I filantropi globalisti.
I
filantropi globalisti.
Ricchi
e buoni? Le trame
oscure
del filantrocapitalismo.
Vita.it
– 19 ottobre 2020 – Redazione – Nicoletta Dentico – ci dice:
Un
documentatissimo libro-inchiesta di Nicoletta Dentico sul perché Bill Gates,
Warren Buffett, Bill Clinton e Mark Zuckerberg sono i protagonisti della nuova
mega filantropia.
Il
ruolo ambiguo di Bill Gates sul vaccino anti-Covid19.
Perché
l’élite dell’1% del pianeta, la classe più predatoria della storia umana, è
anche la più socialmente impegnata a sostenere cause nobili come salute,
educazione, lotta alla fame, con la scusa di cambiare il mondo?
Che
cosa si nasconde dietro la rinascita della filantropia a vocazione globale?
L’impegno sempre più pervasivo dei filantropi è davvero la soluzione alle sfide
della contemporaneità o non è piuttosto un ambiguo e problematico effetto delle
disuguaglianze strutturali che rendono la nostra epoca la più ingiusta di tutti
i tempi?
E che
cosa è il «filantrocapitalismo», la versione più sofisticata della filantropia
che da due decenni domina la scena internazionale e che si consolida oggi nel
tempo di Covid19?
Sono
queste, e molte altre, le domande che la giornalista Nicoletta Dentico, esperta
di salute globale e cooperazione internazionale, affronta nel suo formidabile
saggio-inchiesta Ricchi e buoni?
Le trame oscure del filantrocapitalismo
(Editrice missionaria italiana, pp. 288,).
Si tratta del primo libro in Italia dedicato
al tema del filantrocapitalismo, un’abile strategia inaugurata all’inizio del
nuovo millennio da una ristretta classe di vincitori sulla scena della
globalizzazione economica e finanziaria.
Grazie
alle donazioni erogate tramite le loro fondazioni in nome della lotta alla
povertà questi imprenditori, nuovi salvatori bianchi, hanno cominciato a
esercitare un’influenza sempre più incontrollata sui meccanismi di governo del
mondo e sulle loro istituzioni, modificandole profondamente.
Il tutto, in un intreccio di soldi, potere e
alleanze con il settore del business che i governi non sanno più arginare né
possono più controllare.
Anzi, sono i leader del mondo politico ad
accogliere i ricchi filantropi a braccia aperte, ormai, senza più fare domande.
Come è
avvenuto in passato con John Rockefeller e Andrew Carnegie, la generosità di
chi ha accumulato mastodontiche ricchezze rischia di non essere del tutto
disinteressata.
«Il Wealth-X and Arton Capital Philantrophy Report
2016 evidenzia come le donazioni dei super-ricchi siano incrementate del 3% nel
2015», scrive Dentico.
«Numeri
alla mano, il rapporto racconta gli effetti benefici di questa arte della
generosità:
gli
imprenditori che hanno versato almeno un milione di dollari hanno finito per ammassare
più profitti dei loro pari di classe».
Di
questa realtà di costante accumulazione si nutre l’ottimismo” win-win” che
alimenta il fenomeno filantropico, i cui valori, strumenti e metodi sono
inequivocabilmente quelli della cultura di impresa, applicata al mondo dei
bisogni umani disattesi.
I
filantropi, per loro stessa ammissione, puntano a creare nuovi mercati per i
poveri.
«Funziona così: se i poveri diventano
consumatori non saranno più emarginati. E da clienti possono riguadagnarsi la
loro dignità».
Rispetto
alla filantropia classica, il filantrocapitalismo ha assunto dimensioni così
pervasive e sistemiche da condizionare la stessa azione degli stati:
«Libere da ogni costrizione territoriale, le
fondazioni filantrocapitaliste sono riuscite a occupare un campo d’azione
sconfinato» si legge nel libro.
«Esercitano un ruolo ingombrante nella
produzione di conoscenza, nell’affermazione di modelli, nella definizione di
nuove strutture della governance globale».
«Il
liquido amniotico della filantropia è la disuguaglianza» sostiene Nicoletta
Dentico, che nella sua poderosa inchiesta motiva accuratamente le ragioni per
cui questa élite si è messa alla testa della battaglia per cambiare il mondo.
Invece, «se nel mondo vigesse un’equa
distribuzione delle risorse non ci sarebbe tanto spazio per la filantropia»,
perché non ci sarebbero più i pochi plutocrati che detengono più della metà
delle risorse del pianeta.
Dentico
mette in luce uno degli aspetti più controversi e paradossali del fenomeno: le
enormi agevolazioni fiscali di cui godono nel mondo filantropi e fondazioni,
anche le più opulente:
«Che
cosa legittima politicamente l’idea di un incentivo sulle tasse a questi
miliardari e alle loro fondazioni?
Quali vantaggi ne avrebbe una società, se si
utilizzasse invece la tesoreria pubblica, perduta a causa degli incentivi, per
produrre il bene comune?».
Il
filantrocapitalismo diventa così una strana forma di legittimazione morale,
«una valvola di sfogo» tramite cui investire, detassati, i profitti spesso
accumulati con flagranti operazioni di elusione o evasione fiscale.
Un esempio per tutti:
«Nel
2012, un rapporto del Senato americano calcolava in quasi 21 miliardi di
dollari la quantità di denaro che Microsoft era riuscita a trafugare nei
paradisi fiscali in un periodo di tre anni, grosso modo l’equivalente della
metà dell’incasso netto delle vendite al dettaglio negli Stati Uniti, con un
guadagno fiscale di 4,5 miliardi dollari annui».
Oggi
il fondatore di Microsoft, Bill Gates, è la figura preminente e più iconica del
filantrocapitalismo, con una fondazione intitolata a lui e alla moglie Melinda
che al momento della nascita (2000) disponeva di 15,5 miliardi di dollari per
esercitare la propria azione, focalizzata su salute e vaccinazioni, biotecnologie,
incremento della produttività agricoltura in Africa (ciò che significa far
largo agli Ogm), educazione, finanza.
La Fondazione Gates mantiene un forte legame
finanziario con aziende assai poco virtuose sul piano dei consumi e della
salute, che però garantiscono sicure remunerazioni sull’investimento:
ad
esempio, investe 466 milioni di dollari negli stabilimenti della Coca-Cola e
837 milioni di dollari in Walmart, la più grande catena di cibo, farmaceutici e
alcolici degli Usa.
La
Fondazione Gates spicca oggi per l’incontenibile attivismo con cui dirige le
attività internazionali nella ricerca di un vaccino anti-coronavirus, con
implicazioni non banali data la rilevanza pubblica di un’emergenza mondiale
come quella di Covid-19:
«Nel
2015, Gates aveva capito che un virus molto contagioso sarebbe arrivato a
sconquassare il mondo iper globalizzato.
Sars-CoV-2
è arrivato, alla fine, e il mondo si è fatto trovare del tutto impreparato.
L’unico
pronto a un simile scenario è stato il monopolista filantropo di Seattle»,
spiega Dentico:
300 milioni di dollari subito sul piatto da
parte della Fondazione Gates (poi saliti addirittura a 530 milioni di dollari),
ormai accreditatasi sulla scena della lotta alla pandemia alla pari di
istituzioni internazionali come Oms, Banca Mondiale e Commissione europea, un
pericoloso precedente nella governance di fenomeni globali – come in questo
caso la lotta a una pandemia.
Tanto più che «in tutti questi anni, Bill
Gates ha molto contribuito al rafforzamento geopolitico di Big Pharma [il
cartello composto dalle principali case farmaceutiche mondiali, ndr], erodendo
e sottraendo terreno alla società civile in questo duro conflitto politico».
L’implacabile
inchiesta di Nicoletta Dentico scruta anche l’azione filantropica di altre
figure di imprenditori plutocrati o politici potentissimi diventati
improvvisamente «benefattori» globali:
Ted Turner, Bill e Hillary Clinton, e i nuovi
arrivati sulla scena della filantropia come Mark Zuckerberg.
Unico
nella sua genesi è il caso della famiglia Clinton, che ha fatto della
filantropia globale – tramite la Fondazione Clinton – la via maestra per
continuare a esercitare il potere dopo due mandati presidenziali, anche a costo
di contraddire l’agenda diplomatica statunitense, nel momento in cui Hillary
Clinton è segretaria di stato dell’amministrazione Obama.
Molto
eloquente a questo riguardo il caso del potentissimo uomo d’affari “Frank
Giustra” che entra nel giro delle estrazioni minerarie in Kazakhstan grazie ai
buoni uffici della “Fondazione Clinton” nel paese centro-asiatico, che gli
Stati Uniti hanno stigmatizzato per le sistematiche violazioni dei diritti
umani e delle libertà fondamentali della persona.
Come
scrive “Bandana Shiva” nella prefazione, «il libro di Nicoletta Dentico arriva
al momento giusto, ed è necessario.
Sarà una bussola importante per difendere le
nostre esistenze e libertà dalle forme della ricolonizzazione variamente
avallate dal filantrocapitalismo».
(Nicoletta
Dentico, giornalista, è esperta di cooperazione internazionale e salute
globale. Dopo una lunga esperienza con Mani Tese, ha coordinato in Italia la
Campagna per la messa al bando delle mine vincitrice del Premio Nobel per la
Pace nel 1997, e diretto in Italia Medici Senza Frontiere (MSF) – premio Nobel
per la Pace nel 1999 – con un ruolo di primo piano nel lancio e promozione
della Campagna internazionale per l’Accesso ai Farmaci Essenziali.
Co-fondatrice dell’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale (Oisg), ha
lavorato a Ginevra per Drugs for Neglected Diseases Initiative (DNDi) e poi per
l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). Più di recente è stata per alcuni
anni responsabile della sezione internazionale della Fondazione Lelio Basso.
Dal 2013 al 2019 è stata consigliera di amministrazione di Banca Popolare Etica
e vicepresidente della Fondazione Finanza Etica. Dalla fine del 2019 dirige il
programma di salute -globale di Society for International Development -SID).
La
77ma Assemblea dell’OMS
Approva
il Nuovo Testo del
Regolamento
Sanitario Internazionale.
Conoscenzealconfine.it
– (4 Giugno 2024) - Alessandro Fusillo – ci dice:
Come
previsto, dopo il fallimento del Trattato Pandemico, l’OMS è passata al “piano
B” in preparazione da tempo, cioè le modifiche del Regolamento Sanitario
Internazionale (RSI, in inglese IHR – International Health Regulations) che
sono state approvate all’ultimo momento utile, il 1° giugno.
Il
nuovo testo del RSI prevede una gestione centralizzata delle emergenze
sanitarie e della produzione, distribuzione e approvvigionamento dei farmaci,
con particolare riferimento ai vaccini.
Il testo del nuovo regolamento è complesso, ma
si possono sin d’ora mettere in evidenza alcuni passaggi fondamentali.
Mentre
il vecchio testo (art. 3) prevedeva il “pieno rispetto della dignità, dei
diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo” il nuovo art. 3 aggiunge
l’obbligo di promuovere “equità e solidarietà”.
L’aggiunta
è in grado di scardinare il pur esile schermo del rispetto dei diritti
fondamentali che, come abbiamo visto dal 2020 in poi, sono stati completamente
annullati in considerazione di una presunta emergenza.
La
nuova definizione di “emergenza pandemica” è la seguente:
“un’emergenza di salute pubblica di interesse
internazionale causata da una malattia contagiosa che abbia le seguenti
caratteristiche:
(i)
ha, o ha un alto rischio di avere una diffusione geografica ampia e di
estendersi a più stati,
(ii) eccede o ha un alto rischio di eccedere
le capacità dei sistemi sanitari degli stati di rispondere all’emergenza,
(iii) sta causando o ha un alto rischio di
causare gravi perturbazioni sociali e/o economiche, compresa la perturbazione
del traffico internazionale e del commercio
(iv) richiede un’azione internazionale
coordinata rapida, equa e rafforzata con un approccio esteso a tutti i governi
e a tutte le società“.
La
decisione circa l’esistenza o meno di una emergenza pandemica di interesse
internazionale (PHEIC – Public Health Emergency of International Concern)
spetta al solo direttore generale dell’OMS.
In tal
caso l’OMS potrà coordinare l’approvvigionamento e la distribuzione di tutti i
prodotti rilevanti per la salute, compresi ovviamente gli onnipresenti vaccini,
i test diagnostici, i cosiddetti dispositivi di protezione individuale.
Sebbene
le disposizioni dell’OMS continuino ad essere descritte come “raccomandazioni”
appare evidente che il nuovo testo del RSI istituisce il direttore generale
dell’OMS come una sorta di dittatore sanitario globale.
Lo
Statuto OMS e lo stesso RSI prevedono un’entrata in vigore automatica delle
nuove norme se non ci sono opposizioni o riserve da parte degli stati membri
entro 10 mesi dall’approvazione del nuovo testo.
Questa
disposizione è incostituzionale.
Infatti, l’art. 80 della costituzione italiana
prevede la necessità di una legge di ratifica dei trattati internazionali.
Ora
più che mai è necessario rendersi conto che tutto ciò che proviene dalla
politica è dannoso per i cittadini e che nei vari palazzi, nazionali e
internazionali, siedono i nostri nemici.
Occorre
opporsi ai loro piani distopici con l’unico vero mezzo a nostra disposizione,
la disobbedienza civile.
Dopo
quattro anni, siamo in tanti ad aver capito il gioco sporco che viene fatto
sulla pelle delle persone.
La
strada è dire di no, rifiutarsi di credere alle menzogne, uscire completamente
dal sistema marcio e corrotto della sanità gestita dagli stati e dalle
organizzazioni internazionali tutte corrotte.
Disobbedire,
resistere boicottare.
Il
giochetto era sicuramente questo: sapendo che il Trattato non sarebbe passato
(ci volevano i tre quarti dei voti per farlo passare) hanno spostato tutto
sull’RSI che necessita solo della maggioranza semplice per essere approvato.
(nota di conoscenze al confine)
(Testo
completo del nuovo RSI: “apps.who.int/gb/ebwha/pdf_files/WHA77/A77_ACONF14-en.pdf”)
(Alessandro
Fusillo)
(t.me/difendersiora)
La
Nato – corrotta – ci porta alla Catastrofe.
Fermiamola
Subito!
Conoscenzealconfine.it
– (3 Giugno 2024) - Fabio Marcelli – ci dice:
Non
passa giorno senza un ulteriore slittamento verso la Terza Guerra mondiale.
Ora il
Segretario generale della Nato “Jens Stoltenberg” ha fatto un’altra bella
pensata o più probabilmente gli è stata insufflata da qualche membro
dell’entourage di “Biden”, un’idea brillante che potrebbe conficcare l’ennesimo
e forse decisivo chiodo sulla bara della pace, mettendo a rischio la civiltà
europea e quella mondiale.
Si
tratta dell’autorizzazione all’Ucraina a colpire il territorio russo cogli
armamenti forniti dai Paesi Nato.
È cosa
che avviene da tempo, ma la dichiarazione di “Stoltenberg” assume carattere di
evidente ostilità e rende i Paesi Nato cobelligeranti a tutti gli effetti,
spalancando le porte alla guerra mondiale.
È
certo che in tal modo “Stoltenberg “ha travalicato ogni competenza
attribuitagli dal “Trattato istitutivo della Nato”, rendendosi colpevole di
un’usurpazione di potere tale da valergli, in un normale contesto
istituzionale, accuse di alto tradimento e attentato alla Costituzione.
Di
fronte a un evento di tale catastrofica potenzialità, appaiono tutto sommato blande
le reazioni del mondo politico italiano, nonostante l’effetto del clima
pre-elettorale che porta perfino Salvini a dichiararsi pacifista e contrario
alle folli esternazioni dello Stranamore norvegese.
Si è
persino dissociata, sia pure blandamente, Giorgia Meloni che occupa, per i suoi
indiscussi meriti di fedeltà atlantista e per disgrazia nostra e delle
generazioni future, il massimo cadreghino della provincia imperiale a sovranità
estremamente limitata che ancora siamo soliti chiamare Italia.
Speriamo
davvero che la letale Giorgia non nutra nel suo cuoricino l’ambizione malsana
di emulare e magari anche superare Benito Mussolini, il quale trascinò il
nostro Paese in una guerra disastrosa, molto meno peraltro di quello che
sarebbe una combattuta oggi.
Fatto
sta che, fra le stomachevoli ipocrisie di “Tajani” e “Crosetto” e
l’insopportabile atlantismo di “Guerini” e “Della Vedova”, l’Italia scivola
verso il conflitto, mentre continua a fornire all’Ucraina armamenti micidiali
come gli “Storm Shadows” e continua ad alimentare la macchina genocida israeliana, astenendosi metodicamente e
scrupolosamente da ogni iniziativa in grado di salvaguardare la pace e la
sicurezza internazionali, oggi gravemente minacciate e contravvenendo pertanto
in modo sistematico all’art. 11 della Costituzione (mentre ovviamente tacciono anche i
giuristi prêt à porter come Giuliano Amato che a suo tempo inventarono
fantasiose quanto infondate costruzioni teoriche per giustificare l’invio delle
armi all’Ucraina).
La
pazzesca voglia di rivincita che anima le élite occidentali nel momento della
crisi crescente del loro secolare dominio sul mondo costituisce il principale
pericolo per la pace mondiale.
Essa
assume caratteri parossistici nel caso ucraino, dato che l’imminente avvento al
potere di Donald Trump, sempre più probabile, segnerebbe presumibilmente un
netto cambiamento di atteggiamento della principale potenza mondiale (e quindi anche dei suoi satelliti,
tra i quali l’Italia) al riguardo.
Ma è
evidente anche nel caso della Palestina dove sono sempre più evidenti le
incrinature nel campo occidentale e cresce a vista d’occhio l’indignazione del
mondo intero, per la protervia con la quale il governo israeliano ribadisce il
suo disprezzo per il diritto e la giustizia, beffandosi oscenamente di quanto
stabilito dalla Corte internazionale di giustizia e ora anche della Corte
penale internazionale, determinando anche qui le ridicole contorsioni del
nostro governo di marionette “occidentali”.
È
nostro preciso dovere reagire in modo determinato ed organizzato alla svendita
della sovranità nazionale italiana da cui risultano rischi enormi per la nostra
vita e la nostra sicurezza.
Dobbiamo farlo mettendo la pace al centro di ogni
confronto ed organizzando una campagna di disobbedienza, dissociazione e
boicottaggio delle scelte di guerra che deve trovare la sua espressione
politica anche in manifestazioni e nel voto per le forze che effettivamente
perseguono l’obiettivo della pace
E
quali sarebbero?
Il
voto migliore è non votare affatto, delegittimando totalmente il sistema; solo
così lo si scardina dalle fondamenta. Chiedetevi perché continuino
incessantemente a invitarvi a votare…(nota di conoscenze al confine), che risulta oggi del tutto
inseparabile da quello del “rifiuto della Nato” e delle politiche imperialiste,
fonte inesauribile di soprusi, guerra e distruzione.
(Fabio
Marcelli – Giurista internazionale)
(ilfattoquotidiano.it/2024/05/28/la-nato-ci-porta-alla-catastrofe-fermiamola-subito/7562872/)
Le
strategie nascoste
del
filantrocapitalismo.
Altraeconomia.it - Marta Facchini — (9
Dicembre 2020) – ci dice:
(Bill
e Melinda Gates © Bill&Melinda Foundation)
Da
Bill Gates a Mark Zuckerberg: una ristretta classe di vincitori della
globalizzazione economica e finanziaria, la stessa che ha prodotto le attuali
disuguaglianze, si è ritagliata una nuova immagine grazie alla filosofia del
dono, in campo sanitario o di contrasto alla povertà.
Intervista a “Nicoletta Dentico”.
“Il
filantrocapitalismo prende i modelli del mercato e li applica alla beneficenza.
È la prosecuzione di interessi economici ma
con altri mezzi”.
Così Nicoletta Dentico, giornalista ed esperta
di salute globale, spiega la natura dei progetti che i nuovi filantropi, l’1%
dell’élite più ricca del Pianeta, realizzano per supportare cause come la
diminuzione della fame e povertà o le campagne per il diritto all’educazione e
alla salute.
