l’Italia scivola verso il conflitto, mentre continua a fornire all’Ucraina armamenti micidiali come gli “Storm Shadows” e continua ad alimentare la macchina genocida israeliana, astenendosi metodicamente e scrupolosamente da ogni iniziativa in grado di salvaguardare la pace e la sicurezza internazionali, oggi gravemente minacciate e contravvenendo pertanto in modo sistematico all’art. 11 della Costituzione (mentre ovviamente tacciono anche i giuristi prêt à porter come Giuliano Amato che a suo tempo inventarono fantasiose quanto infondate costruzioni teoriche per giustificare l’invio delle armi all’Ucraina).

La pazzesca voglia di rivincita che anima le élite occidentali nel momento della crisi crescente del loro secolare dominio sul mondo costituisce il principale pericolo per la pace mondiale.

Essa assume caratteri parossistici nel caso ucraino, dato che l’imminente avvento al potere di Donald Trump, sempre più probabile, segnerebbe presumibilmente un netto cambiamento di atteggiamento della principale potenza mondiale (e quindi anche dei suoi satelliti, tra i quali l’Italia) al riguardo.

Ma è evidente anche nel caso della Palestina dove sono sempre più evidenti le incrinature nel campo occidentale e cresce a vista d’occhio l’indignazione del mondo intero, per la protervia con la quale il governo israeliano ribadisce il suo disprezzo per il diritto e la giustizia, beffandosi oscenamente di quanto stabilito dalla Corte internazionale di giustizia e ora anche della Corte penale internazionale, determinando anche qui le ridicole contorsioni del nostro governo di marionette “occidentali”.

È nostro preciso dovere reagire in modo determinato ed organizzato alla svendita della sovranità nazionale italiana da cui risultano rischi enormi per la nostra vita e la nostra sicurezza.

 Dobbiamo farlo mettendo la pace al centro di ogni confronto ed organizzando una campagna di disobbedienza, dissociazione e boicottaggio delle scelte di guerra che deve trovare la sua espressione politica anche in manifestazioni e nel voto per le forze che effettivamente perseguono l’obiettivo della pace

E quali sarebbero?

Il voto migliore è non votare affatto, delegittimando totalmente il sistema; solo così lo si scardina dalle fondamenta. Chiedetevi perché continuino incessantemente a invitarvi a votare…(nota di conoscenze al confine), che risulta oggi del tutto inseparabile da quello del “rifiuto della Nato” e delle politiche imperialiste, fonte inesauribile di soprusi, guerra e distruzione.

(Fabio Marcelli – Giurista internazionale)

(ilfattoquotidiano.it/2024/05/28/la-nato-ci-porta-alla-catastrofe-fermiamola-subito/7562872/)

 

 

 

Le strategie nascoste

del filantrocapitalismo.

  Altraeconomia.it - Marta Facchini — (9 Dicembre 2020) – ci dice:

 

(Bill e Melinda Gates © Bill&Melinda Foundation)

Da Bill Gates a Mark Zuckerberg: una ristretta classe di vincitori della globalizzazione economica e finanziaria, la stessa che ha prodotto le attuali disuguaglianze, si è ritagliata una nuova immagine grazie alla filosofia del dono, in campo sanitario o di contrasto alla povertà.

 Intervista a “Nicoletta Dentico”.

“Il filantrocapitalismo prende i modelli del mercato e li applica alla beneficenza.

 È la prosecuzione di interessi economici ma con altri mezzi”.

 Così Nicoletta Dentico, giornalista ed esperta di salute globale, spiega la natura dei progetti che i nuovi filantropi, l’1% dell’élite più ricca del Pianeta, realizzano per supportare cause come la diminuzione della fame e povertà o le campagne per il diritto all’educazione e alla salute.

Nel libro-inchiesta “Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo” (Editrice missionaria italiana, 2020), Dentico mostra che cosa si nasconde dietro l’efficace strategia portata avanti dalla “ristretta classe di vincitori della globalizzazione economica e finanziaria, la stessa che ha prodotto le attuali disuguaglianze”.

Attraverso le loro fondazioni i protagonisti della filantropia contemporanea hanno iniziato a esercitare un’influenza sempre più determinante sull’agenda delle Nazioni Unite ricavandone benefici ed egemonia.

 Un’azione di pressione, e un lento cambiamento all’interno del Palazzo di Vetro, che Dentico ha avuto modo di osservare direttamente a Ginevra in quanto co-fondatrice dell’Osservatorio italiano sulla salute globale (Oisg), direttrice in Italia della Campagna internazionale per l’accesso ai farmaci essenziali di Medici Senza Frontiere e coordinatrice di azioni di monitoraggio sull’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).

Dalle prime famiglie di filantropi degli Stati Uniti, i Rockfeller e i Carnegie, per arrivare alle attuali -come i Gates, Clinton e Zuckerberg- Dentico studia la loro “filosofia del dono” nutrita di quello che definisce l’ottimismo “win-win”, l’idea che se i poveri diventano consumatori non saranno più emarginati.

 E uno dei presupposti che incentiva i programmi dei nuovi “benefattori globali”, ripercorre l’autrice nel testo, sono le politiche fiscali che agevolano le fondazioni.

Come il caso degli Stati Uniti dove sono state create le prime misure di deducibilità fiscale rivolte proprio alla filantropia.

Oggi gli strumenti normativi le sovvenzionano attraverso un sistema di sussidi pubblici che permette a quelle organizzazioni non profit di non avere tassazioni né sulle entrate né sui redditi.

 La tendenza si sta affermando anche in Europa dove, fatta eccezione per la Svezia, secondo la “European Fundraising Association” (Efa), a larga maggioranza i Paesi dell’Ue offrono deduzioni e detrazioni fiscali per sostenere l’azione filantropica.

“Nel libro c’è tutta l’esperienza maturata in due decenni di impegno internazionale nel campo della salute”, spiega ad “Altreconomia” Dentico.

“Ma c’è una forte componente personale. La rabbia nell’osservare che il meccanismo iper filantropico è il risultato delle disuguaglianze che dominano il mondo e tolgono il respiro.

Ho imparato a diffidare della retorica, colonialista e riduzionista, della lotta alla povertà”, afferma.

“Per scrivere ho preso ispirazione dalle pratiche etiche che ho potuto osservare direttamente nel mio lavoro.

Dalle comunità di donne dell’America Latina, con le loro forme di mutualismo, ai movimenti di cittadini in Africa che lottano contro l’uso degli Ogm nei loro campi. Questo libro è anche un tentativo di rappresentare i loro sforzi di resistenza nel Sud del mondo”.

 

Dentico, partiamo dalla definizione di filantrocapitalismo. In che cosa consiste e in che modo si distingue dalla filantropia classica?

ND.

La filantropia classica è vicina ai territori. Ha cura le relazioni e dà libertà di azione alle realtà cui eroga le donazioni, lasciandole libere di autodeterminarsi su come utilizzare i soldi ricevuti.

Il filantrocapitalismo è diverso: è l’estensione dell’attività imprenditoriale con altri mezzi portata avanti da chi si è arricchito con la globalizzazione, i brevetti, l’elusione fiscale o le posizioni di monopolio.

 Attraverso le loro donazioni i nuovi filantropi sono riusciti a ottenere un cambio di immagine e hanno lavorato per colmare i vuoti lasciati dalla politica, per esempio finanziando alcune agenzie delle Nazioni Unite.

Sono entrati nei buchi della governance globale, ricavandone posizioni di potere.

La mia tesi è che, grazie alle loro donazioni, i filantrocapitalisti sono riusciti a portare avanti il progetto di riforma dell’Onu e la creazione del 1999 del Global Compact, il patto globale stipulato dall’allora segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan con un consistente numero di imprese transnazionali.

Il patto ha aperto agli attori economici privati le stanze del Palazzo di Vetro, istituzionalizzando la presenza del settore corporate all’interno dei suoi processi diplomatici, con la speranza che potessero contribuire al sostegno finanziario delle sue agenzie.

La partita economica c’è stata ma molto inferiore rispetto alle aspettative.

 Il Global Compact è stato preceduto da un evento significativo:

nel 1997 il miliardario “Ted Turner” (fondatore della Cnn e poi direttore della Time Warner Inc, ndr) aveva annunciato l’intenzione di donare un miliardo di dollari a favore dell’Onu.

Nel 1998 al Palazzo di Vetro il sottosegretario per gli Affari legali delle Nazioni Unite, “Hans Corell”, e “Timothy Wirth”, presidente della “UN Foundation”, la fondazione privata di Turner, hanno firmato l’accordo che regolava la relazione tra la fondazione e l’Onu.

Era la prima volta che un privato erogava una donazione così consistente.

Nella sua ricerca dedica ampio spazio a “Bill Gates” che definisce “l’Ur-filantropo”. Come si caratterizza la sua filantropia?

ND.

 Bill Gates ha portato la filantropia a livelli non paragonabili a quella dei colleghi. Il suo raggio di azione è molto ampio e va dall’educazione alla salute fino ai programmi contro la fame in Africa.

Il miliardario adotta lo stesso approccio monopolistico esercitato con Microsoft. Grazie alla sua fondazione “Bill&Melinda Gates”, ispirato dalla sua vocazione per le tecnologie e dal tema della salute, negli anni Novanta il filantropo di Seattle ha iniziato a creare partnership pubblico-private per la ricerca e produzione di vaccini, in particolare per le malattie che colpiscono i poveri della Terra, le cosiddette “poverty-related diseases”.

Questa rete gli ha permesso di iniziare a relazionarsi con la comunità scientifica, le organizzazioni non governative e le istituzioni internazionali.

 Non solo.

Gates è stato uno dei primi a investire nelle biotech company.

 Tra le sue principali iniziative c’è la “Global Alliance for Vaccine Immunization” (Gavi, la più importante iniziativa pubblico-privata sulla produzione di vaccini nel mondo, ndr), e la “Coalition for Epidemic Preparedness Innovation” (Cepi), nata nel 2017 dopo l’epidemia di ebola.

Prima ancora c’era stato il Fondo Globale per la lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria lanciato nel 2001 al G8 di Genova, che aveva iniziato a muoversi usando le strutture logistiche dell’”Organizzazione mondiale della sanità” ma con l’obiettivo di superare le procedure delle Nazioni Unite.

Che cosa sta succedendo ora con il vaccino anti Covid-19?

ND.

 Bill Gates è stato l’unico a non essere stato colto impreparato dalla pandemia. Nel 2015 aveva capito che sarebbe arrivato “the big one”, il virus che avrebbe colpito il mondo iper globalizzato.

In quel periodo raccontava la sua profezia in “Ted Talk”, interviste e articoli sulla stampa scientifica iniziando a investire milioni di dollari nella ricerca per i vaccini.

Arrivato il Coronavirus, la Fondazione Gates si è subito riorganizzata per finanziare la ricerca e lo sviluppo di terapie sul Covid-19 attraverso un impegno da 530 milioni di dollari.

Con l’iniziativa “Access to Covid19 Tools (Act) Accelerator”, di cui la Fondazione Gates fa parte, il miliardario si è accreditato sulla scena come un protagonista della lotta alla pandemia alla pari dell’Oms, della Banca Mondiale e della Commissione europea.

È stata appena nominata presidente della “Geneva Global Health Hub”. Che cosa farà?

ND.

 Si tratta di una grande responsabilità.

 Il Geneva Global Health Hub” è uno spazio pubblico e libero, il luogo di azione della società civile nato per presidiare l’”Organizzazione mondiale della sanità, le Nazioni Unite, i governi”.

 Stiamo iniziando a pensare al primo appuntamento di un mandato che ha la durata di tre anni.

Dobbiamo portare l’impegno e le azioni per il diritto alla salute fuori dalle stanze dell’Onu.

Significa che è arrivato il momento di pensare alla salute non solo in termini di malattie ma di politiche sociali e queste riguardano anche altri fattori che si intersecano: l’etnia, la classe e il genere.

 

 

 

Da Rockfeller a Gates, l’anima

oscura del filantrocapitalismo.

Ilmanifesto.it – Manlio Masucci – (19 novembre 2020) – ci dice:

 

Il filantropo, che accresce le sue ricchezze nelle stesse piaghe di un sistema a lui funzionale e vitale, si erge, oggi più che mai, a paladino dell’umanità, autoproclamandosi unica alternativa […]

Il filantropo, che accresce le sue ricchezze nelle stesse piaghe di un sistema a lui funzionale e vitale, si erge, oggi più che mai, a paladino dell’umanità, autoproclamandosi unica alternativa plausibile ai governi democratici lenti, macchinosi e inefficienti.

 

Una figura decisionista, portatrice e venditrice di storie di successo, ammaliatrice e scarsamente incline alle critiche convinta, soprattutto, che i poveri del mondo abbiano maggior bisogno della sua carità piuttosto che di giustizia economica e sociale. L’emergere di questa figura non offre però una soluzione alle miserie di un sistema politico ed economico a cui è strettamente legato, ma costituisce piuttosto l’ultima degenerazione di quel sistema stesso basato sull’accumulazione delle risorse e oramai incapace anche solo di pensare a criteri alternativi di redistribuzione e di giustizia sociale.

 

Il benessere, così come la povertà, può solo essere elargito dall’alto, da coloro i quali si ritengono i padroni del mondo.

 

Il filantropo costituisce allora un ingranaggio essenziale nella polimorfa macchina della globalizzazione, una colonna portante dello stesso sistema capitalista che incarica entità private di utilizzare parte delle ricchezze accumulate ai danni dei poveri del pianeta per allestire una facciata attraente, quasi accettabile ed eticamente spendibile.

 

Ma le buone azioni riparatorie si basano su strategie “win-win” che, nel linguaggio del capitale, si traducono in partnership pubblico-private, apertura di nuovi mercati e possibilità di proficui investimenti per le aziende che magari hanno finanziato le stesse azioni filantropiche. Se poi si riuscisse a tramutare un povero in un cliente, il gioco sarebbe da considerarsi perfettamente riuscito.

 

Una volta comprese le logiche alla base dell’operato delle fondazioni è possibile individuarne piani e obiettivi.

 Quello che rimane più difficile da comprendere, o perlomeno da accettare, è l’atteggiamento dei governi che, di fronte all’arroganza di queste entità, continuano a indietreggiare lasciando sul campo importanti pezzi di democrazia.

 

Non solo: le agevolazioni fiscali e gli aiuti diretti ai programmi delle fondazioni sanciscono la definitiva resa dei contribuenti che si trovano a pagare di tasca propria iniziative su cui non è previsto alcun controllo democratico.

 

La condotta di molti filantropi nei confronti degli stati è, nonostante ciò, tutt’altro che irreprensibile:

è il caso di Microsoft che, attraverso il ricorso ai paradisi fiscali, ha causato un danno erariale superiore agli investimenti filantropici del suo stesso fondatore, Bill Gates.

 

Ricchi e buoni?

Le trame oscure del filantrocapitalismo di Nicoletta Dentico (la prefazione è di Vandana Shiva) ripercorre la storia del filantropismo da Rockefeller fino ai giorni nostri, fino a Bill Gates a cui è dedicata una corposa sezione.

Quella della fondazione di Gates è un’azione tentacolare e all’avanguardia che coinvolge, fra gli altri, i settori dell’agricoltura, della medicina, della biotecnologia, dell’educazione e dell’informazione.

L’autrice sfugge da ogni dietrologia o teoria complottista puntando il mirino verso un sistema che permette a un singolo individuo di incamerare una quantità inimmaginabile di ricchezze mettendolo nella posizione di influenzare le politiche pubbliche internazionali con il semplice gesto di aprire il proprio portafogli.

D’altra parte Bill Gates, personalmente più ricco di 45 dei 48 paesi dell’Africa subsahariana, è in buona compagnia:

Warren Buffet, Ted Turner, Bill Clinton, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg sono solo alcuni dei novelli filantropi pronti a elargire parte dei loro averi affinché il pavimento sui cui hanno piazzato la loro comoda poltrona non si sgretoli sotto i loro piedi.

 

Un rischio effettivo, secondo Dentico, in un’epoca in cui le fondazioni filantropiche si arrogano il diritto di risolvere questioni che hanno una dimensione esclusivamente politica.

Ma forse, è proprio la dimensione della soluzione politica a rappresentare il più grande incubo del capitalismo che ricorre all’azione filantropica anche per scongiurare tale esecrabile deriva.

 

 

 

 

Quel sinistro concetto di

“filantropia”, caro ai globalisti.

Visionetv.it – (2 luglio 2021) - HELMUT LEFTBUSTER – ci dice:

 

 

San Francesco, profeta del pauperismo e patrono universale della generosità umana, ci insegna con l’esempio diretto che ricchezza e filantropia sono due grandezze inversamente proporzionali.

 Egli, prima di farsi filantropo, s’è spogliato d’ogni avere privato poiché aveva ben chiaro quanto generosità e altruismo si dimostrino con il lavoro e con l’azione, non con comode elargizioni frutto di chissà quali intrallazzi familisti o politici.

 

L’attuale establishment finanziario mondialista (con la collusione potentemente mediatica d’un pontefice che non a caso usurpa il nome del Santo povero) punta a stravolgere il messaggio francescano basato su spiritualità e sacrificio, trasformandolo in un sostanziale e prosaico invito al voto di scambio.

 

Un andazzo tipicamente feudale ove il benessere del cittadino, anziché imparziale dovere giuridico dello Stato, resta appannaggio discrezionale del signorotto di turno.