Nel
libro-inchiesta “Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo”
(Editrice missionaria italiana, 2020), Dentico mostra che cosa si nasconde
dietro l’efficace strategia portata avanti dalla “ristretta classe di vincitori
della globalizzazione economica e finanziaria, la stessa che ha prodotto le
attuali disuguaglianze”.
Attraverso
le loro fondazioni i protagonisti della filantropia contemporanea hanno
iniziato a esercitare un’influenza sempre più determinante sull’agenda delle
Nazioni Unite ricavandone benefici ed egemonia.
Un’azione di pressione, e un lento cambiamento
all’interno del Palazzo di Vetro, che Dentico ha avuto modo di osservare
direttamente a Ginevra in quanto co-fondatrice dell’Osservatorio italiano sulla
salute globale (Oisg), direttrice in Italia della Campagna internazionale per
l’accesso ai farmaci essenziali di Medici Senza Frontiere e coordinatrice di
azioni di monitoraggio sull’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).
Dalle
prime famiglie di filantropi degli Stati Uniti, i Rockfeller e i Carnegie, per
arrivare alle attuali -come i Gates, Clinton e Zuckerberg- Dentico studia la
loro “filosofia del dono” nutrita di quello che definisce l’ottimismo
“win-win”, l’idea che se i poveri diventano consumatori non saranno più
emarginati.
E uno dei presupposti che incentiva i
programmi dei nuovi “benefattori globali”, ripercorre l’autrice nel testo, sono
le politiche fiscali che agevolano le fondazioni.
Come
il caso degli Stati Uniti dove sono state create le prime misure di
deducibilità fiscale rivolte proprio alla filantropia.
Oggi
gli strumenti normativi le sovvenzionano attraverso un sistema di sussidi
pubblici che permette a quelle organizzazioni non profit di non avere
tassazioni né sulle entrate né sui redditi.
La tendenza si sta affermando anche in Europa
dove, fatta eccezione per la Svezia, secondo la “European Fundraising
Association” (Efa), a larga maggioranza i Paesi dell’Ue offrono deduzioni e
detrazioni fiscali per sostenere l’azione filantropica.
“Nel
libro c’è tutta l’esperienza maturata in due decenni di impegno internazionale
nel campo della salute”, spiega ad “Altreconomia” Dentico.
“Ma
c’è una forte componente personale. La rabbia nell’osservare che il meccanismo
iper filantropico è il risultato delle disuguaglianze che dominano il mondo e
tolgono il respiro.
Ho
imparato a diffidare della retorica, colonialista e riduzionista, della lotta
alla povertà”, afferma.
“Per
scrivere ho preso ispirazione dalle pratiche etiche che ho potuto osservare
direttamente nel mio lavoro.
Dalle
comunità di donne dell’America Latina, con le loro forme di mutualismo, ai
movimenti di cittadini in Africa che lottano contro l’uso degli Ogm nei loro
campi. Questo libro è anche un tentativo di rappresentare i loro sforzi di
resistenza nel Sud del mondo”.
Dentico,
partiamo dalla definizione di filantrocapitalismo. In che cosa consiste e in
che modo si distingue dalla filantropia classica?
ND.
La
filantropia classica è vicina ai territori. Ha cura le relazioni e dà libertà
di azione alle realtà cui eroga le donazioni, lasciandole libere di
autodeterminarsi su come utilizzare i soldi ricevuti.
Il
filantrocapitalismo è diverso: è l’estensione dell’attività imprenditoriale con
altri mezzi portata avanti da chi si è arricchito con la globalizzazione, i
brevetti, l’elusione fiscale o le posizioni di monopolio.
Attraverso le loro donazioni i nuovi
filantropi sono riusciti a ottenere un cambio di immagine e hanno lavorato per
colmare i vuoti lasciati dalla politica, per esempio finanziando alcune agenzie
delle Nazioni Unite.
Sono
entrati nei buchi della governance globale, ricavandone posizioni di potere.
La mia
tesi è che, grazie alle loro donazioni, i filantrocapitalisti sono riusciti a
portare avanti il progetto di riforma dell’Onu e la creazione del 1999 del
Global Compact, il patto globale stipulato dall’allora segretario generale
delle Nazioni Unite Kofi Annan con un consistente numero di imprese
transnazionali.
Il
patto ha aperto agli attori economici privati le stanze del Palazzo di Vetro,
istituzionalizzando la presenza del settore corporate all’interno dei suoi
processi diplomatici, con la speranza che potessero contribuire al sostegno
finanziario delle sue agenzie.
La
partita economica c’è stata ma molto inferiore rispetto alle aspettative.
Il Global Compact è stato preceduto da un
evento significativo:
nel
1997 il miliardario “Ted Turner” (fondatore della Cnn e poi direttore della
Time Warner Inc, ndr) aveva annunciato l’intenzione di donare un miliardo di
dollari a favore dell’Onu.
Nel
1998 al Palazzo di Vetro il sottosegretario per gli Affari legali delle Nazioni
Unite, “Hans Corell”, e “Timothy Wirth”, presidente della “UN Foundation”, la
fondazione privata di Turner, hanno firmato l’accordo che regolava la relazione
tra la fondazione e l’Onu.
Era la
prima volta che un privato erogava una donazione così consistente.
Nella
sua ricerca dedica ampio spazio a “Bill Gates” che definisce “l’Ur-filantropo”.
Come si caratterizza la sua filantropia?
ND.
Bill Gates ha portato la filantropia a livelli non
paragonabili a quella dei colleghi. Il suo raggio di azione è molto ampio e va
dall’educazione alla salute fino ai programmi contro la fame in Africa.
Il
miliardario adotta lo stesso approccio monopolistico esercitato con Microsoft.
Grazie alla sua fondazione “Bill&Melinda Gates”, ispirato dalla sua
vocazione per le tecnologie e dal tema della salute, negli anni Novanta il
filantropo di Seattle ha iniziato a creare partnership pubblico-private per la
ricerca e produzione di vaccini, in particolare per le malattie che colpiscono i
poveri della Terra, le cosiddette “poverty-related diseases”.
Questa
rete gli ha permesso di iniziare a relazionarsi con la comunità scientifica, le
organizzazioni non governative e le istituzioni internazionali.
Non solo.
Gates
è stato uno dei primi a investire nelle biotech company.
Tra le sue principali iniziative c’è la “Global
Alliance for Vaccine Immunization” (Gavi, la più importante iniziativa
pubblico-privata sulla produzione di vaccini nel mondo, ndr), e la “Coalition
for Epidemic Preparedness Innovation” (Cepi), nata nel 2017 dopo l’epidemia di
ebola.
Prima
ancora c’era stato il Fondo Globale per la lotta all’Aids, alla tubercolosi e
alla malaria lanciato nel 2001 al G8 di Genova, che aveva iniziato a muoversi
usando le strutture logistiche dell’”Organizzazione mondiale della sanità” ma
con l’obiettivo di superare le procedure delle Nazioni Unite.
Che
cosa sta succedendo ora con il vaccino anti Covid-19?
ND.
Bill Gates è stato l’unico a non essere stato
colto impreparato dalla pandemia. Nel 2015 aveva capito che sarebbe arrivato
“the big one”, il virus che avrebbe colpito il mondo iper globalizzato.
In
quel periodo raccontava la sua profezia in “Ted Talk”, interviste e articoli
sulla stampa scientifica iniziando a investire milioni di dollari nella ricerca
per i
vaccini.
Arrivato
il Coronavirus, la Fondazione Gates si è subito riorganizzata per finanziare la
ricerca e lo sviluppo di terapie sul Covid-19 attraverso un impegno da 530
milioni di dollari.
Con
l’iniziativa “Access to Covid19 Tools (Act) Accelerator”, di cui la Fondazione
Gates fa parte, il miliardario si è accreditato sulla scena come un
protagonista della lotta alla pandemia alla pari dell’Oms, della Banca Mondiale
e della Commissione europea.
È
stata appena nominata presidente della “Geneva Global Health Hub”. Che cosa
farà?
ND.
Si tratta di una grande responsabilità.
Il Geneva Global Health Hub” è uno spazio
pubblico e libero, il luogo di azione della società civile nato per presidiare
l’”Organizzazione mondiale della sanità, le Nazioni Unite, i governi”.
Stiamo iniziando a pensare al primo
appuntamento di un mandato che ha la durata di tre anni.
Dobbiamo
portare l’impegno e le azioni per il diritto alla salute fuori dalle stanze
dell’Onu.
Significa
che è arrivato il momento di pensare alla salute non solo in termini di
malattie ma di politiche sociali e queste riguardano anche altri fattori che si
intersecano: l’etnia, la classe e il genere.
Da
Rockfeller a Gates, l’anima
oscura
del filantrocapitalismo.
Ilmanifesto.it
– Manlio Masucci – (19 novembre 2020) – ci dice:
Il
filantropo, che accresce le sue ricchezze nelle stesse piaghe di un sistema a
lui funzionale e vitale, si erge, oggi più che mai, a paladino dell’umanità,
autoproclamandosi unica alternativa […]
Il
filantropo, che accresce le sue ricchezze nelle stesse piaghe di un sistema a
lui funzionale e vitale, si erge, oggi più che mai, a paladino dell’umanità,
autoproclamandosi unica alternativa plausibile ai governi democratici lenti,
macchinosi e inefficienti.
Una
figura decisionista, portatrice e venditrice di storie di successo,
ammaliatrice e scarsamente incline alle critiche convinta, soprattutto, che i
poveri del mondo abbiano maggior bisogno della sua carità piuttosto che di
giustizia economica e sociale. L’emergere di questa figura non offre però una
soluzione alle miserie di un sistema politico ed economico a cui è strettamente
legato, ma costituisce piuttosto l’ultima degenerazione di quel sistema stesso
basato sull’accumulazione delle risorse e oramai incapace anche solo di pensare
a criteri alternativi di redistribuzione e di giustizia sociale.
Il
benessere, così come la povertà, può solo essere elargito dall’alto, da coloro
i quali si ritengono i padroni del mondo.
Il
filantropo costituisce allora un ingranaggio essenziale nella polimorfa
macchina della globalizzazione, una colonna portante dello stesso sistema
capitalista che incarica entità private di utilizzare parte delle ricchezze
accumulate ai danni dei poveri del pianeta per allestire una facciata
attraente, quasi accettabile ed eticamente spendibile.
Ma le
buone azioni riparatorie si basano su strategie “win-win” che, nel linguaggio
del capitale, si traducono in partnership pubblico-private, apertura di nuovi
mercati e possibilità di proficui investimenti per le aziende che magari hanno
finanziato le stesse azioni filantropiche. Se poi si riuscisse a tramutare un
povero in un cliente, il gioco sarebbe da considerarsi perfettamente riuscito.
Una
volta comprese le logiche alla base dell’operato delle fondazioni è possibile
individuarne piani e obiettivi.
Quello che rimane più difficile da
comprendere, o perlomeno da accettare, è l’atteggiamento dei governi che, di
fronte all’arroganza di queste entità, continuano a indietreggiare lasciando
sul campo importanti pezzi di democrazia.
Non
solo: le agevolazioni fiscali e gli aiuti diretti ai programmi delle fondazioni
sanciscono la definitiva resa dei contribuenti che si trovano a pagare di tasca
propria iniziative su cui non è previsto alcun controllo democratico.
La
condotta di molti filantropi nei confronti degli stati è, nonostante ciò,
tutt’altro che irreprensibile:
è il
caso di Microsoft che, attraverso il ricorso ai paradisi fiscali, ha causato un
danno erariale superiore agli investimenti filantropici del suo stesso
fondatore, Bill Gates.
Ricchi
e buoni?
Le
trame oscure del filantrocapitalismo di Nicoletta Dentico (la prefazione è di
Vandana Shiva) ripercorre la storia del filantropismo da Rockefeller fino ai
giorni nostri, fino a Bill Gates a cui è dedicata una corposa sezione.
Quella
della fondazione di Gates è un’azione tentacolare e all’avanguardia che
coinvolge, fra gli altri, i settori dell’agricoltura, della medicina, della
biotecnologia, dell’educazione e dell’informazione.
L’autrice
sfugge da ogni dietrologia o teoria complottista puntando il mirino verso un
sistema che permette a un singolo individuo di incamerare una quantità
inimmaginabile di ricchezze mettendolo nella posizione di influenzare le
politiche pubbliche internazionali con il semplice gesto di aprire il proprio
portafogli.
D’altra
parte Bill Gates, personalmente più ricco di 45 dei 48 paesi dell’Africa
subsahariana, è in buona compagnia:
Warren
Buffet, Ted Turner, Bill Clinton, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg sono solo alcuni
dei novelli filantropi pronti a elargire parte dei loro averi affinché il
pavimento sui cui hanno piazzato la loro comoda poltrona non si sgretoli sotto
i loro piedi.
Un
rischio effettivo, secondo Dentico, in un’epoca in cui le fondazioni
filantropiche si arrogano il diritto di risolvere questioni che hanno una
dimensione esclusivamente politica.
Ma
forse, è proprio la dimensione della soluzione politica a rappresentare il più
grande incubo del capitalismo che ricorre all’azione filantropica anche per
scongiurare tale esecrabile deriva.
Quel
sinistro concetto di
“filantropia”,
caro ai globalisti.
Visionetv.it
– (2 luglio 2021) - HELMUT LEFTBUSTER – ci dice:
San
Francesco, profeta del pauperismo e patrono universale della generosità umana,
ci insegna con l’esempio diretto che ricchezza e filantropia sono due grandezze
inversamente proporzionali.
Egli, prima di farsi filantropo, s’è spogliato
d’ogni avere privato poiché aveva ben chiaro quanto generosità e altruismo si
dimostrino con il lavoro e con l’azione, non con comode elargizioni frutto di
chissà quali intrallazzi familisti o politici.
L’attuale
establishment finanziario mondialista (con la collusione potentemente
mediatica d’un pontefice che non a caso usurpa il nome del Santo povero) punta a stravolgere il messaggio
francescano basato su spiritualità e sacrificio, trasformandolo in un
sostanziale e prosaico invito al voto di scambio.
Un
andazzo tipicamente feudale ove il benessere del cittadino, anziché imparziale
dovere giuridico dello Stato, resta appannaggio discrezionale del signorotto di
turno.
Ed è
qui che casca l’asino:
finché
è l’ordinamento statuale a sovrintendere gli apparati assistenziali, va da sé
che a beneficiarne resterà il popolo;
al
contrario, se tale dovere etico dello Stato viene a bella posta trascurato da
chi governa e lasciato alla mercé di miliardari apolidi e mondialisti, questi
ultimi elargiranno benefici secondo parametri del tutto discrezionali che certo
prescinderanno da valutazioni oggettive come prossimità e diritto.
Già,
perché li chiamano “filantropi”:
ma
etimologia vorrebbe che il filantropo, amando l’essere umano in quanto tale,
non discriminasse il terremotato italiano che muore assiderato in roulotte a
favore del migrante che sbarca a Lampedusa con i-phone e barboncino (come
invece avviene).
Al
contrario, i filantropi di cui vagheggiano i media mainstream sembrano essere
caratterizzati dall’assoluta mancanza di eterogeneità d’azione e di pensiero:
da
Gates a Soros e da Rockfeller ad alcune teste coronate, essi sono tutti
globalisti, tutti progressisti social-comunisti, tutti sostenitori se non
rappresentanti diretti delle sinistre internazionaliste, tutti foraggiatori di
ONG e tutti sacerdoti del culto vaccinista.
Sono
tutti frequentatori dei medesimi circoli di potere, tutti amici di questo papa,
tutti coccolatori di Greta, tutti favorevoli al 5G, tutti ostili a Trump e a
qualsiasi movimento sovranista europeo.
Strano,
eh?
Nessuno di essi che incentivi le economie
nazionali, la scuola, la sanità e la
previdenza del proprio paese;
nessuno che investa denaro per eliminare fame
e siccità là dove tali carenze generano emigrazione (che invece, puntualmente,
sfruttano). Nessuno di loro che si impegni a finanziare la sanità pubblica,
invece dei soliti vaccini prodotti dalle solite case farmaceutiche amiche dei
soliti amici.
E
allora, anziché “filantropi”, questi finanziatori del globalismo, chiamiamoli
col nome che meritano.
Su,
che di fantasia ne avete anche voi!
(HELMUT
LEFTBUSTER)
Il filantrocapitalismo:
molti
profitti, pochi risultati.
Lucidamente.com
- Rino Tripodi – (7 Giugno 2023) – ci dice:
I
disastri in campo sociale, nell’istruzione, nell’agricoltura e nella sanità.
Un
potere politico-culturale prevaricante.
E la
peggiore è la famigerata Fondazione Bill & Melinda Gates.
A
denunciarlo “Linsey McGoey” in “Altro che filantropi!” (Macro-Arianna Editrice).
Un
semplice cittadino, pensando al fatto che alcuni capitalisti tra i più ricchi
del mondo fanno tanta beneficenza, dirà:
“Beh,
in queste iniziative ci sarà pure qualcosa di buono; sempre meglio che li
donino piuttosto che si tengano miliardi e miliardi di dollari tutti per sé”.
Ma è proprio così?
“Non
ti regala niente nessuno”.
A
svelare tutto ciò che c’è dietro carità, fondazioni benefiche, progetti pseudo
solidali esportati nel mondo, è stata, tra gli altri, Linsey McGoey, docente di
Sociologia presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università dell’Essex.
In particolare col suo libro “No such thing as
free gift” (2015; in italiano si potrebbe rendere con “Non ti regala niente
nessuno”).
La pubblicazione è stata tradotta in Italia
col titolo “Altro che filantropi!” (Prefazione di Enrica Perucchietti,
Macro-Arianna Editrice, 2021, pp. 352).
L’autrice
parte da lontano.
Il filantropismo o, meglio, il
filantrocapitalismo, è una peculiarità del mondo anglosassone e della cultura
religiosa calvinista.
Come
ha spiegato Max Weber (1864-1920) nella sua fondamentale opera L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo (1904), tale “Weltanshauung” è
dominata dall’idea del denaro e dell’arricchimento.
Dio
sceglie i predestinati alla salvezza e li premia non solo col futuro paradiso
in cielo, ma con i soldi in Terra.
Il
capitalista e il grande speculatore finanziario si sentono tanto riconoscenti
da voler talvolta dare ai poveracci qualche briciola caduta dalla loro ricca
tavola.
Non è
tutto.
Mentre
nel cattolicesimo la carità è (o dovrebbe essere) solo un dono e basta, per il
capitalista statunitense essa è fonte di ancora maggiori investimenti,
speculazioni e guadagni!
Filantropi
sporchi di sangue.
La
McGoey traccia una breve storia del filantropismo Usa da Andrew Carnegie ai
Rockfeller, da Henry Ford fino ai coniugi (ex) Gates, ecc.
Molti
di loro hanno fatto massacrare minatori, lavoratori, operai, hanno eliminato
con le buone o con le cattive gli avversari in campo economico o politico,
hanno inquinato, hanno sfruttato i finanziamenti dello Stato nei momenti di
crisi per poi criticare il suo ruolo sociale…
Però
si sono lavati la coscienza e, addirittura, sono considerati da molti allocchi
benefattori dell’umanità grazie agli interventi compiuti in campo
socioeconomico, sanitario, culturale, agricolo, dalle loro potentissime
fondazioni.
In
realtà hanno fatto poco bene per gli altri, molto per sé stessi.
Guadagnare
facendo la carità.
Il
“ritorno” della filantropia è molteplice.
Oltre
all’“immagine”, si va dalla conveniente esenzione, deduzione o elusione di
tasse alla raccolta di donazioni.
Dalla
sempre maggiore influenza nel campo politico e sociale alla possibilità di
imprimere una direzione ideologica ai settori dove si opera.
Dal
creare posti di lavoro al licenziare chi è “scomodo”.
Si
possono inoltre sfruttare le crisi economiche e di altro genere o le paure
delle popolazioni per imporre il proprio dirigismo:
è il “capitalismo
dei disastri” applicato secondo le teorie di Milton Friedman.
Ma
l’aspetto più scandaloso della questione è che con la beneficenza si fanno
soldi a palate.
Scrive
la “McGoey” che il «nuovo modo di esercitare la filantropia […] riproduce il
modello di business con cui si ottengono profitti nel sistema del capitalismo
moderno» (vedi I falsi filantropi e gli ecotalebani ipocriti).
È da
considerare pure che ogni aiuto è vincolato:
i presunti beneficiari, che siano Stati o
comunità, devono spendere i soldi come vuole il filantropo, a volte contro i
propri stessi interessi.
Fino a
qualche decennio fa l’organizzazione mondiale della Sanità (Oms) era per il 70%
finanziata dagli Stati membri ed era libera di impiegare i fondi nel modo che
riteneva più opportuno.
Oggi
il 70-80% del budget è costituito da donazioni di fondazioni private quali
quella Gates, di cui parleremo a breve.
Tali istituzioni impongono «interventi
specifici predefiniti secondo la volontà dei donatori».
Il
filantrocapitalismo a danno dei poveri del pianeta.
I
risultati sono spesso opposti a quelli propagandati:
«Che cosa dedurre dal dato di fatto che la
filantropia e le disuguaglianze sono entrambi fenomeni in grossa espansione e
che sembrano addirittura crescere parallelamente?
Si può
dire che la filantropia fa parte di un sistema in cui il ricco diventa più
ricco e il povero si impoverisce ulteriormente?».
Anche
il tanto decantato sistema della microfinanza e del microcredito si è spesso
rivelato ingannevole, finendo per «condannare chi vi ricorreva a una spirale di
debiti, andando a peggiorare la povertà invece che alleviarla. […] Molti degli
odierni istituti perfettamente legali di microfinanza […] hanno tassi
sproporzionati al pari di quelli dei più feroci usurai».
Un po’
come le Ong dei taxisti del mare, rotta Nord Africa-Sicilia: affermano di voler
salvare vite umane, mentre, invece, innescando più partenze di malmessi navigli
pronti ad affondare, causano più morti (leggi pure Ong, cosa si nasconde dietro
la pettorina dei “dialogatori”).
Al “social
washing” spesso si abbina il “greenwashing”:
in
verità si tratta di semplice propaganda, mentre in realtà l’impatto delle
aziende nel campo della giustizia sociale e del minor impatto sull’ambiente è
pari a zero (vedi anche Ecologismo e terrore climatico come lotta di classe…).
I
coniugi Gates e i disastri in campo scolastico.
Oggi
il più influente filantropo è il miliardario Bill Gates.
Il
punto di svolta si ha nel 2000, quando unisce le sue due precedenti fondazioni
nella Bill e Melinda Gates Foundation.
Nel
2008 egli decide di lasciare la propria posizione in Microsoft per dirigere
tale istituzione.
L’autrice
di “Altro che filantropi!” cita una serie di disastri provocati dalla
famigerata Fondazione via via che aumentavano i suoi progetti, di pari passo
con le sovvenzioni, il potere, l’influenza.
Si può
partire dai finanziamenti alle scuole statunitensi, purché usassero un certo
software e si sottoponessero ai sistemi di valutazione della Fondazione stessa,
fondati su freddi algoritmi.
Questi non tenevano conto delle condizioni
culturali di partenza degli allievi, delle disparità socioeconomiche delle
varie zone geografiche, della qualità dell’insegnamento (un po’ come i nostri test “Invalsi” che ci sembra prendano spunto da
tali abiezioni anglosassoni…).
Risultato:
corsa
degli istituti a falsificare i test di valutazione, suicidi, disperazione,
depressione tra gli insegnanti ingiustamente licenziati perché i loro allievi
non avevano raggiunto gli standard minimi e quindi additati al pubblico
ludibrio e nessun miglioramento degli studenti.
I
disastri in campo sanitario.
Un’altra
mania nazistoide è quella di sottoporre popolazioni povere a sterilizzazioni di
massa, a test su nuovi farmaci o a vaccini di dubbia efficacia (a un livello
globale, l’abbiamo visto anche e soprattutto, con l’influenza da Sars-Cov-2).
Tutto nella completa ignoranza delle persone.
Tra i
tanti esempi di trattamenti razzisti e colonialisti, si possono ricordare i
“test dimostrativi” condotti in India dalla Path (Program for appropriate
technology in health, “Programma per la tecnologia appropriata nella sanità” –
secondo il criptico linguaggio usato dai nuovi potenti della Terra), Ong di
Seattle finanziata dalla Fondazione Gates.
A circa 23.000 ragazzine indiane tra i 10 e i
14 anni residenti in aree rurali e povere, senza alcun consenso dei genitori,
furono somministrati presunti vaccini “contro il papillomavirus umano”.
Dal
2010 cominciarono a diffondersi notizie su morti misteriose riguardanti tali
bimbe, sicché il Ministero della Sanità dell’India ordinò lo stop alle
sperimentazioni.
Nessun
monitoraggio era stato fatto sugli “effetti avversi” (ritorniamo al refrain ben
conosciuto nella recente “pandemia”).
Nel
2013 un comitato parlamentare del Paese asiatico accusò la Path di aver avuto
il solo scopo «di favorire gli interessi commerciali dei produttori di un
vaccino contro l’Hpv» (Merck e GlaxoSmithKline).
In
effetti, se una terapia o un vaccino viene testato con successo, i profitti
derivanti dagli acquisti da parte degli Stati o dei semplici cittadini
ripagheranno più che ampiamente la “filantropia” iniziale. Lo stesso vale per
sementi, tecnologie o altro proveniente dai Paesi ricchi produttori.
I
disastri in campo agricolo.
L’aiuto
che i “filantropi” offrono ad America latina, Asia e soprattutto Africa nel
campo dell’alimentazione e dell’agricoltura consiste nell’imposizione
dell’industria agricola statunitense.
Ma, si
chiede la ricercatrice, «importare sementi geneticamente modificati assieme a
fertilizzanti sintetici, il tutto peraltro a prezzi elevati», è la soluzione
giusta?
Gli
“effetti avversi” riguardano soprattutto l’ambiente, l’ecologia e la stessa
vita dei piccoli agricoltori:
«Le
nuove coltivazioni a elevato rendimento necessitano di appezzamenti molto
estesi per essere sostenibili da un punto di vista economico. Al fine di
appropriarsi quindi di campi sufficientemente vasti, molti lavoratori sono
stati espulsi con la forza dai propri terreni, causando la crescita
incontrollata di ghetti ai margini delle metropoli».
Altro
aspetto scandaloso:
«Il
cibo deve essere fornito da produttori statunitensi e trasportato da navi
statunitensi, anche se esisterebbero alternative a costi molto più contenuti».
Insomma, i soli a guadagnarci sicuramente sono i produttori e i vettori.
Cargill,
Coca-Cola e Monsanto, sono tra i partner della Fondazione Gates… Insieme ad
altre grandi aziende quali Nestlé o Unilever esportano presso i poveri popoli
africani Ogm o una dieta iperglicemica. Così sono forse diminuite le malattie
infettive ma aumentate enormemente quelle legate all’alimentazione e agli stili
di vita quali ipertensione, diabete, cardiopatie, neoplasie…
Il
vincolo dei brevetti e la criminalizzazione di chi fa domande.
Per di
più le sementi agricole, i farmaci (come contro l’Hiv e come abbiamo visto col
coronavirus), i software, i prodotti tecnologici, sono rigorosamente brevettati.
Bill
Gates ha sempre difeso con tenacia i brevetti, a partire da quelli riguardanti
il proprio software.
È
evidente che con tale strumento si perviene a un regime di monopolio.
Ma è
sempre pronto uno stuolo di avvocati per trascinare in decennali contese legali
quegli Stati (ad esempio Malawi o Sudafrica) o enti che cercano di sottrarsi a
tale dittatura in campo agricolo o sanitario.
C’è un
altro paradosso.
Le
associazioni filantropiche hanno sempre chiesto il taglio del welfare statale,
ritenendolo uno spreco. Dopo aver ottenuto tali “risparmi”, oggi puntano il
dito sull’inefficienza degli interventi dello Stato centrale in campo sociale,
dovuti propri anche alla scarsità di risorse economiche.
Se
alla Fondazione Gates o ad altre consimili vengono poste domande sulle ricadute
spesso negative delle loro azioni – scrive la McGoey – la risposta è il
silenzio o comunicati scritti in una fredda neolingua burocratico-tecnocratica,
entro i quali si accusa chi ha perplessità di essere “cattivo”.
Vi
ricorda qualcosa di recente tale criminalizzazione dei dissidenti o di chi pone
domande su trattamenti sanitari imposti o altro?
È ciò che la McGoey definisce «manipolazione
delle coscienze» …
(Rino
Tripodi).
IL
NANTIFASCIMO DEL PENSIERO UNICO
POLITICAMENTE
CORRETTO.
Nuovogiornalenazionale.com
- Silvano Danesi – (04 Novembre 2022) – ci dice:
La
pubblicazione nel libro di Bruno Vespa “La grande tempesta” (in libreria da
oggi), della notizia, dovuta a Carlo Calenda, del finanziamento di Soros a
+Europa o a candidati di +Europa (secondo le precisazioni) in cambio di
un’azione tesa alla costruzione di un “listone antifascista” da opporre al
centrodestra, ha un’importanza “radicale”, in quanto mette allo scoperto una
strategia, in atto da tempo, che possiamo definire “Nantifascista”
(neo-anti-fascista), in sigla” NAF”.
Il
finanziamento a +Europa, messo in piazza da Calenda, denuda l’Opa dei
filantropi sull’antifascismo, trasformato in NAF per farne un elemento di
discriminazione tra chi si accuccia nel PUPC (pensiero unico politicamente
corretto), ossia nell’ideologia globalista e transumanista propagandata dalla
Cupola finanziaria e delle multinazionali, e chi non si arrende all’idea di
pensare in proprio e di difendere la propria identità (personale, nazionale,
tradizionale, culturale, ecc.).
L’Opa
sull’antifascismo è contestuale all’Opa della finanza, dei filantropi e delle
multinazionali, sulla sinistra, trasformata in un esercito di obbedienti
guardiani dell’ideologia finanziaria e sedicente filantropica.
La
sinistra, abbandonata quella che storicamente era la sua base sociale (classe
operaia, ceti medi), rinchiusa negli” zoo green ztl radical chic”, rimasta
legata alla catena della finanza, urla in continuazione, dando del fascista a
chiunque osi non essere allineato con il “PUPC”.
La
metodologia NAF è vecchia come il mondo, in quanto non fa altro che distinguere
il Bene (le idee dei seguaci del PUPC), dal Male (le idee di chi non si allinea
con il PUPC).
Un
tempo c’erano gli eretici, molti dei quali finiti sul rogo, oggi ci sono i non
allineati al PUPC, condannati alla gogna mediatica.
Come
ho già avuto modo di scrivere, l’antifascismo è un’opposizione politica e
ideale al fascismo, così come si è determinato storicamente e alle sue
espressioni nostalgiche o restauratrici.
Diverso
è l’antifascismo NAF o Neo-antifascismo, che è il corollario propagandistico
del pensiero unico politicamente corretto, imposto dall’ideologia neoliberista
espressa dalla finanza e dalle multinazionali, nonché da sedicenti filantropi
social-comunisti, in un quadro globalista, transumanista e in una deriva
antidemocratica e illiberale che tende al controllo sociale, secondo
un’interpretazione totalitaria dello stato etico.
Ora la
differenza è chiara, visto che a volere un “listone antifascista” nelle
elezioni italiane è il sedicente filantropo Soros.
Secondo
la logica NAF, Bibi Netanyahu, in quanto leader di un partito chiaramente di
destra, sarebbe un fascista?
Difficile
dare del fascista ad un ebreo israeliano, salvo che i NAF siano stati delegati
anche a stabilire chi sono gli ebrei che possono dirsi democratici.
Immediatamente
la vittoria di Bibi è stata stigmatizzata dalla stampa mainstream in quanto
Netanyahu ha vinto assieme al partito religioso di destra di Ben Gvir,
immediatamente definito sionismo fascista.
I
repubblicani MAGA (Make America Great Again), ossia i trumpiani, sono stati
definiti da “Joe Biden” un pericolo per la democrazia e per l’America.
Lo
scorso agosto Biden ha attaccato Trump affermando: "La sua è un'ideologia
semi-fascista".
Per
l'inquilino della Casa Bianca "non è solo Trump, è l'intera filosofia che
sta alla base. Io vi dico questo è come il semi-fascismo".
Biden
si dice convinto che "questo non è il Partito repubblicano dei vostri
padri, è una cosa differente".
Biden
avverte:
"Ecco perché quelli di voi che amano
questo Paese, democratici, indipendenti, repubblicani, devono essere più forti,
più determinati e più impegnati a salvare l'America dai repubblicani Maga che
stanno distruggendo l'America".
La
vulgata NAF ha fatto di Trump un fascista.
Anche
mercoledi, avvertendo che la democrazia stessa è in pericolo, il presidente Joe
Biden ha invitato gli americani a usare le loro schede elettorali nelle
elezioni di medio termine della prossima settimana per opporsi a menzogne,
violenza e pericolosi "repubblicani ultra MAGA".
I
repubblicani trumpiani non sono un avversario politico, ma un nemico della
democrazia e a proposito della loro azione Biden ha affermato:
"Questa
è la strada per il caos in America. È senza precedenti. È illegale. Ed è
antiamericano".
La
politica NAF fa anche perdere la testa.
Bolsonaro,
l’ex presidente del Brasile, è stato definito più volte fascista e le sinistre
esultano per la vittoria di Lula.
Rimane
il fatto che mentre Bolsonaro, sicuramente di destra, stava con gli Usa e con
l’Occidente, Lula è stretto amico della Cina e della Russia, cosicché il Brics
(Brasile, India, Russia, Cina, Sudafrica) si consoliderà in funzione
antioccidentale in buona compagnia con stati autocratici.
Forse
è ora di chiudere la partita, di mettere in un cassetto il timbro di
certificazione NAF e di chiudere, soprattutto, i rapporti con chi, grazie ai
suoi soldi, vuole dirigere la politica di stati sovrani, acquistando il
consenso a suon di finanziamenti di partiti e associazioni e, chiudendo la
partita, di smontare anche il timbro del NAF, affidato a chi si è fatto fare
un’Opa dalla finanza, abbandonando la base sociale che gli era propria per
diventare il cane da guardia del PUPC.
L’antifascismo,
quello vero, è cosa seria. Il NAF è propaganda di quarta serie, ora messa allo
scoperto dalla vicenda riportata dal libro di Vespa.
Negli
Stati Uniti c’è un mondo
a
sinistra dei Democratici.
Ilpost.it
– (27 -2 – 2024) – Redazione – ci dice:
Da
tempo una serie di candidati, partiti e movimenti si muove “a sinistra della
sinistra”, mettendo in discussione molte posizioni del partito.
Il 17
settembre del 2011 centinaia di persone occuparono “Zuccotti Park”, nel centro
del distretto finanziario di Manhattan, a “New York”. Portarono con sé tende,
sacchi a pelo, fornelletti da campeggio e cartelli con gli slogan
«Questo è l’inizio dell’inizio» e «Siamo il 99
per cento!».
Grazie
ai nuovi servizi di streaming fecero ore di dirette sui social e riempirono i
loro blog con indicazioni e proposte politiche:
criticavano
il sistema capitalista, considerato sbagliato e discriminatorio, ma 59 giorni
dopo gli attivisti del movimento “Occupy Wall Street” furono sgomberati con la
forza dalla polizia.
La
protesta era finita, ma delle ragioni che la causarono si parla ancora oggi.
Dopo
secoli di trasformazioni, da qualche decennio il partito Democratico ha creato
una sua identità ben precisa basata su posizioni progressiste, tanto che spesso
si tende a identificarlo genericamente con la “sinistra” statunitense.
Questa semplificazione tende però a far
convergere su un’unica forza politica una moltitudine di idee anche molto
diverse tra loro, e a volte contrastanti: da tempo negli Stati Uniti esiste un
universo di movimenti e di partiti che si muove “a sinistra della sinistra”,
rivendicando posizioni diverse e in alcuni casi radicali.
Queste
possono essere sostenute da membri del partito Democratico che dissentono su
alcuni punti dalla linea generale del partito, da esponenti indipendenti o di
altri partiti di sinistra, oppure da movimenti spontanei e apartitici.
Da “Bernie Sanders” ad “Alexandria
Ocasio-Cortez”, passando per “Jill Stein” e il movimento “Black Lives Matter”:
a
sinistra dei Democratici ci sono molte realtà, anche con un consistente
seguito.
Proprio
Occupy
Wall Street è fondamentale per capire le tendenze progressiste che si sono sviluppate
negli Stati Uniti negli ultimi vent’anni.
La
storia del movimento è legata al contesto sociale ed economico di allora:
era il
2011, e gli Stati Uniti come gran parte del mondo occidentale stavano affrontando
le conseguenze di una grave crisi economica e finanziaria iniziata tre anni
prima, che aveva messo in difficoltà milioni di famiglie e accentuato
ulteriormente il divario tra le fasce povere della popolazione e i pochi,
fortunati ricchi.
Il governo stava spendendo centinaia di
miliardi di dollari per salvare le banche dal fallimento ed evitare il collasso
del sistema finanziario.
Il
movimento criticava il sistema capitalista, la ricchezza dei grandi gruppi
industriali e le enormi diseguaglianze presenti a ogni livello della società.
Il loro motto era «Siamo il 99 per cento», uno
slogan che faceva riferimento allo squilibrio presente nella distribuzione
della ricchezza tra la maggior parte della popolazione appartenente alla classe
bassa o medio-bassa e un’esigua minoranza molto ricca.
L’1 per cento, appunto, che detiene gran parte
della ricchezza del paese e la usa per condizionarne scelte politiche ed
economiche, secondo il movimento.
A
partire da metà settembre circa 200 manifestanti occuparono Zuccotti Park, un
parco di 3mila metri quadri a Wall Street, il centro finanziario di Manhattan.
La
protesta durò fino al 15 novembre, quando la polizia sgomberò l’area e arrestò
circa 200 persone.
Durante
l’occupazione ci furono molti scontri tra gli attivisti e l’amministrazione del
sindaco “Michael Bloomberg”, un miliardario che al tempo era esponente del
partito Repubblicano, ma dal 2018 passò al partito Democratico candidandosi
anche alle primarie presidenziali del 2020, senza successo.
Ci
furono vari episodi di violenza da parte della polizia, che usò contro
manifestanti non pericolosi anche lo spray al peperoncino, molto irritante.
L’occupazione di Zuccotti Park ispirò proteste in centinaia di altre città,
negli Stati Uniti e all’estero.
“Occupy
Wall Street” non aveva una struttura di leadership ben definita.
Al
contrario, rimase un movimento spontaneo e apartitico, critico sia del partito
Repubblicano che di quello Democratico, e si pose su posizioni che nello
spettro politico nazionale starebbero a sinistra dei Democratici.
L’iniziativa
diede però enorme rilievo mediatico alle rivendicazioni anticapitaliste e ai
movimenti per la democrazia, e contribuì ad avvicinare molti giovani al mondo
della politica e dell’attivismo.
Negli
anni successivi parte delle richieste di Occupy Wall Street fu ripresa e
sostenuta da esponenti politici diventati noti in tutti il paese.
Tra
loro c’è Alexandria
Ocasio-Cortez, che nel 2018 a 28 anni divenne la più giovane deputata mai eletta.
Si
candidò con i Democratici nel quattordicesimo distretto della città di New
York, una zona multietnica che comprende parti del Bronx e del Queens.
Sfidò
alle primarie “Joe Crowley”, un Democratico di lungo corso che dal 1999 in poi
era sempre stato rieletto ed era diventato una figura nota nell’establishment
del partito.
Ocasio-Cortez
lavorava
come cameriera in un ristorante messicano:
non
aveva alcuna esperienza in politica, e quando annunciò la sua candidatura in
pochi la presero sul serio.
La sua campagna elettorale, raccontata anche
dal documentario di” Netflix Knock down the House”, fu però molto partecipata,
mentre “Crowley” non fece grandi sforzi per assicurarsi la rielezione, che era
sicuro di ottenere.