Ed è qui che casca l’asino:

finché è l’ordinamento statuale a sovrintendere gli apparati assistenziali, va da sé che a beneficiarne resterà il popolo;

al contrario, se tale dovere etico dello Stato viene a bella posta trascurato da chi governa e lasciato alla mercé di miliardari apolidi e mondialisti, questi ultimi elargiranno benefici secondo parametri del tutto discrezionali che certo prescinderanno da valutazioni oggettive come prossimità e diritto.

Già, perché li chiamano “filantropi”:

ma etimologia vorrebbe che il filantropo, amando l’essere umano in quanto tale, non discriminasse il terremotato italiano che muore assiderato in roulotte a favore del migrante che sbarca a Lampedusa con i-phone e barboncino (come invece avviene).

Al contrario, i filantropi di cui vagheggiano i media mainstream sembrano essere caratterizzati dall’assoluta mancanza di eterogeneità d’azione e di pensiero:

da Gates a Soros e da Rockfeller ad alcune teste coronate, essi sono tutti globalisti, tutti progressisti social-comunisti, tutti sostenitori se non rappresentanti diretti delle sinistre internazionaliste, tutti foraggiatori di ONG e tutti sacerdoti del culto vaccinista.

Sono tutti frequentatori dei medesimi circoli di potere, tutti amici di questo papa, tutti coccolatori di Greta, tutti favorevoli al 5G, tutti ostili a Trump e a qualsiasi movimento sovranista europeo.

Strano, eh?

 Nessuno di essi che incentivi le economie nazionali, la scuola, la sanità  e la previdenza del proprio paese;

 nessuno che investa denaro per eliminare fame e siccità là dove tali carenze generano emigrazione (che invece, puntualmente, sfruttano). Nessuno di loro che si impegni a finanziare la sanità pubblica, invece dei soliti vaccini prodotti dalle solite case farmaceutiche amiche dei soliti amici.

E allora, anziché “filantropi”, questi finanziatori del globalismo, chiamiamoli col nome che meritano.

Su, che di fantasia ne avete anche voi!

(HELMUT LEFTBUSTER)

 

 

 

 

Il filantrocapitalismo:

molti profitti, pochi risultati.

Lucidamente.com - Rino Tripodi – (7 Giugno 2023) – ci dice:

 

I disastri in campo sociale, nell’istruzione, nell’agricoltura e nella sanità.

Un potere politico-culturale prevaricante.

E la peggiore è la famigerata Fondazione Bill & Melinda Gates.

A denunciarlo “Linsey McGoey” in “Altro che filantropi!” (Macro-Arianna Editrice).

Un semplice cittadino, pensando al fatto che alcuni capitalisti tra i più ricchi del mondo fanno tanta beneficenza, dirà:

“Beh, in queste iniziative ci sarà pure qualcosa di buono; sempre meglio che li donino piuttosto che si tengano miliardi e miliardi di dollari tutti per sé”.

 Ma è proprio così?

“Non ti regala niente nessuno”.

A svelare tutto ciò che c’è dietro carità, fondazioni benefiche, progetti pseudo solidali esportati nel mondo, è stata, tra gli altri, Linsey McGoey, docente di Sociologia presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università dell’Essex.

 In particolare col suo libro “No such thing as free gift” (2015; in italiano si potrebbe rendere con “Non ti regala niente nessuno”).

 La pubblicazione è stata tradotta in Italia col titolo “Altro che filantropi!” (Prefazione di Enrica Perucchietti, Macro-Arianna Editrice, 2021, pp. 352).

L’autrice parte da lontano.

 Il filantropismo o, meglio, il filantrocapitalismo, è una peculiarità del mondo anglosassone e della cultura religiosa calvinista.

Come ha spiegato Max Weber (1864-1920) nella sua fondamentale opera L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904), tale “Weltanshauung” è dominata dall’idea del denaro e dell’arricchimento.

Dio sceglie i predestinati alla salvezza e li premia non solo col futuro paradiso in cielo, ma con i soldi in Terra.

Il capitalista e il grande speculatore finanziario si sentono tanto riconoscenti da voler talvolta dare ai poveracci qualche briciola caduta dalla loro ricca tavola.

Non è tutto.

Mentre nel cattolicesimo la carità è (o dovrebbe essere) solo un dono e basta, per il capitalista statunitense essa è fonte di ancora maggiori investimenti, speculazioni e guadagni!

Filantropi sporchi di sangue.

La McGoey traccia una breve storia del filantropismo Usa da Andrew Carnegie ai Rockfeller, da Henry Ford fino ai coniugi (ex) Gates, ecc.

Molti di loro hanno fatto massacrare minatori, lavoratori, operai, hanno eliminato con le buone o con le cattive gli avversari in campo economico o politico, hanno inquinato, hanno sfruttato i finanziamenti dello Stato nei momenti di crisi per poi criticare il suo ruolo sociale…

Però si sono lavati la coscienza e, addirittura, sono considerati da molti allocchi benefattori dell’umanità grazie agli interventi compiuti in campo socioeconomico, sanitario, culturale, agricolo, dalle loro potentissime fondazioni.

In realtà hanno fatto poco bene per gli altri, molto per sé stessi.

Guadagnare facendo la carità.

Il “ritorno” della filantropia è molteplice.

Oltre all’“immagine”, si va dalla conveniente esenzione, deduzione o elusione di tasse alla raccolta di donazioni.

Dalla sempre maggiore influenza nel campo politico e sociale alla possibilità di imprimere una direzione ideologica ai settori dove si opera.

Dal creare posti di lavoro al licenziare chi è “scomodo”.

Si possono inoltre sfruttare le crisi economiche e di altro genere o le paure delle popolazioni per imporre il proprio dirigismo:

è il “capitalismo dei disastri” applicato secondo le teorie di Milton Friedman.

Ma l’aspetto più scandaloso della questione è che con la beneficenza si fanno soldi a palate.

Scrive la “McGoey” che il «nuovo modo di esercitare la filantropia […] riproduce il modello di business con cui si ottengono profitti nel sistema del capitalismo moderno» (vedi I falsi filantropi e gli ecotalebani ipocriti).

È da considerare pure che ogni aiuto è vincolato:

 i presunti beneficiari, che siano Stati o comunità, devono spendere i soldi come vuole il filantropo, a volte contro i propri stessi interessi.

Fino a qualche decennio fa l’organizzazione mondiale della Sanità (Oms) era per il 70% finanziata dagli Stati membri ed era libera di impiegare i fondi nel modo che riteneva più opportuno.

Oggi il 70-80% del budget è costituito da donazioni di fondazioni private quali quella Gates, di cui parleremo a breve.

 Tali istituzioni impongono «interventi specifici predefiniti secondo la volontà dei donatori».

Il filantrocapitalismo a danno dei poveri del pianeta.

I risultati sono spesso opposti a quelli propagandati:

 «Che cosa dedurre dal dato di fatto che la filantropia e le disuguaglianze sono entrambi fenomeni in grossa espansione e che sembrano addirittura crescere parallelamente?

Si può dire che la filantropia fa parte di un sistema in cui il ricco diventa più ricco e il povero si impoverisce ulteriormente?».

Anche il tanto decantato sistema della microfinanza e del microcredito si è spesso rivelato ingannevole, finendo per «condannare chi vi ricorreva a una spirale di debiti, andando a peggiorare la povertà invece che alleviarla. […] Molti degli odierni istituti perfettamente legali di microfinanza […] hanno tassi sproporzionati al pari di quelli dei più feroci usurai».

Un po’ come le Ong dei taxisti del mare, rotta Nord Africa-Sicilia: affermano di voler salvare vite umane, mentre, invece, innescando più partenze di malmessi navigli pronti ad affondare, causano più morti (leggi pure Ong, cosa si nasconde dietro la pettorina dei “dialogatori”).

Al “social washing” spesso si abbina il “greenwashing”:

in verità si tratta di semplice propaganda, mentre in realtà l’impatto delle aziende nel campo della giustizia sociale e del minor impatto sull’ambiente è pari a zero (vedi anche Ecologismo e terrore climatico come lotta di classe…).

I coniugi Gates e i disastri in campo scolastico.

Oggi il più influente filantropo è il miliardario Bill Gates.

Il punto di svolta si ha nel 2000, quando unisce le sue due precedenti fondazioni nella Bill e Melinda Gates Foundation.

Nel 2008 egli decide di lasciare la propria posizione in Microsoft per dirigere tale istituzione.

L’autrice di “Altro che filantropi!” cita una serie di disastri provocati dalla famigerata Fondazione via via che aumentavano i suoi progetti, di pari passo con le sovvenzioni, il potere, l’influenza.

Si può partire dai finanziamenti alle scuole statunitensi, purché usassero un certo software e si sottoponessero ai sistemi di valutazione della Fondazione stessa, fondati su freddi algoritmi.

 Questi non tenevano conto delle condizioni culturali di partenza degli allievi, delle disparità socioeconomiche delle varie zone geografiche, della qualità dell’insegnamento (un po’ come i nostri test “Invalsi” che ci sembra prendano spunto da tali abiezioni anglosassoni…).

Risultato:

corsa degli istituti a falsificare i test di valutazione, suicidi, disperazione, depressione tra gli insegnanti ingiustamente licenziati perché i loro allievi non avevano raggiunto gli standard minimi e quindi additati al pubblico ludibrio e nessun miglioramento degli studenti.

I disastri in campo sanitario.

Un’altra mania nazistoide è quella di sottoporre popolazioni povere a sterilizzazioni di massa, a test su nuovi farmaci o a vaccini di dubbia efficacia (a un livello globale, l’abbiamo visto anche e soprattutto, con l’influenza da Sars-Cov-2). Tutto nella completa ignoranza delle persone.

Tra i tanti esempi di trattamenti razzisti e colonialisti, si possono ricordare i “test dimostrativi” condotti in India dalla Path (Program for appropriate technology in health, “Programma per la tecnologia appropriata nella sanità” – secondo il criptico linguaggio usato dai nuovi potenti della Terra), Ong di Seattle finanziata dalla Fondazione Gates.

 A circa 23.000 ragazzine indiane tra i 10 e i 14 anni residenti in aree rurali e povere, senza alcun consenso dei genitori, furono somministrati presunti vaccini “contro il papillomavirus umano”.

Dal 2010 cominciarono a diffondersi notizie su morti misteriose riguardanti tali bimbe, sicché il Ministero della Sanità dell’India ordinò lo stop alle sperimentazioni.

Nessun monitoraggio era stato fatto sugli “effetti avversi” (ritorniamo al refrain ben conosciuto nella recente “pandemia”).

Nel 2013 un comitato parlamentare del Paese asiatico accusò la Path di aver avuto il solo scopo «di favorire gli interessi commerciali dei produttori di un vaccino contro l’Hpv» (Merck e GlaxoSmithKline).

In effetti, se una terapia o un vaccino viene testato con successo, i profitti derivanti dagli acquisti da parte degli Stati o dei semplici cittadini ripagheranno più che ampiamente la “filantropia” iniziale. Lo stesso vale per sementi, tecnologie o altro proveniente dai Paesi ricchi produttori.

I disastri in campo agricolo.

L’aiuto che i “filantropi” offrono ad America latina, Asia e soprattutto Africa nel campo dell’alimentazione e dell’agricoltura consiste nell’imposizione dell’industria agricola statunitense.

Ma, si chiede la ricercatrice, «importare sementi geneticamente modificati assieme a fertilizzanti sintetici, il tutto peraltro a prezzi elevati», è la soluzione giusta?

Gli “effetti avversi” riguardano soprattutto l’ambiente, l’ecologia e la stessa vita dei piccoli agricoltori:

«Le nuove coltivazioni a elevato rendimento necessitano di appezzamenti molto estesi per essere sostenibili da un punto di vista economico. Al fine di appropriarsi quindi di campi sufficientemente vasti, molti lavoratori sono stati espulsi con la forza dai propri terreni, causando la crescita incontrollata di ghetti ai margini delle metropoli».

Altro aspetto scandaloso:

«Il cibo deve essere fornito da produttori statunitensi e trasportato da navi statunitensi, anche se esisterebbero alternative a costi molto più contenuti». Insomma, i soli a guadagnarci sicuramente sono i produttori e i vettori.

Cargill, Coca-Cola e Monsanto, sono tra i partner della Fondazione Gates… Insieme ad altre grandi aziende quali Nestlé o Unilever esportano presso i poveri popoli africani Ogm o una dieta iperglicemica. Così sono forse diminuite le malattie infettive ma aumentate enormemente quelle legate all’alimentazione e agli stili di vita quali ipertensione, diabete, cardiopatie, neoplasie…

Il vincolo dei brevetti e la criminalizzazione di chi fa domande.

Per di più le sementi agricole, i farmaci (come contro l’Hiv e come abbiamo visto col coronavirus), i software, i prodotti tecnologici, sono rigorosamente brevettati.

Bill Gates ha sempre difeso con tenacia i brevetti, a partire da quelli riguardanti il proprio software.

È evidente che con tale strumento si perviene a un regime di monopolio.

Ma è sempre pronto uno stuolo di avvocati per trascinare in decennali contese legali quegli Stati (ad esempio Malawi o Sudafrica) o enti che cercano di sottrarsi a tale dittatura in campo agricolo o sanitario.

C’è un altro paradosso.

Le associazioni filantropiche hanno sempre chiesto il taglio del welfare statale, ritenendolo uno spreco. Dopo aver ottenuto tali “risparmi”, oggi puntano il dito sull’inefficienza degli interventi dello Stato centrale in campo sociale, dovuti propri anche alla scarsità di risorse economiche.

Se alla Fondazione Gates o ad altre consimili vengono poste domande sulle ricadute spesso negative delle loro azioni – scrive la McGoey – la risposta è il silenzio o comunicati scritti in una fredda neolingua burocratico-tecnocratica, entro i quali si accusa chi ha perplessità di essere “cattivo”.

Vi ricorda qualcosa di recente tale criminalizzazione dei dissidenti o di chi pone domande su trattamenti sanitari imposti o altro?

 È ciò che la McGoey definisce «manipolazione delle coscienze» …

(Rino Tripodi).

IL NANTIFASCIMO DEL PENSIERO UNICO

POLITICAMENTE CORRETTO.

Nuovogiornalenazionale.com - Silvano Danesi – (04 Novembre 2022) – ci dice:

 

La pubblicazione nel libro di Bruno Vespa “La grande tempesta” (in libreria da oggi), della notizia, dovuta a Carlo Calenda, del finanziamento di Soros a +Europa o a candidati di +Europa (secondo le precisazioni) in cambio di un’azione tesa alla costruzione di un “listone antifascista” da opporre al centrodestra, ha un’importanza “radicale”, in quanto mette allo scoperto una strategia, in atto da tempo, che possiamo definire “Nantifascista” (neo-anti-fascista), in sigla” NAF”.

 

Il finanziamento a +Europa, messo in piazza da Calenda, denuda l’Opa dei filantropi sull’antifascismo, trasformato in NAF per farne un elemento di discriminazione tra chi si accuccia nel PUPC (pensiero unico politicamente corretto), ossia nell’ideologia globalista e transumanista propagandata dalla Cupola finanziaria e delle multinazionali, e chi non si arrende all’idea di pensare in proprio e di difendere la propria identità (personale, nazionale, tradizionale, culturale, ecc.).

L’Opa sull’antifascismo è contestuale all’Opa della finanza, dei filantropi e delle multinazionali, sulla sinistra, trasformata in un esercito di obbedienti guardiani dell’ideologia finanziaria e sedicente filantropica.

La sinistra, abbandonata quella che storicamente era la sua base sociale (classe operaia, ceti medi), rinchiusa negli” zoo green ztl radical chic”, rimasta legata alla catena della finanza, urla in continuazione, dando del fascista a chiunque osi non essere allineato con il “PUPC”.

 

La metodologia NAF è vecchia come il mondo, in quanto non fa altro che distinguere il Bene (le idee dei seguaci del PUPC), dal Male (le idee di chi non si allinea con il PUPC).

Un tempo c’erano gli eretici, molti dei quali finiti sul rogo, oggi ci sono i non allineati al PUPC, condannati alla gogna mediatica.

Come ho già avuto modo di scrivere, l’antifascismo è un’opposizione politica e ideale al fascismo, così come si è determinato storicamente e alle sue espressioni nostalgiche o restauratrici.

Diverso è l’antifascismo NAF o Neo-antifascismo, che è il corollario propagandistico del pensiero unico politicamente corretto, imposto dall’ideologia neoliberista espressa dalla finanza e dalle multinazionali, nonché da sedicenti filantropi social-comunisti, in un quadro globalista, transumanista e in una deriva antidemocratica e illiberale che tende al controllo sociale, secondo un’interpretazione totalitaria dello stato etico.

Ora la differenza è chiara, visto che a volere un “listone antifascista” nelle elezioni italiane è il sedicente filantropo Soros.

Secondo la logica NAF, Bibi Netanyahu, in quanto leader di un partito chiaramente di destra, sarebbe un fascista?

Difficile dare del fascista ad un ebreo israeliano, salvo che i NAF siano stati delegati anche a stabilire chi sono gli ebrei che possono dirsi democratici.

Immediatamente la vittoria di Bibi è stata stigmatizzata dalla stampa mainstream in quanto Netanyahu ha vinto assieme al partito religioso di destra di Ben Gvir, immediatamente definito sionismo fascista.

I repubblicani MAGA (Make America Great Again), ossia i trumpiani, sono stati definiti da “Joe Biden” un pericolo per la democrazia e per l’America.

Lo scorso agosto Biden ha attaccato Trump affermando: "La sua è un'ideologia semi-fascista".

Per l'inquilino della Casa Bianca "non è solo Trump, è l'intera filosofia che sta alla base. Io vi dico questo è come il semi-fascismo".

Biden si dice convinto che "questo non è il Partito repubblicano dei vostri padri, è una cosa differente".

Biden avverte:

 "Ecco perché quelli di voi che amano questo Paese, democratici, indipendenti, repubblicani, devono essere più forti, più determinati e più impegnati a salvare l'America dai repubblicani Maga che stanno distruggendo l'America".

 

La vulgata NAF ha fatto di Trump un fascista.

Anche mercoledi, avvertendo che la democrazia stessa è in pericolo, il presidente Joe Biden ha invitato gli americani a usare le loro schede elettorali nelle elezioni di medio termine della prossima settimana per opporsi a menzogne, violenza e pericolosi "repubblicani ultra MAGA".

I repubblicani trumpiani non sono un avversario politico, ma un nemico della democrazia e a proposito della loro azione Biden ha affermato:

"Questa è la strada per il caos in America. È senza precedenti. È illegale. Ed è antiamericano".

 

La politica NAF fa anche perdere la testa.

Bolsonaro, l’ex presidente del Brasile, è stato definito più volte fascista e le sinistre esultano per la vittoria di Lula.

Rimane il fatto che mentre Bolsonaro, sicuramente di destra, stava con gli Usa e con l’Occidente, Lula è stretto amico della Cina e della Russia, cosicché il Brics (Brasile, India, Russia, Cina, Sudafrica) si consoliderà in funzione antioccidentale in buona compagnia con stati autocratici.

 

Forse è ora di chiudere la partita, di mettere in un cassetto il timbro di certificazione NAF e di chiudere, soprattutto, i rapporti con chi, grazie ai suoi soldi, vuole dirigere la politica di stati sovrani, acquistando il consenso a suon di finanziamenti di partiti e associazioni e, chiudendo la partita, di smontare anche il timbro del NAF, affidato a chi si è fatto fare un’Opa dalla finanza, abbandonando la base sociale che gli era propria per diventare il cane da guardia del PUPC.

 

L’antifascismo, quello vero, è cosa seria. Il NAF è propaganda di quarta serie, ora messa allo scoperto dalla vicenda riportata dal libro di Vespa.

 

 

 

 

 

Negli Stati Uniti c’è un mondo

a sinistra dei Democratici.

Ilpost.it – (27 -2 – 2024) – Redazione – ci dice:

 

Da tempo una serie di candidati, partiti e movimenti si muove “a sinistra della sinistra”, mettendo in discussione molte posizioni del partito.

 

Il 17 settembre del 2011 centinaia di persone occuparono “Zuccotti Park”, nel centro del distretto finanziario di Manhattan, a “New York”. Portarono con sé tende, sacchi a pelo, fornelletti da campeggio e cartelli con gli slogan

 «Questo è l’inizio dell’inizio» e «Siamo il 99 per cento!».

Grazie ai nuovi servizi di streaming fecero ore di dirette sui social e riempirono i loro blog con indicazioni e proposte politiche:

criticavano il sistema capitalista, considerato sbagliato e discriminatorio, ma 59 giorni dopo gli attivisti del movimento “Occupy Wall Street” furono sgomberati con la forza dalla polizia.

La protesta era finita, ma delle ragioni che la causarono si parla ancora oggi.

 

Dopo secoli di trasformazioni, da qualche decennio il partito Democratico ha creato una sua identità ben precisa basata su posizioni progressiste, tanto che spesso si tende a identificarlo genericamente con la “sinistra” statunitense.

 Questa semplificazione tende però a far convergere su un’unica forza politica una moltitudine di idee anche molto diverse tra loro, e a volte contrastanti: da tempo negli Stati Uniti esiste un universo di movimenti e di partiti che si muove “a sinistra della sinistra”, rivendicando posizioni diverse e in alcuni casi radicali.

 

Queste possono essere sostenute da membri del partito Democratico che dissentono su alcuni punti dalla linea generale del partito, da esponenti indipendenti o di altri partiti di sinistra, oppure da movimenti spontanei e apartitici.

 Da “Bernie Sanders” ad “Alexandria Ocasio-Cortez”, passando per “Jill Stein” e il movimento “Black Lives Matter”:

a sinistra dei Democratici ci sono molte realtà, anche con un consistente seguito.

 

Proprio Occupy Wall Street è fondamentale per capire le tendenze progressiste che si sono sviluppate negli Stati Uniti negli ultimi vent’anni.

La storia del movimento è legata al contesto sociale ed economico di allora:

era il 2011, e gli Stati Uniti come gran parte del mondo occidentale stavano affrontando le conseguenze di una grave crisi economica e finanziaria iniziata tre anni prima, che aveva messo in difficoltà milioni di famiglie e accentuato ulteriormente il divario tra le fasce povere della popolazione e i pochi, fortunati ricchi.

 Il governo stava spendendo centinaia di miliardi di dollari per salvare le banche dal fallimento ed evitare il collasso del sistema finanziario.

Il movimento criticava il sistema capitalista, la ricchezza dei grandi gruppi industriali e le enormi diseguaglianze presenti a ogni livello della società.

 Il loro motto era «Siamo il 99 per cento», uno slogan che faceva riferimento allo squilibrio presente nella distribuzione della ricchezza tra la maggior parte della popolazione appartenente alla classe bassa o medio-bassa e un’esigua minoranza molto ricca.

 L’1 per cento, appunto, che detiene gran parte della ricchezza del paese e la usa per condizionarne scelte politiche ed economiche, secondo il movimento.

A partire da metà settembre circa 200 manifestanti occuparono Zuccotti Park, un parco di 3mila metri quadri a Wall Street, il centro finanziario di Manhattan.

La protesta durò fino al 15 novembre, quando la polizia sgomberò l’area e arrestò circa 200 persone.

Durante l’occupazione ci furono molti scontri tra gli attivisti e l’amministrazione del sindaco “Michael Bloomberg”, un miliardario che al tempo era esponente del partito Repubblicano, ma dal 2018 passò al partito Democratico candidandosi anche alle primarie presidenziali del 2020, senza successo.

Ci furono vari episodi di violenza da parte della polizia, che usò contro manifestanti non pericolosi anche lo spray al peperoncino, molto irritante. L’occupazione di Zuccotti Park ispirò proteste in centinaia di altre città, negli Stati Uniti e all’estero.

“Occupy Wall Street” non aveva una struttura di leadership ben definita.

Al contrario, rimase un movimento spontaneo e apartitico, critico sia del partito Repubblicano che di quello Democratico, e si pose su posizioni che nello spettro politico nazionale starebbero a sinistra dei Democratici.

L’iniziativa diede però enorme rilievo mediatico alle rivendicazioni anticapitaliste e ai movimenti per la democrazia, e contribuì ad avvicinare molti giovani al mondo della politica e dell’attivismo.

Negli anni successivi parte delle richieste di Occupy Wall Street fu ripresa e sostenuta da esponenti politici diventati noti in tutti il paese.

Tra loro c’è Alexandria Ocasio-Cortez, che nel 2018 a 28 anni divenne la più giovane deputata mai eletta.

Si candidò con i Democratici nel quattordicesimo distretto della città di New York, una zona multietnica che comprende parti del Bronx e del Queens.

Sfidò alle primarie “Joe Crowley”, un Democratico di lungo corso che dal 1999 in poi era sempre stato rieletto ed era diventato una figura nota nell’establishment del partito.

Ocasio-Cortez lavorava come cameriera in un ristorante messicano:

non aveva alcuna esperienza in politica, e quando annunciò la sua candidatura in pochi la presero sul serio.

 La sua campagna elettorale, raccontata anche dal documentario di” Netflix Knock down the House”, fu però molto partecipata, mentre “Crowley” non fece grandi sforzi per assicurarsi la rielezione, che era sicuro di ottenere.

Il 26 giugno del 2018 “Ocasio-Cortez” venne eletta alla Camera con il 78,2 per cento dei voti, dopo aver sconfitto Crowley nelle primarie con un vantaggio di oltre quindici punti percentuali.

Fin da subito “Ocasio-Cortez” criticò alcune posizioni del partito Democratico – di cui comunque faceva e continua a fare parte – che considerava ormai superate e non sufficientemente attente ai bisogni di una società in continua trasformazione. Oggi fa parte di una sorta di “corrente” interna al partito, chiamata informalmente “The Squad” (la squadra), composta da cinque deputate e tre deputati con posizioni molto progressiste e in parziale disaccordo con il resto del partito su temi particolarmente divisivi come l’immigrazione, i diritti umani, il cambiamento climatico e il sistema sanitario.

Di recente il gruppo ha criticato il supporto quasi incondizionato offerto a Israele dal presidente Democratico Joe Biden in seguito all’inizio della guerra tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza, a ottobre del 2023.

 Lo scorso novembre 22 deputati Democratici votarono a favore di una mozione di censura promossa dai Repubblicani a carico di “Rashida Tlaib”, deputata del Michigan che fa parte della “Squad”, accusandola di aver sostenuto narrative false riguardo alla guerra in corso.

 Tra le altre cose, “Tlaib” aveva citato lo slogan “Dal fiume al mare”, che sostiene il diritto dei palestinesi ad avere un proprio stato ed è considerato da alcuni osservatori come potenzialmente antisemita.

“Tlaib” è la prima persona di origini palestinesi a essere eletta al Congresso.

(Il controverso slogan «dal fiume al mare, la Palestina sarà libera»)

Ocasio-Cortez ha sempre adottato un atteggiamento molto critico anche nei confronti di Joe Biden, tanto che alle elezioni primarie del 2020 sostenne la candidatura del suo avversario” Bernie Sanders,” un indipendente con idee socialiste (ci torneremo).

A novembre del 2020, dopo la vittoria di Biden, Ocasio-Cortez criticò il partito sostenendo che non fosse in grado di affrontare in modo abbastanza deciso alcuni temi importanti, tra cui il razzismo:

 «Il problema è che le persone che prendono le decisioni più importanti nel partito hanno ormai preso una deriva anti attivista, e non vedono i benefici che questo [l’attivismo] potrebbe portare»,

 disse al podcast “The Daily” del “New York Times”.

 Invitò anche l’establishment Democratico, rappresentato soprattutto da” Biden”, a smettere di vedere l’ala più progressista «come un nemico»:

 «Se continua a contrastare gli obiettivi sbagliati, il partito si sta solo costruendo la strada per la sua obsolescenza».

 

Sinistra non vuol dire solo partito Democratico, nemmeno nelle sue frange più progressiste.

 Esiste un ricco universo di candidati indipendenti o affiliati ad altri gruppi politici minori, che più volte hanno provato a candidarsi alle presidenziali, senza mai riuscire a vincere.

 Il più noto, almeno negli ultimi anni, è” Bernie Sanders”, un senatore del Vermont di 82 anni.

Ufficialmente è indipendente, anche se è da sempre vicino ai Democratici e ha spesso partecipato alle iniziative elettorali del partito.

Da decenni si descrive come un «socialista democratico»:

in un discorso del 2015 spiegò che questo orientamento non ha nulla a che fare con la dottrina marxista né con la pretesa di abolire il capitalismo, ma è basato sulla creazione di una società più equa per tutti i suoi membri tramite alcune riforme, a partire dal salario minimo e dal miglioramento del sistema fiscale, sanitario e universitario.

Sanders è sempre stato attratto dagli ideali radicali: si avvicinò alla politica mentre studiava all’Università di Chicago, negli anni Sessanta, un periodo molto turbolento caratterizzato dalle proteste contro la guerra in Vietnam e dalla lotta per i diritti civili.

Tra il 1981 e il 1989 fu sindaco di “Burlington”, la città più popolosa del Vermont, nel 1990 fu eletto alla Camera e nel 2006 al Senato, sempre da indipendente ma con il sostegno del partito Democratico.

Pur mantenendo posizioni indipendenti, nel 2016 si candidò per la prima volta alle primarie dei Democratici:

perse contro Hillary Clinton, ma ottenne comunque più del 43 per cento dei voti, un ottimo risultato per un candidato considerato lontano dalle istituzioni del partito e di posizioni dichiaratamente vicine al socialismo, un termine che negli Stati Uniti è sempre stato visto con diffidenza.

 Si candidò nuovamente alle primarie nel 2020, sfidando Joe Biden, ma si fermò al 26,2 per cento dei voti.

Nelle due campagne elettorali per le primarie che organizzò in giro per il paese, Sanders si presentava come un candidato piuttosto improbabile:

era un politico di lungo corso del Vermont, uno stato della costa est degli Stati Uniti grande come il Piemonte, era anziano, bianco e dal carattere burbero e scontroso.

 Le sue campagne però ebbero un enorme successo mediatico, i suoi comizi erano sempre affollati e Sanders riuscì ad attrarre i voti di molti elettori giovani e latinoamericani, che coniarono il motto «Feel the Bern», (“senti il Bern”, dal nome di Sanders).

 

Nonostante le sconfitte, negli ultimi anni gli ideali di Sanders hanno implicitamente spinto il partito Democratico a spostarsi più a sinistra e hanno contribuito ad aprire la discussione su temi a lungo considerati troppo estremi.

 «Fino a poco tempo fa erano proposte considerate radicali e minoritarie, mentre oggi sono largamente condivise e alcune sono già in corso di adozione», disse Sanders nel 2020, riferendosi per esempio all’introduzione di un salario minimo da 15 dollari l’ora e alla transizione verso fonti di energia rinnovabili.

 «Il nostro movimento ha vinto la lotta ideologica».

Dichiararsi socialisti negli Stati Uniti non è mai stato facile, soprattutto se si decide di provare a vincere le elezioni.

L’idea del socialismo come qualcosa di estraneo ai princìpi americani è ancora radicata in parte della società.

Circa un secolo prima di Sanders ci aveva provato “Eugene V. Debs”, un importante sindacalista e tra i più noti esponenti del” Partito Socialista d’America”, che si dissolse ufficialmente nel 1972.

 Tra il 1904 e il 1920 “Debs” si candidò quattro volte alla presidenza, ottenendo al massimo il 6 per cento dei voti, nel 1912.

 

Era un periodo storico non facile per i socialisti.

Nel 1917 gli Stati Uniti entrarono nella Prima guerra mondiale contro l’impero tedesco e austroungarico:

 i socialisti erano fortemente contrari alla guerra, e migliaia furono arrestati per aver criticato le decisioni del governo.

Anche “Debs” fu condannato a dieci anni di carcere, ma non rinnegò mai le sue idee.

 

Il 1917 fu anche l’anno della Rivoluzione bolscevica con cui fu creata l’”Unione Sovietica comunista”.

Negli Stati Uniti iniziò il primo “red scare”, la “paura rossa”, ossia l’opposizione e la repressione di qualsiasi ideale considerato vicino al comunismo o al socialismo, visti come teorie estranee e pericolose per gli ideali americani.

Un secondo red scare, ancora più duro del primo, si verificò nella seconda metà del Novecento.

 Era il periodo della Guerra fredda, caratterizzato da un’intensa competizione tra le due superpotenze del tempo:

gli Stati Uniti, capitalisti, e l’Unione Sovietica, comunista.

Negli Stati Uniti il socialismo e gli ideali di sinistra vennero nuovamente associati con il nemico, i loro sostenitori furono considerati come potenziali minacce alla sicurezza nazionale e quindi arrestati e perseguitati.

Oltre a Sanders, nello scenario politico statunitense ci sono altri candidati indipendenti che si pongono a sinistra del partito Democratico e partecipano attivamente alle elezioni.

“Jill Stein” nel 2024 si è candidata per la terza volta alle elezioni presidenziali con il partito dei Verdi, fondato ufficialmente nel 2001 ma presente in altre forme fin dagli anni Ottanta.

A differenza di Sanders,” Stein” si è sempre posta in netta contrapposizione sia con il partito Repubblicano che con quello Democratico:

 «Il sistema politico non funziona, abbiamo bisogno di un partito che ascolti le persone», ha detto nel discorso con cui annunciò la sua ultima candidatura.

«I due partiti principali che ci hanno messo in questo pasticcio non ce ne tireranno fuori».

Nel 2012 Stein ottenne lo 0,4 per cento dei voti, e nel 2016 poco più dell’1 per cento.

 

Al di là dei candidati e dei partiti politici, sulla scia di “Occupy Wall Street” negli ultimi anni sono nati diversi movimenti apartitici che sostengono cause storicamente vicine alla sinistra.

Nell’estate del 2020 migliaia di persone si riunirono nelle strade di tutto il paese per protestare contro la morte di “George Floyd”, un uomo afroamericano ucciso il 25 maggio a Minneapolis, in Minnesota, mentre veniva arrestato dalla polizia, che operò in modo molto violento.

Le manifestazioni ridiedero slancio al movimento “Black Lives Matter”, nato nel 2013 per combattere le discriminazioni e l’ingiustizia razziale, e che oggi è sia lo slogan di battaglie antirazziste molto condivise, sia un’organizzazione più radicale con proposte distanti da quelle del partito Democratico.

Le proteste del 2020 furono un evento enorme:

il 6 giugno mezzo milione di persone partecipò agli eventi in oltre 500 città in tutti gli Stati Uniti.

Contribuirono a riportare il problema del razzismo al centro del dibattito pubblico e modificarono in parte la discussione politica in un momento molto delicato, durante la campagna elettorale per le presidenziali (poi vinte da Biden) e la pandemia di Covid-19.

Durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2020, Biden diffuse uno spot che iniziava con la frase:

 «Black lives matter, period», ossia «Le vite dei neri contano, punto».

 A maggio del 2021, dopo essere stato eletto, Biden incontrò la famiglia di Floyd alla Casa Bianca.