Il 26
giugno del 2018 “Ocasio-Cortez” venne eletta alla Camera con il 78,2 per cento
dei voti, dopo aver sconfitto Crowley nelle primarie con un vantaggio di oltre
quindici punti percentuali.
Fin da
subito “Ocasio-Cortez” criticò alcune posizioni del partito Democratico – di
cui comunque faceva e continua a fare parte – che considerava ormai superate e
non sufficientemente attente ai bisogni di una società in continua
trasformazione. Oggi fa parte di una sorta di “corrente” interna al partito,
chiamata informalmente “The Squad” (la squadra), composta da cinque deputate e
tre deputati con posizioni molto progressiste e in parziale disaccordo con il resto del
partito su temi particolarmente divisivi come l’immigrazione, i diritti umani,
il cambiamento climatico e il sistema sanitario.
Di
recente il gruppo ha criticato il supporto quasi incondizionato offerto a
Israele dal presidente Democratico Joe Biden in seguito all’inizio della guerra
tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza, a ottobre del 2023.
Lo scorso novembre 22 deputati Democratici votarono a
favore di una mozione di censura promossa dai Repubblicani a carico di “Rashida
Tlaib”, deputata del Michigan che fa parte della “Squad”, accusandola di aver
sostenuto narrative false riguardo alla guerra in corso.
Tra le altre cose, “Tlaib” aveva citato lo
slogan “Dal fiume al mare”, che sostiene il diritto dei palestinesi ad avere un
proprio stato ed è considerato da alcuni osservatori come potenzialmente
antisemita.
“Tlaib”
è la prima persona di origini palestinesi a essere eletta al Congresso.
(Il
controverso slogan «dal fiume al mare, la Palestina sarà libera»)
Ocasio-Cortez
ha sempre
adottato un atteggiamento molto critico anche nei confronti di Joe Biden, tanto che alle elezioni primarie
del 2020 sostenne la candidatura del suo avversario” Bernie Sanders,” un
indipendente con idee socialiste (ci torneremo).
A
novembre del 2020, dopo la vittoria di Biden, Ocasio-Cortez criticò il partito
sostenendo che non fosse in grado di affrontare in modo abbastanza deciso
alcuni temi importanti, tra cui il razzismo:
«Il problema è che le persone che prendono le
decisioni più importanti nel partito hanno ormai preso una deriva anti
attivista, e non vedono i benefici che questo [l’attivismo] potrebbe portare»,
disse al podcast “The Daily” del “New York
Times”.
Invitò anche l’establishment Democratico,
rappresentato soprattutto da” Biden”, a smettere di vedere l’ala più
progressista «come un nemico»:
«Se continua a contrastare gli obiettivi
sbagliati, il partito si sta solo costruendo la strada per la sua
obsolescenza».
Sinistra
non vuol dire solo partito Democratico, nemmeno nelle sue frange più
progressiste.
Esiste un ricco universo di candidati
indipendenti o affiliati ad altri gruppi politici minori, che più volte hanno
provato a candidarsi alle presidenziali, senza mai riuscire a vincere.
Il più noto, almeno negli ultimi anni, è”
Bernie Sanders”, un senatore del Vermont di 82 anni.
Ufficialmente
è indipendente, anche se è da sempre vicino ai Democratici e ha spesso
partecipato alle iniziative elettorali del partito.
Da
decenni si descrive come un «socialista democratico»:
in un
discorso del 2015 spiegò che questo orientamento non ha nulla a che fare con la
dottrina marxista né con la pretesa di abolire il capitalismo, ma è basato
sulla creazione di una società più equa per tutti i suoi membri tramite alcune
riforme, a partire dal salario minimo e dal miglioramento del sistema fiscale,
sanitario e universitario.
Sanders
è sempre stato attratto dagli ideali radicali: si avvicinò alla politica mentre
studiava all’Università di Chicago, negli anni Sessanta, un periodo molto
turbolento caratterizzato dalle proteste contro la guerra in Vietnam e dalla
lotta per i diritti civili.
Tra il
1981 e il 1989 fu sindaco di “Burlington”, la città più popolosa del Vermont,
nel 1990 fu eletto alla Camera e nel 2006 al Senato, sempre da indipendente ma
con il sostegno del partito Democratico.
Pur
mantenendo posizioni indipendenti, nel 2016 si candidò per la prima volta alle
primarie dei Democratici:
perse
contro Hillary Clinton, ma ottenne comunque più del 43 per cento dei voti, un
ottimo risultato per un candidato considerato lontano dalle istituzioni del
partito e di posizioni dichiaratamente vicine al socialismo, un termine che
negli Stati Uniti è sempre stato visto con diffidenza.
Si candidò nuovamente alle primarie nel 2020,
sfidando Joe Biden, ma si fermò al 26,2 per cento dei voti.
Nelle
due campagne elettorali per le primarie che organizzò in giro per il paese,
Sanders si presentava come un candidato piuttosto improbabile:
era un
politico di lungo corso del Vermont, uno stato della costa est degli Stati
Uniti grande come il Piemonte, era anziano, bianco e dal carattere burbero e
scontroso.
Le sue campagne però ebbero un enorme successo
mediatico, i suoi comizi erano sempre affollati e Sanders riuscì ad attrarre i
voti di molti elettori giovani e latinoamericani, che coniarono il motto «Feel
the Bern», (“senti il Bern”, dal nome di Sanders).
Nonostante
le sconfitte, negli ultimi anni gli ideali di Sanders hanno implicitamente
spinto il partito Democratico a spostarsi più a sinistra e hanno contribuito ad
aprire la discussione su temi a lungo considerati troppo estremi.
«Fino a poco tempo fa erano proposte considerate
radicali e minoritarie, mentre oggi sono largamente condivise e alcune sono già
in corso di adozione», disse Sanders nel 2020, riferendosi per esempio all’introduzione
di un salario minimo da 15 dollari l’ora e alla transizione verso fonti di
energia rinnovabili.
«Il nostro movimento ha vinto la lotta
ideologica».
Dichiararsi
socialisti negli Stati Uniti non è mai stato facile, soprattutto se si decide
di provare a vincere le elezioni.
L’idea
del socialismo come qualcosa di estraneo ai princìpi americani è ancora
radicata in parte della società.
Circa
un secolo prima di Sanders ci aveva provato “Eugene V. Debs”, un importante
sindacalista e tra i più noti esponenti del” Partito Socialista d’America”, che
si dissolse ufficialmente nel 1972.
Tra il 1904 e il 1920 “Debs” si candidò
quattro volte alla presidenza, ottenendo al massimo il 6 per cento dei voti,
nel 1912.
Era un
periodo storico non facile per i socialisti.
Nel
1917 gli Stati Uniti entrarono nella Prima guerra mondiale contro l’impero
tedesco e austroungarico:
i socialisti erano fortemente contrari alla
guerra, e migliaia furono arrestati per aver criticato le decisioni del
governo.
Anche “Debs”
fu condannato a dieci anni di carcere, ma non rinnegò mai le sue idee.
Il
1917 fu anche l’anno della Rivoluzione bolscevica con cui fu creata l’”Unione
Sovietica comunista”.
Negli
Stati Uniti iniziò il primo “red scare”, la “paura rossa”, ossia l’opposizione
e la repressione di qualsiasi ideale considerato vicino al comunismo o al
socialismo, visti come teorie estranee e pericolose per gli ideali americani.
Un
secondo red scare, ancora più duro del primo, si verificò nella seconda metà
del Novecento.
Era il periodo della Guerra fredda,
caratterizzato da un’intensa competizione tra le due superpotenze del tempo:
gli
Stati Uniti, capitalisti, e l’Unione Sovietica, comunista.
Negli
Stati Uniti il socialismo e gli ideali di sinistra vennero nuovamente associati
con il nemico, i loro sostenitori furono considerati come potenziali minacce
alla sicurezza nazionale e quindi arrestati e perseguitati.
Oltre
a Sanders, nello scenario politico statunitense ci sono altri candidati
indipendenti che si pongono a sinistra del partito Democratico e partecipano
attivamente alle elezioni.
“Jill
Stein” nel 2024 si è candidata per la terza volta alle elezioni presidenziali
con il partito dei Verdi, fondato ufficialmente nel 2001 ma presente in altre
forme fin dagli anni Ottanta.
A
differenza di Sanders,” Stein” si è sempre posta in netta contrapposizione sia
con il partito Repubblicano che con quello Democratico:
«Il sistema politico non funziona, abbiamo
bisogno di un partito che ascolti le persone», ha detto nel discorso con cui
annunciò la sua ultima candidatura.
«I due
partiti principali che ci hanno messo in questo pasticcio non ce ne tireranno
fuori».
Nel
2012 Stein ottenne lo 0,4 per cento dei voti, e nel 2016 poco più dell’1 per
cento.
Al di
là dei candidati e dei partiti politici, sulla scia di “Occupy Wall Street”
negli ultimi anni sono nati diversi movimenti apartitici che sostengono cause
storicamente vicine alla sinistra.
Nell’estate
del 2020 migliaia di persone si riunirono nelle strade di tutto il paese per
protestare contro la morte di “George Floyd”, un uomo afroamericano ucciso il
25 maggio a Minneapolis, in Minnesota, mentre veniva arrestato dalla polizia,
che operò in modo molto violento.
Le
manifestazioni ridiedero slancio al movimento “Black Lives Matter”, nato nel
2013 per combattere le discriminazioni e l’ingiustizia razziale, e che oggi è
sia lo slogan di battaglie antirazziste molto condivise, sia un’organizzazione
più radicale con proposte distanti da quelle del partito Democratico.
Le
proteste del 2020 furono un evento enorme:
il 6
giugno mezzo milione di persone partecipò agli eventi in oltre 500 città in
tutti gli Stati Uniti.
Contribuirono
a riportare il problema del razzismo al centro del dibattito pubblico e
modificarono in parte la discussione politica in un momento molto delicato,
durante la campagna elettorale per le presidenziali (poi vinte da Biden) e la
pandemia di Covid-19.
Durante
la campagna elettorale per le presidenziali del 2020, Biden diffuse uno spot
che iniziava con la frase:
«Black lives matter, period», ossia «Le vite
dei neri contano, punto».
A maggio del 2021, dopo essere stato eletto,
Biden incontrò la famiglia di Floyd alla Casa Bianca.
L’omicidio
di Floyd diede nuovo slancio anche a una proposta nota come “Defund the police”,
“definanziare la polizia”:
critica
gli abusi delle forze dell’ordine contro i cittadini e chiede di ridurre i
fondi a loro disposizione per dedicarli ad altri settori considerati più utili
per la società, come la scuola o la sanità.
È un movimento strettamente legato a “Black
Lives Matter “e alle rivendicazioni per la giustizia razziale.
Dopo
l’omicidio di Floyd la richiesta “Defund the police” ebbe attenzioni ma
soprattutto critiche, più di tre anni dopo le sue rivendicazioni non hanno
avuto effetti concreti e le città che provarono a modificare i finanziamenti a
disposizione delle forze dell’ordine dovettero presto ripensarci.
Il
partito Repubblicano criticò molto le richieste del movimento, che diventarono
un argomento per accusare i Democratici di non essere abbastanza severi nella
repressione del crimine e di non sapere quindi mantenere la sicurezza pubblica.
Gli
stessi principali esponenti del partito, tra cui il presidente Biden, si
dissero contrari.
Le
prossime elezioni USA si
vinceranno
al centro?
Chi
sono i “moderati”?
Transform-italia.it
– (07/02/2024) - Alessandro Scassellati – ci dice:
I
cittadini statunitensi – un tempo noti per la loro assoluta fiducia e visione
ottimistica della vita – stanno diventando ogni giorno più amareggiati e
scontenti, sfiduciati riguardo alle modalità di funzionamento delle loro
istituzioni, consumati dall’ansia economica e sociale e dalle crescenti
divisioni politiche.
La presidenza di Biden è stata segnata da
un’elevata inflazione, da ingenti politiche industriali e da turbolenze
all’estero, in Afghanistan, Ucraina e Medio Oriente.
Sia
Biden sia Trump sono impopolari.
Le
elezioni non saranno tanto una gara di popolarità quanto un referendum su chi
gli americani pensano sia l’opzione meno negativa.
Gli
analisti sottolineano che la vittoria di Biden o di Trump, stante la forte
polarizzazione politico-ideologica degli elettori registrati per i partiti
Democratico e Repubblicano, dipenderà molto dalla loro rispettiva capacità di
convincere gli elettori “moderati” a votare per loro il 5 novembre 2024.
Con
l’avvio delle primarie per le elezioni presidenziali statunitensi, appare
sempre più evidente che ci si avvia verso una ripetizione dello scontro del
2020 tra Joe Biden e Donald J. Trump, anche se diversi sondaggi mandano segnali
che gli elettori non sono soddisfatti di entrambi i candidati.
“Joe Biden” è un presidente in carica
straordinariamente debole.
È da
molto tempo che lotta per mantenere la testa fuori dall’acqua nei sondaggi
degli Stati indecisi (Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, Pennsylvania e
Wisconsin, dove Trump è in vantaggio con una media di 3,8 punti), anche se
Trump, il suo più probabile avversario alle elezioni generali, ha accumulato un
numero impressionante di problemi giudiziari.
L’età
di Biden sembra rappresentare il più grande ostacolo alla sua rielezione: anche
i Democratici temono che potrebbe essere troppo vecchio per ricoprire un
secondo mandato, che lo vedrebbe lasciare la scrivania dello Studio Ovale
all’età di 86 anni.
L’inflazione
lo ha danneggiato e un crescente numero di elettori accusa Biden del fatto che
“il mondo è in fiamme” (come sostiene l’ultima sfidante di Trump rimasta, Nikki
Haley).
Vedono le guerre in Ucraina e a Gaza, sentono
Trump vantarsi del fatto che non c’erano problemi del genere quando era al
comando (con una nazione che avrebbe avuto confini sicuri, un’economia forte e
la pace globale) e incolpano Biden.
D’altra
parte, Trump deve contemporaneamente fare fronte sia alla campagna elettorale
sia a molteplici e continui casi giudiziari.
Per la
base repubblicana, i 91 capi di accusa per diversi crimini contro di lui sono
un distintivo d’onore, la prova che è una vittima dello “Stato profondo”, il
“deep State” che sarebbe orchestrato dalla sinistra liberale Dem Usa;
ma tra
l’elettorato americano più ampio, non vengono considerati così bene.
I verdetti potrebbero non arrivare in tempo
per il 5 novembre, ma è una prova della vulnerabilità di Trump.
Trump
appare allo stesso tempo forte e debole come candidato alle elezioni generali.
Per
molti versi “si candida come un quasi presidente in carica alla ricerca di un
altro mandato”, genera una forte lealtà nella sua base “Make America Great
Again” e ha già schierato dietro di lui quasi l’intero establishment
Repubblicano a Washington.
Allo
stesso tempo, una parte non trascurabile dell’elettorato Repubblicano è
diffidente nei confronti di un’altra nomina di Trump.
E
molti elettori che si auto-identificano come “indipendenti” – che potrebbero
decidere il vincitore a novembre – sono profondamente contrari alla sua
candidatura.
La
campagna per la rielezione di Biden insiste su almeno due temi che hanno una
comprovata esperienza di vittoria elettorale per i democratici.
Il
primo è l’aborto, a seguito della decisione della Corte Suprema nel caso “Dobbs
del 2022” di porre fine alla protezione costituzionale del diritto all’aborto.
Trump si vanta di essere “orgoglioso” di
questo, perché è stato lui a nominare tre giudici di destra alla Corte.
Ma non è una posizione popolare.
Al
contrario, i Repubblicani hanno ripetutamente perso alle urne dopo la sentenza
della Corte, sia nelle elezioni che nei referendum a livello statale.
“Dobbs
potrebbe aver distrutto il Partito Repubblicano”, afferma lo stratega
democratico “Simon Rosenberg”, che ha previsto con precisione il successo al
Senato del suo partito alle elezioni di medio termine del 2022 ed è ottimista
riguardo alle possibilità di Biden ora.
Le
donne elettrici suburbane sono viste come un campo demografico cruciale, come
un gruppo che potrebbe influenzare le elezioni di novembre proprio sulla
questione dell’aborto.
La
seconda questione è l’argomento centrale anti-Trump:
che
l’uomo che ha cercato di ribaltare le elezioni del 2020 è un potenziale
dittatore che rappresenta una minaccia per la democrazia, sviluppando una
narrativa retorica basata sul tema del “questo non è quello che siamo” come
Stati Uniti (una battaglia per «l’anima della nazione» e i “valori americani”),
trasformando Trump e i «Repubblicani MAGA» in un’etichetta per tutto ciò che
gli elettori mainstream trovano politicamente tossico sul Partito Repubblicano.
Biden
e i Democratici sono convinti che se gli americani vedranno le prossime
elezioni come una scelta tra estremisti che minacciano i loro diritti
fondamentali e coloro che cercano di proteggere quelle libertà vulnerabili,
allora il partito sarebbe in grado di prendere il controllo della presidenza e
del Congresso.
A ciò
si aggiungono alcuni dati economici positivi e una crescente fiducia dei
consumatori e si può intravedere il profilo di un possibile messaggio vincente.
Il sentimento anti-Trump ha aiutato Biden a
sconfiggere Trump nelle elezioni del 2020, quando una percentuale record di
elettori aventi diritto ha votato.
L’affluenza
alle urne potrebbe essere elevata anche alle elezioni generali di novembre, in
parte perché gli elettori di entrambi i partiti sono fortemente motivati a
battere l’altra parte.
Nei
sondaggi, la maggioranza di coloro che dichiarano di voler votare per Biden
afferma di essere motivato principalmente dall’opposizione a Trump, mentre gli
elettori di Trump sono più positivi riguardo al proprio candidato e alle sue
politiche, con una percentuale minore che descrive il proprio voto come un voto
contro Biden.
I
cittadini statunitensi – un tempo noti per la loro assoluta fiducia e visione
ottimistica della vita – stanno diventando ogni giorno più amareggiati e
scontenti, sfiduciati riguardo alle modalità di funzionamento delle loro
istituzioni, consumati dall’ansia economica e sociale e dalle crescenti
divisioni economiche, sociali e politiche.
Il successo di Trump si basa sul concreto
malessere e malcontento di milioni di americani che hanno perso i loro posti di
lavoro da “colletti blu” (non solo nella “cintura della ruggine”) o che hanno
salari bassi e lavori precari (working poor), perché si è ristretta la classe
media di un tempo che era il motore dell’economia e l’architrave del “sogno
americano” degli anni ’50 e ’60, quando i compensi degli amministratori
delegati erano 20 volte quello del dipendente medio (mentre ora sono superiori
di 400 volte).
L’1% controlla più ricchezza dei ceti medi,
mentre i poveri sono 40 milioni (il 13%), i senza casa 650mila e la speranza di
vita è scesa a 76,6 anni (con oltre 110mila persone che sono morte per overdose
da oppioidi, eroina, cocaina e metanfetamine nel 2023).
Gli
Stati Uniti spendono solo 252 miliardi di dollari per l’istruzione, secondo il “Center
on Budget and Policies Priorities”, ma 1,537 trilioni di dollari per le forze
armate, parte dei quali vanno a pagare le loro circa 902 basi militari in tutto
il mondo6.
Gli
analisti sottolineano che la vittoria di Biden o di Trump, stante la forte polarizzazione
politico-ideologica degli elettori registrati per i partiti Democratico e
Repubblicano, dipenderà molto dalla loro rispettiva capacità di convincere gli
elettori “moderati” (soprattutto gli «elettori suburbani oscillanti» bianchi) a
votare per loro il 5 novembre 2024.
Le
diverse tipologie di “moderati.”
La
parte più mitizzata e forse più trascurata ed incompresa dell’elettorato
americano è quella dei cosiddetti “moderati”.
Sono
un gruppo complicato.
Spesso
descritti come elettori indecisi, creature ideologiche volubili che esistono al
centro dello spettro politico.
Vengono confusi con gli elettori
“indipendenti” (non registrati formalmente né come Democratici né come
Repubblicani) e “indecisi”, ma non sono esattamente la stessa cosa.
Tendono
ad essere meno impegnati politicamente rispetto ai loro compatrioti militanti
di destra e di sinistra.
Sono sia accusati di non esistere realmente
sia accreditati di aver vinto le elezioni per i principali partiti.
E recentemente, sono considerati sia la
ragione per cui il Partito Repubblicano si è comportato così male nell’era di
Donald Trump, sia la ragione per cui i Democratici dovrebbero stare attenti che
la loro coalizione vincente non crolli.
Ma
come possono esserci i “moderati” dietro tutti questi fenomeni confusi e
apparentemente contraddittori?
Si
scopre che non sono un monolite.
Invece
di pensarli come un singolo gruppo di elettori che hanno opinioni politiche che
si collocano mediamente al centro dello spettro ideologico, è utile guardare
cosa hanno scoperto gli accademici e i ricercatori studiandoli.
E questo significa, fondamentalmente, che
bisognerebbe dividere gli americani “moderati” in tre blocchi distinti:
ci
sono dei “veri moderati”, le cui opinioni si orientano costantemente attorno al
centro dello spettro politico-ideologico;
ci
sono i “moderati” che sono in gran parte “disimpegnati” dalla politica e hanno
opinioni incoerenti – a volte, un mix di opinioni estreme di entrambe le parti
che, se trasformate in valori medi, spesso danno di loro la falsa apparenza di
centrismo;
c’è,
infine, una sorta di unicorno, la persona impegnata in politica ma che allo
stesso tempo ha un mix di opinioni politiche che non la collocano in maniera
netta nello spettro ideologico o in nessuno dei principali partiti politici
statunitensi.
Comprendere
queste categorie è importante per chiunque speri di capire cosa siano gli
elettori “moderati” – ed è fondamentale per chiunque speri di conquistarli nel
2024.
Molti
osservatori concordano sul fatto che ci sono molti voti “moderati” là fuori da
convincere.
Secondo
i sondaggi sulle convinzioni ideologiche degli americani, coloro che si
definiscono “moderati” tendono a costituire una pluralità della popolazione
americana almeno dal 1992.
Nel
2022, avevano all’incirca le stesse dimensioni del segmento di americani che si
definiscono “conservatori” – dal 35% “moderato” al 36% conservatore, secondo i
sondaggi Gallup.
I cosiddetti “liberali” (i liberals, persone
che si considerano appartenenti alla sinistra progressista e sono generalmente
favorevoli a cambiamenti di vasta portata per affrontare l’ingiustizia razziale
ed espandere la rete di sicurezza sociale) nel frattempo, si attestano al 26%
degli adulti americani, anche se tale numero ha registrato una tendenza al
rialzo negli ultimi 30 anni.
Questa
ripartizione corrisponde a una dinamica delle elezioni americane:
almeno
dal 2000, gli elettori liberal sono stati in inferiorità numerica rispetto ai
conservatori, ed entrambi sono stati superati in numero dagli elettori
“moderati”.
Se le
tendenze degli ultimi decenni continueranno nel 2024, gli elettori “moderati”
giocheranno un ruolo fondamentale in quella che probabilmente sarà un’altra
elezione serrata decisa con margini ristretti.
Saranno
elettori chiave per i Democratici, che dipendono da un ampio sostegno di
elettori “moderati” per vincere la presidenza e le competizioni elettorali
chiave negli Stati teatro di accesa battaglia (i sei Stati “pendolo”).
E
richiederanno messaggi e sensibilizzazione molto diversi, a seconda del tipo di
“moderato” che sono.
I
“veri moderati.”
Un
“vero moderato” esiste vicino al centro dello spettro politico.
Questo americano è la prima persona che si
potrebbe immaginare quando si pensa a un moderato, qualcuno che ha opinioni a
sinistra della maggior parte dei Repubblicani eletti e a destra della maggior
parte dei Democratici eletti.
Questo è l’elettore “di mezzo”, probabilmente
un autodefinito indipendente oppure un Democratico o Repubblicano con deboli
inclinazioni ideologiche.
Se si
chiedesse la loro opinione sull’aumento del salario minimo, probabilmente
darebbero una risposta vicina alla cifra media tra ciò che un tipico
conservatore e un tipico liberal preferirebbero.
Ci sono molti americani che si adatterebbero a
questa descrizione.
Se si
chiede loro un’opinione su qualsiasi questione, dicono:
“Vedo
le argomentazioni di entrambe le parti e la mia politica preferita sarebbe da
qualche parte nel mezzo”.
Non
sono molti i politici che offrono queste posizioni, ma molti elettori esprimono
questo tipo di posizione.
Un
gruppo di analisti ricercatori ha effettivamente studiato la frequenza con cui
questo tipo di persone compare nei dati dei sondaggi, e ha scoperto che la
maggior parte dei “moderati” rientra in questa descrizione sia all’interno che
all’esterno dei partiti.
Sono
più aperti al compromesso rispetto ai liberal e ai conservatori e quindi hanno
anche una sorta di “indole moderata”, nel senso che potrebbero identificarsi
con un partito politico ma essere comunque ricettivi alla tesi dell’altra
parte.
Ciò li
rende anche più propensi ad essere elettori indecisi, persuadibili nelle
competizioni politiche e ricettivi alle argomentazioni specifiche avanzate da
specifici candidati.
E
questa categoria è un campo piuttosto largo:
comprende
una serie di elettori disposti a rompere con le coalizioni tradizionali, anche
disertando da Donald J. Trump o da Joe Biden.
Cattura
democratici leali, indipendenti stressati e repubblicani anti-Trump disamorati.
Molti dei cambiamenti dell’era Trump tra gli
elettori suburbani, più ricchi e più istruiti (laureati) sono alimentati da
questo tipo di moderati che sono più scettici nei confronti di un perno di
estrema destra e pro-Trump nel Partito Repubblicano. Sono anche elettori che
potrebbero disapprovare Biden in questo momento.
Il
“moderato disimpegnato.”
Questi
“moderati” si distinguono per la loro indifferenza e il disimpegno dalla
politica.
I
“moderati disimpegnati” sono il tipo di persona che semplicemente non ha forti
opinioni ideologiche o consapevolezza della politica e delle differenze
politiche tra i partiti.
Tendono ad essere il tipo di persona che non
vota, che non tiene il passo con le elezioni e che potrebbe non consumare molti
mezzi di informazione.
Nei sondaggi vengono spesso conteggiati nella
categoria degli “indecisi” o dei “non sicuri” e non sono l’obiettivo principale
delle campagne politiche.
Quando
si impegnano in politica, tende a esserci una grande differenza rispetto ai
“veri moderati”.
Mentre
questi ultimi tendono ad avere opinioni concentrate nel punto medio dello
spettro politico, questi americani disimpegnati e con poche informazioni spesso
traggono le loro opinioni dagli estremi di sinistra e di destra.
Ciò significa che, sebbene le loro opinioni
possano tendere verso una posizione centrista, dando loro l’apparenza di
moderazione, non sono necessariamente moderati su singole questioni.
Inoltre, tendono a non appartenere a nessuno
dei principali partiti politici (il che significa che potrebbero anche
definirsi “indipendenti”).
Come
scrisse “Ezra Klein” nel 2015, quando guardi le risposte individuali di questi
elettori alle domande dei sondaggi,
“trovi molte opinioni che sono ben al di fuori del
mainstream politico… Elettori che non sono così interessati alla politica e che
non sono attaccati ad un partito promuovono le idee che realmente piacciono a
loro, indipendentemente dal fatto che siano popolari o possano ottenere 60 voti
al Senato o possano essere derise dagli esperti di politica”.
Fare
una media tra una visione di estrema destra sull’immigrazione (con Trump che
afferma che gli immigrati che arrivano negli Stati Uniti – 6,3 milioni in tre
anni – “stanno avvelenando il sangue del nostro Paese” e deputati repubblicani
che ora parlano di lanciare i migranti dagli elicotteri) e una visione di
estrema sinistra sul diritto all’aborto porta questi “moderati” verso il centro
politico – ma una persona con queste posizioni non è lo stesso tipo di
“moderato” del tipo “vero moderato”.
Lo
“strano moderato.”
Un’ultima
fetta di americani “moderati” è un gruppo particolare nei partiti politici
americani.
Non si
adattano perfettamente allo spettro ideologico;
nello
spettro partitico, tendono a trovarsi al di fuori dei partiti politici.
Alcuni
accademici li chiamano “moderati idiosincratici”, ma forse “strani” è un
termine più semplice poiché descrive quanto siano difficili da leggere.
A
differenza dei “moderati disimpegnati”, i “moderati strani” sono impegnati –
consapevoli delle notizie politiche, delle politiche e dei dibattiti – ma come
i “moderati disimpegnati”, hanno un mix di opinioni.
In realtà, non prendono queste posizioni dagli
estremi ideologici, quindi tendono alla moderazione su una varietà di
questioni.
A causa dello strano mix di idee che hanno,
potrebbero non sentirsi rappresentati da nessuno dei due partiti o da una
specifica ideologia conservatrice o liberal. Includono anche i classici tipi
“socialmente liberal ma fiscalmente conservatori” che avrebbero potuto essere
più predominanti nei partiti Democratico e Repubblicano in tempi meno
polarizzati sul piano politico-ideologico.
Non
sono costantemente liberal o conservatori su tutti gli argomenti e quindi sono
aperti alla persuasione.
Mantengono
fermamente le proprie opinioni, a differenza dei “veri moderati”, ma sentono
pressioni sovrapposte quando prendono una decisione di voto nella cabina
elettorale.
A
livello di “élite”, gli esempi comprendono gli eletti democratici conservatori
della vecchia scuola e anche i repubblicani liberal potrebbero rientrare in
questa categoria, disposti a votare su politiche in modi che ora sembrerebbero
irriconoscibili ai partigiani più fedeli.
Un
caso emblematico è quello del senatore “Joe Manchin”:
un
democratico moderato che a volte si schiera con i Repubblicani e che avrebbe
voluto promuovere un terzo partito “no labels” (senza etichette).
Sono una parte in diminuzione di entrambi i
partiti politici, ma possono essere importanti elettori indecisi.
Nei
partiti esistono sempre meno di tutti questi tipi di “moderati” – e questa è la
vera sfida delle elezioni del 2024.
Che
impatto avranno i “moderati” nelle elezioni del 2024?
Come
la maggior parte delle elezioni, l’esito nel 2024 sarà probabilmente deciso da
quale partito e quale candidato sarà in grado di mantenere i propri elettori
liberal e conservatori conquistando il maggior numero possibile di “moderati”.
Secondo
le analisi dei ricercatori, sono stati i “moderati veri” e “strani” ad avere
avuto un ruolo significativo nell’altalena delle elezioni dell’ultimo decennio:
i “veri moderati” sono stati quelli che con
maggiore probabilità hanno cambiato i loro voti tra partiti nelle elezioni del
2012 e in quelle del 2016, contribuendo alla vittoria di Donald J. Trump.
Sono quelli più aperti a cambiare partito se
l’altro partito presenta un candidato particolarmente convincente.
Le
persone che hanno votato per Obama nel 2012 e per Trump nel 2016, sono persone
che probabilmente sono vicine ideologicamente al centro, e forse gli piaceva
davvero Obama, forse non gli piaceva altrettanto Hillary Clinton (che comunque
prese 2,9 milioni di voti popolari in più di Trump), e Trump ha fatto uno
sforzo per cercare di attirarli in qualche modo (a Trump bastarono 78mila voti
strategici in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin per avere la maggioranza di
delegati al Collegio Elettorale Nazionale ed essere eletto presidente).
I
“moderati strani” probabilmente costituiscono una quota minore di coloro che
cambiano voto, ma poiché non si sentono rappresentati da nessuno dei due lati
dello spettro ideologico o partitico, sono particolarmente attenti ai messaggi
specifici dei candidati e disposti a guardare oltre l’identificazione del
partito.
Si
tratta ancora di una porzione relativamente piccola dell’elettorato:
la
maggior parte delle persone tende a non cambiare partito negli anni delle
elezioni presidenziali.
Ma, ancora una volta, gli spostamenti ai
margini possono fare la differenza in contesti serrati in bilico.
E qui
entra in gioco un problema per entrambe le parti.
L’imperativo
di persuadere i “moderati veri” e “strani” va contro la tendenza dei partiti
politici americani, che negli ultimi anni si sono spostati sempre più verso la
sinistra (di orientamento socialdemocratico) e la nuova destra politica
(reazionaria, post-liberale, autoritaria, razzista, protezionista e
nazionalista), diventando allo stesso tempo più ideologicamente coerenti al
loro interno, spingendo fuori i “moderati” di ogni tipo.
I
leader di partito hanno guidato questa spinta, ma la base ha seguito l’esempio
negli ultimi due decenni, poiché i tassi di coloro che si auto-identificano
come “moderati” sono in declino in entrambi i partiti.
Le
recenti tendenze elettorali non sono troppo positive per i Repubblicani.
Hanno
regolarmente perso elettori “moderati” alle elezioni dall’ascesa di Trump nel
2016 – da 15 a 30 punti nelle elezioni del 2018, 2020 e 2022, secondo gli exit
poll.
E il tipo di conservatorismo di Trump sembra
anche essere meno attraente per i Repubblicani “moderati” nei primi due Stati
che hanno tenuto le primarie finora:
in
Iowa, ha ottenuto il sostegno di circa il 20% degli elettori moderati del GOP,
in calo rispetto al 34% che aveva ottenuto nel 2016 (l’ultima volta che ci sono
state primarie competitive del GOP).
E nel
New Hampshire ha vinto circa il 25% dei moderati, in calo rispetto al 32% del
2016.
Anche
i Democratici si trovano di fronte ad una sfida:
la
loro coalizione vincente conta su una fetta più grande di elettori “moderati”
di vario tipo che si rivolgono a loro rispetto a quelli Repubblicani.
Considerata
l’impopolarità di Biden e il continuo sentimento contrastante degli elettori
nei confronti dell’economia (che secondo i dati e gli indicatori ufficiali è in
ripresa, ma secondo i parametri socialdemocratici convenzionali, come la
densità sindacale, la generosità del welfare e i livelli di proprietà pubblica,
non è in buona forma e le tendenze recenti sono state, nella migliore delle
ipotesi, contrastanti), intensificare gli sforzi per persuadere questi elettori
sarà fondamentale per mantenere unita quell’alleanza politica – e tenere Trump
fuori dalla Casa Bianca.
Rispetto
alle elezioni del 2020, Biden sembra aver perso terreno tra gli elettori
afroamericani:
il suo
indice di approvazione tra gli adulti neri è del 42% nell’ultimo sondaggio
dell’”Associated Press-Norc Center for Public Affairs Research”, un calo
sostanziale rispetto al primo anno della sua presidenza.
La
campagna di Biden spera che i recenti forti indicatori economici rafforzeranno
il basso indice di approvazione del presidente, alimentato dalle esitazioni
degli elettori sulla sua gestione della guerra Israele-Gaza, dell’immigrazione
e di altre questioni interne.
Un
recente sondaggio AP/Norc rivela che il 50% degli adulti statunitensi pensa che
la risposta militare di Israele a Gaza sia “andata troppo oltre”, rispetto al
40% a novembre, indicando un cambiamento nell’opinione pubblica americana.
I
giovani elettori, gli arabi e musulmani americani (gruppi importanti di
elettori, tradizionalmente democratici, in uno Stato chiave come il Michigan e
nel New Jersey), gli afroamericani e anche gli “ebrei progressisti”, gruppi
chiave per la vittoria elettorale di Biden nel 2020, sono inorriditi dalla sua
gestione della guerra. Potrebbero non votare per lui il prossimo novembre10.
(Alessandro
Scassellati)
Sconfiggere
il liberal-progressismo:
i 12
insegnamenti di Orban-
Centromachiavelli.com
– (23-5-2022) - Viktor Orban – ci dice:
(Trascrizione
del discorso di Viktor Orban in occasione dell’apertura della Conservative
Political Action Conference di Budapest, il 19 maggio 2022.)
Signore
e signori, cari amici americani e conservatori di tutto il mondo, vi do il
benvenuto.
E un benvenuto speciale al mio amico “Václav
Klaus”.
Non è una sorpresa che sia l’uomo più
intellettualmente coraggioso d’Europa, perché è ricco di anni;
ma ciò
che sorprende tutti è che sia ancora il più giovane e il più fresco tra noi.
Caro Klaus, grazie per essere venuto e per essere qui con noi.
So che
tutti voi meritate un discorso migliore di questo, ma sappiamo come non si
possa nuotare o correre a tempo di record la mattina.
Vi prego di tenerlo a mente mentre ascoltate
le mie riflessioni.
Comunque, è bello avervi qui.
Il tempismo è una felice coincidenza:
un mese fa abbiamo ottenuto la quarta vittoria
elettorale consecutiva, quattro giorni fa ho formato il mio quinto governo
conservatore e cristiano e ora sono qui con voi.
È
sempre bello poter parlare tra amici, ed è particolarmente bello avere qualcosa
con cui sostenere le proprie parole;
e noi
ungheresi sentiamo giustamente di avere qualcosa con cui sostenere le nostre
parole.
Come
hanno vinto i conservatori ungheresi.
Abbiamo
fatto molta strada, amici miei.
Negli
anni Ottanta leggevamo ciò che accadeva negli Stati Uniti dai samizdat
distribuiti illegalmente nell’ex blocco orientale;
e ora
eccoci qui, con l’Ungheria che ospita il più importante raduno politico del
Partito Repubblicano, il “Grand Old Party”.
Ricordo
bene come vi invidiassimo allora:
invidiavamo la vostra cultura del dibattito
democratico, la libertà con cui organizzavate gli affari pubblici in America;
invidiavamo
il vostro Presidente Reagan per il suo carisma, la sua grinta, la sua arguzia e
le sue politiche – e, naturalmente, facevamo il tifo per lui.
Tutto
ciò che avevamo noi erano i funzionari comunisti in abito grigio e il loro
Newspeak politico, un’atmosfera soffocante e senza speranza.
Cari
amici americani: se avete visto la serie “Chernobyl”, potete avere un’idea di
ciò di cui sto parlando.
Abbiamo avuto quaranta lunghi anni di quella
roba.
E oggi
ospitiamo questo grande evento, per il quale vorrei ringraziare gli
organizzatori – ma soprattutto voi, che ci onorate della vostra presenza.
A nome di tutti gli ungheresi, ringrazio i
nostri amici americani e quelli di altri Paesi per averci onorato e per essere
venuti qui a Budapest.
Come
posso contribuire all’incontro di oggi?
Forse raccontandovi come abbiamo vinto:
come
abbiamo sconfitto prima il regime comunista;
poi come abbiamo sconfitto i progressisti;
infine,
più recentemente, come abbiamo sconfitto la “Sinistra liberal internazionale”
quando ha unito le sue forze contro l’Ungheria nelle elezioni.
Ora vi
dirò come li abbiamo sconfitti per la prima, seconda, terza, quarta e quinta
volta – e come li sconfiggeremo ancora.
Come
cantano i tifosi del “Fradi” [squadra di calcio del Ferencváros]:
“Ancora,
ancora, ancora, ancora, c’è ancora da segnare!”.
Vi
racconterò come ferventi studenti universitari sono riusciti a smantellare una
dittatura, poi a rompere l’egemonia sulle opinioni dei comunisti di ritorno e
dei liberal, e come sono riusciti a porre fine al dominio dei progressisti
nella vita pubblica.
Vi
racconterò come l’Ungheria sia diventata un bastione dei valori conservatori e
cristiani in Europa.
Invece del mio lungo discorso, naturalmente,
lo stesso lo si potrebbe raccontare in modo breve e semplice.
Abbiamo imparato dal generale Patton come la
battaglia faccia emergere tutto il meglio e rimuova tutto ciò che è basso.
Questo
vale anche per il campo di battaglia politico.
Qui,
amici miei, solo i migliori rimangono in piedi – o, in breve, la condizione
ultima per la vittoria è che dobbiamo diventare i migliori.
Si può
vincere se si è i migliori.
La
lotta contro il regime comunista.