L’omicidio di Floyd diede nuovo slancio anche a una proposta nota come “Defund the police”, “definanziare la polizia”:

critica gli abusi delle forze dell’ordine contro i cittadini e chiede di ridurre i fondi a loro disposizione per dedicarli ad altri settori considerati più utili per la società, come la scuola o la sanità.

 È un movimento strettamente legato a “Black Lives Matter “e alle rivendicazioni per la giustizia razziale.

 

Dopo l’omicidio di Floyd la richiesta “Defund the police” ebbe attenzioni ma soprattutto critiche, più di tre anni dopo le sue rivendicazioni non hanno avuto effetti concreti e le città che provarono a modificare i finanziamenti a disposizione delle forze dell’ordine dovettero presto ripensarci.

Il partito Repubblicano criticò molto le richieste del movimento, che diventarono un argomento per accusare i Democratici di non essere abbastanza severi nella repressione del crimine e di non sapere quindi mantenere la sicurezza pubblica.

Gli stessi principali esponenti del partito, tra cui il presidente Biden, si dissero contrari.

 

 

 

 

Le prossime elezioni USA si

vinceranno al centro?

Chi sono i “moderati”?

 

Transform-italia.it – (07/02/2024) - Alessandro Scassellati – ci dice:

I cittadini statunitensi – un tempo noti per la loro assoluta fiducia e visione ottimistica della vita – stanno diventando ogni giorno più amareggiati e scontenti, sfiduciati riguardo alle modalità di funzionamento delle loro istituzioni, consumati dall’ansia economica e sociale e dalle crescenti divisioni politiche.

 La presidenza di Biden è stata segnata da un’elevata inflazione, da ingenti politiche industriali e da turbolenze all’estero, in Afghanistan, Ucraina e Medio Oriente.

Sia Biden sia Trump sono impopolari.

Le elezioni non saranno tanto una gara di popolarità quanto un referendum su chi gli americani pensano sia l’opzione meno negativa.

Gli analisti sottolineano che la vittoria di Biden o di Trump, stante la forte polarizzazione politico-ideologica degli elettori registrati per i partiti Democratico e Repubblicano, dipenderà molto dalla loro rispettiva capacità di convincere gli elettori “moderati” a votare per loro il 5 novembre 2024.

Con l’avvio delle primarie per le elezioni presidenziali statunitensi, appare sempre più evidente che ci si avvia verso una ripetizione dello scontro del 2020 tra Joe Biden e Donald J. Trump, anche se diversi sondaggi mandano segnali che gli elettori non sono soddisfatti di entrambi i candidati.

 “Joe Biden” è un presidente in carica straordinariamente debole.

È da molto tempo che lotta per mantenere la testa fuori dall’acqua nei sondaggi degli Stati indecisi (Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, Pennsylvania e Wisconsin, dove Trump è in vantaggio con una media di 3,8 punti), anche se Trump, il suo più probabile avversario alle elezioni generali, ha accumulato un numero impressionante di problemi giudiziari.

L’età di Biden sembra rappresentare il più grande ostacolo alla sua rielezione: anche i Democratici temono che potrebbe essere troppo vecchio per ricoprire un secondo mandato, che lo vedrebbe lasciare la scrivania dello Studio Ovale all’età di 86 anni.

L’inflazione lo ha danneggiato e un crescente numero di elettori accusa Biden del fatto che “il mondo è in fiamme” (come sostiene l’ultima sfidante di Trump rimasta, Nikki Haley).

 Vedono le guerre in Ucraina e a Gaza, sentono Trump vantarsi del fatto che non c’erano problemi del genere quando era al comando (con una nazione che avrebbe avuto confini sicuri, un’economia forte e la pace globale) e incolpano Biden.

 

D’altra parte, Trump deve contemporaneamente fare fronte sia alla campagna elettorale sia a molteplici e continui casi giudiziari.

Per la base repubblicana, i 91 capi di accusa per diversi crimini contro di lui sono un distintivo d’onore, la prova che è una vittima dello “Stato profondo”, il “deep State” che sarebbe orchestrato dalla sinistra liberale Dem Usa;

ma tra l’elettorato americano più ampio, non vengono considerati così bene.

 I verdetti potrebbero non arrivare in tempo per il 5 novembre, ma è una prova della vulnerabilità di Trump.

Trump appare allo stesso tempo forte e debole come candidato alle elezioni generali.

Per molti versi “si candida come un quasi presidente in carica alla ricerca di un altro mandato”, genera una forte lealtà nella sua base “Make America Great Again” e ha già schierato dietro di lui quasi l’intero establishment Repubblicano a Washington.

Allo stesso tempo, una parte non trascurabile dell’elettorato Repubblicano è diffidente nei confronti di un’altra nomina di Trump.

E molti elettori che si auto-identificano come “indipendenti” – che potrebbero decidere il vincitore a novembre – sono profondamente contrari alla sua candidatura.

La campagna per la rielezione di Biden insiste su almeno due temi che hanno una comprovata esperienza di vittoria elettorale per i democratici.

Il primo è l’aborto, a seguito della decisione della Corte Suprema nel caso “Dobbs del 2022” di porre fine alla protezione costituzionale del diritto all’aborto.

 Trump si vanta di essere “orgoglioso” di questo, perché è stato lui a nominare tre giudici di destra alla Corte.

 Ma non è una posizione popolare.

Al contrario, i Repubblicani hanno ripetutamente perso alle urne dopo la sentenza della Corte, sia nelle elezioni che nei referendum a livello statale.

“Dobbs potrebbe aver distrutto il Partito Repubblicano”, afferma lo stratega democratico “Simon Rosenberg”, che ha previsto con precisione il successo al Senato del suo partito alle elezioni di medio termine del 2022 ed è ottimista riguardo alle possibilità di Biden ora.

Le donne elettrici suburbane sono viste come un campo demografico cruciale, come un gruppo che potrebbe influenzare le elezioni di novembre proprio sulla questione dell’aborto.

 

La seconda questione è l’argomento centrale anti-Trump:

che l’uomo che ha cercato di ribaltare le elezioni del 2020 è un potenziale dittatore che rappresenta una minaccia per la democrazia, sviluppando una narrativa retorica basata sul tema del “questo non è quello che siamo” come Stati Uniti (una battaglia per «l’anima della nazione» e i “valori americani”), trasformando Trump e i «Repubblicani MAGA» in un’etichetta per tutto ciò che gli elettori mainstream trovano politicamente tossico sul Partito Repubblicano.

Biden e i Democratici sono convinti che se gli americani vedranno le prossime elezioni come una scelta tra estremisti che minacciano i loro diritti fondamentali e coloro che cercano di proteggere quelle libertà vulnerabili, allora il partito sarebbe in grado di prendere il controllo della presidenza e del Congresso.

A ciò si aggiungono alcuni dati economici positivi e una crescente fiducia dei consumatori e si può intravedere il profilo di un possibile messaggio vincente.

 Il sentimento anti-Trump ha aiutato Biden a sconfiggere Trump nelle elezioni del 2020, quando una percentuale record di elettori aventi diritto ha votato.

L’affluenza alle urne potrebbe essere elevata anche alle elezioni generali di novembre, in parte perché gli elettori di entrambi i partiti sono fortemente motivati a battere l’altra parte.

Nei sondaggi, la maggioranza di coloro che dichiarano di voler votare per Biden afferma di essere motivato principalmente dall’opposizione a Trump, mentre gli elettori di Trump sono più positivi riguardo al proprio candidato e alle sue politiche, con una percentuale minore che descrive il proprio voto come un voto contro Biden.

 

I cittadini statunitensi – un tempo noti per la loro assoluta fiducia e visione ottimistica della vita – stanno diventando ogni giorno più amareggiati e scontenti, sfiduciati riguardo alle modalità di funzionamento delle loro istituzioni, consumati dall’ansia economica e sociale e dalle crescenti divisioni economiche, sociali e politiche.

 Il successo di Trump si basa sul concreto malessere e malcontento di milioni di americani che hanno perso i loro posti di lavoro da “colletti blu” (non solo nella “cintura della ruggine”) o che hanno salari bassi e lavori precari (working poor), perché si è ristretta la classe media di un tempo che era il motore dell’economia e l’architrave del “sogno americano” degli anni ’50 e ’60, quando i compensi degli amministratori delegati erano 20 volte quello del dipendente medio (mentre ora sono superiori di 400 volte).

 L’1% controlla più ricchezza dei ceti medi, mentre i poveri sono 40 milioni (il 13%), i senza casa 650mila e la speranza di vita è scesa a 76,6 anni (con oltre 110mila persone che sono morte per overdose da oppioidi, eroina, cocaina e metanfetamine nel 2023).

Gli Stati Uniti spendono solo 252 miliardi di dollari per l’istruzione, secondo il “Center on Budget and Policies Priorities”, ma 1,537 trilioni di dollari per le forze armate, parte dei quali vanno a pagare le loro circa 902 basi militari in tutto il mondo6.

 

Gli analisti sottolineano che la vittoria di Biden o di Trump, stante la forte polarizzazione politico-ideologica degli elettori registrati per i partiti Democratico e Repubblicano, dipenderà molto dalla loro rispettiva capacità di convincere gli elettori “moderati” (soprattutto gli «elettori suburbani oscillanti» bianchi) a votare per loro il 5 novembre 2024.

Le diverse tipologie di “moderati.”

La parte più mitizzata e forse più trascurata ed incompresa dell’elettorato americano è quella dei cosiddetti “moderati”.

Sono un gruppo complicato.

Spesso descritti come elettori indecisi, creature ideologiche volubili che esistono al centro dello spettro politico.

 Vengono confusi con gli elettori “indipendenti” (non registrati formalmente né come Democratici né come Repubblicani) e “indecisi”, ma non sono esattamente la stessa cosa.

Tendono ad essere meno impegnati politicamente rispetto ai loro compatrioti militanti di destra e di sinistra.

 Sono sia accusati di non esistere realmente sia accreditati di aver vinto le elezioni per i principali partiti.

 E recentemente, sono considerati sia la ragione per cui il Partito Repubblicano si è comportato così male nell’era di Donald Trump, sia la ragione per cui i Democratici dovrebbero stare attenti che la loro coalizione vincente non crolli.

Ma come possono esserci i “moderati” dietro tutti questi fenomeni confusi e apparentemente contraddittori?

Si scopre che non sono un monolite.

Invece di pensarli come un singolo gruppo di elettori che hanno opinioni politiche che si collocano mediamente al centro dello spettro ideologico, è utile guardare cosa hanno scoperto gli accademici e i ricercatori studiandoli.

 E questo significa, fondamentalmente, che bisognerebbe dividere gli americani “moderati” in tre blocchi distinti:

ci sono dei “veri moderati”, le cui opinioni si orientano costantemente attorno al centro dello spettro politico-ideologico;

ci sono i “moderati” che sono in gran parte “disimpegnati” dalla politica e hanno opinioni incoerenti – a volte, un mix di opinioni estreme di entrambe le parti che, se trasformate in valori medi, spesso danno di loro la falsa apparenza di centrismo;

c’è, infine, una sorta di unicorno, la persona impegnata in politica ma che allo stesso tempo ha un mix di opinioni politiche che non la collocano in maniera netta nello spettro ideologico o in nessuno dei principali partiti politici statunitensi.

Comprendere queste categorie è importante per chiunque speri di capire cosa siano gli elettori “moderati” – ed è fondamentale per chiunque speri di conquistarli nel 2024.

Molti osservatori concordano sul fatto che ci sono molti voti “moderati” là fuori da convincere.

Secondo i sondaggi sulle convinzioni ideologiche degli americani, coloro che si definiscono “moderati” tendono a costituire una pluralità della popolazione americana almeno dal 1992.

Nel 2022, avevano all’incirca le stesse dimensioni del segmento di americani che si definiscono “conservatori” – dal 35% “moderato” al 36% conservatore, secondo i sondaggi Gallup.

 I cosiddetti “liberali” (i liberals, persone che si considerano appartenenti alla sinistra progressista e sono generalmente favorevoli a cambiamenti di vasta portata per affrontare l’ingiustizia razziale ed espandere la rete di sicurezza sociale) nel frattempo, si attestano al 26% degli adulti americani, anche se tale numero ha registrato una tendenza al rialzo negli ultimi 30 anni.

Questa ripartizione corrisponde a una dinamica delle elezioni americane:

almeno dal 2000, gli elettori liberal sono stati in inferiorità numerica rispetto ai conservatori, ed entrambi sono stati superati in numero dagli elettori “moderati”.

Se le tendenze degli ultimi decenni continueranno nel 2024, gli elettori “moderati” giocheranno un ruolo fondamentale in quella che probabilmente sarà un’altra elezione serrata decisa con margini ristretti.

Saranno elettori chiave per i Democratici, che dipendono da un ampio sostegno di elettori “moderati” per vincere la presidenza e le competizioni elettorali chiave negli Stati teatro di accesa battaglia (i sei Stati “pendolo”).

E richiederanno messaggi e sensibilizzazione molto diversi, a seconda del tipo di “moderato” che sono.

I “veri moderati.”

Un “vero moderato” esiste vicino al centro dello spettro politico.

 Questo americano è la prima persona che si potrebbe immaginare quando si pensa a un moderato, qualcuno che ha opinioni a sinistra della maggior parte dei Repubblicani eletti e a destra della maggior parte dei Democratici eletti.

 Questo è l’elettore “di mezzo”, probabilmente un autodefinito indipendente oppure un Democratico o Repubblicano con deboli inclinazioni ideologiche.

Se si chiedesse la loro opinione sull’aumento del salario minimo, probabilmente darebbero una risposta vicina alla cifra media tra ciò che un tipico conservatore e un tipico liberal preferirebbero.

 Ci sono molti americani che si adatterebbero a questa descrizione.

Se si chiede loro un’opinione su qualsiasi questione, dicono:

“Vedo le argomentazioni di entrambe le parti e la mia politica preferita sarebbe da qualche parte nel mezzo”.

Non sono molti i politici che offrono queste posizioni, ma molti elettori esprimono questo tipo di posizione.

 

Un gruppo di analisti ricercatori ha effettivamente studiato la frequenza con cui questo tipo di persone compare nei dati dei sondaggi, e ha scoperto che la maggior parte dei “moderati” rientra in questa descrizione sia all’interno che all’esterno dei partiti.

Sono più aperti al compromesso rispetto ai liberal e ai conservatori e quindi hanno anche una sorta di “indole moderata”, nel senso che potrebbero identificarsi con un partito politico ma essere comunque ricettivi alla tesi dell’altra parte.

Ciò li rende anche più propensi ad essere elettori indecisi, persuadibili nelle competizioni politiche e ricettivi alle argomentazioni specifiche avanzate da specifici candidati.

E questa categoria è un campo piuttosto largo:

comprende una serie di elettori disposti a rompere con le coalizioni tradizionali, anche disertando da Donald J. Trump o da Joe Biden.

Cattura democratici leali, indipendenti stressati e repubblicani anti-Trump disamorati.

 Molti dei cambiamenti dell’era Trump tra gli elettori suburbani, più ricchi e più istruiti (laureati) sono alimentati da questo tipo di moderati che sono più scettici nei confronti di un perno di estrema destra e pro-Trump nel Partito Repubblicano. Sono anche elettori che potrebbero disapprovare Biden in questo momento.

 

Il “moderato disimpegnato.”

Questi “moderati” si distinguono per la loro indifferenza e il disimpegno dalla politica.

I “moderati disimpegnati” sono il tipo di persona che semplicemente non ha forti opinioni ideologiche o consapevolezza della politica e delle differenze politiche tra i partiti.

 Tendono ad essere il tipo di persona che non vota, che non tiene il passo con le elezioni e che potrebbe non consumare molti mezzi di informazione.

 Nei sondaggi vengono spesso conteggiati nella categoria degli “indecisi” o dei “non sicuri” e non sono l’obiettivo principale delle campagne politiche.

Quando si impegnano in politica, tende a esserci una grande differenza rispetto ai “veri moderati”.

Mentre questi ultimi tendono ad avere opinioni concentrate nel punto medio dello spettro politico, questi americani disimpegnati e con poche informazioni spesso traggono le loro opinioni dagli estremi di sinistra e di destra.

 Ciò significa che, sebbene le loro opinioni possano tendere verso una posizione centrista, dando loro l’apparenza di moderazione, non sono necessariamente moderati su singole questioni.

 Inoltre, tendono a non appartenere a nessuno dei principali partiti politici (il che significa che potrebbero anche definirsi “indipendenti”).

Come scrisse “Ezra Klein” nel 2015, quando guardi le risposte individuali di questi elettori alle domande dei sondaggi,

 “trovi molte opinioni che sono ben al di fuori del mainstream politico… Elettori che non sono così interessati alla politica e che non sono attaccati ad un partito promuovono le idee che realmente piacciono a loro, indipendentemente dal fatto che siano popolari o possano ottenere 60 voti al Senato o possano essere derise dagli esperti di politica”.

Fare una media tra una visione di estrema destra sull’immigrazione (con Trump che afferma che gli immigrati che arrivano negli Stati Uniti – 6,3 milioni in tre anni – “stanno avvelenando il sangue del nostro Paese” e deputati repubblicani che ora parlano di lanciare i migranti dagli elicotteri) e una visione di estrema sinistra sul diritto all’aborto porta questi “moderati” verso il centro politico – ma una persona con queste posizioni non è lo stesso tipo di “moderato” del tipo “vero moderato”.

Lo “strano moderato.”

Un’ultima fetta di americani “moderati” è un gruppo particolare nei partiti politici americani.