Cominciamo
col dire che voi, politici amanti del proprio Paese, vi trovate di fronte a un
problema che noi ungheresi abbiamo già affrontato con successo.
Questo
problema – se non sbaglio, sia in America sia in Europa occidentale – è il
dominio sulla vita pubblica da parte dei liberal-progressisti.
Il problema è che essi occupano le posizioni
più importanti nelle istituzioni più importanti, che occupano le posizioni
dominanti nei media e che producono tutte le opere di indottrinamento politico
nella cultura alta come in quella di massa.
Loro –
la Sinistra progressista – ci dicono cosa sia verità e cosa no, cosa sia giusto
e cosa sbagliato. E come conservatori, il nostro destino è quello di sentirci
nella vita pubblica del nostro Paese come “Sting” si sentiva a” New York”: uno
“straniero legale”.
Questa
era la situazione anche in Ungheria.
Trent’anni
fa, anche qui la Sinistra era al potere – e c’era persino una dittatura
comunista.
L’intera
macchina dello Stato lavorava per rafforzare il potere dei comunisti.
Per
quanto possa sembrare strano, noi – e io – siamo cresciuti
in un
“mondo woke “.
Solo
che allora la teoria critica della razza si chiamava “socialismo scientifico” e
veniva insegnata all’università nello stesso modo in cui si insegna quella woke
nel vostro Paese.
Dittatura
socialista quotidiana: ecco in cosa siamo cresciuti.
Politicamente corretto, Newspeak orwelliano,
controllo statale dell’agone pubblico, espropriazione della proprietà privata e
stigmatizzazione della Destra.
Sotto
il comunismo si scherzava sul fatto se fosse possibile scherzare sotto il
comunismo.
La
barzelletta immaginava che in Unione Sovietica si tenesse un concorso di
barzellette politiche, alle seguenti condizioni:
il concorrente che si fosse classificato terzo
avrebbe vinto un viaggio tutto compreso in Siberia per due settimane, il
secondo classificato per un anno e il vincitore per la vita.
L’alleanza
liberali-postcomunisti e la riconquista conservatrice.
Se
sentite che questa battuta stia diventando sempre più significativa per voi, è
arrivato il momento di passare all’azione.
In
ogni caso, ci siamo sollevati e alla fine degli anni ’80 abbiamo deciso di dire
basta.
Volevamo
riconquistare il nostro Paese e la nostra libertà;
volevamo
riconquistare la libertà della nostra Patria.
I
comunisti non ce lo hanno lasciato fare senza reagire:
attacchi
della polizia, divieti, intercettazioni, agenti statali infiltrati, minacce e
ricatti.
Ma noi
abbiamo perseverato e abbiamo vinto.
Fuori i sovietici, abbattuti i comunisti.
Pensavamo di aver finalmente ottenuto ciò che
volevamo, ma ci sbagliavamo: sotto la dittatura liberali e conservatori avevano
stretto un patto anticomunista, ma alla prima successiva occasione i liberali
si erano schierati con i comunisti.
Si è scoperto come in realtà fossero alleati
naturali.
Se non
erro, questo tipo di alleanza peccaminosa si è vista anche negli Stati Uniti.
Summa summarum, la vita pubblica dopo le prime
elezioni libere in Ungheria era dominata dai post-comunisti, dai liberali e dai
progressisti, e la Destra ungherese si trovò spiazzata.
Quando
il mio amico Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali statunitensi nel
2016, una delle sue principali promesse riguardava la necessità di “prosciugare
la palude”.
Il
Presidente Trump ha dei meriti innegabili, ma nonostante ciò non è stato
rieletto nel 2020.
Ha
fatto la stessa fine del nostro primo governo conservatore e cristiano nel
2002: abbiamo governato in modo eccellente – dopo tanti anni posso forse
concedermi tanta immodestia – ma siamo stati trascinati dalla palude della
sinistra ungherese.
E poi,
tra il 2002 e il 2010, abbiamo assistito a ciò che generalmente accade in
queste circostanze: i socialisti hanno speso i soldi del popolo.
L’Ungheria è sprofondata nel debito,
l’economia è caduta in recessione, l’inflazione è andata fuori controllo, la
disoccupazione è aumentata e la gente non è riuscita a pagare le bollette.
Scoppiò la violenza di strada e i gruppi
paramilitari si misero in marcia.
È
passato molto tempo, ma non dimentichiamolo:
una
serie di omicidi a sfondo etnico indignò l’opinione pubblica.
La
Sinistra aveva tagliato a tal punto le spese per la polizia da renderla
incapace di mantenere anche solo una parvenza di ordine, con la legge che
proteggeva i criminali piuttosto che le vittime.
Amici
americani:
penso
abbiate visto qualcosa di simile.
Le Scritture recitano come segue: “Ogni albero
si riconosce dai suoi frutti”. Ebbene, i frutti del governo progressista parlano da soli:
rovina economica e violenza di strada.
Quando
un governo di sinistra sale al potere, la storia finisce quasi sempre nello
stesso modo.
Ma, cari amici, nel 2002 abbiamo organizzato
un movimento popolare e di resistenza intellettuale con le truppe che ci
rimanevano dopo la sconfitta elettorale.
Non
abbiamo adottato un atteggiamento difensivo e non ci siamo rassegnati alla
condizione di minoranza;
abbiamo
giocato per vincere e proclamato la “Reconquista”.
Il
piano ebbe successo. Nel 2010 tornammo.
Abbiamo
lavorato per otto anni: passo dopo passo, mattone dopo mattone, abbiamo
combattuto e costruito.
La formula è completa.
L’Ungheria
è il laboratorio in cui abbiamo testato l’antidoto al dominio dei progressisti.
Abbiamo appeso il camice al chiodo, questa
primavera l’Ungheria ha ricevuto la quarta dose e posso dire che il paziente è
completamente guarito.
Il farmaco è open-source, gratuito e comprende
dodici punti – che ora condividerò con voi.
A
beneficio dei nostri amici stranieri, preciso che il dodici è il numero
fortunato dei combattenti per la libertà ungheresi.
Le
dodici regole per il successo.
Il
primo punto della formula ungherese è giocare secondo le proprie regole.
L’unico modo per vincere è rifiutare le
soluzioni e i percorsi offerti dagli altri.
Come
diceva Churchill, avere dei nemici è un segno sicuro che si sta facendo
qualcosa di giusto.
Per
questo non dobbiamo scoraggiarci se veniamo diffamati, se veniamo bollati come
deplorevoli o se veniamo trattati all’estero come dei piantagrane.
Anzi,
sarebbe sospetto se non accadesse nulla di tutto ciò.
Ricordate
che chi gioca secondo le regole dell’avversario è destinato a perdere.
Il
secondo punto:
il
conservatorismo nazionale in politica interna.
La causa della nazione non è una questione di
ideologia e nemmeno di tradizione. La ragione per cui le chiese e le famiglie
devono essere sostenute è che sono i mattoni della nazione.
Questo significa anche che bisogna stare dalla
parte degli elettori.
Abbiamo
deciso di fermare l’immigrazione e di costruire il muro al confine meridionale
perché gli ungheresi avevano detto di non volere immigrati clandestini.
Dissero:
“Viktor, costruisci quel muro!”.
Tre mesi dopo la barriera di confine era in
piedi.
Il segreto è non pensare troppo:
la
barriera ungherese è una semplice struttura rete metallica con rilevatori di
movimento, torri di guardia e telecamere;
ma
questo è sufficiente, se la gente vuole proteggere il proprio Paese.
Il
tallone d’Achille dei progressisti è proprio quello di voler imporre i propri
sogni alla società.
Ma per noi tale pericolo è anche un’opportunità,
perché quando si tratta di questioni importanti, in realtà alla gente non
piacciono i sogni della Sinistra.
Bisogna
trovare le questioni su cui la Sinistra è completamente fuori dalla realtà e
metterle in evidenza, ma in un modo che possa essere compreso anche da chi non
è uno scienziato.
Terzo
punto:
l’interesse
nazionale in politica estera.
I
progressisti pensano sempre che la politica estera sia una battaglia di
ideologie: una battaglia tra buoni e cattivi, in cui il corso della storia sarà
deciso una volta per tutte.
Ma a
mio avviso, cari amici, negli ultimi cento anni ci sono state almeno quattro di
queste “grandi battaglie finali”.
C’è qualcosa di sbagliato in tale concezione.
La nostra risposta dovrebbe essere una chiara
e semplice antitesi ai progressisti: prima la nazione!
Prima
l’Ungheria!
Prima
l’America!
Abbiamo
bisogno di una politica estera basata sui nostri interessi.
Non è
sempre facile, perché il mondo della politica estera è spesso complicato.
Prendiamo la guerra in corso al nostro confine.
La Russia è l’aggressore e l’Ucraina la
vittima.
Condanniamo l’aggressore e aiutiamo la vittima
dell’aggressione.
Ma
allo stesso tempo sappiamo che l’Ucraina non sta difendendo l’Ungheria.
È
un’idea insensata!
L’Ungheria può essere difesa dalla NATO e
dalle forze di difesa ungheresi.
In
proporzione alla nostra popolazione, abbiamo accolto il maggior numero di
rifugiati e il popolo ungherese è felice di aiutare.
Sono
felici di aiutare, gli ungheresi, ma non vogliono pagare il prezzo della
guerra, perché non è la loro guerra e non trarrebbero alcun vantaggio da essa.
Sanno
bene che la guerra è accompagnata da sanzioni, inflazione dilagante e
stagnazione economica;
sanno che la guerra impoverisce sempre le
persone.
Non dobbiamo cedere alle voci delle sirene,
per quanto allettanti possano sembrare.
Il
nostro obiettivo è ripristinare la pace, non continuare la guerra, perché
questo è il nostro interesse nazionale.
Prima
l’Ungheria!
Quarto
punto:
dobbiamo
avere i nostri media. Possiamo mostrare le idee folli della Sinistra progressista
solo se abbiamo dei media che ci aiutano a farlo.
Le
opinioni di sinistra sembrano essere maggioritarie solo quando i media
contribuiscono ad amplificarle.
La
radice del problema è che i moderni media occidentali si allineano alle
opinioni della Sinistra.
I
giornalisti sono stati istruiti all’università da personaggi di sinistra
progressista.
E non appena una figura conservatrice appare
sui media, viene criticata, attaccata, diffamata e vilipesa.
Conosco la vecchia etica della democrazia
occidentale, secondo la quale la politica di partito e la stampa devono essere
separate.
È così
che dovrebbe essere.
Ma,
cari amici, i democratici negli Stati Uniti, per esempio, non rispettano queste
regole.
Provate
a contare quanti media sono al servizio del Partito Democratico: CNN, New York
Times, l’elenco continua – potrei continuare fino a notte fonda. Naturalmente,
anche il” Grand Old Party” ha dei media alleati, ma non possono competere con
il dominio dei media da parte dei liberali.
Il mio
amico “Tucker Carlson” si staglia saldo e solitario.
Il suo
programma ha gli ascolti più alti.
Che
cosa significa questo?
Significa
che ci dovrebbero essere programmi come il suo giorno e notte – o, come dite
voi, 24×7.
Quinto
punto:
smascherare
le intenzioni dell’avversario.
Come condizione per la vittoria, il sostegno
dei media è necessario, ma non sufficiente.
Dobbiamo
anche abbattere i tabù.
Forse non c’è bisogno di spiegarlo agli amici
americani, perché quale demolitore di tabù è più grande del Presidente Donald
Trump?
Ma si
può sempre alzare l’asticella: dobbiamo abbattere non solo i tabù di oggi, ma
anche quelli di domani.
Qui in
Ungheria smascheriamo ciò che la Sinistra sta preparando prima ancora che
agisca.
All’inizio
lo negheranno, ma il successo è ancora più dolce quando si scopre che abbiamo
sempre avuto ragione.
Per
esempio, c’è la questione della “propaganda LGBTQ” rivolta ai bambini.
Qui è
ancora una novità, ma noi l’abbiamo già distrutta.
Abbiamo
portato la questione alla luce del sole e indetto un referendum.
La stragrande maggioranza degli ungheresi ha
rifiutato questa forma di sensibilizzazione dei bambini.
Rivelando
tempestivamente ciò che la Sinistra stava preparando, li abbiamo costretti
sulla difensiva e, quando hanno attaccato la nostra iniziativa, alla fine sono
stati costretti ad ammettere la realtà del loro piano.
Permettetemi
di citare di nuovo il generale Patton:
“Un buon piano, violentemente eseguito ora, è
meglio di un piano perfetto eseguito la prossima settimana”.
Sesto
punto:
economia,
economia, economia. Sappiamo tutti che la Sinistra vuole gestire l’economia
secondo nozioni astratte.
Questa
è una trappola per la Destra. Non cadeteci mai!
Quando
siamo saliti al potere, abbiamo deciso che dovevamo perseguire solo politiche
economiche che andassero a beneficio della maggioranza degli elettori.
Qui in
Ungheria abbiamo un motto a riguardo:
“Anche chi non ha votato per noi finisce per
stare meglio”.
In
questo siamo l’opposto dei progressisti: anche chi ha votato per loro sta
peggio.
In ultima
analisi, la gente vuole posti di lavoro, non teorie economiche.
La gente vuole fare un passo avanti nella vita
e vuole per i propri figli una vita migliore rispetto a quella che ha avuto.
Se un governo di destra non è in grado di
offrire tutto questo, è destinato al fallimento.
Settimo
punto:
non
lasciarsi spingere all’estremo.
Dico questo perché teorie cospirative estreme
si manifestano di tanto in tanto a destra, così come utopie estreme si
manifestano regolarmente a sinistra.
Se
guardiamo più a fondo, vediamo che in realtà la gente non vuole né l’una né
l’altra cosa.
Ma,
cari amici, qual è la differenza tra la negazione della scienza da parte
dell’estrema destra e la negazione della biologia da parte dei movimenti LGBTQ?
La risposta è semplice: non c’è alcuna
differenza.
Dobbiamo rendere a Cesare ciò che è di Cesare,
a Dio ciò che è di Dio e alla scienza ciò che è della scienza.
Possiamo
guadagnare un’immensa popolarità sui forum di Internet promuovendo teorie
cospirative – e in effetti a volte c’è del vero in esse;
ma in
realtà ci alieneremo una gran parte dell’elettorato, ci ritroveremo ai margini
e alla fine perderemo.
Ottavo
punto:
leggere ogni giorno.
Un
libro al giorno allontana la sconfitta.
So che
sembra strano.
Non
sono un accademico, ma il fatto è che nessuna invenzione ha ancora superato il
libro come veicolo di comprensione e trasmissione delle idee.
Il
mondo sta diventando sempre più complesso e dobbiamo dedicare del tempo alla
sua comprensione.
Io, per esempio, ogni settimana dedico un
giorno intero alla lettura.
La
lettura ci aiuta anche a capire cosa pensano i nostri avversari e dove il loro
pensiero è fallace.
Se
sappiamo questo, il resto è pura tecnica.
Dobbiamo
tradurre tutto ciò nel linguaggio dell’azione quotidiana e della comunicazione
politica.
È vero
che lo spin doctor è una figura utile, ma la comprensione del problema deve
essere fatta da noi politici.
Nono
punto:
avere fede.
La
mancanza di fede è pericolosa.
Se non credete che ci sarà una resa dei conti
finale e che sarete chiamati a rispondere delle vostre azioni davanti a Dio,
penserete di poter fare tutto ciò che è in vostro potere.
Incoraggiamo quindi i futuri giovani politici
conservatori a impegnarsi nella fede. Inizialmente non la consideravo una
priorità, ma ho imparato che se dedichiamo tempo alla nostra fede, il successo
arriverà più facilmente.
Sono
stato membro del Parlamento per trentadue anni e sto iniziando il mio
diciassettesimo anno come Primo Ministro.
Ho
ascoltato le parole del profeta Isaia, che ha detto: “Se non resterete saldi
nella vostra fede, non resterete affatto in piedi”.
In politica, cari amici, questa è la legge.
Decimo
punto:
fatevi degli amici.
I
nostri avversari, i liberali progressisti e i neomarxisti, hanno un’unità
inesauribile: si coprono le spalle a vicenda.
Noi
conservatori, invece, siamo capaci di litigare tra di noi anche per la più
piccola questione.
E poi
ci stupiamo di come i nostri avversari ci mettano all’angolo.
Noi possediamo una certa raffinatezza
intellettuale e ci preoccupiamo delle sfumature intellettuali.
Ma se
vogliamo avere successo in politica, non dobbiamo mai guardare a ciò su cui non
siamo d’accordo, ma piuttosto cercare i nostri punti in comune.
Faccio
un esempio.
Il
Vaticano è uno dei nostri più importanti alleati europei.
È un
alleato in quanto custode dei valori cristiani, nel sostegno alle famiglie, e
insieme affermiamo che un padre è un uomo e una madre è una donna.
Siamo
uniti per la pace e per i rifugiati dall’Ucraina.
Ma
sulla migrazione illegale il nostro pensiero diverge.
Non
dobbiamo guardare alle questioni su cui possiamo impegnarci in dispute accese,
ma cercare modi in cui possiamo lavorare insieme.
Credetemi,
se non lo facciamo, i nostri avversari ci daranno la caccia uno a uno.
Undicesimo
punto:
costruire
comunità. Amici miei, nel corso degli anni ho imparato che non c’è successo
politico conservatore senza comunità funzionanti.
Meno
comunità ci sono e più le persone sono sole, più gli elettori vanno ai
liberali; e più comunità ci sono, più voti otteniamo noi.
È così
semplice.
Non
c’è bisogno che ve lo spieghi: gli Stati Uniti hanno i club, le società e le
comunità meglio funzionanti al mondo.
Quello
che dobbiamo capire è che un’entità politica deve comprendere queste comunità.
Infine,
il
dodicesimo punto: costruire istituzioni.
Per una politica di successo, occorrono
istituzioni e istituti.
Che siano think tank, centri educativi,
laboratori di talento, istituti di relazioni estere, organizzazioni giovanili o
altro, devono avere un aspetto politico.
Non dimentichiamo che i politici vanno e
vengono, ma le istituzioni restano con noi per generazioni.
Le
istituzioni hanno la capacità di rinnovare intellettualmente la politica.
Servono
sempre nuove idee, nuovi pensieri e nuove persone.
Se si esauriscono, noi esauriremo le munizioni
e il nostro avversario non avrà pietà nel metterci al tappeto.
La
nuova minaccia comunista che viene da occidente.
Il
mondo intero sta subendo enormi cambiamenti.
È strano ma vero che le ideologie distruttive
del fascismo e del comunismo siano nate in Occidente.
Non
avremmo mai pensato che i comunisti potessero tornare non solo dall’Est, ma
anche dall’Ovest.
Ora vediamo che i progressisti stanno minacciando
l’intera civiltà occidentale, e il vero pericolo non viene dall’esterno ma
dall’interno.
Voi,
cari amici americani, vi trovate di fronte a ciò negli Stati Uniti, mentre noi
ci troviamo di fronte allo stesso nell’Unione Europea.
Abbiamo a che fare con le medesime persone:
burocrati
senza volto, ideologicamente preparati, che siedono a Washington DC e a
Bruxelles.
Liberali
progressisti, neomarxisti inebriati dal sogno del benessere, al soldo di George
Soros, sostenitori della società aperta.
Vogliono
abolire lo stile di vita occidentale che voi e noi amiamo tanto:
quello
per cui i vostri genitori hanno combattuto durante la Seconda Guerra Mondiale e
la Guerra Fredda, e quello per cui noi abbiamo combattuto quando abbiamo
cacciato i comunisti sovietici dall’Ungheria.
Dobbiamo
riprendere la lotta, e in questa lotta possiamo avere successo solo se siamo
uniti e organizzati.
Dobbiamo riprenderci le istituzioni di
Washington e Bruxelles.
Dobbiamo
trovare amici e alleati gli uni negli altri.
Dobbiamo
coordinare il movimento delle nostre truppe, perché abbiamo di fronte una
grande sfida.
L’anno
decisivo sarà il 2024:
voi
avrete le elezioni presidenziali e congressuali e noi le elezioni del
Parlamento europeo.