Non si adattano perfettamente allo spettro ideologico;

nello spettro partitico, tendono a trovarsi al di fuori dei partiti politici.

Alcuni accademici li chiamano “moderati idiosincratici”, ma forse “strani” è un termine più semplice poiché descrive quanto siano difficili da leggere.

A differenza dei “moderati disimpegnati”, i “moderati strani” sono impegnati – consapevoli delle notizie politiche, delle politiche e dei dibattiti – ma come i “moderati disimpegnati”, hanno un mix di opinioni.

 In realtà, non prendono queste posizioni dagli estremi ideologici, quindi tendono alla moderazione su una varietà di questioni.

 A causa dello strano mix di idee che hanno, potrebbero non sentirsi rappresentati da nessuno dei due partiti o da una specifica ideologia conservatrice o liberal. Includono anche i classici tipi “socialmente liberal ma fiscalmente conservatori” che avrebbero potuto essere più predominanti nei partiti Democratico e Repubblicano in tempi meno polarizzati sul piano politico-ideologico.

Non sono costantemente liberal o conservatori su tutti gli argomenti e quindi sono aperti alla persuasione.

Mantengono fermamente le proprie opinioni, a differenza dei “veri moderati”, ma sentono pressioni sovrapposte quando prendono una decisione di voto nella cabina elettorale.

A livello di “élite”, gli esempi comprendono gli eletti democratici conservatori della vecchia scuola e anche i repubblicani liberal potrebbero rientrare in questa categoria, disposti a votare su politiche in modi che ora sembrerebbero irriconoscibili ai partigiani più fedeli.

Un caso emblematico è quello del senatore “Joe Manchin”:

un democratico moderato che a volte si schiera con i Repubblicani e che avrebbe voluto promuovere un terzo partito “no labels” (senza etichette).

 Sono una parte in diminuzione di entrambi i partiti politici, ma possono essere importanti elettori indecisi.

Nei partiti esistono sempre meno di tutti questi tipi di “moderati” – e questa è la vera sfida delle elezioni del 2024.

Che impatto avranno i “moderati” nelle elezioni del 2024?

Come la maggior parte delle elezioni, l’esito nel 2024 sarà probabilmente deciso da quale partito e quale candidato sarà in grado di mantenere i propri elettori liberal e conservatori conquistando il maggior numero possibile di “moderati”.

Secondo le analisi dei ricercatori, sono stati i “moderati veri” e “strani” ad avere avuto un ruolo significativo nell’altalena delle elezioni dell’ultimo decennio:

 i “veri moderati” sono stati quelli che con maggiore probabilità hanno cambiato i loro voti tra partiti nelle elezioni del 2012 e in quelle del 2016, contribuendo alla vittoria di Donald J. Trump.

 Sono quelli più aperti a cambiare partito se l’altro partito presenta un candidato particolarmente convincente.

Le persone che hanno votato per Obama nel 2012 e per Trump nel 2016, sono persone che probabilmente sono vicine ideologicamente al centro, e forse gli piaceva davvero Obama, forse non gli piaceva altrettanto Hillary Clinton (che comunque prese 2,9 milioni di voti popolari in più di Trump), e Trump ha fatto uno sforzo per cercare di attirarli in qualche modo (a Trump bastarono 78mila voti strategici in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin per avere la maggioranza di delegati al Collegio Elettorale Nazionale ed essere eletto presidente).

 

I “moderati strani” probabilmente costituiscono una quota minore di coloro che cambiano voto, ma poiché non si sentono rappresentati da nessuno dei due lati dello spettro ideologico o partitico, sono particolarmente attenti ai messaggi specifici dei candidati e disposti a guardare oltre l’identificazione del partito.

Si tratta ancora di una porzione relativamente piccola dell’elettorato:

la maggior parte delle persone tende a non cambiare partito negli anni delle elezioni presidenziali.

 Ma, ancora una volta, gli spostamenti ai margini possono fare la differenza in contesti serrati in bilico.

E qui entra in gioco un problema per entrambe le parti.

 

L’imperativo di persuadere i “moderati veri” e “strani” va contro la tendenza dei partiti politici americani, che negli ultimi anni si sono spostati sempre più verso la sinistra (di orientamento socialdemocratico) e la nuova destra politica (reazionaria, post-liberale, autoritaria, razzista, protezionista e nazionalista), diventando allo stesso tempo più ideologicamente coerenti al loro interno, spingendo fuori i “moderati” di ogni tipo.

I leader di partito hanno guidato questa spinta, ma la base ha seguito l’esempio negli ultimi due decenni, poiché i tassi di coloro che si auto-identificano come “moderati” sono in declino in entrambi i partiti.

 

Le recenti tendenze elettorali non sono troppo positive per i Repubblicani.

Hanno regolarmente perso elettori “moderati” alle elezioni dall’ascesa di Trump nel 2016 – da 15 a 30 punti nelle elezioni del 2018, 2020 e 2022, secondo gli exit poll.

 E il tipo di conservatorismo di Trump sembra anche essere meno attraente per i Repubblicani “moderati” nei primi due Stati che hanno tenuto le primarie finora:

in Iowa, ha ottenuto il sostegno di circa il 20% degli elettori moderati del GOP, in calo rispetto al 34% che aveva ottenuto nel 2016 (l’ultima volta che ci sono state primarie competitive del GOP).

E nel New Hampshire ha vinto circa il 25% dei moderati, in calo rispetto al 32% del 2016.

Anche i Democratici si trovano di fronte ad una sfida:

la loro coalizione vincente conta su una fetta più grande di elettori “moderati” di vario tipo che si rivolgono a loro rispetto a quelli Repubblicani.

Considerata l’impopolarità di Biden e il continuo sentimento contrastante degli elettori nei confronti dell’economia (che secondo i dati e gli indicatori ufficiali è in ripresa, ma secondo i parametri socialdemocratici convenzionali, come la densità sindacale, la generosità del welfare e i livelli di proprietà pubblica, non è in buona forma e le tendenze recenti sono state, nella migliore delle ipotesi, contrastanti), intensificare gli sforzi per persuadere questi elettori sarà fondamentale per mantenere unita quell’alleanza politica – e tenere Trump fuori dalla Casa Bianca.

Rispetto alle elezioni del 2020, Biden sembra aver perso terreno tra gli elettori afroamericani:

il suo indice di approvazione tra gli adulti neri è del 42% nell’ultimo sondaggio dell’”Associated Press-Norc Center for Public Affairs Research”, un calo sostanziale rispetto al primo anno della sua presidenza.

La campagna di Biden spera che i recenti forti indicatori economici rafforzeranno il basso indice di approvazione del presidente, alimentato dalle esitazioni degli elettori sulla sua gestione della guerra Israele-Gaza, dell’immigrazione e di altre questioni interne.

Un recente sondaggio AP/Norc rivela che il 50% degli adulti statunitensi pensa che la risposta militare di Israele a Gaza sia “andata troppo oltre”, rispetto al 40% a novembre, indicando un cambiamento nell’opinione pubblica americana.

I giovani elettori, gli arabi e musulmani americani (gruppi importanti di elettori, tradizionalmente democratici, in uno Stato chiave come il Michigan e nel New Jersey), gli afroamericani e anche gli “ebrei progressisti”, gruppi chiave per la vittoria elettorale di Biden nel 2020, sono inorriditi dalla sua gestione della guerra. Potrebbero non votare per lui il prossimo novembre10.

(Alessandro Scassellati)

 

 

 

 

Sconfiggere il liberal-progressismo:

i 12 insegnamenti di Orban-

Centromachiavelli.com – (23-5-2022) - Viktor Orban – ci dice:

 

(Trascrizione del discorso di Viktor Orban in occasione dell’apertura della Conservative Political Action Conference di Budapest, il 19 maggio 2022.)

Signore e signori, cari amici americani e conservatori di tutto il mondo, vi do il benvenuto.

 E un benvenuto speciale al mio amico “Václav Klaus”.

 Non è una sorpresa che sia l’uomo più intellettualmente coraggioso d’Europa, perché è ricco di anni;

ma ciò che sorprende tutti è che sia ancora il più giovane e il più fresco tra noi. Caro Klaus, grazie per essere venuto e per essere qui con noi.

So che tutti voi meritate un discorso migliore di questo, ma sappiamo come non si possa nuotare o correre a tempo di record la mattina.

 Vi prego di tenerlo a mente mentre ascoltate le mie riflessioni.

 Comunque, è bello avervi qui.

 Il tempismo è una felice coincidenza:

 un mese fa abbiamo ottenuto la quarta vittoria elettorale consecutiva, quattro giorni fa ho formato il mio quinto governo conservatore e cristiano e ora sono qui con voi.

È sempre bello poter parlare tra amici, ed è particolarmente bello avere qualcosa con cui sostenere le proprie parole;

e noi ungheresi sentiamo giustamente di avere qualcosa con cui sostenere le nostre parole.

 

Come hanno vinto i conservatori ungheresi.

Abbiamo fatto molta strada, amici miei.

Negli anni Ottanta leggevamo ciò che accadeva negli Stati Uniti dai samizdat distribuiti illegalmente nell’ex blocco orientale;

e ora eccoci qui, con l’Ungheria che ospita il più importante raduno politico del Partito Repubblicano, il “Grand Old Party”.

Ricordo bene come vi invidiassimo allora:

 invidiavamo la vostra cultura del dibattito democratico, la libertà con cui organizzavate gli affari pubblici in America;

invidiavamo il vostro Presidente Reagan per il suo carisma, la sua grinta, la sua arguzia e le sue politiche – e, naturalmente, facevamo il tifo per lui.

Tutto ciò che avevamo noi erano i funzionari comunisti in abito grigio e il loro Newspeak politico, un’atmosfera soffocante e senza speranza.

 

Cari amici americani: se avete visto la serie “Chernobyl”, potete avere un’idea di ciò di cui sto parlando.

 Abbiamo avuto quaranta lunghi anni di quella roba.

E oggi ospitiamo questo grande evento, per il quale vorrei ringraziare gli organizzatori – ma soprattutto voi, che ci onorate della vostra presenza.

 A nome di tutti gli ungheresi, ringrazio i nostri amici americani e quelli di altri Paesi per averci onorato e per essere venuti qui a Budapest.

Come posso contribuire all’incontro di oggi?

 Forse raccontandovi come abbiamo vinto:

come abbiamo sconfitto prima il regime comunista;

 poi come abbiamo sconfitto i progressisti;

infine, più recentemente, come abbiamo sconfitto la “Sinistra liberal internazionale” quando ha unito le sue forze contro l’Ungheria nelle elezioni.

Ora vi dirò come li abbiamo sconfitti per la prima, seconda, terza, quarta e quinta volta – e come li sconfiggeremo ancora.

Come cantano i tifosi del “Fradi” [squadra di calcio del Ferencváros]:

“Ancora, ancora, ancora, ancora, c’è ancora da segnare!”.

Vi racconterò come ferventi studenti universitari sono riusciti a smantellare una dittatura, poi a rompere l’egemonia sulle opinioni dei comunisti di ritorno e dei liberal, e come sono riusciti a porre fine al dominio dei progressisti nella vita pubblica.

Vi racconterò come l’Ungheria sia diventata un bastione dei valori conservatori e cristiani in Europa.

 Invece del mio lungo discorso, naturalmente, lo stesso lo si potrebbe raccontare in modo breve e semplice.

 Abbiamo imparato dal generale Patton come la battaglia faccia emergere tutto il meglio e rimuova tutto ciò che è basso.

Questo vale anche per il campo di battaglia politico.

Qui, amici miei, solo i migliori rimangono in piedi – o, in breve, la condizione ultima per la vittoria è che dobbiamo diventare i migliori.

Si può vincere se si è i migliori.

 

La lotta contro il regime comunista.

Cominciamo col dire che voi, politici amanti del proprio Paese, vi trovate di fronte a un problema che noi ungheresi abbiamo già affrontato con successo.

Questo problema – se non sbaglio, sia in America sia in Europa occidentale – è il dominio sulla vita pubblica da parte dei liberal-progressisti.

 Il problema è che essi occupano le posizioni più importanti nelle istituzioni più importanti, che occupano le posizioni dominanti nei media e che producono tutte le opere di indottrinamento politico nella cultura alta come in quella di massa.

Loro – la Sinistra progressista – ci dicono cosa sia verità e cosa no, cosa sia giusto e cosa sbagliato. E come conservatori, il nostro destino è quello di sentirci nella vita pubblica del nostro Paese come “Sting” si sentiva a” New York”: uno “straniero legale”.

Questa era la situazione anche in Ungheria.

Trent’anni fa, anche qui la Sinistra era al potere – e c’era persino una dittatura comunista.

L’intera macchina dello Stato lavorava per rafforzare il potere dei comunisti.

Per quanto possa sembrare strano, noi – e io – siamo cresciuti

in un “mondo woke “.

Solo che allora la teoria critica della razza si chiamava “socialismo scientifico” e veniva insegnata all’università nello stesso modo in cui si insegna quella woke nel vostro Paese.

Dittatura socialista quotidiana: ecco in cosa siamo cresciuti.

 Politicamente corretto, Newspeak orwelliano, controllo statale dell’agone pubblico, espropriazione della proprietà privata e stigmatizzazione della Destra.

Sotto il comunismo si scherzava sul fatto se fosse possibile scherzare sotto il comunismo.

La barzelletta immaginava che in Unione Sovietica si tenesse un concorso di barzellette politiche, alle seguenti condizioni:

 il concorrente che si fosse classificato terzo avrebbe vinto un viaggio tutto compreso in Siberia per due settimane, il secondo classificato per un anno e il vincitore per la vita.

L’alleanza liberali-postcomunisti e la riconquista conservatrice.

Se sentite che questa battuta stia diventando sempre più significativa per voi, è arrivato il momento di passare all’azione.

In ogni caso, ci siamo sollevati e alla fine degli anni ’80 abbiamo deciso di dire basta.

Volevamo riconquistare il nostro Paese e la nostra libertà;

volevamo riconquistare la libertà della nostra Patria.

I comunisti non ce lo hanno lasciato fare senza reagire:

attacchi della polizia, divieti, intercettazioni, agenti statali infiltrati, minacce e ricatti.

Ma noi abbiamo perseverato e abbiamo vinto.

 Fuori i sovietici, abbattuti i comunisti.

 Pensavamo di aver finalmente ottenuto ciò che volevamo, ma ci sbagliavamo: sotto la dittatura liberali e conservatori avevano stretto un patto anticomunista, ma alla prima successiva occasione i liberali si erano schierati con i comunisti.

 Si è scoperto come in realtà fossero alleati naturali.

Se non erro, questo tipo di alleanza peccaminosa si è vista anche negli Stati Uniti.

 Summa summarum, la vita pubblica dopo le prime elezioni libere in Ungheria era dominata dai post-comunisti, dai liberali e dai progressisti, e la Destra ungherese si trovò spiazzata.

Quando il mio amico Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali statunitensi nel 2016, una delle sue principali promesse riguardava la necessità di “prosciugare la palude”.

Il Presidente Trump ha dei meriti innegabili, ma nonostante ciò non è stato rieletto nel 2020.

Ha fatto la stessa fine del nostro primo governo conservatore e cristiano nel 2002: abbiamo governato in modo eccellente – dopo tanti anni posso forse concedermi tanta immodestia – ma siamo stati trascinati dalla palude della sinistra ungherese.

E poi, tra il 2002 e il 2010, abbiamo assistito a ciò che generalmente accade in queste circostanze: i socialisti hanno speso i soldi del popolo.

 L’Ungheria è sprofondata nel debito, l’economia è caduta in recessione, l’inflazione è andata fuori controllo, la disoccupazione è aumentata e la gente non è riuscita a pagare le bollette.

 Scoppiò la violenza di strada e i gruppi paramilitari si misero in marcia.

È passato molto tempo, ma non dimentichiamolo:

una serie di omicidi a sfondo etnico indignò l’opinione pubblica.

La Sinistra aveva tagliato a tal punto le spese per la polizia da renderla incapace di mantenere anche solo una parvenza di ordine, con la legge che proteggeva i criminali piuttosto che le vittime.

Amici americani:

penso abbiate visto qualcosa di simile.

 Le Scritture recitano come segue: “Ogni albero si riconosce dai suoi frutti”. Ebbene, i frutti del governo progressista parlano da soli: rovina economica e violenza di strada.

Quando un governo di sinistra sale al potere, la storia finisce quasi sempre nello stesso modo.

 Ma, cari amici, nel 2002 abbiamo organizzato un movimento popolare e di resistenza intellettuale con le truppe che ci rimanevano dopo la sconfitta elettorale.

Non abbiamo adottato un atteggiamento difensivo e non ci siamo rassegnati alla condizione di minoranza;

abbiamo giocato per vincere e proclamato la “Reconquista”.

Il piano ebbe successo. Nel 2010 tornammo.

Abbiamo lavorato per otto anni: passo dopo passo, mattone dopo mattone, abbiamo combattuto e costruito.

 La formula è completa.

L’Ungheria è il laboratorio in cui abbiamo testato l’antidoto al dominio dei progressisti.

 Abbiamo appeso il camice al chiodo, questa primavera l’Ungheria ha ricevuto la quarta dose e posso dire che il paziente è completamente guarito.

 Il farmaco è open-source, gratuito e comprende dodici punti – che ora condividerò con voi.

A beneficio dei nostri amici stranieri, preciso che il dodici è il numero fortunato dei combattenti per la libertà ungheresi.

Le dodici regole per il successo.

Il primo punto della formula ungherese è giocare secondo le proprie regole.

 L’unico modo per vincere è rifiutare le soluzioni e i percorsi offerti dagli altri.

Come diceva Churchill, avere dei nemici è un segno sicuro che si sta facendo qualcosa di giusto.

Per questo non dobbiamo scoraggiarci se veniamo diffamati, se veniamo bollati come deplorevoli o se veniamo trattati all’estero come dei piantagrane.

Anzi, sarebbe sospetto se non accadesse nulla di tutto ciò.

Ricordate che chi gioca secondo le regole dell’avversario è destinato a perdere.

 

Il secondo punto:

il conservatorismo nazionale in politica interna.

 La causa della nazione non è una questione di ideologia e nemmeno di tradizione. La ragione per cui le chiese e le famiglie devono essere sostenute è che sono i mattoni della nazione.

 Questo significa anche che bisogna stare dalla parte degli elettori.

Abbiamo deciso di fermare l’immigrazione e di costruire il muro al confine meridionale perché gli ungheresi avevano detto di non volere immigrati clandestini.

Dissero: “Viktor, costruisci quel muro!”.

 Tre mesi dopo la barriera di confine era in piedi.

 Il segreto è non pensare troppo:

la barriera ungherese è una semplice struttura rete metallica con rilevatori di movimento, torri di guardia e telecamere;

ma questo è sufficiente, se la gente vuole proteggere il proprio Paese.

Il tallone d’Achille dei progressisti è proprio quello di voler imporre i propri sogni alla società.

 Ma per noi tale pericolo è anche un’opportunità, perché quando si tratta di questioni importanti, in realtà alla gente non piacciono i sogni della Sinistra.

Bisogna trovare le questioni su cui la Sinistra è completamente fuori dalla realtà e metterle in evidenza, ma in un modo che possa essere compreso anche da chi non è uno scienziato.

 

Terzo punto:

l’interesse nazionale in politica estera.

I progressisti pensano sempre che la politica estera sia una battaglia di ideologie: una battaglia tra buoni e cattivi, in cui il corso della storia sarà deciso una volta per tutte.

Ma a mio avviso, cari amici, negli ultimi cento anni ci sono state almeno quattro di queste “grandi battaglie finali”.

 C’è qualcosa di sbagliato in tale concezione.

 La nostra risposta dovrebbe essere una chiara e semplice antitesi ai progressisti: prima la nazione!

Prima l’Ungheria!

Prima l’America!

Abbiamo bisogno di una politica estera basata sui nostri interessi.

Non è sempre facile, perché il mondo della politica estera è spesso complicato. Prendiamo la guerra in corso al nostro confine.

 La Russia è l’aggressore e l’Ucraina la vittima.

 Condanniamo l’aggressore e aiutiamo la vittima dell’aggressione.

Ma allo stesso tempo sappiamo che l’Ucraina non sta difendendo l’Ungheria.

È un’idea insensata!

 L’Ungheria può essere difesa dalla NATO e dalle forze di difesa ungheresi.

In proporzione alla nostra popolazione, abbiamo accolto il maggior numero di rifugiati e il popolo ungherese è felice di aiutare.

Sono felici di aiutare, gli ungheresi, ma non vogliono pagare il prezzo della guerra, perché non è la loro guerra e non trarrebbero alcun vantaggio da essa.

Sanno bene che la guerra è accompagnata da sanzioni, inflazione dilagante e stagnazione economica;

 sanno che la guerra impoverisce sempre le persone.

 Non dobbiamo cedere alle voci delle sirene, per quanto allettanti possano sembrare.

Il nostro obiettivo è ripristinare la pace, non continuare la guerra, perché questo è il nostro interesse nazionale.

Prima l’Ungheria!

 

Quarto punto:

dobbiamo avere i nostri media. Possiamo mostrare le idee folli della Sinistra progressista solo se abbiamo dei media che ci aiutano a farlo.

Le opinioni di sinistra sembrano essere maggioritarie solo quando i media contribuiscono ad amplificarle.

La radice del problema è che i moderni media occidentali si allineano alle opinioni della Sinistra.

I giornalisti sono stati istruiti all’università da personaggi di sinistra progressista.

 E non appena una figura conservatrice appare sui media, viene criticata, attaccata, diffamata e vilipesa.

 Conosco la vecchia etica della democrazia occidentale, secondo la quale la politica di partito e la stampa devono essere separate.

È così che dovrebbe essere.

Ma, cari amici, i democratici negli Stati Uniti, per esempio, non rispettano queste regole.

Provate a contare quanti media sono al servizio del Partito Democratico: CNN, New York Times, l’elenco continua – potrei continuare fino a notte fonda. Naturalmente, anche il” Grand Old Party” ha dei media alleati, ma non possono competere con il dominio dei media da parte dei liberali.

Il mio amico “Tucker Carlson” si staglia saldo e solitario.

Il suo programma ha gli ascolti più alti.

Che cosa significa questo?

Significa che ci dovrebbero essere programmi come il suo giorno e notte – o, come dite voi, 24×7.

 

Quinto punto:

smascherare le intenzioni dell’avversario.

 Come condizione per la vittoria, il sostegno dei media è necessario, ma non sufficiente.

Dobbiamo anche abbattere i tabù.

 Forse non c’è bisogno di spiegarlo agli amici americani, perché quale demolitore di tabù è più grande del Presidente Donald Trump?

Ma si può sempre alzare l’asticella: dobbiamo abbattere non solo i tabù di oggi, ma anche quelli di domani.

Qui in Ungheria smascheriamo ciò che la Sinistra sta preparando prima ancora che agisca.

All’inizio lo negheranno, ma il successo è ancora più dolce quando si scopre che abbiamo sempre avuto ragione.

Per esempio, c’è la questione della “propaganda LGBTQ” rivolta ai bambini.

Qui è ancora una novità, ma noi l’abbiamo già distrutta.

Abbiamo portato la questione alla luce del sole e indetto un referendum.

 La stragrande maggioranza degli ungheresi ha rifiutato questa forma di sensibilizzazione dei bambini.

Rivelando tempestivamente ciò che la Sinistra stava preparando, li abbiamo costretti sulla difensiva e, quando hanno attaccato la nostra iniziativa, alla fine sono stati costretti ad ammettere la realtà del loro piano.

Permettetemi di citare di nuovo il generale Patton:

 “Un buon piano, violentemente eseguito ora, è meglio di un piano perfetto eseguito la prossima settimana”.

Sesto punto:

economia, economia, economia. Sappiamo tutti che la Sinistra vuole gestire l’economia secondo nozioni astratte.

Questa è una trappola per la Destra. Non cadeteci mai!

Quando siamo saliti al potere, abbiamo deciso che dovevamo perseguire solo politiche economiche che andassero a beneficio della maggioranza degli elettori.

Qui in Ungheria abbiamo un motto a riguardo:

 “Anche chi non ha votato per noi finisce per stare meglio”.

In questo siamo l’opposto dei progressisti: anche chi ha votato per loro sta peggio.

In ultima analisi, la gente vuole posti di lavoro, non teorie economiche.

 La gente vuole fare un passo avanti nella vita e vuole per i propri figli una vita migliore rispetto a quella che ha avuto.

 Se un governo di destra non è in grado di offrire tutto questo, è destinato al fallimento.

 

Settimo punto:

non lasciarsi spingere all’estremo.

 Dico questo perché teorie cospirative estreme si manifestano di tanto in tanto a destra, così come utopie estreme si manifestano regolarmente a sinistra.

Se guardiamo più a fondo, vediamo che in realtà la gente non vuole né l’una né l’altra cosa.

Ma, cari amici, qual è la differenza tra la negazione della scienza da parte dell’estrema destra e la negazione della biologia da parte dei movimenti LGBTQ?

 La risposta è semplice: non c’è alcuna differenza.

 Dobbiamo rendere a Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio e alla scienza ciò che è della scienza.

Possiamo guadagnare un’immensa popolarità sui forum di Internet promuovendo teorie cospirative – e in effetti a volte c’è del vero in esse;

ma in realtà ci alieneremo una gran parte dell’elettorato, ci ritroveremo ai margini e alla fine perderemo.

 

Ottavo punto:

 leggere ogni giorno.

Un libro al giorno allontana la sconfitta.

So che sembra strano.

Non sono un accademico, ma il fatto è che nessuna invenzione ha ancora superato il libro come veicolo di comprensione e trasmissione delle idee.

Il mondo sta diventando sempre più complesso e dobbiamo dedicare del tempo alla sua comprensione.

 Io, per esempio, ogni settimana dedico un giorno intero alla lettura.

La lettura ci aiuta anche a capire cosa pensano i nostri avversari e dove il loro pensiero è fallace.

Se sappiamo questo, il resto è pura tecnica.

Dobbiamo tradurre tutto ciò nel linguaggio dell’azione quotidiana e della comunicazione politica.

È vero che lo spin doctor è una figura utile, ma la comprensione del problema deve essere fatta da noi politici.

 

Nono punto: avere fede.

La mancanza di fede è pericolosa.

 Se non credete che ci sarà una resa dei conti finale e che sarete chiamati a rispondere delle vostre azioni davanti a Dio, penserete di poter fare tutto ciò che è in vostro potere.

 Incoraggiamo quindi i futuri giovani politici conservatori a impegnarsi nella fede. Inizialmente non la consideravo una priorità, ma ho imparato che se dedichiamo tempo alla nostra fede, il successo arriverà più facilmente.

Sono stato membro del Parlamento per trentadue anni e sto iniziando il mio diciassettesimo anno come Primo Ministro.

Ho ascoltato le parole del profeta Isaia, che ha detto: “Se non resterete saldi nella vostra fede, non resterete affatto in piedi”.

 In politica, cari amici, questa è la legge.

 

Decimo punto:

 fatevi degli amici.

I nostri avversari, i liberali progressisti e i neomarxisti, hanno un’unità inesauribile: si coprono le spalle a vicenda.

Noi conservatori, invece, siamo capaci di litigare tra di noi anche per la più piccola questione.

E poi ci stupiamo di come i nostri avversari ci mettano all’angolo.

 Noi possediamo una certa raffinatezza intellettuale e ci preoccupiamo delle sfumature intellettuali.

Ma se vogliamo avere successo in politica, non dobbiamo mai guardare a ciò su cui non siamo d’accordo, ma piuttosto cercare i nostri punti in comune.

Faccio un esempio.

Il Vaticano è uno dei nostri più importanti alleati europei.

È un alleato in quanto custode dei valori cristiani, nel sostegno alle famiglie, e insieme affermiamo che un padre è un uomo e una madre è una donna.

Siamo uniti per la pace e per i rifugiati dall’Ucraina.

Ma sulla migrazione illegale il nostro pensiero diverge.

Non dobbiamo guardare alle questioni su cui possiamo impegnarci in dispute accese, ma cercare modi in cui possiamo lavorare insieme.

Credetemi, se non lo facciamo, i nostri avversari ci daranno la caccia uno a uno.

 

Undicesimo punto:

costruire comunità. Amici miei, nel corso degli anni ho imparato che non c’è successo politico conservatore senza comunità funzionanti.

Meno comunità ci sono e più le persone sono sole, più gli elettori vanno ai liberali; e più comunità ci sono, più voti otteniamo noi.

È così semplice.

Non c’è bisogno che ve lo spieghi: gli Stati Uniti hanno i club, le società e le comunità meglio funzionanti al mondo.

Quello che dobbiamo capire è che un’entità politica deve comprendere queste comunità.

Infine, il dodicesimo punto: costruire istituzioni.

 Per una politica di successo, occorrono istituzioni e istituti.

 Che siano think tank, centri educativi, laboratori di talento, istituti di relazioni estere, organizzazioni giovanili o altro, devono avere un aspetto politico.

 Non dimentichiamo che i politici vanno e vengono, ma le istituzioni restano con noi per generazioni.

Le istituzioni hanno la capacità di rinnovare intellettualmente la politica.

Servono sempre nuove idee, nuovi pensieri e nuove persone.

 Se si esauriscono, noi esauriremo le munizioni e il nostro avversario non avrà pietà nel metterci al tappeto.

 

La nuova minaccia comunista che viene da occidente.

Il mondo intero sta subendo enormi cambiamenti.

 È strano ma vero che le ideologie distruttive del fascismo e del comunismo siano nate in Occidente.

Non avremmo mai pensato che i comunisti potessero tornare non solo dall’Est, ma anche dall’Ovest.

 Ora vediamo che i progressisti stanno minacciando l’intera civiltà occidentale, e il vero pericolo non viene dall’esterno ma dall’interno.

Voi, cari amici americani, vi trovate di fronte a ciò negli Stati Uniti, mentre noi ci troviamo di fronte allo stesso nell’Unione Europea.

 Abbiamo a che fare con le medesime persone:

burocrati senza volto, ideologicamente preparati, che siedono a Washington DC e a Bruxelles.

Liberali progressisti, neomarxisti inebriati dal sogno del benessere, al soldo di George Soros, sostenitori della società aperta.

Vogliono abolire lo stile di vita occidentale che voi e noi amiamo tanto:

quello per cui i vostri genitori hanno combattuto durante la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra Fredda, e quello per cui noi abbiamo combattuto quando abbiamo cacciato i comunisti sovietici dall’Ungheria.

Dobbiamo riprendere la lotta, e in questa lotta possiamo avere successo solo se siamo uniti e organizzati.

 Dobbiamo riprenderci le istituzioni di Washington e Bruxelles.

Dobbiamo trovare amici e alleati gli uni negli altri.

Dobbiamo coordinare il movimento delle nostre truppe, perché abbiamo di fronte una grande sfida.

L’anno decisivo sarà il 2024:

voi avrete le elezioni presidenziali e congressuali e noi le elezioni del Parlamento europeo.

Queste due sedi definiranno i due fronti della battaglia che si combatte per la civiltà occidentale.

Oggi non controlliamo nessuna delle due.

 Eppure abbiamo bisogno di entrambe.

Abbiamo due anni per prepararci.

 La lezione ungherese è che non esiste una pallottola d’argento.

 C’è solo il lavoro. Dobbiamo farlo.

Usciamo e facciamolo! Grazie e buona fortuna!

(Viktor Orban - + post - Primo Ministro dell'Ungheria, presidente del partito Fidesz.)

 

 

 

Donald chi? Ovvero,

la libertà della destra.

Blog.ilgiornale.it – (3-5-2017) – redazione -ci dice:

Cento giorni sono pochi per giudicare l’operato di un Presidente americano;

in fondo sono appena il 7% del suo mandato.

Eppure nessun inizio è stato più discusso, controverso, rinnegato, riabilitato, come quello di Donald Trump.

Per capire che disastro era stato Obama, non bastarono i suoi primi 4 anni;

tanto che uno dei peggiori Presidenti Usa fu rieletto in maniera scontata.

Ancora oggi, schiere di replicanti obamiani, in America e in Europa, trovano miliardi di giustificazioni per assolverlo o semplicemente ignorare il suo fallimento.

Eppure Obama ha potuto governare avendo al suo fianco l’intero sistema di potere globale: dalla finanza ai media, da Soros a Hollywood.

Lui, primo presidente nero della storia americana, era il Predestinato, il Messia che il mondo e il mondialismo aspettavano.

Il nuovo Martin Luther King tornato a riscattare i deboli e gli oppressi;

il nuovo J.F.K. riesumato per completare il lavoro drammaticamente interrotto; il nuovo “Mahatma Ghandi “ricomparso per trasformare la nazione più bellicosa della storia in un circolo di pacifisti arcobaleno.

 

Alla fine, Obama è stato un mediocre “Presidente liberal”, ostaggio in politica estera di quel Partito della Guerra trasversale che l’industria militare finanzia, tra liberal progressisti e neoconservatori e che ha contribuito ad indebolire l’America nel mondo e a renderla meno sicura all’interno.

Trump invece è arrivato alla Casa Bianca inaspettato e non desiderato.

 Figlio illegittimo di un’America che si riempie la bocca di parole come Democrazia ma la disconosce quando partorisce fuori dalla sua volontà e dai suoi progetti.

Odiato dallo Stato Profondo, odiato dall’intero sistema dei media, odiato da Hollywood, odiato dal suo stesso partito, la forza di Trump è stata il suo popolo e il suo porsi “anti-sistema”.

Ma anche da un manipolo di intellettuali eretici, opinion-makers scandalosi, pensatori estranei all’establishment accademico e mediatico;

ed ora sono proprio loro, liberi dai vincoli di potere che soffocano il loro colleghi di sinistra, a denunciare le maggiori perplessità sui suoi primi 100 giorni.

 

TRUMP, CRACK E TRANSGENDER.

“Pat Buchanan”, già consigliere di Nixon e “Capo delle Comunicazioni di Reagan”, è uno dei decani tra gli ideologi del conservatorismo americano.

Da sempre ostile alle politiche d’interventismo Usa, ha criticato l’escalation contro la Corea imposta da Trump:

“fino a quando dovrà essere responsabilità degli Usa contenere dittatori militaristi?”;

perché dobbiamo “farlo noi quando due suoi vicini – Russia e Cina – sono potenze nucleari e Corea del Sud e Giappone hanno forze convenzionali di gran lunga superiori a Kim?”

 E ha aggiunto “in 100 giorni, la promessa di una Presidenza Trump che avrebbe guardato ai propri interessi nazionali e lasciato il mondo a risolvere i suoi di problemi appare un miraggio.

Saranno più guerre a fare l’America di nuovo grande?

“Ann Coulter” è una delle più famose opinioniste di destra americane;

polemista agguerrita e controcorrente, è stata una delle poche a prevedere la vittoria di Trump e ad attaccare i Repubblicani ostili alla sua presidenza.