Queste
due sedi definiranno i due fronti della battaglia che si combatte per la
civiltà occidentale.
Oggi
non controlliamo nessuna delle due.
Eppure abbiamo bisogno di entrambe.
Abbiamo
due anni per prepararci.
La lezione ungherese è che non esiste una
pallottola d’argento.
C’è solo il lavoro. Dobbiamo farlo.
Usciamo
e facciamolo! Grazie e buona fortuna!
(Viktor
Orban - + post - Primo Ministro dell'Ungheria, presidente del partito Fidesz.)
Donald
chi? Ovvero,
la
libertà della destra.
Blog.ilgiornale.it
– (3-5-2017) – redazione -ci dice:
Cento
giorni sono pochi per giudicare l’operato di un Presidente americano;
in
fondo sono appena il 7% del suo mandato.
Eppure
nessun inizio è stato più discusso, controverso, rinnegato, riabilitato, come
quello di Donald Trump.
Per
capire che disastro era stato Obama, non bastarono i suoi primi 4 anni;
tanto
che uno dei peggiori Presidenti Usa fu rieletto in maniera scontata.
Ancora
oggi, schiere di replicanti obamiani, in America e in Europa, trovano miliardi
di giustificazioni per assolverlo o semplicemente ignorare il suo fallimento.
Eppure
Obama ha potuto governare avendo al suo fianco l’intero sistema di potere
globale: dalla finanza ai media, da Soros a Hollywood.
Lui,
primo presidente nero della storia americana, era il Predestinato, il Messia
che il mondo e il mondialismo aspettavano.
Il
nuovo Martin Luther King tornato a riscattare i deboli e gli oppressi;
il
nuovo J.F.K. riesumato per completare il lavoro drammaticamente interrotto; il
nuovo “Mahatma Ghandi “ricomparso per trasformare la nazione più bellicosa
della storia in un circolo di pacifisti arcobaleno.
Alla
fine, Obama è stato un mediocre “Presidente liberal”, ostaggio in politica
estera di quel Partito della Guerra trasversale che l’industria militare
finanzia, tra liberal progressisti e neoconservatori e che ha contribuito ad
indebolire l’America nel mondo e a renderla meno sicura all’interno.
Trump
invece è arrivato alla Casa Bianca inaspettato e non desiderato.
Figlio illegittimo di un’America che si riempie la
bocca di parole come Democrazia ma la disconosce quando partorisce fuori dalla
sua volontà e dai suoi progetti.
Odiato
dallo Stato Profondo, odiato dall’intero sistema dei media, odiato da
Hollywood, odiato dal suo stesso partito, la forza di Trump è stata il suo
popolo e il suo porsi “anti-sistema”.
Ma
anche da un manipolo di intellettuali eretici, opinion-makers scandalosi,
pensatori estranei all’establishment accademico e mediatico;
ed ora
sono proprio loro, liberi dai vincoli di potere che soffocano il loro colleghi
di sinistra, a denunciare le maggiori perplessità sui suoi primi 100 giorni.
TRUMP,
CRACK E TRANSGENDER.
“Pat
Buchanan”, già consigliere di Nixon e “Capo delle Comunicazioni di Reagan”, è
uno dei decani tra gli ideologi del conservatorismo americano.
Da
sempre ostile alle politiche d’interventismo Usa, ha criticato l’escalation
contro la Corea imposta da Trump:
“fino
a quando dovrà essere responsabilità degli Usa contenere dittatori
militaristi?”;
perché
dobbiamo “farlo noi quando due suoi vicini – Russia e Cina – sono potenze
nucleari e Corea del Sud e Giappone hanno forze convenzionali di gran lunga
superiori a Kim?”
E ha aggiunto “in 100 giorni, la promessa di
una Presidenza Trump che avrebbe guardato ai propri interessi nazionali e
lasciato il mondo a risolvere i suoi di problemi appare un miraggio.
Saranno
più guerre a fare l’America di nuovo grande?
“Ann
Coulter” è una delle più famose opinioniste di destra americane;
polemista
agguerrita e controcorrente, è stata una delle poche a prevedere la vittoria di
Trump e ad attaccare i Repubblicani ostili alla sua presidenza.
Ma
dopo il bombardamento in Siria la sua delusione è cocente:
“Assad
è uno dei dittatori meno crudeli del Medio Oriente (…) non è un delinquente
criminale come Saddam, protegge i cristiani e combatte l’Isis, ci ha offerto
intelligence contro Al Qaeda dopo l’11 Settembre;
non
usa polizia islamica per perseguitare donne o gettare i gay dai palazzi (come
fanno i nostri amati alleati dell’Arabia Saudita)”.
Perché
quindi attaccarlo?
Perché
per i Presidenti Usa “la guerra è come il crack”, e il bombardamento di Trump
sulla Siria “è immorale, viola ogni promessa elettorale fatta e potrebbe
affondare la sua Presidenza”.
“Laura
Igraham” è invece una delle più importanti voci radiofoniche americane;
giornalista apprezzata e convinta conservatrice, ha lasciato a Twitter il suo
disagio dopo le bombe in Siria: “missili in volo. Rubio felice. Mc Cain in
estasi. Hillary a bordo. Un cambiamento di politica completo in 48 ore“.
“Fred
Reed” è uno dei più dissacranti personaggi della galassia anarco-libertaria
americana:
quella destra minoritaria nel Gop ma forte e
radicata nell’America profonda dei cowboy e degli yeomen;
ex
militare, ex inviato di guerra, lancia i suoi strali scandalosi contro il
“politcally correct della società Usa e dei fighetti radical-chic”. Non è mai
stato un trumpiano ma lo ha votato, perché “dovevamo scegliere tra un fetore e
un pazzo.
Abbiamo
scelto il pazzo”.
Ma
denuncia: dopo il primo Presidente Nero, “abbiamo il primo Presidente
Transgender: perché Trump è diventato Hillary”.
Milo-in-Make-America-Great-Again-hat-1.
Milo
Yiannopoulos è balzato alla cronaca subito dopo l’elezione di Trump, quando per
impedirgli di parlare ad un convegno all’”Università di Berkely”, la sinistra scatenò violenze di
piazza inaudite aggredendo e picchiando studenti di destra (con scene che ovviamente i media
hanno nascosto).
Milo un libertario di destra, gay, ma
cattolico tradizionalista e con posizioni radicalmente anti-islamiche;
collabora
con Bannon su Breitbart.com ma ha preso le distanze dal bombardamento in Siria:
“non è per questo che la gente ha votato Trump”.
LA
LIBERTÀ DELLA DESTRA.
Insomma,
anche dopo appena 100 giorni, gli intellettuali di destra americani non fanno
sconti al loro Presidente.
Ed emerge con chiarezza la loro libertà
rispetto ai “colleghi” di sinistra.
Il
motivo è chiaro:
l’intellettuale di destra, nella stragrande
maggioranza dei casi, non ha rendite di posizione da dover difendere, non
appartiene al potere mediatico o accademico, né dipende da strutture di partito
o dall’establishment finanziario.
Non
campa con i soldi di Soros o di Hollywood; non è organico a nulla se non alla
propria coscienza.
Essere
intellettuali a sinistra è un obbligo dettato dallo Spirito del Tempo;
esserlo
a destra, una follia dello Spirito che sta oltre il Tempo.
La
libertà della cultura di destra, minoritaria nei luoghi di potere, ma
maggioritaria nella società reale, è forse la più preziosa risorsa che Trump
possiede;
anche quando, da questa cultura, viene
criticato.
Se solo fosse in grado di capirlo.
(Giampaolo
Rossi).
I
miliardari e l’ambiente:
l’ipocrisia
dell’élite che si
atteggia
a rivoluzionaria.
It.insideover.com
- Andrea Muratore – (9 NOVEMBRE 2021) – ci dice:
Sono
tutti in parata, uno dopo l’altro, al Cop26 e non solo. I miliardari e gli
esponenti delle grandi multinazionali finanziarie e del tech parlano un giorno
dopo l’altro di sostenibilità, ambientalismo, transizione.
Rimbottano
i governi, si presuppongono filantropi e offrono contributi per “salvare il
mondo”, a seconda che si tratti di promuovere lo sviluppo dell’Africa,
combattere le esternalità negative come l’aumento dell’instabilità alimentare.
Miliardari
rivoluzionari?
Da
élite tra le élite parlano da icone rivoluzionarie.
E i
media e i politici pendono dalle loro labbra.
Ma
quella dei Paperoni globali in sfilata a Glasgow, pronti a parlare
dell’emergenza ambientale e delle sue conseguenze, è una retorica che non
nasconde componenti di ipocrisia.
I
miliardari fattisi avanguardia della rivoluzione verde inseguono l’ideologia
pop dominante del momento;
vengono
meno a qualsiasi discorso realistico sulla necessità di pragmatismo strategico
e operativo in campo di transizione energetica per farsi versioni di Greta
Thunberg più scaltre e invecchiate, senza nemmeno la stessa sincera carica
emotiva della giovane attivista svedese;
da inquinatori più importanti del mondo,
parlano sostanzialmente dei problemi che hanno contribuito a causare
atteggiandosi a loro risolutori.
Jeff
Bezos, fondatore del colosso americano Amazon e uomo fra i più ricchi del
mondo, nella giornata del 2 novembre ha promesso nell’ambito della conferenza
Onu Cop26 di Glasgow una donazione da 2 miliardi di dollari per ridare vita a
terreni “degradati” dal cambiamento climatico in Africa.
Si fa
patrono della sostenibilità a tutti i costi ma” Oxfam”, in uno studio prodotto
insieme all’”Institute for European Environmental Policy” allo “Stockholm
Environment Institute”, denuncia:
con la
sua nuova attività di super-lusso, i viaggi spaziali fa sì che ogni passeggero
spaziale, per restare appena 11 minuti in orbita, contribuisca all’emissione di
75 tonnellate di anidride carbonica.
Più di
quanta ne emette in tutta la sua vita una persona scelta tra il miliardo di
uomini e donne più povero del pianeta.
Una
sostanziale ipocrisia.
“Viviamo
in un mondo in cui una ristrettissima élite sembra avere il permesso di
inquinare senza limiti, alimentando condizioni ed eventi metereologici sempre
più estremi e imprevedibili”,
ha
dichiarato “Nafkote Dabi”, responsabile delle “politiche climatiche di Oxfam”.
Oxfam
nel suo studio riporta che l’1% più ricco della popolazione ha un impatto
sull’ambiente trenta volte maggiore di quello che andrebbe mantenuto per
rendere realistico un target di emissioni entro i limiti degli Accordi di
Parigi, e per la Dabi “le emissioni del 10% più ricco, da sole, potrebbero
spingerci verso un punto di non ritorno.
E a pagarne il prezzo più alto, ancora una
volta, saranno le persone più povere e vulnerabili del pianeta”, per i quali a
parole si dichiara pronto a battersi Bezos.
Che su questo punto di vista è un tutt’uno con
il rivale per il titolo di uomo più ricco del mondo, “Elon Musk”.
Imprenditore
che difende l’idea della transizione incentrata sulle auto elettriche e che
dopo l’ammissione di Bezos su Twitter ha scritto di essere disposto a mettere
sul piatto sei miliardi di dollari per mettere fine alla fame del mondo.
Nonostante
l’impegno finanziario minore in questa fase, né Bezos né Musk riescono però a
toccare i picchi di attenzione politica toccati da Bill Gates, che al Cop26 ha
dichiarato, sobriamente, di avere un “messaggio per il mondo” sulla necessità
di investire sulle tecnologie verdi.
Diventando
partner dell’ “Eu Catalyst Partnership”, programma da un miliardo di dollari in
partnership con la Commissione europea per incoraggiare gli investimenti in
tecnologie per il clima.
Gates,
Bezos e Musk sono accomunati da un’idea chiara:
la
superiorità ineludibile del mercato sugli Stati e sulle società, la volontà
mecenatica utilizzata come strumento di consenso politico, la filantropia come
strumento di sedazione di qualsiasi dibattito sul cambiamento strutturale degli
interi contesti.
“Oggi
si sta vivendo una seconda età dell’oro della filantropia”, spiega “Nicoletta
Dentico” nel saggio Ricchi e buoni?
“che nasce esattamente nel momento in cui è
fallita la richiesta di globalizzazione dei diritti richiesta dai movimenti
altermondialisti, dove attori arricchitisi grazie alla deregolamentazione dei
mercati hanno iniziato a giocare un ruolo centrale nelle grandi sfide globali
per i diritti, per l’ambiente, per la salute”.
La
filantropia serve sostanzialmente a cancellare ogni dibattito sul fatto che
essa consiste in fin dei conti nel tentativo (legittimissimo dal punto di vista
dei suoi autori) di quella che Oltremare definisce “una classe di tycoon,
vincitori sulla scena della globalizzazione economica, che colgono l’occasione
per dipingersi come salvatori globali.
Il
capitalismo della filantropia.
Si
ripropone sull’ambiente il problema di fondo della “filantropia capitalista”,
criticata in passato da “Peter Buffett”, figlio del noto investitore “Warren
Buffett”, a lungo ai primi posti tra gli uomini più ricchi del mondo.
Come
ha scritto “Peter Buffett” in un’analisi realizzata per il “New York Times”
scritto nel 2013,
“la
filantropia sta diventando un business enorme (con 9,4 milioni di occupati che
distribuiscono 316 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti), ma le
disuguaglianze globali continuano a crescere a spirale, fuori controllo e altre
vite e comunità vengono distrutte dal sistema che crea immense quantità di
ricchezza per i pochi”, dominato proprio da coloro che al termine del processo
promuovono questa modesta redistribuzione.
Attraverso
le donazioni milionarie, i “filantropi” assumono un peso politico sempre
maggiore, si aprono la strada a nuovi mercati, e si sostituiscono agli Stati,
mettendo di fatto un sigillo a ogni prospettiva di evoluzione sistemica in
forma complessa.
In
altre parole, come combattere lo smodato dominio della finanza sull’economia
reale in un contesto in cui i suoi vincitori sono in prima fila a mostrare la
molteplicità degli usi dei dividendi ottenuti?
Come
discutere di disuguaglianze, lotta alla povertà e progetti di lungo periodo se
si dà il via libera alla prassi che alla programmazione preferisce gli atti
unilaterali di un singolo Paperone?
Come rimettere l’uomo al centro nella partita
per lo sviluppo sostenibile, l’ambiente, la crescita se essa avviene nel quadro
di una cornice nota da tempo?
A
queste domande è difficile dare risposta.
Ma se
questo è a prescindere un problema, sul clima si arriva al parossismo.
Alzi la mano chi ha mai visto una rivoluzione
guidata dalle élite andare a buon fine.
La
“superclasse” vincitrice della crisi finanziaria, della pandemia, delle
politiche della globalizzazione ora si fa guida moralizzatrice e piange lacrime
verdi, in un’identificazione della prima causa del problema ambientale
(l’iper-accumulazione capitalista) nella sua presunta soluzione.
Un cambio di paradigma tale da rendere
potenzialmente fallace qualsiasi discorso sulla possibilità di un reale
processo di discontinuità sullo sviluppo sostenibile negli anni a venire.
George
Soros & la filantropia
nera dell’élite
globalista.
Blog123.it - Redazione – Marco - (20 Giugno 2023)
George
Soros.
La
figura di George Soros ha destato molta attenzione e controversia negli ultimi
anni. Miliardario e filantropo, Soros è conosciuto per la sua fondazione Open
Society e per il suo impegno nel promuovere la democrazia e i diritti umani in
tutto il mondo. Tuttavia, la sua influenza politica e le sue azioni sono state
oggetto di dibattito e critiche da parte di molti.
La
figura di George Soros.
George
Soros è un investitore miliardario e filantropo di origini ungheresi. Nato a
Budapest nel 1930, Soros ha fondato il suo hedge fund, il Quantum Fund, negli
anni ’70, che lo ha reso una delle persone più ricche al mondo. Ha acquisito
notorietà per le sue attività di speculazione finanziaria e per aver scommesso
contro la sterlina britannica nel 1992, guadagnando circa un miliardo di
dollari in un solo giorno.
La
filantropia di George Soros.
Una
delle principali attività di George Soros è la sua fondazione Open Society.
Fondata nel 1979, la fondazione si impegna per promuovere la democrazia, i
diritti umani e la giustizia sociale in tutto il mondo. Attraverso la sua rete
di organizzazioni e iniziative, la fondazione sostiene progetti in vari
settori, tra cui la salute pubblica, l’istruzione, i diritti delle minoranze e
la lotta contro la corruzione.
1. La
fondazione Open Society.
La
fondazione Open Society di Soros è attiva in più di 100 paesi e svolge un ruolo
significativo nel finanziamento di organizzazioni e movimenti sociali. Il suo
obiettivo principale è quello di promuovere la democrazia e di sostenere la
società civile, fornendo fondi e risorse a organizzazioni non governative,
università e attivisti dei diritti umani.
2.
L’influenza politica di George Soros.
A
causa della sua ricchezza e delle sue attività filantropiche, George Soros ha
guadagnato una certa influenza politica. Ha sostenuto finanziariamente numerosi
candidati politici e movimenti progressisti in diversi paesi. La sua influenza
politica è stata oggetto di critiche e teorie del complotto, che sostengono che
egli stia cercando di manipolare gli affari politici e sovrani di vari paesi.
3.
Critiche alla filantropia di Soros.
Nonostante
i suoi sforzi nel campo della filantropia, George Soros ha affrontato molte
critiche. Alcuni sostengono che le sue donazioni abbiano un’influenza indebita
sulle politiche dei paesi beneficiari e che miri a promuovere una visione del
mondo che corrisponde ai suoi interessi personali. Inoltre, le sue attività
filantropiche sono state oggetto di teorie del complotto e di disinformazione.
L’élite
globalista e le teorie del complotto.
1. Il
concetto di élite globalista.
Il
concetto di élite globalista si riferisce a un gruppo di persone influenti che
operano a livello globale per promuovere una visione del mondo basata sulla
cooperazione internazionale e sullo sviluppo globale. Questo concetto è stato
spesso utilizzato nelle teorie del complotto per descrivere un’entità segreta
che controlla le istituzioni internazionali e influenza gli affari mondiali.
2.
Teorie del complotto legate a George Soros.
George
Soros è diventato un capro espiatorio per molti teorici del complotto. È stato oggetto di teorie che
sostengono che egli sia parte di una “filantropia nera” dell’élite globalista
che cerca di controllare il mondo e di promuovere una “nuova ordine mondiale”. Queste teorie sono spesso prive di
fondamento e basate su pregiudizi e disinformazione.
La
controversia e il dibattito.
1.
Soros come boogeyman della destra.
George
Soros è diventato un simbolo di paura per la destra politica in molti paesi. È stato dipinto come un nemico della
sovranità nazionale e come un manipolatore delle politiche globali. Questa narrazione è spesso
utilizzata per alimentare sentimenti di paura e disprezzo verso di lui e le sue
attività.
2. Il
sostegno a movimenti progressisti e pro-democrazia.
George
Soros ha sostenuto finanziariamente movimenti progressisti e pro-democrazia in
tutto il mondo. Ha sostenuto movimenti per i diritti civili, la libertà di stampa e la
giustizia sociale. Questo sostegno ha spesso attirato critiche da parte di coloro che si
oppongono a tali ideali.
3. Le
interferenze negli affari sovrani di altri paesi.
Alcune
accuse mosse a George Soros riguardano le sue interferenze negli affari sovrani
di altri paesi. Sono stati sollevati dubbi sul suo coinvolgimento in rivoluzioni colorate
e proteste, suggerendo che egli cerchi di influenzare il destino di nazioni e
governi a suo vantaggio.
Conclusioni
In
conclusione, la figura di George Soros e la sua filantropia sono oggetto di
dibattito e controversia. Mentre alcuni lo vedono come un benefattore impegnato per
la democrazia e i diritti umani, altri lo considerano un pericoloso
manipolatore politico. È importante valutare criticamente le informazioni e le
teorie del complotto che circondano la sua figura, ricordando che ogni
posizione ha le sue ragioni e che la verità spesso risiede in una zona grigia.
FAQ.
1.
Qual è l’obiettivo principale della fondazione Open Society di George Soros?