Ma dopo il bombardamento in Siria la sua delusione è cocente:

“Assad è uno dei dittatori meno crudeli del Medio Oriente (…) non è un delinquente criminale come Saddam, protegge i cristiani e combatte l’Isis, ci ha offerto intelligence contro Al Qaeda dopo l’11 Settembre;

non usa polizia islamica per perseguitare donne o gettare i gay dai palazzi (come fanno i nostri amati alleati dell’Arabia Saudita)”.

Perché quindi attaccarlo?

Perché per i Presidenti Usa “la guerra è come il crack”, e il bombardamento di Trump sulla Siria “è immorale, viola ogni promessa elettorale fatta e potrebbe affondare la sua Presidenza”.

“Laura Igraham” è invece una delle più importanti voci radiofoniche americane; giornalista apprezzata e convinta conservatrice, ha lasciato a Twitter il suo disagio dopo le bombe in Siria: “missili in volo. Rubio felice. Mc Cain in estasi. Hillary a bordo. Un cambiamento di politica completo in 48 ore“.

“Fred Reed” è uno dei più dissacranti personaggi della galassia anarco-libertaria americana:

 quella destra minoritaria nel Gop ma forte e radicata nell’America profonda dei cowboy e degli yeomen;

ex militare, ex inviato di guerra, lancia i suoi strali scandalosi contro il “politcally correct della società Usa e dei fighetti radical-chic”. Non è mai stato un trumpiano ma lo ha votato, perché “dovevamo scegliere tra un fetore e un pazzo.

Abbiamo scelto il pazzo”.

Ma denuncia: dopo il primo Presidente Nero, “abbiamo il primo Presidente Transgender: perché Trump è diventato Hillary”.

Milo-in-Make-America-Great-Again-hat-1.

Milo Yiannopoulos è balzato alla cronaca subito dopo l’elezione di Trump, quando per impedirgli di parlare ad un convegno all’”Università di Berkely”, la sinistra scatenò violenze di piazza inaudite aggredendo e picchiando studenti di destra (con scene che ovviamente i media hanno nascosto).

 Milo un libertario di destra, gay, ma cattolico tradizionalista e con posizioni radicalmente anti-islamiche;

collabora con Bannon su Breitbart.com ma ha preso le distanze dal bombardamento in Siria: “non è per questo che la gente ha votato Trump”.

 

LA LIBERTÀ DELLA DESTRA.

Insomma, anche dopo appena 100 giorni, gli intellettuali di destra americani non fanno sconti al loro Presidente.

 Ed emerge con chiarezza la loro libertà rispetto ai “colleghi” di sinistra.

Il motivo è chiaro:

 l’intellettuale di destra, nella stragrande maggioranza dei casi, non ha rendite di posizione da dover difendere, non appartiene al potere mediatico o accademico, né dipende da strutture di partito o dall’establishment finanziario.

Non campa con i soldi di Soros o di Hollywood; non è organico a nulla se non alla propria coscienza.

Essere intellettuali a sinistra è un obbligo dettato dallo Spirito del Tempo;

esserlo a destra, una follia dello Spirito che sta oltre il Tempo.

La libertà della cultura di destra, minoritaria nei luoghi di potere, ma maggioritaria nella società reale, è forse la più preziosa risorsa che Trump possiede;

 anche quando, da questa cultura, viene criticato.

 Se solo fosse in grado di capirlo.

(Giampaolo Rossi).

 

 

 

 

I miliardari e l’ambiente:

l’ipocrisia dell’élite che si

atteggia a rivoluzionaria.

 

It.insideover.com - Andrea Muratore – (9 NOVEMBRE 2021) – ci dice:

 

Sono tutti in parata, uno dopo l’altro, al Cop26 e non solo. I miliardari e gli esponenti delle grandi multinazionali finanziarie e del tech parlano un giorno dopo l’altro di sostenibilità, ambientalismo, transizione.

Rimbottano i governi, si presuppongono filantropi e offrono contributi per “salvare il mondo”, a seconda che si tratti di promuovere lo sviluppo dell’Africa, combattere le esternalità negative come l’aumento dell’instabilità alimentare.

Miliardari rivoluzionari?

Da élite tra le élite parlano da icone rivoluzionarie.

E i media e i politici pendono dalle loro labbra.

Ma quella dei Paperoni globali in sfilata a Glasgow, pronti a parlare dell’emergenza ambientale e delle sue conseguenze, è una retorica che non nasconde componenti di ipocrisia.

I miliardari fattisi avanguardia della rivoluzione verde inseguono l’ideologia pop dominante del momento;

vengono meno a qualsiasi discorso realistico sulla necessità di pragmatismo strategico e operativo in campo di transizione energetica per farsi versioni di Greta Thunberg più scaltre e invecchiate, senza nemmeno la stessa sincera carica emotiva della giovane attivista svedese;

 da inquinatori più importanti del mondo, parlano sostanzialmente dei problemi che hanno contribuito a causare atteggiandosi a loro risolutori.

Jeff Bezos, fondatore del colosso americano Amazon e uomo fra i più ricchi del mondo, nella giornata del 2 novembre ha promesso nell’ambito della conferenza Onu Cop26 di Glasgow una donazione da 2 miliardi di dollari per ridare vita a terreni “degradati” dal cambiamento climatico in Africa.

Si fa patrono della sostenibilità a tutti i costi ma” Oxfam”, in uno studio prodotto insieme all’”Institute for European Environmental Policy” allo “Stockholm Environment Institute”, denuncia:

con la sua nuova attività di super-lusso, i viaggi spaziali fa sì che ogni passeggero spaziale, per restare appena 11 minuti in orbita, contribuisca all’emissione di 75 tonnellate di anidride carbonica.

Più di quanta ne emette in tutta la sua vita una persona scelta tra il miliardo di uomini e donne più povero del pianeta.

Una sostanziale ipocrisia.

“Viviamo in un mondo in cui una ristrettissima élite sembra avere il permesso di inquinare senza limiti, alimentando condizioni ed eventi metereologici sempre più estremi e imprevedibili”,

ha dichiarato “Nafkote Dabi”, responsabile delle “politiche climatiche di Oxfam”.

Oxfam nel suo studio riporta che l’1% più ricco della popolazione ha un impatto sull’ambiente trenta volte maggiore di quello che andrebbe mantenuto per rendere realistico un target di emissioni entro i limiti degli Accordi di Parigi, e per la Dabi “le emissioni del 10% più ricco, da sole, potrebbero spingerci verso un punto di non ritorno.

 E a pagarne il prezzo più alto, ancora una volta, saranno le persone più povere e vulnerabili del pianeta”, per i quali a parole si dichiara pronto a battersi Bezos.

 Che su questo punto di vista è un tutt’uno con il rivale per il titolo di uomo più ricco del mondo, “Elon Musk”.

Imprenditore che difende l’idea della transizione incentrata sulle auto elettriche e che dopo l’ammissione di Bezos su Twitter ha scritto di essere disposto a mettere sul piatto sei miliardi di dollari per mettere fine alla fame del mondo.

 

Nonostante l’impegno finanziario minore in questa fase, né Bezos né Musk riescono però a toccare i picchi di attenzione politica toccati da Bill Gates, che al Cop26 ha dichiarato, sobriamente, di avere un “messaggio per il mondo” sulla necessità di investire sulle tecnologie verdi.

Diventando partner dell’ “Eu Catalyst Partnership”, programma da un miliardo di dollari in partnership con la Commissione europea per incoraggiare gli investimenti in tecnologie per il clima.

Gates, Bezos e Musk sono accomunati da un’idea chiara:

la superiorità ineludibile del mercato sugli Stati e sulle società, la volontà mecenatica utilizzata come strumento di consenso politico, la filantropia come strumento di sedazione di qualsiasi dibattito sul cambiamento strutturale degli interi contesti.

“Oggi si sta vivendo una seconda età dell’oro della filantropia”, spiega “Nicoletta Dentico” nel saggio Ricchi e buoni?

 “che nasce esattamente nel momento in cui è fallita la richiesta di globalizzazione dei diritti richiesta dai movimenti altermondialisti, dove attori arricchitisi grazie alla deregolamentazione dei mercati hanno iniziato a giocare un ruolo centrale nelle grandi sfide globali per i diritti, per l’ambiente, per la salute”.

La filantropia serve sostanzialmente a cancellare ogni dibattito sul fatto che essa consiste in fin dei conti nel tentativo (legittimissimo dal punto di vista dei suoi autori) di quella che Oltremare definisce “una classe di tycoon, vincitori sulla scena della globalizzazione economica, che colgono l’occasione per dipingersi come salvatori globali.

Il capitalismo della filantropia.

Si ripropone sull’ambiente il problema di fondo della “filantropia capitalista”, criticata in passato da “Peter Buffett”, figlio del noto investitore “Warren Buffett”, a lungo ai primi posti tra gli uomini più ricchi del mondo.

Come ha scritto “Peter Buffett” in un’analisi realizzata per il “New York Times” scritto nel 2013,

“la filantropia sta diventando un business enorme (con 9,4 milioni di occupati che distribuiscono 316 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti), ma le disuguaglianze globali continuano a crescere a spirale, fuori controllo e altre vite e comunità vengono distrutte dal sistema che crea immense quantità di ricchezza per i pochi”, dominato proprio da coloro che al termine del processo promuovono questa modesta redistribuzione.

Attraverso le donazioni milionarie, i “filantropi” assumono un peso politico sempre maggiore, si aprono la strada a nuovi mercati, e si sostituiscono agli Stati, mettendo di fatto un sigillo a ogni prospettiva di evoluzione sistemica in forma complessa.

In altre parole, come combattere lo smodato dominio della finanza sull’economia reale in un contesto in cui i suoi vincitori sono in prima fila a mostrare la molteplicità degli usi dei dividendi ottenuti?

Come discutere di disuguaglianze, lotta alla povertà e progetti di lungo periodo se si dà il via libera alla prassi che alla programmazione preferisce gli atti unilaterali di un singolo Paperone?

 Come rimettere l’uomo al centro nella partita per lo sviluppo sostenibile, l’ambiente, la crescita se essa avviene nel quadro di una cornice nota da tempo?

A queste domande è difficile dare risposta.

Ma se questo è a prescindere un problema, sul clima si arriva al parossismo.

 Alzi la mano chi ha mai visto una rivoluzione guidata dalle élite andare a buon fine.

La “superclasse” vincitrice della crisi finanziaria, della pandemia, delle politiche della globalizzazione ora si fa guida moralizzatrice e piange lacrime verdi, in un’identificazione della prima causa del problema ambientale (l’iper-accumulazione capitalista) nella sua presunta soluzione.

 Un cambio di paradigma tale da rendere potenzialmente fallace qualsiasi discorso sulla possibilità di un reale processo di discontinuità sullo sviluppo sostenibile negli anni a venire.

 

 

 

George Soros & la filantropia

nera dell’élite globalista.

 Blog123.it - Redazione – Marco -  (20 Giugno 2023)

George Soros.

La figura di George Soros ha destato molta attenzione e controversia negli ultimi anni. Miliardario e filantropo, Soros è conosciuto per la sua fondazione Open Society e per il suo impegno nel promuovere la democrazia e i diritti umani in tutto il mondo. Tuttavia, la sua influenza politica e le sue azioni sono state oggetto di dibattito e critiche da parte di molti.

La figura di George Soros.

George Soros è un investitore miliardario e filantropo di origini ungheresi. Nato a Budapest nel 1930, Soros ha fondato il suo hedge fund, il Quantum Fund, negli anni ’70, che lo ha reso una delle persone più ricche al mondo. Ha acquisito notorietà per le sue attività di speculazione finanziaria e per aver scommesso contro la sterlina britannica nel 1992, guadagnando circa un miliardo di dollari in un solo giorno.

La filantropia di George Soros.

Una delle principali attività di George Soros è la sua fondazione Open Society. Fondata nel 1979, la fondazione si impegna per promuovere la democrazia, i diritti umani e la giustizia sociale in tutto il mondo. Attraverso la sua rete di organizzazioni e iniziative, la fondazione sostiene progetti in vari settori, tra cui la salute pubblica, l’istruzione, i diritti delle minoranze e la lotta contro la corruzione.

1. La fondazione Open Society.

La fondazione Open Society di Soros è attiva in più di 100 paesi e svolge un ruolo significativo nel finanziamento di organizzazioni e movimenti sociali. Il suo obiettivo principale è quello di promuovere la democrazia e di sostenere la società civile, fornendo fondi e risorse a organizzazioni non governative, università e attivisti dei diritti umani.

2. L’influenza politica di George Soros.

A causa della sua ricchezza e delle sue attività filantropiche, George Soros ha guadagnato una certa influenza politica. Ha sostenuto finanziariamente numerosi candidati politici e movimenti progressisti in diversi paesi. La sua influenza politica è stata oggetto di critiche e teorie del complotto, che sostengono che egli stia cercando di manipolare gli affari politici e sovrani di vari paesi.

3. Critiche alla filantropia di Soros.

Nonostante i suoi sforzi nel campo della filantropia, George Soros ha affrontato molte critiche. Alcuni sostengono che le sue donazioni abbiano un’influenza indebita sulle politiche dei paesi beneficiari e che miri a promuovere una visione del mondo che corrisponde ai suoi interessi personali. Inoltre, le sue attività filantropiche sono state oggetto di teorie del complotto e di disinformazione.

L’élite globalista e le teorie del complotto.

1. Il concetto di élite globalista.

Il concetto di élite globalista si riferisce a un gruppo di persone influenti che operano a livello globale per promuovere una visione del mondo basata sulla cooperazione internazionale e sullo sviluppo globale. Questo concetto è stato spesso utilizzato nelle teorie del complotto per descrivere un’entità segreta che controlla le istituzioni internazionali e influenza gli affari mondiali.

2. Teorie del complotto legate a George Soros.

George Soros è diventato un capro espiatorio per molti teorici del complotto. È stato oggetto di teorie che sostengono che egli sia parte di una “filantropia nera” dell’élite globalista che cerca di controllare il mondo e di promuovere una “nuova ordine mondiale”. Queste teorie sono spesso prive di fondamento e basate su pregiudizi e disinformazione.

La controversia e il dibattito.

1. Soros come boogeyman della destra.

George Soros è diventato un simbolo di paura per la destra politica in molti paesi. È stato dipinto come un nemico della sovranità nazionale e come un manipolatore delle politiche globali. Questa narrazione è spesso utilizzata per alimentare sentimenti di paura e disprezzo verso di lui e le sue attività.

 

2. Il sostegno a movimenti progressisti e pro-democrazia.

George Soros ha sostenuto finanziariamente movimenti progressisti e pro-democrazia in tutto il mondo. Ha sostenuto movimenti per i diritti civili, la libertà di stampa e la giustizia sociale. Questo sostegno ha spesso attirato critiche da parte di coloro che si oppongono a tali ideali.

3. Le interferenze negli affari sovrani di altri paesi.

Alcune accuse mosse a George Soros riguardano le sue interferenze negli affari sovrani di altri paesi. Sono stati sollevati dubbi sul suo coinvolgimento in rivoluzioni colorate e proteste, suggerendo che egli cerchi di influenzare il destino di nazioni e governi a suo vantaggio.

Conclusioni

In conclusione, la figura di George Soros e la sua filantropia sono oggetto di dibattito e controversia. Mentre alcuni lo vedono come un benefattore impegnato per la democrazia e i diritti umani, altri lo considerano un pericoloso manipolatore politico. È importante valutare criticamente le informazioni e le teorie del complotto che circondano la sua figura, ricordando che ogni posizione ha le sue ragioni e che la verità spesso risiede in una zona grigia.

FAQ.

1. Qual è l’obiettivo principale della fondazione Open Society di George Soros?

L’obiettivo principale della fondazione Open Society di George Soros è quello di promuovere la democrazia, i diritti umani e la giustizia sociale in tutto il mondo. La fondazione sostiene progetti in vari settori, tra cui la salute pubblica, l’istruzione e la lotta contro la corruzione.

2. Quali sono le principali critiche mosse alla filantropia di George Soros?

Le principali critiche mosse alla filantropia di George Soros riguardano l’influenza politica che egli potrebbe esercitare attraverso le sue donazioni e il suo sostegno a movimenti progressisti.

Alcuni sostengono che le sue azioni mirino a promuovere una visione del mondo che corrisponde ai suoi interessi personali.

3. Cosa sono le teorie del complotto legate a George Soros?

Le teorie del complotto legate a George Soros sostengono che egli faccia parte di un’élite globalista che cerca di controllare il mondo e di promuovere una “nuova ordine mondiale”. Queste teorie sono spesso prive di fondamento e basate su pregiudizi e disinformazione.

4. Qual è il concetto di élite globalista?

Il concetto di élite globalista si riferisce a un gruppo di persone influenti che operano a livello globale per promuovere una visione del mondo basata sulla cooperazione internazionale e sullo sviluppo globale. Questo concetto è stato spesso utilizzato nelle teorie del complotto per descrivere un’entità segreta che controlla le istituzioni internazionali.

5. Quali sono le accuse mosse a George Soros riguardo alle interferenze negli affari sovrani di altri paesi?

Alcune accuse mosse a George Soros riguardano il suo presunto coinvolgimento in rivoluzioni colorate e proteste in altri paesi. Si sostiene che egli cerchi di influenzare il destino di nazioni e governi a suo vantaggio. Tuttavia, queste accuse sono spesso basate su teorie del complotto e mancano di prove concrete.

 

 

 

 

Ogni escalation si avvicina a

Washington e alla sconfitta in Ucraina.

  Unz.com - MIKE WHITNEY – (4 GIUGNO 2024) - ci dice:

 

C'è una grande differenza tra "non vincere" e "perdere" una guerra.