L’obiettivo
principale della fondazione Open Society di George Soros è quello di promuovere
la democrazia, i diritti umani e la giustizia sociale in tutto il mondo. La fondazione sostiene progetti in
vari settori, tra cui la salute pubblica, l’istruzione e la lotta contro la
corruzione.
2.
Quali sono le principali critiche mosse alla filantropia di George Soros?
Le
principali critiche mosse alla filantropia di George Soros riguardano l’influenza politica che egli
potrebbe esercitare attraverso le sue donazioni e il suo sostegno a movimenti
progressisti.
Alcuni
sostengono che le sue azioni mirino a promuovere una visione del mondo che
corrisponde ai suoi interessi personali.
3.
Cosa sono le teorie del complotto legate a George Soros?
Le
teorie del complotto legate a George Soros sostengono che egli faccia parte di
un’élite globalista che cerca di controllare il mondo e di promuovere una
“nuova ordine mondiale”. Queste teorie sono spesso prive di fondamento e basate su
pregiudizi e disinformazione.
4.
Qual è il concetto di élite globalista?
Il
concetto di élite globalista si riferisce a un gruppo di persone influenti che
operano a livello globale per promuovere una visione del mondo basata sulla
cooperazione internazionale e sullo sviluppo globale. Questo concetto è stato spesso
utilizzato nelle teorie del complotto per descrivere un’entità segreta che
controlla le istituzioni internazionali.
5.
Quali sono le accuse mosse a George Soros riguardo alle interferenze negli
affari sovrani di altri paesi?
Alcune
accuse mosse a George Soros riguardano il suo presunto coinvolgimento in
rivoluzioni colorate e proteste in altri paesi. Si sostiene che egli cerchi di
influenzare il destino di nazioni e governi a suo vantaggio. Tuttavia, queste accuse sono spesso
basate su teorie del complotto e mancano di prove concrete.
Ogni
escalation si
avvicina a
Washington
e alla sconfitta in Ucraina.
Unz.com - MIKE WHITNEY – (4 GIUGNO 2024) - ci
dice:
C'è
una grande differenza tra "non vincere" e "perdere" una
guerra.
Nel
caso dell'Ucraina, "non vincere" significa che il presidente Zelensky
e i suoi gestori a Washington scelgono di adottare una soluzione negoziata che
consentirebbe alla Russia di mantenere il territorio conquistato durante la
guerra, affrontando al contempo le modeste richieste di sicurezza di Mosca.
(Nota: l'Ucraina deve respingere qualsiasi intenzione
di aderire alla NATO)
D'altra
parte, "perdere" la guerra significa che gli Stati Uniti e la NATO
continuano sulla stessa strada che stanno facendo oggi – pompare armi letali,
addestratori e sistemi missilistici a lungo raggio in Ucraina – sperando che
l'offensiva russa si indebolisca progressivamente in modo che l'Ucraina possa
prevalere sul campo di battaglia.
Questo
percorso alternativo – che equivale a un "pio desiderio" – è il
percorso per "perdere" la guerra.
A
differenza dello scenario del "non vincere" la guerra,
"perdere" la guerra avrà un effetto catastrofico sugli Stati Uniti e
sul loro futuro.
Significherebbe
che Washington non è stata in grado di impedire un'incursione militare russa in
Europa, che è la principale ragion d'essere della NATO.
Metterebbe
in discussione l'idea che gli Stati Uniti siano in grado di agire come garanti
della sicurezza regionale, che è il ruolo di cui gli Stati Uniti hanno goduto
dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
La
percezione di una sconfitta degli Stati Uniti per mano della Russia innescherebbe inevitabilmente una
rivalutazione delle attuali relazioni di sicurezza che porterebbe alla
dissoluzione della NATO e, molto probabilmente, anche dell'UE.
In
poche parole, perdere la guerra sarebbe un disastro.
Ecco come il colonnello “Daniel Davis” lo ha
riassunto proprio la scorsa settimana:
"Non possiamo lasciare che la Russia
vinca".
L'ho
sentito durante tutti gli oltre 2 anni di guerra.
Ma
ecco cosa sto dicendo:
se
continuate su questa strada, ignorando tutte le realtà di cui continuiamo a
parlare, non solo la Russia vincerà, ma perderemo.
E vi assicuro che se pensavate che fosse
sbagliato "lasciare che Putin vincesse", il che significa avere un
accordo negoziato in cui Putin finisce per avere un territorio con cui non ha
iniziato la guerra...
Ma se
dici questo – perché non voglio che accada, continuerò a combattere – significa
che pensi di poter vincere.
Ma se
non si riesce a vincere, allora il risultato probabile è che si perde ancora di
più, e questo è ciò che danneggerà davvero la nostra credibilità perché,
immaginate se l'intera forza della NATO si dimostrasse incapace di impedire
alla Russia di vincere?
Ora la
nostra credibilità è danneggiata molto peggio che avere un accordo negoziato.
(Colonnello Daniel Davis, You Tube).
Quindi,
anche se "non vincere" non è il risultato perfetto, è di gran lunga
superiore a "perdere", il che minerebbe gravemente la credibilità
dell'Alleanza, eroderebbe notevolmente il potere di Washington in Europa e
costringerebbe gli Stati Uniti a riconsiderare i propri piani per proiettare il
potere in Asia centrale. (pivot verso l'Asia).
In breve, una sconfitta degli Stati Uniti da
parte della Russia in Ucraina costituirebbe un duro colpo per l'"ordine
basato sulle regole" e la conclusione del secolo americano.
Quindi,
c'è molto in gioco per gli Stati Uniti.
Sfortunatamente,
non c'è un vero dibattito nei circoli di potere dell'élite sul modo migliore di
procedere.
E
questo perché la decisione è già stata presa, e quella decisione si avvicina
molto alle opinioni massimaliste articolate in un articolo al” Consiglio
Atlantico” intitolato "NATO a 75 anni:
il futuro dell'Alleanza sta nella vittoria
dell'Ucraina contro la Russia"
Il 4
aprile la NATO celebrerà il suo settantacinquesimo anniversario come l'alleanza
militare di maggior successo della storia.
Tuttavia,
il suo futuro come credibile deterrente contro l'aggressione risiede ora nel
successo o nel fallimento dell'ingiusta e brutale invasione dell'Ucraina da
parte della Russia...
I
leader alleati hanno inequivocabilmente legato la sicurezza della NATO a questa
guerra.
I vertici della NATO hanno ripetutamente
condannato l'invasione e chiesto alla Russia "di ritirare completamente e
incondizionatamente tutte le sue forze e le sue attrezzature dal territorio
dell'Ucraina".
E la
retorica è aumentata.
Il presidente francese Emmanuel Macron ha
recentemente descritto la guerra come "esistenziale" per l'Europa.
"Se la Russia vincesse questa guerra, la credibilità dell'Europa sarebbe
ridotta a zero", ha detto Macron...
Se si
vuole che il prossimo vertice di Washington ispiri una continua fiducia nella
credibilità della NATO, e quindi nel suo futuro, allora l' Alleanza deve agire
per porre l'Ucraina sulla chiara strada verso la vittoria...
I
leader alleati devono sostenere inequivocabilmente gli obiettivi di guerra
dell'Ucraina, vale a dire la totale ricostituzione territoriale fino ai confini
del 1991.
Qualunque cosa al di fuori di questo è un segnale
deludente per l'Ucraina e un incoraggiamento a Putin a sostenere la sua
invasione.
La
NATO a 75 anni: il futuro dell'Alleanza risiede nella vittoria dell'Ucraina
contro la Russia.( Atlanticcouncil.org)
Ripeto:
i leader alleati devono sostenere inequivocabilmente gli obiettivi di guerra
dell'Ucraina, vale a dire la totale ricostituzione territoriale fino ai confini
della nazione del 1991.
Qualunque
cosa al di fuori di questo è un segnale deludente per l'Ucraina e un
incoraggiamento a Putin a sostenere la sua invasione.
L'amministrazione
Biden e le sue controparti europee non sono riuscite ad articolare il loro
finale di questa guerra.
A tre
anni dall'inizio del conflitto, la pianificazione occidentale continua ad
essere strategicamente arretrata:
aiutare
Kiev è diventato un fine in sé, separato da una strategia coerente per porre
fine alla guerra.
Ma la
"teoria della vittoria" presentata da “Zagorodnyuk” e “Cohen” per
sostituire il malessere strategico in cui si trova l'Occidente è,
sorprendentemente, ancora più pericolosa e mal concepita dello status quo.
Gli autori chiedono alla Casa Bianca di
sostenere a pieno titolo gli obiettivi di guerra di Kiev:
vale a dire, espellere tutte le forze russe
dai confini dell'Ucraina del 1991, compresa la Crimea, sottoporre i funzionari
russi ai tribunali per crimini di guerra, estorcere risarcimenti a Mosca e
fornire all'Ucraina "disposizioni di sicurezza a lungo termine".
In altre parole, l'Occidente deve impegnarsi a
raggiungere la totale e incondizionata sconfitta della Russia sul campo di
battaglia.
Come
può l'Ucraina, con il suo esercito malconcio, la demografia al collasso e
un'economia interamente dipendente dalle infusioni di denaro occidentale,
riuscire a portare a termine questo nobile compito?
Facendo
più o meno la stessa cosa, ma su scala più ampia.
La
nuova teoria della vittoria ucraina è sempre la stessa.
Il
punto che stiamo cercando di sottolineare è che questo tipo di pensiero
delirante è virtualmente universale tra le élite della politica estera degli
Stati Uniti, nessuna delle quali è preparata ad accettare la realtà
fondamentale sul terreno.
Di
conseguenza, non c'è alcuna possibilità che l'amministrazione Biden apporti una
correzione di rotta o faccia alcun tentativo per prevenire uno scontro diretto
tra i due avversari dotati di armi nucleari, la NATO e la Russia.
Quindi,
come affronterebbe una persona ragionevole l'attuale conflitto in Ucraina?
Cercherebbe
un modo per farla finita il prima possibile, infliggendo il minor danno
possibile alla parte perdente.
Ecco
cosa ha detto il professore “Mark Episkopos” di “Marymount nello stesso
articolo:
I
leader occidentali sono in ritardo nell'articolare una teoria coerente della
vittoria, una teoria che affronti i compromessi e i limiti che Kiev e i suoi
sostenitori devono affrontare, piuttosto che spazzarli via nel perseguimento di
obiettivi massimalisti sul campo di battaglia che sono sempre più distaccati
dalle realtà sul terreno.
In
conclusione:
è
possibile raggiungere un accordo che minimizzi il danno complessivo per Stati
Uniti e Ucraina, ma spetta ai diplomatici statunitensi e alle élite della
politica estera identificare aree di terreno comune in modo da poter
raggiungere un accordo che eviterà una catastrofe ancora più grande.
Il
problema con la raccomandazione del professor “Episkopos” è che si tratta di un
suggerimento immediatamente ragionevole, il che significa che verrà respinto su
due piedi dai falchi che stabiliscono la politica.
Anche
adesso, i potenti degli Stati Uniti sono certi che la guerra può essere vinta
semplicemente gettando al vento la cautela e applicando una forza militare più
cruda.
Questo
dovrebbe bastare. (pensano)
Questo
è il tipo di ragionamento errato che guida la macchina da guerra americana.
Le
élite politiche credono onestamente che se abbracciano pienamente una ridicola
banalità come "Non possiamo perdere", in qualche modo la realtà della
superiore potenza di fuoco, manodopera, supporto logistico e capacità
industriale russa svanirà nel nulla e la nazione "eccezionale"
prevarrà di nuovo.
Ma
questo non accadrà.
Va
bene.
Allora, cosa succederà?
Per
questo, ci rivolgiamo all'analista militare “Will Schryver” e un suo post
recente su Twitter:
Ecco...
deve essere chiaro che gli Stati Uniti/NATO non potrebbero assemblare,
equipaggiare, inviare e sostenere nemmeno una dozzina di brigate di
combattimento competenti per impegnare i russi in Ucraina.
Vi
rendete conto.
"Massacrato
senza pietà"? Non sembra molto promettente.
Ciononostante,
la Francia ha già annunciato che invierà addestratori militari in Ucraina, e
altri seguiranno sicuramente.
Allo
stesso tempo, armi più letali, in particolare missili a lungo raggio e F-16,
sono già in viaggio e probabilmente saranno utilizzati nel prossimo futuro.
Ma
avrà importanza?
La fornitura di nuove armi e truppe da
combattimento cambierà la tendenza e impedirà il collasso dell'esercito
ucraino?
Ecco
di nuovo” Schryver”.
Perché
i russi dovrebbero opporsi se gli Stati Uniti/NATO inviano più delle loro
scarse scorte di missili balistici a corto raggio e da crociera a lungo raggio?
Il
tasso di successo dei missili “ATACMS” e “Storm Shadow” è stato spaventoso e
diminuisce costantemente con il passare del tempo.
Sono
strategicamente privi di significato.
E la
capacità di rifornimento è effettivamente pari a zero!
Perché
i russi dovrebbero opporsi se gli Stati Uniti/NATO inviano uno squadrone – o
anche cinque – di antiquati F-16 in Ucraina?
Sì,
certo, sarebbero pilotati da "volontari" della NATO, e potrebbero
anche ottenere una manciata di "successi" sovrastimati e fugaci
all'inizio.
Ma se effettivamente tentassero di organizzare
serie sortite sul campo di battaglia ucraino, i vecchi F-16 con logistica e
supporto inadeguati avrebbero una durata di vita contata in poche ORE.
(Il
sanguinamento della bestia, “Will Schryver”, Twitter.)
“Schryver”
ha ragione?
Questi
potenziali attacchi missilistici a lungo raggio su obiettivi all'interno della
Russia saranno semplicemente attacchi pungenti che Putin ignorerà mentre le sue
truppe continueranno a schiacciare le forze ucraine lungo la linea di contatto
di 800 miglia?
E
Putin dovrebbe accogliere con favore l'introduzione di "truppe di
terra" USA/NATO in Ucraina per affrontare l'esercito russo?
Ciò porterà effettivamente la guerra a una
fine più rapida?
Ecco “Schryver”
ancora una volta:
Al
ritmo con cui sta andando tutta questa debacle dell'Ucraina, essenzialmente
tutta la potenza militare con sede in Europa... sarà costretta a essere
"inefficace nel combattimento" per almeno un decennio, e
probabilmente di più.
Se fossi i russi, considererei quell'obiettivo
come il “summum bonum” ("Il bene supremo") da raggiungere come
risultato di questa guerra, e sarei restio a interrompere i “Signori
dell'Impero” mentre sono in procinto di consegnarlo a me su un piatto
d'argento....
Quindi,
se fossi Gerasimov, direi: "Portateli avanti! Il sanguinamento della
bestia” (Will
Schryver, Twitter).
Il
furore per l'uso dei missili a lungo raggio forniti dalla NATO (e il
dispiegamento di F-16 e addestratori francesi) non fa altro che distogliere
l'attenzione dal fatto inevitabile che la NATO sarà sconfitta dalle Forze
Armate russe se queste entreranno in guerra.
Quindi,
un uomo saggio cercherebbe una soluzione negoziata ora, prima che le cose
sfuggano di mano.
Ma non
è questo che stanno facendo i nostri leader, anzi, stanno facendo esattamente
il contrario e intensificano la situazione ad ogni passo.
Quindi,
esaminiamo i fatti un po' più a fondo.
Dai
un'occhiata a questa analisi riassuntiva dei professionisti di “War on the
Rocks”:
Quando
due settimane fa, in una testimonianza davanti alla “Commissione per i Servizi
Armati del Senato”, gli è stato chiesto se l'esercito fosse
"superato" da qualche avversario, il capo di stato maggiore
dell'esercito degli Stati Uniti, il generale “Mark Milley”, ha detto:
"Sì...
quelli in Europa, in realtà in Russia. Non ci piace, non lo vogliamo, ma sì,
tecnicamente siamo in inferiorità numerica, anche di armi sul terreno".
Considerata
l'aggressione della Russia in Ucraina, questa è una testimonianza che fa
riflettere.
Ma è
accurato?
Sfortunatamente sì: quasi due anni di
approfonditi wargame e analisi mostrano che se la Russia dovesse condurre un
attacco a breve termine contro gli Stati baltici, le forze di Mosca potrebbero
arrivare alla periferia della capitale estone di Tallinn e della capitale
lettone di Riga in 36 o in 60 ore.
In uno scenario del genere, gli Stati Uniti e
i loro alleati non solo si troverebbero in inferiorità numerica e in
inferiorità numerica di armi.
Senza
armi?
(I
russi) hanno armature, armi e sensori molto più avanzati, e in alcune aree –
come i sistemi di protezione attiva per difendersi dai missili guidati
anticarro (ATGM) – sono superiori alle loro controparti occidentali....
Oltre
agli svantaggi di essere in inferiorità numerica, disordinata e senza armi, una
serie di altri problemi aggrava il problema.
In primo luogo, gli alleati della NATO e le
forze armate statunitensi fornirebbero un aiuto limitato e immediato per
compensare questi svantaggi.
Gli
alleati europei hanno seguito l'esempio americano tagliando i mezzi corazzati e
ottimizzando le forze rimanenti per missioni "fuori area" come
l'Afghanistan.
La
Gran Bretagna prosegue così il piano di ritirare le sue ultime truppe dalla
Germania, mentre la Germania ha ridotto il suo esercito da 10 divisioni pesanti
al livello della Guerra Fredda all'equivalente di due.
Ma qui
non contano solo i numeri.
Oggi,
non ci sono divisioni o quartier generali di corpo degli Stati Uniti con base
avanzata nel continente, né alcuna brigata di aviazione, ingegnere e logistica
associata dell'esercito....
La
Russia dispone forse della più formidabile gamma di difese missilistiche
terra-aria (SAM) al mondo.
Operando
da località all'interno del territorio russo, questi SAM superano di gran lunga
le armi di soppressione della difesa esistenti e rappresentano una minaccia
credibile per la potenza aerea statunitense e alleata, che sarebbe costoso e
dispendioso in termini di tempo contrastare....
Oggi
la NATO è davvero in inferiorità numerica, di gittata e di armi dalla Russia in
Europa e assediata da una serie di fattori che aggravano la situazione.
Una
guerra con la Russia sarebbe irta di potenziale escalation dal momento in cui
viene sparato il primo colpo;
e le
generazioni nate fuori dall'ombra dell'Armageddon nucleare verrebbero
improvvisamente reintrodotte a paure ritenute morte e sepolte da tempo.
In inferiorità numerica, in inferiorità
numerica e senza armi: come la Russia sconfigge la NATO, guerra sulle rocce.
Che
cosa mostra questa analisi?
Dimostra
che, nonostante le deliranti urla dei generali da poltrona sulla TV via cavo
che ragliano di infliggere una "sconfitta strategica" alla Russia,
ciò non accadrà.
La
Russia è in vantaggio praticamente in ogni area di potenza di fuoco,
manodopera, prontezza al combattimento e materiale.
Hanno anche una capacità industriale che non
ha eguali in Occidente.
Ecco
come “Schryver” lo ha riassunto:
Non
c'è stato alcun aumento significativo nella produzione di armamenti
nell'occidente collettivo, e non si verificherà tanto presto. ...
Al di
fuori della popolazione disperatamente propagandata delle cosiddette
"democrazie occidentali", nessuno al mondo crede che la Russia sembri
"mite" in questo momento.
Invece, si rendono conto ...
L'Occidente
non ha alcun vantaggio. ....
Sono
assolutamente convinto che una forza di spedizione della NATO in Ucraina
verrebbe massacrata ALMENO in modo così completo come lo è stato l'AFU, e molto
probabilmente MOLTO PEGGIORE, e MOLTO PIÙ RAPIDO.... (Will Schryver, Twitter).
Eccolo
nero su bianco:
l'Occidente
"deindustrializzato" è un guscio vuoto che non ha alcuna possibilità
di prevalere in una guerra di terra con armi combinate con la Russia.
Ciononostante, Washington è determinata a
procedere con il suo folle piano che spinge il mondo più vicino all'Armageddon
mentre porta alla rovina il popolo americano.
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