Nel caso dell'Ucraina, "non vincere" significa che il presidente Zelensky e i suoi gestori a Washington scelgono di adottare una soluzione negoziata che consentirebbe alla Russia di mantenere il territorio conquistato durante la guerra, affrontando al contempo le modeste richieste di sicurezza di Mosca.

 (Nota: l'Ucraina deve respingere qualsiasi intenzione di aderire alla NATO)

D'altra parte, "perdere" la guerra significa che gli Stati Uniti e la NATO continuano sulla stessa strada che stanno facendo oggi – pompare armi letali, addestratori e sistemi missilistici a lungo raggio in Ucraina – sperando che l'offensiva russa si indebolisca progressivamente in modo che l'Ucraina possa prevalere sul campo di battaglia.

Questo percorso alternativo – che equivale a un "pio desiderio" – è il percorso per "perdere" la guerra.

A differenza dello scenario del "non vincere" la guerra, "perdere" la guerra avrà un effetto catastrofico sugli Stati Uniti e sul loro futuro.

Significherebbe che Washington non è stata in grado di impedire un'incursione militare russa in Europa, che è la principale ragion d'essere della NATO.

Metterebbe in discussione l'idea che gli Stati Uniti siano in grado di agire come garanti della sicurezza regionale, che è il ruolo di cui gli Stati Uniti hanno goduto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

La percezione di una sconfitta degli Stati Uniti per mano della Russia innescherebbe inevitabilmente una rivalutazione delle attuali relazioni di sicurezza che porterebbe alla dissoluzione della NATO e, molto probabilmente, anche dell'UE.

In poche parole, perdere la guerra sarebbe un disastro.

 Ecco come il colonnello “Daniel Davis” lo ha riassunto proprio la scorsa settimana:

"Non possiamo lasciare che la Russia vinca".

L'ho sentito durante tutti gli oltre 2 anni di guerra.

Ma ecco cosa sto dicendo:

se continuate su questa strada, ignorando tutte le realtà di cui continuiamo a parlare, non solo la Russia vincerà, ma perderemo.

 E vi assicuro che se pensavate che fosse sbagliato "lasciare che Putin vincesse", il che significa avere un accordo negoziato in cui Putin finisce per avere un territorio con cui non ha iniziato la guerra...

Ma se dici questo – perché non voglio che accada, continuerò a combattere – significa che pensi di poter vincere.

Ma se non si riesce a vincere, allora il risultato probabile è che si perde ancora di più, e questo è ciò che danneggerà davvero la nostra credibilità perché, immaginate se l'intera forza della NATO si dimostrasse incapace di impedire alla Russia di vincere?

Ora la nostra credibilità è danneggiata molto peggio che avere un accordo negoziato.

 (Colonnello Daniel Davis, You Tube).

 

Quindi, anche se "non vincere" non è il risultato perfetto, è di gran lunga superiore a "perdere", il che minerebbe gravemente la credibilità dell'Alleanza, eroderebbe notevolmente il potere di Washington in Europa e costringerebbe gli Stati Uniti a riconsiderare i propri piani per proiettare il potere in Asia centrale. (pivot verso l'Asia).

 In breve, una sconfitta degli Stati Uniti da parte della Russia in Ucraina costituirebbe un duro colpo per l'"ordine basato sulle regole" e la conclusione del secolo americano.

Quindi, c'è molto in gioco per gli Stati Uniti.

Sfortunatamente, non c'è un vero dibattito nei circoli di potere dell'élite sul modo migliore di procedere.

E questo perché la decisione è già stata presa, e quella decisione si avvicina molto alle opinioni massimaliste articolate in un articolo al” Consiglio Atlantico” intitolato "NATO a 75 anni:

 il futuro dell'Alleanza sta nella vittoria dell'Ucraina contro la Russia"

 

Il 4 aprile la NATO celebrerà il suo settantacinquesimo anniversario come l'alleanza militare di maggior successo della storia.

Tuttavia, il suo futuro come credibile deterrente contro l'aggressione risiede ora nel successo o nel fallimento dell'ingiusta e brutale invasione dell'Ucraina da parte della Russia...

I leader alleati hanno inequivocabilmente legato la sicurezza della NATO a questa guerra.

 I vertici della NATO hanno ripetutamente condannato l'invasione e chiesto alla Russia "di ritirare completamente e incondizionatamente tutte le sue forze e le sue attrezzature dal territorio dell'Ucraina".

E la retorica è aumentata.

 Il presidente francese Emmanuel Macron ha recentemente descritto la guerra come "esistenziale" per l'Europa. "Se la Russia vincesse questa guerra, la credibilità dell'Europa sarebbe ridotta a zero", ha detto Macron...

Se si vuole che il prossimo vertice di Washington ispiri una continua fiducia nella credibilità della NATO, e quindi nel suo futuro, allora l' Alleanza deve agire per porre l'Ucraina sulla chiara strada verso la vittoria...

I leader alleati devono sostenere inequivocabilmente gli obiettivi di guerra dell'Ucraina, vale a dire la totale ricostituzione territoriale fino ai confini del 1991.

 Qualunque cosa al di fuori di questo è un segnale deludente per l'Ucraina e un incoraggiamento a Putin a sostenere la sua invasione.

La NATO a 75 anni: il futuro dell'Alleanza risiede nella vittoria dell'Ucraina contro la Russia.( Atlanticcouncil.org)

Ripeto: i leader alleati devono sostenere inequivocabilmente gli obiettivi di guerra dell'Ucraina, vale a dire la totale ricostituzione territoriale fino ai confini della nazione del 1991.

Qualunque cosa al di fuori di questo è un segnale deludente per l'Ucraina e un incoraggiamento a Putin a sostenere la sua invasione.

L'amministrazione Biden e le sue controparti europee non sono riuscite ad articolare il loro finale di questa guerra.

A tre anni dall'inizio del conflitto, la pianificazione occidentale continua ad essere strategicamente arretrata:

aiutare Kiev è diventato un fine in sé, separato da una strategia coerente per porre fine alla guerra.

Ma la "teoria della vittoria" presentata da “Zagorodnyuk” e “Cohen” per sostituire il malessere strategico in cui si trova l'Occidente è, sorprendentemente, ancora più pericolosa e mal concepita dello status quo.

 Gli autori chiedono alla Casa Bianca di sostenere a pieno titolo gli obiettivi di guerra di Kiev:

 vale a dire, espellere tutte le forze russe dai confini dell'Ucraina del 1991, compresa la Crimea, sottoporre i funzionari russi ai tribunali per crimini di guerra, estorcere risarcimenti a Mosca e fornire all'Ucraina "disposizioni di sicurezza a lungo termine".

 In altre parole, l'Occidente deve impegnarsi a raggiungere la totale e incondizionata sconfitta della Russia sul campo di battaglia.

Come può l'Ucraina, con il suo esercito malconcio, la demografia al collasso e un'economia interamente dipendente dalle infusioni di denaro occidentale, riuscire a portare a termine questo nobile compito?

Facendo più o meno la stessa cosa, ma su scala più ampia.

La nuova teoria della vittoria ucraina è sempre la stessa.

 

Il punto che stiamo cercando di sottolineare è che questo tipo di pensiero delirante è virtualmente universale tra le élite della politica estera degli Stati Uniti, nessuna delle quali è preparata ad accettare la realtà fondamentale sul terreno.

Di conseguenza, non c'è alcuna possibilità che l'amministrazione Biden apporti una correzione di rotta o faccia alcun tentativo per prevenire uno scontro diretto tra i due avversari dotati di armi nucleari, la NATO e la Russia.

Quindi, come affronterebbe una persona ragionevole l'attuale conflitto in Ucraina?

Cercherebbe un modo per farla finita il prima possibile, infliggendo il minor danno possibile alla parte perdente.

Ecco cosa ha detto il professore “Mark Episkopos” di “Marymount nello stesso articolo:

I leader occidentali sono in ritardo nell'articolare una teoria coerente della vittoria, una teoria che affronti i compromessi e i limiti che Kiev e i suoi sostenitori devono affrontare, piuttosto che spazzarli via nel perseguimento di obiettivi massimalisti sul campo di battaglia che sono sempre più distaccati dalle realtà sul terreno.

In conclusione:

è possibile raggiungere un accordo che minimizzi il danno complessivo per Stati Uniti e Ucraina, ma spetta ai diplomatici statunitensi e alle élite della politica estera identificare aree di terreno comune in modo da poter raggiungere un accordo che eviterà una catastrofe ancora più grande.

Il problema con la raccomandazione del professor “Episkopos” è che si tratta di un suggerimento immediatamente ragionevole, il che significa che verrà respinto su due piedi dai falchi che stabiliscono la politica.

Anche adesso, i potenti degli Stati Uniti sono certi che la guerra può essere vinta semplicemente gettando al vento la cautela e applicando una forza militare più cruda.

Questo dovrebbe bastare. (pensano)

 

Questo è il tipo di ragionamento errato che guida la macchina da guerra americana.

Le élite politiche credono onestamente che se abbracciano pienamente una ridicola banalità come "Non possiamo perdere", in qualche modo la realtà della superiore potenza di fuoco, manodopera, supporto logistico e capacità industriale russa svanirà nel nulla e la nazione "eccezionale" prevarrà di nuovo.

Ma questo non accadrà.

Va bene. Allora, cosa succederà?

Per questo, ci rivolgiamo all'analista militare “Will Schryver” e un suo post recente su Twitter:

Ecco... deve essere chiaro che gli Stati Uniti/NATO non potrebbero assemblare, equipaggiare, inviare e sostenere nemmeno una dozzina di brigate di combattimento competenti per impegnare i russi in Ucraina.

Vi rendete conto.

"Massacrato senza pietà"? Non sembra molto promettente.

Ciononostante, la Francia ha già annunciato che invierà addestratori militari in Ucraina, e altri seguiranno sicuramente.

Allo stesso tempo, armi più letali, in particolare missili a lungo raggio e F-16, sono già in viaggio e probabilmente saranno utilizzati nel prossimo futuro.

Ma avrà importanza?

 La fornitura di nuove armi e truppe da combattimento cambierà la tendenza e impedirà il collasso dell'esercito ucraino?

Ecco di nuovo” Schryver”.

Perché i russi dovrebbero opporsi se gli Stati Uniti/NATO inviano più delle loro scarse scorte di missili balistici a corto raggio e da crociera a lungo raggio?

Il tasso di successo dei missili “ATACMS” e “Storm Shadow” è stato spaventoso e diminuisce costantemente con il passare del tempo.

Sono strategicamente privi di significato.

E la capacità di rifornimento è effettivamente pari a zero!

Perché i russi dovrebbero opporsi se gli Stati Uniti/NATO inviano uno squadrone – o anche cinque – di antiquati F-16 in Ucraina?

Sì, certo, sarebbero pilotati da "volontari" della NATO, e potrebbero anche ottenere una manciata di "successi" sovrastimati e fugaci all'inizio.

 Ma se effettivamente tentassero di organizzare serie sortite sul campo di battaglia ucraino, i vecchi F-16 con logistica e supporto inadeguati avrebbero una durata di vita contata in poche ORE.

(Il sanguinamento della bestia, “Will Schryver”, Twitter.)

 

“Schryver” ha ragione?

Questi potenziali attacchi missilistici a lungo raggio su obiettivi all'interno della Russia saranno semplicemente attacchi pungenti che Putin ignorerà mentre le sue truppe continueranno a schiacciare le forze ucraine lungo la linea di contatto di 800 miglia?

E Putin dovrebbe accogliere con favore l'introduzione di "truppe di terra" USA/NATO in Ucraina per affrontare l'esercito russo?

 Ciò porterà effettivamente la guerra a una fine più rapida?

Ecco “Schryver” ancora una volta:

Al ritmo con cui sta andando tutta questa debacle dell'Ucraina, essenzialmente tutta la potenza militare con sede in Europa... sarà costretta a essere "inefficace nel combattimento" per almeno un decennio, e probabilmente di più.

 Se fossi i russi, considererei quell'obiettivo come il “summum bonum” ("Il bene supremo") da raggiungere come risultato di questa guerra, e sarei restio a interrompere i “Signori dell'Impero” mentre sono in procinto di consegnarlo a me su un piatto d'argento....

Quindi, se fossi Gerasimov, direi: "Portateli avanti! Il sanguinamento della bestia” (Will Schryver, Twitter).

Il furore per l'uso dei missili a lungo raggio forniti dalla NATO (e il dispiegamento di F-16 e addestratori francesi) non fa altro che distogliere l'attenzione dal fatto inevitabile che la NATO sarà sconfitta dalle Forze Armate russe se queste entreranno in guerra.

Quindi, un uomo saggio cercherebbe una soluzione negoziata ora, prima che le cose sfuggano di mano.

Ma non è questo che stanno facendo i nostri leader, anzi, stanno facendo esattamente il contrario e intensificano la situazione ad ogni passo.

Quindi, esaminiamo i fatti un po' più a fondo.

Dai un'occhiata a questa analisi riassuntiva dei professionisti di “War on the Rocks”:

Quando due settimane fa, in una testimonianza davanti alla “Commissione per i Servizi Armati del Senato”, gli è stato chiesto se l'esercito fosse "superato" da qualche avversario, il capo di stato maggiore dell'esercito degli Stati Uniti, il generale “Mark Milley”, ha detto:

"Sì... quelli in Europa, in realtà in Russia. Non ci piace, non lo vogliamo, ma sì, tecnicamente siamo in inferiorità numerica, anche di armi sul terreno".

Considerata l'aggressione della Russia in Ucraina, questa è una testimonianza che fa riflettere.

Ma è accurato?

 Sfortunatamente sì: quasi due anni di approfonditi wargame e analisi mostrano che se la Russia dovesse condurre un attacco a breve termine contro gli Stati baltici, le forze di Mosca potrebbero arrivare alla periferia della capitale estone di Tallinn e della capitale lettone di Riga in 36 o in 60 ore.

 In uno scenario del genere, gli Stati Uniti e i loro alleati non solo si troverebbero in inferiorità numerica e in inferiorità numerica di armi.

Senza armi?

(I russi) hanno armature, armi e sensori molto più avanzati, e in alcune aree – come i sistemi di protezione attiva per difendersi dai missili guidati anticarro (ATGM) – sono superiori alle loro controparti occidentali....

Oltre agli svantaggi di essere in inferiorità numerica, disordinata e senza armi, una serie di altri problemi aggrava il problema.

 In primo luogo, gli alleati della NATO e le forze armate statunitensi fornirebbero un aiuto limitato e immediato per compensare questi svantaggi.

Gli alleati europei hanno seguito l'esempio americano tagliando i mezzi corazzati e ottimizzando le forze rimanenti per missioni "fuori area" come l'Afghanistan.

La Gran Bretagna prosegue così il piano di ritirare le sue ultime truppe dalla Germania, mentre la Germania ha ridotto il suo esercito da 10 divisioni pesanti al livello della Guerra Fredda all'equivalente di due.

Ma qui non contano solo i numeri.

Oggi, non ci sono divisioni o quartier generali di corpo degli Stati Uniti con base avanzata nel continente, né alcuna brigata di aviazione, ingegnere e logistica associata dell'esercito....

La Russia dispone forse della più formidabile gamma di difese missilistiche terra-aria (SAM) al mondo.

Operando da località all'interno del territorio russo, questi SAM superano di gran lunga le armi di soppressione della difesa esistenti e rappresentano una minaccia credibile per la potenza aerea statunitense e alleata, che sarebbe costoso e dispendioso in termini di tempo contrastare....

Oggi la NATO è davvero in inferiorità numerica, di gittata e di armi dalla Russia in Europa e assediata da una serie di fattori che aggravano la situazione.

Una guerra con la Russia sarebbe irta di potenziale escalation dal momento in cui viene sparato il primo colpo;

e le generazioni nate fuori dall'ombra dell'Armageddon nucleare verrebbero improvvisamente reintrodotte a paure ritenute morte e sepolte da tempo.

 In inferiorità numerica, in inferiorità numerica e senza armi: come la Russia sconfigge la NATO, guerra sulle rocce.

Che cosa mostra questa analisi?

Dimostra che, nonostante le deliranti urla dei generali da poltrona sulla TV via cavo che ragliano di infliggere una "sconfitta strategica" alla Russia, ciò non accadrà.

La Russia è in vantaggio praticamente in ogni area di potenza di fuoco, manodopera, prontezza al combattimento e materiale.

 Hanno anche una capacità industriale che non ha eguali in Occidente.

Ecco come “Schryver” lo ha riassunto:

Non c'è stato alcun aumento significativo nella produzione di armamenti nell'occidente collettivo, e non si verificherà tanto presto. ...

Al di fuori della popolazione disperatamente propagandata delle cosiddette "democrazie occidentali", nessuno al mondo crede che la Russia sembri "mite" in questo momento.

 Invece, si rendono conto ...

L'Occidente non ha alcun vantaggio. ....

Sono assolutamente convinto che una forza di spedizione della NATO in Ucraina verrebbe massacrata ALMENO in modo così completo come lo è stato l'AFU, e molto probabilmente MOLTO PEGGIORE, e MOLTO PIÙ RAPIDO.... (Will Schryver, Twitter).

Eccolo nero su bianco:

l'Occidente "deindustrializzato" è un guscio vuoto che non ha alcuna possibilità di prevalere in una guerra di terra con armi combinate con la Russia.

 Ciononostante, Washington è determinata a procedere con il suo folle piano che spinge il mondo più vicino all'Armageddon mentre porta alla rovina il popolo americano.

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